Ancora una volta il Medio Oriente è immerso nell’orrore. Ancora una volta una pioggia di bombe si abbatte sull’Iraq. E mentre le potenze “civilizzate” spargono morte e miseria su una popolazione che già muore di fame, una pioggia di menzogne si abbatte sul resto del mondo per giustificare questa guerra, o per mistificare e deformare ogni opposizione reale ad essa.
Stati Uniti e Gran Bretagna mentono!Ci dicono che si tratta di una guerra per eliminare armi di distruzione di massa. Ma proprio questa guerra si combatte con armi di distruzione di massa e uno dei suoi principali obiettivi è proprio quello di dimostrare a che punto le armi di cui gli Stati Uniti dispongono sono potenti e distruttive, per scoraggiare chiunque voglia contestare la loro dominazione sul mondo. Inoltre sono gli Stati Uniti e la Gran Bretagna che hanno fornito a Saddam le sue armi chimiche negli anni ottanta, sono loro che lo hanno aiutato ad usarle nella guerra Iraq-Iran nel 1980-88, e sono sempre loro che non hanno avuto niente da ridire quando Saddam ha gassato le popolazioni curde di Halabaja nel marzo 1988.
Ci dicono che è una guerra contro il terrorismo. Ma tutti gli Stati – e non solo gli Stati deboli come l’Afghanistan o l’Iraq o gli embrioni di Stato come l’OLP– usano il terrorismo come strumento di guerra. La Gran Bretagna da tempo si serve delle sue bande lealiste nell’Irlanda del Nord per fare il lavoro sporco per suo conto. E’ con la CIA che il nemico attuale degli Stati Uniti, Bin Laden, si è addestrato, per fare la guerra contro la Russia in Afghanistan. Così la Spagna, attuale alleato della Gran Bretagna e degli USA ha usato le squadre della morte GAL per eliminare senza processo i terroristi dell’ETA. E, peggio ancora,questi Stati Uniti, che pretendono di fare la lezione al mondo intero sul pericolo terrorista, non hanno esitato a sfruttare gli attacchi terroristi contro la loro popolazione civile per mobilitare questa al sostegno alla guerra. Oggi è sempre più evidente che lo Stato americano, benché informato da tempo dei progetti di attacchi di Al Quaida sul territorio americano, non ha fatto niente per impedirli.
La Francia, la Germania, la Russia sono anche loro portatori di guerra!Queste menzogne sono oggi sempre più evidenti. Ma i paesi e gli uomini politici che proclamano di essere “contro la guerra”, spargono menzogne ancora più pericolose.
Ci dicono che questa guerra non è giusta perché non è stata avallata dalle Nazioni Unite. Ma nel 1991 la guerra che ha provocato il massacro di centinaia di migliaia di irakeni e ha lasciato a Saddam le mani libere per massacrare quelli che gli si rivoltavano contro era una guerra “legale”, approvata dall’ONU. L’ONU non difende nessun tipo di giustizia internazionale; essa è un covo di briganti dove si giocano sporchi intrighi e le rivalità tra le grandi potenze.
Oggi Chirac, Schroeder, e Putin hanno la faccia tosta di presentarsi come “portatori di pace”. Ma le referenze pacifiste della “alleanza” antiamericana non sono che una presa in giro: in questo stesso momento la Francia – che è stata già in passato la principale responsabile dell’armamento e dell’addestramento degli squadroni della morte Hutu in Ruanda – sta conducendo un intervento militare in Costa d’Avorio per difendere i propri interessi imperialisti in questo paese. Da parte sua, la Germania ha provocato un decennio di guerre nei Balcani, attraverso il suo sostegno alla secessione della Croazia e della Slovenia dalla vecchia Jugoslavia: in questa maniera essa voleva estendere la sua influenza nel Mediterraneo e in Medio Oriente. Quanto alla Russia, le sue truppe continuano a devastare la Cecenia massacrando la sua popolazione.
Il capitalismo è imperialismoI paesi che hanno cercato di fermare i piani di guerra degli Stati Uniti lo hanno fatto per proprie ragioni nazionali e imperialiste. Essi sanno che il vero obiettivo della “guerra contro il terrorismo” non è né Saddam, né Bin Laden, ma loro stessi.
Gli Stati Uniti non fanno mistero della loro strategia imperialista complessiva. Dopo il crollo del blocco russo, alla fine degli anni ottanta, essi si sono ripromessi di utilizzare la loro schiacciante superiorità militare per impedire l’emersione di ogni altra superpotenza capace di competere con loro. E’ in questo che sta il vero obiettivo di tutte le grandi azioni militari che hanno avuto luogo a partire dal 1991: la guerra del Golfo del 1991, quella del Kossovo nel 1999, l’Afghanistan nel 2002. Ma tutto è stato vano. Ognuna di queste azioni non ha fatto altro che spingere le altre potenze, piccole o grandi, a mettere sempre più in discussione l’autorità degli USA. Perciò gli Stati Uniti rilanciano la loro strategia su scala più grande. Essi vogliono adesso avere un controllo diretto sull’Asia centrale e sul Medio Oriente, ed estendere il loro campo d’azione fino all’Estremo Oriente. Confrontati all’indisciplina dei loro principali rivali – Francia e Germania in particolare – gli USA cercano né più né meno di accerchiare l’Europa, e di utilizzare il loro controllo sul petrolio del Medio Oriente come un’arma contro le potenze europee e contro il Giappone. La Germania e gli altri sono sulla difensiva, ma essi sono nondimeno attori attivi in questo grande gioco imperialista.
Gli Stati capitalisti non si comportano così perché hanno dei cattivi dirigenti o per stupidità, ma perché fin dal 1914 l’estensione a livello mondiale del capitalismo significa l’estensione globale della guerra. Essendosi diviso il dominio del pianeta, le diverse potenze nazionali non potevano più estendersi in maniera pacifica senza impadronirsi dei mercati e delle risorse dei loro rivali. Oggi, tutti gli Stati sono imperialisti e tutte le guerre del 20° e del 21° secolo – ivi compresa la sedicente guerra antifascista del 1939-45, ivi comprese le sedicenti “guerre di liberazione nazionale”, ivi compresa la “guerra santa” predicata da Bin Laden – sono delle guerre imperialiste.
Il capitalismo non può più vivere che attraverso la guerra. Questa è la prova che esso è diventato da tempo un ostacolo al progresso umano, che la sua esistenza minaccia la sopravvivenza stessa dell’umanità.
Contro tutte le illusioni pacifiste!A febbraio milioni di persone sono scese in piazza per partecipare a delle manifestazioni, pensando che questo fosse il mezzo per “fermare la guerra”. Ma la guerra ha proseguito il suo cammino. Né i veti alle Nazioni Unite, né gli appelli ai grandi ideali, come la democrazia o la pace, hanno impedito alla guerra di passare.
Cento anni di conflitti imperialisti hanno mostrato che il pacifismo non ha mai potuto impedire al capitalismo di fare la guerra. In realtà il pacifismo è sempre stato utilizzato per preparare il terreno alla guerra diffondendo ogni tipo di pericolose illusioni:
- illusioni sugli interessi pacifici di certi paesi capitalisti, di certi partiti capitalisti o dell’ONU;
- illusioni che ci si possa opporre alla guerra con mezzi pacifici e legali;
- illusioni secondo cui la “democrazia” sarebbe un antidoto alle tendenze guerriere, che la “volontà dei popoli” potrebbe impedire ai governi di fare la guerra,
- illusioni che un giorno si potrebbe avere la pace nel mondo senza sbarazzarsi prima del sistema capitalista.
Queste illusioni non possono che disarmare ogni opposizione reale al corso, intrinseco del capitalismo, alla guerra. Peggio ancora, esse preparano la popolazione per l’arruolamento alla guerra perché se un capitale è “buono”, “pacifico”, e “rispetta gli interessi del popolo”, allora noi siamo tenuti a prendere le armi in sua difesa quando questo viene minacciato da un capitale “cattivo”, “antidemocratico” e “guerrafondaio”. Ed è per questo che queste illusioni sono deliberatamente incoraggiate da tutte le forze politiche della classe dominante e in primo luogo dai partiti della sedicente “sinistra”, dai socialdemocratici ai trotskysti.
Contro la guerra imperialista – lotta di classe internazionale!Solo un movimento che non ha nessun interesse nazionale da difendere – un movimento internazionale della classe operaia – può opporsi alla guerra tra nazioni capitaliste.
In tutte le guerre è la maggioranza sfruttata che paga il prezzo più alto, che siano soldati o civili, sul fronte o in quanto produttori e consumatori a cui si chiede di lavorare di più e di mangiare di meno in nome dell’interesse nazionale.
Ma la classe operaia non è una semplice vittima passiva della guerra. Sono gli scioperi di massa e gli ammutinamenti del 1917-18 che hanno messo fine alla Prima Guerra Mondiale – e c’è voluto che l’ondata rivoluzionaria fosse vinta perché il capitalismo si lanciasse nella sua seconda carneficina mondiale. E quando la classe operaia è risorta sulla scena della storia alla fine degli anni sessanta, la sua resistenza alla crisi del capitalismo ha sbarrato la strada a una terza guerra mondiale. Nei fatti, la principale ragione della forma che prendono oggi i conflitti imperialisti – quella di azioni di “polizia” contro dei capri espiatori come Saddam – è che il capitalismo oggi non è capace di forzare la classe operaia a seguirlo in un conflitto aperto tra grandi potenze imperialiste.
La classe operaia non può evitare lo scontro con il sistema che ci sfrutta. La ragione stessa della fuga in avanti del capitalismo nella guerra, la sua incapacità ad assicurare lo sviluppo economico, provoca attacchi senza fine contro il livello di vita della classe operaia, attraverso uno sfruttamento crescente, la disoccupazione e la riduzione di tutti i benefici sociali. La marcia alla guerra provocherà una ulteriore accelerazione di questi attacchi e la richiesta di sacrifici sempre più grandi per gli sfruttati. Perciò la lotta inevitabile contro gli effetti della crisi economica costituisce anche una lotta contro la guerra.
Oggi la lotta della classe operaia non può essere che difensiva. Ma essa contiene i germi di una lotta offensiva, rivoluzionaria, di una guerra di classe contro l’insieme del sistema capitalista. Solo questa lotta può distruggere la macchina da guerra capitalista e condurre l’umanità verso una comunità mondiale che getterà le guerre imperialiste e le frontiere nazionali nella pattumiera della storia.
Contro ogni solidarietà con i nostri sfruttatori, che essi siano contro o a favore dell’attuale guerra, che essi siano americani, inglesi, spagnoli, francesi, tedeschi, cinesi, russi, italiani o irakeni!
Per la solidarietà internazionale della classe operaia!
Corrente Comunista Internazionale, marzo 2003
Questo volantino è distribuito in diversi paesi: Stati Uniti, Messico, Venezuela, Gran Bretagna, Francia, Germania, Italia, Spagna, Olanda, Belgio, Svizzera, Svezia, India, Australia, Russia.
Supplemento a RIVOLUZIONE INTERNAZIONALE n. 129
Aut. Trib. di Napoli n. 2656 del 13/7/76
Per ogni contatto, richiesta, ecc., scrivere a:
R.I. C.P. 469, 80100 Napoli
Lo scorso 15
febbraio, nel mondo intero, le strade delle principali metropoli
di tutti i continenti hanno risuonato di slogan quali: “No
alla guerra!”, “Niente sangue per il petrolio!”,
“Rifiutiamo una nuova carneficina!”, “Bush,
Sharon, assassini!”, “Che assurdità è la
guerra!” ed altri dello stesso tipo. Questi cortei
“pacifisti” hanno trascinato folle immense, stabilendo
un po’ ovunque dei record di mobilitazione, principalmente
in quei paesi i cui governi si sono schierati con l’impresa
guerriera di Bush contro l’Iraq: quasi tre milioni di
partecipanti a Roma, un milione e mezzo a Londra, a Barcellona ed
a Madrid. Ma anche negli altri Stati, dove le manifestazioni hanno
assunto degli accenti e dei comportamenti “di unità
nazionale” in sostegno al “fronte contro la guerra”
delle borghesie nazionali, gli assembramenti sono stati quasi
giganteschi: 500.000 persone a Berlino ed altrettante in Francia,
più di 200.000 a Bruxelles. Anche negli Stati Uniti la
protesta organizzata nella maggior parte delle grandi città
del paese ha raggiunto un’ampiezza paragonabile alle grandi
sfilate contro la guerra del Vietnam (250.000 manifestanti a New
York). Mai la stessa “causa” aveva mobilitato tante
persone nello stesso giorno a livello mondiale. Che la guerra sia
una cosa abominevole, un’espressione di barbarie, è
scontato. Questa è tanto più insopportabile e
nauseante per la classe operaia che ne ha sempre pagato il prezzo
più alto, con le sue condizione di esistenza, con la sua
vita e il suo sangue. Ma siamo chiari: questa mobilitazione
pacifista generale alla quale abbiamo assistito non era che un
passaggio importante di una campagna ideologica di grande portata,
menzognera e criminale, che la borghesia sviluppa dappertutto ed
in particolare nei paesi in cui la classe operaia è più
forte e concentrata. Le grandi masse pacifiste non hanno mai
impedito le guerre imperialiste. Anzi sono servite a prepararle ed
accompagnarle. Il pacifismo è uno strumento delle rivalità
imperialiste Per prima cosa, gli assembramenti attuali, qualunque
sia la loro ampiezza, non possono pesare seriamente sul corso
degli avvenimenti. Essi non potevano in alcun modo impedire la
guerra nella misura in cui gli Stati Uniti avevano già
deciso di farla anche da soli o quasi, come poi è successo.
Ma soprattutto la loro funzione primaria, essenziale, è
precisamente mascherare i giochi reali della situazione e di
impedire la presa di coscienza del vero problema da parte della
popolazione in generale e della classe operaia in particolare: la
responsabilità della guerra non cade su questo o quello
Stato, o gruppo di paesi. La guerra è inscritta nel modo di
vita del sistema di produzione capitalista nel suo insieme, nella
sua globalità. Il campo della “pace” non
esiste, non è che un’illusione. Fare credere che la
“pace” è possibile nel capitalismo è
un’enorme mistificazione. La “pace” non è
che un momento della preparazione di una nuova guerra perché
quest’ultima è divenuta un modo di vita permanente
nel capitalismo decadente. E’ per tale motivo che non vi
possono essere lotte contro la guerra che non siano contro il
capitalismo. Il vero problema da porsi è a che cosa
corrisponde e a chi serve questo fenomeno “pacifista”
che supera di gran lunga l’ampiezza dei raggruppamenti “anti
guerra” all’epoca della prima guerra del Golfo nel
1991? Esso è suscitato ed incoraggiato dalla stessa classe
dominante indicando questo o quel paese, questa o quella frazione
della borghesia come “fautore” di guerra. I
“guerrafondai” ed i “pacifisti” si passano
la palla per mistificare “l’opinione pubblica”:
per gli uni il nemico principale è l’Iraq, per gli
altri sono gli Stati Uniti. Si tratta per la borghesia di
persuadere che c’è sempre un campo imperialista da
scegliere (all’occorrenza, poco importa se gli avversari
designati dai pacifisti siano gli Stati Uniti, il governo
americano, o la sola frazione di Bush). D’altronde da uno
degli slogan delle manifestazioni emergeva questa confessione
rivelatrice: “la pace è patriottica” ciò
che rivela con chiarezza che il “campo bellicista” non
ha il monopolio della difesa degli interessi nazionali
capitalisti. Ciò si traduce in un’ipocrisia ed un
cinismo indicibili del sedicente “fronte anti-guerra”,
in una forma inedita nella storia rappresentata attualmente da
alcuni Stati che osano presentarsi come le colombe della “pace”.
Finanche frazioni di destra dell’apparato borghese, che
possono essere sospettate di tradimento verso l’ordine
borghese, si spacciano come capo fila di una corrente “pacifista”.
Non è grottesco vedere Chirac proposto come futuro “premio
Nobel per la pace” nel momento in cui il governo francese è
responsabile dell’attuale caos guerriero in Costa d’Avorio?
Nello stesso “campo”, troviamo la Russia di Putin che
continua a compiere i peggiori massacri e perpetrare i peggiori
orrori attraverso il suo esercito in Cecenia, ed anche la Germania
dove i predecessori di Schroëder non hanno esitato dieci anni
fa ad incoraggiare lo scoppio della Iugoslavia che ha provocato
anni di genocidi e guerre atroci nei Balcani, tutto ciò per
i loro sordidi interessi imperialisti nazionali particolari.
Attualmente, questi dirigenti, tanto sanguinari come gli altri,
sono condotti a cavalcare le “correnti pacifiste” con
le loro smargiassate e mettere i bastoni tra le ruote alla
borghesia americana. Proclamano: “Chiediamo, esigiamo,
imponiamo la pace al governo Bush!”, unicamente per
affermare i loro interessi che li spingono in un comportamento
apertamente contestatario verso gli Stati Uniti. Inoltre, una
buona parte di essi in questa coalizione di facciata è
pronta a cambiare parere ed a partecipare alla guerra contro
l’Iraq sotto condizione, o se lo esige la pressione
americana, o se “certe regole del diritto internazionale
sono rispettate”, come una nuova risoluzione dell’Onu.
Nessun governo può essere realmente contro la guerra ma
solo contro le condizioni formali con cui gli Stati Uniti la
impongono. Il pacifismo è un’arma della borghesia
contro la classe operaia Questi assembramenti hanno la funzione di
impedire che venga messo in causa il capitalismo, che si prenda
coscienza che la guerra è l’espressione delle
rivalità imperialiste di tutti gli Stati, prodotte dalla
concorrenza capitalista nella difesa dei loro rispettivi interessi
nazionali. Per certi Stati, si tratta chiaramente di chiamare ad
una vera “union sacrée” dietro la propria
borghesia nazionale. E’ il caso della Francia dove predomina
nettamente un tono anti-americano, incoraggiato e sostenuto dalla
quasi totalità delle frazioni politiche della borghesia
nazionale, da Le Pen fino alle organizzazioni estremiste che
“spingono” Chirac ad opporsi ancora di più alla
politica degli Stati Uniti (1). La sua prima funzione è
nutrire nelle popolazioni un sentimento anti-americano indicando
gli Stati uniti come il solo “fattore di guerra”,
l’avversario imperialista numero uno per eccellenza per
deviare la loro ostilità alla guerra su un terreno
borghese. Non ci sono guerre “giuste” ed altre
“ingiuste”, forme accettabili per fare la guerra ed
altre non, qualunque siano i campi in gioco. D’altra parte
il risultato per le popolazioni prese in ostaggio è lo
stesso, sono massacrate, bombardate, gasate, con le più
nocive e mortali armi senza la minima considerazione “umanitaria”.
Oggi, come sempre nel passato, il pacifismo resta il migliore
complice per il lavaggio del cervello bellicista. Questa ideologia
borghese è un vero peso per la classe operaia. Al di là
dell’infamia di tutti quelli che propagandano una tale
mistificazione per mascherare la loro ideologia nazionalista, il
pacifismo mira ad un obiettivo particolare: recuperare il timore e
l’avversione degli operai di fronte alla minaccia della
guerra per avvelenare la loro coscienza e condurli a sostenere un
campo borghese contro un altro. E’ per tale motivo che il
pacifismo fa parte, come ogni volta che la borghesia ha bisogno di
fare accettare ai proletari la sua logica mortale, di una vasta
divisione di compiti tra le differenti frazioni imperialiste del
capitale mondiale. Ciò che definisce il pacifismo non è
la rivendicazione della pace. Tutto il mondo vuole la pace. Gli
stessi guerrafondai non fanno altro che proclamare continuamente
che essi vogliono la guerra per meglio stabilire la pace. Ciò
che distingue il pacifismo, è la pretesa che si possa
lottare per la pace, in se, senza toccare le fondamenta del mondo
capitalista. Anche gli stessi proletari che, attraverso la loro
lotta rivoluzionaria in Russia ed in Germania, misero fine alla
Prima Guerra mondiale, volevano la fine della guerra. Ma se hanno
potuto portare a termine la loro lotta, è perché
hanno saputo condurla non CON i “pacifisti” ma
malgrado questi e CONTRO di essi. A partire dal momento in cui è
diventato chiaro che solo la lotta rivoluzionaria avrebbe potuto
fermare il macello imperialista, i proletari russi e tedeschi si
sono dovuti scontrare non solo con i “falchi” della
borghesia, ma anche e soprattutto con tutti questi pacifisti della
prima ora (menscevichi, socialisti-rivoluzionari, socialpatrioti)
che, armi alla mano, hanno difeso ciò di cui essi non
potevano più fare a meno e ciò che per loro era la
cosa più preziosa: rendere inoffensiva per il capitale la
rivolta degli sfruttati contro la guerra. Questo è sempre
stato lo scopo reale del pacifismo! La storia ci offre delle
esperienze edificanti su manovre di questo tipo. La stessa impresa
che vediamo all’opera oggi, è stata denunciata con
forza già dai rivoluzionari del passato: “La
borghesia ha decisamente bisogno di frasi ipocrite sulla pace
attraverso cui si deviano gli operai dalla lotta rivoluzionaria”,
diceva Lenin nel marzo 1916. L’uso del pacifismo non è
cambiato: “In ciò risiede l’unità di
principio dei socialsciovinisti (Plekhanov, Scheidemann) e dei
socialpacifisti (Turati, Kautsky), gli uni e gli altri,
obiettivamente parlando, sono i servitori dell’imperialismo:
gli uni lo servono presentando la guerra imperialista come la
“difesa della patria”, gli altri difendono lo stesso
imperialismo mascherandolo attraverso frasi sulla “pace
democratica”, la pace imperialista che si annuncia oggi. La
borghesia imperialista ha bisogno di servitori dell’uno e
dell’altro tipo, dell’una e dell’altra
sfumatura: ha bisogno dei Plekhanov per incoraggiare i popoli a
massacrarsi gridando “Abbasso i conquistatori”; ha
bisogno dei Kautsky per consolare e calmare le masse irritate
attraverso inni e discorsi entusiasti in onore della pace”,
scriveva già Lenin nel gennaio del 1917. Ed aggiungeva: “In
realtà, la politica di Kautsky (per la Germania) e quella
di Sembat-Henderson (per la Francia e la Gran Bretagna) aiutano in
modo identico i loro rispettivi governi imperialisti, attirando
principalmente l’attenzione sugli intrighi tenebrosi del
concorrente e dell’avversario, e gettando un velo di frasi
nebulose e di pii desideri sulle altrettanto imperialiste attività
della “loro” borghesia. Cesseremmo di essere dei
marxisti, cesseremo di essere in generale dei socialisti, se ci
contentassimo di una meditazione per così dire cristiana,
sulla virtù delle buone piccole frasi generali, senza
mettere a nudo il loro significato”. Ciò che era vero
al momento della Prima Guerra mondiale si è da quel momento
invariabilmente confermato. Ancora oggi, di fronte alla nuova
guerra nel Golfo, la borghesia ha potentemente organizzato la sua
macchina pacifista in tutti i paesi. Per i rivoluzionari non è
sufficiente denunciare la guerra voluta dagli Stati Uniti, ma è
necessario allo stesso tempo mostrare l’ipocrisia di tutti
gli altri Stati che mobilitano la popolazione contro questa guerra
per opporsi agli stati Uniti e difendere i propri interessi
nazionali. Solo la guerra di classe contro il capitalismo può
mettere fine alla guerra imperialista La classe operaia non ha
alcun interesse a sostenere un campo o l’altro, dunque non
deve assolutamente farsi coinvolgere nelle imprese “pacifiste”
animate da altri briganti imperialisti. L’ostilità
alla guerra del proletariato deve restare legata, senza alcuna
concessione, ad una posizione di principio che i rivoluzionari
hanno sempre difeso: L’INTERNAZIONALISMO PROLETARIO, il
rifiuto di fare causa comune con la propria borghesia nazionale.
Mentre per ogni frazione concorrente della classe dominante, la
propria posizione è dettata dal suo interesse imperialista
da difendere in Iraq o più largamente in questa regione del
Medio Oriente, la classe sfruttata non ha NESSUN interesse ad
allinearsi dietro le presunte “giuste cause” dei suoi
sfruttatori, siano esse “difensive” o “pacifiste”.
La classe operaia deve basarsi sulla sua esperienza storica per
prendere coscienza che i canti delle sirene del pacifismo servono
solo ad attirarla in una trappola, su di un terreno strettamente
borghese. Terreno nel quale può solo essere incatenata ad
un campo imperialista contro un altro, può solo perdere la
propria identità lasciandosi diluire nella massa indistinta
del “popolo”, confusa tra le altre classi, al centro
di un gigantesco movimento “cittadino” nel quale è
impossibile affermare i propri interessi di classe. Quelli di una
classe che non ha patria, né frontiere ed interessi
nazionali da difendere. Oggi come ieri, la sola risposta che i
lavoratori possono dare alla guerra ed al suo corollario che è
il pacifismo, è la LOTTA DI CLASSE. La lotta contro la
guerra non può essere che la lotta contro il capitale
mondiale, contro questo sistema di sfruttamento, del quale sono la
principale vittima. Perché è questo stesso sistema,
di cui Bush, Blair, Berlusconi, Chirac, Scroëder, Saddam e
consorti sono i degni rappresentanti, che da un lato sfrutta i
proletari, li riduce alla disoccupazione e alla miseria,
dall’altro, li massacra, li condanna all’esodo di
massa, alla fame, all’epidemie. E’ solo sviluppando
massicciamente la loro lotta sul proprio terreno di classe
sfruttata, unificando le loro lotte a scala internazionale nei
posti di lavoro e nelle strade, che i proletari di tutti i paesi,
e principalmente quelli dei paesi più industrializzati
d’Europa e d’America, potranno aprire una prospettiva
di futuro per l’umanità: quella del rovesciamento del
capitalismo. La pace è impossibile nel capitalismo. Il
capitalismo è guerra! Contro la “santa alleanza”
di tutti gli sfruttatori, contro tutte le manovre di
intossicazione ideologica e di divisione del proletariato
internazionale: Proletari di tutti i pesi unitevi!
Wim (21
febbraio 2003)
1 1. In questo quadro, anche se il pacifismo è tradizionalmente veicolato dai partiti di sinistra e d’estrema sinistra che restano i motori dei movimenti pacifisti, in particolare al fine di arruolarvi specificamente gli operai, la sua influenza va ben al di là dei divari tradizionali all’interno della borghesia. Allo stesso modo la mobilitazione dei “cristiani” è legata al ruolo eminente del papa nella crociata anti-americana.
Uno dei temi sviluppati dalla borghesia durante gli anni ’90 per mantenere il suo dominio ideologico sulla società è stato quello della supposta salute economica e prosperità del suo sistema. Secondo questa favola, dopo la recessione del 1990-91, l’economia americana avrebbe imboccato il più lungo periodo di recupero della storia. Per alcuni anni qualcuno ha finanche dichiarato che, grazie alle nuove tecnologie per le comunicazioni, il sistema era arrivato ad un’era di prosperità permanente.
Poi, nel 1997-98, l’esplosione di quelle che una volta erano considerate le esemplari economie dell’est asiatico, le “tigri” e i “dragoni”, diffuse il terrore in tutto il mondo capitalista. Storie di un imminente collasso del capitalismo e di una recessione aperta a livello mondiale riempirono i notiziari televisivi e i giornali. Tuttavia, i principali paesi capitalisti – con l’eccezione del Giappone – riuscirono a stare fuori dalla recessione ancora per un paio di anni dando qualche credibilità alla favola del capitalismo in fase di boom.
Ma oggi non si sente neanche più un bisbiglio sulle meraviglie della “new economy” sostenuta dalla “internet revolution”. Il capitalismo mondiale sta sperimentando una nuova caduta nell’abisso della sua crisi economica cronica. Tutte le maggiori economie del mondo sono ufficialmente in recessione aperta o stanno comunque in difficoltà e, al centro di questo crollo del capitalismo mondiale, vi è l’economia americana, di gran lunga la più grande del mondo. A niente sono valse le fesserie degli esponenti della borghesia che hanno cercato di mascherare fino all’ultimo minuto l’arrivo della recessione o di attribuirlo all’attacco alle Torri gemelle o alla guerra. Ormai la situazione si va aggravando di mese in mese, costringendo le borghesie dei vari paesi a prendere delle misure sempre più severe nei confronti dei lavoratori. Tutti i lavoratori si troveranno coinvolti da queste misure. Questo attacco che non potrà lasciare senza reazione i proletari che sono già costantemente confrontati a condizioni di vita che peggiorano in maniera drammatica, di fronte a dei problemi quotidiani affrontati più o meno isolatamente nel quadro della cellula familiare o della fabbrica: disoccupazione, piani di licenziamenti, soppressione di posti, precarietà, perdita del potere di acquisto, degradazione generale delle condizioni di lavoro, del tessuto sociale, aumento della produttività, problemi di salute, di scuola, di casa, di ambiente, riduzione dello stato sociale.
E’ stato reso noto, ad esempio, che in Italia gli aumenti dei prezzi e quelli dei salari viaggiano con un punto percentuale di differenza, il che significa, tenendo anche conto che le statistiche ufficiali sottostimano ampiamente l’aumento dei prezzi, che i lavoratori perdono fior di quattrini ogni anno. E questo è ancora niente visto che lo stesso Berlusconi parla di una finanziaria di un certo peso (si parla di una finanziaria pesante come quella del governo Amato, da 90.000 miliardi di lire). In Francia analogamente il governo sta mettendo mano alla riforma delle pensioni, cosa che ha provocato il 13 maggio scorso una manifestazione con più di un milione di manifestanti.
Malgrado il malcontento generale che susciteranno questi attacchi ed anche il pericolo di alimentare una rimonta di combattività operaia, la borghesia ha coscienza del rischio ancora modesto che corre nella misura in cui i proletari sono ancora dominati da un sentimento di impotenza e di rassegnazione.
Tuttavia, il periodo che si apre è tale che la classe operaia sarà sempre più costretta a comprendere che non ha altra scelta che lottare, per ritrovare e riaffermare il suo cammino di classe di fronte all’accelerazione degli attacchi della borghesia. Contrariamente agli anni ’90, l’aspetto manifesto della crisi costituisce un potente rivelatore del fallimento del sistema agli occhi dei proletari. Alle conseguenze della crisi economica si aggiunge per i proletari il prezzo da pagare per le spese di guerra e per gli armamenti in aumento crescente.
Non c’è alcuna illusione possibile su quello che ci aspetta: sempre più miseria e sfruttamento. Ma sotto i colpi della crisi e degli attacchi che ne risultano, i proletari sono spinti a reagire massicciamente ed insieme. Si creano così le condizioni perché il proletariato riprenda fiducia in sé stesso, ritrovi la sua vera identità di classe e si opponga in massa e unitariamente agli attacchi della borghesia come classe avente degli interessi propri e distinti da difendere contro quelli della borghesia.
L’avvenire appartiene al proletariato!
1/6/03
Berlusconi & company possono certamente restare soddisfatti per come hanno giocato le loro carte nell’avventura irachena. Senza neanche mettere in pericolo un solo soldato, Berlusconi può adesso sedere al tavolo dei vincitori e mandare finanche le proprie truppe di occupazione… pardon, gli uomini per l’ennesima missione umanitaria. Anche se le difficoltà e le divisioni interne alla borghesia nazionale hanno imposto al governo di centro-destra un atteggiamento prudente nei confronti del conflitto, alla fin fine Berlusconi ha concesso parecchio agli alleati anglo-americani. Anzitutto a livello logistico, permettendo ai mezzi e alle truppe americani di transitare per l’Italia, usando le ferrovie e i porti della penisola che, per la sua posizione geografica, costituisce un ottimo ponte tra l’Europa e il Medio Oriente. In secondo luogo a livello politico: l’adesione dell’Italia alla famosa lettera di intenti degli otto paesi europei che si sono schierati a favore della causa americana e quindi per il conflitto ha costituito, prima ancora che un atto di appoggio agli alleati anglo-americani, una rottura del fronte europeo e una grana di non poco conto per quelli che, come Francia, Germania e lo stesso presidente della Commissione Europea Prodi, puntavano a fare di questa sfida sulla questione irachena un passaggio nel processo di costruzione di una unità politica europea. Questo Berlusconi glielo doveva agli USA nella misura in cui, se oggi abbiamo in Italia questo governo, è anche per l’interferenza americana nella politica italiana.
Lo scontro interno alla borghesia
Ma naturalmente più Berlusconi spinge in questa direzione, più i rapporti interni con le altre forze politiche della borghesia italiana, orientate verso un’opzione di maggiore autonomia, diventano difficili. Ricordiamo che, dopo lo sfaldamento dei due blocchi imperialisti avvenuto dopo l’autunno ‘89, in Italia c’è stato un sotterraneo processo di liberazione nazionale dalla tutela americana che si è espresso attraverso la lotta alla mafia e i processi a esponenti dei partiti governativi DC e PSI (la famosa tangentopoli) allo scopo di tagliare ogni legame tra gli USA e i suoi referenti in Italia (appunto la mafia e gli esponenti dei governi di 40 anni di influenza americana). Quello che abbiamo oggi è la compresenza delle due opzioni imperialiste che si fronteggiano e che, in situazioni acute come questa, escono allo scoperto e si combattono ferocemente. Questo spiega la riacutizzazione dello scontro a cui stiamo assistendo in questo momento che è diventato violentissimo, con affermazioni che non hanno riscontri nel passato come quella del primo ministro che accusa i magistrati di essere golpisti e faziosi. Accanto a questo c’è un gioco di ricatti incredibile nella misura in cui Berlusconi si è permesso di dire che, se i magistrati avessero insistito con il loro atteggiamento persecutorio, egli avrebbe rivelato delle cose su Prodi. D’altra parte le forze di governo stanno cercando di blindare ulteriormente le loro posizioni con il cosiddetto lodo Meccanico, cioè con il ripristino dell’immunità per le alte cariche dello stato che, probabilmente, finirà per essere estesa a tutti i parlamentari. Come dire che, se proprio la sinistra insiste con il mettere sotto pressione Berlusconi, la destra è pronta a rompere il gioco e a spostare le carte su un altro tavolo.
Ma le sinistre che fanno, oltre a “tormentare” il governo?
Le sinistre, sia chiaro, non sono per principio contrarie alla politica del governo Berlusconi. D’altra parte non c’è nessun atto del governo attuale che sia qualitativamente dissimile da quelli precedenti di centro-sinistra: le mani in tasca ai lavoratori le hanno messe gli uni quanto gli altri, la guerra l’hanno fatta anche, e in maniera ben più esplicita, i governi di sinistra! L’aspetto più importante che divide destra da sinistra è appunto la scelta di campo internazionale, filo-atlantismo per Berlusconi, posizione blandamente europeista per il centro-sinistra.
A parte dunque questo contrasto sull’opzione internazionale, le sinistre in genere hanno come compito specifico e peculiare quello di controllare la classe operaia per deviarla dal suo terreno di lotta. E’ per questo che stiamo assistendo in questi giorni all’ennesima fregatura, quella relativa al referendum sull’estensione dell’articolo 18 dello statuto dei lavoratori ad aziende con meno di 15 lavoratori. Questo referendum, come tutti gli altri, è una tipica operazione di mistificazione della borghesia. La classe dominante ha i suoi normali strumenti per legiferare, che sono il parlamento e - oggi come oggi - sempre più lo stesso esecutivo. Il referendum si pone quindi come una prova del nove per la borghesia per dimostrare alla popolazione che, se vuole, può esprimere in prima persona il suo parere. Di qui tutto il suo carattere mistificatorio dato che, come è noto, la borghesia con i suoi mass-media è capace di controllare qualunque scelta popolare. D’altra parte, nella misura in cui una vittoria del referendum porrebbe qualche problema alla borghesia perché, almeno in prima istanza, dovrebbe accettare le limitazioni nelle condizioni di licenziamento nelle aziende di più piccola taglia, si vede pure come la stessa sinistra si sia disunita sulla scelta del referendum per disperdere i voti e preparare una sconfitta alla prossima scadenza del 15 giugno. Ma la maniera migliore perché i lavoratori non subiscano alcuna sconfitta a questo referendum è capire che il referendum, comunque vada, è una truffa, che i lavoratori non devono seguire le lusinghe dei falsi partiti operai e dei sindacati che hanno tutti tradito la causa del proletariato. Le condizioni di vita e di lavoro della classe operaia non si possono modificare con un voto. Solo la lotta delle masse operaie può modificare i rapporti di forza.
Ezechiele,1/6/03
A fine marzo la CCI ha tenuto il suo XV congresso. Questo rivestiva per la nostra organizzazione un'importanza tutta particolare, per due ragioni essenziali.
Da una parte, dopo il precedente congresso tenutosi all'inizio del 2001, abbiamo assistito ad un aggravamento molto importante della situazione internazionale, sul piano della crisi economica e soprattutto sul piano delle tensioni imperialiste. Il congresso si è svolto nel momento in cui la guerra imperversava in Iraq ed era responsabilità dell’organizzazione sviluppare le sue analisi al fine di essere in grado di intervenire nella maniera più appropriata di fronte a questa situazione.
D'altra parte, questo congresso si teneva in un momento in cui la CCI aveva attraversato la crisi più pericolosa della sua storia. Anche se la crisi era stata superata, era necessario trarre il massimo di insegnamenti dalle difficoltà incontrate, sulla loro origine ed i mezzi di affrontarle. L'insieme delle discussioni e dei lavori del congresso è stato attraversato dalla coscienza dell'importanza di questi due problemi, che si iscrivevano nelle due grandi responsabilità di ogni congresso: l'analisi della situazione storica e l'esame delle attività che ne derivano per l'organizzazione. La CCI analizza il periodo storico attuale come la fase ultima della decadenza del capitalismo, la fase di decomposizione della società borghese, quella della sua putrefazione. Queste condizioni storiche, come vedremo più avanti, determinano le caratteristiche essenziali della vita della borghesia oggigiorno, ma hanno anche un peso notevolmente sul proletariato e le organizzazioni rivoluzionarie.
È
quindi in questo quadro che sono stati esaminati, non solo
l'aggravarsi delle tensioni imperialiste, ma anche gli ostacoli
che incontra il proletariato nel suo cammino verso gli scontri
decisivi contro il capitalismo e allo stesso tempo le difficoltà
alle quali è stata confrontata la nostra organizzazione.
L'analisi della situazione internazionale
Per certe organizzazioni del campo proletario, in particolare il BIPR, le difficoltà organizzative incontrate dalla CCI ultimamente, come quelle conosciute nel 1981 e all'inizio degli anni 1990, derivano dalla sua incapacità a fornire un'analisi appropriata del periodo storico attuale. Soprattutto la nostra analisi della decomposizione viene considerata come una manifestazione del nostro "idealismo".
È vero che la chiarezza teorica e politica è un'arma essenziale per un'organizzazione che pretende di essere rivoluzionaria. Se questa non è in grado di comprendere la vera posta in gioco del periodo storico in cui opera, rischia di venire sballottata dagli avvenimenti, di cadere nello smarrimento ed alla fine di essere spazzata via dalla storia. È vero anche che la chiarezza non si decreta, ma è il frutto di una volontà, di una lotta per forgiare tali armi. Una lotta che esige affrontare con metodo, il metodo marxista, le questioni nuove poste dall'evoluzione delle condizioni storiche. Questa è stata la preoccupazione esenziale che ha animato i rapporti preparati per il congresso ed tutti i suoi dibattiti. Il congresso ha inscritto questo procedimento nell'ambito della visione marxista della decadenza del capitalismo e della sua fase attuale di decomposizione. Esso ha ricordato che la visione della decadenza non solo era quella della III Internazionale, ma che essa è una base stessa della visione marxista. È questo quadro e questa chiarezza storica che hanno permesso alla CCI di misurare la gravità della situazione in cui la guerra diviene un fattore permanente.
Nello specifico, il congresso doveva esaminare in che misura il quadro d'analisi di cui si era dotata la CCI era capace di rendere conto della situazione presente. La discussione ha confermato la validità di questo quadro. La situazione attuale e la sua evoluzione costituiscono, infatti, una piena conferma delle analisi che la CCI si era dato fin dalla fine del 1989, al momento del crollo del blocco dell'Est. Gli avvenimenti attuali, come l'antagonismo crescente tra gli Stati Uniti ed i loro vecchi alleati che si è manifestato apertamente nella crisi recente, la moltiplicazione dei conflitti con l'implicazione diretta della prima potenza mondiale, che sfoggia ogni volta di più la sua forza militare, erano già previsti nelle Tesi che la CCI ha prodotto nel 1989-'90 (1). Il congresso ha riaffermato anche che l'attuale guerra in Iraq non si riduce, come alcuni settori della borghesia vorrebbero far credere, ad una "guerra per il petrolio". In questa guerra il controllo del petrolio ha una valenza strategia per la borghesia americana e non innanzitutto economica. È uno dei mezzi di ricatto e di pressione che gli Stati Uniti usano per contrastare i tentativi di altre potenze, come i grandi Stati d'Europa ed il Giappone, di giocare le proprie carte sullo scacchiere imperialista mondiale. Nei fatti, dietro l'idea che le guerre attuali avrebbero una certa "razionalità economica" c'è un rifiuto a tener conto dell'estrema gravità della situazione in cui si trova il sistema capitalista. Sottolineando questa gravità, la CCI si è deliberatamente posta nella scia del marxismo che non dà ai rivoluzionari il compito di consolare la classe operaia, ma al contrario di fargli misurare l'importanza dei pericoli che minacciano l'umanità e dunque di sottolineare l'ampiezza della propria responsabilità.
E, nella visione della CCI, mostrare al proletariato la gravità della posta in gioco è tanto più necessario oggi che questo trova delle enormi difficoltà a ritrovare il cammino delle lotte coscienti e di massa contro il capitalismo. Questo è stato un altro punto essenziale della discussione sulla situazione internazionale: su che cosa possiamo oggi fondare la fiducia, che il marxismo ha sempre affermato, sulla capacità della classe sfruttata di rovesciare il capitalismo e di liberare l'umanità dalle calamità che l'assillano in maniera crescente.
Quale fiducia nella capacità nella classe operaia a far fronte alla posta in gioco storica?
La CCI ha già, e a numerose riprese, messo in evidenza che la decomposizione della società capitalista pesa negativamente sulla coscienza del proletariato (2). Così come, fin dall'autunno 1989, ha sottolineato che il crollo dei regimi stalinisti avrebbe provocato delle "accresciute difficoltà per il proletariato" (titolo di un articolo della Révue Internazionale, n. 60). Da allora, l'evoluzione della lotta di classe non ha fatto che confermare questa previsione.
Di fronte a questa situazione, il congresso ha riaffermato che la classe conserva tutte le potenzialità per arrivare ad assumersi la sua responsabilità storica. È anche vero che essa è attualmente ancora in una situazione di riflusso importante sul piano della coscienza, dovuto alle campagne borghesi che assimilano marxismo e comunismo allo stalinismo e che stabiliscono una continuità tra Lenin e Stalin. Inoltre, la situazione presente è caratterizzata da una marcata perdita di fiducia dei proletari nella propria forza e nella propria capacità a fare anche delle lotte difensive, il che può condurli a perdere di vista la loro identità di classe. E bisogna notare che la tendenza alla perdita di fiducia nella classe si esprime anche nelle organizzazioni rivoluzionarie, principalmente sotto forma di spinte improvvise d'euforia di fronte a movimenti come quello in Argentina alla fine del 2001 (presentato come una formidabile spinta proletaria nel momento in cui la classe era diluito nell'interclassismo). Ma una visione materialistica, storica, a lungo termine, ci insegna, per parafrasare Marx, "che non si tratta di considerare ciò che questo o quel proletario, o anche il proletariato nel suo insieme, prende oggi per verità, ma di considerare ciò che é il proletariato e ciò che sarà storicamente condotto a fare, conformemente al suo essere". Una tale visione ci mostra in particolare che, di fronte ai colpi della crisi del capitalismo che si traducono in attacchi sempre più feroci, la classe reagisce e reagirà necessariamente sviluppando la sua lotta.
Questa lotta, all'inizio, sarà caratterizzata da una serie di scaramucce, che annunceranno uno sforzo per andare verso lotte sempre più massicce. È in questo processo che la classe operaia si concepirà di nuovo come la classe sfruttata e tenderà a ritrovare la sua identità, aspetto essenziale che a sua volta stimolerà la lotta. Allo stesso tempo la guerra, che tende a divenire un fenomeno permanente, che svela ogni giorno di più le tensioni estremamente forti che esistono tra le grandi potenze e soprattutto il fatto che il capitalismo è incapace di sradicare questo flagello, che non può che opprimere sempre più l'umanità, favorirà una riflessione in profondità della classe. Tutte queste potenzialità sono contenute nella situazione attuale. Esse impongono alle organizzazioni rivoluzionarie di esserne coscienti e di sviluppare un intervento per metterle a frutto. Intervento essenziale, soprattutto in direzione della minoranza in ricerca a livello internazionale.
Ma per essere all'altezza della loro responsabilità, è necessario che le organizzazioni rivoluzionarie siano in grado di far fronte, non solo agli attacchi diretti che la classe dominante tenta di portare loro, ma anche alla penetrazione al loro interno del peso ideologico che quest'ultima diffonde nell'insieme della società. In particolare, il loro dovere é combattere gli effetti più deleteri della decomposizione i quali, come colpiscono la coscienza dell'insieme del proletariato, pesano ugualmente sui loro militanti, distruggendo le loro convinzioni e la loro volontà di operare al compito rivoluzionario. È giustamente un tale attacco dell'ideologia borghese favorito dalla decomposizione che la CCI ha dovuto affrontare nel corso dell'ultimo periodo e la volontà di difendere la capacità dell'organizzazione ad assumersi le sue responsabilità è stata al centro delle discussioni del congresso sulle attività della CCI.
Le attività e la vita della CCI
Il congresso ha tirato un bilancio positivo delle attività svolta dal precedente congresso, nel 2001. Nel corso dei due ultimi anni la CCI ha mostrato di essere capace di difendersi di fronte ai più pericolosi effetti della decomposizione, principalmente le tendenze nichiliste che hanno colpito un certo numero di militanti che si sono costituiti in "frazione interna". Essa ha saputo combattere gli attacchi di questi elementi il cui obiettivo era, in tutta evidenza, la sua distruzione. Fin dall'inizio dei suoi lavori, con una totale unanimità, il congresso, dopo la conferenza straordinaria tenuta ad aprile del 2002, ha ancora una volta ratificato tutta la lotta condotta contro questa combriccola e stigmatizzato i suoi comportamenti provocatori. E' con una totale convinzione che ha denunciato la natura anti-proletaria di questo raggruppamento. Ed è in maniera unanime che ha pronunciato l'esclusione di elementi della "frazione" che avevano coronato i loro comportamenti contro la CCI pubblicando (e rivendicando questa pubblicazione) sul loro sito Internet informazioni che facevano direttamente il gioco dei servizi di polizia dello Stato borghese (3). Questi elementi, benché si erano rifiutati di venire al congresso ed in seguito di presentare la loro difesa di fronte ad una commissione speciale nominata da quest'ultimo, non hanno trovato altra cosa da fare, nel loro bollettino n.18, che proseguire la campagna di calunnie contro la nostra organizzazione, dando la prova che il loro scopo non era affatto convincere l'insieme dei militanti di quest'ultima dei pericoli di cui la minacciava una pretesa "fazione liquidatrice", ma di screditarla il più possibile, visto che non erano riusciti a distruggerla.
Come mai questi elementi hanno potuto sviluppare all'interno dell'organizzazione un'azione tale da minacciare la sua distruzione?
In rapporto a questa questione il congresso ha messo in evidenza un certo numero di debolezze che si sviluppavano a livello del proprio funzionamento, debolezze che sono essenzialmente legate ad uno spirito di circolo che ritorna in forza, favorito dal peso negativo della decomposizione della società capitalista. Un aspetto di questo peso negativo è il dubbio e la perdita della fiducia nella classe, che porta a vedere solo la sua debolezza immediata. Lungi dal favorire lo spirito di partito, ciò favorisce la tendenza per la quale i legami d'affinità e dunque la fiducia in certi individui si sostituiscono alla fiducia nei principi di funzionamento. Gli elementi che vanno a formare la "frazione interna" erano un'espressione caricaturale di queste deviazioni e di questa perdita di fiducia nella classe. La loro dinamica di degenerazione si è servita di queste debolezze che attualmente pesano su tutte le organizzazioni proletarie, il cui peso è tanto più pericoloso in quanto la maggior parte di queste non ne hanno alcuna coscienza. È con una violenza mai conosciuta fino ad ora nella storia della CCI, che questi elementi hanno sviluppato le loro azioni distruttrici. La perdita di fiducia nella classe, l'indebolimento della convinzione militante, si sono accompagnati ad una perdita di fiducia nell'organizzazione, nei suoi principi e ad un disprezzo totale per i suoi statuti. Questa cancrena poteva contaminare tutta l'organizzazione e sabotare la fiducia e la solidarietà nei suoi ranghi e dunque nelle sue stesse fondamenta.
Il congresso ha affrontato senza paura la messa in evidenza delle debolezze di tipo opportunista che avevano permesso al clan, auto-proclamatosi "frazione interna", di minacciare la vita stessa dell'organizzazione. Esso ha potuto farlo perché la CCI esce rafforzata dalla lotta che ha portato avanti.
D'altra parte, se la CCI sembra avere una vita tanto movimenta, fatta di crisi che si ripetono è proprio perché essa lotta apertamente contro ogni penetrazione opportunistica. È stata essenzialmente la difesa, senza concessioni, dei suoi statuti e dello spirito proletario che questi esprimono, a suscitare la rabbia di una minoranza presa da un opportunismo senza freni, cioè un abbandono totale dei principi in materia di organizzazione. Su questo piano, la CCI a proseguito la lotta del movimento operaio, in particolare di Lenin e del partito bolscevico i cui i detrattori ne stigmatizzavano le crisi a ripetizione e le molteplici lotte sul piano organizzativo. Nella stessa epoca la vita del partito socialdemocratico tedesco era molto meno agitata, ma la calma opportunista che lo caratterizzava (alterata solamente dai "turbamenti" di sinistra come quello di Rosa Luxemburg) annunciava il suo tradimento del 1914! Le crisi del partito bolscevico invece costruivano la forza che ha permesso la rivoluzione del 1917!
Ma la discussione sulle attività non si è limitata alla difesa diretta dell'organizzazione contro gli attacchi che subiva. Ha invece particolarmente insistito sulla necessità di proseguire lo sforzo di sviluppo della capacità teorica della CCI, constatando al contempo che la lotta contro questi attacchi ha profondamente stimolato lo sforzo in questa direzione. Il bilancio di questi due ultimi anni mostra un arricchimento teorico: su di una visione più storica della fiducia e della solidarietà nel proletariato, elementi essenziali della lotta di classe; sul pericolo d'opportunismo che aspetta al varco le organizzazioni incapaci di analizzare un cambiamento di periodo; sul pericolo del democratismo. D’altra parte, come ci è stato insegnato da Marx, Rosa Luxemburg, Lenin, dai militanti della Frazione italiana e da altri rivoluzionari ancora, questa preoccupazione della lotta sul terreno teorico è parte pregnante della lotta contro l'opportunismo, minaccia mortale per le organizzazioni comuniste.
Infine, il congresso ha fatto un primo bilancio del nostro intervento nella classe operaia a proposito della guerra in Iraq. Ha constatato la notevole capacità di mobilitazione della CCI in quest'occasione poiché, fin da prima dell'inizio delle operazioni militari, le nostre sezioni hanno realizzato una significativa diffusione della stampa in numerose manifestazioni, pubblicando, quando è stato necessario, supplementi alla stampa regolare e ingaggiando discussioni politiche con numerosi elementi che non conoscevano fin ad allora la nostra organizzazione. Appena la guerra è scoppiata, la CCI ha immediatamente pubblicato un volantino internazionale tradotto in tredici lingue (4) che è stato distribuito in 14 paesi e in più di 50 città, soprattutto davanti alle fabbriche, e che è stato poi pubblicato sul nostro sito Internet.
Possiamo senz’altro dire che questo congresso è stato un momento che ha espresso il rafforzamento della nostra organizzazione. La CCI si richiama con forza alla lotta che ha condotto e che prosegue per la sua difesa, per la costruzione delle basi del futuro partito e al fine di sviluppare la sua capacità di intervento nella lotta storica della classe. È convinta di essere, in questa lotta, un anello della catena delle organizzazioni del movimento operaio.
La CCI
1. Per tale argomento vedere principalmente le "Tesi sulla crisi economica e politica in URSS e nei paesi dell'Est" (Rivista Internazionale n°13) redatto due mesi prima della caduta del muro di Berlino e "Militarismo e decomposizione" (datato dal 4 ottobre 1990 e pubblicato nella Rivista Internazionale n°15).
2. Vedere principalmente: "La decomposizione, fase ultima della decadenza del capitalismo", punti 13 e 14 (Rivista Internazionale n°14)
3. Su tale argomento vedere il nostro articolo "I metodi polizieschi della 'FICCI'", in Rivoluzione Internazionale n°130.
4. Le lingue delle nostre pubblicazioni territoriali più il portoghese, il russo, l'indiano, il bengalese, il farsi, il coreano.
Due anni fa, l’attentato dell’11 settembre sulle Twin Towers a New York apriva la strada ad un’accelerazione senza precedente degli scontri imperialisti dalla fine della Guerra fredda. Questo ulteriore passo del mondo nel caos ha avuto come giustificazione la “lotta contro il terrorismo internazionale” e la “lotta per la difesa della democrazia”. Questa propaganda non può più mascherare la realtà di un aggravamento delle tensioni imperialiste tra le grandi potenze ed in particolare tra gli Stati Uniti ed i loro vecchi alleati del blocco dell’Est.Come abbiamo più volte sviluppato nella nostra stampa, gli Stati Uniti sono costretti permanentemente ad affermare sul piano militare la loro leadership mondiale che i vecchi alleati gli contestano. I principali conflitti in cui sono rimaste coinvolte queste potenze dal crollo del blocco dell’Est rivelano questa logica. Questa è ancora più evidente in Afghanistan ed in Iraq dove gli Stati Uniti giocano un maggiore ruolo di mantenimento dell’ordine ed hanno difficoltà crescenti di fronte ad una situazione che già possiamo definire impantanata.
Gli Stati Uniti incapaci di controllare e migliorare la situazione in Iraq
Allo scopo di impedire che i suoi principali rivali gli mettessero i bastoni fra le ruote in Iraq e in Medio oriente, gli Stati Uniti hanno fatto in modo di essere i soli padroni in campo negando all’ONU la possibilità di poter giocare il benché minimo ruolo politico nell’amministrazione dell’Iraq e sottomettendo alla loro autorità tutte le altre componenti della forza internazionale presente militarmente in questo paese. Eppure, non solo non esiste al momento alcuna prospettiva tangibile di un alleggerimento del loro apparato militare sul posto (145.000 uomini), ma in più quest’ultimo si dimostra sempre più in difficoltà a controllare la situazione. Gli obiettivi che gli USA si erano fissati sembrano allontanarsi di giorno in giorno mentre la prospettiva di ristabilire la società irachena non è mai stata così lontana.
Le condizioni di vita della popolazione già misere sotto il regno di Saddam Hussein si sono aggravate a causa della guerra e dell’incapacità dell’occupante a migliorare l’approvvigionamento di beni di consumo e di prima necessità, a rimettere in piedi un minimo di infrastrutture indispensabili alla vita quotidiana. Per la fame, dei rivoltisi assalgono i rari magazzini di approvvigionamento. La criminalità dilaga, mentre sperpero e speculazione di ogni tipo si estendono in tutto il paese.
L’insicurezza e l’instabilità si sviluppano in particolare sotto l’effetto del terrorismo a largo raggio. Quest’ultimo colpisce essenzialmente le forze americane o i loro alleati, come dimostra l’attentato perpetrato a Bagdad contro l’ambasciata della Giordania. Ma prende di mira anche gli interessi economici vitali dell’Iraq, come gli oleodotti che trasportano acqua o petrolio.
Le truppe d’occupazione pagano quotidianamente un pesante tributo nella difesa degli interessi imperialisti della borghesia americana. Ne sono testimoni i 62 soldati che sono morti in attentati o imboscate dalla fine della guerra. Per la maggior parte terrorizzate, le truppe americane a loro volta terrorizzano la popolazione generando in essa un’ostilità crescente. Lo sforzo di guerra americano, in dollari ed in vite umane, non è certo finito: altri 78 soldati sono rimasti uccisi, questa volta “accidentalmente”, dopo la “vittoria”. Malgrado la morsa di ferro che gli Stati Uniti tentano di attuare su quel che resta di questa società, in Iraq regna una totale anarchia. Quanto ad un ricambio iracheno che possa sostituire sul posto la dominazione americana ci sarà un bel po’ da aspettare, così come per la costituzione di un governo “democratico”, progetto faro della propaganda della Casa Bianca e giustificazione della guerra. Bush ha proclamato che mai nella storia una coalizione governativa aveva riunito tanti partiti differenti come nel “Consiglio del Governo Provvisorio”, “prova” della sua volontà di attuare la “democrazia” Questa coalizione non è affatto uno scheletro di governo futuro ma un vero covo di vipere. Gli interessi più diversi e contrapposti vi si scontrano, senza la minima preoccupazione per l’interesse “nazionale”. Peggio, alcune frazioni pro-sciite presenti al suo interno sono sempre più inclini a una lotta frontale con l’America, escludendo così di fatto ogni possibilità che questa coalizione possa giocare il benché minimo ruolo.
Quanto alla terra promessa, la ricostruzione dell’Iraq, è sempre più chiaro che ne esce malconcia: i profitti petroliferi previsti potranno parteciparvi solo in minima parte, appena sufficiente per finanziare la riattivazione delle installazioni petrolifere. Si pone dunque la questione di sapere chi deve accollarsi il fardello finanziario.
Chi va a controllare e finanziare il protettorato dell’Iraq?
Giunti ad eliminare l’influenza dei rivali in Iraq, gli Stati Uniti si trovano ora prigionieri di contraddizioni dalle quali cercano di uscire. L’occupazione dell’Iraq è una voragine finanziaria e le perdite di vite umane tra le truppe americane porranno a lungo termine dei problemi seri alla borghesia americana, che però non può disimpegnarsi senza aver stabilizzato la situazione a suo vantaggio, il che è una scommessa. Essa cerca dunque di coinvolgere altre potenze nello sforzo finanziario e militare conservando però il monopolio del comando, con la Gran Bretagna nel ruolo di secondo piano. Tenuto conto dell’opposizione francese e tedesca ad un ritorno dell’ONU come semplice banchiere e fornitore di carne da cannone, senza tenere le leve del comando, la tensione sale nuovamente tra le principali potenze imperialiste.
Gli attentati contro i soldati o quelli che colpiscono personalità inclini ad una cooperazione con la Casa Bianca sono destinati a far salire la pressione contro “l’invasore yankee”. Le difficoltà attuali degli Stati Uniti incoraggiano naturalmente tutti i raggruppamenti, che agiscono sul posto o nei paesi vicini, ostili alla presenza americana. L’attentato contro un dignitario sciita moderato il 9 agosto a Nadjaf, con i suoi 82 morti e 230 feriti, è un colpo supplementare alla credibilità della borghesia americana per quanto riguarda la sua capacità ad attuare una soluzione politica in Iraq. Questo attentato fa essenzialmente il gioco delle potenze rivali degli Stati Uniti, senza che queste ne siano necessariamente i mandanti.
Tutti gli atti terroristici in Iraq non sono tuttavia diretti contro gli interessi americani come ha dimostrato l’attentato contro la sede dell’ONU a Bagdad il 12 agosto che ha ucciso più di venti persone, tra cui il rappresentante speciale in Iraq del segretario generale dell’ONU, grande amico della Francia (le sue guardie del corpo erano tutte francesi ed elementi riportati dai media mostrano che egli era particolarmente preso di mira). Questo attentato fa gli interessi degli Stati Uniti per diversi aspetti. Benché costituisca una prova supplementare della loro incapacità a mantenere l’ordine in questo paese, esso alimenta tuttavia la loro propaganda secondo la quale “é in Iraq che si combatte il terrorismo internazionale che, come si vede, non è diretto unicamente contro gli interessi americani”. Esso costituisce anche un pretesto per fare pressione sulle grandi democrazie, rivali degli Stati Uniti, affinché si prendano le loro responsabilità e s’impegnino nella causa di pacificazione e di edificazione dell’Iraq democratica. Non è certamente una coincidenza se questo attentato giunge quando la Gran Bretagna e gli Stati uniti miravano a fare assumere a più membri della “comunità internazionale” il peso militare ed economico della situazione in Iraq. Tuttavia, la Francia e la Germania hanno potuto ribaltare a loro vantaggio l’attentato invocando l’impossibilità dell’ONU di prendere una parte attiva sul terreno umanitario in Iraq senza essere associati alla direzione degli affari di questo paese che permetta loro di garantire la sicurezza del proprio personale. Questo è il significato dell’arringa fatta la settimana seguente l’attentato dal ministro degli affari esteri francesi, de Villepin, “per una soluzione politica” in Iraq, ripresa con forza da Chirac che ha chiesto dinanzi a 200 ambasciatori “il trasferimento del potere…agli stessi Iracheni” ed l’attuazione “di un processo a cui solo le Nazioni Unite sono in grado di dare tutta la sua legittimità”, il tutto arricchito dalla denuncia del “l’unilateralismo”, e cioè degli Stati Uniti.
Le contraddizioni a cui è sottoposta la borghesia americana non risparmiano la borghesia britannica, tanto più allarmata per il fatto che essa ha poco da guadagnare in quest’alleanza con lo Zio Sam. Le peripezie intorno alla morte di David Kelly, uno dei principali consiglieri dell’ONU per le questioni sulle Armi di Distruzione di Massa irachene, esprimono l’esistenza di un disaccordo di frazioni significative della borghesia inglese con la politica perseguita da Tony Blair.
Territori palestinesi: i piani americani hanno fatto cilecca
Accanto al pantano iracheno, Washington deve far fronte ad una situazione endemica che perdura e s’aggrava da decenni, il conflitto israelo-palestinese. Nessuno dei piani di pace americani ha potuto fino ad allora venirne a capo. Era tuttavia urgente e della massima importanza che gli Stati Uniti eliminassero un focolaio di tensione in grado di cristallizzare nei confronti di Israele e di se stessi l’ostilità del mondo arabo. Il famoso “foglio di via” di cui l’amministrazione Bush è all’origine è stato il segno della determinazione di Washington a costringere Israele a fare delle concessioni significative. In questo caso non si è trattato più di trattative tra Israele e l’Autorità palestinese come all’epoca degli accordi di Oslo inaugurati da Clinton nel 1993, ma di una ingiunzione della Casa Bianca affinché Israele non ponesse più ostacoli alla creazione di uno stato palestinese. Rispetto al campo palestinese avverso, sono stati impiegati gli stessi metodi autoritari per eliminare tutto ciò che sembrava costituire un ostacolo alla soluzione finale. Per questo Arafat, fino ad ora un buon alleato degli Stati Uniti nella messa in opera del processo di pace, è stato messo da parte a favore del suo rivale Mahmoud Abbas. Malgrado la pressione di Bush, Sharon, fingendo di accettare le diverse tregue, ha continuato la sua politica di apertura dei territori palestinesi ai coloni israeliani, di incursioni sanguinarie nei territori occupati e di uccisione di capi di Hamas e della Jiihad islamica. Queste organizzazioni intanto aspettavano solo le provocazioni dello Stato israeliano per perpetrare una nuova serie di attentati contro israeliani.
Il “foglio di via” é riuscito per un certo tempo ad abbassare la tensione, ma il nuovo incendio attuale segna il suo fallimento. Di fronte alla situazione di debolezza della diplomazia degli Stati Uniti, Arafat fa un tentativo di ritorno sulla scena presentandosi come un attore inevitabile della pace con Israele. Alle difficoltà crescenti della Casa Bianca in Iraq fa eco la sua impotenza ad influire sul conflitto israelo-palestinese.
Alla vigilia del secondo anniversario dell’attentato contro le Twin Towers e del terzo anniversario dell’Intifada in Palestina, la prospettiva che offre il capitalismo, tanto alle popolazioni delle regioni annientate dalle guerre, sottomesse al terrore ed ad una miseria indicibile, che all’insieme del pianeta, è sempre più caos, sempre più orrori e massacri.
Mulan (30 agosto)
L’indecenza, l’assenza totale di pudore che caratterizzano le campagne dei media della borghesia, hanno raggiunto questa volta il massimo. Con cinismo la borghesia da spettacolo della sofferenza e della solitudine dei vecchi, il dolore dei parenti piangenti, ma cade nel macabro più abietto saturando fino alla nausea gli spettatori con le immagini dei becchini che si attivano nei cimiteri o di custodie di plastica e di bare allineate sotto i neon dei locali frigo del mercato di Rungis requisiti e trasformati in sala mortuaria per la circostanza, come se si trattasse di bestiame appena abbattuto: ci viene mostrata con compiacenza l’organizzazione del “deposito” prima dell’inumazione, ed il trasporto dei corpi con i camion frigo; e per “l’ambiente” per poco non viene evocato l’odore dei cadaveri! E’ ripugnante.
Queste scene dei “bodybags” che la borghesia non sa dove ammassare, le camere degli ospedali strapiene, con un personale estenuato che riconosce la sua impotenza, pazienti a dozzine sulle barelle nei corridoi o distesi per terra, che aspettano ore e ore che qualcuno si occupi di loro, danno tutta la dimensione della decomposizione del capitalismo, di una società che sta andando in brandelli e che, sempre di più, scherza con la morte. La borghesia ha ripetuto il solito ritornello della “fatalità della catastrofe naturale, eccezionale ed imprevista”. Da Raffarin a Kouchner, ci viene ripetuto continuamente che “il governo non è responsabile del tempo che fa”. Giustamente, sempre di più studi scientifici stabiliscono che, per la prima volta nella storia, l’umanità (leggere il sistema capitalista in decadenza e l’anarchia distruttrice della sua produzione basata sulla ricerca a qualsiasi costo del profitto) influenza l’evoluzione globale del clima ed è responsabile di un aumento della temperatura climatica, definita “arma di distruzione di massa” da uno specialista inglese. Già “la ripetitività e l’intensità dei fenomeni climatici estremi producono una sfrenata baraonda sull’insieme dei continenti e degli oceani. (…) Caldo torrido ed inondazioni si succedono, tempeste e siccità si combinano. L’alternanza ravvicinata di catastrofi dette naturali provoca una aspirale di squilibri. Il numeri delle vittime silenziose ed anonime si accresce. I danni sull’ecosistema planetario s’intensificano” (1). In avvenire, “le ondate di calore saranno più frequenti, più intense e i record di temperature non dovranno più attendere cento anni per essere superati” (2). Ricercatori americani prevedono “un 21° secolo caratterizzato da variazioni estreme di temperature e di precipitazioni. In altri termini, all’ondata di calore ed alla siccità che attualmente conosce la Francia ed i suoi vicini, si alterneranno periodi di ondate fredde e d’inondazioni” (2). Le popolazioni dell’Europa occidentale sono condannate dal capitalismo ad essere sempre più esposte in avvenire agli effetti del “disordine climatico maggiore che si accelera e si generalizza” (1) attraverso la ripetizione dei fenomeni di cui esse sono ormai regolarmente vittime, come per la tempesta del 1999 in Francia, per le inondazioni catastrofiche dell’inverno 2002 in Germania ed in Francia 2001, gli allagamenti ed i fiumi di fango in Italia negli ultimi anni, così come quest’afa dell’estate 2003.
Il responsabile di questo disastro attuale è il sistema capitalista. E’ lo stesso capitalismo che ha preparato questo cocktail esplosivo del disordine climatico, associato ai picchi di inquinamento d’ozono, che battono tutti i record storici a Parigi, e che, con l’aggiunta della povertà di parti sempre più importanti della popolazione (principalmente pensionati) e della politica di riduzione drastica dei costi della salute, ha dato come risultato quest’ecatombe senza precedenti. Nonostante il ritardo con cui si è mosso, aspettando la moltiplicazione dei decessi, definiti all’inizio come “morti naturali”, prima di attuare “il piano bianco” per far fronte alla situazione, il governo si è messo fuori causa. Prima ci ha raccontato che lo Stato non ha dato prova di sottostimare il problema perché “per sottostimare, bisogna essere avvertiti, ora questa afa non era prevedibile” (3). Poi, per nascondere la propria responsabilità si è messo alla ricerca di un capro espiatorio. In modo completamente infamante se l’è presa con gli stessi vecchi: il ministro della salute è arrivato a giustificare l’insuccesso delle campagne di prevenzione del governo contro il caldo, non con la quasi inesistenza dei mezzi messi in opera, ma…con la scarsa memoria dei vecchi(!) incapaci di ricordare dopo qualche giorno le prescrizioni sanitarie appropriate!
Ma soprattutto, la borghesia ha scatenato una vera e propria campagna di colpevolizzazione del personale ospedaliero e delle famiglie utilizzando argomenti scandalosi Affermando che “dato che un tale caldo è sopraggiunto in un momento dell’anno in cui gli effettivi negli ospedali sono più deboli, non potevamo aspettarci che conseguenze drammatiche” (J.F. Copé, porta parole del governo) (2), si punta il dito sul personale degli ospedali, e sia fa cadere una parte di responsabilità su questi immemori della loro missione, che preferiscono beneficiare dei sedicenti vantaggi concessi dalle 35 ore, andandosene al mare, piuttosto che assicurare il loro dovere di servizio pubblico nel momento in cui si ha più bisogno di loro! Quanto alle famiglie, non solo sono colpevoli perché si sono prese delle vacanze, “nell’indifferenza del loro modo di vita egoista” lasciando al loro destino i loro vecchi parenti isolati, incapaci di dare l’allarme in caso di necessità! Ma sono anche accusate direttamente di negligenza ed di abbandono dell’obbligo di presa in carico dei vecchi! E per meglio rafforzare il concetto si rincara la dose attraverso tutto lo scalpore, immagini all’appoggio, intorno ai cadaveri scoperti in casa da vicini dopo giorni dal decesso e i 300 corpi che nessuno reclama nei frigoriferi di Rungis e d’Ivry. Veramente nauseante!
Inoltre con lacrime di coccodrillo versate su questo dramma, la borghesia ci gratifica con il tumulto dei suoi battibecchi. Sinistra e destra fanno cadere la responsabilità di queste migliaia di morti sulla cattiva gestione del sistema della sanità… ma dei governi precedenti. Alcuni, come i Verdi (che radicali!) esigono anche le dimissioni del ministro della salute per incompetenza! Che ipocrisia!
Sinistra e destra sono complici nel tacere e nel dissimulare che lo stato di precarietà sociale e sanitaria in cui si trova una parte sempre più ampia di proletari - proprio come l’incapacità degli ospedali a far fronte alla situazione per la carenza di letti, di medici e di infermieri - è il risultato della loro politica, e ogni frazione ne è complice. La politica di una classe dominante strangolata dalla crisi economica insolubile, pronta ad ogni sacrificio sull’altare del profitto, e che dagli anni di Mitterrand e dell’istituzione del prezzo forfettario ospedaliero da parte del “compagno” ministro Ralite del PCF nel 1983, ha fatto della riduzione delle spese per la sanità un’ossessione costante ed il leitmotiv della sua azione. Sinistra e destra hanno mostrato la stessa determinazione e la stessa costanza nell’applicazione di misure di restrizione budgetarie, di compressione del personale, di soppressione di letti, di soppressione di servizi interi e di ospedali; misure volta per volta iniziate dagli uni, allargate ed estese dagli altri man mano che si succedevano al governo.
L’Istituto Nazionale di Vigilanza Sanitaria, creato dalla sinistra, ed il suo “dispositivo d’allarme sanitario” come l’applicazione del sacrosanto “principio di prevenzione” si sono mostrati completamente inoperanti e si sono rivelati per quello che sono: fumo negli occhi.
Le vittime delle precedenti ondate di caldo (2000 nel 1976 e 5000 nel 1983) sono state accuratamente nascoste. Al contrario oggi. Tutta la pubblicità dei media attuale contribuisce a tentativo di abituare la classe operaia all’idea che tutto questo è e sarà in futuro “normale ed “ineluttabile”.
Le migliaia di vittime si contano in maggioranza tra le persone anziane, ma anche tra gli handicappati ed i “senza fissa dimora” morti di sete nelle strade. Cioè tra quelli che il capitalismo condanna ad un’emarginazione ed ad una miseria sempre più grande; bocche improduttive, diventate ai suoi occhi inutili, ed il cui peso aumenta sempre di più per la borghesia costantemente alla ricerca del loro mantenimento a minor costo. E’ per questo che l’APA (Aiuto personalizzato d’autonomia) il cui scopo è d’aiutare le persone anziane, a domicilio o in casa di riposo, e finanziare le spese (non mediche) legate alla perdita di autonomia, s’è vista amputata di 400milioni d’euro principalmente a detrimento delle persone anziane che vivono a domicilio. Così come lo stanziamento di 180 milioni d’euro previsti dalla Sicurezza sociale nel 2003 per migliorare le condizioni d’accoglienza e la qualità delle cure nelle 10.000 case di riposo è stato ridotto a 100 milioni di euro e su questi, solo 30 milioni appena rappresentano una reale spesa assicurazione-malattia. L’applicazione della riforma delle pensioni che si traduce con una perdita dal 15% al 50% del potere d’acquisto delle pensioni, rappresenta una nuova tappa negli attacchi antioperai ed insieme allo smantellamento della sicurezza sociale, cominciato attraverso l’annuncio di centinaia di medicine che non saranno rimborsate e di cure più onerose, illustra il fallimento del sistema capitalista che diventa incapace di integrare nella produzione la forza lavoro e scarta dopo decenni di sfruttamento fino al midollo quelli da cui non può trarre nessun profitto, come appunto i vecchi.
L’ecatombe attuale, degna delle catastrofi del terzo mondo, mostra che le popolazioni occidentali dei paesi sviluppati, non sono e soprattutto non saranno affatto risparmiate dagli effetti della decomposizione del sistema capitalista. La vera calamità è il capitalismo e la dominazione della classe borghese.
Scott
1. Le Monde del 9 agosto.
2. Le Monde del 16 agosto.
3. Le Monde del 15 agosto.
La CCI ha tenuto una riunione a Milano, il 26 giugno, su invito della Giovane Talpa (1) sulla nostra teoria della decadenza del sistema capitalista. Alla riunione hanno partecipato anche altri compagni in contatto con la Giovane Talpa e con la CCI. Noi abbiamo dato un caloroso benvenuto a questa opportunità di discutere una questione che è d'importanza cardinale nel capire l’attuale periodo storico e le condizioni per la lotta al rovesciamento del sistema di produzione esistente. Come uno dei partecipanti alla riunione ha detto: “per un marxista il concetto di decadenza è fondamentale, altrimenti si potrebbe pensare che il capitalismo è un sistema progressivo. Il capitalismo non può far funzionare il mondo, un comunista deve credere per forza alla decadenza altrimenti come pensiamo a distruggerli?”
Infatti, come la nostra introduzione alla riunione ha mostrato, la teoria marxista della decadenza è la chiave per capire l'evoluzione della società umana attraverso lo sviluppo delle forze produttive ed il cambiamento che questo sviluppo comporta nelle relazioni di produzione. I sistemi sociali non sono eterni: così come la schiavitù, il dispotismo asiatico, il feudalesimo sono sorti come forme sociali e sono declinati e morti, così anche il capitalismo è condannato a morire. Questo sistema ha svolto per un periodo un ruolo storico nello sviluppo delle forze produttive, ma raggiunto il massimo del suo sviluppo è entrato nella sua fase decadente in cui è divenuto un ostacolo per quelle stesse forze e ha da offrire all’umanità solamente crisi, disoccupazione di massa, guerra, disastri ambientali, fallimento economico, sociale e politico. È la decadenza del capitalismo come sistema sociale che produce le condizioni per la rivoluzione proletaria, che dà il quadro per capire quali sono le armi della lotta rivoluzionaria e come i rivoluzionari devono intervenire per spingere in avanti all'interno del proletariato lo sviluppo della coscienza del proprio ruolo storico. Poiché un’analisi rigorosa delle conseguenze di un cambiamento di periodo storico è necessaria per arrivare ad una chiarezza politica sulla prospettiva che abbiamo di fronte, la nostra presentazione si è poi focalizzata sulle principali implicazioni politiche della decadenza del capitalismo.
Il diciannovesimo secolo ha visto la formazione di nazioni borghesi in Europa -ad esempio l'unificazione dell’Italia o la creazione della Germania - ed è stato anche un periodo che ha visto l'espansione a livello internazionale del sistema capitalista attraverso le conquiste coloniali - per esempio quelle sui continenti americano ed africano - che aprirono la via alla creazione di stati indipendenti in queste zone, meglio caratterizzati dalla guerra d'indipendenza americana. I rivoluzionari dell’epoca sostennero quei movimenti che erano progressivi in quanto facevano parte dello sviluppo e dell’estensione del capitalismo, e pertanto favorivano la maturazione delle condizioni per la rivoluzione proletaria. Ma la possibilità per la classe lavoratrice di sostenere certe fazioni della borghesia finì all'inizio del 20° secolo con la fine del ruolo progressivo del capitalismo. La prima guerra mondiale e l'ondata rivoluzionaria che ha posto termine ad essa hanno segnato l'entrata della società nel periodo di guerra o rivoluzione; i movimenti nazionalisti persero il loro carattere progressivo e divennero nient’altro che pedine nella lotta imperialista tra stati capitalisti per ridividere le sfere d’influenza mondiale. Non era più possibile per la classe operaia ottenere riforme durevoli da un sistema che ora era in crisi permanente, mentre le condizioni obiettive divenivano mature per la lotta rivoluzionaria. Questo comportò un cambiamento nella natura e nei mezzi della lotta; la tendenza verso lo sciopero di massa sostituì la divisione tra la lotta politica e la lotta economica; il parlamento non poteva più servire come foro per migliorare la situazione della classe operaia all'interno del capitalismo; i sindacati, che erano serviti alla classe nella sua lotta per le riforme nel 19° secolo, divennero un’arma del nemico, mentre la lotta di massa in Russia nel 1905 e nel 1917 portò alla creazione di nuovi organi, i soviet, che erano conformi alle necessità della lotta nel nuovo periodo (2).
Nella discussione che ha avuto luogo sulla base della presentazione, ci sono state due critiche principali alla nostra posizione sulla decadenza.
La prima è che l’impostazione teorica della CCI è stata costruita su di un singolo aspetto (quello economico), su cui sono stati messi altri aspetti, e questo diventa il quadro per spiegare tutti gli avvenimenti mondiali, e che Marx invece era molto più aperto. Questo solleva un problema di fondo: qual è il quadro per capire la realtà sociale, qual è il metodo marxista? L’importanza della visione sviluppata da Marx ed Engels sta nell’identificare nello sviluppo delle forze produttive il motore dell’evoluzione sociale.
"Nella produzione sociale della propria esistenza, gli uomini allacciano dei rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà; questi rapporti di produzione corrispondono allo stadio dato dallo sviluppo delle loro forze produttive materiali. L'insieme di questi rapporti formano la struttura economica della società, il fondamento reale su cui si eleva un edificio giuridico e politico ed a cui corrispondono delle forme determinate della coscienza sociale. Il modo di produzione della vita materiale domina in generale lo sviluppo della vita sociale, politica ed intellettuale. Non è la coscienza degli uomini che determina la loro esistenza, è al contrario la loro esistenza sociale che determina la loro coscienza.
Ad un certo grado del loro sviluppo le forze produttive della società entrano in collisione con i rapporti produttivi esistenti, o con i rapporti di proprietà in seno ai quali esse si erano mosse fino ad allora, e che non ne sono che l'espressione giuridica. Ieri ancora forme di sviluppo delle forze produttive, queste condizioni si trasformano in pesanti ostacoli. Comincia allora un'era di rivoluzione sociale.
Il cambiamento dei fondamenti economici si accompagna ad un rivolgimento più o meno rapido in tutto questo enorme edificio. Quando si considerano questi rivolgimenti, bisogna sempre distinguere due ordini di cose. Esiste il rivolgimento materiale delle condizioni di produzione economiche. Bisogna constatarlo con lo spirito di rigore delle scienze naturali. Ma ci sono anche le forme giuridiche, politiche, religiose, artistiche, filosofiche; in breve, le forme ideologiche all'interno delle quali gli uomini prendono coscienza di questo conflitto e lo portano fino all'ultimo grado. Non si giudica un individuo per l'idea che egli ha di se stesso. Non si giudica un'epoca di rivoluzioni per la coscienza che essa ha di se stessa. Questa coscienza si esplicherà piuttosto sulla base delle contraddizioni della vita materiale, sulla base del conflitto che oppone le forze produttive sociali e i rapporti di produzione.
Giammai una società muore prima di aver sviluppato tutte le forze produttive che essa può contenere; giammai dei rapporti di produzione superiori si instaurano, prima che le condizioni materiali della loro esistenza siano apparse nel seno stesso della vecchia società.
L'umanità non si pone che i problemi che può risolvere; perché, considerando la questione più da vicino, si trova sempre che il problema stesso sorge solo quando già esistono o sono almeno in processo di formazione le condizioni materiali per la sua soluzione.
In grandi linee, i modi di produzione asiatico, antico, feudale e borghese moderno appaiano come epoche progressive della formazione economica della società." (3)
Questo descrive precisamente e succintamente la visione materialista storica dell'evoluzione sociale e le condizioni che generano una situazione rivoluzionaria ed è la base da cui il successivo movimento operaio sviluppò una comprensione del cambiamento di periodo quando si confrontò direttamente con esso nel 1914. La prima guerra mondiale ha visto il tradimento dei partiti socialisti all'interno della Seconda Internazionale quando questi difesero gli interessi delle loro borghesie nazionali nella guerra imperialista contro il ruolo storico del proletariato. Però la sinistra difese una posizione internazionalista contro la guerra e sviluppò una discussione sul significato della fase imperialista nella vita del capitalismo, sull'impossibilità di difendere il nazionalismo borghese ed il significato della rivoluzione russa come la presa del potere da parte del proletariato in un periodo in cui la rivoluzione comunista era finalmente all’ordine del giorno della storia.
La dichiarazione dell’Internazionale Comunista nel 1919 che il capitalismo era entrato in un periodo di guerra o rivoluzione era una concretizzazione della visione di Marx che i rapporti sociali di produzione, quando entrano in conflitto con lo sviluppo delle forze produttive, segnano la crisi finale della vecchia società e producono le condizioni obiettive per una situazione rivoluzionaria. Ma furono soprattutto Bilan e la GCF (Sinistra Comunista Francese) a tirare le lezioni dalla sconfitta dell'ondata rivoluzionaria e analizzare le implicazioni del cambio di periodo per la lotta della classe operaia e l'intervento dei rivoluzionari.
Questo è il metodo che segue la CCI, l’unico capace di identificare l'agente rivoluzionario al centro del sistema capitalista, il proletariato. L'idea secondo la quale dobbiamo essere più 'aperti', che non tutto dipende dal concetto di decadenza, significa togliere dal quadro la coerenza e il rigore del metodo marxista e cadere in una visione empirica della realtà, concepita come una serie di fenomeni distaccati, senza una coesione interna se non la soggettività dell'individuo. E’ per certi versi strano che una tale critica venga proprio dalla Giovane Talpa che ha risposto all'ultima guerra del Golfo producendo un opuscolo, con la ristampa di tre testi del movimento operaio che prendono una posizione internazionalista sulla guerra, e un'introduzione che intende fare un bilancio generale e storico della situazione attuale del capitalismo per spiegare le ragioni dell'attacco all'Iraq. Quali che siano i disaccordi che possiamo avere su punti specifici dell'opuscolo, il metodo e l’approccio è quello che difendiamo: risalire alla storia del movimento operaio, non limitare l'analisi ad un'interpretazione dell'evento in sé ma situarlo nel contesto della situazione sociale e globale.
La seconda obiezione sollevata nella discussione è che è sbagliato datare l’inizio della decadenza dal 1914 perché c'è stato uno sviluppo delle forze produttive anche dopo la seconda guerra mondiale. Diversi elementi sono stati portati dai compagni che difendono questa posizione: la seconda guerra mondiale ha prodotto scoperte tecnologiche e scientifiche poi applicate in campo industriale; dagli anni ’50 agli anni ’80 ci sono stati miglioramenti delle condizioni di vita dei lavoratori, se non in ogni parte del mondo, almeno nei paesi centrali del capitalismo; solo dopo la seconda guerra mondiale i paesi africani guadagnarono l'indipendenza; in Cina nel 1949 c'è stata non una rivoluzione proletaria ma una rivoluzione democratico borghese.
Anche qui è necessario capire ogni singolo fenomeno individuale nel contesto della situazione generale. Non possiamo riportare qui per esteso le risposte che sono stata date dalla CCI, né possiamo sviluppare ogni singola questione, ma vogliamo brevemente ricordare quali sono stati gli elementi da noi portati per un’ulteriore riflessione.
Innanzitutto, quando diciamo che il capitalismo è decadente, non diciamo che lo sviluppo delle forze produttive si ferma completamente, che non c’è nessuno sviluppo tecnologico, ma piuttosto che lo sviluppo tende ad essere un fattore che aggrava le crisi economiche nel contesto della disoccupazione crescente, al posto di aprire la possibilità di un nuovo ciclo economico e l’integrazione di più operai nella produzione. In questo contesto, “l’indipendenza” accordata agli stati africani nella seconda metà del 20° secolo, non ha aperto una prospettiva di sviluppo dell'infrastruttura e la formazione di stati moderni. Essa è servita semplicemente a sanare una situazione residua del periodo coloniale, che è stato un’espressione dell’espansione capitalista dal centro alla periferia nella fase ascendente, ma non è più la forma appropriata di dominio nell’epoca imperialista, durante la quale il controllo viene esercitato attraverso il capitale finanziario. Del resto questi nuovi stati “indipendenti” sono stati integrati fin dall'inizio in uno dei due blocchi imperialisti allora esistenti; le affiliazioni possono cambiare a seconda dei periodi e delle situazioni, ma il gioco è sempre lo stesso. E questo gioco imperialista è un’espressione della decadenza capitalista in cui la guerra è il modo di vita del sistema moribondo.
L’ascesa di Mao Tse Tung nella Cina del secondo dopoguerra non è stata l'ultima delle rivoluzioni democratiche borghesi, ma un tentativo di rendere più adatto questo paese, arretrato e rurale, alla sopravvivenza in una situazione di crisi economica globale e permanente. Non una rivoluzione borghese quindi, ma un fattore della tendenza generale verso il capitalismo di stato, forma più idonea a controllare la crisi attraverso il diretto intervento dello Stato nella vita economica di una nazione. Questa tendenza è caratteristica del periodo decadente, non solo in Russia ma, in forme diverse, anche nei regimi più sviluppati dell’Europa occidentale, negli Stati Uniti ed in ogni paese del mondo.
Ugualmente, anche se la classe operaia non può ottenere miglioramenti reali e durevoli, e la situazione oggi mostra un declino senza precedenti delle condizioni di vita, a livello di disoccupazione, intensificazione dello sfruttamento, tagli al salario sociale, questo non significa che non ci possano essere stati guadagni temporanei e relativi. I miglioramenti tra gli anni ’50 e ’80 menzionati alla riunione (ed in verità dovrebbe essere considerato un periodo più breve), sono stati una conseguenza della ricostruzione dopo la guerra, un palliativo momentaneo della crisi mortale del capitalismo.
Questa riunione con la Giovane Talpa chiaramente non si è conclusa con un accordo completo con l’analisi della CCI sulla decadenza. E non poteva che essere così perché questa è una questione complessa, che richiede molte discussioni e riflessioni per farne emergere tutte le implicazioni. Ciononostante questa riunione è stato un momento politico importante perché è stata animata da uno spirito costruttivo di confronto, da un reale interesse a discutere, esprimendo critiche, dubbi, posizioni diverse, per arrivare ad una chiarificazione politica al fine di poter meglio contribuire alla maturazione dello scontro tra le classi. E’ stata quindi una riunione che ha confermato l'importanza del dibattito aperto tra quegli elementi e quelle forze che si situano sul terreno della missione storica del proletariato ed ha confermato il bisogno di riappropriarsi della storia del movimento operaio in modo critico e profondo per rafforzare il movimento di oggi e di domani. In questo senso ripetiamo l'appello fatto alla fine della riunione stessa, di continuare il dibattito per iscritto ed attraverso altre riunioni; sviluppare le critiche con lo scopo di partecipare al lavoro essenziale di rafforzare una coerenza rivoluzionaria che possa rispondere in maniera decisiva alla necessità storica aperta dalla bancarotta del sistema capitalista: la rivoluzione della classe operaia.
AS
1. La Giovane Talpa è un collettivo editoriale a carattere aperto. Vedi il loro sito internet: www.giovanetalpa.net [13]
2. Per la posizione della CCI sulla decadenza, vedi l’opuscolo “La decadenza del capitalismo” e altri articoli nella Rivista Internazionale (in inglese, francese, spagnolo)
3. Marx, “Prefazione alla Critica dell’economia politica”
1.
La manifestazione nazionale a Roma contro la modifica dell’articolo 18
dello statuto dei lavoratori viene oscurata dall’agguato mortale contro
il prof. Marco Biagi, consulente del governo su questioni di diritto
del lavoro, avvenuto due giorni prima ad opera di una sedicente
organizzazione comunista combattente;
2. La manifestazione del 24 ottobre 2003 contro l’ulteriore riforma del
regime pensionistico viene anch’essa condizionata dalla notizia,
diffusa cronometricamente nella stessa mattinata, secondo cui una
retata effettuata nelle ore precedenti aveva messo al sicuro una folta
banda di brigatisti responsabili del suddetto delitto ed altro ancora.
Noi non siamo esperti criminologi e certamente tutto si può dire di noi tranne che possiamo avere delle simpatie per il terrorismo, in qualunque forma esso sia portato avanti. Certo è singolare questa coincidenza di eventi. Ma si può veramente parlare di coincidenza, quando si sa bene che queste operazioni non sono mai il frutto del caso ma l’espressione di un lungo, meticoloso e paziente lavoro di preparazione, sia da parte delle BR, per gli attentati, che da quella dello Stato, per le retate? Quello che appare invece come la più logica conclusione è che sia le BR che lo Stato usino coscientemente le manifestazioni di massa per avere un’eco al loro interno, per fare di queste degli amplificatori dei loro messaggi. Insomma sembra esserci un reciproco e parallelo gioco egemonico sulla pelle dei lavoratori attraverso la ricerca delle occasioni di maggiore mobilitazione e sensibilità per galvanizzare e orientare il movimento in un senso o in un altro. Naturalmente non bisogna neanche scartare l’ipotesi che alcuni morti di terrorismo siano stati lasciati morire dallo Stato, che su questo piano ha una lunga e consolidata esperienza (vedi caso Moro). Un morto come Biagi alla vigilia di una grande manifestazione operaia ha evidentemente un forte impatto, creando un clima di terrore che tende a raffreddare gli animi e le pretese dei manifestanti e fornendo peraltro la stura ai sindacalisti di turno per infiorettare ricchi discorsi sulla democrazia e il rispetto delle istituzioni.
Ciò detto, bisogna ancora stare attenti a non credere che, in conseguenza di quanto detto sopra, il terrorismo costituisca una politica adeguata per combattere i mali di questa società solo perché le BR professano di essere contro lo Stato. In realtà, come abbiamo più volte affermato, il terrorismo è solo la reazione impotente di strati di piccola borghesia, che evidentemente può guadagnare influenza anche nei ranghi proletari, tanto più in questa fase di decomposizione e di difficoltà nell’intravedere una chiara prospettiva per la lotta di classe e un domani migliore. Il terrorismo è intrinsecamente antioperaio nella misura in cui tende a erodere quelle che sono le principali armi del proletariato, la sua unità e la sua coscienza. Infatti la sua azione - necessariamente clandestina e segreta - richiede che una minoranza, agente per piccoli gruppi uniti solo da persone di fiducia, agisca di fatto in nome e per conto della classe operaia. Questo significa dare per scontato, a priori, che la direzione del processo di emancipazione resti in mano ad un pugno di militanti (nel caso italiano, le BR appunto) e che la classe si debba associare per “fede”. Ma la rivoluzione proletaria non è un processo che può portare avanti una classe senza convinzione, senza chiarezza di quello che fa. Questo è potuto accadere solo nelle rivoluzioni precedenti, ed in particolare nella rivoluzione francese dove la plebe, al comando di una ristretta schiera di politici borghesi, ha materialmente portato avanti il processo rivoluzionario. Ma in quel caso la plebe poteva rimanere in uno stato di semicoscienza di quello che andava a fare perché la borghesia, per conto della quale quella rivoluzione si stava compiendo, aveva già delle solide basi economiche nella società e aveva solo bisogno di suggellare questo dominio con la conquista del potere politico. Il quadro di oggi è completamente diverso: non potendo la classe operaia contare su alcun punto di forza all’interno di questa società, può fare appello solo alla sua unità e alla sua coscienza. Ed è in questo senso che le azioni del brigatismo sono in netta contraddizione con la natura rivoluzionaria della classe operaia e finiscono per disorientarla e scoraggiarla ogni volta che si manifestano.
D’altra parte a livello di posizioni politiche, cosa suggeriscono i terroristi di oggi? A sentire le dichiarazioni della militante brigatista Lioce, i proletari dovrebbero stare a osannare i vari Saddam Hussein, gli Osama Bin Laden, per il fatto che stanno riuscendo a mettere a dura prova l’imperialismo americano. E sia pure. Ma esiste un solo imperialismo nel mondo? E forse che abbattutone uno, tutti gli altri se ne cadono da soli? Oppure, come è molto più ragionevole che sia, tutti gli altri profittano della situazione per rafforzarsi? Allora questi brigatisti per chi fanno il tifo, per qualche imperialismo minore con cui la classe operaia si dovrebbe alleare? E per fare questo il proletariato occidentale dovrebbe chiudere gli occhi su tutte le migliaia di proletari che sono vittime inconsapevoli della maggior parte di questi attentati internazionali? La conclusione evidente è che, al di là della buona volontà di chicchessia, lo Stato da una parte e le organizzazioni terroriste dall’altra, partecipano ad una stessa operazione di controllo e di mistificazione della classe operaia. I terroristi cercando di spingere gli elementi più determinati in dei vicoli ciechi e disperati; lo Stato cercando di additare il pericolo terrorista come la naturale estensione di una lotta radicale operaia e additando la democrazia e la moderazione come l’ambito naturale all’interno del quale trattare tutte le questioni. La sottolineatura, fatta a più riprese dalle forze di polizia e governative dell’appartenenza ad un sindacato dei (presunti) terroristi arrestati, ha dunque tutto il sapore di una messa in guardia contro i lavoratori: ogni lotta sarà tollerata purché completamente interna alle compatibilità e ai canoni borghesi. Qualunque deragliamento sarà considerato assimilabile ad un atto di terrorismo! In conclusione, da qualunque punto di vista si voglia guardare la situazione, il terrorismo è sempre più un’arma del terrore statale contro i lavoratori.
Ezechiele
23 novembre 2003
Ci volevano 19 morti italiani per fare finalmente uscire fuori che l’Italia è in guerra. E non ci sta da adesso, dopo l’attentato, ma fin da quando la missione è stata decisa, perchè in Iraq non c’è nessun governo locale che ha chiesto l’aiuto di un esercito straniero per difendersi da un nemico interno od esterno (1), ma degli eserciti di occupazione che si sono imposti grazie ad una guerra di aggressione. E poco importa che il contingente italiano non abbia partecipato all’invasione, ma si sia aggiunto dopo. La guerra in Iraq non è mai finita e gli avvenimenti di questi giorni non fanno che confermarlo. E se c’è una guerra, tra chi è se non tra forze irakene (poco importa se minoritarie o no) e gli eserciti di occupazione, ivi comprese le truppe italiane?
Si è così drammaticamente svelata la grossa menzogna sulla missione di “pace” del contingente italiano in Irak. I soldati italiani stanno laggiù per difendere gli interessi imperialisti del capitale italiano. Cioè ci sono per gli stessi motivi dei soldati americani, inglesi, spagnoli,ecc. Non è un caso che in occasione dell’attentato ci sia stata la santa alleanza della maggioranza delle forze politiche, unite nel difendere la menzogna della missione di pace, ed unite nel sostenere che in Iraq bisogna rimanere. Il massimo di distinguo con la maggioranza governativa che ha voluto l’intervento è stata (vedi dichiarazione di D’Alema) la richiesta di una accelerazione del passaggio di consegne del potere a forze irakene, il che è la stessa cosa che sta dicendo in queste settimane l’amministrazione Bush! E quelli che si spingono a chiedere il ritiro delle truppe italiane dall’Iraq lo fanno non perchè denunciano il carattere imperialista dell’intervento, ma per chiedere che sia l’ONU a occuparsi dell’Iraq. Come se l’ONU fosse un organismo al disopra delle parti e non il covo dei briganti imperialisti, come diceva Lenin della precedente Società delle Nazioni, dove prevalgono sempre gli interessi delle nazioni più forti o, se queste sono divise, come è successo proprio nel caso dell’Iraq, l’ONU finisce con l’essere puramente e semplicemente ignorata.
Ma l’aspetto più repellente di questa situazione è l’uso cinico che la borghesia italiana sta facendo dei 19 morti in Iraq. Sfruttando l’emotività legata al numero di morti e alla maniera in cui sono morti, la borghesia cerca di giustificare così a posteriori il proprio intervento, per cui afferma di non volere lasciare l’Iraq perchè questo offenderebbe la memoria dei morti (meglio quindi rischiare di farne altri italiani o irakeni!). E ancora, si è orchestrata tutta una campagna mediatica per cercare di rafforzare il nazionalismo nella popolazione (l’orgoglio per i martiri, gli eroi, e così via). E questo è un obiettivo importante non solo per difendere la presenza in Iraq: in realtà la borghesia italiana sa bene che i sentimenti spontanei della popolazione sono di avversione alla guerra, ad ogni guerra. E l’attentato di Nassirya, poiché svela la situazione di guerra che c’è laggiù, rischia di rafforzare ancora di più questo sentimento, con la conseguenza che l’opposizione popolare agli interventi italiani nel mondo potrebbe crescere, il che metterebbe a rischio non solo la missione in Iraq, ma anche quella in Afghanistan e nelle decine di paesi in cui c’è una presenza militare italiana per affermare gli interessi imperialisti del capitale nazionale (2).
Ma forse c’è di peggio: i servizi segreti hanno rivelato di aver riferito la forte probabilità dell’attentato, indicando anche le modalità con cui sarebbe avvenuto (camion imbottiti di esplosivo) e il periodo probabile (la prima decade di novembre). Ciononostante nessuna ulteriore protezione era stata posta davanti alla caserma dei carabinieri a Nassirya, quando bastava porre qualche barriera al passaggio veicolare e le conseguenze dell’attentato sarebbero state molto minori. C’è quindi da chiedersi: erano così ottusi i politici e i militari italiani da credere loro stessi alla favola dell’operazione di “pace” e quindi sull’inesistenza di pericoli importanti? O chi sapeva ha lasciato che le cose avvenissero lo stesso per calcolo politico? Per quanto orribilmente cinica possa sembrare questa ipotesi noi non possiamo escluderla; già nel passato la borghesia non ha esitato a lasciare avvenire dei disastri per poter giustificare le sua azioni guerriere: gli USA lo fecero lasciando che i giapponesi bombardassero Pearl Harbur anche se lo sapevano, per poter giustificare l’entrata in guerra; gli stessi USA avevano grossi indizi sulla preparazione degli attentati dell’11 settembre 2001, ma non li hanno seguiti, e così hanno potuto lanciare la crociata della guerra al terrorismo con l’invasione dell’Afghanistan prima, e dell’Iraq dopo. Per quanto riguarda la borghesia italiana, abbiamo visto come l’attentato di Nassirya ha costituito l’occasione per giustificare la missione in Iraq e permettere anche a buona parte dell’opposizione di sostenere che in Iraq bisogna restarci.
In ogni caso quello che è certo è che in Iraq i militari italiani stanno effettuando una azione di guerra per consentire all’imperialismo italiano di essere presente in un altro dei punti chiave del pianeta, e se i 19 militari sono morti per mano di terroristi irakeni, la responsabilità principale è di quelli che li hanno mandati laggiù ben sapendo che i rischi di perdite era molto elevato (e lo è diventato sempre di più da alcuni mesi a questa parte). Quello che è certo è che i proletari italiani stanno sopportando da anni il costo economico delle avventure imperialiste della borghesia italiana nel mondo, ed oggi cominciano a pagarle anche con il sangue. E’ questa la realtà che le principali forze politiche, di destra e di sinistra, cercano di nascondere. E’ questa realtà che deve spingere i proletari italiani ad opporsi con le proprie lotte non solo agli attacchi economici, ma a tutta la dinamica di barbarie che il capitalismo in decomposizione ha messo in moto, e che rischia di portare l’umanità intera alla distruzione.
1. In realtà nell’epoca dell’imperialismo, cioè della divisione del mondo in zone di influenza, anche i casi in cui è un governo locale a chiedere aiuto, questo non viene concesso che per difendere gli interessi imperialisti del paese soccorritore, e non certo per scopi umanitari. 2. L’Italia è presente con proprie truppe in: Irak, Serbia, Bosnia, Kossovo, Macedonia, Albania, Afghanistan con più di 8500 uomini, mentre alcune altre decine sono impiegati in altri paesi (Repubblica del 13/11/03).
Quanta indignazione, martedì due dicembre, per lo sciopero degli autoferrotranvieri di Milano. Da destra a sinistra, tutti i politici li hanno condannati, giudicati degli irresponsabili; i sindacati si sono dissociati; i magistrati hanno annunciato inchieste; qualche ministro ha proposto una nuova legge antisciopero.... L’avranno proprio fatta grossa questi, viene da dirsi. Poi si leggono i giornali e si vede che semplicemente gli autoferrotranvieri di Milano hanno scioperato per l’intera giornata, cioè per tre turni, invece che per l’unico turno previsto dai sindacati. Addirittura!!
Per questo sono stati chiamati sovversivi, nemici dei lavoratori che non sono potuti andare al lavoro, minacciati di licenziamenti, di denunce, ecc. Verrebbe da pensare che sono esagerazioni, che tutti questi benpensanti si sono fatti prendere dalla rabbia. No. Questi sanno bene quello che fanno e quello che dicono. Questi sanno bene che i lavoratori che lunedì si sono scocciati del solito sciopero simbolico sindacale ed hanno voluto dare un segno visibile del loro malcontento, sono lavoratori che sono stati costretti a questo dopo sette scioperi inutili, e questo per una richiesta di aumento salariale assolutamente irrisoria, 106 euro al mese, che recupera solo in parte la perdita di potere di acquisto dovuta a una inflazione reale che è ben al di sopra di quella ufficiale (su cui ancora ipocritamente i sindacati vanno a fare i calcoli per la richiesta di aumenti salariali).
Sanno benissimo che questi lavoratori fanno turni massacranti, per uno stipendio che va dagli 850 euro al mese (!!!), per i neoassunti con contratto di formazione lavoro, ai 1300 di quelli che hanno un decennio di anzianità, in una città in cui gli affitti superano i 500 euro al mese, e il pane costa circa 3 euro al chilo. Pur sapendo tutto questo, fanno finta di essere indignati per un momento di lotta che è più che ampiamente giustificato, al punto che l’indignazione dovrebbe essere diretta verso tutti quelli che sono responsabili di questa situazione e verso quelli, sindacati in testa, che non fanno niente per risolvere i problemi che assillano questi lavoratori, come quelli di ogni altro settore. Ed in realtà l’apparente indignazione nasconde la paura che il caso degli autoferrotranvieri di Milano possa essere solo il primo esempio di qualcosa che sta maturando in seno all’insieme della classe operaia. ”.
E questa paura non è infondata, perchè il susseguirsi degli attacchi economici sta facendo crescere sempre di più il malcontento fra i lavoratori, che cominciano a sentire la necessità di fare qualcosa per reagire, qualcosa che vada al di là degli scioperi simbolici del sindacato, che passano sotto silenzio e servono solo a illudere i lavoratori di aver fatto qualcosa. Quello che è successo lunedì 1 dicembre a Milano è semplicemente che questo malcontento ha cominciato a trasformarsi in organizzazione, in riflessione sulla propria condizione e sulla maniera per reagire. Una riflessione nata spontaneamente fra i lavoratori, che ha portato i più giovani e peggio pagati a confrontarsi con i più vecchi che hanno potuto mostrare loro che anche i contratti a tempo indeterminato non consentono di arrivare a fine mese, se si ha una famiglia da portare avanti, cosa che li ha convinti a lottare uniti al di là delle consegne sindacali.
Ed è questa determinazione, questa unità che, ancora più dei danni provocati dallo sciopero, ha colpito e spaventato i vari servitori della borghesia: “Solo così, con la saldatura tra giovani e vecchi si spiega la straordinaria compattezza dello sciopero selvaggio di ieri mattina. Solo così si spiega che non una voce, non un sospetto, non una soffiata sia arrivata ai vertici dell’ATM nel giorni scorsi, quando il passaparola da un deposito all’altro tesseva le fila del colpo di mano. Perchè vecchi e giovani si trovano a condividere la vita quotidiana nel girone dantesco del traffico milanese, (...)” (Repubblica, 2/12/03) E questa solidarietà tra lavoratori che condividono le stesse condizioni di vita e di lavoro, è la stessa che lega tutti noi altri lavoratori agli autoferrotranvieri, come a tutti i lavoratori del mondo intero. Noi che viviamo quotidianamente i disagi legati alle insufficienze dei trasporti urbani (come tutti gli altri disagi economici e sociali che il capitalismo ci provoca) e che perciò sappiamo bene capire che il disagio di lunedì 1 dicembre è addirittura benvenuto se esso rappresenta l’inizio di una ripresa delle lotte operaie.
Una ripresa che comincia a intravedersi un po’ dappertutto nel mondo. Una ripresa che vede i proletari normalmente ancora inquadrati e ingannati dai sindacati, che sono gli agenti sabotatori della borghesia tra le fila dei lavoratori, il che non ci meraviglia e non ci deve spaventare. Più di un decennio di riflusso delle lotte operaie e di riflusso della coscienza della classe hanno consentito ai sindacati di recuperare quella credibilità che avevano perso nei decenni precedenti a causa del loro continuo sabotaggio delle lotte proletarie. La classe operaia ha oggi bisogno di scontrarsi di nuovo con il vero volto del sindacato per cominciare a contestarlo, per cominciare a ricercare una via autonoma per le proprie lotte. Gli autoferrotranvieri di Milano non hanno contestato apertamente il sindacato, lo hanno scavalcato scioperando al di là delle sue consegne, spinti dalla semplice coscienza che solo così potevano dare un po’ di efficacia alla loro lotta.
Ma è proprio questa la dinamica che fa avanzare la coscienza della classe: non una riflessione a tavolino su quello che bisognerebbe fare, ma le esigenze della lotta che indicano la strada da seguire. Non vogliamo entusiasmarci: il caso degli autoferrotranvieri di Milano è solo un episodio, ma un episodio che va nella giusta direzione e un episodio che probabilmente esprime una maturazione profonda che sta avvenendo nel cuore della classe. Ed è per questo che di fronte alla lotta degli autoferrotranvieri noi gridiamo alta e forte la nostra solidarietà, e il nostro disprezzo per quelli che hanno mostrato indignazione ed espresso minacce nei loro confronti.
7 dicembre 2003 Helios
La preoccupazione della borghesia per gli autoferrotranvieri comincia il primo dicembre scorso, quando a Milano i lavoratori hanno deciso che gli scioperi simbolici del sindacato non servivano a niente e hanno scioperato senza rispettare le cosiddette “fasce protette”. La stessa cosa è successa il 15 dicembre, quando a non rispettare le consegne sindacali sono stati i lavoratori di diverse città, che hanno sfidato anche le minacce di precettazione, pur di cercare di dare efficacia alla loro lotta. Ed ancora il 20 dicembre e nei giorni immediatamente successivi, quando i lavoratori sono scesi spontaneamente in sciopero contro l’accordo bidone che i sindacati avevano siglato con il governo, che prevedeva un aumento di 80 euro, contro i 106 della piattaforma contrattuale (corrispondente alla perdita di potere d’acquisto calcolato con l’inflazione programmata, cioè un aumento ridicolo, visto che l’inflazione reale è di gran lunga più alta), e 600 euro di arretrati, contro i 2000 e passa dovuti per i mesi di vacanza contrattuale.
Questo accordo è stato proprio l’inizio della controffensiva della borghesia contro questo scoppio di combattività operaia. Una controffensiva affidata a quelli che sono i migliori difensori dell’ordine borghese, i sindacati (ed infatti a niente erano servite le minacce di denuncia per interruzione di pubblico servizio, o di sanzioni per il mancato rispetto della legge che “regolamenta” - ovvero, limita - gli scioperi nel settore dei pubblici servizi). Firmando un accordo con una cifra superiore a quella offerta dalle aziende fino a poche settimane prima, i sindacati volevano dare ai lavoratori l’impressione di aver conseguito una vittoria, e allo stesso tempo volevano metterli di fronte al fatto compiuto: non accettando l’accordo i lavoratori avrebbero dovuto scioperare senza l’avallo dei sindacati. Ed è proprio quello che è successo in diverse città nei giorni successivi all’accordo, per cui i sindacati hanno dovuto continuare il loro sporco lavoro per convincere i lavoratori ad arrendersi. Così si è passati alla firma dell’accordo integrativo con l’ATM di Milano, che concedeva i famosi 25 euro mancanti (ma in cambio di una maggiore flessibilità del lavoro), per cercare di dividere il fronte degli scioperanti, proprio a partire dalla città che aveva dato il via al movimento. Contemporaneamente la CGIL teneva le assemblee con i propri iscritti, per convincerli della bontà dell’accordo, e allo stesso tempo per cercare di intimidirli, mettendo avanti tutti i rischi di scioperi fatti contro le regole stabilite (da loro).
Ma il lavoro più efficace è toccato ai sindacati che meno avevano responsabilità nella lunghezza della vacanza contrattuale e nella sequela di scioperi (sette) senza risultati: i sindacati di base, che erano stati gli unici a non condannare gli scioperi spontanei delle settimane precedenti. In questa maniera essi avevano conservato una certa fiducia presso i lavoratori, per cui si sono potuti presentare come quelli che avrebbero continuato la lotta. Però i sindacati hanno tutti la stessa natura: quelli di sabotatori delle lotte proletarie. Ed infatti anche i Cobas hanno fatto di tutto (riuscendovi questa volta) per spingere i lavoratori a rientrare nei ranghi. Prima hanno proclamato uno sciopero per il 9 gennaio (nel sacrosanto rispetto della tregua natalizia, cioè allo scopo di far allentare la tensione), con tutti i crismi del rispetto della legge di regolamentazione (e per questo si sono presi il plauso anche del giornale di Rifondazione Comunista, Liberazione, che il 10 gennaio presentava lo sciopero in questa maniera: “piena responsabilità dei lavoratori che hanno garantito senza alcuna eccezione le fasce orarie garantite”). Recuperato tempo in questa maniera, i Cobas hanno subito proclamato un altro sciopero per il 26 gennaio, spostato poi al 30 gennaio, preoccupandosi però di continuare a dividere i lavoratori, spostando lo sciopero dei tranvieri milanesi a data da destinarsi con la scusa del concomitante sciopero dei tassisti il 30, venendo ancora una volta meno alla banale considerazione che uno sciopero debba dare un qualche risultato. Naturalmente questo sciopero ha avuto una minore partecipazione, a testimonianza della riuscita dell’opera di pompieraggio fatta dal sindacalismo di base, al punto che possiamo ben pensare che il movimento dei tranvieri è, almeno per il momento, terminato. Terminato con pochi o nessun risultato per i lavoratori, ma comunque con tutta una serie di lezioni che possono tornare utili per le prossime lotte.
Innanzitutto l’importanza di questo movimento sta da un lato nella combattività che si è espressa, una combattività che mostra che la classe operaia sta uscendo da quel periodo di riflusso della combattività che aveva seguito il crollo dello stalinismo, e la conseguente campagna sulla fine del comunismo, che aveva lo scopo di iniettare sfiducia nella classe. E’ stata questa volontà di battersi veramente che ha fatto sì che i lavoratori fossero spinti ad andare al di là delle consegne sindacali e a sfidare anche tutte le minacce di denunce e sanzioni. Un altro aspetto importante è stata la solidarietà e la compattezza che i lavoratori del settore hanno saputo dimostrare, lottando uniti in tutto il paese, giovani e vecchi. Questa compattezza nel settore ha mostrato però anche il più forte limite del movimento, quello di essere rimasto isolato all’interno del singolo settore, cosa che indebolisce l’impatto di qualsiasi movimento.
Allo stesso tempo questo movimento ha mostrato la vera natura dei sindacati, quella di sabotatori della lotta operaia, alla faccia di tutti quelli che pensano che per poter lottare ci vuole un sindacato, questo movimento ha dimostrato che quando c’è una vera volontà di battersi, i lavoratori sono in grado di organizzare la propria lotta cercando i mezzi migliori per darle efficacia. Viceversa quando essi si affidano ai sindacati (siano essi quelli tradizionali, o i nuovi) non solo non riescono a dare nessuna efficacia alla loro lotta, ma subiscono anche tutto il lavoro di pompieraggio che questi fanno. Queste lezioni dovranno tornare preziose ed utili per le prossime lotte, perché i motivi della lotta degli autoferrotranvieri, cioè la necessità di aumentare un salario che non basta più a campare, accomunano tutti i lavoratori, perché l’impoverimento di questi ultimi anni, e il peggioramento delle condizioni di lavoro, ha colpito tutti i lavoratori indistintamente.
9 feb '04 Helios
Il marchio Parmalat è conosciuto in tutto il mondo, non solo per i prodotti venduti ma anche per le sponsorizzazioni miliardarie sulle maglie dei calciatori e sulle auto da corsa. I suoi prodotti ancora oggi sono richiesti, le sue fabbriche continuano a funzionare, in breve non è in discussione la credibilità del marchio dal lato produttivo. Così come non era in discussione la credibilità dei pelati Cirio, altro marchio conosciuto a livello mondiale. L’importanza del caso Parmalat, che apre da più di un mese i telegiornali e le prime pagine dei giornali non solo in Italia, è data dalla scoperta di un buco contabile dalle dimensioni gigantesche, 14 miliardi di euro, vale a dire circa 28.000 miliardi delle vecchie lire, somma che in teoria dovrebbero riavere i vari creditori, banche, sottoscrittori di bond, etc.. Ma che non vedranno più.
La storia della Parmalat inizia a Collecchio, vicino a Parma nel 1962. La famiglia Tanzi passa da una piccola produzione locale di salumi alla vendita del latte prima in zona poi a scala planetaria. Una McDonald’s italiana. Gli affari vanno bene, ci sono appoggi da parte della ex Democrazia Cristiana. Il valore del gruppo procede lentamente per 30 anni fino alla fine degli anni ’80. Negli anni ’90 il valore segue una curva esponenziale passando da circa 500 milioni di euro a circa 7.800 milioni nel 2002! Questi salti erano possibili nell’800 quando il capitalismo in piena espansione poteva contare su un saggio di profitto elevato e su un mercato in piena espansione, che permetteva di ripagare in poco tempo i debiti emessi. Nell’epoca attuale, quando anche i prodotti innovativi ad alto valore tecnologico hanno una breve durata causa il restringimento del mercato, non è possibile che prodotti come latte e merendine diano la possibilità di questa espansione. A meno che…. , a meno che non si faccia ricorso a tante operazioni che noi comprendiamo solo in parte ma che alla fine hanno a che vedere con imbrogli, trucchi, false informazioni, spostamenti di capitali, ricorso a prestiti, i cosiddetti bond, che servono a coprire i debiti in scadenza, e questo se all’inizio è fatto da piccole cifre alla fine diventa un buco colossale di 13-14 miliardi di euro, almeno finora.
Il desiderio e il destino di ogni capitalista è diventare il leader mondiale del suo settore. E magari di altri. Desiderio perché il piccolo imprenditore che ha successo nei suoi affari investe i profitti nell’allargamento della sua impresa, e finché segue le regole questo allargamento va lentamente. Destino perché ogni capitalista per poter sopravvivere deve continuamente lottare contro la concorrenza, una volta a livello locale oggi a livello planetario, in quanto sono in molti a produrre le stesse cose. In questa lotta o si va indietro e si scompare o si avanti e si diventa leader. Lotta senza esclusione di colpi: spionaggio, tangenti, crimini vari. Lo dice persino il magistrato Borrelli in una intervista “Si è passati a un desiderio di ricchezza planetaria, del tutto sganciata dalla produzione. Qui si gioca sul denaro per produrre altro denaro, fino a cifre che danno il capogiro. Capisco la valigetta con 500 milioni di lire portata ad un partito per favorire i propri interessi, ma che vuol dire un buco di miliardi di euro? È una cifra che dà un senso di infinito, che ti fa pensare qualsiasi cosa. Che abbiano finanziato delle guerre, delle rivoluzioni.. Non invidio i magistrati che se ne stanno occupando” (L’espresso 29/2/04). A parte il fatto che i capitalisti non finanziano le rivoluzioni, semmai i colpi di stato, le cose dette dal magistrato sono pane di tutti i giorni per tutti i capitalisti in tutto il mondo.
La ricchezza sganciata dalla produzione è la ricchezza che deriva dall’uso dei cosiddetti strumenti finanziari, che ha come punti di riferimento non tanto la fabbrica o gli allevamenti quanto il casinò dove si deve sperare solo nella buona fortuna. E a questo gioco non partecipano solo i capitalisti alla Tanzi ma tutti i capitalisti degni di questo nome, e più di tutti gli Stati, grandi o piccoli, dall’enclave palestinese di Arafat agli Stati Uniti, che con il loro debito fanno impallidire qualsiasi Tanzi. I casi Parmalat, Cirio in Italia, Enron negli Usa, Vivendi in Francia e tanti altri, sono solo la punta dell’iceberg, quelli che esplodono, ma nella sostanza è tutto il capitalismo che sopravvive su una montagna di debiti statali, industriali e privati. Lo Stato italiano riesce a tirare avanti con il suo debito che è superiore al Prodotto Interno Lordo di un intero anno perché è ancora relativamente forte, per cui riesce a farsi rifinanziare il debito ma altrettanto non è accaduto per Messico e Corea, per i paesi del sud-est asiatico e tanti altri, per finire all’Argentina, che è crollata trascinando con sé tutta la popolazione, non solo i famosi “piccoli risparmiatori” di tutto il mondo. Queste crisi saranno sempre più numerose perché alla base non c’è l’avidità del singolo capitalista ma il funzionamento del sistema capitalista che non riesce più a valorizzare il capitale investito attraverso la vendita dell’intera produzione. Tutti quelli che criticano la mancanza di controllo da parte delle banche, le società di revisione, etc,. mentono perché sanno bene che è tutto il sistema che funziona così. Sanno bene che nel prossimo futuro aumenteranno i casi Parmalat e i casi Argentina, e le conseguenze saranno peggiori. La Cina, per esempio, ha un altissimo tasso di crescita economica e viene lodata per questo ma sarà l’Argentina moltiplicata per mille quando i suoi debiti arriveranno alla scadenza. Il magistrato Borrelli si metterà pure le mani nei capelli per la grandezza della cifra “scomparsa” ma non riuscirà mai a dire che è il sistema capitalista che non funziona e che quindi è necessario abbatterlo per costruire una società senza capitali e senza capitalisti, una società comunista.
31/1/04 Oblomov
Non ci sono speranze nelle false spiegazioni
Di fronte a un mondo che sprofonda rapidamente nel caos, milioni di persone si sono rivolte alla religione – all’islamismo, al cristianesimo, ai numerosi culti New Age – per recuperare qualche speranza. Molti vedono lo stato catastrofico del mondo come il realizzarsi di vecchie profezie. Ma questo volo all’interno di arcaiche mitologie è esso stesso l’espressione di un sistema sociale decadente. E tutte le ideologie apocalittiche hanno un aspetto in comune: ridurre il genere umano in un passivo giocattolo nelle mani delle forze divine, opponendosi così ad ogni comprensione razionale del disordine attuale e di conseguenza a ogni soluzione basata sull’azione umana cosciente.
Molti attribuiscono la responsabilità dei problemi del mondo a singoli capi. Le dimostrazioni di massa contro la visita di Bush in Gran Bretagna sono state largamente animate dalla forte ostilità verso i singoli governanti della Casa Bianca e di Downing Street oltre che alle cricche intorno a loro, come se dei leader diversi o delle compagini governative diverse avessero potuto seguire una strategia sostanzialmente diversa per gli imperialismi USA e inglese. Questa in realtà non è che l’immagine speculare dell’incolpare Bin Laden o Saddam di tutto il terrorismo e dell’insicurezza nel mondo.
Ma forse la più falsa di tutte le false spiegazioni è la moda attuale per l’«anti-capitalismo», l’«anti-globalizzazione» e la «mondializzazione alternativa», rappresentata dallo smisurato Social Forum Europeo recentemente tenuto a Parigi. Uno strano «anticapitalismo» questo, che accetta fondi enormi dallo Stato (per esempio, oltre due milioni di euro sono stati dati al Forum dalle amministrazioni locali di Parigi e delle regioni circostanti); che predica non la fine del mercato ma un «mercato onesto»; che non vuole che gli stati nazionali vengano aboliti ma che siano rafforzati contro il «potere globalizzante delle multinazionali»; che dichiara che il «mondo alternativo» verrà fuori non da quello che Marx chiamò il becchino del capitalismo, cioè la classe operaia internazionale, ma dalla massa amorfa di «cittadini» che reclamano i loro «diritti democratici».
Ognuna di queste spiegazioni serve gli interessi dell’attuale sistema sociale, perché ognuna di esse distoglie e blocca ogni ricerca genuina delle cause che sono alla base del degrado della civiltà attuale. La classe che governa questo sistema, la borghesia, farà tutto quello che è in suo potere per nascondere questa verità: che la forma attuale di organizzazione sociale, l’ordine capitalista che domina l’intero pianeta, è divenuto non solo un ostacolo per l’ulteriore sviluppo sociale, economico e culturale, ma anche una minaccia per la sopravvivenza dell’umanità.
Per la rivoluzione dei lavoratori
Queste false ideologie non solo bloccano ogni comprensione della causa, ma ostacolano anche la soluzione dei problemi: la rivoluzione della classe operaia, una classe che ha la capacità di distruggere questo capitalismo produttore di morte e stabilire una nuova società basata su relazioni di solidarietà. Il capitalismo è diviso in un disordine caotico di unità nazionali che difendono i loro interessi particolari con ogni mezzo militare – la rivoluzione della classe operaia internazionale fornisce la base per un’unica comunità umana. Il capitalismo è un’economia inevitabilmente attraversata da crisi votata alla produzione per il profitto della borghesia, laddove la classe operaia può stabilire un’organizzazione della produzione impostata per rispondere ai bisogni umani. Il capitalismo dedica le sue energie al raffinamento e al rafforzamento della sua macchina repressiva statale, mentre il rovesciamento del capitalismo apre la possibilità per l’uomo “di organizzare le sue forze politiche e sociali”, come Marx affermò.
Poiché l’attuale organizzazione della società è del tutto contro i reali interessi della gran parte dell’umanità e va a beneficio solo di una infima minoranza di sfruttatori che la governano, essa non può essere riformata. Può essere solo rimpiazzata da una rivoluzione che porta avanti lo stesso programma in tutti i paesi: la distruzione dello stato capitalista; l’affermazione del potere politico dei consigli operai; l’abolizione della proprietà privata e della produzione finalizzata alla vendita e al profitto.
Il passaggio difficile è rompere con tutte le abitudini, l’etica e le ideologie che sono quotidianamente pompate nel nostro cervello dall’ordine esistente. Ed ancora avere la chiarezza teorica per vedere la bancarotta degli attuali rapporti sociali e la fiducia politica di centinaia di milioni di anonimi lavoratori di assumere il completo controllo della gestione della società.
Quelli che si oppongono alla rivoluzione, da destra a sinistra, denunciano questa prospettiva, al meglio, come un’idea utopica e irrealistica, al peggio, come l’apportatrice di nuove e anche più terribili forme di caos e tirannia.
Ma non è un’utopia – ovvero uno schema astratto proveniente dal nulla, il semplice sogno di intellettuali isolati. E’ invece la logica conclusione della lotta di una forza sociale molto concreta – la classe operaia – contro lo sfruttamento. E a dispetto di tutte le proclamazioni del contrario, a dispetto di tutte le sue difficoltà reali, quella lotta oggi sta sempre più alzando la testa.
La ripresa della lotta di classe, avvenuta alla fine degli anni ’60, ha prodotto venti anni di ondate di lotte operaie. Poi, dalla fine degli anni ’80, vi è stata una offensiva della propaganda borghese tendente a demoralizzare i lavoratori con la propaganda sulla “fine della lotta di classe” basata sul crollo del regime sovietico identificato falsamente come un regime comunista. Ma la recente rottura di movimenti a grande scala contro gli attacchi allo stato sociale in Europa, il ritorno di scioperi spontanei in Gran Bretagna, in Italia e in altri paesi, confermano ancora una volta che la classe operaia continua a reagire alla crisi del sistema, di cui è la principale vittima. Per quanto limitati possano sembrare, le lotte difensive di oggi contengono il potenziale per lo sviluppo di lotte più di massa, più coscienti e più politiche in cui la prospettiva della rivoluzione non è più vista come un’utopia, ma come l’unica risposta realistica della classe operaia alla deriva del capitalismo verso la guerra e la barbarie.Nei primi dieci mesi del 2003 ci sono state lotte a grande scala cui hanno partecipato operai di vari settori che hanno lottato con una determinazione sconosciuta fin dagli anni 80. A maggio e giugno milioni di operai in Francia hanno dimostrato contro gli attacchi alle pensioni. In Austria ci sono state una serie di dimostrazioni, anche contro gli attacchi alle pensioni, culminanti il 3 giugno con la più grande dimostrazione vista dalla seconda guerra mondiale quando milioni di persone sono scese in strada (questo è un paese con una popolazione inferiore a 10 milioni).
Ci sono inoltre state lotte significative, ufficiose, isolate, spontanee: lo sciopero a sorpresa degli operai della British Airways a Heathrow, lo sciopero spontaneo fatto da 1000 operai all’Alcatel-Espace a Tolosa a giugno e ad agosto da 2000 operai precari di una raffineria di petrolio di Puertollano (Spagna) dopo un incidente che ha ucciso 7 operai. A settembre circa 2.000 operai del cantiere navale di Humberside, di tre ditte differenti, hanno fatto uno sciopero selvaggio a sostegno di 98 operai in subappalto che erano stati licenziati per aver richiesto un aumento di 1.95 sterline all’ora (€ 3 circa). C’è anche in questi giorni lo sciopero dei lavoratori delle poste in Gran Bretagna, cui partecipano almeno 20.000 operai.
C’è stato un numero crescente di lotte nella maggior parte dei paesi europei e negli Stati Uniti. Per esempio, in California ci sono stati scioperi nel sistema dei trasporti pubblici a Los Angeles che con azioni di solidarietà hanno chiuso le linee di bus, il metro ed il trasporto ferroviario leggero. Uno sciopero di 70.000 operai dei supermercati in California ha interessato per la prima volta da 25 anni quasi 900 negozi. In Grecia c’è stata un'ondata di scioperi nel settore pubblico che ha visto la partecipazione di migliaia di operai compresi gli insegnanti, il personale medico, i pompieri e le guardie costiere. Inoltre sono scesi in sciopero ed hanno dimostrato altri strati quali 15.000 tassisti ateniesi.
Dopo 14 anni senza mobilizzazioni su grande scala, i bassi livelli degli scioperi registrati nei principali paesi capitalisti ed i proclami della classe dominante sulla fine della lotta di classe, queste lotte recenti sono l'espressione di un cambiamento nella situazione sociale.
Che cosa significano queste lotte
Per capire completamente il significato e l'implicazione di queste lotte è necessario metterle nel loro contesto storico. A livello immediato le lotte di questo anno non sono differenti da quelle di altri periodi di lotta dal 1989. Nel 1993 ci sono state enormi dimostrazioni in Italia contro gli attacchi alle pensioni, nel 1995 c’è stato un movimento di classe di grande importanza in risposta ad attacchi simili in Francia. Tuttavia, questo anno abbiamo visto movimenti simultanei, lotte che si susseguivano e lo sviluppo di piccole ma significative lotte non dichiarate. Soprattutto, queste lotte sono state inserite in un contesto di crescente disagio nella classe operaia riguardo al futuro che il capitalismo le riserva.
Ai tempi delle lotte in Francia i confronti sono stati fatti con il maggio 68. Non abbiamo visto questo anno come se fosse un nuovo 68, ma il paragone evidenzia l'importanza del fattore del nascente interrogarsi dei lavoratori sul capitalismo.
“Nel 1968 uno dei fattori principali nel risorgere della classe operaia e delle sue lotte sulla scena della storia a livello internazionale era la conclusione brutale delle illusioni incoraggiate dal periodo della ricostruzione, che per una intera generazione aveva permesso una situazione euforica di pieno impiego durante la quale le condizioni di vita della classe operaia avevano conosciuto un netto miglioramento, dopo la disoccupazione degli anni ’30, il razionamento e le carestie durante la guerra e nell’immediato dopoguerra. Con le prime manifestazioni della crisi aperta, la classe operaia si è sentita sotto attacco non soltanto nelle condizioni di vita e di lavoro, ma anche in termini di mancanza di prospettive per il futuro, di un nuovo crescente periodo di ristagno economico e sociale come conseguenza della crisi mondiale. L’ampiezza delle lotte operaie a partire da maggio 68 ed il riapparire della prospettiva rivoluzionaria hanno indicato chiaramente che le mistificazioni borghesi sulla ‘società dei consumi’ e ‘l’imborghesimento del proletariato’ stavano crollando. Mantenendo le proporzioni, ci sono analogie fra gli attacchi attuali e la situazione a quel tempo. Ovviamente non si tratta di identificare i due periodi. Il I968 è stato un avvenimento storico importante che ha segnato l’uscita da più di quattro decenni di controrivoluzione; ha avuto un effetto sul proletariato internazionale incomparabilmente più grande della situazione attuale.
Ciò nonostante oggi stiamo testimoniando il crollo di ciò che appariva in qualche modo come una consolazione dopo anni di prigione del lavoro salariato e che ha costituito una delle colonne che hanno permesso al sistema di ‘tenere’ per 20 anni: pensione all'età di 60 anni, con la possibilità a quell'età di godere una vita tranquilla libera da numerosi vincoli materiali. Oggi, i proletari si vedono costretti ad abbandonare l'illusione di potere scappare durante gli ultimi anni della loro vita da ciò che è visto sempre di più come un calvario: il degradamento delle condizioni di lavoro in una situazione in cui c’è sempre mancanza di personale e la quantità di lavoro ed il ritmo aumentano costantemente. Sia essi dovranno lavorare per più tempo e questo significa una riduzione della lunghezza del periodo in cui avrebbero potuto infine scappare alla schiavitù salariale, oppure perché non hanno contribuito abbastanza a lungo saranno ridotti ad una miseria nera dove la privazione sostituirà i ritmi infernali. Questa nuova situazione pone, per tutti gli operai, la questione del futuro." ('Di fronte agli attacchi massicci del capitale, il bisogno d’una risposta massiccia della classe operaia’ Rivista Internazionale n°114).
Questa questione è rafforzata dall'esperienza del proletariato negli ultimi 14 anni. Con il crollo del blocco orientale il proletariato è stato spinto in una ritirata profonda. Il crollo ha lasciato gli operai con un sentimento di impotenza mentre l’intera situazione internazionale è cambiata, con il mondo ingolfato nel caos. Nello stesso tempo la classe dominante ha usato il crollo e il crescente ‘boom’ economico degli anni 90 per spingere l'idea che la lotta di classe era morta e che gli operai avrebbero dovuto vedere se stessi come cittadini con una parte nella società. Queste campagne si sono scontrate con la realtà della recessione dall'inizio del nuovo secolo e con lo scoppio successivo della bolla di internet e con la marea di licenziamenti che sta spazzando gli Stati Uniti, l’Europa ed il resto del mondo. Nello stesso tempo, in tutta l’Europa, gli Stati Uniti e altrove, gli stati capitalisti stanno attaccando lo stato assistenziale; tagli ai sussidi e al diritto alla disoccupazione, tagli alle pensioni, attacchi alla salute, allo studio ecc. Tutto questo dimostra alla classe operaia che cosa il capitalismo ha da offrire e genera una determinazione tra gli operai nel rispondere agli attacchi sulle pensioni e altre parti del salario sociale.
Le più piccole, isolate e ufficiose lotte esprimono un crescente scontento nel proletariato contro l’accettazione degli attacchi imposti da chi comanda e dai sindacati. Il personale addetto al controllo a Heathrow, non famoso per la sua militanza, semplicemente non aveva più stomaco per subire un altro attacco o la complicità del sindacato, e così lo hanno buttato fuori. Il fatto che un così piccolo numero di operai abbia potuto causare tali preoccupazioni a capi, sindacati e mezzi di comunicazione era un esempio lampante del fatto che la classe dominante sa che qualcosa sta cambiando nella situazione sociale
La prospettiva
Il potenziale contenuto nella situazione attuale è di importanza storica. Oggi non è come nel 1968, la classe non sta emergendo da un periodo di decenni di sconfitta storica, ma da un decennio e più di ritirata. E prima del 1989 c’erano stati 20 anni di ondate di lotta. Quindi, le attuali generazioni operaie hanno potenzialmente 30 anni di esperienza di confronto con gli attacchi e le manovre della classe dominante cui attingere. Ciò, unito all’interrogativo che si sta facendo avanti sulla natura sempre più globale degli attacchi, potrebbe fornire le condizioni per importanti sviluppi verso gli eventuali decisivi scontri di classe tra il proletariato e la borghesia, che determineranno la capacità del proletariato di passare all'offensiva rivoluzionaria.
Identità di classe, la questione chiave per la classe operaia.
Punto centrale di questa prospettiva sarà la capacità del proletariato di riguadagnare e rinforzare la sua identità di classe. Per ‘identità di classe’ esprimiamo la comprensione di far parte di una classe, con interessi comuni da difendere. Questo senso di classe sarà la base per condurre eventuali lotte su un altro livello attraverso la loro estensione ed auto-organizzazione.
La natura degli attacchi sta dando la possibilità a questo di accadere. Lo smantellamento 'dei tamponi sociali’ dello stato assistenziale, con l'intensificazione dello sfruttamento nelle fabbriche, negli uffici, negli ospedali etc e lo sviluppo della disoccupazione di massa (oltre 5 milioni in Germania, 10% della popolazione attiva, posti persi negli Stati Uniti a un livello sconosciuto per decenni, 800.000 posti persi nel Regno Unito dal 1997, etc) confrontano gli operai con la brusca realtà del capitalismo: o lavori con le budella di fuori per produrre plusvalore o marcisci in povertà. Per decenni la classe dominante ha cercato di usare lo stato assistenziale per ammorbidire l'effetto del capitalismo sulla classe operaia, ma ora la verità di ciò che Marx dice nel capitale sta diventando più chiara: "la produzione capitalista della merce è così la prima formazione economica nella storia dell’umanità in cui la disoccupazione ed la miseria di un grande e crescente strato della popolazione, e la diretta indifesa povertà di un altro strato anch’esso crescente, non sono soltanto il risultato, ma anche una necessità, una condizione per l'esistenza di questa economia. L'insicurezza dell'esistenza dell’intera popolazione lavoratrice e la cronica mancanza.. per la prima volta sono diventati fenomeni sociali normali "(Il Capitale vol.1).
Il contrattacco della borghesia
La classe dominante è completamente informata della minaccia posta dalla classe operaia. Lo stato capitalista ha un intero apparato per occuparsi delle azioni degli operai: i sindacati, la democrazia, l’estrema sinistra, i tribunali, la polizia ecc. Ciò nonostante, il suo più grande timore è che gli operai sviluppino la loro identità di classe e sulla base di questa comincino a porre gli interrogativi politici sulla natura del capitalismo e l'esigenza di un'alternativa.
Quindi, quando la borghesia francese ha dovuto effettuare un attacco frontale contro la classe operaia ha fatto tutto ciò che poteva per fermare lo sviluppo di un senso d'identità di classe. I sindacati e la sinistra hanno presentato questo come una lotta contro 'la linea dura' dell’ala destra governativa, piuttosto che il capitalismo è la causa. Tutti i settori della popolazione sono stati mobilitati. Ed inoltre hanno portato ad esempio gli insegnanti, la cui lotta ha sofferto una brutale sconfitta. In Austria i sindacati sono stati così abili nel contenere la rabbia all'interno di dimostrazioni e di scioperi limitati. In Germania, la classe dominante ha potuto usare le lotte in Francia e Austria mescolandole con una lotta degli operai delle costruzioni nell'est, che, con la richiesta di parità salariale con gli operai nell'ovest, ha alimentato le divisioni. Sono stati abili a utilizzare la rabbia dei lavoratori contro altri lavoratori che non hanno partecipato allo sciopero.
Quest’ultimo attacco è stato un'espressione del problema più largo della decomposizione che il proletariato affronterà nelle lotte future. Il deperimento crescente del tessuto sociale funziona contro lo sviluppo dell'identità di classe perché genera l'idea di ciascuno contro tutti. Ogni individuo o settore operaio è incoraggiato a preoccuparsi della sua sopravvivenza di ogni giorno, anche se questo porta ad attaccare i compagni di lavoro. Durante le lotte degli insegnanti in Francia, i sindacati radicali hanno incoraggiato l'idea di diversi militanti operai di provare ad imporre la lotta ad altri operai bloccando le scuole, le strade etc, conducendo all'ostilità fra gli operai e ad una profonda demoralizzazione. In Spagna (Puertollano) i sindacati hanno mantenuto la lotta degli operai in subappalto separata dagli operai stabili, conducendo ancora all'ostilità ed alla demoralizzazione.
La classe dominante è molto sofisticata ed ha molta esperienza da utilizzare nelle sue lotte contro il proletariato. È essenziale capire questo, perché sottovalutare la capacità del nemico di classe significa disarmare la classe operaia. Le odierne lotte sono soltanto i primi insicuri passi nell'apertura di un periodo di sviluppo potenziale della lotta di classe. La borghesia sta facendo tutto il possibile per minare, deviare e corrompere la combattività della classe operaia e il suo approfondimento della coscienza.
La classe operaia è di fronte ad una sfida enorme. Sta andando per uno sviluppo lungo e tortuoso delle lotte contrassegnate da sconfitte e battute d'arresto. Gli operai dovranno far fronte agli effetti devastanti dell’approfondimento della crisi: disoccupazione di massa e povertà. Prendere parte alla lotta è un processo molto difficile, ma la riflessione seria che deve accompagnare lo sviluppo delle lotte dà loro più significato politico. Lo sviluppo della lotta inoltre permetterà al proletariato di cominciare a tirare fuori gli insegnamenti che già aveva cominciato ad afferrare negli anni 80, in particolare sul ruolo dei sindacati e sulla necessità di allargare le lotte ad altri settori. Questo intero processo sarà alimentato e stimolato da un interrogativo più largo sul sistema capitalista. Il cambiamento della situazione sociale è una sfida storica grande, ma non c’è alcuna garanzia che la classe e le sue minoranze rivoluzionarie saranno capaci di affrontarla. Ciò dipenderà dalla determinazione e dalla volontà della classe e delle sue minoranze.
1/11/03 Phil
Duecento morti e più di 1500 feriti, quattro treni distrutti, corpi umani così terribilmente straziati che possono essere riconosciuti solo con l’analisi del DNA- questo è il bilancio terribile dell’attacco terroristico del cosiddetto “Treno della morte” che violentemente ha scosso il mattino dell’11 marzo a Madrid.
Come gli attacchi alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001, questo è un atto di guerra. E ancora una volta le vittime sono essenzialmente tra la popolazione civile indifesa, specialmente lavoratori: quelli che, ogni giorno, dappertutto, affollano i treni della periferia per recarsi al lavoro; figli di lavoratori che, ogni giorno, dappertutto, prendono lo stesso treno per andare a scuola o all’università. Il semplice fatto che tu viva in un quartiere dormitorio nella periferia cittadina e ti tocca prendere i mezzi pubblici per andare al lavoro fa di te una facile vittima del terrore, e rende possibile che questo terrore arrivi a tali proporzioni enormi e macabre.
Come l’11 settembre, l’11 marzo è una data importante nella storia dei massacri terroristi. Non solo è il più grande massacro inflitto alla popolazione spagnola fin dalla guerra civile del 1936-39, è anche il più grande attacco terroristico in Europa fin dalla fine della Seconda Guerra Mondiale.
La borghesia di diverse nazioni sta versando torrenti di lacrime di coccodrillo sulle vittime. Ha proclamato in Spagna tre giorni di lutto nazionale; ha inondato i media con speciali notiziari, ha dichiarato minuti di silenzio, ha indetto dimostrazioni contro il terrorismo. Da parte nostra, come dicemmo dopo l’11 settembre, neghiamo alla borghesia ipocrita e ai suoi compiacenti media ogni diritto di piangere sui lavoratori massacrati, perché “la classe dominante capitalista si è resa già responsabile di troppi massacri ed eccidi: la tremenda carneficina della Prima Guerra Mondiale, quella ancora più abominevole della Seconda, dove per la prima volta le popolazioni civili furono gli obiettivi principali. Ricordiamoci di cosa è stata capace la borghesia: i bombardamenti di Londra, di Dresda e di Amburgo, d’Hiroshima e Nagasaki, milioni di morti nei campi di concentramento nazisti e nei gulag… Ricordiamoci l’inferno dei bombardamenti sulle popolazioni civili e sull’esercito iracheno in fuga durante la Guerra del Golfo del 1991, e delle centinaia di migliaia di morti… Ricordiamoci le stragi quotidiane in Cecenia, che continuano ancora, perpetuate con la piena complicità degli Stati democratici d’Occidente… Ricordiamoci la complicità degli Stati belga, francese, e americano nella guerra civile in Algeria, i terribili pogrom in Ruanda… E ricordiamoci infine che la popolazione afgana, oggi terrorizzata dalla minaccia dei bombardamenti americani, ha sofferto venti anni di guerra interrotta.(…) Questi sono solo alcuni esempi tra tanti dello sporco lavoro del capitalismo, nel pieno di una crisi economica senza fine e nella sua irrimediabile decadenza. Un capitalismo senza via di scampo.” (a New York e in tutto il mondo, il capitalismo semina morte’, Revue Internationale 107, ottobre 2001).
E da allora la barbarie è peggiorata. Questa terribile lista si è accresciuta con la seconda guerra del Golfo, le uccisioni interminabili nel Medio Oriente, le recenti stragi ad Haiti, gli attentati terroristici a Bali, Casablanca e Mosca. E adesso dobbiamo aggiungere alla lista l’attacco alla stazione di Atocha a Madrid.
Gli attacchi dell’11 marzo non sono un attacco contro la “civiltà”, ma l’espressione della reale natura di questa “civiltà” della borghesia: un sistema di sfruttamento che trasuda da tutti i suoi pori povertà, guerre e distruzione. Un sistema che non ha altra prospettiva da offrire all’umanità che barbarie e distruzione. Il terrorismo non è un sotto prodotto del capitalismo, un figlio bastardo che questo vorrebbe ignorare, ma è un suo prodotto organico, il suo figlio legittimo, come lo è la guerra imperialista; e più il capitalismo affonda nella sua fase finale del suo declino, la fase della decomposizione, e più il terrorismo è destinato a diventare più selvaggio e irrazionale.
Una delle caratteristiche della decadenza del capitalismo è che la guerra imperialista è divenuta il modo di vita permanente del sistema con la conseguenza che “queste classi piccole borghesi hanno perso completamente la loro indipendenza e funzionano solo come una massa di manovra e di sostegno negli scontri tra le diverse fazioni delle classi dominanti, dentro e fuori le frontiere nazionali“ (“Terrore, terrorismo e violenza di classe”, nostro opuscolo, 1978). Dagli anni ’60 fino ad oggi, l’evoluzione del terrorismo conferma completamente questa caratteristica di strumento utilizzato dalle varie fazioni della borghesia nazionale o da ogni imperialismo nella loro lotta contro i rivali sul piano interno e nell’arena imperialista. Il terrorismo diviene un figlio caro al capitalismo, sapientemente nutrito con il sangue degli uni o degli altri. Terrorismo e conflitti imperialisti sono ormai sinonimi. Durante gli anni ’60 e ’70 la borghesia non esitava un solo istante ad utilizzare l’assassinio “selettivo” dei capi politici per regolare i suoi affari interni. Ricordiamo la bomba che ha buttato in aria Carrero Blanco (primo ministro sotto il regime di Franco). Questa azione -il punto più alto del terrorismo dell’ETA- è stata utilizzata dalla borghesia per accelerare il cambiamento del regime in Spagna. La borghesia non si è neanche tirata indietro nell’uso del terrorismo per destabilizzare il Medio Oriente come nel caso dell’assassinio del presidente egiziano Anwar Sadat nel 1981 o di quello israeliano Yitzhak Rabin nel 1995. Quando si tratta di difendere i suoi interessi contro fazioni nazionali rivali o dell’imperialismo concorrente la borghesia non ha scrupoli sul provocare cieche stragi tra la popolazione civile. Giusto per fare un esempio possiamo ricordare l’attentato del 12 dicembre 1969 alla Banca dell’Agricoltura a Milano. Allora la borghesia tentò immediatamente di accusare dell’attentato gli anarchici, in particolare Pietro Valpreda. E per dare credibilità a questa teoria arrivò perfino a “suicidare” un altro anarchico, Pino Pinelli, arrestato giusto prima l’attentato e morto facendo un volo dalla finestra della Questura di Milano. In realtà, anche se non c’è alcuna versione ufficiale, l’attentato fu realizzato dai fascisti legati ai servizi segreti italiani ed americani. Durante tutto questo periodo il terrorismo è stato sempre più al servizio dei conflitti imperialisti nel quadro dello scontro tra le due superpotenze.
La tendenza verso il caos generalizzato ha determinato i conflitti imperialisti dopo la fine degli anni ’80, periodo in cui il capitalismo è entrato nella sua fase di decomposizione (1). Il quadro costituito dal confronto tra i due blocchi imperialisti stabilito alla fine della Seconda Guerra Mondiale cede al regno dell’ognuno per sé (2). In questo contesto il terrorismo è divenuto un’arma delle potenze concorrenti. Da una parte, la loro macchina ufficiale di guerra ha utilizzato sempre di più metodi terroristici colpendo sempre di meno i bersagli militari e sempre di più la popolazione civile come nelle guerre del Golfo. Nello stesso tempo, la catena terribile di attacchi dei gruppi terroristici “non ufficiali” contro una popolazione indifesa inaugurata dalle bombe a Parigi nel settembre 1987 è arrivata al parossismo con i due aerei pieni di civili scagliati contro le Torri Gemelle lasciando quasi 3000 morti, ma è continuata con le bombe a Bali, Casablanca, Mosca e adesso Madrid. Sarebbe completamente illusorio pensare che questa barbarie si fermerà. Finché la classe operaia, unica forza sociale che può offrire una prospettiva alternativa alla barbarie capitalista, non metterà fine per sempre a questo inumano sistema di sfruttamento, l’umanità continuerà a vivere sotto la minaccia permanente di nuove e sempre più violente stragi, nuove e sempre più distruttive guerre.
Man mano che la decomposizione di questo sistema andrà avanti, si produrranno sempre più fazioni irrazionali e irresponsabili che nutriranno i gruppi terroristi, i signori della guerra e i mafiosi locali, che possono acquisire armi sempre più distruttive ed un numero maggiore di sostenitori che approfittano del loro crimine. Dopo la caduta delle due torri abbiamo scritto “è impossibile dire con certezza oggi se Osama Bin Laden è realmente responsabile per l’attacco alle Torri Gemelle come lo accusa lo Stato americano. Ma se la teoria Bin Laden risultasse vera questo sarebbe in realtà il caso di un piccolo signore della guerra che scappa al controllo dei suoi ex capi” (Revue Internationale 107). In effetti questa è una caratteristica cruciale della generalizzazione della barbarie: indipendentemente dal sapere quale potenza imperialista o fazione della borghesia trae profitto dalle azioni terroristiche, queste tendono sempre di più a sfuggire ai piani progettati da chi le ha concepite.
Come per l’apprendista stregone, la “creatura” tende a divenire incontrollabile. Al momento in cui scriviamo questo articolo, manchiamo di elementi concreti, e dato che non è possibile avere alcuna fiducia nei media borghesi, proponiamo di applicare il nostro quadro di analisi e la nostra esperienza storica e porre la questione così: chi trae profitto da questo crimine?
Come abbiamo visto prima, il terrorismo e i conflitti imperialisti sono oggi fratelli di sangue. L’attacco alle Torri Gemelle è stato utile all’imperialismo Usa che è stato capace di obbligare i suoi ex alleati, adesso i suoi principali rivali (come la Francia e la Germania), a dare un completo sostegno alle sue campagne militari indirizzate all’occupazione dell’Afghanistan.
Il sentimento provocato dall’11 settembre ha permesso all’amministrazione Bush di far accettare alla maggioranza della popolazione americana la seconda guerra del Golfo del 2003. Per questo è stato pienamente legittimo chiedersi se l’incredibile “mancanza di previsione” dei servizi segreti americani prima dell’11 settembre sia stata il risultato dell’intenzione di “lasciar fare” Al Qaida (3). E’ chiaro che l’11 marzo non porta profitto agli Usa, anzi. Aznar era un pieno sostenitore della politica Usa (faceva parte del “trio delle Azzorre” –Spagna, GB, Usa- i membri del consiglio di sicurezza dell’ONU che si sono incontrati per fare un appello per la seconda guerra del Golfo). Ma Zapatero, suo successore dopo la vittoria del PSOE alle elezioni del 14 marzo, che è stato aiutato molto dalla bomba di Atocha, ha già annunciato che ritirerà le truppe spagnole dall’Iraq. Questo è uno schiaffo all’amministrazione americana e decisamente una vittoria per il tandem franco-tedesco che adesso conduce l’opposizione alla diplomazia americana.
Ciò detto, questo fallimento della politica america non rappresenta in qualsiasi modo una vittoria della classe operaia come alcuni vorrebbero farci credere. Tra il 1982 e il 1996, quando era al governo, il PSOE è stato uno zelante difensore del capitalismo. Il suo ritorno non metterà fine agli attacchi della borghesia al proletariato così come il successo diplomatico di Chirac e Schroeder è un successo per altri due leali difensori del capitalismo, che non porterà assolutamente nulla alla classe lavoratrice.
Ma peggio ancora, gli avvenimenti che abbiamo appena visto hanno reso possibile ottenere per la borghesia intera una vittoria ideologica ben più grande, perché hanno rafforzato la menzogna secondo cui l’antidoto al terrorismo è la “democrazia”, che le elezioni sono un modo effettivo di mettere fine alla politica borghese antioperaia e guerrafondaia, che le manifestazioni pacifiste sono un reale ostacolo all’azione militare. Allora, i lavoratori non solo hanno sofferto un attacco fisico con tutti i morti e feriti dell’11 di marzo, ma hanno anche subito un attacco politico in grande stile. Ancora una volta, il crimine ha portato profitto alla borghesia.
Per questo di fronte alla barbarie terrorista, espressione della guerra imperialista e dello sfruttamento capitalista, c’è solo una risposta…
Con dozzine di corpi ancora non identificati, con dozzine di famiglie di immigrati (29 morti e 200 feriti sono immigrati) che non si fidano di cercare i loro parenti negli ospedali o negli obitori per paura di essere deportati, la borghesia sta creando enormi ostacoli alla classe lavoratrice che cerca di riflette sulle cause e conseguenze di questo attacco. Dai primi momenti dopo le esplosioni, anche prima dell’arrivo sulla scena dei servizi d'emergenza dello Stato, sono state le stesse vittime, i lavoratori e i loro figli che viaggiavano nei “treni della morte”, o quelli che aspettavano nella stazione o che vivevano nelle vicinanze di Santa Eugenia o El Pozo, a mettersi ad aiutare i feriti o a trovare sudari per i morti. Loro erano pienamente animati da un sentimento di solidarietà. Questo sentimento di solidarietà è stato espresso anche da quelle migliaia di persone che hanno dato il loro sangue e che si sono offerti di aiutare negli ospedali, ma anche dai pompieri, gli assistenti sociali e gli ospedalieri che hanno lavorato volontariamente e con lavoro straordinario nonostante la drammatica mancanza di risorse risultata dei tagli imposti dallo Stato alla protezione civile, alla sanità ed alla sicurezza. I rivoluzionari, ed il proletariato del mondo intero, devono proclamare chiaro e tondo la loro solidarietà con le vittime. Solamente lo sviluppo della solidarietà implicita nella lotta dei lavoratori può creare le basi per una società nella quale possono essere aboliti una volta e per sempre crimini così abominevoli. L'indignazione dei lavoratori verso questa atrocità, la sua naturale solidarietà verso le vittime, è stata manipolata dal capitale per difendere i suoi interessi. In risposta alla strage la borghesia ha chiamato i lavoratori della Spagna a dimostrare "contro il terrorismo e per la Costituzione"; ha chiamato i cittadini spagnoli a serrare i ranghi e gridare "la Spagna unita non sarà mai sconfitta”; ha fatto appello ad un voto massiccio per la domenica del 14 affinché "tali atti selvaggi non si ripetano mai più".
Le dosi di patriottismo iniettate sia dalla destra (Aznar ha dichiarato: "loro sono morti perché erano spagnoli") che dalla sinistra ("se la Spagna non avesse preso parte alla guerra nel Golfo, questi attacchi non ci sarebbero stati") puntavano solamente a convincere i lavoratori che gli interessi della nazione sono i loro interessi. Questa è una menzogna, una menzogna vergognosa e cinica! Una menzogna che punta anche a gonfiare le file del pacifismo che, come abbiamo sempre mostrato nella nostra stampa, non ha mai fermato le guerre ma serve a deragliare la lotta contro la vera causa della guerra - il capitalismo.
Il capitalismo non ha nessun futuro da offrire all’umanità eccetto la sua distruzione attraverso guerre sempre più criminali, attacchi terroristici sempre più barbari, povertà crescente e carestia. La parola d’ordine della Internazionale Comunista all'inizio del 20° secolo riassumeva perfettamente la prospettiva che si poneva alla società con l’entrata del sistema capitalista nella fase di decadenza e rimane valida ed attuale come mai: "l'epoca di guerre e rivoluzioni" la cui unica uscita non può essere che "socialismo o barbarie".
Se l’umanità vuole vivere il capitalismo deve morire, e solo una classe sociale può essere il suo affossatore: il proletariato. Se la classe operaia mondiale non riesce ad affermare la sua indipendenza di classe, se non lotta per la difesa dei suoi interessi specifici, e poi per la distruzione di questa società decadente, l’umanità sarà sommersa dalla proliferazione di conflitti tra stati borghesi e bande che non esiteranno ad usare tutti i più indicibili mezzi a loro disposizione.
CCI, 19 marzo ‘04
Note:
Vedi le “Tesi sulla decomposizione”, Rivista Internazionale n° 14
Vedi la “Risoluzione del 15° congresso della CCI sulla Situazione Internazionale”, Rivista Internazionale 113 (inglese, francese, spagnolo)
Vedi il nostro articolo ‘Pearl Harbour 1941, Torri Gemelle, il machiavellismo della borghesia’, Rivista Internazionale 108 (idem)
In questi ultimi mesi, la nostra organizzazione ha ricevuto tutta una serie di lettere di lettori che ponevano la domanda “come si fa ad aderire alla CCI?”
Questa volontà di impegno militante da parte di elementi alla ricerca
di una prospettiva di classe si è espressa in parecchi paesi, ed in
particolare in paesi molto differenti come la Francia e gli Stati
Uniti, la Gran Bretagna o il Bangladesh. A ciascuno di questi lettori,
abbiamo inviato una risposta personale proponendo loro di intavolare
una discussione con la nostra organizzazione per chiarire le nostre
concezioni. Tuttavia, nella misura in cui questa problematica riguarda
altri compagni oltre a quelli che ci hanno direttamente interrogato e
poiché la domanda d’adesione ad un’organizzazione rivoluzionaria è a
pieno titolo una questione politica, ci proponiamo in questo articolo
di dare una risposta globale a tutti quelli che si chiedono in cosa
consista la militanza all’interno di un’organizzazione rivoluzionaria
come la CCI.
In primo luogo teniamo a
salutare l'atteggiamento di questi lettori che oggi manifestano una
volontà di impegno militante. Questa dinamica molto positiva degli
elementi alla ricerca di una prospettiva e di un’attività
rivoluzionaria è l’espressione di una riflessione che si accentua in
profondità in seno alla classe operaia. Malgrado le campagne della
borghesia, malgrado i suoi attacchi contro la corrente della Sinistra
comunista, malgrado le calunnie rovesciate sull'autentica idea di
comunismo (1), questi lettori non si sono lasciati impressionare e
hanno saputo riconoscere la serietà della nostra organizzazione.
Le condizioni per diventare militante della CCI
Il processo d’integrazione di nuovi
militanti in un’organizzazione politica dipende innanzitutto dalla
natura di classe di questa organizzazione. Nei partiti borghesi (per
esempio i partiti stalinisti), basta semplicemente prendere la tessera
del partito e pagare le quote per essere membro dell’organizzazione. I
militanti di questo tipo di organizzazione non hanno per vocazione di
condurre un’attività che mira a sviluppare la coscienza della classe
operaia ma al contrario ad addormentarla ed a deviarla sul campo
borghese, particolarmente quello delle elezioni e delle grandi
manifestazioni democratiche.
Per un’organizzazione rivoluzionaria,
cioè un’organizzazione che difende realmente la prospettiva del
proletariato (la distruzione del capitalismo e l’instaurazione della
società comunista mondiale), il ruolo dei militanti è radicalmente
differente. Il loro scopo non mira a fare carriera come rappresentanti
di questa o quella frazione del capitale, o ad incollare dei manifesti
per le campagne elettorali, ma a contribuire allo sviluppo della
coscienza nella classe operaia. Come l’affermavano Marx ed Engels nel
Manifesto comunista, “i comunisti hanno sul resto del proletariato
il vantaggio di comprendere chiaramente le condizioni, la marcia ed i
risultati generali del movimento proletario”. È per ciò che i militanti di un’organizzazione rivoluzionaria devono loro stessi elevare il proprio livello di coscienza.
In questo senso, la prima condizione per
aderire alla CCI, è che i compagni che pongono la loro candidatura per
diventare militanti della nostra organizzazione manifestino la loro
comprensione ed il loro pieno accordo coi nostri principi programmatici.
Tuttavia, il loro livello di accordo e di
convinzione sulle nostre posizioni politiche non è una condizione
sufficiente per essere militante della CCI. I candidati devono
egualmente manifestare la loro volontà di difendere le posizioni
dell’organizzazione, ciascuno in funzione delle proprie capacità
personali. Non esigiamo dai nostri militanti che siano tutti dei buoni
oratori o che sappiano redigere un volantino o degli articoli per la
stampa. Ciò che importa, è che la CCI come un tutto possa assumere le
sue responsabilità e che ogni militante sia pronto a dare il meglio di
ciò che può dare per permettere all’organizzazione di assumere la
funzione per la quale la classe operaia le ha dato vita.
I militanti della CCI non sono degli
spettatori passivi, né delle pecore che belano dietro una “burocrazia
di capi”, come pretendono i nostri calunniatori. Hanno dei doveri verso
l’organizzazione che è loro compito fare vivere. Innanzitutto pagando
le loro quote (perché senza denaro, l’organizzazione non potrebbe
pagare le spese della stampa, la locazione delle sale, i viaggi, ecc.).
Hanno il dovere di partecipare alle riunioni, agli interventi, alle
diffusioni della stampa, alla vita ed ai dibattiti interni difendendo i
loro disaccordi nel rispetto delle regole di funzionamento stabilite
dai nostri statuti.
Queste esigenze non sono nuove. Già nel
1903, nel dibattito sul primo paragrafo degli Statuti del Partito
Operaio Socialdemocratico Russo (POSDR), questa questione di “chi è
membro del partito?” aveva opposto i bolscevichi ai menscevichi (2).
Per i bolscevichi, solo coloro che sono parte pregnante dell’insieme
della vita dell’organizzazione potevano essere considerati membri del
partito, mentre i menscevichi ritenevano che bastasse essere d’accordo
con le posizioni dell’organizzazione e portarle il proprio sostegno per
essere considerati militanti. La posizione dei menscevichi è stata
combattuta fermamente da Lenin nel suo libro Un passo avanti, due passi indietro
come visione puramente opportunista, contrassegnata da concezioni
piccolo-borghesi. I detrattori di Lenin lo hanno spesso accusato di
avere una posizione “autoritaria” e di fare la bella parte al “potere
di una piccola minoranza”. È vero proprio il contrario: è la visione
opportunista difesa dai menscevichi che contiene in sé un pericolo.
Difatti, militanti “di base” poco convinti e poco formati saranno più
inclini a lasciare i “leader” pensare e decidere al loro posto rispetto
a militanti che hanno acquisito una comprensione profonda delle
posizioni dell’organizzazione e che si impegnano attivamente nella
difesa di quest’ultima. È la concezione dei menscevichi che permette
meglio che una piccola minoranza possa condurre la propria politica
personale, avventuriera, alle spalle e contro l’organizzazione.
Su questa questione “chi è membro del partito?”,
la CCI si richiama alla concezione dei bolscevichi. È la ragione per
cui facciamo una distinzione molto chiara tra i militanti ed i
simpatizzanti che condividono le nostre posizioni e ci danno il loro
sostegno.
Un buon numero di compagni che
partecipano al nostro fianco agli interventi pubblici, alla diffusione
della stampa e che ci danno un sostegno finanziario non sono pronti,
nonostante tutto, ad impegnarsi pienamente in un’attività militante che
necessita molta energia e perseveranza in un lavoro regolare che si
basa sul lungo periodo. Impegnarsi nella CCI come militanti significa
essere capaci di mettere questa attività al centro della propria vita.
L’impegno in un’organizzazione rivoluzionaria non può essere
considerato come un hobby. Esige da parte di ogni militante una
tenacia, una capacità a mantenere la rotta contro venti e maree, a non
lasciarsi demoralizzare dalle incertezze della lotta di classe, e cioè
una profonda fiducia nelle potenzialità e nella prospettiva storica del
proletariato. La militanza rivoluzionaria esige anche una devozione
leale e disinteressata alla causa del proletariato, una volontà di
difendere quel bene prezioso che è l’organizzazione ogni volta che
questa sia attaccata, denigrata, calunniata dalle forze della borghesia
e dai suoi complici del campo parassitario.
Per diventare militanti della CCI occorre
inoltre integrarsi in un quadro collettivo, fare vivere la solidarietà
tra compagni bandendo l’individualismo piccolo-borghese che trova la
sua espressione particolarmente nello spirito di concorrenza, di
gelosia o di rivalità coi suoi compagni di lotta e che non sono
nient’altro che le stimmate dell’ideologia della classe borghese.
Per diventare militanti di
un’organizzazione rivoluzionaria occorre, come diceva Bordiga, avere
una forza di convinzione ed una volontà d’azione, ivi compresa nella
lotta permanente contro il peso dell’ideologia capitalista nei ranghi
dell’organizzazione.Concretamente, i compagni che vogliono aderire alla CCI devono assumersi delle responsabilità, consistenti nel:
- rendersi disponibili per affrontare
delle discussioni sulla piattaforma del CCI con le delegazioni
incaricate dall’organizzazione. Questo processo di discussione mira ad
approfondire il loro accordo con la nostra piattaforma, che non deve
essere superficiale o approssimativo, ciò che implica che i candidati
non devono esitare ad esprimere i loro disaccordi, le loro divergenze o
incomprensioni affinché queste discussioni possano portare ad un reale
chiarimento;
- cominciare a dare un sostegno materiale
regolare all’organizzazione attraverso una sottoscrizione finanziaria e
partecipando alla diffusione della stampa.
Al termine di questo processo di
discussione sulle nostre posizioni programmatiche, i compagni che
vogliono aderire alla CCI devono anche manifestare il loro accordo con
la concezione della CCI sulla questione del funzionamento
dell’organizzazione e sui suoi Statuti il cui spirito è contenuto
nell’articolo “Struttura e funzionamento dell’organizzazione dei
rivoluzionari”, pubblicato in italiano nella Rivista Internazionale
n°3, settembre 1978.
La politica della CCI verso i candidati
La CCI ha sempre accolto con entusiasmo i
nuovi elementi che vogliono integrarsi nei suoi ranghi. Per questo essa
investe molto tempo ed energia nei processi di integrazione dei
candidati per permettere a questi futuri militanti di essere armati il
meglio possibile nel loro lavoro futuro e per dare loro la possibilità
di prendere parte immediatamente all’insieme delle attività
dell’organizzazione. Tuttavia, questo entusiasmo non significa che
facciamo una politica di reclutamento per il reclutamento, come le
organizzazioni trotzkiste.
La nostra politica non è neanche quella
delle integrazioni premature su delle basi opportuniste, senza
chiarezza preliminare. Noi non siamo interessati al fatto che dei
compagni raggiungano la CCI per poi lasciarci qualche mese o qualche
anno più tardi perché si sono resi conto che l’attività militante è
troppo costrittiva, esige troppi “sacrifici” o ancora perché si sono
accorti a posteriori che non avevano realmente assimilato i principi
relativi alla organizzazione della CCI (in generale, questi compagni
hanno molte difficoltà a riconoscerle e preferiscono abbandonare la
lotta con delle recriminazioni contro la CCI che possono condurli a
giustificare la loro diserzione attraverso un’attività parassitaria).
La concezione dei bolscevichi sulle
questioni di organizzazione ha mostrato tutta la validità di questo
approccio. La CCI non è una locanda dove si entra e si esce né è
interessata ad andare a caccia di militanti.
Non siamo neanche dei mercanti di illusioni. È perciò che i nostri lettori che si pongono la domanda “come si fa ad aderire alla CCI?”
devono comprendere che l’adesione alla CCI richiede del tempo. Ogni
compagno che pone la sua candidatura deve dunque armarsi di pazienza
per impegnarsi in un processo di integrazione nella nostra
organizzazione. Questo processo è innanzitutto una maniera per il
candidato di verificare da sé la profondità della propria convinzione,
in modo che la sua decisione di diventare militante non sia presa alla
leggera o attraverso un “colpo di testa”. Ciò è anche e soprattutto la
migliore garanzia che possiamo offrirgli perché la sua volontà di
impegno militante non si concluda con un insuccesso ed una
demoralizzazione.
Perché l’attività dei rivoluzionari si
inscriva in una prospettiva storica, i militanti devono reggere sul
lungo periodo senza demoralizzarsi. È per ciò che i compagni che
vogliono aderire alla CCI devono guardarsi da ogni immediatismo, da
ogni impazienza nel loro processo di integrazione nella nostra
organizzazione. L’immediatismo è proprio la base di reclutamento dei
gruppi di estrema sinistra della borghesia, che rimproverano
continuamente alla CCI: “Che fate voi ‘praticamente’? Quali sono i risultati immediati che voi ottenete?”
Mai come ora la classe operaia ha bisogno
di nuove forze rivoluzionarie. Ma l’accrescimento numerico delle
organizzazioni della Sinistra comunista non potrà costituire un reale
rafforzamento a meno che non arrivi alla conclusione di tutto un
processo di chiarimento che miri a formare dei nuovi militanti, a dare
loro delle solide basi con cui poter assumere le loro responsabilità
all’interno dell’organizzazione.
1.
Per ricordare, possiamo citare come esempio delle campagne borghesi
contro la prospettiva rivoluzionaria quelle sul tema della “morte del
comunismo” dopo il crollo del blocco dell’Est e dei regimi stalinisti
nel 1989. Abbiamo anche messo in evidenza nella nostra stampa come le
campagne contro il "negazionismo" miravano principalmente a screditare
la Sinistra comunista.
2. Vedi l'articolo "1903-04 e la nascita del Bolscevismo" nella
Rivista Internazionale n° 116 (consultabile sul nostro sito web in
inglese, francese e spagnolo)
Come siamo arrivati a tanto?
Con il crollo dell’ex Unione Sovietica, gli USA, rimanendo l’unica superpotenza del mondo, hanno di fatto prodotto una situazione insolita e anomala. Se è vero infatti che gli USA non hanno in questo momento possibili rivali sul piano militare, è anche vero che questo ruolo di superpotenza lo devono continuamente esercitare per evitare che, in mancanza di una disciplina da blocco imperialista ormai non più esistente, ogni singolo paese possa fare di testa propria ed anche per prevenire possibili processi di aggregazioni imperialiste contro sé stessi. Tutta la politica pacifista condotta nell’ultimo periodo dalle forze di sinistra e da paesi come Francia e Germania, non è altro che una maniera per mettere in difficoltà la politica americana. Le sinistre non sono mai state pacifiste: negli Usa è il governo democratico di J. F. Kennedy che comincia e porta avanti la guerra del Vietnam. In Italia è il governo di sinistra di D’Alema che prende parte piena alla coalizione che si batte contro la Serbia di Milosevic. E che dire del pacifismo di un paese come la Francia che mentre protesta veementemente contro gli USA, facendo sventolare mega-striscioni contro la guerra dai palazzi municipali di Francia, fa i suoi sporchi giochi di guerra in Costa d’Avorio? Gli interventi sempre più puntuali e invasivi degli USA, a partire dalla prima guerra del Golfo ad oggi, esprimono perciò l’esigenza di essere sempre più presenti nelle zone strategicamente nevralgiche del mondo per difendere i propri interessi e, al tempo stesso, per sparigliare le carte degli avversari. E’ così che si spiega la febbre crescente degli USA di intervenire dappertutto nel mondo, anche a costo di farsi saltare le torri gemelle se questo può essere un alibi sufficiente per passare all’offensiva senza discussioni. E’ stato così anche per la seconda guerra contro l’Iraq per scatenare la quale è stato invocato il pericolo dell’uso di micidiali mezzi di distruzione di massa che sarebbero stati nelle mani di Saddam Hussein. Questo alibi è valso a far la guerra e ad occupare un paese senza alcun mandato, senza alcuna giustificazione, con il solo lasciapassare della tracotanza del più forte. Oggi è ormai certo che le armi di distruzione di massa non ci sono. O per lo meno non ci sono più: l’esercito iracheno le ha già utilizzate prima contro l’esercito iraniano per ordine e su forniture degli stessi americani nella guerra Iran-Iraq, poi contro le popolazioni sciite alla fine della prima guerra del golfo, dopo che gli americani avevano istigato queste ultime all’insurrezione contro Saddam per poi abbandonarle alla vendetta del capo sunnita. Oggi come ieri, le grandi potenze imperialiste si fanno la guerra per interposta persona, attribuendo la colpa sempre alla cattiveria o all’avidità di questo o quel governante e sempre nascondendo la vera causa di tutti i conflitti:
“Non occorrevano quattro mesi, alla critica marxista, per ricondurre la guerra in Corea alle sue proporzioni reali, a fissarla nella sua cornice storica. Non era un episodio contingente o locale, un caso, un deprecabile incidente: era una fra le tante, e certo tra le più virulente manifestazioni di un conflitto imperialistico che non ha paralleli né meridiani, ma si svolge sul teatro di tutto il mondo, nei limiti di tempo internazionali dell'imperialismo. I suoi protagonisti non erano né i coreani del Nord rivendicatori di un'unità nazionale spezzata, né i coreani del Sud araldi di un diritto e di una giustizia violati; ma le milizie inconsce e l'ufficialità prezzolata dei due grandi centri mondiali del capitalismo, entrambi protesi per un'ineluttabile spinta interna verso il precipizio della guerra. Non in palio erano la libertà, il socialismo, il progresso, e le mille ideologie in lettera maiuscola di cui é cosparso come di tante croci il cammino della società borghese, ma i rapporti di forza e le condizioni di sopravvivenza dei due massimi sistemi economici e politici del capitalismo, America e Russia”. Amadeo Bordiga, Corea è il mondo, Prometeo n. 1, 1950.
Parafrasando il titolo dell’articolo di Bordiga scritto oltre mezzo secolo fa, possiamo oggi dire Iraq è il mondo. In Iraq si incrociano infatti gli interessi delle principali potenze imperialiste del mondo e l’Iraq ancora mostra la reale prospettiva che si apre all’umanità se l’imbarbarimento di questa società non verrà fermato.
E dove andremo a finire?
La situazione che si vive oggi nel mondo è che, paradossalmente, quanto più gli USA cercano di intervenire per imporre il loro controllo sul mondo, tanto più questo controllo viene messo in discussione. La guerra contro Saddam e la successiva occupazione dell’Iraq, con cui sembrava che gli Usa dovessero divenire padroni della situazione, si sono trasformati in una trappola infernale. La situazione attuale è infatti del tutto incontrollabile con attentati e guerriglia dappertutto. La guerriglia non viene più neanche solo dal temibile triangolo sunnita fedele a Saddam, ma dagli stessi Sciiti delusi dalla politica americana. Peraltro la guerra combattuta dalle tribù irakene segue sempre più la tattica della guerriglia, con agguati, attentati e, più recentemente, rapimenti di militari e soprattutto di civili, allo scopo di scoraggiare quanti sono presenti sul posto anche solo per svolgere un lavoro, diciamo così, non militare. Proprio per l’aggravarsi della situazione Bush ha colto l’occasione per creare un nuovo capro espiatorio, Al Sadr, imam sciita di grande autorevolezza in questo momento che si è dichiarato per il ritiro degli americani dal suolo iracheno e contro la partecipazione ad un governo in queste condizioni. Ma per quanti sforzi facciano gli USA, l’Iraq mostra che non basta sconfiggere il nemico, e non basta neanche più occuparne il territorio, perché in un contesto internazionale in cui ognuno gioca contro tutti gli altri le armi circolano in giro come acqua che scorre e anche un paese allo sbando come l’Iraq finisce per dare dei problemi alla superpotenza americana. E questa constatazione invece di spingere a riconsiderare l’atteggiamento guerriero, come sarebbe più razionale, visto che non dà risultati, porta gli USA ad essere ancora più aggressivi, a dimostrazione che in questo mondo capitalista non c’è ormai più nulla di razionale. E’ di questi stessi giorni l’appoggio di Bush al piano di annessione di parte della striscia di Gaza da parte del governo israeliano di Sharon, piano che non solo butta all’aria tutti i piani di pace preparati finora, anche sotto la spinta degli USA, ma sancisce l’impossibilità di una pace in un Medio oriente che è da sempre uno dei maggiori focolai di tensioni guerriere.
E come si mette per l’Italia?
All’interno di questa situazione l’imperialismo italiano, con alla testa il filoamericano Berlusconi, ha inviato delle truppe in Iraq che giustamente sono state definite dalla sinistra truppe di occupazione. L’intento di Berlusconi and company era infatti di profittare della situazione per avere un minimo di presenza sul posto e se possibile trarre qualche briciola dalle commesse di guerre. A questo ruolo da piccoli sparvieri, hanno risposto le sinistre contestando la legittimità dell’intervento, ma come è noto facendone solo una questione formale perché non ufficialmente autorizzata dall’ONU. Oggi che questa presenza italiana in Iraq si fa sempre più delicata e tragica, con l’episodio di Nassirya prima e il rapimento e l’uccisione degli ostaggi poi, le forze politiche italiane stanno di nuovo dando fondo a tutta la loro fantasia propagandistica per dimostrare che sono meglio gli uni, no anzi gli altri. Tanto più che le elezioni europee si avvicinano. Ma nessuno, di fronte ai morti “italiani”, dice che sono migliaia e migliaia gli iracheni senza identità, senza storia, senza futuro, che giorno dopo giorno vengono ammazzati in una guerra assurda e crudele. Destra e sinistra piangono vittime che sono andate in Iraq al soldo degli americani, per guadagnare da 6000 a 30.000 dollari al mese, per difendere chi con la prepotenza delle armi ha imposto la propria legge su un paese inerme, addirittura si fa circolare l’ultima frase di un povero condannato a morte che dice “adesso vi faccio vedere come muore un italiano...” per trasformare una tragedia umana in una ulteriore propaganda patriottica ad uso di destra e sinistra. Ma per quanto forte possa essere la propaganda dei mass-media al soldo dei vari partiti della borghesia, c’è una dinamica tra i lavoratori che li spinge a chiedersi sempre più prepotentemente il perché delle cose. E’ proprio contro questo pericolo che la borghesia si inventa di continuo i migliori alibi per andare in guerra. Ma è al tempo stesso il dispiegarsi della verità contro le menzogne di tutti i governi e di tutti i partiti borghesi a costituire oggi un potente elemento di presa di coscienza per la classe operaia che per difendersi dagli attacchi sempre più forti e generalizzati alla sua esistenza potrà fare il legame tra la vera natura di queste guerre e la precarietà della propria esistenza e arrivare alla conclusione che effettivamente non c’è altra alternativa: o si distrugge questo sistema o si soccombe completamente alla barbarie.
Ezechiele, 16 aprile 2004
Abbiamo incontrato alcuni elementi di Pagine Marxiste ad una nostra Riunione Pubblica a Milano. La discussione che abbiamo avuto con loro ci ha bene impressionati perché abbiamo avuto la netta sensazione di discutere con elementi interessati a difendere le posizioni di classe e desiderosi di collocarsi su un autentico terreno proletario. Dopo questo incontro abbiamo riletto con maggiore attenzione il primo numero della loro rivista Pagine Marxiste n. 1, ed in particolare l’articolo Le ragioni di una rottura (perché siamo usciti da Lotta Comunista), nel quale si rivendicano come ragioni della rottura:
· alcune di ordine teorico, in particolare la negazione “di fatto (de) il processo di determinazione della struttura economico-sociale sulla sovrastruttura politica” da parte di Lotta Comunista “attuale”;
·altre di ordine strategico, ovvero l’assolutizzazione, sempre da parte del gruppo di origine, de “la tendenza alla centralizzazione politica dell’imperialismo europeo, fino a sostenere che ha già assunto il tratto caratteristico dello Stato…”;
· altre ancora di natura politica, come il mettere in “sordina le iniziative militari dell’imperialismo italiano: in Somalia, in Albania, in Serbia-Kosovo, in Afghanistan, in Irak. La mancata denuncia di queste azioni imperialistiche è oggettivamente una forma di opportunismo – poco ci interessano le motivazioni soggettive”;
· per finire con quelle di tipo organizzativo, affermando che “i rapporti regolari [all’interno di Lotta Comunista, ndr] tra il Centro e il quadro attivo sono stati interrotti dal 1988. (…) La fedeltà personale (non alla causa e neanche al partito) è stata assunta quale criterio principe nella responsabilizzazione dei quadri, in luogo dell’impegno militante e delle capacità teoriche e politiche. L’avanzare ipotesi scientifiche pur sulla base del metodo marxista è divenuto motivo di sospetto, isolamento e allontanamento. La tendenza a ripetere acriticamente è esaltata, la capacità di analizzare frustrata. Grandi capacità e disponibilità all’impegno sono state e vengono in questo modo respinte e bruciate. Il confronto politico è bandito”.
Per quanto ci riguarda, noi abbiamo già espresso un giudizio del tutto negativo su Lotta Comunista come gruppo politico in quanto la riteniamo una formazione falsamente internazionalista, di fatto controrivoluzionaria, dedita in gran parte a curare i propri interessi di burocrazia sindacale all’interno della CGIL (1). Gli elementi di critica di Pagine Marxiste non ci trovano dunque impreparati, ed in particolare comprendiamo la difficoltà a condurre qualunque discussione in quanto “il confronto politico è bandito”, nota caratteristica questa di qualunque gruppo sclerotizzato e di qualunque gruppo controrivoluzionario.
Vogliamo però mettere in guardia gli elementi di Pagine Marxiste dall’utilizzare Lotta Comunista e la sua tradizione di organizzazione come unico elemento di riferimento. E’ vero che la loro stessa partecipazione alla nostra riunione pubblica mostra una chiara volontà di apertura politica, ma questo può non bastare se si ha la pretesa di diventare i veri continuatori di Lotta Comunista e di ricercare la soluzione ai problemi politici in una rilettura dei testi classici della stessa Lotta Comunista che altri avrebbero tradito. Comprendiamo che questo può suonare strano, sbagliato e del tutto non ricevibile per chi ha speso anni e anni in un’organizzazione credendo di stare dalla parte giusta, dalla parte della classe operaia. Ma anche la militanza in Lotta Comunista, che immaginiamo per anni non essere stata messa in discussione, alla fine ha dovuto subire un taglio netto per incompatibilità. Per cui, se proprio si deve ricominciare da capo, tanto vale guardarsi intorno cercando di avere la visuale la più ampia possibile all’interno, evidentemente, di una visione marxista del mondo.
Ci sono altri due elementi che noi riteniamo critici nel processo di riflessione che gli elementi di Pagine Marxiste stanno svolgendo in questa fase, il pericolo di sottovalutare il dibattito sulla storia del movimento operaio a favore di un dibattito sull’attualità e il rifiuto dell’analisi sulla crisi economica del capitalismo.
L’importanza del dibattito sulla storia del movimento operaio
Durante la citata riunione pubblica, gli elementi di Pagine Marxiste a più riprese ci hanno invitato a sviluppare il confronto con loro sulle “strategie per andare avanti piuttosto che sui dibattiti del passato…”, affermando che “le divisioni del passato erano su posizioni dell’epoca…”, e che “oggi la migliore ricetta di qualsiasi gruppo per evitare la deriva opportunista è quella di scontrarsi e portare avanti nei dibattiti le letture marxiste di oggi”. Anche se evidentemente il confronto sui problemi del momento costituisce la migliore verifica della capacità di un’organizzazione rivoluzionaria di essere all’altezza dei suoi compiti, questa capacità non la si acquisisce dal niente ma proprio dalla riflessione e dallo studio di quella che è stata l’esperienza storica del movimento operaio, in particolare attraverso la lettura critica del contributo delle sue avanguardie. E’ per questo motivo che, ad esempio, avevamo promosso la riunione pubblica di presentazione del nostro ultimo opuscolo su “La Frazione di sinistra del PCd’Italia e l’Opposizione internazionale di sinistra, 1929-1933”, da cui avevamo colto l’occasione per trarre alcune lezioni sulla lotta all’opportunismo nel processo di costruzione del partito di classe. Capire le lezioni del passato significa evitare di ripetere gli stessi errori oggi. Questo perché il marxismo non è una bibbia che basterebbe leggere e interpretare ma è un approccio (di classe!) alla comprensione della realtà, che richiede dunque uno sforzo continuo per capire come si muove questa realtà per una corretta collocazione nei suoi confronti. Da questa difficoltà a fare i conti con il passato, dall’eredità che gli elementi di Pagine Marxiste hanno ricevuto da Lotta Comunista, derivano oggi debolezze importanti a livello di analisi della realtà. In particolare, sebbene ci siano spunti ed elementi interessanti a livello di analisi della situazione internazionale, la visione di Pagine Marxiste viene fortemente compromessa dalla incomprensione del problema della crisi economica e della fase di difficoltà storica in cui si trova il capitalismo a partire dalla prima guerra mondiale.
Il nodo della crisi economica
“Io non condivido l’opinione di una crisi del capitalismo che marcia con un’accumulazione elevata: mi pare che il capitalismo stia marciando bene a livello mondiale. Mi preoccuperei del marxismo se così non fosse perché dalle crisi dovrebbero sorgere le lotte di classe” (2) .
Questa frase, pronunciata da uno degli elementi di Pagine Marxiste presenti alla nostra riunione pubblica, mostra emblematicamente il rifiuto di riconoscere una realtà che finanche gli economisti borghesi sono costretti ad ammettere. D’altra parte l’idea che la controprova dell’assenza della crisi possa essere l’assenza della lotta di classe dimostra una visione alquanto meccanicistica che, ad ogni azione (del capitale), vuole una reazione (della classe operaia). Non abbiamo qui lo spazio per sviluppare a fondo questo argomento, ma i compagni possono fare riferimento ai nostri numerosi articoli e in particolare al nostro opuscolo sulla Decadenza del capitalismo. Quello che vogliamo fare presente qui ai compagni di Pagine Marxiste e a tutti i compagni che sono influenzati dalla posizione di un’assenza di crisi nel capitalismo in questa fase storica, è che l’attuale sistema sociale capitalista che risulta incapace:
- di favorire il decollo di nuove potenze economiche sullo scacchiere mondiale (3),
- di integrare nuova forza lavoro respingendo alle frontiere dell’unione europea decine di migliaia di immigrati provenienti da paesi ormai senza più alcuna risorsa;
- di garantire una benché minima garanzia finanche ai proletari dei paesi avanzati che viceversa si vedono confrontati ad un regime di vita sempre più incerto, di sacrifici e di insicurezza;
- di garantire un minimo di controllo sull’insieme della società che vive momenti di precarietà crescenti, dove l’incolumità personale e collettiva, il rischio di attentati e di violenze, sono all’ordine del giorno, è un sistema sociale che non ha più molto da dire all’umanità e che i tempi storici di un suo superamento sono giunti da un bel pezzo.
Ma per questo, e molte altre cose, ci auguriamo che ci sia tutto il tempo per parlare direttamente con i compagni di Pagine Marxiste nel prossimo futuro.
Ezechiele,10 aprile 2004
1. Vedi l’articolo Lotta Comunista: un puntello dei sindacati in Rivoluzione Internazionale n. 29, ottobre 1982.
2. Dall’intervento di un militante di Pagine Marxiste. Naturalmente né questa né i passaggi precedenti sono letterali, ma ci auguriamo di non aver alterato in nessun modo il senso politico di quello che i compagni volevano intendere.
3. L’effimera crescita di paesi quali i dragoni e le tigri dell’est, così come quella dei paesi sudamericani quali il Messico, si sono risolti tutti con la bancarotta dell’intera economia statale.
Nel scorso mese di gennaio la CCI ha ricevuto una dichiarazione da parte di Battaglia Comunista relativa a degli attacchi comparsi sul sito Indymedia che accusano “la setta bordighista di Battaglia Comunista” di aver aggredito un gruppo di militanti alla manifestazione contro la repressione svoltasi a Parma lo scorso 21 dicembre e incitando a “portare una lotta contro tutti quelli che cercano una pacificazione coi fascisti, da Amadeo Bordiga al Campo Antimperialista, da Battaglia Comunista all’editrice bordighista Graphos”. Un altro intervento sullo stesso sito e firmato Antifa Block incitava a “buttare fuori dai cortei” BC ed altre organizzazioni accusate di “propagandare tesi negazioniste (dell’olocausto ebraico) e filofasciste”.
Questo tipo di attacchi contro gli internazionalisti non è purtroppo un incidente isolato: nel 1997 i gruppi della Sinistra Comunista dovettero difendersi contro una campagna che li accusava di “negazionismo di sinistra” (1) sviluppata nella stampa borghese in Francia attraverso testate di tutto rispetto quali Le Monde, Liberation e Figaro, articoli che furono ripubblicati dal settimanale italiano L’Internazionale.
Gli incidenti denunciati da Battaglia Comunista sono parte degli stessi attacchi volti a distorcere o a nascondere le reali posizioni della Sinistra Comunista e ad impedire che la sua voce venga ascoltata. E’ in particolare con l’uso degli ambienti di “militanza antifascista” presenti in tre centri sociali di Milano e attraverso il sito internet Indymedia.it che l’operazione è stata condotta. Al centro dell’attacco è stata individuata una piccola casa editrice, Graphos, che ha pubblicato sia dei libri di autori negazionisti che documenti della sinistra comunista. Graphos non fa parte per nessun motivo della tradizione della Sinistra Comunista, ma l’affermazione secondo cui essa sarebbe di “ispirazione bordighista” (dal documento firmato dai tre centri sociali milanesi: ORSo, Palestra Popolare, RASH), mostra che il reale obiettivo dell’attacco è proprio la tradizione della sinistra comunista. La campagna si pone l’obiettivo di impedire a quelli che sono alla ricerca di una spiegazione coerente della barbarie capitalista di venire in contatto con le reali posizioni della sinistra comunista, le quali soltanto possono fornire il quadro necessario di comprensione.
E’ per questo che noi vogliamo cominciare a rimettere a disposizione di tutte le persone interessate a conoscere le posizioni della sinistra comunista sull’olocausto la ripubblicazione di un articolo scritto all’epoca della campagna anti-negazionista nel 1997 (2). Il testo che dà la posizione bordighista di base su questa questione, “Auschwitz o il grande alibi” può essere scaricato dal sito internet Sinistra.net.
Una volta chiarite le posizioni della sinistra comunista, in un prossimo articolo mostreremo come i metodi che sono stati utilizzati in questo “dibattito”, quali intimidazione, minacce, bugie e distorsione delle posizioni, appartengano alla tradizione controrivoluzionaria dello stalinismo e sono state usate proprio per neutralizzare o eliminare militanti della sinistra comunista. Questi metodi sono invece del tutto estranei alla tradizione della Sinistra Comunista, la cui preoccupazione è quella dello sviluppo della coscienza attraverso un franco dibattito e un confronto politico delle posizioni divergenti.
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Innanzitutto, i gruppi della Sinistra Comunista non hanno mai negato la realtà dello sterminio degli ebrei durante la guerra, solo che non hanno per questo dimenticato di denunciare allo stesso tempo le complicità e la corresponsabilità degli Stati “democratici” nella barbarie della II guerra mondiale. E in effetti i pennivendoli della borghesia, definendo il testo “Auschwitz o il grande alibi” come il “testo fondatore del negazionismo di sinistra”, cercano proprio di discreditare il punto di vista marxista. Questo non solo situa la barbarie nazista nel quadro di quella del mostruoso bagno di sangue della seconda guerra imperialista mondiale, ma denuncia anche la maniera in cui i campi di sterminio nazisti sono serviti dopo il 1945 da alibi ai crimini dei grandi Stati democratici “civilizzati”.Le responsabilità degli “Alleati” nello sterminio degli ebrei
Se l’ideologia dominante si sforza tanto per fare dell’olocausto un crimine inesplicabile, o spiegabile solo con considerazioni metafisiche sul lato “diabolico” della natura umana a cui non potrebbe opporsi che la buona volontà degli uomini, è per meglio scaricare il capitalismo da ogni responsabilità nello sterminio organizzato di milioni di vite umane. E’ per meglio nascondere che lo scatenamento del razzismo, dell’odio per lo straniero o l’ebreo trova le sue radici nell’ideologia nazionalista che caratterizza per eccellenza la classe borghese, nella natura fondamentalmente nazionalista del capitale, quale che sia la veste, “democratica” o “totalitaria”, del suo Stato.
Per il capitale tedesco degli anni 30, per il quale il ricorso al nazismo è la sola strada per tirare la testa fuori dall’acqua, l’antisemitismo non è solo l’ideologia populista ideale, che fornirà a Hitler una base sociale e delle truppe d’assalto tra la piccola borghesia rovinata e portata alla disperazione dalla crisi. L’indicazione degli ebrei come responsabili della crisi e della sconfitta tedesca sancita dal trattato di Versailles, servirà innanzitutto, attraverso l’esproprio, a trovare dei fondi per lo sforzo bellico dell’imperialismo tedesco. La loro deportazione di massa nei campi di lavoro servirà ancora al capitale per sfruttare fino alla morte questa massa miserabile, sempre ai fini dello sforzo di guerra, e per eliminare un surplus di popolazione che non solo i nazisti non volevano, ma di cui nessuno degli stati belligeranti voleva farsi carico.
D’altra parte lo sterminio di massa per eliminare l’eccedenza di popolazione non si è limitato ai soli ebrei. La stessa sorte è stata riservata agli zigani e prima di loro alle migliaia di malati di mente degli ospedali psichiatrici. All’inizio si fucila, poi, per risparmiare munizioni, si passano nelle camere a gas i deportati più deboli o malati, non più in grado di lavorare.
Le prime difficoltà militari dell’imperialismo tedesco accelereranno la politica dello sterminio sistematico. Prima dei forni crematori saranno le popolazioni delle regioni invase dall’armata del Reich che saranno massacrate selvaggiamente. Nel 1941, in Ucraina, l’esercito tedesco ha bisogno di viveri: per evitare una rivolta della popolazione di fronte alla confisca delle derrate alimentari, lo stato maggiore decide di decimare gli abitanti con il mezzo più economico: chiudere i prigionieri nei camion, con il tubo di scappamento rivolto verso l’interno. Sono le prime “camere” a gas.
La loro generalizzazione a partire dalla fine del 1941 è legata all’impossibilità per il nazismo di liberarsi delle popolazioni indesiderate. La chiusura delle frontiere a causa della guerra, il rifiuto di tutti i paesi belligeranti di farsi carico dei rifugiati, condannerà questa popolazione miserabile allo sterminio organizzato nei campi della morte.
Le dichiarazioni d’orrore sulla bestialità del nazismo profuse dai “democratici” vincitori della guerra, non possono cancellare la loro complicità e la loro corresponsabilità nel massacro organizzato.
Più volte, nel corso della guerra, la Germania cerca di sbarazzarsi degli ebrei vendendoli agli Alleati. E’ quanto è rivelato, tra l’altro, dall’avventura di Joel Brandt citata nel testo “Auschwitz o il grande alibi”. Brandt fu incaricato dai nazisti di proporre uno scambio agli alleati: un milione di ebrei dei campi contro 10.000 camion. Si scontrerà con il rifiuto dello Stato britannico che non voleva farsi carico di questa massa di rifugiati, il cui “trasporto avrebbe nuociuto allo sforzo bellico”. Ed anche quando i nazisti propongono di inviare 100.000 ebrei in cambio di niente, fu il rifiuto più assoluto.
Anche il governo americano rifiuta di inviare delle navi a caricare gli ebrei in Europa per “non indebolire lo sforzo di guerra”.
Infine, mentre al momento della “liberazione” le rivelazioni sulla barbarie nazista sono servite da grande alibi per i crimini del campo democratico (3), la propaganda alleata durante la guerra aveva accuratamente evitato di lasciar filtrare le numerose testimonianze sulla sorte riservata agli ebrei nei campi della morte.
La Sinistra Comunista di fronte al fascismo e all’antifascismo
Per chi conosce anche solo un poco le posizioni di Bordiga e della Sinistra Comunista sia sulla natura del fascismo che sulla seconda guerra mondiale, l’accusa di “genitori del negazionismo” e di “collusione discreta” con l’estrema destra (in nome della teoria degli “opposti estremismi”) risulta immediatamente una calunnia. Ma dietro di essa si cela un attacco perfettamente organizzato e concertato contro la classe operaia, la sua tradizione storica e le organizzazioni dell’attuale ambiente politico proletario.
Quando i propagandisti della borghesia accusano la Sinistra Comunista di “collusione discreta” con il fascismo, quello che in realtà vogliono attaccare e discreditare è la comprensione marxista della natura e delle cause del fascismo, quale fu difesa in seno all’Internazionale Comunista da Amadeo Bordiga già negli anni venti.
L’interpretazione ufficiale, condivisa dalla destra all’estrema sinistra, fa del fascismo una specie di aberrazione della storia, l’espressione di forze oscurantiste che avrebbero preso il potere malgrado e contro la volontà della borghesia o dei settori più “progressisti” di questa. A questa interpretazione, grazie alla quale la classe dominante oppone capitalismo e fascismo e fa della “lotta” tra democrazia e fascismo la pietra angolare della storia del ventesimo secolo, Bordiga, e dopo di lui la tradizione della Sinistra Comunista, hanno opposto l’analisi marxista che vede nel fascismo una forma caratteristica del dominio del capitalismo nella sua fase di decadenza.
La Sinistra Comunista ha mostrato come, in Italia e in Germania, la grande borghesia industriale favorì lo sviluppo e poi la presa del potere da parte delle correnti fasciste, prima perché il metodo di dominazione fascista era in grado di favorire rapidamente la concentrazione e la centralizzazione del capitale nelle mani dello Stato, di accelerare la messa in piedi dell’economia di guerra e di mettere a tacere i conflitti interni alla borghesia. In secondo luogo perché la sconfitta della classe operaia, abbattuta dopo il fallimento dell’ondata rivoluzionaria degli anni 17-23, rendeva superfluo il mantenimento dell’armamentario democratico e parlamentare, ormai definitivamente svuotato di contenuto nell’epoca della decadenza del capitalismo.
Niente a che vedere dunque con il “revisionismo storico” che difende il fascismo e non lo condanna certo come forma di dominazione della borghesia al pari della forma democratica.
Piuttosto, è la borghesia “democratica” e di “sinistra” che cerca di far dimenticare che i fronti unici “antifascisti”, dietro cui sono stati invitati a schierarsi i proletari abbandonando ogni difesa dei loro interessi di classe, non hanno mai impedito la vittoria del fascismo. E non è toccato a questo far fronte al pericolo proletario, questo era stato già sventato dalle forze democratiche e socialdemocratiche.
La borghesia tedesca non affidò il potere a Hitler prima di essere certa di aver concluso lo schiacciamento del proletariato grazie ai massacri dei “socialisti” Noske e Scheidemann.
In Italia sono le forze legali della democrazia parlamentare che repressero la fiammata operaia del 1920, mentre i sindacati si occupavano di rinchiudere i proletari nelle loro fabbriche. Le milizie di Mussolini non arrivarono che in seguito per completare la sconfitta (con l’appoggio d’altra parte delle forze legali parlamentari).
Infine, in Spagna è ancora il “Fronte popolare” che disarmò gli operai, che gli farà abbandonare il loro terreno di classe per arruolarli nella difesa della Repubblica (4). E’ la denuncia di questa realtà che la borghesia rimprovera ai militanti di “Bilan”.
Di fronte alla guerra imperialista, l’intransigenza internazionalista della Sinistra Comunista
Ma l’attuale campagna di calunnie contro la Sinistra Comunista ha come obiettivo di fondo il suo principio essenziale, quello che ne fa la sola erede di Marx e Lenin contro i tradimenti successivi dei partiti Socialisti, Comunisti e dei gruppi trotzkisti: il mantenimento di una posizione risolutamente internazionalista di fronte alla seconda guerra mondiale, la denuncia della guerra mondiale in quanto guerra imperialista, la denuncia dell’ideologia antifascista come alibi per irreggimentare il proletariato nel macello mondiale, il rifiuto dell’unione nazionale, la difesa della prospettiva rivoluzionaria del proletariato contro il capitalismo e la sua logica guerriera.
PE / H
1. Negazionismo, o revisionismo storico è stato denominata quella corrente di pensiero, rappresentata per lo più da storici di destra, che tende a negare l’esistenza dell’olocausto degli ebrei da parte dei nazisti.
2. Rivoluzione Internazionale n° 99, “Campagna del capitale sul “negazionismo”. Un attacco alla Sinistra Comunista”.
3. In particolare, la denuncia della borghesia democratica degli orrori del nazismo è servita a giustificare i massacri su grande scala perpetrati dagli alleati, come i bombardamenti di Dresda, Amburgo, Hiroshima e Nagasaki (vedi “I massacri e i crimini delle grandi democrazie”, su Rivista Internazionale n. 16.
4. Sull’avvento del fascismo in Italia, vedi Rivoluzione Internazionale n. 4 e 5. Sul significato del nazismo, vedi Rivista Internazionale n. 18. Sulla guerra di Spagna, vedi testi di Bilan in Rivista Internazionale n. 1, e Rivoluzione Internazionale n. 97.
La natura umana
Questa “natura umana” è un po’ come la pietra filosofale che gli alchimisti hanno ricercato per secoli. Fino ad ora tutti gli studi sulle “invariabili sociali” (come dicono i sociologi), cioè sulle caratteristiche del comportamento umano valido in tutti i tipi di società, hanno messo in evidenza fino a che punto la psicologia e gli atteggiamenti umani sono stati variabili e legati al quadro sociale nel quale si è sviluppato ogni individuo considerato. In effetti se c’è una caratteristica fondamentale di questa famosa “natura umana” che la distingue da quella degli altri animali, è proprio l’enorme importanza dell’”acquisizione” rispetto all’”innato”, è proprio il ruolo decisivo che gioca l’educazione, e dunque l’ambiente sociale nel quale si trova l’uomo adulto.
Marx sottolineava che “l’ape oscura l’abilità di più di un architetto per la struttura delle sue celle di cera; ma ciò che distingue dagli albori il peggior architetto dall’ape più esperta, è il fatto che questo ha costruito la cella nella sua testa prima di costruirla nell’arnia”. E’ in maniera geneticamente programmata che l’ape possiede l’attitudine a costruire degli esagoni perfetti, come il piccione viaggiatore ha la capacità di ritrovare il suo nido a 1000 km di distanza o lo scoiattolo immagazzina le nocciole che non potrebbe trovare dopo. Invece, la forma finale dell’edificio che progetta il nostro architetto sarà determinata non da una qualche eredità genetica ma da tutta una serie di elementi che gli saranno forniti dalla società nella quale vive. Che si tratti del tipo di edificio che gli è stato commissionato, dei materiali o degli attrezzi utilizzabili, delle tecniche produttive dei diversi corpi di mestiere che possono partecipare al prodotto, delle conoscenze scientifiche alle quali si rifà, tutto è determinato dall’ambiente sociale.
Accanto a questo, la parte di ciò che viene da un qualcosa di “innato” trasmesso geneticamente dai genitori dell’architetto si riassume essenzialmente nel fatto che il frutto del loro accoppiamento non è stato un’ape, o un piccione, ma un uomo, cioè un individuo appartenente come loro alla specie umana nella quale, appunto, la parte delle acquisizioni che entrano nella formazione dell’individuo adulto è di gran lunga la più importante.
Lo stesso vale per quello che riguarda la natura dei comportamenti. Ad esempio, il furto è un crimine, cioè una perturbazione del funzionamento della società che, se generalizzato, diventa per essa catastrofico. Chi ruba, o peggio minaccia, aggredisce o uccide delle persone è un criminale, un essere considerato quasi da tutti come un malfidato, un asociale al quale bisogna “impedire di nuocere” (a meno che non lo faccia nel quadro delle leggi esistenti, nel qual caso la sua abilità ad estorcere il plusvalore ai proletari sarà lodata e riccamente ricompensata e la sua efficacia nel massacro di questi gli varrà galloni e medaglie). Ma il comportamento “furto” ed i criminali “ladri”, “rapitori” o “assassini”, così come tutto quello in connessione con questo: leggi, giustizia, polizia, prigioni, film polizieschi, romanzi “gialli” e “neri” potrebbero esistere se non ci fosse niente da rubare perché tutti i beni materiali, per l’abbondanza permessa dallo sviluppo delle forze produttive, sarebbero a libera disposizione di tutti i membri della società? Evidentemente no! E si potrebbero moltiplicare gli esempi che mostrano fino a che punto i comportamenti, le attitudini, i sentimenti, le relazioni fra gli uomini sono determinati dall’ambiente sociale.
Qualcuno potrebbe obiettare che se esistono dei comportamenti antisociali, quale che sia la forma che assumono in funzione delle forme della società, è perché esiste nel profondo della “natura umana” una parte di atteggiamento asociale, di aggressività verso gli altri, di “criminalità potenziale”. Si sente dire: “Spesso il volere non è per necessità materiale”, “il crimine gratuito esiste”, o ancora “se i nazisti hanno potuto commettere tali orrori è perché l’uomo porta in se il male che emerge appena le condizioni sono favorevoli”. Ma cosa significano queste obiezioni se non il fatto che non esiste una “natura umana” in se “buona” o “cattiva”, se non un uomo sociale le cui molteplici potenzialità si esprimono in maniera diversa a seconda delle condizioni in cui egli vive? A tale riguardo le statistiche sono eloquenti: è la “natura umana” che diventa peggiore nei periodi di crisi della società quando si assiste ad un aumento della criminalità e di tutti i comportamenti morbosi? Lo sviluppo di atteggiamenti asociali in un numero crescente di individui non è al contrario l’espressione di una non adeguata crescita della società esistente rispetto ai bisogni umani i quali, eminentemente sociali, non riescono più a trovare soddisfazione all’interno di quella che, appunto, diventa sempre meno una società, una comunità?
Altri basano il loro rigetto della possibilità del comunismo sulla seguente argomentazione: “Voi parlate di una società che soddisferà veramente i bisogni umani, ma la proprietà, il potere sugli altri sono appunto dei bisogni umani essenziali ed il comunismo, che li esclude, è mal posto per una tale soddisfazione. Il comunismo è impossibile perché l’uomo è egoista”.
Il bisogno di proprietà
Nella “Introduzione a l’economia politica” Rosa Luxemburg descrive lo sgomento dei borghesi inglesi quando, all’epoca della conquista dell’India, scoprirono dei popoli che non conoscevano la proprietà privata. Essi si consolavano dicendo che si trattava di “selvaggi”, ma anche a chi era stato insegnato dalla società che la proprietà privata è “naturale”, creava un certo imbarazzo constatare che erano proprio dei “selvaggi” ad avere il modo di vita più “artificiale”. Nei fatti l’umanità aveva un tale “bisogno naturale di proprietà privata” da farne a meno per più di un milione di anni. Ed in molte occasioni è stato a colpi di massacri che si è fatto scoprire agli uomini questo “bisogno naturale”, come appunto è stato il caso degli Indiani citati da Rosa Luxerburg. Lo stesso vale per il commercio, forma “naturale ed unica” di circolazione dei beni e la cui ignoranza da parte degli autoctoni scandalizzava i colonizzatori: indissociabile dalla proprietà privata, il commercio appare e scomparirà con essa.
Un’altra idea corrente è che se non ci fosse il profitto come stimolatore della produzione e del suo progresso, se il salario individuale non fosse la contropartita degli sforzi fatti dal lavoratore, nessuno più produrrebbe. Effettivamente, nessuno più produrrebbe in modo capitalista, cioè in un sistema basato sul profitto ed il salario, in cui la più piccola scoperta scientifica deve essere “redditizia”, in cui il lavoro, per la sua durata, la sua intensità, la sua forma inumana, è diventato una maledizione per la stragrande maggioranza dei proletari. Al contrario, lo scienziato che attraverso le sue ricerche partecipa al progresso della tecnica, ha bisogno di uno “stimolante materiale” per lavorare? In genere egli è pagato meno di un quadro di fabbrica che, lui, non fa fare nessun progresso alla conoscenza. Il lavoro manuale è per forza di cose sgradevole? A cosa farebbe riferimento l’espressione “amore del mestiere” o il gusto per il bricolage ed ogni sorta di attività manuale che spesso sentiamo? In effetti il lavoro, quando non è alienato, assurdo, sfiancante, quando i suoi prodotti non diventano delle forze ostili ai lavoratori, ma dei mezzi per soddisfare realmente dei bisogni della collettività, diventa il primo bisogno umano, una delle forme essenziali di sviluppo delle facoltà umane. Nel comunismo gli uomini produrranno per il loro piacere.
Il bisogno di potere
Dall’esistenza oggi generalizzata di capi, di rappresentanti dell’autorità, si deduce che nessuna società può fare a meno di capi, che gli uomini non potranno mai fare a meno di subire un’autorità o di esercitarla sugli altri. Non possiamo ritornare qui su quello che il marxismo ha da tempo detto sul ruolo delle istituzioni politiche, sulla natura del potere statale e che si riassume nell’idea che l’esistenza di una autorità politica, di un potere di alcuni uomini sugli altri è il risultato dell’esistenza nella società di opposizioni e di scontri tra gruppi di individui (le classi sociali) dagli interessi antagonisti.
Una società in cui gli uomini si fanno concorrenza tra loro, dove gli interessi si contrappongono, dove il lavoro produttivo è una maledizione, dove la coercizione è permanente, dove i bisogni umani più elementari sono calpestati per la grande maggioranza, una tale società ha “bisogno” di capi (come ha bisogno di polizia o della religione). Ma che si sopprimano tutte queste aberrazioni e si vedrà se i capi ed il potere sono sempre necessari. “Si (dirà sempre quel qualcuno), l’uomo ha bisogno di dominare gli altri o di essere dominato. Quale che sia la società, esisterà sempre il potere di alcuni sugli altri”. E’ vero che lo schiavo che ha sempre portato le catene ai piedi ha l’impressione che lui non potrà mai farne a meno per camminare. Per gli uomini il bisogno di esercitare un potere sugli altri è il complemento di quello che si potrebbe chiamare “la mentalità dello schiavo”: l’esempio dell’esercito dove il maggiore stupido e disciplinato è allo stesso tempo quello che abbaia in permanenza contro i suoi uomini, è significativo. Nei fatti se gli uomini hanno bisogno di esercitare un potere sugli altri è perché esercitano ben poco potere sulla propria vita e sull’insieme dell’andamento della società. La volontà di potenza di ogni uomo è in misura della sua impotenza reale. In una società dove gli uomini non sono schiavi impotenti né delle leggi della natura, né delle leggi dell’economia, dove si liberano delle seconde ed utilizzano in modo cosciente le prime, dove sono “padroni senza schiavi”, non hanno più bisogno di questo surrogato della potenza che è il dominio sugli altri.
Ciò che vale per la “sete di potere” vale anche per l’aggressività. Di fronte all’aggressione permanente di una società che marcia sottosopra, che gli impone un’agonia perpetua ed una rinuncia costante dei propri desideri, l’individuo è necessariamente aggressivo: si tratta della semplice manifestazione, ben nota in tutti gli animali, dell’istinto di conservazione. Dotti psicologi affermano che l’aggressività sarebbe un impulso inerente a tutte le specie del regno animale, che avrebbe bisogno di manifestarsi in ogni caso, in ogni circostanza: ma anche se fosse così, che gli uomini abbiano la possibilità di impiegarla per combattere gli ostacoli materiali che intralciano un rifiorire ogni giorno più grande, e vedremo se hanno ancora bisogno di esercitarla contro altri uomini!
L’egoismo degli uomini
Il “ciascuno per sé” sarebbe una caratteristica degli uomini. Senza dubbio è una caratteristica dell’uomo borghese, di quello che “si è fatto da solo”, ma questa non è che l’espressione ideologica della realtà economica del capitalismo e non ha niente a che vedere con la natura umana. Altrimenti bisognerebbe considerare che questa “natura umana” si è trasformata radicalmente dal comunismo primitivo in poi, o anche dal feudalesimo con la sua comunità di villaggio. Nei fatti l’individualismo fa la sua entrata trionfale nel mondo delle idee quando i piccoli proprietari indipendenti appaiono nelle campagne (abolizione del servaggio) e nelle città. Piccolo proprietario “riuscito”, in particolare rovinando i suoi vicini, il borghese aderisce con fanatismo a questa ideologia attribuendole il titolo di “naturale”. Per esempio, non si fa scrupolo a fare della teoria di Darwin una giustificazione della “lotta per la sopravvivenza”, della “lotta di tutti contro tutti”.
Ma con la comparsa del proletariato, classe associata per eccellenza, si apre una falla nel dominio assoluto dell’individualismo. Per la classe operaia la solidarietà è innanzitutto un mezzo elementare per assicurare una difesa elementare dei suoi interessi materiali. A questo punto si potrebbe già obiettare a quelli che dicono che “l’uomo è naturalmente egoista” che se l’uomo è egoista è però anche intelligente e la sola volontà di difendere i suoi interessi lo spinge all’associazione ed alla solidarietà appena le condizioni materiali lo permettono. Ma non è tutto: in questo essere sociale per eccellenza, la solidarietà e l’altruismo sono, tanto in senso che nell’altro, dei bisogni essenziali. L’uomo ha bisogno della solidarietà degli altri, ma ha anche bisogno di manifestare la sua solidarietà agli altri. Ed è qualcosa che si manifesta frequentemente nella nostra società, per quanto alienata sia, e che è riconosciuta in maniera semplice e corrente attraverso l’idea che “ognuno ha bisogno di sentirsi utile agli altri”. Qualcuno dirà che l’altruismo è anch’esso una forma di egoismo poiché chi lo pratica lo fa innanzitutto per compiacere se stesso. Sia! Ma questa sarebbe un altro modo per esprimere l’idea difesa dai comunisti che non c’è opposizione tra l’interesse individuale e l’interesse collettivo. Una contrapposizione tra l’individuo e la società si manifesta nelle società di sfruttamento, nelle società che conoscono la proprietà privata (cioè privata agli altri) e questo è perfettamente logico: come potrebbe esserci armonia tra, da una parte, degli uomini che subiscono l’oppressione e, dall’altra, le istituzioni che garantiscono e perpetuano questa oppressione. In una tale società l’altruismo può manifestarsi essenzialmente sotto forma di carità o sotto forma di sacrificio, cioè di negazione di se stessi e non come affermazione, crescita comune e complementare di se e degli altri.
Contrariamente a quanto vuol farci credere la borghesia, il comunismo non è affatto negazione dell’individualità: è il capitalismo, dove i proletari diventano un’appendice della macchina produttiva, che opera una tale negazione e che la spinge all’estremo in quella sua espressione specifica di imputridimento che è il capitalismo di Stato. Nel comunismo, in questa società che si è sbarazzata del nemico per eccellenza che è lo Stato la cui esistenza non ha più ragion d’essere, è il regno della libertà che si instaura per ogni membro della società. Dato che l’uomo realizza le sue molteplici potenzialità in modo sociale e dato che scompare l’antagonismo tra interesse individuale e interesse collettivo, si apre un campo nuovo per il rifiorire di ogni individuo.
Inoltre, lungi dall’accentuare l’uniformità generalizzata sviluppatasi con il capitalismo, il comunismo, permettendo di rompere con una divisione del lavoro che fissa ogni individuo in un ruolo che gli viene incollato alla pelle per tutta la vita, è per eccellenza la società della diversità. Ormai ogni nuovo progresso della conoscenza o della tecnica non determina una specializzazione ancora più spinta, ma al contrario allarga ogni volta di più il campo delle molteplici attività attraverso le quali ogni uomo può esprimersi. Come scrivevano Marx ed Engels: “…appena il lavoro comincia ad essere diviso, ciascuno ha una sfera di attività determinata ed esclusiva che gli viene imposta e dalla quale non può sfuggire: è cacciatore, pescatore, o pastore, o critico critico e tale deve restare se non vuol perdere i mezzi per vivere; laddove nella società comunista, in cui ciascuno non ha una sfera di attività esclusiva ma può perfezionarsi in qualsiasi ramo a piacere, la società regola la produzione generale e appunto in tal modo mi rende possibile di fare oggi questa cosa, domani quell’altra, la mattina andare a caccia, il pomeriggio pescare, la sera allevare il bestiame, dopo pranzo criticare, così come mi vien voglia; senza diventare né cacciatore, né pescatore, né pastore, né critico” (L’ideologia tedesca).
Si, e non se ne dispiacciano i borghesi e tutti gli spiriti scettici o afflitti, il comunismo è fatto per l’uomo, l’uomo può vivere nel comunismo e farlo vivere! (da Révolution Internationale n. 62)
Tutti i giorni ci sono scontri mortali in ogni città irakena. I massacri della popolazione civile si ripetono, come nel villaggio di Makredid dove una festa di matrimonio è stata bombardata facendo almeno 40 morti, per lo più donne e bambini. Le esecuzioni sommarie di ostaggi all’arma bianca da parte di gruppuscoli fanatici e armati sempre più numerosi diventano un’abitudine. Ma quello che c’è veramente di nuovo è l’apparizione, sugli schermi televisivi, della storia delle torture inflitte ai prigionieri irakeni nel carcere di Abu-Graib. E c’è da credere che le torture non riguardano solo questa prigione, e che non sono cominciate nel mese di maggio.
Di fronte a questo immenso “scandalo” che scuote tutto l’esercito americano ma anche l’insieme del governo degli Stati Uniti, la loro difesa è ridicola. Essa consiste nell’affermare che non si tratta che di casi isolati e prodotto di iniziative personali di qualche soldato perverso. Questa difesa immediata è ben presto saltata. Oggi è tutta la catena di comando americana che è sotto accusa, arrivando fino allo stesso Donald Rumsfeld, segretario di Stato per la Difesa.
L’evidente realtà della barbarie delle grandi democrazie capitaliste
Lo Stato americano è entrato per la seconda volta in guerra contro l’Iraq di Saddam Hussein in nome della lotta contro il terrorismo, gli Stati “canaglia” e in difesa della civilizzazione e della democrazia. Le torture inflitte ai prigionieri irakeni mettono chiaramente in luce la vera natura della democrazia. In materia di barbarie essa non ha niente da invidiare a qualsiasi altra forma di dittatura del capitale. Gli Stati Uniti non sono il primo Stato democratico ad utilizzare su larga scala la tortura. Senza dover tornare troppo indietro nel tempo, basta ricordare il ruolo giocato dalla democrazia francese in Ruanda nel 1994, con l’organizzazione cinica di genocidi e di torture che hanno portato al selvaggio massacro di un milione di persone. Ma più chiaramente ancora, durante la guerra in Indocina, poco dopo la fine della seconda Guerra Mondiale condotta in nome della lotta contro il mostro fascista, l’esercito francese non si è fatto scrupolo di fare largo uso della tortura. Tra le innumerevoli testimonianze, quella del giovane tenente colonnello Jules Roy colpisce per la sua drammatica somiglianza con quelle che ci giungono oggi dall’Iraq:
“Su tutte le basi aeree, ai lati delle piste, c’erano delle baracche che venivano evitate e da cui, la notte, uscivano delle urla che facevano paura a sentirsi… Chiesi all’ufficiale che mi accompagnava di cosa si trattasse: ‘Niente, dei sospetti’. Chiesi che la si finisse. Andai alla pagoda. Entrai: c’erano file di prigionieri che passavano davanti a dei tavoli dove degli specialisti bruciavano loro i testicoli con l’elettricità” (Memorie barbare, ed. Albin Michel, 1989).
Da questo punto di vista, le torture inflitte sempre dall’esercito francese durante la guerra d’Algeria alla fine degli anni ’50 non hanno niente da invidiare a quelle praticate in Indovina. In Algeria la tortura è stata voluta dai capi dell’esercito francese, Massu, Bigeard, Graziani, che l’hanno resa un fenomeno di massa. In ogni luogo del territorio algerino c’era un ufficiale di riferimento con la funzione di torturatore, coadiuvato dalla sua squadra di parà “specializzati”. Contrariamente a quello che affermano tutti gli ideologi e gli altri difensori dell’ordine borghese, la democrazia, durante tutta la sua storia, come ogni altra forma di organizzazione del capitale, non ha mai cessato di utilizzare i mezzi più barbari per raggiungere i suoi fini. Le lacrime di coccodrillo versate dal governo francese sugli orrori perpetrati in Iraq appaiono qui chiaramente per quelle che sono: pura ipocrisia! E’ innegabile che la rivelazione delle torture compiute in Iraq implica un nuovo indebolimento della leadership americana. E’ evidente che le principali potenze rivali degli Stati Uniti avrebbero utilizzato questo indebolimento nel senso della difesa dei loro sordidi interessi nazionali. E’ a questa logica che obbedisce il rafforzamento senza precedenti della cooperazione strategica e militare tra la Francia e la Russia. La messa in atto di contatti regolari tra i loro ministri della difesa e i loro Capi di Stato maggiore, così come lo svolgimento di grosse manovre navali, sono l’espressione diretta di questa nuova politica imperialista. Ma più direttamente ancora: “La Francia ha fatto sapere la settimana scorsa, attraverso la voce del suo ministro degli Esteri, Barnier, che non avrebbe mandato soldati in Iraq, ‘né ora, né mai’” (Inserto internet di Le Monde datato 20/05/04). Finora i dirigenti francesi si erano mantenuti su tutt’altra posizione. Finora avevano affermato che per prospettare una partecipazione militare della Francia in Iraq, non poteva esserci altra strada che un ritorno dell’ONU alla testa delle operazioni. Questa soluzione è d’ora in avanti esclusa. L’imperialismo francese ha anche appena rifiutato l’invito di Colin Powell, capo della diplomazia americana, a inviare dei soldati in Iraq con l’incarico limitato di proteggere il personale dell’ONU. Quale che sia l’ampiezza dei massacri e delle torture inflitte alla popolazione irakena, le potenze rivali degli Stati Uniti non possono che gioire segretamente dell’indebolimento della leadership americana in Iraq. E, peggio ancora, esse spingeranno gli USA, a dispetto di ogni preoccupazione per la vita umana, in un logoramento sempre più profondo nel caos irakeno.
In Iraq, un caos e una barbarie senza limiti
E’ un fatto evidente, ormai visibile dovunque, che l’Iraq è un paese in pieno caos. La guerra è ormai permanente e copre tutto il paese. L’esercito americano e i suoi alleati della coalizione affondano sempre più nel pantano, manifestando una crescente perdita di controllo della situazione. Dalla caduta del regime di Saddam Hussein, del 9 aprile 2003, gli Stati Uniti precipitano sempre più, giorno dopo giorno, in una violenza che ormai riescono a controllare sempre di meno. Attentati, cattura di ostaggi e combattimenti di strada si moltiplicano. La rivolta sciita condotta dal leader Moqtadta Al Sadr continua ad estendersi malgrado gli appelli alla calma lanciati dall’ayatollah Al Sistani. L’attentato commesso il 17 maggio, che ha ucciso il presidente del governo provvisorio iracheno, è un nuovo importante rovescio per l’imperialismo americano. Esso esprime il rifiuto da parte delle diverse frazioni etniche irachene di recepire l’indirizzo politico americano, consistente nel mettere in piedi di un governo democratico iracheno agli ordini di Washington. In poco più di un anno di guerra, l’imperialismo americano si ritrova davanti un fronte del rifiuto, ieri ancora impensabile, composto dalle diverse frazioni etniche e religiose: Kurdi, Sciiti, Sunniti. Tutti oggi si oppongono alla presenza americana sul suolo iracheno. Per gli Stati Uniti non c’è più via d’uscita. G. W. Bush non può tuttavia che riaffermare che il trasferimento della sovranità sarà malgrado tutto assicurata il 30 giugno. Un presidente americano provvisorio, un primo ministro e altri ministri dovrebbero essere designati prossimamente, secondo l’amministrazione americana. L’inquietudine di fronte all’evoluzione della situazione in Iraq si manifesta attraverso la richiesta di dare più spazio agli Iracheni, in materia di sicurezza e di installazioni militari, da parte dei principali alleati di Washington. Silvio Berlusconi, recentemente in visita negli Stati Uniti, ha anche fatto sapere che aveva come progetto: “il trasferimento completo di sovranità ad un governo provvisorio iracheno per il 30 giugno, nel quadro di una nuova risoluzione del consiglio di sicurezza dell’ONU”. Tutti questi tentativi di nominare un governo provvisorio in Iraq, mentre il paese resta militarmente occupato dagli americani, sono votati al fallimento. Questo governo non potrà avere alcuna legittimità agli occhi dell’insieme degli Iracheni, indipendentemente dalla loro etnia o religione. Questo governo apparirebbe necessariamente come una creazione americana e sarebbe senza dubbio combattuto in quanto tale. L’indebolimento accelerato della leadership americana si manifesta ugualmente attraverso un processo di sgretolamento della coalizione. Dopo la ritirata iniziata dalle truppe spagnole, paesi come l’Honduras, la Tailandia e, in Europa, la Polonia, la Danimarca e l’Olanda hanno espresso la loro crescente inquietudine e il loro eventuale progetto di ritirata pura e semplice della loro partecipazione alle forze della coalizione. J. P. Balkemende, capo di stato dei Paesi Bassi, l’11 maggio scorso, in seguito alla morte del primo soldato olandese in Iraq, ha dichiarato: “che la presenza futura e la legittimità dei 1300 soldati sul posto dipenderanno dal ruolo futuro delle Nazioni Unite in Iraq”. La situazione di caos è tale in questo paese che la borghesia americana, poco importa che si tratti di repubblicani o di democratici, è oggi nell’incapacità di tracciare una reale prospettiva per la politica americana sul terreno. In effetti, tanto la ritirata pura e semplice delle truppe, quanto il loro mantenimento sul posto, o anche un loro rafforzamento, non offre alcuna prospettiva di stabilizzazione della situazione.
La decomposizione della società capitalista, che si esprime con violenza in Medio Oriente, non può che accelerarsi nel periodo prossimo, con scontri militari e attentati suicidi sempre più irrazionali. C’è da temere in particolare, dopo l’eventuale nomina di fine giugno di un governo provvisorio filo americano in Iraq, una forte crescita della violenza che non risparmierà più nessun settore della popolazione irachena. Questo mondo capitalista in fallimento, che sprofonda così irrimediabilmente, mette in pericolo di morte non soltanto la popolazione irachena o del Medio Oriente, ma ben presto quella dell’intera umanità.
Tim (20 maggio)
Ma questi tempi migliori non sono mai venuti, anzi negli ultimi anni i sacrifici chiesti a tutti i lavoratori non hanno fatto che appesantire la situazione di chi già partiva da condizioni peggiori e quindi a questi lavoratori non è restato che la via della lotta per cercare di migliorare la propria situazione.
A pochi mesi dalla lotta degli autoferrotranviari, questo nuovo focolaio di lotta va a confermare una tendenza alla ripresa della lotta di classe che comincia a preoccupare la borghesia. Non c’è solo la volontà di difendere le proprie condizioni di vita a preoccupare (visto che il disastro dell’economia capitalista impone di chiedere nuovi sacrifici e non certo di annullare quelli vecchi), ma il fatto che in questo caso erano le nuove regole che il sindacato aveva fatto accettare ai lavoratori che mostravano tutte le loro pesanti conseguenze, ed il fatto che sono ancora una volta i lavoratori giovani ad essere protagonisti della lotta. Quei giovani su cui più aveva pesato il ricatto della disoccupazione e la campagna propagandistica secondo cui non bisogna più sognare il posto fisso, ma essere disponibili a cambiare lavoro spesso. Certo, non sarebbe male, se esistessero veramente diverse e nuove opportunità di lavoro, visto che il lavoro alienato in fabbrica è una schiavitù, per cui se almeno si potesse ogni tanto cambiare aria ogni lavoratore ne sarebbe contento. Ma la realtà è che se hai un posto te lo devi tenere ben stretto, il che però non vuol dire che ti devi tenere per forza ogni cosa.
Per evitare che si potesse ripetere la situazione degli autoferrotranvieri, e cioè che i lavoratori partissero in lotta da soli, senza rispetto di regole e compatibilità, i sindacati questa volta si sono mossi subito, imponendo la loro direzione alla lotta, in maniera da condurla in vicoli ciechi e poterla chiudere senza troppe difficoltà. La tattica è stata la solita: divisione tra sindacati “duri” e quelli “morbidi”, radicalizzazione formale della lotta per dare l’impressione di una forza apparente e facilitando in questa maniera l’isolamento degli operai di Melfi. Così le RSU di fabbrica hanno preso l’iniziativa della lotta, in modo da poter sostenere che la lotta era in mano alla base, mentre CISL e UIL si sono dissociate e la CGIL ha “criticato” le iniziative prese. E per far vedere che le RSU erano decise ad andare fino in fondo sono stati organizzati i picchetti “duri” (blocco merci in entrata e uscita e ingresso impedito ai crumiri).
Questa apparente radicalità è servita in realtà ad isolare i lavoratori, tenendoli impegnati a presidiare la fabbrica invece che spingerli ad andare a cercare gli altri lavoratori per allargare la lotta. E onde evitare che questa esigenza dell’allargamento fosse portata avanti direttamente dai lavoratori i sindacati nazionali hanno proclamato un giorno di sciopero nazionale di tutto il settore FIAT in “solidarietà” con gli operai di Melfi. Uno sciopero simbolico che non solo non cambiava niente nei rapporti di forza con il padronato, ma che in realtà non ha niente a che vedere con la vera solidarietà di classe: questa infatti non sta nel semplice e isolato sciopero di “appoggio” ad un settore in lotta, ma nell’entrata in lotta di altri settori di lavoratori sulla base della coscienza che la lotta è una sola e che solo lottando uniti si può stabilire un rapporto di forza più favorevole.
Ingabbiati in questa maniera i lavoratori, i sindacati hanno potuto mettere in piedi la solita finzione della trattativa con la controparte, arrivando ad un accordo che raccoglie ben poco di quello che gli operai chiedevano: se il turno notturno di due settimane consecutive è stato abolito, sul piano del recupero salariale i 105 euro ottenuti (e comunque raggiungibili solo nel 2006) sono ben lontani dall’equiparazione ai salari degli altri operai FIAT (ed anche pieno questo salario ormai riesce sempre meno a soddisfare anche i bisogni più elementari dei lavoratori, come ormai sono costretti a riconoscere anche i giornali borghesi). Che i risultati raggiunti fossero ben miseri era abbastanza chiaro a molti lavoratori, ma la stanchezza di una lotta di più settimane, con i presidi davanti alla fabbrica, gli scontri con la “democratica” polizia dello Stato italiano e, soprattutto l’isolamento in cui erano rimasti gli operai di Melfi ha avuto facilmente la meglio sul malcontento restante.
Ma se questa volontà di lotta è stata bruciata in questa maniera, c’è un risultato più importante che i lavoratori tutti possono ottenere da questo episodio, e sono le lezioni che da esso si possono trarre: innanzitutto che non ci si può basare sui sindacati per portare avanti una lotta; i sindacati sono gli agenti sabotatori delle lotte, sostenuti dallo Stato borghese proprio per fare questo lavoro ed evitare così il più possibile il ricorso alla repressione vera e propria (che in questo caso comunque si è affacciata con le cariche della polizia fuori alla fabbrica). Poco alla volta nella lotta dei lavoratori deve tornare la coscienza di questa vera natura dei sindacati, che già durante gli anni ottanta aveva spinto i lavoratori a cercare di organizzarsi in maniera autonoma (vedi comitati di base della scuola nel 1987). Ed un’altra lezione importante, in questo momento in cui la classe mostra una ripresa della combattività, è che la volontà di lotta non basta, come non basta la decisione e la radicalità formale delle forme di lotta: la vera forza di una lotta sta nella sua conduzione autonoma da parte della classe (evitando così anche i sabotaggi sindacali) e nella ricerca dell’unità con gli altri lavoratori, sulla base dell’unicità della condizioni di sfruttamento e dell’unicità del proprio nemico di classe, al di là del settore e della fabbrica in cui si lavora.
Helios
Che in Iraq ci sia una guerra è evidente a tutti. Ogni giorno arrivano notizie di attentati, di scontri a fuoco, di morti e di feriti. Ma, ci dicono i politici italiani, i nostri soldati sono là per una missione di pace. Una volta si diceva che per fare la guerra, come per fare l’amore, bisogna essere in due. Invece in Iraq c’è questa bizzarra situazione per cui le milizie irachene farebbero la guerra contro chi sta lì solo con intenzioni di pace. E, bizzarria nella bizzarria, i guerrafondai sarebbero solo quelli che abitano laggiù e non anche quelli che ci sono andati di propria iniziativa senza nessun invito (una volta si sarebbe detto invasori). Così questi guerrafondai iracheni sparano addosso ai soldati italiani, che rispondono al fuoco, ma evidentemente sulle loro pallottole c’è scritto pace. Chissà se gli iracheni caduti sotto il fuoco italiano saranno morti contenti sapendo di essere morti per la pace.
Quanta vergognosa ipocrisia! Adesso le cose non si giudicano più per quelle che sono, ma per come le chiamano quelli che le fanno. Tu ammazzi, ma basta che dici che lo hai fatto nell’interesse del morto e diventi anche un eroe!
E questa ipocrisia non è solo del governo e della sua maggioranza che hanno votato la spedizione in Iraq e che, contro ogni evidenza, continuano a dire che i soldati italiani devono rimanere là per continuare questa missione di pace. No, ipocriti sono anche quelli delle cosiddette formazioni di sinistra che hanno votato contro la spedizione ma non certo perché si tratta di una missione di guerra, non certo perché sono contro le “guerre preventive”, le “spedizioni umanitarie” e tutte le spregevoli denominazioni con cui le borghesie del mondo intero stanno chiamando i loro interventi di guerra. No, questi signori si oppongono alle decisioni di Berlusconi solo perché questo è troppo ossequioso nei confronti dei piani di Bush, ed infatti continuano a dire che ci vuole una decisione dell’ONU, che loro diventerebbero favorevoli all’occupazione dell’Iraq se questa fosse fatta in nome dell’ONU. Insomma il problema non è che i soldati italiani stanno facendo una guerra ma che lo fanno appoggiando i piani americani. Come se bastasse ancora una volta cambiare un po’ la facciata (in questo caso la bandiera a stelle e strisce con quella dell’ONU) per far sì che una guerra non sia più una guerra, anche se continuano scontri, morti, uccisioni.
E del resto questa stessa sinistra non si è opposta all’invasione dell’Afghanistan, quando ha ritenuto valida la scusa della lotta al terrorismo per i bombardamenti delle popolazioni afgane, anche se ancora una volta ha criticato l’unilateralità della decisione americana. Ed essa stessa non ha esitato, quando era al governo, a mandare i soldati italiani in Kossovo, dove ancora una volta sono state bombardate e massacrate le popolazioni civili, con la scusa di avere per questo un mandato dell’ONU. Questa sinistra non può denunciare la guerra in Iraq perché essa stessa è favorevole a che l’imperialismo italiano si faccia sentire sullo scacchiere internazionale, quello che la distingue dalla destra sono le alleanze e le bandiere con cui portare avanti questo obiettivo: gli USA per Berlusconi e i suoi alleati, l’ONU o meglio ancora l’Unione Europea per Bertinotti e compagni.
Ed infatti questi signori, che pure si infiltrano nelle manifestazioni “per la pace”, anzi le favoriscono, visto che il pacifismo dei benpensanti non è altro che un modo per disarmare la classe operaia, si guardano bene dal denunciare puramente e semplicemente la spedizione italiana come una spedizione di guerra; la loro critica è che, con tutte le buone intenzioni, i soldati italiani non dovrebbero stare là perché “gli altri”, si comportano male, per cui si rischia di essere complici involontari degli assassini. Insomma anche loro contribuiscono alla mistificazione degli italiani “brava gente”, che possono solo fare missioni di pace, mentre sono gli altri a fare le guerre e le torture. Peccato che anche i soldati italiani furono beccati, in Somalia, dove ci fu un altro intervento “umanitario”, a torturare i prigionieri somali, esattamente come hanno fatto i soldati americani in questi mesi in Iraq.
Non saranno certo questi a dire che i soldati italiani stanno in Iraq (come in Afghanistan, in Kossovo, ecc.) per difendere gli interessi dell’imperialismo italiano, per impedire che questo sia tenuto fuori dalla divisione del mondo in sfere di influenza, base strategica per una eventuale guerra generalizzata e per la difesa degli interessi economici immediati. Se l’Italia in tutte queste spedizioni mantiene un basso profilo, è perché questo si addice di più a un imperialismo di basso livello, come quello italiano: per fare un esempio, se gli USA possono, sulla base della loro schiacciante supremazia militare ed economica, sostenere che tocca loro la missione storica di mantenere l’ordine nel mondo (1), un paese come l’Italia non può giustificare il suo intenso impegno militare che presentandolo sotto le bandiere della “pace”, dell’intervento “umanitario”, e così via.
In questa mistificazione il ruolo della sinistra è fondamentale: sono proprio questi partiti che hanno maggiori possibilità di far credere ai proletari che le ragioni dell’interventismo italiano sono tutte benevoli. Essa è quindi complice piena delle malefatte dell’imperialismo italiano nel mondo.
Tutti i paesi e tutte le forze capitaliste portano avanti gli interessi imperialisti del capitale nazionale, quello che cambia è la strategia del momento, è la maniera in cui pensano sia meglio difendere i loro interessi, cosa che spiega non solo la posizione della sinistra in Italia, ma anche quello della destra al governo in Francia, o la stessa sinistra in Germania, che si sono opposti all’intervento americano in Iraq solo perché vedevano giustamente in questo l’affermazione della supremazia americana, mentre in un intervento sotto l’egida dell’ONU potevano sperare di ricavarci qualcosa anche loro.
Helios
1. Anche se quello della “pax americana”, cioè di un ordine che significhi controllo incontrastato degli USA su ogni zona del mondo, resta ormai un sogno impossibile ed ogni intervento americano sia ormai destinato a contribuire ad aumentare il caos e il disordine, come è avvenuto in questi mesi in Iraq.
Il 28 dicembre 2003, all’età di 90 anni, è morto il compagno Robert. Per più di 28 anni Robert, da vero compagno di strada, ha seguito da vicino la nostra organizzazione. Ha partecipato come osservatore, fin dalla costituzione della CCI, a parecchie sue conferenze e congressi ed in modo regolare alle nostre attività pubbliche in Belgio. Malgrado certe posizioni divergenti, si è tuttavia sempre riconosciuto nell’orientamento generale della nostra organizzazione dandole tutto il sostegno possibile. Oggi vogliamo rendere omaggio non solo a Robert come compagno - per avere conservato la sua fedeltà, la sua devozione e la sua passione alla causa rivoluzionaria anche nei momenti peggiori della storia del proletariato - ma anche a tutta una generazione di militanti della classe operaia che sparisce con lui in Belgio. In effetti, Robert è stato l’ultimo comunista rivoluzionario superstite in Belgio appartenente a quella generazione di militanti che ha tenuto alta la bandiera dell’internazionalismo proletario dopo la sconfitta della classe operaia. Apparteneva ad una piccola minoranza di militanti comunisti che è sopravvissuta e ha resistito al periodo turbolento e cupo della terribile controrivoluzione che si abbatté sulla classe operaia tra gli anni ‘30 e gli anni ‘60.
Fu nei quartieri popolari di Bruxelles che Robert, nella sua gioventù, scoprì tutte le contraddizioni della società capitalista confrontandosi con la dura realtà della lotta di classe. Bruxelles, centro politico del Belgio, concentrava anche le espressioni ed i dibattiti più cruciali di quell’epoca che nutrirono la formazione rivoluzionaria di Robert: discussioni per sapere se occorreva un nuovo partito comunista o fare un lavoro di frazione, per analizzare il significato della guerra in Spagna, riflettere sulla validità della fondazione della 4a Internazionale trotskista, comprendere la natura di classe dell’URSS, l’ascesa del fascismo e difendere l’internazionalismo di fronte all’imminenza della guerra generalizzata, ecc. Tutti questi dibattiti, che si sviluppavano nel campo politicizzato dell’epoca, erano animati dai gruppi ‘trotskysti’ dell’Opposizione Internazionale di Sinistra (PSR, Contre le Courant, ecc.) e della Sinistra Comunista Internazionale (italiana con la rivista Bilan e belga con la rivista Communisme). Robert decise di raggiungere, come militante, le file dell’opposizione trotskysta di Vereecken e Renery (Contre le Courant) che si opponeva alla fondazione della 4a Internazionale, ritenendola prematura, ritenendo che “Trotsky ha contribuito allo scoraggiamento ed alla dispersione delle rare forze rivoluzionarie”. Questo gruppo denuncerà il tradimento socialpatriota dei trotskysti ufficiali durante la Seconda Guerra mondiale e praticherà una politica di disfattismo rivoluzionario al riguardo di tutti gli imperialismi senza distinzione nessuna.
Allo scoppio della guerra il 1° settembre 1939 e di fronte alla repressione ed agli arresti, un certo numero di militanti scelse l’esodo per continuare il lavoro politico. Così Robert fuggì prima a Parigi e poi a Marsiglia, città di asilo provvisorio per molti rivoluzionari. Ma, nei momenti più critici, numerosi erano quelli che persero la convinzione. Robert, invece, conservò tutta la fiducia rivoluzionaria nella classe operaia ed una posizione internazionalista a riguardo dei campi belligeranti.
Mediante le sue relazioni politiche con l’ambiente degli internazionalisti, Robert entrò in contatto con il circolo animato dal nostro vecchio compagno Marc. Quest’ultimo, a partire dall’estate 1940, era particolarmente attivo per rianimare l’attività politica delle Frazioni della Sinistra Comunista Internazionale entrate in letargo alla vigilia della dichiarazione di guerra. Fin dal 1941, le discussioni ed i contatti si svilupparono di nuovo. Nel maggio 1942 si costituì il Nucleo francese della Sinistra Comunista Internazionale con la partecipazione di parecchi nuovi elementi, tra cui Robert. Fu attraverso quest’ultimo che fu realizzato un lavoro comune con gli RKD (ex trotskysti austriaci) ed i CR (Comunisti Rivoluzionari). Infatti, gli RKD, per i loro contatti col gruppo di Vereecken, incontrarono Robert. Questi suscitò l’interesse degli RKD con le posizioni politiche sviluppate dal Nucleo francese della Sinistra Comunista. La caratterizzazione dell’URSS come un’espressione della tendenza universale al capitalismo di Stato, l’internazionalismo proletario rispetto alla guerra, la critica della 4a Internazionale trotskysta, ecc., ed altrettanti punti comuni che andarono a forgiare i legami politici. Un’azione ed una propaganda diretta contro la guerra imperialista indirizzata agli operai ed ai soldati di tutte le nazionalità, ivi compresi i proletari tedeschi in uniforme, saranno condotte in comune.
Il Nucleo francese in cui Robert militò si trasformò, nel dicembre 1944, in gruppo politico e chiese di aderire all’Ufficio Internazionale delle Frazioni in quanto Frazione francese della Sinistra Comunista Internazionale. Tuttavia, la Conferenza di maggio 1945 della Frazione, in seguito all’annuncio della ricostituzione del Partito Comunista Internazionale in Italia ed alla voce della riapparizione politica di Bordiga, decise di sciogliere la Frazione italiana e invitò i suoi membri ad aderire individualmente a questo nuovo partito. Il nostro compagno Marc si oppose fermamente a questo ritorno irresponsabile senza discussione preliminare, né bilancio politico, così come all’integrazione in un partito di cui la Frazione non conosceva neanche le posizioni politiche! Per la stessa occasione, il nucleo francese della Sinistra Comunista Internazionale si vide rifiutare la sua adesione e fu così costretto a cambiare il suo nome per diventare la GCF (Sinistra comunista di Francia). Invece, la Frazione belga, ricostituita dopo la guerra intorno a Vercesi, si congiungerà al PCInt di Damen, Maffi e Bordiga.
Dopo la guerra, Robert tornò in Belgio e non volle restare solo. Decise di raggiungere la Frazione belga senza abbandonare per ciò tutte le sue convinzioni acquisite nel periodo precedente al Nucleo francese della Sinistra Comunista Internazionale. Mantenne il contatto con la Sinistra Comunista di Francia ed in particolare con Marc. Del resto il gruppo in Belgio restava fedele all’essenza delle posizioni di Bilan dell’anteguerra e si ritrovava di fatto in divergenza con il PCInt. La Frazione belga resterà, proprio come aveva fatto prima della guerra, molto più aperta alle discussioni internazionali. Alla fine del 1945, inizio 1946, con un certo imbarazzo, la Frazione belga chiederà delle spiegazioni supplementari al PCInt sui motivi della non adesione della Sinistra Comunista francese. Evidentemente Robert sostenne con molta forza tale richiesta. Così, essa propose un giornale teorico in collaborazione con i trotskysti belgi intorno a Vereecken prima che questo gruppo finisse per perdersi integrandosi definitivamente nella 4a Internazionale. Questa proposta sarà rifiutata dal PCInt. Allo stesso modo, nel maggio del 1947, parteciperà alla conferenza internazionale di contatti convocata dal Communistenbond Spartaco dei Paesi Bassi, che raggruppava, per il Belgio, gruppi imparentati allo Spartacusbond, la Frazione belga della GCI, per la Francia, la Sinistra Comunista di Francia, il 'Prolétaire' dei CR, gli RKD, il gruppo ‘Lotta di classe’ (Svizzera) e la Frazione autonoma di Torino del PCI.
Nel 1950-52 il periodo non dava più speranze di ripresa di lotte rivoluzionarie come all’epoca della fine della Prima Guerra mondiale. Numerose organizzazioni rivoluzionarie si disgregarono. Anche la Sinistra Comunista di Francia (Internationalisme) si disperse. Robert manterrà contatti epistolari regolari con Marc che si ritrovava in Venezuela e contribuì a dargli notizie politiche sulla vita dei gruppi del campo rivoluzionario del continente europeo.
Dopo la morte di Vercesi nel 1957, il gruppo in Belgio rifiutò di sottomettersi alle posizioni del PCInt, ma in seguito si disgregò poco a poco. Successivamente, Robert continua a partecipare alle diverse espressioni organizzate che si ricollegavano alle posizioni della Sinistra Comunista, in particolare al circolo di studio e alla sua rivista Le Fil du Temps (Il Filo del Tempo) di Roger Dangeville (scissione del PCInt che aveva fatto parte, per un certo tempo, del circolo di discussione animato da Maximilien Rubel proveniente dalla Sinistra Comunista di Francia). Finalmente, attraverso Marc, si mise in contatto col gruppo Révolution Internationale in Francia fin dal 1968. Malgrado certe divergenze riguardanti il corso storico ed il partito, Robert era cosciente del valore politico delle organizzazioni rivoluzionarie e della necessità di salvaguardarne il patrimonio. E’ per questo che è rimasto saldamente fedele alla CCI. Così, in tutti i periodi difficili, ci ha sempre sostenuto, partecipando anche alla nostra difesa con le sue prese di posizione.
I militanti della CCI che continuano la lotta rivoluzionaria per la quale Robert ha vissuto e combattuto, lo salutano un’ultima volta conservandone vivo il ricordo. CCI
All’inizio di quest’anno il Bureau Internazionale per il Partito Rivoluzionario (BIPR) ha iniziato una serie di riunioni pubbliche a Berlino, iniziativa che salutiamo. La prima riunione, che trattava della lotta di classe, ha avuto luogo a metà febbraio; la seconda, a metà maggio, aveva come tema le cause della guerra imperialista. In questo articolo parleremo della prima delle due riunioni, mentre nel prossimo numero ci sarà un articolo sul dibattito sviluppato nella seconda riunione.
Le introduzioni
Un simpatizzante del BIPR ha introdotto la riunione con una presentazione sui punti programmatici e sulla storia di questa organizzazione spiegando che il BIPR è costituito oggi da Battaglia Comunista (Italia), dalla Communist Workers Organisation (Gran Bretagna), da Internationalist Notes (Canada) e da Bilan et Perspectives (Francia); esso si rifà alla tradizione della Sinistra comunista italiana intorno a Bilan degli anni ‘30, ma ci sono anche dei punti di contatto con il Partito Comunista dei Lavoratori della Germania (KAPD). A partire dall’inizio degli anni ‘50 la Sinistra comunista consisterebbe essenzialmente di tre correnti:
- Battaglia Comunista
- i Bordighisti
- la CCI (e le sue organizzazioni antecedenti).
Il compagno ha poi sintetizzato le posizioni programmatiche del BIPR rispetto all’imperialismo, la questione dei sindacati e la relazione tra il partito rivoluzionario e la classe operaia. Su queste si rimanda alle pubblicazioni del BIPR in merito.
E’ seguita una relazione del compagno del BIPR sul tema della riunione: “Le tensioni imperialiste e gli scioperi dell’inverno scorso nelle aziende di trasporto locale in varie città italiane”.
Qui di seguito ci soffermeremo su alcune questioni emerse nella discussione e riassumeremo le posizioni presenti nella relazione introduttiva del compagno del BIPR, nella misura in cui sarà necessario per la comprensione della discussione.
Formazione dei blocchi e cause della guerra
Come già accennato nel volantino d’invito, il BIPR parte dall’idea di una “ricostituzione dei blocchi imperialisti dopo la caduta dei vecchi blocchi”. Vede l’Europa come un polo opposto agli USA e che tende a costituirsi come blocco imperialista. L’Euro, come valuta, è un progetto che si oppone al dominio dei dollari-USA. Il compagno del BIPR ha inoltre sottolineato che gli USA hanno fatto la guerra in Iraq essenzialmente per la difesa delle risorse e delle vie di trasporto del petrolio, in breve: il motivo sarebbe stato (e sarebbe ancora) la tutela della rendita petrolifera.
Lotta di classe
Nella seconda parte della relazione il compagno del BIPR è partito dall’esempio degli scioperi in Italia per parlare dei sindacati di base e del loro ruolo negli scioperi. Ha sottolineato che i sindacati di base, in linea di principio, non hanno un carattere diverso da quello dei sindacati ufficiali e che la classe operaia non può aspettarsi niente da queste organizzazioni. Ha anche ricordato che negli anni ‘80, quando si formarono i Cobas come comitati di lotta, Battaglia Comunista e CCI hanno difeso insieme questi organismi contro la loro trasformazione in sindacati.
Benché la posizione del BIPR non sia stata sempre così lineare, l’esposizione del compagno di Battaglia Comunista non necessitava alcuna replica. La nostra organizzazione ha invece criticato, nel corso della discussione, l’opinione del BIPR sulla cosiddetta ricomposizione della classe operaia. Il BIPR, come molti autonomi, dà molto peso al fatto che fin dagli anni ‘70 la gran parte dell’industria tradizionale è scomparsa e che i posti di lavoro si sono trasferiti nel settore terziario e nel campo informatico, per spiegare la debole combattività del proletariato. Questo sviluppo avrebbe portato a una composizione diversa della classe operaia e sarebbe, assieme alla caduta del blocco dell’est, la causa dell’attuale debolezza di questa, che si difenderebbe solo con esitazione contro gli attacchi della borghesia.
La CCI ha criticato questa analisi come sociologica e, alla fine, fatalistica. Il processo di produzione capitalistico ha cambiato continuamente la composizione della classe operaia a partire dal suo inizio. La classe operaia non può fare niente contro questi cambiamenti. Ai tempi di Marx il proletariato era composto in gran parte da operai di piccole aziende a conduzione familiare, e non da proletariato industriale, ma il grande rivoluzionario non trasse la conclusione che le condizioni per lo sviluppo della coscienza di classe sarebbero state più difficili. La cosa più importante per la classe operaia è generare un adeguato rapporto di forze nei confronti della borghesia. È proprio questa analisi del rapporto di forze tra la borghesia e il proletariato che il BIPR tralascia, sostenendo addirittura che non è proprio possibile fare. Il BIPR non sa, e non può quindi affermare o smentire, se il proletariato è sconfitto o no e se la borghesia può scatenare una guerra mondiale oppure no. La valutazione del corso storico è invece centrale per i marxisti. Solo a partire dalla definizione di questo quadro si può valutare correttamente lo sviluppo della coscienza di classe. La CCI non nega le difficoltà attuali del proletariato, in particolare per quanto riguarda la combattività e la coscienza di classe. Il corso storico (fin dal 1968) va però ancora essenzialmente verso un aumento di scontri tra le classi, anche se lo sviluppo non è rettilineo ed ha subito, nel 1989, un pesante colpo. Per questo, da allora in poi, dagli anni ‘90 ad oggi, bisogna tenere d’occhio soprattutto la maturazione sotterranea della coscienza, che si esprime in maniera più evidente nella comparsa di gruppi e singoli individui che difendono le posizioni internazionaliste e sono interessate alla sinistra comunista.
Il campo politico proletario
La delegazione della CCI presente alla riunione ha espresso un certo stupore rispetto al fatto che, da una parte, sull’invito alla riunione, si sintetizzavano “Alcuni punti sull’allineamento del BIPR”, che la nostra organizzazione può approvare senza eccezioni, dall’altra parte che il BIPR rifiuta di fare insieme una presa di posizione contro la guerra capitalista e il pacifismo con la giustificazione che le nostre posizioni sarebbero troppo diverse. Pur non negando le divergenze che ci sono tra le nostre organizzazioni, abbiamo però messo l’accento su quello che ci accomuna nella sinistra comunista sulla questione della guerra imperialista. C’è un campo politico proletario che consiste di organizzazioni che difendono già da decenni le posizioni internazionaliste e che si richiamano all’eredità delle frazioni di sinistra del Comintern. Queste organizzazioni non hanno mai sostenuto nessuno dei fronti che si sono combattuti nella guerra imperialista, contrariamente ai socialdemocratici, gli stalinisti e i trotzkisti, ma hanno sempre difeso le posizioni di Lenin e della Luxemburg: “Contro la guerra imperialista! – Contro ogni borghesia nazionale! – Per la rivoluzione mondiale del proletariato” A maggior ragione nella fase attuale, nella quale il capitalismo sprofonda sempre di più in guerre e massacri, sarebbe importante che le organizzazioni rivoluzionarie prendano insieme la parola come l’hanno fatto durante la Prima Guerra Mondiale a Zimmerwald e a Kienthal.
Il compagno di BC ha ribattuto che il BIPR già da tempo considera la CCI come la frazione idealista del campo rivoluzionario. Fin dalle conferenze internazionali di 25 anni fa si sarebbero affermati i contrasti tra la sua organizzazione e la nostra. Il BIPR si è separato dal campo politico proletario perché ritiene le altre organizzazioni incapaci di dare un contributo alla creazione del futuro partito. Certo la CCI si trova ancora dalla parte giusta della barricata, ma con i problemi interni degli ultimi anni avrebbe dimostrato che non può dare un simile contributo, anzi, si troverebbe in un processo di frammentazione. Anche la frazione bordighista dell’ex-campo proletario si troverebbe in un processo simile e oggi sarebbe politicamente morta.
A parte il fatto che non condividiamo questa valutazione, è interessante che il compagno di BC non abbia osato applicare questa analisi “della morte politica” anche alla CCI. Troppo evidente è la presenza politica della nostra organizzazione non solo in Germania ma anche a livello internazionale. D’altra parte non è serio parlare di una frammentazione della CCI. Poco convincenti sono anche gli argomenti del BIPR sul fatto che non esisterebbe più un campo politico proletario, perché le posizioni programmatiche della CCI non sono affatto cambiate dalle conferenze internazionali ad oggi. All’epoca era ancora possibile per BC e la CWO sedersi con noi e altri gruppi ad un medesimo tavolo. La vera ragione del settarismo attuale sembra essere il sentimento di concorrenza del BIPR verso la CCI, di fronte all’emergere di una nuova generazione di elementi che si interessano alle posizioni internazionaliste. La concorrenza è però il modo di lavorare dei commercianti nel mercato capitalista, dove ognuno cerca di portare via i clienti all’altro. Per i rivoluzionari non si tratta di trovare velocemente e facilmente dei nuovi membri, ma di lavorare per lo sviluppo della coscienza sulla base della chiarezza politica nella classe operaia e in particolare verso gli elementi più avanzati per permetterne ed accelerarne il processo di maturazione, perché in caso di adesione ad una delle esistenti organizzazioni rivoluzionari questa avvenga sulla base della massima chiarezza sulle posizioni programmatiche. Noi come CCI non abbiamo nessun interesse che il partito nasca solo dalla nostra organizzazione e che gli altri gruppi scompaiano. Vedremmo questo piuttosto come debolezza perché partiamo dall’idea che la creazione del futuro partito sia il risultato di un processo di raggruppamento nel campo rivoluzionario come è avvenuto per il raggruppamento nelle fasi storiche precedenti, ad esempio tra i bolscevichi di Lenin e l’organizzazione di Trotsky nel 1917 o tra la Lega di Spartaco e i Comunisti Internazionali di Germania tra il 1918/19 (però sempre a condizioni che il futuro partito rivoluzionario sia dagli inizi un partito internazionalista).
Un bilancio positivo
Come si è visto nella discussione sono state difese a volte delle posizioni molto diverse. Ma la discussione si è svolta in un’atmosfera di rispetto reciproco e nello sforzo di un’argomentazione chiara. Ciò va salutato, e ci fa piacere constatare come il comportamento di BC verso la CCI sia in piacevole contrasto con il comportamento ufficialmente settario del BIPR verso altre organizzazioni dell’ambito rivoluzionario.
Questo tipo di dibattito deve continuare, a Berlino, a Milano, a Parigi, a Nuova York o in altre città. L’importante è che si eviti ogni opportunismo in questioni programmatiche o organizzative (lo spirito mercantile) e che le diverse posizioni siano affrontate apertamente e discusse. Prima chiarimento, poi raggruppamento.
T/C,
8/5/04
L’autocelebrazione della borghesia non deve illuderci. Quando i borghesi si intendono tra di loro, è sulle spalle degli operai che lo fanno, altrimenti pensano solo ad azzuffarsi.
Il perseguimento dell’integrazione europea, dettato dall’interesse comune delle potenze europee occidentali a creare una fascia protettiva di stati di relativa stabilità per arginare il caos sociale ed economico generato dall’implosione del blocco dell’Est nel 1989, è lungi dal significare “unità”. Campo di scontro privilegiato delle due guerre mondiali, l’Europa costituisce l’epicentro delle tensioni imperialiste e non c’è mai stata reale possibilità di costituzione di una vera unità che permetterebbe di superare gli interessi contrastanti delle differenti borghesie nazionali. In effetti, “a causa del suo ruolo storico come culla del capitalismo e della sua situazione geografica, (...) l'Europa nel ventesimo secolo è diventata la chiave della lotta imperialista per il dominio mondiale” (3).
L'UE, un’espressione delle tensioni imperialistiche del dopo Seconda Guerra mondiale...
Per un certo periodo, la divisione del mondo in due blocchi imperialisti gli ha conferito una certa stabilità; nel momento in cui la CEE (Comunità Economica Europea) era lo strumento degli Stati Uniti e del blocco occidentale contro il suo rivale russo, l’Europa poteva avere una certa realtà. Infatti, dopo la Seconda Guerra mondiale, la costruzione della comunità europea è stata sostenuta dagli Stati Uniti per formare un bastione contro le velleità di avanzamento dell’URSS in Europa e concepita per rafforzare la coesione del blocco occidentale. Tuttavia, per quanto contenute e disciplinate dalla “leadership” americana di fronte alla necessità di far fronte al nemico comune, importanti divisioni si sono sempre manifestate tra le principali potenze europee.
Quando si è avuto il crollo del muro di Berlino nel 1989, l’implosione del blocco dell’Est ha prodotto di riflesso anche lo sgretolamento del blocco avversario e la riunificazione della Germania che accedeva così ad un rango superiore di potenza imperialista: di qui la decisione di mettere a profitto questa opportunità di fare da capofila di un nuovo blocco imperialista opposto agli Stati Uniti. Le ragioni che costringevano gli Stati d’Europa occidentale a “marciare insieme” si sono volatilizzate ed il fenomeno si è brutalmente aggravato da quindici anni a questa parte. Così, contrariamente a tutta la propaganda sulla inesorabile marcia in avanti verso l’unità di una grande Europa, è piuttosto verso l’aggravarsi delle tensioni al suo interno e delle divergenze di interessi che quest’ultima si dirige.
Questo sconvolgimento storico ha rilanciato la lotta per l’egemonia mondiale ed il rimescolamento delle carte sul continente europeo. La lotta accanita tra tutti questi campioni della pace e della democrazia per la divisione delle spoglie dell’ex-blocco russo ha prodotto, per la prima volta dal 1945, il ritorno della guerra in Europa all’inizio degli anni ‘90 nella ex-Jugoslavia (ed al bombardamento da parte delle forze NATO di una capitale europea, Belgrado, nel 1999), dove Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti, rivali tra loro, si oppongono, per alleati interposti, all’espansione tedesca verso il Mediterraneo, attraverso la Croazia. La guerra in Iraq ha anch’essa ugualmente mostrato l’assenza fondamentale di unità e i profondi dissensi e le rivalità tra le nazioni europee.
... che si aggravano ancora dopo la Guerra fredda
A partire dal 1989 la Germania non ha smesso un solo momento di manifestare con chiarezza le proprie pretese imperialiste nella sua area tradizionale di espansione “Mitteleuropea”, con la scusa della costruzione dell’Europa. Essa spera di utilizzare il suo peso economico senza pari nei principali paesi dell’Est europeo, così come la prossimità istituzionale creata dall’allargamento dell’Europa per sottomettere questi paesi alla sua sfera di influenza. La borghesia tedesca non può tuttavia che scontrarsi da un lato contro il ciascuno per sé di queste differenti nazioni e dell’altro con la determinazione degli Stati Uniti di sviluppare la loro influenza, in particolare attraverso la NATO.
“Cinque dei nuovi membri – l’Estonia, la Lettonia, la Lituania, la Slovacchia e la Slovenia - sono stati accolti in pompa magna, il 29 marzo, a Washington, nei ranghi della NATO, un mese prima della loro integrazione nell’UE. L’Ungheria, la Polonia e la Repubblica Ceca fanno parte dell’alleanza dal 1999. Gli Stati Uniti già fanno propaganda affinché la Bulgaria e la Romania, gli altri due nuovi partner della NATO, siano ammessi, a loro volta, nell’UE”(4).
Gli Stati Uniti contano sui paesi della “nuova Europa” per paralizzare il suo rivale più pericoloso e fanno i calcoli che “più l’UE si estende, meno si rafforza, e che ciò complica la formazione di un contrappeso politico al potere americano” (4), come lo mostrano le lacerazioni che si sono prodotte per approvare la Costituzione dell’UE.
Così, mentre ad Est, a dispetto del ciascuno per sé, la Germania rafforza le potenzialità di accrescere in tempi brevi la sua influenza imperialista, ad occidente essa si scontra con la Francia e la Gran Bretagna che non possono accettare il potenziale sviluppo dell’imperialismo tedesco.
La Gran Bretagna, che aveva rifiutato a suo tempo gli accordi di Maastricht, gioca da allora e più che mai il ruolo di sostegno degli Stati Uniti, utilizzando ogni pretesto per alimentare la discordia tra le potenze europee. Principale sostenitore dell’intervento militare americano in Iraq, essa subisce non solo il discredito dell’insuccesso americano, ma si ritrova sempre più isolata in Europa. L’impatto del pantano iracheno ha mandato in pezzi la coalizione “filo-americana” formata da Londra, Madrid e Varsavia contro le ambizioni franco-tedesche di opposizione agli Stati Uniti. L’adozione di un orientamento filo-europeo del nuovo governo Zapatero che annuncia il suo ritiro dell’Iraq la priva del suo principale alleato in Europa. Questa defezione ha avuto per effetto di gettare la Polonia, scossa e divisa sulla scelta dei suoi orientamenti imperialisti, in una crisi politica che ha portato alle dimissioni del suo primo ministro e all’implosione del partito al potere. A dispetto delle difficoltà che incontra, la Gran Bretagna sarà costretta a continuare il suo lavoro di sabotaggio di ogni alleanza continentale duratura in Europa.
La Francia, che sognava di staccarsi dalla tutela americana dagli anni ‘50, non può lasciare che la Germania edifichi su misura un’Europa sotto la propria influenza, né soprattutto accettare il ruolo subalterno che lo Stato tedesco vuole riservarle nel quadro dell’allargamento europeo. E’ per tale motivo che essa spera di trovare, nel rafforzamento e nell’allargamento dell’UE, i mezzi per garantirsi un controllo “comunitario” capace di imbrigliare le ambizioni della Germania. Ed è ancora per questo che la si vede riattivare i suoi legami “storici” con la Polonia e la Romania e, più recentemente, sviluppare trame con la Russia per opporsi all’intervento americano in Iraq. A tale proposito, bisogna sottolineare che questa ultima è essa stessa fortemente interessata a questa “alleanza” con la Francia, a causa della sua inquietudine a vedersi privata della sua ex-zona di influenza nell’Europa dell’est e a constatare che i limiti dell’UE e della NATO avanzano fino alle sue frontiere. Ciò permette evidentemente di prendere la Germania nella morsa. D’altra parte, all’interno dell’UE, la Francia si mobilita per riprendere influenza sui paesi del Sud Europa, in particolare la Spagna, contro la posizione egemonica della Germania, e se risponde alle sollecitazioni della Gran Bretagna di sviluppare la difesa europea e costruire una portaerei in comune, è per giocarsi così di fronte alla Germania la carta vincente costituita dal potere militare di cui questa ultima è priva.
A che serve in queste condizioni tutta questa campagna sulla mitica “unità europea”? Come propaganda ideologica che possa mantenere le nostre illusioni su un mondo capitalista che suda morte e miseria da tutti i pori.
La tendenza al caos ed il regno del “ciascuno per sé” non sono affatto appannaggio dei soli paesi dell’ex-blocco dell’Est o del “Terzo Mondo”. La scomparsa della divisione del pianeta in due blocchi, dando il segnale dello scatenamento della guerra di tutti contro tutti, pone la stessa Europa al centro degli antagonismi imperialisti e già rende totalmente illusoria ogni idea di un’unità dell’insieme dei capitali nazionali che la compongono. Inoltre, tra la determinazione degli Stati Uniti - con al seguito la Gran Bretagna che difende qui i suoi propri interessi - a mantenere ad ogni costo la loro supremazia sul mondo, e l’ascesa al potere della Germania, che tende a porsi sempre più come il vero rivale degli Stati Uniti, l’Europa non può che diventare lo sbocco ultimo di questo scontro.
Scott
Le Monde del 2 e 3 maggio 2004.
(2) Le Monde del 4 maggio 2004
(3) Vedere Revue Internationale n°112, “L'Europa: alleanza economica e campo di manovra delle rivalità imperialiste”
(4) Le Monde del 29 aprile 2004
Ormai non passa giorno senza che arrivino notizie di nuovi orrori da qualche angolo del mondo. E questo nonostante il fatto che le varie democrazie occidentali nascondano la gran parte delle notizie, di cui arriva a noi una parte considerevole solo per la loro grande quantità e atrocità (vedi quanto siano tagliate e deformate le informazioni sulla recente strage di Beslan in Ossezia o quelle relative alle torture ai danni dei prigionieri di guerra in Iraq).
Ma se la borghesia non può bloccare tutte le informazioni sulle atrocità che si producono nel mondo, per lo meno si riserva la possibilità di manipolare le informazioni relative in modo che esse non costituiscano elemento di riflessione per i proletari, per evitare che questi non arrivino a capire che la loro origine sta nel modo di funzionamento di questo sistema che, basato da sempre sullo sfruttamento, è ormai arrivato in una fase di convulsioni crescenti che non solo non danno uno sbocco alla sua crisi economica, ma si trasformano sempre più in caos e barbarie generalizzati. Al contrario, la borghesia si dà da fare per utilizzare questi stessi orrori contro i proletari, cercando di portarli a proprio tornaconto.
E’ quanto sta succedendo anche in questi giorni in Italia con l’uccisione del giornalista Enzo Baldoni e il rapimento di Simona Pari e Simona Torretta. Questi episodi, che sono il risultato del caos che si è venuto a creare in Iraq con l’intervento armato degli Stati Uniti e dei loro alleati, tra cui l’Italia, forniscono alla borghesia italiana una chance per uscire dall’imbarazzo di un intervento armato che solo il cinismo della borghesia può definire di pacificazione, attraverso il tentativo di giustificare l’intervento stesso con la barbarie di questi atti dei terroristi e, in più, col tentativo di far stringere la popolazione italiana intorno a quello Stato che ha deciso l’intervento e che fa pagare i suoi costi umani ed economici ai proletari stessi.
E’ con questo obiettivo che Berlusconi ha affermato, dopo l’uccisione di Baldoni, che il fatto che i terroristi arrivassero ad uccidere un pacifista, uno che non aveva responsabilità nell’occupazione militare, dimostrava la loro barbarie (e, sottointeso, giustificava l’opera di polizia che gli eserciti di occupazione stanno operando in Iraq). Quanta sporca ipocrisia! Perché, di cosa erano e sono responsabili le migliaia di civili irakeni morti sotto i bombardamenti americani e sotto il fuoco dei vari eserciti di occupazione? Chi li ha uccisi non si è dimostrato barbaro almeno quanto i terroristi che pretende di combattere? (se non anche di più, viste le proporzioni dei morti fatti dagli uni e dagli altri).
Ed è ancora con questo obiettivo che il giorno dopo il rapimento delle due volontarie di Un Ponte Per, lo stesso Berlusconi ha invocato l’unità nazionale contro il terrorismo, appello subito accolto anche da tutta l’opposizione, ivi compreso quel Bertinotti che si diceva contro la guerra senza se e senza ma e che ha affermato che, in questo momento, bisognava prima occuparsi dei rapimenti e poi, caso mai, chiedere il ritiro delle truppe italiane dall’Irak.
Ancora una volta la sinistra mostra quanto sia prezioso per la borghesia il suo ruolo di mistificazione verso i proletari, che essa sia al governo o all’opposizione. L’appello di Berlusconi aveva ben poche possibilità di avere una qualche influenza sulla stragrande maggioranza della popolazione, mentre il fatto che sia l’opposizione che vi aderisce gli conferisce una autorevolezza inattesa. Una autorevolezza che potrebbe indurre qualche proletario a credere che in fondo una qualche giustificazione nell’intervento militare forse c’è o, almeno, che adesso non ci si può più ritirare fino a che l’Iraq non torni di nuovo stabile (come dice esplicitamente Fassino).
E invece non c’è nessuna motivazione nobile o razionale: dietro l’intervento in Iraq, sia quello di USA e Gran Bretagna che hanno portato avanti l’attacco a Saddam, sia quello dei paesi che si sono aggiunti dopo, con la scusa di dover favorire la ricostruzione e la nascita di un governo democratico, come l’Italia, c’è solo lo scopo di difendere gli interessi imperialisti della propria borghesia contro quelli degli altri paesi. Le truppe italiane stanno in Iraq per motivi uguali ed opposti a quelle degli USA: uguali, perché servono a difendere gli interessi imperialisti sul posto, opposti, perché ognuno vuole difendere i suoi di interessi, e necessariamente a scapito di quelli degli altri.
E questi interessi, degli uni come degli altri, sono antagonisti a quelli dei proletari, che dalle avventure guerriere della borghesia possono solo ricevere morte e miseria, sia in Iraq, dove si muore sotto il fuoco degli interventi antiterrorismo e pacificatori, che in Italia o negli altri paesi occupanti, dove i proletari pagano il costo, enorme, di questi interventi (il solo intervento in Iraq costa circa un migliaio di miliardi all’anno).
Helios
Anche il 2004 si sta chiudendo per l’Italia con una calma piatta dal punto di vista dello sviluppo dell’economia. Ciò vuol dire che i capitali investiti a livello globale non hanno reso niente, come i soldi depositati in banca. Mettendo in conto l’aumento dell’inflazione, sia reale che programmata, vuol dire che siamo in recessione. E questo è sufficiente per spingere la borghesia, statale e privata, non tanto a stringere la cinghia come si usa nelle famiglie proletarie ma ad attaccare con sempre più forza i livelli di vita altrui, dei lavoratori, dei pensionati, di chi usufruisce dei servizi collettivi.
Il debito dello Stato continua ad essere superiore al PIL, e questo nonostante tutte le privatizzazioni che ci sono state. Il deficit per quest’anno corre intorno al 3,1% ed è necessario ridurlo per evitare sanzioni dalla Comunità Europea. In una situazione disperata come questa la borghesia ha dimostrato di non sapere che pesci prendere: qualsiasi misura risulta controproducente. In queste condizioni una delle attività di governo più importanti sul piano economico è quello di promettere, cosa che riesce molto bene a Berlusconi. Ha promesso di tagliare le tasse per stimolare le spese dei privati e favorire gli investimenti, ma non può farlo perché aumenterebbe il deficit, a meno che non raccolga i fondi da qualche altra parte. Da dove? Non è molto difficile indovinarlo. Le varie riforme che stanno approvando non hanno solo un aspetto “culturale”, “ideologico”, ma anche un aspetto economico, un risparmio che si ottiene attraverso una riduzione dei posti di lavoro, la riorganizzazione dell’apparato statale, l’aumento dei ritmi di lavoro e delle mansioni (1).
La riforma sul decentramento non fa altro che trasferire competenze dallo Stato alle Regioni e questo, se in teoria dà l’impressione di una duplicazione dei compiti e quindi del personale, in effetti scarica l’autorità centrale da ogni responsabilità e affida il mantenimento del personale alle singole Regioni che, in mancanza di fondi, si vedono costrette a non coprire i vuoti, tagliare i servizi e, dulcis in fundo, aumentare le tasse. Questo decentramento porterà inoltre a dividere i settori lavorativi interessati sulla base della forza economica della regione, e quindi a peggiorare i salari del personale delle regioni del sud.
La riforma delle aliquote contributive (23%, 33%, 39%), che sulla base della pubblicità governativa tutti vogliono ma che penalizza la fascia centrale dei lavoratori, serve soprattutto a far recuperare a settori piccolo borghesi e borghesi dei capitali da utilizzare per gli investimenti e le spese non di prima necessità, ovvero di lusso. In questo modo il governo spera di far riprendere fiato all’asfittica economia nazionale, che resta ultima nelle classifiche europee, senza aggravi di spesa, scaricando il tutto sulle spalle dei lavoratori. E quei settori più deboli del proletariato, giovani, precari, che avranno qualche euro in più dalla riduzione delle tasse, dovranno subito ridarli indietro grazie agli aumenti previsti per luce, acqua, gas, trasporti e canoni vari.
La nuova manovra finanziaria per l’anno 2005 è stimata in 30 miliardi di euro, cifra di non poco conto (Il sole 24 ore, 22/09/04); il governo successivamente ha parlato di 24 miliardi. La campagna pubblicitaria governativa dice che non saranno toccati la sanità, le spese sociali, gli investimenti e ci sarà solo il contenimento delle spese ministeriali. In parole povere, avendo i ministeri meno soldi a disposizione, effettueranno dei tagli che ricadranno sui lavoratori e i settori del proletariato che già adesso incontrano difficoltà a tirare avanti quali disoccupati, pensionati, immigrati. Si avrà un aumento dei carichi di lavoro perché non ci sarà il turn over (i posti persi con i pensionamenti non saranno ricoperti) e meno soldi per i rinnovi contrattuali, tanto che Fini e i leghisti preparano la messinscena per dividere i lavoratori ed evitare di perdere simpatie. In conclusione meno soldi e più sfruttamento.
Il recente accordo tra Alitalia e sindacati ha mostrato l’inizio di una nuova offensiva contro i lavoratori. Partendo dal presupposto che con gli attuali ritmi di lavoro e salari la compagnia aerea è destinata al fallimento, e questo è già successo ad altre compagnie aeree, i lavoratori sono stati costretti ad accettare un grosso aumento percentuale delle ore lavorate, la riduzione di permessi e ferie, il blocco dei salari, e alcune migliaia di licenziamenti. Questa incredibile mole di sacrifici richiesti ai lavoratori non garantisce comunque niente, perché la rinnovata, eventuale, competitività dell’Alitalia spingerà le altre compagnie a fare altrettanto, con il risultato che ci si ritroverà punto e da capo. Con il ricatto del fallimento della compagnia, i sindacati sono riusciti a fare accettare ai lavoratori dell’Alitalia un vero e proprio salasso, dimostrando così qual è il loro reale ruolo: quello di difensori del capitale nazionale e di sabotatori delle lotte proletarie.
La crisi economica del capitalismo è una spirale senza fine che non risparmia nessun paese del mondo, nessun settore lavorativo e nessun aspetto della vita dei proletari. Perciò tutta la “ragionevolezza” cui ci invitano i sindacati, in attesa di tempi migliori, non è niente altro che un mezzo per scoraggiare i lavoratori a lottare, per fargli accettare i sacrifici oggi, per sconfiggerli definitivamente domani.
L’unico modo per uscire da questo ciclo di sconfitte è prendere coscienza che la crisi è globale e del capitalismo come sistema, quindi è necessario prendere in mano la propria lotta senza affidarla a sindacati o altri e unirsi agli altri settori dei lavoratori. Solo questo può fare paura alla borghesia e ai suoi governi e dare uno stop al peggioramento delle condizioni di vita.
Oblomov
1. I “risparmi” ottenuti con questi tagli e aumenti dei ritmi appaiono di tanto in tanto tra le notizie soprattutto ad uso e consumo dei sindacati che hanno firmato i vari contratti con la nota che i risparmi ottenuti sarebbero stati ripartiti tra coloro che hanno subito sacrifici. Aspetta e spera verrebbe da dire.
La morte di 340 persone nella città di Beslan, nell’Ossezia del nord, la metà delle quali bambini, non può non provocare indignazione, orrore e ripulsione. Come gli attentati terroristici dell’11 settembre 2001 negli Stati Uniti, questo è un crimine di guerra le cui vittime sono, come sempre, i membri più indifesi della società civile. A Beslam gli ostaggi sono stati sottomessi all’intimidazione, la fame, la sete, a delle esecuzioni sommarie e molti di quelli sopravvissuti alla prima esplosione nella scuola dove erano rinchiusi, sono stati uccisi alle spalle quando hanno cercato di fuggire. Nei giorni successivi al massacro, tutti i dirigenti dl mondo si sono affrettati ad esprimere “la loro solidarietà con il popolo russo” e con il loro “forte presidente”, M. Putin. Alla Convention repubblicana di New York, Bush non ha esitato ad includere la guerra che conduce lo Stato russo contro il separatismo ceceno nella “guerra contro il terrorismo” portata avanti dagli Stati Uniti. A Mosca, migliaia di persone hanno partecipato ad una manifestazione ufficiale contro il terrorismo dietro le bandiere che dicevano “Putin, siamo con te”.
Ma la solidarietà con le vittime di Beslan è una cosa. Il sostegno allo Stato russo ne è un’altra. Lo Stato russo è altrettanto responsabile di questo massacro che i terroristi che hanno assalito la scuola.
Innanzitutto perché una gran parte dei morti e dei feriti sono stati causati dalle truppe russe che circondavano la scuola e che hanno usato armi automatiche, lanciafiamme e granate in maniera totalmente caotica. Questi metodi brutali non possono non farci ricordare il modo in cui si è concluso l’assedio al teatro di Mosca nell’ottobre 2002; eppure Putin ha rifiutato la benché minima messa in questione dell’operato dell’esercito in questo affare. Ma più importante ancora è il fatto che, come la “guerra” americana “contro il terrorismo” ha fatto dell’Afghanistan e dell’Iraq un terreno di risonanza ideale per le gang terroriste regionali ed internazionali, così il terrorismo ceceno è un prodotto della guerra devastatrice condotta dall’imperialismo russo nel Caucaso.
Il terrore dello Stato russo in Cecenia
Confrontata alla richiesta di indipendenza della Cecenia dopo il collasso dell’URSS, la Russia reagì con una sanguinosa guerra in cui morirono almeno 100.000 persone. Nel 1999, dopo una pausa del conflitto, Putin rilanciò l’offensiva ad un livello ancora più barbaro, radendo praticamente al suolo la capitale cecena, Grozny. Il pretesto per questa rinnovata offensiva fu la serie di attentati a Mosca e Volgodonsk, in cui furono uccise 300 persone. Sebbene furono accusati i terroristi ceceni, vi sono solide basi per pensare che invece gli attentati furono opera del servizio segreto russo. Da allora in poi la Russia ha mantenuto una totale intransigenza di fronte alle rivendicazioni di indipendenza della Cecenia. In effetti la perdita della Cecenia costituirebbe un colpo enorme per gli interessi imperialisti della Russia. Innanzitutto per la posizione strategica della Cecenia rispetto ai campi petroliferi ed agli oleodotti del Caucaso; ma, ancora più importante, perchè la secessione della Cecenia dalla Federazione Russa alimenterebbe il rischio di esplosione di tutta la Federazione con la conseguente impossibilità per la Russia di mantenere la sua pretesa di giocare un ruolo sull’arena mondiale.
Non c’è stato nessun limite ai crimini commessi dall’esercito russo nel Caucaso, come è stato abbondantemente documentato da un certo numero di organizzazioni di “difesa dei diritti umani”. Human Rights Watch, per esempio, parla dell’incapacità di Putin “a mettere in piedi dei processi attendibili per i crimini commessi dai soldati e dalle forze di polizia russe...sparizioni di persone, esecuzioni sommarie e torture hanno enormemente minato la fiducia verso le istituzioni dello Stato russo nella popolazione cecena ordinaria” (citato in The Guardian, settembre 2004)
“L’Occidente democratico” sostiene i crimini di guerra dello Stato russo
Questi crimini sono identici a quelli commessi dai tiranni “ufficiali”, come Saddam Hussein o Milosevic. E durante questi anni di orrori nel Caucaso i capi delle “democrazie occidentali”, i sostenitori degli interventi “umanitari” in Kosovo o in Irak, hanno sostenuto Putin fino in fondo. Blair lo ha anche invitato a prendere il thè con la regina, e Berlusconi nella sua villa in Sardegna. Dietro la loro retorica moralista, i Blair, Berlusconi, Bush e compagni sono interessati solo alle necessità imperialiste dei loro paesi. Oggi queste necessità richiedono che venga preservata l’unità nazionale della Russia - sebbene questa sia un rivale in molte situazioni, come si è visto con la sua opposizione alla guerra in Irak, - e che essa non sprofondi nel caos. La Russia è un enorme arsenale di armi nucleari e uno dei principali produttori di energia a livello mondiale. Le conseguenze di un’eventuale esplosione della Federazione russa, tipo quella che mandò in pezzi l’Unione Sovietica, sono troppo pericolose per le borghesie occidentali. Questo non significa che domani (o in qualche caso già oggi) le grandi potenze non cercheranno di trarre vantaggio dalle difficoltà interne della Russia per fare avanzare i loro interessi nella regione. Ma per ora ognuno di loro, inclusi i principali rivali degli Stati Uniti, Francia e Germania, affrontano la questione Russia con estrema cautela. Il presidente Chirac in Francia e il cancelliere Schröder in Germania hanno recentemente fatto visita a Putin riaffermando, alla vigilia della presa swgli ostaggi, il loro totale sostegno alla sua politica in Cecenia ed hanno dato il loro avallo all’elezione farsa del nuovo presidente filorusso della Cecenia, Alu Alkharov, che è succeduto al suo predecessore Kadryov, morto ammazzato.
Alla Russia ed agli Stati Uniti conviene proclamare che entrambe stanno combattendo una “guerra al terrorismo”. Chiudendo gli occhi sulla barbara occupazione militare della Cecenia e sul sostegno della Russia ai piccoli capi di guerra locali nel Caucaso, Woshington riceve in cambio una certa accondiscendenza tacita della Russia rispetto alla sua politica nel Medio oriente, in Irak e altrove.
Contro il terrorismo e il nazionalismo, la rivoluzione proletaria mondiale
Nella misura in cui è la barbarie dello Stato russo in Cecenia che ha generato la barbarie delle bande terroriste, alcuni critici degli eccessi dello Stato russo ci chiedono di “comprendere” le azioni dei terroristi, così come ci chiedono di “comprendere” le azioni suicide organizzate da Hamas e dai gruppi similari in Palestina, o anche di “comprendere” gli attacchi di Al Qaida l’11 settembre. In effetti noi “comprendiamo” che quelli le cui famiglie sono state massacrate e violentate dalle truppe russe, o bombardate dagli aerei e i tanks israeliani o americani, sono spinti ad atti violenti di disperazione, di rivincita e di suicidio. Ma possiamo altrettanto “comprendere” che delle reclute russe terrificate siano spinte a degli atti di una tale brutalità folle contro la popolazione civile in Cecenia. Questa “comprensione” non ci porta né a sostenere l’esercito russo, né a sostenere i nazionalismi ed i loro capi fondamentalisti alla ricerca i potere che sfruttano la disperazione dei poveri e degli oppressi e li spingono a fare atti terroristici contro i poveri e gli oppressi delle altre nazioni. Di fronte alla scelta tra il terrore dello Stato russo ed il terrorismo ceceno, tra l’esercito d’ occupazione israeliano e l’Hamas, tra gli Stati Uniti e Al Qaida, noi diciamo: è una falsa scelta! Noi non ci stiamo a sostenere una frazione del capitalismo contro un altro, a ricercare il “male minore” in nessuna delle guerre imperialiste che scuotono il pianeta oggi.
Noi comprendiamo le radici dell’odio nazionale e razziale, ed è per questo che ci opponiamo a tutte le sue espressioni. Il nazionalismo fanatico di quelli che hanno preso gli ostaggi a Beslan li ha portati a considerare le loro vittime meno che umani: e ora, un potente sentimento di rivincita contro i loro atti inumano serpeggia non solo in Ossezia ma in tutta la Russia. Lo Stato Russo utilizzerà questo sentimento per giustificare nuovi atti di aggressione in Cecenia e altrove: i suoi capi militari hanno già minacciato di fare degli “attacchi preventivi” dappertutto nel mondo. Questo eterminerà nuove rappresaglie terroriste e la spirale infernale di morte continuerà, come in Israele, in Celestina e in Irak.
Contro qualsiasi divisione nazionale e religiosa, noi difendiamo la solidarietà degli sfruttati senza considerazioni di razza, di nazionalità o di religione. Contro tutti gli appelli alla solidarietà con il “nostro” Stato o i “nostri” rappresentanti nazionali, noi difendiamo la solidarietà di classe del proletariato in tutti i paesi.
Questa solidarietà, questa unità di tutti gli sfruttati non può forgiarsi che nella lotta contro lo sfruttamento. Essa non ha niente a che vedere con gli appelli alla carità, con l’illusione che la solidarietà si riduce all’invio di denaro o di coperte alle vittime della guerra e del terrore. Le guerre ed i massacri che si estendono su tutto il pianeta sono il prodotto della società capitalista decadente nella sua fase terminale: non ci si può opporre e combatterla che con la lotta comune per una nuova società dove la solidarietà umana sarà la sola legge. Una delle madri disperate di Beslan diceva che l’inumanità dell’assedio le aveva fatto pensare che era “l’inizio della fine del mondo”. La scomparsa di ogni decenza umana, dei legami sociali più elementari che evidenzia il massacro di bambini, ci mostra veramente che il mondo capitalista arriva alla sua fine, in un modo o nell’altro. Uno di questi modi è la via capitalista che porta allo sterminio dell’umanità; l’altro, è la via proletaria che porta al rovesciamento rivoluzionario del capitalismo ed alla costruzione di una società comunista senza clasi né sfruttamento, senza Stati, senza frontiere e senza guerre.
CCI, 10 settembre 2004
A metà
luglio la Daimler ha posto un ultimatum ai suoi dipendenti di
Sindelfingen-Stoccarda (Bade-Würtemberg): o accettano di
sacrificare alcune "agevolazioni" (1) permettendo così
una riduzioni dei costi di produzione, o la produzione della nuova
Mercedes classe-C sarà trasferita a Brema ed a East London
(in Sud Africa).
In risposta,
il 15 luglio, il sindacato dei metallurgici IG Metall ha chiamato
i lavoratori della Daimler a scioperi e manifestazioni di
protesta. Il sindacato ha giustificato il suo "atteggiamento
combattivo" con il fatto che lo scorso anno l'azienda ha
fatturato 5,7 miliardi di euro di utili.
Sessantamila operai della Daimler, principalmente le squadre della mattina, si sono messe in sciopero e hanno manifestato in tutta la Germania (2) ricevendo il sostegno delle popolazioni locali. La partecipazione degli operai a Brema, dove ci si aspettava la soppressione di 6.000 posti di lavoro a Stoccarda, è stata altrettanto meno numerosa e combattiva. Questa giornata d'azione ha mostrato una collera considerevole, ma anche dei reali sentimenti di solidarietà tra i ranghi operai. Nelle manifestazioni gli operai hanno spesso denunciato lo sviluppo di un ricatto dello stesso tipo in altre imprese ed i tentativi di imporre più ore lavorative senza compenso salariale. Per loro, la posta in gioco era rompere la logica padronale illustrata dall'accordo concluso alla Siemens, nelle fabbriche di Bocholt e Kamp-Lindfort, che implica un ritorno alle 40 ore "in cambio" del non trasferimento della produzione in Ungheria.
Durante questa giornata d'azione, il governo ed i politici hanno cominciato a fare pressione sulla Daimler affinché la direzione arrivasse velocemente ad un accordo con un gesto di buona volontà consistente nell'accettare il 10% di diminuzione degli stipendi dei dirigenti. Il movimento di protesta è proseguito con 12.000 operai in sciopero il 17 luglio a Sindelfingen e con manifestazioni nella regione di Stoccarda fin dall'inizio della settimana successiva. Operai di altre fabbriche di Stoccarda, ed anche i portavoce di una "iniziativa degli operai impiegati precari", avrebbero partecipato a queste manifestazioni (sebbene supponiamo che si sia trattato essenzialmente di delegati sindacali).
Il giovedì 24 si sono aperti i negoziati con la IG Metall che "minacciava" di chiamare i 160.000 dipendenti della Daimler allo sciopero se non si fosse concluso un accordo. Accordo che è stato firmato il venerdì, soddisfacendo tutte le esigenze della direzione in cambio della "garanzia dell'impiego" fino alla fine del 2011.Va da sé che i media, il padronato ed i sindacati hanno salutato questo accordo come una vittoria della ragione ed un modello per salvare il posto di lavoro in Germania. La reazione degli operai è stata diversa ed ha evidenziato una grande collera. Degli operai hanno protestato energicamente contro il fatto che il sindacato ed il consiglio di fabbrica avevano firmato un tale accordo a loro nome, senza averne alcuna autorizzazione.Ma naturalmente questo non è stato mostrato nei notiziari della sera alla televisione.
È chiaro che gli operai hanno subito una sconfitta e sanno che i sindacati c'entrano in qualche modo. Se nel corso del movimento non sembra esserci stata la minima contestazione verso i sindacati, in seguito a questa sconfitta può svilupparsi una prima riflessione sul loro ruolo e ciò in un bastione sindacale come la Daimler dove gli operai aderenti all'IG Metall sono circa il 90%.
Riproduciamo qui di seguito estratti del volantino che la nostra sezione in Germania ha diffuso nel corso del nostro intervento in queste lotte.
1. la "pausa-pipì" di 5 minuti ogni ora; il modo di conteggio delle ore straordinarie notturne, che permette che sia pagata un'ora di più rispetto alle altre fabbriche della Mercedes. Inoltre, rispetto ai loro colleghi di Brema, questi operai beneficiano di tre giorni di ferie annue supplementari.
2. La Daimler ha 160.000 operai in tutta la Germania di cui 41.000 a Sindelfingen e 15.500 a Brema, 20.900 a Untertürkheim, sempre nella regione di Stoccarda, e 5.200 a Düsseldorf.
Un militante di Battaglia Comunista (1) ha fatto la presentazione centrata sulle cause della guerra in Iraq e sulla politica attuale degli Stati Uniti. Il compagno ha sviluppato l’analisi del BIPR secondo la quale “la crociata americana contro il terrorismo” ha essenzialmente dei fini economici: il rafforzamento del controllo americano sulle riserve di petrolio nel mondo, in modo da consolidare l’egemonia del dollaro sull’economia mondiale e recuperare un profitto supplementare dalla “rendita petrolifera”. In seguito all’indebolimento della loro competitività gli Stati Uniti devono far ricorso all’appropriazione parassitaria di plusvalore prodotta nel mondo intero per mantenere la propria economia a galla. Inoltre, è stato detto che giocano un ruolo anche delle considerazioni strategiche, spesso in legame con il controllo delle riserve di petrolio, che mirano a creare una divisione tra la Russia e la Cina, l’una dall’altra ed entrambe dai campi petroliferi importanti, ed a fare in modo che l’Unione europea resti fedele e divisa.
Questa analisi ha suscitato differenti reazioni da parte dei partecipanti alla riunione pubblica. Mentre un compagno degli “Amici di una società senza classi” (FKG) - che era stato in precedenza uno dei fondatori del gruppo “Aufbrechen”- ha salutato la capacità del BIPR di identificare le cause concrete della guerra, il portavoce del gruppo GIS (“Grupe Internazionale Sozialistinnen”) ha espresso dei dubbi su questa analisi. Quest’ultimo ha sottolineato che il fatto che gli Stati Uniti acquisiscano delle liquidità finanziarie internazionali è innanzitutto e soprattutto l’espressione di una politica classica di indebitamento. In più, il compagno ha riaffermato quanto già difeso alla precedente riunione pubblica del BIPR, cioè che gli sforzi per dominare militarmente le risorse petrolifere hanno dei fini più militari che economici. Un membro del gruppo “International Communists”, da parte sua, ha messo in evidenza che non ci sono solo gli Stati Uniti, ma anche le altre grandi potenze imperialiste, ed in primo luogo gli Stati Europei, che si battono oggi per il dominio del mondo. Egli ha esposto la tesi secondo la quale mentre gli Stati Uniti mettono sulla bilancia soprattutto la loro potenza militare, le banche europee ci mettono principalmente il loro potere economico.
La critica della CCI all’analisi del BIPRNel suo primo contributo alla discussione la CCI ha preso in esame le argomentazioni del BIPR. Secondo queste argomentazioni gli Stati Uniti hanno in buona misura perso la loro competitività sul mercato mondiale. Per compensare questo indebolimento –deficit giganteschi della bilancia commerciale e di quella dei capitali, debito pubblico crescente- l’America scatena la guerra ai quattro angoli della terra per attirare capitale, attraverso il controllo del petrolio e l’egemonia del dollaro.Dal punto di vista della CCI questa analisi è politicamente molto pericolosa perché essa esamina le cause della guerra imperialista a partire dalla situazione particolare di un dato Stato invece di partire dallo stadio di sviluppo e dalla maturità delle contraddizioni del sistema capitalista nel suo insieme. Niente di strano allora che questa analisi somigli per grandi linee agli argomenti del campo anti-mondializzazione pro-europeo, o dei social-democratici di sinistra tedeschi come Oskar Lafontaine, che spiegano l’inasprimento delle tensioni imperialiste con il cosiddetto carattere particolarmente parassitario dell’economia americana.
In secondo luogo questa analisi è incapace di rispondere alle due seguenti questioni:
- perché l’economia degli Stati Uniti –che sono ancora il capitalismo più forte del mondo, con le compagnie più grandi, con una cultura nazionale particolarmente ben adattata ai bisogni del modo di produzione capitalista- incontra tali problemi a livello di concorrenza internazionale?
- perché la borghesia americana non reagisce a questo problema facendo ciò che sarebbe più facile e più logico e cioè degli investimenti massicci nel suo apparato produttivo in modo da riconquistare il suo margine di concorrenza? Invece di fare questo, perché reagisce, come afferma Battaglia, spargendo guerra attraverso il pianeta?
In realtà il Bureau Internazionale confonde causa ed effetto. Non è perché ha perso la sua competitività che l’America si arma fino ai denti. Al contrario, è questa perdita reale del suo vantaggio nella concorrenza economica ad essere una conseguenza degli sforzi fatti nella corsa agli armamenti. Una tale evoluzione non è, inoltre, una specificità dell’imperialismo americano. Il principale rivale di lunga data dell’America, l’URSS, è già sprofondata soprattutto per essersi armata fino alla morte. La verità è che il gonfiarsi del budget militare, a spese dello sviluppo delle forze produttive, e l’assoggettamento progressivo dell’economia al militarismo sono delle caratteristiche essenziali del capitalismo putrescente.In terzo luogo, è vero che nel capitalismo crisi e guerra sono inseparabili. Ma il legame tra le due non è quello della tesi semplicistica della guerra per il petrolio o per l’egemonia del dollaro. Il legame reale tra le due lo si può vedere, per esempio, nella costellazione che ha portato alla Prima Guerra mondiale. A quell’epoca non c’era una depressione economica comparabile a quella scoppiata più tardi, nel 1929. La crisi del 1913 aveva ancora alla base un carattere di crisi ciclica ed era in realtà relativamente moderata. Non c’era crisi commerciale, del budget dello Stato o della bilancia dei pagamenti in Gran Bretagna, in Germania o nelle altre principali potenze protagoniste, comparabili in qualche modo alla crisi di oggi, non c’erano neanche delle turbolenze monetarie particolari (all’epoca il riferimento all’oro era universalmente riconosciuto). Tuttavia, la prima conflagrazione imperialista mondiale ha avuto luogo. Perché? Quali sono le leggi generali dell’imperialismo che sono alla base della guerra moderna?
Più uno Stato capitalista è sviluppato, più la concentrazione del suo capitale è possente, più grande è la sua dipendenza rispetto al mercato mondiale, più esso è dipendente dagli accessi alle risorse del globo e del dominio su di esse. E’ per questo che, nell’epoca dell’imperialismo, ogni Stato è costretto a tentare di stabilire una zona d’influenza intorno a sè. Le grandi potenze considerano necessariamente che il mondo intero è la loro zona di influenza – perché solo così possono sentirsi sicure nella loro esistenza. Più la crisi economica è forte, più la battaglia per il mercato mondiale è forte, più questo bisogno viene sentito in maniera imperiosa. La Germania dichiarò guerra alla Gran Bretagna nel 1914 non a causa della sua situazione economica immediata, ma perché per una potenza la cui sorte dipendeva sempre più fortemente dall’economia mondiale, non era più tollerabile che il suo accesso al mercato mondiale dipendesse dalla benevolenza della Gran Bretagna, la potenza dominante sugli oceani e su buona parte delle colonie. Questo significa che la borghesia tedesca ha deciso di agire d’anticipo, in modo da rovesciare la situazione prima che essa peggiorasse, come avvenne poi con la crisi del 1929, quando essa venne esclusa da gran parte del mercato mondiale dalle grandi potenze coloniali. E’ questo che spiega perché, all’inizio del 20° secolo, la guerra scoppiò prima della crisi economica mondiale.
Il fatto che le potenze capitaliste entrino sempre più brutalmente in conflitto tra loro implica che le guerre imperialiste portano in maniera crescente alla reciproca rovina degli Stati che partecipano al conflitto. Rosa Luxemburg l’aveva già messo in evidenza nella sua Brochure di Junius nel 1916. Ma anche l’attuale guerra in Iraq lo conferma. In altri tempi l’Iraq era, alla periferia del capitalismo, una delle fonti più importanti di lucrosi contratti per l’industria europea ed americana. Oggi non solo la crisi economica, ma soprattutto le guerre contro l’Iran prima e l’America dopo, hanno completamente rovinato l’Iraq. La stessa economia degli Stati Uniti subisce un nuovo colpo a causa delle esorbitanti spese militari in Iraq. Dietro l’idea che la guerra attuale sia stata scatenata a causa di una speculazione monetaria o di una presunta “rendita petrolifera” si nasconde il fatto di credere che la guerra sia ancora lucrosa, che il capitalismo sia ancora un sistema in espansione. Non solo la politica degli Stati Uniti, ma anche quella di Bin Laden e compagni è stata interpretata in questo senso dal rappresentante di Battaglia, che presenta quest’ultima come l’espressione di un tentativo delle “200 famiglie dell’Arabia Saudita” di conquistare una parte maggiore di profitti dalla loro propria produzione di petrolio.
Il pericolo dell’empirismo borghese
Dopo che il BIPR e la CCI hanno presentato i loro propri punti di vista sulle cause della guerra, si è svolto un vivace ed interessante dibattito. Era evidente che i partecipanti alla riunione erano molto interessati a conoscere meglio le posizioni delle due organizzazioni della sinistra comunista presenti e allo stesso tempo ci tenevano a che i due gruppi si rispondessero l’un l’altro. Ed accanto alle domande ci sono state anche obiezioni e critiche. Un compagno dell’FKG, ad esempio, ha accusato la CCI di “bassa polemica” sulla base del nostro paragone tra l’analisi del BIPR e quella del movimento no-global. Egli ha sottolineato che far emergere il ruolo di aggressore degli Stati Uniti oggi non aveva niente a che vedere con la minimizzazione del ruolo dell’imperialismo europeo fatta dai suoi simpatizzanti borghesi. Ha mostrato, il che è corretto, che anche nel passato gli internazionalisti proletari avevano analizzato il ruolo di Stati particolari nello scatenamento delle guerre imperialiste, senza per questo rendersi colpevoli di concessioni riguardo ai rivali di questi Stati.
Tuttavia, la critica fatta dalla CCI non riguardavano l’identificazione degli Stati Uniti come principale fautore delle guerre attuali, ma piuttosto il fatto che le cause di queste guerre non erano ricercate nella situazione dell’imperialismo nel suo insieme, ma venivano ridotte alla situazione specifica degli Stati Uniti. Il rappresentante di Battaglia, da parte sua, non ha negato del tutto la somiglianza tra l’analisi fatta dalla sua organizzazione e quella di diverse correnti borghesi, pur argomentando che però questa analisi, nelle mani del BIPR, trova le sue radici in una visione del mondo completamente differente, una visione proletaria. Certamente è ancora così, per fortuna. Ma noi continuiamo a pensare che una tale analisi non solo indebolisce l’efficacia della nostra lotta contro l’ideologia della classe nemica, ma soprattutto mina alla base la fermezza del nostro punto di vista proletario.
Secondo noi, la somiglianza tra l’analisi del BIPR e il punto di vista borghese è il risultato del fatto che i compagni stessi hanno adottato un approccio borghese. E’ questo modo di procedere che noi abbiamo chiamato empirismo, volendo intendere con questo la tendenza di fondo del pensiero borghese ad essere trascinato su delle false piste da alcuni fatti particolari di una certa rilevanza, invece di scoprire, grazie ad un approccio teorico più profondo, il legame reale tra i differenti fatti. Un esempio di questa tendenza del BIPR si è avuto durante la discussione, nella maniera in cui il compagno ha presentato il fatto che, senza l’afflusso costante di capitali stranieri, l’economia borghese crollerebbe; per il BIPR questo costituirebbe la prova che la guerra in Iraq serviva a costringere le altre borghesie a prestare denaro all’America. In risposta a questo abbiamo ricordato che quello che è certo è che senza questi prestiti e questi investimenti, l’economia degli Stati Uniti subirebbe un ripiegamento; questo è già di per sé un obbligo sufficiente per spingere i capitalismi giapponesi ed europei a comprare azioni e titoli americani dato che essi stessi non sopravvivrebbero a un crollo degli Stati Uniti (2).
Durante questa fase della discussione sono state sollevate varie questioni critiche verso la CCI. I compagni hanno messo in questione l’importanza data al significato delle questioni strategiche nella nostra analisi degli scontri imperialisti. Il compagno del FKG (3) ha criticato il fatto che - a suo parere – la CCI spiega le tensioni imperialiste attraverso le rivalità militari senza legarle alla crisi economica ed escludendo a quanto sembra i fattori economici. Ha portato l’esempio degli obiettivi economici della Germania nella Seconda Guerra mondiale, per insistere, contro la posizione della CCI, sul fatto che gli Stati imperialisti cercano nella guerra una soluzione alla crisi economica. Un compagno austriaco, membro fondatore in questo paese del “Groupe Comuniste International”, ha chiesto se la CCI dà una certa importanza al ruolo del petrolio o se, al contrario, considera che è una semplice coincidenza se il bersaglio della “lotta al terrorismo” è precisamente una regione dove si trovano le maggiori riserve di petrolio del mondo. Inoltre, il rappresentante del GIS ha chiesto una precisazione sulla nostra presa di posizione secondo la quale la guerra moderna non è una soluzione, ma è essa stessa l’espressione dell’esplosione della crisi.
La delegazione della CCI ha risposto che, dal nostro punto di vista, il marxismo, lungi dal negare il legame tra crisi e guerra, è capace di spiegarlo in modo molto più profondo. Nondimeno, per la CCI, la guerra imperialista non è l’espressione delle crisi cicliche tipiche del 19° secolo, ma è il prodotto della crisi permanente del capitalismo decadente. In quanto tale essa è il risultato della ribellione delle forze produttive contro i rapporti di produzione della società borghese che sono diventati troppo stretti per esse. Nel suo libro L’Anti-Dühring, Engels afferma che la contraddizione centrale nella società capitalista è quella che esiste tra una produzione che diventa già socialista ed un’appropriazione di questa produzione che resta privata ed anarchica. Nell’epoca dell’imperialismo, una delle principali espressioni di questa contraddizione è quella che esiste tra il carattere mondiale del processo di produzione e lo Stato-nazione in quanto strumento più importante di appropriazione privata capitalista. La crisi del capitalismo decadente è una crisi di tutta la società borghese. Essa trova la sua espressione strettamente economica nella depressione economica, la disoccupazione di massa, ecc. ma essa si esprime anche a livello politico, militare, cioè attraverso dei conflitti armati sempre più distruttivi. La caratteristica di questa crisi di tutto il sistema è l’accentuazione permanente della concorrenza tra gli Stati-nazione sia a livello economico che militare. E’ per questo che, nel corso della riunione, siamo intervenuti contro l’ipotesi del rappresentate de “l’Internationale Comuniste” (vedi sopra), secondo la quale, nella lotta per l’egemonia mondiale, la borghesia americana utilizzerebbe dei mezzi militari e la borghesia europea dei mezzi economici. In realtà, questa lotta è condotta utilizzando tutti i mezzi possibili. La guerra commerciale è altrettanto feroce che la guerra militare. E’ vero, evidentemente, che ogni frazione nazionale della borghesia, attraverso la guerra, cerca sempre “soluzione” alla crisi. Ma poiché il mondo, dall’inizio del 19° secolo, è già stato spartito, questa “soluzione” non può essere prospettata che a spese degli altri, in genere a spese degli Stati capitalisti confinanti. Nel caso delle grandi potenze, questa “soluzione” non può che risiedere che nel dominio del mondo ed in quanto tale esige l’esclusione o la subordinazione radicale delle altre grandi potenze. Questo vuol dire che questa ricerca di una via d’uscita dalla crisi prende sempre più un carattere utopico ed irrealista. La CCI parla appunto di una “irrazionalità” crescente della guerra.
Nel corso della decadenza capitalista succede regolarmente che la potenza che prende l’iniziativa di dichiarare la guerra, ne esce alla fine vinta: la Germania nelle due guerre mondiali ad esempio. Ciò manifesta la natura sempre più irrazionale ed incontrollabile della guerra. Quello che critichiamo nell’analisi del BIPR non è affatto l’affermazione che la guerra ha delle cause economiche, ma la confusione tra le determinazioni economiche ed il guadagno economico. In più critichiamo il fatto che si spiega ogni movimento nella costellazione imperialista attraverso una causa economica immediata, ciò che , a nostro avviso, costituisce una tendenza materialista volgare. Questo si è visto precisamente sulla questione del petrolio. Va da se che la presenza di risorse petrolifere in Medio-Oriente gioca un ruolo considerevole. Tuttavia le potenze industriali - principalmente e soprattutto gli Stati Uniti - non avevano bisogno di occupare militarmente questi campi petroliferi per stabilire il loro predominio economico su questa materia prima o altre. Quello che è in gioco è innanzitutto l’egemonia militare e strategica su delle risorse di energia potenzialmente decisive negli episodi di guerra.
Il BIPR ha rigettato in modo veemente l’affermazione della CCI secondo la quale la guerra moderna sarebbe l’espressione dell’impasse del capitalismo. Il rappresentate di Battaglia Comunista ha sì ammesso che la natura distruttrice del capitalismo conduce prima o poi alla distruzione dell’umanità. Ma fino a che questa calamità finale non ha luogo, il capitalismo può continuare la sua espansione in modo illimitato. Secondo il compagno di Battaglia, non sono le guerre attuali, imposte dagli Stati Uniti, ma le “vere guerre imperialiste” del futuro (per esempio tra l’America e l’Europa) ad essere lo strumento di questa espansione, dato che una distruzione generalizzata aprirebbe la via ad una nuova fare di accumulazione. Noi siamo stati d’accordo col fatto che il capitalismo è capace di sparzzar via l’umanità. Tuttavia, la distruzione della produzione in eccesso, considerata da un punto di vista storico, non è comunque stata sufficiente a superare le crisi cicliche del capitalismo ascendente del 19° secolo. E’ per questo che, secondo Marx ed Engels, era necessario anche l’apertura di nuovi mercati. Mentre nel quadro dell’economia naturale la sovrapproduzione non poteva che apparire come un eccesso in rapporto ai limiti fisici massimali del consumo umano, nel regime di produzione di beni di consumo, e soprattutto nel capitalismo, la sovrapproduzione è sempre espressa in rapporto al consumo esistente di quelli che possiedono il denaro. Si tratta di una categoria economica più che fisiologica. Ciò significa che la distruzione attraverso la guerra non risolve di per sé il problema fondamentale della mancanza di domanda solvibile.
Innanzitutto, il punto di vista difeso dal BIPR, rispetto alla possibile espansione del capitalismo fino al momento della distruzione fisica, non è compatibile con la visione di una decadenza del capitalismo – visione che il BIPR sembra abbandonare sempre più. In effetti, dal punto di vista marxista il declino di un modo di produzione si è sempre accompagnato ad uno sviluppo crescente degli ostacoli alle forze produttive derivanti dalla produzione esistente e dai rapporti di proprietà. Sembra che, per Battaglia, la guerra giochi ancora il ruolo di motore dell’espansione economica come nel 19° secolo. Quando il compagno di Battaglia, durante la riunione, parlava di “guerre veramente imperialiste” ancora a venire, egli non faceva che confermare la nostra impressione, e cioè che questa organizzazione considera le guerre per periodo attuale come una semplice continuazione della politica economica degli Stati Uniti condotta con altri mezzi, e non come dei conflitti imperialisti. Da parte nostra abbiamo insistito sul fatto che queste guerre sono anch’esse delle guerre imperialiste e che le grandi potenze imperialiste attraverso esse entrano in conflitto le une contro le altre, non direttamente ma, per esempio, passando per le guerre alla periferia. La serie di guerre nell’ex-Yugoslavia, che all’origine fu suscitata dalla Germania, conferma anche che in questo processo gli Stati Uniti sono ben lungi dall’essere i soli aggressori.
Nella sua conclusione alla discussione il compagno del BIPR ha difeso l’idea che questa discussione avrebbe dimostrato che il dibattito tra il BIPR e la CCI è “inutile”. E ciò perché per decenni, il BIPR accusa la CCI di “idealismo” e la CCI accusa il BIPR di “materialismo volgare” senza che nessuna delle due organizzazioni abbia modificato il suo punto di vista.
A nostro
avviso si tratta di una valutazione piuttosto negativa su di una
discussione nella quale, non solo le due organizzazioni, ma anche
tutto un ventaglio di gruppi e di persone differenti hanno
partecipato in maniera molto attiva. E’ evidente che la
nuova generazione di militanti che si interessano alla politica
nell’area di lingua tedesca trova molto interessante venire
a conoscere le posizioni delle organizzazioni internazionaliste
esistenti, informarsi degli accordi e dei disaccordi che esistono
tra queste. Che cosa c’è di meglio per rispondere a
questa domanda se non un dibattito pubblico? Per quanto ne
sappiamo, nessun rivoluzionario serio fino ad oggi ha mai pensato,
per esempio, a mettere in dubbio l’utilità del
dibattito tra Lenin e Rosa Luxemburg sulla questione nazionale,
solo perché né l’uno né l’altra
hanno mai modificato la propria posizione di base sulla questione.
Al contrario: la posizione attuale della Sinistra Comunista sui
cosiddetti movimenti di liberazione nazionale si fonda in gran
parte sui risultati di questo dibattito.
La CCI, da parte sua, resta completamente favorevole al dibattito pubblico e continuerà a chiamare a tali dibattiti ed a parteciparvi. Questo dibattito rappresenta in effetti un momento indispensabile del processo di presa di coscienza del proletariato.
Welt Revolution (sezione della CCI in Germania)
1. Organizzazione fondatrice, con la Communist Workers Organization, del BIPR
2. Potremmo aggiungere che, malgrado la rivalità con gli Stati Uniti, i suoi rivali continueranno a piazzare i propri capitali nell’economia più stabile che esiste, perché questo paese, nel futuro prossimo, resterà, militarmente ed economicamente, il paese più forte del mondo.
3. Gli “Amici di una società senza classi”
Il padronato sembra avere ottenuto ciò che desiderava. Milioni di salariati sono stati mandati in vacanza con la notizia che la più grande compagnia europea industriale, la Mercedes a Stoccarda-Sindelfingen, sta economizzando sui costi di produzione, circa mezzo milione di euro, a spese dei suoi dipendenti. Vogliono che ci sia ben chiaro che anche là dove le imprese hanno fatto dei profitti, gli operai sono impotenti di fronte al ricatto del decentramento della produzione e sotto la minaccia di licenziamenti massicci. Pensavano che durante le vacanze ci saremmo rassegnati di fronte all'obbligo di lavorare di più con salari più bassi. E approfittando proprio delle vacanze estive quando le forze operaie sono disperse e quando, essendo isolati, si avverte di più il sentimento di impotenza, vogliono farci credere che è stata aperta una breccia. Una breccia a spese degli operai che non riguarda solo i lavoratori della Daimler-Chrysler, ma tutti gli schiavi salariati.
L'economia di mercato offre solo povertà, insicurezza ed una miseria senza fineSolo qualche settimana dopo che il personale delle fabbriche Siemens a Bocholt e Kamp-Linfort ha ceduto al ricatto che lo ha costretto ad accettare il ritorno alla settimana di 40 ore senza nessun compenso salariale; dopo la decisione presa in Baviera di allungare la giornata di lavoro senza aumento di salario, ivi compreso il settore pubblico, il padronato ha cominciato a reclamare - secondo i casi - l'allungamento della settimana lavorativa a 40, 42, addirittura a 50 ore. A Karstadt, per esempio, in un settore commerciale, si è detto agli impiegati: o lavorate 42 ore o 4.000 posti di lavoro saranno soppressi. Che si tratti del settore della costruzione, della Man o della Bosch, dovunque è stata posta la stessa esigenza.
L'esperienza delle settimane passate conferma ciò che sempre più lavoratori cominciano ad avvertire: l'economia di mercato (con o senza il discorso "sociale") non ha niente da offrire se non povertà, insicurezza e miseria senza fine.
Lo spettro della solidarietà operaiaOltre al riconoscimento amaro ma necessario di questa realtà, altre lezioni devono essere tratte ed assimilate dalle lotte delle settimane scorse.
In seguito alle lotte alla Daimler-Chrysler, la classe dominante vuole portarci a pensare che non serve a niente opporre una resistenza, che la logica della competizione capitalista si imporrà in un modo o nell'altro e che è dunque preferibile sottomettersi all’idea che, dopo tutto, gli sfruttatori e gli sfruttati sono nella stessa barca, per "conservare il lavoro in Germania". Dal punto di vista della classe operaia devono però essere tratte conclusioni completamente differenti. Più di 60.000 operai della Daimler-Chrysler hanno partecipato in queste ultime settimane agli scioperi ed alle azioni di protesta. Operai della Siemens, Porsche, Bosch ed Alcatel hanno partecipato alle manifestazioni a Sindelfingen. Queste azioni mostrano che gli operai hanno cominciato a riprendere la strada della lotta. Di fronte alla prospettiva di un aggravamento della sofferenza e della miseria per gli operai del mondo intero nei prossimi anni, il fatto più importante non è che ancora una volta i capitalisti si sono organizzati per imporre la loro volontà ma il fatto che, questa volta, gli attacchi non sono stati accettati passivamente.
La Daimler-Chrysler ha giocato consapevolmente la carta della divisione tra gli operai delle differenti fabbriche, minacciando di sopprimere dei posti di lavoro negli insediamenti di Sidelfingen, Untertürkheim e Mannheim a profitto di quello di Brema, con lo spostamento verso quest'ultimo, a partire dal 2007, della produzione dei nuovi modelli di classe-S. Il fatto che i salariati di Brema abbiano partecipato alle manifestazioni di protesta contro le riduzioni degli stipendi, contro l'allungamento del tempo di lavoro e l'eliminazione degli insediamenti nel Bade-Würtemberg, ha costituito certamente l'elemento più importante di queste lotte. Facendo in parte fallire la strategia del padronato, questi, con la loro azione, hanno messo in evidenza che la risposta operaia alla crisi del capitalismo si trova solamente nella solidarietà operaia. Questa solidarietà è la forza che rende possibile la lotta e che le dà tutto il suo significato.
La classe dominante vuole darci l'impressione che la lotta alla Mercedes non l'ha per niente impressionata. Ma se si esaminano attentamente gli avvenimenti degli ultimi giorni, ci si accorge come la classe dominante è stata in realtà molto attenta all'espressione della resistenza della classe operaia. Essa teme soprattutto che i diseredati prendano coscienza che la solidarietà è non solo l'arma più efficace al servizio della difesa dei propri interessi, ma contiene anche il principio fondamentale di un ordine sociale superiore alternativo alla società attuale.
Una "azione concertata" della classe capitalistaNon è un caso se, immediatamente dopo il ritorno alle 40 ore settimanali alla Siemens nella regione della Ruhr, un'altra sfida aperta ed enorme è stata lanciata agli operai della Daimler-Chrysler. La Siemens è servita da avvertimento agli operai: dovunque ci saranno minacce di chiusura di fabbriche, loro dovranno accettare il peggioramento delle condizioni di lavoro e di salario, e più ore di lavoro. Alla Mercedes di Stoccarda, per il momento, non si poneva la necessità di chiudere la fabbrica, essendo considerata questa ancora efficace e redditizia. La Daimler-Chrysler è stata scelta per lanciare un secondo messaggio: l'intensificazione senza limite dello sfruttamento non si deve applicare solo dove l'impresa o la fabbrica sta con le spalle al muro. Tutte le imprese sono coinvolte. La Daimler-Chrysler costituisce appunto la vetrina dell'industria tedesca: la più grande concentrazione della classe operaia industriale in Germania, al centro del Bade-Würtemberg con le sue centinaia di migliaia di operai dell'industria. Il significato del messaggio forte e chiaro dei capitalisti è questo: se la frazione della classe operaia più forte, conosciuta per la sua esperienza di lotta e la sua combattività, non può opporsi a tali misure, allora la classe operaia da nessuna parte in Germania lo potrà.
Non è un caso se il padronato ha riunito le sue forze in quelli che sono chiamati “sindacati dei datori di lavoro”. Ciò gli permette di coordinare gli sforzi contro la classe operaia. Inoltre questi organismi sono integrati nell'apparato di Stato. Il che significa che la strategia del padronato è legata ad una strategia globale diretta dal governo a livello nazionale e regionale, e dunque dalla socialdemocrazia al potere. All’interno di questa strategia, c’è una divisione del lavoro tra il governo e le imprese. La maggior parte delle riforme decise dal governo federale e direttamente messe in applicazione dallo Stato sono di solito programmate durante la prima metà del mandato. Negli ultimi due anni sono stati messi in atto gli attacchi più incredibili contro il livello di vita degli operai: la "riforma sanitaria", la legislazione "Hartz" contro la disoccupazione, "l'ammorbidimento" delle leggi sulla protezione dei disoccupati, ecc. Attualmente, nel periodo che conduce alle prossime elezioni generali, al SPD non dispiace lasciare al padronato l'iniziativa degli attacchi, con la speranza che la popolazione continui ad identificarsi con lo Stato, ad andare a votare, ed a non perdere totalmente fiducia nella socialdemocrazia.
Non bisogna dunque stupirsi delle dichiarazioni del SPD che esprimono le sue simpatie con gli operai della Daimler-Chrysler. In realtà gli attacchi attuali sono legati direttamente alle "riforme" del governo federale. Non è certamente una coincidenza se l'invio, molto pubblicizzato dai mass media, di un nuovo questionario ai disoccupati (destinato a identificare ed utilizzare le loro risorse finanziarie e quelle delle loro famiglie al fine di diminuire i loro sussidi), è venuto fuori contemporaneamente agli attacchi contro la Daimler. La fusione delle indennità di disoccupazione di lunga durata con l'aiuto sociale minimo, così come il rafforzamento della sorveglianza ed il controllo dei disoccupati, servono ad "alleggerire" il bilancio dello Stato dal carico dei più poveri tra i poveri. Ma servono anche ad intensificare l'efficacia di tutti i mezzi possibili di ricatto contro quelli che hanno ancora un impiego. Per questi, deve essere chiaro che se alzano la voce e non accettano tutto ciò che gli si chiede, anche loro saranno spinti in una povertà senza fondo.
Il nervosismo della classe dominante di fronte alla solidarietà operaiaMa il fatto che gli attacchi del capitale non vengono accettati senza lotta è confermato non solo dalle mobilitazioni alla Daimler, ma anche dal modo con cui la classe borghese ha reagito. È stato subito evidente che i politici, i sindacati, il consiglio sindacale di fabbrica, ma anche il padronato, avevano realizzato che il conflitto alla Daimler doveva essere risolto il più velocemente possibile. La strategia capitalista è stata, all’inizio, orientata in modo da opporre gli operai di Stoccarda a quelli di Brema. Ci si aspettava una resistenza da parte degli operai del Sud-est della Germania, più fiduciosi in loro stessi ed direttamente attaccati. Ma quello che ha sorpreso è stato l'entusiasmo con il quale gli operai di Brema hanno al movimento. Lo spettro della solidarietà operaia, per molto tempo considerata come morta e sepolta, o come minimo dichiarata tale, minacciava di ritornare. Di fronte a questo i rappresentanti del capitalismo sono diventati visibilmente nervosi.
I porta voce dei partiti politici rappresentati al parlamento - compresi i liberali del FDP, il partito che si auto-dichiara dei ricchi – hanno cominciato ad interpellare la direzione della Daimler-Chrysler affinché accettasse una diminuzione dei propri stipendi. Questa misura sarebbe comunque stata polvere negli occhi. Essendo lei a decidere sugli stipendi, la direzione ha sempre il potere di compensare tali "diminuzioni". In più non è questo che può aiutare gli operai a pagare la scuola per i figli o l’affitto di casa.
Perché i dirigenti politici hanno chiesto ad una direzione padronale un tale gesto? Per propagare l'ideologia della compartecipazione sociale, che rischiava di essere messa a mal partito da un conflitto sociale.
È per la stessa ragione che i politici hanno scatenato le loro critiche contro l'arroganza dei padroni. Nella situazione attuale in cui i padroni si assumono da soli l’onere degli attacchi, mentre lo Stato vestendosi di neutralità cerca di tenersi nell’ombra, il problema sorge quando questo giochetto diventa visibile. Padroni come Schremp o Hubbert non hanno la finezza della socialdemocrazia quando si tratta di infliggere una sconfitta esemplare alla classe operaia evitando però di provocarla troppo. La classe dominante teme soprattutto che gli operai comincino a pensare troppo alla loro lotta ed alle prospettive della loro vita nel capitalismo. In questo contesto, le critiche fatte dal cancelliere Schröder sono significative: "Il mio parere è di lasciare questi problemi in seno alle imprese, e di parlarne il meno possibile" (sottolineato da noi).
