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Rivoluzione Internazionale - 2010s

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Decade 2010-2019

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  • Rivoluzione Internazionale [1]

Rivoluzione Internazionale n°164

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Febbraio-marzo 2010

L’unità e la solidarietà di classe uniche armi contro gli attacchi e contro la demoralizzazione

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Ci avevano detto che la crisi era passata, che ormai si andava verso la ripresa e che, a parte qualche strascico, si poteva girare pagina. La verità è invece che il 2010 si sta prospettando anche peggio dell’anno scorso, le famiglie continuano a perdere potere di acquisto e sempre più difficilmente si arriva a coprire le spese del mese con degli stipendi che sono sempre più incerti, rarefatti e leggeri. Non vogliamo e non ci interessa in questa apertura di giornale riportare dati sull’economia. La gente che soffre sa bene qual è l’andamento reale dell’economia, lo avverte fino in fondo nella propria carne. Quello che vogliamo ricordare è invece proprio questa sofferenza che nell’immediato sta provocando un sentimento di scoraggiamento e di sfiducia nella classe operaia ma che costituisce in prospettiva la molla per dare vigore alla lotta di classe. Dopo la serie di suicidi avvenuti in Francia dal 2007 in poi, particolarmente alla Renault e a France Telecom, adesso anche l’Italia viene colpita da questo fenomeno. L’ultimo di questi è di un elettricista napoletano impiccatosi nel bosco di Capodimonte perché, dopo 23 anni di lavoro precario presso una ditta a 600 euro al mese, questa gli offre finalmente l’assunzione ma con il ricatto di non riconoscergli tutta l’attività passata a livello di contributi, privandolo così di qualunque copertura per l’anzianità e dunque non offrendogli alcun futuro. Questa situazione ha completamente gettato nello sconforto il povero operaio che non ha retto alla situazione. Le parole lasciate scritte per la moglie sono particolarmente significative: “Sono umiliato. Mi vergognavo quando tu andavi a lavorare”. Ma ce ne sono tanti altri dove non sempre è facile capire le motivazioni che hanno indotto a questo atto estremo ma dove si tratta sempre di gente che soffre per le condizioni in cui vive. La crisi economica è comunque all’origine di tutti i malesseri sofferti. C’è ad esempio il caso di un operaio della Ericsson di Roma di 47 anni che si è gettato giù dal tetto della fabbrica perché temeva di essere licenziato. “Era nel gruppo degli emarginati” ha ricordato una ex dipendente licenziata, confermando quanto dicono anche altri dipendenti sull’esistenza di un gruppo di lavoratori che viene tenuto emarginato dagli altri e in cui si raggruppano disabili, sindacalisti, dipendenti con vertenza in corso, anziani, …[1] Ed ancora quello di Sergio M. che “si è suicidato perché non ha retto al dolore dell’abbandono, non ha retto alla violenza emotiva di dover vivere senza “il lavoro”. Sergio si è dato la morte per un senso di inutilità che lo aveva pervaso da quando “il lavoro lo aveva tradito”, abbandonando la sua esistenza a vuote giornate. Sergio aveva soltanto 36 anni.”[2] E ancora così per un operaio bolognese di 32 anni che aveva saputo di essere stato messo in mobilità, o per l’ex operaio edile di 46 anni di Trieste o per l’insegnante di 57 anni di Benevento, tutti suicidi che si sono concentrati negli ultimi mesi. A spingere i proletari a questo atto estremo sono certamente le condizioni di miseria in cui sempre più ci spinge la crisi economica e l’accentuato ricatto padronale. Ma c’è anche il sentimento di perdere la propria dignità di lavoratore, la propria rispettabilità, di sentirsi inutile in questa società che spinge nello sconforto più totale gli elementi più sensibili, tanto più se condizioni di disoccupazione o di cassa integrazione isolano materialmente il singolo proletario dai suoi compagni di lavoro e non gli permettono di trovare nella socialità del lavoro quella valvola di compensazione così necessaria all’animo umano.

Tuttavia, come abbiamo detto più volte, la situazione attuale non è affatto proibitiva dal punto di vista dello sviluppo della lotta di classe, tutt’altro! Le condizioni oggettive per una lotta consapevole e matura ci sono tutte in seguito all’acuirsi della crisi economica. Il problema è che, sul piano soggettivo, la classe giustamente esita perché avverte che non si tratta più di strappare un piccolo aumento ma che si tratta caso mai di mettere in discussione tutto il sistema economico attuale e, pur avendo la netta sensazione che questo sistema non ha più niente da offrirle, non ha abbastanza fiducia in sé stessa per poter sferrare l’offensiva. Questo stallo in cui ci troviamo, e a cui abbiamo fatto cenno anche nel numero scorso del nostro giornale, è quello che porta da una parte allo sconforto di tanti proletari che restano isolati, ma che produce pure tutta una serie di lotte importanti ma ancora isolate in tutta una serie di città e di paesi[3] del mondo e che sta producendo anche l’emergere di una folta schiera di nuovi elementi di avanguardia che si stanno collocando su chiare posizioni internazionaliste. Perciò l’unica maniera per superare le difficoltà presenti della classe è creare il massimo di collegamenti tra proletari, unire le lotte isolate tra di loro, far sentire che si tratta della stessa lotta, che non si tratta di salvarsi affidandosi al sindacalista o al politico di turno. In una parola creare nella lotta quel clima di solidarietà che solo può permettere alla classe di maturare la fiducia in se stessa per poter osare sfidare il sistema attuale e proporsi come classe rivoluzionaria.

Ezechiele (10 febbraio 2009)


[1] www.blitzquotidiano.it/agenzie/roma-suicida-operaio-la-ericsson-lo-vuole-licenziare-lui-si-getta-dal-tetto-della-fabbrica-29830 [2]

[2] www.campaniapress.com/?p=4602 [3]

[3] Vedi gli esempi di lotte in corso in questo stesso numero del giornale.

Situazione italiana: 

  • lotte in Italia [4]

Patrimonio della Sinistra Comunista: 

  • Lotta proletaria [5]

Iran: il proletariato non ha un fronte borghese da difendere contro un altro

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In Iran, la schiacciante maggioranza della popolazione vive nella miseria più assoluta. Ma, in più, ogni giorno la paura serpeggia per le strade, nei luoghi pubblici! Non è dunque strano che dalle ultime elezioni del 2009, siano scoppiate rivolte e manifestazioni di continuo. Questo paese sta sprofondando nel caos. Le divisioni all’interno dell’apparato politico e del clero si moltiplicano; il potere religioso, indebolito esso stesso dall’esercizio del potere politico, si sfalda in maniera sempre più evidente. Per la classe operaia, per la popolazione povera e senza lavoro, esasperata da tanta ingiustizia e miseria, c’è allora il grande pericolo di ritrovarsi inquadrata e repressa all’interno di lotte che non sono le sue.

Di fronte alle manifestazioni, il potere risponde con la repressione sanguinosa

Nello scorso mese di dicembre, in occasione della festa dell’Achoura[1] (per gli Sciiti si tratta tra l’altro della commemorazione del massacro dell’imam Hussein e di 72 suoi seguaci da parte del califfato di omayyade a Kerbala nell’anno 680), le strade delle principali città del paese sono state nuovamente invase da immense manifestazioni. Queste hanno toccato la maggior parte delle grandi città iraniane: Teheran, Chiraz, Ispahan, Qazvin, Tabriz ed anche Qom, la città santa. A decine di migliaia sono le persone che si sono ritrovate per strada. Ma la risposta del potere non si è fatta attendere. Le milizie baasiste, spalleggiate dalle forze dell’ordine, hanno allora effettuato una feroce repressione. La polizia ufficiale parla di cinque morti tra i manifestanti, ma la realtà é evidentemente ben più drammatica! Bisogna ricordare che in occasione del 12 giugno scorso al momento dell’elezione del presidente Ahmadinejad, il bilancio era stato di sessanta morti e di 4000 arresti. Oggi, in una popolazione ferita, presa dalla collera, gli slogan si radicalizzano e non se la prendono più soltanto con il governo e con Ahmadinejad, ma anche, il che è una novità, con la stressa guida suprema: Ali Khamenei.

Crisi e divisioni all’interno della borghesia e del clero iraniano

Nel mese di giugno scorso, in occasione delle elezioni, lo stato di deliquescenza della borghesia iraniana era già apparsa in tutta evidenza. La crescita di potere di Hossein Moussavi ne era l’espressione più visibile. Dietro la frazione di Ahmanidejad che manteneva il potere, appoggiata dai guardiani della rivoluzione islamica (i bassiji) comandati dal generale Mohammad Ali Jafari, vera rete di gangster che ha le mani in pasta in tutti i traffici illegali del paese, si ritrova tutta una parte del clero la cui guida suprema é l’ayatollah Ali Khamenei che, in quanto tale, è il capo degli eserciti. Al contrario un’altra parte del clero cerca sempre più di prendere le distanze da coloro che considera come una banda di canaglie che hanno preso le redini del potere. All’inizio di gennaio, un influente dignitario religioso conservatore, Ahmad Janati, ha chiamato i servizi segreti a punire i «corrotti sulla terra», un’accusa passibile di pena di morte. Pena di morte che sembra venga già applicata visto che Ali Moussavi, membro della famiglia di Mir Hossein Moussavi, principale oppositore al regime sul posto, è stato assassinato dalle milizie bassidji.

Per conoscere la vera natura dell’opposizione, occorre ascoltare il suo capofila: «Io credo che sia necessario sottolineare che noi abbiamo, all’interno del movimento verde, un’identità islamica e nazionale e siamo contro qualunque dominazione straniera» (Jeune Afrique del 2 gennaio). In poche parole è detto tutto! Di fronte alla fazione corrotta e sanguinaria di Ahmadinedjad, noi troviamo delle persone che gli sono simili come delle gocce d’acqua! Anche loro sono chiaramente per una repubblica islamica e per il proseguimento della fabbricazione della bomba atomica iraniana. Tutte queste persone si somigliano perché difendono tutte i loro propri interessi nazionalisti e personali! E’ per questo e soltanto per questo «che una buona parte del clero condanna la repressione. Anche se i mullah si sono eclissati davanti ai guardiani della rivoluzione, il regime non può ignorarli senza corre qualche pericolo. Può un regime teocratico fare a meno della legittimità religiosa? Moussavi che l’ha compreso va spesso nella città santa di Qom. Un’occasione per avvicinarsi al più celebre rappresentante ayatollah d’Irak, Ali Sistani, molto popolare in Iran.» (Contre info, giugno 2009).

La classe operaia in Iran ha tutto da perdere seguendo un campo o l’altro campo

La borghesia iraniana e il suo clero si frantumano. Una guerra senza pietà si sviluppa al loro interno per il potere. Le ragioni sono semplici, la crisi economica devasta il paese. La miseria e la collera si diffondono come una cortina di fumo. L’instabilità e la corruzione guadagnano tutti i livelli delle classi dominanti iraniane, religiose e civili. La torta da dividere si restringe a vista d’occhio mentre la piazza rumoreggia! Hussein Moussavi cerca di canalizzare la collera della classe operaia e della popolazione dietro i propri interessi popolari e di cricca. Ahmadinejdad e la parte del clero che lo sostiene, da parte loro, sono spinti in una fuga in avanti che si accompagna sempre più ad una repressione sanguinosa e a delle provocazioni verbali. In questo paese devastato dalla crisi economica e dalla senilità della sua borghesia, la classe operaia non può che sviluppare ancor più la sua combattività e la sua collera. Ma non deve in nessun caso farlo sostenendo una cricca borghese piuttosto che un’altra, o una frazione religiosa in lotta contro un’altra. Su questo cammino infatti gli operai incontreranno soltanto sconfitte e morte.

Tino (27 gennaio)



[1] Inizio dell’anno musulmano.

Geografiche: 

  • Iran [6]

La classe operaia di fronte alla miseria

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Questo breve articolo scritto dai nostri compagni in Francia sembra essere stato scritto per descrivere la situazione che vive la classe lavoratrice oggi in Italia. Stessi attacchi ai proletari, stessa preoccupazione e paura per il futuro, stesse difficoltà per la classe, ma anche stessa potenzialità per una prospettiva di rafforzamento della lotta.

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In quest’inizio d’inverno tutte le associazioni benefiche suonano il campanello d’allarme. La crisi economica sta colpendo brutalmente tutta la classe operaia e una parte crescente di questa si trova fin d’ora immersa nella miseria.

Secondo Didier Piard, direttore della Croce Rossa francese: “L’intensità della povertà aumenta. I poveri sono più poveri di ieri (…). Il numero di persone assistite ha avuto un incremento superiore al 20%. (…). Le associazioni benefiche vedono un 2010 nero per quanto riguarda la disoccupazione massiccia e la situazione di una parte dei disoccupati che perdono ogni diritto (…). Popolazioni che non abbiamo visto prima vengono nei nostri centri a chiedere aiuti alimentari, abiti o aiuti finanziari: sono pensionati, precari, giovani, lavoratori con contratto a tempo indeterminato che non riescono più a far quadrare il bilancio. Si aggiungono alle famiglie con un solo genitore ed ai precari che non hanno mai cessato di venire (…). Uno studio su una quarantina di località ha mostrato che più del 40% delle persone accolte venivano a chiedere aiuto per pagare le loro bollette della luce o il loro affitto”[1].

Stessa constatazione per i Restos del Cœur (Ristoranti del cuore). L’anno scorso quest’associazione aveva già battuto un triste record, quello della grande affluenza. E tuttavia, quest’inverno si annuncia ancora peggiore. Per il Presidente dei Restos, Olivier Berthe, “nel corso della primavera e dell’estate scorse, l’affluenza nei nostri centri di distribuzione è aumentata del 20% in un anno, ci si aspetta un forte aumento della domanda, che era già progredita del 14% l’anno scorso”.

Anche quelli che conservano ancora un lavoro hanno grande difficoltà a far quadrare il bilancio. Le associazioni benefiche hanno dato loro un nome: “Le nuove teste”. Si tratta di tutti quei lavoratori sotto-pagati (ma super sfruttati, ovviamente) che vengono a cercare da mangiare per loro e la loro famiglia.

Per la classe operaia la crisi economica fa rima con licenziamenti, disoccupazione, precarietà… Nel 2009, circa 451.000 posti di lavoro sono stati distrutti e l’anno 2010 si annuncia altrettanto terribile. “La disoccupazione continuerà ad aumentare” così  titolava il giornale economico la Tribune del 18 dicembre.

Cosa fa lo Stato di fronte a questa situazione drammatica? Fa tutto il possibile per limitare questo incremento delle statistiche della disoccupazione… alterando le cifre, cancellando dagli elenchi centinaia di migliaia di disoccupati senza più diritto ai sussidi di disoccupazione. Per essere precisi, 850.000 persone classificate “senza indennità di disoccupazione” sono state tolte dalle cifre ufficiali della disoccupazione nel 2009 e l’Ufficio del Lavoro ritiene che saranno più di un milione nel 2010! Concretamente ciò significa per tutte queste famiglie operaie la scomparsa di risorse già ridotte al minimo vitale, la minestra popolare in versione moderna (Restos del Cœur) e… spesso la strada!

Quando lo Stato sfrutta la paura della miseria e di restare per strada!

La borghesia non può nascondere quest’aumento considerevole della povertà. La dura realtà è troppo palese perché i mass media possano giocare la carta del “del tutto va bene”. Allora, all’improvviso, ne parlano a modo loro, fino alla nausea[2]. Lo scopo è alimentare la paura, dire agli operai che hanno ancora un’occupazione stabile: “Vedete come della gente soffre per la miseria, allora consideratevi felici e non compatitevi troppo poiché altri sognano di prendere il vostro posto”.

L’esempio più abietto di questa propaganda è rappresentato senza dubbio dai sondaggi sul timore di diventare disoccupati o senza fissa dimora i cui risultati sono sempre annunciati in pompa magna ai telegiornali della sera. L’ultimo, quello del TNS Sofres, ha “rivelato” i suoi sondaggi come se si trattasse di un vero scoop: la preoccupazione riguardo alla disoccupazione è ridiventata nel dicembre 2009 la principale preoccupazione del 73% dei francesi; i più preoccupati sono gli operai (84%) ed i giovani (83%). Che rivelazione!

Questo tipo di discorso fa effettivamente paura, paralizza, fa rassegnare e distrugge la volontà di lotta. È precisamente questa sensazione d’insicurezza di fronte alla crisi economica che ha costretto la classe operaia a tenere un basso profilo dall’inizio del 2009 e, con la complicità dei sindacati, ha contribuito alle sue difficoltà ad entrare in lotta.

Detto ciò, l’effetto paralizzante dovuto alla brutalità con la quale la crisi ha colpito in questi ultimi mesi ed ai discorsi terroristici che l’hanno accompagnata può essere soltanto temporaneo. Per parafrasare Karl Marx in Miseria della filosofia (1847), non bisogna vedere nella miseria solo la miseria ma anche e soprattutto il suo lato rivoluzionario, sovversivo. Poco a poco, il timore e la rassegnazione cederanno il posto alla rabbia. E perché questa rabbia si trasformi in una volontà di lotta contro questo sistema sarà necessario per la classe operaia riacquistare fiducia nella propria capacità di lottare contro tutti questi attacchi, in modo unito e solidale.

DP, 18 dicembre

(da Revolution Internationale n.409)



[1] Le Monde del 4 dicembre 09

[2] In particolare in questo periodo invernale quando un grande freddo e la neve si sono abbattuti sul paese, con le campagne mediatiche “sui mezzi investiti dallo Stato o dai municipi per venire in aiuto ai più poveri” come gli autobus di raccolta del SAMU (servizio di aiuto medico d’emergenza) o la riapertura di sovrappopolati alloggi notturni che alcuni senzatetto rifiutano per timore della promiscuità.

Questioni teoriche: 

  • Economia [7]

Gli scontri di Rosarno sono il prodotto della disperazione

Il 7 gennaio a Rosarno dei giovani sparano con un fucile ad aria compressa su degli immigrati africani. Due di questi vengono feriti gravemente. Dietro questi “giovani” si nasconde in realtà la mano della ndrangheta, la mafia calabrese. E’ questa che costituisce il padronato locale ed assume gli operai agricoli reclutando una mano d’opera che viene dall’Africa, molto numerosa ed a basso costo. Questi lavoratori lavorano tutto il giorno per una paga da fame[1] e dormono la sera in un vecchio caseificio fatiscente ed insalubre. Ma questa mano d’opera a buon mercato è diventata all’improvviso ingombrante. La crisi colpisce anche Rosarno, le arance ed i mandarini non si smaltiscono e diventa più redditizio farli marcire sugli alberi che raccoglierli. Questi lavoratori africani sono quindi diventati, per la maggior parte, non sfruttabili, inutili. Inoltre la nuova legge anti-immigrazione ha rafforzato la caccia al clandestino e condanna a multe salate i proprietari che assumono lavoratori illegali. La mafia locale, per coprire quel poco di lavoro che resta da fare, sembra quindi più orientata verso gli immigrati “legali” dei paesi dell’Est (in particolare dell’Ucraina e della Romania). 1.500 africani venuti fin qui per racimolare giusto di che sopravvivere si sono dunque ritrovati nella morsa del supersfruttamento e della disoccupazione. La tensione e la rabbia ovviamente aumentano; questi semi-schiavi, abitualmente così mansueti, hanno iniziato a dare segni di insofferenza. Per quest’insieme di motivi la ndrangheta decide di colpirli per farli scappare, sparandogli addosso. Da bestie da soma sono diventati selvaggina. Solo che, anziché tirarsi indietro, questi lavoratori sono scesi nelle strade a incendiare cassonetti ed automobili, rompere finestre e danneggiare qualche casa. Come reazione centinaia di abitanti di Rosarno, armati di spranghe e bastoni, si sono dati ad una caccia “al negro” al grido di “in Africa, in Africa!”, “li vogliamo morti”. Bilancio degli scontri: 67 feriti (31 immigrati, 19 poliziotti e 17 autoctoni). Anche qui la mafia ha svolto un ruolo centrale istigando la popolazione locale e ponendosi alla testa di queste milizie improvvisate[2].

Non è stato certo difficile instillare quest’odio in una popolazione toccata anch’essa dalla povertà ed una disoccupazione che colpisce, ufficialmente, quasi il 18% della classe operaia in questa regione.

Ma la miseria non può da sola piegare perché una parte della popolazione si è lasciata trascinare in questo modo in una vendetta razzista e nauseabonda, e neanche perché gli immigrati che erano stati attaccati se la sono presa con i  beni degli abitanti dei dintorni. In realtà la causa di fondo di questa “lotta tra poveri”, come l’ha definita la stampa internazionale (cioè tra proletari) è la totale assenza di prospettiva. “Era un inferno non si capiva niente è vero che abbiamo rotto tutto quel che potevamo rompere, ma eravamo solo arrabbiati. Siamo disperati, e se alla disperazione aggiungi pure la rabbia è facile sbagliare. Quando siamo tornati alla fabbrica, ci siamo guardati negli occhi e ci siamo vergognati di quello che abbiamo fatto. Ho pianto tutta la notte pensando a quella gente spaventata. Spaventata da me che a volte ho paura anche della mia ombra. Ora voglio andar via, se avessi un posto dove andare partirei subito. Ma io non ho posti in cui sperare” Godwin, bracciante, 28 anni, ghanese (da La Repubblica del 9 gennaio)

Solo le lotte operaie possono ridare fiducia nel futuro, possono permettere di intravedere che un altro mondo è possibile, un mondo fatto non di odio ma di solidarietà. Uno sciopero recente lo ha mostrato chiaramente, uno sciopero che non ha avuto gli onori delle prime pagine della stampa, contrariamente agli episodi di Rosarno. In Inghilterra, nel giugno scorso, gli operai delle raffinerie di Lindsey hanno resistito alle sirene del nazionalismo e della xenofobia, mentre tutta la stampa metteva in evidenza slogan come “lavoro inglese per gli operai inglesi!”. Comprendendo che si trattava di una trappola, che non avevano nulla da guadagnare a lasciarsi dividere in questo modo tra operai “locali” e “immigrati”, hanno opposto alla borghesia uno sciopero animato dalla solidarietà internazionale. Nelle manifestazioni hanno portato striscioni che chiamavano gli operai portoghesi ed italiani ad unirsi alla lotta e dove si poteva leggere il grido di unità del proletariato mondiale sin dal 1848: “Operai di tutto il mondo, unitevi!”.[3]

Gli avvenimenti di Rosarno e di Lindsey sono come la tesi e l’antitesi. Il primo porta le stimmate di questa società in decomposizione che non ha alcun avvenire e può solo alimentare la miseria, la paura, l’odio. Il secondo invece mostra che esiste un altro futuro per l’umanità. La solidarietà che è capace di esprimere la classe quando lotta è, per tutti, un faro di speranza.

