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Decadenza e decomposizione del capitalismo
1. Tra gli elementi che determinano la vita della società capitalistica di oggi uno dei più importanti è il fatto che essa è entrata nella sua fase di decomposizione. Dalla fine degli anni ottanta, la CCI ha dimostrato le cause e le caratteristiche di questa fase di decomposizione. In particolare ha messo in evidenza le seguenti questioni:
a) la fase di decomposizione è parte integrante della decadenza del sistema capitalistico, iniziata con la prima Guerra mondiale (come sottolinearono la maggior parte dei rivoluzionari del tempo). Per questo essa conserva le caratteristiche principali della decadenza, con l’aggiunta di nuovi elementi;
b) essa costituisce la fase finale della decadenza, nella quale oltre a trovare accumulati tutti i segni più catastrofici delle fasi precedenti, possiamo vedere rovinare l’intero edificio sociale;
c) in pratica tutti gli aspetti della società sono affetti da decomposizione, in modo particolare quelli decisivi per la sopravvivenza dell’umanità come le guerre imperialiste e la lotta di classe. In questo senso, intendiamo usare la fase di decomposizione come punto di partenza dal quale esaminare gli aspetti più significativi dell’attuale situazione internazionale: le crisi economiche del sistema capitalistico, i conflitti all’interno della classe dominante, specialmente quelli su terreno imperialista, e infine la lotta tra le classi principali della società: borghesia e proletariato.
2. Paradossalmente, l’economia del capitalismo è l’aspetto della società meno affetto da decomposizione. Questo è fondamentale, perché è proprio la situazione economica che, in ultima istanza, determina gli altri aspetti della vita del capitalismo, incluso quelli che concernono la decomposizione. Il modo di produzione capitalistico, proprio come gli altri modi di produzione precedenti, ha avuto una sua fase ascendente giunta al suo massimo alla fine del XIX secolo, dopo di che è entrato nel suo periodo di decadenza all’inizio del XX. All’origine di questa decadenza sta, come per gli altri sistemi economici, il crescente conflitto tra le forze produttive e i rapporti di produzione. Concretamente, nel caso del capitalismo, il cui sviluppo è stato condizionato dalla conquista dei mercati extra-capitalisti, la prima Guerra mondiale costituì la prima manifestazione significativa della sua decadenza. Con la fine delle conquiste economiche e coloniali nel mondo da parte degli Stati capitalisti, questi ultimi furono portati a confrontarsi in una disputa per accaparrarsi il mercato gli uni a spese degli altri. Da allora, il capitalismo è entrato in un nuovo periodo della sua storia, definito dall’Internazionale Comunista nel 1919 come epoca di guerre e rivoluzioni. Il fallimento dell’ondata rivoluzionaria scoppiata durante la prima guerra mondiale generò le crescenti convulsioni della società capitalistica: la grande depressione degli anni ’30 e le sue conseguenze, una seconda guerra mondiale ancor più sanguinaria e barbara della prima. Il periodo che seguì, descritto da alcuni “esperti” borghesi come i “gloriosi anni trenta”, videro il capitalismo alle prese con l’illusione di sopravvivere alle sue contraddizioni mortali, una illusione ancora cullata da alcune correnti che si dicono a favore della rivoluzione comunista. In realtà, questo periodo di prosperità, permesso dalla congiunzione di elementi circostanziali e dallo sviluppo di misure per dissimulare gli effetti delle crisi economiche, finì ancora una volta nelle crisi aperte del modo di produzione capitalista della fine degli anni ’60, che crebbero vigorosamente a metà dei ’70. Queste crisi aperte del modo di produzione capitalistica aprirono ancora una volta il varco all’alternativa già annunciata dall’Internazionale Comunista: la guerra mondiale, o lo sviluppo delle lotte operaie dirette verso l’abbattimento del capitalismo. La guerra mondiale, contrariamente a quanto possano pensare alcuni gruppi della sinistra comunista, in nessun caso rappresenta una “soluzione” alle crisi del capitalismo, incapace di rigenerarsi e riavviare una crescita dinamica. Questo è il circolo vizioso del sistema: inasprimento delle tensioni tra settori nazionali del capitalismo, che danno vita ad una crescita senza freni del livello militare, che infine sfocia nella guerra mondiale. In effetti, come conseguenza dell’aggravamento delle convulsioni economiche del capitalismo, ci fu un netto acuirsi delle tensioni imperialiste agli inizi degli anni ’70, ma che comunque non era possibile culminassero in una guerra mondiale. Il motivo è la rinascita della lotta di classe dal 1968 in poi, come reazione ai primi effetti della crisi. Allo stesso tempo, la classe operaia, anche se fu capace di bloccare l’unica prospettiva possibile della borghesia (se è possibile chiamarla “prospettiva”), e nonostante un livello di combattività che non si vedeva da decenni, non fu capace di affermare la propria prospettiva, la rivoluzione comunista. Fu proprio questa situazione, in cui nessuna delle due classi decisive nella vita della società era in grado di imporre la propria prospettiva, una situazione in cui la classe dominante si è ridotta a vivere alla giornata, a segnare l’inizio dell’entrata del capitalismo nella sua fase di decomposizione.