Da quando lo stalinismo è crollato - forma di capitalismo di Stato particolarmente inefficace, rigida e super regolamentata - è stato ripetuto a sazietà che non c'è più nessuna prospettiva per il socialismo e che la lotta di classe e la classe operaia non esistevano più. Ma niente è più probante delle grandi lotte della classe operaia per mostrare al mondo che, né la classe operaia, né la lotta delle classi sono cose del passato.
La politica di divisione dei sindacati e dei mass-mediaNon vogliamo sopravvalutare le lotte alla Daimler. Esse non sono sufficienti per impedire che si apra una nuova "breccia" capitalista nelle condizioni di vita degli operai. Innanzitutto perché il conflitto è restato limitato essenzialmente agli operai della Daimler. Tutta la storia mostra che solo l'estensione della lotta alle altre frazioni della classe operaia è capace, anche se temporaneamente, di fare arretrare la borghesia. Inoltre, questa lotta non ha, mai, nemmeno cominciato a rimettere in causa il controllo sindacale. L'IG Metall ed il consiglio locale di fabbrica si sono mostrati, ancora una volta, maestri nell'arte di mettere al centro delle questioni che “distinguerebbero” la situazione degli operai della Mercedes da quella di altri operai: la redditività degli uni vista come il loro "proprio" problema, le riserve dei pacchetti di commesse come affare di ciascuna fabbrica, l'efficacia più apprezzata degli operai metallurgici del Bade-Würtemberg. Ciò ha permesso che venisse bloccata una solidarietà più attiva, più forte. I media, da parte loro, hanno ripreso lo stesso tema mettendo avanti la gelosia che esiste verso gli operai della Daimler, presentati come quelli particolarmente privilegiati. E’ stato sorprendente, per esempio, vedere i media rendere conto quotidianamente della situazione a Sindelfingen (dove sono stati menzionati persino i passaggi pedonali fatti di marmo), mentre la situazione a Brema (dove gli elementi di solidarietà erano più esplicitamente presenti) è passata totalmente sotto silenzio.
Anche ben prima che fossero rese pubbliche le esigenze della direzione di fare economia, il consiglio di fabbrica aveva proposto già un'austerità dell'ordine di 180 milioni di euro per anno. Ed appena la direzione ha accettato la messa in scena consistente nel "partecipare ai sacrifici", l'IG Metall ed il consiglio di fabbrica hanno espresso un "accordo globale" per un piano che soddisfa in ogni punto le esigenze della direzione ma che viene presentato come una vittoria per gli operai poiché permetterebbe la "garanzia di lavoro" per tutti.
I sindacati dividono gli operai e difendono gli interessi dell'impresa a spese degli sfruttati non è perché sarebbero l'incarnazione del diavolo, ma perché da molto tempo fanno parte del capitalismo e sono parte pregnante della sua logica. Pertanto la solidarietà operaia, l'estensione delle lotte, possono essere realizzate solo dagli operai stessi. Ciò esige assemblee di massa sovrane, un modo di lotta orientato verso la partecipazione diretta dei differenti settori degli operai occupati e dei disoccupati. Il che non può essere realizzato che al di fuori e contro i sindacati.
Una lotta che deve far riflettere la classe operaia
Siamo ancora lontani da una pratica di lotta autonoma fondata sulla solidarietà attiva. Tuttavia, già oggi, sono percettibili i germi di queste lotte future. Gli stessi operai della Daimler erano perfettamente coscienti che non si battevano solo per loro stessi ma per gli interessi di tutti gli operai. Ed è incontestabile che la loro lotta - nonostante le campagne odiose sui privilegi accordati a Sindelfingen - ha incontrato la simpatia della classe operaia nel suo insieme, ciò che non si vedeva dallo sciopero di Krupp Rheinhausen nel 1987.
A quell’epoca, gli operai della Krupp avevano cominciato a porre la questione dell'estensione attiva della lotta verso altri settori ed a rimettere in causa il controllo sindacale sulla lotta. Il fatto che oggi queste questioni non siano ancora realmente poste mostra tutto il terreno che la classe operaia ha perso in questi ultimi quindici anni, in Germania come nel resto del mondo. Ma, d'altro canto, lotte come quella della Krupp, o quelle dei minatori inglesi, significarono la fine di una serie di lotte operaie durata dal 1968 al 1989 e a cui ha fatto seguito un lungo periodo di riflusso. Al contrario, le lotte attuali, sia nel settore pubblico in Francia ed in Austria lo scorso anno, o adesso alla Daimler, sono l'inizio di una nuova serie di lotte sociali importanti. Queste si svilupperanno in modo più difficile e più lento che in passato. Oggi la crisi del capitalismo è molto più avanzata, la barbarie generale del sistema molto più visibile, la calamità minacciosa della disoccupazione ben più onnipresente.
Ma oggi, ben più che nel caso della Krupp-Rheinhausen, la grande ondata di simpatia per gli operai in lotta che ha pervaso la popolazione è più direttamente legata al riconoscimento, che si manifesta progressivamente, della gravità della situazione. La classe dominante ed i suoi sindacati si affrettano a presentare l’imposizione dell'allungamento della durata di lavoro come una misura temporanea per salvaguardare i posti di lavoro finché "non sarà ritrovata la competitività". Ma gli operai cominciano a comprendere che ciò che sta accadendo è molto più di questo. Infatti! Sono le acquisizioni non solo di decenni, ma di due secoli di lotte operaie che rischiano di essere liquidate. Quello che sta accadendo è che la giornata di lavoro, come agli inizi del capitalismo, si allunga sempre di più ma nelle condizioni di lavoro del capitalismo moderno, con l'inferno dell'intensificazione del lavoro. Sta succedendo che, sempre più, la forza di lavoro umano, in quanto sorgente delle ricchezze della società, è deprezzata ed è a lungo termine destinata a sparire. Tutto ciò non costituisce il segno della nascita dolorosa di un nuovo sistema, ma è al contrario l'espressione di un capitalismo moribondo che è diventato un ostacolo al progresso dell'umanità. A lungo termine, gli sforzi incerti di oggi verso una resistenza operaia, verso il ritorno alla solidarietà, vanno di pari passo con una riflessione in profondità sulla situazione. Questo può e deve condurre a rimettere in questione questo sistema barbaro, nella prospettiva di un sistema sociale superiore, socialista.
Welt Revolution
(sezione della CCI in Germania, 22 luglio 2004)Il capitalismo confrontato all'apertura della sua fase di decomposizione
Nel 1991, la guerra del Golfo segnò per la prima volta l'apertura ad ampio raggio del nuovo disordine mondiale, anche se questo conflitto permise momentaneamente agli Stati Uniti di riaffermare il loro ruolo di prima potenza. In quell'epoca, fu il governo americano a volere questa guerra, facendo sapere a Saddam Hussein, tramite la sua ambasciatrice April Glaspie, che un eventuale conflitto tra l'Iraq ed il Kuwait sarebbe stato considerato un problema "interno al mondo arabo", lasciando intendere che gli Stati Uniti non erano interessati alla questione. In effetti, la trappola così tesa a Saddam Hussein spinse questi ad invadere militarmente il Kuwait, fornendo il pretesto ad un intervento massiccio degli Stati Uniti. Per l'imperialismo americano, questa guerra fu lo strumento della riconferma brutale della loro autorità sulle principali potenze rivali come la Germania, la Francia ed il Giappone che, dal 1989 e dal crollo del blocco sovietico, tendevano in modo sempre più chiaro a difendere solo il loro interesse imperialista, sviluppando una politica crescente di contestazione alla leadership americana. È innegabile che in quell'epoca la potenza americana ottenne una vittoria sull'insieme della scena mondiale. Si permise anche il lusso di lasciare Saddam Hussein padrone di Bagdad affinché l'Iraq non affondasse in un caos totale come accade oggi. Ma questa vittoria non poteva che essere di corta durata. Dal momento che nessuna calma a livello della concorrenza economica si intravedeva, le tendenze centrifughe al "ciascuno per sé" di ogni potenza imperialista non potevano che ampliarsi, spingendo così inesorabilmente di nuovo gli Stati Uniti ad utilizzare la loro supremazia militare, per tentare di frenare la contestazione crescente al loro riguardo. Così già nel 1991 potevamo percepire che "sia sul piano politico e militare, sia sul piano economico, la prospettiva non è alla pace e all'ordine ma alla guerra ed al caos tra nazioni". (Revue Internationale n°66, articolo "Il caos"). Questa tendenza alla decomposizione del capitalismo ed all'indebolimento della leadership americana proseguiva e si confermava durante tutti gli anni 1990. In realtà, sono queste stesse potenze che, solamente alcuni mesi dopo la prima guerra del Golfo, avrebbero causato un nuovo scatenamento della barbarie che finì nel portare nel 1992 uno smembramento totale della regione dei Balcani. Infatti, fu la Germania che, spingendo la Slovenia e la Croazia a proclamare la loro indipendenza nei confronti della vecchia confederazione iugoslava, fece esplodere questo paese, giocando un ruolo di primaria importanza nello scoppio della guerra nel 1991. Di fronte a questa avanzata dell'imperialismo tedesco, furono le altre quattro potenze (Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Russia) a sostenere ed incoraggiare il governo di Belgrado a condurre una controffensiva particolarmente omicida. Tuttavia, l'indebolimento storico degli Stati Uniti già iniziato nel 1991 li portava a dei cambiamenti di alleanza successivi che si traducevano nel loro sostegno nel 1991 alla Serbia, alla Bosnia nel 1992 ed alla Croazia nel 1994. I Balcani si trasformarono allora irrimediabilmente, come l'Afghanistan qualche tempo più tardi, in un vero pantano fatto di guerre civili permanenti. Ancora oggi in Afghanistan, nessuna autorità, locale o americana, può esercitarsi all'infuori della capitale Kabul. Gli anni 1990 conoscono così una generalizzazione progressiva del caos, espressione dell'evoluzione della decomposizione della società capitalista, decomposizione che conosce una violenta accelerazione all'inizio degli anni 2000.
Un mondo precipitato nell'anarchia e la barbarieÈ impossibile descrivere oggi la situazione in Iraq. Il Courrier International del 14 giugno titolava: "In Iraq, la violenza, sempre". La sola giornata del giovedì 24 giugno è un esempio drammatico dello stato di guerra civile in cui si trova immerso l'Iraq. In questo giorno, nella sola città di Mossul ci saranno stati almeno sette attentati, facendo ufficialmente non meno di 100 morti. Nello stesso tempo, scontri armati proseguivano in numerose città irachene come a Bakuba o Najaf. Dopo pochi giorni dal trasferimento di potere al nuovo governo iracheno, il paese è immerso in un caos totale, un'anarchia generalizzata dove le forze politiche e militari possono solo controllare zone geograficamente limitate. Il primo ministro iracheno Iyad Allaoui si sforza di annunciare, con grande supporto pubblicitario, che prenderà personalmente in mano la lotta contro la violenza, e ciò dopo una forte ascesa degli scontri militari, attentati ed altri sabotaggi di oleodotti, fino alle prese di ostaggi che finiscono spesso con omicidi sanguinosi. La decapitazione degli ostaggi, filmata e proiettata su tutti gli schermi del mondo, diventa oggi una pratica corrente, un mezzo di guerra come un altro, alla stessa stregua di un terrorismo che ha per obiettivo la distruzione di massa. Nella storia tortura e terrorismo hanno sempre fatto parte dei conflitti armati, ma restavano dei fenomeni secondari. Questa degradazione delle regole di scontri è sicuramente una delle espressioni maggiori dell'accelerazione della decomposizione del sistema capitalista.
La prospettiva in questo paese può essere solamente verso una destabilizzazione crescente. L'indebolimento, la perdita di controllo degli Stati Uniti sono patenti. Il New York Times dichiara: "Le forze della coalizione non hanno solamente fallito nel garantire la sicurezza alla popolazione irachena, ma anche a realizzare un altro obiettivo designato come prioritario dall'amministrazione provvisoria: il ristabilimento totale dell'elettricità prima dell'inizio del caldo estivo". Oggi in Iraq, ad una popolazione confrontata a condizioni di sopravvivenza spaventosa manca tutto, acqua compresa. Sempre più chiaramente, i Curdi, gli Sciiti ed i Sunniti esprimono i propri interessi divergenti. Inoltre, un fenomeno nuovo sta diffondendosi: l'apparizione di bande armate, fanatizzate, che passano all'offensiva armata contro gli interessi americani all'infuori di ogni controllo assunto dalle organizzazioni etniche o religiose nazionali. Prima ancora di essere insediato, il governo provvisorio appare totalmente impotente e screditato.
Il Washington Post afferma: "Sebbene l'amministrazione Bush abbia parecchie volte promesso che gli iracheni avrebbero ritrovato la loro intera sovranità, è chiaro che spetta agli ufficiali americani conservare il dominio sulla questione essenziale della sicurezza. Questo significa uno sprofondamento crescente della potenza americana nel pantano iracheno, rivelando allo stesso tempo anche l'incapacità americana a gestire militarmente la situazione irachena. Questo indebolimento accelerato si è concretizzato attraverso l'obbligo per gli Stati Uniti di far passare all'ONU un progetto di risoluzione americano-britannico, proposto a fine maggio al Consiglio di sicurezza, che prevede, tra altri, il collocamento in zona di forze multinazionali sotto un comando americano. Questo ricorso obbligato all'ONU da parte dell'amministrazione americana è la manifestazione diretta della sua incapacità ad assicurare il suo dominio con le armi, anche in un paese tanto debole come l'Iraq. Dietro le prime dichiarazioni di facciata che assumono il tono di soddisfazione, l'appetito delle altre grandi potenze che vogliono approfittare di ogni indietreggiamento degli Stati Uniti per difendere i propri interessi imperialisti si sono manifestati chiaramente. Il 27 maggio, la Cina ha diffuso un documento sostenuto da Russia, Francia e Germania che solleva obiezioni e avanza proposte di un ulteriore cambiamento di questa risoluzione. In particolarmente il governo provvisorio doveva godere della "piena sovranità sulle questioni economiche, di sicurezza, di giustizia e diplomazia". Inoltre, queste potenze hanno proposto che il mandato della forza multinazionale in Iraq si sarebbe dovuto concludere a fine gennaio 2005 e che il governo provvisorio doveva essere consultato per le operazioni militari tranne che per le misure di autodifesa. In effetti, questo documento, direttamente rivolto contro gli Stati Uniti, dimostra che la sola preoccupazione di queste grandi potenze è di affossare ed indebolire per quanto possibile la prima potenza mondiale senza preoccuparsi minimamente delle conseguenze di un tale conflitto per la popolazione irachena e per tutta la regione.
Ma l’Iraq è solo la manifestazione più estema di qualcosa che investe il mondo intero. Per esempio, si assiste oggi ad una destabilizzazione dell'insieme dell'Asia del Sud-ovest. In Arabia Saudita, gli attentati attribuiti ad Al-Qaida si moltiplicano, manifestando sempre più l'enorme ascesa delle tensioni tra i regimi di Ryad e gli elementi Wahhabites sempre più numerosi a fanatizzarsi. Anche la virulenza dei dirigenti sciiti iracheni non manca di avere delle ripercussioni sulla stabilità in Iran. In quanto alla Turchia, la tensione è particolarmente forte. Il 1 giugno, il PKK (Partito dei lavoratori curdi) ha annunciato che metteva unilateralmente fine al cessate "il fuoco" nella guerra condotta contro lo Stato turco. La Neue Zueriche Zeitung del 3 giugno riportava che "ambienti dell'esercito turco pensano che centinaia di ribelli armati del PKK si sono introdotti nella Turchia dal Nord dell'Iraq durante le ultime settimane. Il governo turco accusa gli Stati Uniti di non avere fatto niente contro la presenza del PKK nel Nord dell'Iraq". Lo stesso quotidiano di Zurigo osserva che "un nuovo scoppio della guerra potrebbe essere devastante per l'insieme della regione".
Peraltro, da quando si è insediata l'amministrazione Sharon al potere in Israele, la situazione in Medio Oriente non ha fatto che affondare in una guerra permanente ed in ciechi massacri di popolazione. Dietro il progetto di un grande Medio Oriente, di un ritiro ipotetico da parte degli israeliani dalla Striscia di Gaza e di un'occupazione militare crescente della Cisgiordania, si materializza, alla stessa stregua di quella degli Stati Uniti, una politica di fuga in avanti da parte del governo israeliano. È patente che la logica guerriera prende in modo assoluto il sopravvento su tutte le altre modalità di difesa degli interessi nazionali israeliani. Questa politica, suicida, ha anche provocato un innalzamento di tensioni tra Israele ed Egitto, restando quest'ultimo, tuttavia, dopo lo Stato ebreo, uno dei soli alleati degli Stati Uniti nella regione. In realtà, l'amministrazione americana pesa sempre meno sull'orientamento della politica guerriera israeliana. Ciò traduce l'incapacità attuale degli Stati Uniti ad essere i gendarmi del mondo. Questa realtà esprime solo, ad un livello più alto, la perdita di controllo di tutte le altre grandi potenze sulle zone che tentano ancora di mantenere sotto la loro influenza.
I raid militari condotti in Inguscezia nella notte tra il 21 ed il 22 giugno e che hanno fatto almeno 48 morti di cui il ministro Kostoiev, vanno a ricordare che è l'insieme delle vecchie repubbliche del Sud dell'URSS, e non solamente la Cecenia, che è immerso nell'anarchia e la guerra civile. In quanto alla Francia, questa, dopo la sua partecipazione attiva per circa dieci anni al massacro di circa un milione di persone in Ruanda, oggi può solo constatare la propria impotenza, essendo i Tutsi di nuovo in questo metà-giugno al centro di un conflitto che tocca la repubblica del Congo. Le Soir (quotidiano belga) del 4 giugno afferma: "Gli incidenti all'est del paese fanno temere il peggio a numerosi osservatori: il riemergere della guerra in una regione devastata da conflitti di frontiera, politici ed etnici sanguinosi”.
La decomposizione del capitalismo: una realtà in piena accelerazioneGli attentati terroristici dell'11 settembre 2001 a New York avevano fatto affermare agli Stati Uniti che essi avrebbero braccato il terrorismo ai quattro angoli del pianeta, riportando così la democrazia e la pace. Il risultato oggi si scrive con lettere di sangue dovunque nel mondo. L'anarchia totale che si vede in Iraq e che si estende progressivamente a tutta l'Asia del Sud-ovest dimostra la perdita di controllo crescente delle grandi potenze di questo mondo sull’orientamento generale della società. La dinamica della guerra in Iraq è solamente l'esempio drammatico e barbaro di ciò che spetta a tutta l'umanità se la classe operaia lascia andare il capitalismo alla sua unica prospettiva. L'ingranaggio in cui sono trascinate tutte le potenze imperialiste, comprese le più forti, non può che produrre, in maniera più drammatica, guerre come quella che si svolge in Iraq. Attualmente questa barbarie in piena evoluzione tocca il cuore dell'Europa, con gli attentati terroristici dell'11 marzo scorso a Madrid il cui obiettivo era il massacro più alto possibile della popolazione operaia. È importante che il proletariato comprenda che, contrariamente a ciò che tende di farci credere la borghesia, questa evoluzione guerriera, totalmente irrazionale e barbara, non è dovuta alla follia di alcuni dirigenti del mondo. È di dominio pubblico per esempio che J.Kerry, il candidato democratico alle prossime elezioni presidenziali americane, non ha nessuna alternativa da proporre all'attuale orientamento in politica estera dell'amministrazione Bush. Qualunque sia il risultato di queste elezioni, il fondo della logica imperialista americana non sarà per niente modificato. La fuga in avanti militare dell'America che rifiuta il suo indebolimento storico e la sua perdita di controllo sul mondo è un fatto totalmente irreversibile. Il disordine mondiale attuale non è dovuto, come afferma la propaganda della borghesia, ad un fanatico religioso chiamato Ben Laden o ad un'amministrazione americana composta di altri fanatici della guerra ad oltranza come Rumsfeld o Wolfowitz. Proprio al contrario, è il fallimento in corso del capitalismo mondiale, che spinge questo in una logica di guerra totalmente irrazionale che determina l'evoluzione dei comportamenti della borghesia e delle squadre che governano gli Stati. In questo senso, il capitalismo tenderà sempre più, nell'avvenire, a portare al potere delle frazioni della borghesia più fanatizzate, comprese quelle delle più grandi potenze di questo mondo. Come hanno sempre affermato i marxisti, solo il proletariato porta in sé la capacità di distruggere il capitalismo ed impedire a questo mondo di crollare nella peggiore delle barbarie. La classe operaia deve ricordarsi che a mettere fine al primo macello mondiale fu la rivoluzione del proletariato in Russia nell'ottobre 1917.
Tino (25 giugno)
Innanzitutto va messa in evidenza l’esagerazione delle reazioni della maggioranza di governo che ha trattato l’azione dimostrativa, un po’ goliardica dei “disobbedienti”, come se si trattasse di un crimine efferato, da condannare senza appello e con la minaccia delle peggiori punizioni: “un’azione criminale” secondo il ministro Maroni, da trattare con “tolleranza zero” secondo il sottosegretario Sacconi, proposta subito raccolta dal ministro dell’interno Pisanu che a caldo ha affermato “la prossima volta pugno di ferro”, e qualche settimana dopo ha promesso l’arresto immediato agli autori di altre bravate simili. Quanto perbenismo, quanto rigore nel rispetto della “legalità” da parte di gente che questa legalità se la mette tutti i giorni sotto i piedi, che ruba e truffa per miliardi e poi si fa delle leggi apposite per evitare la condanna!
Ma che una destra borghese, e per giunta al governo, alzi la voce in difesa della legalità borghese non sorprende nessuno. Meno scontata può sembrare la reazione simile avuta dagli esponenti della sinistra, che anche loro invece si sono subito schierati in difesa della legalità violata: “vandalico e illegittimo” ha commentato Antonio Di Pietro, “bocciatura totale e senza appello” per Walter Veltroni, mentre Bertinotti ci ha tenuto a dire “la condanno senza esitazioni” (1)
Meno scontata questa reazione, ma solo in apparenza. La sinistra borghese è sempre stata in prima fila nella difesa dell’ordine e della legalità, soprattutto di fronte alle possibili reazioni proletarie alla fame e alla miseria, ed ha sempre svolto con zelo questo suo ruolo quando è stata al potere. Basta ricordare cosa diceva il ministro di Grazia e Giustizia, Palmiro Togliatti a proposito degli assalti ai forni fatti dalla popolazione affamata nell’immediato dopoguerra:
“Ai primi Presidenti e ai Procuratori Generali delle Corti d’Appello: non sarà sfuggito all’attenzione delle Signorie Loro Illustrissime che, specie in questi ultimi tempi si sono verificate in molte province del Regno manifestazioni di protesta da parte di reduci e disoccupati, culminate in gravissimi episodi di devastazione a danno di Uffici pubblici e di depositi alimentari(…) Questo Ministero, pienamente convinto dell’assoluta necessità che una energica azione intrapresa dalla polizia per il mantenimento dell’ordine pubblico debba essere validamente affiancata ed appoggiata dall’autorità giudiziaria, si rivolge alle Signorie Loro invitandole a voler impartire ai dipendenti uffici le opportune direttive affinché contro le persone denunciate si proceda con la massima sollecitudine e con estremo rigore. Le istruttorie ed i relativi giudizi dovranno essere esplicati con assoluta urgenza, onde assicurare una pronta ed esemplare repressione, (…)” (Ripreso da Rivoluzione Internazionale n.96, giugno 1996)
Al confronto i vari Veltroni e Bertinotti sono dei ....“buonisti” (o, per meglio dire, meglio che non sono al governo, se no seguirebbero l’esempio del loro grande maestro).
Pur non avendo responsabilità di governo, pur non dovendo prendersi in prima persona il carico di reprimere i movimenti di dissenso, la sinistra ha tenuto comunque a dimostrare la sua natura di strenuo difensore dell’ordine e del sistema capitalista, e questo ad ogni buon conto, onde evitare che i proletari possano pensare di farsi beffe delle leggi borghesi: chi ruba è un criminale! Dicono loro. Ed infatti i capitalisti che rubano plusvalore a milioni di operai sono i peggiori criminali della storia! Diciamo noi.
Ma questa nostra denuncia dell’ipocrisia e del perbenismo borghese e piccolo-borghese, non significa che siamo per il cosiddetto “esproprio proletario”, infatti una cosa è l’azione collettiva della classe che reagisce alla miseria, come appunto nel dopoguerra, un’altra è l’azione dimostrativa isolata da qualsiasi contesto di lotta di classe come in questo caso. Il termine “esproprio proletario” era in voga ai tempi dei movimenti studenteschi degli anni sessanta e settanta che pretendevano di parlare al posto della classe operaia, anzi di dare l’esempio agli operai “imborghesiti” dai sindacati. Con una bella faccia tosta, infatti, Casarini e compagni si sono rivolti ai lavoratori dell’ipermercato assaltato con frasi tipo “ma ti rendi conto che ti sfruttano?” (no, sicuramente non lo sapevano), o, peggio ancora, menando le mani contro i commessi che cercavano di non farli entrare. Nel ‘68, i “radicali dell’epoca andavano fuori alle fabbriche per convincere gli operai a fare sciopero anche quando non ce n’erano le condizioni. E per dare l’esempio di quello che secondo loro era la lotta di classe, organizzavano manifestazioni violente ed “espropri proletari”, vere e proprie provocazioni che per fortuna gli operai non seguivano. E proprio per questo, i teorici di quei movimenti si inventavano nuovi soggetti sociali, destinati a fare la rivoluzione al posto di una classe operaia tradizionale ormai addormentata. Sono di allora le teorie sui “tecnici” come i nuovi soggetti rivoluzionari, e questo solo perché non erano i tradizionali operai con la tuta blu. Oggi ci sono i Francesco Caruso (poveri noi!!) che cercano di rinnovare queste teorie, scoprendo una ”nuova classe sociale” che sarebbero i precari, i lavoratori senza garanzie e sicurezze. Come se fosse il livello di sfruttamento che rende rivoluzionaria una classe o uno strato sociale, e non il posto che occupano all’interno della società. La classe operaia è caratterizzata dal suo ruolo di principale produttore di ricchezza e dal fatto di avere in cambio della ricchezza prodotta solo una sua parte, mentre il resto viene rubato loro dai capitalisti che vivono e riproducono il loro sistema grazie a questo plusvalore estorto agli operai. Questa è la condizione di tutti gli operai del mondo intero, quale che sia il loro grado di sfruttamento, quali che siano le regole che governano il loro lavoro. La precarietà, se costituisce una caratteristica sempre più dominante per i lavoratori del mondo intero è in realtà una situazione che attraversa l’insieme della società: precarietà nella sicurezza del posto di lavoro (che colpisce anche la piccola e media borghesia, vedi i tanti manager finiti in rovina appresso alle aziende di cui si facevano difensori); precarietà nella vita quotidiana (a causa della crescita della criminalità), o nella semplice speranza di vita, visto il dilagare della guerra a sempre più paesi del mondo, ivi comprese le cittadelle del capitalismo, raggiunte anche loro dalla guerra sotto la forma del terrorismo, che minaccia anche la popolazione più inerme ed innocente (si pensi alle vittime dell’attentato ai treni di Madrid, tutti lavoratori pendolari).
Perciò chi crede di individuare una situazione che investe tutti o quasi gli strati sociali come LA condizione per individuare un soggetto rivoluzionario, non solo non capisce niente di marxismo, ma in realtà contribuisce alla campagna che tende a negare la lotta di classe e il ruolo della classe operaia. Spacciando le azioni avventuriste per lotta di classe, tagliando a fette la classe operaia dividendola tra precari e non , tra “garantiti e non”, Caruso, Casarini e compagni si schierano a fianco di tutti i borghesi che lavorano contro la classe operaia e la sua lotta: gli uni (i difensori ufficiali della borghesia) negando ogni possibilità di lotta di classe, gli altri (i presunti sovversivi) facendo passare per lotta di classe quello che non lo è, e contribuendo alla divisione della classe operaia.
Helios
1. Le citazioni sono prese dagli articoli dedicati all’avvenimento dal quotidiano La Repubblica nei giorni 7, 8 e 9 novembre.
Il NCI ha preso conoscenza delle tre “dichiarazioni” del “Circulo de Comunistas Internacionalistas” del 2 ottobre, 12 ottobre e 21 ottobre. Il NCI dichiara solennemente che il contenuto di queste dichiarazioni è una sequela di menzogne e di calunnie vergognose lanciate contro la CCI.
Il NCI si dissocia da queste dichiarazioni del detto “Circolo”, dichiarazioni lanciate, alle sue spalle e senza che esso sia stato consultato, da un individuo che faceva parte del NCI, ma che il Nucleo oggi rigetta.
Il NCI mantiene la sua dichiarazione, fatta nel mese di maggio 2004, che condanna la FICCI ed i suoi comportamenti. Così come mantiene le sue analisi, in particolare sugli avvenimenti in Argentina del 2001 e sulla questione della decadenza del capitalismo.
Il NCI continua la discussione allo scopo di chiarificarsi a livello politico, con il sostegno della CCI.
Le menzogne, le calunnie, sono comportamenti indegni e che non appartengono alla classe operaia.
Il NCI si impegna a fare un riassunto della sua traiettoria dalla sua nascita fino ad oggi.
Il NCI, nella sua riunione del 27 ottobre 2004.
Con la morte di Arafat la borghesia ha perso uno dei suoi. Ed è per questo che i media, i dirigenti non solo arabi ma anche occidentali si sono mobilitati per rendergli un ultimo vibrante omaggio e che la cerimonia funebre al Cairo, poi a Ramallah è stata trasmessa dalle catene televisive del mondo intero, quando nei fatti non si trattava neanche di un capo di Stato.
Arafat, un feroce nemico del proletariatoLui aveva ben altri titoli di “gloria” per i suoi pari. Quello che ci hanno presentato come un “grande uomo”, una grande figura degli ultimi cinquant’anni, e che dopo la sua morte rischia di diventare un eroe leggendario del mondo arabo, era soprattutto un grande procacciatore di carne da cannone, un nemico feroce del proletariato.
Dietro il mito della creazione di uno Stato palestinese ha trascinato e mandato per trent’anni generazioni di operai a farsi massacrare fanaticamente nell’arena delle guerre imperialiste, per la “causa incondizionata”, la più tipicamente borghese, il nazionalismo. E’ stato uno dei pionieri del reclutamento in massa dei ragazzini di una dozzina d’anni o di adolescenti per inviarli al massacro tanto nei ranghi dei “feddayin” o delle forze armate del Fatah, che come martiri kamikaze, portatori di bombe distruttrici. Ha incoraggiato bambini ancora più piccoli a partecipare attivamente all’Intifada. La difesa della “causa palestinese” alla quale avrebbe sacrificato la sua esistenza, ha permesso ad Arafat di ricevere il sostegno di una larga parte della borghesia, nel quadro degli scontri interimperialisti, simboleggiato dall’ammissione ufficiale dell’OLP all’ONU nel 1974, sotto i nutriti applausi dell’assemblea, quando era ancora sotto la protezione dell’URSS. Ha avuto diritto ad un’altra salve d’onore ufficiale, questa volta sotto l’alto padronato diretto della borghesia americana, con l’attribuzione del premio Nobel per la Pace nel 1994, condiviso con il Primo ministro israeliano Izthak Rabin per gli accordi di Oslo del settembre 1993. Ha ricevuto il sostegno ammirato di uomini di destra e di sinistra e soprattutto di tutte le organizzazioni della sinistra “radicale” del capitale per essere stato un indefesso campione nella mistificazione della “lotta di liberazione nazionale”, nel nome della “difesa eroica del popolo palestinese”.
Il suo passato è quello di un volgare capo banda che ha fatto la maggior parte della sua “carriera” commissionando attentati terroristici ciechi e particolarmente sanguinari contro il “nemico israeliano”. Si è imposto come capo guerriero alla testa dell’OLP a colpi di fucilate, di ricatti e di regolamenti di conti. Ha acquisito il suo statuto di uomo politico nella stessa maniera, eliminando senza pietà e spesso col sangue i suoi principali concorrenti. Dispotico, pieno di ambizione, imbevuto di potere, sguazzante in un ambiente corrotto fino al midollo, circondato da cortigiani che diventavano molto presto dei traditori o dei potenziali rivali, i suoi metodi mafiosi da piccolo caid erano il prodotto del capitalismo decadente che lo ha generato. Cumulando le funzioni di leader politico, capo dell’esercito e delle forze di repressione all’interno dell’Autorità palestinese, non ha mai esitato a imprigionare, torturare e far sparare sul quel “popolo palestinese” che pretendeva di “difendere”. È così che non ha mai smesso di rafforzare tutti gli strumenti di oppressione e di sfruttamento delle masse palestinesi. La sua funzione essenziale è stata anche quella di stroncare senza pietà, nel nome del mantenimento dell’ordine e mano nella mano con l’esercito israeliano, ogni tentativo di ribellione e le proteste disperate di una popolazione imbavagliata, ricattata, affamata, che sprofonda in una miseria sempre più nera, mentre viene già decimata, messa a lutto e terrorizzata dai bombardamenti, dai massacri, dal pesante tributo pagato quotidianamente all’Intifada.
Verso un incremento del caos e della barbarieLa morte di Arafat rappresenta per la borghesia un vero sisma non solo per la situazione della Palestina, del Vicino e del Medio-Oriente, ma anche perché va a modificare la situazione per l’insieme degli Stati arabi ed ha delle ripercussioni sull’evoluzione dell’insieme delle relazioni internazionali.
In questo covo di briganti imperialisti, sotto il pretesto della difesa della causa palestinese e del rafforzamento dell’amicizia con i diversi Stati arabi, la Francia ha approfittato dell’occasione per attirare verso di sé i favori dei dirigenti arabi e palestinesi, al fine di mettere la sua zampa imperialista in Medio-Oriente. Essa ha assestato un bel colpo sul piano diplomatico facendo ricoverare Arafat nell’ospedale militare della regione parigina dove poi è morto. Non limitandosi a precipitarsi al suo capezzale, Chirac ha potuto in questo modo attirare un nugolo di dirigenti dell’OLP e dell’Autorità palestinese e moltiplicare le trattative con questi ed altri leader arabi. In esclusiva, il governo francese ha potuto riservare un aereo e rendergli gli onori militari con un cerimoniale degno degli omaggi resi ad un vero capo di Stato prima di farlo trasferire al Cairo e poi a Ramallah. In Palestina, al momento dei funerali, il mondo ha potuto vedere volteggiare dalle finestre le bandiere palestinesi insieme a quelle francesi mentre la folla portava i ritratti di Chirac a fianco a quelle del Raïs. La Francia che pretende di agire in nome della pace non può che gettare olio sul fuoco nel tentativo di ostacolare gli interessi degli Stati Uniti.
Del resto, questo avvenimento favorisce soprattutto il regime di Sharon in Israele il cui principale obiettivo, proclamato in questi ultimi mesi, era di eliminare, anche fisicamente, il leader palestinese. Non è strano che delle voci di un avvelenamento del Raïs da parte dei servizi segreti israeliani, il Mossad, siano circolate con insistenza tra numerosi dirigenti palestinesi e siano condivise dall’80% dell’opinione pubblica da Gaza a Ramallah. L’eliminazione di Arafat che divide ed indebolisce il campo palestinese non può che confortare l’equipe Sharon nella sua politica di accelerare il ritiro delle forze israeliane dalla striscia di Gaza per meglio circondare la Cisgiordania ed isolarla totalmente attraverso la costruzione del muro intorno ad essa. La borghesia israeliana è consapevole di trovarsi in una posizione di forza tale da poter imporre i suoi diktat. Nei fatti è un incoraggiamento ad una fuga in avanti nella politica aggressiva e bellicista di Sharon, che mira allo schiacciamento completo dei Palestinesi da parte dello Stato israeliano.
Ma la scomparsa di Arafat tocca ugualmente gli affari della borghesia americana perché questi ultimi mesi, attraverso le esigenze israeliane che reclamavano la sua eliminazione come condizione per la ripresa di qualsiasi negoziato, il personaggio Arafat era diventato un ostacolo sinonimo di blocco della situazione nel Vicino-Oriente. La Casa Bianca punta così sullo scompiglio, il rischio di caos e le divisioni dei Palestinesi per tentare di riprendere in mano le cose a suo vantaggio.
Ma le dichiarazioni ottimiste e rassicuranti sullo “sblocco” delle negoziazioni, avanzate sia da Israele che dagli Stati Uniti, così come da una larga parte della stampa europea, non devono farci illudere. La prospettiva aperta dalla morte di Arafat non è in alcun modo un passo verso la pace, ma può essere solo una nuova accentuazione delle tensioni imperialiste. Non c’è alcun dubbio che Israele e gli Stati Uniti vogliono spingere al massimo la pressione sui Palestinesi, disorientati e divisi.
Si tratta di un indebolimento considerevole del campo palestinese. Con la sepoltura di Arafat abbiamo assistito, nei fatti alla sepoltura definitiva degli accordi di Oslo del 1993. È la fine della speranza della costituzione di uno Stato palestinese che questi accordi hanno fatto intravedere per dieci anni.
La processione dei dirigenti palestinesi al capezzale di Arafat a Parigi durante la sua lunga agonia, non ha risolto lo spinoso problema della successione. È chiaro che malgrado le divisioni e le rivalità del campo palestinese, la corruzione, la repressione ed il discredito che pesava su di lui, egli era un “capo” storico che concentrava tutte le chiavi del “potere” di questo mezzo-Stato (dell’Autorità palestinese, dell’OLP, del braccio armato del Fatah) ed un simbolo di unità. La sua scomparsa apre il vaso di Pandora e come prima cosa un’aspra guerra tra le differenti frazioni palestinesi. Tra i molteplici clan, nessuno sembra in grado di imporsi. Anche se la “vecchia guardia” ha momentaneamente messo a tacere le sue divisioni per nominare un direttorio provvisorio e decidere sulle elezioni per dotarsi di un “capo” entro gennaio, tutti questi uomini di apparato, ridotti a piccoli burocrati arrivisti, sono assenti sul campo e sono incapaci di controllare sia la popolazione che un’organizzazione militare totalmente divisa e parcellizzata, la cui coesione poteva essere mantenuta solo dall’autorità e la personalità di Arafat. Quanto ai piccoli capi di guerra mafiosi, l’autorità della maggior parte di questi non va al di là di un quartiere o un villaggio. Tre esempi sono sufficienti a dimostrare il carattere ingovernabile della situazione: meno di 48 ore dopo il decesso del Raïs e la nomina di Mahmoud Abbas (conosciuto anche sotto il nome di battaglia di Abou Ammar), come nuovo capo dell’OLP, questo ha subito un tentativo di attentato che si è concluso con due morti durante una cerimonia di condoglianze a Gaza che riuniva dei dirigenti palestinesi. Altro esempio, il primo discorso del nuovo presidente dell’Autorità palestinese, Rawhi Fattouh, per mancanza di esperienza, era qualcosa di incomprensibile e la maggior parte dei commenti è stata “chi è e da dove viene fuori questo?”. Infine, e soprattutto, due dei principali rami militari più influenti, l’Hamas e la Djihad islamica, hanno immediatamente annunciato che boicotteranno le elezioni del capo dell’Autorità palestinese in gennaio. Questi apparati militari sono completamente scoppiati come lo testimoniano le lotte e le rivalità imperialiste latenti tra l’Hamas, l’Hezbollah, la Djihad islamica, le Brigate dei Martiri d’Al-Aqsa (anche ribattezzata Brigate Yasser Arafat), il Fatah (sostenuta da questo o quello Stato), così come le rivalità tra i dirigenti politici Mahmoud Abbas, l’attuale Primo ministro dell’Autorità Ahmed Qoreï, che controlla le forze di sicurezza, il più “popolare” capo del Fatah in Cisgiordania, Marwan Barghouti, capo del Fahat Farouk Kaddoumi o ancora il vecchio ministro dell’Interno Mohammed Dahlan.
Non solamente la situazione è portatrice di sanguinosi regolamenti di conti per la successione di Arafat, ma questa non può che generare una recrudescenza di attentati suicidi sempre più devastanti in una popolazione palestinese ridotta alla disperazione e resa fanatica dall’odio e dall’isteria nazionalista di cui viene nutrita da decenni. Questa spirale di violenza sempre più incontrollabile rischia di mettere fuoco alle polveri in una parte ben più vasta del Medio-Oriente.
Win (18 novembre 2004)
Il New York Post, giornale conservatore controllato da Murdoch, ha accusato il film di fare una propaganda grossolana. Ed è stata certamente propaganda, così come lo sono state le notizie regolarmente pubblicate e diffuse ogni giorno dai mezzi di comunicazione, che si trattasse del NY Post o del prestigioso New York Times. Nella fase preliminare dell’invasione all’Iraq tutti questi giornali e tutti i network di trasmissioni televisive nelle loro cronache politiche erano stati totalmente favorevoli alla guerra.
Dopo l’estate invece ci sono
stati notevoli contrasti all’interno della classe dominante in America. Non riguardo
alla necessità di invadere l’Iraq, ma essenzialmente sull’efficacia della
gestione della guerra da parte dell’amministrazione di Bush. Sul fatto se
questa avesse combinato guai tali da rendere più difficili gli sforzi
dell’imperialismo americano a dominare il mondo ed a mobilitare la popolazione
americana per future azioni militari. Un contrasto quindi non su guerra si,
guerra no, ma sulle modalità di attuazione di un accordo complessivo su di un
orientamento politico imperialista preciso: fare ciò che è necessario per
mantenere l’America come unica superpotenza e impedire l’avvento di ogni rivale
o blocco potenziale.
In tutto il chiasso su Fahrenheit
9/11 è stato evidente che ciò che dicevano i cronisti dipendeva dalla
frazione della borghesia alla quale facevano riferimento: se cioè sostenevano
le politiche dell’amministrazione Bush, oppure se pensavano che
l’amministrazione aveva fatto un pasticcio che doveva essere riparato.
Comunque, una cosa è chiara. Fahrenheit
9/11 non è né contro la guerra, né anti-imperialista. E’ semplicemente
anti-Bush. Moore fa un ottimo lavoro nel colpire Bush. La pellicola mette in
scena un insieme di immagini efficaci sull’orrore della guerra, e sulla rozza
incapacità di Bush e della sua amministrazione, e si affida essenzialmente ad
una serie di riprese imbarazzanti di cui non era prevista la diffusione pubblica:
per esempio, Paul Wolfowitz, l’architetto della strategia imperialista
americana in Iraq, è ridicolizzato nella scena in cui usa la saliva per
lisciarsi i capelli prima di apparire in un’intervista televisiva. Moore si
avvantaggia delle ben note manchevolezze di Bush quando parla in pubblico per
evidenziarne la stupidità e la pochezza. In una scena, Bush non riesce a
ricordare il vecchio proverbio inglese che dice più o meno “fregami una volta e
sei tu l’imbroglione, fregami due volte e il fesso sono io…”, facendo una ben
magra figura. Da un punto di vista politico più serio, un’altra scena mostra
Bush che di fronte a un pubblico di opulenti sostenitori riuniti per raccogliere
fondi, dice qualcosa tipo “voi siete i ricchi e i molto ricchi, qualcuno vi
chiama élite, io vi chiamo la mia base”. Bella roba!
Il film contiene immagini interessanti, come l’intervista ad una madre di Flint, Michigan, prima a favore della guerra e che ora dopo la morte del figlio vi si oppone, o una scena in cui Moore chiede ai membri del Congresso se sarebbero disposti a mandare i propri figli a combattere in Iraq, ottenendone in cambio solo sguardi di incredulo rifiuto. Il film danneggia la campagna propagandistica di Bush per giustificare la guerra – già abbondantemente discreditata nei mass media – ma decisamente non è contro la guerra. Moore per esempio sostiene chiaramente l’invasione e l’occupazione dell’Afghanistan da parte dell’imperialismo americano, e concretamente accusa Bush di non essere abbastanza bellicoso riguardo all’Afghanistan. Mette in ridicolo la sua amministrazione per aver avuto legami diplomatici con il regime talebano prima dell’invasione e anche per aver ricevuto la visita dei rappresentati talebani nello Stato del Texas, lo stato di Bush. Moore attacca Bush per non aver invaso prima l’Afghanistan. Così come critica il fatto che il presidente abbia aspettato due mesi prima di attaccare – dando a Bin Laden “due mesi di vantaggio”. E anche che abbia inviato troppo poche truppe in Afghanistan.
Il fallimento in Iraq è
attribuito alle mancanze personali e all’avidità di Bush. Secondo Moore infatti
i rapporti d’affari della famiglia di Bush con la famiglia reale saudita, e dunque
i personali interessi economici, hanno guidato la politica estera americana.
Mette in evidenza il fatto che la maggior parte dei terroristi dell’11 settembre
erano sauditi, come Bin Laden. Anche se si astiene appena dal chiedere di
dichiarare guerra contro la famiglia reale saudita, praticamente accusa Bush di
tradimento per aver passato la sera del 13 settembre 2001 in visita
all’ambasciata saudita di New York, e per aver protetto gli interessi sauditi
negli Stati Uniti. Questa “analisi”, che Moore ha
definito “molto forte” nelle interviste televisive sul film, è la tipica
propaganda capitalistica che consiste nell’attribuire la colpe dei mali della
società agli individui e alle loro politiche piuttosto che al sistema
capitalistico in se’. Moore nasconde completamente il fatto che il capitalismo
americano e i suoi interessi imperialistici sono i responsabili della guerra in
Iraq.
Da buon rappresentate della
borghesia Moore vuol farci credere che la situazione attuale è il prodotto
dell’incompetenza e della stupidità di Bush e della sua amministrazione
incapace di stabilizzare l’Iraq. Ma ciò è completamente falso, perché questa
situazione di instabilità è il prodotto della situazione storica del
capitalismo oggi. Evocare l’incompetenza di questo o quel capo di Stato come
causa delle guerre permette alla borghesia di nascondere la spaventosa
responsabilità del capitalismo decadente e dell’insieme della classe borghese.
Una tale logica assolve questo sistema da tutti i crimini trovando dei capri
espiatori: la follia di Hitler sarebbe la causa della Seconda Guerra mondiale;
la mancanza di umanità e l’inconseguenza di Bush sarebbe la causa della guerra
e degli orrori in Iraq. In tutti e due i casi, questi uomini, con il loro
temperamento e le loro specificità, corrispondono agli interessi della classe
che li ha portati al potere.
Hitler fu sostenuto dall’insieme della borghesia tedesca perché si mostrava capace di preparare la guerra resa inevitabile dalla crisi del capitalismo e dalla disfatta dell’ondata rivoluzionaria seguita all’Ottobre 1917. Lo squilibrio mentale di un Hitler –o piuttosto il fatto di mettere un tale squilibrato al potere – non fu nient’altro che l’espressione stessa dell’irrazionalità della guerra nella quale si lanciava la borghesia tedesca. Lo stesso è per Bush e la sua amministrazione. Questi portano avanti la sola politica che oggi è possibile, dal punto di vista capitalista, per difendere gli interessi imperialisti americani, la loro leadership mondiale, cioè quella della guerra, della fuga in avanti nel militarismo.
La pretesa “incompetenza”
dell’amministrazione Bush, in particolare a causa dell’influenza che ha potuto
avere al suo interno la frazione guerrafondaia ed oltranzista di Rumsfeld e
Wolfowitz, la sua incapacità ad agire sulla base di una visione a lungo
termine, sono rivelatrici del fatto che la politica della Casa Bianca è al
tempo stesso la sola possibile e quella votata all’insuccesso. Il fatto che
Colin Powell, appartenente alla stessa amministrazione e certo capace di condurre
una guerra, abbia espresso delle messe in guardia rispetto alla preparazione
del conflitto che non sono state ascoltate, è una conferma ulteriore di questa
tendenza all’irrazionalità.Non bisogna farsi alcuna
illusione: è l’insieme della borghesia americana che sostiene una politica
militarista, perché questa è la sola possibile per difendere gli interessi
imperialisti.
La vera discussione
all’interno della classe dominante statunitense non era se gli USA avrebbero
dovuto invadere l’Iraq, ma su quale fosse il modo più appropriato per preparare
l’invasione – quali giustificazioni ideologiche avrebbero dovuto essere usate
(armi di distruzione di massa e i legami con al Qaeda oppure le violazioni dei
diritti civili), quanto gli USA avrebbero dovuto premere per ottenere il
sostegno internazionale per l’invasione, e quali tattiche e dottrine militari
avrebbero dovuto essere utilizzate nell’invasione e l’occupazione
In secondo luogo Fahrenheit 9/11 non serve solo a nascondere la natura profondamente borghese della politica imperialista americana ed a orientare la gente verso il partito democratico, ma anche quello di ridare tono alla mistificazione elettorale che ha subito un colpo con il disastro delle elezioni del 2000, dove si sono dovuti fare tutti i conteggi perchè si sospettavano imbrogli. In conclusione, si può andare a vedere Fahrenheit 9/11 per ridere di Bush, e per osservare un’abile propaganda politica borghese, ma che non si pensi neanche per un minuto di stare davanti ad una denuncia politica cinematografica contro l’imperialismo e contro la guerra, con una analisi pertinente degli avvenimenti attuali. Quale che sia la frazione della borghesia al governo, l’imperialismo americano continuerà a spargere guerra.Il solo modo per porre fine alla guerra è porre fine al capitalismo.
Da Internationalism, n°131 (settembre-ottobre 2004)
Sezione della CCI negli Stati Uniti
Pubblichiamo qui di seguito una Dichiarazione del “Nucleo Comunista Internacional” (NCI) d’Argentina nella quale questo prende posizione sulle tre dichiarazioni del “Circulo de Comunistas Internacionalistas” che costituiscono un violento attacco contro la CCI [1]. Come si può leggere in questo testo “Il NCI dichiara solennemente che il contenuto di queste dichiarazioni (del “Circulo”) è una sequela di menzogne e di calunnie vergognose lanciate contro la CCI”. Nella misura in cui questo “Circulo” si presenta sul suo sito web come il “continuatore del NCI”, andiamo a vedere brevemente quale legame esiste realmente tra l’uno e l’altro.
Quale legame tra il “Circulo” e il NCI?
Il NCI è un gruppo di elementi in ricerca che avevano rotto con il trotskismo ed hanno scoperto nel 2002 su internet le organizzazioni della corrente della Sinistra comunista. Hanno preso contatto con la CCI nell’ottobre 2003. Durante questo periodo hanno portato avanti delle discussioni sulle posizioni della CCI, e questo li ha portati ad elaborare una piattaforma (che riprendeva per grandi linee quella della CCI) ed a costituire il NCI.
Nell’aprile 2004, una prima delegazione della CCI incontra il NCI a Buenos Aires. Il NCI e la CCI decidono in comune accordo che la stampa della nostra organizzazione (in spagnolo ed in altre lingue) pubblicherà degli articoli redatti dal NCI su differenti aspetti della situazione in Argentina o internazionale (in particolare sul movimento dei “piqueteros”).
Nel maggio 2004 il NCI, che ha preso conoscenza dei Bollettini della pretesa “Frazione interna della CCI” (FICCI), decide all’unanimità di inviare alla CCI una “Presa di posizione” (datata 22 maggio), nella quale esso afferma di “considerare la FICCI come un’organizzazione al di fuori della classe operaia, di cui preconizziamo l’esclusione e l’espulsione dal seno del proletariato, a causa della sua condotta di carattere borghese”. Dei larghi estratti di questa “Presa di posizione” sono stati pubblicati nella nostra stampa in spagnolo ed in francese e sul nostro sito Internet.
Nell’agosto 2004, un secondo incontro ha avuto luogo in Argentina tra il NCI e la CCI. Il 27 agosto la CCI tiene la sua prima riunione pubblica a Buenos Aires (di cui facciamo un resoconto nella nostra stampa territoriale in francese e spagnolo).
All’inizio del soggiorno della delegazione della CCI, un membro del NCI, B., spinge perché la CCI pubblichi immediatamente un comunicato che annunci che il NCI sarà integrato nella CCI. Gli altri compagni del NCI valutano invece (ed era anche la nostra opinione) che non era opportuno precipitare un tale processo di integrazione. Durante tutto il periodo il cui la nostra delegazione è stata sul posto, B. non ha in alcun momento espresso il benché minimo disaccordo con la CCI.
Nel mese di settembre, B. invia alla CCI varie mail provocatrici allo scopo di spingere la CCI a rompere con lui (e con il NCI a nome del quale lui parla, mentre gli altri compagni del NCI non sono neanche al corrente delle lettere scambiate tra B. e la CCI). Non è che alla vigilia della riunione pubblica del BIPR, a Parigi il 2 ottobre, che la CCI ha scoperto per caso, attraverso un legame sul sito Internet del BIPR, l’esistenza di un “Collettivo di Comunisti internazionalisti” che si è accertato poi essere ... il famoso “Circulo”!
Un impostore al di sopra di ogni sospetto
Quindi, mentre la delegazione della CCI era ancora a Buenos Aires alla fine di agosto, il cittadino B. aveva già voltato faccia e non ha avuto né il coraggio, né l’onestà di informarci dei suoi “cambiamenti” di posizione. In più, già da qualche tempo egli discuteva sottobanco con la FICCI, pur continuando ad imbrogliarci fino a voler precipitare l’integrazione del NCI nella CCI. Il doppio (o triplo?) gioco di questo individuo (e la sua incredibile faccia tosta!) è stato scoperto dalla CCI solo dall’inizio di ottobre. In seguito alla pubblicazione da parte della FICCI della sua prima Dichiarazione fatta a nome del NCI, la CCI ha iniziato a rendere pubblico il carattere torbido dei comportamenti di questo preteso “circulo” [2].
Da questi fatti deriva che:
-questo “circulo” non rappresenta che un solo individuo, l’elemento B., che era membro del NCI ed ha rotto con la CCI (senza aver emesso il minimo disaccordo) per avvicinarsi alla FICCI ed al BIPR;
-gli altri membri del NCI non hanno rotto con la CCI, come pretendono la FICCI ed il BIPR sul loro sito Internet.
Ed è proprio per questo che noi abbiamo potuto smascherare questo impostore. Abbiamo saputo attraverso una nostra telefonata (che rivelerebbe “le metodologie nauseabonde della CCI”, secondo i termini usati dal signor B.), che gli altri compagni del NCI non erano assolutamente informati dell’esistenza di questo “Circulo” che pretendeva di rappresentarli! Loro non conoscevano l’esistenza delle sue “Dichiarazioni” nauseabonde contro la CCI le quali, come ripetono con insistenza, sarebbero stare adottate... “collettivamente” a “l’unanimità” e dopo “consultazione” di tutti i membri del NCI! Il che è una pura menzogna.
L’elemento B. aveva redatto DA SOLO (all’unanimità degli assenti!) queste “Dichiarazioni” calunniose contro la CCI.
Come ha potuto agire all’insaputa del NCI?
Nei fatti questo elemento era il solo a detenere le chiavi degli strumenti informatici del NCI (indirizzo e-mail, sito Web), il che gli ha permesso di costituire alle spalle dei compagni del NCI un gruppo fittizio (il famoso “Circulo”) che parlava a nome e al posto del NCI (vedi il nostro articolo su Internet, in lingua francese e spagnola: “Impostura o realtà?”). I militanti del NCI, non avendo i mezzi per accedere a Internet, non potevano scoprire le sue manovre. Nei fatti, questi hanno iniziato a prendere conoscenza dei testi pubblicati a loro nome, così come delle lettere scambiate nel corso dell’ultimo periodo tra la CCI ed il NCI (in realtà il solo B. visto che lui sequestrava la corrispondenza elettronica), solo quando la CCI ha inviato loro questi documenti attraverso la spedizione postale.
Quale significato bisogna dare alle “metodologie nauseabonde” di questo impostore?
In tutta evidenza le sue azioni torbide sono quelle di un elemento manipolatore che non ha nessuna convinzione politica reale e che, come la FICCI, non trova posto nel campo del proletariato. Il carattere grossolano delle sue menzogne, come la sua febbrile agitazione su Internet, ci avevano permesso di affermare, ben prima che il NCI scrivesse la sua Dichiarazione, che “solo quelli che hanno, non un ‘piccolo nucleo’, ma un pisellino al posto del cervello” potevano credere a queste frottole (Vedi sul nostro sito Internet: “Circulo de Comunistas Internacionalistas”: Una nuova strana apparizione).
È quello che è successo alla Ficci ed al BIPR che hanno dato credito alle menzogne del “Circulo” annunciando pubblicamente che il NCI aveva rotto con la CCI e, soprattutto, pubblicando sul loro sito Web (in più lingue) la sua seconda Dichiarazione, del 12 ottobre, che ha la pretesa di “dimostrare” la “nauseabonda metodologia della CCI”. Giocando con il suo computer, il nostro Webmaster (e grande bugiardo!), era riuscito a farsi conferire un posto da superstar internazionale grazie alla chiassosa pubblicità non solamente della FICCI, ma anche del BIPR.
Che la FICCI abbia fatto un’alleanza entusiasta con il cittadino B. non ha niente di sorprendente: chi si somiglia si accoppia. Ma ben più grave è il fatto che una organizzazione della Sinistra comunista, il BIPR, abbia potuto servire a dar valore all’elemento B. e dare una cauzione ai suoi metodi “nauseabondi”.
Questo “circolo di comunisti(a) internazionalisti(a)” non è nient’altro che una gigantesca impostura.
È nostra responsabilità denunciarlo come tale e mettere in guardia l’insieme del campo politico proletario contro le azioni di questo “circolo” particolarmente... vizioso!
La CCI (3 novembre 2004)
1. Le Dichiarazioni del:
- 2 ottobre nella quale il “Circulo” solidarizza con la FICCI (pubblicata sul sito Web della FICCI);
- 12 ottobre “contro la metodologia nauseabonda della CCI” (pubblicata sul sito della FICCI e del BIPR);
- 21 ottobre intitolata “Risposta al supplemento Révolution Internationale de France” che esiste oggi solo in spagnolo sul sito del “Circulo”.
2. Vedi i nostri tre articoli su Internet in lingua francese e spagnola sul “Circulo de Comunistas Internacionalistas”: “Una strana apparizione”, “Una nuova strana apparizione”, “Impostura o realtà?”
Nella prima parte di questo articolo dedicato alla riunione pubblica del BIPR (Bureau Internazionale per il Partito Rivoluzionario) che si è tenuta a Parigi il 2 ottobre sul tema "Perché la guerra in Iraq?", e che i nostri lettori possono consultare sul nostro sito Internet, abbiamo messo in evidenza come la politica di raggruppamento senza principio del BIPR ha portato questa organizzazione della Sinistra comunista a lasciarsi prendere in ostaggio da un gruppo parassitario (auto-proclamatosi "Frazione Interna della CCI") ([1]). In questa seconda parte dell’articolo, rendiamo conto del dibattito che si è svolto sulla questione della guerra in Iraq.
Abbiamo sempre affermato (in particolare nella stampa) l'assoluta necessità per le organizzazioni che si richiamano alle correnti della Sinistra comunista di condurre un dibattito pubblico, di confrontare le loro posizioni affinché gli elementi alla ricerca di una prospettiva di classe possano farsi un'idea chiara delle differenti posizioni che esistono all’interno del campo proletario.
Un'analisi a geometria variabile?
Sebbene il BIPR (come il PCint e la CWO che l'hanno costituito) abbia sempre difeso l'internazionalismo proletario, durante i peggiori orrori nazionalisti della borghesia, la sua analisi delle cause dei differenti conflitti durante questi ultimi venti anni, è passata totalmente a fianco dell'essenziale. Anche, per quanto riguarda la guerra attuale in Iraq, il BIPR nella sua esposizione introduttiva ha reiterato l’analisi secondo la quale questa nuova guerra avrebbe una razionalità economica (la rendita petrolifera ed il dominio degli Stati Uniti sulle sorgenti de"l'oro nero"). Il BIPR ha difeso questa stessa analisi già in passato, in particolare all'epoca della guerra in Afghanistan nel 2001: "... gli Stati Uniti hanno bisogno che il dollaro resti la moneta del commercio internazionale se vogliono mantenere la loro posizione di super potenza mondiale. Così, innanzitutto, gli Stati Uniti cercano disperatamente di assicurare che il proseguimento del commercio globale del petrolio si faccia in dollari. Ciò vuole dire avere un'influenza determinante nell'itinerario dei condotti di petrolio e di gas anche prima dell'implicazione commerciale americana nell'estrazione alla loro sorgente. Ciò accade quando delle semplici decisioni commerciali sono determinate dall'interesse dominante del capitalismo americano nel suo insieme e lo Stato americano si impone politicamente e militarmente nell'interesse di obiettivi più vasti, obiettivi che si oppongono spesso agli interessi di altri Stati e sempre più a quelli dei suoi alleati europei. In altri termini, questo è il cuore della concorrenza capitalista nel ventunesimo secolo (…)” (citato nella nostra Révue Internationale, n°108, gennaio 2002, nella nostra polemica col BIPR sulla questione della guerra).
Un'analisi simile veniva difesa all'epoca della prima guerra del Golfo nel 1991: "Nei fatti, la crisi del Golfo è realmente una crisi per il petrolio e per chi lo controlla. Senza petrolio a buon mercato i profitti cadono. I profitti del capitalismo occidentale sono minacciati ed è per questa ragione e nessun’altra che gli Stati Uniti preparano un bagno di sangue in Medio Oriente". (citato nella nostra Révue Internationale n°64).
Di fronte all’evidente evoluzione della realtà, il BIPR è stato costretto tuttavia, a proposito del conflitto attuale in Iraq, ad evolvere un po' nella sua analisi. Nella sua introduzione alla riunione il BIPR ha posto come spiegazione di questa nuova guerra tre questioni:
1) le ragioni geostrategiche;
2) la difesa del dollaro come moneta dominante e la rendita petrolifera;
3) il controllo delle zone di produzione petrolifera per una ventina di anni.
Dopo questa presentazione la CCI è intervenuta per mettere in evidenza che l'offensiva americana in Iraq ha essenzialmente delle cause strategiche. Se la domanda del petrolio gioca un ruolo importante, non è soprattutto per ragioni economiche, ma fondamentalmente per ragioni strategiche e militari. Abbiamo ricordato che l'importanza strategica del petrolio non data né da oggi, né dagli anni 1960, ma da prima della Prima Guerra mondiale, dalla meccanizzazione degli eserciti.
Nei nostri interventi abbiamo in particolare sottolineato che la presentazione fatta mostrava una certo avanzamento del BIPR poiché nell'elenco delle cause dell'offensiva americana in Iraq, si poneva al prima posto l'esistenza di ragioni "geostrategiche". In effetti il compagno che ha fatto la presentazione ha “corretto” il nostro intervento affermando che avevamo sentito male (o capito male) il contenuto di questa presentazione poiché, quale che sia l’ordine in cui le cause sono state presentate ... le “cause strategiche” dell’offensiva americana in Iraq, sono per il BIPR “secondarie”!
Il compagno ha affermato anche che, per evitare ogni "malinteso" da parte nostra, avrebbe dovuto distribuirci l'esposizione scritta. Successivamente, il BIPR ha pubblicato sul suo sito Internet in francese questa esposizione scritta. Così il lettore potrà, collegandosi, vedere che il fatto principale sostenuto è proprio quello che avevamo sentito: "Se l'oro nero figura nei calcoli iracheni di Washington, è come risorsa strategica piuttosto che economica. Con questa guerra si tratta innanzitutto di perpetuare l'egemonia americana - e, in questo senso, di avere delle garanzie per l'avvenire - che gonfiare subito i profitti d’Exxon". Non si potrebbe essere più chiari (e noi siamo completamente d’accordo con questa analisi)!
Questa piccola contorsione che consiste nell'affermare che la CCI avrebbe "sentito male" o "capito male" ha permesso al BIPR, durante la discussione, di determinare un impasse totale sulle "cause strategiche" della guerra in Iraq. In realtà, essa è servita solo a mascherare da una parte che le analisi del BIPR sono a geometria variabile e dall’altra che non tutti i compagni del BIPR sono d’accordo con le analisi "ufficiali" della loro organizzazione.
Gli argomenti della CCI
Nei nostri interventi abbiamo insistito sul fatto che, con l'entrata del capitalismo nel suo periodo di decadenza all'inizio del ventesimo secolo, la guerra ha perso ogni razionalità economica per il capitale globalmente inteso ed anche, e sempre più, per ogni Stato in particolare. Abbiamo ricordato che il concetto di decadenza del capitalismo non è un'invenzione della CCI ma l’analisi adottata dall’'Internazionale Comunista nel 1919. Anche l'analisi dell'irrazionalità della guerra in questo periodo di decadenza non è proprio un'idea strampalata uscita della testa degli "idealisti" della CCI. È la Sinistra Comunista francese (GCF), a cui la CCI si è sempre rivendicata, a sviluppare questa analisi affermando che nel periodo di decadenza del capitalismo "la produzione è essenzialmente mirata alla produzione di mezzi di distruzione, in vista cioè della guerra. La decadenza della società capitalista trova la sua espressione eclatante nel fatto che dalle guerre in vista dello sviluppo economico (periodo ascendente), l'attività economica si riduce essenzialmente alla preparazione della guerra (periodo decadente)" (Rapporto della Sinistra Comunista francese alla Conferenza del luglio 1945, citato nella nostra Révue Internationale n°18,"Il corso storico") ([2]).
Abbiamo messo anche in evidenza che il rigetto del carattere irrazionale, sul piano economico, delle guerre nel periodo di decadenza, e la loro irrazionalità crescente nella fase estrema di questa decadenza (quella della decomposizione del capitalismo) porta il BIPR a non fare nessuna differenza tra la funzione delle guerre coloniali e di costruzione di Stati nazionali nel 19° secolo e le guerre che si sono scatenate dal 1914.
Abbiamo pertanto ricordato la nostra analisi secondo la quale nel 19° secolo le guerre erano "redditizie". Avevano una razionalità economica poiché permettevano l'espansione del capitalismo a scala planetaria, mentre nel 20° secolo le guerre hanno preso un carattere sempre più irrazionale. Ed è ancora più evidente oggi: con l'entrata del capitalismo nel suo periodo di decomposizione (aperto con la disgregazione dei due blocchi imperialistici generati dalla Seconda Guerra mondiale) questa irrazionalità sul piano economico ha raggiunto un livello superiore come si è potuto vedere, per esempio, nei Balcani o in Cecenia.
L'ordine mondiale istituito dalla conferenza di Yalta nel 1945 ha ceduto oggi il posto ad un'era di disordine mondiale caratterizzato dallo scatenamento del “ciascuno per sé” sulla scena imperialista. La miopia del BIPR lo porta a non percepire che la logica imperialistica del capitalismo in periodo di decadenza tende ad ubbidire solo e sempre più alla propria logica: quella della fuga in avanti, sfrenata, nella guerra ed in una barbarie crescente. L'intervento della CCI ha messo anche in evidenza le implicazioni dell'analisi del BIPR secondo cui la guerra degli Stati Uniti contro l'Iraq avrebbe ancora una razionalità economica (in particolare la famosa "rendita petrolifera"). In realtà, una tale visione conduce il BIPR a sottovalutare l'estrema gravità della situazione storica attuale (segnata da uno sviluppo di un caos sanguinoso) e, dunque, la gravità della posta in gioco per la classe operaia e per l'avvenire dell'umanità.
Abbiamo inoltre ricordato anche il quadro in cui la CCI ha analizzato le cause di questa nuova guerra in Iraq: "Nel contesto del fallimento del capitalismo e di decomposizione della società borghese, la realtà ci mostra che l'unica politica possibile per ogni grande potenza è provare a mettere gli altri in difficoltà per tentare di imporre se stessa. È la legge del capitalismo. Questa instabilità, questa anarchia crescente e questo caos che si estendono non sono la specificità di questa o quella zona esotica ed arretrata, ma sono proprio il prodotto del capitalismo nella sua fase attuale irreversibile di decomposizione. E dato che il capitalismo domina su tutto il pianeta, è il pianeta intero che è sempre più sottoposto al caos" (Révue Internationale n°118).
La mancanza di serietà degli argomenti del BIPR
Il BIPR non è stato in grado di confutare con un minimo di serietà i nostri argomenti. Rispetto all’analisi della decomposizione del capitalismo, il solo "argomento" politico che abbiamo potuto sentire da parte del BIPR è consistito nello stigmatizzare ancora una volta “l'idealismo" della CCI con un sarcasmo fuori luogo: “con la vostra analisi della decomposizione, tutto è in tutto, il caos, Dio, gli angeli, ..."!
Ma non è tutto. Siamo rimasti sbalorditi nel sentire degli argomenti da fare rigirare Marx ed Engels nelle loro tombe:
1) Quando abbiamo posto la domanda: "Il BIPR difende ancora oggi l’analisi secondo la quale se una terza guerra mondiale non è scoppiata prima del crollo del blocco dell'Est è a causa della bomba atomica e de 'l'equilibrio del terrore"? Sulle prime nessun militante del BIPR ha voluto rispondere alla nostra domanda. Solo quando abbiamo ripetuto questa domanda per la terza volta, uno di loro si è degnato di risponderci, in modo molto conciso (e senza nessuna argomentazione): l'equilibrio del terrore è "UNO dei fattori" che spiega perché la borghesia non ha potuto scatenare una terza guerra mondiale... Insomma, l'analisi classica dei settori borghesi dominanti che, per decenni, hanno venduto ai proletari la spaventosa corsa agli armamenti in nome della "preservazione della pace". Nessun commento!
Oltre a vedere che il BIPR faceva sua la pochezza della propaganda borghese, tutti gli elementi in ricerca presenti a questa riunione pubblica sono restati a pancia vuota: sono usciti dalla riunione senza conoscere quali sono gli "altri fattori" (e soprattutto qual'è il fattore determinante) che, secondo il BIPR, hanno costituito un ostacolo ad una terza guerra mondiale. Invece hanno potuto sentire che per la CCI il fattore essenziale sta nel fatto che, dalla fine degli anni 1960, un nuovo corso storico (quello degli scontri di classe) era stato aperto, segnando la fine del lungo periodo di controrivoluzione che si era abbattuto sul proletariato dopo la sconfitta dell'ondata rivoluzionaria del 1917-23. Se una terza guerra mondiale non è esplosa, non è a causa dell'arma atomica e de "l'equilibrio del terrore", ma proprio perché la classe operaia mondiale non era pronta a versare il suo sangue dietro le bandiere nazionali.
2) Per quanto riguarda l'analisi marxista della decadenza del capitalismo, abbiamo sentito un portavoce del BIPR risponderci in questi termini: "sono stanco di discutere da 25 anni con la CCI”. In effetti, la CCI è talmente "limitata" che non vuole mai capire l’ABC del marxismo, il quale avrebbe insegnato (secondo questo rappresentate del BIPR) che "nel capitalismo bisogna distinguere due cose: la formazione sociale ed il modo di produzione. Si può considerare che c'è decadenza della formazione sociale (anche se io non amo la parola 'decadenza'), ma il modo di produzione non è decadente. Perché se una rivoluzione sociale non interviene, avremo sempre i due, con il crollo della società nella barbarie”.
Prendendo tutte le precauzioni d'uso (è vero che se una rivoluzione non interviene avremo un crollo nella barbarie), il BIPR ha affermato tranquillamente che il capitalismo può essere in decadenza in quanto "sistema sociale", al livello della sua sovrastruttura (ideologie dominanti, cultura, svaghi, costume, morale, eccetera..) ma non in quanto "sistema economico", sul piano cioè della sua infrastruttura (a livello del suo modo di produzione e del modo con cui gli uomini sono organizzati per produrre la loro esistenza).
Ed è nel nome del marxismo, del "materialismo" e certamente contro la visione "idealistica" della CCI che è stato assestata una tale lezione di "dialettica"! Preferiamo lasciare a Marx la cura di confutare simili insulsaggini: "un modo di produzione o un stadio industriale determinato è sempre unito con un modo di cooperazione o uno stadio sociale determinato e questo modo di cooperazione è anche esso una ‘forza produttiva’". "La produzione delle idee, delle rappresentazioni, della coscienza è in primo luogo direttamente intrecciata all'attività materiale ed alle relazioni materiali degli uomini, linguaggio della vita reale". ("L'ideologia tedesca"). Questo "linguaggio della vita reale", il BIPR sembra ignorarlo. Ma, come diceva Spinoza, "l'ignoranza non è un argomento" !
Per il marxismo, la decadenza come l'ascesa di un modo di produzione colpisce tutti gli aspetti della società, perché è lo stato delle infrastrutture (l'economia) che determina quello delle sovrastrutture (la vita sociale), anche se l'evoluzione o l'involuzione di una civiltà non si sviluppa in modo omogeneo in tutti i suoi aspetti. Affermare il contrario non è né materialista, né marxista. E’ cadere nell'idealismo più stupido.
3) Durante la discussione, uno dei nostri simpatizzanti ha chiesto al BIPR: "Se si segue la vostra analisi del ciclo ‘crisi/espansione/nuova crisi, ecc.’, quale è la vostra posizione sulle lotte di liberazione nazionale? Queste sarebbero ancora valide oggi? E ciò vuole dire che i sindacati avrebbero ancora una natura operaia?".
Sulla domanda delle lotte di liberazione nazionale il BIPR non ha dato nessuna risposta. Invece, un compagno del presidium ha affermato che se il BIPR non è per il lavoro nei sindacati è "perché l'esperienza ha mostrato che non serve a niente e non perché il capitalismo sarebbe in decadenza". Noi siamo intervenuti per chiedere al BIPR se rigettava pertanto la posizione difesa dal PCInt nel 1947 citata tuttavia in esergo nelle sue "Tesi sul sindacato oggi e l'azione comunista" (adottate al 4° congresso del PCInt): "Nell'attuale fase di decadenza della società capitalista, il sindacato è chiamato ad essere uno strumento essenziale della politica conservatrice e di conseguenza ad assumere una funzione precisa di organismo dello Stato". (sottolineato da noi).
Il compagno del presidium che ha risposto alla domanda sulla natura dei sindacati, è sembrato allora molto sorpreso che il BIPR o il PCInt. abbiano potuto avere una tale analisi. Visibilmente sembrava scoprire questa posizione programmatica della propria organizzazione (che è comunque pubblicata anche sul sito Web del BIPR)!
Evidentemente la messa in discussione dell'analisi della decadenza del capitalismo elaborata dall'Internazionale comunista, non può che condurre il BIPR a "rivedere" certe posizioni della sua propria piattaforma.
La mancanza di serietà nel dibattito
All'infuori del nostro contributo al dibattito, e delle domande poste dai nostri simpatizzanti (alle quali il BIPR non ha risposto, o ha risposto in modo perlomeno molto confuso) si può segnalare l'intervento di un elemento del campo consiliarista (che noi conosciamo da molto tempo) che è consistito essenzialmente nel criticare la nostra analisi della decadenza del capitalismo (basata sulla teoria della saturazione dei mercati sviluppata da Rosa Luxemburg ne “L'accumulazione del capitale”). Questo elemento è venuto a farci ancora una volta una "lezione di marxismo" difendendo l'idea che il capitalismo globale è ancora oggi in piena fase di accumulazione allargata come dimostrerebbe il formidabile sviluppo economico della Cina!
Quest’analisi (che è oggi molto diffusa tra gli "esperti" della classe dominante) non ha dato adito alla minima critica da parte del BIPR. La CCI è intervenuta quindi per dimostrare che la pretesa "espansione economica" della Cina è costruita sulla sabbia (vedi l’articolo sulla Cina sul n°350 del nostro giornale in Francia, Revolution Internationale)
Inoltre abbiamo dovuto uno dei due supporter della FICCI fare un lungo intervento, incomprensibile e totalmente incoerente, che mirava a "dimostrare" che l'analisi della CCI (e dunque dell'Internazionale Comunista) sulla decadenza del capitalismo è un'assurdità e si situa al di fuori del marxismo.
Altrettanto significativa è stata la "prestazione" dei due "tribuni" della FICCI che si sono agitati non per prendere posizione sull'analisi del BIPR esposta dal presidium, ma per tentare di "demolire" le analisi della CCI ([3]).
La mancanza totale di serietà della FICCI si è ancora una volta manifestata clamorosamente per il comportamento di due dei suoi membri, e dei loro due sostenitori che, invece di prendere la parola per sviluppare un'argomentazione politica, si sono accontentati durante tutta la riunione di adottare un atteggiamento fatto di sogghigni, di sarcasmi (ed anche di applausi di fronte alle critiche portate alle analisi della CCI, come se fossero venuti ad assistere ad una partita di calcio). Questa mancanza di serietà ha del resto profondamente scioccato gli elementi in ricerca che erano presenti. Uno di essi ha chiesto la parola e ha affermato che questo tipo di atteggiamento in una riunione politica non l'aveva “incitato ad iscriversi nella discussione". E’ chiaro quindi che se la CCI non fosse stata presente e se non avesse portato materia alla discussione, non ci sarebbe stato alcun dibattito contraddittorio, alcun confronto delle differenti posizioni. La FICCI, che pretende essere il "vero difensore della piattaforma del CCI", si è, in effetti, guardata bene dall’avanzare la minima divergenza, la minima critica all'analisi del BIPR.
Sul concetto di decadenza del capitalismo (che il BIPR sta "ridefinendo", nei fatti rigettando) i membri della FICCI non hanno speso una parola. Cos’ come hanno evitato pudicamente ogni confronto col BIPR sulla domanda: perché la borghesia non è stata in grado di scatenare una terza guerra mondiale prima del crollo del blocco dell'Est?
La pretesa apertura al dibattito pubblico, per il "chiarimento" ed il "confronto" dei differenti punti di vista in seno al campo proletario a cui si rivendica la FICCI è solamente un bluff adornato da una buona dose di ipocrisia. In realtà, per costituire un "fronte unico anti-CCI", il BIPR e la FICCI preferiscono nascondere i loro disaccordi e discuterli nelle loro riunioni "private"!
Da parte nostra, se ci siamo rifiutati di fare il benché minimo "dibattito" con gli elementi della FICCI (e ciò nonostante i loro interventi provocatori) è perché la CCI è venuto ad una riunione pubblica del BIPR e soprattutto non voleva permettere a questi individui il sabotaggio del dibattito. È per ciò che siamo intervenuti per confutare gli argomenti del BIPR e non quelli di questa autoproclamata "frazione" che si è comportata come una banda di teppisti, rubando del materiale e del denaro alla CCI.
La CCI ha partecipato a questa riunione anche perché non teme il confronto pubblico delle sue divergenze con il BIPR. In questo senso non condividiamo la posizione del BIPR (reiterata alla fine della riunione) secondo la quale il dibattito tra la CCI ed il BIPR "non serve a niente". La nostra concezione del dibattito pubblico non è quella di un braccio di ferro tra i gruppi della Sinistra comunista per sapere che è più “forte", o chi “conquisterà” più elementi. Se siamo interessati alla discussione pubblica di queste divergenze è essenzialmente per permettere agli elementi in ricerca di conoscere non solo le posizioni della CCI ma anche quelle degli altri gruppi del campo proletario. Solo questo comportamento può permettere loro di chiarirsi e di non sbagliare porta se vogliono diventare militanti.
Di fronte agli elementi alla ricerca di una prospettiva di classe, è compito delle organizzazioni rivoluzionarie dare una risposta a tutte le loro domande, convincerli col massimo di chiarezza, di rigore e di serietà nell'argomentazione. Come è loro compito difendere, nelle riunioni pubbliche, la serietà del dibattito politico bandendo ogni atteggiamento parassitario che consiste nell'inquinare questo dibattito attraverso sarcasmi, sogghigni o applausi.
CCI (18 ottobre)
[1] Per ragioni di spazio e di equilibrio del nostro giornale, non pubblichiamo qui la prima parte di questo articolo intitolato "Il BIPR preso in ostaggio da teppisti!”, che il lettore potrà trovare sul nostro sito Web. Chi non avesse la possibilità di consultare il nostro sito Internet, può chiedere questo articolo direttamente al nostro indirizzo. Gli manderemo gratuitamente una copia. Manderemo loro anche la risposta che il BIPR ha pubblicato, sul suo sito Web, sotto i titolo "Risposta ad un'organizzazione in via di disintegrazione".
[2] Un membro della FICCI ha fatto un intervento per tentare di "ridicolizzare" la nostra visione dell'irrazionalità della guerra accusandoci di "revisionismo" ed arrivando ad affermare che siamo "dei Kautsky"! In realtà, sono i tromboni di questa pretesa "frazione" che mostrano di essere i veri "revisionisti", poiché abbandonano oggi l'analisi sviluppata dalla GCF a cui la CCI, per quanto la riguarda, si sempre è rivendicata. Questi rinnegati che pretendono essere i "veri difensori delle posizioni programmatiche della CCI", oggi (per lisciare il BIPR) rigettano questa posizione elementare della nostra piattaforma sulla quale si fonda il nostro quadro di analisi della decadenza del capitalismo.
[3] E per combattere le analisi "kautskiane" e "revisioniste" della CCI, abbiamo ascoltato dalla bocca di quelli che il BIPR chiama i vecchi "dirigenti della vecchia guardia della CCI" (sic!) degli "argomenti" che rasentano il cretinismo. Abbiamo appreso, tra altre "perle" della FICCI, che:
- "La guerra in Iraq rappresenta un guadagno economico maledettamente importante per gli Stati Uniti!"
- Nel pantano iracheno, "l'esercito americano si rinforza" !
- "Prima di comprendere la questione della guerra, il proletariato deve subirla e deve soffrire sulla sua pelle”! Nessun commento.
Pubblichiamo una sintesi della riunione pubblica che la CCI ha potuto tenere a Buenos Aires nell'agosto 2004 grazie al NCI (Nucleo di Comunisti Internazionalisti) d'Argentina di cui abbiamo pubblicato parecchi contributi nella nostra stampa. Malgrado le loro deboli forze e le condizioni estremamente difficili in cui si trovano, questi compagni si sono implicati attivamente nel dibattito per difendere le posizioni di base del campo proletario.
Il 27 agosto la CCI ha tenuto una riunione pubblica a Buenos Aires sul tema della decadenza del capitalismo. Parecchi partecipanti hanno affermato di essere stati piacevolmente sorpresi dalla discussione, viva ed animata, con la partecipazione attiva dei presenti. Hanno visto che questa riunione si trovava agli antipodi di quelle dei gruppi della sinistra o dell'estrema sinistra del capitale in cui un oratore o parecchi oratori a turno scaricano discorsi interminabili che stancano le persone lasciandole demoralizzate. Al contrario, la riunione pubblica della CCI ha dimostrato di essere un luogo dove si può discutere ed opporre argomentazioni diverse con lo scopo della chiarificazione politica che è un'arma della classe operaia. Perché è solo attraverso il fuoco del dibattito che può scaturire la scintilla della chiarezza.
La decadenza del capitalismo minaccia la sopravvivenza dell'umanità
La presentazione ha evidenziato le seguenti questioni: come spiegare le due guerre mondiali, le interminabili guerre regionali e le guerre del caos attuale corredato di un terrorismo cieco e barbaro? Come spiegare la degradazione inesorabile delle condizioni di vita di tutti gli operai del mondo, ivi compreso i "privilegiati" della Germania, della Francia, degli Stati Uniti, ecc.? Come spiegare l'aumento della fame nel mondo, le epidemie e le malattie più spaventose? Come spiegare lo sfaldamento crescente delle relazioni sociali che genera l'insicurezza, il degrado morale, il dilagare delle droghe, la fuga nell'irrazionale, la barbarie più abietta? Come spiegare la minaccia crescente delle enormi catastrofi ecologiche?
La borghesia, in tutte le sue varianti, ci offre ogni sorta di false spiegazioni: ci sarebbe una crisi di ristrutturazione del capitalismo; un capitalismo "riformato" con un intervento dello Stato in grado di corregge le sue tendenze più negative permettere un "altro mondo" possibile, ecc. Di fronte a ciò, la spiegazione data dalla CCI ha messo in evidenza che il capitalismo è un sistema sociale decadente che, dalla Prima Guerra mondiale, si è trasformato in un ostacolo per lo sviluppo dell'umanità. Il proseguire della sua sopravvivenza porta con esso la minaccia di distruzione della specie umana. Come diceva l'Internazionale Comunista al suo primo congresso (marzo 1919): "Il periodo attuale è quello della decomposizione e del crollo di tutto il sistema capitalista mondiale ed sarà quello del crollo della civiltà europea se non si distrugge il capitalismo insieme alle sue insolubili contraddizioni " ([1]).
La classe operaia è l'unica classe sociale capace di distruggere il capitalismo
Questa presentazione, che si è limitata a venti minuti per lasciare il massimo tempo alla discussione, non è stata messa apertamente in questione da nessuno dei partecipanti. La discussione si è incentrata su due questioni:
- Chi può distruggere il capitalismo?
- Che cosa sono veramente la rivoluzione proletaria ed il comunismo?
In generale i partecipanti hanno espresso il loro accordo col fatto che il proletariato è la classe rivoluzionaria che ha nelle proprie mani la lotta per la distruzione del capitalismo. Tuttavia sono stati sollevati dei dubbi, che la discussione ha poi permesso di dissipare:
- il proletariato di oggi è forse completamente differente da quello della fine del diciannovesimo secolo e dell'inizio del ventesimo secolo ed è capace di comprendere la possibilità e la necessità di distruggere il capitalismo visto la sua supposta maggiore "integrazione" alla società capitalista?
- Con la chiusura crescente delle fabbriche, e per il fatto che numerosi operai sono oggi disoccupati, il proletariato non ha perso le sue armi classiche di lotta e, tra le altre, l'arma dello sciopero?
Sebbene non possiamo qui riportare per esteso le risposte date nel corso della riunione pubblica, vogliamo ricordare che dalla discussione è emerso con chiarezza che il proletariato:
- continua ad essere il produttore collettivo delle principali ricchezze della società capitalista la quale non potrebbe esistere senza lo sfruttamento della classe operaia;
- ha come armi principali la sua unità, la sua coscienza e la sua capacità ad organizzarsi massicciamente. È da queste armi che dipende quella dallo sciopero.
Nella discussione si è affrontata anche un’altra questione basilare e cioè che il comunismo non ha mai avuto niente a che vedere con il capitalismo di Stato dell'ex-URSS, di Cuba o della Cina. Rivendicandosi all’"analisi marxista", due partecipanti hanno difeso, il preteso carattere "socialista" (o "come un passo verso il socialismo") dei regimi dell'ex-URSS, della Corea del Nord, di Cuba ecc, affermando che in questi paesi ci sono state delle "rivoluzioni socialiste". Altri compagni hanno risposto loro in modo molto netto con i seguenti argomenti:
- il "socialismo in un solo paese" è un tradimento del proletariato. La sua rivoluzione sarà mondiale o non sarà. Il comunismo non potrà cominciare ad essere costruito che a partire dalla distruzione del capitalismo in tutti i paesi;
- in Russia, in Cina, nella Corea del Nord, ecc., ciò che ha regnato e regna tuttora è solo una forma particolare di capitalismo di Stato, cioè di una tendenza generale che domina tutto il capitalismo mondiale e che si impone sotto diverse forme in tutti i paesi: negli Stati Uniti per esempio, prende la forma "liberale" di una fusione tra la classica borghesia privata e gli interventi molto forti dello Stato in tutti i campi della vita economica, sociale, militare, ecc.;
- la sola rivoluzione proletaria che abbia avuto luogo nel ventesimo secolo, è la rivoluzione russa del ’17 con l'ondata rivoluzionaria che ne è seguita in altri paesi e si è propagata fino in Argentina (la Settimana Tragica). È la sconfitta del proletariato in questi paesi - e principalmente in Germania - che ha posto il bastione proletario in Russia in un tragico isolamento ed in un processo di degenerazione che ha aperto la porta alla controrivoluzione stalinista;
- questa controrivoluzione si è imposta nel nome del "comunismo", della "dittatura del proletariato" e del partito bolscevico che era stato all'avanguardia della rivoluzione. La menzogna del "comunismo" in Russia ha fatto molti danni sulle generazioni proletarie successive. Questi danni hanno provocato una perdita di fiducia di queste nuove generazioni nelle proprie forze ed un dubbio sulla prospettiva comunista.
Per mancanza di tempo la discussione si è dovuta fermare e parecchi partecipanti hanno manifestato la necessità di proseguire il dibattito. In particolare, uno di essi ha proposto di mettere in discussione l’argomento della dittatura del proletariato e come lottare oggi per realizzarla. È stato convenuto anche che una sintesi di questa riunione fosse pubblicata su Internet per permettere il proseguimento della discussione attraverso tale mezzo.
Da Accion Proletaria n° 178, pubblicazione della CCI in Spagna
[1] "Lettera di invito al Partito Comunista tedesco" al primo congresso dell'IC.
Ormai tutti sanno che dire legge Finanziaria e dire stangata è la stessa cosa. E quella 2005 di Berlusconi non smentisce questa convinzione. Dietro la cortina di fumo della riduzione dell’IRPEF, che è irrisoria e tutta a favore dei redditi medio-alti, c’è tutta una serie di aumenti di tasse e bolli (che superano le riduzioni dell’IRPEF) e di tagli di spesa che significheranno servizi sociali sempre peggiori, possibili aumenti di tasse comunali e regionali, e il sicuro licenziamento di decine di migliaia di lavoratori del pubblico impiego mascherato sotto la forma del blocco del turn over o della mancata conferma dei lavoratori precari (in particolare nella scuola).
L’opposizione di sinistra subito strilla che è tutta colpa della natura di questo governo, un governo di destra poco sensibile alle ragioni dei lavoratori e per giunta guidata da uno che pensa solo ai suoi affari e non sa mettere mano all’economia.
Certo, è vero, la sinistra ha dimostrato, in otto e passa anni di governo, di saper difendere gli interessi del capitale nazionale meglio di Berlusconi e compagni, ma a quale prezzo? Sempre e soprattutto a spese dei redditi dei lavoratori, con i tagli ai servizi sociali, con la precarizzazione dei posti e dei contratti di lavoro. Se oggi la sinistra cerca di buttare tutto addosso a Berlusconi non è solo per salvare se stessa, ma, e soprattutto, per cercare di nascondere la vera ragione delle politiche di sacrifici che tutti i governi del mondo, poco importa se di destra o di sinistra, mettono in piedi ormai da anni.
In Germania, per esempio, è il governo socialdemocratico di Schroeder che in un programma di austerità battezzato “Agenda 2010” (il che è praticamente una minaccia) ha cominciato a mettere in atto una diminuzione dei rimborsi per le spese sanitarie, un aumento dei contribuiti per la cassa malattia, l’aumento dei contributi previdenziali e l’abolizione del limite d’età per il pensionamento che già oggi è di 65 anni.
Questo perché la vera ragione di tutti i piani di austerità, delle ristrutturazioni, dei licenziamenti, è la crisi storica del capitalismo, che porta questo sistema a togliere poco alla volta ai lavoratori tutte quelle poche sicurezze che con decenni di lotte e di sacrifici i lavoratori si erano conquistati: la sicurezza di un salario, di un posto di lavoro, di una pensione, di una cassa mutua, e così via.
Né ci si può illudere che prima o poi finirà: questa crisi non ha soluzione e tutti i sacrifici richiesti oggi non servono a una ripresa per domani (quanti decenni sono ormai che cercano di illuderci con questa prospettiva?), ma solo a mantenere un margine di profitto alle aziende e la sopravvivenza dello Stato borghese (nella sua funzione di capitalista collettivo e di garante della pace sociale).
La sola strada per difendersi da tutto questo è la lotta. Una lotta che lentamente sta riprendendo un po’ in tutto il mondo: in Italia, con i ferrotranvieri e gli operai di Melfi nell’inverno scorso; in Germania, dove i lavoratori del settore automobilistico hanno dato luogo a scioperi e manifestazioni contro i piani di licenziamenti e di riduzione salariali, riuscendo a instaurare manifestazioni di solidarietà tra lavoratori contro i tentativi di divisione del sindacato (1); in Spagna, dove sono gli operai dei cantieri navali che si battono contro la riduzione dei posti di lavoro.
Tutte queste lotte si svolgono ancora sotto le costrizioni dei lacci sindacali, e anche per questo non riescono ancora a superare il livello di un solo settore lavorativo (laddove la generalizzazione degli attacchi richiederebbe una risposta unita di tutti i lavoratori). Ma per poter dare una minima efficacia alle loro lotte i lavoratori saranno costretti a liberarsi di questi lacci, di questi agenti sabotatori delle lotte, che vengono sostenuti dallo Stato borghese proprio per questo scopo. E saranno le esigenze stesse della lotta, in primo luogo quello di ritrovare il senso della solidarietà e della unità di classe, che spingerà i lavoratori a riconoscere questo ruolo dei sindacati e cercare strade autonome per evitare nuove sconfitte e nuove delusioni.
Helios, 16/12/2004
1. Nel senso che i lavoratori delle fabbriche che avrebbero dovuto accogliere la produzione delle officine che venivano chiuse, si sono opposti anche essi ai piani di ristrutturazione. Tutto il contrario insomma di quanto fatto dai sindacati italiani che hanno invitato i lavoratori del settore aeronautico della Campania a sollevarsi contro l’intenzione di far costruire il prossimo modello di aereo europeo in Puglia.
Recentemente la CCI ha
inviato una delegazione in Argentina. Essa è stata accolta molto calorosamente
dai membri del NCI che ci hanno confidato che avevano un solo timore: che la
CCI cambiasse idea e che li abbandonasse rinunciando a questo viaggio!
Nel corso di questo nuovo
soggiorno i compagni del NCI hanno preso la decisione di inviare per posta
tradizionale la loro Dichiarazione del 27 ottobre (pubblicata in questo stesso
numero) a tutte le sezioni del BIPR e agli altri gruppi della Sinistra
Comunista allo scopo di ristabilire la verità: contrariamente alle false
informazioni fatte circolare dal BIPR (in particolare nella sua stampa in
italiano), il NCI non ha rotto con la
CCI!
Per due volte i membri del NCI hanno chiesto per telefono all’individuo B. di venire a spiegarsi davanti al NCI e alla delegazione della CCI. Il signor B. ha rifiutato ogni incontro e ogni discussione e ci ha riattaccato il telefono in faccia. Questo comportamento rivela tutta la doppiezza di questo individuo: preso con le mani nel sacco, adesso si nasconde come un coniglio nella sua tana!
I compagni del NCI ci hanno riportato elementi supplementari sul comportamento di questo piccolo avventuriero di provincia. Il signor B. aveva un profondo disprezzo per gli altri membri del NCI. Questi sono operai che vivono nella miseria, mentre B. esercita una libera professione e si era anche vantato di essere il solo membro del NCI a “potersi pagare il proprio viaggio in Europa”. I compagni del NCI ci hanno anche svelato i metodi di B.: egli teneva divisi i militanti del NCI facendo in maniera tale che essi non potessero mai riunirsi tutti assieme. Li tratteneva individualmente o a piccoli gruppi per tenere delle discussioni personali con essi. B. non voleva che i membri del NCI approfondissero le questioni politiche e passava velocemente da un tema all’altro. È perciò che i compagni del NCI avevano stimato che essi non erano pronti ad aderire alla CCI quando B. aveva fatto tutti gli sforzi, nello scorso agosto, per fare integrare il NCI nella CCI in maniera prematura. Infine i compagni del NCI ci hanno detto di aver preso coscienza del fatto che fino ad allora avevano avuto molte difficoltà a criticare i metodi di questo “piccolo capo” stalinista (senza dubbio a causa del peso del loro passato nelle organizzazioni gauchistes).
Questo individuo aveva anche
cercato di seminare zizzania in seno alla CCI. All’inizio di settembre ci aveva
mandato una e-mail nella quale accusava uno dei nostri compagni (che faceva
parte della delegazione che era stata in Argentina nel mese di agosto) di
avere, con i suoi comportamenti, costretto un membro del NCI a traslocare. Nel
corso di questo nostro ultimo viaggio, questo militante del NCI ci ha assicurato
che questa era una menzogna pura e semplice: se lui ha dovuto traslocare è
stato solo perché non poteva più pagare l’affitto! Abbiamo conservato una
traccia scritta di questa ripugnante menzogna del signor B.
Malgrado lo choc subito con
la scoperta delle menzogne e delle manovre messe in atto, a nome loro e a loro insaputa, da questo sinistro personaggio, i
compagni del NCI hanno espresso la loro determinazione a proseguire una
attività politica commisurata alle loro deboli forze. È grazie alla loro accoglienza
molto fraterna e al loro impegno politico che la CCI ha potuto tenere una seconda
riunione pubblica il 5 novembre a Buenos
Aires, il cui tema è stato scelto dal NCI (vedere il nostro sito in spagnolo).
Durante tutto il tempo del suo soggiorno a Buenos Aires la delegazione della CCI è stata ospitata dai compagni del NCI che ci hanno offerto calorosamente questa loro disponibilità nonostante le loro spaventose condizioni di vita. La maggioranza di loro è disoccupata, senza nessun sussidio da parte dello Stato. Un altro compagno (la cui compagna è stata licenziata) ha appena perso il suo alloggio.
Malgrado le terribili
difficoltà materiali che essi incontrano nella vita quotidiana, i membri del
NCI hanno insistito con la nostra delegazione: essi vogliono implicarsi di più
in un attività militante e in particolare continuare la discussione con la CCI.
Quelli che sono disoccupati vogliono ritrovare un lavoro non solo per poter
continuare a sopravvivere e nutrire i loro figli, ma anche per uscire dal sottosviluppo
politico in cui il signor B. li ha mantenuti.
Rompendo con il cittadino B.
e con i suoi metodi borghesi, i compagni del NCI si comportano come dei veri
militanti della classe operaia. Essi hanno tracciato delle prospettive di
lavoro con la delegazione della CCI. In prima istanza hanno deciso di formarsi
nella utilizzazione degli strumenti informatici per potersi servire di Internet
e fornirsi di un indirizzo e-mail (1).
Al momento della partenza
della nostra delegazione, i compagni del NCI ci hanno ringraziato per la nostra
visita. Ci hanno detto che non avevano mai incontrato (nel loro percorso
politico passato) una organizzazione come la CCI, con un tale rispetto dei
militanti. Hanno insistito più volte che la CCI li chiami regolarmente per
telefono.
Così, la CCI non abbandonerà il NCI. Non permetterà al signor B. (e al suo piccolo “circolo” vizioso) di esercitare il minimo ricatto, la minima pressione di qualsiasi natura per cercare di distruggere questo “piccolo nucleo” in un paese isolato. E’ perciò che su richiesta unanime di tutti i militanti del NCI la CCI continuerà ad usare la sua “metodologia” (definita “nauseabonda” dal signor B. e dai suoi complici della FICCI!) consistente nel fare loro dei colpi di telefono regolari (2).
C.C.I. (17 novembre 2004)
1. Per ogni corrispondenza e ogni sostegno finanziario al NCI, scrivere alla casella postale o all’indirizzo e-mail di Accion Proletaria, sezione della CCI in Spagna.
2. È in questi termini che nella sua “Dichiarazione” del 12 ottobre, questo mitomane manipolatore aveva sparso le sue menzogne nauseabonde attribuendo alla CCI le sue proprie turpitudini (come i suoi alleati della FICCI, che gli hanno dato il loro “benvenuto” nel loro Bollettino n.28!): “Noi facciamo questa dichiarazione in seguito a una serie di denunce effettuate dai militanti del Circolo di Comunisti Internazionalisti, e su loro richiesta, che raccontano che essi sono stati oggetto di chiamate telefoniche da parte della CCI. Tuttavia, queste chiamate telefoniche non erano innocenti. Esse avevano la subdola intenzione di distruggere il nostro piccolo nucleo (...). Su loro richiesta unanime, i compagni che la CCI ha chiamato a telefono per seminare i germi della diffidenza e della distruzione del nostro piccolo gruppo, propongono all’insieme dei membri del Circolo dei comunisti internazionalisti il rigetto totale del metodo politico della CCI che essi considerano come tipicamente stalinista” ! (Vedere ugualmente il nostro articolo su Internet: “Circolo di Comunisti Internazionalisti”: impostura o realtà?”
Come abbiamo già detto sulla nostra stampa, la vittoria dell’uno o dell’altro non costituiva la posta in gioco per la borghesia americana. Nondimeno, il fatto che il candidato su cui era caduta la sua scelta non è stato eletto a causa di una difficoltà a canalizzare questa parte dell’elettorato particolarmente permeabile ai temi più arcaici ed oscurantisti, costituisce un’espressione dell’indebolimento della potenza americana. In effetti l’empasse al quale è confrontata la leadership americana sulla scena mondiale si riflette in una certa difficoltà della borghesia americana a controllare il gioco politico.
Di fronte alla politica imperialista degli Stati Uniti che può esprimersi e svilupparsi solo in una direzione militare e guerriera, la conferma dell’equipe Bush per i prossimi quattro anni designa una evoluzione della situazione mondiale ancora più drammatica e barbara. La classe operaia non può aspettarsi niente dalle elezioni negli Stati Uniti, così come in qualsiasi altra parte del mondo. Ha invece tutto da temere dalla caduta del capitalismo nel caos e la barbarie.
Tino (18 novembre 2004).
Una volta tanto siamo d’accordo, almeno in parte, con Berlusconi quando dice “con la sinistra morte e miseria”. Quello che il presidente del consiglio usa come attacco contro i suoi nemici politici del centro-sinistra è, contrariamente a tutte le risentite e sdegnate risposte del campo avversario, una verità sacrosanta. La cosa che fa però di questa accusa una nefandezza è che Berlusconi la riserva alla sola sinistra e non completa la frase dicendo che, qualunque sia il sistema di potere, in questo o quel paese, quello che ci aspetta è comunque e sempre più “morte e miseria”. Il perché di questa affermazione - che può sembrare, sulle prime, alquanto forte - è che la società in cui viviamo ci mostra, ormai da tempo, che viviamo sempre più con la mancanza assoluta di prospettive, di vie di uscita da una situazione buia dal punto di vista economico e sociale. Le vecchie generazioni hanno conosciuto fasi di crescita e fasi di crisi economica, ma quelle più giovani conoscono solo disoccupazione, precarietà e miseria. Questa deriva della società verso uno stato di impoverimento e di precarizzazione crescenti non sono la responsabilità della destra avida e rapace – come vorrebbe farci intendere la sinistra attualmente all’opposizione in Italia e quindi più al riparo da critiche aperte – ma della crisi economica sempre più profonda del sistema capitalista e dell’impossibilità di porvi rimedio in quanto sistema ormai storicamente superato1. E’ di fronte a questa crisi storica che le “soluzioni”, di destra o di sinistra, sono non solo dei semplici palliativi per la crisi del sistema ma anche scudisciate sempre più profonde inferte nella carne dei lavoratori. Così, alle buffonate di Berlusconi sulla riduzione delle tasse, che sono fumo per i più e vantaggi consistenti solo per alcuni pochi ricchi, corrispondono le finanziarie di lacrime e sangue prodotte dai vari governi di sinistra in Italia (e nel mondo) nell’illusione di uscire da un tunnel che non finisce mai.
D’altra parte ci sono degli episodi che fanno riflettere sulla precarietà crescente della nostra società, come ad esempio lo tsumani che si è abbattuto sul sud-est asiatico a Natale e che ha prodotto la scomparsa di una popolazione estesa quanto quella di una grande città. Se il disastro è stato così immane non è per colpa delle forze oscure della natura ma, come spieghiamo nell’articolo pubblicato in questo stesso giornale, per colpa del cinismo e dell’incapacità della borghesia. Oggi che ti sbattono in faccia telefonini di tutti i tipi e in tutte le salse, dire che il disastro è avvenuto perché sul posto mancavano mezzi tecnologici adeguati per avvertire la popolazione è veramente non solo ridicolo ma del tutto irrispettoso per tutti i morti che ne hanno fatto le spese. E che dire ancora del recente incidente ferroviario avvenuto in Italia che è costato la vita a 17 persone, tra cui i 4 macchinisti, e ancora una volta non per colpa del governo Berlusconi ma per la politica dei tagli del personale e di intensificazione dei ritmi di lavoro, che è opera dei governi di destra quanto di sinistra perché entrambi sempre convinti sostenitori della necessità di risparmiare sui controlli, sulla sicurezza, pur di essere competitivi. Ma la loro competitività la pagano i lavoratori, i pendolari e la povera gente che ci rimane stecchita in questi incidenti. E ancora la Cina, la “grande promessa economica” di questo periodo, il paese in cui si è recentemente recato Ciampi accompagnato da una galassia di imprenditori e di politicastri da quattro soldi, è anche il paese in cui si producono di continuo incidenti disastrosi nelle vecchie e accidentate miniere di carbone con centinaia di morti all’anno! Anzi è proprio questo sacrificio continuo di vite umane sull’altare del dio capitale che permette al capitalismo cinese, (altro che comunismo!), di mostrare questo effimero quanto precario sviluppo dell’economia.
E questo senza parlare di tutte le guerre, passate e recenti, dimenticate o in prima pagina dei giornali, con le migliaia e migliaia di morti l’anno e le distruzioni e la disperazione che procurano. Distruzioni e disperazione che a loro volta dalla periferia del mondo stringono come un assedio sempre più stretto le metropoli del capitalismo, raggiungendole di tanto in tanto non attraverso scontri a fuoco tra opposti eserciti, ma sempre più attraverso atti di terrorismo cieco, che mirano al mucchio per fare quanti più danni è possibile, perché forte sia la ferita, forte il ricatto all’insieme della popolazione per farla schierare ora con dei lupi, ora con delle iene.
E’ questo lo scenario di fronte al quale si trova oggi sgomenta l’umanità. Ed è questo sgomento che la borghesia cerca di sfruttare per perpetuare uno stato di paralisi che, istintivamente, proviene dal vivere in questo mondo. Ma questo non è l’unico scenario possibile, questo non è l’unico mondo vivibile. L’incapacità di questa classe che domina oggi, di destra o di sinistra che sia ma unita dalla comune determinazione di mantenere alla base del suo dominio lo sfruttamento capitalista dell’uomo sull’uomo, non deve scoraggiarci a cercare delle alternative. La classe dei lavoratori ha mostrato, in altre circostanze, di sapere dare delle risposte ai quesiti che si ponevano davanti all’umanità. Ha saputo dire no alla guerra durante la stessa prima guerra mondiale provocando la rapida conclusione di quest’ultima e realizzando per la prima volta in Russia un potere sotto il controllo dei lavoratori; ha saputo reagire più recentemente contro un potere, quello stalinista della Polonia del 1980, producendo uno sciopero di massa che ha visto l’insieme dei lavoratori polacchi imporre il loro gioco ai rappresentanti del governo; ha ancora più recentemente ripreso a esprimersi, a manifestarsi attraverso episodi di lotta importanti, come quelli dello scorso anno in Germania, in Italia, in Austria, dove le lotte hanno cominciato ad esprimere, al di là delle mistificazioni sindacali, una tendenza alla ricerca della solidarietà, e dove, ancora in maniera più estesa, sorgono minoranze di lavoratori, singoli individui, espressione di una riflessione che si produce nel profondo della classe e che porta ad una voglia di battersi, di fare qualcosa, superando lo scoramento e la demoralizzazione che questa società, attraverso tutti i suoi mass-media, tende a sviluppare. E’ questa ripresa di fiducia nella classe in se stessa che conferma la possibilità, oltre che la necessità, che questo mondo abbia un futuro piuttosto che la lenta e progressiva autodistruzione in cui il capitalismo tende a spingerlo in questa fase storica.
19 gennaio 2005 Ezechiele
1. Vedi l’articolo su Il concetto marxista della decadenza del capitalismo all’interno del giornale
Il mondo continua ad affondare nel caos: la miseria si estende fino al cuore dei paesi più sviluppati, la disoccupazione massiccia e di lunga durata non risparmia più nessuno, la guerra tra Stati tocca quasi tutti i continenti. Tuttavia, di fronte a questa distruzione permanente, la borghesia non smette di parlare di benessere, di prosperità, di progresso: dov’è il progresso nella guerra che, quasi dovunque, decima le popolazioni e distrugge le città, i campi, le foreste? Dov’è il benessere quando migliaia di esseri umani muoiono tutti i giorni di fame? Dov’è la prosperità quando più nessun’operaio su questa terra può sapere quale futuro lo attende?
Di fronte a questo paradosso si è costretti a porsi delle domande: perché una società che si suppone debba progredire, portare sempre più benessere e sicurezza, riversa invece l’esatto contrario sull'umanità? Perché succede tutto questo? E' forse una fatalità? La borghesia ha delle risposte: ci assicura che si tratta della "cattiveria" umana, della mancanza di democrazia, di difficoltà economiche passeggere dovute ad una cattiva regolazione dei flussi finanziari, al rialzo del prezzo delle materie prime sui mercati, all'appetito immorale degli speculatori sugli stessi mercati, ecc.
Ma queste “spiegazioni” stonano con lo stato della situazione e nonostante che le propinino da tempo le cose non migliorano, anzi proprio il contrario. Allora, perché un tale disastro dopo tutti i progressi che ha conosciuto l'umanità? Perché tutta questa miseria quando sembrano esserci tante ricchezze da sfruttare? In effetti queste “spiegazioni” passano accanto, evidentemente volontariamente, alla sola realtà in grado di permetterci di capire. Questa realtà è quella della crisi economica mondiale. E quando noi, rivoluzionari marxisti, oggi parliamo di crisi non lo facciamo sulle stesse basi della borghesia. Parliamo di una crisi insormontabile che segna il fallimento del sistema capitalista.
Per affermare questo non ci basiamo sulla semplice osservazione "fotografica" della realtà attuale, ma su tutta l'analisi marxista dello sviluppo del capitalismo. Su questa base affermiamo che il capitalismo è entrato da circa un secolo nella sua fase di decadenza e che in questa fase, contrariamente alla fase di ascendenza, la crisi capitalista diventa un elemento insormontabile il cui sbocco può essere solamente: o la distruzione dell'umanità e di tutte le realizzazioni del suo sviluppo attraverso la storia, o il superamento delle contraddizioni mortali del capitalismo da parte della classe operaia nella sua lotta per la costruzione di una nuova società.
È in questo senso che la decadenza è per noi marxisti il quadro di analisi fondamentale della situazione e che, senza questo quadro, non solo è impossibile comprendere la realtà del mondo attuale, ma anche tracciare una prospettiva realistica. Perché ben lungi dal portarci alla demoralizzazione, al "no future", la teoria marxista della decadenza pone le basi per la prospettiva comunista, che non è uscita dalla volontà degli uomini, ma si fonda su tutta un'analisi dello sviluppo delle società umane: il materialismo storico.
Lo sviluppo delle società nella storia
La decadenza non è un'invenzione della CCI. È invece un concetto centrale dell'analisi marxista dello sviluppo delle società umane, è al centro del materialismo storico. Fin dall'inizio Marx ed Engels hanno stabilito come metodo di lavoro analizzare innanzitutto lo sviluppo sociale dell'umanità come chiave di comprensione dello sviluppo della società contemporanea. I due fondatori del marxismo, nel corso di queste ricerche, hanno scoperto che la società umana si organizzava intorno alla produzione, attività primaria e centrale dell'uomo. Era dunque nell'organizzazione dei mezzi di produzione che si delineavano i rapporti sociali.
Affrontando la questione immediatamente sul piano storico, sono arrivati ad analizzare come l'evoluzione dei mezzi di produzione e della loro organizzazione influiva sull'organizzazione sociale. E, per riassumere al massimo, si è visto che lo sviluppo dei mezzi di produzione, necessario di fronte alla quantità dei bisogni da soddisfare, raggiungeva ad un certo stadio un livello tale che l'organizzazione di questi mezzi di produzione diventava inadeguata ed in fine un ostacolo ad un ulteriore sviluppo. Bisognava quindi che fosse modificata radicalmente l'organizzazione della produzione perché quei mezzi di produzione potessero essere utilizzati al massimo e continuare il loro sviluppo. (1)
Questo cambiamento non si è prodotto dolcemente: come abbiamo detto, intorno alla produzione si delinea l'organizzazione sociale, e fino ad oggi l'umanità ha dovuto gestire la penuria. Da lì è nato necessariamente il possesso, la proprietà, lo sfruttamento... Interessi e poteri si sono cristallizzati dunque intorno alla produzione. La rimessa causa dell'organizzazione della produzione comportava mettere in discussione le posizioni economiche, politiche e sociali delle classi dominanti. E quindi solamente attraverso una rottura più o meno violenta questo cambiamento poteva avere luogo.
Ecco perché l'evoluzione dei mezzi di produzione non è avvenuta in modo lineare e senza rottura, in un processo di ascesa continua. Ecco perché ogni sistema di produzione è passato attraverso una fase di decadenza durante la quale l'evoluzione dei mezzi di produzione si è scontrata senza soluzione contro la loro organizzazione, mentre si sono liberate nella società delle forze rivoluzionarie di fronte alle forze reazionarie attaccate ai loro privilegi.
Nella società romana la produzione è organizzata in schiavi che lavorano, e padroni che li fanno lavorare. Questo modo di produzione ha permesso lo sviluppo della produzione fino a che questa non ha raggiunto un livello che ha posto un problema: per continuare a produrre occorrevano più schiavi i quali in effetti erano i prigionieri fatti durante le guerre, ed i limiti geografici della guerra, coi mezzi dell'epoca, cominciavano ad essere raggiunti. Inoltre, lo sviluppo delle tecniche di produzione richiedeva una mano d'opera più specializzata, che la schiavitù non poteva fornire... Si vede in quest’esempio che il modo in cui la produzione era organizzata diventava sempre meno adattato alla produzione, e che per continuare a sviluppare questa, l’organizzazione, che ne aveva permesso fino ad allora lo sviluppo, andava oramai cambiata perché era diventata un ostacolo.
È per ciò che gli schiavi sono stati emancipati e sono diventati dei servi della gleba. A sua volta il sistema feudale ha permesso lo sviluppo della produzione finché questa non si è trovata di nuovo di fronte ad un ostacolo. Sono i rapporti capitalisti che trasformano il produttore del Medioevo in uomo libero che vende la sua forza lavoro al capitalista. Di nuovo, la produzione trova un'organizzazione capace di permettere il suo sviluppo. Uno sviluppo molto veloce, mai visto prima, e che ha permesso per la prima volta all'umanità di uscire dalla penuria.
Se il passaggio da un modo di produzione all'altro non è stato lineare e senza scossoni (per così dire, da una fase ascendente all’altra), è perché questo modo di produzione si traduce in dei rapporti sociali ed in un'organizzazione sociale particolare in seno alla quale la classe dominante difende con le unghie e con i denti i propri interessi contro la prospettiva di un capovolgimento dell'ordine stabilito. Durante questo periodo, l'incompatibilità crescente tra il livello raggiunto dalla produzione ed il modo con cui è organizzata si traduce in convulsioni sempre più forti. La decadenza comincia dunque quando i rapporti di produzione diventano un ostacolo per lo sviluppo della produzione. Essa continua finché nuovi rapporti di produzione non possono essere stabiliti. La decadenza è il periodo del fallimento della vecchia società finché non viene fondata la nuova.
Il capitalismo, si è visto, certamente non fa eccezione alla regola. Ma la decadenza del capitalismo si differenzia dalle fasi di decadenza del passato perché nelle società del passato i germi della nuova società esistevano già e si sviluppavano nel seno stesso della vecchia società. In seno alla società feudale, la borghesia ha conquistato poco a poco il potere economico ed al tempo stesso ha trasformato buona parte della produzione prima di giungere essa stessa al potere politico. Nel capitalismo tutto ciò non è possibile. La classe rivoluzionaria, il proletariato, non può instaurare dei nuovi rapporti di produzione senza distruggere quelli che esistono attualmente. Qui risiede tutta la gravità della decadenza capitalista.
Vediamo, dunque, che per i marxisti la decadenza non è un concetto morale. I marxisti sviluppano il concetto di decadenza come un concetto scientifico, materialista, cioè fondato sullo sviluppo materiale delle società umane. Non neghiamo che questi periodi si siano manifestati attraverso la cupidigia ed i costumi dissoluti delle classi dominanti: sappiamo per certo che il blocco storico dello sviluppo delle forze produttive trova il suo riflesso nella società umana a tutti i livelli. La decadenza non è una teoria economica, del resto Marx non ha fatto che la critica dell'economia. Ciò non toglie che la spiegazione si pone chiaramente sul terreno materialista.
Le specificità della decadenza del capitalismo
Quando l'Internazionale Comunista (IC) parlava de “l’era delle guerre e delle rivoluzioni”, non poteva riassumere meglio ciò che il capitalismo decadente andava ad offrire all'umanità. Infatti, il capitalismo ha creato durante la sua ascesa il quadro ideale del proprio sviluppo, quello della nazione. E' intorno a queste nazioni che il capitalismo ha assicurato il suo sviluppo, è a partire da questo quadro che è partito all'assalto delle colonie, ed è a partire da là che, oggi, stabilisce i suoi rapporti di concorrenza inasprita dalla crisi. La sola soluzione per la borghesia alla crisi di sovrapproduzione diventa la guerra. Questa implica un periodo di ricostruzione che termina in una nuova crisi di sovrapproduzione.
Possiamo situare l'entrata del capitalismo nel suo periodo di decadenza all'inizio del ventesimo secolo: la Prima Guerra mondiale, prima di tutta la storia dell'umanità, manifesta chiaramente il nuovo corso. La ricostruzione che l'ha seguita terminò velocemente con una crisi senza precedenti negli anni ‘30, e quindi con una seconda guerra mondiale. Vediamo delinearsi il ciclo "crisi-guerra-ricostruzione-nuova crisi", ma questo non è un ciclo che può ripetersi all’infinito. Al contrario, è una spirale infernale che trascina tutto al suo passaggio. Perché se il capitalismo era capace di superare le crisi di sovrapproduzione nella sua fase di ascesa, attraverso la sua espansione e la proletarizzazione crescente della popolazione, oggi, sono stati raggiungi i limiti e la crisi è permanente. La sola "via d’uscita" è la guerra.
Si tratta dunque di un'era di guerre. Ma come l'ha annunciato l'IC alla sua fondazione nel 1919, si tratta anche di un'era di rivoluzione. Infatti, il capitalismo sviluppandosi ha fatto nascere il suo becchino: il proletariato, unica forza sociale capace di rovesciare il capitalismo e di costruire una società futura. Raggiungendo i suoi limiti, il capitalismo apre la porta al suo superamento. Per il proletariato è all’ordine del giorno il compito immenso di fondare, sulle rovine del capitalismo distrutto dalla sua lotta, una nuova società capace di gestire l'abbondanza e di offrire alle forze produttive un quadro adattato al loro sviluppo.
La prospettiva comunista non è nuova. L'idea di costruire una società libera dall'oppressione e dall'ingiustizia si ritrova nell'antichità e nel Medioevo. Ma non basta volere una società migliore per poterla instaurare. Occorre che le condizioni materiali lo permettano. Anche la rivolta degli oppressi non è nuova: gli schiavi hanno scritto grandi pagine della storia umana con il rifiuto della loro condizione. Tuttavia, queste rivolte erano destinate all'insuccesso perché la situazione materiale, il livello di produzione, non permetteva all'umanità di uscire da uno schema di società di classi e di sfruttamento: fino a che l'umanità avrebbe dovuto gestire la penuria, non avrebbe mai potuto costruire una società giusta. È il capitalismo che permette all'umanità di intravedere questa prospettiva. Oramai, la produzione ha raggiunto un livello che permette di superare la penuria: la preistoria può concludersi. La prospettiva comunista non è più un ideale o un'utopia, è una possibilità materiale ed anche di più: è una necessità per la sopravvivenza della specie umana. È una necessità per fermare il capitalismo nella sua spirale distruttrice che minaccia di riportare l'umanità all'età della pietra.
Ecco cosa fa della decadenza capitalista una decadenza particolare: essa segna la fine della preistoria, la fine della lunga marcia dell'umanità dalla penuria verso l'abbondanza. Ma questa fine non è già scritta nel “destino del mondo”: la fine della preistoria potrebbe essere semplicemente la fine della storia se niente verrà a fermare la barbarie che arroventa il pianeta. Il comunismo non è una certezza: è attraverso una dura lotta che la classe operaia potrà instaurarlo, e l'esito di questa lotta è ignoto. E' per questo che i rivoluzionari devono armarsi il più possibile per poter armare la classe operaia nella sua lotta contro la borghesia e per la costruzione di una nuova società.
La comprensione dell'analisi della decadenza fa parte di questo armamento politico. E' un quadro fondamentale sviluppato dal marxismo fin dalla sua origine. Si parla di decadenza ne "L'ideologia tedesca" di Marx ed Engels scritta ancor prima de "il Manifesto". La decadenza impregna tutta l'analisi marxista dell'evoluzione delle società umane. Mettendo in luce la successione di periodi di ascendenza e di decadenza nella storia, il marxismo permette di comprendere come l'umanità si è potuta organizzare e progredire. Il marxismo permette di comprendere come e perché il mondo è così oggi, ed infine, il marxismo permette di comprendere che è possibile superare questa situazione e costruire un altro mondo.
17 dicembre 2004 G.
1. E' questo che Marx ed Engels, parlando del capitalismo, riassumono nei Principi di una critica dell'economia politica attraverso questa frase: “Al di là di un certo punto, lo sviluppo delle forze produttive diventa una barriera per il capitale; in altri termini, il sistema capitalista diventa un ostacolo per l'espansione delle forze produttive del lavoro. Arrivato a questo punto il capitale, o più esattamente il lavoro salariato, entra nello stesso rapporto con lo sviluppo della ricchezza sociale e delle forze produttive che il sistema delle corporazioni, la servaggio, lo schiavismo, ed esso è necessariamente rigettato come un ostacolo. L'ultima forma dello schiavismo che prende l'attività umana - lavoro salariato da un lato e capitale dell'altro - è allora messa a nudo, e questa messa a nudo stessa è il risultato del modo di produzione che corrisponde al capitale. Essi stessi negazione delle forme anteriori della produzione sociale asservita, il lavoro salariato ed il capitale sono a loro volta negati dalle condizioni materiali e spirituali uscite dal loro processo di produzione. E' attraverso conflitti acuti, crisi, convulsioni che si traduce l'incompatibilità crescente tra lo sviluppo creatore della società ed i rapporti di produzione stabiliti”.
In Iraq si succedono attentati dopo attentati. La morte falcia le vittime a dozzine. L’esercito americano conta fino ad oggi 1276 morti (dei quali più di 100 nell’ultimo mese) e 9765 feriti. L’assalto su Falluja ha fatto almeno 2000 vittime tra i ribelli. Nessun bilancio è stato reso noto circa le dozzine di migliaia di abitanti intrappolati negli scontri che non erano potuti scappare. Il bilancio della guerra è di minimo 15.000 vittime. Una rivista medica inglese avanza un bilancio realistico di almeno 100.000 morti!
Attentato dopo attentato, i media ci snocciolano il conteggio delle vittime, sinistro elenco quotidiano della barbarie tra le tante rubriche dei fatti e delle questioni della società, alla stessa stregua di qualsiasi cronaca d’attualità. Questa banalizzazione dell’orrore, presentato come una fatalità, un fenomeno “naturale” ed infarcita di menzogne e campagne ideologiche sulle sue cause, mira a far accettare al proletariato la barbarie generata dal capitalismo in decomposizione ed a sterilizzare l’indignazione che questa suscita. Questa assuefazione alla barbarie, che grava in continuo sulla coscienza del proletariato, deve essere combattuta in quanto strumento della borghesia per mantenere la passività della classe operaia ed assicurare così il suo dominio di classe sulla società.
L’estensione della barbarie costituisce una delle manifestazioni più mostruose del fallimento del sistema capitalista in putrefazione. Il capitalismo, che sottomette parti sempre più importanti del pianeta al flagello della guerra, rappresenta una minaccia per la civiltà e la sopravvivenza stessa dell’umanità.
Un nuovo balzo nel caos
La più grande operazione delle truppe americane dopo la caduta di Saddam Hussein contro la città di Falluja, così come il proseguimento delle offensive militari “nelle settimane e nei mesi a venire” (come quella del novembre scorso portata avanti da 5000 soldati nel “triangolo della morte” della provincia di Babilonia) non ha portato a nessuna stabilizzazione. Al contrario, la reazione degli Stati Uniti alla perdita di controllo sul paese ormai in piena anarchia ed il forcing che avrebbe dovuto creare le condizioni per la tenuta di elezioni generali destinate a dare credibilità alla loro presenza in Iraq, non fanno che favorire l’implosione dello Stato iracheno nella guerra civile generalizzata e le convulsioni tra le varie cricche presenti sul posto. Gli attentati e gli scontri cruenti si moltiplicano non risparmiando nessuna parte del territorio.
Nella stessa Bagdad gli attacchi avvengono ormai direttamente contro la “zona verde”, il settore ultra protetto del centro. La strada dell’aeroporto, chiusa dopo il lancio di missili contro aerei americani, è ormai fuori dal controllo americano. Scontri in pieno giorno nella città hanno reso necessario l’impiego dei blindati ed la chiusura di interi quartieri. Ramadi è passata sotto il controllo della guerriglia. Scontri hanno avuto luogo, al Nord, a Balad, Baji e Baaquba. Mossul, la capitale curda è stata presa e mantenuta per tre giorni dagli insorti rifugiati di Falluja I peshmerga curdi, che formano il grosso della guardia nazionale irachena impegnata a Falluja e nella ripresa di Mossul, sono sempre più implicati negli scontri.
La presa di Falluja (città che “ha fornito un buon numero degli ufficiali dell’esercito e dei servizi di sicurezza di S. Hussein, che hanno partecipato alla repressione degli Sciiti” (1) e rifugio di questi quadri dell’antico regime dopo la prima battaglia di Falluja), fatta con la tacita approvazione delle autorità sciite, acuisce le tensioni tra Sciiti e Sunniti: “Hilla, città sciita, e Latifiya, città sunnita, si sono date ad una guerra larvata a colpi di assassini, di imboscate e di rapimenti” (2). E’ stata già creata una milizia sciita antisunnita. In più la divisione degli uni e degli altri di fronte agli scrutini prospetta cruenti regolamenti di conti tra frazioni rivali. Rappresentando il 60% della popolazione in Iraq, e da tempo estromessi dal potere sotto S. Hussein, gli Sciiti condotti dall’ayatollah Al-Sistani sono i più calorosi partigiani della tenuta delle elezioni da cui sperano di trarre profitto. Mentre la frazione sciita di Moktada Al-Sadr, che quest’anno ha condotto due insurrezioni anti-americane, rifiuta di parteciparvi a causa delle persecuzioni contro i suoi partigiani.
Nemici da sempre, le principali organizzazioni curde dell’UPK e dell’UDK, per l’occasione si uniscono. Tra i Sunniti, il fronte del rifiuto degli scrutini si è lesionato: se la principale organizzazione, il Comitato degli Ulema, mantiene la parola d’ordine del boicottaggio, varie organizzazioni sunnite hanno deciso di giocare la loro carta, in particolare il Partito Islamico, uscito da Fratelli mussulmani. Assassini politici e omicidi di personalità già si moltiplicano all’interno di questa tana di lupi.
L’aumento degli attentati terroristici all’avvicinarsi delle elezioni non si alimenta solo di per sè stesso: questa è l’arma di guerra che utilizzano sottobanco gli imperialismo rivali agli Stati Uniti al fine di indebolire la posizione americana.
Le rivalità imperialiste alimentano la barbarie
A dispetto del loro indebolimento a livello mondiale ed in Iraq dove sono previsti nuovi ritiri di truppe (da parte dell’Ungheria a fine dicembre, dai Paesi Bassi in marzo), gli Stati Uniti rispondono colpo su colpo, come lo dimostra la tenuta della conferenza sull’Iraq di Sharm-el-Sheihk del 25 novembre. Innanzitutto questa consacra il ritorno degli Stati Uniti nell’ONU, il che gli permette di conferire alle proprie imposizioni imperialiste la legittimità del “diritto internazionale”, accordato dalla risoluzione 1546 che serve da base alla risoluzione adottata, e di imporsi momentaneamente rispetto ai rivali, in particolare alla Francia. Gli Stati Uniti sono riusciti a dare un colpo all’imperialismo francese facendo passare i suoi tentativi di aumentare la propria influenza in Iraq per vane gesticolazioni: la Francia, “che era stata la prima, insieme alla Russia, a reclamare la tenuta di una conferenza internazionale sull’Iraq, ha dovuto rivedere al ribasso le sue ambizioni. Mentre reclamava un calendario per il ritiro delle truppe della coalizione, dovrà accontentarsi di un vago ricordo del carattere temporaneo della loro presenza in Iraq” (3). Inoltre è stata rigettata la sua proposta di aprire la conferenza non ai soli protetti degli americani al potere a Bagdad, ma a tutte le forze politiche irachene, “compreso un certo numero di gruppi o persone che attualmente hanno scelto la via della resistenza con le armi” (4), provando a tutti quelli che speravano nel sostegno della Francia che essa non dispone dei mezzi per mettere in opera le sue pretese.
Infine, facendo piegare la Francia, che con il sostegno di Mosca e di Berlino rifiutava uno sgravio superiore al 50% a beneficio di una cricca sotto tutela americana, l’accordo sulla riduzione dell’80% del debito iracheno, è un ulteriore successo americano.
L’Iraq costituisce il punto nevralgico degli scontri tra potenze in competizione per la difesa del proprio posto imperialista nel mondo. La fuga in avanti nel ricorso alla forza militare da parte degli Stati Uniti (che porteranno il loro dispositivo militare da 142.000 a 150.000 uomini alla fine di gennaio), così come la maggiore virulenza nella risposta che questa determina, non solo accelerano la disintegrazione dell’Iraq, ma estendono l’onda di choc su tutti i paesi vicini rafforzandovi le tendenze centrifughe. Dalla Palestina al Pakistan, dall’Arabia al Caucaso, la destabilizzazione della zona strategica più importante del mondo capitalista ha e avrà delle conseguenze importanti su tutta la situazione mondiale. La caduta nel caos di tutta la regione illustra drammaticamente che nella fase di decomposizione del capitalismo, le rivalità imperialiste e l’uso ripetuto della forza militare (che estende il conflitto e lo rende meno controllabile), costituiscono il fattore essenziale dello sviluppo senza precedenti della barbarie.
Scott 15 dicembre
1. Libération del 16 novembre 2004
2. idem
3. Libération del 22 novembre 2004
4. M. Barnier, idem
Nonostante l'abbassamento del dollaro e il rialzo del petrolio, gli specialisti delle previsioni economiche vogliono essere rassicuranti visto che i tassi di crescita per il 2004 sono positivi: il 4,7% per gli USA, il 3% per il Giappone, l’1,6% per la zona euro, il 9,1% per la Cina nei primi tre trimestri del 2004. Come interpretare questi risultati? L'economia mondiale andrebbe meglio? Gli Stati Uniti e soprattutto la Cina, che la borghesia presenta come un nuovo Eldorado, possono essere le locomotive del mondo per il rilancio dell’economia, compresa quella europea?
Per rispondere a queste domande è necessario innanzitutto analizzare la situazione della prima potenza mondiale, per rendersi conto di come la borghesia cerca di nascondere al proletariato il fallimento crescente del suo sistema.
L'indebitamento colossale dell'economia americana non è più possibile
Se c'è una cosa sulla quale l'insieme degli specialisti dell'economia mondiale non si sbaglia, è sulla gravità dell'indebitamento della prima potenza mondiale. Per rilanciare la macchina economica, l'amministrazione americana ha lasciato correre i deficit pubblici e commerciali. Ha finanziato in modo artificiale il consumo famigliare (questo consumo rappresenta più dei due terzi del PIL americano e ha un'influenza determinante sull'attività economica) attraverso l'abbassamento massiccio delle tasse a favore delle famiglie deciso dopo la recessione del 2001 (in effetti, ci sono stati abbassamenti ripetuti nel 2001, 2002, 2003, e 2004, per un totale di 1900 miliardi di dollari su 10 anni) ed ha portato i tassi di interesse dei prestiti bancari ai più bassi livelli dal 1945 ad oggi (la FED ha abbassato il tasso di prestito al 1%). Nonostante queste misure la crescita economica è ricaduta al 3,5% contro il 5% di qualche mese fa. La fiducia dei consumatori è ulteriormente scesa nell'ottobre 2004 al suo livello più basso livello negli ultimi 7 mesi, ed i deficit non cessano di approfondirsi. L'amministrazione americana parla anche di "doppi deficit" per qualificare la loro gravità. Il deficit di bilancio si è alzato a 413 miliardi di dollari, dopo i 377 miliardi di dollari del 2003. Gli esperti si aspettano un accumulo di 3000 miliardi di dollari di debiti supplementari da qui al 2011. "Il governo deve prendere in prestito oggi 1,1 miliardi di dollari al giorno e spende di più per assicurare il servizio degli interessi del debito (159 miliardi), ciò che corrisponde alla somma dei budget dell'educazione, della sicurezza interna, della giustizia, della polizia, dei vecchi combattenti, dell'esplorazione spaziale e dell'aiuto internazionale" (Le Monde del 4 novembre). In quanto al deficit commerciale, esso supera i 650 miliardi di dollari, il 5,7% del PIL. La situazione non è migliore per gli altri Stati capitalisti. L'impennata del petrolio e la volata dell'euro dovrebbero riportare i tassi di crescita in Europa al massimo al 2%, in un contesto dove i debiti pubblici non smettono di crescere e dove nessuno Stato europeo è in grado di rispettare il 3% del deficit, fissato dal trattato di Maastricht. Più del 4,1% di deficit per la Francia, 3,9 per la Germania, 3,2 per l'Inghilterra, il doppio dell'anno precedente, più del 4% per l'Italia.
L'abbassamento del dollaro: una manifestazione dell'acuirsi della guerra commerciale
I vertici del G7 si susseguono e si somigliano tra loro per il fatto che dietro i discorsi unitari e volontaristici per avere delle politiche comuni, nella realtà poi succede tutto il contrario. L'aggravamento della crisi e particolarmente dell'indebitamento americano, con i rischi inflazionistici che comporta, tende ad accrescere l'aspetto concorrenziale che è alla base stessa del sistema capitalista. Con l'abbassamento dei tassi di interesse l'amministrazione americana ha sviluppato una politica di abbassamento del dollaro nei confronti dell'euro, la principale moneta concorrente, per potere guadagnare parti di mercato nell'esportazione e fare abbassare il livello del suo debito finanziario. Questa politica di "svalutazione competitiva" è stata già utilizzata dagli Stati Uniti negli anni 1980 e nel 1995. Ciò che differisce oggi è il contesto in cui il governo americano utilizza questo abbassamento del dollaro; e cioè l'accumulo senza precedenti dell'indebitamento della sua economia. Nonostante la pressione sulle potenze economiche rivali permesse dall'abbassamento del dollaro, le esportazioni americane rappresentano sempre il 75% delle importazioni, rendendo ancora più temibile l'insolvenza del debito americano. In questa guerra economica che imperversa, mentre il dollaro ha perso il 25% del suo valore, il deficit estero si appresta a superare il 5,5% del PIL americano. "Riportarlo sotto al 3,5% del PIL, ciò che sembra l'obiettivo, necessita senza dubbio un deprezzamento supplementare del dollaro del 35% contro ogni moneta. L'abbassamento del biglietto verde è il tentativo per cercare di condurre l'economia americana verso migliori equilibri. L'euro dovrebbe salire a 1,70 per 1 dollaro, penalizzando molto le esportazioni europee" (Les Echos del 6 novembre). Di fronte a questa prospettiva di un abbassamento senza precedenti del dollaro, i principali paesi europei ed il Giappone (la cui piccola ripresa economica è basata sul rilancio delle esportazioni) minacciano apertamente gli Stati Uniti di un intervento sui mercati finanziari attraverso le loro banche centrali per fare risalire la moneta americana. La gravità della situazione attuale non risiede tanto nella concorrenza tra i paesi industrializzati, che è del resto l'essenza stessa del capitalismo, quanto nella tendenza di questa, nel cuore stesso del capitalismo (Stati Uniti, Canada, Europa, Giappone), a rimettere in causa quel minimo di intesa che è esistita fino ad ora tra le grandi potenze per respingere gli effetti della crisi sul resto del mondo.
Il rialzo del prezzo del petrolio, un fattore aggravante della crisi
In questo contesto di indebitamento mostruoso dei principali paesi e di abbassamento del dollaro, la volata del prezzo delle materie prime, e particolarmente del petrolio, è venuta a rievocare lo spettro dell'inflazione che ha devastato l'economia mondiale durante gli anni 1970. Da qui la messa in guardia del FMI: "Aspettare troppo a lungo prima di reagire ai primi segni dell'inflazione, potrebbe risultare oneroso da riparare, e costerebbe alle banche centrali una parte della credibilità che hanno impiegato tanto tempo a costruire negli anni 1980 e 1990" (Le Monde, 1 ottobre). Nonostante questa messa in guardia, gli esperti borghesi focalizzano l'attenzione sulle cause di questo rialzo che sarebbe dovuto ad una forte domanda di petrolio a livello mondiale, particolarmente da parte della Cina e degli Stati Uniti ed ad una certa instabilità a livello di approvvigionamenti che, sempre secondo gli esperti, sarebbe solamente provvisoria se certi paesi produttori potessero aumentare la loro quota di produzione. Al contrario, l'analisi marxista pone questo fenomeno in una cornice di analisi più globale. Contrariamente ai rialzi precedenti del ‘73, ‘79 o del ‘97 e 2000, utilizzati dagli Stati Uniti nella guerra commerciale contro gli altri, in particolare l'Europa ed il Giappone (vedi "Il rialzo del prezzo del petrolio: una conseguenza e non la causa della crisi" nella Revue Internationale n°19), questo rialzo ha fortemente penalizzato l'economia in generale e particolarmente il consumo delle famiglie americane, in un contesto dove gli Stati Uniti sono obbligati ad importare molto più petrolio che in passato. Il prezzo elevato del petrolio si ripercuote immediatamente in un aggravamento del deficit del budget americano, tanto più che il petrolio è pagato in dollari e dunque, tendo conto del cambio, costa più caro agli americani che alle economie europee (che pagano il barile con una moneta, il dollaro, meno cara della loro propria moneta, l'euro). L’aumento del prezzo del petrolio mostra, quindi, la gravità della crisi economica ed allo stesso tempo il legame che c’è con le guerre attuali. Malgrado la dimensione speculativa che riguarda unna parte di questo rialzo del petrolio (stimata dagli esperti tra i 4 e gli 8 dollari) questo è anche l'espressione del peso crescente del caos e della barbarie a scala mondiale. I primi fattori ne sono l'incapacità degli Stati Uniti a far ripartire la produzione irachena a causa del pantano militare in cui stanno affondando, le minacce di attentati contro le installazioni del primo produttore mondiale di petrolio, che è l'Arabia Saudita, le agitazioni sociali nel Venezuela ed in Nigeria. Questo insieme di avvenimenti dimostra che non c'è da un lato l'aspetto economico e dell'altro l'aspetto militare o imperialistico, ma al contrario un'interpenetrazione sempre più forte dell'insieme di questi fattori che si alimentano a vicenda portando ad una situazione sempre più caotica e sempre meno controllabile dalla borghesia. L'instabilità ed il disordine crescente del mondo capitalista alimentano l'instabilità economica che di conseguenza può solo produrre maggiore instabilità militare.
L'aumento dei budget militari
In questo contesto di indebitamento astronomico dell'economia mondiale e particolarmente della prima potenza, è necessario denunciare l'aumento delle spese militari che costituisce un fattore supplementare dell'aggravamento dei deficit di bilancio e ciò a scapito dei budget civili che si riducono all’osso per finanziare l'indicibile barbarie che si estende.
Dallo scoppio della guerra in Iraq fino all'occupazione attuale del paese, gli Stati Uniti hanno speso 140 miliardi di dollari. Questo sforzo non è sufficiente poiché "il Pentagono ha appena richiesto, all'inizio di novembre, un supplemento di 70 miliardi di dollari per finanziare le operazioni militari nel 2005" (Le Monde, 9 novembre). Il budget del Pentagono dovrebbe superare nel 2005 i 400 miliardi di dollari, escluso il costo delle guerre in Iraq ed in Afghanistan, il che rappresenta quasi la metà delle spese militari mondiali (esattamente il 45%).
Se si fa il paragone con le guerre precedenti, ci si rende conto del costo esorbitante delle spese attuali: la Prima Guerra mondiale è costata 190,6 miliardi di dollari all'economia americana, la Seconda 2.896,3 miliardi di dollari, la prima guerra del Golfo nel 1991 ha assorbito 76,1 miliardi di dollari in soli alcuni mesi (da "Problemi economici" del 1 settembre 2004").
Ma gli altri Stati non sono da meno. Dalla fine degli anni ‘90 l'insieme dei budget militari è in rialzo a scala mondiale. Si può citare a titolo indicativo il caso della Francia dove nonostante il budget dell'esercito francese sia aumentato in modo significativo in questi anni, il governo ha deciso la concessione di "550 milioni di euro supplementari per finanziare l'impegno militare in corso in Costa d'Avorio e 100 milioni in più per altre operazioni esterne. Queste spese saranno fatte sulle spalle dei ministeri civili" (Les Echos, 10 novembre).
Contrariamente a ciò che racconta la borghesia, quello che viene speso nella sfera militare non è destinato alla riproduzione di capitale produttivo ma corrisponde alla distruzione pura e semplice di capitale investito. Questo significa che lo sviluppo del militarismo e l'aumento delle spese che ne consegue è un peso supplementare che accentua il marasma economico.
Dietro le cifre della sedicente crescita capitalista per il 2004, si nasconde in realtà una nuova drammatica tappa dell'aggravamento della crisi che mostra il fallimento del modo di produzione capitalista.
Donald (12 dicembre)
Sempre più spesso capita di sentire militanti o simpatizzanti del centrosinistra esprimere meraviglia e sconcerto per le continue polemiche che dividono i vari esponenti dei partiti dell'opposizione di centrosinistra; e non tanto le due ali estreme della coalizione, come Bertinotti e Di Pietro, che anzi in linea di massima si ignorano, quanto i due partiti principali della coalizione, DS e Margherita, o addirittura - il che é ancora più incomprensibile - all'interno della stessa Margherita, in cui non passa giorno senza che Rutelli tiri qualche frecciata a Prodi o che gli crei problemi con qualche dichiarazione che provoca reazioni negli alleati, (come la recente uscita sulla necessità di superare la socialdemocrazia). Ed effettivamente la maggior parte di queste polemiche sono incomprensibili, perché non sono legate a grandi questioni di principio o a scelte concrete, ma sembrano solo azioni masochistiche o che esprimono ambizioni personali (e tali sono sicuramente quelle di Rutelli, che non nasconde la voglia di contendere il posto a Prodi e che per questo ci tiene a comparire tutti i giorni sui giornali con le sue dichiarazioni). Ma anche cosi' restano incomprensibili, perché dovrebbe essere chiaro anche a Rutelli che solo Prodi, oltre a rappresentare un buon punto di equilibrio all'interno della coalizione, ha il carisma e l'esperienza per poter battere Berlusconi, per cui indebolire Prodi significa solo rischiare di perdere le prossime elezioni. Percio' il popolo della sinistra si dice: ma come, il governo Berlusconi é cosi' debole che basterebbe un soffio per buttarlo giù, e questi si mettono a litigare con il risultato che Berlusconi resta li' nonostante tutto? Ed effettivamente il governo Berlusconi non sembra godere di grande solidità, viste le insoddisfazioni di tanta parte degli altri poteri economici e statali (Presidente della Repubblica, magistratura, Confindustria), e le divisioni interne alla coalizione che, pure qui, portano a continui e clamorosi litigi sui più diversi argomenti. Anzi, nel caso della coalizione di centrodestra le divisioni sono ancora più marcate: basti pensare alla innaturale coabitazione tra una forza federalista, e tendenzialmente secessionista, come le Lega e una ultranazionalista e centralista come Alleanza Nazionale. Ed infatti le divisioni vengono superate solo grazie all'abilità di Berlusconi che riesce a trovare dei contentini per ognuna delle forze della coalizione.
Queste divisioni dunque sono un fatto non limitato al centrosinistra e caratterizzano, da un po' di tempo a questa parte, la vita della borghesia italiana nel suo insieme. Non stiamo parlando, insomma, della classica divisione tra due schieramenti opposti portatori di diverse concezioni della gestione della cosa pubblica, con ipotesi di scelte economiche o ancora di schieramento imperialista diversi, ma di divisioni interni alle stesse coalizioni le cui motivazioni sono spesso di piccoli interessi di bottega, di mera visibilità di questo o quel leader, ecc. Certamente non c'é nessun confronto-scontro fra due grandi progetti di gestione e crescita della società. E' quanto lamentano i vari girotondini tra le fila dei simpatizzanti di centrosinistra, ma anche i seguaci più appassionati del centrodestra, quelli a cui non basta la soddisfazione della gestione del potere (vedi ad esempio i simpatizzanti della cosiddetta destra sociale).
Ma se nessuna frazione della borghesia ha un progetto da proporre alla società perché é il sistema che esse rappresentano e difendono che non ha più niente da offrire alle popolazioni, e non solo in Italia, ma nel mondo intero. Alle scorse elezioni politiche Berlusconi ha provato a far credere di avere un progetto (e su questa base é riuscito a vincere le elezioni), ma dopo tre anni si é visto quanto erano promesse senza fondamento, in particolare oggi con il trucco della riduzione delle tasse, che in realtà riguarda pochi cittadini ed é ampiamente riassorbito da tutti gli aumenti o riduzioni di prestazioni con cui questa riduzione delle tasse é stata finanziata.
Oggi é proprio l'incapacità del capitalismo, nella sua fase di decadenza (1), a fare funzionare la sua economia, a soddisfare anche i minimi bisogni immediati dell'umanità, che gli impedisce di presentare una qualche prospettiva, una speranza ed un programma per il futuro. La crisi storica del capitalismo porta invece a due sole possibilità: o la guerra imperialista generalizzata per una nuova divisione del mondo fra le potenze imperialiste, o la rivoluzione proletaria per porre fine alle miserie e alle sofferenze imposte dal capitalismo decadente. Ma quello che si é sviluppato da almeno tre decenni a questa parte é che nessuna delle due principali classi della società riesce ad imporre la sua soluzione ai problemi posti dalla situazione storica, per cui si é verificata una situazione di stallo storico che comporta una decomposizione della società (2). Questa situazione di stallo infatti non significa che la società puo' andare avanti sempre alla stessa maniera, come se niente fosse. Invece l'impossibilità di dare una risposta ai problemi materiali della società comporta un degrado della situazione complessiva, economica e sociale, che fa degenerare ogni aspetto della vita sociale, non più cementata dall'esistenza di una prospettiva credibile e visibile. Questo processo di decomposizione, di sfaldamento investe, a vari livelli, anche la classe dominante facendo prevalere al suo interno gli interessi particolari, di frazione, delle varie componenti politiche anche a scapito, in una certa misura, degli interessi più generali dell'economia nazionale.
Sarebbe pero' un errore pensare che queste divisioni interborghesi rendano più facile al proletariato intraprendere la strada della sua lotta. Se c'é qualcosa di fronte alla quale la borghesia non perde mai la sua unità di intenti é il pericolo proletario, e non é una caso se anche in Italia la borghesia, nonostante tutte le sue divisioni interne, riesce ad esprimere un governo che dura tutta la legislatura. I proletari non possono farsi alcuna illusione: i vari Berlusconi, Bossi, Rutelli, Prodi e lo stesso Bertinotti (nonostante la sua veste 'comunista') possono litigare tra loro quanto vogliono, ma di fronte alla necessità di mantenere l'economia nazionale a galla e continuare ad avere un posto tra gli altri Stati imperialisti, sono tutti pronti a colpire ancora di più i lavoratori. Lo hanno dimostrato più volte e non mancheranno di farlo ancora. I proletari possono contare solo sulla propria unità perdendo ogni illusione che una di queste frazioni della borghesia sia meno peggio dell'altra, di destra o di sinistra che sia.
Helios
1. vedi in questo stesso numero l'articolo "Il concetto marxista di decadenza del capitalismo"
2. Per una descrizione più completa del fenomeno della decomposizione, vedere l'articolo sulla Rivista Internazionale n. 14
L'anno 2004 si è concluso con un'immensa tragedia umana in Asia del sud. Un sisma di una violenza eccezionale ha provocato un maremoto nell'oceano indiano che ha devastato non meno di dodici paesi rivieraschi. In alcune ore, alcuni tsunami hanno provocato più di 160.000 morti, decine di migliaia di dispersi, centinaia di migliaia di feriti, cinque milioni di sfollati. Questo spaventoso bilancio è purtroppo provvisorio perché numerose zone, in particolare dell'Indonesia, della Tailandia o dello Sri Lanka, non sono accessibili poiché l'insieme della rete stradale è stato distrutto.
In queste regioni costiere, villaggi interi sono stati spazzati via, centinaia di pescherecci fracassati ed acque salmastre hanno devastato le culture, lasciando più di cinque milioni di persone senza riparo, senza cibo né acqua potabile, e ciò non può che provocare nuove vittime. Le organizzazioni umanitarie temono ondate di epidemie mortali con decine di migliaia di morti. Ancora una volta, sono gli strati più poveri della popolazione, ed in particolare i proletari che lavorano nell'industria del turismo, ad essere le principali vittime di questa tragedia.
Il solo responsabile della catastrofe umana è il capitalismo
Come di fronte ad ogni catastrofe di questo genere, si invoca l'impotenza degli uomini di fronte a "madre natura", la sfortuna, la fatalità, o ancora la povertà dei paesi sinistrati che non possono acquistare la tecnologia per essere avvertiti su tali cataclismi. Fesserie e menzogne!
Come e perché un fenomeno naturale e molto conosciuto come lo tsunami ha potuto in alcune ore trasformarsi in una catastrofe sociale di una tale ampiezza?
Evidentemente non si può accusare il capitalismo di essere all'origine del sisma che ha provocato questo gigantesco maremoto. Tuttavia possiamo mettere al suo attivo la totale incuria e l'irresponsabilità dei governi di questa regione del mondo e dei loro omologhi occidentali, che hanno condotto a questa immensa catastrofe umana.
Tutti sapevano, infatti, che questa regione del globo è particolarmente esposta alle scosse sismiche.
"Pertanto, gli esperti locali sapevano che un dramma si preparava. A dicembre, in margine di una riunione di fisici a Giacarta, dei sismologhi indonesiani avevano evocato l'argomento con un esperto francese. Essi erano perfettamente coscienti del pericolo di tsunami perché ci sono continuamente dei sismi nella regione" (Libération, 31/12/04).
Non solo gli esperti sono informati, ma in più l'ex-direttore del Centro internazionale di informazione sugli tsunami a Hawaii, George Pararas-Carayannis, indica che un sisma maggiore si è prodotto anche 2 giorni prima della catastrofe del 26 dicembre. "L'oceano indiano dispone di infrastrutture di base per le misure sismiche e le comunicazioni. E nessuno avrebbe dovuto sorprendersi, poiché un sisma di magnitudine 8,1 si era prodotto il 24 dicembre. Questo avrebbe dovuto mettere in allerta le autorità. Ma manca innanzitutto la volontà politica dei paesi coinvolti, ed un coordinamento internazionale a livello di quello che si è costruito nel Pacifico" (Libération, 28/12/04).
Nessuno avrebbe dovuto sorprendersi e tuttavia il peggio è arrivato. Ma l'incuria delle classi dirigenti non si ferma qui!
Quando il centro meteorologico americano delle Hawaii ha annunciato prontamente a 26 paesi, quindici minuti dopo il sisma, la possibilità di tsunami vicino all'epicentro, l'agenzia meteorologica del Giappone non ha passato l’informazione ai suoi vicini, poiché il bollettino meteorologico era rassicurante per il Giappone.
In India, il Q.G. dell'aeronautica militare ha ricevuto la notizia, ma questa deve seguire un percorso molto gerarchico e burocratico. Il fax di allerta si è perso per strada perché il dipartimento meteorologico non aveva il nuovo numero di fax del ministero della ricerca: questo era stato cambiato col nuovo governo dal mese di maggio 2004! "Stesso scenario in Tailandia dove il dipartimento di meteorologia non ha osato lanciare l’allerta nazionale per timore di provocare un inutile panico generale. Sapeva tuttavia che un terremoto di grande ampiezza si era prodotto fin dalle ore 8,10 e cioè molto prima che lo tsunami colpisse le rive di Phuket" (Libération, 31/12).
La semplice prudenza (senza contare il principio di precauzione), esigeva la messa in allerta delle popolazioni. Anche senza i mezzi tecnici di cui sono dotati gli Stati Uniti ed il Giappone, c'erano sufficienti informazioni disponibili sulla catastrofe in preparazione, per agire ed evitare questa carneficina.
Questa non è negligenza, è una politica criminale che rivela il profondo disprezzo della classe dominante per le popolazioni ed il proletariato che sono le principali vittime della politica borghese dei governi locali!
In effetti, oggi è riconosciuto chiaramente, in modo ufficiale, che l'allerta non è stata lanciata per timore di … danneggiare il settore turistico! In altre parole, è per difendere dei sordidi interessi economici e finanziari che decine di migliaia di esseri umani sono stati sacrificati.
Questa irresponsabilità dei governi è una nuova dimostrazione dello stile di vita di questa classe di squali che gestisce la vita e l'attività produttiva della società. Gli Stati borghesi sono pronti a sacrificare altrettante vite umane, se ciò è necessario, per preservare lo sfruttamento ed i profitti capitalisti.
Sono sempre gli interessi capitalisti che dettano la politica della classe dominante, e nel capitalismo la prevenzione non è un'attività redditizia, come lo riconoscono oggi tutti i media: "Dei paesi della regione avrebbero fino a quel momento fatto orecchio da mercante rispetto al mettere in piedi un sistema di allerta a causa degli enormi costi finanziari. Secondo gli esperti, un dispositivo di allerta costerebbe decine di milioni di dollari, ma permetterebbe di salvare decine di migliaia di vite umane" (Les Échos, 30/12).
Quando si vedono, attraverso interminabili reportage televisivi, queste decine di migliaia di morti, di famiglie decimate, di bambini orfani, non possiamo che provare un profondo disgusto nel sentire i responsabili di questi massacri annunciare, con un cinismo abietto, che adesso faranno di tutto per dotare il continente asiatico di un sistema di localizzazione di sismi e di tsunami, come negli Stati Uniti ed in Giappone.
Il dramma umano che si è appena svolto in Asia del sud è una nuova manifestazione della barbarie spaventosa di un sistema che conduce l'umanità alla sua scomparsa. Perché il vero responsabile delle catastrofi a ripetizione è proprio questo sistema decadente. L'anno scorso è stato un terremoto in Iran a fare decine di migliaia di morti, e giusto prima di questo in Turchia, in Armenia, ecc. Si ammassano popolazioni su zone sismiche, in costruzioni precarie, mentre esiste la tecnologia per evitare che i fenomeni naturali possano provocare tali catastrofi sociali.
Se lo tsunami nell'oceano indiano ha fatto anche altrettante vittime tra i vacanzieri, è perché il capitalismo ha sviluppato dei complessi turistici in modo totalmente anarchici distruggendo in particolare le mangrovie che servono da protezione naturale perchè capaci di attenuare la forza delle onde ed i proiettili trasportati dal maremoto.
È la stessa realtà aberrante che si ritrova nei paesi industrializzati, dove si costruiscono abitazioni in zone potenzialmente inondabili e pericolose per la vita della popolazione.
Più che mai il capitalismo, che si basa sulla ricerca sfrenata del profitto e della redditività e non sulla soddisfazione dei bisogni umani, può generare solamente delle nuove catastrofi. Mentre il fiorire del capitalismo aveva permesso lo viluppo di un formidabile potenziale tecnologico ed industriale e la tendenza ad una certa padronanza sulla natura, questo sistema, nella sua fase decadente, non è più capace di far avanzare l'umanità, di farla progredire. È al contrario la natura che sembra "riprendersi i suoi diritti", nello stesso momento in cui lo sviluppo della tecnologia potrebbe permettere all'umanità di vivere in armonia con essa.
Il capitalismo è oggi un sistema sociale in decomposizione. È diventato un ostacolo ed una minaccia per la sopravvivenza della specie umana. Alle spiegazioni parziali ma soprattutto immonde e ciniche della classe dominante, i rivoluzionari devono opporre l'analisi del marxismo.
"A mano a mano che il capitalismo si sviluppa per poi marcire, prostituisce sempre più questa tecnica, che potrebbe essere liberatrice, ai suoi bisogni di sfruttamento, di dominio, e di saccheggio imperialista, al punto di arrivare a trasmetterle la sua propria putrefazione ed a ritorcerla contro la specie (…) E’ in tutti i campi della vita quotidiana delle fasi 'pacifiche', che vuole consentirci, tra massacri imperialistici o operazioni di repressione, che il capitale, sottoposto incessantemente alla ricerca di un migliore tasso di profitto, ammucchia, avvelena, asfissia, mutila, massacra gli individui umani tramite la tecnica prostituita (...) Il capitalismo non è più innocente delle catastrofi dette 'naturali'. Senza ignorare l'esistenza di forze della natura che sfuggono all'azione umana, il marxismo mostra che proprio delle catastrofi sono state provocate indirettamente o aggravate dalle cause sociali (...) La civiltà borghese non solo può provocare direttamente queste catastrofi per la sua sete di profitto e per l'influenza predominante della macchina amministrativa sull'affarismo (...), ma essa si rivela anche incapace di organizzare una protezione efficace nella misura in cui la prevenzione non è un'attività redditizia". (A. Bordiga, "Specie umana e crosta terrestre")
L'ipocrisia ed il cinismo della borghesia mondiale
Di fronte alla gravità della catastrofe ci sono voluti parecchi giorni alla borghesia internazionale per mobilitarsi e mandare dei soccorsi nei paesi colpiti dalla catastrofe. E questi devono ancora essere messi nelle condizioni di operare sul campo: ad esempio, un ospedale mobile inviato dalla Francia in Indonesia aspetta da più di due settimane l'arrivo degli elicotteri per trasportarvi il materiale e le squadre mediche.
Quando si tratta di difendere i loro interessi imperialisti, nelle pretese guerre "umanitarie", questi Stati hanno sempre dato prova di un'estrema rapidità nel mandare truppe, materiale e congegni tra i più sofisticati per bombardare le popolazioni e seminare la morte ai quattro angoli del pianeta. Allo stesso modo, tutti questi gangster capitalisti non hanno mai esitato ad investire delle somme formidabili nella produzione di armamenti e per distruggere interi paesi.
In quanto all'aiuto finanziario promesso in un primo tempo dai governi di tutti i paesi, e particolarmente dai più sviluppati, questo era talmente irrisorio che il segretario aggiunto dell'ONU, Jan Egeland, ha accusato di taccagneria la "comunità internazionale".
Di fronte all'ampiezza del disastro, i differenti Stati capitalisti si sono inoltre comportati da veri avvoltoi, ognuno di loro ha fatto lievitare le offerte solo per apparire come il più "generoso" di fronte ai rivali.
Gli Stati Uniti hanno proposto 350 milioni di dollari al posto dei 35 annunciati inizialmente (mentre spendono 1 miliardo di dollari a settimana per la guerra in Iraq e 1 miliardo al mese per quella in Afghanistan!), il Giappone 500 milioni, l'Unione Europea 436 milioni. La Francia ha anche creduto per un momento, con i suoi 50 milioni, di porsi alla testa dei paesi donatori (mentre i suoi interventi militari le costano un miliardo di euro all’anno); poi è stata la volta dell'Australia, dell'Inghilterra, della Germania, e così via.
Ogni volta, come in una vendite all’asta, questo o quello Stato ha proposto un'offerta di denaro superiore a quella del vicino.
Questo rilancio verbale è tanto più nauseante in quanto è nei fatti una pura mascherata, le promesse di donazioni sono spesso poco seguite dai fatti. Possiamo ricordare che questa "comunità internazionale" di briganti capitalisti aveva promesso 115 milioni di dollari in seguito al sisma che aveva scosso l'Iran nel dicembre 2003 e Tehran non ha ricevuto fino ad oggi che 17 milioni di dollari. Lo stesso è avvenuto con la Liberia: 1 miliardo di dollari promesso e 70 milioni raccolti.
Gli esempi non mancano, senza contare tutti quei conflitti che cadono nell'oblio e l'orrore e per i quali non c'è nemmeno stata una promessa, come il Darfour o il Congo, con drammi umani dell'ampiezza dello tsunami asiatico.
In quanto alla proposta di moratoria di rimborso dei debiti dei paesi toccati dalla catastrofe, questa è una bolla d’aria che si sgonfierà velocemente, perché si tratta semplicemente di un rinvio delle scadenze degli interessi del debito e non di una loro cancellazione. Del resto, i cinque paesi più indebitati tra quelli che sono stati colpiti dal maremoto dovranno rimborsare 32 miliardi di dollari l'anno prossimo, dieci volte più di ciò che si suppone ricevere a titolo di "aiuto umanitario" (che è probabilmente gonfiato rispetto a ciò che riceveranno realmente). Evidentemente questi paesi non hanno il privilegio di essere occupati dall'esercito americano come l'Iraq: avrebbero potuto allora beneficiare di un annullamento puro e semplice del loro debito.
La borghesia non solo ci racconta delle sfacciate fesserie a proposito della sua sedicente "generosità", ma in più, ci nasconde i veri obiettivi di questo slancio "umanitario."
L'aiuto "umanitario" dei governi non è in realtà nient’altro che un pretesto per mascherare i propri appetiti imperialisti
Dietro la cortina di fumo ideologica della propaganda umanitaria, è sorprendente vedere la sollecitudine di ogni Stato nel mandare i suoi rappresentanti sui luoghi della catastrofe prima degli altri, in modo concorrenziale, mentre un tale disastro avrebbe necessitato di un coordinamento internazionale dei soccorsi. In effetti, ogni borghesia nazionale difende i propri interessi di potenza capitalista ed imperialista in una regione che rappresenta un posto strategico e militare.
Le profonde divergenze di interessi tra i differenti Stati imperialisti che si erano manifestate a proposito dell'Afghanistan o dell'Iraq, le vediamo riapparire qui. La Francia manda il suo ministro degli Affari esteri con un aereo pieno di medicinali e Chirac, col sostegno della Germania, propone di creare una forza umanitaria di reazione veloce, forza che sarebbe sotto il controllo degli Stati europei, ma al servizio dell'ONU.
La replica americana non si è fatta aspettare: gli Stati Uniti non solo mandano navi, aerei e truppe militari nell'oceano indiano, ma annunciano anche la creazione di una coalizione internazionale umanitaria, con l'Australia, il Giappone e l'India, per "coordinare i soccorsi".
Come per la guerra in Iraq, la politica americana mira a mostrare alle altre potenze che gli Stati Uniti sono i padroni e che, in queste circostanze, intendono ancora di più difendere la loro leadership. Il segretario di Stato, Colin Powell, ed il fratello del presidente Bush vengono inviati sul posto per esaltare "i valori americani in azione". Colin Powell, che è stato comandante in capo degli eserciti americani all'epoca della prima guerra del Golfo e che in particolare ha ordinato di seppellire, ancora vivi, i soldati delle prime linee irachene, ha avuto anche la sfrontatezza di versare lacrime di coccodrillo durante un sorvolo in elicottero della regione di Banda Aceh, dichiarando: "Sono stato in guerra, ho visto uragani e tornado ed altre operazioni di soccorso. Ma non ho mai visto niente di simile" (Libération, 6/01/04).
Tutti questi dissensi tra le grandi potenze dove ogni Stato cerca di tirare la coperta dalla propria parte, la dicono lunga sulla preoccupazione "umanitaria" di questi avvoltoi capitalisti. Come sottolinea un responsabile americano: "è una tragedia, ma anche un'opportunità da prendere al volo. Un aiuto veloce e generoso degli Stati Uniti potrebbe aiutare a migliorare le relazioni con i paesi asiatici".
Tenuto conto dell'importanza strategica dell'Indonesia nell'oceano indiano, è evidente che gli Stati Uniti cercano di approfittare della catastrofe per potersi impiantare militarmente (cosa che i militari indonesiani rifiutarono a Washington, rimproverando la loro ingerenza negli affari indonesiani quando, nel 1999, gli Stati Uniti sospesero l’aiuto militare a Giacarta a causa dei soprusi commessi dall'esercito indonesiano nel Timor orientale). Peraltro, il loro "aiuto umanitario" allo Sri Lanka ha preso la forma di uno "sbarco" di carri anfibi evidentemente "pacifici" (e non armati a dire di un ufficiale) che hanno la missione di "non distruggere" ma "soccorrere la popolazione".
Da parte loro, gli stessi Stati europei sperano di essere diplomaticamente e militarmente presenti in questa regione. In quanto alla Cina, questa cerca di fare valere le sue ambizioni di gendarme del continente asiatico e si scontra con l'opposizione del Giappone. E se lo Stato indiano ha rifiutato ogni aiuto straniero, a costo di lasciare crepare come i topi una parte dei sinistrati, è perché vuole affermarsi come potenza regionale con cui bisognerà fare i conti.
Ecco cosa nasconde il frastuono sull'aiuto "umanitario" della borghesia mondiale: la difesa dei suoi sordidi interessi imperialisti! L'ignominia e l'ipocrisia senza limite della classe borghese che dirige il mondo fanno vomitare!
Ancora una volta, è il capitalismo che rappresenta una catastrofe per l'umanità, con la sua legge del profitto e la sua classe dominante perfettamente capace di contabilizzare i morti e al tempo stesso scatenare sempre più barbarie. Mentre lascia che onde giganti sommergano le popolazioni, inasprisce il caos in Afghanistan, moltiplica gli attentati terroristici e le rappresaglie che insanguinano l'Iraq e la Palestina, lascia che si sviluppino la carestia nel Darfour ed i massacri in Congo.
Questa spirale sanguinosa indica che il capitalismo non può offrire all'umanità che la sua distruzione attraverso catastrofi sempre più omicide, guerre sempre più barbare, la miseria, la carestia, le epidemie. È verso una distruzione del pianeta pezzo per pezzo che ci porta questo sistema che marcisce.
Quale solidarietà con le popolazioni vittime della catastrofe?
Di fronte ad una tale tragedia umana e sociale, i rivoluzionari e l'insieme del proletariato mondiale devono proclamare, con forza e determinazione, la loro solidarietà di classe verso le vittime.
Essi non possono che salutare lo slancio di solidarietà umana che si è manifestato immediatamente a livello planetario. Senza aspettare i soccorsi, i superstiti si sono aiutati reciprocamente, le popolazioni asiatiche nei confronti dei turisti, ed i turisti nei confronti delle popolazioni locali. Spontaneamente milioni di persone, ed in particolare proletari in tutti i paesi, hanno proposto di offrire cibo, vestiti, donazioni finanziarie.
Ma questa solidarietà naturale, che è alla base della stessa esistenza sociale e della preservazione della specie umana, è stata recuperata immediatamente dalla classe dominante e dalle sue ONG.
Il rullo compressore dell'informazione ossessiva e delle immagini shock ha la funzione di impedire la riflessione sulle cause di questa catastrofe sociale.
Attraverso i suoi media ed i suoi specialisti dell'aiuto umanitario la borghesia ci dice che, poiché siamo "impotenti" davanti a tali avvenimenti, la sola cosa che possiamo fare è versare delle donazioni a questa o quella ONG, e ci si assicura che questo denaro andrà proprio alle popolazioni sinistrate.
Queste organizzazioni "non governative" hanno dato prova, ancora una volta di essere al servizio dei governi. Per convincersene basta vedere la confusione sul luogo stesso del dramma: ogni televisione nazionale ha fatto la promozione di questa o quella ONG che, in funzione del suo paese di origine, è incaricata di difendere gli interessi concorrenti di questo o quel governo, a scapito e contro le altre ONG. Così, la solidarietà nella bocca della borghesia si trasforma in sciovinismo.
L'indignazione della classe operaia di fronte a questo dramma, la sua solidarietà spontanea con le vittime è stata manipolata ed è stata deviata dalla classe dominante in un'ignobile campagna di intossicazione "umanitaria". Grazie alle sue ONG, la borghesia si è impossessata di questo slancio reale di generosità per deviarlo sul ristretto terreno della carità. Attraverso le richieste di sostegno finanziario per venire in aiuto alle popolazioni sinistrate, gli Stati borghesi hanno organizzato una vera operazione di racket, distillando in seno alla popolazione mondiale, ed in particolare alla classe operaia, il sentimento di "mettersi la coscienza a posto" portando un contributo all'aiuto "umanitario" dei governi.
Questa campagna, alimentata dalle quotidiane trasmissioni televisive, è un vero martellamento ideologico che mira a confondere le coscienze, ad impedire ai proletari di riflettere sulle cause reali della catastrofe.
Impedendo ai proletari di comprendere che è il capitalismo ad essere il solo responsabile, si mira a snaturare la loro solidarietà di classe ed a deviarla in una strada senza uscita.
La solidarietà della classe operaia non può limitarsi, come vogliono fare credere la borghesia e le sue ONG, ad una semplice azione caritatevole. Perché, da una parte, le donazioni finanziarie possono essere solo una goccia d’acqua nell'oceano tenuto conto dell'ampiezza del disastro. D’altra parte, le somme raccolte non possono permettere di alleviare lo sconforto e la disperazione di tutti questi uomini, queste donne e questi bambini che hanno perso i loro parenti, i cui i corpi non saranno mai ritrovati o sono stati ammucchiati nell'emergenza nelle fosse comuni, senza sepoltura.
Il denaro non può riparare l'irreparabile: non è mai stato un rimedio alla sofferenza morale!
Infine, questi gesti di solidarietà finanziaria non possono risolvere il problema alla radice: non possono impedire la ripetizione di nuove catastrofi in altre regioni del mondo.
È per ciò che la solidarietà di classe del proletariato non può essere quella dei preti del "Soccorso Cattolico" ed altre ONG.
La solidarietà dei proletari non ha come obiettivo “mettere a posto la propria coscienza" o salvarsi l’anima cedendo al sentimento di colpevolezza che cerca di istillare la classe dominante.
Questa solidarietà può svilupparsi solo a partire dalla denuncia del solo colpevole di questo cataclisma: la classe borghese che dirige il sistema capitalista!
I proletari del mondo intero devono comprendere che, conducendo la lotta contro la borghesia, rovesciando il suo sistema omicida, sono i soli a poter rendere un reale omaggio ai morti, a tutte queste vite umane sacrificate sull'altare del capitalismo, in nome della legge del profitto e della redditività.
Devono sviluppare le loro lotte e la loro propria solidarietà di classe contro tutti gli Stati, tutti i governi che non solo li sfruttano ed attaccano le loro condizioni di vita, ma hanno anche la sfrontatezza di chieder loro di "mettere mano alla tasca" per riparare i danni provocati dal capitalismo.
È solo attraverso la lotta quotidiana contro questo sistema, fino al suo capovolgimento, che la classe operaia può manifestare la sua vera solidarietà verso i proletari e le popolazioni dei paesi devastati dallo tsunami.
Se questa solidarietà non può avere, evidentemente, degli effetti immediati, essa non è un fuoco di paglia, contrariamente a quello che ci viene raccontato dalla borghesia e dalle ONG.
Tra alcuni mesi, per la classe dominante ed le sue organizzazioni caritatevoli, questa catastrofe sarà sotterrata nel dimenticatoio della storia.
La classe operaia non può dimenticarla, come non può dimenticare i massacri della guerra del Golfo e di tutte le altre guerre e catastrofi cosiddette "naturali".
Per gli operai del mondo intero, questa tragedia non deve essere mai un "affare archiviato". Deve restare incisa nella loro memoria e servire da stimolo per rafforzare la loro determinazione a sviluppare la lotta e l’unità di classe contro la barbarie del capitalismo.
La classe operaia è la sola forza della società attuale che possa effettuare un vero dono a tutte le vittime della classe borghese, rovesciando il capitalismo e costruendo una nuova società, basata non sul profitto ma sulla soddisfazione dei bisogni umani. È l'unica classe che possa, attraverso la sua prospettiva rivoluzionaria, offrire un avvenire alla specie umana.
È per questo che la solidarietà del proletariato deve andare bene al di là della semplice solidarietà emotiva. Non deve essere fondata su dei sentimenti di impotenza o di colpevolezza ma, innanzitutto, sulla sua coscienza.
Solo lo sviluppo della sua solidarietà di classe, una solidarietà basata sulla coscienza del fallimento del capitalismo, sarà in grado di creare le basi per una società nella quale i crimini che la borghesia ci presenta come catastrofi "naturali" non potranno mai più essere commessi, dove sarà possibile superare ed abolire definitivamente questa barbarie abominevole.
"Il capitalismo agonizzante vuole abituarci all'orrore, a considerare come 'normale' la barbarie di cui è responsabile. I proletari devono reagire manifestando la loro indignazione davanti a questo cinismo e la loro solidarietà con le vittime di questi conflitti senza fine, dei massacri perpetrati da tutte le bande capitaliste (alle quali si aggiungono le vittime delle catastrofi 'naturali'). Il disgusto ed il rigetto di ciò che il capitalismo nella sua decomposizione fa vivere alla società, la solidarietà tra membri di una classe che hanno interessi comuni, sono dei fattori essenziali della presa di coscienza che un'altra prospettiva è possibile e che una classe operaia unita ha la forza di imporla". (Revue internationale n°119).
Gli operai del mondo intero non possono manifestare la loro solidarietà verso le vittime della catastrofe se non facendo vivere, attraverso le loro lotte contro lo sfruttamento, la miseria e la barbarie capitalista, queste parole d’ordine:
"Abbasso tutti i governi! Abbasso il capitalismo!"
"Proletari di tutti i paesi, unitevi!"
DM
8 gennaio 2005
Il 5 novembre scorso grazie al sostegno dei militanti del NCI d’Argentina, la CCI ha tenuto una riunione pubblica a Florencio Valera, periferia di Buenos Aires. Il tema era sull’evoluzione della lotta di classe a livello mondiale. Come alla precedente riunione pubblica di agosto, l’introduzione è stata volutamente breve per permettere alla discussione di svilupparsi il più possibile.
L’introduzione ha innanzitutto messo in evidenza non solo gli attacchi feroci che subisce la classe operaia alle proprie condizioni di vita dappertutto nel mondo, compreso nei paesi più sviluppati, ma anche lo sviluppo della guerra e della sua barbarie. Ha difeso il fatto che questi differenti aspetti della situazione internazionale sono direttamente il prodotto del capitalismo nella sua fase di decadenza e, oggi, di decomposizione. Di fronte a questa situazione la classe operaia riprende oggi la via della lotta, anche se ancora con molte difficoltà. Essa riprende la lotta dopo un lungo periodo di riflusso apertosi con il crollo del blocco dell’Est, riflusso dovuto all’uso fatto dalla borghesia del fallimento dello stalinismo assimilandolo in maniera mistificatoria al marxismo ed al comunismo. Questa ripresa della combattività operaia è un’illustrazione del fatto che gli effetti di queste campagne stanno sfumando. La ripresa delle lotte operaie si vede concretamente attraverso le lotte della primavera 2003 in Francia ed in Austria contro la “riforma” delle pensioni, la mobilitazione degli autoferrotranvieri italiani, dei postini e dei pompieri inglesi nell’inverno 2003, poi degli operai della Fiat a Melfi nel sud Italia, le lotte in Germania degli operai della Simens, Porche, Bosch, Alcatel e anche della Merceds-Daimler-Chrysler; le lotte degli operai dei cantieri navali in Spagna (Ferrol in Galizia, Puerto Real e San Fernando vicino Cadix e Sestao presso Bilbao). Questa ripresa internazionale della combattività operaia si è manifestata ancora attraverso grandi manifestazioni come quella di 45.000 persone a Berlino il 2 ottobre e, nello stesso giorno ad Amsterdam, quella dei 200.000 manifestanti contro i progetti del governo. Il 14 ottobre scorso 9.400 operai dell’Opel a Bochum in Germania si sono messi in sciopero contro l’annuncio di un piano di licenziamenti. La presentazione ha messo in evidenza che il bisogno di solidarietà ha costituito una caratteristica molto importante di questi movimenti: abbiamo visto, in particolare nella lotta alla Daimler Benz, l’inizio di una solidarietà tra operai di due diverse fabbriche mentre la borghesia aveva tentato di mettere gli operai gli uni contro gli altri. All’interno di questo sforzo della classe operai per sviluppare le sue lotte, bisogna segnalare l’emergere di una riflessione politica sulla base di una crescente perdita di illusioni sul futuro che ci riserva il capitalismo. Questi movimenti hanno dimostrato che a poco a poco si sviluppa la coscienza che sono tutti i settori della classe operaia ad essere attaccati, in tutti i paesi, così come la ricerca, anche se ancora molto confusa, della prospettiva di un’altra società. Si sviluppa dunque di nuovo all’interno della classe operaia, la coscienza di appartenere ad una classe attaccata, e questa presa di coscienza è la base della ricerca della solidarietà indispensabile alla lotta di classe.
Solo la classe operaia può mettere in causa lo Stato capitalista
I partecipanti alla riunione, i membri del NCI ed anche altri elementi, hanno apprezzato le informazioni sulle lotte in Europa date dalla presentazione. Questa ha permesso loro di meglio comprendere che le lotte che si sviluppano anche in Argentina (è stato fatto l’esempio di una lotta in una cooperativa di carni, ma ce ne sono altre) assumono tutto il loro significato solo all’interno di questa dinamica internazionale. I compagni hanno messo in evidenza che ci sono molte lotte nel mondo ma i media non ne danno alcuna informazione. Uno dei partecipanti ha detto che dalla metà degli anni ’90 si è visto in Argentina lo sviluppo di lotte “popolari” contro attacchi molto duri e che le recenti lotte in Argentina erano arrivate a mettere in questione lo Stato. I compagni del NCI si sono detti in disaccordo con questa visione. Anche la CCI è intervenuta per sottolineare che solo la classe operaia può mettere in questione lo Stato con una lotta massiccia, unita e cosciente della posta in gioco storica nella situazione. Ha sottolineato il pericolo delle lotte inter-classiste nelle quali la classe operaia si trova diluita negli altri strati della popolazione perdendo, dunque, la sua forza in quanto classe. La sola prospettiva per sviluppare un rapporto di forza contro la borghesia ed il suo Stato, è sviluppare la lotta sul proprio terreno, una lotta autonoma ed unita della classe operaia. Nel 2001 abbiamo visto delle rivolte inter-classiste nelle quali il proletariato era annegato in altri strati sociali. Queste rivolte non hanno affatto scosso lo Stato.
Il partecipante che aveva esposto questa idea è stato molto attento alle argomentazioni date e con molta sincerità ha manifestato la volontà di comprendere come la classe operaia può sviluppare un rapporto di forza a suo favore rispetto allo Stato.
Come sviluppare l’unità della classe operaia?
Un altro aspetto importante della discussione è stato sulla questione: come lottare contro la dispersione delle lotte, come sviluppare l’unità nella classe operaia? Su questa questione tutti i partecipanti hanno espresso il loro accordo sul fatto che i principali nemici di questa unità sono i sindacati. La CCI ha portato l’esempio della Polonia del 1980 per mostrare che questa lotta aveva potuto svilupparsi a livello dell’intero paese perchè i sindacati ufficiali erano chiaramente visti, dagli operai, come i rappresentati dello Stato. E’ stato necessario che i sindacati dei paesi dell’Europa occidentale, che riescono con maggior abilità a mascherare la loro natura anti operaia, venissero in soccorso dello Stato polacco per rompere la dinamica del movimento, dandogli come prospettiva la costituzione di nuovi sindacati, “democratici”. Walesa è stato il maestro di questo sabotaggio e la borghesia gli è molto riconoscente.
La discussione ha sottolineato anche che la prospettiva è sviluppare la solidarietà di classe fino al livello internazionale perchè è a livello internazionale che bisogna distruggere il capitalismo e che la base stessa della lotta di classe è l’internazionalismo.
Un partecipante ha chiesto alla CCI di esporre come, secondo lei, gli operai devono organizzarsi nelle lotte. La CCI ha ricordato il dibattito sullo sciopero di massa all’inizio del 20°secolo, in seguito al movimento del 1905 in Russia e gli insegnamenti che ne sono stati tratti. Ha ricordato che i sindacati dell’epoca si erano opposti a questo dibattito. Una lezione centrale che le lotte di quel periodo (periodo che segnava l’entrata del capitalismo nella sua fase di decadenza) misero in evidenza, era che ormai le lotte non potevano più restare rinchiuse nella corporazione ma dovevano estendersi e che è nella e attraverso la lotta che la classe operaia fa sorgere i suoi organi di lotta: le assemblee generali che eleggono dei comitati revocabili in ogni momento. E’ questo modo di organizzarsi che permette alla classe di conservare il controllo della lotta. E’ questo che permette anche la sua reale estensione.
E’ proprio perchè la classe operaia non può più dotarsi di organizzazioni unitarie permanenti che i sindacati, perdendo la loro funzione per la classe, hanno “tradito” e sono stati assorbiti dallo Stato. Da allora sono proprio i sindacati a lottare contro l’organizzazione autonoma della classe, un’organizzazione che cessa con la lotta, quando questa finisce.
Questo stesso compagno ,alla fine del dibattito, ha posto la questione della natura del movimento dei “piqueteros”. Per lui questa è un’autentica lotta di disoccupati, dunque di una lotta operaia dato che i disoccupati fanno parte della classe operaia. La CCI ed i compagni del NCI hanno risposto che se è vero che i disoccupati fanno parte della classe operaia, e se è certo che ci sono degli operai disoccupati nel movimento dei “piqueteros”, ciò non è sufficiente per conferire a questo movimento una natura proletaria. Anche nei sindacati ci sono degli operai eppure questi non sono un’organizzazione della classe. Il movimento dei “piqueteros” divide la classe tra disoccupati ed attivi ed opera una divisione tra gli stessi disoccupati dato che ci sono varie organizzazioni di “piqueteros”. In più, gli operai presi in questi movimenti non hanno alcuna autonomia e non decidono un bel niente. Sono una semplice massa di manovra totalmente manipolata. In queste condizioni, i 150 pesos che ricevono mensilmente dallo Stato non rappresentano in realtà il frutto di un rapporto di forza che loro avrebbero imposto, come pensa il compagno, ma il prezzo per un servizio reso, anche se loro non ne sono coscienti.
Il compagno si è detto in disaccordo pur affermando che avrebbe riflettuto su questo e che è pronto a continuare il dibattito sulla questione, atteggiamento che la CCI ha salutato.
La conclusione della CCI ha pertanto potuto sottolineare i punti di accordo sull’aspetto internazionale della lotta di classe, la necessità di sviluppare le lotte, il rigetto dei sindacati, la necessità di lottare per lo sviluppo dell’unità della classe e della coscienza della posta in gioco storica. Ha anche citato il disaccordo del compagno sul movimento dei “piqueteros”, così come la sua volontà di continuare il dibattito su questa questione. Questo compagno ha apprezzato che la conclusione menzionasse i punti di accordo e di disaccordo ed ha anche chiesto se la CCI poteva procurargli i libri di Rosa Luxemburg Introduzione all’economia politica e L’accumulazione del capitale. La CCI farà del suo meglio per rispondere a questa richiesta.
Nel corso del dibattito i compagni del NCI sono intervenuti a più riprese, in particolare sul movimento dei “piqueteros”; i loro interventi sono stati in piena continuità con le loro prese di posizione precedenti (che abbiamo pubblicato nella Rivista Internazionale, in lingua francese, inglese e spagnola). I compagni hanno anche detto che apprezzavano molto il quadro storico dato dalla CCI.
Bisogna ancora notare che i partecipanti hanno contribuito al pagamento della sala.
Questa riunione è stato un vero dibattito all’interno della classe; un dibattito utile perchè ha messo a confronto le posizioni in vista della necessaria chiarificazione politica per la lotta.
11 novembre 2004 CCI
Il BIPR (1) ha pubblicato sul suo sito internet in quattro lingue (italiano, francese, inglese, spagnolo) il seguente comunicato intitolato “Ultima risposta agli attacchi della CCI”:
“Si dà avviso a tutti i compagni che seguono le vicende internazionali dei gruppi della sinistra comunista che da un po' di tempo siamo oggetto di attacchi violenti e volgari da parte della CCI, inviperita perchè essa stessa è attraversata da una profonda e irreversibile crisi interna che porta i suoi fuoriusciti a guardare con attenzione critica alle posizioni del Bipr. Abbiamo per un po' sperato pazientemente che questi (ex?) compagni della CCI trovassero un minimo di equilibrio psicologico e in qualche occasione abbiamo anche risposto alle loro folli accuse, ma non è stato così. Le loro manie di persecuzione, i deliri complottardi che animano i loro sogni sono evidentemente il frutto avvelenato di un percorso politico basato su presupposti completamente fuori dal materialismo storico. E' questo che li porta ad accusare tutto e tutti di complotto borghese contro di loro, che è una pratica che ha stancato tutti coloro che fanno seriamente politica rivoluzionari. Si scopre allora tutto d'un colpo che dei militanti con un passato appunto militante di 25 anni e più, anche come membri degli organi dirigenti della CCI, non sarebbero che dei ladri, dei teppisti o dei parassiti.
Dunque inseguire la CCI sui suoi percorsi sarebbe per noi una onerosa perdita di tempo che non possiamo permetterci. Per questa ragione d'ora innanzi non daremo riscontro né seguito a nessuno dei loro volgari attacchi. Chi volesse, invece, approfondire la conoscenza della nostra critica politica alle posizioni della CCI troverà sul numero 10 di Prometeo (2) in uscita la nostra critica alla loro ultima risoluzione congressuale.
Ps: Questo testo rimarrà sul sito 15/20 giorni, dopo di che sarà tolto e la CCI non riceverà più alcuna risposta da noi alle sue polemiche”.
Quanto c’è di “attacchi violenti e volgari da parte della CCI” di cui parla questo comunicato?
Il recente comportamento del BIPR costituisce un elemento negativo che non si può nascondere
Effettivamente noi abbiamo mosso delle critiche molto severe al BIPR per una serie di comportamenti indegni della tradizione della Sinistra comunista, che possono essere riassunti così (3):
- Aver riprodotto sul suo sito, in diverse lingue, carrettate di calunnie contro la CCI emananti da un misterioso Circolo di Comunisti Internazionalisti, senza verificarne la veridicità dei fatti;
- Aver ritardato il più possibile la pubblicazione sul suo sito di una smentita scritta sotto nostra responsabilità e che rinviava ad una spiegazione sviluppata sul nostro sito Internet;
- Aver risposto alla fine a questa richiesta (che qualsiasi giornale borghese avrebbe accettato in simili circostanze) solo in seguito a tre nostre lettere e, soprattutto, in seguito ad un certo numero di fatti che venivano a dimostrare il carattere falso dei propositi dell’avventuriero (il signor B.) che si dissimulava dietro questo misterioso Circolo di Comunisti Internazionalisti;
- Non aver mai pubblicato la presa di posizione, che condannava questo signore, fatta dal NCI (Nucleo Comunista Internazionale), gruppo argentino che simpatizza con le posizioni della CCI e che, per primo, è stato vittima delle manovre del signor B.;
- Aver scelto il metodo più ipocrita per tentare di evitare di essere infangato dalla verità che si stava imponendo a proposito dei raggiri del signor B. e della natura del suo documento, cioè ritirare questo documento dal proprio sito con lo stesso silenzio che aveva accompagnato la sua messa in circolazione, mentre per circa due mesi questo era servito a coprire la nostra organizzazione di carrettate di fango;
- In altre parole aver girato le spalle al solo metodo degno dei rivoluzionari in simili circostanze: condannare energicamente il comportamento dell’impostore in modo da riparare all’errore politico grave commesso cauzionando le sue calunnie contro la nostra organizzazione.
Nei fatti la risposta del BIPR alla nostra critica è molto chiara: si tratta di un “respinto al mittente” giustificato dal pretesto che risponderci costituirebbe una “perdita di tempo che non possiamo permetterci”. E per di più il BIPR pretende che è lui ad essere attaccato! Un tale atteggiamento mostra chiaramente che questa organizzazione non ha nessun elemento concreto, né alcun argomento politico da opporci. Persistendo in questo atteggiamento, lo ripetiamo, il BIPR prova che sta diventando un ostacolo alla presa di coscienza del proletariato, “non tanto per il discredito che potrebbe apportare alla nostra organizzazione, ma per il discredito ed il disonore che questo tipo di comportamento infligge alla memoria della Sinistra comunista d’Italia, e dunque al suo contributo insostituibile” (“Lettera aperta ai militanti del BIPR” del 7 dicembre 2004).
Esaminiamo adesso questo “approfondimento della conoscenza della critica alle posizioni della CCI” da parte di BC promesso dal comunicato del BIPR, vale a dire l’articolo in italiano “Decadenza, decomposizione, prodotti della confusione” del numero 10 di Prometeo.
Lotta politica si, ma non con i metodi della borghesia
La CCI è totalmente favorevole al confronto aperto, senza concessioni, dei punti di vista divergenti difesi dalle diverse correnti all’interno del movimento operaio. In effetti, “Senza dubbio non esiste partito per il quale la critica libera ed infaticabile dei propri errori non sia, come per la social-democrazia, una condizione di esistenza. Così come noi dobbiamo progredire al pari dell’evoluzione sociale, la modifica continua dei nostri metodi di lotta e, di conseguenza, la critica incessante del nostro patrimonio teorico, sono le condizioni della nostra propria crescita” (Rosa Luxemburg, Libertà della critica e della scienza) (4). Non è quindi un caso se, contrariamente alle tendenze opportuniste all’interno del movimento operaio, le correnti costituenti la sinistra marxista all’interno di questo hanno sempre, ad immagine di Lenin, Rosa Luxemburg e Pannekoek, accolto con entusiasmo la polemica, da essi considerata vivificante. La CCI stima di inscriversi totalmente in questa tradizione, come testimoniato dall’esistenza di numerose serie di polemiche apparse sulla sua stampa e la cui onestà non è stata, fino ad oggi, contestata da nessuno.
Rispetto all’articolo di Prometeo dobbiamo dire di non essere stati colpiti dalla “profondità” che era stata promessa, ma questo non è il problema più importante. In effetti, BC sembra ignorare o aver dimenticato che la polemica all’interno del campo proletario non ha niente a che vedere con la “giostra politica” praticata dalla borghesia e la cui finalità è “segnare dei punti” contro l’avversario, considerando questo metodo come uno tra gli altri dei modi di procedere propri di questa classe: colpi bassi, mala fede, raggiri, menzogne, ecc. Così, pur affrontando nell’articolo questioni della massima importanza per la classe operaia, è a questi modi di procedere che BC è ricorsa per tentare di far prevalere “ad ogni costo” il suo punto di vista. E’ per questo che, senza sottovalutare l’importanza di continuare a prendere posizione sulle divergenze importanti che separano le nostre organizzazioni – e lo faremo di nuovo prossimamente (5) – è a questa pratica politica di BC che vogliamo qui dare priorità criticandola profondamente in quanto inaccettabile da parte di una organizzazione che si richiama al marxismo ed alla tradizione della Sinistra comunista.
Non è la prima volta che dobbiamo rilevare problemi di questo tipo nella discussione con questa organizzazione. Per esempio, nel marzo 2001, in un articolo in due parti consacrato alla critica della pratica opportunista nella costruzione del Patito adottata dal BIPR (6), scrivevamo, a proposito di una risposta di questa organizzazione alla prima parte dell’articolo: “[la CCI] viene citata solo quando strettamente necessario. L’insieme dell’articolo è superficiale e sprovvisto di citazioni delle nostre posizioni, le quali sono, al contrario, sintetizzate da BC che ne riproduce alcune in modo chiaramente deformato”. Ma mentre all’epoca volevamo ben credere che “ciò rileva una incomprensione di queste [nostre posizioni] e non una manifestazione di mala fede” oggi, tenuto conto del carattere sistematico della deformazione e dell’enormità di certe menzogne, siamo in dubbio sulle cause di un tale atteggiamento: bisogna metterlo in conto alla senescenza intellettuale e politica o invece attribuirlo ad un cinismo estremo che traduce la perdita totale di ogni morale e di ogni riferimento proletario da parte di questa organizzazione? E perché no le due cose insieme? In ogni caso il lettore potrà giudicare testi alla mano.
La spudorata deformazione delle posizioni della CCI
L’articolo di Prometeo si attacca alla rinfusa alla nostra posizione relativa alla capacità della borghesia e dei suoi sindacati di manovrare contro la classe operaia (come è successo all’epoca degli scioperi in Francia nel dicembre 95) ed alla nostra analisi del parassitismo politico. Senza ritegno, dopo aver appena sfiorato la prima questione, la penna devastante di BC sfigura deliberatamente la nostra analisi del parassitismo per i bisogni meschini della sua bassa polemica. Ecco cosa si dice: “Tutti hanno avuto modo di verificare questa visione, propria della CCI di una borghesia complottarda in varie occasioni, fra le quali (...) le tesi sul “parassitismo” che assegnano alla borghesia tout court la responsabilità di creare i gruppuscoli parassiti, apposta per danneggiare la CCI”. L’autore di questo articolo ha la faccia tosta di presentare ciò che lui chiama evidenze, “tutti hanno avuto modo di verificare questa visione”, e di invocare le nostre “tesi sul parassitismo” come prova di questa evidenza. Di fronte a tale menzogna è necessario citare abbondantemente queste Tesi:
- “il fenomeno del parassitismo politico risulta (...) essenzialmente dalla penetrazione di ideologie estranee all’interno della classe operaia (...)”. (Punto 8 delle “Tesi sul parassitismo” pubblicate nella Rivista Internazionale n 22.);
- esso costituisce una minaccia “in un periodo di immaturità relativa del movimento operaio in cui le organizzazioni del proletariato hanno ancora un debole impatto e poca tradizione” (punto 8);
- “... la nozione di parassitismo politico non è affatto una invenzione della CCI. (...) E’ l’AIT, a cominciare da Marx ed Engels, che caratterizzava già come parassiti questi elementi politicizzati che, pur pretendendo di aderire al programma ed alle organizzazioni del proletariato, concentrano i loro sforzi sulla lotta, non contro la classe dominante, ma contro le organizzazioni della classe rivoluzionaria” (punto 9);
- la vulnerabilità al parassitismo è dovuta oggi più specificamente alla “rottura della continuità organica con le tradizioni delle generazioni passate dei rivoluzionar,i che spiega soprattutto il peso dei riflessi e dei comportamenti anti-organizzativi piccolo-borghesi tra molti elementi che si richiamano al marxismo ed alla Sinistra comunista” (punto 12);
- “il parassitismo non costituisce come tale una frazione della borghesia, non avendo né programma né orientamento specifici per il capitale nazionale, né un posto particolare negli organi statali per controllare la lotta della classe operaia” (punto 18);
- tuttavia, “la penetrazione di agenti dello Stato nell’ambito parassitario è evidentemente facilitato dalla natura stessa di questo, la cui vocazione fondamentale è combattere le vere organizzazioni proletarie” (punto 20).
Inoltre, se la questione del parassitismo è effettivamente presente nella conclusione della nostra risoluzione criticata da BC, è per dire: “Come per la classe ogni dimissione di fronte alla logica della decomposizione non può che privarla della propria capacità a rispondere alla crisi alla quale l’umanità è confrontata, così la minoranza rivoluzionaria stessa rischia di essere rasa al suolo e distrutta dall’ambiente putrido che la circonda e che penetra nei suoi ranghi sotto la forma del parassitismo, dell’opportunismo, del settarismo e della confusione teorica”. Sfidiamo chiunque a trovare un legame tra quello che scrive BC e quello che scrive la CCI sul parassitismo, incluso all’interno di quello che non abbiamo citato qui. In effetti, alla lettura dei nostri testi, che sono pubblici, anche per il BIPR, emerge che, contrariamente alla visione poliziesca che con l’imbroglio BC ci attribuisce, il parassitismo politico non è una creazione della borghesia, ma il prodotto della pressione dell’ideologia borghese in certe circostanze storiche.
E dalla lettura dell’insieme dell’articolo di Prometeo emerge che BC è un pessimo falsario, ma anche un instancabile calunniatore.
Uno stato d’animo deplorevole
L’esempio che precede è un’espressione caricaturale della disonestà che attraversa tutto l’articolo di Prometeo.
La manipolazione degli scritti de “l’avversario”
L’articolo di BC rimprovera alla nostra risoluzione di contenere, nei punti 6 e 9, “delle frasi prive di senso”, tra le quali la seguente che ne costituirebbe “una perla”: “L’abbandono di queste istituzioni [l’ONU e la Nato] del ‘diritto internazionale’ rappresenta un avanzamento significativo dello sviluppo del caos nei rapporti internazionali”. Il problema non sta nella qualificazione da parte di BC di questa frase, ma piuttosto nel fatto che, isolata dal suo contesto questa può lasciar pensare che noi valutiamo che l’ONU avrebbe un ruolo da arbitro internazionale, al di sopra degli interessi particolari degli uni e degli altri, garantendo un certo ordine mondiale e una sua perdita di influenza sarebbe quindi un fattore di caos. Ora, non è questa la nostra posizione (e BC lo sa perfettamente, così come sa molto bene che la CCI ha sempre considerato l’ONU “un covo di briganti” (7)), come ci si può rendere conto leggendo le due frasi precedenti della nostra risoluzione non citate da BC: “Questa crisi mette in evidenza la fine non solo della NATO (la cui inadeguatezza si è vista attraverso la sua incapacità a mettersi d’accordo sulla ‘difesa’ per la Turchia giusto prima della guerra), ma anche delle Nazioni Unite. Sempre più la borghesia americana considera questa istituzione come uno strumento dei suoi principali rivali e dice apertamente che questa non giocherà alcun ruolo nella ‘ricostruzione’ dell’Iraq”.
L’arte di giocare con le parole per oscurare gli argomenti ed il pensiero de “l’avversario”
La risoluzione della CCI criticata da BC ritorna sul periodo di decomposizione: “... la classe operaia, le cui lotte dal 1968 al 1989 avevano impedito alla borghesia di imporre la sua “soluzione” alla crisi economica, era sempre più confrontate alle conseguenze della propria incapacità ad elevare le lotte ad un livello politico più alto e ad offrire un’alternativa all’umanità. Il periodo di decomposizione , risultante da questo ‘empasse’ tra le due classi principali, non apporta niente di positivo alla classe sfruttata. Benché la combattività della classe non sia stata annientata in questo periodo, e che un processo di maturazione sotterranea della coscienza era ancora sensibile, in particolare sottoforma di ‘elementi in ricerca’ e di piccole minoranze politicizzate, la lotta di classe ha subito dappertutto un riflusso che non è ancora finito. La classe operaia in questo periodo è stata confrontata non solo alle sue debolezze politiche, ma anche al pericolo di perdere la sua identità di classe sotto il peso di un sistema sociale in piena disintegrazione”. Questa analisi della CCI si riduce a questo sotto la penna di BC: “la ‘decomposizione’ (del modo di produzione? della formazione sociale? Mah!) sarebbe dunque il risultato dell’equilibrio stabile che si sarebbe raggiunto fra le classi, proletariato e borghesia” Noi non avremmo sintetizzato così il nostro pensiero ma, tenuto conto del fatto che BC non capisce questa questione, non possiamo fargliene un rimprovero. Per contro, il modo in cui BC continua è significativo del suo metodo che gioca sull’utilizzo del termine “responsabilità” per dare alla nostra analisi un senso completamente diverso da ciò che esprimiamo realmente, in modo da snaturare la nostra argomentazione: “E in particolare per responsabilità della classe proletaria che ... si sarebbe rivelata incapace di elevare le sue lotte ad un livello politico più alto”. Esiste effettivamente una responsabilità storica della classe operaia a rovesciare il capitalismo prima che questo getti la società in uno stato di barbarie irreversibile. E’ compito del proletariato ergersi all’altezza di questa responsabilità. Questa è una cosa che i rivoluzionari affermano dai tempi della prima ondata rivoluzionaria mondiale degli ani 1917-23. Altra cosa è attribuirci l’idea che la classe operaia sia “responsabile” della decomposizione del capitalismo. E’ una calunnia a buon mercato che permette a BC di concludere (in più senza alcuna spiegazione): “Fare apparire la propria inadeguatezza teorica come una debolezza della classe è una furbata di basso profilo e che non paga”.
Un’enorme menzogna
Abbiamo visto in cosa consiste il persistente metodo di BC di deformare, talvolta in maniera molto grossolana gli argomenti della CCI, per ridicolizzarli, togliere loro valore, squalificarli. Per ognuna delle falsificazioni evocate prima è tuttavia sempre possibile invocare, affianco ad una evidente cattiva fede di BC, la sua ignoranza profonda delle posizioni criticate ed il suo disinteresse manifesto per queste, insieme alla superficialità della sua pratica politica. Ma ciò non è possibile per l’esempio che segue, degno dei metodi di propaganda di Goebbels per il quale “una menzogna enorme porta in se una forza che elimina il dubbio”.
L’articolo di Prometeo ritorna sull’analisi che ha fatto la CCI prima della scomparsa dei blocchi sulla posta in gioco storica. Durante tutto il periodo della guerra fredda, mentre l’esistenza di due blocchi imperialisti rivali che si dividevano il mondo e si fronteggiavano era una condizione per lo scoppio di una terza guerra mondiale, il solo ostacolo ad una tale uscita fatale per l’umanità era costituita dall’esistenza di una classe operaia non imbrigliata dalla borghesia, contrariamente alla situazione che aveva prevalso alla vigilia dei primi due conflitti mondiali. Durante tutto questo periodo la CCI ha sempre combattuto le illusioni, alcune delle quali emananti da gruppi rivoluzionai quali BC, che alimentavano una sottovalutazione della gravità della posta in gioco partecipando a propagande del tipo, “poiché la borghesia non è suicida, non farà mai scoppiare una guerra nucleare”, che nei fatti dava credito alla tesi della borghesia de “l’equilibrio del terrore”. Oggi BC non rinnega quello che diceva al riguardo: “Beninteso il pericolo nucleare restava uno dei fattori di raffreddamento delle tensioni, ovvero una spinta forte sui centri di comando dell’imperialismo a cercare soluzioni alternative” (“Decadenza, decomposizione, prodotti della confusione”). In più BC constata giustamente che con la scomparsa dei blocchi, la CCI ha cambiato la sua formulazione circa l’alternativa storica: “guerra o rivoluzione” è diventata “distruzione dell’umanità o rivoluzione”, la distruzione dell’umanità potendo risultare sia da una guerra mondiale (8) in caso di ricostruzione di due nuovi blocchi e di disfatta della classe operaia, sia dalla moltiplicazione di guerre locali sempre più devastanti e dallo sprofondamento del capitalismo nel caos e la decomposizione fino ad un punto di non ritorno. Mentre su questa questione l’articolo di BC riproduce fin qui quasi fedelmente le nostre posizioni, ecco che a questo punto BC sferra il suo “colpo segreto”, l’invenzione, non del secolo, ma quella che supera tutte le deformazioni all’attivo del suo triste primato: “Ora, improvvisamente, la CCI ci informa che la sola ragione della mancata guerra, sostanzialmente, era ed è il fatto che una guerra nucleare avrebbe annientato l’umanità”. Non credendo ai nostri occhi, abbiamo letto e riletto questo passaggio. Non solo non c’è scritto questo nella risoluzione della CCI, ma non c’è niente che potrebbe essere interpretato in questo modo in nessuno dei nostri testi precedenti e successivi a questa risoluzione. Ma soprattutto, nessun quiproquo era possibile nella misura in cui, al momento della riunione pubblica del BIPR del 2 ottobre a Parigi, la CCI le ha posto questa domanda pubblicamente: “Il BIPR difende ancora oggi la sua analisi secondo la quale se una terza guerra mondiale non è scoppiata prima del crollo del blocco dell’Est è a causa della bomba atomica e de ‘l’equilibrio del terrore’?”. Nel resoconto di questa riunione che abbiamo pubblicato (“Il vuoto politico e l’assenza di metodo del BIPR”, in Rivoluzione Internazionale n.138), riportiamo i seguenti fatti: “sulle prime nessun militante del BIPR ha voluto rispondere alla nostra domanda. Solo quando abbiamo ripetuto questa domanda per la terza volta, uno di loro si è degnato di risponderci, in modo molto conciso (e senza nessuna argomentazione):’ l'equilibrio del terrore è UNO dei fattori che spiega perché la borghesia non ha potuto scatenare una terza guerra mondiale’ ”. Era quindi impossibile per BC ignorare che al momento di questa riunione pubblica, cioè circa due mesi prima la pubblicazione in Prometeo dell’articolo in questione, noi eravamo in profondo disaccordo con lei su questa questione. Morale: oltre ad adottare delle pratiche della borghesia rispetto alla CCI, BC prende apertamente in giro il lettore.
La fuga di fronte alla necessità di chiarezza che si impone
Il BIPR, confuso dal carattere menzognero delle calunnie contro la CCI che lui ha ospitato con compiacenza sul sito, a cominciato a cancellare surrettiziamente le tracce del suo colpo basso (9), in modo da affossare la cosa. Quando la CCI gli chiede conto della sua azione, il BIPR strilla che è attaccato: “d’ora innanzi non daremo riscontro né seguito a nessuno dei loro volgari attacchi” (in “Ultima risposta alle accuse della CCI”) (10)! Per distogliere dal problema enorme che pone il suo comportamento politico, il BIPR “spara a zero” sui disaccordi tra le nostre due organizzazioni rispetto a delle questioni programmatiche e di analisi generale pubblicando in Prometeo l’articolo “Decadenza, decomposizione, prodotti della confusione”. Ma anche qui, incapace di affrontare onestamente le vere divergenze, è costretto ad escogitare giochetti da prestigiatore per non rispondere ai reali argomenti politici della CCI. Infine, per premunirsi dal dover render conto sulle sue nuove mancanze decreta un “respinto al mittente” che giustifica con una boria che non ha eguali se non la sua inanità politica: “Se queste sono – come sono – le basi teorico-politiche della CCI dovrebbero essere chiare le ragioni per le quali abbiamo deciso di non perdere più tempo, carta ed inchiostro per discutere o anche polemizzare con essa” (11).
Il BIPR riesce ancora a imbrogliare se stesso ed i suoi incondizionati sostenitori? A questi dovrebbe quanto meno spiegare perché è inutile discutere con la CCI a causa delle sue basi teoriche, mentre è invece possibile farlo con la FICCI ed avere con questa anche dei contatti che “esistono e persistono” (12), visto che quest’ultima pretende di rappresentare la vera CCI con le stesse “basi teoriche!”. La differenza più importante tra la CCI e la FICCI, ed è certamente questa che la deve rendere più attraente agli occhi del BIPR (13), è che la FICCI si è data alla denigrazione della nostra organizzazione, ha insinuato il sospetto riguardo all’esistenza di agenti dello Stato al nostro interno (il che è tipico del lavoro della provocazione poliziesca), ha commesso furti a nostro danno, si è data alla delazione rendendo pubblici degli elementi sensibili della nostra vita interna (14) e recentemente ha minacciato addirittura di “tagliare la gola” ad uno dei nostri militanti (15).
La paura congenita del confronto politico
Ecco il triste stato nel quale si trova oggi una componente uscita dalla Sinistra comunista d’Italia, corrente che negli anni 30, in pieno periodo di controrivoluzione, ha saputo mantenere l’onore del proletariato rivoluzionario contro il tradimento dei PC e di fronte alla degenerazione del trotskismo. E’ vero che questa componente politica che è all’origine della fondazione del PCInt nel 1943 in Italia si era già caratterizzata da subito, appunto in questa occasione, per un’apertura opportunista di fronte a gruppi di provenienza dal PSI (Partito socialista italiano) e dal PCI (Partito comunista italiano) o elementi che avevano rotto precedentemente con il quadro programmatico della Sinistra italiana per lanciarsi in avventure contro-rivoluzionarie (16). La Frazione francese della Sinistra comunista (FFGC, che pubblicava Internationalisme), a cui si rivendica la CCI, criticò all’epoca questa pratica che voltava le spalle all’intransigenza programmatica e organizzativa della Sinistra comunista d’Italia negli anni 1930 (17). Nel novembre 1946 la FFGC scrisse una lettera (pubblicata in Internationalisme n°16 del dicembre 1946) dove faceva l’elenco di tutte le questioni da discutere riguardanti le divergenze all’interno della SCI (18). E quello che successe è che, così come la SCI era stata esclusa in modo burocratico dall’IC dopo il 1926 ed esclusa di nuovo dall’Opposizione di sinistra nel 1933, fu poi la SCI ad escludere la Frazione francese dalla discussione politica al suo interno per evitare il confronto politico. La “giustificazione” allora invocata per una tale misura ricorda la mala fede congenita del BIPR: “Poichè (...) la vostra lettera dimostra una volta ancora la costante deformazione dei fatti e delle posizioni politiche prese sia dal PCI d’Italia, sia dalle frazioni francese e belga (...),[e] la vostra attività si limita a gettare confusione e fango sui nostri compagni, noi abbiamo escluso all’unanimità la possibilità di accettare la vostra domanda di partecipazione alla riunione internazionale delle organizzazioni della SCI”. Questo estratto della lettera del PCInt è citato nell’articolo “La disciplina ... forza principale” apparso in Internationalisne n° 25, agosto 1947 (19). Lo stesso articolo di Intenationalisme n° 25 fa il seguente commento: Si penserà ciò che si vuole dello spirito con il quale è stata fatta questa risposta, ma bisogna constatare che in mancanza di argomenti politici essa non manca di energia e di decisione ... burocratica”.
Il metodo utilizzato attualmente da BC nei nostri confronti non è dunque nuovo da parte di questa organizzazione anche se, date le diverse circostanze, si esprime sotto una forma diversa. In effetti, non si pone qui la questione di una nostra esclusione dato che non apparteniamo ad un’organizzazione comune, quanto piuttosto un tentativo di “discredito” della nostra “squalifica” verso tutto l’ambiente che simpatizza con le posizioni della Sinistra comunista, che costituisce attualmente un obiettivo per BC, data la sua visione concorrenziale e settaria delle relazioni tra gruppi comunisti. Ma di fronte agli argomenti dell’avversario per raggiungere i suoi fini, respingendo il confronto franco e leale, BC ricorre alla disonestà, alla calunnia ed allo schivare le questioni con degli sdegnosi “respinto al mittente”.
Il BIPR malato delle sue concezioni e pratiche organizzative
Il disprezzo e lo spregio con il quale la SCI aveva all’epoca trattato questa piccola minoranza costituita dalla FFGC che aveva criticato la costituzione opportunista del PCInt, trovava una falsa legittimazione nella sproporzione allora esistente tra, da una parte, la SCI con le sue componenti in Italia (un partito che aveva contato alla sua formazione varie migliaia di membri), in Belgio ed in Francia e, dall’altra, la piccola FFGC molto ridotta numericamente ed esistente solo in Francia. E’ con la stessa arroganza che il BIPR tratta oggi la CCI, ma in più in maniera ridicola. In effetti, se è ben cosciente che, malgrado la sua esistenza in 13 paesi, la CCI è ancora una piccola organizzazione rivoluzionaria, il BIPR visibilmente non ha ancora realizzato che è lui stesso una minuscola organizzazione. BC può ben cercare di consolarsi prendendo i sogni ed i pettegolezzi della FICCI per realtà e rassicurarsi ripetendo a sazietà che la CCI è “attraversata da una profonda ed irreversibile crisi interna”, ciò non cambia la realtà attuale della CCI. Questa fa fronte alle sue responsabilità di analisi della situazione, di intervento nella classe operaia, fa uscire regolarmente la sua stampa, è capace di andare incontro alla richiesta di politica rivoluzionaria che emerge all’interno delle giovani generazioni e ... trova anche il tempo di difendersi di fronte agli attacchi di cui è oggetto da parte dell’alleanza del BIPR con il parassitismo. E’ vero che si parla di più delle crisi della CCI che di quelle del BIPR. E non a caso! Non solo la CCI non le nasconde, ma ne espone pubblicamente le cause e gli insegnamenti di fronte alla classe operaia. Del resto, come abbiamo già sottolineato nella risposta al BIPR (vedi il nostro articolo “Il furto e la calunnia non sono metodi della classe operaia”, pubblicato sul nostro sito Intenet), tutte le organizzazioni vive del movimento operaio (in particolare l’AIT ed il POSDR) hanno dovuto portare avanti delle lotte al proprio interno per difendersi da concezioni e comportamenti politici estranei al proletariato (20). E’ vero che il BIPR non parla dei problemi di questo tipo che possono toccare la sua vita politica. Scopriamo non di meno, all’interno di una frase, le concezioni aberranti in vigore in questa organizzazione. In effetti, per giustificare il furto degli indirizzi dei nostri abbonati da parte di un militante che parteciperà alla fondazione della FICCI, il BIPR si esprime in questi termini: “se dei compagni dirigenti della CCI - che come tali disponevano del file di indirizzi dell'organizzazione - rompono con l’organizzazione stessa, dichiarando per di più di voler recuperare i compagni alla “retta via”, e si tengono il file di indirizzi, non si tratta di furto. Il falso moralismo della CCI odora dunque di ipocrisia, quando è la stessa CCI a lanciare accuse di ogni genere a chi la abbandona” (“Risposta alle stupide accuse di una organizzazione in via di disintegrazione”, pubblicato sul sito Internet del BIPR). Abbiamo già mostrato (“Il furto e la calunnia non sono metodi della classe operaia”) perchè è nulla questa giustificazione del furto di uno strumento dell’organizzazione che appartiene a questa come insieme e non agli individui che la compongono. In quella occasione abbiamo segnalato che parlare di una “organizzazione con alla sua testa dei dirigenti” rimanda ad un concetto dell’organizzazione che noi non condividiamo. E’ esistito ed esiste ancora nel movimento operaio una visione dell’organizzazione, teorizzata in particolare dalla corrente bordighista (cugino carnale del BIPR) che opera esplicitamente una distinzione all’interno dell’organizzazione, tra i dirigenti e la base dei militanti (21). Tali visioni costituiscono delle concessioni alla visione gerarchica e borghese di una organizzazione. All’opposto di questa visione, il partito, come ogni organizzazione rivoluzionaria, non può svolgere la sua funzione se non è un luogo di elaborazione collettiva, con tutti suoi membri, degli orientamenti politici. Ciò implica necessariamente la discussione più aperta ed ampia possibile, all’immagine della classe operaia la cui emancipazione ha per condizione l’azione cosciente collettiva.
Non avevamo ancora commentato questa concezione del BIPR che attribuisce delle prerogative ai “membri dirigenti”, in questo caso rubare senza che ciò sia condannabile, e che rileva anch’essa una visione gerarchica dell’organizzazione. Ma si sarebbe tentati di farla derivare, non tanto dall’influenza dell’ideologia borghese, quanto piuttosto dell’ideologia ...feudale. In effetti questa illuminazione del BIPR ci trasporta direttamente al Medio Evo, con i nobili che hanno il privilegio, per i loro bisogni di cassa o di guerra, di poter saccheggiare i raccolti dei contadini e che, per loro proprio piacere, dispongono anche del ius primae noctis.
Se è vero che, nei fatti, assistiamo oggi ad una ripetizione della storia da parte di BC, sarebbe nondimeno sbagliato dedurne che questa organizzazione resta invariabilmente uguale a se stessa. In effetti, la ripetizione di pratiche opportuniste non è senza conseguenze sulla dinamica di un’organizzazione, in particolare quando questa è impermeabile alla critica e chiusa ad ogni rimessa in causa. I flirt ripetuti del BIPR con gruppi estranei alle posizioni o ai metodi del proletariato e in particolare, ultimo in data, con la marmaglia della FICCI, l’hanno portata ad inspirarsi ai loro metodi borghesi.
In questo testo ed in quelli precedenti ai quali abbiamo fatto riferimento, abbiamo dimostrato che le nostre critiche al BIPR sono assolutamente fondate e che le accuse di questa organizzazione nei nostri confronti si basano sulla sabbia. Noi continuiamo ad aspettare (e non demorderemo certo) che il BIPR dimostri quello che afferma, il mantenere un atteggiamento di silenzio da parte sua può significare solo una cosa, che nei fatti non ha niente da dire.
Corrente Comunista Internazionale
1. Il Bureau Internazionale per il Partito Rivoluzionario (BIPR – www.leftcom.org [45]), fondato dal Partito Comunista Internazionalista – Battaglia Comunista (BC) e dalla Communist Workers’ Organisation (CWO) in Inghilterra, si rivendica alla tradizione della Sinistra Comunista d’Italia.
2. Prometeo è la rivista teorica di Battaglia Comunista
3. Invitiamo i lettori a consultare sul nostro sito Internet i documenti inerenti a questa questione, in particolare l’ultimo: la “Lettera aperta ai militanti del BIPR” del 7 dicembre 2004.
4. Ciò che era vero per la Social Democrazia quando era ancora un’organizzazione della classe operaia, vale per tutte le organizzazioni del movimento operaio, quale che sia la loro influenza all’interno della classe, e si applica dunque pienamente ancora oggi alle piccole organizzazioni che sono restate fedeli, sul piano delle posizioni programmatiche, alla lotta del proletariato per la sua emancipazione.
5. L’articolo di BC è relativo ad un documento della CCI che data ormai due anni. Noi non rinneghiamo in niente il suo contenuto, ma è opportuno segnalare che, più recentemente e comunque prima della comparsa di questo articolo di BC, abbiamo pubblicato dei testi di polemica diretta con il BIPR, proprio sulle questioni centrali in oggetto. Si tratta delle due parti dell’articolo “L’abbandono da parte di BC del concetto marxista di decadenza di un modo di produzione” apparso nei numeri 119 e 120 della Rivista Internazionale (in francese, inglese e spagnolo) e dell’articolo “Il vuoto politico e l’assenza di metodo del BIPR”, pubblicato in Rivoluzione Internazionale n° 138, che costituisce il resoconto della riunione pubblica del BIPR del 2 ottobre 2004 a Parigi. Questi testi sono restati fino ad oggi senza risposta. Può darsi che fra due anni riceveranno una risposta da parte del BIPR, se questo riuscirà a liberare un pò del suo prezioso tempo.
6. “La visione marxista e la visione opportunista della costruzione del partito” nei numeri 103 e 105 della Rivista Internazionale (in francese, inglese e spagnolo).
7. Come del resto Lenin qualificava la Società delle Nazioni, antenata dell’ONU.
8. La CCI non ha tuttavia aspettato il crollo del blocco dell’Est per mettere in evidenza che una terza guerra mondiale avrebbe significato la scomparsa dell’umanità o, come minimo, un ritorno indietro della civiltà di migliaia di anni.
9. Nel caso in cui il BIPR dovesse diventare completamente smemorato rispetto a certi episodi del passato, noi abbiamo conservato delle copie dei testi che ha fatto sparire dal suo sito.
10. Il BIPR si lamenta della nostra volgarità nei suoi confronti. E’ vero che noi critichiamo con durezza, a volte con ironia, certi suoi comportamenti. Se lo merita, e delle volte è difficile non chiamare le cose con il proprio nome. Ma il BIPR ha ben poco da lamentarsi, tanto più che è molto meno pignolo e sensibile quando, galvanizzata dalle accuse dell’avventuriero B. contro di noi, la FICCI ci chiama stronzi nel suo “bollettino giallo”.
11. Notiamo quanto meno che il BIPR è stato molto meno avaro nel spendere il suo tempo quando, dovendo dare la massima diffusione alle calunnie del signor B. contro la CCI, ha trovato il modo di tradurre i testi di questo in più lingue per metterli sul sito.
12. “Risposta alle stupide accuse di una organizzazione in via di disintegrazione”, testo del BIPR pubblicato sul suo sito Internet.
13. La FICCI costituisce un’attrattiva per il BIPR che vede in essa un mezzo per rafforzarsi numericamente in Francia e, chi lo sa, per impiantarsi in Messico. In altri termini, nella sua valutazione intervengono fortemente delle considerazioni di “abboccamento” rispetto a quelli che, mentre pretendono di rappresentare la vera CCI, guardano “con attenzione critica alle posizioni del Bipr” (“Ultima risposta agli attacchi della CCI”). Se il BIPR ha deciso di non essere pignolo riguardo alla natura del “pesce” pescato, non tocca a noi metterlo in guardia ancora una volta.
14. A tale proposito vedi il nostro articolo “I metodi polizieschi della FICCI” in Révolution Internationale n° 330.
15. Vedi l’articolo “Minacce di morte contro i militanti della CCI”, in Rivoluzione Internazionale n° 140.
16. Vedi i nostri articoli “Battaglia Comunista: a proposito delle origini del Partito Comunista Internazionalista” nella Révue Internationale n° 34 e “Il Partito Comunista Internazionale (Programma Comunista) alle sue origini, quale pretende si essere, quale non è” nella Révue Internationale n° 32.
17. Leggi il nostro libro La Sinistra comunista d’Italia.
18. Per rendersi conto della serietà con la quale furono esplicitate queste divergenze e critiche, consigliamo ai nostri lettori di consultare la lista in questione pubblicata nel nostro opuscolo La Gauche communiste de France.
19. Articolo pubblicato sotto lo stesso titolo nella Révue Internationale n° 34.
20. E allo stesso modo, in queste lotte, hanno perso degli elementi dal lungo e talvolta prestigioso passato militante che, in una forma o nell’altra, avevano tradito la causa proletaria.
21. Tali visioni sono già state combattute dalla FFGC nella rivista Internationalisme n° 25. In particolare nella sua critica de “la concezione del capo geniale” (secondo la quale solo delle individualità particolari – i capi geniali – hanno la capacità di approfondire la teoria rivoluzionaria per distillarla e trasmetterla, in un certo senso “bell’è fatta”, ai membri dell’organizzazione) e de “la disciplina ... forza principale” (che concepisce i militanti dell’organizzazione come dei semplici esecutori che non hanno da discutere gli orientamenti politici dell’organizzazione). Queste visioni erano state combattute anche da Lenin quando scriveva “è dovere dei militanti comunisti verificare in prima persona le risoluzioni delle istanze superiori del partito. Chi, in politica, crede sulla parola è un incorreggibile idiota” (citato da Internationalisme n° 25).
In risposta alla minaccia di riduzioni massicce di posti di lavoro e di chiusure di fabbriche da parte della General Motors, ha avuto luogo alla Opel di Bochum uno sciopero di sei giorni. Questo sciopero spontaneo, non ufficiale, è stato il più lungo e significativo in Germania dai grandi scioperi selvaggi della fine degli anni 60 - inizio anni 70.
Per quasi un’intera settimana la popolazione operaia, non solo in Germania, ha seguito con attenzione e grande simpatia gli avvenimenti di Bochum. Nelle altre fabbriche della General Motors (GM) in Europa gli operai hanno espresso apertamente la loro ammirazione identificandosi con i proletari di Bochum per il loro coraggio e la loro combattività. Ad esempio, durante la "giornata d'azione" organizzata dai sindacati il 19 ottobre ci sono state varie interruzioni di lavoro. L'importanza di germi di solidarietà che sono stati attivati da questa lotta operaia può misurarsi col fatto che i padroni, finché si sviluppava lo sciopero, non hanno osato prendere misure legali contro gli scioperanti, sebbene normalmente - proprio nella Germania democratica - ci sia una repressione particolarmente rigorosa contro ogni lotta che si svolge al di fuori del quadro sindacale dei negoziati ufficiali. Naturalmente, i padroni hanno utilizzato le minacce abituali, denigrato i "sobillatori", diffondendo voci su automobili e macchine rotte e hanno minacciato di chiamare la polizia se lo sciopero non fosse cessato immediatamente.
Il significato ed il contesto della lotta alla Opel
Sebbene il sindacato IG Metal ed il consiglio di fabbrica (1) della Opel-Bochum abbiano giustificato la fine dello sciopero con il fatto che gli operai avrebbero obbligato i datori di lavoro a ritornare al tavolo dei negoziati ed ad offrire delle garanzie di non chiusura delle fabbriche, la principale rivendicazione degli scioperanti - che non ci fossero licenziamenti - non è stata soddisfatta. Tuttavia l'aspetto significativo di questo sciopero risiede innanzitutto nel fatto che esso ha dimostrato la capacità della classe operaia di agire in quanto forza indipendente della società attuale. Non è un caso che il conflitto alla Opel abbia provocato un dibattito nei media della borghesia tra, da un lato, i sociologi che parlano di un “ritorno della lotta di classe, nel senso marxista del termine" e, dall'altro, gli ideologi dei movimenti di “mondializzazione alternativa" e di "lotta contro il lavoro" che già da molto tempo hanno dichiarato morta e sepolta la lotta operaia. Tali discussioni servono a seminare la confusione tra gli operai, quando dei teorici piccolo-borghesi come Robert Kurz del gruppo “Krisis", dichiarano in televisione che la lotta alla Opel è la conferma che la lotta operaia è stata sostituita da una lotta interclassista per il “diritto alla pigrizia". Ma servono anche a preparare la classe dominante nel suo insieme a rendersi conto che è finita l'epoca (soprattutto dopo 1989) in cui era possibile, in modo più o meno credibile, negare la realtà della lotta di classe. L'antagonismo che si acuisce tra i ricchi ed i poveri, tra il capitale ed il lavoro salariato ma, soprattutto, la resistenza dei lavoratori hanno messo in moto il processo di riconquista della sua identità di classe da parte del proletariato che, a sua volta, va a costituire una delle principali condizioni di una lotta difensiva più potente e più cosciente.
Opel: un segno del risveglio più generale della lotta operaia
Come ogni sciopero operaio significativo, lo sciopero di Bochum non è stato un fulmine a cielo sereno. Oggi, il proletariato ha già iniziato a lottare contro gli attacchi alle sue condizioni di vita derivanti dal peggioramento della crisi economica. Questo riemergere delle lotte difensive ha trovato la sua prima espressione nella primavera 2003 con gli scioperi e le manifestazioni nel settore pubblico in Francia ed in Austria contro la “riforma delle pensioni", che hanno visto il loro prolungamento in Italia nelle manifestazioni contro l'abbassamento delle pensioni, contro i licenziamenti alla Fiat e negli scioperi nei trasporti pubblici; in Grande Bretagna tra i vigili del fuoco e gli operai delle poste durante l'inverno 2003; negli Stati Uniti, contro le riduzioni massicce nella sanità e sulle pensioni, ecc. I lavoratori di tutti i paesi sono sempre più confrontati all'allungamento del tempo di lavoro, che comporta un deterioramento della forza lavoro e della salute degli operai insieme alla diminuzione drammatica degli stipendi ed a una povertà sempre più nera per disoccupati e pensionati.
Ciò che caratterizza la situazione attuale è il ruolo centrale giocato dalla disoccupazione. I licenziamenti massicci e la chiusura di fabbriche si moltiplicano, mentre continuano gli attacchi contro i disoccupati. Il ricatto aperto, mediante la minaccia di chiusura o dislocazione delle fabbriche, è utilizzato senza vergogna per ottenere delle riduzioni di stipendio, più ore lavorate ed una crescente flessibilità. In questo processo, spingere i lavoratori delle varie fabbriche gli uni contro gli altri diventa una politica che si impone alla borghesia in tutti i paesi.
La classe operaia sta già rispondendo a queste minacce con delle lotte. Il 2 ottobre 2004 in Olanda ed in Germania, in risposta agli attacchi dello Stato contro i disoccupati, ci sono state manifestazioni simultanee di 200.000 persone ad Amsterdam e 45.000 a Berlino. Nel settembre 2004, gli operai dei cantieri navali a Porto Reale ed a San Fernando in Andalusia (Spagna) hanno scioperato e hanno manifestato contro i licenziamenti.
Ciò che è tipico di queste lotte è che esse sono preparate da altre lotte, meno significative, nello stesso settore o in un altro, e che a loro volta ne preparano di future. Già quattro anni fa c'erano stati scioperi alla Opel di Bochum in risposta alla minaccia di riduzioni di impieghi, seguiti nella primavera 2004 da uno sciopero selvaggio alla fabbrica automobilistica Ford di Colonia. C'è inoltre un aspetto comune tra l'attuale sciopero di Bochum e le lotte rivendicative che ci sono state tre mesi fa alla Mercedes. Gli operai vi hanno messo in pratica la lezione secondo cui non si può, e non si deve, accettare il ricatto della borghesia senza lottare. Grazie ad un risveglio della solidarietà di classe, gli operai hanno bloccato i tentativi dei padroni di mettere i lavoratori delle differenti fabbriche gli uni contro gli altri. In questo senso, gli operai della Opel-Bochum hanno ripreso la fiamma della coraggiosa lotta dei loro colleghi della Mercedes.
Come è stata divisa e sabotata la lotta
Naturalmente i sindacalisti radicali hanno provato a spiegare la ripresa del lavoro alla Bochum dopo sei giorni (senza che le principali rivendicazioni degli operai fossero state soddisfatte) con le manovre della direzione della IG Metall e del consiglio di fabbrica del 20 ottobre. Ciò ha indotto gli operai a votare sull'apertura di negoziati condizionati alla ripresa del lavoro. Questo è un esempio tipico di manovra sindacale contro gli operai: il proseguimento ad oltranza di uno sciopero già isolato è presentato come unica alternativa alla fine della lotta. In effetti, le questioni decisive per la lotta sono state messe in un vicolo cieco:
- Come fare affinché le rivendicazioni operaie siano il più possibile efficaci?
- Chi negozia, i sindacati ed il consiglio di fabbrica o i delegati scelti da un'assemblea generale?
I sindacalisti radicali, schierandosi per uno sciopero lungo ed isolato, non hanno fatto altro che sostenere una delle opzioni della falsa alternativa della direzione. Quando è stato dato l'annuncio delle riduzioni di posti di lavoro programmati in Europa, gli operai di TUTTE le fabbriche Opel hanno reagito con indignazione bloccando il lavoro. Esattamente come alla Mercedes durante l'estate, quando hanno avuto luogo scioperi simultanei a Sindelfinden (Stoccarda) ed a Brema, dimostrando così come le forze operaie delle differenti fabbriche erano determinate a non lasciarsi spingere le une contro le altre. Anche qui, gli operai delle fabbriche principalmente prese di mira, Bochum e Rüsselsheim (minacciate ognuna di circa 5.000 licenziamenti) hanno reagito insieme. L'IG Metall ed il consiglio di fabbrica a Bochum non hanno nemmeno tentato di rompere questo slancio di combattività iniziale. Ma è stato fatto di tutto per imporre una ripresa veloce del lavoro a Rüsselsheim. Questo fatto è stato ignorato sistematicamente dai media di sinistra. E quando ne hanno parlato lo hanno fatto per dare l'impressione che i lavoratori di Rüsselsheim erano la causa di questa divisione.
La rapida ripresa del lavoro nella fabbrica “madre" alla Opel di Francoforte (Rüsselsheim) è stata vissuta dagli operai di Bochum, che rimanevano in sciopero, come un atto di mancanza di solidarietà. Fin dal secondo giorno del movimento alla Opel, si sentiva già il germe della divisione, contro cui gli operai della Mercedes erano stati capaci di premunirsi.
Come spiegarlo? Alcune settimane prima degli annunci di soppressione di 12.000 posti di lavoro in Europa, la GM aveva fatto sapere che in Europa sarebbe rimasta una sola fabbrica, o a Rüsselsheim (di Hesse), o a Trollhätan in Svezia. Già durante i primi giorni dello sciopero, il consiglio di fabbrica e l'IG Metall (IGM) a Rüsselsheim non hanno lasciato dubbi sul fatto che non avrebbero tollerato altre azioni di solidarietà con gli operai di Bochum, perché ciò poteva portare a perdere la fabbrica in Hesse di fronte alla "rivale svedese". Il sindacato, il consiglio di fabbrica ed il SPD hanno indetto manifestazioni separate delle differenti fabbriche il 19 ottobre mentre avrebbero potuto organizzare facilmente un'azione comune. Ma al contrario, gli operai di Bochum e di Rüsselsheim sono stati costantemente allontanati gli uni dagli altri, in modo da non avere mai l'opportunità di incontrarsi e discutere dei loro interessi comuni. I sabotatori della lotta non hanno neanche permesso ad una piccola delegazione di andare da Rüsselsheim a Bochum, per portare le loro testimonianze di solidarietà. Al contrario, il consiglio di fabbrica di Rüsselsheim ha messo in guardia contro “le teste calde" della Rhur, mentre i loro compari a Bochum facevano osservazioni sarcastiche sulla solidarietà dei loro “cari colleghi" di Rüsselsheim. Per avere un'idea di tutta l'ampiezza dell'ipocrisia dei sindacati durante la "giornata di solidarietà in tutta Europa", basta ricordare come i sindacati svedesi, in un'assemblea operaia, dopo il veloce ed abituale blabla sulla solidarietà con gli operai della Opel, si siano affrettati ad annunciare trionfalmente che il Primo ministro svedese Persson aveva promesso di impegnarsi personalmente affinché la produzione restasse in Svezia, e cioè che la fabbrica di Rüsselsheim fosse liquidata.
I lavoratori di fronte a delle false alternative
Che cosa succedeva a Bochum dove lo sciopero continuava? Là, i rappresentanti ufficiali dell'IGM ed il consiglio di fabbrica avevano talmente abbassato la testa all'inizio dello sciopero che una parte dei media li accusava di avere perso il controllo della situazione. Altri criticavano il fatto che questi avessero lasciato il campo libero ai sindacalisti radicali. In realtà, giusto alcuni giorni più tardi, i sindacati dimostravano quanto poco avessero perso il controllo mettendo fine allo sciopero con relativa facilità. Ma è anche vero che durante i primi giorni, i leader sindacali avevano lasciato veramente il campo ai “radicali". Appena è stato chiaro che la gente di Bochum sarebbe rimasta isolata nel proprio sciopero, questi pseudo-radicali, quali rappresentanti più conseguenti dell'ideologia sindacale, hanno cominciato a fare propaganda per “un lungo sciopero che doveva resiste fino alla fine". Un secolo fa, quando i lavoratori in lotta si battevano principalmente contro i singoli capitalisti, potevano imporre realmente i loro interessi facendo il proprio sciopero. Ma, da quando queste imprese familiari sono diventate dei consorzi giganti, legati a livello nazionale ad altre imprese ed allo Stato, gli operai devono battersi in quanto classe, e cioè devono estendere ed unificare le loro lotte in modo da essere capaci di opporre una resistenza efficace. Oggi, e già nel ventesimo secolo, l'ideologia sindacale delle lotte separate, isolate è diventata un’ottica borghese, una ricetta per colpire gli operai. Dalla Opel a Bochum, ancora una volta questa è servita a dividere gli operai. Mentre una maggioranza di lavoratori - presentendo già il vicolo cieco in cui li conduceva uno sciopero isolato - votava per la ripresa del lavoro, una minoranza combattiva, nella sua rabbia, voleva continuare qualunque fossero le conseguenze. Alcuni hanno anche accusato la maggioranza di aver tradito la causa comune. In quel momento, si insediava la divisione, non solo tra Bochum e Rüsselsheim, ma anche in seno agli operai di Bochum. In seguito, i rappresentanti dello "sciopero ad oltranza" - per esempio i sostenitori del MLPD stalinista - hanno affermato che se lo sciopero fosse durato alcuni giorni di più, i capitalisti sarebbero stati obbligati a capitolare. Ma la posta della lotta va ben oltre il semplice blocco della produzione. Si tratta innanzitutto di fare pendere il rapporto di forza tra le classi a favore del proletariato, grazie all'estensione ed all'unificazione delle lotte operaie.
Lo sviluppo di una prospettiva di classe autonoma
E’ pur vero che, dopo una settimana, la borghesia aveva fretta di mettere fine allo sciopero a Bochum. Non perché ci fosse una qualsiasi minaccia di crollo della produzione mondiale della GM. Ed è qui il cuore del problema. Lo sciopero a Bochum ha avuto realmente un impatto sulla borghesia e ha reso nervosi i difensori del sistema. Ma non per delle eventuali conseguenze per la produzione, ma proprio per le conseguenze possibili di questa lotta sugli altri lavoratori, sullo sviluppo della coscienza di classe nel suo insieme. Ciò di cui avevano paura non era neanche l'estensione della lotta immediata ad altre parti della classe. La situazione, la combattività generale e soprattutto il livello di coscienza non erano ancora abbastanza maturi per ciò. Ciò che li preoccupava di più erano le manifestazioni di combattività operaia nel contesto di una simultaneità sempre più grande di attacchi contro tutti gli operai. Ciò che temeva la classe dominante era che la classe, stimolata dalla lotta alla Opel, riconoscesse sicuramente, anche se lentamente, che i lavoratori delle differenti imprese, rami o regioni, hanno interessi comuni ed hanno bisogno di una solidarietà vivente.
La lotta alla Opel ha messo gli operai davanti ad una sfida più grande di quella alla Mercedes. Alla Opel, la possibilità di ricatto era molto più importante, ivi compreso la possibilità di chiusura completa della fabbrica. I lavoratori hanno raccolto questa sfida, almeno a Bochum, con una maggiore combattività. Ma non c'è stato ancora uno sviluppo conseguente del livello della coscienza di classe. Ciò non ci sorprende. La classe oggi è confrontata alla bancarotta sempre più visibile dell’intera società, quella del capitalismo. È evidente che il proletariato dovrà fare tentativi su tentativi ancor prima di cominciare ad avere un'idea di tutta l'ampiezza del problema e che indietreggerà ripetutamente davanti all'immensità del compito. Il ruolo dei rivoluzionari oggi è sostenere i lavoratori in questa lotta per acquistare la propria prospettiva di classe. E' per questo che la CCI ha distribuito un volantino durante la giornata di azione a Bochum e Rüsselsheim con cui non si accontentava di chiamare gli operai a lottare, ma provava a stimolare la riflessione politica nella classe.
Da Weltrevolution 127 (19.11.2004)
1. “Betriebsrat": struttura legale di cogestione delle imprese che ingloba il padronato ed il sindacato di settore.
Avrà certamente bestemmiato Berlusconi, la sera della liberazione di Giuliana Sgrena; ‘ma come’, avrà pensato, ‘avevo fatto tutto così bene, avevo fatto liberare una “comunista”, e quei coglioni di americani si mettono a sparare, per giunta non uccidendo nemmeno la “comunista”, ma un fedele servitore dello Stato! Così mi hanno fatto saltare ogni possibilità di utilizzare la liberazione della Sgrena per ridare credibilità alla nostra presenza in Iraq’. Ed invece proprio la morte del “fedele servitore dello Stato”, per giunta nell’atto “eroico” di proteggere la persona che aveva liberato (1), è servita a dare la stura ad una campagna nazionalista di grande portata. Una campagna che ha visto, come in ogni guerra che si rispetta, una “union sacrée” che ha abbracciato tutte le forze politiche dalla destra alla sinistra.
Che lo abbia fatto il governo, peraltro di destra, che deve difendere il “suo” intervento in Iraq è perfettamente normale: come già per il caso degli altri ostaggi, la loro liberazione costituisce un motivo di orgoglio e l’occasione per sostenere che questo è stato possibile proprio perchè l’Italia gode di grande stima in Iraq, per cui riesce a trovare i canali per la liberazione dei suoi ostaggi, con la conclusione quindi che bisogna ben essere orgogliosi di essere italiani, e di quanto stanno facendo laggiù i nostri militari. Anzi, di più, l’eroismo dei nostri militari deve farci sentire onorati di far parte di questo paese, infatti “Calipari ha ridato onore alla patria” ha detto ai suoi funerali il sottosegretario alla presidenza del consiglio, Gianni Letta. Vuoi mettere la differenza, con quei rozzi di americani che sanno solo sparare al primo movimento e la nostra capacità di manovra e, all’occorrenza, la nostra capacità di morire da eroi?
Meno ovvio che a questa campagna si associasse tutta la sinistra che, essendo “teoricamente” contro l’intervento in Iraq, da questo episodio avrebbe potuto dire che aveva ragione lei, che in Iraq ci sono quei pazzi imperialisti degli americani che non consentono di pacificare la situazione, e quindi è stato sbagliato andarci, sarebbe buono ritornarcene subito. Ed invece la richiesta del ritiro rimane, ma senza fretta e nessuna immediatezza, e quello di cui ci si preoccupa di più è partecipare alla campagna di unità nazionale che la morte “eroica” di Calipari induce.
Così la vera critica a Berlusconi non è che in Iraq i militari italiani stanno conducendo una occupazione militare allo stesso titolo degli altri, ma che ci sono gli americani che non vogliono la pace (sottinteso: se se ne andassero gli americani, gli italiani potrebbero anche restare, perché la loro missione è di pace), per cui è meglio andarsene. Ma meglio farlo in un clima di “unità nazionale”, dice il “comunista” Bertinotti (2), in modo da evitare lacerazioni e contrapposizioni che, ovviamente, sono contrari all’ “interesse del paese”. Andarsene perché “ritirare le truppe da un teatro di guerra così inquinato, con una violenza così incontrollata, è una misura di salute pubblica. (…)Il mio è un appello che dice: non facciamo polemiche, non torniamo alle discussioni che ci hanno diviso. Troviamo la forza di un atto di unità nazionale perché in Iraq siamo di fronte a una situazione incontrollata.”(2). Più chiaro di così: d’accordo a creare un clima di unità nazionale; andiamocene dall’Iraq, non perché l’intervento italiano è stato anch’esso un atto di guerra imperialista, ma perché c’è una situazione incontrollata. Incontrollata anche perché (Bertinotti non lo dice, ma è implicito) gli americani non fanno niente per una reale pacificazione, anzi sono così guerrafondai che sparano anche sugli alleati. Per cui andiamocene con un atto di unità nazionale e, anzi “a Berlusconi chiedo uno scatto di orgoglio nazionale, come avvenne a Sigonella” E di fronte alla sorpresa dell’intervistatore che gli ricorda che nell’episodio di Sigonella (3) al governo c’era Craxi, Bertinotti, ineffabile, risponde: “Non l’ho mai avuto in simpatia, ma a Sigonella vi fu uno scatto d’orgoglio del suo governo. In quell’atto si rivelò la dote di uno statista”
Potenza del clima di unità nazionale! In un sol colpo non solo si avanza una proposta unitaria a Berlusconi, ma si riabilita perfino Craxi, che a suo tempo i militanti dell’attuale Rifondazione volevano in galera, fino a riconoscergli la dote di uno statista (con buona pace di tutte le tangenti che lo “statista” confessò di avere intascato perché “la politica costa”)!
E per rafforzare l’atmosfera dello “stringiamoci a coorti”, anche Bertinotti sottolinea l’eroismo di Calidari, rispetto alla cui morte “Ho provato una commozione intensa. Esce con un nitore tale la personalità di quest’uomo, che si teme perfino di usare parole retoriche per ricordarlo. Una persona straordinaria, con un senso democratico, repubblicano (…). Un senso della missione che dà una visione corale unitaria” (2).
Così se Veltroni, diessino sindaco di Roma si è precipitato a intitolare a Calipari, un giardinetto di Roma, il “comunista” Bertinotti ne esalta le doti di democratico, in modo da far capire che anche i servizi segreti sono organi della democrazia (e quindi da non confondere con quelli “deviati” che mettono le bombe e fanno provocazioni) e non, come “qualche estremista” potrebbe pensare, organi dell’esercito di uno stato imperialista con il compito di controllare e manipolare la vita sociale e politica di un popolo.
Non c’è che dire: tutta la borghesia si è unita per cercare di lanciare ai proletari italiani il messaggio di unirsi in una unità nazionale, di sfruttatori e sfruttati, di assassini e di vittime, di chi le guerre le vuole e le cerca per i suoi interessi di classe e chi le subisce sulla propria pelle. In questa maniera si vorrebbe cercare di far dimenticare ai proletari che i loro interessi sono contrapposti a quelli della propria borghesia, e di far credere che se i proletari rinunciano a contrapporsi alle azioni di questa (siano esse interne od esterne) è tutto il “paese” a trarne benefici.
E invece no: i proletari non hanno nessun interesse a difendere le avventure imperialiste della propria borghesia, anzi, essi le pagano in termini economici e di vite umane; è per questo che al coro unanime di tutti i difensori della borghesia, “stringiamoci a coorti”, i comunisti non possono rispondere che con il vecchio grido di guerra della classe operaia: gli operai non hanno patria!
Helios, 28/03/05
1. Non è che per noi cambi molto, ma questo dell’atto eroico è qualcosa dato per certo da tutti, quando la dinamica dei fatti, e cioè l’improvviso e rapido esplodere dei colpi da parte dei militari americani, non consente a nessuno, nemmeno a Giuliana Sgrena, di dire se Calipari è caduto perché già colpito, o se effettivamente si sia buttato sulla Sgrena per proteggerla. Peraltro, un militare esperto come Calipari non poteva non sapere che l’unica speranza di salvare la Sgrena sarebbe stata quella di buttarla sul fondo dell’auto, in modo da sottrarla dalla traiettoria dei colpi, e non cercare di proteggerla col proprio corpo da proiettili di grosso calibro sparati con armi automatiche. Ma è proprio la morte eroica che consente di orchestrare la campagna, per cui ecco perché nessuno la mette in discussione.
2. Vedi l’intervista a Repubblica dell’8/03/05
3. A Sigonella, base militare in Sicilia, avvenne che gli americani pretendevano che i militari italiani consegnassero loro un terrorista palestinese arrestato, richiesta a cui Craxi disse di no, e quando una pattuglia armata americana si presentò davanti all’aereo che trasportava il terrorista all’estero, Craxi fece trovare un picchetto di uomini armati che fece recedere i militari americani dai loro propositi.
La società in cui viviamo, società capitalista, sta ancora una volta marciando in guerra: la Serbia ieri, l'Afghanistan e Iraq oggi, l'Iran o la Siria domani ed conflitti ancor più gravi in futuro. Non stiamo andando verso una nuova grande guerra mondiale, ma verso guerre sempre più caotiche sparse in tutto il mondo. La minaccia è comunque la stessa: la distruzione dell’umanità, a meno che questo sistema non venga rovesciato.
Nel 1914, la civiltà capitalista ha mostrato di non aveva più alcun utilità per l'umanità avendo immerso l’Europa nel più grande macello imperialista che il mondo avesse mai visto. Nel 1917-19, da Pietrogrado a Berlino, da Torino a Glasgow, la risposta operaia è stata un'ondata internazionale di scioperi di massa e rivoluzioni. L'Internazionale comunista ha descritto la prospettiva: la vittoria della rivoluzione socialista in tutti i paesi o un'epoca di guerre sempre più distruttive.
L'ondata rivoluzionaria è stata sconfitta e l’Internazionale è morta; ma aveva ragione. Dopo 20 anni, una nuova ed ancor più sconvolgente guerra mondiale ha devastato il pianeta. Ancor prima che questo incubo fosse finito, gli imperialisti alleati nel campo ‘antifascista’ si fronteggiavano gli uni agli altri per il controllo del pianeta. Nei 40 anni successivi l'umanità ha vissuto sotto l'ombra di una terza e ultima guerra mondiale fra l’imperialismo americano e quello russo, mentre a milioni sono morti nelle guerre per procura dietro la maschera delle lotte di “liberazione nazionale” dal Vietnam al Medio Oriente ed in Africa.
Nel 1989 il debole blocco russo, circondato dal suo rivale Usa, è sprofondato come un castello di carta; e ci hanno detto da George Bush senior che un nuovo ordine mondiale di pace era all'ordine del giorno. Quasi immediatamente, gli ex soci del vecchio blocco degli Stati Uniti sono scesi anche loro in campo nelle guerre per procura in Africa e nei Balcani. L'America ha risposto con un massiccio dispiegamento di forza militare nel Golfo nel 1991 ed in Serbia nel 1999. E dal 2001 ha dato inizio alla “guerra contro il terrorismo”, il cui scopo reale è controllare i principali rifornimenti di energia del mondo e costruire una barriera intorno all’Europa ed alla Russia.
In breve: il capitalismo decadente significa guerra infinita. La storia degli ultimi 90 anni mostra che tutti i colloqui di pace in questo sistema sono una frottola. La pace è nient'altro che una tregua imperialista tra le guerre.
Il pacifismo: una pericolosa illusione
Se il capitalismo non può fare la pace, allora il pacifismo è una frottola. Il pacifismo, il cosiddetto movimento contro le guerre condotto da quelli che selettivamente sostengono di essere contro questa o quella guerra, quale l’attuale avventura militare in Iraq, ci dice che, con le dimostrazioni legali e le elezioni democratiche, noi possiamo persuadere lo Stato capitalista a trasformare le spade in vomeri. Ci dice che se sosteniamo un certo uomo politico capitalista contro un altro - ad esempio Kerry contro Bush - possiamo invertire la tendenza alla guerra. Ci dice persino che possiamo servire la causa della pace sostenendo determinate potenze imperialiste - come la Francia e la Germania - contro altre, come l'America o la Gran Bretagna, o convincendo l'America e l’Europa a lavorare insieme nel quadro delle buone vecchie Nazioni Unite (persino George Bush è in accordo a parole con questa idea).
Come abbiamo detto: tutto questo è una menzogna. Il capitalismo non sta trascinando l'umanità attraverso l'inferno della guerra perché ha i capi sbagliati, ma perché è un sistema sociale in profondo ed irreversibile deperimento.
La lotta contro la guerra può essere solo una lotta contro il capitalismo.
Molti risponderanno: sono belle parole, ma nel frattempo, che cosa pensiamo di fare noi? Certamente le dimostrazioni pacifiste sono meglio di niente!
La questione è falsa. La lotta contro il capitalismo non è un ideale utopico. Comincia dalla realtà quotidiana della lotta di classe, la lotta degli operai per difendersi contro gli attacchi crescenti ai loro livelli di vita. Contro gli effetti della stessa crisi economica che spinge il capitalismo verso la guerra. Naturalmente la lotta degli operai deve estendersi ed unificarsi e soprattutto deve diventare esplicitamente una lotta politica. Ma essa esiste e si rafforza ogni volta che gli operai riconoscono come classe i loro interessi comuni.
Le campagne pacifiste indeboliscono la lotta di classe spingendo gli operai a concepirsi come componenti di un movimento democratico di rispettabili cittadini. Queste campagne ostacolano lo sviluppo della coscienza di classe nel momento in cui sostengono che la pace è possibile senza rivoluzione.
Di fronte all'estensione della guerra nel mondo, l’unica risposta della classe operaia, in tutti i paesi, può essere solo il rifiuto di tutti i sacrifici richiesti dall'economia capitalista e dalla sua macchina di guerra; combattere per i propri interessi di classe contro l'interesse nazionale difeso apertamente sia dai guerrafondai che dai pacifisti; opporre alla logica nazionalista della guerra il programma internazionalista della rivoluzione mondiale e di una comunità umana mondiale.
CCI 5.3.05
Con l’assassinio del vecchio primo ministro libanese, Rafic Hariri, si è riacceso un focolaio di scontri imperialisti in Medio Oriente. Questo nuovo episodio della barbarie capitalista, che si sviluppa a livello mondiale ed in particolare nel Vicino e Medio Oriente e si manifesta con sanguinosi regolamenti di conti ed una spirale senza fine di attentati terroristici che colpiscono ciecamente le popolazioni, ci ricorda che tutti i discorsi di pace della borghesia, di paesi grandi e piccoli, non sono che spudorate fesserie e cinismo. Sono proprio queste frazioni nazionali della borghesia che, non contente di seminare morte, come gli Stati Uniti in Iraq o la Francia in Africa, manipolano le molteplici bande di terroristi.
Il Medio Oriente, una posta in gioco permanente per le grandi potenze
L’attentato contro Rafic Hariri è una lampante smentita di tutte le chiacchiere che avevano salutato, all’inizio di gennaio, l’elezione di Mahmoud Abbas alla presidenza dell’Autorità palestinese come una garanzia di pace per la regione.
Questo avvenimento permette alla Francia ed agli Stati Uniti, promotori nel settembre scorso della risoluzione 1559 che esigeva il ritiro dell’esercito siriano dal Libano, di posizionarsi all’interno della vita politica libanese, designando espressamente la Siria come responsabile di questo assassinio. E non è certo la volontà di far rispettare la “Libertà” che li anima. Per Chirac, che ha potuto mettere sul piatto la sua “amicizia” con Hariri, era un’occasione troppo bella per tentare di far ritornare la Francia in questo paese, da cui era stata messa da parte progressivamente negli anni 80 e completamente messa fuori nel 91 in particolare con l’espulsione del suo pupillo libanese, il generale Aoun. Quanto agli Stati Uniti, si trattava di una tappa della loro strategia militare nel Sud-Ovest asiatico, che mirava ad accrescere la loro pressione sulla Siria designata dalla scorsa primavera come protettrice dei terroristi di Al-Qaida e dei membri dell’ex-Stato iracheno. Washington ha anche avvertito chiaramente ed a più riprese, anche recentemente, che la Siria rischiava di non scappare alle batoste del suo esercito.
Pertanto l’intesa che esiste oggi tra gli americani ed i francesi a spese del Libano e della Siria ha come unica ragione quella di giustificare la difesa dei rispettivi interessi imperialisti. La sua prospettiva è costituire una nuova fonte di rivalità, per bande terroriste interposte, ed alimentare così il caos nella regione.
Le difficoltà della borghesia americana
Non sono comunque i recenti viaggi diplomatici della cricca di Washington che possono far sognare un domani diverso. In queste ultime settimane anche l’Europa è stata corteggiata intensamente dalla diplomazia americana. Dopo la visita del segretario di Stato Condoleezza Rice, è stato Donald Rumsfeld a spostarsi per il 14ª conferenza sulla sicurezza a Monaco, poi è venuto il “boss” in persona, Bush, ad assistere al summit della Nato e dell’Unione Europea, a fare incontri su incontri con i capi di Stato europei ed in particolare con quelli che si erano opposti all’intervento militare in Iraq, Chirac, Schröder, e poi Putin. Perchè tutta questa effervescenza diplomatica? Cosa si prepara dietro gli ipocriti abbracci tra padrini rivali, tra lo zio Sam e gli europei? Il cambiamento di discorsi della potenza americana non significa che questa ha rinunciato ad utilizzare la sua potenza militare per difendere i propri interessi economici, politici e militari nel mondo, ma solo che cerca di adattare la sua strategia ed il suo discorso ideologico tenendo conto delle difficoltà che incontra in particolare a causa del suo insabbiamento nella situazione irachena. La politica portata avanti in Iraq non fa che alimentare l’ostilità rispetto alla prima potenza mondiale e tende ad accrescere il suo isolamento sulla scena internazionale. Non potendo fare marcia indietro in Iraq, pena un indebolimento considerevole della sua autorità mondiale, lo zio Sam si caccia in contraddizioni difficilmente gestibili. Oltre ad essere una voragine finanziaria, l’Iraq costituisce il punto di appoggio permanente delle critiche dei suoi principali rivali imperialisti. Per altro, le recenti elezioni in Iraq hanno visto la vittoria della lista unificata dei partiti sciiti, più vicini al governo iraniano, e la disfatta del loro pupillo Iyad Allaoui, primo ministro ad interim. “Questo governo avrà eccellenti relazioni con l’Iran ... In termini di geopolitica regionale, non è il risultato che speravano gli Stati Uniti” (Courrier International n°746). A questo indebolimento della loro influenza sul gioco dei partiti politici iracheni, bisogna aggiungere il clima di terrore che continua a regnare in tutto il paese dove gli attentati e gli omicidi si succedono incessantemente. La pretesa vittoria della democrazia irachena (per il fatto che ci sono state queste elezioni), non ha affatto eliminato il rischio di divisione del paese in funzione degli interessi contrastanti delle diverse comunità religiose ed etniche. Del resto tutti sono concordi nel dire che la resistenza armata continuerà e probabilmente si intensificherà. In questo senso, l’offensiva diplomatica e questa volontà americana di apparire di nuovo “sulla stessa lunghezza d’onda” degli Europei, ha soprattutto per obiettivo tentare di convincere questi ultimi ad essere al loro fianco per “difendere e propagare la democrazia nel mondo”, in particolare nel Vicino e nel Medio Oriente. L’amministrazione Bush mantiene gli stessi obiettivi militari che aveva nel primo mandato, nel dopo 11 settembre, ma l’involucro ideologico ha assunto un nuovo look, più confacente ai bisogni della situazione. Il tutto facendo intendere alle potenze europee che da ora in avanti nulla sarà fatto senza che esse siano consultate, nella misura in cui tutte condividono gli stessi valori umani, democratici e di libertà dell’America. Non è del tutto escluso che, dietro questa mascherata, alcune potenze come la Francia abbiamo avuto la promessa di un ruolo privilegiato nel regolamento del conflitto in Iraq in cambio, naturalmente, di una maggiore implicazione al fianco degli Americani.
Dietro i discorsi ostentatamente unitari dell’offensiva diplomatica americana, le divergenze sono comunque sempre presenti, anzi aumentano. Come sottolinea un alto responsabile della NATO “il vecchio Rumsfeld ci ha fatto una sviolinata, come l’aveva fatta Condoleezza Rice la settimana scorsa” (Le Monde del 15 febbraio). Mentre fino ad oggi l’equipe Bush aveva condotto una politica da “pugno di ferro”, ora fa la politica del “pugno di fero in un guanto di velluto”. Rumsfeld ha affermato che per gli Stati Uniti “la missione (in senso militare) determina la coalizione”. In altre parole, l’America farà appello alla NATO solo se questa fa i suoi interessi strategici. Da parte loro gli Europei, ed in particolare la Germania con il sostegno della Francia, pongono apertamente la necessità di riformare la NATO e di sostituire l’Alleanza con un gruppo di esperti, rappresentativi degli interessi americani e soprattutto europei. La Germania inoltre afferma chiaramente che “nel quadro europeo, lei si sente corresponsabile per la stabilità e l’ordine internazionale” e che a questo titolo rivendica un seggio di membro permanente al consiglio di sicurezza dell’ONU. Davanti al rifiuto immediato degli Stati Uniti di riformare la NATO, la Germania si permette addirittura di alzare il tono attraverso il suo primo ministro degli affari esteri Joschka Fischer che dichiara: “Bisogna sapere se gli Stati Uniti si situano dentro o fuori il sistema delle Nazioni Unite”.
Questa tensione intorno al ruolo della NATO si è concretizzata con il rifiuto degli Europei di contribuire al programma di formazione delle forze militari e di polizia in Iraq o con il magro contributo dato. Rispetto all’Afghanistan le potenze europee hanno accettato di rafforzare gli effettivi della Forza Internazionale (FIAS) sotto il comando della NATO perchè questa è agli ordini di un generale francese con importanti unità di soldati francesi e tedeschi. Tuttavia non vogliono che questa forza militare passi alla fine sotto il comando dell’operazione “Enduring Freedom”, cioè sotto il controllo dell’esercito americano.
La questione della NATO non è il solo soggetto di discordia.
Dopo averci suonato la sinfonia dei Diritti dell’Uomo a proposito della repressione del movimento studentesco della piazza Tien An Men, in Cina nel 1989, gli Europei, da buoni commercianti di armi, sono pronti a levare l’embargo sulla vendita di armi a questo paese. Gli Americani non sono d’accordo, e neanche il Giappone, ma questo non ha niente a che vedere con i Diritti dell’Uomo: il motivo è che ciò rilancerebbe la corsa agli armamenti sul continente asiatico e minaccerebbe la loro influenza in questa regione, già sottomessa a forti tensioni militari aggravate in questi giorni dalla Corea del Nord che annuncia ufficialmente di avere l’arma nucleare. La visita del padrino americano in Europa non è dunque l’inizio di una nuova era di unità, né di un rafforzamento delle relazioni transatlantiche. Al contrario, le divergenze si accumulano e le posizioni sono sempre più inconciliabili. Le strategie e gli interessi degli uni e degli altri sono differenti perchè ciascuno difende la propria nazione, i propri interessi di Stato capitalista. Non ci sono i cattivi Americani da un lato ed i buoni Europei dall’altro. Sono tutti briganti imperialisti e la politica del “ciascuno per sé”, che compare dietro i simulacri di cordiale intesa, alla fine non può che portare a nuove convulsioni, lacerazioni e nuove carneficine militari, di cui l’Iran e la Siria potrebbero essere i prossimi bersagli. In effetti, la principale divergenza tra le grandi potenze – e la più gravida di conseguenze per questa regione del mondo – è su quale politica avere nei confronti dell’Iran. Le grandi potenze europee, compresa l’Inghilterra, sono in linea di massima favorevoli a continuare le negoziazioni con questo paese al fine di impedire – dicono loro – che questo sviluppi un programma nucleare militare. Mosca, dal canto suo, è il primo partner di Teheran sul piano nucleare e non ha nessuna intenzione di cambiare politica. Gli Stati Uniti, tenuto conto del peso che ha l’Iran come potenza regionale rafforzata recentemente dalla vittoria elettorale degli Sciiti in Iraq, non possono che voler accentuare la loro pressione sugli Europei e su Putin per far prevalere la loro opzione. La cricca Bush minaccia così di agguantare il consiglio di sicurezza dell’ONU con una nuova scalata militare che produrrà ancora più caos e barbarie in questa regione.
L’unica politica possibile per gli Stati Uniti è quella dei cannoni
Come abbiamo regolarmente sviluppato nella nostra stampa, il caos ed i conflitti militari che si sviluppano a livello planetario da vari anni e che non risparmiano nessun continente, sono il diretto prodotto del nuovo periodo apertosi nel 1989 con il crollo del blocco dell’Est seguito dalla disgregazione di quello occidentale. Lungi dall’essersi aperto “un nuovo ordine di pace”, come pretendeva all’epoca Bush padre, stiamo andando verso un mondo di disordine omicida, di caos feroce nel quale il gendarme americano tenterà di far regnare un minimo di ordine attraverso l’impiego sempre più massiccio e brutale della sua potenza militare (1).
Dalla guerra del Golfo nel 1991 alla Jugoslavia, dal Rwanda alla Cecenia, dalla Somalia al Timor orientale, dall’attentato alle Twin Towers agli attentati di Madrid, per non citare che alcune delle convulsioni violente della fase di decomposizione del capitalismo (2), tutte le volte i responsabili di questi massacri sono gli scontri imperialisti tra Stati, grandi o piccoli che siano. Per gli Stati Uniti, i cui interessi nazionali si identificano con il mantenimento di un ordine mondiale costruito a sua vantaggio, questo aggravamento del caos nei conflitti imperialisti rende sempre più difficile mantenere la loro posizione di leadership mondiale. Non esistendo più la minaccia russa, i loro vecchi alleati, in particolare gli Europei, Francia e Germania in testa, vogliono difendere i propri interessi di nazioni capitaliste. Il peggioramento della crisi economica acuisce gli appetiti imperialisti di tutti gli Stati e non lascia altra via alla potenza americana che lanciarsi in nuove conquiste, la destabilizzazione dei suoi rivali e soprattutto l’utilizzo a ripetizione della sua forza militare, il che ha per risultato quello di aggravare il caos e la barbarie nelle regioni dove hanno luogo queste spedizioni militari. In questo contesto, la strategia messa avanti dall’amministrazione Bush figlio dopo l’11 settembre 2001, di “guerra al terrorismo”, è un tentativo di risposta all’indebolimento della propria leadership. Di fronte alla crescente contestazione delle altre potenze imperialiste, gli Stati Uniti usano il pretesto degli attentati e la necessità di lottare contro la nebulosa di Al Qaida e Bin Laden per sferrare un’offensiva militare senza precedenti a livello mondiale. Questa campagna militare di lunga durata designa un certo numero di paesi come appartenenti all’asse del male che bisogna sradicare militarmente. E’ il caso dell’Afghanistan, poi dell’Iraq, della Corea del Nord, dell’Iran. Nei fatti, ogni volta gli Stati Uniti hanno degli obiettivi strategici più globali e più vasti che includono la necessità di una presenza decisiva in Asia Centrale allo scopo di assicurarsi il controllo di questa regione, ma anche sul Medio Oriente ed il sub continente indiano. Il fine strategico a lungo termine è l’accerchiamento dell’Europa e della Russia. L’America ha in particolare la preoccupazione di pervenire ad un controllo incontestabile delle principali fonti di approvvigionamento delle risorse energetiche, allo scopo di privarne i rivali imperialisti (le potenze europee, la Russia, il Giappone, la Cina) in previsione di future crisi imperialiste che possano portare ad uno scontro diretto. Gli Stati Uniti hanno tentato di mettere in opera questa politica dal 2001 ad oggi, ma bisogna constatare che hanno molte difficoltà a tenere testa rispetto alla determinazione dei rivali che, benché meno potenti, sono ben decisi a difendere, a tutti i costi, i loro interessi imperialisti. Da ciò ne è già risultato, e non potrà che aggravarsi in avvenire, il più grande caos della storia.
Donald, 24/2/05
1. Vedi l’articolo “Militarismo e decomposizione” nella Rivista Internazionale n° 15.
2. Vedi le nostre tesi su “La decomposizione, fase ultima della decadenza del capitalismo”, nella Rivista Internazionale n° 14.
In questi ultimi mesi sia militanti che sezioni della CCI hanno ricevuto minacce o sono stati fatti oggetto di appelli all’uccisione appena dissimulati.
A dicembre, UHP- ARDE (1) ha pubblicato sul proprio sito internet un testo intitolato “Scienza e arte del ritardato“ (2) che contiene un appello all’uccisione dei nostri militanti fatto attraverso una sinistra sequenza di sillogismi: comincia con l’accusarci apertamente di razzismo e in maniera velata di difendere la politica della borghesia; prosegue stabilendo una gerarchia di aggettivi che comincia con “ritardati”, prosegue con “cretini” e finisce con “imbecilli”. Dopo aver stabilito queste premesse, l’articolo conclude così: “CONTRO LE CAMPAGNE BORGHESI DI FALSIFICAZIONE E DI REPRESSIONE DELLE NOSTRE LOTTE! MORTE AGLI IMBECILLI!” (3).
Il mese precedente, era arrivata all’indirizzo elettronico della nostra sezione in Spagna una lettera anonima che finiva così: “Siete una banda di figli di puttana e raccoglierete quello che state seminando, piccoli professori di merda. Firmato: un sottoproletario”.
Recentemente, nel gennaio scorso, un membro della FICCI (4) aveva minacciato uno dei nostri compagni della sezione in Francia di volergli “tagliare la gola”.
Di fronte a questa successione di minacce delinquenziali completamente estranee ai comportamenti proletari, quale deve essere l’atteggiamento dei rivoluzionari e degli elementi del proletariato? Non dare loro importanza pensando che si tratta di fanfaronate o il frutto di una eccitazione momentanea? Accettare un apprezzamento di questo tipo sarebbe un grave errore.
Innanzitutto perché un tale atteggiamento significherebbe buttare all’aria l’esperienza storica del movimento operaio. Questa dimostra che l’assassinio di militanti operai è stato preceduto – e in gran parte preparato – da una serie di atti cinici: accuse calunniose, minacce, intimidazioni, appelli, a volte sfumati, altre diretti all’assassinio, insomma una serie di piccoli anelli che pezzo dopo pezzo portano a una grande catena. Così, l’assassinio di Rosa Luxemburg, nel gennaio 1919, ad opera delle forze armate dei boia socialdemocratici, conobbe una lenta maturazione: a partire dal 1905 si scatenarono gravi denigrazioni, minacce e provocazioni nei confronti di questa militante proletaria. Nessuno di questi fatti sembrava inquietante, ma il crimine del 1919 rivelò la logica infernale che li legava gli uni agli altri. Alla stessa maniera l’assassinio di Trotsky, perpetrato dall’infame Mercader, fu il punto culminante di una serie di passi orchestrata dalla canaglia stalinista: prima Trotsky fu accusato di essere un agente della Gestapo, poi cominciarono le campagne che richiedevano apertamente la sua testa. In seguito vennero le pressioni su uno dei suoi figli (Lyova) che sboccarono in quello che somiglia ad una assassinio “medico” (6). Più tardi cominciarono le minacce dirette di morte, proferite dai sicari messicani dello stalinismo. Sappiamo tutti quale fu la tragica fine. La storia dimostra che esiste un legame più o meno diretto tra le minacce e gli appelli di oggi e gli assassini di domani. Questi sono sempre il punto culminante di un ammasso di calunnie, di minacce e di campagne d’odio.
In secondo luogo non possiamo trascurare il contesto in cui si situano le 3 minacce che abbiamo ricevuto. In questi ultimi mesi c’è stata una recrudescenza e una moltiplicazione delle campagne della FICCI. Lo prova il bollettino numero 28, in cui veniamo chiamati “sporcaccioni”, cosa che, aggiunta a innumerevoli insulti ,minacce e calunnie non fa che favorire un clima in cui ogni attacco fisico contro la CCI sarebbe legittimo.
Non è un caso che queste minacce giungano nel contesto che abbiamo descritto. I loro autori hanno chiaramente scelto il loro campo. Agli insulti, alle campagne d’odio, al tessuto di menzogne e di calunnie, essi hanno voluto aggiungere le parole ancora più forti dell’appello all’uccisione.
Non è la prima volta che si producono questi tipi di “interventi”. Nel 1996, in un contesto di campagne altrettanto ripugnante contro la CCI, anche se con altri protagonisti, il GCI (Gruppo Comunista Internazionaliste), un gruppo che compare nelle pagine dei link di UHP/ARDE, ha voluto apportare il suo contributo contro la CCI, chiamando, con il metodo del “sillogismo”, all’assassinio dei nostri compagni in Messico. Prima premessa: denunciando il gruppo stalin-maoista di Sendero Luminoso in Perù, noi saremmo diventati complici del massacro di prigionieri proletari. Da qui viene la seconda deduzione logica: “per la CCI, come per lo Stato borghese, e in particolare la polizia peruviana, mettersi al fianco degli oppressi, significa sostenere Sendero Luminoso.” Il sillogismo seguente diceva: “ nel campo operaio si è sempre considerato un poliziotto o un informatore che si dedica a questo tipo di amalgama poliziesca”.
Il seguito conteneva un nuovo sofisma: “ questi sono gli stessi argomenti democratici utilizzati dai Domingo Arango e dagli Abad di Santillana davanti alle azioni violente dei militanti rivoluzionari”. E quale è la conclusione di questi ragionamenti? “E per questo tipo di calunnia, la cui utilità per lo Stato è ben reale, Domingo Arango ha ricevuto una pallottola in testa e non possiamo che dispiacerci che Abad di Santillana non abbia subito la stessa sorte” (tratto dal n. 43 di Communisme, organo del GCI) (8).
Siamo perfettamente coscienti del processo in cui si inseriscono queste minacce. Noi non ci lasceremo intimidire e di fronte ad esse noi rispondiamo quello che rispondemmo già nel 1996:”Niente di tutto questo ci farà indietreggiare. Noi rafforziamola nostra lotta e tutta la CCI si mobilita per difendere la nostra sezione in Messico utilizzando un’arma che solo il proletariato possiede: l’internazionalismo. L’unità internazionale della CCI le fornisce delle particolarità che sono intollerabili dal punto di vista della borghesia, nella misura in cui ogni tentativo di distruzione di una delle sue parti si scontra immediatamente con la mobilitazione e la solidarietà attiva del suo insieme.” (9)
Noi dobbiamo respingere con la più grande fermezza e combattere senza la minima concessione la mentalità di pogrom verso i rivoluzionari, perché è solo così che noi potremo rompere la catena che riunisce, a traverso una serie di anelli, i foschi appelli alla “morte degli imbecilli”, all’assassinio dei militanti comunisti di domani.
La solidarietà proletaria è l’arma principale contro questo tipo di attacchi
Ogni classe sociale possiede i suoi metodi. Noi sappiamo già quali sono quelli della borghesia: da una parte, le armi “politiche” della calunnia, del ricatto e, dall’altra parte, le armi più risolutive dell’assassinio, del terrore e del sadismo più ripugnante. (10)
Naturalmente queste armi non fanno parte dell’arsenale di lotta del proletariato e dei suoi gruppi autenticamente rivoluzionari. Noi abbiamo altre armi , molto più efficaci nella lotta contro il capitalismo. Una di queste, la più importante, è la solidarietà.
La forza del proletariato è la solidarietà. La solidarietà come capacità di difendere tutte le sue componenti. La solidarietà per mostrare ai suoi nemici che chiunque attacca una delle sue parti si ritrova immediatamente di fronte alla risposta del suo insieme.
Così la CCI, in modo unanime, manifesta la sua solidarietà ai compagni e alle sezioni minacciate e prende tutte le misure necessarie per la loro difesa. Alla stessa maniera, noi sollecitiamo tutti i nostri simpatizzanti ad esprimere attivamente la loro solidarietà. Lo chiediamo anche a tutti quelli che condividono la lotta rivoluzionaria contro il capitalismo, e che pur avendo dei disaccordi con le posizioni della CCI, considerano che è necessario fare fronte davanti a questi immondi attacchi.
La solidarietà con i compagni minacciati è non solo la loro migliore difesa, ma anche la migliore difesa per tutti i militanti e compagni che si battono contro il capitalismo. E’ anche il migliore contributo che noi possiamo apportare alla difesa dei militanti comunisti di domani.
La pratica della calunnia, della menzogna, delle minacce e dell’intimidazione sono radicalmente incompatibili con l’obiettivo della comunità umana mondiale che il proletariato aspira ad instaurare dopo la distruzione dello stato capitalista. E’ necessario sradicare l’infiltrazione di tali comportamenti che non sono che l’espressione e la riproduzione di quelli della società capitalista putrefatta che noi vogliamo abolire.
La chiarificazione delle posizioni rivoluzionarie, la lotta comune contro il capitalismo e la sua barbarie, non possono essere disturbate dalle torbide manovre di queste bande di impostori che, nascondendosi dietro delle “posizioni rivoluzionarie” da operetta, se ne approfittano per lanciare ogni tipo di attacchi, a tradimento e alle spalle, contro quelli che lottano veramente per la causa proletaria.
Solidarietà con i nostri militanti e le nostre sezioni minacciate!
CCI (15 febbraio 2005)
1. UHP: sigla del gruppo spagnolo Unios Hermanos Proletarios. ARDE è una pubblicazione che sembra essere la portavoce dei differenti nuclei che si chiamano UHP.
2. Vedere la risposta della nostra sezione in Spagna su Accion proletaria n. 180, “Risposta a UHP-ARDE: meglio un ritardato onesto che un furbo imbroglione”
3. Bisogna sottolineare la maniera losca e contorta con cui questi individui chiamano all’assassinio dei nostri militanti. Con una incredibile ipocrisia, essi non dicono apertamente le cose, le lasciano venire: prima dicono che la CCI è costituita da imbecilli, per poi finire con “morte agli imbecilli”
4. Gruppetto di parassiti delinquenti che si fa chiamare “Frazione Interna della CCI “ e la cui sola attività consiste nel riversare tonnellate di calunnie contro la CCI e proferire appelli d’odio contro di noi.
5. Vedere l’articolo di denuncia di questo episodio in Rèvolution Internationale n. 354
6. Vedere le testimonianze sulla strana morte del figlio di Trotsky durante la sua ospedalizzazione in una clinica russa di Parigi; in particolare in Deutscher, Biografia diTtrotsky, e Vereekes, La Guépéou dans le mouvement trotskyste.
7. A questa epoca furono gruppi come il “Communist Bullettin Group”, inglese, o “Hilo Rojo” spagnolo che, insieme ad altri circoli, furono autori di queste campagne. In seguito non si è saputo più niente di loro.
8. Vediamo così che i redattori di UHP-ARDE non hanno inventato niente nei loro appelli loschi e trasversali al nostro assassinio. Hanno dovuto ispirarsi ai metodi del GCI.
9. Tratto dall’articolo “I parassiti del GCI chiamano all’uccisione dei nostri militanti in Messico”, che denuncia il GCI, in solidarietà con la nostra sezione in Messico, pubblicato anche su Rivoluzione Internazionale n. 98, dicembre 1996
10. Bisogna segnalare che il sottoproletariato ha molta attrazione per questi metodi della borghesia, ed è per questo che, nei periodi rivoluzionari, esso in genere alimenta i corpi scelti e altre milizie d’attacco della borghesia, come avvenne, per esempio, in Germania nel 1919.
All’inizio dello scorso mese si è tenuto a Venezia il VI congresso del partito della cosiddetta “Rifondazione Comunista”, un evento che abbiamo seguito con interesse non perché tale partito possa costituire un punto di riferimento valido per la classe operaia, ma giusto per il motivo opposto, ovvero per la falsa alternativa che esso propone per tanti giovani e tanti proletari che sono sinceramente alla ricerca di una militanza di classe. Come è noto questo partito, che ha la pretesa di rappresentare l’aspirazione della gran parte della popolazione a raggiungere “un mondo migliore”, presenta al suo interno una forte frammentazione con posizioni che sono anche notevolmente differenziate. Al congresso, che si è appena chiuso, sono state presentate ben 5 diverse mozioni, ognuna espressione di una componente politica tra cui quella maggioritaria, che fa capo a Bertinotti, raccoglie uno stentato 59%. Con questo articolo ed un secondo previsto per il prossimo numero ci proponiamo di fornire elementi di riflessione utili a comprendere non solo che la linea maggioritaria del segretario non corrisponde agli interessi dei lavoratori, ma che le stesse minoranze, ognuna per proprio conto e tutte quante messe assieme, servono solo a illudere la gente che, nonostante tutto, c’è sempre la possibilità di capovolgere la politica del partito e portarlo su una via “rivoluzionaria”.
1. La svolta governista di Rifondazione
Il V Congresso di Rifondazione del 2002 era stato quello della cosiddetta “svolta a sinistra” per l’apertura ai movimenti alter-mondialisti che lo aveva caratterizzato; l’attuale VI congresso si è invece focalizzato tutto sulla scelta della maggioranza di orientare la politica del partito non solo verso la partecipazione ad una coalizione elettorale e di maggioranza governativa di centro-sinistra, ma addirittura verso la partecipazione in senso stretto alla composizione di un prossimo eventuale governo Prodi, con tanto di ministri targati RC. A questo le minoranze hanno reagito sparando a zero e denunciando il fatto che questa scelta sia stata fatta addirittura a prescindere da qualunque accordo di programma, come per dire “ci svendiamo al nemico senza neanche trattare sul migliore prezzo che si può strappare”. Sul fronte opposto Bertinotti e la sua maggioranza non hanno concesso il minimo spazio di trattativa o di mediazione su questo punto. Infatti la concomitante discussione e approvazione degli statuti ha modificato l’assetto di comando del partito, buttando fuori dalla segreteria tutte le minoranze a cui è stato riservato uno spazio effimero all’interno di un parlamentino del partito privo di ogni reale potere decisionale. In altri termini, il partito è stato blindato per ogni eventuale necessità. Questa scelta ha evidentemente tutto il sapore di rafforzare l’esecutivo di un partito che ha la necessità di effettuare scelte difficili, come quella della partecipazione al governo senza essere particolarmente appesantito da discussioni ai livelli degli organi decisionali. Ma perché questa scelta di Rifondazione di orientarsi verso una scelta governativa? A prescindere dal fatto che, in questo momento, è inopportuno sviluppare qualunque previsione su quale possa essere il colore del prossimo governo nazionale in Italia, bisogna tuttavia ricordare che le divisioni interne alla borghesia italiana tra un’opzione filo-americana ed un’altra di tipo più autonoma e filo-europeista, rappresentate grosso modo dalla coalizione di destra e da quella di sinistra rispettivamente, non si sono esaurite. Anche se spesso i messaggi che lanciano i politici sono fortemente criptati, gli interessi a schierarsi su un fronte o su un altro finiscono alla fine per permeare la stessa politica interna dei paesi. In questo senso la scelta di Bertinotti di predisporre il partito per una partecipazione al governo risponde a questa esigenza di una parte della borghesia italiana di poter contare su questo partito per condurre una politica più indipendente dagli USA. Ma RC come tale svolge anche un altro fondamentale ruolo per la borghesia tutta intera, cioè quello di far credere ai lavoratori che esista un partito veramente comunista al quale fare riferimento. Ed è proprio in risposta a questa seconda esigenza che tutte le minoranze hanno tanto starnazzato in questo ultimo periodo contro la scelta governista del partito, facendo spesso delle critiche molto dure allo stesso partito e alle scelte del passato:
“In un contesto storico segnato dall’esaurimento dello spazio riformistico l’ingresso dei partiti comunisti nei governi borghesi significa il loro coinvolgimento nelle politiche di attacco ai lavoratori. Così è stato per il PCF nel governo Jospin nel 97-2001, e per il nostro partito nella maggioranza del primo governo Prodi del 96-98. (…) La cancellazione della controriforma pensionistica di Berlusconi è doverosa: ma va combinata con la cancellazione della riforma Dini voluta dall’Ulivo che ha abbattuto le pensioni future dei giovani per fare largo al capitale finanziario. La cancellazione della legge 30 è una necessità: ma va congiunta all’abolizione del pacchetto Treu, imposto dal governo Prodi col voto del PRC, che ha introdotto la piaga del lavoro interinale. La cancellazione della “Bossi-Fini” è drammaticamente urgente: ma non può risparmiare i campi di detenzione (CPT) imposti dall’Ulivo agli immigrati, col voto favorevole del PRC, e tutte le loro brutture.” (mozione n. 3, pag. 20, sottolineature nostre).
Cosa dobbiamo pensare di un partito che, mentre dice di essere comunista, presenta al suo congresso una mozione in cui si afferma che Rifondazione ha condotto una politica di attacco ai lavoratori? E che per di più afferma che un coinvolgimento ulteriore in prossimi governi non potrebbe che aggravare queste responsabilità? D’altra parte, a leggere le varie mozioni, questa posizione è abbastanza condivisa dalle varie minoranze, il che significa che circa il 40% del partito considera la politica portata avanti da RC come una politica antiproletaria. E allora: che senso hanno queste minoranze se non quella di dare al partito una credibilità che non può avere? Ma aspettiamo di valutare altri importanti punti che seguiranno.
2. Il rapporto strumentale con il movimento alter-mondialista
Come abbiamo detto sopra, il partito aveva tentato la carta dei “movimenti” cercando di farsi uno spazio al loro interno. Ma il bilancio che ne viene fatto al congresso è disastroso: non solo non c’è stato un aggancio reale con il mondo altermondialista, ma di più tutte le componenti del partito denunciano un calo importante nel tesseramento e una minore presenza nelle realtà sociali. Più in particolare viene rimproverato alla maggioranza l’abbandono completo della politica di avvicinamento ai settori altermondialisti in nome dell’assunzione di future responsabilità governative:
“Fin da subito si è consumata una rottura con i settori di sinistra del movimento alter globalizzazione. Emblematico da questo punto di vista è lo strappo coi Disobbedienti, sui quali la maggioranza dirigente dei GC aveva investito tutto il senso del proprio agire. La prospettiva del governo si è tradotta nella dissociazione da parte della segreteria nazionale da tutti gli atti di “disobbedienza” che potevano compromettere la credibilità del PRC agli occhi del Centro liberale italiano: in questo quadro si inseriscono anche le recenti prese di distanza nei confronti di pratiche (quali la “spesa proletaria”) che in passato sono state assecondate acriticamente e che oggi vengono condannate nonostante le minacce repressive del governo.” (Mozione n. 3, pag. 22).
Si può capire tutta la doppiezza di un partito che si era aperto ad un settore sociale solo per ingrossare le proprie fila ma senza avere le risposte ai problemi che i giovani si pongono oggi. E questo vuoto di proposte è stato malamente nascosto da Bertinotti che ha dichiarato all’epoca di non voler fagocitare nessuno, di voler partecipare al movimento alla pari senza farsi maestro nei confronti di altri settori (ma che partito sarebbe mai questo???). D’altra parte la strumentalità di questa svolta movimentista è stata avvertita chiaramente anche dall’interno del partito dalla componente di Bellotti (mozione: “Rompere con Prodi”), che ricorda come:
“Il V Congresso del partito (2002) si era svolto all’insegna della svolta verso i movimenti, della “contaminazione”, della immersione e anzi dell’identificazione completa del PRC con i “movimenti” e in particolare con il movimento “noglobal”. (…) La “contaminazione” con i movimenti ha significato nella pratica la rincorsa alle azioni “disobbedienti” e in generale l’adozione di tutte le teorie “alla moda” negli stati maggiori dei Social Forum. Tale linea portava il partito a voltare le spalle al movimento operaio proprio mentre nel paese reale esplodeva il conflitto sociale, partendo dalla mobilitazione sull’articolo 18. (…) La centralità della contraddizione di classe viene negata, sostituita da una semplice elencazione di “culture critiche” (femminismo, ecologismo, pacifismo) che vengono proposte come pilastri fondanti della nuova identità comunista.” (mozione n. 5, pag. 33).
Come si vede, in Rifondazione c’è la mancanza più assoluta di coerenza su un punto di un certo spessore qual è quello di quale risposta dare alle nuove generazioni. D’altra parte anche chi, come l’on. Russo Spena, sembra prendere una posizione di sinistra appoggiando - a dispetto della direzione del partito - i recenti “espropri proletari” praticati a Roma alla Feltrinelli e in un centro commerciale, non fa che appoggiare opportunisticamente una posizione che è peraltro sbagliata dal punto di vista di classe, come abbiamo cercato di dimostrare in un recente articolo del nostro giornale1.
3. La partecipazione di Rifondazione alla campagna contro il comunismo
Il terzo e ultimo punto che vogliamo affrontare in questo primo articolo è l’identità politica e storica di Rifondazione. Come molti ricorderanno, Rifondazione viene fuori da quella costola del vecchio PCI che non ha voluto adeguarsi al “traghettamento di Occhetto verso la democrazia”2. Il nuovo partito, gestito in una prima fase da vetero-stalinisti alla Garavini e Cossutta, ha finito per costituire per la borghesia un utile polo di attrazione per tutti gli scontenti di una politica troppo responsabile e ligia alle esigenze della borghesia come era quella del vecchio PDS (ora DS). Il partito è un po’ per volta andato assumendo una nuova connotazione e oggi che la vecchia dirigenza stalinista è stata emarginata, la leadership di Bertinotti, ex sindacalista combattivo ma privo di una militanza di partito, esprime il nuovo partito della sinistra italiana. Il problema è che questo partito è oggi completamente privo di identità politica e storica. Si autodefinisce comunista, ma di fatto al suo interno ognuno dà a questo termine il significato più diverso. Questo carattere indefinito però, tutto sommato, ha fatto la fortuna di Rifondazione perché è proprio questa mancanza di definizione che permette a questo partito di incamerare tutte le tendenze di sinistra che si vogliono. La mancanza di una piattaforma più stretta, come quella dei vecchi PCI, è infatti un elemento che consente sia di lasciare libero l’ingresso a nuove componenti, sia di mantenere l’illusione in queste stesse componenti che vi possa essere un maggiore spazio di azione nel partito. Non è un caso che il partito sia infestato di trotskisti che, notoriamente, praticano la politica dell’entrismo, ovvero di lavorare all’interno di un partito che essi stessi considerano opportunista per poter avere la possibilità di “guadagnare alla propria causa” i suoi militanti. Naturalmente tutto ciò non toglie che ci siano delle prese di posizione di una certa importanza che fanno capire la reale posizione dei gruppi dirigenti del partito. Ci riferiamo in particolare al seguente passaggio della mozione di maggioranza:
“La critica allo stalinismo non è, quindi, semplicemente la critica alle degenerazioni di quei sistemi ma al nucleo duro che ha determinato quell’esito ed è per questo motivo il punto irrinunciabile per la costruzione di una nuova idea del comunismo e del modo di costruirlo”. (tesi n. 6, mozione n. 1, pag. 3).
Di fatto questo passaggio esprime il ripudio ufficiale del marxismo da parte di RC. Infatti, nel suo carattere secco, si vuole attribuire al marxismo (“il nucleo duro”) la responsabilità della degenerazione di quei sistemi che invece è legata alla sconfitta dall’interno della rivoluzione e dal ritorno della dominazione borghese attraverso lo stalinismo, che è il vero nemico del comunismo. Da qui capiamo che in realtà il termine “Rifondazione comunista” trova tutto il suo significato nel tentativo di riscrivere e dare un senso nuovo e diverso al termine comunismo, sulla base della pretesa critica al “nucleo duro” che avrebbe determinato l’esito della degenerazione! Questa dichiarazione fa il filo al “libro nero del comunismo”3 e a tutta la campagna anticomunista scatenata dopo la caduta del muro di Berlino, dandogli uno sbocco moderato di reinterpretazione democratica e non violenta del comunismo.
Ezechiele, 2 aprile 2005
1. Vedi a tale proposito il nostro articolo A proposito di “espropri proletari” pubblicato su RI n. 138.
2. Si tratta della metamorfosi subita dal PCI in seguito alla caduta del blocco dell’est e alla necessità di adeguare la propria politica ad un contesto internazionale e nazionale profondamente modificati. Che le condizioni operaie rimanessero immutate in tutto questo fa capire quanto poco già il vecchio PCI avesse a che fare con la difesa degli interessi della classe operaia. Sulla evoluzione di Rifondazione vedi i nostri articoli su RI n. 69 e 99 e 108.
3. Libro apparso negli anni ’90 dopo la caduta del muro di Berlino e che aveva lo scopo di raccontare tutte le malefatte del comunismo, che erano in realtà le malefatte degli odiati regimi stalinisti, fatti passare per comunisti. Vedi a tale proposito il nostro articolo su RI n. 104.
Cento anni fa il proletariato ingaggiava in Russia il primo movimento rivoluzionario del XX secolo, conosciuto sotto il nome di Rivoluzione russa del 1905. Non essendo stata vittoriosa come fu dodici anni più tardi per la Rivoluzione di ottobre, questo movimento è oggi quasi completamente caduto nell’oblio. Tuttavia, la Rivoluzione del 1905 ha apportato tutta una serie di lezioni, di chiarificazioni e di risposte alle questioni che si ponevano al movimento operaio dell’epoca senza le quali la Rivoluzione del 1917 non avrebbe certamente potuto vincere. E, benché questi movimenti abbiano avuto luogo un secolo fa, il 1905 è molto più vicino a noi politicamente di quanto si possa credere ed è necessario, per le generazioni di rivoluzionari di oggi e di domani, riappropriarsi degli insegnamenti fondamentali di questa prima rivoluzione in Russia.
Gli avvenimenti del 1905 si situano all’alba della fase di declino del capitalismo, declino che imprime già il suo marchio, anche se, all’epoca, solo un’infima minoranza di rivoluzionari è capace di intravederne il significato all’interno del profondo cambiamento che si sta operando nella società e nelle condizioni di lotta del proletariato. Nel corso di questi avvenimenti si vede la classe operaia sviluppare dei movimenti di massa che vanno al di là dei confini di fabbrica, di settore, di professione, senza rivendicazione unica, senza distinzione chiara tra l’economico e il politico come invece era prima tra la lotta sindacale e la lotta parlamentare, senza consegne precise da parte dei partiti o dei sindacati. La dinamica di questi movimenti porta, per la prima volta, alla creazione da parte del proletariato, di organi – i soviet (o consigli operai) – che diverranno, nella Russia del 1917 e in tutta l’ondata rivoluzionaria che ha scosso l’Europa in seguito, la forma di organizzazione e di potere del proletariato rivoluzionario.
Nel 1905, il movimento operaio considerava ancora che la rivoluzione borghese fosse all’ordine del giorno in Russia poiché la borghesia russa non deteneva il potere politico ma subiva ancora il giogo feudale dello varismo. Tuttavia, il ruolo dirigente assunto dalla classe operaia negli avvenimenti avrebbe permesso di mettere da parte questo punto di vista. L’orientazione reazionaria che aveva cominciato a prendere, con il cambiamento di periodo storico che si stava producendo, la lotta parlamentare e sindacale, era lungi dall’essere chiarificata e non lo sarà che molto più tardi. Ma il ruolo totalmente secondario o nullo che i sindacati e il Parlamento giocheranno nel movimento in Russia ne costituiva la prima significativa manifestazione. La capacità della classe operaia di prendere in mano il suo avvenire e di organizzarsi per proprio conto veniva a mettere in questione la visione della socialdemocrazia tedesca e del movimento operaio internazionale sui compiti del partito, la sua funzione di organizzazione e di inquadramento della classe operaia, e di gettare nuova luce sulle responsabilità dell’avanguardia politica della classe operaia. Molti degli elementi che avrebbero costituito le posizioni decisive del movimento operaio nella fase di decadenza del capitalismo erano già presenti nel 1905.
Noi ci concentreremo, nel quadro di questo articolo, su alcune lezioni che ci sembrano centrali oggi per il movimento operaio e sempre di attualità. Per fare ciò, torneremo molto rapidamente sugli avvenimenti del 1905, riferendoci a quelli che, come Trotsky, Lenin, Rosa Luxemburg, ne furono testimoni e protagonisti ad un tempo dell’epoca e che, attraverso i loro scritti, sono stati capaci di restituirci non solo grandi lezioni di politica ma anche la grande emozione suscitata dalla forza di quei mesi di lotta.1
Il contesto internazionale e storico della rivoluzione del 1905
La Rivoluzione russa del 1905 costituisce una illustrazione particolarmente chiara di ciò che il marxismo intende per natura fondamentalmente rivoluzionaria della classe operaia. La capacità del proletariato russo di passare da una situazione in cui è ideologicamente dominato dai valori della società a una posizione in cui, attraverso un movimento di massivo di lotte, prende fiducia in se stesso, sviluppa la sua solidarietà, scopre la sua forza storica fino a creare gli organi che gli permetteranno di prendere in mano il suo avvenire, è l’esempio vivente della forza materiale che costituisce la coscienza di classe del proletariato quando entra in movimento.
A partire dalla caduta del muro di Berlino, la borghesia non ha cessato un minuto di proclamare che il comunismo è morto e che la classe operaia è scomparsa; e le difficoltà incontrate da questa sembrano darle ragione. La borghesia è sempre interessata a interrare il suo affossatore storico. Ma la classe operaia esiste sempre – non vi è capitalismo senza classe operaia, e gli avvenimenti del 1905 in Russia ci ricordano come questa possa passare da una situazione di sottomissione e di confusione ideologica sotto il giogo del capitalismo a una situazione in cui diviene il soggetto della storia, il portatore di tutte le speranze, perché la classe porta, nel suo stesso essere, l’avvenire dell’umanità.
Prima di addentrarci nella dinamica della rivoluzione russa del 1905, occorre ricordare brevemente qual era il contesto internazionale e storico a partire dal quale la rivoluzione prese le mosse. Gli ultimi decenni del XIX secolo erano stati caratterizzati da uno sviluppo economico particolarmente forte in tutta l’Europa. Erano gli anni in cui il capitalismo carburava al massimo e i paesi capitalisticamente avanzati erano alla ricerca di un’espansione verso le aree arretrate sia per trovare mano d’opera e materie prime a più basso costo, sia per creare nuovi mercati per i loro prodotti. E’ in questo contesto che la Russia zarista, paese dall’economia segnata da una forte arretratezza, divenne il luogo ideale per l’esportazione di forti capitali per l’installazione di industrie di medie e grandi dimensioni. Nel giro di pochi decenni si ebbe una trasformazione profonda dell’economia, dove “le ferrovie furono il potente strumento dell’industrializzazione del paese. (...)”.2 I dati riportati da Trotsky sulla industrializzazione della Russia, comparati con altri paesi a più solida struttura industriale come la Germania e il Belgio dell’epoca, mostrano che, benché il numero di operai fosse ancora piuttosto modesto rispetto alla sterminata popolazione (1,9 milioni contro i 5,6 milioni della Germania e i 600.000 del piccolo Belgio), la Russia aveva tuttavia una struttura industriale di tipo moderno che non aveva nulla da invidiare alle altre potenze capitaliste del mondo. Creata dal nulla da capitali prevalentemente stranieri, l’industria capitalista in Russia non si era formata a partire da dinamiche endogene, ma da un vero e proprio trapianto di tecnologie e di capitali provenienti dall’estero. I dati di Trotsky mostrano come in Russia la mano d’opera operaia fosse molto più concentrata che negli altri paesi in quanto distribuita principalmente in grandi e medie imprese (38,5% in imprese con oltre 1000 operai e 49,5% in imprese con un numero di operai tra 51 e 1000, mentre per la Germania i corrispondenti valori erano 10% e 46%). E’ questo dato strutturale dell’economia a spiegare la vivacità rivoluzionaria di un proletariato peraltro affondato in un paese profondamente arretrato e dall’economia prevalentemente contadina.
D’altra parte, gli eventi del 1905 non nascono dal nulla ma sono il prodotto di una sedimentazione di esperienze successive che scuotono la Russia a partire dagli ultimi anni del 19° secolo. Come riporta Rosa Luxemburg, «lo sciopero di massa del gennaio a Pietroburgo si svolse indubbiamente sotto l’impressione immediata di quel gigantesco sciopero generale che poco prima, nel dicembre 1904, era scoppiato nel Caucaso, a Baku, e che per un certo periodo tenne l’intera Russia con il fiato sospeso. A loro volta, però, i fatti del dicembre avvenuti a Baku non furono nient’altro che un’eco ultima e possente del grandioso sciopero di massa che, come un terremoto periodico, aveva scosso tutta la Russia meridionale nel 1903 e 1904 e il cui prologo era stato lo sciopero di massa attuato a Batum (nel Caucaso) nel marzo 1902. Questa prima serie di scioperi in massa, nella concatenazione continua dell’attuale eruzione rivoluzionaria, è in fondo posteriore solo di quattro o cinque anni al grande sciopero generale messo in atto dai tessili di Pietroburgo nel 1896 e 1897... ».3
Gli avvenimenti del gennaio 1905
Il 9 (22) gennaio è stato l’anniversario della cosiddetta “domenica di sangue”, che segnò l’inizio di una serie di eventi occorsi nella vecchia Russia zarista che occuparono l’intero corso dell’anno 1905 e che si sono terminati con la repressione sanguinosa dell’insurrezione di Mosca del dicembre.
L’attività della classe fu praticamente incessante per un anno intero, anche se le forme di lotta non furono sempre le stesse e non sempre con la stessa intensità. Tre furono le fasi più significative di questo anno di rivoluzione: il gennaio, l’ottobre e dicembre.
Nel gennaio 1905, due operai delle fabbriche Putilov di Pietrogrado vengono licenziati. In conseguenza di ciò si sviluppa un movimento di scioperi di solidarietà con l’elaborazione di una petizione per le libertà politiche, il diritto all’educazione scolastica, la giornata di otto ore, contro le imposte, ecc. da portare allo zar in una manifestazione di massa. E’ la repressione di questa manifestazione che costituisce il punto di partenza dell’incendio rivoluzionario che divampa nel paese per un anno. Il processo rivoluzionario in Russia ebbe una partenza davvero singolare. «Migliaia di operai – e non socialdemocratici, ma credenti e sudditi fedeli – sotto la direzione del pope Gapon, affluiscono da tutte le parti della città, verso il centro della capitale, verso la piazza ove è il Palazzo d’Inverno per presentare allo zar la loro petizione. Gli operai procedono recando le sacre icone. Il loro capo d’allora, Gapon, aveva già dichiarato per iscritto allo zar che egli stesso si rendeva garante della sua sicurezza personale e lo pregava quindi di mostrarsi al popolo».4 E’ noto infatti che il pope Gapon era stato l’animatore, nell’aprile del 1904, di una Assemblea degli operai russi di fabbrica e di officina della città di Pietroburgo, autorizzata dal governo e in combutta con il colonnello Zubatov.5 Come dice lo stesso Lenin, questa organizzazione, in maniera del tutto simile a quanto avviene ancora oggigiorno con altri mezzi, aveva il compito di contenere e arginare il movimento operaio dell’epoca. Ma evidentemente la pressione che veniva esercitata all’interno del proletariato era già arrivata ad un punto critico. «Ed ecco che il movimento zubatovista varca i limiti impostigli e, promosso dalla polizia nel proprio interesse, allo scopo di sostenere l’autocrazia e di corrompere la coscienza politica degli operai, si rivolge contro l’autocrazia e sfocia in un’esplosione della lotta di classe del proletariato»6. Il tutto si scatena in seguito al fatto che, arrivati al Palazzo d’Inverno per porgere la supplica allo zar, gli operai si vedono attaccati dalle truppe che «si gettano sulla folla impugnando le sciabole e sparando contro gli operai inermi che, in ginocchio, supplicano i cosacchi di lasciarli andare dallo zar. Secondo i documenti della polizia si contano più di mille morti e duemila feriti. L’indignazione degli operai è indescrivibile»7. E’ questa profonda indignazione degli operai pietroburghesi verso colui che chiamavano piccolo padre e che aveva risposto con le armi alla loro supplica, che aveva così profondamente oltraggiato chi si era affidato a lui, che scatena le lotte rivoluzionarie del mese di gennaio. La classe operaia, che aveva cominciato per indirizzare la sua supplica, dietro al pope Gapon e le icone della chiesa, al “piccolo padre dei popoli”, è capace di esprimere una forza imprevista con lo slancio della rivoluzione. Il cambiamento rapidissimo dello stato d’animo del proletariato che si produce in questo fase è l’espressione tipica del processo rivoluzionario in cui i proletari, nonostante tutte le loro credenze e i loro timori, vengono guadagnati da una nuova consapevolezza, cioè che l’unione fa la forza. «Una grandiosa ondata di scioperi scosse, da un capo all’altro, l’intero paese. Secondo un calcolo approssimativo, lo sciopero interessò 122 città e piccoli centri, parecchie miniere del Donec, 10 compagnie ferroviarie. Un intimo fermento colse le masse proletarie. Il movimento coinvolse circa un milione di persone. Senza un piano determinato, spesso senza alcuna precisa rivendicazione, tra sospensioni e riprese, guidato solo dallo spirito di solidarietà, lo sciopero imperversò nel paese per quasi due mesi»8. Questo entrare in lotta anche senza una rivendicazione specifica da portare avanti, per solidarietà, perché «la massa proletaria, che si conta a milioni, acquisì di colpo una coscienza netta e acuta di quanto fosse insopportabile quell’esistenza sociale e politica»9 è al tempo stesso espressione e fattore attivo della maturazione, all’interno del proletariato russo dell’epoca, della consapevolezza di essere classe e della necessità di confrontarsi come tale al proprio nemico di classe.
Lo sciopero generale di gennaio viene seguito da un periodo di lotte costanti, che sorgono e scompaiono un po’ in tutto il paese, per delle rivendicazioni economiche. Questo periodo è meno spettacolare ma non meno importante. “Le varie correnti sotterranee del processo sociale della rivoluzione s’incrociano a vicenda, si ostacolano a vicenda, esaltano le contraddizioni interne… ha avuto una parte insostituibile il fulmine di gennaio del primo sciopero generale, ma anche, e di più, il susseguente temporale primaverile ed estivo degli scioperi economici”. Benché non ci fosse “nessuna notizia sensazionale dal fronte russo”, “in realtà la rivoluzione prosegue il suo lavoro da talpa instancabilmente, giorno dopo giorno, ora per ora, nelle viscere di tutto l’impero”. (ibid).
Degli scontri sanguinosi hanno luogo a Varsavia. Delle barricate vengono drizzate a Lodz. I marinai della corazzata Potionki nel mar Nero si rivoltano. Tutto questo periodo prepara il secondo tempo forte della rivoluzione.
Ottobre e la costituzione del soviet di Pietrogrado
«Questa seconda grande azione del proletariato ha già un carattere essenzialmente diverso da quella della prima attuata in gennaio. Il fattore della coscienza politica ha già una parte ben maggiore. Ciò non toglie che anche questa volta l’occasione che determina lo scoppio dello sciopero sia secondaria e apparentemente fortuita: il conflitto dei ferrovieri con la loro amministrazione per via della cassa pensioni. Tuttavia la sollevazione generale del proletariato industriale che ne seguì è sostenuta da una chiara idea politica. Il prologo dello sciopero di gennaio era stato una supplica rivolta allo zar per ottenere la libertà politica, la parola d’ordine dello sciopero d’ottobre fu: “Basta con la commedia costituzionale dello zarismo!”. E grazie al successo immediato dello sciopero generale, che si concretò nel proclama emesso dallo zar il 30 ottobre, a differenza di quanto era capitato in gennaio, il movimento non rifluisce all’interno per tornare agli inizi della lotta economica, ma si espande all’esterno per esercitare instancabilmente la libertà politica appena conquistata attraverso dimostrazioni, assemblee, una stampa nuova e giovane, dibattiti pubblici e, tanto per non cambiare, qualche bel massacro finale, seguito però da nuovi scioperi di massa e nuove dimostrazioni». (ibid).
Un cambiamento qualitativo si produce in questo mese di ottobre espresso dalla costituzione del primo soviet della storia del movimento operaio internazionale. A conclusione dell’estensione dello sciopero dei tipografi alle ferrovie e ai telegrafi, gli operai prendono in assemblea generale la decisione di formare il soviet che diventerà il centro nevralgico della rivoluzione: «Il Consiglio dei deputati operai sorse come risposta a un bisogno oggettivo, generato dalle contingenze del momento. Occorreva un’organizzazione che godesse di un’indiscussa autorità, fosse immune da qualsiasi tradizione, raccogliesse immediatamente le folle sparse e slegate. Doveva inoltre fare da centro di convergenza per tutte le correnti rivoluzionarie in seno al proletariato, avere iniziativa e, insieme, autocontrollo automatico»10. In molte altre città, a loro volta, si formano dei soviet.
Il sorgere dei primi soviet non viene granché avvertito dalla gran parte del movimento operaio internazionale. Rosa Luxemburg, che ha così magistralmente analizzato le nuove caratteristiche assunte dalla lotta del proletariato all’alba del nuovo periodo storico, lo sciopero di massa, appoggiandosi sulla rivoluzione del 1905, continua a considerare i sindacati come le forme di organizzazione della classe.11
Sono i bolscevichi (e neanche in maniera immediata) e Trotsky che comprendono il passo avanti che costituisce per il movimento operaio la formazione di questi organi in quanto organi della presa del potere. Noi non svilupperemo qui questo aspetto poiché vi è un altro articolo successivo che lo tratterà.12 Noi ci limiteremo a dire che è proprio perché il capitalismo entrava nella sua fase di declino che la classe operaia si trovava confrontata direttamente al compito di rovesciare il capitalismo; così, dopo 10 mesi di lotte, di agitazione socialista, di maturazione della coscienza, di trasformazione del rapporto di forze tra le classi, essa arriva “naturalmente” a creare gli organi del suo potere.
“All’inizio, i soviet erano i comitati di sciopero che si formavano durante questi scioperi spontanei. Scoppiavano all’improvviso nelle grandi industrie, si estendevano da una fabbrica all’altra, raggiungevano rapidamente tutta una città, vaste regioni, e qualche volta l’intero paese: era quindi essenziale avere dei mezzi di comunicazione reciproca. Nelle fabbriche, i lavoratori tenevano continuamente delle riunioni. (…) Allora dei delegati venivano inviati alle altre fabbriche (…) Ma c’era una differenza fra i soviet ed i normali comitati di sciopero: la posta in gioco era questa volta di gran lunga superiore. Il problema era quello di spezzare la pressione insopportabile del dispotismo governativo, ed ognuno capiva che attraverso l’azione dei soviet la società intera sarebbe stata trasformata. Venivano discussi non soltanto quei problemi che riguardavano il lavoro di fabbrica, ma ogni altro problema politico e sociale. Su ogni cosa doveva essere presa una decisione, ed erano i soviet che, da soli, dovevano trovare la strada giusta per risolvere tutti i diversi problemi. (…) Quando l’intera vita sociale veniva in questo modo bloccata, quando il movimento di sciopero si impadroniva di tutta la città o di tutto il paese, i soviet si trovavano di fronte a nuovi compiti. Dovevano organizzare l’intera vita pubblica, controllare l’ordine e la sicurezza, curare i servizi indispensabili: diventavano così, di fatto, una specie di governo, dal momento che le loro decisioni erano seguite dagli operai”.13
Dicembre e la repressione
«Il fermento seguito al breve sogno costituzionale e al crudele risveglio condusse infine, nel dicembre, all’esplosione del terzo sciopero generale di massa in tutto l’impero zarista. Questa volta, il decorso e l’esito sono del tutto diversi che nei due casi precedenti. A differenza di quanto era avvenuto in gennaio, l’azione politica non si trasforma in azione economica, ma non consegue nemmeno una rapida vittoria, a differenza di quanto si era avuto in ottobre. La camarilla zarista non pone più in atto esperimenti di libertà politica reale, ed ecco che per la prima volta l’azione rivoluzionaria cozza, in tutta l’ampiezza del suo fronte, contro il muro tetragono della violenza materiale dell’assolutismo»14. La borghesia capitalista, spaventata dal movimento del proletariato, si è raccolta dietro lo zar. Il governo non ha applicato le leggi liberali che aveva accordato. I dirigenti del soviet di Pietrogrado vengono arrestati. Ma la lotta continua a Mosca: «L’insurrezione del dicembre a Mosca segnò il culmine dell’insurrezione della rivoluzione del 1905. Un piccolo numero di insorti, e precisamente gli operai armati e organizzati – non più di ottomila – resistette per nove giorni contro il governo zarista che non solo non poteva fidarsi della guarnigione di Mosca, ma dovette tenerla rinchiusa nelle caserme e poté soffocare l’insurrezione solo grazie all’arrivo del reggimento di Semenovski da Pietroburgo».15
Nella seconda parte di questo articolo che apparirà nel prossimo numero del giornale, torneremo sulla natura proletaria della rivoluzione del 1905 e sulla dinamica dello sciopero di massa.
Ezechiele, 5 dicembre 2004
1. Noi non possiamo, nel quadro di questi articoli, rappresentare tutta la ricchezza degli avvenimenti né l’insieme delle questioni e rinviamo il lettore agli stessi documenti storici.
2. L. Trotsky, 1905.
3. R. Luxemburg, Sciopero di massa, partito, sindacati, Newton Compton Editori.
4. Lenin, Rapporto sulla rivoluzione del 1905, in Opere Scelte, Editori Riuniti, pag. 685-686.
5. Zubatov era un uomo della polizia che aveva fondato, in accordo con il governo, delle associazioni operaie che avevano lo scopo di mantenere i conflitti sociali in un quadro strettamente economico e di deviarli così da una messa in causa del governo.
6. Lenin, Lo sciopero di Pietroburgo, in « Sciopero economico e sciopero politico », Le Edizioni del Maquis, pag. 70.
7. Lenin, Rapporto sulla rivoluzione del 1905, in Opere Scelte, Editori Riuniti, pag. 685-686.
8. L. Trotsky, 1905, Newton Compton Editori, pag. 78.
9. Rosa Luxemburg, Sciopero di massa, partito, sindacati, Newton Compton Editori.
10. L. Trotsky, 1905, Newton Compton Editori, pag. 96.
11. Vedi il nostro articolo Note sullo sciopero di massa nella Rivista Internazionale n° 6 (maggio 1982).
12. Vedi anche il nostro articolo Gli insegnamenti della rivoluzione del 1905 in Russia in Rivoluzione Internazionale n. 89 (febbraio-marzo 1995).
13. Anton Pannekoek, Organizzazione rivoluzionaria e consigli operai, Feltrinelli, pag. 105.
14. Rosa Luxemburg, Sciopero di massa, partito, sindacati, Newton Compton Editori, pag. 59.
15. Lenin, Rapporto sulla rivoluzione del 1905, in Opere Scelte, Editori Riuniti, pag. 698.
Abbiamo appreso del decesso, in seguito ad una lunga malattia, del compagno Mauro Stefanini, militante di lunga data e tra i più devoti di Battaglia Comunista, lui stesso figlio di un vecchio militante della Sinistra italiana. Ci teniamo a pubblicare qualche estratto del messaggio di solidarietà che la CCI ha immediatamente indirizzato ai militanti del BIPR ed alcuni passaggi della risposta di ringraziamento che ci ha fatto pervenire un militante del BIPR a nome della sua organizzazione.
Compagni,
è con profonda tristezza che abbiamo saputo del decesso del compagno Mauro. (...) La sua vivacità ed il suo contatto caloroso mancheranno ai compagni della nostra organizzazione che lo conoscevano personalmente.
Ma ci sono altre due ragione per le quali la sua morte ci tocca profondamente.
In primo luogo, sentiamo la scomparsa di Mauro come una perdita per la classe operaia. Evidentemente la sue qualità personali come oratore e redattore hanno il loro peso. Ma ciò che per noi è più importante è il suo impegno e la sua dedizione militante. Un impegno ed una dedizione che ha conservato anche quando la malattia stava vincendo.
In secondo luogo, noi non dimentichiamo che Mauro era il figlio di Luciano, un membro della Frazione italiana verso il quale il nostro compagno Marc nutriva grande stima per la sua dedizione, ma anche per la sua lucidità politica dato che fu uno dei primi, all’interno della Frazione, a comprendere pienamente le implicazioni del periodo storico aperto dalla Prima Guerra mondiale sulla questione fondamentale della natura dei sindacati.
Una delle conseguenze della terribile contro-rivoluzione che si è abbattuta sulla classe operaia dopo la sconfitta della rivoluzione mondiale, è la scomparsa quasi completa di una tradizione molto vivace nel movimento operaio del passato: il fatto che molti bambini (come le figlie di Marx, il figlio di Wilhem Liebknecht e molti altri ancora) prendevano il testimone dai loro genitori concretizzando così la continuità della lotta proletaria tra le generazioni. Mauro è stato uno dei pochissimi a proseguire questa tradizione e ciò è un elemento ulteriore della nostra simpatia per lui. (...).
E’ per questo che voi potete credere, compagni del BIPR, nell’assoluta sincerità della nostra solidarietà e dei nostri saluti comunisti.
Compagni,
a nome del BIPR, vorrei ringraziarvi per la vostra espressione di solidarietà in seguito alla perdita gravissima del compagno Mauro. Effettivamente, come voi avete detto, per noi è una scomparsa molto dolorosa: per i suoi doni di umanità, per la sua passione e la sua dedizione alla causa del proletariato, Mauro era un compagno come è raro trovarne. Il suo essere comunista era, se si può dire, "inscritto" nei suoi geni: non solo perchè veniva da una famiglia che ha dato tutto alla causa del comunismo, ma soprattutto perchè il suo spirito si ribellava istintivamente alla minima manifestazione di oppressione e di ingiustizia. Non sarà facile colmare il vuoto politico che lui lascia, sarà impossibile colmare il vuoto umano. (...).
Ringraziandovi ancora, vi indirizziamo i nostri saluti comunisti.
Risposta del BIPR
Lettera della CCI
I recenti dati sull’andamento dell’economia italiana hanno ufficializzato una situazione che più nera non si può. Una diminuzione del Prodotto Interno Lordo per due trimestri consecutivi, accompagnata da una diminuzione della produzione industriale, significa una recessione aperta (confermata dalle previsioni OCSE di una diminuzione del PIL sull’intero 2005); un deficit del bilancio statale che aumenta, superando anche i limiti del patto di Maastricht; una competitività dell’apparato industriale che precipita, con una incapacità per l’industria italiana a reggere la concorrenza internazionale. Tutto questo significa che l’azienda Italia è sull’orlo del fallimento, produttivo e finanziario, e questa volta non c’è più la possibilità della "svalutazione competitiva", cioè dell’abbassamento fittizio dei prezzi delle merci italiane, realizzato tramite la svalutazione della moneta. L’euro non lo consente: una sua svalutazione (che comunque non può decidere il governo italiano) avrebbe sì un effetto sul mercato internazionale, ma favorirebbe l’economia di tutti i paesi europei, che sono i principali concorrenti dell’Italia. D’altra parte, per i nostalgici della lira va ricordato che l’euro ha protetto l’Italia, e gli altri paesi, da tempeste finanziarie tipo quella toccata all’Argentina, che ha sprofondato questo paese nella miseria più nera. Quello che è più grave, quindi, è che non esiste via d’uscita, se non quella solita di ulteriori attacchi alla classe operaia, che ha già pagato caro il costo di una crisi che colpisce il capitalismo del mondo intero. Quando il centrosinistra accusa Berlusconi di essere il principale responsabile della situazione mente sapendo di mentire: la responsabilità principale sta nel fallimento storico di questo sistema di produzione, come è testimoniato dal fatto che negli ultimi anni, a partire da quelli in cui al governo c’era il centrosinistra, c’è stato un peggioramento continuo delle condizioni di vita e di lavoro dell’intero proletariato italiano, un peggioramento che ha portato all’aumento del numero di famiglie povere; ormai anche in Italia, come già era successo negli USA, i poveri non si contano più solo tra i disoccupati, gli emarginati, ma anche tra quelli che hanno un lavoro, solo che il salario che percepiscono non consente loro di assicurarsi più del minimo necessario per la sopravvivenza.
Se la borghesia di tutto il mondo ha provato a forzare le stesse leggi dell’economia, per continuare a tirare avanti (in primo luogo continuando a produrre solo sulla base del debito), la borghesia italiana comincia a manipolare i dati reali dell’economia, per impedire alla classe operaia di prendere coscienza completa dell’entità del disastro. Così il governo ha mentito alla Commissione Europea sui dati del deficit statale degli ultimi due anni (superiore al fatidico 3% stabilito dal trattato di Maastricht), così l’ISTAT mente sui dati riguardanti l’inflazione che, almeno per i beni di prima necessità, è di gran lunga superiore a quel 2-3% dichiarato e su cui vengono calcolati gli adeguamenti salariali all’inflazione.
Ma le menzogne lasciano il tempo che trovano, perché su questo piano ogni famiglia operaia fa i conti con le proprie tasche e non certo con i dati ufficiali. E le tasche dei lavoratori sono sempre più vuote, dopo più di una decina di anni di sacrifici.
E comunque ci sono altri dati che lo testimoniano: secondo la Od&M, una società di consulenza che monitorizza i redditi di un milione di lavoratori dipendenti di ogni categoria in Italia, vi è una effettiva diminuzione del potere d’acquisto e milioni di italiani si sono veramente impoveriti. "A farne maggiormente le spese sono stati gli impiegati perché è l’intero valore delle attività impiegatizie a risultare diminuito". Per queste categorie, infatti, si sarebbe registrata dal 2001 una perdita secca, tutto compreso, superiore al 13%. "Da una parte le nuove tecnologie hanno sostituito l’uomo in molte mansioni e banalizzato i compiti. Dall’altra sono arrivati i Co.co.co., gli interinali, i contratti a termine: forze precarie e a buon mercato". La stessa Istat ha detto che nel 2003 la spesa media mensile delle famiglie italiane ha raggiunto i 2313 euro, 119 euro in più rispetto al 2002, un aumento del 5,4.
Tenendo conto del fatto che l’Istat, dal 2000 al 2003, calcola un’inflazione totale del 7,8%, una segretaria ha perso il 17,8 % del suo potere d’acquisto, un disegnatore grafico il 15,4%, un responsabile del servizio clienti il 14,1 %, un contabile il 13,7 mentre un operaio in media perde il 9,0%. L’impiegato che si è difeso meglio di tutti, quello addetto ai call-center, ha ceduto il 2,1% di retribuzione reale, ma partiva da livelli salariali tra i più bassi di tutto il mercato del lavoro: 17.319 euro lordi annui tre anni fa.
La riduzione del potere d’acquisto dei salari e/o la riduzione assoluta del valore degli stipendi erogati ai lavoratori si riflette naturalmente sull’andamento dei consumi dei cittadini. È del 23 febbraio scorso la comunicazione da parte dell’Istat secondo cui le vendite al dettaglio sono calate dello 0,4% rispetto al 2003, il peggiore dato da 10 anni a questa parte. Non solo: dicembre, periodo d’oro per gli acquisti sul quale i commercianti facevano conto per risollevarsi, ha chiuso a meno 0,5%. In parallelo, l’osservatorio del ministero della salute, l’Osmed, ha indicato un aumento dei prezzi dei medicinali del 15,9%, laddove l’Istat ha rilevato addirittura una diminuzione del 3,1%.
Anche sul piano dell’occupazione, se si va a cercare oltre i dati propagandistici del governo, troviamo una situazione sempre peggiore. Ecco un interessante stralcio da un articolo del Corriere della Sera del 27 giugno 2003:
"Il tasso di disoccupazione scende al minimo degli ultimi undici anni. Secondo i dati diffusi ieri dall’Istat, in aprile ha raggiunto l’8,8%: in dodici mesi si sono creati 301.000 posti di lavoro in più e per la prima volta l’Italia scende sotto la soglia del 9% e si allinea perfettamente alla media europea. Fa addirittura meglio della Germania, inchiodata a una percentuale di senza lavoro del 9,4%, della Francia (9,1%) e della Spagna (11,4%). Una tendenza positiva, rilevano i tecnici dell’Istituto di statistica, che dura da almeno cinque anni, dal 1998: da allora, quando la percentuale di disoccupazione era pari al 12,1%, si sono creati 1,7 milioni di nuovi posti di lavoro superando la soglia dei 22 milioni di occupati. (…) Tuttavia, l’aumento del tasso di occupazione è un dato economico che va curiosamente in senso opposto alla crisi dei consumi e alla scarsa crescita del PIL. Come si spiega? "Se fossero tutti nuovi posti di lavoro – afferma l’economista Tito Boeri – avremmo una ricaduta anche sui consumi, quindi l’unica spiegazione possibile è nella regolarizzazione dei contratti anzi, più in particolare, nella sanatoria dell’immigrazione che da sola coinvolge oltre 700.000 persone". Quindi nessun nuovo posto di lavoro, ma solo regolarizzazione di una parte di quelli già esistenti.
Il risultato finale di tutto questo è che il 16,6% dei bambini in Italia vivono in famiglie povere, cioè in famiglie il cui reddito è la metà di quello medio. Tale percentuale è aumentata di due unità rispetto a quella dell’anno scorso.