Albert, 28-1-2010


[1] Un euro a cassetta di mandarini e 6 centesimi al kilo di arance raggiungendo un massimo di circa 15 euro al giorno per 12-14 ore di lavoro

[2] Se la mafia ha fatto il suo sporco gioco, la borghesia ed il suo Stato non sono stati da meno. Il governo Berlusconi ha approfittato dell’occasione per portare avanti la sua politica xenofoba e giustificare le nuove misure anti-immigrazione Il ministro dell’interno Maroni ha subito affermato: “quella di Rosarno è una situazione difficile, risultato di una immigrazione clandestina tollerata in tutti questi anni senza fare nulla di efficace”. In realtà, lo Stato da un lato dà la caccia ai clandestini e li espelle per limitare il numero degli immigrati e, dell’altro, lascia che questa mano d’opera a costo basso venga sfruttata in maniera massiccia ed ignobile (quando non lo fa lui stesso direttamente), per migliorare la “competitività nazionale”. Sono più di 50.000 i lavoratori immigrati che vivono in Italia in alloggi insalubri simili a quelli di Rosarno. Per ritornare agli eventi recenti e alla “protezione” offerta dallo Stato agli immigrati vittime di questo pogrom c’è da dire che anche l’intervento della polizia ha fatto numerosi feriti tra gli immigrati e, dopo, per proteggerli, questa non ha trovato niente di meglio che parcheggiarli nei centri di accoglienza per “controllare la loro situazione” ed espellere tutti coloro che non sono in regola! Questa è “l’umanità” di cui è capace la borghesia, che si presenti sotto la maschera della mafia o con i tratti delle rispettabili alte cariche dello Stato!

[3] "Gran Bretagna. Scioperi nelle raffinerie di petrolio e nelle centrali elettriche: gli operai cominciano a fare i conti con il nazionalismo [8]", Rivoluzione Internazionale n.159.

Geografiche: 

  • Italia [9]

Non cessa l’attacco del capitale alla classe operaia

Il 2009 si è chiuso con la dichiarazione di Marchionne, amministratore delegato della Fiat, di voler chiudere Termini Imerese buttando sul lastrico 1400 operai e con la protesta dei lavoratori siciliani soffocata dai sindacati e mistificata dai politici. La Fiat aveva dichiarato di voler spostare la produzione della Lancia Y in Polonia, dove il costo della forza lavoro è meno della metà di quello siciliano. È stato facile per la borghesia dividere i lavoratori siciliani da quelli della fabbrica della Campania di Pomigliano d’Arco, impianto anch’esso a rischio chiusura, mettendo gli uni contro gli altri. Ma un mese dopo non è solo lo stabilimento di Termini Imerese a rischio chiusura, ma buona parte degli stabilimenti Fiat in Italia perché c’è un eccesso di produzione rispetto alle richieste del mercato. Il mercato mondiale dell’auto si aspetta una caduta di oltre il 10% rispetto al 2009, visto che di fatto nei paesi europei e negli Usa è stato finora sostenuto solo dalla politica degli incentivi statali e della rottamazione. Il mercato é in espansione solo in Cina, ma per vendere lì bisogna produrre a costi bassissimi.

In questi giorni la Fiat ha chiesto la cassa integrazione per 30.000 operai per due settimane, vale a dire la chiusura di uno stabilimento come Termini Imerese per un anno! In breve ha anticipato la chiusura di questo stabilimento prevista per la fine del 2011.

All’annuncio della cassa integrazione i sindacati hanno decretato uno sciopero di 4 ore in tutti gli stabilimenti Fiat, aggiungendo il danno alla beffa! Che danno può provocare uno sciopero fatto così ad una azienda che vuole mandare a casa i lavoratori? È servito solo a far abbassare la tensione esistente tra i lavoratori, i quali sanno tutti che si prepara per loro un avvenire di inferno! A Milano, come d’altronde in altri posti, i sindacati hanno portato i lavoratori a presidiare le sedi comunali e regionali per far pressione sugli amministratori locali, per chiedere protezione ognuno per la fabbrica della propria regione!

Secondo Rinaldini, sindacalista della Fiom Cgil, “Termini Imerese non può chiudere, in Italia non esiste una sovraccapacità, anzi il nostro Paese, in Europa, è l’unico, tra quelli industrializzati, a importare auto perché se ne producono poche rispetto alla richiesta di mercato…. Faremo di tutto per impedirne la chiusura, non abbiamo timori e paure di affrontare qualsiasi tipo di lotta”; quello che non dice Rinaldini è che in Italia si producono solo auto Fiat e che non si può imporre agli italiani di acquistare auto nazionali. Il mercato è mondiale e i produttori stranieri hanno gli stessi problemi della Fiat, chi non è concorrenziale scompare dal mercato. Questo lo sanno i sindacalisti, quindi risulta sorprendente la dichiarazione di Raffaele Bonanni, segretario generale della Cisl: “cassa integrazione, una doccia fredda …. Quando abbiamo di fronte a noi perdite di posti di lavoro la cui difesa è l’essenza dell’azione sindacale arriveremo a tutto per scoraggiare la Fiat ad abbandonare in questo momento particolare posti di lavoro”. Che ha poi aggiunto: “Spero che da parte della Fiat ci sia un maggior senso di responsabilità perché queste docce fredde non servono a nessuno, non servono all’azienda, non servono al lavoro e non servono all’Italia”. Anche il governo, attraverso varie dichiarazioni dei ministri, si è detto meravigliato di questa notizia, aggiungendo che non ci saranno più incentivi governativi per la Fiat. Al che Marchionne ha fatto presente che se ne frega degli incentivi, mentre vuole una seria politica industriale nel settore dell’auto. Questo è il problema! L’Italia non ha fatto grosse riforme strutturali e strategiche nel settore industriale, riforme necessarie per abbassare i costi di produzione e battere la concorrenza internazionale. I problemi della Fiat non finiranno con la chiusura di uno o due stabilimenti, ma resteranno perché il problema della sovrapproduzione è insito nel meccanismo del capitalismo decadente. Molte importanti firme automobilistiche sono scomparse e molte altre scompariranno, riuscirà a sopravvivere solo chi produce a costi più basti, il che vuol dire soprattutto spremere ancor di più i lavoratori.

E non è solo la Fiat a licenziare!

Ci sono migliaia e migliaia di aziende in crisi, anche se a fare notizia quando chiudono i battenti sono solo le più grandi, mentre le piccole non ricevono neanche l’onore della cronaca. Nei giorni scorsi è ritornata sulla scena l’Alcoa, la multinazionale americana che produce alluminio e che non ha intenzione di restare in Italia perché il costo dell’energia elettrica non è concorrenziale. Nei mesi scorsi i sindacati hanno portato i lavoratori a scioperare e a manifestare contro la chiusura degli impianti in Italia, in particolare quello sardo, nei fatti a sostenere la richieste dell’Alcoa di pagare tariffe energetiche preferenziali. Questo non è bastato, l’Alcoa si aspetta di più dal governo, un po’ come la Fiat e tutte le altre aziende. In barba alle scorse politiche di liberismo economico oggi, in tempi di crisi, tutte le aziende per poter sopravvivere chiedono di continuo sovvenzioni allo Stato e una politica che porti alla riduzione dei costi delle materie prime, dei servizi, dei trasporti, … E, per fare sfogare la rabbia dei lavoratori che cominciano a vedersela brutta, i sindacati, dopo aver appoggiato le richieste aziendali di più basse tariffe elettriche, adesso cercano di polarizzare l’attenzione contro un’azienda che, essendo “straniera”, può essere accusata di tutte le nefandezze di questo mondo, cercando di compattare tutti nell’attacco alla cattiva multinazionale americana e spingendo i lavoratori ad usare le “maniere forti” come occupare l’aeroporto di Cagliari o espellere i dirigenti dai loro uffici!

Maniere forti, si dice! Ma queste iniziative non hanno nulla di forte perché servono solo ad isolare ed esasperare i lavoratori, tenendoli separati dai loro compagni di classe. Non spingono alla difesa dei comuni interessi, cioè del posto di lavoro e delle condizioni di vita. I sindacalisti portano i lavoratori davanti alle sedi comunali ma non davanti ad un’altra fabbrica o non chiamano a manifestazioni comuni di tutti i lavoratori, disoccupati, studenti, precari, etc…

Hanno paura che i lavoratori possano vedere e capire che il problema non è la chiusura di Termini Imerese, di Portovesme o dell’Omsa di Faenza, dove a rischiare il posto sono in 320, ma è il licenziamento, la precarietà, la miseria di milioni di persone. Capire che la soluzione non sta nella difesa del “proprio” posto di lavoro, ma nella difesa delle condizioni di vita di tutti i lavoratori, che solo la solidarietà e l’unione rafforza la classe operaia. Quando i lavoratori lottano uniti, i governi e la borghesia sono obbligati a cedere e a ritirare i licenziamenti, la chiusura degli impianti e i tagli salariali anche quando le finanze governative non lo permettono. La lotta di massa della classe operaia serve anche a sostenere i lavoratori delle piccole imprese, i disoccupati, che in assenza di essa spesso si chiudono nella depressione e in azioni disperate che non portano a nulla.

La borghesia vuole che i lavoratori in lotta si isolino sui tetti delle fabbriche, nell’occupazione di uffici e stabilimenti, non per niente fa di tutto per pubblicizzare questi avvenimenti! I sindacati non diranno mai che è necessaria l’unione di tutti i lavoratori, la discussione comune per poter difendere il nostro futuro, sta a noi portare avanti questa necessità.

Contro l’offensiva del capitale è necessaria una lotta unita e solidale!

Oblomov                              6 febbraio 2010

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Vertice di Copenaghen. Per salvare il pianeta, bisogna distruggere il capitalismo!

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“Doccia fredda a Copenaghen”[1], “Il peggiore accordo della storia”[2], “Copenaghen si conclude con un insuccesso”[3], “Delusione a Copenaghen”[4],… la stampa è unanime, questo vertice annunciato come “storico” è stato un vero fiasco!

Per parecchie settimane, i media ed i politici hanno fatto seguire a ruota dichiarazioni magniloquenti che in sostanza affermavano tutte: “l’avvenire dell’umanità e del pianeta si gioca a Copenaghen”. La fondazione Nicolas Hulot aveva anche lanciato un ultimatum: “l’avvenire del pianeta e, con esso, la sorte di un miliardo di affamati […] si giocherà a Copenaghen. Scegliere la solidarietà o subire il caos, l’umanità ha un appuntamento con se stessa”. Un ultimatum che conteneva una mezza verità. I documentari televisivi, i film (come Home di Yann Arthus Bertrand), i risultati delle ricerche scientifiche mostrano che il pianeta sta per essere distrutto. Il riscaldamento climatico si aggrava e con esso la desertificazione, gli incendi, i cicloni … L’inquinamento e lo sfruttamento intensivo delle risorse determinano la scomparsa massiccia di molte specie. Dal 15 al 37% delle biodiversità dovrebbero sparire da qui al 2050. Oggi un mammifero su quattro, un uccello su otto, un terzo degli anfibi ed il 70% delle piante è in pericolo d’estinzione[5]. Secondo il Forum Umanitario Mondiale, il “cambiamento climatico” implicherebbe la morte di 300.000 persone l’anno di cui la metà per malnutrizione! Nel 2050 dovremmo avere “250 milioni di profughi climatici”[6]. Ebbene sì, c’è un’emergenza. Sì, l’umanità è confrontata ad una posta in gioco storica e vitale!

Ma non c’era nessuna illusione da farsi, niente di buono poteva uscire da questo vertice di Copenaghen dove erano rappresentati 193 Stati. Il capitalismo distrugge l’ambiente da sempre. Già, nel XIX secolo Londra era un’immensa fabbrica fumante che scaricava i suoi rifiuti nel Tamigi. Questo sistema produce al solo scopo di fare profitto ed accumulare capitale, con ogni mezzo. Poco importa se per fare questo deve radere al suolo le foreste, saccheggiare gli oceani, inquinare i fiumi, stravolgere il clima … Capitalismo ed ecologia sono necessariamente antagonisti.

Tutte le riunioni internazionali, i comitati, i vertici, come quello di Rio de Janeiro nel 1992 o quello di Kyoto nel 1997, sono sempre stati delle foglie di fico, cerimonie teatralizzate per fare credere che i “grandi di questo mondo” si preoccupano dell’avvenire del pianeta. Gli Hulot, Yann Arthus Bertrand, ed altri Al Gore hanno voluto farci credere che questa volta sarebbe andato diversamente di fronte all’emergenza della situazione, gli alti dirigenti sarebbero “rinsaviti”. Meglio ancora, avrebbero compreso che si trattava di un’opportunità storica per cambiare in profondità il capitalismo, orientandosi verso una green economy capace di tirar fuori il mondo dalla recessione attraverso una crescita duratura ed ecologica! Mentre tutti questi ideologi rimestavano aria, gli “alti dirigenti” affilavano le loro armi eco… nomiche! Perché questa è la realtà: il capitalismo è diviso in nazioni, tutte concorrenti l’una contro l’altra, in perenne guerra commerciale e, se necessario, anche militare. Un solo esempio: il polo Nord si sta fondendo. Gli scienziati vi vedono una vera catastrofe ecologica. Gli Stati vi vedono invece un’opportunità per sfruttare risorse fino ad ora inaccessibili e per aprire nuove vie marittime liberate dai ghiacci. La Russia, il Canada, gli Stati Uniti, la Danimarca (attraverso la Groenlandia) si stanno facendo adesso una guerra diplomatica senza pietà. Il Canada ha anche iniziato a posizionare le sue armi alla frontiera dirette in questa direzione! Capitalismo ed ecologia sono effettivamente antagonisti.

E volevano farci credere che, in un tale contesto, gli Stati Uniti e la Cina avrebbero accettato di “ridurre le proprie emissioni di CO2”, cioè limitare la loro produzione? Del resto lo stesso concetto di “limitazione delle emissioni di CO2” ci fa capire cosa rappresenta il surriscaldamento climatico per il capitalismo, un’arma ideologica per farsi concorrenza. Ogni paese vuole fissare gli obiettivi che più gli convengono: i paesi dell’Africa vogliono cifre molto basse che corrispondono alla loro produzione per mettere i bastoni tra le ruote alle altre nazioni, i paesi del Sud America sperano in cifre un poco più elevate, e così via per l’India, gli Stati europei, essi stessi divisi tra loro, la Cina, gli Stati Uniti …

La borghesia non riesce neanche più a salvare le apparenze

Il solo elemento forse sorprendente di questo fiasco di Copenaghen è che tutti questi capi di Stato non sono riusciti neanche a salvare le apparenze. Abitualmente, si tira fuori un accordo finale firmato in pompa magna che fissa alcuni vaghi obiettivi da raggiungere un giorno e tutti se ne congratulano. Questa volta si parla ufficialmente di “insuccesso storico”. Le tensioni ed i mercanteggiamenti sono usciti dalle quinte e sono stati portati davanti la scena. Non si è riusciti neanche a fare la tradizionale foto dei capi di Stato che si auto-congratulano con tanto di abbracci e larghi sorrisi da star del cinema. E’ tutto dire!

In effetti, la recessione non spinge i capi di Stato a cogliere la “formidabile opportunità” di una green economy mondiale ma, al contrario, può solo acuire le tensioni e la concorrenza internazionale. Il vertice di Copenaghen ha dato dimostrazione della guerra accanita a cui si stanno dedicando le grandi potenze. Non è più tempo di fingere intese e proclamare accordi, benché bidoni. E’ tempo di tirar fuori i coltelli, tanto peggio per la foto!

Il capitalismo non sarà mai “verde”. Domani la crisi economica colpirà ancora più forte. La sorte del pianeta sarà allora l’ultima delle preoccupazioni della borghesia. Ogni borghesia nazionale avrà un unico obiettivo: sostenere la propria economia nazionale scontrandosi sempre più duramente con le altre nazioni, chiudendo le fabbriche non abbastanza redditizie, a costo di lasciarle cadere a pezzi, riducendo i costi di produzione, tagliando dai bilanci le spese per la manutenzione, il che significherà più inquinamento e più incidenti industriali. È esattamente quello che è già accaduto in Russia negli anni 90, coi suoi sottomarini nucleari lasciati in abbandono e la Siberia inquinata a tal punto da far morire una larga parte dei suoi abitanti.

Infine, una parte sempre più grande dell’umanità si ritroverà nella miseria, senza cibo e senza casa e sarà dunque ancora più vulnerabile agli effetti del cambiamento climatico, ai cicloni, alla desertificazione.

È tempo di distruggere il capitalismo prima che distrugga il pianeta e decimi l’umanità!

Pawel, 19 dicembre

(da Révolution Internationale n.408)


[1] Sul sito di Libération, il 19 dicembre.

[2] Idem.

[3] Sul sito di Le Figaro, il 19 dicembre.

[4] Sul sito di Le Monde, il 19 dicembre.

[5] https://www.planetoscope.com/biodiversite [10]

[6] www.futura-sciences.com/planete/actualites/climatologie-rechauffement-climatique-vers-30000-morts-an-chine-2-c-19468 [11]

Questioni teoriche: 

  • Ambiente [12]

Solidarietà con gli anarco-sindacalisti di Belgrado imprigionati

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Abbiamo ricevuto da parte della CNT-AIT di Tolosa il comunicato che pubblichiamo di seguito.

Siamo perfettamente d’accordo con i compagni che si tratta di un tentativo di intimidazione da parte dello Stato contro dei militanti e contro la classe operaia in generale. Il contrasto tra la severità delle pene chieste per i compagni ed il silenzio benevolo e complice che ha coperto dei criminali di guerra come Karadzic e Mladic per tanti anni dalla guerra nella ex-Iugoslavia è tanto loquace sull’ipocrisia d’accusa di “terrorismo” che di più non si può.

Esprimiamo tutta la nostra solidarietà verso i militanti incarcerati e le loro famiglie e incoraggiamo i nostri lettori a diffondere il più largamente possibile la dichiarazione della CNT-AIT.

CCI, 27 ottobre 2009

COMUNICATO della CNT-AIT di Marsiglia

Sicuramente siete al corrente che dei militanti anarco-sindacalisti serbi, tra cui l’attuale segretario dell’AIT, sono detenuti nella prigione di Belgrado. La procedura adottata nei loro confronti è quella di “terrorismo” e, per il momento, non sappiamo fin dove essa arriverà. L’accusa si basa su delle citazioni per danni materiali minimi che sarebbero stati commessi da un gruppo anarchico contro l’ambasciata greca di Belgrado in solidarietà con un compagno greco ancora incarcerato. Gli imputati negano i fatti, ma rischiano dai 3 ai 15 anni di reclusione.

Questa sproporzione tra i fatti addebitati e l’accusa ci fa pensare che la volontà del potere serbo sia di mettere la museruola ai nostri compagni la cui attività militante arreca visibilmente disturbo.

Vi chiediamo con la presente di diffondere il più largamente possibile il seguente comunicato dell'ASI:

“Il 4 settembre 2009, il Tribunale locale di Belgrado ha deciso che i militanti dell’ASI saranno incarcerati per 30 giorni. I nostri compagni sono accusati di un atto di “terrorismo internazionale”.

La Confederazione di sindacati “Iniziativa anarco-sindacalista” è stata informata dai media dell’attacco contro l’ambasciata greca e dell’organizzazione che l’ha rivendicata. Profittiamo dell’occasione per ricordare ancora una volta all’opinione pubblica che questi mezzi di lotta politica individualistica non sono quelli dell’anarco-sindacalismo, al contrario: noi affermiamo pubblicamente le nostre posizioni politiche e cerchiamo di attirare le masse verso il movimento sindacalista e le organizzazioni libertarie e progressiste attraverso la nostra azione.

Lo Stato vuole fare tacere le nostre critiche con i suoi mezzi di repressione e lo fa con la sua assurda logica, dichiarando sospetti quelli che esprimono pubblicamente il loro punto di vista libertario e conclude l’atto arrestandoli per dare una falsa immagine all’opinione pubblica. Si possono notare, fin dai primi momenti della detenzione, le forme poco scrupolose d’azione delle istituzioni del regime, la perquisizione illegale degli appartamenti, l’intimidazione delle famiglie e le accuse sproporzionate di terrorismo internazionale.

Sebbene noi non sosteniamo le azioni dell’ormai celebre gruppo anarchico “Crni Ilija”, non possiamo caratterizzarlo come “terrorismo internazionale” poiché il terrorismo, per definizione, è una minaccia contro la vita di civili, mentre in questo caso nessuno è stato ferito e i danni materiali sono stati simbolici. È chiaro che questa farsa dello Stato è una maniera per intimidire coloro che denunciano l'ingiustizia e la disperazione di questa società.

In questi tempi di narcosi sociale ci sono individui che scelgono di fare azioni incredibili, talvolta auto lesive, per rompere il blocco mediatico ed attirare l’attenzione sulle loro richieste (ricordiamoci dei lavoratori che si sono tagliate le dita e che le hanno mangiate, oppure di quell’uomo disperato che ha minacciato di fare esplodere una granata nell’edificio della Presidenza serba), il tutto per far conoscere in modo più ampio possibile i loro problemi.

Noi non lasceremo passare il tentativo di far credere che un tale atto simbolico di solidarietà, benché espresso in modo sbagliato, possa essere considerato come un atto antisociale o terroristico, così come qualunque atto di ribellione di coloro che sono stati privati dei loro diritti. Esprimiamo la nostra solidarietà ai compagni incarcerati ed alle loro famiglie e chiediamo che vanga stabilita la verità su questo fatto.

Libertà per gli anarco-sindicalisti! Iniziativa anarco-sindacalista.

5 settembre 2009

Vita della CCI: 

  • Corrispondenza con altri gruppi [13]

Correnti politiche e riferimenti: 

  • Anarchismo internationalista [14]

Corrispondenza con un lettore. Qual è il nostro atteggiamento verso compagni che si richiamano all’anarchismo?