3. Una delle manifestazioni maggiori di questa assenza di prospettiva storica è lo sviluppo dell’”ognuno per sé”, che affligge la società a tutti i livelli, dagli individui allo Stato. Comunque, a livello della vita economica del capitalismo, non possiamo riscontrare un cambiamento considerevole con l’ingresso nella fase di decomposizione. Infatti, l’“ognuno per sé” e la “guerra di tutti contro tutti” sono caratteristiche congenite del modo di produzione capitalista. Sin dall’inizio del suo periodo di decadenza, il capitalismo ha dovuto temperare queste sue caratteristiche attraverso il massiccio intervento dello Stato nell’economia, mezzo usato durante la prima Guerra mondiale e riattivato negli anni ’30, in particolare attraverso il fascismo e le politiche keynesiane. L’intervento da parte dello Stato fu completato, nel corso della seconda guerra mondiale, dalla messa a punto di organismi internazionali come il FMI, la Banca Mondiale e l’OCSE, e infine la Comunità Economica Europea (antenata dell’Unione Europea) al fine di prevenire le contraddizioni del sistema economico che lo guidavano verso il disastro generale, come fu col Giovedì Nero del 1929. Oggi, a dispetto di tutti i discorsi sul liberalismo e il libero mercato, gli Stati non hanno rinunciato ad intervenire nelle economie dei rispettivi paesi, o ad usare strutture atte a prolungare per quanto possibile le relazioni tra essi, o a crearne di nuove come il WTO (Organizzazione Mondiale del Commercio). Tuttavia, nessuna di queste politiche, o di questi organismi, pur avendo messo un freno significativo allo scivolare del capitalismo verso le crisi, è riuscita nell’intento di superare le contraddizioni, a dispetto di tutti i sermoni sul livello di crescita “storico” dell’economia mondiale e sulle performance straordinarie dei giganti asiatici, l’India e soprattutto la Cina.
Crisi economica: una lunga scivolata nel debito
4. La base del livello dei tassi di crescita del PIL globale dei recenti anni, che ha provocato l’euforia della borghesia e dei suoi insulsi intellettuali, non è proprio nuova. E’ la stessa che ha permesso di assicurare che la saturazione del mercato, alla radice della crisi aperta alla fine degli anni ’60, non soffocasse l’economia mondiale. Ma i tassi di crescita vanno sommati come debito crescente. Allo stato attuale, la “locomotiva” principale della crescita economica mondiale è costituita dalla massa di debiti dell’economia americana, sia a livello di bilancio statale che a livello commerciale. Proprio in questi giorni la minaccia del boom edilizio negli USA, che è stato propulsivo per l’economia sollevandola dal pericolo di un catastrofico fallimento bancario, ha causato un considerevole allarme tra gli economisti. Questo allarme è stato causato dalla prospettiva di un altro fallimento che ha colpito i cosiddetti "hedge funds" (fondi spazzatura) a seguito del collasso di Amaranth nell’Ottobre 2006. La minaccia è abbastanza seria perché questi organismi, la cui ragione di esistere è trarre grossi profitti a breve termine dalla variazione dei tassi di scambio e del prezzo delle materie prime, sono ormai parte integrante del sistema finanziario internazionale. Infatti, sono le più “serie” istituzioni finanziarie che hanno messo una parte del proprio assetto in questi fondi speculativi. Inoltre, le somme investite in questi organismi sono considerevoli, pari al PIL annuale di un paese come la Francia; e agiscono come una leva per ancor più considerevoli movimenti di capitale (prossimi a 700.000 miliardi di dollari nel 2002, cioè 20 volte superiore alle transazioni dei beni e dei servizi, i prodotti “reali”). E niente di tutto ciò sarà cambiato dalle lamentele degli alter-mondialisti o dai critici della finanziarizzazione dell’economia. Queste correnti politiche vorrebbero vedere un capitalismo più pulito e giusto che rinunci alla speculazione. In realtà, la speculazione non è soltanto il prodotto di un “cattivo” tipo di capitalismo che ha dimenticato le proprie responsabilità di investire in settori realmente produttivi. Come Marx già dimostrava nel XIX secolo, la speculazione è il risultato del fatto che, quando si affaccia una prospettiva di scarsità o insufficienza di sbocchi per gli investimenti produttivi, i detentori di capitale preferiscono cercare profitti a breve termine in una enorme lotteria, un casinò planetario, proprio come quello in cui oggi è stato trasformato il capitalismo. Volere che oggi il capitalismo rinunci alla speculazione è realistico come una tigre vegetariana o un dragone che non sputa fiamme.
5. Gli eccezionali tassi di crescita osservabili in paesi come India e Cina non provano assolutamente la presenza di nuova linfa nell’economia mondiale, anche se hanno contribuito considerevolmente agli alti tassi di crescita dell’ultimo periodo. Alla base dei tassi di crescita eccezionali c’è, paradossalmente, ancora una volta la crisi del capitalismo. La crescita deve la sua dinamica essenzialmente a due fattori: l’esportazione e l’investimento di capitali provenienti da paesi più sviluppati. Se le reti commerciali sono più inclini alla distribuzione dei beni made in China è perché possono venderli a prezzi molto più bassi, cosa che è diventata una assoluta necessità data la crescente saturazione dei mercati e la oltremodo esacerbata competizione commerciale; allo stesso tempo, questo processo abbassa i costi della forza lavoro nei paesi più sviluppati. La stessa logica è riscontrabile nel fenomeno della ”delocalizzazione” (outsourcing), il trasferimento delle attività industriali di grandi imprese verso i paesi del terzo mondo, dove la forza lavoro è incomparabilmente più economica che nei paesi sviluppati. Va ancora notato che l’economia cinese, beneficiaria della delocalizzazione nel proprio territorio, tende a sua volta a fare lo stesso verso i paesi dove i salari sono ancora più bassi, come in Africa.