Questi risultati non li possiamo imputare tutti a Berlusconi, anzi. Sono stati i governi di sinistra che, a partire da quello Amato del 1992, hanno portato avanti una politica di austerità che è alla base dell’attuale perdita del potere d’acquisto dei lavoratori e della precarizzazione delle loro condizioni di vita e di lavoro. Tutti noi ricordiamo come ci avevano chiesto questi sacrifici in nome dell’entrata nell’euro che ci avrebbe dovuto portare finalmente in una situazione di stabilità che avrebbe posto fine ai sacrifici. Invece la situazione attuale è peggiore di quella che c’era all’inizio di tutto questo periodo di austerità. E questo per un motivo molto semplice: alla base di tutto questo non c’è tanto l’incompetenza di Berlusconi, ma la crisi economica mondiale che spinge i governi di tutto il mondo a continuare con la sola ricetta economica che la borghesia conosce, quella degli attacchi alla classe operaia. È questo che si accinge a fare ancora una volta il prossimo probabile governo di centrosinistra, addebitandone le cause a Berlusconi.
I lavoratori non devono farsi incantare da queste sirene del capitale ma ingaggiarsi, fin da ora, nell’unica impresa che può frenare questo massacro: quello delle lotte unite e solidali di tutti i lavoratori.
Helios, 30/05/05
Dal 14 marzo l'inquietudine internazionale si è orientata verso lo stretto di Formosa. In questa data il parlamento cinese ha votato, per la prima volta, un legge antisecessione che autorizza Pechino a fare uso di mezzi militari contro Taiwan nel caso in cui le autorità dell'isola avessero optato per l'indipendenza. Il 13 marzo, il presidente cinese Hu-Jinto, in divisa militare, aveva perfino fatto appello pubblicamente agli ufficiali a "prepararsi ad un conflitto armato". Il messaggio era chiaro: la borghesia cinese non avrebbe permesso la separazione di Taiwan, non sarebbe indietreggiata di fronte a niente, guerra compresa.
Immediatamente la tensione è salita velocemente, non solo nel Sud-est asiatico, ma anche tra la Cina ed il Giappone. Quest’ultimo, di fronte alle bellicose dichiarazioni della Cina non poteva restare inerme. Tokio con fermezza ha dunque fatto sapere che questa legge anti-secessione avrebbe avuto immancabilmente un effetto negativo sulla pace e la stabilità della regione, annunciando nello stesso tempo che le sue forze militari avevano già preso il controllo di un faro localizzato sull'arcipelago di Senkaku. Arcipelago tradizionalmente rivendicato da Pechino che lo chiama Diayou. La Cina ha replicato qualificando questo atto militare come una "grave provocazione totalmente inaccettabile".
Il concatenarsi delle tensioni crescenti tra la Cina ed il Giappone ha trovato un'espressione evidente con le manifestazioni anti-giapponesi preparate in ogni piazza dallo Stato cinese, con il pretesto della pubblicazione da parte di Tokio di manuali di storia che minimizzano le atrocità commesse dall'esercito giapponese durante la colonizzazione di una parte della Cina negli anni 1930. In risposta, il Giappone, per la prima volta, ha qualificato la Cina come "potenziale minaccia", evidenziando l'aggravamento della situazione in questa regione del mondo. La situazione nel Sud-est asiatico si è aggravata a tal punto che mai, dal 1945, il Giappone aveva ufficialmente abbandonato la sua neutralità sulla delicata situazione di Taiwan.
Questo spinta febbrile al bellicismo da parte della Cina non ha provocato la risposta del solo Giappone. Gli Stati Uniti hanno fatto sapere che, malgrado Washington dal 1972 ammette una sola Cina di cui Taiwan fa parte, non avrebbe accettato
Il crollo dell'URSS nel 1989 e l'affermazione degli Stati Uniti come unica grande potenza mondiale, avevano già sconvolto la politica imperialista della Cina fin da allora. Dalla formazione della Repubblica popolare cinese nel 1949, passando per il 1972 data in cui la Cina e gli Stati Uniti si sono ritrovati alleati contro l'Unione Sovietica, lo sviluppo delle tensioni inter-imperialiste sono rimaste sempre contenute in un ambito che ne ha limitato la pericolosità per l'insieme del mondo. A partire dal 1989, e con lo sprofondamento accelerato del capitalismo nella decomposizione, la situazione é cominciata a cambiare.
La base dell'alleanza strategica sino-americana resa necessaria all'esistenza di un comune nemico, l’URSS, era sparita ed a partire dalla metà degli anni 1990 si è potuto vedere la prima spinta spettacolare alle tensioni nella regione tra la Cina e gli Stati Uniti. Il bombardamento da parte degli Stati Uniti dell'ambasciata cinese a Belgrado, il 7 maggio 1999, ad un mese dall'insuccesso della visita dell'alta diplomazia cinese a Washington, è stato un'espressione evidente dell’opposizione degli Stati Uniti alle evidenti aspirazioni della Cina a fare il cavaliere solitario nell'arena imperialista mondiale.
Da allora gli appetiti imperialisti di Pechino non hanno tuttavia smesso di acuirsi e con essi una volontà di apparire come una forza militare con la quale le altre grandi potenze avrebbero dovuto fare i conti, in particolare gli Stati Uniti. È particolarmente significativo che il bilancio militare della Cina non smette di crescere! Da quindici anni, le spese militari aumentano ad un ritmo annuo a due cifre: dall' 11,6% nel 2004 al 17% del 2002, che rappresenta non meno del 35% del bilancio nazionale. Segno dei tempi e dei bisogni dell'imperialismo cinese sono la marina e soprattutto l'aviazione che mirano ad un rapido ammodernamento.
Del resto lo Stato cinese, finché può, approfitta delle difficoltà della prima potenza mondiale ad imporsi sul pianeta. Lo testimoniano le interferenze della Cina nel processo di discussione sul dossier nucleare dell'Iran. Il ministro degli Affari esteri cinese Li-Zhaoxing, durante un viaggio a Teheran, ha dichiarato che la Cina si sarebbe opposta all'ONU ad ogni tentativo di sanzionare l'Iran. È la stessa politica imperialista che spinge questo paese a sostenere il regime islamico sudanese. Nello stesso senso, la sua politica nei confronti di Pyongyang, capitale della Corea del Nord, è tra le più chiare: un segno forte della pretesa imperialista della Cina di piantare i propri paletti nella sua zona di influenza naturale, a scapito della politica americana. La borghesia cinese si è inoltre sforzata di consolidare in questi ultimi tempi la sua influenza in Laos, in Cambogia, in Birmania, addirittura in Tailandia, in Malaysia ed in Indonesia, e ciò direttamente contro gli Stati Uniti.
Ma Taiwan non è il solo punto caldo dello scontro larvato in Asia. Anche l'Aksai-chin e l'Arunachal-Pradesh, situati alla frontiera tra la Cina e l'India, sono regioni sempre più contese da questi due Stati e sono potenzialmente origine di scontro tra queste due potenze nucleari. Se momentaneamente c’è una relativa diminuzione delle tensioni tra l'India ed il Pakistan da una parte, e tra l'India e la Cina dall’altra, ciò non significa affatto una stabilità di questa regione per i tempi a venire. Se il Primo ministro indiano Mammhan Singh ha potuto dichiarare: "l'India e la Cina condividono la stessa aspirazione a costruire un ordine politico ed economico internazionale giusto, equo e democratico", è perché gli squali imperialisti in Asia, che sono la Cina, l'India ed il Pakistan sono costretti per il momento a mettere in sordina i loro reciproci scontri, per far fronte all'attuale offensiva degli Stati Uniti in questa parte del mondo.
In questa situazione, è ovvio che le altre potenze imperialiste mondiali, in particolare la Francia, la Germania e la Russia, devono tentare anche loro di difendere i propri interessi in questa regione, andando ad ombrare ulteriormente gli Stati Uniti già confrontati all'indebolimento della loro leadership mondiale. I recenti viaggi di Chirac e poi di Raffarin in Cina non avevano come unico scopo rafforzare i legami economici tra Parigi e Pechino. Si trattava anche di riaffermare il sostegno della Francia, subentrata alla Germania, a togliere l'embargo sulle vendite di armi cinesi e nello stesso momento vendere una tecnologia avanzata alla Cina. Una Cina più forte e più aggressiva di fronte agli Stati Uniti fa il gioco della Germania e la Francia. In effetti, se la strategia americana di insediamento di basi militari nel Kirghizistan, in Tagikistan, in Afghanistan ed in Uzbekistan mira ad accerchiare contemporaneamente l'Europa e la Russia, ciò serve anche a porre uno sbarramento contro l'influenza espansionista della Cina verso l'occidente, contribuendo così ad isolare tra loro i suoi principali concorrenti imperialisti.
Sbagliato credere che lo sviluppo delle tensioni imperialiste in Asia significa che la barbarie capitalista non continua ad accelerarsi nelle altre regioni del mondo. È vero proprio il contrario. È chiaro che la borghesia americana si ritrova sprofondata nel pantano iracheno, nonostante le proclamate intenzioni di iniziare un ritiro parziale delle truppe dal 2006. Essa è anche sul chi vive in Medio Oriente nei confronti della Siria e dell'Iran, ma anche sul fronte dell'estremo oriente rispetto alla Corea del Nord. E per continuare a giocar il ruolo di gendarme del mondo, è spinta continuamente in una fuga in avanti sul terreno militare. Il moltiplicarsi dei punti caldi in Estremo Oriente, dove la spinta dell'imperialismo cinese diventa un polo di preoccupazione preponderante, porta fin da ora la Casa Bianca a rafforzare le sue basi militari nella regione ed i suoi legami con Stati quali l'Indonesia, le Filippine, la Malesia, la Tailandia o ancora lo Sri Lanka. L'evoluzione della situazione nel Sud-est asiatico mostra una volta di più alla classe operaia che tutti i discorsi di pace della borghesia preparano solo nuove guerre e che questo sistema capitalista non ha niente da offrire se non la barbarie. La minaccia di una guerra in Asia ne è una nuova espressione, gravida di conseguenze per l'avvenire. Gli appetiti e le pretese dei principali rivali dell'imperialismo americano, tra i quali si pone oggi apertamente la Cina, non possono che aumentare. La crisi della leadership americana, la sua offensiva attuale e le reazioni che ne derivano, spingono il mondo in una spirale di caos crescente.
Tino, 22 aprile
L’intensificazione degli scontri imperialisti porta ad un caos sempre più profondo
La pressione imperialista della Cina
Il Sud-est asiatico, un nuovo focolare di tensioni
Mentre i media agli ordini della borghesia danno ampia risonanza al referendum sulla Costituzione europea, come se da questo dipendesse la pace e la stabilità nel mondo, la barbarie capitalista continua drammaticamente la sua marcia avanti. In particolare l'Asia è diventata il nuovo epicentro dell'accelerazione delle tensioni inter-imperialiste.
passivamente e senza reagire un’azione di forza militare della Cina su Taiwan. "Questa legge anti-secessione è scellerata", ha dichiarato Scott Clellan, portavoce della Casa Bianca. "Noi ci opponiamo ad ogni modifica unilaterale dello status quo". Queste chiare e nette dichiarazioni sono state fatte dalla segretaria di Stato americano Condoleeza Rice al presidente Hu-Jintao, durante la sua visita a Pechino il 21 marzo scorso. È chiaro ora che per far fronte agli aumentati appetiti imperialistici della Cina, il Giappone e gli Stati Uniti fanno causa comune in questa parte del mondo. Tale è il senso dell'accordo firmato da Washington e Tokio che si da "come obiettivo strategico comune" quello di operare per una "risoluzione pacifica" delle questioni riguardanti lo stretto di Formosa.La lettera del compagno del gruppo "La Scintilla" che pubblichiamo qui di seguito pone al centro un problema che sempre più spesso ci viene posto da molti compagni, e cioè la lotta contro la dispersione delle energie rivoluzionarie, sulla base di un confronto serio e approfondito. Nella risposta, che abbiamo indirizzato a tutti i compagni del gruppo, oltre a sostenere pienamente la necessità di un lavoro su questo piano e più in generale per la costruzione del futuro partito (facendo riferimento alla politica che la CCI ha da sempre condotto su questo piano), ci è sembrato importante chiarire come le nostre recenti prese di posizioni sull’atteggiamento e le posizioni assunte dal BIPR (tutte pubblicate sul nostro sito web), a cui il compagno fa riferimento, siano coerenti ed assolutamente necessarie per un reale lavoro verso la costruzione del partito, che non può prescindere dalla lotta contro l’opportunismo e contro comportamenti propri della classe dominante e dunque inaccettabili all’interno del movimento operaio. L’"asprezza" dei testi a cui evidentemente il compagno fa riferimento, non è quindi dovuta alla volontà di "voler rimarcare a tutti i costi la più minima differenza", pratica che come giustamente pensa il compagno va rigettata, ma alla necessità di difendere i metodi ed i principi proletari senza i quali nessun futuro partito rivoluzionario sarà possibile e dunque nessuna rivoluzione proletaria potrà essere vittoriosa.
La lettera del compagno
Cari compagni,
chi vi scrive è un militante dell’ "organizzazione proletaria La Scintilla" di Roma. Anche noi ci richiamiamo all’esperienza della sinistra comunista italiana. Siamo un gruppetto di una decina di ventenni (chi più chi meno) da sempre attenti alle vicende interne alla nostra corrente. Pur se pochi numericamente siamo abbastanza determinati a ricostruire in Italia un partito autenticamente marxista che sappia incidere realmente sulla classe. A tale obiettivo strategico adeguiamo tutta la nostra attività fatta di diffusione di materiale, propaganda in mezzo alla gioventù operaia e, arrivo al punto della mail, al ricompattamento delle residue forze dell’area rivoluzionaria. Pur scontrandoci spesso con compagni di altre strutture su le più disparate questioni teoriche, restiamo convinti che i marxisti rivoluzionari debbano risolvere le divergenze teoriche in maniera dialettica e scientifica e, se non ho interpretato male il pensiero di Lenin, dividersi solo nel caso di un’abiura dei principi rivoluzionari. Solo il partito può garantire un dibattito PRODUTTIVO, al di fuori di esso si cade nel burocratismo e ci si riduce a far polemica tra intellettuali. Marx non ebbe timore di trascinarsi appresso gli anarchici e i mazziniani, consapevole che la scientificità di una teoria trionfa solo nel confronto virile con le tesi errate e nel suo divenire strategia vincolante per i membri del partito. Detto questo non capiamo il livello di asprezza raggiunto tra voi e Battaglia su questioni si importanti, ma che non possono degenerare in un’accusa reciproca di opportunismo. L’opportunismo è una resa VOLONTARIA alla collaborazione tra le classi e non certo un errore teorico che, se pur commesso e non riconosciuto come tale, non mette in discussione la validità generale sull’uso della violenza rivoluzionaria. A noi giovani proprio questo risulta indigesto: il voler rimarcare a tutti i costi la più minima differenza e non le FONDAMENTALI PAROLE D’ORDINE IN COMUNE che ancora oggi sono ignorate dal proletariato (dittatura di classe, abolizione della proprietà, etc., etc.). Certo di una vostra risposta, vi saluto
V., 8 marzo 2005
La nostra risposta
Cari compagni,
(...) anzitutto vogliamo esprimere tutta la nostra contentezza per aver ricevuto notizie dell’esistenza di un gruppo di giovani compagni che fanno riferimento alla sinistra comunista italiana. Pensiamo che voi siate sicuramente d’accordo nel considerare che la sinistra comunista italiana ha avuto un ruolo centrale nella storia del movimento operaio internazionale dell’ultimo secolo e sul fatto che ancora oggi costituisce un riferimento imprescindibile per chi voglia intraprendere il faticoso ma appassionante compito di contribuire alla ricostruzione del partito rivoluzionario. Naturalmente, quando si parla di sinistra comunista italiana, occorre chiarire a cosa precisamente si fa riferimento, nella misura in cui tale corrente ha essa stessa più anime al suo interno, tutte proletarie naturalmente, ma non tutte omogenee tra di loro. Nel concreto ci riferiamo al fatto che si definiscono, con buona ragione, sinistra comunista italiana sia la corrente bordighista, sia la corrente che ha prodotto il gruppo Battaglia Comunista, sia ancora la corrente di compagni che, esclusi e/o messi in minoranza all’interno del PCI dopo il processo di bolscevizzazione, cominciano a lavorare all’estero come "frazione" del PCI elaborando, tramite la rivista Bilan, un bilancio delle ragioni della sconfitta dell’ondata rivoluzionaria degli anni ‘20. Per quanto ci riguarda, la nostra organizzazione - che in realtà fa riferimento all’insieme dei contributi prodotti dalla sinistra comunista "internazionale" piuttosto che alla sola sinistra comunista "italiana" - deve moltissimo al gruppo Bilan perché questo ha saputo, meglio di altre componenti, attestarsi sul terreno del marxismo scientifico tirando delle lezioni politiche di grande importanza da un’analisi politica impietosa dei motivi della sconfitta della rivoluzione russa e del tradimento dei partiti ex-comunisti. Una delle cose più importanti di questa eredità a cui ci rifacciamo è la convinzione profonda che, fra organizzazioni di natura proletaria - organizzazioni cioè che si collocano e agiscono sullo stesso terreno di classe e per gli stessi fini storici, per quanto diversificate possano essere le reciproche posizioni politiche - ci debba essere uno sforzo per promuovere un continuo confronto delle posizioni, nella convinzione che l’appartenenza allo stesso campo di lotta implichi che il rafforzamento di ognuna di queste componenti comporti al tempo stesso un rafforzamento di tutto il campo proletario. Questa è la politica che ci ha sempre caratterizzato fin dalla nascita, anzi possiamo dire che siamo nati proprio grazie a questa politica, attraverso un processo di aggregazione di forze inizialmente non omogenee in seguito ad una serie di discussioni, conferenze e convergenze progressive tra gruppi diversi fino alla costituzione dell’attuale organizzazione internazionale che è la CCI avvenuta nel 1975. La stessa formazione della CCI non ha comportato nessuna chiusura verso l’esterno, ma il proseguimento della stessa politica verso tutti gli altri gruppi esistenti all’epoca o che sono sorti successivamente a livello internazionale. Se oggi siamo presenti in 3 continenti e in una quindicina di paesi diversi è proprio grazie a questa politica in cui abbiamo messo sempre al centro la discussione. D’altra parte, la nostra mancanza di settarismo si evince non solo dai nostri sforzi di promuovere conferenze o dalla nostra partecipazione convinta a quelle promosse da altri (come nel caso delle tre conferenze internazionali organizzate nella seconda metà degli anni ’70 per iniziativa di Battaglia Comunista), ma anche nella preoccupazione che abbiamo espresso nei momenti difficili per la classe operaia perché le organizzazioni del campo politico rivoluzionario reagissero in maniera coordinata per far fronte nella maniera più efficace possibile alle difficoltà del momento. Ci riferiamo ad esempio all’appello che abbiamo rivolto al BIPR (organizzazione che raccoglie il gruppo italiano Battaglia Comunista e il gruppo inglese Communist Workers Organisation) e alle formazioni bordighiste Programma Comunista, Il Comunista-Le Proletarie e Il Partito di Firenze in occasione della guerra in Kosovo e quella in Iraq per far sentire in maniera unitaria alla classe operaia la voce degli internazionalisti. Questo appello, così come altri da noi lanciati, è rimasto senza risposta perché purtroppo il settarismo è una malattia molto diffusa all’interno del movimento operaio, ma la nostra politica non per questo è cambiata. Per quanto riguarda poi il fatto che, recentemente, compagni come voi hanno potuto sorprendersi alla lettura di testi particolarmente duri scambiati tra il BIPR e la CCI, ciò dipende dalla scelta molto grave compiuta dal BIPR di farsi complice e sostenitore di gruppi parassiti (1) che praticano il furto, la delazione e la diffusione di menzogne nei nostri confronti e che – recentemente – sono anche portatori di gravi minacce nei confronti di nostri compagni. Concretamente il BIPR:
- si è espresso in accordo con la FICCI, piccolo gruppo di nostri ex militanti, per dire che bisogna distruggere la CCI;
- ha dato una giustificazione politica al furto dell’indirizzario dei nostri contatti da parte della FICCI;
- ha pubblicato sul proprio sito testi del sedicente Circulo de Comunistas Internacionalistas (in realtà invenzione di un impostore) che ci riempivano di fango accusandoci di usare metodi "nauseabondi" e "stalinisti" contro dei compagni, di volerli distruggere, ecc.
- ha rifiutato a lungo di pubblicare una nostra smentita di questo insieme di calunnie rivolte nei nostri confronti, come è invece riconosciuto nella prassi giornalistica finanche di giornali borghesi come "diritto di replica";
- ha rifiutato di aderire alla nostra richiesta di partecipare ad un jurì d’onore internazionale per darci la possibilità di difenderci, come è da sempre consuetudine nella storia del movimento operaio;
- ha poi, di fronte all’esibizione dei documenti che smentivano tutta la montatura contro di noi - di cui loro erano stati fiancheggiatori attivi e convinti - non solo ignorato la nostra richiesta di pubblicare questi documenti con una smentita di quanto avevano lasciato credere per settimane e settimane, ma hanno molto codardamente fatto scomparire, uno dopo l’altro dal loro sito, tutti i documenti che avevano con tanta leggerezza pubblicato in modo da non lasciare traccia dell’infamia di cui si erano macchiati.
In coerenza con la tradizione del movimento operaio noi siamo convinti che un gruppo rivoluzionario si caratterizzi per l’insieme di posizioni politiche che difende e che costituiscono un insieme unitario al cui interno sono contenute anche le norme comportamentali sia interne all’organizzazione stessa (gli statuti) che nei confronti di altre organizzazioni proletarie e della classe. In altre parole un’organizzazione proletaria non si può comportare come un qualsiasi partito borghese o piccolo borghese, prendendo vantaggio contro un presunto avversario politico alleandosi con chicchessia. La politica di un gruppo rivoluzionario, fedele a quella che è la natura della classe operaia di cui è espressione, non può essere condotta seguendo dei mezzi qualsivoglia, ma deve necessariamente essere condotta utilizzando dei mezzi che siano coerenti con i fini e con la natura del gruppo stesso. Insomma, contrariamente al principio machiavellico della borghesia, il fine non giustifica i mezzi! Esiste invece un’etica proletaria da cui non si può prescindere. E’ proprio su questo piano che c’è stata recentemente una lacerazione tra noi e il BIPR: Battaglia e la CWO hanno non solo dato credito a delle campagne infamanti portate avanti da questi gruppi parassiti, rifiutandosi a lungo di ospitare una nostra smentita sul loro sito web, ma quando finalmente noi abbiamo prodotto la prova che era tutta una montatura da parte di questi parassiti, Battaglia ha semplicemente giocato a fare lo gnorri pubblicando un’ultima lettera rivolta alla nostra organizzazione in cui, schivando tutti i fatti e i motivi reali del problema, ha attribuito a noi la responsabilità completa del problema affermando che "da un po' di tempo siamo oggetto di attacchi violenti e volgari da parte della CCI" e concludendo che "per questa ragione d’ora innanzi non daremo riscontro né seguito a nessuno dei loro volgari attacchi".
Tutto questo per rispondere alla vostra richiesta di chiarimenti sul "livello di asprezza raggiunto tra voi e Battaglia".
Ci sembra importante inoltre precisare un altro punto: cosa è l’opportunismo. Voi parlate di "degenerare in una reciproca accusa di opportunismo" per poi aggiungere che "l’opportunismo è una resa VOLONTARIA alla collaborazione tra le classi e non certamente un errore teorico". Da quanto voi dite sembrerebbe di capire che voi identificate l’opportunismo con un tradimento cosciente della causa rivoluzionaria. In realtà non è questa l’accezione che il movimento operaio dà a questo termine (2), in quanto si è sempre riconosciuto al suo interno una sinistra, un centro e una destra sulla base dell’adesione più o meno rigorosa agli interessi della classe operaia. Infatti è noto che nel movimento operaio sono sorte molteplici organizzazioni che si sono proclamate espressione del proletariato, ma non tutte sono state capaci di difendere con la stessa coerenza questi interessi nella misura in cui, sotto l’influenza della ideologia dominante, alcune di queste sono state spinte a politiche compromissorie tra gli interessi del proletariato e quelli della borghesi. L’opportunismo è appunto l’espressione di questa influenza più o meno forte della ideologia borghese nel campo del proletariato. Si tratta dunque di una debolezza di organizzazioni che comunque appartengono al campo proletario e non di una caratterizzazione di organizzazioni che hanno tradito, anche se, naturalmente, questa influenza può comportare, sul lungo periodo, il tradimento. L’accezione che voi avete del termine opportunismo è in effetti l’espressione della identificazione del tradimento di vecchi partiti che sono stati un tempo dei partiti opportunisti (vedi i vari partiti comunisti degli anni ’20) con l’opportunismo stesso. Ma questi partiti hanno avuto tutti una storia, sono nati in linea di massima come dei partiti rivoluzionari in rottura con le vecchie socialdemocrazie, hanno successivamente subito una involuzione come conseguenza delle difficoltà della fase politica che attraversava la stessa classe operaia, involuzione che si è caratterizzata appunto con pratiche opportuniste, e hanno finito per tradire. Quindi dobbiamo comprendere l’opportunismo come elemento dinamico nella lotta tra posizioni rivoluzionarie e l’influenza dell’ideologia borghese nello stesso campo rivoluzionario, e non come una condanna a morte di un’organizzazione. Per cui accusare un’organizzazione di opportunismo non significa condannarla al fuoco eterno dell’infamia controrivoluzionaria ma piuttosto metterla in guardia da una debolezza che può finire per incancrenirla completamente. Ciò detto, noi restiamo completamente disponibili, come è nostro costume, a discutere con il BIPR per chiarificare tutte le questioni che sono rimaste sospese e su cui abbiamo più volte richiesto ai compagni del BIPR un chiarimento pubblico. (...).
E’ tutto per il momento. In attesa di una vostra risposta vi inviamo fraterni saluti,
CCI, 31 marzo 2005
1. Ricordiamo a tale proposito le nostre Tesi sul parassitismo, pubblicate nella Rivista Internazionale n. 22, febbraio 1999. E’ curioso come veniamo spesso accusati di aver inventato la nozione di parassitismo politico. In realtà, chi ci accusa mostra scarsa dimestichezza con la storia del movimento operaio. Basta infatti leggere quanto dice Marx a proposito di Bakunin e della sua Alleanza per ritrovare questo stesso termine di parassitismo con lo stesso significato.
2. Anche se la corrente bordighista chiama oggi opportunisti i partiti stalinisti traditori, la sinistra italiana dell’epoca (ovvero la sinistra bordighiana) considerava la politica portata avanti dalla direzione dell’Internazionale Comunista ancora ai tempi di Lenin, come una politica opportunista.
I recenti risultati delle elezioni regionali e, soprattutto la crisi del governo che le ha seguite, fanno pensare, e molti già lo dicono, che sarebbe finita l’epoca di Berlusconi, e che anche le prossime elezioni politiche (nel 2006 o addirittura anticipate) vedrebbero la sicura sconfitta di Berlusconi e del centrodestra. Prima di dire se è questa effettivamente la situazione, vediamo quali sono i criteri che spingono la borghesia a scegliere una compagine governativa invece di un’altra. E già, perché innanzitutto va ricordato che la democrazia borghese è una grande finzione e che se tutti i partiti politici ufficiali rappresentano gli interessi del capitale, non è sulla base della libera competizione tra di loro che viene fuori chi vince le elezioni, ma, al contrario, è il capitale nazionale che in base alle esigenze del momento decide chi deve rappresentarlo a livello di governo.
I criteri che guidano questa scelta sono essenzialmente tre:
1) lo stato dei rapporti tra borghesia e proletariato, ovverosia, lo stato della lotta di classe;
2) le inclinazioni imperialiste della borghesia nazionale;
3) la capacità di una certa compagine di difendere meglio gli interessi dell’economia nazionale
Il primo di questi punti ha portato spesso la borghesia a adottare addirittura a livello internazionale una strategia di utilizzo al governo di quelle forze che meglio potevano affrontare la situazione sociale. Per esempio negli anni ’70, di fronte alla forte crescita della lotta di classe, la borghesia adottò la strategia della "sinistra al governo" (1) per deviare le lotte dei lavoratori su questo falso obiettivo e sull’illusione che la sinistra al governo potesse dare risposta alle esigenze dei lavoratori; negli anni ‘80 invece, di fronte a una lotta di classe ancora molto vivace e per non bruciare le sinistre al governo (dove avrebbero dimostrato di non saper dare risposte alle esigenze dei lavoratori), la strategia diventò quella della "sinistra all’opposizione", dove la sinistra poteva fare la voce dura e, soprattutto, essere presente nelle lotte operaie per poterle sabotare dall’interno.
Alla fine degli anni ’90 la borghesia torna ad una politica di "sinistra al governo" (13 paese europei su 15) perché se questo periodo "è ancora marcato dal riflusso della combattività e della coscienza provocati dagli avvenimenti della fine degli anni ’80 (crollo del blocco dell’est) (...), anche se delle tendenze ad una ripresa della combattività si fanno sentire e si constata una fermentazione politica in profondità che resta ancora molto minoritaria" (2), la borghesia cercò di guadagnare tempo sfruttando le capacità di mistificazione della sinistra per bloccare lo sviluppo delle lotte e frenare la riflessione politica.
Negli ultimissimi anni però questa strategia non è più servita (questa carta non può comunque essere usata per troppo tempo, perché l’illusione su quello che può fare la sinistra al governo svanisce presto se questa, al governo, non prende misure a favore del proletariato), per cui la borghesia ha preferito più rilanciare la mistificazione democratica lasciando che ci fosse una certa "alternanza" al governo, o facendo le sue scelte sulla base di altre esigenze.
Un’altra di queste esigenze è l’inclinazione imperialista della borghesia di un paese. Infatti, se, come diceva Rosa Luxemburg, nell’epoca dell’imperialismo tutti i paesi sono imperialisti, quello che non è scontato e automatico è come una determinata borghesia nazionale vuole portare avanti i suoi interessi imperialisti e, soprattutto, con quali alleati. Addirittura su questo piano ci possono essere delle vere e proprie fratture interne alla borghesia, che porta a scontri anche violenti. È proprio il caso dell’Italia, dove il crollo del blocco sovietico, e il conseguente disfacimento di quello occidentale, diede l’occasione alle frazioni della borghesia più ostili all’alleanza con gli USA per scatenare un’offensiva volta a liberare il paese dalla pesante tutela americana: fu il ciclone Mani Pulite, che nel giro di tre o quattro anni distrusse la Democrazia Cristiana e il Partito Socialista, due partiti di forte fede atlantista, che di questa alleanza erano stati i garanti, in particolare la Democrazia Cristiana che fu messa al governo dagli USA nel dopoguerra proprio per rappresentare l’alleanza. La riorganizzazione delle forze filoamericane si concretizzò con l’entrata in campo di Berlusconi, e la sua vittoria alle elezioni del 2001 rappresentò la controffensiva di queste forze. E come Berlusconi abbia spinto l’imperialismo italiano a seguire quello USA lo si è visto bene soprattutto in occasione della guerra in Iraq.
Infine c’è la ovvia necessità della borghesia di mettere al governo delle forze capaci di difendere gli interessi del capitale nazionale da tutti i punti di vista, oltre quello relativo ai rapporti con la classe operaia e quello dello schieramento imperialista. Soprattutto in una situazione in cui la crisi economica è per il capitale una situazione permanente, al governo devono esserci forze capaci di far fronte a questa crisi, e alla concorrenza internazionale che la crisi acuisce, in maniera adeguata. Da quest’ultimo punto di vista la coalizione di Berlusconi non ha mai dato troppe garanzie, per la fretta e la particolarità della sua nascita: Berlusconi, espressione, come abbiamo detto della frazione della borghesia italiana filoamericana, ebbe anche il compito di ricostruire una coalizione di centrodestra che la disgregazione della Democrazia Cristiana aveva fatto scomparire, rendendo la borghesia italiana nell’immediato priva di questa ala per poter giocare all’alternanza di governo secondo le convenienze e le circostanze. Berlusconi poté farlo grazie alla formazione in poco tempo di un partito che utilizzò la struttura della sua azienda per organizzarsi e l’appoggio delle sue tre reti televisive nazionali che consentì alla nuova formazione di conquistare ben presto un certo credito tra la popolazione.
Ma la fretta della discesa in campo di Berlusconi aveva come controaltare il fatto che gli uomini su cui poteva contare non avevano esperienza di governo (tranne quelli provenienti dalla ex DC o dall’ex PSI), per cui la gestione dell’economia (e della vita del paese in generale) è stata abbastanza disastrosa: il capitale italiano, all’interno della crisi economica che affligge l’intero mondo capitalista, ha perso numerose posizioni rispetto ai suoi principali concorrenti europei, cosa che l’ha portato alla attuale situazione di vera e propria recessione e di perdita di competitività anche rispetto ad economie "emergenti" (3), che costituiscono le premesse per un vero e proprio crollo dell’economia (4).
Fatte tutte queste premesse si potrebbe concludere che effettivamente per Berlusconi, che per il suo eccessivo sbilanciamento filoamericano non ha mai goduto dell’appoggio convinto di tutta la borghesia italiana, sia arrivato il momento di fare le valigie, visto il risultato delle recenti elezioni che non sono un fatto accidentale, ma il preludio di quello che può accadere con le prossime elezioni politiche (che potrebbero anche essere anticipate proprio perché la situazione è così grave che un altro anno di pannicelli caldi berlusconiani può essere fatale per il capitale italiano). E il ritorno del centrodestra all’opposizione significherebbe anche la fine del berlusconismo, perché Berlusconi non potrebbe più pretendere di essere lui a comandare il centrodestra (peraltro l’età non gli consente di pensare che il centrodestra possa puntare sicuramente su di lui alle elezioni del 2011) e dovrebbe cedere il posto a qualcun altro per evitare che, con la sua crisi, si rinnovi la disgregazione del centrodestra, come fu agli inizi degli anni novanta, e ritornare ad una situazione in cui la borghesia italiana non potrebbe giocare all’alternanza al governo delle sue forze politiche, che è la fonte primaria della mistificazione democratica. Ma naturalmente tutto questo va commisurato alla luce di un fattore che è sorto a partire dagli anni ’70 e che incide sempre più fortemente sulla vita della società: l’entrata nella fase di decomposizione. Questo aspetto è importante perchè i giochi e le manovre della borghesia sono spesso essi stessi complicati da questo fenomeno: vedi ad esempio l’incapacità dei due schieramenti politici presenti in Italia di mantenere una vera coesione su qualunque problema, ivi compreso l’ultima sortita di Rutelli nei confronti di Prodi e dell’Ulivo come partito unico (5).
Per quanto ci riguarda, il nostro compito è sempre stato quello di denunciare tutte le forze politiche della borghesia, di destra o di sinistra che fossero, perché esse non difendono altro che gli interessi del capitale nazionale che sono incompatibili con quelli del proletariato. E la prospettiva di un ritorno del centrosinistra al governo potrebbe costituire un freno alle lotte proletarie per le aspettative che essa può creare nelle file dei lavoratori, portati a pensare quantomeno che "peggio di Berlusconi non possono fare". Invece possono fare molti più danni proprio alla lotta di classe, a causa della maggiore forza (e strumenti) di mistificazione che la sinistra possiede. Perciò fin da ora compito dei rivoluzionari è denunciare questa prospettiva e ricordare ai proletari cosa ha fatto la sinistra negli anni in cui è stata al governo: una sequenza di attacchi antioperai che hanno aumentato (più di quanto sia stato capace di fare Berlusconi) la miseria e la precarietà delle condizioni di vita e di lavoro del proletariato. Perché non esistono ricette per "uscire dalla crisi": la sola strada che ogni capitale nazionale conosce per reggere la competizione con i propri avversari è quello di aumentare lo sfruttamento dei lavoratori, e questo la sinistra lo sa fare ancora meglio della destra pasticciona di Berlusconi.
Helios
1. Che poi non significava sempre che la sinistra andasse al governo, ma che questo fosse l’obiettivo su cui si accentrava l’attenzione della popolazione.
2. Vedi "Perché la presenza di partiti di sinistra nella maggioranza dei governi europei attuali?" (Rivista Internazionale n.23).
3. Per noi questo termine non sta ad indicare che ci sarebbero delle parti del capitalismo mondiale che non sono in crisi, ma solo che ci sono parti del mondo dove le condizioni particolari locali, vedi ad esempio la possibilità di uno sfruttamento del proletariato molto più feroce di quello possibile nei paesi più avanzati, fanno sì che esse possano crescere più delle altre, senza che questo faccia uscire il capitalismo mondiale dalla sua crisi, o che questi paesi potrebbero costituire alla distanza i nuovi paesi economicamente dominanti.
4. In realtà, oltre alla incapacità di Berlusconi ci sono fattori di debolezza strutturali del capitale italiano che spiegano meglio l’attuale situazione; ma quello che la borghesia non può perdonare è la superficialità con cui vengono difesi i suoi interessi, e Berlusconi, con la sua arroganza, superficiale lo è stato abbastanza, non foss’altro che nel non voler guardare in faccia la gravità della situazione.
5. Vedi "La decomposizione fase ultima della decadenza del capitalismo" (Rivista Internazionale n.14).
È con profondo dolore che abbiamo saputo, tramite la stampa dell’organizzazione di cui faceva parte, della morte del compagno Livio, militante de Il Partito Comunista Internazionale (cosiddetto di Firenze) che pubblica in Italia il periodico Il Partito. Livio ci ha lasciato a 84 anni dopo una malattia che lo aveva progressivamente indebolito fisicamente ma, immaginiamo, non altrettanto nello spirito. Pur non essendo un nostro militante, conoscevamo Livio come compagno perché lo incontravamo nei luoghi e nelle situazioni politicamente significative, apprezzando sempre la sua dedizione militante alla causa del proletariato. Leggendo il necrologio che gli ha dedicato la sua organizzazione, riconosciamo in maniera precisa il compagno di cui si parla, in particolare quando si ricordano i suoi rapporti con i giovani, nei confronti dei quali "era come animato da una forza interna volta a trasmettere, attingendo alla sua lucida memoria, quanto più possibile delle esperienze e degli insegnamenti di una vita intera di studio severo", o ancora quando si ricorda la sua "ansia che nulla si disperdesse del ricordo, orale e scritto, del modo d’essere comunista (…); tanto si dava abbondante nelle conversazioni, travolgeva gli ascoltatori anche con due, tre, quattro lezioni dal vissuto personale e di partito…". Anche con noi militanti della CCI Livio non ha mai avuto atteggiamenti settari, ma sempre di stima profonda e di rispetto, così come noi ne avevamo per lui. Ed anche a noi della CCI Livio, nelle occasioni in cui ci incontravamo, non lesinava di raccontarci storie di vita vissuta, tornando spesso sulla figura di Bordiga, che lui aveva conosciuto e frequentato, mettendo in evidenza il carattere burbero che lui amava tanto perché capace di tenere assieme il partito con la disciplina. In particolare ci è rimasta impressa una sua testimonianza su Bordiga che, di fronte a compagni di partito che "ponevano problemi" perché in disaccordo su questo o quel punto, praticava la politica di riempire questi compagni di compiti pratici in modo da soffocare nel lavoro tutti i grilli che passavano loro per la testa. Anche se non abbiamo mai condiviso questa terapia politica, la sua fervida memoria e la maniera appassionata con cui Livio ci raccontava queste storie aveva una presa, se non altro sentimentale, anche su di noi della CCI. Va detto peraltro che la nostra reciproca conoscenza non era stata del tutto superficiale. Livio in origine era un compagno di Programma Comunista ed è stato di quelli che più ha sofferto per la crisi e l’implosione di questa organizzazione avvenuta agli inizi degli anni ’80. A quell’epoca Livio si ritrova praticamente in un’organizzazione nella quale non si riconosce più: in particolare vede che le redini del partito passano in mano a elementi nei quali lui ripone ben poca fiducia, tanto che comincia un percorso di ricerca di una nuova organizzazione politica in cui militare. E’ in questa fase che lui comincia a frequentare, assieme ad altri due compagni di Programma più o meno della sua stessa età, le riunioni pubbliche della CCI, senza tuttavia arrivare mai ad avvicinarsi alle sue posizioni perché in realtà, più che cercare delle risposte a dei problemi, Livio cercava un’organizzazione che difendesse in maniera autentica le posizioni bordighiste. E’ perciò che la sua ricerca approda, di lì a qualche tempo, al Partito di Firenze, al quale è rimasto fedele fino alla morte. Anche se le posizioni politiche difese da Livio e dal gruppo a cui apparteneva sono diverse e distanti da quelle che noi difendiamo, la CCI riconosce in lui la figura di un militante nobile e appassionato e rivolge ai compagni tutti de Il Partito un caloroso messaggio di solidarietà.
CCI, 1 giugno 2005
1. Alternativa di società (2)
Partiamo naturalmente dalla posizione maggioritaria di Bertinotti (59,2%) per poi passare alle varie minoranze. In aggiunta agli elementi già sviluppati nello scorso articolo, possiamo osservare che le posizioni della maggioranza sono caratterizzate dalla mancanza più assoluta di riferimenti di classe. Si parla di crisi, ma non si propone nessuna analisi dei motivi di questa crisi. Si propone una alternativa di società, ma il modello proposto è esplicitamente ritagliato per un’Italia più egualitaria che dovrebbe sorgere dalla buona volontà di tutti i cittadini e dalla vittoria di una consultazione elettorale. Per quanto riguarda la politica internazionale, si porta avanti un’ipotesi mistificatoria secondo cui "la guerra alimenta il terrorismo, che è figlio e fratello della guerra" (Mozione n.1, Tesi n.7), per cui si tratterebbe ancora una volta di convincere gli animi di buona volontà a rompere questa spirale perversa per raggiungere la pace. Di qui una conseguente esaltazione del pacifismo, della non violenza, dell’ecologismo, ecc. come parole d’ordine per cui battersi. Infine la Rifondazione maggioritaria è esplicitamente nazionalista e quindi difensore dell’imperialismo italiano, come abbiamo mostrato nello scorso numero attraverso le dichiarazioni di Bertinotti sul caso Calipari (3). D’altra parte, che Rifondazione abbia esplicitamente rinunciato a considerarsi partito operaio lo si evince anche dalle sue recenti dichiarazioni precongressuali: "Il movimento operaio è stato il grande protagonista del secolo ma è stato sconfitto in primo luogo per il fallimento laddove si è costituito in stato nelle società post-rivoluzionarie nelle quali le istanze di liberazione per cui era nato si sono anche rovesciate in forme di oppressione drammatica." (Mozione n.1, Tesi n.6) Così Rifondazione partecipa in prima persona alla grande mistificazione secondo cui i paesi dell’est europeo, e in primo luogo la stessa Unione Sovietica, sarebbero stati - fino al crollo del muro di Berlino del 1989 - dei paesi sotto il controllo di una classe operaia degenerata, una classe che sarebbe stata protagonista (e non vittima, come invece è stato!) di forme di oppressione drammatica. In conclusione si vede che, se Rifondazione dovesse basare la sua attrattiva solamente sulle posizioni maggioritarie, avrebbe a disposizione le carte di un partito democratico di sinistra, più o meno radicale, ma niente di più. In realtà quello che fa di Rifondazione un partito che attrae molti elementi in ricerca, giovani e meno giovani, è la presenza al suo interno di una costellazione di realtà, di minoranze e di attività che, pur criticando e contestando le posizioni di Bertinotti, finiscono per dargli forza e per ricevere esse stesse una cornice di partito all’interno della quale si sentono gratificate e riescono a meglio lavorare. E’ perciò importante prendere in considerazione una per una queste componenti per capire il ruolo specifico di ognuna di esse all’interno del partito.
2. Essere comunisti
Dopo quella di Bertinotti, la componente Essere comunisti capeggiata da Claudio Grassi è quella più importante all’interno del partito potendo contare su un seguito del 26,2% e su una rivista dal titolo significativo, l’Ernesto. Da questa mozione in poi il linguaggio si fa progressivamente più "radicale", "di sinistra", il che non corrisponde necessariamente a posizioni realmente più di sinistra e, soprattutto, al fatto che sussistano posizioni di classe, come cercheremo di mostrare via via in questa nostra analisi. Questa seconda mozione non esclude l’appoggio ad una alternativa governativa di sinistra, ma a condizione che ci sia un accordo preventivo nella coalizione. Sulla guerra c’è una posizione molto più dura rispetto a Bertinotti, con una denuncia della guerra in Iraq e un appoggio alla resistenza irachena (che manca del tutto nella prima mozione) e a quella palestinese, che rendono questa posizione "più di sinistra". Si critica la posizione maggioritaria pacifista e non violenta, ci si dichiara solidali con quelli che fanno resistenza all’oppressione. E quando si arriva al paese di appartenenza si dice: "L’Italia non dovrà mai più partecipare ad interventi militari (nemmeno sotto copertura ONU, né indirettamente tramite la concessione di basi militari, spazi aerei, strutture logistiche) se non in difesa del proprio territorio da un’invasione straniera" (Mozione n.2, Tesi n.5). Detto in altri termini, si è contro una guerra di aggressione, ma se la guerra è camuffata come difesa del territorio dei propri padroni, (che sia in Iraq, in Palestina o in Italia), allora sì che questi servi dei padroni sono pronti a chiamare i lavoratori al massimo sacrificio (4).
Sull’Europa la mozione dice che questa non è quella struttura omogenea che si vorrebbe far credere e mette in guardia contro il ruolo emergente di questo continente dal punto di vista imperialista. Per inciso va detto che tutte le mozioni minoritarie sono critiche nei confronti della costituzione del partito della sinistra europea (a cui Rifondazione Comunista ha garantito l’adesione) perché avrebbe raccolto a livello europeo solo i partiti più moderati.
C’è anche una critica alla maggioranza per i cedimenti al revisionismo storico: "E’ necessario porre un argine al revisionismo storico, che da tempo ha conquistato posizioni anche a sinistra, cancella o riduce le colpe della borghesia e del capitalismo e criminalizza la storia del movimento operaio e comunista". (…) La critica netta degli errori e dei processi degenerativi che hanno macchiato alcuni momenti della storia del movimento comunista e del "socialismo reale" fa irreversibilmente parte del nostro patrimonio culturale, politico e morale. Siamo consapevoli della loro portata e delle gravi conseguenze che ne sono derivate anche per chi non ha disertato la lotta nel nome del comunismo". (…) Rivendicando la storia del movimento operaio e comunista, riconoscendola come la nostra storia. L’Ottobre bolscevico e la costruzione dell’Urss, la rivoluzione cinese, quella vietnamita e quella cubana – per limitarci ad alcune tra le più importanti esperienze del movimento comunista – hanno consentito la liberazione di sterminate masse di donne e di uomini da condizioni di fame e di miseria e hanno rappresentato il tentativo di costruire società alternative al capitalismo e orientate verso il socialismo" (Mozione n.2, Tesi n.18). Più in particolare si critica la recente ipotesi di accettare, per i combattenti della Repubblica di Salò - i cosiddetti "ragazzi di Salò" – lo stesso trattamento adottato per i partigiani.
Si rivendica ancora il vecchio PCI dispiacendosi per il fatto che sia stato sciolto, anche se si parla di errori nel vecchio PCI, ma non si capisce quali siano: "Dopo essere stato la colonna della liberazione del Paese dal fascismo e la fucina di una coscienza democratica di massa, il PCI ha saputo imporre la centralità dei diritti del lavoro e dei diritti sociali, impedendo che la rapida modernizzazione del Paese comportasse enormi costi sociali e integrando i più alti risultati della civiltà borghese. (…) Il processo di graduale mutazione in senso socialdemocratico che ha segnato l’ultima fase della storia del PCI, non cancella i meriti storici complessivi dell’esperienza del comunismo italiano. Per questo appaiono gravissime le responsabilità dei gruppi dirigenti che hanno favorito lo scioglimento del PCI" (Mozione n.1, Tesi n.19).
In realtà non si capisce dove si collocano gli errori e quali siano stati i processi degenerativi. E’ certo comodo fare riferimento a Marx, Engels e a Lenin e fermarsi a Gramsci per poi saltare a piè pari al femminismo e quanto altro di oggi. E tutti gli altri 70-80 anni di storia? E poi, per quanto riguarda il tanto glorificato PCI a cui si rimprovera solamente la graduale mutazione in senso socialdemocratico che (avrebbe) segnato l’ultima fase (sic!), è evidente che o non sanno di che parlano, o più probabilmente lo sanno benissimo e cercano in tutti i modi di nasconderlo. In effetti non è questo il luogo per ricordare il ruolo controrivoluzionario del PCI giocato dalla fine degli anni ’20 fino al suo scioglimento dopo il 1989. Ma tanto per rinfrescare la memoria vogliamo solo ricordare:
- tutte le calunnie e le denunce politiche mosse dal PCI contro la sinistra comunista a partire dagli anni ’20 per scalzarla dalla direzione, metterla in minoranza e ridurla a niente;
- il ruolo svolto da Togliatti all’interno della direzione dell’Internazionale Comunista - divenuta ormai strumento dello stato sovietico e dello stalinismo - contro tutte le minoranze a livello internazionale;
- l’assassinio degli internazionalisti Atti e Acquaviva ad opera degli stalinisti del PCI;
- la coscrizione obbligatoria voluta e portata avanti in prima persona dal PCI nel sud liberato dopo il ‘43 nei confronti di soldati già fortemente provati da 3 anni di guerra e di ritorno alle loro case dopo l’armistizio in nome della lotta antifascista;
- il ruolo svolto da Togliatti in qualità di ministro della giustizia all’interno dei primi governi del II dopoguerra contro i cosiddetti "sbandati", ex soldati rimasti disoccupati e privi di ogni risorsa, contro cui il neo-ministro stalinista si scaglia con una ferocia inaudita.
Di fatto questa corrente si caratterizza come una corrente cripto-stalinista, che svolge all’interno di Rifondazione la "benefica" funzione di offrire una sponda a tutti i nostalgici del vecchio periodo stalinista che male hanno digerito la svolta operata nei primi anni ’90 prima da Occhetto e poi da D’Alema.
Prima di chiudere una curiosità: questa mozione fa un fugace e strano riferimento alla questione sarda. Forse che questa componente ha dei debiti nei confronti di un consistente elettorato sardo a cui ha bisogno di promettere qualche cosa?
3: Per un progetto comunista
La terza mozione, il cui leader è il trotskista Marco Ferrando, è molto più caratterizzata a sinistra e vanta il 6,51% di consensi all’interno del partito. Come si sa le organizzazioni trotskiste hanno adottato, dai tempi della IV Internazionale, la politica dell’entrismo, che consiste nel confluire in massa nei ranghi di organizzazioni della sinistra borghese nel tentativo di acquisire un’influenza tra i suoi militanti fino a prenderne il controllo. Il problema è che, ammesso che l’organizzazione trotskista avesse le caratteristiche di una organizzazione proletaria - cosa che noi escludiamo del tutto dopo l’appoggio dato dalla corrente trotskista al fronte imperialista sovietico durante la II guerra mondiale – il dato di fatto è che è l’organizzazione borghese che finisce inevitabilmente per fagocitare i militanti proletari che hanno l’illusione - aderendovi - di avere una più ampia platea cui rivolgersi.
Sul piano interno questa corrente spara a zero contro il centro sinistra, contro il governo di unità nazionale e critica Rifondazione ricordando che un programma alternativo serio deve cancellare le riforme di Berlusconi, ma anche quelle di Dini e quelle fatte dalla sinistra (vedi nota n.1). Quindi c’è una presa di distanza dai governi di sinistra e da quello che la stessa RC ha fatto in questi governi. Sono per una posizione elettorale autonoma e di opposizione, anche se non resistono alla tentazione di raggiungere un accordo particolare in seconda istanza con le forze di sinistra per buttare giù Berlusconi. In particolare avvertono la necessità di una svolta sul terreno locale, dove sentono che ancora una volta il PRC è stato corresponsabile di politiche antiproletarie: "L’esperienza di oltre dieci anni ci dice che il coinvolgimento del PRC nelle Giunte dell’Ulivo ha corresponsabilizzato il partito nella gestione locale delle politiche nazionali (in una logica, nel migliore dei casi, di "limitazione del danno"): in parte rilevante del paese siamo compartecipi di scelte di privatizzazione, di tagli della spesa, di patti concertativi con le organizzazioni del padronato, alla coda di sindaci o governatori ulivisti" (Mozione n.3, pag. 22).
Sul piano internazionale si parla degli interessi imperialisti dell’Italia in Iraq e del ruolo criminale dell’esercito italiano: "Più in generale il PRC deve rivendicare il ritiro immediato e incondizionato delle truppe da ogni teatro coloniale, inclusi i Balcani e l’Afghanistan. E deve sviluppare una vera campagna di massa che denunci il ruolo criminale delle truppe italiane in Irak e gli affari dell’imperialismo italiano (vedi gli interessi dell’ENI a Nassiria, i lauti affari delle aziende italiane coinvolte nel business della ricostruzione). Parallelamente il nostro partito deve sostenere, senza ambiguità, il diritto incondizionato di resistenza e sollevazione del popolo irakeno contro l’occupazione coloniale (americana, inglese, italiana)" (Mozione n.3, pag.21). Anche se questa posizione si presenta in apparenza particolarmente tagliente e coraggiosa, di fatto non è altro che l’altra faccia della stessa medaglia della difesa dell’imperialismo nostrano, cioè un’esaltazione del fronte della resistenza irakena dietro il quale si nascondono tutte le forze imperialiste che oggi hanno interesse a osteggiare se non a combattere apertamente i padroni del mondo e i loro alleati: Usa e potenze alleate. Oggi come oggi, non essendo ancora mature le condizioni perché scoppi un nuovo conflitto imperialista mondiale, le tensioni tra le grandi potenze si scaricano attraverso una serie di conflitti locali dove i paesi minori fanno da capro espiatorio delle stesse tensioni. La prima guerra del Golfo, quella contro la Serbia, e poi l’Afghanistan e ancora la seconda guerra del Golfo, per non citare che le più importanti degli ultimi 15 anni, sono state tante occasioni in cui gli Usa da una parte e le potenze europee dall’altra, in una cinica quanto falsa alleanza, si sono confrontati per definire la reciproca influenza sullo scacchiere mondiale. Battersi dunque per sostenere il diritto incondizionato di resistenza e sollevazione del popolo irakeno contro l’occupazione coloniale, significa fare il gioco di un fronte imperialista contro l’altro, mentre la posizione di classe consiste nel sostenere la componente proletaria all’interno del popolo irakeno (come di qualunque altro paese centrale o periferico che sia) contro la borghesia locale e internazionale.
E’ infine interessante il rammarico che la corrente di Ferrando prova per la chiusura negativa dei rapporti con il movimento alter-mondialista rispetto al quale si accusa la direzione di aver tirato i remi in barca perché, di fronte alle azioni forti di piazza, si sarebbe fatta indietro per non compromettere la scelta governista. In realtà è ancora una volta la corrente di Ferrando che mostra essa stessa la sua natura borghese facendo riferimento in particolare al settore dei Disobbedienti che, per quanto possano essere incazzati e combattivi, sono pur sempre uno strato sociale indistinto mosso da velleità piccolo-borghesi e pertanto disomogenei ad una collocazione autenticamente di classe. La cosiddetta "spesa proletaria" non è una pratica proletaria, ma una pagliacciata organizzata da Casarini e compagni per rilanciare un movimento momentaneamente in ribasso!
Chiudiamo qui questa seconda parte del nostro contributo su Rifondazione Comunista. Abbiamo visto finora che né le posizioni di maggioranza, né quelle di due mozioni di minoranza, sono espressione degli interessi degli operai. La prossima volta ci toccherà però analizzare le altre due posizioni, tra cui si esprimono posizioni particolarmente radicali. Troveremo forse qui le tanto agognate posizioni di classe? Lo scopriremo nella prossima puntata.
Ezechiele, 17 maggio 2005
1. Giusto per rinfrescare la memoria, riportiamo da capo una delle citazioni più significative: "In un contesto storico segnato dall’esaurimento dello spazio riformistico l’ingresso dei partiti comunisti nei governi borghesi significa il loro coinvolgimento nelle politiche di attacco ai lavoratori. Così è stato per il PCF nel governo Jospin nel 97-2001, e per il nostro partito nella maggioranza del primo governo Prodi del 96-98. (…) La cancellazione della controriforma pensionistica di Berlusconi è doverosa: ma va combinata con la cancellazione della riforma Dini voluta dall’Ulivo che ha abbattuto le pensioni future dei giovani per fare largo al capitale finanziario. La cancellazione della legge 30 è una necessità: ma va congiunta all’abolizione del pacchetto Treu, imposto dal governo Prodi col voto del PRC, che ha introdotto la piaga del lavoro interinale. La cancellazione della "Bossi-Fini" è drammaticamente urgente: ma non può risparmiare i campi di detenzione (CPT) imposti dall’Ulivo agli immigrati, col voto favorevole del PRC, e tutte le loro brutture." (mozione n. 3, pag. 20, sottolineature nostre).
2. Il titolo di questo paragrafo, come dei prossimi quattro, fa riferimento al titolo della mozione della corrispondente componente di Rifondazione.
3. "La politica chiede che questa uccisione sia assunta per quella che è: una questione nazionale. Le prime reazioni del presidente del Consiglio sembravano incoraggiare questa speranza. (…) C’è in discussione l’autonomia dello Stato nazionale. La possibilità di intraprendere iniziative politiche e diplomatiche, con l’obiettivo di salvare la vita a propri concittadini, può essere messa in discussione da una potenza che, peraltro, si dice nostra alleata. A Berlusconi chiedo uno scatto d’orgoglio nazionale, come avvenne a Sigonella. (Al governo c’era Craxi, ricorda il giornalista). Non l’ho mai avuto in simpatia, ma a Sigonella vi fu uno scatto di orgoglio del suo governo. In quell’atto si rilevò la dote di uno statista" (La Repubblica dell’8 marzo 2005).
4. Il carattere controrivoluzionario di questa posizione è stata già ampiamente sconfessata nella storia del movimento operaio e da noi ribadita nella brochure internazionale "Nazione o classe".
Nell’articolo pubblicato nello scorso numero del giornale abbiamo mostrato come Rifondazione Comunista, il partito che vorrebbe farsi passare come il difensore e il continuatore della tradizione comunista in Italia, non sia altro che un partito borghese, di sinistra borghese, cioè un partito che difende gli interessi del capitale e non quelli dei lavoratori. Per dimostrare questa semplice verità non c’è stato bisogno di ricorrere a ricerche particolari, di rovistare in archivi segreti, ma semplicemente di leggere quello che le stesse componenti minoritarie di Rifondazione dicono della maggioranza la quale esprime - a pieno titolo - il partito stesso (1). In questo secondo articolo – e in un terzo che seguirà - ci proponiamo di dimostrare che, fatta salva la buona fede di quanti si fanno delle illusioni al riguardo, le stesse minoranze sono del tutto funzionali alla politica controrivoluzionaria del partito a cui appartengono ed esprimono, ognuna per proprio conto, delle posizioni del tutto antioperaie. Per comodità passeremo in rassegna le varie componenti di Rifondazione facendo riferimento alle mozioni presentate all’ultimo congresso di marzo scorso.
Nella prima parte di questo articolo (vedi RI n.140) abbiamo sottolineato il contesto internazionale e ricordato il quadro generale della rivoluzione del 1905 in Russia. Abbiamo anche ricordato l’importanza delle lezioni tirate per la classe operaia.
Nella seconda parte di questo articolo, come abbiamo già annunciato, noi torniamo sulla natura proletaria di questi eventi e sulla dinamica dello sciopero di massa che ha condotto il proletariato a far sorgere dalla sua lotta dei nuovi organi di organizzazione e di potere: i soviet. Vedremo come tutta la creatività della classe operaia, all’alba del declino del capitalismo, si sia effettuato senza alcun ruolo significativo da parte dei sindacati o della lotta parlamentare. La capacità della classe operaia di prendere nelle proprie mani il suo avvenire, sulla base dell’esperienza accumulata e della solidarietà, prefigurava già nuove responsabilità per questa e per la sua avanguardia. Così, posizioni decisive per il movimento operaio nella fase di decadenza del capitalismo erano già inscritte e presenti nel 1905.
Una volta rievocati gli elementi essenziali di storia, occorre adesso cercare di recuperare tutte le lezioni che ci ha fornito l’esperienza del 1905. E la prima fra tutte è che la rivoluzione del 1905 ha un solo protagonista, il proletariato russo, e che tutta la sua dinamica segue una logica strettamente di classe. Su questo già lo stesso Lenin è abbastanza chiaro quando ricorda che, a parte il suo carattere democratico borghese dovuto al suo contenuto sociale, "la rivoluzione russa fu nello stesso tempo una rivoluzione proletaria; non soltanto perché il proletariato ne fu la forza dirigente e fu all’avanguardia del movimento, ma anche perché l’arme specifica del proletariato, e precisamente lo sciopero, costituiva il mezzo principale per scuotere le masse e il fenomeno più caratteristico nella ondata sempre più travolgente di avvenimenti decisivi" (1). Ma quando Lenin parla di sciopero, non dobbiamo intendere delle azioni di 4, 8 o 24 ore del tipo che ci propongono oggi i sindacati nei vari paesi del mondo. Infatti il 1905 introduce nella storia del movimento operaio, oltre ai soviet, quello che poi fu chiamato lo sciopero di massa, quell’oceano di fenomeni – come lo caratterizzò Rosa Luxemburg – cioè l’estensione e l’autorganizzazione spontanea della lotta del proletariato, che avrebbe caratterizzato tutti i grandi momenti della lotta del XX secolo (2). L’ala sinistra del movimento operaio - tra cui i Bolscevichi, Rosa Luxemburg, Pannekoek, vi vedrà la conferma delle sue posizioni (contro il revisionismo alla Bernstein (3) e il cretinismo parlamentare) ma dovrà accollarsi un lavoro teorico approfondito per comprendere pienamente il cambiamento delle condizioni di vita del capitalismo – la fase dell’imperialismo e della decadenza – che determinava il cambiamento negli obiettivi e nei mezzi della lotta di classe. Ma già la Luxemburg ne delineava le premesse: "Lo sciopero di massa si palesa dunque non come un prodotto specificamente russo, scaturito dall’assolutismo, bensì come una forma universale della lotta proletaria di classe, che risulta dall’attuale stadio dello sviluppo capitalistico e dei rapporti di classe. (…) l’attuale rivoluzione russa si trova in un punto dell’itinerario storico che è situato già oltre il valico, oltre la vetta, cioè dell’acme della società capitalista" (4).
Lo sciopero di massa non è un semplice movimento delle masse, un genere di rivolta popolare che ingloba "tutti gli oppressi" e che sarebbe, essenzialmente, positivo come le ideologie gauchiste ed anarchiche oggi vogliono farci credere. Nel 1905 Pannekoek scriveva: "Se si prende la massa nel suo senso del tutto generale, l’insieme del popolo, appare che, nella misura in cui le varie concezioni e volontà divergenti degli uni e degli altri si neutralizzano reciprocamente, apparentemente non resta altro che una massa senza volontà, lunatica, consacrata al disordine, volubile, passiva, oscillante di qua e di là tra stimoli diversi, tra movimenti incontrollati e una indifferenza apatica – in breve, come si sa, il quadro che gli scrittori liberali dipingono più volentieri del popolo (…). Essi non conoscono le classi. Al contrario, la forza della dottrina socialista è quella di aver apportato un principio d’ordine e un sistema d’interpretazione dell’infinita variété delle individualità umane, introducendo il principio della divisione della società in classi" (5).
Mentre la borghesia - e con essa gli opportunisti nel movimento operaio - prendevano le distanze con disgusto dal movimento "incomprensibile" del 1905 in Russia, la sinistra rivoluzionaria tirava le lezioni della nuova situazione: "… le azioni di massa sono una conseguenza naturale dello sviluppo del capitalismo moderno in imperialismo, sono sempre più la forma di lotta che si impone ad esso" (6).
Lo sciopero di massa non è neanche una ricetta pronta come lo "sciopero generale" propagandato dagli anarchici (7), ma un modo di esprimersi della classe operaia, un modo di raccogliere le sue forze per portare avanti la sua lotta rivoluzionaria. «In una parola: lo sciopero di massa, come dimostra la rivoluzione russa, non è un mezzo ingegnoso escogitato allo scopo di una più possente efficacia della lotta proletaria, ma è il modo stesso del movimento della massa proletaria, la forma fenomenica stessa in cui si presenta la lotta proletaria nella rivoluzione» (8). Lo sciopero di massa è qualcosa di cui oggi non abbiamo un’idea diretta e visibile se non, per le persone meno giovani, attraverso la testimonianza della lotta degli operai polacchi del 1980 (9). Facciamo dunque riferimento ancora alla Luxemburg che ce ne dà un quadro forte e lucido:
«... gli scioperi di massa, dalla prima grande lotta salariale messa in atto dai tessili di Pietroburgo nel 1896-97 fino all’ultimo grande sciopero di massa nel dicembre 1905, in modo affatto inavvertibile si sono trasformati da economici in politici, sì che è quasi impossibile tracciare una linea di demarcazione fra gli uni e gli altri. Ciascuno dei grandi scioperi di massa ripete anch’esso, diremmo quasi in miniatura, la storia generale degli scioperi di massa compiuti in Russia, cominciando da un conflitto di natura puramente economica o comunque sindacale e parziale, per percorrere poi tutta la scala che conduce alla manifestazione politica. (...) Lo sciopero di massa del gennaio 1905 si sviluppa da un conflitto interno delle officine Putilov, quello di ottobre dalla lotta dei ferrovieri per la cassa pensioni, quello di dicembre, infine, dalla lotta dei postelegrafici per il diritto di coalizione. Nel suo insieme, il progresso del movimento lo si vede non nel venir meno dello stadio economico iniziale, bensì nella rapidità con cui si percorre tutta la scala che sbocca nella manifestazione politica e nella posizione eccentrica che lo sciopero di massa riesce a raggiungere. (...) Ben lungi dal separarsi nettamente o addirittura d’escludersi a vicenda (...) il momento economico e il politico non sono altro che due aspetti interconnessi della lotta proletaria di massa» (10).
Qui Rosa Luxemburg tocca un aspetto centrale della lotta rivoluzionaria del proletariato: l’unità inseparabile della lotta economica e quella politica. A dispetto di quanti assumevano, all’epoca, che la lotta politica sia il superamento, la parte nobile, per così dire, della lotta del proletariato nei confronti della borghesia, la Luxemburg spiega chiaramente come invece la lotta si sviluppa dal livello economico a quello politico per poi tornare con forza accresciuta sul piano della lotta rivendicativa. Tutto ciò è particolarmente chiaro rileggendo i testi sulla rivoluzione del 1905 relativi alla primavera e all’estate. Si vede infatti come il proletariato, che era partito dalla domenica di sangue con una dimostrazione politica, anche se di un livello estremamente addomesticato, dopo la forte repressione non solo non demorde, ma addirittura ne esce fuori con un vigore di lotta rinnovato e rafforzato, andando all’attacco sul piano della difesa delle proprie condizioni di vita e di lavoro. E’ così che nei mesi successivi è tutto un pullulare di lotte. Questo periodo ebbe una grande importanza anche perché, come sottolinea ancora Rosa Luxemburg, dette la possibilità al proletariato di interiorizzare, a posteriori, tutti gli insegnamenti del prologo di gennaio e di chiarirsi le idee per il futuro.
Un aspetto che è particolarmente importante nel processo rivoluzionario in Russia nel 1905 è il suo carattere fortemente spontaneo. Le lotte sorgono, si sviluppano e si rafforzano, producendo strumenti nuovi di lotta quali lo sciopero di massa e i soviet, senza che i partiti rivoluzionari dell’epoca riescano a stare al passo o finanche a capire subito fino in fondo le implicazioni di quello che stava succedendo. La forza del proletariato in movimento sui propri interessi di classe è formidabile e contiene in sé una creatività impensabile. E’ lo stesso Lenin che lo riconosce un anno dopo facendo il bilancio della rivoluzione del 1905:
«Dallo sciopero e dalle dimostrazioni alle barricate isolate, dalle barricate isolate alla costruzione in massa di barricate e alla lotta di strada contro le truppe. Senza l’intervento delle organizzazioni, la lotta proletaria di massa era passata dallo sciopero all’insurrezione. In ciò sta la più grande conquista storica della rivoluzione russa fatta nel dicembre 1905 e, al pari di tutte le conquiste precedenti, essa costò grandi sacrifici. Il movimento, sorto dallo sciopero generale politico, si era elevato a un grado superiore. Costrinse la reazione a spingere la sua resistenza sino in fondo e si avvicinò così, con un passo gigantesco, al momento in cui la rivoluzione andrà essa pure sino in fondo nell’uso dei mezzi offensivi. La reazione non può andare oltre l’impiego dell’artiglieria contro le barricate, contro le case e contro la folla. La rivoluzione può andare ancora più in là delle squadre di combattimento di Mosca; può ancora e ancora progredire ! (...) Il proletariato aveva avvertito prima dei suoi capi il mutamento delle condizioni oggettive della lotta, la quale esigeva il passaggio dallo sciopero all’insurrezione. Come sempre, la pratica aveva preceduto la teoria»
Questo passaggio di Lenin è particolarmente importante oggi nella misura in cui molti dei dubbi presenti tra elementi politicizzati e finanche in una certa misura all’interno di organizzazioni proletarie sono legati all’idea che il proletariato non riuscirà mai ad emergere dall’apatia nella quale a volte sembra immerso. Quello che avvenne nel 1905 ne è la smentita più eclatante e la meraviglia che proviamo nei confronti di questo carattere spontaneo della lotta di classe è solo l’espressione di una sottovalutazione dei processi che si muovono nel profondo della classe, di quella maturazione sotterranea della coscienza di cui parlava già Marx quando si riferiva alla "vecchia talpa".
La fiducia nella classe operaia, nella sua capacità di dare una risposta politica ai problemi che affliggono la società, è una questione di primo ordine nell’epoca attuale. Dopo il crollo del muro di Berlino e la campagna della borghesia che ne è seguita sul fallimento del comunismo identificato a torto con l’infame regime stalinista, è la stessa classe operaia ad avere difficoltà a riconoscersi come classe e ancora, e di conseguenza, a riconoscersi in un progetto, in una prospettiva, in un ideale per cui combattere. La mancanza di una prospettiva produce automaticamente una caduta della combattività, un indebolimento della convinzione della stessa necessità di combattere perché non si lotta a vuoto ma solo se c’è un obiettivo da raggiungere. E’ per questo che oggi la mancanza di chiarezza sulla prospettiva del futuro e la fiducia in se stessa della classe operaia sono così fortemente legate tra di loro. Ma questa catena non si spezza se non nella pratica, attraverso l’esperienza diretta della classe della possibilità e della necessità di lottare per una prospettiva. Così come si produsse appunto nella Russia del 1905 quando «nello spazio di pochi mesi il quadro si trasformò completamente. Le poche centinaia di socialdemocratici rivoluzionari divennero "improvvisamente" delle migliaia che a loro volta divennero i capi di due-tre milioni di proletari. La lotta proletaria provocò un grande fermento e, talvolta, un movimento rivoluzionario nel profondo della massa di cinquanta-cento milioni di contadini; il movimento contadino ebbe una ripercussione nell’esercito e portò a rivolte di soldati e a scontri rivoluzionari di una parte dell’esercito contro l’altra» (12). Ciò non costituiva una necessità soltanto per il proletariato in Russia, ma per lo stesso proletariato mondiale, ivi incluso la sua sezione più sviluppata, il proletariato tedesco:
«Nella rivoluzione, in cui è la massa medesima ad apparire sulla scena politica, la coscienza di classe diviene pratica, attiva. E’ per questo che al proletariato russo un anno di rivoluzione può dare quella "educazione" che al tedesco non sono riusciti a dare artificialmente trent’anni di lotte parlamentari e sindacali (...) Ma altrettanto certo è, viceversa, che in Germania, in un periodo di possenti azioni politiche, una viva, attiva sensibilità rivoluzionaria s’impadronirà dei più larghi e profondi strati del proletariato, e lo farà tanto più rapidamente e tanto più fortemente, quanto più larga e profonda sarà stata fino allora l’attività educativa svolta dalla socialdemocrazia» (13). Parafrasando Rosa Luxemburg possiamo dire che è altrettanto vero che oggi, nel mondo, in un momento di profonda crisi economica e di fronte all’incapacità conclamata della borghesia a far fronte al fallimento dell’intero sistema capitalista, una viva, attiva sensibilità rivoluzionaria s’impadronirà anche dei settori più maturi del proletariato mondiale e lo farà in particolare nei paesi del capitalismo avanzato dove più radicata e ricca è stata l’esperienza della classe e dove più presenti sono state le ancora deboli forze rivoluzionarie. Questa fiducia che noi esprimiamo oggi nella classe operaia non è un atto di fede, non risponde ad un atteggiamento di fiducia cieca, mistica, ma si basa appunto sulla storia di questa classe e sulla sua capacità di ripresa a volte sorprendente a partire da situazioni apparentemente di torpore perché, come abbiamo cercato di mostrare, se è vero che le dinamiche attraverso cui si producono i processi della maturazione della sua coscienza sono spesso oscuri e non facili da comprendere, è tuttavia certo che questa classe è storicamente costretta, per la sua collocazione nella società di classe sfruttata e di classe rivoluzionaria ad un tempo, a drizzarsi contro la classe che la opprime, la borghesia, e nell’esperienza di questa lotta ritroverà la fiducia in se stessa che le manca oggi:
"Prima, noi avevamo una massa impotente, docile, di una inerzia cadaverica di fronte alla forza dominante ben organizzata e che sa quello che vuole, che manipola la massa a suo piacimento; ed ecco che questa massa si trasforma in umanità organizzata, capace di determinare la propria sorte esercitando la sua volontà cosciente, capace di far fronte arditamente alla vecchia potenza dominante. Da che era passiva, diviene una massa attiva, un organismo dotato di una vita propria, cementato e strutturato da se stesso, dotato della sua propria coscienza e dei suoi propri organi" (14).
Come per lo sviluppo della fiducia della classe operaia in se stessa, esiste necessariamente un altro elemento cruciale della lotta del proletariato: la solidarietà al suo interno. La classe operaia è la sola classe che è veramente solidale per natura perché non esiste al suo interno alcun interesse economico divergente – contrariamente alla borghesia, classe della concorrenza la cui solidarietà non si esprime al più alto grado che nei limiti nazionali oppure contro il suo nemico storico, il proletariato. La concorrenza all’interno del proletariato gli è imposto dal capitalismo, ma la società che porta in grembo e nel suo essere è una società che mette fine a tutte le divisioni, una vera comunità umana. La solidarietà proletaria è un’arma fondamentale della lotta del proletariato; essa era all’origine del grandioso rovesciamento dell’anno 1905 in Russia:
«La scintilla che ha fatto divampare l’incendio è stato un comune conflitto fra lavoro e capitale: lo sciopero in una fabbrica. E’ interessante notare tuttavia che lo sciopero dei 12.000 operai della Putilov, scoppiato lunedì 3 gennaio, è stato innanzitutto uno sciopero proclamato in nome della solidarietà proletaria. La causa è stata il licenziamento di quattro operai. "Quando la richiesta di riassunzione è stata respinta – scrive un compagno da Pietroburgo il 7 gennaio – la fabbrica si è fermata di colpo, con totale unanimità"» (15).
Non è un caso se oggi la borghesia si sforza di svilire la nozione di solidarietà che essa presenta sotto una forma "umanitaria" o ancora sottoforma di "economia solidale", che è uno dei regali del nuovo "movimento" altermondialista che si sforza di deviare la presa di coscienza che si produce un po’ alla volta in profondità nella società di fronte all’impasse che rappresenta il capitalismo per l’umanità. Se la classe operaia nel suo insieme non è oggi ancora cosciente della potenza della sua solidarietà, la borghesia invece non ha dimenticato le lezioni che il proletariato le ha inflitto nella storia.
"Nella tempesta del periodo rivoluzionario avviene che sia proprio il proletario a trasformarsi da un padre di famiglia previdente e reclamante sussidi in un "romantico della rivoluzione" per il quale, a confronto dell’ideale di lotta, ha ben poco valore persino il bene supremo, cioè la vita, e meno che meno ne ha, quindi, il benessere materiale. Se è vero, dunque, che la guida dello sciopero in massa, intesa come potere di deciderne l’inizio, di calcolarne i costi e assicurarne la copertura, è faccenda del periodo rivoluzionario stesso, è altresì vero che, intesa in tutt’altro senso, la guida dello sciopero in massa spetta alla socialdemocrazia e ai suoi organi direttivi. (…) con il meccanismo degli scioperi di massa, la socialdemocrazia è chiamata ad assumerne anche la direzione politica, nel bel mezzo d’un periodo di rivoluzione. Lanciare la parola d’ordine, dare un indirizzo alla lotta, impostare la tattica della battaglia politica in modo tale che in ciascuna fase si realizzi nella sua intera portata il potenziale, disponibile e già mobilitato e attivo, del proletariato, e che ciò trovi espressione nelle posizioni di combattimento assunte dal partito, in modo tale che, quanto a fermezza e precisione, la tattica della socialdemocrazia non sia mai inferiore al livello dei reali rapporti di forza, ma piuttosto lo sopravanzi: questi sono i compiti più rilevanti della "direzione" nel periodo degli scioperi in massa" (16).
Durante l’anno 1905 spesso i rivoluzionari (chiamati all’epoca socialdemocratici) sono stati sorpresi, preceduti, superati dall’impetuosità del movimento, dalla sua originalità, la sua immaginazione creativa e non sempre hanno saputo dare le parole d’ordine di cui parla la Luxemburg, "in ogni fase, in ogni istante" e hanno anche commesso degli errori importanti. Tuttavia, il lavoro rivoluzionario di fondo che essi hanno condotto prima e durante il movimento, l’agitazione socialista, la partecipazione attiva alla lotta della loro classe sono stati dei fattori indispensabili nella rivoluzione del 1905; la loro capacità, in seguito, di tirare le lezioni di questi avvenimenti ha preparato il terreno della vittoria del 1917.
Ezechiele, 5 dicembre 2004
1. Lenin, Rapporto sulla rivoluzione del 1905, in Opere Scelte, Editori Riuniti, pag. 687-688
2. Vedi il nostro articolo "Le condizioni storiche della generalizzazione della lotta della classe operaia", nella Revue Internazionale n. 26, 1981.
3. Bernstein era, all’interno della socialdemocrazia tedesca, il promotore dell’idea di una transizione pacifica al socialismo. La sua corrente è conosciuta sotto il termine di revisionismo. Rosa Luxemburg, nella sua brochure Riforma sociale o rivoluzione, lo combatte come espressione di una pericolosa deviazione opportunista che affligge il partito.
4. Rosa Luxemburg, Sciopero di massa, partito, sindacati, Newton Compton Editori, pag. 94.
5. "Marxismo e teologia", pubblicato nella Neue Zeiten nel 1905 e citato in "Azione di massa e rivoluzione" (1912).
6. Pannekoek, "Azione di massa e rivoluzione", Neue Zeit del 1912.
7. D’altra parte gli anarchici non hanno giocato alcun ruolo nel 1905. L’articolo nella nostra Revue Internationale n. 120 sulla CGT in Francia sottolinea che il 1905 non trova nessuna eco presso gli anarco-sindacalisti. Come viene messo in luce da Rosa Luxemburg dall’inizio nella sua brochure Sciopero di massa, partito, sindacati: "nella rivoluzione russa gli anarchici non esistono assolutamente come corrente politica da prendersi sul serio; (…) la medesima rivoluzione che costituisce il primo banco di prova storico dello sciopero in massa, non significa affatto una riabilitazione dell’anarchismo, ma significa, esattamente al contrario, una sua liquidazione storica".
8. Rosa Luxemburg, Sciopero di massa, partito, sindacati, Newton Compton Editori, pag. 61-62.
9. Vedi la nostra brochure sull’agosto polacco del 1980.
10. Rosa Luxemburg, Sciopero di massa, partito, sindacati, Newton Compton Editori, pag. 65-66.
11. V. Lénine, Rapporto sulla rivoluzione del 1905, in Opere Scelte, Editori Riuniti, pag. 687.
12. ibidem.
13. Rosa Luxemburg, Sciopero di massa, partito, sindacati, Newton Compton Editori, pag. 88.
14. Pannekoek, Azione di massa e rivoluzione, Neue Zeit del 1912.
15. Lenin, Sciopero economico e sciopero politico, Le Edizioni del Maquis, pag. 75
16. Rosa Luxemburg, Sciopero di massa, partito, sindacati, Newton Compton Editori, pag. 72-73.
(11).Carattere spontaneo della rivoluzione e fiducia nella classe operaia
Chi sono le prime vittime degli attentati terroristici nel centro di Londra il 7 luglio 2005? Come a New York nel 2001 ed a Madrid nel 2004, le bombe miravano deliberatamente agli operai, alle persone che si ammucchiano nelle metropolitane e negli autobus per andare al lavoro. Al Qaeda che rivendica la responsabilità di questi massacri, dice che ha voluto vendicare "i massacri perpetrati in Iraq dall'esercito britannico”. Ma il macello senza fine che subisce la popolazione irachena, non è colpa della classe lavoratrice della Gran Bretagna; sono le classi dominanti della Gran Bretagna, dell'America ad essere responsabili – senza parlare dei terroristi della sedicente ‘Resistenza’ che sono quotidianamente implicati nel massacro di operai e di civili innocenti a Baghdad e nelle altre città. Durante questo tempo, gli architetti della guerra in Iraq, i Bush ed i Blair restano sani e salvi; peggio ancora, le atrocità commesse dai terroristi forniscono loro il pretesto ideale per lanciare nuove avventure militari, così come hanno fatto in Afghanistan ed in Iraq dopo l’11 settembre.
Tutto ciò è nella logica della guerra imperialista: guerre condotte nell'interesse della classe capitalista, delle guerre per il dominio del pianeta. La grande maggioranza delle vittime di queste guerre è composta da sfruttati, da oppressi, schiavi salariati del capitale. La logica della guerra imperialistica eccita l'odio nazionale e razziale, fatto di popolazioni intere, ‘il nemico’ da insultare, da attaccare ed abbattere. Aizza gli operai gli uni contro gli altri e gli impedisce di difendere i loro interessi comuni. Peggio, chiama gli operai a radunarsi sotto la bandiera e lo stato nazionali, a partecipare con convinzione alla guerra in difesa di interessi che non sono i loro ma quelli dei loro sfruttatori.
Nella sua dichiarazione sugli attentati di Londra dalla riunione dei ricchi e dei potenti del gruppo del G8, Blair ha detto: “è importante che quelli che sono impegnati sulla via del terrorismo sappiano che la nostra determinazione a difendere i nostri valori ed il nostro stile di vita sono più grandi della loro determinazione a seminare la morte e la distruzione di una popolazione innocente.” La verità è che i valori di Blair e quelli di Bin Laden sono esattamente gli stessi. Sono così pronti sia l’uno che l'altro a seminare la morte e la distruzione presso una popolazione innocente per difendere i loro interessi sordidi. La sola differenza è che Blair è un grande gangster imperialistico e Bin Laden uno piccolo. Dobbiamo rigettare totalmente tutti quelli che ci chiedono di scegliere un campo contro un altro.
Tutte le dichiarazioni di solidarietà con le vittime degli attentati di Londra proclamate dai ‘dirigenti del mondo’ sono della pura ipocrisia. Il sistema sociale che dirigono dallo scorso secolo, ha annientato decine di milioni di esseri umani in due barbare guerre mondiali e innumerevoli conflitti, dalla Corea al Golfo, dal Vietnam alla Palestina. E contrariamente alle illusioni che seminano Geldof, Bono e gli altri, dirigono un sistema che, per sua stessa natura, non può “make poverty history”, gettare la povertà nelle pattumiere della storia, ma condanna al contrario le popolazioni a centinaia di milioni ad una miseria crescente ed avvelena tutti i giorni il pianeta per difendere i suoi profitti. La solidarietà che vogliono i dirigenti del mondo è una falsa solidarietà, l'unità nazionale tra le classi che permetterà loro di scatenare delle nuove guerre in futuro.
L'unica vera solidarietà è la solidarietà internazionale della classe operaia, fondata sugli interessi comuni degli sfruttati di tutti i paesi. Una solidarietà che supera tutte le divisioni razziali e religiose e che è la sola forza capace di opporsi alla logica capitalista del militarismo e della guerra.
La storia ha mostrato il potere di un tale solidarietà: nel 1917-18, quando gli ammutinamenti e le rivoluzioni in Russia e in Germania hanno messo fine alla carneficina della Prima Guerra mondiale. E la storia ha mostrato anche il prezzo terribile che la classe operaia ha dovuto pagare quando questa solidarietà è stata sostituita di nuovo dall'odio nazionale e la lealtà alla classe dominante: l'olocausto della Seconda Guerra mondiale. Oggi, il capitalismo sparge di nuovo la guerra sul pianeta. Se vogliamo fermarlo dall’inghiottirci nel caos e la distruzione, dobbiamo rigettare tutte le chiamate patriottiche dei nostri dirigenti, lottare per difendere i nostri interessi in quanto operai ed unirci contro questa società morente che non può offrirci nient’altro che l'orrore e la morte ad una scala sempre crescente.
Corrente comunista internazionale, 7 luglio 2005.
Nella scorsa primavera la CCI ha tenuto il suo 16° congresso. “Il Congresso internazionale è l’organo sovrano della CCI”, come è scritto nei nostri statuti. Per questo, come sempre dopo una tale scadenza, è nostra responsabilità renderne conto e trarne i principali orientamenti di fronte alla classe (1).
Il congresso ha posto al centro delle sue preoccupazioni l’esame della ripresa delle lotte della classe operaia e le responsabilità che questa ripresa implica per la nostra organizzazione, in particolare di fronte allo sviluppo di una nuova generazione di elementi che si orientano verso una prospettiva politica rivoluzionaria. Evidentemente la barbarie di guerra continua a dilagare in un mondo capitalista confrontato ad una crisi economica insormontabile e dei rapporti specifici sui conflitti imperialisti e sulla crisi sono stati presentati, discussi ed adottati al congresso. L’essenziale di questi rapporti è ripreso dalla risoluzione sulla situazione internazionale (pubblicata sulla Rivista Internazionale n°27).
Come viene ricordato in questa risoluzione, la CCI analizza il periodo storico attuale come la fase ultima della decadenza del capitalismo, la fase di decomposizione della società borghese, quella del suo imputridimento. Come abbiamo messo in evidenza numerose volte, questa decomposizione deriva dal fatto che, di fronte al crollo storico irrimediabile dell’economia capitalista, nessuna delle due classi antagoniste della società, la borghesia ed il proletariato, sono pervenute ad imporre la propria risposta: la guerra mondiale per la prima, la rivoluzione comunista per la seconda. Queste condizioni storiche determinano le caratteristiche essenziali della vita della società borghese attuale. In particolare, è nel quadro di questa analisi della decomposizione che si può pienamente comprendere la permanenza e l’aggravamento di tutta una serie di calamità che colpiscono oggi l’umanità: in primo luogo la guerra, ma anche fenomeni come la distruzione ineluttabile dell’ambiente o le terribili conseguenze delle “catastrofe naturali”, come lo tsunami dell’inverno scorso. Queste condizioni storiche legate alla decomposizione pesano anche sul proletariato e le organizzazioni rivoluzionarie e sono una della maggiori cause delle difficoltà incontrate sia dalla classe che dalla nostra organizzazione dall’inizio degli anni 90, come l’abbiamo spesso evidenziato nei nostri precedenti articoli (Vedi Revue Internazionale n° 62).
La ripresa delle lotte della classe
Il 15° congresso aveva constatato che uno degli elementi che aveva permesso alla CCI di superare la sua crisi del 2001 era l’aveva capito che essa era una manifestazione degli effetti deleteri della decomposizione. Allo stesso tempo il congresso constatava le difficoltà che continuava ad incontrare la classe operaia nelle sue lotte contro gli attacchi capitalisti, in particolare la sua mancanza di fiducia in se stessa.
Tuttavia dopo questo congresso, tenutosi all’inizio della primavera del 2003, e come sottolineato dalla riunione plenaria dell’organo centrale della CCI di questo stesso anno: “Le ampie mobilitazioni della primavera 2003 in Francia ed in Austria rappresentano una svolta nella lotta di classe dopo il 1989. Esse sono un primo passo significativo verso il recupero della combattività operaia dopo il periodo più lungo di riflusso dal 1968” (Revue Internazionale n°119).
Questa svolta nella lotta di classe non fu una sorpresa per la CCI che ne aveva annunciato la prospettiva al suo 15° congresso. La risoluzione sulla situazione internazionale adottata dal 16° congresso precisa a questo proposito: “Le lotte del 2003-2005 hanno presentato le seguenti caratteristiche:
-hanno implicato dei settori significativi della classe operaia in paesi centrali del capitalismo mondiale (come la Francia nel 2003);
-hanno manifestato una preoccupazione per questioni più esplicitamente politiche;
-hanno visto riapparire la Germania come punto centrale per le lotte operaie per la prima volta dopo l’ondata rivoluzionaria;
-la questione della solidarietà di classe è stata posta in maniera più ampia e più esplicita che in qualsiasi momento delle lotte degli anni 80, in particolare negli ultimi movimenti in Germania”.
La risoluzione adottata al 16° congresso constata che le differenti manifestazioni della svolta nel rapporto di forza tra le classi “sono state accompagnate dal sorgere di una nuova generazione di elementi alla ricerca di chiarezza politica. Questa nuova generazione si è manifestata sia nel nuovo flusso di elementi apertamente politicizzati sia nei nuovi strati operai che entrano in lotta per la prima volta. Come si è reso evidente in alcune importanti manifestazioni, sta per forgiarsi il solco per l’unità tra la nuova generazione e la “generazione del 68” –sia la minoranza politica che ha ricostruito il movimento comunista negli anni 60 e 70 che gli strati più larghi di operai che hanno vissuto la ricca esperienza delle lotte di classe tra il 68 ed l’89”.
La responsabilità della CCI di fronte all’emergere di nuove forze rivoluzionarie
L’altra preoccupazione essenziale del 16° congresso è stata quella di porre la nostra organizzazione all’altezza della sua responsabilità di fronte all’emergere di questi nuovi elementi che si orientano verso le posizioni di classe della Sinistra comunista. La risoluzione di attività adottata dal congresso manifesta appunto questa preoccupazione:
“La lotta per guadagnare la nuova generazione alle posizioni di classe ed alla militanza, è oggi al centro di ogni nostra attività. Ciò non si applica solo al nostro intervento, ma all’insieme della nostra riflessione politica, delle nostre discussioni e delle nostre preoccupazioni militanti (…)”.
Questo lavoro di raggruppamento delle nuove forze militanti passa particolarmente attraverso la loro difesa da tutti i tentativi di distruggerle o di condurle ad un enpasse. E questa difesa può essere portata a buon fine solo se la CCI sa lei stessa difendersi contro gli attacchi di cui è oggetto. Il precedente congresso aveva già constatato che la nostra organizzazione era stata capace di respingere gli attacchi iniqui della FICCI (2), impedendole di raggiungere il suo scopo dichiarato: distruggere la CCI, o come minimo il maggior numero possibile delle sue sezioni. Nell’ottobre 2004 la FICCI ha condotto una nuova offensiva contro la nostra organizzazione appoggiandosi sulle calunniose prese di posizione di un “Circulo de Comunistas Internacionalistas” argentino che si presentava come il continuatore del “Nucleo Comunista Internacional” (NCI) con il quale la CCI aveva sviluppato delle discussioni e dei contatti dalla fine del 2003. Purtroppo il BIPR ha dato il suo contributo a questa vergognosa manovra pubblicando in più lingue e mentendo per più mesi sul suo sito Internet una di queste dichiarazioni, tra le più menzognere e isteriche, contro la nostra organizzazione. Reagendo rapidamente con dei documenti pubblicati sul nostro sito Internet, abbiamo respinto questo attacco riducendo al silenzio i nostri aggressori. Il “Circulo” è stato smascherato per quello che era: una finzione inventata dal cittadino B., un avventuriero, in piccolo, dell’emisfero australe. La lotta contro questa offensiva della “triplice alleanza”, dell’avventuriero (B), del parassitismo (FICCI) e dell’opportunismo (BIPR) è stata anche una lotta per la difesa del NCI, in quanto sforzo di un piccolo nucleo di compagni per sviluppare una comprensione delle posizioni della Sinistra comunista in legame con la CCI (3).
(…) Di fronte a questo lavoro in direzione degli elementi in ricerca, la CCI ha da mettere in opera una determinata politica di intervento. Ma deve anche apportare tutta la sua attenzione a sviluppare in profondità le argomentazioni portate nelle discussioni ed alla questione del comportamento politico. D’altro canto, l’emergere delle nuove forze comuniste deve essere un potente stimolo per la riflessione e le energie non solamente dei militanti, ma anche degli elementi che avevano subito il peso del riflusso della classe operaia a partire dal 1989: “Gli effetti degli sviluppi storici contemporanei vanno a ripoliticizzare una parte della generazione del 1968, originariamente deviata ed imprigionata dal gauchisme. Hanno già ricominciato a riattivare vecchi militanti, non solo della CCI ma anche di altre organizzazioni proletarie. Ogni manifestazione di questo fermento rappresenta un potenziale prezioso di riappropriazione dell’identità di classe, dell’esperienza di lotta e della prospettiva storica del proletariato. Ma questi differenti potenziali non possono realizzarsi se non riuniti attraverso un’organizzazione che rappresenti la coscienza storica, il metodo marxista e l’approccio organizzativo che, oggi, solo la CCI può offrire. Ciò rende lo sviluppo costante ed a lungo termine delle capacità teoriche, la comprensione militante e la centralizzazione dell’organizzazione fattori cruciali per la prospettiva storica”.
Il congresso ha sottolineato tutta l’importanza del lavoro teorico nella situazione presente: “L’organizzazione non può soddisfare le sue responsabilità né verso le minoranze rivoluzionarie, è verso la classe come un tutto, che a condizione di essere capace di comprendere il processo che prepara il futuro partito nel contesto più ampio dell’evoluzione generale della lotta di classe. La capacità della CCI ad analizzare i cambiamenti nel rapporto di forza tra le classi e ad intervenire nelle lotte e verso il processo il riflessione politico nella classe, ha un’importanza a lungo termine, per l’evoluzione della lotta di classe. Ma già oggi, a breve termine, essa è cruciale per la conquista del nostro ruolo dirigente verso la nuova generazione politicizzata. L’organizzazione deve continuare questa riflessione teorica, traendo il massimo di lezioni concrete dal suo intervento, superando gli schemi del passato.”
Infine, il congresso ha apportato un’attenzione tutta particolare alla questione sulla quale si conclude la piattaforma della nostra organizzazione: “I rapporti che si stabiliscono tra le diverse parti ed i diversi militanti dell’organizzazione portano necessariamente le stigmate della società capitalista e non possono quindi costituire un’isola di rapporti comunisti in seno a questa. Ciò nondimeno, essi non possono essere in contraddizione flagrante con lo scopo perseguito dai rivoluzionari e si poggiano necessariamente su di una solidarietà ed una fiducia reciproca che sono una delle impronte dell’appartenenza dell’organizzazione alla classe portatrice del comunismo.”
E una tale esigenza, come tutte le altre alle quali deve far fronte un’organizzazione marxista, passa attraverso una riflessione teorica:
“Nella misura in cui le questioni di organizzazione e di comportamento sono oggi al centro dei dibattiti all’interno ed all’esterno dell’organizzazione, un asse centrale del nostro lavoro teorico nei due anni a venire sarà la discussione dei differenti testi di orientamento (che abbordano questi soggetti). Queste questioni ci portano alle radici delle recenti crisi organizzative, toccando le basi di fondo del nostro impegno militante, e sono delle questioni centrali della rivoluzione nell’epoca della decomposizione. Esso sono dunque chiamate a giocare un ruolo centrale nel rinnovamento della convinzione militante e nel ritorno al gusto per la teoria e per il metodo marxista che tratta ogni questione con un approccio storico e teorico.”
Delle prospettive entusiasmanti
I congressi della CCI sono sempre dei momenti di entusiasmo per l’insieme dei suoi membri. Come potrebbe essere altrimenti quando militanti venuti da tre continenti e da tredici paesi, animati dalle stesse convinzioni, si ritrovano per discutere insieme delle prospettive del movimento storico del proletariato. Ma il 16° congresso è stato ancora più entusiasmante della maggior parte dei precedenti.
Per circa la metà dei suoi trenta anni di esistenza, la CCI ha vissuto quando il proletariato conosceva un riflusso della sua coscienza, un’asfissia delle sue lotte ed un esaurimento di nuove forze militanti. Per più di un decennio una delle parole d’ordine centrali della nostra organizzazione è stata “resistere”. E’ stata una prova difficile ed un certo numero di “vecchi” militanti non hanno resistito (in particolare quelli che hanno costituito la FICCI e quelli che hanno abbandonato la lotta nei momenti di crisi conosciuti nel corso di questo periodo).
Oggi, quando la prospettiva si schiarisce, possiamo dire che la CCI, come un tutto, ha superato questa prova. E ne esce rinforzata. Un rafforzamento politico, come possono giudicare i lettori della nostra stampa (dai quali riceviamo un munsero crescente di lettere d’incoraggiamento). Ma anche un rafforzamento numerico poiché, al momento, le nuove adesioni sono più numerose che le defezioni che abbiamo vissuto con la crisi del 2001. E ciò che è rimarchevole è che un numero significativo di queste adesioni concerne dei giovani, che non hanno dovuto subire, e quindi superare, le deformazioni provocate dalla militanza in organizzazioni gauchiste. Elementi giovani il cui dinamismo ed il cui entusiasmo rimpiazzano centuplicate le “forze militanti” affaticate ed usurate che ci hanno lasciato.
Quello presente al 16° congresso è stato un entusiasmo lucido. Non aveva niente a che vedere con l’euforia illusoria che aveva pervaso altri congressi della nostra organizzazione (euforia il più delle volte più particolarmente propria di quelli che poi ci hanno lasciato). La CCI dopo trenta anni di esistenza ha imparato (4), qualche volta dolorosamente, che il cammino che porta alla rivoluzione non è un’autostrada, ma un percorso sinuoso, pieno di insidie, disseminato di trappole che la classe dominante tende al suo mortale nemico, la classe operaia, per distoglierlo dal suo fine storico. I membri della nostra organizzazione oggi sanno bene che militare non è una cosa facile; che non è necessaria solo una solida convinzione, ma molta abnegazione, tenacia e pazienza.
La coscienza della difficoltà del nostro compito non è un fattore di scoraggiamento. Al contrario, è un fattore supplementare del nostro entusiasmo.
Attualmente il numero di partecipanti alle nostre riunioni pubbliche vede un aumento sensibile, mentre sempre più corrispondenza ci arriva dalla Grecia, dalla Russia, dalla Moldavia, dal Brasile, dall’Argentina, dall’Algeria per porre direttamente la candidatura alla nostra organizzazione, per ingaggiare delle discussioni o semplicemente per chiedere delle pubblicazioni, ma sempre con una prospettiva militante. Tutti questi elementi ci permettono di sperare in uno sviluppo della presenza delle posizioni comuniste nei paesi dove la CCI non ha ancora una sezione, di vedere la creazione di nuove sezioni in questi paesi. Noi salutiamo questi compagni che si orientano verso le posizioni comuniste e verso la nostra organizzazione e diciamo loro: “Avete fatto la scelta giusta, la sola possibile se avete la prospettiva di integrarvi nella lotta per la rivoluzione proletaria. Ma questa non è la scelta della facilità: non conoscerete successi rapidi, ci vorrà della pazienza e della tenacia e bisognerà non scoraggiarsi quando i risultati ottenuti non saranno all’altezza delle vostre speranze. Ma non sarete soli: i militanti attuali della CCI saranno al vostro fianco e sono coscienti della responsabilità che rappresenta per loro il vostro cammino. La loro volontà, che si è espressa al 16° congresso, è di essere all’altezza di questa responsabilità.”
CCI
1. un resoconto più esaustivo dei lavori di questo congresso è pubblicato nella Revue Internazionale n°122.
2. Pretesa “Frazione Interna della CCI”, composta da alcuni militanti di lunga data della nostra organizzazione che hanno iniziato a comportarsi come degli isterici fanatici alla ricerca di capri espiatori, come dei mascalzoni ed alla fine come delle spie.
3. Vedi l’articolo “Il Nucleo Comunista Internacional: uno sforzo di presa di coscienza del proletariato in Argentina”, Revue Internazionale n°120.
4. O piuttosto riacquisito, perché questo è un insegnamento di cui erano ben coscienti le organizzazioni comuniste del passato, ed in particolare la Frazione italiana della Sinistra comunista a cui si richiama la CCI.
C’è voluto l’autorevole intervento di Ciampi per cercare di richiamare l’apparato politico della borghesia italiana ad una maggiore serietà e, soprattutto, a un maggiore impegno per fare fronte a una situazione economica che non fa che peggiorare. Ed in effetti questa estate è successo di tutto. A partire dalle intercettazioni telefoniche che hanno mostrato una strana confidenza tra il governatore della Banca d’Italia Fazio e il banchiere Fiorani, aspirante scalatore della Banca Antonveneta, e cioè tra il controllore e il controllato, che ha minato in maniera pesante la credibilità di Fazio, e quindi della Banca Centrale, che è un problema non solo di immagine, ma pesantemente concreto: una Banca Centrale non credibile implica una sfiducia dei mercati verso l’economia di quel paese con il conseguente rischio di fuga di capitali, paura di investire, e così via. Il che per un paese che è già in recessione è un rischio mortale.
Ed il governo, che sta lì, come diceva Marx, per curare gli affari della borghesia, si mostra a sua volta sempre meno all’altezza della situazione, al punto che dall’opposizione arrivano richieste esplicite di dimissioni e nuove elezioni e le cosiddette “forze sociali”, sindacati e Confindustria, esprimono anche esse senza riserve la loro insoddisfazione per l’insufficienza del governo. Ciononostante la farsa continua e ancora di recente abbiamo dovuto assistere a uno scenario in cui il governatore Fazio, scoperto con le mani nella marmellata, sfiduciato da destra e da sinistra, iscritto nel registro degli indagati del tribunale di Roma, ha continuato imperterrito a rimanere al suo posto forte sia del fatto che legislazione italiana, per preservare l’autonomia della Banca d’Italia, non aveva previsto la possibilità di una sua rimozione da parte del potere politico, sia della sostanziale omertà di Berlusconi e di ampi settori della destra, tra cui la Lega. L’incapacità a far dimettere Fazio, le dimissioni del ministro dell’economia Siniscalco alla vigilia della presentazione della legge finanziaria, che dovrebbe indicare la cura per la malattia mortale da cui è afflitta l’economia borghese, il ritorno del già contestato Tremonti sullo stesso ministero dell’economia e i continui litigi tra i partiti della maggioranza, completano effettivamente un quadro che fa preoccupare la borghesia italiana, per cui Ciampi, che per il ruolo che occupa riesce ad avere una visione meno particolaristica e partigiana, è dovuto intervenire a più riprese.
Come spiegare questa situazione? Alla stessa maniera con cui si spiega la situazione del capitalismo mondiale, perché se in Italia le cose assumono una dimensione estrema e paradossale, è l’insieme del capitalismo mondiale che è afflitto da una malattia incurabile, che è la sua decadenza, arrivata ormai alla fase della decomposizione.
E’ la decadenza storica del capitalismo come sistema sociale che rende impossibile il superamento della crisi economica. Questa tende a diventare permanente, solo apparentemente superata nelle fasi di ricostruzione che seguono alle guerre generalizzate - che sono l’unico sbocco che il capitale sa trovare a questa situazione di crisi economica - per poi tornare puntuale, perché non c’è una soluzione alla decadenza del capitalismo.
Oggi che la guerra generalizzata non è possibile perché il proletariato non è stato sconfitto e piegato alle esigenze del capitale, la crisi devasta lo stesso il pianeta e la vita delle persone: con il deterioramento delle condizioni di vita e di lavoro, con l’inquinamento che è alla base del carattere catastrofico di fenomeni estremi della natura, con le guerre localizzate che le varie borghesie scatenano comunque per contendersi il controllo delle zone strategiche.
In questa situazione di stallo storico, in cui la borghesia non può indirizzare la società verso la sua “soluzione” alla crisi, e cioè la guerra generalizzata, ma allo stesso tempo il proletariato non riesce a imboccare la strada che può portare all’unica alternativa che la storia offre all’umanità, cioè la rivoluzione proletaria, la società si deteriora giorno dopo giorno, la crisi economica rovina sempre più le condizioni di vita, la mancanza di una prospettiva storica evidente favorisce i comportamenti individualisti, e questo innanzitutto nella classe borghese, una classe di individualisti in competizione continua. Questa è la situazione che abbiamo chiamato di decomposizione, in cui non solo la vita sociale imputridisce sempre più (microcriminalità, droga, perdita di valori, ecc.), ma la classe dominante scatena tutti le sue peggiori caratteristiche: il ciascuno per se, l’egoismo, l’irresponsabilità verso l’interesse collettivo, ecc.
Questo quadro, che vale, dove più, dove meno, per l’intero mondo capitalista (1), è alla base dei comportamenti, altrimenti incomprensibili, della classe politica italiana, di destra o sinistra che sia. Comportamenti che non fanno che aggravare la situazione, perché se è vero che il sistema capitalista è un malato incurabile, il fatto che i medici che dovrebbero occuparsene non sanno cosa fare e pensano solo a litigare non può avere come risultato altro che l’aggravamento della situazione.
Sarebbe però illusorio pensare che la borghesia riconosca il fallimento del suo sistema e si faccia da parte, anzi, essa non fa che continuare a mentire e a rilanciare le proprie mistificazioni.
E’ questo che spiega le grandi campagne sulle elezioni che da mesi attraversano tutta l’Europa: dalla campagna sulla costituzione europea in Francia, alle elezioni politiche in Germania, alla campagna elettorale in Italia, che dura ormai in maniera ininterrotta dalle elezioni regionali in poi (nonostante che teoricamente le prossime politiche dovrebbero svolgersi tra più di sei mesi). Con queste campagne la classe borghese vuole da un lato cercare di convincere i proletari che con le elezioni possono cambiare qualcosa, dall’altro cercano di impedire loro di riflettere sul cammino da intraprendere per difendere i propri interessi di classe, da quelli immediati a quelli storici.
E’ questo che spiega anche le grandi polemiche sulle misure economiche del governo Berlusconi: criticando la finanziaria per la sua inefficacia, la sinistra vuole far credere che con lei al governo le scelte potrebbero essere diverse, meno antipopolari e più efficaci per rilanciare l’economia.
Ed invece ai proletari deve essere chiaro che la borghesia non ha niente da offrire, che non c’è via d’uscita alla crisi, che ogni frazione borghese non può che continuare a chiedere sacrifici. Non è forse questo che è successo prima con la scusa del risanamento del bilancio statale per rispettare i parametri di Maastricht (raggiunti alla fine degli anni novanta e già di nuovo superati, e non solo in Italia, ma anche in Francia, Germania, Grecia, ecc.), o per stare nell’euro, come ci dicevano i governi di centrosinistra, e poi a causa delle politiche neoliberiste di Berlusconi (politiche che avrebbero la giustificazione che il mercato, lasciato libero, risolve da solo i problemi dell’economia).
La realtà è che nonostante i sacrifici fatti dai proletari la situazione non ha fatto che peggiorare, ed oggi Berlusconi vuole tappare le falle con altri tagli ai servizi pubblici. Ma non bisogna illudersi che la sinistra farebbe qualcosa di diverso, anzi.
Perciò l’unica strada è quella della difesa intransigente delle proprie condizioni di vita, contro le politiche della borghesia, la sua crisi e la sua decomposizione.
Helios ,30 settembre 2005
1. Basta per tutti l’esempio dei comportamenti della maggiore potenza mondiale, gli USA, la cui classe politica mente spudoratamente per giustificare le proprie avventure guerriere, non mostra nessun interesse per i problemi ambientali (gli USA non rispettano nemmeno il protocollo di Kyoto sulla riduzione delle emissioni inquinanti), non protegge nemmeno più la propria popolazione distogliendo risorse umane e materiali dalla protezione della popolazione alle esigenze della guerra.
Il terrorismo è un’arma di guerra della borghesia
Per tre settimane in luglio il mondo ha tremato di fronte ad un’ondata di attentati omicidi di una frequenza senza precedenti, da Londra a Sharm el-Sheikh e in Turchia. A questi si aggiungono le bombe che esplodono quotidianamente in Irak, in Afghanistan, nel Libano o nel Bangladesh. Gli Stai ed i loro governi vogliono farci credere che loro combattono il terrorismo e che sono capaci di proteggere le popolazioni dagli attentati. Quale menzogna!
Il terrorismo è un’espressione della barbarie di guerra del capitalismo
Gli Stati non combattono il terrorismo. Sono loro che lo producono e lo fanno prosperare. E’ sempre più chiaro che sono tutti gli Stati, grandi o piccoli, che finanziano, infiltrano, manipolano, utilizzano le frazioni, i gruppi e le nebulose terroriste in tutto il mondo per difendere o far valere i loro sordidi interessi. Il terrorismo è diventato oggi una delle armi più usate nella guerra aperta o larvata che si fanno le borghesie del mondo intero. Ricordiamo che gli stessi Bin Laden ed Al Quaida si sono formati alla scuola americana della CIA negli anni 1980 per organizzare la resistenza all’occupazione delle truppe russe in Afghanistan. Molti “rispettabili” dirigenti politici borghesi di oggi, da Begin ad Arafat passando per Gerry Adams, sono vecchi capi terroristi.
Questo fenomeno è un puro prodotto del capitalismo in putrefazione, una delle manifestazioni più parlanti della barbarie della società capitalista. Lo Stato borghese approfitta dei sentimenti di insicurezza permanente, di paura e di impotenza suscitati da tali atti nelle popolazioni, per presentarsi come il solo riparo possibile contro la montata del terrorismo. Niente di più falso!
La classe operaia non può che sentirsi direttamente interpellata, indignata e disgustata da questi attentati perché spesso, come a New York nel 2001, a Madrid nel 2004 o a Londra quest’anno, sono i proletari che vanno al lavoro ad essere le principali vittime di questi atti barbari. Ma la solidarietà verso le vittime di questi attentati da parte dei loro fratelli di classe di fronte al terrorismo, non passa affatto attraverso l’unità nazionale con la borghesia ma, al contrario, attraverso il rifiuto categorico di questa santa alleanza.
Lo Stato ci chiede di serrare i ranghi intorno alla sua difesa ed alla difesa della democrazia in un unico slancio di unità nazionale. Ma quale fiducia possiamo dargli per proteggere le popolazioni dal terrorismo quando sono i governi, in quanto fautori di guerra, ad essere responsabili del dilagare di questo orrore. O che sono completamente incapaci di fermare. Più la borghesia dichiara a gran voce guerra al terrorismo, più si moltiplicano gli attentati, più le grandi potenze si rotolano nel sangue e nel fango e fanno precipitare le popolazioni in un ingranaggio senza limiti di violenza, di guerra e di rappresaglia. Le uniche misure che può adottare la borghesia nel nome dell’alti-terrorismo sono i diversi piani di “prevenzione anti-terrorista” che servono a far accettare un brutale rafforzamento dell’apparato repressivo e soprattutto permettono la moltiplicazione di strumenti di controllo e di sorveglianza della popolazione.
A cosa servono le campagne anti-terrorismo della borghesia?
Le campagne anti-terrorismo attuali hanno permesso di giustificare un rafforzamento senza precedenti dell’apparato repressivo. La situazione in Gran Bretagna ne è una illustrazione. L’esempio più flagrante è stato l’assassinio di un giovane brasiliano nella metropolitana di Londra grazie all’autorizzazione data alla polizia di sparare a vista su ogni sospetto (vedi l’articolo “Dirigenti del mondo”, “terroristi internazionale”: sono tutti responsabili del massacro dei lavoratori, sul nostro sito Internet). La borghesia inglese ha subito capito che la classe operaia non era pronta ad allinearsi dietro gli interessi dello Stato borghese in nome dell’anti-terrorismo. Si è quindi ben guardata dal chiamare a delle mega-manifestazioni, come quelle organizzate nell’aprile 2004 nelle strade di Madrid e di tutta la Spagna dopo gli attentati alla stazione d’Atocha. E’ del resto probabile che essa stessa abbia organizzato una seconda serie di attentati “falliti”, che avevano tutto di un simulacro, proprio allo scopo di rilanciare il messaggio della mobilitazione nazionale e per far passare meglio agli occhi dei proletari i metodi di divisione e di sorveglianza polizieschi.
Nonostante ciò la classe operaia ha dimostrato che non si lasciava intimidire. La lotta di un migliaio di salariati all’aeroporto di Heathrow in Gran Bretagna di solidarietà con i 670 loro fratelli di classe brutalmente attaccati e minacciati di licenziamento, ne è una prova irrefutabile. A dispetto della pressione poliziesca, questa lotta ha chiaramente dimostrato che quello che è in gioco per il proletariato non è il mantenimento dell’ordine borghese e del suo terrore, ma la difesa dei propri interessi di classe di fronte agli attacchi che subisce. Ed è giustamente lo sviluppo delle sue lotte che è all’ordine del giorno. Questa ripresa della lotta di classe proprio quando viene messo in opera un potenziamento degli strumenti di polizia mostra proprio qual è il vero obiettivo di tutto questo dispiegamento poliziesco. La principale preoccupazione della borghesia non è affatto la caccia ai terroristi. Al contrario essa sa che con il peggiorare della crisi economica mondiale, dovrà imporre degli attacchi sempre più feroci al proletariato e far fronte ad uno sviluppo a livello internazionale delle lotte di resistenza della classe operaia.
La lotta di classe è il solo modo per combattere il terrore capitalista
Non esistono soluzioni-miracolo, immediate, che possano impedire da un giorno all’altro gli attentati terroristici, o che possano impedire alla guerra imperialista di scatenarsi sull’intero pianeta. Una sola classe ha la possibilità di opporsi al potenziamento del terrorismo, della guerra e della barbarie, il proletariato, con lo sviluppo delle sue lotte di resistenza agli attacchi della borghesia, sul proprio terreno di classe. La vera posta in gioco che minaccia l’ordine borghese, è che attraverso lo sviluppo della lotta, la classe operaia è portata a prendere coscienza del legame che esiste tra gli attacchi che subisce e la guerra ed il terrorismo, il che sfocia nella rimessa in causa del sistema capitalista nel suo insieme e sulla necessità della sua distruzione.
Ed è solo con il rovesciamento del sistema capitalista e dei suoi rapporti di sfruttamento che la classe operaia può riuscirci. I metodi ed i mezzi di azione del proletariato che di basano sulla coscienza e la solidarietà di classe, sul carattere collettivo, unitario, internazionalista delle sue lotte sono radicalmente opposti ed antitetici a quelli del terrorismo.
La classe operaia in Gran Bretagna ha dimostrato la capacità dei proletari di affermare la propria risposta ai ricatti della borghesia attraverso la loro solidarietà su di un terreno di classe di fronte ai licenziamenti ed agli attacchi del capitalismo. I proletari di tutti i paesi devono ispirarsi a questo esempio. Portando il loro scontro di classe su un terreno di resistenza e di solidarietà di fronte agli attacchi economici, potranno opporre una alternativa ed una prospettiva all’empasse ed alla barbarie di guerra del mondo capitalista che minaccia la sopravvivenza dell’intera umanità.
NO ALL’UNITÀ NAZIONALE, SI ALLA SOLIDARIETÀ DI CLASSE!
Win
L’anniversario della Polonia 80 è stato l’occasione per la borghesia per rinverdire il sindacato come unico strumento di difesa per i lavoratori. Contro questa enorme mistificazione la classe deve riappropriarsi di questo importante della sua lotta traendone tutte le lezioni sulla forza di quel movimento e sulle cause della sua sconfitta. Pertanto in questa prima parte dell’articolo ricorderemo brevemente i momenti e gli aspetti più significativi dello sciopero di massa della Polonia 80 e nella seconda (sul prossimo numero del giornale) vedremo come la mistificazione sulla possibilità di un sindacato “libero” e “combattivo” è stata la migliore arma per sconfiggerlo dall’interno.
Venticinque anni fa, durante l'estate 1980, la classe operaia in Polonia teneva il mondo col fiato sospeso. Un gigantesco movimento di sciopero si estendeva nel paese: parecchie centinaia di migliaia di operai si mettevano in sciopero selvaggio in differenti città, facendo tremare la classe dominante in Polonia e quella degli altri paesi.
Che cosa è successo?
In seguito all'annuncio dell'aumento dei prezzi della carne, gli operai reagiscono in numerose fabbriche con scioperi spontanei. Il primo luglio, gli operai di Tczew vicino a Danzica ed ad Ursus nella periferia di Varsavia si mettono in sciopero. Ad Ursus si tengono delle assemblee generali, viene eletto un comitato di sciopero e vengono avanzate delle rivendicazioni comuni. Gli scioperi continuano ad estendersi nei i giorni seguenti: Varsavia, Lodz, Danzica, ecc. Il governo tenta di impedire un’ulteriore estensione del movimento facendo delle rapide concessioni come degli aumenti salariali. A metà luglio gli operai di Lublino, un importante incrocio ferroviario, si mettono in sciopero. Lublino è localizzato sulla linea ferroviaria che collega la Russia alla Germania dell'Est ed in quegli anni era una linea vitale per il rifornimento delle truppe russe in Germania dell'Est. Le rivendicazioni degli operai sono queste: nessuna repressione contro gli operai in sciopero, ritiro della polizia fuori dalle fabbriche, aumento degli stipendi ed elezioni libere di sindacati.
Ciò che ha determinato la forza degli operai…
Gli operai avevano tratto le lezioni dalle lotte del 1970 e del 1976 (1). Vedevano chiaramente che l'apparato sindacale ufficiale era dalla parte dello Stato stalinista e del governo ogni volta che si avanzavano delle rivendicazioni. Perciò prendono direttamente l'iniziativa negli scioperi di massa del 1980. Senza aspettare nessuna istruzione dall'alto, si misero in marcia insieme, facendo assemblee per decidere in prima persona del luogo e del momento delle loro lotte, in particolare a Danzica, Gdynia e Sopot, la cintura industriale del mare Baltico. I soli cantieri navali Lenin di Danzica contavano 20.000 operai.
Nelle assemblee di massa venivano messe avanti rivendicazioni comuni. Fu formato un comitato di sciopero. All’inizio le rivendicazioni economiche erano al primo posto.
Gli operai erano determinati. Non volevano una ripetizione dello schiacciamento nel sangue della lotta del 1970 e 1976. In un centro industriale come quello di Danzica-Gdynia-Sopot, era evidente che tutti gli operai dovevano unirsi per fare in modo che il rapporto di forza fosse in loro favore. Fu costituito un comitato di sciopero inter-fabbriche (MKS) formato da 400 membri, due delegati per impresa. Durante la seconda metà di agosto si riunirono tra gli 800 ai 1000 delegati. Formando un comitato di sciopero inter-fabbriche fu superata l'abituale dispersione delle forze e gli operai potevano fare fronte al capitale in modo unito. Ogni giorno assemblee generali si tenevano ai cantieri navali Lenin. Furono installati degli altoparlanti per permettere a tutti di seguire le discussioni dei comitati di sciopero ed i negoziati coi rappresentanti del governo. Poco dopo, vennero messi dei microfoni verso l'esterno della sala di riunione dell’MKS, per permettere agli operai presenti nelle assemblee generali di intervenire direttamente nelle discussioni di questo. La sera i delegati – per lo più provvisti di cassette con la registrazione dei dibattiti - ritornavano sul loro posto di lavoro e presentavano le discussioni e la situazione nelle assemblee generali della fabbrica, rendendo il loro mandato davanti a queste.
Grazie a questi strumenti di lotta il maggior numero possibile di operai poteva partecipare alla lotta. I delegati dovevano rendere il loro mandato, erano revocabili in ogni momento, e le assemblee generali erano sempre sovrane. Tutte queste pratiche erano in opposizione totale alla pratica sindacale.
Mentre gli operai di Danzica-Gdynia-Sopot si muovevano uniti, il movimento si estendeva ad altre città. Per sabotare la comunicazione tra gli operai, il 16 agosto il governo tagliò le linee telefoniche. Immediatamente, gli operai minacciarono di estendere ancora più il loro movimento se il governo non le ripristinava. E questo fece retromarcia. L'assemblea generale decise di creare una milizia operaia. Dato che nel movimento il consumo di alcool era largamente diffuso, fu deciso collettivamente di proibirlo. Gli operai sapevano che dovevano essere lucidi nello scontro con il governo. Una delegazione governativa incontrò gli operai per negoziare. E questa si svolse, non a porte chiuse, ma davanti ad un'intera assemblea generale. Gli operai pretesero una nuova composizione della delegazione governativa perché questa era costituita da rappresentanti di un rango troppo basso. Ancora una volta il governo fece retromarcia. Quando il governo minacciò delle repressioni a Danzica i ferrovieri di Lublin dichiararono: "Se gli operai di Danzica sono attaccati fisicamente e se uno solo di essi sarà toccato, paralizzeremo la linea ferroviaria strategicamente più importante tra la Russia e la Germania dell'Est". Il governo capì cosa era in gioco: la sua intera economia di guerra. Le sue truppe sarebbero state colpite nel punto più debole e, al tempo della Guerra fredda, ciò sarebbe stato fatale.
Gli operai erano mobilitati in quasi tutte le principali città. Più di mezzo milione tra loro comprendeva che costituivano la sola forza decisiva nel paese capace di opporsi al governo. Capivano ciò che dava loro questa forza:
- l'estensione veloce del movimento al posto del suo sfinimento negli scontri violenti come nel 1970 e 1976;
- la loro auto-organizzazione, cioè la capacità di prendere l'iniziativa da soli invece di contare sui sindacati;
- la tenuta di assemblee generali in cui unire le forze, esercitare un controllo sul movimento, permettere la massima partecipazione possibile e negoziare col governo davanti a tutti.
In breve, l'estensione del movimento fu la migliore arma della solidarietà; gli operai non si accontentarono di fare delle dichiarazioni, ma presero l'iniziativa delle lotte, il che rese possibile lo sviluppo di un rapporto di forze differente. Finché gli operai lottavano in modo tanto massiccio ed unito, il governo non poteva esercitare nessuna repressione. Durante gli scioperi dell'estate, quando gli operai affrontavano il governo in modo unito, non un solo lavoratore fu ucciso o colpito. La borghesia polacca aveva capito che non poteva permettersi un tale errore ma che avrebbe dovuto indebolire la classe operaia dell'interno.
Inoltre gli operai di Danzica, ai quali il governo aveva accordato delle concessioni, esigevano che queste venissero garantite anche agli operai del resto del paese. Volevano opporsi ad ogni divisione e manifestavano così la loro solidarietà agli altri operai.
La classe operaia diventò il punto di riferimento per tutta la popolazione. Insieme ad altri operai che andavano a Danzica per stabilire un contatto diretto con gli operai in sciopero, contadini e studenti si recavano alle porte della fabbrica per ricevere i bollettini di sciopero e altre notizie. Diventando il polo di riferimento, la classe operaia dimostrava di costituire una minaccia per la classe dominante.
Welt Revolution n°101, organo della CCI in Germania, agosto-settembre 2000
1. Durante l'inverno 1970-71, gli operai dei cantieri navali del Baltico entrarono in sciopero contro l’aumento di prezzo delle derrate di prima necessità. In un primo tempo il regime stalinista reagì con una repressione feroce delle manifestazioni facendo parecchie centinaia di morti, in particolare a Danzica. Ma gli scioperi non cessarono. Alla fine il capo del partito, Gomulka, fu destituito e sostituito da un personaggio più "simpatico", Gierek. Quest'ultimo dovette discutere per 8 ore con gli operai dei cantieri navali di Szczecin prima di convincerli a riprendere il lavoro. Naturalmente tradì subito le promesse che aveva fatto loro in quel momento. Così, nel 1976, nuovi brutali attacchi economici provocarono degli scioperi in parecchie città, particolarmente a Radom ed Ursus. La repressione fece parecchie decine di morti.
Nei primi due articoli dedicati al VI Congresso di Rifondazione Comunista abbiamo cercato di dimostrare che questo partito, contrariamente a quanto vorrebbe fare intendere il suo nome, è un partito della borghesia, cioè che difende gli interessi della borghesia contro quelli dei lavoratori. Gli argomenti che abbiamo portato sono le stesse citazioni prodotte dalle varie correnti contro quella maggioritaria di Bertinotti in preparazione del suddetto congresso. In questo ultimo articolo cercheremo di dimostrare, come abbiamo cercato di fare già a partire dal secondo articolo, che le stesse minoranze, pur contrapponendosi a Bertinotti, di fatto costituiscono solo una “versione di sinistra” della stessa mistificazione nella misura in cui quello che propongono non costituisce affatto una difesa del marxismo e dei lavoratori.
1. Un’altra Rifondazione è possibile
La quarta mozione, capeggiata da Gigi Malabarba e Salvatore Cannavò e con un consenso nel partito del 6,5%, vorrebbe presentarsi come una delle più radicali all’interno del PRC. Quello che vedremo è proprio il contrario, a partire dal fatto che questa componente stravolge completamente il concetto di classe operaia:
“La dinamica dei movimenti parla della ricostruzione del soggetto della trasformazione sociale. O meglio dei soggetti. Quello che storicamente abbiamo definito “movimento operaio”, oggi non esiste più nelle forme e nelle determinazioni che ha avuto nel corso dello scorso secolo. Lungi dall’essersi ridotta la centralità del lavoro (…) a essersi modificata è la composizione sociale dei soggetti subalterni. (…) Il soggetto della trasformazione del futuro non potrà che essere un soggetto plurale, differenziato, composito, ma anche profondamente unificato dalle politiche del suo avversario, il capitalismo, il cui raggio d’azione non riguarda più solo le merci ma anche il vivente, non più solo la produzione materiale ma anche quella immateriale. Questa scomposizione e ricomposizione determina oggi il ritmo di una lotta di classe molto più variegata e complessa – a volte irriconoscibile al tal punto da non essere più nominata.” (punto 2.5, mozione n. 4, pag. 26, sottolineatura nostra).
Come si vede si comincia proprio bene – si fa per dire, naturalmente - smantellando il ruolo centrale della classe operaia (il …“movimento operaio”, oggi non esiste più…) e mescolandola con altri soggetti sociali (…il soggetto della trasformazione del futuro non potrà che essere un soggetto plurale, differenziato, composito…).
I firmatari di questa mozione denunciano anch’essi il centro-sinistra come borghese, sono contro un accordo di governo che “rovinerebbe definitivamente RC perché si allontanerebbe dal movimento”. Ma quando si devono caratterizzare in positivo, loro stessi dicono di avere un vuoto di identità: “Per questo tornare al marxismo di Marx non è sufficiente, né possibile. Significherebbe tornare a una semplice ipotesi di lavoro, falsificata poi in ogni aspetto della sua concreta applicazione. In sostanza, dal punto di vista dell’identità, significa tornare al niente” punto 8.2, mozione n. 4, pag. 30.
Cosa è dunque per loro Rifondazione? “L’identità di Rifondazione comunista deriverà quindi dalla sua capacità di essere coerente con il pacifismo radicale (che è altra cosa dalla metafisica della nonviolenza), dalla forza della pretesa che tutte e tutti siano inclusi nel cono di luce dei diritti umani, dall’insistenza per una democrazia e un’uguaglianza non astratte. (…) L’antimilitarismo come rifiuto non solo della guerra, ma dell’ubbidienza stupida e cieca, dell’ideologia patriottarda, del clima da pogrom di cui diceva Rosa Luxemburg alla vigilia della prima guerra mondiale. Il femminismo radicale le cui aspirazioni furono tutte realizzate dalla Rivoluzione d’Ottobre e furono poi perse nel pantano dello stalinismo. Le rivoluzioni antiburocratiche dirette da comuniste e comunisti per l’autonomia nazionale e la democrazia socialista. La lotta contro il nazifascismo, carica delle nuvole nere di un movimento comunista stalinizzato ma che ha salvato l’umanità dalla barbarie.
Rivoluzioni e movimenti anticoloniali nella loro relazione virtuosa con la parte migliore della cosiddetta civiltà occidentale, che è poi assai meno occidentale di quel che si crede.
La laicità dello Stato e la difesa dell’eredità illuminista, nel suo significato migliore di ragione critica e non solo di ragione tecnica.
La difesa della natura contro un’industrializzazione incapace di porre a se stessa i limiti del bene comune e delle preoccupazioni per le generazioni future, presente nel marxismo di Marx e poi dimenticata.” (punto 8.2, mozione n. 4, pag. 30).
Se andiamo a considerare l’insieme dei punti caratterizzanti (sottolineati da noi nel testo) vediamo anzitutto che questi non sono i punti caratterizzanti il programma del proletariato, ma quelli della borghesia o al limite della piccola borghesia contestataria e impotente. Il pacifismo radicale è quello dietro il quale si sono nascoste, alla vigilia dell’ultima guerra del Golfo, delle potenze imperialiste del calibro della Francia e della Germania, pronte a profittare dell’occasione per crearsi un’aureola di perbenismo, quando sono notori le stragi compiute dall’esercito francese nell’Africa del nord ancora di recente e le risorgenti velleità interventiste della Germania. A proposito di diritti umani e di una democrazia e un’uguaglianza non astratte ricordiamo che già la borghesia francese, nella sua lotta contro l’assolutismo feudale, aveva proclamato la parola d’ordine di “libertà, eguaglianza, fraternità”, salvo naturalmente a rimangiarsi le promesse quando non tornano più i conti con la classe fruttata. Il femminismo, radicale o non che sia, è una tipica mistificazione piccolo-borghese che serve a mettere proletari uomini contro proletari donne piuttosto che riconoscerne la comune schiavitù sotto il regime capitalista. D’altra parte la lotta contro il nazifascismo è quella che ha combattuto nella seconda guerra mondiale il fronte anglo-americano contro l’asse Roma-Berlino. I movimenti anticoloniali sono stati quelli che hanno permesso fino ad una certa epoca, a delle borghesie locali sottomesse, di riscattarsi rispetto ad altre borghesie più potenti da cui dipendevano. La laicità dello Stato è una questione che si pone chi vuole riformare questo Stato, mentre i comunisti si pongono il problema di abolire lo Stato, confessionale o laico che sia. La difesa della natura, in quanto parola d’ordine a sé stante, è un hobby che si possono permettere anche imprenditori e capitalisti di buon animo, di quelli ad esempio che se la prendono con gli Americani che non ne vogliono sapere di accettare il protocollo di Kioto. Salvo poi scoprire che quand’anche si realizzassero i programmi più restrittivi del programma di Kioto, questi si rivelerebbero essere soltanto un misero palliativo rispetto allo squilibrio climatico esistente. Non c’è infatti alcuna possibilità di difendere la natura e l’ambiente senza fermare la logica distruttiva del capitalismo. E così via… Come si vede, mentre si prendono le distanze da un movimento operaio che … non esiste più, ci si caratterizza attraverso dei punti che non appartengono al proletariato, ma alla borghesia. Come volevasi dimostrare.
2. Rompere con Prodi, preparare l’alternativa operaia (Claudio Bellotti)
L’ultima mozione, che conta solo l’1,6 % di consensi, è di grande interesse non tanto per il suo contenuto proletario, quanto per il suo potenziale di mistificazione antioperaia. Occorre dire subito che questa quinta mozione ha anch’essa dietro un gruppo trotskista, il gruppo FalceMartello, che pratica in Rifondazione la notoria pratica entrista tipica del trotskismo, messa già in evidenza per l’altra componente trotskista che fa capo a Ferrando, quella della III mozione Per un progetto Comunista. Anzi va detto che le due componenti, entrambe trotskiste ed inizialmente assieme nella sinistra del PRC, oggi si fanno la guerra proprio perché in concorrenza tra di loro, come è costume di tutta la genia trotskista mondiale (1).
Questa componente è fortemente terzomondista, essendo legata in particolare ai movimenti popolari di sinistra sud-americani, è contro le alleanze di governo, contro la guerra. Afferma che il centro della lotta non sono i municipi, ma la lotta diretta delle masse per cambiare le loro condizioni di vita. Arriva anche a fare una blanda critica a Lula, presidente del Brasile, per aver illuso la gente. Critica lo stalinismo, ma rivendica la Rivoluzione d’ottobre. Ha una impostazione che si basa sulla centralità della classe operaia, afferma che “è errato parlare solo di crisi della “globalizzazione”, o del “neoliberismo”, ossia di una determinata politica economica. Si tratta di una crisi organica del sistema capitalista su scala mondiale, che va ben oltre la “naturale” alternanza di cicli di boom e recessione che da sempre caratterizza questo sistema economico”. Sostiene finanche che “per la prima volta da decenni nel nostro paese un’intera generazione vede di fronte a sé la prospettiva di un peggioramento netto nelle proprie prospettive di vita su tutti i terreni. Non si tratta solo dell’arretramento delle condizioni materiali (istruzione, lavoro, salari, casa, sanità, ecc.) ma anche della generale insicurezza, della precarietà, dei diritti calpestati e della visione di un mondo trascinato verso la barbarie di un sistema sociale ormai in decadenza” e critica i no-global ed il commercio equo e solidale.
Sembrerebbe così essere finalmente arrivati al nocciolo duro di Rifondazione, al nucleo marxista capace in prospettiva di guadagnare l’influenza su tutto il partito e a cui i proletari possono guardare con fiducia. Ma quando passiamo dalle enunciazioni di principio alla politica concreta, ci accorgiamo nel concreto di chi si tratta realmente. Ci basterà analizzare un paio di punti: la questione elettorale e la partecipazione al governo, e la questione delle nazionalizzazioni.
Stranamente, mentre si parla di una situazione che “si caratterizza (…) con la fine della pace sociale, la crisi del riformismo e della collaborazione di classe”, precisando ancora che “questa situazione di giganteschi squilibri e di concorrenza accanita sui mercati erode i margini per ogni organica politica di riforme”, quando si passa ad enunciare gli Elementi di un programma di alternativa, si dice tuttavia che “tutto questo non significa che i comunisti abbandonano la lotta per le riforme “in quanto irrealizzabili”, al contrario…” (mozione n. 5, pag. 33-34). A partire da questa incredibile piroetta, i trotskisti di FalceMartello esprimono la loro vera natura controrivoluzionaria.
Sulla questione elettorale, da buoni trotskisti e dimenticando di aver detto poco prima nello stesso scritto che “il centro della lotta non sono i municipi”, partono col dire che anch’essi vogliono la pelle di Berlusconi, senza però partecipare ad una coalizione. Per cui lanciano la proposta di un accordo di “desistenza (totale o parziale, concordata o unilaterale) verso le sole forze della sinistra, senza alcuna disponibilità a votare alcun candidato borghese dei partiti di centro”, il che lascia intendere che un Veltroni o anche un D’Alema possano essere considerati candidati della classe operaia!!! Lo scopo della tattica, cercano di spiegare ancora i rifondaroli della V mozione, “non è quello di conquistare un deputato in più, ma di collocare politicamente il partito nella migliore posizione per sfruttare l’inevitabile crisi delle forze riformiste nella fase successiva, di non farci schiacciare dalla pressione in favore di una unità a qualsiasi costo, per poi passare a nostra volta all’offensiva una volta che l’inevitabile crisi delle politiche riformiste si palesi in modo evidente agli occhi delle masse”. In realtà è proprio il contrario quello che si verifica. Dire agli operai di votare per Veltroni o D’Alema significa consegnare gli agnelli nelle fauci del lupo, disarmarli politicamente cercando di fare dimenticare loro che sono stati proprio i DS di D’Alema i maggiori responsabili delle misure più antipopolari degli ultimi governi di sinistra e che, a coronamento della pretesa politica pacifista proclamata da tutta Rifondazione, è stato proprio il governo D’Alema il responsabile della guerra contro la Serbia. D’altra parte, quale sarebbe questa “migliore posizione” in cui si collocherebbe “politicamente il partito” “per sfruttare l’inevitabile crisi delle forze riformiste?” Quella acquisita con le elezioni, che costituiscono in realtà un momento politico di dispersione completa dei proletari che vengono coinvolti come singoli cittadini e non come elementi di una classe sociale rivoluzionaria.
Ma i nostri non si fermano qui. In polemica con il concorrente Ferrando, secondo cui “un partito comunista non può mai entrare al governo, in nessuna circostanza, fino a quando non conquista il potere per via rivoluzionaria” affermano che “Questa tuttavia è una interpretazione molto riduttiva, per non dire caricaturale, del marxismo. Il marxismo rifiuta la collaborazione di classe, che si può manifestare tanto al governo come all’opposizione e pensare che la linea del Rubicone sia necessariamente quella che segna la soglia di un palazzo ministeriale è davvero una prova di cretinismo parlamentare”. Claudio Bellotti, Sinistra PRC: le ragioni di una divisione, pubblicato sul sito www.marxismo.net/prc/sinistra_prc_1112.html [62].
Insomma se capiamo bene per costoro, che si appellano al famigerato governo operaio di una Internazionale Comunista ormai declinante, un partito comunista può tranquillamente andare al governo con forze non propriamente rivoluzionarie purchè rifiuti la collaborazione di classe con queste stesse forze. E se qualcuno si azzarda a dire come questo sia possibile visto che si condividono delle responsabilità di governo, si vedrà accusato di cretinismo parlamentare.
L’ultima perla riguarda le nazionalizzazioni. Parlando del problema dei rifiuti in Campania, si dice che: “L’unico argine possibile all’intreccio di affari, veleni e sangue del capitalismo è la nazionalizzazione sotto il controllo dei lavoratori e dei cittadini di tutto il settore dei rifiuti. Attraverso la diretta gestione delle aziende e di tutto il ciclo, si possono evitare infiltrazioni camorristiche (…) e speculazioni sulla pelle altrui. (…) La nazionalizzazione è l’unica possibilità di eliminare alla radice il problema, sostituendo alla logica perversa del profitto del capitale il controllo diretto e immediato dei lavoratori, nell’interesse della collettività e non del padronato, disposto a distruggere la salute per guadagnare miliardi e miliardi. Non è utopia, ma realtà. È molto meno razionale l’attuale politica sui rifiuti, basata sull’anarchia del mercato”. Dal Volantone di FalceMartello La lotta di Acerra per il diritto alla salute, contro la logica del profitto pubblicato sul sito www.marxismo.net/italia/acerra_111204.html [63].
Da questo passaggio apprendiamo che tutta la cosiddetta imprenditoria pubblica che abbiamo avuto in Italia, dalle acciaierie ai monopoli di Stato, dalle poste alle ferrovie, dalla RAI alla compagnia di bandiera Alitalia, e così via… sono state aziende “sotto il controllo dei lavoratori e dei cittadini” che hanno così sostituito alla logica perversa del profitto del capitale il controllo diretto e immediato dei lavoratori, nell’interesse della collettività e non del padronato. Peccato che di tutto questo nessuno si sia mai reso conto, né i cittadini né i lavoratori. Forse è per questo che si sono fatti licenziare dovunque all’interno di questi settori, pari pari come nel settore privato? O non è perché non esiste alcuna differenza tra capitale pubblico e privato, come diceva già molto chiaramente Federico Engels ormai due secoli fa, perché la logica e il meccanismo sono esattamente gli stessi?
Il gioco delle scatole cinesi di Rifondazione Comunista
Con questa serie di articoli abbiamo cercato di mostrare come nessuna delle mozioni che sono state presenti al VI Congresso di Rifondazione “Comunista”, al di là di quanto ognuna di esse vorrebbe far credere, è schierata a favore della classe operaia ma che tutte sono in difesa della borghesia. Un’ulteriore e finale insistenza resta da fare. Se Rifondazione gioca oggi il ruolo di estrema sinistra del capitale che fu quello svolto fino agli anni ’80 dall’ormai disciolto partito comunista, se entrambi i partiti hanno svolto il ruolo di camera di compensazione della collera operaia, quello che costituisce il motivo di attrazione nei due partiti è profondamente diverso. Il vecchio partito comunista era un partito strutturato, con una lunga storia e dei riferimenti sociali e storici saldi, che attribuivano un’identità certa a chi vi aderiva. Il nuovo partito della Rifondazione Comunista, nella misura in cui i vecchi riferimenti dello stalinismo hanno perduto lo smalto di una volta, ha scelto di puntare piuttosto su una piattaforma variegata, di sinistra ma non di sicura fede classista, con una organizzazione composita e federalista, che conferisce a chi vi aderisce l’impressione di partecipare perennemente ad un laboratorio di idee e di iniziative e alla relativa lotta per affermare le idee più di sinistra. E’ vero che nessuna idea, nessuna posizione all’interno di Rifondazione può essere considerata un’idea o una posizione di classe. Ma chi si avvicina a Rifondazione può avere l’impressione che ci sia un grande spazio da conquistare, una grande lotta da combattere proprio a partire dalla considerazione di partenza di questa grande varietà di posizioni. Per lo stesso motivo l’impressione che dà a noi Rifondazione è un poco quella delle scatole cinesi: se si apre Rifondazione dentro troviamo tante componenti, e dietro ogni componente troviamo dei gruppi che hanno la loro autonomia organizzativa, la loro stampa, la loro piattaforma. E’ attraverso questo gioco delle scatole cinesi che dei militanti, catturati da una delle varie tendenze, finiscono per accettare una dopo l’altra le varie mediazioni di partito e quindi l’intera logica del partito. Ogni singola componente infatti, finanche quella con un consenso sul piano nazionale del solo 1,6%, ha la pretesa di ingaggiare i propri seguaci nella conquista del partito, e questa illusione dà a Rifondazione - e a chi ne gestisce la direzione - una forza e, tutto sommato, una coesione inattese. Questo gioco è tanto più pericoloso in quanto oggi c’è un risveglio delle coscienze di molti giovani che sentono la necessità di combattere questo sistema e sono alla ricerca di una prospettiva, per cui l’idea che in questo calderone che si chiama Rifondazione ci sia qualcosa da fare finisce per ingabbiare e bruciare molte di quelle forze che possono evolvere.
Ezechiele, 26 settembre 2005
1. Ecco alcune delle espressioni che si trovano su FalceMartello e che sono rivolte ai “compagni” di Partito della componente di Ferrando: “Tale risposta costituisce un piccolo capolavoro di arroganza settaria e burocratica. (…) carattere profondamente settario della posizione avanzata da Ferrando. Questo settarismo è sempre stato presente nella sinistra del Prc (e per anni lo abbiamo criticato), ma le successive divisioni avvenute al suo interno (a cominciare dalla nostra espulsione da quell’area nel 2001) fanno sì che oggi questo settarismo si esprima senza alcuna mediazione, in forma per così dire distillata”. Claudio Bellotti, Sinistra PRC: le ragioni di una divisione, pubblicato sul sito www.marxismo.net/prc/sinistra_prc_1112.html [62] (sottolineature nostre).
“700 voli cancellati, 70.000 passeggeri presi in ostaggio da un pungo di irresponsabili in pieno periodo di vacanze”, questo è stato il messaggio martellato senza sosta dalla stampa e tutti i media britannici a proposito dello sciopero che ha paralizzato, dall’11 al 14 agosto, l’aeroporto londinese di Heathrow. A modo suo, la violenza e l’astio con cui la borghesia ha condannato gli scioperanti rivela la portata storica di questa lotta operaia. In effetti è solo qualche settimana dopo gli attentati di Londra del 7 luglio e quando la borghesia tentava di rilanciare l’unione nazionale attraverso la campagna antiterrorista, che un migliaio di lavoratori dell’aeroporto si sono messi in sciopero spontaneamente per solidarietà con i 670 operai dell’impresa americana di ristorazione Gate Gourmet, sotto appalto della British Airways, all’annuncio del loro licenziamento.
Questo licenziamento è stato il risultato di tutta una politica cinica e provocatrice dell’impresa, tendente a sostituire i salariati attuali, la maggior parte di origine indio-pakistana, con una manodopera ancora più a buon mercato dei paesi dell’Est. Questo sciopero di solidarietà illustra in maniera eclatante la rimonta della combattività operaia. Ciò è tanto più significativo in un paese dove il riflusso del proletariato è stato accompagnato da una profonda demoralizzazione dopo le sconfitte severe subite nel 1979 e nel 1984, in particolare attraverso lo sciopero dei minatori. Questa lotta traduce soprattutto la vera natura del proletariato con la messa in avanti dei veri valori essenziali della specie umana che sono al cuore delle lotte operaie, quali la solidarietà e il senso di dignità nel suo rifiuto dell’inaccettabile di fronte a tutta l’infamia della borghesia.
Allo stesso tempo, questa ripresa della lotta di classe si conferma a livello internazionale mostrando le stesse caratteristiche di quelle di Heathrow. Dopo la lotta degli operai della Mercedes-Daimler-Chrysler in Germania l’anno scorso, lo scorso luglio in India, ad una ventina di chilometri dalla capitale Nuova Delhi, migliaia di operai della filiale della Honda, scavalcando il quadro legale del diritto di sciopero, hanno manifestato la loro solidarietà verso 30 loro compagni licenziati, subendo una violentissima repressione da parte della polizia anti-sommossa. In Argentina si sta producendo un’ondata di lotte (sulla quale ritorneremo ancora) dove si manifestano le stesse tendenze verso uno sviluppo della solidarietà operaia. Dall’8 all’11 agosto, uno sciopero nelle miniere d’oro del Sud-Africa, benché rimasto sotto il controllo del sindacato del NUM, è stato seguito da 130.000 minatori costituendo il più grande movimento di sciopero del paese dopo il 1987. Tutti questi avvenimenti sono rivelatori delle potenzialità contenute nello sviluppo internazionale delle lotte operaie, che sono un esempio ed un incoraggiamento per l’avvenire della lotta di classe.
I media - la voce dello Stato e della classe dominante - si sono scatenati furiosamente contro gli scioperanti di Heathrow. Come hanno osato questi operai anteporre la loro solidarietà di classe ai profitti dell'impresa? Non sanno che cose come la solidarietà operaia e la lotta di classe sono superate? Tutto ciò è passato di moda dagli anni 70, non è così? Secondo un responsabile di un concorrente della British Airways, citato dal Sunday Time del 13 agosto, "per molti aspetti, l'aviazione resta l'ultima industria non ristrutturata… Essa somiglia ai settori portuali, alle miniere ed all'industria automobilistica degli anni 70". Non sanno questi operai del Giurassico che il principio della società attuale è "il ciascuno per sé", e non "proletari di tutti i paesi, unitevi"?
Tuttavia è stupefacente vedere come questa "nuova" filosofia della libertà individuale non impedisce ai padroni di esigere un'ubbidienza assoluta degli schiavi salariati. E' anche vero che certe voci mediatiche hanno duramente attaccato le aperte provocazioni della compagnia Gate Gourmet: mentre gli impiegati della ristorazione tenevano una assemblea generale per discutere della risposta da dare alla strategia della direzione che mirava a licenziarli, i vigilanti chiuso la sala e 600 operai - compresi quelli che erano in malattia o in vacanza - sono stati licenziati sul campo per avere preso parte ad una riunione non autorizzata, alcuni di loro sono stati avvertiti per megafono. Questa reazione, in fondo, non è che un'espressione un poco più caricaturale della boria padronale largamente diffusa. Come mostrato dalla soppressione, da parte della società Tesco, dell'indennità di malattia per i primi tre giorni di assenza- altre imprese si sono immediatamente interessate a questa nuova "riforma". I magazzinieri sono controllati elettronicamente per assicurarsi che neanche secondo del tempo dell'impresa venga perso. L'attuale clima politico – quando siamo costretti ad accettare tutte i soprusi polizieschi in nome de "l'anti-terrorismo" – non ha fatto che aumentare l'arroganza dei padroni.
Questi attacchi non dipendono da questo o quel padrone particolarmente "avido" o che adotta metodi "americani". La brutalità crescente degli attacchi contro le condizioni operaie di vita e di lavoro è la sola risposta della classe capitalista alla crisi economica mondiale. Bisogna abbassare i costi, aumentare la produttività, tagliare le pensioni, ridurre l'indennità di disoccupazione, perché tutte le imprese e tutti i paesi sono impegnati in una lotta disperata per sconfiggere i loro concorrenti su un mercato mondiale saturo.
Di fronte a questi attacchi la solidarietà operaia è la nostra sola difesa.
A Heathrow, gli addetti ai bagagli e le altre squadre che sono scese in sciopero all’annuncio dei licenziamenti hanno dimostrato una di avere piena coscienza di tutto questo. Loro stessi avevano subito lo stesso genere di attacchi e hanno fare le stesse lotte. L’interruzione immediata del lavoro ha subito mostrato la forza degli operai quando prendono parte ad un'azione determinata ed unita. È l'unica basa sulla quale costringere i padroni a reintegrare gli operai licenziati, e ciò per un certo tempo farà esitare i padroni dell'aeroporto a lanciare simili attacchi. Isolati in categorie, gli operai sono delle prede facili per la classe dominante. Nel momento in cui la lotta comincia ad estendersi ad altri operai, va tutto diversamente.
Ma c'è significato un ben più importante della solidarietà operaia. In una società che crolla intorno a noi, dove il "ciascuno per sé" prende la forma delle bombe terroristiche, degli attacchi razzisti, del gangsterismo e della violenza permanente sotto tutte le sue forme, la solidarietà degli operai al di là di ogni corporazione, di ogni divisione religiosa, sessuale o nazionale è il solo antidoto a questo sistema, il solo punto di partenza per la creazione di una società diversa, basata sui bisogni umani e non sulla ricerca del profitto. Di fronte ad un sistema che sta affondando in un stato di guerra generalizzata, verso l'autodistruzione, non è esagerato dire che la solidarietà di classe è la sola vera speranza di sopravvivenza per la specie umana.
Il fatto che non sia una vana speranza diventa più chiaro se si guarda al di là delle frontiere della Gran Bretagna. In questi due ultimi anni c'è stato un ritorno di lotte operaie dopo anni di smarrimento. Nel corso delle più importanti di esse - la lotta degli operai francesi contro gli attacchi sulle pensioni nel 2003, quella degli operai dell’industria automobilistica in Germania contro le riduzioni di effettivi - la solidarietà è stata un elemento fondamentale. Questi movimenti hanno confermato che la classe operaia internazionale non è sparita e non è sconfitta. Naturalmente i media hanno tentato di dissimulare il significato reale delle azioni di solidarietà di Heathrow. Hanno cominciato a parlare di legami di vicinanza tra gli impiegati della ristorazione, gli addetti ai bagagli e gli altri impiegati dell'aeroporto. È vero che questi esistono, ma la maggioranza degli impiegati della ristorazione è di origine indiana, la maggior parte degli addetti ai bagagli sono "bianchi". In breve, qui c’è stata un'autentica solidarietà di classe, al di là di ogni divisione etnica. Le notizie teletrasmesse hanno provato anche a sabotare la simpatia che gli altri operai potevano provare per gli impiegati dell'aeroporto enfatizzando le sofferenze patite dai passeggeri i cui voli sono stati impediti dallo sciopero. È vero che quando si è trascorso la maggior parte dell'anno a sudare sul posto di lavoro, non è certamente piacevole vedere i piani di vacanze che vanno a rotoli. Tra i compiti che tutti gli operai devono assumersi quando entrano in lotta, vi è la spiegazione delle proprie azioni agli altri operai ed alla popolazione in generale. Ma essi devono anche resistere al ricatto ipocrita dei media che cercano costantemente di farne i cattivi della storia.
Il vero ruolo dei sindacati
Se, come si è potuto vedere, la classe dominante non vuole che venga mostrata la nostra solidarietà di classe, essa cerca anche di mascherare un'altra verità: che la solidarietà operaia ed il sindacalismo non sono più la stessa cosa. I metodi utilizzati durante questa lotta sono stati una costante sfida ai metodi sindacali:
-gli operai di Gate Gourmet decidono di tenere una Assemblea Generale nella loro mensa per discutere sull'ultima manovra della direzione. Era una assemblea non ufficiale tenuta durante il tempo di lavoro. L'idea di tenere autentiche AG per discutere e prendere delle decisioni va contro la pratica sindacale ufficiale;
-anche l'altra squadra dell'aeroporto ha ignorato ogni consegna ufficiale sospendendo il lavoro senza voto; e gli operai hanno in più sfidato il sindacato ingaggiandosi in un conflitto "secondario".
Queste azioni sono pericolose per la classe dominante perché costituiscono una minaccia di perdita di controllo sugli operai da parte dei sindacati, organi "ufficiali" di controllo (cioè riconosciuti dallo Stato) della lotta di classe. E in questi ultimi tempi, abbiamo visto una continua progressione di questo tipo di azione "selvaggia": un certo numero di lotte alla Posta; e nello stesso momento dell'ultima lotta a Heathrow, c'erano lotte non ufficiali degli autisti di autobus di Edimburgo ed alla fonderia Ford di Leamington Spa.
Nel caso di Heathrow, il sindacato TGWU è riuscito a soffocare la situazione. Ha dovuto condannare ufficialmente gli scioperi selvaggi e ha dovuto spingere gli operai a riprendere il lavoro. Ma con l'aiuto di gruppi "rivoluzionari" come il SWP e il T&G, ha cercato di presentare la lotta come un movimento che mirava a “dare una spinta" ai sindacalisti, identificando la persecuzione dei militanti operai - che è certamente stata parte di una strategia della Gate Gourmet - come un attacco contro i sindacati. Ciò ha facilitato alla base sindacale il compito di confinare la lotta nella cornice sindacale - molti membri del sindacato pensano in questo modo di difendere i loro compagni operai.
Tuttavia, ciò che fermenta sotto queste apparenze non è una lotta per "difendere i sindacati", ma movimenti massicci che vanno sviluppandosi, all'interno dei quali gli operai vanno a scontrarsi con la macchina sindacale, il loro primo ostacolo. Per costruire la massima solidarietà di classe, all’interno e grazie alla lotta, gli operai dovranno confrontarsi al bisogno di sviluppare le proprie assemblee generali, aperte a tutti gli operai, e di eleggere dei comitati di sciopero responsabili esclusivamente di fronte a queste assemblee. I militanti operai che comprendono questa prospettiva non devono restare isolati, ma devono iniziare a riunirsi per discuterne per le lotte future.
World Revolution, 15 agosto 2005
La catastrofe che ha colpito il sud degli Stati Uniti e particolarmente la città di New Orleans non è, contrariamente a ciò che ci ripetono i media della borghesia, una conseguenza dell'irresponsabilità del presidente Bush e della sua amministrazione. Questa propaganda antiamericana, particolarmente diffusa in questa occasione dai media in Europa per screditare il potere degli Stati Uniti, nasconde in realtà agli occhi del proletariato il reale responsabile delle conseguenze drammatiche del passaggio del ciclone Katrina. Gli sconvolgimenti climatici, provocati in grande parte dall'effetto serra, sono i prodotti di un'economia capitalista la cui unica ragion d’essere è il profitto. Questi squilibri ambientali rendono necessariamente le "catastrofi naturali" molto più numerose ed immensamente più distruttrici che in passato. L'assenza di mezzi di soccorso, di attrezzature specializzate, di strumenti sanitari è inoltre l'espressione diretta del fallimento del capitalismo.
Una manifestazione del fallimento del capitalismo
Tutti hanno visto le immagini della catastrofe. I gonfi cadaveri galleggianti nelle acque fetide dell'inondazione di New Orleans. Un vecchio seduto su di una sdraio, accasciato, morto, ucciso dal caldo, la fame e la sete mentre altri languiscono vicino a lui. Madri intrappolate coi loro bambini senza niente da mangiare né da bere per tre giorni. Il caos negli stessi luoghi dove le autorità hanno chiamato le vittime a rifugiarsi per la loro sicurezza. Questa tragedia senza precedenti non ha avuto luogo in un angolo del Terzo Mondo provato dalla povertà, ma nel cuore della più grande potenza imperialista e capitalista del pianeta. Quando lo tsunami ha colpito l'Asia nel dicembre scorso, la borghesia dei paesi ricchi ha biasimato l'incompetenza politica dei paesi poveri per essersi rifiutata di reagire ai segni che annunciavano la catastrofe. Questa volta non ci sono scuse di questo genere. Il contrasto oggi non è tra paesi ricchi e paesi poveri, ma tra le persone ricche ed i poveri. Quando è arrivato l'ordine di evacuare New Orleans e la costa del Golfo del Messico, è stato fatto alla maniera tipicamente capitalista, ciascuno per sé, ogni famiglia per se stessa. Quelli che avevano delle automobili e potevano pagare la benzina il cui prezzo è salito a dismisura a causa delle compagnie petrolifere, sono partiti verso nord e verso l'ovest per mettersi al sicuro e trovare rifugio negli hotel, motel, dagli amici o presso la famiglia. Ma nel caso dei poveri, la maggioranza si è trovata presa sulla rotta del ciclone, incapace di fuggire. A New Orleans le autorità locali hanno aperto lo stadio del Superdome ed il centro di conferenze come riparo contro il ciclone, ma non hanno fornito servizi, né cibo, né acqua, né organizzazione, mentre migliaia di persone, in grande maggioranza neri, si ammucchiavano in questi edifici dove venivano abbandonati. Per i ricchi rimasti a New Orleans, la situazione era tutt’altra. I turisti e i VIP rimasti erano ospitati negli hotel a cinque stelle accanto al Superdome, si abbandonavano al lusso ed erano protetti dagli ufficiali di polizia armati che mantenevano la "popolazione" del Superdome a distanza.
Invece di organizzare la distribuzione di cibo e acqua depositata nei negozi e magazzini, la polizia è rimasta a braccia incrociate quando i poveri hanno cominciato a "saccheggiare" i beni di prima necessità per ridistribuirli. È vero che elementi lumpenizzati hanno approfittato della situazione e si sono messi a rubare materiale elettronico, denaro e armi ma è chiaro che all’inizio, questo fenomeno è stato un tentativo di sopravvivenza in condizioni disumane. Tuttavia nello stesso momento, la polizia, armi in pugno, assicurava la sicurezza degli impiegati degli hotel di lusso inviati presso una vicina farmacia a saccheggiare tutto ciò che potevano, acqua, cibo e medicinali per assicurare la comodità dei ricchi ospiti. Un ufficiale di polizia ha spiegato che non era saccheggio, ma la "requisizione" di provviste per la polizia, cosa che è autorizzata in caso di emergenza. La differenza tra “saccheggio" e "requisizione", è la differenza tra essere povero ed essere ricco.
Il colpevole è il sistema
L'incapacità del capitalismo a rispondere a questa crisi con il minimo di solidarietà umana dimostra che la classe capitalista non è più degna di governare e che il suo metodo di produzione è impantanato in un processo di decomposizione sociale - marcendo letteralmente in piedi - che offre all'umanità un avvenire di morte e di distruzione. Il caos in cui sono caduti, gli uni dopo gli altri, i paesi dell’Africa e dell'Asia in questi ultimi anni, è solamente un saggio di ciò che il capitalismo ci riserva ivi compresi i paesi industrializzati, e la New Orleans oggi ci fa intravedere la desolazione di questo futuro.
Come sempre, la borghesia ha elaborato rapidamente ogni tipo di alibi e di scuse per le sue crisi ed il suo fallimento. Nella sua ultima serie di scuse piagnucola sul fatto che ha fatto tutto ciò che poteva; che è stata una catastrofe naturale, non causata dagli uomini; che nessuno avrebbe potuto prevedere la peggiore catastrofe naturale della storia della nazione; che nessuno aveva previsto che le dighe sarebbero crollate. Le critiche al governo, negli Stati Uniti e all'estero, se la prendono con l'incompetenza dell'amministrazione Bush che ha lasciato che una catastrofe naturale diventasse una calamità sociale. Tutto questo sproloquio della borghesia è fuori luogo. Il suo unico scopo è deviare l'attenzione dalla verità, cioè che è proprio il sistema capitalista il responsabile.
"Facciamo tutto ciò che possiamo", questo è il cliché più ripetuto attinto nelle riserve della propaganda borghese. Fanno "tutto ciò che possono" per finire la guerra in Iraq, per migliorare l'economia, per migliorare l'educazione, per mettere fine alla criminalità, per rendere la navetta spaziale sicura, per fermare la droga, etc., etc.. Non potrebbero né fare meglio, né fare diversamente. Da credere che il governo non faccia alcuna scelta politica, non disponga di alcuna alternativa possibile. Quale non senso! Conducono la politica che hanno consapevolmente scelto e che, è chiaro, comporta delle conseguenze disastrose per la società.
In quanto all'argomento concernente i fenomeni naturali - in opposizione a ciò che gli uomini hanno creato - è vero che il ciclone Katrina era una forza naturale, ma l’intensità della catastrofe naturale e sociale che ha trascinato, questa, non era inevitabile. Sotto tutti gli aspetti, la catastrofe è stata prodotta ed è stata resa possibile dal capitalismo e dal suo Stato. Il carattere sempre più devastante delle catastrofi naturali attraverso il mondo di oggi è una conseguenza di tutte le politiche irresponsabili a livello dell’economia e dell'ambiente naturale che conduce il capitalismo nella sua ricerca incessante di profitto. Queste politiche si esprimono tanto nell’incapacità di utilizzare la tecnologia esistente per sorvegliare gli tsunami ed avvertire le popolazioni minacciate in tempo necessario che nella deforestazione delle colline nei paesi del Terzo Mondo che inasprisce la devastazione prodotta dalle inondazioni legate ai monsoni, o ancora nell’irresponsabile inquinamento dell'atmosfera con gas che producendo l’effetto aggravano il riscaldamento del globo e contribuiscono alle aberrazioni climatiche nel mondo. A tale proposito molti elementi portano a pensare che il riscaldamento del globo abbia provocato un aumento della temperatura dell'acqua e lo sviluppo di un maggior numero di depressioni, tempeste e cicloni tropicali in questi ultimi anni. Quando Katrina ha toccato la Florida era un ciclone di Categoria 1, ma poiché è restato per una settimana al di sopra delle acque del Golfo del Messico a 32°, è diventato una tempesta di Categoria 5 con venti a 280 km/ora quando ha raggiunto la costa del Golfo.
I sinistroidi hanno cominciato già a parlare dei legami di Bush con l'industria petrolifera e della sua opposizione al Protocollo di Kyoto ed a far ricadere su ciò la responsabilità della catastrofe, ma la loro critica si inscrive all’interno delle discussioni della classe capitalista mondiale - come se la messa in opera degli accordi di Kyoto potesse veramente rovesciare gli effetti del riscaldamento della terra e se le borghesie dei paesi in favore di Kyoto fossero veramente interessate a riorganizzare i metodi capitalisti di produzione. Peggio ancora, ciò fa dimenticare che fu l'amministrazione Clinton, che pure si definiva pro-ambientalista, la prima a rigettare l'accordo di Kyoto. Il rifiuto di occuparsi del riscaldamento della terra è la posizione della borghesia americana, non solamente quella dell'amministrazione Bush.
In più, New Orleans con la sua popolazione di quasi 600.000 abitanti e con i sobborghi che comprendono una popolazione ancora più numerosa, è una città costruita in grande parte sotto il livello del mare, il che la rende vulnerabile alle inondazioni in provenienza dalle acque del Mississippi, del Lago Ponchartrain e dal Golfo del Messico. Sin dal 1927, il genio militare americano ha sviluppato e mantenuto un sistema di dighe per impedire l'inondazione annua dalle acque del Mississippi, che ha permesso all'industria ed all'agricoltura di prosperare accanto al fiume ed alla città di New Orleans di estendersi, ma ha fermato l'apporto di terra e di sedimenti che rinnovava naturalmente le zone umide e le paludi del delta del Mississippi a valle della città, verso il Golfo del Messico. Ciò ha fatto sì che queste paludi, che fornivano una protezione naturale a New Orleans servendo da tampone di fronte alle irruzioni marittime, venissero erose pericolosamente e che la città diventasse più vulnerabile alle inondazioni del mare. Tutto questo non è “naturale", è creato dall'uomo.
Non è stata neanche una forza naturale a ridurre considerevolmente la Guardia nazionale della Louisiana, ma la guerra in Iraq che ha mobilitato una grand parte delle sue truppe, lasciando solamente 250 guardie disponibili per assistere la polizia ed i pompieri nelle azioni di soccorso nei primi tre giorni seguiti alla rottura delle dighe. E una percentuale ancora più grande di guardie del Mississippi è stata dispiegata in Iraq.
Anche l'argomento secondo cui questa catastrofe non era prevista è un nonsenso. Da quasi 100 anni, scienziati, ingegneri e politici hanno discusso di come far fronte alla vulnerabilità di New Orleans nei confronti dei cicloni e delle inondazioni. A metà degli anni 1990, sono stati sviluppati parecchi progetti da diversi gruppi di scienziati e di ingegneri, che infine hanno portato ad una proposta nel 1998 (sotto l'amministrazione Clinton), chiamata Coast 2050. Questo progetto comprendeva il rafforzamento e la ripianificazione delle dighe esistenti, la costruzione di un sistema di chiuse e la creazione di nuovi canali che avrebbero portato delle acque piene di sedimenti per restaurare le zone paludose tampone del delta; questo progetto richiedeva un investimento di 14 miliardi di dollari per un periodo di 10 anni. Non ebbe l'approvazione di Washington, non sotto Bush ma sotto Clinton. L'anno scorso, l'esercito ha chiesto 105 milioni di dollari per i programmi di lotta contro i cicloni e le inondazioni a New Orleans, ma il governo gli ha accordato solamente 42 milioni. Nello stesso momento, il Congresso approvava un bilancio di 231 milioni di dollari per la costruzione di un ponte verso una piccola isola disabitata dell'Alaska.
Un'altra confutazione dell'alibi secondo cui "nessuno aveva previsto", è che alla vigilia dell'arrivo del ciclone, Michael D. Brown direttore del FEMA (Federal Emergency Management Administration), si vantava, nelle interviste teletrasmesse, di aver ordinato la messa in funzione di un piano di emergenza nel caso in cui una catastrofe peggiore avesse luogo a New Orleans dopo lo tsunami del Sud-est asiatico, e che il FEMA aveva fiducia nel fatto che sarebbe stato capace di far fronte ad ogni eventualità. Dei rapporti provenienti da New Orleans indicano che questo piano del FEMA è stato messo in opera con la decisione... di far tornare indietro i camion che trasportavano bottiglie di acqua regalate, di rifiutarsi di distribuire 3700 litri di diesel portato dai guardacoste ed il taglio delle linee di comunicazione di emergenza utilizzate dalla polizia locale nelle periferie di New Orleans. Brown ha avuto anche la sfrontatezza di scusare l'inoperosità nel soccorso alle 25.000 persone rifugiatesi nel Centro Conferenze, dicendo che le autorità federali non avevano saputo prima della fine della settimana che questi profughi erano là, mentre erano già tre o quattro giorni che i telegiornali davano notizie sulla loro situazione.
E benché il sindaco Ray Nagin, democratico, abbia denunciato con ingiurie l'inoperosità dello stato federale, bisogna dire che è stata proprio la sua amministrazione locale a non aver fatto assolutamente nessuno sforzo per fornire un'evacuazione sicura ai poveri ed agli anziani, che non si è assunta nessuna responsabilità nella distribuzione di cibo e di acqua e che ha abbandonato la città al caos ed alla violenza.
Solo la classe operaia offre un'alternativa
Milioni di operai sono stati commossi da queste deplorevoli sofferenze sulla Costa del Golfo e scandalizzati per l'insensibilità della risposta ufficiale. Nella classe operaia in particolare esiste un immenso senso di autentica solidarietà umana verso le vittime di questa calamità. Mentre la borghesia distribuiva i suoi pacchetti di compassione in base alla razza o allo stato economico delle vittime, la maggior parte degli operai americani non ha fatto distinzione. Anche se il razzismo è una carta che viene spesso utilizzata dalla borghesia per dividere gli operai bianchi e gli operai neri e se diversi leader nazionalisti neri servono il capitalismo insistendo sul fatto che la crisi a New Orleans è un problema di neri contro i bianchi, la sofferenza degli operai poveri e dei miseri a New Orleans oggi è odiosa per la classe operaia.
Senza dubbio l'amministrazione Bush è una squadra dirigente inadeguata per la classe dominante, soggetta alle insulsaggini, ai gesti vuoti ed a lenti reazioni di fronte alla crisi attuale, e ciò verrà ad aggiungersi alla sua impopolarità crescente. Ma l'amministrazione Bush non è un’aberrazione. E’ piuttosto un nudo riflesso della realtà: gli Stati Uniti sono una superpotenza in declino, che domina un "ordine mondiale" che affonda nel caos. Guerra, carestia e disastri ecologici, ecco dove ci porta il capitalismo. Se c'è una speranza per l'avvenire dell'umanità, è che la classe operaia mondiale sviluppi la coscienza e la comprensione della vera natura della società di classe e prenda in mano la responsabilità storica di sbarazzarsi di questo sistema capitalista anacronistico e distruttore e di si assuma il compito di sostituirlo con una nuova società controllata dalla classe operaia, che abbia come principio la solidarietà umana autentica e la realizzazione dei bisogni umani.
Internationalism, sezione della CCI negli Stati Uniti (4 settembre)
Pubblichiamo un articolo d'intervento che la sezione della CCI in Spagna (Acción Proletaria) ha messo su Internet in un Forum sull'autonomia del proletariato [www. alasbarricadas.org, in lingua spagnola].
All'origine di questo forum c'è la riproduzione da parte di un compagno, che noi non conosciamo, di un articolo-bilancio scritto da noi (1) a proposito di un incontro sull'autonomia operaia e l’intervento che noi vi abbiamo fatto. Questo incontro, che ha avuto luogo a Barcellona, ha provocato un dibattito appassionante, profondo e leale. Tutti i partecipanti condividevano la stessa volontà di farla finita con il sistema capitalista che sta provocando alla grande maggioranza dell'umanità tante sofferenze e di ogni tipo (economiche, psichiche, morali, ecologiche). Ma è sulla questione “chi può essere il motore di una così gigantesca trasformazione sociale?” che il dibattito si situa. In sintesi, due risposte sono apparse in maniera chiara: per gli uni, è la classe operaia, il proletariato. Per gli altri, tra cui un compagno che si fa chiamare Piti (2), è una comunità di individui ribelli, che loro chiamano proletariato.
Chiaramente, noi difendiamo con fermezza la prima risposta. Ed andiamo ad esporre gli argomenti che la giustificano.
La lotta di classe è il motore della storia
Con la dissoluzione graduale del comunismo primitivo tribale, la società umana si è divisa in classi ed il motore della sua evoluzione è stata la lotta di classe.
Questa guerra sociale ha avuto luogo in un contesto storico di modi di produzione successivi (schiavismo, feudalesimo, capitalismo). E' in questo quadro generale che lo sviluppo delle forze produttive ha potuto realizzarsi in maniera contraddittoria.
Questa è la spiegazione più coerente della storia umana. Questo è lo strumento di comprensione che le generazioni attuali potranno utilizzare per farla progredire di fronte ai dilemmi che la situazione attuale del capitalismo ci pone: o la distruzione dell'umanità o la sua liberazione e l'inizio di una nuova tappa storica basata sull'abolizione delle classi sociali, degli Stati e delle frontiere nazionali, per l'unificazione degli esseri umani in una comunità umana che vive ed agisce per ed attraverso essa stessa.
Di fronte a questa spiegazione, di cui il marxismo è il più coerente difensore, sono state opposte una quantità di teorie il cui denominatore comune non è tanto il rifiuto dell'esistenza delle classi - una evidenza che soli i più ottusi osano negare - ma il rifiuto del fatto che la lotta di classe sia il motore della storia.
Come motore alternativo ci hanno proposto Dio, lo Spirito Universale, principi ed altri individui di buona volontà, una minoranza di cospiratori, di illuminati o di predicatori di ogni tipo di sistemi sociali e filosofici, tutti investiti per rendere conto dei mali di questo mondo terreno…
La lotta di classe, nel corso della storia, ha posto di fronte una classe rivoluzionaria portatrice di una nuova organizzazione della vita sociale ed una classe reazionaria attaccata alla difesa dei privilegi e degli interessi legati al vecchio ordinamento. In genere questi conflitti si risolvono con il trionfo della nuova classe rivoluzionaria e la scomparsa più o meno veloce della vecchia classe. Ma questo non è mai deciso in anticipo da chi sa quale determinismo irrevocabile. Ci sono stati dei momenti della storia dove si sono prodotte delle situazioni di blocco nell'evoluzione sociale, dove le due classi principali della società si sono svenate reciprocamente attraverso conflitti sterili, senza via d'uscita. È per ciò che il Manifesto Comunista concepisce la lotta di classe come una guerra sociale "che finirà sempre o con la trasformazione rivoluzionaria della società tutta intera o con la distruzione delle due classi in lotta".
Nessuna classe sociale è strumento cieco di un destino storico prefissato, né l'esecutore forzato di una necessità determinata dall'evoluzione della società. Per liberare la società dagli ostacoli imposti dal vecchio ordinamento, le classi rivoluzionarie hanno bisogno di un certo grado di coscienza e di volontà. Se queste mancano, la necessità obiettiva che esiste solo come potenzialità storica, non potrà realizzarsi e l'evoluzione sociale stagnerà marcendo nel caos e la distruzione.
Nel passaggio dalla vecchia società schiavistica all'ordine feudale che le successe, il fattore determinante fu l'evoluzione obiettiva, mentre la coscienza e l'azione soggettiva hanno giocato un ruolo molto limitato. Nella distruzione del feudalismo e l'avvento del capitalismo le forze obiettive sono state il fattore centrale, ma la coscienza - una coscienza soprattutto ideologica - ha avuto un ruolo importante, soprattutto durante l'ultima tappa, quella della presa del potere politico da parte della borghesia una volta assicurato il dominio economico della società.
Invece, con la rivoluzione che abbatterà il capitalismo il ruolo decisivo spetterà alla coscienza, all'entusiasmo, alla solidarietà, all'eroismo ed alla combattività delle grandi masse proletarie. Senza questa forza soggettiva, senza questo impegno di un gran numero di individui coscienti, la rivoluzione non sarà possibile. Piti insiste sulla necessità della coscienza (necessità "di individui auto-coscienti" come lui la chiama) della solidarietà e della fiducia reciproca (che chiama "comunità di ribelli"). Noi condividiamo questa preoccupazione: per noi, uno dei compiti cruciali di oggi è che le generazioni attuali della classe operaia coltivino e sviluppino, nella lotta, per la lotta e attraverso la lotta, la coscienza, la solidarietà, il loro proprio criterio. Senza uno sviluppo massiccio delle forze mentali e morali, la rivoluzione mondiale non potrà avere luogo.
Piti pensa, però, che la classe operaia non è più la classe rivoluzionaria. Non dice che la lotta di classe è sparita, non nega che questa lotta abbia potuto essere, in altre tappe del capitalismo, il motore del cambiamento storico, ma la sua premessa è perentoria: "Ciò che chiamo il "primo assalto alla società di classe", (parlo dell'inizio del ventesimo secolo e delle sue rivoluzioni: Russia, Kronstadt, Germania, per esempio), ed il "secondo assalto alla società di classe", maggio 68, rivolte autonome in Germania, Autonomia Operaia in Italia, gli scioperi operai in Polonia, il movimento delle assemblee in Spagna. Questi movimenti sono stati sconfitti, l'autonomia operaia è stata sconfitta".
Certo, l'ondata rivoluzionaria mondiale fu sconfitta e ciò lasciò la porta aperta alla più terribile controrivoluzione di tutta la storia umana. È anche vero che l'impulso iniziale delle lotte nel 1968 si è diluito poco a poco finché nel 1989 si è prodotto un forte indietreggiamento della coscienza e della combattività operaia.
Tuttavia, perché Piti trae da questi scacchi la conclusione che la classe operaia ha perso il suo carattere rivoluzionario? Lo spiega basandosi su due elementi: il capitalismo ha vissuto un tale cambiamento che ci troveremmo di fronte ad un nuovo "modello economico" e questo nuovo modello economico porterebbe una tale quantità di cambiamenti sociali da segnare la fine della classe operaia come classe rivoluzionaria. “E' allora, negli anni 1980, che i cambiamenti cominciano. I sindacati, in quanto strumenti di integrazione della classe operaia agiscono direttamente al servizio dei loro propri interessi negoziando col padronato e lo Stato, accettando senza battere ciglio le politiche di tagli sociali e del personale. Ciò disperde tutta una generazione ribelle, una comunità ribelle ereditata dalla tappa precedente, rompe la sua coscienza. La classe operaia è gettata fuori dalle fabbriche, ci sono delle riconversioni industriali ed una terziarizzazione dell'economia (cambiamento del modello economico), e la dislocazione di imprese alla ricerca di una mano d'opera a buon mercato e schiava (…) La tecnologia gioca un ruolo fondamentale, c'è una rivoluzione tecnologica che fa si che molti operai sono obbligati a fare degli stage di formazione. La tecnologia favorisce la mondializzazione dell'economia e l'automatizzazione. Tuttavia, queste nuove condizioni permettono di aumentare il benessere di una minoranza di lavoratori. Appaiono quadri tecnici, operai-proprietari, piccoli imprenditori, ecc. (...) L'epoca attuale è unica e non ci sarà ritorno indietro nel sistema produttivo, non si ritornerà a "l'identità fabbrica".
Un nuovo modello économico?
Durante tutta la sua storia il capitalismo ha vissuto numerosi cambiamenti tecnologici, organizzativi, sociologici... Il capitalismo è un metodo di produzione dinamico, costretto a cambiare continuamente la sua organizzazione, i metodi e i mezzi di produzione... Il Manifesto comunista riconosce che "La borghesia non può esistere senza rivoluzionare continuamente gli strumenti di produzione, i rapporti di produzione, dunque i rapporti sociali. Prima condizione di esistenza di tutte le classi industriali precedenti era invece l’immutato mantenimento del vecchio sistema di produzione. Il continuo rivoluzionamento della produzione, l’ininterrotto scuotimento di tutte le situazioni sociali, l’incertezza e il movimento eterni contraddistinguono l’epoca dei borghesi fra tutte le epoche precedenti".
Ma questo dinamismo significa un cambiamento di natura del capitalismo, una modifica delle basi stesse di questo sistema di sfruttamento?
Il capitalismo è passato per numerose tappe: manifattura, meccanizzazione, grande industria, capitale monopolista, imperialismo, capitalismo di Stato. Il regime di proprietà capitalista si è modificato costantemente (mercanti, proprietà individuale dei padroni dell'industrie; proprietà collettiva attraverso società per azioni; proprietà totalmente statale - come nei sedicenti paesi "socialisti" - o mista ; proprietà multinazionale...); le tecnologie hanno vissuto cambiamenti spettacolari (meccanizzazione, ferrovie, barche a vapore, aviazione, telecomunicazioni, informatica, energia petrolifera o nucleare ecc.); l'organizzazione del lavoro è passata attraverso stadi differenti (estensivo, intensivo, organizzazione scientifica del lavoro e taylorisme, industrie giganti, decentramento, dislocazioni, subappalto, ecc.); il regime di lavoro prende parecchie forme (lavoro a domicilio, lavoro delle donne e dei bambini, lavoro a durata indeterminata, funzionari, lavoro forzato, giornaliero, precario, lavoro a cottimo, occasionale, ecc.). Tuttavia, un filo conduttore attraversa come un legame inalterabile questa molteplicità sempre mutabile:
1) L'espropriazione dei produttori, tale da separare i contadini e gli artigiani dai loro mezzi di produzione e di vita, farli diventare operai ed obbligati a passare sotto le forche caudine del lavoro salariato per provvedere ai loro bisogni;
2) Lo sfruttamento della forza lavoro dell'operaio il cui stipendio tende a coprire la sua riproduzione individuale e quella della sua famiglia, producendo un plusvalore che serve all'accumulazione del capitale;
3) L'accumulazione del capitale. Lo scopo della produzione non è tanto soddisfare i bisogni di consumo della classe dominante ma il reinvestimento del plusvalore che produce nuovo capitale.
Quando Piti rievoca la mondializzazione come un grande cambiamento fondamentale che si produce lungo tutto gli anni 80, bisogna dirgli che ha appena scoperto qualche cosa che ha avuto luogo più di un secolo fa : "Con lo sfruttamento del mercato mondiale la borghesia ha dato un’impronta cosmopolita alla produzione e al consumo di tutti i paesi. (…) Ai vecchi bisogni, soddisfatti con i prodotti del paese, subentrano bisogni nuovi, che per essere soddisfatti esigono i prodotti dei paesi e dei climi più lontani. All’antica autosufficienza ed all’antico isolamento locali e nazionali, subentra uno scambio universale, una interdipendenza universale fra le nazioni. E come per la produzione materiale, così per quella intellettuale. I prodotti intellettuali delle singole nazioni divengono bene comune. L’unilateralità e la ristrettezza nazionali diventano sempre più impossibili e dalle molte letterature nazionali e locali si forma una letteratura mondiale. Con il rapido miglioramento di tutti gli strumenti di produzione, con le comunicazioni infinitamente agevolate, la borghesia trascina nella civiltà persino le nazioni, anche le più barbare. I bassi prezzi delle sue merci sono l’artiglieria pesante con la quale essa spiana tutte le muraglie cinesi, con la quale costringe alla capitolazione la più tenace xenofobia dei barbari. Costringe tutte le nazioni ad adottare il sistema di produzione della borghesia, se non vogliono andare in rovina, le costringe ad introdurre in casa loro la cosiddetta civiltà, cioè a diventare borghesi. In una parola: essa si crea un mondo a propria immagine e somiglianza". Questo passo non è tratto da un testo pro- o anti-mondialista accanito, ma dal Manifesto comunista, scritto nel 1848!
Rivoluzione tecnologica? Sicuramente le telecomunicazioni si sono sviluppate come anche l'informatica e le reti telematiche; si parla di biotecnologia e di cellule staminali; è vero che larghe estensioni di terre agricole cadono sotto il fascino di una speculazione immobiliare che fa spuntare grattacieli imponenti, case intelligenti e filari e filari infiniti di case… vuote. Ma questi cambiamenti "affascinanti" non rappresentano un vero sviluppo; somigliano piuttosto agli ultimi sussulti di una società malata. Peraltro, nessuno di questi cambiamenti può paragonarsi alle trasformazioni radicali che si sono prodotte nella fase ascendente del capitalismo: "Durante il suo dominio di classe appena secolare la borghesia ha creato forze produttive in massa molto maggiore più colossali che non avessero mai fatto tutte insieme le altre generazioni del passato. Il soggiogamento delle forze naturali, le macchine, l'applicazione della chimica all'industria ed all'agricoltura, la navigazione a vapore, le ferrovie, i telegrafi elettrici, il dissodamento d’interi continenti, la navigabilità dei fiumi, popolazioni intere sorte quasi per incanto dal suolo - quale dei secoli antecedenti immaginava che nel grembo del lavoro sociale stessero sopite tali forze produttive?" (Manifesto Comunista).
Il modo di produzione capitalista non si definisce essenzialmente per le tecnologie, le forme di organizzazione dell'impresa o del lavoro... Queste possono girare come una giostra perché sono solamente l'involucro che copre un meccanismo: i rapporti di produzione fondati sul lavoro salariato e l'estrazione di plusvalore. Questi meccanismi centrali non sono cambiati affatto. Costituiscono sempre i pilastri che tengono su tutto l'edificio. Piti che critica tanto la società dello spettacolo, è vittima dell'effetto ottico tipico del capitalismo: di fronte all'immobilismo rigido delle società precedenti, il capitalismo appare come uno spettacolo incessante di cambiamenti, che però lasciano le fondamenta intatte.
Queste forme non sono neanche determinanti per la dinamica reale del capitalismo. Questo cerca costantemente e disperatamente una massa sempre più grande di plusvalore ed un mercato sempre più grande a misura dei suoi bisogni di accumulazione. Quando il capitalismo si impadronisce del mercato mondiale all'inizio del ventesimo secolo, questa dinamica inesorabile lo fa entrare nella fase storica di decadenza e di degenerazione. Questa è la fase della società attuale, con le sue guerre senza fine, la sua barbarie, le sue crisi e le sue convulsioni economiche, il suo totalitarismo statale e la sua decomposizione ideologica e morale. Questi cambiamenti di cui tanto si parla (tecnologia, finanze, servizi) sono superficiali, ma ci si dimentica totalmente questo "cambiamento" estremamente significativo e determinante per la vita quotidiana delle enormi masse umane. Il cambiamento tra il periodo ascendente del capitalismo e la sua fase di decadenza, che si è sviluppata lungo tutto il 20° secolo, ci permette di comprendere la terribile sofferenza, il profondo sconforto che le migliaia di esseri umani subiscono, ci aiuta a capire la realtà di una società in agonia, ci dà la forza e la coscienza per lottare verso la costruzione di una nuova società. Al contrario, l'altra visione ci acceca con una "modernità" ed un "progresso" che nascondono il terribile inferno in cui vive la maggior parte dell'umanità.
Acción Proletaria (16 mai 2005)
1. Acción Proletaria nº 181 "Parlano di autonomia operaia per far passare meglio il loro messaggio sulla fine del proletariato" (articolo in spagnolo).
2. Piti è uno dei compagni che è intervenuto in questo Forum per difendere una posizione che definisce come "neo-situationnista".
Dopo il volantino che abbiamo pubblicato l’8 novembre scorso (1) sul nostro sito web (www.internationalism.org [65]), l’articolo che segue insiste sulla trappola costituita dagli scontri avvenuti nelle periferie francesi per la classe operaia di tutto il mondo. Questa insistenza non è affatto superflua visto che dobbiamo purtroppo segnalare come molti compagni siano rimasti affascinati dalle fiamme dei roghi e dall’uso della violenza, quasi fossero questi degli obiettivi in sé della lotta. Peggio ancora quando si pensi che questo stesso fascino viene esercitato su organizzazioni che pretendono di essere l’“avanguardia” del proletariato, come nel caso di Battaglia Comunista o della formazione bordighista n+1. E’ anche per questo che in questo numero abbiamo voluto inserire, assieme ad un’ulteriore denuncia del modo in cui la borghesia sfrutta questi scontri per dividere la classe operaia, un editoriale sulle vere lotte che avvengono nel mondo (e che spesso non sono note per il black-out dei media) e ancora l’articolo sulla Polonia ’80, che rievoca le principali lezioni tratte da una delle lotte più significative della fase di ripresa proletaria dopo la fine degli anni ’60. Per finire vogliamo ricordare la pubblicazione di un altro articolo pubblicato sul nostro sito web (2) che non ha trovato posto in questo giornale. Si tratta di un articolo che racconta e denuncia la carneficina di immigrati marocchini alla frontiera spagnola operata dalla polizia del governo Zapatero. A riprova del fatto che per gli immigrati non c’è regime democratico che tenga, di destra o di sinistra che sia. Ma anche a dimostrare che la sorte degli immigrati è un calvario continuo, da quando cercano di entrare nei paesi “ricchi” (vedi la carneficina di immigrati marocchini, ma anche quella dei vari profughi affogati nelle acque del Tirreno e dello Ionio) fino alla loro vita quotidiana fatta di stenti, miseria e ricatti una volta raggiunto il suolo del paese ospite. Ma se le miserie degli immigrati non sono diverse da quelle di tutta la classe operaia, perché questi possano avere una prospettiva che non sia la disperazione, occorre che facciano riferimento all’unica classe che ha come prospettiva una società diversa, il comunismo. Che facciano riferimento alla lotta del proletariato.
Per tre settimane consecutive gli scontri nelle periferie francesi sono stati al centro dell’attualità. Migliaia di giovani, provenienti in gran parte dagli strati più poveri della popolazione, hanno gridato la loro collera e la loro disperazione a colpi di Molotov e di sassi (vedi il volantino pubblicato sul nostro sito internet dal titolo: “Di fronte alla disperazione, solo la lotta di classe porta all’avvenire”).
Le prime vittime di queste distruzioni sono gli operai. Sono infatti le loro vetture che sono state incendiate. Sono i loro luoghi di lavoro che sono stati chiusi, ponendo diverse centinaia di questi in cassa integrazione. Un operaio intervistato per il telegiornale delle 20 ha magistralmente riassunto la perfetta assurdità di questi atti in questi termini: “Questa mattina ho trovato sul parabrezza della mia vettura bruciata questo manifesto. C’è scritto sopra ‘Sarkozy, fottiti’. Ma non è Sarkozy che si è fottuto, ma io!”
Anche se l’esplosione di collera dei giovani delle periferie è del tutto legittima, la situazione sociale che questa ha creato rappresenta un pericolo reale per la classe operaia. Come reagire? Bisogna schierarsi a favore dei moti o per lo Stato “repubblicano”? Per la classe operaia questa è una falsa alternativa in quanto sono entrambe delle trappole da evitare. La prima alternativa consiste nel vedere, attraverso la rivolta disperata di questi giovani, un esempio di lotta da seguire. Ma il proletariato non può incamminarsi su questo cammino di auto-distruzione. D’altra parte anche la “soluzione” gridata alta e forte dappertutto dalla borghesia è essa stessa une impasse.
Profittando della paura suscitata da questi avvenimenti, la classe dominante, con il suo governo, il suo Stato e il suo apparato repressivo, si presenta oggi come il garante della sicurezza delle popolazioni e in particolare dei quartieri operai. Ma dietro i suoi bei discorsi che vorrebbero apparire “rassicuranti”, il messaggio che essa cerca di far passare è carico di minacce per la classe operaia: “Lottare contro l’ordine repubblicano, cioè lo Stato capitalista, significa comportarsi da mascalzoni, da gentaglia”.
La borghesia utilizza la paura per rafforzare il suo arsenale repressivo…
Incapace di risolvere il problema di fondo – quello della crisi economica - la borghesia preferisce naturalmente nasconderlo e sfruttare a proprio profitto il lato spettacolare dei moti: le distruzioni e le violenze… E, su questo piano, possiamo dire che i giornalisti hanno saputo fare del loro meglio per alimentare questa campagna della paura.
Sono andati a cercare l’informazione nel cuore delle città, pubblicando centinaia di immagini di vetture in fiamme o bruciate, moltiplicando le testimonianze delle vittime, realizzando delle inchieste sull’odio di questi giovani per tutta la società.
Non si contano i reportage che mostrano queste bande di giovani in azione durante la notte, con il casco in testa ricoperto a sua volta di un cappuccio che maschera il viso.
E ancora abbiamo potuto vedere in primo piano i lanci di bottiglie Molotov e di sassi, gli scontri con le forze dell’ordine e, tra l’altro, l’intervista di uno dei partecipanti agli scontri che sfogava in diretta la sua collera: “Esistiamo, e la prova sono le macchine che bruciano” (Le Monde del 6 novembre) e ancora “finalmente si parla di noi”.
La borghesia ha sfruttato a meraviglia la violenza disperata dei giovani delle periferie per creare un clima di terrore. Per essa questa è un’occasione ideale per giustificare il rafforzamento del suo arsenale repressivo. La polizia può in effetti concedersi il lusso di apparire come la protettrice degli operai, il garante del loro benessere e della loro sicurezza. Il dibattito tra il partito socialista e l’UMP su questo punto ha dato il “la”. Per la destra, la soluzione evidentemente è quella di dare più mezzi alle forze dell’ordine rafforzando le unità di intervento tipo CRS. Per la sinistra la soluzione è la stessa, ma con un diverso approccio. Il PS ha proposto il ritorno della polizia di zona: altrimenti detto, più poliziotti nei quartieri! E’ proprio per questo che questi due grandi partiti borghesi si sono pronunciati a favore dello Stato d’emergenza.
Tutte queste misure di rafforzamento dell’apparato repressivo non potranno mettere fine alle violenze nelle periferie. Al contrario, se esse possono essere efficaci nell’immediato e per qualche tempo, esse prima o poi finiranno per alimentare la tensione e l’odio di questi giovani nei confronti delle forze dell’ordine. Gli uomini politici lo sanno molto bene. In realtà, ciò a cui mira la borghesia con il rafforzamento del controllo poliziesco dei quartieri “sensibili” non sono le bande di adolescenti inoperose ma la classe operaia. Facendo credere che lo Stato repubblicano voglia proteggere i proletari contro gli atti di vandalismo dei loro figli o quelli dei loro vicini, la borghesia si prepara di fatto alla repressione delle lotte operaie quando queste costituiranno una vera minaccia per l’ordine capitalista. La proclamazione dello Stato d’emergenza, per esempio, ha l’obiettivo di abituare la società, a banalizzare il controllo permanente, la presenza continua della polizia e le perquisizioni legali nei quartieri operai.
…e per dividere la classe operaia
La dimensione più ripugnante della propaganda attuale è quella che consiste nel designare gli immigrati come dei capri espiatori.
Per il fatto che i partecipanti alle sommosse sono in parte figli di immigrati, gli operai immigrati sono stati insidiosamente accusati di minacciare “l’ordine pubblico” e la sicurezza delle popolazioni perché incapaci di badare ai loro figli, di dare loro una “buona educazione” trasmettendo loro dei valori morali. Sono questi genitori “irresponsabili” o “dimissionari” che sono stati indicati come i veri colpevoli. E la palma del razzismo spetta sicuramente al ministro del lavoro, Gérard Larcher, per il quale la poligamia sarebbe “una delle cause delle violenze urbane” (Libération del 17 novembre)!
Ma le stesse forze di sinistra hanno apportato il loro piccolo contributo all’operazione, mettendo avanti, con l’ipocrita copertura di un discorso umanitario, le pretese difficoltà della società francese ad integrare popolazioni di “diversi orizzonti culturali” (per riprendere la loro terminologia). I due più grandi sociologi attuali sulla questione delle periferie, Didier Lapeyronie e Laurent Mucchilie, che si collocano dal punto di vista politico nell’ambito della sinistra radicale, insistono infatti sul fatto che, agli occhi dei giovani provenienti dall’immigrazione, “la promozione a scuola è riservata ai ‘bianchi’, i servizi pubblici non sono più per niente dei vettori di integrazione […] e il motto della Repubblica […] è percepito come la maschera di una società di ‘bianchi’.”(Libération del 15 novembre). I proletari immigrati avrebbero dunque un problema specifico che non avrebbe niente a che vedere con il resto della classe operaia.
Indicando i lavoratori immigrati come i veri responsabili delle violenze urbane, la borghesia cerca così di montare gli operai gli uni contro gli altri, di creare una divisione tra francesi e immigrati. Essa sfrutta la rivolta cieca dei giovani delle periferie allo scopo di mascherare la realtà: la pauperizzazione crescente dell’insieme della classe operaia, quale che sia la sua nazionalità, le sue origini o il suo colore. Il problema della miseria, della disoccupazione, dell’assenza di prospettive non sarebbe la conseguenza dell’insormontabile crisi economica del capitalismo, ma si limiterebbe a un problema “di integrazione” o di “cultura”! Demonizzando così i genitori dei giovani partecipanti agli scontri, la classe dominante trova una giustificazione per attaccare i “fautori dei disordini” di oggi ma che, in realtà, servono per attaccare domani tutta la classe operaia. E’ per esempio il caso della soppressione dei sussidi per le famiglie dei “delinquenti”. E che dire delle misure di espulsione immediata degli stranieri presi durante i moti? Il ministro dell’Interno, Nicolas Sarkozy, ha chiesto ai prefetti di espellere “senza esitare dal nostro territorio nazionale” gli stranieri condannati nel quadro delle violenze urbane delle tredici ultime notti, “compresi quelli che hanno un permesso di soggiorno” (Libération del 9 novembre). Ma la classe operaia non deve farsi illusioni. Questa misura non rimarrà una eccezione riservata ai soli “piccoli mascalzoni”. Queste espulsioni territoriali per ‘disturbo dell’ordine pubblico’, lo Stato repubblicano non esiterà a utilizzarle in futuro contro l’insieme della classe operaia quando questa svilupperà le sue lotte: per fare fallire uno sciopero e la sua unità obbligando gli operai che “hanno un permesso di soggiorno” a riprendere il lavoro sotto il ricatto di essere “ricondotti alle frontiere”.
Pawel (17 novembre)
1. Tumulti nelle periferie francesi: di fronte alla disperazione, solo la lotta di classe porta all’avvenire.
2. Crisi dell’emigrazione alla frontiera Spagna-Marocco: l’ipocrisia della borghesia democratica.
Gli scontri che sono scoppiati in Francia tra la fine di ottobre e per tutta una buona metà del mese di novembre scorso sono stati senza dubbio, indipendentemente dal giudizio che si possa dare su di loro, un evento di primo piano sullo scenario mondiale. La nostra organizzazione ha già preso posizione tramite un volantino del 9/11/2005 e un articolo del 17/11[1] [66] mettendo in evidenza come: “gli atti di violenza ed i saccheggi che vengono commessi, notte dopo notte, nei quartieri poveri, non hanno niente a che vedere, né da vicino né da lontano con una lotta della classe operaia.” O ancora che: “quello che sta avvenendo in questo momento in Francia non ha niente a che vedere con la violenza proletaria contro la classe sfruttatrice: le principali vittime delle violenze attuali sono gli operai. E, al di là di quelli che subiscono direttamente le conseguenze dei danni provocati, è l’insieme della classe operaia del paese che è toccata: la campagna mediatica intorno agli avvenimenti attuali maschera di fatto tutti gli attacchi che la borghesia scatena in questo momento anche contro i proletari, così come le lotte che questi cercano di condurre per farvi fronte.”
Naturalmente, vista l’importanza che tali avvenimenti rivestono, sicuramente ci saranno ulteriori riflessioni da parte nostra, anche in riferimento critico a quelle di altre formazioni politiche o rispetto a discussioni presenti tra elementi in ricerca. Se oggi torniamo su questo tema a breve distanza dalla pubblicazione dell’ultima presa di posizione è per reagire all’atteggiamento politico assunto dal BIPR[2] [67] su questo problema, atteggiamento che noi consideriamo sbagliato e molto pericoloso. Per chiarire quello che vogliamo dire ripercorriamo, in senso temporale, l’evoluzione delle prese di posizione del BIPR. Giusto un giorno dopo di noi, il BIPR pubblica una sua presa di posizione in lingua inglese sui moti in Francia che, in generale, è molto somigliante nei contenuti al nostro volantino, anche negli esempi che fa. Riportiamo qui di seguito i passaggi più significativi:
“Questi avvenimenti hanno la loro origine nella povertà e nell’umiliazione quotidiana che questi giovani provano. La maggior parte di loro sono stati espulsi dal sistema scolastico così come dal mondo del lavoro. Essi non hanno futuro se non quello di continuare a vegetare nei ghetti che sono divenuti queste periferie. E’ la crisi del capitalismo che, con il suo approfondirsi, sviluppa queste esplosioni di collera e di violenza. Ma queste rivolte non hanno alcuna prospettiva per la classe operaia. La gran parte di questi giovani non ha mai avuto a che fare con il mondo del lavoro. Essi hanno solo un istinto di classe piuttosto debole e in ogni caso molto confuso. La loro rivolta non ha niente in comune con quelle che abbiamo visto, ad esempio, in Argentina alla fine del 2001 dove i lavoratori affamati si sono organizzati per assalire e svuotare dei supermercati. Niente in comune con i più recenti episodi a New Orleans dove il proletariato bloccato dall’esercito in una città devastata è stato costretto a saccheggiare per sopravvivere. I rivoltosi in Francia distruggono i veicoli dei loro vicini proletari, danno fuoco alle scuole frequentate dai loro fratelli e sorelle, bruciano i supermercati locali, ecc. Queste rivolte, che sono un’espressione della difficoltà che i proletari vivono nelle grandi metropoli capitaliste, non hanno attualmente alcun contenuto politico di classe. (…) Questi movimenti esprimono anche tristemente una mancanza di prospettiva di classe. Essi sottolineano ancora più fortemente la reale necessità che i rivoluzionari contribuiscano alla ricreazione delle condizioni perché la lotta, dal livello delle rivendicazioni immediate, raggiunga un livello politico. In breve, esse mostrano la necessità indispensabile del partito rivoluzionario; un partito che sia veramente comunista, internazionale e internazionalista. Queste rivolte causate dalla disperazione possono solo andare avanti attraverso lo sviluppo di reali lotte di classe, sotto la guida politica del partito rivoluzionario.”
E’ perciò che siamo rimasti piuttosto sorpresi dalla critica fatta di sfuggita dai compagni di Battaglia Comunista[3] [68] alla CCI per il fatto che questa avrebbe espresso una posizione piuttosto “pessimista”, laddove viceversa a noi risultava che le posizioni fossero quasi sovrapponibili. Ma la sorpresa è aumentata quando abbiamo letto, sul forum di Battaglia[4] [69], la presa di posizione di un suo militante in completa contraddizione con quella del BIPR. Ecco quello che dice il compagno, il 7 novembre scorso, in risposta a dei frequentatori del forum più moderati nei confronti degli avvenimenti francesi:
“Sicuramente però siamo dinnanzi ad un fatto epocale, una vera e propria rivolta degli ultimi, del proletariato giovanile emarginato e, dopo decenni di attacchi da parte del capitale. Che84[5] [70], non prendere distanze da questi giovani che hanno riportato il proletariato in maniera spontanea e istintiva negli scontri di strada come forse non succedeva dall’ottocento. Non ti fare abbabbiare dalla propaganda borghese. Questi non sono terroristi. Questa è la nostra classe che sta reagendo alle sue spaventose condizioni di esistenza e lo fa con gli strumenti che ha a disposizione... benzina, bande giovanili, scontri notturni. Sono disperati. Siamo in ritardo ma dobbiamo porci il problema di come incanalare questo potenziale profondamente anticapitalista all’interno di una progettualità rivoluzionaria”. (intervento del 7 novembre 2005).
Abbiamo atteso che Battaglia correggesse questo intervento attraverso la pubblicazione della presa di posizione del BIPR citata prima. Ma questo testo, pubblicato in inglese adesso anche su Revolutionary Perspectives - organo della CWO - e sulle pagine web in lingua francese del BIPR, non è mai apparso in lingua italiana. Invece a sorpresa (nostra) e dopo parecchi giorni è comparso, il 18/11/2005, un comunicato del solo PCInt (Battaglia) dove scompaiono i toni più decisi della presa di posizione del BIPR anche se non si trovano le tesi più sbilanciate espresse sul forum:
“Siamo di fronte ad episodi di rivolta, a forme di una ribellione purtroppo cieca e indiscriminata, in qualche caso anche organizzata in “bande”. (…) Chiaramente non si può (…) ridurre il tutto ad un movimento di “teppaglie” o di “delinquenti comuni” che fanno della violenza l’unico fine.”
Abbiamo dovuto attendere ancora del tempo perché Battaglia superasse finalmente gli ultimi indugi e finisse per sposare la tesi inizialmente difesa sul forum attraverso un articolo[6] [71] che resterà nella storia per le assurdità che vi sono riprodotte. Per il momento basterà riportare quanto segue:
“La crisi del capitalismo e le risposte date dalla borghesia in questi ultimi decenni hanno prodotto un cambiamento significativo nella composizione del proletariato. Cogliere tutti gli aspetti di questa diversa composizione significa evitare di commettere gravissimi errori politici, tali da non comprendere fino in fondo le ragioni e le modalità con le quali si è espressa la rivolta parigina. E’ metodologicamente sbagliato definire i giovani protagonisti della rivolta come dei sottoproletari che, in quanto tali, non meritano l’attenzione delle avanguardie rivoluzionarie (…) La rivolta della periferia parigina è l’espressione del conflitto sociale di un settore del proletariato che in questi ultimi anni è cresciuto enormemente soprattutto tra le nuove generazioni. (…) Sottoproletario è colui che si rifiuta di entrare nel mondo del lavoro pur avendo la possibilità di entrarvi, non colui che subisce una scelta imposta dal capitale. Per Marx, vagabondi, prostitute, delinquenti (…) Al contrario i giovani parigini che si rivoltano e bruciano le macchine fanno tutto ciò in quanto esclusi dal mondo del lavoro e pertanto reclamano di entrare a farvi parte. Il cambiamento nella composizione del proletariato si riflette inevitabilmente nelle modalità in cui si manifesta lo scontro di classe. Chi si aspetta che il conflitto sociale debba avvenire sempre e solo negli stessi termini di trenta o cinquanta anni fa non ha compreso fino in fondo le modificazioni intervenute all’interno del proletariato. (…) Lo schema classico in base al quale lo scontro sociale parte da una base economico-sindacale per crescere sul piano politico, per le nuove generazioni di proletari precari ed esclusi dal mondo del lavoro non è più del tutto vero, poiché il conflitto sociale si manifesta potenzialmente su un terreno immediatamente politico, ma affinché ciò accada, e l’esperienza francese sta lì proprio a rimarcarlo, occorre la presenza del partito rivoluzionario.”
Ciò detto, vogliamo fare alcune osservazioni. Anzitutto, quando Battaglia dice che sarebbe sbagliato definire “i giovani protagonisti della rivolta come dei sottoproletari”, precisando che “sottoproletario è colui che si rifiuta di entrare nel mondo del lavoro pur avendo la possibilità di entrarvi, non colui che subisce una scelta imposta dal capitale”, di fatto tende a identificare il sottoproletariato con la sua parte peggiore, quella che Marx definiva dispregiativamente lumpen-proletariat (il proletariato degli stracci): un settore che rifiuta di entrare nel mondo del lavoro e che vive di piccoli furti, di piccoli rackets o di piccoli traffici illeciti: droga, contrabbando, prostituzione, ecc. Ma questo significherebbe marchiare negativamente quei settori sociali particolarmente sviluppati nei paesi del terzo mondo che costituiscono la massa di « senza riserve », composta di elementi senza lavoro salariato regolare e che vivono di espedienti facendo piccoli lavori alla giornata e che ottengono delle miserabili entrate vendendo per strada cibo per poveri e piccoli oggetti senza gran valore. In secondo luogo va detto che quella di BC è una maniera sbagliata di porre il problema. I rivoluzionari attribuiscono una grandissima attenzione ad ogni forma di rivolta sociale, qualunque ne siano i protagonisti o le prospettive. Allo stesso modo il proletariato, e noi al suo interno, non siamo «indifferenti» alle condizioni di vita abominevoli (fame, oppressione, repressione, ecc.) di cui sono vittime dei settori considerevoli della società non appartenenti al proletariato. Ma accordare un’attenzione non vuole dire considerare tutte queste manifestazioni di violenza sociale come lotte del proletariato o che queste manifestazioni abbiano una qualunque potenzialità di mettere in discussione lo sfruttamento capitalista. In realtà, questa maniera di porre il problema da parte di BC è una maniera di evitare i veri problemi. D’altra parte il problema non è tanto sociologico, ma riguarda piuttosto le modalità della lotta. Anche se i partecipanti agli scontri fossero stati tutti proletari doc – e non lo sono - questo non avrebbe spostato il giudizio su queste lotte di un’acca perché è il loro contenuto cieco, privo di ogni prospettiva, l’avanzare sotto la spinta della rabbia contro tutto e non di un proposito di lottare per qualcosa, che fa la differenza.
Battaglia, assieme alle altre componenti del BIPR, insiste molto sulla necessità della costruzione del partito. Anche la CCI considera che il partito è un organo indispensabile per la classe (altrimenti, la CCI non consacrerebbe tanti sforzi alla questione dell’organizzazione nelle sue discussioni e negli articoli della sua stampa). Tuttavia, vi è una tendenza nel BIPR (che ritroviamo anche nelle formazioni bordighiste) a fare della necessità del partito LA QUESTIONE n°1 (quando non si tratta della SOLA QUESTIONE) quando si tratta di tirare le lezioni di una qualunque situazione con la quale sia confrontata la classe operaia. Per quanto ci riguarda su questa questione noi ci ispiriamo molto più agli scritti di Marx o di Lenin i quali non ritenevano necessario concludere ognuno dei loro articoli con «occorre il Partito» o con la frase «se il Partito fosse stato presente, le cose sarebbero andate in maniera diversa».
Ed è appunto a proposito di questa ultima maniera di porre il problema a proposito dei moti in Francia che noi non siamo per niente d’accordo con BC. In effetti BC dice che la presenza del partito all’interno di questi movimenti avrebbe potuto imprimergli una dinamica diversa. In realtà, il partito non è un omino con il flauto magico che si porta dietro dei sorci senza anima, ma l’avanguardia che agisce all’interno della classe e che ha una efficacia nel suo intervento maggiore o minore in funzione della diversa maturità con cui si presenta il movimento della classe. Ora, i rivoltosi francesi, per bocca dello stesso BIPR, avevano una consapevolezza pressoché nulla di quello che facevano[7] [72], per cui strombazzare che il partito risolve tutto è un modo per tranquillizzare la propria coscienza e basta.[8] [73] Ma tant’è, visto tanto parlare di partito, ci chiediamo allora cosa avrebbero percepito i rivoltosi francesi da questo PCInt se fosse stato presente in Francia, come avrebbero interpretato questi messaggi contraddittori l’uno rispetto all’altro. E, per non andare troppo lontano, gli stessi frequentatori del forum di Battaglia lo sanno che la stessa organizzazione (il BIPR) in Italia prende una posizione e in Gran Bretagna o in Francia ne prende un’altra[9] [74]? Alla fine vogliamo porre una domanda esplicita a Battaglia e al BIPR: secondo voi qual è il messaggio da dare agli elementi influenzati dai moti in Francia, tentati dagli scontri di piazza. Che dire: andate e partecipate all’incendio e alla distruzione di tutto quello che trovate in giro, oppure andate e portate le parole d’ordine rivoluzionarie, o cos’altro ancora? E agli stessi lavoratori italiani o inglesi o francesi cosa diciamo: prendete la benzina e andate a bruciare le scuole e le macchine o cosa altro? E sì perché, mentre dalla presa di posizione del BIPR (ma che sembra difesa realmente solo dalla CWO e dalla sezione francese), “queste rivolte non hanno alcuna prospettiva per la classe operaia” o ancora “non hanno attualmente alcun contenuto politico di classe”, da quello che dice Battaglia nel suo forum o nella sua presa di posizione “italiana”, “Siamo dinnanzi ad un fatto epocale. (…) Questa è la nostra classe che sta reagendo alle sue spaventose condizioni di esistenza e lo fa con gli strumenti che ha a disposizione... benzina, bande giovanili, scontri notturni.”; “La rivolta della periferia parigina è l’espressione del conflitto sociale di un settore del proletariato che in questi ultimi anni è cresciuto enormemente”.[10] [75] Naturalmente torneremo presto sull’argomento perché queste contraddizioni all’interno del BIPR, se mostrano nell’immediato la completa incapacità di questa formazione a costituire un chiaro e coerente punto di riferimento rivoluzionario (figuriamoci di partito!!) all’interno di una qualunque situazione sociale, nascondono ancora ulteriori pesanti scivoloni sul piano programmatico, segnatamente sulla questione della natura della classe e della lotta di classe, che esprimono una pericolosissima deriva che può portare Battaglia ad abbandonare progressivamente il marxismo. Ma di questo ci occuperemo prossimamente.
4 dicembre 2005
Ezechiele
[1] [76] Si tratta dei testi: “Tumulti nelle periferie francesi: di fronte alla disperazione, solo la lotta di classe porta all’avvenire”, pubblicato sul nostro sito web, e di “Francia: la borghesia utilizza gli scontri nelle periferie contro la classe operaia”, pubblicato, oltre che sul web, sul n° 143 del nostro giornale.
[2] [77] BIPR: Bureau Internazionale per il Partito Rivoluzionario, organizzazione internazionale che raggruppa Battaglia Comunista in Italia, la Communist Workers Organisation in Gran Bretagna, Bilan et Perspectives in Francia, Internationalist Notes nell’America del nord e Circulo Comunista Internacionalista in America del sud.
[3] [78] In occasione di una loro riunione pubblica a Napoli.
[4] [79] Al forum si può accedere tramite il sito di Battaglia che è: www.internazionalisti.org [80]
[5] [81] Che 84 è lo pseudomino che si è dato uno dei compagni che frequenta il forum di Battaglia Comunista.
[6] [82] “Sulla rivolta parigina”, testo pubblicato sul sito di BC il 25/11/05.
[7] [83] “Violenza che è sembrata fine a se stessa, non avendo il movimento dei rivoltosi dichiarato alcun obiettivo da raggiungere né di tipo economico né tanto meno di tipo politico. Una sommossa proletaria, nella sua componente sociologica, che si è espressa con le caratteristiche tipiche delle rivolte sottoproletarie. Che la rivolta assumesse queste caratteristiche è la logica conseguenza del totale disarmo ideologico subito dal proletariato in questi decenni. Un disarmo così profondo tale da non far percepire ai diversi settori del proletariato la coscienza di appartenere ad un’unica classe sociale” (BC, Sulla rivolta parigina).
[8] [84] Per tutto il Medio Evo, gli alchimisti hanno cercato invano la «Pietra filosofale » che avrebbe permesso loro di trasformare il piombo in oro. E’ solo quando la borghesia ha stabilito il suo dominio sulla società e il capitalismo ha trionfato sugli altri modi di produzione che la chimica (come le altre scienze naturali) è divenuta una disciplina razionale e non più mistica. La scienza è stata allora capace di compiere dei prodigi ben superiori a quelli che prevedevano gli alchimisti. Ma essa ha rinunciato a voler trasformare il piombo in oro. Evidentemente BC (con i vari epigoni della Sinistra italiana) non ha tirato ancora questa lezione della storia. Chiusa nel suo misticismo, essa confonde chimica con alchimia e sogna ancora la Pietra filosofale, il PARTITO, che potrebbe trasformare il piombo in oro.
[9] [85] Per quanto riguarda le altre sedicenti sezioni del BIPR, quella nord-americana e quella sud-americana, sembra che la cosa non riguardi loro visto che sul sito non è comparsa la minima ombra di posizione sugli avvenimenti francesi.
[10] [86] Noi non svilupperemo qui una questione molto semplice che BC non pone ma che vale la pena d’essere posta (come l’ha fatto la CCI nelle sue prese di posizione), ovvero quale sia il settore della società che ha tirato i maggiori vantaggi dai moti ciechi di ottobre-novembre in Francia. La risposta è altrettanto semplice: non è certamente la classe operaia, la quale deve fare i conti con:
a) una distrazione rispetto alle sue lotte;
b) il rafforzamento delle misure contro gli operai immigrati e un’intensificazione delle campagne xenofobe (con il suo corrispondente “di sinistra” e “democratico” sui “diritti degli immigrati”, la necessità di avere più lavoratori “sociali”, sulla denuncia del “liberalismo”, che hanno tutti per obiettivo quello di fare appello a un “buon capitalismo”);
c) un rafforzamento della repressione e delle campagne sull’ordine pubblico (in seguito ai moti, la borghesia ha fatto accettare senza difficoltà l’applicazione dello stato d’emergenza: domani, sarà molto più facile fare appello a una tale misura di fronte a delle vere lotte operaie.
Le vere lotte su un terreno di classe, anche quando vengono sconfitte, possono costituire una esperienza produttiva (anche per i proletari che non vi hanno partecipato direttamente) in termini di solidarietà, di rafforzamento della fiducia in sé, della comprensione delle trappole tese dalla borghesia e delle manovre sindacali. Invece, niente di tutto ciò dagli ultimi moti. D’altra parte è proprio per questo che il black-out che normalmente accompagna le lotte operaie importanti nella stampa internazionale ha lasciato il posto ad un vero scatenamento mediatico sulle sommosse e sugli incendi.
Sono ormai più di due anni che l’esercito americano ha preso il controllo dell’Iraq. E sono ugualmente più di due anni che il caos si sviluppa implacabilmente su tutto il paese. Circa 120.000 morti nella popolazione, 2000 soldati americani uccisi e 18.000 feriti, senza contare le distruzioni di abitazioni o di edifici pubblici: l’Iraq conosce una delle peggiori situazioni della sua storia, dopo la II Guerra mondiale e la guerra contro l’Iran. Ma, oltre alle devastazioni che si abbattono sugli Iracheni, questa guerra ha per effetto di attizzare ulteriormente le tensioni imperialiste di piccoli e grandi paesi, ed è l’insieme del Medio e vicino Oriente che è entrato irrimediabilmente in un periodo di instabilità più esplosiva che mai. Il triplo attentato di Amman in Giordania, che era stata finora risparmiata, ha segnato in maniera chiara la dinamica attuale di estensione di questa instabilità.
L’intervento americano ha così aperto la via ad una fase di accelerazione verso la barbarie militare, verso l’aggravarsi di tutti i conflitti aperti o latenti in una regione da sempre piena di pericoli.
La situazione dell’Iraq è quella di un paese devastato, in pieno marasma economico e sociale e in una situazione da vigilia di guerra civile. Il “nuovo Iraq” “prospero” e “democratico” annunciato dall’amministrazione Bush, è una rovina. La guerriglia permanente contro le forze di occupazione e la continuazione dei molteplici attentati perpetrati ignobilmente contro i civili iracheni, rendono completamente illusoria ogni idea di ricostruzione. Inoltre le divisioni tra cricche sunnite, sciite e curde, che prendono in ostaggio popolazioni provate e scombussolate, si sono violentemente acuite. E’ questo che si può prevedere per lo stato iracheno, attraversato come è dalle peggiori lacerazioni. Al nord, i Sunniti e i vecchi baasisti, sostenuti attivamente dalla Siria, fanno una continua pressione sui Curdi attraverso assassini allo scopo di cacciarli verso i confini della Turchia e dell’Iran. A Bagdad e al sud predominano invece le lotte tra frazioni sciite e sunnite. Omicidi, attentati e minacce sono il destino quotidiano delle relazioni tra queste due frazioni che si straziano reciprocamente per il controllo del potere.
Una tale situazione non poteva che aumentare gli appetiti imperialisti dell’Iran e della Siria. Quest’ultima fa già da base arretrata ai terroristi sunniti e ad altri ex-uomini di fiducia di Saddam Hussein, marcando così la sua volontà di intervenire in difesa dei suoi interessi nella mischia irachena. Un tale contesto, con la sua recente esclusione dall’altopiano del Golan, una delle sue rivendicazioni territoriali fondamentali, non ha potuto che attizzare ancora di più le sue velleità guerriere in direzione dell’Iraq.
Per quanto riguarda l’Iran, che gioca a braccio di ferro con gli Stati Uniti e i paesi europei sulla questione della costituzione di un armamento nucleare, il marasma esistente in Iraq e la posizione di forza degli Sciiti nel governo, in particolare nelle forze di sicurezza, è una vera fortuna. Esiste, sul breve periodo per lo Stato iraniano, una via aperta verso un’influenza determinante e preponderante in tutto il vicino Oriente e il rafforzamento di una posizione strategica sul Golfo Persico e le zone petrolifere. E’ questa prospettiva che lo spinge ad andare impettito di fronte alle grandi potenze; d’altra parte il ritorno in forze della frazione più retrograda e di “duri” del regime annunciano un’involuzione verso uno stato di guerra.
L’esodo delle popolazioni curde che si avviano verso il nord costituisce a sua volta un ulteriore fattore di instabilità di questa regione dell’Iraq che aveva conosciuto, nonostante la guerra, una calma relativa.
Infine, l’attentato che si è prodotto nel cuore di Amman e che tutta la borghesia internazionale si è affrettata a “denunciare”, è venuto a ricordarci che non un territorio, non una sola regione saranno risparmiati dalle forze distruttrici messe in moto in questo momento. Questo attentato-suicidio è tanto più significativo per il fatto che esso colpisce, attraverso la Giordania, gli interessi americani e fanno un legame diretto tra la questione dell’Iraq e quella del conflitto israelo-palestinese. Questo piccolo paese ha giocato in effetti un ruolo tampone determinante tra Israele e i gruppi palestinesi, l’OLP in particolare, che esso ha ospitato fino ai dirottamenti aerei dell’inizio degli anni ‘70, per conto dell’imperialismo americano. Si tratta dunque di un indefettibile alleato degli Stati Uniti e della Gran Bretagna che è attualmente sotto il fuoco dei terroristi, così come l’Arabia Saudita che subisce, a partire dall’ultima guerra in Iraq, gli attacchi ripetuti dei membri di Al Qaida.
Così, basta guardare una carta geografica per comprendere l’estensione del disastro che si sviluppa nel vicino e nel Medio Oriente.
In questa situazione occorre ancora prendere in considerazione la scalata guerriera portata avanti da Sharon che non può che portare ad un aggravamento delle tensioni con i Palestinesi e i diversi gruppi armati come Hamas, ma anche tra quest’ultimo e Al Fatah. Inoltre, la politica guerriera d’Israele, propinata sotto la maschera di un disimpegno dalla striscia di Gaza che è destinata a trasformarsi in un enorme ghetto, ha per obiettivo di controllare meglio e di attaccare il territorio della Cisgiordania, regione strategica importante per Tel-Aviv, ma anche, dietro a ciò, di dispiegare più mezzi in direzione del Libano.
In questa situazione è chiaro che l’amministrazione americana prova le più grandi difficoltà per continuare a giustificare il suo intervento e il mantenimento della sua presenza militare in Iraq. Quella della lotta contro il terrorismo ha fatto il suo tempo, nella misura in cui l’ondata di attentati non è mai rifluita, né in Iraq in presenza della prima potenza mondiale, né nel resto del pianeta. E piuttosto che l’instaurazione della “democrazia” e della “pace”, è il caos che regna sovrano. E’ per questo che l’amministrazione Bush si trova presa tra il fuoco delle critiche che subisce da parte dei suoi avversari all’interno della “comunità internazionale”, Francia e Germania in testa, e di quelle provenienti dalla stessa borghesia americana. Oltre ai democratici, sono gli stessi elettori di Bush, quelli del partito repubblicano, che cominciano a recalcitrare di fronte all’impopolarità crescente della politica guerriera americana. Il calo di popolarità di Bush negli Stati Uniti, i dibattiti che si sono aperti al Senato, a maggioranza repubblicana, sulla necessità per l’America di cominciare a ritirare le sue truppe dall’Iraq dal 2006, o ancora sulla questione della tortura di prigionieri di Guantanamo, le manipolazioni ormai accertate sulle prove fabbricate sull’esistenza di armi di distruzione di massa in Iraq, mostrano l’impasse nella quale si trova attualmente la borghesia d’oltre oceano.
La logica dell’occupazione si trova un giorno dopo l’altro ridotta a niente.
E, malgrado certi tentativi di dimostrazione della forza militare, che si è potuta vedere ad esempio attraverso l’offensiva di settembre contro i bastioni ribelli del nord dell’Iraq, l’impotenza degli Stati Uniti in Iraq è sempre più manifesta.
Così il Pentagono viene preso tra due fuochi:
- quello della pressione di una opinione pubblica che esprime la sua inquietudine di fronte all’inutilità dell’operazione militare in Iraq, pressione che lo spinge a partire il più rapidamente possibile;
- quello di una situazione di catastrofe sociale esistente in Iraq che contraddice completamente gli annunci di ripristino della pace e della stabilità “democratica” promesse prima dell’intervento militare e che erano le maggiori giustificazioni dell’intervento stesso.
Questa posizione difficile in cui si trovano gli Stati Uniti non può che far piacere alle potenze che si sono opposte alla guerra in Iraq, in quanto serve loro come base per le loro critiche alla prima potenza mondiale e per giustificare i loro propri intrighi imperialisti sotto il pretesto di offrire i loro buoni uffici. E’ questo che abbiamo visto per esempio in occasione dell’attentato di Amman, dove la Francia, attraverso la voce di Villepin, si è data da fare per proporre il suo aiuto alla Giordania, cercando in realtà di utilizzare questi attentati per invadere il campo degli americani.
Il mondo che la borghesia prepara all’umanità si può misurare alla luce degli orrori che si producono in Iraq e nella regione del Medio Oriente, ma anche nel resto del pianeta, e le sue menzogne sono formulate in ragione dei colpi che questa ci prepara.
L’irrazionale fuga in avanti del capitalismo nel caos e la barbarie guerriera trascina il mondo alla rovina. Solo il rovesciamento e la distruzione di questo sistema potrà permettere di costruire un’altra società, il comunismo.
Mulan (19 novembre)
1. Perché ritornare ad una critica delle posizioni di Cervetto?
Da qualche tempo molti compagni ci scrivono per chiederci cosa pensiamo di Lotta Comunista (LC), quali sono le nostre critiche o ancora come mai la consideriamo un gruppo controrivoluzionario visto che questa “si richiama alla Sinistra Comunista”, “difende le posizioni di Lenin” e “mostra un rigore politico non indifferente”. Si tratta in genere o di compagni simpatizzanti di Lotta Comunista che, pur criticandone degli aspetti, considerano tuttavia questo gruppo come un punto di riferimento o ancora di suoi ex militanti che, pur essendo usciti da LC con divergenze anche importanti sia sul piano organizzativo che di analisi, continuano a fare riferimento alle posizioni storiche di LC, cioè a quelle del suo fondatore, Arrigo Cervetto. Che questa necessità di capire se LC risponde o no alle esigenze della lotta di classe emerga in questo momento, non ci sembra strano. Tutto quello che sta succedendo nel mondo, l’accelerazione storica che stiamo vivendo a tutti i livelli (blocchi imperialisti che scompaiono, pezzi interi di economia che crollano, scontri imperialisti incessanti e devastanti, miseria e precarietà dilagante nel cuore del capitalismo, ecc.), non solo fanno aumentare il disgusto per questa società, ma anche la necessità di avere una chiarezza su tutto questo per capire quale può essere la risposta, in che direzione muoversi. Chiarezza e risposte che, a nostro avviso, non possono venire da un gruppo che in sostanza dice che nulla è cambiato da cento anni a questa parte, e che si limita a fare studi sulla componentistica di questo o quel settore produttivo o a riproporre una visione economicista del mondo, mentre continua la nefasta politica di sostegno (“critico”) al sindacato, una delle più subdole armi della borghesia contro i lavoratori. Questa incapacità di LC a dare una risposta ai problemi che oggi la classe ha di fronte non dipende da un suo venir meno alle posizioni ed alla politica originaria di Cervetto, ma proprio da queste posizioni e da questo metodo che non sono mai stati della Sinistra comunista e nei fatti, come vedremo, neanche dello stesso Lenin.
L’azione politica di LC non si limita però a essere inefficiente per la classe operaia. Proprio perché questo gruppo si fa passare come continuità della tradizione storica del movimento operaio, mentre ne deforma i contenuti e gli insegnamenti, costituisce un ostacolo a quel processo di maturazione politica della classe ed in particolare della nuova generazione di elementi alla ricerca di una prospettiva di classe. Come diceva Lenin nel Che fare? criticando il socialdemocratico Kricevski, uno dei difensori dell’economicismo di Bernstein “… si può immaginare cosa più superficiale di un giudizio su tutta una tendenza basato su ciò che dicono di se stessi coloro che la rappresentano?”.
Per questi motivi riteniamo importante sviluppare, a partire da questo articolo, una critica di fondo di LC che parta dalle origini, cioè dal metodo e dalle posizioni di Cervetto, cogliendone gli aspetti essenziali: costruzione del partito, coscienza di classe, rapporto partito-classe, sindacato. I testi cui faremo principalmente riferimento nella discussione sono i due testi di base di Cervetto “Lotte di classe e partito rivoluzionario” (del 1966) e “Tesi sullo sviluppo imperialistico, durata della fase controrivoluzionaria e sviluppo del partito di classe” (del 1957).
In questo primo articolo vedremo quale partito secondo Cervetto bisogna costruire.
2. Quale partito per la rivoluzione comunista mondiale?
L’opuscolo “Lotte di classe e partito rivoluzionario” si propone, come dice lo stesso Cervetto nella prefazione, “di mettere in chiaro le linee fondamentali della concezione leninista del partito”. La stessa prefazione si conclude con l’affermazione che “La necessità di affrontare il problema del partito rivoluzionario studiando seriamente Lenin è oggi più che mai attuale. La costruzione del partito leninista in Italia incontra sul suo cammino questo passo obbligato” (sottolineato da noi). Questo breve passaggio sulla “costruzione del partito leninista in Italia” è tutto un programma. Infatti, nella misura in cui nell’opera di Cervetto (e di LC dell’epoca) non troviamo riferimenti a processi di costruzione dell’avanguardia in altri paesi del mondo, ci viene da chiederci: perché proprio (e solo) in Italia? Possibile che la costruzione del partito che dovrà guidare la rivoluzione mondiale, della classe operaia mondiale, debba nascere proprio e solo in Italia? Ma vediamo meglio da dove viene fuori questa posizione più volte reiterata da Cervetto e mai smentita da LC. Cervetto spiega, nelle sue Tesi del ’57, che “Dato l’attuale livello del mercato mondiale, per cui vastissime zone sono ancora nella prima fase di costruzione del capitalismo (stiamo parlando del ’57, ndr), non si pone ancora concretamente il problema rivoluzionario dell’avvento dell’economia socialista su scala internazionale. (…) Affinché queste condizioni si presentino concretamente occorre che il settore ad economia arretrata (cioè i 2/3 del mondo secondo Cervetto, ndr) superi tutto il primo stadio dell’industrializzazione. (…) Praticamente il problema della rivoluzione socialista su scala internazionale si presenterà all’ordine del giorno solo quando lo sviluppo economico delle zone arretrate sarà giunto al punto da raggiungere una certa autosufficienza e da non poter più assorbire l’importazione di merci e di capitali provenienti dalle potenze imperialiste”. “E’ quindi nel quadro di una valutazione d’ordine internazionale che la Sinistra Comunista deve delineare una propria azione politica” e dove? In Italia naturalmente, visto che “il programma di azione della Sinistra Comunista” sta essenzialmente in tre punti: analizzare la situazione italiana da cui deriva “la tattica verso il PCI” (1) di “lotta contro la direzione del PCI”; “organizzare una propria corrente sindacale nella CGIL” conducendo “trattative con i compagni anarchici”; “organizzare su scala nazionale tutta una serie di gruppi che dalla base locale si coordinino provincialmente e regionalmente sino a formare comitati provinciali e regionali collegati strettamente con il Centro”.
Tralasciamo la critica alla megalomania di chi identifica la Sinistra Comunista al proprio gruppo se non alla propria persona, quando il movimento operaio con questo termine ha sempre inteso l’insieme delle correnti e dei gruppi usciti dalla III Internazionale, che hanno mantenuto saldi i principi ed il metodo marxista contro la degenerazione o il tradimento dei vecchi partiti operai.
La questione centrale è che, dietro la montagna di parole su metodo leninista, analisi scientifica, scienza della rivoluzione, ecc., c’è una assenza totale di metodo marxista e di visione storica. E’ sorprendente come nei testi di Cervetto non ci sia mai un benché minimo riferimento a come si è posta la questione del partito nel movimento operaio ed a quali sono state le risposte date nelle diverse fasi storiche. Se si vuole usare il metodo marxista, come lo stesso Lenin ha fatto, non si può affrontare la questione del partito se non situandola nel contesto economico e sociale della fase storica in cui ci si trova e facendo riferimento all’esperienza del movimento operaio maturata nelle differenti tappe della lotta di classe. Se il partito è un fattore indispensabile per lo sviluppo rivoluzionario della classe, esso è al tempo stesso un’espressione dello stato reale di questa ad un momento dato della sua storia e delle condizioni oggettive esistenti.
Ora, presentare il capitalismo della fine degli anni 60 come un sistema che deve ancora sviluppare a pieno le proprie potenzialità per cui non sarebbe all’ordine del giorno il suo abbattimento, manifesta una completa incomprensione di cosa è il capitalismo. L’estensione del modo di produzione capitalista a livello globale non è sinonimo di industrializzazione di ogni singolo angolo della terra, ma significa che i meccanismi di produzione e di distribuzione delle merci ed i rapporti di produzione che ne derivano governano l’intera economia mondiale. Ma soprattutto lo sviluppo del capitalismo non può avvenire in maniera omogenea perché il modo di produzione capitalista si basa sulla concorrenza. Questo comporta che, ad un certo stadio del suo sviluppo, quando iniziano a venir meno in maniera consistente i mercati dove il plusvalore inglobato nelle merci deve essere realizzato per poter essere reinvestito in nuovi cicli produttivi, lo sviluppo dei capitali nazionali più forti può avvenire solo a scapito di quelli più deboli. Affermare, come fa LC ancora nel 1995 che “Se a cavallo degli anni ’60 circa i due terzi della popolazione del mondo erano immersi nell’arretratezza, oggi si può stimare che quella condizione riguardi circa un terzo dell’umanità”, significa scambiare il crollo economico di interi paesi (dall’ex Unione sovietica, alle famose “tigri asiatiche” e per ultima l’Argentina), lo smantellamento di intere aree industriali dei paesi avanzati, l’incapacità crescente di integrare nel ciclo produttivo parti significative della forza lavoro - tutti effetti della senilità del capitalismo derivanti dalla sua crisi storica - per manifestazioni di crescita adolescenziale (2).
Tornando dunque all’impostazione di Cervetto va detto che questa è clamorosamente sbagliata su due diversi piani. Sia perché un partito costruito su base nazionale, oggi come oggi, non sarebbe più in grado di rispondere alle esigenze politiche del momento, sia perché l’aspirazione alla dimensione internazionale nel lavoro dei rivoluzionari è stato presente sin dagli albori del movimento operaio. Vediamo cosa ci insegna la storia della nostra classe.
Nel 1848 si costituisce la Lega dei Comunisti, primo vero partito del proletariato moderno, sulla base della parola d’ordine “Proletari di tutti i paesi, unitevi. I proletari non hanno patria” che proclama la sua natura di organizzazione internazionale. Nel 1864 nasce l’Associazione Internazionale dei Lavoratori, la I Internazionale che, fondata a partire dall’iniziativa degli operai della Francia e dell’Inghilterra, raggruppa migliaia di lavoratori dei paesi industrializzati o in via di sviluppo, dall’America alla Russia. Benché il proletariato fosse in piena fase di sviluppo, così come il capitalismo, le due organizzazioni politiche della classe, anche se originatesi in paesi specifici, si pongono immediatamente sul piano internazionale perché, come spiega chiaramente già “Il Manifesto”, l’internazionalismo è non solo una possibilità per la classe operaia, che non ha nessun interesse nazionale da difendere, ma è una necessità che le impone la natura del suo compito rivoluzionario. E tutta la lotta condotta da Marx e dal Consiglio Generale all’interno della I Internazionale contro la visione federalista degli anarchici ha alla base questa comprensione di fondo.
La II Internazionale nasce nel 1889, nella fase di pieno sviluppo del capitalismo in cui il riformismo assume un peso preponderante perché il proletariato può effettivamente lottare per ottenere dei miglioramenti reali e duraturi delle sue condizioni di vita e di lavoro. In questa situazione l’Internazionale è essenzialmente una federazione di partiti nazionali che lottano nei rispettivi paesi con programmi diversi (sul piano del parlamentarismo, del sindacalismo, delle riforme sociali, ecc). La possibilità di una politica per le riforme non solo determina il tipo di organizzazione politica della classe (partiti di massa), ma effettivamente restringe l’orizzonte della lotta proletaria nel quadro nazionale. Eppure anche nella II Internazionale una minoranza, tra cui R. Luxemburg, si batte perché le decisioni prese dai congressi di questa siano applicate dai differenti partiti nei rispettivi paesi.
Come sin dall’inizio del movimento operaio, la prospettiva internazionale è stata sempre presente nelle diverse organizzazioni politiche della classe, ma date le condizioni oggettive di sviluppo del capitalismo e di crescita numerica, politica e sociale del proletariato, in questa fase era possibile e necessaria la formazione di partiti di massa che agissero a livello nazionale per favorire questa crescita perché le battaglie per la giornata lavorativa di 10 ore, per il voto, per il sindacato, i proletari le facevano scontrandosi contro la propria borghesia nazionale.
La prima guerra mondiale del 1914 e l’esplosione della prima ondata internazionale rivoluzionaria il cui punto più alto è la rivoluzione proletaria in Russia nel ’17, mostrano il cambiamento di fase storica avvenuto nello sviluppo del capitalismo: il sistema di produzione capitalistico entra nella sua fase di decadenza e si apre l’epoca delle guerre e delle rivoluzioni nella quale si pone l’alternativa comunismo o barbarie. La III Internazionale (1919), costituitasi intorno alle Frazioni ed alle minoranze di sinistra uscite dalla II Internazionale, tra le quali quella bolscevica, sulla base della comprensione che “Una nuova epoca è nata. Epoca di disgregazione del capitalismo, del suo crollo interno. Epoca della rivoluzione comunista” (1° Congresso), riafferma con fermezza l’internazionalismo proletario concependosi non come federazione di partiti nazionali, ma direttamente come organizzazione politica internazionale del proletariato. E proprio Lenin, all’interno dell’IC, si batterà contro le “particolarità” di alcuni partiti che servivano da paravento per il loro opportunismo e difenderà di fronte a R. Luxemburg la necessità di formare un partito mondiale prima ancora che si consolidassero, o si formassero, in ogni paese i partiti comunisti. Se Lenin, nonostante le difficoltà che il passaggio di epoca storica rappresentava per le avanguardie rivoluzionarie dell’epoca, è stato capace di portare tutta una battaglia, all’interno della socialdemocrazia russa prima e nell’IC dopo, per la costruzione di un partito internazionale e centralizzato, che potesse parlare con una sola voce a tutti i proletari del mondo e dare loro delle indicazioni politiche chiare, è perché Lenin è partito sempre da un’analisi storica e dagli interessi generali e storici del proletariato come classe, rifacendosi di continuo a quanto il movimento operaio aveva espresso e stava esprimendo.
E’ a partire da questi insegnamenti, difesi durante la fase controrivoluzionaria del secondo dopoguerra da esigue minoranze rivoluzionarie, quali Bilan ed Internazionalisme (3), che la nostra organizzazione si è costituita nel 1975 direttamente sul piano internazionale, operando un lavoro di confronto e raggruppamento tra i diversi gruppi e nuclei di compagni sorti in Francia, Gran Bretagna, Italia, USA e Spagna in seguito all’ondata di lotta internazionale della fine degli anni ‘60. Se oggi la CCI è presente in 13 paesi del mondo ed è capace di intervenire simultaneamente verso i proletari di questi paesi e ovunque le sia possibile arrivare, è perché parte dalla convinzione che il quadro internazionale è il punto di partenza per l’attività nazionale piuttosto che un risultato di questa ed a tale scopo si è dotata sin dall’inizio di un organo centrale internazionale che le permette di centralizzare la sua attività e parlare con una sola voce ovunque ed in qualsiasi momento.
Con questo primo articolo abbiamo visto come la visione del partito difesa da Cervetto prescinda completamente dalla dimensione internazionale di questo e, limitandone il concetto al quadro nazionale, si fa debitrice di una visione ottocentesca del partito inadeguata alle esigenze dello scontro rivoluzionario. Ma c’è di più. Come vedremo nel prossimo articolo, il tipo di partito che propone Cervetto, per la sua impostazione e la sua pratica, non solo è inadeguato ai tempi che viviamo, ma è l’espressione di un partito borghese.
Eva 1 dicembre 2005
1. Partito Comunista Italiano, vecchio partito stalinista dalla cui dissoluzione sono nati: Rifondazione Comunista di Bertinotti, i Democratici di Sinistra di Fassino e il Partito dei comunisti italiani di Cossutta e Diliberto.
2. Per l’analisi sulle diverse fasi storiche del capitalismo e sulle conseguenze politiche da esse derivanti, vedi il nostro opuscolo “La decadenza del capitalismo”. Numerosi articoli sulle manifestazioni della crisi economica del capitalismo si trovano sul nostro sito internet in diverse lingue.
3. I compagni della Frazione di Sinistra del PCI in Francia che pubblicavano la rivista “Bilan” e quelli di Internationalisme seppero custodire e sviluppare il patrimonio politico dei vecchi partiti rivoluzionari permettendo alla futura generazione di legarsi a questo filo rosso.
E’ già più o meno un anno che i lavoratori italiani sono bombardati da una campagna elettorale ininterrotta. Come non ricordare le scorse elezioni regionali, e poi le elezioni primarie per “scegliere” il candidato premier per il centrosinistra (si sono inventati anche questo), adesso per le prossime politiche, e già ci hanno promesso che subito dopo bisognerà andare a votare al referendum confermativo della legge costituzionale sulla “devolution”. Insomma non bisogna preoccuparsi, ce ne avremo ancora per un po’. E questo non avviene a caso. Quale che sia l’elezione che abbiamo davanti, perfino le chiaramente inutili elezioni primarie (1), la campagna è sempre la stessa: il popolo “sovrano” è chiamato a scegliere, e lo deve fare bene, e se sbaglia, peggio per lui. Questa è la democrazia! Mica preferireste un altro meccanismo? Magari una bella dittatura che decide tutto lei? Certamente no, e quindi preoccupatevi di partecipare, pensate a chi dovete votare, e, soprattutto, non pensate ad altro. Non pensate ai problemi reali di tutta la classe lavoratrice, che sono quelli di un salario che non basta più ad arrivare alla fine del mese, la precarietà del posto di lavoro, la difficoltà crescente ad assicurarsi una pensione decente, e così via. E meno che mai pensate a poter lottare per difendere le vostre condizioni di vita. Ed infatti le lotte, benché poche e normalmente controllate dai sindacati, sono quasi scomparse dalle pagine dei giornali, perché il messaggio deve essere unico e solo, e cioè quello che abbiamo citato prima.
Non è un caso che al di là delle differenze fra le diverse forze politiche, parlamentari o no, tutte partecipano a questa campagna. Ogni forza invita a votare per sé, naturalmente, ma il messaggio fondamentale è quello di convincere i lavoratori ad andare a votare. In questa attività però sono le forze di sinistra a distinguersi particolarmente, come l’invenzione delle primarie lo dimostra; e questo non fa che confermare il ruolo di queste forze, e cioè quello di essere i migliori mistificatori, nei confronti della classe operaia, rispetto a quello che è questa società. E con che raffinatezza di mistificazioni: chi non ha sentito dire che bisognava andare a votare alle primarie per Bertinotti, perché anche se era chiaro che lui non poteva mai essere il candidato premier del centrosinistra “il numero di voti che avrebbe ricevuto avrebbe poi ‘condizionato a sinistra’ il programma di governo”; e che dire della candidatura di un illustre sconosciuto, come Scalfarotto, che stava lì solo per dare maggiore credibilità alla farsa; ed infine che dire della presenza perfino di un candidato dei no-global, che ha segnato in maniera definitiva la collocazione di questi ex estremisti e disobbedienti nell’arco delle forze istituzionali.
Come non essere colpiti da questa unità così larga? Come non dedurre da questo che la mistificazione elettorale costituisce per la borghesia un potente strumento di distrazione e di freno per la classe operaia, per la sua riflessione autonoma, per le sue lotte? E non costituisce invece per niente un terreno che la classe operaia può utilizzare per difendere i suoi interessi.
E la conferma la troviamo se andiamo a vedere quello che è accaduto in altri paesi a noi vicini: la Francia, che per più di tre mesi, questa primavera, è stata bloccata intorno alla “vitale” questione del referendum sulla costituzione europea, con la sinistra che invitava a votare NO perché “si tratta di una costituzione liberale” e che ha gridato alla “grande vittoria” quando il NO ha prevalso (come se ai proletari francesi fosse entrato qualcosa in tasca); la Germania che ha appena superato un periodo di elezioni anticipate, volute da Schroeder perché il piano di austerità di cui ha bisogno il capitale tedesco richiedeva un governo più forte per farlo passare (e guarda un po’ dalle elezioni è uscito un governo di grande coalizione), nonché di un periodo di camomilla elettorale per non far riflettere gli operai su quello che si stava preparando (praticamente lo smantellamento dello stato sociale, l’aumento dell’IVA, e quindi dei prezzi, e altre misure che colpiscono tutte le tasche dei lavoratori). Insomma, l’uso delle elezioni come arma di avvelenamento ideologico per il proletariato e di distrazione dal terreno delle lotte è una strategia che la borghesia usa coscientemente a livello internazionale, a dimostrazione dell’importanza che essa dà a questa arma di mistificazione.
Va detto che non è stato sempre così. Nel 19° secolo gli operai lottavano e si facevano uccidere per ottenere il suffragio universale. oggi, al contrario, sono i governi e tutti i partiti che mobilitano tutti i mezzi di cui dispongono perché il massimo di cittadini vadano a votare.
Perché? Durante il periodo di ascendenza del capitalismo i Parlamenti rappresentavano il luogo per eccellenza in cui le differenti frazioni della borghesia si affrontavano o si univano per difendere i loro interessi. Nonostante i pericoli e le illusioni che questo poteva trascinare, i lavoratori, in un periodo in cui la rivoluzione proletaria non era ancora all’ordine del giorno, avevano interesse ad intervenire in questi scontri tra frazioni borghesi e, eventualmente, sostenere certe frazioni borghesi contro altre, al fine di migliorare la loro collocazione nel sistema. E’ così che gli operai in Inghilterra hanno ottenuto la riduzione a 10 ore della loro giornata di lavoro nel 1848, che i diritti sindacali siano stati riconosciuti in Francia nel 1884, e così via.
Ma la situazione è diventata completamente diversa dall’inizio del 20° secolo. Il capitalismo è entrato nella sua fase di crisi permanente e di declino irreversibile. Il capitalismo ha conquistato il pianeta e la divisione del mondo tra le grandi potenze è terminato. Ogni potenza imperialista non può appropriarsi di nuovi mercati se non a spese delle altre. Si apre così l’era delle “guerre e delle rivoluzioni”, come affermò l’Internazionale Comunista nel 1919, un’era segnata dai terremoti economici, come la crisi del 1929, dalle due guerre mondiali e dall’irruzione rivoluzionaria del proletariato nel 1917-23 in Russia, Germania, Ungheria, Italia.
Per far fronte alle sue crescenti difficoltà il capitale è costretto a rafforzare costantemente il potere del suo Stato. Sempre più lo Stato tende a rendersi il regolatore dell’insieme della vita sociale e, in primo luogo, nel dominio economico. Questa evoluzione del ruolo dello Stato si accompagna ad un indebolimento del ruolo dell’apparato legislativo in favore dell’esecutivo. Come l’affermò il secondo Congresso dell’Internazionale Comunista:”il centro di gravità della vita politica attuale è completamente e definitivamente uscito dal Parlamento.”
Per i lavoratori non si tratta più di arrangiarsi un posto nel capitalismo ma di rovesciarlo nella misura in cui questo sistema non è più capace di concedere né delle riforme durevoli, né dei miglioramenti nelle loro condizioni.
Per la borghesia il Parlamento è diventato tutt’al più una camera di registrazioni di decisioni prese altrove.
Resta invece determinante il ruolo ideologico dell’elettoralismo. Questa funzione mistificatrice dell’istituzione parlamentare esisteva anche nel 19° secolo, ma era di secondo piano, veniva dopo la sua funzione politica. Oggi, la mistificazione è la sola funzione che resta per la borghesia: essa ha per scopo di far credere che la democrazia è il bene più prezioso, che l’espressione della sovranità del popolo è la libertà di scegliere i propri sfruttatori.
Così non c’è scampo: anche nei prossimi mesi saremo bombardati da queste campagne, tanto più forti perché il governo Berlusconi ha governato così male che i proletari saranno convinti ad andare a votare per liberarsene, per cambiare governo e, quindi, politica. Invece non cambierà nessuna politica, perché, come ha detto il presidente della Camera, Casini (evidentemente portato ad usare un linguaggio di verità vista la probabile sconfitta della sua coalizione): “bisogna finirla con le illusioni e gli illusionismi, viviamo al disopra delle nostre possibilità, bisogna stringere la cinghia”, e questo vale qualsiasi sia la coalizione che vincerà le elezioni, perché ognuna delle forze in campo difende solo gli interessi del capitale. Ed il capitale oggi è un malato in fase terminale, e quello italiano in fase ancora più avanzata, con la competitività ai minimi storici, con un deficit e un debito pubblico che spingeranno il prossimo governo a chiederci di “stringere la cinghia”.
Perciò prima ci liberiamo delle illusioni sulle elezioni, prima cominceremo a imboccare la sola strada che può portare al riscatto dei lavoratori: quella delle loro lotte autonome e di massa.
Helios
1. Chiaramente inutili non solo perché l‘esito era scontato, ma perché oggi come oggi solo Prodi costituisce un punto di equilibrio per la coalizione di centrosinistra e quindi nei fatti l’unico candidato vero a questo incarico.
Mentre le campagne ideologiche della borghesia, che ci martellano da sedici anni, continuano a dirci che la classe operaia è una classe moribonda, che la sua lotta appartiene ad un passato ormai finito, la realtà si incarica di dimostrare che il proletariato è ben vivo e che non ha altra scelta che sviluppare la sua lotta dappertutto nel mondo.
La combattività e l’inizio di una solidarietà operaia si sono già manifestate in Europa con lo sciopero all’aeroporto londinese di Heathrow questa estate (vedi articolo in Rivoluzione Internazionale 142). La paura di una larga mobilitazione operaia ha spinto il governo Blair a ritirare una parte dell’attacco sulle pensioni nel settore pubblico destinato a decurtare le pensioni facendo passare progressivamente da 60 a 65 anni, tra il 2006 ed il 2013, l’età pensionistica. Tuttavia l’accordo concluso con i sindacati prevede che dal 2006 i nuovi lavoratori assunti nella sanità, nell’educazione ed il personale dell’amministrazione centrale saranno sottomessi a questo attacco. Dopo lo sciopero nazionale del 4 ottobre in Francia che ha portato in strada più di un milione di lavoratori, indetto da tutti i sindacati per far sfogare il malcontento sociale, il 7 ottobre in Belgio il sindacato “socialista” FGTB ottiene una forte mobilitazione che paralizza gran parte dell’attività economica del paese. La preoccupazione è quella di incanalare la protesta contro il governo che inizia a far passare un nuovo attacco sulla Sicurezza sociale e porta da 58 a 60 anni l’età richiesta per richiedere una pensione. E il 28 ottobre le due grandi centrali sindacali del paese, insieme, chiamano ad una nuova mobilitazione generale per la prima volta dopo 12 anni.
Negli Stati Uniti lo sciopero di 18.500 meccanici di Boeing, votato dall’86% all’appello dell’IAM (International Association of Machinist and Aerospace Workers), dura dal 2 al 29 settembre (lo sciopero precedente in questo stesso settore nel 1995 fu fatto lentamente usurare per 69 giorni prima di concludersi con una pesante sconfitta). Gli operai hanno di nuovo rifiutato il contratto collettivo proposto dalla direzione che in particolare voleva abbassare il tasso di valorizzazione annuale delle pensioni in rapporto ai due anni precedenti, mentre le quote per la copertura sociale sono più che triplicate dal 1995 e la direzione si è ben guardata dal dare la minima garanzia sulla sicurezza del posto di lavoro. La collera è stata ancora più forte perché intanto i profitti dell’impresa sono triplicati negli ultimi 3 anni. L’impresa mirava anche ad ottenere una diminuzione dei rimborsi per le spese mediche imponendo la soppressione di ogni copertura medica nel periodo di pensionamento per i nuovi contratti di impiego. Gli operai hanno rifiutato nettamente questa manovra di divisione tra “nuovi” e “anziani”, tra giovani e vecchi. Si sono anche opposti al tentativo della direzione di contrapporre gli interessi tra gli operai attraverso la proposta di introdurre delle misure differenti tra le tre grandi fabbriche di produzione (quella di Wichita nel Kansas si trova sfavorita rispetto a quella di Seattle, nello Stato di Washington, o quella di Portland nell’Oregon), ed hanno preteso che le proposte fossero le stesse per tutti i meccanici. Alla fine la direzione ha accettato di versare dei premi eccezionali ai salariati, di non toccare per il momento i rimborsi e le pensioni, ma come contropartita gli operai hanno visto ridursi la valorizzazione dei loro salari ed hanno dovuto accettare degli aumenti sulle quote per le prestazioni sociali. Ma la cosa che colpisce è il black-out quasi totale che ha circondato questo sciopero, in particolare in Europa. Lo scopo è stato impedire che la classe operaia di qui prendesse coscienza che c’è una classe operaia sfruttata e che lotta, anche negli Stati Uniti, per difendere i propri interessi di classe.
Allo stesso modo, gli scioperi che ci sono stati tra giugno ed agosto in Argentina non hanno avuto alcuna pubblicità in Europa, contrariamente a tutto il battage orchestrato intorno alla rivolta sociale del 2001 intrisa di interclassismo (vedi in particolare gli articoli della Revue Internazionale 109, del 2002 117 e 119 del 2004). Le lotte dell’estate scorsa costituiscono l’ondata di lotta più importante da 15 anni ad oggi, in particolare nella regione industriale di Cordoba. Questa ha toccato gli ospedali, le fabbriche di prodotti alimentari, catene di supermercati, i lavoratori della metropolitana di Buenos Aires, i lavoratori della municipalità di diverse province. Nel corso di queste lotte gli operai hanno chiaramente espresso in diverse circostanze la volontà di cercare solidarietà. Nella metropolitana della capitale tutto il personale ha spontaneamente fermato il lavoro dopo la morte accidentale di due operai della manutenzione. Nella provincia di Santa Cruz, al sud del paese, lo sciopero degli impiegati municipali ha coinvolto la presenza massiccia di operai di altri settori e della maggioranza della popolazione. A Caleta Olivia anche gli operai del settore petrolifero si sono messi in sciopero al loro fianco per delle rivendicazioni salariali simili. A Neuquen gli operai dei servizi della sanità si sono uniti spontaneamente ad una manifestazione di professori delle scuole e sono stati confrontati ad una forte repressione poliziesca. La reazione della borghesia è stata estremamente brutale. Gli operai del centro ospedaliero pediatrico di Garrahan, che invece di reclamare aumenti salariali proporzionali ad ogni categoria professionale hanno preteso un aumento uguale per tutti, sono stati oggetto di una campagna di denigrazione di una violenza inaudita. Sono stati presentati come dei “terroristi” capaci di far morire dei bambini per la difesa dei propri interessi particolari e sono stati deliberatamente esclusi da ogni negoziazione. Inoltre i piqueteros dell’estrema sinistra del capitale gli si sono appiccicati alle sottane per comprometterli nelle loro impopolari azioni di commando. Attraverso questa repressione, il successo di queste manovre e la messa in avanti del prossimo circo elettorale, questa ondata di lotte è poi nettamente rifluita. Ma ha confermato che il proletariato addirizza dappertutto la testa e si afferma come una classe in lotta. Abbiamo già ricordato nella nostra stampa lo sciopero degli operai della Honda in India o quello nelle miniere di oro in Africa del sud (vedi Revolution Internazionale n° 360, di settembre, e n° 361, di ottobre). Ma un altro esempio edificante ci viene dalla Cina, a proposito della quale persiste ancora la grande menzogna e la vasta truffa ideologica “di un regime comunista”. Un ONG di Hong Kong ha recensito non meno di 57.000 conflitti del lavoro nel 2004 implicanti 3 milioni di salariati, che hanno investito il settore privato e non più solamente le fabbriche di Stato come negli anni ’90.
Malgrado tutti i limiti ancora presenti ed il moltiplicarsi delle manovre sindacali per sabotarle, le lotte operaie non appartengono ad un passato ormai finito.
No, la classe operaia non è morta! Essa non ha altra scelta che battersi e nello sviluppo delle sue lotte porta più che mai il solo futuro possibile per tutta l’umanità.
W (22 ottobre 2005)
Sei mesi fa, il 2 maggio 2005, moriva a Milano il compagno di Battaglia Comunista Mauro Stefanini jr. Se noi oggi torniamo a rendere omaggio alla memoria del compagno, dopo averlo fatto sulla nostra stampa e di persona in occasione della cerimonia di commemorazione svoltasi alla Calusca di Milano il 28 maggio scorso, è perché una militanza politica spesa per la causa del proletariato non è una qualsivoglia attività altruistica e generosa che si compie in qualche ritaglio di tempo libero, ma è un’attività nobile e appassionante che permea completamente la vita di un militante e che costituisce un patrimonio per l’organizzazione di appartenenza e per tutto il movimento operaio. E Mauro era un militante nobile e appassionato. La lettera (1) scritta dalla sua compagna Franca ai militanti del partito ci conferma dei tratti che noi conoscevamo bene, ma ci piace riportare alcuni passaggi di questa lettera perché pensiamo che esprimano bene lo spessore umano del compagno. Anzitutto Franca ricorda che Mauro “era quasi immune dalle sindromi depressive che ci affliggono a seguito di delusioni, risaliva sempre velocemente la china e ciò faceva di lui una persona giovane”. Questa qualità, secondo il comune modo di pensare, sarebbe il semplice risultato di innate inclinazioni personali, per cui quasi per caso taluni sarebbero più ottimisti, mentre talaltri più tendenti alla depressione. Ora, fermo restando il peso esercitato da questa società che spinge tutti verso la depressione, per un militante comunista tenere la rotta senza farsi travolgere dalle “delusioni” e difficoltà del momento non è una semplice questione di natura caratteriale, ma è il risultato di una fiducia che il militante matura, all’interno della propria organizzazione, nei confronti della classe operaia e del suo destino storico. Come recita il Manifesto di Marx ed Engels, i rivoluzionari sono gli elementi della classe che, attraverso un processo eterogeneo di maturazione della coscienza all’interno del proletariato, arrivano per primi a “comprendere le condizioni, l’andamento e i risultati generali del movimento proletario”. Questo vantaggio dà loro una forza incredibile, e Mauro, bisogna dirlo, aveva una grande forza, sorretto da una convinzione che gli era stata trasmessa dai genitori, e particolarmente dal padre, Luciano (detto Mauro, da cui Mauro jr per il figlio), militante della Frazione italiana. (2)
Successivamente la compagna Franca fa cenno alla grande passione di Mauro per i viaggi: “Viaggiare era per lui un modo naturale e completo di esistere (…). Nel viaggio c’era sempre l’obiettivo della visita a un compagno, la ricerca di una libreria per il nostro materiale politico e il godimento delle bellezze artistiche e paesaggistiche”. In queste poche parole c’è tutto il Mauro che conosciamo. Un compagno con cui abbiamo discusso e polemizzato infinite volte nelle decine di anni di conoscenza, frequentazione e confronto politico, ma che al tempo stesso aveva ben chiara la necessità di non rimanere chiusi su sé stessi ma di aprirsi all’esterno per conquistare alla causa nuove risorse militanti. Da questo punto di vista gli abbiamo visto giocare, all’interno di Battaglia Comunista e del BIPR, un ruolo pionieristico verso nuove aree politiche e/o geografiche che un’organizzazione deve necessariamente svolgere se vuole avere un futuro. Era lui in Battaglia il “ministro degli esteri”, il compagno che tesseva rapporti con nuovi compagni, soprattutto all’estero, era lui che era stato recentemente il promotore di una serie di riunioni pubbliche tenute da Battaglia in varie città d’Europa (Berlino, Parigi, …). Ancora una volta non si tratta semplicemente di amore per i viaggi, che può essere condiviso da qualunque altra persona ma, come giustamente precisa la compagna Franca, di sfruttare ogni occasione per “la visita a un compagno, la ricerca di una libreria per il nostro materiale politico”, e questa è proprio l’espressione dello spirito militante che impregna un compagno pienamente cosciente della responsabilità di costruire il “partito” e di trasmettere l’esperienza politica accumulata alle nuove generazioni. Le parole di Franca ci evocano ancora un altro ricordo di Mauro, la sua passione per Napoli che lui, da settentrionale, amava moltissimo, e che rimirava con grande interesse ogni volta che aveva l’occasione di venire in questa città per una riunione pubblica o altro. Una volta, ritornando da una riunione pubblica di BC tenuta in questa città, si fermò letteralmente per strada, preso dalla bellezza di piazza del Gesù, rivolgendo ai compagni della CCI di Napoli le felicitazioni per la città in cui vivevano. Ecco, Mauro era anche questo.
Ma c’è anche il Mauro delle polemiche, a volte molto aspre, tra Battaglia Comunista e la CCI, ed essendo Mauro uno dei membri del Comitato Esecutivo della sua organizzazione dal 1970, praticamente tutta la storia delle relazioni tra i nostri due gruppi si è concretizzata attraverso dei rapporti tra militanti di organizzazioni diverse in cui, come rappresentante di BC, Mauro era praticamente sempre presente. Questi rapporti sono stati a volte costruttivi e incoraggianti, come nella prima fase delle conferenze internazionali della seconda metà degli anni ’70 o in occasione delle lotte dei lavoratori della scuola della seconda metà degli anni ’80, quando dei nostri militanti si sono ritrovati a lottare fianco a fianco con Mauro per perseguire gli stessi obiettivi, a volte meno fino a divenire molto difficili, come alla fine delle stesse conferenze internazionali (3) quando Battaglia decide di liberarsi della nostra presenza politica con il pretesto che noi avremmo avuto una posizione debole sulla questione del partito o, ancora nell’ottobre dello scorso anno, quando Battaglia e tutto il BIPR, ritenendo di poter dare credito a degli individui senza scrupoli che hanno fatto credere loro le peggiori nefandezze sul nostro conto, si sono fatti loro stessi veicolo di una propaganda oscena di denigrazione nei confronti della nostra organizzazione. E’ evidente che non è questo l’ambito in cui possiamo sviluppare i motivi che sono stati alla base di questi scontri, che noi abbiamo sempre attribuito all’opportunismo innato di Battaglia Comunista (4) - che le proviene a sua volta dal “peccato originale” che aveva costituito la formazione su basi opportuniste del “Partito” nel 1945. E se Mauro aveva potuto beneficiare pienamente, nella sua formazione di militante, dell’esperienza e del bagaglio di lotta di suo padre Luciano all’interno della Frazione italiana, aveva tuttavia ricevuto anche in eredità l’opportunismo che aveva presidiato alla costituzione, alla fine della seconda guerra mondiale, dell’organizzazione nella quale egli ha sempre militato. Se ricordiamo queste cose non è per attenuare i meriti di Mauro, che evidentemente come militante di Battaglia e membro del suo Comitato Esecutivo Nazionale, era pienamente corresponsabile e probabilmente convinto sostenitore di questa politica. Quello che vogliamo dire è che noi apprezziamo e stimiamo il militante Mauro al di là degli errori, anche importanti, che lui con la sua organizzazione ha potuto compiere perché questi errori li ha compiuti all’interno di un percorso che aveva come obiettivo quello della costruzione del partito e della rivoluzione comunista. E a tale proposito vogliamo ricordare che, anche rispetto a queste occasioni di frizione politica tra le nostre organizzazioni, Mauro aveva una maniera sua di affrontare il problema per cui sapeva distinguere chiaramente tra i disaccordi politici e i sentimenti camerateschi verso i militanti delle altre organizzazioni della Sinistra comunista.
Tra molti altri esempi, possiamo citare l’atteggiamento che lui ha avuto in occasione di uno dei suoi ultimi viaggi all’estero, forse l’ultimo. Alla riunione pubblica del BIPR a Parigi del 2 ottobre 2004, il confronto anche duro tra la nostra organizzazione e BC non ha impedito a Mauro di fermarsi, dopo la riunione, a discutere con alcuni compagni della CCI in modo molto fraterno, cosa che, dal nostro punto di vista, è normale tra compagni che, pur con profonde divergenze, si battono per uno stesso fine, ma bisogna riconoscere che questo tipo di atteggiamento non viene sempre condiviso da tutti i militanti all’interno della Sinistra comunista.
Per concludere, vogliamo ribadire che Mauro è stato un grande combattente della classe operaia e merita certamente un posto di riguardo nella storia del movimento operaio. Non abbiamo esitazione ad affermare che ammiriamo quella che è stata la sua dedizione per il lavoro di partito, che resta come esempio per le generazioni di militanti del futuro partito mondiale. Come combattente Mauro è stato l’autore di molti degli articoli di polemica scritti contro la CCI, contro le nostre posizioni. Certamente noi non condividiamo molte delle posizioni difese da Mauro in questi articoli, non ne condividiamo la ricorrente critica di idealismo fatta ad ogni piè sospinto all’interno di questi articoli. Ma lo abbiamo sempre rispettato perché sapevamo che lui ci credeva. Oggi che Mauro non c’è più noi ci auguriamo che le “sue qualità di militante comunista, interessato e appassionato alla causa del proletariato, (...) la sua grande capacità oratoria e di grande redattore, le sue qualità umane, per le quali godeva della nostra più sincera simpatia, il calore umano che lui sapeva offrire ai compagni con cui colloquiava, il sentimento di fratellanza e tutta la sua umanità” (5), possano essere trasmesse alle nuove generazioni di militanti.
La scomparsa del compagno Mauro è una grande perdita per la classe operaia nel suo insieme e per il BIPR in particolare. Per questo cogliamo l’occasione per esprimere ancora una volta la nostra più sincera solidarietà ai compagni del BIPR, alla compagna Franca e a tutti gli amici e persone care che Mauro ha così precocemente lasciato. Ciao, Mauro.
2 novembre 2005 Ezechiele per la Corrente Comunista Internazionale
1. La lettera è stata pubblicata su BC n. 7/8 di luglio 2005.
2. Ecco una parte del messaggio letto dalla CCI nella giornata di commemorazione del compagno Mauro alla Calusca: “Desideriamo rendere omaggio al combattente comunista che, seguendo la tradizione di suo padre, il compagno Luciano (il quale lottò contro la degenerazione dell’Internazionale Comunista, soffrendo anni di carcere e di esilio) mantenne vive le sue convinzioni comuniste, fu pioniere nella difesa delle posizioni proletarie. Il compagno Luciano ha saputo trasmettere a suo figlio Mauro la tradizione del movimento operaio, che è quella di trasmettere la prospettiva della rivoluzione proletaria alle nuove generazioni, così come fecero ad esempio Carlo Marx e Wilhelm Liebkneck, i cui figli continuarono il compito intrapreso dai genitori. Ugualmente fece il compagno Luciano sapendo trasmettere a suo figlio Mauro la passione per la rivoluzione e per la lotta del proletariato. E’ questo un merito molto importante per il quale il compagno Mauro godeva di una grande simpatia all’interno della CCI In questi momenti di dolore la CCI non può, malgrado le differenze politiche che esistono con Battaglia Comunista, dimenticare le radici comuni che hanno le nostre due organizzazioni e il fatto che il nostro compagno Marc militò con il compagno Luciano nella Frazione comunista d’Italia in Francia e mantenne per tutta la sua vita una grande simpatia per Luciano.”
3. Per un bilancio su questo ciclo di Conferenze, leggi l’articolo “Le conferenze internazionali della Sinistra comunista (1976-1980). Lezioni di una esperienza per il milieu proletario.” pubblicato sulla Rivista Internazionale n. 122 (edizione in lingua inglese, francese o spagnola).
4. Noi abbiamo più volte espresso nei confronti di Battaglia Comunista una critica di opportunismo congenito, legato proprio alle sue stesse origini. Si può leggere a tale proposito l’articolo: “Polemica con il BIPR: una politica opportunista di raggruppamento che conduce solo a degli aborti”, pubblicato sulla Rivista Internazionale n. 121 (edizione in lingua inglese, francese o spagnola).
5. Dal messaggio letto dalla CCI nella giornata di commemorazione del compagno Mauro alla Calusca.
Nella prima parte di questo articolo, pubblicata nel numero scorso del giornale, abbiamo ripercorso i momenti e gli aspetti più significativi dello sciopero di massa scoppiato in Polonia nel 1980. In questa seconda parte vedremo la risposta della borghesia e come l’illusione su di un sindacato “libero” e “combattivo” ha portato alla sconfitta di questa lotta.
La reazione della borghesia: l’isolamento
Si può capire il pericolo che costituivano le lotte in Polonia dalle reazioni dei paesi vicini. Le frontiere tra la Polonia e la Germania dell’Est, la Cecoslovacchia e l’Unione Sovietica furono chiuse immediatamente. Mentre prima gli operai polacchi si recavano spesso nella Germania dell’Est, soprattutto a Berlino, per fare acquisti perché c’erano meno merci nei negozi polacchi che in Germania dell’Est, la borghesia, chiudendo le frontiere, cercò di isolare la classe operaia. Un contatto diretto tra gli operai dei differenti paesi doveva essere evitato ad ogni costo. E la borghesia aveva delle buone ragioni nel prendere una tale misura! Perché nella regione carbonifera vicina a Ostrava in Cecoslovacchia, i minatori, seguendo l’esempio polacco, si erano messi anche loro in sciopero. Nelle regioni minerarie rumene, in Russia a Togliattigrad, gli operai seguivano la stessa strada dei loro fratelli di classe in Polonia. Anche se nei paesi dell’Europa occidentale non c’erano stati scioperi di solidarietà diretta con le lotte degli operai polacchi, operai di numerosi paesi riprendevano le parole d’ordine dei proletari polacchi. A Torino, nel settembre 1980, gli operai in lotta dicevano: “Danzica ci mostra la strada.”
Per la sua prospettiva ed i suoi metodi di lotta, lo sciopero di massa in Polonia ebbe un enorme impatto sugli operai degli altri paesi. Con questo movimento la classe operaia dimostrava, come nel 1953 in Germania dell'Est, nel 1956 in Polonia ed in Ungheria, nel 1970 e nel 1976 di nuovo in Polonia, che nei cosiddetti paesi “socialisti” lo sfruttamento capitalista esisteva come all’Ovest e che i loro governi erano nemici della classe operaia. Malgrado l’isolamento imposto alle frontiere polacche, malgrado la cappa di ferro, la classe operaia polacca, finché restò mobilitata, fu un polo di riferimento a scala mondiale. Scoppiate nell’epoca della Guerra fredda, durante la guerra in Afghanistan, le lotte degli operai della Polonia contenevano un importante messaggio: si opponevano alla corsa agli armamenti ed all’economia di guerra con la lotta di classe. La richiesta dell’unificazione degli operai tra l’est e l’ovest, anche se non era ancora concretamente posta, riemergeva in quanto prospettiva.
Come è stato sabotato il movimento
Il movimento poté sviluppare una tale forza perché si estese velocemente per iniziativa degli stessi operai. L’estensione al di là dei confini delle fabbriche, le assemblee generali, la revocabilità dei delegati, fu l’insieme di queste misure che contribuirono alla loro forza. All’inizio dello sciopero non c’era influenza sindacale, ma ben presto i membri dei “sindacati liberi” (1) si dettero da fare per ostacolare la lotta.
Mentre inizialmente i negoziati venivano condotti di fronte alla classe, dopo un certo tempo venne imposto che fossero necessari degli “esperti” per mettere a punto i dettagli dei negoziati col governo. A mano a mano gli operai finirono per non poter più seguire i negoziati né parteciparvi, gli altoparlanti che trasmettevano le trattative in corso smisero di funzionare per… problemi “tecnici”. Lech Walesa, membro dei “sindacati liberi”, fu incoronato leader del movimento grazie al fatto di esser stato licenziato dai cantieri navali di Danzica. Il nuovo nemico della classe operaia, il “sindacato libero”, infiltratosi nel movimento, cominciò il suo lavoro di sabotaggio. Come prima cosa si dedicò a distorcere le rivendicazioni operaie. Mentre all’inizio le rivendicazioni economiche e politiche erano tra le prime della lista, il “sindacato libero” e Walesa misero al primo posto il riconoscimento dei sindacati “indipendenti”, mettendo in secondo piano le rivendicazioni economiche e politiche. Perseguivano così la vecchia tattica “democratica”: difesa dei sindacati invece che degli interessi operai.
La firma degli accordi di Danzica del 31 agosto segna la fine del movimento, anche se proseguirono alcuni scioperi ancora per qualche giorno in altri luoghi. Il primo punto di questi accordi autorizzava la creazione di un sindacato “indipendente ed autogestito” che prenderà il nome di Solidarnosc. I quindici membri del presidium del MKS (comitato di sciopero interaziendale) costituirono la direzione del nuovo sindacato.
Poiché gli operai avevano chiaro il fatto che i sindacati ufficiali marciavano con lo Stato, la maggior parte di loro pensava che il sindacato Solidarnosc di recente fondazione, forte di dieci milioni di operai, non era corrotto e che avrebbe difeso i loro interessi. Questi proletari non erano passati per l’esperienza degli operai occidentali che per decenni si erano scontrati con i sindacati “liberi”.
Approfittando dell’inesperienza di molti operai della realtà del capitalismo occidentale, Walesa già allora promise: “Vogliamo creare un secondo Giappone e stabilire la prosperità per tutti” assumendo così, con Solidarnosc, il ruolo di pompiere del capitalismo per spegnere la combattività operaia. Queste illusioni in seno alla classe operaia in Polonia non erano niente altro che il peso e l’impatto dell’ideologia democratica su questa parte del proletariato mondiale. Il veleno democratico, già molto potente nei paesi occidentali, assumeva in Polonia una forza maggiore dopo cinquanta anni di stalinismo. E la borghesia polacca e mondiale lo avevano capito molto bene. Sono state queste illusioni democratiche a coltivare il terreno su cui la borghesia e il suo sindacato Solidarnosc hanno potuto condurre la politica anti-operaia e scatenare la repressione.
Nell’autunno 1980, mentre gli operai ripartivano di nuovo in sciopero per protestare contro gli accordi di Danzica, dopo aver constatato che anche con un sindacato “libero” la loro situazione materiale era peggiorata, Solidarnosc cominciava già a mostrare il suo vero volto. Giusto dopo la fine degli scioperi di massa, Walesa andò qua e là in un elicottero dell’esercito per invitare gli operai a cessare urgentemente gli scioperi. “Non abbiamo più bisogno di altri scioperi perché spingono il nostro paese verso l’abisso, bisogna calmarsi”.
Fin dall’inizio Solidarnosc ha cominciato a sabotare il movimento. Ogni volta che era possibile, si impossessava dell’iniziativa degli operai, impedendo loro di lanciare nuovi scioperi.
Nel dicembre 1981 la borghesia polacca riuscì infine a scatenare la repressione contro gli operai. Solidarnosc aveva fatto del suo meglio per disarmare politicamente gli operai preparando così la sconfitta. Mentre durante l’estate del 1980, nessun operaio era stato colpito o ucciso grazie all’autorganizzazione ed all’estensione delle lotte, e perché non c’erano sindacati per inquadrare gli operai, nel dicembre 1981, più di 1200 operai furono assassinati, decine di migliaia messi in prigione o esiliati. Questa repressione militare fu organizzata seguendo un intenso coordinamento tra le classi dominanti dell’Est e dell’Ovest.
Dopo gli scioperi del 1980, la borghesia occidentale offrì a Solidarnosc ogni tipo di assistenza per rafforzarlo contro gli operai. Venne lanciata la campagna dei “pacchi di medicinali per la Polonia” e vennero creati crediti a buon mercato nell’ambito del FMI per evitare che agli operai occidentali venisse l’idea di emulare l’esempio polacco di prendere l’iniziativa delle lotte. Prima dello scoppio della repressione del 13 dicembre 1981 dei piani di azione erano stati coordinati direttamente tra i capi dei governi. Il 13 dicembre, il giorno stesso della repressione, il cancelliere socialdemocratico Helmut Schmidt ed il leader della RDT, lo stalinista per eccellenza Erich Honecker, si incontrarono presso Berlino dichiarando falsamente di “essere all’oscuro degli avvenimenti”. Ma in realtà, non solo avevano sottoscritto la repressione, ma la borghesia polacca aveva potuto beneficiare dell’esperienza dei suoi colleghi occidentali in materia di scontro con la classe operaia.
Dopo un anno di vita, Solidarnosc dimostrò quale terribile sconfitta era riuscito ad imporre agli operai. Dopo la fine degli scioperi del 1980, ancor prima che cominciasse l’inverno, Solidarnosc aveva già dato prova di quale forte pilastro dello Stato era diventato. E se da ex leader di Solidarnosc Lech Walesa è stato eletto presidente della repubblica, è proprio perché aveva mostrato già prima di essere un eccellente difensore degli interessi dello Stato polacco nelle sue funzioni di capo sindacale.
Il significato delle lotte
Anche se sono passati venti anni da allora, e benché molti operai che all’epoca presero parte al movimento di sciopero sono diventati disoccupati o sono stati costretti ad emigrare, la loro esperienza è di un inestimabile valore per tutta la classe operaia. Come la CCI ha scritto già nel 1980, “Su tutti questi punti, le lotte in Polonia rappresentano un grande passo in avanti nella lotta del proletariato a scala mondiale, perché queste lotte sono le più importanti da un mezzo secolo a questa parte". (Risoluzione sulla lotta di classe, 4° congresso della CCI, 1980, Revue Internationale n°26). Esse furono il punto più alto di un’ondata internazionale di lotte. Come abbiamo affermato nel nostro rapporto sulla lotta di classe del 1999, al nostro 13° congresso: “Gli avvenimenti storici di questo livello hanno delle conseguenze a lungo termine. Lo sciopero di massa in Polonia ha fornito la prova definitiva che la lotta di classe è la sola forza che può costringere la borghesia a mettere da parte le sue rivalità imperialiste. In particolare, ha mostrato che il blocco russo - storicamente condannato per la sua posizione di debolezza ad essere “aggressore” in ogni guerra - era incapace di rispondere alla sua crisi economica crescente attraverso una politica di espansione militare. In modo chiaro, gli operai dei paesi del blocco dell’Est (e della stessa Russia), non potevano affatto servire da carne da cannone in una qualsiasi guerra futura per la gloria del “socialismo”. Lo sciopero di massa in Polonia fu un potente fattore nell’implosione del blocco imperialistico russo”. (Revue Internationale n°99, 1999).
Welt Revolution n°101, organo della CCI in Germania,
agosto-settembre 2000.
1. Per l’esattezza non si trattava di un sindacato ma di un piccolo gruppo di operai che, insieme al KOR (comitato di difesa degli operai) costituito da intellettuali dell’opposizione democratica dopo la repressione del 1976, militavano per la legalizzazione di un sindacalismo indipendente.
In Cina esplosioni e crolli di gallerie si succedono ad un ritmo spaventoso. Nello scorso mese di agosto, nella provincia di Guangdong, 101 minatori sono rimasti bloccati in una miniera allagata da milioni di metri cubi di acqua. Nello stesso momento una esplosione in una miniera della provincia di Guizhou uccideva 14 operai. Recentemente, una nuova esplosione in una miniera a nord della Cina nella provincia di Dong fend è costata la vita, di nuovo, a 134 minatori. Questo autunno, gli incidenti hanno colpito questo settore in pratica quotidianamente. Questi incidenti a ripetizione fanno delle miniere cinesi le più pericolose del mondo, ufficialmente 6000 morti all' anno, probabilmente vicino a 20.000 secondo fonti indipendenti. 45 volte più di quelle dell'Africa meridionale, e cento volte di più di quelle degli Stati Uniti. L'esempio delle miniere di carbone dimostra drammaticamente la realtà barbara che si nasconde dietro i famosi tassi di crescita del capitalismo cinese. Nelle province di Stianxi, di Hebei, del Heilongjiang ed in Mongolia interna, le risorse carbonifere sono abbondanti. Da 10 anni, il governo, per aumentare ad ogni prezzo la produzione, ha privatizzato massicciamente le miniere. Risultato, la licenza si acquista a buon prezzo da funzionari sensibili alle tangenti. In queste miniere, vi si entra e si lavora bocconi, senza attrezzatura di sicurezza. In queste condizioni di sfruttamento feroce, le catastrofi possono solamente moltiplicarsi. "Nel 2005, il numero di morti supera quello del 2004: 717 morti per i primi 6 mesi dell'anno, contro 347 dello stesso periodo l'anno scorso (Secondo il Bollettino di informazione della commissione di sicurezza di stato)" (1). I minatori in Cina conoscono molto bene tutti i rischi, ma per essi non c'è scelta. O accettare questo rischio o vedere la propria famiglia morire di fame. E per uno stipendio da fame di 1 dollaro per giorno, 7 giorni su 7, in condizioni disumane. Le condizioni di sfruttamento e di lavoro non sono migliori nelle miniere pubbliche, dove tutto è sacrificato alla redditività. I funzionari, responsabili provinciali e governativi, marci dalla corruzione, nascondono la realtà con tutti i mezzi possibili ed immaginabili. In Francia c’è la buona politica di tentare di trascinare gli operai nella difesa del servizio pubblico. La Cina dimostra che quando la possibilità lo permette il capitalismo non fa nessuna differenza tra settore pubblico e settori privati. Così, nei grandi siti carboniferi pubblici: "Bu Guishing conferma che certi funzionari locali si affrettano a chiudere gli sfruttamenti pericolosi appena hanno sentore di una visita di ispezione delle autorità provinciali. Queste ultime trovano delle macchine ancora calde, ma la miniera è svuotata del suo personale, ciò che rende ogni ispezione impossibile". (2) In Cina, si può valutare la classe operaia a 100 milioni di abitanti, senza contare "gli operai contadini", con una precarizzazione che non smette di accelerarsi ed un tasso di disoccupazione di più del 50%. Gli operai licenziati vengono chiamati i xiapangs (scesi dal posto). Le condizioni di vita spaventose, in cui ogni giorno la classe operaia deve rischiare la sua vita per non morire di fame, provocano, malgrado la repressione, esplosioni di collera spesso violente. "Quasi ogni giorno, proteste, scioperi operai o agitazioni contadine di ampiezza più o meno grande, hanno luogo in Cina. Ween Tiejun, uno specialista delle questioni sociali, le valuta in 60.000 all'anno". (1)
Il disprezzo della borghesia per la vita dei proletari"Avviso alla popolazione di Harbin: in risposta ai timori dell'inquinamento del fiume Song in seguito ad un'esplosione verificatasi in una fabbrica chimica della città di Jilin, l'ufficio dell'ambiente naturale di Jilin ha dichiarato che nessuna traccia di inquinamento era ancora stata scoperta". (2). Come tutte le borghesie del mondo, la borghesia cinese pratica la menzogna sfrontata in materia di informazione, nel disprezzo totale della vita umana. La catastrofe è stata riconosciuta solamente il 22 novembre, mentre questa ha avuto luogo effettivamente il 13 novembre. Le prime dichiarazioni delle autorità per giustificare i tagli all’erogazione di acqua, parlano di "manovre di manutenzione”. Harbin è un'agglomerazione di 9 milioni di abitanti, situata sul corso inferiore del Song hua, da cui questa importante città attinge da centinaia di anni l'acqua necessaria alla popolazione. L'inquinamento di benzene, prodotto estremamente pericoloso per la vita umana, ha colpito tutto il corso superiore del fiume, la strato di inquinamento si estende su più di 80 km. Ma peggio ancora, l'inquinamento del corso superiore del Song hua va a causare obbligatoriamente un disastro umano in tutte le città e distretti situati a valle, come Harbin, ma anche Mulan, Tonghe e Jiamusi.
A fine novembre, una nuova esplosione chimica colpiva il sud-ovest del paese, senza che fino ad oggi nessuna notizia affidabile sia uscita dalla Cina. E' così che possiamo leggere su Libération del 28 novembre: "Le vittime delle miniere di Dong feng, come i danni ambientali, ancora difficili da valutare nell'opacità generale della catastrofe di Jalin, si aggiungono ad un elenco che si allunga quotidianamente".
La necessaria solidarietà di classe con gli operai in CinaQuesta successione di catastrofi in Cina rivela agli occhi del proletariato del mondo intero la realtà del "miracolo economico cinese". I tassi di crescita vicini al 10% nascondono lo sfruttamento feroce degli operai in questo paese, così come il disprezzo totale per la vita umana da parte della borghesia cinese, ad immagine della borghesia di tutti i paesi del mondo. La Cina è un mastodonte economico costruito su della sabbia che si sviluppa succhiando per il momento, come un vampiro, il sangue del proletariato e distruggendo in modo accelerato le risorse e l'ambiente naturale. Di fronte alla miseria ed ai pericoli ai quali espone il suo proletariato, le esplosioni di collera, spesso represse molto violentemente, possono solo moltiplicarsi in futuro. "Proprio il 26 giugno 2005, 10.000 persone che sfilano nelle vie di Cizhou, provincia di Anhui, danno fuoco alle automobili della polizia e al commissariato. Il fatto è stato provocato da un semplice scontro con uno di questi nuovi ricchi che conta la Cina di oggi che ha investito un liceale. L'incidente si è trasformato in sommossa quando la polizia si è schierata dalla parte del conducente". (1).
Gli operai di tutti i paesi, anche loro sfruttati dalla propria borghesia, devono sentirsi solidali con i loro fratelli di classe in Cina. La borghesia dei paesi più evoluti versa continuamente lacrime di coccodrillo sulla sorte degli operai cinesi. In realtà quest'ultima utilizza al massimo il fatto che gli operai in questo paese sono costretti, per sopravvivere, a lavorare in condizioni particolarmente dure, permettendo uno sfruttamento feroce per installare delle imprese a redditività massima. Inoltre si serve di questo sfruttamento feroce per giustificare in paesi come la Francia o l’Italia la necessità di accettare abbassamenti di stipendio crescenti per evitare le delocalizzazioni, tentando così di aizzare ipocritamente una parte del proletariato contro un'altra. In verità sola la classe operaia, in quanto classe internazionale, difendendo dovunque i suoi stessi interessi, può sentire nella sua carne le condizioni di vita degradata che subiscono gli operai in Cina. In questo paese, malgrado tutta la volontà di battersi, la classe operaia è immersa in una marea umana di popolazione senza lavoro che subisce la repressione violenta dell'apparato di Stato cinese. Tocca agli operai dall'Europa attraverso lo sviluppo della loro lotta di classe di offrire una prospettiva al proletariato in Cina; è la sola via di fronte a questo avvenire capitalista fatto di catastrofi e di barbarie.
Tony
1." Cina, il rovescio della potenza", di Cai Chongguo.
2. Courrier International : La fortuna è fuori dai pozzi
I moti in Francia nella lettura dei gruppi politici proletari
Con questo articolo torniamo ancora una volta sui moti in Francia che si sono sviluppati tra la fine di ottobre e il mese di novembre 2005 perché, oltre a esprimere il nostro punto di vista sugli avvenimenti (1), ci preme intervenire criticamente nei confronti di alcune analisi sbagliate che, seppure espresse in buona fede, finiscono per seminare confusione tra le giovani generazioni alla ricerca di una chiarezza politica. A tale proposito siamo già intervenuti nei confronti del BIPR per mettere in evidenza la doppiezza del suo intervento, che si è espressa con il fatto che tale organizzazione ha presentato due analisi del tutto diverse nei due paesi principali in cui è presente, l’Italia e l’Inghilterra (2). Con il presente articolo torniamo dunque sull’argomento per mostrare le debolezze che si sono mostrate nell’analisi di questi moti, debolezze che si sono propagate fin dentro lo stesso campo politico proletario. Come abbiamo detto durante gli scontri, “gli atti di violenza ed i saccheggi che vengono commessi, notte dopo notte, nei quartieri poveri, non hanno niente a che vedere, né da vicino né da lontano con una lotta della classe operaia (…) Quello che sta avvenendo in questo momento in Francia non ha niente a che vedere con la violenza proletaria contro la classe sfruttatrice: le principali vittime delle violenze attuali sono gli operai. E, al di là di quelli che subiscono direttamente le conseguenze dei danni provocati, è l’insieme della classe operaia del paese che è toccata: la campagna mediatica intorno agli avvenimenti attuali maschera di fatto tutti gli attacchi che la borghesia scatena in questo momento anche contro i proletari, così come le lotte che questi cercano di condurre per farvi fronte.”
La stragrande maggioranza dei gruppi proletari (3), nonostante la pretesa di richiamarsi alla tradizione del marxismo, hanno teso a salutare queste lotte arrivando talvolta a riconoscerle come autentiche espressioni della lotta di classe:
“Il giovane proletariato delle banlieue (…) ha reagito d’impulso con una potente scarica di violenza che da anni tiene in corpo e che è diventata incontenibile. (…) Viva il proletariato delle periferie che si rivolta contro la disperazione e la degenerazione in cui lo costringe a vivere questa società opulenta!” (Il Comunista n° 97-98, novembre 2005).
“Per noi, dunque, quei moti erano (…) una prima, importante rottura della pace sociale in un’Europa da lungo tempo immersa in un sonno interclassista e riformista. (…) I comunisti devono affermare con forza che i ribelli delle banlieue sono proletari, contro tutte le manovre in atto volte a presentarli semplicemente come "immigrati" o come appartenenti a questo o quel gruppo etnico o nazionale o religioso.” (Programma Comunista n. 1, gennaio-febbraio 2006) (4).
“Storcano pure il naso i benpensanti di destra e sinistra, ma questo è il "nuovo" proletariato senza riserve, precario, sottopagato, schiavizzato, che sa di non poter "rivendicare" un lavoro che non c'è. (n+1 newsletter n° 85, 20 novembre 2005).
“Siamo dinnanzi ad un fatto epocale. (…) Questa è la nostra classe che sta reagendo alle sue spaventose condizioni di esistenza e lo fa con gli strumenti che ha a disposizione... benzina, bande giovanili, scontri notturni.” (militante di BC sul forum).
Bisogna pur dire che un po’ tutti quanti questi gruppi, chi più chi meno, hanno messo avanti i limiti soggettivi del movimento. Ma quello che certamente costituisce il minimo comune denominatore di tutte le prese di posizione è l’affermazione del bisogno del partito inteso come strumento taumaturgico capace di trasformare le rivolte in rivoluzione, come ad esempio fa Programma Comunista nel suo ultimo numero: “Manca in tutto ciò – ed è la mancanza più drammatica – il partito rivoluzionario: vale a dire ‘quell’organo e strumento che solo è in grado (…) di recepire la spinta che viene dal basso, di raccogliere l’energia rabbiosa che si sprigiona dal profondo di una società marcia e putrescente, e di dirigerla contro la vera cittadella del potere capitalistico, lo Stato(…)”.
In effetti, come abbiamo già riportato nel nostro precedente articolo di polemica con il BIPR (v. nota 2), Lenin si guardava bene dal terminare ognuno dei suoi articoli con la frase “ci vuole il partito”. Questo mettere avanti a ogni spron battuto la questione del partito non solo è, da parte di chi lo fa, uno sterile esercizio retorico, ma per di più risulta essere del tutto controproducente ai fini della presa di coscienza da parte della classe operaia. C’è infatti da interrogarsi sull’effetto che ciò può avere su degli operai che cominciano a porsi delle questioni e che a un certo punto si trovano tra le mani un volantino o un articolo in cui si dice “ci vuole il partito, noi siamo il partito”, allorché il presunto partito brilla per la sua inconsistenza (per non dire per le sue contraddittorie prese di posizione). Anche per degli operai che potrebbero avvicinarsi alle posizioni della Sinistra comunista, questa insistenza esclusiva su “ci vuole il partito” - senza spiegare chiaramente che IL PARTITO non cadrà dal cielo ma che è esso stesso prodotto e fattore attivo della ripresa della lotta di classe e che, anche prima dell’apparizione del PARTITO con la P maiuscola, la classe operaia deve sviluppare le sue lotte, la sua coscienza, tentando di evitare le trappole che le tende la borghesia - non può che avere un ruolo demoralizzante e sviluppare tra di loro un sentimento di paralisi.
Di fatto questo ricorso ossessivo alla frase “ci vuole il partito” esprime la megalomania di tutti questi gruppi ognuno dei quali, ritenendosi solo al mondo, si sente il messia che salverà l’umanità. Fondamentalmente questa megalomania è il risultato della loro impotenza che, secondo un famoso detto, porta a parlare di vodka quando la vodka non c’è. E questa megalomania, (alla pari del loro settarismo) - che molti lavoratori che cominciano a svegliarsi alla politica non possono non constatare - costituisce un potente fattore non certo d’incitazione di questi operai ad andare più avanti nello studio delle posizioni della Sinistra comunista, ma di scetticismo verso queste posizioni.
Purtroppo, in aggiunta a quanto abbiamo già detto, c’è stato chi, facendo leva sullo scenario di disoccupazione che grava oggigiorno sulla classe operaia, è arrivato a ipotizzare non solo una mutazione della composizione della classe operaia, ma finanche una “conseguente” mutazione dei suoi metodi di lotta, identificando proprio nelle violenze dei rivoltosi delle banlieue francesi una possibile forma dell’attuale nuovo modo di lottare della classe operaia:
“La crisi del capitalismo e le risposte date dalla borghesia in questi ultimi decenni hanno prodotto un cambiamento significativo nella composizione del proletariato.” (Battaglia Comunista)
“Perciò oggi cade completamente la separazione netta tra l'operaio e il diseredato precario, il proletariato s'è diffuso, è aumentata la massa dei senza-riserve nella quale è precipitato anche l'ex salariato con posto fisso garantito. Chi voleva il movimento reale, eclatante, incendiario, è servito. (…) I “teppisti" di Francia e del mondo stanno impartendo lezioni di "marxismo oggettivo", senza rivendicazioni e senza interlocutori” (n+1 newsletter n° 84, 7 novembre 2005).
“Il cambiamento nella composizione del proletariato si riflette inevitabilmente nelle modalità in cui si manifesta lo scontro di classe. Chi si aspetta che il conflitto sociale debba avvenire sempre e solo negli stessi termini di trenta o cinquanta anni fa non ha compreso fino in fondo le modificazioni intervenute all’interno del proletariato. (…) Lo schema classico in base al quale lo scontro sociale parte da una base economico-sindacale per crescere sul piano politico, per le nuove generazioni di proletari precari ed esclusi dal mondo del lavoro non è più del tutto vero, poiché il conflitto sociale si manifesta potenzialmente su un terreno immediatamente politico, ma affinché ciò accada, e l’esperienza francese sta lì proprio a rimarcarlo, occorre la presenza del partito rivoluzionario.” (Battaglia Comunista)
Per capire i moti in Francia bisogna tornare al marxismo
Questi passaggi ci mostrano che ci troviamo di fronte ad un allontanamento significativo dal marxismo in materia di classe operaia e di lotta di classe. Perciò non possiamo che ritornare al marxismo e al suo metodo scientifico per rimettere il problema sui suoi piedi e cercare di risolverlo. Ciò è tanto più importante nella misura in cui, con l’approfondirsi della crisi, strati non sfruttatori ma anche non proletari saranno sempre più ridotti alla miseria assieme alla classe operaia e la loro rivolta, se non integrata all’interno dell’azione della classe operaia, potrà presentarsi come una falsa alternativa al sistema, come è accaduto per le banlieue francesi o le lotte in Argentina del 2001, e costituire una trappola per le lotte future.
La natura rivoluzionaria della classe operaia non è dovuta semplicemente alle sue condizioni di indigenza, al fatto di essere povera né al fatto di essere sfruttata. Di poveri e di sfruttati nella storia dell’umanità ce ne sono stati parecchi, come gli schiavi dell’epoca romana e greca, i servitori della gleba dell’epoca feudale, e questi poveri e sfruttati della storia, al di là del carattere eroico di rivolte a cui a volte hanno dato luogo, come quella di Spartaco contro l’impero romano decadente o quella dei contadini contro il feudalesimo nel 1381 in Inghilterra, non hanno mai spostato di un centimetro il corso della storia. Il carattere rivoluzionario della classe operaia dipende invece dalla collocazione che questa ha all’interno del sistema capitalista, di cui è il motore. Infatti la classe operaia è la principale produttrice di ricchezza in una società che non è più una società di penuria ma una società di sovrabbondanza. E’ dunque dal ruolo obiettivo che ha all’interno di questa società e dalla consapevolezza del fallimento dell’attuale modo di produzione che il proletariato può derivare non solo la sua forza contrattuale nei confronti della borghesia per le sue lotte rivendicative, ma soprattutto maturare la consapevolezza della possibilità e della necessità del rovesciamento rivoluzionario di questa società.
“La classe operaia è rivoluzionaria nel vero senso del termine perché i suoi interessi corrispondono a un modo di produzione sociale completamente nuovo. Essa ha un interesse oggettivo a riorientare la produzione senza sfruttamento del suo lavoro e per la soddisfazione dei bisogni dell’umanità in una società comunista. Essa ha inoltre tra le mani, anche se non dal punto di vista legale, i mezzi di produzione di massa che possono permettere la realizzazione di questa società. L’interdipendenza già completa di questi mezzi di produzione a livello mondiale significa che la classe operaia è già una classe veramente internazionale, senza alcun interesse in conflitto o in concorrenza, laddove tutti gli altri strati e classi della società, che soffrono nel capitalismo, sono inesorabilmente divisi.” (5)
Questo legame stretto tra il carattere rivoluzionario della classe e la sua collocazione specifica all’interno della società capitalista significa ancora che, se settori di classe vengono sradicati dal loro contesto sociale, questi possono smarrire il loro carattere rivoluzionario. Il che significa che i giovani delle periferie, benché figli di proletari più o meno inseriti nella produzione, nella misura in cui sono collocati in una situazione sociale degradata e non essendo mai entrati nel ciclo produttivo, possono finire per avvertire, piuttosto che la loro identità di classe, le spinte irrazionali di una società allo sfascio.
Per cui se è vero che questi giovani rivoltosi francesi sono anche figli di proletari, dobbiamo riconoscere che il loro è solo uno sfogo di rabbia con un metodo di lotta che non ha niente a che vedere con quello del proletariato perché c’è un uso della violenza in sé, senza alcun obiettivo da raggiungere, mentre la lotta proletaria si pone sempre un obiettivo.
La classe infatti non è una moltitudine amorfa davanti alla quale basta mettere il condottiero capace di guidarla per fare la rivoluzione. Esaltare questi avvenimenti come lotta di classe dimostra solo una grande sfiducia nella classe operaia, proprio perché si presuppone che questa possa solo arrivare ad esprimere episodi di intolleranza violenta che poi il partito miracolosamente sarebbe in grado di trasformare in processo rivoluzionario.
Eppure in altri posti, ivi compresa la stessa Francia (Marsiglia), proprio in questi ultimi mesi la classe operaia sta dimostrando di essere capace di riprendere la via della lotta, di riannodarsi alle sue esperienze precedenti, come la comprensione che non è la propria fabbrica o il proprio settore che subisce la crisi ma tutta l’economia, o ancora di esprimere atti concreti di solidarietà, come è accaduto in:
- Argentina, dove c’è stata una ricerca attiva tra vari settori di proletari per lottare assieme;
- Inghilterra, con lo sciopero degli addetti all’aeroporto di Heatrow, sviluppatosi dopo solo qualche settimana dagli attentati di Londra del 7 luglio e quando la borghesia tentava di rilanciare l’unione nazionale attraverso la campagna antiterrorista, dove un migliaio di lavoratori dell’aeroporto si sono messi in sciopero spontaneamente per solidarietà con i 670 operai dell’impresa americana di ristorazione Gate Gourmet, la gran parte dei quale di origine indo-pakistana;
- Spagna, dove il 23 dicembre, negli stabilimenti automobilistici della SEAT di Barcellona, gli operai del turno di mattina e del pomeriggio si sono spontaneamente messi in sciopero in solidarietà con 660 compagni di lavoro a cui la direzione aveva spedito quel giorno stesso una lettera di licenziamento;
- USA, dove lo sciopero dei 33700 lavoratori del metrò ha paralizzato la città di New York per tre giorni durante la settimana di Natale, esprimendo così la lotta operaia più significativa degli ultimi 15 anni negli Stati Uniti nella misura in cui i lavoratori si sono messi in lotta in solidarietà per le nuove generazioni di lavoratori, per quelli che addirittura devono ancora essere assunti. (6)
La prospettiva della lotta di classe
La gran parte dei gruppi che pretende di appartenere alla sinistra comunista, lungi dal fare riferimento al comune patrimonio storico, si perde dietro le chimere che la borghesia si incarica di gonfiare a dismisura, come le lotte disperate delle periferie francesi o le lotte interclassiste di Val di Susa o contro l’inceneritore ad Acerra. In realtà, come abbiamo già detto, “i rivoluzionari attribuiscono una grandissima attenzione ad ogni forma di rivolta sociale, qualunque ne siano i protagonisti o le prospettive. Allo stesso modo il proletariato, e noi al suo interno, non siamo «indifferenti» alle condizioni di vita abominevoli (fame, oppressione, repressione, ecc.) di cui sono vittime dei settori considerevoli della società non appartenenti al proletariato. Ma accordare un’attenzione non vuole dire considerare tutte queste manifestazioni di violenza sociale come lotte del proletariato o che queste manifestazioni abbiano una qualunque potenzialità di mettere in discussione lo sfruttamento capitalista.” (vedi nota 2).
Non è partendo dai moti di strati disperati che si può rimettere in piedi una dinamica di classe. E’ viceversa a partire dalle lotte autentiche della classe operaia, come quelle che abbiamo citato sopra, che strati marginali del proletariato, settori sottoproletari, strati genericamente non proletari e non sfruttatori, piuttosto che lasciarsi andare ad una violenza senza domani, possono essere gradualmente integrati nelle lotte del proletariato. E in questo, il ruolo dell’avanguardia rivoluzionaria è assolutamente insostituibile nell’indicare e difendere senza cedimenti i metodi di lotta propri dell’unica classe sociale che può distruggere il capitalismo e costruire una società comunista.
2 febbraio 2006 Ezechiele
1. Vedi il nostro volantino pubblicato sul sito web dal titolo “Tumulti nelle periferie francesi: Di fronte alla disperazione, solo la lotta di classe porta all’avvenire” e l’articolo pubblicato sul giornale n. 143 “La borghesia utilizza gli scontri nelle periferie contro la classe operaia”.
2. Vedi l’articolo pubblicato sul nostro sito web: “Gli avvenimenti delle periferie francesi mettono a dura prova la vocazione del BIPR ad essere ‘partito’”.
3. Qualche eccezione per fortuna c’è: “Certo spontanea, ma è una manodopera a disposizione di qualunque partito. (…) I giovani declassati delle banlieue, quando anche la morte diventa un gioco, vogliono distruggere tutto e tutti. Se stessi per primi. Non hanno nulla da perdere. Ma neppure nulla da guadagnare. Al contrario la disciplinata rivolta della classe operaia, che dovrà scoppiare, illuminata dal partito di classe, che saprà dove davvero colpire e cosa è necessario distruggere, ha un mondo intero da conquistare, e sa di averlo.” (Il Partito, n.°314, ott-nov 2005). Il fatto che dei bordighisti siano capaci di fare delle analisi giuste, malgrado la presenza di posizioni completamente errate, come quella sul sindacato, dimostra che si può ancora sperare che questi compagni possano un giorno aprire gli occhi e spiega perché noi ci rivolgiamo a loro come dei militanti della nostra classe.
4. Da notare che Programma Comunista, in questo stesso articolo, oltre a fare una denuncia dell’“opportunismo” dei vari Lutte Ouvriere, Scalzone, Negri, ecc., ha la pretesa di criticare anche i vari gruppi di sinistra comunista tra cui la CCI. Peccato però che, a questo punto, Programma si limiti a citare dei brevi passaggi di articoli senza neanche dire il nome del gruppo e senza sviluppare alcun commento, a parte la battuta di chiusura: “parole tutte in libertà”. Per quanto ci riguarda possiamo dire che se Programma avrà la capacità politica di esprimere una critica alle nostre posizioni politiche, saremo ben lieti di prenderla in considerazione.
5. “Moti sociali: Argentina 2001, Francia 2005, solo la lotta di classe del proletariato prospetta un avvenire.” Rivista Internazionale (versione in inglese, francese, spagnolo) n. 124.
6. Scarica gli articoli relativi alle varie lotte dal nostro sito.
Le reazioni al nostro primo articolo
In seguito alla pubblicazione, nel numero scorso del giornale, del primo articolo di questa serie, abbiamo ricevuto delle lettere di simpatizzanti di Lotta Comunista (LC). Questi compagni hanno espresso il loro disaccordo con le critiche da noi sviluppate a proposito della mancanza di una visione internazionale nella concezione di Cervetto sulla costruzione del partito. Queste lettere ci hanno fatto molto piacere perché il nostro interesse non è tanto la critica in sé a Cervetto o a Lotta Comunista, ma piuttosto suscitare una riflessione ed un dibattito su una questione di estrema importanza, come quella di come lavorare per la costruzione del futuro partito mondiale. Ci soffermeremo quindi sulle questioni poste da questi lettori prima di affrontare, in un prossimo articolo, la questione della presa di coscienza, del rapporto partito/classe e dei sindacati.
Le questioni poste dai compagni sono le seguenti:
- “Le critiche rispetto al ‘nazionalismo’ presunto di LC nel rimanere in Italia mi sembrano fuori luogo: LC ha sedi in Francia e pubblica i suoi libri in tutte le lingue occidentali; i libri quindi vengono diffusi in tutti i paesi europei”;
- “A me non pare che Cervetto abbia posto limiti alla “sola” Italia. Cervetto parla dell’Italia, certo, ma perché è il paese in cui vive. Non mi pare usi un tono esclusivista nel suo ragionamento. Al contrario, mi sembra ponga un modello da cui partire (in quegli anni) per arrivare ad una dimensione mondiale. Non era quello in fondo che si proponeva il vecchio partito bolscevico russo con la fondazione della III Internazionale?”
Diciamo subito che sappiamo bene che LC ha pubblicato dei libri in altre lingue così come abbiamo incrociato suoi militanti o simpatizzanti in altri paesi d’Europa come la Francia, la Germania, la Gran Bretagna ed anche alle conferenze organizzate in Russia e intitolate a Trotsky. Ma può forse questo essere sufficiente per dare una patente di internazionalismo a LC? Qualunque partito borghese tende ad avere una risonanza e dei partner a livello internazionale; d’altra parte esiste ancora addirittura una Internazionale Socialista dei vari partiti socialdemocratici del mondo. Vogliamo forse dire che questi sono partiti internazionalisti? Questo per dire che non è l’essere presenti a livello internazionale che dà ad un gruppo politico il carattere di internazionalista. Rispetto poi all’idea che “Cervetto parla dell’Italia perché è il paese in cui vive”, questo è piuttosto il retaggio acritico di una visione secondinternazionalista secondo cui in ogni paese occorre costruire un partito che risponda alle esigenze specifiche di quel paese, cosa che, come abbiamo detto nel precedente articolo, è valsa nella fase ascendente del capitalismo, anche se corroborata da una visione e da un quadro internazionale (vedi appunto la II Internazionale). Per quanto riguarda il cenno al partito bolscevico bisogna ricordare che questo nasce e si sviluppa in un periodo storico che fa da cerniera tra la fase ascendente e quella decadente del capitalismo ed è grande merito di questo partito e dello stesso Lenin aver percepito il cambiamento di fase storica che si stava operando, di capire la necessità di acquisire una nuova concezione del partito: non più partito di massa, ma partito mondiale di minoranze rivoluzionarie (III Internazionale) (1).
Ciò detto, dobbiamo riconoscere che la debolezza secondinternazionalista segnalata è importante, ma non costituisce in sé un elemento decisivo per un’organizzazione proletaria. Possiamo fare presente, tra l’altro, che lo stesso BIPR ha un’organizzazione sostanzialmente federalista nei vari paesi e predica espressamente, in completa contraddizione con l’esperienza storica, che le singole organizzazioni nazionali debbano avere il tempo di svilupparsi sui problemi locali prima di poter convergere nel partito a livello mondiale. (2)
Se dunque abbiamo concluso l’articolo precedente dicendo che quella di Cervetto è una visione borghese del partito, non è perché LC non ha militanti in altri paesi, o ne ha pochi, o perché ha iniziato la sua attività politica in Italia ma perché, al di là di un richiamo formale all’internazionalismo, il metodo utilizzato e la strada percorsa da Cervetto corrispondono ad una logica propria di un partito borghese sia a livello teorico che a livello di azione pratica sul piano organizzativo e di intervento nella classe.
Quale metodo sul piano teorico? Cervetto nei suoi scritti ha ribadito più volte che costruire il partito significa operare su due piani: elaborazione teorica ed intervento nella lotta della classe. Pienamente d’accordo. Ma cosa significa? Rispetto alla elaborazione teorica, tutta la storia del movimento operaio mostra come le differenti avanguardie abbiamo sempre teso a confrontarsi con le espressioni politiche proletarie del passato o con quelle che emergevano negli altri paesi sulle questioni centrali che si ponevano alla lotta di classe, nella consapevolezza che non si era gli unici al mondo e che queste minoranze erano l’espressione dell’eterogeneità del processo di presa di coscienza del proletariato internazionale. Da Marx a Lenin, dalla Luxemburg a Bordiga, ed anche nel peggior periodo di controrivoluzione, da Bilan ad Internationalisme (3), il metodo utilizzato è stato sempre quello di sottoporre le proprie convinzioni alla verifica dei fatti ed al confronto con le espressioni del movimento operaio internazionale e con le sue differenti esperienze, operando se necessario un’autocritica. Questo è l’unico metodo possibile per poter lavorare al raggruppamento delle forze rivoluzionarie per la costruzione del partito mondiale.
La comprensione di questo processo nella visione di Cervetto - e dunque di LC - manca totalmente. L’ottica di Cervetto (e di LC) - chiaramente espressa in “Lotte di classe e partito rivoluzionario” e nei successivi testi – non è solo un’ottica localista e chiusa nel quadro nazionale, ma anche un’ottica che, non facendo riferimento al mondo reale, alle lezioni delle sconfitte storiche del movimento rivoluzionario, finisce per essere il parto di una mente ingegnosa quanto si vuole ma pur sempre completamente soggettiva. Il risultato è che, partendo dalla presunzione di essere gli unici eredi al mondo di Marx e di Lenin, si stravolge completamente il prezioso lavoro politico di questi, deformandone i contenuti. D’altra parte, proprio per non avere alcuna conoscenza della storia del movimento operaio se non quella di un parzialissimo Lenin e per non conoscere neanche l’esistenza dei gruppi del campo proletario, molti simpatizzanti di LC tendono ad attribuire come meriti di Cervetto delle cose che lui ha mutuato malamente da altri. Un esempio per tutti: LC ha sempre sostenuto che uno dei grandi meriti di Cervetto è di aver elaborato, alla fine degli anni ’50, la teoria dell’ “imperialismo unitario” (cioè la natura imperialista della Russia) e individuato la tendenza al capitalismo di Stato. Ora, a parte il fatto che già il PCInt (4) era su queste posizioni, andando a ritroso si vede che Bilan negli anni ’30 ed Internationalisme negli anni ‘40 erano giunte ad una posizione molto chiara su queste questioni, tanto da permettere già nel ’36 a Bilan di denunciare la guerra di Spagna come una carneficina imperialista, mentre Cervetto faceva il partigiano antifascista nel secondo dopoguerra.
Quale metodo nell’attività politica? A partire da questa impostazione non è strano capire come si sia arrivati all’idea di partito teorizzata da Cervetto. Avendo la verità, o meglio la scienza in tasca e dovendo semplicemente trasmettere questa scienza agli operai, lo strumento partito inventato da Cervetto è un’organizzazione che tende a radicarsi con tutti i mezzi possibili in Italia, anche con la forza se necessario, puntando ad avere quanti più militanti è possibile, conquistando posizioni di potere nei punti nevralgici del sistema per poi diffondersi ad altri paesi per andare a illuminare della propria scienza i proletari di tutto il mondo. E per raggiungere questo obiettivo tutti i mezzi “tattici” sono buoni, l’importante è scegliere il momento giusto nel posto giusto.
Stiamo banalizzando la posizione di Cervetto? Non ci pare.
Qual è nella pratica l’attività di LC? Vediamo.
L’attività essenziale di LC è il lavoro nei sindacati e nei testi di Cervetto viene più volte indicata come priorità assoluta la propaganda specificamente indirizzata verso la base del PCI (5). L’idea è reclutare nuovi militanti all’interno di una platea che si ritiene più recettiva (nel sindacato ci sono gli operai, nel PCI gli elementi politicizzati a sinistra). Per mettere in pratica questa indicazione, LC mandava i nuovi militanti reclutati nel movimento studentesco della fine degli anni sessanta a lavorare in fabbrica, a diventare operai, con l’idea che se sei un comunista “operaio” non solo vieni ascoltato di più dai proletari, ma puoi farti eleggere rappresentante sindacale, entrare negli organi di questo e dunque acquisire una platea di ascolto più vasta. Questa politica di radicamento forzato ha spinto LC in certi momenti a concentrare il suo campo di azione a quei luoghi che le davano l’impressione di presentare condizioni più favorevoli per il reclutamento, come ad esempio nel ’66 a Genova che diventa, come proclama G. Poggi (uno dei fondatori di LC insieme a Cervetto) in un suo articolo, la “punta avanzata della ripresa del leninismo in Italia”. Quando la situazione non è più favorevole a Genova, il centro di azione diventa il movimento studentesco: dato che “Il partito rivoluzionario deve svilupparsi, …, organizzativamente utilizzando le possibilità che gli sono date”, ecco che “La crisi della scuola deve essere utilizzata leninisticamente e deve essere utilizzata ai fini della classe operaia e della sua lotta contro il sistema capitalistico ed imperialistico mondiale” e allora “le masse studentesche” diventano “per la loro natura un settore di incubazione di nuovi quadri politici, sensibili, più di altri strati, a queste crisi di transizione (ristrutturazione del settore scolastico, ndr) e suscettibili a fornire gruppi e base a nuovi movimenti politici espressi dalle nuove condizioni”. Chiaramente “I quadri provenienti dalle agitazioni studentesche ed i quadri provenienti dalle agitazioni di fabbrica si salderanno nella lotta e nel partito leninista. Se invece le agitazioni studentesche finiranno col fornire nuovi gruppi alle lotte imperialistiche, all'opportunismo riformato o ai giovani capitalismi, la lotta di costruzione del partito leninista avrà, come tante volte nella storia, ostacoli addizionali da superare. Questo è in fondo il problema dello sviluppo del partito leninista”. (le citazioni sono prese da “Tesi sulla tattica leninista nella crisi della scuola”, Cervetto, maggio 1968, nostra sottolineatura). Dunque gli studenti centro nevralgico per la lotta operaia, quando al tempo stesso i professori di scuola ed in genere i lavoratori statali e dei servizi venivano considerati parassiti vivendo del plus valore estorto alla classe operaia industriale. Qual è il metodo di lavoro di LC? Sulla ormai famosa pratica della vendita porta a porta non vale proprio la pena di soffermarsi. Quello che invece è indicativo della concezione tipicamente borghese di questo gruppo è l’atteggiamento intimidatorio e gangsteristico che LC ha sempre adottato nei confronti di chi ritiene essere un rivale sul campo. Chi ha vissuto il ’68 non può dimenticare i violenti scontri fisici tra i militanti di LC e quelli di Avanguardia Operaia o del Movimento Studentesco di Capanna (6) per il controllo del territorio, in particolare della casa dello studente a Milano. Atteggiamento che non è affatto cambiato nel tempo: basti citare che il 25 gennaio del 2004 a Genova, ad una riunione indetta dalla casa editrice Graphos e dal Circolo di Studi Politici Labriola sulla guerra in Iraq, una dozzina di militanti di LC ha impedito la tenuta della riunione con minacce, insulti ed aggressioni alle persone presenti dicendo espressamente di essere il servizio d’ordine di LC, “operai dell’Ilva”, mandati dalla direzione con l’ordine di impedire la riunione perché tra i partecipanti c’erano ex militanti di LC usciti con posizioni dissidenti (7). Gli insulti di “sporco fascista” e “neonazista” si riferivano poi al fatto che la Graphos aveva pubblicato libri di autori negazionisti (8). Queste pratiche sono tipiche dei partiti borghesi e piccolo borghesi, di destra o di sinistra che siano. Così come è insito nella natura dei partiti borghesi enunciare grandi principi e mettere poi sotto i piedi questi stessi principi quando serve per farsi spazio. L’unica differenza è che LC lo fa in nome della “tattica”: - LC dice che il parlamento, le elezioni non sono più strumenti da utilizzare per la lotta di classe, ma intanto sul referendum per l’abrogazione del divorzio nel ’74 dice alla classe che bisogna andare a votare per il NO; - dice che è contro tutti i partiti parlamentari, quelli stalinisti in testa, contro lo Stato e la democrazia e poi, negli anni ‘80, firma un comunicato stampa di condanna del terrorismo assieme al PCI, alla Democrazia Cristiana, al Partito Socialista ed altri partiti borghesi invitando “tutti i lavoratori a respingere il grave attacco portato avanti da quelle forze economiche e politiche che tendono a destabilizzare la democrazia del nostro paese”; - dice che democrazia e fascismo sono due facce del capitalismo e poi negli anni ‘70, quando l’antifascismo era il cavallo di battaglia di tutta la sinistra del capitale, pratica l’antifascismo militante, facendosi tra l’altro promotrice di una raccolta di firme per mettere fuori legge l’MSI (il vecchio partito di destra da cui ha avuto origine l’attuale AN di Fini). E ancora oggi rivendica pienamente tutto il trascorso antifascista ed il ruolo svolto nella Resistenza come partigiano dello stesso Cervetto all’interno dei GAAP (Gruppi Anarchici di Azione Proletaria). Rivendica cioè quella che è stata l’arma antioperaia più potente usata dalla borghesia e soprattutto dai partiti stalinisti, quali il PCI, nel dopoguerra per sconfiggere il proletariato trascinandolo nella difesa della faccia “democratica” del capitale contro quella “reazionaria”, come era già avvenuto nella Spagna del ’36. Dire “Viva la Resistenza operaia” (così è titolato un opuscolo di LC del ’75) significa avallare l’operato delle stesse formazioni partigiane che eliminavano - armi alla mano - i proletari che rifiutavano di schierarsi con la propria borghesia nazionale per andare a sparare contro altri proletari con una divisa diversa e le avanguardie rivoluzionarie che denunciavano la vera natura della lotta antifascista (9); significa nei fatti avallare la mistificazione democratica e perciò contribuire ad ostacolare il processo di presa di coscienza da parte della classe operaia sul fatto che non ci sono Stati, patrie da difendere; significa quindi nel concreto mettersi sotto i piedi l’internazionalismo proletario; - ultimo, ma non per importanza, Cervetto si è presentato come l’unico vero marxista e leninista, almeno da Lenin in poi, e LC rivendica pienamente questo ruolo così come tutta la traiettoria politica di Cervetto e sua. Bene! Qual è l’origine di LC? Nel 1951 Cervetto, Masini e Parodi, tutti ex partigiani provenienti dal movimento anarchico, costituiscono i GAAP come tendenza “classista” in seno al movimento anarchico, con l’idea di combattere il “nullismo” di questo sulla base di un ritorno allo studio di Marx. Nell’autunno del ’56 i GAAP costituiscono un Movimento per la Sinistra Comunista insieme ad un gruppo trotskista (Il GCR), Azione Comunista (gruppo formatosi come tendenza del PCI da Seniga, Raimondi e Fortichiari (10)) e da Battaglia Comunista (PCInternazionalista, unico gruppo veramente rivoluzionario che fortunatamente se ne distacca presto). Ben presto restano solo i GAAP e Azione Comunista, con la testata comune “Azione Comunista”, fino al ’65 quando si opera la scissione definitiva tra la frazione di Raimondi filo maoista da una parte e Lotta Comunista dall’altra. Come si vede, mentre si studiano Marx e Lenin, non si trova niente di strano a raggrupparsi con una tendenza del PCI o con un gruppo trotskista, cioè con un gruppo di una corrente politica che sostiene e difende l’imperialismo russo. Così come occorrono ben dieci anni per rompere con chi sostiene l’imperialismo cinese. E questo quando già da tempo i gruppi della Sinistra Comunista avevano chiaramente denunciato la natura imperialista di questi Stati. Rispetto poi all’anarchismo, già ampiamente criticato da Marx, e dallo stesso Lenin, e che ha dimostrato chiaramente la sua estraneità al movimento operaio nel momento in cui ha sostenuto il massacro dei proletari e la loro sconfitta nella guerra di Spagna nel ’36, l’unica critica “scientifica” che ne fa Cervetto è che esso è ormai superato: “Se l’anarchismo è rimasto tagliato fuori dalla realtà è perché è stato superato dalla storia. È inutile recriminare, studiare tutti gli aspetti del superamento” (“Strategia e tattica per un partito rivoluzionario” in L’Agitazione n.7, ottobre 1956). È quindi normale che ancora nel 2001 Lorenzo Parodi (dirigente di LC), rivendichi il fatto che nel ’49 si era “disposti a chiamarci ancora anarchici anche quando non eravamo più tali, perché dovevamo recuperare i gruppi di giovani disposti a rigettare il nullismo anarchico” (“Genova Pontedecimo 1951”, Lotta Comunista n.367, marzo 2001). Bella coerenza marxista, bel rigore leninista! Come abbiamo visto, tutta l’azione politica di LC è ispirata da una logica che mette al centro l’acquisizione di posizioni di potere sul territorio, indipendentemente dal processo di maturazione della classe operaia, anzi esattamente in contrapposizione a qualunque processo di chiarificazione. Nel prossimo articolo vedremo come questo sia legato alla maniera deformata con cui Cervetto (e LC) ha recepito il “Che fare?” di Lenin. Eva 1. Per un approfondimento su le fasi storiche del capitalismo e la relativa formazione del partito vedi l’opuscolo “La decadenza del capitalismo” e l’articolo “Sur le parti et ses rapports avec la classe” (Revue Internazionale n. 35, 4° trimestre 1983). 2. Vedi a tale proposito l’articolo: La costituzione del BIPR : un bluff opportunista, nella Rivista Internazionale n. 40 e 41 (edizione in lingua inglese, francese o spagnola). 3. Bilan, Frazione di Sinistra del PCI emigrata in Francia negli anni ’30 e Internationalisme, Sinistra Comunista Francese che negli anni ’40 continuò il lavoro di bilancio iniziato da Bilan. 4. Partito Comunista Internazionalista. 5. PCI: il vecchio partito stalinista italiano. 6. Si tratta di due formazioni politiche extraparlamentari che si svilupparono a partire dal movimento degli studenti a Milano. 7. Dal comunicato della Graphos ([email protected] [88]) del 27/01/2004 a cui, a quanto ne sappiamo, non c’è mai stata replica da parte di LC. 8. Negazionismo, o revisionismo storico è stato denominata quella corrente di pensiero, rappresentata per lo più da storici di destra, che tende a negare l’esistenza dell’olocausto degli ebrei da parte dei nazisti. 9. Vedi tra l’altro l’eliminazione fisica degli internazionalisti Atti e Acquaviva. 10. Va ricordato a tale proposito che Seniga è l’uomo di fiducia dello stalinista di ferro Secchia che, grazie a tale fiducia, se ne scappa con le casse del partito comunista italiano facendo perdere le proprie tracce… salvo poi riprendere la propria attività politica con Cervetto e compagni. Vedi a tale proposito M. Mafai, L’uomo che sognava la lotta armata.