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Lettera del compagno

Salute compagni, voglio leggere il finale del Manifesto Comunista:

“Sulla Germania i comunisti rivolgono principalmente la loro attenzione, perché la Germania è alla vigilia della rivoluzione borghese, e perché essa compie tale rivoluzione in condizioni di civiltà generale europea più progredite e con un proletariato molto più sviluppato che non avessero l’Inghilterra nel secolo XVII e la Francia nel XVIII; per cui la rivoluzione borghese tedesca non può essere che l’immediato preludio di una rivoluzione proletaria.

In una parola, i comunisti appoggiano ovunque ogni moto rivoluzionario contro le condizioni sociali e politiche esistenti.

In tutti questi movimenti essi mettono avanti sempre la questione della proprietà, abbia essa raggiunto una forma più o meno sviluppata, come la questione fondamentale del movimento.

Infine, i comunisti lavorano per l’unione e l’accordo tra i partiti democratici di tutti i paesi.

I comunisti sdegnano di nascondere le proprie idee e i propri fini. Proclamano apertamente che i loro obiettivi si possono realizzare solo rovesciando con la violenza l’ordine sociale esistente. Le classi dominanti devono tremare di fronte a una Rivoluzione Comunista. I proletari non hanno da perdere che le loro catene. Ed hanno un mondo da guadagnare”.

Dopo anni che non parlavate di anarchici, ora parlate di due gruppi anarchici del Messico che sul loro sito web attaccano Marx e idealizzano Bakunin, come un essere creato per arrivare ad essere il DIO di tutti gli anarchici.

Se si guarda il loro sito, si trovano insulti contro Marx. Noi, in quanto comunisti, dobbiamo fare attenzione a questi compagni di viaggio, come Marx spiegò bene nel Manifesto Comunista e in tutte le discussioni che tenne con Bakunin, e dopo di lui Lenin. Vedo che voi state dando fiducia a molti gruppi che stanno nascendo in America Latina, che li state sopravvalutando per il fatto che una organizzazione della Sinistra comunista, come la CCI, solidarizza con le lotte dei lavoratori.

Vorrei ancora sapere come avete solidarizzato con quelli di Luz y Fuerza, mentre penso che i comunisti devono organizzarsi al di fuori di ogni altro gruppo, che non bisogna dimenticare le lezioni di Marx a proposito dell’anarchismo. Mi sembra che voi stiate abbassando la guardia, che non vedete che sul loro sito ci stanno insultando perché siamo marxisti, e che si stanno accodando agli altri gruppi anarchici, mentre la CCI vacilla; è vero che stanno sorgendo molti gruppi, ma di che ideologia sono? Sono comunisti o anarchici? Gli anarchici non hanno mai visto di buon occhio i comunisti e bisogna fare molta attenzione perché ci possono distruggere.

Voi state abbassando la guardia e spero che non vi anarchizziate.

Un forte abbraccio ai compagni di AP (CCI).

Fraterni saluti.

SOC. Salute

LA NOSTRA RISPOSTA

Caro SOC,

abbiamo letto la tua lettera e apprezzato la tua franchezza. Riceviamo le tue osservazioni e le tue critiche con fiducia e ti rispondiamo in maniera non difensiva ma sviluppando i motivi del nostro atteggiamento. Al tempo stesso ci auguriamo che tuo atteggiamento sia sempre ispirato dalla fiducia e dall’onesto desiderio di spingere la Sinistra comunista nel cammino della rivoluzione mondiale.

La prima questione che vogliamo affrontare e che sembra essere una delle tue preoccupazioni è il “nuovo” atteggiamento della CCI verso l’anarchismo. La nostra posizione in proposito non è cambiata. Quando parliamo dell’anarchismo dobbiamo fare varie distinzioni perché, se mettiamo in un unico sacco tutto quello che si riferisce all’anarchismo, facciamo confusione.

Innanzitutto c’è quello che si chiama Anarchismo ufficiale con organizzazioni che hanno appoggiato la seconda guerra mondiale o, prima ancora con Kropotkin, la prima guerra mondiale o che, con la CNT, hanno partecipato con propri ministri al governo dello Stato spagnolo nel 1936 e trascinato attivamente il proletariato e tutta la popolazione nella guerra civile spagnola del 1936. L’Anarchismo ufficiale appartiene al campo borghese allo stesso titolo di altre correnti che si richiamano al “marxismo”, come lo stalinismo, la socialdemocrazia, il trotskysmo, ecc. Con ognuna di queste non è possibile alcun dialogo e per una ragione essenziale: hanno tutte calpestato l’arma più importante del proletariato, l’INTERNAZIONALISMO, abbracciando in cambio la difesa della guerra imperialista e del capitale nazionale.

In secondo luogo, dobbiamo prendere in considerazione l’ideologia anarchica. Essa esprime una volontà di lotta contro lo sfruttamento e l’oppressione e, per questo, si situa inequivocabilmente sul terreno della lotta contro il capitalismo.

Condividendo chiaramente questo terreno, le divergenze che abbiamo si situano al livello del metodo, ed in particolare su due aspetti:

  • mentre il marxismo parte dalla realtà delle lotte e della evoluzione generale del mondo per elaborare le sue analisi e proposte, l’anarchismo parte da un’idea prestabilita con la quale vuole convincere il mondo;

  • mentre il marxismo parte dalla lotta di classe come motore della storia, l’anarchismo parte dalla lotta degli individui e, se riconosce le classi, le vede unicamente come somma di individui.

Ma, in terzo luogo, dobbiamo riconoscere una realtà che è indiscutibile: ci sono gruppi e collettivi che, richiamandosi all’anarchismo o avendo simpatia per alcune sue posizioni, sono animati da uno spirito proletario di ricerca di posizioni di classe genuine. Con questi gruppi non solo è necessario il dibattito, ma anche una collaborazione perché essi fanno parte dello sforzo di presa di coscienza che esiste nella classe e questo lo facciamo con massima lealtà e spirito fraterno, al di là della etichette che essi si danno o di questa o quella posizione particolare con cui noi non siamo d’accordo.

Per quanto riguarda poi la collaborazione con gli anarchici in Messico, dobbiamo aggiungere una seconda spiegazione. La sezione della CCI in Messico ha avuto quasi 4 anni di discussioni, incontri e collaborazione con il GSL. Questo gruppo ha dovuto confrontarsi con gli attacchi dell’anarchismo “ufficiale” ogni volta che ha preso una posizione internazionalista e ha tenuto a dire che “staremo con la CCI se questa difende l’internazionalismo proletario, se altri anarchici difendono il nazionalismo in qualunque sua forma noi non staremo con loro.” E’ questo principio fondamentale che ha permesso un lavoro comune. Qualcosa di simile è successo con i compagni del PAM (spinti dai compagni del GSL a venire alle nostre riunioni pubbliche e a leggere la nostra stampa) che condividono con la CCI l’internazionalismo, la denuncia dei sindacati, del parlamentarismo e del suo circo elettorale, il nazionalismo e, in maniera esplicita, condividono con la CCI una denuncia dell’anarchismo ufficiale.

Nel caso degli elettricisti di Luz e Fuerza del Centro, prima dell’enorme attacco e della odiosa trappola sindacale, questi compagni hanno stabilito una collaborazione con la CCI e hanno condiviso pienamente la denuncia dello Stato, della sinistra del capitale, dei sindacati e dell’estrema sinistra (i trotzkisti, per esempio), che l’attacco era brutale ed era in realtà contro tutta la classe, che la difesa del sindacalismo e delle “istituzioni democratiche” era una trappola.

Il GSL ha fatto un viaggio di 12 ore in autobus per partecipare, nel Distretto federale, ad una manifestazione di 100.000 partecipanti in cui abbiamo diffuso un volantino che avevamo preparato assieme. Anche il PAM ha partecipato alla diffusione del volantino. C’è stata inoltre una riunione comune e insieme abbiamo portato avanti la denuncia di questo enorme attacco. Essi hanno insistito sul fatto che “essere controcorrente” rispetto a tutti (l’ambiente era quello della difesa del sindacato, dell’impresa pubblica, delle “conquiste operaie” ed altri luoghi comuni della sinistra del capitale) non li turbava affatto e che anzi questo rafforzava il sentimento di stare sulla giusta strada. Noi siamo stati molto soddisfatti di condividere con loro questo orientamento proletario.

Sappiamo che esistono delle differenze, ma cercheremo di realizzare delle attività in comune, attività che portino ad un avanzamento nella coscienza che è la premessa per demolire questo regime putrescente.

Infine, noi comunisti sappiamo che la risposta a questa società basata sullo sfruttamento sorgerà dal seno stesso della lotta contro l’alienazione. Sappiamo anche che questa risposta nascerà attraverso vacillamenti, errori, in rottura e facendo i conti con tutto il peso di secoli di dominazione. E’ vero che sui siti di questi gruppi si possono incontrare cose come “insulti” al marxismo, ma ci sono anche sforzi per porsi a fianco del proletariato, sforzi sinceramente internazionalisti. Anche se si dicono “non marxisti”, essi risultano più internazionalisti di molti altri, come ad esempio i trotskysti che a parole si dicono internazionalisti. Molti operai che oggi “rinnegano” il comunismo, o perché lo identificano con lo stalinismo o perché non lo capiscono, domani saranno in prima linea nella lotta per la rivoluzione mondiale. L’importante è come organizzare una lotta comune, come avanzare nella unificazione degli sforzi del proletariato. Siamo convinti che il volantino firmato assieme è un tentativo che va nella prospettiva di creare un polo di raggruppamento intorno alla difesa di un internazionalismo nei fatti (vedi per esempio la risposta che esso ha suscitato in gruppi del Perù e dell’Equador). Una caratteristica essenziale di questi gruppi (GSL e PAM) è che essi sono composti da elementi molto giovani, che non sono segnati dall’anarchismo “ufficiale” e che sono animati dalla volontà di andare incontro al proletariato; per questi motivi lavoreremo con loro fraternamente e senza riserve, perché siamo coscienti che procediamo sulla stessa strada. Come dicevamo all’inizio, questo lavoro in comune non costituisce una “politica di alleanza”, nello stile dell’estrema sinistra del capitale, si tratta di un intervento comune basato innanzitutto su un accordo su questioni di principio (non è un’apertura pubblica, per tutti e senza criteri). Sappiamo che ci sono differenze che stiamo discutendo, e può anche essere che non riusciremo mai a convincerli a “diventare marxisti”, ma potremo in cambio costruire un ambiente di solidarietà, di fiducia, di dibattito, che prepari, di fronte al futuro, una lotta a morte contro il capitale. Lotteremo per questo sapendo che in questa battaglia non ci sono garanzie. Speriamo che questi elementi di riflessione aiutino ad avanzare nella comprensione dell’intervento dei comunisti.

Restiamo in attesa di tuoi commenti per poter andare più avanti nella riflessione o, almeno, che i dubbi e le critiche ci aiutino ad approfondire le nostre idee.

Fraternamente.           CCI     08-12-09

Vita della CCI: 

  • Corrispondenza con altri gruppi [13]
  • Lettere dei lettori [15]

Correnti politiche e riferimenti: 

  • Anarchismo internationalista [14]

A 150 anni dalla pubblicazione de "L’origine della specie" (Charles Darwin), l’oscurantismo religioso persiste

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Poco tempo fa Sarah Palin, appartenente alla lista del candidato John Mc Cain alla presidenza degli Stati Uniti, sosteneva senza esitazione la tesi che gli uomini ed i dinosauri coabitassero sulla terra 6.000 anni fa, mentre la scienza ha dimostrato che gli ultimi dinosauri sono spariti dalla superficie del pianeta più di 65.000.000 di anni fa, ben prima dell’apparizione del primo homo sapiens. Quest’ignoranza dell’evoluzione storica delle specie collima con la dottrina religiosa creazionista ancora largamente diffusa oggi. La popolarità di questo dogma è illustrata in particolare da una reinvenzione della storia dell’universo attraverso la fioritura di musei cristiano-creazionisti negli Stati Uniti dal 2005 (in particolare nel Kentucky e a Cincinnati, nell’Ohio, ed in un lunapark costruito nel 2007 in Gran Bretagna, nel Lancashire, per iniziativa di un gruppo di uomini d’affari americani che “spiegano” la nascita dell’universo in 7 giorni in accordo con la lettura letterale della Bibbia). È difficile prendere sul serio, data la loro dimensione hollywoodiana, queste Disneyland o questi Jurassic Park da operetta con i loro precetti che sfruttano l’ignoranza, la credulità ed i pregiudizi religiosi. Eppure il successo di quest’ideologia oscurantista è inquietante: per esempio, secondo i sondaggi più del 20% della popolazione fiamminga e quasi un americano su due propendono per una visione creazionista del mondo e sarebbero ostili alla teoria dell’evoluzione dimostrata da Charles Darwin.

La teoria darwinista dell’evoluzione contro il creazionismo

150 anni fa, nel novembre 1859, Darwin pubblicava l’Origine delle specie. Questo lavoro, basato su un’abbondante raccolta di osservazioni e sperimentazioni nella natura, ha rivoluzionato la visione delle origini dell’uomo e della sua collocazione nell’universo dei viventi. Essa dimostrava per la prima volta che esisteva una base comune allo sviluppo delle specie e degli esseri viventi, basandosi e superando i lavori precedenti di naturalisti come Leclerc e Linneo fino al trasformismo di Lamarck[1]. La teoria di Darwin mirava a dimostrare in modo dialettico, rigoroso e scientifico, la capacità di adattamento degli esseri viventi nel loro ambiente e ad integrare questa teoria in una nuova concezione dell’evoluzione delle specie. Appariva così l’esistenza di una genealogia comune agli esseri viventi che si iscrivono in una filiazione in seno alla quale l’essere umano non era più una specie superiore scelta e creata di tutto punto da Dio, ma il prodotto aleatorio di una differenziazione tra le specie. Si trattava di una rimessa in causa radicale degli “insegnamenti” della Bibbia e della sua Genesi che confutava l’idea di una creazione divina, ed annullava tutte le tradizioni religiose monoteiste (cristianesimo, giudaismo, islam). Questo approccio materialista e scientifico di Darwin fu subito attaccato violentemente da ogni parte, ed in particolare dagli stessi dogmi religiosi che avevano messo alla gogna del pensiero umano Galileo e Copernico (teorici che, per primi, con le loro scoperte scientifiche avevano rigettato il geocentrismo religioso che pretendeva che la Terra fosse il centro dell’universo, e soprattutto, il centro della Creazione divina).

Lo scandalo di questa scoperta di Darwin non risiedeva tanto nell’avere evidenziato l’evoluzione delle specie ma nel fatto che le interazioni agenti in questa evoluzione non ubbidiscono a nessuna finalità in natura[2]. “L’albero della vita” non somiglia ad un grande albero genealogico gerarchizzato, una piramide al cui vertice si troverebbe l’uomo, homo sapiens, ma ad un albero cespuglioso alla cui base ci sono tutte le forme di vita più vecchie e di cui l’uomo sarebbe solamente una specie particolare, tra milioni delle innumerevoli ramificazioni ancora presenti sulla terra. Questa visione implica una parentela ed una filiazione comune tra l’uomo e le forme di vita più elementari come l’ameba. Ciò appare insopportabile per i numerosi animi che subiscono, molto spesso inconsapevolmente, la costrizione dell’arretramento religioso. Ancora oggi l’approccio ed il procedere di Darwin sono rimessi in causa con virulenza, mentre tutti gli apporti scientifici in paleontologia, in biologia, in genetica ed in ben altri campi della conoscenza, non hanno fatto che confermare la validità della teoria di Darwin[3]. Le religioni sono state costrette tuttavia a mascherare il prosieguo della loro crociata anti-darwinista propagando un’ideologia che mira a mantenere la credenza religiosa dietro una pseudo “costruzione scientifica” alternativa: il “disegno intelligente” (intelligent design). In effetti la chiesa non difende più il creazionismo come ai tempi di Darwin. Ricordiamo il dibattito che oppose il vescovo di Oxford, Samuel Wilberforce a Thomas Huxley, ardente difensore dell’evoluzionismo nel 1860. Il primo scherniva il secondo chiedendogli: “È attraverso vostro nonno o vostra nonna che discendete da una scimmia, Signore Huxley?”. E questo gli avrebbe ribattuto: “Non avrei vergogna di avere una scimmia per avo, ma di essere imparentato ad un uomo che utilizza il suo talento per oscurare la verità!”. La chiesa cattolica non ha mai osato mettere L’Origine delle specie all’indice dei libri vietati ma, l’ha condannata ufficiosamente e si è rifiutata per molto tempo di parlare dell’evoluzione nei programmi scolastici che essa promulgava. Oggi la religione si è adattata mettendo avanti una dottrina più sorniona e perniciosa: il “disegno intelligente”. Secondo questa “teoria” c’è stata un’evoluzione ma questa sarebbe stata voluta e “pilotata” da un potere “divino”. Così, l’uomo non sarebbe un “caso della natura” ma realmente il frutto della volontà di un creatore tanto potente da desiderarlo e “programmarlo”.

Questa variante del creazionismo approfitta dell’attuale ritorno di popolarità di ideologie spiritualistiche, oscurantiste e settarie. Queste ideologie reazionarie sono spesso inoculate direttamente da certe frazioni della borghesia che ne fanno materia per manipolare masse di popolazioni disorientate e disperate dalla miseria, dalla barbarie e dalla mancanza di prospettive del mondo capitalista. È proprio questo che le spinge ad evadere dalla realtà obiettiva, rifugiandosi nella fede, nella credenza cieca in un aldilà, in un “ordine superiore”, invisibile ed onnipotente che sfugge ad ogni pensiero razionale. La credenza in un Dio creatore onnipotente e la proliferazione di ogni tipo di sette (che ne traggono d’altra parte un profitto mercantile pienamente capitalista) sono state utilizzate dalle ideologie della New Age per cristallizzare le paure, le sofferenze, le angosce proprie degli infelici, disorientati di fronte al vicolo cieco della società capitalista. Questa constatazione dimostra la pertinenza dell’analisi che ne dava Marx fin dal 1843 nella sua Critica della filosofia politica di Hegel: “La miseria religiosa è allo stesso tempo l’espressione della miseria reale e la protesta contro la miseria reale. La religione è il sospiro della creatura prostrata dalla disgrazia, l’anima di un mondo senza cuore, lo spirito di un stato di cose dove non c’è affatto spirito. Essa è l’oppio del popolo”.

La religione è sempre stata il primo bastione delle forze conservatrici e reazionarie per anestetizzare le coscienze contro le conquiste scientifiche. Tenta di adattarsi per cercare di preservare lo status quo pretendendo di essere sempre un rifugio per “consolare gli uomini delle disgrazie della società”, sottomettendoli ad una credenza e soprattutto ad una sottomissione verso l’ordine sociale esistente.

La teoria reazionaria del “disegno intelligente”

Il “disegno intelligente” si pone al rango di teoria scientifica con la scusa di cercare di conciliare l’evoluzionismo ed il creazionismo. Presenta l’uno e l’altro come scelte “filosofiche” concorrenti che cercano fraudolentemente di darsi una base scientifica. Il precursore del “disegno intelligente”, il gesuita Teilhard di Chardin (1881-1955), ha cercato negli anni ‘20 di dimostrare, per esempio, che esiste una teleologia, una finalità nell’evoluzione chiamata “punto Omega”, definito come il polo divino di convergenza e di armonizzazione che culmina nella “noosfera”, tipo di beatitudine celeste animata dallo spirito divino … Ben più che nel cattolicesimo, è nel protestantesimo e le sue diverse varietà di “chiese evangeliche”, basandosi sulla lettura strettamente letterale della Bibbia, che si troveranno gli avversari più accaniti di Darwin (è questa del resto la ragione del successo dell’Intelligent Design negli Stati Uniti, in particolare durante gli “anni Bush”, dove il governo la sosteneva quasi apertamente!). Gli obiettivi dei propagandisti attuali del “piano intelligente” sono stati definiti chiaramente dal think tank[4] all’origine del movimento, il Discovery Institute, in un documento ad uso interno, The Wedge. Alcune fughe permetteranno la sua diffusione nel 1999. In questo documento sono definiti senza la minima ambiguità gli obiettivi principali del Discovery Institute[5]: in primo luogo si tratta per esso di “vincere il materialismo scientifico e le sue eredità morali, culturali e scientifiche; poi di sostituire le spiegazioni materialiste con la comprensione che la natura e l’essere umano sono creati da Dio”. Il suo progetto a breve o medio termine è “veder diventare la teoria del disegno intelligente un’alternativa accettata nelle scienze e vedere delle ricerche scientifiche condotte nella prospettiva della teoria del disegno; assistere all’inizio dell’influenza della teoria del disegno in altre sfere oltre che in quella delle scienze naturali; vedere posti all’ordine del giorno nazionale nuovi e più ampi dibattiti nell’educazione, su gli argomenti relativi alla vita, la responsabilità penale e personale”. È infatti nel dominio prioritario dell’educazione scolastica e dell’insegnamento, e parallelamente sul piano giuridico, che questo dogma spinge la sua offensiva, pur cercando di seminare la confusione nei circoli scientifici, al fine di radicarsi in tutte le sfere della società, grazie soprattutto a campagne pubblicitarie e di manipolazione dell’opinione (publicity and opinione making). Internet gli ha aperto anche un immenso serbatoio per scaricare la sua propaganda, come i missionari partiti alla conquista della “conversione” del mondo all’epoca della colonizzazione delle nuove terre. Il principio è far passare il “disegno intelligente” come ipotesi “scientifica” concorrente al darwinismo. Esso manifesta anche la sua ambizione di “vedere la teoria del disegno intelligente come prospettiva dominante nella scienza; vedere delle applicazioni della teoria del disegno nei campi specifici che includano la biologia molecolare, la biochimica, la paleontologia, la fisica e la cosmologia nelle scienze naturali; la psicologia, l’etica, la politica, la teologia, la filosofia e le materie letterarie; vedere la sua influenza nelle arti”. Ma questa esposizione al grande pubblico delle mire fondamentaliste del “disegno intelligente” ha avuto il suo rovescio della medaglia: ha portato un duro colpo ai suoi promotori che, non potendo negare l’esistenza del documento, ne propongono oggi una versione edulcorata.