6. Dietro la “crescita a due cifre” della Cina, specialmente per l’industria, vi è un sfruttamento forsennato della classe operaia che spesso sopravvive in condizioni analoghe a quelle della classe operaia inglese della prima metà del XIX secolo, come Engels ha denunciato nel suo notevole lavoro del 1844. In sé e per sé questo non è un segno della bancarotta del capitalismo perché era sulla base di quel barbaro sfruttamento che questo sistema si lanciava alla conquista del globo. Detto questo, ci sono differenze fondamentali tra lo sviluppo del capitalismo e le condizioni della classe operaia nei primi paesi capitalisti e nella Cina di oggi:
- innanzitutto, la crescita del numero dei lavoratori dell’industria in un dato paese non corrispose alla riduzione del numero negli altri: i settori industriali di Inghilterra, Francia, Germania o USA si svilupparono parallelamente. Allo stesso tempo, grazie alla resistenza delle lotte del proletariato, le condizioni di vita dei lavoratori subirono un progressivo sviluppo per tutta la seconda metà del diciannovesimo secolo.
- Nel caso della Cina odierna, la crescita dell’industria (come negli altri paesi del terzo mondo) va a danno di quei settori industriali dei vecchi paesi capitalisti che tendono gradualmente a scomparire. Allo stesso tempo, l’outsourcing è un modo per sferrare un attacco puro e semplice alla classe operaia di questi paesi. Questo tipo di attacco è iniziato prima dell’outsourcing ed è diventato una pratica comune, ma ha consentito che esso si intensificasse maggiormente, attraverso la disoccupazione, la precarietà, l’impoverimento culturale e l’abbassamento delle condizioni di vita. E nelle regioni industriali della Cina, dove si concentrano milioni di lavoratori, l’unica prospettiva futura è il patimento di un feroce sfruttamento della forza lavoro e una crescente pauperizzazione.
Quindi, lungi dal rappresentare un soffio di aria buona per l’economia capitalista, il “miracolo” in Cina e in alcuni paesi del terzo mondo è solo una rappresentazione della decadenza del capitalismo. Inoltre, la totale dipendenza dell’economia cinese verso le esportazioni è fonte di una considerevole vulnerabilità ad ogni calo della domanda degli attuali clienti. Cosa che potrebbe verificarsi duramente dato che l’economia americana è obbligata a fare fronte ai colossali debiti, che attualmente gli permettono di giocare il ruolo di locomotiva per la domanda mondiale. Quindi, proprio come il miracolo delle crescite a due cifre delle tigri e dragoni asiatici del 1997 giunse ad una spiacevole fine, l’attuale miracolo cinese, anche se non ha le stesse origini ed ha margini di gran lunga maggiori a propria disposizione, dovrà presto o tardi confrontarsi con l’impasse storica del modo di produzione capitalistico.
Aggravamento del caos e delle tensioni imperialiste
7. La vita economica della società borghese non trova scampo dalle leggi della decadenza capitalista, e per diverse ragioni: è a questo livello che la decadenza si manifesta prima e soprattutto. Tuttavia, per le stesse ragioni, le maggiori espressioni della decomposizione hanno fino ad ora risparmiato la sfera economica. La stessa cosa non si può dire per la sfera politica della società capitalistica, e in particolare per l’area degli antagonismi tra i settori della classe dominante e soprattutto l’area degli antagonismi imperialisti. Infatti, la prima grande espressione dell’ingresso del capitalismo nella fase di decomposizione concerne precisamente l’area dei conflitti imperialisti: il collasso del blocco imperialista dell’est alla fine degli anni ’80, che portò rapidamente anche alla sparizione del blocco occidentale.
E’ a livello delle relazioni politiche diplomatiche e militari degli Stati che vediamo chiaramente il fenomeno dell’”ognuno per sé”, caratteristica importante della fase di decomposizione. Il sistema dei blocchi portava con sé il pericolo di una terza Guerra mondiale, che senza dubbio avrebbe avuto luogo se il proletariato mondiale non avesse rappresentato un ostacolo sin dalla fine degli anni sessanta. Ciononostante esso rappresentava una certa “organizzazione” delle tensioni imperialiste, principalmente attraverso la disciplina imposta all’interno dei blocchi dalla potenza dominante. La situazione che si impose nel 1989 è leggermente diversa. Certamente, lo spettro di una Guerra mondiale non ha ossessionato ulteriormente il pianeta, ma allo stesso tempo, abbiamo visto il liberarsi degli antagonismi imperialisti e delle guerre locali in cui sono implicate direttamente le grandi potenze, in particolare la più potente, gli USA.
Gli USA, che per decenni sono stati i “gendarmi del mondo”, hanno dovuto tentare di proseguire e rinvigorire questo ruolo a seguito del “nuovo disordine mondiale” che è fuoriuscito dalla fine della Guerra Fredda. Ma nonostante abbiano certamente assunto questo ruolo sulla Terra, essi non l’hanno fatto per puntare a contribuire alla stabilità del pianeta, ma per conservare fondamentalmente la loro leadership mondiale, messa in questione più volte dal fatto che non esisteva più il cemento che manteneva insieme i due blocchi imperialisti – la minaccia del blocco rivale.