Ripresa economica? La richiesta di Luca Cordero di Montezemolo, presidente di Confindustria, che venga inserita nelle prossime finanziarie una “ulteriore riduzione del costo del lavoro” rispetto a quella che gli industriali italiani hanno già ottenuto non è senza senso. «Dobbiamo riprendere il dialogo con il sindacato - ha detto Montezemolo - per affrontare i temi della flessibilità e della produttività. Togliamo tabù storici del nostro paese. Il Centro-sinistra o chi governerà deve dirci con chiarezza che tipo, che modello di relazioni industriali e di mercato del lavoro vuole» (1). Sul versante della produttività, ha aggiunto Montezemolo, tra il 2000 e il 2004, si è registrata in Italia una riduzione del 2,8 per cento, mentre l'Europa e gran parte dei paesi più industrializzati si sono mossi in netta controtendenza rispetto al nostro Paese. Stesso discorso anche per il costo del lavoro: tra il 2000 e il 2004 «è aumentato del 15,8%» a fronte di una dinamica opposta in altri paesi industrializzati e nelle economie emergenti. Come dice Montezemolo, negli altri paesi industrializzati c’è stato un grande aumento della produttività e una diminuzione del costo del lavoro. E lui non vuole essere da meno. Leggiamo sui giornali che la Ford taglia per circa 30.000 posti di lavoro, Deutsche Telekom altri 30.000 e sicuramente potremmo riempire la pagina di questo giornale con le varie richieste di tagli della forza lavoro. Il quadro dell’economia mondiale che abbiamo davanti non è quello di una ripresa dello sviluppo, cioè della possibilità di espandersi per tutti, ma di una lotta senza quartiere a chi riesce a togliere il terreno sotto ai piedi dell’avversario. Infatti la Ford, come la General Motors, deve far fronte alla concorrenza dei costruttori asiatici nel Nord America. In questo quadro dove si lotta per sopravvivere ci si può chiedere: La locomotiva Usa continua a correre?
E' vero che gli Stati Uniti “continuano a correre”, a differenza dell’Europa dove la domanda interna rimane piuttosto fiacca, e non sembrano neanche marginalmente toccati dai segni di indebolimento della congiuntura internazionale, mantenendo un passo di crescita decisamente vivace. La dinamica media annua del Pil è stimata intorno al 3,6% nel 2005, a fronte del brillante 4,2% realizzato nel 2004, con probabilità di una modesta frenata nel corso del 2006. I consumi delle famiglie continuano a fornire il principale contributo al processo di “ripresa.” Già! I consumi delle famiglie fanno correre gli Usa! E da dove prendono i soldi le famiglie? Dai loro conti in banca, dai loro risparmi, oppure dai prestiti, dai mutui che le banche offrono a tassi agevolati? La pubblicità degli ipermercati, delle catene commerciali e delle stesse banche non fa che spingere all’acquisto di ogni tipo di merce, dall’elettronica alla casa dove tutto è rateizzato, altro che “qui si fa credito solo ai novantenni accompagnati dai genitori” come era scritto sui cartelli dei negozi tempo fa. Non c’è alternativa al sistema che deve smerciare il più possibile i suoi prodotti e può farlo solo ricorrendo al finanziamento del debito sperando nel rimborso futuro. Ma “osservatori più o meno blasonati e qualificati quasi quotidianamente si pronunciano sulla crescita del mercato immobiliare e sul fatto che sia inevitabilmente destinato a crollare. Secondo alcuni, il crollo dei prezzi delle case, a livello mondiale, potrebbe essere già cominciato. Nell'ultimo rapporto dell'International Monetary Fund di Washington, preparato dall'economista Marco Terrones, è scritto che nel 2006 potrebbe verificarsi un collasso dell'economia mondiale scatenato dall'aumento dei tassi di interesse e segnalato dal crollo dei prezzi delle case in tutto il mondo, dagli Stati Uniti all'Europa al Canada».(3) Quindi la locomotiva americana, oltre che avere come principale base di sostegno il consumo delle proprie famiglie e non l’esportazione, corre con la prospettiva di un collasso dell’economia mondiale, altro che nuovo sviluppo dovuto alle economie emergenti asiatiche che prima o poi faranno la fine delle tigri, dei dragoni, della Russia e dell’Argentina. “Sul fronte dei conti con l'estero, lo squilibrio della bilancia dei pagamenti, attualmente intorno al 6% del Pil, non dà segni di rientro e tende anzi a peggiorare. I flussi in uscita di dollari per l'acquisto di beni prodotti all'estero sono, infatti, molto superiori a quelli in entrata per la vendita dei beni esportati (con un rapporto quasi di 2 a 1).” Le prospettive dell’Italia Il fabbisogno statale e delle amministrazioni pubbliche è in sensibile crescita, il debito pubblico è in aumento, per la prima volta dopo la fase di ininterrotta discesa in atto dalla metà degli anni 90; ciò si verifica mentre i tassi d'interesse riprendono a salire. Questo significa una inversione di tendenza difficilmente controllabile. Gli obiettivi programmatici di contenimento del deficit pubblico, far scendere il rapporto con il Pil dal 4,3% al 3,8% entro il prossimo anno, si scontrano con i dati tendenziali dell'indebitamento netto in forte crescita. Cala l'avanzo primario, sale il debito: il saldo primario di bilancio, che si ottiene sottraendo al deficit la spesa per interessi sul debito, si è pressoché azzerato nel corso del 2005, dopo un decennio di valori positivi. Questo avanzo netto, oggi esauritosi, è l'indicatore della capacità dell'Italia di ripagare nel lungo termine l'ingente debito pubblico accumulato, riducendone in primo luogo il rapporto nei confronti del Pil, stimato oggi vicino al 110% dal 106-107%, il livello minimo toccato negli scorsi due anni. Con un saldo primario negativo, in altre parole, riparte il circolo vizioso del debito, in crescita rispetto al Pil e rimborsato a scadenza con il ricorso a nuovi debiti. Al palo anche le produzioni “made in Italy”. I settori punte di diamante della produzione italiana (industria delle calzature, apparecchi elettrici e di precisione, mezzi di trasporto, industria tessile) hanno accusato pesanti flessioni. Quali alternative? In un quadro talmente degradato dell’economia mondiale, le possibilità del capitalismo di continuare ad accumulare profitti si possono trovare solo in settori che non hanno nulla a che fare con lo sviluppo economico ma che procedono di pari passo con le economie “illegali”, cioè con settori che lo stesso capitalismo deve far finta di combattere: droga, prostituzione, schiavitù e lavoro nero, tratta degli immigrati, frodi alimentari, furti. E parlando di furti non si fa riferimento a bande di periferia che scippano o a rapinatori che assaltano banche; si fa riferimento ai banchieri, cioè ai proprietari o dirigenti delle stesse banche, ai borghesi delle multinazionali che non sapendo più come sopravvivere, cioè vedere crescere le proprie ricchezze, si danno al racket organizzato, a togliere le monetine dai conti correnti dei propri clienti, un poco al mese per non dare nell’occhio, a tresche finanziarie di spostamenti di capitali da una banca ad una finanziaria o viceversa, dall’Italia alla Svizzera o a Singapore. Non è stato solo il caso della Parmalat o della Cirio dell’anno scorso o dell’Endosa americana, non è solo il caso della Banca Popolare Italiana i cui dirigenti sono stati arrestati, è invece la norma del sistema oggi. È tutto il sistema capitalista che è marcio, chi più chi meno. Non c’è settore che non venga toccato, c’è chi acquista il grano contaminato da sostanze cancerogene dal Canada, chi fa truffe telefoniche modificando il collegamento a internet, chi si prepara all’assalto del TFR e dei fondi pensione e chi più ne ha ne metta. Tornando agli arresti eccellenti di un mese fa, dei dirigenti della Banca Popolare Italiana, ex Banca Popolare di Lodi: “sotto la guida di Fiorani la banca lodigiana ha rappresentato per anni l’epicentro di evidentissimi affari illeciti (..). Fiorani è accusato di aver diretto una stabile, radicata e articolata organizzazione in Italia e all’estero dedita alla spoliazione di Bpl e di Bpi e all’occultamento dei proventi del riciclaggio”. Tra l’altro “rubavano soldi ai correntisti morti”, e davano “soldi ai politici di livello nazionale”. (La Repubblica, 14 dicembre 2005). Siamo di fronte ad una nuova tangentopoli? Nient’affatto. Il dare soldi ai politici è il modo di esistere fisiologico della borghesia, i politici non sono altro che i rappresentanti legali degli interessi globali della borghesia. Se negli Usa è la legge che consente il finanziamento dei politici mentre in Italia è vietato, questo non esprime che un diverso senso del pudore da parte delle diverse borghesie. In questo contesto, Tangentopoli non è stata il tentativo di superare questa caratteristica della vita della borghesia quanto piuttosto l’espressione di una lotta interna alla borghesia italiana che ha usato il divieto di dare mazzette ai politici per eliminare dalla scena politica dei partiti legati agli interessi degli Usa, la Democrazia Cristiana e il Partito Socialista Italiano, quando questi non erano più utili dopo la caduta del blocco sovietico. Ciò che è accaduto negli ultimi mesi, l’inchiesta sui “bad boys” cresciuti all’ombra di Fazio, fa parte invece del tentativo della borghesia di reagire alla decomposizione del suo sistema, decomposizione che porta allo sfacelo dell’organizzazione esistente, alla scomparsa di ogni forma di legalità. Questo gruppo definito da La Repubblica “bad boys” viene accusato di preparare un golpe finanziario! (14 dic. ’05 pag. 3). Infatti oltre alla scorretta scalata di Antonveneta ha tentato anche la scalata alla Bnl e alla Rcs che detiene il controllo del Corriere della Sera. L’intervento della magistratura è servito a fermare la discesa agli inferi per una estate, sicuramente arriveranno altri “boys” a cercare lo stesso bottino, perché in tempo di crisi storica del capitalismo questo è l’unico modo per accumulare capitali: non serve produrre merci, l’importante è saper rubare.
23 gennaio ’06
Oblomov
1. Tutti i riferimenti presenti nell’articolo, se non diversamente descritto, sono presi da “Il sole 24 ore” attraverso il sito web www.nordestimpresa.com [90].
2. Montezemolo, stranamente, dà la colpa non ai lavoratori ma al settore pubblico che chiede prezzi troppo alti e fa concorrenza ai privati.
3. Riportato su www.corriere.com [91], Corriere canadese on-line. Vedi anche Rivista Internazionale n°27.
L’8marzo studenti della Sorbona hanno occupato le loro facoltà per tenere assemblee generali e discutere della loro partecipazione al movimento di protesta contro il CPE (contratto di prima occupazione) e gli ignobili attacchi portati contro i giovani lavoratori dal governo Villepin. Il rettorato di Parigi ha preteso lo sgombero dei locali considerati “monumenti storici”. Gli studenti rifiutano e sono accerchiati dalle forze dell’ordine che trasformano l’Università in una vera trappola per sorci . Gli studenti vengono trattati come topi, privati di cibo e di ogni contatto con i loro compagni delle altre università in lotta nel cuore della capitale (in particolare Censier, Jussieu, Tolbiac). Venerdì 10 marzo gli studenti delle altre facoltà decidono di recarsi in massa e PACIFICAMENTE alla Sorbona per portare la loro solidarietà e del cibo ai loro compagni affamati e presi in ostaggio su ordine del rettore dell’Accademia di Parigi e del ministero degli Interni. Una parte di loro, accompagnati dai lavoratori precari dello spettacolo in lotta, riescono ad entrare nei locali e decidono di prestare man forte ai loro compagni presenti sul posto da più di due giorni. Nella notte tra il 10 e l’11 le forze dell’”ordine”, a colpi di manganelli e di gas lacrimogeni , invadono la Sorbona. Cacciano gli studenti in lotta e ne arrestano diverse decine.
“L’ordine” dei manganelli e delle bombe lacrimogene
Gli studenti e i giovani in lotta non si fanno nessuna illusione sul ruolo delle pretese “forze dell’ordine”. Esse sono le “milizie del capitale” (come gridavano gli studenti) che difendono non gli interessi della “popolazione” ma i privilegi della classe borghese. “L’ordine repubblicano” è il “disordine” di una società che condanna alla disoccupazione, alla precarietà e alla disperazione delle masse crescenti di giovani che si arrabattano per cercare di avere una vita decente. Ciononostante alcuni di quelli che erano venuti a dare man forte ai loro compagni chiusi nella Sorbona hanno cercato di discutere con i celerini: essi non erano venuti per saccheggiare i locali, non erano venuti per “fare la pelle ai poliziotti” né per divertirsi e far festa come sostenevano i mezzi di informazione borghesi. Essi erano venuti per portare dei viveri ai loro compagni che avevano fame e portar loro un po’ di solidarietà!
Quelli che hanno cercato di discutere con i celerini non sono degli ingenui. Al contrario, essi hanno fatto prova di maturità e di coscienza. Essi sapevano che dietro i loro scudi e i loro manganelli questi uomini armati fino ai denti sono anche degli esseri umani, dei padri di famiglia i cui figli saranno essi stessi colpiti dal CPE. Ed è questo che questi studenti hanno detto ai celerini, alcuni dei quali hanno risposto che non avevano altra scelta che quella di obbedire agli ordini.
Oggi “l’ordine regna alla Sorbona” e il suo presidente, Jean Robert Pitte, ha dichiarato che questo avrebbe permesso agli studenti di “lavorare in normali condizioni da lunedì”. Gli sbarramenti di uomini armati e la prospettiva di una precarietà sempre più grande: ecco le condizioni “normali” dell’”ordine” capitalista. A quelli che vengono attaccati con misure ignobili come il CPE e che vogliono utilizzare le facoltà come luoghi di discussione e di dibattito per organizzare la loro risposta viene inviata la repressione, le bombe lacrimogene e i manganelli. Ecco il vero volto della nostra bella “democrazia repubblicana”. Ecco il vero volto del famoso “Libertà, uguaglianza, fratellanza” uscito dalla rivoluzione borghese del 1789!
Gli studenti in lotta non sono dei sovversivi!
Sulle reti televisive e sui giornali si cerca continuamente di presentare il movimento degli studenti come dei semplici scontri con la polizia, come dei tumulti.
I mezzi di informazione sono al servizio della classe dominante. Noi denunciamo la propaganda fraudolenta e menzognera delle loro manipolazioni ed intossicazioni ideologiche. Noi denunciamo il “Times” che, nella sua edizione dell’8 marzo, anche prima degli scontri alla Sorbona, titolava in prima pagina: “RIOTS…” E’ falso! Gli studenti non sono dei sovversivi (“riots”, in inglese, significa sommossa). Questa falsificazione del giornale al servizio di Tony Blair (che viene in soccorso del governo francese) non ha che un solo scopo: fare una amalgama tra la violenza cieca e disperata che ha incendiato le periferie nello scorso novembre e la LOTTA DI CLASSE dei figli della classe operaia e dei lavoratori (in particolare gli insegnanti e il personale IATOS) che si sono uniti al loro movimento. E non è un caso se al momento della manifestazione degli studenti, che si è pacificamente svolta giovedì 9 marzo sugli Champs Elysées, circolava un volantino molto losco di un “comitato per l’estensione della sommossa”. Chi ha fatto circolare questo foglio per far credere che le manifestazioni degli studenti erano teleguidate da un preteso “comitato di estensione della SOMMOSSA”? Elementi del sottoproletariato manipolati dal governo e dal suo Ministero dell’Interno, dei farabutti e altri provocatori o dei partiti politici che vogliono spingere gli studenti, pezzo dopo pezzo, a gettarsi mani e piedi legati sotto i colpi della repressione, allo scopo di salvare la sorte di Villepin e del suo CPE?
Non cediamo all’impazienza e alla demoralizzazione !
Oggi la Sorbona è di nuovo sotto il controllo delle “autorità”. Gli studenti in lotta non potranno riunirsi in questo luogo simbolo del Maggio ’68. Ma noi non siamo feticisti. Noi non abbiamo bisogno di “simboli” nella lotta, perché la nostra lotta non è “simbolica”. Essa è reale e viva! Se essi vogliono recuperare il loro “monumento storico”, che se lo tengano. Si può andare a costruire altrove un vero “monumento” che lascerà tracce nella Storia! Ci si può riunire in altre facoltà meno “chic” e piene di amianto. E se ci cacciano, si troveranno altri posti!
E se bisogna durare fino al tempo delle ciliegie, andremo a fare le nostre Assemblee generali nei giardini pubblici, all’ombra degli alberi e in mezzo ai fiori! In mezzo alle madri che verranno a portare i loro bebè a passeggio e che potranno partecipare ai dibattiti!
Come diceva un professore in sciopero in una Assemblea Generale della facoltà di Parigi - Censier: gli studenti di oggi hanno inventato qualcosa di nuovo e di molto importante. L’immaginazione creatrice che è caratteristica della classe operaia in lotta è già al potere in certe università! E’ il caso di quella di Censier dove l’assemblea studentesca del 9 marzo ha deciso di tenere Assemblee Generali comuni con il personale della Facoltà in sciopero e di aprire la Facoltà il sabato e la domenica per permettere ai lavoratori della regione parigina di venire a discutere con gli studenti le prospettive della lotta, di una lotta che è quella di tutta la classe operaia, perché è tutta la classe operaia che è attaccata. E anche se alcuni sognano di fare del 18 marzo una manifestazione di chiusura, se essi arrivano di qui ad una settimana a sabotare il movimento e a portarci alla sconfitta, noi avremo (forse) perso una battaglia, ma non avremo perso la guerra!
Ritorneremo alla carica appena le nostre forze saranno ricostituite. Perché la più grande vittoria della lotta è la lotta stessa! E’ l’esperienza dell’unità, della solidarietà. Sono le lezioni che avremo tirato che ci permetteranno di ripartire in lotta ancora più forti e più uniti!
I futuri disoccupati e i futuri precari in lotta della primavera del 2006 sono già andati più lontani dei loro predecessori, quegli “arrabbiati” che avevano costruito le barricate nel Maggio 1968 e che pensavano di partecipare ad un “conflitto contro le vecchie generazioni”, a una “rivolta contro l’autorità”. Gli anni ’60 erano ancora degli anni di illusione. Oggi, con la crisi mondiale dell’economia capitalista, con gli attacchi incessanti contro le condizioni di vita dei lavoratori, siamo entrati nell’era dei veri “anni della verità”! E come diceva il vecchio Karl, è nella pratica che l’uomo fa la prova della verità, della profondità e della potenza del pensiero!
Solidarietà con gli studenti futuri disoccupati e precari in lotta!
Abbasso la repressione contro i figli della classe operaia!
No alla dispersione delle nostre forze!
Per vincere, costruiamo un fronte compatto e unito di tutta la classe operaia!
Corrente Comunista Internazionale (11 marzo 2006)
Tutto ciò che racconta il governo del presidente argentino Kirschner sulla "fantastica ripresa " dell'economia argentina dopo il crollo del 2001, è solamente una frottola. La realtà subita quotidianamente dai lavoratori e dall'immensa maggioranza della popolazione è sempre più opprimente. Alcune cifre possono dimostrarla: la popolazione che vive sotto la soglia di povertà è passata dal 5% nel 1976 al 50% nel 2004. La carestia, limitata fin là alle province del Nord, Tucumán o Salta, dove l' 80% dei bambini soffrono di malnutrizione cronica, invade oramai le zone povere della spaventosa cintura di bidonville del sud di Buenos Aires.
È contro una tale situazione, insopportabile, che gli operai si sono rivoltati. Tra giugno ed agosto, si è assistito alla più grande ondata di scioperi da 15 anni (1). Le lotte hanno toccato ospedali come quelli di Quilmes e Moreno, imprese come Supermercados Coto, Parmalat, Tango Meat o Lapsa, la metropolitana di Buenos Aires, i lavoratori comunali di Avellaneda, Rosario e di città più importanti della provincia meridionale di Santa Cruz, i marittimi ed i pescatori a livello nazionale, gli impiegati della giustizia ovunque nel paese, gli insegnanti di cinque province, i medici del comune di Buenos Aires, gli insegnanti delle università di Buenos Aires e Cordoba... Tra queste lotte, la più notevole è quella dell'ospedale di pediatria Garrahan (Buenos Aires) per la combattività e lo spirito di solidarietà che sono state espresse.
Le lotte hanno ottenuto qua e là alcuni miglioramenti salariali effimeri, ma di fronte ad un capitalismo che sprofonda sempre più in una crisi senza uscita, la conquista principale delle lotte non si trova sul campo economico, ma sul campo politico. Le lezioni tratte da queste lotte serviranno alla preparazione di nuove che saranno inevitabili. Ne va così dell'importanza della solidarietà, dello spirito di unità che maturano presso gli operai, la comprensione di chi sono i loro veri nemici, ecc.
Il proletariato si afferma come classe in lotta
Nel 2001, c'è stata in Argentina una rivolta sociale spettacolare che fu salutata dal campo altermondialista come una situazione "rivoluzionaria." Ma questa mobilitazione si è posta chiaramente su un campo inter-classista, con spinte nazionaliste e "riforme" della società argentina che potevano solo determinare il rafforzamento del potere capitalista. In un articolo che abbiamo pubblicato nella Rivista Internazionale n. 25, abbiamo messo in rilievo il fatto che "Il proletariato in Argentina si è trovato immerso e diluito in un movimento di rivolta inter-classista. Questo movimento di protesta popolare in cui la classe operaia è stata annegata, non ha espresso la forza del proletariato ma la sua debolezza. Perciò la classe non è stata in grado di affermare né la sua autonomia politica, né la sua auto-organizzazione". (2)
Affermavamo anche che: "Il proletariato non ha bisogno di consolarsi né di aggrapparsi a illusorie chimere. Quello di cui ha bisogno, è ritrovare la strada della sua propria prospettiva rivoluzionaria, di affermarsi sulla scena sociale come la sola ed unica classe capace di offrire un avvenire all'umanità, e, sulla base di questa posizione, di trascinarsi dietro gli altri strati sociali non sfruttatori". Dicevamo che le capacità di lotta del proletariato argentino non si sono esaurite, lungi da ciò, e che queste dovevano di nuovo svilupparsi, ma che era fondamentale che "venga tratta una lezione chiara dagli avvenimenti del 2001: la rivolta inter-classista non indebolisce il potere della borghesia, ma principalmente, quello del proletariato". (2)
Oggi, quattro anni più tardi, l'ondata di scioperi in Argentina ha mostrato un proletariato combattivo che si presenta sul suo proprio terreno di classe e comincia a riconoscersi come tale, anche se ciò avviene ancora timidamente. Del resto, la stessa sinistra del capitale non cerca di negare l'evidenza. Così, la pubblicazione Lucha di Clases: Revista Marxista di Teoría y Política di luglio 2005, riconosce che "uno dei fatti più notevoli di quest'anno, è stato il ritorno attivo dei lavoratori al centro della scena politica argentina, dopo anni di indietreggiamento. Siamo davanti ad un lungo ciclo di lotte rivendicative, dove i lavoratori lottano per il miglioramento del loro stipendio e contro le condizioni degradate del lavoro, cercando di riappropriarsi delle conquiste perse nei decenni passati", aggiungendo che "nel momento in cui i lavoratori dell'industria e dei servizi cominciavano a fare sentire la loro voce altre voci osservavano il silenzio: quelle che avevano decretato la ‘fine del proletariato’".
Questa apparizione combattiva del proletariato non è un fenomeno locale dovuto alle particolarità argentine. Senza per questo negare l'influenza di fattori specifici, in particolare l'abbassamento veloce e violento del livello di vita delle grandi masse della popolazione, conseguenza di un degrado economico che si è accelerato con il crollo del 2001, questa ondata di scioperi fa parte del movimento internazionale di ripresa della lotta di classe che abbiamo segnalato dal 2003. Essa ne fa pienamente parte per le sue caratteristiche e le sue tendenze di fondo.
In un testo pubblicato recentemente (3), abbiamo messo in evidenza le caratteristiche generali di questa ripresa: lenta e difficile, non ancora concretizzatasi in lotte spettacolari, che avanza non tanto grazie ad una successione di lotte vittoriose, ma attraverso sconfitte da cui gli operai traggono le lezioni che faranno vivere delle lotte future ben più forti. Il filo conduttore che le accompagna e che contribuisce alla loro lenta maturazione è "il sentimento, ancora molto confuso ma che non può che svilupparsi nel periodo che è davanti a noi, che oggi non esiste soluzione alle contraddizioni che assillano il capitalismo sia sul piano della sua economia, sia per altre manifestazioni della sua crisi storica, come la permanenza degli scontri guerrieri, l'ascesa del caos e della barbarie di cui ogni giorno che passa dimostra un poco più chiaramente il carattere inarrestabile". All'epoca di questa ondata di scioperi, è apparso, come in altre lotte altrove nel mondo (Heathrow in Gran Bretagna, Mercedes in Germania) un'arma fondamentale per fare avanzare la lotta proletaria: l'espressione della solidarietà proletaria.
Nel Subte (metropolitana di Buenos Aires), tutto il personale si è fermato spontaneamente dopo la morte di due operai della manutenzione, causata dalla mancanza totale di misure di protezione contro gli incidenti del lavoro. I lavoratori degli ospedali della capitale federale hanno prodotto parecchie azioni di solidarietà con i loro compagni del Garrahan. Nel Sud (provincia di Santa Cruz), lo sciopero degli impiegati municipali nelle città principali ha suscitato una forte simpatia da parte di larghi strati della popolazione. A Caleta Olivia, lavoratori del petrolio, impiegati della giustizia, insegnanti, disoccupati, si sono uniti alle manifestazioni dei loro compagni impiegati municipali. A Neuquen, gli operai della salute si sono uniti spontaneamente alla manifestazione degli insegnanti in sciopero che marciavano verso la sede del governo provinciale. Repressi violentemente dalla polizia, i manifestanti sono riusciti a raggrupparsi e hanno potuto vedere come dei passanti si univano alla manifestazione criticando duramente la polizia che si ritirava ad una distanza prudente.
È anche da segnalare il modo unitario con cui è stata posta la rivendicazione salariale dai salariati dell'ospedale pediatrico Garrahan: al posto di esigere degli aumenti proporzionali che non fanno che approfondire le differenze tra le differenti categorie e spingono alla divisione ed alla concorrenza tra lavoratori, hanno lottato per un aumento uguale per tutti favorendo così i settori meno remunerati.
La risposta della borghesia
Sarebbe tuttavia stupido credere che la classe dominante sarebbe rimasta con le braccia incrociate di fronte agli sforzi del suo nemico mortale per riappropriarsi della sua identità di classe e della sua prospettiva rivoluzionaria. Essa risponde, inevitabilmente, impiegando l'arma della repressione, ma anche attaccando ampiamente la coscienza di classe degli operai.
Ecco ciò che abbiamo visto concretamente in Argentina. Il governo federale ed i governi provinciali hanno adoperato la forza poliziesca contro gli scioperanti: arresti, processi, sanzioni amministrative sono cadute numerose su molti lavoratori. Ma il grosso della risposta della borghesia si è concentrato in una manovra politica destinata ad isolare i settori più combattivi, calunniare gli operai in lotta, condurre i differenti focolai di combattimento verso il vicolo cieco e la demoralizzazione e scrivere bene nelle teste che "la lotta non paga", che la mobilitazione non porta a niente.
Perciò, lo Stato ha preso la lotta dell'ospedale Garrahan - che, come abbiamo detto, ha avuto un ruolo di primo piano nell'ondata di scioperi - come bersaglio per le sue manovre. In primo luogo, ha scatenato una campagna assordante trattando gli operai da "terroristi", presentandoli come scellerati che metterebbero avanti i loro "interessi particolari" contro la salute dei bambini curati all'ospedale. Con un’ipocrisia da vomitare, questi governanti che lasciano morire di fame migliaia di bambini, manifestano improvvisamente una "preoccupazione" per i bambini "minacciati" da questi "abominevoli" scioperanti.
Tutto ciò è stata un'evidente provocazione per isolare i lavoratori di Garrahan, completata dall'accusa assurda secondo la quale essi sarebbero manipolati da una pretesa cospirazione politica "anti-progressista" ispirata da Menem e Duhalde (4).
Ma ciò che ha indebolito di più la lotta dei lavoratori di Garrahan è stato "l'aiuto" prestato dalle organizzazioni di piqueteros (5). Queste si sono appiccicate come sanguisughe alla lotta di Garrahan (e hanno fatto la stessa cosa con gli operai di Tango Meat) nel nome della "solidarietà". E' così che gli operai di Garrahan si sono visti associati - ed il governo ed i suoi media non hanno mancato l'opportunità di farne la più grande pubblicità - ai metodi di blitz delle organizzazioni di piqueteros che, al posto di colpire la classe dominante, mirano solo a dividere gli operai e porre un freno allo sviluppo della loro solidarietà. Le organizzazioni di piqueteros, per esempio, hanno bloccato il ponte Pueyrredón, punto nevralgico della capitale, alle ore di punta, provocando degli ingorghi enormi che hanno colpito soprattutto numerosi lavoratori della periferia sud di Buenos Aires. O come è accaduto a Cañadón Seco, nel Sud, dove una quarantina di persone ha tagliato gli accessi della raffineria di Repsol-YPF senza la minima consultazione preliminare con i lavoratori della fabbrica.
La vera solidarietà non può svilupparsi che al di fuori e contro le gabbie sindacali, è una lotta comune dove si integrano nuovi settori di lavoratori, dove ci sono invii di delegazioni, manifestazioni ed assemblee generali, dove gli operai, direttamente, vivono, lottano, riflettono e comprendono insieme, ed è così che di altri oppressi e sfruttati potranno unirsi ad essi. In un tale movimento, le divisioni che dividono gli operai cominciano a sparire perché essi possono verificare concretamente che appartengono alla stessa classe, perché prendono coscienza della loro forza e della loro unità.
Questa solidarietà diretta, attiva, di massa, l'unica che dà la forza e fa avanzare la lotta proletaria, è stata sostituita da una "solidarietà" di intermediari, le organizzazioni "sociali" con i loro dirigenti in testa, passiva e minoritaria che produce l'euforia di credere che si "è sostenuti dalle masse che sono dietro queste organizzazioni". Si finisce per rendersi conto con amarezza che si è ancora più isolati e divisi di prima.
CCI, 16 settembre 2005
1. "Il mese di giugno ultimo ha conosciuto il livello più elevato dei conflitti dell'ultimo anno: 127 movimenti che hanno toccato il 80% del settore pubblico, il 13% nei servizi ed il 7% restante nei differenti rami dell'industria. Questo mese ha superato in conflitti quelli registrati in tutti gli altri mesi di giugno dal 1980. L'analisi dei conflitti del lavoro dei mesi di giugno dei ultimi 26 anni, 1980 inclusi, mostra che il mese di giugno del 2005 è più elevato". (Colectivo Nuevo Proyecto Histórico, gruppo sorto in Argentina, nel suo testo "Sindicato y necesidades radicales").
2. “Rivolte popolari in Argentina: Solo l'attestarsi del proletariato sul suo terreno può fare indietreggiare la borghesia” (Rivista Internazionale n. 25).
3. Révue Internationale n. 119: “Risoluzione sulla lotta di classe".
4. Ex presidenti argentini particolarmente impopolari.
5. Sui piqueteros, leggere "Rivolte popolari in America Latina: l'indispensabile autonomia di classe del proletariato" (Révue Internationale n. 117 e “Argentina: la mistificazione dei piqueteros”, (Révue Internationale n. 119).
L’anno 2005 era cominciato già sotto i peggiori auspici: col sentimento di orrore provocato dalle devastazioni dello tsunami nel Sud-est asiatico che aveva provocato più di 300.000 morti. Esso si conclude con una doppia minaccia ancora più pesante di conseguenze: l’inquinamento delle acque in seguito all’esplosione di una fabbrica chimica che mette a repentaglio la vita di più di 5 milioni di persone in Cina ed in Russia ed il rischio di propagazione di un nuovo flagello, l’influenza aviaria, su qualsiasi angolo del pianeta, col flusso migratorio degli uccelli nella primavera prossima.
Nel frattempo, è con lo stesso sentimento di impotenza che abbiamo assistito alle devastazioni del ciclone Katrina che ha cancellato dalla carta geografica la città di Nuova Orleans ed i suoi dintorni, poi ad un’ondata senza precedenti di uragani devastatori nel golfo del Messico, al terremoto nel Cashemir pakistano ed ad altri cataclismi similari. Queste immagini di apocalisse non sono il prodotto di una fatalità, semplici catastrofi naturali. Sono le leggi del capitalismo che le hanno trasformate in spaventose e drammatiche catastrofi sociali: è l’incuria di questo sistema che è in causa, nella sua incapacità di avvertire e di premunire dagli effetti di queste catastrofi, nella sua incapacità di proteggere le popolazioni e di soccorrerle efficacemente.
Peraltro, la concorrenza commerciale ad oltranza, la ricerca dello sfruttamento massimo e della redditività immediata, la trasgressione permanente delle norme di sicurezza più elementare, il disprezzo più totale della vita umana, provocano catastrofi sempre più omicide, come quelle aeree a ripetizione.
Ma la follia e la barbarie del capitalismo si manifestano ancora più chiaramente attraverso il carattere sempre più irrazionale delle guerre e dei conflitti sanguinosi che devastano il pianeta, per gli appetiti imperialisti di tutti gli Stati, generando sempre più caos e distruzione. Oltre all’incitamento di odi interetnici e di guerre di clan endemiche come in Africa, i focolai quotidiani di massacri in Iraq, in Libano, nel Medio Oriente, nel Caucaso, trovano un prolungamento al ricorso sistematico di attentati kamikaze e nella loro moltiplicazione come arma della guerra imperialista. Dall’11 settembre 2001, le crociate anti-terroristiche non hanno fatto che esacerbare e dar loro un’altra dimensione, suscettibile di colpire ciecamente qualsiasi angolo del globo: lo si è visto con la serie di attentati di Londra l’estate scorsa, ma anche in Indonesia, in Egitto ed in India.
Questa dominazione della barbarie su una larga parte del pianeta converge in un’accelerazione senza precedenti di attacchi contro la classe operaia nei paesi centrali del capitalismo. Questa si ritrova colpita in pieno dall’aggravamento della crisi economica. E sono le stesse misure ad essere messe in atto da tutti i governi, sia di destra che di sinistra. I proletari sono sottomessi a condizioni di sfruttamento sempre più insopportabili che si manifestano in un elevato deterioramento delle loro condizioni di vita ed un impoverimento crescente dovunque. L’aggravamento della disoccupazione, l’intensificazione dei piani di licenziamento in tutti i settori e la precarizzazione del lavoro vanno ad aggiungersi al deterioramento delle loro condizioni di lavoro, allo smantellamento della protezione sociale, all’abbassamento del loro potere di acquisto, al degrado delle loro condizioni abitative. Non solo il capitalismo getta sulla strada sempre più larghe frazioni della classe operaia ma si rivela sempre più incapace di assicurar loro i mezzi di sopravvivenza più elementare. L’ampiezza e la profondità degli attacchi della borghesia contro la classe operaia rivelano lo sprofondamento inesorabile del capitalismo nelle convulsioni della sua crisi mondiale. In quanto alla borghesia, essa dimostra che non ha più i mezzi per spostare nel tempo i suoi attacchi contro le più vitali condizioni di esistenza di quelli che sfrutta.
Il capitalismo è costretto a svelare più apertamente il suo fallimento. L’accelerazione drammatica di questa situazione sull’intero pianeta dimostra chiaramente che non solo questo sistema di sfruttamento è incapace di assicurare una migliore sorte per l’umanità ma minaccia al contrario, in modo permanente, di risucchiare il pianeta in un baratro di miseria e di barbarie. Di fronte alla gravità di una tale posta esiste una sola via d’uscita: il capovolgimento di questo sistema mediante l’unica classe che ha da perdere solo le catene del suo sfruttamento, il proletariato. La classe operaia detiene la chiave dell’avvenire. Lei sola, attraverso lo sviluppo delle sue lotte, ha i mezzi per trarre fuori l’umanità da questo vicolo cieco. È l’unica classe capace di opporsi alla perpetuazione di questo sistema di sfruttamento. È l’unica classe della storia portatrice di un’altra società il cui motore non sarebbe più il profitto e lo sfruttamento ma la soddisfazione dei bisogni umani.
W (16 dicembre 2005)
Il 23 dicembre, gli operai della SEAT, sia del turno di mattina che del pomeriggio, sono scesi spontaneamente in sciopero per solidarietà con 660 dei loro compagni a cui la compagnia aveva, quella mattina stessa, consegnato la lettera di licenziamento.
E’ stato l’inizio di una risposta ad un attentato criminale alle loro condizioni di vita. Un attentato perpetrato con premeditazione e perfidia dal Triangolo Infernale costituito dal padronato, dalla Generalidad (governo della Catalogna) e dai sindacati. Un attentato che va ben al di là dei 660 licenziamenti, perché ad essi si aggiungono i licenziamenti per motivi disciplinari dei lavoratori che parteciparono alle azioni di lotta dell’inizio di dicembre, i 296 licenziamenti mascherati da “dimissioni volontarie”, i piani di intensificazione dello sfruttamento con l’aumento della produzione, estorta ai lavoratori con le loro ore di permesso,… In definitiva, un attacco brutale che apre la porta a nuovi attacchi. Non a caso il presidente della compagnia ha annunciato con cinismo e provocatoriamente che “i provvedimenti contemplati nell’accordo non assorbono tutta l’eccedenza di personale”.
I compagni della SEAT e tutti i lavoratori DEVONO LOTTARE, ma per poter lottare con forza dobbiamo acquisire il più rapidamente possibile le lezioni della strategia di manipolazione e di smobilitazione che PADRONATO, GOVERNANTI E SINDACATI hanno perpetrato ai danni dei lavoratori.
Una strategia calcolata per la smobilitazione dei lavoratori
Da quando, a metà di agosto, l’azienda annunciò la “necessità” di procedere ad una riduzione del personale, “scambiabile” con una riduzione salariale del 10%, gli imprenditori, insieme a quelli che si dicono nostri “rappresentanti”, cioè i sindacati e il governo di “sinistra” della Generalidad, si sono divisi i compiti per impedire che una vera lotta operaia potesse impedire la realizzazione di questo piano.
Per più di tre mesi, a partire da agosto fino all’inizio di novembre, i rappresentanti sindacali si sono prodigati per addormentare l’inquietudine che serpeggiava tra i lavoratori di fronte alla minaccia dei licenziamenti, sostenendo che questi non erano giustificati, poiché “l’impresa fa profitti”, che la crisi della SEAT sarebbe “congiunturale” o dovuta a una “cattiva politica commerciale”. Con queste falsità cercavano di far abbassare la guardia dei lavoratori, facendo credere loro che si trattava di una bravata di un insaziabile padronato che gli studi economici dei sindacati o la pressione del governo “progressista” e di “sinistra” della Generalidad sarebbero riusciti a parare. Lo stesso padronato contribuì a rendere efficace l’inganno, nascondendosi per settimane, fino a che, il 7 novembre, annunciò il suo Piano di Regolazione degli Impieghi per 1346 lavoratori. Lo stesso giorno i sindacati avevano proclamato uno sciopero parziale, che i lavoratori debordarono con manifestazioni che andarono a bloccare le strade nella Zona Franca e a Martorell. Di fronte a tale situazione la Piattaforma Unitaria (a cui partecipavano UGT, CCOO, e CGT, principali sindacati del paese) convoca uno sciopero di un giorno per il 10 novembre, e una manifestazione per “esigere” che la Generalidad “ si implichi nel conflitto a favore dei lavoratori”. Con questa azione in pratica i tre sindacati chiedono di affidare la nostra sorte a quelli che sono i nostri carnefici, ai maestri della bella chiacchiera e della pugnalata traditrice. Lo Stato non è il rappresentante del popolo ma il difensore incondizionato degli interessi del capitale nazionale. Tutte le autorità – dal presidente del governo fino all’ultimo sindaco – stanno lì per vegliare alla sua difesa. Dopo questa sciocchezza i 3 sindacati si fermarono e non vollero convocare niente fino all’1 dicembre, cioè 3 settimane in cui i lavoratori furono mantenuti nella passività e in attesa, bloccati da interminabili “negoziati” e poi dalla “mediazione” del Signor Rané, consigliere al Lavoro. Una tattica con la quale tra “pressione” e “petizione”, gli operai sono presi in giro ed ingannati.
La Piattaforma Unitaria dei 3 sindacati promise di tornare alla carica dopo la settimana del “ponte” (dal 5 al 10 dicembre). Ma era un’altra menzogna! Adducendo i limiti legali che imponeva il Piano di Regolazione degli Impieghi, le pressioni della Generalidad … “dimenticarono” le mobilitazioni e il 15 dicembre le CCOO e la UGT firmarono i 660 licenziamenti (la CGT si era separata il 13).
Ma il peggio doveva ancora venire: per una intera settimana fu mantenuto il silenzio sul nome delle vittime, lasciando per l’ultimo giorno prima delle vacanze il “regalo” delle lettere di licenziamento che, al colmo del cinismo e della umiliazione, trattavano i destinatari più o meno come “fannulloni e delinquenti”. E’ stata una manovra vile (mentre ci avevano detto che avevano firmato il “migliore accordo possibile”), ma che dimostra anche che i sindacati CI TEMONO, perché se si fossero sentiti sicuri lo avrebbero annunciato prima e non avrebbero moltiplicato i vigilantes privati che presidiavano le sedi della UGT e delle CCOO.
La CGT tende ora a presentarsi come il “sindacato buono”, che sta a fianco dei lavoratori. Certo è che 145 dei licenziati sono suoi iscritti. Ma la sofferenza di questi compagni e la solidarietà con essi non può nascondere che essa non ha costituito nessuna alternativa a CCOO-UGT e, al contrario, è stata loro dietro. Perché partecipò alla farsa della “negoziazione” e “lotta” della Piattaforma Unitaria da cui si è staccata nella tardiva data del 13 dicembre? Perché quando le CCOO e l’UGT firmarono, l’unica mobilitazione che la CGT convocò fu una concentrazione fuori dalla fabbrica di cui ben pochi lavoratori si resero conto e a cui parteciparono solo 200 persone? Perché la mattina del 23 di fronte agli scioperi spontanei “la CGT decise di limitare la protesta ad un’ora” ? (Riassunto di Kaosenlared del 24/12/05) Quando era il momento di porre tutte la carne sul fuoco e c’erano le forze, come si verificò con il turno pomeridiano che, riunito in assemblea, decise di scioperare per tutto il turno? Perché tutta la sua alternativa si riduce a “considerare caso per caso ognuno dei licenziamenti e vedere se ricorrere al tribunale”?
La lotta deve essere condotta dall’ASSEMBLEA DEI LAVORATORI
Fino al 23 dicembre i lavoratori sono stati vittime di una SMOBILITAZIONE, di una STRATEGIA PER IMPEDIRE UNA RISPOSTA. I Sindacati non ci giocano solo quando firmano i licenziamenti, ci giocano preventivamente quando organizzano i loro “Piani di lotta”. La loro azione contro gli operai si concretizza in tre aspetti intimamente legati:
- i loro patti ed accordi con padronato e Governo
- i loro piani di “lotta” che sono in realtà strategie contro la lotta
- la loro difesa incondizionata dell’interesse dell’impresa e della economia nazionale che pretendono di far coincidere con quelli dei lavoratori quando in realtà essi sono diametralmente opposti.
Per questo la principale lezione della lotta alla SEAT, che comincia ad essere compresa nella pratica stessa degli operai con gli scioperi spontanei e le assemblee del 23, è che NON SI PUO’ AFFIDARE LA LOTTA AI SINDACATI.
Il 23 i licenziati, invece di tornarsene a casa a rimuginare in solitudine sulla angosciante prospettiva conseguente alla disoccupazione, si sono diretti verso i loro compagni e questi, invece di farsi prendere dal falso sollievo del “non è toccata a me” o dalla risposta individualista “se la cavi chi può”, hanno mostrato la loro solidarietà con la LOTTA. Questo terreno della solidarietà, della risposta comune dei licenziati e di quelli che hanno conservato il posto di lavoro, dei disoccupati e dei lavoratori in attività, dei lavoratori precari e di quelli stabili… è la base di una risposta efficace agli inumani piani dei capitalisti.
L’anno2006 comincia con il dramma dei 660 licenziati della SEAT, ma qualcuno può credere che questi saranno gli ultimi? Tutti sappiamo che non è così. Che la pugnalata dei licenziamenti, che il crimine degli incidenti sul lavoro, che l’angoscia del non potersi permettere una vita decente, che la minaccia alle pensioni, che la “riforma” del lavoro che sta preparando l’infernale trio Governo – Padronato – Sindacati, saranno la fonte di nuove sofferenze. Che nel settore dell’automobile, che in tutti i paesi continueranno gli attacchi alle condizioni di vita degli operai, che i mali della guerra, della fame, della barbarie che accompagnano il capitalismo, come la falce accompagna la morte, continueranno.
Per questo non si può che mettersi in lotta. Ma perché la lotta sia efficace e forte è necessario che si sviluppi LA SOLIDARIETA’ DI CLASSE e che essa sia ORGANIZZATA E CONTROLLATA DAGLI OPERAI STESSI.
Solidarietà di classe
Il problema della SEAT non si limita ai 660 licenziamenti, ma è un problema di tutto il personale. Ed il problema non è solo degli operai della SEAT, ma di TUTTI I LAVORATORI, siano essi impiegati pubblici con il “posto sicuro” (ma fino a quando?), che delle imprese private, siano essi senza documenti o con documenti, siano di aziende con profitti o di quelle in perdita. Tutti siamo o saremo nella stessa condizione dei nostri compagni della SEAT!
La nostra forza è la SOLIDARIETÀ DI CLASSE, lottare uniti. Una lotta limitata alla SEAT e chiusa nella SEAT sarebbe una lotta destinata alla sconfitta.
Ma in che consiste la solidarietà? Consiste nel boicottaggio delle auto del marchio SEAT (perché, per caso le altre marche non licenziano?). Consiste nell’accamparsi fuori alle porte della fabbrica da parte dei licenziati? Consiste in “dichiarazioni di appoggio” del settore “critico” delle CCOO o dell’EUA – che appoggia indirettamente il Tripartito, complice della canagliata della SEAT? Consiste en “azioni popolari” nei quartieri?
Questa “solidarietà” è altrettanto falsa quanto lo sono stati i “piani di lotta” della Piattaforma Unitaria della SEAT! L’unica solidarietà effettiva è UNIRSI ALLA LOTTA! Fondere operai dei differenti settori, dei differenti quartieri, in una STESSA LOTTA, rompendo queste barriere che tanto ci indeboliscono: l’impresa, il settore, la nazionalità, la razza, mediante la forza diretta delle delegazioni, delle assemblee e delle manifestazioni congiunte.
Assemblee sovrane
L’esperienza della SEAT è chiara: ormai sappiamo che succede quando lasciamo che sindacati, comitati di fabbrica o “piattaforme unitarie” giochino con i nostri destini. La direzione della lotta deve restare fin dall’inizio nelle mani dei lavoratori. Sono loro che devono valutare le forze su cui possono contare, le rivendicazioni da portare avanti, le possibilità di estendere la lotta. Le risposte non devono seguire le provocazioni dell’impresa o i “piani di lotta” dei suoi complici sindacali, ma la decisione collettiva dei lavoratori organizzati in Assemblee e Comitati eletti e revocabili. I negoziati con il Padronato o con il Governo devono svolgersi davanti a tutti, come avvenne nel 1976 a Vitoria in Spagna o in Polonia nel 1980. Sono le Assemblee che devono assumersi il compito di cercare la solidarietà, organizzando delegazioni e manifestazioni.
I tempi della rassegnazione, della passività e del disorientamento devono finire. Il margine di manovra che il Capitale ha avuto per gli anni in cui è durata questa situazione comincia a diminuire. E’ l’ora della lotta. La voce della classe operaia deve farsi sentire ogni volta con più forza.
Corrente Comunista Internazionale , 27/12/05
Studenti, liceali, futuri disoccupati o futuri precari, operai al lavoro o senza lavoro
Stessa lotta contro il capitalismo!
Dall’inizio di febbraio, e malgrado la dispersione del periodo delle vacanze scolastiche, gli studenti, liceali della maggior parte delle grandi città del paese si sono mobilitati per esprimere la loro collera contro gli attacchi economici del governo e del padronato, contro il CPE (Contratto Prima Accesso al lavoro). E tutto ciò malgrado il black out dei media borghesi ed in particolare della televisione che, giorno dopo giorno, ha preferito focalizzare i suoi proiettori sulle sinistre “prodezze” della “gang dei barbari”. La collera degli studenti è legittima!
Le istituzioni dell’educazione nazionale (collegi, licei, università…) sono diventate fabbriche di disoccupati, serbatoi di mano d’opera a buon mercato. È proprio perché l’hanno compreso, che le assemblee di studenti, come a Caen, hanno mandato delle delegazioni presso i lavoratori delle imprese vicine e presso i giovani disoccupati delle città per chiamarli ad unirsi alla lotta. Il CPE è la precarietà organizzata. Ma la precarietà non colpisce unicamente i giovani. Tutte le generazioni di proletari sono toccate da disoccupazione, precarietà e miseria.
È anche per questo che, in certe università come quella di Parigi III Censier, gli stessi insegnanti ed il personale ATOS si sono messi in sciopero in solidarietà con gli studenti.
Il CPE è un’espressione del fallimento del capitalismo!
Di fronte alle sommosse che hanno arroventato le periferie nel mese di novembre, la borghesia, il suo governo, i suoi partiti politici, hanno riportato l’ordine imponendo il coprifuoco, espellendo fuori dalle frontiere nazionali i giovani immigrati che non rispettano la loro “terra di accoglienza”. Oggi, quelli che ci governano vogliono continuare a “far piazza pulita” dei figli della classe operaia con un cinismo senza limite: è in nome del “l’eguaglianza dell’opportunità” che ci promettono, col CPE, la precarietà e la miseria. Con il CPE, i giovani che avranno la “chance” di trovare un impiego alla fine dei loro studi saranno alla mercé dei padroni. Nessuna possibilità di trovare un alloggio, di fondare una famiglia, di nutrire i loro figli. Ciò vuole dire che ogni giorno dovranno andare al lavoro con la paura in corpo, con l’angoscia di ricevere la famosa “lettera raccomandata” con la sua sinistra sentenza: LICENZIATO! Ecco cosa è la schiavitù salariale! Ecco cosa è il capitalismo!
La sola “eguaglianza” contenuta nel CPE è l’uguaglianza della miseria: accatastamento nelle città ghetto, piccoli lavori precari, disoccupazione, RMI, sopravvivenza giorno per giorno. Ecco l’“avvenire radioso” che la classe dominante, la borghesia ed il suo Stato “democratico” promettono a colpo sicuro ai figli della classe operaia!
Questi figli i cui genitori si erano mobilitati nel 2003 contro la riforma del sistema pensionistico ed a cui il predecessore di Villepin, il Signore Raffarin, aveva avuto la sfrontatezza di dire: “Non è la strada che governa!”
Dopo la mazzata portata contro i “vecchi” e futuri pensionati, ora i colpi sono assestati contro i “giovani” e futuri disoccupati! Con il CPE il capitalismo mostra apertamente il suo vero volto: quello di un sistema decadente che non ha più nessun avvenire da offrire alle nuove generazioni. Un sistema corrotto da una crisi economica insolubile. Un sistema che, dalla fine della seconda guerra mondiale, ha speso somme strabilianti nella produzione di armamenti sempre più sofisticati ed omicidi. Un sistema che, dalla guerra del Golfo nel 1991 non ha smesso di spargere sangue su tutto il pianeta. È lo stesso sistema in fallimento, è la stessa classe capitalista agli sgoccioli che getta milioni di esseri umani nella miseria, la disoccupazione, e che semina morte in Iraq, nel Medio Oriente, in Costa d’Avorio!
Giorno dopo giorno, il sistema capitalista che domina il mondo ci dimostra che deve essere rovesciato. Ed è proprio perché ciò si comincia a comprende che all’università di Parigi Tolbiac, in un’AG (assemblea generale), gli studenti si ritrovano dietro una mozione che afferma “bisogna farla finita con il capitalismo!” È anche per questo che a Parigi Censier, venerdì 3 marzo, gli studenti hanno invitato una compagnia di teatro a venire a cantare dei canti rivoluzionari. La bandiera rossa sventola e parecchie centinaia di studenti, insegnanti, personale ATOS cantano l’INTERNAZIONALE. Il “Manifesto comunista” di Karl Marx è distribuito. All’interno dell’università la parola Rivoluzione è pronunciata, ripetuta. Intorno allo spettacolo si discute della lotta di classe, si rievoca la rivoluzione russa del 1917 e le grandi figure del movimento operaio, come Rosa Luxemburg assassinata vilmente, col suo compagno Karl Liebknecht nel 1919 durante la rivoluzione tedesca, dagli assassini agli ordini del partito socialista che dirigeva il governo.
Per affrontare la “gang dei barbari” in giacca e cravatta che ci governa, le giovani generazioni devono ricordarsi dell’esperienza dei loro genitori. In particolare devono ricordarsi di quello che è accaduto nel Maggio 1968.
Lo sciopero massiccio del Maggio 68 ci mostra il cammino
Sullo slancio dei movimenti che avevano toccato precedentemente le università della maggior parte dei grandi paesi sviluppati, in particolare gli Stati Uniti e la Germania, gli studenti delle università francesi si mobilitarono massicciamente nel maggio 68. Ma questa mobilitazione prese tutta un’altra dimensione quando tutti i settori della classe operaia scesero in lotta: 9 milioni di lavoratori in sciopero! Allora gli studenti più coscienti e combattivi andarono al di là delle loro rivendicazioni specifiche per proclamare che la loro lotta era la stessa di quella della classe operaia. Invitarono gli operai a venire nelle università occupate per discutere della situazione e delle prospettive. Dovunque si discuteva della rivoluzione, della necessità di rovesciare il capitalismo.
Il Maggio 68 non è sfociato nella rivoluzione, non era ancora possibile perché il capitalismo era solamente all’inizio della sua crisi. Ma i borghesi hanno avuto la più grande fifa della loro vita. E se il governo è riuscito a riprendere il controllo della situazione, è perché i sindacati hanno fatto di tutto affinché gli operai tornassero al lavoro; è perché i partiti di sinistra, quelli che si presentano come i difensori dei lavoratori, hanno chiamato a partecipare alle elezioni organizzate dal regime di De Gaulle. Il Maggio 68 ha dimostrato che la rivoluzione non è un vecchio pezzo da museo polveroso, che non appartiene ad un passato ormai compiuto, ma rappresenta il solo futuro possibile per la società. Inoltre, questo grande movimento della classe operaia a cui hanno fatto seguito numerose lotte operaie in molti altri paesi, ha dimostrato alla classe dominante che non poteva reclutare gli sfruttati dietro le bandiere nazionali, che non aveva le mani libere per scatenare una terza guerra mondiale, come aveva fatto nel 1914 e nel 1939. Così, contrariamente a quella degli anni 1930, la crisi economica non è sfociata in un massacro generalizzato proprio grazie alle lotte della classe operaia.
Il movimento dei giovani contro il CPE mostra che i germi di una nuova società stanno emergendo dalle viscere della vecchia società capitalista agonizzante. L’avvenire è le mani di questa nuova generazione. I liceali e studenti universitari stanno prendendo coscienza che, in quanto futuri disoccupati e futuri precari, appartengono, nella loro grande maggioranza, alla classe operaia. Una classe sfruttata che il capitalismo tende ad escludere sempre più dalla produzione. Una classe che non avrà altra scelta che sviluppare le sue lotte per difendere le proprie condizioni di vita e l’avvenire dei suoi figli. Una classe che non avrà altra alternativa che rovesciare il capitalismo per porre fine allo sfruttamento, la miseria, la disoccupazione e la barbarie. Una classe che è l’unica a poter costruire un mondo nuovo, basato non sulla concorrenza, lo sfruttamento, la ricerca del profitto ma sulla soddisfazione di tutti i bisogni della specie umana.
Nel 1914, i figli della classe operaia la cui grande maggioranza era ancora adolescente, furono mandati nelle trincee per servire da carne a cannone. La iena capitalista, rotolandosi nel sangue degli sfruttati, falciò queste giovani generazioni che Rosa Luxemburg chiamava il “fior fiore del proletariato”.
Il “fior fiore del proletariato” del ventunesimo secolo avrà la responsabilità di distruggere questo sistema capitalista decadente che ha mutilato e massacrato i figli della classe operaia inviati al fronte nel 1914, e poi nel 1939, sviluppando la lotta affianco a tutta la classe operaia, di tutte le generazioni.
Recentemente in Brasile, all’università di Vitoria da Conquista, gli studenti hanno manifestato la volontà di discutere della storia del movimento operaio. Hanno compreso che è proprio immergendosi nell’esperienza delle generazioni del passato che le nuove generazioni potranno riprendere la fiaccola dello scontro condotto dai loro genitori, dai nonni e prima ancora. Questi studenti hanno voluto ascoltare quelli che potevano trasmettere loro questo passato, un passato di cui devono appropriarsi e grazie al quale le giovani generazioni potranno costruire l’avvenire. Hanno scoperto che la storia della lotta di classe, la storia vivente non si apprende solamente nei libri ma anche nell’azione. Hanno osato parlare, porre delle domande, esprimere dei disaccordi, confrontare gli argomenti. Nelle università della Francia, come in quelle del Brasile, bisogna aprire le aule e le AG a tutti quelli, operai, disoccupati, rivoluzionari che vogliono farla finita con il capitalismo.
Una sola prospettiva: unità e solidarietà di tutta la classe sfruttata!
Da parecchi mesi, in tutti i paesi, il mondo del lavoro è scosso da scioperi nel settore pubblico e privato: in Germania, in Spagna, negli Stati Uniti, in India, in America latina. Contro la disoccupazione ed i licenziamenti, ovunque gli scioperanti hanno portato avanti la necessità della solidarietà tra le generazioni, tra i disoccupati e gli “attivi”.
Studenti, la vostra collera contro il CPE può essere solamente un colpo di spada nell’acqua se restate isolati, chiusi nei muri dell’università o del liceo! Esclusi dai luoghi di produzione, non avete nessun mezzo per fare pressione sulla borghesia paralizzando l’economia capitalista.Lavoratori salariati, disoccupati o pensionati, bisogna mobilitarsi, sono i vostri figli ad essere attaccati adesso! Siete voi che avete prodotto e producete ancora tutte le ricchezze della società. Siete voi che siete il motore della lotta contro il capitalismo!
Giovani disoccupati delle periferie, non siete i soli ad essere “esclusi!” Oggi siete trattati da “teppaglia”. Non è la prima volta: nel 1968 i vostri genitori che si rivoltarono contro lo sfruttamento capitalista furono trattati da “facinorosi”. L’unica prospettiva, il solo avvenire non sono le violenze cieche, gli incendi di automobili. Il solo avvenire è la lotta solidale ed unita di tutta la classe operaia, di tutte le generazioni! È negli scioperi, nelle assemblee generali, nelle discussioni sui posti di lavoro e di studio, nelle manifestazioni di strada che bisogna esprimere Tutti Uniti la nostra collera contro la disoccupazione, l’impiego precario e la miseria!
Abbasso il CPE! Abbasso il capitalismo!
La classe operaia non ha più niente da perdere se non le proprie catene. Ha invece un mondo da guadagnare.
Corrente Comunista Internazionale (6 marzo 2006)
Un affare di gangster imperialistici
Il 30 settembre scorso, il quotidiano danese Jyllands-Posten ha pubblicato dodici caricature che rappresentano il profeta Maometto agghindato di bombe, micce di dinamiti ed altri arnesi terroristici. Questi disegni saranno ripresi nelle settimane successive da numerosi giornali, come France-Soir. Il seguito lo conosciamo. Manifestazioni, talvolta molto violente, esplodono attraverso l'insieme dei paesi cosiddetti musulmani. In Afghanistan, alcuni scontri portano alla morte e al ferimento grave di diverse persone. Come hanno potuto delle semplici caricature generare un tale scoppio di odio? Come e perché dei semplici disegni di un giornale danese si sono ritrovati al centro di una tempesta internazionale?
All’inizio d’ottobre 2005, questo affare aveva avuto delle ripercussioni solo in Danimarca. Fu allora che undici ambasciatori di paesi musulmani chiesero un colloquio con Fagh Rasmussen, primo ministro danese e vicino al giornale Jyllands-Posten. In seguito al rifiuto di quest’ultimo di incontrarli, una delegazione di rappresentanti di associazioni musulmane in Danimarca iniziò un giro in numerose capitali del mondo musulmano, ufficialmente per sensibilizzare l’opinione pubblica su questo affare. Il risultato non si è fece attendere. Alcune manifestazioni cominciarono ad esplodere in Pakistan. A partire dal mese di gennaio, le manifestazioni andarono a coinvolgere l’insieme del “mondo musulmano” ed in particolare il Medio Oriente. Queste manifestazioni presero velocemente un’ampiezza ed una violenza anti-occidentale sorprendenti rispetto alle banalità apparenti rappresentate da alcune caricature giornalistiche di Maometto. Tuttavia, per comprendere, è necessario ricordarsi che, dalla Seconda Guerra mondiale, questa regione del mondo – ed in particolare il Medio Oriente - ha conosciuto un progressivo sprofondamento nella guerra e la barbarie. Dalla fine degli anni ‘80, le tensioni sono diventate sempre più esplosive ed incontrollabili. Così, la destabilizzazione irreversibile del mondo musulmano in Afghanistan, in Iraq, nel Libano, in Palestina, spesso sotto l’effetto diretto della fuga in avanti militare e guerriera delle grandi potenze imperialiste (tra cui figurano al primo posto gli USA), oggi si traduce inevitabilmente in una montata di radicalismo religioso il più arcaico tra le popolazioni completamente disorientate di queste regioni. Il vicolo cieco in cui si trovano questi paesi non può che spingere al potere al loro interno delle frazioni più retrograde della borghesia. Questo è il senso, per esempio, dell’arrivo al potere in Palestina di Hamas, movimento politico radicale, adepto a tutt'oggi del fanatismo anti-israeliano più caricaturale. È la stessa realtà del fondamentalismo più retrogrado che spiega la presenza al potere in Iran del partito ultraconservatore di Mahmoud Ahmadinejad. Le tensioni tra le varie potenze di questa regione e di ognuna di queste verso gli Stati Uniti si allargano ogni giorno di più. È evidente che in questa situazione di rigurgito dei vari fondamentalismi e del ciascuno per sé, la borghesia e le differenti cricche armate di questa parte del mondo non potevano che impadronirsi di questa opportunità, offerta dalla pubblicazione di queste famose caricature, per rafforzare sul posto le loro posizioni e difendere al meglio i loro interessi nella giungla imperialista generalizzata a livello mondiale. Dietro queste manifestazioni apparentemente spontanee si trova in realtà il braccio armato delle cricche borghesi, locali o statali. Dopo gli attacchi delle ambasciate danesi o francesi, la Libia decide di chiudere la sua ambasciata a Copenaghen. L’ambasciatore della Danimarca in Kuwait viene convocato. I governi siriano ed iracheno si dichiarano pubblicamente particolarmente indignati. Tutto ciò non ha più niente a che vedere con la pubblicazione di alcuni disegni nella stampa borghese occidentale e giordana. Queste caricature sono diventate in realtà armi da guerra nelle mani delle classi borghesi nel mondo musulmano, rispondendo così alla politica imperialista sempre più aggressiva portata avanti particolarmente da Stati Uniti, Francia, Germania ed Inghilterra. Come non fare, per esempio, il legame tra l’utilizzazione di queste vignette e la campagna di minacce portata avanti nei confronti dell’Iran a proposito del suo programma nucleare da parte della Francia o degli Stati Uniti? La manipolazione, a fini di politica imperialista, da parte delle differenti borghesie di popolazioni sempre più ridotte alla miseria, che subiscono in permanenza la guerra, diventa allora un cinico gioco da bambini. Queste manifestazioni violente di masse crescenti di disperati non sorgono dunque così “spontaneamente” o così “naturalmente”. Sono invece il prodotto delle politiche di guerra, di odio e di reclutamento ideologico nazionalista di tutte le borghesie ai quattro angoli del mondo.
Mentre gli Stati Uniti, dopo gli attentati dell’11 settembre 2001, si erano fatti i campioni della difesa dei valori dell’occidente, i crociati della lotta al fanatismo religioso musulmano e al male che questo è supposto incarnare, rispetto alle caricature di Maometto assistiamo invece ad una sorprendente comprensione da parte dell’amministrazione Bush di fronte alle reazioni in Iran ed altrove. Come mai? Sia chiaro che tutto questo non ha niente a che vedere con la difesa del diritto di ciascuno a scegliere liberamente la sua religione come cercano di far credere. La realtà è molto più cinica. Gli Stati Uniti sono fin troppo soddisfatti nel vedere alcuni paesi imperialisti concorrenti, come la Francia, impantanarsi a loro volta in una situazione di scontro politico con degli Stati del Medio Oriente e del mondo arabo. In questo mondo putrido, in guerra permanente, di tutti contro tutti, ogni Stato capitalista può solo rallegrarsi nel vedere dei concorrenti cadere in una trappola.
E la perfidia delle frazioni borghesi e la loro volontà di utilizzare tutti gli aspetti della vita del capitalismo in decomposizione sono ancora più palesi quando si considera la posizione di Hamas su questo argomento. Hamas, partito radicale religioso, adepto finora della lotta armata e del terrorismo, propone semplicemente i suoi buoni uffici come mediatore in questo affare! Il capo dell’ufficio politico del movimento palestinese Hamas, Khalel Mechaal ha dichiarato a tale proposito: “il movimento è disposto a giocare un ruolo per acquietare la situazione tra il mondo islamico ed i paesi occidentali purché questi paesi si impegnino a mettere fine agli attentati ai sentimenti dei musulmani”. (Le Monde del 9 febbraio 2006). Per farsi riconoscere un poco sul piano internazionale, Hamas è così pronto a ritirare momentaneamente i suoi artigli.
A riguardo di questa vera giungla, in cui ogni nazione o cricca borghese attizza l’odio, tutta la propaganda delle ‘grandi democrazie’ sulla libertà di stampa ed il rispetto delle religioni appare così per ciò che è: solo fumo e basta.
Libertà di stampa e rispetto delle religioni, due veleni al servizio della borghesia
The Independant, giornale inglese citato dal Courrier International, riassume molto bene la campagna ideologica borghese: “Non c’è alcun dubbio che i giornali dovrebbero avere il diritto di pubblicare dei disegni che certe persone stimano offensive”. Ecco qui messo in scena il sacrosanto diritto di libertà di espressione di cui oggi tutta una parte della borghesia ci riempie le orecchie. D’altra parte lo stesso giornale aggiunge subito che: “in una situazione così complessa, è facile rifugiarsi in banali dichiarazioni sul diritto di libertà di stampa. La cosa più difficile non è decidere tra il vero ed il falso, ma prendere una decisione che tenga conto dei diritti degli uni e degli altri. C’è il diritto alla libera espressione di ogni censura. Ma c’è anche il diritto per numerosi musulmani di vivere in una società pluralista e laica senza sentirsi oppressi, minacciati, scherniti. Elevare un diritto al disopra di altri è la maschera del fanatismo”. La trappola ideologica, sviluppata dalla democrazia borghese contro la classe operaia, è qui chiaramente esposta. Si dovrebbe scegliere tra ciò che sarebbe un diritto, la libertà di espressione, ed un dovere morale, il rispetto delle credenze altrui. Ad ogni modo, il proletariato è chiamato a dare prova di moderazione e di comprensione in questo affare per il più grande beneficio dei … suoi padroni borghesi! Ecco quello che pensava Lenin nelle tesi sulla democrazia al primo congresso dell’Internazionale Comunista: «“Libertà di stampa” è un’altra eminente parola d’ordine di “democrazia pura”. Ma i lavoratori sanno, e i socialisti di tutti i paesi l’hanno riconosciuto un milione di volte, che questa libertà è illusoria finché i migliori stabilimenti tipografici e le più grosse forniture di carta sono nelle mani dei capitalisti, e finché il capitale mantiene il proprio potere sulla stampa, un potere che in tutto il mondo si esprime tanto più chiaramente, duramente e cinicamente, quanto più sono sviluppati la democrazia e il regime repubblicano, come ad esempio in America». Da sottolineare che Lenin ed i comunisti della sua epoca non conoscevano i mezzi di martellamento ideologico di oggi come la radio e la televisione.
Per quanto riguarda l’altra scelta, quella del rispetto delle credenze altrui, basti citare una frase di Marx per sapere quello che pensano i comunisti: “La religione è l’oppio del popolo.” Qualunque sia il dio in questione, la fede religiosa come ogni forma di misticismo è un veleno ideologico che viene instillato nella testa degli operai. Essa costituisce anzi uno dei numerosi antidoti che usa la borghesia contro la presa di coscienza del proletariato.
La libertà di stampa dunque non è niente altro che la libertà della borghesia di conficcare la sua ideologia nella testa degli operai! Ed il rispetto delle religioni è il rispetto della classe dominante per tutto ciò che mistifica il proletariato!
È evidente che questa proliferazione di manifestazioni e di violenza a partire da alcune vignette pubblicate nella stampa borghese non può lasciare la classe operaia indifferente. È vitale che la classe operaia non si lasci impressionare da questa levata massiccia di agitazioni anti-occidentali nel mondo musulmano. Tutto ciò non fa che tradurre l’accelerazione del caos nella società capitalista e rendere più urgente lo sviluppo della lotta di classe. La risposta del proletariato non si trova nella falsa scelta proposta dalla borghesia. All’irrazionalità crescente del mondo capitalista, il proletariato deve opporre la razionalità della lotta di classe, dello sviluppo della sua coscienza e del comunismo.
Tino (20/02/2006)
Per rendere più credibile questa mistificazione l’offerta si fa sempre più ampia, non solo di partiti, ma anche di personaggi che hanno il compito di convincere al voto, e alla partecipazione democratica, anche gli indecisi, quelli delusi e finanche quelli che a votare magari non ci pensavano proprio, perché credono che sono le lotte possono portare dei risultati. E’ in particolare a questi ultimi che sono rivolte le candidature di personaggi come il “disobbediente” Caruso e il trotskysta Ferrando (1). Chi potrebbe negare che è democrazia quella che lascia candidare anche quelli che, sulla carta, sono contro il sistema e lo vorrebbero addirittura rovesciare?
Il punto è invece proprio che personaggi come Caruso e Ferrando non sono affatto antitetici al sistema, e alla difesa della mistificazione democratica non ci partecipano in maniera inconsapevole, involontari vittime di manipolatori. No, Caruso e Ferrando alla democrazia e ai vari feticci borghesi ci credono veramente e se ne sentono dei veri difensori. Non lo diciamo noi, ce lo dicono loro:
“Cercare di impedire un raduno fascista non è solo legittimo, ma anche moralmente e costituzionalmente doveroso” (Caruso, su Repubblica del 4/03/06, sottolineatura nostra). E che volete di più: di fronte al ”lassismo” del ministro dell’interno e delle forze dell’ordine, Caruso si fa l’ardente difensore della costituzione borghese, quella che legittima lo sfruttamento e tutti gli abusi che gli sfruttati di questo paese subiscono. Così quelli che pensavano che Caruso volesse andare in Parlamento a difendere i “movimenti” e le esigenze di cui sono portatori sono serviti: Caruso andrà in Parlamento a difendere la Costituzione borghese! Ma è proprio questo il ruolo più prezioso che Caruso può giocare per la borghesia: quello di riportare sul terreno elettorale, sul terreno della difesa della democrazia la nuova generazione di proletari, tutti quei giovani che, di fronte alla barbarie di questa società, di fronte alla mancanza di ogni prospettiva futura, iniziano a porsi delle domande di fondo su questo sistema e la possibilità di creare una società diversa.
Lo stesso ruolo di difensore della democrazia è assunto (anche se per ora come sostegno “esterno” vista la mancata candidatura) dall’altro presunto “impresentabile”, ex candidato del centrosinistra, il trotskysta Ferrando, almeno a giudicare dal rammarico con cui commenta la probabile cancellatura della sua candidatura: “Cinquanta per cento di farcela. L’Abruzzo non è la Liguria, ma certo la possibilità di vedere un risultato positivo erano alte. Aspetto ancora però: la proposta di cassare il mio nome dev’essere approvata.” (Repubblica del 15/02/06). L’aspirazione di Ferrando ad un seggio al Senato della Repubblica non era certo dettata da un tornaconto personale: “In Parlamento la mia busta paga sarebbe stata equivalente a quella di un metalmeccanico. Come i miei compagni argentini, che già siedono in Parlamento.” (ibidem) No, Ferrando in Parlamento ci voleva andare proprio per difendere la democrazia borghese, come dalla Resistenza in poi fanno tutti i suoi compagni trotskysti in giro per il mondo. Famose in questo senso sono le ripetute candidature alla Presidenza della Repubblica francese di Arlette Laguillière, candidatura di bandiera certo, ma che serve ad aprire la strada alla convergenza dei voti trotskysti sui candidati della sinistra al turno di ballottaggio.
Ferrando e la guerra: l’importante è da che parte si sta
Qualcuno ci potrebbe criticare per questa denuncia delle candidature di Caruso e Ferrando, quando soprattutto quest’ultimo è stato giubilato per aver denunciato l’esercito italiano in Iraq come forza occupante. Che Ferrando abbia pronunciato queste parole è vero, ma in quale contesto? “Sono contro la guerra, contro tutte le guerre. Ho aggiunto che il diritto internazionale prevede la resistenza nei confronti degli eserciti occupanti. Il nostro è un esercito occupante” (ibidem)
Che l’esercito italiano in Iraq sia un esercito occupante lo dice anche D’Alema (lo stesso che come Presidente del Consiglio inviò l’esercito italiano a bombardare la Serbia al momento della guerra in Kosovo), il che, quindi, non dimostra che si è contro la guerra. Ed infatti Ferrando aggiunge di giustificare, sulla base del “diritto internazionale”, la “resistenza irachena”, cioè quella frazione della borghesia irachena che si è schierata contro gli americani, e che li “combatte” mettendo autobombe nei mercati e per le strade, facendo strage di civili iracheni, donne e bambini compresi, organizzando posti di blocco dove vengono fermati i pulmini che trasportano operai che lavorano in fabbriche considerate dalla resistenza “collaborazioniste” e che vengono spesso per questo assassinati. Ecco l’opposizione di Ferrando ad “ogni guerra”: schierato mani e piedi con una delle frazioni belligeranti che, come tutte le frazioni borghesi del mondo, considera la popolazione, anche la propria, solo come carne da cannone da sacrificare per raggiungere i propri obiettivi.
E questo suo schieramento “senza se e senza ma” con uno dei belligeranti Ferrando lo giustifica con il “diritto internazionale”. Ma chi lo ha redatto questo diritto, se non l’insieme delle nazioni imperialiste, in primo luogo quelle occidentali che sono le stesse che, a partire dal crollo del blocco sovietico nel 1989, hanno guerreggiato su tutto il pianeta, e questo proprio basandosi sul cosiddetto “diritto internazionale”?
Del resto, se guardiamo alla storia che ha seguito la Prima Guerra Mondiale, l’ultima a cui, anche se con un po’ di fatica, viene riconosciuto perfino dalla borghesia un carattere imperialista, non vediamo forse che la borghesia ha sempre cercato, e trovato o inventato, una “nobile” motivazione per giustificare tutte le sue carneficine imperialiste? Così, la Seconda Guerra Mondiale è stata combattuta per la “difesa della democrazia” contro il nazifascismo; tutte le guerre combattute per interposti paesi dai due blocchi formatisi dopo la Seconda Guerra mondiale sono state giustificate da una parte come guerre di “indipendenza” contro l’imperialismo occidentale, dell’altra come guerre contro l’impero del male stalinista. E dopo il crollo del blocco dell’est tutte le guerre combattute, anche in Europa, non sono forse state giustificate con la necessità di “interventi umanitari”, difesa della democrazia, dal terrorismo barbaro, e così via?
Non è un caso che sia avvenuto così dopo la Prima Guerra Mondiale, perché questa terminò con la rivoluzione proletaria in Russia e il suo tentativo di estensione al resto dell’Europa, cioè con un avvenimento nuovo che rischiava di porre termine non solo alla guerra, ma a tutto il sistema capitalista. Scampato questo pericolo, la borghesia è stata ben attenta a proseguire la sua inevitabile strada verso la guerra dotandosi sempre di giustificazioni ideologiche che indebolissero la capacità dei proletari di prendere coscienza del fatto che la guerra è sempre più il modo naturale di essere del capitalismo decadente, e che se si vuole mettere fine alla guerra bisogna abbattere il capitalismo.
Difendere una frazione in lotta con il “diritto internazionale”, come fa Ferrando, significa partecipare a questa mistificazione ideologica, significa schierarsi a difesa del sistema capitalista, esattamente come lo si fa quando si partecipa alla mistificazione democratica insita nelle elezioni.
2/04/06 Helios
1. Ferrando è il leader di Progetto Comunista, una delle correnti di Rifondazione Comunista su cui abbiamo recentemente pubblicato una miniserie di articoli sul questo giornale (vedi n: 140, 141 e 142) dal titolo: Rifondazione Comunista va a congresso per affilare le armi contro i lavoratori.
Un anno di campagna elettorale è quanto di peggio si possa meritare una popolazione, già afflitta dal doppio flagello di un governo di destra inetto e tracotante - che ha portato la gestione dello stato e del parlamento ai limiti di un uso ad personam - ed un’opposizione di sinistra vacua e priva di iniziativa, apparentemente impotente. Ci sarebbe da chiedersi come fanno i cittadini italiani a dare ancora la fiducia a questa gente e a sprecare un week-end di primavera per rimanere in città e andare a votare. Ora, fermo restando che con i tempi che corrono non tutti possono permettersi di andare fuori città per il week-end, il problema è che la borghesia, con la sua propaganda, riesce a mantenere l’idea che con le elezioni i cittadini, tutti i cittadini, almeno una volta ogni tot anni, hanno il potere di decidere chi eleggere al parlamento e quindi chi deve governare. Da questo punto di vista le elezioni costituiscono una delle mistificazioni più forti che esistano nella fase attuale del capitalismo. Infatti, entrato nella sua fase di decadenza, oggi il capitalismo non ha più davanti a sé alcuna possibilità di sviluppo ulteriore e non è più possibile per il proletariato appoggiare, come era ancora il caso alla fine dell’800, la frazione più avanzata della borghesia la cui affermazione avrebbe permesso un più rapido sviluppo del capitalismo e una più celere maturazione delle condizioni obiettive del comunismo. Oggi l’economia - non solo nazionale ma mondiale - è in completo fallimento e il programma, di destra o di sinistra, di qualunque governo, consiste nell’attutire il più possibile, ritardandolo, il tonfo del tracollo economico. E’ appunto per gestire questo fallimento che un governo ha bisogno di coinvolgere la popolazione e soprattutto la classe dei lavoratori, di renderli corresponsabili della scelta effettuata in modo da creare delle aspettative. Non è un caso che a livello internazionale si stia provando tutta una serie di carte nuove che stanno riscaldando l’animo di tanti giovani, come il governo Lula in Brasile, quello di Chavez in Venezuela (1) o ancora quello dell’indio Evo Morales in Bolivia, che arriva dopo anni di dittatura e di cui fa parte come ministro della giustizia una donna addetta alle pulizie che aveva cominciato a lavorare all’età di 13 anni. Come si può non rimanere colpiti e riprendere fiducia nelle elezioni?! Ma, come stanno cominciando a dimostrare proprio le esperienze di Lula e Chavez, il problema, purtroppo, non è di chi sta a capo del governo ma di quello che bisogna governare: l’economia capitalista. E, al di là della buona o della cattiva volontà dei governanti, la realtà dimostra che non si possono fare delle scelte a favore dei lavoratori rimanendo nella logica del profitto capitalista. Facciamo degli esempi. In occasione della sua recente visita a Napoli, un punto su cui il leader del centro-sinistra Prodi ha insistito è il ruolo strategico dei porti del sud Italia che possono essere - ha detto - una valida alternativa ai porti dei paesi del nord nei confronti dei carghi che fanno servizio verso i paesi orientali e le americhe. Perfetto. In altri termini se noi riusciamo a togliere lavoro ai lavoratori della Germania, della Francia, dell’Olanda, del Belgio, forse riusciremo a darne un po’ ai nostri lavoratori, ma soprattutto, quello che neanche Prodi e i suoi alleati di estrema sinistra dicono, faremo fare tanti tanti soldini alle nostre ditte di trasporto, ai nostri commercianti, al nostro capitalismo. D’altra parte qual è il significato di questo discorso dell’ultima ora sui conti trimestrali, sulla crescita zero rispetto agli altri paesi? Che stiamo andando peggio di Francia e Germania, che in Europa ci stanno superando tutti e che dobbiamo essere più competitivi. Ma, cari signori della sinistra (borghese s’intende!), come è possibile diventare competitivi se non offrendo merci che costino al produttore di meno? E quale strada esiste per abbassare il costo delle merci se non aumentando lo sfruttamento dei lavoratori e riducendo il loro salario? Questo non è il programma della destra, né quello della sinistra, queste sono le condizioni irrinunciabili per qualunque governo voglia governare, in qualunque paese del mondo, in una fase di crisi storica e irreversibile del capitalismo come quella che viviamo oggi. Per cui che c’è di meglio di occultare tutto ciò facendo credere che cambiando governo cambino realmente anche le condizioni di esistenza dei lavoratori?
Ma è proprio vero che destra e sinistra propongono esattamente la stessa cosa? Certamente no! Se entrambi gli schieramenti hanno lo stesso obiettivo di curare gli interessi della Azienda Italia, e quindi di attaccare a fondo le condizioni di vita della classe operaia, come magistralmente ha sempre fatto la sinistra ancor meglio che la destra (2), se entrambi gli schieramenti hanno sempre difeso gli interessi imperialisti dell’Italia nel mondo (3), una differenza tra gli attuali schieramenti ci sta, e si pone a vari livelli. Anzitutto la diversa credibilità dei due schieramenti politici: un governo che è costretto a ritirare uno dopo l’altro i suoi ministri per la loro goffaggine, la loro impresentabilità (vedi in particolare negli ultimi due mesi prima il caso Calderoni con le magliette anti-Maometto, poi Storace con le spie messe in gioco contro gli stessi alleati di destra, ecc.), ed ancora l’intollerabilità di un presidente del consiglio che agisce dicendo tutto quello che gli passa in testa in quel momento e pretende che la gente gli stia a credere, non sono certo una buona credenziale. L’altra questione è l’opzione imperialista. Infatti mentre la coalizione di centro-sinistra si è imposta, anche attraverso Tangentopoli (4), per portare avanti una politica di maggiore autonomia sul piano imperialista, esprimendo comunque una preferenza per l’area imperialista europea, lo schieramento di Berlusconi è quello che visibilmente si colloca come uno zerbino ai piedi degli USA. Questa non è una differenza di secondo ordine ma di quelle che possono fare il risultato. Infatti nella sua globalità il governo Berlusconi appare, nonostante tutti i demeriti della sinistra, come quello peggiore da tutti i punti di vista tranne il fatto che è l’unico che è disposto ancora a sostenere gli USA. E gli USA gli sono stati e gli sono ancora molto grati per questo. Non è un caso che, in questi ultimi giorni, il governo americano si sia fatto promotore di una campagna di destabilizzazione verso l’Italia, lanciando ai propri cittadini presenti in Italia un appello sul pericolo di attentati in occasione della fase elettorale. Questo appello è di un cinismo incredibile: infatti chi è esperto di terrorismo nel senso che lo pratica o ne è connivente sono proprio gli USA (5): l’Italia in particolare è stato un laboratorio di pratiche terroriste non solo e non tanto da parte delle bande di disperati stalinisti delle BR, quanto soprattutto dei servizi segreti americani che hanno appoggiato per oltre quarant’anni fascisti e avventurieri pronti ad ogni colpo di mano per fermare l’avanzata dei “rossi” nel nostro paese (6). A partire dall’episodio di Portella delle Ginestre del 1947 fino alle ultime bombe di matrice americana fatte scoppiare tra il 92 e il 93 (7) è tutta una lunga serie di interferenze nella politica italiana fatta di bombe e di cadaveri. Per cui il recente appello degli americani ha tutto il sapore di una minaccia di nuove bombe laddove gli italiani non dovessero seguire le giuste raccomandazioni.
In conclusione, governo di destra o governo di sinistra, per i lavoratori la prospettiva non cambia. Lo Stato italiano, come ogni Stato capitalista, può solo continuare a spolpare le carni di un proletariato ormai sfinito da tasse, rincari, indigenza, precarietà, disoccupazione, … In una parola, la campagna elettorale prima, le elezioni dopo, sono proprie tutte contro la classe operaia. Ma una alternativa c’è. Certo, ed è la lotta di classe, quella che in vari paesi del mondo sta ritornando sulla scena sociale. Agli scioperi dell’aeroporto di Heatrow a Londra, a quelli in Argentina o alla SEAT in Spagna di qualche mese fa (8), nuovi momenti di lotta si susseguono in Gran Bretagna, India, Svizzera e Francia, come viene mostrato dagli articoli presenti all’interno di questo giornale.
2 aprile 2006 Ezechiele
1. Vedi l’articolo su Chavez in questo stesso numero.
2. Come fece appunto il socialista Craxi eliminando i quattro punti di contingenza nel 1984, come ha fatto il governo di centrosinistra Amato nel 1992 che ha rastrellato 90.000 miliardi delle vecchie lire, come ha fatto il successivo governo Dini che portò a termine la prima famigerata riforma delle pensioni che non era riuscita a Berlusconi.
3. Chi critica oggi Berlusconi per la partecipazione alla guerra in Iraq dovrebbe ugualmente ricordare la guerra condotta dal “comunista” D’Alema contro la popolazione serba.
4. Campagna giudiziaria orientata a combattere il connubio politica-economia che passava attraverso le tangenti, ma di fatto una politica finalizzata a svuotare ed estromettere dal potere i partiti filoamericani, DC e PSI.
5. Vedi nostri articoli su le Twin Towers, su Rivoluzione Internazionale n122 e 123 (vedi anche sul nostro sito www.it.internationalism.org [65]).
6. Su questo la bibliografia è stracolma: oltre alla famosissima Strage di Stato, si suggerisce anche qualche chicca degli ultimi tempi come il libro di Edgardo Sogno: Testamento di un anticomunista, Mondatori.
7. Erano gli anni in cui la borghesia italiana cercava di liberarsi della tutela americana e quella americana reagiva a colpi di bombe tramite la fedele mafia: vedi gli assassini dei giudici Falcone e Borsellino del 1992 e gli attentati di Roma e Firenze del maggio 1993 che fanno 5 vittime e 23 feriti.
8. Sugli scioperi a Londra vedi Rivoluzione Internazionale n.142 e per quelli alla Seat ed in Argentina Rivoluzione Internazionale n.144.
Ciò che ha prodotto la forza di questo movimento, è prima di tutto il rafforzamento della SOLIDARIETÀ attiva nella lotta. E' serrando le fila, costruendo una rete molto stretta, comprendendo che l'unione fa la forza, che gli studenti universitari ed i liceali, hanno potuto mettere in pratica la vecchia parola d'ordine del movimento operaio: "Tutti per uno, uno per tutti"! E' così che hanno potuto trascinare dietro di sè i lavoratori delle università (professori e personale amministrativo) che, anche loro, hanno tenuto Assemblee Generali. In seguito, gli studenti delle facoltà d' Île de France hanno aperto le loro AG ai propri genitori-lavoratori, ad altri lavoratori e anche a pensionati (particolarmente a Parigi 3 – Censier). Li hanno invitati a prendere la parola e a dar loro delle "idee". La "scatola delle idee", l"urna" del movimento è circolata velocemente dovunque, nella strada, nelle AG, nei supermercati, su tutti i posti di lavoro, su tutti i siti Internet, ecc.
All'indomani della manifestazione del 7 marzo, in tutte le facoltà, a Parigi come in provincia, si sviluppano delle AG massicce di studenti: l' "uomo di ferro" Villepin, mantiene la sua politica di fermezza: il CPE sarà votato all'assemblea Nazionale perché è fuori questione che sia "la strada a governare" (come diceva nel 2003, l'ex-primo ministro Raffarin che fece passare la sua riforma del sistema delle pensioni per gettare nella miseria i vecchi lavoratori salariati dopo averli sfruttati per 40 anni). Gli studenti non cederanno a questo braccio di ferro. Le aule dove si tengono le AG sono strapiene. Le manifestazioni spontanee si moltiplicano, in particolare nella capitale. Sono gli stessi studenti ad eliminare il blackout dei media obbligandoli a "sbloccare" la legge del silenzio e della menzogna.
Quelli dall' 8 al 18 marzo sono "dieci giorni che vanno a scuotere il mondo" della borghesia francese. Gli studenti si organizzano sempre più per allargare la risposta in una sola direzione: SOLIDARIETÀ ed UNITÀ di tutta la classe operaia.
Nella capitale, questa dinamica è partita dal sagrato della facoltà di Censier che sarà all'avanguardia del movimento verso l'estensione e la centralizzazione della risposta.
Nelle AG, i lavoratori che "passavano di là" sono accolti in genere a braccia aperte. Sono invitati a partecipare ai dibattiti, a portare la loro esperienza. Tutti i lavoratori che hanno assistito alle AG, a Parigi come in parecchie città di provincia (in particolare a Tolosa), sono stati sbalorditi dalla capacità di questa giovane generazione a mettere la sua immaginazione creatrice al servizio della lotta di classe. Alla facoltà di Censier, in particolare, la ricchezza dei dibattiti, il senso delle responsabilità degli studenti eletti nel comitato di sciopero, la loro capacità ad organizzare il movimento, a tenere la tribuna, a distribuire la parola a tutti quelli che vogliono esprimere il loro punto di vista, a convincere ed a smascherare i sabotatori attraverso il confronto degli argomenti dati nella discussione, tutta questa dinamica ha verificato tutta la vitalità e la forza delle giovani generazioni della classe operaia.
Gli studenti hanno difeso continuamente il carattere sovrano delle AG, con i loro delegati eletti e revocabili (sulla base di un mandato e rimessa dello stesso) attraverso il voto a mano alzata. Tutti i giorni, sono squadre diverse che organizzano il dibattito alla tribuna. In queste squadre, sono rappresentati studenti iscritti e non ad un sindacato.
Per potere ripartire i compiti, centralizzare, coordinare e mantenere la padronanza dal movimento, il comitato di sciopero di Parigi 3 - Censier aveva deciso di eleggere differenti commissioni: stampa, animazione e riflessione, accoglienza ed informazione, ecc.
È grazie a questa vera "democrazia" delle AG ed alla centralizzazione della lotta che gli studenti hanno potuto decidere quali azioni condurre, con principale preoccupazione l'estensione del movimento alle fabbriche.
La dinamica verso l'estensione del movimento a tutta la classe operaia
Gli studenti hanno compreso perfettamente che la riuscita della loro lotta è tra le mani dei lavoratori salariati (come è stato affermato da uno studente in una riunione l'8 marzo "se restiamo isolati, ci facciamo mangiare vivi"). Più il governo Villepin si rifiuta di cedere e più gli studenti sono determinati. Più Sarkozy si riscalda e più rafforza la collera dei salariati e fa "brontolare" i suoi "elettori".
I lavoratori salariati più esperti nella lotta di classe, ed i settori meno stupidi della classe politica borghese, sanno che questo braccio di ferro contiene la minaccia dello sciopero di massa (e non dello "sciopero generale" sostenuto da certi sindacati e dagli anarchici) se i mascalzoni che governano si chiudono nella loro "logica" irrazionale.
E' attraverso questa dinamica verso l'estensione del movimento, verso lo sciopero di massa, che ha caratterizzato fin dall'inizio la mobilitazione degli studenti, che questi ultimi hanno potuto mandare dovunque, ai quattro angoli del paese, delegazioni massicce verso i lavoratori delle imprese vicine ai loro luoghi di studi. Queste sono cozzate contro il "blocco" sindacale: i lavoratori sono rimasti chiusi nei loro luoghi di lavoro senza possibilità di discutere con le delegazioni degli studenti. I "piccoli sioux" delle facoltà di Parigi si sono dovuti immaginare un altro modo per aggirare lo sbarramento sindacale.
Per mobilitare i lavoratori, gli studenti hanno dato prova di una ricca immaginazione. Così a Censier hanno costruito un'urna di cartone chiamata "scatola delle idee". In alcune università (come quella di Jussieu a Parigi) hanno avuto anche l'idea di parlare tranquillamente nella strada, di rivolgersi ai passanti per spiegar loro senza aggressività le ragioni della loro collera. Hanno chiesto a tutti i "curiosi" se avevano delle idee da proporre loro perché "tutte le idee sono buone da prendere". È principalmente grazie al rispetto dei lavoratori che passavano di là o che erano venuti a portar loro solidarietà, che gli studenti hanno potuto raccogliere nella loro "urna" delle idee che hanno messo in pratica. Basandosi sulla loro esperienza, hanno visto quali erano le "buone idee" (quelle che vanno nel senso del rafforzamento del movimento) e quali le "cattive idee" (quelle che vanno nel senso di indebolirlo, di sabotarlo per consegnare gli studenti alla repressione, come è accaduto con "l'occupazione della Sorbona").
Gli studenti di molte facoltà, le più avanzate, hanno aperto le aule in cui si tengono le loro AG ai lavoratori salariati ed agli stessi pensionati. Hanno chiesto a questi di trasmettere la loro esperienza del mondo del lavoro. Avevano sete di apprendere dalle vecchie generazioni. Ed i "vecchi" avevano sete di apprendere dai "giovani". Mentre i "giovani" guadagnavano in maturità, i "vecchi" stavano ringiovanendo! È questa osmosi tra tutte le generazioni della classe operaia che ha dato un impulso nuovo al movimento. La più grande forza della lotta, la più bella vittoria del movimento, è proprio la lotta stessa!
E questa vittoria non è stata guadagnata in Parlamento ma nelle aule universitarie. Purtroppo (per loro) le spie al servizio del governo che erano presenti nelle AG non hanno capito niente. Non sono state capaci di dare delle "idee" al signore Villepin. Il trio infernale Villepin/Sarkozy/Chirac si è ritrovato a corto di "idee". E' stato dunque costretto a mostrare il vero volto della "Democrazia" borghese: quello della repressione.
La violenza dello Stato poliziesco rivela il "no futuro" della borghesia
Il movimento degli studenti va al di là di una semplice protesta contro il CPE. Come diceva un professore dell'università di Parigi-Tolbiac, alla manifestazione del 7 marzo: "il CPE non è solamente un attacco economico reale e puntuale. È anche un simbolo”. Effettivamente, è il "simbolo" del fallimento dell'economia capitalista.
È anche una risposta implicita agli "abusi" polizieschi (quella che, nell'autunno 2005, provocò la morte "accidentale" di due giovani innocenti denunciati come "svaligiatori" da un "cittadino" ed inseguiti dagli sbirri). Mettendo al Ministero dell'Interno un piromane, Sarkozy, la borghesia francese non è stata capace di trarre le lezioni dalla sua storia: ha dimenticato che gli "abusi" polizieschi (come quelli che provocarono la morte di Malik Oussékin nel 1986) possono essere un fattore di radicalizzazione delle lotte operaie. Oggi, la repressione degli studenti della Sorbona che volevano solamente poter tenere delle AG (e non distruggere i libri come pretende mentendo il signor de Robien) non ha fatto che rafforzare la determinazione degli studenti. Tutta la borghesia ed i suoi media non hanno cessato, ora dopo ora, di fare della pubblicità menzognera per fare passare gli studenti per "teppisti" ("gentaglia" secondo il termine adoperato dal signor Sarkozy al riguardo dei giovani delle periferie).
Ma l'inganno era troppo evidente. La classe operaia non ha abboccato all'amo dei burattini dell'informazione. E' proprio questa violenza dei teppisti della borghesia che ha rivelato con estrema chiarezza la violenza del sistema capitalista e del suo Stato "democratico". Un sistema che getta sul lastrico milioni di operai, che riduce alla miseria i pensionati dopo 40 anni di sfruttamento, un sistema che fa regnare il "diritto" e "l'ordine" con il manganello.
E per mantenere il loro potere, questi signori hanno potuto beneficiare della "solidarietà" dei media e soprattutto del loro strumento di intossicazione ideologica, il "giornale televisivo". Ciò che le immagini ignobili dei media mettono in evidenza è il fascino esibizionista della violenza cieca, la manipolazione delle folle, il deterioramento della coscienza. Ma più la televisione ne aggiunge per intimidire la classe operaia e paralizzarla, più le sue videocamere nauseano la classe operaia (ed anche lo stesso elettorato della destra).
Ed è giustamente per questo che le nuove generazioni della classe operaia, ed i suoi battaglioni più coscienti, detengono tra le loro mani le chiavi dell'avvenire, evitando di cedere alla provocazione dello stato poliziesco (ed alle sue forze di inquadramento sindacale). Hanno evitato di utilizzare la violenza cieca e disperata della borghesia, dei giovani ribelli delle periferie, di certi "anarchici" ed altri "estremisti" eccitati.
I giovani della classe operaia che si trovano all'avanguardia del movimento degli studenti sono i soli che possano aprire una prospettiva a tutta la società. Questa prospettiva, la classe operaia non può svilupparla che grazie ad una visione storica, grazie alla fiducia nella sua propria forza, grazie alla pazienza ed anche all'umorismo (come diceva Lenin). E' proprio perché quella borghese è una classe senza avvenire storico, che la cricca di Villepin si è spaventata tanto da utilizzare la violenza cieca del "no futuro" dei giovani estremisti delle periferie.
La determinazione del signor Villepin a non cedere alla richiesta degli studenti, il ritiro del CPE, rivela ancora una cosa: la borghesia mondiale non lascerà il suo potere sotto la pressione delle "urne". Per rovesciare il capitalismo e costruire la vera comunità umana mondiale, la classe operaia sarà obbligata, in futuro, a difendersi anche con la violenza contro la violenza dello Stato capitalista e di tutte le forze del suo apparato repressivo. Ma la violenza di classe del proletariato non ha rigorosamente niente a che vedere con i metodi del terrorismo o delle sommosse delle periferie (come vuole fare credere la propaganda borghese per giustificare le persecuzioni della polizia, la repressione dei lavoratori, degli studenti e sicuramente dei veri militanti comunisti).
La controffensiva della borghesia per sabotare e destabilizzare il movimento
Per tentare di fare passare tutti i suoi attacchi economici e polizieschi, la borghesia aveva minato il terreno della risposta anti-CPE. Ha prima puntato sul calendario delle vacanze scolastiche per disperdere la collera degli studenti universitari e liceali. Ma gli studenti non sono degli ingenui, anche se alcuni di loro vanno ancora in chiesa. Hanno mantenuto la mobilitazione e l'hanno rafforzata dopo le vacanze. Evidentemente, i sindacati erano presenti fin dall'inizio del movimento e hanno messo tutte le loro forze nella battaglia per inglobarlo.
Ma non hanno previsto che sarebbero stati isolati massicciamente nella maggior parte delle città universitarie.
Per esempio, a Parigi, più di un migliaio di studenti si sono ritrovati sul sagrato della facoltà di Parigi 3-Censier per andare tutti insieme alla manifestazione. Gli studenti si accorgono che i sindacati, CGT in testa, hanno spiegato le loro bandiere per mettersi alla testa del corteo e chiudere nel loro contesto la manifestazione. Immediatamente, gli studenti fanno mezzo giro, utilizzano i differenti mezzi di trasporti e la vitalità delle loro gambe per aggirare i sindacati. Prendono la testa della manifestazione ed innalzano le loro bandiere unitarie. Lanciano una moltitudine di slogan unificatori: "Studenti, liceali, disoccupati, lavoratori precari, del pubblico e del privato, stessa lotta contro la disoccupazione e la precarietà!"
La CGT è ridicolizzata. Si ritrova alla coda degli studenti con una moltitudine di bandiere: "CGT della metallurgia", "CGT del RATP", "CGT dell'ospedale della Pietà Salpêtrière", "CGT della città di Pantin", "CGT della Senna Saint-Denis" ecc. Dietro ciascuna delle enormi bandiere rosse della CGT, un pugno di militanti completamente disorientati. Per riprendersi le loro truppe, i quadri del partito stalinista "rinnovato" di Maurice Thorez (lo stesso che, all'indomani della seconda guerra mondiale, chiese ai minatori e agli operai di Renault in sciopero di riprendere il lavoro, di "rabboccarsi le maniche" perché "lo sciopero era l'arma dei trust") lanciano allora parole d'ordine "radicali". Provano a coprire la voce degli studenti con i loro altoparlanti. I quadri della CGT e del partito "comunista" Francese scuotono le loro truppe facendo loro cantare "L'internazionale". Il vecchio dinosauro stalinista si ridicolizza ancora più. Molti manifestanti e passanti sui marciapiedi sono piegati dal ridere. Si sentono commenti dello stile: "sono i burattini dell'Informazione"!.
I sindacati si sono smascherati da soli attraverso i loro intrallazzi. È questo che il signor de Robien non sempre ha compreso quando si è così "indignato" degli atti di vandalismo degli "studenti" alla Sorbona, esibendo alcuni libri lacerati dagli specialisti borghesi della manipolazione: "è una piccola minoranza che dirige la rivolta degli studenti". de Robien ha messo alla rovescia i suoi occhiali di presbite: infatti è una "piccola minoranza" che dirige tutta la società umana, non il movimento degli studenti. Una minoranza che non produce nient'altro che sfruttamento e repressione della grande maggioranza della classe dei produttori.
I sindacati, CGT e FO in testa, non hanno incassato il brutto colpo del 7 marzo. È perciò che certi giornalisti tra i più intelligenti hanno potuto dire alla televisione: "i sindacati sono stati umiliati". Sono stati "umiliati " ugualmente dalle manifestazioni spontanee degli studenti nelle vie della capitale il 14 marzo. Incapaci di frenare la loro collera contro gli "umiliatori", contro i lavoratori che hanno manifestato la loro solidarietà attiva agli studenti unendosi alla manifestazione del 16 marzo, i sindacati hanno finito per mostrare pubblicamente, davanti alle videocamere, la loro complicità con le truppe di Sarkozy.
A Parigi, il "servizio d'ordine" della CGT (legato al partito stalinista) e di FO (fondato grazie all'appoggio della CIA dopo la seconda guerra mondiale) era alla testa della manifestazione, mano nella mano, di fronte ai CRS (celerini). Il cordone sindacale si è aperto come per incanto alla fine della manifestazione per permettere ai piccoli "kamikaze" di introdursi nella manifestazione e di precipitasi verso la Sorbona per cominciare il loro gioco del gatto col topo coi CRS. Tutti quelli che erano in prima fila e hanno assistito a queste nuove scene di violenza hanno raccontato che è grazie al "servizio d'ordine" dei sindacati CGT/FO che Villepin/Sarkozy hanno picchiato ancora e riempito i loro cellulari.
Ma soprattutto, le immagini insistenti degli scontri violenti che hanno seguito la manifestazione a Parigi hanno per obiettivo di fare paura prima della grande manifestazione del 18 marzo. Molti lavoratori e giovani che contavano di partecipare rischiano di rinunciare per paura di queste violenze.
I presentatori del giornale televisivo annunciano la buona notizia ai telespettatori: si va verso il "deterioramento del movimento" (dalle "notizie" della sera del 16 marzo).
Quelli che vogliono "affievolire il movimento", sono i complici di Sarkozy, le forze di inquadramento sindacale. E questo la classe operaia comincia a comprenderlo. Dietro i loro discorsi "radicali" ed ipocriti, ciò che vogliono i sindacati è salvare il governo. Per il momento, questo non si è verificato!
Il partito stalinista e la sua CGT adesso occupano il loro posto nel grande Pantheon del Jurassic Park, accanto ai brontosauri dell'UMP. Se i sindacati non hanno potuto sostenere finora il loro ruolo di pompieri sociali, è perché i piromani Sarkozy/Villepin hanno dato fuoco alle loro bandiere il 16 marzo. E, se i lavoratori sono venuti a sostenere gli studenti in lotta, è perché hanno visto che i sindacati avevano sostenuto, nelle aziende, il blackout dei media sulle AG di massa degli studenti.
Dalla manifestazione del 7 marzo, i sindacati sono stati a guardare, fatto ogni tipo di contorsioni per paralizzare i lavoratori salariati. Hanno effettuato ogni tipo di manovra per dividere, mandare a pezzi la collera della classe operaia. Hanno tentato di sabotare il movimento degli studenti. Hanno radicalizzato i loro discorsi con un treno di ritardo esigendo "il ritiro del CPE prima di ogni apertura dei negoziati” (mentre normalmente non smettono di "negoziare" sulle spalle della classe operaia). Hanno brandito anche la minaccia dello "sciopero generale" per fare "piegare" il governo. In breve, hanno svelato apertamente che non volevano che i lavoratori si mobilitassero in solidarietà degli studenti. Con le spalle al muro, hanno finito per tirare fuori dalla loro manica l "asso di picche": utilizzando alcuni ragazzini eccitati per scatenare ancora e sempre la violenza.
L'unica via d'uscita a questa crisi politica della borghesia francese, è un restauro della vecchia facciata dello Stato repubblicano. E questo regalo, è la sinistra parlamentare che lo ha voluto offrire su un vassoio d'argento al signor Villepin: PS/PC/Verdi tutti uniti hanno investito il Consiglio Costituzionale per depositare il loro "ricorso" contro il CPE. Forse, alla fine, è proprio questo colpo di mano del PS che permetterà al governo di uscire dal vicolo cieco ritirando il CPE su richiesta dei "12 saggi": potrà fare ancora sua la formula di Raffarin, "non è la strada che governa", ma, aggiungendo, "i 12 pensionati del Consiglio costituzionale!"
La più grande vittoria è la lotta stessa
Volendo "ripulire" dagli studenti la Sorbona (e dai loro compagni venuti a portar loro del cibo) il Signore Sarkozy ha scoperchiato un vaso di Pandora. E da questo vaso dalle "idee nere", il governo Villepin/Sarkozy ha tirato fuori i "falsi amici" della classe operaia, i sindacati.
Il proletariato mondiale può dunque ringraziare la borghesia francese. Agitando il suo spaventapasseri Le Pen alle ultime presidenziali, la classe dominante tricolore è riuscita a rimettere al governo la destra più stupida del mondo. Una destra che ha applicato una politica da "repubblica delle banane!"
Comunque andrà a finire per il movimento, questa lotta di tutta la classe operaia è già in sé una vittoria.
Grazie alle nuove generazioni, la classe operaia è riuscita a rompere il "blocco" della solidarietà effettuato dai sindacati. Tutti i settori della classe operaia, ed in particolare le sue nuove generazioni, hanno vissuto una ricca esperienza che lascia delle tracce profonde nella loro coscienza.
Questa esperienza appartiene al proletariato mondiale. Malgrado il blackout dei media "ufficiali", i media "paralleli", le videocamere "selvagge" ed altre radio "libere", ed anche la stampa dei rivoluzionari, permettono ai proletari del mondo intero di appropriarsi di questa esperienza. Perché questa lotta è solamente un episodio della lotta della classe operaia mondiale. Si iscrive al seguito a tutta una serie di lotte operaie dal 2003 che confermavano che la classe operaia della maggior parte dei paesi industriali stava uscendo dal riflusso provocato da tutte le campagne scatenate dalla borghesia all'indomani del crollo del blocco dell'Est, nel 1989, e dei regimi presentati come "socialisti" o "operai". Una delle caratteristiche essenziale di queste lotte è il riemergere della solidarietà tra lavoratori (vedi l’articolo in questo stesso numero).
Il movimento degli studenti in Francia appartiene dunque ad una lotta che si sviluppa a scala storica e il cui esito finale permetterà di tirare fuori la specie umana dal vicolo cieco della barbarie capitalista. Le giovani generazioni che hanno impegnato la lotta su un campo di classe aprono oggi le porte dell'avvenire. Possiamo dar loro fiducia: in tutti i paesi, continuano a preparare un mondo nuovo sbarazzato dalla concorrenza, dal profitto, dallo sfruttamento, dalla miseria, e dal caos sanguinoso.
Evidentemente, la strada che conduce al capovolgimento dal capitalismo è ancora lunga e cosparsa di insidie, di trappole di ogni tipo, ma ha cominciato a liberarsi.
Corrente Communista Internazionale (17 marzo 2006)
Andiamo a vedere come questa "invenzione" non è affatto tale, che significa solamente un adattamento del capitalismo di Stato alle condizioni di crisi più acuta e soprattutto a dei livelli importanti di decomposizione dell'ordine capitalista. Questa situazione esige un riadattamento tanto delle politiche economiche che dell'insieme dell'arsenale ideologico che ogni borghesia nazionale deve sviluppare per ingannare e sottomettere il proletariato. Tutte le borghesie nazionali, e più ancora quelle dei paesi della periferia, non hanno altra prospettiva che quella di ridistribuire la miseria. Il "neo-socialismo", proposto da Chavez ed applaudito da tutti gli alter-mondialisti, lo dimostra perché è impossibile sradicare la miseria senza rivoluzione comunista.
Il "progetto" chavista: un progetto chiaramente borghese
Il progetto "chavista" trova le sue origini nel movimento civico-militare-bolivariano sviluppato dagli ideologi della guerriglia degli anni 60 che aveva rotto col Partito comunista del Venezuela, progetto che fu ripreso negli anni 80 dal movimento MBR-200 (1); questo progetto mira allo sviluppo di una vera "borghesia nazionalista", diametralmente opposta alla borghesia "oligarchica" emersa dopo la sconfitta della dittatura del generale Marcos Perez Jimenez nel 1958. Questo movimento si ispira al modello capitalista di Stato di tipo stalinista (detto "marxista-leninista" dalla sinistra) condito da un supposto tropicalismo alla moda bolivaregna.
L'irresistibile ascesa di Chavez è fondamentalmente il frutto del livello elevato di decomposizione che colpisce la borghesia venezuelana ed è solo espressione della decomposizione del sistema capitalista nel suo insieme. I settori della borghesia che avevano governato negli ultimi decenni dell'ultimo secolo erano incollati al potere, protetti da un ambiente di impunità e di corruzione. Avevano perso la capacità di mistificare con le illusioni i settori più poveri della società: per potere affrontare la crisi economica, hanno ridotto progressivamente i piani sociali per i più poveri (grazie ai quali avevano potuto mantenere la "pace sociale"), provocando l'esplosione della povertà mentre hanno applicato draconiane misure di austerità contro la classe operaia, ed hanno causato anche un'impennata della disoccupazione e la caduta del potere d'acquisto delle masse lavoratrici.
L'incapacità di questi settori della borghesia al potere a gestire una situazione esplosiva fu messa in evidenza dalle sommosse della fame nel 1989, quando migliaia di magazzini commerciali furono saccheggiati, principalmente a Caracas, riuscendo solo ad infliggere una repressione terribile (le cifre, anche se non ufficiali, parlano di più di diecimila morti). Malgrado questo grido di allerta e di disperazione lanciata dai settori impoveriti, la borghesia nazionale fu incapace di realizzare il minimo di riforme necessarie nelle sue strutture di potere per contenere il malcontento sociale.
Questo contesto ha preparato il campo affinché si potesse concretizzare il primo passo del progetto chavista, il tentativo di colpo di stato del 1992 che, malgrado il suo insuccesso, ha permesso di portare un perfetto sconosciuto, Chavez, in primo piano. Quest'ultimo si lanciò nell'arena elettorale fin dalla sua liberazione nel 1994, facendo allora una critica devastante delle frazioni della borghesia al potere. Forte di un potente carisma personale, adattò poco a poco il progetto di "rivoluzione bolivariana" degli anni 60 al nuovo periodo storico caratterizzato dalla scomparsa dei due grandi blocchi imperialisti, attirando nelle sue fila milioni di poveri, illusi che il suo accesso al potere li avrebbe strappati alla loro miseria.
Dopo il suo schiacciante trionfo alle elezioni del 1998, comincia un processo che domina la scena politica fino ai nostri giorni, caratterizzato dallo scontro di due frazioni del capitale nazionale: da un lato, la "vecchia" borghesia rappresentata dai partiti tradizionali (principalmente AD, COPEI, qualche settore del MAS, etc.), dall'altro la "nuova borghesia" (i partiti ed i gruppi di sinistra, estremisti militari, ecc.) che era stato escluso del potere durante la seconda metà dell'ultimo secolo. In effetti, quando chavisti e soci dicono che il governo bolivaregno è quello degli "esclusi", non fanno riferimento all'immensa massa crescente dei poveri che vivono in questo paese, ma a quei settori della borghesia e della piccolo-borghesia che detengono oggi il potere e che si dividono il bottino costituito dalle ricette dello Stato, attaccando oggi con tutta la forza del loro rancore le altre frazioni della borghesia nazionale. Come i loro predecessori "adecos" e "copeyanos" (2), essi non hanno altre opzioni che quella di accentuare le condizioni di sfruttamento dei lavoratori ed attaccare questa massa di poveri che pretendono di difendere, generalizzando la miseria, ripartendo più "socialmente" delle briciole tra i settori più impoveriti attraverso la sedicente "Missions" (3) per tentare di mantenere la "pace sociale", utilizzando certamente tutto uno sproloquio "rivoluzionario" basato sulla demagogia ed il populismo.
Il chavismo : un movimento decomposto dalla nascita
Sarebbe falso vedere il chavismo come un prodotto "made in Venezuela", frutto delle caratteristiche puramente nazionali. Il "fenomeno" chavista è il prodotto delle contraddizioni proprie del sistema capitalista, della crisi che scuote il capitalismo a livello mondiale dalla fine degli anni 60 e che esige da ogni borghesia nazionale l'attacco permanente delle condizioni di vita delle masse lavoratrici e della popolazione nel suo insieme. Ma è anche il risultato del periodo di decomposizione in cui sprofonda il capitalismo da due decenni, decomposizione la cui espressione maggiore è stata la scomparsa del sistema dei blocchi imperialisti dopo l'implosione dell'ex blocco "socialista" nel 1989.
Nel caso particolare del Venezuela, l'apparizione del chavismo esprime in modo caricaturale la decomposizione della borghesia nazionale che raggiunge tali proporzioni che i suoi conflitti di interesse hanno creato le condizioni affinché il governo cadesse tra le mani di settori della piccola borghesia estremista che hanno chiaramente l'intenzione di mantenerselo ad ogni prezzo. La frazione "chavista" della borghesia tenta di differenziarsi "radicalmente" dall'ideologia democratica della "vecchia oligarchia" adattando la virulenza della sinistra del capitale venezuelano e dell’estremismo ai nuovi tempi della "fine della storia" (4).
La "democrazia partecipativa e protagonista" ha permesso al chavismo di mobilitare la popolazione per adattare giuridicamente il modello democratico borghese e controllare le istituzioni dello Stato attraverso l'adozione di una nuova costituzione. L'aspetto "innovativo" di questo modello borghese si trova nel fatto che rafforza la "nuova borghesia" chavista su due piani:
- sul piano economico, il sedicente "sviluppo endogeno" basato sul cooperativismo, la cogestione e l'autogestione, permette di sviluppare politiche di capitalismo di Stato con l'attribuzione delle risorse dello Stato alla nuova borghesia chavista ed ai settori del capitale privato che sostengono il progetto;
- sul piano economico e sociale, l'attribuzione delle risorse dello Stato attraverso organizzazioni come i Circoli bolivariani, le Missioni, le milizie, ecc., permette al chavismo un controllo politico e sociale del settore più miserabile rappresentato dalla maggioranza della popolazione (in questo il chavismo non si distingue in niente dai regimi stalinisti o fascisti). E questa attribuzione delle risorse permette soprattutto al chavismo di distribuire delle briciole che legittimano tutti i discorsi ideologici sulla "redistribuzione delle ricchezze" e "l'egualitarismo" della sinistra; è questo che, aprirà la via al "socialismo del XXI secolo", secondo il chavismo e l'insieme della sinistra.
Ma questo "socialismo", prima di "ridistribuire le ricchezze" (vecchia solfa borghese per giustificare la sua dittatura di classe) propone in effetti la ridistribuzione della miseria, "l'éguaglianza" della società dal basso, attraverso la precarietà. Il lavoro delle Missioni permette in effetti di liberalizzare le condizioni di lavoro, il che "flessibilizza" (cioè precarizza) la forza lavoro attraverso le cooperative dove i lavoratori percepiscono già stipendi inferiori al miserabile salario minimo senza beneficiare della più piccola protezione sociale. Peraltro, tutti i rami di servizio o di produzione di cui si occupano queste Missioni violando ogni forma di convenzioni collettive, sono il teatro di attacchi alle condizioni di lavoro dei lavoratori, regolari vittime del ricatto di licenziamento se non accettano le condizioni imposte dallo Stato.
Infine, nella misura in cui le Missioni hanno essenzialmente come funzione politica il controllo sociale, ed essendo richiesto l'attivismo "rivoluzionario" per potere racimolare le briciole distribuite dallo Stato, si sta determinando la caduta libera della qualità dei servizi pubblici. Nella misura in cui s'ingrandisce la copertura sociale delle Missioni, la precarietà si estende anche all'insieme della classe operaia ed all'insieme della società. Peraltro il cooperativismo, la cogestione e l'autogestione, forme di organizzazione della produzione alla quale la sinistra e gli estremisti attribuiscono una magica natura "anticapitalista", non eliminano in niente lo sfruttamento dei lavoratori da parte del capitale, che sia privato o statale: i rapporti di produzione di beni o di servizi propri a tutte le forme di organizzazione della produzione capitalista sono mantenuti, ed i beni e servizi prodotti dai lavoratori dovranno prima o poi essere sottomessi alle leggi del mercato. In altri termini, è quest'ultimo che deciderà i prezzi e dunque lo stipendio dei lavoratori.
Qui come altrove, la borghesia non ha altra scelta che giocare con la miseria, e il chavismo si è rivelato essere un maestro in materia. Tenta di imporre le sue ideologie all'insieme della società attraverso il sangue ed il fuoco, creando un ambiente di terrore, di persecuzione, di ricatto e di attacco permanente alle condizioni di vita dei lavoratori attraverso la disoccupazione, gli stipendi di miseria, gli oneri sociali, sviluppando un impoverimento che si traduce, nei fatti, in un aumento significativo della povertà e della malnutrizione (5), della criminalità e della prostituzione infantile e giovanile, mentre i nuovi ricchi chavisti si ripartiscono il bottino delle risorse dello Stato assegnandosi trattamenti e stipendi decine di volte superiori a quelli di un lavoratore, promovendo e permettendo inoltre dei livelli di corruzione tale che i regimi precedenti passano per esempi di bontà. E tutto questo in nome della sedicente "superiorità morale" della sinistra del capitale che non è niente altro che la morale ipocrita borghese elevata al suo parossismo.
In questo senso, non solo il chavismo è un puro prodotto della decomposizione della borghesia venezuelana, ma è inoltre un fattore acceleratore di questo deterioramento della classe borghese e della società venezuelana nel suo insieme. Ed è precisamente questa putrefazione che gli estremisti e la sinistra battezzano nel mondo intero "rivoluzione"! Quale impudenza!
La sola rivoluzione possibile è la rivoluzione proletaria
Il loro radicalismo piccolo-borghese spinge i settori estremisti che compongono il chavismo a battezzare "rivoluzione" un fenomeno che, come abbiamo visto, non è niente altro che una variante del capitalismo di Stato: una "nuova" forma giuridica di amministrazione dello Stato borghese per perseguire lo sfruttamento del lavoro da parte del capitale nazionale. Che Chavez ed i suoi discepoli ed adulatori lo chiamino "socialismo" non è in sé un fenomeno nuovo: la sinistra e gli estremisti di ogni pelo non hanno mai smesso, durante tutto il XX secolo, di qualificare "socialista" il minimo governo in cui lo Stato assume il controllo della vita economica, politica e sociale (come fu il caso per tutti quei paesi in orbita russa che formavano il famoso "blocco socialista" e di cui sopravvivono solo la Cina, la Corea del Nord e Cuba) in cui è eliminato, o tende ad esserlo, il capitale privato e dove i mezzi di produzione passano sotto controllo dello Stato e della burocrazia. Oggi, la sinistra del capitale, in quanto forza protettrice degli interessi del capitale nazionale, innalza di nuovo la bandiera di questo "socialismo", e cioè del capitalismo di Stato, ma sotto i nuovi colori di movimenti anti-globalizzazione ed alter-mondialisti, per tentare di dare un fondo ideologico alla sua parola d'ordine: "Un altro mondo è possibile".
Questo "neo-socialismo" riprende così i temi populisti ai quali ricorre la borghesia nei suoi momenti di crisi economica e politica. La borghesia ricorre sempre in questi casi alla manipolazione dei settori più poveri della popolazione e della piccola borghesia depauperata, per tentare di controllare il malessere sociale generato dall'incremento della povertà e di utilizzarli per mantenere il suo dominio di classe.
L'accrescimento degli indici di miseria non può più essere nascosto ed è ineluttabile: malgrado le sfrontate manipolazioni delle cifre da parte degli organismi dello Stato, l'istituto nazionale delle statistiche (INE) indica che l'indice di povertà è aumentato del dieci per cento durante i sei anni di governo chavista (6).
Tuttavia, tale aumento della miseria non è dovuto alla cattiva gestione di Chavez, come i settori della borghesia all'opposizione tentano di fare credere: è impossibile sradicare la miseria nel capitalismo, perché questo modo di produzione richiede non solo un attacco permanente sui salari e le condizioni di vita dei lavoratori ma anche che, con la sua entrata in decadenza, crea una massa sempre più grande di proletari che sono buttati per strada senza che esista per essi la minima possibilità di essere integrati nell'apparato produttivo. La borghesia di fronte alla crisi non ha altra scelta che rendere sempre più precarie le condizioni di vita del proletariato per potere restare competitiva sul mercato mondiale e, certamente, poter mantenere i privilegi di cui gode in quanto classe dominante.
Ma la borghesia chavista deve fare i conti con un fattore che contrasta i suoi piani: l'approfondimento della crisi del capitalismo e della decomposizione dell'insieme della borghesia. Malgrado i proventi importanti tratti dall'aumento storico del prezzo del barile di petrolio su cui conta la borghesia venezuelana, questi non sono tuttavia eterni e sono peraltro insufficienti per rispondere al costo della "rivoluzione". L'approfondimento della crisi non tarderà a fare cambiare discorso all'apparato populista ed alle Missioni adottate dallo chavismo. Allora le masse si manifesteranno di nuovo. Ma queste manifestazioni saranno condannate a finire nei vicoli ciechi della rivolta sterile e dell'impotenza se la classe operaia non ha la capacità di dare una prospettiva alle masse più povere verso la distruzione ed il superamento del capitalismo. È dunque di grande importanza che i lavoratori reagiscano con la lotta contro gli attacchi alle loro condizioni di vita affrontando tutta questa ideologia bolivariana egualitaria.
P., 01-04-05
1. Movimento bolivariano rivoluzionario-200, formato in maggioranza dai militari che parteciparono con Chavez all'insurrezione nel 1992.
2. Sostenitori dei "vecchi" partiti dalla borghesia, Ad e COPEI.
3. Organizzazioni create e finanziate dallo Stato che lavorano nei servizi pubblici come quello della salute, dell'educazione, della distribuzione del cibo, ecc. Queste Missioni permettono così di sviluppare il lavoro precario attraverso il cooperativismo. La rete tessuta dalle Missioni permette anche ai partiti che sostengono il governo di esercitare un reale controllo sociale, poiché è stato preteso un impegno in favore della "rivoluzione bolivariana" per potere ricevere aiuti dallo Stato.
4. Uno dei consiglieri di Chavez negli anni 90 era l'argentino Norberto Ceresole, che aveva immaginato un modello battezzato "post-democrazia" che combinava un insieme di ideologie che vanno dal fascismo al bolivarismo passando per lo stalinismo. Vediamo in questo le origini, tipiche della decomposizione, del cocktail ideologico di Chavez.
5. Uno studio recente dell'istituto venezuelano di ricerche scientifiche sostiene che un terzo dei bambini tra i 2 ed i 15 anni sondati negli Stati del centro del paese soffrono di anemia. Questo livello terribile va fino al 71% dei bambini di meno di 2 anni in uno di questi Stati. È bene ricordarsi che, negli anni 80, la percentuale era vicina a quello dei paesi evoluti.
6. L'istituto nazionale di statistiche segnalava che la povertà era passata dal 42,8 % nel 1999 al 53 % nel 2004. Un recente studio dell'impresa Datos segnala tuttavia che la povertà tocca l' 81 % della popolazione, e cioè circa 21 milioni di persone (El Nacional, 31 marzo 2005).
Nuovi esempi di solidarietà operaia in Europa …
La lotta più significativa in Gran Bretagna si è sviluppata nell’Irlanda del Nord dove, dopo decenni di guerra civile tra cattolici e protestanti, 800 impiegati delle poste si sono spontaneamente messi in sciopero a febbraio per due settimane e mezzo a Belfast contro le multe e le pressioni della direzione per imporre loro un forte aumento dei ritmi di lavoro. All’origine della lotta c’è stata la mobilitazione di questi lavoratori per impedire l’esecuzione delle misure disciplinari prese nei confronti di alcuni loro compagni di lavoro in due diversi uffici postali, uno “protestante”, l’altro “cattolico”. Il sindacato delle comunicazioni ha allora mostrato il suo vero volto e si è opposto allo sciopero. A Belfast, uno dei loro portavoce ha dichiarato: “Noi rifiutiamo lo sciopero e chiediamo ai lavoratori di tornare al lavoro perché esso è illegale”. Ma gli operai hanno proseguito la loro lotta fregandosene del carattere legale o non della loro lotta, dimostrando così di non aver affatto bisogno dei sindacati per organizzarsi.
In occasione di una manifestazione comune i lavoratori hanno superato la “frontiera” che separa i quartieri cattolici e protestanti e hanno sfilato assieme nelle strade della città, salendo prima per una grande arteria del quartiere protestante, per poi ridiscendere per un’altra del quartiere cattolico. In questi ultimi anni altre lotte, particolarmente nel settore della Sanità, avevano già mostrato una reale solidarietà tra operai di confessioni differenti. Ma è stata la prima volta che una tale solidarietà si è espressa apertamente tra operai “cattolici” e “protestanti” nel cuore di una provincia devastata e lacerata da decenni da una guerra civile sanguinosa.
In seguito i sindacati, aiutati dalle formazioni di estrema sinistra del capitale, hanno cambiato atteggiamento e hanno preteso di portare a loro volta la loro “solidarietà”, organizzando dei picchetti di sciopero in ogni ufficio postale. Ma questo in realtà ha permesso loro di rinchiudere i lavoratori nei rispettivi uffici postali, quindi di isolarli gli uni rispetto agli altri, in una parola di sabotare la lotta.
Nonostante questo sabotaggio, l’unità aperta degli operai cattolici e protestanti nelle strade di Belfast durante lo sciopero ha fatto rivivere la memoria delle grandi manifestazioni del 1932, quando i proletari dei due diversi campi si unirono per lottare contro la riduzione delle indennità di disoccupazione. Ma questo episodio avveniva in un periodo di sconfitta della classe operaia. Oggi esiste un maggior potenziale per rigettare, in futuro, le politiche di divisione che usa la classe dominante per meglio dominare la situazione e che hanno contribuito così fortemente a preservare l’ordine capitalista. Il grande apporto dell’ultimo sciopero è stata l’esperienza di un’unità di classe realizzata al di fuori del controllo dei sindacati. Questo apporto non vale solo per gli impiegati delle poste implicati in questa lotta ma per ogni lavoratore incoraggiato da questa espressione dell’unità di classe.
A Cottam, vicino Lincoln nella parte orientale del centro dell’Inghilterra, a fine febbraio una cinquantina di operai delle centrali elettriche si sono messi in sciopero per sostenere dei lavoratori immigrati di origine ungherese pagati in media la metà rispetto ai loro compagni inglesi. Questi lavoratori immigrati avevano anche un contratto di lavoro fortemente precario, essendo sotto la minaccia di licenziamento dall’oggi al domani o di essere trasferiti in ogni momento in un qualunque altro cantiere d’Europa. Ancora una volta i sindacati si sono opposti allo sciopero vista la sua “illegalità” poiché, sia per gli operai ungheresi che per quelli inglesi, non era stato deciso sulla base di un voto “démocratico”. Anche stampa e televisione hanno denigrato questo sciopero, un giornaletto locale è arrivato a riportare le proposte di un intellettuale il quale ha dichiarato che chiamare gli operai inglesi e ungheresi a mettersi assieme nei picchetti di sciopero dava un’immagine “sconveniente” e costituiva uno “snaturamento del senso dell’onore della classe operaia britannica”. Al contrario, per la classe operaia riconoscere che tutti gli operai difendono gli stessi interessi, quale che sia la nazionalità o le specificità salariali e di condizioni di lavoro, è un passo importante per entrare in lotta come una classe unita.
In Svizzera, a Reconvilier, 300 metallurgici della Swissmetal sono scesi in sciopero spontaneamente dalla fine di gennaio alla fine di febbraio in solidarietà con 27 loro compagni licenziati dopo un primo sciopero nel novembre 2004. Questa lotta si è sviluppata al di fuori dei sindacati, ma alla fine questi hanno organizzato la negoziazione con il padronato imponendo questo ricatto: o accettare i licenziamenti o non essere pagati per le giornate di sciopero, “sacrificare” o i posti di lavoro o i salari. Seguire la logica economica del sistema capitalista significava, secondo la formulazione utilizzata da un operaio di Reconvilier, “scegliere tra la peste ed il colera”. Accettare la logica del capitalismo non può che portare gli operai ad accettare sempre più nuovi “sacrifici”. D'altronde è già programmata un’altra ondata di licenziamenti per 120 operai. Ma questo sciopero è riuscito a porre chiaramente la questione della capacità degli scioperanti ad opporsi a questo ricatto ed a questa logica del capitale. Un altro operaio ha tratto questa lezione dalla sconfitta dello sciopero: “E’ stato un errore lasciare il controllo delle negoziazioni in altre mani”.
… ed in India
In India, meno di un anno fa, nel luglio 2005, si è sviluppata la lotta di migliaia di operai della Honda a Gurgaon, nella periferia di Delhi che, dopo essere stati raggiunti nella lotta da una massa di operai venuti da fabbriche vicine di un’altra città industriale ed aver ricevuto l’aiuto della popolazione, si erano imbattuti in una repressione poliziesca estremamente brutale e in un’ondata di arresti tra gli scioperanti.
Il 1° febbraio scorso 23.000 operai si sono messi in sciopero in un movimento che ha toccato 123 aeroporti del paese contro le minacce di licenziamenti. Questo sciopero è stata una risposta al pesante attacco della direzione che progettava di eliminare progressivamente il 40% degli effettivi, in particolare i lavoratori più anziani che rischiavano di non trovare più lavoro. A Delhi ed a Bombay, ed in gran parte anche a Calcutta, il traffico aereo è stato paralizzato per giorni. Lo sciopero è stato dichiarato illegale dalle autorità. Queste hanno mandato la polizia e le forze paramilitari in varie città, in particolare a Bombay, a manganellare gli operai e fargli riprendere il lavoro, in applicazione di una legge che permette la repressione per “atti illegali contro la sicurezza dell’aviazione civile”. Contemporaneamente, da buoni partner della coalizione governativa, sindacati e forze della sinistra radicale borghese negoziavano con il governo già dal 3 febbraio. Insieme hanno poi chiamato gli operai ad incontrare il Primo ministro e li hanno spinti a riprendere il lavoro in cambio di una vana promessa di questo di riesaminare il dossier del piano di licenziamenti negli aeroporti. L’altra tattica è stata quella di tendere alla divisione tra i lavoratori con un’efficace gioco dei ruoli tra chi si faceva sostenitore della resa e chi della continuazione dello sciopero.
La combattività operaia si è espressa anche nelle fabbriche Toyota vicino Bangalore dove gli operai hanno scioperato per 15 giorni a partire dal 4 febbraio contro l’aumento dei ritmi di lavoro, causa di un moltiplicarsi degli incidenti sul lavoro alle catene di montaggio da una parte, e dall’altra di una pioggia di multe. Queste penalità per “rendimento insufficiente” vengono sistematicamente prelevato dai salari. Anche qui, i lavoratori si sono spontaneamente scontrati all’opposizione dei sindacati che hanno dichiarato illegale lo sciopero. La repressione è stata feroce: 1.500 scioperanti su 2.300 sono stati arrestati per “turbativa della pace sociale”. Questo sciopero ha avuto il sostegno attivo di altri operai di Bangalore, il che ha costretto i sindacati e le organizzazioni della sinistra borghese a metter su un “comitato di coordinamento” nelle altre fabbriche della città a sostegno dello sciopero e contro la repressione degli operai della Toyota, per contenere e sabotare questo slancio spontaneo di solidarietà operaia. A metà febbraio altri operai, di altre imprese di Bombay sono venuti a manifestare il loro sostegno a 910 operai della Hindusthan Lever in lotta contro la soppressione di posti di lavoro.
Una maturazione internazionale delle lotte portatrici d’avvenire
Queste lotte confermano pienamente una svolta ed una maturazione, una politicizzazione nella lotta di classe che si è delineata con le lotte del 2003 contro la “riforma” delle pensioni, in particolare in Francia ed in Austria. La classe operaia aveva già manifestato chiaramente delle reazioni di solidarietà operaia che noi abbiamo regolarmente ripercosso nella nostra stampa, in opposizione al completo black-out dei media su queste lotte. Queste reazioni si sono espresse in particolare nello sciopero alla Mercedes-Daimler-Chrysler nel luglio 2004 dove gli operai di Brema scioperarono e manifestarono a fianco dei loro compagni di Sindelfingen-Stuttgart vittime del ricatto del licenziamento in cambio della rinuncia dei loro “privilegi”, quando la direzione dell’impresa si proponeva di trasferire 6.000 posti di lavoro dalla regione di Stoccarda verso il polo di Brema.
Stessa cosa con gli addetti ai bagagli e gli impiegati della British Airways all’aeroporto di Heatrhow che, nell’agosto 2005, nei giorni che hanno seguito gli attentati di Londra ed in piena campagna anti-terrorista della borghesia, si sono messi spontaneamente in sciopero per sostenere i 670 operai pakistani dell’impresa di ristorazione Gate-Gourmet minacciati di licenziamento.
Altri esempi: lo sciopero di 18.000 operai della Boeing per tre settimane nel settembre 2005 dove i lavoratori, rifiutando la nuova convenzione proposta dalla direzione per abbassare l’ammontare delle pensioni e dei rimborsi sanitari, si opponevano alla discriminazione delle misure tra i giovani ed i vecchi operai e tra le diverse fabbriche. Più esplicitamente ancora, al momento dello sciopero nella metropolitana ed i trasporti pubblici a New York nel dicembre scorso, alla vigilia di Natale, e quando l’attacco sulle pensioni toccava esplicitamente solo i futuri assunti, gli operai hanno dimostrato la loro capacità di rifiutare una tale misura di divisione. Lo sciopero ha avuto un ampio seguito, malgrado la pressione dei media, perché la maggior parte dei proletari avevano la piena coscienza di battersi per l’avvenire dei loro figli , per le generazioni a venire (il che smentisce clamorosamente la propaganda su di un proletariato americano integrato o inesistente e quando tradizionalmente i proletari negli Stati Uniti non vengono considerai come l’avanguardia del movimento operaio). Nello scorso dicembre alle fabbriche SEAT della regione di Barcellona gli operai si sono opposti ai sindacati che avevano firmato sulle loro spalle degli accordi vergognosi permettendo il licenziamento di 600 lavoratori.
In Argentina durante l’estate scorsa, la più grande ondata di scioperi da 15 anni a questa parte ha toccato principalmente gli ospedali ed i servizi della sanità, il settore alimentare, gli impiegati della metropolitana di Buenos Aires, i lavoratori dell’amministrazione comunale di varie province, i maestri delle scuole elementari. A varie riprese gli operi di settori diversi si sono uniti alle manifestazioni a sostegno degli scioperanti. In particolare i lavoratori del settore petrolifero, gli impiegati del settore giudiziario, gli insegnanti, i disoccupati hanno raggiunto nella lotta i loro compagni impiegati nell’amministrazione comunale di Caleta Olivia. A Neuquen i lavoratori del settore della sanità si sono uniti alla manifestazione dei maestri in sciopero. In un ospedale per bambini i lavoratori in lotta hanno preteso lo stesso aumento salariale per tutte le categorie professionali. Gli operai sono stati confrontati ad una repressione feroce e a delle vere e proprie campagne di denigrazione da parte dei media.
Non si tratta ancora di lotte di massa, ma sicuramente di manifestazioni significative di un cambiamento nello stato d’animo della classe operaia. Lo sviluppo di un sentimento di solidarietà di fronte ad attacchi molto pesanti e frontali, conseguenza dell’accelerazione della crisi economica e dell’empasse del capitalismo, tende ad affermarsi nella lotta al di là delle barriere che impongono dappertutto le differenti borghesie nazionali: la corporazione, la fabbrica, l’impresa, il settore, la nazionalità. Allo stesso tempo, la classe operaia è spinta a prendere in carico in prima persona le proprie lotte e ad affermarsi come tale, a prendere poco a poco fiducia nelle sue proprie forze. E’ anche portata a confrontarsi alle manovre della borghesia ed al sabotaggio dei sindacati per isolare ed intrappolare gli operai. In questo lungo e difficile processo di maturazione, la presenza di giovani generazioni di operai combattivi che non hanno subito l’impatto ideologico del riflusso della lotta di classe del “dopo 1989”, costituisce un importante fermento dinamico. Per questo le lotte attuali, nonostante tutti i loro limiti e le loro debolezze, costituiscono un incoraggiamento e sono portatrici di un avvenire per lo sviluppo della lotta di classe.
Wim, 24 mars 2006
La lotta dei metallurgici è stata di massa e si è organizzata in assemblee generali pubbliche tenute nella strada, assemblee che i lavoratori avevano deciso di aprire a tutti quelli che volevano dare la loro opinione, sostenere lo sciopero, porre delle questioni o formulare delle rivendicazioni. Sono state organizzate delle manifestazioni di massa nel centro della città. Più di diecimila lavoratori si sono riuniti quotidianamente per organizzare la lotta, decidere sulle azioni da intraprendere, decidere verso quali fabbriche bisognava dirigersi per cercare la solidarietà degli altri operai, ascoltare le rare informazioni diffuse sullo sciopero, dar vita a delle discussioni con la popolazione nelle strade, ecc. E’ estremamente significativo che gli operai di Vigo abbiamo utilizzato gli stessi strumenti di lotta degli studenti in Francia durante gli ultimi avvenimenti. Le assemblee erano aperte agli altri lavoratori, occupati, disoccupati o pensionati. Le assemblee, in Francia come qui, sono state il polmone del movimento. E’ anche significativo che oggi, nel 2006, gli operai di Vigo riprendono gli strumenti di cui si erano dotati durante il grande sciopero del 1972: tenuta quotidiana di grandi assemblee generali che riuniscono gli operaia dell’intera città. La classe operaia è una classe internazionale e storica, queste sono le due caratteristiche da cui trae la sua forza.
La forza della solidarietà
Sin dall’inizio del movimento, gli operai in lotta hanno cercato la solidarietà degli altri lavoratori, in particolare di quelli delle grandi imprese della metallurgia che beneficiano di convenzioni particolari e che, per questo, non sarebbero “toccati”. Hanno inviato delle delegazioni di massa ai cantieri navali, alla Citroën e alle altre fabbriche più importanti. I cantieri navali si sono unanimemente messi in sciopero di solidarietà dal 4 maggio. Dal punto di vista egoista e freddo dell’ideologia della classe dominante, secondo cui ognuno deve interessarsi solo alle sue cose, questa azione non può che apparire come una “follia” ma, per la classe operaia, questa azione è la migliore risposta sia di fronte alla situazione immediata che per preparare il futuro. Nell’immediato, perché qualunque settore della classe operaia non può acquistare forza se non appoggiandosi sulla lotta di altri settori. Per preparare il futuro, perché la società che il proletariato aspira a instaurare e che permetterà all’umanità di uscire dall’impasse del capitalismo, trova i suoi fondamenti nella solidarietà, nella comunità umana mondiale. Il 5 maggio, circa 15.000 operai della metallurgia hanno circondato la più grande fabbrica della città, la Citroën che raggruppa 4500 operai, invitandoli a tenere un’assemblea fuori ai cancelli dello stabilimento ed a partecipare alla discussione per tentare di convincerli a unirsi nello sciopero. Ma questi erano divisi, alcuni erano pronti a entrare in sciopero mentre altri volevano lavorare. Mentre la discussione si sviluppava, dei gruppi di sindacalisti hanno cominciato a buttare delle uova ed altri alimenti sugli operai della Citroën, facendo pendere la bilancia a favore della non partecipazione allo sciopero. Alla fine questi hanno ripreso il lavoro tutti assieme. Ma il seme gettato quel giorno dalla delegazione di massa dei lavoratori ha cominciato a portare i suoi frutti: il martedì 9 cominciano dei piccoli scioperi sia alla Citroën che in altre grandi imprese. La solidarietà e l’estensione della lotta sono stati i punti forti anche del movimento degli studenti in Francia. Di fatto, il governo francese ha ritirato il CPE quando un sentimento spontaneo di solidarietà con gli studenti ha cominciato a svilupparsi nelle grandi imprese, in particolare alla Snecma e alla Citroën,. La solidarietà e l’estensione della lotta caratterizzarono fortemente lo sciopero generale di Vigo nel 1972, sciopero che fece ritirare il pugno di ferro della dittatura franchista. In questo si può vedere la forza internazionale e storica della classe operaia.
La repressione, arma della borghesia
L’8 maggio circa 10.000 operai che, dopo un’assemblea generale pubblica, si dirigevano alla stazione ferroviaria con l’intenzione di informare i viaggiatori sui motivi della lotta, sono stati attaccati da tutte le parti dalla polizia con una violenza inaudita. Le cariche della polizia sono state estremamente violente, gli operai dispersi in piccoli gruppi sono stati inseguiti senza tregua dalle forze dell’ordine. Vi sono stati numerosi feriti e tredici arresti. A partire da questo momento il black-out di televisione e giornali spagnoli è stato interrotto per riportare unicamente la violenza degli scontri tra gli operai e la polizia. Questa repressione la dice lunga sulla “democrazia” e i suoi bei discorsi sulla “negoziazione”, la “libertà di manifestare” e la “rappresentanza di tutti i cittadini”. Quando gli operai lottano sul loro terreno di classe, il capitale non esita un secondo a scatenare la repressione. Ed è là che si può vedere la vera natura di questo cinico campione del “dialogo” che è Zapatero, socialista e capo del governo. C’è di che temere: il suo ultimo predecessore socialista, Gonzalez, è stato già il responsabile della morte di un operaio in occasione della lotta dei cantieri navali di Gijon (1984) e di un altro a Reinosa in occasione delle lotte del 1987. Entrambi sono nella tradizione di un altro illustre borghese, il grande repubblicano di sinistra Azaña, che nel 1933 diede l’ordine di “tirare al ventre” in occasione del massacro dei lavoratori giornalieri a Casas Viejas. La violenta spedizione punitiva della stazione ferroviaria ha tuttavia un obiettivo politico: rinchiudere gli operai in lotte stancanti contro le forze di repressione, spingerli ad abbandonare le azioni di massa (manifestazioni e assemblee generali) a profitto della dispersione negli scontri contro la polizia. Lo scopo è chiaramente di piegarli in battaglie perdute in partenza che faranno perdere loro il capitale di simpatia accumulato da parte di altri lavoratori. Il governo francese ha tentato la stessa manovra contro il movimento degli studenti: "La profondità del movimento degli studenti si esprime anche nella sua capacità a non cadere nella trappola della violenza che la borghesia gli ha teso a più riprese, finanche utilizzando e manipolando i ‘casseur’: vedi l’occupazione da parte della polizia della Sorbona, trappola alla fine della manifestazione del 16 marzo, le cariche della polizia alla fine di quella del 18 marzo, le violenze dei "casseur" contro gli stessi manifestanti del 23 marzo. Anche se una piccola minoranza di studenti, in particolare quelli influenzati da ideologie anarchicheggianti, si sono lasciati tentare dagli scontri con le forze di polizia, la grande maggioranza di essi ha avuto a cuore di non lasciare distruggere il movimento in scontri a ripetizione con le forze di repressione”. (“Tesi sul movimento degli studenti della primavera 2006 in Francia”, pubblicate su www.it.internationalism.org [96]). Gli operai si sono dunque mobilitati in massa per esigere la liberazione degli operai arrestati, con una manifestazione che ha raccolto circa 10.000 di loro il 9 maggio e che ha vinto. E’ significativo il fatto che i mass-media (i giornali El País, El Mundo, la televisione…) che fino a quel momento avevano mantenuto un silenzio totale sul movimento delle assemblee, le manifestazioni di massa e la solidarietà, abbiano all’improvviso ingigantito gli scontri dell’8 maggio. Il messaggio che vogliono far passare è chiaro: “Se ti vuoi fare notare e vuoi che ti si presti attenzione, organizza delle azioni violente!” Infatti la borghesia è la prima beneficiaria dello sfinimento degli operai in degli scontri sterili.
Gli indugi e le manovre dei sindacati
Da molto tempo i sindacati hanno cessato di essere l’arma dei lavoratori per diventare lo scudo del capitale, come è stato dimostrato dalla loro partecipazione a tutti i negoziati per le riforme del lavoro nel 1988, 1992, 94, 97 e 2006, che hanno fatto di tutto per sviluppare la precarietà e i “contratti-pattumiera”. I tre sindacati (Commissioni operaie, UGT e CIG (2) ) hanno partecipato allo sciopero per sabotarlo dall’interno e riprenderne il controllo. Ciò è dimostrato dal fatto che si sono opposti, senza successo, all’invio di delegazioni di massa nelle altre aziende, “offrendo” in cambio la proclamazione di uno sciopero generale della metallurgia per l’11 di maggio. Gli operai non hanno atteso e hanno rifiutato di aspettare il giorno “x” del sindacato. Hanno invece messo in pratica il metodo autenticamente proletario: l’invio di delegazioni di massa, il contatto diretto con gli altri operai, l’azione collettiva e di massa. Ma il 10 maggio, dopo 20 ore di negoziazioni, i sindacati hanno firmato un accordo che, pur se ben camuffato, contiene un colpo basso in quanto elimina le rivendicazioni essenziali degli operai in cambio di qualche minutaglia e, naturalmente, si sono affrettati ad annullare l’appello allo sciopero generale del settore per l’indomani. Una gran parte dei lavoratori ha immediatamente manifestato la sua indignazione e il voto rispetto alla firma di questo accordo è stato spostato all’11 maggio. Bisogna tirare una lezione da questa manovra antisciopero. Non si possono lasciare le negoziazioni nelle mani dei sindacati, esse devono essere totalmente gestite dalle assemblee generali. Queste devono nominare una commissione di negoziazione che renda conto quotidianamente dell’avanzare delle discussioni. È ciò che si faceva negli anni ’70 e che noi dobbiamo riprendere se vogliamo evitare d’essere abbindolati da questi venduti.
Le prospettive per la lotta
CCI, 10 maggio 2006
(presa di posizione sul web della nostra sezione in Spagna)
1. La CNT, il più “radicale” dei sindacati, ha mantenuto un silenzio incredibile su questa lotta fino all’8 maggio.
2. CIG: Confederazione Intersindacale di Galizia. Sindacato nazionalista radicale che ha giocato un ruolo molto “combattivo” in contrapposizione alla "moderazione" mostrata dagli altri due.
La pretesa “Frazione Interna della CCI” (FICCI) è un piccolissimo gruppuscolo composti di ex-membri della CCI esclusi al nostro 15° Congresso internazionale per delazione. Questa non è la sola infamia di cui questi elementi si sono resi responsabili poiché, rinnegando i principi fondamentali del comportamento comunista, si sono egualmente distinti per i loro comportamenti tipici da canaglia, quali la calunnia, il ricatto e il furto. Per questi altri comportamenti, benché molto gravi, la CCI non aveva deciso la loro esclusione, ma una semplice sospensione. Cioè era ancora possibile per questi elementi ritornare nell’organizzazione evidentemente alla condizione che restituissero il materiale e il denaro che le avevano rubato e che si impegnassero a rinunciare a comportamenti che non hanno posto in una organizzazione comunista. Se la CCI ha deciso alla fine di escluderli è perché questi hanno pubblicato sul loro sito Internet (cioè sotto gli occhi di tutta la polizia del mondo) delle informazioni interne che facilitano il lavoro della polizia:
· la data in cui si doveva tenere la conferenza (interna) della nostra sezione in Messico;
· le vere iniziali di uno dei nostri compagni da loro presentato come “il capo della CCI”, con la precisazione che lui era l’autore di questo o quel testo, tenuto conto del “suo stile” (il che è una indicazione interessante per i servizi di polizia) (1).
Bisogna precisare che prima di procedere alla loro esclusione, la CCI aveva indirizzato una lettera individuale ad ognuno dei membri della FICCI in cui gli si chiedeva se lui solidarizzava individualmente con queste delazioni. Lettera alla quale la FICCI ha alla fine risposto rivendicando collettivamente questi comportamenti infami. Bisogna precisare anche che era stata data ad ognuno di questi elementi la possibilità di presentare la propria difesa davanti al Congresso della CCI o ancora davanti ad una commissione di 5 membri della nostra organizzazione di cui 3 potevano essere designati dagli stessi membri della FICCI. Questi coraggiosi individui, coscienti che i loro comportamenti erano indifendibili, hanno rigettato queste ultime proposte della CCI. La FICCI si presenta come “il vero continuatore della CCI” la quale avrebbe conosciuto una degenerazione “opportunista” e “stalinista”. Dichiara di proseguire il lavoro, abbandonato dalla CCI, di difesa nella classe operaia delle “vere posizioni di questa organizzazione”. In fatto di difesa delle posizioni comuniste nella classe operaia, la sua attività consiste essenzialmente nella pubblicazione sul suo sito Internet di un “Bullettin Comuniste” (Bollettino Comunista), che viene inviato agli abbonati della nostra pubblicazione in Francia di cui i membri della FICCI hanno rubato il dossier degli indirizzi ben prima di abbandonare la nostra organizzazione. In più, ogni dispensa di questo “Bulletin” è consacrata in buona parte a calunnie, vedi pettegolezzi da portinaia, contro la nostra organizzazione. Ogni tanto le capita di diffondere un volantino rispetto a degli avvenimenti importanti come i moti nelle periferie dell’autunno 2005 o le recenti mobilitazioni degli studenti sul CPE. In realtà anche questo tipo di intervento è considerato secondario dalla FICCI rispetto alla sua principale preoccupazione: spargere il massimo di calunnie contro la CCI sulla base del principio “Calunnia e calunnia qualcosa sempre resterà!”.
La miglior prova di questo ci è stata data dal comunicato che essa ha pubblicato l’11 marzo sul suo sito Internet, intitolato: “Comunicato della ‘Frazione Interna della CCI’ a tutti i gruppi e militanti che si rivendicano alla Sinistra comunista: questa volta ci siamo! Hanno aggredito fisicamente e picchiato dei nostri militanti!”. In materia di intervento nella lotta contro il CPE, abbiamo dovuto aspettare il 18 marzo perché la FICCI si degnasse di fare qualche cosa sotto forma di un volantino che ha diffuso alla manifestazione quel giorno. Prima di allora, neanche una minima presa di posizione, neanche sul suo sito Internet. Visibilmente su questo argomento la FICCI è stata male ispirata poiché il documento che alla fine ha pubblicato era una sorta di “montaggio” dei due volantini che noi avevamo già diffuso e messo sul nostro sito Internet. A quella data avevamo anche già tenuto una riunione pubblica a Parigi sul tema: “Mobilitazione degli studenti contro il CPE: studenti, liceali, futuri disoccupati e futuri precari, operai occupati e senza lavoro, una stessa lotta contro il capitalismo!”. Ed è giustamente in seguito a questa riunione pubblica ed a suo proposito che la FICCI si è svegliata per gratificarci della sua prosa. Cosa possiamo leggere in questo “Comunicato”?
“Perché la nostra prima responsabilità di Frazione è di combattere, con tutti i mezzi, la deriva opportunista nella quale si trova la nostra organizzazione, noi abbiamo inviato, questo sabato 11 marzo, 2 dei nostri militanti alla sua ultima riunione ‘pubblica’. (…) La compagna ed il compagno che avevano come compito di distribuire un volantino all’entrata della ‘riunione’, sono stati ricevuti da una dozzina di energumeni, che formavano una vera milizia alla stalinista. I nostri compagni sono stati agguantati violentemente, colpiti a più riprese e ricondotti manu militari fino al metrò, 150 metri più in là. Precisiamo bene che queste aggressioni hanno avuto luogo, ancora una volta, nella strada e che, da parte nostra, non abbiamo mai cercato di rispondere fisicamente alla provocazione che ci era imposta, tranne che per limitarne la brutalità. Nonostante ciò, gli energumeni (che pretendono ancora di essere dei militanti comunisti), completamente eccitati, hanno continuato a picchiare i nostri compagni (ricordiamo che uno dei due è una donna) sotto gli occhi attoniti dei passanti, numerosi a quell’ora in via Choisy a Parigi.
Questa dichiarazione non ha nulla a che vedere con la realtà. Effettivamente, e spiegheremo dopo perché, una equipe della CCI (che era ben lungi dal raggiungere la dozzina ed il cui fisico non ha niente a che vedere con la descrizione atletica che ne da la FICCI) ha ricondotto fino al metrò i due individui della FICCI che si erano presentati davanti l’entrata della nostra riunione pubblica. Ma in nessun momento i nostri compagni hanno “colpito a più riprese” e ancor meno “continuato a picchiare” questi individui. In questo senso possiamo rassicurare la persona che si firma "Bm" e che ha mandato un messaggio alla FICCI dichiarando "La prima cosa è sapere se non siete feriti e se avete bisogno di un qualsiasi aiuto” (“Bulletin Comuniste” n°35). Se gli elementi della FICCI hanno esibito delle tumefazioni o dei lividi, questi non sono stati fatti dai militanti della CCI. In realtà, la “ricacciata al metrò” dei membri della FICCI praticata da noi l’11 marzo fa seguito alla politica che noi conduciamo dall’estate 2003 e spiegata esplicitamente nel nostro articolo “Le riunioni pubbliche della CCI interdette ai delatori” (Revolution Internazionale n°338).
In questo articolo scrivevamo:
“La CCI ha preso la decisione di interdire la presenza alle sue riunioni pubbliche ed alle sue permanenze ai membri della pretesa “Frazione Interna” della CCI (FICCI). Questa decisione fa seguito all’esclusione di questi membri della FICCI operata al 15° Congresso, nella primavera del 2003, e deriva dai motivi di questa esclusione: l’adozione da parte di questi elementi di una politica di delazione contro la nostra organizzazione. (…) Perché le cose siano ben chiare: non è in sé, perché questi elementi sono stati esclusi dalla CCI, che essi non possono partecipare alle sue riunioni pubbliche . Se la CCI fosse stata portata ad escludere uno dei suoi membri a causa, per esempio, di un modo di vita incompatibile con l’appartenenza ad una organizzazione comunista (come la tossicodipendenza), ciò non gli impedirebbe in seguito di venire alle sue riunioni pubbliche. È perché questi elementi hanno deciso di comportarsi come degli spioni che noi non possiamo tollerare la loro presenza a queste. Questa decisione si applica ad ogni individuo che si consacra a rendere pubbliche delle informazioni che possono facilitare il lavoro delle forze di repressione dello stato borghese (…). A vedere i suoi bollettini, i pettegolezzi e le delazioni sulla CCI e sui suoi militanti sono le principali attività della ‘Frazione’:
· nel n°18 troviamo un rapporto dettagliato su un riunione pubblica del PCI-Le Proletarie, sono riportati in dettaglio tutti i fatti ed i movimenti di ‘Peter alias C.G.’;
· nel n°19 si ritorna alla carica su Peter ‘che diffonde solo’ in questa o quella manifestazione e si solleva una questione ‘altamente politica’: “Infine, e voi comprenderete che poniamo anche questa questione: dov’è Louise? Assente dalle manifestazioni, assente dalle riunioni pubbliche, è di nuovo malata?”
Nei fatti, la principale preoccupazione dei membri della FICCI quando partecipano alle manifestazioni e alle riunioni pubbliche della CCI è sapere CHI è assente, CHI è presente, CHI fa questo e CHI dice quello, al fine di poter in seguito riportare pubblicamente tutti i fatti ed i movimenti dei suoi militanti. Questo è un lavoro degno degli agenti dei Servizi di Informazione! (2). Non possiamo impedire ai membri della FICCI di attraversare in lungo ed in largo le manifestazioni di piazza per sorvegliarci. Per contro possiamo impedirgli di fare il loro sporco lavoro da sbirro nelle nostre riunioni pubbliche. In queste non hanno più la possibilità di esprimersi dopo che abbiamo preteso come condizione alla loro presa di parola di restituire prima il denaro rubato alla CCI. La sola ragione che motiva la loro presenza è la sorveglianza di tipo poliziesco e l’adescamento di elementi interessati alle nostre posizioni.”
Nonostante l’interdizione ai membri della FICCI alla sala delle nostre riunioni pubbliche, abbiamo permesso per più di due anni che questi individui fossero presenti davanti il portone di entrata del luogo dove si tengono, il che gli ha permesso di tentare di dissuadere i nostri contatti e simpatizzanti dal parteciparvi denigrando sistematicamente la nostra organizzazione nei volantini zeppi di calunnie e dicendo loro “diffidate, sono degli stalinisti”. Allo stesso tempo abbiamo sopportato i sarcasmi, gli insulti e le provocazioni che non mancavano di indirizzare ai nostri compagni che facevano parte del “picchetto anti-spione”.
Là dove abbiamo incominciato a reagire con più fermezza è stato quando uno dei membri della FICCI, quello che si fa chiamare “Pédoncule”, ha minacciato di morte un nostro compagno promettendogli di “tagliargli la gola” (3). Abbiamo allora deciso di vietare a questo elemento di avvicinarsi al luogo delle nostre riunioni pubbliche, spiegando che l’interdizione non riguardava gli altri membri della FICCI. Episodio che la FICCI ha riportato a modo suo nel Bollettino n°33 (Applicazione dello stato d’allerta contro la nostra frazione, La CCI ci vieta la strada e vuole importi il coprifuoco!”) facendo credere che a TUTTI i membri della FICCI fosse interdetto stazionare davanti al luogo delle riunioni, cosa che all’epoca era assolutamente falso, e la FICCI lo sapeva bene.
Se alla fine abbiamo deciso di mettere effettivamente in pratica una tale attitudine è per le seguenti ragioni:
· in seguito alla pubblicazione del nostro articolo sui comportamenti del signor Pédoncule, non c’è stata la benché minima critica nei bollettini della FICCI delle minacce di morte fatte da questo; al contrario, un testo pubblicato in risposta al nostro articolo solidarizza pienamente con questo individuo;
· è in maniera totalmente falsa che la FICCI ha riportato l’interdizione fatta a Pédoncule di avvicinarsi alle nostre riunioni pubbliche;
· ma soprattutto, in seguito al nostro intervento nel movimento degli studenti contro il CPE, ci aspettiamo la venuta di nuovi elementi alla nostra riunione pubblica dell'11 marzo dedicata proprio a questa mobilitazione (ciò che effettivamente è avvenuto a Parigi ed in altre città), e non vogliamo che la FICCI abbia l’occasione di continuare, davanti e rispetto a questi nuovi elementi, la politica che essa ha condotto per anni: calunnie, provocazioni e soprattutto comportamenti polizieschi.
In effetti, i simpatizzanti che già venivano alle nostre riunioni pubbliche erano conosciuti da tempo dai membri della FICCI. In questo senso, il lavoro parassitario e da sbirri, in cui quest’ultima si è specializzata, non poteva applicarsi a loro. Invece, non possiamo tollerare che nuovi elementi che si interessano alla politica comunista siano immediatamente “schedati” dalla FICCI. Nella misura in cui l'arrivo di questi nuovi elementi si conferma e tenderà probabilmente ad aumentare nel futuro, la CCI ha dunque deciso di interdire d’ora in poi ai membri della FICCI, non solo l'accesso nostre riunioni pubbliche, ma anche di gironzolarvi nei pressi. Questa decisione, come l’abbiamo già detto nella nostra stampa a proposito di altre misure che siamo stati portati a prendere contro la FICCI o i suoi membri, non ha niente a che vedere con un “rifiuto del dibattito politico”, come ci accusa la FICCI. Così come non è affatto in contraddizione, come lei pretende, con il principio che abbiamo sempre difeso di rigettare la violenza all’interno della classe operaia. Nel 1981, con l’accordo e la partecipazione di alcuni membri attuali della FICCI, abbiamo recupera manu militari il materiale che l’individuo Chénier ed elementi della sua “tendenza” avevano rubato alla nostra organizzazione, nella misura in cui il loro atteggiamento da ladri li aveva mesi al di fuori del campo proletario. Per molti versi i comportamenti dei membri della FICCI hanno superato in infamia quelli degli “amici di Chénier”. È la stessa politica che noi adottiamo. Quanto alle testimonianze di “solidarietà” ricevute dalla FICCI e pubblicate nel suo Bollettino n°35 nella rubrica “La sana risposta del campo proletario”, esse manifestano (se non sono dei falsi) sia l’ignoranza, sia la volontà di non voler riconoscere la realtà dei comportamenti da canaglia e da delatore della FICCI, sia l’odio che la politica comunista della CCI necessariamente provoca in degli elementi della piccola-borghesia o del sottoproletariato. In ogni caso, tra queste testimonianze di “solidarietà” verso la FICCI, ce n’è una che noi abbiamo ricevuto e che la FICCI si è ben guardata dal pubblicare: prendendone conoscenza sul nostro sito, ognuno potrà capire perché.
CCI, 18/05/06
1. Vedi in particolare a questo proposito i nostri articoli “15° Congresso della CCI: rafforzare l’organizzazione di fronte alla posta in gioco del periodo” in Rivoluzione Internazionale n°131 e “I metodi polizieschi della FICCI in Rivoluzione Internazionale n°130
2. Organismo della polizia di Stato con l’incarico di ricercare informazioni di ordine politico e sociale su scala nazionale.
3. Vedi il nostro articolo “Difesa dell’organizzazione: minacce di morte contro i militanti della CCI” in Rivoluzione Internazionale n°140 [97]
In Francia, lo sciopero massivo dei giovani studenti e dei lavoratori – della nuova generazione della classe operaia – ha forzato il governo a ritirare la nuova legge sull’“impiego”, il CPE. L’organizzazione della lotta attraverso le assemblee generali, la capacità degli studenti di discutere collettivamente e di evitare molte delle trappole messe dalla classe dominante, la loro comprensione della necessità per il movimento di allargarsi ai salariati, tutti questi sono segni del fatto che stiamo entrando in un nuovo periodo di scontro tra le classi.
Ciò viene mostrato non solo dal movimento in Francia, ma anche dal fatto che questo è stato solo uno di una lunga serie di movimenti della classe operaia contro i crescenti assalti del capitalismo ai suoi livelli di vita. In Gran Bretagna, lo sciopero convocato dai sindacati locali il 28 marzo è stato seguito da oltre un milione e mezzo di lavoratori, preoccupati a resistere ai nuovi attacchi alle loro pensioni. In Germania, decine di migliaia di impiegati statali e di operai di fabbrica sono stati coinvolti in scioperi contro tagli salariali e aumenti dell’orario lavorativo. In Spagna gli operai della SEAT sono scesi spontaneamente in sciopero contro il saccheggio concordato tra padroni e sindacati. Sempre in Spagna, a Vigo, all’inizio di maggio 23.000 lavoratori del settore metallurgico, in gran parte giovani operai, sono scesi in lotta contro la nuova riforma del lavoro che prevede l’abbassamento dell’indennità di licenziamento e l’estensione dei contratti precari. Negli USA, anche i lavoratori della rete di trasporti di New York e quelli della Boeing sono scesi in sciopero in difesa delle loro pensioni. Nell’estate del 2005 l’Argentina è stata scossa dalla più grande ondata di scioperi degli ultimi 15 anni. In India, Messico, Sud Africa, Dubai, Cina e Vietnam, la classe operaia sta mostrando con le sue azioni che, contrariamente a tutta la propaganda dei nostri sfruttatori, non è per niente scomparsa dalla scena sociale. Al contrario, essa rimane la classe che mantiene gli ingranaggi della produzione capitalista in funzione e che crea l’immensa mole di ricchezza sociale. Questi movimenti stanno diventando sempre più estesi, più simultanei e più determinati.
Un tema centrale in pressoché tutti questi movimenti è stato quel vecchio principio proletario della solidarietà. L’abbiamo visto in Francia non solo nell’esemplare maniera in cui studenti di università diverse si sono sostenuti gli uni con gli altri, ma anche nella mobilitazione attiva di un numero crescente di salariati nel movimento, e nell’unità tra diverse generazioni. Lo abbiamo visto in Spagna alla SEAT quando i lavoratori sono scesi in sciopero in difesa dei compagni licenziati ed a Vigo con la partecipazione di proletari di altri settori alle assemblee generali tenute per le strade dagli operai in sciopero. Lo abbiamo visto a Belfast quando i lavoratori delle poste, in sciopero nonostante l’avviso contrario del loro sindacato, hanno apertamente cancellato la divisione settaria marciando assieme attraverso sia le zone cattoliche che quelle protestanti della città. Lo abbiamo visto a New York dove i lavoratori della Transit hanno spiegato che loro non stavano lottando per sé stessi ma per la futura generazione di lavoratori. In India, i lavoratori in sciopero alla Honda di Delhi sono stati raggiunti da masse di lavoratori di altre fabbriche, soprattutto dopo gli scontri con le forse di repressione.
Il principio della solidarietà – e la crescente volontà di difenderla nell’azione – è un elemento centrale della vera natura della classe operaia. Questa infatti è una classe che può difendere i suoi interessi solo se agisce in maniera collettiva, estendendo le sue lotte il più possibile, superando tutte le divisioni imposte dalla società capitalista: divisioni in nazioni, razze, religioni, professioni e sindacati. La ricerca della solidarietà contiene perciò i germi dei movimenti sociali di massa che hanno la capacità di paralizzare l’attività del sistema capitalista. Abbiamo avuto un certo sentore di ciò in Francia questa primavera. Stiamo ancora all’inizio, ma l’attuale risorgere delle lotte operaie sta preparando la strada per gli scioperi di massa del futuro.
E al di là dello sciopero di massa c’è la prospettiva non solo di fermare il capitalismo, ma anche di riorganizzare da cima a fondo la produzione, di creare una società in cui la solidarietà sociale sia la norma, non un principio di opposizione all’ordine esistente, fondato sulla spietata competizione tra esseri umani.
Questa prospettiva è contenuta nelle attuali lotte della classe operaia. Non si tratta semplicemente di una speranza per un futuro migliore, ma di una necessità imposta dalla bancarotta del sistema sociale capitalista. I recenti movimenti di classe sono stati provocati da continui e sempre più forti attacchi contro le condizioni di vita dei lavoratori – sui salari, sugli orari, sulle pensioni, sulla sicurezza sul lavoro. Ma questi attacchi non sono qualcosa di cui la classe dominante e il suo Stato possono fare a meno portando avanti una politica alternativa. Essi sono infatti obbligati a peggiorare le condizioni di vita della classe operaia perché non hanno scelta, perché non possono sfuggire alla pressione della crisi economica del capitalismo e all’implacabile guerra per la sopravvivenza sul mercato mondiale. Ciò vale per qualunque partito politico sia al potere, per qualunque gruppo di burocrati gestisca lo Stato.
La borghesia non ha d’altra parte alcuna alternative di fronte al crollo dell’economia che la spinge verso il militarismo e la guerra. La generalizzazione della guerra a tutto il pianeta – che si manifesta attualmente particolarmente attraverso la “guerra al terrorismo” e la minaccia di aprire un nuovo fronte militare contro l’Iran – esprime l’inesorabile deriva del capitalismo verso la distruzione dell’umanità.
La classe degli sfruttatori e la classe dei salariati non hanno nulla in comune. Loro non hanno altra scelta che cercare di sfruttarci sempre di più. Noi non abbiamo altra scelta che resistere. Ed è resistendo che scopriremo la fiducia e la forza di avanzare la prospettiva dell’abolizione dello sfruttamento una volta per tutte.
WR
“Finalmente abbiamo cacciato Berlusconi!”, hanno gridato in tanti una volta accertatisi che il risultato delle elezioni politiche dell’aprile scorso si fosse definitivamente consolidato, esprimendo un risicato vantaggio per il centro-sinistra. Effettivamente quello di Berlusconi è stato uno dei peggiori governi della Repubblica italiana. Perseguendo una politica fortemente partigiana a favore di alcune famiglie di imprenditori, questo governo ha finito per scontentare la stessa borghesia – vedi lo scontro pre-elettorale del presidente del Consiglio al convegno di Vicenza con la Confindustria - lasciando peraltro una pesantissima eredità sul piano finanziario. Ma allora come ha fatto per andare al potere? Una spiegazione si trova sicuramente nell’appoggio che la borghesia americana ha concesso incondizionatamente a qualunque governo italiano si mostrasse obbediente e in riga, come ha saputo fare Berlusconi per tutto il suo mandato. E sappiamo bene quanto l’America abbia contato e conti sulla docile obbedienza italiana come punto di appoggio, tanto per fare un esempio, per le sue operazioni imperialistiche nel vicino e medio oriente (1). In questo senso il capo del governo si è fatto il punto di riferimento dell’insieme di forze che a vario titolo concorrono a mantenere un controllo degli interessi americani in Italia, tra cui la stessa mafia. Non è un caso infatti che proprio all’indomani del risultato elettorale sia stato arrestato il boss dei boss, Provenzano, latitante da oltre 40 anni e pescato a pochi passi da casa sua. L’altro elemento è la necessità - per la classe dei padroni - di cambiare ogni tanto le compagini politiche da mettere al governo, per far vedere che “cambiare si può”, che “la democrazia la vince sempre!” In particolare un governo di sinistra non può stare per troppo tempo al potere perché, nell’impossibilità di realizzare un benché minimo miglioramento reale delle condizioni materiali dei lavoratori in un periodo di crisi permanente del capitalismo, le forze di sinistra finirebbero per perdere ogni credibilità come forze schierate “a fianco dei lavoratori”.
Come dicevamo prima, questo governo ha fatto veramente del suo peggio scontentando tutti e rendendo indifferibile un cambio della guardia. Ma qui viene fuori un ulteriore elemento che comincia a pesare sulla politica italiana e internazionale e che si traduce nella difficoltà della borghesia a controllare il suo gioco elettorale. In una situazione in cui la crisi economica del capitalismo non trova nessuno sbocco a qualunque livello, si crea una empasse che si fa sentire nella vita stessa della borghesia che diventa sempre più disunita, con la conseguente difficoltà ad avere una presa sulla società. Ciò si è tradotto ad esempio nella creazione e nel comportamento del tutto anacronistico di un partito come la Lega Nord e ugualmente nell’intemperanza di un capo di governo del tutto anomalo come Berlusconi, senza che i poteri forti del paese potessero veramente farci qualcosa. Questa difficoltà della borghesia si è prodotta più recentemente nella sua incapacità ad orientare il voto delle politiche del 2006 in maniera netta verso una maggioranza di centro-sinistra, subendo anche qui la viscosità del berlusconismo e la sua voglia di rimanere aggrappato al potere. Ciò si è tradotto in un tragico risultato di quasi parità tra centro-destra e centro-sinistra, che ha consentito, solo grazie al premio di maggioranza alla camera e il “responsabile” voto dei senatori a vita, di formare un governo con un minimo di margini di manovra. Ma questa situazione, come tutti gli osservatori di politica nazionale e internazionale hanno fatto subito notare, taglia le gambe al governo Prodi e lo rende molto più debole nei confronti di centomila ricatti da parte della disunita e variegata compagine partitica di centro sinistra di cui ogni singola componente risulta ugualmente indispensabile alla maggioranza. Basti vedere già la pletorica composizione del governo, più gonfio di ministri e sottosegretari del necessario, come alcuni ministri hanno incautamente confessato, e le beccate che si sono cominciati a dare tra neoministri e ancora tra questi e i rispettivi sottosegretari. Imporre la propria leader-ship ad un governo simile non sarà per niente facile, tanto più che Prodi non ha dietro di sé la forza di un partito ma solo un carisma personale che, per quanto sia importante, non è abbastanza di questi tempi.
Se la borghesia ha trovato difficoltà a orientare nel verso giusto il risultato elettorale, non ne ha avuto invece nel rinnovare la mistificazione elettorale, ovvero l’illusione che la partecipazione al voto possa veramente cambiare qualcosa. Un anno di fatto di campagna elettorale in Italia e un continuo duello tra Berlusconi e la sinistra a chi disegnava più diabolicamente l’avversario sono valsi alla fine a invertire la tendenza che da anni portava ad una riduzione dei votanti, passando dal 75,1% del 2001 all’81,4 di quelle di aprile scorso. Inoltre le stesse schede bianche e nulle si sono ridotte da tre milioni a un solo milione. Insomma molta gente che in passato aveva espresso un voto di protesta o semplicemente era andato a votare solo per annullare, si è passato la fatidica mano sulla coscienza e, turandosi il naso, ha deciso di schierarsi.
Ma siamo proprio sicuri di non essere caduti dalla padella nella brace? Per capirlo, vediamo cosa si accinge a fare questo nuovo governo e cosa ci attende. Abbiamo parlato prima della pesante eredità lasciata dal governo Berlusconi, che si è mostrata anche più pesante del previsto. Secondo l’Istat il deficit ha raggiunto il 4,4% sul PIL ed è stato azzerato l’avanzo primario. (La Repubblica del 6 aprile 2006). La crescita del Prodotto Interno Lordo è esigua (1,3%). Giornali come il Financial Times affermano che l’Italia rischia di uscire dall’area dell’euro a causa di “circostanze economiche” che sono, sempre per il Ft, il fatto che l’Italia, a differenza di Francia e Germania, non soffre soltanto di scarsa crescita e alta disoccupazione, ma pure di un costo del lavoro del 20% superiore a quello tedesco e una competitività ai più bassi livelli del continente” (La Repubblica del 18 aprile 2006). Rodrigo Rato, direttore generale del Fondo Monetario Internazionale, dichiara ancora (La Repubblica del 21 aprile 2006) che “non possiamo nascondere che le prospettive a medio termine dell’Italia sono problematiche; se non si agisce subito peggioreranno”. Su questa ultima affermazione sono praticamente d’accordo tutti: bisogna agire e in fretta, altrimenti … Appunto. Ma che significa agire in questo caso? Che il governo Prodi deve ricorrere ad una manovra finanziaria straordinaria - si parla di 30 miliardi di euro – che non è certo roba da poco. Se poi qualcuno si lamenterà, potrà sempre essere zittito con l’accusa di fare il gioco di Berlusconi e di non capire che è quest’ultimo che ha creato questo bel casino. D’altra parte i numeri non lasciano alcun margine di ambiguità: negli ultimi anni l’impoverimento della popolazione italiana (ma non solo italiana) è un fatto che, più che dalle statistiche ufficiali, la gente ha avvertito a fior di pelle. Il che significa che certamente i lavoratori non hanno goduto né di aumenti salariali significativi né di incrementi di aiuti sociali e assistenziali, tutt’altro. Eppure a fronte di ciò le statistiche dicono che il costo dei lavoratori è aumentato significativamente e che la competitività è scesa nei confronti della comunità europea. E’ ovvio che questo significa, per la borghesia, che bisogna agire e in fretta! Ma come pensate che agirà il nuovo governo di centro-sinistra: dandoci più soldi, più serenità, più assistenza?
C’è poi la questione della scelta imperialista. Con il governo Prodi termina la tresca con il governo americano e l’Italia torna a una politica più orientata al filoeuropeismo. Ma, al contrario della politica fin troppo servile di Berlusconi, quella di Prodi non sarà una politica di stretta osservanza filo-tedesca o decisamente anti-americana perché all’Italia, potenza di minore calibro rispetto a paesi come Francia, Gran Bretagna e Germania, è tradizionalmente più congeniale una politica con cui cercare di trarre qualche profitto da un ruolo di mediazione. Così lo schieramento imperialista dell’Italia per i prossimi anni sarà, rispetto al governo Berlusconi, meno accentuato e appariscente, ma non per questo meno imperialista e guerrafondaio. Basti solo tenere presente che al ministero degli esteri del nuovo esecutivo si trova un D’Alema che ha fatto, come capo di uno scorso governo, direttamente la guerra alla Serbia mandando i propri soldati a bombardare la povera gente di Belgrado. Tutto ciò si riflette nel fatto che il famoso ritiro delle truppe italiane dall’Iraq, nonostante le promesse della vigilia, si profila molto meno veloce di quanto non sia accaduto per la Spagna di Zapatero. Inoltre è probabile che la missione, da militare, si trasformi in un programma civile di ricostruzione – come d’altra parte l’Italia è abituata a fare, vedi la stessa presenza in Afghanistan – portando ad una riduzione drastica della presenza militare in Iraq, ma conservando sul posto una delegazione per difendervi gli interessi imperialisti nazionali.
Se tutto questo è vero, il governo Prodi riuscirà a portare avanti il suo programma solo grazie ad una grande mistificazione facendo credere, sul piano economico, che occorre tirarsi su le maniche per risanare la situazione disastrosa lasciata da Berlusconi e che su altri piani, come quello imperialista, non si tratta più di fare le guerre ma di andare sul posto a portare direttamente la solidarietà alla gente. Da questo punto di vista il grande battage orchestrato dai mass-media sul fatto che la comunità europea pretende subito un raddrizzamento nei conti pubblici italiani sembra in verità – benché naturalmente corrisponda ad una situazione obiettivamente disastrosa – più un favore fatto al nuovo governo Prodi per aiutarlo a promuovere la manovra finanziaria bis senza problemi sul piano sociale che una reale preoccupazione da parte della stessa UE. Tutto questo ha un solo grande difetto: nella misura in cui la borghesia ha dovuto impegnare anche Rifondazione Comunista – classico partito di opposizione – all’interno della maggioranza e del governo, significa che nel momento in cui il governo comincerà ad attaccare, non ci sarà uno straccio di forza di sinistra che possa fingere di fare l’opposizione parlamentare e cercare di convogliare lo scontento dei lavoratori su dei falsi obiettivi. Questa è una debolezza molto importante che potrà mettere in difficoltà la borghesia, cosa di cui questa sembra essere cosciente, tanto che ha anche cercato di porvi rimedio. Infatti, se vediamo come sono stati assegnati i ministeri ai vari partiti ci rendiamo conto che Rifondazione è stata alquanto penalizzata per aver avuto, con il suo 5,8 e 7,4% tra Camera e Senato, un solo ministero - e di quelli di scarso peso - come tutti i partiti minori che superano di poco, quando lo raggiungono, il 2%. Al tempo stesso può sembrare sovrastimato il peso di RC per l’occupazione di una delle cariche istituzionali più ambite dello Stato, quella di presidente della Camera. In realtà ciò risponde ad una logica precisa, quella di non impegnare RC in ministeri chiamati a prendere misure antipopolari, lasciandole tuttavia la responsabilità della presidenza di uno dei rami del parlamento che permetterà di poter dire che Bertinotti avrà saputo dare ai lavoratori tutte le occasioni di uso democratico delle istituzioni. Se poi si dovesse arrivare a una situazione di malcontento popolare estremo, Rifondazione potrebbe sempre ritirare dal governo quell’unico ministro (tanto che ci sia o no fa pochissima differenza) in modo da mantenere un appoggio esterno, critico beninteso.
I mesi che verranno saranno perciò particolarmente importanti dal punto di vista dello scontro sociale, con la borghesia impegnata a cercare nuove strategie di mistificazione contro la classe operaia, e quest’ultima sempre meno disponibile a farsi abbindolare. L’esperienza di lotte e di solidarietà che sta vivendo in questo momento il proletariato a livello internazionale costituirà l’humus appropriato in cui questo scontro di classe potrà arrivare ad un’appropriata maturazione.
Ezechiele, 31 maggio 2006
1. A parte la partecipazione italiana alla “seconda fase” della guerra in Iraq, basti ricordare la libertà data all’esercito americano di arrestare senza alcuna autorizzazione della magistratura, anzi, diciamo più propriamente, di rapire dal suolo italiano cittadini di altri paesi sospettati di terrorismo e ancora di usare gli aeroporti italiani come scalo per i famosi aerei-prigione
Il triplice attentato del 24 aprile a Dahab, stazione balneare egiziana molto frequentata dai turisti, che ha fatto circa 30 morti e 150 feriti, è venuto a ricordare alle popolazioni del mondo che non c’è niente al riparo dal furore terrorista e guerriera che infuria sul pianeta. E non saranno le “condanne unanimi” e le dichiarazioni ipocrite degli uomini di Stato, per i quali questo attentato “solleva sentimenti di orrore ed indignazione” o che rigettano questo atto di “violenza odiosa”, che cambieranno qualche cosa. Al contrario, questo attacco rivolto contro degli innocenti che erano venuti a passare qualche giorno di vacanza ha costituito per essi una nuova occasione, dietro le loro lacrime da coccodrillo, di riaffermare la loro “lotta contro il terrorismo”, cioè la prospettiva della continuazione di nuovi massacri, a scala ancora più ampia.
Eppure già oggi si può misurare l’efficacia di questa pretesa “lotta senza scampo” contro il “flagello terrorista”, per la “pace e la stabilità”, condotta dalle grandi potenze, Stati Uniti in testa, guardando la barbarie che è letteralmente esplosa in numerose regioni del mondo. Mai i focolai di tensioni guerriere, di scontri militari, di attentati a ripetizione, in cui le potenze grandi e meno grandi hanno una responsabilità diretta, sono stati così presenti, dall’Africa all’Asia, passando per il Medio Oriente, minacciando ogni giorno di più di guadagnare in ampiezza.
In Afganistan, la cui invasione da parte della truppe della coalizione americana era stata “legittimata” dalla lotta contro il terrorismo incarnato da Bin Laden, dopo gli attentati dell’11 settembre alle Twin Towers, c’è il marasma più totale. Il governo di Kabul è oggetto di attacchi incessanti e la capitale è regolarmente sotto il tiro di missili lanciati dalle differenti cricche pastun e afgane in lotta per il potere. Nel Sud e nell’Est del paese i talebani hanno riconquistato terreno a colpi di attentati e di blitz militari. Per questo gli Stati Uniti sono stati costretti ad improvvisare, nell’ultimo mese, una nuova operazione di polizia militare, denominata “Leone di montagna”, forte di 2.500 uomini sostenuti da un contingente di aviazione particolarmente impressionante. E’ stabilito che gli obiettivi di questa operazione sono quelli di fare distruzioni massicce equivalenti a quelle del 2001 e 2002. Tuttavia i mezzi di informazione vorrebbero mascherarne l'importanza sulla scia del Dipartimento di Stato americano che sottolinea il carattere soprattutto “psicologico” di questa nuova offensiva perché si tratterebbe innanzitutto di “impressionare i neo-talebani e fermare l’impressione che essi stiano avendo il sopravvento”, “sia agli occhi della popolazione afgana che si vuole “rassicurare”, che dell’opinione pubblica internazionale″ (Le Monde, del 13 aprile). Questo è quello che si chiama dissuasione psicologica di massa.
In Medio Oriente si annuncia lo sviluppo di una barbarie ancora più grave. Non solo gli Stati Uniti sono stati incapaci di imporre un accordo tra Israele e l’Autorità palestinese, ma la loro impotenza a moderare la politica aggressiva e provocatrice di Sharon ha portato alla crisi politica sia nei territori occupati che nella stessa Israele. Infatti le differenti frazioni politiche israeliane si scontrano senza tregua. Ma è soprattutto dal lato palestinese che il fallimento è più evidente con l'arrivo in forza di Hamas, frazione palestinese particolarmente retrograda e radicalmente anti-israeliana, ed in più contrapposta a Fatah. Così è a colpi di armi da fuoco che i due campi palestinesi regolano i loro conti nella striscia di Gaza, vero formicaio di 1.600.000 abitanti (la più grande concentrazione umana al mondo), di cui il 60% di rifugiati, progressivamente ridotti alla miseria dall’arresto dell’Aiuto internazionale e chiusi in gabbia dagli sbarramenti e dai controlli dell’esercito israeliano che impedisce alla popolazione di andare a lavorare in Israele.
La costruzione da parte dello Stato israeliano del “muro della segregazione” in Cisgiordania non può che attizzare nuove tensioni e spingere a una radicalizzazione verso il terrorismo una popolazione palestinese messa sotto pressione, disprezzata e sempre più irreggimentata dietro i gruppi islamici. Quando il muro sarà finito, 38 villaggi in cui vivono 49.400 palestinesi saranno isolati e 230.000 residenti palestinesi in Israele si ritroveranno dal lato israeliano della linea di separazione. Complessivamente questa costruzione significherà un ingabbiamento della popolazione in una serie di ghetti isolati gli uni dagli altri.
Ingaggiato dal giugno del 2003, il braccio di ferro tra l’Iran e le grandi potenze a proposito della costruzione di centrali nucleari da parte di Teheran si era particolarmente indurito la scorsa estate per raggiungere oggi un punto culminante. In effetti, con l’ultimatum lanciato da Consiglio di Sicurezza della Nazioni Unite che intima all’Iran la cessazione, prima del 28 aprile, di ogni attività di arricchimento dell’uranio e il rifiuto di questo paese di adeguarvisi, le tensioni diplomatiche si sono brutalmente esacerbate. In un contesto internazionale in cui la follia guerriera del mondo capitalista non smette di diffondersi in una regione del mondo in cui le uccisioni quotidiane impazzano, la prova di forza aperta tra lo Stato iraniano e le Nazioni Unite è piena di pericoli. Essa contiene il rischio di una nuova estensione e aggravamento della barbarie.
E’ evidente che l’Iran sta facendo il possibile per dotarsi dell’arma nucleare, e questo fin dal 2000. I discorsi dei dirigenti iraniani sull’uso esclusivamente “pacifico”e “civile” del nucleare in costruzione sono delle menzogne pure e semplici. In passato testa di ponte del blocco americano, poi relegato a rango di potenza di stampo arretrato negli anni che hanno seguito il regno di Komeini, dissanguato di vite umane e sul piano economico dalla guerra contro l’Iraq a metà degli anni ’80, questo paese ha progressivamente ripreso la veste della bestia negli anni ’90. Beneficiando dell’aiuto militare russo e dell’indebolimento dell’Iraq (il suo rivale storico per il controllo del Golfo Persico) seguito alla prima guerra del Golfo e agli attacchi ripetuti degli Stati Uniti contro Bagdad, fino all’offensiva americana definitivamente distruttrice del 2003, l’Iran vuole oggi chiaramente affermarsi come la potenza regionale con cui bisogna ora fare i conti. Le sue risorse non sono trascurabili. Ciò spiega le dichiarazioni sempre più provocatrici e sprezzanti, da parte dei governanti iraniani, contro le Nazioni Unite, e soprattutto degli Stati Uniti. Lo Stato iraniano, con il ritorno al potere della frazione più reazionaria e più islamista, si presenta come uno Stato forte e stabile, laddove intorno a lui, in Iraq come in Afganistan, è il caos che regna sovrano. Questa situazione gli permette di operare una offensiva ideologica filo-araba per accreditarsi come la punta di lancia di una identità pan-islamica “indipendente” (al contrario dell’Arabia Saudita presentata come asservita agli Stati Uniti) attraverso il suo discorso anti-israeliano e la sua opposizione aperta all’America.
L’incapacità di Washington a far regnare la pax americana in Iraq e in Afganistan non può che alimentare questa propaganda antiamericana e dare credito alle dichiarazioni iraniane che parlano di inefficacia delle minacce della Casa Bianca.
La stessa situazione in Iraq non ha potuto che rafforzare le velleità militari dell’Iran. A parte lo scacco evidente di Bush, la presenza nella popolazione e nel seno stesso del governo iracheno di una forte predominanza della confessione sciita, come nell’Iran, ha contributo a stimolare gli appetiti imperialisti iraniani eccitati dalla prospettiva di una maggiore influenza, sia in questo paese che in tutto il Golfo Persico.
Ma sono anche i dissensi patenti tra i diversi paesi partecipanti al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che favoriscono le velleità dello Stato iraniano. Infatti, benché la maggioranza di questi paesi si dichiari “contraria” alla prospettiva di un Iran dotato dell’arma nucleare, le divisioni aperte tra loro costituiscono una leva supplementare che permette a Teheran di poter alzare il tono di fronte alla prima potenza mondiale. Se gli Stati Uniti e la Gran Bretagna reagiscono agitando la minaccia di un intervento, si vede al contrario la Francia dichiararsi contro ogni intervento militare in Iran. Dal canto loro Cina e Russia, come la Germania (che sta realizzando attualmente un riservato avvicinamento alla Russia), sono decisamente contro ogni misura di ritorsione che fosse imposta all’Iran, ancor più se di natura militare. Bisogna ricordare che questi due paesi, Mosca in testa, hanno fornito materiale all’Iran per poter sviluppare il suo arsenale nucleare.
Di fronte a questa situazione, l’amministrazione Bush è in una situazione difficile. La provocazione iraniana la costringe a reagire. Tuttavia, quale che sia l’opzione militare che gli Stati Uniti siano pronti ad utilizzare, in primo luogo quella di incursioni aeree mirate (su obiettivi mal identificati e spesso situati al centro di grandi città), un intervento che non creerebbe problemi sul piano interno, questa nuova fase di guerra in Medio Oriente è in ogni caso potenzialmente capace di rinvigorire il sentimento antiguerra che si sviluppa in seno alla popolazione americana sempre più contraria alla guerra in Iraq.
Ma dovrebbe far fronte anche ad una radicalizzazione dei paesi arabi e di tutti i gruppi islamici, senza contare la possibile ondata di attentati che l’Iran ha chiaramente minacciato a più riprese.
Quale che sia l’esito della “crisi iraniana”, non si può tuttavia dubitare del fatto che essa sboccherà in un aggravamento delle tensioni guerriere tra i paesi del Medio Oriente e gli Stati Uniti, ma anche tra la prima potenza mondiale ed i suoi rivali dei paesi sviluppati, che non aspettano altro che un nuovo passo falso per “segnare dei punti” contro di essa indicandola come fautrice di guerra. Per quanto riguarda la sorte delle popolazioni che saranno, come tante altre prima di loro, decimate dalla guerra, questa è l’ultima delle preoccupazioni per tutti questi briganti imperialisti, piccoli o grandi che siano.
Mulan, 25 aprile
Nei primi due articoli, apparsi sui numeri 142 e 143 del nostro giornale, abbiamo visto come, al di là di un richiamo formale a Lenin sulla questione del partito, l’impostazione teorica e la pratica politica di Cervetto e di Lotta Comunista (LC) corrispondono ad una concezione ed a un metodo propri della visione borghese. In questo articolo vedremo come questa visione borghese non derivi da una carente comprensione degli insegnamenti di Lenin, ma da un vero e proprio stravolgimento di questi ed in particolare del Che fare?, fino ad arrivare a posizioni, ma soprattutto ad una pratica politica che non sono mai state né di Lenin, né delle varie espressioni di quella Sinistra Comunista che LC pretende di incarnare.
Cervetto ha preteso di fondare tutta la sua dottrina sul Partito sull’idea espressa da Lenin nel Che fare? secondo la quale “la coscienza socialista contemporanea non può sorgere che sulla base di profonde cognizioni scientifiche…il detentore della scienza non è il proletariato, ma sono gli intellettuali borghesi…. La coscienza socialista è quindi un elemento importato nella lotta di classe del proletariato dall’esterno e non qualche cosa che ne sorge spontaneamente… il compito della socialdemocrazia è di introdurre nel proletariato la coscienza della sua situazione e della sua missione.” (citazioni di K. Kautsky riprese da Lenin nel Che fare? Editori Riuniti, pag 72). Abbiamo più volte espresso la nostra critica ad una tale concezione della coscienza portata dall’esterno, pur facendo nostra la giusta critica che Lenin sviluppa in questo testo contro gli economisti dell’epoca per i quali l’avanguardia rivoluzionaria della classe costituiva nei fatti un semplice supporto alla lotta rivendicativa dei proletari (1). Non sviluppiamo qui questo aspetto perché non è il rifarsi a questa posizione errata espressa da Lenin che determina la natura controrivoluzionaria di LC. La corrente bordighista - alla quale appartengono gruppi come Programma Comunista, Le Proletaire, Il Partito di Firenze, ecc. - basa la sua concezione del partito su questa stessa visione, ma la nostra critica alla concezione del partito rivoluzionario di Bordiga e della corrente bordighista, per quanto profonda e determinata, non ha mai messo in discussione l’appartenenza di questi al campo rivoluzionario. La questione è che Cervetto, nel suo testo di base Lotte di classe e partito rivoluzionario, stravolge completamente questa idea espressa da Lenin in polemica contro gli economisti e da lui stesso ridimensionata nei fatti dopo il 1905: “Dallo sciopero e dalle dimostrazioni alle barricate isolate, dalle barricate isolate alla costruzione in massa delle barricate e alla lotta di strada contro le truppe. Senza l’intervento delle organizzazioni, la lotta proletaria di massa era passata dallo sciopero all’insurrezione…. Il movimento sorto dallo sciopero generale politico, si era elevato ad un grado superiore…. Il proletariato aveva avvertito prima dei suoi capi il mutamento delle condizioni oggettive della lotta, la quale esigeva il passaggio dallo sciopero all’insurrezione. Come sempre, la pratica aveva preceduto la teoria” (2). Chi parla è lo stesso Lenin del Che fare? E’ un marxista che, basandosi sull’esperienza della propria classe, sa riconoscere e comprendere che i Soviet sorti durante la rivoluzione del 1905 in Russia non corrispondono ad uno qualsiasi dei modi in cui i proletari si possono organizzare per portare avanti le proprie rivendicazioni, ma la forma di organizzazione che corrisponde “ad un grado superiore” di maturazione politica avvenuta nella classe, alla consapevolezza che solo unendo le proprie forze e decidendo in prima persona come lottare, con quali obiettivi e con quali strumenti, i proletari avrebbero potuto porre fine alle condizioni insopportabili che vivevano.
La visione della classe operaia che emerge dall’insieme del testo di Cervetto è, al contrario, quella di una classe “geneticamente” incapace di andare al di là della lotta strettamente rivendicativa, di difesa della propria condizione di salariato a meno che non ci sia il partito a dirigerla. Anche quando Lenin dice “Gli elementi migliori della classe operaia marciavano in testa trascinandosi dietro a sé gli esitanti, risvegliando i dormienti, incoraggiando i deboli” parlando del legame tra scioperi economici e scioperi politici sulla base della dell’esperienza del 1905, Cervetto lascia intendere che questo legame “fu il risultato della lotta dell’avanguardia proletaria (identificata altrove col il Partito, ndr) che trascinò la classe e le stesse masse sfruttate in una lotta generale” (Lotte di classe e partito rivoluzionario, pag 62).
Ma questo non è il solo stravolgimento. In particolare nel capitolo “La superiorità naturale del proletariato”, il proletariato viene nei fatti presentato come una massa di manovra che il Partito deve prima strappare dalla presa della borghesia e poi, una volta “compattata” deve utilizzare per approfittare degli scontri tra frazioni borghesi (piccola e grande borghesia) dagli interessi divergenti per disgregare il fronte borghese e fare la rivoluzione: “Solo quando avrà indebolito le forze borghesi dell’apporto delle forze operaie che esse utilizzano, il Partito rivoluzionario, potrà contare sulla superiorità naturale (che come si spiega prima è data dalla superiorità numerica e dalla sua “compattezza”, cioè dalla concentrazione dei proletari nelle grandi fabbriche, ndr) di fronte alle forze borghesi che sguarnite dai contingenti proletari, inevitabilmente si scontrano ed aprono la strada a quella crisi di disgregazione in cui il proletariato rimane l’unica forza compatta” (idem, pag. 60).
La visione che ne viene fuori è né più né meno quella di uno stratega militare che studia come meglio piazzare il suo esercito (la sua amorfa carne da cannone) per sfruttare al meglio le falle nella difesa del nemico e sconfiggerlo. Questa visione non ha nulla a che vedere con la comprensione che hanno sempre avuto e difeso le avanguardie rivoluzionarie della natura rivoluzionaria della classe operaia e della dinamica della presa di coscienza che porta alla rivoluzione.
In realtà la presunta ortodossia leninista, sbandierata da LC in ogni numero ed in ogni articolo del suo giornale, sin dalla sua origine non è servita ad altro che a legittimare come rivoluzionaria una pratica politica che non ha nulla da invidiare a quella di un qualsiasi gruppo della sinistra del capitale. Ogni elaborazione teorica va verificata alla prova dei fatti. E, come abbiamo visto nei negli articoli precedenti, la storia dei fondatori di LC e di LC stessa è tutta un susseguirsi di grandi affermazioni teoriche messe sotto i piedi dall’azione concreta.
Ritorniamo brevemente su una questione centrale, il lavoro nei sindacati, per vedere come la politica di questo gruppo abbia alla base la visione della classe operaia come massa di manovra da parte del Partito.
Anche sui sindacati, Cervetto prima e LC fino ad oggi, pretendono di rifarsi alla posizione di Lenin e del partito bolscevico, secondo cui le avanguardie rivoluzionarie dovrebbero lavorare all’interno delle organizzazioni sindacali perché queste avrebbero da giocare ancora un ruolo positivo per lo sviluppo della lotta di classe, anche se il 1905 aveva trovato nei Soviet la forma della dittatura del proletariato. Come è noto la questione sindacale suscitò un grande dibattito già al I Congresso della III Internazionale nel 1919 tra i bolscevichi e le altre organizzazioni rivoluzionarie, in particolare quella tedesca, svizzera, inglese. I primi, provenienti da un paese dove vigeva l’arretrato regime dell’assolutismo zarista e dove i sindacati erano sorti relativamente da poco (nei fatti nel 1905 quando l’effervescenza rivoluzionaria li strascina nel movimento spesso sotto la direzione dei Soviet), sostenevano questa tesi. Gli altri, provenendo invece da paesi più maturi da un punto di vista dello sviluppo capitalistico e con una più vecchia esperienza di sindacalismo, denunciavano già all’epoca il sindacato come un organismo non più utilizzabile per lo sviluppo del movimento di classe (3). Le diversificazioni sulla questione sindacale sono continuate ad esistere all’interno della Sinistra comunista dove la posizione del Partito bolscevico sui sindacati è stata ripresa da altre formazioni politiche, in particolare della corrente bordighisti. Ma la posizione e la conseguente pratica di LC non hanno nulla a che vedere con tutto questo. A parte il fatto che Cervetto, nella sua presunta elaborazione scientifica, anche su questa questione non si cura proprio di prendere in esame, anche solo per criticarle, le posizioni espresse dalle altre forze rivoluzionarie dell’epoca e successive, né di valutare storicamente queste posizioni, qual è la pratica politica che scaturisce da questa presunta fedeltà a Lenin? Nelle sue Tesi del ’57, al punto Questione sindacale leggiamo “Fermo restando che il principio che la nostra azione deve tendere a fare una ‘attività rivoluzionaria nei sindacati’ e non del sindacalismo, la Sinistra Comunista (cioè LC secondo l’autore, ndr) deve organizzare una propria corrente sindacale nella CGIL, promuovendo tutte le iniziative e tutti gli strumenti atti a favorire questa organizzazione (censimento e convegno sindacale, nomina di responsabili del lavoro sindacale, bollettino sindacale, ecc). Data la natura dell’unica corrente sindacale a carattere rivoluzionario esistente nella CGIL, i Comitati di difesa sindacale, la Sinistra Comunista dovrà condurre trattative con i compagni anarchici che la compongono, al fine di costruire, con una eventuale alleanza, una corrente sindacale unica di minoranza rivoluzionaria in seno alla CGIL”. Così, mentre il lavoro nei sindacati nella Russia agli inizi del 1900 per Lenin significava favorire il raggruppamento dei proletari, la loro unità nella lotta comune, favorire la presa di coscienza della propria forza come classe, per LC non è altro che una politica di entrismo per crearsi un seguito, in modo da acquisire posizioni di forza all’interno della struttura sindacale, alleandosi con non importa chi pur di attestarsi come forza dirigente. Non è un caso se la scelta del campo di azione ricada sulla CGIL perché questa, essendo di “sinistra”, ha degli iscritti già schierati politicamente e quindi più facilmente reclutabili per chi si presenta come rivoluzionario. Coerentemente con questa visione il ruolo assunto da LC è stato sempre di sostegno ai sindacati ed alla loro specifica funzione all’interno dello schieramento capitalista contro la classe operaia: che è quella di contenere la reazione operaia al proprio sfruttamento nell’ambito della “contrattazione democratica” consentita dalle regole del sistema, ostacolando qualsiasi tentativo della classe di - volendo usare i termini cari a Cervetto - passare dalla “lotta economica” alla “lotta politica”, dalla lotta difensiva delle proprie condizioni di vita nella società capitalista, alla lotta offensiva per distruggere questo sistema di sfruttamento.
Così quando, nelle lotte dell’autunno caldo in Italia nel ’69, i proletari iniziarono ad individuare nei sindacati un loro nemico e questi, a loro volta, comprendendo che le commissioni interne non bastavano più a controllare la classe operaia, cominciarono a puntare su strumenti più efficaci quali i “consigli di fabbrica”, LC, oltre a farneticare paragonando questi ultimi a dei soviet, si fece in quattro per dare una patente di classe a tutta una serie di organi dirigenti del sindacato che avevano avuto il merito di difendere l’istituzione dei consigli di fabbrica. “Nei sindacati stessi si sono formati uomini su posizioni “sindacaliste”, su posizioni “trade-unioniste”, … che cercano di realizzare il grande sindacato su posizioni legate alle grandi fabbriche. … Queste posizioni … le ritroviamo espresse nei documenti elaborati in convegni e riunioni di direttivi, ecc….” (dal testo di LC “Consigli di fabbrica, commissioni interne: analisi di uno scontro politico”). I documenti a cui faceva riferimento LC erano del Comitato centrale della FIOM, della segreteria nazionale Fiom, dei direttivi provinciali FIM, FIOM, UILM di Genova e così via.
Quando i lavoratori della scuola nell’87 si organizzarono al di fuori dei sindacati per portare avanti la lotta sulla base di assemblee generali sovrane, dove erano i lavoratori a decidere come lottare, LC, dopo aver tentato di riportare all’ovile i lavoratori difendendo l’idea che non si dovesse abbandonare la CGIL, vedendo che non riusciva a ottenere seguito, disprezzò questa lotta definendola “sudista” (perché maggiormente sviluppata nel sud Italia) mentre incitava la CGIL a darsi da fare, ad indire un congresso straordinario, per cercare di recuperare credito in questo movimento.
Nel 2002 di fronte a tutta la campagna mistificatoria portata avanti in particolare dalla CGIL, con il referendum sull’articolo 18 dello statuto dei lavoratori, che mirava a trascinare in particolare i giovani sul terreno della “consultazione democratica” come forma di “lotta” contro la precarizzazione e la flessibilità (già ampiamente introdotte in Italia grazie proprio ai sindacati), qual è la denuncia che ne fa LC? Nessuna, se non la solita critica ai “vertici opportunisti”, ai Pezzotta ed ai Cofferati di turno. Quali indicazioni dà LC ai proletari? “…solo una visione controcorrente fondata su una chiara strategia marxista può fornire un senso duraturo alla difesa sindacale, una intelligenza all’orgoglio di classe, un futuro alla lotta comunista contro l’opportunismo” (LC, marzo 2002, pag 16). Cosa significava? Boh! Forse riusciamo a capirlo dal bilancio che ne fa LC dopo 4 anni quando, paragonando il movimento dei giovani proletari francesi della primavera scorsa contro la precarizzazione (4) alla sfilata organizzata dai sindacati nel 2001 a Roma sull’articolo 18, dice: “Noi scrivevamo che la CGIL di Sergio Cofferati, con l’appoggio dei partiti di opposizione, rifiutava misure di flessibilità tese a portare il sindacato alla resa senza condizioni. Il duro scontro costrinse il governo a ritirare la misura e gettò il gruppo dirigente della Confindustria in crisi”. Ma purtroppo “l’illusorio obiettivo referendario” di estendere l’articolo 18 anche a imprese con meno di 15 addetti, “ciò che mai si era tentato per via sindacale, ciò che dava da sempre la misura della debolezza del sindacato confederale”, portò a “l’inevitabile disastro” che “mise fine alla stagione dell’articolo 18: le misure sulla flessibilità vennero realizzate …” (LC marzo 2006, pag 16). In altre parole, pieno appoggio alla politica sindacale sia sul piano economico che sul piano di azione di sabotaggio rispetto alla classe, solo che il tutto è stato gestito male. Da qui la necessità di farsi eleggere come delegati, di assumere delle posizioni dirigenti, insomma di acquistare posizioni di forza all’interno della struttura sindacale. I proletari restano imprigionati al carro della borghesia? Gli si impedisce di comprendere quali sono le armi che la borghesia utilizza contro di loro, di prendere coscienza della propria natura di classe rivoluzionaria e della propria forza, di capire chi combattere e come? Qual è il problema, tanto ci penserà il Partito-scienza al momento opportuno, per ora l’importante è che questo Partito-scienza si faccia spazio nelle posizioni strategiche.
Questa è la “coscienza” che Lotta Comunista vuole portare dall’esterno alla classe operaia.
Questa “coscienza”, questo metodo sono quelli contro cui si sono sempre battuti i marxisti, Lenin in testa, denunciandoli come appartenenti alla classe dominante.
Per concludere questa breve serie di articoli vogliamo riportare l’attenzione su una questione: LC è quasi da tutti considerata come un gruppo rivoluzionario ed essa stessa si vanta di essere un gruppo della sinistra comunista. Se questo è possibile è perché LC si nasconde dietro gli errori dei gruppi storici della Sinistra comunista: condivide con il BIPR l’idea della costruzione del partito a livello nazionale prima di passare al partito internazionale; condivide con i bordighisti l’idea della coscienza esterna alla classe o la necessità di lavorare nei sindacati. D’altra parte non dimentichiamo che lo stesso Cervetto ha frequentato per un certo periodo Battaglia Comunista ed è stato finanche redattore di alcuni articoli di Prometeo. E’ perciò che noi abbiamo insistito e insistiamo sull’affermazione secondo cui per LC non si tratta di un semplice accumulo di errori, di posizioni sbagliate. Quello che fondamentalmente caratterizza LC è una politica di potenza che cerca di acquisire posizioni di forza all’interno del sindacato facendo uso della classe operaia come massa di manovra. I rapporti di forza instaurati nei confronti degli stessi propri militanti non più disposti a seguire le “direttive del centro” e l’indisponibilità più assoluta a mettere in discussione questa pratica politica di occupazione delle posizioni di forza, fanno di LC un pericoloso gruppo controrivoluzionario che non ha nessuno spazio nell’ambito dei gruppi proletari.
2 giugno 2006 Eva
1. Sulla questione della coscienza vedi il nostro opuscolo “Concience de classe et role des revolutionaires” in francese, e in italiano gli articoli “Coscienza di classe e ruolo dei rivoluzionari”, su Rivista Internazionale n. 3, e “Sul ruolo dei rivoluzionari nelle lotte proletarie: una risposta al marxismo pietrificato di Programma Comunista” in Rivoluzione Internazionale n.12, aprile 1978)
2. Lenin, Rapporto sulla rivoluzione del 1905, in Opere Scelte, Editori Riuniti (sottolineatura nostra). Sulla valutazione della rivoluzione del 1905 fatta dalle forze rivoluzionarie dell’epoca vedi il nostro articolo “Rivoluzione del 1905 in Russia: il proletariato afferma la sua natura rivoluzionaria” sui numeri 140 e 141 di Rivoluzione Internazionale
3. Vedi l’articolo “Le prese di posizione politiche della III Internazionale” (della serie “La teoria della decadenza al cuore del materialismo storico”) nella Revue Internazionale n°123, 4° trimestre 2005. Sull’analisi della questione sindacale della CCI vedi l’opuscolo “I sindacati contro la classe operaia”.
4. Sul significato e l’importanza del movimento in Francia vedi gli articoli su questo numero e su quello precedente del giornale e le Tesi sul movimento degli studenti in Francia sul nostro sito it.internationalism.org [99].
Il movimento degli studenti in Francia contro il CPE è riuscito a fare arretrare la borghesia che ha ritirato il suo CPE il 10 aprile. Ma se il governo è stato obbligato ad arretrare, è anche e soprattutto perché i lavoratori si sono mobilitati in solidarietà con i giovani della classe operaia, come si è visto nelle manifestazioni del 18 marzo, 28 marzo e 4 aprile.
Di fronte alla perdita di credito dei sindacati, si è visto infine pubblicamente l'entrata in scena delle comparse dello spettacolo di questa commedia francese: dopo le grandi centrali sindacali, gli "amici" e le "amiche" della trotskista Arlette Laguiller sono entrati in ballo alla manifestazione dell' 11 aprile per giocare, a loro volta, alle mosche cocchiere (mentre il 18 marzo, i militanti di Lutte Ouvrière gonfiavano dei palloni sui marciapiedi ed incollavano con frenesia degli autoadesivi "LO" su chiunque si avvicinasse a loro). Nel momento in cui il governo ed i suoi "partner sociali" avevano deciso di aprire i negoziati per un'uscita dalla crisi con "onorabilità" ed il 10 aprile ritiravano il CPE, si è potuta vedere LO agitarsi nella manifestazione-affossatrice dell’ 11 aprile a Parigi. In questo giorno, un elevato numero di liceali e di studenti irriducibili era stato chiamato a scendere in strada per "radicalizzare" il movimento dietro le bandiere rosse di LO (affianco agli stracci blu e bianchi di Sud o neri e rossi della CNT). Tutte le cricche gauchiste o anarcoidi si sono ritrovate a marciare in una toccante unanimità dietro la parola d’ordine: "ritiro del CPE, del CNE e della legge sulle pari opportunità!" o ancora "Villepin dimissioni"!. I lavoratori più esperti conoscono troppo bene lo scopo di un tale baccano. Ingannare gli studenti alla ricerca di prospettiva politica facendo valere un radicalismo di facciata dietro cui si nasconde fondamentalmente il carattere capitalista della loro politica. Ed è anche così, con la carta del "sindacalismo di base" o "radicale" che adesso questi falsi rivoluzionari (veri sabotatori patentati) cercano di portare avanti per tentare di completare la "strategia di deterioramento" del movimento. I gauchisti e gli anarchici più eccitati hanno provato a Rennes, Nantes, Aix o ancora a Tolosa a spingere a gruppi gli studenti irriducibili a scontri fisici con i loro compagni che cominciavano a votare in favore allo sblocco delle facoltà. La messa in avanti del sindacalismo "di base", "radicale" è solamente una buona manovra di certe frazioni dello Stato che mirano a riportare gli studenti ed i lavoratori più combattivi dietro l'ideologia riformistica.
Tutto il campo della riflessione è oggi molto sorvegliato dai sabotatori professionisti di LO, di Sud (nato da una scissione della CFDT nel settore delle Poste nel 1988) e soprattutto dalla LCR (che ha sempre considerato le università come la sua "riserva di caccia" e che ha sempre garantito i sindacati chiamando gli studenti a "fare pressione" sulle loro direzioni affinché chiamassero a loro volta i lavoratori ad entrare in lotta). Tutte le frazioni "radicali" dell'apparato d’inquadramento della classe operaia sono state continuamente appiccicate agli studenti per snaturare o ricuperare il movimento ripiegandolo verso il campo elettorale (tutto questo bel mondo presenta dei candidati alle elezioni) e cioè verso la difesa della "legalità" della "democrazia" borghese. Peraltro, proprio perché il CPE era un simbolo del fallimento storico del modo di produzione capitalista tutta la sinistra "radicale" (rosa caramella, rossa e verde) si nasconde dietro la vetrina del grande camaleonte ATTAC per farci credere che adesso si può costruire il "migliore dei mondi" all’interno dello stesso sistema basato sulle leggi aberranti del capitalismo, quelle dello sfruttamento e della ricerca del profitto.
Appena i lavoratori hanno cominciato a manifestare la loro solidarietà con gli studenti, abbiamo potuto vedere i sindacati, i partiti di sinistra ed i gauchisti di ogni pelo occupare tutto il campo per tentare di riportare gli studenti nel grembo dell'ideologia interclassista della piccola borghesia benpensante. Il grande supermercato riformistico è stato aperto nei forum di discussione: ciascuno è stato invitato a consumare la cianfrusaglia adulterata di José Bové, di Chavez (colonnello, presidente del Venezuela ed idolo di LCR) o di Bernard Kouchner ed altri "medici senza frontiere" (che regolarmente vengono a colpevolizzare e ricattare i proletari facendo loro credere che il denaro dei loro doni "umanitari" potrebbe risolvere le carestie o le epidemie in Africa!). In quanto ai lavoratori salariati che si sono mobilitati contro il CPE, ora essi sono chiamati a dare fiducia ai sindacati che sono i soli a detenere il monopolio dello sciopero (e soprattutto del negoziato segreto col governo, il padronato ed il ministero dell'interno).
Nelle AG che si sono tenuti al rientro dalle vacanze gli studenti hanno dato prova di una grande maturità votando a grande maggioranza la fine del blocco e la ripresa dei corsi, manifestando però la loro volontà di restare uniti per proseguire la riflessione sul formidabile movimento di solidarietà che hanno appena vissuto. È vero che molti di quelli che vogliono mantenere il blocco delle università provano un sentimento di frustrazione perché il governo ha fatto solo un piccolo passo indietro riformulando un articolo della sua legge sulle "pari opportunità". Ma il principale guadagno della lotta si trova sul piano politico perché gli studenti sono riusciti a trascinare i lavoratori in un vasto movimento di solidarietà tra tutte le generazioni.
Numerosi studenti favorevoli al prosieguo del blocco hanno nostalgia di questa mobilitazione dove "si era tutti insieme, uniti e solidali nell'azione". Ma l'unità e la solidarietà nella lotta si possono costruire anche nella riflessione collettiva perché in tutte le università e le imprese si sono tessuti dei legami tra studenti e lavoratori. Gli studenti ed i lavoratori più coscienti sanno molto bene che domani "se si resta soli, si va a farsi mangiare vivi", qualunque sia il colore del futuro governo (non è il ministro socialista Allègre che aveva sostenuto la necessità di "sgrassare il mammut" dell'Educazione Nazionale?).
È per ciò che gli studenti, come tutta la classe operaia, devono comprendere la necessità di trarre un bilancio chiaro dalla lotta che hanno appena condotto contro il CPE intorno ai seguenti problemi: che cosa ha fatto la forza di questo movimento? Quali sono state le trappole in cui non bisognava cadere? Perché i sindacati hanno tanto esitato e come hanno recuperato il movimento? Quale è stato il ruolo giocato dal "coordinamento"?
Per potere condurre questa riflessione e preparare le lotte future, gli studenti ed i lavoratori devono raggrupparsi per continuare a riflettere collettivamente, rifiutando di lasciarsi recuperare da quelli che vogliono andare ad appropriarsi della preda ed installarsi a Matignon o all’Éliseo nel 2007 (o semplicemente "piazzarsi" nelle elezioni del 2007). Non devono dimenticare che quelli che si presentano oggi come i loro migliori difensori prima hanno tentato di sabotare la solidarietà della classe operaia "negoziando" alle loro spalle la famosa "strategia di deterioramento" attraverso la violenza (non è stata l'intersindacale che aveva condotto a più riprese i manifestanti verso la Sorbona permettendo così alle bande di "casseurs" manipolati di attaccare gli studenti?).
Il movimento contro il CPE ha rivelato il bisogno di politicizzazione delle giovani generazioni della classe operaia di fronte al cinismo della borghesia e della sua legge sulle "pari opportunità". Non vi è alcun bisogno di studiare Il Capitale di Karl Marx per comprendere che la "uguaglianza o pari opportunità" nel capitalismo è semplicemente uno specchio per le allodole. Bisogna essere completamente idioti per credere un solo istante che i giovani di operai disoccupati che vivono nelle città ghetto possono fare degli studi superiori nelle Scuole specializzate. In quanto alla "uguaglianza delle probabilità", l'insieme della classe operaia sa per certo che esiste solamente alla tombola o al tris. È per tale motivo che questa legge scellerata è un grosso "errore" della classe dominante: non poteva essere percepita dalla gioventù studentesca che come una pura provocazione del governo.
La dinamica di politicizzazione delle nuove generazioni di proletari non potrà svilupparsi pienamente senza una visione più globale, storica ed internazionale degli attacchi della borghesia. E per farla finita con il capitalismo e costruire un'altra società, le nuove generazioni della classe operaia dovranno confrontarsi necessariamente con tutte le trappole che i cani da guardia del capitale, nelle università come nelle imprese, continuano a tendere per sabotare la loro presa di coscienza del fallimento del capitalismo.
L'ora è venuta affinché la "scatola ad azione-bidone" dei sindacati, degli anarchici e dei gauchisti si richiuda per aprire di nuovo la "scatole delle idee" affinché tutta la classe operaia possa riflettere dovunque e discutere collettivamente dell'avvenire che il capitalismo promette alle nuove generazioni. Solo questa riflessione può permettere ancora alle nuove generazioni di riprendere, domani, la strada della lotta più forte e più unita di fronte agli attacchi incessanti della borghesia.
Corrente Comunista Internazionale, 23 aprile 2006
La nostra compagna Clara è deceduta all'ospedale Tenon, a Parigi, sabato 15 aprile 2006 all'età di 88 anni.
Clara era nata l’8 ottobre 1917 a Parigi. Sua madre, Rebecca era di origine russa. Era venuta in Francia perché, nella sua città di origine, Simféropol, in Crimea, non poteva, in quanto ebraica, intraprendere studi di medicina, come era suo desiderio. Finalmente, a Parigi, ha potuto diventare infermiera. Prima ancora di venire in Francia, era una militante del movimento operaio poiché aveva partecipato alla fondazione della sezione del partito socialdemocratico di Simféropol. Il padre di Clara, Paul Geoffroy, era un operaio qualificato, specializzato nella confezione di portagioie. Prima della prima guerra mondiale, era membro del CGT nell'area anarco-sindacalista, poi si è avvicinato al Partito Comunista dopo la rivoluzione russa del 1917. Così, fin dall’infanzia, Clara è stata educata nella tradizione del movimento operaio. Ha aderito alla gioventù comunista (JC) quando aveva una quindicina di anni. Nel 1934, Clara è andata con suo padre a Mosca a fare visita alla sorella di sua madre, essendo quest’ultima deceduta quando Clara aveva solamente 12 anni. In Russia, tra l’altro rendendosi conto del fatto che i nuovi alloggi erano destinati ad una minoranza di privilegiati e non agli operai, ha cominciato a farsi delle domande sulla" patria del socialismo" e, al suo ritorno, ha rotto coi JC. A quel tempo, già aveva intavolato numerose discussioni col nostro compagno Marc Chirik, che aveva conosciuto quando aveva 9 anni perché la madre di Clara era amica della sorella della prima compagna di Marc, malgrado l'opposizione di suo padre che, restato fedele al PC, non gradiva che frequentasse i trotskisti.
Nel 1938, diventata maggiorenne, Clara con il consenso di suo padre divenne ufficialmente la compagna di Marc. In quell’epoca, Marc era membro della Frazione italiana (FI) e sebbene Clara non ne fosse membro, era simpatizzante di questo gruppo. Durante la guerra, Marc fu mobilitato nell’esercito francese(sebbene non fosse francese e che per molti anni la sua sola carta di identità fosse un’ordinanza di espulsione la cui scadenza veniva prolungata ogni due settimane).Si trovava ad Angoulême quando crollò l'esercito francese. Con un compagno della Frazione italiana in Belgio (che si nascondeva all'avanzata delle truppe tedesche perché era ebreo), Clara parti da Parigi in bicicletta per raggiungere Marc ad Angoulême. Quando arrivò, trovò che Marc (con altri soldati), era stato fatto prigioniero dall’ l'esercito tedesco che, fortunatamente, non aveva ancora constatato che era ebreo. Clara riuscì, portandogli dei vestiti civili, a fare evadere Marc, ed un altro compagno ebreo, della caserma nella quale era prigioniero. Marc e Clara passarono in zona libera e raggiunsero Marsiglia in bicicletta nel settembre 1940. È a Marsiglia che Marc ha contribuito alla riorganizzazione della Frazione italiana che si era sciolta all'inizio della guerra.
Senza esserne formalmente membro, Clara ha partecipato al lavoro ed alle discussioni che hanno permesso lo sviluppo del lavoro della Frazione italiana ricostituita: malgrado i pericoli dovuti all'occupazione dell'esercito tedesco, ha trasportato, da una città all'altra, documenti politici destinati ad altri compagni della Frazione italiana. Durante questo periodo, Clara ha partecipato anche alle attività dell’OSE (Organizzazione di Soccorso dei Bambini) che si faceva carico e nascondeva bambini ebrei per proteggerli dalla Gestapo.
È al momento della "liberazione" che Marc e Clara hanno sfiorato più da vicino la morte quando i “resistenti" stalinisti del PCF li hanno fermati a Marseille: li hanno accusati di essere dei traditori, complici dei "boches", perché avevano trovato a casa loro, durante una perquisizione, dei quaderni scritti in tedesco. In effetti, questi quaderni provenivano dai corsi di tedesco che Marc e Clara avevano ricevuto da Volin (un anarchico russo che aveva partecipato alla rivoluzione del 1917). Volin, malgrado la miseria nera nella quale si trovava, non voleva ricevere aiuto materiale. Marc e Clara gli avevano dunque chiesto di dar loro dei corsi di tedesco e, per questo, egli accettava di condividere il loro pasto. All'epoca di questa perquisizione, gli stalinisti avevano anche trovato dei volantini internazionalisti redatti in francese ed in tedesco ed inviati ai soldati dei due fronti.
Fu grazie ad un ufficiale gollista che era il responsabile della prigione (la cui donna conosceva Clara per aver lavorato con lei nell’ OSE), che Marc e Clara poterono sfuggire per un pelo agli assassini del PCF. Questo ufficiale aveva impedito agli stalinisti di assassinare Marc e Clara (i resistenti del PCF avevano difatti detto a Marc: "Stalin non ti ha avuto ma, noi, avremo la tua pelle"). Sorpreso che degli ebrei fossero dei "collaborazionisti", cercò di dare una spiegazione politica alla propaganda che Marc e Clara facevano in favore della fraternizzazione dei soldati francesi e tedeschi. Questo ufficiale si rese conto che la loro strategia non aveva niente a che vedere con un banale "tradimento" in favore del regime nazista. È per questo motivo che li fece evadere della prigione, con discrezione, nella sua automobile personale consigliando loro di lasciare al più presto Marsiglia prima che gli stalinisti potessero ritrovarli. Marc e Clara andarono a Parigi dove raggiunsero altri compagni (e simpatizzanti) della Frazione italiana e della Frazione francese della Sinistra comunista. Clara ha continuato fino al 1952 a sostenere il lavoro della Sinistra comunista Francese (GCF - il nuovo nome che si era dato la Frazione Francese della Sinistra Comunista - FFGC). Nel 1952, la GCF, di fronte alla minaccia di una nuova guerra mondiale, decise che alcuni dei suoi membri avrebbero dovuto lasciare l'Europa per preservare l'organizzazione nel caso in cui questo continente fosse di nuovo entrato in guerra. Marc partì per il Venezuela nel giugno 1952. Clara lo raggiunse nel gennaio 1953 quando era riuscito finalmente a trovare un lavoro stabile in questo paese.
In Venezuela, Clara riprese il suo mestiere di maestra. Nel 1955, con un collega, fondò a Caracas una scuola francese, il Collegio Jean-Jacques Rousseau che, aveva in principio solamente 12 alunni, principalmente ragazze che non avrebbero potuto frequentare allora la sola scuola francese presente perchè non era diretta da frati. Il Collegio di cui Clara era la direttrice(e Marc l'amministratore, il giardiniere e l'autista del trasporto scolastico) finì per contare più di un centinaio di alunni. Alcuni di loro, colpiti sia per l'efficienza che per le grandi qualità pedagogiche ed umane di Clara, sono rimasti in contatto con lei fino alla sua morte. Nel 2004 è venuto a farle visita finanche uno dei suoi vecchi alunni stabilitosi negli Stati Uniti.
Dopo la partenza di Marc e di altri compagni, il GCF si disperse. Fu solamente a partire da 1964 che Marc poté costituire un piccolo nucleo di elementi molto giovani che cominciò a pubblicare la rivista "Internacionalismo" in Venezuela. Durante questo periodo, Clara non fu impegnata direttamente nelle attività politiche di Internacionalismo ma il suo istituto scolastico forniva i mezzi materiali ed era il luogo di riunione per le attività del gruppo.
Nel maggio 1968, Marc tornò in Francia per partecipare ai movimenti sociali e ristabilire i contatti coi suoi vecchi compagni della Sinistra comunista. Fu durante il suo soggiorno in Francia che la polizia del Venezuela andò a perquisire il Collegio Jean-Jacques Rousseau scoprendo il materiale politico che vi si trovava. Il Collegio fu chiuso ed anche demolito. Clara lasciò precipitosamente il Venezuela per raggiungere Marc.
È a partire da questo periodo che Marc e Clara si sono trasferiti di nuovo a Parigi. Dal 1968, Marc partecipò al lavoro del gruppo"Révolution Internationale" (RI) che si era costituito a Tolosa. Dal 1971, Clara si è integrata attivamente nelle attività di RI che andava a diventare la sezione della CCI in Francia. Da allora, è rimasta una militante fedele della nostra organizzazione, svolgendo la sua parte nell'insieme delle attività della CCI. Dopo la morte di Marc, nel dicembre 1990, ha continuato la sua attività militante in seno all'organizzazione alla quale lei è stata sempre molto legata. Anche se è stata personalmente molto addolorata dall’allontanamento di certi vecchi compagni che erano stati tra i fondatori di RI e di Internacionalismo, queste diserzioni non hanno, mai, rimesso in discussione il suo impegno in seno alla CCI.
Fino all'ultimo momento, malgrado i suoi problemi di salute e la sua età, ha voluto continuare sempre ad essere presente in prima persona nella vita della CCI. In particolare, è con la più grande assiduità che versava le sue quote ogni mese così come teneva a seguire le discussioni, anche quando non poteva più assistere alle riunioni. Nonostante avesse seri problemi di vista, Clara continuava a leggere per quanto possibile la stampa ed i documenti interni della CCI (l'organizzazione faceva per lei proprio per questo motivo delle stampe a grossi caratteri). Parimenti, ogni volta che un compagno le rendeva visita, gli chiedeva di comunicarle lo stato delle discussioni e dell’ attività dell'organizzazione. Clara era una compagna il cui senso della fraternità e della solidarietà ha segnato molto l'insieme dei militanti del CCI, che accoglieva sempre in modo estremamente caloroso. Parimenti, ha mantenuto rapporti fraterni con i vecchi compagni della Sinistra comunista, portando loro la sua solidarietà particolarmente in caso di malattia (come fu il caso per Serge Bricianer, vecchio membro della GCF, o Jean Malaquais, simpatizzante di questa, che era andata a visitare a Ginevra poco prima della sua morte nel 1998). Dopo la morte di Marc, ha continuato a trasmettere alle nuove generazioni di militanti, questa tradizione di fraternità e di solidarietà che caratterizzava il movimento operaio del passato. È con gioia che ha potuto vedere questa solidarietà della classe portatrice del comunismo ricomparire in modo magistrale nel recente movimento degli studenti in Francia. Un movimento che Clara ha tenuto a salutare con entusiasmo prima di lasciarci.
Malgrado il suo indebolimento fisico e le notevoli difficoltà di salute che ha affrontato con un coraggio notevole, Clara ci ha lasciato nel momento in cui una nuova generazione apre le porte dell'avvenire. Clara ci dà l'esempio di una donna che, per tutta la vita, ha combattuto al fianco ed in seno alla classe operaia dando prova perciò di un coraggio fuori dal comune (in particolare rischiando la sua vita durante gli anni della controrivoluzione).Una donna che è rimasta fino alla fine fedele alle sue idee ed ai suoi impegni rivoluzionari. Quando l'insieme della CCI ha appreso la notizia della sua scomparsa, le sezioni, ed i compagni individualmente, hanno mandato all'organo centrale del CCI un gran numero di testimonianze che salutano il calore umano, la devozione alla causa del proletariato ed il grande coraggio di cui Clara ha dato prova durante tutta la sua vita. Clara è stata inumata sabato 22 aprile al cimitero parigino di Ivry (nello stesso luogo in cui era stato seppellito il marito di Clara Zetkin, Ossip, il 31 gennaio 1889). Dopo le esequie, la CCI ha organizzato una riunione in omaggio alla sua memoria dove si sono ritrovate numerose delegazioni internazionali della CCI, numerosi simpatizzanti che hanno conosciuto personalmente Clara, e membri della sua famiglia. A suo figlio Marc, ai suoi nipoti Miriam e Yann-Daniel, inviamo la nostra più grande solidarietà e simpatia.
Pubblichiamo sotto un ampio estratto della lettera che la CCI ha inviato a suo figlio ed alla sua famiglia.
La CCI al compagno Marc
Caro compagno Marc, con queste parole vogliamo subito manifestarti la nostra solidarietà e la nostra simpatia in seguito alla scomparsa di Clara, tua madre e nostra compagna. Vogliamo anche esprimerti l'emozione che prova l'insieme dei compagni della nostra organizzazione. La maggior parte di noi aveva conosciuto Clara prima come la compagna di Marc, tuo padre, che ha sostenuto un ruolo così importante nella lotta della classe operaia, nei peggiori momenti che questa ha attraversato, ed anche come principale fondatore della CCI. Questo, era già un motivo di affetto e di rispetto verso Clara: “la compagna di Marc poteva essere solamente una persona di bene”. Il coraggio e la dignità che ha manifestato al momento della scomparsa di tuo padre, malgrado l'amore immenso che gli portava, ci hanno confermato la sua grande forza di carattere, una qualità che conoscevamo già e che non ha cessato di manifestarsi fino al suo ultimo giorno. E’ proprio per questo motivo che, per i militanti della CCI, Clara non era solamente la compagna di Marc, tutt’altro. Era una compagna che è restata fino alla fine fedele alle sue convinzioni, che ha continuato a condividere tutte le nostre battaglie, e che ha voluto, malgrado le difficoltà dell'età e della malattia, restare in stretto contatto con la vita della nostra organizzazione. Tutti i compagni sono stati impressionati dalla sua voglia di vivere e dalla lucidità che ha conservato fino all'ultimo istante. È perciò che l'affetto ed il rispetto che ciascuno di noi le aveva accordato al primo colpo non hanno fatto che rinforzarsi col passare degli anni. Poco prima della sua morte, tuo padre ci aveva parlato dell'immensa soddisfazione che gli recava la scomparsa dello stalinismo, questo boia della rivoluzione e della classe operaia. Allo stesso tempo, non aveva nascosto l'inquietudine che provava di fronte alle conseguenze negative che questo avvenimento andava a provocare sulla coscienza della classe operaia e la sua lotta. Clara, avendo conservato le sue convinzioni rivoluzionarie intatte, ha visto gli ultimi giorni della sua vita illuminati dalla ripresa della lotta delle nuove generazioni. Questo è per noi tutti, malgrado la nostra pena, un motivo di consolazione.
Con Clara, sparisce una delle ultime persone che è stata testimone ed attore di questi anni terribili dove i rivoluzionari si sono ritrovati una piccola minoranza che continua a difendere i principi internazionalisti del proletariato, una lotta condotta dai militanti della Sinistra italiana in particolare, della Sinistra olandese e della Sinistra comunista francese e senza la quale la CCI non esisterebbe oggi. Clara ci parlava talvolta di questi compagni e potevamo sentire nelle sue parole tutta la stima e l'affetto che portava loro. In questo senso, dopo la scomparsa di tuo padre, Clara continuava ad essere per noi un legame vivente con questa generazione di comunisti che rivendichiamo con fierezza. È questo legame che al di là della persona della nostra compagna Clara, abbiamo perso oggi. (…) Ancora una volta, caro compagno Marc, vogliamo manifestarti la nostra solidarietà e ti chiediamo di trasmettere questa solidarietà ai tuoi bambini ed agli altri membri della tua famiglia.
La CCI, 17 aprile 2006
Nel suo numero 479, datato da novembre 2005 a febbraio 2006, Le Prolétaire dedica circa quattro pagine alle sommosse di quest’autunno. Colonna dopo colonna, quest’organizzazione porta un sostegno incondizionato alla violenza dei giovani abitanti della periferia. Arriva addirittura a farne un punto di partenza per la lotta di tutta la classe operaia, un modello da seguire. "La rivolta delle periferie annuncia la ripresa della lotta proletaria rivoluzionaria!” potevamo leggere in grassetto ed in maiuscolo nel suo volantino. Pertanto, gli studenti che sono entrati in lotta quattro mesi più tardi hanno preso tutta un'altra strada. Non automobili bruciate a centinaia. Non scuole saccheggiate. Neanche notti intere ad affrontare gli sbirri, con i sassi in mano. Alla disperazione ed all'odio, all'autodistruzione ed al "non futuro", questi giovani della classe operaia hanno preferito l'unità e la solidarietà, l'auto-organizzazione e la costruzione dell'avvenire.
Quali sono i punti comuni tra i movimenti degli studenti e le sommosse d'autunno?
Solo guardando la cronologia degli avvenimenti, è facile pensare che la lotta contro il CPE logicamente succede alle sommosse, che ne è una specie di prolungamento. Oltretutto, vi sono in realtà alcuni punti comuni. Il primo, più visibile, è il coinvolgimento della gioventù. In entrambi i casi, sono i giovani della classe operaia ad essere scesi in strada. Ciò implica il secondo punto comune. La profondità della crisi economica ed il fallimento del capitalismo rendono totalmente insopportabile l’avvenire che si prospetta. I giovani non possono provare che una profonda angoscia ed una vera collera di fronte alla disoccupazione, ai piccoli lavori sottopagati ed altre galere che li aspettano. E’ per questo motivo che le sommosse hanno anche avuto e hanno ancora un significato importante per la classe operaia. Queste esplosioni di violenze hanno rivelato lo stato di povertà e di disperazione regnante nei ghetti di cemento. Il mondo intero ha potuto scoprire che "anche in Francia" le condizioni di vita degli operai e dei loro giovani si degradano e diventano insopportabili. Ecco ciò che c'è di comune tra le sommosse di periferia ed il movimento degli studenti: l'inquietudine della gioventù per l'avvenire. L'orizzonte chiuso, la prospettiva del domani sempre più scura. Ma la somiglianza si ferma là.
La borghesia ed i suoi media hanno tentato di tutto per rompere il movimento degli studenti. I telegiornali si sono riempiti di immagini di violenze. Quando un milione di persone manifestava in strada e migliaia di studenti si organizzavano in assemblee generali discutendo nelle università, il giornale televisivo delle 20 si soffermava solo sulle scene di depredazioni e di scontri tra alcuni casseurs con i CRS (celerini). Le immagini della Sorbona occupata e della scala gettata dalla finestra sugli sbirri hanno fatto il giro del mondo, e parecchie volte! Peggio: utilizzando i metodi più schifosi della provocazione e dell'infiltrazione, le forze dell'ordine hanno provato a più riprese a fare degenerare i cortei di manifestanti. Numerosi testimoni sono stati colpiti dall'evidenza che gli sbirri lasciavano passare le bande per creare una sensazione di paura. E non ci sono quasi dubbi che questi gruppi che correvano lungo i marciapiedi per rapinare gli studenti erano eccitati, manipolati e forse anche diretti in parte dalla polizia. Così, salutando le sommosse dell'autunno, proferendo in modo magniloquente alla fine del suo volantino "Viva la rivolta dei giovani proletari delle periferie contro la miseria, il razzismo e l'oppressione! Viva la prospettiva del proletariato in lotta per i suoi soli interessi di classe! Viva la ripresa della lotta generale di classe ivi compreso sul campo della violenza che la borghesia utilizza continuamente contro i proletari”! e qualificando gli atti esasperati dei giovani insorti di "violenza proletaria delle periferie", Le Prolétaire ha partecipato involontariamente alla trappola tesa dalla borghesia.
Ma la gioventù studentesca non ha né risposto alle provocazioni statali né seguito la direzione indicata dal “Partito Comunista Internazionale”. Al contrario, ha rigettato i metodi da sommossa organizzando dei servizi d’ordine per proteggersi dai saccheggi, impedire le devastazioni e non cadere nelle provocazioni dei CRS, pure avanzando delle parole di ordine unitarie per tutta la gioventù operaia, delle periferie o del resto. Questi futuri proletari hanno dato prova di una grande forza. Hanno difeso i valori della classe operaia: quella della solidarietà, della capacità ad organizzarsi ed a lottare collettivamente, di battersi per sé e per gli altri. È dunque il loro livello di coscienza che ha permesso agli studenti di non cadere nella trappola delle sommosse. Hanno compreso che gli scontri con i CRS erano totalmente sterili, che la distruzione per la distruzione era da bandire, che dunque i metodi da sommossa costituivano un vicolo cieco. Meglio ancora, i cortei studenteschi si sono organizzati per proteggersi contro il saccheggio delle bande delle periferie. E tuttavia, malgrado o piuttosto grazie a tutto ciò, hanno espresso un sentimento profondo di solidarietà verso gli insorti. Regolarmente nelle AG, echeggiavano interventi del tipo: "rifiutando il CPE, lottiamo tanto per noi quanto per i più sprovvisti". La dimostrazione più chiara è indubbiamente la rivendicazione di amnistia per tutti i giovani condannati durante l'autunno caldo. Durante le manifestazioni, era sorprendente il contrasto tra i cartelli che rivendicavano l'amnistia e le bande di giovani che saccheggiavano senza vergogna telefonini portatili e portafogli. Abbiamo visto delle studentesse malmenate piangere ripetendo instancabilmente "è tuttavia anche per essi che ci battiamo!"
La forza del movimento contro il CPE, la capacità degli studenti a portare nella lotta un sentimento di solidarietà ha avuto un risultato immediato: quello di coinvolgere in questa lotta la stragrande maggioranza della gioventù delle periferie. Nella misura in cui la lotta si sviluppava, gli alunni dei licei delle periferie sono venuti sempre più numerosi manifestazione dopo manifestazione, lasciando al margine la minoranza dei ladruncoli. Mentre le sommosse avrebbero potuto solo trascinare una parte dei giovani in un'isteria di violenza mentre l'altra parte si nascondeva impaurita, la lotta degli studenti, i suoi metodi ed i suoi scopi, ha offerto al tempo stesso un altro modo di battersi ed una prospettiva. Non bisogna credere che la violenza sia in sé da bandire e che fu bandita dagli studenti. I blocchi delle facoltà da parte di squadre incaricate ed organizzate fu una forma embrionale di violenza di classe. La violenza proletaria sarà necessaria alle lotte rivoluzionarie. Solo che questa violenza "portatrice di un nuovo mondo" non può prendere una qualsiasi forma. Deve girare le spalle allo scatenamento del furore distruttore cieco, all'appagamento di vendette personali, agli atti di barbarie ed al caos. La violenza proletaria è organizzata, ponderata, pensata collettivamente e portatrice dell'unità e della solidarietà della classe operaia. È una delle grandi lezioni dello sciopero di massa del 1905 e dell'insurrezione di ottobre 1917.
Quale ruolo può giocare in avvenire questo Le Prolétaire che fa l'elogio della violenza autodistruttiva?
Facendo l'elogio della violenza autodistruttiva, Le Prolétaire difende delle posizioni pericolose per la classe operaia. Una tale posizione da parte di un'organizzazione autenticamente proletaria può sorprendere in quanto somiglia agli slogan pseudo-radicali degli anarchici del tipo "quando si brucia, è buon segno". E questa organizzazione non ha nemmeno la scusa di essere malinformata. Sa molto bene ciò che sono state concretamente le sommosse: "in alcuni giorni, la rabbia dei giovani senza lavoro, senza salario, senza avvenire si è estesa a tutto il paese", "scaricano oggi una parte di questa violenza distruggendo tutto ciò che capita loro sottomano", o ancora "è una collera cieca, una manifestazione di collera esasperata". E tuttavia, essa difende questa rabbia, questa distruzione, quest'accecamento e questa disperazione che voltano le spalle agli interessi della classe operaia. Perché? La prima ragione, meno onorabile, è la volontà opportunista di piacere. Gridando "Viva la rivolta dei giovani proletari delle periferie contro la miseria, il razzismo e l'oppressione!" , ha provato a dotarsi con poca spesa di una vernice radicale, di apparire rivoluzionaria, un’organizzazione “pura e dura”. La CCI che ha assunto le sue responsabilità sottolineando il vicolo cieco di queste violenze sterili è così tacciata di "social-pacifista" da parte di un Prolétaire che porta sostegno e tutta la sua solidarietà ai giovani insorti. Ma veramente è essere solidale salutare questi atti disperati? E’ veramente essere solidale chiamare gli operai a partecipare a queste sommosse? Evidentemente no. Lo ripetiamo, la lotta degli studenti contro il CPE ha portato spontaneamente una solidarietà ben più vera di questo “Partito Comunista Internazionale”.
Al di là dell'adescamento, ci sono anche delle importanti debolezze che impediscono a Le Prolétaire di comprendere una qualsiasi cosa della lotta di classe. Mancanza di fiducia nel proletariato, incomprensione di ciò che è la violenza di classe, ignoranza totale del ruolo della coscienza, ecco le ragioni profonde che spingono in effetti Le Prolétaire a sostenere delle sommosse totalmente sterili e pericolose. Per comprenderlo, bisogna andare a grattare le sue analisi apparentemente elaborate… in superficie: "Se effettivamente gli operai si fossero già trovati numerosi sul terreno di classe, lasciare questo campo per dedicarsi a saccheggi sarebbe stato una regressione ed un passo indietro nella lotta anti-capitalista. Ma […] gli operai e più generalmente i proletari non si trovano che in numero infinitesimale sul terreno di classe, al contrario sono molto numerosi sul campo della collaborazione delle classi" e dunque "il fatto che una parte di questa maggioranza comincia a disertare questo campo della collaborazione delle classi, anche se momentaneamente, senza avere una consapevolezza chiara dei loro atti, senza prospettiva né progetto, è per i comunisti un segno di grande importanza: il segno che un passo avanti verso il terreno di classe, verso la ripresa della lotta di classe, sta avverandosi".
Se si riassume tutto questo in una frase, abbiamo: "le sommosse, sono meglio di niente". Incidentalmente, si vede che questo “Partito Comunista Internazionale” è totalmente staccato dalla dinamica attuale della classe operaia, dalla ricomparsa da alcuni anni della sua combattività. Non vedendo la lotta che si sviluppa sotto i suoi occhi, Le Prolétarie si aggrappa a qualsiasi cosa. Ma c'è qualcosa di ancora più grave. Quale immagine ha del proletariato e della sua lotta Le Prolétarie? Come può un'organizzazione rivoluzionaria credere che le sommosse, violenze senza scopo di cui le prime vittime sono gli stessi operai, possono costituire "un passo avanti verso il terreno di classe, verso la ripresa della lotta di classe"? Quali sono questi atti eroici che costituiscono una tale avanzata per la lotta della classe operaia? Gli scontri sterili con gli sbirri la cui sola motivazione era l'odio? Le migliaia di automobili di operai bruciati? O, forse, gli autobus e le scuole distrutte?
La disperazione che traspira attraverso la violenza autodistruttiva di giovani disperati costituisce uno sgambetto alla classe operaia ed assolutamente non un benché minimo passo avanti. Lo ripetiamo ancora una volta: le violenze urbane istillano la paura dell'altro, dividono gli operai ed i loro figli, spingono verso la propaganda sulla sicurezza. Soprattutto, rafforzano lo Stato borghese che permette alla borghesia di fare credere che all'infuori della democrazia, ogni lotta va verso il caos e non porta nessuno avvenire. Alla fine le sommosse inquinano la coscienza della classe operaia. Ma il PCI indubbiamente sembra non dare molto importanza alla questione della coscienza. La riflessione del proletariato sul suo avvenire, la sua capacità a battersi in modo unito e solidale…, a tutto ciò, Le Prolétaire preferisce "l'esplosioni di rabbia", "gli scontri violenti", "la rivolta elementare". Dopo tutto, non è Il Partito che è il detentore della coscienza? Non basta, per la rivoluzione vittoriosa, un Partito infallibile ed una classe operaia combattiva e determinata, piena di rabbia e di violenza? Ebbene no, compagni! La forza della classe operaia, è al contrario lo sviluppo della coscienza delle masse e della loro organizzazione. Sono le sue armi politiche essenziali.
Tra le sommosse ed il movimento anti-CPE, i metodi di lotta sono stati radicalmente differenti. Il primo poteva trascinare solamente alla distruzione, alla divisione e ridurre la fiducia della classe operaia a battersi per un avvenire il migliore. Al contrario, la presa in mano della lotta da parte degli studenti, la loro capacità ad organizzarsi in AG, ad avanzare delle parole d'ordine portatrici di solidarietà e di unità permettono al proletariato di compiere un grande passo. In breve, le sommosse guardavano verso il nulla, le lotte studentesche verso l'avvenire. Questa differenza fondamentale tra i due movimenti è sfuggita finora totalmente a Le Prolétaire, a tal punto che durante una permanenza a Parigi, i suoi militanti si sono stupiti che la CCI sostenga le lotte studentesche e si sono rallegrati che la nostra organizzazione abbia… cambiato posizione sull'autunno (sic!). Davanti alla lotta di classe, Le Prolétaire è indubbiamente come una gallina davanti ad un coltello. Possiamo chiederci con serietà e gravità quale ruolo sarà portato a giocare Le Prolétaire in seguito allo sviluppo delle lotte se continua così ad esaltare la violenza cieca e distruttrice?
Pawel
Nel mese di marzo scorso è apparsa sul forum di BC una segnalazione, da parte di un simpatizzante di questo gruppo, di una “aggressione della CCI contro la FICCI” che sarebbe avvenuta l’11 marzo a Parigi. Questo compagno, dopo aver riportato delle informazioni a proposito di una reale aggressione di Lotta Comunista nei confronti di suoi ex militanti, ha fatto sapere di aver letto che “delle cose simili succedono anche in Francia con delle aggressioni della CCI contro la FICCI e delle persone trascinate con la forza” (14 marzo 2006).
Avendo preso conoscenza di questo intervento sul forum di Battaglia, ci siamo affrettati a scrivere al compagno - che peraltro conosciamo perché anche nostro lettore ed in contatto con noi tramite corrispondenza mail - per presentargli i fatti così come erano realmente accaduti (1) e invitandolo a riflettere bene e responsabilmente sulle cose che gli avevamo comunicato. Alla fine della lettera che gli abbiamo inviato concludevamo dicendo di avere “piena fiducia in te, anche se le cose che ti abbiamo detto in questa lettera possono non convincerti del tutto. Reciprocamente ti chiediamo di avere un minimo di fiducia in noi e di avere la pazienza di comprendere la nostra posizione. Siamo naturalmente disponibili a rispondere a tutti i quesiti che tu vorrai porci sulla questione”. Non avevamo naturalmente la pretesa di cambiare completamente il giudizio del compagno con una sola lettera, ma il nostro intervento ha fatto sì che questo compagno, con atteggiamento molto responsabile, inviasse subito un messaggio di scusa a noi e uno sul forum di BC per dire “Certo, di quello che è successo in Francia abbiamo solo la versione di una delle parti. Ho ricevuto una e-mail della CCI dove mi critica per aver pubblicato il messaggio senza prima chiedere la loro versione. Non hanno torto.”
Purtroppo l’atteggiamento del gestore del forum, ovvero Battaglia Comunista, non è stato altrettanto responsabile come si può constatare dalla risposta data all’intervento appena menzionato:
“Ciao Raes,
sì, formalmente si doveva sentire anche cosa diceva la CCI, cioè l’altra campana, ma, dopo aver appurato i fatti, la sostanza è stata confermata, ossia che militanti della CCI hanno strattonato "rudemente" i compagni della Ficci, trascinandoli lontani dal luogo della riunione, con i soliti pazzeschi insulti (spie, canaglie, ladri, nonché leccaculo del BIPR). Da notare che il tutto è avvenuto sulla pubblica via, non nella sala dove la CCI teneva la riunione. Insomma, un comportamento alla Lotta (2) o come i gruppetti anni '70 che, in mancanza di argomenti politici, ricorrevano ai muscoli. Niente di nuovo, se non che protagonista di un simile episodio è un’organizzazione che si richiama alla “Sinistra Comunista”, dove tali metodi staliniani non hanno mai avuto diritto di cittadinanza. Vista l’abituale propensione alla deformazione dei fatti e delle posizioni altrui, è possibile che la CCI sfrutti il tuo intervento per imbastire chissà quale telenovela (assai scadente, per altro, com’è nel suo costume).
Ciao Raes, Smirnov, 26 marzo 2006.”
Anzitutto questa risposta mette in evidenza tutta la disonestà di Battaglia Comunista. Infatti, di fronte alle argomentazioni del compagno Raes prima si dice che sarebbe stato opportuno sentire anche l’altra campana, ovvero la CCI, per poi aggiungere che, “dopo aver verificato i fatti”, si deve concludere che la CCI non ha alcun diritto di reclamarsi alla sinistra comunista. Ma quando sono stati verificati questi fatti? E soprattutto come??? BC lascia intendere che c’è stata una verifica dei fatti laddove invece è rimasta, in tutta evidenza, alle fandonie del comunicato della Ficci visto che la CCI non è stata mai interpellata. Ed è proprio per coprire questa enorme mancanza del pur minimo principio del diritto di replica, concesso finanche dalla democrazia borghese, che BC si spinge a teorizzare che ascoltare l’altra campana non diventa più necessario “vista l’abituale propensione alla deformazione dei fatti e delle posizioni altrui” della CCI. In questo modo, per evitare di fare i conti con la CCI, si preferisce alzare ancora più il tiro delle accuse senza fornire, lo ripetiamo, la benché minima possibilità di esporre la propria versione dei fatti. In più risulta particolarmente odiosa la battuta finale in cui si mette in guardia il compagno Raes da una nostra possibile manipolazione dell’intervento fatto da questi sul forum di BC che, oltre ad essere un’ulteriore accusa gratuita finalizzata solo a creare un’enorme polverone per distrarre i lettori dalle questioni in gioco, è anche una maniera per allontanare subdolamente il compagno - che è anche un nostro lettore - dalla CCI.
Questo intervento è anche l’espressione dell’assenza totale di responsabilità politica da parte di BC nella misura in cui si fanno passare delle risposte su un soggetto così delicato, come la messa sotto accusa di un’altra organizzazione politica, attraverso l’intervento di un suo militante che visibilmente è il moderatore del sito ma che non si presenta neanche ufficialmente come militante di BC. Questo significa che BC ha perso completamente il rispetto della tradizione del movimento operaio e della sinistra comunista che vuole che il confronto tra organizzazioni che combattono dalla parte del proletariato contro la borghesia, per quanto distanti siano le loro reciproche posizioni, avvenga sempre su un piano di aperto ed esplicito confronto di posizioni, a volte anche scontro, ma sempre su un piano di correttezza politica e di leale confronto.
La presa di posizione di BC ha inoltre un carattere deliberatamente calunniatore poiché lascia pensare che è per dei motivi di disaccordo politico (“…in mancanza di argomenti politici…”) che la CCI proibisce l’accesso alle proprie riunioni pubbliche agli elementi della Ficci, mentre BC sa bene che non si tratta di questo ma del loro comportamento indegno di militanti di un’organizzazione rivoluzionaria. BC si concede anche il lusso di mettere sullo stesso piano le nostre pratiche con quelle dei gruppi gauchiste (“…insomma, un comportamento alla Lotta o come i gruppetti anni '70, che in mancanza di argomenti politici ricorrevano ai muscoli…”). Battaglia ha evidentemente tutto il diritto di pensare che il furto, il ricatto, lo spionaggio, le minacce fisiche – che sono i metodi adottati finora dalla Ficci (3) - siano delle pratiche proletarie, visto che ha rapporti cordiali e camerateschi con questi individui, ma almeno cerchi di non immischiarci in queste porcherie che sono metodi che non ci appartengono e che abbiamo sempre risolutamente rigettato.
Ancora, quando BC invoca la ben nota cattiva fede della CCI (“…l’abituale propensione alla deformazione dei fatti e delle posizioni altrui…”), il minimo sarebbe stato assumersi la responsabilità di fornire uno straccio di argomento a sostegno di quanto affermato. Ma anche qui niente di tutto questo. Di fatto la politica di BC è quella di attribuire agli altri la sua condotta politica che consiste nello snaturare sistematicamente le posizioni dell’avversario per poterle più comodamente combattere, pratica che per BC non costituisce purtroppo una novità (4). In particolare BC attribuisce alla CCI il suo stesso atteggiamento di rifiuto del dibattito ben illustrato dal suo sabotaggio delle conferenze della Sinistra Comunista nel 1980 (5) o dal suo comunicato in cui si afferma appunto che il BIPR rifiuta ormai di rispondere alle “accuse della CCI” (6).
Purtroppo le cose che abbiamo denunciato in questo articolo non sono una novità per Battaglia. A partire dall’ottobre 2004 abbiamo svelato e denunciato in maniera precisa una manovra congiunta che vedeva riuniti la Ficci, un fantomatico quanto inesistente Circulo de Comunistas Internacionalistas d’Argentina e la pavida Battaglia Comunista che si era prestata, nella sua storica paura del confronto con la nostra organizzazione, a reggere il gioco pericoloso dei due precedenti gruppi di parassiti e avventurieri. Il BIPR aveva infatti pubblicato in diverse lingue il comunicato del “Circulo” del 12 ottobre 2004 intitolato “Dichiarazione del Circulo de Comunistas Internacionalistas (Argentina): contro il metodo nauseabondo della Corrente Comunista Internazionale” che ci accusava di impiegare dei “metodi stalinisti” nei confronti dei membri del NCI che sarebbero stati molestati da noi a colpi di telefonate continue, vedi in nota il testo in questione (7).
La vergogna di Battaglia Comunista per aver sostenuto incautamente la politica della Ficci si è potuta ridurre solo in parte cancellando frettolosamente dal suo sito la serie di articoli infamanti nei nostri confronti che il Circolo d’Argentina aveva provveduto a inviare in gran quantità a BC e dichiarando incredibilmente che loro, il grande partito, non avrebbero mai più risposto agli “attacchi violenti e volgari da parte della CCI”, una maniera ancora una volta di non assumersi le responsabilità politiche che la situazione comportava. Noi chiediamo solo ai compagni onesti e privi di preconcetti di prendere visione di tutto il materiale che esiste (8) e di sottoporci a tutte le domande che desiderano. La prospettiva rivoluzionaria richiede che si liberi la strada il più velocemente possibile da atteggiamenti opportunisti e disonesti.
Ezechiele, 4 settembre 2006
1. I fatti sono ampiamente riportati in altri articoli già presenti da tempo sul nostro sito web:
- Calunnie e delazione, le due espressioni della politica della FICCI verso la CCI (ICC on line, 18 maggio 2006);
- La Ficci all’opera: menzogne e comportamenti da canaglia (ICC on line, 2 giugno 2006);
- La Ficci riceve la solidarietà che merita (ICC on line, 18 maggio 2006).
2. Con Lotta il compagno si riferisce al gruppo Lotta Comunista.
3. Va peraltro ricordato che il BIPR ha esplicitamente giustificato il furto di materiale della CCI da parte di un membro della FICCI, come è documentato dall’articolo Risposta al BIPR. Il furto e la calunnia non sono metodi della classe operaia! (18 novembre 2004) (sito web, archivio, Rivoluzione Internazionale n. 137).
4. Vedi a tale proposito l’articolo Di calunnia in menzogna, il BIPR si allontana dalla causa del proletariato su Rivoluzione Internazionale n. 140.
5. Vedi Polémique avec le BIPR sur la 4e conférence des groupes de la Gauche communiste : Une triste mascarade ... pubblicato sulla Revue Internationale n. 124, I trimestre 2006, o ancora Les conférences internationales de la Gauche Communiste (1976-1980) - Leçons d'une expérience pour le milieu prolétarien, Revue Internationale n. 122, III trimestre 2005.
6. Vedi Di calunnia in menzogna, il BIPR si allontana dalla causa del proletariato (sito web, archivio, aprile 2005).
7. “Chi non è con me merita di essere distrutto. Ecco la sentenza pronunciata dall’attuale CCI contro tutti quelli che non sono d’accordo con i suoi orientamenti politici fondamentali, o che si decidono a rompere con questo gruppo per dei disaccordi politici, o che ancora si rifiutano di accettare degli appellativi assurdi contro gli altri gruppi e/o compagni della sinistra comunista. Questi meritano di essere distrutti e scomparire per sempre. Benché ciò possa sembrare una menzogna, questa è la posizione che la CCI ha adottato ed è la ragione per la quale si è immessa in una dinamica di distruzione non solamente contro coloro che si arrischiano a sfidare le “leggi e le teorie immutabili” dei guru di questa corrente, ma anche contro tutti quelli che tentano di pensare con la propria testa e dicono NO alle minacce della CCI.
Perché diciamo questo?
Diciamo questo in seguito ad una serie di denunce fatte da militanti del Circulo de comunistas internacionalistas, e su loro richiesta, che testimoniano di essere stati chiamati per telefono dalla CCI. Queste telefonate tuttavia non erano innocenti. Avevano lo scopo subdolo di distruggere il nostro piccolo nucleo, dove i loro militanti, in maniera individuale, provocavano la mutua diffidenza e seminavano i germi della divisione tra i ranghi del nostro piccolo gruppo.
E’ così che, messi in allarme su questo metodo nauseabondo da parte dell’attuale direzione della CCI, noi, militanti del Circulo de comunistas internacionalista, per decisione unanime di tutti i militanti del nostro piccolo nucleo, denunciamo la CCI non solamente per questo metodo, ma anche per l’utilizzazione di pratiche che non corrispondono all’eredità lasciataci dalla Sinistra Comunista, ma piuttosto ai metodi propri della sinistra borghese e dello stalinismo.
Perché una Corrente riconosciuta internazionalmente se la prende con un piccolo gruppo?
La risposta a questa domanda deve essere ricercata all’interno stesso della CCI, perché il “fiasco” con il nostro gruppo ha costretto la frazione dirigente della CCI a mettere avanti dei nuovi pericoli esterni – il BIPR, la FICCI, e oggi il Circolo – per poter imporre l’ordine all’interno.
Questo perché la politica attuale della CCI provoca dei dubbi ed un clima interno di sfiducia reciproca. Essa rende necessaria la tattica stalinista della “terra bruciata”, cioè non solo la distruzione del nostro piccolo e modesto gruppo, ma anche l’opposizione attiva ad ogni tentativo di raggruppamento rivoluzionario di cui non è alla testa la CCI, per le sue politiche settarie ed opportuniste. E per questo non esita ad utilizzare tutta una serie di astuzie ripugnanti che hanno lo scopo di demoralizzare i suoi oppositori e, anche, di poter eliminare un “nemico potenziale”.
Questa è una chiara dimostrazione del fatto che l’attuale direzione della CCI non costituisce un fattore di unità e di raggruppamento rivoluzionario ma piuttosto un ostacolo a questo. Ciò è provato perfettamente dalle sue politiche di cricca, di setta e di tendenza nettamente opportunista. E di fronte ad ogni denuncia di ciò la risposta della cricca è sempre la stessa: o qualifica “parassiti” quelli che li denunciano o affibbia loro tutta una policromia di aggettivi qualificativi che provocano solo risa e scherno nel campo proletario, oltre a inquietudine perché la deriva nella quale si infogna la CCI costituisce un passo indietro per la classe operaia.
E’ così che, mancando l’adesione alle sue posizioni che non hanno niente a che vedere con la tradizione rivoluzionaria, la CCI tenta di sabotare ogni tentativo di raggruppamento rivoluzionario, come nel caso della Riunione Pubblica (del BIPR, ndr) del 20 ottobre 2004 a Parigi (Francia), e cerca oggi di distruggere il nostro piccolo gruppo d’Argentina.
Di fronte a tutto ciò, cosa ha deciso di fare il Circulo de Comunistas Internacionalistas?
Con atteggiamento unanime i compagni che la CCI ha chiamato al telefono per seminare i germi della sfiducia e della distruzione del nostro piccolo gruppo, propongono all’insieme dei membri del Circulo de comunistas internacionalistas il rigetto totale del metodo politico della CCI che loro considerano tipicamente stalinista ed il cui obiettivo centrale, obiettivo della direzione attuale della CCI, è impedire il raggruppamento rivoluzionario per il quale diverse correnti e gruppi lottano; e propongono di denunciare questi comportamenti di fronte all’insieme delle correnti che si dichiarano nella continuità della Sinistra comunista.
Buenos Aires, 12 ottobre 2004. Circulo de Comunistas Internacionalistas”
8. Riportiamo qui di seguito solo una selezione del materiale che riguarda questa triste storia: Lettera della CCI al BIPR (1 ottobre 2004) (sito web, archivio, Rivoluzione Internazionale n. 138); Il ‘Circulo de Comunistas Internacionalistas’ (Argentina): una strana apparizione; Il ‘Circulo de Comunistas Internacionalistas’: una nuova …strana apparizione (19 ottobre 2004); La CCI al BIPR (26 ottobre 2004) (sito web, archivio, Rivoluzione Internazionale n. 137); “Circolo di Comunisti Internazionalisti” (Argentina): impostura o realtà? (27 ottobre 2004) (sito web, archivio, Rivoluzione Internazionale n. 137); Dichiarazione del Nucleo Comunista Internacional a proposito delle dichiarazioni del “Circulo de Comunistas Internacionalistas” (27 ottobre 2004) (sito web, archivio, Rivoluzione Internazionale n.137); La CCI al BIPR (30 ottobre 2004) (sito web, archivio, Rivoluzione Internazionale n. 137); Corrispondenza tra la CCI e il BIPR: epilogo (3 novembre 2004) (sito web, archivio, Rivoluzione Internazionale n. 137); Ultime notizie dall’Argentina : Il NCI non ha rotto con la CCI! (17 novembre 2004) (sito web, archivio, Rivoluzione Internazionale n. 138); Lettera aperta della CCI ai militanti del BIPR (7 dicembre 2004) (sito web, archivio, Rivoluzione Internazionale n. 138); Minacce di morte contro la CCI. Solidarietà con i nostri militanti minacciati! (RzIz n. 140, aprile 2005); Corrispondenza, Apertura al confronto politico e fermezza nella difesa dei principi di classe (Rz 02/10/05).
Il pacifismo è un alleato della guerra non solo in Italia, come facciamo vedere in altra parte del giornale. Qui riportiamo un articolo della nostra sezione in Gran Bretagna che fa vedere come anche laggiù il pacifismo non ha perso l’occasione per schierarsi a fianco di uno dei due contendenti, supposto essere “l’attaccato” Le scuse per il brutale assalto delle forze armate israeliane prima su Gaza e poi sul Libano hanno raschiato la parte inferiore del barile per trovare ‘giustificazioni’ che restano ben discutibili. Di fronte ad attacchi in cui sono stati utilizzati bombardamenti indiscriminati, bombe a grappolo, bombe incendiarie al fosforo, bombe che rilasciano vapori di benzina facendo esplodere i polmoni, armi chimiche e tutto il resto dei dispositivi disponibili per un paese che ha armi nucleari e testate munite di uranio impoverito, ci aspettiamo che almeno Israele pubblichi i relativi opuscoli d'avvertimento prima dei bombardamenti. Quando la gamma degli obiettivi ha incluso aeroporti, strade, ponti, ambulanze, personale dell’ONU, civili, fabbriche, porti, poderi ed una gamma intera di altre infrastrutture essenziali (compreso l’attacco ad una centrale elettrica che ha riversato tonnellate di petrolio in mare), i sostenitori dell’offensiva israeliana si sono lamentati delle centinaia di vittime perché erano nel posto errato al momento sbagliato. Come i militari, che parlano di ‘spazzare’ il Libano del sud, così i sostenitori insistono che Israele sta difendendosi, come ogni nazione ha il diritto di farlo. Il nazionalismo è usato per giustificare tutto. Nel Libano la principale forza organizzata contro l'Israele è stata Hezbollah, fin dall’inizio degli anni ’80. Ha sostenuto di avere 13.000 razzi d'artiglieria all'inizio dell’ultimo conflitto. Li ha schierati generosamente contro città e villaggi nel nord di Israele. Con una precisione limitata sono stati lanciati contro località come la popolosa Haifa e l’araba Nazareth. Hezbollah dichiara di attaccare obiettivi militari, ma la maggior parte delle vittime è fatta di civili, come quelle fatte dallo Stato israeliano. Il fatto che finora ne ha ucciso a dozzine mentre Israele ne ha ucciso a centinaia riflette soltanto le differenti risorse
Non ci dovrebbero essere dubbi in quanto alle intenzioni di Hezbollah. Human Rights Watch ha criticato gli attacchi sulle aree civili in Israele il 18 luglio in parte perché “le testate usate suggeriscono un desiderio di elevare i danni nei confronti dei civili. Alcuni dei razzi lanciati contro Haifa negli ultimi due giorni contengono centinaia di cuscinetti a sfera che hanno un uso limitato contro gli obiettivi militari ma che causano un grande danno ai civili ed alle infrastrutture civili." C’era da aspettarselo perché l'ideologia di Hezbollah è identica a quella di Israele - sta difendendo lo Stato in cui svolge un ruolo nel parlamento e nel governo e in più di venti anni si è dimostrata come una efficace forza militare. Il nazionalismo è usato per giustificare qualsiasi cosa.
Il ruolo di Hezbollah come componente dello Stato libanese non è limitato alla sfera politica e militare. Già compie dichiarate funzioni di base dello stato, di fianco allo stato ‘ufficiale’, con una rete di base di assistenza sociale fatta di scuole, ospedali, cliniche e vari progetti di sviluppo. La classe dominante libanese dipende dal suo contributo che, a turno, è sostenuto dall'Iran e dalla Siria.
Le dimostrazioni per la guerra imperialista
Molti a sinistra hanno dato sostegno a Hezbollah. George Galloway è esplicito quando dice "glorifico il movimento di resistenza nazionale di Hezbollah" e le recenti dimostrazioni sono state decisamente a favore della guerra con la loro difesa dello sforzo militare libanese/Hezbollah e contro Israele.
Sponsorizzata dalla “Coalizione per Fermare la Guerra”, dai gruppi musulmani e dal CND (campagna per il disarmo nucleare) la dimostrazione del 5 agosto a Londra è stata una tipica approvazione della guerra. Durante il raduno tenuto alla fine della marcia abbiamo sentito con insistenza che Israele deve essere costretta a pagare le riparazioni, cosa che ricorda le richieste che fecero gli imperialisti francesi e britannici alla Germania dopo la prima guerra mondiale.
Un oratore ha chiesto ai “codardi capi arabi di non restare inginocchiati!", una chiara richiesta di reagire, di trascinare la guerra in altri paesi e far sprofondare la regione.
I membri del Partito del Rispetto hanno sostenuto di essere l'unico partito "pacifista" mentre hanno distribuito volantini a favore della guerra dove parlano esclusivamente dei danni inflitti al Libano. Lo slogan principale della marcia era "tregua incondizionata", ma la riserva - "fermare gli attacchi di Israele in Libano e a Gaza" - conferma che c’era una condizione al cessate il fuoco: non si applica a Hezbollah, alla Siria o all'Iran.
Raccontando bugie sulla ‘resistenza’
Ci sono altri modi di vendere ciò che Wilfred Owen ha chiamato "la vecchia bugia" di come è dolce morire per una causa patriottica. Il Partito Socialista degli Operai (SWP) ha chiamato alla "solidarietà con la resistenza" perché "la resistenza che Israele sta incontrando in Libano è una barriera ad ulteriori guerre e ad ulteriore distruzione". Il che è l'opposto della verità. L’attuale conflitto che coinvolge Gaza, Israele ed il Libano non è iniziato alcune settimane fa. Per capire le radici dei conflitti, proprio come quelli in Iraq, in Giordania, in Siria, Iran ed Egitto, è necessario ritornare alla prima guerra mondiale ed al crollo dell'impero ottomano. Le più grandi potenze imperialiste si sono impossessate di differenti zone dell’importante, strategicamente, Medio Oriente e da allora stanno manovrando nella regione. Le potenze più piccole, i gruppi e le fazioni sono stati usati dalle quelle più grandi o hanno cercato di soddisfare i loro propri appetiti. La formazione di Israele nel 1948, la guerra dei sei giorni nel 1967, l'invasione del Libano nel 1978, la guerra tra Iran e Iraq nel 1980-88, la guerra del Golfo nel 1991, l'invasione dell’Iraq nel 2003 – tutti questi sono momenti della guerra imperialista da cui nessuna potenza, grande o piccola, può tenersi in disparte. Oggi ogni fazione dice di essere d’accordo con la soluzione dei ‘due stati’ - ma Israele pensa alla Grande Israele ed i suoi avversari alla Palestina unificata. Lontano dall’essere una ‘barriera’ ad ulteriori guerre l’attuale conflitto fra Israele e Hezbollah mostra in tutte le sue caratteristiche di avere la capacità di intensificare e coinvolgere altre forze, quindi lasciando mano libera ad una distruzione molto più grande.
Lo SWP dice che Hezbollah "è sostenuto da una ondata crescente di solidarietà attraverso il mondo arabo". Questa è una debolezza nella lotta degli sfruttati e degli oppressi perché mostra che ci sono illusioni diffuse sulle forze nazionaliste che emergono dai conflitti imperialisti e che possono giocare un ruolo soltanto nella loro esacerbazione. Le varie forze di ‘resistenza’, in Palestina, Libano, Iraq o Afghanistan, sono presentate come le uniche risposte possibili alle offensive israeliane o alla repressione degli Usa e Gran Bretagna. Per esempio, lo SWP cita un attivista a Beirut che afferma "Hezbollah, e Hamas in Palestina, sono gli unici modelli di resistenza che ancora abbiamo, gli unici che funzionino." Tuttavia entrambe queste organizzazioni hanno le loro origini nelle fazioni che partecipano nel conflitto imperialista. Israele ha avuto un ruolo nella creazione di Hamas come avversaria di Al-Fatah di Yasser Arafat. Hezbollah era in molti sensi l’idea di Ali Akbar Mohtashemi, ambasciatore iraniano in Siria all'inizio degli anni ’80 ed ha avuto il supporto dell'Iran e della Siria fin da allora. Non sono modelli di ‘resistenza’ ma modelli delle forze ausiliarie dei principali battaglioni capitalisti.
Non troverete alcune ‘barriere’ alle future guerre e distruzioni nei ranghi di coloro che partecipano negli attuali conflitti. L'unica forza che ha la capacità di colpire al cuore del sistema capitalista che genera la guerra imperialista è la classe operaia internazionale.
Internazionalmente i dimostranti stanno chiedendo non soltanto di sostenere l’attuale conflitto, dicono anche di ‘esercitare una pressione sui governi occidentali’. Stanno chiedendo di credere che le grandi potenze come gli Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia o Germania potrebbero comportarsi in modo diverso dall’essere predatori imperialisti. Come per i ‘movimenti di resistenza nazionali’ sono già integrati alle forze repressive e belliche del capitalismo o ne coltivano l’ambizione. La società capitalista spinge la classe operaia internazionale in conflitto con lo stato capitalista in tutto il mondo, ma dove la guerra imperialista può condurre soltanto ad una distruzione sempre più massiccia, la guerra di classe della classe operaia può condurre ad una società senza divisioni nazionali, alla liberazione dell’umanità.
6 agosto 2006
Alla fine di ottobre 2006, l’Alleanza Politica Socialista (SPA) ha convocato una conferenza di organizzazioni, gruppi e militanti internazionalisti nelle città coreane del sud di Seul e di Ulsan. Per quanto modesti fossero i numeri delle persone presenti, l’SPA, per quanto ne sappiamo, è la prima espressione organizzata nell’Estremo-Oriente dei principi della Sinistra Comunista e questa conferenza era certamente la prima del genere. Come tale, essa ha un’importanza storica e la CCI le ha dato il suo pieno e convinto sostegno inviando una delegazione per parteciparvi. (1)
Tuttavia, poco prima della conferenza, l’importanza politica di lungo termine dei suoi obiettivi è stata oscurata dall’acutizzarsi drammatico delle tensioni interimperialiste nella regione causato dall’esplosione della prima bomba nucleare della Corea del Nord e dalle manovre che sono seguite, particolarmente da parte delle diverse potenze presenti nella regione (USA, Cina, Giappone, Russia, Corea del sud). Di conseguenza questa questione è stata largamente dibattuta nel corso della conferenza e ha dato luogo all’adozione, da parte dei partecipanti i cui nomi sono riportati in basso, della seguente dichiarazione:
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Dichiarazione internazionalista dalla Corea contro la minaccia di guerra
In seguito alle notizie relative ai test nucleari nella Corea del Nord noi, i comunisti internazionalisti riuniti a Seul e Ulsan:
1. Denunciamo lo sviluppo di nuove armi nucleari nelle mani di un altro stato capitalista: la bomba nucleare è l’ultima arma della guerra interimperialista, essendo la sua sola funzione lo sterminio totale della popolazione civile in generale e della classe operaia in particolare.
2. Denunciamo senza riserve questo nuovo passo verso la guerra intrapreso dallo stato capitalista della Corea del nord che ha così dimostrato ancora una volta (se fosse ancora necessario) che esso non ha assolutamente niente a che fare con la classe operaia o con il comunismo e che rappresenta solo la versione estrema e grottesca della tendenza generale del capitalismo decadente verso la barbarie militarista.
3. Denunciamo senza riserve l’ipocrita campagna condotta dagli Stati Uniti e dai suoi alleati contro il loro nemico della Corea del nord, che non è altro che una preparazione ideologica per sferrare - quando ne avranno la facoltà - i loro propri attacchi preventivi, di cui la popolazione lavoratrice sarebbe la vittima principale, come avviene oggi in Iraq. Non abbiamo dimenticato che gli Stati Uniti sono l’unica potenza che ha utilizzato armi nucleari in guerra, annientando le popolazioni civili di Hiroshima e di Nagasaki.
4. Denunciamo senza riserve le pretese “iniziative di pace„ che appaiono sotto l’egida di altri gangster imperialisti come la Cina. Questi paesi non sono interessati alla pace, ma solo alla difesa dei loro propri interessi capitalisti nella regione. I lavoratori non possono avere alcuna fiducia nelle “intenzioni pacifiche„ di qualsivoglia stato capitalista.
5. Denunciamo senza riserve qualunque tentativo da parte della borghesia della Corea del sud di prendere delle misure repressive contro la classe operaia o contro dei militanti nella loro difesa dei principi internazionalisti con il pretesto della difesa della libertà nazionale o della democrazia.
6. Esprimiamo la nostra completa solidarietà con gli operai della Corea del nord e del sud, della Cina, del Giappone e della Russia che saranno le prime vittime nel caso in cui dovesse scoppiare un’azione militare.
7. Dichiariamo che soltanto la lotta di classe a livello mondiale può mettere fine una volta per sempre alla continua minaccia di barbarie, di guerra imperialista e di distruzione nucleare che pende sopra umanità nella società capitalista.
Gli operai non hanno alcuna patria da difendere! Operai di tutti i paesi, unitevi
Questa dichiarazione è stata sottoscritta dalle organizzazioni e gruppi seguenti:
Un certo numero di compagni presenti alla Conferenza hanno ugualmente sottoscritto la dichiarazione su base individuale:
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1. Torneremo più dettagliatamente sui contenuti di questa conferenza con un prossimo articolo.
Il seguente articolo ci è stato trasmesso dai membri del forum di discussione delle Midlands. Questo testo, oltre a darci una chiara visione generale del recente sciopero dei dipendenti comunali, contiene alcune informazione molto interessanti su una piccola ma significativa espressione della solidarietà di classe seguita allo sciopero.
Il 28 marzo 2006 c’è stato il più grande sciopero in Gran Bretagna dal 1926. Più di 1 milione operai del pubblico impiego comunale – settore edilizio, raccolta rifiuti, biblioteche, refezioni e pulizia scolastica e altri- sono stati mobilitai da otto sindacati, compresi Unison, Amicus, T&G e GMB per una “giornata di azione” contro la proposta di riforma del sistema pensionistico, che significherebbero per gli operai dell’amministrazione pubblica locale accettare lo stesso trattamento pensionistico della maggior parte dei lavoratori del settore privato e continuare a lavorare fino a 65 anni, anziché potersi ritirare a 60 anni come ora. Questa proposta di riforma delle pensioni si allinea alle riforme messe in atto in altri paesi europei, quali la Francia e l'Austria nel 2003 e negli USA. Questa è parte di un attacco più ampio dello Stato britannico contro il “salario sociale”, che include l'estensione dell'età lavorativa fino a 68 anni per quelli che attualmente sono sotto i 30 anni ed è un segno del fallimento storico del capitalismo. Incapace da tempo di fornire alcunché alla classe operaia, se non disoccupazione continua o superlavoro fino alla morte prematura, lo Stato adesso dice agli operai che non possono aspettarsi di essere “sostenuti” da lui nella loro vecchiaia, dopo tutta una vita di duro lavoro o sprecata con un sussidio di disoccupazione.
Come in Francia ed in Austria, come nello sciopero nei trasporti di New York alla fine del 2005, c’è stata una forte rabbia tra gli operai su queste riforme che mettono in questione l'idea stessa che il capitalismo possa offrire. Questa rabbia ha spinto i sindacati a mettersi alla testa delle proteste. La questione delle pensioni è un problema che tocca l’insieme della classe operaia; è un attacco all’insieme della classe; è una questione che unisce tutti gli operai, in qualsiasi settore lavorino, qualunque sia la loro età, se sono impiegati o disoccupati. Le mobilizzazioni di massa in Francia hanno mostrato l’ampiezza della rabbia degli operai lì; il grosso sciopero in Gran Bretagna ha mostrato la rabbia degli operai qui; questo non è un problema degli operai inglesi o del capitalismo inglese, ma un segno a livello mondiale del fallimento storico del capitalismo.
Sin dall'inizio i sindacati hanno tentato di dividere gli operai nelle varie categorie per spezzare ogni senso di solidarietà. Non c’è stato nessun appello per estendere lo sciopero alle altre categorie di lavoratori che possono andare in pensione a 60 anni, ma le cui le pensioni erano ugualmente minacciate – impiegati statali, insegnanti, o il personale sanitario, per esempio - o quelli nel settore privato che in genere devono lavorare fino a 65 anni. Anche tra i dipartimenti comunali c’è stata una divisione - alcune aree e settori hanno funzionato normalmente, altri sono stati chiusi o parzialmente chiusi perché gli operai erano in sciopero.
La stessa stampa ha attaccato i principi basilari della solidarietà di classe: i lavoratori comunali sono stati presentati come dei “privilegiati” (perché negli anni 80 le loro condizioni di lavoro non furono attaccate tanto selvaggiamente quanto quelle degli altri operai) e sono stati accusati di aver perso i contatti con la realtà economica, tornando indietro ai “giorni bui” degli anni 70 e 80 (cioè all'ultima volta che tantissimi operai in Gran Bretagna espressero la loro combattività).
In una città nelle Midlands, parecchi settori sono entrati in sciopero, compreso quello dei netturbini - che si compone sia di operai con contratto a tempo indeterminato, principalmente membri del sindacato GMB, che di operai con contratto a termine, principalmente operai giovani venuti in Gran Bretagna dalla Polonia dopo l'espansione sul versante est dell'UE, assunti attraverso le agenzie di collocamento. Questi operai per la maggior parte non sono sindacalizzati, e pochissimi di loro sono membri di un sindacato.
Risultato dello sciopero, gli scioperanti con un contratto a tempo indeterminato, ma non membri del sindacato, sono stati messi in riga attraverso, ad esempio, l’opzione di fare straordinari retroattivi - in un lavoro così mal pagato come quello dei netturbini, per molti operai è assolutamente vitale fare gli straordinari per poter sbarcare il lunario. I giovani operai polacchi assunti tramite agenzia, invece, che avevano scioperato in solidarietà con i loro compagni di lavoro del sindacato, sono stati licenziati. La reazione del personale a tempo indeterminato è stata di rabbia contro questa sfacciata provocazione. Nella mensa aziendale si è tenuta una riunione improvvisata di circa 35 operai – la metà dei quali del turno della mattina successiva - per decidere come ottenere che questi giovani operai fossero reintegrati. L’istanza è stata presentata al delegato sindacale del GMB nel reparto, che ha detto che poiché gli operai dell'agenzia non erano iscritti al sindacato, questo non avrebbe fatto niente per aiutarli. Una delegazione di tre operai ha richiesto alla direzione la reintegrazione degli operai licenziati. La risposta della direzione è stata che questi operai in realtà non erano stati licenziati da lei; il loro contratto di lavoro era con l'agenzia, era quindi l'agenzia, e non la direzione, che aveva rifiutato di riassumerli alla scadenza del contratto.
Questa risposta ipocrita ha provocato ancora di più gli operai del reparto. Ne è seguita un’altra riunione con la direzione, a cui gli operai hanno richiesto la reintegrazione dei compagni licenziati. La direzione ha acconsentito a scrivere una lettera all'agenzia per dire che gli operai polacchi non dovevano essere incolpati di non essersi recati al lavoro; che nella “confusione” dello sciopero era difficile sapere chi aveva o non aveva fatto il turno. Questa lettera è stata poi portata da due degli operai all’agenzia di collocamento - per accertarsi che questa arrivasse, poiché gli operai non avevano fiducia nel fatto che la direzione si assicurasse che la lettera fosse giunta a destinazione. Il risultato è stato che tutti gli operai licenziati sono stati reintegrati.
Unita, la classe operaia è una forza irresistibile; quando i lavoratori mostrano solidarietà tra di loro, intervenendo con partecipazione e solidarietà, esigendo dalla direzione la reintegrazione dei compagni licenziati, oltrepassando le barriere che il capitalismo prova ad erigere fra noi – sindacato/non sindacato, permanente/temporaneo, contratto diretto/tramite collocamento, nativo/immigrato-, ogni azione, benché in sé molto piccola, è parte del processo con il quale la classe operaia, come un tutt’uno, comincia a riscoprire la propria identità, quella di una classe mondiale e anche di una classe storica; una classe che porta in se il futuro dell'umanità, il comunismo.
Possiamo solo provare sentimenti d’indignazione e di nausea davanti a questa nuova manifestazione, a questo scatenamento di barbarie in Medio Oriente: 7.000 incursioni aeree sul territorio libanese, più di 1.200 morti in Libano ed in Israele, di cui più di 300 bambini con meno di 12 anni, circa 5.000 feriti, un milione di civili costretti a scappare dalle bombe o dalle zone di combattimento. Altri, troppo poveri per scappare si riparano come possono con la paura addosso... Quartieri, villaggi ridotti in rovine, ospedali presi d’assalto e pieni da scoppiare: tale è il bilancio provvisorio di un mese di guerra in Libano ed in Israele in seguito all’offensiva di Tsahal per ridimensionare l’ascesa crescente degli Hezbollah in risposta ad uno dei numerosi attacchi assassini delle milizie islamiche al di là della frontiera israelo-libanese. Le distruzioni sono valutate a 6 miliardi di euro, senza contare il costo militare della stessa guerra. Alla fine, l’operazione di guerra si chiude con un insuccesso che è anche una scottante sconfitta, mettendo brutalmente fine al mito dell’invincibilità, dell’invulnerabilità dell’esercito israeliano. Rappresenta inoltre un nuovo indietreggiamento e la continuazione dell’indebolimento della leadership americana. Al contrario, Hezbollah esce rinforzato dal conflitto e, attraverso la sua resistenza, ha acquistato una nuova legittimità agli occhi dell’insieme dei paesi arabi.
Questa guerra costituirà una nuova tappa nella messa a ferro e fuoco di tutto il Medio Oriente e nella caduta in un caos sempre più incontrollabile al quale tutte le potenze imperialiste avranno contribuito, dalle più grandi alle più piccole, in seno alla pretesa “comunità internazionale”.
Perché questi massacri, questa fiammata di combattimenti omicidi?
L’impasse della situazione in Medio Oriente si era già avuto con l’arrivo al potere dei “terroristi” di Hamas nei territori palestinesi (favorito dall’intransigenza del governo israeliano che ha contribuito alla “radicalizzazione” di una maggioranza della popolazione palestinese) e la lacerazione aperta tra le frazioni della borghesia palestinese, tra Fatah ed Hamas, impedisce oramai ogni soluzione negoziata. Il ritiro israeliano da Gaza, per isolare meglio ed accerchiare la Cisgiordania, non servirà a molto. Israele non aveva altra soluzione che spostarsi all’altro versante per fermare l’influenza crescente degli Hezbollah nel Sud del Libano, aiutati, finanziati ed armati dal padrino iraniano. Il pretesto invocato da Israele per scatenare la guerra è stata la richiesta di liberazione per 2 soldati israeliani fatti prigionieri dagli Hezbolllah: dopo mesi dalla loro cattura sono sempre prigionieri delle milizie sciite, e le prime trattative a tale proposito sono state appena abbozzate dall’ONU. Altro motivo invocato: “neutralizzare” e disarmare gli Hezbollah, i cui attacchi e le cui incursioni sul suolo israeliano dal Sud Libano sarebbero una minaccia permanente per la sicurezza dello Stato ebraico. Ma la reazione che si scatenerà sarà tanto sproporzionata quanto il voler ammazzare una zanzara con un bazooka. Lo Stato israeliano si è dedicato con brutalità ad una politica di vera e propria terra bruciata, con una ferocia ed un accanimento incredibile contro le popolazioni civili dei villaggi nel Sud Libano, cacciate senza riguardo dalle loro terre, dalle loro case, costrette a crepare di fame, senza acqua potabile, esposte alle peggiori epidemie. Sono 90 i ponti e innumerevoli le vie di comunicazione sistematicamente messe fuori uso (strade, autostrade...), 3 centrali elettriche e migliaia d’abitazioni distrutte, l’aeroporto di Beirut inutilizzabile. Il governo israeliano ed il suo esercito hanno continuamente proclamato la volontà “di risparmiare i civili”, massacri come quelli di Canaa sono stati definiti “incidenti spiacevoli” (come i famosi “danni collaterali” nelle guerre del Golfo e nei Balcani). Ma è tra la popolazione civile che si contano la maggior parte di vittime, e di parecchio: il 90% dei morti!
Questa guerra non poteva scoppiare senza il via libera degli Stati Uniti. Arenati fino al collo nel pantano della guerra in Iraq e in Afghanistan, e dopo l’insuccesso del loro “piano di pace” per regolare la questione palestinese, gli Stati Uniti possono solamente constatare l’insuccesso patente della loro tattica d’accerchiamento dell’Europa, di cui il Vicino e Medio Oriente erano, dal punto di vista strategico, le pedine principali. In particolare, la presenza americana in Iraq dopo tre anni si è tradotta in un caos sanguinoso, una vera guerra civile spaventosa tra fazioni rivali, attentati quotidiani che colpiscono ciecamente la popolazione, al ritmo di 80-100 morti al giorno. Tutti questi fiaschi e quest’impotenza manifestano l’indebolimento storico della borghesia americana nella regione che, di conseguenza, vede la sua leadership sempre più contestata nel mondo intero. Questa è del resto la ragione per cui nuove pretese imperialiste di altri Stati si affermano sempre più, a cominciare dall’Iran. In questo contesto, era fuori questione per gli Stati Uniti intervenire in prima persona quando il loro obiettivo nella regione è prendersela con questi Stati denunciati come “terroristi” ed incarnazione de “l’asse del male” costituito, secondo loro, dalla Siria e soprattutto dall’Iran di cui gli Hezbollah hanno il sostegno. L’offensiva israeliana, che doveva servire d’avvertimento a questi due Stati, dimostra la perfetta convergenza d’interessi tra la Casa Bianca e la borghesia israeliana. Del resto, gli Stati Uniti in seno all’ONU hanno continuamente frenato e sabotato per parecchie settimane gli accordi di cessate il fuoco per permettere all’esercito israeliano di piazzare le sue basi operative più lontano possibile in territorio libanese, fino al famoso fiume Litani.
A parte il fatto che non è proprio da mettere in conto per lo Stato ebraico di installarsi permanentemente nel Sud-Libano, i metodi ed i problemi ai quali sono confrontati gli Stati Uniti e lo Stato d’Israele in Medio Oriente fanno parte di una stessa dinamica: stessa necessità di fuga in avanti nelle avventure militari per conservare i propri interessi imperialisti ed il proprio statuto di gendarme; stesso pantano in cui possono solo arenarsi sempre di più; stessa incapacità a controllare una situazione di caos crescente in cui ogni loro intervento provoca altrettante aperture di vasi di Pandora.
Civili e militari in seno alla borghesia israeliana si rinfacciano la responsabilità di una guerra mal preparata. Israele fa l’amara esperienza che non è possibile combattere una milizia disseminata nella popolazione come si combatte un esercito ufficiale di uno Stato costituito. Hezbollah, come d’altronde Hamas, inizialmente non era che una delle innumerevoli milizie islamiche costituitesi contro lo Stato dell’Israele, nata all’epoca dell’offensiva israeliana nel Sud-Libano nel 1982. Grazie alla sua componente sciita ha prosperato beneficiando del copioso sostegno finanziario del regime degli ayatollah e dei mullah iraniani. Anche la Siria lo ha utilizzato dandogli un importante sostegno logistico per servirsene da retroterra quando fu costretta nel 2005 a ritirarsi dal Libano. Contemporaneamente, questa banda d’assassini sanguinari ha saputo tessere pazientemente una potente rete di sergenti reclutatori attraverso la copertura di un aiuto medico, sanitario e sociale, alimentato dai generosi fondi messi a disposizione dalla manna petrolifera dello Stato iraniano. Oggi, si può permettere di pagare i risarcimenti delle case distrutte o danneggiate dalle bombe e dai razzi allo scopo di arruolare nelle sue fila la popolazione civile. E abbiamo visto, dai vari reportage, come questo “esercito ombra” sia composto da numerosi ragazzini tra i 10 ed i 15 anni utilizzati come carne da cannone nei sanguinosi regolamenti di conto.
La Siria e l’Iran formano momentaneamente il blocco più omogeneo intorno ad Hamas o Hezbollah. In particolare, l’Iran mostra chiaramente l’ambizione a diventare la principale potenza imperialista della regione e il possesso dell’arma atomica in effetti le assicurerebbe questo ruolo. Non a caso da mesi il governo iraniano sta sfidando gli Stati Uniti perseguendo il suo programma nucleare, mentre moltiplica le arroganti provocazioni ed osteggia le sue intenzioni bellicose, dichiarando apertamente l’intenzione di radere al suolo lo Stato israeliano.
Il colmo del cinismo e dell’ipocrisia è raggiunto dall’ONU che, per tutto il tempo, non ha fatto che proclamare la sua “volontà di pace” pur lamentando la propria “impotenza”(1). Questa è un’odiosa menzogna. Questo “covo di briganti” è la palude dove si trastullano i più mostruosi coccodrilli. I cinque Stati membri permanenti del Consiglio di Sicurezza sono i maggiori predatori del pianeta.
- Gli Stati Uniti, la cui egemonia si basa sulla più potente armata militare del mondo ed i cui misfatti, dalla proclamazione nel 1990 “di un’era di pace e di prosperità” da parte di Bush Senior, si commentano da soli (le due guerre del Golfo, l’intervento nei Balcani, l’occupazione dell’Iraq, la guerra in Afghanistan...).
- La Gran Bretagna che ha accompagnato fino a questo momento le principali spedizioni punitive degli Stati Uniti per la difesa dei propri interessi. Essa intende così riconquistare la zona d’influenza di cui disponeva attraverso il suo vecchio protettorato in questa regione (principalmente Iran ed Iraq). Intende mantenere la sua presenza nella regione a qualsiasi prezzo, sperando di intascare i dividendi negli anni futuri.
- La Russia, responsabile delle peggiori atrocità all’epoca delle sue due guerre in Cecenia, che avendo mal digerito l’implosione dell’URSS e rimuginando un desiderio di rivincita, manifesta oggi nuove pretese imperialiste, approfittando della posizione di debolezza degli Stati Uniti. È per ciò che gioca la carta del sostegno all’Iran e più discretamente agli Hezbollah.
- La Cina che, approfittando della sua crescente influenza economica, sogna di accedere alle nuove zone di influenza fuori dall’Asia del Sud-est E l’Iran, a cui fa gli occhi dolci, fa parte degli Stati su cui punta per raggiungere i suoi scopi. Queste due potenze, ognuna per proprio conto, cercano di sabotare le risoluzioni dell’ONU delle quali erano state promotrici.
- In quanto alla Francia, il sangue che ha sulle mani non è meno sporco delle altre. Non solo ha partecipato pienamente ai massacri della prima guerra del Golfo nel 1991, ma la carta pro-serba che si è giocata nei Balcani l’ha spinta a lasciar massacrare freddamente in seno alle forze dell’ONU le popolazioni bosniache nell’enclave di Srebrenica nel 1993, a partecipare, attivamente alla caccia dei talebani in Afghanistan (la morte di 2 soldati all’interno della “forza speciale” del COS ha appena messo in piena luce quest’attività fino ad ora molto discreta)(2). Ma è soprattutto in Africa che l’imperialismo francese si è messo in luce per la difesa dei suoi sordidi interessi imperialisti provocando i massacri inter-etnici nel Ruanda, incoraggiando coi metodi più barbari gli Hutu allo sterminio dei Tutsi.
La borghesia francese ha conservato la nostalgia dell’epoca in cui divideva le zone di influenza in Medio Oriente con la Gran Bretagna. Dopo esser stata costretta a rimettere in causa la sua alleanza con Saddam Hussein all’epoca della prima guerra del Golfo nel 1991, con l’assassinio poi del suo “protetto” Massoud in Afghanistan, le sue speranze di riconquista si sono concentrate sul Libano. La Francia fu cacciata brutalmente all’epoca della prima guerra del Libano, nel 1982/83, dall’offensiva della Siria contro il governo libano-cristiano, poi per l’intervento israeliano comandato dal “macellaio” Sharon e teleguidato dagli USA, che costrinse la Siria fino a quel momento schierata nel campo dell’ex-URSS a lasciare il Libano ed a raggiungere il campo occidentale. Non ha perdonato alla Siria l’assassinio nel febbraio 2005 (attribuito a Bachar al-Assad) dell’ex-primo ministro libanese Rafi Hariri, grande “amico” di Chirac e della Francia. È per questo che, malgrado il suo desiderio di risparmiare l’Iran (qualificato “il grande paese” e ripetendo di voler negoziare con lui) si è allineata al piano americano sul Libano, intorno alla famosa risoluzione 1201 dell’ONU, orchestrando anche il piano del nuovo spiegamento del FINUL. A dispetto delle reticenze dello stato-maggiore, che ha protestato perché le operazioni militari della Francia all’estero che si troverebbero ormai “al limite” (circa 15.000 uomini impegnati su differenti e molteplici fronti: Costa d’Avorio con l’operazione Licorne, il Ciad, la RD del Congo, Gibuti, il Darfour, il Kosovo, la Macedonia, l’Afghanistan) il governo francese ha varcato il Rubicone. Ha accettato di portare il suo impegno in Libano con la presenza da 400 a 2.000 soldati in seno al FINUL, a certe condizioni: in particolare, la continuazione del suo mandato di comando generale sullo spiegamento dei 15.000 uomini previsti fino a febbraio 2007, il ricorso alla forza in caso d’aggressione. Scotta ancora, infatti, il ricordo dell’attentato, da parte di terroristi sciiti, contro il palazzo Drakar che ospitava il contingente francese a Beirut nell’ottobre 1983, conclusosi con la perdita di 58 paracadutisti, che causò il ritiro della Francia dal Libano. Tuttavia, non sono sparite le esitazioni della borghesia francese a passare dal campo diplomatico a quello militare. La missione essenziale del FINUL è quella di sostenere un esercito libanese appena ricostituito e molto debole - solo 15.000 uomini - incaricato di disarmare Hezbollah. Questa missione si annuncia tanto più pericolosa in quanto: due membri di Hezbolllah sono nel governo libanese; Hezbollah stesso forte del fatto di avere da solo dato smacco al potente esercito di Tsahal, non si è mai sentito tanto forte e pieno di sicurezza (ha dimostrato la sua capacità di lanciare razzi e minacciare le città del Nord d’Israele fino alla firma del cessate il fuoco); e, soprattutto, l’esercito libanese è già largamente infiltrato da lui.
Anche altre potenze sono in lizza, come l’Italia che, in cambio del più grosso contingente delle forze dell’ONU si vedrà affidare dopo febbraio 2006 il comando supremo del FINUL in Libano. Così, appena qualche mese dopo il ritiro delle sue truppe dell’Iraq, Prodi dopo avere criticato aspramente l’impegno dell’equipe Berlusconi in Iraq, presenta la stessa minestra in Libano confermando le ambizioni dell’Italia ad avere un suo posto nella corte dei grandi, a rischio di lasciarci le penne. L’insuccesso patente d’Israele e degli Stati Uniti rappresenta un nuovo passo importante nell’indebolimento dell’egemonia americana. Ma questo lungi da essere un fattore d’attenuazione dei conflitti, non fa che aumentarli. Costituisce anzi un incoraggiamento per decuplicare le pretese imperialiste di tutti gli altri Stati e annuncia quindi una destabilizzazione ed un caos crescente.
Il Medio Oriente offre oggi un concentrato del carattere irrazionale della guerra in cui ogni imperialismo si accanisce sempre più a difendere i propri interessi, al prezzo di un’estensione sempre più larga e sanguinosa dei conflitti, coinvolgendo un numero crescente di Stati. La Siria e l’Iran sono ormai sul piede di guerra. Ciò spinge gli Stati Uniti ed Israele ad organizzare una risposta ancora più terribile ed omicida. Il ministro della difesa israeliana ha chiaramente lasciato intendere che il cessate il fuoco era solamente una tregua per ridisporre le sue forze e preparare un secondo assalto dove promette di liquidare definitivamente Hezbollah.
L’estensione delle zone di scontri nel mondo è una manifestazione del carattere ineluttabile della barbarie del capitalismo. La guerra ed il militarismo sono diventati il modo di vita permanente del capitalismo decadente in piena decomposizione. È una delle caratteristiche essenziali del tragico vicolo cieco di un sistema che non ha nient’altro da offrire all’umanità se non miseria e morte.
Stanno crescendo le proteste contro la guerra . L’anno scorso ci sono state grandi manifestazioni a Tel Aviv e ad Haïfa per protestare contro il rialzo del costo della vita, contro la politica del governo d’aumento smisurato dei bilanci militari a scapito dei bilanci sociali che aveva come conseguenza un rialzo esorbitante dell’inflazione. L’insuccesso della guerra oggi può solamente favorire l’espressione crescente del malcontento sociale.
Nei territori palestinesi si esprime sempre più la rabbia dei dipendenti del pubblico impiego non pagati da parecchi mesi (a causa del congelamento dei crediti dell’Unione Europea dall’elezione di Hamas).
Tuttavia, milioni di persone tra i proletari e la popolazione civile, che siano di origine ebraica, palestinese, sciita, sunnita, druza, curda, maronita cristiana o altra, sono prese in ostaggio e subiscono un terrore quotidiano.
Quale solidarietà con le popolazioni vittime della guerra?
La borghesia proclama che bisogna rivendicare che “siamo tutti sionisti, nazionalisti palestinesi e patrioti libanesi”. Al contrario, i rivoluzionari devono proclamare alto e forte il grido d’unità del proletariato: “I proletari non hanno patria”. La classe operaia non ha nessun interesse nazionale né alcun campo da difendere. Questi interessi nazionali sono sempre quelli della borghesia che la sfrutta. Opporsi alla guerra, è opporsi a tutti i campi capitalisti. Solo il capovolgimento del capitalismo potrà mettere fine allo scatenamento della barbarie guerriera. La sola vera solidarietà, all’interno del proletariato verso i suoi fratelli di classe esposti ai peggiori massacri, è mobilitarsi sul proprio terreno di classe contro i propri sfruttatori. È battersi e sviluppare le sue lotte sul campo sociale contro la propria borghesia nazionale. Così com’è stato fatto con gli scioperi che hanno paralizzato l’aeroporto di Londra a Heathrow ed i trasporti a New York nel 2005, dai lavoratori della fabbrica Seat a Barcellona all’inizio dell’anno, dalla mobilitazione dei futuri proletari contro il CPE in Francia o dagli operai della metallurgia a Vigo in Spagna. Queste lotte, che mostrano una ripresa della lotta di classe a scala internazionale costituiscono, l’unico barlume di speranza di un futuro diverso, di un’alternativa per l’umanità alla barbarie capitalista.
Wim
1. Questo cinismo e quest’ipocrisia si sono rivelati pienamente sul campo, attraverso un episodio significativo: un convoglio di persone di un villaggio libanese, tra cui numerose donne e bambini, che tentavano di fuggire dalla zona dei combattimenti è andato in panne ed è stato preso di mira dalle mitragliatrici di Tsahal. I membri del convoglio hanno cercato allora rifugio presso un campo dell’ONU proprio lì vicino ma è stato risposto loro che era impossibile ospitarli perché non avevano nessuno mandato per fare ciò. La maggior parte (58) sono morti sotto il mitragliamento dell’esercito israeliano e sotto lo sguardo passivi delle forze del FINUL (secondo la testimonianza al telegiornale di una madre di famiglia scampata).
2. L’insistenza insolita dei media su quest’episodio, che sopraggiunge opportunamente, “mira” innanzitutto ad abituare la popolazione ad accettare l’idea che ci possano essere altre morti di soldati e numerose future vittime durante le operazioni militari alle quali parteciperanno le forze francesi nel Sud-Libano all’interno del FINUL.
In meno di sei mesi il nuovo governo di centrosinistra ha già abbondantemente dimostrato come qualsiasi coalizione stia al governo non fa altro che gli interessi della propria borghesia a scapito di quelli dei lavoratori.
Infatti, come se non bastassero a giustificare questo giudizio le misure prese sul piano economico con la manovra bis di giugno, tutte improntate a tagli e inasprimenti tariffari, o quelle che il governo si accinge a fare con la finanziaria 2006 (che vanno nella stessa direzione, vedi l’articolo in questo stesso numero), il governo Prodi si è dato un gran da fare sul piano internazionale per ridare slancio all’iniziativa imperialista dell’Italia, dopo gli anni di appannamento provocati dall’appiattimento del governo Berlusconi sulla politica degli USA.
E la nuova guerra in Libano è servita ad assicurare a questi sforzi il grande successo della condivisione del comando della missione “di pace” che l’ONU ha deciso dopo grandi trattative. Quale sia il significato di queste trattative e, quindi, di questa missione in Libano lo illustriamo nell’articolo di apertura del giornale, qui vogliamo far vedere come la “sinistra” italiana non abbia intenti diversi da quelli degli altri paesi che hanno voluto o che partecipano a questa missione.
I dubbi che la missione in Libano non sia affatto una missione di pace sono in effetti molto diffusi tra i lavoratori, i quali, con il ragionamento semplice ma molto concreto di chi deve tutti i giorni fare i conti con la realtà materiale e non con le ideologie, non vedono proprio come una missione di pace si possa fare inviando dei soldati armati di tutto punto, invece che aiuti materiali per le popolazioni. Altri, che magari hanno anche votato a sinistra proprio perché contrari agli interventi voluti dal governo Berlusconi in Afghanistan e Iraq, hanno subito visto la contraddizione di quelle forze che hanno sempre dichiarato di essere contro le missioni militari e oggi ne hanno fortemente voluta una proprio loro. Né può bastare ai lavoratori l’affermazione con cui tutto il governo e con più forza ancora Rifondazione Comunista, l’ala cosiddetta di “sinistra radicale” della coalizione governativa, hanno cercato di giustificare l’intervento in Libano, e cioè che essa è una missione di pace: “La missione in Libano è l’esatto contrario rispetto all’Iraq e all’Afghanistan. Una netta inversione di tendenza. Una spedizione di pace.” (F. Giordano, segretario di R.C., su Repubblica del 24 agosto 2006). Ma perché, Berlusconi gli interventi armati in Afganistan e Iraq non li aveva chiamati “missioni di pace”? Perché dovrebbero credere a Giordano quelli che non hanno creduto a Berlusconi?
Ed infatti non bisogna credergli. La missione in Libano non è diversa dai tanti interventi militari che l’Italia e le altre potenze occidentali hanno messo su dal 1991 in poi, mascherandole dietro i pretesti “umanitari”, “di pace” o, quando proprio era difficile sostenere questi argomenti, “di polizia internazionale”.
Quello che divide Giordano e la maggioranza del governo di centrosinistra dal centrodestra di Berlusconi è la strategia con cui si possono difendere meglio gli interessi dell’imperialismo italiano: per Berlusconi questo si poteva e si doveva fare stando dietro agli USA, qualsiasi scelta questi facessero e qualsiasi fesseria raccontassero per giustificare i loro interventi guerrieri; per Prodi e D’Alema invece, gli interessi italiani si difendono meglio in un quadro più europeo e di maggiore autonomia dagli USA, autonomia che è vista più come contrapposizione da parte di Rifondazione, mentre la Margherita è molto più prudente e attenta a non schiudere completamente la porta agli USA.
E questo è molto evidente quando dalle affermazioni di principio (“si tratta di una missione di pace”) che vengono fatte da tutti i partiti, di destra o sinistra che siano, si va più nel concreto. Berlusconi, per esempio, ha minacciato di non votare il varo della missione se questa non contemplava il disarmo di Hezbollah, ritornando su questa minaccia quando ha visto che il disarmo di Hezbollah è previsto dalla risoluzione ONU, anche se affidato in prima istanza all’esercito libanese. Per Giordano invece questa opportunità è assolutamente da escludere: “Sto dicendo che se qualcuno sostiene che dobbiamo andare a disarmare gli Hezbollah, allora non lavora effettivamente per la pace” (ibidem) (1). E per chi pensasse che è Giordano che è impazzito o è stato preso dal cretinismo parlamentare al pari del suo ex capo Bertinotti, può andare a rileggere Liberazione, giornale del partito, che ha appoggiato la missione che rappresenta “un nuovo inizio della politica estera italiana, non più appiattita sull’asse Washington-Tel Aviv” (Liberazione del 23 agosto 2006), affermazione che non potrebbe riassumere con più chiarezza la vera differenza tra la politica estera del centrodestra e quella del centrosinistra.
Così la missione in Libano contribuisce a smascherare la vera natura borghese del governo di centrosinistra, ivi inclusa la sua componente più estrema. Anzi, è proprio quest’ultima che torna più utile nel dare una copertura all’imperialismo italiano, tanto è vero che nessun esponente si è esentato dall’esprimere il suo appoggio alla missione:
“Quale stupenda prova di solidarietà e saggezza l’Europa sta dando!” (Rossana Rossanda), “Stavolta interviene l’ONU e non la NATO, con funzioni di polizia internazionale, e mi sta bene” (Lidia Menapace, icona del “pacifismo” italiano) (2)
Ed insieme alla sinistra, con la guerra in Libano si smaschera tutto il sedicente pacifismo, tanto attivo ai tempi dell’attacco all’Iraq ed ora silenzioso di fronte all’intervento italo-franco-europeo. In realtà il pacifismo piccolo borghese, quando, nella migliore delle ipotesi, non è l’espressione impotente del perbenismo delle “anime gentili”, è uno strumento della borghesia che serve ad ingannare i proletari sulle reali ragioni delle guerre e delle intenzioni dei propri rispettivi imperialismi. Lo stesso pacifismo è pronto ad appoggiare il proprio imperialismo quando sono in gioco gli interessi di questi, come hanno fatto i pacifisti italiani citati sopra, ma anche il piuttosto noto movimento “Peace now” israeliano, che nello scorso luglio non ha esitato ad appoggiare l’invasione del Libano perché “Israele era sotto attacco”.
Non si può essere contro la guerra se non si è contro il capitalismo, se non si denunciano come imperialiste tutte le parti belligeranti, senza distinzioni tra “aggressori” ed “aggrediti”, senza distinzione tra chi dice di fare la guerra in nome della pace e chi dice di volere la pace e manda i soldati ad imporla. L’unica vera lotta alla guerra è quella che può condurre il proletariato di ogni paese che, combattendo contro la propria borghesia, si oppone anche alla tendenza di questa alla guerra.
Ci sono forze che stanno su questa linea, come testimoniano molti contributi che arrivano al nostra indirizzo (3), e soprattutto su questa linea sta il proletariato mondiale, che con le sue lotte sta aprendo una nuova prospettiva per l’umanità, antagonista a quella di morte che ci propone il capitalismo.
Helios
1. In effetti basterebbe già questo per capire quale è il pacifismo di Rifondazione: Hezbollah è una banda di assassini che non ha esitato a lanciare migliaia di missili sui civili israeliani in nome e per conto del suo padrino iraniano, e che si è fatta scudo dei civili libanesi per ripararsi dalle incursioni israeliane; perché voler disarmare questi assassini vorrebbe dire “non essere per la pace”?
2. Citazioni riportate su Repubblica del 25 agosto 2006, come quelle di Ferrando riportate in nota 3.
3. Sentiamo già una vocina che ci dice: state dimenticando Ferrando e il suo “Partito Comunista dei lavoratori”. Non lo stiamo dimenticando, sappiamo bene che Ferrando ha affermato: “Considero sconcertante che una parte, pur limitata, del movimento per la pace, giunga ad appoggiare pubblicamente una missione militare”. Ma sappiamo anche che lo afferma perché, secondo lui, questa missione è stata “richiesta a gran voce da Bush e da Olmert come strumento di normalizzazione del Libano e del Medio Oriente”, e quindi con la preoccupazione che la missione non sia abbastanza esplicitamente contro USA ed Israele. Ed a fianco di Hezbollah, forza a cui sicuramente Ferrando guarda con simpatia, come ha guardato con simpatia la sedicente “resistenza” irachena, quella che ammazza bambini e lavoratori iracheni a più non posso (vedi in proposito Rivoluzione Internazionale n. 145).
Una dei punti forti della mistificazione democratica è quello della “alternanza”, cioè della possibilità di scegliere tra destra e sinistra per portare al governo quella coalizione che sembra più adatta a soddisfare i bisogni dei “cittadini-elettori”. La mistificazione è doppia: non solo infatti non è la libera scelta degli elettori a portare al governo questa o quella coalizione, bensì gli interessi della classe dominante, la borghesia (1), ma c’è anche, e soprattutto, il fatto che si tratta di una falsa alternativa, in quanto destra e sinistra difendono comunque gli interessi della classe dominante e del capitale nazionale (2).
La vera differenza tra destra e sinistra è la capacità di quest’ultima di meglio mistificare sulla realtà delle proprie azioni.
Così se la destra va in Iraq semplicemente per “seguire gli USA” in una guerra “sbagliata” (secondo la definizione della sinistra), ma in realtà per difendere gli interessi dell’imperialismo italiano, la sinistra va in Libano, sempre con soldati armati, sempre per difendere gli interessi dello stesso imperialismo, ma “per mantenere la pace”.
Se sul piano economico la destra non si fa scrupoli a chiedere sacrifici in nome di un “liberismo” che domani risolverà tutti i problemi dell’economia, la sinistra è costretta a mascherare i sacrifici che chiede dietro una cortina ideologica sulla “equità” o indispensabilità di sacrifici immediati per costruire un futuro più radioso.
E’ stato così anche per la presentazione della finanziaria 2006 che Prodi ha appena portato in Parlamento, presentandola con il commento “Difesi i più deboli” , anche se il giorno dopo, di fronte ai primi dubbi sulla natura della finanziaria, già il vice-ministro Visco ha dovuto affermare “Nel 2008 meno tasse per tutti”, promettendo così ancora miracoli, ma ammettendo anche implicitamente che quanto dichiarato il giorno prima non è poi tanto vero.
Ed infatti non lo è, come cominciano a dire anche settori della stessa maggioranza, e soprattutto come possiamo verificare se andiamo a guardare da vicino.
E’ vero che la finanziaria presentata da Prodi prende di mira, con un aumento delle tasse, i lavoratori autonomi e comunque quelli che guadagnano più di 30-35mila euro all’anno (tra 1500 e 1800 euro netti al mese, cioè una cifra che ben difficilmente può far definire ricchi quelli che li guadagnano, anche se superiore alla media del salario dei lavoratori dipendenti), quello che però è falso è che essa restituisca qualcosa di significativo a chi guadagna di meno, cioè i “più deboli” citati da Prodi. Infatti, con la ridefinizione delle aliquote, il guadagno per i redditi più bassi è, per i casi migliori, di poche decine di euro al mese, cioè una cifra che non solo non recupera potere d’acquisto, ma che in realtà è molto meno di quello che la stessa finanziaria costerà a tutti i lavoratori:
- aumento del bollo auto,
- ticket sanitari sulle prestazioni diagnostiche (10euro a ricetta) e sui ricoveri al pronto soccorso (23 euro, ma solo se poi non si viene ricoverati, per cui uno deve scegliere tra il pagare o l’augurarsi di avere qualcosa di grave!),
- aumenti delle tasse comunali che i sindaci hanno già promesso se restano i tagli ai finanziamenti agli enti locali,
- aumenti dei contributi pensionistici che, in misura percentuale diversificata, toccano comunque tutti i lavoratori
- tagli alle spese della pubblica amministrazione, che significa blocco parziale del turn over e peggioramento delle prestazioni (ad esempio nella scuola, dove è previsto l’aumento del numero di alunni per classe).
Questa è la reale natura della finanziaria presentata in Parlamento e che l’estrema sinistra governativa e i sindacati, ancora più che Prodi, cercano di presentare come una legge a favore dei lavoratori e dei più deboli. Tutti hanno sicuramente visto la veemenza con cui Giordano, attuale segretario di Rifondazione Comunista, ha difeso questa manovra. Così facendo, lungi dal dimostrare il vantaggio per i lavoratori della finanziaria, Giordano ha dimostrato la natura antioperaia di un partito che di comunista ha solo il nome e nient’altro.
E che la borghesia italiana metta avanti queste frazioni, cioè quelle che godono di una certa fiducia tra i lavoratori, per cercare di far passare una manovra che ancora una volta attacca il livello di vita dei lavoratori, dimostra quanto il capitale abbia un bisogno assoluto di continuare su questa strada. Perché gli attacchi a cui sono e sono stati sottoposti i lavoratori non sono legati alla cattiveria della destra o all’incapacità della sinistra, ma al fatto che l’una e l’altra non hanno altra via da percorrere se non questa, perché il capitale, di cui sono i difensori, è un sistema in crisi permanente che non può offrire più niente ai lavoratori, e questo non solo in Italia, ma nel mondo intero.
Perciò i lavoratori non devono cadere nella trappola: non solo la nuova finanziaria non restituisce loro niente, ma i sacrifici che essa richiede non possono in alcun modo assicurare un futuro migliore.
La sola strada per assicurarsi un futuro migliore i lavoratori la possono trovare nelle loro lotte contro i sacrifici, lotte che cominciano a svilupparsi un po’ dappertutto nel mondo, e che in Italia tardano un po’ proprio perché la sinistra del capitale è riuscita finora a bloccare i lavoratori addossando tutte le colpe dei sacrifici a Berlusconi e compagni. Adesso il re è nudo e i lavoratori devono riprendere la loro iniziativa, senza fidarsi dei sindacati che hanno già dimostrato, con le loro dichiarazioni di accettazione della finanziaria, di essere ancora una volta complici degli attacchi ai lavoratori.
Helios, 5/10/2006
1. E’ vero che negli ultimi anni si è potuto osservare che la capacità della borghesia di controllare il meccanismo elettorale, anche a causa delle sue divisioni interne, diminuisce sempre più, ma questo non significa che la scelta è passata nelle mani degli elettori, anche perché ogni forza politica mente normalmente su quello che è o che vuole fare, per cui su che base sarebbe possibile fare una vera scelta?.
2. Gli interessi del capitale nazionale possono anche collidere con quelli di questa o quella frazione borghese, per cui a volte lo Stato, vero difensore del capitale nazionale, sembra agire al di sopra delle parti, ma in realtà gli interessi che esso difende sono solo quelli del capitale nel suo insieme. E’ in questo senso che Marx diceva che ogni governo costituisce il comitato d’affari della borghesia.
L'attuale conflitto in Libano ha luogo in un'area che non solo è strategicamente una delle più importanti al mondo, ma anche una di quelle più densamente popolate e urbanizzate. Siamo ben lontani dai deserti dell'Iraq del sud o degli altopiani dell'Afghanistan. In questo senso il conflitto attuale, forse anche più di quelli nei Balcani negli anni '90, necessariamente riporta alla mente gli orrori della seconda guerra mondiale e induce una riflessione su quello che la società attuale ci riserva. Ciò è particolarmente importante per il proletariato europeo che è stato al centro degli orrori dell'ultima guerra mondiale. Ma questa riflessione ce la dobbiamo attendere anche tra i lavoratori del Medio Oriente, nonostante il successo immediato delle borghesie locali nella mobilitazione di guerra. Nei mass-media europei è stata riportata la notizia secondo cui sono circolate su siti internet riprese effettuate con web-cam nelle zone di guerra. Questa attività a quanto pare è soprattutto iniziativa di giovani. Spinti da una convinzione spesso non chiara ma profonda che tutti i mezzi di comunicazione ufficiali mentono, questi giovani filmano quello che avviene intorno a loro e rendono direttamente disponibili queste immagini su internet. In risposta alla guerra attuale, i giovani – e a volte anche dei bambini – da entrambe le linee del conflitto – hanno filmato e hanno scambiato fotografie degli attacchi militari che loro hanno subito. Rendendosi conto della somiglianza, di fatto della identità della causa delle loro sofferenze, questo scambio di immagini è divenuto un'espressione diretta di solidarietà tra le vittime di guerra. Sebbene ciò che viene espresso qui sia della solidarietà umana, e non ancora esplicitamente dell'internazionalismo proletario, quest'ultimo in questo caso è implicitamente contenuto nella prima.
Nel numero di giugno del nostro giornale in Francia (1) l’articolo “60 anni fa il Fronte Popolare irreggimentava gli operai per la guerra imperialista”, ricordava come il “Fronte popolare” in Francia, contrariamente alle attuali campagne ideologiche della borghesia che ne fanno n periodo di “conquiste della classe operaia”, costituì un momento della preparazione della guerra imperialista mondiale con l’arruolamento del proletariato dietro la difesa dello Stato capitalista in nome dell’antifascismo. In questo articolo affrontiamo, con la guerra di Spagna, l’ultima tappa di questo imbrigliamento del proletariato internazionale, realizzato da tutte le frazioni della sinistra borghese e dei sindacati sotto la bandiera mistificatrice della lotta “antifascista”.
Questa terribile tragedia operaia, ancora oggi cinicamente presentata come la “rivoluzione sociale spagnola” o “una grande esperienza rivoluzionaria”, segna il trionfo della controrivoluzione attraverso lo schiacciamento ideologico e fisico (più di un milione di morti tra il 1931 ed il 1939 in Spagna) delle ultime forze vive del proletariato europeo. Questa carneficina fu la prova generale per lo scatenamento della guerra imperialista mondiale.
Gli anni dal 1930 al 39 sono gli anni di preparazione alla guerra che marcia sulle ceneri dell’ondata rivoluzionaria sorta contro la Prima Guerra mondiale. Ovunque nel mondo il proletariato è diviso, disfatto, preso nella morsa capitalista – che l’allontana dal proprio terreno di classe con la falsa alternativa “fascismo o democrazia” – e sottomesso all’isteria nazionalista che lo porta inesorabilmente verso la guerra. Nello stesso tempo, in seguito alla morte dell’Internazionale comunista, sanzionata dalla proclamazione del “socialismo in un solo paese”, la quasi totalità delle organizzazioni operaie in piena degenerazione sono conquistate al campo della borghesia dove tendono a disaggregarsi completamente. I “patiti comunisti” diventano la cinghia di trasmissione de “la difesa della patria socialista” agli ordini della controrivoluzione staliniana. Le sole voci che si levano controcorrente mantenendosi fermamente su delle posizioni di classe, come “Bilan” (organo della Sinistra Comunista d’Italia all’estero, tra il 1933 ed il 1938), sono quelle di un pugno di rivoluzionari.