Tuttavia, questo progetto è stato ripreso con forza e si è esteso in particolare nel mondo musulmano. Dalla Turchia, Harun Yahia, il cui vero nome è Adnan Oktar, alla testa di una lobby mafiosa, ha cominciato a diffondere gratuitamente e massicciamente la sua propaganda presso gli insegnanti e i capi di istituti di collegi e licei. Ha inondato le scuole nel mondo intero col suo Atlante della Creazione, anche via Internet. Ha prodotto anche più di 200 film documentari e 300 lavori già tradotti in una sessantina di lingue. I tentativi di rendere irriconoscibile la storia dello sviluppo delle specie e degli esseri viventi, così come tutte le menzogne inventate dalle classi dominanti nella storia dell’umanità, fanno parte dello stesso lavaggio del cervello per frenare lo sviluppo della coscienza (in particolare dei proletari) per inebetirli ed impedirgli di liberarsi delle loro catene. È attraverso l’oscurantismo che diffondono il riflesso della putrefazione della società capitalista e le maschere ideologiche che gettano sulla realtà del mondo serve solo a preservare i rapporti di sfruttamento. L’approccio religioso è solamente una di queste maschere.

Scienza e coscienza

Tutto oppone la credenza religiosa alla scienza ed al metodo scientifico. Per la religione e la tradizione teologica il sapere, la conoscenza non possono che essere, in fin dei conti, di natura divina e restare inaccessibili al comune mortale. Il metodo materialista della scienza (i fatti e lo studio delle reazioni, le differenze o le similitudini, e le condizioni che le determinano sono la base di ogni esperienza scientifica) non è né una “filosofia” né una “ideologia” ma la condizione necessaria di un approccio cosciente e storico dei rapporti tra l’uomo ed il suo ambiente naturale, ivi compreso prendendo come oggetto di studio il suo comportamento; è un approccio verso i limiti della conoscenza che non fissa in anticipo alcun limite. Lo sviluppo della scienza è totalmente associato allo sviluppo della coscienza nell’umanità. La scienza ha una storia, ma una storia né lineare, né legata meccanicamente ai progressi tecnici o alle tecnologie avanzate (ciò che esclude ogni “positivismo”, ogni idea di “progressismo”). È intimamente legata ai rapporti sociali di produzione da cui è condizionata. La credenza si basa su della paure di fronte all’ignoto. Contrariamente ai pregiudizi religiosi (che sono innanzitutto un’ideologia al servizio dell’ordine esistente, del potere stabilito che attinge la loro salvaguardia nel conservatorismo e lo status quo) lo sviluppo della coscienza è l’elemento motore che accompagna lo sviluppo della scienza. Il metodo scientifico non teme la messa in causa delle sue ipotesi, lo sconvolgimento delle sue esperienze e per questo si evolve ed è dinamico. Come dice Patrick Tort (L’effetto Darwin): “La scienza inventa, progredisce e si trasforma. L’ideologia recupera, si adatta e rimaneggia se stessa”.

E, come è citato in un articolo del Monde de l’Education[6], del giugno 2005: “il ‘dialogo' tra scienza e religione è una finzione inventata dalla politica. In effetti non c’è niente in comune né può essere scambiato tra la ricerca immanente della conoscenza obiettiva e il ricorso al soprannaturale che caratterizza la posizione del credente. Se si ammettesse una sola volta che un elemento soprannaturale può contribuire a costruire la spiegazione scientifica di un fenomeno, si rinuncerebbe in un sol colpo alla coerenza metodologica di tutta la scienza. Il metodo scientifico non si negozia. E’necessaria tutta la scaltrezza del liberismo individualistico (…) per convincere che ci possa essere una via di mezzo tra la spiegazione scientifica e le interpretazioni teologiche, o che queste possano essere combinate, come se la legge della caduta dei corpi fosse stato un fatto di convinzione personale, di democrazia elettiva o di ‘libertà'”.

In effetti, il termine “politica” non ha senso in questa citazione se non come politica della classe dominante. Ecco perché il metodo scientifico di un Copernico, di un Marx, di un Engels o di un Darwin è stato, ed è ancora per la maggior parte di loro, combattuto o deformato con un tale accanimento da parte di coloro che difendono l’immutabilità di un ordine sociale.

W (24/11/09)

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Alcuni precursori di Darwin

Dopo la pubblicazione della teoria dell’evoluzione di Darwin, Leclerc, Linneo e Lamarck sono stati screditati largamente e gettati in parte nella pattumiera della storia. Tutte le parti superate delle loro tesi sono state additate come errori grossolani e vergognosi. Tuttavia, in realtà, ciascuno ha contribuito a fare avanzare la conoscenza, in quanto il lavoro di ognuno di loro, pur con i suoi limiti, ha permesso il superamento degli altri. E’per tale motivo che possiamo dire che furono tutti e tre dei precursori, dei maestri di pensiero per Darwin. Non è un caso se essi hanno rilevato le somiglianze tra l’uomo e la scimmia e le possibilità di una genealogia comune.

L’attenzione che Georges-Louis Leclerc, conte di Buffon (1707-1788) attribuì all’anatomia interna lo pone tra i precursori dell’anatomia comparativa. “L’interno negli esseri viventi è la base del disegno della natura”, scrive nei Quadrupedi. Leclerc va contro la religione: pone deliberatamente l’uomo al centro del regno animale. Anche se conviene che non bisogna fermarsi all’aspetto esterno perché l’uomo ha una “anima” dotata di ragione che lo pone al vertice della creazione, afferma che l’uomo è simile agli animali per la sua fisiologia. Dimostra che esistono altrettante varietà di uomini neri come di uomini bianchi; dopo parecchie generazioni un gruppo di uomini bianchi in un particolare ambiente naturale diventerebbe nero; esiste solamente una sola specie umana e non diverse. Ne conclude che le varietà umane sono generate da un ceppo iniziale che si è adattato, secondo l’ambiente in cui abitano.

In quanto a Linneo (1707-1778) è un naturalista “fissista”. Per lui le specie viventi sono state create da Dio all’epoca della Genesi e da allora non hanno subito variazioni. Lo scopo primo del suo sistema è dimostrare la grandezza della creazione divina. Tuttavia, data l’importanza che attribuisce agli organi di riproduzione delle piante, è importante notare che la pertinenza del suo sistema di classificazione richiama inevitabilmente ipotesi evoluzionistiche: poiché tale specie somiglia straordinariamente a quella specie vicina, perché non presumere che l’una ha preceduto l’altra nel tempo? Anche la scelta degli organi di riproduzione come criterio andava nel senso di un’interpretazione dinamica ed evoluzionista della storia delle piante.

Lamarck (1744-1829) è un naturalista conosciuto per avere proposto per primo una teoria materialista e meccanicistica della vita e dell’evoluzione degli esseri viventi. È anche uno dei rari evoluzionisti ad avere compreso la necessità teorica dell’evoluzione degli esseri viventi. La sua teoria trasformista è fondata su due principi: la sua tesi sull’evoluzione afferma che gli individui si adattano durante la loro vita in particolare utilizzando più o meno certe funzioni organiche, che si sviluppano o si attenuano in rapporto all’uso o non uso degli organi. E’ questo che scriveva Lamarck a proposito della giraffa per esempio: “Relativamente alle abitudini, è curioso osservarne il prodotto nella forma particolare e la taglia della giraffa (camelo-pardalis): si sa che questo animale, il più grande dei mammiferi, abita l’interno dell’Africa, e vive nei luoghi dove la terra, quasi sempre arida e senza pascolo, l’obbliga a brucare il fogliame degli alberi, sforzandosi continuamente per raggiungerlo. Il risultato di questo comportamento, sostenuto per molto tempo e da tutti gli individui della sua razza, ha determinato che le sue zampe anteriori sono diventate più lunghe delle posteriori e che il suo collo si è esteso talmente che la giraffa, senza drizzarsi sulle gambe posteriori, alzando la testa raggiunge i sei metri d’altezza (circa a venti piedi)” (Lamarck, Filosofia zoologica).

W.

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[1] Leggere il riquadro pubblicato in sequenza per un breve riassunto degli apporti di questi tre scienziati.

[2] Si potrebbero aggiungere a questi “scandali” causati dalla scienza, le resistenze agli avanzamenti della paleontologia (che confermano le deduzioni di Darwin) che fanno degli altopiani africani la culla dell’umanità ed assestano quindi un colpo ferale alla pretesa “superiorità della razza bianca portatrice di civiltà” (leggi in particolarmente Richard E. Leakey, le Origini dell’uomo, edizione Superbur, scienza).

[3] Abbiamo visto in precedenti articoli che la visione darwinista è stata anche abbondantemente snaturata e deformata con interpretazioni reazionarie che vanno dal “darwinismo sociale” di Spencer all’eugenetica razzista di Galton, d’altro canto esplicitamente rigettate dallo stesso Darwin (leggi “Il darwinismo sociale: un’ideologia reazionaria del capitalismo”, Revolution Internationale n.404, settembre 2009, sul nostro sito).

[4] Un think tank (letteralmente “serbatoio di pensiero”) è un organismo [16], un istituto [17], una società [18] o un gruppo, tendenzialmente indipendente dalle forze politiche [19] (anche se non mancano think tank governativi), che si occupa di analisi delle politiche pubbliche [20].

[5] Vedi gli articoli “Creazionismo” e “Disegno intelligente” sul sito Wikipedia di Internet.

[6] Supplemento alla testata francese Le Monde

Rivoluzione Internazionale n°165

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Aprile-maggio 2010

Grecia, Spagna, Portogallo: Stati in fallimento

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Grecia, Portogallo, Spagna, Irlanda, Francia, Germania, Inghilterra, Italia … ovunque la stessa crisi, ovunque gli stessi attacchi.

 

La borghesia mostra apertamente le sue intenzioni. Il suo freddo e disumano discorso si riassume in poche parole: “Se volete evitare il peggio, la catastrofe economica ed il fallimento, bisogna che stringiate la cinta come fino ad ora non avete mai fatto!”. Certo, nell’immediato, gli Stati capitalisti non si trovano tutti nella stessa situazione di deficit incontrollabile o di cessazione di pagamento dei pagamenti, ma tutti sanno che sono irrimediabilmente trascinati in questa direzione. E tutti utilizzano questa realtà per difendere i loro sordidi interessi. Dove trovare il denaro necessario per tentare di ridurre, anche se di poco e per poco tempo, questi mostruosi deficit? Non c'è da cercare lontano. Se già alcuni sono passati all’offensiva contro la classe operaia, tutti ne preparano ideologicamente il terreno.

La Grecia, l’Irlanda, il Portogallo e la Spagna: un antipasto di quello che toccherà a tutta la classe operaia

Il piano di austerità greco destinato a ridurre i deficit pubblici è di un’estrema brutalità e di un cinismo inaudito. Il primo ministro delle finanze di questo paese ha dichiarato senza batter ciglio che “gli impiegati devono dar prova di patriottismo … e dare l’esempio”[1]. Dovrebbero accettare senza dire niente, senza battersi, la riduzione dei salari, la soppressione delle indennità, che le sostituzioni di coloro che vanno in pensione avvengano col contagocce e che il pensionamento venga promulgato oltre i 65 anni ed, infine, che si possa essere licenziati e gettati via come dei fazzolettini usati. Tutto ciò per difendere l’economia nazionale, quella del loro Stato sfruttatore, dei loro padroni e di altre sanguisughe. Tutte le borghesie nazionali europee partecipano attivamente all’attuazione di questo piano di drastica austerità. La Germania, la Francia, la Spagna e anche l’Italia prestano difatti un’attenzione tutta particolare alla politica ed agli attacchi portati avanti da questo Stato. Vogliono lanciare al proletariato a scala internazionale questo messaggio: “Guardate la Grecia, i suoi abitanti sono costretti ad accettare sacrifici per salvare l’economia. Tutti voi dovrete fare lo stesso”.

Dopo le famiglie americane, le banche, e le imprese, ecco giunto il tempo in cui sono gli stessi Stati a subire pienamente la crisi economica e ad essere minacciati dal fallimento. Risultato: a loro volta devono orchestrare attacchi spietati. Nei prossimi mesi dovranno organizzare una draconiana riduzione del numero di impiegati, del “costo del lavoro” in generale e, dunque, del livello di vita di tutti. La borghesia, quando i suoi interessi meschini lo comandano, tratta gli operai come bestiame da condurre al macello. La situazione è identica in Portogallo, in Irlanda ed in Spagna, identici piani brutali, e misure anti-operaie. In Francia ed in Italia tutta la borghesia prepara il terreno per seguire questa strada. Ma questa non è una specificità della zona euro. Negli Stati Uniti, il paese più potente del pianeta, dopo nemmeno due anni di crisi, si censiscono più del 17% di disoccupati, 20 milioni di nuovi poveri e 35 milioni di persone che sopravvivono grazie a buoni pasto. Ed ogni giorno che passa apporta la sua nuova fetta di miseria.

Gli Stati confrontati alla loro insolvenza

Come si è arrivati a questo? Per tutta la borghesia, in particolare per la sua frazione di estrema sinistra, la risposta è molto semplice. Ci sarebbe un solo errore, quello commesso dai banchieri e dai mastodonti come Goldman Sachs, J.P. Morgan ed altri. È vero che il sistema finanziario è diventato pazzo. Conta solamente l’interesse immediato, secondo il vecchio adagio “dopo di me, il diluvio”. È noto a tutti che ora queste grandi banche, per guadagnare sempre più denaro, hanno accelerato la cessazione di pagamento dei pagamenti di pagamento della Grecia scommettendo sul suo fallimento. Faranno sicuramente la stessa cosa domani con il Portogallo o la Spagna. Le grandi banche mondiali e le istituzioni finanziarie non sono che avvoltoi. Ma questa politica del mondo finanziario, in fin dei conti suicida, non è la causa della crisi del capitalismo. Ne è al contrario l’effetto che, ad un certo stadio del suo sviluppo, ne diventa un fattore aggravante.

Come al solito la borghesia di ogni risma mente. Stende davanti agli occhi della classe operaia una vera cortina di fumo. Per lei la posta è grossa. Consiste nel fare di tutto per evitare che gli operai trovino il legame tra le insolvenze crescenti degli Stati ed il fallimento dell’intero sistema capitalista. Perché la verità è proprio lì: il capitalismo è moribondo e la follia della sua sfera finanziaria è una delle conseguenze visibili.

Quando è esplosa la crisi con forza a metà 2007 dovunque, ed in particolare negli Stati Uniti, è venuto fuori il fallimento del sistema bancario. Questa situazione era solamente il prodotto di decine di anni di politica di indebitamento generalizzata ed incoraggiata dagli stessi Stati per creare dei mercati artificiali indispensabili alla vendita delle merci. Ma quando, infine, gli individui e le imprese, strangolati da questi prestiti, si sono rivelati incapaci di effettuare i rimborsi, le banche si sono ritrovate sull’orlo del crollo insieme a tutta l’economia capitalista. E’ allora che gli Stati hanno dovuto addossarsi tutta una parte dei debiti del settore privato e fare piani di rilancio faraonici e costosi per tentare di limitare la recessione.

Adesso sono quindi gli Stati stessi a ritrovarsi indebitati fino al collo, incapaci di far fronte ai loro debiti (senza per altro che il settore privato si sia salvato) e in una potenziale situazione di fallimento. Certo uno Stato non è un’impresa, quando si trova in cessazione dei pagamenti, non mette la chiave sotto la porta. Può ancora sperare di indebitarsi pagando sempre più interessi, praticare un salasso da tutte le nostre economie, stampare ancora più carta moneta. Ma ci sarà un tempo in cui i debiti (almeno gli interessi) devono essere rimborsati, anche da uno Stato. Per comprendere ciò basta guardare ciò che sta accadendo per lo Stato greco, portoghese ed anche spagnolo. In Grecia lo Stato ha tentato di finanziarsi attraverso il prestito sui mercati internazionali. Il risultato non si è fatto attendere. Tutti, sapendo che questo è oggi insolvibile, gli hanno proposto dei prestiti a breve termine ed a tassi di più dell’8%. Inutile dire che una tale situazione finanziaria è impossibile da sopportare. Che cosa resta allora come soluzione? Prestiti anch’essi a breve termine da parte di altri Stati, come la Germania o la Francia. Ma attenzione, queste potenze possono forse riuscire a far recuperare puntualmente le casse greche, ma saranno poi incapaci di aiutare il Portogallo, la Spagna ed ancor meno l’Inghilterra ... Non avranno mai tanta liquidità. E questa politica, in ogni caso, può condurre solo ad un loro rapido indebolimento finanziario. Anche un paese come gli Stati Uniti, che tuttavia può appoggiarsi sul dominio internazionale del dollaro, vede aumentare senza sosta il suo deficit pubblico. La metà degli Stati americani è in fallimento. In California il governo paga i suoi funzionari non più in dollari ma con una specie di “moneta locale”, buoni validi unicamente sul territorio californiano!

In breve, nessuna politica economica può tirare fuori gli Stati dalla loro insolvenza. Per rinviare le scadenze non hanno altra scelta che ridurre di molto le “spese”. Ecco esattamente il senso dei piani adottati in Grecia, in Portogallo, in Spagna e domani inevitabilmente in tutti gli altri paesi. Non si tratta più di semplici piani di austerità come quelli conosciuti regolarmente dalla classe operaia dalla fine degli anni 1960. Adesso si chiede di far pagare molto cara alla classe operaia la sopravvivenza del capitalismo. L’immagine che dobbiamo avere presente sono le interminabili file d’attesa di famiglie operaie che negli anni 30 facevano la coda davanti alle panetterie per un pezzo di pane. Ecco l’unico futuro che ci promette la crisi senza via d’uscita del capitalismo. Di fronte alla miseria crescente, solo le lotte di massa della classe operaia mondiale possono aprire la prospettiva di una nuova società rovesciando questo sistema basato sullo sfruttamento, la produzione di merci ed il profitto.

Tino, 26 febbraio

(da Révolution Internationale, n. 410, organo della CCI in Francia


[1] La Tribune del 10 febbraio.

Grecia, i lavoratori di fronte alle brutali misure d’austerità

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Pubblichiamo[1] la traduzione di un articolo apparso il 5 febbraio sul sito Internet in inglese della CCI. Esso rivela che già da un anno collera e combattività continuano ad animare il proletariato in Grecia.

Questo articolo ha anche anticipato con una certa precisione quello che sarebbe accaduto dal 10 al 24 febbraio: giornate di scioperi effettuate massicciamente da una classe operaia che non vuole più subire i violenti attacchi dello Stato, con dei sindacati che ordiscono per dividere gli operai e sterilizzare il crescente malcontento.

La situazione greca è importante perché è una sorte di test per la borghesia europea ed anche per quella mondiale. Numerosi Stati nei prossimi mesi saranno costretti a fare gli stessi attacchi frontali come quelli che lo Stato greco sta attuando contro le condizioni di vita della classe operaia. Se in questo paese passeranno le misure di drastica austerità, ciò servirà da test positivo per dare l’avvio a tutta una serie di attacchi a livello mondiale. È per tale motivo che le borghesie francesi e tedesche, soprattutto, mettono a disposizione la loro abile esperienza nell’inquadramento della classe operaia. Aiutano il governo di Papandreu a suddividere a scacchiera il territorio ed a consegnarlo in mano ai sindacati. Questi, agendo d’anticipo ed organizzando giornate di lotte, sperano di riuscire a canalizzare il crescente malcontento.

Un anno fa, ci sono state tre settimane di lotte massicce in Grecia dopo l’assassinio da parte della polizia di un giovane anarchico, Alexandros Grigoropoulos. Ma il movimento nelle strade, nelle scuole e nelle università ha incontrato notevoli difficoltà a coordinarsi con le lotte sui posti di lavoro. C’è stato un solo sciopero, quello degli insegnanti delle scuole primarie, che per una mattina ha sostenuto il movimento. Anche se quello è stato un periodo di massicce agitazioni sociali, compreso uno sciopero generale, alla fine non ci sono stati collegamenti.

Tuttavia in Grecia le azioni dei lavoratori sono proseguite anche oltre la fine del movimento di protesta e fino ad oggi. Infatti, il ministro del Lavoro, Andreas Lomberdos, è stato costretto a mettere in allarme la borghesia internazionale. Ha affermato che le misure previste per i prossimi tre mesi per arginare il crollo del debito nazionale che minaccia di gettare la Grecia fuori dalla zona euro, potrebbero implicare uno spargimento di sangue. “Non possiamo fare gran che per impedirlo” ha aggiunto. Il mese scorso il Primo ministro greco, in un discorso davanti al Parlamento, ha dichiarato che la crisi del debito nazionale è “la prima crisi di sovranità nazionale dal 1974”. Il nuovo governo socialista parla di riunire tutti i partiti borghesi e tentare di costituire un governo di unità nazionale di emergenza che dovrebbe essere in grado di sospendere alcuni articoli della Costituzione che garantiscono il diritto di riunione pubblica, di manifestazione e di sciopero!

Anche prima del tentativo da parte del governo di mettere in opera le sue “riforme” e cioè gli attacchi contro la classe operaia per ridurre il deficit di bilancio dal 12,7% al 2,8%, c’è stata una grande ondata di lotte operaie. In questi ultimi due mesi sono entrati in sciopero gli scaricatori di porto, i lavoratori della Telecom, i netturbini, i medici, le infermiere, gli insegnanti delle scuole materne e primarie, i tassisti, gli operai della siderurgia e gli impiegati municipali! A prima vista, tutte queste lotte sembrano esplodere ogni volta per ragioni distinte, in realtà sono tutte delle risposte agli attacchi che lo Stato ed il capitale sono costretti ad attuare nel tentativo di fare pagare la crisi ai lavoratori.

Prima ancora di portare avanti il programma di austerità (approvato dall’Unione Europea) il Primo Ministro Papandreu ha avvertito che esso sarebbe stato “doloroso”. Ed il 29 gennaio, prima ancora che il piano fosse esposto nei dettagli, c’è stata una manifestazione di collera da parte dei vigili del fuoco e di altri lavoratori del settore pubblico ad Atene.

Il piano governativo ha previsto su tre anni un congelamento totale dei salari per i lavoratori del settore pubblico ed una riduzione del 10% sulle indennità. Si stima che ciò equivale ad una diminuzione dei salari che va dal 5 al 15%. Gli impiegati che andranno in pensione non saranno sostituiti, e si prevede anche l’aumento dell’età pensionabile che lo Stato presenta come un mezzo per economizzare sui costi delle pensioni.

Il fatto che lo Stato, proprio ora, sia costretto a portare degli attacchi ancora più duri contro una classe operaia combattiva rivela la profondità della crisi che colpisce la Grecia. Il ministro Lomberdos l’ha precisato con estrema chiarezza quando ha detto che “queste misure possono essere applicate solamente in modo violento”. Tuttavia questi attacchi sferrati contemporaneamente contro tutti i settori operai danno a quest’ultimi una reale possibilità di condurre una lotta comune per delle rivendicazioni comuni.