Con la definitiva scomparsa della “minaccia Sovietica”, il solo modo con cui la potenza americana poteva imporre la propria disciplina era di contare sulla propria forza, l’enorme superiorità a livello militare. Ma facendo ciò, la politica militare degli USA è diventata uno dei principali fattori dell’instabilità mondiale. Ne abbiamo diversi esempi dagli inizi degli anni ’90: la prima guerra del Golfo, nel 1991, con cui si tentò di riannodare i legami logori che tenevano gli ex alleati del blocco occidentale (e non per obbligare a rispettare le leggi internazionali, ritenute non rispettate dall’invasione dell’Iraq del Kuwait, che fu in effetti un pretesto). Poco tempo dopo, in Iugoslavia, l’unità tra i vecchi alleati del blocco occidentale andava in pezzi: la Germania dà fuoco alla miccia spingendo la Slovenia e la Croazia a dichiarare la loro indipendenza; la Francia e l’Inghilterra ritornavano all’Entente Cordiale degli inizi del XX secolo sostenendo gli interessi imperialisti della Serbia mentre gli stessi Usa si presentavano come guardiani dei musulmani bosniaci.
8. Il fallimento della borghesia Americana, durante gli anni ’90, nell’ imporre la propria autorità in ogni direzione, anche grazie ad una serie di operazioni militari, la condusse a cercare un nuovo nemico del “mondo libero” e della “democrazia”, così da riuscire ancora una volta ad allineare le potenze mondiali e specialmente i vecchi alleati: il terrorismo islamico. Gli attacchi dell’11 settembre, che sembra sempre di più (anche a più di un terzo della popolazione USA e a tà dei cittadini di New York) che fossero voluti se non effettivamente preparati dall’apparato statale americano, sono stati il punto di partenza per questa nuova crociata. Cinque anni dopo questa politica si è dimostrata fallimentare. Se gli attacchi dell’11 settembre permisero agli USA di trascinare nell’intervento in Afghanistan paesi come Francia e Germania, questo non gli riuscì nell’avventura irachena del 2003; provocò addirittura la nascita di una alleanza di circostanza contro l’intervento in Iraq tra questi due paesi e la Russia. Ed infine, alcuni tra i maggiori alleati della “coalizione” intervenuta in Iraq, come Spagna e Italia, hanno abbandonato la nave che affondava. La borghesia americana ha fallito ognuno degli obiettivi preposti per la guerra in Iraq: l’eliminazione delle armi di distruzione di massa, l’instaurazione di una democrazia pacifica; la stabilità e un ritorno alla pace nella regione sotto l’egida dell’America; la sconfitta del terrorismo; l’adesione della popolazione americana agli interventi militari del nuovo governo.
La questione delle armi di distruzione di massa fu subito sistemata: divenne chiaro che le uniche armi del genere in Iraq erano quelle portate dalla coalizione. Questo dimostrò rapidamente le menzogne architettate dalla amministrazione Bush per invadere l’Iraq.
Per quanto riguarda la battaglia contro il terrorismo, è chiaro che con l’invasione dell’ Iraq non si è andati nella giusta direzione ma al contrario si sono ottenuti effetti contrari, sia in Iraq che negli altri paesi, come abbiamo visto a Madrid nel marzo 2004 e a Londra nel luglio 2005.
L’instaurazione di una democrazia pacifica in Iraq prese la forma della nascita di un governo fantoccio che non avrebbe potuto mantenere il minimo controllo su paese senza il massiccio supporto delle truppe americane – un controllo in ogni caso limitato a poche “zone di sicurezza”, lasciando il resto del paese esposto al massacro tra sciiti e sunniti e agli attacchi terroristici che hanno causato decine di migliaia di vittime dalla caduta di Saddam Hussein.
Pace e stabilità nel Medio Oriente non sono mai sembrate così lontane: nei 50 anni di conflitto tra Israele e Palestina, gli ultimi 5 anni hanno visto un continuo aggravamento della situazione, fattasi ancora più drammatica con gli attriti tra Hamas e Fatah e dal discredito crescente del governo israeliano. La perdita di autorità nella regione da parte del gigante USA, a seguito della disastrosa disfatta in Iraq, chiaramente non è estranea a questa caduta e al fallimento del “processo di pace” di cui era il maggior sostenitore.
La perdita di autorità è anche responsabile delle crescenti difficoltà delle forze NATO in Afghanistan e della perdita di controllo del governo Karzai nel paese di fronte ai Talebani.
Inoltre, la crescente sfrontatezza dell’Iran nei suoi preparativi per costruire armi nucleari è una diretta conseguenza dell’impantanamento degli Stati Uniti nelle sabbie mobili dell’Iraq, che per il momento impediscono un simile massiccio uso di truppe altrove.
Infine, l’intento della borghesia americana di seppellire una volta per tutte “la sindrome del Vietnam”, cioè la reticenza della popolazione americana a supportare le proprie truppe inviate sui campi di battaglia, ha avuto l’effetto opposto. Sebbene, in un periodo iniziale l’emozione provocata dagli attacchi dell’11 settembre ha reso possibile un forte sentimento nazionalista all’interno della popolazione, promuovendo il desiderio di unità nazionale e la determinazione a dichiarare la “guerra al terrore”, negli anni recenti si è manifestata con forza la reazione alla guerra e l’opposizione all’invio di truppe USA lontano da casa.
La borghesia statunitense oggi in Iraq si trova di fronte ad un vero vicolo cieco. Da una parte, sia dal punto di vista strettamente militare che da quello economico e politico, non ha i mezzi per reclutare una forza che eventualmente potrebbe permettere di “ristabilire l’ordine”. Dall’altra, non può ritirarsi semplicemente dall’Iraq senza ammettere apertamente il totale fallimento della propria politica, aprendo così le porte alla disgregazione dell’Iraq e alla totale destabilizzazione della regione.