Spagna 1936: la sinistra svia e sottomette il proletariato allo Stato borghese La Spagna, dove sussiste una frazione del proletariato mondiale ancora non schiacciata data la non partecipazione di questo paese alla Prima Guerra mondiale, si trova al centro di una vasta manovra della borghesia unita nello spingere gli operai ad abbandonare il loro terreno di classe e farli deviare sul terreno capitalista di uno scontro esclusivamente militare ed imperialista. Data la sua posizione geografica di porta dell’Europa, chiudendo il Mediterraneo da una parte e aprendo le vie sull’Atlantico e su l’Africa dall’altra, la Spagna costituiva il terreno ideale per l’affermazione delle tensioni imperialiste esasperate dalla crisi economica, soprattutto per gli imperialismi tedesco ed italiano che cercavano di assicurarsi un punto di forza nel Mediterraneo ed accelerare il corso verso la guerra. Inoltre, le strutture arcaiche di questo paese, profondamente scosse dall’irruzione della crisi economica mondiale del capitalismo negli anni 30, offrivano un terreno favorevole per sviare il proletariato. Si mantiene il mito di una “rivoluzione democratica borghese” ad opera degli operai, per trascinarli dietro l’alternativa “repubblica contro monarchia” che prepara la via alla lotta “antifascismo contro fascismo”. Dopo la dittatura di Primo de Rivera, instaurata nel 1923 e che beneficiava della collaborazione attiva del sindacato socialista UGT, la borghesia spagnola elabora, a partire dall’agosto 1930, il “Patto di San Sebastian” al quale vengono associati i due grandi sindacati, l’UGT e la CNT, quest’ultima dominata dagli anarco-sindacalisti, e che getta preventivamente le basi di una “alternativa repubblicana” al potere monarchico. Poi, il 14 aprile 1931, fa abdicare il re Alfonso XIII con la minaccia di uno sciopero dei ferrovieri e proclama la repubblica. Di colpo, al momento delle elezioni, viene portata al potere una coalizione social-repubblicana. Il nuovo governo “repubblicano e socialista” non tarda a dare la vera misura della sua natura antioperaia. La repressione si abbatte violentemente sui movimenti di sciopero che nascono di fronte al rapido aumento della disoccupazione e dei prezzi, facendo centinaia di morti e di feriti tra gli operai, in particolare nel gennaio 1933 a Casas Viejas in Andalusia. Durante questa ondata di repressione, il repubblicano “di sinistra” Azana ordina alla truppa: “Né feriti, né prigionieri, tirate al ventre!”. Questa sanguinosa repressione delle lotte operaie, fatte in nome della democrazia e che durerà due anni, permetterà alle forze di destra di organizzarsi e porta la coalizione governativa ad annaspare. Nel 1933 le elezioni danno la maggioranza alla destra. Una parte del Partito socialista, molto screditato dalla repressione di cui si è fatto agente, ne approfitta per fare una virata a sinistra. La preparazione del fronte di guerra imperialista, cioè la necessità di sviare il proletariato mentre gli scioperi si sviluppano, è la realtà in seno alla quale si articola l’attività delle organizzazioni politiche di sinistra. Gli scioperi si amplificano tra aprile e maggio del '34. I metallurgici di Barcellona, i ferrovieri e soprattutto gli operai edili a Madrid, ingaggiano delle lotte molto dure. Di fronte a queste tutta la propaganda della sinistra e dell'estrema sinistra è centrata sull'antifascismo per trascinare gli operai in una politica di “fronte unito di tutti i democratici”, una vera camicia di forza per il proletariato. Dal 1934 al 1935, gli operai sono sottoposti ad un martellamento ideologico incessante in vista delle elezioni, per la messa in opera di un programma di fronte popolare e per “far fronte al pericolo fascista”. Nell'ottobre del '34, spinti dalle forze di sinistra, gli operai delle Asturie cadono nella trappola di uno scontro suicida con lo Stato borghese che li dissangua. La loro insurrezione e la loro eroica resistenza nelle zone minerarie e nella cintura industriale di Oviedo e di Gijon vengono completamente isolate dal PSOE e l'UGT che usano tutti i mezzi per impedire che la lotta si estenda al resto della Spagna, in particolare a Madrid. Il governo dispiega allora nelle Asturie 30.000 uomini con carri armati ed aerei per schiacciare senza pietà gli operai, aprendo così un periodo di violenta repressione in tutto il paese. Il Fronte popolare porta gli operai al massacro Il 15 gennaio 1935, viene siglata l'alleanza elettorale del Fronte popolare dall'insieme delle organizzazioni di sinistra, così come dai gauchisti trotskisteggianti del POUM. I dirigenti anarchici della CNT e della FAI derogano ai loro “principi anti-elettorali” per coprire questa impresa di un complice silenzio che equivale chiaramente ad un sostegno. Nel febbraio 1936, viene eletto il primo governo del Fronte popolare. Mentre si sviluppa una nuova ondata di scioperi, il governo lancia appelli alla calma, chiede agli operai di cessare gli scioperi, dicendo che questi fanno il gioco del fascismo; il PCE arriverà a dire che “dei padroni provocano ed attizzano gli scioperi per delle ragioni politiche di sabotaggio”. A Madrid, dove il 1° giugno scoppia uno sciopero generale, la CNT impedisce ogni confronto diretto con lo Stato, lanciando le sue famose parole d'ordine d'autogestione. Questa autogestione servirà ad intrappolare gli operai nella “loro” fabbrica, la “loro” campagna o la “loro” città, in particolare in Catalogna ed in Aragona. Sentendosi forti, le forze militari si lanciano a luglio in un “pronunciamiento” partito dal Marocco e diretto da un Franco che fa i suoi primi passi da generale sotto gli ordini della repubblica dominata dai socialisti. La risposta operaia è immediata: il 19 luglio 1936, gli operai dichiarano lo sciopero contro il colpo di stato di Franco e vanno in massa nelle caserme per disarmare questo tentativo, senza preoccuparsi delle direttive contrarie del Fronte popolare e del governo repubblicano. Unendo la lotta rivendicativa alla lotta politica, gli operai fermano con questa azione la mano omicida di Franco. Ma, simultaneamente, gli appelli alla calma del fronte popolare - “Il governo comanda, il Fronte popolare obbedisce” – vengono altrove rispettati. A Siviglia, per esempio, dove gli operai che hanno seguito le consegne di attesa del governo si fanno massacrare in un orribile bagno di sangue dai militari. Le forze di sinistra del capitale dispiegano allora pienamente le loro manovre d'imbrigliamento (2). In 24 ore il governo che negoziava con le truppe franchiste e organizzava con queste i massacri degli operai, cede il posto al governo Giral, più a “sinistra” e più “antifascista”, che prende la testa del sollevamento operaio per orientarlo verso lo scontro con il solo Franco e su un terreno esclusivamente militare! Gli operai vengono armati solo per essere mandati “al fronte” contro le truppe di Franco, al di fuori del loro terreno di classe. Meglio ancora, la borghesia tende allora la trappola criminale di una sedicente “scomparsa dello Stato capitalista repubblicano”, quando invece questo si rifugia dietro un presunto “governo operaio” che porta gli operai all’union sacrée contro Franco attraverso organismi quali il Comitato centrale delle Milizie antifasciste ed il Consiglio centrale dell'economia. Si crea così l'illusione di un “doppio potere” che getta definitivamente gli operai nelle mani dei loro carnefici. I sanguinosi massacri che hanno luogo in seguito in Aragona, a Oviedo, a Madrid, sono il criminale risultato della manovra della borghesia repubblicana e della sinistra che ha fatto abortire le reazioni operaie del 19 luglio 1936. Da quel momento, centinaia di migliaia di operai vengono arruolati nelle milizie degli anarchici e del POUM per “difendere la rivoluzione sociale” e vengono mandati a farsi ammazzare sul fronte imperialista “antifranchista” dal governo del Fronte popolare. Queste milizie saranno presto militarizzate, e gli operai più combattivi serviranno da carne da cannone per gli interessi capitalisti che credevano di combattere. Avendo abbandonato il suo terreno di classe, il proletariato subirà tutto il giogo della guerra e vedrà imporsi uno sfruttamento selvaggio in nome dell’economia di guerra “antifascista” da parte del Fronte popolare: riduzione dei salari, inflazione, razionamento, militarizzazione del lavoro, allungamento della giornata di lavoro e divieto del diritto di sciopero… Il proletariato di Barcellona si solleva di nuovo nel maggio 1937, ma in maniera disperata, facendosi massacrare dal Fronte popolare, dal PCE e la sua succursale del PSUC in testa, tanto che le truppe franchiste fermarono volontariamente la loro avanzata per poter permettere ai carnefici staliniani di schiacciare gli operai: “Il 19 luglio 1936, i proletari di Barcellona, A PUGNI NUDI, annientarono i battaglioni di Franco ARMATI FINO AI DENTI. Il 4 maggio 1937, questi stessi proletari, MUNITI DI ARMI, lasciano sulla strada ben più vittime che a luglio, quando dovevano respingere Franco ed è il governo antifascista – che comprende fino agli anarchici ed a cui il POUM è indirettamente solidale – che scatena la feccia delle forze repressive contro gli operai” scriveva Bilan nel 1938 nell’articolo “Piombo, mitraglia, galera: così risponde il Fronte popolare agli operai di Barcellona” (3). In questa sanguinosa tragedia tutte le cosiddette organizzazioni operaie hanno non solo dimostrato la loro integrazione allo Stato borghese, ma partecipato a pieno allo schiacciamento del proletariato; gli uni, come il PCE, il PSUC (che si consacra qui grande partito dell’ordine borghese), il PSOE e l’UGT assumendo direttamente il ruolo di carnefici, gli altri, come la CNT, la FAI, il POUM spingendo gli operai ad abbandonare il proprio terreno di classe in nome del “fronte antifascista” per gettali nelle braccia dei loro assassini e nella mischia imperialista. La presenza di ministri anarchici e della CNT nel governo della Catalogna e poi nel governo centrale di Caballero, è stato un potente fattore di mistificazione del Fronte popolare contro gli operai. Gli anarchici hanno avuto un ruolo di primo piano per conto della borghesia e nella sua manovra, imbrogliando gli operai sulla natura di classe del governo e del Fronte popolare: “Tanto sul piano dei principi che per convinzione, la CNT è sempre stata anti-statale e contro ogni forma di governo. Ma le circostanze hanno cambiato la natura del governo spagnolo e dello Stato. Oggi il governo, in quanto strumento di controllo degli organi dello Stato, non è più una forza di oppressione contro la classe operaia, così come lo Stato non rappresenta più un organismo che divide la società in classi. L’uno e l’altro opprimeranno ancor di meno il popolo ora che dei membri della CNT vi fanno parte” (Federica Montseny, ministro anarchico, 4 novembre 1936). Tutte le organizzazioni del Fronte popolare, ed in particolare gli stalinisti che se ne fecero il braccio armato, dichiararono una guerra feroce contro gli elementi delle rare correnti che, anche se con molta confusione, lottavano per difendere le posizioni rivoluzionarie, inviandoli sui posti più esposti del fronte, lasciandoli senza munizioni, facendoli imprigionare dalla polizia delle “forze repubblicane” o assassinandoli puramente e semplicemente. Gli avvenimenti della Spagna hanno dimostrato chi erano veramente quelli che pretendevano di essere al fianco degli operai, democratici, socialisti, “comunisti” e anarchici, ma che nella pratica sono stati i difensori più accaniti dello Stato borghese e del capitale nazionale, i peggior nemici della classe operaia. La guerra di Spagna si prolunga fino al 1939 concludendosi con la vittoria militare di Franco nel momento in cui le altre frazioni del proletariato mondiale, dappertutto vinte dalla controrivoluzione, servivano a loro volta da carne da cannone nello scontro imperialista generalizzato dietro le rispettive borghesie nazionali. C.B.
Il “non ci sono governi amici e governi nemici“ gridato da un operaio della FIAT di Mirafiori al segretario della CGIL, Guglielmo Epifani, coglie una questione che gira nella testa di molti lavoratori, soprattutto di quelli che hanno votato per l’attuale maggioranza. La domanda è “perché li abbiamo votati, se devono fare una politica uguale a quella di Berlusconi?” Ed è una domanda giusta, perché effettivamente la legge finanziaria che l’attuale maggioranza si appresta a votare chiede ancora una volta sacrifici a quelli che già ne fanno da anni e che fanno sempre più fatica ad arrivare alla fine del mese (1). Quello che c’è di ingenuo nella maniera di porre la questione è che quello di Prodi potesse essere un governo amico dei lavoratori. Non lo è, e non potrebbe esserlo, perché nel capitalismo “ogni governo costituisce il comitato d’affari della borghesia”, come diceva il vecchio Marx, verità che è stata più e più volte confermata in Italia come nel resto del mondo dai vari Blair, Schroeder, e Prodi vari. Del resto sono stati i vari governi di centrosinistra succedutisi dal 1992 (primo governo Amato) al 2001 (con la breve parentesi del primo governo Berlusconi durato meno di un anno) a portare avanti il più massiccio attacco alle condizioni di vita dei lavoratori che l’Italia ricordi. E se ogni governo non può che fare gli interessi della propria borghesia, oggi questo significa che l’unica politica possibile è quella dei sacrifici, vista la situazione di crisi che vive il sistema capitalista nel suo complesso (2).
Una questione però resta, e ci è stata posta da alcuni compagni: se, nell’attuale fase di capitalismo decadente, la differenza fra destra e sinistra sta solo nel diverso ruolo che i diversi apparati politici della borghesia svolgono nei confronti dei lavoratori (con la destra che deve principalmente portare avanti le ideologie liberiste, e la sinistra che deve invece mistificare gli operai per impedire che essi prendano coscienza del futuro che il capitalismo riserva all’umanità), perché la borghesia italiana ha voluto far vincere la sinistra, visto che la politica che doveva per forza di cose portare avanti ne avrebbe indebolito l’immagine nei confronti dei lavoratori stessi? La questione è legittima e impone una risposta.
La prima risposta sta nel fatto che la “alternanza” al governo tra destra e sinistra è il principale puntello della mistificazione democratica: se la borghesia lasciasse governare sempre la destra, su cosa potrebbe basarsi l’illusione, di cui è principale portatrice proprio la sinistra, che con lo strumento democratico, con le elezioni, i lavoratori possono cambiare i loro destini? Il secondo argomento è più legato alle vicende italiane e in particolare alle conseguenze che qui si sono avute con il crollo del blocco sovietico (e la conseguente disgregazione del blocco occidentale). Il crollo dell’URSS provocò abbastanza velocemente il disfacimento del suo blocco imperialista e, venendo meno questo, anche il blocco avversario, quello costruito intorno agli USA, non aveva più senso di esistere, per cui anche nel campo occidentale si aprì una fase di allontanamento dal leader di blocco (diventata in poco tempo contestazione di questa leadership e tendenza, da parte di ogni paese occidentale, a portare avanti i propri interessi nel mondo anche in contrasto con l’antico capo). Questo venir meno dell’interesse da parte dell’Italia per l’alleanza con gli USA ebbe anche delle conseguenze sul piano degli equilibri politici interni: l’Italia infatti, per la sua posizione geografica strategicamente importante e per la presenza di un forte partito “comunista” filosovietico, era sempre stata sotto un controllo particolare da parte degli USA, che si esercitava centralmente attraverso la Democrazia Cristiana, partito che impersonava l’alleanza con gli Stati Uniti. Venuta meno le necessità di questa alleanza, anche i partiti ad essa legati furono messi in crisi e abbandonati dalla stessa borghesia italiana (o per meglio dire da una parte di essa): è questa la motivazione di “tangentopoli” (altrimenti conosciuta come operazione “Mani Pulite”), una delle più grosse operazioni di “pulizia” politica (e non morale, come si è cercato di far credere!!) che un paese occidentale abbia conosciuto. Con la messa in evidenza delle ruberie che i partiti al governo avevano portato avanti (e la DC era stata al governo ininterrottamente dal dopoguerra), questi partiti furono spazzati via, e con essi fu messa in crisi l’alleanza con gli USA. Ma questa operazione, che aveva una sua logica, ebbe come conseguenza la distruzione, o la disgregazione, di tutti i partiti che avevano occupato il centro e la destra della politica (3). Questo ha significato che la sinistra rischiava di dover reggere le sorti di governo per chissà quanto tempo. A questo ha supplito la “discesa in campo” di Berlusconi, un uomo che, mettendo a disposizione la sua azienda e i suoi mezzi economici, è stato capace di costruire un partito in grado di ereditare (almeno in parte) la forza elettorale della DC e di creare così un polo di centrodestra) che, grazie anche alla svolta democratica dell’MSI di Fini, potesse proporsi come alternativo alla sinistra così da ricreare il gioco dell’alternanza senza il quale la mistificazione della democrazia non sta in piedi. Ma la discesa in campo di Berlusconi non è avvenuta solo per volontà di una parte della borghesia italiana di ricostruire un partito di centrodestra, è stata anche l’espressione degli interessi USA di mantenere un’influenza sul suolo italiano. E Berlusconi si era e si è dimostrato ampiamente amico degli USA. Nei fatti Berlusconi si è dimostrato troppo appiattito sulle scelte americane, come dimostrato in particolare dalla infelice e poco redditizia missione in Iraq, e in più di essere troppo impegnato a difendere i propri interessi personali (vedi le varie leggi ad personam varate dal suo governo) per badare a quelli più generali del capitale nazionale. Così, durante il governo Berlusconi, il capitalismo italiano si è trovato diviso dalla maggior parte degli altri paesi europei, sul piano imperialista, e sul piano economico ha perso diverse posizioni sullo scacchiere mondiale, mentre è tornato a salire il deficit pubblico (senza che migliorassero le prestazioni sociali). E’ toccato quindi alla coalizione di centrosinistra provare a mettere riparo ai danni provocati da Berlusconi. Dopo aver messo mano alla politica estera (missione in Libano in accordo con gli altri paesi europei e con una forza mistificatoria ben superiore a quella della missione in Iraq), adesso il governo Prodi prova a rimettere in ordine i conti del proprio capitale e per farlo non può che ricorrere ad altri sacrifici per i lavoratori E’ solo riducendo la parte di ricchezza che ritorna alla classe operaia (cioè il salario diretto ed indiretto) che lo Stato italiano può sperare di riuscire a mantenere la sua competitività sul mercato mondiale ed a finanziare le spese militari che gli consentono di avere un posto sullo scacchiere imperialista. Naturalmente il fatto che sia un governo di sinistra ad attaccare i lavoratori non è senza rischi. E’ ben difficile, ad esempio, per una forza come Rifondazione Comunista stare con due piedi in una scarpa: essere una “forza di governo responsabile” (cioè che lavora per le esigenze dello Stato), ed al tempo stesso mantenere l’immagine di chi sta “dalla parte dei lavoratori” e che è “contro la guerra”. Questa schizofrenia a cui è costretta RC rischia effettivamente di suscitare una riflessione tra i proletari e delle reazioni esplicite di sfiducia e rabbia come quelle a Mirafiori. Non esistono quindi governi amici della classe operaia, viceversa esiste uno scontro di classe che vede la borghesia attaccare sempre di più i livelli di vita della classe operaia. Non è che riconoscendo questo stato di fatto che i proletari potranno cominciare a difendersi veramente, sviluppando le loro armi per contrapporsi agli attacchi della borghesia. E le armi dei lavoratori sono le loro lotte, condotte in maniera autonoma e senza il controllo dei sindacati, primi alleati della borghesia (e non solo dei governi di sinistra). E’ questa la strada che in molti paesi i lavoratori stanno intraprendendo, è questa la sola strada che anche i lavoratori italiani hanno per potersi difendere veramente, lasciando da parte ogni illusione su “governi amici” o “sindacati rappresentativi”.
10/12/2006 Helios
1. Per i dettagli vedi Rivoluzione Internazionale n. 147
2. Il che non vuol dire che qualche paese capitalista non possa “avanzare” a scapito di altri. Anzi, è proprio il detto “mors tua vita mea” che caratterizza la vita del capitalismo dell’ultimo secolo, un secolo di guerre, di scontri e di concorrenza spietata, in un mondo diventato ormai troppo piccolo per consentire un qualsivoglia sviluppo del mercato, come era stato nei secoli precedenti. Le cifre che esibiscono paesi come la Cina o anche l’India in questi ultimi tempi sono essenzialmente l’espressione di una politica di sottrazione di mercati ad altri paesi capitalisti (il nord Africa all’Europa, ad esempio) e a condizioni di vita e di lavoro sempre più miserevoli in cui è stata ridotta la classe operaia cinese e indiana che non può che esprimere la prospettiva verso cui ci spinge questo barbaro sistema a livello mondiale. 3. In effetti fu scompaginato anche il PSI, partito storicamente di sinistra, ma che aveva governato per diversi anni con tutte le compagini di centro e di destra (DC, PRI, PSDI, PLI). Comunque il vero vuoto venne a costituirsi al centro e alla destra dello schieramento politico borghese.
Riceviamo da un nostro simpatizzante un interessante commento sulla finanziaria del governo Prodi e sul reale significato delle elezioni nella società attuale. Il testo non ha bisogno di commenti e riceve da parte nostra un pieno sostegno su quanto sviluppa sul reale significato delle elezioni e sul ruolo privilegiato svolto dalla sinistra del capitale nel mistificare la classe operaia. Cari Compagni, la denuncia fatta da Deaglio a proposito dei brogli telematici elettorali è molto pesante. Adesso ho potuto vedere riconosciuta la giustezza della posizione di non lasciarsi truffare dall'elettoralismo, da parte di molte persone che avevano disprezzato ed irriso questa scelta. Ma bisogna ancora chiarire che non si tratta di un'eccezione, dato che, a quanto pare, anche l'attuale presidente degli Stati Uniti d'America è stato eletto grazie a meccanismi analoghi. Dunque nella democrazia borghese il responso elettorale è predeterminato, a seconda se alla borghesia conviene affidare a questa o quell'altra parte del suo schieramento politico l'amministrazione dello Stato (mai il potere, che rimane solo e sempre alla classe borghese). E quindi, una finanziaria da macelleria sociale, non certo dissimile da quella che avrebbe varato Berlusconi: l'importo dichiarato è di 40 milioni di euro, in realtà più di 60, cioè 120 000 miliardi delle vecchie lire di cui circa il 67% andrà direttamente a sostenere la crisi capitalistica ed il rimanente a pagare gli interessi sui debiti di Stato. Però...in cambio i cosiddetti “comunisti” hanno ottenuto un elegante campanellino di Presidente della Camera, con il quale possono accompagnare la messa funebre delle speranze dei proletari precari. E questa violenza, questa ignobile mutilazione di ogni diritto per i precari e per i proletari, poggia su una truffa da baraccone, su un volgare trucco. Le elezioni, in regime borghese possono essere solo questo, l'organizzazione cinica e depravata di inganni a cui concorrono tutti i partiti borghesi, ma principalmente quelli che dichiarano di stare dalla parte dei proletari. Fa più ribrezzo un Bertinotti o un Diliberto che non un Berlusconi, perché deve necessariamente essere maggiore il loro grado di cinismo. Alla storia occorrerà un secchio della spazzatura molto capiente per farceli entrare tutti. P., 23/11/06
La repressione che lo Stato ha scatenato contro la popolazione di Oaxaca mette a nudo la ferocia sanguinaria della democrazia. Oaxaca si è trasformato da cinque mesi in una vera polveriera, nel quale i corpi paramilitari e polizieschi sono stati il braccio armato del terrore statale. Le perquisizioni, i sequestri e la tortura sono utilizzati ogni giorno dallo Stato per ristabilire “l'ordine e la pace”. Il risultato dei soprusi polizieschi non è un “risultato nullo”, come pretende il governo. In effetti questo si conclude con decine di “dispersi”, di prigionieri e almeno tre morti (senza contare la ventina di persone uccise tra maggio e ottobre di quest'anno dalle guardie bianche). Sei anni fa la classe dominante proclamò che l'arrivo al potere di Fox augurava un “periodo di cambiamenti”, ma la realtà ha messo in evidenza che indipendentemente dalle parti o le persone che arrivano al governo, il capitalismo non può offrire alcun miglioramento... ed è più evidente che mai che il sistema attuale può offrire soltanto più sfruttamento, più miseria e più repressione. L’insieme della classe operaia deve trarre tutte le lezioni da ciò che avviene a Oaxaca, deve capire che la situazione di violenza e di repressione che si sviluppa qui non è dovuta ad un governo in particolare o ad un uomo politico particolare, ma deriva dalla natura del capitalismo stesso, e deve anche criticare le debolezze e difficoltà nelle quali i lavoratori si trovano intrappolati. È necessario fare un bilancio generale sul significato delle mobilitazioni attuali per trarne gli insegnamenti e permettere così che le prossime lotte siano preparate al meglio.
La borghesia utilizza il malcontento a proprio beneficio
Le manifestazioni attuali a Oaxaca sono senza alcun dubbio le espressioni del malcontento dei lavoratori contro lo sfruttamento e le ignominie del capitalismo. Le mobilitazioni in questa regione esprimono il malcontento di fronte al deterioramento persistente delle condizioni di vita, sono il frutto di una rabbia profonda e rivelano un vero coraggio e una reale determinazione alla lotta; tuttavia esse sono state manipolate dalla borghesia, che è riuscita a far si che gli obiettivi, i metodi e l'organizzazione delle azioni di protesta non fossero sotto il controllo dei lavoratori. I conflitti che si sviluppano nell'ambito della borghesia hanno potuto deviare il malcontento sociale ed utilizzarlo a proprio beneficio, trasformando una lotta per delle rivendicazioni salariali in un movimento senza prospettive, nella misura in cui questo è stato sviato da una delle frazioni della borghesia, quella “democratica”, contro un'altra composta dai vecchi “papaveri”. Esigere la destituzione di Ulises Ruiz (1) è soltanto un appoggio esplicito alla frazione che pretende di prendere il suo posto. In questa falsa alternativa, i lavoratori in ogni caso ci perdono e la loro potenza di classe si ritrova ridotta ad essere un sostegno ad una frazione della borghesia. Ben prima delle manifestazioni di maggio, una frazione della classe dominante ha tentato di utilizzare la massa degli sfruttati come “forza di pressione” per indebolire la frazione avversaria. L'intervento diretto di Esther Gordillo, di Murat, di Ulises Ruiz stesso e di altri, attraverso il sindacato degli insegnanti (SNTE-CNTE, compresi i settori “critici” come la CCL), mostra chiaramente che la borghesia, in particolare la frazione dei “papaveri” della regione meridionale, ha approfittato del malcontento per i propri interessi. Così una lotta che trovava le sue origini nella rivolta contro la miseria e che criticava lo sfruttamento capitalista è stato trasformato in una mobilitazione contro la “cattiva gestione” della canaglia di turno al governo, limitandone le aspirazioni originarie alla ricerca della democratizzazione del sistema. Di fronte a queste mobilitazioni, il sistema ha mostrato tutta la sua natura sanguinaria, ma l’uso da parte dello Stato del terrore va oltre la repressione contro i dimostranti di Oaxaca. L’obiettivo principale dell'incursione delle forze militari e poliziesche non è lo sterminio dell'Assemblea popolare del popolo di Oaxaca (APPO), ma quello di estendere il terrore in quanto arma di avvertimento e di minaccia all'insieme dei lavoratori. Il terrore statale è stato scatenato combinando le forze di repressione dello Stato e quelle del governo federale, mettendo in evidenza che anche quando ci sono lotte interne fra le varie bande della borghesia, queste riescono a ben intendersi quando si tratta di portare a buon fine il loro compito repressivo; supporre che è possibile “dialogare” con un settore del governo, significa alimentare la speranza illusoria che può esistere un settore della borghesia che sia “progressista” o “illuminato”. Dare come obiettivo principale al movimento di mobilitazioni il ritiro di Ulises Ruiz dal governo di Oaxaca, significa dare l'illusione che il sistema capitalista potrebbe migliorare diventando più democratico o cambiando gli uomini alla sua testa. Limitare la riflessione alla contestazione di Ulises Ruiz, sacrificare la mobilitazione verso quest'obiettivo, non partecipa affatto allo sviluppo della coscienza ma al contrario alimenta la confusione e dà la falsa speranza che gli sfruttati potrebbero avere un “governo migliore”. La parola d'ordine dell’APPO di unire le forze contro Ulises Ruiz non è affatto un rafforzamento della riflessione collettiva e dell'azione cosciente, è al contrario l'estensione della confusione e la sottomissione della forza sociale agli interessi di una delle frazioni della borghesia contro un'altra. La dimostrazione più evidente di ciò è il fatto che la questione salariale, che era alla base del movimento, viene messa in secondo piano per lasciare il posto alla rivendicazione della destituzione del governatore della regione. Questa manovra ha permesso al sindacato ed al governo federale di ridurre la questione salariale ad un semplice problema tecnico di apporto adeguato di risorse ad una regione sulla base di una pianificazione delle finanze pubbliche, permettendo così di isolare il problema e presentarlo come una questione “locale”, senza alcun legame con gli altri salariati del paese. Nello stesso senso, i metodi di lotta messi in atto, i picchetti, i blocchi, le marce estenuanti ed gli scontri disperati, non hanno affatto permesso di alimentare la solidarietà; al contrario, hanno isolato il movimento riducendolo pertanto ad un facile obiettivo per la repressione.
Nello stesso senso, le “bombe propagandistiche” della guerriglia non hanno affatto aiutato lo sviluppo della coscienza, così come non hanno affatto indebolito il sistema, al contrario: questi atti sono piuttosto l'espressione disperata di declassati, se non si tratta semplicemente di un ignobile simulacro dello Stato per avere un “pretesto” per scatenare la repressione.
APPO: un corpo estraneo al proletariato
La composizione sociale dell’APPO (costituita da organizzazioni “sociali” e sindacati) mostra che quest'organizzazione, e dunque le decisioni che prende, sfugge alle mani del proletariato. La sua natura non proletaria è dimostrata dal fatto che essa è fondamentalmente dominata da settori non salariati (e questo è già una manifestazione della sua debolezza) e soprattutto dal fatto che lascia la discussione e la riflessione ai sindacati ed ai gruppi dell'apparato di sinistra della borghesia (cioè legati direttamente o indirettamente agli interessi di alcune frazioni della classe dominante). È questo che permette che venga diluita la forza potenziale dei lavoratori nell'azione, questa forza che non può esprimersi in una struttura che, benché presentandosi sotto forma di cosiddette assemblee aperte, esprime nella pratica la sua vera essenza, quella di un fronte interclassista condotto dalla confusione e la disperazione degli strati medi. L'appello del 9 novembre 2006 per la trasformazione dell’APPO in struttura permanente (l'Assemblea statale dei popoli di Oaxaca) lo dimostra bene. Questo definisce la Costituzione del 1917 della borghesia messicana un “documento storico che ratifica la tradizione emancipatrice del nostro popolo...” e chiama a difenderlo, così come chiama a difendere “il territorio e le sue risorse naturali”. Il suo radicalismo si riduce alla difesa dell'ideologia nazionalistica, vero veleno per i lavoratori. L'appello contiene inoltre una vera e propria falsificazione dell’internazionalismo proletario, quando proclama la necessità “di stabilire legami di cooperazione, di solidarietà e di classe con tutti i popoli della terra per la costruzione di una società giusta, libera e democratica, una società veramente umana” attraverso la lotta per …”la democratizzazione dell'ONU”! La creazione dell’APPO non è stato un avanzamento per il movimento dei lavoratori. La sua formazione è al contrario legata allo schiacciamento del loro malcontento di classe. L’APPO è apparsa come una “camicia di forza” per contenere la combattività proletaria. I gruppi stalinisti, maoisti, trotskysti ed i sindacati che la compongono hanno saputo snaturare il coraggio e le espressioni di solidarietà della classe operaia imponendo un orientamento ed un'azione lontana mille miglia dai suoi interessi e da quelli del resto degli sfruttati. I raffronti che osa fare l’APPO tra la sua struttura e quella dei Soviet, la sua pretesa ad essere un “embrione del potere operaio”, sono i veri attacchi lanciati contro le autentiche tradizioni del movimento operaio. L'organizzazione autenticamente proletaria si distingue per il fatto che gli obiettivi che si dà sono direttamente legati ai suoi interessi di classe, cioè alla difesa delle sue condizioni di vita. Il suo fine non è la difesa “dell'economia nazionale”, dell'economia dello Stato ed ancora meno la democratizzazione del sistema che la sfrutta. Essa cerca soprattutto di difendere la sua indipendenza politica rispetto alla classe dominante, indipendenza che le permette di assumere la lotta contro il capitalismo. È in questo senso che le lotte rivendicative dei lavoratori contengono la preparazione alla critica radicale dello sfruttamento: esprimono la resistenza alle leggi economiche del capitalismo e la loro radicalizzazione apre la via alla rivoluzione. Queste lotte sono momenti che fanno parte della preparazione alle lotte rivoluzionarie che dovrà fare il proletariato, in questo senso sono il germe della lotta rivoluzionaria.
La coscienza e l'organizzazione sono le armi dei lavoratori per affrontare il capitalismo
In quanto classe internazionale ed internazionalista, il proletariato deve assimilare e far propria, in tutti i paesi, l’esperienze delle sue lotte passate. Gli è dunque indispensabile, per dar impulso allo sviluppo della sua coscienza, far riferimento ad esempio alle lezioni della mobilitazione sviluppata dagli studenti e dai lavoratori in Francia nella primavera del 2006 contro il contratto di primo impiego (CPE). La lezione essenziale di questo movimento è stata la sua capacità di organizzazione, che gli ha permesso di mantenere un tale controllo della lotta da impedire ai gauchistes ed ai sindacati di deviare il movimento dal suo obiettivo centrale, il ritiro del CPE. Le lotte dei lavoratori di Vigo in Spagna, nello stesso periodo, sono andate nello stesso senso, difendendo le proprie rivendicazioni salariali e l'estensione della lotta mediante il controllo delle assemblee contro il sabotaggio sindacale. La difesa delle condizioni di vita, l'autonomia organizzativa e la riflessione di massa raggiunte da questi movimenti sono lezioni per tutto il proletariato, lezioni che deve mettere davanti per sferrare le sue lotte.
18 novembre 2006.
1. Governatore dello Stato di Oaxaca, che appartiene al vecchio partito dirigente del Messico, il PRI, corrotto e clientelare.
(da Révolution Internationale n° 374, dicembre 2006).
Dovunque nel mondo, la classe operaia subisce pesanti colpi da parte dei suoi sfruttatori, sia da parte dei padroni privati che dello Stato, sia nei paesi evoluti che in quelli più poveri. Attacchi sui salari, aggravamento della disoccupazione, riduzione di sovvenzioni di qualsiasi natura, attacchi alle condizioni di lavoro, riduzione alla miseria di frazioni sempre più ampie della classe operaia a livello internazionale, questo è il compenso per un proletariato che paga ad un prezzo ogni giorno più caro la crisi del capitalismo. Ma questi attacchi non colpiscono un proletariato sconfitto, pronto ad accettare passivamente tutti i sacrifici che gli vengono chiesti. Al contrario, vediamo manifestarsi nell'insieme dei paesi del mondo reazioni operaie sempre più forti per resistere e rispondere a tali attacchi. Malgrado l'enorme blackout operato dai mezzi di comunicazione nei paesi evoluti, vediamo in particolare nel continente latino-americano le reazioni di una classe operaia che non è disposta ad accettare la miseria senza battersi. Queste non sono azioni isolate, ma un momento della combattività crescente che da tre anni sta sviluppandosi a livello internazionale.
Contro la violenza degli attacchi, si sviluppa la combattività operaia
In Honduras, in settembre, ci sono stati scioperi molto importanti del settore del trasporto urbano della capitale del paese, Tegucigalpa, che si è fermato completamente per due giorni dopo che i tassisti ed i conduttori di autobus si sono messo in sciopero per protestare contro l'imposizione da parte del governo di un aumento del prezzo dei carburanti del 19,7%.
Nel Nicaragua, dopo le violente proteste che hanno avuto luogo all'inizio dell'anno a Managua in seguito all'aumento delle tariffe dei trasporti, dopo gli scioperi massicci del personale della sanità in aprile, la capitale è stata bloccata dagli scioperanti del settore dei trasporti.
In Cile, in un contesto di perquisizioni, di arresti e di repressione brutale da parte del governo socialdemocratico di Michelle Bachelet, nel settore dell'educazione è scoppiato a fine settembre uno sciopero contro le penose condizioni d'insegnamento, sciopero che ha unito professori, studenti e liceali (quest’ultimi dal mese di agosto conducono una lotta molto radicale). Uno dei temi del movimento era il rifiuto degli scioperi parziali per una lotta della massima ampiezza. Quest’estate gli operai della miniera di rame di Escondida si sono messi in sciopero (per la prima volta dall'apertura della miniera nel 1991) per tre settimane per richiedere il 13% di aumento dei salari ed un’indennità di 30.000 euro. Alla fine hanno ottenuto un aumento del 5% ed un’indennità straordinaria di 13.000 euro. Inoltre il nuovo contratto avrà una durata di 40 mesi invece di due anni, il che è una truffa perché gli stipendi non saranno più rinegoziabili prima di questi 40 mesi.
In Bolivia, gli operai che lavorano nelle miniere di stagno sono entrati in lotta per parecchie settimane per rivendicazioni salariali e contro dei licenziamenti in corso, subendo la feroce repressione del governo di sinistra di Evo Morales, grande amico di Fidel Castro.
In Brasile, dopo gli scioperi del mese di maggio nelle fabbriche Volkswagen contro i 5000 licenziamenti previsti dal gruppo auto, gli impiegati di banca entrano in sciopero in settembre per adeguamenti salariali.
In Messico in primavera, parecchie migliaia di operai della siderurgia hanno fermato il lavoro per cinque mesi nelle fabbriche di Sicartsa ed Atenco, sulla costa Pacifica del paese, con scioperi colpiti da una violenta repressione poliziesca. Gli scioperi degli insegnanti della città di Oaxaca, uno dei tre Stati più poveri del Messico, scioperi che hanno dato nascita ad un movimento di occupazione della città da parte di tutta la popolazione, da metà giugno ad oggi, confermano quest’aumentata resistenza della classe operaia contro gli attacchi capitalisti.
Le trappole elettorali e populiste
Le espressioni di questa forte combattività nella classe operaia dell'America latina vengono ostacolate dalle numerose trappole che la borghesia sviluppa a livello ideologico. Queste lotte si svolgono in un clima generale di propaganda elettorale e populista di sinistra i cui sostenitori più conosciuti sono Lula e soprattutto Chavez. Le recenti elezioni di Morales in Bolivia e di Bachelet in Cile, sono state salutate da tutta la stampa, in particolare quella della sinistra borghese, come avanzamenti della democrazia e vengono al momento giusto per snaturare e deviare questo sviluppo della lotta della classe operaia. La stessa cosa si verifica con le elezioni presidenziali in Brasile e il battage sul mantenimento di Lula al potere. In Messico, lo sciopero dei 70.000 insegnanti di metà giugno ad Oaxaca, malgrado la forte volontà militante dei lavoratori ed il fatto che tutta la popolazione si sia riconosciuta in esso e l’abbia sostenuto, è stato sviato e imprigionato ponendo come rivendicazione principale la richiesta di dimissioni del governatore Ruiz, in un ambito interclassista dove tutte le frazioni di sinistra e di estrema sinistra, sindacali e politiche, hanno snaturato il sentimento di solidarietà reale presente tra la popolazione, portandolo sul terreno localista e nazionalista con il pretesto di volere dare il loro sostegno agli insegnanti. Migliaia di manifestanti hanno bloccato la città, occupando parecchie stazioni radio, difendendo con bastoni e machete le loro barricate contro gli attacchi armati dei “convogli della morte” (poliziotti in borghese con i passamontagna agli ordini del governatore). E’ stata anche creata un’Assemblea Popolare del Popolo di Oaxaca (APPO) nella quale l'ideologia “indianista indigena”, particolarmente forte, ha mirato ad annacquare ancora di più le rivendicazioni degli insegnanti in una vasta “rivendicazione popolare” informe. Dal mese di agosto l’SNTE (sindacato nazionale degli insegnanti) ed i partiti di sinistra si sono accaniti a focalizzare l’iniziale movimento di sciopero, sui salari e le condizioni della scuola, sulla persona di Ulises Ruiz. che aveva usato il denaro destinato alle scuole, in particolare quello destinato a pagare la merenda dei bambini, per la sua campagna elettorale e che aveva fatto sparare sugli insegnanti che occupavano il centro della città il 14 giugno, dando vita ad una radicalizzazione estrema del movimento. Da settembre questo movimento, grazie ai sindacati ed all’APPO, con la fine dello sciopero degli insegnanti è diventato una sinistra farsa con manifestazioni “di sostegno” al Messico, scioperi della fame, sostegno di Amnesty International, ecc., il tutto in un'atmosfera gauchiste pseudo-radicale destinata a frenare ogni presa di coscienza su quella che era stata la posta in gioco all'inizio dello sciopero e delle possibilità di estensione reale che essa offriva. Così, un milione di persone hanno bloccato il centro di Messico per due mesi per denunciare la falsificazione delle elezioni da cui era uscito sconfitto il candidato “dei poveri”, Andres Manuel Lopez Obrador (AMLO) e per esigere una riconta dei voti. Quest’ultimo si è fatto anche eleggere “per acclamazione” capo del governo, proclamando che “è la strada che governa”. In Bolivia, i minatori si sono fatti intrappolare dai sindacati (sostenitori del governo “indianista” di sinistra di Morales la cui elezione era stata salutata come “una speranza per il popolo”, nella difesa della “loro” miniera per finire poi in un bagno di sangue. Oggi si può constatare, in particolare a partire dal 2003, una tendenza alla ripresa delle lotte del proletariato veramente a livello internazionale. Sia nei paesi centrali e più sviluppati del pianeta che nei paesi della periferia e più poveri, la classe operaia prova ad opporre la lotta e la solidarietà di classe agli attacchi incessanti e sempre più brutali di un sistema capitalista in crisi. E le armi utilizzate dalla borghesia per fare passare questi attacchi sono sempre dello stesso tipo: la violenza e la mistificazione.
La violenza e la repressione sono evidentemente più spettacolari nei paesi della periferia, particolarmente in America latina. Ma è anche presente in quelli più evoluti dove, quando non si esercita a forza di manganello ed attraverso i gas lacrimogeni, continua a pesare quotidianamente sotto forma di ricatto alla disoccupazione ed ai licenziamenti. Quanto alle mistificazioni che mirano a sabotare le lotte, a distruggere la solidarietà e la coscienza di classe, a disperdere e deviare la combattività, esse non conoscono frontiere. Ovunque, i sindacati, i partiti di sinistra e le organizzazioni gauchiste ne sono i principali artefici. Le tematiche sono sempre le stesse e si possono riassumere nella difesa della democrazia borghese e nella difesa del capitale nazionale. Dovunque, la mistificazione elettorale è usata a iosa: bisogna “ben votare”, e se non si possono eleggere i “migliori per i lavoratori” (è così che si presentano i partiti di estrema sinistra) allora bisogna impedire che i “peggiori” (i partiti della destra tradizionale) avanzino votando per i “meno peggio” (la sinistra classica). Secondo questi signori gli operai si dovrebbero mobilitare, non contro il capitalismo come un tutto, quali che siano le sue forme, ma contro il “capitalismo liberale e mondializzato”. In questo senso, le menzogne usate contro le lotte operaie in America latina non sono molto diverse da quelle che vengono servite qui da noi dai partiti della “sinistra anti-liberale”. Vi si aggiungono solo alcuni ingredienti locali, come l'indigenismo (la difesa dei diritti degli indi), o il populismo alla Chavez o alla Morales. I discorsi “anti-imperialisti” radicali di questi due personaggi, che sono i nuovi eroi per una buona parte dell'estrema sinistra dei paesi sviluppati, non ne fanno i difensori degli operai il cui sfruttamento è lo stesso, che sia organizzato da “stranieri”, da “compatrioti” o dallo Stato nazionale stesso. Proprio al contrario, lo sciovinismo che queste persone provano ad incrostare nelle coscienze operaie è sempre stato il peggior nemico del proletariato. Perché le lotte operaie che attualmente si sviluppano su scala internazionale non siano soffocate dalla classe dominante, perché possano costituire una nuova tappa del proletariato verso la sua emancipazione, è necessario che si sviluppi in seno a quest’ultimo una coscienza crescente tanto sulla posta in gioco che sulle trappole tese dai difensori dell'ordine borghese. per sconfiggerli: la coscienza che non c'è alcuna salvezza per gli operai se loro stessi non prendono in mano le proprie lotte e le estendono il più possibile in modo solidale; la coscienza che queste lotte fanno parte di una lotta internazionale degli sfruttati contro tutti i settori della borghesia.
Mulan, 25 ottobre 2006
(da Révolution Internazionale n. 373)
Cinquant’anni dopo la rivolta operaia che scosse l’Ungheria nel 1956, gli avvoltoi della borghesia ne “celebrano” l’anniversario nel loro stile abituale. La stampa borghese tradizionale versa una lacrima sulla resistenza eroica del “popolo ungherese” “per l'indipendenza nazionale” e contro gli “orrori del comunismo”. Tutte queste celebrazioni non descrivono che l'apparenza della rivolta, e dunque mascherano e distorcono il suo significato reale. La rivolta operaia del 1956 in Ungheria non è l’espressione della volontà del “popolo” di riformare il “comunismo” alla stalinista o conquistare “l’indipendenza della nazione”. È il risultato diretto delle contraddizioni insolubili del capitalismo in Europa dell’Est e nel mondo intero.
Lo sfruttamento stalinista della forza lavoro nei paesi dell’est
Appena finita la seconda Guerra mondiale, la pressione delle rivalità imperialiste tra Mosca e Washington spinge il Cremlino ad intraprendere una fase di produzione frenetica d’armamenti. Industria pesante e produzione militare saranno allora sviluppate a detrimento dei beni di consumo e delle condizioni di vita della classe operaia. L’Unione sovietica, che in seguito alla vittoria occupa Europa orientale, esige dai nuovi paesi satelliti la completa sottomissione dei loro apparati produttivi agli interessi economici e militari dell’URSS.
Un vero sistema da vampiri si mette in moto fin dal 1945-1946 con, per esempio, lo smantellamento di certe fabbriche ed il loro trasferimento, operai compresi, sul suolo russo. In Russia e nei suoi paesi satelliti gli operai subiscono un regime di super sfruttamento della loro forza lavoro simile all’inferno descritto da Dante. Così, in Ungheria, grazie alla ricetta stalinista dello stakanovismo, il piano del 1950 farà quintuplicare la produzione di armamenti. La borghesia sovietica doveva mantenere gli stipendi bassi e sviluppare l’industria pesante nel più breve tempo possibile. Nel periodo 1948-53, le condizioni di vita degli operai in tutto il blocco dell’Est cadono al di sotto del livello d’anteguerra, ma la Russia uscirà da questo periodo con la sua bomba H ed i suoi Sputnik.
In queste condizioni, la collera in seno al proletariato non tardò a farsi sentire. Lo sfruttamento furibondo era sempre meno sopportabile; l’insurrezione covava. Gli operai cecoslovacchi come quelli di Berlino-Est nel 1953 si erano già rivoltati rendendo necessario l’intervento dei carri armati russi per ristabilire l’ordine. Il vento di rivolta contro lo stalinismo che soffiava all’est doveva trovare il suo coronamento nell’insurrezione ungherese d’ottobre 1956. L’insurrezione di Budapest del 23 ottobre approfitta, in un primo tempo, di una manifestazione organizzata all’origine dagli studenti “in solidarietà con il popolo della Polonia” che intanto aveva tentato di sollevarsi poco prima contro la cappa di piombo dei regimi stalinisti.
La risposta intransigente delle autorità che trattarono i manifestanti come “fascisti” e “controrivoluzionari”, la repressione sanguinosa condotta dall’AVO (la polizia segreta) e soprattutto, il fatto che la manifestazione “studentesca” fosse stata rafforzata da migliaia di operai, trasformarono in insurrezione armata la protesta pacifica che esigeva riforme democratiche ed il ritorno al potere del leader “riformista” Imre Nagy.
Non è qui che possiamo esaminare in tutti i dettagli gli avvenimenti che vanno dall’insurrezione del 23 ottobre fino all’intervento della Russia che è costato la vita a migliaia di persone, in maggioranza giovani operai. Vorremmo ritornare solamente sul carattere generale della rivolta con lo scopo di portarla fuori dalle terribili confusioni che la circondano. L'opposizione alla “vecchia guardia” stalinista si esprimeva in due modi. La prima proveniva dalla stessa borghesia, condotta dai burocrati liberali e sostenuta dagli studenti, dagli intellettuali e da artisti un poco più radicali. Essi difendevano una forma più democratica e più proficua del capitalismo di Stato in Ungheria. Ma “l’altra opposizione” era la resistenza spontanea della classe operaia allo sfruttamento mostruoso che le era imposto. In Ungheria, questi due movimenti sono coesistiti nell’insurrezione. Ma è l’intervento determinante della classe operaia che ha fatto trascendere questo movimento di protesta in insurrezione, ed è poi la contaminazione dell’insurrezione operaia con tutta l’ideologia nazionalista e democratica degli intellettuali che ha ostacolato il movimento proletario. Questa permeabilità della classe operaia al veleno nazionalista non è altro che il prodotto del corso storico di allora, quello della controrivoluzione iniziata negli anni 1920. Il proletariato si ritrova, su scala mondiale, al minimo delle forze, annientato ideologicamente dalla sconfitta della sua prima ondata rivoluzionaria del 1917-1923, schiacciato fisicamente dalla guerra mondiale ed inquadrato dai sindacati da una parte e dalle forze dell’ordine dall’altra. Gli era di conseguenza impossibile, senza una prospettiva chiara, superare lo stadio della rivolta per andare verso quello della rivoluzione, come gli era difficile in Ungheria premunirsi contro la propaganda nazionalista di una frazione della borghesia e del suo esercito.
Gli operai hanno scatenato il movimento di protesta a causa delle condizioni intollerabili in cui erano costretti a vivere e a lavorare. Una volta gettato il loro peso nel movimento, questo prese un carattere violento ed intransigente che nessuno aveva predetto. Sebbene differenti elementi abbiano preso parte alla lotta (studenti, soldati, contadini, ecc.), sono essenzialmente giovani lavoratori che, nei primi giorni dell’insurrezione, distrussero il primo contingente di carri armati russi mandati a Budapest per restaurare l’ordine. Fu principalmente la classe operaia a prendere le armi per combattere contro la polizia segreta e l’esercito russo. Quando la seconda ondata di carri russi arrivò per schiacciare l’insurrezione, furono i quartieri operai ad essere attaccati e mandati in rovina perché erano questi i principali centri di resistenza. Ed anche dopo la restaurazione de “l’ordine”, l’instaurazione del governo Kadar e il massacro di migliaia di operai, il proletariato ha continuato a resistere conducendo lotte aspre e numerose. La più chiara espressione del carattere proletario della rivolta è stata l’apparizione di consigli operai in tutto il paese. Sorti a livello di fabbrica, questi consigli determinarono contatti tra intere regioni industriali, tra le varie città, e rappresentarono senza alcun dubbio il centro organizzativo di tutta l’insurrezione. Questi presero in carica l’organizzazione della distribuzione di armi e cibo, la direzione dello sciopero generale e diressero la lotta armata. In certe città detenevano il comando totale ed incontestato. L’apparizione di questi soviet seminò inquietudine e spavento in seno alla classe capitalista sia all’Est che all’Ovest.
Ma cantare le lodi delle lotte degli operai ungheresi senza analizzare le loro debolezze estreme e le loro confusioni sarebbe un tradimento dei nostri compiti come rivoluzionari, che non si riducono ad applaudire passivamente alla lotta del proletariato, ma criticare i suoi limiti e sottolineare gli scopi generali del movimento della classe. Nonostante che gli operai avessero di fatto il potere in grandi zone dell’Ungheria durante il periodo insurrezionale, la ribellione del 1956 non era un tentativo cosciente da parte del proletariato di prendere il potere politico né di costruire una nuova società. Era una rivolta spontanea che è fallita nel divenire una rivoluzione perché mancava alla classe operaia una comprensione politica chiara degli scopi storici della sua lotta, anche perché subiva ancora tutto il peso ideologico legato alla controrivoluzione. La prima difficoltà degli operai ungheresi era resistere all’enorme peso dell’ideologia nazionalista e democratica. Gli studenti e gli intellettuali erano i propagatori più attivi di quest’ideologia, ma gli stessi operai soffrivano inevitabilmente di tutte queste illusioni. E dunque, piuttosto che affermare gli interessi autonomi del proletariato contro lo Stato capitalista e tutte le altre classi, i consigli tendevano ad identificare la lotta degli operai con la lotta “popolare” per riformare la macchina statale in vista de “l’indipendenza nazionale”, pura utopia reazionaria nell’epoca della decadenza capitalista e dell’imperialismo. Al posto di chiamare, come avevano fatto i Soviet della Russia nel 1917, alla distruzione dello Stato borghese ed all’estensione internazionale della rivoluzione, i consigli si limitarono ad esigere il ritiro delle truppe russe, una “Ungheria socialista indipendente” sotto la direzione di Imre Nagy, la libertà d’espressione, l’autogestione delle fabbriche, ecc. I metodi di lotta utilizzati dai consigli erano implicitamente rivoluzionari, esprimendo la natura intrinsecamente rivoluzionaria del proletariato. Ma gli scopi che hanno adottato restavano tutti nel quadro politico ed economico del capitalismo. La contraddizione nella quale i consigli si ritrovarono può essere riassunta nella seguente rivendicazione, avanzata dal consiglio operaio di Miskolc: “Il governo deve proporre la formazione di un Consiglio Nazionale Rivoluzionario, basato sui consigli operai dei differenti dipartimenti e di Budapest, e composto da delegati eletti democraticamente da questi. Nello stesso tempo, il vecchio Parlamento deve essere sciolto” (Citato in Burocrazia e Rivoluzione in Europa dell’Est di Chris Hermann, p.161). Piuttosto che spingere avanti la dinamica della loro lotta, i consigli hanno indirizzato le loro rivendicazioni di scioglimento del parlamento e la realizzazione di un consiglio centrale degli operai al governo provvisorio di Imre Nagy, cioè alla stessa forza che avrebbero dovuto sopprimere! Tali illusioni non potevano che condurre allo schiacciamento dei consigli o alla loro integrazione nello loro Stato borghese.
Bisogna comunque riconoscere alla maggioranza dei consigli operai che essi o sono stati distrutti nella lotta o si sono sciolti quando hanno visto che non vi erano più speranze nella lotta e che erano condannati a diventare degli organi strumentalizzati del governo Kadar. L’incapacità degli operai ungheresi a sviluppare una comprensione rivoluzionaria della loro situazione è apparsa anche nel fatto che, a nostra conoscenza, nessun raggruppamento politico rivoluzionario è stato generato in Ungheria da questa enorme convulsione. Come scriveva Bilan, (la pubblicazione della Sinistra italiana), a proposito della Spagna degli anni 1930, l’insuccesso del proletariato spagnolo a creare un partito di classe malgrado la natura radicale della sua lotta era fondamentalmente l’espressione del profondo vuoto in cui il movimento proletario internazionale si trovava in quel momento. Da un certo punto di vista, la situazione del 1956 era anche peggiore: l’ultima delle frazioni comuniste di sinistra era sparita, e non solamente in Ungheria, ma ovunque nel mondo; il proletariato si ritrovava quasi senza nessuna propria espressione politica. Le deboli voci rivoluzionarie che potevano esistere erano sommerse facilmente dal clamore di queste forze della controrivoluzione il cui ruolo è di parlare “a nome” della classe operaia. Gli stalinisti di tutti i paesi mostravano la loro natura brutalmente reazionaria calunniando il sollevamento operaio di “cospirazione” al servizio del clan del vecchio dittatore Horthy o della CIA. In quest’epoca molti individui hanno lasciato i “Partiti Comunisti” per disgusto, ma tutti i PC senza eccezione hanno sostenuto la repressione selvaggia degli operai ungheresi. Inoltre alcuni di loro, guidati dal “grande timoniere”, il Presidente Mao a Pechino, criticarono Krusciov per non avere represso gli operai ungheresi abbastanza severamente! I trotskisti potevano apparire a fianco degli operai per aver espresso il loro “sostegno” al sollevamento. Ma caratterizzando la rivolta come una “rivoluzione politica” per la “democrazia operaia” e “l’indipendenza nazionale”, hanno contribuito a rafforzare la mistificazione insidiosa secondo la quale lo Stato in Ungheria aveva già un carattere operaio e doveva essere epurato solamente dalle sue deformazioni burocratiche per ritrovarsi interamente nelle mani degli operai. Non solo le organizzazioni trotskiste hanno diffuso un peso ideologico che serviva a mantenere la lotta degli operai dentro il quadro dello Stato borghese, ma hanno sostenuto apertamente l’ala burocratica più “liberale” dei regimi stalinisti. La presa di posizione di Ernest Mandel, grande prete della IV Internazionale nel 1956, a proposito della vittoria della cricca Gomulka in Polonia è priva di ogni ambiguità: “La democrazia socialista avrà ancora molte battaglie da portare avanti in Polonia, (ma) la battaglia principale, quella che ha permesso a milioni di operai di identificarsi di nuovo con lo Stato operaio, è già vinta" (citata da Harman, p. 108). Dal 1956, sono state pubblicate alcune analisi anche più “radicali” sugli avvenimenti in Ungheria, ma che rompono veramente poco con il quadro del trotskismo. Per esempio, i libertari di Solidarity, nel loro opuscolo Ungheria 56, vedono la rivendicazione dell’autogestione operaia (elaborata dai sindacati ungheresi!) come il vero fattore rivoluzionario del sollevamento. Ma questa rivendicazione, come l’appello all’indipendenza nazionale ed alla democrazia, era solamente un ulteriore diversivo al compito centrale degli operai: la distruzione dello Stato capitalista, l’impadronirsi da parte dei consigli non semplicemente della produzione, ma del potere politico. Molte frazioni della borghesia ricordano oggi con nostalgia gli anni 1950 perché questo era un periodo dove l’ideologia borghese sembrava avere conquistato il controllo assoluto della classe operaia. Gli operai dell’Europa dell’est si sono dunque ritrovati isolati e sottomessi a tutte le illusioni generate da una situazione in apparenza “particolare”. Con un capitalismo occidentale che sembrava tanto prospero e libero, non era difficile per gli operai del blocco dell’est vedere il loro nemico nella Russia o nello stalinismo, e non nel capitalismo mondiale. Ciò spiega le terribili illusioni che avevano spesso gli insorti sui regimi “democratici” dei paesi occidentali. Molti speravano che l’occidente “venisse in loro aiuto” contro i Russi. Ma l’occidente aveva già riconosciuto a Yalta il “diritto” della Russia di sfruttare e di opprimere i lavoratori dei paesi dell’est, e non aveva nessuno interesse a venire in aiuto di qualcosa del tutto incontrollabile come era il sollevamento di massa degli operai.
Il mondo capitalista non è più quello degli anni ‘50. Dalla fine degli anni ‘60 l’insieme del sistema è caduto ancora più profondamente in una crisi economica insolubile, espressione della decadenza storica del capitalismo da circa un secolo. In risposta a questa crisi, una nuova generazione di lavoratori ha aperto un nuovo periodo di lotta di classe a scala internazionale. Se si paragonano gli scioperi della Polonia negli anni 1970 al sollevamento in Ungheria, si può vedere che molte illusioni degli anni ‘50 hanno cominciato a perdere la loro presa. Gli operai della Polonia non si sono battuti come “polacchi” ma come operai; il loro nemico immediato non erano “i Russi” ma la propria borghesia; il loro obiettivo immediato non era la difesa del “proprio” paese ma la difesa del livello di vita. È questa riapparizione del proletariato internazionale sul suo terreno di classe che ha rimesso la rivoluzione comunista mondiale all’ordine del giorno della storia. Ma, sebbene il sollevamento ungherese appartenga ad un periodo superato della classe operaia, esso contiene molti insegnamenti per la lotta del proletariato di oggi sul piano della presa di coscienza del suo ruolo rivoluzionario. Attraverso gli errori e le confusioni, il sollevamento sottolineava numerose lezioni cruciali a proposito dei nemici della classe operaia: il nazionalismo, l’autogestione, lo stalinismo sotto tutte le sue forme, la “democrazia” occidentale, ecc. Ma allo stesso tempo, nella misura in cui essa ha ossessionato la borghesia dell’est e dell’ovest con lo spettro dei consigli operai armati, l’insurrezione è stata un eroico segnale premonitore del futuro che attende il proletariato in tutto il mondo.
Da World Revolution, organo della CCI in Gran Bretagna
Nello scorso numero di questo giornale abbiamo visto come, di fronte al crescere delle tensioni guerriere, il cosiddetto pacifismo si dimostri complice dei guerrafondai e abbiamo ricordato che di fronte a questa tendenza ineluttabile del capitalismo solo la lotta contro questo sistema può costituire un vero freno alla guerra, come dimostrato dalla rivoluzione russa del 1917, che spinse la borghesia mondiale a mettere fine alla prima guerra mondiale prima che questa arrivasse agli estremi della sua furia distruttiva. Questa posizione, che viene definita dell’internazionalismo proletario perché basata sul fatto che i proletari non hanno un fronte da scegliere, ma un capitale internazionale da combattere, si sta diffondendo a livello internazionale e costituisce, oggi come oggi, assieme ad una rinata tendenza alla solidarietà all’interno delle lotte che si sviluppano nei vari paesi, un elemento caratterizzante e qualificante delle nuove leve di rivoluzionari che emergono ai quattro lati del pianeta.
Per dare una testimonianza dell’emergere di queste nuove leve di rivoluzionari abbiamo già pubblicato sul nostro sito web, nella rubrica ICC on line, la Dichiarazione Internazionalista fatta da una conferenza di gruppi riuniti nella Corea del sud. (1) Qui di seguito riportiamo invece, preceduto da una introduzione, un volantino contro la recente guerra in Libano prodotto da una formazione politica di compagni turchi.
Mentre l'orizzonte politico sembra oscurato dalla guerra e la barbarie, la prospettiva proletaria vive e si sviluppa. Lo dimostrano non soltanto lo sviluppo delle lotte della classe operaia in varie parti del mondo, ma anche la comparsa in vari paesi di piccoli gruppi ed elementi politicizzati che cercano di difendere le posizioni internazionaliste che sono il segno distintivo della politica proletaria. Il gruppo “Enternasyonalist Komunist Sol” (“Sinistra comunista internazionale”) in Turchia è un'espressione di questa tendenza. Riproduciamo qui un volantino che questo gruppo ha prodotto in risposta alla guerra in Libano. L'emergere di questa voce internazionalista in Turchia è tanto più significativa in quanto il nazionalismo (diffuso in particolare dalla sinistra del capitale) è particolarmente forte in questo paese. Inoltre la Turchia è profondamente implicata nelle rivalità interimperialiste che devastano questa regione. Lo Stato turco è sul punto di lanciare una nuova offensiva contro i nazionalisti kurdi del PKK - campagna militare che sarà certamente giustificata ideologicamente dalla recente ondata di attacchi terroristici in molte città turche, attribuite alle fazioni nazionalistiche kurde. La questione kurda è direttamente legata alla situazione in Iraq ed in Siria, e la Turchia è uno di quegli Stati ad avere stretti legami con Israele. La guerra in Libano ha un forte peso sugli operai in Turchia; allo stesso tempo, la classe operaia turca, che ha una lunga tradizione di lotte combattive, potrebbe svolgere un ruolo importante nello sviluppo di un'alternativa proletaria alla guerra imperialista in questa regione.
Il volantino di EKS sulla situazione in Libano ed in Palestina
Il 12 luglio, subito dopo il rapimento dei soldati israeliani da parte di Hezbollah, il presidente israeliano Ehoud Olmert ha promesso ai libanesi una “risposta molto dolorosa e di grande ampiezza”. Il 3 luglio all'alba, lo Stato di Israele cominciava un'invasione e spingeva la sua classe operaia in una nuova guerra nazionalista ed imperialista. Lo Stato di Israele ha lanciato quest'invasione per i suoi propri interessi e senza preoccuparsi del sangue che poteva essere versato. In 15 giorni circa 400 civili libanesi hanno perso la vita. La recente tregua non garantisce che i massacri non ricominceranno poiché lo Stato di Israele ha mostrato che è pronto a distruggere tutto quello che minaccia i suoi interessi, non soltanto nell'ultimo conflitto ma anche attraverso la continua tortura dei palestinesi.
Tuttavia non dobbiamo dimenticare che Israele non è il solo responsabile di questo conflitto. Né Hezbollah, che attualmente attira l'attenzione del mondo per gli attacchi che sferra contro gli Israeliani con una violenza che eguaglia la loro, né l’OLP ed Hamas, che da anni conducono una guerra nazionalista in Palestina, possono essere considerati dei “puri”. Hezbollah, che Israele ha messo all’indice davanti al mondo prima dell'inizio del conflitto, ha ucciso civili israeliani con razzi che provengono dalla Siria e dall’Iran, durante tutta la guerra. Hezbollah è un'organizzazione antisemita e fondamentalista. Più importante ancora, contrariamente a ciò che pensano alcuni, Hezbollah non si è battuto per proteggere il Libano. Al contrario, è per i propri interessi che ha forzato la classe operaia libanese a raggiungere il fronte nazionalista e si è battuto soltanto per difendere i territori che controlla e l'autorità che detiene. L’OLP, che ha spinto gli operai palestinesi dal terreno della lotta di classe alle grinfie della loro borghesia nazionale, ed Hamas che è altrettanto reazionario, violento, antisemita e fondamentalista quanto Hezbollah, anche loro non fanno che difendere i loro interessi. Qui è necessario descrivere brevemente cosa è l’imperialismo. Contrariamente a ciò che molta gente pensa, l’imperialismo non è una politica che esercitano i potenti Stati nazionali allo scopo di prendere il controllo delle risorse degli Stati nazionali più deboli. Al contrario, si tratta della politica di ogni Stato nazionale, o di organizzazioni che funzionano come uno Stato nazionale, che controllano una certa zona, le risorse di questa e che esercitano la loro autorità sulla popolazione di questo territorio. Più semplicemente, l’imperialismo è la politica naturale che pratica qualsiasi Stato nazionale o qualsiasi organizzazione che funziona come uno Stato nazionale. Come abbiamo visto nell'ultimo conflitto tra Israele ed Hezbollah, in alcune situazioni, gli Stati nazionali o le organizzazioni che funzionano come uno Stato nazionale, hanno conflitti d'interesse e questi conflitti sfociano in una guerra interimperialista.
In una tale situazione, ciò che dicono i gauchistes in Turchia e nel mondo, risulta ancora più ridicolo ed incoerente. In Turchia come nel mondo, la maggior parte dei gauchistes hanno dato il loro sostegno totale all’OLP e ad Hamas. Rispetto all'ultimo conflitto, si sono espressi unanimemente per dire “siamo tutti Hezbollah”. Seguendo questa logica, secondo la quale “il nemico del mio nemico è mio amico”, hanno interamente sostenuto questa violenta organizzazione che ha spinto la classe operaia in una disastrosa guerra nazionalista.
Il sostegno dei gauchistes al nazionalismo ci mostra perché questi non hanno molto di diverso da dire rispetto a quello che dice l’MPH (partito del movimento nazionale - i Lupi grigi fascisti) non solo su Hezbollah, OLP ed Hamas ma anche su altri argomenti. In Turchia, in particolare, i gauchistes non hanno alcuna idea di ciò di cui parlano.
La guerra tra Hezbollah ed Israele e la guerra in Palestina sono entrambe guerre interimperialiste, ed i diversi campi in gioco utilizzano, tutti, il nazionalismo per trascinare la classe operaia della loro regione nel proprio campo. Più gli operai sono risucchiati nel nazionalismo, più perderanno la loro capacità ad agire come classe. È per questo che né Israele, né Hezbollah, né OLP, né Hamas devono essere sostenuti, in nessun caso. Ciò che deve ricevere un sostegno in questo conflitto, è la lotta dei lavoratori per sopravvivere, non le organizzazioni nazionaliste o gli Stati che li fanno uccidere. E ancora più importante, ciò che si deve fare in Turchia è operare per la coscienza di classe e la lotta di classe che si svilupperanno qui. L’imperialismo ed il capitalismo incatenano i paesi gli uni agli altri; per questo l'indipendenza nazionale è impossibile. Solo la lotta della classe operaia per i propri bisogni può offrire una risposta.
Per l’internazionalismo e la lotta di classe!
Enternasyonalist Komunist Sol
1. Dalla nostra introduzione alla dichiarazione internazionalista dalla Corea: “Alla fine di ottobre 2006, l’Alleanza Politica Socialista (SPA) ha convocato una conferenza di organizzazioni, gruppi e militanti internazionalisti nelle città coreane del sud di Seul e di Ulsan. Per quanto modesti fossero i numeri delle persone presenti, l’SPA, per quanto ne sappiamo, è la prima espressione organizzata nell’Estremo-Oriente dei principi della Sinistra Comunista e questa conferenza era certamente la prima del genere. Come tale, essa ha un’importanza storica e la CCI le ha dato il suo pieno e convinto sostegno inviando una delegazione per parteciparvi.”
Il recente conflitto tra Israele e Hezbollah in Libano ha costituito ancora una volta l’occasione, in un gran numero di paesi, per sentire elevarsi voci contro "l'imperialismo americano" come il principale, addirittura unico, seminatore di guerra e destabilizzazione. I gauchistes sono spesso i primi in questo elenco. In Francia, in particolare, i trotskisti di LO (Lotta Operaia) e della LCR (Lega dei comunisti rivoluzionari) non perdono mai l'occasione per stigmatizzare l'imperialismo americano, e quello del suo alleato israeliano, qualificato come "espansionismo sionistico", che massacrano, saccheggiano, occupano e sfruttano i "popoli" e le "nazioni" oppresse. Ma la prima potenza mondiale non ha il monopolio dell'imperialismo. Anzi, quest'ultimo è una condizione sine qua non alla sopravvivenza di ciascuna nazione. Il periodo di decadenza del capitalismo, cominciato circa un secolo fa, segna l'entrata del sistema nell'era dell'imperialismo generalizzato al quale nessuna nazione può sottrarsi. Questa tensione permanente contiene la guerra come prospettiva ed il militarismo come stile di vita per tutti gli Stati, siano essi grandi, piccoli, forti, deboli, aggressori o aggrediti.
Per dare una definizione molto generale, l'imperialismo è la politica di un paese che cerca di conservare o estendere il suo dominio politico, economico e militare su altri paesi o territori; questa definizione ci riconduce a numerosi momenti della storia umana, dai vecchi imperi assiri, romani, ottomani o alle conquiste di Alessandro il Grande fino ai nostri giorni. Però, nel capitalismo, questo termine acquista un significato molto particolare. Come scriveva Rosa Luxemburg "la tendenza del capitalismo all'espansione costituisce l'elemento più importante, il tratto notevole dell'evoluzione moderna; in effetti l'espansione accompagna tutta la carriera storica del capitale, essa ha preso nella sua attuale fase finale, l'imperialismo, un'energia così impetuosa che mette in discussione tutta l'esistenza civilizzata dell'umanità" (1). È dunque vitale comprendere ciò che è l'imperialismo in un sistema capitalista diventato decadente, ciò che genera oggi quei conflitti che mettono a ferro e fuoco il pianeta tutto, ciò che nella "fase finale attuale […] mette in discussione tutta l'esistenza civilizzata dell'umanità". Dal momento che il mercato mondiale è stato costituito all'inizio del ventesimo secolo ed è stato diviso in zone commerciali e di influenza tra Stati capitalisti avanzati, l'intensificazione e gli scatenamenti della concorrenza che risultavano tra queste nazioni hanno condotto all'aggravamento delle tensioni militari, allo sviluppo senza precedente di armamenti ed alla sottomissione crescente dell'insieme della vita economica e sociale agli imperativi militari per la preparazione permanente alla guerra. Rosa Luxemburg ha distrutto le basi della mistificazione secondo cui solo uno Stato, o un gruppo particolare di Stati, che dispongono di una certa potenza militare, sarebbero i soli responsabili della barbarie guerriera. Se tutti gli Stati non dispongono degli stessi mezzi, tutti hanno la stessa politica. Se, infatti, le ambizioni di dominio mondiale possono manifestarsi solamente tra gli Stati più potenti, non significa che i più piccoli non condividono gli stessi appetiti imperialistici. Accade come nel campo della mafia, in cui solo il grande padrino può dominare la città intera, mentre il magnaccia di quartiere regna su una sola strada. Tuttavia, niente li distingue sul piano delle aspirazioni o dei metodi di gangster. E' così che tutti i piccoli Stati sviluppano con altrettanta energia degli altri la loro ambizione a diventare una nazione più grande a spese dei loro vicini. E' per tale motivo che è impossibile fare una distinzione tra Stati oppressori e Stati oppressi. In effetti nei rapporti di forza che si impongono tra loro gli squali imperialisti, tutti sono ugualmente concorrenti nell'arena mondiale. Il mito borghese dello Stato o del blocco aggressore a causa del militarismo viscerale serve a giustificare la guerra "difensiva". La stigmatizzazione dell'imperialismo più aggressivo costituisce solo la propaganda di ogni avversario per reclutare le popolazioni nella guerra. Il militarismo e l'imperialismo costituiscono manifestazioni sempre più aperte dell'entrata del sistema capitalista nella sua decadenza, a tal punto che fin dall'inizio del ventesimo secolo hanno provocato un dibattito tra i rivoluzionari.
La spiegazione materialista dell'imperialismo
Di fronte al fenomeno dell'imperialismo, differenti teorie sono state sviluppate dal movimento operaio per spiegarlo, particolarmente da Lenin e Rosa Luxemburg. Le loro analisi sono comparse alla vigilia e durante la Prima Guerra mondiale contro la visione di Kautsky che faceva dell'imperialismo un'opzione tra altre politiche possibili per gli Stati capitalisti e che poteva sfociare su una "fase di super imperialismo, di unione e non di lotta degli imperialismi del mondo intero, una fase della cessazione delle guerre in regime capitalista, una fase di sfruttamento in comune dell'universo da parte del capitale finanziario unito a scala internazionale”. (2) Al contrario, gli approcci marxisti hanno in comune il considerare non solo l'imperialismo come un prodotto delle leggi del capitalismo, ma sempre più come una necessità legata al suo declino. La teoria di Lenin riveste un'importanza particolare perché gli ha permesso nel primo conflitto mondiale di difendere un rigoroso internazionalismo che è diventato poi la posizione ufficiale dell'Internazionale Comunista. Tuttavia, Lenin affronta soprattutto la questione dell'imperialismo in un modo descrittivo senza riuscire a spiegare chiaramente l'origine dell'espansione imperialista. Per lui, è essenzialmente un movimento dei paesi evoluti che ha per caratteristica principale l’utilizzazione nelle colonie del capitale delle metropoli "in sovrabbondanza", allo scopo di ottenere dei "superprofitti" approfittando di una mano d'opera meno cara e di materie prime abbondanti. In questa concezione, i paesi capitalisti avanzati diventano i parassiti delle colonie; l'ottenimento dei "superprofitti", indispensabili alla loro sopravvivenza, spiega lo scontro mondiale per conservare o conquistare delle colonie. La conseguenza di ciò è la divisione del mondo in paesi oppressori da una parte e in paesi oppressi nelle colonie dall'altra. "L'insistenza di Lenin sul fatto che i possedimenti coloniali erano un tratto distintivo ed anche indispensabile dell'imperialismo non ha retto alla prova del tempo. Malgrado la previsione che la perdita delle colonie, precipitosa per le rivolte nazionali in queste regioni, avrebbe scosso il sistema imperialista fino ai suoi fondamenti, l'imperialismo si è adattato facilmente e completamente alla decolonizzazione. La decolonizzazione [dopo il 1945] ha espresso solo il declino delle vecchie potenze imperialiste ed il trionfo dei giganti imperialisti che non erano ostacolati da un gran numero di colonie al momento della prima guerra mondiale. E’ così che gli Stati Uniti e l'URSS hanno potuto sviluppare una politica cinica "anti-coloniale" per portare avanti i loro obiettivi imperialisti, appoggiandosi sui movimenti nazionali e trasformandoli immediatamente in guerre interimperialiste per "popoli" interposti" (3). Partendo dall'analisi dell'insieme del periodo storico e dell'evoluzione del capitalismo come sistema globale, Rosa Luxemburg è giunta ad una comprensione più completa e profonda del fenomeno dell'imperialismo. Ha messo in evidenza la base storica dell'imperialismo nelle stesse contraddizioni del sistema capitalista. Mentre Lenin si limita a constatare il fenomeno dello sfruttamento delle colonie, Rosa Luxemburg analizza che le conquiste coloniali hanno accompagnato costantemente lo sviluppo capitalista nutrendo l'insaziabile necessità dell'espansione capitalista e hanno rappresentato, attraverso la penetrazione nei nuovi mercati, l'introduzione dei rapporti capitalisti nelle zone geografiche dove non esistevano ancora: "L'accumulazione in un campo esclusivamente capitalista è impossibile. Da là risulta fin dalla nascita del capitale il suo bisogno di espansione nei paesi e negli strati non capitalisti, la rovina dell'artigianato e della classe contadina, la proletarizzazione degli strati medi, la politica coloniale (la politica "di apertura" dei mercati), l'esportazione dei capitali. L'esistenza e lo sviluppo del capitalismo dalla sua origine sono stati possibili solamente attraverso un'espansione costante sia nella produzione che nei paesi nuovi" (4). E' in tal modo che l'imperialismo si è accentuato considerevolmente nell'ultimo quarto del diciannovesimo secolo... "Il capitalismo, alla ricerca arida e febbrile di materie prime e di acquirenti che non fossero né capitalisti, né salariati, rubò, decimò ed assassinò le popolazioni coloniali. Fu l'epoca della penetrazione e dell'estensione dell'Inghilterra in Egitto, della Francia in Marocco, a Tunisi e nel Tonchino, dell'Italia nell'est dell'Africa, sulle frontiere dell'Abissinia, della Russia zarista in Asia Centrale ed in Manciuria, della Germania in Africa ed in Asia, degli Stati Uniti nelle Filippine ed a Cuba, infine del Giappone sul continente asiatico" (5). Ma questa evoluzione blocca il capitalismo nella contraddizione fondamentale: più la produzione capitalista estende la sua impresa sul globo, più stretti diventano i limiti del mercato creato dalla ricerca sfrenata del profitto rispetto al bisogno di espansione capitalista. Al di là della concorrenza per le colonie, Rosa Luxemburg identifica nella saturazione del mercato mondiale e la rarefazione degli sbocchi non capitalisti una svolta nella vita del capitalismo: il fallimento ed il vicolo cieco di questo sistema che "non può compiere più la sua funzione di veicolo storico dello sviluppo delle forze produttive" (6). È questa anche la causa, in ultima analisi, delle guerre che caratterizzano ormai lo stile di vita del capitalismo decadente.
L'imperialismo, stile di vita del capitalismo in decadenza
Una volta raggiunti i limiti del globo terrestre, per il mercato capitalista la rarefazione degli sbocchi solvibili e di nuovi mercati apre la crisi permanente del sistema capitalista mentre la necessità di espansione resta una questione vitale per ogni Stato. Oramai, questa espansione può solamente farsi a detrimento degli altri Stati in una lotta per la ripartizione attraverso le armi del mercato mondiale. "All'epoca del capitalismo ascendente le guerre (nazionali, coloniali e di conquista imperialista) esprimevano la marcia ascendente, di fermentazione, di allargamento e di espansione del sistema economico capitalista. La produzione capitalista trovava nella guerra la continuazione della sua politica economica attraverso altri mezzi. Ogni guerra si giustificava e pagava le sue spese aprendo un nuovo campo per una maggiore espansione, assicurando così lo sviluppo di una maggiore produzione capitalista. (...) La guerra fu il mezzo indispensabile al capitalismo per aprirgli delle possibilità d’ulteriore sviluppo, all'epoca in cui queste possibilità esistevano e potevano essere aperte solamente con la violenza.” (7) Ormai, "La guerra diventa il solo mezzo non di soluzione alla crisi internazionale ma il solo mezzo attraverso il quale ogni imperialismo nazionale tende a liberarsi delle difficoltà con cui è alle prese, a spese degli Stati imperialisti rivali" (8).Questa nuova situazione storica impone in tutti i paesi del mondo lo sviluppo del capitalismo di Stato. Ogni capitale nazionale è condannato alla competizione imperialista e trova nello Stato l'unica struttura sufficientemente forte per mobilitare tutta la società per affrontare i suoi rivali economici sul piano militare. "La crisi permanente pone l'inevitabilità del regolamento di conti tra imperialisti attraverso la lotta armata. La guerra e la minaccia di guerra sono gli aspetti latenti o manifesti di una situazione di guerra permanente nella società. La guerra moderna è una guerra basata sulle macchine. In vista della guerra è necessaria una mobilitazione mostruosa di tutte le risorse tecniche ed economiche dei paesi. La produzione di guerra diventa anche l'asse della produzione industriale e principale campo economico della società" (9). E' per tale motivo che il progresso tecnico è condizionato interamente dal militare: l'aviazione si sviluppa prima militarmente durante la prima guerra mondiale, l'atomo utilizzato come bomba nel 1945, l'informatica ed Internet concepiti come strumenti militari per la NATO. Il peso del settore militare in tutti i paesi assorbe tutte le forze vive dell'economia nazionale per sviluppare un armamento da utilizzare contro altre nazioni. All'alba della decadenza, la guerra era concepita come un mezzo di ripartizione dei mercati. Ma col passare del tempo, la guerra imperialista perde la sua razionalità economica. Fin dall'inizio della decadenza, la dimensione strategica prende il passo sulle questioni rigorosamente economiche. Si tratta di conquistare posizioni geostrategiche contro tutti gli altri imperialismi nella lotta per l'egemonia, per imporsi come potenza e difendere il proprio rango. In questo periodo del declino del capitalismo, la guerra rappresenta sempre più un disastro economico e sociale. Quest'assenza di razionalità economica della guerra non significa che ogni capitale nazionale si astenga da saccheggiare le forze produttive dell'avversario o del vinto. Ma una tale "rapina", contrariamente a ciò che pensava Lenin, non costituisce più lo scopo principale della guerra. Mentre certi immaginano ancora, ufficialmente per fedeltà a Lenin, che la guerra possa essere motivata dagli appetiti economici (il petrolio è il primo nella hit-parade su questa questione) la realtà si incarica di dare loro una risposta. Il bilancio economico della guerra in Iraq condotta dagli Stati Uniti dal 2003 non sembra francamente pendere dal lato della "redditività". I redditi del petrolio iracheno, anche sperati per i prossimi anni 100, pesano ben poco di fronte alle spese abissali effettuate dallo Stato americano per condurre questa guerra, senza che si veda, per il momento, una loro frenata. L'entrata del capitalismo nella sua fase di decomposizione porta all'incandescenza le contraddizioni contenute nel periodo di decadenza. Per tutti i paesi, ogni conflitto particolare in cui sono impegnati implica dei costi che superano largamente i benefici che possono trarre. Le guerre hanno per risultato, senza parlare degli stessi massacri, solo distruzioni massicce che lasciano completamente esangui e nella rovina completa i paesi dove si svolgono, che non saranno mai ricostruiti. Ma nessuno di questi calcoli di profitto o di perdita elimina la necessità degli Stati, tutti gli Stati, a difendere la loro presenza imperialista nel mondo, a sabotare le ambizioni dei loro rivali, o ad aumentare i loro bilanci militari. Al contrario, essi sono presi tutti in un ingranaggio irrazionale dal punto di vista economico e della redditività capitalista. Ignorare l'irrazionalità della borghesia significa sottovalutare la minaccia reale di distruzione pura e semplice che pesa sull'avvenire dell'umanità.
(tradotto da Révolution Internationale n° 335 - maggio 2003)
1. Rosa Luxemburg, L’Accumulazione del capitale, Einaudi
2. Lenin, L'imperialismo stadio supremo del capitalismo, Editori Riuniti.
3. Révue Internationale n°19, p. 11.
4. Rosa Luxemburg, Una anticritica. Ne L'accumulazione del capitale, mostra che la totalità del plusvalore estratto dallo sfruttamento della classe operaia non può essere realizzato dentro i rapporti sociali capitalisti, perché gli operai, i cui salari sono inferiori al valore creato dalla loro forza lavoro, non possono acquistare tutte le merci che producono. La classe capitalista non può consumare tutto il plusvalore poiché una parte di questa deve servire alla riproduzione allargata del capitale e deve essere scambiata. Dunque il capitalismo, considerato da un punto di vista globale, è obbligato costantemente a ricercare degli acquirenti alle sue merci all'infuori dei rapporti sociali capitalisti. 5. Il Problema della guerre di Jehan, Bilan 1935, citato nella Révue Internationale n°19. 6. Rosa Luxemburg, Una anticritica, in L’accumulazione del capitale, Einaudi. 7. Rapporto alla conferenza di luglio 1945 della Gauche Communiste de France (Sinistra Comunista di Francia). 8. Ibid. 9. Ibid.
La gravità del riscaldamento climatico legato all'emissione di gas a effetto serra è “una scomoda verità”. Almeno, è ciò che ci dice Al Gore, l’ex-vice presidente degli Stati Uniti che, dopo il suo fiasco elettorale nel 2000, vola di conferenza in conferenza (dagli Stati Uniti, al Giappone, dalla Cina, alla Germania...) per rivelare al mondo, come un uccello del malaugurio, questa “scomoda” verità. E’ logico quindi che il regista pro-democratico Davis Guggenheim abbia messo in scena una di queste innumerevoli conferenze in un documentario al titolo: Una scomoda verità. La cosa “scomoda” a questo punto è che a consegnarci questa grande verità in un magistrale corso, sul grande schermo ed a livello planetario, sia proprio un alto dignitario della borghesia americana. Sono più di trent’anni che la comunità scientifica si dedica al problema ed oltre dieci anni che questa ha constatato unanimemente l'aggravamento del riscaldamento della terra legato all'inquinamento industriale. In fin dei conti, la sola ed unica rivelazione che contiene questo film è Al Gore stesso ed il suo dono innato per la commedia. In effetti, quello che si presenta oggi come il paladino della difesa dell'ambiente, dopo i suoi anni di studi a Harvard dove seguiva assiduamente i corsi del professore Roger Revelle (pioniere della teoria del riscaldamento globale), è lo stesso di quello che più tardi, con Clinton, “ha autorizzato lo scarico di diossina negli oceani ed ha lasciato che si compiesse il più grande disboscamento di tutta la storia degli Stati Uniti” (The Independent, apparso sul giornale francese Courier International del 15 giugno 2006). Albert Gore, come una spugna inzuppata d'ipocrisia, è un esemplare molto rappresentativo della sua classe sociale. Tutti gli Stati sono coscienti della posta in gioco a livello climatico. Tutti proclamano la volontà di fare qualcosa per preservare l'ambiente naturale della specie umana e garantire il futuro delle prossime generazioni. Tuttavia, nonostante le incendiarie dichiarazioni del Summit sulla terra a Rio (1992) o le buone risoluzioni del protocollo di Kyoto (1998), l'inquinamento va crescendo e le minacce legate allo sconvolgimento del clima si amplificano. In effetti, la scomoda verità che la borghesia nasconde dietro tutte le sue conferenze, e ora i suoi film, è che il mondo capitalista è completamente impotente a trovare una soluzione ai danni climatici... e ciò tanto più che ne è il primo responsabile.
Il riscaldamento climatico è un pericolo per il futuro della specie umana
Il sistema capitalista, in fallimento da più di un secolo, non rappresenta più alcun progresso per l'umanità. La sua esistenza si poggia oggi su una base malata e distruttiva. Le disastrose conseguenze ecologiche, avvertite sin dagli anni 1950, ne sono una ulteriore dimostrazione. Gli esami di carotaggio del ghiaccio non mentono! I campioni prelevati in Antartico con questo metodo, permettono di studiare la composizione dell'atmosfera su molte centinaia di migliaia di anni. Questi indicano chiaramente che i tassi di CO2 non sono mai stati tanto alti come a partire dalla metà del 20º secolo. Le emissioni di gas a effetto serra, caratteristica del modo di produzione capitalista, sono aumentate incessantemente e la temperatura media si accresce ad un ritmo regolare. “Il pianeta è oggi più caldo di quanto non lo è mai stato nel corso degli ultimi 2 millenni, e, se la tendenza attuale continua, sarà probabilmente più caldo entro la fine del 21º secolo come non lo è mai stato negli ultimi due milioni di anni” (The New Yorker, apparso in Courier International, ottobre 2006). Questo aumento di calore è del resto visibile ad occhio nudo ai due poli del globo. Lo scioglimento dell’Antartide è tanto spinto che si prevede la sua scomparsa entro il 2080. Tutti i grandi ghiacciai si stanno riducendo e gli oceani si riscaldano. Nel 1975, James Hansen, direttore dell'istituto Goddard di studi spaziali (il GISS), si è interessato ai cambiamenti climatici. “Nella sua tesi dedicata al clima di Venere, egli avanza l'ipotesi secondo la quale se il pianeta presenta una temperatura media di superficie di 464°C, è perché è avvolta da una nebbia di gas carbonico responsabile di un effetto serra considerevole. Qualche tempo dopo, una sonda spaziale fornisce la prova che Venere è effettivamente isolata da un'atmosfera composta al 96% di biossido di carbonio (CO2)” (The New Yorker). Ecco a cosa potrebbe somigliare la terra, in un futuro molto lontano, sotto l'effetto dell'accumulo continuo di CO2... l'estirpazione di qualsiasi forma di vita. Ciò detto, non c’è bisogno di proiettarsi così lontano per rendersi conto del potenziale devastante del riscaldamento climatico. Ben prima che l'effetto serra abbia trasformato la terra in un forno immenso a più 400°C, i segni premonitori dello sconvolgimento climatico già bastano a causare vere catastrofi per la specie umana: inondazioni, malattie, tempeste... Il direttore del British Antarctic Survey, Chris Rapley, ha fatto osservare all’inizio del 2005 che la calotta glaciale dell'Antartico Occidentale stava fondendo. Ora, quest'ultimo (come la Groenlandia) contiene tanta acqua da far salire il livello dei mari di 7 metri, cosa che corrisponde all'immersione a medio termine di vaste estensioni di terre abitate in Tailandia, in India, nei Paesi Bassi, negli Stati Uniti... Un altro direttore, quello dell’INSERN, ha evidenziato nel 2000 che “la capacità riproduttrice ed infettiva di molti insetti e roditori, vettori di parassiti o di virus, è legata alla temperatura ed all’umidità dell’ambiente. In altre parole, un aumento della temperatura, anche modesto, dà via libera all’espansione di numerosi agenti patogeni per l’uomo e per gli animali. E’ così che le malattie parassitarie come la malaria (…) o delle infezioni virali come la dengue (febbre rompiossa), certe encefaliti e febbre emorragiche hanno guadagnato terreno negli ultimi anni. O sono ricomparse in settori dove erano scomparse, o toccano delle regioni finora risparmiate…”. Un ultimo elemento. La frequenza e la potenza degli uragani non potranno che aumentare con il riscaldamento. Infatti, la colonna d'aria umida che li crea si forma soltanto quando la temperatura di superficie del mare è superiore a 26°C. Se gli oceani si riscaldano, aumentano le zone che superano questa soglia. Quando Katrina ha raggiunto la categoria 5 della classificazione degli uragani, la temperatura si aggirava sui 30°C alla superficie del golfo del Messico. Inoltre, secondo Kerry Emanuel del Massachusetts Institute of Technology, “il perdurare del riscaldamento rischia di aumentare il potenziale distruttivo dei cicloni tropicali e, con l'aumento delle popolazioni costiere, aumentare in modo sostanziale il numero delle vittime dovute agli uragani nel 21° secolo”. Così, dopo aver studiato le statistiche sull'intensità degli uragani degli ultimi 50 anni, K. Emanuel arriva alla conclusione che gli ultimi uragani durano in media più a lungo e che la velocità dei loro venti è del 15% più elevata, il che significa una capacità di distruzione aumentata del 50%. Al confronto le dieci piaghe d'Egitto e tutte le inondazioni della Bibbia messe insieme sono bazzecole.
Una scomoda verità: il sistema capitalista responsabile del rischio climatica
Contrariamente a Venere, il cui clima è evoluto naturalmente verso temperature infernali, il riscaldamento attuale della terra ha tutt’altra origine... l'attività industriale degli uomini. Questa verità non ha tuttavia nulla di uno scoop, dato che un buon numero di climatologi (e la borghesia stessa) non ne fa mistero. Il manifesto del film di Al Gore è ancora più esplicito mostrando il camino di una fabbrica dal quale esce un fumo che assume la forma di un ciclone. “L'industria è colpevole!” Ecco un comodo capro espiatorio, perché in realtà non è l'industria in sé a dover essere messa in causa ma piuttosto il modo in cui la si fa funzionare, in altre parole, il modo in cui funziona il capitalismo. Il modo di produzione capitalista ha sempre inquinato l'ambiente anche nel 19° secolo quando era ancora un fattore di progresso. Bisogna dire che il capitalismo se ne infischia altamente dell'ambiente. “Accumulare per accumulare, produrre per produrre, questa è la parola d'ordine dell'economia politica che proclama la missione storica del periodo borghese. E non si è illusa neanche per un momento sui travagli della ricchezza: ma a che pro fare piagnistei che non cambiano in nulla i destini storici?” (Karl Marx, Il Capitale - libro I). L'accumulazione del capitale, tale è lo scopo supremo della produzione capitalista e poco importa la sorte riservata all'umanità o all'ambiente... finché frutta, va bene! Il resto è poca cosa. Ma quando questo sistema entra nella sua fase di declino storico all'inizio del 20° secolo, la distruzione della natura prende tutt’altra dimensione. Allora diventa impietosa, come la lotta senza quartiere che si fanno tra loro i capitalisti per mantenersi sul mercato mondiale. Ridurre i costi di produzione al massimo per essere il più possibile competitivi diventa allora una regola di sopravvivenza inevitabile. In questo contesto, le misure per limitare l'inquinamento industriale sono ovviamente un costo insopportabile. La permanente necessità economica di ridurre al massimo i costi di produzione spiega l'ampiezza dei danni materiali ed umani causati dagli elementi naturali. Case di cartone, dighe senza manutenzione, sistemi di soccorso inefficienti... il capitalismo non è neppure capace di garantire un minimo di protezione contro i cataclismi, le epidemie e gli altri flagelli che contribuisce a propagare. L'impresa cinematografica del signor Gore finisce col dirci che, tuttavia, abbiamo il potere di cambiare le cose, di riparare il male che è stato fatto e di allontanare la minaccia del riscaldamento climatico se ci prendiamo la briga di diventare dei perfetti... “eco-cittadini”. Per questo i titoli di coda del suo film sgranano un lungo elenco di raccomandazioni: “cambiate il termostato”, “piantate un albero”... “votate per un candidato che si impegna a difendere l'ambiente... se non ce ne sono, candidatevi!” Ed infine “se siete credenti, pregate perché gli altri cambino comportamento”. Forse è questo il solo consiglio sensato e degno di questo nome che un borghese possa dare: “prima che il sole si offuschi e che le stelle cadono dal cielo mettetevi in ginocchio e pregate”. Bell’ammissione d'impotenza della borghesia e del suo mondo! La classe operaia non può permettersi di lasciare più a lungo le sorti del pianeta tra le mani di questa gente e del loro sistema. La crisi ecologica è la prova ulteriore che il capitalismo deve essere distrutto prima che lui trascini il mondo nell'abisso. Far nascere una società che mette al centro l’uomo ed il suo divenire è diventato una necessità imperiosa. Il comunismo sarà questo mondo necessario e la rivoluzione proletaria il cammino per condurvi l'umanità.
Jude (20 ottobre 2006)
(da Révolution Internationale n° 373, novembre 2006)
La crisi di governo che si è prodotta il 22 febbraio scorso ha fatto un grande rumore e ha scosso molto gli animi della politica italiana, con significative risonanze anche a livello internazionale. Ma cosa è veramente successo e perché è successo. Ed ancora, a chi torna utile questa crisi?
Prima di rispondere a questi quesiti, torniamo un attimo a caratterizzare la situazione che si era creata con l’elezione di questo parlamento e la nomina del governo Prodi. Nel n° 146 del nostro giornale ricordavamo allora come esistesse una difficoltà da parte della borghesia a “orientare il voto delle politiche del 2006 in maniera netta verso una maggioranza di centro-sinistra (…) Ciò si è tradotto in un tragico risultato di quasi parità tra centro-destra e centro-sinistra, che ha consentito, solo grazie al premio di maggioranza alla camera e il “responsabile” voto dei senatori a vita, di formare un governo con un minimo di margini di manovra. Ma questa situazione, come tutti gli osservatori di politica nazionale e internazionale hanno fatto subito notare, taglia le gambe al governo Prodi e lo rende molto più debole nei confronti di centomila ricatti da parte della disunita e variegata compagine partitica di centro sinistra di cui ogni singola componente risulta ugualmente indispensabile alla maggioranza” (1). Rispetto alla politica estera abbiamo poi ricordato come “lo schieramento imperialista dell’Italia per i prossimi anni sarà, rispetto al governo Berlusconi, meno accentuato e appariscente, ma non per questo meno imperialista e guerrafondaio. Basti solo tenere presente che al ministero degli esteri del nuovo esecutivo si trova un D’Alema che ha fatto, come capo di uno scorso governo, direttamente la guerra alla Serbia mandando i propri soldati a bombardare la povera gente di Belgrado” (1). Ed infine aggiungevamo che: “Tutto questo ha un solo grande difetto: nella misura in cui la borghesia ha dovuto impegnare anche Rifondazione Comunista – classico partito di opposizione – all’interno della maggioranza e del governo, significa che nel momento in cui il governo comincerà ad attaccare, non ci sarà uno straccio di forza di sinistra che possa fingere di fare l’opposizione parlamentare e cercare di convogliare lo scontento dei lavoratori su dei falsi obiettivi. Questa è una debolezza molto importante che potrà mettere in difficoltà la borghesia, cosa di cui questa sembra essere cosciente, tanto che ha anche cercato di porvi rimedio” (1).
Date queste premesse, qualunque congettura si possa fare sulla caduta del governo Prodi, che si tratti del colpo gobbo (pardon!) di Andreotti, indispettito - in quanto uomo del Vaticano - per i DICO; che si tratti di Pininfarina indispettito per una politica estera troppo distante dagli USA, che si tratti di una crisi voluta dalle componenti “responsabili” in seno al governo per ricattare la “sinistra radicale” e invogliare la venuta di elementi moderati, quello che è sicuro è che i numeri sono così risicati che anche se avessero votato i due contestatori Turigliatto e Rossi, il risultato della votazione non avrebbe sortito un risultato diverso e il governo sarebbe stato comunque bocciato. Per cui, a monte di qualunque analisi politica sugli orientamenti di questo o di quello, occorre prendere atto che quello che è successo è legato alla fragilità della situazione e poteva succedere in qualunque momento. Ma questa banale realtà è stata completamente sommersa da una campagna di denigrazione contro i due “mostri contestatori” che ha provocato una valanga di mail sul sito di Rifondazione contro i “traditori” e finanche dei messaggi minatori contro la famiglia, per telefono, mail, ecc., che sono culminate con l’aggressione fisica contro lo stesso Rossi in treno attraverso un solenne cazzotto da parte del segretario regionale del PdCI della Toscana Frosini. C’era da pensare che a questo punto un minimo di solidarietà Diliberto gliel’avrebbe potuta dare all’ex senatore fuoriuscito. E invece no: “L’esasperazione alimentata dal comportamento di Rossi e dal tradimento del mandato elettorale se non giustifica aiuta a comprendere l'arrabbiatura dei nostri compagni” Corrieredellasera.it del 23/02/2007. Insomma, dice Diliberto, Rossi si tenga il cazzotto (e le minacce alla famiglia?!) perché se lo merita!!
C’è da chiedersi a questo punto perché tanta drammatizzazione per delle dissidenze annunciate da giorni (Rossi addirittura non faceva più parte del PdCI da tempo). La risposta è che, a cose fatte, si cerca di trarre il massimo profitto possibile e, nel caso specifico, trarre il massimo profitto per le forze parlamentari di centro-sinistra significa colpevolizzare qualcuno per le sue posizioni di “estrema sinistra” e mostrare come proprio un atteggiamento troppo disinvolto a sinistra possa condurre a perdere tutto quanto faticosamente costruito finora con l’alleanza di centro-sinistra e il governo Prodi. Questo segnale di messa in guardia non è neanche tanto e soltanto indirizzato ai due capri espiatori del momento, Rossi e Turigliatto, quanto all’insieme della “popolazione di sinistra”, ai lavoratori, ai compagni, suggerendo in vario modo questa sequenza logica: la manifestazione di Vicenza ha prodotto il voto contrario al senato, questo ha prodotto la caduta del governo Prodi e la caduta del governo Prodi ha messo a rischio tutto quello che “faticosamente si stava facendo”. Il messaggio è dunque chiaro: di fronte allo spettro del ritorno di Berlusconi, teniamoci caro il governo Prodi, nonostante il fatto che abbia fatto una finanziaria bella tosta, che in seguito al decreto Bersani e le riduzioni di spesa da questo imposte migliaia di lavoratori di ditte in appalto abbiano perso il loro posto di lavoro o abbiano visto ridursi il già precario orario di lavoro, che la politica estera, nonostante il ritiro dall’Iraq, continui a somigliare paurosamente a quella precedente, con una presenza di guerra in Afghanistan, in Libano, ecc. ecc.
Non è un caso che, in seguito a questa crisi, Prodi abbia sfoderato i famosi 12 punti che, se da una parte confermano del tutto la politica imperialista del governo Prodi (con la scusa di impegni presi già in precedenza da precedenti governi italiani o con l’idea che l’Italia non può esimersi da compiti che le provengono dall’essere parte dell’Europa o dell’ONU), e specificamente la presenza in Afghanistan, dall’altra non citano più i cosiddetti PACS o DICO che, se erano stati dati in pasto alla cosiddetta sinistra radicale per addomesticarla rispetto a scelte più ardite di politica internazionale, adesso che questa risulta bastonata dalla canea mediatica, si può offrire l’osso succulento del loro oscuramento a personaggi di centro come Follini e altri per attirare qualche voto supplementare al Senato.
Noi non sappiamo quale sarà l’evoluzione di questo governo Prodi e delle sue eventuali espansioni verso il centro. Quello che possiamo dire di sicuro, anche sulla base di quanto viene documentato all’interno del giornale sul piano economico e sul piano della politica imperialista dell’Italia, è che i proletari non hanno veramente nulla da aspettarsi da un “governo amico”, come quello Prodi. La borghesia, oggi come oggi, non ha due alternative da proporci, una di sfruttamento e di oppressione e una di solidarietà e di democrazia, ma un’unica politica di sottomissione ideologica ed economica. I proletari devono rompere le catene di questa oppressione e liberarsi di tutti gli sfruttatori e soprattutto di tutti i falsi amici.
Ezechiele, 27 febbraio 2007
1. “Dopo Berlusconi, che ci riserva il governo Prodi?”, in Rivoluzione Internazionale n. 146.
Sono passati pochi mesi dalla vittoria del centrosinistra e già si sente mormorare che qualcosa non va, che tutta questa differenza con Berlusconi non si vede proprio. Anzi, che va anche peggio. È proprio vero che un nuovo dittatore, presidente del consiglio, governo, padrone, capo, ecc. è sempre peggio di chi lo ha preceduto. Con questo non vogliamo certo richiedere un ritorno del Berlusconi, ma vogliamo far vedere gli effetti reali delle leggi e leggine che, all’interno del quadro della finanziaria, il governo Prodi–D’Alema–Bertinotti sta sfornando e che vengono abilmente nascosti da TV e stampa che portano viceversa in prima pagina argomenti del tutto diversi o che toccano settori particolari di persone e non la massa dei lavoratori. Un esempio vale per tutti: nelle settimane precedenti il varo della finanziaria l’attenzione dei media era sulla questione dell’eutanasia e la sua approvazione è passata quasi sotto silenzio grazie al grande clamore giornalistico che si è creato intorno alla morte di Welby.
Cosa conteneva questa finanziaria da Robin Hood che doveva togliere ai ricchi per dare ai poveri? Per quanto riguarda la parte relativa alla modifica delle aliquote sulle tasse, se sfogliamo i giornali del periodo precedente la finanziaria vediamo che fanno riferimento a soggetti particolari, presi ad esempio, come il capoufficio “single”, gli operai con 3 figli e moglie a carico, etc. Tutto un modo di spezzettare la classe operaia per mettere uno contro l’altro, far dire all’uno che le nuove aliquote sono favorevoli e all’altro che ci si rimette. Il vero bilancio di questa finanziaria (1) lo potremo fare solo l’anno prossimo quando verranno confrontati tutti i salari, le variazioni nell’ambito lavorativo, le ore di lavoro in più, l’aumento della precarizzazione, il peggioramento dei servizi sociali, scolastici, sanitari. La diminuzione delle spese sanitarie significa che i medici ridurranno i tempi di visita, aumenteranno le spese per le visite specialistiche (che sono richieste sempre di più, visto il continuo peggioramento delle condizioni di vita), la sola visita al pronto soccorso ci costerà minimo 25 euro e gli infermieri ti tratteranno peggio di un manufatto in una catena di montaggio, ma non per cattiveria ma per i ritmi a cui sono costretti. I ragazzi a scuola saranno più liberi di picchiarsi o non avere una istruzione adeguata perché diminuirà il personale sia docente sia non docente, diminuiranno le classi perché aumenta il numero degli alunni per classe e aumenteranno le incombenze per i lavoratori. Molti ragazzi portatori di handicap non saranno più riconosciuti come tali e quindi non avranno il sostegno. Le conseguenze di questa politica saranno pagate in seguito da tutta la società perché questi ragazzi non saranno mai più recuperati. La (promessa di) stabilizzazione di 150.000 precari servirà a rimpiazzare l’andata in pensione di altrettanti lavoratori e la riduzione del precariato sarà fatta con la riduzione delle supplenze e delle ore di lezione per gli alunni (istituti professionali). In compenso i giovani potranno sempre arruolarsi per le missioni di “pace” all’estero che sono in costante aumento e con un congruo aumento di spesa, almeno per la strumentazione bellica: navi, aerei, carri armati e missili a volontà per la riaffermazione dell’imperialismo italico.
Comunque già oggi possiamo fare una sorvolata su ciò che ci aspetta.
In genere, per i salari più bassi, c’è stato, nella busta paga di gennaio, un aumento di una decina di euro che, in verità a prima vista, sembra più alto del reale perché nel mese di gennaio non viene applicata l’addizionale regionale IRPEF. Addizionale che, insieme a quella comunale dove è in vigore, potrà essere aumentata dall’attuale 0,5% fino ad un massimo dello 0,8%. Già questo aumento - prevedibile perché il governo ha diminuito i trasferimenti alle regioni - sarà sufficiente a far scomparire gli spiccioli avuti con le nuove aliquote. È stata inoltre introdotta la “tassa di scopo” sotto forma di addizionale ICI per finanziare i lavori locali. C’è poi il rincaro del bollo auto eccetto per chi ha l’auto nuova (euro 4 o 5) o può acquistarsela. Un modo come un altro per spingere in su i conti della Fiat. Non dobbiamo dimenticare di elencare gli aumenti indotti da questa politica di attacco ai lavoratori nell’elettricità, gas, trasporti locali e nazionali, alimenti, etc…
È previsto inoltre il trasferimento, per le aziende private con più di 50 dipendenti, del TFR, Trattamento di Fine Rapporto, ai fondi pensione o all’INPS per il finanziamento delle grandi opere. E con il fallimento di qualche azienda o dei continui crolli di borsa scompariranno, per magia, anche questi soldi. Dopo la stangata della finanziaria, Prodi dice che “Tutti gli indici stanno migliorando, la disoccupazione sta calando, l'inflazione sta calando, i conti pubblici stanno tornando nei parametri europei; solo la popolarità del mio governo sta calando. Ma questo - ha osservato il premier - è il prezzo che si deve pagare” a fronte di “misure molto forti in termini di liberalizzazioni nel commercio e nelle professioni, con decisioni severe sul debito pubblico e sulla spesa”. (canali.libero.it/affaritaliani/politica/prodiafghanistan1002.html)
Lui paga il prezzo della popolarità e i lavoratori pagano il conto.
In attesa del prossimo grande attacco alle pensioni è necessaria una riflessione sul fatto che i governi di destra o di sinistra non sono altro che due espressioni della stessa classe al potere - la borghesia - e che è necessario che i lavoratori si difendano senza fare affidamento alle forze cosiddette di sinistra, siano essi partiti o sindacati.
Oblomov, 11 febbraio 2007
1. E del precedente decreto Bersani che prevede una riduzione delle ore di appalto esterne nei vari ministeri; ciò porterà ad un incremento dello sfruttamento sui lavoratori precari utilizzati da queste ditte appaltatrici.
Con la caduta del governo Prodi si è infuocata la discussione sulla politica estera, con il governo sottoposto ad attacchi da “destra” e da “sinistra”: dal Polo che lo attacca perché “antiamericano”, dalla sinistra della sua stessa maggioranza che, all’opposto, lo accusa di non distinguersi abbastanza dalla politica degli USA, in Afganistan, per esempio, o non negando a questi l’allargamento della base di Vicenza.
In realtà siamo di fronte all’ennesimo tentativo di mistificazione, da una parte come dall’altra: se infatti sul piano dell’economia le bugie della borghesia hanno le gambe piuttosto corte, perché per i proletari basta vedere quanto più velocemente si consuma il loro salario per capire quale è la realtà della politica economica del governo, sul piano delle avventure imperialiste la realtà è meno immediatamente percettibile e, soprattutto, è coperta da una coltre più spessa di mistificazioni sparse a piene mani dalla destra come dalla sinistra dell’apparato politico della borghesia.
Infatti non ha mistificato solo Berlusconi, quando ha presentato la missione italiana in Iraq come una missione di “pace”, la stessa cosa la fa il governo di centrosinistra che maschera con la stessa scusa tutti gli interventi di truppe italiane in giro per il mondo.
La realtà invece è che sia l’uno che l’altro difendono gli interessi dell’imperialismo italiano, dividendosi solo su quella che ognuno ritiene la maniera più efficace per farlo. Berlusconi pensa che solo l’alleanza con gli USA può far contare un poco l’Italia sullo scacchiere internazionale; il centrosinistra, invece, vuol far valere gli interessi dell’imperialismo italiano in maniera autonoma dagli USA e più inserito in un contesto di politica imperialista europea.
Ma non è certo questo che denunciano i critici dell’estrema sinistra parlamentare, quelli che in questi giorni si sono fatti i paladini del “pacifismo” perché non vogliono il raddoppio della base di Vicenza o il permanere della missione in Afganistan. Da loro non sentiremo affermare che la pretesa dei governanti di centrosinistra di mandare le truppe italiane in giro per il mondo a scopi di “pace” è altrettanto menzognera quanto quella di Berlusconi quando mandò le truppe a Nassirya. Da loro non sentiremo dire che la copertura da parte dell’ONU o di altri organismi internazionali non cambia la natura di queste missioni. Né sentiremo ricordare che la presenza di più di 10.000 militari italiani in 28 missioni nel mondo intero ben poco si concilia con l’idea che è la pace che questi militari, armati di tutto punto e pronti a sparare, come è stato in tanti casi non solo in Iraq, vogliono difendere. Ci dicono, per caso, quanto costano queste missioni? Ci dicono quanti ospedali, scuole, infrastrutture si potrebbero costruire in questi stessi paesi se le centinaia di milioni di euro spesi nelle missioni fossero invece utilizzati per aiutare questi paesi ad uscire dalla loro arretratezza?
Domande retoriche le nostre perché, da che il capitalismo è nato, gli interventi delle nazioni più sviluppate verso le aree economicamente arretrate hanno sempre avuto come primo obiettivo quello di imporre il proprio dominio su di queste: nell’ottocento e all’inizio del novecento questi interventi avevano lo scopo di conquistare mercati e di accaparrarsi le materie prime dei paesi che venivano colonizzati; con l’entrata del capitalismo nella sua fase di decadenza, cioè quella in cui il capitalismo ha esteso il suo modo di produzione in tutto il mondo, la contesa diventa in parte per i mercati, in parte, e soprattutto, per occupare militarmente zone strategicamente importanti, in modo da poter avere un vantaggio militare in vista di futuri scontri tra le grandi potenze. E la maniera in cui questa presenza si impone non è funzione delle diverse intenzioni dei paesi che la impongono, ma della loro taglia e della loro forza. Così gli USA, la prima e indiscutibile prima potenza mondiale, si possono permettere di imporre il loro controllo nel mondo con i bombardamenti e l’impiego massiccio di truppe, gli altri paesi, e soprattutto quelli di scarso calibro militare, come l’Italia, devono giocare su altri piani. Da qui la politica del governo Prodi che, a ben guardare, è anche più imperialista del governo Berlusconi nella misura in cui non si limita a seguire supinamente il brigante americano ma si lancia in una politica di presenza internazionale in cui, attraverso abili giochi diplomatici, riesce anche a sfidare dei concorrenti imperialisti attraverso una mistificatoria politica di sviluppo di missioni di pace. Qualcuno può solo immaginare l’italietta che si mette a sfidare gli USA sul piano dell’esposizione di muscoli? Meglio ricorrere alla diplomazia, alla copertura dell’ONU e soprattutto a tutte le occasioni in cui si può mettere lo sgambetto agli USA senza rischiare la sfida aperta: è quello che il governo Prodi è riuscito a fare sfruttando la tensione creata in Libano dall’invasione israeliana per proporre le sue truppe come forza di “interposizione”, cosa che gli USA non avrebbero potuto fare senza alimentare ancora di più il fuoco (e impantanandosi in un’impresa ancora più pericolosa di quella irachena).
Ma abbiamo per caso sentito gli attuali difensori di una diversa politica estera del governo, i Rossi e i Turigliatto, denunciare la presenza italiana in Libano come un’avventura imperialista allo stesso titolo di quella degli USA in Iraq o in Afganistan? No, anzi tutti i sinistri sono stati d’accordo a sostenere questo intervento e lo contrappongono a quello in Afganistan.
E, a proposito di questo paese, a guardare più da vicino si può anche spiegare la preoccupazione di questi presunti pacifisti: tutti gli esperti prevedono una accelerazione dello scontro militare per la primavera, vuoi per una prevista controffensiva dei talibani, vuoi per una preventiva azione delle truppe USA (non a caso questi ultimi hanno chiesto agli “alleati” l’invio di altri 4.000 uomini) e “se in primavera i talibani mettessero in difficoltà la prima linea della NATO, eventualità da non escludere, il comando dell’Alleanza atlantica avrebbe diritto a impiegare in battaglia qualsiasi contingente (…) non è immaginabile che gli italiani, chiamati in extremis a soccorrere un altro contingente, si sottraggano ad un dovere elementare. Il loro intervento forse verrebbe taciuto all’opinione pubblica, così come le venne taciuto che i piloti italiani partecipavano agli attacchi della NATO sulle posizioni serbe in Kosovo.” (Repubblica, 7/02/2007). Ecco spiegata la preoccupazione di Rossi e compagni: se ciò avvenisse, come spiegare ai proletari italiani che la sinistra “pacifista” appoggia una guerra vera e propria? Possono fare affidamento sul fatto che la cosa sia effettivamente tenuta nascosta (come non lo è più la partecipazione ai bombardamenti in Kosovo fatti dal governo D’Alema durante quello che cinicamente fu definito “intervento umanitario”)?
Questi signori si limitano a chiedere al governo, in alternativa o in accompagnamento alla missione militare, l’impegno per una “conferenza internazionale di pace”, facendo così una ulteriore mistificazione: chi dovrebbe partecipare a questa conferenza? Forse non quelli che stanno già laggiù con le truppe per difendere i loro interessi imperialisti? E poi, quante conferenze di pace sono state fatte sul Medio Oriente? Si ricordano degli accordi di Camp David, firmati da israeliani e palestinesi, o della Road Map disegnata dagli americani con l’accordo di israeliani e palestinesi? Noi li ricordiamo e oggi possiamo dire che la nostra denuncia di allora di questa mistificazione è stata tragicamente confermata dai fatti, dalla guerra permanente che le popolazioni palestinese e israeliana sono costrette a subire per il solo fatto che la terra in cui vivono è zona di interesse strategico di tutti gli avvoltoi imperialisti.
No, non è da Prodi e nemmeno da Rossi e Turigliatto che i proletari italiani possono sperare di non dovere pagare più con il loro sudore e il loro sangue le ambizioni imperialiste della borghesia italiana. Essi possono solo mettere in conto questa ulteriore barbarie e questa ulteriore mistificazione per riflettere sul fatto che questo sistema non ha più niente da offrire loro e vedere come prepararsi per spazzarlo via.
Helios, 25/02/07
Le borghesie di tutti i paesi più sviluppati, ognuna per la difesa dei propri interessi imperialisti, compresi gli Stati Uniti, hanno salutato il piano Baker sulla politica estera americana, elaborato da un gruppo di studio comprendente alti responsabili politici americani, conservatori e democratici. Dopo la scottante sconfitta del presidente Bush e della sua amministrazione alle ultime elezioni americane per il rinnovo delle camere dei rappresentanti, provocata essenzialmente dall'insuccesso totale della politica imperialista degli Stati Uniti in Afghanistan e ancora più in Iraq, la borghesia americana doveva tentare di reagire. L’impantanarsi crescente del suo esercito in Iraq, l’assenza totale di prospettive, ed un caos crescente sono le manifestazioni dell’indebolimento della prima potenza imperialista. In un vicolo cieco totale, la borghesia americana stava già lavorando da mesi ad un nuovo orientamento che si voleva più credibile e meglio adattato alla difesa dei propri interessi imperialisti. La costituzione della commissione di inchiesta sull’Iraq ed il suo rapporto corrispondono a questa esigenza.
L’imperialismo americano non potrà impedire il suo indebolimento sull’arena mondiale
Questo piano affronta tutta la politica imperialista degli Stati Uniti. Esso parte dalla constatazione, sotto gli occhi di tutti, dell’assenza totale di possibilità di riuscita della politica di guerra americana in Iraq. Ma ancora di più, sottolinea lo sviluppo della politica anti-americana ed anti-israeliana in tutto il Vicino e Medio Oriente. Questo rapporto sembra quindi esprimersi contro la politica portata avanti da anni dagli Stati Uniti in questa parte del mondo. Preconizza un ritiro progressivo delle truppe americane dall’Iraq ed il rafforzamento dell’esercito irakeno che dovrebbe passare sotto la direzione del primo ministro Nuri Kamal Al-Maliki. Mentre gli attentati si succedono tutti i giorni, con un governo totalmente impotente ed un esercito americano rinchiuso nei campi fortificati, una tale proposta appare immediatamente per quello che è: irrealistica ed inapplicabile. Tanto è vero che il piano Baker si guarda bene dal precisare la data limite per il ritiro delle truppe americane dall’Iraq. Ed è così per tutte le altre proposte sostenute da questo rapporto. Colpiscono inoltre, alla lettura del rapporto, le proposte di riannodare un dialogo ufficiale con la Siria e l’Iran. Il rapporto precisa: “L’Iran deve ricevere proposte incentivanti, come il ristabilirsi delle relazioni con gli Stati Uniti, e dissuasive per fermare l’afflusso di armi destinate alle milizie irachene. Il paese deve essere integrato al Gruppo di studio sull’Iraq” (Courrier International del 14 dicembre 2006). Questa proposta del rapporto è talmente irrealistica che mostra chiaramente il vicolo cieco totale degli Stati Uniti in Iraq, e peggio ancora, la loro incapacità crescente a limitare le accresciute esigenze siriane ed iraniane. L’impossibilità per l’esercito americano di risolvere la situazione in Iraq spinge la borghesia americana a considerare di associare l’Iran nel tentativo di gestire il caos iracheno. Questa alternativa politica potrebbe tradursi solo in ulteriori pretese dell’Iran riguardo allo sviluppo della sua arma nucleare, ma anche verso l’insieme del vicino e Medio Oriente. Pretese e passi in avanti dell’imperialismo iraniano che né Israele, né gli stessi Stati Uniti, sarebbero in grado di sopportare. È molto probabile che, nei mesi a venire, il tono dei discorsi americani sulla politica internazionale sia più misurato e faccia più appello ad una “collaborazione internazionale”, su quella che la borghesia chiama la lotta contro il terrorismo internazionale. Nel caso molto improbabile che questa passasse, si determinerebbe una situazione ancora più caotica. Un segnale in tal senso ci viene dalla dichiarazione del re dell’Arabia Saudita Abdallah al vice presidente americano Dick Cheney, in visita qualche settimana fa a Riyad: “L’Arabia Saudita ha fatto sapere all’amministrazione Bush che in caso di ritiro delle truppe americane il regno potrebbe portare un sostegno finanziario ai sunniti in Iraq in qualsiasi conflitto che li opporrebbe agli Sciiti”. (Courrier International del 13 dicembre 2006). Gli Stati Uniti sono totalmente impantanati in Iraq. Nessuna delle opzioni considerate sul piano militare è soddisfacente per l’imperialismo americano. L’accresciuta contestazione alla supremazia americana non solo da parte dell’Iran, ma anche da parte di potenze imperialiste come la Francia, la Germania o la Russia, non può che spingere in futuro gli Stati Uniti, con l’evolvere della loro politica in Iraq, in una fuga in avanti sul piano militare, sempre più omicida e barbara. In questo capitalismo in piena decomposizione, le distruttive ed irrazionali azioni militari sono ancora e più che mai davanti a noi.
Rossi (da Révolution Internationale n.375)
Ogni giorno i media fanno articoli e reportage sulla tragedia che sta vivendo il Libano. Non c’è alcuna preoccupazione per le vite umane. Le preoccupazioni delle borghesie di tutti i paesi sono ben altre. Il Libano è un piccolo paese di quattro milioni di abitanti e, contrariamente ad altri paesi del Medio Oriente, nel suo sottosuolo non c’è alcuna risorsa strategica ed economica particolare: non c’è petrolio, né gas, niente che, apparentemente, possa stuzzicare l’appetito dei predatori imperialisti del mondo. Eppure molti di questi, dal più piccolo al più potente, sono implicati nella peggiore crisi che abbia conosciuto questo paese. Da dove viene tutto questo interesse da parte delle potenze imperialiste? Quale futuro può avere la popolazione libanese presa nella morsa mortale dell’intensificazione delle tensioni inter-imperialiste?
La domenica del 10 dicembre a Beirut, capitale del Libano, ci sono state manifestazioni di massa, con una folla sovraeccitata e pronta a tutto. E’ la prima volta in questo paese, dalla storia già molto tormentata, che si riunisce una tale massa di gente. In un quartiere della città si ritrovano centinaia di migliaia di sciiti, partigiani di Hezbollah pro-siriano, raggiunti dai cristiani fedeli al generale Aun, che a sua volta ha sposato la causa sciita, per manifestare un odio violento verso la comunità sunnita.
Questa folla, inquadrata dalle milizie armate, ha reclamato a viva voce la dimissione del governo. Nello stesso momento a Tripoli una folla altrettanto numerosa ed altrettanto eccitata, formata essenzialmente da sunniti declama il suo sostegno a questo stesso governo. Nel mese di dicembre, Hezbollah, rafforzato politicamente e militarmente dopo l’ultimo scontro armato di agosto, apparso come una vittoria sull’esercito israeliano e indirettamente sul “grande Satana americano”, ha facilmente organizzato l’assedio del Serail, sede del primo ministro Fuad Siniora.
Dozzine di tende sono state messe nel centro di Beirut, bloccando tutti gli accessi al Serail e circondandolo da ogni parte, senza che l’esercito libanese potesse intervenire. Gruppi armati sunniti, da parte loro, minacciano di assediare il parlamento e di prendere in ostaggio il suo presidente sciita Nabih Berri. Le strade che collegano Beirut alla piana di Bekaa ed al Sud-Libano rischiano di essere bloccate.
A questo livello di tensione tra le differenti frazioni, da cui i Drusi stessi non sono esclusi, il minimo soffio provocherebbe un incendio generalizzato a tutto il paese. Durante un incontro televisivo il generale Michel Aun ha proposto: “Un piano dell’opposizione per formare un nuovo governo” e “delle riflessioni del presidente della Repubblica Emile Lahud e del presidente del Parlamento Nabih Berri sulla maniera di far cadere il governo di Fuad Siniora” (citato da Courrier International del 14 dicembre 2006).
Per Hezbollah e gli sciiti, così come per i loro alleati, si tratta di formare un governo provvisorio, chiaramente pro-siriano. E tutto ciò con la benedizione della parte sciita dell’esercito libanese.
Si accelera così il braccio di ferro in Libano tra le differenti comunità, ciascuna infeudata a degli squali imperialisti più potenti di loro.
Sarebbe sbagliato pensare che quando centinaia di migliaia di persone assediano il governo di Fuad Siniora la posta in gioco è solamente la caduta del governo. Questa è ben più alta ed implica direttamente numerosi Stati della regione, dietro i quali si nascondono i più potenti paesi imperialisti del pianeta. Quello che in realtà vogliono gli sciiti ed i sostenitori del generale Aun è un ritorno in forza della Siria in Libano.Per Damasco che, come l’Iran, sostiene politicamente e militarmente Hezbollah, si tratta di approfittare al massimo dell’indebolimento dello Stato israeliano e del suo alleato americano per far valere i propri appetiti sul Libano ed indirettamente sulla regione del Golan, occupata dallo Stato ebreo. Dal ritiro forzato delle sue truppe dal Libano nel 2005, la Siria non si è mai ritrovata in una situazione tanto favorevole. Ma l’Iran, che è ora un alleato di circostanza della Siria in Libano, non ha affatto rinunciato a rafforzare la sua presenza e la sua influenza politica in questo paese. Per lo Stato iraniano pesare sul Libano, attraverso la comunità sciita, significa rafforzare la propria influenza su questa stessa comunità in Iraq ed affermarsi sempre più come attore inevitabile in tutta la regione, di fronte ad Israele ed agli Stati Uniti.
D’altra parte, visibilmente inquieti circa un rafforzamento nella regione del ruolo dell’Iran sciita che finanzia Hezbollah, l’Egitto, l’Arabia Saudita e la Giordania, dirette dai sunniti e particolarmente influenzati dalla politica imperialista americana, hanno dato il loro sostegno al governo Siniora.
Quello che si profila, dunque, è una frattura irrimediabile all’interno del mondo mussulmano. E questa crescita delle tensioni nel mondo arabo non prospetta niente di buono per l’avvenire di questa regione.
Inoltre, questa breccia aperta è un’opportunità per delle potenze come la Germania e la Francia, quest’ultima già presente militarmente sul terreno. Il 5 dicembre questi due paesi hanno fatto sapere, con una comunicazione comune, che auspicavano non ci fosse alcuna ingerenza esterna al Libano, precisando che era necessario che la Siria “si astenga dal dare il suo sostegno a forze che cercano la destabilizzazione del Libano e della regione, e stabilisca con il Libano una relazione paritaria e rispettosa della sovranità di ciascuno” (Libération del 15 dicembre 2006). Per ogni squalo imperialista che si rispetti, il nemico del mio alleato del momento è mio nemico. In particolare la Francia non fa altro che criticare la Siria perché per ora, in Libano, può appoggiarsi solo alla maggioranza cristiana nemica appunto della Siria.
Lo sviluppo delle tensioni e degli scontri in tutta la regione, di cui la crisi libanese è una tragica espressione, si esprime direttamente ed in modo spettacolare in quello che la stampa borghese ha ipocritamente chiamato “l’autentico falso lapsus nucleare” del primo ministri israeliano Ehud Olmert. Mantenere l’ambiguità sul proprio arsenale nucleare era una regola d’oro della politica internazionale dello Stato d’Israele. Tuttavia in una intervista del 12 dicembre ad un canale televisivo tedesco, questo stesso primo ministro, criticando i tentativi di giustificazione dell’Iran in materia di ricerca e sviluppo nucleare, ha lasciato direttamente intendere che Israele possedeva l’arma nucleare, allo stesso titolo della Francia, la Russia o gli Stati Uniti. Questa affermazione acquista tutto il suo significato quando la si collega al fatto che qualche giorno prima. Robert Gates, nuovo ministro della Difesa americana, ha citato Israele, davanti al Congresso, tra quei paesi che possiedono la bomba nucleare. A questo livello non c’è alcun errore o lapsus. E’ un avvertimento chiaro e netto all’Iran che pone al giusto posto il piano Baker ed il rapporto del Gruppo di studio sull’Iraq di cui ci parla la borghesia. Secondo il quotidiano pan-arabo Al-Quds-Arabi questo sarebbe anche “una preparazione per un eventuale ricorso al nucleare, se mai Israele si decide ad attaccare i siti nucleari iraniani” (citato da Courrier International del 13 dicembre 2006). Disgraziatamente questa eventualità non è da scartare. Marx, circa centocinquanta anni fa, constatava che il capitalismo è nato nel fango e nel sangue. Oggi l’agonia di questo sistema si prepara a trascinare l’umanità in un inferno ancora peggiore.
Tino, 15 dicembre 2007, (da Révolution Intérnationale n.375)
Malgrado la spirale di odio nazionalista che paralizza normalmente la lotta di classe in Israele e in Palestina, le gravi privazioni economiche causate dallo stato di guerra permanente hanno spinto gli operai di entrambi i campi opposti a battersi per i loro propri interessi di classe. A settembre, impiegati della West Bank nella Striscia di Gaza hanno fatto scioperi e manifestazioni per esigere che il governo di Hamas pagasse parecchi mesi di salari rimasti arretrati a causa del blocco dei fondi internazionali da parte dello Stato israeliano, con il coinvolgimento negli scioperi di una buona parte dei 170.000 impiegati. Ancora, gli insegnanti si sono messi in sciopero a partire dal 4 settembre, con una percentuale di scioperanti che è andata dall’80 al 95% da Rafah (sud della Striscia di Gaza) a Jenin (nord della Cisgiordania).
Questo movimento si è propagato fino alla polizia palestinese e, soprattutto all’inizio di ottobre, nel settore della sanità dove la situazione sanitaria è drammatica, compreso nella Cisgiordania. Gli impiegati del ministero della salute hanno avuto solo tre pagamenti parziali in sette mesi e hanno deciso uno sciopero a tempo indeterminato per ottenere il pagamento di quanto dovuto loro.
Parallelamente, il 29 novembre, il sito di informazione Libcom.org dava notizia di uno sciopero generale scoppiato nel settore pubblico israeliano, comprendendo aeroporti, porti, e con gli uffici postali tutti chiusi. 12.000 impiegati comunali e i pompieri sono scesi in sciopero sulla chiamata della centrale sindacale Histradrout (la Federazione Generale del Lavoro) in risposta alla violazione degli accordi tra i sindacati e le autorità locali e religiose.
Histadrout ha così dichiarato che questi accordi riguardavano salari che dovevano essere pagati e che il denaro che doveva essere versato nei fondi pensione erano spariti.
La guerra imperialista amplifica la rovina economica e la miseria dei proletari nella regione. La borghesia dei due campi è sempre più incapace di pagare i suoi schiavi salariati.
Queste due lotte sono state oggetto di ogni sorta di manipolazione politica. Nella West Bank e a Gaza la frazione nazionalista di opposizione, Al Fatah, ha cercato di servirsi degli scioperi come di un mezzo per fare pressione sui suoi rivali di Hamas.
In Israele Histadrout ha una lunga tradizione di proclamazioni di “scioperi generali” supercontrollati per incanalare la collera degli operai sul terreno borghese e a profitto di questa o quella frazione borghese. Ma quello che è significativo è che in Israele lo sciopero di Histadrout (che è stato interrotto nel giro di 24 ore) è stato preceduto da un’ondata di scioperi molto meno controllati, tra i facchini, gli insegnanti, i professori universitari, gli impiegati di banca e quelli del pubblico impiego.
La disillusione di fronte al fiasco militare di Israele in Libano ha senza dubbio alimentato questo crescente malcontento.
Durante lo sciopero di settembre nei territori palestinesi, il governo di Hamas denunciava l’azione degli impiegati pubblici come contrario all’interesse nazionale e tentava di dissuadere gli insegnanti scioperanti: “Se voi volete manifestare, manifestate contro Israele, gli Americani e l’Europa!”.
In effetti, la lotta di classe si afferma come contraria all’interesse nazionale e per questo si oppone nei fatti alla guerra imperialista
Amos (2/12/2007)
(Tradotto da Révolution Internationale n.376)
Tuttavia, al di là della necessità per la classe operaia in Guinea, come dappertutto nel mondo, di saper opporsi a questi falsi amici che sono i sindacati ed a lottare al di fuori e contro essi, è certo che l’isolamento degli operai ed il bombardamento ideologico al quale sono sottoposti, rendono difficile lo sviluppo della lotta sul proprio terreno. Per questo è necessario che il proletariato dei paesi sviluppati del capitalismo, là dove esso è più concentrato e forte, faccia da catalizzatore della coscienza e delle espressioni autonome della lotta operaia.
Mulan, 24-2-2007 (Da Révolution Intenrationale n. 377)
Nel settembre scorso, la CCI ha presentato, davanti ad un uditorio di 170 studenti di un'università brasiliana, la propria analisi sulla situazione mondiale e sull’alternativa storica che si pone. I punti centrali della nostra relazione introduttiva1 sono stati: la guerra, la lotta di classe ed il ruolo delle elezioni. Qui di seguito facciamo un breve resoconto del dibattito sviluppatosi nella riunione2.
Prima ancora vogliamo però sottolineare il modo con cui i partecipanti si sono posti rispetto alla nostra presentazione il cui contenuto non era per loro "consueto" poiché denunciava le elezioni come strumenti della borghesia e metteva in evidenza la prospettiva dello sviluppo della lotta di classe internazionale. Malgrado ciò, lungi dal provocare ostilità o scetticismo, le nostre analisi hanno suscitato al contrario un grande interesse e spesso anche un sostegno esplicito.
La natura dei sindacati e della sinistra borghese
La presentazione non sviluppava molto l’aspetto del ruolo e della natura dei sindacati pertanto è stato accolto molto volentieri un intervento che ha messo in evidenza come i sindacati siano delle appendici dei partiti borghesi e costituiscano un trampolino per quelli che vogliono fare parte dell'alta burocrazia dello Stato.
Ci è stato chiesto se riteniamo il governo di Lula di sinistra o di destra. Abbiamo risposto, “di sinistra, senza alcun dubbio”. Il fatto che il governo di Lula si sia comportato come un nemico del proletariato non cambia in niente questa realtà, visto che la sinistra viene eletta per portare avanti lo stesso compito della destra: difendere gli interessi del capitale nazionale, cosa che può essere realizzata solo a scapito del proletariato.
Quale che sia il discorso, più o meno radicale, di Bachelet in Cile, di Kirchner in Argentina, di Chàvez in Venezuela o Morales in Bolivia, il succo è sempre lo stesso. Il più “radicale” tra loro, Chàvez, che non esita a scontrarsi con i settori della borghesia nazionale che hanno governato fino al 1988 e che non si fa scappare nessuna occasione per denunciare pubblicamente l'imperialismo degli Stati Uniti – mentre cerca di rafforzare la propria zona di influenza nei Caraibi - non esita ad organizzare, con lo stesso vigore, lo sfruttamento dei proletari venezuelani.
Se diciamo che la sinistra e la destra difendono tutte e due gli interessi del capitale nazionale contro il proletariato, non vogliamo fare una identità tra queste due forze borghesi. In effetti, in genere, i proletari non si fanno illusioni sulle intenzioni della destra, perché questa difende apertamente gli interessi della borghesia. Purtroppo però il proletariato, nel suo insieme, non giunge alla stessa chiarezza per quanto riguarda il ruolo della sinistra. Ciò significa che la sinistra, ed ancora più l'estrema sinistra, hanno una maggiore capacità di mistificare il proletariato. E’ per questo che le frazioni di sinistra dell'apparato politico della borghesia costituiscono il nemico più pericoloso per il proletariato.
Il ruolo delle elezioni
Alcuni interventi sono ritornati sulle elezioni il cui ruolo era stato sviluppato ampiamente nella presentazione. “È veramente impossibile utilizzarle in favore di una trasformazione sociale?” Su questa questione, la nostra posizione non ha niente di dogmatico, ma riflette una realtà mondiale che esiste dall'inizio del ventesimo secolo. A partire da questo momento, non solo “Il centro di gravità della vita politica lasciava definitivamente il parlamento”, come affermava l'Internazionale Comunista, ma in più il circo elettorale può essere solamente un'arma ideologica tra le mani della borghesia contro il proletariato.
Come si svilupperà la lotta di classe?
“Se le elezioni non sono uno strumento della lotta di classe, come farà il proletariato a lottare?”
Le lotte che il proletariato ha sviluppato dal 1968 non sono state “lotte elettorali”. Sebbene non siano state capaci di tracciare esplicitamente una prospettiva rivoluzionaria, esse sono state tuttavia sufficientemente forti da impedire una guerra mondiale all’epoca della Guerra fredda e -dopo – degli scontri frontali tra le grandi potenze. Il proletariato continua ad essere un freno allo scatenamento della guerra. Il proletariato, ed in generale la popolazione sfruttata, non sono mobilitati dietro le bandiere delle differenti borghesie nazionali. L'impossibilità attuale degli Stati Uniti a reclutare soldati per farne carne da cannone nei conflitti in Iraq ed in Afghanistan, ne è una dimostrazione.
Rifiutando di sottomettersi alla legge del deterioramento costante delle sue condizioni di vita determinate dall'aggravamento della crisi, il proletariato mondiale tende necessariamente ad amplificare le sue lotte. In particolare, da due anni a questa parte le lotte proletarie, che si sviluppano a livello a mondiale, presentano in modo crescente delle caratteristiche che costituiscono gli ingredienti necessari allo sviluppo futuro di un processo rivoluzionario:
- il carattere di massa della lotta, come abbiamo recentemente visto con lo sciopero di due milioni di operai in Bangladesh; - la solidarietà dimostrata dai proletari dell'aeroporto di Heathrow a Londra e dei trasporti a New York nel 2005; - la capacità di far nascere, in seno alla sua lotta, assemblee di massa aperte a tutti gli operai, come nello sciopero dei metallurgici a Vigo in Spagna durante la primavera scorsa; - la capacità della lotta degli studenti in Francia, sempre in primavera, di dotarsi di assemblee generali sovrane, capaci di preservare l'autonomia della lotta rispetto ai sindacati ed ai partiti della borghesia che tentavano di controllarla per indebolirla.
A proposito di quest’ultimo movimento è stata espressa un'insistenza affinché se ne parlasse più estesamente, cosa che abbiamo fatto brevemente sottolineando che questo movimento non ha mobilitato dei salariati, eppure quelli che erano in lotta già facevano parte del proletariato poiché la maggioranza degli studenti è costretta a lavorare per sopravvivere e un numero elevato tra loro andrà ad integrarsi, alla fine degli studi, nei ranghi del proletariato. Gli studenti si sono messi in lotta per la revoca di una legge che, poiché avrebbe aggravato la precarietà, costituiva un attacco contro tutto il proletariato. È sulla base di questa coscienza che la maggioranza del movimento ha ricercato la solidarietà dell'insieme del proletariato e ha tentato di mobilitarlo nella lotta. A varie riprese ci sono state grosse manifestazioni che hanno mobilitato 3 milioni di persone, lo stesso giorno in differenti città della Francia. Nella maggior parte delle università in sciopero, si sono tenute regolarmente assemblee generali sovrane che hanno costituito il polmone della lotta. La solidarietà è stata al centro della mobilitazione mentre, contemporaneamente, un'enorme corrente di simpatia in favore di questa lotta ha attraversato anche la popolazione, ed in particolare il proletariato. Tutto ciò ha obbligato il governo ad indietreggiare davanti alla mobilitazione per evitare che non si estendesse oltre.
Alcuni interventi hanno espresso delle preoccupazioni riguardanti le difficoltà obiettive nello sviluppo della lotta di classe: “Lo smantellamento delle grosse unità produttive non porrà un ostacolo a questo sviluppo?” In generale, assistiamo ad una diminuzione del proletariato industriale come risultato sia delle mutazioni nel processo di produzione (che comporta anche un aumento del numero di proletari nel settore terziario), sia della crisi economica e del decentramento di settori di produzione verso i paesi in cui la mano d'opera è meno cara, come in Cina che ha visto uno sviluppo importante in questi ultimi anni. Questo fenomeno costituisce una certamente difficoltà per il proletariato ma quest'ultimo ha già mostrato che è capace di superarla. In effetti, il proletariato non si limita alla classe operaia industriale. Il proletariato include tutti quelli che, in quanto sfruttati, hanno solamente la loro forza lavoro da vendere come fonte della loro sopravvivenza. Il proletariato esiste dovunque ed il luogo privilegiato per raggrupparsi ed unirsi è la strada, come ha dimostrato di nuovo il movimento degli studenti in Francia contro la precarietà.
Il decentramento di settori di attività verso i paesi come la Cina ha creato una divisione tra i proletariati cinesi, super sfruttati con condizioni di vita terribili, ed il proletariato dei paesi centrali che, a causa della scomparsa di settori importanti di produzione, soffre delle conseguenze di una disoccupazione accentuata. Ma questa non è una situazione eccezionale. Sin dall'inizio della sua esistenza il capitalismo ha messo i proletari in concorrenza gli uni contro gli altri. E, fin dall'inizio, la necessità di resistere collettivamente a questa concorrenza ha costretto gli operai a superarla attraverso la lotta collettiva. In particolare va ricordato che la fondazione della Prima Internazionale ha corrisposto alla necessità di impedire alla borghesia inglese di utilizzare operai francesi, belgi o tedeschi per sabotare gli scioperi degli operai inglesi. Oggi, malgrado le sue lotte importanti, il proletariato cinese non è in grado da solo di rompere il suo isolamento. Ciò mette in evidenza la responsabilità del proletariato dei paesi più potenti per spingere, attraverso le sue lotte, alla solidarietà internazionale.
Lo sviluppo della lotta di classe sarà caratterizzato dalla capacità crescente del proletariato a controllare le proprie lotte ed a farsi carico in prima persona della loro organizzazione. Ecco perché tenderà a diffondersi la pratica delle assemblee generali sovrane, che eleggono dei delegati revocabili da loro stesse. Questa pratica precede l'apparizione dei consigli operai, futuri organi dell'esercizio del potere proletario. Questo tipo di organizzazione è il solo che permette ai proletari di assumere collettivamente un controllo crescente sulla società, sulla loro esistenza e sul futuro.
Un tale obiettivo non può essere raggiunto attraverso forme organizzative che non rompono con il quadro dell'organizzazione della società borghese, come, per esempio, la “democrazia partecipativa” che, secondo i suoi sostenitori, correggerebbe i difetti della democrazia rappresentativa classica.
Un intervento ci ha chiesto di spiegare meglio la nostra posizione su questo argomento. Per noi, la democrazia partecipativa non è niente di più che uno strumento attraverso il quale gli stessi sfruttati e gli esclusi sono chiamati ad auto-gestire la propria miseria, e che mira ad ingannarli sui poteri che così sarebbero realmente loro conferiti in seno alla società. In fin dei conti, la democrazia partecipativa non è niente di più di una pura mistificazione.
La prospettiva rivoluzionaria
È necessario basare le prospettive dello sviluppo della lotta di classe sull'esperienza storica del proletariato. A questo proposito ci sono state poste le seguenti questioni: “Perché la Comune di Parigi e la Rivoluzione russa sono state sconfitte? E perché la Rivoluzione russa è degenerata?”
La Comune di Parigi non era ancora una “vera rivoluzione”, era un'insurrezione vittoriosa del proletariato limitata ad una città. I suoi limiti sono stati essenzialmente il risultato dell'immaturità delle condizioni oggettive. A quell'epoca, da un lato, il proletariato non era ancora sufficientemente sviluppato da potersi scontrare, nei principali paesi industrializzati, con il capitalismo per rovesciarlo. Dall’altro, il capitalismo era ancora un sistema progressivo, capace di sviluppare le forze produttive senza che le sue contraddizioni si manifestassero in un modo cronico e ancora più brutale. Questa situazione è cambiata all’inizio del ventesimo secolo con l’apparizione in Russia nel 1905 dei primi consigli operai, organi di potere della classe rivoluzionaria. Poco dopo, lo scoppio della Prima Guerra mondiale avrebbe costituito la prima manifestazione brutale dell'entrata del sistema nella sua fase di decadenza, nella sua “fase di guerra e di rivoluzioni”, come la caratterizzava l’Internazionale Comunista. In reazione allo scoppio della barbarie ad un livello sconosciuto fino ad allora, un’ondata rivoluzionaria si sviluppò a livello mondiale nella quale i consigli operai fecero di nuovo la loro apparizione. Il proletariato riuscì a prendere il potere politico in Russia, ma un tentativo rivoluzionario in Germania nel 1919 fu sconfitto grazie alla capacità della socialdemocrazia di ingannare i proletari. Questo insuccesso indebolì considerevolmente la dinamica rivoluzionaria mondiale che, nel 1923, era già quasi spenta. Isolato, il potere del proletariato in Russia non poteva che degenerare. La controrivoluzione si manifestò attraverso l’affermazione dello stalinismo e la formazione di una nuova classe borghese personificata con la burocrazia statale. Ma, contrariamente alla Comune di Parigi che non si era potuta estendere a causa dell’immaturità delle condizioni materiali, l’ondata rivoluzionaria mondiale fu sconfitta a causa della insufficiente coscienza, in seno alla classe operaia, della posta in gioco storica e della natura di classe della socialdemocrazia che aveva tradito definitivamente l’internazionalismo proletario ed il proletariato al momento della Guerra Mondiale. Le illusioni persistenti nei ranghi proletari nei confronti di questo nemico di classe non gli hanno permesso di smascherare le sue manovre che miravano a sconfiggere la rivoluzione.
A meno di un anno dall’altra nostra riunione pubblica, all’università di Vitòria da Conquista, davanti a più di 250 studenti, sul tema “La Sinistra comunista e la continuità del marxismo”, questa riunione ci ha permesso di verificare con molta soddisfazione che, insieme ad un rigetto crescente della miseria materiale, morale ed intellettuale di questo mondo in decomposizione, esiste un interesse crescente da parte delle nuove generazioni per il divenire della lotta di classe. Invitiamo tutti quelli che erano presenti a questa riunione o che hanno l’opportunità di leggere questo articolo a continuare il dibattito cominciato ed intervenire per iscritto sulle questioni che sono state presentate.
CCI, 12 ottobre 2006
1. Questa presentazione dal titolo, “La situazione mondiale e le elezioni”, è disponibile sulle pagine in portoghese del nostro sito internet.
2. Il resoconto completo si trova sul nostro sito sulle stesse pagine della presentazione in portoghese.
Nello scorso mese di gennaio la nostra organizzazione ha tenuto in Italia delle riunioni pubbliche sulle lotte operaie di Oaxaca, intitolate significativamente: “Rivolte a Oaxaca: esiste una situazione rivoluzionaria in Messico?”
Come abbiamo precisato nella nostra lettera di invito a compagni e lettori, il quesito si poneva con tanta più forza nella misura in cui intorno alla questione Oaxaca è fiorita una vasta propaganda di ambienti di una certa sinistra, particolarmente trotskista, che ha teso a presentare la situazione messicana come una situazione pre-insurrezionale. Noi invece riteniamo che, nonostante il carattere inizialmente spontaneo della lotta dei lavoratori messicani e una certa solidarietà che questa ha ricevuto in una prima fase, non sia questa la caratterizzazione che le si può attribuire per il semplice fatto che le rivendicazioni degli insegnanti e degli altri lavoratori della zona sono state strumentalizzate e svendute dalla cosiddetta APPO (Assemblea Popolare del Popolo di Oaxaca), organizzazione che ha utilizzato la lotta di questi lavoratori per esigere la destituzione di Ulises Ruiz e appoggiare la frazione politica che aspira a prendere il suo posto (1).
A partire da questo primo elemento una compagna, presente alla nostra riunione di Napoli, ha posto la questione se lo stesso si potesse dire per il movimento zapatista del Chiapas. Al che abbiamo risposto che in questo caso non si trattava neanche più di una lotta proletaria e che la controprova stava nel fatto che, nonostante la vicinanza geografica tra i due stati messicani di Oaxaca e del Chiapas, il cosiddetto movimento guerrigliero zapatista non aveva mosso un dito in solidarietà dei lavoratori di Oaxaca.
Al che la compagna ha ribattuto che non si poteva fare il confronto tra Oaxaca e il Chiapas, che non era possibile attendersi chissà che dal movimento zapatista visto che si trattava di un movimento di indigeni e di contadini.
A partire da questa affermazione il dibattito – di cui questo articolo vuole essere una testimonianza e un contributo - si è quindi sviluppato su quale sia il soggetto sociale capace di dare risposta ai problemi del momento, ovvero di operare i cambiamenti sociali e strutturali di cui tutti indistintamente avvertono la necessità. E naturalmente quale sia oggi la posta in gioco.
In realtà, in un mondo che vive la contraddizione storica più ridicola e assurda di tutti i tempi - ovvero una povertà assoluta di una fetta consistente dell’umanità (circa un quarto della popolazione mondiale che vive al di sotto dei livelli di povertà, con meno di 1 dollaro al giorno per vivere) a fronte di una sovrapproduzione di merci in tutti i campi che costringe i capitalisti a chiudere le fabbriche in tutto il mondo e a portare alla fame sempre più gente, riducendo ulteriormente la possibilità di vendere le merci che quegli operai hanno prodotto - è evidente che c’è da fare un’unica cosa: liberarsi di questo meccanismo perverso che vuole che un bene, per essere goduto, deve essere acquistato e per essere distribuito deve essere venduto.
Di fronte a questa contraddizione, che è al cuore delle contraddizioni del sistema capitalista, solo una classe come il proletariato, che è essa stessa nel cuore della società capitalista perché ne costituisce il motore economico e produttivo pur essendo la classe sfruttata di questa epoca, può diventare l’elemento di impulso di un cambiamento radicale.
Questa aspirazione ad essere la classe generatrice di una nuova società senza classi, il proletariato la deriva non da fantasticherie di qualche ciarlatano ma dal fatto di essere, oltre alla borghesia, l’unica altra classe storica del momento, la classe che ha, attraverso la sua lotta contro la borghesia e i suoi tentativi insurrezionali, particolarmente attraverso l’ondata rivoluzionaria degli anni ’20, dimostrato materialmente di essere la classe rivoluzionaria della nostra epoca storica. E il fatto di non essere essa stessa una classe sfruttatrice, di non avere alcun interesse specifico di classe da preservare all’interno di questa società, fa sì che il proletariato sia l’ultima classe rivoluzionaria della storia, la classe capace di instaurare una società comunista, una società senza classi.
Certamente, oltre al proletariato, esistono altri strati sociali che soffrono e che vanno in miseria, esistono tante altre contraddizioni e sofferenze. Come abbiamo già affermato nella discussione sviluppata nella nostra riunione pubblica e parafrasando Marx, possiamo dire che non c’è problema che non riguardi la classe operaia, che il proletariato è sensibile alle sofferenze di tutta l’umanità. Il problema però non è riconoscere o negare l’esistenza di queste contraddizioni, quanto comprendere da quale punto di vista collocarsi per rispondere a queste contraddizioni. Tornando alla questione del Chiapas e della lotta degli indios del Messico, qualunque persona dotata di un minimo di onestà è pronto a riconoscere che le popolazioni indigene precolombiane sono state massacrate e sfruttate in seguito alla conquista coloniale fatta dai paesi europei e che tuttora tali popolazioni sono sottoposte ad una discriminazione e a uno sfruttamento indicibili. Ma la risposta che dà lo zapatismo è una risposta che non porta da nessuna parte perché lo zapatismo, come ha ricordato la stessa compagna intervenuta nella discussione a Napoli, è un movimento che fa appello al popolo e non a una classe, il che significa che fa appello a dei sentimenti di nazione piuttosto che a degli interessi di classe per promuovere la lotta. Questa differenza è cruciale per capire come caratterizzare una lotta. Infatti quella degli zapatisti, ammesso che si voglia riconoscere tutta la buona fede ai suoi promotori, è una lotta che presenta le seguenti caratteristiche:
- nasce e rimane ancorata al quadro nazionale, il che spiega giustamente il fatto che non c’è stato alcun sostegno materiale da parte degli zapatisti verso il movimento di Oaxaca perché mancano i presupposti materiali per proiettarsi al di fuori del loro contesto, per esprimere un’azione solidale con altre lotte;
- si pone su un terreno di diritti di minoranze etniche che non pone in discussione il sistema di sfruttamento e di oppressione del capitalismo nei confronti dell’intera umanità;
- anche il riconoscimento di una autonomia politica fino alla costituzione di un nuovo stato, come nel caso del popolo palestinese, non fa che garantire ad una nuova borghesia dei privilegi che prima erano di un’altra borghesia (la creazione di uno stato in Palestina ad esempio garantirebbe alla borghesia palestinese un pezzo di potere ceduto dalla borghesia israeliana) senza nulla cambiare nelle condizioni materiali di sfruttamento dei proletari che passano da uno sfruttatore (israeliano) a un altro (palestinese);
- peraltro la costituzione di questo nuovo Stato non servirebbe neanche più, come una volta, a garantire un più veloce sviluppo delle forze produttive nella misura in cui il declino storico del sistema capitalista non permette più, e da tempo, che questo avvenga (2).
A questo punto ci si è posti il problema di come si può riconoscere una lotta proletaria, una lotta che vada nel senso della difesa degli interessi della classe. A tale proposito si è preso ad esempio la “battaglia contro la privatizzazione dell’acqua”, su cui si è sviluppato tutto un movimento di raccolta di firme e di sensibilizzazione, portato avanti da associazioni varie, preti e partiti di sinistra. Ancora una volta – e di proposito – non vogliamo mettere in discussione la buona o cattiva fede dei vari leader di questi movimenti, ma cercare di mostrare come il problema in sé, con i migliori e più onesti leader che si vogliano scegliere, non potrà che portare a una sconfitta se condotto dal punto di vista di un “movimento popolare” piuttosto che dal punto di vista della classe operaia.
Che significa limitarsi a vedere il problema dal punto di vista di un “movimento popolare”? Significa che, al di là del riconoscimento di questo o quell’abuso, si accetta di partire dai valori che l’attuale sistema sociale ci trasmette: ad esempio è proprio il modo di pensare corrente - che è quello della società borghese - che ci suggerisce che una azienda pubblica, proprio perché tale, dovrebbe fare di più gli interessi della popolazione mentre invece il privato per definizione dovrebbe essere l’incarnazione del profitto. Ma questi stereotipi sono completamente sbagliati. L’economia dei paesi dell’Europa dell’est per decenni è stata amministrata da regimi “comunisti” a parole, ma in realtà a capitalismo di Stato, dove in apparenza la proprietà era collettiva ma dove di fatto vigeva una situazione di schiavitù salariale completa e dove la qualità della vita era pessima. Ugualmente, se guardiamo le aziende “pubbliche” nostrane, anche qui possiamo scoprire come spesso, proprio per il fatto di avere la copertura dello Stato, i dirigenti di queste aziende profittano, a livello economico e di gestione della stessa azienda, molto più di quanto potrebbe fare un dirigente della stessa azienda privatizzata. Per esempio è noto che, mentre le aziende private sono, almeno nominalmente, sottoposte ai vari controlli, quelle pubbliche spesso usufruiscono di un occhio di riguardo da parte degli stessi organi di controllo nella misura in cui si tratta di… strutture pubbliche. Ma da dove viene e su che cosa poggia questa idea che “pubblico” è meglio che “privato”? In realtà una base materiale questa idea ce l’ha, e corrisponde al fatto che, soprattutto nel secondo dopoguerra, per fare ripartire l’economia dei vari paesi e dell’Italia tra questi, lo Stato è dovuto intervenire pesantemente per garantire questo rilancio e assumendo spesso in prima persona la gestione di settori produttivi e di servizi. All’interno di questa logica il capitale statale, proprio in quanto tale, ha potuto in più occasioni garantire condizioni di favore e tariffe particolarmente basse all’utenza pur di garantire dei servizi utili all’economia complessiva. Ad esempio per tutto un periodo l’iscrizione a scuola, l’assistenza sanitaria, i mezzi pubblici sono costati alla popolazione molto poco perché era necessario garantire un minimo di istruzione alla classe lavoratrice, un suo stato di salute decente per poterla sfruttare e una sua capacità di raggiungere i luoghi di lavoro senza problemi. E’ naturale che al confronto delle tariffe statali e comunali, quelle di qualche azienda privata risultava subito abnorme. Ma ormai con la crisi attuale anche questo è finito, e ce ne accorgiamo dai ticket ospedalieri, dalle tasse universitarie, dai biglietti del metrò, che sono tutti ormai prezzi di mercato. Più in generale possiamo dire che non esiste nessuna differenza di qualità tra pubblico e privato, che esiste anzi spesso una forte connivenza tra le due gestioni che è spesso funzionale a illudere “il popolo” e particolarmente la classe operaia della bontà di una certa soluzione adottata.
Qual è invece il punto di vista proletario sull’acqua? Quello di rivendicare un’erogazione sufficiente di acqua per tutti, e che sia pulita, pagandola il meno possibile. Questo è quanto importa ai lavoratori, indipendentemente che l’azienda sia pubblica o privata. Viceversa la “battaglia contro la privatizzazione dell’acqua” comporta tutta una serie di elementi che vanno contro gli interessi proletari che sono i seguenti: a) anzitutto si alimenta l’illusione sul fatto che possiamo essere noi a decidere sulla gestione di questa società; b) ci si pone una falsa alternativa: essere sfruttati da un ente pubblico o da un ente privato; c) inoltre una lotta condotta su questo piano ci porta a mescolare i proletari con tutti gli altri strati sociali “del popolo” i cui interessi materiali non sono omogenei ai nostri (ad esempio un albergatore o un proprietario di azienda agricola, se sono interessati anch’essi ad avere acqua a buon prezzo e pulita, possono risolvere il loro problema anche in maniera alternativa, poniamo attraverso la concessione a scavare un pozzo per emungere acqua di falda).
In conclusione, se è vero che esistono tantissime contraddizioni e sofferenze nella società in cui viviamo, la soluzione all’insieme di queste contraddizioni non potrà venire da una serie di lotte parcellari e specifiche e/o da una iniziativa popolare, ma dalla risposta dell’unica classe che ha in mano le sorti dell’umanità, la classe operaia. E’ per questo che è della più grande importanza saper riconoscere e distinguere le lotte che si pongono da un punto di vista genuinamente di classe da quelle che viceversa, nonostante la buona fede di chi le promuove, si pongono sul piano dell’interclassismo e partono dall’accettazione dello status quo.
Ezechiele, 25 febbraio 2007
1. Sul tema si possono leggere gli articoli pubblicati sul nostro sito web it.internationalism.org [99].
2. Vedi il nostro opuscolo sulla Decadenza del capitalismo e i nostri articoli “Nazione o classe: i comunisti e la questione nazionale” su Rivoluzione Internazionale n: 7 e 8.
Dopo 90 anni, lo scoppio della Rivoluzione russa del 1917 resta il movimento più gigantesco, più cosciente, più ricco di esperienze, di iniziative e di creatività delle masse sfruttate che la storia abbia mai conosciuto. Milioni di proletari riuscirono a rompere la loro atomizzazione, ad unificarsi consapevolmente, a darsi i mezzi per agire collettivamente, come una sola forza imponendo gli strumenti del capovolgimento dello Stato borghese per la presa del potere: i consigli operai (soviet). Al di là del rovesciamento del secolare regime zarista, questo movimento di massa cosciente, annunciava niente di meno che l'inizio della rivoluzione proletaria mondiale nel contesto internazionale di un’ondata di rivolte della classe operaia contro la guerra ed il sistema capitalista.
Gli storici borghesi continuano a sostenere una delle più ribattute leggende che consiste nel presentare la Rivoluzione del febbraio 1917 come un movimento per la “democrazia”, violata dal colpo di Stato bolscevico. Febbraio 1917 sarebbe un’autentica “festa democratica”, Ottobre 1917 un volgare “colpo di Stato”, una manipolazione delle masse arretrate della Russia zarista da parte del partito bolscevico. Questa spudorata falsificazione è il prodotto della paura e della rabbia provata dalla borghesia mondiale davanti ad un’opera collettiva e solidale, un’azione cosciente della classe sfruttata, che ha osato rialzare la testa e mettere in questione l’ordine delle cose esistente.
Nel Febbraio 1917 il sollevamento degli operai di San Pietroburgo (Pietrogrado) in Russia, non sopraggiunge come un fulmine a ciel sereno, ma in continuità degli scioperi economici duramente repressi, lanciati dagli operai russi dal 1915 in reazione alla ferocia della carneficina mondiale, contro la fame, la miseria nera, lo sfruttamento ad oltranza ed il terrore permanente dello stato di guerra. Questi scioperi e queste rivolte non sono in nessuno modo una specificità del proletariato russo, ma una parte integrante delle lotte e manifestazioni del proletariato internazionale dell’epoca. Una stessa ondata di agitazione operaia si sviluppa in Germania, in Austria, in Grande Bretagna... Al fronte, soprattutto negli eserciti russo e tedesco, si verificano degli ammutinamenti, delle diserzioni collettive, fraternizzazioni tra i soldati dei campi opposti. In realtà, dopo essersi lasciato trascinare dai veleni patriottici e gli inganni “democratici” dei governi, avallati dal tradimento della maggioranza dei partiti socialdemocratici e dei sindacati, il proletariato internazionale rialzava la testa e cominciava ad uscire dalle nebbie dell’ebbrezza sciovinista. Alla testa del movimento si trovavano gli internazionalisti - i bolscevichi, gli spartachisti, tutta la sinistra della 2a Internazionale - che, sin dall’agosto del 1914, avevano denunciato con forza la guerra come una rapina imperialista, come una manifestazione del fallimento del capitalismo mondiale, come il segnale affinché il proletariato compisse la sua missione storica: la rivoluzione socialista internazionale. Questa sfida storica fu fatta propria, a livello internazionale, dalla classe operaia a partire dal 1917 fino al 1923. All’avanguardia di questo movimento proletario che fermerà la guerra e che aprirà la possibilità della rivoluzione mondiale, si trovò il proletariato russo in questo mese di febbraio del 1917. Lo scoppio della Rivoluzione Russa non fu dunque un affare nazionale o un fenomeno isolato - e cioè una rivoluzione borghese ritardata, limitata al rovesciamento dell'assolutismo feudale - ma costituì il più alto momento della risposta del proletariato mondiale alla guerra e più profondamente all’entrata del sistema capitalista nella sua fase di decadenza.
Del 22 al 27 febbraio, gli operai di San Pietroburgo scatenano un'insurrezione in risposta al problema storico rappresentato dalla guerra mondiale, espressione della decadenza del capitalismo. A partire dagli operai tessili - superando le esitazioni delle organizzazioni rivoluzionarie - lo sciopero guadagna in 3 giorni la quasi totalità delle fabbriche della capitale. Il 25, sono più di 240.000 gli operai che hanno smesso di lavorare e che, lungi dal restare passivi nelle loro fabbriche, moltiplicano le riunioni e le manifestazioni di strada, dove le parole d'ordine delle prime ore per richiedere "pane" si trovano presto rafforzato da quelle di "abbasso la guerra", "abbasso l'autocrazia".
La sera del 27 febbraio, l'insurrezione, condotta dal proletariato in armi, regna padrona sulla capitale, mentre scioperi e manifestazioni operaie hanno inizio a Mosca, estendendosi i giorni seguenti alle altre città di provincia, Samara, Saratov, Kharkov... Isolato, incapace di utilizzare contro il movimento rivoluzionario un esercito profondamente provato dalla guerra, il regime zarista è costretto ad abdicare.
Rotte le prime catene, gli operai non vogliono più arretrare e, per non avanzare alla cieca, riprendono l'esperienza del 1905 creando i soviet che erano apparsi spontaneamente durante questo grande sciopero di massa. Questi consigli operai erano l'emanazione diretta delle migliaia di assemblee di lavoratori nelle fabbriche e nei quartieri, e rispettavano la sovranità delle assemblee e la centralizzazione con delegati eleggibili e revocabili in qualsiasi momento. Questo processo sociale oggi sembra utopico a molti operai, ma è quello della trasformazione dei lavoratori da una massa sottomessa e divisa, in una classe unita che agisce come un solo uomo e diventa capace di lanciarsi nella lotta rivoluzionaria. Trotsky aveva fin dal 1905 mostrato cosa era un consiglio: "Che cos'è il soviet? Il consiglio dei deputati operai fu formato per rispondere ad un bisogno pratico suscitato dalla congiuntura di allora: bisognava avere un'organizzazione che godesse di un'autorità indiscutibile, libera da ogni tradizione che potesse raggruppare immediatamente le moltitudini disseminate e prive di collegamento; quest' organizzazione doveva essere capace di iniziativa e controllare sé stessa automaticamente..." (Trotsky, 1905) Questa "forma infine ritrovata della dittatura del proletariato", come diceva Lenin, rendeva antiquata l'organizzazione permanente in sindacati. Nel periodo in cui la rivoluzione è storicamente all'ordine del giorno, le lotte esplodono spontaneamente e tendono a diffondersi a tutti i settori della produzione. Così il carattere spontaneo dell'apparizione dei consigli operai deriva direttamente dal carattere esplosivo e non programmato della lotta rivoluzionaria.
I consigli operai durante la rivoluzione russa non furono il semplice prodotto passivo di condizioni obiettive eccezionali, ma anche il risultato di una presa di coscienza collettiva. Il movimento dei consigli ha portato lui stesso i materiali per l'auto-educazione delle masse. I consigli operai mischiarono in modo permanente gli aspetti economici e politici della lotta contro l'ordine stabilito. Come scrive Trotsky: "Là è la sua forza. Ogni settimana portava alle masse qualche cosa di nuovo. Due mesi facevano un'epoca. A fine febbraio, insurrezione. A fine aprile, manifestazione degli operai e dei soldati armati a Pietrogrado. All'inizio di luglio, nuova manifestazione con molto più ampiezza e parole d'ordine più risolute. A fine agosto, il tentativo di colpo di stato di Kornilov, respinto dalle masse. A fine ottobre, conquista del potere da parte dei bolscevichi. Sotto questo ritmo di avvenimenti di una regolarità sorprendente si compivano profondi processi molecolari che saldavano in un tutto politico gli elementi eterogenei della classe operaia". “(...) Si tenevano riunioni nelle trincee, sulle piazze dei villaggi, nelle fabbriche... Per mesi, a Pietrogrado ed in tutta la Russia, ogni angolo di strada fu una tribuna pubblica..." (Trotsky, Storia della Rivoluzione Russa).
Se il proletariato russo si diede i mezzi della sua lotta imponendo i consigli operai, è anche vero che fin da febbraio incontrò una situazione estremamente pericolosa. Infatti, le forze della borghesia internazionale tentarono molto presto di ribaltare la situazione a loro vantaggio. Non avendo la forza di schiacciare nel sangue il movimento, tentarono di orientarlo verso obiettivi borghesi "democratici". Da una parte formarono un governo provvisorio, ufficiale il cui scopo era di proseguire la guerra. Dall'altra parte, subito, i soviet furono invasi dai menscevichi e dai socialisti rivoluzionari. Questi ultimi, la cui maggioranza era passata nel campo borghese al momento della guerra, godevano all'inizio della rivoluzione di febbraio di un'immensa fiducia tra gli operai. Furono naturalmente portati all'esecutivo del Soviet. Da questa posizione strategica, provarono con tutti i mezzi di sabotare i soviet, di distruggerli. Da una situazione di "doppio potere" in febbraio, si arrivò ad una situazione di "doppia impotenza" in maggio e giugno 1917 nella misura in cui l'esecutivo dei soviet serviva da maschera alla borghesia per realizzare i suoi obiettivi, in primo luogo ristabilire ordine nel retroterra ed al fronte per poter proseguire la carneficina imperialista. Questi demagoghi menscevichi o socialdemocratici facevano ancora e sempre promesse sulla pace,"la soluzione del problema agrario", l'applicazione della giornata di 8 ore, eccetera, senza metterle mai in atto. Anche se gli operai, almeno quelli di Pietrogrado, erano convinti che solo il potere dei soviet era in grado di rispondere alle loro aspirazioni e se vedevano bene che le loro rivendicazioni ed esigenze non erano prese in considerazione, altrove, nelle province e tra i soldati, si credeva ancora ai "conciliatori", ai sostenitori della pretesa rivoluzione borghese. Spetterà a Lenin, con le sue Tesi di aprile, due mesi dopo scatenamento del movimento, svelare la sua audace piattaforma per riarmare il partito bolscevico, che tendeva a conciliarsi con il governo provvisorio. Le sue Tesi chiarivano chiaramente in anticipo dove andava il proletariato e formularono le prospettive del partito: “Nessuna concessione, fosse anche minima, potrebbe essere tollerata nel nostro atteggiamento verso la guerra”.
“Nessuno sostegno al governo provvisorio, dimostrare il carattere interamente menzognero di tutte le sue promesse... Smascherarlo al posto di 'esigere' - ciò che è inammissibile perché significherebbe seminare delle illusioni - che questo governo, governo di capitalisti, smetti di essere imperialista”.
"Non una repubblica parlamentare - ritornarvi dopo i Soviet dei deputati operai sarebbe un passo indietro - ma una repubblica dei Soviet di deputati operai, salariati agricoli e contadini in tutto il paese, dalla base alla cima". Armato di questa solida bussola, il partito bolscevico poté fare delle proposte di marcia che corrispondevano ai bisogni ed alle possibilità di ciascuno dei momenti del processo rivoluzionario puntando sulla prospettiva della presa del potere, e ciò, attraverso un "lavoro di spiegazione paziente ed ostinata" (Lenin). Ed in questa lotta delle masse per prendere il controllo delle loro organizzazioni contro il sabotaggio borghese, dopo parecchie crisi politiche, in aprile, in giugno e soprattutto a luglio, diventò possibile rinnovare i Soviet, all'interno dei quali i bolscevichi divennero maggioritari. L'attività decisiva dei bolscevichi ha dunque avuto per asse centrale lo sviluppo della coscienza di classe, avendo fiducia nella capacità di critica e di analisi delle masse e nella loro capacità di unità e di auto-organizzazione. I bolscevichi non hanno mai preteso sottomettere le masse ad "un piano di azione" precostituito, arruolando le masse come si arruola un esercito. "La principale forza di Lenin consisteva nel fatto che lui comprendeva la logica interna del movimento e regolava su questa la sua politica. Non imponeva il suo piano alle masse. Aiutava le masse a concepire ed a realizzare i propri piani". (Trotsky, Storia del Rivoluzione Russa, capitolo "Il riarmo del partito"). E' così che fin da settembre, i bolscevichi posero con chiarezza chiaramente la questione dell'insurrezione nelle assemblee di operai e di soldati. "L'insurrezione fu decisa, per così dire, ad una data fissata: il 25 ottobre. Non fu fissata da una riunione segreta, ma apertamente e pubblicamente, e la rivoluzione trionfante ebbe luogo precisamente il 25 ottobre...." (ibid) Essa provocò un entusiasmo senza pari tra gli operai del mondo intero, diventando il "faro" che avrebbe illuminato l'avvenire di tutto gli sfruttati. Ancora oggi, la distruzione del potere politico ed economico delle classi dominanti è una necessità di sopravvivenza imperiosa. La dittatura del proletariato, organizzato in Consigli sovrani, resta l'unica via realista per gettare veramente le basi di una nuova società comunista. I proletari devono riappropriarsene alla luce dell'esperienza del 1917.
SB (da Révolution Internationale n. 376)
Giorni sempre più neri aspettano i lavoratori. Il governo di sinistra continua a lavorare per rendere le nostre condizioni ancora più precarie. Oltre ai tagli già previsti, è degli ultimi giorni la notizia che le province, le regioni ed anche i comuni potranno applicare nuove tasse per far fronte alle esigenze di gestione locale. Che significherà per i lavoratori? Ancora più soldi da togliere ad un salario che già non basta ad assicurare lo stretto necessario, tanto più quando con questo salario bisogna far vivere anche i “giovani” figli trentenni e quarantenni che non riescono a trovare uno straccio di lavoro decente. Cosa si può fare? Espatriare alla ricerca di un lavoro come facevano i nostri nonni e bisnonni? Neanche questo è più possibile perché anche in Francia, in Germania, in Inghilterra e nella stessa America milioni di proletari si trovano nelle nostre identiche condizioni, davanti alla stessa mancanza di prospettiva. La crisi economica non è un problema solo italiano, ma di tutto il capitalismo mondiale, come mostra il seguente articolo.
“Ieri Wall Street ha sofferto la sua più grande caduta dopo gli strascichi immediatamente successivi agli attacchi terroristici dell’11 settembre, con una giornata di pesanti cadute del mercato azionario mondiale culminata in una conseguente svendita a ribasso dei titoli a New York.
Le quotazioni del Down Jones relative all’industria hanno chiuso con più di 400 punti di ribasso nella paura che Stati Uniti e China – le locomotive gemelle dell’economia globale – fossero prossime ad una recessione e che la Casa Bianca si stesse preparando ad un attacco aereo contro il potenziale nucleare iracheno”. (Guardian, 28/2/07)
Le cadute del mercato azionario vanno e vengono e gli esperti economici hanno una visione molto limitata. Il giorno del crollo (27/2/07), un guru americano dell’economia avvertiva che “questa potrebbe essere la quiete prima della tempesta”. Altrove Andre Bakhos, presidente del Princeton Financial Group, ha detto “passato il pomeriggio, sembrava che ci fosse un senso di panico tra alcuni investitori di mestiere… Un’aria di insicurezza, come se non ci fosse un posto dove andare e come se le persone stessero girando in tondo come nel solo luogo sicuro”.
Due giorni dopo, “Dominic Rossi, capo degli azionisti mondiali alla Threadneedle Investment Services, ha valutato l’indifferenza della città dopo la più grande scossa dei mercati mondiali dal 9/11: ‘non è successo niente nelle ultime 48 ore che influenzasse la nostra visione del mondo e la buona prospettiva per i mercati azionari’” (Guardian, 1/3/7).
La scossa del 27/2 potrebbe non rappresentare una imminente recessione globale, ma ci dà un’idea di quello che realmente si prepara a livello di economia mondiale.
Per anni ci hanno detto che l’economia americana era solida, forte, che era una locomotiva per il mondo. Quello che non ci hanno detto è che questa “ripresa”, dopo la recessione degli anni ottanta, si è basata su una montagna sempre più grande di debiti. In altre parole, l’economia USA (e quella mondiale) è attualmente in bancarotta, sprofondata in una profonda crisi di sovrapproduzione, anche se riesce ad ogni modo a tirare avanti con la creazione di un grande mercato artificiale, con l’aiuto di una economia-casinò dove le persone sono impiegate in una serie di lavori artificiali. In Gran Bretagna, per esempio, il più grande contributo al prodotto nazionale lordo viene da… i proprietari terrieri, una categoria economica che non produce assolutamente nulla.
Per anni ci hanno anche detto che il sorprendente boom della Cina rappresentava la via da seguire. Quattro anni consecutivi di crescita al 10% e oltre, un incremento del 67% del suo surplus commerciale. Sicuramente questo prova che il su citato Dominic Rossi fa bene ad essere ottimista sulle prospettive future del mercato mondiale. Se può farlo la Cina, perché non potrebbe farlo anche il resto del mondo?
E’ semplice: la Cina può farlo proprio perché i paesi già sviluppati non possono. L’industrializzazione della Cina è basata sulla deindustrializzazione dell’America, della Gran Bretagna e della maggior parte dell’Europa. Vasti profitti possono essere fatti in Cina perché la classe operaia cinese sta pagando per questo “miracolo economico” con delle condizioni di sfruttamento mostruose – basse retribuzioni, lunghe giornate di lavoro, protezione minima da infortuni sul lavoro e dall’inquinamento. Livelli di sfruttamento che i lavoratori nei paesi capitalisti centrali non accetterebbero, troppo alti rispetto al desiderio della borghesia.
La Cina così fa volentieri da spugna per tutti quei capitali che non avrebbero più un investimento produttivo nella maggior parte dei vecchi paesi capitalisti. Ma, contrariamente a quanto si dice sulla creazione di un “nuova classe media” e di una dilagante “cultura consumista”, la maggior parte della popolazione cinese rimane disperatamente povera e la maggior parte della produzione industriale cinese è diretta all’esportazione. Il mondo è invaso da prodotti cinesi a basso prezzo e i limiti alla sua capacità di assorbirli non sono difficili da percepire. Se il “boom dei consumi” in paesi come la Gran Bretagna è basato su trilioni di sterline di debito pubblico, cosa succederebbe se i debiti (o gli interessi sui debiti) fossero ritirati e le persone e le società non potessero più spendere?
Questo è il motivo per cui il “surriscaldamento” dell’economia cinese desta timori. I recenti ribassi nelle quotazioni sono stati generati da cause banali – l’annuncio che il governo stava per usare la mano pesante sullo scambio illegale nelle quotazioni nella sua economia. Ma il vero incubo che spaventa la borghesia è che l’economia cinese, “surriscaldando” la macchina che vomita questa serie infinita di merci, sta andando verso una crisi aperta di sovrapproduzione che avrebbe conseguenze devastanti sullo stato dell’economia mondiale.
In breve, la “prosperità” dell’economia mondiale è costruita sulla sabbia e la sabbia comincia a cedere. Il capitalismo mondiale, che è stato in declino per un centinaio di anni, ha trovato numerose misure per manipolare le sue stesse leggi economiche e frenare il crollo nel baratro, ma sempre col rischio di generare nuove e sempre più pericolose convulsioni.
Un altro aspetto molto significativo della recente caduta dei prezzi dei listini è stato che ha dato luogo a una nuova serie di speculazioni su un possibile attacco americano all’Iran. La crisi dell’economia capitalistica ha sempre spinto il sistema verso la folle “soluzione” della guerra. Senza dubbio le oscillazioni del mercato azionario sono incrementate da quando l’amministrazione Bush ha tagliato corto con le sue minacce di guerra annunciando di voler aprire il dialogo con Iran e Siria per cercare di stabilizzare la situazione in Iraq. Ma gli espedienti diplomatici non contraddicono la deriva fondamentale del capitale verso la guerra e l’autodistruzione.
Se aggiungiamo che la crescita gonfiata e malata del capitalismo sta rappresentando senza dubbio una minaccia profonda per l’ambiente del pianeta, è evidente che la prospettiva che questo sistema ci serba è una catastrofe senza precedenti – economica, militare ed ecologica.
La borghesia, contrariamente alle sue ottimistiche aspettative, è ben consapevole che le cose possono solo peggiorare. Ragione per cui il ministro del tesoro inglese Gordon Brown ha appena annunciato che un milione di lavoratori del settore pubblico in Gran Bretagna avranno gli stipendi ribassati del 2%. L’economia-casinò ha “nascosto” l’inflazione degli ultimi anni con il boom immobiliare, ma le pressioni inflazionistiche continuano a svilupparsi nell’economia e i lavoratori, come al solito, sono chiamati a pagarne le spese.
Negli anni ’70, l’inflazione è stato il prezzo da pagare per evitare la recessione. Negli anni ’80, è stato giudicato che la recessione fosse la migliore delle alternative. Ma oggi siamo di fronte ad entrambe le minacce contemporaneamente. Questo ci spiega perché, ad esempio, il grande “modello” della modernizzazione e della crescita, l’Airbus, ha annunciato migliaia di licenziamenti in Francia, Germania e Gran Bretagna. Questo annuncio è stato salutato dallo sciopero spontaneo di migliaia di lavoratori tra Francia e Germania.
Di fronte all’aumento dei prezzi, ai tagli degli stipendi, alla perdita del posto di lavoro, di fronte alla prospettiva di un cataclisma futuro se si lascia perdurare la società capitalista, l’unica strada percorribile per la classe operaia mondiale è quella della lotta.
3 marzo 2007
(da World Revolution n. 302, Marzo 2007)
Il rapimento di Mastrogiacomo e gli eventi ad esso legati sono stati messi al centro dell’attenzione da parte dei media per circa due mesi. Adesso, le notizie sulle sorti del mediatore di Emergency, Rahmatullah, e lo stesso ritiro di Emergency dall’Afghanistan sono ridotte a piccole note redazionali.
Evidentemente fino a che si poteva far leva sull’istintivo senso di condanna della gente per il rapimento del giornalista italiano e per le atroci esecuzioni degli altri ostaggi, faceva comodo propagandare e contrapporre “alla barbarie dei talebani”, “l’umanità” dello Stato italiano e soprattutto del suo governo di sinistra che, pur di salvare delle vite umane, scende a patteggiamenti con i terroristi nonostante le esplicite critiche della superpotenza USA, mobilitando energie umane e finanziarie attraverso Emergency. Addirittura, nel democratico e umanitario Stato italiano, si apre un dibattito sulle scelte fatte in questa occasione rispetto ad altri rapimenti storici, come quello di Moro da parte delle Brigate Rosse, con Cossiga che difende la scelta dell’epoca di non cedere al ricatto dei terroristi, anche a costo della vita di Moro, e Fassino che afferma “salvare una vita non è una resa”. Quando poi le cose si complicano, con l’arresto di Rahmatullah e le accuse da parte del governo afgano contro Emergency in quanto fiancheggiatore dei terroristi, allora è meglio far sfumare l’attenzione perché, al di là delle chiacchiere di questi signori e dei loro mass media, il reale significato della presenza dell’Italia in Afghanistan, così come in Somalia, nel Libano, nel Sudan, nel Darfur, nei Balcani, ed altrove, e degli scontri imperialisti in atto in questi paesi, diventa sempre più chiaro agli occhi di tutti e sempre meno possibile camuffabile con discorsi umanitari. I fischi al “pacifista” Bertinotti alla manifestazione per il 25 aprile a Milano ne sono un sintomo.
La contraddizione evidente tra il miliardo di euro abbondante appena stanziato dal governo Prodi per le missioni militari all’estero e la crescente miseria che questo stesso governo impone ai proletari italiani con i licenziamenti, la precarietà del lavoro, lo smantellamento dell’assistenza sanitaria e delle pensioni, l’assenza di prospettiva per i giovani, fanno sorgere subito un dubbio: come mai questo Stato che si preoccupata tanto del popolo afgano, libanese, sudanese, condanna ad una vita di stenti la stragrande maggioranza dei lavoratori italiani e ad un futuro ancora peggiore la nuova generazione? Quale livello di ipocrisia si nasconde dietro le lacrime versate sulla morte di un povero cristo che a 74 anni è ancora costretto a lavorare a nero su di una impalcatura di dieci metri fino a lasciarci la pelle?
Un livello molto alto se aggiungiamo che la giustificazione umanitaria della presenza dell’esercito italiano in Afghanistan fa a cazzotti con la necessità di aumentare l’armamento del contingente italiano a Heart, vista l’intensificazione degli scontri in atto nella zona di controllo italo-ispanica. E fa a cazzotti con il fatto che è proprio sotto il fuoco incrociato tra frazioni locali ed eserciti europei ed USA - con i quali lo Stato italiano ha preso accordi ben più criminali dal punto di vista umanitario per assicurarsi la presenza sul posto - che decine di uomini, donne e bambini afgani muoiono ogni giorno, sotto le bombe, per la fame, le malattie causate dalla guerra.
Ma oltre all’ipocrisia senza ritegno della borghesia, tutte le vicende legate al rapimento del giornalista Mastrogiacomo ed alle modalità della sua liberazione danno altri elementi di riflessione sulla realtà guerrafondaia ed imperialista dello Stato italiano e sul modo con cui questa si concretizza. In particolare:
- quali sono i motivi degli attriti tra il governo italiano e gli USA in questa vicenda?
- come mai una operazione così delicata come la liberazione di ostaggi in una situazione di guerra viene affidata ad Emergency, un’organizzazione non governativa di medici volontari, che in quanto tale non potrebbe avere mezzi organizzativi ed economici adeguati per compiti simili?
L’imperialismo italiano alla ricerca di prestigio ed autonomia
Come ogni Stato, anche l’Italia cerca di acquisire quanto più spazio possibile sull’arena imperialista mondiale. Questa è una preoccupazione costante di ogni Stato, qualsiasi ne sia il governo di turno, perché da questo dipende la capacità di mantenere e - nella misura del possibile - accrescere un dato livello di forza concorrenziale rispetto alle altre potenze. E per ogni Stato nazionale questo è questione di vita o di morte, in particolare nell’attuale situazione di crisi profonda del sistema capitalistico.
Le mire del governo Prodi su questo piano non sono quindi diverse da quelle del governo Berlusconi o di quelli precedenti. Si differenziano però le scelte, i percorsi da seguire. Rispetto al governo Berlusconi, l’attuale governo di sinistra si differenzia per una politica estera meno legata ai dettami che vorrebbero imporre gli USA (vedi ad esempio la domanda di meno limiti alle zone di competenza dei vari eserciti, ma soprattutto il veto ad ogni trattativa con i talebani) e per una maggiore ricerca di un posto in prima fila tra le potenze europee nelle zone calde del Medio Oriente. Basta vedere le ultime mosse diplomatiche assestate dal governo:
- nel suo recente viaggio in Arabia Saudita Prodi ha reiterato la condanna della guerra in Iraq perché “Non è stata preceduta da un quadro di legittimità giuridica soddisfacente per quanto attiene le Nazioni Unite” e voluta sulla base di “argomentazioni rivelatesi infondate”, cercando al contempo di far riconoscere all’Italia un ruolo di interlocutore privilegiato, basandosi sugli apprezzamenti positivi fatti dal ministro degli esteri saudita, Saud al-Faisal, in particolare per il ruolo svolto in Libano: “Innanzitutto siamo grati all’Italia: non fosse stato per la sua ferma posizione, la missione Unifil forse non sarebbe riuscita. Spero che continui, anzi si rafforzi se necessario” (la Repubblica 24/4/07);
- nella stessa ottica il governo ha promosso una “Conferenza di pace” per l’Afghanistan (per cui sono stati stanziati 500.000 euro) ed una Conferenza a Roma sulla giustizia in Afghanistan (costo 127.800 euro);
- su di un altro fronte D’Alema lancia la proposta di moratoria contro la pena di morte a livello mondiale nell’ambito dell’UE;
- in Afghanistan, in contrasto con le indicazioni USA, l’Italia porta il governo Karzai a rilasciare dei terroristi talebani in cambio di Mastrogiacomo.
Tutta questa rinnovata spinta del governo Prodi ad imporsi come elemento autonomo importante sulla scena dei conflitti in Medio Oriente chiaramente non va molto bene agli USA che invece fanno sempre più fatica ad imporre la propria leadership nella zona ed a contrastare velleità simili anche da parte delle altre potenze europee. Da qui gli “screzi”, il conflitto diplomatico rispetto al rapimento Mastrogiacomo nei rapporti tra Italia e USA, che segue altri scontri altrettanto significativi: quello relativo all’omicidio Calipari e quello più lontano relativo al rapimento dell’egiziano Abu Omar a Milano da parte di agenti della CIA.
Nel caso attuale gli USA non potevano certo accettare la politica del patteggiamento con i “famigerati terroristi talebani” per liberare degli ostaggi, quando la loro giustificazione alle varie guerre scatenate dal 2001 ad oggi e il braccio di ferro con le altre potenze imperialiste ha come perno la “crociata contro il terrorismo” in difesa della “democrazia occidentale”. E se il richiamo all’ordine su questo piano non è servito a far abbassare le cresta all’Italia, si ricorre a pressioni più forti sul capo del governo afgano Karzai (anche per mostrare chi è il vero padrone della situazione), che a questo punto non può far altro che rifiutarsi di scarcerare altri terroristi per liberare i due francesi sequestrati dai talebani1. Ed è chiaro che l’arresto di Rahmatullah come fiancheggiatore terrorista e responsabile della morte dell’autista e dell’interprete di Mastrogiacomo, così come le accuse contro Emergency da parte del governo Karzai, hanno lo stesso significato. Aver creato le condizioni perché Emergency non potesse restare più in Afghanistan: questo non è un attacco ad Emergency, ma un colpo assestato al governo italiano. E dovendo mantenere in piedi certi equilibri, dati i rapporti di forza esistenti, il governo italiano non ha potuto che abbozzare sulla vicenda e limitarsi ad assicurare al leader di Emergency, Gino Strada, per bocca di Prodi: "Facciamo l'impossibile per scarcerare Hanefi. Non dimentico certo l'Afghanistan e Rahmatullah Hanefi, il tuo collaboratore che si trova ancora in carcere. Ti posso assicurare che continuiamo a fare il possibile e l'impossibile perché sia scarcerato. Spero che questo possa avvenire il prima possibile" (La Repubblica, 3/5/07, versione on line).
Ma perché prendersela con Emergency significa lanciare un monito al governo italiano? Qual è il ruolo di Emergency in Afghanistan e nelle altre zone di guerra?
Emergency, strumento dell’imperialismo italiano
Le velleità imperialiste dello Stato italiano devono fare i conti con la reale forza economica e militare del capitalismo italiano. Forza storicamente abbastanza limitata che ha costretto da sempre l’Italia a cercare di farsi spazio, più che su di un piano strettamente militare, attraverso vie diplomatiche, tessendo legami bilaterali, ponendosi come interlocutore e mediatore affidabile nelle diverse aree di conflitto, per acquisire una certa presenza e forza politica nelle zone di interesse. In questa politica le organizzazioni non governative (ong) come Emergency (al di là dell’onesta e della buona fede di chi ci lavora o collabora con esse) svolgono un ruolo fondamentale di penetrazione e di impianto sul posto. E’ indubbio che l’opera di Emergency è preziosa, ad esempio in Afghanistan, non solo per le vittime della guerra che almeno hanno la speranza di poter essere curate e di trovare un minimo di assistenza, ma anche per lo stesso governo afgano che senza queste strutture ospedaliere e di assistenza avrebbe ancora più difficoltà a gestire il disastro del paese. Al tempo stesso, proprio per l’importanza che, in queste aree dilaniate da scontri interni ed internazionali, assume l’opera di una struttura come Emergency ufficialmente indipendente, neutrale e apartitica, il radicamento, il consenso e la rispettabilità che questa acquisisce tra la popolazione, ma soprattutto tra le varie forze politiche e combattenti locali, costituiscono una forza politica considerevole. E dietro ad Emergency è lo Stato italiano ad acquisire questa forza; si capisce dunque tutto l’interesse di questo a sostenerla ed a rafforzarne la presenza in queste zone. Questo acquisito riconoscimento risulta utile infatti su due piani: da un lato per mantenere la propria immagine di “italiani brava gente” contrapposto agli “oppressori americani”, che sparano sui civili senza pietà; dall’altro per avere più libertà di movimento nelle situazioni critiche, nelle quali bisogna difendere i propri interessi. Come appunto con il rapimento Mastrogiacomo, dove è grazie alla capacità di impianto nella zona, alla capacità di allacciare legami diplomatici con le diverse frazioni locali che il governo Prodi è riuscito da una parte a premere su Karzai per la liberazione dei talebani, dall’altra, attraverso Emergency, ad arrivare a chi poteva trattare per la liberazione degli ostaggi e procedere in tal senso. E spesso questa via è più efficace e preferibile all’azione dei servizi segreti. Il fatto quindi che Emergency sia stata costretta ad abbandonare il terreno afgano è un problema per il governo italiano, non tanto per le accuse alquanto ridicole di appoggio al terrorismo nei confronti di Emergency, ma piuttosto perché così viene a mancare un tassello importante per la presenza dell’Italia in un’importante zona dove si gioca un braccio di ferro tra le varie potenze imperialiste (USA e Italia, ma anche Francia, Spagna, Inghilterra, ecc.).
Del resto, come viene ricordato nell’articolo seguente, scritto dopo lo Tsumani che colpì l’Asia nel 2005, l’utilizzo delle ong da parte degli Stati non è una novità, né è una esclusiva “italiana”.
Ed in effetti c’è da chiedersi da dove provengano gli ingenti fondi di un’organizzazione come Emergency necessari per impiantare strutture sanitarie, pagare i medici e tutto il personale necessario a mantenere in piedi la sua stessa struttura. Dalla raccolta di soldi per le strade e qualche filantropo di turno o non piuttosto dalle sovvenzioni di enti e strutture in maniera più o meno esplicita legati allo Stato?
Lo sdegno in tutta questa vicenda non è tanto per le falsità che ci racconta la borghesia, né per la sua ipocrisia, né per le vie che utilizza per raggiungere i suoi fini. Lo Stato italiano, ed il suo governo, è capitalista come qualsiasi altro Stato e dunque la menzogna, l’ipocrisia, i giochi sporchi fanno parte della sua natura. Lo sdegno è soprattutto per il fatto che a pagare tutto questo sono sempre i proletari con la morte e la disperazione in Afghanistan, con un degrado crescente su tutti i piani e con una montagne di mistificazioni in Italia.
Eva, 3/5/2007
1. Le ultime notizie sull’attacco dell’esercito USA nella regione di Herat, zona assegnata al controllo di Italia e Spagna, senza alcun accordo o preavviso a questi da parte degli USA, e le reazioni di D’Alema e Prodi, confermano la maggiore pressione che l’amministrazione Bush intende esercitare in Afghanistan per imporre la propria politica e le tensioni che questo provoca tra le potenze imperialiste che occupano questo paese.
A quattro mesi dallo tsunami sulle coste dell’Asia del sud e nonostante lo slancio di generosità che ha riversato nelle casse delle ONG somme ingenti di denaro, la situazione sul posto resta sempre drammatica. Mentre il 28 marzo (2005) nell’isola di Nias, al largo di Sumatra, una nuova scossa sismica provoca una carneficina, le ONG stanno ancora a chiedersi come utilizzare le somme raccolte, che intanto sono depositate su dei fondi monetari SICAV al 2,5% di interesse annuo. Allora a cosa servono le ONG, a parte che versare salari astronomici ai loro dirigenti ed offrire loro alloggio negli hotel a quattro stelle di Bora Bora (Capital, aprile 2005)? Certo, se la sottrazione di fondi e gli atteggiamenti da truffatori sono consoni alla natura della borghesia, non sono l’essenza ed il fondamento dell’azione umanitaria.
Prima di ogni cosa le ONG sono uno strumento, oggi divenuto fondamentale, della difesa degli interessi imperialisti di ogni nazione.
Queste ONG, che di “non governativo” hanno solo il nome, offrono da più di 30 anni le motivazioni ideologiche per giustificare le azioni armate delle grandi potenze.
Negli anni ’70 la Francia, per sbarazzarsi di Jean Bedel Bokassa che essa stessa aveva portato al potere nella Repubblica Centroafricana, si appoggia su Amnesty International per scatenare una grossa campagna di denuncia del regime sanguinario dell’“auto-proclamato” imperatore. Sarà questa campagna a giustificare l’intervento della Francia e l’invio dei suoi paracadutisti che non dimenticheranno di portare con loro un nuovo presidente.
Ma il ruolo delle ONG non si limita a fornire alibi umanitari per colpire ed accompagnare i raid omicidi del “diritto di ingerenza” delle grandi potenze nei conflitti armati. Spesso la loro presenza ed il loro lavoro sul posto vanno ben oltre.
Non è un caso se l’India ha rifiutato l’aiuto internazionale dopo i disastri causati dallo tsumani del 26 dicembre. Non è un caso se l’Indonesia, poco dopo, reclama la fuoriuscita delle ONG dal proprio territorio entro due mesi. Il motivo è che questi paesi sanno bene che le ONG agiscono, anche senza scorta militare, come testa di ponte imperialista delle rispettive nazioni. Questa realtà è illustrata molto bene dalla serie di “rivoluzioni democratiche” avutesi nelle repubbliche del sud della Russia, ultima in data quella nel Kirghizistan.
“Possiamo essere fieri di aver sostenuto la rivoluzione”, ha proclamato l’ambasciatore americano Stephen Young. Benché gli USA dispongano da quattro anni di una base militare forte di 2000 soldati sull’aeroporto di Manas, non è di questo tipo di sostegno che parla Mr. Young. Per aiutare il rovesciamento del regime di Akaïev, gli Stati Uniti si sono serviti di un’arma micidiale: una potente rete di ONG, 7000 in totale, che hanno diviso a scacchiera l’intero territorio. In ogni villaggio si contano da tre a quattro ONG locali, finanziate in gran parte da organizzazioni statali made in America, quali la Freedom House, diretta dall’ex capo della CIA, James Woosley, o ancora il National Democratic Institute (NDI), presieduto dall’ex segretario di Stato di Clinton, Madaleine Albright. La “rivoluzione gialla” non ha avuto dunque nulla di spontaneo. Al contrario, è stata saggiamente e pazientemente preparata da questa rete di ONG pro-americane, come dalla tipografia di Bichkek foraggiata da Freedom House ed incaricata di pubblicare non meno di una cinquantina di giornali “di opposizione”. E quando il potere kirghiso decide, cinque giorni prima le elezioni legislative, di tagliare l’elettricità alla tipografia, ad accorrere in aiuto è l’ambasciata americana con la fornitura di gruppi elettrogeni in modo da permettere che il lavoro di agitazione possa continuare. Ed è attraverso una coalizione di 170 ONG del Kirghizistan, animate da Edil Baisalov, a sua volta finanziato dall’NDI, che si è potuto inviare un migliaio di osservatori nei seggi elettorali per testimoniare la frode e scatenare la “fronda popolare”. Possiamo ritrovare lo stesso schema in Georgia nel 2003 o in Ucraina nel 2004 dove la “rivoluzione arancione” è stata anch’essa lanciata dal lavoro delle 280 ONG abbeverate dallo stesso NDI con 65 milioni di dollari per rovesciare il duo pro-russo Kutchma/Ianukovitch tramite l’agitazione popolare.
Le ONG sono utili? Per la borghesia senza alcun dubbio. Dagli anni ’70 costituiscono chiaramente un jolly organicamente legato ai dispositivi militari della classe dominante. Per riprendere l’espressione del celebre dottore francese Bernard Kouchner, fondatore dell’emblematica organizzazione “Medici Senza Frontiere”: “la grande avventura del XXI secolo (…) si chiamerà movimento umanitario”. Ma questa avventura non può che essere quella della guerra al servizio dell’imperialismo.
Azel, 15 aprile 2005 (da Revolution Internazionale n° 357)
Si sarebbe potuto credere all’orrore riservato al Medio Oriente, all’Iraq o alla Palestina, senza dimenticare i genocidi quotidiani dell’Africa nera o del sud del Caucaso. Ma no! La realtà del capitalismo è sempre peggio di quanto si possa immaginare. Il Maghreb è venuto a ricordarci che non bisognava dimenticarsi di lui. Anche lì, la barbarie imperversa quotidianamente. Spesso passato volontariamente sotto silenzio dai mezzi di comunicazione, la «guerra civile» in Algeria ha fatto all’incirca più di 150 mila morti durante gli anni ’90. Ma in questa primavera soleggiata, la barbara realtà del capitalismo è tornata drammaticamente in primo piano.
Mercoledì 11 aprile, due attentati kamikaze preparati con auto imbottite di esplosivo sono stati perpetrati ad Algeri. Ci sarebbero ufficialmente 33 persone uccise e più di 220 feriti. L’indomani, la rete televisiva Al-Jezira annunciava di aver ricevuto una telefonata con la quale un porta parola del movimento Al-Qaida nel Maghreb rivendicava questi attentati.
In Algeria, i gruppi terroristi, minati dalle guerre tra frazioni rivali e braccati da una parte dell’esercito e dal governo sanguinario del presidente Bouteflika, erano da alcuni anni sulla difensiva. Quelli che non si erano rifugiati nelle regioni montagnose avevano ufficialmente deposto le armi. La resa dell’AIS (Armée Islamique du Salut, ala militare del Front Islamique du Salut) e degli ultimi elementi sopravvissuti del GIA ( Groupe Islamiste Armé) sembrava promettere una calma sul fronte degli attentati e dei massacri terroristici. Ma tutto ciò non era che pura illusione.
Ecco dunque risorgere da capo, armi alla mano, i gruppi salafisti. Questi sono ormai pronti a utilizzare i mezzi militari i più tradizionali ma anche ad applicare i metodi e la logistica propri alla nebulosa di Al-Qaida. Questo ritorno alla grande del terrorismo non riguarda solo l’Algeria ma anche il Marocco e la Tunisia. Il suo terreno di crescita, condito anzitutto dalla miseria, dalla disoccupazione e dalla disperazione di massa, è costituito da questi giovani ammassati nelle bidonville di Tunisi o di Algeri. In Algeria, il tasso di disoccupazione dei giovani supera largamente il 50%. Al-Qaida può dunque attingere senza vergogna nei ranghi di questa gioventù totalmente disorientata e senza avvenire.
«Le relazioni tra la Francia e l’Algeria possono essere buone o cattive, ma in nessun caso possono essere banali». Questa dichiarazione pronunciata dal vecchio presidente algerino Houari Boumediene nel 1974 traduce perfettamente come dopo la fine della colonizzazione dell’Algeria da parte della Francia avvenuta nel 1962, gli imperialismi algerino e francese non hanno mai cessato di avere delle relazioni politiche estremamente strette. In questo paese, a partire dalla sua indipendenza, l’esercito è stato sempre la punta avanzata del potere attraverso la successione dei vari capi di stato. La storia interna dell’Algeria, da 40 anni a questa parte, è fatta di colpi di stato e di putsch militari, esprimendo così la debolezza e la divisione storica della borghesia algerina. Anche l’FLN (Front de Libération Nationale), sorto dalla guerra coloniale, e la sua ala armata, l’ALN, non sono sfuggiti a questa instabilità crescente. Durante tutti questi decenni, all’interno di questo marasma, la Francia ha difeso con le unghie e con i denti i suoi interessi in un paese che essa considera come facente parte della sua riserva di caccia.
Ma all’inizio degli anni ’90, la borghesia francese, malgrado tutti i suoi sforzi, comincia lentamente a perdere terreno di fronte all’offensiva del suo più grande nemico, la borghesia americana. In effetti, questo decennio è marcato da un aggravamento micidiale delle tensioni interimperialiste tra la Francia e gli Stati Uniti. Da allora, gli Stati Uniti non hanno mai ridotto i loro sforzi in Algeria nel tentativo di rafforzare la loro influenza a detrimento dell’imperialismo francese. Il loro sostegno attivo alle brigate armate islamiche si impone così pubblicamente.
Nel 1992, il governo algerino, in reazione a questa situazione, decreterà allora lo stato d’emergenza. Di fronte ai massacri ciechi dei terroristi, strumentalizzati dagli Stati Uniti, le forze de «l’ordine» algerine faranno scomparire, dal 1992 al 1998, più di 7000 persone. Facendo così versare il sangue, la Francia riprenderà più o meno la mano, con l’inizio del nuovo millennio marcato dall’apparire della pace e della stabilità.
Se dunque in tutti questi ultimi anni l’imperialismo americano sembrava potersi implicare meno in Algeria, appare oggi chiaramente che questa situazione sta per conoscere di nuovo una drammatica evoluzione. In effetti, all’inizio di marzo, il generale d’armata Raymond Hénault, presidente del Comitato militare dell’Alleanza Atlantica, effettua una visita ufficiale in Algeria. “Lo scopo di questa visita viene rivelato immediatamente dalla reazione del governo algerino. L’Algeria dichiara allora attraverso la voce del suo ministro degli Affari esteri che il suo territorio non sarà disponibile come base all’esercito americano. Si capisce dunque facilmente l’obiettivo di questa visita ufficiale e la posizione del governo algerino, temendo di affrontare un vero problema di sovranità nazionale. Almeno sul piano militare” (Ahmed Saifi Benziane, citato dal Courrier international del 19 aprile 2007)
A sua volta interrogata a proposito di eventuali basi americane nel Maghreb, Condoleeza Rice (segretario di Stato del governo americano) aveva dichiarato : «Noi cerchiamo solo di stabilire una piattaforma di cooperazione con questi paesi attraverso lo scambio di informazioni e l’organizzazione di esercitazioni militari con i governi per lottare efficacemente contro il terrorismo.» (ibid.) Le intenzioni americane non possono essere enunciate in maniera più chiara. L’indebolimento accelerato della prima potenza mondiale, il suo sprofondamento nel pantano iracheno non riducono per niente i suoi appetiti imperialisti e la sua fuga in avanti sul piano militare. Malgrado l’ampiezza delle sue difficoltà, dall’Algeria al nord del continente africano fino alle porte del Golfo Persico e al Medio Oriente, niente è fuori dell’interesse degli USA.
Il cavallo di battaglia della politica imperialista americana nel mondo è la lotta contro il terrorismo. E’ sotto questo pretesto fallace che gli Stati Uniti difendono in Algeria e dovunque nel mondo i loro sordidi interessi.
Tuttavia è evidente che gli ultimi attentati che hanno avuto luogo ad Algeri vanno pienamente a vantaggio dell’America. In maniera cinica e ipocrita, il 6 febbraio scorso, gli Stati Uniti hanno fatto sapere la loro intenzione di creare un comando al Pentagono incaricato dell’Africa per mettere falsamente un termine all’installazione di gruppi terroristi nel Maghreb. Il 14 aprile, cioè tre giorni dopo gli attentati di Algeri, l’ambasciata americana in questo paese dichiarava ufficialmente: “Secondo delle informazioni non confermate, degli attentati potrebbero essere pianificati ad Algeri il 14 aprile nella zona che potrebbe includere tra l’altro la Posta Centrale e la sede dell’ENTV (la televisione pubblica), nel boulevard dei Martiri”. Queste dichiarazioni dell’ambasciata americana sono state immediatamente comprese per quelle che sono dalla stampa algerina: “Che gli Americani si vogliano sostituire ai servizi di informazione algerini, è un po’ un peccato di gola. A meno che gli Americani non abbiano altre idee in testa e non vogliano instaurare un clima da psicosi” (Le Jour d’Algérie, citato da Le Monde del 15 aprile 2007). Che gli Americani abbiano altre idee nella testa, è evidente. E sono anche perfettamente chiare potendosi enunciare così: “Quello che non si può controllare, occorre destabilizzarlo o anche distruggerlo”. La borghesia algerina, il suo governo così come i movimenti terroristi, tutti strumentalizzati ciascuno per proprio conto da un imperialismo o da un altro, se ne fregano totalmente delle sofferenze inflitte alla popolazione in Algeria. Il nuovo sviluppo nel Maghreb di tensioni imperialiste, di barbarie e di caos va così a creare una continuità geografica dal Medio Oriente fino alle regioni più lontane dell’Africa centrale e dell’est.
Tino (26 aprile
Licenziamenti, riduzione di posti, chiusura di fabbriche, precarizzazione, decentramento …, sempre più i lavoratori salariati subiscono la terribile realtà dell’accelerazione della crisi capitalista. Gli attacchi sono gli stessi dappertutto; in Europa per il gruppo EADS-Airbus, all’Alcatel-Lucent, Volkswagen, Deutsche Telekom, Bayer, Nestlé, Thyssen Krupp, IBM, Delfi… e sul continente americano alla Boeing, Ford, General Motors, Chrysler… In Francia, nel solo settore privato ci sono stati ufficialmente 10.000 posti soppressi nel 2006 ed altri 30.000 sono previsti da qui al 2008. Questi piani ormai su scala mondiale sono sempre più massicci e non toccano più solo settori in decelerazione o arcaici, ma settori di punta come l’aeronautica, l’informatica, l’elettronica. Non riguardano più solo le piccole e medie imprese, ma si estendono a tutti i grandi gruppi leader dell’industria ed il loro indotto; non si limitano più agli operai della catena di montaggio ma toccano anche gli ingegneri, i quadri commerciali, i settori della ricerca.
Ogni Stato, ogni dirigente di impresa sa bene che questa situazione spinge tutti i salariati, del settore privato come del pubblico dove i proletari subiscono esattamente la stessa sorte, a porsi sempre più domande angoscianti sull’avvenire che è riservato loro e ancor più sull’avvenire dei loro figli. E’ sempre più evidente che i proletari di tutti i paesi sono sulla stessa barca, una barca che fa acqua da tutte le parti. In questo contesto inedito, la preoccupazione principale della borghesia non è solo quella di cercare di colmare la enormi falle che si aprono nel suo sistema, ma anche di guadagnare tempo, di impedire ai proletari di prendere coscienza di questa realtà.
Per questo che dappertutto i sindacati, la cui specifica funzione nell’apparato dello Stato è inquadrare e controllare la classe operaia, giocano d’anticipo e occupano il terreno sociale, proprio per tagliare l’erba sotto i piedi ad ogni tentativo di mobilitazione unitaria degli operai di fronte ad attacchi così grossi e frontali. Oggi il loro compito essenziale è prendere l’iniziativa della lotta in modo da far passare gli attacchi mantenendo gli operai divisi per fabbriche, imprese, settori, paesi.
Il “modello Airbus” del sabotaggio sindacale
I sindacati, il governo, la direzione, tutta la classe politica e i mezzi di informazione hanno polarizzato l’attenzione sui 10.000 posti eliminati all’Airbus (fino ad oggi presentata come un fiore all’occhiello), dove si è abbondato in manovre per dividere degli operai, disperderne la collera e imbrigliarne la combattività. I sindacati hanno iniziato col far credere di non essere al corrente di quanto si stava preparando e che avrebbero difeso i posti di lavoro e gli interessi degli operai, quando per mesi hanno partecipato in pieno al piano Power 8 (accordo tra Francia e Germania sui tagli all’Airbus). Per elaborare questo piano la direzione aveva creato un “comitato di pilotaggio” costituito dalla Direzione delle Risorse Umane e dai sindacati, allo scopo, per l’appunto, di “prepararsi ad ogni impatto sociale che le sue misure potrebbero avere” (da una nota della direzione all’interno della fabbrica di Toulouse-Blagnac). Nella fase preparatoria tutti i sindacati hanno teso a minimizzare l’attacco, associandosi perfettamente alle menzogne della direzione e dei diversi Stati coinvolti. In seguito hanno fatto riprendere il lavoro agli operai di Meaulte che erano scesi in sciopero spontaneamente 48 ore prima dell’annuncio ufficiale del piano Power 8, con la pretesa che la fabbrica non sarebbe stata rivenduta, mentre la direzione avrebbe fatto sapere in seguito che in proposito non era stata esclusa nessuna decisione.
A seconda delle fabbriche e adattandosi ad ogni situazione specifica, i sindacati hanno organizzato la divisione tra i settori toccati dal piano e quelli risparmiati, e per mesi hanno martellato sull’idea che se Airbus era in questa situazione era “per colpa dei tedeschi”. In Germania il discorso dei sindacati era parallelo: “è colpa dei francesi”. In un volantino del 7 marzo co-firmato da Force Ouvrière-Métaux (sindacato largamente maggioritario a Tolosa), CFE-CGC (sindacato dei quadri) e CFTC si legge: “Quello che è in gioco è l’interesse di tutta l’economia francese, locale e regionale (…) Restiamo mobilitati (…) per difendere Airbus, i nostri posti di lavoro, il nostro strumento di lavoro, le nostre competenze e la nostra professionalità a beneficio di tutta l’economia locale, regionale e nazionale.” Questa ripugnante propaganda che spinge gli operai a far propria la logica capitalista della concorrenza, era già presente in una mobilitazione dei sindacati di diversi paesi europei in cui ci sono officine dell’Airbus: “Difendiamo il nostro strumento di lavoro insieme, salariati di Airbus e dell’indotto di Airbus d’Europa” (volantino comune di tutti i sindacati del 5 febbraio 2007).
Dopo le manifestazioni del 6 marzo, i sindacati hanno prospettato una risposta a livello europea per il 16 annunciando una manifestazione a Bruxelles, per poi annullarla tre giorni prima e sostituirla con manifestazioni, comunque presentate come “una giornata di mobilitazione europea”, ma limitate ai salariati di Airbus e disperse nei differenti distretti locali. Il colmo è stato vedere i sindacati che a Tolosa raccogliere gli operai all’uscita della fabbrica, ammassarli negli autobus, condurli in un luogo assolutamente decentrato e farli poi marciare fino alla sede di Blagnac, dove li attendeva una massa di telecamere per pubblicizzare a fondo “l’avvenimento”. Una volta arrivati li hanno fatti rimontare sugli autobus per ritornare alla fabbrica e riprendere il lavoro1.
I sindacati, e l’insieme della borghesia, non ci tenevano affatto a vedere una larga mobilitazione operaia a scala europea, dove gli operai potevano unirsi, incontrarsi, discutere e scambiare le proprie esperienze. Tanto più in un contesto di attacchi a 360 gradi: soppressione di oltre 6.000 posti alla Bayer, allungamento dei pagamenti dei contributi pensionistici fino a 67 anni in Germania, messa in atto di un nuovo attacco al settore della Sanità in Gran Bretagna, 3.000 licenziamenti a Volkswagen-Forest in Belgio.
I sindacati fanno dappertutto lo stesso sporco lavoro
Certamente i sindacati non volevano che ci fosse allo stesso momento la manifestazione a Parigi dei lavoratori di Alcatel-Lucent contro il piano di ristrutturazione del gruppo che prevede la soppressione, di qui al 2008, di 12.500 posti (di cui almeno 3.200 in Europa). Per questo l’hanno spostata al giorno prima, il 15 marzo. Presentata come unitaria ed europea, questa ha raccolto solo 4.000 persone, venute dalle zone francesi implicate direttamente, in particolare dalla Bretagna. Dai paesi vicini sono arrivate solo simboliche delegazioni esclusivamente sindacali, provenienti dalla Spagna, Germania, Olanda, Belgio e Italia. In più la manifestazione è stata soffocata da una foresta di bandiere bretoni e cadenzata al suono delle cornamuse!
Sempre in Francia, in una serie di scioperi più piccoli come quello alla Peugeot-Aulnay, i sindacati hanno trascinato gli operai in lotte lunghe ed estenuanti per aumenti salariali. Allo stesso tempo, alla fabbrica Renault del Mans, 150 operai sono stati trascinati dietro la CGT in uno sciopero molto minoritario contro un nuovo contratto di flessibilità firmato dagli altri sindacati. Quando si sa che alla PSA come alla Renault si sta preparando un piano di licenziamenti, ci si rende conto che queste azioni lanciate dai sindacati hanno come unico scopo quello di sfiancare preventivamente la combattività operaia per far passare gli attacchi. Lo stesso obiettivo lo si vuole raggiungere con gli insegnanti chiamati ad una ennesima giornata d’azione il 20 marzo.
Gli operai non hanno nessun interesse comune con la borghesia, al contrario la situazione li spinge a riconoscere gli interessi che loro hanno in comune di fronte agli attacchi, uguali in ogni paese. Questa situazione favorisce lo sviluppo di domande, di riflessioni, che pongono sempre più chiaramente i bisogni di estensione della lotta, di unità e di solidarietà in seno al proletariato, che saranno le chiavi delle lotte future. Anche se i sindacati riescono oggi ad imporre, apparentemente con facilità, le loro manovre di sabotaggio, di divisione e di isolamento, essi sono destinati a discreditarsi sempre più apertamente agli occhi della classe operaia. E’ oggi che maturano le condizioni che permetteranno domani agli operai, nelle loro lotte, di discutere assieme, di radunarsi, di confrontare le loro esperienze, di organizzarsi da soli al di fuori dei sindacati e al di là delle frontiere nazionali.
Wim, 24 marzo 2007 (da Révolution Internationale n° 378)
1. Il giorno dopo Libération titolava il suo articolo “Radicalizzazione mai vista contro la direzione dell’Airbus: i salariati di tutti i paesi si sono uniti”
Dopo i molteplici forum sociali organizzati dagli altermondialisti in questi ultimi anni per affermare contro l’ideologia neoliberista “che un altro mondo è possibile”, l’associazione leader ATTAC ha prodotto un manifesto in vista delle elezioni in Francia. All’immagine dei sette peccati capitali della religione cattolica, ATTAC ha identificato “i sette pilastri del neo-liberismo che bisogna abbattere per costruire un mondo democratico, solidale ed ecologico”. Questo manifesto, forte di un centinaio di proposte, vuole essere uno “stimolo al dibattito pubblico”, un aiuto tra gli altri, “alle scelte che devono fare i cittadini”.
Il manifesto comincia col ricordare che “fin dalla sua fondazione nel 1998, ATTAC ha identificato le politiche neoliberiste condotte ovunque nel mondo, particolarmente in Europa ed in Francia (qualunque siano i governi) come la causa principale dell’aumento delle disuguaglianze, dello smembramento delle società a causa della disoccupazione e la precarietà, dell’insicurezza sociale, della proliferazione dei conflitti militari, ecc.”. Questo neo-liberismo che data dall'inizio degli anni 1980 sarebbe la causa essenziale di tutte le calamità vissute dall’umanità perché “i suoi metodi sono ben noti: mercificazione generalizzata, libertà d’azione dei padronati e degli investitori, estensione all'insieme del pianeta del terreno di caccia delle imprese transnazionali”. In altre parole, se si arriva a cacciare i predatori, quelli che detengono il capitale, si potrebbe arrivare “ad una mondializzazione solidale contro il libero scambio e la libera circolazione dei capitali”. Per attuare questo ATTAC propone una moltitudine di misure per regolare il commercio mondiale. Mettere l’OMC (Organizzazione Mondiale del Commercio) sotto il controllo dell'ONU, riformare il FMI, la banca mondiale, creare un’organizzazione mondiale dell’ambiente, controllare i cambi, tassare la circolazione dei capitali, controllare gli scambi di merci in modo equo, riabilitare le imposte dirette, ridurre le disuguaglianze con una misura “rivoluzionaria” che sarebbe “fissare un limite massimo di scarto tra la differenza dei redditi dei gestori delle imprese e quelli dei salariati meno rimunerati”. Contro la logica del profitto ed il regno della concorrenza, contro le politiche governative al servizio dei proprietari del capitale, il manifesto di ATTAC difende la necessità di preservare “beni pubblici mondiali e servizi pubblici” ed “oppone un principio fondatore di un nuovo mondo: i diritti degli esseri umani ed i diritti dei popoli, i diritti sociali, ecologici, economici, culturali, politici”. In altre parole, per il manifesto degli altermondialisti, non c'è crisi economica, ma semplicemente una cattiva politica che sta dalla parte dei profitti e che pensa solamente al potere del denaro. Se ci fosse un controllo da parte dei cittadini, che regola, riforma, tassa e se gli Stati conducessero buone politiche pubbliche e mettessero in atto i principi fondamentali della democrazia, allora tutto dovrebbe andare per il meglio.
Il profitto è il motore dello sfruttamento capitalista
Contrariamente ai deliri dei nostri cavalieri altermondialisti, accaniti oppositori del neo-liberismo, lo sfruttamento capitalista ed il processo di mercificazione per estrarre sempre più profitto non sono cominciati con il 1980. Il marxismo da oltre centocinquanta anni ha affermato che la corsa al profitto costituisce l’essenza stessa di questo sistema. Rosa Luxemburg sottolineava all’inizio dell’ultimo secolo e in continuità con il lavoro di Marx sul capitale: “Il modo di produzione capitalistico è dominato dall’interesse al profitto. Per ogni capitalista la produzione ha senso e scopo solo se gli permette, anno per anno, di riempirsi le tasche di un ‘utile netto’, del profitto… Ma la legge fondamentale della produzione capitalistica, che la distingue da ogni altra forma economica basata sullo sfruttamento, è non soltanto il profitto in moneta sonante, ma un profitto sempre crescente" (Un’Anticritica). Non c'è dunque niente di nuovo sotto il sole capitalista, contrariamente a ciò che vorrebbe fare credere ATTAC per meglio fare passare la sua putrida merce ideologica secondo la quale il capitalismo sarebbe riformabile. Bisogna essere chiari ed affermare che nessun cambiamento di politica economica potrà mai rimettere in causa lo sfruttamento capitalista e le malefatte crescenti che questo provoca su tutto il pianeta.
Ancora Rosa Luxemburg: “Il sistema di produzione capitalistico ha la particolarità che per esso il consumo umano, che nelle precedenti forme economiche era lo scopo, diventa solo mezzo, ai servizi del fine vero e proprio: l'accumulo di profitto capitalistico. L’autosviluppo del capitale appare principio e fine, scopo assoluto e senso di tutta la produzione…Lo scopo fondamentale di ogni forma sociale di produzione: il sostentamento della società attraverso il lavoro, la soddisfazione dei suoi bisogni, appare qui soltanto completamente posta a testa in giù, in quanto diventano legge su tutta la superficie della terra la produzione non per amore degli uomini ma del profitto, e regola il sottoconsumo, la costante incertezza del consumo e, periodicamente, il diretto non-consumo dell'enorme maggioranza degli uomini”. (Rosa Luxemburg, Introduzione all'economia politica).
È questa legge ferrea, questa logica immutabile che determina la natura del capitalismo. Di conseguenza chiedere ai capitalisti ed ai loro rispettivi Stati di ridistribuire equamente i profitti significa semplicemente chieder loro di suicidarsi!
Lo Stato esiste solo per difendere il capitalismo
Constatando l’aggravamento delle condizioni di vita e di lavoro è diventato la regola generale, ATTAC non manca né di proposte, né di soluzioni. Solo che nell’enumerazione di questi numerosi mezzi di cui bisognerebbe dotarsi per “cambiare il mondo”, in realtà non si trova che un elenco di misure a sostegno dello Stato. Misure, certo rivestite di sproloqui egualitari alla moda altermondialista, ma che, a parte un pio desiderio e le pacche amichevoli per il proletariato, non sono che una richiesta di più Stato. ATTAC vuole farci dimenticare che è lo Stato a reggere l’economia capitalista e ad essere il garante della macchina capitalista per realizzare profitto. ATTAC difende lo Stato come il non plus ultra per la lotta contro il profitto e per migliorare le sorti della popolazione e degli operai, mentre è proprio questo il principale artefice ed il direttore d'orchestra dei principali attacchi agli operai. Lo Stato non è un organo neutro al di sopra delle classi, o il garante della giustizia sociale. Al contrario, come scriveva già nel 19° secolo Engels “da sempre, lo scopo essenziale di quest'organismo è stato mantenere e garantire, attraverso la violenza armata, l’assoggettamento economico della maggioranza lavoratrice da parte della minoranza fortunata” (Lettera a Ph. Von Patten 18 aprile 1883, Editions 10/18).
ATTAC fustiga con lo stesso vigore le transnazionali (l’equivalente moderno di quelle multinazionali tanto screditate dalla “sinistra” negli anni 70 ed 80) ed il settore privato che si approprierebbero a proprio esclusivo beneficio della produzione a scapito del benessere della popolazione. Ostentando questi spaventapasseri ATTAC cerca di farci credere che il ruolo dello Stato sarebbe solo quello di ripartire equamente le ricchezze della nazione. Lo Stato sarebbe in qualche modo il garante del comunismo! Ma queste transnazionali non rappresentano esclusivamente gli interessi di capitali e di borghesi privati, non sono “senza nazionalità”. Il più delle volte si tratta di grandi imprese affiliate agli Stati più potenti, quando non sono veri e propri strumenti al servizio degli interessi commerciali, politici e militari di questi stessi Stati. Possono anche esserci delle divergenze tra gli Stati ed alcune di queste grandi imprese, ma questo non mette in discussione il fatto che esse devono agire in coerenza e nel senso della difesa dell’interesse nazionale e dello Stato dei paesi da cui dipendono. È lo Stato che regolamenta i prezzi, le convenzioni collettive, i tassi di esportazione, di produzione, ecc. E' lui che, attraverso la politica fiscale, monetaria, di credito, ecc., detta le condizioni del “libero mercato”, sia ai settori finanziari che produttivi. E’ ancora lo Stato e le sue più “rispettabili” istituzioni che per gestire l’agonia del sistema capitalista si trasformano in veri croupier di un’economia da casinò. Fin dalla fine degli anni 60, con la riapparizione della crisi economica, è lo Stato il responsabile dei grandi piani di licenziamenti nella siderurgia, nelle miniere, nei cantieri navali, nel settore dell’auto, operati in nome della ristrutturazione industriale, e l'emorragia continua oggi nell’aeronautica, l’automobile, le telecomunicazioni, ecc. E’ lo Stato che ha soppresso migliaia di impieghi nelle poste, nei trasporti negli ospedali, e continua nella funzione pubblica, nella scuola, ecc. E’ lui che riduce continuamente le pensioni sociali, favorisce la crescita della povertà, della precarietà, opera tagli nei bilanci sociali (alloggi, pensioni, salute, educazione). È lo Stato il principale responsabile dell’indigenza di migliaia di operai che si ritrovano senza una casa, a sopravvivere nelle strade. Volere opporre, come fa ATTAC, la gestione in salsa “liberale” che bisognerebbe “superare”, all’autoritarismo degli anni 70 ed al suo Stato “assistenziale”, significa inventare di sana pianta una realtà menzognera e volere cancellare la relazione indissolubile che esiste tra lo Stato ed il settore privato.
Le proposte “alternative” di questo manifesto altermondialista non rappresentano alcun pericolo per la classe dominante, perché esse non escono dal contesto della società capitalista. Costituiscono invece una cortina di fumo che nasconde l’unica prospettiva capace di mettere fine alla barbarie ed alla miseria: il capovolgimento del capitalismo moribondo attraverso la rivoluzione proletaria.
“Un altro mondo è possibile”, ripete ATTAC, ma quale mondo? Un mondo di “cittadini” e di “democrazia”, un mondo di “diritti degli esseri umani”, dei “popoli”, dei “lavoratori”, ecc. La storia dell’inferno capitalista è lastricata di buone intenzioni di questo tipo che hanno la funzione mascherare la realtà di questo mondo e far sperare che lo si potrebbe “cambiare”... ma senza toccare il sistema capitalista né distruggerlo. Come le nostre evolute borghesie che, tramite l’ONU e l’UNICEF, con una mano pubblicano una tonnellate di carte per i diritti dei bambini, delle donne nel mondo, ecc., e con l'altra bombardano, decimano, schiacciano, inquinano questo stesso mondo, ATTAC getta polvere negli occhi. È per questo ed unicamente per questo che esiste. A suo tempo, negli anni 80, Bernard Tapie decretò “il diritto al lavoro e l’interdizione della disoccupazione”. Il saltimbanco aveva fatto ridere davanti all’inanità del suo proposito. ATTAC di rivalsa, con un programma al fondo altrettanto sterile e senza prospettiva, si prende e pretende di essere presa più sul serio. I suoi ripetuti appelli alla “democrazia” sono la prova più tangibile di questa volontà di essere messa nel contesto delle organizzazioni “responsabili” agli occhi della borghesia. Tuttavia, poiché vuole arraffare un ampio consenso ed dare prova di questi suoi presunti valori “rivoluzionari”, ATTAC non esita ad impossessarsi di Marx per sabotare meglio il pensiero marxista. Così, ciliegia sulla torta avariata dell’altermondialismo, abbiamo questa frase del manifesto di ATTAC che dice: “si tratta di esplorare delle vie molteplici, dei campi disparati per rimettere fondamentalmente in causa il modello neoliberale attraverso un movimento reale che abolisce lo Stato di cose presenti” (sottolineato da noi). Questo è solamente un cattivo plagio, un’impostura che distorce quanto detto da Marx ne L’ideologia tedesca: “il comunismo non è un stato di cose che debba essere instaurato, un ideale al quale la realtà dovrà conformarsi. Chiamiamo comunismo il movimento reale che abolisce lo stato di cose presenti" (sottolineato da noi).
Ecco ciò che ben riassume cosa è ATTAC e la finalità del suo manifesto: falsificare la realtà del capitalismo moribondo ed illudere i giovani e gli operai che si pongono delle questioni su questa società, trascinandoli in un vicolo cieco e confondendo al massimo la loro coscienza sulla reale posta in gioco della situazione attuale.
Donald, 21 marzo 2007
(da Rèvolution Internationale n. 378)
Il trionfo strepitoso di Chavez che, alle elezioni del 3 dicembre 2006, ha ottenuto il 63% dei suffragi convalidati, contro il 37% per il candidato dell’opposizione, non solo consolida e legittima il potere della frazione chavista della borghesia per un periodo di 6 anni, ma rappresenta anche un trionfo per l’insieme della borghesia venezuelana. Infatti, ancora una volta, lo scontro politico tra le frazioni della borghesia che ha dominato la scena politica dopo l’arrivo di Chavez al potere nel 1999, è riuscito a polarizzare la popolazione ed a portarla a partecipare massicciamente alla battaglia elettorale: secondo le cifre del Consiglio Nazionale Elettorale (CNE), il tasso di astensione del 25% è stato il più basso dei livelli storici che erano dell’ordine del 40%.
La borghesia, con il ritorno sulla scena elettorale dei settori dell’opposizione (che si sono astenuti dal partecipare alle elezioni parlamentari del 2005) è riuscita a rianimare la mistificazione elettorale e democratica. Ma il migliore sostegno a questo obiettivo è stato dato dallo chavismo che ha polarizzato lo scontro sostenendo che il candidato dell’opposizione era il candidato del “diavolo Bush” e che se questo avesse vinto sarebbero state messe in pericolo le missioni (attraverso cui il governo applica la sua politica di “giustizia sociale”) e le conquiste della “rivoluzione”. In questo modo, il proletariato e le masse socialmente emarginate continuano ad essere prese nella trappola della polarizzazione inter-borghese ponendo le loro speranze in una frazione della borghesia che ha saputo sfruttare a suo favore una politica populista di sinistra orientata verso gli strati più poveri della società, e che è sostenuta dagli alti redditi petroliferi; questa non fa altro che gestire la precarietà, blaterando di un egualitarismo che serve a livellare verso il basso l’insieme della società, impoverisce i settori degli strati medi e rende ancora più poveri i lavoratori e gli strati emarginati. Questa è la ricetta del “socialismo del ventunesimo secolo” che lo chavismo esporta in Bolivia, in Ecuador ed in Nicaragua e che gli serve da cavallo di battaglia per rafforzarsi nella geopolitica della regione.
L’anti-americanismo “radicale” di Chavez, tanto applaudito dal movimento anti-globalizzazione, il sostegno ad altri governi di tendenza di sinistra come quelli in Bolivia, in Ecuador e in Nicaragua, l’aiuto a vari paesi della regione diminuendo il costo delle fatture petrolifere, sono l’espressione dell’uso del petrolio come arma di dominio nella regione, a scapito degli interessi della borghesia americana che considerava storicamente l’America latina come il suo orticello.
Che cosa c’è dietro il “sostegno di massa del popolo” a Chavez?
La frazione chavista della borghesia, diretta dai settori militari e civili di sinistra e di estrema sinistra, ha come base sociale il sostegno delle masse sfruttate, e principalmente quelle emarginate; masse alle quali si è dato l’illusione di poter superare la situazione di povertà… nel 2021!!
La grande intelligenza di questa frazione della borghesia sta nel presentarsi con origini popolari, dalla parte dei poveri. Questa condizione di “povera” le serve a presentarsi come vittima dei “tiri mancini della borghesia”, ma soprattutto dell’imperialismo americano, usato come minaccia esterna che impedirebbe alla “rivoluzione” di portare a termine i suoi piani per “uscire dalla povertà”.
Il governo di Chavez, a metà anno 2003, ha riorientato la spesa sociale creando le cosiddette “missioni”, piani sociali attraverso cui lo Stato distribuisce briciole alla popolazione con due obiettivi principali: mantenere la pace sociale e rafforzare il controllo sulle masse depauperate al fine di contrastare l’azione dei settori borghesi che cercano di destituire Chavez dal potere. Questa “spesa sociale” è stata accompagnata da una manipolazione ideologica senza precedenti, consistente nel presentare la politica di capitalismo di Stato dello chavismo come quella di uno Stato benefattore che distribuisce la ricchezza in modo “equo”, creando l’illusione nelle masse diseredate che le risorse dello Stato sono inesauribili, che si tratta solo di aprire il rubinetto dei petrodollari, e che settori della borghesia hanno un reale interesse ad occuparsi e risolvere i loro problemi.
In vista di vincere le elezioni presidenziali (in cui ha ottenuto 7 milioni di voti, mentre mirava ai 10 su di un totale di 16 milioni di elettori) Chavez ha concentrato il grosso della spesa pubblica sull’anno 2006: aumentando l’importazione di derrate alimentari durante i primi mesi dell’anno per venderle a prezzi sovvenzionati; inaugurando numerosi lavori pubblici di cui alcuni mai terminati decretando due aumenti del salario minimo per i lavoratori regolari (uno a maggio e l’altro a settembre); accelerando il processo di attribuzione delle pensioni di anzianità; pagando vecchi debiti ai lavoratori e aprendo le trattative sui contratti collettivi in scadenza, ecc. In fine, pochi giorni prima delle elezioni, sono stati pagati dei premi straordinari agli impiegati pubblici, ai pensionati ed ai membri delle “missioni”. Il governo ha concesso questo “grande festino”, grazie alla manna petrolifera, per creare un miraggio di prosperità nella popolazione. Queste spese, più di quelle provocate dall’aumento delle importazioni, l’acquisto di armamenti, gli “aiuti” ad altre nazioni, ecc., hanno provocato un incremento della spesa pubblica nel 2006 del 58% rispetto al 2005, ciò che equivale al 35% del PIL; una bomba a scoppio ritardato che si ripercuoterà prima o poi a livello di crisi economica.
Le “conquiste sociali” dello chavismo accentuano il depauperamento
Secondo la propaganda diffusa dallo chavismo a livello interno ed a scala internazionale (con il sostegno ed i consigli di dirigenti ed intellettuali di sinistra, e di eminenti dirigenti del movimento altermondialista) il Venezuela si starebbe orientando verso il superamento della povertà da qui al 2021.
Ma la realtà è ben altra. Basta andare nei quartieri poveri ad est (Tetare) ed a ovest (Catia) di Caracas, o nel centro stesso della città, per percepire la miseria reale che si nasconde dietro questa cortina di fumo: innumerevoli bisognosi, in maggioranza giovani, che vivono e dormono nelle strade, sotto i ponti e sulle rive del fiume Guaire (grande cloaca dove vanno a scaricarsi le acque reflue della città); vie e viali pieni di immondizie che hanno portato alla proliferazione di topi e malattie; giovani che si prostituiscono per sopravvivere; bambini abbandonati che vivono per strada; decine di migliaia di commercianti ambulanti (chiamati “buhoneros”) che vendono alcune derrate di sussistenza, ingrossano le fila della cosiddetta economia sommersa; una grande criminalità che ha fatto di Caracas una delle città più pericolose della regione e ha fatto del Venezuela il paese a più alto tasso di criminalità, superando quello della Colombia che per anni era stato il primo in quest’orribile classifica. A livello nazionale si registra un aumento di casi di malattie come la malaria e la dengue, della mortalità dei bambini e delle madri, ecc. Questo quadro non si limita a Caracas, la capitale, ma tocca anche le altri grandi città estendendosi progressivamente alle medie e piccole città. Sebbene il governo abbia preso delle misure per tentare di nascondere questa miseria, o l’abbia addebitata ai tiri mancini dell’opposizione o dell’imperialismo americano, le manifestazioni del depauperamento non possono essere occultate.
Le frazioni dell’opposizione, ipocritamente, criticano il governo per questa povertà, per presentarsi come la migliore possibilità di “difesa dei poveri”, mentre il loro vero interesse è riprendere il controllo dell’apparato di Stato. Intanto i mezzi di comunicazione del governo tacciono o minimizzano questa situazione che non è specifica delle città venezuelane, ma è il denominatore comune in altre città dei paesi della periferia del capitalismo.
Accanto a queste visibili espressioni di povertà, ve ne sono altre meno visibili che accentuano l’impoverimento delle masse proletarie: attraverso il cooperativismo stimolato dallo Stato, è stato formalizzato l’impiego precario poiché i lavoratori delle cooperative hanno meno redditi dei lavoratori regolari e, secondo le dichiarazioni dei sindacati e degli membri delle cooperative, non arrivano neanche al salario minimo ufficiale. La contrattazione sui contratti collettivi, soprattutto nel settore pubblico, ha subito ritardi enormi; gli aumenti salariali vengono accordati attraverso decreti specifici e nella loro grande maggioranza attraverso premi che non vanno ad incidere sui benefici sociali e se vengono pagati, lo sono con ritardi enormi. Attraverso le “missioni” ed altri piani del governo sono stati creati degli organi di servizi paralleli a quelli che esistono formalmente nei settori della salute e dell’educazione, e che sono stati utilizzati anche per mettere sotto pressione i lavoratori regolari e deteriorare le loro condizioni di lavoro. Come vediamo, la precarietà, la flessibilità del lavoro e gli attacchi ai salari dei lavoratori, propri del capitalismo selvaggio, sono inevitabili per ogni borghesia, anche la più “anti-neoliberista”, come pretende di essere la borghesia chavista.
I salariati e le masse emarginate pagano il prezzo dell’incessante spesa pubblica che la “nuova” borghesia chavista vuole consolidare attraverso un tasso di inflazione elevata che, in questi ultimi tre mesi, è stata la più importante dell’America latina (2004: il 19,2%; 2005: il 14,4%; 2006: il 17%, secondo le cifre ufficiali). Quest’aumento, provocato fondamentalmente dalla politica economica dello Stato, ha deteriorato le condizioni di vita dell’insieme della popolazione, soprattutto delle masse povere che impiegano il 70% o più dei loro redditi per l’acquisto di cibo, settore in cui l’inflazione cumulata nel periodo segnalato è stata del 152% (il 26% nel 2006) secondo le cifre della banca Centrale del Venezuela. Le stime per il 2007 non sono certo più allegre, poiché ci si aspetta un’inflazione superiore al 20%; quella di gennaio 2007 è stata del 2%, tasso più importante della regione.
Con il trionfo elettorale, lo chavismo ha il via libera per portare avanti i suoi attacchi contro i lavoratori
Alcuni giorni dopo le elezioni, il governo ha accelerato un insieme di misure per rafforzare il suo progetto di “socialismo del 21° secolo”, spiegando che con le elezioni il “popolo” aveva dato il suo sostegno a questo progetto.
La prima cosa che ha fatto è stata mostrare i sui muscoli ai settori borghesi avversari tanto nell’ambito nazionale che a livello internazionale, annunciando una serie di misure di nazionalizzazione in differenti settori dell’economia (telecomunicazioni, mezzi audiovisivi, energia, ecc.), un controllo maggioritario dello sfruttamento petrolifero, finora nelle mani delle multinazionali, ed un aumento del carico fiscale. Queste misure mostrano l’obiettivo principale della borghesia chavista: avere un migliore controllo dell’apparato economico nazionale attraverso misure radicali di capitalismo di Stato.
La borghesia sa che prima o poi la crisi si farà sentire, anche a causa dell’eccessiva spesa pubblica necessaria ad un modello politico come lo chavismo. Perciò, i pretesi “motori della rivoluzione bolivariana” annunciano in generale misure di maggiore controllo politico e sociale contro i lavoratori e la popolazione attraverso il preteso “Potere Popolare” ed i Consigli della Comunità.
Mentre annunciava il rafforzamento di questi organi di controllo sociale, il governo metteva avanti le misure contro le condizioni di vita dei lavoratori e della popolazione:
• misure di controllo e di repressione contro i venditori ambulanti della capitale, e che vanno ad estendersi al resto del paese;
• aumento del prezzo della benzina;
• una tendenza ad abbandonare delle “missioni” (come quella della distribuzione di alimenti e delle cure mediche) che ha provocato la chiusura di parecchie installazioni ed una riduzione dei prodotti di prima necessità con i prezzi fissati dallo Stato. Il governo furbamente ha accusato i settori del capitale privato di essere responsabili di questa situazione, mentre questa è il risultato delle misure del governo;
• è stata proclamata una lotta contro la burocrazia e la corruzione. In questo senso, Chavez ha chiesto di ridurre i grossi stipendi degli alti burocrati dello Stato (che, in certi casi, sono fino a 50 volte superiori al salario minimo ufficiale). Si tratta di una misura diversiva, poiché lo stesso chavismo ha conquistato la fedeltà degli alti burocrati dello Stato e dell’esercito concedendo loro stipendi plurimilionari e permettendo loro una gestione “discreta” delle risorse dello Stato. Il vero obiettivo di questa misura è attaccare solamente i piccoli burocrati, e cioè gli impiegati pubblici precarizzandoli (per esempio obbligandoli a formare delle cooperative) ed anche licenziandoli.
Il governo, dall’alto della sua grande popolarità, sta mostrando il suo vero volto di governo borghese: dopo avere utilizzato i lavoratori e gli strati emarginati nelle elezioni, adesso annuncia misure di austerità e di repressione.
Di fronte a questa situazione, i lavoratori in Venezuela, come nel resto del mondo, possono solo sviluppare la propria lotta contro gli attacchi incessanti del capitale. Sappiamo che questa lotta non sarà facile, in parte anche per le confusioni introdotte dall’ideologia chavista che ha indebolito e manipolato l’idea stessa di socialismo, che resta invece quella del superamento del regno della precarietà attraverso la lotta rivoluzionaria del proletariato.
CCI, 18 febbraio 2007
Esattamente 80 anni fa, nel marzo 1927, gli operai di Shanghai si sollevarono in un'insurrezione trionfante e presero il controllo della città mentre l’insieme della Cina era in fermento. In aprile, quest'insurrezione fu totalmente sbaragliata dalle forze del Kuomintang, partito nazionalista diretto da Tchang Kai-Chek, che il Partito comunista cinese (PCC) aveva elevato al rango di eroe della “rivoluzione nazionale” cinese.
Ultimi soprassalti della grande ondata rivoluzionaria che era iniziata nel 1917 in Russia, la sconfitta delle lotte proletarie in Cina dal 1925 al 1927, come quelle del proletariato tedesco nel 1921 e 1923, ha accentuato l'isolamento internazionale della Russia rivoluzionaria ed accelerato così il movimento verso un lungo periodo di controrivoluzione.
Dopo il 1924, la frazione stalinista, impadronitasi progressivamente della Russia, contribuì notevolmente allo schiacciamento dell’insurrezione cinese. Ma anche prima di questa data, la politica dei bolscevichi in Cina aveva già prodotto i semi delle future sconfitte. Nel 1922, il rappresentante del Comintern in Cina, H. Maring (alias Sneevliet) aveva posto, dopo discussioni amichevoli con Sun-Yat-Sen, le basi di un’alleanza tra il PCC ed il Kuomintang. Lo scopo era di fare una sorta di “fronte unito anti-imperialista” per la liberazione nazionale della Cina nel quale il primo problema era lottare contro i signori della guerra che controllavano grandi parti della Cina, specialmente al Nord. L’alleanza prevedeva che i militanti del PCC avrebbero dovuto aderire individualmente al Kuomintang, pur mantenendo un’autonomia politica nominale in quanto partito. In pratica, ciò significava la totale sottomissione del PCC agli obiettivi del Kuomintang.
Il periodo rivoluzionario (1925-1927)
Il 30 maggio 1925, gli operai e gli studenti manifestarono a Shangai in solidarietà con lo sciopero in una fabbrica di cotone che apparteneva al Giappone. La polizia municipale, diretta dalla Gran Bretagna, sparò sui manifestanti, facendo 12 vittime. La risposta operaia fu immediata. In due settimane, Shanghai, Canton e Hong Kong furono paralizzate da uno sciopero generale. A Shangai, lo sciopero era condotto dall’Unione Generale del Lavoro dominata dal PC. Ma a Canton ed Hong Kong, l’organizzazione dello sciopero fu assunta da un soviet embrionale, la “Conferenza dei delegati degli scioperanti”. Sostenuta da 250.000 operai che elessero un delegato per ogni 50 operai, la Conferenza mise in piedi 2000 picchetti di scioperanti controllando gli ospedali, le scuole e l’amministrazione della giustizia.
La risposta delle potenze imperialiste fu, come ci si poteva aspettare, isterica.
Ma questa forte conferma della mobilitazione del proletariato ebbe anche un effetto significativo sulla “borghesia nazionalista” organizzata in seno al Kuomintang. Questo partito era sempre stato un’alleanza torbida di industriali, di militari, di studenti ed idealisti piccolo-borghesi. In effetti tutti gli strati della borghesia vi erano rappresentati, salvo quelli più legati ai proprietari terrieri ed ai signori della guerra, (la maggior parte di questi ultimi avrebbero d’altra parte raggiunto in seguito il Kuomintang quando il vento si sarebbe girato a loro sfavore)... Sotto la guida di Sun-Yat-Sen, il Kuomintang inizialmente pensò di servirsi di un’alleanza con il PCC, perché quest’ultimo aveva la forza di mobilitare il proletariato urbano, in favore della “rivoluzione nazionale”. Finché le lotte operaie furono dirette contro le compagnie straniere ed il dominio imperialista dello straniero, la borghesia del paese fu pronta a sostenerle. Ma quando gli scioperi cominciarono ad estendersi alle fabbriche nazionali, questa stessa borghesia cinese scoprì che gli operai si davano ad “eccessi stupidi” e che “una cosa era utilizzare gli operai… ma un’altra completamente diversa era lasciarli mordere più di quanto potessero masticare” (dalla Rivista cinese settimanale, marzo ed aprile 1926, nel libro di H. Isaacs, La Tragedia della Rivoluzione cinese). Velocemente, i capitalisti cinesi appresero che avevano molte più cose in comune con gli “imperialisti stranieri” che non con i “loro” operai.
Questi avvenimenti provocarono una rottura in seno al Kuomintang, tra un’ala sinistra ed un’ala destra. La destra rappresentava gli interessi dell’alta borghesia che voleva mettere fine alla lotta operaia, sbarazzarsi dei comunisti ed arrivare ad un compromesso con gli imperialismi maggiori. La sinistra, principalmente animata da intellettuali e ranghi subalterni dell’esercito, voleva mantenere l’alleanza con la Russia ed il PCC. Non fu per caso se il principale macellaio del proletariato cinese, il generale Tchang Kai-Chek, si propose come rappresentante della sinistra. In effetti, Tchang, sebbene abbia sempre agito per soddisfare la sua insaziabile ambizione personale, simboleggiava l’insieme del gioco condotto dalla borghesia cinese in questo periodo. Da un lato, adulava il regime sovietico e faceva dei discorsi infiammati in favore della rivoluzione mondiale. Dall’altro, moltiplicava segretamente gli accordi con le forze reazionarie. Come i nuovi dirigenti della Russia, si preparava ad utilizzare la classe operaia cinese come una forza di sfondamento contro i suoi nemici immediati, mentre invece si preparava a sopprimere sistematicamente ogni “eccesso” (cioè ogni segno di lotta autonoma della classe operaia).
Nel marzo 1926, Tchang scatenò la sua prima offensiva vigorosa contro il proletariato di Canton. I comunisti ed altri militanti della classe operaia furono arrestati ed i quartieri generali dei comitati di sciopero di Canton-Hong Kong attaccati. Lo sciopero, che durava da mesi, fu velocemente spezzato dalla forza improvvisa della repressione. La risposta dell’IC a questo cambiamento brutale nella posizione di Tchang fu il silenzio, o piuttosto la negazione di ogni repressione contro la classe operaia cinese.
Tchang aveva organizzato il suo colpo militare a Canton come preliminare ad una spedizione chiave contro i signori della guerra del Nord, ma anche come prima tappa verso gli avvenimenti sanguinosi di Shangai. Le truppe di Tchang effettuarono spettacolari avanzate contro i militari nordisti, grazie soprattutto alle ondate di scioperi operai e rivolte contadine che contribuirono nelle retrovie a disperdere le forze del Nord. Il proletariato ed i contadini poveri si battevano contro le loro orribili condizioni di vita con l’illusione che un Kuomintang vittorioso avrebbe migliorato materialmente la loro sorte. Il partito comunista, lungi dal lottare contro queste illusioni, le rafforzava al massimo, non solo per chiamare gli operai a battersi per la vittoria del Kuomintang, ma anche per frenare gli scioperi operai e le requisizioni di terra da parte dei contadini quando minacciavano di andare troppo oltre.
Mentre il PCC e l’IC lavoravano per impedire gli “eccessi” della lotta di classe, Tchang si sforzava di piegare le stesse forze proletarie e contadine che avevano permesso le sue vittorie. Dopo aver vietato ogni rivendicazione operaia per tutto il tempo che durò la campagna del Nord, represse i movimenti operai di Canton, Kiangsi, e di altre città via via che avanzava. Nella provincia di Kwantung, il movimento contadino contro i signori della guerra fu schiacciato violentemente. La tragedia di Shanghai fu solamente il punto culminante di questo processo.
Lo schiacciamento dell'insurrezione di Shangai e la politica criminale del Comintern
Shangai, con i suoi porti e le sue industrie, conteneva il fior fiore del proletariato cinese. Allora era sotto il controllo dei signori della guerra. Mentre l’esercito del Kuomintang avanzava verso la città, l’Unione Generale del Lavoro (GLU-Sindacato Generale del Lavoro) diretto dal PCC, pubblicò un appello allo sciopero generale per rovesciare la cricca dirigente e “sostenere l’esercito della spedizione del Nord” e “salutare Tchang Kaï-Chek”. Questo primo tentativo fu brutalmente battuto dopo duri combattimenti di strada. Le autorità della città stabilirono un regno di terrore contro la popolazione operaia, ma lo stato d’animo combattivo di questa restava intatto. Il 21 marzo, gli operai si sollevarono di nuovo, questa volta meglio organizzati, con una milizia forte di 5000 operai, mentre tra i 500.000 e gli 800.000 operai parteciparono attivamente allo sciopero generale ed all’insurrezione. Gli uffici di polizia e le guarnigioni furono presi d’assalto e le armi distribuite agli operai. Il mattino seguente, tutta la città era nelle mani del proletariato.
Seguì un periodo minaccioso. Tchang arrivò alle porte di Shangai e, avendo di fronte una classe operaia armata e in pieno sollevamento, si mise immediatamente in contatto con i capitalisti locali, gli imperialisti e le gang criminali per preparare la repressione, proprio come aveva fatto in tutte le altre città “liberate”. E di nuovo, mentre le intenzioni di Tchang erano più che chiare, l’IC ed il PCC continuavano a consigliare agli operai di fidarsi dell’esercito nazionale ed augurare il benvenuto a Tchang in quanto “liberatore”. Tuttavia, il ricordo della repressione esercitata da questo aveva allertato una minoranza di rivoluzionari sulla necessità per la classe operaia di prepararsi a combatterlo alla stessa stregua dei signori della guerra. In Russia, Trotsky esigeva la formazione di soviet di operai, di contadini e di soldati come base per una lotta armata contro Tchang e per stabilire la dittatura del proletariato. In Cina, un gruppo dissidente di rappresentanti dell’IC, Albrecht, Nassonov e Fokkin, presero una posizione identica. In seno allo stesso PCC, la pressione saliva per una rottura con il Kuomintang. Ma la direzione del partito restava fedele alla linea dell’IC stalinizzata. Piuttosto che spingere alla formazione di soviet, il PCC organizzò un “governo municipale provvisorio” in cui si installò in minoranza a fianco della borghesia locale. Piuttosto che mettere sull’avviso gli operai sulle intenzioni di Tchang, il PCC accolse a braccia aperte le sue forze nella città. Piuttosto che accentuare la lotta di classe, solo mezzo valido di difesa e di attacco per il proletariato, il GLU si oppose alle azioni di scioperi spontanei e si adoperò per restringere il potere dei picchetti operai armati che avevano il controllo effettivo delle strade. Tchang poté così preparare accuratamente il suo contrattacco. Il 12 aprile, quando lanciò i suoi mercenari e le sue bande criminali (la maggior parte dei quali vestiti da “operai”, come rappresentanti dei sindacati “moderati” formati di recente, l’Alleanza Sindacale degli Operai) gli operai furono presi di sorpresa. Malgrado la coraggiosa resistenza degli operai, Tchang ristabilì vigorosamente “l’ordine” con un bagno di sangue in cui si vedevano operai venire decapiti in piena strada. La colonna vertebrale della classe operaia cinese era stata spezzata.
Qualche tempo dopo questa tragedia, Stalin ed i suoi uomini ammisero che la rivoluzione era fallita davanti “all’ostacolo”, pur insistendo sul fatto che la politica perseguita dal PCC e l’IC era stata corretta!
Le sconfitte del 1927 hanno lastricato la strada di un nuovo massacro della classe operaia che, dopo la sconfitta del tentativo rivoluzionario a livello mondiale, aprono la via verso un’altra carneficina imperialista mondiale. In tutti questi conflitti, il PCC si è mostrato come un servitore fedele del capitale nazionale, mobilitando le masse per la guerra contro il Giappone negli anni 1930 e poi nella guerra mondiale del 1939-45. Guadagnava così la sua legittimità a diventare il padrone dello Stato capitalista dopo il 1949 ed il capo becchino della classe operaia cinese.
Il proletariato cinese, come l’insieme del proletariato mondiale, pagava la sua immaturità e le sue illusioni a caro prezzo. La politica criminale e disastrosa del PCC fu in parte il riflesso del fatto che la classe operaia cinese nel suo insieme non aveva potuto guadagnare l’esperienza necessaria per rompere con lo strangolamento ideologico del Kuomintang e del nazionalismo. Non si è potuta affermare neanche come classe autonoma chiamata a giocare un ruolo storico particolare e determinante con i suoi scopi rivoluzionari, né dotarsi degli organi politici ed unitari necessari per compiere questo compito: i consigli operai ed un’avanguardia rivoluzionaria. Ma, in ultima analisi, la sorte della Rivoluzione cinese era stata già decisa nelle vie di Pietrogrado, di Berlino, di Budapest e di Torino. L’insuccesso della rivoluzione mondiale non poteva che lasciare gli operai cinesi nell’isolamento e nella confusione.
Le loro lotte massicce e spontanee, estremi sussulti del proletariato mondiale, poterono così essere deviate su un campo borghese ed alla fine schiacciate.
CDW
(da Revolution Internazionale n° 377)
Frederick Engels ha predetto più di un secolo fa che il capitalismo, se lasciato libero di agire, avrebbe trascinato la società umana nella barbarie. Lo sviluppo della guerra imperialista durante gli ultimi cento anni ha dimostrato che questa orrenda previsione può realizzarsi. Oggi, il mondo capitalista offre un’altra via per l’apocalisse: il collasso ecologico, che potrebbe rendere la terra inospitale alla vita umana come lo è Marte. Malgrado i difensori dell’ordine capitalista riconoscano che questa è la prospettiva, non c’è nulla di efficace che possano fare per cambiare le cose, perché sia la guerra imperialista che lo scombussolamento del clima sono stati determinati dalla perpetuazione del loro morente modo di produzione.
Guerra imperialista = barbarie
Il fallimento della sanguinosa invasione dell’Iraq nel 2003 da parte della “coalizione” capeggiata dagli Stati Uniti segna un momento decisivo dello sviluppo della guerra imperialista verso la distruzione stessa della società. Dopo quattro anni l’Iraq, invece di essere liberata, è stata trasformata in quello che i giornalisti borghesi chiamano una “società spezzata”. E la situazione in Iraq, così come quella in Libano, in Palestina non sono che parti di un processo di disgregazione che minaccia di inghiottire nuove zone del globo, non escluso le metropoli centrali del capitalismo. Lungi dal creare un “nuovo ordine” in Medio Oriente, la presenza militare degli Stati Uniti ha generato solo più caos.
In un certo senso questa carneficina di massa non è nuova. La Prima Guerra Mondiale del 1914-18 è stata la prima micidiale tappa verso un futuro di barbarie. Con la sconfitta della Rivoluzione dell’ottobre 1917 e delle insurrezioni operaie che ha ispirato nel resto del mondo negli anni 20, si apre la via alla catastrofe del conflitto generalizzato con la Seconda Guerra Mondiale del 1939-45. I civili indifesi delle maggiori città diventano l’obiettivo principale dello sterminio di massa sistematico dei bombardamenti e il genocidio di migliaia e migliaia di esseri umani si attesta nel cuore della civile Europa.
Poi la “Guerra fredda” dal 1947all’89 produce una serie di carneficine altrettanto distruttive in Corea, nel Vietnam, in Cambogia e da un capo all’altro dell’Africa, mentre c’è la minaccia continua di un olocausto nucleare globale fra gli USA e l’URSS.
Quello che c’è di nuovo nella guerra imperialista oggi è che la possibilità della fine dell’insieme della società umana a causa di tale guerra appare ora più chiaramente. Con tutta la loro brutalità e le loro lacerazioni, le guerre mondiali del secolo scorso potevano ancora aprire dei periodi di relativa stabilità. Al contrario, tutti i focolai di guerra della situazione attuale non offrono alcuna prospettiva se non un ulteriore aumento della frammentazione sociale a tutti i livelli, del caos senza fine.
Il deterioramento della biosfera
Mentre rafforza la tendenza imperialista verso una barbarie sempre più evidente, il capitalismo in decomposizione accelera i suoi attacchi contro la biosfera con una ferocia tale da determinare un olocausto climatico che potrebbe anche spazzar via la civiltà umana e la stessa vita sulla terra. Dal rapporto della Commissione Intergovernativa sul Cambiamento Climatico del febbraio 2007 e dallo stesso recente G8, risulta chiaro che la teoria sul surriscaldamento del pianeta dovuto all’accumulazione di elevati livelli di anidride carbonica nell’atmosfera prodotti dalla combustione su larga scala di combustibili fossili, non è più solo un’ipotesi ma una teoria “molto probabile”. Le conseguenze di questo riscaldamento del pianeta prodotto dall’attività umana stanno già iniziando a manifestarsi in maniera allarmante: il cambiamento del tempo ha portato sia alla siccità che a ripetute inondazioni su larga scala, a ondate di caldo mortali nel Nord Europa ed a condizioni climatiche estreme letali per l’agricoltura, il che aumenta rapidamente la carestia, le malattie e gli esodi nel terzo mondo. Naturalmente il capitalismo non può essere incolpato per aver iniziato a bruciare combustibili fossili o per l’azione sull’ambiente di altri modi di produzione con conseguenze impreviste e dannose. Ciò sta accendendo dall'alba della civilizzazione umana.
Il capitalismo è tuttavia responsabile dell’enorme accelerazione del processo di distruzione ambientale. Questo è il risultato della ricerca forsennata di profitto del capitalismo e la conseguente negligenza per i bisogni umani e dell’ambiente, tranne laddove questi coincidano con l’obiettivo di accumulare ricchezza. L’intrinseca competitività fra i capitalisti, in particolare fra gli Stati nazionali, impedisce ogni cooperazione reale a livello mondiale.
Da parte della borghesia solo chiacchiere
I partiti politici della borghesia in tutti i paesi stano virando nelle varie tonalità di verde. Ma le eco-politiche di questi partiti, per quanto radicali possano apparire, nascondono deliberatamente la serietà del problema perché l’unica soluzione ad esso minaccia il sistema stesso di cui questi sono espressione. Il massimo che sanno dire i governi è che “la salvaguardia del pianeta è responsabilità di ognuno di noi”, quando in realtà la stragrande maggioranza degli uomini è privata di ogni potere politico e economico, di ogni controllo sulla produzione ed il consumo, su cosa e come si produce. E la borghesia, che invece ha pieno potere in queste decisioni, riesce sempre meno a soddisfare i bisogni umani e dell’ambiente per salvaguardare il profitto.
Basta guardare i risultati delle precedenti politiche dei governi per ridurre le emissioni dell’anidride carbonica per constatare la completa inefficacia degli Stati capitalisti. Anziché una stabilizzazione delle emissioni di gas serra ai livelli degli anni 90 entro il 2000, sulla quale si erano modestamente impegnati i firmatari del Protocollo di Kyoto nel 1995, alla fine del secolo c’è stato un aumento del 10,1% nei maggiori paesi industrializzati ed è previsto che ci sarà un aumentato del 25,3% entro il 2010.
C’è chi, riconoscendo che il profitto è un potente disincentivo ad un’efficace limitazione dell’inquinamento, crede che il problema possa essere risolto sostituendo le politiche liberali con soluzioni statali ben organizzate. Ma è chiaro, soprattutto a livello internazionale, che gli Stati capitalisti sono incapaci di cooperare su questo problema, perché ciascuno di loro dovrebbe farsi carico dei conseguenti costi economici. Il capitalismo è concorrenza ed oggi più che mai è dominato dalla regola del “tutti contro tutti”.
Per i proletari non tutto è perso, hanno ancora un mondo da conquistare
Sarebbe tuttavia sbagliato rassegnarsi e pensare che la società umana deve necessariamente cadere nell’oblio a causa di queste forti tendenze - di imperialismo e distruzione ambientale - verso una barbarie crescente. Il fatalismo di fronte all’inconsistenza di tutte le mezze misure capitaliste proposte per portare la pace e l’armonia con la natura è sbagliato quanto il credere in queste cure cosmetiche.
La società capitalista, così come ha sacrificato tutto all’ottenimento del profitto ed alla concorrenza, ha anche involontariamente prodotto gli elementi per la propria distruzione come sistema di sfruttamento. Ha generato i potenziali mezzi tecnologici e culturali per un sistema di produzione mondiale unificato e pianificato adattato ai bisogni degli esseri umani e della natura. Ha prodotto una classe, il proletariato, che non ha bisogno di pregiudizi nazionali o competitivi, ma ha tutto l’interesse a sviluppare la solidarietà internazionale. La classe operaia non ha interesse nel rapace desiderio di profitto. In altre parole il capitalismo ha posto le basi per un più elevato ordine sociale, per la sua sostituzione con il socialismo. Il capitalismo sta mostrandosi capace di distruggere la società umana, ma al tempo stesso ha generato il proprio affossatore, la classe operaia, che può preservare la società umana e elevarla a nuovi livelli.
Il capitalismo ha prodotto conoscenze scientifiche tali da identificare e misurare i gas invisibili come l’anidride carbonica sia nell’atmosfera attuale che nell’atmosfera di 10.000 anni fa. Gli scienziati possono identificare gli isotopi specifici dell’anidride carbonica che risultano dalla combustione dei combustibili fossili. La Comunità scientifica ha potuto testare e verificare l’ipotesi dell’effetto della serra. Tuttavia è finita da tempo l’epoca in cui il capitalismo, in quanto sistema sociale, poteva usare il metodo scientifico ed i suoi risultati a favore dell'’evoluzione dell’essere umano. L’insieme della ricerca e delle scoperte scientifiche sono oggi rivolte alla distruzione; all’elaborazione di sempre più sofisticati metodi di sterminio di massa. Soltanto un nuovo ordine sociale, una società comunista, può mettere la scienza al servizio di umanità.
Malgrado i 100 anni di declino del capitalismo e le severe sconfitte per la classe operaia, queste basi per la costruzione di una società nuova sono ancora intatte.
La ripresa del proletariato mondiale dal 1968 lo dimostra. Lo sviluppo della lotta di classe contro la pressione costante sulle condizioni di vita dei proletari nelle decadi successive ha impedito la barbara soluzione prospettata dalla “guerra fredda”: una terza guerra mondiale. Dal 1989 tuttavia e con la scomparsa dei blocchi imperialisti, la posizione difensiva della classe operaia non ha potuto impedire la successione di orribili guerre locali che minacciano di svilupparsi in una spirale senza controllo, estendendosi in un numero crescente di parti del pianeta. Nella fase attuale, di decomposizione del capitalismo, il tempo non gioca a favore del proletariato, specialmente perché c’è la pressione di una catastrofe ecologica che va aggiunta nell’equazione storica.
Dal 2003 la classe operaia ha ripreso la via della lotta con rinnovato vigore dopo il crollo del Blocco dell’Est che determinò un provvisorio arresto della ripresa iniziata nel 1968.
In queste condizioni di sviluppo della fiducia della classe in se stessa, l’incremento dei pericoli derivanti dalla guerra imperialista e dalla catastrofe ambientale, invece di indurre un sentimento di impotenza e di fatalismo, possono condurre ad una riflessione politica maggiore sulla posta in gioco nella situazione mondiale e sulla necessità di un rovesciamento rivoluzionario della società capitalista.
Como 5/5/7
(da World Revolution n°304)
La tragedia si è consumata veloce e profonda nel giro di pochi giorni. I motivi di tensione esistenti tra le due diverse frazioni della dirigenza palestinese facenti capo ad Hamas e ad Al Fatah rispettivamente erano diversi. Entrambi espressione del riscatto di una nazione palestinese contro l’eterno nemico israeliano, hanno espresso nel tempo questa ambizione di rivalsa con modalità diverse e concretamente opposte. Al Fatah esprimendo il versante ragionevole e collaborativo, Hamas esprimendo viceversa il versante oltranzista, carico anche di un forte fanatismo religioso. Le elezioni parlamentari dello scorso anno e la vittoria schiacciante di Hamas, che ha preso il pieno controllo del parlamento, con un presidente dell’Autorità Palestinese, Abu Mazen, che resta un moderato, hanno solo finito per produrre gli ingredienti per l’atto finale. Dopo una serie di scontri interni tra le due fazioni, alla fine si è arrivati ad una vera e propria resa dei conti, con uno scontro armato che ha portato alla presa del potere da parte di Hamas della striscia di Gaza mentre, per contromisura, il presidente Abu Mazen ha sciolto il precedente governo di coalizione e, dopo aver dichiarato lo stato di emergenza, ha messo su un nuovo governo “di emergenza” senza neanche l’avallo del parlamento (che non glielo darebbe data la sua composizione), profittando appunto dello stato di emergenza. Ma come si è arrivati a tanto?
La Palestina, cassa di risonanza di tutte le tensioni imperialiste
E’ dai tempi della guerra fredda che gli Usa utilizzano Israele come avamposto militare per controllare e tenere a bada i paesi arabi e tutta l’area mediorientale. E’ ugualmente dalla stessa epoca che la questione palestinese è stata invocata e propugnata da tutti i sedicenti liberatori di popoli, dagli ex paesi stalinisti fino ai vari partiti e movimenti di sinistra che hanno portato avanti l’illusione che per risolvere - o per lo meno lenire - le sofferenze di quel popolo occorresse arrivare all’edificazione di un suo stato. Di fatto gli uni come gli altri si sono serviti delle sofferenze di questi due popoli, entrambi particolarmente provati dalle traversie della storia, per metterli gli uni contro gli altri e per portare avanti la loro politica. Così lo sfascio che oggi possiamo osservare in Palestina è solo in minima parte attribuibile ai rancori antichi esistenti tra le diverse comunità sciite e sunnite e molto più il risultato dei giochi imperialisti che le varie potenze, grandi e meno grandi, hanno svolto e stanno svolgendo tuttora in quest’area. Giusto per ricordare qualche elemento che ha sicuramente concorso a caricare lo scontro tra le due frazioni, possiamo citare come Israele abbia in tutta una fase favorito lo sviluppo di Hamas ai danni di Al Fatah sperando così di ottenere proprio quello a cui siamo arrivati oggi, la perdita di credibilità dell’autorità palestinese e lo scontro tra le due frazioni:
“Quanto ad Hamas, chi conosce le vicende della Palestina occupata sa bene quanta parte abbiano avuto gli israeliani nell’insediamento degli islamisti a Gaza e in Cisgiordania. Come nella seconda metà degli Ottanta fossero visti, da Ariel Sharon in particolare, quali utili contendenti dell’Olp di Arafat. Come ne vennero favorite la crescita e le attività, così da produrre due risultati: uno certo, l’indebolimento dell’Olp, e un altro auspicabile, lo scontro interno tra le due fazioni” (La Repubblica, 14/06/07).
Nello stesso senso possiamo ricordare come l’assedio posto da Israele al quartiere generale del capo dell’Olp Arafat a Ramallah e durato un anno e mezzo e, più recentemente, la sospensione degli aiuti e dei finanziamenti all’autorità palestinese da parte di Usa e UE dopo la formazione del primo governo di Hamas, abbiano giocato entrambi a discreditare la componente moderata della borghesia palestinese, dando vigore alla sua ala estremista di Hamas.
Solo che oggi la situazione di frattura che si è creata in Palestina rischia di sfuggire di mano anche a coloro che in tempi lontani l’hanno innescata e può produrre una instabilità in tutta l’area di cui possono profittare soprattutto quelle potenze emergenti, Iran, Siria tra le principali, che partendo da una situazione di debolezza non possono che guadagnare da qualunque situazione in movimento. E’ per questo che la situazione palestinese costituisce un elemento di grande preoccupazione per le borghesie dei paesi dominanti, Usa in testa, e non è un caso che in seguito alla situazione che si è creata siano stati ripristinati con urgenza i finanziamenti all’autorità palestinese, proprio per dare forza a credibilità all’unica forza politica che in questo momento ha, almeno sulla carta, qualche vaga speranza di recuperare la situazione.
La Palestina, inferno dell’umanità
In tutto questo c’è da chiedersi come stanno e che dicono le popolazioni che vivono nei territori palestinesi. Purtroppo, se prima stavano male, adesso non possono che stare ancora peggio. Infatti la popolazione palestinese, già sottoposta alla doppia autorità dello stato palestinese e di quello israeliano, oggi addirittura si vede contesa tra due diversi governi che si reclamano entrambi il suo legittimo rappresentante, con atti di reciproche vendette e controvendette per i “traditori”, ovvero per quelli che incappano nelle maglie degli uni o degli altri carnefici, come è stato il caso di un miliziano di Al Fatah che è stato gettato da un palazzo di 18 piani dai guerriglieri di Hamas. Naturalmente poco dopo è stato reso lo stesso sporco servizio dai “moderati” di Al Fatah che non hanno esitato a sottoporre allo stesso tipo di supplizio un combattente di Hamas. Questo tipo di esecuzioni sono del tutto consuete nei ranghi delle milizie e del popolo palestinesi, oggi “giustificate” dallo scontro tra fazioni, ieri semplicemente alimentate dal sospetto di non essere del tutto fedeli alla causa palestinese e di avere delle simpatie per Israele. In altri termini lo stesso pacifismo, in Palestina, può essere visto come elemento di tradimento e giudicato passibile di esecuzione capitale. E’ questa la cultura di libertà che porta dentro il popolo palestinese? E’ la guerra civile il risultato degli sforzi di un popolo che da decenni si batte per uno stato proprio? In realtà, se siamo arrivati a questo, non è perché “il popolo” palestinese abbia delle cattive qualità, non abbia la capacità di esprimere una cultura della libertà, ecc., ma perché oggi come oggi, in una fase di crisi storica del capitalismo, non è più ai popoli che può essere demandato il compito di fare sviluppare questo o quel paese. In un’epoca di declino storico e di crisi irreversibile di tutta la società, solo la classe operaia e la sua lotta per il socialismo può mettere fine alle sofferenze dell’umanità. La frattura del ministato palestinese in due sub-unità in lotta fra di loro è la dimostrazione storica della mistificazione che ha sempre accompagnato la parola d’ordine della lotta per lo stato palestinese. La guerra che si combattono due diversi eserciti agli ordini di due diversi e contrapposti governi palestinesi, le sofferenze del popolo palestinese, preso in una trappola dai cannoni di Israele e dalle mitragliatrici di Hamas e di Al Fatah, l’incubo di migliaia di persone che cercano di scappare dalla trappola di Gaza per andare in Cisgiordania dovendo attraversare oltre 40 chilometri di territorio israeliano, esprimono fino in fondo quanto sia falsa la prospettiva di uno stato palestinese come soluzione delle sofferenze del suo popolo. Hamas come Al Fatah, Hezbollah come al Qaida, sono tutte bande criminali al pari di tutte le altre borghesie del mondo, alla ricerca di uno spazio imperialista in un mondo in disfacimento. E’ solo la classe operaia che, polarizzando intorno a sé gli strati popolari non sfruttatori, può dare una risposta in positivo alla tragedia dell’epoca che viviamo.
Ezechiele, 22 giugno 2007
1. Ma solo di nome, perché stalinisti di fatto.
Più di un anno fa, in Francia, mentre il movimento dei giovani faceva ritirare al governo un progetto di legge che aumentava la precarietà dei lavoratori1, la classe dominante ha lanciato una campagna elettorale assordante in vista delle elezioni presidenziali … della primavera del 2007! Come in Italia nel 2005-2006 la campagna ha imperversato per un anno, con tutto l’aiuto della “suspense” sul possibile esito, e di attori ed altri artisti che si sono battuti per convincere tutti che bisognava votare, che la “vera” vittoria era nelle urne. In particolare cantanti e sportivi hanno fatto tutta una pressione verso i giovani, soprattutto delle periferie, per farli iscrivere alle liste elettorali e andare a votare per non perdere l’occasione di decidere “loro stessi” del proprio destino! Quest’anno le elezioni in Francia sono al centro di tutte le preoccupazioni, onnipresenti alla televisione, alla radio e sulla stampa (i lavoratori italiani possono smettere di illudersi di essere stati i soli ad avere questo privilegio!). Votare, questo “atto civico” è oggi sentito dalla grande maggioranza della popolazione come un vero dovere. In questo clima, chi osa confessare ai propri colleghi o a quelli che conosce che lui non vota, si attira immediatamente i fulmini e la disapprovazione generale. L’interesse suscitato da tutto questo lavorio sembra ben reale visto l’elevato tasso di partecipazione alle presidenziali. Dopo il primo turno tutta la classe dirigente si è felicitata di questa alta partecipazione, come “vittoria della democrazia, che non si è smentita al secondo turno.
Ufficialmente la posta in gioco di queste elezioni era molto importante: tutti i candidati parlavano di “rottura” radicale, di cambiamenti che avrebbero fatto uscire la Francia dal marasma economico. Per la classe operaia, inquietarsi per il futuro, voler mettere fine al degrado continuo delle proprie condizioni di vita è certamente legittimo. O, per dire meglio, è una necessità. Ma veramente è mobilitandosi massicciamente sul terreno elettorale che i lavoratori potevano far fronte insieme a tutti questi attacchi? Per la borghesia il diritto al voto è un bene prezioso. Grazie ad esso ogni cittadino ha il potere di decidere la politica che si deve fare nel suo comune, nella sua provincia, nella sua regione, nella sua nazione. Questo è il fondamento della democrazia. Ma questo “potere” non è in realtà una farsa? Ad ogni elezione formalmente si scontrano progetti differenti per l’avvenire della società. Ma in realtà in Francia i due grandi partiti in lizza si sono alternati al potere in questi ultimi anni ed hanno, in tutta evidenza, condotto la stessa politica di attacchi contro le condizioni di vita della classe operaia, con il risultato di una disoccupazione crescente, condizioni sempre più precarie per tutti i lavoratori, espulsioni di immigrati, e così via.
Nell’attuale campagna c’è stata una drammatizzazione degli obiettivi: la destra ha messo avanti l’insicurezza che avrebbe regnato in Francia se lei avesse perso, la sinistra ha polarizzato l’attenzione sull’ultra-liberalismo, l’autoritarismo, e addirittura il fascismo del candidato di destra. Però è stata la sinistra che indicando di votare Chirac nel 2002 per “sbarrare la strada all’estrema destra” ha favorito la promozione di Sarkosy. Oggi essa avanza lo stesso scenario con il suo “tutto, meno che Sarkosy”! La realtà è che gli attacchi antioperai non sono affatto legati alle personalità. E’ la logica stessa del capitalismo che spinge i suoi politici ad adottare questa o quella misura. Tanto è vero che tutti gli attacchi annunciati dal nuovo governo Fillon facevano parte anche del “piano d’azione” di Ségolène Royal: riforma delle pensioni e dei regimi speciali, smantellamento progressivo della copertura sanitaria, aumento dei carichi di lavoro…
E non poteva essere altrimenti. Tutte queste misure sono necessarie per la competitività dell’economia nazionale e quindi ogni frazione al potere deve metterle in atto. Ancora una volta l’esperienza ci mostra che destra e sinistra agiscono in perfetta continuità. E’ sempre la borghesia che vince le elezioni e i proletari non hanno niente da aspettarsi da questa mascherata. Se la borghesia si da tanto da fare per spingere i cittadini a votare, è per deviare l'attenzione della classe operaia su un falso terreno, ed in particolare le giovani generazioni che hanno mostrato la loro preoccupazione per il futuro della società nelle lotte della primavera 2006. Nella democrazia borghese, una volta ogni cinque anni, la società fa finta di mettere su un grande dibattito collettivo in cui tutti sono coinvolti. Nella lotta, al contrario questa implicazione di tutti è reale. Nelle assemblee generali autenticamente proletarie, la parola è data a tutti, i dibattiti sono aperti e fraterni, e, soprattutto, i delegati sono revocabili. Il terreno elettorale è IL terreno della borghesia. Su questo terreno tutte le armi sono nelle mani della classe dominante. E’ essa che ne esce ogni volta vittoriosa e il proletariato ogni volta vinto. Invece nelle manifestazioni, nelle fabbriche, nelle assemblee generali, gli operai possono unirsi, organizzarsi e battersi collettivamente. La solidarietà della classe operaia è una delle chiavi dell’avvenire, contrariamente a questi piccoli pezzi di carta chiamati schede elettorali! Il risultato delle elezioni rappresenta un successo per la borghesia francese, ma essa non potrà impedire che si continui a sviluppare tutta una preoccupazione sul proprio avvenire nella classe operaia, perché le manifestazioni del fallimento del capitalismo si amplificano e spingono sempre più gli operai del mondo intero a lottare per un’altra prospettiva.
E
1. Vedi le “Tesi sul movimento degli studenti in Francia”, su Rivista Internazionale n. 28
La storia della Repubblica italiana è stata certamente costellata da una miriade di colpi di scena parlamentari e politici, con crisi governative e relative cadute degli esecutivi. Ma oggi assistiamo a qualcosa di nuovo: gli ultimi governi non arrivano neanche a formarsi che già devono far fronte a una serie di turbolenze interne che li rendono fragili e deboli, turbolenze spesso causate non tanto dall’opposizione o “dalla piazza”, quanto dalle stesse componenti della maggioranza. E’ stato così per il primo governo Berlusconi che è addirittura caduto per mano dell’alleato leghista che tirava sul prezzo dell’alleanza. Lo stesso è stato per il primo governo Prodi, anch’esso caduto di fronte al voto contrario di Rifondazione Comunista e ripiegando sul governo D’Alema. Il secondo governo Berlusconi è certo rimasto più a lungo, ma a costo di quale logoramento interno e con l’uscita dell’UDC dall’alleanza della CDL a fine legislatura. Oggi abbiamo un secondo governo Prodi che non smentisce questo andamento avendo già subito, con la sua risicata maggioranza, una prima crisi parlamentare per il voto contrario di alcuni elementi interni alla maggioranza sul caso Afghanistan e continuamente traballante per le infinite liti che sorgono al suo interno. Cos’è dunque che sta succedendo?
La decomposizione dell’apparato politico della borghesia
Quello che avviene in Italia è l’espressione di un fenomeno di dimensione più generale che la nostra organizzazione ha denominato fase di decomposizione e che ha generato, tra le sue conseguenze più importanti, il crollo dei due blocchi imperialisti. A partire da questa situazione, diversamente da quanto accadeva ancora una ventina di anni fa, quando i singoli paesi del mondo tendevano ad allinearsi dietro una delle due grandi superpotenze, oggi come oggi, in mancanza di questa polarizzazione a livello imperialista, i singoli paesi tendono a giocare ognuno le proprie carte sullo scacchiere internazionale. Ciò ha profondamente alterato la vita politica della borghesia in paesi come l’Italia dove, finita l’epoca del controllo ferreo da parte degli USA sul nostro paese attraverso un partito come la Democrazia Cristiana, le componenti politiche (di nuova generazione o riciclate dalla prima Repubblica) hanno potuto giocare più liberamente un loro ruolo. Ma sta proprio qui il problema. Di fronte ad uno scenario in cui mancano degli elementi di riferimento forti, anche se mistificati, come potevano essere all’epoca il modello sovietico (scambiato erroneamente per patria del socialismo) e il modello americano (scambiato a sua volta per patria della democrazia), in mancanza di un dovere categorico a rimanere allineati su una certa politica, questi partiti tendono a perdere tanto la loro identità quanto ogni senso di coerenza politica, tendendo sempre più ad andare ognuno per proprio conto, seguendo la logica del vantaggio immediato e perdendo ogni visione di prospettiva. Questa perdita di coerenza comporta altresì la pletora di partiti e partitini che, particolarmente nella maggioranza dell’attuale governo Prodi, ha raggiunto una dimensione farsesca, producendo una fragilizzazione di quella che, sulla carta, dovrebbe essere la componente più seria e solida della borghesia. D’altra parte, confrontato ad una situazione di difficoltà economica che impone misure sempre più antipopolari che il governo Prodi non ha mancato di portare avanti con la sua finanziaria, il decreto Bersani e tutta la politica finora condotta, l’attuale maggioranza, come già quella di Berlusconi a fine legislatura, soffre di una forte perdita di credibilità finendo per subire uno scacco matto alle recenti elezioni amministrative.
I difficili tentativi della borghesia di far fronte alla propria perdita di identità e di unità
Naturalmente la borghesia, benché colpita da questa perdita di prospettiva, è dotata al suo interno di componenti più serie e lungimiranti - come ad esempio la compagine di Prodi - che si rendono conto che la gente ha sempre meno fiducia nelle istituzioni e che si affaccia l’idea che “destra o sinistra sono ormai la stessa cosa”. Questo è un problema per la borghesia che punta sulla mistificazione democratica delle elezioni per avere un controllo sulla popolazione e, se dal punto di vista economico, non ci può fare niente, la cosa su cui può puntare è dare un’immagine per lo meno più seria di chi sta al governo. E’ in questa chiave che vanno letti i tentativi che si stanno portando avanti per compattare i partiti della borghesia per avere delle maggioranze più salde. Questo fenomeno è presente sia a destra che a sinistra, con Berlusconi da un lato che spinge verso un’alleanza più vincolante se non un vero e proprio partito unico, e la sinistra che, con maggiore determinazione che per il passato, porta avanti il progetto del partito democratico. Ma, come già detto, l’impresa non è facile perché finanche questo tentativo di vincere la frammentazione è visto da altri come opportunità per acquisire migliori posti, scavalcare dei rivali-alleati, ecc. Tutto questo alimenta la turbolenza politica a cui stiamo assistendo da un anno a questa parte:
“Come si fa a dare un’immagine di buon governo, quando i ministri e gli alleati della tua maggioranza sono i primi a smontare i provvedimenti che prendi? Ormai il dissenso precede addirittura il provvedimento da cui si dissente. Basta che lo annunci, e c’è subito qualcuno che si ritiene titolato a criticare, per aumentare la visibilità sua e quella del suo partito. (…) Il “panino” dei tg è il simbolo di questo pessimo andazzo: se dissenti ci sei dentro, se no sei fuori”. (La Repubblica 30/5/07).
Queste parole di Prodi sono particolarmente significative ed esprimono bene la dinamica impazzita a cui assistiamo tutti i giorni. In pratica, in assenza di un qualunque connotato ideale e/o politico che caratterizzi concretamente questo o quel partito, quello che dà vigore alle varie parrocchiette politiche è la loro visibilità, la loro capacità di farsi sentire. Perciò, come giustamente arguisce Prodi, “se dissenti ci sei dentro, se no sei fuori”, cioè se punti i piedi e contesti la tua stessa maggioranza, sei dentro cioè sei visibile in tv e quindi in qualche modo acquisti popolarità rispetto ai tuoi stessi alleati; se non lo fai, sei scavalcato dagli altri.
La dinamica di decomposizione dello Stato
Ma il fenomeno della decomposizione non riguarda soltanto i partiti della borghesia, ma più in generale l’insieme della società borghese, ivi comprese le stesse strutture dello Stato. Per comprendere ciò è importante prendere in considerazione quanto sta succedendo da qualche anno in Italia a proposito di intrighi e scandali intorno a Telekom Serbia e commissione Mitrokin, di dossier raccolti indebitamente dai servizi segreti dello Stato, di una tendenza della Guardia di Finanza a muoversi “come un corpo separato”, fino ad arrivare ai recentissimi dossier sulle intercettazioni telefoniche che riguardano gli stessi DS, da Fassino a D’Alema. Tutto questo ha portato un giornale come la Repubblica a parlare dell’insorgere di una nuova P2:
“Si può dire che quel che fa capolino con l’offensiva del generale (Speciale, ndr) è una varietà modernizzata della loggia P2. La si può definire così, una P2, soltanto per semplificazione evocativa anche se il segno caratteristico di questa consorteria non è l’affiliazione alla massoneria (anche se massoni vi abitano), ma la pervasività – sotterranea, irresponsabile, incontrollata, trasversale – del suo potere di pressione, di condizionamento, di ricatto.” (La Repubblica 4/6/07).
Ma cosa sarebbe questa “consorteria”?
“Di quel network di potere occulto e trasversale, ormai si sa o si dovrebbe sapere. E’ un “apparato” legale/clandestino deforme, scandaloso, ma del tutto “visibile”. Nasce con la connessione abusiva dello spionaggio militare con diverse branche dell’investigazione, soprattutto l’intelligence business, della Guardia di Finanza; con agenzie di investigazione che lavorano in outsourcing; con la Security privata di grandi aziende come Telecom, dove esiste una “control room” e una “struttura S2OC” «capace di fare qualsiasi cosa, anche intercettazioni vocali: può entrare in tutti i sistemi, gestirli, eventualmente dirottare le conversazioni su utenze in uso, con la possibilità di cancellarne la traccia senza essere specificamente autorizzato.»” (La Repubblica 4/6/07).
A sentire queste parole sembra quasi di tornare ai tempi bui dei tentativi di golpe in Italia, preparati e mai portati a termine dal generale De Lorenzo nel 1964 o dal principe Borghese nel dicembre 1970 o delle trame piduiste di Gelli durate fino a tutti gli anni ’70. Ma è questo lo scenario che si profila davanti a noi? Certamente no, anzitutto per il fatto che, oggi ancora più che allora, una soluzione forte non è proprio all’ordine del giorno perché la borghesia ha a che fare con il risveglio lento ma deciso di una coscienza di classe contro il quale non sono adatte misure autoritarie quanto piuttosto le mistificazioni della democrazia. Ma anche perché assistiamo oggi a qualche cosa di inedito, ovvero a una tendenza di questo coacervo di forze a non stare né con la destra né con la sinistra, ma di compattarsi semplicemente in maniera autonoma per fare i propri interessi, attraverso una politica di veleni, pressioni e ricatti:
“Prima della campagna elettorale del 2006, l’apparato legale/clandestino programma e realizza una campagna di discredito contro Romano Prodi. Sarebbe un errore, però, considerare il network “al servizio” del centrodestra. Quell’apparato legale/clandestino, a cavallo tra due legislature, si è “autonomizzato”, si è “privatizzato”, è autoreferenziale. Raccoglie e gestisce informazioni in proprio. (…) Con accorta disciplina, il network spionistico sa essere il virus e il terapeuta della malattia del sistema politico italiano che impedisce, all’uno come all’altro schieramento, di riconoscersi la legittimità (morale prima che politica) di governare. Alimenta così la sindrome di Berlusconi consegnandogli dossier sul complotto mediatico-giudiziario. La cura con una pianificazione di annientamento dei presunti complottardi. Eccita il “complesso berlusconiano” della sinistra e lenisce quello stato psicoemotivo, prima che politico, con informazioni sulle mosse vere o presunte del temuto spauracchio. Quanto più il conflitto pubblico precipita oscurandosi in un sottosuolo, dove poteri frantumati, deboli, nevrotici tentano di rafforzarsi o difendersi; tanto più il network è in grado di essere custode dell’opaca natura del potere italiano o il giocatore in più che può favorire la vittoria nella contesa.” (La Repubblica 4/6/07).
Ancora una volta dobbiamo dire che non ci meravigliamo dell’esistenza di questa dinamica subdolamente infedele ed eversiva che anima settori dello Stato e che in altre circostanze avrebbe fatto gridare al pericolo di golpe. Ma, contrariamente al passato, oggi questo agglomerato di realtà, questo network, come viene chiamato nell’articolo citato, non risponde neanche più alla logica del partito golpista di una volta. Non potendo trovare nel mondo politico reale degli sponsor che siano in grado di raccogliere questa offerta di aiuto, “quell’apparato legale/clandestino (…) si è “autonomizzato”, si è “privatizzato”, è autoreferenziale.” Così questo network spionistico si mette in proprio ed agisce per conto proprio, “sa essere il virus e il terapeuta della malattia del sistema politico italiano che impedisce, all’uno come all’altro schieramento, di riconoscersi la legittimità (morale prima che politica) di governare.”
Se abbiamo dedicato tutto un articolo a delle questioni “interne” alla borghesia è perché questa cerca e cercherà sempre più di utilizzare le sue stesse contraddizioni e beghe interne contro i proletari, per farli schierare, per farli compattare intorno ad una vacua democrazia contro un presunto pericolo di golpe, di trame oscure, ecc. ecc. La realtà è invece che questa società, in mancanza di una qualunque prospettiva, fosse pure quella di un’entrata in guerra nell’illusione folle di guadagnare sul campo di battaglia un maggiore spazio imperialista, si accartoccia su se stessa, si sfalda ogni giorno di più, facendoci capire che, in Italia come negli Usa o in Russia o in Cina, non c’è alcuna prospettiva per l’umanità. L’unica possibilità per arrestare il processo di sfaldamento, di perdita di coerenza, di decomposizione che sta vivendo la società borghese in questa fase è che il proletariato imponga la sola soluzione storica che esiste oggi, la rivoluzione proletaria per abbattere questa società e instaurare la società comunista.
Ezechiele, 11 giugno 2007
All’inizio dell’anno un’ondata di scioperi ha toccato numerosi settori in Egitto: le fabbriche di cemento, gli allevamenti di pollame, le miniere, i trasporti urbani e le ferrovie. Nel settore sanitario, e soprattutto nell’industria tessile, gli operai hanno scatenato una serie di scioperi illegali contro il forte abbassamento degli stipendi reali e le riduzioni dei premi di incentivazione. Il carattere combattivo e spontaneo di queste lotte può essere colto dalla descrizione che segue che riporta come, nello scorso dicembre, sia scoppiata la lotta nel grande complesso di tessitura e filatura nel nord del Cairo, Mahalla al-Kubra’s Misr, epicentro del movimento. Le citazioni sono tratte dal testo di Gioele Beinin e Hossam el-Hamalawy dal titolo: “Gli operai del tessile egiziano si scontrano con il nuovo ordine economico”, pubblicato sui siti “Middle East Report Ondine” e libcom.org, e basato su interviste a due operai della fabbrica, Muhammed’Attar e Sayyid Habib.
“I 24.000 operai del complesso di tessitura e filatura Mahalla al-Kubra’s Misr erano in attesa di notizie sulle promesse fatte il 3 marzo 2006, secondo le quali il Primo ministro, Ahmad Nazif, avrebbe decretato un aumento del premio annuo per tutti gli operai del settore pubblico industrializzato di 100 lire egiziane (17$) corrispondenti ad un premio di due mesi di salari. Gli ultimi aumenti di premi annui, da 75 a 100 lire, risalivano al 1984.
«Abbiamo letto il decreto ed abbiamo cominciato a parlarne in fabbrica» dice Attar. «Anche le autorità del sindacato pro-governativo pubblicavano la notizia come un loro successo». Continua poi: «Arrivò dunque dicembre (periodo in cui sono pagati i premi annui) e ognuno era ansioso. Ci accorgemmo allora che eravamo stati presi in giro. Ci venivano offerte le stesse vecchie 100 lire. In realtà 89 lire, per essere più precisi, a causa delle detrazioni (per le tasse)»”.
Uno spirito di lotta era nell’aria. Nei due giorni seguenti, gruppi di operai rifiutarono di accettare il salario in segno di protesta. Poi, il 7 dicembre, migliaia di operai della squadra della mattina cominciarono a riunirsi nel Mahalla’s Tal’at Harb Square, davanti all’entrata della fabbrica. Il ritmo del lavoro in fabbrica era già rallentato ma la produzione si bloccò quando 3000 operaie dell’abbigliamento lasciarono il posto di lavoro e si diressero verso le sezioni del tessile e della filatura dove i loro colleghi maschi non avevano fermato ancora le macchine. Le operaie gridarono cantando: “Dove sono gli uomini? Ecco le donne!” Con vergogna, gli uomini si unirono allo sciopero.
Circa 10.000 operai si radunarono sulla piazza, gridando “Due mesi! Due mesi!” per affermare la loro rivendicazione sui premi promessi. La polizia antisommossa si era dispiegata velocemente intorno alla fabbrica e nella città, ma non impegnò alcuna azione per reprimere la manifestazione. “Erano impressionati dal nostro numero” dice Attar. “Speravano che sarebbe rientrata con la notte o all’indomani”. Incoraggiata dalla polizia di Stato, la direzione offrì un premio di stipendio di 21 giorni. Ma, come ricorda ridendo Attar, “le operaie massacrarono quasi tutti i rappresentanti della direzione che venivano a negoziare”.
“Come calò la notte, dice Sayyid Habib, gli operai fecero fatica a convincere le donne a fare ritorno alle loro case. Volevano restare e dormire sul posto. Ci vollero ore per convincerle a rientrare presso le loro famiglie per ritornare l’indomani”. Sorridendo Attar aggiunge: “Le donne erano più combattive degli uomini. Erano sotto la pressione dell’intimidazione della polizia antisommossa e delle loro minacce, ma tenevano duro”.
Prima delle preghiere della sera, la polizia antisommossa si precipitò sulle porte della fabbrica. Settanta operai, tra cui Attar e Habib, erano dentro a dormire. “Gli ufficiali della polizia di Stato ci dissero che eravamo poco numerosi e che era meglio uscire” dice Attar. “Ma non sapevano quanti di noi erano rimasti all’interno. Mentimmo dicendo loro che eravamo migliaia”. Attar e Habib svegliarono velocemente i loro compagni e gli operai, tutti insieme, cominciarono a colpire rumorosamente sulle sbarre di acciaio. “Svegliammo tutti nel complesso e nella città. I nostri cellulari impazzirono perché chiamavamo le nostre famiglie e gli amici all’esterno, chiedendo loro di aprire le finestre e di fare sapere alla polizia che ci guardavano. Chiamammo tutti gli operai che conoscevamo per dir loro di precipitarsi verso la fabbrica”.
In quel momento la polizia aveva tagliato l’acqua e l’elettricità alla fabbrica. Gli agenti dello Stato si precipitarono verso le stazioni per dire agli operai che venivano dall’esterno della città che la fabbrica era stata chiusa a causa di una disfunzione elettrica. L’astuzia mancò il suo obiettivo.
“Arrivarono più di 20.000 operai”, racconta Attar. “Abbiamo organizzato una manifestazione massiccia e dei falsi funerali ai nostri padroni. Le donne ci portarono del cibo e delle sigarette e si unirono alla marcia.
I servizi di sicurezza erano paralizzati. I bambini delle scuole elementari e gli studenti delle scuole superiori vicine si riversarono in strada in sostegno agli scioperanti. Il quarto giorno dell’occupazione della fabbrica, gli ufficiali del governo, terrorizzati, offrirono un premio di 45 giorni di stipendio e diedero l’assicurazione che la compagnia non sarebbe stata privatizzata. Lo sciopero fu sospeso, con l’umiliazione di una federazione sindacale controllata dal governo grazie al successo dell’azione non autorizzata degli operai della filatura e del tessile di Misr”.
La vittoria di Mahalla aveva incoraggiato un certo numero di altri settori ad entrare in lotta, ed il movimento non era affatto finito. In aprile, il conflitto tra gli operai di Mahalla e lo Stato riemerse. Gli operai decisero di mandare un’importante delegazione al Cairo per negoziare (!) - con la Federazione generale dei sindacati - degli aumenti di stipendio e mettere sotto accusa il comitato sindacale di una fabbrica di Mahalla per aver sostenuto i padroni durante lo sciopero di dicembre. La risposta delle forze di polizia del governo fu di mettere la fabbrica in stato d’assedio. Gli operai si misero allora in sciopero e due altre grandi fabbriche tessili, Ghazl Shebeen e Kafr el-Dawwar, dichiararono la loro solidarietà con Mahalla. La presa di posizione di quest’ultima fu particolarmente lucida:
“Noi, operai del tessile di Kafr el-Dawwar, dichiariamo la nostra piena solidarietà con voi, per realizzare le vostre giuste rivendicazioni che sono uguali alle nostre. Denunciamo con forza l’assalto dei servizi di sicurezza che impediscono alla delegazione di operai (di Mahalla) di andare al quartier generale della Federazione generale dei sindacati al Cairo. Condanniamo anche la presa di posizione di Said el-Gohary (1) a Al-Masry Al-Youm della scorsa domenica, nella quale descrive il vostro movimento come un ‘non-senso’. Vi seguiamo con attenzione e dichiariamo la nostra solidarietà con lo sciopero degli operai delle confezioni dell’altro ieri, e con lo sciopero parziale nella fabbrica di seta.
Vogliamo farvi sapere che noi operai di Kafr el-Dawwar e voi di Mahalla marciamo nella stessa direzione, e che abbiamo un nemico. Sosteniamo il vostro movimento perché abbiamo le stesse rivendicazioni. Dalla fine del nostro sciopero della prima settimana di febbraio, il nostro Comitato sindacale di fabbrica non ha fatto niente per realizzare le rivendicazioni che erano all’origine del nostro sciopero. Il nostro Comitato sindacale di fabbrica ha colpito i nostri interessi... Esprimiamo il nostro sostegno alla vostra rivendicazione di riformare i salari. Noi, come voi, aspettiamo la fine di aprile per vedere se il ministro del lavoro accederà o no alle nostre rivendicazioni. Non mettiamo molta speranza nel ministro, non abbiamo visto alcun movimento da parte sua o di quella del Comitato sindacale di fabbrica. Possiamo contare solamente su noi stessi per realizzare le nostre rivendicazioni.
Pertanto insistiamo sul fatto che:
1. Siamo nella stessa barca, e ci imbarcheremo insieme nello stesso viaggio.
2. Dichiariamo la nostra piena solidarietà con le vostre rivendicazioni ed affermiamo che siamo pronti per un’azione di solidarietà, se decidete un’azione nell’industria.
3. Informeremo gli operai della seta artificiale, El-Beida Dyes e Misr Chemicals, della vostra lotta, e creeremo dei collegamenti per allargare il fronte di solidarietà. Tutti gli operai sono fratelli in tempi di lotta.
4. Dobbiamo creare un largo fronte per consolidare la nostra lotta contro i sindacati governativi. Dobbiamo rovesciare questi sindacati adesso, non domani” (Tradotto dal sito internet Arabawy).
Questa è una presa di posizione esemplare perché mostra la base fondamentale di tutta l’autentica solidarietà di classe attraverso le divisioni create dai sindacati e le imprese - la coscienza di appartenere alla stessa classe e di combattere uno stesso nemico. È anche estremamente chiara sul bisogno di lottare contro i sindacati.
Alcune lotte sono sorte anche altrove durante questo periodo: i netturbini di Giza hanno saccheggiato gli uffici della compagnia per protestare contro il mancato pagamento dei loro stipendi; 2700 operai del tessile a Monofiya hanno occupato una fabbrica; 4000 operai del tessile ad Alessandria si sono messi in sciopero per una seconda volta dopo che la direzione aveva tentato di decurtare la paga per lo sciopero precedente. Anche questi sono stati scioperi illegali, non-ufficiali.
Ci sono stati anche altri tentativi di rompere il movimento con la forza. La polizia chiuse o minacciò di chiudere il “Centro di servizi per i sindacati e gli operai” di Nagas Hammadi, Helwan and Mahalla. Questi centri erano accusati di fomentare “una cultura dello sciopero”.
L’esistenza di questi centri indica che esistono chiaramente dei tentativi di costruire dei sindacati nuovi. Inevitabilmente, in un paese come l’Egitto, dove gli operai hanno fatto solo l’esperienza di sindacati che agiscono apertamente come polizia di fabbrica, gli elementi più combattivi sono sensibili all’idea che la risposta al loro problema stia nella creazione di sindacati veramente “indipendenti”, come fu il caso degli operai polacchi nel 1980-81. Ma ciò che emerge molto chiaramente dal modo con cui lo sciopero è stato organizzato a Mahalla, attraverso le manifestazioni spontanee, le delegazioni massicce e le assemblee generali alle porte della fabbrica, è che gli operai sono più forti quando prendono direttamente le cose nelle loro proprie mani piuttosto che rimettere il loro potere ad un nuovo apparato sindacale.
In Egitto possono già vedersi i germi dello sciopero di massa - non solamente nella capacità degli operai nell’azione di massa spontanea, ma anche per l’alto livello di coscienza espressa nella presa di posizione di Kafr el-Dawwar.
Non c’è legame cosciente tra questi avvenimenti ed altre lotte in differenti parti del Medio Oriente che subiscono le divisioni imperialistiche: in Israele presso i portuali, gli impiegati del servizio pubblico e, più recentemente, le maestre di scuola in sciopero per aumenti salariali, e gli studenti che si sono scontrati con la polizia contro gli aumenti dei prezzi dell’insegnamento; in Iran dove il Primo Maggio migliaia di operai hanno scombussolato la manifestazione governativa ufficiale gridando slogan anti-governativi o hanno partecipato alle manifestazioni non autorizzate e si sono scontrati con una severa repressione poliziesca. Ma la simultaneità di questi movimenti ha la stessa origine: la via presa dal capitale a ridurre in povertà la classe operaia dovunque nel mondo. In questo senso, questi movimenti contengono i germi della futura unità internazionale del proletariato al di là del nazionalismo, della religione e della guerra imperialistica.
Amos 1/5/07
Da Révolution Internationale n° 380, giugno, 2007
1. Leader del sindacato della filatura e del tessile, Said El-Gohary, accusava tra l’altro gli operai “di essere terroristi che vogliono sabotare la compagnia”.
Da qualche tempo la CCI è in contatto con dei compagni nelle Filippine per sostenere lo sviluppo delle idee e dei principi della Sinistra comunista e per promuovere i legami fra i comunisti presenti nelle Filippine ed il resto del movimento internazionalista mondiale (vedi la nostra critica di “Ka Popoy” Lagman pubblicata sul nostro sito in lingua inglese). Le discussioni fra la CCI ed i compagni nelle Filippine ha inoltre portato alla creazione del gruppo “Internasyonalismo”, che pubblica i documenti di discussione, in filippino ed in inglese, su varie questioni teoriche, così come sulla situazione politica nelle Filippine ed a livello internazionale. Incoraggiamo i compagni a visitare il sito web di Internasyonalismo.
Il testo che pubblichiamo qui di seguito è una presa di posizione di Internasyonalismo sul significato del 1° Maggio. Noi condividiamo nel complesso il contenuto di questa presa di posizione, ma soprattutto salutiamo il risoluto spirito internazionalista in essa presente.
Diamo il benvenuto a questa nuova voce internazionalista che si sta facendo largo in un’importante frazione del proletariato dell’Estremo-Oriente.
Celebriamo il 1° Maggio sulla base dell’internazionalismo
Quest’anno, nel mondo intero, vediamo varie organizzazioni, partiti e Stati osservare la festa del 1° Maggio, il giorno della classe operaia internazionale. Possiamo leggere e sentire le loro diverse dichiarazioni e abbiamo visto le manifestazioni di queste organizzazioni al servizio dei becchini del capitalismo.
La destra della borghesia - esplicitamente pro-capitalista e pro-“globalizzazione” - la maggior parte della quale controlla governi e Stati di molti paesi, come nel passato, continua a dire agli operai che non c’è altro sistema che può salvarli dalla miseria se non il capitalismo e la globalizzazione; che il nemico della “pace” e del progresso è il terrorismo (nelle Filippine, il maoista CPP-NPA-NDF, il Moro secessionista MILF e i fanatici islamici di Abu Sayyaf e simili). La base del loro appello è difendere e sviluppare l’economia nazionale mentre si rafforza la competitività nel mercato mondiale. Stanno costringendo gli operai a sempre maggiori sacrifici per la loro borghese madrepatria!
Ancora una volta, questi squali senza scrupoli affamati di profitto promettono agli operai colpiti dalla miseria, come hanno già fatto in passato, che “se la nostra nazione si sviluppa, voi potrete trarne beneficio, dunque uniamoci ed aiutiamoci l’un l’altro per il nostro paese!”
Ma nelle Filippine, come ovunque nel mondo, la disillusione della classe alle promesse della classe dominante e sfruttatrice si sta sviluppando sempre di più. Gli operai filippini sono sempre più disgustati da quello che sta accadendo alle loro condizioni di vita, mentre le diverse fazioni dei politici capitalisti li prendono in giro alternativamente con il “potere rivoluzionario del popolo” e le “le elezioni”.
I partiti di sinistra del capitale - i maoisti CPP e l’MLPP, il “leninista” PMP, le diverse sfumature di trotskysti, anarchici, radicali democratici e sindacalisti, anti-imperialisti nazionalisti e simili – pur usando parole diverse contro il “capitalismo” e contro la globalizzazione, sono al fondo uniti per rinchiudere gli operai nel quadro dello sviluppo nazionale (cioè del capitalismo nazionale), con parole che sono “musica” all’orecchio del proletariato filippino - democrazia e nazionalismo. Gridano slogan rivoluzionari e radicali per il “rovesciamento” del marcio sistema, ma in realtà è soltanto la fazione della borghesia al potere che vogliono rovesciare mentre aiutano l’altra fazione a sostituire la precedente. Mobilitano per la democrazia, che essenzialmente significa dare agli operai l’illusione che il sistema del capitalismo funziona finché il potere è nelle mani del “popolo”! Mentendo, spiegano al proletariato che la “dominazione straniera” è la causa di fondo della povertà e che sradicando questa causa, liberando il paese dall’“imperialismo”, il capitalismo si svilupperà. Quindi, come dicono i maoisti, la “democrazia popolare” o la “democrazia diretta” potrà diventare una realtà!
Benché il “leninista” PMP e i troschisti dichiarino formalmente il rovesciamento dello Stato capitalista ed il socialismo, essi non sono diversi dai democratici nel seminare l’illusione nella classe che “la democrazia è una strada necessaria per raggiungere il socialismo”. Mentre gli anarchici, che aborriscono ogni tipo di “autorità”, usano la “democrazia diretta” come slogan per ingannare la classe sfruttata fino al punto di formare “modelli comunitari” a livello locale.
Non c’è alcuna differenza sostanziale fra l’ala destra e quella di sinistra del capitale rispetto alla visione che portano avanti - difesa dell’economia nazionale e della democrazia - se non nell’uso di slogan conservatori o radicali; apertamente contro il socialismo ed il comunismo o difendendoli a parole. Entrambi si aiutano reciprocamente per in incatenare gli operai filippini in particolare, ed il proletariato mondiale in generale, alla mistificazione della democrazia e del nazionalismo.
La natura del proletariato e delle sue lotte
Il 1° Maggio è il giorno internazionale della classe operaia. In questo giorno, ancora una volta, dobbiamo mettere avanti la natura internazionale del proletariato come classe, che da decenni l’ala destra e di sinistra della borghesia stanno provando a nascondere ed alterare con le loro mistificazioni. E queste mistificazioni, grazie alla sinistra, hanno dominato la coscienza degli operai filippini per quasi un secolo. Gli operai non hanno patria; nessuna madrepatria da difendere e sviluppare. Il proletariato è una classe internazionale. Gli operai nel mondo, dovunque vivano e lavorino, hanno gli stessi interessi. Hanno un unico nemico - l’insieme della classe capitalista. I loro interessi non dipendono dagli interessi di questo o quel paese. Al contrario, i loro interessi si trasformeranno in realtà se tutte le frontiere nazionali saranno distrutte. Il socialismo ed il comunismo saranno realizzati a livello mondiale, non in un paese o in un gruppo di paesi.
L’internazionalismo è una delle due pietre miliari del vero movimento proletario. L’altra è il suo movimento indipendente, indipendente da altre classi ed in particolare da tutte le fazioni della classe capitalista. Queste sono le differenze basilari fra l’autentico movimento proletario e l’ala di sinistra del capitale nel capitalismo decadente.
Poiché il proletariato è una classe internazionale, per essere vittoriose, anche le sue lotte devono avere un carattere internazionale. E’ nel quadro della marcia verso la rivoluzione proletaria mondiale che deve essere basata la lotta di ogni frazione proletaria, in qualsiasi parte del pianeta. In questo contesto si può capire come “la lotta per il nazionalismo e la democrazia”, nell’attuale epoca storica di decadenza del capitalismo, sia anti-proletaria e faccia deviare le lotte della classe. Nella decadenza del capitalismo, le tattiche che appoggiano la “liberazione e la democrazia nazionale”, la lotta per le riforme, il “sindacalismo ed il parlamentarismo rivoluzionario” e il “frante unito”, sono tutte contro-rivoluzionarie.
Il 1° Maggio 2007 nelle Filippine
Fondamentalmente non c’è alcuna distinzione sull’essenza della “celebrazione” fatta nelle Filippine con il resto del mondo – tutte dominate e controllate dalla destra e dalla sinistra del capitale. La sinistra filippina usa il 1° Maggio come veicolo di propaganda per il proprio opportunismo elettorale. Presunta sostenitrice degli interessi della classe, la costringe a partecipare al brutale e ingannevole circo elettorale delle diverse fazioni della classe capitalista. Ma con il lento emergere di rivoluzionari nelle Filippine che stanno iniziando a rivalutare la loro pratica sulle basi dell’internazionalismo e dell’autonomia del movimento operaio; che si avviano in un processo di chiarificazione teorica, possiamo dire che effettivamente quest’anno c’è qualcosa da celebrare il 1° Maggio!
La messa in discussione da parte di una manciata di comunisti nelle Filippine della propria pratica è un elemento della dinamica di sviluppo della coscienza comunista internazionalista in molte parti del mondo a partire dagli anni 60. La conferenza internazionale di marxisti rivoluzionari in Corea nello scorso 2006 è stata una chiara manifestazione del fatto che anche in paesi in cui gli scritti della Sinistra comunista non sono stati ancora letti e studiati, dopo circa 100 anni, ora ci sono rivoluzionari ed operai che, sulla base delle proprie esperienze nella decadenza del capitalismo e del fallimento delle vecchie concezioni e tattiche ereditate dalle varie organizzazioni di “sinistra”, stanno riflettendo sulle loro vecchie teorie che i 50 anni di contro-rivoluzione gli avevano fatto credere “invarianti”.
Anche se la classe operaia filippina, sempre più disillusa contro questo marcio sistema, è ancora mistificata dai fallimentari dogmi della “sinistra”, siamo fortemente fiduciosi che essa al più presto, come parte di una classe internazionale e sulla base della propria esperienza, eleverà la propria coscienza collettiva e costruirà le proprie organizzazioni, come parte dello sforzo complessivo in tutto il mondo per costruire il futuro partito comunista internazionale.
GLI OPERAI NON HANNO PATRIA!
OPERAI DEL MONDO, UNITEVI!
INTERNASYONALISMO, 1 maggio, 2007
La CCI on line in filippino
Grazie agli sforzi dei compagni del gruppo Internasyonalismo siamo in grado di aprire un nuovo sito web in lingua filippina, dove abbiamo pubblicato alcuni dei testi di base della CCI: speriamo di poter pubblicare più testi in filippino nei prossimi mesi.
Il 14 aprile scorso si è tenuto a Milano un “convegno contro l’aggressione imperialista nel Medio Oriente” organizzato dal “Comitato di lotta internazionalista (…) nato agli inizi del 2005 come sforzo unitario di alcuni compagni e gruppi politici di Milano, Torino, Genova, La Spezia, Pavia, Roma, con lo scopo di agire nel movimento reale, nelle lotte sociali e di classe su un terreno conseguentemente anticapitalista che, necessariamente, per esserlo, deve esercitare la sua politica in un fronte internazionale e con posizioni internazionaliste”. (1)
Pur sapendo che avrebbe attirato un insieme eterogeneo e frastagliato di componenti politiche, noi abbiamo aderito con convinzione a questa iniziativa riconoscendo in essa un momento di una dinamica ben più ampia, di dimensione internazionale, che vede sorgere una nuova generazione di elementi politicizzati alla ricerca di una strada da percorrere per uscire dall’inferno di questa società. In particolare abbiamo colto, nella lettera di invito al convegno, diversi spunti interessanti. Tra gli altri ce ne sono due che vogliamo riprendere. Il primo, in cui si afferma che:
“La necessità di confrontarsi nel reale scontro politico e di classe, ci spinge ad accelerare ogni iniziativa per andare ad un lavoro comune con forze ed individui che hanno, come noi, l’obiettivo di sviluppare un movimento politico internazionalista partendo altresì dall’approfondimento delle questioni teoriche alla luce del "laboratorio politico” espresso dal movimento dei lavoratori, senza settarismi, ma su alcune discriminanti e coordinate del marxismo.” (2),
costituisce un ottimo biglietto da visita nella misura in cui, come si evince dai passaggi da noi sottolineati, si parla della necessità di unificare le forze che si pongono su un piano internazionalista ma sulla base di un approfondimento delle questioni teoriche che sia fatto senza settarismi ma a partire dal marxismo.
Nel secondo passaggio si dice invece che:
“Molto tempo è passato dai tempi della funzione progressista e rivoluzionaria della borghesia lodata da Marx dalle pagine del Manifesto del 1848: oggi, le borghesie di questi Paesi dominati e/o controllati dall'imperialismo non giocano più un ruolo contro di esso per uno sviluppo unificante del mercato. La rivoluzione democratica d'Area può fondarsi solo sul ruolo autonomo del proletariato e le masse dei contadini poveri contro gli imperialismi e le varie borghesie che sono al governo nei Paesi del Medio Oriente o, come altri compagni sostengono, all’ordine del giorno vi può essere solo la rivoluzione socialista tout court. Queste due opzioni presenti nel nostro movimento, sono strategicamente diverse e come tali è di estrema importanza la loro soluzione politica per l'azione rivoluzionaria.” (3)
Nella nostra lettera di adesione al convegno, a cui abbiamo allegato un contributo sulla questione mediorientale (4), abbiamo dichiarato che eravamo “interessati ad avere una presenza e a partecipare alla discussione da voi promossa. In particolare saremo interessati a ricevere il materiale dei vari aderenti all’iniziativa e vi chiediamo se avete previsto uno spazio dove sia possibile esprimere dei commenti ai singoli contributi anche prima della data del 14 aprile, (o anche dopo) e in che forma. Vi chiediamo questo perché la questione della comprensione della natura e del ruolo dell’imperialismo nell’epoca attuale è di fondamentale importanza per comprendere il ruolo dei comunisti oggi e, se è vero, come appare dalla vostra stessa lettera di invito, che su questo ci sono diverse vedute nella vostra stessa associazione, tanto più c’è da attendersi, e non ce ne meravigliamo, una eterogeneità di vedute tra i partecipanti al convegno.”
La finalità di questo convegno poteva e doveva essere dunque l’analisi delle due opzioni, tanto più necessaria in quanto, come diceva la stessa lettera di invito, portavano a due strategie opposte. E in effetti nella mattinata gli interventi di vari partecipanti - tra cui il nostro - oltre ad esprimere le diverse analisi, hanno fatto presente la necessità di chiarimento su molte questioni. La funzione di un convegno dovrebbe essere questa, l’approfondimento delle analisi sulle questioni in oggetto, la richiesta reciproca di spiegazioni perché non sempre tutto è chiaro, la dimostrazione di un certo percorso. Non può essere invece la pura e semplice propaganda delle proprie posizioni, perché questo porterebbe non alla discussione ma all’ascolto fideistico, al mancato approfondimento, alla conoscenza superficiale delle questioni, all’attivismo puro e semplice. Il proletariato a livello mondiale, oggi più che mai, si trova in una fase cruciale, una fase di ripresa della lotta di classe e di crescita delle sue organizzazioni. È necessario quindi che i comunisti non improvvisino il percorso da scegliere o ricadano nelle trappole ideologiche della borghesia, è necessario rifarsi alle analisi politiche delle sue minoranze storiche e questo richiede una attenta riflessione, un confronto, un vaglio delle differenti prospettive.
Tutto questo è stato sottovalutato da molti partecipanti al convegno nella seconda parte della discussione, quella del pomeriggio. Ma più che una sottovalutazione si è trattato di una vera battaglia di tutto un settore politico che era presente al convegno e che era convinto che “agire subito” fosse l’essenziale, che credeva di perdere il treno della rivoluzione se non “si faceva qualcosa”, senza pensare che salire sul primo treno in partenza senza guardare in che direzione va fa correre addirittura il rischio di allontanarsi ancora di più dalla meta. Tutte le preoccupazioni di questi compagni sul fatto che il 1° di maggio si dovesse creare il cosiddetto spezzone rivoluzionario partiva dal principio implicito che gli altri 100.000 lavoratori, precari o disoccupati, presenti al corteo non avessero nulla da dire. La fissazione di fare a tutti i costi un volantino con le firme delle varie organizzazioni e sigle, che nelle intenzioni di questa componente del convegno avrebbe dovuto dare una impressione di unità e forza alla classe, prescinde completamente dal fatto che l’unità della classe operaia si compie attraverso un processo di presa di coscienza collettiva dei proletari sui problemi che gli stanno di fronte. Di conseguenza un volantino frutto di una serie di compromessi politici “per fare numero” e che non sia l’espressione di una reale convergenza politica basata su un confronto serio, non può che disorientare e demoralizzare ancora di più la classe operaia.
Passato il 1° di maggio questo cosiddetto spezzone di partito, eludendo la richiesta di approfondimento politico che proveniva dalla richiesta iniziale del convegno, ha cercato altri “appuntamenti” dove manifestare la sua forza, quali la manifestazione a Novara contro la costruzione di un nuovo aereo militare da parte della borghesia italiana, la manifestazione a Roma contro l’arrivo di Bush, ecc.
Le basi di questo “movimento”, che va alla ricerca di appuntamenti “per fare qualcosa”, a parte la correttezza o meno delle sue analisi politiche, poggiano sulla sabbia. E non è un caso che, leggendo le lettere della mail-list proletari_nowar nata dopo il convegno di Milano, si noti la sorpresa più che legittima di un iscritto sull’utilità di queste manifestazioni e sulla loro inconsistenza. “Di fronte al miserando esito della manifestazione del 19 maggio, invito i compagni del coordinamento proletario no war a non prendere lucciole per lanterne, mettendosi al rimorchio di iniziative promosse da organismi, molto bravi a suonare la gran cassa per mascherare la propria inconsistenza politica e sociale. La forza di questi organismi risiede solo nel loro rapporto con settori della borghesia, un rapporto mal celato dai cosiddetti sinistri «radicali», pronti a quei compromessi deteriori che aprono la via a pericolose derive moderate”.
Interventi come questi devono sempre più farsi avanti, prendere coraggio, proprio per aiutare quegli elementi che, spesso in tutta buona fede, vanno in direzione opposta, alla ricerca della chimera della occasione buona per dare la spallata decisiva, come quel compagno che, rispetto alla manifestazione del 9 giugno a Roma contro la visita di Bush, diceva: “Mi sembra che al corteo Campo Antimperialista e Carc siano stati gli unici a sottolineare il ruolo di Hamas ed Hezbollah nella resistenza all’imperialismo e al sionismo.” Quando non si discute fino in fondo, quando si evita il confronto e si cerca l’aggregazione per l’aggregazione, si finisce, in nome dell’iniziativa da portare avanti ad occhi chiusi, per lasciar passare come antimperialisti proprio i massacratori di proletari: dobbiamo ricordare noi quanto sta facendo in questi giorni Hamas in Cisgiordania contro altri palestinesi? Ritornando al convegno, alle due opzioni espresse, ricordiamoci che esse “sono strategicamente diverse e come tali è di estrema importanza la loro soluzione politica per l’azione rivoluzionaria.” Riprendere la discussione è necessario non per rincorrere il presidente americano di turno per le strade di Roma, ma per gettare le basi di un forte movimento proletario contro tutti i presidenti di tutte le borghesie di tutto il mondo.
Oblomov
1. Dalla lettera di invito di questo comitato, che si può contattare attraverso la mail: [email protected] [109].
2. idem, sottolineature nostre.
3. idem, sottolineature nostre.
3. “Guerra in Libano, in Medio Oriente, in Iraq. Esiste un’alternativa alla barbarie capitalista?”, estratto dalla Rivista Internazionale n° 28 e pubblicato anche sulla pagina italiana del nostro sito it.internationalism.org [99].
Come ogni anno, in autunno il governo celebra il rito della finanziaria, cioè settimane di annunci e smentite su come il governo intende mantenere il deficit di bilancio nei limiti previsti. Ma, sorpresa, quest’anno il governo afferma che i dieci miliardi di euro che servono per raggiungere l’obiettivo non saranno trovati con nuove tasse, ma semplicemente riducendo la spesa corrente della Pubblica Amministrazione. E che, si possono risparmiare dieci miliardi semplicemente riducendo fotocopie, telefonate e qualche viaggetto? E’ evidente che no. E’ evidente che anche se i soldi saranno cercati non mettendo nuove tasse, una cifra di questo genere può essere rispettata solo con tagli pesanti del personale, alla spesa sociale e ai servizi che si offrono ai cittadini, che sono il grosso della spesa statale. Bisogna quindi aspettarsi che anche quest’anno il risultato sarà lo stesso di tutte le finanziarie da almeno venti anni a questa parte: un peggioramento delle condizioni di vita dei lavoratori. E questo a prescindere dal colore con cui il governo in carica si presenta ai cittadini. Se c’è una differenza è che mentre i governi di destra non si preoccupano di mascherare le misure con cui tengono in piedi l’economia nazionale, quelli di sinistra hanno bisogno di presentare le stesse cose o con la scusa di una “emergenza” (crisi finanziaria, debiti pregressi, e così via) o mascherando i tagli con “misure di razionalizzazione”, interventi a favore dei “più deboli” e così via.
Quello che resta quindi da chiedersi è perché cambiano i governi, cambiano i paesi, ma per i lavoratori il risultato è sempre lo stesso?
In altra parte del giornale diamo una risposta più argomentata a questa domanda, risposta che si può riassumere così: se dappertutto nel mondo e nel tempo i lavoratori si impoveriscono sempre più è perché in tutto il mondo vige un sistema economico che è ormai in crisi permanente, che riesce a sopravvivere solo continuando a spremere a più non posso i lavoratori e accumulando una montagna di debiti (su cui sono basate le cosiddette riprese).
Ed in questa situazione, che significa che il mondo va verso una catastrofe le cui conseguenze non si possono nemmeno immaginare, ci sono paesi che hanno un po’ di respiro in più, e altri che invece arrancano di più. L’Italia è uno di questi ultimi.