Se esaminiamo attentamente ciò che fanno i sindacati in Grecia, possiamo vedere come le loro azioni hanno per obiettivo mantenere le lotte divise. Il 4 e 5 febbraio c’è stato uno sciopero ufficiale di 48 ore dei doganieri e degli agenti delle tasse che hanno chiuso i porti e le stazioni di frontiera, mentre alcuni agricoltori mantenevano i loro blocchi. L’Indipendent (05/02/10) è uscito col titolo “Gli scioperi mettono la Grecia in ginocchio” e descrive l’azione come la “prima manifestazione di un’attesa eruzione di scioperi clamorosi”. Questa “attesa eruzione” di scioperi comprende un progetto di sciopero del settore pubblico ed una marcia sul Parlamento promossa dal ADEDY per protestare contro gli attacchi alle pensioni, il 10 febbraio; uno sciopero indetto dal PAME, il sindacato stalinista, l’11 febbraio; uno sciopero del settore privato indetto dal GSEE, il sindacato più importante, che rappresenta 2 milioni di lavoratori, il 24 febbraio.

Così divisa, la classe operaia non metterà “in ginocchio” lo Stato greco. Il Financial Times del 5 febbraio ha stimato che finora “i sindacati hanno reagito moderatamente ai piani di austerità del governo, il che riflette uno stato d’animo disponibile a fare dei sacrifici per superare la crisi economica”, ma ha identificato allo stesso tempo “una reazione violenta dei sindacati contro il programma di austerità del governo”. In realtà, i sindacati non hanno improvvisamente tolto il loro sostegno al governo socialista ma, con il montare della collera espressa dalla classe operaia, sanno che se non si danno da fare c’è il rischio che i lavoratori comincino a smascherare la commedia sindacale. Per il momento i sindacati hanno mostrato il loro volto radicale; hanno interrotto il dialogo sui piani futuri per le pensioni e previsto degli scioperi di una o due giornate in date differenti. I sindacati vorrebbero veramente fare accettare ai lavoratori i sacrifici ma ora devono tenere conto della reazione della classe operaia.

Per lo sviluppo futuro delle loro lotte è necessario che i lavoratori diffidino non solo dei sindacati ma anche di altri “falsi amici”. Per esempio il KKE (partito comunista greco), che ha una certa influenza nella classe operaia, un anno fa qualificava i manifestanti come agenti segreti di “misteriose forze straniere” e “provocatori”. Adesso dice che “i lavoratori e i contadini hanno il diritto di ricorrere ad ogni mezzo di lotta per difendere i loro diritti”. Le altre forze di sinistra, come i trotskisti, servono solo a deviare la collera dei lavoratori, focalizzando l’attenzione contro i fascisti o altre forze di destra, o contro l’influenza dell’imperialismo americano - qualsiasi cosa purché i lavoratori non prendano nelle loro mani le lotte e le dirigano contro il più alto rappresentante del capitale, lo Stato. Con gli scioperi nel paese limitrofo, la Turchia, che si svolgono nello stesso momento degli scioperi in Grecia[2], i sindacati ed i loro alleati stanno particolarmente attenti a presentare tutti i problemi che incontrano gli operai come specificità greche e non come espressione della crisi internazionale ed irrimediabile del capitalismo.

Ciò che è caratteristico della situazione in Grecia, è la proliferazione di diversi gruppi armati che mettono bombe sotto gli edifici pubblici, che non fanno altro che aggiungere ancora più violenza allo spettacolo abituale, favorendo così un’ulteriore repressione da parte dello Stato. Questi gruppi, dai nomi esotici come “Congiura delle cellule del Fuoco”, “Gruppo di guerriglia dei terroristi” o “Frazione nichilista”, non offrono assolutamente niente come prospettiva alla classe operaia. Gli operai possono costruire la loro solidarietà di classe prendendo coscienza della propria forza, sviluppando fiducia in sé stessi a partire dalle lotte e sviluppando le proprie forme di organizzazione, non restando seduti a casa a guardare in televisione le bombe poste dai gauchisti radicali. Il rumore che provoca una riunione di massa di lavoratori, che discutono del modo con cui devono organizzare la propria lotta, spaventa la classe dominante molto più di migliaia di bombe.

DD (5 febbraio)

(da Révolution Internationale n. 410, organo della CCI in Francia)



[1] Mentre andiamo in stampa, nuovi scioperi e scontri si stanno sviluppando in Grecia, e ci sembra che la situazione confermi nella sostanza quanto da noi analizzato

[2] Vedi “Turchia: Solidarietà con la resistenza degli operai di Tekel contro il governo ed i sindacati!”, ICC online, pagina italiana.

Geografiche: 

  • Grecia [21]

Patrimonio della Sinistra Comunista: 

  • Lotta proletaria [5]

A Vigo, in Spagna: disoccupati ed operai dei cantieri navali lottano insieme

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Pubblichiamo la traduzione di un articolo apparso sul nostro sito Internet in lingua spagnola su una nuova lotta a Vigo, in Galizia, provincia spagnola[1].

Abbiamo appreso la notizia di una lotta congiunta di operai disoccupati ed operai attivi dei cantieri navali della città di Vigo.

Ringraziamo uno dei nostri lettori che ci ha mandato il suo commento e come prima cosa affermiamo che condividiamo la conclusione che lui trae da questa lotta: “Soltanto l’unità e la solidarietà di tutti i disoccupati e i lavoratori, in assemblee e manifestazioni congiunte, potranno portarci alla vittoria. Salutiamo i lavoratori ed i disoccupati dei cantieri navali di Vigo. I disoccupati e gli operai del mondo intero dovrebbero prendere esempio dai [proletari dei] cantieri navali di Vigo, per la loro unità, la loro solidarietà, perché è tutti uniti che riusciremo a vincere il capitalismo mondiale”. Abbiamo poi ricevuto sul nostro forum un altro messaggio che andava nello stesso senso: “L’articolo sulle lotte condotte dai disoccupati e gli attivi dei cantieri navali di Vigo è stato pubblicato senza la minima reazione, eppure possiamo trarre da queste una lezione che dobbiamo sempre avere in testa: quella dell’unità della classe; qualche cosa di molto importante sta accadendo a Vigo, perché a manifestare insieme sono lavoratori attivi e disoccupati, raggruppando altri lavoratori fino all’arresto di tutto il settore navale. Leggete ed apprenderete molte cose. Saluti”.

A Vigo ci sono più di 60.000 disoccupati. Soltanto nel 2009 e nel solo settore della metallurgia, sono spariti 8.000 posti di lavoro. L’indignazione, unita alla preoccupazione di fronte ad un avvenire sempre più difficile, si diffonde tra gli operai. In particolare nei cantieri navali, i disoccupati, attraverso un accordo tra sindacati e padronato, sono stati iscritti ad una “Borsa del lavoro” da cui si sarebbe dovuto attingere tutte le volte che si fossero resi disponibili dei posti di lavoro.

I disoccupati iscritti a questa Borsa del lavoro - circa 700 – si sono resi conto, andando su tutte le furie, che al posto loro nei cantieri venivano assunti puntualmente operai stranieri con salari ben più bassi e a condizioni terribili. Secondo il portavoce dei disoccupati, ad esempio, “ci sono dei lavoratori che dormono nei parcheggi e che mangiano solo un panino al giorno”.

Questo è stato l’elemento detonatore della lotta. Gli operai hanno tenuto a precisare che loro non sono assolutamente contro l’assunzione di lavoratori stranieri. Ed è così che un loro portavoce ha insistito: “non abbiamo alcuna obiezione sul fatto che vengano assunte persone che vengono da altre parti, ma a condizione che il padronato non passi al di sopra della convenzione collettiva della provincia, perché con il salario di uno solo di noi vengono pagati due o tre stranieri”. Malgrado ciò, i media, specialisti della “comunicazione”, se ne sono usciti con la loro “spiegazione” accusando i lavoratori di xenofobia. Per esempio, El Faro de Vigo così intitolava l’articolo che parlava della lotta: “I disoccupati della metallurgia si oppongono all’assunzione di stranieri”, che è una spudorata menzogna. Infatti sono stati gli stessi operai disoccupati a denunciare le manovre del padronato che “fa venire della mano d’opera a buon mercato in condizioni di quasi schiavitù”.

La borghesia è una classe cinica, machiavellica. Assume lavoratori stranieri sottomettendoli a condizioni salariali molto peggiori di quelle degli operai del paese. Se questi ultimi si mettono in lotta, opponendosi a tali condizioni di assunzione, vengono subito accusati di razzismo, di xenofobia, di “difesa d’idee di estrema destra”, di nazionalismo, ecc., mentre la risposta immediata degli operai non è stata affatto contro i loro fratelli di classe, ma contro il fatto di stabilire un precedente assumendoli a condizioni salariali inferiori, ciò che fa solamente abbassare di più le condizioni salariali per tutti. È quello che abbiamo visto in Gran Bretagna all’epoca della lotta degli operai edili[2] o della lotta degli operai dei cantieri navali di Sestao[3].

Il 3 febbraio, i disoccupati si sono recati alle porte di Astilleros Barreras (l’impresa più importante del settore navale) con l’intenzione di organizzare un’assemblea generale insieme ai lavoratori di questa impresa. Trovando le porte chiuse, si sono messi a gridare slogan al megafono ed a spiegare le loro rivendicazioni finché alla fine la grande maggioranza degli impiegati ha abbandonato le installazioni e si è unita ai disoccupati. Secondo la cronaca di Europa-Press, “cinque furgoni di polizia antisommossa si sono presentati sul posto. I poliziotti si sono schierati su tutta la zona armati di fucili a proiettili di gomma e scudi, ma alla fine le forze di sicurezza hanno ripiegato verso la rotonda di Beiramar (…). Alla fine il gruppo, composto di disoccupati e di lavoratori, è partito in una manifestazione in direzione di Bouzas e su questo tragitto gli operai degli altri cantieri navali della zona (come Cardama, Armon e Freire-Así) si sono uniti a loro, in modo che l’attività si è fermata in tutte le industrie navali”.

Questa esperienza ci ha mostrato come si concretizza la solidarietà e l’unità tra i compagni disoccupati e quelli che hanno ancora un lavoro: assemblee generali unite, manifestazione di strada per fare conoscere la lotta agli altri lavoratori, comunicazione e legame diretto con i lavoratori delle altre imprese per guadagnarli alla lotta comune.

In altre parole, la stessa cosa di quello che è successo a Vigo nel 2006[4]: gli operai riprendono i metodi proletari di lotta che non hanno niente a che vedere con la divisione, il corporativismo, la passività, tipici dei metodi sindacali[5].

Il 4 febbraio, queste azioni si sono ripetute. Verso le 10 di mattina, i disoccupati si sono recati di nuovo alle porte di Barreras. Ed ancora una volta, i loro compagni dell’impresa sono usciti per unirsi alla lotta. Malgrado il dispiegamento poliziesco, tutti sono ripartiti manifestando. Secondo El Faro di Vigo, “La protesta di ieri era sorvegliata da un forte dispiegamento poliziesco. Ci sono stati momenti di tensione, ma alla fine non ci sono state baruffe. I disoccupati hanno manifestato nelle zone di Beiramar e Bouzas di Vigo, accompagnati dai lavoratori del settore, e hanno affermato che continueranno le mobilitazioni finché i padroni non accetteranno di regolare con essi i problemi che, secondo quanto loro stessi denunciano, esistono nell’assunzione al lavoro del personale”.

Non abbiamo altre notizie. Ma pensiamo che questi fatti hanno un forte significato sulla combattività e sulla presa di coscienza dei lavoratori, sulla ricerca dell’unità e della solidarietà di fronte ai colpi bassi che il capitale ci assesta.

Esprimiamo la nostra solidarietà ai nostri compagni lotta. Incoraggiamo a trarne delle lezioni ed alla nascita di una solidarietà attiva. Non sono i motivi che mancano visto che è stata da poco superata la soglia dei 4 milioni di disoccupati, il governo annuncia l’innalzamento dell’età pensionabile a 67 anni, ecc.

CCI (5 febbraio)


[1] Questo articolo è stato scritto grazie ad un messaggio del 3 febbraio 2010 inviatoci da un lettore alla sezione “Commenti” del nostro sito:https://es.internationalism.org/node/2765#comment-636 [22].

[2] Vedi “Grèves en Grande Bretagne : les ouvriers commencent à remettre en cause le nationalisme [23]” su Révolution Internationale n°399, marzo 2010.

[3] “Lutte dans les chantiers navals de Sestao (Pays Basque espagnol): L’accusation de racisme, une calomnie contre les ouvriers [24]”, ICConline le 9 June, 2009.

[4] “ Sciopero della metallurgia a Vigo in Spagna, un passo avanti nella lotta proletaria [25]”, in Rivoluzione Internazionale n°145.

[5] Sul sabotaggio sindacale, leggere il nostro articolo pubblicato a settembre 2009: “Vigo (Espagne): les méthodes syndicales mènent tout droit à la défaite [26]”

Geografiche: 

  • Spagna [27]

Patrimonio della Sinistra Comunista: 

  • Lotta proletaria [5]

Riunioni a Manchester ed a Londra: dei passi avanti verso l’unità tra gli internazionalisti

Pubblichiamo qui due brevi rapporti su dei recenti incontri a Londra e Manchester che hanno mostrato dei piccoli passi avanti nello sviluppo della discussione e dell’attività collettiva fra gruppi e tendenze genuinamente internazionalisti.

 

Riunioni pubbliche di World Revolution: l’internazionalismo al centro della lotta contro la guerra

Le ultime due riunioni di Londra di World Revolution (WR, sezione della CCI in Gran Bretagna) sono state focalizzate sulla questione dei rivoluzionari e la guerra. Perché? Perché non sulla crisi che sicuramente è al centro dei pensieri dei lavoratori, in particolare con la minaccia della disoccupazione che incombe su tanti? La crisi è certamente una preoccupazione centrale ma, nonostante i tentativi della borghesia di anestetizzare la classe lavoratrice rispetto alla barbarie della guerra con l’impiego di soldati  professionisti e con la propaganda della “difesa della democrazia” dal fondamentalismo o dal totalitarismo, la guerra rimane una presenza costante nel capitalismo decadente.

In Gran Bretagna la classe dominante può anche utilizzate il patriottismo mostrato a Wooton Bassett[1] per sostenere ideologicamente la propaganda che il conflitto in Afganistan è “umanitario” e “contro il terrore”, ma non può nascondere il fatto che masse di giovani, che molto spesso sono obbligati a fare il soldato per motivi economici, stanno ritornando a casa nelle bare mentre il caos continua a regnare nella regione.

C’è un altro fattore: il fatto che la classe lavoratrice non è sconfitta. Fin dalla fine del periodo di controrivoluzione, verso la fine degli anni 60, la classe operaia a livello internazionale ha continuato, attraverso alti e bassi, a sviluppare la sua combattività. Basta guardare i recenti scioperi in Turchia, in Grecia ed in Gran Bretagna per rendersene conto. La borghesia questo lo sa e sono queste lotte o il pericolo che rappresentano a costituire un fattore frenante della tendenza a guerre più generalizzate. L’incapacità della borghesia a dominare completamente la scena sociale le impedisce, per quanto sofisticata possa essere sua propaganda, di farci marciare verso la guerra mondiale come ha fatto nel 1914 e nel 1939.

Per sua natura la classe operaia è una classe internazionale, non ha nazioni da difendere, nessuna parte da sostenere nelle guerre fra gli Stati capitalisti. I lavoratori di tutti i paesi devono, come ha scritto Lenin nel 1914, trasformare le guerre imperialiste in guerre civili e combattere l’unica guerra che può mettere un fine a tutte le guerre: la guerra di classe.

La nebbia ideologica del patriottismo che è calata nel 1914 e nel 1939, che ha oscurato questa necessità, è stata dispersa fino ad un certo punto dalla lotta di classe ma i rivoluzionari devono lavorare alla sua scomparsa totale per permettere alla classe operaia di vedere lo Stato capitalista per ciò che è in realtà, un mostro militarista assetato di sangue.

Queste erano le idee che hanno dominato le discussioni in entrambe le riunioni. Alla prima riunione, di novembre, sull’internazionalismo e la seconda guerra mondiale il punto centrale era su come la borghesia utilizza l’ideologia per difendere la guerra imperialista e quale è l’alternativa proletaria alla guerra. Ma più interessante è stata la discussione alla seconda riunione a febbraio su come gli internazionalisti rispondono alla guerra.

Durante gli ultimi anni la CCI ha visto uno sviluppo internazionale di un nuovo ambiente internazionalista. Alcuni di questi gruppi si identificano con la tradizione della Sinistra comunista mentre altri con l’anarchismo e il sindacalismo. Ma quale che sia la loro origine, questi pongono al centro della loro politica l’internazionalismo. Questo sviluppo ci ha obbligato a rivedere il nostro atteggiamento verso l’anarchismo. C’è un ampio movimento con una gamma di posizioni e i comunisti di sinistra, piuttosto che rifarsi a vecchi schemi, devono trovare il modo di lavorare con gli elementi internazionalisti di questo milieu ogni volta che è possibile. In questa ottica WR ha invitato esplicitamente i compagni della Anarchist Federation (AF), di Solidarity Federation e della Communist Workers Organisation (CWO) a partecipare alla riunione con lo scopo di chiarificare su che cosa siamo d’accordo o in disaccordo e come gli internazionalisti possono intervenire insieme in futuro. Dalla riunione è emerso chiaramente che tutti i presenti (i compagni della CWO e di AF e alcuni anarchici sciolti) erano d’accordo sulla centralità dell’internazionalismo come risposta alla guerra imperialista. La presenza di un membro della Tendenza Internazionale Bolscevica Trotzkista ha reso questo accordo più esplicito quando tutti i presenti hanno denunciato la versione dell’antimperialismo difesa da questa tendenza: essenzialmente un grezzo antiamericanismo basato sul chiamare gli sfruttati ed i diseredati a sostenere la propria borghesia, in quanto “male minore”, contro l’imperialismo più grande. C’è stato anche un certo accordo, basato sull’esperienza condivisa dei gruppi di No War But the Class War a Londra e Sheffield, su come i comunisti di sinistra e altri internazionalisti possono discutere e lavorare insieme. Le azioni esemplari e l’attivismo frenetico del passato sono stati rifiutati in favore di ulteriori discussioni e interventi unitari sui principi nel caso di altre campagne di guerra e manifestazioni pacifiste.

Questa riunione rappresenta un piccolo passo avanti nei rapporti tra internazionalisti in Gran Bretagna e per questo deve essere salutata, ma c’è ancora molto lavoro da fare. Questa prima discussione deve essere sviluppata e noi facciamo un appello a tutti gli internazionalisti, con qualsiasi corrente essi si identifichino, a prendere contatti con noi per organizzare riunioni comuni e sviluppare la discussione.

Kino 8/3/10



[1] Cittadina inglese dove si svolti i funerali dei soldati morti il l’1 ed il 5 aprile scorso in Afghanistan.

Forum Class Struggle (Lotta di Classe) di Manchester sulle elezioni

In un momento in cui la Gran Bretagna ha di fronte delle elezioni generali che sono diventate tanto più interessanti a causa dell’emergere di una preoccupazione generale per una politica “pulita” in seguito allo scandalo delle spese dei ministri, è importante che sia stato creato a Manchester un forum di discussione, un luogo dove delle persone possano partecipare ad una discussione che cerchi di articolare una prospettiva proletaria. Ed il forum di Class Struggle di Manchester organizzato dalla sezione locale della Anarchist Federation e sostenuta da “The Commun”, ha toccato la questione delle elezioni nella sua prima riunione.

La maggior parte delle persone presenti alla riunione ha condiviso l’idea che oggi votare non ha alcun valore per la classe operaia e che malgrado molti lavoratori abbiano ancora illusioni verso il Partito laburista (qualcuno nella riunione si è riferito questo come al “male minore”), il Partito laburista ha dimostrato, fin dalla sua formazione all’inizio del Novecento, la sua lealtà completa alla classe dirigente piuttosto che alla classe lavoratrice.

E non solo in Gran Bretagna: dappertutto i governi di sinistra hanno stabilito record negli attacchi di austerità (un altro compagno ha fatto l’esempio del PASOK nell’attuale situazione in Grecia) e nel sostegno alla guerra (i sindacati ed il Partito laburista hanno un forte pedigree su questo piano sia nel secolo scorso che oggi e l’agitatore di sinistra recentemente defunto, Michael Foot, è stato un entusiasta della guerra delle Falklands-Malvinas).

Anche se le indicazioni di letture distribuite prima della riunione (Lettera aperta a Lenin di Gorter e L’estremismo, malattia infantile del comunismo di Lenin) e la presentazione hanno posto l’attenzione sui dibattiti della Terza Internazionale dove l’antiparlamentarismo è diventato una posizione chiave della Sinistra Comunista, non c’è stata la possibilità di sviluppare una discussione reale su questo punto, anche se sono stati ventilati diversi punti di vista sulle intenzioni e le preoccupazioni di Lenin e dei bolscevichi in questo periodo della rivoluzione russa (1920).

Gli altri gruppi politici presenti erano la CCI e Solidarity Federation e c’era un certo numero di persone non appartenenti ad alcun gruppo. La riunione è stata condotta in un’atmosfera fraterna e il forum si incontrerà di nuovo il 1° aprile.

Duffy 8/3/10

Presa di posizione della Riunione Pubblica di Monterrey

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Il 14 marzo la CCI ha tenuto una Riunione Pubblica nella città di Monterrey, in Messico; ad essa ha assistito il Grupo Socialista Libertario e alcuni compagni che, sebbene fossero in numero limitato, rappresentano le diverse generazioni che costituiscono oggi la nostra classe. Il tema della riunione “Sviluppo della crisi economica e le mobilitazioni operaie in Grecia e Spagna”. La presentazione e la discussione che ne è seguita hanno riconosciuto la somiglianza con gli attacchi e le trappole con cui si confronta il proletariato in Messico, e quindi la discussione si è orientata verso l’analisi degli attacchi che stanno subendo i lavoratori del settore elettrico. La riunione ha quindi deciso di pronunciarsi in questo senso su questi problemi, con l’intento di offrire all’insieme della classe operaia la possibilità di inserire nella sua riflessione le idee che altri proletari producono, cosa che può permettere un migliore bilancio delle esperienze e di trarre le lezioni da queste.