9. Perciò il bilancio del mandato di Bush junior è di certo uno dei più disastrosi della storia USA. L’ascesa dei Neocon alla testa dello Stato rappresenta una vera catastrofe per la borghesia americana. La questione posta è la seguente: come è possibile che la borghesia leader del mondo faccia appello a questa banda di irresponsabili e avventurieri incompetenti per prendere in carico la difesa dei propri interessi? Cosa c’è dietro questa cecità della classe dominante del paese dal capitalismo più avanzato? Nei fatti, l’arrivo del gruppo di Cheney, Rumsfeld e Co. alle redini dello stato non è stato semplicemente il risultato di un monumentale errore nel casting da parte della classe dominante. Mentre ha considerevolmente peggiorato la situazione degli Stati Uniti a livello imperialista, ha anche rappresentato l’espressione dell’impotenza degli Usa rispetto al crescente indebolimento della sua leadership e più in generale di fronte allo sviluppo dell’”ognuno per sé” nelle relazioni internazionali che caratterizza la fase di decomposizione.
La migliore prova di questo fatto è che la borghesia più intelligente e abile del mondo si è fatta trascinare in questa avventura suicida in Iraq. Un altro esempio della inclinazione per scelte imperialiste catastrofiche da parte dei borghesi più efficienti, che fino ad ora erano riusciti ad usare con maestria la propria potenza militare, è visibile a scala minore nell’avventura catastrofica di Israele in Libano nell’estate del 2006, un’offensiva condotta col lasciapassare degli “strateghi” di Washington. Questa mirava ad indebolire Hezbollah ed ha avuto come risultato il suo rafforzamento.
La distruzione accelerata dell’ambiente
10. Il caos militare che si sviluppa nel mondo, che spinge vaste regioni in una malsana desolazione, in modo notevole nel Medio Oriente ma soprattutto in Africa, non è la sola manifestazione del vicolo cieco storico raggiunto dal capitalismo, e neanche la più pericolosa per la specie umana. Oggi appare chiaro che il perdurare del capitalismo porta con sé la minaccia della distruzione dell’ambiente che rende possibile la vita umana. Le continue emissioni di gas serra al livello attuale, col risultato del surriscaldamento del pianeta, annunciano l’arrivo di catastrofi senza precedenti (ondate di caldo, uragani, desertificazione, alluvioni…) con la conseguenza di una sfilza di terrificanti disastri umani (carestie, migrazioni di centinaia di milioni di esseri umani, sovrappopolazione nelle aree meno afflitte dai cambiamenti climatici…). Rispetto ai primi effetti visibili del degrado ambientale, i governi e i circoli dirigenti della borghesia non possono a lungo nascondere alla popolazione mondiale la gravità della situazione e il futuro catastrofico che si annuncia. D’ora in avanti, le borghesie più potenti e tutti i partiti politici si vestono di bianco promettendo di prendere le misure necessarie per salvare l’umanità dal disastro incombente. Ma con la distruzione delle risorse è come col problema della guerra: tutti i settori della borghesia dichiarano di essere contro la guerra, ma da quando il sistema è entrato nella fase di decadenza questa classe è stata incapace di garantire la pace. E questo non ha niente a che vedere con le buone o le cattive intenzioni (anche se si possono trovare i più sordidi interessi dietro quei settori che spingono fortemente per la guerra). Anche i leader borghesi più “pacifisti” non possono sfuggire alla logica oggettiva che metterà a repentaglio tutte le loro pretese “umaniste” e “razionali”. Allo stesso modo, le buone intenzioni frequentemente sventolate dai leader della borghesia che hanno a cuore la protezione dell’ambiente, anche quando non sono soltanto dirette alla vittoria elettorale, contano poco contro le costrizioni dell’economia capitalistica. In effetti affrontare il problema dell’emissione di gas serra richiede un migliore struttura della produzione industriale, della produzione energetica , dei trasporti, della casa, quindi un massiccio e prioritario investimento in questi settori. Ciò significherebbe mettere nella questione maggiori interessi economici, sia a livello della grande impresa che statale. Concretamente, se uno Stato mettesse mano alle misure necessarie a contribuire effettivamente a risolvere il problema, sarebbe immediatamente punito con crudeltà dalla competizione del mercato mondiale. Quando si tratta di decidere come gli Stati dovrebbero combattere il riscaldamento globale, si ha lo stesso problema che ogni borghesia affronta rispetto agli aumenti salariali. Sono tutti per prendere le giuste disposizioni… purché siano gli altri a prenderle. Finchè il modo di produzione capitalista sopravvive, l’umanità è condannata a subire catastrofi crescenti che questo sistema in disgregazione impone, minacciando la sua stessa sopravvivenza.
Perciò, come la CCI mostra da 15 anni, la decomposizione del capitalismo porta con sè serie minacce per l’esistenza umana. L’alternativa annunciata da Engels alla fine del XIX secolo, socialismo o barbarie, è stata una sinistra verità per tutto il XX secolo. Cosa ci offre il XXI secolo come prospettiva è abbastanza semplice: socialismo o distruzione dell’umanità. Questa è la vera posta in gioco cui è confrontata l’unica forza sociale in grado di sovvertire il capitalismo, la classe operaia mondiale.