Se si esaminano i principali indicatori economici l’Italia mostra di essere il fanalino di coda, da diversi anni a questa parte, non solo rispetto ai paesi emergenti, ma anche rispetto ai suoi concorrenti occidentali (che poi sono ancora i maggiori concorrenti):
il principale indice che misura la crescita della ricchezza di un paese, il Prodotto Interno Lordo, dice che mentre il PIL degli USA è cresciuto, tra il 1995 e il 2003, del 3,1%, e quello dell’area euro del 2,2%, quello dell’Italia è cresciuto dell’1,5% (il valore più basso tra i paesi europei, esclusa la Germania, cresciuta dell’1,2%); ed anche gli ultimi valori, in questi due anni di “ripresa”, vedono i valori della crescita del PIL italiano inferiori a quelli dei suoi concorrenti europei ed americano (per il 2007 la previsione è di un +1,9% per l’Italia, contro un +2,9% di media europea). E se andiamo a vedere la variazione del PIL per occupato, che è una misura più indicativa della crescita e soprattutto della produttività, si ha una ulteriore conferma: mentre il PIL per occupato, nel settore privato, è cresciuto, tra il 2001 e il 2004, negli USA del 2,9%, nell’area euro del 0,6%, in Italia c’è stata una diminuzione dello 0,2%, cioè un peggioramento in senso stretto della produttività per lavoratore (1).
E questo nonostante il salasso a cui, negli stessi anni sono stati sottoposti i lavoratori, i cui salari sono cresciuti poco, certamente molto meno della produttività, mentre sono andati peggiorando i servizi e i prezzi reali (quelli che si pagano al mercato, e non quelli che registra l’ISTAT) sono aumentati a dismisura: tutti i lavoratori hanno potuto constatare che, almeno per i generi di prima necessità, quelli che costituiscono il grosso della spesa di una famiglia proletaria, nei fatti i prezzi sono cresciuti, in maniera mascherata, fino ad assumere valori corrispondenti ad un cambio di 1 euro per mille lire, cioè l’equivalente di una inflazione di quasi il 100%! Contemporaneamente negli ultimi quindici anni, c’è stato un aumento inverosimile della precarizzazione del lavoro (contratti a termine, giornalieri, a progetto, ecc., ecc.) che hanno reso l’utilizzazione della mano d’opera estremamente flessibile (2), così da spazzare via un’altra vecchia scusa della borghesia italiana, che sosteneva che la bassa produttività dell’industria italiana era dovuta all’estrema rigidità della forza lavoro (che impediva alle aziende di adeguare la propria produzione alle esigenze del mercato).
La verità è che la diminuzione della crescita e della produttività, oltre ad essere il naturale risultato della crisi mondiale, è anche il frutto di una mancanza di investimenti, la sola che può aumentare la produttività; infatti in Italia gli investimenti fissi lordi sono diminuiti nel 2003 e 2005, rispettivamente dell’1,7% e dello 0,5%, aumentando dell’1,6% nel 2004. E questa scarsa propensione agli investimenti è legata un po’ alla storia dello sviluppo capitalistico in Italia, almeno del dopoguerra, in cui l’industria italiana è cresciuta protetta dallo Stato in maniera maggiore rispetto a quella degli altri paesi (dappertutto è infatti l’aiuto dello Stato che tiene su l’economia), e quindi è stata poco stimolata a crescere in funzione della competizione (non c’è settore di punta in cui l’industria italiana sia capace di mostrare livelli di eccellenza, tranne forse l’aerospaziale).
E’ in definitiva l’aiuto che lo Stato ha dato all’economia italiana, che è la vera ragione dell’enorme indebitamento statale (intorno al 106%) che è un’altra caratteristica che contraddistingue l’Italia rispetto ai suoi concorrenti (che pure sono indebitati, dato che il ricorso al debito, come abbiamo detto, è stato uno degli strumenti con cui il capitalismo mondiale è riuscito ad evitare un crollo verticale), e non, come sempre cerca di sostenere la borghesia per giustificare i suoi tagli al Welfare, le alte prestazioni dei servizi sociali.
E questo enorme indebitamento costituisce un ulteriore intralcio alla crescita sia per il peso degli interessi sul debito (che si mangiano gran parte dell’attivo di bilancio producendo comunque un deficit, 2,5% del PIL quello previsto per il 2007, nonostante questo attivo, 2,3% la previsione per il 2007) che per la difficoltà a ricorrere ulteriormente al credito per continuare a sostenere l’economia.
Questa debolezza organica dell’economia italiana, che ha le sue radici profonde nel ritardo con cui il capitalismo italiano è riuscito a realizzare l’unità del paese, unitamente al fatto che è l’intero sistema capitalista mondiale che è in crisi profonda, spiega come i margini di manovra per la borghesia italiana siano molto pochi e si riducano, in sostanza, alla sola capacità di aumentare lo sfruttamento dei lavoratori. Ecco perché da diversi decenni, e in maniera ancora più accelerata negli ultimi 15 anni (dalla finanziaria di Amato, 1992, 48 miliardi di euro, a quella di Prodi del 2006 sono 306 i miliardi di euro strappati agli italiani) la sola cosa che la borghesia italiana ha fatto è stato attaccare sempre più a fondo la classe operaia, e non possiamo dubitare che continuerà a fare così, visto che la competizione internazionale resta accanita.
E’ perciò che c’è poco da credere alle promesse di questo governo su una finanziaria “leggera”. Questo governo si sta specializzando nel “dare” con una mano, e solo in parte, quello che si è preso con l’altra: l’anno scorso, per esempio, la riduzione della tassazione dei redditi più bassi è stata fatta con un aumento di quella dei redditi medi (insomma di una buona parte dei lavoratori dipendenti). Quest’anno si vuole fare la stessa cosa: vedi l’esempio della “incentivazione” agli statali ad andare in pensione , così da poter reintegrare solo un nuovo lavoratore contro tre che se ne vanno (insomma una riduzione di posti del 66%!), o l’altra ipotesi di finanziare la riduzione dell’ICI sulla prima casa con un taglio di 1,3 miliardi di euro sulle spese sociali.
Il risultato di tutto ciò è sotto gli occhi di tutti (tranne che di Rifondazione Comunista): una riduzione drastica del livello di vita e del potere di acquisto; si fa sempre più fatica ad arrivare alla fine del mese, mentre cresce sempre di più l’indebitamento anche delle famiglie (passato dai circa 350 miliardi di euro di fine 2003 ai circa 490 miliardi di fine 2006, con un aumento cioè del 40%).
In questi stessi anni la sinistra dell’apparato politico della borghesia è riuscita a tenere a freno il malcontento dei lavoratori soprattutto con tutta una serie di ricatti (oltre che con il normale lavoro di sabotaggio delle lotte che operano i sindacati), tra cui quello più efficace è stato forse la paura che se non ci si tiene l'austerità dei governi di centrosinistra si rischia di far tornare Berlusconi al governo. E’ arrivata l’ora di sottrarsi a questo ricatto, di prendere coscienza che di destra o di sinistra tutti i partiti sono i difensori del capitalismo nazionale, e che solo la lotta unita di tutti i lavoratori può mettere un freno a questo stillicidio di attacchi alle nostre condizioni di vita.
Helios, 24/09/07
1. Dati presi dai rapporti dell’OCSE e dai quotidiani di queste settimane per i dati più recenti.
2. Nonché di alterare i dati dell’occupazione: è chiaro infatti che anche un lavoratore precario e a tempo ridotto viene conteggiato come occupato, così che il tasso di disoccupazione ufficiale risulta inferiore a quello reale (che invece dovrebbe tener conto anche dei giorni di occupazione e dell’orario di lavoro, perché è chiaro che due lavoratori a part time, per esempio, risultano sì due occupati, ma su un solo posto di lavoro!
A sentire la borghesia tutto andava per il meglio: valori record nelle borse, crescita sostenuta, prezzi sotto controllo. E poi, all’inizio di luglio... patatrac, si scatena una vera e propria tempesta in borsa che smaschera tutta la falsità di questi bei discorsi! In poche settimane, sulla scia del Dow Jones, l’indice newyorchese che ha ripiegato di oltre il 10%, le principali borse del mondo subiscono una caduta brutale.
Per arginare momentaneamente questa crisi, la FED e la BCE1 hanno scaricato più di 330 miliardi di dollari sui mercati! Queste somme colossali iniettate dalle differenti banche centrali bastano a testimoniare l’ampiezza del sisma ed i reali timori di tutte le borghesie. Oggi gli “esperti” ed altri imbonitori tentano nuovamente di illuderci presentandoci dei “conti” che non stanno né in cielo né in terra: questa convulsione estiva sarebbe solamente passeggera o, meglio ancora, una “correzione salutare” degli eccessi speculativi di questi ultimi anni! In realtà queste scosse sono il segno di una nuova fase di accelerazione della crisi, la più grave e più profonda dalla fine degli anni 60. E, come sempre, sarà la classe operaia a subirne le conseguenze.
Il mostro dell’indebitamento rivela il fallimento storico del capitalismoNelle colonne della stampa o nei programmi televisivi di questa estate, quando milioni di dollari sono andati ogni giorno in fumo, cosa hanno detto gli economisti borghesi? “Imprevedibile”. La crisi sarebbe esplosa senza un segno premonitore, come un fulmine a cielo sereno. Menzogne! I record borsistici, la fiammata immobiliare, ed anche la crescita, tutto questo era costruito sulla sabbia e tutti lo sapevano. La nostra organizzazione già nella scorsa primavera affermava che la pretesa buona salute dell’economia mondiale, che si basava sull’indebitamento, stava preparando un oscuro avvenire: “In realtà, si tratta di una vera fuga che lungi dal permettere una soluzione definitiva alle contraddizioni del capitalismo non fa che preparargli giorni futuri più dolorosi ed in particolare dei rallentamenti brutali della sua crescita” 2. Non si trattava di una premonizione ma di un’analisi fondata sulla storia del capitalismo. La crisi finanziaria attuale è una crisi dell’indebitamento e del credito. E questo indebitamento mostruoso non cade del cielo. È il prodotto di quarant’anni di sviluppo lento e contrastato della crisi mondiale.
Dalla fine degli anni 60 il capitalismo sopravvive attraverso il ricorso crescente all’indebitamento. Nel 1967 l’economia mondiale ha cominciato a rallentare. E da allora, decennio dopo decennio, la crescita è sempre stata più debole. La sola risposta della borghesia è stata mantenere il suo sistema sotto perfusione, iniettando somme di denaro sempre più folli sotto forma di credito e di debito. La storia economica di questi quaranta ultimi anni è rappresentata da una spirale infernale: crisi... indebitamento... più crisi... più indebitamento... Dopo gli shock petroliferi del 1973 e del 1979, c’è stata la recessione aperta del 1991-1993, la crisi asiatica del 1997-98 e lo scoppio della bolla Internet del 2000-2002. Ogni volta queste convulsioni sono state più violente e le conseguenze più drammatiche.
Oggi la crisi esplode di nuovo mentre l’indebitamento ha raggiunto livelli inimmaginabili. Il debito totale degli Stati Uniti, prima potenza militare ed economica del mondo, è passato da 630 miliardi di dollari nel 1970 a 36.850 miliardi nel 2003. E da allora la macchina si è totalmente imbizzarrita. Il debito cresce di 1,64 miliardi di dollari al giorno! Queste cifre vertiginose mostrano chiaramente che la crisi finanziaria attuale è ben più profonda di tutte quelle che l’hanno preceduta.
La crisi immobiliare ha scatenato una crisi finanziaria ancora più grandeDa un decennio, la follia speculativa ha invaso tutti i settori di attività. Come mai prima, la schiacciante maggioranza dei capitali non riesce più ad essere investita nell’economia reale (le imprese che producono dei beni e delle merci) per realizzare sufficienti profitti. Pertanto questi vengono orientati verso la pura e semplice speculazione. Banche, istituti di credito, società di speculazione più o meno specializzate negli investimenti a rischio (le famose hedge funds 3), dovunque si è assistito alla corsa verso questo supposto nuovo Eldorado. Il denaro, i crediti si sono messi allora a colare a fiotti. La borghesia sembrava avere un’unica ossessione, indebitarsi ed indebitarsi ancora.
È in questo contesto totalmente folle che le famiglie negli Stati Uniti ma anche, in misura minore, in Gran Bretagna ed in Spagna, sono state fortemente incoraggiate ad acquistare immobili e case senza averne realmente i mezzi. Le imprese finanziarie si sono messe a prestare denaro alle famiglie operaie a redditi estremamente modesti sull’unica garanzia del loro bene immobiliare. Il principio di base di questi mutui ipotecari (chiamati subprime) è questo: quando il Sig. X vuole acquistare una casa a 100.000 $, un organismo di credito, una banca per esempio, gli presta i fondi senza riserva e senza altra garanzia che l’ipoteca su questa casa. Se il Sig. X. è super indebitato e non riesce più a rimborsare il prestito, l’organismo di credito si riprende la casa, la rivende e recupera i suoi fondi, ossia i 100.000 $. Questa è l’unica garanzia per la banca. E' per tale motivo che sono principalmente gli hedge-funds (specialisti negli investimenti a rischio) a partecipare a questi subprime. I lavoratori salariati, potendo in tal modo ottenere più facilmente dei prestiti, sono stati quelli che più ne hanno usufruito per poter avere una casa propria. Come conseguenza i prezzi degli immobili hanno iniziato a lievitare, in media del 10% l’anno. I lavoratori, dai salari estremamente bassi, per poter acquistare della merce non hanno potuto far altro che ricorrere al debito; hanno dunque continuato ad indebitarsi al di là di ogni ragionevolezza, ipotecando la propria casa che nel frattempo valeva di più. Per esempio, il nostro Sig. X, vedendo aumentare fino a 120.000 $ il valore della sua casa, può nuovamente ricorrere al credito per 20.000 $ corrispondenti al maggior valore ipotecario. Poi il valore arriva a 150.000$. Il Sig. X può ancora ipotecare i nuovi 30.000$! E così via. Ma questa spirale ha un limite. Da un lato, la classe operaia si depaupera (licenziamenti, congelamento dei salari...); dall’altro, essendo i prestiti negli Stati Uniti a tassi variabili, questi crescono e le scadenze sono, mese dopo mese, di un importo sempre più elevato. Il risultato è tanto inesorabile quanto fatidico. Nel momento in cui un numero consistente di lavoratori non riesce più a rimborsare le rate ormai astronomiche, le banche procedono alle requisizioni dei beni ipotecati, la crisi esplode e la bolla immobiliare crolla, come appunto accade attualmente. Il numero delle case in vendita si moltiplica e dunque i prezzi cadono (potrebbero cadere dal 15 al 30%). Effetto perverso, il potere d’acquisto di milioni di famiglie che si basa proprio sul prezzo della loro casa e dunque della loro capacità di indebitarsi, con questa caduta dell’immobiliare crolla e li porta alla bancarotta. Se il valore della casa del Sig. X diminuisce (mettiamo a 110.000$), le banche non recuperano più i loro fondi, il Sig. X, non solo non ha più casa, non solo ha rimborsato gli interessi per parecchi anni, ma deve ancora la differenza alla finanziaria, ossia 40.000$ più gli interessi! Il risultato di tutto ciò non si è fatto attendere: più di tre milioni di famiglie si ritroveranno in mezzo alla strada questo autunno.
Nello stesso tempo, gli hedge-funds, oltre a prestare denaro sotto forma di subprime, si sono a loro volta super indebitate presso le banche ed altri organismi di credito per avere i mezzi necessari per speculare sui beni immobiliari. Il principio è semplice: acquistare un bene e rivenderlo successivamente puntando al rialzo del mercato immobiliare. Così, lo scoppio della bolla immobiliare significa anche il fallimento di tutti questi fondi. Infatti, proprio recuperando i beni ipotecati e gettando milioni di persone sul lastrico, questi organismi ereditano case che non valgono più niente. Per effetto domino anche le banche ed altri organismi di credito vengono coinvolte. Immaginate! Queste istituzioni chiedevano prestiti le une alle altre al punto di non sapere più chi doveva del denaro ed a chi! Ogni giorno che passa apprendiamo che una banca o un istituto di credito è sull’orlo del fallimento o sono già fallite come, ad esempio la banca Countrywide negli Stati Uniti o la Sachen LB e la IKB in Germania. I loro debiti, che corrispondono all’investimento nei settori a rischio, ammontano a più di 10.200 miliardi di dollari! Adesso è tutto il settore speculativo e del credito ad entrare in crisi aperta.
La classe operaia ancora una volta paga i cocci rotti: nel mese di agosto i piccoli risparmiatori negli Stati Uniti ed in Germania sono corsi nelle banche per cercare di salvare i loro risparmi. Sarà certamente la stessa cosa domani in Gran Bretagna, in Spagna, in Giappone o in Cina.
Dietro la crisi finanziaria, la crisi dell'economia “reale”Una crisi finanziaria di tale portata diventa sempre una crisi dell’economia reale. La sola questione da porsi oggi è relativa alla sua ampiezza. Ancora prima della crisi finanziaria di questa estate, gli specialisti della borghesia avevano già iniziato a rivedere al ribasso le previsioni della crescita mondiale. Nel gennaio 2007 le Nazioni Unite annunciavano che questa sarebbe arretrato al 3,2% quest’anno, dopo avere ostentato il 3,8% nel 2006 e 4,5% nel 2005. Ma con lo scoppio della crisi borsistica, tutte queste cifre vanno di nuovo riviste al ribasso.
In effetti, la profonda crisi del credito significa inesorabilmente un abbassamento brutale di attività per tutte le imprese. Più nessuno vuole o può prestare del denaro alle imprese per investire. Ora, i benefici record che queste talvolta ostentano sono in realtà basati in grandissima parte su un indebitamento massiccio. Chiuso il rubinetto del credito, la maggior parte di queste imprese si ritrovano in una brutta posizione. L’esempio più sorprendente è indubbiamente il settore edile. Essendo la bolla immobiliare basata unicamente sui prestiti a rischio, il numero di costruzioni va a cadere; questa attività si riduce molto negli Stati Uniti, ma anche in Gran Bretagna, in Germania, in Spagna ed in altri paesi sviluppati, pertanto viene ad essere colpita l’insieme della crescita. E le ripercussioni vanno ben oltre: “dato che negli Stati Uniti un prestito immobiliare finanzia almeno l’80% dei consumi, è tutta la domanda delle famiglie che è colpita. Il consumo americano va dunque a piegarsi e perde da un punto ad un punto e mezzo, la crescita dell’anno prossimo invece di raggiungere il 3,5%, potrebbe non superare il 2%” (Patrick Artuis La Tribune de l’Economie, del 27/08/07). E siamo ancora in uno scenario ottimista. Certi specialisti sono d’accordo nel dire che la crescita americana dovrà attestarsi al di sotto dell’1%! Questa recessione americana ha naturalmente un’importanza mondiale. L’Europa ha un’economia profondamente legata all’attività d’oltre Atlantico. Inoltre il rallentamento attuale di queste due economie avrà necessariamente forti ripercussioni in Cina e nell’insieme dell’Asia. L’Europa e gli Stati Uniti rappresentano il 40% delle esportazioni cinesi! È dunque tutta la crescita mondiale che rallenterà brutalmente.
Ma manca ancora un fattore aggravante per comprendere bene ciò che sta per accadere: il ritorno dell’inflazione. In Cina, questo paese benedetto dai capitalisti per i suoi tassi di crescita a due cifre, ha un tasso di inflazione del 5,6% annuo (il più alto livello da dieci anni) e che continua ad aumentare di mese in mese. Questo paese è il simbolo di una tendenza che adesso si sviluppa internazionalmente in particolare nel settore delle materie prime e dell’alimentazione. I prezzi degli alimenti di base dovrebbero arrivare vicino al 10%. Effetto palla di neve: il consumo della classe operaia e della grande maggioranza della popolazione subisce un colpo d’arresto, il che aggrava ancora di più la situazione delle imprese.
Dalla fine degli anni 60 si sono avute ripetute cadute della borsa e recessioni. Ogni volta queste sono state più brutali e profonde. Questo nuovo episodio non sfuggirà alla regola, rappresenta un passo qualitativo supplementare, un aggravamento senza precedenti della crisi storica del capitalismo. È la prima volta che tutti gli indicatori economici virano al rosso simultaneamente: crisi del credito e dei consumai, indebitamento faraonico, recessione ed inflazione! Eccoci di fronte alla peggiore recessione da più di quarant'anni. I colpi cadranno sulle spalle della classe operaia; solo la lotta unita e solidale ci permetterà di farvi fronte!
Tino (30 agosto)
(da Revolution Internazionale, settembre 2007)
1. FED = Banca Centrale Americana; BCE = Banca Centrale Europea.
2. Risoluzione sulla situazione internazionale adottata al nostro ultimo congresso e pubblicata nella nostra Revue internationale n°130 e sul nostro sito internet.
3. Gli hedges funds gestiscono ufficialmente circa 1.300 miliardi di dollari.
L’estate del 2007 è stata ancora una volta marcata dal crescente caos militare e dall’orrore nella maggior parte del mondo. Mentre in Libano la situazione si è momentaneamente calmata (con l’eccezione della carneficina nel campo profughi di Nahr el-Bared dopo una lunga tregua tra l’esercito e gli islamici), in Afghanistan si è avuta una netta ascesa nello scontro e negli attacchi terroristici da parte dei Talebani. Nel frattempo il massacro in Iraq è continuato senza tregua. A dozzine muoiono ogni giorno, sia nei conflitti armati che negli attentati suicidi, la maggior parte dei quali diretti sulla popolazione inerme. Questa insana violenza si è diffusa in tutto il paese in modo crescente ed incontrollato. Cinquecento persone della comunità Yazidi¹ sono state uccise con quattro attacchi successivi esplosi in agosto, mentre Curdi, Sunniti e Sciiti erano contemporaneamente sotto attacco. Nel solo mese di luglio 1650 civili iracheni sono morti e i dati di agosto sono probabilmente peggiori.
Dal 2003, centinaia di migliaia di iracheni hanno perso la vita come diretta conseguenza della guerra. La popolazione è affamata, privata di assistenza medica, l’elettricità e l’acqua sono un lusso. Bagdad è trasformata in una serie di ghetti murati, con famiglie divise a metà, e gestiti da ogni tipo di bande rivali tra loro.
Più di due milioni di persone sono fuggite attraverso il paese cercando di sfuggire al massacro, lo stesso numero ha invece lasciato il paese per la stessa ragione.
L’esercito americano ha avuto ufficialmente più di 3.000 perdite; alcune fonti dicono 10.000, senza contare il numero crescente di suicidi (100 solo nel 2006) e tra i ranghi ci sono rumori di rivolta.
Questa è l’immediata eredità della grande guerra al terrorismo dell’amministrazione Bush. Secondo i recenti sondaggi il 58% degli americani adesso pensa che la guerra è stato un errore.
La crociata anti-terrorismo degli Stati Uniti è stata un fallimento totale ed ha lasciato Washington in una vera impasse. Le varie opzioni che può prendere in considerazione oggi le sono tutte sfavorevoli. Bush è stato incapace di insediare un governo iracheno che avesse un minimo di credibilità e che non rappresentasse la semplice espressione del dissenso tra sciiti e sunniti. Le rappresentanze di questo governo si sono spartite le armi concesse alle autorità irachene dal Pentagono negli ultimi tre anni, formando quindi gli arsenali per le rispettive cricche. Per non parlare delle forze di polizia che frequentemente permettono l’accesso dei terroristi-kamikaze nei campi militari americani. Ciò per quanto riguarda l’affidabilità delle istanze e degli uomini messi in piazza dagli Stati Uniti. La loro permanenza in Iraq non cambia la situazione se non aggravarla ancora di più sul posto ed aumentare l’opposizione alla guerra negli Stati Uniti.
D’altra parte abbandonare l’Iraq (operazione che richiede parecchi mesi trattandosi 150.000 uomini) potrebbe essere molto costoso in termini di sicurezza per l’esercito statunitense ed aprire la strada ad esplosioni di violenza ulteriori, con l’Iran che attende ai cancelli. Questo non può essere certo controbilanciato dai 90 uomini che l’ONU ha intenzione di mandare in Iraq, al posto dei 65 già presenti sul posto.
Tuttavia, la prospettiva di un ritiro quanto meno parziale è ormai prevista dall’amministrazione Bush. In questa ottica e per controbilanciare le ambizioni egemoniche di Teheran, gli Stati Uniti stanno cercando di costruire un blocco di paesi arabi pro-americani tra gli stati Arabi offrendosi di rinforzare i loro apparati militari: 20 miliardi di dollari spesi negli ultimi dieci anni in armamenti ultra sofisticati per l’Arabia Saudita, Qatar, Bahrain, Kuwait e Emirati Arabi, e tredici miliardi per l’Egitto nello stesso periodo. Naturalmente Israele ha reclamato la propria parte dato che non ha intenzione di veder sminuire la propria superiorità militare nella regione. La cifra ammonta a 30 miliardi di dollari in armi, vale a dire un aumento del 25% dei rifornimenti militari Usa al governo Israeliano. In altre parole gli Stati Uniti stanno concentrando scorte di armi in una regione già altamente instabile. Nel caso dell’Arabia Saudita è come rimpinzare un paese da sempre sospettato di appoggiare i terroristi sunniti in Iraq, incluso Al Qaeda.
In un mondo dove la regola è “ognuno per sé”, la risposta della potenza alla guida del mondo è esasperare ancora di più il caos.
Dalla fine del 2006 assistiamo ad una febbrile crescita nella corsa agli armamenti. Ottenere armi nucleari è diventato il principale obbiettivo per molti Stati. Questo non può sorprenderci. I test nucleari della Corea del Nord sono iniziati nel 2006, i ripetuti acquisti di tecnologia nucleare e missili russi da parte dell’Iran nell’ultimo anno, le ambizioni di paesi come il Brasile di riattivare i propri programmi nucleari, … questi sono tutti segnali di come tutti i paesi non si accontentano più di stare sotto “ombrello nucleare” di questa o quella grande potenza, ma vogliono avere le proprie armi.
Gli stessi Stati Uniti hanno giocato un ruolo importante in questa corsa. A seguito della collisione tra il satellite meteorologico americano ed il missile cinese avvenuta nel gennaio del 2007 – un evento che ha evidenziato la potenziale debolezza degli USA nel controllare le proprie forze terrestri, aeree e navali a grande distanza – la risposta è stata di rafforzare il proprio scudo anti-missili alle porte della Russia. Quest’ultima ha risposto con la vaga minaccia di puntare verso le città europee e con quella più concreta di installare missili a Kaliningrad sul Baltico, proprio tra Polonia e Lituania, in prossimità dello scudo americano.
Ma la corsa all’armamento nucleare non è una prerogativa delle grandi potenze. Stiamo infatti assistendo allo sviluppo di una cintura nucleare che corre dal medio all’estremo Oriente, da Israele alla Corea del Nord, passando per India, Cina e Pakistan, il tutto sovrastato dall’arsenale russo. In breve, una polveriera atomica, localizzata in regioni che già sono teatro di ogni sorta di tensioni e conflitti aperti. Una spada di Damocle sulle nostre teste che non sarà sollevata dai trattati di non proliferazione che non valgono neanche la carta su cui sono scritti. Solo il massiccio sviluppo della lotta di classe e l’abbattimento del capitalismo porrà fine della minaccia della guerra e darà un futuro all’umanità.
Mulan
(basato su un articolo apparso in Revolution Internationale 382, Settembre 2007).
1. Gli Yazidi sono una comunità religiosa vista come eretica dall’islam sunnita ortodosso. Molti di loro sono Curdi.
Gli articoli che seguono sono solo qualche esempio della risposta che la classe a livello internazionale sta dando contro effetti della crisi mondiale. Dall’inizio dell’anno le lotte si sono susseguite in molti paesi del mondo, dall’Europa all’America Latina, al Sud-Africa, dagli USA alla Cina. Lotte certo ancora sparpagliate e circoscritte, ma significative della tendenza ad uno sviluppo importante dello scontro di classe.
In Gran Bretagna questa estate i lavoratori delle poste, della metropolitana di Londra e del settore pubblico sono scesi in lotta contro gli irrisori aumenti salariali e la perdita di posti di lavoro (solo nelle poste negli ultimi anni si sono persi 50.000 posti di lavoro e se ne prevede l’eliminazione di altri 40.000).
In Spagna, ad aprile, 40.000 operai provenienti da tutte le fabbriche della Baia di Cadice sono scesi in piazza per manifestare la loro solidarietà nella lotta con gli operai licenziati a Delfi ed un movimento ancora più ampio si è esteso, in maggio, nelle altre province dell’Andalusia.
In Germania, per sei settimane hanno avuto luogo tutta una serie di scioperi coinvolgendo 50.000 operai della Telecom ed anche i ferrovieri sono scesi in lotta per difendere il salario.
In Belgio, all’inizio di luglio a Oostakker, è scoppiato uno sciopero selvaggio alla Volvo durante il rinnovo contrattuale, con gli operai che manifestavano in piazza mentre i sindacati continuavano le trattative, allo stesso tempo alla Opel di Anversa con una serie di scioperi e proteste (molte non “ufficiali”) i lavoratori lottavano contro la perdita di numerosi posti di lavoro.
E mentre nel Sud-Africa in luglio ed agosto sono continuate le lotte nelle miniere, ma anche nel settore auto ed in una serie di industrie manifatturiere, in America latina alle numerose lotte che da mesi scoppiano in Perù ed in Messico (3715 fabbriche colpite da scioperi nei primi sei mesi dell’anno), si aggiungono quelle dei lavoratori del metrò di Buenos Aires, in Argentina, che nelle assemblee generali hanno organizzato un sciopero contro l’accordo salariale firmato dai propri sindacati. Ed in Brasile, dopo la lotta dei controllori di volo dello scorso marzo, contro il pessimo stato del servizio aereo e soprattutto contro l’arresto di 16 loro compagni di lavoro perché avevano scioperato, in giugno per più settimane, un diffuso movimento di sciopero ha interessato il settore dell’acciaio, il settore pubblico e le università - il più importante movimento di classe in questo paese dal 1986.
Per maggiori informazioni vedi il nostro sito internet: www.internationalism.org [65]Nello scorso giugno, in Sud Africa ha avuto luogo uno sciopero di quattro settimane¹. Tra 600.000 ed un milione di lavoratori hanno interrotto il lavoro provocando la chiusura della maggior parte delle scuole e di numerosi uffici, il blocco di alcuni trasporti pubblici e la sostituzione del personale degli ospedali con personale militare. Questo movimento della classe operaia è il più importante dalla fine dell’apartheid nel 1994. Durante questi scioperi il sindacato COSATU ed il SACP (Partito Comunista del Sud Africa), che fanno parte della coalizione governativa al potere con l’ANC, si sono dati da fare per demolire la forza dello sciopero e fare passare gli attacchi al potere d’acquisto dei salari.
La fine dell’apartheid non ha cambiato niente
Le condizioni di vita e di lavoro in Sud Africa si sono deteriorate terribilmente per la maggioranza della popolazione. La speranza di vita, il grado di alfabetizzazione, l’assistenza sanitaria sono tramontati. Adesso 5,5 milioni di pazienti sono colpiti dall’AIDS, la cifra più alta al mondo.
I sindacati, i commentatori di sinistra e di ultra sinistra accusano regolarmente la politica “pro-business” e particolarmente avida del presidente Thabo Mbeki. Ma non è a causa della cupidigia o di politiche economiche particolari che il governo ANC/SACP/COSATU attacca le condizioni di vita degli operai e degli altri strati non sfruttatori in Sud Africa. Un governo capitalista non può essere altro che “pro-business” e dunque contro la classe operaia. La sola “liberazione” che sia sopraggiunta nel 1994 è stata quella di un piccolo numero di attivisti politici neri per occupare una posizione più importante nell’apparato politico della classe dominante e ingannare meglio la classe operaia. Le elezioni che ci sono state dopo sono servite a rafforzare l’idea che, con l’arrivo di una maggiore democrazia, qualche cosa di fondamentale era cambiato nella società sud-africana. Il Socialist Worker (9 maggio 2007) ha riportato le riflessioni di un operaio in una manifestazione a Pretoria: “pensavamo che il governo ci avrebbe sostenuto come operai perché noi li abbiamo messi al potere, ma è come se ci avesse dimenticato”. Questo tipo di illusioni è sostenuto costantemente dai sindacati e dalle frange più “radicali” della sinistra borghese che sono ben contenti di blaterare sulle concessioni dell’ANC al neo liberismo ma non l’etichettano mai apertamente come parte a pieno titolo della borghesia.
Prospettive per le lotte future
Alcuni commentatori hanno visto il recente sciopero come un segno del ruolo più indipendente che i sindacati stavano giocando e che ciò avrebbe potuto incoraggiare gli operai ad intraprendere azioni future. In realtà, è proprio perché cresce il malcontento tra la classe operaia che i sindacati cercano di prendere le distanze dal governo. In Socialist Workers (23 giugno 2007), un membro dell’organizzazione gauschista South Africa’s Keep avanzava l’idea che il clima in corso “apre la porta ad una rinascita dell’azione autonoma durante gli scioperi”. Ciò che è certo è che tutti i pretesi difensori della classe operaia (sindacati ed altri) si sarebbero opposti con tutte le forze all’emergere di una reale azione autonoma degli operai. Una reale lotta autonoma avrebbe potuto permettere ai lavoratori di prendere in mano le proprie lotte, al di fuori dei sindacati. E ciò non è avvenuto.
Questa lotta, sebbene più significativa, non è affatto un episodio inedito nell’ultimo decennio. Nell’agosto 2005, 100.000 operai delle miniere d’oro hanno scioperato per rivendicazioni salariali. Nel settembre 2004, si è vista la più importante giornata di sciopero come numero di partecipanti della storia del Sud Africa: 800.000 secondo le cifre fornite dai sindacati, 250.000 secondo quelle del governo. Particolarmente inferociti erano gli insegnanti che non ricevevano aumenti salariali dal 1996. Nel luglio 2001, c’era stata un’ondata di scioperi nel settore minerario ed in quello energetico; nell’agosto 2001, uno sciopero di tre settimane che ha coinvolto 20.000 operai del settore automobilistico. Nel maggio 2000, gli scioperi nell’industria delle miniere si sono estesi al settore pubblico. Durante l’estate 1999, ci sono state ondate di scioperi che hanno incluso i lavoratori delle poste, delle miniere e del settore pubblico (insegnanti, ospedalieri, ed altri).
Implicitamente tutte queste lotte hanno portato oggi gli operai ad insorgere contro l’ANC ed il governo sud-africano. Ma l’ultima ondata di scioperi ha mostrato anche la necessità per la classe operaia di sviluppare una presa di coscienza sulla natura borghese di questi falsi amici (partiti di sinistra e sindacati) e del significato globale delle sue lotte.
Da World Revolution, sezione della CCI in Gran Bretagna
1. Una versione più dettagliata di questo articolo è disponibile sul nostro sito: www.internationalism.org [65]
Un compagno di Lima, che è in corrispondenza e discute regolarmente con la nostra organizzazione, ci ha inviato recentemente un articolo sullo sciopero dei minato in Perù dell’aprile scorso (vedere Acción Proletaria n° 195) e degli elementi su un movimento di insegnanti che si stava sviluppando quando i focolai della prima lotta non erano ancora spenti. Salutiamo calorosamente questo sforzo del compagno perché è di primaria importanza che circolino velocemente le esperienze, le lezioni, le notizie sulle lotte operaie che sorgono nel mondo. Il contributo del compagno è un esempio che incoraggiamo a seguire. L’articolo che segue è ripreso interamente dai testi e dagli elementi informativi che il compagno ci ha inviato.
La situazione sociale nel Sud America è sempre più contrassegnata dallo sviluppo di lotte operaie. In Cile, dall’anno scorso, hanno luogo scioperi a ripetizione nelle miniere di rame il cui sfruttamento rappresenta il 40% della produzione mondiale. Il che evidenzia l’importanza del settore minerario in questo paese dove la classe operaia conosce una brutale degradazione delle condizioni di vita e di lavoro. È difficile ottenere notizie precise su questi movimenti. I media organizzano il blackout. Sappiamo solamente che i sindacati hanno organizzato una forte divisione tra gli operai dell’impresa statale CODELCO e quelli delle imprese subappaltate, dando a questi ultimi un terzo di stipendio in meno per lo stesso lavoro, come pure tra gli scioperanti e gli operai al lavoro. Lo sciopero è durato trentotto giorni, fino a luglio, concludendosi con promesse di miglioramenti contrattuali per gli operai in subappalto, senza per questo modificarne lo statuto che era invece la loro principale rivendicazione.
Sciopero nelle miniere in Perù
In aprile, lo sciopero partito dall’impresa cinese Shougang si è esteso in tutti i centri minerari del paese. I sindacati hanno giocato pienamente il loro ruolo reazionario, in particolare nella più importante miniera del paese, Yanacocha (miniera di oro che si trova a Cajamarca, nel nord del paese, e fattura tra gli ottocento ed i mille milioni di dollari annui) dove hanno intavolato trattative private con la direzione e non si sono uniti allo sciopero. Addirittura, i sindacalisti del bacino di Oroya sono stati fustigati dalla stampa perché continuavano a lavorare.
A Chimbote, dove c’è stata anche una forte lotta dei contadini e dei disoccupati, l’impresa Sider Perù è stata totalmente paralizzata. Le donne dei minatori e gran parte della popolazione di questa città hanno manifestato al fianco degli operai. Ad Ilo, così come a Cerro di Pasco, le strade sono state bloccate e 15 minatori sono stati arrestati con l’imputazione di avere lanciato delle pietre contro la sede del Governo regionale. La stampa si è affrettata a proclamare che lo sciopero era stato un insuccesso parlando di 5.700 minatori in sciopero mentre erano 120.000.
Nelle montagne di Lima i minatori di Casapalca hanno sequestrato gli ingegneri della miniera che minacciavano di licenziarli se avessero abbandonato il posto di lavoro. Il ministro del settore, Pinella, ha dichiarato che lo sciopero era illegale perché il preavviso era stato solamente di quattro giorni invece dei cinque richiesti dalla legge. Il padronato ha assunto del personale con contratto a tempo determinato ed il ministro ha minacciato di licenziamento i minatori che continuavano lo sciopero.
Alcuni studenti dell’università di San Marcos di Lima hanno solidarizzato con i minatori e hanno portato loro del cibo per la “mensa comune”, pratica corrente in tutti gli scioperi in Perù, sia che si tratti degli insegnanti, degli infermieri o degli operai delle miniere, che serve anche a scambiare esperienze ed ad analizzare collettivamente la lotta giorno dopo giorno.
È significativo che questo sciopero nazionale illimitato abbia avuto luogo dopo 20 anni di calma sociale in questo settore.
Lotte degli insegnanti in Perù
Il 19 giugno, il dirigente sindacalista degli insegnati, Huaynalaya, ha proclamato uno sciopero nazionale, ed il suo appello ha trovato un’eco in tutto il paese. Huaynalaya è considerato dalla stampa un oppositore alla maggioranza del sindacato degli insegnanti (SUTEP), e uno che assume un orientamento pro-cinese all’interno del partito Patria rossa.
Il sindacato si è alla fine unito allo sciopero il 5 luglio. Nei giorni precedenti i giornalisti, i cui programmi politici hanno un alto indice di ascolto, hanno dedicato ampi spazi alla denigrazione del movimento.
La posizione della stampa è stata chiarissima: gli insegnanti sono responsabili della propria incapacità intellettuale e si fanno portatori di una “cultura dello sciopero” che priva i bambini e gli adolescenti della nazione di preziose ore di lezione. Argomentazione alquanto contraddittoria: come possono essere preziose delle ore di lezione tenute da incapaci?
In realtà quello che si teme è che gli studenti scendano in piazza per sostenere gli insegnanti come accadde nel 1977, esperienza che fece nascere all’epoca una nuova generazione di militanti di diversi partiti che si orientarono verso la lotta armata.
Lo stesso ministro dell’Educazione ha affermato che gli scioperanti erano solo 5.000 su 250.000 insegnanti impiegati nel suo ministero. Ha dovuto poi riconoscere il suo “errore”. La mobilitazione si è estesa in tutto il paese: a Juliaca, Puno, Ucayali, Ayacucho e Huanuco. In più gli insegnanti sono stati sostenuti da tutta la popolazione, come era capitato due mesi prima quando gli scioperi dei minatori mobilitavano quasi tutto il paese. Un lavoro di coordinamento e presenza di settori più combattivi capaci di fare un bilancio di questa esperienza restano ancora molto limitati. I sindacati sono ancora in primo piano e diventano un freno al movimento di rivendicazioni operaie.
Riflessioni sulle lotte attuali
Le lotte attuali in Perù e che coprono tutto il territorio sono il frutto di una confluenza di avvenimenti che trovano le loro origini in due focolai di malcontento. Da una parte, le rivendicazioni a carattere regionale, in particolare a Pucallpa dove la città è stata presa ed isolata per più di 15 giorni e, dall’altra, lo sciopero del sindacato degli insegnanti SUTEP, cominciato il 19 giugno nella provincia dagli insegnanti che si opponevano agli orientamenti del partito Patria rossa (partito di sinistra della borghesia) e raggiunto in seguito dall’insieme del sindacato, con l’adesione della maggioranza dei 320.000 insegnati in Perù a partire dal 5 luglio.
Questa mobilitazione unita alle rivendicazioni regionali (eteroclite e necessariamente molto localiste) ha suscitato una gigantesca reazione di massa in tutto il paese. Il numero di feriti e di arresti resta sconosciuto, e le occupazioni di locali, incendiati e distrutti durante gli scontri con la polizia, si sono estese in tutti i dipartimenti in lotta. Il ministero ha confessato, il 9 luglio, che rimanevano 75 conflitti non risolti, il che indica che in realtà il loro numero è ben più alto.
Le lotte attuali, nonostante la violenza che scatenano, non contengono una prospettiva di autonomia del proletariato che gli permetta di lottare per i propri obiettivi ed il proprio programma. Il proletariato in questo momento è sottomesso agli interessi della borghesia locale ed ai suoi alleati piccoli borghesi di ogni risma (intellettuali, giornalisti…), ma i proletari che intervengono in questi movimenti devono costituire i nuclei che permettano di trarne le lezioni e favorire l’autonomia della lotta, unico percorso dell’unica classe capace di farla finita con la disperazione del sistema capitalista ed il suo corteo di miseria, di morte e di distruzione, la classe operaia.
Lima, 9 luglio 2007.
Da Révolution Internationale, organo della CCI in Francia
L’articolo di Programma comincia con una serie di falsità inventate di sana pianta. “Gli organizzatori e i convenuti facevano parte di un’area composita che intendeva valutare la possibilità di organizzare un lavoro comune “di lungo respiro” nei prossimi appuntamenti contro la guerra. Tra i partecipanti, anche Battaglia comunista (BC) la Corrente Comunista Internazionale (CCI) (…) i quali evidentemente pensano che a questi convegni vada dato un apporto programmatico (scritto o verbale) per giungere così a un minimo di omogeneità politica, in vista di un intervento comune”.
La CCI, che ha partecipato al convegno, si è battuta contro l’idea che il tutto si riducesse a organizzare l’ennesima manifestazione assieme e mettendo al centro la questione della chiarificazione e del confronto su cosa significasse realmente essere internazionalisti. Programma avrebbe per lo meno dovuto documentarsi prima di dire tali eresie. Per il resto l’articolo di Programma fa tutta una serie di critiche a posizioni presenti al convegno che noi condividiamo perfettamente. E’ vero che diverse formazioni presenti al convegno difendevano posizioni decisamente borghesi, ma altre erano piuttosto l’espressione di una ricerca di una prospettiva proletaria, anche se contaminata dall’influenza di visioni borghesi, come era chiaro dallo stesso documento di convocazione del convegno.
Che fare dunque? Stare alla larga da tale “contaminazione” o intervenire, come ha fatto la CCI?
Programma è per la prima ipotesi, non impelagarsi in alcun modo in discussioni con altre forze politiche. La posizione di Programma è cioè ancora una volta quella che espresse nel lontano 1976 a proposito della prima delle tre Conferenze della Sinistra Comunista, tenute dal 1976 al 1980, quando parlò di “fottenti e fottuti”, ritenendo cioè che qualunque discussione tra gruppi - ed allora si trattava di gruppi rivoluzionari - avesse dietro un inganno degli uni contro gli altri3. Chi sa mai poi perché, negli stessi anni ’70, Programma è andata rincorrendo, a destra e a manca, i vari gruppetti di “autonomi”, di stalinisti e altro ancora per riempire i comitati contro questo e quello, che facevano all’epoca tanto “azione di partito” e su cui è poi naufragata miseramente4.
Programma considera ancora che un ulteriore segno dell’opportunismo del convegno sia stato quello di non aver parlato “mai della necessità del partito comunista su scala internazionale (è l’ultima delle loro preoccupazioni)”. Ma ci chiediamo a questo punto cosa intenda Programma per partito, qual è il ruolo che gli attribuisce? Noi pensiamo che sia quello di portare avanti un’analisi e un programma tra i proletari, di cercare gli argomenti per permettere loro di arrivare ad una chiarezza politica, di dare loro la forza per superare le loro esitazioni, per lottare, per aggregarsi, per osare pensare che un mondo diverso, comunista, si possa realmente realizzare. Ma per fare questo un partito (o un gruppo che voglia mettersi sulla strada per costruire il partito di domani) deve lottare sin da oggi, deve svolgere il suo intervento di chiarezza soprattutto in circostanze come quelle del suddetto “convegno internazionalista”, dove la circolazione di posizioni chiaramente borghesi ammantate da sinistrismo possono avere qualche attrattiva su dei proletari ed in genere sugli elementi che ricercano questa chiarezza. Da questo punto di vista non ci sembra che l’atteggiamento di chiusura su sé stesso di Programma, al di là delle grandi proclamazioni sulla necessità del partito, risponda alle necessità del caso.
Notiamo piuttosto in Programma un accumulo di contraddizioni da cui questo gruppo fa, in tutta evidenza, fatica a liberarsi. Per dimostrarlo torniamo un attimo alle critiche che Programma muove ad alcune delle posizioni emerse al convegno. Del tutto correttamente Programma critica: il “richiamo a un «supplemento di rivoluzione borghese»”, il fatto che “l’autodeterminazione palestinese è al centro della scena, leva necessaria e insostituibile per un cambiamento rivoluzionario con fine immediato la «distruzione dello Stato sionista»”, o ancora contro l’idea dell’“islamismo «bandiera degli oppressi», etc. etc.”.
Come già detto le critiche, ammesso che rispondano sempre alle posizioni realmente difese dai singoli gruppi, esprimono una posizione corretta contro delle posizioni sbagliate. Ma come si fa a vantarsi di avere le vere posizioni marxiste e non provare a difenderle là dove ce n’è il bisogno, là dove si produce la battaglia teorica e politica tra le visioni borghesi e piccolo-borghesi e quelle rivoluzionarie?
Ma vorremmo anche sottoporre a Programma “di oggi” queste altre posizioni e capire se si sente di criticarle con lo stesso fervore. E’ criticabile si o no:
· dire che: “… si tratterà dunque di integrare nel movimento rivoluzionario delle masse operaie e proletarizzate del Medio Oriente contro tutto l’ordine borghese, la loro storica battaglia per l’autodeterminazione nazionale rivoluzionaria, il che implica la distruzione dello Stato di Israele fondato sul privilegio ebraico e la fondazione in Palestina di uno Stato laico basato sul riconoscimento di una completa uguaglianza giuridica, razziale e religiosa…” (Programma Comunista n. 17, 1982);
· o ancora sviluppare, come fa Le Proletaire (all’epoca organo di Programma in Francia) nel suo n°363 dedicato in gran parte alla guerra del Libano degli anni XXX, un’analisi e un atteggiamento degni del più abbietto nazionalismo, del tipo: “a ciascuno il suo israeliano”, chiamando i proletari “arabi” a partecipare alla guerra “fino all’ultima goccia di sangue”, contro lo “Stato colonialista di Israele” ed offrendo il suo appoggio, appena appena critico, ai capi militari dell’OLP.
Come si vede Programma si fa del tutto impropriamente maestro di marxismo, quando proprio su queste tematiche ha preso tanti scivoloni da rompersi letteralmente il collo. La disgregazione del vecchio gruppo Programma, avvenuta negli anni 80-82, fu proprio l’espressione delle forti tare nazionaliste che portava con sé questo gruppo a causa dell’incomprensione profonda della fase storica in cui si trovava a lavorare (vedi Revue Internazionale n° 32). Incomprensione che continua tuttora visto che nel n° 4 di quest’anno, nell’articolo “Esiste ancora una ‘questione nazionale palestinese’?” si dice:
“La rivendicazione dell’“autodeterminazione palestinese” si può porre ancora utilmente (cioè dal punto di vista dello sviluppo della lotta di classe nell’area) solo ed esclusivamente per ciò che riguarda il proletariato israeliano (che deve così dimostrare, nei fatti, ai proletari palestinesi, di voler lottare contro la propria borghesia anche su questo terreno): non certo per dare così “nuovo slancio” e “vigore” al movimento nazionale del proletariato palestinese, ma solo come atteggiamento tattico disfattista contro la propria borghesia, per accrescere la fiducia del proletariato palestinese nei confronti di quello israeliano, considerato altrimenti complice dei misfatti della propria borghesia. Solo così si potrà cominciare a uscire dal drammatico vicolo cieco dei massacri anti-proletari, di marca israeliana o arabo-palestinese.”
Cosa propone in sostanza Programma ai proletari israeliani? Di lottare contro i licenziamenti, contro l’aumento dei prezzi, ma portando in giro le bandiere palestinesi per attirare i proletari che vengono massacrati sotto queste stesse bandiere! Non esiste più il vecchio motto “Proletari di tutti i paesi, unitevi!”? È solo la lotta contro i rispettivi sfruttatori, la lotta per la difesa dei propri interessi di classe che porta i proletari all’unificazione. I proletari israeliani non hanno nulla da farsi perdonare da chicchessia, così come i proletari occidentali che vengono accusati di collaborazionismo con le proprie borghesie dai vari gruppi gauchiste. Seguendo questa logica i proletari americani, per poter lottare, dovrebbero rivendicare l’autodeterminazione di quasi tutti i popoli oppressi del mondo!
Tutto questo dovrebbe far capire quanto sia forte il peso dell’ideologia borghese - da cui non sono immuni neanche le stesse organizzazioni rivoluzionarie - e soprattutto quanto sia necessario combatterla là dove questa cerca di imporsi di fronte a dei tentativi, parziali, confusi ed errati quanto si vuole, di riappropriarsi delle posizioni di classe.
Dall’insieme degli elementi sviluppati si può vedere come Programma sia ben lontana non solo dall’aver superato le confusioni del passato, ma anche dall’aver assimilato l’insegnamento del marxismo che ci ricorda come:
“La dottrina materialistica, secondo la quale gli uomini sono prodotti delle circostanze e dell’educazione, dimentica che sono proprio gli uomini che modificano le circostanze e che l’educatore stesso deve essere educato. Essa è perciò costretta a separare la società in due parti, una delle quali sta al di sopra dell’altra. La coincidenza nel variare delle circostanze dell’attività umana, o autotrasformazione, può essere concepita o compresa razionalmente solo come prassi rivoluzionaria”. (K. Marx, Tesi su Feuerbach).
Oblomov, 30 settembre 2007
1. Vedi l’articolo: “Sul Convegno internazionalista di Milano del 14 aprile 2007. La discussione non è un lusso ma un’arma di lotta per la classe operaia” Rivoluzione Internazionale n°151.
2. Programma Comunista n° 3, maggio-giugno 2007.
3. Vedi “La II Conferenza Internazionale dei gruppi della Sinistra Comunista” su Rivoluzione Internazionale 15/16 e 17.
4. Vedi, ad esempio, l’articolo “A proposito del … Comitato di difesa proletaria” su Rivoluzione Internazionale n° 24.Abbiamo già ricordato come la nostra apertura sia determinata dalla convinzione dell’esistenza di una nuova generazione di proletari alla ricerca di una chiarificazione politica. Ma se noi siamo del tutto aperti alla discussione, non per questo facciamo concessioni sulle nostre posizioni politiche che difendiamo con determinazione. E lo percepiscono bene proprio quelle forze come Red Link che, per spingere sulle proprie posizioni borghesi la discussione del convegno, ci hanno continuamente “marcato ad uomo”, continuando la loro opera di maldicenze sul blog “no-war” che, come detto, ha mantenuto la discussione tra alcuni dei partecipanti al convegno. Da un messaggio mail di un militante di questo gruppo leggiamo quanto segue in risposta al su citato articolo di Programma: “Dobbiamo spezzare una lancia a favore della Corrente Comunista Internazionale. L’articolista di “Programma” sospetta che anche essa si sia arruolata alla lotta armata resistenziale. E’ vero invece che essa ha fatto un intervento altrettanto pacifista e bertinottiano, del tutto simile a quello di “Programma”. E’ arrivata a dire che sparare contro i soldati (cioè i mercenari pagati profumatamente) di Nassirya significa sparare contro i fratelli di classe. Doveva forse anche aggiungere che un giorno gli operai italiani che dovessero sparare contro la nostrana polizia sparerebbero contro altri fratelli di classe, per non essere sospettata di “nazionalismo”?”
La prima cosa che ci viene da chiederci è perché mai, in una corrispondenza mail in cui si discute dell’articolo di Programma, a Red Link salti in testa di attaccare la CCI? Evidentemente perché per Red Link la discussione sull’articolo di Programma è solo l’espediente per procedere ad un attacco più generalizzato contro la Sinistra Comunista, per discreditarla il più possibile presentandola come una setta capace solo di pontificare standosene al sicuro a casa propria, e contrapponendo una cosiddetta “azione concreta” come l’unica valida azione rivoluzionaria.
In secondo luogo Red Link si sbaglia di indirizzo: la CCI non è una setta e non ha nulla da nascondere a proposito delle proprie posizioni o della propria attività. Veniamo dunque ai fatti. Quale sarebbe il nostro pacifismo, il rifiuto di riconoscerci nella parola d’ordine di “10, 100, 1000 Nassirya”? E’ vero, non lo condividiamo affatto. Ma qual è la questione? Dovremmo noi aizzare i proletari a combattere anche militarmente quelli che tra di loro fanno delle scelte suicide, come quella di andare a “servire la patria”, piuttosto che cercare di comprendere i motivi che sono alla base di certe scelte? E’ ovvio che l’azione dei rivoluzionari mira ad una trasformazione rivoluzionaria della società, trasformazione necessariamente violenta, portata avanti da un proletariato armato contro l’esercito borghese. Ma il raggiungimento delle condizioni adeguate a produrre un processo rivoluzionario di questo tipo richiede tutta una fase di maturazione da parte del proletariato in cui, poco per volta, i primi nuclei coscienti conquistano alla causa rivoluzionaria strati sempre più estesi della classe. L’azione del partito (e delle formazioni che, oggi come oggi, agendo sul piano di classe, operano in vista della costruzione del partito) è proprio quella di favorire, lavorando all’interno delle situazioni di lotta e tra le formazioni emergenti, il più possibile la comprensione della realtà in cui si vive e della prospettiva che ci sta davanti. I rivoluzionari non sono dei pacifisti, ma non sono neanche degli assetati di sangue. La rivoluzione di ottobre, di cui ricorre adesso il 90° anniversario, è stato uno degli eventi che ha inciso più profondamente nella storia dell’umanità pur avendo comportato una perdita di vite veramente irrisorio.
Ma torniamo a Red Link. Questo gruppo, come l’OCI da cui deriva e da cui si è amichevolmente separato, ci accusa di pacifismo perché sono loro che si sono fatti i sostenitori delle varie borghesie mediorientali, da quella di Saddam a quella di Bin Laden. Red Link accusa la CCI di pacifismo per spingere i proletari ad attribuire la responsabilità dei vari morti operai sotto le macerie o sotto le bombe del terrorismo islamico agli stessi operai perché non avrebbero reagito a tempo contro le ingiustizie della società. Non si tratta dunque solo dei soldati di Nassirya: gli stessi proletari morti sotto le Torri Gemelle a New York sarebbero morti giustamente perché corresponsabili con la borghesia mondiale per non aver sostenuto il proletariato arabo. Che limpida posizione di classe. Ma di classe borghese contro la classe operaia, naturalmente1.
Come si vede tra le posizioni di Red Link ed altre posizioni presenti al Convegno quali la nostra esiste un baratro, una frontiera di classe. Non è un caso che i difensori delle posizioni borghesi si identificassero quasi sempre tra quelli che sollecitavano il momento dell’azione, che fremevano per l’eccessivo indugiare sulla discussione. Posizioni come quelle di Red Link hanno bisogno, per affermarsi, di poggiare solo sull’emotività e poco sulla riflessione. Ma la prospettiva rivoluzionaria è un mix di cuore e di cervello e solo se si coniugano l’uno e l’altro assieme si riesce ad andare lontano. Noi non siamo pantofolai e lo dimostriamo tutti i giorni con la nostra presenza ai quattro angoli del mondo. Ma siamo consapevoli che l’azione non sorretta da una profonda riflessione può portare solo verso cocenti delusioni. E i gruppi alla Red Link sono sempre pronti ad aiutarci in questo senso.
Ezechiele, 30 settembre 2007
1. Vedi “Il disprezzo dell’OCI per la classe operaia”, pubblicato su Rivoluzione Internazionale n° 12
Come da copione, dopo varie contestazioni, disaccordi, prese di distanza, dopo tanto blaterare tra le differenti forze borghesi, la legge finanziaria è stata varata.
Ogni lavoratore, ogni proletario è ben cosciente che questa nuova finanziaria non gli porta niente di buono, anzi non fa che consolidare e per molti versi aumentare l’impoverimento delle famiglie proletarie, la precarietà del lavoro, rafforzando una prospettiva da incubo per i giovani che, dopo una vita spesa alla ricerca di uno straccio di lavoro per sopravvivere, non avranno diritto neanche ad un minimo di pensione. Le “agevolazioni” per “le fasce più deboli” previste dalla finanziaria sono veramente ridicole. La riduzione di qualche punto dell’Ici può forse risolvere il problema di come arrivare alla fine del mese quando, con un salario di 1.000-1.200 euro, ci deve vivere un’intera famiglia? Può far dormire sonni tranquilli chi rischia di perdere la casa perché non riesce a pagare un mutuo che è diventato il doppio del valore iniziale? Ancora più ridicola è l’agevolazione sugli affitti per i “redditi bassi” e per i giovani. Veramente pensano di poterci farci credere che questo possa risolvere il problema di chi guadagna dai 400 agli 800 euro al mese, anzi un mese si e l’altro non si sa, visto che ormai tutti i contratti sono a progetto e, quando va bene, durano 6 o 12 mesi? La sfacciataggine di questa gente non ha veramente limiti quando ci vengono a raccontare, come ha fatto Padoa Schioppa alla trasmissione di Fazio “Che tempo fa”, che “la disoccupazione sta diminuendo grazie al lavoro precario” e che il problema è che i giovani di oggi sono dei “bamboccioni” che non vogliono lasciare “le comodità della casa di mamma e papà”.
Per riuscire a recuperare 33 euro su di un salario il cui valore reale diminuisce sempre di più, i metalmeccanici devono aspettare mesi e mesi di trattative tra i sindacati ed il padronato, perdendoci giornate di lavoro in scioperi farsa organizzate da questi presunti “difensori dei lavoratori”. L’assistenza sanitaria è diventata ormai un lusso riservato solo a chi o conosce la persona giusta nel posto giusto o ha i soldi per farsi curare privatamente (magari dagli stessi medici che operano negli ospedali); per gli altri attese di mesi o anni per fare analisi, controlli o interventi, anche quando l’attesa può significare peggiorare irrimediabilmente. Intanto i prezzi dei generi di prima necessità continuano ad aumentare (a Roma un chilo di pane lo paghi 3 euro) e già ci annunciano che nei prossimi mesi aumenteranno luce e gas. Anche il costo dei treni aumenterà mentre nel frattempo tagliano sulle spese eliminando i treni a breve percorrenza, cioè quelli che migliaia di pendolari sono costretti a prendere ogni giorno per arrivare al lavoro.
Bisogna dire che Prodi ci aveva avvertito che “la situazione del paese è grave” e bisogna “collaborare tutti” per risanare l’economia, e che responsabilmente il governo di sinistra avrebbe preso delle misure forse impopolari ma necessarie. In più, ancora “il nostro” Padoa Schioppa, riconoscendo che questa finanziaria non porta dei miglioramenti per i lavoratori, ci ha detto che l’accettare i sacrifici è “una forma di solidarietà”, perché la collettività intera si fa carico dei problemi delle fasce più deboli. In realtà, la “solidarietà” che la borghesia impone ai lavoratori non è altro che l’accettazione e la subordinazione alle esigenze economiche ed imperialiste della classe dominante. Mentre si blatera tanto di riduzione dell’ICI e di “agevolazioni” sugli affitti, si passa sotto silenzio, ad esempio, che la finanziaria per il 2008 prevede che lo Stato spenderà più di un miliardo e 200 milioni di euro nel prossimo anno e che ne spenderà almeno altri cinque nei prossimi tre anni, solo per aerei caccia e navi da guerra; prevede inoltre un aumento di oltre l’11% rispetto allo scorso anno per la Difesa - quando già c’era stato un incremento dell’11,3% rispetto al 2006 - raggiungendo così la cifra di 23 miliardi e 352 milioni di euro di spesa militare (di cui 20.928 milioni dal bilancio preventivo della Difesa e 2.424 aggiunti dalla Finanziaria). Come farebbe altrimenti lo Stato italiano a perseguire la sua politica imperialista in Afghanistan, Libano, Iraq, Kosovo, e mantenere così il suo posto di potenza, anche se di secondo ordine, sulla scena internazionale?
Il peggioramento delle nostre condizioni di vita non è solo economico. L’uccisione della ragazza inglese a Perugia, l’omicidio dei due anziani a cui sono state sottratte solo poche centinaia di euro, le ragazzine che riducono in fin di vita una loro coetanea per gelosia, la morte del giovane che stava andando a vedere una partita di calcio per mano di un poliziotto, sono le più recenti manifestazioni del marciume di questo sistema sociale che spinge alla perdita di ogni etica, che ci sta facendo perdere il senso della vita e della natura umana.
Come ci mostrano gli scioperi in Francia, in Egitto, in Turchia, in Germania, in Gran Bretagna, e altrove (1), questa è la condizione che subiscono i proletari di tutto il mondo, nei paesi “ricchi” ed in quelli “poveri”. Una condizione che da una parte accresce la sfiducia dei proletari nelle istituzioni, e soprattutto in quelle forze del capitale che pretendono di rappresentare e difendere gli interressi dei lavoratori, (partiti di sinistra e sindacati), dall’altra li spinge a reagire agli attacchi, a scendere in piazza, a scioperare. E come ci mostrano queste lotte, i proletari sono confrontati ovunque alle stesse mistificazioni ed alle stesse manovre di sabotaggio.
Per far varare rapidamente la finanziaria dalle diverse forze politiche, Prodi ha detto che non si poteva bocciare una finanziaria che aveva avuto il sostegno dei lavoratori con il voto al referendum. Ma, a parte l’esplicito no dei metalmeccanici ed una gestione “privata” delle votazioni tutta in mano ai sindacati, tutti sanno che la stragrande maggioranza dei lavoratori non è proprio andata a votare. Evidentemente le esperienze passate sui vari referendum organizzati dai sindacati e dalle forze di sinistra hanno portato a riflettere sull’efficacia di queste “democratiche consultazioni”. Del resto i proletari sanno bene che, nonostante i distinguo e le prese di distanza di Rifondazione Comunista, del Pdci, dei Verdi e compagnia, tutti questi “difensori dei lavoratori e dei giovani”, questi fautori della “lotta alla guerra”, hanno non solo appoggiato questa finanziaria, ma tutte le misure che lo Stato, sia esso governato da Prodi o da Berlusconi, ha preso contro i lavoratori in difesa dell’economia e della politica imperialista italiana da vari anni a questa parte (chi ha permesso la riforma delle pensioni, la flessibilità del lavoro, i contratti interinali, ecc.?). E quelli più “radicali” di un Bertinotti? Stessa politica, come per il senatore Turigliatto (esponente di Sinistra Critica) che, dopo essersi fatto promotore, insieme ad altri suoi simili, di un ennesimo referendum “contro la precarietà”, al momento di votare la finanziaria non trova di meglio per portare avanti la sua battaglia di difesa dei lavoratori che… “non partecipazione al voto”.
Se i sindacati si sono dati tanto da fare ad organizzare scioperi e manifestazioni contro la finanziaria e per i contratti nazionali di categorie importanti quali i metalmeccanici e i ferrotranvieri è perché c’è una grossa spinta da parte dei lavoratori il cui malcontento e la cui rabbia deve trovare una valvola di sfogo, altrimenti rischia di esplodere apertamente e catalizzare il malcontento degli altri, dei precari, dei disoccupati, degli studenti senza futuro. Il rischio può essere anche che dei settori forti come questi facciano da coagulo ed unione a tutta una serie di lotte locali come ad esempio quella alla Fiat di Torino e all’Alfa di Pomigliano d’Arco, dei lavoratori call-center della Vodafone. Lotte, come probabilmente molte altre, di cui nessuno sa niente perché non compaiono sulle pagine dei giornali o nei TG (che invece ci informano minuziosamente sull’ultimo capello trovato sul luogo del delitto), ma che esistono e sono una manifestazione di una volontà di lotta che si fa strada.
La manovra è quella messa in atto negli scioperi dei ferrotranvieri in Francia delle ultime settimane: oggi uno sciopero dei metalmeccanici, domani quello dei ferrotranvieri, domani ancora degli ospedalieri. Uno sciopero generale di tanto in tanto, naturalmente con manifestazioni divise per città, ma quando si sa di poter aver la gestione del tutto. Naturalmente non manca la divisione per tipo di sindacato: oggi i confederali, domani i Cobas.
La borghesia è ben cosciente che esiste oggi una potenzialità di lotta nella classe lavoratrice e sa anche che non può farci niente perché la crisi economica mondiale non le lascia altra possibilità che attaccare ulteriormente i lavoratori, i disoccupati, i giovani senza poter dare alcuna prospettiva reale per il futuro. Le cose su cui può agire sono due:
- mistificare il più possibile sulle cause della crisi economica attribuendola alla cattiva gestione dei governi precedenti, al prezzo del petrolio, alla Cina che invade i mercati, agli immigrati che tolgono il lavoro…, e prospettare un futuro migliore, lontano ma possibile, se i lavoratori saranno “solidali” con il “loro” Stato democratico. Bisogna evitare che i proletari riflettano, che mettano assieme i vari aspetti economici, politici, sociali di questo sistema, perché questo li porterebbe alla coscienza che l’unica alternativa è distruggerlo e costruire una società diversa;
- alimentare il senso di scoraggiamento e di smarrimento che le difficoltà di questa società in sfacelo alimentano, puntando, da una parte, sulle sue manifestazioni più barbare e deleterie per far credere che questa è la “natura umana” e dunque il “mondo così deve andare”; dall’altra sul fatto che ci vuole chi rappresenta i proletari, chi li difende, chi li organizza (senza sindacati in piazza e senza partiti al parlamento come si fa a farsi sentire?). Bisogna evitare in ogni modo che i proletari prendano coscienza della possibilità di unirsi, della propria forza come classe sociale, che acquistino fiducia nella loro capacità di contrapporsi agli attacchi e di far retrocedere la borghesia. Bisogna evitare che si riapproprino della storia della propria classe e che prendano coscienza del fatto che, come ha dimostrato la Rivoluzione russa (2), rovesciare il capitalismo è non solo necessario, ma possibile.
Questo è quello che vuole la borghesia, ma le lotte che da più di un anno stanno scoppiano un po’ dappertutto nel mondo ci mostrano che questa riflessione, lentamente, avanza e che i proletari sono sempre meno disposti a subire tutto questo.
Eva, 2 dicembre ’07
1. Vedi gli articoli pubblicati in questo stesso numero e gli articoli pubblicati sul nostro sito web anche in altre lingue
2. Vedi articolo in questo stesso numero.
Con le elezioni primarie del 14 ottobre scorso è nato un nuovo partito nel panorama politico italiano, il Partito Democratico. Il fatto nuovo è che questo, piuttosto che essere l’espressione dell’ennesima scissione, è il prodotto di uno sforzo di controtendenza, riuscendo ad aggregare alcune delle forze di centro sinistra. Per capire l’importanza dell’evento e la sua reale portata, dobbiamo fare un passo indietro di una ventina di anni. Tutto parte dall’ormai lontano 1989 quando la caduta del muro di Berlino, segnando il crollo economico e quindi politico dell’impero sovietico e dunque del blocco da questo dominato, quello dei cosiddetti “paesi dell’est”, comportò di conseguenza uno sfaldamento reciproco del blocco avversario, il blocco “americano”, la cui coesione era determinata essenzialmente dal timore per il comune nemico sovietico e dalla convenienza di ricevere protezione dalla superpotenza americana. In questo quadro l’Italia veniva a trovarsi in una situazione alquanto singolare: essendo rimasta per gli oltre 40 anni di guerra fredda USA-URSS sotto il controllo diretto degli USA attraverso una serie di strumenti imposti dall’imperialismo maggiore (governi ad esclusiva guida DC, controllo del territorio da parte della mafia, servizi segreti e logge massoniche, ecc.), la possibilità di recuperare una certa “indipendenza” nei confronti degli USA apre in Italia una vera faida contro i partiti che avevano rappresentato gli interessi americani in Italia, DC e PSI, portando ad una vera devastazione dei relativi partiti. Ma al tempo stesso la necessità di soppiantare i vecchi partiti di governo impone anche al vecchio “partito comunista” di riciclarsi velocemente, dando luogo a una serie di riconversioni maturate e realizzate soprattutto sotto la sferza degli eventi. Ciò produce una situazione di forte instabilità perché, nel giro di pochi anni, il quadro politico cambia profondamente con, da una parte, formazioni politiche nate dal niente e con al proprio attivo solo un accentuato populismo (come Forza Italia e la Lega Nord) e dall’altra una pletora di partiti prodotti dalla diaspora del PCI (ds, PdCI, RC) e dalle ceneri fumanti del vecchio centro (Margherita, vari socialisti e liberal democratici…) con in più l’aggregazione di dubbia collocazione politica dei Verdi. E’ proprio per combattere le continue fibrillazioni esistenti all’interno degli schieramenti politici, di sinistra come di destra, che le forze più responsabili della borghesia italiana, quelle che appunto si sono riunite nell’attuale PD, hanno dato luogo a questa operazione. E non è un caso che delle operazioni simili siano in corso di programmazione a sinistra (la “cosa rossa”) come a destra (il partito unico di Berlusconi), anche se la probabilità di riuscita non sono le stesse nei vari casi.
Se dunque ci siamo spiegati il perché di questo partito, possiamo adesso chiederci: ma è proprio riuscita questa operazione? Per rispondere dobbiamo tenere presente che il problema più grosso che si presenta oggi per la stabilità politica del paese è avere un esecutivo stabile e che sia credibile nei confronti del paese. A parte la necessità di produrre una nuova legge elettorale che permetta al nuovo esecutivo di governare per tutta la legislatura e portare avanti uno straccio di programma, il problema è vedere se gli eventi ultimi hanno prodotto una maggiore coesione all’interno dei due diversi schieramenti politici, di destra e di sinistra, oppure no. Ora, stendendo un velo pietoso sull’esplosione della “casa delle libertà” e il tiro incrociato tra Berlusconi, Fini e Casini, con la figura inedita di Bossi che fa da paciere, le cose a sinistra non sono di gran lunga migliori. Certamente sul piano mediatico la creazione del PD ha dato dei punti all’apparato di Veltroni. Mobilitare 3 milioni e mezzo di persone e portarle a votare, coinvolgendole in una operazione non ancora sperimentata in Italia (e nella stessa Europa), la “scelta da parte del popolo del leader di un partito”, ha costituito certamente un’azione di forte mistificazione che ha avuto certamente un impatto sulla gente presentando le primarie come la democrazia finalmente realizzata. D’altra parte il tema di creare una forza nuova capace di rinnovare le speranze della popolazione nella possibilità di una politica diversa è stato fortemente presente sia nella propaganda di Veltroni che dei suoi “antagonisti” Letta e Bindi. Ma ci sono delle considerazioni da fare che tendono a ridurre fortemente questo apparente successo. Intanto il PD non è riuscito, come era nelle intenzioni, a coagulare l’intero schieramento di centro-sinistra ed in particolare non è riuscito a prosciugare quell’area frastagliata e frammentata che esiste, vedi l’Italia dei Valori di Di Pietro, l’UDEUR di Mastella, i socialisti raccolti intorno a Boselli, i Radicali Italiani di Pannella, né a recuperare per intero gli stessi partiti che hanno dato vita al PD, staccandosi dalla Margherita la componente liberaldemocratica di Dini e l’Unione Democratica di Willer Bordon e dai DS la componente di Sinistra Democratica di Mussi. Ma c’è di più perché le stesse componenti che hanno aderito lo hanno fatto in maniera conflittuale. Già prima delle elezioni del 14 ottobre ci sono una serie di interventi di Parisi, che parla del futuro PD già lottizzato, la Bindi che si scontra con Franceschini e che critica Veltroni ..., tanto da costringere Prodi ad intervenire più volte per ribadire “siete concorrenti, non nemici” e “basta polemiche nel PD”. Ma anche il post elezioni è stato alquanto movimentato sia per le accuse di brogli che ci sarebbero stati in alcune circoscrizioni come Napoli sia per le proteste ancora di Parisi, Bindi, ma anche di Letta, per la mancanza di rispetto delle regole e per una gestione non democratica del PD. Insomma non sembra proprio che i personalismi che hanno caratterizzato la politica italiana in questi ultimi anni abbiano avuto termine con la costituzione del nuovo partito. Anzi, proprio perché si è sviluppata la tendenza al leaderismo che ha prodotto decine di sigle partitiche ognuna con il suo capo, il fatto che il PD ne abbia azzerato diversi comporta che i relativi ex leader si ritrovano oggi a fare da gregari dell’unico capo che è Veltroni. C’è da immaginarsi quanto sia contento di fare il gregario di Veltroni il suo rivale di sempre Massimo D’Alema, o Rutelli e Fassino che lasciano la direzione dei relativi partiti, o Prodi che deve lasciare il testimone non solo del governo ma anche della leadership politica dell’Ulivo.
Nonostante tutto ciò, non possiamo certo dire che la politica italiana sarà uguale a quella di sempre perché la nascita del PD, se non è riuscita a produrre una grande aggregazione nel campo del centro-sinistra, ha certamente prodotto un cataclisma a destra inducendo la coalizione diretta da Berlusconi a perdere completamente di coerenza e a sfaldarsi definitivamente. Lo scioglimento della casa delle libertà e di Forza Italia ed il contemporaneo annuncio da parte di Berlusconi della creazione di un nuovo partito sono l’espressione del più profondo smarrimento delle forze politiche di centro-destra a cui ben difficilmente riusciranno a porre rimedio le forze più lungimiranti come l’UDC di Casini.
Ma allora, quale sarà la politica che ci dobbiamo aspettare per i prossimi tempi? In realtà, al di là del processo di decomposizione dell’apparato politico della borghesia che costituisce un alea sempre presente e che pone dubbi su qualunque previsione si voglia fare, qualche scenario di quale possa essere la dinamica di domani si può cominciare ad immaginare. Anzitutto è evidente che lo sforzo da parte del neonato PD sarà quello di rafforzarsi in una posizione di centro-sinistra moderato, puntando a possibili compagini governative in cui possa avvalersi non più dell’ingombrante sinistra “radicale”, sempre pronta a ricattare e a mettere in moto la piazza, ma su un rinvigorito centro costruito intorno all’UDC di Casini, possibilmente con l’adesione di figure come il baldanzoso leader della Confindustria Luca Cordero di Montezemolo e l’ex capo sindacalista della CISL Savino Pezzotta, attualmente leader del movimento Officina 2007 – In movimento per una buona politica. Questo sganciamento del PD dai gruppi troppo fortemente ideologizzati di sinistra porterà a sua volta dei notevoli benefici alla politica della borghesia. Da una parte permetterà a questi ultimi di tornare a svolgere una politica di opposizione e di battaglia sul piano sociale e politico, svolgendo compiutamente quell’azione di illusione e di mistificazione dei lavoratori che è così utile alla borghesia per rinchiudere i proletari nelle trappole della “politica democratica delle compatibilità”. Dall’altra permetterà al PD e ai suoi alleati di centro anche una politica più audace sul piano imperialista e delle relative alleanze, perseguendo gli obiettivi che tutti i governi italiani hanno finora perseguito con maggiore determinazione e senza sotterfugi. Peraltro tutto ciò potrà essere giocato anche con l’atout costituito dal fatto che al centro, come forza agente, c’è il partito nuovo, il partito senza passato, il partito che non ha nessun passato da farsi perdonare. E scusate se è poco.
Ezechiele, 1 dicembre 2007
In Pakistan è stata proclamata la legge marziale, punto culminante di tutti i conflitti che si sono succeduti all’interno dello Stato dall’estate scorsa. Questa misura sembra sia stata resa urgente dal timore che l’Alta Corte, il mese scorso, potesse dichiarare Musharraf ineleggibile come presidente, tanto che costui ha finito per sostituire il Capo della Giustizia con uno dei suoi uomini, cosa che aveva già tentato di fare in agosto, ma senza successo, quando fece marcia indietro sulla dichiarazione dello stato d’emergenza. Questa sospensione della Costituzione contrasta con tutta la propaganda portata avanti a proposito del “muoversi verso la democrazia e delle regole civili” e porrà Benazir Bhutto in una situazione difficile al suo ritorno da Dubai. In origine lei era tornata dall’esilio dopo aver barattato l’amnistia con l’accordo che i suoi sostenitori non avrebbero bloccato l’elezione di Musharraf. La legge marziale porrà inoltre un bastone tra le ruote nella tattica americana di sostegno ad una coalizione di “moderati”, quelli che sembrano essere più ragionevolmente capaci e disponibili a sostenere gli USA contro Al Qaida.
Per capire quello che sta avvenendo oggi nel Pakistan non dobbiamo tanto guardare come il presidente si sta occupando dei suoi interessi personali, ma capire perché la classe dominante nel suo insieme non può essere coerente e perché una sua frazione ha messo un dittatore militare al comando. Per fare ciò dobbiamo vedere dove si colloca il Pakistan nello scacchiere geo-strategico del mondo e le tensioni imperialiste a cui questo è sottoposto. Esso ha una estesa frontiera con l’Afghanistan ed è confinante con l’Iran, la Cina e l’India. Ospita oltre un milione di rifugiati afgani. La lotta che dura da sei decenni con l’India a proposito del Kashmir non è l’unica preoccupazione del Pakistan. I conflitti interni, come la battaglia fra l’esercito e gli islamisti nella regione del nord-ovest, completano l’immagine di un paese lacerato da pressioni provenienti dall’interno e dall’esterno.
Gli effetti dei conflitti tra le grandi potenze
Negli anni ’80, quando i maggiori conflitti imperialisti erano tra gli USA e i suoi alleati e vassalli da una parte e il blocco imperialista russo dall’altra, il Pakistan è stato strategicamente importante per il sostegno occidentale ai Mujahidin, che combattevano i Russi in Afghanistan. All’epoca, questi islamici non avevano dalla loro parte soltanto Dio, ma anche la CIA ed i missili americani Stinger, e la Russia è stata conseguentemente fatta fuori. Il Pakistan ha anche degli interessi in Afghanistan, utile retroterra per l’addestramento e l’affondo strategico nei suoi scontri con l’India nel Kashmir.
Più recentemente, nel 2001, gli USA hanno portato avanti l’invasione dell’Afghanistan utilizzando la distruzione delle Torri gemelle e la necessità di una “guerra al terrorismo” come giustificazione. Ancora una volta è stato necessario il supporto del Pakistan. L’America promise che avrebbe sostenuto quelle tribù ostili all’Alleanza del Nord, tradizionale nemico del Pakistan e barriera alla sua influenza in Afghanistan, ma questa promessa fu rotta quando l’Alleanza del Nord guadagnò influenza nell’accordo post-Talebani. In ogni caso, il supporto del Pakistan fu ottenuto attraverso altri mezzi di persuasione quando gli Stati Uniti minacciarono di raderla al suolo se non avesse dato il suo sostegno. Questa minaccia è stata più o meno ripetuta da Barack Obama nell’attuale campagna presidenziale, suggerendo l’idea che gli Stati Uniti potrebbero bombardare le roccaforti di Al Qaida in Pakistan senza permesso. Allo stesso tempo ci sono milioni di rifugiati afgani nel Pakistan che si aggiungono all’instabilità del paese, ed anche se ne sono stati rimpatriati 2.3 milioni nel 2005, ne restano più di milione.
Gli interessi imperialisti regionali
Il Pakistan ha i suoi propri interessi imperialisti e perseguirli ne ha fatto il maggiore destinatario dei trasferimenti di armi nel terzo mondo nel 2006, con l’India che segue a ruota. Il conflitto con il suo maggiore rivale indiano sul Kashmir e la loro corsa al riarmo nucleare hanno portato alla guerra nel 2002, alimentando le dichiarazioni da parte del potere statale più debole di non esitare ad utilizzare le armi nucleari contro un nemico superiore. Il pericolo della guerra è stato evitato sotto la pressione dagli Stati Uniti, che non volevano che questo conflitto intralciasse le proprie avventure militari, ma nessun problema è stato risolto. Il processo di pace pakistano ha avuto un solo significato: l’imperialismo pakistano non ha potuto approfittare dei propri guadagni sul campo. Il conflitto è stato portato avanti in maniera meno appariscente attraverso attacchi terroristici in entrambi i paesi, e nel Kashmir lo stesso Pakistan ammette di dare supporto “morale e diplomatico” ai soli islamici, ma in effetti fa molto più, mentre l’India reprime questi fondamentalisti “combattenti per la libertà”. Entrambi i lati puntano sul nazionalismo virulento e né l’uno né l’altro mostrano la minima preoccupazione per le sue incalcolabili vittime.
Vista da un’ottica più ampia la situazione strategica non è a vantaggio del Pakistan. Forzato sotto la minaccia di armi a sostenere gli USA nella sua “guerra al terrorismo”, non può però guadagnarci niente dalla sua lealtà agli USA. La Cina si sta sviluppando economicamente e quindi sta aumentando i propri appetiti imperialisti, il che la pone in conflitto non solo con l’India ma anche con l’America. Il Pakistan si trova di conseguenza confrontato ad una convergenza di interessi fra il suo nemico storico, l’India, e il suo boss dei boss, la super-potenza USA. E per rendere la situazione ancora più difficile si aggiunge il fatto che il Pakistan si trova in mezzo i suoi due più forti “alleati” e partner commerciali, gli USA e la Cina, che sono in conflitto tra loro.
Il fallimento della “guerra al terrorismo”
La “guerra al terrorismo” non è stata un gran successo per gli USA. L’impantanamento in Iraq e la situazione senza via d’uscita in Afghanistan limitano le sue mire a nuove avventure militari. Per il Pakistan questo è un disastro ulteriore. L’evidente debolezza degli USA spinge alla sfida i sostenitori di Al Qaida, molti dei quali hanno posto le loro basi nel nord- ovest del Pakistan. I soldati vengono impunemente rapiti e uccisi. Durante l’estate scorsa ne sono stati uccisi 200 in 10 settimane ed alla fine di agosto 250 sono stati rapiti nel Waziristan del sud senza sparare un solo colpo, il che ha lasciato supporre che l’esercito fosse infiltrato. Né le 90.000 truppe dislocate alla frontiera, né il sussidio di 10 miliardi di dollari da parte degli USA sono riusciti a tenere la situazione sotto controllo. L’accordo di pace tra il governo ed i capi tribali in Waziristan, mal visto dagli USA, è fallito e lo scontro si è inasprito in seguito all’assalto alla Moschea Rossa. Musharraf non può soddisfare tutti. Alcuni alti funzionari lo accusano di essere distratto dalla crisi politica.
In Pakistan lo Stato è in guerra con sé stesso. I capi dell’opposizione sono stati vittime di una retata a settembre, il precedente primo ministro Nawaz Sharif è stato espulso appena tornato nel suo paese. I raduni politici sono la scena di omicidi terroristi. I giudici dell’Alta Corte hanno protestato contro l’amministrazione dopo che uno di loro è stato saccheggiato e quindi hanno sospesero un capo della polizia dopo la violenza impiegata ad una dimostrazione di protesta degli avvocati. Queste sono le istituzioni che sono al cuore dello Stato ed i loro conflitti riflettono il modo in cui il paese viene lacerato dai conflitti imperialisti che vanno sotto la voce di “guerra al terrorismo”. E adesso tutto ciò è culminato nella dichiarazione dello stato di emergenza.
Che le elezioni si tengano o no a gennaio, non ci sarà nessun movimento verso la democrazia ed un governo civile, il Pakistan sta lottando per evitare di essere lacerato. Anche senza essere direttamente attaccato, esso mostra il caos e la miseria che sono capaci di causare oggi i conflitti imperialisti.
Alex, 3/11/07
Da World Revolution, n.310
La “comunità internazionale” si è indignata notevolmente contro questo “grave attentato alla democrazia”. L’Unione europea ha annunciato “sanzioni economiche” come il congelamento degli averi all’estero dei responsabili birmani o un embargo sulle importazioni di legno e metalli. L’ONU, per bocca del suo emissario Ibrahim Gambari, ha “deplorato la repressione” e, dopo avere incontrato il 2 ottobre i capi militari birmani senza alcun risultato, ha proposto di andare in Birmania... “la terza settimana di novembre”. Bush, dal canto suo, ha fatto un appello per “una pressione internazionale enorme”al fine di costringere la giunta ad accettare una “transizione verso la democrazia”, dispiacendosi amaramente di non essere seguito dal resto del mondo nella sua iniziativa. La palla è ritornata al presidente francese Sarkozy ed al suo ministro degli Affari esteri Bernard Kouchner. Il primo, in un grande slancio umanitario, “ha pensato” di chiedere alla Total, che sostiene finanziariamente il potere birmano e ne trae sugosi benefici per lo Stato francese, di ritirare i suoi investimenti in Birmania o anche di congelarli; il secondo, autore di un rapporto di inchiesta menzognera del 2003 che scagionava la stessa impresa dall’accusa di utilizzare il lavoro coatto della popolazione in Birmania, ha raccomandato piuttosto di intervenire presso i vicini asiatici della Birmania, tra cui la Cina, affinché questi facciano pressione. Il che è sicuramente più comodo, anche se inutile, perché preserva gli interessi francesi (1). Della repressione, la povertà, la miseria, lo sfruttamento brutale, la classe borghese se ne infischia. Allora perché tutta questa pubblicità, perché queste dichiarazioni “di disgusto”? Perché dietro questa reazione della borghesia occidentale, si doveva necessariamente far passare queste manifestazioni e questa lotta della popolazione contro la miseria per un movimento per la democrazia, sottinteso che, nei paesi democratici, si vive sicuramente meglio. Per tale motivo è solo a partire dal momento in cui i monaci buddisti sono apparsi nelle manifestazioni, come nel 1988, che la stampa ha cominciato a parlarne. Per questo l’opposizione al potere, incarnata da Aung San Su Kyi è stata presentata come la sola ancora di salvezza. Non si trattava tanto di mistificare la debole classe operaia birmana quanto piuttosto quella dei paesi occidentali. Questo grande circo mediatico ancora una volta è stato usato per far loro ingoiare la pozione democratica come rimedio a tutti i loro mali.
Questi lamenti ipocriti erano anche e soprattutto diretti verso la Cina che ha un’influenza crescente sul paese. La più grande frontiera della Birmania è quella con la Cina, il suo partner economico più importante e fornitore del governo militare del generale Than Chew. La Cina sta ricostruendo per lo Stato birmano la vecchia strada verso l’India. Ha mandato lì 40.000 operai. Intere zone della Birmania sono dominate completamente dal suo potente vicino, la lingua e la moneta cinese sono di casa, proprio come se Pechino le governasse. La Birmania fa parte della strategia di avanzamento della Cina verso l’Oceano indiano, con delle postazioni d’ascolto e naturalmente una base navale. Essa è un posto della “collana di perle” cinese, cioè dei satelliti-chiave di Pechino. Con un dominio sul Boutan (Tibet), la Cina estende sempre più la sua influenza sul Nepal, la Birmania, la Cambogia ed il Laos, con l’obiettivo di estenderla verso il Vietnam e l’Indonesia. Le sue ambizioni vanno verso l’ovest dell’Asia centrale ed il sud dell’Oceano indiano. Questa ascesa della Cina si manifesta anche attraverso la sua particolare aggressività verso il Giappone e Taiwan. L’interesse e la sollecitudine dei paesi occidentali come la Russia, l’India, la Francia, gli Stati Uniti o ancora l’Australia, hanno avuto dunque fondamentalmente come obiettivo contrastare l’avanzata imperialista di Pechino e difendere i propri interessi. Ecco la vera ragione di tutti queste ipocrite manovre “diplomatiche”. Ecco quali sordidi interessi si nascondono dietro tutte le dichiarazioni “umanitarie” dei Sarkozy, Bush e consorti!
Wilma, 26 ottobre
Da Révolution Internationale octobre 2007
1. Le altisonanti dichiarazioni di sdegno del governo italiano e soprattutto della “sinistra” per la mancanza di democrazia del governo birmano non sono state da meno.
Al Gore, candidato democratico alla presidenza Usa e sconfitto nel 2000 da George W. Bush, quello che ha girato il film-documentario Una scomoda verità (1) sul riscaldamento terrestre, sarebbe dunque l’eroe del momento, colui che starebbe rivoluzionando la concezione del mondo sulle questioni ambientali.
Ma vediamo un po’ di quale rivoluzione si tratta. Siamo forse all’inizio della fondazione di un capitalismo pulito e ossequioso dell’ambiente, dove si troveranno finalmente i mezzi per ridurre gli inquinamenti, le deforestazioni, i rifiuti industriali e nucleari? Saranno trovati i mezzi per produrre dei veicoli meno inquinanti e per sostituire i vecchi macinini fumosi del secolo scorso? La borghesia ha forse preso coscienza del fatto che il suo sistema mette in pericolo l’umanità e che bisogna porvi rimedio anche se il rimedio costerà caro al capitalismo e andrà contro la sua stessa logica?
Sveglia ragazzi… Certo, la borghesia non ignora che la corsa folle del suo sistema infognato nella crisi è sul punto di distruggere tutto l’ambiente, fino a porre la prospettiva di una distruzione del pianeta. Ma essa sa ugualmente che non ha i mezzi per rimediarvi in maniera radicale, o di andare contro la propria logica di profitto. Certamente è vero che alcune industrie vedono nel disinquinamento un terreno nuovo per lo sviluppo della loro attività, ma questa stessa attività non offre la minima garanzia di rispetto per l’ambiente. La borghesia sa infatti che l’efficacia della quasi totalità delle misure proposte è messa in discussione da specialisti e scienziati di fama.
Allora? Allora la borghesia fa quello che sa fare meglio: mentire. Essa tende a manipolare la nostra coscienza, colpevolizzandoci. Tutta la campagna intorno a queste tavole rotonde “democratiche”, a cui lo scandaloso premio Nobel per la pace attribuito ad Al Gore (2) aggiunge ancora qualche lustrino, spinge sempre verso la stessa conclusione: l’avvenire del pianeta appartiene a ciascuno di noi, e la rivoluzione starebbe nel cambiamento dei nostri comportamenti individuali. La fine delle lampade ad incandescenza, il ritorno ai tram, le case riscaldate a 19° piuttosto che a 20°C, e così via. E perché non promuovere delle vetture a pedali, visto che ci troviamo? Ci stanno prendendo letteralmente in giro. Di fronte alla propria incuria, all’incapacità di far fronte alla follia distruttrice del proprio sistema, la borghesia ci esorta a chiudere il rubinetto mentre ci insaponiamo le mani. E sarebbe questo ciò che dovrebbe salvare la Terra, compensare tutte le ferite inflitte all’ambiente dalla misure belliche della borghesia e dallo sfruttamento industriale irragionevole, motivato dalla ricerca di un profitto messo in crisi dalla concorrenza sempre più dura in un mercato sempre più ristretto?
“Più parlano di pace e più preparano la guerra”, diceva Lenin. Oggi, più parlano di ambiente e più distruggono il pianeta. Si tratta quindi di una “pura e semplice arroganza”, di una grande operazione ideologica destinata a nascondere, dietro una presunta responsabilità comune, le vere responsabilità del capitalismo nella degradazione accelerata del nostro ambiente naturale. Tutti i “vertici mondiali” e gli Al Gore predicanti del mondo non cambieranno niente a questa situazione. L’avvenire del pianeta è nelle mani della classe operaia.
G. (19 ottobre)
1. Vedi il nostro articolo Sul film “Una scomoda verità”. Sconvolgimento del clima: il capitalismo è responsabile del riscaldamento del pianeta su Rivoluzione Internazionale n°148.
2. Questo personaggio è un presuntuoso ma soprattutto un opportunista: nella propaganda che accompagna il suo premio Nobel ci viene ricordata la sua posizione contro la guerra in Iraq, ma si omette di dire che proprio lui fu a favore della prima guerra del Golfo nel 1990 e che non ha mai criticato - se ne guardò bene - le avventure guerriere di Clinton in Africa o in Jugoslavia quando era alla vicepresidenza degli USA. Dal momento del suo arruolamento, da giovane, nell’esercito per partire come giornalista in Vietnam, la pace non è mai stata la sua passione. La guerra è effettivamente molto nota per le sue virtù ecologiche: distruzione e inquinamento massiccio!
È in nome de “l’equità sociale” che Sarkozy ed i suoi amici miliardari hanno la sfrontatezza di chiederci di accettare la soppressione o la pianificazione dei regimi speciali di pensione allineandoli su 40 anni per tutti.
Ciò che rivendicano i ferrovieri, gli impiegati della RATP, del gas, dell’elettricità, lo hanno proclamato chiaramente nelle loro assemblee generali: il loro trattamento non è da “privilegiati”, vogliamo 37 anni e mezzo per tutti!
Se gli operai lasciano passare questo attacco ai regimi speciali, sanno bene che lo Stato ci chiederà già da domani di raggiungere i 41 e poi i 42 anni di contributi per avere una pensione completa ed anche oltre, come in Italia (dove si passerà presto ad un regime di pensione a 65 anni) o ancora fino a 67 anni come già succede in Germania o in Danimarca.
Nelle facoltà, questo stesso governo ha introdotto dolcemente, durante l’estate, con la complicità dell’UNEF (1) e del Partito Socialista, una legge che prepara un’università a due velocità: da un lato dei “poli di eccellenza” riservati agli studenti più danarosi, dall’altro “facoltà pattumiere” che preparano la maggioranza delle giovani generazioni, i ragazzi provenienti dagli ambienti più poveri, alla loro condizione di futuri disoccupati o di lavoratori precari.
Nella funzione pubblica, il governo si prepara a sopprimere 300.000 impieghi da ora al 2012, mentre da oggi abbiamo gli insegnanti che si devono confrontare con classi sovraccariche e i vari impiegati a cui vengono imposti sempre più compiti e ore supplementari.
Nelle imprese private, le soppressioni d’impieghi e le ondate di licenziamenti continuano a colpire ad ampio raggio mentre il governo Sarkozy si prepara ad imporci una riforma del Codice del lavoro dove la parola dominante è la “sicurezza flessibile” che permette ai datori di lavoro di gettarci ancora più facilmente sulla strada dall’oggi al domani.
Dal 1 gennaio 2008 dovremo poi pagare dei nuovi ticket sui medicinali che vanno a cumularsi con la riduzione dei rimborsi dei farmaci, con l’aumento del prezzo forfettario delle degenze ospedaliere (istituito dall’ex-ministro del PCF Ralite), con il ticket sulle prestazioni mediche che superano i 90 euro, con un nuovo rialzo del CSG (2)…
Sarkozy ci chiede di “lavorare di più per guadagnare di più”. In realtà, è chiaro che si tratta di lavorare di più per guadagnare di meno. La caduta vertiginosa del potere d’acquisto si accompagna oggi ad un aumento esorbitante di tutti i prodotti alimentari di base: prodotti derivati del latte, pane, patate, frutta e verdura, pesce, carne …
Nello stesso tempo, i prezzi di affitto di una casa salgono: sempre più proletari vivono oggi in condizioni di alloggio precario o insalubre.
Sempre più di frequente si ha il caso di proletari che, pur avendo un lavoro, vivono in miseria, essendo incapaci di nutrirsi, di trovare un alloggio, di curarsi decentemente. E ci dicono che: “non è ancora finita”. L’avvenire che ci riservano, gli attacchi che ci promettono saranno domani ancora peggiori. Tutto questo perché la borghesia francese ha cominciato a colmare il suo ritardo rispetto alle borghesie concorrenti degli altri paesi. Con l’aggravarsi della crisi del capitalismo, con l’acuirsi della concorrenza sul mercato mondiale, bisogna “essere competitivi”. E ciò significa attaccare sempre più le condizioni di vita e di lavoro della classe operaia.
Il solo modo di opporsi a tutti questi attacchi è sviluppare le lotte
La collera ed il malcontento che oggi vengono espressi nella strada e nelle fabbriche non possono che diffondersi ovunque perché i lavoratori sono costretti a battersi dappertutto di fronte agli stessi attacchi.
A partire dal 2003 la classe operaia (che a detta della borghesia sarebbe una “nozione superata”) ha iniziato a mostrare la sua combattività, e precisamente di fronte agli attacchi sulle pensioni nel 2003 in Francia ed in Austria, contro le riforme del sistema sanitario, di fronte ai licenziamenti nei cantieri navali della Galizia in Spagna nel 2006 o dell’industria automobilistica in Andalusia nella scorsa primavera. Oggi, i loro fratelli di classe ferrovieri in Germania sono in lotta per gli aumenti degli stipendi. In questi ultimi mesi, in tutte le lotte, dal Cile al Perù, in Egitto come tra i lavoratori immigrati del settore edile a Dubai ancora recentemente, emerge un profondo sentimento di solidarietà di classe che spinge verso l’estensione della lotta di fronte allo stesso supersfruttamento. Ed è questa solidarietà di classe che si è manifestata nella lotta degli studenti contro il CPE nella primavera 2006 e che è al centro della posta in gioco. E’ soprattutto questo che teme la borghesia.
Attaccare anzitutto i regimi speciali di pensione di particolari settori di lavoratori, come quelli dei trasporti pubblici (SNCF, RATP) e dell’energia (EDF, GDF), non può che apportare un risparmio irrisorio allo Stato. Ma corrisponde ad una scelta puramente strategica della borghesia francese per tentare di dividere la classe operaia.
La sinistra ed i sindacati sono completamente d’accordo sul fondo con il governo; questi hanno infatti sempre sostenuto la necessità delle “riforme”, quella delle pensioni e dei regimi speciali in particolare. Del resto è proprio il vecchio Primo ministro socialista Rocard che aveva, all’inizio degli anni ‘80, redatto il “libro bianco” delle pensioni che è servito da canovaccio a tutti gli attacchi messi in atto su questo piano dai governi successivi, di sinistra come di destra. Le critiche attuali della sinistra e dei sindacati insistono unicamente sulla forma: non sono decise “democraticamente”, non ci sarebbe abbastanza “concertazione”. Essendo la sinistra momentaneamente fuori gioco, in particolare con i “licenziamenti” praticati da Sarkozy, il ruolo essenziale di inquadramento della classe operaia spetta ai sindacati. Questi ultimi si sono divisi il lavoro col governo (e tra loro stessi) a tutti i livelli per sabotare e dividere la risposta operaia. È necessario alla borghesia isolare gli operai del settore dei trasporti pubblici, di tagliarli dalla reazione dell’insieme della classe operaia.
A tale scopo, la classe dominante ha mobilitato tutti i suoi media per tentare di screditare lo sciopero ripetendo in maniera martellante l’idea che gli altri lavoratori erano ostaggi di una minoranza egoista di privilegiati che profittavano del fatto che il principale settore toccato sulla questione dei regimi speciali era costituito dalle imprese di trasporto pubblico. Essa ha puntato sull’impopolarità di un lungo sciopero dei trasporti ed in particolare su quello della SNCF, settore tradizionalmente più combattivo all’epoca degli scioperi dell’inverno 1986/87 e del 1995, per aizzare gli “utenti” contro gli scioperanti.
Ogni sindacato si è preso la sua parte nella divisione e l’isolamento delle lotte:
· La FGAAC (sindacato dei conduttori di treno molto minoritario rappresentante il 3% del personale SNCF ma ben il 30% di questa corporazione) dopo aver fatto appello per il 18 ottobre ad uno “sciopero rinnovabile” a fianco a Sud (3) e a FO (4), si affrettava la sera stessa della manifestazione a negoziare con il governo la promessa di un “compromesso” e di uno statuto particolare per il personale “viaggiante”, chiamando alla ripresa del lavoro dall’indomani mattina, assumendo così la parte di “traditore” di turno;
· La CFDT (5) in quello stesso giorno ha chiamato solo i ferrovieri a scioperare ed a manifestare, per “non confondere tutti i problemi e tutte le rivendicazioni”, secondo le dichiarazioni del suo segretario generale Chérèque; in seguito, questa centrale, fedele alla stessa tattica, si affrettava a chiamare alla “sospensione dello sciopero” alla SNCF ed alla ripresa del lavoro negli altri settori appena il governo ha manifestato la sua intenzione di aprire dei negoziati impresa per impresa;
· La CGT, sindacato maggioritario, ha giocato un ruolo decisivo nella manovra portata avanti alle spalle della classe operaia. Si è limitata ad una giornata di sciopero “deciso” di 24 ore il 18 ottobre (pur lasciando i sindacati dipartimentali prendere delle “iniziative” per prolungare lo sciopero). Poi, ha preso l’iniziativa di lanciare una nuovo appello allo sciopero per i ferrovieri, questa volta rinnovabile a partire dal 13 novembre di sera che avrebbe radunato gli altri settori e gli altri sindacati dietro questa proposta. Il 10 novembre, il segretario generale della CGT Thibault chiedeva al governo l’apertura di un negoziato globale tripartito sui regimi speciali (che è solamente una spacconata perché è il governo che detta direttamente la sua politica alle direzioni delle imprese pubbliche) e due giorni dopo, il 12, proprio alla vigilia dell’inizio dello sciopero, lanciava una nuova iniziativa proponendo ancora dei negoziati tripartiti, ma questa volta con le singole imprese una per volta. Ciò significa prendere gli operai per imbecilli perché è precisamente in questo quadro che il governo aveva, fin dall’inizio, previsto di far passare la riforma “parcellizzando” i negoziati, impresa per impresa, caso per caso. Questo voltafaccia e questo “tiro mancino” hanno provocato delle reazioni burrascose nelle assemblee generali costringendo la “base” di questo sindacato a preconizzare il proseguimento del movimento di sciopero;
· FO e soprattutto Sud (sindacato pilotato dalla LCR di Olivier Besancenot) che avevano cercato di prolungare minoritariamente lo sciopero per parecchi giorni all’indomani del 18 ottobre, continuano a farsi concorrenza giocando a chi si presenta come il più radicale, spingendo gli operai a mantenersi in sciopero rinnovabile fino allo sciopero intersindacale della funzione pubblica del 20 novembre, pure spingendo gli operai ad occupare le strade con operazioni di commando piuttosto che cercare di estendere la lotta ad altri settori;
· Un leader dell’UNSA, anch’esso parte attiva di uno sciopero rinnovabile, dichiarava a sua volta che i cortei dovevano essere distinti e che i ferrovieri non dovevano sfilare con i funzionari perché “non hanno affatto le stesse rivendicazioni”.
Malgrado la volontà del governo di rompere la resistenza degli operai, malgrado la moltiplicazione delle ingiunzioni perentorie del governo alla ripresa del lavoro, malgrado la complicità e tutto il lavoro di trincea e di sabotaggio delle lotte svolto dai sindacati, non solo rimangono la collera e la combattività operaia ma comincia ad emergere la volontà di unificare i differenti focolai di lotta. A Rouen per esempio, il 17 novembre, degli studenti della facoltà di Mont-Saint-Aignan sono andati a trovare i ferrovieri in sciopero, hanno condiviso il loro pasto ed hanno partecipato alla loro assemblea generale così come ad un’operazione di “pedaggio gratuito” sull’autostrada. Un poco alla volta germoglia così l’idea della necessità di una lotta massiccia ed unita di tutta la classe operaia per potere fare fronte all’inevitabile perpetuarsi degli attacchi del governo. Per ciò, i lavoratori in lotta devono tirare le lezioni dal sabotaggio sindacale. Per potersi battere efficacemente, per opporre una risposta unita e solidale ricercando sempre più l’estensione della loro lotta, possono contare soltanto sulle loro forze. Non avranno altra scelta che prendere le loro lotte nelle proprie mani, sventando tutte le trappole, tutte le manovre di divisione e di sabotaggio messe in piedi dai sindacati.
Più che mai, l’avvenire sta nello sviluppo della lotta di classe. Wim (18 novembre) 1. Unione Nazionale Studenti di Francia 2. CSG (contributo sociale generalizzato): imposta destinata a finanziare la cassa malattie, le prestazioni familiari e i fondi di solidarietà per la vecchiaia. 3. SUD, sigla sindacale che corrisponde a “Solidali, Unitari, Democratici”. 4. FO, altro sindacato, Force Ouvriere (Forza Operaia). 5. CFDT, Confederazione Francese Democratica del Lavoro.Scioperi che durano da parecchi mesi, nel corso dei quali vengono espresse la solidarietà tra gli operai, una collera immensa contro il degrado delle proprie condizioni di vita ed una combattività esemplare, ecco cosa vuole nasconderci borghesia. Appena qualche articoletto sulla stampa o su Internet. Quanti sono gli operai che in Italia o altrove sanno quello che fanno i loro fratelli di classe in Egitto?
Già il massiccio sciopero del dicembre 2006 alla fabbrica tessile Ghazl Al-Mahalla aveva dato la stura ad un’ondata di protesta senza precedenti in tutto il paese. L’articolo “La solidarietà di classe, punta di lancia della lotta”, nel numero 151 del nostro giornale, descriveva la determinazione mostrata dagli operai in questa lotta ma anche la forza di coinvolgimento che si è manifestata a partire da questa lotta nell’intero settore tessile.
Di fatto da allora le lotte non si sono mai fermate. Da dicembre 2006 a maggio 2007 ci sono stati scioperi che hanno coinvolto migliaia di operai di altre fabbriche tessili, in particolare a Kafr el Dawwa (11.700 lavoratori), a Zelfia Textile Co. ad Alessandria (6.000 scioperanti) ed alla fabbrica tessile d’Abul Mukaren. Anche numerosi altri settori sono entrati in lotta: 3.000 operai in sciopero per due giorni alla industria di allevamento di pollami Cairo Poultry Co.; 9.000 in un’industria molitoria (mulino industriale) a Gizeh ed i netturbini di questa stessa città; occupazione della Mansoura Spanish Garment Factory da parte di 300 operaie e sciopero dei trasporti del Cairo con blocco della linea Il Cairo-Alessandria, sostenuto dai conducenti della metropolitana. Ed altre azioni di protesta come un sit alla sede centrale delle poste, scioperi dei panettieri, nelle fabbriche di laterizi, degli impiegati del Canale di Suez, dei portuali, degli impiegati municipali, del personale ospedaliero... “Alla fine giugno un comunicato di un sindacato americano annunciava che 200 scioperi erano finiti, ma non diceva niente su quelli che potevano ancora essere in corso” (Mondialism.org). Nel 2006 in Egitto ci sono stati 220 scioperi spontanei, cifra che viene superata largamente nel 2007.
Dal 23 settembre i 27.000 operai ed operaie dell’industria tessile pubblica di Ghazl Al-Mahalla, ad un centinaio di chilometri dal Cairo, hanno ripreso la mobilitazione a distanza di pochi mesi dalla precedente ondata di lotte di cui erano il centro propulsore. La promessa del governo di versare a ciascuno l’equivalente di un mese e mezzo di stipendio all’epoca pose fine allo sciopero. Ma il governo non ha mantenuto il suo impegno perché troppo oneroso ed ha versato solo parzialmente tale somma e con il conta gocce. Quale cinismo! Salari di miseria da 200 a 250 libre egiziane (ovvero da 25 a 30 euro), pigioni di circa 300 libre egiziane e generi di prima necessità aumentati del 48% dall'anno scorso, ecco la realtà degli operai che non sanno più come alloggiare, nutrirsi, curare sé stessi e le loro famiglie.
A luglio, mentre lo sciopero minacciava di nuovo di estendersi, il governo ha promesso immediatamente di pagare l’equivalente di 150 giorni di stipendio come parte sugli attuali utili dell’impresa. Somma che tardava di nuovo a pagare. Questo ha rilanciato la collera degli operai la cui combattività è rimasta sempre intatta. “ …‘Hanno promesso 150 giorni di indennità, vogliamo solo far rispettare i nostri diritti’ spiega Mohamed el-Attar che è stato arrestato per qualche ora dalla polizia martedì scorso. ‘Siamo determinati ad andare fino in fondo’…”. (Le Figaro, 1/10/07). Al cancello d’ingresso alla fabbrica, un manifesto proclama: “entrate in territorio libero”. Alcuni bambini hanno raggiunto le loro madri perché sono stati mandati indietro dalle scuole per non aver pagato le tasse scolastiche o per impossibilità di comparare i libri. Per tentare ancora una volta di rompere il movimento, la direzione ha decretato una settimana di ferie in modo da far risultare illegale l’occupazione e paventare la minaccia di un intervento militare.
In questa lotta, di fronte agli operai, il governo non è solo. E’ spalleggiato dai suoi fedeli cani da guardia, esperti maestri nel sabotaggio: i sindacati. Ma anche in questo caso gli operai non sembrano volersi lasciare manipolare tanto facilmente: “Il rappresentante del sindacato ufficiale, controllato dallo Stato, venuto a chiedere ai suoi colleghi di interrompere lo sciopero, è all’ospedale, dopo essere stato pestato dagli operai in collera. 'Il sindacato è agli ordini (dello Stato), vogliamo eleggere noi i nostri veri rappresentanti' spiegano gli operai” (Libération, 1/10/07).
Poco a poco la classe operaia prende coscienza che la sua forza risiede nella solidarietà e nell’unità al suo interno, al di là dei settori e delle corporazioni. Nel dicembre scorso, gli operai delle fabbriche tessili di Kafr Al-Dawar, dichiaravano: “stiamo nella vostra stessa barca e ci imbarcheremo insieme per lo stesso viaggio” e facevano proprie le rivendicazioni degli operai di Mahalla. In questo contesto non stupisce che abbiano manifestato di nuovo la loro solidarietà fin dalla fine settembre e siano scesi in sciopero. E così anche altri lavoratori, come ad esempio quelli dell’industria molitoria al Cairo che hanno fatto un breve sit-in e hanno mandato un comunicato di sostegno alle rivendicazioni degli operai qualificate come legittime, in particolare quelle che chiedevano al governo un salario minimo indicizzato sui prezzi correnti. Gli operai delle fabbriche di Tanta Linseed and Oil hanno seguito l’esempio di Mahalla avanzando anche le proprie rivendicazioni.Se il governo sembra oggi esitante è perché teme in primo luogo che la lotta continui a svilupparsi. Agita il bastone o la carota a seconda delle situazioni. Negli ultimi mesi se l’è presa con i giudici o con i giornalisti che gli si opponevano minacciandoli o mettendoli in galera. Ma di fronte alle migliaia di operai lotta deve essere più prudente (anche se il ricorso ad una repressione non è da escludere).
Di fronte alla forza montante del movimento il governo è obbligato, per ora, a proporre agli operai tessili di Mahalla 120 giorni di indennità e delle sanzioni contro la direzione. Ma gli operai non riescono più a credere alle promesse del governo, promesse che, del resto, sono inferiori alle loro rivendicazioni. No, questi scioperi non sono organizzati dai Fratelli musulmani (1) come lo Stato vorrebbe fare credere, è una vera ondata operaia a scuotere l’Egitto e quindi ha ben ragione ad averne paura. La classe operaia egiziana è la più importante del Medio Oriente e le sue lotte possono realmente ispirare gli operai della regione e del resto del mondo.
Map, 22 ottobre
1. “Fratelli Musulmani” è un’organizzazione pan islamista fondata nel 1928 in Egitto che si richiama al dovere di fedeltà ai valori islamici tradizionali e uno dei temi maggiormente dibattuto al suo interno è quello del jihād. La sua opposizione fondamentalista e talvolta violenta agli Stati laici arabi ha portato alla sua interdizione o alla limitazione della sua attività in alcuni paesi, tra i quali l’Egitto.
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Questo sviluppo della combattività e della coscienza, questo rifiuto della miseria e la diffidenza verso i sindacati ... tutto questo è espresso con chiarezza dalle stesse rivendicazioni degli operai di Ghazi Al- Mahalla:
▪ Ricevere l’equivalente di 150 lire egiziane del salario di base in profitti annui.
▪ Togliere la fiducia al comitato sindacale e al PDG (Partito democratico Gabonese) dell’impresa.
▪ Includere le indennità nel salario di base come percentuale fissa non legata alla produzione.
▪ Aumentare le indennità per il cibo.
▪ Assegnare una indennità per l’alloggio.
▪ Fissare un salario minimo conforme ai prezzi attuali.
▪ Fornire un mezzo di trasporto per gli operai che abitano lontano dal luogo i lavoro.
▪ Migliorare i servizi sanitari.
Abbiamo ricevuto il seguente articolo dai compagni di Enternasyonalist Komünist Sol (EKS)[1], che da un resoconto di un importante sciopero alla Telecom in Turchia. Oltre all’importanza dello sciopero in sé ed alle lezioni da trarne, i compagni dell’EKS mettono giustamente in risalto l’importanza dello sciopero all’interno del contesto dell’attuale atmosfera di sfrenato nazionalismo guerrafondaio ed alla chiara linea di classe che separa il patriottismo del presidente del sindacato Haber–İş e la determinazione dei lavoratori a difendere le proprie condizioni di vita. La difesa nazionale e gli interessi degli operai non sono compatibili!
Il massiccio sciopero di oltre 26.000 operai della Turk Telekom è finito. Dopo 44 giorni gli scioperanti hanno ripreso il lavoro. 1.100 giornate lavorative perse nel più grande sciopero nella storia della Turchia dopo quello del 1991 dei minatori. È tempo di tirare un bilancio degli eventi.
La prima e più importante lezione da comprendere è che i lavoratori possono proteggere le proprie condizioni di vita lottando. L’offerta iniziale della Turk Telekom di un aumento salariale del 4% era ben al di sotto della percentuale d’inflazione previsto per la fine dell’anno che è di 7.7%. In effetti la Turk Telekom stava offrendo ai lavoratori un taglio sui salari.
L’aver ottenuto il 10% per questo anno ed il 6.5% per il prossimo anno per l’aumento dell’inflazione è certamente una grande vittoria. Seguito subito dopo alla vittoria dei lavoratori della THY (compagnia aerea turca) che hanno ottenuto un aumento del 10% solo minacciando uno sciopero, questo lancia un chiaro messaggio a tutti gli operai in Turchia: l’unico strumento per difendere i salari dall’inflazione è l’azione collettiva ed unita. Esso mostra chiaramente la via da seguire a tutti gli altri lavoratori ed in particolare a quelli del pubblico impiego ai quali il governo ha offerto un misero 2%+2%. Ogni aumento salariale al di sotto dell’inflazione è una decurtazione del salario. Per molti aspetti il settore pubblico è il settore più importante in Turchia. Molte famiglie proletarie hanno almeno un membro che lavora per lo Stato. Una vittoria in questo settore sarebbe una vittoria per ogni lavoratore del paese.
La seconda lezione concerne coloro che sono stati accusati di atti di sabotaggio. È positivo che tutti gli impiegati che erano stati licenziati durante lo sciopero siano stati reintegrati. Tuttavia, gli operai che sono accusati di sabotaggio possono ritornare al loro posto di lavoro solo se saranno ritenuti innocenti. Diversamente dai dirigenti, dai boss dei media e dei sindacati, noi ci rifiutiamo di condannare gli operai che lottano per difendere le loro condizioni di vita. È importante che questi operai non vengano dimenticati. Come reagire se dei lavoratori vengono condannati per sabotaggio e vengono licenziati è una questione chiave che tutti gli operai della Telekom devono discutere.
La lezione successiva riguarda le illazioni di tradimento. Il presidente del sindacato Haber–İş, Ali Akcan è stato pronto a dichiarare che i lavoratori che scioperavano non erano dei “traditori”, e che se il paese ne avesse avuto bisogno in caso di guerra, gli scioperanti “avrebbero fatto il loro dovere”. Per noi è più che evidente che la classe operaia in questo paese ha messo per troppo tempo gli interessi della nazione prima dei loro propri interessi. La classe operaia ha pagato la situazione di guerra nel Sud-Est non solo con anni di inflazione e austerità, ma anche con il sangue dei propri figli. È tempo di mettere i nostri interessi di lavoratori al primo posto.
L’ultima lezione interessa l’intera classe operaia. I lavoratori della Telekom hanno lottato da soli. Mentre si facevano picchetti sul posto di lavoro, gli impiegati nelle PTT (servizio postale turco) continuavano a lavorare. Eppure la rivendicazione per la quale i lavoratori della Telekom stavano lottando, la difesa degli stipendi dall’inflazione, interessa l’intera classe operaia. I sindacati bloccano i lavoratori nei loro differenti settori. Se i lavoratori della Telekom da soli riescono ad ottenere il 10%, che cosa avrebbero potuto ottenere se si fossero uniti ai lavoratori delle PTT? Che cosa avrebbero potuto ottenere se si fossero uniti ai lavoratori del settore pubblico? E’ necessario che i lavoratori non restino isolati ciascuno nel proprio settore, ma si uniscano con altri settori. Se gli scioperanti fossero andati direttamente dai lavoratori delle PTT ed li avessero chiamati ad unirsi allo sciopero, la vittoria sarebbe potuta essere per entrambi maggiore e più rapida.
L’inflazione non sta andando via, la banca centrale ha rivisto ancora una volta le previsioni di inflazione. Non saranno solo i lavoratori del settore pubblico a dover lottare per difendere i loro stipendi dai tagli in busta paga, ma gli stessi lavoratori della Telekom dovranno lottare ancora, in un futuro più o meno vicino, per difendere quanto ottenuto con questo sciopero. E lottare insieme è il modo migliore per farlo.
EKS
Da World Revolution, on-line
Il Giappone fa parte delle più grandi potenze economiche del mondo. La classe operaia viene sfruttata da decenni in modo estremamente feroce e brutale. In una società completamente disumanizzata, i lavoratori sono messi perennemente in concorrenza; passano giorni interminabili in ufficio o alla catena di montaggio e, non avendo il tempo materiale di ritornare ogni sera a casa, spesso passano la notte in una specie di camere-letto sarcofago messe accanto ai luoghi di lavoro. Tuttavia finora, tutto ciò teneva, con la promessa di un lavoro a vita, stabile e non troppo mal pagato. Ma da una decina di anni si è impiantata la recessione. L’impoverimento e la precarietà sono venuti a fustigare questa classe operaia sotto pressione, in particolare gli ultimi arrivati sul “mercato del lavoro”: i giovani. Questa frangia della popolazione che si fa definire “precariato”, parlante sintesi di “precarietà” e “proletariato”, è costretta a condizioni di vita veramente insopportabili.
“Precariato”, ovvero miseria crescente dei giovani proletariIn Giappone, come dappertutto, la quotidianità dei giovani è fatta di lavori ad interim, di un susseguirsi di piccoli lavori precari e mal pagati. Nel migliore dei casi, quando riescono a coprire tutto un mese con contratti saltuari, possono “sperare” di guadagnare 600 euro al prezzo di ritmi infernali di lavoro: fanno a 3 il lavoro di 10. Per una frangia intera della classe operaia avere un tetto dove vivere o anche nutrirsi diventa un compito ogni giorno più difficile. In queste condizioni, i caffè manga (1) sono diventati una sorta di rifugio surrealista contro la stanchezza ed il freddo. I giovani vi si ammucchiano giusto per dormire, senza poter né mangiare né bere: “Nel gennaio 2007 un ragazzo di 20 anni è stato arrestato non per avere pagato le consumazioni in un caffè manga (...), dove aveva passato tre giorni. Aveva in tutto 15 yen (10 centesimi di euro) in tasca. Era entrato nello stabile per proteggersi dal freddo e in tre giorni aveva mangiato solo un “piatto del giorno” e un piatto di patatine fritte. Il dipendente di un altro caffè manga mi ha raccontato che una volta un cliente era restato una settimana e che, durante questo tempo, non aveva consumato nulla tranne qualche bibita” (2).
La cosa più ignobile è pressione di colpevolizzazione della classe dominante. Anche qui i disoccupati ed i precari sono accusati dalla borghesia di essere pigri, buoni a nulla, degli approfittatori del sistema. Sottoposta alla nauseabonda propaganda che “ciascuno è responsabile della sua sorte”, questa nuova generazione di proletari “usa e getta” è corrosa dal senso di colpa di non arrivare a nulla. Questa pressione è tale da tradursi in ondate di suicidi ed automutilazioni. In Giappone il suicidio è diventato la prima causa di decesso dei giovani dai 20 ai 39 anni!
Una gioventù operaia che cerca ma non sa ancora come far fronte agli attacchi
Nonostante tutto questo, dal 2002 i giovani giapponesi iniziano ad alzare gradualmente la testa e ad esprimere la loro rabbia. Manifestazioni di rivolta scoppiano regolarmente contro questa società. Nel 2006 una cospicua parte si è mobilitata per avere alloggi gratuiti. Nel corteo dei dimostranti si potevano leggere slogan come “abitiamo in costruzioni vetuste”, “viviamo in posti di 4 tatami e mezzo (circa 7,4 m2)”, “non riusciamo più a pagare l’affitto!”, “alloggi gratuiti!”.... Capire che la propria situazione non è dovuta alla pigrizia ma ad una crisi profonda di questa società è una necessità vitale ed è questo inizio di riflessione che si sta sviluppando nelle file dei giovani proletari: “E’ evidente che se la vita dei giovani è diventata oggi tanto precaria, ciò non ha nulla a che vedere con un problema psicologico personale o con la propria volontà, ma è dovuto al malsano desiderio delle imprese, che vogliono continuare ad approfittare di una manodopera monouso che gli permette di restare competitivi a livello internazionale”.
Tuttavia, per potere aprire realmente prospettive di lotta manca ancora una tappa decisiva: la capacità di riconoscersi come parte di un insieme molto più ampio, la classe operaia. È solo allora che le lotte potranno superare lo stadio della reazione immediata ed impotente. Per il momento, sentendosi isolati e tagliati fuori dal resto della classe operaia, la rabbia di tutti questi giovani precari sfocia in un vicolo cieco e nella disperazione. E’ significativo che la canzone più sentita dagli altoparlanti e dai giovani durante le manifestazioni è quella del gruppo del Sex Pistols, No future.
I giovani giapponesi non sono un’eccezione. In Germania i giovani sono costretti ad accettare lavori nell’amministrazione statale ad un euro all’ora. In Australia “un quarto degli australiani tra i 20 ed i 25 anni non sono impegnati né in un lavoro a tempo pieno né negli studi, cioè il 15% in più di 10 anni fa e non cambierà molto quando avranno 35 anni” (3). In Francia, nel 2006, la borghesia ha tentato di imporre un nuovo tipo di contratto d’assunzione che facilita i licenziamenti senza preavviso né indennità, il famoso CPE (contratto di primo impiego) (4)). Ma quella volta i giovani proletari seppero sviluppare una estesa mobilitazione. La lotta fu vincente ed entusiasmante, la borghesia fu costretta a ritirare il suo attacco. Il che dimostra che per le giovani generazioni la prospettiva di collegarsi alla lotta collettiva della loro classe è reale.
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Da Révolution Internationale, n.383
1. Caffè aperti ventiquattrore su ventiquattro dove i clienti leggono fumetti e navigano su Internet.
2. Courrier international, 5 luglio 2007
3. La Tribune, 10/08/07
4. Vedi i diversi articoli sul movimento in Francia contro il CPE nel 2006 sul nostro sito www.internationalism.org [112].
Nelle nostre discussioni, soprattutto con giovani elementi, sentiamo frequentemente "E’ vero che tutto va male, che vi sono sempre più miseria e guerra, che le nostre condizioni di vita degradano, che l'avvenire del pianeta è minacciato. Bisogna fare qualche cosa, ma che cosa? Una rivoluzione? Ma questa è un’utopia, è impossibile"!
Sta qua la grande differenza tra maggio 1968 ed oggi. Nel 1968, in un momento in cui la crisi aveva appena cominciato nuovamente a fare sentire i suoi colpi, l'idea di rivoluzione era dovunque presente. Oggi, la constatazione del fallimento del capitalismo è diventata generale ma esiste invece un grande scetticismo in quanto alla possibilità di cambiare il mondo. I termini di comunismo, di lotta di classe, risuonano come un sogno di un altro tempo. Anche parlare di classe operaia e di borghesia parrebbe anacronistico.
Ora, la storia, nei fatti, già ha dato una risposta a questi dubbi. 90 anni fa, il proletariato ha portato la prova, attraverso le sue azioni, che il mondo poteva essere cambiato. La rivoluzione d’ottobre 1917 in Russia, la più grandiosa azione delle masse sfruttate fino ad ora, ha mostrato concretamente che la rivoluzione non è solamente necessaria ma che è anche possibile! (1)
La classe dominante scarica una massa continua di menzogne su questo episodio. Opere come la Fine di un'illusione o Il Libro nero sul comunismo non fanno che riprendere una propaganda che già circolava all'epoca: la rivoluzione sarebbe stata solamente un "golpe" dei bolscevichi, Lenin sarebbe stato un agente dell'imperialismo tedesco, ecc. I borghesi concepiscono le rivoluzioni operaie come un atto di pazzia collettiva, un caos spaventoso che finisce orribilmente (2). L'ideologia borghese non può ammettere che gli sfruttati possano agire per proprio conto. L'azione collettiva, solidale e cosciente della maggioranza lavoratrice, è una nozione che il pensiero borghese considera come un'utopia contro natura.
Tuttavia, non se ne dispiacciano i nostri sfruttatori, la realtà è proprio che nel 1917 la classe operaia ha saputo sollevarsi collettivamente e consapevolmente contro questo sistema disumano. Ha dimostrato che gli operai non erano delle bestie da soma, buone solo ad ubbidire ed a lavorare. Al contrario, questi avvenimenti rivoluzionari hanno rivelato le capacità grandiose e spesso anche insospettate del proletariato liberando un torrente di energia creatrice ed una prodigiosa dinamica di sconvolgimento collettivo delle coscienze. John Reed riassume così questa vita ribollente ed intensa dei proletari durante l’anno 1917:
"La Russia tutta intera imparava a leggere; leggeva di politica, d’economia, di storia, perché il popolo aveva bisogno di sapere. (...) La sete di istruzione per così molto tempo frenata diventò con la rivoluzione un vero delirio. Dal solo Istituto Smolny vennero estratte ogni giorno, per i primi sei mesi, tonnellate di letteratura che attraverso carri e vagoni andarono a saturare il paese. (...) E quale ruolo giocava la parola! Si tenevano riunioni nelle trincee, sulle piazze dei villaggi, nelle fabbriche. Quale ammirevole spettacolo offrirono i 40. 000 operai della Putilov nell’ascoltare oratori socialdemocratici, socialisti-rivoluzionari, anarchici ed altri, così attenti a tutti ed indifferenti alla lunghezza dei discorsi per mesi; a Pietrogrado ed in tutta la Russia, ogni angolo di strada fu una tribuna pubblica. Nei treni, nei tram, nasceva dovunque inaspettatamente la discussione. (...) In tutte le riunioni, la proposta di limitare il tempo di parola era regolarmente respinta; ciascuno poteva esprimere liberamente il proprio pensiero" (3). La "democrazia" borghese parla molto di "libertà di espressione" quando l’esperienza ci dice che essa è manipolazione, spettacolo e lavaggio del cervello. L'autentica libertà d’espressione è quella che conquistano le masse operaie nella loro azione rivoluzionaria:
"In ogni fabbrica, in ogni laboratorio, in ogni compagnia, in ogni caffè, in ogni cantone, nelle stesse borgate deserte, il pensiero rivoluzionario realizzava un lavoro silenzioso e molecolare. Sorgevano dovunque interpreti degli avvenimenti, operai a cui si poteva chiedere la verità su ciò che era accaduto e da cui si potevano ascoltare le necessarie parole d’ordine. (...) Questi elementi di esperienza, di critica, di iniziativa, di abnegazione, si sviluppavano nelle masse e costituivano la meccanica interna inaccessibile allo sguardo superficiale, tuttavia decisiva, del movimento rivoluzionario come processo cosciente." (4).
Questa capacità della classe operaia a ritornare collettivamente e consapevolmente in lotta non è un miracolo improvviso, è il frutto di numerose lotte e di una lunga riflessione sotterranea. Marx paragonava spesso la classe operaia ad una vecchia talpa che scava lentamente la sua strada per spuntare più lontano all'aria libera in modo improvviso e non previsto. Attraverso l'insurrezione di ottobre 1917, riappare il segno delle esperienze della Comune di Parigi del 1871 e della rivoluzione del 1905, delle battaglie politiche della Lega dei comunisti, della Prima e Seconda Internazionale, della sinistra di Zimmerwald, degli Spartachisti in Germania e del Partito bolscevico in Russia. La Rivoluzione russa è certamente una risposta alla guerra, alla fame ed alla barbarie dello zarismo moribondo, ma è anche e soprattutto una risposta cosciente, guidata dalla continuità storica e mondiale del movimento proletario. Concretamente, gli operai russi hanno vissuto prima dell’insurrezione vittoriosa le grandi lotte del 1898, 1902, la Rivoluzione del 1905 e le battaglie del 1912-14.
“Fu necessario contare non con una qualsiasi massa, ma con la massa degli operai di Pietrogrado e degli operai russi in generale che avevano vissuto l'esperienza della Rivoluzione del 1905, l'insurrezione di Mosca del mese di dicembre dello stesso anno, e fu necessario che nel seno di questa massa, ci fossero operai che avevano riflettuto sull'esperienza del 1905, che avevano assimilato la prospettiva della rivoluzione che si erano interrogati una dozzina di volta sulla questione dell'esercito.” (5).
E’ così che ottobre ‘17 fu il punto culminante di un lungo processo di presa di coscienza delle masse operaie finendo, alla vigilia dell'insurrezione, in un’atmosfera profondamente fraterna nelle file operaie. Questo ambiente è percettibile, quasi palpabile in queste righe di Trotsky:
“Le masse provavano il bisogno di tenersi strette, ciascuno voleva controllare sé stesso attraverso gli altri, e tutti, con uno spirito attento e teso, cercavano di vedere come un solo e stesso pensiero si sviluppava nella loro coscienza con le sue diverse sfumature e caratteristiche. (...) Mesi di vita politica febbrile (...) avevano educato centinaia e migliaia di autodidatti. (...) La massa non tollerava già più nel suo campo gli esitanti, quelli che dubitavano, i neutrali. Si sforzava di impossessarsi di tutti, di attirarli, di convincerli, di conquistarli. Le fabbriche congiuntamente ai reggimenti mandavano dei delegati al fronte. Le trincee si legavano con gli operai ed i contadini del più vicino retroterra al fronte. Nelle città di questa zona avevano luogo innumerevoli riunioni, comizi, conferenze in cui i soldati ed i marinai univano la loro azione con quella degli operai e dei contadini" (6).
Grazie a questa effervescenza di dibattiti, gli operai poterono così, nei fatti, guadagnare alla loro causa i soldati ed i contadini. La rivoluzione del 1917 corrisponde all'essere proprio del proletariato, classe allo tempo stesso sfruttata e rivoluzionaria che può liberarsi solo a condizione d’agire in modo collettivo e cosciente. La lotta rivoluzionaria del proletariato costituisce l'unica speranza di liberazione per tutte le masse sfruttate. La politica borghese è sempre a profitto di una minoranza della società. All'inverso, la politica del proletariato non insegue un beneficio particolare ma quello di tutta l'umanità. "La classe sfruttata ed oppressa, il proletariato, non può liberarsi della classe che la sfrutta e l'opprime, la borghesia, senza liberare allo stesso tempo e per sempre, la società intera dallo sfruttamento, dall'oppressione e dalle stesse lotte di classe." (7).
Questa effervescenza di discussione, questa sete di azione e di riflessione collettiva si è materializzata molto concretamente attraverso i soviet, o consigli operai, permettendo agli operai di organizzarsi e lottare come una classe unita e solidale.
L’appello della giornata del 22 ottobre, fatto dal Soviet di Pietrogrado, sigillò definitivamente l'insurrezione: riunioni ed assemblee si tennero in tutti i quartieri, in tutte le fabbriche ed esse verificarono un profondo accordo: “Abbasso Kerenski!” (8), “Tutto il potere ai Soviet!” Non furono solo i bolscevichi, ma tutto il proletariato di Pietrogrado che decise ed eseguì l'insurrezione. Fu un atto gigantesco in cui gli operai, gli impiegati, i soldati, numerosi cosacchi, donne, bambini, diedero apertamente il loro impegno.
“L'insurrezione fu decisa, per così dire, per una data fissata: il 25 ottobre. Non fu fissata da una riunione segreta, ma apertamente e pubblicamente, e la rivoluzione trionfante ebbe luogo precisamente il 25 ottobre (6 novembre nel calendario russo) come era già stato stabilito. La storia universale ha conosciuto un gran numero di rivolte e di rivoluzioni: ma cercheremmo invano un'altra insurrezione di una classe oppressa che sia stata fissata in anticipo e pubblicamente, attraverso una data annunciata, e che sia stata compiuta vittoriosamente, il giorno annunciato. In questo senso ed in numerosi altri, la rivoluzione di novembre è unica ed incomparabile.” (9).
In tutta la Russia, ben al di là di Pietrogrado, un’infinità di soviet locali lanciavano l’appello alla presa del potere o effettivamente lo prendevano, facendo trionfare dovunque l’insurrezione. Il partito bolscevico sapeva perfettamente che la rivoluzione non era l’impresa né del solo partito né dei soli operai di Pietrogrado ma del proletariato tutto intero. Gli avvenimenti hanno provato che Lenin e Trotsky avevano ragione nel sostenere che i soviet, fin dalla loro apparizione spontanea negli scioperi di massa del 1905, rappresentavano la "forma infine trovata della dittatura del proletariato". Nel 1917, questa organizzazione unitaria dell’insieme della classe in lotta giocò, attraverso la generalizzazione di assemblee sovrane e la sua centralizzazione con delegati eleggibili e revocabili in ogni momento, un ruolo politico essenziale e determinante nella presa di potere, mentre i sindacati non vi giocarono alcun ruolo.
Affianco ai soviet, un’altra forma di organizzazione della classe operaia sostenne un ruolo fondamentale ed anche vitale per la vittoria dell’insurrezione: il partito bolscevico. Se i soviet permisero a tutta la classe operaia di lottare collettivamente, il partito, rappresentando la frazione più cosciente e determinata, ebbe per ruolo di partecipare attivamente al combattimento, di favorire il più largo e profondo sviluppo della coscienza e di orientare in modo decisivo, con le sue parole d’ordine, l’attività della classe. Sono le masse che prendono il potere, sono i soviet che assicurano l’organizzazione, ma il partito di classe è un’arma indispensabile alla lotta. Nel luglio 1917, è il partito che risparmiò alla classe una disfatta decisiva (10). Nell’ottobre 1917, è ancora lui che mette la classe sulla strada del potere. Tuttavia, la rivoluzione di ottobre ha mostrato in modo vivente che il partito non può e non deve sostituire i soviet: se è indispensabile che il partito assuma la direzione politica tanto nella lotta per il potere che nella dittatura del proletariato, non è suo compito prendere il potere. Questo deve restare non nelle mani di una minoranza, per quanto cosciente e devota, ma di tutta la classe operaia attraverso il solo organismo che la rappresenta come un tutto: i soviet. Su questo punto, la rivoluzione russa fu una dolorosa esperienza poiché il partito soffocò poco a poco la vita e l’effervescenza dei consigli operai. Ma, nel 1917, di questa questione né Lenin e gli altri bolscevichi, né gli Spartachisti in Germania avevano una chiara comprensione e non potevano averla. Non bisogna dimenticare come l’ottobre 1917 sia stata la prima esperienza per la classe operaia di un’insurrezione vittoriosa a livello di tutto un paese!
“La Rivoluzione russa non è che l’avanguardia dell’esercito socialista mondiale, ed il successo ed il trionfo della rivoluzione che abbiamo compiuto dipendono dall’azione di questo esercito. È un fatto che nessuno tra noi dimentica (…). Il proletariato russo ha consapevolezza del suo isolamento rivoluzionario, ed egli vede chiaramente che la sua vittoria ha per condizione indispensabile e premessa fondamentale, l'intervento unito degli operai del mondo intero” (Lenin, 23 luglio 1918).
Per i bolscevichi, era chiaro che la Rivoluzione russa era solamente il primo atto della rivoluzione internazionale. L’insurrezione di ottobre 1917 costituiva di fatto l’avamposto di un’ondata rivoluzionaria mondiale, il proletariato che si lanciava verso combattimenti titanici che realmente hanno rischiato di determinare la fine del capitalismo. Nel 1917, il proletariato rovescia il potere borghese in Russia. Tra il 1918 e 1923, effettua molteplici assalti nel principale paese europeo, la Germania. Velocemente, quest’ondata rivoluzionaria si ripercuote in tutte le parti del mondo. Dovunque esista una classe operaia evoluta, i proletari si sollevano e si battono contro i loro sfruttatori: dall’Italia al Canada, dall’Ungheria alla Cina.
Quest’unità e questo slancio della classe operaia a scala internazionale non sono apparsi per caso. Questo sentimento comune di appartenere ovunque alla stessa classe ed alla stessa lotta corrisponde all’essere proprio del proletariato. Qualunque sia il paese, la classe operaia è sotto lo stesso giogo dello sfruttamento, ha di fronte la stessa classe dominante e lo stesso sistema di sfruttamento. Questa classe sfruttata forma una rete che attraversa i continenti, ogni vittoria o sconfitta di una delle sue parti condiziona inesorabilmente l’insieme. E’ per tale motivo che, fin dalle sue origini, la teoria comunista ha posto alla testa dei suoi principi l’internazionalismo proletario, la solidarietà di tutti gli operai del mondo. “Proletari di tutti i paesi, unitevi”, tale era la parola d’ordine del Manifesto comunista redatto da Marx ed Engels. Questo stesso manifesto affermava chiaramente che “i proletari non hanno patria”. La rivoluzione del proletariato, la sola che può mettere fine allo sfruttamento capitalista ed ad ogni forma di sfruttamento dell’uomo sull’uomo, non può avere luogo che a scala internazionale. E’ proprio questa realtà che era espressa con forza fin dal 1847: “La rivoluzione comunista (...) non sarà una rivoluzione puramente nazionale; si produrrà in tutti i paesi civilizzati allo stesso tempo (…) Eserciterà anche su tutti gli altri paesi del globo una ripercussione considerevole e trasformerà completamente ed accelererà il corso del loro sviluppo. È una rivoluzione universale; avrà, di conseguenza, un campo universale.” (11). La dimensione internazionale dell’ondata rivoluzionaria degli anni 1910-1920 provò che l’internazionalismo proletario non è un bel e grande principio astratto, ma che è al contrario una realtà reale e tangibile. Di fronte al nazionalismo sanguinario e viscerale delle borghesie che si sprofondano nella barbarie della Prima Guerra mondiale, la classe operaia ha opposto la sua lotta e la sua solidarietà internazionale. “Non c’è socialismo all’infuori della solidarietà internazionale del proletariato”, tale era il messaggio forte e chiaro dei volantini che circolavano nelle fabbriche in Germania (12). La vittoria dell’insurrezione di ottobre 1917 poi la minaccia di estensione della rivoluzione in Germania ha costretto le borghesie a mettere un termine alla prima carneficina mondiale, a questo ignobile bagno di sangue. In effetti, la classe dominante ha dovuto fare tacere i suoi antagonismi imperialisti che la laceravano da quattro anni per opporre un fronte unito ed arginare l’ondata rivoluzionaria.
L’ondata rivoluzionaria dell’ultimo secolo è stata il punto più alto raggiunto a tutt’oggi dall’umanità. Al nazionalismo ed alla guerra, allo sfruttamento ed alla miseria del mondo capitalista, il proletariato ha saputo aprire un’altra prospettiva, la sua prospettiva: l’internazionalismo e la solidarietà di tutte le masse oppresse. L’ondata di ottobre ‘17 ha provato così la forza della classe operaia. Per la prima volta, una classe sfruttata ha avuto il coraggio e la capacità di strappare il potere dalle mani degli sfruttatori e di inaugurare la rivoluzione proletaria mondiale! Anche se la rivoluzione doveva essere sconfitta ben presto, a Berlino, a Budapest ed a Torino e benché il proletariato russo e mondiale abbia dovuto pagare questa sconfitta ad un prezzo terribile (gli orrori della controrivoluzione stalinista, una seconda guerra mondiale e tutta la barbarie che da allora non è mai più cessata), la borghesia non sempre è stata capace di cancellare completamente dalla memoria operaia questo avvenimento esaltante e le sue lezioni. L’ampiezza delle falsificazioni della borghesia su Ottobre ‘17 è a misura degli spaventi che essa ha provato. La memoria di ottobre è là per ricordare al proletariato che il destino dell’umanità è rimesso tra le sue mani e che è capace di compiere questo compito grandioso. La rivoluzione internazionale rappresenta più che mai l’avvenire!
Pascale
Da Révolution Internatinale, n.383
1. Oltre a questo articolo, vedi il nostro opuscolo sull’Ottobre 1917 pubblicato sul nostro sito web.
2. Il cartone animato di Don Bluth e Gary Goldman chiamato "Anastasia", che presenta la Rivoluzione russa come un colpo di Rasputin che avrebbe gettato una sorte malefica e demoniaca sul popolo russo, è una caricatura molto grossolana ma altrettanto rivelatrice!
3. John Reed, I Dieci giorni che sconvolsero il mondo.
4. Trotsky, Storia della rivoluzione russa, cap. "Raggruppamento nelle masse".
5. Trotsky, Storia della rivoluzione russa, cap. "Il paradosso della rivoluzione di febbraio".
6. Trotsky, Ibid., cap. "L’uscita dal pre-parlamento".
7. Engels, "Prefazione del 1883" al Manifesto comunista.
8. Capo del governo provvisorio borghese formato dopo febbraio.
9. Trotsky, La Rivoluzione di novembre, 1919.
10. Leggi il nostro articolo "Le giornate di luglio: il ruolo indispensabile del partito".
11. F. Engels, Principi del comunismo.
12. Formula di Rosa Luxemburg nella Crisi della socialdemocrazia, ripresa da numerosi manifesti spartachisti.
“I lavoratori italiani hanno i salari più bassi d’Europa” (Eurispes), “Il 15% delle famiglie italiane vive in condizioni di assoluta povertà!”, “In Italia ci sono morti sul lavoro ogni giorno”. Queste notizie non vengono da giornali rivoluzionari, ma direttamente da enti statali, da personaggi eminenti della borghesia e del governo e successivamente dai sindacati i quali, sentendosi chiamati in causa, portano il “loro contributo di solidarietà” ai lavoratori. Come mai la nostra borghesia si preoccupa tanto di far sapere agli operai che stanno nella merda, più degli altri lavoratori europei? E come mai dopo questa constatazione, che vede naturalmente d’accordo gli operai, non arriva un congruo aumento del salario o una reale diminuzione delle tasse?
A dir la verità c’è qualcuno che azzarda l’ipotesi di tagliare le tasse per dare un po’ di respiro alla nostra classe lavoratrice e promette che lo farà. Quando? L’anno prossimo! Questo qualcuno è Prodi e il suo oramai ex governo che, dopo aver bastonato i lavoratori e orgoglioso di aver contenuto l’aumento del debito, promette che non lo dimenticherà. Tale e quale al suo collega Berlusconi. Prodi ha anche promesso, il giorno del funerale degli operai della Thyssen Group, che queste morti sul lavoro non ci sarebbero state più. Mai più! Forse alla Thyssen di Torino, che sta per chiudere, ma non nei cantieri edili di tutt’Italia, non nelle navi da svuotare subito senza aspettare che entri dell’ossigeno nelle stive, non nelle piccole fabbriche gestite come lager. In Italia ogni giorno muoiono sul lavoro in media più di tre lavoratori, ma ce ne sono tanti altri che non vengono contabilizzati semplicemente perché muoiono successivamente a causa delle ferite riportate, per non parlare di quelli che muoiono per “cause sconosciute”, tipo cancro e simili, ricevuti in regalo dai fumi e dagli scarichi che le ciminiere e laboratori vari sfornano ogni giorno. Per non contare ancota i massacri che vengono provocati ogni giorno sulle strade dai TIR guidati da camionisti che non dormono mai per poter fare più viaggi possibili, come richiesto dai vari borghesi che parlano di aumentare la produttività. Chi invoca un aumento della produttività in qualsiasi settore è corresponsabile di questi massacri. Come chi dice, a partire da Montezemolo, che i lavoratori non devono fare malattie ma sacrificarsi sul posto di lavoro. Quanti precari ammalati si rovinano la vita per paura di ritorsioni e per non ridurre il già magro stipendio? Tutto questo in nome del dio Profitto!
Naturalmente i sindacati, quando capita una strage come alla Thyssen o a Porto Marghera, fanno subito uno sciopero preventivo e settoriale per evitare che la rabbia degli operai possa spingerli a prendere iniziative autonome. Iniziative pericolosissime per la borghesia, assolutamente da evitare, perché potrebbero portare a unire settori diversi, a discussioni sulle reali condizioni di vita e quindi alla presa di coscienza della necessità di uscire da questa situazione e della strada da seguire.
È questo il motivo che spinge politici e organi di informazione, gli istituti di statistica come l’Istat e simili, a dichiarare solennemente che i lavoratori italiani non ce la fanno più. E ce lo dicono dalla mattina alla sera. Percentuali che vengono aggiornate giorno per giorno come un bollettino della borsa. E insieme alla miseria crescente hanno anche la faccia tosta di dirci, tramite tv e stampa, come si organizzano i miseri, acquistando negli ipermercati quando ci sono i saldi, razionando questo e quello e ... indebitandosi. Ci danno consigli su come sopravvivere, ci ricordano Maria Antonietta che consigliava di mangiare brioches al posto del pane.
Se oggi la borghesia fa tanta propaganda sulle misere condizioni degli italiani è perché deve coprire il terreno in modo preventivo, deve evitare che a questo ci arrivino i lavoratori dopo aver subito le classiche menzogne della classe politica che tutto va bene e meglio, e soprattutto perché la borghesia sa che ci sono le condizioni per questa presa di coscienza. Condizioni possibili perché le campagne sulla fine della classe operaia, sul fatto che navighiamo tutti nella stessa barca, che bisogna pagare per gli anni delle vacche grasse (chi le ha mai viste?), che bisogna aumentare la produttività altrimenti ci sorpassano, che in definitiva bisogna stringere la cinghia, non fanno più effetto.
I lavoratori incominciano a muoversi. I lavoratori incominciano a discutere. Neanche i ciechi vedono più una differenza tra la destra e la sinistra, tante ne hanno prese, di bastonate, da entrambe le parti.
L’anno passato ha visto molti scioperi, gestiti da sindacati di vertice e di base, in ordine sparso in vari settori, la maggior parte nel settore dei trasporti. Non è passata settimana senza uno sciopero, oggi nelle ferrovie, domani negli aeroporti, un giorno in un compartimento, un altro tra i macchinisti, poi con un sindacato della triplice e dopo con uno di base. Un giorno chiudevano le metropolitane in una città, il successivo gli autobus in un’altra. La farsa è stata raggiunta dai sindacati dei metalmeccanici che hanno lottato “duro” contro gli automobilisti, tra cui molti lavoratori, bloccando le strade per poi accordarsi sulla cifra già prevista dalla borghesia. Hanno ottenuto secondo la stampa 127 € (per il 5° livello) ma la maggior parte degli operai ne prenderà 50. Questo è il contributo della borghesia per diminuire la miseria! E hanno aumentato l’orario di lavoro e la precarizzazione: fino a 44 mesi! Questo porterà ad un ulteriore aumento degli incidenti di lavoro perché non sono solo gli estintori mal funzionanti a far morire gli operai ma anche e soprattutto il mancato riposo, i turni stressanti, i ritmi infernali.
Una serie di scioperi importanti e soprattutto di discussioni si è avuta con la mobilitazione dei precari della Atesia di Roma, il più grande call center d’Europa. Una lotta contro padroni, governo e sindacati, contro il lavoro precario e i miseri salari. Ecco cosa dicono questi lavoratori:
“Il collettivo Precari Atesia è una realtà, una delle tante e sempre più crescenti voci che nascono dal disagio lavorativo e di conseguenza sociale. È semplicemente un gruppo di lavoratori precari uguale in tutto e per tutto agli altri lavoratori precari, ma con una cosa in più: l’autocoscienza e la convinzione che dopotutto ‘parole, idee e lotte possano cambiare il mondo’”.
La cosa più importante nella lotta all’aggressione quotidiana della borghesia e del suo stato non consiste nella quantità di scioperi, anche se questi sono un sintomo del malessere, ma nella loro qualità, che è un sintomo della presa di coscienza, cioè capacità di aggregare settori diversi, qualifiche diverse e soprattutto piena e convinta partecipazione dei lavoratori con una gestione autonoma delle lotte. E spesso sono più importanti le assemblee che gli scioperi.
È questa la situazione attuale, c’è ancora il controllo dei sindacati sui lavoratori ma la tendenza è alla presa in mano delle lotte, unica strada per non affossare nella miseria che la borghesia ci rinfaccia ogni giorno.
Oblomov 28 gennaio 2008
Nel 2007 in Germania c’è stato il maggior numero di giornate di sciopero dal 1993 (all’indomani della riunificazione), delle quali il 70% a causa degli scioperi della primavera scorsa contro il decentramento di 50.000 posti di lavoro nelle telecomunicazioni. Questo paese è stato sempre vantato in questi ultimi anni per il suo dinamismo economico ma anche come modello di “concertazione sociale”.
La lotta dei ferrovieri
Lo sciopero dei ferrovieri che si è concluso all’inizio di gennaio dopo dieci mesi di conflitto mostra il contrario. In Germania la classe operaia risponde come altrove agli attacchi della borghesia. Mentre il numero di ferrovieri è stato dimezzato in 20 anni e le condizioni di lavoro si sono deteriorate come mai prima nel settore, i salari sono fermi da 15 anni, facendo di questo uno dei lavori più mal pagati in Germania (in media meno di 1500 euro mensili).
Durante questi dieci mesi i ferrovieri tedeschi hanno subito ogni sorta di manovre, di minacce e di pressioni:
▪ In agosto i tribunali tedeschi avevano dichiarato in questo settore che lo sciopero era illegale. Ma lo sciopero di tre giorni, illegale, lanciato dai conduttori di treno in novembre e che era stato chiaramente annunciato come uno sciopero “illimitato”, è stato immediatamente e come per miracolo legalizzato dai tribunali nel momento in cui scoppiava lo sciopero dei ferrovieri in Francia.
▪ I sindacati hanno giocato un forte ruolo di divisione tra gli operai attraverso una ripartizione di compiti tra i sindacati partigiani della legalità e quelli più radicali pronti a trasgredirla come il sindacato corporativo dei conduttori, il GDL, che si è presentato come l’animatore dello sciopero.
▪ I media hanno organizzato una vasta campagna per denunciare il carattere “egoista” dello sciopero quando invece questo ha beneficiato della simpatia dalla maggior parte degli altri lavoratori “utenti” sempre più numerosi ad identificarsi anch’essi come vittime delle stesse ingiustizie sociali.
▪ Lo Stato tedesco ha cercato di intimidire i conduttori di treno minacciandoli di far pagare loro i milioni di euro persi a causa dello sciopero
Nonostante ciò i ferrovieri non hanno ceduto ed hanno invece imposto un rapporto di forza alla borghesia tedesca.
Il conflitto si è concluso con un aumento dell’11% del salario, ma per il solo personale viaggiante della Deutsche Bahn. Inoltre non solo quanto ottenuto è ben lontano dal 31% rivendicato dai lavoratori, ma questo aumento è già intaccata da un insieme di convenzioni salariali su 19 mesi tra cui la riduzione da 41 a 40 ore di lavoro settimanale per i 20.000 conduttori di treno a decorrere dal febbraio 2009. Ma è significativo che lo Stato abbia concesso questo magro aumento per permettere di abbassare un po’ la pressione di fronte ad un incremento generale delle rivendicazioni sui salari.
La lotta intorno alla Nokia a Bochum
Il crescere della combattività del proletariato in Germania si è evidenziata in maniera ancora più eclatante a Bochum quando il produttore finnico di telefonia mobile Nokia ha annunciato per fine 2008 la chiusura della sua fabbrica a Bochum, che occupa 2.300 operai e la cui chiusura implica, con le imprese dell’indotto ed in subappalto, la perdita di 4.000 posti di lavoro per questa città. Il 16 gennaio, il giorno dopo quest’annuncio, gli operai si sono rifiutati di lavorare e degli operai della vicina fabbrica Opel, altri della Mercedes, siderurgici dell’impresa Hoechst di Dortmund, metallurgici venuti da Herne, minatori della regione sono affluiti ai cancelli Nokia per dare il loro sostegno e la loro solidarietà. Il 22 gennaio questo stesso sentimento di solidarietà con gli operai della Nokia è stato al centro di una manifestazione di 15.000 persone che riuniva ancora una volta i lavoratori delle imprese di tutta la regione sfilando nelle vie di Bochum.
Gli operai si ricollegano così alle loro esperienze passate di combattività. Nel 2004, gli operai della fabbrica Daimler-Benz a Brema scesero in lotta spontaneamente rifiutando il ricatto della concorrenza tra gli impianti di produzione operato dalla direzione, per solidarietà nei confronti degli operai di Stoccarda della stessa impresa minacciati di licenziamento. Qualche mese dopo, altri operai del settore automobilistico, proprio quelli della Opel di Bochum, iniziarono spontaneamente uno sciopero a loro volta di fronte ad una pressione della direzione dello stesso tipo. È precisamente per fermare un tale possibile sviluppo di solidarietà operaia rispetto agli operai della Nokia a Bochum, e deviarlo, che la governo ed amministrazioni locali e regionali di ogni colore politico, chiesa, sindacati e rappresentanti del padronato tedesco hanno orchestrato una fervente campagna nazionale “denunciando” il carattere senza scrupoli della Nokia e accusando i costruttori finnici di aver “scandalosamente abusato” dello Stato tedesco e aver di aver approfittato delle sue sovvenzioni. Tutti giurano con la mano sul cuore che avevano dato questi fondi per l’occupazione e che ancora oggi vogliono difendere con le unghie e con i denti i “loro” operai contro i padroni “traditori”1.
La prospettiva è uno sviluppo della lotta di classe. Questo sviluppo delle lotte operaie in un paese così importante, con tutta l’esperienza storica ed il ruolo centrale che detiene per il proletariato dell’Europa, può essere soltanto un potente catalizzatore per le lotte che gli operai conducono su tutto il continente. Ed è per questa ragione che i mass media occultano questi avvenimenti mentre la borghesia cerca i presentarsi a Bochum come quella che difende e protegge i “suoi” operai: lo scopo è soffocare le reali manifestazioni di solidarietà operaia che si sono espresse qui e impedire che si estendano.
WA (27 gennaio)
1. Quale ipocrisia! La classe operaia di questo paese è particolarmente esposta agli attacchi incessanti della borghesia nazionale (età pensionabile portata a 67 anni, piani di licenziamenti, tagli in tutte le prestazioni sociali previsti per il 2010, …).
A metà novembre, appena dopo che gli operai di Dubai erano tornati al lavoro dopo una massiccia e spontanea rivolta, la stampa e la televisione dedicavano le prime pagine alla storia del nipote del re di Dubai Abdallah, Al Walid Ibn Talal, il quale aveva appena acquistato un Airbus A380 per il proprio uso personale.
Non una sola parola sullo sciopero di massa! Non una sola parola sulla ribellione di centinaia di migliaia di operai super-sfruttati! Ancora una volta la borghesia crea un blackout sui mezzi di informazione internazionali.
Contro lo sfruttamento inumano della borghesia…
Negli ultimi cinque anni Dubai ha iniziato una immensa opera di costruzione, in cui enormi grattacieli, uno più incredibile dell’altro, spuntano come funghi. L’Emirato è uno dei simboli borghesi del “miracolo economico” del Medio Oriente. Ma dietro questa vetrina si nasconde una realtà diversa: la realtà non è quella mostrata a turisti ed affaristi, ma quella della classe operaia che ha versato lacrime e sangue per questi “sogni architettonici”.
Del poco più di un milione di abitanti dell’Emirato, più dell’80% sono lavoratori di origine straniera, la maggior parte indiani, ma anche pachistani, bengalesi e, recentemente, cinesi. Sembra che essi siano più economici degli operai arabi! Dal 24 luglio scorso questi vanno a lavorare nei cantieri praticamente per niente, percependo l’equivalente di 100-150 euro al mese. Costruiscono queste torri e questi palazzi prestigiosi, ma vivono in baracche di una stanza in mezzo al deserto. Vengono portati dall’alloggio al cantiere in carri bestiame che chiamano autobus. E oltretutto senza assistenza medica o contributi… e per prevenire ogni eventuale pericolosa resistenza i datori di lavoro trattengono i loro passaporti. Naturalmente non c’è nessuna considerazione per le famiglie dei lavoratori che sono rimaste nei paesi di origine, possono incontrarsi solo ogni due o tre anni data la difficoltà a trovare i soldi del viaggio.
Ma gli essere umani non puoi trattarli sempre così e farla franca.
… sciopero di massa del proletariato
Nell’estate del 2006, gli operai di Dubai avevano già dimostrato la loro capacità di lottare collettivamente con scioperi di massa. Ad onta della repressione che ne seguì, anche oggi hanno osato levarsi contro i propri sfruttatori e torturatori. E attraverso queste lotte hanno dimostrato il loro coraggio, lo straordinario spirito combattivo, unendosi per opporsi ad una vita di miseria e schiavitù. Hanno fronteggiato il potere costituito col rischio di venire travolti, proprio come i loro fratelli di classe in Egitto. Perché negli Emirati gli scioperi sono proibiti; la pena è immediata e consiste nel ritiro del permesso di lavoro e il bando a vita dai luoghi di lavoro.
La borghesia e il suo Stato hanno risposto con la violenza, come c’era da aspettarsi. Le squadre anti-sommossa hanno usato i cannoni ad acqua per disperdere i dimostranti e molti di loro sono stati portati via dalle le camionette della polizia. “Denunciando questo ‘comportamento barbaro’, il ministero del lavoro ha dato loro la scelta tra tornare al lavoro e l’abrogazione dei loro contratti, tra l’espulsione ed una diminuzione dei compensi” (www.lemaroc.org [114]). A dispetto della repressione della polizia e delle minacce del governo, il vento di sciopero ha continuato a soffiare in altre tre zone di Dubai. Stando ai numeri della Associated Press del 5 Novembre, più di 400.000 operai erano in sciopero!
Le minacce di provvedimenti repressivi hanno avuto come giustificazione il fatto che qualche veicolo della polizia era stato danneggiato, cosa inaccettabile per l’ordine pubblico borghese! Ma chi è stato il responsabile della peggiore violenza? La risposta è chiara: quelli che rendono la vita di centinaia di migliaia di lavoratori un vero e proprio inferno.
Quale la prospettiva per queste lotte?
A Dubai il proletariato ha mostrato la propria forza e determinazione. La borghesia è stata costretta ad un temporaneo passo indietro mettendo da parte le tattiche puramente repressive. Quindi, all’annuncio dell’espulsione di quei 4.000 lavoratori asiatici che avevano iniziato il movimento, “è seguito un tono di riappacificazione il mercoledì seguente” (AFP). La dimensione di massa che ha assunto lo sciopero ha “smosso qualcosa nel governo di Dubai che ha ordinato ai propri ministri di rivedere gli stipendi ed attivare un salario minimo” … ciò ufficialmente, si intende. In realtà la borghesia continuerà i suoi attacchi. Le sanzioni contro i capi della protesta sembra che siano state mantenute, e non ci sono dubbi sul fatto che la borghesia non mollerà la presa su questi per provare a mantenere il feroce livello di sfruttamento imposto a Dubai.
Tuttavia la classe dominante ha dovuto prendere in considerazione la crescita della combattività tra queste sezioni della classe operaia, nonostante la mancanza di esperienza di lotta. E perciò sta raffinando le sue armi: oltre alla repressione, sta cercando di usare strumenti più ideologici. Il primo tentativo è stato piuttosto ridicolo ed inefficiente. Di fronte al moltiplicarsi delle tensioni negli ultimi due anni, “le autorità hanno creato una commissione nelle forze di polizia che ha il compito di accogliere le lamentele dei lavoratori, ed hanno anche istituito un numero gratuito a cui gli operai possono rivolgersi. La maggior parte accusano il mancato pagamento degli stipendi”. Fare le proprie lamentele direttamente alle forze di repressione potrebbe essere più che altro una provocazione! In modo più intelligente, ora gli sforzi del governo vanno verso la creazione di un sindacato tra le imprese al fine di controllare le future lotte dall’interno.
La questione non è tanto la prospettiva di lotta in uno specifico mini-stato come Dubai, ma il fatto che questa lotta è parte di un movimento più largo: la lotta internazionale della classe operaia. “Gli operai non hanno nazione” dicevano Marx ed Engels nel Manifesto del 1848. Le attuali lotte del proletariato sono parte della stessa catena di lotte contro lo sfruttamento capitalistico. Dall’India a Dubai, passando per l’Egitto, il Medio Oriente, il continente africano o l’America latina, i paesi europei e del nord America, la lotta proletaria è in crescita1. Lo sviluppo internazionale della lotta di classe rappresenta un grande incoraggiamento per i lavoratori ogni volta che un movimento insorge. In particolare, l’emergere di un massiccio movimento come quello a Dubai, in Egitto o in Bangladesh deve essere uno stimolo per i lavoratori dei paesi più avanzati, in quanto questi ultimi devono assumersi la precisa responsabilità di indicare la prospettiva della lotta contro tutto il sistema di sfruttamento, mettendo a disposizione la loro esperienza storica accumulata, mostrando in pratica come guidare la lotta e spiegando i motivi per cui non ci si può fidare della sinistra e dei sindacati.
La borghesia coi suoi mezzi di informazione fa tutto il possibile per soffocare le notizie della lotta di classe nel mondo al fine di prevenire la condivisione delle esperienze e lo sviluppo della coscienza. Le lotte a Dubai sono la prova che dappertutto la classe lavoratrice sta soffrendo gli effetti devastanti della crisi economica e che, in risposta, dappertutto sta armando le sue armi della coscienza e della solidarietà.
Map, 18 novembre 2007
1. Su queste lotte vedi i numerosi articoli pubblicati sul nostro sito web nelle diverse lingue.
La CCI ha tenuto la sua prima riunione pubblica a Lima, in Perù, nell’ottobre scorso. E’ stato un avvenimento importante perché ha dato l’opportunità ad alcuni elementi che si avvicinano al progetto rivoluzionario di comprendere meglio le idee della Sinistra Comunista e di prendere contatto con la nostra organizzazione. In questo paese i sinceri militanti della causa proletaria hanno sopportato per decine di anni il peso terribile dello stalinismo, del maoismo (in particolare attraverso “Sendero Luminoso”), del trotzkismo, ecc. In questa regione del mondo che soffre della repressione brutale dello Stato capitalista e dell’isolamento dal resto del proletariato internazionale, era molto importante, per la classe operaia, che sorgesse una minoranza di militanti politici che cercassero di chiarirsi le idee sulla rivoluzione mondiale e sul comunismo.
La CCI ha partecipato a questo dibattito pubblico animata dalla preoccupazione di aprire uno spazio di discussione fraterna il cui scopo fosse la chiarificazione e non il “reclutamento” sistematico e senza principi. Vogliamo ringraziare pubblicamente i nostri simpatizzanti della regione per il loro sostegno logistico, senza il quale difficilmente avremmo potuto realizzare tale obiettivo, intavolare un profondo dibattito sul mondo attuale, su ciò che ci offre il capitalismo e le prospettive che ne derivano per l’umanità. Undici persone hanno partecipato alla riunione, affrontando temi cruciali riguardanti la futura rivoluzione. (…) Il tema annunciato sui manifesti attaccati sui muri di Lima era: “Che cos’è il socialismo e come lottare per realizzarlo?”, ma l’entusiasmo dei partecipanti e le questioni poste hanno permesso alla riunione di affrontare ben altri argomenti.
Nel corso delle discussioni sono state espresse posizioni diverse: di compagni che avevano avuto legami con il GCI1 o che ne condividevano ancora, più o meno, alcune posizioni; altre da compagni che si rivendicavano all’anarchismo; altre ancora da simpatizzanti molto vicini alla nostra organizzazione. Il fatto più significativo è stato, tuttavia, il clima sincero, fraterno ed aperto del dibattito.
Nella misura in cui tutti i partecipanti hanno mostrato un accordo tacito sulla necessità della rivoluzione e la prospettiva di distruggere il capitalismo, la discussione si è incentrata da subito su questioni più “concrete”. Una delle prime questioni affrontate ha riguardato il concetto di “decadenza del capitalismo”, dato che i partecipanti, più o meno influenzati dal GCI, hanno una certa visione “a-storica” del processo che conduce alla trasformazione della società, che include anche l’idea dell’esistenza di un proletariato prima ancora dell’arrivo degli spagnoli nelle Americhe (uno dei partecipanti ha espresso questa idea quasi testualmente in questi termini: “non c'è stato niente di progressista nel massacro dei proletari durante la conquista delle Americhe”). Questa posizione esprime le tipiche confusioni seminate a profusione dal GCI. Piuttosto che tentare di comprendere i processi storici, il GCI diffonde il “radicale” (quanto vuoto) metodo della “violenza reazionaria contro la violenza degli oppressi”, senza considerare il contesto storico nel quale essi si sviluppano. Un metodo che naturalmente rende incomprensibili le ragioni per le quali la rivoluzione mondiale era impossibile nel 19o secolo, ed anche perché le lotte proletarie e le organizzazioni politiche della classe operaia avevano, all’epoca, un contenuto e delle forme differenti da oggi (sindacati, partiti di massa, programma minimo, ecc.). Altri partecipanti alla riunione pubblica hanno invece insistito per sviluppare la spiegazione della decadenza del capitalismo (…).
La discussione si quindi spostata su cosa è il proletariato, sulla sua natura e sul modo di lottare. Alcuni partecipanti hanno sostenuto che gli avvenimenti argentini del 2001 fossero stati provocati da un movimento autenticamente proletario e che bisognava “sostenerli ed imitarli” così come i “soviet in Iraq” (sic!). La CCI ha potuto presentare la sua analisi2, dando elementi di riflessione che sono stati discussi con serietà dai partecipanti. Abbiamo incentrato la discussione su tre assi:
- La necessità di rigettare “la violenza per la violenza”. Se è certo che la rivoluzione che distruggerà il capitalismo sarà necessariamente violenta, perché la minoranza che detiene l’apparato dello Stato resisterà fino al suo ultimo respiro, questa violenza di classe del proletariato non è l’essenza della rivoluzione; questa risiede nella capacità del proletariato a sviluppare la propria lotta di massa e cosciente. Ciò che distingue la classe che sarà il soggetto della futura rivoluzione, non è la sua violenza ma la sua coscienza3.
- Le lotte operaie si organizzano attraverso organismi generati nel corso della lotta stessa, che vanno dalle assemblee generali, dalle delegazioni, dai comitati di lotta fino alle forme più avanzate dove esse si amplificheranno quando la situazione storica farà sorgere i Consigli Operai. Non siamo che all’inizio delle risposte operaie a livello internazionale dopo la gigantesca campagna sulla “morte del comunismo” ed il riflusso che il proletariato mondiale ha subito a livello della sua coscienza4. Rigettare le assemblee attraverso le quali si esprime lo sforzo del proletariato per prendere nelle proprie mani le sue lotte è un grave errore, così come lo è privilegiare le azioni disperate (incendi di auto, scontri sterili con la polizia, ecc.), invece di trarre le lezioni, riflettere e discutere collettivamente su: come e perché la borghesia ed il suo apparato statale mistificano la classe operaia e lo sforzo di chiarificazione della sue minoranze più coscienti?
- Le lotte autenticamente “pure” del proletariato non esistono, e la CCI non si aspetta affatto lotte da subito sganciate dall’influenza dell’ideologia borghese o lotte nelle quali siano totalmente assenti gli organi dell’apparato statale (sindacati di ogni tipo, partiti integrati al sistema politico e parlamentare del capitale, così come il braccio armato “radicale” della borghesia: il gauchismo, maoista, trotskista o anarchico ufficiale che sia, ecc.). L’autenticità di una lotta proletaria non si misura dalla presenza o meno di elementi che appartengono, dal punto di vista sociologico, a questa o quella categoria di lavoratori manuali. Essa si verifica dall’esistenza, nelle lotte proletarie, di una dinamica in cui i partecipanti si riconoscono come parte di una classe, come lavoratori che devono scendere in lotta con gli altri e che condividono interessi immediati comuni. Quando comincia a sorgere la coscienza che esiste un’identità proletaria, la lotta contro il capitale fa grandi passi in avanti ed è di primaria importanza generalizzare queste lezioni. Per contro, quando all’indomani di una lotta, sussiste un clima di divisione, di settarismo, di segregazione, di corporativismo, ecc., allora bisogna riflettere sul perché di un tale clima sociale e sulla trappola in cui si è caduti.
Resta un lungo cammino di chiarificazione da fare per comprendere tutti i problemi legati alla lotta di classe del proletariato.
Anche questa questione è stata affrontata nella discussione. La classica visione che un sindacato possa essere “recuperabile” per la classe operaia non si è fatta attendere (principalmente attraverso la visione anarchica difesa dalla CNT), ed è stata posta esplicitamente la possibilità di un “sindacalismo rivoluzionario”. Tutti i partecipanti sono stati d’accordo nell’affermare che se la CNT ha tradito durante gli avvenimenti del 1936 in Spagna, c’è stato tuttavia almeno un gruppo, “gli Amici di Durruti” che si è opposto alla militarizzazione del lavoro5. Uno dei partecipanti ha sostenuto l’argomento classico del GCI: “Il sindacato non è mai stato e mai sarà rivoluzionario”. Questa affermazione contiene una parte di verità nel senso che, effettivamente, i sindacati non sono sorti come organi della lotta rivoluzionaria del proletariato, ma come organi della sua lotta immediata permettendogli di ottenere riforme durature all’interno del capitalismo ed un reale miglioramento delle sue condizioni di vita.
Ma questo argomento ha anche la debolezza di mancare di metodo e di non concepire i sindacati come prodotto storico. Il che non consente di comprendere che la loro apparizione, costata tante sofferenze al proletariato, è stata condizionata da un periodo storico durante il quale la rivoluzione proletaria mondiale non era ancora possibile, né oggettivamente né soggettivamente. Quest’argomento va di pari passi con il vecchio ritornello del GCI secondo cui la 2a Internazionale non ha avuto niente di proletario! Ricordiamo che la 2a Internazionale ha avuto il merito di adottare il marxismo come metodo scientifico (materialista, storico, dialettico) per sviluppare la teoria rivoluzionaria del proletariato. E’ questo metodo che ha permesso di fare la distinzione tra le organizzazioni unitarie del proletariato (i sindacati) ed i suoi partiti politici. E’ questo metodo che ha permesso di condurre una lotta a fondo contro la visione del mondo della franco-massoneria. E’ ancora questo metodo che ha permesso di sviluppare le discussioni sulle origini del cristianesimo ed ha fornito una moltitudine di articoli fondamentali. Il fatto che i partiti della 2a Internazionale abbiano tradito votando i crediti di guerra durante la Prima Guerra Mondiale non impedisce di riconoscere che la 2a Internazionale è stata, prima del 1914, un anello in più nella catena degli sforzi del proletariato per dotarsi di un partito mondiale.
In seguito alla discussione su questa questione, un compagno ha difeso le posizioni della CCI sulla questione sindacale, dimostrando come i sindacati siano un sofisticato strumento di controllo statale e come lo stesso Fujimori (ex-presidente del Perù) abbia sviluppato, in accordo con l’opposizione, una campagna di “distruzione dei sindacati” destinata a deviare la combattività operaia su un terreno di lotta per creare nuovi sindacati (e non per una chiarificazione politica che permettesse di battersi più efficacemente contro gli attacchi del capitale).
I sindacati hanno costituito un’arma del proletariato in un’epoca storica in cui, da un lato, il capitalismo era capace di accordare riforme durevoli, dall’altro, la rivoluzione non era all’ordine del giorno (è per tale motivo che il “programma minimo” era, all’epoca, una realtà per cui la classe operaia doveva lottare). Gli avvenimenti del 1905 e soprattutto quelli del 1917 in Russia hanno dimostrato qual è la risposta alle questioni di organizzazione che il proletariato in lotta mette in atto quando la rivoluzione diviene d’attualità, durante il periodo di decadenza del capitalismo; la rivoluzione non si è realizzata attorno ai sindacati ma attorno ai Consigli Operai, “la forma in fine trovata della dittatura del proletariato” (Lenin).
Da allora, lo sviluppo delle lotte operaie è stato continuamente confrontato alla necessità di organizzarsi al di fuori e contro i sindacati. Sappiamo che per il proletariato non è possibile creare in un qualsiasi momento dei Consigli Operai, che la loro nascita dipende dalle condizioni di generalizzazione delle lotte in una situazione pre-rivoluzionaria. Ciononostante, le lotte operaie non possono aspettare questa situazione pre-rivoluzionaria per auto organizzarsi. Appena esplode uno sciopero per la classe operaia si pone la questione di appropriarsi e di controllare la sua lotta, attraverso Riunioni Generali e di massa che le permettano di prendere tutte le decisioni (che devono essere discusse collettivamente e sottoposte al voto). La ricerca della solidarietà con gli altri sfruttati è una questione di vita o di morte per ogni sciopero (non parliamo di simulacri della solidarietà orchestrati dai sindacati). Cominciare a capire che l’isolamento segna sempre la morte di ogni sciopero è una lezione da approfondire perché permette di prepararsi alle lotte decisive contro il capitalismo. La rapida estensione geografica di ogni sciopero è una necessità vitale per l’avvenire della lotta.
Nella discussione i compagni hanno dato prova di un vero spirito proletario, cioè di essere aperti agli argomenti degli altri e voler sviluppare una riflessione collettiva. Questi due aspetti mettono in evidenza lo sforzo difficile ma entusiasmante delle minoranze alla ricerca di una prospettiva di classe in questa regione del mondo. Quello che li unisce è la comprensione della catastrofe verso cui ci sta conducendo il capitalismo. Noi siamo consapevoli delle divergenze che ancora sussistono e continueremo a lottare contro le aberrazioni politiche del GCI. Ma ciò non ci impedisce, nemmeno lontanamente, di salutare questo spirito dei partecipanti e li incoraggiamo a continuare a sviluppare il dibattito politico con spirito d’apertura e d’ascolto attento, ad integrare nuovi argomenti perché il dibattito contraddittorio permette di passare dalla confusione alla chiarezza.
In un clima sociale dominato dall’ideologia borghese e dal gauchismo, il dibattito è concepito come un rapporto di forza, una “lotta a morte” dove alla fine uno dei protagonisti deve necessariamente eliminare e distruggere i propri avversari, in una visione di guerra dove una “frazione” schiaccia l’altra. Questi sono i comportamenti quotidiani delle diverse frazioni del capitale: gli individui (o gruppi di individui) sono sottoposti alla legge capitalista della competizione nella quale l’altro è sempre un nemico, un concorrente, dove chi si impone come il più “forte”, il più “muscoloso” sarà il “vincitore” (la competizione sul mercato del lavoro sempre più saturo trova il suo equivalente nei sentimenti di “gelosia” infantile, la concorrenza scolastica, la competizione intellettuale, politica, ecc.). Per il marxismo, il dibattito ed il confronto fraterno delle idee e degli argomenti (che fanno evolvere queste idee e permettono di superare i pregiudizi dovuti alla divisione della società in classi) sono i soli mezzi per superare gli ostacoli allo sviluppo della coscienza. Per condurre un dibattito veramente proletario, le minoranze più consapevoli della classe operaia devono bandire l’umiliazione e gli insulti (anche se il confronto politico può prendere in alcune circostanze una forma polemica ed appassionata, come lo si vede per esempio talvolta nei dibattiti alquanto “burrascosi” delle Assemblee Generali di massa della classe operaia). La nostra concezione della cultura del dibattito presuppone la volontà di convincere e non di imporre le proprie idee a qualsiasi prezzo e con qualsiasi mezzo. La cultura del dibattito presuppone anche la capacità di ascoltare attentamente gli argomenti e di lasciarsi convincere (essere convinto dagli argomenti altrui non è una “capitolazione” o una “sconfitta”, poiché nel dibattito proletario non ci sono avversari da battere).
Il modo con cui si è tenuta questa prima riunione pubblica della CCI in Perù, ci permette di affermare che è necessario aprire uno spazio di discussione in questa parte del mondo, un spazio in cui gli elementi della classe operaia che vogliono dibattere, chiarirsi, esporre le proprie convinzioni possano incontrare un ambiente politico che permette l’elaborazione collettiva delle idee. Costruire questo ambiente politico vivente in cui il dibattito proletario sia al centro della vita politica è una prospettiva che, in Perù, come altrove nel mondo, costituisce una preparazione indispensabile alla rivoluzione mondiale futura.
1. “Groupe Communiste International”: si tratta di un gruppo dalla fraseologia “radicale” ma la cui pratica si avvicina a quella dei gruppi dell’estrema sinistra del capitale. Vedi la nostra denuncia di questo gruppo nella Revue Internationale n°124, sul nostro sito web: “A che serve il Groupe Communiste International?”.
2. Sui pretesi “soviet” in Iraq e sugli avvenimenti argentini, vedi il nostro articolo “Rivolte popolari in Argentina: solo l’affermazione del proletariato sul suo terreno può far arretrare la borghesia”, Rivista Internazionale n°26, pubblicata anche sul nostro sito web.
3. Classe maggiormente “alienata” della società (per il fatto che, nell’economia capitalista, i proletari sono totalmente spossessati e separati dai mezzi materiali di produzione), la classe operaia possiede al suo interno la forza che le permette di superare questa alienazione economica: la coscienza del futuro. La borghesia è, per la sua posizione di classe sfruttatrice, anch’essa una classe alienata. Ma essa è incapace di superare quest’alienazione perché ciò presupporrebbe che essa rinunciasse ad essere la borghesia.
4. Vedi il nostro articolo “Il crollo del blocco dell’Est: difficoltà accresciute per il proletariato” nella Revue Internationale n°60, e “Una svolta nella lotta di classe – Risoluzione sull’evoluzione della lotta di classe”, Revue internationale n°119, pubblicati sul nostro sito.
5. Vedi la nostra serie sulla storia della CNT nella Revue Internationale dal n°128 al 131. Vedi anche, in spagnolo, il nostro libro “Franco e la Repubblica massacrano i lavoratori”. Rispetto a “gli Amici di Durruti”, leggi nella Revue Internationale n°102 “Gli Amici di Durruti: lezione di una rottura incompleta con l’anarchismo”.Dopo tre mesi dallo scoppio dell’emergenza rifiuti la situazione in Campania continua ad essere critica. La città di Napoli è stata in parte ripulita, ma nella periferia esistono cumuli di rifiuti ormai in piena fermentazione da prima di Natale che continuano ad invadere le strade e le “soluzioni” del commissario De Gennaro non fanno che esasperare ancora di più la popolazione. Intanto le 7mila pseudo eco-balle sparse sul territorio stanno ancora lì, così come le discariche legali ed abusive i cui effetti devastanti sull’uomo e sull’ambiente sono già stati accertati da tempo. Tutti sanno che questa “emergenza” dura in realtà da 14 anni, ma adesso che la gente si mobilita perché la spazzatura gli arriva fin sotto il naso ed è stanca di essere imbrogliata, da una parte arriva l’esercito per tenere “sotto controllo la situazione”, dall’altra fioccano conferenze e dibattiti eruditi di esperti, scienziati ed ecologisti d’ogni sorta che ci vengono a spiegare cosa si dovrebbe fare per risolvere il problema dello smaltimento dei rifiuti. Intanto si moltiplicano le iniziative per “l’auto raccolta differenziata”, come se la soluzione dipendesse semplicemente dalla buona volontà di chi ci governa o, ancor di più, dal “senso civico” dei cittadini.
La situazione paradossale ed inaccettabile raggiunta in Campania ha provocato non solo una mobilitazione da parte delle popolazioni direttamente colpite dal problema, ma anche una riflessione sul degrado che siamo costretti a subire e sulle sue cause. “Come è possibile arrivare a tonnellate di spazzatura nelle strade che non si sa dove mettere?”, “Di chi è la responsabilità? Dei napoletani che non vogliono fare la raccolta differenziata?”, “Delle popolazioni dei singoli comuni della regione che rifiutano nuove discariche o impianti vicino casa? Di Bassolino, della Iervolino, della camorra che fa affari d’oro con i rifiuti?”, “Si può fare qualcosa? E cosa?”, queste sono le questioni che un po’ tutti si sono posti in questi mesi e continuano a porsi.
La nostra organizzazione ha tenuto a gennaio delle riunioni pubbliche a Napoli e Milano su questo tema. I compagni possono trovare la relazione introduttiva alla discussione fatta dalla CCI sul nostro sito web (“Emergenza rifiuti in Campania: di chi la responsabilità?”, www.internationalism.org [65]).
In questa presentazione, che ha cercato di dare una risposta a queste domande, pur riconoscendo l’innegabile responsabilità delle istituzioni locali e nazionali nella gestione dei rifiuti ed il peso che in questa assume la collusione tra potere politico e camorra (collusione che non si limita certo alla gestione dei rifiuti), abbiamo cercato di andare al di là della contingenza immediata e locale del problema mettendo in evidenza che:
“Quello che succede in questa regione è solo l’espressione più drammatica di una contraddizione che è tipica della produzione capitalista …. E’ con la società capitalista che il rifiuto diventa un problema perché il bene diventa una merce che deve essere venduta e commercializzata per realizzare il massimo profitto in un mercato dove l’unica legge è quella della concorrenza.
E questo comporta:
- una produzione irrazionale della merce con un’eccedenza di prodotti …
- una produzione abnorme di involucri, imballaggi, ecc. costituiti tra l’altro in larga misura da sostanze tossiche non degradabili che si accumulano nell’ambiente” perché il tutto deve essere prodotto al minor costo possibile.
“La logica di questo sistema non è produrre quello che serve a soddisfare i bisogni dell’umanità e quindi consumare secondo le reali necessità della collettività. Nel capitalismo la logica è quella del guadagno dell’impresa, del singolo capitalista, del singolo Stato capitalista e questa logica porta a quantità enormi di prodotti di rifiuto (miliardi di tonnellate all’anno nel mondo)… Come per il problema più generale dell’inquinamento ambientale, di cui la questione dei rifiuti fa parte, questo è un problema generale la cui radice sta nel modo di produzione capitalistico e non può trovare una soluzione effettiva se non eliminando questo sistema di produzione”.
I compagni presenti, pur condividendo che il problema di fondo sta nella produzione abnorme di rifiuti insita nel modo di produzione capitalista, hanno animato la discussione con tutta una serie di questioni dall’insieme delle quali è possibile trarre tre ordini di problematiche che riprenderemo qui brevemente.
Perché in Campania il problema dei rifiuti assume proporzioni così drammatiche mentre altrove si riesce a smaltire i rifiuti con la raccolta differenziata, il riciclaggio, ecc.?
La risposta che generalmente viene data a questa domanda, in particolare dalle varie forze della sinistra “alternativa” e dai vai paladini del buon costume quali Grillo e compagni, è che in Campania c’è un intreccio così forte tra le istituzioni e la camorra da impedire una buona e sana gestione dei rifiuti. Dunque cambiando i politici ed i responsabili del settore, facendo rispettare la legge e mettendo in galera tutti i camorristi ed i collusi con essa, il problema dovrebbe essere risolto.
La discussione ha mostrato come non c’è niente di più illusorio e mistificatorio. E per due motivi:
1. L’illegalità, la truffa, la collusione tra mafie, mondo politico ed imprenditoriale sono proprie del capitalismo per il quale non esiste etica, non esiste morale se non quella del profitto. Pretendere un capitalismo pulito, onesto, significa chiedere al capitalismo di non essere più capitalismo.
2. Alla base della difficoltà della borghesia a gestire i vari aspetti della produzione e della società c’è la crisi economica senza via d’uscita1 che, inasprendo la concorrenza, rende sempre più necessario ridurre all’osso i costi di produzione e di conseguenza rende sempre più difficile alla borghesia gestire in modo efficiente i diversi piani della società. Il che è tanto più vero per lo smaltimento dei rifiuti la cui velocità di produzione è in continuo aumento. Questo porta a situazioni estreme nelle economie più deboli (in Africa, Asia e America Latina, alle periferie delle grandi città, si vive su montagne di spazzatura), ma diventa una realtà ormai tangibile anche nei paesi più forti dove certe cose minime fino ad ora si potevano fare. Un esempio significativo è stato dato da una compagna inglese che ha raccontato come a Londra, dove la raccolta differenziata dei rifiuti è da decenni un fatto acquisito e praticato con meticolosità da tutti, negli ultimi tempi in alcuni quartieri è stato comunicato agli abitanti che non potevano più portare i sacchetti della differenziata nei centri di raccolta perché … l’amministrazione non aveva più soldi per assicurare questo servizio.
In questi giorni i vari “esperti” sfornano le loro proposte per un adeguato smaltimento dei rifiuti, ed è vero che le conoscenze scientifiche e la tecnologia per poterlo fare ci sono e non da oggi. Ma allora bisogna chiedersi: perché non si mettono in pratica? Come mai, pur essendoci la possibilità di fare imballaggi e buste con materiale biodegradabile, si continua a farli di plastica? Semplicemente perché, come ha giustamente sottolineato un altro compagno nella discussione, queste vie alternative, sicuramente meno dannose per l’ambiente, costano però di più e richiederebbero inoltre una riconversione degli impianti, per cui l’imprenditore o lo Stato che dovesse adottarle fallirebbe schiacciato dalla concorrenza sul mercato.
Le inefficienze e gli intrallazzi a livello di amministrazione locale, particolarmente prosperi là dove l’economia è più povera come appunto in Campania, non fanno che aggravare un problema che è ben più ampio: la crescente incapacità della classe dominante ad assicurare un minimo di condizioni adeguate di vita. La miseria crescente, l’aumento delle morti sul lavoro, la mancanza di prospettiva per i giovani, l’insicurezza sociale, la guerra endemica, l’inquinamento ambientale, sono tutte conseguenze del fatto che il capitalismo, per poter sopravvivere alla crisi economica profonda che l’attanaglia da più di 40 anni, è costretto a scaricarne i costi sui proletari e, sempre più, sull’insieme della società. Il che non toglie che queste diverse piaghe assumano una maggiore o minore virulenza a seconda delle condizioni specifiche e storiche delle varie parti del mondo.
Ma lo Stato non dovrebbe salvaguardare i cittadini facendo rispettare la legge?
Durante la discussione una compagna si meravigliava del fatto che, pur essendoci leggi che regolano la gestione dei rifiuti, lo Stato non le faccia rispettare da quegli imprenditori che, con l’aiuto della camorra, disperdono rifiuti tossici e nocivi nelle campagne per evitare i costi per il loro conferimento in discariche speciali.
Questa idea, largamente diffusa tra i proletari e che si basa sulla convinzione che il mondo della politica sia nettamente separato da quello economico, è frutto della più grande mistificazione di cui la borghesia si serve per giustificare il suo dominio: la democrazia. Nella visione democratica lo Stato sarebbe al di sopra delle parti, sarebbe il garante del rispetto delle regole, dell’equità tra le diverse componenti della società. E se questo non succede è solo colpa degli uomini che si trovano a capo di questa istituzione, della loro brama di potere, della loro corruzione. In realtà la storia ci ha mostrato che la forma di potere e gestione politica assunta nelle differenti società è stata sempre espressione del sistema economico della società stessa. L’Impero nell’antica Roma e il Feudo nella società medioevale corrispondevano ai modi di produzione esistenti nelle rispettive epoche. Lo Stato nazionale non è altro che lo strumento di dominio della classe dominante nel capitalismo sull’intera società e dunque le sue leggi ed il fatto che siano rispettate o meno dipendono dalle esigenze di questa. Se alle grosse aziende conviene far smaltire i loro rifiuti tossici dalla camorra abbassando così i costi, se le leggi sulla sicurezza nei posti di lavoro non vengono rispettate per far aumentare la produttività, lo Stato non ha nulla da obiettare perché è l’economia nazionale che deve marciare sul mercato internazionale e non la salute delle popolazioni o dei lavoratori.
Non esiste uno Stato al di sopra delle parti, così come non esiste un’etica nel suo operato.
C’è un sistema economico e politico sbagliato e bisogna cambiarlo. Ma per cambiarlo ci vorrà molto tempo ed allora nell’immediato cosa facciamo?
Questa domanda, posta da una compagna nel corso della discussione, esprime un sentimento comune alla maggior parte dei compagni, dei lavoratori e di quanti avvertono uno sdegno crescente verso questa società: la voglia di agire, di cambiare lo stato attuale, ma al tempo stesso la difficoltà a vedere cosa fare. Sgomenta l’idea di rimanere fermi mentre il mondo va a rotoli ed il più delle volte questo spinge a cercare una soluzione alla contingenza immediata o qualche strumento che possa “aprire gli occhi a tutti”. Nel caso specifico la compagna diceva “una risposta immediata potrebbe essere iniziare a far valere nei quartieri la raccolta differenziata… Incominciamo a rifiutare il sacchetto di plastica quando compriamo qualcosa e lanciamo questo messaggio, facciamo un tam-tam, in modo da impedire che ci impongano i sacchetti, la plastica, gli imballi …”.
Altri compagni hanno sottolineato che, se queste proposte manifestano una giusta preoccupazione e se è vero che la raccolta differenziata si sarebbe dovuta fare in Campania, come la si fa in altre parti del mondo, ciò non elimina il problema della massa enorme di rifiuti prodotti e del loro smaltimento con processi adeguati. Così come il rifiuto della busta di plastica, oltre ad essere poco praticabile per il tipo di vita che si è costretti a condurre, è una logica che non porta a niente. Secondo questa logica dovremmo rifiutare di fare la spesa nei supermercati dove tutti i generi sono impachettati con plastica e pellicola, dovremmo rifiutare di comprare l’acqua minerale o i giornali spesso impacchettati con il supplemento, il gadget o altro, dovremmo utilizzare i fazzoletti di stoffa invece di quelli di carta che sono impacchettati nella plastica, e così via.
Ma la conseguenza più insidiosa è che questo approccio, nel tentativo di “fare qualcosa subito”, fa perdere di vista la dimensione più ampia del problema e la sua causa di origine, finendo così per lasciarci intrappolati nella logica capitalista che invece vogliamo rigettare.
Nelle ultime settimane in Campania, ed in particolare a Napoli, sono proliferate iniziative per sensibilizzare la gente sulla raccolta differenziata: Greenpeace organizza la differenziata per 50 famiglie in una via di Napoli; in Piazza del Gesù si installa un presidio permanente con la parola d’ordine “auto-differenziamoci” dove si sensibilizza la gente che passa, gli si insegna come si fa la differenziata e dove vengono raccolti i sacchetti di rifiuti frutto dell’auto-differenziazione (che in verità non si sa poi che fine facciano, vista la mancanza di strutture per l’intero ciclo di recupero e trattamento delle diverse componenti differenziate). Iniziative di questo tipo sembrano rispondere all’esigenza di “fare qualcosa di concreto”, ma quale idea trasmettono? L’idea che la responsabilità è di Bassolino, della Iervolino e della camorra che pensano ai loro interessi (il che è sicuramente vero), o di Pecoraro Scanio e del governo che non fanno rispettare le leggi e se ne fregano della salute dei cittadini. La logica conseguenza è che, se si cambiano i dirigenti e se i cittadini si fanno carico responsabilmente della raccolta differenziata, i rifiuti non saranno più un problema. Questa è la stessa idea che i sindacati cercano di ficcare nella testa dei lavoratori: i licenziamenti, le morti sul lavoro, i salari da fame? Il responsabile è questo o quel padrone o, quando conviene, questo o quel governo di turno. E’ ancora la stessa idea propagandata da Beppe Grillo ed i grillini vari: facciamo pulizia nel parlamento, facciamo le liste civiche e quando il cittadino comune sarà al governo staremo meglio. In altre parole, basta trovare le persone giuste, delle persone pulite e oneste e la società potrà svilupparsi senza più problemi.
Questa è l’idea che fa più comodo alla classe dominante perché allontana il pericolo che i lavoratori, riflettendo e facendo il legame tra i vari aspetti della propria condizione, si rendano conto che quello che bisogna cambiare è il sistema nel suo insieme.
La discussione, al tempo stesso, ha sottolineato come il riconoscimento delle insidie presenti nelle iniziative come “l’auto-differenziazione dei rifiuti”, non significhi essere condannati alla passività. Al contrario! Bisogna opporsi ad ogni ulteriore degrado delle nostre condizioni di vita, e per farlo bisogna lottare perché non possiamo certo illuderci che la borghesia conceda spontaneamente qualcosa. Ma un fattore essenziale in queste lotte è capire realmente perché siamo costretti a vivere sempre peggio e quale è la prospettiva che abbiamo di fronte, perché questo ci permette di capire contro chi dobbiamo lottare e come: se dobbiamo darci da fare per far cadere il Bassolino di turno o piuttosto combattere lo Stato democratico garante di questo sistema sociale; se dobbiamo utilizzare tutta la nostra energia per “dimostrare che la raccolta differenziata si può fare” e fare il tam-tam contro l’uso dei sacchetti di plastica o piuttosto utilizzarla per discutere, confrontarci con gli altri proletari, per fare avanzare la coesione nella classe anche sui problemi dell’ambiente, anzi fare un tutt’uno tra questi e quelli di ordine salariale e sociale in genere. Perché è questa presa di coscienza che permetterà all’umanità di liberarsi dalla barbarie di questo sistema e salvare dalla distruzione l’intero pianeta.
Eva, 15-2-2007
1. Vedi articolo “Verso una violenta accelerazione della crisi economica” in questo stesso numero.
“Lo chiamano Pacific Trash Vortex, il vortice di spazzatura dell’Oceano Pacifico che ha un diametro di circa 2500 chilometri, è profondo 30 metri ed è composto per l'80% da plastica e il resto da altri rifiuti che giungono da ogni dove. “E' come se fosse un’immensa isola nel mezzo dell’Oceano Pacifico composta da spazzatura anziché rocce. Nelle ultime settimane la densità di tale materiale ha raggiunto un tale valore che il peso complessiva di questa “isola” di rifiuti raggiunge i 3,5 milioni di tonnellate”, spiega Chris Parry del California Coastal Commission di San Francisco (…). Questa incredibile e poco conosciuta discarica si è formata a partire dagli anni Cinquanta, in seguito all’esistenza della North Pacific Subtropical Gyre, una lenta corrente oceanica che si muove in senso orario a spirale, prodotta da un sistema di correnti ad alta pressione. (….) La maggior parte della plastica giunge dai continenti, circa l'80%, solo il resto proviene da navi private o commerciali e da navi pescherecce. Nel mondo vengono prodotti circa 100 miliardi di chilogrammi all’anno di plastica, dei quali, grosso modo, il 10% finisce in mare. Il 70% di questa plastica poi, finirà sul fondo degli oceani danneggiando la vita dei fondali. Il resto continua a galleggiare. La maggior parte di questa plastica è poco biodegradabile e finisce per sminuzzarsi in particelle piccolissime che poi finiscono nello stomaco di molti animali marini portandoli alla loro morte. Quella che rimane si decomporrà solo tra centinaia di anni, provocando da qui ad allora danni alla vita marina” (La Repubblica on-line, 29 ottobre 2007).
Una massa di rifiuti estesa quanto due volte la superficie degli Stati Uniti! L’hanno vista solo ora? Niente affatto: è stata scoperta nel 1997 da un ex petroliere che navigava sul suo yacht e adesso ci si viene a sapere che “un rapporto dell’ONU del 2006 calcola che un milione di uccelli marini e oltre 100 mila pesci e mammiferi marini all’anno muoiano a causa dei detriti di plastica e che ogni miglio quadrato nautico di oceano contenga almeno 46 mila pezzi di plastica galleggiante” (La Repubblica, 6 febbraio). Ma cosa è stato fatto in questi dieci anni da chi ha il mano le redini della società? Assolutamente nulla!
Così come non viene fatto nulla rispetto allo scioglimento in atto dei ghiacciai che si prevede provocherà dei cambiamenti climatici tali da raggiungere già nel corso di questo secolo un punto di non ritorno per nove sistemi climatici della terra, con tutte le conseguenze che questo comporterà per l’insieme del pianeta!
Di fronte a queste notizie effettivamente viene da riflettere sulla necessità di distruggere il capitalismo prima che questo distrugga il mondo!
Caduto un governo, se ne fa un altro, si diceva una volta, per sottolineare il fatto che la storia continua più o meno uguale a se stessa. Ma possiamo veramente tirare questa filosofia dagli avvenimenti dell’ultima legislatura e soprattutto dagli ultimi mesi del governo Prodi? Onestamente no! Proviamo a ripercorrerli velocemente. Tutti ci ricordiamo che il governo Berlusconi, che è rimasto in carica fino al 2006, ha ceduto il passo al governo Prodi lasciando un campo minato, quello della legge elettorale che, come tutti adesso ammettono, è una porcata in quanto non permette di fatto a nessun governo di governare tranquillamente perché mentre concede un premio di maggioranza alla Camera, non fa altrettanto al senato, creando una fragilità cronica nell’esecutivo.
Questa legge, che era stata cucita addosso proprio ad un nuovo probabile governo Prodi, ha dato vita ad un esecutivo che doveva accendere i lumi a S. Antonio per ogni giorno in più che rimaneva in carica e che ha finito di governare, travolto dal flagello Mastella, a meno di 2 anni dalle elezioni politiche del 2006. Ma stavolta non si tratta di una semplice alternanza destra-sinistra, del solito gioco democratico tra le diverse rappresentanze politiche della borghesia. Si tratta invece dell’emergere di segni vistosi di un empasse in cui tutta la borghesia sembra essere entrata e da cui fa sempre più fatica ad uscire.
In realtà già nello scorso articolo sulla costituzione del Partito Democratico avevamo segnalato il tentativo dei settori più attenti e lucidi della borghesia italiana (che corrispondono in linea di massima a settori del centro-sinistra moderato) di contrapporsi alla deriva attuale, alla frammentazione e al caos in cui sembrano incamminarsi sempre più i vari uomini politici del momento, attraverso la costituzione di un partito che fosse capace di aggregare alcune delle forze di centro sinistra. Ma nello stesso articolo avevamo segnalato anche i limiti di questa operazione: “Il PD non è riuscito, come era nelle intenzioni, a coagulare l’intero schieramento di centro-sinistra ed in particolare non è riuscito a prosciugare quell’area frastagliata e frammentata che esiste. (…) Ma c’è di più perché le stesse componenti che hanno aderito lo hanno fatto in maniera conflittuale”. (Rivoluzione Internazionale n.153).
Oggi che la frittata è fatta e che tutta l’opera di attenta ingegneria politica messa su dalla parte più responsabile della borghesia è stata smontata, Berlusconi si ritrova con l’insperato regalo di avere una mano a proprio vantaggio non per essere riuscito a mettere in minoranza il governo ma perché la maggioranza è riuscita da sola a mettersi in minoranza!!! Infatti, cos’è che ha fatto cadere il governo Prodi? La sua inefficienza? La sua incapacità di dare risposta ai problemi del paese? Vediamo. Certamente la gente comune, i proletari, dopo questa ennesima esperienza faranno sempre più fatica a distinguere un governo Prodi da un governo Berlusconi. Sul piano sociale l’uno forse più che l’altro si è distinto in attacchi indiscriminati contro la classe operaia. Ma sul piano di quelle che sono le esigenze reali del paese, inteso come paese capitalista, il governo Prodi ha largamente superato tutte le prove di esame, e particolarmente quelle sul piano economico, attraverso un sostanzioso risanamento economico operato grazie agli attacchi contro i lavoratori. D’altra parte, nonostante le difficoltà di coerenza della compagine governativa, la destra aveva mostrato ben altre incoerenze già segnalate nello scorso articolo, particolarmente attraverso lo scioglimento della Casa delle libertà, lo scioglimento di Forza Italia e la creazione, dalla sera alla mattina, di un nuovo partito, il Popolo delle libertà. Ma tutto questo non è bastato. Di fronte ad una situazione economica internazionale particolarmente difficile (vedi i recenti e ripetuti crolli in borsa nelle ultime settimane e il summit dei 7 grandi del mondo che si è appena concluso con un comunicato quanto mai gelido e preoccupante sul futuro economico della società), a fronte di una necessità imprescindibile di fare una nuova legge elettorale per permettere a chiunque vinca in futuro di poter governare in maniera stabile, il governo Prodi è caduto non per un’imboscata dell’opposizione ma per delle vicende giudiziarie della famiglia Mastella che, controllando un minuscolo partito, con un seguito elettorale dell’1,5%, è riuscito a travolgere il governo e la legislazione ridando fiato, nella mischia, alle componenti retrive e parassite del centro-destra.
Dunque si va alle elezioni politiche 2008 con la stessa legge elettorale che ha causato la fragilità del governo Prodi e con il rischio di avere tra i principali partiti votati quello delle astensioni. La borghesia lo sa e teme molto questo esito. E’ per questo che prima di sciogliere il Parlamento il presidente Napoletano ha fatto di tutto per creare un governo Marini che riuscisse a dettare almeno delle regole elettorali nuove. E’ ugualmente per questo che non solo il partito democratico, ma un po’ alla volta tutte le varie componenti politiche stanno cercando di dare una risposta concreta al problema della dispersione delle forze politiche presenti nello scenario del paese, anche se questo non si fa sempre per serietà politica ma talvolta perché si capisce che da soli si perde più facilmente. Così, accanto al Partito Democratico, abbiamo assistito alla formazione del nuovo soggetto politico denominato La Sinistra Arcobaleno, fusione politica e elettorale di Rifondazione Comunista, Verdi, PdCI e Sinistra Democratica ed l’Italia dei Valori entrare nel PD. Ma anche sull’altro fronte c’è stata una semplificazione importante con il Partito delle Libertà che ingloba la vecchia Forza Italia, AN e la Lega Nord, anche se qui sembra aver funzionato, nell’accorpamento del cartello elettorale, molto più opportunismo politico di quanto non ce ne sia stato a sinistra.
Un ultimo elemento da segnalare, apparentemente in contraddizione con quanto detto sopra, è il fatto che Veltroni abbia deciso di “correre da solo” alle prossime elezioni politiche senza creare cartelli di alleanze né con la sinistra né con altre formazioni del centro. Nonostante le iniziali critiche, anche abbastanza dure, da parte della sinistra che lo ha accusato di consegnare la prossima legislatura nelle mani di Berlusconi nella misura in cui in questo modo quasi sicuramente si viene a perdere il premio di maggioranza, la scelta di Veltroni ancora una volta esprime che il PD rappresenta oggi la forza più responsabile della borghesia. Di fatto è vero che correre da soli alle elezioni comporta perdere il premio di maggioranza, ma la scelta del PD è una scelta strategica e non tattica, cioè per il lungo periodo e non per domani mattina. Di fatto Veltroni sa che il centro-sinistra ha sulle spalle l’eredità del governo Prodi che, nonostante tutto, è stato uno dei governi meno stimati degli ultimi tempi, sia per gli attacchi fatti alla popolazione da un governo “amico”, sia per l’assoluta goffaggine e disunione della maggioranza governativa. Per cui, di fronte ad una legislatura che rischia di essere vinta senza molte difficoltà da Berlusconi e alla prospettiva di un nuovo governo (di destra o di sinistra che sia) che rischia esso stesso di sorgere con la stessa precarietà di quello precedente (in quanto nasce con la stessa legge elettorale), la scelta di Veltroni è quella di puntare soprattutto a caratterizzare l’identità del partito in modo da riuscire a collocarsi in futuro come un’alternativa credibile di gestione della società. Che questa sia stata una scelta seria e importante per la vita politica della borghesia lo si vede sia dai commenti positivi della stampa che dai forti apprezzamenti che vengono dalla stessa destra tentata a sua volta a emulare il comportamento di Veltroni.
Quali sono le conclusioni che possiamo trarre da questo insieme di elementi? Che la borghesia tende a perdere di coerenza, di lucidità. In genere la politica della borghesia è sempre più discreditata; destra e sinistra diventano sempre più sovrapponibili nella sostanza a parte slogan retorici lanciati dagli uni o dagli altri. In realtà i partiti non hanno più grandi carte da giocare ed anche una carta intelligente come quella del Partito Democratico finisce per essere bruciata rapidamente.
Questa situazione di difficoltà della borghesia viene fortemente percepita dalla gente, la credibilità nei confronti della cosiddetta “classe politica” è particolarmente bassa in questo periodo. Ma la sfiducia nella classe dominante in sé non basta, non è un elemento di costruzione di una prospettiva. Occorre ancora che i lavoratori, i proletari passino dal sentimento di sfiducia nella borghesia a quello di fiducia in se stessi, di fiducia in una prospettiva che essi stessi possono costruire. E’ a partire da ciò che sarà possibile costruire una prospettiva nuova per tutta l’umanità.
Ezechiele, 13 febbraio 2008
Il 27 dicembre 2007, Benazir Bhutto è stata assassinata. Il suo ritorno a Dubai in ottobre era già stato oggetto di un attentato che provocò 139 morti. Sicuramente questa musa della “democrazia” ha avuto i rituali omaggi da tutta la stampa borghese internazionale. Il suo “carisma” ed il suo “ straordinario coraggio “, la sua “resistenza all’egemonia militare” sono stati esaltati dai giornali occidentali e dei paesi arabi moderati. Ma le reazioni di tanti articoli giornalistici e di uomini politici è stata segnata anche da una certa inquietudine: “apertura verso l’abisso”, “verso il caos politico”, “l’implosione del Pakistan” …. L’ONU si è riunito d’urgenza, per ripiegarsi nell’impotenza altrettanto il fretta. E gli Stati Uniti, tramite il dipartimento di Stato, hanno condannato “la gente che là giù (...) tentano di interrompere la costruzione di una democrazia” mentre Bush ha esortato “il Pakistan ad onorare la memoria di Benazir Bhutto proseguendo quel processo democratico per il quale ha coraggiosamente dato la vita”. In breve, secondo la borghesia Benazir Bhutto avrebbe incarnato da sola la salvezza di un Pakistan confrontato ad un’instabilità crescente. Il suo ritorno aveva sollevato un’ondata di aspettative sulla possibilità di mettere un freno all’anarchia che incancrenisce uno Stato il cui esercito è sempre più infiltrato dagli islamici radicali e che possiede anche l’arma nucleare.
Nel 2007 si sono contati 800 morti, principalmente dovuti ad attentati suicidi. I Talebani fanno regolari irruzioni in territorio pachistano, in particolare nel nord-ovest dove i soldati vengono uccisi o portati via a centinaia. Né i 90.000 soldati ammassati al confine, né i dieci miliardi di dollari stanziati allo Stato pachistano hanno permesso un controllo della situazione. I conflitti religiosi tra Sciiti e Sunniti, che da soli hanno provocato 4.000 morti in 15 anni, sono sempre più apertamente una fonte di violenza, conflitti che, alimentati dalle tensioni sempre più esacerbate tra i gruppi etnici, tendono a fare del Pakistan un nuova polveriera. L’assassinio di Benazir Bhutto riversa una nuova dose di odio sul fuoco dei dissensi tra Sindes (gruppo etnico della famiglia Bhutto) e Pendjabis (il cui territorio è stato il teatro dell’attentato contro l’ex-Primo ministro).
Inoltre, milioni di afgani si sono rifugiati in Pakistan, cosa che aumenta l’instabilità del paese, ed anche se circa 2,3 milioni di questi sono stati rimpatriati nel 2005, ne restano ancora più di un milione.
Il clima di sospetto e di guerra larvata attraversa tutta la classe politica, esprimendo in modo acuto il comportamento da gangster della borghesia: ad esempio, subito dopo l’assassinio vi è stata vista la mano di Al Qaida, ma al tempo stesso gli stessi militari vicino al potere sono stati additati come potenziali promotori dell’attentato.
Un nuovo fallimento degli Stati Uniti
Il Pakistan è chiaramente un paese al limite di un’esplosione politica, militare e socio-etnica. Il regime di Musharraf ha la sua parte di responsabilità: corruzione generalizzata, contatti con i Talebani, doppio gioco con gli Stati Uniti. D’altra parte esso non piace a nessuno: sempre meno agli islamici, fin dal massacro della Moschea rossa l’anno scorso; a settori sempre più grandi dell’esercito, diviso tra i partigiani islamici ed i clan anti-americani; agli occidentali, dopo l’attuazione dello stato d’emergenza nell’autunno 2006, servita a preparare la sua rielezione presidenziale. Musharraf non piace neanche agli stessi Stati Uniti per i quali è completamente inaffidabile come “alleato”. Eppure, oggi, è solo su quest’uomo politico che possono appoggiarsi nel conflitto in Afghanistan.
Quando gli Stati Uniti invasero l’Afghanistan nel 2003, servendosi dell’attentato alle Torri gemelle e della “lotta al terrorismo” come pretesto, l’appoggio del Pakistan fu per loro necessario. L’America promise all’epoca di sostenere le tribù ostili all’Alleanza del Nord, nemica tradizionale e ostacolo all’influenza pachistana in Afghanistan, ma questa promessa è stata vanificata dall’influenza guadagnata dall’Alleanza del Nord nella situazione venutasi a creare dopo la sconfitta dei Talebani. Tuttavia l’aiuto del Pakistan agli Stati Uniti inizialmente era stato ottenuto solo con la minaccia di Bush di bersagliare il paese tanto da riportarlo “all’età della pietra”! se non gli avesse dato “volontariamente” il suo appoggio per la guerra in Afghanistan. Del resto questa minaccia è stata recentemente ricordata dal democratico Barack Obama nella campagna presidenziale attuale, facendo intendere che gli Stati Uniti possono in qualsiasi momento bersagliare i bastioni di Al Qaida in Pakistan senza alcun permesso; al che il presidente Musharraf ha risposto che avrebbe considerato tali attacchi come attacchi nemici!
E’ per questo che l’America ha puntato su Benazir Bhutto, per tentare di trovare un appoggio più affidabile all’interno dello Stato, dando una vernice più “democratica” all’alleanza con il Pakistan, e tentare di rallentare le forze centrifughe che fanno danno. Appartenente ad una famiglia di politici pakistani di lunga data, persona navigata della politica (due volte primo ministro) e che si avvale di una aura internazionale di difensore patentato della “democrazia”, la dirigente del Partito del Popolo Pakistano era inoltre nota come una “fedele degli Stati Uniti”1.
L’amministrazione americana ha quindi organizzato e strappato a Musharraf il suo ritorno nel paese con l’obiettivo di costituire una coalizione che includesse dei “moderati”, meglio in grado di sostenere la politica americana in Afghanistan ed in Pakistan.
Chiunque siano i mandanti di questo assassinio, la scomparsa di Benazir Bhutto è perciò un fallimento per la Casa Bianca nella sua crociata contro il terrorismo. Già impantanata nel caos iracheno e lungi dal venire fuori dalla melma afgana, gli Stati Uniti subiscono un ulteriore indebolimento sulla scena internazionale.
Pakistan, il “pezzo forte” dell’imperialismo americano
Che l’America si trova esposta ad una difficoltà supplementare rispetto al Pakistan non significa però che quest’ultimo possa approfittare di qualcosa da una tale situazione. Questa infatti non può che peggiorare. D’altra parte, il problema di fondo non è Musharraf in sé. Si tratta di una questione ben più ampia che riguarda le origini stesse della fondazione dello Stato di pachistano nel 1947, uno Stato conteso da varie parti, preda di molteplici tensioni di guerra e di pesanti pressioni interne ed esterne.
Il conflitto congenito tra il Pakistan e l’India è al primo posto. È questo conflitto che ha spinto lo Stato pachistano a dotarsi (sotto l’impulso di Bhutto padre) dell’arma nucleare. Ricordiamo che i dissensi indo-pachistani sul Cachemire e la corsa all’armamento nucleare tra questi due paesi sono stati al centro della minaccia di guerra nel 2002, con il rischio reale dell’uso dell’arma atomica. È stato solo sotto la forte pressione degli Stati Uniti che il pericolo di guerra è stato allontanato, perché quest’ultimi temevano che un tale conflitto avrebbe contrastato la propria prospettiva militare. Ma nessuno dei problemi tra Islamabad e Nuova Delhi è stato risolto. La corsa agli armamenti tra i due Stati ha preso tali proporzioni che, nel 2006, essi sono diventati i due canali principali di trasferimento di armi verso il terzo mondo, mentre continuano ad alimentare ogn’uno per proprio conto attacchi terroristi e ciechi attentati, fomentando il più ripugnante nazionalismo, con un disprezzo totale per le popolazioni che fingono di “liberare” dal giogo dell’avversario.
Il Pakistan ha giocato un ruolo importante anche nella guerra imperialista, nel quadro del confronto tra i blocchi dell’Est e dell’Ovest ai tempi della Guerra fredda. Durante gli anni 1980, il Pakistan è stato strategicamente importante per l’aiuto accordato dal blocco occidentale ai Mudjahidin che lottavano contro l’URSS in Afghanistan. All’epoca questi islamici non avevano al loro fianco solo Dio ma anche i missili Stinger americani della CIA.
Globalmente, la situazione strategica del Pakistan non è a suo vantaggio e rende la sua posizione molto complessa. Questo paese ha in effetti delle frontiere molto importanti con l’Afghanistan, l’Iran, la Cina e l’India.
Costretto con la forza a sostenere gli Stati Uniti nella loro “guerra contro il terrorismo”, non può però guadagnare niente da questa lealtà perché si trova alla convergenza degli interessi tra l’India, il suo nemico storico, e gli Stati Uniti, il Grande Boss che gli impone il suo diktat. D’altra parte l’altro suo “protettore”, la Cina, ha a sua volta appetiti imperialistici che lo spingono al conflitto con l’India ma anche con l’America, il che lo mette in un rapporto falso di fronte a Washington. Il tutto sullo sfondo di una guerra con l’Afghanistan che erode letteralmente il paese da tutte le parti ed una guerra mascherata ma permanente con l’India.
Qualunque sia il risultato elettorale di febbraio, il Pakistan non può scappare ad un’instabilità e ad un caos crescente che fanno aleggiare una minaccia supplementare sull’equilibrio di tutta questa regione del mondo.
Wilma (gennaio 21)
(da Révolution Internationale n°386)
1. Dimessa per due volte dalle sue funzioni per corruzione, coinvolta nell’assassino del fratello divenuto nel 1992 un potenziale rivale, per non citare che due esempi, non c’è dubbio che la sua carriera politica ha dimostrato che non aveva niente da invidiare, in quanto a colpi bassi, ai vari Nawaz Sharif e Pervez Musharraf.A metà gennaio, ci sono state violente tempeste in tutti i principali mercati azionari del mondo, dagli USA, all’Europa e all’Asia. Nello spazio di un solo giorno i valori sono caduti fra il 4 ed il 7%. La stampa ha parlato esplicitamente di perdite tra le più spettacolari dal 11 settembre 2001; dei timori crescenti per una recessione negli Stati Uniti con i relativi effetti devastanti sul commercio mondiale; del drastico taglio dei tassi di interesse della Federal Reserve, il più forte da 25 anni ad oggi.
Perché questa caduta nei mercati azionari?
Una dopo l’altra, le banche pubblicano dei risultati giudicati “mediocri” per il 2007. Le perdite legate alla crisi dei subprime continuano a stupire per la loro ampiezza. Le banche americane sono ovviamente molto toccate: ad esempio, gli utili della Bank of America sono caduti del 29% nel 2007, quelli di Walchovia del 98% nel quarto trimestre! Ma tutti i continenti sono toccati. Dopo le banche tedesche WestLB e Commerzbank, tocca oggi alla seconda banca cinese, Bank of China, annunciare perdite per parecchi miliardi di dollari. Il governo britannico è dovuto intervenire direttamente per salvare la Northernrock dal fallimento.
In Francia, dove fino ad oggi le autorità ed i mass media assicuravano che le banche francesi erano più responsabili, che non avevano le mani in pasta nella speculazione selvaggia, ecco un altro patatrac …AXA, BNP Paribas, Crédit Agricole, Richelieu Finance pubblicano a loro volta risultati terribili. Ma il massimo del ridicolo e del grottesco si è avuto quando la Société Generale ed il suo direttore Daniel Bouton hanno spiegato la perdita di 7 miliardi di euro ed il conseguente fallimento con lo “straordinario talento di dissimulazione” di Jérome Kerviel, un trader di 31 anni, sottolineando “l’incredibile intelligenza di questo operatore di base” le cui “motivazioni sono totalmente incomprensibili”. Conoscendo le procedure di controllo a menadito, questi avrebbe creato una “impresa dissimulata nelle sale contrattazioni” della SG, accusando lui da solo 4,9 miliardi di euro di perdita contro “soltanto” 2 miliardi di svalutazione degli utili legati alla profonda crisi dei subprimes! La menzogna è enorme e tutti gli specialisti hanno ovviamente emesso dei “dubbi” sulla validità di questa storia. Ma Bouton, Sarkozy ed il governo non mollano ed anche il segretario generale dell’OCSE, Angel Gurria, dà il suo contributo alla grossa bugia “Quello che succede alla Société Generale è diverso e non è sintomatico di una crisi del sistema”. Ecco lo scopo della manovra! Negare la realtà della crisi, fare credere che si tratti soltanto di un incidente di percorso, di una semplice frode.
Ma questa crisi c’è, eccome!. Non ha nulla di virtuale e la classe operaia inizia già a sentirne le conseguenze. Una dopo l’altra le banche annunciano delle “necessarie ristrutturazioni”, cioè ondate di licenziamenti: 4.000 posti in meno alle Casse di risparmio, 2.400 alla Indymac Bancorp (società di credito americana), 1.000 alla Morgan Stanley (banca americana); da 17.000 a 24.000 alla Citygroup (prima banca mondiale); dal 5 al 10% di effettivi in meno alla Merrill Lynch (banca d’investimento) ed alla Moody's (società di rating finanziario). E si tratta soltanto dei primi avvisi di un’ondata di licenziamenti che toccherà nei prossimi mesi tutto il settore bancario.
Dietro la crisi finanziaria, la crisi dell’economia reale
“Questa deriva borsistica è (...) piuttosto una buona notizia per alcuni. Ciò permette di risanare il mercato” (La Tribune, 22 gennaio). I media ci bombardano la testa con discorsi di questo tipo. Le convulsioni borsistiche e le difficoltà delle banche avrebbero anche un aspetto morale: gli speculatori che hanno commesso qualche eccesso vengono adesso puniti dal mercato e tutto starebbe semplicemente ritornando alla normalità. E’ falso! Dietro la crisi finanziaria attuale si nasconde una crisi profonda dell’economia reale.
La folle speculazione di questi ultimi dieci anni nasce dalle difficoltà delle imprese a vendere le loro merci. Il capitalismo è corroso da una malattia congenita e mortale per la quale non esiste alcun rimedio: la sovrapproduzione1. La sola soluzione del capitalismo è creare artificialmente degli sbocchi con un ricorso massiccio all’indebitamento ed al credito. Per fare fronte alla crisi asiatica del 1997, poi alla recessione del 2001, la borghesia ha aperto al massimo le valvole del credito. Mai i tassi sono stati così bassi, le banche non hanno neanche più verificano la solvibilità di chi chiedeva un prestito! Quest’estate, il reddito delle famiglie povere americane era per l’80% legato al credito, cioè compravano il televisione, il cibo, gli abiti... indebitandosi! I prestiti a rischio, chiamati subprimes hanno rappresentato, nel luglio 2007, 1.500 miliardi di dollari di debiti! Una montagna... ma una montagna che ha iniziato ad erodersi quindi a franare. Tutte queste famiglie indebitate sono state incapaci di rimborsare i loro debiti in scadenza. L’economia reale, fatta per gli operai di ondate di licenziamenti, di aumento della disoccupazione e d’impoverimento, ha riportato l’economia virtuale alla triste realtà. Effetto domino, le banche hanno accumulato le perdite che dichiarano oggi a colpi di miliardi di dollari. Inoltre, approfittando dei bassi tassi d’interesse, le banche, i magnati della finanza ed anche le imprese si sono a loro volta indebitati per poter speculare vendendo e rivendendo tra loro i subprimes contratti dalle famiglie operaie. Non sono quindi solo 1.500 miliardi, ma decine di migliaia di miliardi di dollari che non verranno mai rimborsati!2
È quindi la crisi dell’economia reale la causa delle frenesie speculative di questi ultimi dieci anni e degli scossoni finanziari attuali. Ma oggi, come un boomerang, le difficoltà delle banche si ripercuoteranno a loro volta su tutta la vita economica: “Gli storici lo sanno bene: le crisi bancarie sono le più gravi, perché toccano il centro nevralgico delle economie, in questo caso il finanziamento delle attività e delle imprese” (La Tribune, 22 gennaio). Prese nella tempesta, le banche non potranno più continuare a rischiare di fare prestiti a vuoto, senza essere sicure della solvibilità dei debitori. Le imprese e le famiglie avranno quindi più difficoltà ad indebitarsi, il che comporterà però un rallentano l’attività economica. Come ha scritto La Tribune: “Nella zona euro, dove le piccole e medie imprese dipendono per più del 70% dai finanziamenti delle banche, l’impatto della recessione è certo” (ibidem). È quello che gli specialisti chiamano “credit crunch” (contrazione del credito). Quest’impatto sull’economia reale inizia del resto già a farsi seriamente sentire. In particolare nell’ultimo trimestre 2007 l’economia mondiale ha fortemente rallentato, lasciando intravedere cosa ci riservano il 2008 ed il 2009. Un giornale come Le Monde, solitamente “riservato”, oggi non nasconde più la realtà di questa tendenza alla recessione: “L’indice Baltic Dry Index (BDI), che misura il prezzo del trasporto marittimo delle materie prime, è un buon indicatore del livello di attività del commercio... e dell’economia mondiale. Esso ha appena battuto quattro record al ribasso in un giorno (...) Se le previsioni dell’indice Baltic Dry si avverano, il rallentamento mondiale è già cominciato e sarà doloroso” (Le Monde, 21 gennaio).
Le prime vittime saranno ovviamente i lavoratori. La Ford, ad esempio, ha già annunciato la soppressione di 13.000 posti di lavoro (che si aggiungono ai 44.000 già eliminati nel 2006).
La borghesia non ha alcuna soluzione reale alla sua crisi storica
Di fronte a questa nuova crisi, la borghesia risponde con la sua eterna ed unica “soluzione”: ancora più crediti, ancora più debito. Il presidente americano, George Bush, ha così annunciato un piano eccezionale di 140 miliardi di dollari e la FED (banca centrale americana) un ribasso di 75 punti dei suoi tassi guida. Misure che non potranno affatto fermare lo sviluppo della crisi, al massimo frenarlo un po’.
Nel 1997, iniettando quasi 120 miliardi di dollari, la borghesia riuscì a circoscrivere la crisi in Asia. Nel 2001, lo scoppio della bolla Internet fu compensato dalla creazione di una nuova bolla, la bolla immobiliare. Ma oggi, non si tratta di una crisi di una regione della periferia (la crisi asiatica) o di un problema che può essere limitato ad un settore secondario (la bolla Internet). È il cuore del capitalismo ad essere toccato: l’America, l’Europa, e le banche. La crisi è dunque ben più grave, le sue conseguenze sulle nostre condizioni di vita saranno ben più drammatiche. Tutti gli economisti, al soldo della classe dominante, ci dicono che fortunatamente l’Asia ed i suoi fantastici tassi di crescita sosterranno, nonostante tutto, la crescita mondiale. Ma anche qui, la realtà è tutt’altra. Dinanzi all’evidenza dei fatti alcuni esperti iniziano a riconoscerlo: “Ma occorre constatare che la Tailandia ha annunciato ieri un rallentamento delle sue esportazioni in dicembre, così come Singapore o ancora Taiwan. La Banca mondiale ammette che dei canali di contagio della crisi ai paesi emergenti esistono: l’esposizione delle banche ai subprimes, (...) e (...) l’impatto sull’economia di una recessione negli Stati Uniti” (La Tribune, 22 gennaio). La Cina soffrirà in modo particolare per da diminuzione delle sue esportazioni a causa alla recessione americana. In breve, l’Asia, come tutti i continenti, sarà toccata da questa nuova accelerazione della crisi economica mondiale che qui si tradurrà in un aumento considerevole della povertà e della carestia.
Nei mesi e gli anni a venire, su tutto il pianeta, il proletariato sarà confrontato ad un deterioramento considerevole delle sue condizioni d’esistenza. La borghesia non avrà tregua nell’attaccare ed attaccare ancora. Ma i proletari stanno dimostrando la capacità di sviluppare le loro lotte. Di fronte a questo nuovo peggioramento della crisi ed al deterioramento delle loro condizioni di vita, possono solo continuare ad ampliare le lotte e forgiare la loro solidarietà di classe.
Pawel (26 gennaio)
1. Per una spiegazione più dettagliata dell’economia capitalista, leggi il nostro articolo “Cosa è la decadenza?” su www.internationalism.org [65].
2. Dopo i subprimes, altri tipi di credito arrivano poco a poco a scadenza ed anche qui si rischia una doccia fredda. Ad esempio, per il Credit Default Swap (CDS, tipo di credito a metà strada tra il prestito classico e l’assicurazione) “il totale del portafoglio commerciale mondiale in CDS si è sviluppato molto rapidamente a partire dall’inizio degli anni 2000 per raggiungere 45.000 miliardi di dollari nel 2007 (più di 3 volte il PIL americano). Si considera che questi profitti hanno grandi similitudini con il mercato dei subprimes. Se le imprese fallissero, le stesse cause produrrebbero gli stessi effetti, su scala molto più ampia” (Commissione per la liberazione della crescita francese, detta Commissione Attali).
Passata l’ennesima ubriacatura di propaganda elettorale, fatte sedimentare tutte le polemiche della vigilia, ci ritroviamo un quadro politico che ha meravigliato anche i più preparati esperti politologi e prodotto stati di sconcerto, se non di vera demoralizzazione, in non pochi compagni. Cosa è successo dunque? Anzitutto le elezioni sono andate, come ampiamente previsto, a Silvio Berlusconi e alla sua alleanza di destra, e su questo non ci piove vista la situazione che si era creata nell’ultima fase politica con la caduta del governo Prodi per motivi interni alla coalizione. Sull’altro versante il Partito Democratico, pur risultando perdente nei confronti del PdL, è riuscito non solo a tenere, ma ad accrescere la sua influenza elettorale visto che, sommando i voti ottenuti dalle sue componenti politiche alle precedenti elezioni, abbiamo 27,9% nel ’96, 32,1% nel 2001, 31,3% nel 2006 e 34,0% nel 2008 (1). Ricordiamo che la determinazione di Veltroni a correre da solo – ed in particolare senza la sinistra “radicale” – era stata dettata dalla necessità di ritrovare una credibilità di partito dopo il fiasco completo del governo Prodi, la sua inconcludenza per l’eccessiva litigiosità e per gli attacchi senza risparmi portati contro le condizioni di vita degli strati sociali più deboli.
Chi ha veramente perso è la sinistra “radicale” che ha perso non solo due terzi del suo elettorato, ma anche la faccia. Se la riduzione della sinistra era attesa, quello che non era atteso è l’entità di questo tracollo. Cos’è dunque che fa la differenza? Anzitutto le astensioni, che con questa tornata elettorale hanno avuto l’impennata più forte di tutta la storia della Repubblica con un incremento del 3,5%. Da questo punto di vista occorre rilevare che, come riportato dai sondaggi effettuati, questo incremento di astensioni è principalmente di sinistra. Per cui mentre l’elettorato di destra si è mantenuto ed anche rafforzato, quello di sinistra ha perso probabilmente qualcosa vicino ad un milione di voti, ovvero di uomini e donne che, dopo aver sempre votato a sinistra, oggi ormai stanchi di essere “rappresentati” da questi partiti, si sono astenuti dal voto (2). Ma indubbiamente per una parte importante la vittoria preponderante di Berlusconi è dovuta anche a spostamenti dell’elettorato da sinistra a destra e - in particolare - dalla sinistra “radicale” alla destra, particolarmente alla Lega di Bossi.
Lo scenario che si apre a questo punto è inedito perché queste elezioni, oltre a dare la vittoria a Berlusconi, hanno segnato la fuoriuscita dal Parlamento di formazioni politiche che hanno segnato la storia d’Italia. Non c’è più un partito “socialista” e non c’è più un partito “comunista”. Il Partito “Socialista” era già morto di fatto con il crollo del muro di Berlino e quello che era rimasto era solo un fantasma del passato. Ma la sinistra radicale, attraverso Rifondazione in particolare, era la continuità storica del vecchio partito “comunista”, ovvero di quel partito di stampo stalinista che tante nefaste responsabilità ha avuto nella storia d’Italia. Adesso il PD risulta essere la forza più di sinistra nel parlamento, eppure è solo un partito di centro!
La reazione del “popolo di sinistra”
Dal punto di vista psicologico questo fatto ha scosso molta gente. Subito dopo le elezioni c’erano tanti che si domandavano: “e adesso …?”. Altre persone, più o meno “di sinistra”, invece si interrogavano sull’accaduto e se la prendevano “con gli altri”, quelli che si erano astenuti o che avevano votato a destra, se le cose erano andate in un certo modo.
Occorre dunque riconoscere che, nonostante tutto, l’illusione del voto e della democrazia parlamentare è qualcosa che ha una presa ancora molto forte sui proletari in Italia. Nonostante la disillusione per i partiti e per la politica, dare ad un risultato elettorale tanta importanza è sintomatico di questo peso, tanto più che questi commenti vengono finanche da chi si era astenuto dal votare e che si è lanciato tuttavia a criticare gli altri lavoratori per non essersi comportato come lui, astenendosi. Un commento molto diffuso è stato infatti: “Perché non hanno disertato tutti quanti le urne?” come se fosse facile mettere d’accordo milioni di elettori a fare o non fare una certa cosa. E poi, quand’anche la percentuale di astensioni fosse stata più alta, quale risultato si sarebbe raggiunto? “Dare un segnale ai politici! Dare loro una lezione!”. E qui si sconta ancora una volta l’inganno del parlamentarismo pensando che, oggi come oggi, la politica della borghesia possa essere decisa o solo vagamente orientata dalla “volontà popolare”. Come abbiamo mostrato in un recente articolo (3), oggi il potere sta tutto nelle mani degli esecutivi ed ogni governo non fa quello che gli viene suggerito dal “popolo sovrano” ma quello che richiede la difesa del capitale nazionale.
Un altro giudizio che si è sentito molto in giro è sui lavoratori che sarebbero dei traditori per aver votato a destra, ed in particolare la Lega. O ancora: “Chi ha sempre votato a sinistra e adesso vota Lega è diventato qualunquista perché non ha più un’ideologia”. Queste osservazioni meritano un’attenta riflessione. Infatti, nonostante l’apparente ovvietà, queste riflessioni sono non solo sbagliate, ma esprimono per di più una comprensione della situazione completamente rovesciata. Chi pensa che votare per la Sinistra sia meglio che votare per la Lega esprime l’illusione che questa sinistra possa realmente fare ancora qualcosa per i lavoratori. Ma di quale sinistra parliamo? Di quella sinistra che trae origine dal vecchio PCI stalinista dove Togliatti, nominato ministro della Giustizia nell’immediato dopoguerra, dava la caccia ai cosiddetti sbandati, cioè la povera gente che tornava dalla guerra sfinita e demoralizzata, da una parte per riarmarla e mandarla di nuovo a combattere contro i “nuovi nemici” tedeschi, dall’altra trattandoli come teppaglia quando si lasciavano andare a qualche furto di generi alimentari (4). O ancora di quella sinistra che, tutte le volte che ha avuto responsabilità di governo, non ha mai tradito una sola volta la ragion di Stato, sottoscrivendo tutte le misure più infami contro i lavoratori, gli immigrati, la povera gente. Se Cofferati è noto come il sindaco sceriffo, Bassolino come il ras della Campania, D’Alema come il capo di governo che ha fatto la guerra alla Serbia bombardando le povere famiglie di Belgrado, tutti i governi di sinistra sono noti per aver dato le più grandi mazzate economiche ai lavoratori, ecc. ecc., possiamo ancora meravigliarci se la gente non vota più a sinistra? In realtà, se i lavoratori hanno scelto di votare al di fuori di ogni schema è proprio perché cominciano finalmente a capire che non c’è più nessun partito “ufficiale” che riesca a garantire loro una qualsivoglia prospettiva. E se il voto è andato alla Lega è perché questa, nella sua propaganda elettorale, ha toccato delle corde su cui molti lavoratori del nord sono sensibili (il salario, la sicurezza, la concorrenza per il posto di lavoro, ecc.). E’ vero che resta l’illusione che la Lega possa garantire qualcosa ai lavoratori. Ma per lo meno il voto non è più ammantato da alcuna ideologia.
Quali sono le prospettive?
Un’ultima considerazione va fatta su quale sarà il futuro della politica italiana. Con Berlusconi che ha una salda maggioranza che ruolo potrà avere la sinistra “radicale” nella politica italiana dei prossimi anni visto che non sta né al governo né in parlamento? Le forze di “sinistra borghese”, ovvero i vari partiti e partitini di sinistra più i sindacati, confederali e di base, hanno la funzione di tenere buona la rabbia operaia, di far credere ai proletari che c’è chi pensa a loro e per loro. Nella misura in cui queste strutture, oltre ad essere ampiamente screditate, non riescono neanche più a giocare un ruolo di opposizione in parlamento semplicemente perché non ci stanno, è evidente che si pone un problema serio per la borghesia. Il ruolo di falsa opposizione che la sinistra ha finora giocato in parlamento sarà espresso d’ora in poi nelle piazze, tanto più che adesso al governo ci sta un Berlusconi contro il quale si può dire quello che si vuole perché sembra fatto apposta per lasciare sfogare liberamente i proletari.
E’ in questa fase che occorrerà fare tesoro di tutte le nefandezze prodotte dalla sinistra borghese e non cedere alle lusinghe della piazza. I lavoratori devono tirare fino in fondo le lezioni di questi anni di sacrifici e comprendere che la loro emancipazione non può derivare che dalla loro lotta autonoma dalle arpie sia di destra che di sinistra.
Ezechiele, 25 aprile 2008
1. A proposito della vittoria di Berlusconi e del relativo successo di Veltroni vedi l’analisi sviluppata nei numeri scorsi di Rivoluzione Internazionale n°151, 153 e 154.
2. “A Torino l’astensionismo è stato superiore del 5% rispetto alle Politiche del 2006, ma il calo più significativo si registra nei quartieri simbolo della città operaia. A Mirafiori Sud, in particolare, la partecipazione al voto è scesa dall’82,63% al 76,42%. «Già una volta non ero andato a votare, dopo la vicenda Mani Pulite. Così come allora, non ho fiducia in nessuno, non avevo voglia di esprimere la mia preferenza per uno dei due schieramenti. E’ un moto di ribellione contro il sistema» dice l’operaio Capello. E aggiunge: «Hanno detto tutti, durante la campagna elettorale, che bisogna ridurre le tasse e aumentare i salari perché tutti cavalcano temi che si pensa facciano presa nell’elettorato di base. Ma in fabbrica la sensazione diffusa era quella di sentirsi presi in giro. Tanto la busta paga resta sempre uguale, dicevano i miei colleghi. E sarà così, vedrete. Ci vorrebbe un volto davvero nuovo … per ora è tutto desolante e triste»”. (da Liberazione del 15 aprile 2008).
3. Vedi l’articolo “L’avvenire non si trova nella scheda elettorale ma nella lotta di classe” sul nostro sito web.
4. Vedi gli articoli "Breve storia del PCI (ad uso dei proletari che non vogliono più credere a niente ad occhi chiusi) 1921-1936 [115]" su Rivoluzione Internazionale n° 63, “Breve storia del PCI (ad uso dei proletari che non vogliono più credere a niente ad occhi chiusi) 1936-1947 [116]” e "QUANDO IL PCI ERA AL GOVERNO... Circolare n° 3179 del 29 aprile 1946 [117]" su Rivoluzione Internazionale n°64 e l’opera di Arturo Peregalli: “Togliatti guardasigilli 1945-1946”, Edizione Colibrì.
Il ritiro di Air France rende ancora più drammatica la situazione dell’Alitalia e, soprattutto, di quelli che vi lavorano. Il prestito di 300 milioni, che l’uscente governo Prodi ha stanziato per dare un po’ di ossigeno all’azienda, viene utilizzato come giustificazione alla menzogna che una possibilità di salvaguardare i posti di lavoro per tanti proletari forse c’è. In realtà la prospettiva è che come minimo ci sarà un drastico ridimensionamento, perché più passano i giorni più le perdite aumentano e quindi un nuovo potenziale acquirente non potrà che offrire una soluzione ancora più dura di quella che aveva offerto Air France, esattamente come era peggiorata l’offerta di quest’ultima a distanza di soli pochi mesi dal primo piano presentato.
Quello che resta da chiarire è come si è arrivati a questo e perché.
Il caso Alitalia è da diversi punti di vista estremamente indicativo della situazione attuale dell’economia e dei rapporti tra le classi. Innanzitutto dimostra quanto sia precaria la situazione economica mondiale, per cui anche una grande azienda sostenuta dallo Stato può arrivare al fallimento. Nel capitalismo un’azienda, non importa di quale settore si occupi, può continuare a sopravvivere solo se è competitiva rispetto alle sue concorrenti. E quello del trasporto aereo è un settore che, negli ultimi decenni, ha visto un certo sviluppo di traffici, ma anche la nascita di tante nuove compagnie, in particolare le low cost, che hanno creato grande concorrenza e grandi sconvolgimenti: quello che sta succedendo oggi all’Alitalia è già accaduto ad altre grandi compagnie del settore, come i colossi americani Delta Airlines e TWA, o le compagnie di bandiera Sabena, belga, e Swissair, svizzera, tutte ridimensionate e/o vendute. Deve essere quindi chiaro che l’Alitalia, dal punto di vista borghese, non può continuare ad andare avanti e l’alternativa, sempre dal punto di vista borghese, è tra il piano di un compratore, tipo Air France, che assicura la sopravvivenza della compagnia, e il fallimento puro e semplice, che significa libri contabili in tribunale, commissariamento e smantellamento della compagnia (con la possibilità residua di un recupero di piccole parti dell’ex compagnia, come è avvenuto per Sabena e Swissair). Certo, sia l’una che l’altra ipotesi significano gravi conseguenze per i lavoratori, ma questa è la legge del capitalismo, e chi cerca di far credere che si possa affrontare, nel capitalismo, la crisi economica senza attaccare i lavoratori, mente; ed infatti l’altra offerta presentata inizialmente, quella della cordata Air One, era anche peggiore di quella di Air France.
Ed i primi ad aver sparso queste menzogne, ed illudere i lavoratori, sono stati i sindacati che, pur conoscendo benissimo la situazione, hanno fatto finta fino alle fine di volersi battere per una soluzione che salvaguardasse i lavoratori. E lo scopo di queste menzogne era, illudendo i lavoratori, impedire che fra essi si facesse strada una riflessione su come potersi difendere veramente dagli attacchi che si preparavano; nel frattempo invece i sindacati fingevano di poter trattare condizioni migliori per i lavoratori e contemporaneamente lavoravano per tenerli buoni e, soprattutto, divisi: a Milano mettevano al centro la difesa dell’aereoporto di Malpensa (e quindi dei lavoratori della Sea che lo gestisce), a Roma dicevano che il salvataggio di Malpensa non doveva mettere a repentaglio i posti di lavoro a Fiumicino; in questa maniera si finiva per far mettere i lavoratori in concorrenza impedendo loro di unirsi nella lotta, tutti assieme, in difesa del proprio posto di lavoro.
Una volta che i lavoratori si consegnano mani e piedi ai sindacati, alla fine non solo si arriva ad una sconfitta sul piano materiale immediato, ma si diffonde anche una certa demoralizzazione, come dimostrato dal fatto che interi comparti di lavoratori si sono dichiarati, di fronte all’abbandono delle trattative da parte dell’Air France, pronti ad accettare i sacrifici che questa proponeva, pur di chiudere la questione.
Questa sconfitta è il risultato della santa alleanza della borghesia: Stato (che non solo ha agito con l’Alitalia come qualsiasi altro padrone, ma ha scatenato le sue forze di repressione contro i lavoratori, quando questi, come i lavoratori dell’Atitech a Roma al momento del confronto Air France-Sindacati, hanno provato a far sentire la loro voce) e sindacati che hanno lavorato tra i lavoratori per consegnarli disarmati al piano padronale.
Ma il fatto che la situazione dell’Alitalia sia caratteristica della situazione attuale non significa che per i lavoratori non c’era nessuna possibilità di imporre un’altra soluzione: la lotta degli studenti francesi, che in quanto futuri proletari si sono battuti contro il progetto di Contratto di primo Impiego (CPE), arrivando a far ritirare il provvedimento, lo dimostra. Ma questo è stato possibile perché gli studenti hanno scelto la via della lotta autonoma, della ricerca della solidarietà non solo al loro interno, ma con l’insieme del mondo del lavoro, occupato e non, riuscendo, con questa impostazione, ad attrarre le simpatie degli altri lavoratori e la loro solidarietà, per cui il governo ha preferito ritirare il progetto CPE, piuttosto che rischiare una discesa in lotta di più categorie di lavoratori.
Anche all’Alitalia si poteva scegliere la strada di un’azione comune di tutti i settori di lavoratori (di terra e di volo), che mettendo al centro un obiettivo chiaro e comprensibile per tutti i lavoratori del paese, la difesa del posto di lavoro, e non quello dell’azienda o della sua “italianità”, come hanno predicato sindacati e politici, avrebbero certo attirato le simpatie del resto dei lavoratori, se non la loro solidarietà attiva. Ma questo solo i lavoratori potevano farlo, e non i sindacati, che hanno come ottica quella della compatibilità degli interessi dei lavoratori con quelli delle aziende, che sono invece inconciliabili perché solo l’aumento dello sfruttamento dei primi può salvaguardare i profitti delle seconde.
Se quindi i lavoratori dell’Alitalia sono stati sconfitti e demoralizzati - almeno questa sembra, purtroppo, la conclusione di questa vicenda - non è perché non può che andare così, ma solo perché hanno lasciato le cose in mano a quegli specialisti della sconfitta che sono i sindacati.
Prendere coscienza di questa dinamica è la sola strada che può trasformare una sconfitta immediata in prospettiva di una vittoria futura.
Helios, 23/04/08
La danza della morte del capitalismo
Lungi dalle parole rassicuranti di Prodi sul risanamento dei conti dell’azienda Italia e dalle spacconate di tutta la fase di propaganda elettorale di un Berlusconi, la gente sa che l’inflazione reale su generi essenziali come alimenti, gas ed elettricità sono ben al di sopra delle cifre ufficiali, così come la disoccupazione reale potrebbe essere tre o quattro volte quello che le statistiche governative proclamano. Se si prende l’esempio dell’aumento del prezzo del petrolio si vede che non ha una ricaduta soltanto sui singoli automobilisti ma ha un impatto sul costo di ogni prodotto che venga trasportato da veicoli che camminano su strada. La ragione per cui la gente è preoccupata è a causa del fatto che i prezzi vanno alle stelle, i servizi vengono tagliati e i lavori diventano più insicuri.
Ma i problemi che noi soffriamo in Italia non sono solo locali. L’economia nazionale è intimamente interconnessa con quella mondiale e, sebbene il nostro paese possa avere delle debolezze strutturali che tendono a penalizzarlo su certi piani, il problema è più profondo ed è dovuto ad una vera crisi dell’economia mondiale. La recessione negli Stati Uniti in particolare ha un impatto attraverso il mondo intero. In Giappone per esempio ogni recupero della sua economia dipende dalla sua capacità di esportare in America, la qual cosa non si verifica quando il valore del dollaro sta sprofondando e con una popolazione già massicciamente in debito e alla ricerca di spiccioli da raschiare in giro per pagare le sue ipoteche.
Quelle a cui assistiamo oggi sono dunque le convulsioni di un sistema in uno stato cronico di crisi, dove il capitalismo può guadagnarsi soltanto momenti momentanei di “salute” adottando misure suicide come il volo in ulteriori debiti che possono solo peggiorare la prospettiva della successiva caduta catastrofica.
La recessione americana: non c’è da chiedersi se c’è, ma solo quanto è profonda
La grande domanda che gira tra i media americani è se l’economia sia in recessione. Il National Bureau of Economic Research (ufficio nazionale di ricerca economica) (NBER) è un rispettato gruppo di parecchi economisti che fornisce risposte a tali domande, ma solo dopo che si è avuto un prolungato periodo di declino nell’attività come prova che possa essere esaminata. Altri economisti sono preparati per annunciare una recessione, ma spesso solo per minimizzare la sua importanza.
I dati recentemente annunciati dagli USA sulla disoccupazione sembrano mettere fuori ogni dubbio la presenza di una recessione. Questi mostrano le perdite di posti di lavoro per tre mesi consecutivi, con la caduta di 80.000 posti che è la più grande dal marzo del 2003. 2,6 milioni di posti di lavoro si sono persi nel settore manifatturiero negli ultimi due anni. Il New York Times del 4 aprile scorso dichiarava: “L’economia sta soffrendo gli effetti del collasso del settore degli alloggi, dello sgretolamento del credito e di un sistema finanziario in tumulto. Ciò induce la gente e gli investitori a esporsi di meno, a comprimere le spese, gli investimenti di capitali e le assunzioni. Queste cose a loro volta indeboliscono ulteriormente l'economia attraverso quello che è diventato un circolo vizioso.”
L’ex presidente della Federal Reserve Alan Greenspan ha una veduta a più lungo termine: “L’attuale crisi finanziaria negli Stati Uniti deve essere giudicata come la più lacerante dalla fine della seconda guerra mondiale”. In realtà la classe dominante sta guardando indietro al crollo del 1929 e alla grande Depressione degli anni ‘30 per trarre gli insegnamenti per oggi.
Per esempio, quando il ministro del Tesoro degli Stati Uniti Henry Paulson ha rivelato una revisione della regolazione del settore finanziario - la più grande dagli anni ‘30 – questa è stata accolta favorevolmente come una risposta allo “scricchiolio del credito” e al tumulto dei mercati. Paulson ha detto che non era una risposta alla situazione immediata ma una rettifica necessaria da lungo tempo. Le misure attuali danno ampi poteri alla Federal Reserve ed includono l’istituzione di una nuova struttura che dovrà assumere il ruolo dei cinque regolatori di operazioni bancarie esistenti. Come per altri aspetti del piano, l’effetto è di un ulteriore rafforzamento del ruolo di intervento dello Stato nell’economia. Lo Stato è l’unica forza nella società capitalista che può impedire che l’economia esca fuori da ogni controllo.
Con la Bear Stearns, per esempio, non è stata la prima volta che la Fed ha forzato una banca ad un matrimonio forzato con una istituzione finanziaria in fallimento. Un paio di mesi fa la Bank of America Corp. ha acconsentito di comprare la Countrywide Financial Corp, il più grande prestatore di fondi contro ipoteca degli Stati Uniti in seguito agli incoraggiamenti dalla Fed. Il problema di questa politica è che molte banche hanno già problemi di credito per proprio conto mentre altre sono già impegnate in operazioni di assorbimento di aziende.
La crisi attuale non sarà limitata al settore finanziario, ma si estenderà al resto dell’economia, con effetti sul commercio, i posti di lavoro e gli stipendi, e non solo negli Stati Uniti, ma nel mondo intero. In America, come in Italia e ovunque nel mondo, i livelli reali di disoccupazione e di inflazione non sono rivelati nelle statistiche ufficiali. Tuttavia, ci sono alcune drammatiche cifre che ci mostrano come la classe operaia negli Stati Uniti stia già soffrendo per la crisi dell’economia capitalista, al di là dei numeri di perdite di case, di tagli dei posti di lavoro e di aumenti dei prezzi. Come viene descritto dal New York Times del 31 marzo scorso: “Spinto da una miscela dolorosa di licenziamenti e di aumenti dei prezzi di alimenti e combustibili, il numero di Americani che ricevono i buoni pasto è proiettato verso i 28 milioni durante quest’anno, il livello più alto da quando il programma di aiuti decollò negli anni ‘60.” Questa proiezione proviene da una fonte ufficiale, il Congressional Budget Office.
Il collegamento fra la crisi e la lotta di classe
La crisi economica ha subito, a livello internazionale, una accelerazione importante. Dopo anni di bugie su uno sviluppo senza precedente la classe dominante adesso deve ammettere l’esistenza della crisi. Le sole opzioni aperte al capitalismo si trovano nell’intervento dello Stato e nel ricorso al debito. Non possiamo predire ogni particolare di che cosa si profila davanti a noi, ma possiamo vedere quello che viene minacciato. Vi è un’accumulazione enorme di pressioni inflazionistiche, che è qualcosa che non abbiamo visto negli anni ‘30. Vi è la minaccia del crollo di settori interi di alcune economie. Ed anche se le borghesie di diversi Stati sono capaci di cooperare ad alcuni livelli, ogni paese rimane tuttavia in competizione con ogni altro e non va a salvare le imprese in fallimento dei suoi rivali.
La natura sempre più simultanea della crisi a livello internazionale significa che diventa sempre meno credibile quello che alcuni propagandisti possono indicare come possibili motori capaci di trascinare il resto dell’economia al di fuori del pantano: i limiti di quello che possiamo attenderci dall’India e dalla Cina si stanno velocemente palesando.
Noi siamo testimoni di lotte della classe operaia che sono una risposta ad attacchi simili in diversi paesi: al posto di lavoro, ai servizi, ai salari, ai prezzi e alle pensioni. Nella misura in cui la crisi mostra sempre più chiaramente il legame tra le varie economie, c’è la possibilità che gli operai possano vedere i loro interessi internazionali comuni e capire che l’economia capitalista non può garantire i bisogni basilari della vita dell’umanità. La classe operaia è spinta è spinta in una lotta per la sopravvivenza contro gli effetti della crisi del capitalismo.
In questo periodo esistono lotte di lavoratori in tutte le parti del mondo, in Germania, in Grecia, in sud America, in Asia, lotte riportate sui mass-media ma molto più spesso ignorate da questi, lotte di resistenza contro gli attacchi ai salari, alle pensioni, alle condizioni di vita … La classe operaia si dovrà rendere sempre più conto che questo sistema non ha più nulla da offrire e, al tempo stesso, che per farla finita con questo occorre una risposta di classe unita e internazionale.
Car, 4/4/8
Con il seguente comunicato, Internacionalismo - sezione della CCI in Venezuela, analizza gli eventi in Sud America a seguito della presenza di truppe colombiane in territorio ecuadoriano.
Gli eventi
Nelle prime ore di sabato 2 marzo l'esercito colombiano bombarda un accampamento delle FARC situato nel territorio dell’Ecuador, a pochi chilometri dal confine colombiano. L'obiettivo della missione è eliminare il capo guerrigliero soprannominato Raúl Reyes, un importante membro del segretariato delle FARC, che viene ucciso con 16 guerriglieri. Il presidente della Colombia (Álvaro Uribe), che ha seguito l’intera operazione durante la notte, avvisa dell’azione il presidente dell'Ecuador (Rafael Correa), che reagisce in modo calmo dopo avere ascoltato le spiegazioni del presidente colombiano.
La domenica, Correa ha un cambiamento d’umore e decide di espellere l’ambasciatore della Colombia dall'Ecuador, ordinando un rinforzo della presenza militare sul confine con la Colombia. Il lunedì, l’Ecuador decide di rompere i rapporti diplomatici con la Colombia, accusando il presidente Uribe d’essere “un guerrafondaio”; successivamente il capo della polizia della Colombia ha dichiarato che i documenti trovati sui computer dei guerriglieri indicavano che c’erano collegamenti fra le FARC ed i governi dell'Ecuador e del Venezuela [1].
Domenica 3 marzo, Chavez, nella sua esibizione in televisione chiamata “Aló, Presidente”, dopo avere accusato Uribe d’essere “un gangster e un lacché imperialista” e minacciato di inviare un caccia bombardiere Sukhoi se il presidente colombiano avesse deciso di effettuare un’azione simile sul territorio venezuelano, ordina il ritiro del personale dell’ambasciata di Bogotá e la mobilitazione di 10 battaglioni militari verso il confine con la Colombia. Il lunedì, il presidente venezuelano dichiara l’espulsione dell’ambasciatore della Colombia; e quello stesso giorno (anche se non in maniera ufficiale), il governo venezuelano ordina la chiusura del confine con la Colombia [2].
Come prevedibile, questa situazione ha generato tensioni nella regione e preoccupazione presso la popolazione, principalmente sul confine colombiano - venezuelano.
Chavez intensifica le tensioni
La reazione del governo del Venezuela è stata sproporzionata, dato che la Colombia non ha effettuato alcun genere di azione militare sul territorio venezuelano. Tutti i commentatori sottolineano che la reazione del Venezuela è stata più estremista di quella dell’Ecuador, il paese “invaso”.
Si è ipotizzato che Chavez, dopo la prima reazione moderata di Correa (che condivide il progetto Chavista “della rivoluzione bolivariana”), abbia messo sotto pressione il presidente dell’Ecuador per rompere i rapporti con la Colombia e mostrare un fronte unito contro le aggressioni di Uribe.
Questa reazione esagerata del Venezuela non sorprende per niente. Il governo gauchista di Chavez ha sviluppato una strategia politica per posizionarsi come potenza regionale, basata sul potere che gli viene dal petrolio, e con esso, sfrutta un diffuso anti-americanismo usando i problemi sociali e politici dei paesi della regione e le difficoltà geopolitiche degli USA. nel mondo. Questa posizione ha condotto il Venezuela a sostenere politicamente e finanziariamente i gruppi e i partiti di sinistra nella regione, di cui alcuni sono già al potere, come è il caso di Evo Morales in Bolivia o Correa nell’Ecuador. La reazione di Chavez e la sua pressione sull’Ecuador non sono una sorpresa, poiché le operazioni della Colombia hanno rivelato l’aiuto che entrambi i paesi danno ai guerriglieri colombiani, consentendo la messa in opera di accampamenti sui loro territori per eludere i militari colombiani. La decisione del governo del Venezuela di mobilitare le truppe al confine con la Colombia era una risposta alla possibilità di attacco degli accampamenti dei guerriglieri in territorio venezuelano da parte dell’esercito colombiano.
Chavez ha avuto disaccordi politici e diplomatici continui con la Colombia che, con la scusa della lotta alla guerriglia e al traffico della droga attraverso il Piano Colombia iniziato nel 2000, è stata trasformata nella base militare più importante degli USA nella regione.
Cercando di destabilizzare il governo colombiano, Chavez ha dato un sostegno sempre più aperto alle organizzazioni guerrigliere (FARC ed ELN); inoltre dà un supporto politico (e forse finanziario) al Polo Democratico Alternativo, un partito gauchista colombiano che difende il progetto bolivariano contro il partito di Uribe al potere.
Il confronto Chavez-Uribe si è mantenuto più o meno in un equilibrio instabile fino a novembre dell’anno scorso, quando Chavez è stato considerato come mediatore possibile per “lo scambio umanitario” di vari ostaggi nelle mani delle FARC [3] con militanti di quella stessa organizzazione. Non dovremmo dimenticarci che la decisione inesplicabile del governo colombiano di utilizzare Chavez come mediatore per lo scambio di ostaggi con militanti delle FARC può fare parte di una strategia della borghesia degli USA per conoscere meglio le manovre delle FARC e di indebolirle geo-politicamente, come sta accadendo ora.
È vero che i guerriglieri sono stati indeboliti dalle azioni decise di Uribe [4], situazione che spiega l’insistenza di Chavez a difenderli come forza combattente, cosa che aprirebbe le porte alla loro trasformazione in un partito politico. La recente azione della Colombia in Ecuador potrebbe fare parte della necessità di ostacolare questa ultima opzione e mettere fine al processo unilaterale della restituzione degli ostaggi a Chavez e rendere pubblici i collegamenti del governo venezuelano con le FARC. Il governo colombiano, grazie ai suoi servizi segreti (sostenuti da tecnologia militare americana altamente avanzata), ha denunciato molte volte l’esistenza di campi della guerriglia nei paesi limitrofi della Colombia, specialmente in Venezuela e in Ecuador. Infatti, alcuni mesi fa, il presidente Uribe aveva già denunciato che il capo guerrigliero Raúl Reyes stava nascondendosi nel territorio ecuadoriano. Si potrebbe giurare che il governo della Colombia stava giusto aspettando l’occasione favorevole per eliminarlo [5].
Le borghesie statunitense e colombiana conoscono bene l’indebolimento di Chavez sul piano interno, rivelato dalla sua sconfitta al referendum del 2 dicembre scorso, il cui obiettivo era di renderlo eleggibile un numero infinito di volte. Le masse che avevano riposto in lui tutte le loro speranze cominciano a non credergli più. E’ per questo che il governo di Chavez cerca senza sosta di trascinare la popolazione in una campagna aggressiva contro il nemico esterno (gli USA o, più recentemente, la Colombia), al fine di distogliere l’attenzione delle masse dai loro problemi reali di tutti i giorni (penuria dei beni di prima necessità, criminalità, disoccupazione, …).
La strategia geopolitica degli USA è stata quella di lasciare che il chavismo si discreditasse progressivamente da solo, per cui il governo americano ha evitato di cadere nelle continue provocazioni; una situazione che ha portato Chavez a raddrizzare il tiro della sua aggressività nazionalista verso Uribe. La borghesia americana e i suoi alleati più coscienti nella regione sanno che i grossi profitti petroliferi non basteranno a saziare la voracità della borghesia bolivariana (la boliborghesia), che ha bisogno di enormi quantità di risorse per i suoi affari legali e illegali (frutto dell’alto livello di corruzione che regna tra le fila bolivariane); allo stesso tempo, mantenere una politica antiamericana (ai tempi della guerra fredda sostenuta dall’URSS) costa molto caro. Allo stesso tempo il prosieguo di una politica populista richiede grosse spese, motivo dell’indebolimento di questa politica nel 2006 (con grosse conseguenze per i settori più poveri della popolazione).
A causa del malessere sociale [6], il confronto con la Colombia e le mobilitazioni militari non hanno trovato il sostegno della popolazione del Venezuela. Gli appelli di Chavez, dell’Assemblea Nazionale e dei grandi burocrati del chavismo alla mobilitazione della popolazione alle frontiere sono stati ascoltati con indifferenza, con ostilità, o anche con l’idea che i due governi avrebbero fatto meglio a trovare un altro mezzo per risolvere i loro conflitti. Il governo ha beneficiato dell’appoggio dell’ex burocrate Lina Ron, che ha messo i suoi 2.000 partigiani al servizio del “comandante”! Questi fanno parte dei partigiani assoldati da Chavez che li utilizza per reprimere l’opposizione e le masse operaie che protestano o lottano per le loro condizioni di vita. D’altra parte, nel caso del Venezuela, le frazioni di opposizione della borghesia e i loro partiti hanno serrato i ranghi contro Chavez, mentre la borghesia colombiana faceva fronte unico attorno ad Uribe.
C’è un ulteriore fattore importante che gioca contro le tendenze belliciste del chavismo: la divisione delle forze armate, un riflesso della divisione che le diverse frazioni della borghesia hanno trasmesso alla popolazione civile. Anche se in maniera non aperta, è evidente che ci sono settori militari che sono in disaccordo con il tipo di relazioni che il governo intrattiene con la guerriglia: questa ha attaccato le forze armate venezuelane in più occasioni, facendo un gran numero di morti civili e militari. Secondo le dichiarazioni dell’ex ministro della difesa Raul Baduel, che dallo scorso anno è passato all’opposizione, e che proviene dalle forze armate, il governo non ha il sostegno delle classi medie, quelle che hanno la responsabilità delle truppe.
La dinamica della decomposizione
Anche se differenti paesi [7] e la stessa OAS cercano di minimizzare le tensioni nella regione, è evidente che è interesse del Venezuela prolungare la crisi. Perciò la pressione sull’Ecuador continua: nel momento in cui scriviamo questo comunicato, il presidente Correa ha appena fatto una visita a Caracas, occasione per lui e Chavez di ravvivare le fiamme del conflitto. Dopo di ciò Correa andrà in Nicaragua, occasione che servirà al presidente Daniel Ortega per rompere le relazioni diplomatiche con la Colombia.
E’ possibile che il conflitto non andrà oltre i grandi discorsi fatti dalle due parti. Tuttavia esiste un contesto di decomposizione che rende impossibile predire quello che può accadere:
- gli USA, con il loro piano Colombia, hanno introdotto nella regione dei motivi di instabilità che sono irreversibili: la Colombia è stata equipaggiata militarmente e dispone di forze armate ben addestrate, che, secondo gli specialisti, sono quattro volte superiori a quelle del Venezuela e dell’Ecuador riunite, disponendo inoltre del sostegno della tecnologia militare più avanzata. Una situazione che crea uno squilibrio nella regione;
- con la decisione di Uribe di denunciare davanti alla Corte di Giustizia internazionale Chavez per finanziamento ai gruppi terroristi, è possibile che la Colombia utilizzi i recenti avvenimenti per rafforzarsi e proseguire la denuncia di Chavez, discreditando il suo prestigio a livello internazionale; per esempio, la denuncia pubblica del sostegno del governo venezuelano alle FARC e la messa in campo di prove dell’esistenza di campi della guerriglia in territorio venezuelano;
- i chavisti, nella loro fuga in avanti, possono utilizzare qualsiasi mezzo per giustificare un confronto militare con la Colombia. In una sua recente dichiarazione, Chavez ha minacciato di nazionalizzare molte imprese colombiane.
Internacionalismo, marzo 2008
NOTA: venerdì 7 marzo, durante la riunione nella repubblica dominicana dei dirigenti dei diversi paesi dell’America latina, Uribe, Chavez, Correa ed Ortega non hanno cessato di abbracciarsi, cosa che è stata interpretata come possibile fine del conflitto. Noi sappiamo che i politici hanno l’abitudine di abbracciarsi anche se stanno tirando un pugno di nascosto ai loro avversari. Secondo noi Uribe ha chiaramente svelato i suoi piani contro i suoi avversari, che non avevano altra scelta che cercare di ostacolarlo. Può anche darsi che le tensioni diminuiscano provvisoriamente, ma la situazione di conflitto esiste sempre. Chavez ha bisogno di un nemico esterno; per sostenerlo, l’Ecuador ha deciso, per il momento, di non riprendere le sue relazioni con la Colombia.
1. Alcune delle prove trovate riguardano il trasferimento di 300 milioni di dollari e di armamenti dal Venezuela per le FARC. Nella stessa prova inoltre era precisato che le FARC avevano dato 50.000 dollari a Chavez nel 1992, quando questo era in prigione dopo il fallimento del suo colpo di Stato.
2. La Colombia è il secondo partner commerciale del Venezuela, subito dopo gli Stati Uniti. Il 30% delle importazioni del paese transitano attraverso la frontiera con la Colombia, tra cui un parte importante di generi alimentari. La chiusura della frontiera provocherebbe un aggravamento della penuria di prodotti alimentari nel paese, già molto pesante dalla fine del 2007. Questa è una espressione dell’irrazionalità della fuga in avanti del chavismo.
3. Tutta la questione dello scambio “umanitario” è stata accompagnata da una quantità di ipocrisie da parte delle diverse frazioni della borghesia, ognuna delle quali cerca di sfruttare la situazione (in particolare Chavez e le FARC) per la difesa dei propri interessi; molti paesi hanno preso parte a questa farsa “umanitaria” (fra cui la Francia). E tutti sono molto poco interessati alla sorte degli ostaggi, che, peraltro, sono in gran parte appartenenti ad istituzioni borghesi (Parlamento, partiti politici, ecc.). Dobbiamo denunciare con fermezza lo sfruttamento dei sentimenti delle masse in favore degli interessi geopolitica della borghesia.
4. La forza numerica delle FARC è caduta da 17.000 unità a 11.000 da quando Uribe è diventato presidente nel 2002. Quasi 7.000 guerrigilieri sono morti e più di 46.000 elementi delle FARC, dell’ELN (Esercito di Liberazione Nazionale) e delle AUC (Forze Unite di autodifesa della Colombia) sono state smobilitate (fonte El Nacional, 3/09/07).
5. Secondo le più recenti notizie, la localizzazione esatta del leader della guerriglia Raùl Reyes è stata possibile dopo una chiamata di Chavez sul suo telefono cellulare.
6. Le proteste della popolazione sono sempre più frequenti. Dall’anno scorso, gli operai si sono mobilitati per migliori condizioni di vita e migliori salari, nel settore petrolifero, siderurgico, dei pneumatici, della sanità, ecc.
7. Uno dei paesi che può giocare un ruolo importante è il Brasile, perché Lula è “l’amico” di tutti i paesi in conflitto, e particolarmente di Chavez. La Francia, che si è molto immischiata nelle cose dopo il rapimento della Betancourt, ha adottato una politica ambigua che le ha attirato delle critiche: essa si è innanzitutto lamentata dell’incidente a causa del ruolo che Reyes giocava nella mediazione per la liberazione degli ostaggi, mostrando una posizione almeno confusa nei confronti delle FARC; in seguito essa ha giudicato necessario spiegare che le sue relazioni con Reyes non erano cominciate che a metà del 2007. In dichiarazioni più recenti ha “minacciato” le FARC di etichettarle come terroriste se la Betancourt dovesse morire.
Le proteste per il brutale trattamento della popolazione del Tibet hanno inseguito il passaggio della torcia olimpica fin dal momento in cui è stata accesa. Sembra che debbano raggiungere il punto culminante il 21 giugno quando la fiamma arriverà a Lhasa, capitale del Tibet.
A marzo le dimostrazioni nel Tibet si sono trasformate in tumulti in cui hanno perso la vita, secondo il governo cinese, 19 persone, vittime dei rivoltosi tibetani, mentre il governo tibetano in esilio dice che i morti sono 140, la maggior parte dei quali vittime delle forze di sicurezza. Ci sono notizie anche di tumulti in altre province abitate da significative comunità tibetane.
I cinesi hanno incolpato il Dalai Lama, il capo buddista tibetano in esilio, per incitamento alla violenza. Il segretario del partito comunista del Tibet ha detto “il Dalai Lama è un lupo camuffato, un mostro con la faccia umana e il cuore di un animale.” Un articolo nel Guangming Daily ha dichiarato che “il Dalai Lama ed i suoi sostenitori, rappresentanti dei proprietari feudali del vecchio Tibet, non hanno fatto mai niente di buono per il popolo tibetano negli ultimi 50 anni”. I gauchisti, sostenitori della repressione statale cinese, negano che ci sia una lotta di ‘liberazione nazionale’ nella regione, insistendo che i ‘secessionisti’ sono sostenuti dall’America e che il Dalai Lama è un fantoccio al soldo dei servizi segreti degli Stati Uniti che sfruttano l’occasione delle Olimpiadi di Pechino per insidiare l’integrità e la stabilità cinesi.
In opposizione a questo, la Campagna per il Tibet Libero afferma che “l'invasione cinese con 40.000 soldati nel 1950 è stata un’aggressione non provocata [...] si valuta che circa 1.2 milioni di tibetani siano stati uccisi dai cinesi dal 1950 [...] l’afflusso dei cittadini cinesi ha destabilizzato l’economia" e che ora ci sono “da 5 a 5.5 milioni di cinesi per 4.5 milioni di tibetani”. Nel frattempo “i rapporti del governo indiano dicono che ci sono tre siti nucleari missilistici e circa 300.000 truppe stazionate sul territorio tibetano”. Questa campagna ha molti sostenitori tra famose celebrità, da Richard Geere col suo discorso alla premiazione del 1993 dell’Academy Awards ad Harrison Ford, a Sharon Stone, agli U2 ed ai REM.
Accanto ai democratici radicali ed alle celebrità buddiste ci sono i gauchisti che vedono una lotta per l’indipendenza nazionale. “I tumulti e le proteste che sono scoppiati nel Tibet questa settimana sono il prodotto di decenni di oppressione nazionale” dice Socialist Worker (22/3/8). Il Socialist Workers Party è deluso che “lo sviluppo economico non abbia toccato la maggior parte dei tibetani. Il popolo cinese ed altre minoranze etniche hanno preso la maggior parte dei nuovi posti di lavoro creati - che è una delle ragioni per cui sono stati attaccati durante i recenti disordini.” Tali osservazioni sembrano rievocative del celebre slogan ‘vengono qui e si prendono i nostri lavori’ ...
Un certo numero di questi diversi punti di propaganda hanno un fondamento nella realtà. Non ci sono dubbi che l’invasione e l’occupazione cinese del Tibet sia stata una lunga cronaca di barbarie. È ugualmente vero che il regime dei Lama da loro rovesciato era basato su un secolare, vecchio sistema di sfruttamento. E non è privo di fondamento che ogni potenza imperialista cerchi di ostacolare le crescenti ambizioni imperialiste della Cina incoraggiando i movimenti di opposizione o di secessione nelle zone che essa controlla. Il punto non è se la CIA paga oppure no il Dalai Lama. L’imperialismo americano ha giocato spesso la carta dei diritti dell’uomo contro altri imperialismi: basta guardare all’intero periodo della guerra fredda quando i regimi in URSS ed in Europa Orientale erano l’obiettivo delle sue campagne. È inoltre significativo che il governo indiano mantenga un occhio di riguardo sul Tibet, a causa della minaccia del suo rivale regionale, l’imperialismo cinese.
Così, durante la recente visita di Stato del presidente francese, la ragione per cui Brown non si è dichiarato a favore del boicottaggio delle Olimpiadi, mentre Sarkozy non lo ha escluso, non era perché uno è più umanitario dell’altro, ma a causa dell’approccio differente nella difesa dei relativi interessi imperialisti. La difesa dei ‘diritti dell'uomo’ e l’opposizione ‘all’oppressione nazionale’ sono armi standard delle più criminali classi dominanti della storia. Quando parlano del loro desiderio di pace, hanno lo sguardo rivolto alla loro preparazione per la guerra.
Car, 5/4/2008
Gli ultimi cinque anni hanno mostrato uno sviluppo della lotta di classe a livello internazionale. Queste lotte si sono sviluppate in risposta alla brutalità della crisi del capitalismo e al drammatico peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro in tutto il mondo. Oggi, entrando in una nuova fase della crisi economica annunciata dalla crisi immobiliare negli USA, possiamo aspettarci un’intensificazione di queste lotte. In alcuni dei paesi in cui le condizioni dei lavoratori sono più miserevoli – Egitto, Dubai, Bangladesh – abbiamo già visto i germi dei futuri scioperi di massa. In Europa è riapparso nel 2006 con le proteste degli studenti in Francia un movimento di protesta proletario con un carattere di massa e tendenze verso l’autorganizzazione.
In questo momento stiamo assistendo in Germania all’inizio di una nuova fase di questo sviluppo. In un paese industriale importante collocato nel cuore della vecchia Europa capitalista, una simultaneità di conflitti sociali minaccia di esplodere in una reale ondata di lotte operaie.
Un altro anno di malcontento
Il 2008 è cominciato con la notizia che la compagnia ferroviaria tedesca Deutsche Bahn (DB) era obbligata ad accordare un incremento dell’11% sui salari e una riduzione di un’ora sulla settimana di lavoro per i macchinisti. Ciò è stato il risultato di mesi di un tenace conflitto che non è stato eroso né dalla dichiarazione di illegalità degli scioperi nazionali dei ferrovieri né dalla divisione dei lavoratori delle ferrovie praticata dai sindacati. Questo sciopero è stato poi seguito dalla mobilitazione nell’area della Ruhr intorno alla chiusura della produzione dei telefonini Nokia. Un giorno di azione in solidarietà con gli impiegati della Nokia a Bochum ha visto la mobilitazione per strada di lavoratori provenienti da innumerevoli settori differenti e l’invio di delegazioni da diverse parti della Germania. In particolare, gli operai della Opel di Bochum sono scesi anch’essi in sciopero a sostegno di quelli della Nokia quel giorno.
Nel frattempo, le rituali negoziazioni per i rinnovi contrattuali erano già cominciate. Gli scioperi dei siderurgici furono seguiti dalla sospensione del lavoro da parte di decine di migliaia di lavoratori del settore pubblico in tutto il paese. Da metà marzo, i medici degli ospedali municipali scesero in piazza chiedendo, come tanti altri lavoratori, un aumento salariale del 12%.
Ma è soprattutto il forte sciopero illimitato dei lavoratori dei trasporti locali di Berlino che, dalla fine della prima settimana di marzo, ha dimostrato che quest’anno la serie di negoziati sul salario stanno direttamente sfidando l’offensiva capitalista contro la classe operaia. Questo sciopero di 10.000 lavoratori – già il più vasto e il più lungo del suo tipo nella storia della Germania dal dopo Guerra in poi - ha manifestato una combattività e una determinazione che all’inizio ha preso di sorpresa la borghesia. Questo conflitto cresceva nel momento in cui le ferrovie tedesche facevano un ultimo tentativo per tirarsi indietro rispetto alle concessioni che erano state costrette a fare, e quando i negoziati nel settore pubblico erano sull’orlo della rottura. In quest’ultimo settore, lo Stato “offriva” ai suoi dipendenti un “aumento” salariale del 5% su due anni, chiedendo di rimando di allungare la settimana lavorativa di due ore! A Berlino, dove tutti i trasporti municipali erano in sciopero tranne i treni della suburbana (S-Bahn, controllata dalla DB) per questi lavoratori e per tutto il settore si apriva improvvisamente la prospettiva di andare allo sciopero non solo a Berlino ma in tutto il paese! La classe dominante ha dunque dovuto tirare il freno di emergenza (1). La compagnia ferroviaria ha ceduto qualche ora prima della ripresa di uno sciopero generale nazionale dei macchinisti. Allo stesso tempo, i datori di lavoro federali e municipali e il sindacato Verdi (2) hanno fatto appello all’arbitrato nel conflitto del settore pubblico, con la conseguenza che gli scioperi delle settimane successive sarebbero stati illegali. In questo modo, il governo, i datori di lavoro ed i sindacati hanno isolato lo sciopero alla compagnia di trasporto di Berlino (BVG).Ma il potenziale perché la simultaneità delle lotte degli operai ponga obiettivamente la loro interconnessione viene fuori non solo dalla profonda insoddisfazione generale derivante dalla perdita di valore degli stipendi reali. Vi è anche un accumulo di “esuberi di personale”. Alcuni giorni dopo la Nokia, è stato impedito il fallimento della banca semistatale della provincia della Nord-Reno-Vestfalia, la WestLB attraverso un’operazione di salvataggio dello Stato costata 2 miliardi di euro. Il costo per gli impiegati: 2000 licenziamenti, un terzo del personale e massicci tagli di stipendio per quelli che rimanevano. Lo stesso Stato che aveva distribuito miliardi per sostenere altri istituti di credito come l’IKB di Düsseldorf o la banca provinciale della Sassonia va ora dicendo agli operai del settore pubblico che non ci sono fondi disponibili per venire incontro alle rivendicazioni salariali!
In aggiunta alle vittime dell’attuale terremoto del mercato delle case, nelle settimane scorse un certo numero di compagnie industriali - Siemens, BMW, Henkel (Persil) - hanno annunciato contemporaneamente profitti da record ed esuberi di personale. La vecchia frottola raccontata agli operai delle aziende in difficoltà – e cioè che ristabilire il profitto con “il sacrificio” avrebbe salvato i loro posti di lavoro - è stata frantumata dalla realtà. Questi attacchi senza precedente hanno condotto non soltanto alle prime espressioni di resistenza quest’anno: Nokia, ma anche le dimostrazioni dei minatori nel Saarland contro la chiusura dei pozzi (3). Hanno anche contribuito a mettere in discussione la propaganda della classe dominante.
La politicizzazione della lotta
Uno dei segni più significativi dell’attuale maturazione della situazione è l’inizio di una politicizzazione cosciente e più aperta della lotta dei lavoratori. I recenti sviluppi della lotta ci forniscono tre importanti esempi.
1. Il ruolo dell’area industriale della Opel a Bochum nel recente conflitto alla Nokia. E’ vero che gli impiegati della Nokia si erano sentiti demoralizzati e intimiditi dalla provocatoria brutalità con cui la chiusura dell’impianto era stata annunciata. E fu in larga misura l’intervento massiccio dei lavoratori della Opel verso la Nokia - intervento con cui si chiamavano i lavoratori a lottare e si prometteva loro che avrebbero avuto sostegno ad ogni eventuale sciopero - che rese possibile la mobilitazione che ebbe luogo. Già nel 2004, uno sciopero selvaggio di una settimana alla Opel di Bochum aveva impedito la chiusura dell’impianto.
Oggi, i cosiddetti “Operaner” (gli operai della Opel) sono determinati a trasmettere questa lezione a tutti gli altri: la resistenza e la solidarietà degli operai paga! Quello che noi vediamo qui è l’emergere di avanguardie combattive nelle grandi concentrazioni operaie, che sono consapevoli del loro peso nella lotta di classe e determinate a metterlo in gioco a favore degli operai nel loro insieme. Un’altra di queste concentrazioni industriali è quella della Mercedes-Daimler che già negli anni ’90, attraverso uno sciopero di grandi dimensioni, impedì il taglio del pagamento dei giorni di malattia da parte del governo Kohl. Nel 2004 gli operai della Daimler che scesero in piazza a Stoccarda e a Brema contro i tagli salariali e dichiararono che stavano lottando non soltanto per se stessi, ma per tutti gli operai. Dovremmo anche ricordare che la Germania è ancora un paese con delle aziende enormi e con concentrazioni industriali di milioni e milioni in di operai altamente qualificati.
2. L’inizio del confronto aperto fra gli operai e gli organismi di sinistra controllati dal capitale si è concretizzato in occasione dello sciopero del settore dei trasporti BVG a Berlino. Questo sciopero non è soltanto una reazione alla perdita di valore degli stipendi reali nei confronti di una inflazione crescente. I lavoratori si ribellano anche contro le conseguenze dell’accordo salariale del 2005, che ha provocato tagli di stipendio del 12% e un orribile peggioramento delle condizioni di lavoro. Un contratto che Verdi, il principale sindacato del settore, difende ancora con veemenza. Consapevoli del fatto che la nuova “offerta” salariale che i padroni avrebbero fatto sarebbe stata una provocazione per i lavoratori, il sindacato Verdi aveva programmato in anticipo una giornata di protesta, prevista di sabato verso la fine di febbraio per causare il minor danno possibile. Ma quando gli operai hanno sentito che i loro stipendi sarebbero stati congelati al livello del 2007, con degli aumenti offerti soltanto a quelli impiegati dal 2005, sono scesi in sciopero per 24 ore e prima di quanto fosse programmato, anzi senza neanche aspettare il permesso sindacale. Tal’è l’indignazione dei lavoratori, e non solo rispetto ai tagli salariali effettivi ma anche riguardo ai tentativi evidenti di dividere gli operai, che il sindacato Verdi è stato obbligato ad abbandonare la sua ricerca di un “cordiale accordo negoziato” ed a convocare uno sciopero con tutti i mezzi a disposizione. Questo sciopero ha anche condotto ad un scontro aperto con la coalizione di sinistra “Rosso-Rossa” della Socialdemocrazia e dell’ala sinistra “Linkspartei” che governa a Berlino. Quest’ultimo partito, emerso dal vecchio partito stalinista tedesco SED che governava una volta la Germania orientale e che adesso si sta espandendo nella Germania occidentale con l’aiuto dell’ex leader dell’SPD, Oskar Lafontaine, denuncia lo sciopero come un’espressione della “viziata” Berlino Ovest! Ciò accade nello stesso momento in cui le frazioni potenti della borghesia tedesca stanno provando ad affermare il partito di Lafontaine e di Gysi come la quinta forza parlamentare capace di deviare il malcontento operaio sul terreno elettorale. Nessuna meraviglia se sera dopo sera le notizie della TV non menzionano neanche uno sciopero che sta generando caos nella capitale di un paese!
3. Stanno apparendo su internet dei primi blog dove, per esempio, i lavoratori delle ferrovie esprimono la loro ammirazione e la loro solidarietà per lo sciopero di BVG. Ciò è tanto più importante nella misura in cui in settori come quelli dei lavoratori ferroviari, dei piloti o del personale medico di ospedale - dove il peso del corporativismo è particolarmente forte - la borghesia sta rispondendo al crescente malcontento nei confronti dei sindacati tradizionali DGB attraverso lo sviluppo di nuovi sindacati pseudo-radicali, ma fortemente corporativi. Ciò viene fatto non solo per contenere la combattività in un ambito sindacale, ma anche per contrattaccare la radicalizzazione politica. Il sindacato dei macchinisti delle ferrovie, GDL, attualmente il favorito del gauchismo politico, è in effetti una caricatura di stampo parrocchiale e di conformismo non politico.
Il ruolo crescente del proletariato tedesco
La borghesia tedesca è stata per decenni orgogliosa del suo sistema di cosiddetta autonomia di trattativa salariale, un quadro giuridico rigorosamente definito all’interno del quale, sulla base della divisione settoriale e regionale dei lavoratori, i padroni ed i sindacati impongono la volontà del capitale. Tuttavia, il 2008 non è la prima volta, dal dopoguerra, in cui in Germania la classe operaia ha cominciato a mettere in questione questa struttura borghese. Dagli scioperi del settembre 1969 alle lotte di massa alla Ford di Colonia del 1973, gli scioperi selvaggi hanno contestato “gli accordi” imposti dai sindacati e dai padroni. Questo intervento autonomo della classe è stato provocato soprattutto dalle conseguenze dell’inflazione. Né è la prima volta che ci sono state mobilitazioni di lavoratori e solidarietà di classe in risposta alla chiusura di impianti. In particolare la lotta alla Krupp Rheinhausen nel 1987 è rimasta nella memoria collettiva della classe. Ma oggi abbiamo tutti e due i fenomeni assieme. L’inflazione e l’accumulazione degli effetti di anni di tagli reali allo stipendio hanno condotto ad una rabbia generalizzata. I licenziamenti e la disoccupazione di massa, se inizialmente possono frenare la combattività, alla fine provocano una riflessione sempre più profonda sulla natura del sistema capitalista.
Le lotte attuali sono la continuazione di quelle degli anni ‘60, ‘70 e ’80, lotte di cui occorre recuperare tutte le lezioni per armarsi adeguatamente per il futuro. Ma non ne sono una semplice continuazione. Sono anche un approfondimento di questa tradizione di lotta. Dopo il 1968 la Germania ha partecipato alla ripresa internazionale della lotta di classe. Ma era ancora in ritardo rispetto ad altri paesi a causa della particolare brutalità della controrivoluzione e della maggiore capacità che aveva all’inizio la Germania di resistere ai peggiori effetti della crisi del capitalismo.
Al contrario, il proletariato tedesco sta attualmente cominciando a raggiungere le sue sorelle e i suoi fratelli di classe di Francia e di altri paesi alla testa della lotta di classe internazionale
Weltrevolution, 14 Marzo 2008
1. Negli ultimi anni la funzione pubblica a Berlino ha smesso di negoziare con le province tedesche (Länder) allo scopo di condurre le trattative salariali per conto proprio e isolare così gli impiegati statali del posto dai loro colleghi di altre città. La scusa è la specificità della Germania contemporanea con una capitale che è non solo la città più grande, ma anche la più povera in tutto il paese.
2. “Ver.di” è la sigla del combattivo sindacato del pubblico impiego (eröffentliche Dienst), il più vicino a Lafontaine.
3. Per anni finora, le estrazioni nella regione della Saar hanno provocato regolarmente dei terremoti che hanno prodotto spesso considerevoli danni alle proprietà. Finora, questo non aveva mai interessato la classe dominante. Ma adesso, all’improvviso, un tale caso sta fornendo il pretesto per chiudere tutte le miniere restanti nella provincia.
Perché si pone oggi questa questione?
Anzitutto, vi sono degli elementi legati all’attualità che mettono in evidenza la difficoltà a comprendere chiaramente in cosa consiste la classe operaia.
Nell’autunno scorso, alcuni studenti che lottavano contro la legge “LRU” hanno manifestato la loro solidarietà ai ferrovieri in sciopero, cercando anche talvolta di realizzare delle assemblee generali in comune. Per contro, questi non hanno mai tentato di prendere contatti, per esempio, con le infermiere degli ospedali o gli insegnanti, andando sul posto per discutere. Perché?
L’immagine classica, cara alla borghesia e ai suoi mass-media, presenta l’operaio in tuta blu e con le mani callose. Ma che ne è dei milioni di disoccupati, di pensionati, di impiegati di ufficio, di funzionari, di lavoratori precari... ?
Chi fa parte della classe operaia?
Rispondere a queste questioni è una questione primordiale per continuare in avvenire a sviluppare, nella lotta, l’unità e la solidarietà.
Una questione simile si è posta in occasione della lotta della gioventù scolarizzata contro il CPE, nella primavera del 2006: la necessità di una solidarietà tra gli studenti e i lavoratori era evidente, tuttavia gli studenti non parlavano di “classe operaia” ma di “salariati”, il che significava che anche se comprendevano chiaramente che ciò che attendeva la maggior parte di loro era una vita di disoccupazione, di precarietà e di sfruttamento, essi non si consideravano come dei futuri membri della classe operaia.
In secondo luogo, e più in generale, le confusioni sulla natura della classe operaia sono state particolarmente diffuse in occasione del crollo dei regimi cosiddetti “socialisti” nel 1989: campagne sulla “morte del comunismo”, sulla “fine della lotta di classe”, fino alla “scomparsa della classe operaia”.
Perché è importante questa questione?
Perché queste false idee, che sono ampiamente alimentate dalle campagne e dalle mistificazioni della classe dominante, toccano i due punti di forza principali della classe operaia: la sua unità e la sua coscienza.
L’unità della classe operaia
Tutte le forze della borghesia sono interessate e partecipano alla divisione della classe operaia:
- I settori di destra: questi parlano solo di “cittadini tutti uguali davanti alla legge”. Per loro, non vi è divisione né antagonismo tra le classi sociali, tra sfruttati e sfruttatori. Bisogna manifestare una “solidarietà” tra “tutti i partner di una stessa impresa”, tra “tutti i cittadini di un paese”. Conclusione: il nemico dei salariati di tale impresa non è il loro padrone ma i salariati delle imprese concorrenti; il nemico degli sfruttati di un paese non è la loro borghesia nazionale ma gli sfruttati di altri paesi che lavorano per dei salari più bassi (e contro i quali bisogna prendere le armi in caso di guerra).
- I sociologi: sono specialisti nella ricerca di ogni sorta di categoria che tendano a mascherare le vere divisioni sociali tra sfruttati e sfruttatori. Fanno una serie di studi, con tanto di statistiche sulle differenze uomini/donne, giovani/vecchi, italiani/immigrati, credenti/non credenti, diplomati/non diplomati, ecc. (mentre vi sono delle femmine, dei giovani, degli immigrati, dei non credenti o dei non diplomati che appartengono alla classe degli sfruttatori e viceversa).
- La sinistra e soprattutto i sindacati: questi ammettono che vi sono degli sfruttatori e degli sfruttati, ma hanno l’abitudine di dividere questi ultimi tra imprese (parlano di quelli della “Renault”, di quelli della “Fiat”, ecc.), tra branche professionali (federazione sindacale dei trasporti, della funzione pubblica, dell’insegnamento, ecc.) ed anche tra paesi (usando talvolta un linguaggio sciovinista “produciamo italiano” quando si pone il problema della delocalizzazione di una impresa all’estero).
La coscienza della classe operaia
Questa consiste essenzialmente nella fiducia i sé stessa e nella coscienza della sua natura storica, del suo futuro.
- La fiducia in sé della classe operaia: i diversi settori della borghesia vogliono “mostrare” che la classe operaia non è più una forza nella società perché essa è sempre più ridotta di numero in quanto:
· Nei paesi sviluppati, vi sono sempre meno “colletti blu”, lavoratori “manuali” (i soli appartenenti alla classe operaia nelle definizioni ufficiali);
· là dove le “tute blu” aumentano, (Cina, India, ecc.), queste non rappresentano che una piccola minoranza della popolazione.
- La coscienza storica: si vorrebbe mostrare che non c’è niente da tirare dall’esperienza storica della classe operaia in quanto i salariati non sono più gli stessi di quelli del 19° secolo o della prima metà del 20° secolo.
Ecco la conclusione che la borghesia e tutti quelli che sono al suo servizio vogliono far tirare agli sfruttati: le idee socialiste, l’idea di un possibile rovesciamento della società capitalista potevano avere una giustificazione nel 19° secolo o all’inizio del 20° secolo, ma oggi sono delle idee assurde, una fantasticheria impotente.
Chi appartiene alla classe operaia?
- I lavoratori manuali appartengono tutti alla classe operaia?
NO: il panettiere o il macellaio proprietari dei loro commerci lavorano con le loro mani, ma non appartengono alla classe operaia perché questa è una classe sfruttata, che non è proprietaria dei suoi mezzi di produzione. D’altra parte, i piccoli commercianti non sono in generale molto amici degli operai che essi considerano spesso come dei “fannulloni”. In Francia, gli artigiani e i commercianti costituiscono le truppe di assalto di Le Pen. Per contro, il garzone salariato della macelleria o della panetteria appartiene alla classe operaia.
- Tutti gli sfruttati appartengono alla classe operaia?
NO: esiste per esempio (e sono numerosi nei paesi sottosviluppati) dei contadini poveri, non proprietari delle loro terre, che sono sfruttati dai proprietari fondiari a cui essi devono versare una percentuale delle loro entrate o un affitto annuo. Anche se questi possono conoscere uno sfruttamento spaventoso, essi non appartengono alla operaia. D’altra parte, le lotte che questi portano avanti mirano soprattutto a ottenere a ottenere una divisione delle terre, a trasformarsi in piccoli proprietari sfruttatori (come ce ne sono ancora in numero notevole in Francia o in Italia e che non sono esattamente dalla parte degli operai: essi costituiscono piuttosto la clientela di Le Pen). Di fatto, questo tipo di sfruttamento è una vestigia della società feudale, appartiene essenzialmente al passato.
Quali sono i criteri di appartenenza alla classe operaia?
La classe operaia è la classe sfruttata specifica del modo di produzione capitalista che è basato sul rapporto salariato. La specificità del capitalismo risiede nella separazione tra produttori e mezzi di produzione. I lavoratori che mettono in opera I mezzi di produzione non ne sono i proprietari, essi cedono in affitto la loro forza lavoro a quelli che li posseggono. Appartenere alla classe operaia suppone:
· Essere salariati: non si vende il prodotto del proprio lavoro, come fa il panettiere, ma si vende la propria forza lavoro a chi possiede i mezzi di produzione.
· Essere sfruttati: vale a dire che l’ammontare che riceve ogni giorno il salariato è inferiore al valore di quello che ha prodotto. Se ha lavorato per 8 ore, egli riceve l’equivalente di 4 ore e le altre 4 ore sono fatte proprie dal padrone (Marx ha chiamato “plus-valore” questo ammontare che non viene pagato al salariato). Non tutti i salariati sono degli sfruttati: i dirigenti delle grandi imprese sono spesso dei salariati ma con i loro salari di svariati milioni di euro per anno, è chiaro che non sono degli sfruttati. Lo stesso vale per gli alti funzionari.
Ciò suppone ugualmente non avere una funzione nella difesa del capitalismo contro la classe operaia: i preti o i poliziotti non sono proprietari dei loro mezzi di produzione (la chiesa o il manganello), essi sono dei salariati. Tuttavia, essi non hanno un ruolo di produttori di ricchezze ma di difensori dei privilegi degli sfruttatori e di mantenimento dell’ordine esistente.
Bisogna essere un manovale per appartenere alla classe operaia?
Assolutamente no! Per diversi motivi:
· Non vi è una separazione netta tra lavoratore manuale e intellettuale: è il cervello che comanda la mano. Alcuni mestieri “manuali” richiedono un apprendimento molto lungo e mobilitano attivamente il pensiero: un ebanista o un chirurgo sono entrambi dei “manuali”.
· D’altra parte, nel movimento operaio, non è stata fatta mai questa separazione: tradizionalmente, i correttori di bozze si consideravano come operai a fianco dei tipografi o degli operai addetti alle rotative. Spesso, essi erano all’avanguardia delle lotte operaie. Ugualmente, non vi è opposizione tra i conduttori di treni e gli “impiegati degli uffici”. Più in generale non c’è separazione tra “operai dalle mani callose” e impiegati.
· In più, a livello di parole, operaio vuol dire che “opera”, che lavora. In inglese operaio si dice “worker”, cioè chi lavora.
Bisogna arricchire direttamente un padrone per appartenere alla classe operaia?
NO! E’ chiaro che un operaio che lavora all’interno di un ospedale appartiene alla classe operaia. Ma è anche il caso di un infermiere che cura dei malati. Di fatto, questa partecipa a mantenere la forza lavoro che serve ad arricchire il capitalismo.
La stessa cosa vale per una istitutrice che partecipa alla formazione della forza lavoro che, più tardi, entrerà nel processo produttivo.
Ancora, un disoccupato (che momentaneamente non lavora) o un pensionato (vecchio produttore salariato e sfruttato) appartengono alla classe operaia non per la loro collocazione immediata nel processo produttivo ma per il posto da loro occupato nella società.
Conclusioni
Le lotte che possono condurre contro lo sfruttamento gli operai dell’industria, i ferrovieri, gli insegnanti, gli infermieri, gli impiegati di banca, i funzionari mal pagati, i disoccupati, ecc. ma anche gli studenti che entrano in queste professioni appartengono tutti alla lotta generale contro il capitalismo. Sono le lotte di resistenza contro gli attacchi sempre più brutali che questo sistema porta contro quelli che sfrutta. Sono anche delle lotte che preparano lo scontro generale e internazionale contro questo sistema in vista del suo rovesciamento.
Esattamente 40 anni fa, il 22 marzo 1968, cominciò a Nanterre, nel sobborgo ovest di Parigi, uno dei maggiori episodi della storia internazionale dalla fine della Seconda Guerra mondiale: quello che i media e i politici usano chiamare gli “avvenimenti del 68”. Di per se i fatti che accaddero in quel giorno non avevano niente di eccezionale: per protestare contro l’arresto di uno studente di estrema sinistra di Nanterre, sospettato di avere partecipato ad un attentato contro l’American Express a Parigi mentre si svolgevano violente dimostrazioni contro la guerra del Vietnam, 300 dei suoi compagni tennero un comizio in un anfiteatro e 142 fra loro decisero di occupare durante la notte la sala del Consiglio di Università, nell’edificio dell’amministrazione. Non era la prima volta che gli studenti di Nanterre manifestavano il proprio malcontento. Giusto un anno prima c’era stato in questa università un braccio di ferro tra studenti e forze di polizia sulla libera circolazione nella residenza accademica libera per le ragazze, ma interdetta ai ragazzi. Il 16 marzo 1967, un’associazione di 500 residenti, l’ARCUN decretò l’abolizione del regolamento interno che, fra l’altro, considerava gli studenti, anche quelli maggiorenni (più di 21 anni a quell’epoca), come minorenni. In risposta, il 21 marzo 1967, la polizia circondava su richiesta dell’amministrazione la residenza delle ragazze col proposito di arrestare i 150 ragazzi che si trovavano all’interno, barricati all’ultimo piano dell’edificio. Ma la mattina seguente gli stessi poliziotti si trovarono circondati da molte migliaia di studenti ed alla fine ricevettero l’ordine di lasciar uscire gli studenti barricati senza importunarli. Quest’incidente comunque, come altre dimostrazioni di rabbia degli studenti, in particolare contro il “piano Fouchet” di riforma universitaria nell'autunno 1967, non ebbe alcuno seguito. Non fu così invece dopo il 22 marzo 1968. In poche settimane, un susseguirsi di avvenimenti avrebbe portato non solo alla più forte mobilitazione studentesca dalla fine dalla guerra, ma soprattutto il più grande sciopero della storia del movimento operaio internazionale: più di 9 milioni di lavoratori entrarono in sciopero per circa un mese.
Per i comunisti, contrariamente alla maggior parte dei discorsi che già cominciano a propinarci, non fu l’agitazione studentesca, per quanto massiccia e “radicale” sia stata, a costituire la maggiore espressione degli “avvenimenti del 68” in Francia. Fu proprio lo sciopero operaio che occupò, e di gran lunga, questo posto rivestendo un significato storico considerevole. Tratteremo questa questione in altri articoli. Questo si limiterà ad esaminare le lotte studentesche di quest’epoca, in particolare, evidentemente, per coglierne il significato. (Gli altri articoli saranno pubblicati sul nostro sito web).
Dal 22 marzo al 13 maggio 1968
I 142 studenti che occupavano la sala del Consiglio, prima di uscire, decisero di costituire il Movimento 22 marzo (M22) allo scopo di tenere in piedi e sviluppare l’agitazione. Si trattava di un movimento informale, composto all’inizio da trozkisti della Lega Comunista rivoluzionaria (LCR) e da anarchici (tra i quali Daniel Cohn-Bendit), raggiunti a fine aprile dai maoisti dell’Unione dei giovani comunisti marxisti-leninisti (UJCML) e che, nelle settimane seguenti, contò più di 1200 partecipanti. I muri dell’università si coprirono di manifesti e di graffiti: “Professori, voi siete vecchi ed anche la vostra cultura”, “Lasciateci vivere”, “Prendete i vostri desideri per realtà”. L’M22 annunciò per il 29 marzo una giornata di “università critica” sulla scia delle azioni degli studenti tedeschi. Il preside decise di chiudere l’università fino al 1°aprile ma l’agitazione riprese fin dalla sua riapertura. Davanti a 1.000 studenti, Cohn-Bendit dichiarò: “Noi rifiutiamo di essere i futuri quadri dello sfruttamento capitalistico”. La maggior parte degli insegnanti reagì in modo conservatore: il 22 aprile 18 di loro, tra cui alcuni di “sinistra”, reclamarono “misure e mezzi per smascherare e punire gli agitatori”. Il preside adottò tutta una serie di misure repressive, in particolare la libera circolazione della polizia nel campus, mentre la stampa si sguinzagliava contro gli “arrabbiati”, i “gruppuscoli” e gli “anarchici”. Il Partito “comunista” francese (PCF) seguiva a ruota: il 26 aprile Pierre Juquin, membro del Comitato centrale, venne a fare un comizio a Nanterre: “Gli agitatori figli di papà impediscono ai figli dei lavoratori di sostenere i loro esami”. Dovette scappare via ancor prima di terminare il suo discorso. Sull’Humanité del 3 maggio, Georges Marchais, numero due del PCF, si scatenò a sua svolta: “Questi falsi rivoluzionari devono essere energicamente smascherati perché obiettivamente essi servono gli interessi del potere gollista e dei grandi monopoli capitalistici”.
Nel campus di Nanterre i tafferugli diventavano sempre più frequenti tra gli studenti di estrema sinistra ed i gruppi fascisti venuti a Parigi per “dare addosso al bolscevico”. Di fronte a questa situazione, il 2 maggio il preside decise di chiudere ancora una volta l’università che veniva intanto accerchiata dalla polizia. Il giorno seguente gli studenti di Nanterre decisero di tenere un meeting nel cortile della Sorbona per protestare contro la chiusura della loro università e contro l’invio al consiglio di disciplina di 8 membri di M22 tra cui Cohn-Bendit.
La riunione raggruppò solamente 300 partecipanti: la maggior parte degli studenti era impegnata attivamente a preparare gli esami di fine d’anno. Tuttavia il governo, che voleva farla finita con l’agitazione, decise di portare a segno un grande tiro facendo occupare il Quartiere latino e circondare la Sorbona dalle forze di polizia che penetrarono in quest'ultima, cosa che non accadeva da secoli. Gli studenti che erano rinchiusi nella Sorbona ottennero l’assicurazione che uscendo non sarebbero stati toccati; ma, se le ragazze poterono allontanarsi liberamente, i ragazzi invece, appena varcarono il portone, furono rinchiusi sistematicamente nei cellulari. Rapidamente, centinaia di studenti si raggrupparono sulla piazza della Sorbona ed insultarono i poliziotti. Cominciarono a piovere bombe lacrimogene: la piazza venne sgomberata ma gli studenti, sempre più numerosi, cominciarono allora ad assalire gruppi di poliziotti ed i loro automezzi. Gli scontri continuarono in serata per ancora 4 ore: vennero feriti 72 poliziotti e fermati 400 dimostranti. I giorni seguenti, le forze di polizia accerchiarono completamente i dintorni della Sorbona mentre 4 studenti vennero condannati e chiusi in prigione. Questa politica di fermezza, piuttosto che ridurre al silenzio l’agitazione, le fa acquistare al contrario un carattere di massa. A partire da lunedì 6 maggio scontri con le forze di polizia incominciarono a svilupparsi intorno alla Sorbona avvicendandosi con dimostrazioni sempre più seguite, indette dal M22, l’UNEF ed il SNESup (sindacato degli insegnanti delle Superiori) e raggruppando fino a 45.000 partecipanti al grido di “la Sorbona agli studenti”, “fuori i poliziotti dal Quartiere latino” e soprattutto “liberate i nostri compagni”. Agli studenti universitari si associarono un numero crescente di studenti liceali, insegnanti, operai e disoccupati. Il 7 Maggio i cortei oltrepassarono la Senna di sorpresa e percorsero i Campi Elisi, a due passi dal palazzo presidenziale. Si sentì riecheggiare l’Internazionale sotto l’Arco di Trionfo, là dove si sentiva, di solito, la Marsigliese o le Campane a morto. Le manifestazioni si estesero anche in alcune città di provincia. Il governo volle dare un segnale di buona volontà riaprendo l’università di Nanterre il 10 maggio. Nella serata dello stesso giorno decine di migliaia di manifestanti si ritrovarono nel Quartiere latino di fronte alle forze di polizia che accerchiavano la Sorbona. Alle ore 21 alcuni manifestanti cominciarono ad erigere delle barricate (approssimativamente una sessantina). A mezzanotte, una delegazione di 3 insegnanti e 3 studenti (tra cui Cohn-Bendit) venne ricevuta dal rettore dell’accademia di Parigi ma quest’ultimo, se accettò la riapertura della Sorbona, non poté promettere niente sulla scarcerazione degli studenti arrestati il 3 maggio. Alle 2 di mattina i CRS andarono all’assalto delle barricate dopo averle copiosamente infestate di gas lacrimogeni. Gli scontri furono di una violenza estrema provocando centinaia di feriti da entrambe le parti. Vennero fermati circa 500 dimostranti. Nel Quartiere latino molti abitanti mostrarono solidarietà ai manifestanti accogliendoli nelle loro case e gettando acqua in strada per proteggerli dai gas lacrimogeni e dalle granate. Tutti questi avvenimenti, ed in particolare le testimonianze sulla brutalità delle forze di repressione, venivano seguiti alla radio minuto per minuto da centinaia di migliaia di persone. Alle 6 di mattina “l’ordine regnava” al Quartiere latino che appariva come devastato da un tornado.
Il sabato 11 maggio l’indignazione a Parigi e nell’intera Francia era immensa. Cortei spontanei si formarono un po’ ovunque, raggruppando non solo studenti ma centinaia di migliaia di dimostranti di tutte le origini, principalmente molti giovani operai o genitori di studenti. In provincia numerose università furono occupate; dappertutto nelle strade, sulle piazze si discuteva e si condannava il comportamento delle forze di repressione.
Di fronte a questa situazione il Primo ministro, Georges Pompidou, annunciò in serata che dal lunedì 13 maggio le forze di polizia sarebbero state ritirate dal Quartiere latino, la Sorbona riaperta e liberati gli studenti arrestati.
Lo stesso giorno tutte le centrali sindacali, inclusa la CGT (che fino a quel momento aveva denunciato gli studenti come “estremisti”) ed il sindacato dei poliziotti, indissero per il 13 maggio uno sciopero ed una manifestazione per protestare contro la repressione e contro la politica del governo.
Il 13 maggio tutte le città del paese videro le più importanti manifestazioni dalla fine della Seconda Guerra mondiale. La classe operaia era presente massicciamente affianco agli studenti. Una delle parole d’ordine più gridata era “Dieci anni, ora basta!” in riferimento alla data del 13 maggio 1958 che aveva visto il ritorno di De Gaulle al potere. Alle fine delle manifestazioni, praticamente tutte università erano occupate dagli studenti ma anche da molti giovani operai. Dappertutto si parlava liberamente. Le discussioni non si limitavano alle questioni universitarie, alla repressione. Si cominciava a discutere di tutti i problemi sociali: le condizioni di lavoro, lo sfruttamento, il futuro della società.
Il giorno seguente le discussioni continuavano in molte fabbriche. Dopo le immense manifestazioni, con l’entusiasmo ed il sentimento di forza acquisiti era difficile riprendere il lavoro come se niente fosse successo. A Nantes gli operai della Sud-Aviation, trascinati dai più giovani, fecero uno sciopero spontaneo e decisero di occupare la fabbrica. La classe operaia cominciava a muoversi.
Il movimento studentesco nel mondo
Alla luce del susseguirsi degli avvenimenti che determinarono l’immensa mobilitazione del 13 maggio 1968, è chiaro che non è stata tanto l’azione degli studenti a determinarne l’ampiezza, ma piuttosto il comportamento delle stesse autorità che continuamente avevano buttato benzina sul fuoco prima di battere miseramente in ritirata. In effetti, le lotte studentesche in Francia, prima della scalata del maggio 68, erano state meno massicce o profonde rispetto alle numerose lotte negli altri paesi, in particolare negli Stati Uniti ed in Germania.
Fu nella prima potenza mondiale che nacquero, a partire dal 1964 i più massicci e significativi movimenti di quel periodo. Più precisamente fu all’università di Berkeley, nel nord della California che la contestazione studentesca prese, per la prima volta, un carattere di massa. La rivendicazione che, per prima, mobilitò gli studenti fu quella del “free speech movement” (movimento per la libertà di parola) in favore della libertà d’espressione politica (principalmente contro la guerra del Vietnam e contro la segregazione razziale) all’interno dell’università. In un primo tempo le autorità reagirono in modo estremamente repressivo, in particolare con la spedizione delle forze di polizia contro il “sit-in” (l'occupazione pacifica dei locali) facendo 800 arresti. Alla fine, a partire dal 1965, le autorità universitarie autorizzarono le attività politiche nell’università che intanto diventava uno dei principali centri della contestazione studentesca degli Stati Uniti, mentre fu principalmente con lo slogan pubblicitario “eliminare il disordine a Berkeley” che, contro ogni aspettativa, Ronald Reagan veniva eletto governatore della California a fine 1965. Il movimento si sviluppò massicciamente andando negli anni seguenti a radicalizzarsi attorno alla protesta contro la segregazione razziale, per la difesa dei diritti delle donne e specialmente contro la guerra del Vietnam. Mentre i giovani americani, specialmente gli studenti, fuggivano all’estero per evitare di essere spediti in Vietnam, la maggior parte delle università del paese furono centri di massicci movimenti contro la guerra; intanto si sviluppavano delle insurrezioni nei ghetti neri delle grandi città (la proporzione dei giovani neri fra i soldati spediti in Vietnam era molto superiore alla media nazionale). Dal 23 al 30 aprile 1968 l’università di Columbia, a New York, venne occupata per protesta contro il contributo dei suoi dipartimenti alle attività del Pentagono e in solidarietà con gli abitanti del vicino ghetto nero di Harlem. Fu una delle più alte espressioni della contestazione studentesca negli Stati Uniti che stava per conoscere uno dei suoi momenti più violenti a fine agosto a Chicago, con vere insurrezioni, durante la Convention del Partito democratico.
In questo stesso periodo molti altri paesi erano interessati da rivolte studentesche:
Giappone: a partire dal 1965 gli studenti dimostrarono contro la guerra del Vietnam, in particolare sotto la guida dello Zengakuren (?) che organizzava temibili scontri con la polizia. Nel ‘68 lanciarono la parola di ordine: “trasformiamo il Kanda [distretto accademico di Tokio] in Quartiere latino”.
Gran Bretagna: l’effervescenza cominciò fin dalla fine del 1967 nella rispettabilissima “London School of Economics”, una Mecca del pensiero economico borghese, dove gli studenti protestarono contro la nomina a presidente di un personaggio noto per i suoi legami coi regimi razzisti della Rodesia e del Sud Africa. Essa continuò fino all’inizio del ‘68 con manifestazioni di massa contro l’ambasciata degli Stati Uniti, mentre altre università del paese venivano coinvolte, in particolare Cambridge. Vi furono centinaia di feriti ed arresti.
Italia: gli studenti si mobilitarono a marzo in numerose università, e principalmente a Roma, contro la guerra del Vietnam e contro la politica delle autorità accademiche.
Spagna: sempre a marzo l’università di Madrid venne chiusa “indefinitamente” a causa dell’agitazione studentessa contro la guerra del Vietnam ed il regime franchista.
Germania: già dal 1967 si era sviluppata l’agitazione studentesca contro la guerra del Vietnam e si accresce l’influenza del movimento di estrema sinistra SDS, nato da una scissione della gioventù socialdemocratica; il movimento poi si radicalizzò e prese un carattere di massa con l’attentato a Berlino contro il principale leader di estrema sinistra, Rudi Dutschke, commesso da un giovane esaltato, notoriamente influenzato dalle campagne isteriche scatenate dalla stampa del magnate Axel Springer. Per molte settimane, prima che lo sguardo venisse rivolto verso la Francia, il movimento studentesco in Germania confermò il suo ruolo di referente per l’insieme dei movimenti che interessarono la maggior parte dei paesi europei.
Questa lista evidentemente è lungi dall’essere esaustiva. Anche molti paesi della periferia del capitalismo vennero interessati da movimenti studenteschi durante il 1968 (come il Brasile o la Turchia tra molti altri). E’ importante tuttavia ricordare quello che si sviluppò in Messico alla fine dell’estate e che il governo decise di schiacciare nel sangue (decine o addirittura centinaia di morti, il 2 ottobre in piazza delle Tre-Culture - Tlatelolco- a Città del Mexico) per permettere ai Giochi olimpici di avere luogo dal 12 ottobre “nella calma”.
Quello che caratterizzò l’insieme di questi movimenti, evidentemente fu, soprattutto, il rigetto della guerra del Vietnam. E bisogna anche aggiungere che in questo caso i partiti stalinisti non si trovarono alla loro testa come era logico che fosse essendo alleati dei regimi di Hanoi e Mosca, e come era capitato con i movimenti contro la guerra in Corea all’inizio degli anni 1950. Al contrario, questi partiti non solo non hanno avuto praticamente alcuna influenza ma spesso sono stati in netta opposizione contro questi movimenti.
Fu questa una delle caratteristiche dei movimenti studenteschi della fine degli anni ‘60 rivelando il significato profondo da loro ricoperto, e che noi esamineremo in un prossimo articolo.
Fabienne
L’inflazione crescente rende i bisogni basilari sempre più fuori dalla portata di una grossa parte dell’umanità. Il segretario dell’ONU Ban Ki-moon afferma che, “il drammatico aumento dei prezzi del cibo nel mondo è diventato una sfida di proporzioni globali”. Con il prezzo del riso aumentato del 74% in un anno (217% in due anni), il grano del 130% (136%), il mais del 31% (125%) e la soia dell’87% (107%), la maggior parte della popolazione mondiale è ridotta a vivere di stenti. Negli 82 paesi più poveri, dove dal 60 al 90% del budget delle famiglie è speso in cibo, questo aumento dei prezzi significa che molte persone soffriranno la fame, e moriranno. Già adesso 100.000 persone muoiono ogni giorno di fame nel mondo.
Oltre alle statistiche esistono altre prove della crescente fame nel mondo. Rivolte, dimostrazioni e scioperi per il cibo si succedono in Africa (Burkina Faso, Camerun, Costa d’Avorio, Egitto, Etiopia, Guinea, Madagascar, Mauritania, Marocco e Senegal), in Asia (Bangladesh, Indonesia, Pakistan, Filippine, Tailandia, Uzbekistan, Vietnam e Yemen) e nelle Americhe (Bolivia, Brasile, Haiti, Messico e Perù.)
Nel novembre scorso il governo degli Stati Uniti ha stimato che, nel 2008, 28 milioni di persone sarebbero rientrate nel programma di food stamp (1). La stima è stata rivista a gennaio perché le richieste erano già arrivate a 27,7 milioni, e si noti che solo il 65% dei possibili candidati ne avevano fatto richiesta. È vero che la situazione negli Usa non è la stessa dei paesi più devastati, ma se si pensa che dietro il food stamp esiste una rete di 200 banche del cibo regionali, circa 30.000 chiese e mense per poveri, allora si capisce cosa è la “prosperità” americana.
Molte spiegazioni, ma nessuna soluzione
Il capo del Programma Alimentare Mondiale dell’ONU, descrivendo la crisi come uno “tsunami silenzioso” che minaccia di lasciare più di 100 milioni di persone affamate, dice “Questa è la nuova faccia della fame – i milioni di persone che sei mesi fa non rientravano nella categoria degli affamati urgenti adesso ci rientrano”. Ammessa la crisi, la borghesia cerca di darne varie spiegazioni e suggerisce qualche miglioramento. La FAO punta il dito sui bassi livelli degli stock mondiali a seguito di raccolti sotto la media, su colture fallimentari, sulla crescente richiesta di sussidi per i cereali che producono biocarburanti, sui bassi livelli di produzione dei paesi dell’OCSE, sulla crescente domanda da paesi come India e Cina; e infine sui cambiamenti climatici.
“Paesi confrontati ad un’eccezionale insufficienza nel rapporto produzione/distribuzione come risultato di colture fallite, disastri naturali, blocco delle importazioni, sospensione della distribuzione, eccessive perdite nei raccolti, o altri tipi di interruzioni nelle forniture.
Paesi con una diffusa carenza di accesso, dove la maggior parte della popolazione è incapace di acquistare alimenti nei mercati locali, a causa di stipendi molto bassi, dei prezzi eccezionalmente alti dei generi alimentari, e dell’impossibilità di questi di circolare all’interno del paese.
Paesi con una seria insicurezza alimentare localizzata, dovuta alla presenza di rifugiati, alla concentrazione di persone senza abitazione, o aree in cui ai cattivi raccolti si combina la povertà pregressa.”
Se si cerca tra i fattori che minano la possibilità di una agricoltura sostenibile, è chiaro che la guerra ne influenza numerosi. Gli embarghi, il blocco della distribuzione e della circolazione interna, l’esodo o il continuo spostamento delle popolazioni da un posto ad un altro sono la conseguenza di conflitti passati o in corso. E questo crea un circolo vizioso. Quando il capo del FMI metteva in guardia sull’inedia totale e sulle terribili conseguenze se i prezzi degli alimenti fossero continuati a salire, disse: “come sappiamo, come abbiamo imparato dal passato, questo tipo di questioni a volte sfociano in una guerra.” Le guerre sono dei fattori che favoriscono la crisi alimentare, che a sua volta aumenta il rischio di guerra.
Non ci sorprende che la FAO parli di “crisi” e di “assistenza esterna”. Essa può pensare solo in termini di risposte alle emergenze immediate, ad azioni a breve termine per un problema che nel capitalismo non ha nessuna soluzione di lungo termine. Può solo concepire “aiuti esterni” perché, nell’anarchia della produzione capitalistica, i paesi poveri non hanno nessuna possibilità di uscire dalla loro attuale situazione, e contano sugli aiuti che i paesi ricchi gli inviano per sopravvivere.
Quando organizzazioni come la FAO, il FMI, la Banca Mondiale, il WTO ecc., si incontrano per parlare della crisi alimentare, riescono solo a proporre varie forme di aiuto, sussidi e prestiti. Ci sono a volte campagne per modificare qualche modello di produzione, ma questi possono solo avere effetti minimi sulla situazione complessiva. Il 2008, per esempio, è stato dichiarato l’anno internazionale della patata. La FAO enfatizza le qualità nutrizionali della patata e come questa sia stata trascurata quale potenziale risorsa di reddito. Ma nessun diversivo di questo tipo può risolvere il problema alla base, tanto meno i cosiddetti modelli di commercio “equo e solidale”, che comunque lasciano in piedi lo sfruttamento.
La realtà è che l’aumento dei prezzi degli alimenti, così come quello dei carburanti, non è altro che un diretto prodotto della crisi economica internazionale. Non è all’interno del capitalismo che si possono trovare gli strumenti per affrontare e risolvere la crisi alimentare , perché è il capitalismo stesso che la genera. Per questo non possiamo credere a nessuna soluzione che lasci intatte le regole del capitalismo. Questo sistema deve essere smantellato a livello mondiale e sostituito con un altro sistema di produzione nel quale il cibo e tutti gli altri beni necessari alla vita siano prodotti e distribuiti sulla base delle esigenze degli uomini, senza denaro né profitto.
Al summit sull’alimentazione di Berna, Ban Ki-moon metteva in guardia sullo “spettro della fame diffusa, sulla malnutrizione e sul malcontento sociale ad un livello senza precedenti.”
È lo spettro di una lotta di classe in crescita che disturba la classe dominante.
Car, 29/4/08
(da World Revolution n.314, pubblicazione della CCI in Gran Bretagna)
1. Il Food Stamp Program, organizzato dal Dipartimento dell’agricoltura degli Stati Uniti, aiuta le persone senza reddito o con un reddito basso ad acquistare alimenti aventi valore nutritivo. I buoni alimentari non sono contanti. Si tratta di una carta elettronica utilizzabile come una carta di credito per acquistare viveri.
Sono ormai passati due mesi pieni dalle elezioni politiche 2008 che hanno decretato l’espulsione dal parlamento italiano di qualunque rappresentanza di partiti di “sinistra borghese” (verdi, Rifondazione, ecc.) ed è venuto il momento di fare un bilancio “a freddo”, una volta digerito almeno in parte il clamore dell’evento.
Nell’editoriale dello scorso numero del giornale mettevamo in evidenza che “… dal punto di vista psicologico questo fatto ha scosso molta gente. Subito dopo le elezioni c’erano tanti che si domandavano: “e adesso …?”. Altre persone, più o meno “di sinistra”, invece si interrogavano sull’accaduto e se la prendevano “con gli altri”, quelli che si erano astenuti o che avevano votato a destra, se le cose erano andate in un certo modo.”
Nello stesso articolo facevamo inoltre la previsione che “il ruolo di falsa opposizione che la sinistra ha finora giocato in parlamento sarà espresso d’ora in poi nelle piazze, tanto più che adesso al governo ci sta un Berlusconi contro il quale si può dire quello che si vuole perché sembra fatto apposta per lasciare sfogare liberamente i proletari.” In questo articolo ci proponiamo di esaminare come è evoluta la situazione.
1. Il governo Berlusconi mostra i muscoli
Dalle prime mosse del 4° governo Berlusconi si è percepita un’atmosfera nuova, quella impressa da un governo di destra convinto e deciso ad essere tale. Le prime dichiarazioni lo avevano annunciato e le misure prese rispetto all’utilizzo dei militari per fare fronte alla questione sicurezza, all’introduzione del reato di clandestinità per contrastare l’immigrazione clandestina e la totale militarizzazione degli impianti di discarica come deterrente contro le proteste sociali lo hanno pienamente confermato. E’ chiaro che Berlusconi ha fatto carriera, ha imparato il mestiere, ma soprattutto la schiacciante vittoria sulla pallida sinistra gli permette di non esitare più negli affondi contro la classe operaia. Naturalmente Berlusconi è sempre Berlusconi e non smette di curare i suoi affari personali, come dimostrato dall’emendamento che ha tirato fuori dal cappello e costruito completamente ad personam per bloccare tutta una serie di processi, compresi guarda caso quelli contro di lui. Sintomatico di questo atteggiamento nuovo è il piano finanziario presentato di recente da Tremonti in cui, di tutti i problemi relativi al potere di acquisto delle famiglie e dei redditi che erano stati sbandierati durante la campagna elettorale non se ne parla più, mentre invece viene varata una manovra di ben 34,8 miliardi di euro, con 24 di tagli agli enti locali e 6 alla sanità e improntata a “meno costi, più libertà e più sviluppo”, come cita lo slogan del Ministro. Ma meno costi significa licenziare, ed ecco che il ministro Brunetta è pronto a puntare il dito sui cosiddetti fannulloni del pubblico impiego meritevoli di un più facile licenziamento. Così, nella sola scuola, sono già programmati 100.000 licenziamenti. Non è un caso che sempre Tremonti abbia detto: “Prima lo sviluppo poi potremo redistribuire la ricchezza. Se lo sviluppo funziona e c’è un aumento di ricchezza, questa sarà poi oggetto di una politica di equa divisione” (1). Ci vuole un bel cinismo a chiedere alla povera gente che non arriva alla quarta settimana del mese con lo stipendio di fame che riceve di continuare ad aspettare, sotto la pressione ideologica che ti fa apparire un fannullone o un parassita se protesti, ed è oltretutto vergognoso parlare di una “politica di equa divisione” di una ricchezza prodotta che è invece tutto frutto del sudore della fronte dei lavoratori e che arriva in quote percentualmente sempre più basse nelle tasche di chi lavora. Ma Berlusconi ha anche il tempo e l’ardire di fare il populista, cancellando l’ICI sulla prima casa, parlando (ma solo parlando) di eliminazione dei ticket sui medicinali, varando la Robin tax, che crea una maggiore tassazione di società petrolifere, banche e assicurazioni per togliere ai ricchi e dare ai poveri. Il fine dichiarato è quello di finanziare una carta prepagata da 400 euro che arriverà a un milione e duecentomila pensionati con mensili minimi e utilizzabile per cibo e utenze (2). E gli altri 4 milioni di poveri chi li sostiene? E tutte le famiglie ai margini dell’indigenza? Naturalmente a questi quesiti non ci sono risposte perché, il governo Berlusconi, come pure il precedente governo di “centro-sinistra” Prodi, è del tutto incapace di dare una qualsivoglia prospettiva alla gente.