PRESA DI POSIZIONE SUGLI ATTACCHI E LE MOBILITAZIONI DEI LAVORATORI DELLA COMPAGNIA LyFC

1. La crisi che assilla il capitalismo spinge la classe dominante a mettere in pratica misure che colpiscono in modo profondo le condizioni di vita dei salariati; questa situazione non è propria del Messico, in ogni parte del mondo si mettono in atto programmi che alzano il livello dello sfruttamento al fine di recuperare e proteggere i profitti capitalisti. In questa direzione vanno le politiche che si annunciano in Spagna e che già si stanno attuando in Grecia, ma anche gli attacchi in Messico, con l’aumento dei prezzi e delle tasse e con i licenziamenti massicci di lavoratori, come è stato con gli elettrici e i minatori.

2. I governi di destra come di sinistra sono nemici dei lavoratori. In Messico è stato un governo di destra ad applicare violente misure contro i salariati, ma in Spagna e in Grecia, governati da partiti di sinistra, vengono attuati piani simili. Destra e sinistra attuano attacchi che hanno il solo obiettivo di aumentare lo sfruttamento e peggiorare le condizioni di vita degli operai. L’unica preoccupazione dei governi di destra o di sinistra è soddisfare la sete di profitti. E’ per questo che i lavoratori non possono sperare di poter risolvere i loro problemi con un semplice cambio di governo.

3. Lo sviluppo della combattività operaia di fronte agli attacchi della borghesia, fa sì che si cerchi di costruire trappole per disperdere il malcontento e la forza delle mobilitazioni dei lavoratori. Un esempio particolarmente significativo lo si è avuto alla Compagnia LyFC[1], dove il sindacato asseconda gli attacchi del governo con manovre ed inganni. E’ noto lo sforzo del sindacato per isolare gli operai del settore elettrico dal resto della classe, imponendo obiettivi estranei ai loro interessi, come la “difesa dell’impresa statale”, della “economia nazionale” o del sindacato, e con la smobilitazione con la scusa che le leggi o gli avvocati avrebbero potuto aiutare e dare una soluzione.

4. La difesa delle proprie condizioni di vita da parte dei lavoratori è già, in sé, una critica al sistema che si basa sulla separazione tra i proprietari dei mezzi di produzione e i salariati, ma perché queste espressioni mostrino la forza reale dei lavoratori occorre che esse siano sotto il controllo dei lavoratori stessi, senza delegarlo a qualsivoglia sindacato e senza che esse siano deviate in strade senza uscita come quelle delle urne elettorali.

5. L’appello fatto dallo SME[2] di fare ricorso agli avvocati come soluzione, le mobilitazioni inquadrate in modo da impedire una reale unificazione, gli sforzi per sottomettere il malcontento e piegarlo di fronte a qualche partito, deputato o personaggio politico, mostrano come lo SME – come tutti i sindacati, senza eccezione - non è una struttura proletaria visto che il suo lavoro è stato di evitare la solidarietà, far passare i licenziamenti e diffondere la demoralizzazione. L’insistenza dello SME nel fare appelli alla difesa del capitale statale e di cercare di usare i lavoratori come carne da cannone, “recuperando postazioni” e spingendo agli scontri con la polizia, anche se sembrano pratiche radicali non sono che provocazioni che arricchiscono la trappola in cui hanno trascinato i lavoratori.

6. Di fronte agli attacchi portati dai governi e alle trappole costruite dai sindacati, i lavoratori devono riflettere sulla propria condizioni di sfruttati e sulle capacità che hanno come classe quando si uniscono e si organizzano. Le esperienze degli scioperi in Turchia[3] di dicembre e gennaio dimostrano come il proletariato può lottare al di fuori della struttura sindacale, mettendo in campo così la sua vera forza.

14 marzo 2010



[1] Compagnia elettrica spagnola

[2] Sme - Sindicato Mossos D'escuadra -, sindacato spagnolo 
[3] Vedi “Turchia: Solidarietà con la resistenza degli operai di Tekel contro il governo ed i sindacati!”, ICConline, pagina italiana

 

Suicidi e sofferenze al lavoro: un crimine del capitalismo (dalle riunioni pubbliche del mese di marzo)

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Nel mese di marzo la nostra organizzazione ha tenuto delle Riunioni Pubbliche sul tema “Al suicidio e alla sofferenza sul posto di lavoro, una sola risposta: la solidarietà di classe [28]”[1].

In essa si metteva innanzitutto in evidenza come il fenomeno dei suicidi sul posto di lavoro o comunque legati a questioni di lavoro si sono moltiplicati negli ultimi mesi, e non solo in Italia; anzi, in alcuni paesi e in alcune fabbriche, come la Telecom francese, il numero di lavoratori spinti al suicidio ha raggiunto un livello assolutamente inedito e clamoroso. I motivi di questi suicidi possono sembrare a volte diversi: in alcuni casi, come a France Telecom, è soprattutto il clima pesante che si vive al lavoro (controlli, spostamenti, ritmi sostenuti, ecc.) che creano uno stress che ha spinto un certo numero di lavoratori al suicidio; in altri casi è la perdita del lavoro la causa scatenante di questi gesti estremi. Ma a guardare più da vicino, al di là della fenomenologia immediata, la causa di questi suicidi è come si vive il lavoro in questa fase della storia del capitalismo: non più soltanto come una fatica, uno sfruttamento e una alienazione (per non poter godere pienamente del frutto del proprio lavoro), ma come una vera e propria sofferenza, una sofferenza che giunge fino a diventare tanto insopportabile da spingere a farla finita direttamente con la vita.

Questo fenomeno è stato studiato anche da psicologi che confermano come questa sofferenza non abbia niente di “esistenziale”, di personale, ma sia legato alle condizioni che si vivono oggi sul posto di lavoro.

Nelle discussioni che si sono avute nelle diverse riunioni tenute da noi su questo tema, ci sono state diverse testimonianze a conferma di questo clima. Ma, più interessanti ancora, sono state le riflessioni che, a partire dalla nostra introduzione, si sono sviluppate nelle discussioni, sempre vivaci e partecipate.

Una di queste ha riguardato come considerare queste persone che si suicidano: sono i più deboli, cioè quelli che crollano per una loro debolezza personale, o sono quelli più sensibili, che risentono più fortemente questa situazione, che non vogliono accettare e che, in questa fase particolare, esprimono la loro rabbia, la loro ribellione con un gesto eclatante, che possa spingere altri a riflettere, o che comunque venga sbattuta in faccia ai responsabili di questa situazione. Nella discussione la maggioranza degli intervenuti, se non tutti, hanno optato per questa seconda spiegazione, che più si lega ad una analisi oggettiva della società attuale, rispetto all’altra che rischia di ridurre un fenomeno ormai sociale ad una questione individuale.

Se questo grido di ribellione assume questa forma è per le difficoltà attuali della lotta di classe, per l’isolamento che questi lavoratori sentono, per la mancanza di quella solidarietà che possa trasformare questa volontà di ribellione in lotta aperta e collettiva (che a sua volta dà coraggio e sviluppa ulteriormente il senso di solidarietà, fino all’estremo limite di aprire una prospettiva di una diversa società). L’esistenza di queste difficoltà non vuol dire che non esistono le lotte o che in queste lotte non si manifestino anche esempi di solidarietà:

-    In Turchia, a dicembre e gennaio scorsi, ci sono state lotte operaie alla Teckel che hanno unito operai turchi e curdi, e hanno mostrato una volontà tenace di estendere la lotta ad altri settori[2];

-    in Spagna, a Vigo, i lavoratori attivi dei cantieri navali e i disoccupati hanno manifestato insieme, raggruppando altri lavoratori fino ad ottenere il fermo di tutto il settore navale[3];

-    e questo costituisce la ripetizione di quello che era già successo in Gran Bretagna alla raffineria di Lindsey da parte di operai edili nel gennaio2009 o in Spagna, ai cantieri navali di Sestao nell’aprile 2009[4].

Il punto è che queste lotte sono ancora troppo poche o poco estese e quindi non all’altezza di contrastare le conseguenze anche psicologiche della crisi.

La questione della solidarietà è veramente al centro dei problemi attuali che i lavoratori incontrano sul posto di lavoro, ma è anche un sentimento che attraversa la società tutta intera, toccando non solo gli strati popolari (quelli che, per le loro condizioni materiali, sono più portati alla ricerca della solidarietà). Nella discussione alle riunioni pubbliche sono stati fatti diversi esempi in cui si mostrava come all’origine di alcuni suicidi ci fosse stato un sentimento di profondo sconforto nell’essere costretti ad assumere un ruolo di vessazione rispetto ad altri. E’ il caso di quei piccoli imprenditori, ex operai, che provano ripugnanza a ricorrere ai licenziamenti a causa della crisi, o dei dirigenti che sono indignati da quello che bisogna fare agli operai a causa della crisi: è successo, ad esempio, pochi mesi fa vicino Napoli, dove il direttore di un supermercato sull’orlo del fallimento si è suicidato perché il padronato, a fronte dei mesi di salari arretrati vantati dagli operai, gli aveva ordinato di dare a questi l’elemosina di duecento euro: piuttosto che rendersi complice di questa umiliazione per i suoi ex compagni di lavoro, il direttore si è suicidato, esprimendo in questa maniera estrema la sua volontà di ribellarsi alla barbarie di questo sistema.

Questi episodi dimostrano che il senso della solidarietà è insito nell’essere umano, al punto da coinvolgere anche persone che non fanno parte (o non fanno più parte) della classe operaia. Un altro esempio lo si è avuto di recente con quell’imprenditore che ha pagato, al posto di quei genitori che non avevano potuto farlo, le rette per la mensa scolastica a dei bambini a cui il sindaco aveva tagliato il cibo, scrivendo anche una lettera in cui spiegava che a spingerlo era stato lo schifo verso il razzismo insito nella decisione del sindaco.

Da questi esempi la discussione nelle riunioni pubbliche ha anche sviluppato l’idea che è in corso una proletarizzazione dei ceti medi che allarga il numero di persone interessate ad opporsi a questo sistema: altro che scomparsa della classe operaia! (Da sempre erroneamente identificata con gli operai di fabbrica). La crisi storica e insormontabile di questo sistema allarga sempre più la forbice fra chi possiede di gran lunga più di quanto gli serve per vivere (una stretta minoranza della popolazione, anche nei pesi “ricchi”) e chi è ormai ridotto alla miseria, o alla soglia di questa anche quando ha un lavoro.

Un ulteriore punto, contenuto nella relazione e non sviluppato a sufficienza nelle discussioni, vale la pena di riprendere qui: è la questione del significato sociale del lavoro, anche quello alienato dell’operaio. I lavoratori che si sono suicidati perché licenziati, non lo hanno fatto solo perché così veniva a mancare il mezzo di sostentamento per sé e la propria famiglia, ma anche perché con la perdita del lavoro essi si sentivano inutili socialmente. In questo aspetto tragico e negativo c’è tuttavia, almeno implicitamente, il senso dell’importanza che i lavoratori danno al loro lavoro, anche quello alienato e sfruttato che ci offre il capitalismo. In effetti è il lavoro degli sfruttati che fa funzionare la società, e non certo il capitale o i suoi funzionari (che economicamente sono dei semplici funzionari del capitale e socialmente dei parassiti). Questo sentimento è fondamentale e se oggi la perdita del lavoro può portare al suicidio, la comprensione piena e cosciente di questa importanza è anche uno degli elementi che porterà la classe operaia a proporsi per la direzione e la trasformazione della società: è il sudore e il sangue dei lavoratori che produce la ricchezza di questa società, ricchezza che viene però loro strappata, è per questo che gli operai non hanno che da perdere le loro catene, e hanno un mondo da conquistare.

Helios


[1] La presentazione della riunione è scaricabile dal nostro sito dal nostro sito [28].

[2] Vedi articolo sul nostro sito web nella sezione ICConline.

[3] Vedi articolo in questo stesso numero.

[4] Vedi "G.B. Scioperi nelle raffinerie di petrolio e nelle centrali elettriche: gli operai cominciano a fare i conti con il nazionalismo [8]" e per un maggior dettaglio su altri episodi di lotta vedi la presentazione alle riunioni [28].

 

Vita della CCI: 

  • Riunioni Pubbliche [29]

Elezioni regionali: l’astensionismo ed il peso dell’ideologia democratica

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I risultati delle elezioni regionali, pur avendo una valenza diversa da quelle politiche del 2008, hanno di nuovo lasciato l’amaro in bocca a molti per la reiterata vittoria del centro destra e l’altrettanto reiterata dimostrazione della inconsistenza politica della sinistra come alternativa all’odiato governo Berlusconi.

I dati essenziali che hanno caratterizzato queste elezioni e che al tempo stesso sono fonte di dilemma e preoccupazione per molti, in particolare per quanti si sentono parte del “popolo della sinistra”, sono due: il forte astensionismo e la scalata della Lega che è l’unica che ha veramente vinto e che ha permesso al centro destra di conquistare anche delle regioni finora roccaforti della sinistra.

Molti si chiedono: come è possibile che con tutti gli attacchi che ci ha fatto questo governo, con tutto il marciume politico e morale di cui ha dato prova, tanti lavoratori continuano a votare Pdl o votano addirittura per la Lega? Non è forse questa l’espressione di un’adesione all’ideologia reazionaria, razzista e antidemocratica di queste forze politiche e pertanto di un pericoloso segno di arretramento politico e culturale dei lavoratori?

Questo gran numero di astensioni non ha forse favorito la vittoria della coalizione di centro destra favorendo così una prospettiva di ulteriore degrado politico sociale e culturale della società?

La crescita dell’astensionismo

Per rispondere all’insieme di queste questioni è necessario capire innanzitutto di cosa è espressione l’aumento dell’astensionismo. Effettivamente, con queste elezioni, si è raggiunto un record: se ai 14,6 milioni di persone che non sono andate a votare si aggiungono gli altri 2 milioni e mezzo che ci sono andati ma per annullare la scheda, si arriva al 41% di persone che nei fatti non ha votato. E’ vero che le elezioni regionali riscuotono un interesse limitato. Ma non è solo questo. Questi dati confermano una dinamica che è in aumento: dal 2000 ad oggi c’e stato un calo complessivo dell’affluenza alle urne del 12,4%. In più questa erosione della partecipazione alle urne è riscontrabile anche nelle altre grandi democrazie del mondo. In Francia, ad esempio, le recenti elezioni regionali hanno visto un’astensione del 53% al primo turno e del 49% al secondo.

E’ evidente che c’è una tendenza sempre più forte ad una disaffezione della popolazione verso le elezioni. Come spiegarlo? E’ certo che l’alternanza destra-sinistra permette alla borghesia di mantenere il gioco democratico, ma come contropartita mostra sempre più chiaramente che con la destra o con la sinistra le condizioni dei lavoratori non fanno che peggiorare, il che non può che sviluppare il sentimento che le elezioni non servono a niente. Questo astensionismo è il prodotto di uno scoraggiamento verso i “politici” che non esitano a fare imbrogli, ingannare la gente, pensare ai propri interessi senza alcun rispetto per niente e nessuno, tantomeno per la stragrande maggioranza della gente che, per poter sopravvivere, deve fare i salti mortali. E’ significativo a questo proposito l’astensione di un intero paese, Bocchigliero in Calabria, dove è stato lo stesso sindaco a dire ai cittadini di non votare in segno di protesta rispetto al disinteresse delle forze politiche per i bisogni del paese.

Questo sentimento non è esclusivo di chi si è astenuto, ma anche di quanti, pur tappandosi il naso, hanno votato il Pd o Idv solo perché altrimenti si sarebbe lasciato campo libero alla “fascistizzazione della società”.

Ma allora, perché la Lega ha avuto tanti voti? Un primo aspetto da tenere in conto è che nei fatti la Lega ha recuperato essenzialmente i voti persi dal Pdl, così come dei voti Pd sono passati all’Idv, cioè sono state “premiate” le due frazioni politiche meno screditate da scandali e baruffe interne e che, per lo meno, mostrano una maggiore coerenza e radicalità nel portare avanti le loro “battaglie”. Inoltre, quando la crisi economica getta milioni di persone nella miseria, quando si è constatato per anni che sia da destra che da sinistra arrivano solo chiacchiere e belle promesse, il richiamo ideologico nella scelta del voto tende a scemare e, nel momento in cui ti trovi da solo tu individuo e la scheda, o ti sfoghi sulla scheda mandando tutti a quel paese, o scegli in base a quello che nell’immediato ti viene proposto per migliorare il posto dove vivi, sperando che questa volta almeno si possano togliere i cumuli di spazzatura per strada, si possa avere una scuola o un ospedale che funzioni meglio, ecc. La speranza di chi vota Lega è uguale a quella di chi vota Pd, Idv o altro: sperare di poter vivere in condizioni più decenti.

Ma c’è ancora un altro aspetto. Più c’è miseria, precarietà e disagio, più ha buon gioco una forza populista come la Lega che, sul territorio, si fa paladina dei bisogni della gente contro il “governo ladrone”, sfruttando ed alimentando una lotta tra poveri. Se mancano i posti all’asilo o non ci sono case popolari per tutti, quando non si vede come fare una battaglia che coinvolga tutti quelli che ne hanno bisogno, siano essi italiani, polacchi, rumeni o africani, il precario italiano che non sa dove vivere o la donna italiana che non sa dove lasciare il figlio quando va a lavorare, sono spinti a votare chi gli promette di poter risolvere il suo problema immediato, anche se a scapito di un altro che è immigrato. Naturalmente questo è un pericolo importante perché divide la classe operaia mettendo i proletari gli uni contri gli altri, ma è una conseguenza della miseria e di una azione precisa di mistificazione e divisione che non può essere superata con la buona coscienza del singolo individuo nel chiuso di un’urna, ma solo con lo sviluppo di una reazione unita e solidale dei proletari contro le politiche di tagli e di attacchi fatte sulla propria pelle.

La crescita dell’Idv esprime per certi versi la stessa presa del populismo, anche se su di un piano diverso: quello del rigetto di un mondo politico fatto di corruzione, di disprezzo per il senso di giustizia sociale, di prepotenza e prevaricazione nella soddisfazione dei propri interessi. E’ su questo sano sdegno che un Di Pietro, un Santoro, un Travaglio o un Saviano riscuotono tanta simpatia. Come esprime molto bene un intervento fatto sul forum NapoliOltre[1]: “Il popolo della sinistra (…) continua a dire che non si sente rappresentato dalle persone che si sono candidate per essere elette ma comunque si vota per evitare il peggio. Quindi si vota contro più che si vota per…  (…). Io stessa riconosco che manca una reale politica di sinistra in questo come anche nei precedenti appuntamenti elettorali ma non ce la faccio proprio ad astenermi, perchè penso che lasciare spazio al Pdl, determina un arretramento sociale e culturale”

Ma le forze della sinistra borghese possono rappresentare una reale alternativa almeno su questo piano? E’ difficile crederlo visto, ad esempio, su cosa si è basata la gestione Bassolino in Campania: clientele e favori, che non hanno al fondo nulla di diverso dal “metodo Berlusconi” se non l’entità e la spudoratezza[2].

Il peso dell’ideologia democratica

La realtà della crisi economica e della decomposizione sociale ed il fatto che per decenni governi di destra o di sinistra non hanno migliorato in niente le condizioni dei lavoratori, spinge alla comprensione che scegliere una frazione della borghesia o un’altra non risolve un bel niente. Tuttavia l’astensionismo non è tanto espressione di una consapevolezza di cosa siano veramente le elezioni, quanto piuttosto dello sconforto di fronte alla mancanza di una prospettiva reale. Non a caso anche chi si è astenuto, in modo più o meno cosciente, ha vissuto la vittoria del centro destra comunque come una sconfitta. D’altro canto chi, nonostante il disgusto, ha votato, tende a colpevolizzare gli altri per le sorti che ci aspettano: come puoi lamentarti degli attacchi del governo se poi non fai niente per manifestare il tuo dissenso?

Questo è espressione del peso ancora forte dell’ideologia democratica, secondo la quale: “Puoi anche non credere più nella politica, ma devi votare perché è un tuo diritto, ma anche un tuo dovere di cittadino che attraverso il voto partecipa alla vita sociale esprimendosi liberamente”. E questo è lo strumento più potente per mantenere l’illusione che, per quanto orribile, siamo in una società libera; in una società dove, nonostante tutto, ogni individuo può decidere della propria sorte e di quella della propria collettività. Quando invece è esattamente l’opposto. Come ha scritto un gruppo di lavoratori di un ospedale di Napoli in un volantino:

“O si lotta uniti e solidali attraverso l’autorganizzazione di scioperi di massa per la difesa delle proprie condizioni di vita ed a largo raggio, senza delegare a nessuno la nostra vita, o nelle urne si perde: il trucco sta nel fatto che spingendoci a votare ci danno l’illusione che possiamo scegliere democraticamente e quindi autonomamente il nostro futuro. In realtà andiamo solo a votare quelle politiche economiche antioperaie che la borghesia attraverso il proprio quadro politico (parlamento borghese) ha già deciso di adottare prima dell’elezioni”. (Aprile/2010, Lavoratori Comunisti (che pensano con la loro testa)”[3]

I proletari devono essere coscienti che, al di là della maggiore comprensione della futilità e della sterilità del processo elettorale, è l’ideologia democratica quella che costituisce uno dei più forti ostacoli alla piena espressione della classe operaia come unica forza politica e sociale capace di cambiare concretamente la società e dare a tutti un futuro.

Eva, 25 aprile 2010



[1] https://napolioltre.forumfree.it/?t=47112886 [30]

[2] Vedi su questo stesso numero “Corruzione: parte integrante della politica parlamentare”

[3] volantino esposto e diffuso in un ospedale di Napoli scaturito da una discussione tra colleghi sulle elezioni e pubblicato sul forum NapoliOltre: https://napolioltre.forumfree.it/?t=47112886&st=15 [31]

Geografiche: 

  • Italia [9]

Situazione italiana: 

  • politica della borghesia in Italia [32]

La corruzione è parte integrante della politica parlamentare

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Questo articolo sembra scritto  per descrivere Berlusconi e la borghesia italiana. E invece no, è stato scritto in seguito al recente scandalo scoppiato in Inghilterra sullo sperpero di danaro da parte dei dignitosi e rigorosi gentlemen di Westminster. Ma lo stesso articoletto sarebbe valido a descrivere la borghesia di qualsiasi altra parte del mondo perché il marciume politico e morale fanno parte della sua natura di classe che esiste solo grazie allo sfruttamento ed alla prevaricazione.