La continuazione della lotta di classe e la maturazione della coscienza
11. Il proletariato, come abbiamo visto, si è già trovato di fronte a questa posta in gioco per alcuni decenni, sin dalla storica ripresa dopo il 1968 che mise fine alla più profonda contro-rivoluzione delle storia, e che impedì al capitalismo di mettere in atto la propria risposta alla aperta crisi economica: la Guerra mondiale. Per due decenni si susseguirono le lotte dei lavoratori, con alti e bassi, con conquiste e perdite, che permisero ai lavoratori di acquisire una grande esperienza di lotta, in particolare sul ruolo di sabotaggio dei sindacati. Allo stesso tempo, la classe operaia fu soggetta sempre più al peso della decomposizione, come si nota in particolare nella reazione al sindacalismo classico che scade nel corporativismo, come è testimoniato dal peso dello spirito dell’ognuno per sè all’interno delle lotte. Fu infine la decomposizione del capitalismo a dare il colpo di grazia alla prima serie di lotte proletarie con la più spettacolare manifestazione possibile, il collasso del blocco dell’est e del regime stalinista nel 1989. Le assordanti campagne della borghesia sul “fallimento del comunismo”, la “vittoria definitiva del capitalismo liberale e democratico”, la “fine della lotta di classe” e della classe operaia stessa, portò ad un importante arretramento del proletariato, sia a livello della coscienza che della combattività. Questo arretramento fu profondo è durò più di dieci anni segnando un’intera generazione di lavoratori che si trovarono disgregati e demoralizzati. Questo disgregamento fu provocato non solo dagli eventi che avvennero alla fine degli anni ottanta, ma anche da quelli che ne conseguirono, come la guerra del Golfo nel 1991 e la guerra nella ex Jugoslavia. Questi eventi costituirono una stridente refutazione delle parole di George Bush senior, che aveva annunciato che con la fine della Guerra Fredda si entrava in un “nuovo ordine” di pace e prosperità; ma nel contesto generale di disorientamento della classe, quest’ultima non fu in grado di riacquistare la propria coscienza di classe. Al contrario, questi eventi aggravarono il senso profondo di impotenza di cui già soffriva, erodendo ulteriormente la propria fiducia in se stessa e lo spirito di lotta.
Nel corso degli anni novanta la classe operaia non ha rinunciato completamente alla lotta. I continui attacchi capitalisti obbligavano a resistere con lotte salariali, ma queste lotte non avevano né la portata, né la coscienza e neanche la capacità di confronto con i sindacati che avevano segnato le lotte del precedente periodo. Fu così fino al 2003, quando, con grandi mobilitazioni contro gli attacchi alle pensioni in Francia ed Austria, il proletariato cominciò realmente ad uscir fuori dal riflusso iniziato nel 1989. Da allora, questa tendenza al ritorno delle lotte di classe e allo sviluppo della coscienza di classe è stata ulteriormente verificata. Le lotte operaie hanno riguardato molti paesi centrali, inclusi quelli più importanti come gli Usa (Boeing e trasporti di New York nel 2005) la Germania (Daimler e Opel nel 2004, medici ospedalieri nella primavera del 2006, Deutche Telekom nella primavera del 2007), l’Inghilterra (aeroporti di Londra nell’agosto 2005), la Francia (il notevole movimento degli studenti universitari contro il CPE nella primavera 2006), in Bangldesh (i lavoratori tessili nella primavera del 2006) e l’Egitto (tessile, trasporti ed altri settori del lavoro nella primavera del 2007).
12. Engels scrisse che la classe operaia conduce le proprie lotte su tre livelli: economico, politico e teorico. Per comparare le differenze a questi tre livelli tra l’ondata di lotte iniziate nel 1968 e quelle nel 2003 bisogna tracciare la prospettiva posta da queste ultime.
L’ondata di lotte del 1968 ebbe una considerevole importanza politica: in particolare, esse rappresentano la fine del periodo di controrivoluzione. Allo stesso tempo, hanno dato impulso alla riapparizione della corrente della sinistra comunista, di cui la formazione della CCI nel 1975 fu una delle espressioni più importanti. Le lotte del Maggio francese nel 1968, l’”autunno caldo” in Italia nel 1969, per le preoccupazioni politiche espresse, diedero vita all’idea che si andava verso una politicizzazione significativa della lotta operaia internazionale durante le lotte che seguirono. Ma questo potenziale non fu realizzato. L’identità di classe sorta all’interno del proletariato nel corso di quelle lotte fu più una categoria economica che una forza politica all’interno della società. In particolare, il fatto che con le proprie lotte si impedì alla borghesia di avviarsi verso la terza guerra mondiale passò completamente inosservato dalla classe (inclusi la maggior parte dei gruppi rivoluzionari). Allo stesso tempo, l’emergere dello sciopero di massa in Polonia nel 1980, che fino ad ora rappresenta la più alta espressione (dalla fine del periodo rivoluzionario seguito alla prima guerra mondiale) delle capacità organizzative del proletariato, dimostrò una considerevole debolezza politica. L’unica “politicizzazione” che fu possibile realizzare fu l’aderenza ai temi democratici borghesi nonché al nazionalismo.
Queste situazioni trovano le proprie ragioni in una serie di fattori che la CCI ha già analizzato:
- il lento ritmo della crisi economica che, al contrario della Guerra imperialista che ha scatenato la prima ondata rivoluzionaria, non rivela immediatamente la bancarotta del sistema, perciò rende fertile il terreno per l’illusione della capacità del sistema in grado di garantire standard decenti di vita alla classe operaia;
- la diffidenza nelle organizzazioni politiche rivoluzionarie, risultato della drammatica esperienza dello Stalinismo (che tra i lavoratori del blocco russo prese la forma di una profonda illusione nei benefici della democrazia borghese “tradizionale”);
- il peso della rottura organica tra le organizzazioni rivoluzionarie del passato e quelle di oggi, che divide le organizzazioni rivoluzionarie dalla loro classe.