2. Le reazioni nella classe operaia e i tentativi di recupero della “sinistra borghese”
La situazione che si vive nella classe operaia in Italia in questo momento è particolarmente importante. Infatti si sovrappongono sentimenti diversi, dallo scontento accumulato per le condizioni difficili in cui vive alla sfiducia crescente in questo o quel governo a risolvere a fondo le questioni. Come già detto nel precedente articolo (3) lo stesso contributo al voto di destra – in particolare alla Lega - attribuibile a settori di classe operaia è stato esso stesso espressione della perdita delle illusioni per i partiti sedicenti operai, anche se nell’immediato questo non si traduce in coscienza positiva di una alternativa di classe. Di fatto la situazione attuale vede nel proletariato in Italia un certo stordimento dovuto al fatto che, dopo una lunga sofferenza per una crisi di identificazione in una sinistra in cui tendeva a credere sempre di meno, vede che questa sinistra adesso viene profondamente punita e umiliata dai risultati elettorali. Questo evidentemente non può che dare i capogiri alla classe operaia perché, se è vero che il discredito di questa sinistra è forte, è anche vero che trovarsi da un momento all’altro senza alcuna rappresentanza di sinistra nel parlamento, oltre che nel governo, è qualcosa che non si era mai visto. E’ in questo contesto difficile e promettente al tempo stesso che si avanzano i tentativi della sinistra borghese per rifarsi una verginità e ridarsi una dignità. In queste ultime settimane infatti abbiamo assistito ad una serie incredibile di iniziative e di appelli da parte di tutte le possibili sfumature della sinistra borghese che tutte hanno toccato un tasto a cui sono molto sensibili in questo momento i proletari: ricominciare da capo sulla base dei nostri interessi, ritrovando l’unità e l’identità dei comunisti. Di questa lunga serie di iniziative abbiamo selezionato solo alcune delle più significative:
· l’intervento di Bertinotti che, con “Le ragioni di una sconfitta” (4), se la prende con “L'esperienza del governo Prodi (…) che ha fatto traboccare il vaso della crisi della sinistra. Esso ha pesato persino più di quanto si fosse pure diffusamente pensato a sinistra”, pur non lesinando qualche bordata ai compagni di viaggio: “A questo risultato ha certo concorso la sua disarticolazione interna, la sua divisione in partiti con culture di governo e di lotta assai diverse tra loro” per quindi riproporre un soggetto unico della sinistra;
· l’appello di Diliberto “Comuniste e comunisti cominciamo da noi” (5) in cui si dà la responsabilità a “l’emergere in settori dell’Arcobaleno di una prospettiva di liquidazione dell’autonomia politica, teorica e organizzativa dei comunisti in una nuova formazione non comunista, non anti-capitalista, orientata verso posizioni e culture neo-riformiste”, si prendono le distanze da “l’idea del soggetto unico della sinistra di cui alcuni chiedono ostinatamente una “accelerazione”, nonostante il fallimento politico elettorale” per quindi rivolgere un appello “ai militanti e ai dirigenti di Rifondazione, del PdCI, di altre associazioni o reti, e alle centinaia di migliaia di comuniste/i senza tessera che in questi anni hanno contribuito nei movimenti e nelle lotte a porre le basi di una società alternativa al capitalismo, perché non si liquidino le espressioni organizzate dei comunisti ed anzi si avvii un processo aperto e innovativo, volto alla costruzione di una “casa comune dei comunisti”;
· il Coordinamento dei Comunisti, che ha poi dato luogo al Movimento per la Costituente Comunista (6), secondo il quale le elezioni hanno “confermato il disconoscimento da parte dei lavoratori e delle lavoratrici dei partiti della sedicente Sinistra Radicale. (…) Il PRC, il PdCI, i Verdi hanno dimostrato la propria incapacità a difendere gli interessi degli sfruttati (…).” Per poi proporre alla fine “un processo unitario di costruzione di una Costituente Comunista indipendente a livello locale e nazionale, fuori e contro il bipolarismo”.
· La Costituente dei Comunisti Rivoluzionari (7), a sua volta, riconosce che alcuni (tra loro) avevano creduto che fosse possibile esercitare una pressione sul governo Prodi. “Ma la pressione di Rifondazione e PdCI – se c’è stata – non ha portato ad alcun effetto e viceversa abbiamo pagato la presenza al governo con la rinuncia a costruire lotte contro il governo che sostenevamo. (…) C’è chi, come Bertinotti e Vendola, propone una “costituente della sinistra” che superi il comunismo e dia vita, nei fatti, ad una forza socialista. C’è chi, come Ferrero e Grassi, propone di rilanciare Rifondazione Comunista. C’è chi, come Diliberto e Giannini, propone una “costituente dei comunisti”. Si tratta di proposte diverse ma accomunate da uno stesso riferimento di fondo: l’idea che si debba, prima o poi, tornare a governare con la borghesia “progressista”, col PD di Veltroni e D’Alema, nazionalmente come nelle giunte locali. (…) Noi (diciamo invece) mai più al governo!”
Questa miriade di costituenti, comitati e coordinamenti, che vengono fuori tutti da quella stessa Rifondazione e da quello stesso PdCI che adesso tutti criticano, somigliano tanto ai topi che fuggono dalla nave che affonda e che fino a qualche minuto prima aveva costituito il loro riparo sicuro. Ha ragione un lettore che, leggendo uno di questi appelli, si è così espresso:
“Tutti fanno appelli all’unità ma ognuno vorrebbe che gli altri si riunissero sotto la propria iniziativa già bella e confezionata. Dire che la storia ha azzerato i gruppi dirigenti sconfitti di PRC e PdCI è una pia illusione. Dite che “non pensiamo affatto di poter essere autosufficienti” ma poi nemmeno voi fate niente di concreto per confrontarvi sul serio con gli altri. Tutti fanno appelli, tutti invocano l’unità, ma nessuno risponde a nessuno ed urliamo tutti nel deserto…” (8).
Di fatto tutta questa frenesia della sinistra si spiega in un solo modo: cercare di spostarsi a sinistra, su un piano di maggiore demarcazione dai presunti responsabili dello sfascio, per cercare di recuperare un controllo sulla classe operaia. Ma, benché confusa, nella classe emergono con sempre maggiore insistenza e chiarezza delle espressioni di condanna per questa sinistra e la convinzione che si debba ricominciare su tutt’altra base:
“Forse potranno riavere qualche seggio ma essi sono fuori dai sentimenti profondi della parte più sensibile del giovane proletariato, giudicati quali spregevoli eunuchi del riformismo alla rovescia, scarti buoni solo per il bidone della spazzatura della storia.” (P., 26 maggio 2008) (9).
“Non sopporto questo sistema, non mi identifico con nessuno che pretende di rappresentami, perché in realtà nessuno mi rappresenta. Dietro i sorrisi, la musichetta anni '80, l’ostentato ottimismo c’è tanta paura, precarietà, preoccupazione, depressione, ansia, panico... e chi più ne ha più ne metta.” (S., maggio 2008) (9).
Queste voci nitide di classe che si levano all’interno di una situazione di esitazione e di incertezza, relative soprattutto a capire cosa fare in futuro, non devono essere disperse, non devono cadere nel nulla. Devono viceversa unirsi e fare corpo con quella dei rivoluzionari e partecipare a quel lavoro di chiarificazione e di solidarizzazione all’interno della classe operaia che è così importante per preparare le grandi lotte che si preparano davanti a noi.
Ezechiele, 23 giugno 2008
1. Ticket, fannulloni e card per poveri “Così faremo ripartire l’Italia”, La Repubblica, 19 giugno 2008.
5. www.comunistiuniti.it/2008/04/17/appello/#more-3 [120]
6. www.coordinamento-comunisti.it [121]
7. www.costituenterivoluzionaria.org [122]
8. L’intervento è presente sul sito www.coordinamento-comunisti.it [121]
9. Dalla corrispondenza di nostri lettori e simpatizzanti.
A più di sette mesi dallo scoppio dell’emergenza rifiuti in Campania nulla è stato risolto, anzi la situazione è peggiorata. Tonnellate di spazzatura continuano ad invadere le città campane, 2.500 solo a Napoli, e vanno in putrefazione sotto un sole cocente, un paradiso per ratti e scarafaggi; le settemila tonnellate di false eco balle continuano a troneggiare nelle campagne mentre le vecchie discariche, abusive e non, continuano a disperdere nel terreno chissà quali e quante sostanze nocive.
E cosa ha saputo fare lo Stato? Ben poco e quel poco nel disprezzo assoluto dell’ambiente e della salute della popolazione:
- si è continuato a stipare spazzatura in discariche ormai stracolme come in quella di Pianura;
-sono stati fermati gli impianti di Cdr per metterli a norma in modo da produrre delle vere eco balle, poi il nuovo governo ha deciso che, nel frattempo, questi impianti possono essere anche trasformati in siti di trasferenza, cioè dove viene accumulata la spazzatura in attesa che, in un futuro a venire, vengano trattati. Intanto i lavori per un impianto di compostaggio già in costruzione nella zona di Caserta (impianto da 6 milioni di euro e capace di trattare 30.000 tonnellate al giorno di rifiuto organico) sono stati interrotti perché sotto uno dei due capannoni destinati alla lavorazione dell’umido e sulla piazzola per il deposito del compost ultimato si è deciso di stoccare, non si sa per quanto tempo, una ventina di migliaia di tonnellate di balle. In altre parole, si blocca la realizzazione di strutture necessarie ad una futura gestione idonea dei rifiuti per riuscire a tamponare l’equivalente di appena 3 giorni di consumi campani, perché non si sa dove mettere la spazzatura;
- sono stati creati dei siti di stoccaggio provvisorio sempre nelle aree già altamente a rischio e invece di seguire una procedura a norma, che prevede che i rifiuti vengano prima pretrattati e stabilizzati in modo da renderli inerti e poi depositati fra strati di terreno, le tonnellate di rifiuti sono state ammassate su piattaforme di cemento senza alcuna stabilizzazione e senza essere ricoperti di terreno. Per di più in alcuni siti hanno accumulato tanta di quella spazzatura che il peso (o la base in cemento così mal progettata e realizzata) ha fatto incrinare le piattaforme di cemento per cui il percolato sta andando a finire nel sottosuolo;
- per quanto riguarda la costruzione di nuove discariche, l’esperienza ha ormai dimostrato che quando le discariche vengono approntate in tutta fretta, come ora quella di Chiaiano e di Serre, i lavori vengono fatti male, lo strato di argilla che dovrebbe garantire l’impermeabilizzazione non viene steso bene e questo si traduce nel fatto che alla fine queste discariche perdono, inquinando tutto il sottosuolo;
- è prevista la costruzione di nuovi inceneritori, ma intanto quello di Acerra è fermo. La Fibe, che lo ha gestito fino ad ora, si è fatta i conti in tasca e tra i tanti processi a suo carico e la difficoltà a gestire una situazione come questa, ha preferito tirarsi indietro. Gli altri imprenditori non hanno proprio voluto partecipare alla gara di appalto per questa “patata bollente”;
- in quanto alla raccolta differenziata, veramente non si sa se piangere o ridere di fronte alle grandi pensate del governo: per decenni non si è riusciti a metter su neanche le infrastrutture più elementari per la differenziata a Napoli ed adesso cosa si vuol fare? Sensibilizzare i bambini con tante iniziative nelle scuole e mandare 1.000 volontari della Protezione civile a Napoli (che ha più di 1 milione di abitanti), per due settimane, a fare la differenziata porta a porta! Certo, utilizzare le migliaia e migliaia di disoccupati “locali” che chiedono lavoro, non si può. Bisognerebbe pagarli!
Nonostante le assicurazioni di Berlusconi, le popolazioni campane hanno tutti i motivi per essere preoccupate perché, al di là delle tante chiacchiere che si stanno sentendo, il dato di fatto è che di fronte ad un tale disastro, le cui cause non sono certo né locali né contingenti1, quello che lo Stato riesce a fare è solo mettere delle toppe che nell’immediato danno un po’ di respiro, ma nel complesso non fanno che peggiorare la situazione.
Berlusconi ci assicura che entro luglio le strade saranno liberate dalle tonnellate di spazzatura, ma a quale prezzo? Gettando tutto in maniera indifferenziata nelle discariche, nei siti di stoccaggio provvisori e nello stesso inceneritore di Acerra per tre anni, comprese le sostanze altamente pericolose, sostanze che secondo le normative europee richiedono uno smaltimento speciale per la loro elevata tossicità. Poi magari fra qualche anno scoppierà un nuovo “scandalo” con tanto di statistiche ufficiali sull’aumento in queste zone della mortalità per tumori, delle malformazioni natali, delle malattie ai polmoni ed al fegato.
Oltre al danno anche la repressione e la militarizzazione
In effetti c’è però una cosa che il nuovo governo ha fatto, riscuotendo il consenso di tutta la borghesia: dal capo dello Stato Napolitano che nel suo discorso per l’anniversario del 2 giugno ha detto “basta con le intolleranze, basta con le ribellioni”, al governo ombra della sinistra che ha spinto perché il decreto sull’emergenza rifiuti fosse varato subito senza “perdere tempo con emendamenti”.
Questo governo ha mostrato il pugno di ferro. Cosa che il precedente governo avrebbe potuto fare solo con un ulteriore discredito della sua immagine di governo “di sinistra”.
Il 24 maggio a Chiaiano, la polizia carica ripetutamente con manganelli e lacrimogeni una manifestazione contro la nuova discarica dove c’erano persone anziane, donne, intere famiglie che già da anni subiscono sulla propria pelle le conseguenze del degrado ambientale. Bilancio: una decina di manifestanti finiti in ospedale tra i quali uno con le gambe fratturate perché per le manganellate ricevute sulle mani è caduto da un muro di dieci metri sul quale si era aggrappato. Un altro perché “Pensavo di mettermi in salvo - racconta - avrei voluto dire agli agenti che, se mi avessero sfiorato, mi sarei lanciato nel vuoto. Non ho avuto tempo, mi hanno spinto e sono caduto. Ho un bimbo di due anni, dovrò essere operato. Non potrò lavorare per molto tempo, chi mi ripagherà?” (La Repubblica, 24 maggio); tre persone processate per direttissima e condannate agli arresti domiciliari con l’accusa di partecipazione a episodi di guerriglia con l’aggravante del raid “collettivo”. Padre e figlio carrozzieri ed un ragazzo attivista dei centri sociali.
Commento del neo ministro degli Interni Maroni: “Azioni ingiustificabili le aggressioni alle forze dell’ordine” (La Repubblica , 25 maggio).
Ed oltre alla violenza e l’incriminazione anche la colpevolizzazione: “non bisogna chiudersi in visioni tipo ‘smaltire l’immondizia va bene ma da un’altra parte’. Se tutti dicono così, i rifiuti rimarranno nelle strade e sarà una catastrofe” (Napoletano, citato da La Repubblica, 31 maggio), oppure “…è chiaro che non fa piacere una discarica sul proprio territorio, ma è un principio di democrazia, di equità, che i rifiuti vengano gestiti nel territorio in cui sono prodotti” (Maroni, idem).
Ma non basta. Subito dopo con il nuovo Decreto di legge sull’emergenza rifiuti si sancisce che “I siti, le aree e gli impianti comunque connessi all’attività di gestione dei rifiuti costituiscono aree di interesse strategico nazionale”, cioè questi diventano zone militari. Il che significa non solo che Berlusconi può mandare l’esercito dove gli pare, visto che ormai la Campania è tutta una discarica, ma anche che “chiunque si introduce abusivamente nelle aree di interesse strategico nazionale ovvero impedisce o rende più difficoltoso l’accesso autorizzato alle aree medesime è punito a norma dell’articolo 682 del codice penale”. Tradotto: chiunque osa fare manifestazioni, picchetti o semplicemente sostare non solo davanti alle discariche ma entro un ampio raggio verrà arrestato immediatamente e tenuto in galera da tre mesi a un anno come minimo.
Essendo zone militari la stessa magistratura ha ora meno poteri di controllo e questo, come ci spiega Berlusconi “per evitare che provvedimenti di un singolo magistrato facciano saltare il circuito” (La Repubblica, 31 maggio), cioè il procedere dell’accumulo indiscriminato dei rifiuti.
E naturalmente ci si sbarazza anche delle limitazioni che potrebbero venire da tecnici ed esperti del settore, chiamati fin’ora a fare le valutazioni di impatto ambientale, decretando che da adesso in poi sarà il consiglio di ministri, su proposta del capo del governo, a decidere dove e come smaltire i rifiuti.
Insomma la gestione dei rifiuti diventa un “affare di Stato” in cui neanche gli esponenti locali della stessa classe dirigente, come ad esempio i sindaci, o un suo organismo come la magistratura possono interferire, perché la priorità in questo momento è porre un freno al dilagare dell’immagine di uno Stato inefficiente, di una classe dirigente corrotta e collusa con la camorra. Bisogna a tutti i costi dare una parvenza di ritorno alla normalità, ad un “vivere civile”. Infatti quello che preoccupa di più la borghesia è il fatto che questa sua incapacità a dare una risposta reale alle più basilari esigenze di vita della stragrande maggioranza della popolazione campana possa far generare una riflessione, e non solo a livello locale, sul fatto che se si è costretti a vivere così non è per colpa di questo o quel politico, dell’amministrazione di destra o di quella di sinistra, ma di un sistema che è capace solo di spremerti fino all’osso, di toglierti letteralmente la salute senza ormai riuscire a darti più nulla in cambio.
Se l’impiego della militarizzazione e della repressione rispondono nell’immediato all’esigenza di ridare credibilità alla classe dirigente e ristabilire una certa calma sociale, è vero però che questi alla lunga possono costituire un ulteriore elemento di discredito verso la classe dirigente e di riflessione. E’ significativo infatti che proprio a Chiaiano, dopo le cariche della polizia, i commenti erano del tipo “non solo ci fanno ammalare di cancro, ma ci prendono anche a manganellate e ci mettono in galera” oppure, alla notizia dell’impiego dell’esercito “adesso mandano l’esercito contro di noi, ma perché non lo hanno mandato prima contro la camorra?”. Il pericolo, per la borghesia naturalmente, è che si possa fare il legame tra questo degrado ambientale ed il degrado crescente che siamo costretti a subire sul piano economico e su quello delle condizioni di lavoro.
Un legame che è indispensabile per capire che il problema dei rifiuti è ben più grave e vasto di quello che si sta vivendo in Campania perché la sua origine è la stessa delle morti sul lavoro, della disoccupazione, del precariato, della mancanza di futuro: il sistema economico capitalista, la cui sola legge è quella del profitto2, ed alla quale si sacrifica ciecamente tutto, anche la vita degli esseri umani e di tutto il pianeta.
Eva, 22 giugno 2008
1. Sulle cause dell’Emergenza rifiuti vedi in nostri articoli “Emergenza rifiuti in Campania: di chi è la responsabilità”, CCIonline, it.internationalism.org [99], “Emergenza rifiuti in Campania: un sintomo del degrado del capitalismo” e “L’emergenza rifiuti è solo in Campania: una “zuppa di plastica” nell’oceano Pacifico” in Rivoluzione Internazionale n.154, sempre sul nostro sito.
2. Idem
Mai tanti paesi sono stati toccati simultaneamente da lotte e ciò testimonia la forza e la combattività operaia a scala internazionale. Anche in Italia, dove non ci sono episodi di lotte estese, ci sono state una serie di scioperi, lotte e proteste, in situazioni locali menzionate magari qui e lì in qualche piccolo trafiletto nella stampa o su internet, ma che fanno parte della dinamica alla ripresa dello sconto di classe che si sviluppa nel mondo. Come ad esempio la lotta degli operai della Fiat di Pomigliano D’Arco, vicino Napoli che per più di un mese hanno fatto manifestazioni, picchetti e assemblee davanti ai cancelli della fabbrica per opporsi al “trasferimento” di 316 operai in altra zona, perché giustamente percepito come anticamera al licenziamento, e al licenziamento di uno di loro che “dava fastidio” alla direzione.
In Europa
- Belgio: a marzo, scioperi alla Ford di Genk, alla Posta di Mortsel contro i contratti a tempo, sciopero del trasporto pubblico a Bruxelles e scioperi selvaggi in un gruppo petrolchimico BP e nell’impresa logistica Ceva contro dei licenziamenti.
- Grecia: 3 giorni di sciopero generale di 24 ore all’inizio dell’anno contro la riforma delle pensioni (riduzione delle pensioni dal 30 al 40.%, incitamento a lavorare oltre i 65 anni per gli uomini e 60 anni per le donne, soppressione dell’andata in pensione anticipata)2 e contro la riforma della sicurezza sociale (fusione di fondi, riduzione del numero di fondi assistenza con soppressione dei vantaggi in favore dei lavoratori con attività usurante). Questi scioperi hanno paralizzato le principali attività del paese: trasporto, banche, stazioni, telecomunicazioni, ferrovie, ecc. L’ultimo, il 19 marzo, ha raggruppato milioni di persone nelle strade.
- Irlanda: sciopero di 40.000 infermieri per più di 15 giorni fin da inizio aprile per rivendicare più del 10% di aumento salariale ed una riduzione del tempo di lavoro a 35 ore, mentre i piloti di Aer Lingus lottano contro le loro future condizioni di lavoro con l’apertura di un nuovo terminal a Belfast. Il 4 aprile sciopero selvaggio contro le direttive sindacali di 25 conducenti di autobus a Limerick per chiedere un nuovo contratto salariale.
- Russia: alcune miniere di bauxite sono state occupate da 3.000 lavoratori per più di una settimana. Reclamavano un aumento salariale del 50% ed il riconoscimento di diritti sociali precedentemente soppressi. Questo movimento ha suscitato una viva simpatia nel paese e l’appoggio della popolazione locale. La direzione ha concesso il 20% di aumento salariale ed ha riconosciuto una parte di diritti sociali.
- Svizzera: a Bellinzona (Ticino), un mese di sciopero di 430 operai di reparti meccanici contro la soppressione di 126 impieghi a CFF Cargo che è terminato il 9 aprile con il ritiro del piano di ristrutturazione (dopo la manifestazione del 7, a Berna, dove è stata manifestata la solidarietà di altri lavoratori).
- Turchia: la guerra in Kurdistan non ha impedito uno sciopero massiccio nei cantieri di Tuzla sul mar di Marmara di 43.000 operai. In seguito ad una manifestazione repressa dalla polizia, il 28 febbraio, molte migliaia di operai hanno scioperato per 2 giorni ed il sit-in davanti al cantiere è stato ancora una volta caricato dalla polizia (pestaggi e 75 arresti). “Le nostre vite hanno meno valore dei loro cani” hanno gridato con rabbia gli scioperanti, dimostrando volontà di battersi per la loro dignità! Gli operai non hanno ripreso il lavoro se non dopo la liberazione degli scioperanti arrestati ed dopo aver avuto dalla direzione la promessa di accettare alcune rivendicazioni (miglioramento delle condizioni di igiene e sicurezza, garanzia su contributi sociali e salario, limitazione del lavoro a 7 ore e mezzo al giorno...).
In Africa
- Algeria: 3 giorni di sciopero “illegale” nella funzione pubblica dal 13 aprile (1,5 milioni di salariati) per un aumento del salario di base ed contro una nuova gabbia salariale; il 10 aprile, sciopero di 207 magazzinieri in una fabbrica di cemento ad Hammam Dalaâ nella regione di M'sila con una lista di 17 richieste contro le loro condizioni di lavoro.
- Camerun: molti scioperi a ripetizione tra novembre 2007 e marzo 2008 contro le condizioni di lavoro inumane nei palmeti della Socapalm legati ad un gruppo belga ed al francese Bolloré.
- Swaziland: fine marzo, minaccia di 16.000 operai tessili di mettersi in sciopero per ottenere salari migliori e indennità in questo vecchio “bantustan” (regione autonoma) del Sudafrica.
- Tunisia: 6 e 7 aprile, 30 anni dopo lo sciopero generale e l’esplosione di rabbia del gennaio 1978 nella stessa regione, duramente represso (più di 300 morti), nuova repressione ed ondata di arresti nella zona mineraria del bacino di Gafsa contro operai mobilitati fin da gennaio contro la perdita di lavoro nella regione; sciopero contro le condizioni di lavoro il 10 marzo nella società di telemarketing di Teleperformance che impiega 4.000 persone.
In America
- Canada: sciopero selvaggio a Olymel (Vallée Jonction). Meno di un anno dopo la ratifica da parte dei sindacati di una convenzione che accettava il taglio del 30% dei salari ed il loro blocco per 7 anni in cambio di una promessa sul mantenimento del lavoro, un gruppo di 320 operai di una fabbrica di intaglio è sceso in sciopero spontaneamente in seguito ad una multa ad un operaio che è arrivato tardi sul posto di lavoro. La direzione fa intervenire il sindacato per chiedere la ripresa del lavoro e per non determinare un rallentamento della produzione; subito dopo, il 70% degli operai decide in Assemblea Generale uno sciopero selvaggio ed illimitato a partire dal 20 aprile.
- Stati Uniti: sciopero degli sceneggiatori di Hollywood e di 5.000 lavoratori della catena televisiva MTV; sciopero a Detroit (Michigan) ed a Buffalo (Stato di New York) di 3.650 operai dal 26 febbraio presso la Axle & Manufacturing Holding (fabbricante di componenti della General Motors e Chrysler) su appello del sindacato UAW contro una riduzione dei salari e dei benefici sociali; arresto del lavoro contro il proseguimento della guerra in Iraq ed in Afganistan annunciato il 1° maggio dagli scaricatori di porto della costa Ovest.
- Messico: 11 gennaio, sciopero nella più grande miniera di rame del paese a Cananea (provincia di Sonora nel nord del paese) per il miglioramento dei salari e delle condizioni di salute e sicurezza dei minatori. Questo sciopero è dichiarato illegale ed una repressione violenta della polizia e delle forze speciali della sicurezza si abbatte sui lavoratori (tra i 20 ed i 40 feriti, molti arresti). Dopo il riconoscimento da parte del tribunale della legalità dello sciopero, il 21 gennaio un nuovo sciopero coinvolge 270.000 minatori.
- Venezuela: lo sciopero massiccio dei siderurgici (seconda attività industriale del paese nella provincia della Guyana sull'Orénoque) è duramente represso dal presunto “campione del socialismo del 19° secolo” Chavez .
In Asia
- Cina: 17 gennaio, rivolta degli operai del Maersk nel porto di Machong. Soltanto in questa regione (dal delta del Fiume delle Perle al sud-est del paese in un perimetro molto industrializzato – 100.000 imprese, 10 milioni di operai - compresi tra Canton, Shenzhen ed Hong-kong), dall’inizio dell’anno scoppia almeno uno sciopero al giorno di più di 1.000 operai!
- Emirati: Dopo avere ceduto ad una parte delle rivendicazioni della massiccia rivolta degli operai e degli immigrati di Dubaï3, si scatena su questi una repressione che deve servire da “esempio”: condanna a 6 mesi di prigione dura ed espulsione a posteriori di 45 operai per “incitamento allo sciopero”. Ma questa lotta non è stata senza effetti: 1.300 lavoratori edili dell’Emirato vicino, il Barein, che subiscono le stesse condizioni di sfruttamento, prossime alla schiavitù, si sono messi in sciopero per una settimana all’inizio di aprile. Tale era grande il rischio di contagio nella regione che ottenuto rapidamente un aumento salariale. La mano d’opera straniera rappresenta più di 13 milioni di persone nei sei emirati del Golfo.
- Israele: a marzo, sciopero selvaggio degli addetti ai bagagli della compagnia El Al; sciopero per i salari degli impiegati alla borsa di Tel-Aviv che, fin dal febbraio scorso, perturbano quotidianamente i mercati finanziari per protestare contro le ore supplementari e la precarietà.
(da Révolution Internationale n. 390)
1. Sul nostro sito www.internationalism.org [65] si possono trovare articoli, volanti ed altro sulle lotte in Francia, in Spagna ed altri paesi.
2. Bisogna dire che il governo conservatore era stato rieletto a settembre 2007 con la promessa che non avrebbe toccato i trattamenti pensionistici.
3. Vedi “Lotte operaie a Dubaï”, su Rivoluzione Internazionale n. 154
Pubblichiamo qui di seguito un articolo inviatoci dai compagni del gruppo Internasyonalismo delle Filippine. Questo articolo ci mostra l’ipocrisia dalla classe dirigente filippina, sia al potere che all’opposizione, di fronte alla sofferenza della popolazione colpita da una crisi alimentare che non deriva dagli scarsi raccolti, ma dalla sete insaziabile dell’economia capitalista per il profitto a qualunque costo. Un costo che nell'immediato viene pagato dalla classe operaia e da masse poverissime colpite dal massiccio aumento dei prezzi degli alimenti, ma che, a lungo termine, sarà pagato dall’intera umanità per la cinica irresponsabilità della classe capitalista che sempre più rovina il sistema ecologico da cui dipende la produzione alimentare.
L’articolo si concentra sul ruolo della produzione dei bio-combustibili e sulla degradazione delle regioni risicole super sfruttate. Secondo noi va aggiunto un altro elemento: il ruolo giocato dalla diversificazione del capitale speculativo dai mercati interni degli Stati Uniti ed europei nel mercato delle materie prime - ed in particolare nel mercato dei “futures” per gli alimenti. Secondo Jean Ziegler, il Relatore speciale delle Nazioni Unite per il diritto al cibo, mentre l'uso del grano per la produzione del bio-combustibile è il principale responsabile per l’aumento dei prezzi degli alimenti, il 30% dell’'aumento può essere direttamente attribuito alla speculazione sui mercati delle materie prime1.
Solo recentemente i media hanno posto l’attenzione sulla crisi alimentare mondiale, ma questa si sta sviluppando costantemente da decenni. Anche se le rivolte per il cibo, da Haiti al Bangladesh, dal Pakistan all’Egitto, hanno posto all’attenzione mondiale l’ascesa dei costi dei prodotti di base, queste sono tutte il diretto risultato di anni di devastazioni accumulate dal capitalismo. Per un certo tempo i governi nazionali, come quello del regime di Arroyo, hanno cercato di ignorare i segni della crisi incombente, anche quando il prezzo del riso nei mercati pubblici è aumentato vertiginosamente raggiungendo il valore più alto degli ultimi 34 anni nelle Filippine. Il presidente filippino ha persino fatto una battuta arguta dicendo che non c’era scarsità di riso perché è “un fenomeno fisico che la gente si metta in coda sulla strada per comprare il riso. Vedete le code oggi?”2.
Il mondo è nel pieno di un aumento senza precedenti del prezzo degli alimenti, come non si vedeva da decenni. Gli aumenti interessano la maggior parte dei generi alimentari, specialmente i principali alimenti come mais, riso e frumento. Secondo la FAO tra marzo 2007 e marzo 2008 i prezzi del grano sono aumentati dell’88%, oli e grassi del 106% e i prodotti caseari del 48%. Un rapporto della Banca Mondiale ha precisato che in 36 mesi (fino a febbraio 2008), i prezzi di tutti gli alimenti sono aumentati dell’83% e ritiene che la maggior parte dei prezzi degli alimenti rimarrà ben al di sopra dei livelli del 2004 fino al 2015 come minimo3.
In Tailandia la qualità di riso più consumata, che veniva venduta cinque anni fa a 198 dollari la tonnellata, è stata quotata a più di 1.000 dollari la tonnellata il 24 aprile 2008 e secondo i commercianti e gli esportatori continuerà ad aumentare a causa della difficoltà nei rifornimenti4. Lo stesso fenomeno si ripete dappertutto. Nelle Filippine il prezzo del riso, dal prezzo al dettaglio di 60 centesimi di dollaro al chilo di un anno fa, è aumentato oggi fino a 72 centesimi. Ed in un paese dove 68 milioni dei suoi 90 milioni di abitanti vive con meno di 2 dollari al giorno, questo si è trasformato in un incubo dalle proporzioni orribili5.
La crisi alimentare mondiale è il risultato inevitabile della crisi permanente del capitalismo dalla fine degli anni ‘60. Varie economie nazionali hanno combattuto per rimanere a galla in un mondo di intensa competizione e di speculazione capitalista in un mercato mondiale già saturo. Di conseguenza i governi hanno adottato politiche economiche che si sono orientate verso l'incoraggiamento dello sviluppo di industrie che potevano iniettare più dollari nelle rispettive economie piuttosto che di quelle che potevano soddisfare le esigenze della popolazione. Questo, insieme ad un uso insostenibile delle risorse naturali e l’assalto al profitto di una produzione industriale che aggrava l’inquinamento e l’emissione di gas serra dappertutto, pone l’umanità di fronte alla sua distruzione a causa dell’intruglio delle ricette capitaliste.
L’uso di azoto e della super aerazione dei terreni per aumentare le produzioni agricole capitaliste hanno distrutto la produttività totale dei fertili centri agricoli di una volta. E mentre è vero che l’applicazione di metodi avanzati in agricoltura all’inizio della rivoluzione verde ha determinato dappertutto aumenti nella resa, in seguito abbiamo visto cadute graduali nella produzione in molte parti del mondo. Secondo un rapporto dell’Istituto di Scienza nella Società di Londra: “In India, la produzione di grano per unità di fertilizzante utilizzato è diminuita di due terzi durante gli anni della Rivoluzione Verde. E lo stesso è accaduto altrove. Fra il 1970 e il 2000, la crescita annuale nell’utilizzo di fertilizzante sul riso asiatico è stata da 3 a 40 volte maggiore della crescita della produzione di riso. Nel centro di Luzon, nelle Filippine, la produzione di riso è aumentata del 13% durante gli anni 80, ma è stata ottenuta al prezzo di un aumento del 21% nell’uso di fertilizzante. Nelle Pianure Centrali, la produzione è aumentata soltanto del 6.5%, mentre l'uso del fertilizzante è aumentato del 24% e gli antiparassitari del 53%. Nella parte ovest di Giava, un aumento della produzione del 23% è stato ottenuto con un aumento del 65% e 69% di fertilizzanti e antiparassitari rispettivamente.
Comunque è il calo assoluto del rendimento, malgrado gli alti usi di fertilizzante, che alla fine ha bucato la bolla della Rivoluzione Verde. Negli anni ‘90, dopo gli aumenti spettacolari nei primi anni della Rivoluzione Verde, i rendimenti hanno cominciato a diminuire. A Luzon Centrale la produzione di riso è aumentata costantemente negli anni ‘70, ha avuto un picco all'inizio degli anni ‘80 e da allora sta diminuendo gradualmente. Modelli simili sono emersi per la produzione di riso e frumento in India e nel Nepal. Dove i rendimenti attualmente non stanno diminuendo, il tasso di crescita sta rallentando velocemente o resta uguale, come documentato in Cina, Corea del Nord, Indonesia, Myanmar, Filippine, Tailandia, Pakistan e Sri Lanka. Dal 2000, i rendimenti sono caduti ulteriormente, fino al punto in cui in sei su sette anni passati, la produzione mondiale di grano è stata inferiore al consumo”6.
La caccia al profitto di un sistema decadente che è preso dalla propria rete di contraddizioni ha provocato la distruzione della naturale fertilità del terreno fino all’esaurimento. Mentre è vero che l’economia mondiale continua a produrre più cibo dei bisogni mondiali, molto di ciò che è prodotto e distribuito con il commercio globale capitalista deperisce prima di raggiungere il mercato e quando arriva, milioni di persone non possono permettersi di comprarlo. In ultima analisi, il punto finale di questa crisi è l’impoverimento della classe lavoratrice e l’assoggettamento della maggior parte dell’umanità ad una grande povertà e alla miseria. La preoccupazione principale del capitalismo dopotutto è l’accumulazione di plusvalore e mai la soddisfazione dei bisogni della società.
La “crisi del riso” nelle Filippine
Secondo Arturo Yap, Segretario del Ministero dell’Agricoltura delle Filippine, “Non abbiamo una crisi alimentare ma, piuttosto, una crisi del prezzo del riso. Tutti noi stiamo cercando soluzioni innovative nei nostri paesi - come affrontare non solo la questione del rifornimento ma anche la questione dei prezzi, come [essere sicuri] che le famiglie povere possano mangiare”. Ha detto che ci sono 5 motivi critici dietro l’attuale situazione del “riso” nelle Filippine che il governo deve far presente: in primo luogo, c’è un’offerta in gran parte influenzata da una aumentata richiesta che deriva da un aumento della popolazione; in secondo luogo, gli effetti del cambiamento di clima; in terzo luogo, la grande richiesta di combustibili biologici; in quarto luogo, la conversione continua dei terreni agricoli ad usi differenti; e per concludere, c’è una negligenza nel sistema di irrigazione.
Ad una prima occhiata, queste presunte cause della crisi filippina del “riso” possono sembrare valide in sé. Ma in effetti, dietro tutto questo c’è l’innegabile verità che il quadro stesso da cui tutte le cause elencate vengono fuori è la causa fondamentale delle stesse e questo è il quadro internazionale della produzione capitalista.
In primo luogo, il rifornimento - che dicono sia influenzato dall’aumento della richiesta a causa della crescita della popolazione - è solo un pretesto perché la produzione capitalista è diretta più verso la produzione di plusvalore che per i bisogni dell’umanità.
In secondo luogo, l’effetto del cambiamento del clima sulla produzione agricola è un risultato diretto della struttura capitalista della produzione. Per esempio, non è l’industrializzazione in sé ad essere responsabile dei cambiamenti di clima, ma “la ricerca del massimo profitto da parte del capitalismo e l’indifferenza che ne deriva verso i bisogni dell’ambiente ed dell’uomo tranne quando questi coincidono con lo scopo di accumulare di ricchezza”7.
Non c’è dubbio che c’è stata una degradazione terribile dell’ambiente a causa del sistema capitalista mondiale spinto dalla ricerca implacabile per i profitti e l’espansione economica. Ma tutti gli Stati borghesi, incluso quello filippino che riconosce il pesante costo della degradazione ambientale, sono gli stessi Stati che proteggono i rispettivi capitali nazionali nel fare profitto e i loro burattini politici nel sabotare la ricerca e lo sviluppo di energia alternativa per una produzione industriale più rispettosa dell'ambiente.
In terzo luogo, il cosiddetto effetto negativo della grande richiesta di bio-combustibili sulla produzione agricola è di per sé un risultato di tutte le politiche statali, compresa quella del governo Arroyo, che cercano energia alternativa per non dipendere dalle forniture estere. In più, abbassare il prezzo del combustibile, per i presunti fini “sociali”, aumenta anche la capacità di ogni Stato per la produzione militare e la guerra. Non sono tanto le preoccupazioni ambientali che determinano la politica dello sviluppo dei bio-combustibili, ma la necessità di ogni capitale nazionale di proteggersi contro gli alti prezzi del greggio nel mercato mondiale e anche di “aiutare” la preparazione militare di tutte le borghesie. È interessante notare che fin dalla seconda guerra mondiale, i bio-combustibili sono stati utilizzati negli sforzi militari sia dell’Asse che degli Alleati, come la Germania nazista e gli Stati Uniti. Nel caso delle Filippine, la logica nell’orientare i prodotti agricoli dalla tavola ai bisogni dell’industria dei bio-combustibili è conforme agli sforzi del governo filippino per produrre raccolti redditizi che possano aiutarlo nella sua ricerca di maggiori entrate in dollari.
In quarto luogo, la continua trasformazione dei terreni coltivabili ad usi diversi come campi da golf, centri commerciali, complessi industriali, è un risultato diretto delle politiche di governo nell’agricoltura, particolarmente nelle Filippine. Il vecchio Programma decennale di Riforma Agraria Globale (CARP) del governo filippino è stato sia un fallimento che una catastrofe. Non solo il CARP è un programma mistificatorio e reazionario della borghesia filippina sostenuto da alcune organizzazioni di sinistra, ma non è neanche un programma economicamente valido. Nel periodo in cui la dura concorrenza capitalista nel mercato mondiale distrugge i piccoli produttori agricoli per l’alto costo delle loro produzioni e per i debiti, gli agricoltori sono o obbligati ad abbandonare le loro fattorie o devono subire le condizioni precarie imposte dai contratti delle grandi corporazioni, una pratica che è prevalente nella regione di Mindanao delle Filippine8.
Quanto al perenne problema della negligenza nel sistema di irrigazione nelle Filippine, questo è più una questione di cattiva gestione di governo e di corruzione, espressione della decomposizione delle forme ideologiche nella decadenza capitalista, dove l’auto-indulgenza e la mentalità dell’ “ognuno per sé” regna suprema.
Come ci si può attendere da uno Stato borghese, confrontato ad una crisi di grande ampiezza nella fase della decadenza capitalista, lo stato filippino sotto il regime di Arroyo ha risposto alla crisi con l’intervento attivo dello Stato, sostenuto e ferocemente voluto da tutte le formazioni di sinistra delle Filippine nell’ambito della richiesta di una legge che conceda aumenti salariali. Man mano che la morsa della crisi si intensifica, aumentano gli sforzi mistificatori della borghesia per contenerla. La Sinistra e la Destra del capitale sono d’accordo nel seminare l’illusione che “solo lo Stato” può salvare gli operai ed i più poveri dalle fitte della fame e della miseria. Questi ignorano completamente che lo Stato, che loro incoraggiano ad intervenire di più, è lo stesso organo che impone la dittatura borghese che sta proteggendo la fonte stessa della schiavitù e della sofferenza, il capitalismo. Cercando di essere più “radicali” nella forma e nella sostanza, varie correnti di sinistra hanno fatto pressione per un controllo assoluto ed aggressivo dello Stato sulla società.
La “critica” della sinistra che quello che lo sta facendo Stato “non basta” - “aumentando” il budget per l’agricoltura, dando “sussidi per il riso” ai “più poveri" e facendo concorrenza ai commercianti privati nell’acquisto e nella vendita del riso - e che lo Stato manca di “volontà politica”, mostrano chiaramente che la sinistra vuole un controllo assoluto da parte dello Stato. Arrivano persino al punto di brandire il loro antico dogma della dittatura del partito e del totalitarismo - controllo totale dello Stato come nei cosiddetti paesi socialisti che loro hanno difeso come “ciò che restava” della Rivoluzione di Ottobre.
Non c’è soluzione alla crisi del sistema capitalista
La Destra e la Sinistra del capitale sono d’accordo nel mettere avanti programmi mistificatori per nascondere il fatto che non c’è una soluzione alla crisi del sistema. La contraddizione fra le forze produttive ed i rapporti di produzione è già al massimo. Nessun intervento riformista e provvisorio dello Stato può alterare il fatto che qualsiasi soluzione formulata nei bastioni del capitalismo può condurre solo al peggioramento della crisi e alla distruzione dell’ambiente. Ogni effettiva soluzione significherà soltanto un fardello molto più pesante per la classe operaia e per le masse lavoratrici. Anche se lo Stato esercitasse il controllo assoluto della vita economica della società, la crisi continuerebbe ad intensificarsi come conseguenza della saturazione del mercato mondiale e dell’incapacità della popolazione di assorbire l’eccessiva produzione dei prodotti nel contesto di una sistema che basa la sua esistenza sulla della concorrenza e del profitto. La storia ha già dimostrato che il capitalismo di Stato ed il totalitarismo sono la futile reazione del capitale di fronte ad una crisi permanente che continua a peggiorare. La caduta dell’URSS e dell’Europa Orientale negli anni ‘90 lo testimonia.
La soluzione della crisi non è all’interno del sistema morente ma a di fuori di questo. È nelle mani dell’unica classe rivoluzionaria che è portatrice del seme della futura società comunista: la classe operaia. La soluzione non è all’interno dei bastioni del capitalismo, né è nel percorso delle riforme e della trasformazione pacifica del capitalismo al socialismo. La soluzione non è il controllo assoluto dello Stato sulla vita economica della società, ma nella distruzione del capitalismo in sé, con il suo Stato che lo serve come strumento di dominio.
La soluzione della crisi alimentare è distruggere il sistema di produzione basato sul mercato e sul profitto e stabilire un sistema basato sulla produzione assoluta per i bisogni umani. Ed il primo passo in questa direzione e verso la trasformazione rivoluzionaria della società non è nell’approccio giuridico e riformista di varie organizzazioni di sinistra, né è attraverso un intervento assolutista dello Stato. Non è attraverso il percorso pacifico e “legale” delle “lakbayan” (marce di protesta) propagandate dalle formazioni di sinistra nelle Filippine. Non è neanche attraverso il sindacalismo. La risposta è nelle mani della classe operaia sul suo proprio terreno (9), la stessa che subisce gli attacchi del capitale, attraverso i suoi propri organi unitari di lotta, le assemblee operaie, prefigurazione dei consigli operai.
Operai di tutto il mondo, unitevi! È soltanto attraverso il percorso di unità di classe che si può arrivare all’inevitabile culmine del movimento proletario: la rivoluzione proletaria mondiale.
Internasyonalismo, 7 maggio 2008
1. Rapporto pubblicato su Environment News Service e sul sito United Nations site.
2. Gil C. Cabacungan Jr., “Arroyo avvisato sulla crisi del riso”, Philippine Daily Inquirer, 24 marzo, 2008.
3. “La tendenza all’aumento del prezzo del cibo a livello internazionale è continuata e si è accelerata nel 2008. I prezzi all’esportazione di grano americano sono cresciuti da 375 $/ton in gennaio a 400 $ a marzo, e il prezzo all’esportazione del riso della Tailandia è aumentato da 365 $/ton a 562. Questo si aggiunge ad un aumento del 181% del prezzo globale del grano nei 36 mesi precedenti febbraio 2008, e ad un aumento dell’83% del prezzo del cibo nello stesso periodo. (...) L’aumento visto nei prezzi alimentari non è un fenomeno temporaneo ma probabilmente persisterà nel medio termine. Ci si attende che i prezzi degli alimenti resteranno alti nel 2008 e 2009 e poi cominceranno a scendere perché la richiesta e la domanda risponderanno ai prezzi alti; probabilmente i prezzi della maggior parte degli alimenti resteranno molto al di sopra del livello del 2004 fino al 2015. (Rising Food Prices: Policy Options and World Bank Response, p. 2, grassetto nostro).
4. “Bangkok, 24 Aprile – il Benchmark Thai sul prezzo del riso è aumentato più del 5% fino al valore record di 1,000 $/ ton giovedì, e i commercianti del maggiore esportatore mondiale parlavano di ulteriori guadagni se i compratori di Iran ed Indonesia fossero entrati nel mercato”, (“Reuters, Thai Rice Climbs to New Record Above $1,000 a Tonne, 24/04/2008 – inserito su Flex News).
5. National Statistics Office, 2006 Family Income and Expenditure Survey, data di rilascio: 11 gennaio, 2008.
6. “Beware the New ‘Doubly Green Revolution'", ISIS Press Release 14/01/08.
7. “Caos imperialista, disastro ecologico: il capitalismo in fallimento”, Rivista Internazionale n.129, 2° trimestre 2007, in inglese e francese e spagnolo su www.internationalism.org [112].
8. “La Soyapa Farms Growers Association impiega 360 lavoratori a contratto, adulti e bambini. L’associazione è stata formata con l’iniziativa di Stanfilco 6 anni fa, quando ha convinto i suoi membri a coltivare banane. Non è una cooperativa - ogni coltivatore ha la proprietà del suo proprio pezzo di terra e ognuno ha un contratto individuale per vendere le banane a Dole” (“Banana War in the Philippines” – inserito l’8 luglio 1998 da Melissa Moore su www.foodfirst.org [123]).
9. “che l’emancipazione della classe operaia deve essere l’opera della classe operaia stessa, che la lotta per l’emancipazione della classe operaia non è una lotta per privilegi di classe e monopoli, ma per stabilire eguali diritti e doveri e per abolire ogni dominio di classe.” (Associazione Internazionale degli Lavoratori, Regole Generali, Ottobre 1864).
Giusto un paio di anni fa il presidente cinese Hu Jintao promise una “pacifica” crescita del suo paese nell’arena internazionale. Diversi osservatori e commentatori internazionali si fecero prendere dal doppio linguaggio stalinista e conclusero che una ascesa economica della Cina l’avrebbe resa una potenza più realista e responsabile a tutto vantaggio del mondo intero. Infatti, a partire dal 1990, salvo un paio di notevoli eccezioni, la Cina ha proceduto con passo leggero. Ma il reale volto della pace imperialista della Cina si è palesato l’11 gennaio 2007, quando essa questa ha lanciato uno dei suoi satelliti meteorologici a 850 chilometri dal pianeta, che costituisce una minaccia diretta al predominio americano dello spazio intorno alla terra, e inaugura una nuova corsa agli armamenti. Non a caso gli esperti del Pentagono per l’Aggressione Militare Globale hanno già stabilito che la Cina “ha il più grande potenziale militare per competere con gli USA e delle tecnologie militari di distruzione che potrebbero nel tempo controbilanciare il tradizionale vantaggio degli USA”. I militari USA hanno risposto con i propri test antisatellite e il Pentagono è alle prese con le raccomandazioni di un rapporto del Congresso del 2001 che auspicava lo sviluppo di “nuove capacità militari per operazioni da, in e attraverso lo spazio” (coautore del rapporto, Donald Rumsfeld).
Non ci sarà nessun pacifico sviluppo dell’influenza della Cina, ma il noti e soliti militarismo ed imperialismo. Innanzitutto, il “miracolo economico” del capitale nazionale cinese è basato sul feroce sfruttamento della sua classe operaia e dei contadini e su un export spinto verso un’economia mondiale piena di debiti. La colonizzazione economica che è attualmente in corso contiene un forte fattore geostrategico che proietta la potenza cinese ben oltre i suoi confini. E se parte di questa colonizzazione assicurerà qualche beneficio alle imprese cinesi, a differenza della colonizzazione del 19° secolo essa porterà ad una debole stabilizzazione economica per la sua economia e ancor meno riforme o miglioramenti nelle condizioni della classe operaia. Mao Tse-tung e la sua ideologia non sono di moda oggi, ma il suo slogan “il potere nasce sulla canna di un fucile” è ancora valido per l’imperialismo cinese, come per ogni altro.
Questo è ancora più vero nel dopo ’89 in seguito al collasso del blocco dell’Est e il “via libera” nelle relazioni militari derivato da questo scivolamento nella decomposizione imperialista. Nessuna nazione è fuori da questa situazione. Dopo che la Cina ha ripreso le sue minacce contro Taiwan e ha ripetutamente minacciato il Giappone, sia la diplomazia francese che quella tedesca hanno cercato di sovvertire l’embargo alle armi per l’Esercito Popolare di Liberazione. Un tale sviluppo mostra il contributo che la Cina sta dando all’approfondimento del caos nelle relazioni internazionali. La Cina ha tratto vantaggio dal nuovo disordine mondiale e dalla crisi storica degli USA a mantenere il proprio dominio imperialista sul globo, per sviluppare la propria presenza geostrategica. I suoi appetiti vanno ben al di là di Taiwan o del sedicente “pacifico” Giappone, che essa stessa ha riarmato (ora è classificato fra le cinque potenze militari degli ultimi anni), provocando in questa regione del mondo una corsa al riarmo con connotazioni nucleari.
La politica della Cina tendente fare dei mari dell’Asia il proprio mare nostrum, tenendo a bada il Giappone ed escludendo la presenza militare degli USA, è solo una parte del suo progetto, che attraverso Burma, Africa e Pakistan mira ad estendere la sua potenza militare sul mare Arabico, il Golfo Persico e sul Medio Oriente1. Nella stampa si parla di forniture di armi della Cina ai Talebani e della sua aspirazione politica ad estendersi fino al cortile di casa degli USA, l’America Latina. La Cina, insieme con la Russia, ha inoltre acquisito dei vantaggi nelle ex repubbliche sovietiche là dove gli USA sono retrocessi, per esempio rafforzando le relazioni con l’Uzbekistan. L’Istituto Internazionale di Ricerche per la Pace di Stoccolma ha stabilito di recente che le spese per la difesa della Cina sono seconde solo a quelle degli USA. Lo stesso rapporto esprime anche delle stime sulle sue crescenti capacità di ricatto e sulle sue intrusioni nelle reti informatiche, comprese quelle del governo USA.
Nel sud del paese la Cina sta sviluppando la costruzione di 1850 chilometri di strade, di fiumi (dirottando sezioni secondarie del Mekong) e porti, rafforzando le naturali barriere difensive delle pendici dell’Himalaia. La “strada 3” che unisce direttamente il Kunming Cinese con Bangkok tocca anche le regioni poco abitate delle zone settentrionali del Vietnam e del Laos. Come la ricerca di mercati e risorse naturali, anche le vie di comunicazioni sono un’espressione dell’espansione geostrategica dell’imperialismo cinese.
All’ovest, ai confini con India e Pakistan, sono in corso importanti sviluppi della rete dell’imperialismo cinese. Mentre gli Stati Uniti e l’India costruiscono una crescente collaborazione, il Pakistan si rivolge alla Cina per l’assistenza tecnica e militare. La Cina già sostiene il Pakistan con la tecnologia nucleare, e molti esperti sospettano che il progetto della bomba atomica del Pakistan provenga da essa. Secondo il Dipartimento di studi asiatici del Broking Institute “il programma nucleare pakistano è largamente il risultato delle relazioni cino-pakistane”. Alcune agenzie giornalistiche suggeriscono che i servizi segreti cinesi siano a conoscenza dei trasferimenti di tecnologia nucleare dal Pakistan all’Iran, alla Corea del nord e alla Libia, e delle lunghe relazioni intercorse fra l’Iran e Abdul Quadeer Khano, il cosiddetto padre della bomba atomica pakistana. Uno dei più significativi progetti recenti dei due imperialismi è la costruzione di un grande complesso portuale alla base navale di Gwadar sul Mar arabico, che dà alla Cina un accesso strategico sul golfo persico ed un avamposto navale sull’oceano indiano.
La Cina e i maoisti del NepalLe relazioni fra l’India e la Cina si sono deteriorate dopo che l’India ha dato asilo al Dalai Lama nel 1959 e dopo l’umiliante sconfitta dell’India nella guerra del 1962 per una frontiera contestata e l’aiuto cinese al Pakistan. Inoltre l’India afferma che la Cina occupa 38.000 chilometri quadrati del suo territorio e, da parte sua, Beijing reclama la provincia indiana del nordest dell’Aranchal. E’ in questo contesto di rivalità imperialiste che va situata l’elezione del Partito Comunista del Nepal (PCN, maoista), un gruppo che l’amministrazione americana ha definito “terrorista”. Il precedente regime al potere in Nepal privilegiava le relazioni con l’India, cosa che ora è messa in questione. Il “compagno comandante” Prachanda del PCN ha già dichiarato di voler rivedere i maggiori accordi con l’India, sottolineando la necessità di buone relazioni con la Cina e dando il proprio appoggio a questa sulla questione tibetana. I rifugiati tibetani in Nepal sono ora in pericolo, come nel vicino Butan, dove i maoisti filocinesi sono molto attivi. L’Istituto di Regolamento dei Conflitti di Dheli dice che ci si può aspettare il sorgere di violenze maoiste nell’India stessa, come si aspetta che il nuovo regime nepalese la sostenga con aiuti e rifugi sicuri.
Ogni nazione capitalista parla di pace. Per tutto il 20° secolo ogni nazione capitalista ha esaltato le virtù della “pace”, della “stabilità”, delle “buone relazioni”, ma tutte hanno raggiunto l’ineluttabile irrazionalità dell’imperialismo, e hanno attivamente preparato e fomentato guerre. In particolare oggi, nelle condizioni di un crescente caos imperialista, non vi è nessuna “crescita pacifica” dell’imperialismo cinese e delle sue pedine, ma una preparazione alla guerra.
Baboon, 22/4/08
(da World Revolution n. 314, pubblicazione della CCI in Inghilterra)
1. Sull’imperialismo cinese in Africa vedi World Revolution n. 299.
L’armamento con uranio impoverito è certamente una delle più chiare manifestazioni del cinismo machiavellico della borghesia. L’uranio impoverito è un metallo pesante e denso; caratteristiche che gli conferiscono una durezza eccezionale capace di perforare blindati o penetrare in bunker sotterranei. Questo metallo somiglia al tungsteno ma mentre quest’ultimo, prodotto in gran parte in Cina, è costoso e non infiammabile, l’uranio impoverito è gratuito, nel senso che è sempre disponibile dove esiste una qualsiasi attività di fissione nucleare ed in più brucia ed esplode! È un sottoprodotto dell’attività nucleare. Una scoria che, in un certo senso, la “genialità” capitalista ricicla i vari modi, per usi civili ma, nei fatti, quasi esclusivamente per equipaggiare missili e bombe perforanti. Un missile di questo tipo può così penetrare in un centro di comando sotterraneo dove, esplodendo, uccide e distrugge tutto ciò che vi trova.
Ma il colmo dell’orrore è che questa scoria è estremamente nociva per la sua radioattività. Le polveri prodotte dalla sua combustione ed esplosione sono estremamente leggere e possono dunque essere facilmente inalate. La polemica sull’incidenza dell’uranio impoverito sulla “sindrome della guerra del Golfo”1, gli studi “segreti” sulla situazione in Kosovo o in Afganistan, ha portato a questa conclusione: nessuno può con certezza dire che l’uranio impoverito non ha un’attività radioattiva nociva per l’organismo umano. E allora? Quali conseguenze ne trae la borghesia? Forte di questa grandiosa ignoranza, essa continua a diffondere resti e polveri dell’uranio impoverito su tutti i teatri di scontro imperialista. Al diavolo le conseguenze a lungo termine! Poco importa se nascono e per decenni, perfino secoli, nasceranno bambini malformati o che muoiono di leucemie inspiegabili, nessuno potrà accusare qualcuno poiché “nessuno sapeva”2. Responsabili ma non colpevoli!
Inoltre, come scoria nucleare non si può escludere che l’uranio impoverito sia totalmente privo di altre sostanze che troviamo nei processi di fissione atomica. Come per esempio il plutonio, del quale al contrario si conosce l’estrema nocività!3
E’ evidente che la borghesia non ha bisogno del’'uranio impoverito per seminare morte, malattie e miseria sul pianeta. Come causa primaria della fame nel mondo, la guerra è già abbastanza mortale in quanto tale! E si potrebbero aggiungere le armi chimiche, come i gas velenosi largamente utilizzati dal potere iracheno. Ciò che distingue l’uranio impoverito è soprattutto la sua potenziale capacità d’inquinare radioattivamente, per diversi secoli, vaste zone del pianeta e modificare per numerose generazioni il patrimonio genetico delle popolazioni colpite. Alcuni studi ritengono questi inquinamenti più mortali dei bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki del 1945 che già produssero un importante carico di radioattività.
Questa pesante eredità ci viene lasciata con un cinismo insopportabile e rivoltante da una borghesia che non può che risolvere la questione con un semplice “a priori non è nocivo”, che taglia la testa al toro circa la sua pretesa preoccupazione per l’avvenire del nostro ecosistema. Dietro i bei discorsi della classe dominante sullo “sviluppo sostenibile”, la realtà è profondamente allarmante: più il capitalismo sprofonda nella crisi e nella barbarie, più lo stato del pianeta va in rovina, viene impoverito, modificato, inquinato! Ciò ci mostra con forza l’urgenza dello sviluppo internazionale della lotta di classe, solo mezzo per bloccare questa infernale distruzione.
GD, 20 aprile 2008
(da Révolution Internationale n. 390, pubblicazione della CCI in Francia)
1. Così vengono definite gli inspiegabili aumenti di leucemie, malformazioni ed altre malattie gravi tra gli iracheni ed i veterani americani della guerra del Golfo. Statistiche credibili sono difficili a trovarsi. Da interviste al personale del dipartimento degli Affari dei veterani americani realizzate da parte dell’American Free Press, il numero attuale dei “veterani dell’Era del Golfo” invalidati dal 1991 ammonta a 518.739, allorché “solo” 7.035 feriti sono stati censiti in Iraq. Allo stesso modo, in un rapporto scritto da un ingegnere petrolchimico irlandese si denuncia una crescita quattro volte superiore dei casi di leucemie nelle regioni in cui sono stati utilizzati proiettili contenenti uranio impoverito!
2. Ciò detto, anche “senza sapere”, la prudenza resta come messinscena nei paesi occidentali: il poligono di tiro del Pentagono nell’Indiana (80 ettari), in cui sono stati testati proiettili ad uranio impoverito, sarà certamente trasformato in “zona nazionale di sacrificio” e santuario per l’eternità!
3. 1,6 kg di plutonio possono provocare la morte di otto miliardi di individui!
A partire dall’agosto del 2007, con la crisi dei prestiti ipotecari chiamati “subprimes”, siamo di fronte ad un nuovo episodio delle convulsioni che colpiscono l’insieme del capitalismo mondiale. Le cattive notizie arrivano in sequenza: i tassi di inflazione si impennano (negli Stati Uniti il 2007 è stato il peggiore dal 1990), la disoccupazione aumenta, le banche annunciano perdite di miliardi, le Borse procedono di caduta in caduta, gli indici di crescita per il 2008 sono continuamente corretti al ribasso… Questi dati negativi si ripercuotono concretamente nella vita quotidiana dei lavoratori con tragedie come quella di ritrovarsi senza lavoro o senza casa perché non si possono più pagare i mutui, con pressioni e minacce a ripetizione sul posto di lavoro, con pensioni che perdono valore e fanno della vecchiaia una sofferenza … Milioni di anonimi esseri umani, i cui sentimenti, preoccupazioni ed angosce non sono di interesse per i giornalisti, vengono duramente colpiti.
A quale tappa dello sviluppo del capitalismo siamo?
Di fronte a questa nuova espressione della crisi, cosa ci dicono le personalità e le istituzioni considerate “esperte”? Ce n’è per tutti i gusti: ci sono i catastrofisti che prevedono una fine apocalittica dietro l’angolo; ci sono gli ottimisti che affermano che è tutta colpa della speculazione, ma che l’economia reale va bene… Comunque, la spiegazione più diffusa è che noi saremmo di fronte a una crisi “ciclica”, come tante altre che il capitalismo ha vissuto nel passato, lungo tutta la sua vita. Di conseguenza, ci consigliano, bisogna restare tranquilli, piegare la schiena di fronte alla tempesta fino a quando non tornino le vacche grasse di una nuova prosperità…
Questa “spiegazione” prende come modello una foto ingiallita, deformandola, di quello che avveniva nel 19° secolo e all’inizio del 20°, ma che è inapplicabile alla realtà e alle condizioni del capitalismo del 20° e 21° secolo.
Il 19° secolo fu l’epoca dell’espansione e della crescita del capitalismo, che si estendeva come una macchia d’olio sul mondo intero. Tuttavia esso era periodicamente scosso dalla crisi, come messo in evidenza dal Manifesto comunista: “Nelle crisi commerciali viene regolarmente distrutta una gran parte non solo dei prodotti già creati, ma anche delle forze produttive esistenti. Nelle crisi scoppia un’epidemia sociale che in ogni altra epoca sarebbe apparsa un controsenso: l’epidemia della sovrapproduzione. La società si trova improvvisamente ricacciata in uno stato di momentanea barbarie; una carestia, una guerra generale di sterminio sembrano averle tolto tutti i mezzi di sussistenza; l’industria, il commercio sembrano annientati, e perché? Perché la società possiede troppa civiltà, troppi mezzi di sussistenza, troppa industria, troppo commercio. Le forze produttive di cui essa dispone non giovano più a favorire lo sviluppo della civiltà borghese e dei rapporti della proprietà borghese; al contrario, esse sono diventate troppo potenti per tali rapporti, sicchè ne vengono inceppate; e non appena superano questo impedimento gettano nel disordine tutta la società borghese, minacciano l’esistenza della proprietà borghese. I rapporti borghesi sono diventati troppo angusti per contenere le ricchezze da essi prodotte”. Questa entrata periodica della società capitalista in fasi di crisi aveva due cause principali che sono presenti anche oggi. Innanzitutto la tendenza alla sovrapproduzione – come la descrive il Manifesto – che porta la fame, la disoccupazione e la miseria, non perché c’è una penuria di beni (come avveniva nelle società precedenti), ma per il contrario, per eccesso di produzione (!), perché ci sono troppe industrie, troppo commercio, troppe risorse! In secondo luogo perché il capitalismo funziona in una maniera anarchica attraverso una concorrenza feroce che getta gli uni contro gli altri. Questo provoca una ripetizione di momenti di disordine incontrollato. Tuttavia, poiché c’erano nuovi territori da conquistare per il lavoro salariato e la produzione mercantile, si finiva, presto o tardi, per superare questi momenti grazie a una nuova espansione della produzione che estendeva e approfondiva i rapporti capitalisti, in particolare nei paesi dell’Europa e dell’America del nord. A quest’epoca i momenti di crisi erano come i battiti di un cuore sano e le vacche magre lasciano il posto ad una nuova epoca di prosperità. Ma già allora Marx percepiva in queste crisi periodiche qualche cosa di più di un semplice ciclo eterno destinato a sboccare sempre nella prosperità. Egli ci vedeva le espressioni di contraddizioni profonde che minano il capitalismo fino alle sue radici precipitandolo verso la sua rovina.
All’inizio del 20° secolo il capitalismo raggiunge il suo apogeo, si è esteso sull’intero pianeta che per la maggior parte si trova sotto il dominio del lavoro salariato e della produzione mercantile. Entra quindi nella sua fase di decadenza: “All’origine di questa decadenza si trova, come per gli altri sistemi economici, il crescente conflitto tra le forze produttive e i rapporti di produzione. Concretamente, nel caso del capitalismo, il cui sviluppo è stato condizionato dalla conquista dei mercati extra-capitalisti, la prima Guerra mondiale costituì la prima manifestazione significativa della sua decadenza. Con la fine delle conquiste economiche e coloniali nel mondo da parte degli Stati capitalisti, questi ultimi furono portati a confrontarsi in una disputa per accaparrarsi il mercato gli uni a spese degli altri. Da allora, il capitalismo è entrato in un nuovo periodo della sua storia definito dall’Internazionale Comunista nel 1919 come epoca di guerre e rivoluzioni”1. I tratti essenziali di questo periodo sono:
- da un lato, l’esplosione delle guerre imperialiste, espressione della lotta a morte tra i differenti Stati capitalisti per estendere la loro influenza a spese degli altri e della lotta per il controllo di un mercato mondiale diventato sempre più stretto, che non può più costituire uno sbocco sufficiente per una tale abbondanza di rivali;
- dall’altro, una tendenza praticamente cronica alla sovrapproduzione, sicché le convulsioni e le catastrofi economiche si moltiplicano.
In altri termini, quello che caratterizza globalmente il 20° e il 21° secolo è la tendenza alla sovrapproduzione – temporanea e facilmente superabile nel 19° – che diventa cronica, sottomettendo l’economia mondiale a un rischio quasi permanente di instabilità e distruzione. Inoltre la concorrenza – tratto congenito del capitalismo – diventa estrema e, scontrandosi con un mercato mondiale che tende costantemente alla saturazione, perde il suo carattere di stimolo all’espansione mentre sviluppa il suo carattere negativo e distruttore di caos e scontro. La guerra mondiale del 1914-18 e la grande depressione del 1929 costituiscono le due espressioni più spettacolari della nuova epoca. La prima fece più di 20 milioni di morti, causò sofferenze orribili e provocò un trauma morale e psicologico che ha segnato generazioni intere. La seconda fu un crollo brutale con tassi di disoccupazione del 20-30% e una miseria atroce che colpì le masse lavoratrici dei paesi cosiddetti “ricchi”, Stati Uniti in testa. La nuova situazione del capitalismo sul terreno economico e imperialista provocò cambiamenti importanti sul piano politico. Per assicurare la coesione di una società colpita dalla tendenza cronica alla sovrapproduzione e a violenti conflitti imperialisti, lo Stato, ultimo bastione del sistema, interviene massicciamente in tutti gli aspetti della vita sociale, soprattutto i più sensibili: l’economia, la guerra e la lotta di classe. Tutti i paesi si orientano verso un capitalismo di Stato che prende due forme: quella che viene chiamata bugiardamente “socialista” (una statizzazione più o meno completa dell’economia) e quella detta “liberale”, la cui base è l’unione più o meno aperta tra la borghesia privata classica e la burocrazia di Stato.
Questo richiamo breve e schematico delle caratteristiche generali dell’epoca storica attuale del capitalismo deve servirci per situare la crisi di oggi, analizzandola con la dovuta riflessione, lontano sia dal catastrofismo allarmista e immediatista che, e soprattutto, dalla demagogia ottimista della “crisi ciclica”.
40 anni di crisi
Dopo la seconda guerra mondiale il capitalismo, almeno nelle grandi metropoli, riuscì a vivere un periodo più o meno lungo di prosperità. Lo scopo di questo articolo non è analizzarne le cause2, ma quello che è certo è che questa fase (contrariamente a tutte le chiacchiere dei governanti, dei sindacalisti, degli economisti e anche di certi che si dicevano “marxisti”, che ci raccontavano che il capitalismo aveva superato definitivamente le crisi) ha cominciato a chiudersi a partire dal 1967. Innanzitutto con la svalutazione della sterlina, poi con la crisi del dollaro nel 1971 e la prima cosiddetta “crisi del petrolio” del 1973. A partire dalla recessione del 1974-75 si apre una nuova fase in cui le convulsioni si moltiplicano. Facendo una rapido riassunto si può citare: la crisi inflazionista del 1979 che toccò i principali paesi industrializzati; la crisi del debito del 1982; il crollo alla Borsa di Wall Street del 1987seguita dalla recessione del 1989; la nuova recessione del 1992-93 che provoca la sbandata di tutte le monete europee; la crisi delle “tigri” e dei “dragoni” asiatici del 1997 e la crisi della “nuova economia” del 2000-2001. E’ possibile spiegare questa successione di episodi convulsivi utilizzando lo schema delle “crisi cicliche”? No! La malattia incurabile del capitalismo è la scarsità drammatica di mercati solvibili, un problema che si è aggravato costantemente per tutto il 20° secolo e che è riapparso violentemente a partire dal 1967. Ma contrariamente al 1929, il capitalismo di oggi ha affrontato la situazione armato del meccanismo dell’intervento massiccio dello Stato, che ha cercato di accompagnare la crisi per evitare un crollo incontrollato.
Qual è lo strumento principale che lo Stato utilizza per cercare di arginare la crisi ed evitare, almeno nei paesi centrali, i suoi effetti più catastrofici? L’esperienza ci mostra che questo strumento è stato il ricorso sistematico al credito. Grazie a un indebitamento, che nel giro di qualche anno è diventato abissale, gli Stati capitalisti hanno creato un mercato artificiale che ha offerto, a livelli diversi, uno sbocco a una sovrapproduzione in continuo aumento. Per quaranta anni l’economia mondiale è riuscita ad evitare un crollo fragoroso ricorrendo a dosi sempre più massicce di indebitamento. L’indebitamento è per il capitalismo quello che l’eroina è per il drogato. La droga dell’indebitamento fa sì che il capitalismo si mantenga ancora in piedi appoggiandosi sul braccio del mostro statale – “liberale” o “socialista” che sia. Con la droga si raggiungono momenti di euforia in cui si ha l’impressione di essere nel migliore dei mondi possibili3, ma sempre più frequentemente arrivano i periodi contrari, i periodi di convulsione e di crisi, come quello che stiamo vivendo dall’estate 2007. Man mano che aumentano le dosi la droga ha un effetto minore sul drogato. Ci vuole una dose sempre più grande per sentire uno stimolo sempre più debole. Ecco quello che accade al capitalismo oggi! Dopo 40 anni di iniezioni della droga “credito” su un corpo pieno di buchi, l’economia capitalista mondiale ha sempre più difficoltà a reagire e raggiungere un nuovo periodo di euforia.
Ecco quello che sta per succedere attualmente. Nello scorso agosto ci è stato detto che tutto era tornato alla normalità grazie ai prestiti iniettati dalle banche centrali negli organismi finanziari. Da allora sono stati iniettati non meno di 500 miliardi di euro in tre mesi senza che si sia sentito il minimo effetto. L’inefficacia di queste misure ha finito per seminare il panico e il mese di gennaio 2008 è cominciato con una caduta generale delle Borse mondiali4. Per frenare l’emorragia negli Stati Uniti il governo e l’opposizione, mano nella mano con la Federal Reserve (FED) annunciano il 17 gennaio il “miracoloso rimedio” di dare a ogni famiglia un assegno di 800 dollari. Tuttavia questa misura, che nel 1991 fu molto efficace, provoca il lunedì 21 una nuova caduta delle Borse mondiali grave quanto lo sconquasso del 1987. Lo stesso giorno, sotto l’emergenza e con precipitazione, la FED ha ridotto di tre quarti di punto i tassi di interesse realizzando così la più forte riduzione di questo tasso dal 1984. Ma il 23 gennaio, momento in cui scriviamo questo articolo, le Borse del mondo, salvo Wall Street, soffrono un nuovo scivolone.
Quale è la causa di questa sequenza di convulsioni, nonostante l’enorme sforzo di credito realizzato dagli Stati centrali che hanno mobilitato tutti i mezzi a loro disposizione: i prestiti alle banche tra il mese di agosto e novembre, le riduzioni dei tassi di interesse, le riduzioni fiscali? Le banche, utilizzate massicciamente dagli Stati come esche per coinvolgere le imprese e le famiglie in una spirale di debiti, si ritrovano le une dopo le altre in uno stato pietoso, a cominciare dalle più grandi (come la Citigroup), e annunciano perdite gigantesche. Si parla anche di un fenomeno che potrebbe aggravare la situazione: sembra che una serie di società assicurative, la cui specializzazione è rimborsare alle banche i loro crediti “cattivi” legati ai subprimes, hanno ora enormi difficoltà a farlo. Ma c’è un problema ancora più inquietante che percorre, come uno tsunami, l’economia mondiale: il risveglio dell’inflazione. Durante gli anni settanta l’inflazione colpì duramente le famiglie più deboli, ed essa ritorna oggi con virulenza. In realtà le trappole del credito, le misure di capitalismo di Stato non l’avevano eliminata, ma semplicemente ritardata. Tutti temo una sua impennata ed il fatto che i giganteschi prestiti delle banche centrali, le riduzioni fiscali e dei tassi di interesse, riescano solo ad imballare ancora di più il motore senza riuscire a rilanciare la produzione. Il timore generalizzato è che l’economia mondiale entri in una fase detta di “stagflazione”, cioè una pericolosa combinazione di recessione ed inflazione, che significherebbe per la classe operaia e la maggioranza della popolazione una nuova caduta nella disoccupazione e nella miseria associata ad una crescita poderosa dei prezzi per tutti i prodotti di base. A questo dramma si aggiunge, e questo non è che un esempio, quello di due milioni di famiglie americane ridotte all’insolvibilità.
Come la droga, il ricorso disperato al credito mina e distrugge poco a poco le fondamenta dell’economia, rendendola più fragile, provocando nel suo seno processi di imputridimento e di decomposizione ogni volta più esacerbati. Si può dedurre, da questa breve analisi della situazione degli ultimi mesi, che ci troviamo di fronte alla peggiore e più lunga convulsione del capitalismo degli ultimi 40 anni. Lo si può verificare analizzando gli ultimi 4 mesi, non presi isolatamente come fanno gli “esperti” incapaci di vedere più lontano del loro proprio naso, ma tenendo conto degli ultimi 40 anni. E’ quello che vedremo più in dettaglio nella seconda parte di questo articolo che sarà pubblicata sul nostro sito www.internationalism.org [112]. Mostreremo anche fino a che punto la borghesia scarica gli effetti della sua crisi sulle spalle dei lavoratori e tenteremo infine di rispondere alla domanda: Esiste un’uscita alla crisi?
Tratto da Accion proletaria n. 199, pubblicazione della CCI in Spagna.
1. “17° Congresso della CCI, 2007: Risoluzione sulla situazione internazionale”, Rivista Internazionale n. 29.
2. Vedi la “Risoluzione sulla situazione internazionale”, citata prima.
3. Questa sensazione di euforia viene amplificata da tutti i difensori del capitalismo, non solo i politici, i padroni ed i sindacati ma in particolare dai cosiddetti “opinionisti”, cioè i mezzi di informazione che esaltano tutti gli aspetti positivi e sottovalutano o accantonano quelli negativi, il che contribuisce evidentemente a propagare questo sentimento di euforia.
4. Per farsi un’idea, in Spagna, secondo i dati dell’IESE, 89miliardi di euro in 20giorni. Si stima che la caduta delle borse mondiali durante il mese di gennaio è del 15% secondo le stime più ottimiste.
Il 24 settembre scorso il presidente degli Stati Uniti George W. Bush, di fronte a commentatori e giornalisti del mondo intero, ha fatto un discorso “inusuale”. Nel suo intervento televisivo ha annunciato senza mezzi termini quali tormente stavano per abbattersi sul “popolo americano”:
“E’ un periodo straordinario per l’economia degli Stati Uniti. Da alcune settimane molti americani sono in ansia per la loro situazione finanziaria ed il loro avvenire. (…) Abbiamo osservato grandi fluttuazioni della Borsa. Grandi istituti finanziari sono sul bordo del crollo ed alcuni sono falliti. Mentre l’incertezza aumenta, numerose banche hanno proceduto ad una contrazione del credito. Il mercato creditizio è bloccato. Le famiglie e le imprese hanno più difficoltà a prendere in prestito del denaro. Siamo nel mezzo di una crisi finanziaria grave (…) tutta la nostra economia è in pericolo. (…) Settori chiave del sistema finanziario degli Stati Uniti rischiano di crollare. (...) L’America potrebbe affondare nel panico finanziario, ed assisteremmo ad uno scenario desolante. Nuove banche potrebbero fallire, alcune nella vostra comunità. Il mercato borsistico crollerebbe ancora più, riducendo il valore della vostra pensione. Il valore della vostra casa cadrebbe. I pignoramenti si moltiplicherebbero. (...). Numerose imprese dovrebbero chiudere e milioni di americani perderebbero il posto di lavoro. Anche con un buono bilancio creditore, vi sarebbe difficile ottenere i prestiti di cui avreste bisogno per comperare un’auto o mandare i vostri figli all’università. In fin dei conti, il nostro paese potrebbe affondare in una lunga e dolorosa recessione”.
L’economia mondiale scossa dal sisma finanziario
In realtà non è solo l’economia americana che rischia di “affondare in una lunga e dolorosa recessione” ma l’insieme dell’economia mondiale. Gli Stati Uniti, motore della crescita da sessant’anni, trascinano questa volta l’economia mondiale verso il baratro!
L’elenco degli organismi finanziari in grave difficoltà si allunga ogni giorno:
- in febbraio, la Northern Rock, l’ottava banca inglese, ha dovuto essere nazionalizzata altrimenti sarebbe scomparsa;
- in marzo, la Bear Stearns, la quinta banca di Wall Street, si salva grazie al suo riacquisto da parte della JP Mogan, terza banca americana, attraverso i fondi della Banca federale americana (FES);
- in luglio, Indymac, uno dei più grandi istituti di credito ipotecario americano, viene messo sotto tutela dalle autorità federali. In quel momento la più importante impresa bancaria che fallisce negli USA da ventiquattro anni! Ma il suo record non durerà a lungo;
- inizio settembre, il gioco al massacro continua. Freddie Mac e Fannie Mae, due organismi di rifinanziamento ipotecario che da soli contano circa 850 miliardi di dollari, evitano per un pelo il fallimento con un nuovo soccorso della FED (banca centrale americana);
- qualche giorno dopo, la Lehman Brothers, la quarta banca americana, si dichiara in fallimento e questa volta la FED non la salva. Al 31 maggio il totale dei suoi debiti ammontava a 613 miliardi di dollari. Record battuto! Il fallimento più grande di una banca americana finora, quella della Continental Illinois nel 1984, metteva in gioco una somma sedici volte più modesta (cioè 40 miliardi di dollari)! Questo mostra tutta la gravità della situazione.
- per evitare di essere colpita dalla stessa sorte, la Merrill Lynch, altro fiore all’occhiello americano, ha dovuto accettare di essere acquistata in tutta fretta da Bank of America;
- stessa sorte per HBOS riacquistata dalla sua compatriota e rivale Lloyds TSB (reciprocamente seconda e prima banca della Scozia);
- l’AIG (American International Group, uno dei maggiori istituti di assicurazione a livello mondiale) è stato foraggiato copiosamente dalla Banca centrale americana. In realtà, anche le stesse finanze dello Stato americano stanno maluccio e per questo la FED aveva deciso di non soccorrere la Lehman Brothers. Se lo ha fatto per l’AIG, è perché se questo organismo fosse fallito, la situazione sarebbe diventata completamente incontrollabile;
- nuovo record! Ad appena due settimane dalla Lehman Brothers è la Washington Mutual (WaMu), la più importante cassa di risparmio degli Stati Uniti, a chiudere i battenti![1]
Inevitabilmente anche le Borse sono prese dalla tormenta. Regolarmente crollano del 3, 4 o 5% ad ogni fallimento. La Borsa di Mosca ha dovuto finanche chiudere i battenti per vari giorni, a metà settembre, in seguito a cadute successive che superavano il 10%.
Verso un nuovo 1929?
Di fronte a questa serie di cattive notizie, anche i maggiori specialisti dell’economia restano sconvolti. Alan Greenspan, l’ex presidente della FED considerato come un mito dai suoi pari, ha così dichiarato alla rete televisiva ABC il 15 settembre scorso:
“Si deve riconoscere che si tratta di un fenomeno che si verifica una volta ogni cinquanta anni, o forse una volta ogni secolo [...] Non vi è alcun dubbio, non ho mai visto una cosa simile e non è ancora finita e prenderà ancora del tempo”.
Ancora più significativa è stata la dichiarazione del premio Nobel per l’economia, Joseph Stiglitz che, volendo “calmare gli spiriti”, ha dichiarato piuttosto maldestramente che la crisi finanziaria attuale dovrebbe essere meno grave di quella del 1929, anche se occorreva guardarsi da un “eccesso di fiducia”:
“Naturalmente è anche possibile sbagliarsi, ma il punto di vista generale è che disponiamo oggi di di strumenti [...] per evitare un’altra grande depressione”[2]
Piuttosto che rassicurare, questo eminente specialista dell’economia ma certamente non fine psicologo ha evidentemente provocato il panico generale. Di fatto, involontariamente, lui ha formulato ad alta voce il timore che tutti sussurrano a bassa voce: non è che stiamo andando verso un nuovo ‘29, verso une nuova “depressione”?
Da allora, per rassicurarci, gli economisti si succedono alla televisione per spiegare che se è vero che la crisi attuale é molto grave, questa non ha niente a che vedere con il crack del 1929 e che, in ogni modo, l’economia finirà per ripartire.
Costoro hanno ragione solo per metà. Quando ci fu la Grande depressione, negli Stati Uniti, migliaia di banche fallirono, milioni di persone persero tutto quello che avevano, il tasso di disoccupazione raggiunse il 25% e la produzione industriale crollò all’incirca del 60%. In breve si può dire che l’economia si arrestò. Di fatto, all’epoca, i dirigenti degli Stati avevano reagito piuttosto tardivamente. Per mesi e mesi essi avevano lasciato i mercati liberi a sé stessi. Peggio ancora, la loro sola misura fu di chiudere le frontiere alle merci straniere (attraverso il protezionismo) cosa che finì per bloccare il sistema. Oggi, il contesto è del tutto diverso. La borghesia ha imparato dal precedente disastro economico, si è dotata di organismi internazionali e sorveglia la crisi come il latte sul fuoco. A partire dall’estate del 2007, le diverse banche centrali (principalmente la FED e la Banca centrale europea) hanno iniettato circa 2000 miliardi di dollari per salvare gli stabilimenti in difficoltà. Esse sono così riuscite a evitare il crollo netto e brutale del sistema finanziario. L’economia sta decelerando molto molto rapidamente ma non si blocca. Ad esempio, secondo il settimanale tedesco Der Spiegel del 20 settembre, in Germania la crescita per il 2009 dovrebbe essere soltanto dello 0,5%. Ma, contrariamente a ciò che dicono tutti questi specialisti e altri scienziati, la crisi attuale è molto più grave che nel 1929. Il mercato mondiale è completamente saturo. La crescita di questi ultimi decenni è stata possibile solo grazie ad un indebitamento massiccio. Il capitalismo crolla oggi sotto questa montagna di debiti![3]
Alcuni politici o alti responsabili dell’economia mondiale ci raccontano oggi che bisogna “moralizzare” il mondo della finanza in modo da impedirgli di commettere gli eccessi che hanno provocato la crisi attuale e permettere il ritorno ad un “capitalismo sano”. Ma si guardano bene dal dire (oppure non vogliono vedere) che sono proprio questi “eccessi” ad aver permesso la “crescita” degli scorsi anni, cioè la fuga in avanti del capitalismo nell’indebitamento generalizzato[4]. I veri responsabili della crisi attuale non sono gli “eccessi finanziari”; questi eccessi e questa crisi della finanza non fanno che esprimere la crisi senza via d’uscita, l’impasse storico nel quale si trova il sistema capitalista come insieme. E’ per questo che non ci sarà una vera “uscita dal tunnel”. Il capitalismo continuerà ad insabbiarsi inesorabilmente. Il Piano Bush di 700 miliardi di dollari, che dovrebbe “risanare il sistema finanziario”, sarà necessariamente un fiasco.
Se questo piano viene accettato[5] il governo americano recupererà dei prestiti di dubbia esigibilità per verificare i conti delle banche e rilanciare il credito. All’annuncio di questo piano, sollevate, le borse hanno battuto record di aumento in un solo giorno (ad esempio 9,5% per la Borsa di Parigi). Ma dopo hanno cominciato a fare su e giù poiché, in fondo, nulla è stato realmente risolto. Le cause profonde della crisi sono sempre là: il mercato è sempre saturo di merci invendibili e gli istituti finanziari, le imprese, gli Stati, i privati … crollano sempre sotto il peso dei loro debiti.
Le migliaia di miliardi di dollari gettate sui mercati finanziari dalle diverse banche centrali del pianeta non cambieranno nulla. Peggio ancora, queste massicce iniezioni di liquidità significano un nuovo aumento dei debiti pubblici e bancari.
La borghesia è in un vicolo cieco, essa ha solo cattive soluzioni da offrire. E’ per questo che la borghesia americana esita tanto a lanciare il “piano Bush”; essa sa che se nell’immediato ciò evita il panico, ciò nondimeno lo stesso intervento tende a preparare dei nuovi soprassalti di una violenza estrema per domani. Per George Soros (uno dei finanzieri più famosi e rispettati del pianeta), la “possibilità di uno scoppio del sistema finanziario esiste”.
Un’ondata di pauperizzazione senza precedenti dopo quella degli anni ‘30
Le condizioni di vita della classe operaia e della maggioranza della popolazione mondiale si stanno degradando brutalmente. Un’ondata di licenziamenti sta colpendo simultaneamente i quattro angoli del pianeta. Migliaia di fabbriche vengono chiuse. Secondo il quotidiano francese les Échos del 26 settembre, da qui alla fine di questo anno, nel solo settore della finanza, dovranno essere eliminati 260.000 posti di lavoro negli Stati Uniti e in Gran Bretagna. Ma, un’occupazione nelle finanze genera a sua volta in media altri quattro posti di lavoro! Il crollo degli organismi finanziari significa dunque la disoccupazione per centinaia di migliaia di famiglie operaie. I pignoramenti di case aumenteranno ancora. Due milioni e duecentomila americani sono stati già sfrattati dalla loro casa dall’estate del 2007 e ancora un milione di persone si troveranno per strada da qui a Natale. E questo fenomeno comincia a toccare l’Europa, in particolare la Spagna e la Gran Bretagna.
In Inghilterra, il numero di pignoramenti immobiliari è aumentato del 48% nel primo semestre del 2008. Da poco più di un anno, l’inflazione ha fatto il suo grande ritorno sulla scena. Il prezzo delle materie prime e dei prodotti alimentari è esploso, cosa che ha provocato carestie e sommosse in numerosi paesi[6]. Le centinaia di miliardi di dollari iniettati dalla FED e dalla BCE tendono ad accrescere ulteriormente questo fenomeno. Ciò si traduce in un impoverimento di tutta la classe operaia: per alloggiare, nutrirsi, spostarsi diventa sempre più difficile per milioni di proletari!
La borghesia non mancherà di presentare la nota delle spese della sua crisi alla classe operaia. In programma: riduzione dei salari reali, degli aiuti e dei sussidi (per la disoccupazione, la salute …), prolungamento dell’età di pensionamento, aumento delle imposte e moltiplicazione delle tasse. D’altra parte Georges W. Bush si è già anticipato: il suo piano da 700 miliardi di dollari sarà finanziato dai “contribuenti”. Le famiglie operaie dovranno sborsare molte migliaia di dollari ciascuna per riportare a galla le banche nello stesso momento in cui una grande parte di loro non arriva neanche più a trovare un alloggio!
Se la crisi attuale non ha l’aspetto improvviso del crack del 1929, ciò nondimeno essa farà subire gli stessi tormenti agli sfruttati del mondo intero. La vera differenza con il 1929 non sta sul piano dell’economia capitalista ma su quello della combattività e della coscienza della classe operaia. All’epoca, con il fallimento della rivoluzione russa del 1917 che aveva appena subito, lo schiacciamento delle rivoluzioni in Germania tra il 1919 ed il 1923 e le angosce prodotte dalla controrivoluzione staliniana, il proletariato mondiale era completamente abbattuto e rassegnato. Le scosse della crisi avevano anche provocato dei movimenti importanti di disoccupati negli Stati Uniti, ma questi non sono andati molto lontano ed il capitalismo era riuscito a portare l’umanità verso la Seconda Guerra mondiale. Oggi le cose stanno in tutt’altra maniera. A partire dal 1968, la classe operaia ha sollevato la cappa di piombo della controrivoluzione e se le campagne del 1989 sulla “fine del comunismo” le avevano portato un violento colpo, dal 2003, essa sviluppa la sua lotta e la sua coscienza. La crisi economica può essere il terreno fertile su cui germineranno la solidarietà e la combattività operaia!
Françoise (27 septembre)
[1] All’annuncio di tutti questi fallimenti a catena non si può che essere indignati pensando alle somme vertiginose intascate in questi ultimi anni dai responsabili di questi diversi organismi. Per esempio, i dirigenti delle prime cinque banche di Wall Street hanno toccato 3,1 miliardi di dollari in 5 anni (Bloomberg). Ed oggi, chi subisce le conseguenze della loro politica è la classe operaia. Anche se la dismisura del loro salario non spiega la crisi, essa rivela tuttavia ciò che è la borghesia: una classe di gangster che ha il più grande disprezzo per gli operai, la “gente umile”!
[2] La “Grande depressione” corrisponde alla crisi degli anni ‘30.
[3] I “crediti incerti” (cioè quelli ad alto rischio di rimborso) si situano oggi, a livello mondiale, tra i 3.000 e i 40.000 miliardi di dollari, secondo le valutazioni. Una così grande incertezza dipende dal fatto che le banche si sono vendute reciprocamente questi prestiti a rischio al punto tale da non riuscire più a valutarne l’ammontare reale.
[4] Come ha detto esplicitamente un giornalista all’emittente televisiva France 5: “Gli Stati Uniti hanno potuto prendere tempo grazie al credito”.
[5] Mentre scriviamo sono ancora in corso le discussioni tra il governo ed il congresso. (Nota della redazione italiana: in realtà il piano è stato poi approvato, e l’effetto è stato la settimana nera vissuta tra il 6 e il 10 ottobre, con crolli successivi delle borse e panico finanziario in tutto il mondo).
Poco più di un anno fa, la crisi immobiliare che si apriva negli Stati Uniti (la ormai celebre “crisi dei subprimes” – crediti a basso interesse ed ad alto rischio) ha dato l’avvio ad una brutale accelerazione della crisi economica mondiale. Da allora l’umanità è stata colpita in pieno da una vera e propria ondata di povertà. Subendo il peso angosciante dell’inflazione gli strati più indigenti della popolazione hanno dovuto far fronte all’orrore della fame (in numerose regioni del mondo, in pochi mesi, i prezzi delle derrate alimentari di base sono più che raddoppiati). Le rivolte della fame che sono esplose dal Messico al Bangladesh, passando per Haiti e l’Egitto, hanno rappresentato un tentativo disperato di far fronte a questa situazione insostenibile. Anche nel cuore dei paesi più industrializzati le condizioni di vita di tutta la classe operaia si sono degradate profondamente. Un solo esempio. Più di due milioni di americani, incapaci di rimborsare i prestiti ricevuti, sono stati cacciati dalla propria casa. E da qui al 2009 questa minaccia grava su un altro milione di persone.
Questa dura realtà, avvertita sulla pelle dagli operai e da tutti gli strati non sfruttatori del mondo, non può più essere negata dalla borghesia. I responsabili delle istituzioni economiche e gli analisti finanziari non riescono più a dissimulare la loro inquietudine:
A queste affermazioni vanno ad aggiungersi tutte quelle che attualmente impegnano le prime pagine della stampa o che rappresentano l’apertura di tutti i notiziari mondiali. Per esempio, rimanendo in Italia: “Forse non avete capito cosa sta succedendo. Qui il problema non è Wall Street che perde il 4%. Qui stiamo ad un passo dal collasso totale dei mercati, dalla crisi del sistema finanziario globale” (“Nell’abisso degli hedge fund - fondi ad alto rischio o fondi spazzatura”, Massimo Giannini, La Repubblica del 18 settembre 2009).
E la lista si potrebbe allungare a dismisura.
Gli scaffali di “Economia” delle librerie si riempiono di libri i cui stessi titoli proclamano il carattere catastrofico della situazione. Da La grande crisi monetaria del XXI secolo è cominciata di P. Leconte a L’implosione, la finanza contro l’economia di P. Corion, tutte queste opere ci annunciano un avvenire chiaramente catastrofico.
L’attuale crisi economica mondiale è dunque particolarmente grave ma questo, la classe operaia, già lo sapeva; è lei, infatti, che per prima ne subisce le brutali conseguenze. La vera questione è sapere se – caso mai - si tratta solo di un brutto momento passeggero, di una specie di “tromba d’aria” o, meglio ancora, di una “purga salvatrice” che permetterà all’attuale economia mondiale di punire gli eccessi della finanza per, domani, ripartire al meglio. A voler credere a tutti gli scribacchini della classe dominante non può essere altrimenti. “Io sono convinto che il 2010 dovrebbe essere un anno di forte ritorno alla crescita” così afferma J. Attali nello stesso giornale, e la borghesia per rincuorarsi “oh sì, noi ne siamo convinti”. Ma è questa la realtà? L’attuale accelerazione della crisi non dimostra forse qualcosa di molto più profondo: il fallimento storico del capitalismo?
1967-2007: quarant’anni di crisi
In effetti, la crisi non è cominciata nel 2007 ma alla fine degli anni 1960. A partire dal 1967 si sono accumulate delle gravi convulsioni valutarie e le grandi economie nazionali hanno visto poco a poco il loro tasso di crescita diminuire. E’ la fine del periodo di “prosperità” degli anni ‘50 e ‘60, quelli che la borghesia chiama “I Trenta Gloriosi”[1] o “il grande boom”. Tuttavia, nel 1967, questa crisi non esplose con la violenza e l'aspetto spettacolare del crac del 1929. La ragione è semplice. Gli Stati avevano tirato le lezioni del periodo nero tra le due guerre. Per impedire che l’economia fosse di nuovo sommersa dalla sovrapproduzione e non si bloccasse, questi hanno fatto ricorso ad un artificio: l’indebitamento sistematico e generalizzato
Attraverso questo indebitamento degli Stati, delle imprese e delle persone, “la domanda” si è mantenuta più o meno a livello “dell'offerta”; in altre parole, le merci sono state smaltite a colpi di prestiti.
Ma l’indebitamento è solamente un palliativo, non guarisce il capitalismo dalla malattia della sovrapproduzione. Incapace realmente di "curarsi", questo sistema di sfruttamento fa ricorso continuamente ed in maniera crescente a quest'artificio. Nel 1980, l’ammontare del debito negli Stati Uniti era più o meno uguale alla produzione nazionale. Nel 2006, il debito era 3,6 volte più grande (ossia 48300 miliardi di dollari)! Si tratta di una vera fuga in avanti. Il capitalismo vive su una montagna di debiti, è un fatto incontestabile; ma gli specialisti borghesi ci ribattono che poco importa in quanto, in tal modo, il sistema funziona. La realtà è tutt’altra. L’indebitamento non è una soluzione magica, il capitale non può trarre soldi dal suo cappello indefinitamente. È l’abc del commercio: ogni debito deve un giorno essere rimborsato a rischio di generare, per il creditore, serie difficoltà capaci di portarlo fino al fallimento. Si torna, dunque, al punto di partenza: il capitale non ha fatto che guadagnare tempo di fronte alla sua crisi storica. Ma c’è di peggio! Spostando gli effetti della sua crisi nel tempo, esso ha preparato in realtà delle convulsioni economiche ancora più violente. La burrasca della crisi asiatica del 1997, il suo aspetto folgorante e devastatore ne ha costituito una dimostrazione vivente. All’epoca, le famose tigri e dragoni asiatici conobbero una crescita record grazie ad un indebitamento massiccio. Ma il giorno in cui si dovette rimborsare, crollò tutto come un castello di carte. In qualche settimana, questa regione fu semplicemente dissanguata (con, ad esempio, il milione di nuovi disoccupati creato in poche settimane in Corea). Allora la borghesia non ebbe altra scelta, per evitare la propagazione di questa tempesta all’economia mondiale, che ricorrere a nuovi prestiti, a colpi di centinaia di milioni di dollari. Si tratta di una spirale infernale... e che si accelera! Un poco alla volta, il “rimedio” diviene sempre meno efficace ed il paziente deve, per sopravvivere, aumentare continuamente le dosi. Questa volta gli effetti della perfusione del 1997 non durarono che quattro anni. Nel 2001, in effetti, esplose la bolla Internet (anche questa additata come nuovo modello di sviluppo: la new economy). Indovinate quale fu la “soluzione” della borghesia? Un aumento spettacolare del debito! Le autorità economiche americane, consapevoli dello stato reale della loro economia e della sua dipendenza dalla perfusione di crediti, fecero girare la macchina del debito ad un punto tale che un analista della banca ABN-AMRO soprannominò l’allora direttore della FED, A. Greenspan, “l’Ercole della carta moneta”!
Il ritmo della crisi si accelera brutalmente
Quello dal 1967 al 2007 è dunque un lungo periodo di crisi con i suoi momenti di apparente calma poi di recessioni più o meno profonde. Ma da un decennio, la storia sembra accelerarsi ed il nuovo episodio attuale appare come una burrasca particolarmente violenta. La montagna di debiti accumulata durante quattro decadi si è trasformata in un vero Everest al seguito delle crisi del 1997 e del 2001 ed il capitale va giù a precipizio.
Per circa dieci anni, la borghesia americana ha favorito oltre ogni misura l’accesso al credito immobiliare agli strati più poveri della classe operaia. Ma, nello stesso tempo e in conseguenza della crisi economica, essa li ha impoveriti, attraverso i licenziamenti, la precarizzazione, la riduzione dei salari, la drastica riduzione dell’assistenza sanitaria, ecc. Il risultato era inevitabile: una buona parte di quelli che le banche hanno spinto ad indebitarsi per comprare una casa (o a ipotecare il loro alloggio per comprare semplicemente cibo, vestiti...) non si sono più trovati nella possibilità di rimborsare. Non vedendo più rientrare i “loro” soldi, le banche hanno accumulato perdite, perdite così importanti che sempre più degli istituti finanziari sono falliti o stanno per fallire. Or dunque, attraverso la "titrisation", (che è la trasformazione dei crediti in valori mobiliari scambiabili sul mercato mondiale come le altre azioni ed obbligazioni) gli organismi di prestito sono riusciti a rivendere i loro crediti a banche in tutti i paesi. È per tale motivo che la crisi dei “subprimes” ha colpito il sistema bancario in tutto il mondo. Negli Stati Uniti, il fallimento della banca Indymac è il più importante dal 1982. Senza l’aiuto delle banche centrali, la stessa banca svizzera UBS, che è una delle più grandi banche del mondo, sarebbe fallita. E poiché è sempre la classe operaia che paga le pentole rotte, le banche hanno soppresso 83000 posti di lavoro nel mondo dal 2007 e questa cifra potrebbe raddoppiare nei prossimi mesi (les Echos, 24 giugno 2008).
La banca è il cuore dell’economia, è essa che concentra tutti i soldi disponibili: se questa non c’è più, le imprese si fermano perché non possono più pagare i salari, né comprare materie prime e le macchine; soprattutto, non possono più contrattare alcun nuovo prestito. Ora, anche le banche che non sono in fallimento sono sempre più reticenti ad accordare un prestito per paura di non essere rimborsate nel clima economico attuale.
La conseguenza è inesorabile con il rallentamento brutale dell’attività economica a cui assistiamo oggi. Nella zona euro, il PIL si è abbassato dello 0,2% nel secondo trimestre del 2008. Nell’industria, sono stati soppressi migliaia di posti di lavoro alla Peugeot, Altadis, Unilever, Infineons. La General Motor è addirittura minacciata di fallimento ed annuncia la possibile soppressione di 73.000 posti di lavoro (le Figaro, 10 marzo 2008). Quando la direzione della Renault afferma, mentre annuncia 5000 licenziamenti, che "è meglio farlo quando si comincia a vedere il vento alzarsi piuttosto che quando il temporale è scoppiato", (le Monde, 25 luglio 2008) significa proprio che è in atto un incendio e che il peggio per la classe operaia deve ancora venire!
Ma una domanda viene immediatamente alla mente: perché non continuare ad aumentare l’indebitamento come dopo l’esplosione della bolla Internet? Non abbiamo più un “Ercole della carta moneta” alla FED degli Stati Uniti o altrove?
In effetti, il forte ritorno attuale dell’inflazione mostra che il debito ha raggiunto dei limiti che non possono essere superati, per il momento, altrimenti il rimedio potrebbe essere peggiore del male. L’indebitamento significa la creazione di quantità di danaro sempre più considerevoli. Secondo l’economista P. Artus, “le liquidità aumentano del 20% l’anno dal 2002”. La creazione di tali masse di denaro può solo generare forti spinte inflazionistiche[2]. Inoltre, gli speculatori del pianeta hanno accentuato questa tendenza inflazionistica scommettendo massicciamente su petrolio e sulle merci alimentari di base. Non potendo scommettere in borsa in modo classico sulle imprese (considerando la crisi), né sulla “nuova economia” (che ha fatto “flop” nel 2001), né nei beni immobiliari (che stanno crollando), gli speculatori si sono in realtà tutti ripiegati su quello che la gente è costretta ad acquistare, petrolio e cibo, a costo di sprofondare nella fame una parte dell'umanità![3]
Il pericolo è grande per l’economia capitalistica. L’inflazione è un vero veleno, può trascinare la caduta delle valute ed il disorientamento del sistema valutario mondiale. L’attuale indebolimento del dollaro ne sta indicando la strada. Se accadesse un tale evento, comporterebbe un blocco del commercio mondiale poiché la valuta americana costituisce un riferimento internazionale. D’altra parte è piuttosto significativo che i direttori delle grandi banche centrali (la FED, la BCE...) in tutti i loro interventi ci dicano sempre due cose contraddittorie. Da una parte, per evitare la recessione, affermano che è necessario allentare ancora un po’ la briglia del credito, che occorre abbassare i tassi d’interesse per sviluppare la domanda. Dall’altra, questi stessi personaggi vogliono lottare contro l’inflazione, la qualcosa significa... aumentare i tassi d’interesse per frenare il debito! Questi grandi borghesi non sono schizofrenici, essi esprimono soltanto la contraddizione reale in cui è stretto il capitalismo. Questo sistema è attualmente preso tra l’incudine della recessione ed il martello dell’inflazione. In altre parole, la borghesia d’ora in poi deve navigare tra due acque: frenare l’indebitamento per limitare l’inflazione e non chiudere troppo i rubinetti del credito per non bloccare l’economia, come accadde nel 1929. In breve, si trova realmente in una impasse.
La recessione attuale è un nuovo episodio particolarmente grave e violento del fallimento storico del capitalismo. Questa crisi, che dura da quarant'anni, ha cambiato ritmo, segna una vera accelerazione, anche se bisogna guardarsi dal credere che, colpito da una sorta di “crisi finale”, il capitalismo vada verso un blocco definitivo e a scomparire da solo. Ciò che è importante è che questa situazione, mai vista dal 1929, avrà delle implicazioni considerevoli sulle condizioni di vita della classe operaia così come sullo sviluppo delle sue lotte. La borghesia va ad indirizzare i suoi fulmini sul proletariato; come sempre, farà pagare a quest'ultimo la sua crisi. E qui, una cosa è certa: nessuna delle politiche economiche che ci propongono i differenti partiti (dall’estrema destra all’estrema sinistra), in qualunque paese, è capace di migliorare la situazione. Solamente la lotta della classe operaia può impedire alla borghesia di prendere le sue misure drastiche. Comunque, poiché l’inflazione che si sviluppa tocca tutti i lavoratori, crea un terreno favorevole alla lotta unita e solidale. Lo sviluppo della lotta della classe operaia è non solo l’unico mezzo che può impedire alla borghesia di colpire, ma è anche il solo mezzo realista per aprire la strada alla distruzione del capitalismo ed all’avvento di una società - il Comunismo - in cui non esisteranno più le crisi perché finalmente non si produrrà più per il profitto ma per soddisfare le necessità umane.
Vitaz (30 agosto)
Da Révolution Internationale 3 septembre, 2008
[1] Espressione consacrata dall'opera di riferimento di J. Fourastié: “I Trenta Gloriosi, o la rivoluzione invisibile dal 1946 a 1975”, Parigi, Fayard, 1979. Attualmente nella CCI è in atto un dibattito per comprendere meglio le risorse di questo periodo fastoso dell’economia capitalista, dibattito che abbiamo cominciato a pubblicare nella nostra stampa (leggi "Débat interne au CCI : Les causes de la période de prospérité consécutive à la Seconde Guerre mondiale" [125] nella Revue Internationale n°133, 2° trimestre 2008). Incoraggiamo vivamente tutti i nostri lettori a partecipare a questa discussione durante le nostre riunioni (permanenze, riunioni pubbliche) o scrivendoci lettere o mail.
[2] Non possiamo, nel quadro di quest’articolo, sviluppare e spiegare il legame tra la massa di denaro disponibile ed il suo valore. Semplicemente, ogni volta che la carta moneta gira a pieno regime, che della nuova moneta viene coniata e gettata massicciamente sul mercato, questi stessi soldi perdono valore e ciò si traduce in una spinta dell’inflazione, ossia, concretamente, in un aumento generalizzato dei prezzi.
[3] Brevemente, notiamo che la sinistra della sinistra borghese e gli altermondialisti non finiscono mai di chiedere agli Stati di appropriarsi di tutte le masse finanziarie della speculazione per iniettarle nell’economia sotto forma, per esempio, di grandi lavori. Qui si vede la truffa di questa proposta. Essa avrebbe essenzialmente per effetto l’aggravarsi dell'inflazione. In altre parole, questi propongono di estinguere il fuoco con la benzina!
L’estate che si è appena chiusa da qualche giorno ha segnato un’accelerazione incredibile del processo di degradazione del sistema sociale, politico ed economico in cui viviamo. In particolare lo sviluppo della barbarie ha fatto passi da gigante attraverso i vari attentati che hanno insanguinato le strade e le piazze di tanti paesi come Afghanistan, Iraq, Pakistan, Turchia, Cina, India, Algeria, Libano … con circa 350 morti e 850 feriti in soli 45 giorni tra luglio ed agosto.
Gli attentati si sono succeduti, giorno dopo giorno, al ritmo sfrenato di una danza macabra:
· 6 luglio, 11 morti a Islamabad (Pakistan) e 22 a Nangarhar (Afghanistan);
· 7 luglio, 41 morti e 150 feriti a Kabul (Afghanistan);
· 9 luglio, 3 morti a Istanbul (Turchia);
· 13 luglio, 18 morti e 35 feriti in Afghanistan;
· 21 luglio, 2 morti e 14 ferii in seguito a delle esplosioni quasi simultanee in due autobus a Kumming, capitale della provincia cinese dello Yunnam;
· 26 luglio, 17 explosioni (!) che provocano 49 morti e 160 feriti a Ahmedabad (in India);
· 27 luglio, 2 esplosioni successive a Istanbul (in Turquie) uccidono 17 persone e ne feriscono 154;
· 28 luglio, 39 morti e 146 feriti negli attentati quasi simultanei a Bagdad e Kirkouk, (in Irak);
· 3 agosto, 25 feriti a Tizi Ouzou (in Algérie);
· 5 agosto, 16 morti nella provincia di Xinjiang (in Cina);
· 10 août, 8 morti e 17 feriti a Zemmouri (in Algeria);
· 13 agosto, 14 uccisi e 40 feriti a Tripoli (in Libano);
· 17 août, 8 uccisi a Skikda (in Algeria);
· 18 août, 9 morti e 13 feriti nella provincia di Khost (in Afghanistan);
· 19 agosto, 43 morti e 45 feriti a Issers (in Algérie);
· 20 agosto, 11 morti e 31 feriti a Bouissa (in Algeria);
Bisogna denunciare con forza i massacri delle popolazioni civili che costituiscono ormai il principale obiettivo di questi attentati. Questi infatti colpiscono i luoghi più popolati, come i mercati o le scuole. Ma in aggiunta a ciò, è la ferocia con cui vengono condotti che lascia interdetti:
- in Algeria, a Zemmouri, il 9 agosto un kamikaze si è fatto saltare al volante della sua automobile uccidendo 8 giovani con meno di 25 anni, dopodiché un gruppo armato ha sparato contro le autoambulanze per ritardare l’arrivo dei soccorsi!
- il 20 agosto, nella città di Dera Ismaïl Khan, sempre in Algeria, un attentato con bombe è avvenuto davanti … al pronto soccorso di un ospedale! Il bilancio è stato di 23 morti e di 15 feriti.
Il responsabile di tutta questa carneficina non è altro che il capitalismo. Il terrorismo è il frutto dello scontro tra le varie fazioni borghesi. Esso è l’arma attraverso la quale le borghesie più deboli tentano di difendere i loro sordidi piccoli interessi locali (come oggi fanno i “signori della guerra” in Afghanistan o in Iraq), anche se le grandi potenze non disdegnano esse stesse di farne uso, se non altro per trarre profitto dalle conseguenze derivanti da tali atti terroristici. Infatti, manipolando opportunamente la situazione, queste non esitano ad utilizzare, nella misura in cui ci riescono, questa violenza cieca per destabilizzare i loro rivali (come stanno facendo, per esempio, attualmente gli Stati Uniti in Algeria sostenendo l’Al-Qaida locale contro la Francia).
La situazione attuale rivela tutta la natura guerriera e sanguinaria della borghesia. La moltiplicazione di attentati e la loro estensione geografica mostrano chiaramente la dinamica di questo sistema: il capitalismo sprofonda in un abisso e rischia di trascinarvi tutta l’umanità. Più che mai, la sola alternativa è “socialismo o barbarie”!
Map (21 agosto)
Pubblichiamo la posizione espressa questa estate, all’inizio del conflitto in Georgia, dai compagni del KRAS, piccolo gruppo appartenente al movimento anarco-sindacalista con base principalmente in Russia. Sebbene esistano differenze su diverse questioni tra le due organizzazioni, la CCI mantiene relazioni politiche fraterne con il KRAS: relazioni cementate dalle posizioni internazionaliste che condividiamo. Come il lettore potrà notare questo volantino, sulla scia di quelli precedenti, soprattutto durante la guerra in Cecenia, è un esempio della chiara posizione internazionalista difesa dal KRAS, caratterizzata da:
· la denuncia delle finalità capitaliste e imperialiste dei vari governi nazionali e della loro natura rapace, specialmente dei poteri forti;
· il rifiuto della guerra sia in campo imperialista che capitalista;
· l’appello diretto a tutti i lavoratori dei paesi belligeranti perché esprimano la loro solidarietà di classe attraverso le frontiere e dirigano la lotta contro i loro rispettivi sfruttatori.
E’ per questo che noi diamo il nostro pieno sostegno all’essenziale di questa presa di posizione.
Vogliamo tuttavia precisare che lo slogan diretto ai soldati alla fine del documento (disobbedire agli ordini dei comandanti, rivolgere le armi contro di loro, ecc.), benché perfettamente corretto dal punto di vista di una prospettiva storica (peraltro sono stati messi in pratica nella rivoluzione russa nel 1917 e in quella tedesca nel 1918), non può essere immediatamente possibile, in quanto non esiste, né a scala regionale né internazionale, sufficiente forza e maturità della lotta della classe operaia. Nel contesto attuale, se i soldati mostrassero un’attitudine di questo tipo sarebbero esposti alla peggiore delle repressioni senza poter contare sulla solidarietà dei fratelli di classe.
Ciò detto, ci teniamo a salutare i compagni del KRAS per la loro difesa intransigente dell’internazionalismo e per il coraggio politico dimostrato da molti anni in condizioni particolarmente difficili, tanto dal punto di vista della repressione poliziesca che per il peso delle mistificazioni, specialmente di quelle nazionaliste, che continuano a pesare sulla coscienza dei lavoratori russi come risultato della contro-rivoluzione stalinista durata decenni. Abbiamo fatto qualche minima correzione in inglese (poi in italiano n.d.t.) dalla versione originale pubblicata su libcom.org [126].
CCI (25/08/2008)
NO AD UNA NUOVA GUERRA NEL CAUCASO!
La scoppio di una azione militare tra Georgia e Ossezia del Sud minaccia di sviluppare una guerra su larga scala tra la Georgia, sostenuta dalla Nato, e la Russia. Sono migliaia le persone che sono state già uccise o ferite, di cui la maggior parte civili inermi. Intere città e numerose infrastrutture sono state rase al suolo. La società è stata annegata da una straripante corrente di isteria nazionalista e sciovinista.
Come sempre e dovunque nei conflitti tra gli stati, non c’è e non ci può essere alcunché di giusto in questa nuova guerra del Caucaso: ci sono solo colpevoli. La brace su cui si è soffiato per anni ha prodotto alla fine una fiammata militare. Il regime di Saakashvili in Georgia ha condotto due terzi della popolazione nella miseria profonda, e più montava nel paese la collera contro questa situazione, più questo regime cercava una scappatoia alla propria impasse sotto forma di una “piccola guerra vittoriosa” nella speranza che ciò potesse cancellare tutto. Il governo russo, dal canto suo, è molto determinato a mantenere la sua egemonia nel Caucaso. Oggi esso ha la pretesa di far credere di difendere i deboli, ma si tratta di pura ipocrisia: di fatto Saakashvili non fa che riprodurre quanto la soldatesca di Putin ha fatto in Cecenia da 9 anni a questa parte. I circoli dirigenti di Ossezia e dell’Abkhazia aspirano a rinforzare il loro ruolo di alleati esclusivi della Russia nella regione e allo stesso tempo a raccogliere le popolazioni impoverite intorno alla torcia dell’“idea nazionale” e della “salvezza del popolo”. I leader di Stati Uniti, Europa e NATO, invece, sperano di indebolire il più possibile l’influenza del rivale russo nel Caucaso, per assicurarsi il controllo sulle risorse petrolifere e sul trasporto di queste. Diventiamo così testimoni e vittime di una nuova spirale della lotta mondiale per l’energia, il petrolio e il gas combustibile.
Questo conflitto non porterà nulla di buono ai lavoratori, che essi siano essi georgiani, osseti, abkasiani, o russi, niente fuorché lacrime e sangue ed incalcolabili disastri e privazioni. Noi esprimiamo la nostra profonda simpatia a tutti gli amici e parenti delle vittime, alle persone che a causa della guerra hanno perso la casa e i mezzi di sussistenza.
Noi non dobbiamo cadere sotto l’influenza della demagogia nazionalista che ci chiede l’unità con il “nostro” governo sventolando la bandiera della “difesa della patria”. I principali nemici delle persone comuni non sono i fratelli e le sorelle impoverite dell’altro lato della frontiera o di qualsiasi altra nazionalità. I nemici sono i governanti e i padroni di ogni genere, i presidenti e i ministri, gli uomini d’affari e i generali, tutti quelli che provocano le guerre per salvaguardare il loro potere e le loro ricchezze. Noi facciamo appello agli operai di Russia, Ossezia, Abkhazia e Georgia perché rigettino l’esca del nazionalismo e del patriottismo e perché rivolgano la loro collera contro i dirigenti e i ricchi di entrambi i lati della frontiera.
Soldati russi, georgiani, osseti e abkhaziani! Non obbedite agli ordini dei vostri comandanti! Voltate le vostre armi contro chi vi manda in guerra! Non sparate ai soldati “nemici” – fraternizzate con loro: piantate il fucile per terra!
Operai! Sabotate lo sforzo bellico, abbandonate il lavoro per andare alle riunioni e alle manifestazioni contro la guerra, organizzatevi e mettetevi in sciopero!
No alla guerra e a chi la organizza – dirigenti e ricchi! Si alla solidarietà della classe operaia al di là delle frontiere e delle linee del fronte!
Federazione di lavoratori dell’educazione, delle scienze e delle tecniche, KRAS-IWA (Agosto 2008)
Dopo i sanguinosi scontri del mese di agosto in Georgia1, la propaganda borghese, in particolare in Europa, ci assicura che i governi faranno tutto il possibile per trovare una soluzione di pace nel Caucaso. Come prova della loro buona fede citano le operazioni umanitarie in corso, in cui navi da guerra americane e della NATO portano viveri e medicinali alla popolazione georgiana. Di fronte alla curiosità che suscita questo aiuto “umanitario” portato con navi da guerra invece che con navi mercantili, i nostri democratici, gente di sentimenti buoni, evocano la presenza malefica della marina da guerra russa che occupa il litorale georgiano. Certo, i Russi sono pronti a difendere i territori conquistati, ma si possono avere molti dubbi sulla sincerità di questi “umanitari” quando si vede che è una vera e propria armada che lo Stato americano e i suoi alleati della NATO hanno inviato nelle acque del mar Nero.
Sono sette le navi dell’Alleanza (3 americane, una spagnola, una tedesca, una polacca e una con la bandiera della NATO) che sono schierate in tutti i punti chiave del mar Nero, tra cui la nave idrogeografica americana USNS Pathfinder capace di individuare i sottomarini a una distanza di più di 100 chilometri, il cacciatorpediniere lanciamissili McFaul equipaggiato con missili da crociera Tomahawk che possono trasportare testate convenzionali o nucleari (e la cui potenza di fuoco fece stragi spaventose al momento della prima Guerra del Golfo del 1991) e la nave ammiraglia Maount Whitney della 6^ flotta americana, nave da guerra dotata del sistema di comunicazione e sorveglianza più sofisticato esistente, vero direttore d’orchestra di questa operazione sedicente pacifica e umanitaria!
Un tale spiegamento di forze non ha evidentemente niente di filantropico, né di altruista. Il suo vero obiettivo è di “fare una valutazione dello stato delle forze armate georgiane” e, come sottolinea la missione senatoriale americana presente in Georgia, “gli Stati Uniti devono fornire un’ assistenza alle forze armate georgiane, dotandole delle più moderne armi antiaeree e anticarro, e continuando l’addestramento delle truppe”2.
Chiaramente, “l’aiuto umanitario” serve da paravento alla fornitura di armi micidiali e al rafforzamento dell’esercito georgiano. Tutto questo prefigura la risposta americana al colpo subito con l’invasione della Georgia da parte dell’esercito russo nello scorso agosto e il riconoscimento da parte russa dell’indipendenza dell’Ossezia del sud e dell’Abkazia. Questa sedicente operazione umanitaria concentra nei fatti tutti gli ingredienti di una nuova e pericolosa crescita della tensione bellica il cui obiettivo è sempre l’Asia centrale ex-sovietica, zona di immensa importanza, sia per le sue riserve energetiche che per la sua posizione geostrategica rispetto a Russia, Cina ed India.
Le popolazioni, vittime delle azioni militari, non hanno quindi niente da aspettarsi dal preteso aiuto umanitario militarizzato in corso. Come nei precedenti “interventi per la pace” (Somalia 1992, Bosnia 1993, Ruanda 1994, e tanti altri: Kossovo, Darfur, Congo, Palestina,…) gli aiuti umanitari sono degli alibi cinici al servizio della guerra, complementi indispensabili ai “discorsi di pace” che ci ammanniscono tutti gli Stati imperialisti, piccoli o grandi, per difendere i loro interessi.
Daniel (26 settembre)
1. Vedi l’articolo “Guerra in Georgia: tutte le potenze sono fautrici di guerra!”, sul nostro sito web
2. ilmanifesto.it [128]
Le ultime elezioni hanno visto la piena vittoria di Berlusconi e dei suoi alleati di destra. Con la maggioranza assoluta un uomo d’azienda come Berlusconi non poteva che darsi da fare a risolvere i problemi immediati con la bacchetta magica. Non poteva giocherellare come in passato con “la sinistra che ci ostacola” e frasi ad effetto. Il primo problema che incominciava a puzzare un po’ troppo era la presenza massiccia in molte zone del napoletano di cumuli di immondizia. Il problema l’ha risolto andando a ramazzare anche lui (almeno a livello propagandistico). Ha usato l’esercito e nuove discariche senza preoccuparsi più di tanto degli effetti sull’ecosistema locale che questi rifiuti provocheranno. L’aumento dei malati di cancro e altre malattie, dei nati deformi non sarà visibile a breve mentre oggi conosciamo, forse, il numero dei morti provocati dall’interramento nella stessa regione di milioni di quintali di rifiuti pericolosi di ogni genere fatto negli anni precedenti da personaggi senza scrupoli, anche quando a governare c’era la cosiddetta sinistra di Prodi. Saviano con il libro “Gomorra” ha svelato queste notizie alla gran massa ma dobbiamo essere così ingenui da credere che i politici dei vari partiti della sinistra parlamentare, del Pd e Rifondazione Comunista non sapessero queste cose?
In breve ad ogni governo la sua “monnezza”.
Tra gli altri problemi da affrontare appena insediatosi, Berlusconi ha trovato l’affaire Alitalia e la ristrutturazione della scuola e dell’apparato statale. Il fallimento dell’Alitalia poteva essere evitato solo svendendola ad una compagnia estera o regalandola ad una cordata italiana. Berlusconi ancora prima delle elezioni è riuscito a bloccare la vendita dell’Alitalia ad AirFrance facendo balenare l’idea di una cordata italiana che effettivamente dopo alcuni mesi è venuta fuori ma con una richiesta di licenziamenti difficile da controllare e soprattutto con la svendita totale della compagnia e l’accollamento dei debiti da parte dello Stato. In breve l’ennesimo furto ai danni della collettività. In quanto a ristrutturazione dell’apparato statale e soprattutto della scuola, lo Stato non poteva aspettare ancora. Il debito statale pesa come un macigno ed è necessario ridurlo con grossi tagli nei classici settori gestiti dallo stato: pubblico impiego, scuola, sanità e pensioni. Settori con un alto numero di lavoratori, dove la spesa per gli stipendi fa la parte grossa. Per poter affrontare questi tagli è stata necessaria all’inizio una campagna stampa gestita in tandem dal sottosegretario Brunetta e dalla ministra della Pubblica Istruzione, Gelmini, sui fannulloni che vanno a prendere il caffè in orario d’ufficio o che sono sempre in malattia e sulla necessità che gli alunni indossassero i grembiulini! La Gelmini ci ha aggiunto ciò che il suo ufficio stampa le ha procurato, (perché lei, che di scuola non capisce niente, ci mette solo il corpo come portavoce), la necessità per crescere bene di avere un singolo maestro per classe al posto di 3 per due classi. Con questo provvedimento saltano tutte le attività esterne compreso lo studio della lingua straniera. Ma chi aveva già preparato questo attacco frontale da 87.000 licenziamenti o mancate assunzioni? Chi da molti anni sta fondendo scuole diverse, dalle materne alle superiori, in Istituti Comprensivi con un solo dirigente, una sola segreteria e classi più numerose? E chi ha fatto finta di opporsi? La chiusura di molte segreterie e la mancata assunzione di bidelli avviene da anni, è avvenuta a ritmi sostenuti anche sotto Prodi e compagni, a danno di alunni, genitori, e lavoratori della scuola. La cura nella preparazione degli alunni è ridotta perché è necessario nello stesso tempo organizzarsi per fare più cose assieme, i ragazzi vengono abbandonati a se stessi, il bullismo aumenta, i ragazzi con handicap vengono lasciati a se stessi, lo sporco avanza perché poche persone devono gestire interi corridoi, controllare la porta, rispondere al telefono, etc. Gli 87.000 licenziamenti (o mancate assunzioni, cioè più disoccupati in giro) di docenti promessi dalla Gelmini nei prossimi 3 anni si affiancano ai 45.000 posti in meno del personale Ata (segreterie e bidelli) e si sommano a quelli effettuati dal governo Prodi negli anni scorsi; nei prossimi anni la mannaia arriverà nelle scuole medie e superiori con la riduzione delle ore di scuola (dicono che faccia bene agli alunni ma soprattutto alle tasche dello stato) e l’aumento delle ore di lavoro per gli insegnanti.
Lo stesso ritmo di tagli è avvenuto nel settore della sanità con la chiusura di molti ospedali locali e la riduzione del numero dei posti letto. Gli ammalati vengono trattati come automobili in un garage, ammassati nei corridoi e abbandonati a se stessi. I casi di mala sanità, come si usa, dire sono in costante aumento. La quantità diventa sinonimo di efficienza o eccellenza a scapito della qualità dell’assistenza.
I giornali, la tv non fanno che sfornare statistiche sul fatto che lavorare fa bene (tanto spetta a noi e non a loro) e quindi promettono di allungare i tempi per la pensione. Tra Prodi (senza dimenticare PD e simili) e Berlusconi fanno a gara a chi fa campare di più i vecchi sul posto di lavoro. I sindacati naturalmente gestiscono la parte di chi dovrebbe difendere i lavoratori nella contrattazione aziendale, indicono scioperi farsa, chi in un giorno e in un settore, chi in altri etc., in modo da mettere i lavoratori gli uni contro gli altri, come nel caso Alitalia. Dopo decenni di gestione sindacale abbiamo perso tutto, non c’è una sola vittoria che possiamo ricordare, salvo quella del 1987 nella scuola ottenuta perché abbiamo lottato uniti come lavoratori, fuori e contro i sindacati.
I precari non hanno più diritto a nulla, sono peggio di uno schiavo che bene o male non doveva pagare né vitto né alloggio anche quando non lavorava. Ora i precari, anche quando lavorano, per sopravvivere devono chiedere un contributo alle famiglie, tanto da far passare a molti l’idea di cercare lavoro in altre città.
In definitiva vediamo che tutto ciò che Berlusconi sta facendo non lo estrae solo dal suo sacco, ma da un grosso sacco comune in dotazione a qualsiasi governo di destra o sinistra. È comunque vero che Berlusconi, Fini e Bossi hanno più disinvoltura nell’usare le maniere forti contro operai e disoccupati[1] a differenza della sinistra, ma questo avviene non perché la sinistra sia più vicina ma perché non deve scoprirsi di fronte ai lavoratori, deve camuffare i suoi attacchi, per poter mantenere la sua presenza nelle file dei lavoratori ed essere pronta a bloccare ogni tentativo autonomo di risposta di classe. I soldi che Berlusconi ha fatto risparmiare a molte famiglie con l’eliminazione dell’ICI sulla prima casa li riprenderà con gli interessi con tutti gli attacchi che sta facendo contro i lavoratori ma questi attacchi non hanno nulla da invidiare a quelli di Prodi, Veltroni, D’Alema e Bertinotti quando hanno innalzato l’età lavorativa, aumentato le tasse e ridotto i salari, mentre spendevano denaro pubblico per la non edificante impresa di andare a massacrare misere popolazioni nelle loro imprese imperialiste (cioè nelle missioni militari in Afghanistan, Kosovo, ecc.).
Se tutti i governi, in tutto il mondo, attuano le stesse politiche, e cioè attacchi a ripetizione contro i lavoratori, lo smantellamento dello stato sociale, la precarizzazione del lavoro, salari da fame, è perché quello che decide la politica dei governi è la situazione dell’economia capitalista, che è al collasso, come le vicende di questi giorni stanno dimostrando.
Noi lavoratori non abbiamo nulla da aspettarci da Berlusconi ma meno che mai dal ritorno di un qualsivoglia governo di sinistra, perché nessuno può rimettere in piedi un sistema che non funziona più.
La nostra strada deve essere la ripresa di una lotta unitaria, autonoma e autorganizzata senza divisione settoriale, di categoria o sindacale.
Oblomov, settembre ‘08
[1] 1. Provvedimenti, come l’uso dell’esercito assieme alle forze di polizia, non hanno solo lo scopo di distrarre l’attenzione dagli attacchi salariali e normativi o occupazionali, ma soprattutto di mostrare che lo Stato è pronto ad azioni repressive in caso di risposta di classe. L’inutilità dell’esercito nella difesa dei cosiddetti cittadini la si è vista con l’uccisione a bastonate del giovane ragazzo a Milano vicino la stazione centrale e il massacro di 6 lavoratori africani a Castelvolturno. Da aggiungere anche che i governi, di qualsiasi colore, non hanno alcuna intenzione di tagliare le spese dell’esercito perché questo implicherebbe una ritirata dello Stato dalla competizione imperialista a livello mondiale. Berlusconi è stato pronto ad inviare osservatori in Georgia, mentre Prodi ad inviare l’esercito in Libano. Ambedue difendono gli stessi interessi, quello della borghesia e del suo Stato.
Sulla vicenda Alitalia sono tantissime le lezioni che possiamo trarre. E’ molto probabile, che Berlusconi con la “cordata italiana” abbia voluto fare un favore ai suoi amichetti (a buon rendere evidentemente), così come sembra vero che nel decreto sull’Alitalia si sia cercato di fare passare in maniera nascosta un altro favore per altri amici degli amici; è altrettanto vero che il piano contenuto nella proposta di acquisto fatta da Air France in marzo era migliore di quello definito Fenice, presentato dalla cordata italiana, proposta fatta fallire da Berlusconi sia per ragioni elettorali che per il secondo fine che c’era dietro il suo slogan di mantenere “l’italianità” della compagnia di bandiera. Tutto questo può evidentemente farci riflettere sul grado di corruzione della borghesia e sull’irresponsabilità anche dei governi, che dovrebbero fare l’interesse generale del capitale nazionale e non quello di singoli capitalisti o di qualche frazione politica. Queste osservazioni hanno sicuramente la loro importanza, ma le cose più importanti su cui soffermarsi relativamente alla vicenda Alitalia sono altre: da un lato il motivo reale del fallimento della compagnia, dall’altro il ruolo che i sindacati hanno giocato nel far passare le migliaia di licenziamenti con cui si è “salvata” l’Alitalia.
Già nell’articolo del numero 155 di questo giornale, aprile 2008, mettevamo in evidenza come la crisi dell’Alitalia fosse il risultato della crisi generale del capitalismo prima che dell’incapacità dei manager che l’hanno diretta negli ultimi decenni (cosa che pure c’è stata): “Il caso Alitalia è da diversi punti di vista estremamente indicativo della situazione attuale dell’economia e dei rapporti tra le classi:
- innanzitutto dimostra quanto sia precaria la situazione economica mondiale, per cui anche una grande azienda, sostenuta dallo Stato, può arrivare al fallimento. Nel capitalismo un’azienda, non importa di quale settore si occupi, può continuare a sopravvivere solo se è competitiva rispetto alle sue concorrenti. E quello del trasporto aereo è un settore che, negli ultimi decenni, ha visto un certo sviluppo di traffici, ma anche la nascita di tante nuove compagnie, in particolare le low cost, che ha creato grande concorrenza e grandi sconvolgimenti: quello che sta succedendo oggi all’Alitalia è già accaduto ad altri grandi compagnie del settore, come i colossi americani Delta Airlines e TWA, o le compagnie di bandiera Sabena, belga, e Swissair, svizzera, tutte ridimensionate e/o vendute. Deve essere quindi chiaro che l’Alitalia, dal punto di vista borghese, non può continuare ad andare avanti, e l’alternativa, sempre dal punto di vista borghese, è tra il piano di un compratore, tipo Air France, che assicura la sopravvivenza della compagnia, e il fallimento puro e semplice, che significa libri contabili in tribunale, commissariamento e smantellamento della compagnia (con la possibilità residua di un recupero di piccole parti dell’ex compagnia, come è avvenuto per Sabena e Swissair).”
Fallito, o fatto fallire il piano Air France, che comunque prevedeva tagli e licenziamenti, la situazione è andata sempre peggio, visto anche l’aumento vertiginoso del prezzo del carburante, per cui il fallimento è diventato una prospettiva reale. Insomma c’erano le condizioni apparenti per fare un taglio ancora più consistente di quello previsto nel piano Air France. A queste condizioni la famosa “cordata italiana”, già data per fatta da Berlusconi a marzo, si è potuta formare, visto peraltro i vantaggi che il governo era disposto a concederle (in primo luogo separare i debiti, lasciati a carico del vecchio azionista, cioè lo Stato, e offrendo ai compratori solo la parte buona dell’Alitalia). Ma anche così, anche con una nuova compagnia che partiva senza il fardello dei debiti di Alitalia, era difficile affrontare la concorrenza internazionale se non si procedeva a un robusto taglio del personale, dei salari e delle condizioni di lavoro di tutto il personale. Si è partiti così dalla provocazione di un contratto che tagliava del 25% i salari di tutte le categorie e riduceva a 12.500 gli effettivi della nuova compagnia (dagli attuali 19.798 fissi di Alitalia più Air One – cui bisognerebbe aggiungere i 3.362 lavoratori a tempo determinato) (Repubblica del 16/09/08), per chiudere con un taglio del 6-7% dei salari ed effettivi ridotti a… 12.500! (Repubblica del 28/09/08). E’ questa la grande vittoria a cui i sindacati hanno portato i lavoratori dell’Alitalia, e possono ben essere soddisfatti che oggi ci sono 10.700 posti di lavoro in meno e 12.500 “fortunati” lavoratori più sfruttati di prima!
Anche se si cerca di attribuire il fallimento di Alitalia ai manager che l’hanno gestita (i quali possono anche avere una parte di responsabilità e sicuramente sono stati ben pagati per questi risultati), il dato di fatto è che il sistema capitalista non funziona e a pagarne le spese sono sempre e solo i lavoratori (non dimentichiamo che oltre a quanto pagato dai lavoratori di Alitalia, c’è anche il miliardo e mezzo di euro del debito Alitalia che è stato risparmiato ai nuovi compratori e che sarà pagato dall’insieme dei lavoratori o con altre tasse o con tagli ai servizi sociali).
Per far passare quello che è, a tutt’oggi, uno dei più grossi piani di ristrutturazione mai visti in Italia, si è scatenata tutta la santa alleanza della borghesia: dai politici, di destra e sinistra, alla stampa, ai sindacati, che possono ben rivendicare il ruolo principale in questo sporco lavoro.
Tutti hanno potuto notare la drammatizzazione che della situazione dell’Alitalia è stata fatta da giornali e TV: “l’Alitalia perde cento milioni al mese”; “l’Alitalia non ha più soldi in cassa, nemmeno per pagare il carburante” (Repubblica del 14 settembre, per esempio, titolava “soldi finiti, da lunedì – 15 settembre – voli a rischio”), eppure oggi, un mese dopo, gli aerei Alitalia volano ancora!; “l’alternativa al piano Fenice è il fallimento puro e semplice, con il licenziamento di tutti i dipendenti”. E quanto veleno è stato riversato sui lavoratori: “privilegiati”, “piloti pagati meglio di quelli delle altre compagnie” (cosa per altro semplicemente falso, come mostrato dalle tabelle pubblicate su Repubblica del 16 settembre).
Tutto questo veleno, queste falsità, queste intimidazioni, avevano lo scopo da un lato di fiaccare la volontà di resistenza dei lavoratori Alitalia, dall’altro di evitare che intorno ad essi si potesse creare una simpatia e un movimento di solidarietà da parte di altri settori (si poteva mai solidarizzare con questi “privilegiati” e “velleitari” che volevano “l’impossibile”?).
Con l’appoggio di questa campagna mediatica, i politici si sono ben potuti sentire al sicuro nel cercare di convincere i lavoratori che non c’erano alternative al piano CAI, e che tanto valeva stringersi intorno ai nuovi padroni e accettare i loro progetti. E a conferma di quanto la borghesia riesce ad unirsi quanto si tratta di attaccare i lavoratori c’è il fatto che tutte le forze politiche presenti in Parlamento (quelle che insomma hanno maggiore impatto mediatico) hanno agito nella stessa direzione: Veltroni ci ha tenuto a rivendicare il suo ruolo di mediatore fra CGIL e CAI, invitando a cena per far riprendere il dialogo Colaninno, presidente della CAI, Epifani, segretario della CGIL, e Gianni Letta sottosegretario alla presidenza del consiglio; mediazione a seguito della quale la CGIL ha firmato l’accordo con la CAI.
Ma il ruolo principale è ben stato quello giocato dai sindacati che hanno fatto finta di voler strappare condizioni migliori nel nuovo contratto e in realtà hanno lavorato per tenere buoni i lavoratori e soprattutto per tenerli divisi, tra loro come dagli altri lavoratori. Riuscendo a mantenere in mano l’iniziativa, i sindacati hanno cominciato a cedere poco alla volta: prima CISL, UIL e UGL, poi la CGIL, che ha firmato dopo la rivendicata mediazione di Veltroni (e portando a casa qualche promessa di garanzie maggiori per il futuro dei precari), per arrivare infine ai sindacati degli assistenti di volo e dei piloti (la cui grande vittoria è stata avere altri 140 posti, a part time, contro gli 860 licenziamenti solo fra i piloti con contratto a tempo indeterminato). Come abbiamo visto dalle cifre riportate sopra (e tratte dai giornali borghesi), l’accordo finale è molto vicino a quanto voluto fin dall’inizio dalla CAI, per cui la farsa delle varie “rotture” è stata solo un momento di questa grande commedia messa in piedi.
E a questo sporco lavoro non si sono sottratti i sindacati di “base”, come la CUB trasporti, che durante lo sciopero di Fiumicino del 17 settembre dichiarava, attraverso i suoi coordinatori nazionali, Antonio Amoroso e Fabio Frati, di essere pronti “a rispondere con una lotta dura agli aut aut del governo, o a colpi di mano sul nostro futuro” (Repubblica del 18/09/08). Quanto siano stati conseguenti con queste dichiarazioni si è visto.
Eppure i lavoratori hanno mostrato a più riprese di essere disposti a lottare per difendere le loro condizioni di vita: a questo sciopero del CUB avevano partecipato 2.000 lavoratori, con mille di essi che a Fiumicino hanno organizzato un corteo e un blocco stradale; a più riprese ci sono stati cortei spontanei di lavoratori non in servizio; più volte i lavoratori si sono recati sotto i palazzi in cui si svolgevano le trattative per far sentire la loro pressione. Ed ancora i lavoratori hanno dimostrato quanto avevano riconosciuto il carattere sciacallesco dell’intervento della CAI, quando hanno esultato, in assemblea, alla notizia che la CAI aveva ritirato la sua offerta (anche questa una farsa che faceva parte della sceneggiatura).
L’errore, e la debolezza, di questi lavoratori è stato di lasciare questa loro volontà di lotta nelle mani dei sindacati, che, come abbiamo visto, hanno lavorato per tenerli divisi (tra loro e dagli altri lavoratori) per poterli indebolire, demoralizzare ed infine portarli alla sconfitta. CISL e UIL sono arrivati ad organizzare un corteo di un paio di centinaio di lavoratori (cioè una stretta minoranza dei loro stessi iscritti) in polemica con la mancata firma della CGIL (cioè una vera e propria azione di crumiraggio).
Ma questa sconfitta potrà comunque servire all’insieme dei lavoratori se se ne traggono le giuste lezioni:
- innanzitutto che è inutile illudersi sulla possibilità del capitalismo di evitare di attaccare i lavoratori per far fronte alla propria crisi storica (i 140.000 licenziamenti previsti nel solo settore scuola nei prossimi tre anni, e solo allo scopo di risparmiare 8 miliardi e mezzo di euro ne costituiscono una clamorosa conferma);
- che tutte le forze politiche sono unite nel difendere questa esigenza del capitalismo, per cui solo la lotta dei lavoratori può cercare di frenare questi attacchi;
- che questa lotta non può essere efficace se la sua gestione viene lasciata nelle mani dei sindacati (poco importa se di vertice o di base), e se ci si illude di poter lottare isolati per settori e categorie: tutti i lavoratori sono soggetti agli stessi attacchi e solo una lotta unita può costruire un rapporto di forza più favorevole nei confronti della borghesia.
Helios, 13/10/08
Nel novembre 2007, avevamo pubblicato una lettera di un lettore, firmatosi Sébastien, che descriveva “dall'interno" l'aumento della collera nei diversi servizi della Sicurezza Sociale di Marsiglia, col titolo "Una testimonianza della combattività operaia di fronte all’aggravamento delle condizioni di lavoro".[1]
Oggi, solamente alcuni mesi dopo queste prime dimostrazioni di malcontento, col peggiorare delle condizioni di lavoro, esplode di nuovo la rabbia. Attraverso questa seconda lettera del compagno Sébastien, possiamo vedere che un vero processo di riflessione ha avuto luogo in questo lasso di tempo: sui sindacati, sulla necessità di lottare uniti e in modo solidale, sul modo di condurre lotte per non rimanere isolati ma al contrario per riuscire ad estenderle agli altri servizi... Tutte queste questioni hanno cominciato a trovare inizi di risposte, collettivamente, in quest'ultimo movimento.
In numerosi settori del servizio pubblico, la riduzione delle forze impiegate ha raggiunto un tale livello che, attualmente, spesso è impossibile affrontare la quantità di compiti da svolgere, e ciò determina un deterioramento accelerato delle condizioni di lavoro. La scontentezza che tale situazione genera spinge i lavoratori a reagire.
A Marsiglia, in un grande centro della Sicurezza Sociale, la rabbia degli impiegati si è trasformata in un movimento di lotta che è durato più di un mese. Già alla fine dell'estate 2007, questi stessi impiegati avevano reagito per le stesse ragioni, ed all'epoca la direzione aveva fatto finta di retrocedere. Oggi, dopo i pensionamenti non rimpiazzati ed altri cambiamenti, il numero degli effettivi si assottiglia a vista d'occhio. L'esasperazione si estende sempre più nei servizi. Oggi, un numero crescente di lavoratori vogliono battersi per chiedere più effettivi. E non si tratta più di condurre delle azioni ognuno nel suo angolo, ma di unirsi, cercare la solidarietà degli altri servizi e cercare ancora la più larga solidarietà presso gli "utenti" considerandoli lavoratori che vengono a regolare i loro problemi di rimborso delle spese mediche; anche loro confrontati a problemi identici di degrado accelerato delle condizioni di lavoro. Senza chiedere l'intervento dei sindacati, che li avrebbe divisi e smobilitati, gli impiegati si sono organizzati in assemblee generali per discutere delle azioni da condurre, assemblee che talvolta hanno riunito impiegati di altre branche della Sicurezza Sociale confrontati agli stessi problemi.
Fin dalla metà di aprile, gli impiegati del servizio prestazioni inviano una lettera alla direzione chiedendo, per far fronte all'accumulazione di pratiche in ritardo, un aumento degli effettivi. In seguito ad una risposta insoddisfacente, a fine aprile gli impiegati decidono di inviare una seconda lettera precisando con esattezza le necessità del servizio; la direzione risponde di nuovo negativamente. L'entrata nel movimento, a metà maggio, del servizio accoglienza - confrontato ad un afflusso di assicurati scontenti - in solidarietà col servizio prestazioni, fa uscire la direzione dai suoi uffici che invia i suoi accoliti per separare gli impiegati dei due servizi promettendo loro di prendere delle misure per diminuire il ritardo. In realtà, essa mira allo sfiancamento del movimento. Calcolo sbagliato. A fine maggio, degli incidenti esplodono nella fila di attesa degli assicurati, gli impiegati interrompono il lavoro, si riuniscono in un'assemblea generale e decidono l'unità d'azione dei due servizi. La direzione reagisce decretando che, al di fuori dei sindacati, ogni azione è illegale. Gli impiegati decidono allora di inviare una delegazione per consultare i sindacati. Per FO, non è necessario disturbare la direzione che sta riorganizzando il lavoro! Per la CGT, è invece necessario fare sciopero immediatamente. Un dibattito si avvia: fare sciopero d'accordo ma non subito, è necessario innanzitutto costruire un rapporto di forza. Per evitare sanzioni della direzione, gli impiegati decidono di tenere una riunione generale dei due servizi durante le ore di pausa pasto. All'inizio di giugno, gli impiegati uniti decidono di fare un avviso di sciopero con invio di una lettera comune per reiterare le richieste sull'aumento degli effettivi. Alcuni giorni dopo, una delegazione degli impiegati incontra la direzione che annuncia delle prime misure: concessioni di ore di straordinario, aiuti tra le diverse sedi, ed altro. Quanto agli effettivi, il risultato è magro rispetto a ciò che è stato chiesto. Gli impiegati rigettano queste proposte come non rispondenti al problema di fondo. Il preavviso di sciopero è mantenuto. Per l'assemblea generale, il giorno di sciopero deve essere concepito come un giorno di mobilitazione verso gli altri servizi per coinvolgerli nel movimento, verso gli assicurati per chiamarli alla solidarietà. Si vota la decisione di trarre un primo bilancio per tutti gli impiegati e servizi della Sicurezza Sociale. Ma la questione di chiedere aiuto o non dei sindacati è stato l'argomento di un dibattito. Per un certo numero di impiegati, è possibile servirsi dei sindacati nelle trattative (a loro fianco, una delegazione degli impiegati in lotta) e nella diffusione delle informazioni, senza perdere il controllo del movimento. Per altri, la maggioranza, esperienze recenti o precedenti hanno dimostrato concretamente come questi organismi hanno fatto del tutto per spodestare i lavoratori della loro lotta diffondendo disinformazioni e negoziando spesso sulle spalle dei lavoratori. È stata presa la decisione di non chiamare le organizzazioni sindacali. Questa è stata l'espressione di una sfiducia verso i sindacati che si basava sull'esperienza ma non ancora sulla comprensione di ciò che veramente sono, e cioè, a mio avviso, una forza d'inquadramento dei lavoratori per sabotare ogni movimento di lotta.
Questa grande combattività è stata sostenuta dunque da una vera riflessione su "come condurre la lotta collettivamente". Pertanto, tutto questo movimento di lotta alla fine non ha avuto successo, lo sciopero non è esploso. Perché?
Proponendo queste misure, la direzione sapeva bene che agiva per dividere il movimento ed indebolirne la combattività, principalmente dei giovani impiegati che vedevano in queste ore di straordinario supplementari un mezzo per aumentare il loro misero salario. La direzione sapeva anche che l'avvicinarsi delle ferie estive sarebbe stato essere un fattore di smobilitazione. Ma, in definitiva, ciò che ha maggiormente smobilitato è stata l'azione dei sindacati ed in particolare della CGT. Per FO, la situazione appare chiara, essa è apertamente un sindacato agli ordini della direzione che ha fatto pressione apertamente per porre fine al movimento. Più sottile è stato il gioco della CGT: chiamare allo sciopero quando il movimento non era maturo all'inizio di giugno, per poi proporre d'incontrare la direzione che sta dall'altro lato della città mentre la forza del movimento avrebbe permesso di chiedere alla direzione di andare ad incontrare gli impiegati sul proprio luogo di lotta. E, ciliegia sulla torta, allo scopo di dividere gli impiegati, la CGT si è impegnata per il coinvolgimento diretto nel grande giorno di "mobilitazione nazionale" il 17 giugno, dimostrazione di "forza sindacale" dove ognuno è stato relegato dietro alla sua bandiera di impresa ed al suo sindacato. La manovra è riuscita poiché alla fine il giorno di sciopero previsto dagli stessi impiegati è abortito e non ha avuto luogo.
Direzione e sindacati hanno vinto una battaglia, ma resta chiaro per tutti che il movimento riprenderà dopo le ferie estive. Durante questa lotta, un piccolo nucleo più combattivo ha deciso di mantenere i legami per proseguire la riflessione sul bilancio di questo movimento, come sviluppare la mobilitazione, come estenderla, scambiarsi delle informazioni su quello che accade negli altri centri e servizi, quali contatti avere. È un’esperienza molto ricca che è stata vissuta, come dimostra il bilancio: Quello che era importante, è che noi abbiamo saputo come mobilitarci realmente, agire in maniera unitaria e solidale, prendendo noi stessi le decisioni, sulla base di riunioni comuni e delegando un certo numero di agenti per la scrittura di lettere o incontrare la direzione, delegazioni che hanno sottoposto i lavori effettuati all'insieme. È un'esperienza molto positiva perché ci ha permesso di superare le divisioni tra servizi, gli uni che danno la colpa agli altri del calo della qualità del servizio reso mentre esso è una conseguenza del deterioramento delle nostre condizioni di lavoro".
La questione dell'unità e della solidarietà, della presa in carica delle lotte non solamente in un solo settore ma in tutti i settori della classe operaia, è chiaramente germogliata in questa mobilitazione.
Sébastien, Marsiglia (3 luglio)
[1] Questa corrispondenza, apparsa su Révolution Internationale n. 384, è disponibile anche sul nostro sito internet in francese.
La presenza dei militari nelle nostre città e nei luoghi “a rischio”, come le discariche in Campania, non è affatto una prerogativa del “destro” governo Berlusconi, ma corrispondono alla maggiore attenzione che la borghesia sta portando a livello internazionale sul piano del rafforzamento del suo arsenale destinato a controllare ed affrontare la popolazione ed in particolare la classe operaia.
Per questo pubblichiamo l’articolo che segue tratto dalla nostra stampa in Francia, che, pur riferendosi nello specifico alle ultime misure prese dal governo francese in questo campo, illustra bene la tendenza generale alla quale sarà confrontato il proletariato in ogni paese.
In quasi tutti i paesi, in particolare dove i proletari sono più numerosi e concentrati, i mezzi ed i dispositivi di sorveglianza sono aumentati brutalmente, sempre accompagnati dalle più innovative tecnologie.
Una delle priorità adottate è la sorveglianza nelle strade e nei luoghi pubblici. Questa questione appare bruciante in Francia perché questa ha accusato un relativo ritardo rispetto alle misure adottate dai suoi vicini anglosassoni.
Più sorveglianza e rafforzamento del controllo poliziesco
E’ stato rilanciato il progetto di triplicare il numero delle videocamere di sorveglianza che permette, da ora al 2009, di passare da 340.000 videocamere già operanti a 1 milione in tutti i luoghi pubblici. Ufficialmente è la Gran Bretagna a detenere il record in questo campo: solo a Londra più di 400.000 videocamere! Ora quest'ultima sta progettando di modernizzare il suo parco installando in un certo numero di luoghi “videocamere intelligenti”. Queste, essendo capaci di zumare per più di un chilometro di distanza, di intensificare la luce ed essendo provviste di radiazioni infrarosse, sono destinate a rilevare ed analizzare situazioni che “turbano l’ordine pubblico”. Esse fanno sempre più ricorso alle tecniche biometriche di identificazione. Il dispositivo per localizzare le persone (person tracking unit) dell’IBM, già operativo, permette di scansionare delle etichette portati da elementi immersi in una folla per seguirne i movimenti nei luoghi pubblici. Dei veicoli mobili della polizia sono già dotati di alta tecnologia – Automatic Number Plate Recognition – che permette contemporaneamente, su di una data area, di leggere tutte le targhe, fotografarle, localizzarle attraverso il GPS ed inviare tutte le coordinate ad un archivio informatico centralizzato per prendere informazioni[1]. Oltre a seguirne le tracce, è possibile conoscere in anticipo la residenza di chi non ha pagato l’assicurazione, non ha fatto la revisione, ecc. In materia di telefonia mobile, la Danimarca e la Svezia stanno per commercializzare un cellulare GPS che permette “di spiare i propri amici”! In Australia, il decreto governativo “telecommunication act”, autorizza le agenzie di sicurezza a sorvegliare le telefonate degli impiegati. Alcune imprese non si fanno scrupoli a controllare le mail dei loro salariati e di spiarli sul posto di lavoro. Esiste dunque tutta una strategia industriale e statale che permette in modo insidioso di fare accettare questa logica totalitaria di sorveglianza alla popolazione, a partire dai più giovani[2]. È per tale motivo, ad esempio, che nelle scuole e nei licei cominciano a fiorire apparecchiature che si richiamano a dati biometrici (nelle mense, ecc.) o archivi[3] che permettono di braccare extracomunitari sprovvisti di permesso di soggiorno o “delinquenti”.
Insieme ad uno sviluppo del controllo poliziesco, assistiamo contemporaneamente a controlli incrociati di dati tra archivi diversi ed alla cooperazione europea ed euro-atlantica per la condivisione di dati che contengono informazioni intime sulla vita privata delle persone.
È in quest'ottica che la Francia prende in considerazione la realizzazione di un nuovo archivio, denominato col dolce nome di Edvige. Questo nuovo archivio, nato da una delibera apparsa sulla gazzetta ufficiale il primo luglio, corrisponde alla volontà di unire gli archivi della RG e della DST (due servizi segreti francesi). Lo scopo è di “centralizzare ed analizzare le informazioni su individui, gruppi, organizzazioni ed enti morali che, a causa della loro attività individuale o collettiva, possono attentare all’ordine pubblico”. Da ora le persone saranno prese di mira già a 13 anni! Nei fatti questo archivio non fa che ufficializzare una pratica già sperimentata ricopiando l’archivio Christina (centralizzazione delle informazioni interne per la sicurezza del territorio e gli interessi nazionali), classificato come “difesa segreta”, nei fatti vero centro dati su persone schedate, inclusi i loro parenti e conoscenti[4].
Tutto ciò dimostra che è già largamente in funzione un “centro di osservazione” in vista di reprimere i militanti e le organizzazioni del proletariato. Il nuovo archivio Edvige non fa che ufficializzarlo e rafforzarlo!
In realtà esistono ufficialmente 37 archivi tra cui quello sulle impronte genetiche FNAEG[5]. Creato nel 1998 per reprimere i reati sessuali, questo dal 2003 divenne un archivio per “l’identificazione criminale”. Un archivio che si è voluto estendere agli immigrati per “facilitare il riavvicinamento famigliare”!
Una tale volontà di controllo assoluto ed una tale paranoia esprimono la realtà di una società in declino, minacciata da ogni parte dalle convulsioni della sua crisi con le tensioni sociali che l’accompagnano. È questa tendenza al capitalismo di Stato, divenuta da un secolo praticamente universale, che ha permesso allo Stato di appropriarsi di tutta la vita sociale dotandosi di mezzi che fanno venire i brividi per “vedere tutto e conoscere tutto” (motto di Sarkozy, ex - primo sbirro della Francia)
Una minaccia diretta contro la classe operaia
Naturalmente è in nome della “minaccia terrorista” e “della protezione del cittadino” che in questi ultimi anni, soprattutto dopo l’attentato dell’11 settembre 2001 a New York, gli Stati hanno adottato misure di controllo senza precedenti, superando di gran lunga la fantasia di G. Orwell in 1984. Sfruttando fino alla nausea lo choc brutale dell’attentato, la borghesia ed i suoi media hanno saputo sfruttare abilmente l’emozione e l’indignazione legittime delle popolazioni per rafforzare tutto un arsenale repressivo con “leggi liberticide”. Tuttavia le evidenti menzogne della cricca di Bush ed il fallimento palese degli Stati Uniti in Iraq rendono più difficile la giustificazione delle misure di controllo poliziesco suscitando interrogazioni e preoccupazioni. Giù la maschera! Appare sempre più ovvio che ad ossessionare la borghesia è, nei fatti, la difesa de “l’ordine pubblico”, cioè il mantenimento della dittatura del capitale di fronte ai movimenti sociali. Questo timore del proletariato, delle “classi pericolose” non è nuovo e risale alle origini degli scontri tra proletari e borghesi. Fin dal 1803 Napoleone è stato il primo ad imporre il “libretto operaio” per controllare gli spostamenti e sorvegliare i proletari combattivi. Come per il passato, ma con dei mezzi più moderni, la borghesia si prepara oggi a reprimere le lotte operaie. Dal 2003, con lo sviluppo della lotta di classe a livello internazionale, la borghesia è davvero all’erta. Oggi, nel momento in cui il mondo intero sta entrando in recessione e la crisi economica diventa più profonda, la borghesia sa che gli attacchi brutali e massicci che assesterà non possono che spingere i lavoratori a reagire di nuovo. Già durante gli scioperi studenteschi contro il CPE nel 2006 e durante lo sciopero degli studenti e dei ferrovieri dello scorso autunno, i media hanno criminalizzato gli scioperanti e le forze dell’ordine (borghese) non hanno esitato a moltiplicare le intimidazioni ed usare la violenza. Tutto questo per dissuadere e sfiancare la lotta. Nella stessa logica, gli studenti scioperanti arrestati e giudicati sono stati oggetto di invettive estremamente violente da parte del procuratore della repubblica che li accusava di essere “criminali”. Un preside dell’università li aveva addirittura accusati di essere “khmer rossi”! Quanto ai ferrovieri in lotta, quante volte abbiamo sentito dire che erano “sequestratori di ostaggi”? In breve, dei “terroristi”!
Non ci ha sorpreso sentire quest’estate il ministro dell’immigrazione, B. Hortefeux, etichettare la reazione degli extracomunitari senza permesso di soggiorno, parcheggiati in quelle infami prigioni che sono i centri di ritenzione amministrativi (CRA), col termine di “macchinazione” perpetrata da “agitatori” e “provocatori”. Cercando capri espiatori, braccando militanti ed elementi combattivi, questo signore “ha chiesto alle forze di sicurezza di essere estremamente vigili”[6]. Tutto questo clima intorno alla sicurezza alimentato da tempo, sostenuto dalla destra, dalla sinistra e dai media, punta soprattutto alle periferie operaie. La militarizzazione ed il controllo dei quartieri popolari sono d’altra parte apertamente predicati dal “libro bianco” della difesa nazionale. Si sa che la borghesia è esperta nell’infiltrare con i suoi agenti le manifestazioni, che osserva i militanti e sorveglia permanentemente le organizzazioni. Adesso può perfezionare questa attività aumentando il numero delle videocamere urbane e usando congegni come i droni (ricognitori telecomandati). Questi ultimi sono mezzi leggeri per una sorveglianza aerea dei dimostranti. Silenziosi e non rilevabili, muniti di videocamere, sono capaci di zumare gruppi di persone o semplici individui. La sperimentazione ha avuto già luogo a Saint-Denis, attorno allo Stadio di Francia, soddisfacendo pienamente gli sbirri. Un macchinario come il drone chiamato Elsa è destinato, e non abbiamo alcuno dubbio, ad effettuare numerose uscite durante le prossime dimostrazioni di strada. Non bisogna illudersi, è proprio di fronte alla contestazione ed alle minacce di scioperi massicci che la borghesia affila le sue armi!
Di fronte a questa intensa preparazione della borghesia il proletariato deve prendere coscienza che può contare solo sulla sua forza collettiva e la sua lotta. È necessario prendere coscienza che se, individualmente, ognuno di noi si sente molto vulnerabile di fronte ad un arsenale tecnologico mostruoso, questo stesso arsenale diventa impotente di fronte ad una risposta di massa e cosciente della classe operaia. Non lasciamoci intimidire! Ancora una volta, il “Grande Fratello” non è che il volto orrendo di una classe sociale agonizzante, paranoica perché completamente impotente di fronte alle contraddizioni che minano il suo barbaro sistema economico.
WH (14 agosto)
[2] Un corrispondente del gruppo delle industrie d’interconnessione dei componenti e dei sottoinsiemi elettronici (GIXEL) definisce nel suo “libro blu” che è necessario “condizionare le popolazioni alla biometria ed al controllo cominciando fin dalla più giovane età”.
[3] Oltre all’attuazione di “dossier base degli allievi”, bisogna denunciare una “operazione sperimentale” condotta ultimamente nella scuola elementare di Monein che ha provocato la reazione degli insegnanti. Tra le domande altamente pedagogiche del questionario d’ingresso il bambino poteva leggere: sei nato in Francia? Tua madre è nata in Francia? Tuo padre è nato in Francia? Che lingua si parla a casa tua? Abitualmente chi vive in casa con te?”.
[4] Vedi il sito www.lemonde.fr [130]
[5] www.agoravox.fr [131]
[6] www.liberation.fr [132], 9 agosto 2008.
La crisi finanziaria è al centro dell’attenzione dei mezzi di informazione. Ogni occasione aiuta ad oscurare il movimento internazionale della classe operaia, che è la sola che può dare una soluzione alla crisi. La International Labour Organisation dice che nei paesi industrializzati i salari diminuiranno dello 0,5% nel 2009. Basandosi su passate ricerche il Rapporto Globale sui Salari mostra che per ogni perdita dell’1% del Prodotto Interno Lordo pro capite, i salari scendono dell’1,55%. La recessione tocca duramente i lavoratori. Il Direttore generale dell’ILO ammette che “Per 1,5 miliardi di salariati nel mondo le difficoltà aumenteranno “. In particolare “una crescita debole o negativa dell’economia, combinata con le oscillazioni dei prezzi dell’energia e dei generi alimentari, eroderanno i salari reali di molti lavoratori, in particolare quelli a più basso reddito e le famiglie più povere “. Inoltre la ILO prevede che questa crisi finanziaria globale farà almeno 20 milioni di nuovi disoccupati. Già a novembre l’economia americana ha perso 533.000 posti di lavoro, la perdita mensile di lavoro più alta dal 1974; in più in questo momento le “tre grandi” compagnie automobilistiche americane, la Ford, la GM e la Chrysler sono sull’orlo del collasso, e sono andate con il cappello in mano a Washington, a chiedere disperatamente che il governo le aiuti. In Gran Bretagna, i dati sulla disoccupazione sono i peggiori da 11 anni. La stessa storia può essere raccontata per il mondo intero. Per la classe operaia la crisi era arrivata molto tempo prima che le banche collassassero e le borse andassero in panico. I lavoratori stanno lottando già da almeno cinque anni contro l’impatto della crisi economica. Queste lotte non sono ancora di massa, ma sono già significative, e già si scontrano con le manovre dei sindacati e la repressione dello Stato.
Chi controlla le lotte?
In Italia il governo ha pianificato il taglio di più di 130.000 posti di lavoro nella scuola (due terzi dei quali insegnanti), cosa che ha portato a una ondata di proteste durate parecchie settimane fra ottobre e novembre. Vi sono state centinaia di occupazioni di scuole ed università, centinaia di manifestazioni, ogni tipo di riunioni, lezioni tenute dai professori sulle pubbliche piazze, aperte a tutti. Contrariamente alle accuse del governo, secondo il quale si trattava di una manovra della sinistra, le proteste non erano guidate da partiti. Le occupazioni hanno coinvolto professori e studenti. Le manifestazioni attiravano genitori, insegnanti, studenti e altri lavoratori. Alla fine di ottobre c’è stata una manifestazione di massa a Roma. Anche volendo considerare esagerate le stime degli organizzatori (secondo cui erano scese in strada più di un milione di manifestanti), sicuramente sono state coinvolte centinaia di migliaia di persone di diversi settori.
Durante le proteste nella scuola ci sono stati scioperi in altri settori, sia privati che pubblici; in particolare, all’inizio di novembre, la giornata di sciopero generale dei trasporti, che ha coinvolto treni, bus e metropolitane. Vi sono stati scio-peri non ufficiali del personale Alitalia. L’Herald Tribune diceva in proposito: “Gli stessi sindacati si sono dissociati dallo sciopero”, e riportava questa citazione di un analista: “la mia impressione è che questi scioperi selvaggi sono semi-spontanei e dovuti a una piccola minoranza, il che sembra evidenziare che i diversi sindacati hanno un sempre minore controllo sui propri iscritti”. Qui c’è un franco riconoscimento del fatto che a) la funzione dei sindacati è controllare gli operai, non lottare per essi, e b) c’è una crescente difficoltà a portare a termine questo loro compito. Questo descrive una situazione che non è caratteristica della sola Italia, ma ha una rilevanza mondiale.
I sindacati di fronte alla crisi
All’inizio di novembre, in Germania, 600.000 lavoratori della meccanica sono stati coinvolti in scioperi a scacchiera, dimostrazioni e riunioni. Con azioni diverse in diversi posti o in differenti aziende in giorni diversi le energie dei lavo-ratori sono state disperse e impedita la possibilità di una lotta unita. Questa è stata la strategia del sindacato IGMetall durante la trattativa che coinvolgeva 3,6 milioni di lavoratori. L’IGMetall ha minacciato uno sciopero ad oltranza a sostegno della richiesta di un aumento salariale dell’8%, ma alla fine ha concordato un trattamento per 18 mesi con un aumento del 2,1% da febbraio, seguito da un altro 2,1 a partire da maggio. Avendo limitato il potenziale di lotta dei lavoratori fin dall’inizio, “Bethold Huber, segretario generale dell’IGMetall, ha detto che il risultato era ‘ bello‘ vista la ‘difficile situazione storica’” (Financial Times, 12/11/08). La scusa che i lavoratori devono fare sacrifici a causa della “difficile situazione” del capitalismo sarà sicuramente usata a ripetizione nel prossimo futuro.
Sull’onda delle proteste in Italia, a metà novembre gli studenti medi lasciarono le aule e in 100.000 diedero luogo a manifestazioni in più di 40 città della Germania. La rabbia per le condizioni in cui lavorano (classi sovraffollate, penuria di insegnanti, pressione intensa per gli esami, ecc.) mostra che il sistema educativo non è riuscito a prepararli ad accettare passivamente le loro future condizioni, quando lavoreranno per un salario.
Le lotte attraversano l’Europa
Ad ottobre c’è stata un’ondata di scioperi in Grecia, culminati in una giornata di sciopero generale che ha coinvolto il settore pubblico, trasporti ecc., nonché centinaia di migliaia di lavoratori del settore privato. Grazie al controllo dei sindacati le rivendicazioni, partite da quello che effettivamente tocca i lavoratori (salari, pensioni) vengono indirizzate sulle campagne costruite dalla classe dominante, come le privatizzazioni e l’opposizione agli aiuti del governo alle principali banche. Va rimarcato che c’è stato anche uno sciopero generale dei lavoratori del commercio, ma il giorno dopo. Ancora una volta i sindacato dividono e controllano.
C’è stata anche un’ondata di occupazioni di scuole, circa 300 in tutta la Grecia nel mese di ottobre. Il governo ha contestato la legalità delle occupazioni e arrestato gli studenti coinvolti. Proteste simili c’erano state nel 2005, al momento dell’introduzione di una nuova legge.
In Francia a novembre, ci sono state 4 giornate di sciopero all’Air France, e uno sciopero nazionale delle ferrovie di 36 ore. Ad ottobre c’era stato uno sciopero nazionale in Belgio, che ha coinvolto diversi settori che protestavano per l’aumento dei prezzi.
La Cina non fa eccezione
C’era una volta una stupida speculazione secondo cui l’economia cinese potrebbe non seguire il resto del capitalismo mondiale, o almeno resistere all’approfondimento della crisi. In realtà un’economia così dipendente dalle esportazioni era destinata a soffrire non appena i suoi clienti avrebbero cominciato a venir meno. Lungi dal rimanere immune dalla crisi finanziaria, a metà novembre “La Cina ha messo su un pacchetto di enormi stimoli fiscali allo scopo di evitare che la propria economia sprofondi il prossimo anno.” (Financial Times, 10/11/08). Il piano prevede un insieme di progetti finalizzati ad incrementare la domanda interna per compensare il declino delle esportazioni. Con un valore di circa un quinto del Prodotto Interno cinese, questo pacchetto rivaleggia con le misure introdotte dagli Stati in Europa e negli USA.
Il 29 ottobre scorso il Financial Times riportava già che “ Ci sono segni crescenti del fatto che l’economia cinese do-vrebbe crescere meno di quanto previsto, con una serie di grandi compagnie industriali che annunciano tagli alla produzione a partire dal prossimo week end.” Questo, a sua volta, dovrebbe essere messo nel contesto delle statistiche ufficiali che prevedono per la prima metà dell’anno almeno 67.000 chiusure di aziende. Il numero potrebbe arrivare alle sei cifre entro la fine dell’anno. Con i milioni di lavoratori che hanno lasciato le campagne per le città, non c’è da meravigliarsi se il ministero cinese delle Risorse Umane e della Sicurezza Sociale abbia dichiarato che la situazione dell’impiego in Cina è “spaventosa”. Questo è lo stato reale dell’economia e già vi sono state estese risposte.
“La Cina ha ordinato alla polizia di assicurare la stabilità durante la crisi finanziaria globale, dopo che migliaia di persone hanno attaccato la polizia e gli uffici governativi in una città del nord est a causa di un piano di spostamento dei residenti. Dopo decadi di solida crescita economica, la Cina sta combattendo una inedita caduta nella domanda dei suoi prodotti che ha causato chiusura di fabbriche, suscita proteste e fa crescere il timore di rivolte popolari.” Vi sono già state “proteste di lavoratori nelle regioni del paese più votate alle esportazioni, dove migliaia di fabbriche sono state chiuse nei mesi scorsi, provocando il timore che la crisi finanziaria globale possa causare più ampie proteste popolari.” (Reuters, 19/11/08).
Oggi in Cina vi sono proteste contro l’aumento dei prezzi e la disoccupazione. Con le future perdite di posti di lavoro già previsti in milioni è facile capire perchè lo Stato cinese si preoccupa per la stabilità sociale. Il fatto che il capitalismo cinese si affidi alla polizia mostra come esso non si aspetti di trovare una risposta economica agli effetti della crisi globale, e si prepara a ricorrere, come sempre, alla repressione contro le lotte dei lavoratori. Questo non esclude la possibilità che la classe dominante permetta un certo sviluppo di sindacati “indipendenti”, dal momento che questi sono molto più efficaci nell’assorbire il malcontento sociale rispetto ai sindacati ufficiali.
La crisi del capitalismo è mondiale. Ma lo è anche la risposta della classe operaia. Quello che ci vuole innanzitutto è che i lavoratori diventino coscienti della reale dimensione e del significato delle loro lotte, perché esse contengono il seme di una sfida globale a questo traballante ordine sociale.
Car, 06/12/08
Pubblichiamo qui di seguito la traduzione della presa di posizione sui massacri in Medio Oriente e nella striscia di Gaza apparsa sul nostro sito Internet in inglese il 31/12/2008. In seguito gli avvenimenti sono evoluti nello stesso senso della nostra denuncia: uso sistematico di un terrore brutale contro la popolazione bombardata da terra, da mare e dal cielo e entrata delle truppe israeliane a Gaza dalla sera del 3 gennaio. Ma, al tempo stesso, abbiamo visto anche manifestarsi in modo crescente l’indignazione della popolazione mondiale davanti allo scatenarsi di quest’atrocità e di fronte all’ipocrisia delle grandi potenze. Un sentimento di solidarietà si è affermato anche verso la popolazione palestinese che è in ostaggio in questo conflitto tra frazioni della classe sfruttatrice. Come rivoluzionari, denunciamo tutti coloro che pretendono di deviare questa solidarietà di classe sul putrido piano del nazionalismo, della difesa di una patria contro un’altra, quando l’unico mezzo che può liberare l’umanità dall’imperialismo della guerra e della barbarie, è invece lo sviluppo dell’internazionalismo rivoluzionario fino all’abolizione di tutte le nazioni, di tutte le frontiere e la costruzione di una vera comunità umana: il comunismo.
Dopo due anni di strangolamento economico di Gaza - senza benzina e senza medicine, blocco delle esportazioni e divieto agli operai di lasciare Gaza per trovare lavoro dall’altro lato della frontiera israeliana-, dopo avere trasformato tutta la striscia di Gaza in un vasto campo di prigionia, dal quale palestinesi disperati hanno tentato di fuggire cercando invano di passare la frontiera con l’Egitto, la macchina militare israeliana sta sottoponendo questa regione molto popolata e impoverita a tutta la barbarie dei suoi bombardamenti aerei. Centinaia di loro sono già morti e gli ospedali straripanti non possono fare fronte all’inondazione continua ed incessante di migliaia di feriti. Le dichiarazioni di Israele che dicono che lo Stato prova a limitare le morti civili sono solo una sinistra burla dato che ogni obiettivo “militare” è situato vicino ad abitazioni civili; e quando le moschee e l’università islamica sono state apertamente scelte come obiettivi, cosa resta della distinzione tra civili e soldati? Il risultato è là: obiettivi civili, la maggior parte bambini uccisi o storpiati e un grande numero terrorizzati e traumatizzati a vita dalle incursioni incessanti. Mentre scriviamo quest’articolo, il primo ministro israeliano Ehud Olmert descrive quest’offensiva come una prima tappa. I carri armati attendono dunque alla frontiera ed un’invasione totale della striscia di Gaza non è esclusa.
La giustificazione di Israele per quest’atrocità - sostenuta dall’amministrazione Bush negli Stati Uniti - è che Hamas continua a lanciare razzi sui civili israeliani in violazione di una presunta tregua. La stessa argomentazione è stata utilizzata per sostenere l’invasione del Libano due anni fa. Ed è vero che nello stesso tempo Hezbollah e Hamas si nascondono dietro le popolazioni palestinesi e libanesi e le espongono cinicamente alla rivalsa israeliana, presentando l’uccisione di alcuni civili israeliani come un esempio della “resistenza” all’occupazione militare israeliana. Ma la risposta di Israele è tipica di ogni potenza occupante: punire tutta la popolazione per l’attività di una minoranza di combattenti armati. Lo Stato israeliano lo fa con il blocco economico imposto dopo che Hamas ha cacciato Fatah dal controllo dell’amministrazione di Gaza; lo ha fatto in Libano e lo sta facendo con i bombardamenti su Gaza. È la logica barbara delle guerre imperialiste, nelle quali i civili servono alle due parti opposte come schermi ed obiettivi, e finiscono quasi invariabilmente per morire in gran numero, più dei soldati in uniforme.
E come in tutte le guerre imperialiste, le sofferenze inflitte alla popolazione, la distruzione delle case, degli ospedali e delle scuole, ha il solo risultato di preparare il terreno a futuri episodi di distruzioni. Il fine dichiarato da Israele è di schiacciare Hamas ed aprire la porta ad una direzione palestinese più “moderata” a Gaza, ma anche gli ex-ufficiali dei servizi segreti israeliani (almeno uno dei più… intelligenti) possono vedere la futilità di una tale argomentazione. Rispetto al blocco economico di Gaza, l’ex-ufficiale del Mossad Yossi Alpher dichiarava: “L’assedio economico di Gaza non ha portato nessuno dei risultati politici attesi. Non ha orientato i palestinesi verso un odio contro Hamas, ma è stato probabilmente controproducente. Non è altro che una inutile punizione collettiva”. Ciò è ancora più vero delle incursioni aeree. Come dice lo storico israeliano Tom Segev: “Israele ha sempre creduto che fare soffrire i civili palestinesi li renderebbe ribelli ai loro capi nazionali. È dimostrato che questa dichiarazione si avvera sempre più falsa” (le due citazioni sono estratte dal Guardian del 30 dicembre 2008). Gli Hezbollah in Libano si sono rafforzati con gli attacchi israeliani del 2006; l’offensiva contro Gaza avrà probabilmente lo stesso risultato per Hamas. Ma che esso si sia rafforzato o indebolito non farà altro che continuare a rispondere con altri attacchi contro la popolazione israeliana, e se non è con razzi, sarà con bombe umane.
Gli “interessati” capi mondiali, come il segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, o come il papa, ci hanno ripetuto che tali azioni di Israele servono soltanto ad infiammare l’odio nazionalistico e ad alimentare “la spirale della violenza” in Medio Oriente. Niente di più vero: il ciclo del terrorismo e della violenza di stato in Israele/Palestina brutalizza le popolazioni ed i combattenti dei due lati e crea ancora nuove generazioni di fanatici e “di martiri”. Ma ciò che il vaticano e le Nazioni Unite non ci dicono è che questa discesa agli inferi nell’odio nazionalista è il prodotto di un sistema sociale che è ovunque in piena decadenza. La storia non è diversa in Iraq dove sciiti e sunniti si scannano, nei Balcani dove i serbi fanno la stessa cosa contro gli albanesi ed i croati, in India e Pakistan con i conflitti tra indù e musulmani, o anche in Africa dove la miriade di guerre con le divisioni etniche più violente sarebbe troppo numerosa da enumerare. L’esplosione di questi conflitti attraverso il mondo è l’espressione di una società che non ha più futuro da offrire all’umanità. E ciò che neppure ci dicono è l’implicazione delle potenze mondiali democratiche ed umanitarie in questi conflitti, si sente appena parlare di divisione tra di loro. La stampa britannica non ha taciuto il sostegno della Francia alle bande assassine hutu in Ruanda nel 1994. È meno eloquente sul ruolo svolto dalla Gran Bretagna ed i servizi segreti americani nelle divisioni sciite/sunnite in Iraq. In Medio Oriente il sostegno dell’America ad Israele e quello dell’Iran e della Siria ad Hezbollah e Hamas sono evidenti, ma il ruolo di sostegno giocato “sottomano” da Francia, Germania, Russia ed altre potenze non è meno reale.
Il conflitto in Medio Oriente ha caratteristiche e cause storiche particolari, ma può essere compreso nel contesto globale di una macchina capitalista che è pericolosamente fuori da qualsiasi controllo. La proliferazione di guerre su tutto il pianeta, la crisi economica incontrollabile e la catastrofe ambientale accelerata fanno evidentemente parte di questa realtà. Ma mentre il capitalismo non ci offre alcuna speranza di pace e di prosperità, esiste una fonte di speranza nel mondo: la rivolta della classe sfruttata contro la brutalità del sistema, una rivolta espressa in Europa in queste ultime settimane nei movimenti dei giovani proletari in Italia, in Francia, in Germania e soprattutto in Grecia. Sono movimenti che, per la loro stessa natura, hanno messo avanti la necessità della solidarietà di classe ed il superamento di tutte le divisioni etniche e nazionali. Sono stati un esempio che può essere seguito in altre regioni del pianeta, quelle che sono devastate dalle divisioni nell’ambito della classe sfruttata. Non è un’utopia: già negli anni passati gli operai del settore pubblico di Gaza si sono messi in sciopero contro il mancato pagamento dei salari quasi simultaneamente con quelli del settore pubblico in Israele in lotta contro gli effetti dell’austerità, essa stessa prodotto diretto dell’economia di guerra di Israele spinta al suo parossismo. Questi movimenti non erano coscienti l’uno dell'altro, ma mostrano la comunanza oggettiva di interessi nelle file operaie dei due lati della divisione imperialista.
La solidarietà con le popolazioni che soffrono nelle zone di guerra del capitalismo non significa scegliere “il male minore” o sostenere il settore capitalista “più debole” come gli Hezbollah o Hamas contro le potenze più aggressive come gli Stati Uniti o Israele. Hamas ha già mostrato di essere una forza borghese di oppressione contro gli operai palestinesi - specialmente quando ha condannato gli scioperi nel settore pubblico come atto contro “gli interessi nazionali” e quando, mano nella mano con Fatah, ha sottoposto la popolazione di Gaza alla lotta mortale di una fazione contro l’altra per il controllo della regione. La solidarietà con chi vive direttamente la morsa della guerra imperialista è il rigetto dei due campi belligeranti e lo sviluppo della lotta di classe contro tutti i dirigenti e gli sfruttatori del mondo.
World Revolution, organo della CCI in Gran Bretagna (31 dicembre 2008)
L’esplosione di collera e la rivolta delle giovani generazioni proletarizzate in Grecia non sono per niente un fenomeno isolato o particolare. Queste trovano le loro radici nella crisi mondiale del capitalismo e scontrandosi con la repressione violenta mettono a nudo la vera natura della borghesia e del suo terrore di Stato. Esse si trovano in linea diretta con le mobilitazione su un terreno di classe delle giovani generazioni in Francia contro il CPE del 2006 ed la LRU (1) del 2007, dove gli studenti ed i liceali si riconoscono innanzitutto come proletari che si rivoltano contro le loro future condizioni di sfruttamento. Del resto, l’insieme della borghesia dei principali paesi europei l’ha molto ben compreso confessando i suoi timori di contagio di simili esplosioni sociali di fronte all’aggravamento della crisi. Infatti, in modo significativo, la borghesia francese ha sospeso precipitosamente il suo programma di riforma dei licei. D’altra parte, già si sta esprimendo con forza il carattere internazionale della contestazione e della combattività studentesca e soprattutto degli studenti medi.
Tra ottobre e novembre, in Italia, si sono svolte massicce manifestazioni dietro lo slogan “Noi non vogliamo pagare la crisi” contro il decreto Gelmini contestato a causa dei tagli di bilancio nella scuola e le sue conseguenze: in particolare la soppressione di 87.000 posti di insegnante e di 45.000 posti fra bidelli, tecnici e personale di segreteria (ATA), ed anche per la riduzione dei fondi pubblici per l’università.
In Germania, il 12 novembre, 120.000 liceali sono scesi nelle strade delle principali città del paese, con slogan tipo “Il capitalismo è crisi” a Berlino o assediando il parlamento provinciale ad Hannover.
In Spagna, il 13 novembre, centinaia di migliaia di studenti hanno manifestato in più di 70 città contro le nuove direttive europee (direttive di Bologne) sulla riforma dell’insegnamento superiore ed universitario che generalizza la privatizzazione delle facoltà e moltiplica gli stage nelle imprese.
Molti tra loro si riconoscono con la lotta degli studenti in Grecia. Numerose manifestazioni e riunioni di solidarietà contro la repressione che subiscono gli studenti in Grecia si sono svolte in parecchi paesi, anche queste represse brutalmente.
L’ampiezza di questa mobilitazione di fronte alle stesse misure statali non ha niente di sorprendente. La riforma del sistema educativo intrapreso a livello europeo significa condannare le giovani generazioni operaie ad un avvenire senza sbocchi ed alla generalizzazione della precarietà e della disoccupazione.
Il rifiuto e la rivolta delle nuove generazioni di proletari scolarizzati di fronte a questo muro della disoccupazione ed a questo oceano di precarietà che il sistema capitalista in crisi riserva loro suscitano dovunque la simpatia dei proletari di ogni generazione.
I mezzi di informazione agli ordini della propaganda menzognera del capitale hanno continuamente cercato di deformare la realtà di ciò che è successo in Grecia dopo l’omicidio del 6 dicembre scorso del giovane Alexis Andreas Grigoropoulos di soli 15 anni sparato da un poliziotto. Hanno presentato gli scontri con la polizia limitati ad un solo pugno di autonomi anarchici, studenti dell’ultra sinistra appartenenti a famiglie agiate, o a teppisti emarginati. Continuamente la televisione ha trasmesso immagini di scontri violenti con la polizia e soprattutto immagini di sommosse di giovani incappucciati che bruciano automobili, mandano in frantumi vetrine di banche o di negozi, e saccheggiano magazzini.
Questo è proprio lo stesso tipo di falsificazione della realtà che si era visto durante la mobilitazione anti-CPE del 2006 in Francia, che veniva assimilata alle sommosse nelle periferie dell’anno precedente. Ed ancora al rozzo modo di paragonare gli studenti che lottavano contro la LRU nel 2007 in Francia ai “terroristi” ed anche ai “khmer rossi”!
Pure se il centro delle agitazioni è iniziato nel “Quartiere latino” greco Exarchia, è difficile oggi fare ingoiare una tale pillola: com’è che questi sollevamenti insurrezionali sarebbero opera di bande di teppisti o di attivisti anarchici dal momento che essi si sono estesi velocemente come il vento all’insieme delle principali città del paese e fino alle isole (Chios, Samos) e in località turistiche come Corfù o Heraklion, capitale di Creta?
Tutte le condizioni erano riunite affinché la sopportazione di una larga parte dalle giovani generazioni operaie, prese dall’angoscia e private di avvenire, esplodesse in Grecia, dove si produce al massimo quel vicolo cieco che il capitalismo riserva alle giovani generazioni operaie: quando quelli che sono chiamati “la generazione 600 euro” entrano nella vita attiva, hanno l’impressione di essere truffati. La maggior parte degli studenti devono cumulare due lavori quotidiani per sopravvivere e potere continuare gli studi: sono piccoli lavori non dichiarati e sottopagati; anche in caso di impieghi meglio rimunerati, una parte del loro stipendio non è dichiarata e ciò limita nettamente i loro diritti sociali; in particolare si trovano privati di assicurazione sociale; le loro ore di straordinario non sono pagate e spesso sono incapaci di lasciare il domicilio dei loro genitori o parenti prima dei 35 anni in mancanza di redditi sufficienti per potersi pagare un tetto. Il 23% dei disoccupati in Grecia sono giovani, il tasso di disoccupazione dai 15 ai 24 anni è ufficialmente del 25,2%. Secondo l’espressione usata in un articolo in Francia (2): “Questi studenti non si sentono più protetti da niente: la polizia spara loro addosso, la scuola li intrappola, l’impiego li abbandona, il governo mente loro”. La disoccupazione dei giovani e le loro difficoltà ad entrare nel mondo del lavoro hanno creato e diffuso un clima di inquietudine, di collera e di insicurezza generalizzata. La crisi mondiale sta determinando nuove ondate di licenziamenti massicci. Nel 2009 è prevista una nuova perdita di 100.000 impieghi in Grecia, che corrisponde ad un incremento del 5% della disoccupazione. Allo stesso tempo, il 40% dei lavoratori guadagna meno di 1.100 euro lordi e la Grecia ha il tasso più elevato di lavoratori poveri tra i 27 Stati dell’UE: il 14%.
Del resto in strada non sono scesi solo i giovani, ma anche gli insegnanti mal pagati e molti salariati, in preda agli stessi problemi, alla stessa miseria ed animati dallo stesso sentimento di rivolta. La brutale repressione del movimento di cui l’omicidio di questo adolescente di 15 anni è stato l’episodio più drammatico, ha solamente amplificato questa solidarietà dove si è mescolato un malcontento sociale generalizzato. Come viene riportato da uno studente, anche molti genitori di alunni sono stati profondamente scioccati e disgustati: “I nostri genitori hanno scoperto che i loro figli possono morire in strada in questo modo, sotto le pallottole di un poliziotto” (3) e hanno preso coscienza del deterioramento di una società dove i loro figli non avranno il loro stesso livello di vita. Durante le numerose manifestazioni, sono stati testimoni di violenti pestaggi, di arresti brutali, di spari ad altezza d’uomo da parte dei poliziotti antisommossa, (i MAT), con le loro armi di servizio.
Gli occupanti del Politecnico, luogo di forte contestazione studentesca, non sono i soli a denunciare il terrore di Stato: questa collera contro la brutalità della repressione si ritrova in tutte le manifestazioni con slogan del tipo: “Pallottole per i giovani, denaro per le banche”. Ancora più chiaramente, un partecipante al movimento ha dichiarato: “Non abbiamo lavoro, né denaro, uno Stato in fallimento con la crisi, e tutto quello che c’è come risposta è dare armi ai poliziotti”.(4)
Questa collera non è nuova: gli studenti greci si erano già largamente mobilitati nel giugno 2006 contro la riforma delle università la cui privatizzazione determinava l’esclusione degli studenti con possibilità economiche più modeste. Anche la popolazione aveva manifestato la sua collera contro l’incuria governativa all’epoca degli incendi dell’estate 2007 che avevano provocato 67 morti, un governo che non sempre ha indennizzato le numerose vittime che avevano perso le loro case o i loro beni. Ma sono soprattutto i salariati che si erano mobilitati massicciamente contro la riforma del regime pensionistico all’inizio del 2008 con due giornate di sciopero generale molto seguite: in due mesi, ogni volta, le manifestazioni hanno mobilitato più di un milione di persone contro il taglio della pensione anticipata per le professioni usuranti e la rimessa in causa del diritto delle operaie di andare in pensione a 50 anni.
Di fronte alla collera dei lavoratori, lo sciopero generale del 10 dicembre inquadrato dai sindacati è servito da contromossa per cercare di deviare il movimento, richiedendo, con il Partito “socialista” e quello “comunista” alla testa, le dimissioni dell’attuale governo ed elezioni legislative anticipate. Questo non è riuscito a canalizzare la collera e ad arrestare il movimento, malgrado le molteplici manovre da parte dei partiti di sinistra e dei sindacati per tentare di bloccare la dinamica d’estensione della lotta e malgrado gli sforzi di tutta la borghesia e dei suoi mezzi di comunicazione per isolare i giovani dalle altre generazioni e dall’insieme della classe operaia, spingendoli negli scontri sterili con la polizia. Durante queste giornate e queste notti, gli scontri sono incessanti: le violente cariche poliziesche, a forza di manganelli e di granate lacrimogene, si traducono in decine di arresti e pestaggi.
Sono proprio le giovani generazioni operaie quelle che esprimono con maggiore chiarezza il sentimento di disillusione e di scoraggiamento rispetto ad un apparato politico reazionario e corrotto. Dal dopoguerra, tre famiglie si dividono il potere e da più di trent’anni, le dinastie dei Caramanlis, a destra, e dei Papandreu, a sinistra, regnano alternativamente e da soli sul paese a forza di tangenti e scandali. I conservatori sono arrivati al potere nel 2004 dopo un periodo di super intrallazzi dei socialisti negli anni 2000. Molti rigettano l’inquadramento di un apparato politico e sindacale completamente discreditato; “Il feticismo del denaro si è impossessato della società. Allora i giovani vogliono una rottura con questa società senza anima e senza prospettive” (5). Oggi, con lo sviluppo della crisi, questa generazione di proletari non solo ha sviluppato la coscienza dello sfruttamento capitalista che vive sulla sua pelle, ma esprime anche la coscienza della necessità di una lotta collettiva, adottando spontaneamente dei metodi e una solidarietà DI CLASSE. Piuttosto che cadere nella disperazione, tale generazione prende fiducia dalla sicurezza di essere portatrice di un altro avvenire e mette in campo tutta la sua energia per insorgere contro la putrefazione della società che la circonda. I manifestanti rivendicano fieramente il loro movimento così: “Noi siamo un’immagine del futuro di fronte ad un’immagine molto oscura del passato”.
Se la situazione ricorda il maggio ‘68, la coscienza della posta in gioco va ben oltre.
Il 16 dicembre, gli studenti irrompono per alcuni minuti negli studi della televisione governativa NET e distendono sotto gli schermi uno striscione con su scritto: “Smettetela di guardare la televisione. Tutti in strada!” e lanciano questo appello: “Lo Stato uccide. Il vostro silenzio li arma. Occupazione di tutti gli edifici pubblici!” La sede della polizia antisommossa di Atene viene attaccata ed un suo furgone incendiato. Queste azioni sono subito denunciate dal governo come un “tentativo di rovesciamento della democrazia” e vengono anche condannate dal PC greco (KKE). Il 17, l’edificio che è la sede del principale sindacato del paese, la Confederazione Generale dei Lavoratori in Grecia, GEEE, ad Atene, viene occupato da lavoratori che si proclamano insorti e che invitano tutti i proletari a fare di questo sito un luogo di assemblee generali aperte a tutti i salariati, agli studenti ed ai disoccupati (vedi la loro dichiarazione pubblicata di seguito). Stendono uno striscione di fronte all’Acropoli con il quale invitano a partecipare ad una manifestazione di massa l’indomani. In serata, una cinquantina di bonzi e di addetti al servizio d’ordine sindacale tentano di riprendersi i locali, ma vengono messi in fuga dai rinforzi di studenti, in maggioranza anarchici, dell’Università di Economia, anch’essa occupata e trasformata in luogo di riunione e di discussione aperta a tutti gli operai che vengono a dare man forte agli occupanti gridando a squarciagola “Solidarietà!”. L’associazione degli immigrati albanesi, tra gli altri, diffonde un testo che proclama la propria solidarietà con il movimento dal titolo “Questi giorni sono anche i nostri!” Appelli ad uno sciopero generale a tempo indeterminato a partire dal 18 si moltiplicano. I sindacati sono costretti a proclamare uno sciopero di tre ore nei servizi pubblici per questo giorno.
Nella mattinata del 18, un altro liceale di 16 anni che partecipava ad un sit-in presso la sua scuola in una periferia di Atene viene ferito da una pallottola. Lo stesso giorno, diverse sedi di radio o di televisione vengono occupate da manifestanti, particolarmente a Tripoli (nel Peloponneso), Chania e Tessalonica. Il palazzo della Camera di Commercio viene occupato a Patrasso dove si verificano nuovi scontri con la polizia. La gigantesca manifestazione ad Atene viene repressa con estrema violenza: per la prima volta vengono utilizzati dalle forze antisommossa dei nuovi tipi di arma: dei gas paralizzanti e delle granate assordanti. Un volantino diretto contro il “terrore di Stato” porta la firma “delle ragazze in rivolta” e circola a partire dall’Università di Economia. Il movimento percepisce confusamente i suoi limiti geografici: ed è per tale motivo che accoglie con entusiasmo le manifestazioni di solidarietà internazionale in Francia, a Berlino, a Roma, a Mosca, a Montreal o a New York e se ne fa eco: “questo sostegno è molto importante per noi”. Gli occupanti del Politecnico indicono “una giornata internazionale di mobilitazione contro gli omicidi di Stato” per il 20 dicembre, ma per vincere l’isolamento di questo sollevamento proletario in Grecia, l’unica via, la sola prospettiva è lo sviluppo della solidarietà e della lotta di classe a scala internazionale che si esprime sempre più chiaramente di fronte alla crisi mondiale.
Iannis (19 dicembre)
1. La legge Pécresse, riguardante le Libertà e Responsabilità delle Università (LRU), che prevede come obiettivo il raggiungimento nei prossimi cinque anni, da parte di tutte le università, dell’autonomia nel bilancio e nella gestione delle risorse umane.
2. Marianne n° 608, 13 dicembre: “Grecia: le lezioni di una rivolta”.
3. Libération del 12/12/2008.
4. Le Monde de 10/12/2008.
5. Marianne, articolo già citato.
"Dagli incidenti sul lavoro agli omicidi a sangue freddo
lo Stato del capitale uccide
Nessuna condanna
Liberazione immediata degli arrestati
SCIOPERO GENERALE
L'autorganizzazione degli operai
sarà la tomba dei padroni
Assemblea generale degli operai insorti"
Bisogna sottolineare che uno scenario identico, con occupazione ed Assemblee Generali aperte a tutti, si è verificato anche ad Atene presso l'Università di Economia.
Noi torneremo ulteriormente e più in dettaglio sugli avvenimenti che si sviluppano dal 6 dicembre in tutta la Grecia. Per il momento, con la pubblicazione di questa dichiarazione, vogliamo essenzialmente partecipare a rompere il menzognero "cordone sanitario" mediatico che accerchia queste lotte e che le presenta come delle semplici sommosse violente animate da alcuni giovani devastatori anarchici che terrorizzerebbero la popolazione. Questo testo, al contrario, mostra chiaramente la forza del sentimento di solidarietà operaia che anima questo movimento e che unisce differenti generazioni di proletari!
O determineremo noi stessi la nostra storia o questa sarà determinata senza di noi.
Noi, lavoratori manuali, impiegati, disoccupati, interinali e precari, locali o immigrati, noi non siamo telespettatori passivi. Dall'omicidio di Alexandros Grigoropoulos, la sera di sabato 6, partecipiamo alle manifestazioni, agli scontri con la polizia, alle occupazioni del centro città come dei suoi dintorni. Abbiamo lasciato parecchie volte il lavoro ed i nostri obblighi quotidiani per scendere in strada con gli studenti liceali, universitari ed altri proletari in lotta.
ABBIAMO DECISO DI OCCUPARE L'EDIFICIO DELLA CONFEDERAZIONE GENERALE DEI LAVORATORI IN GRECIA (GSEE)
- Per trasformarlo in uno spazio di libera espressione ed un punto di incontro per i lavoratori.
- Per dissipare i miti alimentati dai mezzi di comunicazione sull'assenza dei lavoratori negli scontri, sulla rabbia di questi ultimi giorni che sarebbe opera soltanto di 500 "incappucciati", "hooligans" o altre storie assurde, sulla presentazione dei lavoratori da parte dei telegiornali come vittime di questi scontri, mentre la crisi capitalista provoca, in Grecia e nel mondo, innumerevoli licenziamenti che la stampa ed i suoi dirigenti considerano un "fenomeno naturale".
- Per smascherare il ruolo vergognoso della burocrazia sindacale nel lavoro di sabotaggio contro l'insurrezione, ma anche più in generale. La Confederazione generale dei lavoratori in Grecia (GSEE), e l'intera macchina sindacale che la sostiene da decine e decine di anni, sabota le lotte, contratta la nostra forza lavoro in cambio di briciole, perpetuando il sistema di sfruttamento e di schiavitù salariata. L'atteggiamento della GSEE di mercoledì scorso si commenta da solo: la GSEE ha annullato la manifestazione degli scioperanti già programmata, ripiegando precipitosamente su un breve assembramento in piazza Syntagma, assicurandosi nello stesso tempo che i partecipanti si disperdessero rapidamente, per paura che fossero contagiati dal virus dell'insurrezione.
- Per aprire questo spazio, per la prima volta, come una continuazione dell'apertura sociale creata dalla stessa insurrezione, spazio che è stato costruito con il nostro contributo ma dal quale fino a questo momento siamo stati esclusi. Durante tutti questi anni, abbiamo affidato il nostro destino a dei salvatori di ogni razza, e abbiamo finito per perdere la nostra dignità. Come lavoratori, dobbiamo cominciare ad assumerci le nostre responsabilità e smettere di riporre le nostre speranze in dei capi "saggi" o dei rappresentanti "competenti". Dobbiamo cominciare a parlare con la nostra propria voce, dobbiamo incontrarci, discutere, decidere ed agire per conto nostro. Contro gli attacchi generalizzati che subiamo, l'unica soluzione è la creazione di collettivi di resistenza "di base".
- Per propagare l'idea dell'autorganizzazione e della solidarietà sui posti di lavoro, del metodo dei comitati di lotta e dei collettivi di base, per abolire le burocrazie sindacali.
Per tutti questi anni, abbiamo subito la miseria, la rassegnazione, la violenza sul lavoro. Ci siamo assuefatti a contare i nostri feriti ed i nostri morti - i cosiddetti "incidenti sul lavoro". Ci siamo abituati ad ignorare che gli immigrati, nostri fratelli di classe, venivano uccisi. Siamo stanchi di vivere con l'ansia di assicurarci un salario, di pagare le tasse e di garantirci una pensione che adesso sembra un sogno lontano.
Così come lottiamo per non abbandonare le nostre vite nelle mani dei padroni e dei rappresentanti sindacali, ugualmente non abbandoneremo gli insorti arrestati nelle mani dello Stato e dei meccanismi giuridici!
LIBERAZIONE IMMEDIATA DEI DETENUTI!
RITIRO DELLE ACCUSE CONTRO I FERMATI!
AUTORGANIZZAZIONE DEI LAVORATORI!
SCIOPERO GENERALE!
L'ASSEMBLEA GENERALE DEI LAVORATORI NEGLI EDIFICI LIBERATI DELLA GSEE, MERCOLEDI' 17 DICEMBRE ALLE ore 18.
1. Secondo un nostro lettore, notizia non controllata, l'occupazione è stata tolta alcuni giorni dopo.
Nel precedente articolo sul movimento degli studenti apparso il 5 novembre scorso sul nostro sito web[1] mettevamo già in evidenza come questo traesse la sua maggiore forza non tanto dalla sua specificità di movimento di studenti quanto piuttosto dal riconoscimento, ampiamente presente al suo interno e testimoniato proprio dalla parola d'ordine diffusa a livello nazionale "Noi la crisi non la paghiamo", di costituire la nuova generazione di proletari e, in questo senso, di essere sottoposti, già a livello di formazione, alle esigenze di ristrutturazione del capitale. D'altra parte il contesto generale in Italia e nel mondo è così fortemente segnato dalla gravità della crisi economica - con delle conseguenze già palesi a livello di degradazione delle condizioni di vita dei proletari - che la borghesia parla ormai essa stessa apertamente di crisi, nella misura in cui ha bisogno di preparare i proletari agli attacchi più forti che dovranno ancora venire. La popolazione è ben cosciente di questi attacchi e quello di cui si parla sempre più in giro è quale prospettiva abbiamo di fronte, qual è il futuro di questa nuova generazione. In questo scenario che fa da sfondo, gli studenti non potevano non sentire i tagli al settore della scuola e dell'università come interventi strettamente legati agli attacchi contro i salari, i licenziamenti ma anche ai servizi sociali, la sanità, ecc.
La dimensione internazionale e internazionalista del movimento
Quello che si è prodotto nelle ultime settimane ci ha mostrato che il movimento di lotta che si è sviluppato in Italia è solo un aspetto di un fenomeno più generale e perciò molto più consistente che si sta producendo a livello europeo. Contemporaneamente alle lotte degli studenti in Italia ce ne sono stati altri in Grecia (di cui diamo notizia in questo stesso giornale), ed ancora in Francia (dopo le lotte contro il CPE del 2006 e contro la LRU del 2007, sono gli studenti liceali che sono attualmente all'attacco)[2], in Germania, in Irlanda e in Spagna. In Irlanda c'è stata la più grossa manifestazione di tutti i tempi con oltre 70.000 manifestanti a Dublino, con occupazione di università e scuole e una mobilitazione partita da insegnanti e studenti universitari. Università occupate dalla fine di novembre anche in Spagna con manifestazioni di decine di migliaia di persone, soprattutto a Barcellona e Madrid, con estensione molto capillare della lotta.[3] E' evidente che tutto ciò non è casuale ma è il frutto, da una parte, della necessità della borghesia, a livello internazionale, di scaricare almeno parte della crisi riducendo i costi dell'istruzione, dall'altra del consolidamento della ripresa della lotta di classe a livello internazionale. Peraltro questa dimensione internazionale del movimento diventa sempre più internazionalista nel senso che i singoli movimenti prendono coscienza l'uno dell'altro e tendono a riconoscersi sempre più come parte di una sola dinamica. Ciò si è mostrato in numerose occasioni anche nel movimento degli studenti in Italia, dove c'è stata ad esempio una forte solidarietà nei confronti del movimento greco in occasione dell'assassinio di Alexis, che si è tradotta sia con prese di posizione di assemblee che, nel caso degli studenti delle università siciliane di Palermo e di Catania, con l'occupazione dei reciproci consolati: "Oggi, 11 dicembre, il movimento studentesco catanese ha occupato il consolato greco a Catania per ribadire la propria solidarietà nei confronti delle lotte e delle mobilitazioni che in questi mesi hanno coinvolto studenti e lavoratori in Grecia e che hanno vissuto drammatici episodi di repressione. Le loro rivendicazioni sono le nostre rivendicazioni, la crisi è unica, ha un carattere internazionale e la risposta non può che essere unica e internazionale." (dal Comunicato del Movimento Studentesco Catanese "Catania - Occupazione Consolato Greco" dell'11 dicembre 2008).[4]
C'è, ancora, una certa consapevolezza di non essere un fenomeno episodico ma di fare parte di un processo storico e internazionale che ha portato gli studenti ad interrogarsi sulle recenti lotte degli studenti francesi contro il CPE e a prendere da loro il meglio delle loro esperienze, tra cui quella organizzativa:
"Per vincere, è necessario organizzarsi e coordinarsi, come insegna la vittoria degli studenti francesi (...). In Francia gli studenti vinsero anche perché si diedero un coordinamento di lotta nazionale, costruito attraverso un percorso democratico che prevedeva l'elezione di delegati delle varie realtà di lotta. Dobbiamo seguire lo stesso esempio: ogni scuola o facoltà in mobilitazione elegga, attraverso assemblea, un numero di delegati proporzionale al numero dei partecipanti (un delegato ogni 50 studenti riuniti in assemblea). I delegati si faranno portavoce delle proposte emerse in assemblea e decideranno con gli altri delegati i momenti successivi della lotta. Solo con l'organizzazione e la democrazia si vince." (dal documento "Costruiamo un coordinamento nazionale delle lotte studentesche", del 6 dicembre 2008).[5]
I momenti di vita e il rafforzamento politico del movimento
Nel precedente articolo accennavamo anche al pericolo che la borghesia potesse lavorare su alcune debolezze del movimento per minarlo dall'interno e abbiamo fatto riferimento in particolare a:
a) la questione di un preteso apoliticismo del movimento;
b) la falsa idea che la responsabilità fosse tutta di Berlusconi e delle destre in genere;
c) il pericolo di rimanere infognati nell'antifascismo;
d) il pericolo di essere fagocitati da sindacati e partiti della falsa sinistra.
A distanza di oltre due mesi possiamo oggi dire che non solo il movimento non ha ceduto alle lusinghe borghesi, ma si è irrobustito in maniera ammirevole, come vedremo qui di seguito.
Anzitutto ricordiamo che, negli scorsi due mesi, ci sono state delle mobilitazioni di piazza che non si vedevano da tempo per numero di partecipanti e per combattività, come quella del 7 novembre, con manifestazioni in tutte le città e la presenza di centinaia di migliaia di persone, quella del 14 novembre, che ha visto una grande manifestazione centrale a Roma di tutto il mondo dell'istruzione con una presenza di oltre 200-300 mila persone ed infine la partecipazione allo sciopero generale del 12 dicembre, con ampia presenza del movimento degli studenti.
Ma, al di là di queste scadenze che hanno interessato contemporaneamente tutto il movimento, quotidianamente gli studenti e i giovani precari del mondo dell'istruzione, assieme ad una parte non trascurabile delle "vecchie guardie", ovvero quelli che avevano fatto il ‘77 o addirittura il ‘68, hanno dato luogo ad assemblee, manifestazioni locali, sit-in, occupazioni, conferenze pubbliche, lezioni per strada, spettacoli, esperienze di approfondimento, controinformazione, feste ecc. costruendo giorno per giorno una nuova consapevolezza del proprio essere e dei rapporti con la società. E' stata questa la scuola politica che ha plasmato nel tempo il movimento e che ha prodotto gli elementi di maturazione che ha raggiunto col tempo. Diversi gli sviluppi che vanno segnalati, primo tra tutti proprio quello che riguarda lo slogan che ha caratterizzato fin dall'inizio tutto il movimento e rispetto al quale, ad esempio, gli studenti di Scienze Politiche di Milano affermano giustamente che dichiarare semplicemente: "Noi la crisi non la paghiamo non è sufficiente" perché occorre pure chiedersi "chi è che paga questa crisi?", se le banche e gli speculatori di ogni tipo o la povera gente:
"Il nodo centrale è quindi il seguente: è corretto continuare questa mobilitazione in una dimensione prettamente studentesca, se i fondi che verranno provvisoriamente trovati per placare il malcontento degli universitari saranno tagliati da altri (e altrettanto importanti) settori sociali che ugualmente ci riguardano, assieme alle nostre famiglie, come lavoratori e come cittadini? No. E' suicida. (...) Infatti, se il ruolo delle istituzioni statuali, seppur pubbliche, è sempre più declinato al sostenimento delle imprese private a costo di ingenti costi sociali, è sbagliato ritenere che l'università - un istituto che riproduce il sistema generale di sfruttamento attraverso meccanismi determinati di a) selezione e di b) manipolazione - sia un' isola felice slegata dalla struttura economica che la determina." (da "Noi la crisi non la paghiamo non è sufficiente: chi paga questa crisi?" dell'Assemblea Studenti di Scienze Politiche di Milano, 11 novembre 2008).[6]
Ma si va anche oltre nella stessa lettura della crisi analizzata correttamente come crisi storica del sistema capitalista e non come evento episodico prodotto da errori contingenti di speculatori maldestri:
"Non è quindi un caso che il perno della discussione in tutte le assemblee sia stata la lettura della crisi economico-finanziaria. Differentemente da tutti quelli che hanno sprecato fiumi di inchiostro sostenendo che la "crisi" è solo "crisi della finanza", noi siamo convinti della necessità di ribadire che si tratta sì di crisi, ma di una crisi di accumulazione capitalistica che viviamo da almeno trent'anni, e di cui la recente deflagrazione finanziaria è soltanto l'ultimo, violento, momento di svolta. (...) Mettere in discussione il capitalismo significa quindi prima di tutto chiarire che non può esistere un lato 'buono' di un sistema fondato su sfruttamento ed oppressione (...) Condannare il capitalismo rapace degli speculatori e delle banche, lasciando intendere che ve ne sia uno buono da difendere, o uno "sostenibile", significa mistificare la realtà, e cedere le proprie armi critiche al nemico". (dal Documento politico dell'Assemblea Nazionale del 13-14 dicembre tenuta a Tor Vergata,Roma).[7]
Il riferimento ai lavoratori e alle loro lotte è ugualmente una costante nel movimento, anche se con un sistematico distinguo tra la classe dei lavoratori e le loro pseudo rappresentanze politiche e sindacali, verso le quali si esprime una decisa diffidenza ed estraneità, e non per caso:
"è per noi fondamentale ribadire la nostra ostilità nei confronti delle leggi bipartisan che hanno consentito in questi anni il processo di precarizzazione del lavoro, dal pacchetto Treu, alla legge 30. A maggior ragione vale la pena ribadirlo laddove, a partire dal mese di gennaio, 400.000 precari non saranno riassunti." (da Sapienza in mobilitazione, "Appello della Sapienza, verso lo sciopero generale del 12 dicembre", del 5 dicembre 2008).[8]
C'è in questi ragazzi una grande fierezza e una forte determinazione a lottare che non potrà che fare bene al resto della classe operaia. D'altra parte questo movimento ha ricevuto numerosi segni di simpatia da parte della popolazione, che si possono riassumere nella scritta riportata su uno striscione steso tra due finestre di una casa a Roma durante la manifestazione del 14 novembre che diceva "studenti, voi siete la nostra ultima speranza".
Se il rapporto con i sindacati e i partiti di sinistra è di sfiducia, gli studenti non hanno fatto l'errore di disertare le manifestazioni che queste forze di falsa sinistra promuovevano consci dell'importanza di esprimere un'influenza sugli altri proletari presenti al loro interno:
"La potenza dell'Onda è stata capace, dunque, di parlare alla società tutta e di trasformare tanto lo sciopero generale dei sindacati di base del 17 ottobre, quanto lo sciopero generale della scuola del 30 ottobre, in qualcosa di straordinario e di diverso dalle cose di sempre. Proprio l'autonomia del movimento studentesco ha reso possibile un'estensione senza pari delle mobilitazioni e una grande radicalità nei contenuti e nelle pratiche di lotta. (...) Per quanto riguarda il 12, invece, pensiamo che sia naturale per l'Onda mantenere lo stesso stile assunto durante i precedenti scioperi generali: un corteo autonomo che sappia però interloquire con tutti i lavoratori e attraversare, materialmente e non solo simbolicamente, le manifestazioni sindacali. Questo non toglie che è nostro interesse parlare con quei tanti lavoratori che pur essendo iscritti alla Cgil vedono nell'Onda e nella sue rivendicazioni un'opportunità di cambiamento radicale valido per tutti." (da Sapienza in mobilitazione, "Appello della Sapienza, verso lo sciopero generale del 12 dicembre", del 5 dicembre 2008).[9]
La prospettiva del movimento
Come abbiamo visto il movimento con il tempo non solo si è esteso ma si è anche irrobustito politicamente. Le assemblee che si sono tenute a Roma il sabato pomeriggio e la domenica successivi alle due manifestazioni nazionali del 14 novembre e del 12 dicembre sono state occasioni in cui si è saputo tesaurizzare il tempo e l'esperienza acquisita a livello territoriale:
"La due giorni di intensi dibattiti si è articolata in due momenti di confronto assembleari sull'autorganizzazione, e in due tavoli di lavoro plenari, che hanno affrontato il rapporto fra "Scuola e Università, Capitale e Lavoro" e fra "Università e movimenti sociali". (...) L'obiettivo di tutti i partecipanti all'assemblea è dunque quello di lavorare nella prospettiva di un confronto stabile tra lavoratori e studenti (che sono lavoratori in formazione, lavoratori di oggi e di domani), assolutamente svincolato dalle pratiche concertative di alcuni sindacati e partiti. (...) In conseguenza di ciò, partendo dalle nostre specificità locali, abbiamo deciso di creare una rete di realtà studentesche che abbia un respiro nazionale, ma che guardi anche alle proteste che si sviluppano, contro le medesime riforme e attacchi, su un piano internazionale." (dal Documento politico dell'Assemblea Nazionale del 13-14 dicembre tenuta a Tor Vergata,Roma).[10]
Noi non sappiamo quale sarà il futuro immediato di questo movimento, che ha programmato un successivo incontro nazionale per la primavera prossima. Ma siamo sicuri che già quello che ha prodotto lascerà un terreno fertile per il futuro della lotta di classe.
7 gennaio 2009 Ezechiele
[1] https://it.internationalism.org/node/662 [137]
[2] Vedi notizie e articoli sulla pagina in lingua francese del nostro sito.
[3] Vedi anche radio onda d'urto del 16/12/2008 (www.radiondadurto.org/agenzia/2008-12-16-13-19_sauro-manif-europa.mp3 [138]).
[4] www.informa-azione.info [139]
[5] www.montegargano.it/news/Costruiamo-un-coordinamento-nazionale-delle-lot... [140].
[6] spomilano.noblogs.org [141]
[7] clic.noblogs.org/post/2008/12/30/assemblea-nazionale-documento-politico-stilato-al-termine-della-due-giorni-di-discussione [142]
[8] www.flickr.com/groups/fotoattivismo/discuss/72157610765210754/ [143]
[9] www.flickr.com/groups/fotoattivismo/discuss/72157610765210754/ [143]
[10] clic.noblogs.org/post/2008/12/30/assemblea-nazionale-documento-politico-stilato-al-termine-della-due-giorni-di-discussione [142]
La borghesia brasiliana, scontrandosi con i movimenti che sfuggono al suo controllo, in realtà al controllo dei sindacati, utilizza in modo grottesco il suo apparato repressivo, la polizia, per intimidire i lavoratori. Il 16 ottobre a Puerto Alegre (RS), nel sud del Brasile, ha represso violentemente una manifestazione di impiegati di banca facendo uso di gas lacrimogeno, di proiettili di gomma e ferendo circa 10 persone. Come se la repressione mattiniera non fosse bastata, anche la "13a marcia dei Senza"(1), che, lo stesso giorno e nella stessa città, ha mobilitato una decina di migliaia di persone, ha subito una repressione poliziesca che ha provocato numerosi feriti.
Prima di ciò, i dirigenti delle banche avevano già cominciato a prendere delle misure contro l'attuale sciopero degli impiegati di banca perseguitandone e licenziando dei leader, per contenere lo sviluppo del movimento.
La solidarietà di classe: una necessità
È necessario sottolineare che l'attuale lotta degli impiegati di banca va al di là delle classiche rivendicazioni economiche poiché la sua rivendicazione essenziale è quella dell'omogeneizzazione del trattamento degli impiegati. Le banche, e soprattutto quelle federali, hanno creato un abisso tra le condizioni degli impiegati già a lavoro da tempo e quelle degli assunti dal 1998, sopprimendo certi "vantaggi" che comunque erano stati strappati lottando. Più della rivendicazione di un semplice compenso economico, si tratta dunque di un gesto importante di solidarietà tra lavoratori: non si può accettare un trattamento differenziato, come se alcuni lavoratori fossero inferiori, mentre effettuiamo tutto lo stesso lavoro, negli stessi locali, e sottomessi alle stesse pressioni.
E sia chiaro che se alcuni tra noi beneficiano di "vantaggi" che sono il frutto della lotta, tutti ne devono beneficiare, qualunque sia il momento in cui sono stati assunti. Allo stesso modo, questo sciopero cerca di ricuperare ciò che ci è stato tolto, e questa volta a tutti, come i premi annui, ecc. Tutte queste conquiste economiche sono state il prodotto delle nostre lotte di resistenza ma in seguito esse sono state annullate dai padroni con la complicità dei loro "partner sindacali".
Vogliamo anche delle migliori condizioni di lavoro, la fine dell'oppressione morale, la fine degli obiettivi di vendita dei prodotti e dei servizi imposti dalle banche; che, tutte, hanno provocato tante malattie tra i lavoratori del settore bancario. Lo ripetiamo, non vogliamo essere trattati differentemente gli uni dagli altri. Non possiamo essere d'accordo con un taglio dei nostri "vantaggi" che sono il prodotto delle nostre lotte e non di regali fatti dai padroni del settore pubblico o privato.
La rivendicazione delle stesse condizioni di lavoro e delle stesse remunerazioni per quelli che sono assunti ora costituiscono un atto di solidarietà tra le differenti generazioni di lavoratori di questo settore. Questa stessa solidarietà noi la dobbiamo manifestare con azioni verso coloro che sono state vittime della repressione statale. Non possiamo rinunciare ad unirci ed essere solidali con tutti coloro che lottano per non lasciarsi schiacciare dalle necessità del capitalismo in crisi, con tutti coloro che la borghesia ha represso o sta per reprimere a causa della loro partecipazione nelle lotte.
Queste lotte e la repressione dello Stato non sono fatti che riguardano soltanto gli impiegati di banche, ma coinvolgono l'insieme dei lavoratori, con o senza lavoro.
1. Movimento che riunisce differenti categorie di emarginati sociali, il Movimento dei Senza terra, il Movimento dei Senza tetto, il Movimento dei Senza lavoro. Come indica il suo nome, quest'ultimo è costituito essenzialmente da proletari senza lavoro. Il movimento dei Senza tetto raggruppa elementi dei differenti strati non sfruttatori della società che si organizzano per occupare alloggi vuoti. Anche il movimento dei Senza terra è costituito da differenti strati non sfruttatori della società di provenienza cittadina, senza lavoro, e che sono organizzati all'interno di questa struttura per l'occupazione di terre da coltivare. Questa struttura è solidamente controllata dallo Stato, in particolare dal primo mandato di Lula da presidente.
Anzitutto questo ha permesso di ricredibilizzare il gioco elettorale e il ritorno sulla scena della mistificazione “democratica” allo scopo di mascherare provvisoriamente il fallimento del capitalismo, per gli Stati Uniti come per il mondo intero. Questa elezione non si appoggia solo sul sostegno unanime di tutta la borghesia (tutti i capi di Stato senza eccezione si sono pubblicamente rallegrati di questa elezione e si sono caldamente felicitati nei confronti dell’“eroe eletto”) ma ha anche condotto verso le urne milioni di Americani diseredati, così come neri o membri di minoranze di immigrati che non avevano mai preso parte ad un voto nella loro vita. Queste elezioni hanno fatto montare un’enorme ondata di speranze di cambiamento delle loro condizioni di vita miserabile per milioni di sfruttati e di oppressi grazie ad una gigantesca operazione pubblicitaria che vanta il miraggio della “unione nazionale”, così cara alla borghesia. Quest’ultima ha preparato il terreno per ottenere un risultato equivalente ad un maremoto: occorreva aumentare il prestigio degli Stati Uniti intorno ad un candidato ideale, giovane, dinamico, capace di unire e per giunta nero: Obama.
Questa vittoria riguarda soltanto la borghesia e, contrariamente a quanto vorrebbero farci credere, non è di nessuna “comunità nera” né degli strati più poveri della società e neanche delle pretese “classi medie”. Infatti non cambierà in niente la sorte delle diecine di milioni di proletari e di sfruttati che, più che mai, non raccoglieranno che ulteriore “sangue, sudore e lacrime”, secondo la vecchia espressione consacrata da Churchill. Non cambierà la mostruosità del mondo capitalista. Con la vittoria d' Obama occorreva soprattutto “cancellare” l’immagine catastrofica degli Stati Uniti dopo gli otto anni di presidenza Bush (definito come il peggiore presidente della storia degli Stati Uniti): fare credere alla rinascita, al cambiamento, sostituire l’equipe dei “neo-con repubblicani” superati dagli eventi e segnati dal fallimento delle loro “dottrine ultra-liberali”. Il “campo democratico” aveva ben compreso questo bisogno di cambiare look all’imperialismo americano permettendosi, in occasione delle primarie, di eliminare la candidatura di Hillary Clinton che, benché facesse balenare un’altra “novità assoluta”, una donna presidente degli Stati Uniti, ha puntato troppo sulla sua esperienza di vecchia volpe dell’apparato e della politica, essendo incapace di suscitare uno slancio suscettibile di incanalare un’aspirazione profonda ad un rinnovo del personale politico. Inoltre, sull’altro fronte, quello dei “repubblicani”, si è fatto di tutto per non vincere con la coppia Mc Cain-Palin, con la scelta di un vecchio arnese di 72 anni, “eroe” del Vietnam, un uomo del passato, non del futuro, rapidamente “affondato” da una parte dalla sua appartenenza allo stesso “campo repubblicano” di Bush (nonostante le distanze prese nei confronti di quest’ultimo) e soprattutto confrontato con i suoi limiti (i suoi spropositi continui di uomo superato rispetto al crack finanziario ed economico). Infine, la scelta come vice di un’ultra-reazionaria, “creazionista”, completamente non credibile, ha costituito un vero elemento di dissuasione. Le adesioni massicce e spettacolari alla causa di Obama nello stesso campo repubblicano (come, tra i più famosi, quello dell’ex-responsabile della difesa nazionale in occasione della guerra in Iraq durante il mandato di Bush padre, Colin Powell) sono stati ugualmente elementi determinanti che esprimono un cambiamento di strategia della borghesia americana più cosciente delle sfide del periodo.
Questo cambio di facciata degli USA sottolinea la capacità di adattamento di una grande potenza declinante che, per preservare la sua credibilità e rompere il pericoloso isolamento nel suo dominio imperialista, deve cessare di apparire sempre nello stesso ruolo di grande gendarme cattivo del mondo. E’ una mossa necessaria per convincere il mondo intero a condividere il peso della crisi. Nel capitalismo, “non vi è un salvatore supremo, né Dio, né Cesare, né tribuno, il mondo deve cambiare le sue basi …”[1]. La “folle speranza” suscitata da “l’effetto Obama” non può che condurre ad una terribile e rapidissima disillusione. Con l’effetto boomerang degli attacchi, dei fallimenti, della disoccupazione, della miseria, della prosecuzione della politica guerriera, della recessione e dell’indebitamento che bussano alla porta, il ritorno alla realtà sarà duro. Questo tentativo di “cambiare pelle” non può comunque salvare la pelle del capitalismo, né impedire agli Stati Uniti d’essere la prima potenza ad essere travolta drammaticamente nella peggiore crisi mondiale di questo sistema. Solo lo sviluppo internazionale della lotta di classe può offrire una reale speranza per l’avvenire dell’umanità.
W (21 novembre)
Da quando gli Usa hanno usato le atrocità dell’11 settembre per giustificare la propria barbarie militare in Afghanistan e Iraq, questo paragone ha un preciso significato: contiene la minaccia implicita che lo status di vittima dell’India sarà usato per giustificare una maggiore pressione, o per rinnovare il conflitto, contro il Pakistan.
Non solo gli Stati Uniti avevano già avvertito l’India di potenziali attacchi, ma i servizi segreti indiani avevano avuto, in numerose occasioni, attraverso proprie fonti, informazioni della possibilità di attacchi a Mumbai. Possiamo immaginare che lo Stato indiano abbia lasciato condurre gli attacchi per giustificare una futura aggressione - che inoltre regge il confronto con il comportamento degli Stati Uniti nel settembre 2001.
Da un lato, se cerca pretesti per la guerra, lo Stato indiano può già contare su un certo numero di attacchi dinamitardi in tutta una serie di città indiane negli ultimi sei mesi, tra cui Nuova Delhi, Jaipur, Bangalore, Ahmedabad e Guwahati che sono costati la vita quest’anno a più di 400 persone. L’atto terroristico di Mumbai è stato dunque solo l’ultima espressione, anche se la più drammatica, di un conflitto fra l’India ed il Pakistan che è continuato, in una forma o nell’altra, fin da prima dell’indipendenza dalla Gran Bretagna. In particolare l’India ed il Pakistan hanno combattuto per il Kashmir nel 1947, il 1965 ed il 1971 e anche dopo gli attacchi aerei dell’India nel maggio 1999 contro gli insorti mussulmani. Dopo, ci sono stati continui incidenti per parecchi anni, incluso l’attacco al parlamento indiano, nel dicembre 2001, in cui morirono 14 persone. Ciò ha condotto alla mobilizzazione del 2002 delle forze armate di entrambe le potenze nucleari per affrontarsi alla loro frontiera, sull’orlo di una guerra totale.
Il conflitto non è stato intrapreso solo dalle forze armate “ufficiali” dei due paesi ma anche dai gruppi terroristi creati spesso dagli stessi servizi segreti. In particolare l’ISI (servizi segreti del Pakistan) ha creato inizialmente il Lashkar-e-Taiba e il Jaish-e-Mohammed per farli operare nel Kashmir; e, anche se lo Stato pakistano ha proscritto formalmente questi gruppi nel 2002, essi agiscono ancora con l’approvazione di importanti fazioni della classe dirigente pakistana. Non è sorprendente che lo Stato indiano (e i mezzi di comunicazione di tutto il mondo) abbiano accusato questi gruppi di responsabilità negli attacchi di Mumbai. In definitiva, chiunque sia stato responsabile degli attacchi, si stava comportando in continuità con la storia brutale e barbara che ha segnato il conflitto.
Per quanto riguarda gli Stati Uniti, questi non sono affatto disinteressati agli eventi. Una delle priorità di Barack Obama riguardo alla politica estera (in continuità con Bush e con il ministro della difesa Gates, che Obama vuole mantenere) è l’offensiva contro le forze che combattono in Afghanistan e che sono stanziate in Pakistan. Avendo bisogno dell’assistenza del Pakistan nella ‘guerra contro il terrore', Washington non vuole che le forze pakistane abbandonino le loro attuali posizioni per andare ai confini del Kashmir. Tutto ciò che peggiora i rapporti tra il Pakistan e l’India insidia la strategia degli Stati Uniti nella zona. È anche difficile, per gli Stati Uniti, fare pressioni sulla classe dirigente indiana perché questa può rispondere che gli Stati Uniti non si sono trattenuti dall’attaccare al-Qaeda o i Talebani.
Alcuni commentatori hanno suggerito che l’India non attaccherà il Pakistan poiché ciò rinforzerebbe la posizione dell’esercito all’interno di quello Stato molto fragile e che c’è almeno una certa possibilità di dialogo con la classe dirigente pakistana nella sua attuale configurazione. Altri hanno insistito che il conflitto imperialista aperto é inevitabile, prima o poi, e che le cose sono già fuori dal controllo dei politici indiani e pakistani.
Una cosa che è certa è il pericolo inerente alla situazione. Entrambi i paesi hanno armi nucleari. Entrambi hanno forze armate che già sono mobilitate, non solo per il Kashmir: il Pakistan lotta nel suo nord-ovest e Baluchistan e l’India nel Nagaland ed in alcuni stati contro l’insurrezione dei Naxalite (ndr: maoisti). Per di più, entrambi i paesi hanno collegamenti con potenze imperialiste molto più forti: l’India sta sviluppando un’alleanza con gli Stati Uniti ed il Pakistan ha un’antica alleanza anti-indiana con la Cina.
Forse, per il momento, l’India ed il Pakistan, sotto la pressione degli USA, potranno ancora contenere la spinta verso lo scontro militare aperto, ma la spinta imperialista verso la guerra è inevitabile per il capitalismo e, nel caso specifico, potrebbe stravolgere una delle regioni più popolate nel mondo. Gli attacchi a Mumbai sono stati terribili e mostrano che il potenziale massacro che il capitalismo è capace di liberare con il suo arsenale di distruzione è l’espressione dell’incapacità del suo sistema di organizzazione sociale a offrire nient’altro all’umanità se non l’oblio.
Car, 5 dicembre 2008
Era stato raggiunto un punto culminante di malcontento e di rigetto della guerra. Dopo quattro anni di uccisioni di massa, 11 milioni di morti, un numero incalcolabile di feriti, dopo l'estenuante guerra di trincea che stava causando numerosissime perdite per gli attacchi con gas nel Nord della Francia ed in Belgio, con la carestia che stava colpendo la popolazione operaia, dopo questa immonda carneficina senza fine, la classe operaia tedesca fu tanto disgustata dalla guerra da non essere più disposta a sacrificare la propria vita per gli interessi della "nazione". Tuttavia, il comando militare impose il proseguimento della guerra con una brutale repressione e decise di punire spietatamente i marinai che si erano ammutinati.
Come reazione si sviluppò una grande ondata di solidarietà. Iniziata a Kiev, quest'ultima si estese rapidamente alle altre città della Germania. Gli operai deposero i loro arnesi, i soldati si rifiutarono di eseguire gli ordini, gli uni e gli altri formarono immediatamente, come già era avvenuto a gennaio del 1918 a Berlino, consigli di operai e di soldati. Rapidamente, questo movimento si estese alle altre città della Germania. Il 5 ed il 6 novembre, Amburgo, Brema e Lubecca cominciarono a muoversi; il 7 e l'8 novembre, Desdra, Lipsia, Magdeburgo, Francoforte, Colonia, Hannover, Stoccarda, Norimberga e Monaco vennero occupate dai consigli di operai e dei soldati. In una settimana, in tutte le grandi città tedesche sorsero consigli di operai e di soldati.
Ben presto, Berlino ed i suoi consigli diventarono il centro del sollevamento, e, il 9 novembre, decine di migliaia di operai e di soldati si riversarono in strada per manifestare in modo massiccio contro il governo e la sua politica d'accentuazione della guerra. Quest'ultimo, preso di sorpresa, ordinò frettolosamente ai battaglioni "degni di fiducia" di accorrere a Berlino per proteggerla. Ma "la mattina del 9 novembre, le fabbriche vengono disertate con incredibile velocità. Una folle enorme riempie le strade. Dalla periferia, dove si trovano le più grandi fabbriche, grandi manifestazioni convergono verso il centro ... Solitamente, ovunque si riuniscono i soldati, non è necessario lanciare appelli speciali; tutti raggiungono gli operai in marcia. Uomini, donne, soldati, un popolo in armi invade le strade per dirigersi verso le vicine caserme" (R. Mϋller, Rivoluzione di Novembre).
Sotto l'influenza delle grandi masse assembrate nelle strade, gli ultimi resti delle truppe fedeli al governo cambiarono campo, raggiunsero i rivoltosi dando loro le armi. Il quartiere generale della polizia, i grandi uffici stampa, gli uffici telegrafici, i locali del parlamento e del governo, tutti furono occupati lo stesso giorno dai soldati e dagli operai in armi, e furono anche liberati i prigionieri. Molti funzionari governativi si diedero alla fuga. Furono sufficienti poche ore per occupare questi bastioni del potere borghese. A Berlino venne formato un "consiglio d'operai e di soldati", il Vollzugsrat (consiglio esecutivo).
Gli operai tedeschi si erano mesi sulle stesse tracce dei loro fratelli e sorelle di classe della Russia. Questi, infatti, a febbraio del 1917, formarono dei consigli di operai e di soldati che nell'Ottobre 1917 presero con successo il potere. Gli operai tedeschi stavano percorrendo la stessa strada degli operai russi, trionfando sul sistema capitalista attraverso la presa del potere da parte dei consigli operai e di soldati, paralizzando l'apparato del potere borghese, e formando un governo operaio ... La prospettiva era una porta spalancata verso la rivoluzione mondiale, dopo che gli operai russi avevano segnato la prima tappa in questa direzione.
Attraverso questo movimento insurrezionale, gli operai misero in moto le più grandi lotte in Germania. Tutti gli "accordi di pace sociale" sottoscritti dai sindacati durante la guerra furono ridotti in fumo dalle lotte operaie. Attraverso il loro sollevamento, gli operai tedeschi si liberarono dagli effetti della sconfitta d'agosto 1914. Il mito di una classe operaia tedesca paralizzata dal riformismo veniva cancellato. Gli operai tedeschi utilizzavano le stesse armi di lotta che stavano caratterizzando il periodo dell'entrata in decadenza del capitalismo, già precedentemente sperimentate dagli operai russi nel 1905 e nel 1917: scioperi di massa, assemblee generali, formazione dei consigli operai, in breve, l'auto-iniziativa della classe operaia. Al fianco degli operai russi, gli operai tedeschi formarono l'avanguardia della prima grande ondata rivoluzionaria internazionale delle lotte emerse dalla guerra. Già in Ungheria ed in Austria nel 1918 gli operai si erano sollevati dando luogo alla formazione dei consigli operai.
La Socialdemocrazia, ferro di lancia contro il proletariato
Tuttavia, mentre si sviluppavano le iniziative proletarie, la classe dominante non rimase inerte. Gli sfruttatori e l'esercito avevano bisogno di una forza capace di limitare e sabotare il movimento. Avendo fatto esperienza dai fatti russi, la borghesia tedesca, con i capi del comando militare, riuscì a riprendere la situazione in mano. Il generale Groener, comandante supremo dell'esercito, più tardi ammetterà: "Attualmente in Germania non c'è nessun partito che abbia molta influenza sulle masse per ristabilire il potere del governo con il comando militare supremo. I partiti [tradizionali] di destra erano crollati e, naturalmente, era impensabile formare un'alleanza con l'estrema sinistra. Il comando militare supremo non ha avuto altra scelta che formare un'alleanza con la Socialdemocrazia. Noi ci siamo uniti in una lotta comune contro la rivoluzione. Contro il Bolscevismo. Era impensabile restaurare la monarchia. Lo scopo dell'alleanza che noi abbiamo formato la sera del 10 novembre era la lotta totale contro la rivoluzione, per restaurare un governo d'ordine, governo sostenuto dalla potenza delle truppe e per effettuare, al più presto possibile, l'assemblea nazionale" (W. Groener sull' Accordo tra il comando militare supremo e F. Ebert del 10 novembre 1918).
La copertura della "unità" per mascherare gli antagonismi di classe
Al fine di evitare l'errore della classe dominante russa - e cioè la continuazione, dopo febbraio del 1917, della guerra imperialista da parte del governo provvisorio russo, che inasprì così la resistenza degli operai, dei contadini e dei soldati contro il regime, preparando l'insurrezione vittoriosa d'ottobre del 1917 - la classe capitalista tedesca reagì rapidamente e con una certa destrezza. Il 9 novembre, l'imperatore Guglielmo II fu costretto ad abdicare e fu inviato in esilio; l'11 novembre venne firmato un armistizio che contribuì a togliere la spina della guerra dalla carne della classe operaia, che aveva obbligato gli operai ed i soldati a combattere. La borghesia tedesca riuscì in tal modo a tagliare l'erba sotto i piedi al suo nemico di classe. Ma, indipendentemente dall'abdicazione forzata dell'imperatore e dalla firma dell'armistizio, una tappa decisiva nel sabotaggio delle lotte fu raggiunta nell'affidare il potere governativo alla socialdemocrazia. Sempre il 9 novembre, tre capi della SPD (Ebert, Scheidemann, Landsberg), tre capi dell'USPD (Partito Socialdemocratico indipendente)(1) formarono il Consiglio dei commissari del popolo, governo borghese fedele al capitale.
Lo stesso giorno, Liebknecht, il più prestigioso rappresentante della frazione spartachista, davanti a migliaia d'operai, proclamò la "Repubblica socialista" di Germania, chiamando ad una unificazione degli operai tedeschi con gli operai russi; nello stesso tempo il leader del SPD, Ebert, proclamava una "Repubblica tedesca libera" con il nuovo "Consiglio dei commissari dei popoli" alla sua testa. Questo governo (borghese) autoproclamato venne installato per sabotare il movimento. "Giungendo al governo, la Socialdemocrazia va a soccorrere il capitalismo, scontrandosi con la rivoluzione proletaria che avanza. La rivoluzione proletaria dovrà marciare sul suo cadavere". Queste parole di Rosa Luxemburg, nelle sue "Lettere di Spartacus", ottobre 1918, mostravano già dove si trovava il pericolo maggiore. Il 10 novembre, Rote Fahne, (Bandiera Rossa), giornale degli Spartachisti, avvertì: "Per quattro anni, il governo Scheidemann, governo dei socialisti, vi ha spinto negli orrori della guerra; vi ha detto che era necessario difendere la "patria", mentre questa era solo una lotta per puri interessi imperialisti. Ora che l'imperialismo tedesco crolla, tale governo tenta di salvare il salvabile per la borghesia e scacciare l'energia rivoluzionaria delle masse. Nessuna unità con coloro che vi hanno tradito per quattro anni. Abbasso il capitalismo ed i suoi agenti".
Ma, a questo punto, l' SPD tentò di mascherare il vero fronte. Lanciò lo slogan: "Non dovrebbe esserci niente di "fratricida" se un gruppo lotta contro un altro gruppo, se una setta lotta contro un'altra setta, allora avremmo il caos russo, il declino generale, la miseria al posto del benessere. Tutti, dopo un trionfo fantastico che ha visto l'abdicazione dell'imperatore, dovrebbero ora essere testimoni dello spettacolo dell'automutilazione della classe operaia in una lotta fratricida ingiustificata? Ieri ha mostrato la necessità dell'unità interna della classe operaia. In quasi tutte le città estendiamo l'appello all'unità tra "il vecchio SPD e L'USPD nuovamente fondato (...)" (Vorwärts, 10 novembre 1918). A partire da queste illusioni di unità tra l' SPD e l'USPD, l' SPD insisté presso il Consiglio operaio e di soldati di Berlino sul fatto che, poiché il "Consiglio dei commissari dei popoli" era composto di tre membri dell' SPD e dell'USPD, i delegati del Consiglio operaio e di soldati di Berlino avrebbero dovuto trovarsi nelle stesse proporzioni. Esso riuscì persino ad ottenere un mandato dal Consiglio operaio e di soldati di Berlino "per dirigere il governo provvisorio", essendo in realtà quest'ultimo una forza che si opponeva direttamente ai consigli operai. Rosa Luxemburg, più tardi, farà un bilancio delle lotte in questo periodo: "Difficilmente avremmo immaginato che nella Germania che aveva conosciuto il terribile spettacolo del 4 agosto, e che per quattro anni aveva raccolto ciò che era stato seminato in quel giorno, si sarebbe improvvisamente sviluppato il 9 novembre del 1918 una gloriosa rivoluzione, inspirata direttamente dalla coscienza di classe, ed orientata verso un obiettivo concepito con chiarezza. Ciò che si è prodotto il 9 novembre, è stato semplicemente la vittoria di nuovi principi; si stava solo avverando il crollo del sistema imperialista esistente. Era giunto il momento del crollo dell'imperialismo, un colosso dai piedi d'argilla che si sbriciolava dall'interno. La conseguenza di questo crollo era un movimento più o meno caotico, un movimento privo di piano motivato. La sola fonte d'unione, il solo principio esistente e di salvezza era la parola d'ordine "formare consigli operai e di soldati". (Congresso di fondazione del KPD 1918/19).
Sabotaggio politico dei consigli operai da parte dell' SPD
In novembre e dicembre, nel momento in cui si placava lo slancio rivoluzionario dei soldati, nelle fabbriche cominciarono a prodursi parecchi scioperi. Ma questa dinamica non era che all'inizio. E, in quel momento, il movimento dei consigli era ancora fortemente e inevitabilmente diviso. Cogliendo questa opportunità, l' SPD prese l'iniziativa di indire a Berlino il 16 dicembre un congresso nazionale dei consigli operai e dei soldati. Così, mentre il movimento nelle fabbriche non aveva ancora raggiunto il suo pieno slancio, ed il tempo della centralizzazione era ancora immaturo, l' SPD sfruttò l'occasione di un tale congresso nazionale dei consigli per disarmarli politicamente. Inoltre, mise l'accento sull'illusione largamente diffusa all'epoca, secondo la quale il consiglio avrebbe dovuto lavorare seguendo i principi del parlamento borghese. All'apertura del congresso, la delegazione formò delle frazioni (sui 490 delegati, 298 erano membri dell' SPD, 101 dell'USPD, tra questi 10 spartachisti, 100 appartenevano ad altri gruppi). Così, la classe operaia dovette scontrarsi con un congresso autoproclamato dei consigli che pretendeva di parlare in nome della classe operaia ma che lasciava subito tutto il potere tra le mani del governo provvisorio anche questo "autoproclamato".
Scaltramente, il presidium, col pretesto che non erano operai delle fabbriche di Berlino, impedì a leader Spartachisti, come Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg di partecipare ai lavori del congresso, e quindi di prendere la parola(2).
Il congresso pronunciò la "sentenza di morte" quando decise di sostenere l'appello per la formazione di una "assemblea nazionale". Abdicare al potere di fronte al parlamento borghese, era disarmare sé stesso.
Gli Spartachisti intenzionati a fare pressione sul congresso organizzarono una manifestazione di strada massiccia, 250.000 operai solamente a Berlino il 16 dicembre. Tuttavia, alla fine il congresso nazionale permise alla classe dominante di segnare un punto importante. Gli Spartachisti conclusero: "Questo primo congresso distrugge alla fine l'unica conquista, la formazione dei consigli operai e dei soldati, strappando in questo modo il potere alla classe operaia, rigettando il processo rivoluzionario. Il congresso, condannando i consigli operai e dei soldati all'impotenza (attraverso la decisione di rimettere il potere ad una circoscrizione nazionale) ha violato ed ha tradito il suo mandato (...) I consigli operai e dei soldati dovevano dichiarare questo congresso non avvenuto ed i risultati nulli" (Rosa Luxemburg, 20 dicembre 1918). In alcune città, i consigli operai e dei soldati protestarono contro le decisioni del congresso nazionale.
Incoraggiato e rafforzato dai risultati del congresso, il governo provvisorio cominciò a lanciare provocazioni militari. In un attacco del Freikorps a Berlino (truppe controrivoluzionarie create dal SPD), parecchie decine di operai furono ammazzati il 24 dicembre. Ciò provocò l'indignazione degli operai di Berlino. Il 25 dicembre, migliaia di operai si riversarono in strada a protestare. Di fronte al comportamento apertamente controrivoluzionario del SPD, il 29 dicembre, i commissari dell'USPD si ritirarono dal Consiglio dei Commissari.
Il 30 dicembre ed il 1° gennaio, gli Spartachisti fondarono, nel fuoco dell'azione, con i Comunisti internazionali di Germania (IKD), il Partito comunista tedesco (KPD). Tracciando un primo bilancio, ed indicando le prospettive, Rosa Luxemburg, il 3 gennaio del 1919, insistette: "La trasformazione di una rivoluzione del 9 novembre essenzialmente di "soldati" in una rivoluzione chiaramente operaia, la trasformazione di un cambiamento semplice di un regime in un lungo processo di scontro generale economico tra il capitale ed il lavoro esige dalla classe operaia un differente livello di maturità politica, di formazione, di tenacia, (d'accanimento) che è quello che noi abbiamo visto in questa prima fase di lotte". (3 gennaio 1919, Bandiera Rossa). Il movimento doveva allora entrare in una tappa cruciale in gennaio 1919 - e di questo parleremo in un prossimo articolo.
Dino
1. L'USPD era un partito centrista, composto almeno da due ali che si combattevano tra loro: un'ala destra, che tentò di reintegrare il vecchio partito, passato nel campo della borghesia, ed un'altra ala, che si sforzava di raggiungere il campo rivoluzionario. Gli Spartachisti si unirono all'USPD per avvicinarsi a più operai e farli avanzare. In dicembre 1918 gli Spartachisti ruppero con L'USPD per fondare il KPD.
2. Per rafforzare l'isolamento degli operai e dei rivoluzionari tedeschi, su istruzione delle forze del SPD, una delegazione d'operai russi giunta per assistere al congresso venne trattenuta alla frontiera.
Oggi c’è anche un coro unanime che “deplora” e “condanna” le barbare atrocità perpetrate dallo Stato di Israele sulla popolazione di Gaza stretta in una trappola. Anche i più fedeli alleati di Israele, come gli Stati Uniti, o fingono di guardare dall’altro lato o fanno discrete pressioni perché non si vada “troppo oltre”(!).
Nessuno però parla del rapporto tra l’aggravarsi della crisi e l’acuirsi della barbarie di guerra. La stragrande maggioranza di analisti, governi, gruppi politici, ecc. concordano nell’ignorare qualsiasi collegamento tra l’una e l’altra, mostrandole come due fenomeni distinti che appartengono a due mondi diversi. Ma, al contrario, la chiave per comprendere la situazione attuale della società mondiale e trovare una via d’uscita sta proprio nel vedere la stretta ed intima connessione tra la crisi capitalista e la guerra imperialista. Creare una separazione tra le cause della crisi e le cause della guerra porta a sottovalutare entrambi i fenomeni. La guerra viene presentata come il prodotto della barbarie di questo o quello Stato, ma non il prodotto dello scontro tra tutti gli Stati, che sono tutti imperialisti. Ed infatti ci vengono a dire che si, ci sono gli Stati “bellicosi” ed “imperialisti”, ma la maggior parte degli Stati sono “pacifici” e cercano di “calmare gli animi” quando si creano situazioni di tensione offrendo soluzioni diplomatiche. La crisi, sempre secondo loro, sarebbe una pausa, un momento di magra, dal quale si potrà uscire per raggiungere nuovi periodi di prosperità.
Separando la crisi dalla guerra si può dare la colpa della guerra ad un capro espiatorio, ad una causa particolare e specifica in modo da far credere che all’interno di questa società sia possibile una soluzione pacifica al problema dello scontro tra imperialisti. Allo stesso modo la causa della crisi può essere ricercata in eventi particolari o personalizzata: può essere colpa dell’ideologia “neoliberista”, o responsabilità di banchieri, speculatori e società. Così si lascia aperta la porta all’illusione di una possibile soluzione attraverso l’intervento dello Stato o di una politica basata sul “far pagare la crisi ai banchieri”.
Separando la crisi dalla guerra, vedendole come eventi indipendenti, è più facile spingerci a schierarci per uno dei campi nella barbarie che si scatena a Gaza: difendere Hamas contro Israele, oppure, per quelli che si rendono conto che l’islamismo di Hamas è poco presentabile, invocare il “diritto alla resistenza” del “popolo palestinese”. Nello stesso senso di fronte alla crisi bisogna scegliere il campo: politiche “sociali” d’intervento dello Stato contro il “neoliberismo” o altro ancora.
Solo comprendendo il legame indissolubile tra la crisi e la guerra si può capire che la guerra non è il prodotto di questo o quello governo, di questo o quel politico, di questa o quella ideologia, ma costituisce il modo di vita del capitalismo decadente; la barbarie della guerra è da attribuire a tutto il sistema capitalistico nel suo complesso, a tutti i suoi Stati e frazioni. Con lo stesso approccio si può capire che la crisi non è un episodio “ciclico” al quale seguirà un periodo di “nuova ricchezza”, ma costituisce un grave passo verso un collasso in condizioni di povertà, di disoccupazione e di barbarie dalle quali non c’è via d’uscita sotto il capitalismo.
Solo comprendendo l’unità tra la crisi e la guerra si può capire che non c’è un responsabile particolare e puntuale della guerra e tantomeno della crisi. No, non ci sono capri espiatori che possano permettere al sistema di risalire la china e continuare con la sua barbarie ed iniquità! Il responsabile è il capitalismo mondiale, con tutti i suoi governi, tutti i partiti e le istituzioni che lo difendono.
Solo comprendendo che crisi e guerra hanno la stessa radice si può capire che dobbiamo lottare contro tutti i banditi guerrafondai, e non sceglierne uno tra loro. Nel corso degli ultimi 100 anni il capitalismo ha trascinato l’umanità in due guerre mondiali e innumerevoli guerre regionali dove il proletariato doveva scegliere in quale campo di banditi imperialisti stare: democrazia contro fascismo, anti-terrorismo contro terrorismo, libertà contro totalitarismo, resistenza nazionale contro potenze occupanti ... Attraverso l’imposizione di queste false alternative il sistema è riuscito a riprodursi provocando al tempo stesso una spirale di stragi, genocidi, olocausti ... In un tragico carosello, le cose “buone” di ieri si convertono nei “mali” di oggi, le “vittime” di ieri nei carnefici di oggi.
Solo comprendendo che la crisi e la guerra sono l’emanazione di un sistema in agonia si può capire che non esiste una migliore politica economica, né governi più “sociali”. Non è possibile optare per nessuno. Per salvaguardare il sistema di sfruttamento capitalista tutti attaccano senza pietà l’insieme dei lavoratori e della popolazione mondiale, seminando il pianeta di cadaveri di bambini affamati, di persone sottomesse alla lenta tortura della disoccupazione, della povertà, della perdita della casa, ecc.
Quello che è in gioco oggi non è questo o quel politico, questo o quel governo, questo o quel “modello internazionale di convivenza tra i popoli”. Quello che oggi è in gioco è la sopravvivenza del genere umano: o il capitalismo viene distrutto o questo finirà per distruggere il pianeta con tutti i suoi abitanti[1].
Solo il proletariato ha una via d’uscita. Ed anche su questo “tema”, tanto i governanti che gli esperti o gli “opinionisti” osservano uno stretto silenzio. Per questi signori il proletariato è una classe di individui perdenti, la cui incapacità di “cogliere le opportunità” e “trionfare” li ha relegati a “volgari salariati”. Per loro è impensabile e impossibile che il proletariato diventi una classe che agisce unita, che sia capace di auto-organizzarsi, che pensi da sola e riesca ad avere una propria politica al di fuori di tutta la farsa delle elezioni borghesi.
Ma il proletariato è capace di una lotta propria ed indipendente per la liberazione dell’umanità dal giogo del capitalismo. La sua lotta storica lo testimonia. E oggi, dal 2003, sta tornando a sollevare la testa, anche se per il momento è solo ai primi passi nella sua lotta aperta.
La borghesia opporrà ogni tipo di ostacolo immaginabile contro lo sviluppo della lotta dei lavoratori: manovre ideologiche, campagne di calunnia e diffamazione, trappole politiche e pura e dura repressione.
Tuttavia questa è l’unica via che il proletariato può percorrere. Le lotte operaie, anche se ancora limitate, tendono a svilupparsi in tutto il mondo. C’è stato il movimento in Grecia[2]. Poi le manifestazioni nei paesi baltici direttamente causati dalla crisi. Una nuova generazione di giovani si è mobilitata in Francia, Germania, Spagna, Grecia e anche in Italia[3]. In molti paesi sorgono compagni e gruppi internazionalisti, piccole minoranze poco conosciute ma che di fronte ad eventi come la barbarie di Gaza fanno sentire la loro voce con chiarezza[4], denunciando i crimini del capitalismo e difendendo l’unica via d’uscita possibile: la lotta indipendente del proletariato, la sua unità e solidarietà internazionale al di là delle divisioni in razze e nazioni, nella prospettiva di una rivoluzione mondiale che metta fine al capitalismo in tutti i paesi.
Corrente Comunista Internazionale
(Tradotto da Acción Proletaria n° 205, 19-1-09)
[2] Vedi gli articoli “Solidarietà con il movimento degli studenti in Grecia! [147]” e “Grecia: una dichiarazione di lavoratori in lotta [148]”, Rivoluzione Internazionale n.158.
[3] Vedi la presentazione alle nostre ultime riunioni pubbliche “La lotta degli studenti in tutta Europa conferma lo sviluppo della lotta di classe [149]”, CCI on-line.
[4] Vedi “Una voce internazionalista in Israele [150]”, su questo stesso numero, e “Prese di posizioni internazionaliste contro la guerra a Gaza [151]”, su Révolution Internationale n.398 alla pagina francese del nostro sito.
Ma come mai anche l’Italia sta subendo la stessa crisi mondiale, è in piena recessione e sta perdendo molto sul piano della competizione capitalista?
La questione è che la crisi dei mutui è stata solo l’elemento scatenante dell’attuale crisi. Il mercato americano - e di conseguenza quello mondiale - è andato avanti per decenni perché è stato sostenuto dal credito. I finanziamenti a credito funzionano solo se c’è la possibilità di onorare il credito, altrimenti si rischia la diminuzione del profitto o la bancarotta della banca creditrice. Quindi, la vera causa della crisi non è il mancato pagamento dei mutui, ma la crisi dell’economia reale, cioè quella relativa alla produzione e alla vendita delle merci. Meno merci vendute corrispondono ad un aumento della disoccupazione, ad un taglio dei costi e dei salari, ad un aumento dei fallimenti, ecc. Questo ha portato all’impossibilità di pagare i mutui da parte di molti di lavoratori e altre categorie.
Anche in Italia la crisi produttiva era già presente prima dell’inizio di questa crisi dei “mutui subprime”. Il sistema italiano già non riusciva a competere con gli altri grandi paesi capitalisti da molto tempo, ogni anno perdeva punti, il Pil aumentava sempre di meno, si perdevano segmenti di mercato e il debito pubblico aumentava. Adesso che l’Italia è in piena recessione, la situazione sta diventando sempre più drammatica, la mancanza o la riduzione del credito, già evidente da anni, porta alla chiusura di fabbriche, alla cassa integrazione e al licenziamento. Il settore industriale non dedica risorse alla ricerca, non innova, cerca solo di svuotare il magazzino per fare cassa. Tutti gli stati in situazioni come questa fanno protezionismo in mille forme diverse, finanziano ristrutturazioni, sostengono i settori innovativi, potenziano le infrastrutture. Obama investe circa 780 miliardi di dollari (all’interno di un quadro di 10.300 miliardi di dollari) per restituire fiducia ai consumatori e far ripartire il sistema e Berlusconi dice che metterà “a disposizione del sistema 40 miliardi di euro per i prossimi 3 anni e che potrà arrivare anche fino a 80 miliardi con i fondi europei”. Il tutto, forse, se l’è inventato sul momento, com’è solito fare, di sicuro è che il debito pubblico ha stabilito un nuovo record a novembre. Siamo a 1.686,558 miliardi di euro.
Questi fumosi soldi serviranno forse a non fare crollare del tutto il settore auto della Fiat e a salvare qualche grande fabbrica dal fallimento, ma non saranno in grado di dare slancio ad una economia che ha bisogno di ben altro. L’operazione “social card”, del valore di 450 milioni (40 euro al mese per 800 mila persone) non ha alcun impatto sull’economia reale, serve solo come campagna pubblicitaria sulla questione della povertà, ma non risolve granché: regalare una cena sposta il problema solo di un giorno. La situazione che si prospetta davanti a noi è estremamente drammatica, anche se le campagne televisive ci dicono che gli italiani continuano a comprare telefonini e cose simili, come a dire che i soldi ci sono e la crisi in effetti non esiste.
Già prima dell’inizio di questa fase della crisi, in molti servizi televisivi si annunciava un aumento sostanziale della povertà in Italia e una diminuzione del reddito familiare: adesso questi valori negativi aumenteranno e sarà sempre peggio perché non si vede e non c’è alcuna via d’uscita1.
I sindacati, in questo contesto, hanno attuato le consuete strategie per dividere i lavoratori: scioperi e manifestazioni settore per settore (il 23 gennaio nelle ferrovie, il 13 febbraio quello dei metalmeccanici, ecc.), piattaforme di lotta fumose, azioni contro altri lavoratori, disinformazione sulle lotte (quanti hanno saputo che il 5 febbraio gli operai della Fiat di Pomigliano sono stati caricati dalla polizia perché protestavano contro la cassa integrazione per 5.000 della Fiat più 8.000 nell’indotto?). Ed ancora una volta la CGIL fa la “tosta” non firmando gli accordi per poter dimostrare ai lavoratori che, a differenza degli altri sindacati, non cede ma anche per prepararsi a contenere, e cavalcare una possibile contestazione autonoma dei lavoratori. Pericolo, per la borghesia, non remoto in quanto già con la vertenza Alitalia ci sono stati momenti di contestazione dei sindacati e iniziative di assemblee autonome.
Di fronte ad una crisi senza soluzione che logora, ogni giorno che passa, le condizioni di vita di una massa crescente di lavoratori, di disoccupati, di precari, di giovani senza futuro matura la consapevolezza che è l’insieme della classe lavoratrice a pagarne le spese. Il ruolo essenziale del sindacato sarà dunque ancora di più quello di separare gli uni dagli altri ed evitare che la rabbia si trasformi nella presa di coscienza che l’unica via d’uscita per i lavoratori è prendere la lotta nelle proprie mani, puntando ad una vera unità tra le differenti categorie di lavoratori, tra le diverse generazioni di proletari.
E, per l’insieme della borghesia, l’obiettivo sarà sempre più evitare che i proletari si rendano conto che, dopo questa crisi, ce ne saranno altre e peggiori, che l’unica alternativa è il superamento del capitalismo.
Oblomov, 19/02/09
1. Sulle cause di fondo della crisi vedi l’articolo “La più grave crisi economica della storia del capitalismo”, Rivista Internazionale n.30, sul nostro sito.Ma c’è un altro motivo per cui questo governo accentua tanto la sua fissazione sull’immigrazione clandestina: quello di creare una psicosi per cui il clandestino è un pericolo, per il tuo posto di lavoro, per la tua donna, per la tua civiltà. E’ questa un’altra maniera per dare, da una parte, un’ennesima falsa giustificazione al peggioramento delle condizioni di esistenza dei lavoratori italiani (disoccupazione, criminalità, degrado sociale), dall’altra cercare di dividere la classe operaia, per mettere gli uni contro gli altri, così come in Inghilterra la borghesia ha cercato di mettere i lavoratori inglesi contro quelli italiani che “rubavano” loro il posto di lavoro (3). E per facilitarsi questo compito, la borghesia, e i suoi servi dei mezzi di comunicazione, non esitano ad inventarsi situazioni di contrapposizione e di lotta tra operai indigeni e operai immigrati. E’ questo che è stato fatto, per esempio, sui mezzi di comunicazione europei a proposito della recente protesta della popolazione di Lampedusa contro i piani del governo di far diventare quest’isola un campo di concentramento per immigrati, nell’attesa di rispedirli indietro. Questa protesta è stata presentata come una protesta contro gli immigrati, come una volontà della popolazione di rifiuto degli immigrati. In Italia però non si è potuto falsificare altrettanto facilmente quello che è veramente accaduto: le proteste della popolazione sono state unicamente rivolte contro il governo, contro il suo progetto di costruire un altro centro di “accoglienza”, che in realtà servirebbe solo a giustificare il mancato trasferimento degli immigrati in terraferma e verso una possibilità di lavoro; verso gli immigrati sono state viceversa espresse solo comprensione e solidarietà: “ ‘Vogliono militarizzarci, quest’isola vive di turismo che è il nostro pane quotidiano, ed il ministro Maroni non può permettersi di distruggere anni ed anni di fatiche’ è la protesta dei lampedusani (…)” (Repubblica, 23/01/2009). “Fanno pena, noi non ce l’abbiamo con loro, anzi, noi vogliamo che il rischio che hanno corso per raggiungere l’Italia abbia un senso, che vadano via dall’isola per cercare un lavoro al nord o in Europa, dice un’anziana lampedusana, che ha portato con sé un giaccone del marito per regalarlo al clandestino che la segue come un cucciolo” (Repubblica, 25/01/2009). E non si tratta di parole di circostanza, di scuse per coprire solo una volontà di liberarsi di questa presenza. Infatti la solidarietà è stata concreta e si è manifestata in tutti e due i sensi: “Alcune centinaia di clandestini hanno approfittato di un momento di distrazione delle forze dell’ordine, scappando da tutti i lati; molti si sono uniti alla protesta dei lampedusani e, fino a ieri notte numerosi extracomunitari giravano indisturbati per le strade di Lampedusa” (Repubblica, 24/01/2009). “Pare che siano amici da sempre, lampedusani e immigrati, familiarizzano, vanno a prendere qualcosa al bar(…) Cantano e brindano assieme, un paio di loro vengono accompagnati nelle case dei lampedusani, dove, dopo settimane e settimane, fanno finalmente una doccia. (…) Un’altra vedetta arriva col fiato in gola nella tenda dei manifestanti e annuncia che un paio di nordafricani sono stati intercettati dalla polizia e manganellati. Molti protestano, dicono che non possono picchiarli e si dirigono verso il luogo indicato” (Repubblica, 25/01/2009).
Queste citazioni, prese da un giornale borghese e non da una cronaca di giovani idealisti, bastano a dimostrare come si sono effettivamente svolte le cose a Lampedusa: manifestazioni comuni fra popolazione indigena e immigrati e solidarietà con questi. E questo mostra tutta la differenza fra la classe operaia e la borghesia: mentre quest’ultima accatasta come bestie gli immigrati in centri che di accoglienza non hanno niente, la popolazione di Lampedusa li ha accolti nelle proprie case e li ha aiutati, con quel senso della solidarietà che appartiene solo alla classe operaia!
Helios
1. Che è tale semplicemente perché non esiste una immigrazione “ufficiale”, “legale”.
3. “Scioperi nelle raffinerie di petrolio e nelle centrali elettriche inglesi: la lotta di classe deve unire tutti i lavoratori!”, CCI on-line 2009
Migliaia di operai delle costruzioni di altre raffinerie e delle centrali elettriche sono scesi in sciopero per solidarietà. Sono state organizzate regolarmente riunioni di massa. Disoccupati dei settori delle costruzioni, dell’acciaio, dei cantieri navali ed altri lavoratori hanno raggiunto i picchetti e le manifestazioni fuori diverse centrali elettriche e raffinerie. Gli operai non erano per niente preoccupati per il carattere non legale della loro azione ed hanno espresso solidarietà con i compagni in sciopero, rabbia per la marea di disoccupazione in aumento e per l’incapacità del governo di fare qualunque cosa. Quando 200 operai polacchi delle costruzioni si sono uniti alla lotta, questa ha raggiunto il suo momento più elevato ponendo una sfida diretta al nazionalismo che ha pesato all’inizio sul movimento.
Il licenziamento di 300 operai in subappalto della raffineria di petrolio di Lindsey, il progetto di creare un subappalto utilizzando 300 lavoratori italiani e portoghesi (il cui salari risultavano più bassi perché indicizzati sul salario dei loro paesi di origine) e l’annuncio che nessun operaio inglese sarebbe stato utilizzato in questo contratto hanno fatto esplodere il malcontento fra gli operai delle costruzioni. Da anni si assiste ad un uso crescente di operai stranieri a contratto nel settore delle costruzioni, di solito pagati meno e trattati ancor peggio, col risultato di accentuare la concorrenza fra gli operai per il posto di lavoro, cosa che ha prodotto una riduzione dei salari ed un peggioramento delle condizioni di lavoro per tutti. Questo, insieme all’ondata di licenziamenti nell’edilizia ed altrove dovuta alla recessione, ha generato la profonda determinazione che si è manifestata in queste lotte.
Dall’inizio questo movimento si è trovato confrontato con una questione fondamentale, non solo per gli scioperanti coinvolti nello specifico ma per l’intera classe operaia di oggi e di domani: è possibile combattere contro la disoccupazione ed altri attacchi identificandosi come “lavoratori inglesi” e ponendosi contro i “lavoratori stranieri”? O, al contrario dobbiamo vederci come lavoratori che hanno gli stessi interessi di tutti gli altri operai, indipendentemente da dove provengono? Questa è una questione profondamente politica che il movimento ha dovuto porsi.
All’inizio la lotta è sembrata essere dominata dal nazionalismo. Abbiamo visto per televisione operai con striscioni fatti a mano con la scritta “Il lavoro inglese ai lavoratori inglesi” ed altri striscioni più professionali del sindacato con lo stesso slogan. I funzionari del sindacato hanno più o meno apertamente difeso questo slogan; i mezzi di comunicazione hanno parlato di una lotta contro i lavoratori stranieri ed hanno intervistato operai che condividevano questa opinione. Questo movimento di scioperi spontanei poteva potenzialmente essere inondato di nazionalismo ed essere trasformato in una sconfitta per la classe lavoratrice, con i lavoratori uno contro l’altro, con gli operai in blocco a difendere grida di guerra nazionalisti e chiedere che i posti di lavoro fossero dati agli operai britannici e tolti a quelli italiani e portoghesi. La capacità dell’intera classe lavoratrice di lottare sarebbe stata indebolita e la capacità della classe dominante di attaccare e dividere i lavoratori rafforzata.
La copertura mediatica (più qualcosa detta da alcuni operai) ha reso facile far credere che le rivendicazioni degli operai di Lindsey fossero “lavoro inglese agli operai inglesi”. Ma non erano queste! Così ad esempio la BBC ha manipolato e troncato senza vergogna l’intervista di uno scioperante, successivamente largamente diffusa in appoggio alla tesi sulla “xenofobia del movimento” facendogli dire: “Non si può lavorare con dei Portoghesi e degli Italiani” mentre su un altro canale con minore audience l’intervista reale assumeva tutt’altro senso: “Non si può lavorare con dei Portoghesi e degli Italiani; siamo completamente separati da loro, loro vengono con la loro compagnia”, cosa che significa che era impossibile frequentarli perché erano tenuti volontariamente a distanza dagli operai del posto. All’occorrenza, la BBC è servita da porta parola servile a un governo e a una borghesia in difficoltà di fronte alla ripresa della combattività e della solidarietà della classe operaia e di fronte al pericolo dell’estensione della lotta. Le rivendicazioni discusse e votate nelle assemblee di massa non hanno ripreso questo slogan e né manifestato ostilità verso i lavoratori stranieri, contrariamente alle immagini di propaganda largamente diffuse e ritrasmesse dai mezzi di comunicazione a livello internazionale. Queste rivendicazioni hanno piuttosto espresso delle illusioni nella capacità dei sindacati di impedire ai padroni di mettere gli operai gli uni contro gli altri, ma senza un aperto nazionalismo.
Il nazionalismo fa parte integrante dell’ideologia capitalista. Ogni borghesia nazionale non può sopravvivere senza fare concorrenza ai suoi rivali, economicamente e militarmente. La sua cultura, i mezzi di comunicazione, la scuola, l’industria dello spettacolo e dello sport, hanno da sempre diffuso questo veleno per legare i lavoratori alla nazione. La classe lavoratrice non può sfuggire all’influenza di questa ideologia. Ma quello che è importante in questo movimento è che questo peso del nazionalismo è stato messo in questione quando gli operai si sono posti, durante la lotta, la questione della difesa elementare delle loro condizioni di vita e di lavoro, dei loro interessi materiali di classe.
Lo slogan nazionalista “il lavoro inglese ai lavoratori inglesi”, rubato al Partito Nazionale Britannico (BNP, di estrema destra) dal leader “laburista” Gordon Brown, ha generato al contrario un grande disagio e una riflessione fra gli scioperanti e nella classe operaia. Molti scioperanti hanno detto chiaramente di non essere razzisti, che la loro lotta non aveva niente a che fare con la questione dell’immigrazione e di non sostenere il BNP, i cui tentativi di inserirsi nella lotta si sono risolti in generale nel fatto che è stato cacciato via dagli operai.
Oltre a rigettare il BNP, molti operai intervistati dalla televisione hanno cercato in maniera evidente di riflettere sul significato della loro lotta. Loro non erano contro i lavoratori stranieri, loro stessi avevano lavorato all’estero, ma si ritrovavano disoccupati o volevano che i loro figli avessero un lavoro. Per questo pensavano che i posti di lavoro dovessero essere dati prima agli operai britannici. Un tale approccio vede ancora operai “inglesi” e operai “stranieri” come se non avessero degli interessi comuni e resta quindi prigioniero del nazionalismo, tuttavia è un chiaro segno del fatto che c’è un processo di riflessione in atto.
D’altra parte degli operai hanno chiaramente sottolineato gli interessi comuni che esistono tra i lavoratori - segno che un processo di riflessione si sviluppa - ed hanno detto che tutti loro volevano che ogni lavoratore potesse avere la possibilità di trovare un lavoro: “Sono stato licenziato come stivatore due settimane fa. Ho lavorato nei bacini del Barry e di Cardiff per 11 anni e sono venuto qui oggi sperando che possiamo scuotere il governo. Io penso che tutto il paese dovrebbe mettersi in sciopero poiché stiamo perdendo tutta l’industria britannica. Ma non ce l’ho con i lavoratori stranieri. Non li posso biasimare per il fatto che vanno dove c’è il lavoro”. (Guardian on-line 20/1/2009). Ci sono stati anche operai che hanno sostenuto che il nazionalismo era un pericolo reale. Un operaio che lavora all’estero è intervenuto su un forum internet degli operai dell’edilizia per mettere in guardia contro l’uso delle divisioni nazionali da parte dei padroni: “I mezzi di comunicazione che hanno fomentato gli elementi nazionalisti si rivolgeranno adesso su di voi, mostrando i dimostranti nella peggiore luce possibile. Il gioco è finito. L’ultima cosa che i padroni e il governo britannico vogliono è l’unione dei lavoratori britannici con quelli d’oltremare. Pensano di poter continuare ad ingannarci mettendoci gli uni contro gli altri nella lotta per il posto di lavoro. Sentiranno un brivido nel fondo schiena quando noi non lo faremo”. E, in un altro post, lo stesso ha collegato questa lotta a quelle combattute in Francia ed in Grecia e alla necessità di collegamenti internazionali: “Le ampie proteste in Francia ed in Grecia sono solo un’anticipazione di quello che sta per venire. Abbiamo mai pensato di contattare e costruire legami con questi operai e di dare forza ad un ampio movimento di protesta a livello europeo contro il maltrattamento degli operai? Sembra essere la migliore opzione per avere la meglio sulla congiura tra i padroni, direzioni sindacali vendute ed il New Labour che continuano ad approfittare della classe operaia” (Thebearfacts.org). Altri lavoratori di altri settori sono ugualmente intervenuti su questo forum per opporsi agli slogan nazionalisti.
La discussione tra gli scioperanti e all’interno della classe in generale sulla questione degli slogan nazionalisti ha raggiunto una nuova fase il 3 febbraio, quando 200 lavoratori polacchi si sono uniti ad altri 400 lavoratori in sciopero selvaggio a sostegno dei lavoratori di Lindsey, nel sito di costruzione della centrale elettrica di Langage a Plymouth. I mass media hanno fatto di tutto per nascondere questo atto di solidarietà internazionale: il canale locale della BBC non ne ha fatto il minimo cenno e a livello nazionale il silenzio totale. Il black-out è stato totale.
La solidarietà di questi operai polacchi è stata particolarmente importante perché l’anno precedente c’era stata una lotta simile: 18 operai erano stati licenziati ed altri operai avevano sospeso il lavoro in solidarietà, compresi gli operai polacchi. Il sindacato aveva provato a farne una lotta contro la presenza di lavoratori stranieri, ma la partecipazione attiva degli operai polacchi mandò completamente all’aria la manovra.
Gli operai di Langage sono quindi scesi di nuovo in lotta con una certa consapevolezza di come i sindacati avevano usato il nazionalismo per tentare di dividere gli operai. Per questo il giorno dopo, all’assemblea di massa di Lindsey, è stato tirato fuori uno striscione scritto a mano che affermava: “Centrale elettrica di Langage – I lavoratori polacchi aderiscono allo sciopero: Solidarietà!”, che potrebbe significare o che degli operai polacchi hanno fatto sette ore di viaggio per essere presenti all’assemblea o che un lavoratore della Lindsey ha voluto sottolineare la loro azione.
Allo stesso tempo, nel picchetto di Lindsey, è apparso uno striscione - scritto in inglese ed in italiano - che invitava gli operai italiani ad unirsi allo sciopero ed è stato riportato dalla stampa che alcuni operai portavano dei cartelli con su scritto “Operai di tutto il mondo, unitevi!” (Guardian del 5/02/09). In breve noi assistiamo ai primi passi di uno sforzo cosciente da parte di alcuni operai di andare verso un genuino internazionalismo proletario, un passaggio che può solo portare ad una maggiore riflessione e discussione all’interno della classe.
Tutto questo ha posto la necessità di portare la lotta ad un nuovo livello, che si contrapponesse direttamente alla campagna che la presentava come un’opposizione nazionalista. L’esempio degli operai polacchi ha evocato la prospettiva che migliaia di altri operai stranieri si unissero alla lotta nei più grandi cantieri di Gran Bretagna, come quelli dei quartieri olimpici nella Londra orientale. Vi era anche il pericolo – per la borghesia - che i mezzi di comunicazione non riuscissero a nascondere gli slogan internazionalisti. Ciò avrebbe infranto la barriera che la borghesia aveva cercato di porre tra gli operai in lotta ed il resto della classe. Non c’è dunque da stupirsi se la lotta si sia risolta così rapidamente. Nel corso di sole 24 ore i sindacati, i padroni ed il governo sono passati dal dire che occorrevano diversi giorni se non settimane per risolvere lo sciopero all’accordo con la promessa di 102 posti di lavoro ulteriori ai quali gli operai inglesi avrebbero potuto aspirare. Questo è stato un accordo di cui molti degli scioperanti sono stati felici perché non comportava nessuna perdita di posti di lavoro per gli operai italiani o portoghesi ma, come aveva detto uno scioperante: “perché dobbiamo scioperare solo per ottenere un lavoro?”.
Nel corso di una settimana abbiamo visto gli scioperi spontanei più importanti da decenni a questa parte, con operai che tenevano assemblee di massa e che, violando la legge, esprimevano azioni di solidarietà senza un momento di esitazione. Una lotta che poteva essere annegata nel nazionalismo ha cominciato a mettere in dubbio questo veleno. Ciò non significa che il pericolo del nazionalismo sia sparito, perché questo pericolo è permanente, ma questo movimento ha fornito alle lotte future delle lezioni importanti da tirare. La presenza di striscioni con la scritta “Operai di tutto il mondo, unitevi!” all’interno di quello che si supponeva essere un picchetto di scioperanti nazionalisti può solo preoccupare la classe dominante su quale sarà il suo futuro.
Phil 7/2/09
Alla luce delle campagne mediatiche che hanno celebrato e glorificato l’occupazione di questa fabbrica è importante essere chiari sul significato reale di questi avvenimenti. Il New York Times ha dichiarato in un editoriale “la vittoria del lavoro arriva tra segni d’insoddisfazione crescente per l’estensione dei licenziamenti” aggiungendo che questi lavoratori “erano diventati il simbolo nazionale del malcontento operaio rispetto ai piani di licenziamenti che colpiscono il paese”1. Ma il Times ha ragione solo in parte. Si, la lotta ha dimostrato che la combattività operaia aumenta per resistere all’ondata di licenziamenti culminata con 1,7 milioni di operai in più gettati nelle liste dei disoccupati o dei lavoratori al nero nel corso di questi ultimi undici mesi. Ma non ci sono stati “successi”, niente a che vedere con quello che i politici, i gauchisti ed i media presentano come una “vittoria degli operai”. La combattività degli operai è evidente. Secondo i giornali l’idea dell’occupazione della fabbrica è venuta dal sospetto che l’azienda volesse rimuovere le macchine e gli impianti dalla fabbrica (quando ancora non si sapeva che la compagnia aveva deciso di chiudere la fabbrica e di sacrificarla a profitto della Echo Windows LLC a Red Oak, nello Iowa, dove i salari ed i costi di produzione sono molto più bassi).
Il 2 dicembre la direzione ha annunciato che tutti gli operai sarebbero stati messi alla porta nei tre giorni successivi senza alcuna indennità di licenziamento e senza alcun pagamento dei giorni di congedo accumulati. In seguito ha dichiarato che l’assistenza sanitaria non sarebbe più stata presa in carico dall’impresa. Gli operai hanno risposto con la decisione unanime di occupare la fabbrica, rischiando l’arresto per atti di trasgressione e per aver preso il controllo dell’inventario dell’impresa per gli ordinativi di infissi.
Gli operai hanno organizzato l’occupazione con una turnazione di equipe, assicurando l’ordine e le condizioni sanitarie adeguate, bandendo alcool e droghe e hanno iniziato immediatamente ad attirare l’interesse dei media. Nelle dichiarazioni rilasciate ai media è subito risulto evidente che la lotta era contro i licenziamenti, per salvaguardare il lavoro e la sussistenza per le loro famiglie. Un operaio ha detto “Lavoro qui da trent’anni e devo battermi per sfamare la mia famiglia”. Un altro che la sua donna stava per mettere alla luce il loro terzo figlio, ma lui non aveva più alcuna copertura sanitaria.
Come nel 2005, quando una gran parte della classe operaia sostenne la lotta dei lavoratori dei trasporti di New York, gli operai di Chicago e dell’intero paese hanno risposto manifestando una forte solidarietà di fronte alle difficoltà incontrate dagli scioperanti. Delle persone sono andate alla fabbrica per portare da mangiare e soldi: tutti hanno capito che si trattava di una lotta esemplare per lottare contro l’insieme dei licenziamenti. Quelli dell’United Electrical, del sindacato degli operai delle macchine e delle radio (Radio and Machine Workers Union), un piccolo sindacato indipendente (35.000 membri a livello nazionale) e non affiliato all’AFL-CIO (dalla quale è stato escluso all’epoca della guerra fredda a causa dei suoi legami con il partito comunista stalinista) è subito intervenuto per cercare di deviare la lotta contro i licenziamenti sul terreno della legalità borghese.
Invece di opporsi alla chiusura della fabbrica ed ai licenziamenti, questo sindacato ha chiesto che l’impresa rispettasse una legge nazionale secondo la quale, in caso di chiusura dell’impresa gli operai devono ricevere un’indennità di licenziamento ed il pagamento dei giorni di congedo accumulati fino a quel momento – in questo caso circa 3.500 dollari a persona. La sinistra e varie celebrità politiche, come il reverendo Jesse Jackson e dei rappresentati della città al congresso, hanno a loro volta cavalcato l’onda andando a visitare gli operai della fabbrica e reclamando il pagamento di queste indennità. I leader politici si sono premurati di intervenire localmente per paura che il movimento potesse estendersi. Anche il futuro nuovo presidente Obama ha “sostenuto la lotta degli operai della fabbrica” insistendo perché il danaro “dovuto” fosse dato loro.
Alla fine dei sei giorni è proprio questa la “vittoria” celebrata dalla sinistra e dai media: le banche all’origine della riorganizzazione dell’impresa sono state d’accordo a dare agli operai i 3.500 dollari che gli spettavano. Chiaramente meglio questo che niente! Ma questo denaro sparirà presto dalle tasche degli operai che invece resteranno senza lavoro e senza copertura sanitaria. Gli operai che hanno occupato la fabbrica erano stati molto chiari sul fatto che quello che volevano era conservare il posto di lavoro. Invece far deragliare la lotta è stato il ruolo principale giocato dai sindacati per conto del capitalismo di Stato. Il lavoro essenziale dei sindacati è cortocircuitare ogni possibilità di polarizzazione e di generalizzazione della lotta operaia, di bloccare la dinamica degli operai verso al comprensione cosciente che il capitalismo non ha alcun futuro da offrire.
Quello che è successo a Chicago va messo in parallelo con quanto avvenne all’epoca degli scioperi nelle industrie automobilistiche negli anni ’30. In quei giorni gli operai si battevano per aumenti salariali e per migliorare le loro condizioni di lavoro, ma il sindacato United Auto Workers indirizzò lo scontro sul piano della lotta per il riconoscimento del sindacato. Negli anni ’70 giovani operai della Western Electric division della Bell System cercarono di resistere ai massicci licenziamenti per sentirsi poi dire che il sindacato si era preparato a battersi soltanto per ottenere le loro indennità con pagamenti dilazionati in modo da pagare meno tasse.
E’ facile per i sindacati ottenere tali “vittorie” che alla fin fine lasciano sempre gli operai senza lavoro e di fronte ad un avvenire distrutto. E questo non è un fenomeno specifico agli Stati Uniti. Recentemente in Cina, col peggioramento dell’economia, sono scoppiate lotte simili con occupazioni di fabbriche.
L’esaltazione delle occupazioni di fabbriche da parte dei media e dei gauchisti è un altro aspetto della sconfitta. E’ vero che l’occupazione di una fabbrica esprime una combattività, una volontà degli operai di resistere e di ricorrere anche ad azioni “illegali”. Tuttavia l’esperienza storica della classe operaia, dopo il movimento di occupazione delle fabbriche degli anni ’20 in Italia e del ’68 in Francia, dimostra che queste occupazioni possono diventare delle trappole quando portano alla chiusura ed all’isolamento.
Per la classe operaia è vitale estendere la lotta ad altri luoghi di lavoro ed altre fabbriche, generalizzare la lotta il più possibile inviando delegazioni, organizzando incontri di massa e manifestazioni per attirare altri lavoratori nella lotta. Da “sostegno” passivo con espressioni di simpatia e di contributi economici, la solidarietà si trasforma allora in solidarietà attiva di lotte che si congiungono e si uniscono. Al contrario l’occupazione della fabbrica può permette più facilmente ai sindacati, questi agenti della classe dominante, di imprigionare gli operai combattivi nella fabbrica, di isolarli dagli altri lavoratori e di impedirgli anche di essere dei catalizzatori attivi dell’estensione della lotta fuori dal controllo sindacale.
E’ chiaro che c’è stata una solidarietà immensa verso gli operai di Chicago. Ma per la classe operaia la solidarietà più profonda è legata alla presa di coscienza che tutti gli operai, quali che siano le specificità del proprio lavoro, condividono la stessa condizione, lo stesso destino e devono portare avanti la stessa lotta. Ce ne freghiamo di quello che è “legale” o di quello che è conveniente per i padroni. Noi dobbiamo batterci per quello che fa gli interessi di tutti i lavoratori, perché non ci siano licenziamenti, perché nessuno sia buttato in mezzo alla strada. Piuttosto che restare chiusi nella fabbrica gli operai della Republic avrebbero dovuto andare di fabbrica in fabbrica nella regione di Chicago, inviare delegazioni in altri posti di lavoro dicendo ai lavoratori di unirsi alla lotta ed esigere di porre immediatamente fine ai licenziamenti ed alla chiusura di luoghi di lavoro. Una tale lotta non sarebbe mai stata salutata e celebrata dai media, dai sindacati, dai politici di sinistra o dal presidente Obama.
Una tale lotta verrebbe denunciata perché rappresenterebbe una minaccia per l’ordine capitalista.
Il terribile stato in cui si trova oggi la classe operaia deve far rigettare ogni idea di tregua per il futuro regime di Obama, così come ogni illusione che “qualche cosa di buono” potrà arrivare con la nuova amministrazione. Al contrario questo stato richiede lo sviluppo della lotta di classe.
J. Grevin, 15 dicembre 2008
Tradotto da Internationalism, organo della CCI negli Stati Uniti
1. https://www.nytimes.com/2008/12/13/us/13factory.html [152]
Questo articolo è stato in origine pubblicato sul sito israeliano di Indymedia e su Libcom.org [153]. È stato scritto da un compagno in Israele che, malgrado faccia parte di una ristretta minoranza, ha sentito il bisogno di rispondere alla febbre patriottica di guerra che è diffusa in Israele e Palestina in seguito all’assalto israeliano su Gaza. La sua decisione di pubblicare una dichiarazione è stata in parte il risultato dell’incoraggiamento e della solidarietà offerta da un certo numero di testi pubblicati su Libcom (inclusi gli stessi membri del collettivo Libcom, la CCI e il gruppo di sinistra comunista turco EKS). Questo è un contributo modesto ma significativo dell’emergere di una reale opposizione al pericoloso nazionalismo che attualmente domina il Medio Oriente. WR (sezione in Gran Bretagna della CCI), 10/1/09.
Una dichiarazione contro i nazionalismi di Israele e Palestina. Cosa c’è dietro una bandiera?
Un tentativo di presentare una prospettiva internazionalista sulla situazione attuale in Cisgiordania, dopo l’attacco di Israele alla striscia di Gaza.
Gran parte delle persone in Israele si ricorderanno di una cosa a proposito della manifestazione di domenica 3 gennaio 2009[1]: che gli organizzatori sono andati alla Corte Suprema per assicurarsi di poter mostrare la bandiera palestinese.
Ora, io non ho nulla in contrario il fatto che qualcuno porti oppure no una bandiera in una certa corcostanza. Ma bisogna pur chiedersi a cosa è servita questa bandiera palestinese (dell’ex OLP).
Questa manifestazione aveva come obiettivo di fermare l’attacco a Gaza. Che c’entra dunque in questo la bandiera palestinese? Si potrebbe rispondere: “bene, essa esprime il sostegno alla resistenza palestinese”. Al che vorrei porre un’altra questione: “quale resistenza palestinese?” I Palestinesi più giudiziosi di Gaza vorrebbero fuggire dall’inferno dei bombardamenti, non resistere ed essere bombardati. Che altro significa resistere mentre si viene bombardati? Prendere le armi contro gli invasori?
Questa bandiera rappresenta il nazionalismo palestinese, nello stesso modo in cui la bandiera israeliana rappresenta il nazionalismo israeliano. Ora, la maggior parte dei lettori di questo sito Web probabilmente assoceranno il nazionalismo israeliano con la violenza e l’oppressione che ricoprono il dominio dei capitalisti sul nostro paese. Perché la stessa cosa non si dovrebbe applicare anche al nazionalismo palestinese?
Mentre parliamo, i Palestinesi della Cisgiordania vengono brutalmente repressi e imbavagliati, Palestinesi che vogliono protestare contro questa stessa guerra. Perché? Perché l’Autorità Palestinese non sente critiche e non muoverà un passo dalla sua sola ragione d’essere, essendo un subappaltatore del controllo israeliano sopra i Territori Occupati.
Sono questi stessi capi di Hamas, che si stanno adesso nascondendo in bunker e in abitazioni corazzate mentre registrano messaggi di resistenza al “loro” popolo, che si sono rifiutati di pagare giusto qualche mese fa lo stipendio agli insegnanti, che hanno sfasciato i sindacati palestinesi[2], che hanno ucciso dei Palestinesi innocenti nei loro combattimenti di strada contro i loro concorrenti di Fatah e che hanno sparato razzi su obiettivi civili a caso, invece dei pretesi tentativi di migliorare le condizioni di vita dei Palestinesi, occupati e disoccupati.
Mentre stiamo protestando contro il brutale bombardamento di Gaza da parte del nazionalismo israeliano, dobbiamo ricordarci che il nazionalismo palestinese è soltanto meno potente, non certo meno brutale. Purtroppo, questo episodio della bandiera fa gioco al nazionalismo a livello ideologico, rendendo più facile respingere ogni il dissenso nei confronti del governo come un automatico sostegno per “il nemico”.
Certo, cinicamente, vi è una ottima ragione per spiegare come si è arrivati a questo fiasco. Questa manifestazione del 3 gennaio, organizzata dal fronte Hadash[3] del Partito Comunista Israeliano, viene un giorno prima del lancio ufficiale della campagna elettorale di questo partito. E Hadash ha bisogno di assecondare la sua base nazionalista palestinese all’interno della Linea Verde[4] per mantenere il suo peso elettorale nelle prossime elezioni contro i nazionalisti secolari (Al-Tajmua) ed il Movimento Islamista. E questo gioca, ancora una volta, a favore del nazionalismo e, in definitiva, dello stesso capitalismo.
Tutto ciò non può avere altro risultato che la ripetizione di cicli di violenza, che non si fermeranno se non quando prenderemo coscienza che questi nazionalismi servono solo ad appannare la nostra capacità di giudizio ed impedirci di vedere il vero problema, cioè che noi siamo usati per uccidere e per farci uccidere, e per farci concorrenza al servizio di gente che non fa i nostri interessi ma soltanto i suoi. E questo vale sia per gli Israeliani che per i Palestinesi. Sciogliamo il nodo gordiano del nazionalismo e saremo su una via che ci permetterà di avere delle vite migliori per tutti.
(La versione Indymedia di questo articolo finiva con un link all’articolo della CCI su Gaza [154]).
[1] Il 3 gennaio scorso, convocata da Gush Shalom, principale organizzazione pacifista israeliana e da venti altre organizzazioni gauchiste così come da alcuni anarchici e dal Partito Comunista Israeliano, ha avuto luogo a Tel Aviv in Israele una manifestazione contro l’offensiva su Gaza. Erano presenti 10.000 persone, cosa che sembra particolarmente significativa di una crescita importante del rifiuto della guerra nella popolazione israeliana. Allo scopo di meglio sviare le preoccupazioni contro la guerra dei manifestanti verso l’esaltazione del nazionalismo, gli organizzatori avevano chiesto all’Alta Corte di Giustizia di rendere legale la bandiera palestinese e dunque la sua presenza nella manifestazione (NdT).
[2] Senza mettere in discussione tutto il valore della difesa dell’internazionalismo da parte del compagno, occorre precisare che, per noi, i sindacati sono diventati ovunque degli organi della borghesia, e che la loro repressione nel micro-Stato palestinese è legata a lotte sanguinose tra frazioni borghesi. Hamas è del resto una frazione borghese particolarmente oscurantista e limitata, incapace di utilizzare le armi più sofisticate ed efficaci della classe dominante contro il proletariato, cioè la democrazia, il parlamentarismo, la pseudo-libertà di stampa e … i sindacati. È per questo che, effettivamente, Hamas ha frantumato e schiacciato i sindacati.
[3] L’Hadash, Fronte Democratico per la Pace e l’Uguaglianza, in passato Rakah, è una metamorfosi del Partito Comunista Israeliano la cui azione è soprattutto diretta verso la popolazione araba israeliana, a forte composizione operaia, che spinge al reclutamento nel nazionalismo filo-palestinese ed alla difesa di uno Stato palestinese.
[4] Il termine “Linea Verde” si riferisce alla delimitazione del tracciato delle frontiere di Israele nei confronti di alcuni dei suoi stati vicini (Siria, Giordania ed Egitto) che datano dall’armistizio del 1949, alla fine della guerra arabo-israeliana del 1948 (NDT, fonte Wikipedia).
“I lavori del 16° Congresso (...) hanno posto al centro delle loro preoccupazioni l’esame della ripresa dei combattimenti della classe operaia e delle responsabilità che questa ripresa implica per la nostra organizzazione, particolarmente di fronte allo sviluppo di una nuova generazione di elementi che si volgono verso una prospettiva politica rivoluzionaria.” (“16° Congresso della CCI. Prepararsi ai combattimenti della classe e al sorgere di nuove forze rivoluzionarie [155]”, Revue Internationale n° 122)
“La responsabilità delle organizzazioni rivoluzionarie, e della CCI in particolare, è quella di essere parte attiva della riflessione che si produce da qualche tempo nella classe, non solo intervenendo attivamente nelle lotte che essa comincia a sviluppare ma anche stimolando lo sviluppo dei gruppi e degli elementi che si propongono di raggiungere la sua lotta.” (“17° Congresso della CCI. Risoluzione sulla situazione internazionale [156]”, Rivista Internazionale n°29).
“Il Congresso ha … tirato un bilancio estremamente positivo della nostra politica in direzione dei gruppi ed elementi che si situano in una prospettiva di difesa o di avvicinamento delle posizioni della Sinistra comunista. (...) l’aspetto più positivo di questa politica è stato senza alcun dubbio la capacità della nostra organizzazione di stabilire o di rafforzare i legami con altri gruppi che si pongono su posizioni rivoluzionarie e la cui illustrazione è stata la partecipazione di quaattro di questi gruppi al 17° Congresso.” (“17° Congresso della CCI. Un rafforzamento internazionale del campo proletario [157], Ibid.).
Così, in occasione del nostro ultimo Congresso internazionale, vi abbiamo potuto salutare la presenza, per la prima volta dopo un quarto di secolo, di delegazioni di differenti gruppi che si pongono chiaramente su posizioni di classe internazionaliste (OPOP del Brasile, l’SPA di Corea, l’EKS di Turchia, Internasyonalismo delle Filippine[1], anche se quest’ultimo gruppo non aveva potuto essere presente fisicamente). Il contatto e la discussione si sono sviluppati non solo con questi quattro gruppi ma anche con altri gruppi ed elementi in altri paesi del mondo (particolarmente in America latina, cosa che ha permesso alla nostra organizzazione di tenere diverse riunioni pubbliche in Perù, a San Domingo e in Ecuador[2]). La discussione con i compagni di Turchia e delle Filippine li ha condotti a prendere la decisione di porre la loro candidatura alla CCI visto il loro crescente accordo con le nostre posizioni. La discussione è dunque proseguita, da un certo punto in poi, nel quadro di un processo di integrazione come viene definito nel nostro articolo pubblicato sul nostro sito Internet: “Come diventare militanti della CCI? [158]”[3]
Nel corso dell’ultimo periodo, questi compagni hanno così condotto delle discussioni approfondite sulla nostra piattaforma inviandocene i resoconti. D’altra parte numerose delegazioni della CCI si sono rese sul posto per discutere con loro e hanno potuto verificare la profondità della loro volontà di implicarsi così come la chiarezza del loro accordo con le nostre posizioni e i nostri principi organizzativi. A conclusione di queste discussioni, l’ultima riunione plenaria dell’organo centrale della CCI ha potuto prendere la decisione di integrare questi due gruppi come nuove sezioni della nostra organizzazione.
La maggior parte delle sezioni della CCI sono presenti in Europa[4] o in America[5] e finora, al di fuori di questi due continenti, non esisteva che una sezione in India. L’integrazione di queste due nuove sezioni all’interno della nostra organizzazione allarga in maniera significativa la sua estensione geografica.
Riguardo alle Filippine, si tratta di un paese vastissimo che si trova in una regione del mondo che ha conosciuto di recente una crescita molto rapida dell’industria e, pertanto, del numero di operai. Questa crescita ha prodotto nel corso dell’ultimo periodo numerose illusioni su un “nuovo palpito del capitalismo mondiale” ma è adesso chiaro che, come per i “vecchi” paesi capitalisti, i paesi “emergenti” nin saranno risparmiati dalla crisi acuta che si sviluppa attualmente. E’ dunque una zona geografica in cui le contraddizioni del capitalismo si acutizzeranno in maniera violenta in futuro, provocando inevitabilmente dei movimenti sociali, non solo dei moti della fame come quelli della primavera 2007 ma anche lotte della classe operaia.
La costituzione di una sezione in Turchia rafforza la presenza della CCI nel continente asiatico, particolarmente in una regione prossima ad una delle zone più critiche per le tensioni imperialiste attuali, la regione del vicino oriente. D’altra parte, i nostri compagni dell’EKS sono stati condotti a intervenire l’anno scorso per denunciare le operazioni militari della loro borghesia al nord dell’Iraq (vedi il “volantino dell’EKS contro l’operazione dell’esercito turco” [159] pubblicato sul nostro sito web).
A più riprese la CCI è stata accusata di avere una visione “euro-centrista” dello sviluppo delle lotte operaie e della prospettiva rivoluzionaria nella misura in cui aveva messo in evidenza il ruolo decisivo dei settori del proletariato dei paesi dell’Europa occidentale:
“Solo nel momento in cui la lotta proletaria toccherà il cuore economico e politico del dispositivo capitalista:
solo allora questa lotta darà il segnale della conflagrazione rivoluzionaria mondiale. (…)
E’ solo attaccando il cuore ed il cervello della bestia capitalista che il proletariato potrà averne ragione.
Questo cuore e questo cervello del mondo capitalista si trovano – come li ha situati da secoli la storia – in Europa occidentale. E’ là dove il capitalismo ha compiuto i suoi primi passi che la rivoluzione comincerà il suo corso, essendo l’uno all’altra legati. E’ là che sono in effetti riunite nella loro forma più avanzata tutte le condizioni della rivoluzione enunciate sopra. (...)
“Solo dunque in Europa occidentale, là dove il proletariato ha la più ricca esperienza di lotte, dove si scontra da decenni con queste mistificazioni “operaie” più elaborate, esso potrà sviluppare pienamente la sua coscienza politica indispensabile alla lotta per la rivoluzione”. (“Il proletariato dell’Europa occidentale al centro della generalizzazione della lotta”, Rivista Internazionale n°7).
La nostra organizzazione ha già risposto a questa critica di “eurocentrismo”:
“Questa non è affatto una visione ‘eurocentrista’. Il mondo borghese si è sviluppato a partire dall’Europa, vi ha sviluppato il suo più vecchio proletariato che è dotato perciò di una più grande esperienza” (idem)
In particolare non ha mai pensato che i rivoluzionari non avessero un ruolo da giocare nei paesi della periferia:
“Ciò non vuol dire che la lotta di classe o l’attività dei rivoluzionari no ha senso nelle altre regioni del mondo. La classe operaia è una. La lotta di classe esiste dovunque si fronteggino operai e capitale. Le lezioni delle diverse manifestazioni di questa lotta sono valide per tutta la classe, quale che sia il luogo in cui esse si svolgono; in particolare, l’esperienza delle lotte nei paesi della periferia influenzerà la lotta nei paesi centrali. Ancora, la rivoluzione sarà mondiale e coinvolgerà tutti i paesi. Le correnti rivoluzionarie della classe saranno preziose in tutti i luoghi in cui il proletariato si scontrerà con la borghesia, cioè nel mondo intero.” (idem)
Ciò vale, evidentemente, anche per dei paesi come le Filippine o la Turchia.
In questi paesi la lotta per la difesa delle idee comuniste è molto difficile. Ci si deve scontrare con le mistificazioni classiche che la borghesia mette avanti per ostacolare lo sviluppo della lotta e della coscienza del proletariato (le illusioni democratiche ed elettorali, il sabotaggio delle lotte operaie da parte dell’apparato sindacale e il veleno del nazionalismo). Inoltre, la lotta del proletariato e quella dei rivoluzionari si scontrano in maniera diretta e immediata non solo con le forze di repressione del governo ufficiale, ma anche con dei gruppi armati che si oppongono a questo governo come il PKK in Turchia e i differenti movimenti di guerriglia nelle Filippine la cui assenza di scrupoli e brutalità non hanno nulla da invidiare ai governi per la semplice ragione che non difendono niente altro che il capitalismo, anche se in una forma diversa. Questa situazione rende perciò l’attività dei compagni delle due nuove sezioni della CCI più pericolosa che nei paesi d’Europa e d’America del nord.
La sezione nelle Filippine, che – ancor prima della sua integrazione nella CCI - aveva già fatto un lavoro di pubblicazione su Internet nella lingua ufficiale delle Filippine (il tagalog), così come in lingua inglese, il cui uso è molto diffuso in questo paese, non potrà pubblicare ancora una stampa cartacea regolare (se non episodicamente). Il nostro sito Internet diviene dunque il principale strumento di diffusione delle nostre posizioni nelle Filippine.
La sezione in Turchia potrà disporre della rivista Dunya Devrimi, che era finora l’organo dell’EKS e che diventa l’organo di stampa della CCI in questo paese. Nella Revue Internationale n°122 scrivevamo:
“Noi salutiamo questi compagni che si indirizzano verso le posizioni comuniste e verso la nostra organizzazione. Noi gli diciamo: ‘Avete fatto la scelta giusta, la sola possibile se avete la prospettiva di integrarvi nella lotta per la rivoluzione proletaria. Ma non è la scelta della facilità: non conoscerete rapidi successi, occorrerà pazienza e tenacia e non scoraggiarsi quando i risultati ottenuti non saranno all’altezza delle vostre speranze. Ma non sarete soli: gli attuali militanti della CCI saranno al vostro fianco coscienti come sono della responsabilità che la vostra presenza rappresenta per loro. La loro volontà, che si è espressa al 16° Congresso, è di essere all’altezza di questa responsabilità.’”(“16° Congresso della CCI – Prepararsi ai combattimenti della classe e al sorgere di nuove forze rivoluzionarie [155]”). Queste parole, che si indirizzavano a tutti gli elementi e gruppi che hanno fatto la scelta di ingaggiarsi nella difesa delle posizioni della Sinistra comunista si applicano evidentemente in primo luogo alle due sezioni che hanno raggiunto la nostra organizzazione.
A queste due nuove sezioni, e ai compagni che le costituiscono, l’insieme della CCI rivolge un saluto caloroso e fraterno.
CCI
[1] OPOP: Oposição Operária (Opposizione Operaia); SPA: Socialist Political Alliance (Alleanza Politica Socialista); EKS: Enternasyonalist Komünist Sol (Sinistra Comunista Internazionalista); Internasyonalismo (Internazionalismo). Per ulteriori dettagli su questi gruppi, vedi il nostro aarticolo “17° Congresso della CCI. Un rafforzamento internazionale del campo proletario [157]” nella Rivista Internazionale n° 29.
[2] A proposito di queste riunioni pubbliche, vedi in particolare sul nostro sito Internet “Dibattito internazionalista nella Repubblica dominicana [160]”, “Riunione pubblica della CCI nel Perù sulla crisi: un dibattito proletario appassionante e appassionato [161]”.
[3] “La CCI ha sempre accolto con entusiasmo i nuovi elementi che vogliono integrarsi nei suoi ranghi. (...)Tuttavia, questo entusiasmo non significa che facciamo una politica di reclutamento per il reclutamento, come le organizzazioni trotzkiste.
La nostra politica non è neanche quella delle integrazioni premature su delle basi opportuniste, senza chiarezza preliminare. (...)La CCI non è una locanda dove si entra e si esce né è interessata ad andare a caccia di militanti.
Non siamo neanche dei mercanti di illusioni. È perciò che i nostri lettori che si pongono la domanda “come si fa ad aderire alla CCI?” devono comprendere che l’adesione alla CCI richiede del tempo. Ogni compagno che pone la sua candidatura deve dunque armarsi di pazienza per impegnarsi in un processo di integrazione nella nostra organizzazione. Questo processo è innanzitutto una maniera per il candidato di verificare da sé la profondità della propria convinzione, in modo che la sua decisione di diventare militante non sia presa alla leggera o attraverso un “colpo di testa”. Ciò è anche e soprattutto la migliore garanzia che possiamo offrirgli perché la sua volontà di impegno militante non si concluda con un insuccesso ed una demoralizzazione.”
[4] Belgio, Francia, Germania, Gran Bretagna, Italia, Olanda, Spagna, Svezia, Svizzera.
[5] Brasile, Messico, Stati Uniti, Venezuela.
Con l’insurrezione del novembre 1918, la classe operaia aveva costretto la borghesia in Germania a porre fine alla guerra. Per sabotare la radicalizzazione del movimento ed impedire una ripetizione degli “avvenimenti russi”, la classe capitalista utilizzò nelle lotte l’SPD come macchina da guerra contro la classe operaia. Grazie ad una politica di sabotaggio particolarmente efficace l’SPD, con l’aiuto dei sindacati, fece di tutto per minare la forza dei consigli operai.
Confrontata allo sviluppo esplosivo del movimento, con i soldati che si ammutinavano dovunque e raggiungevano il campo degli operai insorti, la borghesia ritenne impossibile una politica di repressione immediata. Doveva agire prima politicamente contro la classe operaia per poi ottenere una vittoria militare.
Tuttavia la preparazione dell’azione militare venne avviata da subito. Non furono i partiti di destra della borghesia ad organizzare questa repressione ma proprio quello che passava ancora per “il grande Partito del proletariato”, l’SPD, e lo fece in collaborazione stretta con l’esercito. Furono questi famosi democratici ad attivarsi per costituire l’ultima linea di difesa del capitalismo. Furono loro a rivelarsi il bastione più efficace del capitale. L’SPD cominciò col creare delle unità di commando poiché l’esercito regolare, contaminato dal “virus delle lotte operaie”, era sempre meno incline ad ubbidire al governo borghese. Queste compagnie di volontari che avevano il privilegio di ricevere una paga speciale, sarebbero serviti da ausiliari della repressione.
Le provocazioni militari del 6 e 24 dicembre 1918Giusto un mese dopo l’inizio delle lotte, l’SPD diede l’ordine alla polizia di entrare con la forza negli uffici del giornale della frazione Spartakus, Die Rote Fahne. Karl Liebknecht, Rosa Luxemburg ed altri Spartachisti, insieme ad alcuni membri del Consiglio Esecutivo di Berlino, furono arrestati. Nello stesso momento le truppe leali al governo attaccarono una manifestazione di soldati che erano stati smobilitati o che avevano disertato; 14 manifestanti furono uccisi. In risposta, numerose fabbriche scesero in sciopero il 7 dicembre; ovunque si tennero assemblee generali nelle fabbriche. L’8 dicembre ci fu per la prima volta una manifestazione di operai e di soldati in armi alla quale parteciparono più di 150.000 persone. Nelle città della Ruhr, come a Mülheim, operai e soldati arrestarono alcuni padroni di industrie.
Di fronte a queste provocazioni del governo i rivoluzionari non spinsero all’insurrezione immediata ma invitarono gli operai a mobilitarsi in massa. Gli Spartachisti ritenevano che la situazione non era ancora abbastanza matura per rovesciare il governo borghese, in particolare rispetto alla capacità della classe operaia.
Il Congresso nazionale dei consigli, svoltosi a metà dicembre, mostrò questa immaturità e la borghesia ne approfittò. I delegati al Congresso decisero di sottomettere la loro decisione ad una Assemblea Nazionale da eleggere. Nello stesso tempo fu costituito un Consiglio Centrale (Zentralrat) composto esclusivamente da membri dell’SPD, che pretendeva di parlare in nome dei consigli degli operai e dei soldati in Germania. La borghesia approfittò di questa debolezza della classe operaia scatenando un’altra provocazione militare dopo il Congresso: il 24 dicembre le unità di combattimento e le truppe governative passarono all’offensiva. Undici marinai e parecchi soldati furono uccisi. Ancora una volta vi fu una grande indignazione tra gli operai. Quelli della compagnia automobilistica Daimler e di parecchi altre fabbriche di Berlino costituirono una Guardia Rossa. Il 25 dicembre ci furono imponenti manifestazioni in risposta a questo attacco. Il governo fu obbligato ad arretrare. Di fronte al discredito crescente dell’équipe governativa, l’USPD che fino a quel momento aveva partecipato al governo con l’SPD, se ne uscì.
Tuttavia la borghesia non abbandonò i suoi intendi anzi continuò a lavorare per disarmare il proletariato che a Berlino era ancora armato e si preparò a dargli il colpo decisivo.
L’SPD incita all’uccisione dei comunisti
Per aizzare la popolazione contro il movimento di classe l'SPD diventò il portavoce di un’enorme campagna di calunnie contro i rivoluzionari spingendosi fino a reclamare la messa a morte degli Spartachisti in particolare.
A fine dicembre il gruppo Spartakus lasciò l’USPD e formò il KPD con gli IKD. La classe operaia ebbe così un partito di classe nato nel fuoco del movimento e che diventò il bersaglio degli attacchi dell’SPD, principale difensore del capitale.
Per il KPD opporsi a questa tattica del capitale richiedeva la maggiore attività di massa dei lavoratori possibile. “Dopo la fase iniziale della rivoluzione, quella della lotta essenzialmente politica, si apre ora una fase di lotta rafforzata, più intensa e principalmente economica”. (Rosa Luxemburg al Congresso di fondazione del KPD). Il governo SPD “non verrà a capo delle fiamme della lotta economica di classe” (idem). E’ per questo che il capitale, l’SPD in testa, fece di tutto per impedire ogni estensione delle lotte su questo terreno provocando sollevamenti prematuri di operai armati per poi reprimerli. Aveva bisogno in primis di indebolire il movimento nel suo centro, Berlino, per poi attaccare il resto della classe operaia.
La trappola dell’insurrezione prematura a Berlino
In gennaio la borghesia riorganizzò le sue truppe a Berlino. Aveva in tutto più di 80.000 soldati sparsi nella città, di cui 10.000 erano truppe d’assalto. All’inizio del mese fece una nuova provocazione contro gli operai in modo da disperderli militarmente. Il 4 gennaio il prefetto di polizia di Berlino, Eichorn, che era stato eletto dagli operai a novembre, fu rimosso dalle sue funzioni dal governo borghese, cosa che fu recepita dalla classe operaia come un attacco. La sera del 4 gennaio gli Uomini di fiducia rivoluzionaria (ovvero Delegati Rivoluzionari dal tedesco Revolutionäre Obleute) tennero una riunione alla quale parteciparono Liebknecht e Pieck in nome del KPD appena costituitosi.
Il KPD, gli Uomini di fiducia e l’USPD chiamarono ad un assembramento di protesta per il sabato 5 gennaio. Circa 150.000 operai parteciparono alla manifestazione che ebbe seguito a questo assembramento davanti alla questura. La stessa sera alcuni manifestanti occuparono gli uffici del giornale del SPD, Vorwärts, e di altre case editrici. Queste azioni furono probabilmente dovute all’incitamento di agenti provocatori e comunque si svolsero senza la conoscenza e tanto meno l’approvazione del comitato.
In ogni caso non c’erano tutte le condizioni per un capovolgimento del governo ed il KPD lo spiegò chiaramente con un volantino all’inizio di gennaio:
“Se oggi gli operai di Berlino sciolgono l’Assemblea nazionale, se gettano in prigione gli Ebert - Scheidemann, mentre gli operai della Ruhr, dell’Alta-Slesia e dell’Elba restano tranquilli, domani il capitalismo sarà capace di affamare Berlino. L’offensiva della classe operaia contro la borghesia, la battaglia per il potere dei consigli operai e dei soldati deve essere opera di tutti i lavoratori del Reich. È solo la lotta degli operai delle città e delle campagne, dovunque ed in modo permanente, accelerandosi e crescendo fino a diventare una potente ondata che si infrange con fragore sull’insieme della Germania, è solo un’onda formata dalle vittime dello sfruttamento e dell’oppressione che si espande su tutto il paese che può far esplodere il governo capitalista, sciogliere l’Assemblea nazionale e, sulle rovine, costruire il potere della classe operaia che condurrà il proletariato alla vittoria completa nell’ulteriore lotta contro la borghesia. (…) Operai, uomini e donne, soldati e marinai! Convocate dovunque delle assemblee e spiegate chiaramente alle masse che l’Assemblea nazionale è un bluff. In ogni fabbrica, in ogni unità di truppa, in ogni città, sorvegliate e verificate che il vostro consiglio di operai e di soldati venga eletto bene, che non ci siano dentro dei rappresentanti del sistema capitalista, dei traditori della classe operaia come gli uomini di Scheidemann, o degli elementi inconsistenti o esitanti come gli Indipendenti”.
Quest’analisi mostra che il KPD vedeva chiaramente che il capovolgimento della classe capitalista non era possibile nell’immediato e che l’insurrezione non era all’ordine del giorno.
Dopo l’enorme manifestazione di massa, il 5 gennaio, gli Uomini di fiducia tennero una riunione la sera stessa alla quale parteciparono delegati del KPD e rappresentanti delle truppe della guarnigione. Impressionati dalla potente manifestazione della giornata i presenti elessero un Comitato Rivoluzionario di 52 membri con Ledebourg come presidente, Scholze per gli Uomini di fiducia e Karl Liebknecht per il KPD. Decisero per lo sciopero generale ed un’altra manifestazione per l’indomani, il 6 gennaio.
Il Comitato Rivoluzionario distribuì un volantino che chiamava all’insurrezione: “Lottiamo per il potere del proletariato rivoluzionario! Abbasso il governo Ebert-Scheidemann!”.
Alcuni soldati dichiararono la loro solidarietà al Comitato Rivoluzionario. Una delegazione di soldati garantì che avrebbe affiancato la rivoluzione appena sarebbe stata annunciata la destituzione del governo Ebert-Scheidemann. In risposta Liebknecht per il KPD e Scholze per gli Uomini di fiducia firmarono un decreto che dichiarava la destituzione e che il governo sarebbe passato in mano al Comitato Rivoluzionario. Il 6 gennaio, circa 500.000 persone manifestarono nelle strade. Manifestazioni ed assembramenti ebbero luogo in ogni settore della città; gli operai della Grande Berlino chiedevano armi. Il KPD esigeva l’armamento del proletariato ed il disarmo dei controrivoluzionari. Sebbene il Comitato rivoluzionario avesse lanciato la parola d’ordine “Abbasso il governo!”, non prese nessuna iniziativa seria per attuare questo orientamento. Non fu organizzata nessuna truppa di combattimento nelle fabbriche, non fu fatto alcun tentativo di prendere le redini dello Stato e paralizzare il vecchio governo. Non solo il Comitato Rivoluzionario non aveva nessun piano d’azione ma, il 6 gennaio, fu costretto dalla marina ad abbandonare il suo quartiere generale.
La massa degli operai che manifestavano aspettava in strada delle direttive mentre invece i loro leader venivano dispersi. Mentre la direzione proletaria arretrava, esitava e non aveva nessun piano d’azione, il governo condotto dall’SPD, da parte sua, superava velocemente l’iniziale shock provocato dall’offensiva degli operai. Riceveva aiuti da ogni parte. L’SPD chiamò a scioperi e manifestazioni a sostegno del governo. Una campagna ancora più accanita e perfida si scatenò contro i comunisti.
L’SPD ed i suoi complici si stavano così preparando a massacrare i rivoluzionari del KPD in nome della rivoluzione e degli interessi del proletariato. Con ignobile falsità chiamava i consigli a sostenere il governo nella sua azione contro quelle che definiva “le bande armate”. L’SPD rifornì anche una sezione militare che riceveva armi delle caserme e Noske si pose alla testa delle forze di repressione con le parole: “Abbiamo bisogno di un cane sanguinario, non mi sottraggo davanti ad una tale responsabilità”.
Il 6 gennaio si ebbero delle scaramucce. Mentre il governo ammassava le truppe intorno a Berlino, la sera del 6, l’Esecutivo dei consigli di Berlino stava in seduta. Dominato dall’SPD e dall’USPD, propose dei negoziati tra gli Uomini di fiducia ed il governo che il Comitato Rivoluzionario aveva appena invitato a rovesciare. L’Esecutivo giocava a fare il “conciliatore”, proponendo di riconciliare l’inconciliabile. Questo atteggiamento seminò la confusione tra gli operai e soprattutto tra i soldati che erano già esitanti. I marinai decisero quindi di adottare una politica di “neutralità”. In una situazione di scontro diretto tra le classi ogni indecisione può condurre velocemente la classe operaia a perdere fiducia nelle proprie capacità ed ad adottare un atteggiamento diffidente nei confronti delle proprie organizzazioni politiche. Giocando questa carta, l’SPD favorì un indebolimento drammatico del proletariato. Allo stesso tempo utilizzò degli agenti provocatori per spingere gli operai allo scontro, come fu provato successivamente.
Confrontata a questa situazione la direzione del KPD, contrariamente al Comitato Rivoluzionario, aveva una posizione molto chiara basata sull’analisi della situazione che aveva fatto al suo Congresso di fondazione e pensava che l’insurrezione fosse prematura.
Il KPD chiamava quindi gli operai a rafforzare prima e soprattutto i consigli sviluppando la lotta sul proprio terreno di classe, nelle fabbriche, sbarazzandosi degli Ebert, Scheidemann e compagni. Intensificando la pressione mediante i consigli, essi avrebbero potuto dare un nuovo slancio al movimento per poi lanciarsi nella battaglia per impossessarsi del potere politico.
Lo stesso giorno, Luxemburg e Jogiches criticarono violentemente la parola d’ordine di immediato capovolgimento del governo lanciata dal Comitato Rivoluzionario, ma anche e soprattutto il fatto che questo si era mostrato, per il suo atteggiamento esitante e disfattista, incapace di dirigere il movimento di classe. Rimproverarono in particolare Liebknecht per avere agito per proprio conto lasciandosi trasportare dall’entusiasmo e dall’impazienza invece di rifarsi alla direzione del Partito e basarsi sul programma e le analisi del KPD.
Questa situazione mostra bene che quello che mancava non era né il programma, né le analisi, ma la capacità del Partito, come organizzazione, a svolgere il ruolo di direzione politica del proletariato. Fondato solamente alcuni giorni prima, il KPD non aveva nessuna influenza nella classe, ancora meno una solidità e una coesione organizzativa come quella del partito bolscevico un anno prima in Russia. L’immaturità del Partito Comunista in Germania la ragione essenziale del disorientamento nelle sue fila che avrebbe influenzato pesantemente e drammaticamente gli avvenimenti che seguirono.
Nella notte tra l’8 ed il 9 gennaio le truppe governative passarono all’attacco. Il Comitato Rivoluzionario, che non sempre aveva analizzato correttamente il rapporto di forza, chiamò all’azione contro il governo: “Sciopero generale! Alle armi! Non ci sono alternative! Dobbiamo combattere fino all’ultimo uomo!”. Molti operai aderirono a quest’appello ma ancora una volta aspettarono invano istruzioni precise dal Comitato. In realtà non era stato fatto niente per organizzare le masse, per spingere alla fratellanza tra gli operai rivoluzionari e le truppe… Le truppe del governo entrarono quindi a Berlino e, per parecchi giorni, si scontrarono violentemente nelle strade con gli operai armati. Molti furono uccisi o feriti negli scontri in varie parti della città. Il 13 gennaio l’USPD decise la fine dello sciopero generale ed il 15 gennaio Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht vennero assassinati dagli sbirri del regime Socialdemocratico. La campagna criminale dell’SPD: “Uccidete Liebknecht!” si concluse dunque con un successo della borghesia. Il KPD fu privato dei suoi più importanti leader.
Il KPD non aveva la forza di trattenere il movimento come avevano fatto i bolscevichi nel luglio 19171. Secondo Ernst, il nuovo capo della polizia socialdemocratica che aveva sostituito Eichhorn: “Fin dall’inizio gli aderenti a Spartakus non avevano nessuna possibilità di successo poiché, con i nostri preparativi, li abbiamo costretti ad agire prematuramente. Conoscevamo ogni loro carta prima ancora che la giocassero ed è per questo che siamo riusciti a sconfiggerli”.
In seguito a questo successo militare la borghesia comprese immediatamente che doveva approfittare del suo vantaggio. Scatenò un’ondata di sanguinaria repressione durante la quale migliaia di operai berlinesi e di comunisti furono assassinati, torturati e gettati in prigione. L’assassinio di Liebkecht e della Luxemburg non furono un’eccezione ma rivelarono la determinazione bestiale della borghesia a eliminare i suoi nemici mortali: i rivoluzionari.
Il 19 gennaio “la democrazia” trionfava: si tenevano le elezioni per l’Assemblea Nazionale. Al tempo stesso, sotto la pressione delle lotte operaie, il governo si trasferiva a Weimar. La Repubblica di Weimar si instaurava sui cadaveri di migliaia di operai.
Al suo Congresso di fondazione il KPD riconobbe che la classe non era ancora matura per l’insurrezione. Dopo il movimento inizialmente dominato dai soldati, era vitale un nuovo slancio che partiva dalle fabbriche, dalle assemblee generali e dalle manifestazioni. Era una condizione perché la classe potesse acquistare, nel movimento, maggiore forza e maggiore fiducia in sé stessa. Era una condizione perché la rivoluzione non fosse opera di una minoranza o di alcuni elementi impazienti o disperati, ma si appoggiasse sullo slancio rivoluzionario della larga maggioranza degli operai.
Inoltre, a gennaio, i consigli operai non esercitavano realmente il doppio potere perché l’SPD li aveva sabotati dell’interno. Come abbiamo mostrato nell’articolo precedente (RI n.158), il Congresso nazionale dei consigli tenutosi a metà dicembre aveva rappresentato una vittoria per la borghesia e purtroppo niente di nuovo era venuto a stimolare i consigli. La valutazione che faceva il KPD del movimento della classe e del rapporto di forza era perfettamente lucida e realista. C’è chi pensa che sia il partito a prende il potere. Ma allora dovrebbe spiegare come potrebbe farlo un'organizzazione rivoluzionaria, per quanto forte sia, quando la larga maggioranza della classe operaia non ha sviluppato ancora la sua coscienza di classe, esita ed oscilla, e non è stata ancora capace di creare dei consigli operai che abbiano la forza sufficiente ad opporsi al regime borghese. Una tale posizione si sbaglia completamente sulle caratteristiche fondamentali della rivoluzione e dell’insurrezione che Lenin è stato il primo a definire: “l’insurrezione deve basarsi, non su un complotto, non su un partito, ma sull’avanguardia del classe”. Nello stesso Ottobre 1917 i bolscevichi avevano avuto come prima preoccupazione che fosse il Soviet di Pietrogrado a prendere il potere, e non il Partito Bolscevico.
L’insurrezione proletaria non può essere “decretata dall’alto”. Al contrario, è un’azione delle masse che devono innanzitutto sviluppare le loro iniziative ed arrivare ad avere la padronanza delle proprie lotte. E’ solo su questi fondamenti che le direttive e gli orientamenti dati dai consigli ed dal partito saranno seguiti.
L’insurrezione proletaria non può essere un golpe, come tentano di farcelo credere gli ideologi borghesi. È l’opera di tutta la classe operaia. Per sbarazzarsi dal giogo del capitalismo, la volontà di alcuni, anche se sono gli elementi più chiari e più determinati, non basta: “il proletariato insorto può contare solo sui suoi membri, la sua coesione, i suoi quadri ed il suo stato-maggiore” (Trotsky, Storia del Rivoluzione Russa, cap. “L’Arte dell’insurrezione”).
Nel gennaio 1919, la classe operaia in Germania non aveva raggiunto questo livello di maturità.
(Questo articolo è una versione ridotta di un articolo pubblicato nella Revue Internationale n° 83, 4° trimestre 1995).
1. “Le “giornate di luglio”: il ruolo indispensabile del partito”, Rivista Internazionale n.21
Prima di tutto che i capi del mondo e gli stati che loro rappresentano sono in grado di affrontare la catastrofe economica che minaccia il sistema capitalista. Come ha detto Gordon Brown il 2 aprile: “questo è il giorno in cui il mondo si è unito nella lotta contro la recessione globale non con le parole ma con un piano per una ripresa globale.”