La gente si mette a fare politica borghese per i motivi più vari, ma pochi possono resistere all’opportunità di usare il fatto di essere membri del parlamento o del governo per cercare di aumentare le proprie finanze. La loro lealtà allo Stato nell’ingannare e sfruttare la popolazione è ampiamente ricompensata dai lauti stipendi, dai regali, dai lussuosi privilegi e da tutto ciò che passa abbondantemente tra le loro mani.

Il continuo scandalo delle spese di ministri e parlamentari, dei responsabili delle varie strutture statali ha rivelato questa verità elementare del funzionamento della macchina democratica dello Stato.

È certamente interessante conoscere i brutti particolari dell’ingordigia di quelli il cui lavoro dovrebbe essere l’applicazione dei principi di uguaglianza e di responsabilità sociale. È anche istruttivo vedere l’inesorabile aumento dell’avarizia dei politici: sembra che più il capitalismo affondi nella sua crisi irrisolvibile, più i responsabili del sistema cercano di conservare la propria pelle a scapito della popolazione con un numero sempre maggiore di furti dalle finanze pubbliche. Le colossali indennità pagate ai manager delle banche, che spesso sono gli stessi responsabili delle perdite di miliardi di euro avutesi nella crisi del credito, sono una eco del settore privato della sordida mungitura dei parlamentari dalla mucca pubblica. Ma perché i media sbattono tutta queste venalità davanti ai nostri occhi sulle prime pagine dei giornali e con le prime notizie televisive? Perché non continuano a tenerle nascoste per non far infuriare la massa della popolazione che nel frattempo affonda nella povertà? La borghesia ha imparato da tempo – forse con le inchieste sul lavoro infantile nelle fabbriche del diciannovesimo secolo – che non può nascondere completamente la corruzione e l’ampia disumanità del sistema capitalista agli occhi dei lavoratori. Deve trovare un modo per presentarle e preservare il sistema sociale attuale dalla grave minaccia degli sfruttati deviandoli su false questioni. Quindi le classi dirigenti più intelligenti e più potenti del mondo a volte ci fanno vedere un pezzo di verità ma nello stesso tempo presentano la loro intrinseca natura di sfruttatori come qualche cosa di provvisorio, di eccezionale oppure come qualcosa che possa essere “riformata” facendo pressione tramite l’attuale macchina democratica.

Su questo piano la sinistra del capitale mostra la sua totale dedizione al capitalismo con la pretesa che possiamo “smascherare” tutti i vari abusi del sistema. Così gli scandali delle spese dei parlamentari, delle frequentazioni poco pulite, della corruzione dei politici, etc., vengono scoperti da un giornalista coraggioso o da un magistrato inflessibile; i politici sorpresi in queste attività poco edificanti scompaiono temporaneamente dalla scena, mentre i politici più esperti si uniscono nell’impegno di ripulire la vita pubblica e… bla, bla, bla. Tuttavia questo familiare processo di redenzione che avviene dopo ogni scandalo spesso è poco convincente; il meccanismo elettorale non sempre ne viene rinvigorito. Oggi la borghesia ha meno possibilità di manovre e gli scandali sono sempre di più e più grandi. La corruzione dei parlamentari e dei politici non è un’eccezione del sistema, è il sistema democratico.

Como 6/3/10

(da World Revolution, n.332, organo della CCI in Gran Bretagna)

 

Correnti politiche e riferimenti: 

  • Internazionalisti in Argentina [33]

I perché dello scontro Fini-Berlusconi

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Il giorno 22 aprile 2010, dopo 16 anni di politica di stretta alleanza, dopo quasi due anni dalla co-fondazione del PDL e a un mese circa dalla conclusione di una tornata elettorale che li ha visti stravincere su una sinistra sempre più pallida e insignificante, Berlusconi e Fini hanno dato luogo ad uno scontro storico, epocale, di quelli di cui la stampa di tutti i paesi è sempre ghiotta perché dà da scrivere per settimane e settimane. Ma cosa è mai successo? Si tratta di un dissapore momentaneo o di una spaccatura permanente? E Fini non poteva evitarla? E se no, perché si è deciso soltanto adesso? Ed infine, cambierà qualcosa, cambierà qualcosa a favore dell’Italia?

Cosa è successo

Quello che è successo è la maturazione di uno scontro le cui premesse si trovano nella storia del rapporto tra Fini e Berlusconi e a cui abbiamo già fatto cenno in precedenza:

“… la questione morale assume un’importanza tutta particolare per la borghesia. Un governo che deve far fronte ad aziende che chiudono, ad un aumento enorme della disoccupazione, ad un numero crescente di famiglie che non riescono più a sopravvivere, ad una massa enorme di giovani senza alcuna prospettiva ed al pericolo che tutto questo comporta sul piano sociale, deve essere un governo che abbia un minimo di credibilità. Non può presentarsi come una banda di faccendieri e uomini di malaffare, impegnati in faide continue per conservare il potere, di personaggi senza alcuna etica e morale. Ed è infatti da qualche tempo che Fini, da uomo politico di vecchia guardia, parla del pericolo di “disaffezione alla politica” soprattutto tra i giovani. (…)

Anche se esistono degli interventi che sembrerebbero portare di tanto in tanto serenità e pacificazione nel centro-destra (…), bisogna tener presente che mentre in un partito come la vecchia Democrazia Cristiana scontri anche durissimi tra correnti differenti venivano sempre ricomposti quando era in gioco la vita del partito, nel Pdl, che è essenzialmente l’unione contingente di forze con tradizioni politiche e un modo di fare politica abbastanza diversi, la lotta intestina tra queste rischia di mettere in gioco il partito stesso e di conseguenza la capacità della destra di governare in questo momento.” [1]

Questo lo scenario che noi abbiamo ricordato nel settembre scorso. Quello che è successo il 22 aprile, e che non si era mai visto prima, è che Fini, dopo anni di incubazione di critiche piuttosto dure rivolte all’operato di Berlusconi, le ha finalmente esternate nell’ambito della prima riunione della direzione del partito davanti ai microfoni e alle telecamere che trasmettevano in diretta a tutto il popolo italiano. La critica di Fini ha toccato ripetutamente gli aspetti più legati al dispotismo berlusconiano facendo riferimento a “gli insulti ricevuti da giornalisti lautamente pagati da stretti familiari del presidente del Consiglio”[2] o alle leggi ad personam sulla giustizia[3]. Ma la critica più importante è stata quella di appiattimento sulla Lega Nord, con una politica fotocopia rispetto a quella di Bossi, articolata su una serie di punti come quello degli immigrati, che vanno comunque rispettati come persone umane, anche se clandestini, o quello del 150° anniversario dell’unità d’Italia, che viene preparato in sordina per non rabbuiare il prezioso alleato padano, o ancora quello del federalismo, “che senza alcune cautele, in tempi di vacche magre, rischia di mettere a repentaglio la coesione sociale”[4]. Ugualmente importante la preoccupazione di Fini per la credibilità dell’operato del governo: “L’ottimismo va bene, ma fra tre anni dobbiamo presentare agli elettori fatti (per cui, siccome c’è la crisi) “dobbiamo rimodulare il programma sulle cose che è possibile fare da qui alla fine della legislatura”[5].

Un dissapore momentaneo o una spaccatura permanente?

Come la stessa stampa ha lasciato intendere, quella a cui abbiamo assistito non è un malinteso passeggero ma una resa dei conti che ha lasciato segni profondi e che ha reso la convivenza dei due leader nello stesso partito di fatto insostenibile. Ma questo non significa che Fini se ne uscirà dal partito, almeno con le sue gambe, non ne ha alcun interesse. Infatti l’obiettivo reale che ha in questo momento Fini non è tanto quello di recuperare un Larussa, un Alemanno o uno Schifani, che sono ben contenti di essere passati nella squadra di Berlusconi che sa bene come ripagarli per la loro infedeltà, ma di cominciare a lavorare dall’interno del partito verso la sua base e soprattutto verso una parte non trascurabile del suo elettorato che, pur avendo votato in passato Berlusconi, si è sentito a disagio per la serie di porcate che avrebbe commesso il capo del governo e che la magistratura a più riprese gli ha attribuito. Insomma Fini cerca di coprire tutto lo spazio a destra che c’è per una destra seria e responsabile, spazio che finora era stato lasciato parzialmente coperto solo dall’UDC di Casini.

Perché Fini si è deciso soltanto adesso e non ha spaccato prima con Berlusconi?

Se Fini si è deciso solo adesso a fare questo passo è perché è stato un po’ travolto dall’irruenza di Berlusconi. La stessa fondazione del PDL è stata una pensata di Berlusconi maturata dalla sera alla mattina e sbandierata pubblicamente per la prima volta in un comizio improvvisato dal capo del governo salendo sul predellino di un’automobile in una pubblica piazza di Milano. Fini aveva solo da prendere o lasciare, e ha scelto di prendere. Ma in qualche modo Fini si è anche illuso di poter usare Berlusconi e la sua capacità di attirare consensi salendo sul suo carro, ma questo gli è costato la perdita della fedeltà di una serie di colonnelli del suo ex partito che, un po’ alla volta, si sono disaffezionati al capo storico per accostarsi sempre più a chi poteva concedere loro fette reali di potere. Ma adesso, dopo le ultime elezioni regionali, Fini non poteva più attendere. Le ragioni sono tutte nel discorso che lui ha fatto alla direzione del Pdl. E queste ragioni riguardano effettivamente la natura stessa del partito e la sua azione.

Berlusconi, Bossi, Fini, tre anime diverse e non sempre conciliabili della destra italiana

In realtà Berlusconi, Bossi e Fini rappresentano tre anime diverse della destra italiana. Berlusconi, lo abbiamo detto più volte, è un personaggio ambiguo dal passato non chiaro che è sceso in politica essenzialmente per curare i suoi affari personali e questo è l’unico dato sicuro. Il suo straripante potere economico ha forzato, una dopo l’altra, le varie regole del gioco fino a comprare, in qualche modo, i favori dei suoi vari competitori e a raggiungere una situazione di dominio pressoché incontrastato sulla scena politica italiana. La sua politica populista, la menzogna ripetuta ad oltranza come metodo di convincimento delle masse popolari, la corruzione come sistema di vita, hanno ottenuto finora risultanti devastanti per l’Italia, ma estremamente vantaggiosi per la sua gang.

Bossi è il leader di un partito che ha fatto dalla sua origine del separatismo della cosiddetta Padania la sua bandiera. Nella sostanza la Lega è una bella pensata che punta a drenare nelle regioni del nord tutta la ricchezza prodotta sul territorio italiano. In particolare il federalismo fiscale, ovvero l’idea che ogni singola regione provveda a gestire economicamente le proprie risorse, significa che, sebbene la ricchezza di una regione sia il prodotto ultimo di una serie di elementi che spesso provengono da altre parti del paese o da altri paesi, come la mano d’opera, le materie prime e gli stessi consumatori che costituiscono il mercato per le merci prodotte, il ricavato resta esclusivamente sul posto in cui si realizza il passaggio ultimo del ciclo economico. E’ esattamente la stessa logica della politica neocolonialista dove le potenze economiche hanno drenato e drenano, secondo i sacri principi del capitalismo, tutte le risorse ai paesi “emergenti” togliendo loro ogni possibilità di recuperare alcunché.

Fini è invece un ex fascista convertito alla democrazia perché ha capito in tempo che sono cambiati i tempi e che il fascismo non è più attuale. Ma, da persona che fa le cose a modo e non essendo né un arruffapopoli né tantomeno un secessionista alla Bossi, essendo anzi erede di una destra che, pur nei suoi eccessi, ha fatto della mistificazione sociale la sua bandiera, tiene sia all’unità del paese sia a basare la sua leadership sulla credibilità della sua azione politica. E non avendo il centone facile come ce l’ha Berlusconi, deve badare a fare bene i suoi passi.

Anche se il quadro che abbiamo dato è piuttosto essenziale, si capisce abbastanza bene come mentre Berlusconi può convivere tranquillamente con Bossi, e Bossi con Berlusconi, non altrettanto si può dire per Fini che risulta, sulla distanza, incompatibile sia con l’uno che con l’altro. In particolare si capisce perché Fini, nel suo discorso alla direzione del Pdl, abbia additato Bossi come l’elemento di divisione nella misura in cui Fini giustamente si preoccupa della perdita di consenso che potrà subire il Pdl, e la componente ex-AN in particolare, in seguito alla realizzazione di un federalismo fiscale che dovesse penalizzare eccessivamente le regioni del centro-sud. Tutto questo tanto più che la crisi economica non è esaurita e che i vari Stati si preparano a imporre alle loro popolazioni misure draconiane del tipo di quelle che si sta cercando di imporre in Grecia e che stanno suscitando giustamente tanta reazione.

Naturalmente è ancora troppo presto per capire cosa accadrà nel prossimo futuro. Ma di una cosa possiamo essere sicuri fin da questo momento: comunque vadano le cose, i lavoratori non ne avranno alcun vantaggio.

Ezechiele        25 aprile 2010


[1]Vedi Dietro lo scandalo di escort, festini e cocaina, gli scontri nella maggioranza governativa [34], su RI n°162;

[2] Corriere della Sera del 23/4/2010.

[3] “… non dobbiamo dare l’impressione che stiamo difendendo sacche di impunità, ricordati quando volevi far saltare seicentomila processi. (…)? Quello era un’amnistia mascherata …” (La Repubblica 23/04/2010).

[4] da La Repubblica del 23/4/2010.

[5] Idem.

Geografiche: 

  • Italia [9]

Situazione italiana: 

  • politica della borghesia in Italia [32]

Offensiva militare in Afghanistan: la popolazione paga il prezzo

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A febbraio le forze ‘alleate’ in Afghanistan hanno iniziato una nuova offensiva contro i Talebani, denominata ‘Operazione Moshtarak’. Lo scopo dichiarato dell’operazione era di spingere i Talebani fuori dalla regione di Marja della provincia di Helmand. Le truppe britanniche hanno svolto un ruolo chiave nell’operazione con gli Stati Uniti e le truppe afgane. ‘Moshtarak’ è la prima di una serie di operazioni di nuovo tipo che dovrebbero permettere il consolidamento del controllo su tutto l’Afghanistan, con l’intento di portare a termine l’insurrezione dei Talebani.

Le truppe britanniche, nel frattempo, hanno adottato nuove regole da seguire denominate “courageous restraint” (riduzione coraggiosa). Ciò significa che il prode esercito britannico ha generosamente deciso di utilizzare meno artiglieria pesante nelle zone popolate. L’idea è che la popolazione afgana, non essendo più macellata indiscriminatamente, sarà riconoscente agli alleati e si allineerà dietro il governo di Karzai.

Presi tra due fuochi

Gli alleati stanno provando a spostarsi da un uso della nuda forza ad una strategia più sfumata destinata a vincere su ‘i cuori e la mente’ della popolazione afgana. La brutalità dell’occupazione è bene illustrata da un avvenimento orribile (riportato solamente da The Times in Gran Bretagna) - il presunto massacro di parecchi bambini da parte delle truppe degli Stati Uniti nella provincia di Nurang nel dicembre 2009: “gli investigatori del governo afgano hanno detto che otto scolari sono stati uccisi, tutti eccetto uno della stessa famiglia. La gente del posto ha detto che alcune vittime erano state ammanettate prima di essere uccise". Questa atrocità ha innescato dimostrazioni antiamericane a Kabul, dove ci sono stati altri numerosi ‘errori’in sparatorie, esecuzioni, attacchi missilistici e raid aerei sui civili.

Ma malgrado la nuova politica della ‘riduzione’, sono state ancora utilizzate armi pesanti e durante i primi giorni del ‘Moshtarak’ un missile ha distrutto una casa, uccidendo 12 persone, di cui 6 bambini. Inizialmente, gli Stati Uniti si sono scusati e hanno addotto problemi tecnici, ma successivamente hanno ritrattato, dicendo che la casa veniva usata dai Talebani. Naturalmente questo è il logico risultato dell’incoraggiamento degli alleati nei confronti dei residenti a rimanere nelle loro case durante l’offensiva. I residenti sono stati avvertiti con un volantino che diceva di non dare riparo ai Talebani.

Qualunque sia la realtà che si cela dietro questo avvenimento, è chiaro che dei civili innocenti sono, ancora una volta, le reali vittime del conflitto. Se riescono a resistere ai ribelli armati che entrano nelle loro case, si trasformano in legittimi obiettivi dei missili degli Stati Uniti.

Questo non vuol dire che i Talebani applicano la politica della ‘riduzione’ quando uccidono i civili. Per niente. Secondo la missione delle Nazioni Unite in Afghanistan, i morti tra i civili nel 2009 sono stati 2412 con in più 3566 feriti. Il 67% è direttamente attribuibile alle forze antigovernative (cioè ai Talebani), il 25% alle forze filogovernative, il resto è poco chiaro.

Prospettive di successo

Indipendentemente dalla valutazione dell’entità delle forze in gioco, non c'è motivo di supporre che l’Operazione Moshtarak giunga ad una rapida conclusione. Questo l’abbiamo già detto. Il nucleo originale dei Talebani è stato in gran parte schiacciato dall’offensiva iniziale degli Stati Uniti nel 2001. Ciò non ha impedito il ricostituirsi e il reinsediamento del governo fantoccio di Karzai. In effetti, il risorgere dei Talebani è dovuta almeno in parte alla corruzione e al gangsterismo diffuso dal regime di Karzai.

In una recente inchiesta fatta da Oxfam in Afghanistan “il 70 per cento della popolazione intervistata ha visto la povertà e la disoccupazione come le principali conseguenze del conflitto. Quasi la metà degli intervistati ha detto che la corruzione e l’inefficacia del loro governo erano i motivi principali per il combattimento continuo, mentre il 36 % ha detto che la colpa era dell’insurrezione dei Talebani”.

La terribile povertà della maggior parte della popolazione afgana è dovuta al 40% del tasso di disoccupazione, una base di potenziali reclute per i Talebani. Per quanto riguarda la corruzione, in qualche inchiesta viene evidenziata come ancora più preoccupante della violenza e della povertà. Le tangenti rappresentano quasi il 23% del P.I.L. nazionale (approssimativamente uguale al commercio dell’oppio). Non sono gli afgani a guadagnarci nell’affare: tre quarti di tutte le indagini di corruzione riguardano gli occidentali.

Lungi dal risolvere questi problemi così profondamente radicati, è chiaro che la presenza occidentale serve solo ad esacerbarli. Questo potente mix farà in modo che il disordine continuerà a permanere, indipendentemente dalle vittorie o dalle sconfitte militari.

Il ruolo che ha la povertà nello spingere i giovani ad arruolarsi nelle forze armate è ben illustrato dal caso afgano. Grazie alla continua crescita della disoccupazione, l’esercito britannico ha raggiunto per la prima volta dopo anni i suoi obiettivi di reclutamento. In realtà, il soldato britannico medio è stato condotto sul campo di battaglia dalla stessa penuria generata dal capitalismo che ha mosso i loro nemici talebani.

Sia gli Alleati che i Talebani sono nemici della classe lavoratrice

L’Afghanistan incarna la realtà della guerra nell’epoca del capitalismo decadente. In assenza di una speranza che possa rassicurare se stessi e le proprie famiglie, i lavoratori ed altri strati sfruttati sono spinti nelle braccia dei capitalisti e dei loro eserciti e milizie reazionarie. Là si massacrano l’uno con l’altro al servizio della classe dirigente che è responsabile in primis del loro impoverimento.

Le terribili condizioni di questi conflitti, l’indottrinamento e la disciplina imposti loro allo scopo di superare la naturale riluttanza umana ad uccidere, tendono a disumanizzare i militari fino a che i brutali massacri testimoniati in Afghanistan non diventano inevitabili.

I comunisti non sostengono nessuna delle parti in questi conflitti. Noi denunciamo i crimini di tutte le parti in causa mentre mettiamo in mostra i processi della società capitalista che li producono. Soltanto quando gli sfruttati rifiuteranno di sacrificarsi per i loro sfruttatori, inizierà a farsi strada la prospettiva di sostituire il capitalismo con una società veramente umana senza sfruttamento e senza guerra.

Ishamael 4/3/10

Geografiche: 

  • Afganistan [35]

Questioni teoriche: 

  • Guerra [36]
  • Imperialismo [37]

Sulla situazione al sud del Cile dopo il terremoto

Il 3 marzo scorso abbiamo ricevuto sul nostro sito in lingua spagnola un commento relativo alla situazione degli abitanti dei quartieri operai e popolari dell’agglomerato di Concepción, in seguito al sisma di fine febbraio. Contrariamente a quanto propagandato dai media a livello internazionale che hanno denigrato il comportamento delle popolazioni locali attribuendo loro dei «saccheggi scandalosi», questo testo restituisce la realtà dei fatti mettendo avanti lo spirito autenticamente proletario di solidarietà e di mutua assistenza che ha animato gli operai nella ridistribuzione dei beni, opponendosi all’azione predatrice delle bande armate contro le quali la popolazione operaia ha tentato di assumere e di organizzare la sua propria difesa.

L’autorganizzazione dei proletari di fronte alla catastrofe, ai lumpen-capitalisti e all’incapacità dello Stato

(Da parte di un compagno anonimo)

Sarebbe auspicabile che nella misura in cui voi [CCI] avete questo mezzo di diffusione [il nostro sito Internet], rendiate conto di ciò che si sta passando a Concepción e nei suoi dintorni[1], come pure in altre regioni del Cile che sono state pesantemente toccate dal sisma. Si sa che fin dal primo momento, la gente ha messo in pratica il buono senso più ovvio rendendosi ai depositi di derrate alimentari per prendere tutto ciò di cui avevano bisogno. Ciò è così logico, così razionale, necessario ed inevitabile, che appare assurdo farne la critica. La gente ha creato un'organizzazione spontanea (soprattutto a Concepción) per distribuire il latte, i pannolini per bambini e l'acqua, in funzione delle necessità di ciascuno, tenendo conto, fra l'altro, del numero di bambini per famiglia. La necessità di prendere i prodotti disponibili appariva così ovvia, e così potente la determinazione del popolo a mettere in pratica il suo diritto a sopravvivere, che finanche i poliziotti hanno aiutato la gente a portare via i prodotti alimentari dal supermercato Leader a Concepción, per esempio. E quando si è provato ad impedire che la gente facesse la sola cosa ragionevole, gli impianti in questione sono stati semplicemente incendiati, per la semplice e logica ragione che fa sì che se tonnellate di prodotti alimentari finiranno per marcire anziché essere logicamente consumate, è meglio che questi prodotti alimentari siano bruciati, evitando così il pericolo di focolai supplementari d'infezione. Questi “saccheggi” hanno permesso a migliaia di persone di sostentarsi per qualche tempo, al buio, senza acqua potabile e senza la minima speranza che arrivasse un aiuto qualunque.