13. La situazione in cui si sviluppa oggi la nuova ondata di lotta di classe è molto differente:
- quasi quattro decenni di crisi aperte e di attacchi alle condizioni di vita della classe operaia incrementano notevolmente la disoccupazione e il lavoro precario, spazzando via l’illusione che “domani sarà un giorno migliore”: le generazioni più vecchie di lavoratori come quelle nuove hanno molta più coscienza del fatto che “domani sarà sempre peggio”;
- più in generale, la permanenza dei conflitti militari, che assumono sempre più delle forme barbariche, nonché la minaccia tangibile della distruzione ambientale, sta facendo sorgere il sentimento, ancora confuso e nascosto, che c’è il bisogno di attuare cambiamenti profondi nella società: la riapparizione del movimento “anti-capitalista” e del suo slogan “un altro mondo è possibile” è una sorta di anticorpo segreto della borghesia per deviare questo sentimento;
- il trauma creato dallo Stalinismo, e le campagne che hanno seguito il collasso due decenni fa, sono svanite col tempo: le nuove generazioni di proletari che si avvicinano oggi alla vita lavorativa e, potenzialmente, alla lotta di classe, erano solo bambini quando fu lanciata l’enorme campagna sulla morte del comunismo.
Queste condizioni comportano una serie di differenze tra la presente ondata di lotte e quelle terminate nel 1989.
Così, anche se rappresentano una risposta agli attacchi economici per molti versi molto più forti e generalizzati di quelli che hanno provocato la spettacolare e massiccia insorgenza della prima ondata, le attuali lotte non hanno raggiunto, almeno nei paesi centrali del capitalismo, lo stesso carattere di massa. Alla base di questo abbiamo essenzialmente due motivi:
- la ripresa storica del proletariato alla fine degli anni ’60 aveva sorpreso la borghesia, ma oggi non è così, essa sta prendendo una serie di misure per anticipare le mosse della classe e limitarne l’estensione, in particolare attraverso l’uso sistematico di nuovi black-out;
- l’uso dell’ arma dello sciopero oggi è molto più difficile per il peso della disoccupazione che agisce come base per il ricatto ai lavoratori, e perché questi ultimi sono molto più consapevoli che la borghesia ha rapidamente ridotto i margini di manovra per soddisfare la loro richieste.
Comunque, quest’ultimo aspetto della situazione non è il solo fattore che frena i lavoratori dall’intraprendere lotte massicce. Questo richiede anche la possibilità di un profondo sviluppo della coscienza sulla bancarotta definitiva del capitalismo, che è un presupposto per capire che bisogna abbatterlo. In un certo senso, anche se in modo molto confuso, è la mole dell’obiettivo della lotta di classe, che non è niente di meno che la rivoluzione comunista, che frena la classe operaia a intraprendere le lotte.
Perciò, anche se le lotte economiche della classe sono per il momento meno massicce che durante la prima ondata, contengono implicitamente una dimensione politica molto più importante. E questa dimensione politica ha già assunto una sua forma esplicita, come dimostrato dal fatto che sono pervase molto di più da una dimensione di solidarietà. Questo è di vitale importanza perché costituisce per eccellenza l’antidoto all’”ognuno per sé”, atteggiamento caratteristico della decomposizione sociale, e soprattutto è al cuore della capacità del proletariato mondiale non solo di sviluppare le lotte presenti ma soprattutto di abbattere il capitalismo:
- gli operai della Daimler di Brema scendono spontaneamente allo sciopero in risposta ai ricatti fatti dai padroni della Daimler ai lavoratori della branca di Stoccarda del gruppo;
- sciopero di solidarietà da parte degli addetti ai bagagli dell’aeroporto di Londra contro i licenziamenti dei lavoratori della ristorazione, nonostante la natura illegale dello sciopero;
- sciopero dei lavoratori dei trasporti a New York in solidarietà con le nuove generazioni, ai quali i padroni cercavano di imporre contratti molto meno favorevoli.
14. Questa questione della solidarietà è stata al cuore del movimento contro il CPE in Francia nella primavera del 2006 che, nonostante coinvolse principalmente gli studenti medi e universitari, si pose su un terreno di classe:
- solidarietà attiva dagli studenti nelle università in prima fila per supportare i loro compagni nelle altre università;
- solidarietà verso i figli della classe operaia delle banlieues la cui rivolta disperata nell’autunno precedente ha mostrato la terribile condizione da loro sofferta quotidianamente e l’assenza di ogni prospettiva offerta dal capitale;
- solidarietà tra generazioni, tra coloro che sarebbero diventati disoccupati o precari e chi già conosceva la situazione del lavoro salariato, tra coloro che si affacciano ora alla lotta di classe e chi già ne aveva esperienza.
15. Questo movimento fu anche esemplare per la capacità della classe di prendersi carico delle proprie lotte attraverso assemblee e comitati di lotta responsabili di fronte a queste (capacità già vista nelle lotte dei metallurgici di Vigo in Spagna nella primavera del 2006, quando un alto numero di fabbriche si sono unite in assemblee giornaliere in strada). Questo fu possibile principalmente per il fatto che i sindacati sono molto deboli in ambiente studentesco e non poterono giocare il ruolo tradizionale di sabotare la lotta, ruolo che continueranno a giocare fino alla rivoluzione. Una controprova del ruolo antioperaio che i sindacati continuano a giocare è il fatto che le lotte di massa che abbiamo visto nascere fino ad oggi hanno colpito principalmente i paesi del terzo mondo, dove i sindacati sono molto deboli (come in Bangladesh) o totalmente identificati allo Stato (come in Egitto).