Però questo ‘mondo’ del G20 si basa sulla concorrenza per i mercati. Un capitalista può prosperare solo a spese di un altro e lo stesso vale per i paesi capitalisti. Naturalmente hanno anche interessi in comune: devono tutti cooperare per tenere sotto controllo gli schiavi salariati, o anche sono riluttanti nel lasciare nazioni intere andare in fallimento anche quando sono loro concorrenti perché queste sono anche mercati per la loro merce o perché debitori. Ma non possono realizzare i loro profitti in un circolo infinito vendendo l’uno all’altro e perciò soffrono la maledizione della sovrapproduzione – il blocco dei mercati che porta alla bancarotta, il collasso delle industrie e la pandemia della disoccupazione.
La crisi attuale di sovrapproduzione è causata, non come dicono gli esperti economici da qualche ‘disequilibrio’ temporaneo dell’economia mondiale, ma dai rapporti sociali di base del capitalismo, dove la grande massa della popolazione produce ‘plusvalore’ che può essere realizzato solo tramite una estensione costante del mercato. Non essendo più in grado di espandersi dentro ciò che Marx chiamava i ‘campi di produzione esterni’ e conquistare nuovi mercati fuori di se stesso, il capitalismo per decenni ha affrontato questo problema nel rimpiazzare i veri mercati con il mercato artificiale del debito. Il ‘crollo del credito’ di oggi ha mostrato brutalmente i limiti di quel rimedio che adesso è diventato un veleno che erode il cuore stesso dell’economia.
Il ‘piano per una ripresa mondiale’ di Brown è in realtà un piano per lo stesso tipo di falsa ripresa che abbiamo visto così spesso durante gli ultimi 40 anni - una ripresa basata sulla bolla del credito.
Lo stato non è in grado di salvarciNaturalmente ci dicono che non possiamo permetterci di andare avanti come negli ultimi decenni. Lasciato a se stesso il ‘mercato libero’ porterà ad una depressione devastante come è successo negli anni ’30 e come minaccia di fare adesso. Allora ciò di cui abbiamo bisogno è molto più intervento statale per impedire che l’avarizia dei banchieri e speculatori sfugga ai controlli, trovare (o semplicemente stampare) i soldi necessari per stimolare l’economia e nazionalizzare le banche e altri settori economici chiave quando non c’è più altro da fare. Questo è il nuovo ‘keynesianismo’ che viene presentato come la soluzione al ‘neoliberismo’.
Ciò che non ci viene detto è che il ‘neoliberismo’ – con la sua enfasi sull’introduzione della concorrenza diretta in ogni aspetto dell’economia, sulla privatizzazione, sul ‘libero’ movimento dei capitali nelle aree del mondo dove la forza lavoro può essere sfruttata ad un prezzo molto più basso - era concepito come una risposta al fallimento del ‘keinesianismo’ alla fine della ripresa boom del dopoguerra negli anni ’70, quando l’economia mondiale iniziava ad affossarsi nelle paludi della stagflazione - recessione combinata con l’inflazione alle stelle.
Un'altra cosa che non ci viene detta è che il neoliberismo - includendo la sua recente meravigliosa invenzione, il ‘boom delle case’ – è stato fin dall’inizio una politica decisa e coordinata dallo Stato. Quindi tutte le politiche economiche fallite degli ultimi 40 anni, keinesiane o neoliberali sono fallimenti del capitalismo controllato o diretto dallo Stato.
Come può essere altrimenti? Lo Stato, come ha mostrato Engels attorno al 1880, non è altro che il capitalista collettivo ideale. La sua funzione non è di eliminare i rapporti capitalisti ma di preservarli a tutti i costi. Se le contraddizioni dell’economia mondiale si trovano nella fondamentale relazione sociale del capitalismo, lo Stato capitalista non può fare di più che cercare di tenere a bada gli effetti di queste contraddizioni.
Il capitalismo non può mettere mai le persone al primo postoI mass media ufficiali cercano in tutti i modi di convincerci che dobbiamo avere fiducia nelle buone intenzioni dei leader del mondo. Hanno parlato soprattutto della politica del ‘cambiamento’, personificata in Barack Obama e la sua adorabile moglie. Ma in Francia e Germania Sarkozy e Merkel hanno recitato come politici pronti a contrastare il potere americano e gli ‘irresponsabili’ imbrogli fiscali degli anglosassoni.
Ma questo lavoro di copertura ideologica non è perfetto. Non può passare inosservato, per esempio, che il G20 è un club delle economie più potenti del mondo e per questo motivo può essere che non si preoccupi troppo degli effetti delle sue decisioni sui popoli più poveri del mondo. Una delle decisioni del G20 è stata di aumentare il ruolo del Fondo Monetario Internazionale negli affari economici del mondo. Lo stesso FMI che ha guadagnato una spaventosa reputazione nell’imporre un’austerità draconiana in cambio del sostegno delle economie più deboli del mondo. Analogamente alla faccia delle previsioni sempre più pessimistiche di una imminente catastrofe ecologica era palese che il cambiamento del clima apparisse nelle decisioni dei capi del mondo non più di una semplice nota.
Allora a chi tocca il compito di abbellire il tutto? Questo è il ruolo della sinistra – le persone che organizzano grandi manifestazioni chiamando i leader del mondo a “mettere le persone al primo posto”. La coalizione dei sindacati, i gruppi della sinistra, le associazioni ambientaliste, religiose e caritatevoli, quelli che fanno campagne contro la povertà e gli altri che hanno fatto un appello per la manifestazione nazionale del 28 marzo esigevano un “processo trasparente e responsabile per riformare il sistema finanziario internazionale” che “ richieda il consulto di tutti i governi, parlamenti, sindacati e società civili, con le Nazioni Unite che giocano un ruolo chiave”. Loro pretendono che “queste raccomandazioni prevedono un pacchetto integrato per aiutare i leader del mondo a trovare una via d’uscita dalla recessione” e può aprire la strada ad “un nuovo sistema che cerchi di far sì che l’economia lavori per le persone e il pianeta” con “il governo democratico dell’economia”, “posti di lavori decenti e servizi pubblici per tutti”, e “una economia verde” e così via.
Queste forze politiche non combattono in nessun modo la menzogna che lo Stato capitalista può trovare una via d’uscita dalla catastrofe in cui ci ha portato. Loro dicono semplicemente che nel mobilitare il ‘popolo dal basso’ noi possiamo mettere una sufficiente pressione sullo Stato per fargli assumere politiche veramente democratiche, umane ed ecologiche di cui approfitterà l’umanità e il pianeta. In altre parole vendono illusioni e ci incoraggiano a utilizzare le nostre energie per le riforme di un sistema sociale che non è riformabile ed è destinato a morire.
La resistenza non è inutileUn altro messaggio proclamato ad alta voce all’incontro del G20: la resistenza è inutile. Evidentemente, dice la linea ufficiale, noi rispettiamo il diritto del popolo di protestare pacificamente e democraticamente. Possiamo anche capire perché le persone sono arrabbiate con questi banchieri avari. Ma se si va oltre i limiti della protesta accettabile e se sei preso, o più precisamente, ‘intrappolato’ dalle ben addestrate e armate truppe di polizia che ti tengono bloccato per ore, non importa se tu sei un anarchico con una maschera nera o una persona anziana o disabile che cerca disperatamente un bagno. L’utilizzo di questa tattica il primo giorno del G20 a Londra è stata una dimostrazione deliberata della repressione statale con lo scopo di scoraggiare lo scontento sociale e la rivolta che la borghesia sa bene che è all’orizzonte di ogni paese.
Non è danneggiando una banca nel contesto di una dimostrazione pianificata (come è stato il 1 aprile a Londra) che si ha una rivolta. Ma i segni di un genuino e massiccio scontento sociale sono abbastanza chiari quando tu guardi le recenti ondate di ribellioni degli studenti, insegnanti, disoccupati e molti altri che sono avvenute in Europa recentemente, culminando nel dicembre greco; gli scioperi selvaggi nelle raffinerie in Gran Bretagna, le occupazioni delle fabbriche contro i licenziamenti in Francia, Waterford, Belfast, Basildon e Enfield; gli scioperi di massa in Egitto, Bangladesh, o nelle Antille; i moti per la fame in una dozzina di paesi. I segni sono visibili anche nel numero crescente di giovani che discutono idee rivoluzionarie su internet, che formano circoli di discussione, mettono in discussione le false soluzioni offerte dai mass media ufficiali e di ‘sinistra’, che aprono il dibattito con le organizzazioni comuniste… Tutti questi sono i verdi germogli della rivoluzione che vengono nutriti dalla crisi del capitalismo in tutto il pianeta.
La resistenza non è inutile. Resistere agli attacchi economici del capitalismo e alla repressione politica, resistere ai suoi veleni ideologici è solo il punto iniziale per un vero movimento per cambiare il mondo.
(4/3/9, tradotto da WR n°323)
Intanto va osservato che di motivi per fare un’opposizione dura ce ne sarebbero - e come! - visto lo stato del paese e la maniera in cui il governo lo affronta. Innanzitutto siamo all’interno di una crisi economica che gli stessi commentatori borghesi descrivono come la più grave della storia, almeno dopo quella catastrofica del 1929. Una crisi che ha già visto fallimenti e chiusure di aziende, con tutte le conseguenze che ne derivano sul livello di vita delle persone. Ci sono tante famiglie che ormai non ce la fanno più ad arrivare alla fine del mese, altre che rischiano di vedersi portare via la casa perché non riescono più a pagare il mutuo. Per non parlare dei tanti giovani precari che, anche quando riescono a mantenere il posto di lavoro, ricevono salari così miseri che non possono nemmeno pensare di mettere su famiglia, o dei pensionati al minimo che ormai vivono in una situazione di vera e propria povertà.
Di fronte a questa catastrofe sociale cosa ha fatto il governo Berlusconi? Poco o niente. Ha iniziato con la farsa della “social card”, un’elemosina per poche centinaia di migliaia di anziani che, in realtà, è stata più un’umiliazione per tutte le file e le domande che questi anziani hanno dovuto fare piuttosto che un vero sollievo per le loro condizioni materiali. Dopo di questo, è venuto solo un incremento dei fondi della cassa integrazione, a conferma dell’impotenza a dare un vero impulso all’economia.
E’ vero che, da marxisti, noi sappiamo che il capitalismo non ha soluzioni vere alla crisi, ma questo non impedisce ai governi di altri paesi di provarci con diverse misure - e in primo luogo con massicci investimenti dello Stato - cosa che invece il governo Berlusconi non prova neppure.
E dove sono le critiche della cosiddetta opposizione a questa inerzia? Pressoché inesistenti, e soprattutto episodiche, anche da parte dei sindacati, di quella stessa CGIL che pure ambisce a presentarsi come il sindacato più combattivo.
Ancora più chiara la mancanza di opposizione è stata al momento del recente terremoto in Abruzzo. Mentre la prima preoccupazione di Berlusconi è stata di sminuire i disagi sopportati dai terremotati e di esaltare “il pronto intervento” della Protezione civile, l’opposizione che ha fatto? Con qualche piccola eccezione (1) ha fatto il coro a Berlusconi, limitando la sua autonomia di giudizio alle riserve sulla capacità del governo di essere rapido nella ricostruzione o alle sue scarse idee su come finanziarla.
Eppure anche qui di motivi di critiche ce ne sono tanti. Innanzitutto perché non è vero che l’emergenza è stata affrontata in maniera adeguata: a quindici giorni dal terremoto ci sono ancora tende senza riscaldamento, con la temperatura vicino allo zero, e paesi in cui gli aiuti sono nettamente insufficienti. Ma quello che indigna ancora di più è l’indifferenza con cui è stato affrontato il rischio di terremoto, in una zona dove da mesi si susseguivano scosse, e di fronte a diversi allarmi. A partire dalla casa dello studente, in cui erano apparse crepe già da settimane e dove gli studenti impauriti sono stati convinti a restare da un sopralluogo fatto da un architetto! (2) Per seguire con la inascoltata relazione tecnica sulla Prefettura, che ne aveva dichiarato l’assoluta inadeguatezza statica (e quindi a sicuro crollo in caso di terremoto): le Prefetture dovrebbero essere tutte a sicurezza sismica assoluta, visto che sono anche il luogo in cui si deve riunire lo stato maggiore della Protezione civile in caso di disastro! Sembra infine che pochi giorni prima del terremoto il sindaco abbia chiesto la dichiarazione dello stato di emergenza, senza ricevere risposta, così come è rimasta senza risposta una lettera dello stesso sindaco che, a seguito delle scosse delle settimane prima, lamentava lo stato di sicurezza di diversi edifici pubblici, a partire dalle scuole, due delle quali erano state sgomberate dal sindaco stesso.
Insomma, se è vero che, in generale, la scienza non è ancora in grado di prevedere i terremoti, in questo caso c’era molto di più di una forte probabilità che il sisma ci sarebbe stato e che molti edifici erano a rischio. Di fronte a questa quasi certezza, il governo non ha mosso un dito, sperando che alla fine non succedesse niente (3).
Ma queste notizie, disponibili sui quotidiani, non hanno cambiato di un millimetro l’atteggiamento dell’opposizione al governo, che continua a limitare la sua critica alla maniera in cui si dovrebbero reperire i soldi per la ricostruzione.
Gli esempi di questa mancanza di una vera opposizione potrebbero continuare, come per esempio il quasi silenzio dell’opposizione di fronte agli interventi repressivi con cui la polizia ha fatto fronte alle proteste operaie contro la crisi, ma crediamo che ce ne sia abbastanza per non doverlo ancora dimostrare, e vedere invece quali ne sono i motivi reali.
Il motivo è uno solo, e di questo dovrebbero infine convincersi tutti quei militanti che sinceramente aderiscono a queste forze credendo che esse possano fare gli interessi dei lavoratori: tutti questi partiti della sinistra parlamentare ed extra (4), sono comunque partiti borghesi, la cui prima preoccupazione è quella di difendere gli interessi del capitale nazionale. E in questa situazione di crisi storica del capitale, la difesa di questo capitale passa innanzitutto per la preoccupazione di impedire che la classe operaia possa sviluppare le sue lotte per difendersi dalle conseguenze della crisi. Per impedire questo, i toni rimangono bassi, bisogna dare l’idea che non è che si può fare molto, che bisogna solo avere la pazienza di aspettare che “passi la nottata”. Nel momento del bisogno, tutte le forze borghesi si uniscono, a far fronte comune, come avviene anche nei momenti delle Sacri Unioni di fronte alle guerre. In questo caso il nemico non è una potenza straniera, ma il proprio proletariato, ed è di fronte a questo che bisogna fare fronte, anche a costo di rinunciare a screditare la controparte politica a fini elettoralistici.
Anche questo ci fa capire quanto delicata sia la situazione del capitale: questo organismo è così malato che i suoi difensori non vogliono correre nessun rischio e si stringono attorno al suo capezzale per vedere come difenderlo al meglio.
Probabilmente, di fronte a lotte dei lavoratori più ampie e massive, i partiti della sinistra borghese dovranno tornare ad una opposizione dura, perché in quel caso, non potendo impedire alle lotte di nascere, si tratterà per essi di prenderne il controllo per cercare di portarle alle sconfitte.
E’ perciò che comprendere la natura di fondo di queste forze è importante già da oggi, in modo da saperle affrontare quando cercheranno di sabotare le future lotte dall’interno.
19/04/09 Helios
1. C’è Di Pietro che a Berlusconi ne canta di tutti i colori. Ma il suo partito ha bisogno di visibilità, e una voce sola fuori dal coro non può certo far danni.
2. Per fortuna molti studenti non si sono fidati e si sono salvati perché dormivano fuori dalla casa.
3. Qui misuriamo tutto il cinismo della borghesia, per la quale la vita umana non vale niente: il solo calcolo che il governo ha fatto è stato il costo che avrebbe comportato un intervento preventivo, affidandosi alla buona sorte!
4. Infatti non è solo il PD a non fare opposizione, ma anche le varie Rifondazioni e PDCI, che ancora stanno sotto lo shock della perdita delle poltrone parlamentari.
Nella quasi totalità, per circa 100.000 casi, il provvedimento di sfratto è stato eseguito per morosità a causa dell’incidenza altissima dell’affitto sul reddito percepito. Guardando le aree metropolitane a più alta tensione abitativa, nel complesso sono stati emessi quasi 100.000 sfratti per morosità, circa 90.000 famiglie hanno subito un’esecuzione del provvedimento. A Milano e Roma circa 20.000 famiglie, a Napoli quasi 15.000, a Torino più di 10.000. Mentre a Genova, Firenze, Palermo e Roma circa il 10% delle famiglie in affitto, escludendo le abitazioni di proprietà pubblica, hanno subito uno sfratto per morosità.
P.
“Sono rinchiusa in una scatola di plastica, trasparente, insonorizzata, urlo a squarciagola e nessuno mi ascolta. Ho perso il mio lavoro da insegnante precaria, sono laureata ma a che serve? E con me lo hanno perso in tanti, e con il nostro lavoro tanti sfrantummati, ragazzi emarginati, stranieri, italiani, i figli di tutte le periferie, perdono l’unica chance che avevano avuta da questa schifezza di società. Urlo per denunciare il precipizio nel quale questo governo ci sta portando, spingendo il Paese verso l’arretratezza più bieca, ma non è il solo governo ad essere sordo. Arrogante, trincerata dietro la sua ipocrisia, c’è una opposizione smidollata, “senza spina dorsale” come l’ha chiamata Nadia Urbinati! Urlo, urlo, ma nessuno si gira. Arroganti e volgari uomini d’affari (anche sporchi) scendono dalla Mercedes mentre alcuni bambini si avvicinano per chiedere qualche spicciolo, altri sono tornati a fare i “sciuscia”. Uffa che fastidio, questi signori non possono perdere tempo con dei morti di fame!!! Urlo ancora di più, ma non serve... da sola non ci riesco ...e se urlassimo di più, tutti noi che siamo sono chiusi come me in questa stanza asettica ed isolata ci potrebbe sentire qualcuno? maria da caserta”.
(lettera pubblicata sul forum del Corriere del Mezzogiorno)Il congresso, tenutosi a marzo, ha tentato di apportare un aggiornamento al lavoro dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC: foro intergovernativo sui cambiamenti climatici), che ha prodotto il suo ultimo rapporto nel 2007. Il Congresso ha avuto luogo nell’ambito della XV United Nations Conference of Parties to the Climate Change Convention (Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, COP-15), tenutasi anch’essa a Copenhagen in dicembre.
Durante il congresso, un rapporto del Met Office's Hadley Centre (Centro dell’Ufficio Meteorologico Hadley) ha previsto che il maggior pericolo per la foresta amazzonica proviene dal riscaldamento globale, e non dalla deforestazione. “Si dimostra che un aumento di 2°C sopra i livelli pre-industriali, generalmente considerato il miglior caso di scenario di riscaldamento globale e l’obbiettivo degli ambiziosi piani internazionali di freno alle emissioni, potrebbe ancora portare alla scomparsa del 20-40% dell’Amazzonia in 100 anni. Una crescita di 3°C potrebbe portare alla distruzione del 75% per siccità nel secolo seguente, mentre un aumento di 4°C ne distruggerebbe l’85%.” (“Amazon could shrink by 85% due to climate change, scientists say”, guardian.co.uk, mercoledì 11 marzo 2009).
La distruzione della foresta pluviale potrebbe condurre ad una “situazione di feedback positivo”, un circolo vizioso in cui il rilascio di CO2 immagazzinato nella foresta si andrebbe ad aggiungere agli effetti dei cambiamenti climatici, fino alla distruzione delle foreste pluviali. Il congresso è giunto alla conclusione che c’è oggi un più forte rischio di un brusco ed irreversibile cambiamento climatico.Alla fine del congresso, gli scienziati hanno lanciato 6 messaggi chiave ai politici partecipanti al COP-15:
1. Lo scenario peggiore di cambiamento climatico prospettato dall’IPCC si è già realizzato;
2. Modesti cambiamenti sul clima possono avere enormi effetti sulle popolazioni più povere;
3. È necessaria un’azione rapida per evitare un “pericoloso cambiamento del clima”;4. Gli effetti negativi del cambiamento climatico saranno avvertiti in modo ineguale. I più poveri, le generazioni future e la fauna selvatica saranno i più colpiti;
5. Esistono già dei modi per invertire effettivamente il cambiamento climatico;
6. Per cambiare è necessario rimuovere degli ostacoli come le sovvenzioni, gli interessi acquisiti, le istituzioni deboli ed il controllo inefficace.
Quali sono le possibilità che i politici accolgano e mettano in atto le raccomandazioni degli scienziati? Data la gravità delle scoperte, potranno i politici mettere da parte le loro differenze per il bene dell’umanità?
Per quanto possiamo acclamare gli sforzi degli scienziati di tutto il mondo diretti alla comprensione del fenomeno ed alle cause umane del cambiamento climatico, c’è comunque un fattore che manca nell’equazione degli scienziati: il sistema capitalista stesso.
Le forze fondamentali che determinano il sistema capitalista alienano l’uomo dalla natura. Il capitalismo è un sistema basato sullo sfruttamento del proletariato; è un sistema che per sopravvivere ha bisogno di espandersi, ed è un sistema che, benché globale, non può superare la concorrenza tra gli stati nazionali al suo interno.
Il fatto che il cambiamento del clima interesserà più i poveri che i ricchi non spingerà la borghesia a reagire. Il disprezzo della borghesia per gli sfruttati lo si vede nella povertà più abbietta di milioni di persone nel mondo. Ed i tentativi della classe lavoratrice di difendere e migliorare le proprie condizioni di vita sono stati frequentemente repressi con la violenza. Anche le leggi introdotte nel 19° sec. per migliorare la salute pubblica non furono ispirate dalle condizioni della classe operaia, ma dalla consapevolezza che i ricchi erano vulnerabili alle malattie causate dalle pessime condizioni sanitarie delle città.
Il congresso si è concluso affermando che i metodi per invertire il cambiamento climatico esistono già. Tuttavia, le misure economiche ecologiche proposte sono descritte in termini puramente capitalistici: nuove attività ecologiche in nuove industrie per lo sviluppo dell’ambientalismo, riduzione dei costi derivante dal non dover far fronte a problemi di salute e di distruzione ambientale, ecc. Ma il capitalismo può sopravvivere in modo sostenibile? Può continuare lo sfruttamento delle classe operaia senza distruggere l’ambiente? Le lobby ambientaliste sottopongono questa carota succulenta all’esame dei leader mondiali, che da tempo hanno però declinato l’offerta. Fondamentalmente, per il sistema capitalista, la salvaguardia delle condizioni ambientali ha un costo, così come lo ha la salvaguardia della salute della popolazione attiva. Questa è una somma tolta al reinvestimento nel capitale. Il governo americano non rimase sorpreso nel 2007 quando l’IPCC annunciò che gli sforzi per invertire il cambiamento climatico sarebbero costati “solo” tra lo 0,2 ed il 3,0% del PIL annuale.
Uno dei miti della sinistra e dei movimenti ambientalisti è che la mancanza di azione su problemi sociali ed ambientali così importanti sia dovuta all’indebolimento degli apparati statali. Quanto un rafforzamento delle istituzioni internazionali che regolano l’emissione di gas serra possa portare a rovesciare questa situazione catastrofica, lo stiamo vedendo. La verità è che lo Stato opera soprattutto per difendere gli interessi nazionali della borghesia. Quando i governi di ciascun paese stanno uno di fronte all’altro al tavolo delle trattative, si confrontano come imperialisti rivali. Un esempio lampante ne sono le negoziazioni per la riduzione dei gas serra. Alla fine degli anni 90 la Gran Bretagna promise una maggiore riduzione delle emissioni di CO2 rispetto ai suoi rivali non perché avesse una reale preoccupazione per lo stato del pianeta, ma perché la sua base industriale tradizionale si era nel frattempo ridotta. E quando George Bush non volle firmare nessun accordo sul clima che non includesse lo “sviluppo nazionale”, lo fece in difesa degli interessi imperialisti degli Stati Uniti.
Le negoziazioni del COP-15 di oggi non sono differenti. Mentre gli USA accusano la Cina di aver aumentato le emissioni di CO2 più di ogni altro paese, la Cina risponde che l’occidente consuma la maggior parte dei beni che essa produce. “Come uno dei paesi in via di sviluppo, noi rappresentiamo l’humus della linea di produzione dell’economia globale. Produciamo cose che gli altri paesi consumano … Questa condivisione delle emissioni dovrebbe essere adottata dai consumatori e non dai produttori, dice Li, funzionario cinese della potente Commissione per lo Sviluppo Nazionale e le Riforme. Ed aggiunge che il 15–25% di tutte le emissioni di calore dei paesi mondiali deriva dall’esportazione dei manufatti.” (“Consuming nations should pay for carbon dioxide emissions, not manufacturing countries, says China”, guardian.co.uk, 17/3/9).
Lo stesso articolo mette in evidenza che le nazioni europee hanno provato ad aggirare i limiti loro imposti sulle quote di emissione attraverso l’acquisto di ulteriori “quote di emissione” dai paesi in via di sviluppo. Le promesse fatte dall’Unione Europea di elargire denaro alle “nazioni in via di sviluppo” per aiutarle ad introdurre tecnologie pulite sono state congelate fino a che paesi come Cina e India non si impegneranno di più a ridurre l’emissione di gas serra. Anche il modo in cui vengono calcolate le emissioni ha aperto una controversia.
Nessuno Stato può permettersi di essere generoso in un mercato mondiale strozzino, specialmente nell’attuale crisi economica. La conferenza di Copenaghen di dicembre si è tenuta sullo sfondo della più grande crisi economica nella storia del capitalismo. In questo contesto, raggiungere un traguardo sul piano della salvaguardia del pianeta che minerebbe un eventuale recupero dell’economia è pura fantasia.
Hugin, 4/4/2009
Lottare, sì, ma come? Ognuno di noi si pone questa domanda di fronte alla moltiplicazione degli attacchi contro le nostre condizioni di vita. Cosa fare per battersi senza scontrarsi continuamente agli stessi vicoli ciechi e senza avere alla fine l’amaro della sconfitta e lo scoraggiamento in bocca?
Qual è il motore per lo sviluppo delle lotte?
È chiaro che per essere capace di fare arretrare la borghesia e frenare i suoi attacchi, ogni lotta operaia deve costruire ed imporre un reale rapporto di forza. Ma quando la classe operaia è forte?
- Quando è capace di esistere come classe unita in una stessa lotta, intorno alle stesse rivendicazioni unificanti.
- Quando l’appartenenza ad un settore particolare del proletariato è superata dalla coscienza di appartenere alla stessa classe di sfruttati imbarcati nella stessa galera capitalista, che subisce gli stessi attacchi e deve difendere gli stessi interessi generali.
Se si lotta solo come insegnante, postino, ferroviere, infermiere, operaio di questa o quell’impresa, come salariato di questa o quell’impresa, di questo o quel settore, che difende questo o quell’interesse specifico del proprio ufficio o della propria fabbrica, ci si espone a lasciarsi chiudere e ad isolarsi da tutti gli altri sfruttati in lotte che restano inevitabilmente molto limitate, e che per questo la borghesia può portarle alla sconfitta ed allo scoraggiamento una ad una.
Se invece andiamo a cercare gli operai della fabbrica affianco, gli infermieri dell’ospedale affianco ecc., allora si crea una reale dinamica di sviluppo della lotta. Quando una lotta scoppia in una fabbrica o in un settore anziché lasciarla isolata in questa fabbrica, in questo settore, la prima preoccupazione deve essere estendere la lotta, inviare delegazioni di massa verso i posti di lavoro vicini per trascinare altri lavoratori nella lotta. Si devono organizzare assemblee generali aperte a tutti, senza esclusioni, per farvi partecipare i lavoratori di altri settori. La vera solidarietà operaia in occasione di uno sciopero si forgia sulla base di un’estensione geografica della lotta.
Propagare ed estendere la lotta da un settore all’altro, da una fabbrica all’altra, è la manifestazione di una necessità vitale per la lotta stessa: quella di sviluppare la solidarietà attiva chiamando ad assemblee generali comuni, designando delegati eletti e revocabili in ogni momento, partecipando a manifestazioni quanto più unitarie possibile. Le manifestazione devono servire come momento di raccolta dei lavoratori di una stessa città in uno stesso posto, con il maggior sostegno possibile e la solidarietà di tutta la popolazione.
Ma come costruire un tale rapporto di forza? È possibile? Le esperienze non mancano. Nello sciopero di massa dell’agosto 1980 in Polonia, in modo spontaneo, prima che il sindacato Solidarnosc facesse man bassa sul movimento, sono stati gli operai di varie città a mandare delegazioni e rappresentanti al Comitato centrale di sciopero inter-fabbrica (MKS) per condurre i negoziati con lo Stato. Ciò che fa più paura alla borghesia è vedere emergere delle mobilizzazioni di massa ed unitarie attraverso le quali tutti gli sfruttati possono riconoscersi. È come futuri proletari che gli studenti in Francia si sono sollevati nella primavera del 2006 contro il progetto di CPE (contratto primo impiego), ed hanno organizzato, in alcuni posti ed in alcune facoltà parigine, assemblee generali aperte non solo a tutto il personale dell’università (insegnanti, tecnici e amministrativi) ma a tutti, genitori e nonni di studenti, lavoratori e pensionati. E questo non solo ha costretto il governo francese ad abrogare il CPE, ma ha determinato anche il ritiro precipitoso di un progetto simile in Germania, il che dimostra quanto la classe dominante abbia temuto il contagio. Sempre in Francia, nel dicembre 2008, il ministro dell’istruzione Darcos ha sospeso la sua riforma degli istituti universitari perché tremava all’idea che la sommossa degli studenti-precari in Grecia potesse estendersi al suo paese. Nel febbraio scorso gli operai britannici iniziano a rimettere in discussione con rabbia il nazionalismo di cui erano stati accusati in occasione dello sciopero nelle raffinerie e le centrali elettriche di Lindsey. Il governo britannico cede frettolosamente, in sole 48 ore, alle loro rivendicazioni ed accetta di creare nuovi posti di lavoro, mentre le negoziazioni salariali rischiavano di trascinarsi per settimane (vedi Rivoluzione Internazionale n. 159).
È la vastità della lotta in Guadalupa intorno alla rivendicazione unitaria di 200 euro d’aumento sui salari (ed il timore che questo slancio rivendicativo fosse preso a modello non solo nei Domini d’oltre mare, DOM, ma anche nella metropoli) che ha costretto il governo francese a fare marcia indietro (vedi articolo in questo numero).
I sindacati sabotano lo sviluppo della lotta
È precisamente questa dinamica verso l’unità nella lotta che i sindacati cercano continuamente di sabotare e far marcire. È quello che fanno ogni giorno isolando ed inquadrando ogni sciopero, imprigionandolo in rivendicazioni particolari, mettendo avanti la difesa di questo o quell’interesse specifico proprio di questa o quell’impresa, di questo o quel posto, diretta contro questo o quello padrone. I sindacati basano la loro influenza ed il loro controllo sul fatto che le lotte dei salariati restano chiuse nel quadro della difesa di una categoria, di una corporazione, di un’impresa o di un settore particolare, e sabotano così lo sviluppo delle lotte opponendo e dividendo gli operai tra loro. In questo modo hanno potuto far passare l’attacco contro i regimi speciali nella SNCF (ferrovie francesi) nel 2007, anche se in questa occasione si sono creati legami di solidarietà tra ferrovieri e studenti in lotta contro la riforma universitaria.
Allo stesso scopo organizzano le loro grandi “giornate d’azione intercategoriali” come quelle del 29 gennaio e del 19 marzo a Parigi, destinate a dar sfogo, incanalare, sterilizzare la rabbia e la combattività, a privarle o amputarle di ogni prospettiva e alla fine ad alimentare la divisione nelle file dei salariati. Deviano e snaturano la vera aspirazione all’unità operaia sostituendola con la loro artificiosa unità sindacale. Questa facciata di grande mobilità maschera in realtà l’intento di mantenere la divisione nella classe operaia. La manifestazione del 19 marzo a Parigi, ad esempio, con il pretesto che ci sarebbe stato un corteo troppo grande, ha permesso ai sindacati, d’accordo con la prefettura di polizia, di dividere la manifestazione in due cortei distinti e nettamente separati in modo da impedire al settore privato ed a quello pubblico di sfilare insieme. In questo modo hanno potuto rafforzare lo spezzettamento sistematico dei cortei dove ognuno sfila in compartimenti stagni dietro le bandiere del “suo” sindacato, della “sua” azienda, della “sua” città, del “suo” settore, ognuno con le proprie parole d’ordine o le proprie rivendicazioni. Le manifestazioni del 19 marzo non hanno quindi affatto rappresentato un passo avanti per la lotta operaia ma, al contrario, sono state un successo dell’inquadramento sindacale e delle sue manovre di divisione.
La necessità di scontrarsi con i sindacati
Oggi tutte le lotte cozzano contro questo ostacolo sindacale. L’esempio della lotta dei 1120 salariati della fabbrica di pneumatici Continental a Clairoix nell’Oise, minacciati di licenziamento come decine di migliaia di operai oggi, illustra questo sabotaggio permanente. Contando l’indotto ed il licenziamento già operante di 200 interinali, sono complessivamente 3.000 i salariati che si troveranno presto senza lavoro. Due anni dopo aver avallato l’accordo firmato dai sindacati con la direzione per il ritorno alle 40 ore lavorative invece di 35 con relativa perdita di salario, il tutto “per evitare i licenziamenti”, i lavoratori hanno la netta sensazione di essersi fatti “fregare”.
La fabbrica si trova in una zona industriale che si estende fino a Compiègne e raccoglie molte fabbriche importanti della regione i cui operai sono destinati alla stessa sorte; il loro sciopero con l’occupazione della fabbrica l’11 marzo ha ricevuto una forte solidarietà (visita di salariati di altre imprese, approvvigionamento di canestri-pasto) ed ha spinto i sindacati ad organizzare una manifestazione a Compiègne in occasione della “giornata di azione” del 19 marzo. Manifestazione che, in 5 chilometri di percorso, è passata da 3.000 a 15.000 persone nel centro città (cioè il quarto della popolazione dell’agglomerato!). Inoltre, gli scioperanti hanno ricevuto il sostegno degli operai di Inergy (impresa in sub-appalto del settore auto dove era stato attuato un piano per una cinquantina di licenziamenti) che hanno spontaneamente messo a loro disposizione degli autobus perché gli operai potessero recarsi alla sede della Continental a Reims e poi all’Eliseo il 25 marzo (dove sono stati ricevuti senza alcuno risultato).
Tuttavia, se queste manifestazioni di solidarietà venute dall’esterno sono state accolte con simpatia, queste sono rimaste a senso unico perché gli operai della Continental, strettamente controllati dai sindacati, non hanno messo in discussione il loro inquadramento. Lasciando la lotta nelle mani dei sindacati, non si sono posti la questione di andare in prima persona ed in massa alle fabbriche vicine per chiamarle a scendere in lotta, eppure sono circondati da fabbriche come Saint-Gobain, Colgate, Cadum, Aventis, Allard, CIE Automotive (in quest’ultima gli operai sono in cassa integrazione una settimana al mese).
I sindacati hanno accuratamente limitato le loro assemblee nell’ambito dell’impresa, minando così ogni iniziativa verso altri settori in lotta. Hanno, invece fortemente incoraggiato “azioni” tipo bombardare di uova i dirigenti, così come in altri posti hanno spinto i lavoratori in esubero a sequestrarli (come il Presidente della Sony France nel Landes o quello della 3M nel Loiret) o ad occupare l’impresa come a GSK - GlaxoSmithKline - a Evreux in Normandia.
Non è così che i salariati potranno difendersi e ottenere risposta alle loro rivendicazioni ma, al contrario, seguendo l’esempio, rimasto embrionale, della lotta dei metallurgici di Vigo (Spagna) nella primavera del 2006: questi hanno organizzato le assemblee generali non nella fabbrica ma nelle strade, permettono così agli altri operai di parteciparvi ed andare a manifestare insieme in massa (vedi Rivoluzione Internazionale n.145). È lo stesso metodo di lotta che è stato utilizzato nello sciopero di solidarietà all’aeroporto londinese di Heathrow nel 2005, in risposta ai licenziamenti di immigrati asiatici di un’impresa per i-pasti negli aerei (Rivoluzione Internazionale n.142). Non è la violenza, le azioni radicali o l’oltranzismo di qualche minoranza, che possono fare arretrare il nemico di classe; ma l’assunzione in prima persona da parte dei lavoratori dell’estensione della lotta, perché quest’estensione porta in sé una dinamica di unificazione di tutta la classe operaia.
Di conseguenza, per costruire un rapporto di forza a loro favore di fronte alla borghesia prendendo in mano la propria lotta, i lavoratori, in tutti i settori, non possono evitare lo scontro con i sindacati, le loro trappole, le loro manovre di sabotaggio e di divisione.
Eva, 28/3/2009
(da Révolution Internationale n.400, organo della CCI in Francia)
Di fronte ai movimenti di sciopero che hanno scosso il Guadalupe, la Martinica e, in misura minore, La Réunion, lo Stato francese ha dovuto alla fine retrocedere cedendo a quasi tutte le rivendicazioni operaie. In Guadalupe, gli accordi “Jacques Bino” (dal nome del sindacalista assassinato durante le sommosse di fine febbraio) firmati il 26 febbraio, ed il testo generale siglato il 5 marzo, prevedono un aumento di 200 euro per i salari più bassi ed integrano le 146 rivendicazioni dell’LKP1 sul potere d’acquisto (prezzo del pane, assunzione di insegnanti …). In Martinica è stato fatto un accordo simile il 10 marzo, che comprende anche qui un aumento per gli stipendi bassi e le 62 rivendicazioni del “Collettivo del 5 febbraio”2. A La Réunion la situazione è più sfumata. Nel momento in cui scriviamo, l’accordo proposto dallo Stato (150 euro per i salari più bassi e cose vaghe sulle 62 rivendicazioni del movimento) non è stato ancora firmato dal COSPAR3. Le discussioni sono ancora in corso. Comunque sia, l’andamento dei negoziati indicano un certo indietreggiamento della borghesia francese.
Perché la borghesia ha ceduto così? Di cosa ha avuto paura? Gli operai di queste isole come sono riusciti a strappare queste misure? Quale è stata la forza di questo movimento? Rispondere a tutte queste domande significa prepararci meglio per le lotte future.
La forza del movimento nelle Antille
E’ evidente che la prima espressione di forza della lotta nelle Antille è stata la grande combattività. Per 44 giorni in Guadalupe e 38 giorni in Martinica, la classe operaia si è mobilitata massicciamente, paralizzando l’insieme dell’economia. Le fabbriche, i porti, il commercio …, tutto è stato bloccato4.
Una lotta così lunga ed intensa è stata possibile non solo per la rabbia di fronte alla povertà crescente, ma anche per un profondo sentimento di solidarietà. La prima manifestazione in Guadalupe, il 20 gennaio, aveva riunito 15.000 persone. Tre settimane più tardi, il numero dei manifestanti superava i 100.000, quasi un quarto della popolazione! Questo sviluppo enorme si spiega in particolare per la permanente ricerca della solidarietà operaia. Gli scioperanti hanno fatto di tutto per estendere velocemente la lotta: fin dal 29 gennaio “gruppi di operai sobillatori” hanno regolarmente percorso Pointe-à-Pitre e la sua periferia, strada per strada, fabbrica per fabbrica, per portarsi dietro una parte sempre più larga della classe operaia e della popolazione.
La seconda espressione di forza è stata la presa in mano della lotta da parte degli stessi operai. E’ vero che l’LKP ha giocato un ruolo importante, redigendo la piattaforma delle rivendicazioni e conducendo tutti i negoziati. Ma è completamente falso ciò che affermano i media e cioè che il tutto sarebbe successo perché la classe operaia avrebbe obbedito ciecamente all’LKP e seguito Elie Domota, il leader carismatico! In realtà sono stati gli operai, e non i leader sindacali, a condurre la lotta! L’LKP si è costituito solo per inquadrare meglio e canalizzare questo malcontento in modo da evitare che questa presa in mano delle lotte da parte degli stessi operai andasse oltre i desideri della borghesia. Nei fatti uno degli elementi cruciali di questo movimento in Guadalupe è stata la diffusione pubblica dei negoziati tra l’LKP e lo Stato attraverso la radio e la televisione. Nella cronologia degli avvenimenti stabilita dall’LKP5 possiamo leggere “Sabato 24 gennaio: Grande manifestazione nelle strade di Point-à-Pitre 25.000 manifestanti. Invito ai negoziati con tutte le parti alle 16,30 al World Trade Center. […] Discussione aperta sull’accordo di metodo. Presenza eccezionale di Canal 10 che trasmette in breve differita” (sottolineato da noi). L’indomani un nuovo grande corteo raggruppava 40.000 persone! Questa diffusione dei negoziati ha galvanizzato i manifestanti perché dimostrava che questa lotta apparteneva a loro e non era solo nella mani degli “esperti sindacali” che negoziano nell’ombra e segretamente negli uffici statali. Questa diffusione pubblica ed in diretta dei negoziati (su Canal 10, RFO e Radyo Tambou) è andata avanti per tutta la settimana successiva, fino al 5 febbraio. In tale giorno, il segretario di Stato Yves Jégo, vedendo come si svolgeva la lotta e comprendendo il reale potenziale pericolo per la sua classe, ha chiesto la cessazione immediata di queste diffusioni in diretta. L’LKP si è limitato ad emettere una debole protesta perché in effetti questo “collettivo”, data la sua natura sindacale, si trova anche lui molto più a suo agio a negoziare segretamente tra “esperti”, (il che prova che all’inizio ha accettato questa trasmissione pubblica e diretta solo per la pressione operaia).
Questo movimento dunque ha avuto una grande forza intrinseca, ma ciò non basta a spiegare l’arretramento fino a questo punto dello Stato francese e “la concessione” di un aumento di 200 euro per i salari più bassi. Inoltre, la borghesia ha anche ceduto a La Réunion dove il movimento si era molto indebolito. Infatti, i sindacati, attraverso il collettivo COSPAR, erano riusciti in parte a sabotare il movimento chiamando a manifestare il 5 marzo, giorno della fine dello sciopero generale in Guadalupe, insistendo proprio sul fatto che loro non seguivano il modello “del movimento antilliano” (le Point del 4 marzo). Il collettivo si era così assicurato l’isolamento di questo sciopero. Ed infatti, senza la locomotiva della lotta in Guadalupe, le manifestazioni del 5 e 10 marzo saranno delle semi-sconfitte, con una mobilitazione ben al di sotto delle aspettative (rispettivamente circa 20.000 e 10.000 persone). E tuttavia, lo Stato francese ha ceduto anche qui. Perché?
La collera e le combattività operaie si sviluppano in tutti i paesi
La mobilitazione nelle Antille ed a La Réunion si inscrive in un contesto internazionale di sviluppo della combattività operaia.
In Gran Bretagna, per esempio, a fine gennaio è esploso uno sciopero alla raffineria del gruppo Total di Lindsey. Dopo avere tentato invano di dividere gli operai tra “inglesi” e “stranieri” ed al contrario, di fronte all’unità degli scioperanti (in queste manifestazioni ci sono stati slogan tipo “Centrale elettrica di Langage - Gli operai polacchi hanno raggiunto lo sciopero: Solidarietà” o “Proletari di tutto il mondo, unitevi!”) la borghesia ha dovuto, anche lì, fare marcia indietro annullando la prevista soppressione di posti di lavoro ed annunciando la creazione di 102 nuovi posti6.
La borghesia dunque, a livello internazionale, non ha nessuna voglia di assistere ad una lotta che tende ad estendersi e diffondersi agli operai degli altri paesi, soprattutto se questa lotta si dota di metodi come l’estensione attraverso cortei che vanno fabbrica per fabbrica, l’organizzazione autonoma delle lotte ed il controllo dei negoziati attraverso la loro diffusione via radio …
E ciò è ancora più vero in Francia. Lo Stato francese ha ceduto così velocemente a La Réunion perché era prevista una grande manifestazione nella metropoli il 19 marzo. Per la classe dominante era imperativamente necessario che tutta questa storia di sciopero generale nei DOM (Domini d’oltremare) avesse fine per evitare che potesse ispirare troppo gli operai in Francia. Il giornale Liberation ha espresso chiaramente questa paura della borghesia francese in un articolo del 6 marzo: “Contagio. A Parigi, questa “rivolta” che ha colpito i dipartimenti di oltremare è stata male compresa dal potere. Salvo da Yves Jégo che ha saputo rapidamente esprimersi. Ma, per timore del contagio, Nicolas Sarkozy e François Fillon hanno invece tergiversato … finendo poi con l’aprire la borsa dello Stato”7.
La vera vittoria è la lotta stessa
Certamente la lotta nei DOM ne è uscita vittoriosa. L’aumento di 200 euro per i salari più bassi è una cifra non trascurabile. Tuttavia non bisogna farsi illusioni, le condizioni di vita della classe operaia nelle isole, come dovunque, continueranno inesorabilmente a deteriorarsi.
Infatti la borghesia già tenta di mettere in discussione alcuni degli accordi firmati. Sui 200 euro di aumento, 100 devono essere versati dallo Stato, 50 dalle collettività territoriali e 50 dal padronato. Ora, il Medef8 ha già annunciato che verserà solo una parte degli aumenti (in più, secondo i rami ed i settori) proprio come le collettività. In quanto allo Stato, il suo impegno alla fine non vale che per due anni! Come aveva detto l’ex ministro Charles Pasqua, “le promesse impegnano solamente quelli che le ascoltano”; il cinismo e l’ipocrisia della classe dominante sono ormai lampanti in questo ambito.
Sotto i colpi della crisi, la povertà continuerà a svilupparsi. Gli aumenti dei salari, se sono effettivi oggi, saranno annullati velocemente dal rialzo dei prezzi. E già per il 2009, in Martinica, è prevista la soppressione di 10.000 posti di lavoro.
La vera vittoria di questo movimento sta nella lotta stessa! Queste esperienze sono altrettante lezioni per preparare le lotte future e rafforzare la forza degli sfruttati: la loro unità, la loro solidarietà e la fiducia di essere capaci di prendere le lotte nelle proprie mani.
Pawel, 26/3/2009
1. Il LKP (Lyannaj kont profitasyon - Unione contro il sovra sfruttamento) è il collettivo che raggruppa 49 organizzazioni sindacali, politiche, culturali ed associative che hanno stabilito fin dal 20 gennaio la piattaforma rivendicativa.
2. Collettivo costruito sul modello del LKP fin dall’inizio del movimento in Martinica, il 5 febbraio. Raggruppa 25 organizzazioni sindacali, politiche e culturali.
3. COSPAR: Collettivo di organizzazioni sindacali, politiche ed associative di La Réunion, raggruppa 46 organizzazioni.
4. Leggi il nostro articolo redatto durante la lotta “Antilles : La lutte massive nous montre le chemin! [163]” alla pagina francese del nostro sito
5. Fonte: www.lkp-gwa.org/chronologie.htm [164]
6. “G.B. Scioperi nelle raffinerie di petrolio e nelle centrali elettriche: gli operai cominciano a fare i conti con il nazionalismo”, Rivoluzione Internazionale n.159; “Scioperi alle raffinerie in G.B.: un esempio eclatante di manipolazione delle informazioni da parte della borghesia”, ICC online sul nostro sito web.
7. Fonte: http ://www.liberation.fr/politiques/0101513929-la-societe-guadeloupeenne-entre-... [165].
8. Organizzazione padronale chiamata Movimento delle imprese di Francia.
Quello che sta accadendo ai lavoratori di Giardini del Sole succede anche in molte fabbriche, non solo a Cebu, non solo nelle Filippine, ma in tutto il mondo. Nei fatti i nostri fratelli e le nostre sorelle dell’America sono i primi a soffrire degli attacchi del capitalismo – restrizioni, lavoro in 3x8, cassa integrazione, riduzione di salario e delle indennità.
Il capitalismo ha ridotto i nostri salari per fare più profitto. Risultato: siamo sommersi di debiti che rendono ancora più difficile per noi comprare le derrate di base necessarie che noi abbiamo prodotto. Di conseguenza la sovrapproduzione diventa sempre più grande.
Per impedire la morte lenta che il capitalismo ci impone con le sue restrizioni, la rotazione del lavoro, le riduzioni dei salai e delle indennità, dobbiamo lottare. Per impedire gli attacchi del capitalismo, dobbiamo unirci e sostenerci gli uni con gli altri, nelle differenti fabbriche ed imprese. Nessuno ci può aiutare se non è della nostra propria classe, nostri fratelli e sorelle. Non ci possiamo aspettare niente dal governo, dall’ispettorato del lavoro e dai poliziotti. Sono tutti degli strumenti al servizio della classe capitalista. Non possiamo aspettarci niente dal TIPC1 o da non importa quale riunione tripartita tra noi, i capitalisti ed il governo. Non possiamo aspettarci che un governo corrotto, coperto di debiti, pro-capitalisti fino in fondo possa rimettere in piedi qualche cosa.
La nostra sola speranza è la nostra unità e l’estensione delle nostre lotte a più fabbriche!
Il governo e i capitalisti vorrebbero che noi ci sacrificassimo, che accettassimo le ristrutturazioni, la precarietà, la casa integrazione, la diminuzione dei salari e delle indennità e che soffrissimo ancora di più per salvare il sistema di sfruttamento! Questo sarebbe una sconfitta perché quello di cui abbiamo bisogno, in quanto schiavi del capitalismo, è un lavoro permanente, dei salari “decenti” e delle condizioni di lavoro UMANE!
Se ci sono lotte operaie in molte fabbriche, c’è una maggiore possibilità di difendere i nostri posti di lavoro e i nostri salari. NON DOBBIAMO FARE SACRIFICI PER SALVARE IL CAPITALISMO DALLA SUA CRISI!
Ma se siamo divisi, se agiamo in modo isolato nei diversi posti di lavoro, se lasciamo i nostri fratelli e le nostre sorelle di classe battersi da soli in una o due fabbriche, i capitalisti possono vincere e noi saremmo costretti a subire la crisi che loro stessi hanno provocato.
Dobbiamo fare delle assemblee aperte a tutti i lavoratori a tempo indeterminato, a progetto, sindacalizzati o no, siamo tutti membri delle ASSEMBLEE OPERAIE. Queste sono la sola forma di organizzazione della nostra lotta. Siamo noi in prima persona che dobbiamo discutere e decidere del nostro avvenire, non una minoranza!
Anche se accettassimo i sacrifici, questi non potrebbero risolvere la crisi di questo marcio sistema. Al contrario, sarebbe ancora peggio. Il problema viene dalla natura stessa del capitalismo e non c’è alcuna soluzione alla crisi di sovrapproduzione. La soluzione definitiva è ROVESCIARE il capitalismo e sostituirlo con un sistema dove non saremo più schiavi del capitalismo.
Internasionalysmo
1. Consiglio tripartito per la pace industriale
Guerra o rivoluzione. Barbarie o socialismo. Nella nostra epoca, sono queste le uniche alternative con cui il movimento proletario internazionale deve confrontarsi.
Poiché scegliamo rivoluzione e socialismo abbiamo scelto di integrarci nella CCI. Per fare della rivoluzione proletaria mondiale una realtà ed arrivare al comunismo, i comunisti devono avere un’organizzazione che sia mondiale per il suo scopo e la sua ampiezza. Ancora di più, un’organizzazione che abbia una piattaforma marxista chiara e coerente.
Abbiamo intrapreso un lungo e serio processo collettivo di chiarimento teorico basandoci sull’esperienza del movimento operaio internazionale e sulla nostra esperienza nelle Filippine in quanto militanti di un movimento proletario. Non è facile per noi, se si considera che nelle Filippine da 80 anni non c’è mai stata alcuna influenza della Sinistra comunista. Per quasi un secolo ci è stata inculcata l’idea, a noi ed a tutto il movimento operaio, che lo stalinismo-maoismo era “teoria del comunismo”.
Per noi la cosa più importante è il chiarimento teorico e la discussione per il raggruppamento dei rivoluzionari. Essere numerosi in un’organizzazione non serve a niente se questa non è costruita su dei fondamenti teorici chiari e solidi, basati su più di duecento anni di esperienza del proletariato mondiale.
È un grande passo per le minoranze rivoluzionarie comprendere la teoria della decadenza del capitalismo per mantenere vivo il marxismo nell’epoca dell’imperialismo. La teoria della decadenza è alla base di ciò che ci ha convinto che la CCI ha la posizione più corretta e la piattaforma marxista più solida nel quadro dell’evoluzione reale del capitalismo ed anche per la sintesi delle lezioni della pratica del proletariato internazionale da più di due secoli.
Tuttavia la piattaforma della CCI non è una piattaforma rigida ma vivente, verificata dalla dinamica reale della lotta di classe e dall’evoluzione del capitalismo. E’ per tale motivo che è molto importante continuare il dibattito interno alla CCI ed stenderlo anche nel campo proletario in generale. Abbiamo visto come la CCI stimola e pratica questo dibattito.
Può darsi che la nostra comprensione della Sinistra comunista non sia così profonda quanto quella dei nostri compagni in Europa dove si trova la classe operaia con la più lunga e ricca esperienza. Ma siamo fiduciosi nel fatto che il nostro chiarimento teorico sia stato sufficiente per integrarci in un’organizzazione comunista internazionale.
Come nuova sezione di un’organizzazione internazionale centralizzata ed unitaria - la CCI -, continuare a portare avanti discussioni viventi e dibattiti coi comunisti per analizzare e studiare le questioni cruciali per l’avanzamento della rivoluzione comunista mondiale sarà più organizzato, più centralizzato e più ampio. E soprattutto gli interventi delle minoranze rivoluzionarie saranno più efficaci.
Siamo coscienti di correre un grande rischio nel difendere fermamente la rivoluzione comunista e l’internazionalismo nelle Filippine. La destra e la sinistra della borghesia filippina, con le loro organizzazioni armate, odiano i rivoluzionari marxisti perché questi rappresentano un ostacolo alle loro mistificazioni ed alle loro menzogne per deviare le lotte del proletariato filippino dalla strada della rivoluzione proletaria internazionale. I comunisti di sinistra sono i nemici mortali di tutte le frazioni della borghesia filippina.
Questa è la sfida che i comunisti internazionalisti nelle filippine devono accettare: superare tutte le difficoltà e continuare il chiarimento teorico, gli interventi nelle lotte operaie nelle Filippine ed essere in contatto con tutti i compagni comunisti, in particolare in Asia.
Vogliamo mandare anche i nostri più calorosi saluti ai compagni in Turchia (EKS) che si sono integrati nella CCI come sua nuova sezione in questo paese. La formazione di due nuove sezioni della CCI, nelle Filippine ed in Turchia - nel momento in cui il sistema è in una crisi profonda e dove la resistenza della classe operaia comincia ad essere largamente diffusa - è un’indicazione concreta che dappertutto nel mondo si sviluppano elementi e gruppi alla ricerca di un’alternativa rivoluzionaria al capitalismo decadente ed in decomposizione; elementi che sono coscienti che il nazionalismo, la democrazia, il parlamentarismo ed il sindacalismo sono solamente inganni e mistificazioni.
Internasyonalismo (13 febbraio 2009).
Con grande felicità vogliamo informare i nostri lettori che, come risultato delle discussioni profonde tenute con pazienza, siamo stati integrati nella Corrente Comunista Internazionale e costituiamo la sezione della CCI in Turchia chiamata Dünya Devrimi, avendo sciolto il nostro gruppo precedente, Enternasyonalist Komünist Sol. Così Dünya Devrimi non è più la pubblicazione diffusa da pochi militanti in un solo paese ma è la pubblicazione di un’organizzazione centralizzata a livello internazionale. La nostra organizzazione è ora un’organizzazione unita a livello mondiale intorno ai nostri principi programmatici, la nostra piattaforma, è un’organizzazione mondiale e con questo modo di centralizzazione differisce da una fondazione sovranazionale dove le differenti organizzazioni nazionali non sono neanche correttamente informate dall’una all’altra. La decisione dei militanti che formavano Enternasyonalist Komünist di unirsi alla CCI non è un caso isolato a livello internazionale. Il nostro ultimo congresso internazionale, per la prima volta in un quarto di secolo, ha potuto dare il benvenuto a delegazioni di diversi gruppi su chiare posizioni di classe internazionaliste (OPOP dal Brasile, SPA dalla Corea, EKS dalla Turchia ed il gruppo Internasyonalismo dalle Filippine1, anche se quest’ultimo non ha potuto essere fisicamente presente). Contatti e discussioni sono da allora continuati con altri gruppi ed elementi di altre parti del mondo, in particolare in America Latina, dove abbiamo potuto tenere delle riunioni pubbliche in Perù, in Ecuador ed a Santo Domingo2. Con la stessa prospettiva, i militanti del gruppo denominato Internasyonalismo nelle Filippine hanno, proprio come noi che abbiamo raggiunto la CCI dalla Turchia, pazientemente portato avanti un processo di discussioni approfondite e sono diventati essi stessi parte della CCI, formando la sezione della nostra organizzazione in questo paese molto importante. Ci auguriamo che, con la ripresa della lotta di classe a livello internazionale, il fatto che la Corrente Comunista Internazionale ha ora due nuove sezioni sia solo un inizio.
Dünya Devrimi
1. OPOP: Oposição Operària (Opposizione Operaia); SPA: Socialist Political Alliance (Alleanza Politica Socialista); EKS: Enternasyonalist Komünist Sol (Sinistra Comunista Internazionalista);Internasyonalismo (Internazionalismo).
2. Vedi sul nostro sito web “Un dibattito internazionalista nella Repubblica Dominicana”; “Riunione pubblica della CCI in Perù. L’estensione del dibattito proletario nel continente americano” e “Reunion pública de la CCI en Ecuador: un momento del debate internacionalista [166]”.“Stanno complottando per colpire ancora. È stato un terribile errore non agire quando avevamo l’opportunità di eliminare durante una riunione i leader di Al-Qaeda nel 2005. Se abbiamo informazioni dai servizi su bersagli terroristici molto importanti su cui si può agire e il presidente Musharraf non lo vuole fare, lo faremo noi” (Guardian 1/8/08) “ Mr Obama… ha detto che il presidente George Bush avrebbe scelto il campo di battaglia sbagliato in Iraq e che avrebbe dovuto concentrarsi sull’Afghanistan e il Pakistan; ha detto che non esiterebbe ad utilizzare la forza per distruggere chi minacciava gli Usa e se il presidente del Pakistan, Pervez Musharraf non agisse lo farebbe lui” (ibid 4/8/08).
Il presidente Musharraf si è dimesso nell’agosto scorso dopodiché abbiamo visto un deterioramento qualitativo a livello della sicurezza nazionale. Musharraf era seguito dal marito di Benazir Bhutto, assassinata, il corrotto Asif Zardari. Gli attacchi a Mumbai nel settembre scorso (vedi sul nostro sito “il massacro terrorista a Mumbai” e “la tensione crescente tra India e Pakistan alimentano gli attacchi terroristici”) indicavano un’ulteriore escalation delle tensioni imperialiste. L’India era stata chiara sui mandanti degli attacchi. Il Pakistan, da parte sua, ha subito i suoi danni quando un gruppo di terroristi ha attaccato la squadra di cricket dello Sri Lanka, ferendone molti e uccidendo 6 soldati.
Recentemente un’accademia di addestramento della polizia è stata attaccata e messa sotto controllo per poco tempo da terroristi che sono entrati con fucili e granate, almeno 12 persone sono state uccise. Ci sono volute 8 ore prima che la polizia ne riprendesse il controllo. Questo mostra le conseguenze del bombardamento fatto dagli Usa nelle zone di confine: “un drone, presumibilmente americano, oggi ha sparato due missili contro un presunto nascondiglio legato ad un capo talebano, che ha minacciato di attaccare Washington. Il colpo ha ucciso 12 persone e ferito parecchi altri, secondo degli ufficiali. L’attacco è stato fatto il giorno dopo che il capo pakistano dei talibani, Baitullah Mehsud, si è dichiarato responsabile per un attacco mortale ad una accademia di polizia nella città di Lahore. Mehsud ha detto che l’attacco era una risposta agli attacchi Usa su ipotetiche basi di militanti al confine con l’Afghanistan.” (Guardian 1/4/9).
L’effetto cumulativo di queste situazioni ha spinto Islamabad a concedere l’utilizzo della legge della sharia nella zona di Swat. Questo mostra l’indebolimento dello stato pakistano che deve fare concessioni ad una altra forma di legge dentro i suoi confini. Inoltre la pubblicità di un video di una giovane donna frustata pubblicamente è stata utilizzata come parte di una campagna per giustificare i futuri attacchi sul Pakistan.
I legami tra lo Stato e i terroristiUno dei problemi chiave che il governo pakistano ha nell’affrontare i talebani è dovuto ai legami profondi tra l’ agenzia di sicurezza pakistana ISI e alcuni degli elementi della Jihad. Questi collegamenti sono stati costruiti durante lo scontro tra il blocco americano e quello russo in particolare durante gli anni ’80 quando gli americani finanziarono la creazione di una enorme forza della Jihad in Afghanistan: i Mujahadin. Molti di questi combattenti dopo la sconfitta dell’URSS hanno formato la base dei talebani. Non c’è mai stata una rottura netta tra l’esercito pakistano e quello della Jihad, tutti i tentativi di rottura erano destinati al fallimento perché l’esercito era unica forza capace di mantenere l’integrità dello stato.
Dopo gli attacchi di Mumbai, il segretario di Stato di allora, Condoleeza Rice, affermava che “tutte le istituzioni del Pakistan dovrebbero puntare nella stessa direzione” – che significa che il governo doveva mettere sotto controllo gli elementi instabili dentro l’ISI. A dispetto della enorme campagna di propaganda attorno ad Obama che porta ‘cambiamenti in cui possiamo credere’ lui è quasi perfettamente in continuità con G. Bush Jr, proprio come quest’ultimo implementava la politica di invasione dell’Afghanistan progettata da Bill Clinton.
Tra i talebani, il cui nome è diventato un grande contenitore per una varietà di forze, ci sono quelli che voglio rovesciare il governo e ristabilire il governo che c’era prima in Afghanistan. Molti di questi elementi attraversano le regioni di confine lottando in Afghanistan o in Pakistan secondo le necessità.
Ci sono anche gruppi tribali che non hanno mai accettato qualsiasi tipo di governo di Islamabad soprattutto nelle regioni del Baluchistan e Waziristan. Poi ci sono un numero crescente di persone disperate e sofferenti che non hanno alcuna speranza di istruzione e lavoro e i cui bambini finiscono spesso nella presa delle scuole religiose, le madrasse. Non c’è una mancanza di persone da cui reclutare perché ci sono più di un milione di persone spostate da una zona all’altra del Pakistan. In tutto è stato stimato che attualmente ci sono 1,5 milioni di bambini nelle madrasse dove generalmente si insegnano solo i versi coranici. In queste scuole i talebani fanno il loro reclutamento di kamikaze aiutati dal fatto che ogni attacco aereo degli Usa tende ad uccidere civili innocenti creando un vero odio e desiderio di vendetta che i talebani possono sfruttare. Le uccisioni e gli attacchi costanti nei confronti dell’esercito aumentano; negli ultimi 5 anni 1500 soldati pakistani sono stati uccisi lottando con le varie forze insorte.
Quali prospettive?C’è una discesa accelerata nel caos. Gli Usa hanno una vera paura delle conseguenze di un collasso dell’amministrazione civile, dal momento che il Pakistan è in possesso dell’arma nucleare. Gli Usa hanno affermato in modo bellicoso che l’avrebbero invaso per rendere sicure le basi se avessero pensato che fosse nel loro interesse. Qualsiasi invasione sarebbe estremamente provocatoria e peggiorerebbe drasticamente la situazione sociale.
C’è anche la questione dei rapporti tra Pakistan e India che erano già ad alta tensione anche prima degli attacchi di Mumbai. Dopo questi attacchi molte fazioni hanno richiesto direttamente il bombardamento del Pakistan. Qualsiasi attacco al Pakistan avrebbe attirato la Cina (sostenitore chiave del Pakistan), e quindi anche gli Usa, in una lotta con conseguenze disastrose per la regione.
Contro questa tendenza c’è solo il potenziale della lotta della classe operaia internazionale. In particolare nella regione abbiamo visto ondate di lotta nel Bangladesh che offrono una vera alternativa proletaria alla catastrofe del capitalismo in decomposizione.
Graham, 1/4/09
Per molti aspetti Darwin è stato un personaggio tipico del suo tempo, interessato ad osservare la natura e felice di condurre esperimenti sulla vita animale e delle piante. Il suo lavoro empirico svolto, tra l’altro, su api, scarabei, vermi, piccioni e balani è stato scrupoloso e dettagliato. La tenace attenzione di Darwin per i balani (i cosiddetti “denti di cane”) fu tale che i suoi figli da piccoli “iniziarono a pensare che tutti gli adulti dovessero avere la stessa preoccupazione; uno di questi arrivò a chiedere a proposito di un vicino: ‘dove si prende cura dei suoi balani’?” (Darwin, Desmond & Moore).
Darwin si è distinto per la sua capacità ad andare oltre i dettagli, a teorizzare e a cercare i processi storici, mentre altri si accontentavano di catalogare i fenomeni o di accettare le spiegazioni esistenti. Un esempio tipico di ciò fu la sua risposta alla scoperta di fossili marini ritrovati sulle Ande a migliaia di metri di altitudine. Grazie all’esperienza di un terremoto e ai Principi di Geologia di Lyell, fu capace di comprendere l’entità dei movimenti della terra che avevano fatto sì che degli organismi marini finissero sulle montagne senza dover far ricorso a resoconti biblici di un diluvio universale. “Io sono un convinto sostenitore che senza riflessioni speculative non esistono delle buone ed originali osservazioni” (come scrisse in una lettera ad A.R. Wallace, il 22/12/1857).
Non aveva inoltre timore di prendere le osservazioni raccolte in un campo ed utilizzarle in altri campi. Benché Marx abbia posto poca attenzione alla maggior parte degli scritti di Thomas Malthus, Darwin utilizzò le idee di questi sulla crescita demografica della popolazione umana per sviluppare la sua teoria sull’evoluzione. “Nell’ottobre del 1838 mi capitò di leggere, per distrarmi, il libro di Malthus sulla popolazione e, essendo ben preparato ad apprezzare la lotta per l’esistenza che ha luogo dappertutto, grazie ad un’osservazione prolungata e ininterrotta delle abitudini degli animali e delle piante, all’improvviso mi colpì l’idea che nelle circostanze favorevoli le variazioni tendevano ad essere preservate, mentre in quelle non favorevoli ad essere distrutte. Il risultato di questo sarebbe la formazione di nuove specie. A partire da qui, disponevo finalmente di una teoria per il mio lavoro” (Darwin, “Ricordi dello sviluppo della mia mente e del mio carattere”).
Ciò avveniva 20 anni prima che questa teoria facesse la sua apparizione pubblica ne L’Origine della Specie, ma gli elementi essenziali sono già là. Ne L’Origine della Specie Darwin spiega che usa “l’espressione Lotta per l’Esistenza in senso largo e metaforico” e “per comodità” e che per Selezione Naturale intende la “preservazione delle variazioni favorevoli ed il rigetto di variazioni nocive”. L’idea di evoluzione non era nuova, ma nel 1838 Darwin stava già sviluppando una spiegazione di come le specie erano evolute. Metteva a confronto le tecniche degli allevatori/selezionatori di levriero e dei colombofili (selezione artificiale) con la selezione naturale che considerava “la più parte bella della [sua] teoria” (Darwin citato in Desmond & Moore).
Il metodo del materialismo storico
A sole tre settimane dalla pubblicazione de L’origine della Specie, Engels scriveva a Marx: “Darwin, che ho appena letto, è magnifico. C’era un punto su cui la teleologa non era stata ancora demolita; adesso lo è. Inoltre, non avevamo mai avuto fino ad ora un così splendido tentativo per dimostrare lo sviluppo storico nella natura, almeno non con altrettanto successo”. La “demolizione della teleologia” fa riferimento al colpo che L’origine della specie ha portato a tutte le idee religiose, idealiste o metafisiche che cercano di spiegare i fenomeni attraverso i loro effetti piuttosto che con le loro cause. Questo è fondamentale in una visione materialista del mondo. Come Engels ha scritto ne L’Anti-Dürhing (capitolo 1), Darwin “ha assestato il colpo più rude alla concezione metafisica della natura dimostrando che tutta la natura organica attuale, le piante, gli animali e di conseguenza l’uomo, è il prodotto di un processo di evoluzione che è andato avanti per milioni di anni”.
Nei documenti di preparazione alla sua opera La Dialettica della Natura, Engels sottolinea il significato de L’origine della Specie. “Darwin, nel suo lavoro che ha fatto epoca, è partito dalla base più larga esistente della casualità. Precisamente, dalle infinite ed accidentali differenze tra gli individui di una stessa specie, differenze che si accentuano fino a trasformare le caratteristiche della specie, (…) l’hanno obbligato a mettere in questione le basi precedenti della regolarità in biologia, e cioè il concetto di specie nella sua rigidità e nella sua invariabilità metafisiche passate”.
Marx lesse L’origine della specie un anno dopo la sua pubblicazione e scrisse immediatamente ad Engels (19/12/1860) “Ecco il libro che contiene la base, in storia naturale, per le nostre idee”. Più tardi scrisse che il libro era servito da “base naturale-scientifica alla lotta di classe nella storia” (lettera a Lassalle, 16/1/1862).
Nonostante il loro entusiasmo per Darwin, Marx ed Engels non erano però acritici al suo riguardo. Erano coscienti dell’influenza di Malthus ed anche del fatto che la perspicacia di Darwin veniva utilizzata nel “Darwinismo sociale” per giustificare lo statu quo della società vittoriana, la grande ricchezza per alcuni e per i poveri la prigione, le pene lavorative, la malattia, la carestia o l’emigrazione. Nella sua introduzione a La Dialettica della Natura, Engels avanza alcune implicazioni: “Darwin non sapeva quale amara satira dell’umanità scriveva (…) quando mostrava che la libera concorrenza, la lotta per l’esistenza, celebrata dagli economisti come la più alta realizzazione storica, è lo stato normale del regno animale”. È solamente “l’organizzazione cosciente della produzione sociale” che può condurre l’umanità, dalla lotta per la sopravvivenza all’estensione dei mezzi di produzione come base della vita, del piacere e dello sviluppo; e questa “organizzazione cosciente” esige una rivoluzione da parete dei produttori, la classe operaia.
Engels vedeva anche come le lotte dell’umanità (e la comprensione marxista di queste) superavano il quadro di Darwin: “la concezione della storia come una serie di lotte di classe è già ben più ricca nel suo contenuto e profondità di quella che si accontenta di ridurla alle fasi di lotta per l’esistenza” (La Dialettica della Natura, note e frammenti).
Tuttavia tali critiche non rimettono in causa il posto di Darwin nella storia del pensiero scientifico. In un discorso sulla tomba di Marx, Engels sottolineava che “come Darwin ha scoperto la legge dello sviluppo della natura organica, Marx ha scoperto la legge dello sviluppo della storia dell’umanità”.
Il marxismo dopo il darwinismo
Mentre Darwin è stato, di volta in volta, alla moda o antiquato nel pensiero borghese (mai presso scienziati seri), l’ala marxista del movimento operaio non l’ha mai abbandonato. Plekhanov, in una nota del suo libro La Concezione monista della storia (capitolo 5), descrive il rapporto tra il pensiero di Darwin e quello di Marx: “Darwin è riuscito a risolvere il problema di come si sono create le specie vegetali ed animali nella lotta per l’esistenza. Marx è riuscito a risolvere il problema di come sono sorti differenti tipi di organizzazione sociale nella lotta degli uomini per la loro esistenza. Logicamente, l’investigazione di Marx comincia precisamente là dove finisce quella di Darwin (…) Lo spirito di ricerca è assolutamente lo stesso nei due pensatori. E’ per tale motivo che possiamo dire che il marxismo è il darwinismo applicato alla scienza sociale”.
Un esempio dell’interdipendenza tra il marxismo ed i contributi di Darwin si trova nel libro Etica e Concezione Materialista della storia di Kautsky. Sebbene Kautsky sopravvaluta l’importanza di Darwin, egli si ispira al suo libro La Filiazione dell’Uomo per descrivere l’importanza dei sentimenti altruistici, degli istinti sociali nello sviluppo della morale. Nel capitolo 5 de La Filiazione, Darwin descrive come “l’uomo primitivo” è divenuto un essere sociale e come “[gli uomini] si sarebbero avvertiti reciprocamente del pericolo, ed aiutati reciprocamente durante gli attacchi. Tutto questo implica un certo grado di simpatia, di fedeltà e di coraggio”. Aggiungendo che “quando due tribù di uomini primitivi … entravano in competizione, se una comprendeva (…) un gran numero di membri coraggiosi, ben disposti e fedeli, sempre pronti ad avvertirsi del pericolo, ad aiutarsi ed a difendersi reciprocamente, non c’era alcun dubbio che questa tribù avrebbe vinto l’altra. Bisogna ricordarsi che la fedeltà ed il coraggio dovevano essere della massima importanza nelle guerre incessanti tra selvaggi. Il vantaggio dei soldati disciplinati su orde indisciplinate proviene principalmente dalla fiducia che ogni uomo prova nei suoi compagni. (…) Le persone egoiste ed attaccabrighe non si uniranno e senza unione niente può essere realizzato”. Probabilmente Darwin esagera sul fatto che le società primitive fossero in guerra permanente tra loro, ma la necessità della cooperazione come fondamento della sopravvivenza era altrettanto importante in attività come la caccia e la distribuzione del prodotto sociale. È l’altra faccia della “lotta per l’esistenza”, dove vediamo il trionfo della solidarietà e della fiducia reciproca sulla divisione e l’egoismo.
Da Darwin ad un avvenire comunista
Anton Pannekoek non solo era un grande marxista, ma anche un astronomo di rinomanza (un cratere della faccia nascosta della luna ed un asteroide portano il suo nome). Nessuna discussione su “marxismo e darwinismo” sarebbe completa senza far riferimento al suo testo del 1909 dallo stesso titolo.
In primo luogo, Pannekoek affina la nostra comprensione del rapporto tra marxismo e darwinismo. “La lotta per l’esistenza, formulata da Darwin e sottolineata da Spencer, esercita un effetto differente sugli uomini e sugli animali. Il principio secondo cui la lotta conduce al perfezionamento delle armi utilizzate nei conflitti, porta a risultati differenti negli uomini e negli animali. Nell’animale, porta ad uno sviluppo continuo degli organi naturali; è la base della teoria della filiazione, l’essenza del darwinismo. Negli uomini, porta ad uno sviluppo continuo degli attrezzi, dei mezzi di produzione. E’questo è, tuttavia, il fondamento del marxismo. Qui vediamo che il marxismo ed il darwinismo non sono due teorie indipendenti, ciascuna che si applica al proprio campo specifico, senza avere niente in comune con l’altra. In realtà, lo stesso principio è alla base delle due teorie. Formano un’unità. La nuova direzione presa dagli uomini, la sostituzione degli attrezzi agli organi naturali, fa si che questo principio fondamentale si manifesti in maniera differente nei due campi; quello del mondo animale si sviluppa secondo i principi darwinisti, mentre per l’umanità si applica il principio marxista”.
Pannekoek ha sviluppato anche l’dea dell’istinto sociale sulla base dei contributi di Kautsky e di Darwin: “Il gruppo presso cui l’istinto sociale è meglio sviluppato potrà mantenersi sul suo territorio, mentre il gruppo presso cui l’istinto sociale è poco sviluppato, o diventerà una facile preda per i suoi nemici, o non sarà in grado di trovare dei luoghi favorevoli alla sua alimentazione. Questi istinti sociali diventano, dunque, i fattori più importanti e decisivi che determinano chi sopravvivrà nella lotta per l’esistenza. È a causa di ciò che gli istinti sociali sono stati elevati alla posizione di fattori predominanti”.
“Gli animali sociali sono in grado di battere quelli che conducono la lotta individualmente”.
La distinzione tra gli animali e l’uomo sapiens risiede, tra l’altro, nella coscienza.
“Tutto ciò che si applica agli animali sociali si applica anche all’uomo. I nostri antenati scimmieschi e gli uomini primitivi che si sono sviluppati da questi erano tutti senza difesa, dei deboli animali che, come quasi tutte le scimmie, vivevano in tribù. In queste sono dovute apparire le stesse motivazioni sociali, gli stessi istinti sociali che, in seguito, si sono trasformati in sentimenti morali. Che i nostri costumi e la nostra morale non siano altro che sentimenti sociali, sentimenti che incontriamo negli animali, è riconosciuto da tutti; anche Darwin ha parlato delle “abitudini degli animali che negli uomini si chiamerebbe morale”. La differenza sta solo nel livello di coscienza; appena questi sentimenti sociali diventano chiari per gli uomini, prendono il carattere di sentimenti morali”.
Anche Pannekoek critica il “Darwinismo Sociale” quando mostra come i “darwinisti borghesi” sono caduti in un circolo vizioso - il mondo descritto da Malthus e Hobbes assomiglia, guarda caso, al mondo descritto da Hobbes e Malthus!: “Sotto il capitalismo, l’umanità somiglia per la maggior parte del tempo al mondo degli animali rapaci ed è per questo che i darwinisti borghesi hanno ricercato il prototipo umano negli animali che vivono solitari. Vi erano guidati dalla propria esperienza. Il loro errore, tuttavia, è stato quello di considerare le condizioni capitaliste come eterne. Il rapporto che esiste tra i nostri sistemi capitalisti concorrenziali e gli animali solitari è stato espresso da Engels nel suo libro, L’Anti-Dühring, come segue:«In fin dei conti, l’industria moderna e l’apertura del mercato mondiale hanno reso universale la lotta e, allo stesso tempo, le hanno impresso una violenza fin’ora sconosciuta. Adesso sono i vantaggi delle condizioni, naturali o artificiali, che decidono dell’esistenza o meno dei capitalisti individuali così come di tutta una serie di industrie e di paesi. Chi fallisce è rigettato senza pietà. È la lotta darwinista per l’esistenza dell’individuo, trasposta con un rabbia decuplicata dalla natura nella società. La condizione dell’animale nella natura appare come l’apogeo dello sviluppo umano»”.
Ma le condizioni capitaliste non sono eterne, e la classe operaia ha la capacità di rovesciarle e di porre fine alla divisione della società in classi dagli interessi contrapposti. “Con l’abolizione delle classi, l’insieme del mondo civilizzato diventerà una grande comunità produttiva. In seno a questa comunità, la lotta che opponeva i suoi membri cesserà e si trasformerà in lotta col mondo esterno. Non sarà più una lotta contro la nostra specie, ma una lotta per la sussistenza, una lotta contro la natura. Ma, grazie allo sviluppo della tecnica e della scienza, questa non potrà essere chiamata una vera lotta. La natura è subordinata all’uomo e, con pochi sforzi da parte di questo, essa lo servirà in abbondanza. Allora, una nuova vita si apre all’umanità: la liberazione dell’uomo dal mondo animale e la lotta per l’esistenza attraverso degli strumenti finirà e comincia un nuovo capitolo della storia dell’umanità”.
Car (da World Revolution, organo della CCI in Gran Bretagna)
Questo popolo è scontento di ciò che la società ha da offrirgli e che ci sia una crescente volontà di lottare è molto chiaro, non solo da questi eventi, ma anche dalle recenti lotte in Grecia, così come dagli ultimi anni di lotte in posti quali l’Egitto e la Francia. Basta appena sfogliare le pagine dei giornali per rendersi conto che la classe lavoratrice sta recuperando la volontà di lottare malgrado i timori causati dal ritorno della crisi aperta.
Tuttavia, per i comunisti non basta limitarsi ad incoraggiare delle lotte da lontano. È altresì necessario analizzare e spiegare e proporre una prospettiva. Al momento, questo movimento è di una natura molto diversa da quello del 1979. Nelle lotte che portarono alla “rivoluzione islamica”, la classe operaia svolse un ruolo enorme. Per la gente che discuteva per le strade a quei tempi, quello che era chiaro nel 1979 era che gli scioperi degli operai iraniani costituivano il principale elemento politico che condusse al rovesciamento del regime dello Scià. Malgrado le mobilitazioni di massa, quando il movimento “popolare” – che raggruppava quasi tutti gli strati oppressi dell’Iran - cominciò ad esaurirsi, l’entrata in lotta del proletariato iraniano all’inizio di ottobre 1978, particolarmente nel settore petrolifero, non solo restituì vigore all’agitazione, ma pose un problema virtualmente irrisolvibile per il capitale nazionale, in un momento in cui non era possibile trovare un rimpiazzo per la vecchia equipe governativa. La repressione era sufficiente per indurre alla ritirata piccoli commercianti, studenti e disoccupati, ma si dimostrò uno strumento impotente della borghesia quando si misurò con la paralisi economica provocata dagli scioperi degli operai.
Ciò non vuol dire che l’attuale movimento non può sviluppare e non può trascinare la classe operaia come classe nella lotta. La lotta della classe operaia in Iran è stata particolarmente militante negli ultimi anni, particolarmente con il forte sciopero spontaneo dei 100.000 insegnanti avvenuto nel marzo 2007, con migliaia di operai di fabbrica che si unirono allo sciopero per solidarietà. 1.000 persone sono state arrestate durante questo sciopero. Questa è stata la più grande lotta di lavoratori in Iran, di cui si abbia notizia, dal 1979. Lo sciopero fu seguito nei mesi successivi da lotte che coinvolsero migliaia di operai nelle industrie della canna da zucchero, dei pneumatici, automobilistiche e tessili. Per quanto riguarda la situazione attuale, naturalmente ci sono anche gli operai per le strade, ma per il momento questi sono coinvolti nella lotta a livello individuale e non come forza collettiva. È importante sottolineare il fatto che il movimento non può progredire senza questa forza collettiva dei lavoratori. Uno sciopero nazionale di un giorno è stato proclamato per martedì. Ciò può dare un’indicazione del livello di sostegno all’interno della classe operaia.
Di recente i mezzi di comunicazione borghesi ci hanno riempito la testa con le varie cosiddette rivoluzioni di vari colori e di vari fiori. Così abbiamo potuto sentire di rivoluzioni “arancio”, rosa, dei tulipani e dei cedri e per tutto il tempo la stampa ha belato come pecore sulla “lotta” per la democrazia.
Questo movimento è partito come protesta contro gli imbrogli elettorali ed i dimostranti in origine erano mobilitati a sostegno di Mousavi. Tuttavia, gli slogan si sono rapidamente radicalizzati. Vi è un’enorme differenza fra le deboli proteste di Mousavi al capo supremo a proposito dell’irregolarità delle elezioni e gli slogan delle masse di manifestanti di “morte al dittatore e al regime”. Naturalmente la stessa cricca di Mousavi è stata presa dal panico ed ha revocato una dimostrazione fissata per lunedì. Resta da vedere se la gente rispetterà questa decisione. D’altra parte i richiami alla calma di Mousavi hanno anche incontrato degli slogan contro di lui.
Contrariamente a questi tipi di rivoluzioni di “vari colori”, il comunismo offre la possibilità di un tipo di rivoluzione e di un sistema sociale in cui vivere che sono completamente differenti. Quello che difendiamo non è semplicemente un cambiamento dell’amministrazione della società con nuovi capi “democratici” che poi svolgono esattamente lo stesso ruolo dei vecchi capi “dittatoriali”, ma una società di produttori liberi ed uguali generata dalla stessa classe lavoratrice e basata sui bisogni dell’umanità e non sui bisogni del profitto, in cui le classi, lo sfruttamento e l’oppressione politica saranno eliminati.
Sabri 15/6/09
(…) Questo non voto si localizza massicciamente nelle regioni del Sud e, significativamente, a macchia di leopardo in alcuni insediamenti del nord ad alta composizione sociale proletaria. E, significativamente, le frattaglie della sinistra radicale di governo raccolgono percentuali da fallimento, minori proprio in quegli insediamenti proletari che hanno ricusato l’uso del voto. Non sono bastate le loro autocritiche televisive a recuperare un minimo di credibilità tra i proletari. Raccolgono un voto urbano, nei centri delle città, ma nulla o quasi nei quartieri periferici dove abitano le famiglie proletarie.
D’altra parte i maggiori partiti (PdL, PD, UDC) e movimenti qualunquisti (Idv) sembrano non dare certezze alla borghesia, ed il voto si limita a riaggiustamenti al ribasso della distribuzione dei partiti più grossi.
Lo stesso risultato generale in Europa dice che il distacco dei proletari dalla sinistra borghese si va consumando con l’approfondirsi della crisi e su tutto, si leva il grido d’allarme della Signora Marcegaglia che, singolarmente, spinge il governo a dare più aiuto ai proletari per il rischio di un “rottura della coesione sociale”. Non molto tempo fa la stessa presidente della Confindustria aveva allarmato paventando “il progressivo spostamento della conflittualità dalla fabbrica alla società.”
Questo è il clima reale in cui si sono svolte le elezioni e che inutilmente si è tentato di modificare mentendo sulla crisi o proponendo agli elettori le squallide performances erotiche del Presidente del Consiglio.
Se si guarda storicamente il dato del non voto si noterà che la defezione è avvenuta proprio in zone in cui esisteva una tradizione di voto massivo per la sinistra borghese. Nelle regioni meridionali, in alcuni collegi e più in generale, si è arrivati a punte di astensione dal voto tali che i votanti sono stati addirittura intorno al 20% ed anche meno. Il voto in questi collegi si è concentrato solo nei centri cittadini, periferie e piccoli paesi invece hanno disertato in massa.
Chi sono gli assenti? E’ questa la vera domanda inevasa della vicenda elettorale, la sola che può fornire elementi certi di valutazione e di giudizio.
Ma ancora perché questi assenti sembrano essere in consonanza con gli altri assenti degli altri paesi d’Europa? Il collasso generale della sinistra borghese, attenzione, non avviene per il fatto che la destra l’abbia superato in bravura ed in capacità di governo, tutt’altro: emblematicamente la destra e la sinistra borghesi perdono insieme in Germania. In Inghilterra i lavoratori liquidano d’un colpo il partito laburista al governo, dal 52 al 17%. In Francia il PS è ridotto al di sotto del suo minimo storico, nonostante meno di due anni fa avessero quasi conquistato l’Eliseo.
Questi dati non sono solo numeri, dietro i numeri ci sono le persone, i proletari, le loro famiglie che oggi dicono di non credere e non fidarsi più della sinistra borghese. Dietro di essi c’è in incubazione la paura della miseria, del licenziamento, dell’impossibilità a sopportare i sacrifici disumani che la crisi del capitalismo impone. Ma c’è anche una riflessione che porta al rifiuto di un voto che, quale che sia, non può portare soluzione e sollievo al disagio dei proletari. Ed allora essi si liberano innanzitutto di coloro che, fingendo di sostenerli, li hanno condotti in uno stato di sottomissione e di debilitazione politica da cui essi vogliono e devono uscire per difendersi. Si è sentito più volte nelle discussioni di strada in queste elezioni che “E’ altra la sinistra di cui abbiamo bisogno”, “Qui non c’è una sinistra”, “Nessuno ci rappresenta”, ecc.
La Signora Marcegaglia comprende che l’espressione di un nuovo conflitto sociale non potrà essere contenuto, mediato e gestito nei cancelli delle fabbriche; la politica razzista ed antiproletaria della Lega ha il fiato corto perché non sarà possibile dirigere la rabbia operaia contro i proletari extracomunitari e contro i proletari del Sud. La crisi non dà spazi di mediazione sociale, non dà respiro, al di là dei proclami pre-elettorali, la sinistra borghese non serve alla borghesia perché non può più svolgere il suo vecchio compito di demagoga. Ed il proletariato ha già cominciato a cercare da sé le risposte.
Stranamente questo fatto centrale, ma ancora agli inizi, è visto solo dalla Presidente dei capitalisti industriali. Molto più dei loro servitori, i capitalisti comprendono a cosa può portare un ripresa del protagonismo del proletariato.
P. (9/06/2009)
Questo mito nasce dal fatto che l’Italia ha uno scarso passato coloniale, limitato a qualche fallito tentativo di fine secolo diciannovesimo e alle avventure del fascismo in Africa e in Albania.
Ma questo non è il frutto di una scarsa propensione all’espansionismo, giacché nell’epoca dell’imperialismo tutti i paesi sono imperialisti, perché chi non lo fosse si autoescluderebbe dal novero delle nazioni che contano. L’impossibilità di crearsi un proprio impero coloniale prima e una zona di influenza con la decolonizzazione dopo, deriva dal ritardo con cui è stata realizzata in Italia l’unità nazionale, e di conseguenza la formazione di un capitale di dimensioni tali da competere sul piano imperialista, in una situazione peraltro in cui gli spazi liberi da conquistare erano ormai pochi.
Ma, come dicevamo, anche se l’impresa era disperata, l’imperialismo italiano non poteva rinunciare a provarci e questo non solo nel diciannovesimo secolo o sotto il fascismo, ma ha continuato a giocare il proprio ruolo imperialista fino ai nostri giorni.
Durante il periodo della guerra fredda, lo scontro imperialista era regolato dalle rigide regole dei blocchi che si erano formati all’uscita della seconda guerra mondiale. In particolare l’Italia, nella divisione decisa a Yalta dai vincitori della guerra, era rimasta legata al blocco occidentale, capitanato dagli Stati Uniti. Ed è alla difesa di questo blocco che l’imperialismo italiano si è dedicato per più di quaranta anni, ritagliandosi solo un po’ di libertà nei rapporti con i paesi arabi, per poter avere qualche vantaggio personale anche all’interno delle rigide regole degli interessi di blocco. Già in questi anni l’Italia partecipa a diverse missioni militari, in particolare in Medio oriente e in Africa.
Ma è a partire dal crollo del blocco sovietico, nel 1989, che si aprono nuove prospettive e possibilità per l’imperialismo italiano. Questo crollo, come abbiamo più volte ricordato, ha avuto come corollario il disfacimento del blocco avversario, che ora non era costretto a permanere, venuto a mancare il suo nemico principale. Questo dissolvimento dei blocchi, lungi dal significare l’apertura di un periodo di “pace e prosperità”, come aveva annunciato all’epoca Bush padre, ha dato la stura a nuovi appetiti imperialisti in quanto tutti gli ex alleati degli USA si sono messi a giocare in proprio, compresa l’Italia.
Ed infatti da allora l’impegno militare dell’Italia è aumentato, invece che diminuire: prima in Bosnia e poi in Kossovo, per proseguire in Afganistan e in Iraq, ed infine in Libano, per non citare che le situazioni maggiori; non c’è una guerra o una situazione di tensione importante che non abbia visto la partecipazione di truppe italiane.
Questo attivismo ha fatto sì che oggi l’Italia sia il terzo paese al mondo per presenza di truppe in altri paesi. Attualmente si contano 33 missioni militari italiane in 21 paesi, con un totale di 9.108 soldati impegnati (fonte Ministero della Difesa). E naturalmente le missioni costano. Ed infatti nel 2009 si sono spesi 1 miliardo e 350 milioni di euro (1), con un aumento di circa il 30% rispetto al 2007 (2), il che, in tempo di crisi, costituisce un aumento notevole, visto che per curare il bilancio statale si licenziano 47.000 lavoratori nella scuola, si tagliano le spese per l’Università, per la sanità, ecc.
Ma, ci dirà il solito mistificatore di turno, le missioni militari italiane all’estero sono tutte missioni fatte per difendere la legalità e la pace, che è la solfa di tutti gli imperialismi del mondo e della storia. Solo che poi a guardare da vicino si scopre che anche le truppe italiane uccidono, torturano e opprimono anche le popolazioni civili, oltre ai militari. Che pericolo per la pace costituivano le popolazioni della Serbia e del Kossovo massacrate durante i bombardamenti della NATO che vedevano gli aerei italiani in prima linea? Che pericolo per la pace costituiva la bambina afgana uccisa dai proiettili di una pattuglia italiana lo scorso 3 maggio? (3)
Solo la spudoratezza e il cinismo della borghesia può cercare di sostenere che questi interventi militari siano fatti per difendere un qualche interesse delle popolazioni locali e non quelli dell’imperialismo che li compie. E solo un atto di fede può far credere che quello che è vero per gli USA, la Gran Bretagna o la Russia non sia vero anche per l’Italia.
Nonostante tutti i posti persi nelle classifiche della competitività, del PIL pro capite e di altri dati economici, l’imperialismo italiano resta in prima fila in quella competizione internazionale che si è acuita dopo il crollo del blocco dell’est.
E questa difesa degli interessi del capitale nazionale ha visto accomunati tutti i governi che si sono succeduti dal 1989 ad oggi, senza differenza fra destra e sinistra, perché quando sono in gioco gli interessi del capitale nazionale nessuna forza politica borghese può tirarsi indietro.
Se c’è stata una divisione fra queste forze non è stato certo sul fatto se bisognava imbarcarsi in avventure militari, ma solo su come si potevano meglio difendere questi interessi, con la destra (in particolare Berlusconi) convinta che solo un’alleanza stretta con gli USA può essere utile all’Italia, mentre la sinistra è per una maggiore autonomia di scelta. E’ solo questo che spiega la famosa polemica sulla partecipazione alla guerra in Iraq, con Berlusconi convinto sostenitore dell’intervento, e la sinistra che pensava che fosse un errore, per cui, arrivata al potere nel 2006 ha provveduto al ritiro delle truppe, ma solo per poterle poi dispiegare in Libano meno di un anno dopo. In questo la sinistra ha solo avuto più lungimiranza della destra di Berlusconi: la guerra in Iraq era un’avventura senza prospettive, tant’è vero che anche il nuovo governo Berlusconi non si è nemmeno sognato di offrire agli USA un ritorno in Iraq. Mentre la sinistra non ha avuto nessun ritegno a volere i bombardamenti sulla Serbia ai tempi della guerra del Kossovo, o a continuare a sostenere l’avventura in Afganistan, che dura ormai da 8 anni e non solo non ha portato a nessuna “pace”, ma è riuscita solo a destabilizzare anche il Pakistan, paese in possesso dell’arma nucleare.
Se è vero che i sacrifici che vengono imposti ai proletari sono il frutto del fallimento storico di questo sistema, è vero anche che questo fallimento significa in aggiunta una accresciuta corsa alla competizione imperialista internazionale, con la doppia conseguenza di morte e miseria per un numero sempre maggiore di persone nel mondo e di ulteriori sacrifici imposti ai proletari dei principali paesi capitalisti per sostenere la crescita degli impegni guerrieri.
La presa di coscienza di questa realtà non potrà che rafforzare la presa di distanza dei proletari dalla propria borghesia.
Helios
1. Il decreto del consiglio dei ministri del 18 dicembre 2008 stanziava 675 milioni di euro per il primo semestre; non abbiamo il dato successivo, ma poiché non è stato richiamato in patria un solo soldato, non è difficile concludere che la spesa per il secondo semestre sia rimasta al minimo uguale a quella del primo semestre, per un totale annuo quindi di almeno 1 miliardo e 350 milioni.
2. Secondo il SIPRI, Istituto Internazionale per le ricerche sulla Pace, le missioni italiane all’estero costavano, nel 2007, 1 miliardo di euro.
3. Naturalmente l’esercito ha parlato di un errore, causato dal mancato arresto dell’auto all’alt proclamato dalla pattuglia. Si dà però il caso che l’auto su cui viaggiava la bambina con la propria famiglia avesse il lunotto posteriore rotto, segno che i colpi sono stati sparati dopo che l’auto aveva superato il posto di blocco, cioè quando non poteva più costituire un pericolo per i militari impegnati nel posto di blocco. Gli stessi giornali hanno espresso dei dubbi (vedi Repubblica del 4 maggio scorso) sulla dinamica raccontata dai soldati, peccato però che questa vicenda sia in seguito scomparsa dagli stessi giornali.
La prima crisi globale dell'umanità" (OMC, aprile 2009) (1). La recessione "più profonda e la più sincrona a memoria d’uomo" (OCSE, marzo 2009) (2)! Dalla stesse ammissioni delle grandi istituzioni internazionali, la crisi economica attuale è di una gravità senza precedente. Per farvi fronte, tutte le forze della borghesia sono mobilitate da mesi.
Il G20 è indubbiamente il più forte simbolo di questa reazione internazionale. Ad inizio aprile, tutte le speranze capitaliste sono state dunque rivolte verso Londra, città dove si è tenuto il vertice salvatore che doveva "rilanciare l'economia e moralizzare il capitalismo". E a credere nelle dichiarazioni dei differenti dirigenti del pianeta, questo G20 è stato un vero successo. "È il giorno in cui il mondo si è riunito per combattere la recessione" ha esclamato il Primo ministro britannico, Gordon Brown. "È stato al di là di ogni aspettativa immaginata", ha dichiarato commosso il presidente francese Nicolas Sarkozy. "Si tratta di un compromesso storico", così lo ha commentato la cancelliera tedesca Angela Merkel. Per Barack Obama, questo vertice ha rappresentato una "svolta".
La verità invece è tutt’altra.
L’unica cosa riuscita del G20: è che si è fatto!
In questi ultimi mesi, la crisi economica ha molto acuito le tensioni internazionali. Innanzitutto, si è sviluppata la tentazione del protezionismo. Ogni Stato tenta sempre più di salvare una parte della sua economia sovvenzionandola e concedendole dei privilegi nazionali contro la concorrenza straniera. Come è capitato col piano di sostegno all'industria automobilistica deciso da Nicolas Sarkozy, piano, per esempio, aspramente criticato dai suoi "amici" europei. Poi, si tende in maniera crescente a promuovere piani di rilancio in ordine sparso, in particolare quelli riguardanti il salvataggio del settore finanziario. Infine, numerosi concorrenti, approfittando del fatto che gli Stati Uniti, epicentro del sisma finanziario, sono stati colpiti in pieno dalla forte burrasca economica, tentano di indebolire ancora più la leadership economica americana. Ed è questo il senso degli appelli al "multilateralismo" della Francia, della Germania, della Cina, dei paesi latino-americani…
Questo G20 di Londra si annunciava dunque teso e, nei retroscena, i dibattiti effettivamente saranno stati burrascosi. Importante è che le apparenze siano salve. Per la borghesia la catastrofe di un G20 caotico è stata evitata. La borghesia non ha dimenticato come l'assenza di coordinamento internazionale contribuì al disastro nel 1929. All'epoca, il capitalismo si dovette scontrare con la prima grande crisi del suo periodo di decadenza e la classe dominante non sapeva ancora affrontarla. In un primo tempo, gli Stati rimasero inermi. Dal 1929 al 1933, quasi nessuna misura fu presa, mentre le banche fallivano a migliaia, una dopo l’altra. Il commercio mondiale crollò letteralmente. Nel 1933, si cominciò a vedere una prima reazione: si trattava del primo New Deal (3) di Roosevelt. Questo piano di rilancio si basava su una politica di grandi lavori e di indebitamento statale ma anche su una legge protezionistica, il Buy American Act ("Comprate americano"). Da allora, tutti i paesi si lanciarono nella corsa al protezionismo; e ciò, alla fine, non fece che aggravare di più la crisi mondiale. Infatti, oggi, tutte le borghesie vogliono evitare la ripetizione di un tale circolo vizioso crisi-protezionismo-crisi… devono fare del tutto per non ripetere gli errori del passato. Occorreva dunque imperativamente che questo G20 sancisse l'unità delle grandi potenze contro la crisi, in particolare per sostenere il sistema finanziario internazionale. Nel concreto, i paesi si sono impegnati a non alzare barriere, compresi i flussi finanziari, e hanno incaricato l'OMC di effettuare scrupolose verifiche affinché un tale impegno venga rispettato.
Ed è questo il solo successo del G20. Ma un successo certamente temporaneo fintanto che il pungolo della crisi continuerà a fomentare inesorabilmente la disunione internazionale.
L’indebitamento di oggi prepara le crisi di domani
Dall'estate 2007 e dalla famosa crisi dei subprimes, i piani di rilancio si succedono ad un ritmo sfrenato. Ai primi annunci di iniezioni massicce di miliardi di dollari, un vento di ottimismo momentaneo soffiò. Ma oggi, continuando la crisi ad aggravarsi inesorabilmente, ogni nuovo piano è accolto con sempre maggiore scetticismo. Paul Jorion, sociologo specializzato in economia, e che è stato uno dei primi ad avere annunciato la catastrofe economica, schernisce con tali parole il ripetersi di questi insuccessi: "Siamo passati insensibilmente dai piccoli aiuti del 2007 ad un importo di miliardi di euro o di dollari per i grossi aiuti dell'inizio 2008, poi agli enormi aiuti della fine dell'anno oramai in centinaia di miliardi. In quanto al 2009, è l'anno dei "kolossal" aiuti, i cui montanti questa volta si esprimono in "trilioni" di euro o di dollari. E malgrado l'ambizione sempre più faraonica, non si riesce a vedere un minimo chiarore d’uscita dalla galleria!" (4).
E che propone il G20? Un nuovo rilancio del tutto inefficace! 5000 miliardi di dollari stanno per essere iniettati nell'economia mondiale da ora alla fine 2010 (5). La borghesia non ha nessuna altra "soluzione" da proporre e rivela attraverso ciò la sua impotenza (6). La stampa internazionale non si è del resto sbagliata: "La crisi è lungi, in realtà, dall’essere finita e bisognerebbe essere ingenui per credere che le decisioni del G20 possano cambiare tutto" (la Libre Belgique) "Hanno fallito nel momento in cui l'economia mondiale sta implodendo" (New York Time) "Il rilancio li ha lasciati di marmo al vertice del G20" (Los Angeles Time).
Del resto, le stime dell'OCSE per il 2009, abitualmente ottimiste, non lasciano molti dubbi a proposito di ciò che colpirà l'umanità nei mesi a venire, con o senza G20. Secondo questa, gli Stati Uniti dovrebbero essere interessati da una recessione del 4 %, la Zona euro del 4,1 % ed il Giappone del 6,6 %! Dunque la situazione sicuramente si aggraverà ancora nei mesi a venire mentre la crisi attuale è già peggio di quella del 1929. Gli economisti Barry Eichengreen e Kevin O'Rourke hanno calcolato che la caduta della produzione industriale mondiale è stata, per nove mesi, violenta come quella del 1929, che la caduta della Borsa è stata due volte più veloce, così come la recessione del commercio mondiale (7).
Tutte queste cifre, in concreto, per i milioni di operai di ogni parte del mondo significano una realtà molto drammatica. Negli Stati Uniti, prima potenza mondiale, altri 663.000 posti di lavoro sono andati distrutti nel mese di marzo, e ciò porta il totale di posti di lavoro distrutti in 2 anni a 5,1 milioni. Tutti i paesi sono colpiti duramente. Nel 2009, in Spagna, la disoccupazione dovrebbe superare il 17 %!
Ma questa politica non solo è inefficace oggi, ma prepara anche per l'avvenire delle crisi più violente. Infatti, tutti questi miliardi sono stati creati ricorrendo massicciamente all'indebitamento. Ora, questi debiti, un giorno, e non tanto lontano, occorrerà rimborsarli. Infatti, accumulando i debiti, è sull'avvenire economico che il capitalismo alla fine mette l’ipoteca.
E che dire di tutti questi giornalisti che si sono felicitati della ritrovata importanza del FMI? I suoi mezzi finanziari sono stati triplicati dal G20, essendo stati portati a 750 miliardi di dollari con, in più, l'autorizzazione di emissione di Diritti di titoli speciali (DTS) (8) per 250 miliardi di dollari. Gli è stata affidata il compito "di aiutare i più deboli", in particolare quei paesi dell'Est sull’orlo del fallimento. Ma il FMI è una strana ancora di salvezza. La reputazione – giustificata - di questa organizzazione è imporre un'austerità draconiana in cambio del suo "aiuto". Ristrutturazioni, licenziamenti, disoccupazione, soppressione dei sussidi per la salute, per la pensione… tale è "l'effetto FMI". Questa organizzazione è stata, per esempio, al capezzale dell'Argentina negli anni 1990 fino a… al crollo di questa economia nel 2001!
In conclusione, questo G20 non solo, non ha schiarito il cielo capitalista ma ha addirittura lasciato intravedere indomani ancora più scuri!
Il grande bluff della moralizzazione del capitalismo
Tra gli operai esiste un profondo disgusto per questo capitalismo agonizzante ed una riflessione crescente sull'avvenire. Infatti, durante questo G20, la classe dominante si è affrettata a rispondere, a modo suo, a questa questione. Con trombe e tamburi, questo vertice ha promesso un nuovo capitalismo, meglio regolato, più morale, più ecologico…
La manovra è così enorme quanto ridicola. Per la moralizzazione del capitalismo, il G20 ha preso di mira alcuni "paradisi fiscali". In particolare, sono stati additati quattro territori che costituiscono l’oramai celebre "elenco nero": il Costa Rica, la Malaysia, le Filippine e l'Uruguay. Altre nazioni sono state richiamate e classificate in un "elenco grigio". Per esempio, il Cile, il Lussemburgo, Singapore e la Svizzera.
In altre parole, mancano all’appello i principali "paradisi fiscali"! Le isole Caiman ed i suoi hedge funds, i territori dipendenti della corona britannica (Guernesey, Jersey, isola di Man), la City di Londra, Stati federati americani come il Delaware, il Nevada o il Wyoming… tutti questi sono ufficialmente bianchi come la neve, e vanno di conseguenza a costituire l'elenco bianco. Con questa classifica di paradisi fiscali da parte del G20, è un poco come se l'ospedale se ne infischiasse della carità.
Colmo dell'ipocrisia, solamente alcuni giorni dopo il vertice di Londra, l'OCSE -responsabile di questa classificazione - ha annunciato il ritiro di quattro paesi dall'elenco nero, in cambio di promesse di sforzo di trasparenza!
Tutto ciò chiaramente non ci sorprende. In che modo tutti questi grandi responsabili capitalisti, veri gangster senza fede né legge, "potrebbero moralizzare" chi? E in che modo un sistema basato sullo sfruttamento e la ricerca del profitto per il profitto potrebbe essere "più morale"? In verità, nessuno si aspettava vedere venir fuori da questo G20 un "capitalismo più umano". Questo non può esistere ed i dirigenti politici ne parlano come i genitori parlano di Babbo Natale ai loro bambini. Questi tempi di crisi rivelano al contrario, ancora più crudamente, il viso disumano di questo sistema. Quando la crisi economica colpisce, i lavoratori sono licenziati e gettati in mezzo ad una strada come gli oggetti diventati inutili. Il capitalismo è e sarà sempre un sistema di sfruttamento brutale e barbaro. Le probabilità di vedere nascere un "capitalismo ecologico" o "un capitalismo morale" sono le stesse di vedere l’alchimista trasformare il piombo in oro.
Proprio questo G20 mostra l’impossibilità di un altro mondo capitalista. È probabile che la crisi potrà ancora conoscere alti e bassi, con, in alcuni momenti un "ritorno alla crescita". Fondamentalmente, però, il capitalismo continuerà ad affondare economicamente, seminando miseria e generando guerre.
Non c’è niente da aspettarsi da questo sistema. La borghesia, con i suoi vertici internazionali ed i suoi piani di rilancio, non costituisce la soluzione ma il problema. A poter cambiare il mondo è solo la classe operaia, ma, per farlo, questa deve riprendere fiducia nella società che essa può fare nascere: il comunismo!
Mehdi (16 aprile 2009)
1) Dichiarazione di Pascal Lamy, direttore generale dell'Organizzazione mondiale del commercio.
2) Rapporto intermediario dell'Organizzazione di Cooperazione e di Sviluppo economico.
3) Un mito largamente diffuso oggi è quello secondo cui il New Deal del 1933 avrebbe permesso all'economia mondiale di uscire del marasma economico. E, la conclusione logica, sarebbe quella di fare oggi un New New Deal. In realtà, l'economia americana, dal 1933 a 1938, rimase particolarmente debole; fu il secondo New Deal, quello del 1938, che permise veramente di rilanciare la macchina. Ora, questo secondo New Deal non fu niente altro che l'inizio di quella economia di guerra che preparò la Seconda Guerra mondiale. Si comprende perché questo fatto sia passato largamente sotto silenzio!
4) L'era dei "Kolossal" aiuti, pubblicati il 7 aprile.
5) In realtà, per 4000 miliardi, si tratta dei dollari dei piani di rilancio già annunciati in questi ultimi mesi.
6) In Giappone, un nuovo piano di rilancio di 15.400 miliardi di yen (116 miliardi di euro) è stato appena deciso. È il quarto programma di rilancio elaborato da Tokio nello spazio di un anno!
7) Fonte: voxeu.org [168].
8) I DTS formano un paniere monetario costituito da dollari, euro, yen e sterlina.
È la Cina che, in particolare, ha insistito per costituire questi DTS. Queste ultime settimane, l'impero del male ha moltiplicato con dichiarazioni ufficiali appelli alla creazione di una moneta internazionale che possa sostituire il dollaro. E numerosi economisti sparsi nel mondo hanno rilanciato quest’appello, avvertendo della caduta inesorabile della moneta americana e delle scosse economiche che ne seguiranno.
Realmente l'indebolimento del dollaro, nella misura in cui l'economia americana affonda nella recessione, rappresenta un vero pericolo per l'economia mondiale. In quanto riferimento internazionale, è uno dei pilastri della stabilità capitalista dal dopoguerra. Tuttavia, la creazione di una nuova moneta di riferimento che sia l'Euro, lo Yen, la sterlina o i DTS del FMI, è totalmente illusoria. Nessuno potenza potrà sostituire gli Stati Uniti, nessuna potrà sostenere il suo ruolo di stabilizzatore economico internazionale. L'indebolimento dell'economia americana e della sua moneta significano, dunque, un disordine monetario crescente.
“Un terzo della popolazione dei paesi poveri vive in bidonville o tuguri, cosa che rappresenta in totale più di 800 milioni di persone (…) Si tratta della popolazione urbana che vive nelle condizioni più disastrose, dalle bidonville alle capanne insalubri, in particolare senza acqua corrente”.
Nei prossimi mesi, “46 milioni di individui in più nel mondo potrebbero arrivare a vivere con meno di 1,25 dollari al giorno, cioè sotto la soglia di estrema povertà fissata dalla Banca mondiale (…) Quest’aumento del numero di poveri potrebbe condurre ad una conseguente recrudescenza del tasso di mortalità infantile: se la crisi persiste, tra 1,4 e 2,8 milioni di bambini potrebbero morire a causa di malattie dovute alle loro cattive condizioni di vita”.
Nessun angolo della terra viene risparmiato da quest’esplosione di miseria: “L’associazione americana dei sindaci, che svolge annualmente un’indagine nazionale sui senza tetto, ha constatato a fine 2008 un aggravamento dei problemi delle famiglie. (…) Louisville ad esempio, segnala un aumento del 58% in un anno delle famiglie senza tetto. Da dati più recenti risulta un aumento del 40%, tra 2007 ed il 2008, del numero di famiglie che entrano nei centri di accoglienza new-yorkesi. (…) Quest’aumento importante potrebbe continuare con la progressione della disoccupazione. Le previsioni fatte dalla Goldman Sachs[2] sono di un tasso di disoccupazione al 9% a fine 2009 (contro il 5% a fine 2007 e quasi 7% nel 2008). Gli esperti del Center on Budget and Policy Priorities, basandosi sulle ultime tre recessioni americane, contano in questo contesto su una forbice da 8 a 10 milioni di poveri supplementari. Sempre in quest’ipotesi, il numero di persone in grande povertà (con un reddito inferiore alla metà della soglia di povertà) potrebbe aumentare da 5 a 6 milioni. In totale, circa un milione di nuove famiglie con figli potrebbero conoscere la grande povertà e trovarsi di fronte all’alto rischio di diventare dei senza-tetto”.
Solo la classe operaia, sviluppando le sue lotte a livello internazionale, riacquistando fiducia in se stessa e nella sua forza, è in grado di dare la sola alternativa reale a questo immondo sistema di sfruttamento: la società comunista.
Gli studenti sono sempre più preoccupati per la propria situazione e sempre più sconcertati ed indignati per l’avvenire che la classe dominante riserva loro. Il che non è sorprendente: questo sentimento aumenta giorno per giorno e dappertutto1, soprattutto tra i proletari e negli strati più poveri della società. Molti di questi proletari sono genitori o comunque parenti di questi stessi studenti, tutti colpiti dall’avanzata implacabile della crisi che li condanna con sempre più durezza a condizioni di vita veramente insopportabili. Ma questa crisi li spinge anche alla riflessione, a chiedersi se c’è una via d’uscita, se il capitalismo è capace di assicurare qualcosa di diverso dalla miseria, dal caos e la barbarie.
Ogni giorno che passa, questi studenti sono sempre più “surriscaldati”, anche se per il momento mantengono la testa fredda e ciò significa che riflettono. Aumenta la loro diffidenza nei confronti delle “soluzioni” che vengono proposte e, soprattutto, non sembrano disposti ad accettare qualsiasi cosa: un futuro incerto in quanto alla possibilità di trovare un lavoro, dei crediti per poter studiare che li “ipotecherebbero” incatenandoli a vita...
C’è anche questa enorme indignazione contro la brutale repressione commessa dai Mossos d’Escuadra de la Généralidad2 della Catalogna diretta dalla “coalizione tripartitica”3 alla quale partecipa la versione catalana della “radicale” e “amica degli operai” Izquierda unida (Sinistra unita). La ferocia della repressione contro i giovani (pestaggi, arresti violenti, espulsioni …) mostra chiaramente ciò che ci si può aspettare da qualsiasi governo, che sia di destra o che si presenti come “progressista” e “sociale”. (…)
In seguito all’espulsione forzata dall’università occupata ed alle cariche violente della polizia nella serata del 18 marzo che si è chiusa con numerosi arresti ed una sessantina di feriti tra i circa cinquemila manifestanti presenti, gli studenti hanno reagito organizzando rapidamente una manifestazione di solidarietà. Il Governo catalano è stato obbligato a presentare delle scuse ed a costringere alle dimissioni alcuni esponenti del suo ministero dell’Interno. Da allora, gli studenti stanno continuando ad andare avanti: fanno assemblee, scioperi ed occupazioni, riunioni con i gruppi sociali che li sostengono; dibattono, scambiando notizie con altre università alcune delle quali hanno risposto manifestando in solidarietà con loro (Madrid, Valencia, Gérone...).
Gli studenti, che hanno affermato alto e chiaro “che non sono delinquenti, non sono dei ribelli senza prospettiva e neanche carne da cannone per i burocrati ed i mossos”, sono sempre determinati a riuscire, “grazie ad un largo movimento studentesco, perché l’unione fa la forza”, a fare “non solo arretrare gli attacchi del capitale - Piano Bologna o Tartempio” ma anche “una società giusta, tollerante, solidale e libera”, perché “ci sentiamo capaci di cambiare la realtà nella quale viviamo” (estratti da Quali riflessioni... sugli avvenimenti del 18 marzo a Barcellona, un volantino distribuito nella manifestazione del 26).
Gli studenti hanno quindi convocato una manifestazione per il 26 marzo. Contavano sulla solidarietà di quelli che, come loro, affrontano la realtà del “è peggio ogni giorno che passa” e senza la minima prospettiva di miglioramento: dei loro stessi compagni, degli insegnanti, di tutti quelli che condividono le loro preoccupazioni ed i loro sforzi, di tutti quelli che stanno affianco a loro e che sanno che, domani, saranno affianco di tutta la classe operaia. Di fronte a loro c’erano parecchie decine di mossos (poliziotti) che li aspettavano arma in pugno, pronti a fronteggiare “ogni eventualità”. Il tutto preparato da un’intensa propaganda lanciata dalla Generalidad attraverso tutti i media secondo la quale “tali azioni” erano illegali per cui andavano prese misure adeguate per farvi fronte “come si deve”.
A Piazza dell’Università aspettavamo inquieti, ma determinati; abbiamo visto che gli studenti erano sicuri di loro, che controllavano la situazione. I mossos ci hanno chiuso l’accesso dell’itinerario previsto e gli organizzatori hanno avuto il coraggio di decidere un itinerario alternativo verso un luogo più tranquillo.
Questa manifestazione è stata ben diversa dalle processioni folcloristiche dei sindacati: non fischietti assordanti, non urla dagli altoparlanti né slogan collerici: i manifestanti potevano parlare, scegliere slogan, risposte appropriate ed invettive contro il governo ed i suoi esecutori d’ordini del ministero dell’Interno, e cioè contro i mossos che nei giorni precedenti si erano sfogati a colpi di manganello su tutto ciò che si muoveva. Applausi ed incoraggiamenti di solidarietà coi manifestanti sono stati lanciati dai balconi. I locali dei partiti di governo sono stati coperti di graffiti che denunciavano le loro responsabilità.
A poco a poco altre persone si sono unite alla manifestazione, così che alla fine c’erano più di 10.000 persone insieme e, come in Grecia, di tutte le generazioni: studenti, genitori, lavoratori di differenti età...
(…) Questa manifestazione ha rappresentato un vittoria importante: tutti sono ripartiti con la netta impressione che la lotta proseguirà e che il dibattito deve continuare, anche per scambiare esperienze e soprattutto per continuare una lotta che non considerano esaurita. Gli studenti mobilitati insistono sul fatto devono continuare ad incontrarsi fino alle vacanze in qualche “Campus-assemblea”, nei quartieri.
Questa lotta si inserisce in una prospettiva di lotte massicce in altri settori (insegnanti, industrie, statali, servizi, attivi e disoccupati …)? Sì, ne siamo convinti. Molti di quelli che erano alla manifestazione ne erano altrettanto convinti, anche se non abbiamo sentito appelli e slogan espliciti in questo senso. Le condizioni perché ciò avvenga si consolidano, tutta la dinamica del movimento va in questo senso. L’intervento della classe operaia, la sua esperienza, la sua solidarietà, è molto importante per alimentare questo processo.
Gli studenti devono contare su questo. In fin dei conti, sanno che faranno parte della classe operaia. Molti di loro, sanno che ne fanno già parte.
Da Acción proletaria, pubblicazione della CCI in Spagna (28 marzo)
2. Polizia regionale del governo catalano.
3. Questo governo è diretto da una coalizione di sinistra: socialisti, catalanisti repubblicani e vecchi stalinisti (inclusi i “Verdi”) ai quali del resto appartiene il ministro dell’Interno, Joan Saura, che dirige la polizia e che oggi (01/04) dichiara, di fronte all’indignazione provocata dalla repressione, che la “risposta dei poliziotti è stata sproporzionata”... [ndt].
Questo incontro, il cui progetto è stato formulato un anno fa, è stato reso possibile innanzitutto dalla nascita di questi gruppi, i quali ancora 3 anni fa (a parte OPOP e la CCI) non esistevano, ma ancora di più dalla loro volontà comune a rompere l’isolamento e sviluppare un lavoro politico insieme (3).
La base di un tale lavoro è stata l’individuazione e l’accettazione da parte dei partecipanti di criteri che delimitano il campo proletariato rispetto a quello della borghesia e che sono esposti nella Presa di posizione qui pubblicata.
La prima attività di questo incontro era necessariamente una discussione politica che permettesse di fare chiarezza sulle convergenze e le divergenze esistenti tra i partecipanti, in modo da rendere possibile l’elaborazione di un quadro di discussione in vista di una chiarificazione sui disaccordi.
Salutiamo calorosamente il fatto che questo incontro abbia potuto aver luogo e che sia stato capace di assumere discussioni importanti come quelle sull’attuale situazione della lotta di classe internazionale e sulla natura della crisi che oggi scuote il capitalismo. Abbiamo pienamente fiducia in un prosieguo fruttuoso di questo dibattito (4).
Siamo ben coscienti che questo incontro ha costituito solo un piccolo passo sulla strada che conduce alla costituzione di un polo di riferimento internazionale la cui esistenza, dibattito pubblico ed intervento siano in grado di orientare gli elementi, i collettivi ed i gruppi che sorgono in tutto il mondo alla ricerca di una risposta proletaria internazionalista alla situazione sempre più grave nella quale il capitalismo sta trascinando l’umanità.
Tuttavia, se lo si paragona alle esperienze passate - per esempio alle Conferenze internazionali della Sinistra comunista che si sono tenute trent’anni fa(5)- questo incontro è riuscito a superare alcune delle debolezze manifestatesi all’epoca. Mentre le Conferenze non riuscirono ad adottare una dichiarazione comune di fronte alla guerra in Afghanistan che allora rappresentava una grave minaccia, oggi la Presa di posizione adottata all’unanimità dai partecipanti difende in modo molto chiaro delle posizioni proletarie di fronte alla crisi del capitalismo.
In particolare vogliamo sottolineare la ferma denuncia che fa la Presa di posizione delle alternative capitaliste di “sinistra” in voga attualmente su tutto il continente americano e che suscitano nel mondo intero delle illusioni niente affatto trascurabili. Dagli Stati Uniti, col fenomeno Obama, fino alla Patagonia argentina, il continente è pervaso da governi che pretendono di difendere i poveri, i lavoratori, gli emarginati e che si presentano come i portatori di un capitalismo “sociale”, “umano”, o che ancora, in versioni più “radicali” (come Chavez in Venezuela, Morales in Bolivia e Correa in Ecuador), pretendono di incarnare addirittura “il socialismo del XXI secolo”.
Riteniamo molto importante che di fronte a queste mistificazioni sorga un polo unitario, fraterno e collettivo di minoranze internazionaliste che apra la via alla discussione ed alla formulazione di posizioni di solidarietà internazionale, di lotta di classe intransigente, di una lotta per la rivoluzione mondiale, di fronte al capitalismo di Stato, al nazionalismo, allo sfruttamento di cui questi “nuovi” profeti cercano di assicurare la perpetuazione.
CCI (26-04-09)
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Presa di posizione comune
La lotta per il comunismo autentico, cioè per una società senza classi, senza miseria e senza guerre, sta nuovamente suscitando nel mondo intero un interesse crescente da parte di minoranze. Nel marzo 2009, per iniziativa della Corrente Comunista Internazionale (CCI) e di Oposição Operaria (OPOP), si è tenuta in America latina un Incontro di discussione internazionalista a cui hanno partecipato differenti gruppi, circoli e singoli compagni di questo continente che si trovano chiaramente su posizioni internazionaliste e proletarie.
Oltre alla CCI ed OPOP, erano presenti i seguenti gruppi:
- Grupo de Lucha Proletaria (Perù)
- Anarres (Brasile)
- Liga por l'Emancipación de la Clase Obrer (Costa Rica e Nicaragua)
- Núcleo de Discusión Internacionalista de la República Dominicana
- Grupo de Discusión Internacionalista de Ecuador.
Ai lavori di questo incontro hanno inoltre partecipato alcuni compagni del Perù e del Brasile. Compagni di altri paesi pur avendo manifestato la loro intenzione di partecipare non hanno avuto la possibilità di essere presenti per ragioni materiali o amministrative.
L’insieme dei partecipanti si è riconosciuto nei principi espressi dai criteri che seguono, gli stessi che globalmente sono serviti alla tenuta delle Conferenze dei gruppi della Sinistra comunista alla fine degli anni ‘70 e nel 1980:
1. Richiamarsi al carattere proletario della rivoluzione di Ottobre 1917 e dell’IC, pur sottoponendo quest’esperienze ad un bilancio critico che permetta di orientare i nuovi tentativi rivoluzionari del proletariato;
2. Rigettare senza riserva ogni idea secondo la quale esistono nel mondo paesi a regime socialista o con governi operai, sebbene qualificati “degenerati”; parimenti, rigettare ogni forma di governo capitalista di Stato, come quelli basati sull’ideologia del “socialismo del XXI secolo”;
3. Denunciare i partiti socialisti e comunisti, così come i loro accoliti, come partiti del capitale;
4. Rigettare categoricamente la democrazia borghese, il parlamentarismo e le elezioni, armi attraverso le quali la borghesia è riuscita numerose volte ad inquadrare e deviare le lotte operaie mettendo la classe operaia davanti a false scelte: democrazia o dittatura, fascismo o antifascismo;
5. Difendere la necessità che i rivoluzionari internazionalisti lavorino alla costituzione di un’organizzazione internazionale dell’avanguardia proletaria, arma indispensabile della rivoluzione proletaria;
6. Difendere il ruolo dei consigli operai come organi del potere proletario, così come l’autonomia della classe operaia rispetto alle altre classi e strati della società.
L’ordine del giorno delle discussioni è stato il seguente:
1. Il ruolo del proletariato e la sua situazione attuale, il rapporto di forze tra le classi;
2. La situazione del capitalismo (in seno alla quale si svolgono le attuali lotte) e, come riflessione più globale, il concetto di decadenza e/o di crisi strutturale del capitalismo;
3. La crisi ecologica crescente in cui ci spinge il sistema. Poiché per mancanza di tempo non si è potuto affrontare questo punto, è stato deciso di portare avanti la discussione attraverso Internet.
Sul punto 1 sono stati utilizzati degli esempi relativi all’America latina per illustrare le analisi sullo stato attuale della lotta di classe, ma la preoccupazione della maggior parte degli interventi è stata di concepire questi come una parte della situazione generale della lotta proletaria a livello internazionale. L’incontro ha deciso di insistere particolarmente sulla denuncia dei differenti governi di sinistra (che in questo momento dirigono la maggior parte dei paesi dell’America latina) come nemici mortali del proletariato e della sua lotta; sono stati anche denunciati quelli che sostengono, anche se in modo critico, questi governi. L’incontro ha inoltre denunciato la criminalizzazione delle lotte operaie da parte di questi governi insistendo sul fatto che la classe operaia non può farsi illusioni sui metodi “legali e democratici”, ma può contare solamente sulla propria lotta autonoma. Questa denuncia si applica particolarmente ai seguenti governi:
- Kirchner in Argentina
- Morales in Bolivia
- Lula in Brasile
- Correa in Ecuador
- E, in modo particolare, quello diretto da Chavez in Venezuela il cui preteso “Socialismo del ventunesimo secolo” non è altro che una vasta menzogna destinata a prevenire e reprimere le lotte del proletariato in questo paese ed a ingannare gli operai negli altri paesi.
Sul punto 2 i partecipanti si sono trovati d’accordo sulla gravità della crisi attuale del capitalismo e sulla necessità di approfondirne la comprensione a partire da una prospettiva teorica e storica.
Alla conclusione delle discussioni, i partecipanti si sono accordati sui seguenti punti:
- la tenuta dell’incontro costituisce una manifestazione dell’attuale tendenza allo sviluppo della lotta e della presa di coscienza del proletariato a livello internazionale;
- l’aggravamento considerevole della crisi del capitalismo oggi non può, alla fine, che rafforzare questa tendenza allo sviluppo delle lotte operaie, rendendo sempre più necessaria la difesa delle posizioni rivoluzionarie in seno al proletariato;
- in questo senso, l’insieme dei partecipanti considera necessario proseguire lo sforzo che è stato iniziato con questo incontro al fine di essere parte pregnante della lotta del proletario internazionale.
Più concretamente, come primo passo di questo sforzo, è stato deciso di:
1. aprire un sito Internet in lingua spagnola (eventualmente portoghese) sotto la responsabilità collettiva dei gruppi che hanno partecipato all’incontro. Inoltre, è stata prospettata la possibilità di pubblicare un bollettino in lingua spagnola basato sul contenuto del Sito internet;
2. pubblicare su questo sito:
- la presente presa di posizione (che sarà pubblicata anche sui siti dei gruppi partecipanti);
- i contributi che sono stati preparati per l’incontro;
- la sintesi del processo verbale delle differenti discussioni che si sono tenute in questo;
- ogni altro contributo dei gruppi ed elementi presenti così come di ogni altro gruppo o compagno che si riconosce nei principi e le preoccupazioni che hanno animato l’incontro.
All’interno di queste preoccupazioni, l’incontro sottolinea in modo particolare la necessità di un dibattito aperto e fraterno tra rivoluzionari ed il rigetto di ogni settarismo e spirito di cappella.
Note:
1. Messico, Repubblica Dominicana, Costa Rica, Nicaragua, Ecuador, Perù, Venezuela, Brasile.
2. I cui partecipanti sono stati: OPOP (Opposizione Operaia) - Brasile, CCI, LECO (Lega per l’Emancipazione della Classe Operaia) - Costa Rica e Nicaragua, Anarres - Brasile, GLP (Gruppo di Lotta Proletaria) - Perù, GDI (Gruppo di Discussione Internazionalista dell’Ecuador), NDI Nucleo di Discussione Internazionalista della Repubblica Dominicana), e diversi compagni di questi paesi che hanno partecipato a titolo individuale.
3. Abbiamo reso conto di questa effervescenza in America latina nel nostro articolo “Due nuove sezioni della CCI” in Rivoluzione Internazionale n. 159.
4. Una delle decisioni dell’'incontro ha riguardato la creazione di un sito Internet dove saranno pubblicati la presa di posizione comune ed i dibatti: www.encuentro.internationalist-forum.org [170].
5. Leggi, ad esempio, nella Revue internationale n.16, l’articolo “2a Conferenza internazionale dei gruppi della Sinistra comunista”.
Il 25 aprile scorso la CCI ha organizzato a Napoli una “giornata di incontro e discussione” sul tema della crisi economica e su come reagire. Come abbiamo già fatto in un’analoga riunione tenuta sempre a Napoli nell’aprile dello scorso anno[1] e come facciamo ormai in tanti altri paesi del mondo in cui siamo presenti, questa riunione è stata quasi interamente gestita dai compagni intervenuti, che hanno provveduto a scegliere il tema di discussione, a preparare su di esso una loro presentazione, a preparare una sintesi della discussione a metà giornata per permettere il suo rilancio nel pomeriggio. Il nostro lavoro come organizzazione è consistito essenzialmente nel tenere il presidium – in modo da permettere ai compagni intervenuti di seguire e partecipare con tutta l’attenzione necessaria - e a prendere delle note, utili per lasciare una traccia della discussione su cui tutti i compagni partecipanti possono tornare a riflettere.
Sul nostro sito web pubblicheremo vari materiali relativi alla riunione oltre che dei bilanci politici sulla riunione stessa formulati da singoli compagni. Quello che però è importante mostrare con questo articolo è la dinamica che si è aperta con questa iniziativa che possiamo sintetizzare dicendo che, alla fine della riunione del 25/4, tutti i compagni partecipanti si sono trovati d’accordo:
Il volantino è stato presto fatto[3] ed è stato diffuso massicciamente alle manifestazioni del 1° maggio a Napoli, per le strade e inviato fittamente via mail ad “amici, colleghi e parenti”. Subito dopo i compagni si sono rivisti per ufficializzare la costituzione del gruppo di discussione, cominciando a sviluppare uno scambio su come lavorare assieme, questione di primaria importanza per un gruppo di persone eterogenee e, per diversi di loro, alla prima esperienza politica.
In conclusione abbiamo potuto vedere come l’organizzazione di un incontro tra compagni abbia prodotto un risultato che va ben oltre gli obiettivi immediati che la riunione si era data, motivo per cui è importante capirne i motivi, cercando di tornare su alcuni degli elementi che hanno caratterizzato la giornata del 25 aprile in modo da fare tesoro di questa esperienza.
Anzitutto ricordiamo come è stata convocata questa riunione. L’idea che la CCI cerca di concretizzare attraverso questo tipo di riunioni, che non sono delle riunioni pubbliche della nostra organizzazione, è di mettere a disposizione dei proletari in genere, qualunque sia la loro connotazione politica immediata, un luogo dove potersi incontrare e discutere con altri proletari che avvertono una insoddisfazione per la situazione attuale e che cercano di capire come stanno le cose per valutare il da farsi, il modo in cui reagire. Di conseguenza, dal primo momento, pur non nascondendoci dietro nessun paravento per far sembrare l’iniziativa come “spontanea”, abbiamo spinto affinché i compagni coinvolti prendessero nelle loro mani l’iniziativa, a partire dalla stessa pubblicizzazione della riunione. Puntando dunque sui compagni che già ci conoscevano e che sono nostri simpatizzanti, la notizia della riunione si è diffusa di voce in voce tra tante persone con il risultato che un numero significativo di partecipanti è stato portato da altre persone e non direttamente dalla CCI. Questo aspetto è già molto importante perché ha mostrato come la riunione del 25 aprile sia stata effettivamente avvertita e vissuta da tutti come una “loro” riunione. Va messo peraltro in evidenza come la dinamica che ha portato a questa riunione abbia coinvolto alcuni elementi che stavano da anni in stand-by, ovvero in uno stato di “diffidente inattività” perché scottati da precedenti esperienze politiche, perché incapaci di ritrovare situazioni ed iniziative che restituissero loro la fiducia perduta. Queste persone, inizialmente giustamente diffidenti, sono state immediatamente convinte e conquistate da qualche incontro preliminare e dall’atmosfera assolutamente proletaria di questi incontri.
Un secondo aspetto ha riguardato naturalmente le modalità secondo cui la riunione si è svolta. Non una riunione dove i compagni venivano a sentire cosa aveva da dire la CCI, ma un luogo che era stato creato dalla CCI perché i compagni lì riuniti potessero esprimere estesamente le loro idee e le loro preoccupazioni. La CCI non si è nascosta dietro una parete, ma ha partecipato pienamente, anzitutto contribuendo con l’invio di propri testi, prima della riunione, così come hanno fatto anche altri compagni, e intervenendo quando era opportuno nell’arco stesso della riunione. Ma, ancora una volta, la preoccupazione principale è stata quella di fare esprimere i compagni intervenuti e far sì che si rispondessero l’un l’altro. Il risultato di questa impostazione è stato che quando, a metà riunione, c’era da fare il lavoro di sintesi della discussione della mattina per far partire la seconda parte della discussione, mancando i compagni che si erano prenotati per questo lavoro, abbiamo temuto che non ci fossero altre persone disposte a farlo. Ma ci sbagliavamo perché siamo stati felicemente sorpresi dalla spontanea partecipazione, intorno al tavolo del presidium, di un numero esuberante di compagni, tutti volontari e, cosa ancora più importante, tra questi compagni ce n’erano diversi che partecipavano ad una riunione politica organizzata dalla CCI per la prima volta. Tutto questo, sviluppato in un clima di assoluta serenità e spirito fraterno, ha letteralmente “conquistato” i compagni tutti e noi stessi dell’organizzazione abbiamo vissuto un’esperienza veramente coinvolgente.
Un ulteriore elemento a cui non daremo mai abbastanza importanza è stato quello della socializzazione e dello sviluppo dei rapporti umani. La riunione infatti è stata pensata e vissuta prevedendo dei momenti di pausa nella discussione finalizzati non soltanto a riprendere ossigeno, ma anche per permettere ai compagni di conoscersi, di parlare della loro vita, di scambiarsi delle esperienze, ecc. Non a caso, anche stavolta, è stato organizzato uno spuntino all’ora di pranzo nel giardino del luogo che ha ospitato la riunione basato su una serie di squisitezze preparate da alcune compagne volontarie e la sera, a fine riunione, i compagni che potevano farlo, si sono trattenuti per mangiare in trattoria e continuare a stare assieme. Questo aspetto del conoscersi, del parlarsi tra compagni al di là del piano strettamente politico, è un elemento molto importante che riprende una tradizione che è sempre esistita all’interno del movimento operaio e che rompe con le ideologie staliniste che imponevano anzitutto la diffidenza tra compagni e dunque la massima riservatezza sulla propria persona.
Per quanto riguarda i contenuti del dibattito, sin dai primi interventi, insieme alla ricerca dell’origine della crisi economica, è emerso il riconoscimento che questo sistema porta non solo all’impoverimento della stragrande maggioranza dell’umanità, ma anche ad una disgregazione dei rapporti umani contro cui occorre combattere e rispetto a cui la lotta di classe costituisce un antidoto importante. I meccanismi che portano questo sistema alla sua crisi sono stati sviluppati da diversi interventi, esaminando come cause possibili sia la caduta del saggio di profitto che la saturazione dei mercati extracapitalisti. In ogni caso l’insieme dei compagni ha riconosciuto che questo sistema non ha vie di uscita e che occorre lavorare per l’individuazione di un’alternativa a questa società. Come hanno sottolineato i compagni nella sintesi che chiudeva la prima parte della discussione:
“La crisi è crisi del capitalismo, strutturale e non congiunturale, e di portata storica, perciò l’aspetto finanziario non è la causa, ma ne è un aspetto. E’ una crisi di sottoconsumo causato dall’eccessivo sviluppo delle forze produttive in relazione allo sviluppo del mercato internazionale. Lo stesso imperialismo non basta più a superare le crisi. Quindi è una crisi storica dell’accumulazione dovuta alla saturazione dei mercati … che poi comporta e porta anche alla caduta del saggio del profitto.
Sul come reagire diversi compagni hanno sottolineato due aspetti importanti.
Da una parte le difficoltà che incontra la classe a causa delle illusioni ancora presenti, ma soprattutto a causa della complessità del compito che ha davanti. Anche se è chiaro che il capitalismo è in crisi e che non ci sono margini per una ripresa, che il futuro non riserva niente di buono, i proletari non hanno ancora recuperato abbastanza fiducia in sé stessi come classe per poter intraprendere una via autonoma da partiti e sindacati: “Molte illusioni non spariscono da un giorno all’altro. Ci vuole tempo”; “Il punto difficile è sempre quello del costruire, perché anche se ci è chiaro che il capitalismo non funziona, non è chiaro invece cosa bisogna fare, qual è l’alternativa. Qual è una società che possa funzionare meglio del capitalismo”.
Dall’altra il fatto che i lavoratori stanno iniziando a rispondere alla crisi: “C’è un tentativo del proletariato di tendere ad associarsi. Il sindacato sul precariato è stato costretto a fare una grande manifestazione, bidone certo, ma quello che era importante è il fatto che la gente stava lì per vedere cosa fare. Gli operai industriali dicono si alla lotta, ma dobbiamo farla con i precari e ciò perché nelle famiglie ci sono i precari. C’è una tendenza da parte del proletariato a darsi delle forme organizzative”.
Questi sono gli elementi, anche se in forma estremamente stringata, che hanno caratterizzato questa giornata. Ma il tutto non si potrebbe capire se, ancora una volta, non ricordassimo che l’elemento propulsivo della stessa giornata del 25 aprile e di tutto quello che si è prodotto dopo è il riemergere della lotta di classe e la disseminazione sul territorio di una quantità molto importante di elementi che sono alla ricerca di una loro identità di classe. Se questa iniziativa ha avuto successo, come testimoniato dal bilancio positivo dei singoli compagni, è perché ci siamo messi nelle condizioni di poter raccogliere questo potenziale che esiste tra i proletari. Noi pensiamo che questo aspetto deve essere compreso e fatto proprio da tutti i compagni, qualunque sia la loro collocazione politica attuale, perché è un aspetto di incoraggiamento per tutti noi, perché significa che non siamo soli, che quand’anche ci riuniamo in pochi da qualche parte, ce ne sono tanti altri che sono in attesa da qualche altra e che aspettano solo di essere incoraggiati, di recuperare fiducia anzitutto in sé stessi. E in un mondo che, tra farse elettorali e politiche sindacali, ci ha narcotizzati con il mito della delega, è chiaro che riprendere in mano il proprio destino non è facile. Ma l’esperienza del 25 aprile dimostra che, una volta scoperta la possibilità di fare a modo proprio, i proletari riescono a recuperare una forza incredibile. Ed è appunto su questa forza incredibile della vecchia talpa che si risveglia che noi poniamo tutte le nostre aspettative per cambiare questo mondo che ci opprime e che non ci garantisce più alcun futuro.
15 giugno 2009 Ezechiele
[2] Per favorire la riflessione dei compagni su come lavorare assieme nel gruppo di discussione che andavano a formare, abbiamo suggerito loro la lettura del nostro articolo “Gruppo di discussione delle Midlands in Gran Bretagna: un luogo di chiarificazione della coscienza di classe”, https://it.internationalism.org [172].
[3] Il volantino è stato pubblicato sul nostro sito web [173].
Di fronte alle guerre imperialiste il solo atteggiamento per il proletariato, conforme ai suoi interessi, è quello, in primo luogo, di rigettare ogni partecipazione ad uno o all’altro dei campi contrapposti; in secondo luogo è denunciare e combattere tutte le forze borghesi che chiamano i proletari, sotto qualsivoglia pretesto, a dare la loro vita per uno di questi campi capitalisti. In questo contesto di guerra imperialista, la classe operaia deve anteporre l’unica prospettiva possibile: lo sviluppo cosciente ed intransigente della propria lotta in vista del capovolgimento del capitalismo. In questo senso l’internazionalismo costituisce e definisce il criterio decisivo dell’appartenenza di un’organizzazione o di una corrente al campo proletariato.
Esso si basa sulle condizioni universali che gli sono imposte dal capitalismo a livello mondiale e cioè il massimo sfruttamento della forza lavoro, in tutti i paesi e su tutti i continenti. Ed è in nome di questo internazionalismo che è nata, dallo stesso movimento operaio, la Prima Internazionale. L’internazionalismo si basa essenzialmente sul fatto che le condizioni di emancipazione del proletariato sono internazionali: al di là delle frontiere e dei fronti militari, delle origini e delle culture, il proletariato trova la sua unità nella lotta comune contro le sue condizioni di sfruttamento e nell’interesse comune all’abolizione del salariato e la costruzione del comunismo. È su questo che si fonda la sua natura di classe.
Per l’anarchismo, in genere, l’internazionalismo è legato a principi astratti, come l’antiautoritarismo, la libertà, il rigetto di ogni potere, l’anti-statalismo, ecc. piuttosto che alla chiara concezione che l’internazionalismo costituisce una frontiera di classe intangibile che delimita il campo proletariato da quello del capitale. E’per tale motivo, come vedremo, che la storia dell’anarchismo è attraversata da oscillazioni permanenti tra prese di posizioni decisamente internazionaliste e posizioni pacifiste umanistiche sterili o apertamente belliciste.
In questa serie di articoli, tenteremo di comprendere perché, nei maggiori momenti di scontro imperialista - come le due guerre mondiali - da un lato, la maggioranza del campo anarchico non è riuscita a difendere gli interessi della nostra classe lasciandosi, al contrario, coinvolgere dal nazionalismo borghese, mentre, dall’altro, una piccola minoranza è riuscita a difendere l’internazionalismo proletario.
Il tradimento dell’internazionalismo da parte della Socialdemocrazia e dell’anarchismo nel 1914
Lo scoppio della Prima Guerra mondiale vede il crollo vergognoso dell’Internazionale Socialista. La stragrande maggioranza dei suoi partiti si sottomette al capitale, dichiara la “sacra unione” con le rispettive borghesie nazionali e si impegna a mobilitare il proletariato per la guerra imperialista. Parimenti, i principali componenti del movimento anarchico si trasformano in guerrafondai a profitto dello Stato borghese. Kropotkin, Tcherkesoff e Jean Grave diventano i più accaniti difensori della Francia: “Non lasciate questi atroci conquistatori schiacciare di nuovo la civiltà latina ed il popolo francese … non lasciate imporre un secolo di militarismo all’Europa” (1). E’ in nome della difesa della democrazia contro il militarismo prussiano che questi sostengono l’“Union Sacrée”: “L’aggressione tedesca è una minaccia – effettuata - non solo contro le nostre speranze di emancipazione ma contro tutta l’evoluzione umana. E’ per tale motivo che noi, anarchici, noi, antimilitaristi, noi nemici della guerra, noi sostenitori appassionati della pace e della fratellanza tra i popoli, ci siamo posti affianco alla resistenza e non abbiamo creduto di dover separare la nostra sorte da quella del resto della popolazione” (2). In Francia, la CGT anarco-sindacalista getta alle ortiche le proprie risoluzioni che le imponevano il dovere, in caso di guerra, di far trionfare lo sciopero generale, e si trasforma in isterica procacciatrice di carne da cannone per la carneficina imperialista: “contro l’autoritarismo, contro il militarismo germanico, bisogna salvare la tradizione democratica e rivoluzionaria della Francia”.“partite senza rimpianti compagni operai, ci chiamano alle frontiere per difendere la terra francese” (3). In Italia, alcuni gruppi anarchici ed anarco-sindacalisti lanciano dei “fasci” “contro la barbarie, il militarismo tedesco e la perfida Austria cattolica e romana”.
Tuttavia questa convergenza della maggioranza della socialdemocrazia e dell’anarchismo in favore del sostegno alla guerra imperialista e allo Stato borghese deriva da dinamiche fondamentalmente diverse.
La posizione della Socialdemocrazia nel 1914 di fronte alla guerra costituisce un tradimento del marxismo, della teoria del proletariato internazionale e rivoluzionario e del suo principio fondamentale - i proletari non hanno patria. Invece l’adesione alla guerra imperialista ed alla borghesia della maggior parte dei dirigenti anarchici internazionali all’epoca della Prima Guerra mondiale non costituisce un passo falso ma la conclusione logica del loro anarchismo, in conformità alle loro posizioni politiche essenziali.
Nel 1914, è in nome dell’antiautoritarismo, perché è inammissibile “che un paese sia violentato da un altro” (4), che Kropotkin giustifica la sua posizione sciovinista in favore della Francia. Fondando il loro internazionalismo su “l’autodeterminazione” e sul “diritto assoluto di ogni individuo, ogni associazione, ogni comune, ogni provincia, ogni regione, ogni nazione a disporre di sé stessi, di associarsi o di non associarsi, di allearsi con chi si vuole o di rompere le alleanze” (5), gli anarchici sposano le divisioni che il capitalismo impone al proletariato. Al fondo, una tale posizione sciovinista ha le sue radici nel federalismo che caratterizza la base di tutta la concezione anarchica. L’anarchismo, ammettendo la nazione come un “fenomeno naturale”, il “diritto di ogni nazione all’esistenza ed al libero sviluppo” e ritenendo che il solo pericolo per “l’esistenza delle nazioni, è la loro propensione a cedere al nazionalismo” “istillato dalla classe dominante per separare i popoli gli uni dagli altri”, è portato naturalmente, in ogni guerra imperialista, ad operare una distinzione tra aggressori/aggrediti, tra oppressori/oppressi e dunque ad optare per la difesa del più debole, del diritto calpestato, ecc. Questo tentativo di basare il rifiuto della guerra su cose diverse dalle posizioni di classe del proletariato, lascia ampi spazi per giustificare il sostegno in favore di uno o dell’altro belligerante, cioè, concretamente, per scegliere un campo imperialista contro un altro.
La fedeltà ai principi internazionalisti affermati dal movimento di Zimmerwald e dallo sviluppo della lotta di classe
Tuttavia, alcuni anarchici riescono ad affermare una posizione realmente internazionalista. Una minoranza di 35 militanti libertari (tra cui A. Berkman, E. Goldmann, E. Malatesta, D. Nieuwenhuis) nel febbraio del 1915 pubblica un manifesto contro la guerra. “Perciò è ingenuo e puerile, dopo avere moltiplicato le cause e le opportunità di conflitto, cercare di stabilire le responsabilità di questo o quel governo. Non c’è distinzione possibile tra le guerre offensive e le guerre difensive. (…) Nessuno dei belligeranti ha il diritto di reclamarsi alla civiltà, come nessuno ha il diritto di dichiararsi in stato di legittima difesa. (…) Qualunque sia la forma che assume, lo Stato non è che l’oppressione organizzata a profitto di una minoranza di privilegiati. Il conflitto attuale illustra ciò in modo sorprendente: tutte le forme di Stato si trovano impegnate nella presente guerra: l’assolutismo in Russia, l’assolutismo mitigato di parlamentarismo in Germania, lo Stato che regna su popoli di razze ben differenti in Austria, il regime democratico costituzionale in Inghilterra, ed il regime democratico repubblicano in Francia. (…) Il ruolo degli anarchici, qualunque sia il luogo o la situazione in cui si trovano, nell’attuale tragedia, è continuare a proclamare che non c’è che una sola guerra di liberazione: quella che, in tutti i paesi, è condotta dagli oppressi contro gli oppressori, dagli sfruttati contro gli sfruttatori” (6). La capacità di mantenersi su delle posizioni di classe è più netta tra le organizzazioni proletarie di massa che, in reazione all’abbandono progressivo di ogni prospettiva rivoluzionaria da parte della socialdemocrazia prima della guerra, si erano orientate verso il sindacalismo rivoluzionario. In Spagna, A. Lorenzo, vecchio militante della Prima Internazionale e fondatore della CNT, denuncia immediatamente il tradimento della socialdemocrazia tedesca, della CGT francese e delle Trade Unions inglesi per “aver sacrificato i loro ideali sull’altare delle rispettive patrie, negando il carattere fondamentalmente internazionale del problema sociale”. Nel novembre 1914 un altro Manifesto firmato da gruppi anarchici, da sindacati e da società operaie di tutta la Spagna, sviluppa le stesse idee: denuncia della guerra, denuncia delle due gang rivali, necessità di una pace che “può essere garantita solo dalla rivoluzione sociale” (7). La reazione è più debole tra gli anarco-sindacalisti sui quali pesa maggiormente l’ideologia anarchica. Ma fin dal tradimento della CGT, una minoranza che si opponeva alla guerra si raggruppa attorno a La Vita Operaia di Monatte e Rosmer (8).
Dilaniata, la nebulosa anarchica si scinde tra anarco-patrioti ed internazionalisti. Dopo il 1915 la ripresa delle lotte da parte del proletariato e l’eco della parola d’ordine di trasformazione della guerra imperialista in guerra civile lanciata dalle conferenze dei socialisti contro la guerra a Zimmerwald e Kienthal (9), permetterà agli anarchici di radicare la loro opposizione alla guerra nella lotta di classe. In Ungheria dopo il 1914, sono dei militanti anarchici a prendere la testa del movimento contro la guerra imperialista. Tra questi, Ilona Duczynska e Tivadar Lukacs introducono e fanno conoscere in Ungheria il Manifesto di Zimmerwald. Sotto l’impulso della conferenza internazionalista, il Circolo Galilea, fondato nel 1908 e composto da una mescolanza di anarchici, socialisti espulsi dalla socialdemocrazia e pacifisti, si radicalizza attraverso un fenomeno di decantazione. Passa dall’antimilitarismo e anticlericalismo al socialismo, da un’attività di circolo di discussione ad un’attività di propaganda più determinata contro la guerra e di intervento attivo nelle lotte operaie in pieno fermento. I suoi volantini disfattisti sono firmati “Gruppo di Socialisti ungheresi affiliati a Zimmerwald”.
In Spagna la lotta contro la guerra, insieme al sostegno entusiasta alle lotte rivendicative che si moltiplicano dalla fine del 1915, costituisce l’attività centrale della CNT. Questa manifesta una chiara volontà di discussione ed una grande apertura rispetto alle posizioni delle Conferenze di Zimmerwald e di Kienthal che vengono salutate con entusiasmo. Discute e collabora con gruppi socialisti minoritari che, in Spagna, si oppongono alla guerra. Fa un grande sforzo di riflessione per comprendere le cause della guerra e come combatterla. Sostiene le posizioni della Sinistra di Zimmerwald ed afferma di volere, insieme a “tutti i lavoratori, che la fine della guerra sia imposta dal sollevamento del proletariato dei paesi in guerra” (10).
Ottobre 1917, faro della Rivoluzione proletaria
Lo scoppio della Rivoluzione in Russia solleva un enorme entusiasmo. Il movimento rivoluzionario della classe operaia e l’insurrezione vittoriosa dell’ottobre ‘17 spingono le correnti proletarie dell’anarchismo a porsi esplicitamente nella loro scia. L’apporto più fruttuoso degli anarchici al processo rivoluzionario si è concretizzato nella collaborazione con i bolscevichi. Anche a livello internazionale si rafforzano ulteriormente la vicinanza politica e la convergenza di vedute dei campi anarchici internazionalisti col comunismo ed i bolscevichi.
In seno alla CNT l’Ottobre ‘17 è visto come un vero trionfo del proletariato. Tierra y Libertad ritiene che “hanno trionfato le idee anarchiche”(11) e che il regime bolscevico sia “guidato dallo spirito anarchico del massimalismo”(12). Solidaridad Obrera afferma che “i Russi ci mostrano la strada da seguire”. Il Manifesto della CNT lancia l’appello: “Guardiamo la Russia, guardiamo la Germania. Imitiamo questi campioni della Rivoluzione proletaria”.
Tra i militanti anarchici ungheresi l’Ottobre ‘17 determina un’azione contro la guerra molto più nettamente determinata verso la rivoluzione. Per sostenere il movimento proletario in piena ebollizione viene fondata nell’ottobre 1918, a partire dal Circolo Galilea, l’Unione Socialista Rivoluzionaria composta essenzialmente da libertari e che raggruppa correnti che si rivendicano sia al marxismo che all’anarchismo.
In questa fase è esemplare la traiettoria di Tibor Szamuely rispetto al contributo dato alla rivoluzione da una buona parte del campo anarchico più legato alla causa del proletariato. Szamuely si è sempre dichiarato anarchico. Mobilitato sul fronte russo, prigioniero nel 1915, entra in contatto con i bolscevichi dopo il febbraio ‘17. Contribuisce ad organizzare un gruppo comunista di proletari prigionieri di guerra e durante l’estate 1918 partecipa ai combattimenti dell’Armata Rossa contro i Bianchi negli Urali. Di fronte allo sviluppo di una situazione pre-rivoluzionaria in Ungheria, ritorna in questo paese nel novembre 1918 e si fa ardente difensore della creazione di un partito comunista atto a dare una direzione all’azione delle masse ed a raggruppare l’insieme degli elementi rivoluzionari. Il riconoscimento dei bisogni imperiosi della lotta di classe e della rivoluzione porta i militanti anarchici a superare la loro avversione verso ogni organizzazione politica ed il loro pregiudizio concernente l’esercizio del potere politico da parte del proletariato. Il Congresso costitutivo del Partito Comunista Ungherese (PCU) ha luogo a fine novembre 1918 e gli anarchici vi partecipano, tra cui O. Korvin e K. Krausz, editore del quotidiano anarchico Tarsadalmi Forrdalom. Il Congresso adotta un programma che difende la dittatura del proletariato.
Il PCU “fin dall’inizio si prodigherà per mettere in opera il potere dei Consigli” (13). Nel movimento rivoluzionario, a partire dal marzo 1919, Szamuely occupa numerose responsabilità tra cui quella dei Commissari agli affari militari che organizzano la lotta contro le attività controrivoluzionarie. Alcuni anarchici, vecchi ribelli di Cattaro (febbraio 1918), formano la squadra d’assalto in seno all’Armata Rossa, sotto la direzione di Cserny. Questa si distinguerà nella difesa di Budapest, nel far fallire il colpo di mano franco-serbo contro la capitale e nel sostegno portato all’effimera Repubblica dei Consigli della Slovacchia nel maggio 1919. Proprio per il loro deciso impegno per la rivoluzione proletaria vengono soprannominati i “Ragazzi di Lenin”.
In Russia, in occasione dell’offensiva bianca contro Pietrogrado (ottobre 1919), gli anarchici mostrano la loro lealtà verso la rivoluzione a dispetto dei loro disaccordi con i bolscevichi. “La Federazione anarchica di Pietrogrado, povera di militanti per aver dato il meglio delle sue forze ai molteplici fronti ed al Partito comunista bolscevico, si è trovata in queste gravi ore (…) completamente accanto al Partito” (14).
La rimessa in causa dei dogmi dell’anarchismo
L’esperienza della guerra mondiale e poi della rivoluzione ha imposto a tutti i rivoluzionari una revisione completa delle idee e del modo d’azione dell’anteguerra. Ma questo adattamento non si è imposto a tutti negli stessi termini.
Di fronte alla guerra mondiale, la sinistra della Socialdemocrazia - i comunisti (bolscevichi e spartachisti in testa) - ha mantenuto un internazionalismo intransigente. La comprensione che il capovolgimento del sistema capitalista da parte del proletariato, unica via per sradicare la barbarie guerriera dalla faccia della terra, era all’ordine del giorno, le ha permesso di giocare un ruolo decisivo per sviluppare ed incarnare la volontà delle masse operaie. Ha saputo assumere i compiti dell’ora ponendosi fondamentalmente nella continuità del suo programma e ha saputo riconoscere che questa guerra inaugurava la fase di decadenza del capitalismo; la qualcosa implicava che lo scopo finale del movimento proletario, il comunismo, il “programma massimo” della socialdemocrazia, costituiva ormai l’obiettivo immediato da raggiungere.
Per gli anarchici il percorso è stato diverso. Per loro, che vedono solamente “popoli”, è stato necessario innanzitutto attestare il loro rigetto della guerra ed il loro internazionalismo su basi diverse dalla retorica idealistica dell’anarchismo e far propria la posizione di classe del proletariato per restare fedeli alla causa della rivoluzione sociale. E’ proprio aprendosi alle posizioni sviluppate dai comunisti, attraverso le conferenze internazionaliste contro la guerra, che sono riusciti a rafforzare la loro lotta contro il capitalismo ed in particolare a superare l’apoliticismo ed il rifiuto di ogni lotta politica tipica delle concezioni ispirate all’anarchismo. Così nella CNT, il testo di Lenin Stato e Rivoluzione ha suscitato uno studio molto attento che ha portato alla conclusone che questo opuscolo “tracciava un ponte che integrava marxismo ed anarchismo”.
Lasciando da parte l’ottica del disprezzo per la politica o dell’antiautoritarismo, la capacità di apprendere dalla pratica della stessa classe operaia nella sua opposizione alla guerra e nel processo rivoluzionario in Russia ed in Germania, ha permesso loro di adottare un atteggiamento internazionalista conseguente. Nel suo Congresso del 1919, la CNT esprime il proprio sostegno alla rivoluzione russa e riconosce la necessità della dittatura del proletariato. Sottolinea l’identità tra i principi e gli ideali della CNT e quelli incarnati da questa rivoluzione e discute della sua adesione all’Internazionale Comunista. Allo stesso modo, in conclusione della sua partecipazione alla Repubblica dei Consigli di Monaco (1919), l’anarchico tedesco E. Mühsam dichiara che “le tesi teoriche e pratiche di Lenin sul compimento della rivoluzione e dei compiti comunisti del proletariato hanno dato alla nostra azione una nuova base (…) Non più ostacoli insormontabili ad un’unificazione di tutto il proletariato rivoluzionario. E’ vero, gli anarchici comunisti hanno dovuto, cedere sul punto di disaccordo più importante tra le due grandi tendenze del socialismo; hanno dovuto rinunciare all’atteggiamento negativo di Bakunin davanti alla dittatura del proletariato e, su questo punto, si sono dovuti arrendere all’opinione di Marx. L’unità del proletariato rivoluzionario è necessaria e non deve essere ritardata. La sola organizzazione capace di realizzarla è il Partito comunista tedesco” (15).
In seno al campo anarchico numerosi elementi sinceramente legati alla rivoluzione sociale sono effettivamente destinati a raggiungere la lotta della classe operaia. L’esperienza storica mostra che ogni volta che elementi e settori anarchici hanno adottato posizioni rivoluzionarie valide, è stato perché si sono basati sulle posizioni proletarie generate dall’esperienza e dal movimento reale della classe operaia e si sono avvicinati ai comunisti per farle fruttare e vivere realmente.
Scott
[174]1. Lettera di Kropotkin a J. Grave, 02.09.1914.
[175]2. “Manifesto dei SEDICI” (così denominato dal numero dei firmatari), 28 febbraio 1916.
3. La Battaglia Sindacale, organo della CGT, nell’agosto 1914.
4. Lettera a J. Grave.
5. D. Guérin, L’Anarchismo.
6. “L’Internazionale Anarchica e la guerra”, febbraio 1915.
7. Vedi “La CNT di fronte alla guerra ed alla rivoluzione (1914-19)” Rivista Internationale n.129 e la nostra serie sulla storia della CNT nei numeri 128 a 133 (in inglese, francese e spagnolo sul nostro sito www.internationalism.org [112].
8. Vedi “L’anarco-sindacalismo di fronte ad un cambiamento di epoca: la CGT fino al 1914”, Rivista Internationale n.120 (idem).
9. Vedi in particolare “La Conferenza di Zimmerwald nel settembre 1915: la lotta dei rivoluzionari contro la guerra”, Rivista Internazionale n.61 - ottobre 2005 (idem).
10. “Sobre la paz dos criterios” (“Due criteri sulla pace”), Solidaridad Obrera, giugno 1917.
11. Tierra y Libertad, 7 novembre 1917.
12. Tierra y Libertad, 21 novembre 1917.
13. R. Bardy: 1919, La Comune di Budapest.
14. V. Serge, L’anno I della rivoluzione russa.
15. Lettera di E. Mühsam all’Internazionale Comunista (settembre 1919), Bollettino Comunista, 22 luglio 1920.
Ormai non è più soltanto Berlusconi a ripeterci fino alla nausea che la ripresa è già cominciata, ma la maggior parte dei mezzi di informazione e dei vari organismi internazionali, dall’OCSE al FMI, che ci dicono che la recessione è ormai finita, che gli strumenti messi in atto dai vari Stati hanno consentito di frenare ed anche di cominciare a superare la crisi.
Quello che invece sta succedendo è che, per drenare risorse finanziarie, gli Stati stanno tagliando i servizi pubblici, dalle scuole agli ospedali, dai trasporti ai beni culturali, con tutte le conseguenze in termini di peggioramento dei servizi e di perdita di posti di lavoro: ormai i contratti a termine nei servizi pubblici non vengono più rinnovati e solo nella scuola, a causa dei tagli, sono 45.000 i posti cancellati quest’anno. E questo non potrà che proseguire per molti anni, vista l’entità delle risorse messe in gioco per compiere il “miracolo” dello stop al disastro e visto anche che la cosiddetta ripresa di cui si parla è così piccola e lenta che gli Stati non potranno certo contare, per diversi anni, su un aumento significativo delle entrate fiscali.
La realtà quindi è ben diversa da quella che ci prospettano, una realtà fatta di peggioramento brutale delle condizioni di vita dei lavoratori.
Con il ricatto della disoccupazione gli attacchi si moltiplicano
Nonostante il massiccio ricorso alla cassa integrazione, cresciuta nel 2009 del 400% e che ha consentito, per il momento, a molti lavoratori di non perdere il posto, anche se al prezzo di una riduzione drammatica del proprio reddito, l’aumento della disoccupazione costituisce oggi l’espressione più drammatica della crisi: le cifre ufficiali dell’ISTAT[1] parlano di 380.000 disoccupati in più dall’inizio della crisi, ma questo dato è calcolato confrontando i dati delle persone in cerca di lavoro, mentre una delle conseguenze della crisi è che molti perdono anche la speranza di trovare un lavoro e quindi smettono di cercarlo, per cui non compaiono in questo tipo di statistica; per convincersene basta confrontarlo con il numero di posti persi (per licenziamenti e chiusure di aziende): secondo un rapporto della Unioncamere, riportato su Repubblica del 28 settembre, i posti di lavoro persi nel 2009 sono 994.400, e solo una parte di questi sono compensati dalla nascita di nuovi posti. Un altro elemento che rende il dato della disoccupazione inattendibile è che molti dei posti persi non si trasformano in nuovi disoccupati a causa dei pensionamenti di una parte dei lavoratori (è quello che è successo nel caso della scuola, per esempio). E, nonostante tutte le chiacchiere sulla ripresa, il fenomeno continuerà a peggiorare, visto che si prevede che produzione industriale e PIL continueranno a diminuire per il resto del 2009 e solo nel 2010 ci dovrebbe essere una nuova crescita, ma di entità così piccola che certamente non potrà dar luogo alla creazione di nuovi posti di lavoro. Anzi, visto che molte aziende non hanno dichiarato fallimento solo perché i salari (ridotti) sono stati presi a carico dello Stato con la cassa integrazione, cosa succederà quando il periodo di cassa non potrà essere più rinnovata?
E questo fenomeno non è solo italiano, ma si ripete in tutti i paesi del mondo.
Negli Stati Uniti, dopo le perdite dell’anno scorso, in particolare nel settore dell’automobile, la previsione è che alla fine dell’anno saranno 994.000 i posti di lavoro perduti, con un salto del 72% rispetto all’anno scorso. La popolazione attiva diminuisce e, per il solo mese di luglio, sono 442.000 i lavoratori attivi in meno (e ancora altri 263.000 a settembre).
La Germania, l’ex modello di efficienza dell’Europa, è pienamente infognata nella crisi. Il numero uno tedesco dell’energia, EON, prevede, per esempio, la soppressione di 10.000 posti in Europa.
Dappertutto, per i proletari che hanno ancora la fortuna di avere un lavoro, la precarietà è diventata la regola. Il ricatto dei licenziamenti per far diminuire i salari tende ad estendersi per l’aumento della concorrenza resa ancora più aspra dalla crisi. Certe aziende cominciano ad esigere ribassi dei salari che vanno dal 20 al 40%!
E’ il caso, per esempio, dell’Atitech di Napoli, azienda della CAI in vendita dove, oltre a una riduzione degli effettivi, è prevista una diminuzione dei salari del 25% per quelli che resteranno a lavorare con il nuovo padrone (qui la CAI sta ripetendo quanto ha fatto anche con i dipendenti ex Alitalia).
In certi casi, come alla British Airways, si è arrivati perfino a chiedere ai salariati del lavoro gratuito!
In queste condizioni non è sorprendente se il numero di suicidi legati alle condizioni di lavoro aumentino, in particolare in Francia, in cui si nota “un’organizzazione del lavoro che produce da 300 a 400 suicidi all’anno e un aumento delle patologie psicologiche”[2]. E quelli che resistono al ritmo della concorrenza ci perdono la salute, sopportando sempre più rischi che conducono ad incidenti sul lavoro. Ormai ci sono, nel mondo, un milione e duecentomila incidenti sul lavoro all’anno e 3000 al giorno. Gli incidenti sul lavoro fanno più morti delle guerre!
Come lottare contro gli attacchi della borghesia?
Di fronte a questa degradazione violenta delle loro condizioni di vita, i lavoratori dimostrano che stanno trovando la forza e il coraggio di battersi, anche in un contesto difficile.
Durante l’estate si sono prodotte in tutto il mondo numerose lotte[3] all’interno delle quali la questione dei licenziamenti è stata spesso l’elemento dominante. Come sempre accade però i mezzi di informazione ne hanno completamente taciuto l’esistenza (in Italia come dappertutto), ad eccezione di alcune nuove “forme di lotta” che sono cominciate ad apparire e che, piuttosto stranamente, non solo hanno riscontrato il plauso e la solidarietà dei sindacati, ma hanno ricevuto una grande risonanza anche da parte dei mass-media. E’ emblematico da questo punto di vista l’episodio della INNSE di Milano che, dopo ben 15 mesi di lotta durante i quali è stata lasciata completamente nel silenzio, ha conosciuto alla fine una grande notorietà su tutti i mezzi di comunicazione. I 49 operai della INNSE hanno espresso una grandissima prova di coraggio opponendosi con tutte le loro forze e con tutta la loro fantasia al tentativo di smantellamento della loro fabbrica, arrivando finanche a occuparla e ad autogestirla per conto proprio. Infine, di fronte alla difficoltà di averla vinta, c’è stato lo scorso 4 agosto il blitz di quattro operai e di un funzionario della Fiom che, superando lo schieramento di polizia, sono riusciti a salire su un carroponte all’interno della fabbrica minacciando anche il suicidio se non si fosse arrivati ad una soluzione della vertenza. E’ così che alla fine gli operai “hanno vinto”, riuscendo a non far chiudere la fabbrica. Questa storia dell’asserragliarsi su una gru ha avuto una tale eco mediatica e tanti elogi, finanche da parte dei padroni, che non si è tardato ad assistere a tutta una serie di episodi di lotta in cui si è cercato di ripetere l’impresa della INNSE. E’ d’obbligo chiedersi allora: sono forse queste le “nuove forme di lotta” che dovrà adottare la classe operaia? E se sì, come mai i mass-media ne fanno una tale propaganda? La nostra risposta, malgrado il coraggio e la resistenza mostrata dai lavoratori di questa fabbrica, è che questo tipo di lotta non può che portare alla sconfitta. La “vittoria” della INNSE è solo lo specchio delle allodole per invischiare decine di altre situazioni di lotta nell’impasse della lotta chiusa nella propria fabbrica, isolata da tutto il contesto del resto della classe operaia e della cittadinanza. Non è un caso che una delle debolezze più avvertite in questa lotta sia stato proprio il sentimento di isolamento provato dai lavoratori. Se si rimane chiusi nella propria fabbrica non è possibile comunicare con altri lavoratori, non è possibile allargare il fronte di lotte. Ma c’è di più. Il fatto che un gruppo di lavoratori decida di recarsi sul tetto di una fabbrica o di una gru e di imporre con la minaccia del suicidio la soluzione della vertenza significa che la lotta, piuttosto che essere presa in mano dall’insieme dei lavoratori, viene gestita direttamente da quel pugno di lavoratori a cui tutti gli altri sono costretti a guardare passivamente.
E’ per questo che alla borghesia piacciono queste lotte, perché - espressione della disperazione della classe operaia - non permettono che possa maturare solidarietà tra lavoratori proprio per il carattere chiuso e localista della lotta stessa. Non è un caso che si stia verificando tutta una serie di episodi anche a livello internazionale, come i ripetuti sequestri di manager e la minaccia di far saltare una fabbrica in caso di licenziamenti in Francia e Belgio o addirittura l’uccisione del direttore di una acciaieria minacciata di chiusura in Cina nel corso di una rivolta di un migliaio di operai metallurgici, che sono espressione di una apparente radicalità ma che di fatto portano all’isolamento delle singole lotte e dunque alla loro sconfitta.
Mentre i mezzi di informazione cercano di far credere che l’utilizzazione di questi mezzi di lotta siano l’espressione di una “radicalità” che scavalca gli apparati sindacali, che si realizza a causa della debolezza dei sindacati, la realtà è esattamente l’opposto. Sono infatti i quadri sindacali di fabbrica che non hanno smesso, in maniera discreta nei casi di maggiore illegalità come in Francia, di incoraggiare il ricorso a questo tipo di azioni. E se lo fanno, malgrado a volte le critiche dei dirigenti nazionali del sindacato, è per rinnovare l’immagine del sindacalismo, particolarmente discreditata per il sabotaggio delle lotte di questi ultimi anni, che ha permesso ai diversi governi di far passare i vari attacchi.
I sindacati, come l’insieme della borghesia, profittano del fatto che la pressione attuale della disoccupazione e dei licenziamenti in massa non favoriscono lo sviluppo di lotte di massa ma, al contrario, la dispersione delle reazioni operaie ed anche una tendenza ad una momentanea paralisi dell’insieme della classe operaia, che si limita a guardare con simpatia le reazioni esistenti. Di fronte alla chiusura delle fabbriche, l’arma dello sciopero tende a perdere la sua efficacia accentuando il sentimento di impotenza dei lavoratori. Questi si ritrovano spesso con le spalle al muro, spinti a reagire ognuno nel proprio angolo, a causa di questo disorientamento e al traumatismo legato alla perdita del posto di lavoro. Ma la borghesia potrà sempre meno utilizzare questa situazione per suscitare la divisione, o un’opposizione tra quelli che perdono il proprio lavoro e quelli che hanno il “privilegio” di conservarlo. Nonostante le attuali difficoltà che incontrano le lotte operaie, la classe non ha rinunciato a difendere i suoi interessi immediati, anche se la mancanza attuale di una prospettiva di sviluppo immediato spinge la maggior parte di esse, in particolare nei paesi sviluppati, a restare ancora sotto il controllo dei sindacati.
L’esperienza mostra alla classe operaia che essa è capace di sviluppare una riflessione collettiva animata dal bisogno di sviluppare le sue lotte. E questa riflessione, tirando le lezioni della situazione attuale, deve portare alla comprensione che solo la lotta unita e solidale può frenare la brutalità degli attacchi e dello sfruttamento. E’ attraverso la riconquista della sua capacità a prendere in mano le sue lotte che la classe potrà raggiungere una nuova tappa nella sua lotta contro il capitalismo. Questa prospettiva è sempre presente.
Helios (*)
(*) Adattato dall’articolo di Revolution Internationale n° 404, Seule la lutte unie et solidaire permet de résister aux attaques! [176]
[1] Riportati su Repubblica del 23 settembre.
[2] Vedi a questo proposito l’articolo di Revolution Internationale n°405: Les suicides à France Télécom sont l'expression de l'inhumanité de l'exploitation capitaliste [177].
[3] Vedi i nostri articoli Solidarité avec les conducteurs de bus de Sydney en grève [178] e La défaite à Ssangyong (Corée du Sud) montre la nécessité de l’extension de la lutte [179], Manifestations de lycéens et d'étudiants en Allemagne : « Nous manifestons parce qu'on nous vole notre avenir » [180] (su ICC on line, pagina francese), Freescale : comment les syndicats sabotent les efforts des ouvriers pour lutter [181], … (su Revolution Internationale n°404), Solidarity with Sydney Bus Drivers [182] (su ICC online, pagina inglese)
Mentre il direttore del FMI ci ricorda che nei paesi poveri la posta in gioco è la vita, osserviamo che nei cosiddetti paesi ricchi si perseguono strategie che nulla hanno a che fare con la salvaguardia della vita di chi proviene dai paesi della periferia del capitalismo. In Francia smantellano gli accampamenti degli immigrati vicino a Calais, posto di passaggio per la Gran Bretagna; le navi militari pattugliano il Mediterraneo e le coste africane in cerca di barconi di immigrati per poterli respingere verso i luoghi di provenienza, le navi mercantili fanno finta di non vedere chi sta morendo di sete e fame e trasporta cadaveri per evitare ritorsioni o perdita di tempo e denaro.
Non molto tempo fa c’è stata una disputa tra Malta e Italia su chi dovesse dare assistenza a dei disperati fermi in mare, ognuno scaricando sull’altro le responsabilità dell’intervento. Malta, Italia, Francia, Gran Bretagna, Spagna, etc, campioni di democrazia pronte a inviare mezzi e uomini in tutto il mondo per difendere la “pace” e a liberare le donne dall’“oppressione del burqa”, restano poi indifferenti davanti a donne incinte e a bambini affamati, ad essere umani ridotti a scheletri!
Ma adesso non c’è neanche più bisogno di fare finta di non vedere, si è passati direttamente alla politica dei respingimenti, una politica che prevede di intercettare i barconi al largo e di non consentire neanche più il loro sbarco sulle coste italiane ma di respingerli al luogo di partenza, in barba a qualsiasi principio di richiesta di asilo politico, principio riconosciuto internazionalmente e disatteso dal governo Berlusconi[1]. D’altra parte, grazie alla nuova normativa sull’immigrazione, adesso se ti trovano senza permesso di soggiorno ti condannano come un delinquente: da alcuni giorni sono cominciati anche dei processi contro alcuni immigrati senza il permesso di soggiorno che sono stati condannati per clandestinità, e il comune di Milano ha addirittura istituito un servizio di bus-carcere con un pullman dotato di sbarre ai finestrini e con a bordo una squadra speciale di vigili urbani armati incaricati di raccogliere alle varie fermate del bus gli extracomunitari trovati senza permesso. Il destino di questa povera gente non è una multa, salata quanto si voglia, ma la spedizione nei famigerati Centri di Identificazione ed Espulsione, che sono delle carceri vere e proprie piene di immigrati, e se questi arrivano a rivoltarsi è perché sono detenuti in condizioni disperate.
Questo mutamento di atteggiamento nella politica della borghesia italiana verso l’immigrazione è maturato sostanzialmente con l’avvento del terzo governo Berlusconi. Ma bisogna stare attenti a non pensare che questo giro di vite contro gli immigrati sia stato realizzato per dare un contentino alla Lega. Nient’affatto. La verità è che gli immigrati, oggi come oggi, con la crisi che corre, non servono più, ce ne sono troppi in giro e diventano un problema. Se potesse, la borghesia e il suo stato allontanerebbero dall’Italia anche i cittadini disoccupati italiani, gli insegnanti precari, i lavoratori buttati fuori dalle piccole fabbriche che non fanno notizia, trattenendone solo quel tanto necessario per ricattare i “fortunati” che hanno ancora un posto di lavoro e che hanno avuto un aumento … non dello stipendio, ma dei ritmi di lavoro e un generale peggioramento delle condizioni di vita.
Non per niente, con la nuova legge sull’immigrazione clandestina, è stata fatta un’eccezione solo per badanti e colf perché il loro lavoro è ancora molto richiesto.
È la crisi che peggiora - anche se fanno di tutto per dire che l’economia va meglio - il motivo principale per cui sbattono fuori a più non posso gli immigrati eccedenti la richiesta del mercato del lavoro e fanno di tutto per non farne arrivare altri. In una Europa in cui sono previsti milioni di disoccupati in più, gli immigrati disoccupati diventano un problema sociale da gestire in tutta fretta perché c’è il rischio che italiani e stranieri, precari e disoccupati, uniscano la loro disperazione e le loro forze in una lotta comune. C’è il rischio che anche gli occupati possano partecipare a questa lotta in quanto vengono sfruttati senza un limite con un salario da fame. C’è il rischio che non passi la politica gestita dai media della divisione tra bianchi e neri, tra italiani e stranieri, tra buoni e cattivi.
La borghesia di conseguenza schiera le sue forze tra favorevoli e contrari all’immigrazione, tra i “cattivi” berlusconiani e i “buoni” di centro-sinistra, dove fa bella figura il presidente della Camera, l’on. Fini!! Cosa fa Fini per distinguersi dagli altri? Promette forse una reale integrazione degli stranieri nel mondo del lavoro? Una assunzione regolare, un permesso di soggiorno senza troppe regole, uno stipendio dignitoso? Una fine della caccia all’uomo “nero” scatenata negli ultimi tempi? Niente di tutto questo. Promette la possibilità di scrivere una X sulla lista elettorale e quindi di delegare di nuovo al parlamento o meglio al suo esecutivo la risoluzione dei problemi. E abbiamo visto come gli esecutivi di destra e di sinistra risolvono i problemi dei lavoratori. Tagliando le spese su ospedali, scuole, servizi sociali, etc., aumentando le tasse e incrementando il sostegno all’apparato militare e industriale. Il diritto di voto, come ha dimostrato la storia del secolo scorso, non serve a niente, è solo una chimera, come hanno cominciato a capire i milioni di italiani che non partecipano più a questa farsa; serve solo a seminare l’illusione che un partito e/o altri personaggi possano migliorare le condizioni di vita. E si ha sempre la sgradita sorpresa che il nuovo governo sia sempre peggiore del precedente!
Gli immigrati di oggi come gli immigrati di ieri - gli italiani che passavano settimane sulle navi dirette in America, ammassati nelle stive, e rispediti indietro nel caso avessero contratto qualche malattia, che vivevano ammucchiati nelle baracche e nelle peggiori condizioni igieniche, non hanno nulla di diverso - appartengono alla stessa classe sociale di quelli che hanno un posto di lavoro, la classe dei lavoratori, il proletariato. Per la borghesia sono solo forza lavoro da spremere nel miglior modo possibile, ma anche il nemico storico numero uno! Per questo lo Stato, espressione massima della borghesia, fa di tutto per separarli, dividerli, metterli uno contro l’altro in mille modi diversi.
I lavoratori di qualsiasi provenienza, di qualsiasi settore, occupati, precari o disoccupati non hanno alcun interesse a mantenere queste divisioni, devono organizzarsi e lottare insieme in modo unito e solidale, solo così potranno far arretrare l’attacco generale che la borghesia sta effettuando in tutto il mondo.
7 ottobre 2009 Oblomov
[1] Bisogna ricordare, a onor del … demerito che, come ha ricordato giustamente il “democratico” Fassino, il primo respingimento fu fatto proprio da un governo di centro sinistra. Berlusconi non ha fatto che seguire il … buon esempio.
Dopo mesi di prime pagine de la Repubblica e dei quotidiani esteri su escort e festini, l’attenzione è adesso puntata sullo scontro Berlusconi-Fini, arrivando persino ad ipotizzare da più parti la fine del governo Berlusconi come conseguenza della reazione della parte più responsabile e sobria (come dice il vaticano) delle forze politiche di fronte alle ultime vicende berlusconiane.
In realtà, impostazioni differenti ed attriti ci sono sempre stati nel Pdl e ancor prima nella coalizione di centro-destra. E allora a cosa è dovuta la cattiva sorte in cui è caduto in questo momento Berlusconi? E’ solo una serie di coincidenze che hanno portato alla ribalta le porcherie che tutto il mondo ormai conosce, oppure c’è dietro qualcuno che ha alimentato questa dinamica? E se c’è qualcuno, chi è? La sinistra che complotta contro il premier e vuole fare un colpo di Stato, come dicono Berlusconi e Brunetta? O Fini che aspira al posto di Berlusconi come lascia intendere La Repubblica?
Berlusconi: un serio problema per la borghesia
Più volte abbiamo analizzato nella nostra stampa le grosse difficoltà che, in seguito alla distruzione dei vecchi e consolidati partiti storici prodottasi con l’operazione Tangentopoli dopo il 1989, la borghesia italiana trova nel creare nuove forze politiche credibili. Forze che siano capaci di far fronte agli interessi globali dello Stato italiano sul piano interno ed internazionale[1].
La creazione del Pd a sinistra e del Pdl a destra, pur rappresentando un tentativo in questo senso, non hanno mutato in niente la situazione. Al contrario, acquista un peso sempre maggiore la tendenza allo sfilacciamento dell’apparato politico, come hanno mostrato le prese di distanza, i distinguo e le spaccature avutesi tra le varie componenti politiche sia a sinistra che a destra nell’ultimo periodo. Un fenomeno questo che non è una particolarità nostrana[2], ma l’espressione del declino storico del sistema capitalistico ed in particolare della sua fase di decomposizone[3], nella quale l’affermazione immediata di se stessi prende il sopravvento trasformandosi in lotta di tutti contri tutti anche a scapito di quella coesione necessaria a gestire gli inevitabili conflitti all’interno della borghesia per poter assicurare gli interessi globali della borghesia come classe dominante.
A proposito dei precedenti governi Berlusconi abbiamo anche sottolineato come questi fossero tenuti “sotto osservazione” dalla borghesia proprio perché costituiti non da politici di professione, provenienti da collaudate scuole di partito, ma da un imprenditore ricco e potente a capo di una coalizione in buona parte coincidente con una struttura di affari economici e finanziari i cui interessi, quindi, e le cui preoccupazioni tendono a prevalere rispetto alla salvaguardia degli interessi più generali del capitale italiano.
Questo quadro di fondo ci fa comprendere perché Berlusconi sia diventato man mano un problema sempre maggiore per la borghesia.
Tutta la politica di Berlusconi si è caratterizzata sempre più per tre aspetti essenziali:
A questo non ha corrisposto alcuna capacità del governo Berlusconi di operare delle scelte di fondo credibili sul piano della gestione della crisi economica, limitando la sua azione essenzialmente alla politica dei tagli.
E’ significativo a questo proposito che su un giornale come il Sole24ore, espressione della borghesia produttiva e non certo di sinistra si arrivi a dire: “l’uscita del ministro Brunetta (a proposito delle élite di merda, ndr) rivela l’incapacità di questo governo di governare. Perché non c’è solo il conflitto d’interessi, gli affari privati al posto di quelli pubblici, gli scandali più o meno sessuali più o meno politici, ma c’è pure, in questi anni d’Italia, una drammatica inadeguatezza dei potenti alla loro responsabilità.(…) Il primo obiettivo del potere berlusconiano è la conservazione fine a se stessa di questa Italia. Una nazione liberale solo a parole in cui i centri della finanza, dei media e della politica sono controllati sempre più da una sola persona, che a 73 anni non ha ancora deciso di regalare al suo paese più futuro che a se stesso” (francescorigatelli.nova100.ilsole24ore.com).
Questi elementi esprimono tutta la debolezza del governo sia sul piano interno che nelle relazioni sul piano internazionale dove, contrariamente a quanto Berlusconi vorrebbe farci credere, il capitalismo italiano accusa dei cedimenti nella valutazione da parte degli organismi internazionali sulla sua capacità di gestire la crisi e le sue conseguenze.
In questo contesto la questione morale assume un’importanza tutta particolare per la borghesia. Un governo che deve far fronte ad aziende che chiudono, ad un aumento enorme della disoccupazione, ad un numero crescente di famiglie che non riescono più a sopravvivere, ad una massa enorme di giovani senza alcuna prospettiva ed al pericolo che tutto questo comporta sul piano sociale, deve essere un governo che abbia un minimo di credibilità. Non può presentarsi come una banda di faccendieri e uomini di malaffare, impegnati in faide continue per conservare il potere, di personaggi senza alcuna etica e morale. Ed è infatti da qualche tempo che Fini, da uomo politico di vecchia guardia, parla del pericolo di “disaffezione alla politica” soprattutto tra i giovani.
Verso un cambio della guardia?
C’è quindi una reale preoccupazione nella parte più lucida della borghesia italiana che cerca di apportare delle modifiche sostanziali a questo governo, quanto meno per ridimensionare il peso di Berlusconi e della Lega.
Del resto, che non si tratti solo di condanna dell’immoralità nella vita privata di Berlusconi o della volontà di qualcuno di farlo fuori per prenderne il posto (anche se naturalmente un Fini ha tutto l’interesse a farlo), lo mostra la dinamica con cui si è sviluppato lo scandalo sui festini e le escort.
Verso la fine di aprile “Farefuturo”, (la Fondazione animata da Fini), è così intervenuta rispetto alle candidature di veline e di altre donne “di bella presenza” alle europee:
“(…) Qui assistiamo ad una dirigenza di partito che fa uso dei bei volti e dei bei corpi di persone che con la politica non hanno molto a che fare, allo scopo di proiettare una (falsa) immagine di freschezza e rinnovamento. (…) Questo uso strumentale del corpo femminile,(…) denota uno scarso rispetto da un lato per quanti, uomini e donne, hanno conquistato uno spazio con le proprie capacità e il proprio lavoro, dall'altro per le istituzioni e per la sovranità popolare che le legittima”. (Sofia Ventura, Farefuturo, riportato su Repubblica del 27 aprile 2009).
Poco dopo scoppia la prima vera bomba contro il capo del governo: Veronica Lario accusa il marito di “andare con minorenni” (affare Noemi Letizia) e di usare in maniera strumentale le donne in politica.
Da qui inizia l’offensiva di Repubblica con le foto scattate nelle ville di Berlusconi in occasione dei vari festini e la pubblicizzazione delle situazioni più incredibili e imbarazzanti per il capo del governo, tra cui l’uso privato di aerei riservati a voli di Stato, prostitute e droga in casa propria.
Ma gli elementi più significativi di questa offensiva sono:
Un cambiamento è quindi una necessità per la borghesia, ma in che misura e in che tempi sia possibile attuarlo è un altro conto. Il che spiega perché per mesi ha prevalso un imbarazzato silenzio nel mondo politico di fronte a tutti i fatti denunciati da la Repubblica.
Anche se esistono degli interventi che sembrerebbero portare di tanto in tanto serenità e pacificazione nel centro-destra, come gli atteggiamenti da moderatori e soprattutto di apertura al dialogo sulle questioni poste da Fini da parte di personaggi come La Russa e Tremonti, così come il fatto che la proposta di legge sulla cittadinanza agli immigrati fatta da Granata (vicino a Fini) sia stata sottoscritta da 50 parlamentari di tutti i gruppi (tranne la Lega), bisogna tener presente che mentre in un partito come la vecchia Democrazia Cristiana scontri anche durissimi tra correnti differenti venivano sempre ricomposti quando era in gioco la vita del partito, nel Pdl, che è essenzialmente l’unione contingente di forze con tradizioni politiche e un modo di fare politica abbastanza diversi, la lotta intestina tra queste rischia di mettere in gioco il partito stesso e di conseguenza la capacità della destra di governare in questo momento.
In ogni caso la cosa sicura è che, da buon imperatore romano, Berlusconi non cederà mai il suo regno spontaneamente, anche se adesso lui ed i suoi fedelissimi sembrano più dei leoni in gabbia che, ormai con le spalle al muro, colpiscono alla cieca verso il domatore che avanza.
Eva, 27 settembre 2009
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Piccolo aggiornamento in seguito alla bocciatura del Lodo Alfano da parte della Consulta. La rimozione di quella che sembrava, al capo del governo, la più sicura difesa da attacchi nemici veicolati tramite la magistratura, lo espone come un verme ai processi nei quali sa di non potersi difendere. I numerosi e variegati capi di imputazione che lo chiamano a rispondere di delitti di corruzione e collusione con la mafia sono un macigno da cui è difficile liberarsi in un momento in cui la borghesia che conta mostra di non avere più bisogno di lui, almeno come prima. Tutto ciò suggerisce che il futuro nel nostro paese possa essere caratterizzato da importanti scontri all’interno della borghesia.
[1] Vedi in particolare “La perdita di coerenza della borghesia italiana di fronte alle difficoltà del periodo”, Rivoluzione Internazionale n.151, giugno 2007.
[2] La borghesia francese, ad esempio, è anch’essa confrontata con un problema di protagonismo del premier Sarkosy ed con lo sfilacciamento dell’apparato politico che impedisce un ricambio al governo.
[3] "La decomposizione, fase ultima della decadenza del capitalismo [183]", Rivista Internazionale n. 14, 1990.
Il 9 ottobre scorso il presidente degli Stati Uniti Barack Obama è stato insignito del prestigioso premio Nobel per la pace! A parte alcuni guastafeste, tra cui Casini[1] o il premio Nobel per la pace Leck Walesa, che hanno protestato perché, secondo loro, si sono sentite solo chiacchiere ma niente è ancora stato fatto per il momento, il mondo ha tributato un grande plauso. Angela Merkel, primo ministro tedesco, ha sottolineato come: “in un breve periodo di tempo (il Presidente Usa ndr) é stato in grado di stabilire un nuovo tono nel mondo e di creare la possibilità di dialogo”.[2] Lo stesso presidente della Commissione Ue José Manuel Durao Barroso, nel suo messaggio di congratulazioni, ha affermato che il premio Nobel assegnato a Obama rappresenta “un tributo al suo impegno a favore della pace e del progresso dell’umanità” e che “L’assegnazione di questo premio al presidente Obama, leader della più significativa potenza militare del mondo all'inizio del suo mandato riflette le speranze che ha suscitato ovunque con la sua visione di un mondo senza armi nucleari”[3].
Finanche i nemici di ieri, quelli che Bush annoverava tra i pericolosi terroristi del mondo, oggi si inchinano e riconoscono in Obama il possibile fautore di un’epoca nuova. Un premio alla “buona volontà” ha affermato Ahmad Yusef Yusef, “viceministro degli Esteri” del governo de facto di Gaza, consigliere del “premier” Ismail Hanyeh e voce “diplomatica” del vertice di Hamas, la fazione islamico-radicale palestinese al potere nella Striscia di Gaza. “Si tratta di un riconoscimento meritato se non altro per quel che Obama ha detto nel discorso del Cairo”[4].
Possiamo dunque stare tranquilli e ben sperare per il futuro? Purtroppo, a nostro avviso, le cose stanno in maniera un po’ diversa e vediamo perché tornando un po’ indietro nel tempo.
Il 4 giugno scorso, nella città del Cairo in Egitto, il presidente degli Stati Uniti ha tenuto un discorso che tutte le capitali occidentali si sono affrettate a qualificare come storico. Occorre dire che Obama ha pronunciato parole ed analisi che sembrano a prima vista in rottura completa con la politica aggressiva e guerrafondaia dell’ex capo di Stato americano G.W. Bush. Per Obama occorre voltare pagina e mettere gli errori di Bush e della sua amministrazione sul conto del trauma dell’11 settembre 2001. A volergli credere, “la guerra di civilizzazione”, cara alla vecchia amministrazione americana, è finita. Nel suo discorso Obama ha fatto chiaramente passare il messaggio che gli Stati Uniti non sono nemici dei musulmani, ma un legittimo partner. Ha parlato senza mezzi termini di “occupazione” e di “aspirazione dei palestinesi alla dignità, ad uguali opportunità e ad uno Stato indipendente”[5].
Ha praticamente presentato gli Stati Uniti come un amico sul quale i palestinesi possono contare. Ha chiesto ad Hamas di riconoscere lo Stato israeliano senza etichettare quest’organizzazione come terrorista. E ancora, ha comparato la lotta dei palestinesi a quella degli schiavi neri d’America e alla lotta dei neri del Sudafrica ai tempi dell’apartheid. Dal punto di vista di un presidente degli Stati Uniti, dichiarazioni pubbliche come queste sono del tutto nuove e fanno seguito alla politica d’apertura diplomatica che gli Stati Uniti sembrano voler condurre rispetto all’Iran presentato, fino a poco tempo fa, come un potenziale pericolo per la sicurezza del mondo[6].
Gli Stati Uniti sono forse improvvisamente diventati pacifisti e sostenitori del dialogo? C’è ben da dubitarne. L’esperienza drammatica della storia ci ha insegnato a non prendere alla lettera i bei discorsi borghesi, dimostrandoci che quando il capitalismo parla di pace è perché in realtà prepara la guerra.
Il necessario cambio di orientamento della politica americana
Dal crollo del blocco russo nel 1989, gli Stati Uniti sono diventati la sola superpotenza del pianeta. Da allora l’orientamento della loro politica di guerra è stato mantenere a tutti i costi la propria egemonia. Ma a partire dal 2001, con la guerra in Afganistan ed in Iraq, si è progressivamente manifestato un indebolimento crescente degli Stati Uniti. L’impantanamento in Iraq ed in Afghanistan ne è una manifestazione concrete e particolarmente tragica.
Le altre grandi potenze hanno contestato la supremazia americana e messo avanti in maniera esplicita i loro propri interessi in ogni parte del mondo, come ad esempio la Cina in Africa o l’Iran in Medio Oriente. Ogni nazione, ogni cricca, ogni borghesia si è sentita incoraggiata a difendere i propri interessi in un disordine ed un caos crescenti. La politica dell’amministrazione Bush che consisteva nel volere affermare la potenza americana, sola contro tutti, non ha affatto frenato questo fenomeno d’indebolimento. Al contrario, ne ha accelerato il processo aumentando l’isolamento degli Stati Uniti. Ha favorito una crescita del malcontento e della contestazione anti-americana, in particolare nel mondo musulmano, anche da parte di alleati come l’Egitto e l’Arabia Saudita.
Questa politica da cavaliere solitario non poteva continuare.
È questo che ha capito gran parte della borghesia americana, il Presidente Obama e la sua amministrazione, superando così, almeno temporaneamente, la tradizionale spaccatura che esiste su questa questione tra democratici e repubblicani. Tuttavia la politica orchestrata dall’amministrazione Obama non potrà impedire uno sviluppo del processo di isolamento degli Stati Uniti.
L’indebolimento americano ed il “ciascuno per sé” sono oggi realtà irreversibili. Uno degli aspetti di questa realtà si trova nella difficoltà crescente degli Stati Uniti ad implicarsi militarmente e contemporaneamente nelle molteplici guerre regionali nelle quali si sono totalmente impantanati. Non solo c’è un problema di risorse militari che non sono infinite, in particolare in “mezzi umani”, ma in più la crisi economica, che inizia a devastare il mondo intero, pone loro un serio problema. Milioni di dollari vengono inghiottiti ogni giorno dall’esercito americano mentre il paese si impoverisce sempre più velocemente, la disoccupazione esplode e l’assistenza sanitaria è inesistente. Nel momento in cui la povertà colpisce fette crescenti della popolazione, come si fa a far accettare senza problemi spese militari in continuo aumento? In più, anche aumentando i premi e la paga, è sempre più difficile trovare giovani pronti ad andare a farsi crivellare di colpi in guerre che appaiono sempre più nefaste.
Questo nuovo orientamento della politica imperialista degli Stati Uniti non ha dunque nulla a che vedere con un ritrovato spirito umanitario da parte di Obama. Questa politica si impone di fatto alla borghesia americana come una necessità. Traduce semplicemente la necessità per l’America di fare delle scelte più mirate in materia di interventi militari. E questa scelta è caduta sullo sviluppo della guerra in Afganistan ed in Pakistan. Il che implica di conseguenza un tentativo di calmare, almeno momentaneamente, il gioco in direzione dell’Iran e della Palestina. In effetti, per gli Stati Uniti, diventa imperativo tentare di controllare la situazione in Afganistan se vogliono ritrovare una reale influenza in Pakistan. Il Pakistan è un importante crocevia: ad ovest, in direzione dell’Iran, a nord del Caucaso e dunque della Russia, e soprattutto ad est in direzione dell’India e della Cina, paese quest’ultimo che continua a manifestare crescenti appetiti imperialisti. Ecco la scelta obbligata che devono fare oggi gli Stati Uniti e che spiega il senso profondo del discorso di Obama al Cairo.
Quando Washington fa pressione su Israele
Israele è da decenni l’alleato più fedele degli Stati Uniti in Medio Oriente. Il legame tra le borghesie di questi due paesi è molto forte e l’esercito israeliano è completamente sostenuto da Washington. Al tempo di G.W. Bush gli israeliani avevano acquisito una posizione molto importante nell’ambito della loro politica imperialista. Tel-Aviv e Washington erano praticamente sulla stessa lunghezza d’onda. Adesso non più. L’amministrazione americana chiede oggi alla borghesia israeliana di piegarsi alle sue esigenze, alla difesa dei suoi interessi del momento. Il che ha fatto immediatamente montare la tensione tra le due capitali[7]. Le divergenze tra Netanyahu, il capo del governo israeliano, ed il presidente Obama sono chiare e nette. Tuttavia, data l’importanza della pressione americana, Netanyahu ha dovuto moderare i suoi propositi nel discorso fatto a Tel-Aviv in risposta a quello di Obama al Cairo.
Per la prima volta Netanyahu ha dovuto pronunciare le parole “Stato palestinese” anche se le ha associate alla smilitarizzazione di questo ed al rifiuto di qualsiasi condivisione di Gerusalemme come capitale. Questo dimostra che le pressioni americane sul capo del governo israeliano devono essere molto forti e continue. Questi doveva guadagnare tempo ed è ciò che ha fatto. Ma possiamo esser certi che ciò non cambierà nulla nella sostanza. È facile accorgersene quando si apprende che Netanyahu ha chiesto ai palestinesi, come pregiudiziale, di riconoscere lo Stato israeliano come Stato ebreo. Il capo del governo ha fatto di quest’esigenza un elemento centrale che condiziona ogni avanzamento nei negoziati “di pace”, quando sa bene che questo è inammissibile per la borghesia palestinese.
Andiamo dunque, quasi certamente, verso una situazione di ulteriore sviluppo delle tensioni tra Israele e Stati Uniti. E non è detto che questa nuova politica americana non spinga alla fin fine Israele in una fuga in avanti bellicista da parte della frazione borghese al potere. Per il primo ministro Benjamin Netanyahu, infatti, la minaccia nucleare iraniana è inaccettabile per Israele. Negli ultimi tempi quest’aumento delle tensioni tra i due paesi si è concretizzato nell’escalation verbale tra Mahmoud Ahmadinejad, il capo iraniano, ed il governo israeliano. In questo senso non è sicuro che gli eventi attuali in Iran rassicurino molto la borghesia israeliana. Lo Stato israeliano potrebbe allora essere fortemente tentato di mettere con le spalle al muro il governo Obama con un’azione militare violenta verso l’Iran. In ogni caso, anche se tale prospettiva non si realizzasse, la borghesia israeliana non può non reagire di fronte alle maggiori pretese americane al suo riguardo. Paradossalmente questo aumento delle tensioni è nei fatti il risultato dell’indebolimento americano. La guerra e la barbarie continuerà a svilupparsi inesorabilmente in questa regione del mondo.
Tino, (adattato dall’articolo “Derrière les discours de paix d’Obama, une stratégie impérialiste”, da ICConline, pagina francese)
[1] “«Il premio Nobel a Obama? Non ho ancora capito cosa ha fatto». Lo ha detto oggi a Torino il leader del'Udc, Pierferdinando Casini. «Speriamo - ha aggiunto - che faccia in futuro tutte le cose splendide che il Nobel auspica»”, www.ansa.it/web/notizie/rubriche/associata/2009/10/09/visualizza_new.html_985953412.html [184].
[4] idem
[5] Courrier International del 16 giugno 2009.
[6] Nel suo discorso al G8 dell’Aquila nel settembre scorso Obama ha fondamentalmente ribadito questa impostazione di “apertura” e “pacificazione”.
[7] Non è un caso che le dichiarazioni sull’assegnazione del Nobel a Obama provenienti da Israele siano più misurate. Il presidente della Knesset (Parlamento) Reuven Rivlin, dirigente del Likud, ha sottolineato che il premio è stato conferito ad un Presidente “che ha appena iniziato il proprio mandato, e che ha solo progetti di pace. Ciò è ben strano. In genere i premi si conferiscono sulla base di risultati, e non solo di progetti (…) adesso c’é da temere che il conferimento del premio induca Obama ad imporre misure su Israele. Io temo - ha precisato - che il premio gli sia stato conferito affinché realizzi i suoi progetti, i quali potrebbero essere totalmente errati e forse in contrasto con gli interessi di Israele” (www.ansa.it/web/notizie/rubriche/associata/2009/10/09/visualizza_new.html_985953412.html [184]).
Dopo il 1929 nessuna crisi economica ha mai colpito con tale violenza il proletariato mondiale. Dappertutto la disoccupazione e la povertà stanno esplodendo. Questa situazione drammatica provoca un forte sentimento di rabbia tra gli operai. Oggi è difficile convertire questa rabbia in combattività. Che fare quando la propria fabbrica chiude? Come combattere? Che tipo di scioperi o azioni fare? E per quelli che ancora hanno un lavoro, come resistere ai tagli sullo stipendio, agli straordinari non pagati, agli aumenti di produttività e alla flessibilità quando il capo usa l’odioso ricatto “se non ti piace quella è la porta, ci sono milioni di altri lavoratori pronti a prendere il tuo posto”? La brutalità di questa recessione è una fonte di ansia terribile ed a volte di paralisi per le famiglie proletarie. Eppure, in questi ultimi mesi sono scoppiati importanti scioperi:
· - a Narayanganj, in Bangladesh, nel maggio scorso, 20.000 operai che non erano stati pagati per mesi, sono esplosi con rabbia, hanno razziato dozzine di fabbriche tessili e hanno messo in pericolo le loro vite scontrandosi con l’esercito;
· - in Cina, nelle città di Daqing e di Liaoyang, nel cuore del bacino industriale della Manciuria, decine di migliaia di operai che hanno perso il lavoro scendono ogni giorno in piazza dal primo marzo per chiedere il pagamento dell’indennità di disoccupazione ed il mantenimento della previdenza sociale. Questa ondata di lotte è espressione dello sviluppo generale della combattività del proletariato in questa regione del mondo. Secondo le agenzie di vigilanza della stabilità politica di Hong Kong, nei primi tre mesi di questo anno ci sono stati in Cina 58.000 “incidenti di massa” (cioè scioperi, manifestazioni, ecc). “Se questa tendenza continua per tutto l’anno, il 2009 batterà tutti i record precedenti con più di 230.000 di questi cosiddetti ‘incidenti di massa’ in confronto ai 120.000 del 2008 e ai 90.000 del 2006”[1].
· - In Spagna alla fine di aprile, gli operai metallurgici di Vigo hanno ripreso la loro lotta. Dopo aver condotto uno sciopero esemplare nel 2006 quando organizzarono le assemblee generali per le strade in modo da farvi partecipare la popolazione della città, gli operai di Vigo questa volta hanno dovuto far fronte ad un sindacato più preparato e con armi affilate: assemblee generali bidoni svuotate di ogni dibattito, sterili azioni di forza come il blocco delle navi crociera … Se gli scioperanti questa volta non hanno saputo sventare tutte queste trappole, la coscienza della necessità della lotta ha fatto un nuovo passo avanti come testimonia questa frase di uno degli operai in lotta: “le cose vanno molto, molto male. O si lotta o si muore”[2].
Ma è in Gran Bretagna che delle lotte hanno espresso più nettamente un progredire della coscienza all’interno della classe lavoratrice. All’inizio dell’anno gli operai della raffineria di Lindsey sono stati il centro di un’ondata di scioperi selvaggi. Questa lotta, al suo inizio, è stata frenata dal peso del nazionalismo simboleggiato dallo slogan “lavoro inglese per gli operai inglesi”. La classe dominante ha usato a pieno questa idea nazionalista presentando lo sciopero come una lotta contro gli operai italiani e portoghesi che lavoravano sul posto. Ma la borghesia si è rapidamente data da fare per mettere fine allo sciopero quando sono apparsi degli striscioni che invitavano gli operai portoghesi ed italiani ad unirsi alla lotta, affermando “Operai di tutto il mondo, unitevi!”, e gli operai polacchi delle costruzioni hanno si sono effettivamente uniti agli scioperi selvaggi a Plymouth[3]. Invece di una sconfitta operaia, con il crescere della tensione fra operai di paesi diversi, gli operai di Lindsey hanno ottenuto la creazione di 101 posti di lavoro in più (gli operai italiani e portoghesi hanno mantenuto il loro), assicurazioni che nessun operaio sarebbe stato licenziato e, soprattutto, hanno ripreso il lavoro uniti!. Quando in giugno la Total ha annunciato il licenziamento di 51 su 640 impiegati, gli operai hanno potuto basarsi su questa recente esperienza. La nuova ondata di lotta è scoppiata immediatamente su una base molto più chiara: solidarietà con tutti gli operai licenziati. E rapidamente scioperi selvaggi sono scoppiati in tutto il paese. “Gli operai delle centrali elettriche, delle raffinerie, delle fabbriche nel Cheshire, Yorkshire, Nottinghamshire, Oxfordshire, nel Galles del sud ed a Teesside hanno interrotto il lavoro per mostrare la loro solidarietà” (The Independent, 20 giugno). “C’erano anche segnali che lo sciopero si estendeva all’industria nucleare dato che l’EDF Energy diceva che gli operai a contratto al reattore nucleare di Hinckley Point a Somerset avevano fermato il lavoro” (Il Times). La parte più vecchia del proletariato mondiale ha mostrato in questa occasione che la forza della classe operaia sta soprattutto nella sua capacità di essere unita e solidale.
Tutte queste lotte possono sembrare poca cosa paragonate alla gravità della situazione. E, effettivamente, il futuro dell’umanità passa necessariamente per lotte proletarie di tutt’altra ampiezza ed intensità. Ma se la crisi economica attuale finora ha stordito il proletariato, essa resta tuttavia il terreno più fertile per lo sviluppo futuro della combattività operaia e della coscienza. In questo senso, episodi di lotta come questi che hanno in sé il germe dell’unità, della solidarietà e della dignità umana, sono elementi fondamentali per l’avvenire.
Mehdi, 8/7/2009
(dalla Revue Internationale, n.138)
[1] Fonte: “Des nouvelles du front” (https://dndf.org/?p=4049 [186]).
[2] Per maggiori informazioni su questa lotta, leggi il nostro articolo in spagnolo “Vigo: Los metodos sindicales conducen a la derrota [187]”.
[3] "G.B. Scioperi nelle raffinerie di petrolio e nelle centrali elettriche: gli operai cominciano a fare i conti con il nazionalismo [188]", Rivoluzione Internazionale, n. 159.
Pubblichiamo qui di seguito il Comunicato dell’Assemblea dei Lavoratori della Sanità e dei Servizi Sociali di Alicante[1] in solidarietà con due diversi collettivi di lavoratori in lotta: i lavoratori metallurgici di Vigo (vedi “Vigo: Los Métodos Sindicales Conducen a la Derrota [189]”) e i lavoratori della Vesuvius de Langreo (che hanno pubblicato questo stesso comunicato sul loro blog: https://vesuviussomostodos.blogspot.com [190]).
I temi relative alla solidarietà e all’estensione delle lotte costituiscono una preoccupazione chiave per molti lavoratori, particolarmente per quelli giovani. Questi temi esprimono una forma ancora embrionale della coscienza maturata a partire dalla crisi del capitalismo e sull’impossibilità di lottare da soli, con ogni settore di lavoratori isolato dagli altri e ogni categoria per sé stessa. Questi temi relativi alla solidarietà e all’estensione della lotta esprime una rottura rispetto alle tattiche sindacali che fanno affidamento invece solo sulla azienda, sul singolo settore, sulla categoria, insomma sul particolare.
Da questo punto di vista, è un segno positivo che dei collettivi di lavoratori prendano l’iniziativa di scrivere dei comunicati di solidarietà per esprimere le loro riflessioni e fare delle proposte, contribuendo in questo modo all’allargamento della discussione e dell’attività relative alla solidarietà di classe e all’estensione e all’unificazione della lotta.
CCI
Ai lavoratori delle acciaierie di Vigo; ai lavoratori della Vesuvius (Langreo); a tutti i lavoratori attualmente in lotta; e a tutti quelli che non hanno ancora cominciato la loro lotta
Noi, Assemblea di lavoratori dell’Afema di Alicante – che abbiamo trascorso tanti mesi di lotta per ottenere il pagamento dovuto dei salari e contro le condizioni precarie in cui lavoriamo con i disabili – vogliamo esprimere il nostro più profondo sostegno e la nostra solidarietà ai lavoratori della fabbrica Vesuvius di Langreo e ai lavoratori metallurgici di Vigo.
Entrambi questi collettivi, in maniera del tutto simile a noi, stanno subendo un attacco alle loro condizioni di vita. Usando l’attuale crisi economica come scusa, siamo minacciati di chiusura, licenziamenti mentre le condizioni di vita vanno in caduta libera.
Noi crediamo che, nonostante le apparenze, le nostre lotte abbiano una stessa origine e condividano gli stessi interessi: il soddisfacimento di nostri bisogni; la lotta per condizioni di vita decenti per noi, i nostri compagni, le nostre famiglie, ecc.; la difesa dei nostri interessi di classe. Queste sono le ragioni che ci hanno spinto ad esprimere un sentimento di fratellanza per tutti i lavoratori che sono in lotta, cercando in questo modo di creare un forum in cui i lavoratori possono esprimersi reciprocamente solidarietà, solidarietà che è la nostra principale arma di classe.
Con l’evoluzione delle nostre lotte noi siamo arrivati a due conclusioni che riteniamo essenziali:
Ancora una volta salutiamo i nostri compagni di lotta di Vigo e di Langreo, così come le lotte di tutti i lavoratori dovunque si trovino, perché abbiamo capito che la loro lotta è la nostra lotta e speriamo che un giorno saremo capaci di contribuire alla loro lotta non solo con delle semplici parole.
UNA CLASSE, UNA LOTTA
Piattaforma dell’Assemblea dei Lavoratori della Sanità e dei Servizi Sociali della AFEMA (Alicante).
[1] Ricordiamo che abbiamo già pubblicato a proposito di questi lavoratori, su ICConline in lingua italiana, l’articolo Lotta all’AFEMA di Alicante (Spagna). Un’esperienza da riprendere [191]
I compagni del NDIRD hanno presentato la riunione sottolineando l’importanza di questo tipo di avvenimenti per far conoscere le posizioni della Sinistra comunista attraverso un dibattito aperto e fraterno. Proprio per favorire il dibattito, la presentazione dell’argomento è durata solamente venti minuti.
La riunione ha raccolto più di 25 persone. Il numero dei giovani è stato notevole (quasi la metà dei partecipanti), caratteristica che osserviamo anche nelle riunioni pubbliche tenute in altri paesi dell’America latina dove abbiamo avuto la possibilità d’intervenire. I partecipanti hanno manifestato un interesse reale all’ascolto della presentazione ed il dibattito che questa ha suscitato ha espresso un’autentica preoccupazione rispetto alle inquietudini provocate dalla crisi del capitalismo, e non solo per il proletariato ma per l’insieme dell’umanità.
Ecco un breve resoconto della riunione e delle domande che sono state poste nel dibattito.
Come si può spiegare la creazione di mercati artificiali attraverso l’indebitamento?
Questa interessante domanda di un giovane partecipante rispondeva ad un’affermazione della presentazione dove dicevamo che il capitalismo richiede per il suo sviluppo dei mercati solvibili, cioè dei settori che hanno una reale capacità di consumare le merci prodotte. Con l’entrata del capitalismo nella sua fase di decadenza, periodo apertosi con la Prima Guerra mondiale, si è sviluppato un esaurimento progressivo di questi mercati solvibili. Ed è per tale motivo che “Come palliativo a questo esaurimento dei mercati solvibili esterni alla sfera capitalista, la borghesia ha utilizzato il credito; questo stesso palliativo è stato poi massicciamente utilizzato a partire dagli anni ‘60; in questo senso, il capitalismo decadente, per sopravvivere, aveva creato un mercato artificiale basato sul credito” (testo di presentazione).
E’ precisamente a partire dagli anni ‘70 che i paesi della periferia, e tra questi quelli dell’America latina, hanno iniziato un ricorso massiccio all’indebitamento, in gran parte per acquistare beni e servizi prodotti nei paesi centrali, gli stessi che finanziavano questi crediti. E’ per tale motivo che durante gli ultimi quattro decenni del secolo scorso i paesi della periferia hanno accumulato praticamente dei debiti impossibili da rimborsare, che continuano a crescere ed il cui pagamento dilapida un’importante percentuale del PIL di questi Stati.
Abbiamo dato come esempio recente di questi mercati artificiali la crescita del settore immobiliare negli Stati Uniti che si è basata sulla vendita a credito di immobili. La “bolla immobiliare” è esplosa “quando non è stato più possibile rimborsare i crediti perché la crisi si era sviluppata nel mondo ed i tassi di interesse erano aumentati, per cui questo sistema di credito è esploso. Ma ad esplodere sono le contraddizioni interne dell’economia capitalista: quelle della saturazione dei mercati solvibili. Ed anche la crisi del credito come palliativo” (idem).
Se c’è stata una ripresa dopo la crisi del 1929, perché ora non esiste una riattivazione dell’economia come negli anni ‘50 e ‘60?
Abbiamo risposto che la crisi del 1929 è stata la prima grande crisi del capitalismo decadente i cui effetti sono stati risentiti durante il decennio degli anni ‘30 e che ha avuto come corollario la Seconda Guerra mondiale. Dopo questa crisi c’è stata l’importante ripresa economica del dopoguerra che si è basata sull’applicazione di politiche keynesiane, sull’aumento della produttività del lavoro e su un migliore sfruttamento sia delle economie precapitaliste dei paesi della periferia che dei settori precapitalisti dei paesi più industrializzati. Ma sono proprio questi meccanismi che mostrano di esaurirsi alla fine degli anni ‘60 quando il capitalismo entra di nuovo in crisi. Per far fronte a questa nuova crisi, la borghesia ricorre all’utilizzazione massiccia di questo palliativo - il credito - che permette al capitalismo di rinviare per oltre quarant’anni la caduta brutale dell’economia, come la vediamo attualmente.
Noi diciamo che la crisi attuale è peggiore di quella del 1929. Come è stato detto nella presentazione, la crisi attuale è una crisi del credito. Poiché la “soluzione” che propone la borghesia mondiale è quella di un maggiore indebitamento, questo non può che preparare inevitabilmente delle crisi ancora peggiori in futuro.
Come può battersi il proletariato se la disoccupazione tende a farlo scomparire?
Un compagno, nell’esprimere questa preoccupazione, faceva l’esempio della situazione della “zona franca” di Santiago, una delle più importanti concentrazioni di fabbriche e di imprese di subappalto del paese, dove si è sviluppato con la crisi un forte livello di disoccupazione. Abbiamo risposto che, effettivamente, uno dei flagelli della crisi del capitalismo è la crescita rapida della disoccupazione; ma ciò non significa la scomparsa del proletariato perché è inconcepibile una borghesia senza proletari da sfruttare. Innanzitutto, il lavoratore non perde la sua condizione di proletario quando diventa disoccupato. Si cominciano già a vedere delle mobilitazioni di disoccupati in alcuni paesi. Inoltre, a far parte del proletariato non sono solo i lavoratori del settore manifatturiero o di fabbrica, ma anche, ed in buon numero, gli impiegati del settore pubblico, gli insegnanti, i lavoratori della sanità, ecc., settori che hanno un peso quantitativamente importante nei paesi dell’America latina.
È indubbio che la crisi colpisce duramente i lavoratori perché alla fine tocca proprio a loro pagare i cocci, tuttavia è proprio questa situazione che li spinge inevitabilmente alla lotta, tanto in Repubblica dominicana che a livello mondiale.
Perché, tra le conseguenze della crisi, la CCI parla anche dello sviluppo di imperialismi regionali e locali?
Nella nostra presentazione abbiamo detto che questa crisi, tappa ulteriore nel crollo del capitalismo, ha avuto non solo delle conseguenze a livello economico e sulla lotta del proletariato, ma anche a livello dei conflitti tra nazioni. Nella storia del capitalismo la lotta tra gli Stati per i mercati è stata una costante e la crisi attuale non è un’eccezione. Peraltro questa crisi interviene in un contesto dove i blocchi imperialisti esistiti fino alla fine degli anni ‘80 sono spariti con il crollo del blocco russo e l’indebolimento progressivo dell’imperialismo americano. Questa situazione ha provocato un’anarchia nelle relazioni internazionali che si esprime nel tentativo di ogni borghesia nazionale di rafforzarsi nella geopolitica regionale e mondiale. Questi comportamenti si sono espressi recentemente in modo patetico in Iran, che tenta di ergersi a potenza regionale in Medio Oriente, e nel Venezuela, che si rafforza sul piano geopolitico in America latina utilizzando come armi di penetrazione il petrolio e l’ideologia del “socialismo del XX secolo”.
Lo scontro tra nazioni che si è scatenato dopo la caduta del blocco russo si inasprirà inevitabilmente con l’avanzamento della crisi. Il proletariato deve rigettare ogni appoggio alle frazioni della borghesia nazionale o regionale in questi conflitti che andrebbe a profitto solo di questa o quella frazione della classe dominante.
Di fronte a questa barbarie, quali sono le prospettive per l’umanità?
Questa domanda esprime in modo chiaro ciò che abbiamo detto nell’introduzione di questo resoconto: “un’autentica preoccupazione rispetto alle inquietudini provocate dalla crisi del capitalismo e non solo per il proletariato ma per l’insieme dell’umanità”.
La CCI ha affermato che oggi più che mai il futuro dell’umanità è minacciato dalle contraddizioni interne del capitalismo e questo richiede la risposta dell’unica classe rivoluzionaria: il proletariato. Se la crisi genera sempre più miseria e povertà, spinge però il proletariato a battersi. È vero che le condizioni della lotta sono oggi difficili, dal momento che non si sa bene come lottare o che cosa fare quando le fabbriche chiudono i battenti. È anche vero che il proletariato dubita delle proprie capacità. Ma lo sviluppo della crisi, attraverso gli attacchi contro l’insieme delle condizioni di vita dei proletari e per il fatto che implica apertamente lo Stato, fomenta alla lotta di classe l’insieme del proletariato mondiale. In questa dinamica il proletariato sviluppa la sua riflessione e, poco a poco, riprenderà fiducia nelle proprie forze.
La CCI, in quanto organizzazione rivoluzionaria e nella misura delle sue forze, lavora per accelerare questa dinamica. La posta in gioco sta nell’alternativa tra una società comunista e una barbarie che annienterebbe l’umanità. Di fronte a ciò, gruppi come il NDIRD, che si sviluppano con una visione internazionalista, rivestono un ruolo di primo piano per il proletariato della Repubblica dominicana e per il proletariato mondiale. Allo stesso modo, tutti quelli che, come i compagni che hanno partecipato a questa riunione, si pongono delle domande su un terreno internazionalista, devono dibattere tra loro.
La preoccupazione di dibattere e di ascoltare
Sebbene la riunione sia durata poco tempo - pressappoco un’ora e mezza - perché bisognava liberare il locale, si è sviluppato un importante dibattito che ha potuto continuare per un po’ mentre si condivideva un momento di socializzazione intorno ad un bicchiere.
Parecchi dei partecipanti hanno mostrato il loro entusiasmo ed il loro interesse a partecipare a questo genere di riunioni. Come è stato detto da uno dei compagni del NDIRD, i partecipanti hanno mostrato un reale interesse a discutere e ad ascoltare le posizioni internazionaliste.
Salutiamo calorosamente questa riunione, così come la capacità politica ed organizzativa di cui ha dato prova il NDIRD nella sua preparazione. Li invitiamo a portare avanti questo sforzo per il quale la CCI darà tutto il suo sostegno.
Questa riunione è stata un momento molto confortante perché è una manifestazione della capacità dell’internazionalismo di unire le forze del proletariato in qualsiasi paese, per quanto “piccolo” possa essere.
CCI (14 luglio 2009)
[1] Per la prima riunione pubblica vedi: “Un dibattito internazionalista nella Repubblica Dominicana”, ICConline pagina italiana 2007.
Alla vigilia della Seconda Guerra mondiale, dopo la sconfitta dell’ondata rivoluzionaria degli anni venti e con la rivoluzione russa agonizzante a causa del suo isolamento e dell’attacco mortale portato dalla borghesia mondiale e dallo stalinismo, la controrivoluzione e lo schiacciamento del proletariato mondiale trionfano. In questo contesto l’anarchismo conosce un passo fatidico nella sua evoluzione. In questo contesto la borghesia dei vari paesi, siano essi fascisti o democratici e la stessa URSS stalinista, spinta inesorabilmente sulla strada del militarismo dalle cieche leggi del capitalismo, si prepara alla guerra. Il vicolo cieco prodotto dalla crisi economica non le lascia nessun’altra alternativa che questa fuga in avanti in un secondo olocausto mondiale. E’ la marcia accelerata verso la guerra, vero modo di vita del capitalismo in decadenza, che ha già generato il fascismo. Questo è riuscito ad imporsi nei paesi in cui la classe operaia aveva subito una sconfitta profonda, per cui non era più necessario mantenere le istituzioni democratiche che hanno, per l’appunto, il compito di mistificare il proletariato, per poter sottometterlo e batterlo. Il fascismo si rivela come la forma del capitalismo più adatta al compimento dei preparativi richiesti dalla marcia accelerata verso la guerra.
L’irreggimentazione ideologica per la guerra imperialista dietro il fascismo o il nazismo, o dietro il mito della “patria del socialismo” per lo stalinismo, è stato ottenuto attraverso il terrore più violento. Ma nei paesi rimasti “democratici”, per inquadrare gli operai che non avevano subito lo schiacciamento dei movimenti rivoluzionari, bisognava che la borghesia utilizzasse una mistificazione particolare: l’antifascismo. Offrendo agli operai un preteso terreno di mobilitazione per proteggersi dagli orrori del fascismo, questo è stato il mezzo utilizzato per arruolarli come carne da cannone nelle guerra, al servizio di un campo imperialista contro un altro per la difesa dello Stato democratico. Per raggiungere lo scopo, la borghesia, in particolare in Francia e Spagna, si è servita dei “fronti popolari” e della venuta al governo dei partiti di sinistra.
L’anarchismo abbocca all’antifascismo
Al contrario dell’internazionalismo proletario che ha costituito il grido di guerra della classe operaia per mettere fine alla barbarie della prima carneficina mondiale con la rivoluzione proletaria, l’antifascismo non costituisce per niente un mezzo per il proletariato per difendere i suoi interessi di classe, ma il mezzo per consegnarlo piedi e mani legati alla borghesia democratica. La situazione di controrivoluzione, che impediva ogni possibilità di sbocco rivoluzionario, non doveva assolutamente portare a rimettere in causa i principi fondamentali dell’internazionalismo proletario di fronte alla Seconda guerra mondiale. Non c’era nessun campo da scegliere. Si trattava di combattere sia la borghesia del campo fascista che quella del campo democratico.
Prigioniero della sua propensione a difendere “la libertà” contro “l’autoritarismo”, l’anarchismo capitola completamente di fronte all’antifascismo. Prima della guerra le differenti correnti dell’anarchismo sono fra i principali animatori dell’antifascismo. Questo porterà la grande maggioranza degli anarchici a porsi decisamente dalla parte degli Alleati nella Seconda Guerra mondiale. Privo di ogni criterio di classe basato sui rapporti sociali reali che reggono la società capitalista, l’anarchismo è portato a sottomettersi completamente alla difesa della democrazia, questa forma particolarmente subdola di dittatura del capitale. Alcuni che erano rimasti internazionalisti nel 1914, come Rudolf Rocker, difendono la partecipazione alla guerra imperialista nel 1940 con l’argomento che, a differenza del 1914, esistevano adesso due sistemi radicalmente differenti e che la lotta contro il fascismo giustificava il sostegno agli Stati democratici. Questo approccio spinge un gran numero di anarchici a partecipare fisicamente alla guerra, principalmente negli eserciti imperialisti senza uniformi della Resistenza[1].
In Francia, “dall’inizio della guerra [il gruppo CNT-rete Vidal nei Pirenei] si mette al servizio della Resistenza e lavora attivamente con l’Intelligence Service e l’Ufficio Centrale di Informazione e di Azione (BCRA) di De Gaulle, ma anche con la rete Sabot e il gruppo Combat. (…) A causa della mancanza di una organizzazione nazionale di resistenza, gli anarchici appaiono poco, anche se sono molto presenti. Va citato comunque il gruppo di Passo dell’Aquila (…) luogo importante della ricostruzione della CNT in esilio e uno dei gruppi partigiani più attivi. Questo gruppo partigiano è al 100% confederale, esattamente come il gruppo di Bort-les-Orgues. In generale i raggruppamenti partigiani del Massiccio Centrale sono in grande parte composti da anarchici spagnoli (…)[2]. “Presenti nella Resistenza della Francia del sud, nei gruppi FFI, FTP, MUR o in gruppi autonomi (il battaglione Libertad nel Cantal, il gruppo Bidon 5 in Ariège, nel Languedoc-Roussillon) (…) [gli anarchici], a centinaia, proseguono sul suolo francese la lotta che avevano condotto contro il fascismo spagnolo”[3]. Il battaglione Libertad “libera Lot e Cahors. (…) A Foix sono i partigiani anarcosindacalisti della CNT-FAI che liberano la città il 19 agosto”[4].
Stessa situazione in Italia. Quando c’è il cambiamento di fronte dell’Italia dell’8 settembre 1943, le regioni del centro e del nord si trovano nelle mani dei tedeschi e della repubblica fascista di Salò. “Gli anarchici si gettano immediatamente nella lotta armata, stabiliscono quando ne hanno la possibilità (Carrara, Genova, Milano) delle formazioni autonome, o, nella maggior parte dei casi, raggiungono altre formazioni quali le brigate socialiste “Matteotti”, le brigate comuniste “Garibaldi” o le unità “Giustizia e Libertà” del Partito d’azione”[5]. In numerosi luoghi, i libertari aderiscono al Comitato di liberazione nazionale che raccoglie un ampio spettro di partiti antifascisti oppure organizzano gruppi d’azione patriottica (sic). Numerosi anarchici sono presenti nella 28a brigata Garibaldi che libera Ravenna. “A Genova, i gruppi di combattimento anarchici operano sotto i nomi di brigata “Pisacane”, la formazione “Malatesta”, la SAP-FCL, la SAP-FCL Sestri Ponente ed gli squadroni d’azione anarchici di Arenzano. (...) Queste attività sono favorite dalla Federazione comunista libertaria (FCL) e dal sindacato anarco-sindacalista dell’USI che è appena ricomparso nelle fabbriche. (...) Gli anarchici fondano le brigate “Malatesta” e “Bruzzi”, che comprendono fino a 1300 partigiani: questi operano sotto l’egida della formazione “Matteotti” e svolgono un ruolo di primo piano nella liberazione di Milano”[6].
Gli esempi della Bulgaria, dove – in seguito all’invasione dell’URSS del 1941 - il PC bulgaro organizza “delle bande a cui numerosi anarchici parteciparono”[7] o ancora la guerriglia anarchica anti-giapponese in Corea negli anni 1920-30 testimoniano il carattere generale della partecipazione degli anarchici alla guerra impérialista.
E molti non saranno neanche fermati dall’indossare l’uniforme degli eserciti imperialisti democratici: “I Libertari spagnoli (...) parteciparono a migliaia alla resistenza al nazismo e alcuni di loro spinsero la lotta nei battaglioni de la France Libre fino in Germania”[8] “alcuni si arruolarono nei reggimenti di marcia della Legione Straniera e si ritrovarono in prima linea in tutti i combattimenti”[9]. “Saranno destinati a volte in Africa del Nord, a volte nell’Africa Nera (Ciad, Camerun). I secondi ricongiungeranno le forze francesi libere dall’anno 1940. Raggiungeranno le colonne del generale Leclerc.” (...) Per più del 60% spagnola, la famosa 2a D.B. conta un buon numero di anarcosindacalisti al punto che una delle sue compagnie “è interamente composta da anarchici spagnoli”. A bordo dei blindati “Ascaso”, “Durruti”, “Casas Viejas”, questi “saranno i primi ad entrare nella capitale il 24 agosto 1944” in occasione della liberazione di Parigi[10] e ad issare lo straccio tricolore sul municipio della città!
Una posizione bellicista in linea diretta con quella presa in Spagna nel 1936
L’atteggiamento degli anarchici durante la Seconda Guerra mondiale deriva direttamente da quella che fu la loro “prova generale” nella guerra di Spagna. Questo episodio storico illumina senza ambiguità il ruolo reale svolto dall’anarchismo in quello che non era né “una guerra di classi”, né “una rivoluzione” ma una guerra tra due frazioni della borghesia spagnola che ha portato ad un conflitto imperialista mondiale.
Nel luglio 1936 la CNT, ai sensi del patto antifascista siglato con i partiti del Fronte popolare, apporta il proprio sostegno al governo repubblicano per deviare verso l’antifascismo[11] la reazione del proletariato spagnolo al colpo di Stato di Franco. La CNT sposta il combattimento di una lotta sociale, economica e politica del proletariato contro l’insieme delle forze della borghesia verso il confronto militare contro il solo Franco, inviando gli operai a farsi massacrare sui fronti militari nelle milizie antifasciste per degli interessi che non sono i loro.
La partecipazione dei libertari al governo repubblicano borghese in Catalogna ed a Madrid, illustra l’evoluzione dell’anarchismo verso il sostegno allo Stato borghese. “Dopo la prima vittoria sui generali faziosi, vedendo emergere una guerra a lungo termine e di un’importanza enorme, abbiamo capito che non è questo il momento di considerare terminata la funzione del governo, dell’apparato governativo. Come la guerra necessita di un apparato adeguato per essere portata a buon fine - l'esercito – ugualmente occorre un organo di coordinamento, di centralizzazione di tutte le risorse ed energie del paese, cioè il meccanismo di uno Stato. (...) Finché dura la guerra, dobbiamo agire nella lotta sanguinosa e dobbiamo intervenire nel governo. Infatti, quest'ultimo deve essere un governo di guerra, per fare e vincere la guerra. (...) Pensiamo che la guerra sia la prima delle cose e che occorra vincerla come condizione preliminare di qualsiasi nuova condizione …”[12]. Quando gli operai di Barcellona si sollevano nel maggio 1937, gli anarchici si fanno complici della repressione portata avanti dal Fronte popolare e dal governo di Catalogna (al quale essi partecipano), mentre i franchisti sospendono temporaneamente le ostilità per permettere ai partiti di sinistra di schiacciare il sollevamento.
Con il sostegno dato alla guerra totale attraverso la militarizzazione del proletariato per mezzo delle collettività anarchiche e delle milizie antifasciste, la proclamazione dell’Union Sacrée con la borghesia repubblicana ed il divieto di scioperare, la CNT partecipa al reclutamento del proletariato in una guerra che prende chiaramente un carattere imperialista con l’impegno delle democrazie e dell’URSS dalla parte repubblicana e della Germania e dell’Italia dalla parte franchista. “Attualmente, non è una guerra civile che stiamo combattendo, ma una guerra contro gli invasori: Mori, Tedeschi, Italiani. Non è un partito, un’organizzazione, una teoria che sono in pericolo. È l’esistenza della Spagna stessa, di un paese che vuole essere padrone dei suoi destini, che corre il rischio di scomparire”[13]. Il nazionalismo della CNT la porta a fare appello alla guerra mondiale per salvare “la nazione spagnola”: “La Spagna libera farà il suo dovere. Di fronte a quest'atteggiamento eroico, cosa faranno le democrazie? C’è da sperare che quello che si deve produrre non tarderà a lungo. L’atteggiamento provocatore e grezzo della Germania é già insopportabile. (...) Tutti sanno che alla fine le democrazie dovranno intervenire con i loro squadroni e con i loro eserciti per sbarrare il passo a queste orde di insensati …”[14].
L’abbandono degli interessi del proletariato e l’atteggiamento della CNT verso la guerra imperialista producono vive opposizioni nel campo anarchico (Berneri, Durruti). Ma l’incapacità di questi ultimi a rompere con la posizione secondo cui si trattava di una guerra che procedeva parallelamente alla rivoluzione, ne ha fatto delle vittime della politica di sconfitta e di reclutamento del proletariato. Così, coloro che cercavano di lottare contro la guerra e per la rivoluzione, furono incapaci di trovare il punto di partenza per una lotta realmente rivoluzionaria: l’appello agli operai e contadini (imbrigliati nei due campi, repubblicano e franchista) a disertare, a puntare i loro fucili contro i loro ufficiali, a tornare indietro e a lottare usando lo strumento dello sciopero, delle manifestazioni, su un terreno di classe contro il capitalismo nel suo insieme.
Dei minuscoli sprazzi internazionalisti
Tuttavia, quando scoppia la guerra mondiale, e controcorrente all’ondata bellicista e antifascista, alcune voci provenienti dall’anarchismo si levano per rifiutare il terreno dell’antifascismo e per affermare la sola posizione realmente rivoluzionaria, quella dell’internazionalismo. Così nel 1939, in Gran Bretagna, la Glasgow Anarchist-Communist Federation dichiara che “lo scontro attuale oppone imperialismi rivali per la tutela di interessi secolari. Gli operai di tutti i paesi appartengono alla classe oppressa, non hanno nulla in comune con questi interessi e con le aspirazioni politiche della classe dominante. La loro linea del fronte non è la linea Maginot, dove saranno demoralizzati ed uccisi, mentre i loro padroni accumulano guadagni fraudolenti”[15]. Nel sud della Francia, il minuscolo gruppo raccolto intorno a Volin[16] sviluppa un intervento contro la guerra su una base chiaramente internazionalista: “L’attuale conflitto è l’opera delle potenze economiche di ogni nazione, potenze che vivono esclusivamente ed a livello internazionale dello sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo. (...) I capi di Stato, i capi militari di ogni colore e di ogni sfumatura, passano da un campo all’altro, strappano trattati, ne firmano altri, servono a volte la repubblica, a volte la dittatura, collaborano con quelli a cui facevano ieri la guerra, e viceversa e vice-versa ancora. (...) e il popolo, paga loro i vasi rotti: il popolo viene mobilitato per le democrazie, contro le democrazie, per i fascisti, contro i fascisti. Ma che sia in Africa, in Asia, in Europa, è sempre il buono popolo che fa le spese di queste “esperienze contraddittorie” e che si rompe il muso. (...) Non si tratta di lottare soltanto contro il fascismo hitleriano, ma contro tutti i fascismi, contro tutte le tirannie, che siano di destra, di centro o di sinistra, che siano reali, democratiche o sociali, poiché nessuna tirannia emanciperà il lavoro, libererà il mondo, organizzerà l’umanità su basi realmente nuove”[17]. Questa posizione fa chiaramente di questi anarchici un’espressione della classe operaia. Ancora una volta, se questi raggiungono una tale chiarezza è perché fanno loro le posizioni di classe del proletariato.
Ma, la dura prova dell’isolamento rispetto agli altri gruppi rimasti internazionalisti e rispetto alla classe nelle condizioni di trionfo della controrivoluzione sulle masse, così come l’enorme pressione antifasciste (“ci confrontiamo ogni giorno con gli altri antifascisti. Occorreva unirsi a loro o restare controcorrente? La questione era spesso angosciante sul campo”)[18] estinguono presto questa scintilla. La morte di Voline (settembre 1945), l’incapacità degli anarchici di trarre le lezioni dalle loro esperienze conduce gli elementi del suo gruppo al ritorno all’ovile della CNT, all’adesione momentanea ai suoi comitati antifascisti, ed infine alla partecipazione alla ricostruzione del FA su delle basi politiche completamento borghesi.
Qual è il destino politico dei militanti operai anarchici?
Dall’esame della storia dell’anarchismo di fronte alle due guerre mondiali, si può sottolineare una doppia serie di conclusioni:
• L’anarchismo ha dimostrato non solo la sua incapacità di offrire un’alternativa realizzabile ed una prospettiva rivoluzionaria al proletariato, ma ha costituito addirittura uno strumento diretto di mobilitazione della classe operaia nella guerra imperialista. Nel 1936-37, la capitolazione dell’anarchismo di fronte alla mistificazione antifascista ed alla democrazia borghese vista come un “male minore” rispetto al fascismo, è stata un mezzo per il capitalismo per allargare il fronte delle forze politiche che agiscono per la guerra incorporando gli anarchici. La guerra di Spagna costituisce, dopo la Prima Guerra mondiale, il secondo atto decisivo per l’anarchismo che sigilla la sua evoluzione verso il sostegno allo Stato capitalista. Questa sottomissione alla democrazia borghese si traduce con l’integrazione delle correnti ufficiali dell’anarchismo all’interno delle forze politiche dello Stato capitalista. Così, in un processo a due tempi, dal 1914 alla guerra di Spagna del 1936-37, l’anarchismo è diventato un’ideologia di difesa dell’ordine e dello Stato capitalisti.
• In secondo luogo, occorre considerare che l’area dell’anarchia non si riduce alle sue correnti ufficiali e si caratterizza per essere molto eterogenea. In tutte le epoche è presente in questa area chi aspira sinceramente alla rivoluzione ed al socialismo, esprime una reale volontà di finirla con il capitalismo e si impegna nella lotta per l’abolizione dello sfruttamento. Questi militanti si pongono effettivamente sul terreno di classe quando assumono un orientamento internazionalista e raggiungono la lotta rivoluzionaria del proletariato. Ma il loro futuro dipende fondamentalmente da un processo di decantazione il cui senso e la cui ampiezza dipendono dal rapporto di forze tra le classi fondamentali, la borghesia ed il proletariato.
Questa decantazione potrà essere orientata verso il nulla o anche verso la borghesia, come negli anni neri della controrivoluzione degli anni 1940. Privati della bussola della lotta di classe del proletariato e dell’ossigeno della discussione e del dibattito con le minoranze rivoluzionarie che questa lotta produce, gli anarchici si trovano presi nella trappola delle contraddizioni intrinseche all’anarchismo che li disarma e li blocca sul terreno dell’ordine borghese.
Potrà essere invece orientata verso la classe operaia quando questa si afferma come forza rivoluzionaria. Così, è lo stesso movimento rivoluzionario della classe operaia, lo sviluppo della rivoluzione mondiale e l’insurrezione proletaria in Russia (con la distruzione dell’apparato statale borghese da parte dei Soviet e la sospensione unilaterale dell’impegno nella guerra imperialista da parte del proletariato russo e dei bolscevichi), che permetteranno nel 1914-18 agli anarchici rimasti internazionalisti di assumere un atteggiamento internazionalista conseguente. Raggiungono allora il movimento storico della classe operaia avvicinandosi al movimento comunista uscito dalla sinistra della socialdemocrazia ed opposto alla guerra: i bolscevichi e gli spartachisti, i soli capaci di mettere avanti l’unica alternativa realistica e realizzabile, la trasformazione della guerra imperialista in guerra civile e la rivoluzione proletaria mondiale.
Scott
La prima parte di questo articolo [192] è stato pubblicato su Rivoluzione Internazionale n°161.
[1] Le manifestazioni di obbedienza dell’anarchismo si sono suddivise in direzione delle diverse frazioni della classe dominante: alcuni militanti, sedotti dalla Carta del Lavoro, pacifisti rassicurati dall’armistizio, collaborano al programma della Rivoluzione nazionale di Pétain e del governo di Vichy, come Louis Loréal, o si ritrovano in istituzioni ufficiali dello Stato francese come P. Besnard.
[2] Les Anarchistes espagnols et la Résistance, in l’Affranchi n°14, primavera 1997, su CNT-AIT.info.
[3] E. Sarboni, 1944: les Dossiers noirs d’une certaine Résistance, Perpignan, Ed. du CES, 1984.
[4] Les Anarchistes espagnols et la Résistance, in l’Affranchi n°14, primavera-estate 1997, su CNT-AIT.info.
[5] 1943-1945: Anarchist partisans in the Italian Resistance, su libcom.com, (traduzione nostra).
[6] idem
[7] Postfazione a Max Nettlau, Histoire de l’Anarchie, p.281.
[8] E. Sarboni, 1944: les Dossiers noirs d’une certaine Résistance, Perpignan, Ed. du CES, 1984.
[9] Pépito Rossell, Dans la Résistance, l’apport du mouvement libertaire.
[10] Le Monde diplomatique, agosto 2004.
[11] Sulla traiettoria della CNT rimandiamo alla nostra serie nella Revue internationale, ed in particolare gli articoli: “L’échec de l’anarchisme pour empêcher l’intégration de la CNT dans l’Etat bourgeois (1931-34) ; L’antifascisme, la voie de la trahison de la CNT (1934-36)”.
[12] D.A. de Santillan, in Solidaridad obrera, 16 avril 1937.
[13] D.A. de Santillan, in Solidaridad obrera, 21 avril 1937.
[14] Solidaridad obrera, 6 janvier 1937, citato da la Révolution prolétarienne n°238, gennaio 1937.
[15] Citato da P. Hempel, A bas la guerre, p.210.
[16] Vsevolod Mikhaïlovitch Eichenbaum detto Volin (1882-1945), membro del partito socialista rivoluzionario, durante la rivoluzione del 1905 partecipa alla fondazione del Soviet di San Pietroburgo. Imprigionato, evade e raggiunge la Francia nel 1907 dove diventa anarchico. Nel 1915, minacciato d’essere imprigionato dal governo francese per la sua opposizione alla guerra, fugge negli Stati Uniti. Nel 1917 ritorna in Russia dove milita fra gli anarcosindacalisti. Successivamente Volin entra in contatto con il movimento makhnovista e prende la testa della sezione cultura e istruzione dell’esercito insurrezionale, divenendo presidente del suo Consiglio militare insurrezionale nel 1919. Arrestato più volte, lascia la Russia dopo il 1920 e si rifugia in Germania. Tornato in Francia, redige, su richiesta della CNT spagnola, il suo giornale in lingua francese. Denuncia la politica di collaborazione di classe della CNT-FAI in Spagna. Nel 1940, è a Marsiglia dove termina la Rivoluzione sconosciuta. Le privazioni e le terribili condizioni materiali della clandestinità hanno ragione della sua salute. Muore di tubercolosi a Parigi nel 1945.
[17] Estratto dal volantino: A tutti i lavoratori del pensiero e delle braccia, 1943.
[18] Les Anarchistes et la résistance, CIRA.
Nonostante ciò noi disoccupati, precari, lavoratori del settore pubblico e di quello privato, esitiamo a entrare in lotta. La crisi economica colpisce senza distinzione tutta la classe operaia con una brutalità ed una ferocia che non si vedeva da decenni. Di fronte a questa situazione insostenibile, da qualche mese a questa parte, non c’è quasi nessuna reazione, visto che ci sono così pochi scioperi e lotte[1]. Perché?
E’ a questo quesito cruciale che risponde in gran parte la lettera pubblicata qui di seguito che ci è stata indirizzata da Al, un lettore della nostra stampa[2].
La lettera del lettore
Senza entrare nei dettagli, il capitalismo attraversa un’ennesima crisi economica […]. In tutti i paesi, le imprese e gli Stati hanno licenziato massicciamente. La disoccupazione è esplosa a livello mondiale. Le tasse e le imposte di tutti i tipi sono fortemente aumentati mentre gli aiuti sociali sono drasticamente diminuiti. Tutto ciò comporta, evidentemente, una degradazione importante ma anche molto rapida delle condizioni di vita degli operai a livello mondiale. […]
Oggi, io stesso e certamente un buon numero di operai si chiedono come mai non vi sia una risposta di massa da parte del proletariato mondiale di fronte all’importanza e alla profondità della crisi attuale e delle sue conseguenze sulla loro vita sociale. Cos’è che impedisce oggi agli operai di entrare in lotta? A parte la rivolta di dicembre 2008 e di gennaio 2009 in Grecia, la classe operaia non ha paradossalmente risposto al livello della granata di colpi ricevuti.
Bisogna dire che gli Stati, sostenuti dai giornali e dai vari analisi finanziari, ce la mettono tutta per far credere che, a partire da marzo 2009, sia ricominciata una ripresa dell’economia. In particolare all’ultimo G20 i rappresentanti di tutti i paesi si sono felicitati della riuscita dei loro reciproci piani di intervento sull’economia mondiale e sui mercati finanziari. Ma questa calma nella tempesta economica é solo temporanea, riguarda unicamente i mercati borsistici ed è prodotta dalle grandi banche, in particolare quelle americane come la Goldman Sachs, contribuendo così alla formazione di una nuova “bolla” borsistica e al suo relativo scoppio molto a breve termine. Invece l’economia reale continua a degradarsi fortemente. Questa euforia, accoppiata ad una campagna mediatica, certamente mantiene la confusione nella testa degli operai e contribuisce anche alla mancanza di prospettive. La seconda ragione rimonta ad una ventina di anni fa, cioè alla caduta del muro di Berlino, dello stalinismo, del “blocco dell’Est” e della famosa “morte del comunismo”. In effetti, semplicemente discutendo oggi con un certo numero di persone ci si rende conto che per loro il sistema che era in piedi in Russia, nei paesi dell’Est e nella Germania orientale era il comunismo, mentre invece era tutt’altra cosa. Io penso e mi rendo conto che la disinformazione e le menzogne proferite dalla classe sfruttatrice a proposito del comunismo hanno lasciato delle tracce e sono ancora purtroppo presenti nello spirito dei proletari. Oggi, molti operai pensano obiettivamente che questo sistema economico sia ormai agonizzante, ma semplicemente non sanno come rimpiazzarlo, perché sono stati martellati per anni, attraverso i mass-media, i giornali, i libri ma anche e soprattutto dalla cultura ricevuta che il comunismo é un sistema economico che non funziona e che conduce a dei regimi dittatoriali o, al meglio, che è solo un’utopia. Il che è una falsità, evidentemente, una delle più grandi menzogne dell’umanità. La terza ed ultima ragione è che la crisi non tocca tutti i salariati con la stessa intensità e allo stesso momento. Il che può spiegare come mai solo pochi operai intraprendono delle lotte disperate, perché isolate, mentre altri sono ancora nella fase di riflessione e di maturazione della loro coscienza.
Ecco dunque il mio contributo di risposta al quesito posto all’inizio, nella speranza che gli elementi apportati contribuiscano alla riflessione collettiva
La nostra risposta
Noi siamo d’accordo con ogni punto di questa lettera. Di fatto, la violenza con cui colpisce oggi la crisi economica ha, per il momento, un effetto allarmante e dunque paralizzante.
Come sottolinea il compagno Al., le ultime lotte di una certa ampiezza hanno avuto luogo in Grecia e nelle Antille tra la fine del 2008 e l’inizio del 2009. Non è un caso se la situazione sociale si è calmata precisamente in questo momento, proprio quando la crisi ha cominciato a colpire più fortemente. In generale, e questo si è verificato frequentemente nel corso degli ultimi quaranta anni, i momenti di forte aumento della disoccupazione non sono teatro delle lotte più importanti. La classe operaia è infatti sottoposta, in questi momenti, ad un ricatto odioso ma efficace: “se voi non siete contenti, tanti altri operai sono pronti a rimpiazzarvi”. Inoltre, i padroni ed i governi si fanno scudo di un argomento “decisivo”: “Non è mica colpa nostra se la disoccupazione aumenta o se voi siete licenziati: è colpa della crisi”. Si sviluppa di conseguenza un sentimento d’impotenza. Gli operai non si trovano di fronte semplicemente un padrone malvagio ma un capitalismo internazionale in disfacimento. Ogni lotta è una rimessa in causa dell’intero sistema. Ogni lotta pone, fondamentalmente, la questione di un altro mondo. Per entrare in sciopero oggi occorre non soltanto avere il coraggio di affrontare le minacce di licenziamento e il ricatto padronale, ma anche e soprattutto credere che la classe operaia sia una forza capace di proporre qualche altra cosa. Non basta alla classe percepire che il capitalismo si trovi in una impasse per volgersi verso una prospettiva rivoluzionaria. Occorre ancora che abbia la convinzione che una tale prospettiva sia possibile. Ed è giustamente su questo terreno che la borghesia è riuscita a segnare dei punti in seguito al crollo dell’URSS, pretesa “patria del socialismo”. La classe dominante é riuscita a ficcare nella testa degli operai l’idea che la rivoluzione proletaria è una chimera, che il vecchio sogno del comunismo è morto con l’URSS[3]. Gli anni ‘90 sono stati fortemente segnati dall’impatto di questa propaganda. Per un decennio, le lotte sono state in forte ripiegamento. Anche se questo effetto relativo alla “morte del comunismo” ha cominciato leggermente a smorzarsi all’inizio degli anni 2000 e la nostra classe è tornata lentamente a riprendere il cammino della lotta, ne restano tuttavia ancora numerose tracce oggi. L’assimilazione dello stalinismo al comunismo, la mancanza di fiducia della classe operaia a costruire con la propria iniziativa un altro mondo, agiscono come dei catenacci.
Siamo dunque in un’impasse? Certamente no. La prospettiva è senza alcun dubbio verso delle lotte sempre più numerose ed importanti. Momentaneamente, la nostra classe è come se avesse preso un colpo in testa, come se fosse anestetizzata. Ma la crisi resta il terreno più fertile per lo sviluppo delle lotte. Nei mesi e negli anni a venire, la classe dominante cercherà di far pagare a tutti i lavoratori gli enormi deficit budgetari che si accumulano, i piani di salvataggio delle banche e di “rilancio” dell’economia. Prossimamente, particolarmente i pubblici dipendenti, saranno a loro volta presi di mira dagli attacchi e simultaneamente. Nella misura in cui la minaccia di licenziamento incombe meno gravosamente sulle loro spalle, essi avranno la responsabilità di lanciare l’offensiva e di trascinare a fianco a loro i lavoratori del settore privato, i precari, i disoccupati, i pensionati … S’imporrà allora l’idea che solo la lotta unita, di massa e solidale di tutti i settori uniti è in grado di frenare la brutalità degli attacchi. E’ attraverso questa lotta che la classe operaia acquisterà fiducia nella sua forza e nella sua capacità di fare un giorno la rivoluzione comunista mondiale, condizione dell’abolizione di ogni sfruttamento.
Pawel, 21 novembre
[1] A livello internazionale, tuttavia, ci sono degli scioperi che passano sotto silenzio per un black-out quasi totale da parte di tutti i mass-media.
[2] Non esitate voi stessi a reagire scrivendo alla nostra casella postale ([email protected] [195]) o per lettera (R.I., Casella Postale 469, 80100 Napoli).
[3] Vedi l’articolo in questo stesso numero che, a proposito della caduta del muro di Berlino, parla appunto di questa propaganda nauseabonda che assimila lo stalinismo al comunismo.
Ancora una volta, come abbiamo già visto in Medio Oriente, in Iraq, nella ex Iugoslavia e in tanti altri posti del mondo, è necessario riaffermare che le velleità imperialiste, quali che siano le loro scuse “pacifiste”, “democratiche” o “anti-terroristiche” con le quali si portano avanti, non fanno che suonare la carica di un aggravamento delle tensioni guerriere con il loro seguito di morti e di popolazioni spinte nel terrore ed in una miseria indicibile. Per dare un’idea del reale interesse portato - facciamo il caso della Francia - nei riguardi della popolazione civile afgana che avrebbe dovuto contribuire a “liberare” dal terrorismo, bisogna sapere che sono assegnati 200 milioni di euro all’esercito contro soltanto 11 milioni per l’aiuto alla popolazione civile. Globalmente questo “salvataggio” del popolo afgano, che muore lentamente, costa militarmente 3,6 miliardi di dollari al mese. A Kabul, per esempio, mentre i signori della droga sfrecciano su auto 4x4 al fianco dei degni rappresentanti della democrazia occidentale, circa 50.000 bambini lavorano per le strade a lavare automobili, lucidare scarpe, raccogliere carte, bambini che soffrono per fame, malattie, maltrattamenti, violenze e schiavismo.
Le condizioni di vita si aggravano in tutto il paese. Nel Nord-est del paese, nel Badakhshan, una delle regioni al centro del traffico dell’oppio, uno studio dell’OMS considera che vi sono 6.500 decessi materni ogni 100.000 nascite, che è la percentuale più alta registrata a livello mondiale. Il 75% dei neonati superstiti muore a sua volta per mancanza di alimentazione, di assistenza e per il freddo. In più, mediamente, una donna incinta ha una probabilità su otto di morire ed è verosimile che più della metà di queste ultime non raggiungano l’età di sedici anni. Di tutto questo la borghesia ci parla poco, contrariamente a tutto il battage sulle elezioni presidenziali afgane. Il presidente Karzai, pupillo della coalizione, eletto a forza di grossolani intrallazzi e criticato a labbra socchiuse dagli stessi dirigenti occidentali, padrino notorio della droga, è il simbolo del cinismo di questi ultimi: come ha detto Kouchner[1], Karzai è effettivamente completamente corrotto, ma è il nostro uomo!
Il fiasco afgano
Malgrado il fallimento totale della missione militare degli Stati Uniti e dei loro alleati in Afghanistan, questi non cambiano politica. Il Pentagono del resto chiede altri 40.000 uomini, proprio per “avvicinarsi alla popolazione civile e dimostrarle che le forze straniere sono venute per lei, per darle un avvenire sicuro”. In attesa di realizzare questa illusoria prospettiva che appare sempre più lontana, Obama persegue la stessa politica guerriera del suo predecessore, proprio con la stessa giustificazione: ridimensionare Al Qaeda. Ora, secondo la confessione del consigliere per la sicurezza nazionale di Obama al Congresso, James Jones, “La presenza di Al Qaeda è molto ridotta. La valutazione di massima è inferiore a 100 attivi nel paese, nessuna base, nessuna capacità di lanciare attacchi contro di noi o i nostri alleati”. Anche nel vicino Pakistan, i resti di Al Qaeda non sono quasi più visibili. Il Wall Street Journal segnala: “Cacciati dai droni[2] statunitensi, in preda a problemi di denaro e con crescenti difficoltà ad attirare i giovani arabi sulle montagne scure del Pakistan, Al Qaeda vede il suo ruolo rimpicciolire laggiù ed in Afghanistan, secondo i rapporti dell’Informazione e dei responsabili pakistani e statunitensi”.
Allora perché un tale accanimento visto che la minaccia che giustifica questa guerra non è più una realtà? Intanto perché gli alleati dell’America cominciano a scalciare sempre di più (lo stesso Sarkozy, benché non sia un pacifista, non vuole mandare un soldato di più) ed alcuni dichiarano apertamente che è una guerra persa in partenza. Il Primo ministro canadese, Stephen Harper, ha recentemente dichiarato alla CNN: “Noi non vinceremo questa guerra rimanendo semplicemente là. Non batteremo mai gli insorti”. La ragione principale per continuare quest’offensiva è in realtà il controllo strategico di questa regione che è vicina alla Cina, all’Iran e alla Russia, e ancora delle zone di importante traffico di materie prime, di una regione che guarda anche direttamente verso l’Africa. È dunque un obiettivo di primaria importanza per la prima potenza mondiale, i suoi alleati ed i suoi rivali. A tutti questi della sorte della popolazione e del suo benessere non importa proprio nulla, ma da tutti questi ci si può aspettare che progettino di restare ancora molto tempo, seminando sempre più desolazione e massacri.
Wilma, 21 novembre
Martedì 6 ottobre, al Cobo Center[1], nella città di Detroit, alcuni volontari aspettavano l’arrivo dei più poveri per distribuire loro 5000 formulari di domanda d’aiuto finanziario temporaneo (per il pagamento delle pigioni e fatture di servizi pubblici) e di aiuto per l’alloggio (per i senzatetto o quelli che lo diventano in assenza di questi aiuti)[2]. Già alla vigilia, erano stati ritirati circa 25000 di questi documenti presso i diversi servizi municipali. Ma, aprendo le porte, quel giorno i volontari non credevano ai loro occhi: ad aspettare fin dalle prime luci dell’alba non c’erano alcune centinaia di persone, tra le più povere dei quartieri, ma parecchie migliaia! Tra le 15000 e le 50000, secondo le varie stime! In effetti, all’annuncio di questa nuova distribuzione, dei senzatetto, disoccupati di lunga data, ma anche operai recentemente licenziati, lavoratori precari o minacciati da eventuali nuovi attacchi e membri della “classe media” (per esempio professori o impiegati) che stanno per cadere a loro volta nella povertà … in breve, la gran parte della classe operaia della regione si è ammassata nel freddo di prima mattina nella speranza di ottenere qualche briciola d’aiuto per non perdere il proprio alloggio, per mangiare o semplicemente per “reggere” ancora un poco. Lunghe code, dunque, serpeggiavano davanti all’entrata dell’edificio prolungandosi fin nella strada. Nessuno si aspettava una tale folla. I volontari, sbalorditi, sono stati presi letteralmente d’assalto. Le persone che hanno avuto la fortuna di ottenere un formulario si sono affrettate a compilarlo sul luogo a rischio di farselo rubare. Fotocopie (non riconosciute e dunque non valide) sono circolate per 20 dollari ognuna. Per limitare questa truffa ed evitare disordini, gli stessi volontari si sono messi infine a distribuire delle fotocopie, senza avere tuttavia la garanzia che sarebbero state considerate valide dall’amministrazione.
Negli Stati Uniti, la crisi economica colpisce con una brutalità estrema e nessun settore della classe operaia viene risparmiato. Come viene espresso dal vigile del fuoco Dan McNamara, l’assalto di questa folla disperata “è completamente rappresentativo delle difficoltà della classe media in America”[3]. Tony Johnson, disoccupato da tre anni, presente fin dalle 5 di mattina, esprime così la sua collera: “non c'è tranquillità perché non c’è lavoro. Tutti sono alla ricerca di un extra, di un colpo di mano. Non mi contano tra i disoccupati perché non ho sussidio. E’ come se non esistessi proprio. Ma invece esisto. Guardate intorno a voi. Ci sono migliaia... milioni in queste condizioni”[4].
Malgrado tutte le falsificazioni ed i vari “artifici statistici”, la borghesia americana non può più mascherare l’impoverimento palese di tutta la popolazione. Il tasso di disoccupazione è passato dal 4,7% di settembre 2007 al 9,8% di settembre scorso, cifra record dal 1983. E’ dunque raddoppiato in soli due anni![5]
In Europa, siamo soliti dire che gli Stati Uniti sono sempre in anticipo di alcuni anni, che mostrano in qualche modo la strada e che indicano l’avvenire. La classe operaia del mondo intero sa dunque che cosa l’aspetta!
Detto ciò, c’è da credere che la crisi e la miseria attraversano le frontiere più velocemente della moda. In Spagna, il tasso di disoccupazione si è innalzato al 13,9% nel quarto trimestre del 2008, con più di 3,3 milioni di disoccupati. È record nell’Unione Europea e la maggior parte degli analisti ritengono che questa cifra potrebbe raggiungere il 19% nel 2010 (con oltre 4 milioni di disoccupati)[6]! In quanto all’Irlanda, soprannominata la “Tigre celtica” in seguito ai suoi “exploit economici” dell’inizio degli anni 2000 (ancora due anni fa, questa isola batteva dei record con il 5,1% di crescita e “soltanto” il 4,4% di disoccupati), prossimamente il suo tasso di disoccupazione dovrebbe raggiungere il 15 %![7]
La borghesia può anche servirci in tutte le salse le sue grossolane menzogne sulla “ripresa”, “la fine della crisi”, la “fine del tunnel” … Ma la realtà è quella che provano sulla loro pelle i lavoratori, i precari ed i disoccupati del mondo intero: la degradazione terribile delle condizioni di vita. Il capitalismo non può che generare sempre più miseria, esso è diventato un sistema definitivamente decadente che bisogna abbattere
Lisa, 22 ottobre
[1] Centro di esposizione e di conferenze della città.
[2] La città di Detroit ha difatti ripartito l’aiuto federale percepito in funzione dei programmi di Prevenzione dei senzatetto e di Rialloggiamento Rapido, (circa 15,2 milioni di dollari).
[3] Per classe media, bisogna intendere quella parte della classe operaia che aveva un impiego stabile.
[4] Le citazioni e gli elementi di questo articolo sono stati estratti dal sito www.contreinfo.info [197] dove è disponibile anche un video.
[5] Fonte: www.romandie.com/infos/news/200910221854040AWP.asp [198].
In queste ultime settimane tutti i mezzi di comunicazione hanno trattato a lungo e in largo e soprattutto di traverso del ventennale della caduta del muro di Berlino. Trasmissioni speciali e documentari storici, dibattiti televisivi, serie di articoli nei giornali e nei settimanali, nessuno di noi ha potuto evitare questo enorme battage. Perché?
La più grande menzogna della storia
Lo scopo era quello di fare entrare nella testa di ogni operaio e dei suoi figli, con le buone o le cattive, la più grande menzogna della storia. A voler credere tutti questi scribacchini e giornalisti prezzolati, il 9 novembre 1989 sarebbe caduto un regime … comunista.
Quasi ad ogni frase o ad ogni rigo, in mezzo alle descrizioni dell'orrore ben reale dei regimi staliniani (l'assenza totale di libertà, la violenza del potere e gli assassinii della sua polizia politica – come la Stasi - la povertà, la ferocità dello sfruttamento …), è stata ripetuta, martellata, la parola “comunismo”. In un articolo del 2 novembre dal titolo inequivocabile “Comunismo: le ferite dietro il muro”, il giornale Le Monde scriveva così: “Uomini e donne trasportati dall’emozione, chi ride e chi piange; colpi di pala e di martello, mani che afferrano qualche frammento. La caduta del muro di Berlino, il 9 novembre 1989, appare fra le più importanti date della storia europea. Due anni prima della scomparsa dell’URSS, un primo colpo fatale era stato dato all’impero comunista”. Potremmo citare ancora centinaia di passaggi dello stesso tono in tutti i grandi giornali. Per esempio, Le Figaro datato 9 novembre mostrava questo titolo in prima pagina: “La morte del comunismo”. Ed ecco un ultimo esempio: “gli eventi della fine del 1989 erano il segnale della fine del periodo aperto dalla rivoluzione russa e dalla grande ondata rivoluzionaria che aveva scosso il mondo capitalista dopo la Prima Guerra mondiale”. E questa volta non è Le Monde, Liberation o Le Figaro ma l’NPA di Besancenot che apporta così il suo piccolo contributo a questa grande menzogna[1].
Ciò detto, i più attenti avranno notato una sfumatura, una piccola voce apparentemente divergente in mezzo a tutta questa propaganda. I mass media, sempre attenti a mettere in mostra la vetrina democratica, hanno concesso diritto di parola “agli ostalgici”, cioè quelle persone dell’Est (ost in tedesco) che sono nostalgici, che rimpiangono i tempi della RDT (Germania dell’est). Ma, a ben guardare da vicino, quello che ci viene propinata qui è sempre la stessa paccottiglia adulterata. Certamente, c’è un’opinione diversa su come gli operai vivevano sotto il stalinismo, ma la cosa più importante è che questo regime è sempre e ancora assimilato al comunismo!
Bisogna essere chiari: lo stalinismo è stato senza alcun dubbio un regime disumano e sanguinario, ma non ha nulla a che vedere con il comunismo. Ne é addirittura l’antitesi! Lo stalinismo è stato infatti il becchino della Rivoluzione russa. Negli anni 1920 e 1930, esso ha schiacciato fisicamente ed ideologicamente il proletariato. L’arrivo dello stalinismo segna il trionfo della controrivoluzione e della borghesia. In URSS e dunque nella RDT, non vi è stata ombra di comunismo. Ciò che è dunque crollato il 9 novembre 1989 non è la società senza classi sognata da sempre dagli oppressi ma al contrario una forma particolarmente brutale di capitalismo di Stato[2].
La borghesia è stata tuttavia capace finora di convincere il proletariato mondiale del contrario. Come? Utilizzando quel metodo di propaganda descritto da Joseph Goebbels (il ministro della propaganda sotto Hitler): “Una menzogna ripetuta mille volte resta una menzogna, una menzogna ripetuta un milione di volte diventa una verità”. È dunque un milione di volte che la borghesia ha ripetuto e ripetuto ancora che lo stalinismo era uguale al comunismo, che questo regime barbaro era il regime della classe operaia e che infine la caduta del muro di Berlino ed il crollo dell'URSS erano la conclusione inesorabile della rivoluzione operaia del 1917.
Così facendo, la classe dominante è riuscita realmente ad avvelenare la coscienza operaia. Negli anni 1990, e nel mondo intero, la combattività della nostra classe si è fortemente ridotta. Perché lottare, infatti, se nessun altro mondo è possibile oltre il capitalismo? Perché lottare se la lotta operaia conduce inevitabilmente all’orrore dello stalinismo? Quest’assenza di prospettiva ha fortemente pesato sulla classe operaia durante gli anni 1990 e continua ad essere un freno importante alle lotte di oggi. Con la sua propaganda intensa per celebrare i venti anni della caduta del muro di Berlino, la borghesia batte dove fa male; agita con sadico piacere il coltello nella piaga.
Non è il comunismo, ma il capitalismo che non ha futuro
Tuttavia, la propaganda attuale non è la copia esatta di quella degli anni 1990. L’assimilazione fraudolenta dello stalinismo al comunismo è identica, lo abbiamo visto. Ma venti anni fa, questo messaggio era accompagnato da un altro: “Il comunismo è morto. Viva il capitalismo!”. Due anni dopo la caduta del muro, il 6 marzo 1991, George Bush padre, presidente degli Stati Uniti d’America, osava anche annunciare l’arrivo “di un mondo dove le Nazioni Unite, liberate dal’impasse della guerra fredda, sono in grado di realizzare la visione storica dei loro fondatori. Un mondo nel quale la libertà ed i diritti dell'uomo sono rispettati da tutte le nazioni”. Una nuova era di pace e di prosperità doveva aprirsi.
Oggi, ovviamente, il discorso ufficiale ha dovuto, per lo meno, adattarsi. La guerra decima popolazioni intere. Il pianeta viene lentamente distrutto. La crisi economica spinge nella miseria più totale e nella carestia centinaia di milioni di persone … Dove sta dunque la famosa vittoria storica del capitalismo? Tutte le belle promesse di un futuro radioso vanno nella pattumiera! Ciò che resta, è la vittoria della “libertà d’espressione” o, per riprendere una espressione di Coluche[3], il “chiudi la bocca” della dittatura è stato trionfalmente sostituito da il “parla pure, tanto è lo stesso” della democrazia.
Venti anni fa, un pezzo intero di capitalismo completamente sfiancato è crollato con il muro di Berlino. Oggi, il resto del mondo segue la stessa scia perdendo un po’ alla volta un pezzo dietro l’altro. Che agisca sotto la maschera di un regime totalitario o di uno Stato democratico, il capitalismo continuerà ad infliggere all’umanità sempre più miseria e guerre. Ma il proletariato è capace di costruire con le sue mani un altro mondo, una società senza classi e senza sfruttamento, una società basata non sul profitto ma sullo sviluppo del benessere per tutti. Per questo occorre respingere l’assimilazione del comunismo con lo stalinismo; occorre che la nostra classe riprenda fiducia in sé stessa ed in questo mondo che solo lei è capace di costruire!
Tibo, 13 novembre
[1] Fonte: “Chute du mur : le début d’une nouvelle période…”.
[2] Non potendo, nel quadro di questo articolo, sviluppare le ragioni della vittoria della controrivoluzione staliniana, rinviamo ai numerosi articoli della nostra stampa su questo tema, e particolarmente a quello più recente: “Il y a 20 ans : la chute du mur de Berlin [201]”.
[3] Coluche, attore e comico francese divenuto celebre per le sue battute e il suo atteggiamento irriverente verso la politica e il governo e morto nel 1986.
Nonostante i discorsi incessanti sulla “fine della recessione”, tutti gli indici economici ci dicono che il capitalismo è nella sua crisi più profonda e che non c’è in vista nessuna via d’uscita dal tunnel. Dinanzi a profitti in ribasso e ad una concorrenza selvaggia nei mercati, la classe dominante ha una sola risposta: far pagare questa crisi agli sfruttati, ai reali produttori di ricchezza, con licenziamenti, congelamento dei salari, condizioni di lavoro “modernizzate” (cioè farci lavorare di più per guadagnare di meno) e delle riduzioni massicce del salario sociale con tagli nei servizi pubblici. Conservatori, laburisti, liberal-democratici e gli altri sono tutti d’accordo sulla necessità di fare tagli nel settore pubblico - la loro sola preoccupazione riguarda come farli e come farli passare.
Per la stragrande maggioranza di noi ci può essere una sola risposta: resistere a questi attacchi alle nostre condizioni di vita che non ci portano verso un prospero futuro, ma ancora più impoverimento e miseria. E il segnale è che gli operai iniziano a resistere in tutto il mondo, dagli scioperi in massa in Egitto, a Dubaï e nel Bangladesh, alle lotte degli operai, dei disoccupati e degli studenti che si organizzando in assemblee generali in Francia, in Spagna ed in Grecia, passando per lo spiegamento di scioperi e sommosse degli agricoltori in Sudafrica. E anche in Gran Bretagna ci sono gli stessi segnali: con gli scioperi selvaggi nelle raffinerie di petrolio dello scorso inverno, dove gli operai hanno esteso la lotta sfidando le leggi anti-sciopero ed hanno iniziato a librarsi delle idee nazionalistiche che all’inizio avevano distorto il senso dello sciopero; con le occupazioni a Visteon e Vestas, che hanno avuto un ampio sostegno all’interno della classe operaia. E proprio adesso ci sono lotte che covano o che scoppiano in numerosi settori. Gli spazzini di Leeds, gli autisti d’autobus dell’Essex del Yorkshire e del Nord-est, tutti confrontati a riduzioni dei salari, i vigili del fuoco che manifestano contro le nuove turnazioni, gli operai della metropolitana e della British Airways che votano per lo sciopero, e naturalmente, gli operai delle poste.
L’attacco agli operai delle poste
Fra tutti gli scioperi recenti, la lotta alla Royal Mail ha polarizzato l’attenzione di politici e mass media. Al governo, il segretario all’economia, Peter Mandelson, ha espresso la sua “grande rabbia” verso questi scioperi, mentre Cameron, capo del partito conservatore, accusava il governo di Brown di essere troppo tenero con gli impiegati della posta. Il padronato della Royal Mail ha fatto la provocazione di assumere migliaia di lavoratori occasionali durante gli scioperi. La stampa e la televisione hanno organizzato tutta una campagna intorno alla presunta natura suicida degli scioperi ed ai danni che questi causavano all’economia nazionale, arrivando a dire che questi scioperi mettevano in pericolo delle vite umane nella misura in cui i vaccini contro l’influenza A dovevano essere spediti per posta.
Questa focalizzazione non è un caso. La borghesia è perfettamente cosciente che esiste un’enorme spinta di malcontento nella classe operaia. Sa che, quando inizierà ad accelerare la nuova serie di tagli netti imposti dalla crisi economica, questo malcontento potrà soltanto crescere, soprattutto nel settore pubblico che è il più grande datore di lavoro del paese. E sa che gli operai delle poste hanno una reputazione di combattività ed auto-organizzazione. In particolare sono fedeli alla consolidata tradizione di ignorare le leggi anti-sciopero e di decidere di fare sciopero in assemblee generali, senza aspettare che i sindacati organizzino le votazioni. E’ per questo che adesso lo Stato ed i padroni prendono gli impiegati delle poste come capri-espiatori. Vogliono indebolirli prima di doversi occupare di altri settori - isolarli, schiacciarli, ed poi sottometterli, per tentare di dimostrare al resto della classe operaia che battersi per la difesa delle proprie condizioni di vita può portare solo alla sconfitta.
I sindacati rafforzano l’isolamento
Ora c’è il pericolo che i lavoratori delle poste siano isolati – specialmente perché i sindacati stanno rafforzano quest’isolamento. Quando il capo del sindacato CWU, Bill Hayes, ha detto che lui si trovava in una posizione migliore rispetto a Scargill1 nel 1984, ha rafforzato di fatto un’illusione che portò direttamente alla sconfitta dei minatori all’epoca: l’idea secondo la quale se ci si batte abbastanza a lungo e duramente in un solo settore, si può respingere un attacco concertato contro l’insieme della classe operaia.
E’ vero esattamente il contrario: più si lotta nel proprio angolo, più si è votati ad essere sconfitti e demoliti. Più i nostri dirigenti sentono il pericolo di lotte che si estendono all’interno della classe operaia, più sono pronti ad arretrare e fare concessioni.
In ogni settore, i sindacati fanno come se ogni lotta fosse confrontata ad un problema diverso, i cui interessi sarebbero separati del resto, riservati solo a chi ne fa parte. Nelle poste, la CWU - che si era dichiarata d’accordo con l’essenziale del progetto di “modernizzazione” dei servizi postali alla fine dello sciopero del 2007 - presenta le cose come se il problema fosse quello della “consultazione” e dei piani particolarmente “diabolici” della direzione della Royal Mail. In realtà, la direzione della Royal Mail, come tutte le direzioni, fa soltanto il suo lavoro per la classe capitalista e lo Stato che la protegge. Altrove, i sindacati dei trasporti, dei vigili del fuoco ed altri fanno votare i loro membri sulle proprie dispute particolari con la direzione e preparano scioperi da tenere strettamente inquadrati nella cornice sindacale e che non abbiano legami con le altre lotte, anche quando queste hanno luogo nello stesso momento.
Come superare l’isolamento sindacale?
Il problema non è scegliere tra lottare o non lottare. Il problema è come lottare. Abbiamo bisogno della massima unità di fronte all’attacco unito della classe dominante. Ma proprio per questo, non possiamo metterci nelle mani dei sindacati che sono i poliziotti incaricati di far rispettare le leggi dei padroni e che dividono la classe operaia in mille settori e categorie.
Al contrario, abbiamo bisogno di seguire l’esempio degli operai delle poste e delle loro lotte passate, di quelle degli operai delle raffinerie di petrolio dello scorso inverno, ignorando le leggi anti-sciopero e facendo delle assemblee generali dei luoghi dove vengono prese le reali decisioni (come continuare lo sciopero o tornare al lavoro), e dove le delegazioni o i comitati sono eletti e responsabili dinanzi all’assemblea generale. Abbiamo bisogno di assemblee generali come centri di dibattito e discussioni, dove operai di altri settori possano venire, non soltanto per portare il loro sostegno, ma anche per discutere di come estendere lo sciopero.
Lo stesso è per i picchetti e le manifestazioni: devono essere aperti a tutti i lavoratori – occupati, disoccupati, a tempo pieno o ad orario ridotto, ed indipendentemente dal fatto se sono iscritti o no ad un sindacato - e provare ad attirare molti settori diversi verso un fronte comune.
Anche se all’inizio sono soltanto piccoli gruppi di lavoratori che vedono questa necessità di auto-organizzazione e di unità di classe, questi gruppi possono fare il legame gli uni con gli altri e provare a diffondere le loro idee quanto più estesamente possibile.
Il futuro è nelle nostre mani!
World Revolution, sezione in Gran Bretagna della CCI (26 ottobre 2009)
1. Scargill era il capo del sindacato dei minatori che, insieme a Margareth Thatcher, fu l’artefice della sconfitta di questo settore molto combattivo. Sconfitta che servì “da esempio” per tutta la classe operaia in Gran Bretagna ma anche a livello internazionale (vedi i vari articoli che trattano quest’argomento nel nostro sito Internet in inglese ed altre lingue).
Nell’articolo “Perché tanti attacchi e così poche lotte?”, pubblicato in questo stesso numero del giornale, affermiamo che “la violenza con cui colpisce oggi la crisi economica ha, per il momento, un effetto allarmante e dunque paralizzante” sulla classe operaia. Ma questo non significa che non ci siano lotte. Anzi negli ultimi mesi sembrerebbe di assistere ad una certa ripresa della lotta di classe in Italia. Si sente di manifestazioni, occupazioni e di lotte operaie anche ai telegiornali locali e qualche volta nazionali. Oltre ai precari della scuola, di cui abbiamo parlato in un articolo sul web[1] e alla “lotta simbolo” della INNSE, rispetto alla quale abbiamo messo in evidenza la capacità dei padroni di utilizzare le debolezze dei lavoratori per creare delle false piste su cui lottare[2], nuove lotte (ma a volte portate avanti da mesi) hanno avuto la gloria dei mezzi di comunicazione. Tra queste principalmente tre: Alcoa, ex-Eutelia e Termini Imerese.
Come mai i mass-media si danno tanta pena a parlare delle lotte operaie? Il motivo è fin troppo ovvio: contrariamente alle asinate della borghesia sulla fine della lotta di classe e finanche sulla scomparsa della classe operaia, oggi come oggi la classe operaia, ovvero l’insieme di persone che, al lavoro o disoccupate, vedono la loro sopravvivenza legata al rapporto di vendita delle proprie prestazioni lavorative nei confronti di un datore di lavoro, sta passando dei bruttissimi quarti d’ora e non sa più come sbarcare il lunario. Se dunque la borghesia parla di certe lotte è per metterne avanti gli aspetti di fragilità che, nella propaganda borghese, diventano invece elementi di forza, in modo da trasmettere delle false lezioni a tutta la classe operaia. In questo sporco gioco, come vedremo, un ruolo centrale viene svolto proprio da quelle forze che si presentano come i difensori degli interessi proletari, i sindacati e i “partiti di sinistra”.
Anzitutto non si fa che ripetere dappertutto che la INNSE ha vinto e che perciò bisogna diffondere ovunque il suo metodo. E non è un caso che occupazioni di fabbriche, minacce di suicidio di operai appostati su tetti e torri industriali si ripetano in tutta Italia, favorendo un isolamento delle lotte che certamente non aiuta a risolvere le cose. Ma alla INNSE nuove “lotte simbolo” mediatizzate dalla borghesia si aggiungono a quest’opera di dirottamento della lotta di classe, nonostante ancora una volta il coraggio, la combattività e la determinazione degli operai che si stanno battendo a volte da mesi e mesi senza stipendio.
L’Alcoa di Portovesme
All’Alcoa di Portovesme in Sardegna, fabbrica di alluminio che copre insieme all’altro stabilimento di proprietà di Fusina di Venezia il 18% della produzione nazionale, più di 2000 operai rischiano il posto di lavoro. Il motivo è che “i padroni americani dell’Alcoa Italia di fronte alla decisione dell’UE di fargli pagare una penale per aver usufruito di tariffe agevolate dell’Enel nella fornitura di energia elettrica e quindi di aiuti pubblici indebiti, hanno minacciato semplicemente di chiudere tutti gli stabilimenti”[3]. Qual è stata la politica dei sindacati in questa situazione? Prendersela con l’Alcoa e con le forze governative? Certo, ma solo a parole, perché poi, in occasione della manifestazione del 26 novembre a Roma il corteo si apriva con uno striscione su cui era scritto “energia e basta”, cioè risolvere ancora una volta le cose ai padroni sulle spalle della collettività. Quale è stata la conclusione della lotta? Che alla fine la minaccia della cassa integrazione è stata ritirata in cambio di tariffe elettriche agevolate, ma a “norma europea”! Insomma i poveri operai sono stati letteralmente usati in uno sporco gioco delle parti in cui chi ci ha guadagnato è il padrone da una parte e i vari sindacalisti dall’altra. Quest’ultimi in particolare hanno avuto modo di occupare il terreno mostrandosi “radicali”, qualcuno facendosi pure picchiare dalla polizia, mentre finanche un Cappellacci, governatore di centrodestra della Sardegna, assieme ad una sfilza di sindaci multicolori, si è potuto concedere il lusso di fare da sponsor della manifestazione di lotta.
Le lotte degli operai ex Eutelia
Per quanto riguarda le lotte dei dipendenti della ex-Eutelia, sembra esserci sotto qualcosa di addirittura più grosso: “A giugno di quest’anno Eutelia ha ceduto le sue attività industriali in ambito informatico ad Omega Spa che, per la cifra di 96mila euro ha acquisito un volume d’affari di 120 milioni di euro, ordini per 130 milioni e circa 2mila dipendenti, oltre a una rete in fibra ottica di circa 13mila km che naturalmente fa gola a molti, a Berlusconi in primis nell’ottica degli affari collegati al mercato televisivo e delle comunicazioni in generale”[4]. Che l’operazione abbia tutto il sapore di una semplice speculazione lo si vede dal fatto che, dopo solo quattro mesi, Omega licenzia 1200 lavoratori. Da qui è partita la protesta che ha portato prima alla occupazione della sede di Roma, il 28 ottobre, e poi tutte le altre “Pregnana Milanese, Ivrea, Bari, con i lavoratori di Napoli che, non avendo fisicamente una sede da occupare, rinforzano i presìdi delle altre città, particolarmente quello di Roma”[5].
Ma proprio queste occupazioni hanno creato un casus belli su cui si sta ancora a discutere e che è servito alla borghesia per creare divisioni all’interno della classe operaia. Infatti i locali dell’Omega di Roma che sono stati occupati sono in parte in comune con quelli della Eutelia che mantiene una propria attività, motivo per cui i lavoratori di quest’ultima azienda, pur solidarizzando con i primi, non riescono ad andare a lavorare perché anche la loro sede risulta occupata. L’altro fatto di una certa rilevanza è il tentativo da parte proprio dei vertici Eutelia di sgombrare i locali tramite l’inganno e la forza, ovvero tramite l’uso di una squadra di guardie giurate che si sono però presentate come uomini della polizia. Al di là della beffa subita da questi ultimi, fermati nella loro ribalderia proprio dall’intervento - mai così sollecito - della vera polizia, è sintomatico che i mass media abbiano ancora una volta dato risalto a questo episodio. Infatti l’attenzione si è presto spostata sull’inettitudine degli imprenditori e sulla loro responsabilità personale nello sviluppo della crisi, come testimoniano questi interventi in due diversi blog: “Se lo Stato controllasse che le regole vengano rispettate e impedisse le truffe di questi imprenditori spericolati e privi di scrupoli nessun lavoratore si sognerebbe mai di occupare e protestare in questo modo”.[6] “Non c'è un modo per togliere questa azienda ai Landi a darla a dei veri imprenditori???”[7]
E a Termini Imerese
Per quanto riguarda la Fiat di Termini Imerese, dopo tutti gli incentivi alla rottamazione di vecchie auto e tutte le condizioni di favore estremo concesse alla Fiat per creare lo stesso impianto siciliano, l’a.d. Marchionne ha comunicato che il piano aziendale prevede di fermare dal 2011 la produzione automobilistica nell’impianto siciliano. La Lancia Y, di cui l’impianto siciliano aveva finora sfornato 4 milioni di esemplari, sarà infatti prodotta in una versione aggiornata in Polonia, dove la forza lavoro costa meno della metà. Di fronte a questa posizione aziendale, che resta tuttora irremovibile, il leader dei metalmeccanici della Cgil a Termini Imerese, Roberto Mastrosimone, propone lo sciopero generale in Sicilia affermando: “Non possiamo caricare tutto il peso di questa situazione sulle spalle degli operai. Serve una mobilitazione generale, col coinvolgimento di sindacati, industriali, commercianti, amministrazioni locali, studenti e la Chiesa”[8]. Mettendo assieme questa accozzaglia di ceti sociali, il sindacato cerca così di disperdere completamente qualunque velleità della classe di fare riferimento ai suoi fratelli di classe di altri settori. Ma, rimanendo sul piano della difesa dello specifico impianto è chiaro che lo sbocco più probabile è che si arrivi ad una guerra tra poveri: chiudere Pomigliano o Termini Imerese? E’ chiaro ad esempio che la promessa della regione Sicilia di mettere a disposizione della FIAT un finanziamento di 250 milioni di euro costituisce una pressione su Marchionne rispetto alla decisione di quale impianto chiudere, con la conseguente diffusione dell’illusione tra gli operai che basti affidarsi al santo buono per ricevere la grazia di turno. D’altra parte non è difficile capire questo amore per la classe operaia da parte di una serie di personaggi istituzionali di destra, tra cui lo stesso presidente della Regione Sicilia Lombardo: uno stabilimento FIAT con il suo indotto fa un’enorme differenza in territori caratterizzati da una arretratezza economica storica.
Per concludere …
Qual è il minimo comune denominatore della strategia della borghesia nel presentare e nel cercare di orientare queste lotte? Quello di suggerire che, nella misura in cui non è possibile altra soluzione se non nell’ambito di questo sistema, occorre cercare tale soluzione in quello che offre la situazione nell’immediato, senza pensare a costruire per il futuro e fantasticare a vuoto … Questo alimenta naturalmente l’isolamento delle lotte perché si ritiene, a torto, che sia più facile spuntarla in una singola situazione portando avanti una lotta ad oltranza con occupazioni, atti eroici, ecc. piuttosto che raccogliendo un fronte di lotta ampio e unito di fronte al padrone. Ciò giustifica anche il fatto che gli operai in questo momento sembrano dare una certa fiducia ai sindacati e perfino a personaggi istituzionali di destra (Cappellacci, Lombardo, …) oltre che di sinistra, quando si fanno vedere. Ma dagli elementi riportati si vede pure come i capitalisti in questo momento stanno portando avanti una politica che mostra fino in fondo come, in questa fase storica, non ci possa essere alcuna mediazione tra lavoro e capitale. Quando Marchionne decide di traslocare la produzione della lancia Y in Polonia fa un puro calcolo di convenienza economica che è ineccepibile e rispetto al quale nessun governo del mondo gli potrà mai dare torto. Quando l’Alcoa Italia bussa a soldi per le tariffe elettriche o quando l’Eutelia vende i rami secchi per lucrare sulla parte sana dell’azienda e non avere lei il fastidio di licenziare 2000 operai, anche questo rientra nel “normale” comportamento del capitalismo che, di fronte alla necessità di realizzare profitti, non guarda in faccia a nessuno. Allora a che servono tutti questi politici verso cui ci spingono i sindacati se non ad annacquare le lotte?
Ma se tutto questo è vero, questo è solo quello che i media ci vogliono mostrare. Quello che resta coperto è tutto il resto, che è un formicolio di iniziative, di discussioni, di lente ma inesorabili prese di coscienza. Se non ci fosse questa situazione, la borghesia neanche si sognerebbe di alimentare tanta caciara sulle lotte. E invece no. Anche perché le difficoltà economiche ormai coinvolgono oggi anche quelle famiglie di lavoratori che una volta, con un paio di stipendi, vivevano leggermente al di sopra dello strettamente necessario o anche figure qualificate e laureate di lavoratori. Non è un caso che molti lavoratori ex Eutelia siano ingegneri o informatici, che ci sia tra gli altri una ricercatrice chimica che fa anche lei il turno sulla torre del petrolchimico[9], che ci sia una lotta anche dei ricercatori dell’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale[10] oltre ai precari della scuola di cui abbiamo parlato in un precedente articolo.
Un altro aspetto interessante sta nel fatto che, sebbene oggi venga a mancare il luogo della fabbrica come punto di incontro e di discussione dei lavoratori, questi abbiano trovato nella rete internet una parziale alternativa. E’ veramente sorprendente addentrarsi in uno di questi blog e leggere di prima mano tutte le sofferenze dei lavoratori, tutte le loro paure e debolezze, ma anche tutta la vivacità e la forza del confronto, del dibattito. Tra l’altro, se i lavoratori hanno perso la fabbrica, internet ha dato loro la possibilità di aprirsi a tutti gli altri lavoratori e proletari del mondo. E’ questo lato ancora buio e nascosto della classe operaia che deve emergere allo scoperto e fare esplicitamente i conti con l’incapacità del capitalismo di dare una risposta seria ai problemi non solo della classe operaia ma di tutta l’umanità. E’ di fronte a questa constatazione, per quanto si sia fatto affidamento in passato su Bossi o Berlusconi, su Bersani o su Ferrero, che la coscienza di classe sarà chiamata a fare un salto di qualità e a cercare una prospettiva sociale vera.
Ezechiele 8 dicembre 2009
[1] Vedi Solidarietà con la lotta dei precari della scuola [202] in ICConline del 2009.
[2] Di cui pure abbiamo parlato nell’articolo: Solo una lotta unita e solidale consente di resistere agli attacchi [203] in Rivoluzione Internazionale n°162.
[3] Vedi www.cpogramigna.org/?p=520 [204]
[4] Vedi www.marxismo.net/content/view/3565/190 [205]. Uno sviluppo più articolato lo si può avere scaricando i seguenti video: www.youtube.com/watch?v=qeIw76fhs58 [206], www.youtube.com/watch?v=SrYe-pYewJ0 [207], www.youtube.com/watch?v=69GBNWa6gWI&feature=player_embedded [208].
[10] ISPRA, https://precariispra.blogspot.com/ [212].
"Il 5 dicembre sarà un giorno speciale per l'Italia, si terrà probabilmente la più grande manifestazione della storia italiana nata completamente dal basso tramite internet.” Così scriveva qualcuno sul proprio blog su internet a proposito del “No Berlusconi Day”.
Ma come é nato il No Berlusconi Day [213]?
“È nato su Facebook il 9 ottobre 2009 per iniziativa di alcuni blogger (San Precario [214], Franca Corradini, Giuseppe Grisorio [215], Freek, Tony Troja) con l'apertura di una pagina, chiamata "Una manifestazione nazionale per chiedere le dimissioni di Berlusconi [216]. In particolare San Precario ci ha chiamati a raccolta e ha ricevuto immediatamente la nostra adesione entusiasta e convinta. Il numero di fan é aumentato rapidamente da quando i media hanno iniziato ad occuparsi di noi e da quando sono arrivate le prime firme eccellenti, tra cui quelle di Ferdinando Imposimato, Antonio Di Pietro, Paolo Ferrero e Beppe Grillo.”
L’obiettivo principale, ed unico si direbbe, di questo movimento nato dal basso e alimentato dall’alto (dalle firme eccellenti come si dice sopra e da testate come la Repubblica [217] e il Fatto Quotidiano [218]) è fare in modo che Berlusconi si dimetta dall’incarico di Presidente del Consiglio. Da molti mesi i giornali e le televisioni di mezzo mondo non fanno che riportare notizie sulla vita di questo personaggio, sulle sue prodezze a letto con donne reclutate da suoi amici, sui suoi processi di corruzione, sui suoi rapporti con la mafia (ultimo in ordine di tempo). Tutti mettono in risalto l’inadeguatezza di questo personaggio politico per la carica che ricopre, per le sue affermazioni, per i suoi comportamenti. D’altra parte questa campagna, di cui abbiamo parlato nello scorso numero del giornale, ha fatto lievitare una grande voglia di mandare Berlusconi a casa.
Si è vista infatti nei manifestanti, nella gran massa di partecipanti, una grande voglia di cambiare le cose, una rabbia verso tutte le ingiustizie che questa società produce e una profonda indignazione per gli abusi di potere che diventano sempre più ordinaria amministrazione. Ma, se non si arriva a comprendere l’origine di tutto ciò, il rischio è che il malcontento venga diligentemente dirottato dai grandi manovratori della borghesia e del suo Stato verso una sterile lotta contro un singolo personaggio - il più ricco della nazione! - che racchiude in sé tutte le miserie della società borghese. Ma c’è da chiedersi, combattere Berlusconi per proporre cosa in alternativa? Forse che un governo di centro-destra Fini, sebbene più composto nei toni, può darci maggiori rassicurazioni sul piano del posto di lavoro, dei TFR, della sicurezza sociale, di un futuro migliore o nella sostanza non cambia niente? E quand’anche fosse possibile, un governo un po’ più spostato verso il centro potrebbe cambiare qualche cosa? Noi pensiamo di no e per un motivo preciso. In realtà, se oggi al governo c’è Berlusconi, non è certo un caso. Berlusconi non è un uomo uscito dal cilindro, un uomo qualunque, ma qualcuno che è ormai presente sulla scena economica e politica da anni e anni. La classe sociale che prima gli ha dato paglia e fieno nella sua scalata al mondo dei media e del potere economico e poi gli ha aperto le porte del potere politico non lo sapeva? Certo che lo sapeva! Ma lo ha scelto perché non aveva alternative. Anni fa la borghesia è riuscita con l’operazione “Mani Pulite”, portata avanti dalla magistratura, Antonio Di Pietro come primo attore, a smantellare la Democrazia Cristiana e il Partito Socialista Italiano, non più utili allo stato italiano dopo la caduta del muro di Berlino e dello stalinismo. Tutta l’operazione venne contrabbandata come un soffio d’aria nuova che doveva ridare nuova vita alla democrazia italiana, doveva eliminare la corruzione! Non molti anni dopo ci ritroviamo con un processo con accuse al primo ministro per collusione o qualcosa di simile con la mafia! Povera borghesia!
Non sappiamo come continuerà questo movimento del “No Berlusconi Day”, alcuni lo vogliono già trasformare in Partito Viola, altri lo utilizzeranno come massa di manovra per fini più o meno discutibili, ma una cosa è sicura: sarà utilizzato per dare una vernice di bianco alla fatiscente, decomposta società borghese illudendo chi vi partecipa della possibilità di poterla rinnovarla. Si darà credito alla possibilità di avere una stampa e dei partiti che lotteranno per avere giustizia, meno miseria e povertà. Di sicuro servirà a prolungare l’oscuramento delle coscienze dei lavoratori, dei giovani, dei disoccupati, di tutti quelli che non hanno nulla da guadagnare da questo sistema, sia esso governato da Berlusconi sia da tutti gli altri politici della borghesia, di destra e di sinistra. I lavoratori non hanno nulla da guadagnare dallo schierarsi dietro questo o quel movimento borghese, perché solo lottando in modo autonomo e per i propri scopi possono dare vita ad una nuova società!
Oblomov 11 dicembre ‘09
Più recentemente Saviano è intervenuto anche su tematiche più generali, raccontando di soprusi commessi da regimi come quello iraniano, che uccide chi protesta in piazza, quello castrista, che elimina uno scrittore scomodo ed omosessuale, quello stalinista per i suoi gulag, ed altri ancora[2] fino a farsi promotore dell’Appello[3] al presidente del Consiglio perché venga ritirata la legge sul “processo breve” che ha raccolto, fino ad oggi, più di 500 mila firme.
I fatti che denuncia Saviano nei suoi scritti e nei suoi interventi sono senz’altro veri, così come è vero il quadro di corruzione, di malaffare e di oppressione che ne viene fuori. Ed è certo che queste denunce, in particolare con Gomorra, gli sono costate assai care dal punto di vista personale, costringendolo ad una vita nei fatti peggiore che da recluso. Per questo motivo noi rispettiamo la persona di Saviano perché lo riteniamo onesto, anche se pensiamo che la terapia da lui suggerita per combattere il malaffare sia sbagliata.
La visione di Saviano
Per Saviano la mafia è essenzialmente un parassita virulento che, dal sud Italia, invade e occupa lo Stato democratico attraverso la corruzione di politici e uomini d’affari, riuscendo così a ramificarsi e ad assumere un potere tale da condizionare le sorti di intere regioni e le scelte politiche nazionali. Questo sarebbe stato possibile da una parte per sottovalutazione, da parte della classe politica e dello Stato, della pericolosità di questo agente patogeno: “Mentre la politica si disinteressava della mafia, la mafia si è interessata alla politica cooptandola sistematicamente”[4]; dall’altra per la complice omertà delle popolazioni meridionali che assumerebbero un ruolo da spettatori passivi per “paura” o “autoconservazione”, “senza credere o richiedere che sia dallo stesso territorio che possa venire una richiesta di cambiamento. (…) Omertà non è più soltanto tacere. Ormai è chiaro che omertà è soprattutto non voler sapere. Non sapere, non conoscere, non capire, non prendere posizione, non prendere parte. Questa è la nuova omertà”[5].A partire da una tale visione è normale che la risposta conseguente per sconfiggere questo male, e ridare dignità alla nazione e alle popolazioni meridionali, sia la denuncia, la mobilitazione della popolazione nella collaborazione con lo Stato e le forze dell’ordine per segnalare, denunciare i mafiosi e i loro sporchi affari: “La denuncia del killer potrebbe essere l’unico modo di riscattare un’umanità ormai sempre più a suo agio nella disumanità cui è costretta e in cui sembra comodamente vivere”[6]. Secondo Saviano infatti “… dovremmo tutti renderci conto che né media né magistratura saranno mai in grado di produrre da soli alcun cambiamento, fino a quando questo non sia richiesto e sostenuto da una larga parte dei cittadini”[7].
La mafia è veramente un corpo estraneo allo Stato democratico?
Sicuramente molti hanno scoperto con Gomorra vicende impensabili e raccapriccianti, ma la stragrande maggioranza non sa (perché certo non si trova sui libri di storia) che gli Stati, tra cui quello italiano, hanno spesso e volentieri utilizzato la mafia sia sul piano interno che internazionale per quei lavori sporchi che non potevano fare in prima persona ma che erano determinanti per indirizzare nel senso voluto scelte politiche e strategiche di estrema importanza per la borghesia. Giusto qualche esempio:
Già questi pochi elementi[10] ci fanno capire che la mafia non è un prodotto tipico italiano, e tanto meno meridionale, né un corpo estraneo al sistema democratico, ma al contrario ne è parte integrante e funzionale, in Italia, come negli USA, in Cina, in Giappone, in Russia e in massima misura in tutti i paesi dell’Europa dell’est. Inoltre ci fanno capire che il potere che la mafia è riuscita a sviluppare, in Italia ad esempio, non è dovuto solo alla potenza economica prodotta dagli affari illeciti o al numero considerevole di politici e imprenditori facilmente corruttibili del nostro paese, ma è soprattutto il risultato di precise scelte imperialiste e della sostanziale immunità di cui questa gode (tranne qualche arresto ogni tanto giusto per salvare la facciata democratica e legalitaria) per i preziosi servizi che ha offerto e potrà ancora offrire alla classe dominante.
Perché la visione di Saviano è sbagliata
Tornando a Saviano, possiamo ricondurre la sua visione a quella secondo cui ci sono i “buoni” e i “cattivi”, gli onesti ed i disonesti e dove c’è uno Stato che, per quanto funzioni male, assicura comunque un vivere civile e democratico; c’è dunque una parte marcia della società che si può eliminare solo appoggiandosi e sostenendo questo Stato democratico ed una massa amorfa ed abbrutita che si pone solo l’obiettivo di non avere più problemi di quelli che già ha.
La stessa impostazione la ritroviamo nell’intervento di Saviano a Che tempo che fa dell’11 novembre scorso dove, a proposito degli episodi di oppressione avvenuti in Iran, Cile, URSS, ecc., si evidenziava tacitamente una distinzione tra questi Stati totalitari ed oppressori e quelli democratici dove non si muore o non si viene segregati per le idee che si esprimono.
Saviano ci ha raccontato, con giusto sdegno, delle due ragazze uccise dallo Stato iraniano solo perché erano scese in piazza a manifestare la loro voglia di vivere in una società più libera. Ma qual è la differenza tra questo omicidio e quello di Carlo Giuliani al G8 di Genova del 2001 o con i numerosi massacri di operai compiuti dal democratico Stato italiano - nato dalla Resistenza e la cui costituzione recita che l’Italia è una Repubblica basata sul lavoro - in occasione di manifestazioni di sciopero?[11] Qual è la differenza tra le atrocità dell’ex Stato sovietico (stalinista e non certo comunista come lo ha definito Saviano) e lo sterminio di 250.000 vite umane effettuato con il bombardamento di Dresda nel febbraio del 1945 o il genocidio di 200.000 persone e l’agonia inflitta ad altre centinaia di migliaia durata anni e conseguenti allo sganciamento di bombe nucleari su Hiroshima e Nagasaki il 6 e il 9 agosto 1945? Tanto più che queste operazioni, studiate a tavolino tra i democratici USA e Inghilterra, avevano il solo scopo di dare l’ultima stangata ad un nemico ormai sconfitto perché non potesse diventare un domani un forte concorrente? E perché il nostro democratico Stato manda i suoi soldati a combattere in Afghanistan, in Iran ed ovunque si scontrino gli interessi delle grandi potenze anche se questo significa morte e miseria per migliaia e migliaia di persone, come in Serbia e nel Kosovo dove gli aerei italiani erano in prima fila a bombardare?
L’errore di fondo dell’impostazione di Saviano sta nel considerare le cose partendo dall’individuo o da una somma di individui al di fuori del contesto economico, sociale e politico in cui vivono in una data epoca storica. Il contesto che noi viviamo è quello della società capitalista che si fonda sullo sfruttamento ed il dominio di una classe dominante sulla stragrande maggioranza dell’umanità. Il cui motore economico è il profitto e la concorrenza spietata al suo interno tra singoli capitalisti e soprattutto tra le nazioni. Lo Stato, le sue leggi e le sue forze dell’ordine sono lo strumento che ogni borghesia nazionale si dà per mantenere il suo dominio sulla società e fare gli interessi economici, politici, e militari della propria nazione nella concorrenza internazionale. In una tale società non può essere al centro la vita degli uomini, né può esserci spazio per i bisogni dell’umanità, dove per bisogni non intendiamo solo quelli economici ma come dice giustamente Saviano anche di “libertà, … giustizia, … dignità dell’uomo e io aggiungo anche il diritto alla felicità”[12].
Il sopruso, l’oppressione, la violenza fisica e morale, la corruzione, la mancanza di etica e moralità, il malaffare non sono propri di questo o quell’individuo e gruppo di potere, ma fanno parte della natura di questo sistema capitalista.
Se il territorio campano si ritrova oggi avvelenato da tonnellate di rifiuti tossici delle imprese del nord sotterrate dalla camorra non è per una particolare dose di immoralità dei responsabili di queste imprese, ma perché queste, dovendo rispondere alla legge del profitto, hanno utilizzato la via a minor costo per smaltire i loro rifiuti tossici. Se l’apparato politico italiano si è servito per decenni della mafia, delle bombe e della menzogna non è perché i politici dell’epoca fossero particolarmente dei farabutti, ma perché questo corrispondeva agli interessi dello Stato, che sarà pronto a farlo ancora, se necessario.
Regime totalitario o democratico, la sostanza resta la stessa. La democrazia è solo lo strumento più adatto a far accettare questo stato di cose, attraverso l’illusione che se i cittadini chiedono a chi governa una società migliore, saranno ascoltati.
Per questo gli appelli a denunciare i killer, a chiedere con più forza allo Stato di eliminare la mafia ed il malcostume, gli appelli ai capi di Stato per “la difesa del diritto” non funzionano, anzi diventano un mezzo per alimentare l’illusione che sia possibile vivere meglio in questo sistema. Mentre l’unico modo per liberarci di tutto questo marciume è liberarci del capitalismo e questo non lo può fare la massa indistinta dei cittadini, la classe storicamente antagonista a quella dominante e che non ha veramente nulla da perdere.
Eva, 10 dicembre 2009
[1] Roberto Saviano, Gomorra, Mondadori.
[2] Trasmissione Che tempo che fa dell’11 novembre.
[4] “La camorra alla conquista dei partiti in Campania”, la Repubblica, 24 ottobre.
[6] “In cinque minuti la banalità dell'inferno, ora sogno la ribellione del quartiere”, la Repubblica, 30 ottobre.
[7] “Siamo tutti casalesi”, L’Espresso, 7 ottobre, scritto in occasione dell’uccisione di immigrati da parte della camorra a Castel Volturno, Napoli.
[8] Per maggiori elementi su questo argomento vedi il nostro articolo Comment est organisée la bourgeoisie: Le mensonge de l’Etat “démocratique”, II partie. L’exemple des rouages secrets de l’Etat italien, Rivista Internazionale n.77 (in francese, inglese e spagnolo).
[9] Vedi le bombe di piazza Fontana del 1989.
[10] Altro materiale è scaricabile dalla rete, come ad esempio: la storia dell'eroina [220], In Sicilia si gioca la Storia d'Italia (Mafia C... [221], …
[11] Oltre al già citato massacro di Portella delle Ginestre, si può fare riferimento all’articolo sull’autunno caldo pubblicato sul n°31.
[12] “Ecco perché non possiamo tacere” risposta al ministro Bondi, la Repubblica, 23 novembre.
Come si arriva all’Autunno caldo?
Il clima internazionale
Benché il 69 sia stata una vera esplosione di lotte tanto da sorprendere completamente la borghesia italiana, non bisogna credere che il tutto si sia prodotto dalla sera alla mattina. In realtà ci sono molteplici elementi, sia a livello nazionale che a livello internazionale, che concorrono a creare un’atmosfera nuova nella classe operaia italiana, e particolarmente nella sua componente giovane.
Anzitutto c’è, a livello internazionale, una serie di scenari politici che cominciano a colpire la sensibilità di una serie di elementi, tra cui principalmente:
Anche se ognuna di queste vicende internazionali si produceva su un piano esterno ed ostile a quello proletario, essenzialmente quello della guerra, nondimeno esse testimoniavano una profonda sofferenza dell’umanità proprio per queste guerre, ed è questo l’incipit che fa scoccare in molti elementi il disgusto per le violenze prodotte all’epoca e lo sviluppo di un sentimento di solidarietà verso i popoli che soffrono.
All’interno di questo scenario, l’esplosione delle lotte studentesche ed operaie del Maggio francese ha una risonanza internazionale tale da costituire un elemento di riferimento e di incoraggiamento per i giovani e i proletari in tutto il mondo. Il Maggio era stato infatti la dimostrazione non solo che lottare si può, ma che si può anche vincere.
Sul piano nazionale invece …
Sul piano nazionale invece ci sono molteplici componenti che concorrono a preparare il terreno: l’attività di una serie di minoranze politiche che riprendono un lavoro di ricerca e di chiarificazione politica; l’arrivo di una nuova generazione di classe operaia con delle caratteristiche nuove e – non per ultimo – alcune esperienze di scontri di piazza che avevano lasciato il segno nella classe operaia. (…)
Dal ’68 studentesco all’autunno caldo
Parlare di autunno caldo è piuttosto limitativo nei confronti di un episodio storico che, come abbiamo potuto vedere, affonda le radici in una dinamica a livello locale e internazionale che risale indietro per diversi anni. E che, peraltro, non dura una singola stagione, come avviene invece per il maggio francese, ma si stempera – nella sua fase alta – per almeno due anni, nel biennio 68-69 con un riverbero che dura almeno fino al ‘73. Per giunta in questo biennio vi è anche l’esplosione delle lotte studentesche, il ’68 italiano, che tanta parte avrà nella storia degli anni successivi e nella stessa dinamica proletaria, come vedremo in seguito. E’ perciò importante ripercorrere i singoli episodi per ritrovarvi lo sviluppo, progressivo e imponente, della maturazione della lotta di classe nel suo ritorno sulla scena storica in Italia.
Il ‘68 studentesco
Le scuole e soprattutto le università avvertono fortemente i segni di cambiamento della fase storica. Il boom economico che si era prodotto, in Italia come nel resto del mondo, dopo la fine della guerra, aveva permesso alle famiglie proletarie di raggiungere un tenore di vita meno miserabile e alle aziende di puntare su un incremento massiccio della propria mano d’opera. Ciò permette alle giovani generazioni delle classi sociali più deboli di accedere agli studi universitari dove acquisire una professione e una cultura più ampia attraverso le quali raggiungere una posizione sociale più soddisfacente rispetto a quella dei propri genitori. Ma l’ingresso di questi folti strati sociali nell’università porta non solo ad un significativo cambiamento della composizione sociale della popolazione studentesca, ma anche a una diversa destinazione della figura di laureato che non viene più preparato per assumere un ruolo dirigente ma per essere inserito in una rete di produzione – industriale o commerciale che sia – dove l’iniziativa dell’individuo è sempre più ridotta. E’ questo back-ground socio-culturale che spiega, almeno in parte, i motivi della protesta giovanile di questi anni, protesta contro il sapere dogmatico impartito da una casta di baroni universitari dalla gestione feudale, contro la meritocrazia, contro il settorialismo, contro una società che viene avvertita vecchia e ripiegata su sé stessa.
Lo sviluppo delle lotte operaie
Nella primavera del 1968 si accendono in tutta Italia una serie di lotte in una cinquantina di aziende diverse che hanno come obiettivo un aumento salariale uguale per tutti. Nella lotta, dapprima gestita da vecchi attivisti e dal sindacato, si impongono alcuni giovani operai che “criticano vivacemente i sindacalisti e i membri di C.I. sui modi e sulle tappe della lotta” modificando qualitativamente le forme di mobilitazione, attraverso picchetti duri e cortei interni per costringere gli impiegati a scioperare. Questa ventata di gioventù provoca una partecipazione massiccia alla lotta, aumentano le ore di sciopero, vengono effettuate manifestazioni per le vie di Sesto San Giovanni, si arriva a sfondare il portone del palazzo che ospita la direzione aziendale.
Da allora in poi è tutto un crescendo. “Il bilancio del ’69 alla Fiat è un bollettino di guerra: 20 milioni di ore di sciopero, 277.000 veicoli perduti, boom (+37%) delle vendite di auto straniere.”
L’iniziativa operaia non si muove più soltanto su quante ore di sciopero fare, ma anche su come scioperare. Si sviluppa presto una logica del rifiuto del lavoro che corrisponde ad assumere un atteggiamento di rifiuto di collaborare con le sorti dell’azienda rimanendo fermamente attestati sulla difesa delle condizioni operaie. Questo produce una nuova logica di come condurre uno sciopero che punta al minimo sforzo da parte operaia con il massimo di danni prodotti contro il padrone. E’ lo sciopero a gatto selvaggio secondo il quale sciopera solo un ristretto gruppo di operai dalla cui attività dipende però l’intero ciclo di produzione. Cambiando di volta in volta il gruppo che entra in sciopero, si riesce a bloccare più e più volte tutta la fabbrica con il minimo di “spesa”.
Dal punto di vista della rappresentatività operaia é caratteristico di questa fase lo slogan “siamo tutti delegati”, che significa rifiuto di qualunque mediazione sindacale e imposizione al padronato di un rapporto diretto con le lotte degli operai.
In tutto questo il sindacato ha una presenza effimera. In realtà il sindacato, come la borghesia, rimane completamente smarcato dalla capacità e dalla forza della lotta della classe operaia di questi anni, e fa l’unica cosa che gli riesce di fare, cerca di stare a galla e di seguire il movimento, di non farsi scavalcare troppo. D’altra parte una reazione così forte manifestatasi all’interno della classe era anche l’espressione della mancanza di un significativo radicamento dei sindacati nel proletariato e dunque di una loro capacità di bloccare in anticipo o di deviare la combattività, come invece succede oggi. Ma questo non significa che ci fosse una profonda coscienza antisindacale nella classe operaia. Più che altro gli operai si muovono nonostante i sindacati, non contro i sindacati, anche se non mancano significative punte di coscienza.
Il biennio 68-69 è un rullo compressore di scioperi e manifestazioni, con episodi di grande tensione come le lotte nel siracusano, che si conclusero con gli scontri di Avola, o quelle di Battipaglia, che pure dettero luogo a scontri molto forti. Ma una tappa storica all’interno di questa dinamica è certamente costituita dagli scontri di corso Traiano a Torino del luglio 1969. In questa occasione il movimento di classe in Italia matura una tappa importante: il congiungimento tra il movimento operaio e quello delle avanguardie studentesche. Gli studenti, con la loro maggiore disponibilità di tempo e la loro mobilità riescono a dare un significativo contributo alla classe operaia in lotta, che a sua volta riscopre attraverso la gioventù che le si era avvicinata tutta la propria alienazione e tutta la voglia di farla finita con la schiavitù della fabbrica. La saldatura tra questi due mondi darà una forte enfasi alle lotte che si produrranno nel 69, e particolarmente a quella di corso Traiano.
Dal testo del volantino della Assemblea operaia di Torino, redatto il 5 luglio dopo i fatti di corso Traiano, si percepiscono tutta una serie di punti di forza dell’autunno caldo. Anzitutto l’idea dell’egualitarismo, cioè che gli aumenti dovevano essere uguali per tutti, indipendentemente dalla categoria di partenza, e comunque sganciati dalla redditività del proprio lavoro. Inoltre il recupero del tempo libero per gli operai, per poter vivere la propria vita, per poter fare politica, ecc. Da cui la richiesta di riduzione degli orari di lavoro e il rifiuto deciso del lavoro a cottimo.
Come riporta lo stesso volantino, sulla base di questi elementi gli operai torinesi riuniti in assemblea dopo gli scontri del 3 luglio propongono a tutti gli operai italiani di aprire una nuova e più radicale fase della lotta di classe che faccia avanzare, sugli obiettivi avanzati dagli stessi operai, l’unificazione politica di tutte le esperienze autonome di lotta fin qui realizzate.
Per questo verrà indetto a Torino un convegno nazionale dei comitati e delle avanguardie operaie:
Quello che si terrà il 26/27 luglio al Palasport di Torino sarà un “convegno nazionale delle avanguardie operaie”. Parlano operai di tutta Italia che raccontano di scioperi e cortei e ed avanzano come rivendicazioni l’abolizione delle categorie, la riduzione dell’orario di lavoro a 40 ore, aumenti salariali uguali per tutti in assoluto e non in percentuale e la parità normativa con gli impiegati. E’ rappresentata tutta l’industria italiana (…).
Una cosa così non si era mai vista, un’assemblea nazionale delle avanguardie operaie di tutta Italia, un momento di protagonismo della classe operaia a cui è possibile assistere solo in un momento di forte ascesa della combattività operaia, come fu appunto l’Autunno caldo.
I mesi successivi, quelli che sono rimasti nella memoria storica come l’Autunno Caldo, continuarono sulla stessa falsariga. I numerosi episodi di lotta si snocciolano di giorno in giorno con una cadenza infernale (per la borghesia) anche per la ricorrenza della scadenza contrattuale di molte categorie di lavoratori, che costrinsero i sindacati ad indire una serie di scioperi e manifestazioni. Questo enorme sviluppo di combattività accompagnato da momenti di chiarificazione importanti nella classe operaia incontrerà però, nel periodo successivo, degli ostacoli importanti. La borghesia italiana, come quella degli altri paesi che avevano dovuto far fronte al risveglio della classe operaia, non rimane a lungo con le mani in mano e, a parte gli interventi frontali messi in atto dai corpi di polizia, cerca gradualmente di aggirare l’ostacolo con strumenti diversi. La capacità di recupero della borghesia si basa molto sulle debolezze di un movimento proletario che, nonostante un’enorme combattività, era ancora privo di una chiara coscienza di classe e le cui stesse avanguardie non avevano la maturità e la chiarezza necessarie a svolgere il loro ruolo.
Le debolezze della classe operaia nell’autunno caldo
Le debolezze della classe operaia nell’autunno caldo sono legate principalmente alla profonda rottura organica prodotta nel MO e alla scarsa e del tutto insignificante influenza della sinistra comunista: si pensi che sia Battaglia Comunista che Programma Comunista, i principali epigoni della corrente cosiddetta della sinistra italiana, si rifiutano entrambe di riconoscere nell’autunno caldo e nelle lotte di fine anni ’60 la ripresa storica della classe a livello internazionale ed hanno all’epoca una presenza praticamente nulla. Ciò fece sì che i gruppi politici che si erano formati all’epoca fossero spinti a reinventarsi delle posizioni e un programma d’azione. Il problema è però che il punto da cui partivano era l’esperienza fatta all’interno del vecchio e decrepito partito stalinista. Per cui l’enorme generazione di militanti che vengono allo scoperto in contrapposizione a tali partiti ed ai sindacati in maniera spontanea, rompendo i ponti con i partiti di sinistra, rompe un po’ i ponti anche con la tradizione marxista e va alla ricerca di una coerenza rivoluzionaria nelle “novità” che pensa di incontrare per strada, quindi molto spontaneismo, operaismo e nuove teorie. Anche perché chi si presenta nelle vesti di ufficialità è o lo stalinismo vecchia maniera (URSS e i PC classici) o lo stalinismo nuova maniera dei “cinesi”.
Le reazioni dello Stato e l’epilogo dell’autunno caldo
A livello di:
A livello di repressione
E’ l’arma classica della borghesia contro il proprio nemico di classe. Ma non è l’arma decisiva che le permette veramente di realizzare un rapporto di forza contro il proletariato. Tra l’ottobre 1969 e il gennaio 1970 ci sono oltre tredicimila denunce contro studenti e operai.
A livello del gioco fascismo/antifascismo
Questa è l’arma classica giocata contro il movimento studentesco, meno nei confronti della classe operaia, che consiste nel distrarre i movimenti in sterili scontri di strada tra bande rivali con il necessario appello, ad un certo punto, alle componenti cosiddette “democratiche e antifasciste” della borghesia. Insomma una maniera per ricondurre le pecore smarrite all’ovile!
A livello di strategia della tensione
Tutti ricordano la strage della Banca dell’Agricoltura di piazza Fontana, che provocò 16 morti e 88 feriti. Ma non tutti sanno o ricordano che a partire dal 25 aprile ‘69 l’Italia è stata martoriata da una serie infinita di attentati: Fino al 1980 si sono verificati 12.690 attentati ed altri episodi di violenza ispirati da ragioni politiche, che hanno provocato 362 morti e 4.490 feriti.
L’obiettivo evidente di questa strategia era quella di spaventare e disorientare il più possibile la classe operaia, trasmettere il terrore delle bombe e dell’insicurezza, cosa che in parte riuscì. Ma ci fu anche un altro effetto, certamente più nefasto. Nella misura in cui con piazza Fontana si scoprì, almeno a livello di minoranze, che era lo Stato il vero nemico con cui fare i conti, una serie di componenti proletarie e studentesche virarono verso il terrorismo come metodo di lotta politica.
Favorendo la dinamica terrorista
La pratica del terrorismo è diventata così la maniera in cui una serie di compagni coraggiosi ma avventurosi hanno bruciato la loro esistenza e il loro impegno politico in una pratica che con la lotta di classe non ha nulla a che fare. Che anzi ha prodotto i peggiori risultati provocando un arretramento dell’intera classe operaia stretta dalla doppia minaccia della repressione dello Stato da una parte e del ricatto del mondo brigatista e terrorista dall’altra.
Recupero dei sindacati tramite i CdF
L’ultimo elemento, ma non certo per importanza, su cui ha puntato la borghesia in questo periodo è stato il sindacato. Non potendo più far conto sulla repressione per tenere a bada il proletariato, il padronato, che per tutti gli anni del dopoguerra fino alla vigilia dell’autunno aveva così fortemente osteggiato il sindacato, adesso si riscopre democratico e amante delle buone relazioni aziendali. Il trucco ovviamente è che, quello che non riesce a ottenere con le cattive, cerca di averlo con le buone, ricercando il dialogo con i sindacati considerati gli unici interlocutori in grado di controllare le lotte e le rivendicazioni operaie. Questo maggiore spazio democratico fornito ai sindacati, che si espliciterà con la diffusione dei Consigli di fabbrica, una forma di sindacalismo sviluppato dal basso e con una partecipazione non necessariamente di tesserati, dà agli operai l’illusione di essere stati loro ad aver realizzato questa conquista e di potersi fidare di queste nuove strutture per continuare la loro lotta. Come abbiamo visto infatti la lotta degli operai, sebbene spesso fortemente critica nei confronti del sindacato, non arriva che raramente a farne una critica radicale limitandosi a denunciarne le inconseguenze.
Per concludere …
Per concludere possiamo dire che l’autunno caldo è stato certamente un episodio di grande rilievo nella fase di ripresa della lotta di classe a livello internazionale. Una fase in cui, come abbiamo detto, la lotta della classe ha cambiato in maniera duratura i rapporti di forza, ha cambiato completamente la stessa aria che si respirava in fabbrica, ha realizzato tutta una serie di conquiste sul piano rivendicativo sia a livello salariale che delle condizioni di lavoro.
Poi la storia ci ha mostrato come la dinamica di lotta che il proletariato internazionale ha portato avanti, tra alti e bassi, per tutti gli anni successivi abbia subito un lungo e penoso periodo di stasi, anzi di rinculo vero e proprio in seguito all’offensiva che la borghesia ha potuto portare avanti grazie alla confusione generata dalla caduta del muro di Berlino.
Oggi che finalmente assistiamo alla nuova ripresa della lotta di classe a livello internazionale c’è da chiedersi: dopo 40 anni, cosa è cambiato nella lotta di classe? Stiamo meglio o stiamo peggio di 40 anni fa? Su questo piano ci sono molte differenze che si possono fare tra le due fasi, che si possono tutte riassumere in una frase: nel ‘68 si credeva di poter fare la rivoluzione, ma non se ne vedeva veramente la necessità di farla, mentre oggi si avverte precisamente la necessità di fare la rivoluzione, ma manca ancora nella classe la fiducia che possa avere la forza per poterla portare avanti.
Collegamenti
[1] https://it.internationalism.org/tag/1/23/rivoluzione-internazionale
[2] https://it.internationalism.org/tag/vita-della-cci/interventi
[3] https://it.internationalism.org/tag/3/48/guerra
[4] https://it.internationalism.org/tag/4/75/italia
[5] https://it.internationalism.org/tag/2/31/linganno-parlamentare
[6] https://it.internationalism.org/tag/4/85/iraq
[7] https://it.internationalism.org/tag/situazione-italiana/lotte-italia
[8] https://it.internationalism.org/tag/situazione-italiana/imperialismo-italiano
[9] https://it.internationalism.org/tag/vita-della-cci/risoluzioni-del-congresso
[10] https://it.internationalism.org/tag/4/83/medio-oriente
[11] https://it.internationalism.org/tag/6/107/iraq
[12] https://it.internationalism.org/tag/4/70/francia
[13] http://www.giovanetalpa.net/
[14] https://it.internationalism.org/tag/2/25/decadenza-del-capitalismo
[15] https://it.internationalism.org/tag/correnti-politiche-e-riferimenti/influenzati-dalla-sinistra-comunista
[16] https://it.internationalism.org/tag/situazione-italiana/politica-della-borghesia-italia
[17] https://it.internationalism.org/tag/3/54/terrorismo
[18] https://it.internationalism.org/tag/2/29/lotta-proletaria
[19] https://it.internationalism.org/tag/situazione-italiana/economia-italiana
[20] https://it.internationalism.org/tag/2/26/rivoluzione-proletaria
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