16. Il movimento contro la CPE, che ha luogo nello stesso paese dove si combatterono le prime e più spettacolari lotte della ripresa proletaria, lo sciopero generale del Maggio 1968, ci fornisce un’altra lezione sulle differenze tra la presente ondata di lotte e quella precedente:
- nel 1968, il movimento degli studenti e dei lavoratori, benchè si affermarono insieme, e benchè avessero simpatie l’uno per l’altro, esprimevano due differenti realtà dell’entrata del capitalismo in aperta crisi: per gli studenti, una rivolta di intellettuali piccolo borghesi contro la prospettiva di un deterioramento del loro stato sociale; per i lavoratori, una lotta economica contro l’inizio della degradazione degli standards di vita. Nel 2006, il movimento degli studenti fu un movimento della classe operaia, che illustra il fatto che la modifica del tipo di lavoro salariale in un paese come la Francia (la crescita del terziario a spese del settore industriale) non mette in questione la capacità del proletariato in questi paesi di ingaggiare una lotta di classe;
- nel movimento del 1968 la questione della rivoluzione era discussa tutti i giorni, ma questo principalmente tra gli studenti, e l’idea che essi avevano di questa questione proveniva dall’ideologia borghese: il castrismo di Cuba o il maoismo cinese. Nel movimento del 2006 la questione della rivoluzione era difficilmente presente, ma allo stesso tempo c’era una chiara comprensione del fatto che solo la mobilitazione e l’unità dei lavoratori salariati era in grado di frenare gli attacchi della borghesia.
17. Quest’ultima questione ci fa tornare al terzo aspetto della lotta proletaria citato da Engles: la lotta teorica, lo sviluppo della riflessione all’interno della classe sulle prospettive generali della lotta e sullo sviluppo di elementi e organizzazioni come prodotto e fattori attivi di questo sforzo. Oggi, come nel 1968, la ripresa della lotta di classe è accompagnato da una profonda riflessione, e l’apparizione di nuovi elementi che si avvicinano alle posizioni della sinistra comunista è solo la punta dell’iceberg. In questo senso ci sono notevoli differenze tra il presente processo di riflessione e quello sviluppato nel 1968. La riflessione avviata a quel tempo seguiva le massicce e spettacolari lotte, mentre il processo presente non ha aspettato che la classe operaia conducesse lotte di quella portata prima di innescarsi. Questa è una delle conseguenze della differenza delle condizioni poste di fronte al proletariato in confronto a quelle della fine degli anni ’60.
Una delle caratteristiche dell’ondata di lotte del 1968 è che, a causa della sua portata, ricompariva la possibilità della rivoluzione proletaria, possibilità sparita dalle menti a causa della profondità della controrivoluzione e dell’illusione nella “prosperità” del capitalismo seguita alla seconda Guerra mondiale. Oggi non è la possibilità della rivoluzione che è al centro del processo di riflessione ma, in vista della prospettiva catastrofica che il capitalismo ha in serbo per noi, la sua necessità. Nei fatti questo processo, anche se meno rapido e meno visibile che negli anni ’70, è molto più profondo e non sarà intaccato dai momenti di riflusso nella lotta di classe.
Infatti l’entusiasmo espresso per l’idea di rivoluzione nel 1968 e negli anni seguenti, date le basi che lo avevano determinato, favorì il reclutamento della maggior parte degli elementi che aderirono ai gruppi gauchistes. Solo una minoranza molto piccola di questi elementi, quelli meno segnati dalla ideologia piccolo borghese e dall’immediatismo professato dai movimenti studenteschi, si avvicinarono alle posizioni della sinistra comunista e divennero militanti delle organizzazioni proletarie. Le difficoltà a cui andò incontro il movimento della classe operaia, specialmente a seguito alle differenti controffensive della classe dominante e in un contesto in cui era forte il peso delle illusioni in una possibilità per il capitalismo di migliorare la situazione, favorì un ritorno significativo all’ideologia riformista promossa dai gruppi “radicali” a sinistra dello stalinismo ufficiale, sempre più discreditato. Oggi, a seguito del crollo storico dello stalinismo, le correnti gauchistes tendono sempre più a prendere il posto lasciato vacante da quest’ultimo. La tendenza di queste correnti a voler diventare un partecipante ufficiale delle politiche borghesi tende a provocare una reazione tra i più sinceri militanti che iniziano una ricerca di autentiche posizioni di classe. Per questo motivo, lo sforzo di riflessione all’interno della classe operaia è dimostrato non solo dall’emergere di elementi molto giovani che si rivolgono alla sinistra comunista ma anche da elementi più vecchi che hanno avuto un esperienza all’interno delle organizzazioni dell’estrema sinistra della borghesia. Il fenomeno in sé è molto positivo e porta la promessa che le energie rivoluzionarie, che sorgeranno necessariamente man mano che la classe sviluppa le proprie lotte, non saranno risucchiate e sterilizzate facilmente e allo stesso modo in cui avvenne negli anni ’70, e che si uniranno alle organizzazioni della sinistra comunista in quantità modo molto maggiore.
É responsabilità delle organizzazioni rivoluzionarie, e della CCI in particolare, essere parte attiva del processo di riflessione già avviato in seno alla classe, non solo intervenendo attivamente nelle lotte quando queste iniziano a svilupparsi, ma anche stimolando lo sviluppo di gruppi ed elementi che cercano di unirsi alla lotta.
CCI, Maggio 2007