Ma, dopo alcune ore, la situazione è cambiata completamente. In tutto l'agglomerato di Concepción delle bande ben armate che viaggiavano in auto di buona qualità, hanno cominciato a saccheggiare non solo i piccoli negozi, ma anche degli appartamenti particolari e gruppi di case interi. Il loro obiettivo era di accaparrarsi di quel poco di beni che la gente avrebbe potuto recuperare nei supermercati, così come gli attrezzi domestici, il denaro e tutto ciò che queste bande potevano trovare. In alcune zone di Concepción, queste bande hanno prima saccheggiato le case e poi le hanno incendiate, scappando subito dopo. Gli abitanti, che si sono trovati all'inizio senza la minima difesa, hanno cominciato ad organizzarsi per potersi difendere, facendo delle ronde di sorveglianza, creando delle barricate per proteggere gli accessi ai quartieri ed in alcune zone mettendo in comune i viveri per assicurare l'alimentazione di tutti gli abitanti. Con questo breve richiamo dei fatti che si sono verificati nei giorni scorsi, non pretendo “di completare” le informazioni fornite da altri mezzi. Vorrei soltanto richiamare l'attenzione su tutto ciò che questa situazione critica contiene da un punto di vista anticapitalista. Lo slancio spontaneo della gente per appropriarsi di tutto ciò che è necessario alla loro sussistenza, la loro tendenza al dialogo, alla ripartizione, a cercare accordi e ad agire insieme, è stata presente dall'inizio di questa catastrofe. Tutti abbiamo potuto vedere intorno a noi questa tendenza comunitaria naturale sotto forme differenti. In mezzo all'orrore vissuto da migliaia di lavoratori e dalle loro famiglie, questo slancio per la vita in comune è emerso come una luce di speranza in mezzo alle tenebre, ricordandoci che non è mai troppo tardi per ridiventare noi stessi.

Di fronte a questa tendenza organica, naturale, comunista, che ha animato il popolo durante queste ore di spavento, lo Stato è impallidito e si è mostrato per ciò che è: un mostro freddo ed impotente. Inoltre l'interruzione brutale del ciclo demenziale di produzione e di consumo, ha lasciato il padronato alla mercé degli eventi, ad attendere, acquattato, che l'ordine fosse ristabilito. Così la situazione ha aperto una vera breccia nella società, attraverso la quale potrebbero scaturire le fonti di un mondo nuovo che è già nei cuori della gente meno agiata. Diventava dunque urgente e necessario ristabilire ad ogni costo il vecchio ordine di rapina, di abuso e di accaparramento. Ma questo non è stato fatto a partire dalle alte sfere, ma a partire dal terreno stesso della società di classe: coloro che si sono incaricati di rimettere le cose al loro posto, in altre parole, di imporre con la forza i rapporti di terrore che permettono l'esistenza dell'appropriazione privata capitalista, sono state le mafie dei narcotrafficanti radicati come delle metastasi nelle zone popolari, degli arrivisti tra i più arrivisti, dei figli della classe operaia alleati con dei borghesi al prezzo dell’avvelenamento dei loro fratelli, del commercio sessuale delle loro sorelle, dell’avidità consumatrice dei loro propri figli. Dei mafiosi, altrimenti detti dei capitalisti allo stato puro, dei predatori del popolo, ben sistemati nei loro veicoli 4x4 ed armati di fucili, disposti ad intimidire ed a spogliare i loro propri vicini o gli abitanti di altri quartieri per cercare di monopolizzare il mercato nero ed ottenere denaro facile, in altre parole per ottenere potere. Che questi individui siano alleati naturali dello Stato e della classe padronale è dimostrato dal fatto che le loro indegne malefatte siano state utilizzate dai mass media per creare il panico in una popolazione già demoralizzata, giustificando così la militarizzazione del paese. Quale altro scenario potrebbe essere più propizio ai nostri padroni politici e padronali, che vedono in questa crisi catastrofica soltanto una buona occasione per fare lauti affari e ulteriori profitti spremendo ancor più una forza-lavoro dominata dal timore e dalla disperazione?

Da parte degli avversari di quest'ordine sociale, è un nonsenso tessere degli elogi ai saccheggi senza precisare il contenuto sociale di tali azioni. Non c’è proprio paragone tra una massa di gente più o meno organizzata, ma almeno con un obiettivo in comune, che prende e distribuisce prodotti di prima necessità per sopravvivere e delle bande armate che rapinano la popolazione per arricchirsi. Il sisma di sabato 27 non si è limitato a colpire molto duramente la classe operaia e a distruggere le infrastrutture esistenti. Ha anche seriamente rovesciato i rapporti sociali in questo paese. In alcune ore, la lotta di classe è emersa con tutta la sua forza davanti ai nostri occhi, troppo abituati forse alle immagini della televisione per potere cogliere bene l'essenziale degli avvenimenti. La lotta di classe è qui, nei nostri quartieri ridotti in rovine nella penombra, crepitando e scricchiolando sotto i nostri passi, sul suolo stesso della società, dove si affrontano in uno scontro mortale due tipi di esseri umani che si trovano infine l’uno di fronte all’altro: da un lato, le donne e gli uomini dallo spirito collettivo che si cercano per aiutarsi e condividere; dall'altro gli antisociali che li saccheggiano e gli sparano contro per cominciare così la loro propria accumulazione primitiva di capitale. Qui, ci siamo noi, gli esseri invisibili ed anonimi di sempre, presi dalle nostre vite di sfruttati, dei nostri vicini e dei nostri genitori, ma pronti a stabilire dei legami con tutti quelli che condividono la stessa alienazione. Là ci sono loro, poco numerosi ma pronti a spogliarci con la forza di quel poco o quasi niente che possiamo dividerci. Da un lato il proletariato, dall'altro, il capitale. È così semplice. In molti quartieri di questo territorio devastato, in queste ore di prima mattina, la gente comincia ad organizzare la propria difesa di fronte a queste orde armate. A quest'ora ha cominciato a prendere una forma materiale la coscienza di classe di quelli che si sono visti costretti, brutalmente ed in un batter d’occhio, a capire che le loro vite gli appartengono e che nessuno verrà loro in aiuto.

Messaggio ricevuto il 3 marzo 2010.


[1] Il sisma ha avuto luogo il 27 febbraio 2010 in piena notte, con una magnitudo di 8,8. Ha provocato la morte di circa 500 persone, ma lo tsunami che l’ha seguito ha accumulato ancora più morti. Sono state toccate molte città del Cile, tra cui la capitale Santiago. Ma è nel secondo agglomerato del paese, quello di Concepción (900.000 abitanti in tutto l’agglomerato), che le morti e i danni sono stati più gravi [NdT].

Geografiche: 

  • Sud e Centro America [38]

Rivoluzione Internazionale n°166

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giugno-agosto

Alle misure di austerità rispondiamo con la lotta!

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Grecia, Turchia, Portogallo, Spagna, Italia, Inghilterra, Irlanda, Francia, Germania, Romania, Stati Uniti, Giappone, Cina …

Alle misure di austerità rispondiamo con la lotta!

In Grecia si è sviluppata una rabbia immensa e la situazione sociale è esplosiva. In questo momento lo Stato greco sta sferrando dei colpi terribili al proletariato. Tutte le fasce di età e tutti i settori proletari sono fortemente colpiti. I lavoratori del settore privato, gli impiegati statali, i disoccupati, i pensionati, gli studenti, i precari, … nessuno viene risparmiato. Tutta la classe operaia rischia di sprofondare nella miseria.

Di fronte a questi attacchi, il proletariato non resta senza reagire. Scende per strada e si batte, mostrando così di non essere disposto ad accettare i sacrifici imposti dal capitale senza batter ciglio.

Ma, per il momento, questa lotta non riesce a svilupparsi, a diventare di massa. Gli operai della Grecia stanno vivendo delle ore difficili. Che fare quando tutti i mass-media e tutti i responsabili politici affermano che non c’è altra soluzione se non stringere la cinghia per salvare il paese dal fallimento? Come resistere a questo mostro divoratore che è lo Stato? Quali metodi di lotta mettere in opera per costruire un rapporto di forza favorevole agli sfruttati?

Tutte queste questioni non riguardano solo gli operai che vivono in Grecia, ma i proletari del mondo intero. Non possiamo farci nessuna illusione, la “tragedia greca” è solo un anticipo di quello che toccherà a tutti gli operai in tutto il mondo. Ed infatti, delle “misure di austerità alla greca” sono state già annunciate ufficialmente in Portogallo, in Romania, in Giappone ed in Spagna (dove il governo ha appena abbassato del 5% il salario dei dipendenti statali!). In Italia si stanno preparando a fare la stessa cosa. Tutti questi attacchi portati avanti simultaneamente dimostrano ancora una volta che gli operai, indipendentemente dalla loro nazionalità, formano una sola ed unica classe che ha ovunque gli stessi interessi e gli stessi nemici. La borghesia fa portare al proletariato le pesanti catene del lavoro salariato, ma gli anelli di queste catene legano tra loro gli operai di tutti i paesi, al di là delle frontiere.

Quelli che vengono attaccati oggi in Grecia e che hanno iniziato, faticosamente, a provare a battersi sono dunque i nostri fratelli di classe. La loro lotta è anche la nostra lotta.

Solidarietà con gli operai della Grecia!

Una sola classe, una stessa lotta!

Rifiutiamo tutte le divisioni che tenta di imporci la borghesia. Al vecchio principio delle classi dominanti “dividere per meglio regnare”, contrapponiamo il grido di unità degli sfruttati “Proletari di tutti i paesi, unitevi!”

In Europa, le diverse borghesie nazionali cercano di far credere agli operai che dovranno stringere la cinghia a causa della Grecia. La disonestà dei responsabili greci, che hanno lasciato che il paese vivesse a credito per decenni truccando i conti pubblici, sarebbe secondo loro la causa principale di una “crisi di fiducia internazionale” verso l’euro. Tutti i governi stanno usando questo pretesto per giustificare, uno dopo l’altro, la necessità di ridurre i deficit statali e l’adozione di piani di austerità draconiani.

In Grecia tutti i partiti ufficiali, Partito Comunista in testa, attizzano i sentimenti nazionalisti, indicando le “forze straniere” come responsabili degli attacchi. “Abbasso il FMI e l’Unione europea”, “Abbasso la Germania”, questi sono gli slogan che la sinistra e l’estrema sinistra mettono avanti nelle manifestazioni per salvare, volutamente, il capitale nazionale greco.

Negli Stati Uniti, se le Borse cadono, la colpa sarebbe dell’instabilità dell’Unione europea; se le imprese chiudono, la colpa sarebbe della debolezza dell’euro che ostacolerebbe il dollaro e le esportazioni …

Insomma, ogni borghesia nazionale accusa il vicino ed esercita sul proprio proletariato questo infame ricatto: “accettate i sacrifici altrimenti il paese si indebolirà ed i concorrenti ne approfitteranno”. La classe dominante cerca così di iniettare nelle vene operaie il nazionalismo, vero veleno per le lotte.

Questo mondo diviso in nazioni concorrenti non è il nostro. I proletari non hanno niente da guadagnare a legare la propria sorte a quella del capitale del paese in cui vivono. Accettare dei sacrifici oggi in nome della “difesa dell’economia nazionale”, significa preparare altri sacrifici, ancora più duri, per domani.

Se la Grecia è “sull’orlo del baratro”, se la Spagna, l’Italia, l’Irlanda, il Portogallo stanno per seguirla, se il Regno Unito, la Francia, la Germania, gli Stati Uniti sono nella tempesta, è perché il capitalismo è un sistema moribondo. Tutti i paesi sono condannati a sprofondare irrimediabilmente in questo marasma. L’economia mondiale è in crisi da 40 anni. Le recessioni si susseguono una dopo l’altra. Solo una disperata fuga in avanti nell’indebitamento ha permesso al capitalismo di avere, finora, un po’ di crescita. Risultato, oggi le famiglie, le imprese, le banche, gli Stati sono tutti super indebitati. Il fallimento della Grecia non è che una delle espressioni più eclatanti del fallimento generale e storico di questo sistema di sfruttamento.

La borghesia vuole dividerci. Opponiamo la nostra solidarietà!

La forza della classe operaia è la sua unità!

I piani di austerità annunciati costituiscono un attacco frontale e generalizzato alle nostre condizioni di vita. La sola risposta possibile è quindi un movimento di massa dei lavoratori. È impossibile portare avanti questa lotta rimanendo chiusi nella propria impresa, nella propria scuola o nel proprio settore, da soli, isolati, in piccoli gruppi. Lottare in massa è una necessità, se non vogliamo essere tutti schiacciati e ridotti alla miseria.

Ora, che fanno i sindacati, queste organizzazioni che sulla carta sarebbero gli “specialisti ufficiali della lotta”? Organizzano sì scioperi in diverse fabbriche … ma senza mai cercare di unificarli. Essi lavorano attivamente per rafforzare il corporativismo, mettendo in particolare in contrapposizione i lavoratori del settore pubblico e quelli del settore privato. Sfiancano i lavoratori portandoli a spasso in sterili “giornate di mobilitazione”. In realtà sono proprio degli “specialisti della divisione operaia”! E non sono da meno nel distillare il nazionalismo. Un solo esempio: lo slogan più scandito nelle manifestazioni dalla GSEE (la CGIL greca) dalla metà di marzo è … “comperare greco”!

Seguire i sindacati significa andare sempre verso la divisione e la sconfitta. Gli operai invece devono prendere l’iniziativa della lotta, organizzando in prima persona le assemblee generali, decidendo collettivamente le parole d’ordine e le rivendicazioni, eleggendo delegati revocabili in ogni momento e formando delegazioni di massa per andare a discutere con i lavoratori più vicini, nelle fabbriche, gli uffici, le scuole, gli ospedali vicini … per incoraggiarli a raggiungere il movimento.

Fare a meno dei sindacati, osare prendere le redini della propria lotta, fare il passo di andare incontro ai propri fratelli di classe … tutto ciò può sembrare difficile. Ed infatti è proprio questo oggi uno dei maggiori freni allo sviluppo della lotta: il proletariato manca di fiducia in sé stesso, non ha ancora coscienza della forza che rappresentano le sue formidabili capacità. Per il momento, la violenza degli attacchi del capitale, la brutalità della crisi economica, la mancanza di fiducia del proletariato in sé stesso, agiscono come dei fattori paralizzanti. Le risposte operaie, anche in Grecia, sono ben lontane da quello che richiederebbe la gravità della situazione. Eppure, il futuro appartiene alla lotta di classe. Di fronte agli attacchi, la prospettiva è quella dello sviluppo di movimenti sempre più di massa.

Alcuni ci chiederanno: “Perché fare queste lotte? A cosa ci portano? Poiché il capitalismo è in fallimento, nessuna riforma è realmente possibile. Quindi non c’è via d’uscita.” Effettivamente, all’interno di questo sistema di sfruttamento, non c’è alcuna via d’uscita. Ma rifiutare di essere trattati da cani e lottare collettivamente vuol dire battersi per la nostra dignità, vuol dire prendere coscienza che in questo mondo di sfruttamento la solidarietà esiste e che la classe operaia è capace di far vivere questo inestimabile sentimento umano. Allora, la possibilità che un altro mondo possa esistere comincia ad apparire, un mondo senza frontiere né patrie, senza sfruttamento né miseria, un mondo fatto per gli uomini e non più per il profitto. La classe operaia può e deve avere fiducia in sé. Essa sola è capace di costruire questa nuova società e riconciliare l’umanità con sé stessa passando “dal regno della necessità a quello della libertà” (Marx)!

Il capitalismo è un sistema in fallimento.

Ma un altro mondo è possibile: il comunismo!

Corrente Comunista Internazionale, 30 maggio 2010

 

Se vuoi discutere con altre persone dei contenuti di questo volantino internazionale, partecipa alle riunioni pubbliche che la nostra organizzazione promuove regolarmente nei luoghi e nelle date riportate sul nostro sito: it.internationalism.org [40]. Le prossime sono previste a:

Napoli, sabato 5 giugno 2010, alle ore 17,00, presso Libreria JAMM, via S. Giovanni Maggiore Pignatelli, n°32 e a Milano, sabato 26 giugno 2010, alle ore 16,30, presso la Libreria Calusca, via Conchetta n°18.

Per contatti scrivi a: [email protected] [41] o alla casella di posta RI, C.P. 469, 80100 Napoli.

Vita della CCI: 

  • Interventi [42]

La borghesia scarica sui proletari la crisi e tutto il suo marciume

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I tempi che viviamo sono senz’altro inediti e pieni di elementi di riflessione, tempi di una maturazione della storia che, e ci sono tanti elementi a farlo pensare, non può sboccare che in grandi sconvolgimenti.

In effetti nella storia del capitalismo, pur ricca di tanti orrori e vergogne, non si era mai visto uno spettacolo così  indecoroso da parte dell’insieme della borghesia, padroni e loro rappresentanti politici (che nel caso italiano si trovano a coincidere ai massimi livelli dello Stato).

Da un lato, nonostante la crisi e i sacrifici che vengono richiesti alla stragrande maggioranza dei lavoratori, lor signori non si fanno scrupolo di ostentare la loro ricchezza, con le ville, gli yacht e le feste faraoniche al Billionaire del re dei cafoni arricchiti, Briatore. E anche in questo il presidente del consiglio è il primo nell’ostentazione della sua ricchezza. Se poi si pensa a come questa ricchezza è stata acquisita, il senso di schifo non può che aumentare a dismisura. Ma non è solo questo. La corruzione, che ha sempre contraddistinto il sistema capitalista, un sistema che mette la ricchezza al di sopra di ogni morale, ha raggiunto livelli incredibili: non c’è politico, di destra come di sinistra, che non sia sospettato, se non indagato, per aver ricevuto, in cambio di favoritismi, regali sotto forma di escort, regali (e che regali), mazzette. E, come è stato fatto notare, se ai tempi di Tangentopoli le mazzette servivano in prima istanza a “pagare i costi della politica”, oggi servono solo a pagare l’insaziabile sete di questi fedeli servitori del capitale. E sono questi corrotti patentati che, non solo non sono chiamati a pagare anche quando vengono scoperti , ma restano al loro posto a prendere quelle misure di austerità che stanno riducendo alla miseria un gran numero di lavoratori.

Altrettanto indecoroso è lo spettacolo che la classe dominante offre quando “discute”. Non ci riferiamo tanto alle risse verbali delle trasmissioni “politiche” televisive (Ballarò, Porta a Porta, AnnoZero, ecc.), che sono messe su proprio per evitare che al pubblico sia offerto un dibattito vero, su cui potersi fare una opinione, ma alle vere divisioni che emergono non solo fra maggioranza ed opposizione, ma all’interno della stessa maggioranza (vedi lo scontro fra Fini e Berlusconi alla direzione del PDL)[1], o anche le bordate che si tirano politici e industriali[2] .

Queste divisioni sono normali visto che parliamo di cricche di briganti che difendono ognuno i propri interessi, personali o politici che siano.

Ma queste divisioni scompaiono quando si tratta di attaccare i livelli di vita dei lavoratori. Ed anche questo è normale: quando si tratta di difendere gli interessi del capitale la borghesia ritrova tutta la sua unità, perché sa che si trova di fronte al suo nemico mortale: il proletariato.

Ed il livello di questi attacchi è anch’esso un elemento di portata storica, proporzionale alla gravità della crisi del sistema capitalista. Quello che sta avvenendo è ormai un ritorno alle condizioni di decenni fa, cioè la perdita di tutta una serie di acquisizioni (non ci piace parlare di “diritti”, dal momento che nel sistema capitalista i lavoratori non hanno veri e propri diritti, ma solo conquiste che bisogna difendere a denti stretti) sia sul piano economico che normativo.

E questi attacchi colpiscono tutti i lavoratori:

- con i licenziamenti che toccano gli operai, ma anche i lavoratori del pubblico impiego (sono decine di migliaia i precari che hanno perso il posto di lavoro sia nella scuola che negli altri settori);

- con la cassa integrazione che taglia drasticamente i redditi dei lavoratori (lo scorso anno si è avuto il record delle ore di cassa integrazione)

- con la nuova finanziaria che blocca i salari dei dipendenti pubblici (con la conseguente perdita di centinaia di euro al mese per due anni), taglia i fondi agli enti locali e conseguentemente i servizi sociali che questi possono offrire, rimanda i pensionamenti di un anno (e per le donne di 4 anni), chiudendo ancora di più la porta in faccia ai giovani in cerca di lavoro.

Altrettanto impressionante è il piano che la FIAT ha preparato, e presentato come un piano di rilancio della sua attività in Italia:

- chiusura di Termini Imerese

- mantenimento dello stabilimento di Pomigliano solo a patto di un nuovo accordo che fa tornare le condizioni di lavoro di decenni indietro (18 turni settimanali su sei giorni, sanzioni in caso di sciopero il sabato, pause ridotte da 40 a 30 minuti, 80 ore di straordinario obbligatorio all’anno, messa in ferie d’ufficio nel caso di chiusura della fabbrica per causa di forza maggiore, punibilità dei lavoratori nel caso in cui le assenze superino l’andamento medio di assenteismo); non si può aver alcun dubbio che se passa questo accordo su Pomigliano, le stesse norme la FIAT pretenderà di applicarle a tutti i suoi stabilimenti e, una volta aperta questa falla, sarà l’intera industria manifatturiera ad adeguarsi (Tremonti lo ha già dichiarato: “Pomigliano è il modello da seguire”). E, purtroppo, il piano rischia fortemente di passare, visto il ricatto con cui è accompagnato (o l’accordo o la chiusura di Pomigliano) e la complicità dei sindacati ufficiali.

Ci dicono che tutto questo è colpa della crisi, come se la crisi fosse un cataclisma naturale e non un male legato a questo tipo  di sistema di produzione, che non è né eterno, né insuperabile, ma che anzi, proprio perché sta riducendo l’umanità[3] alla miseria, facendole fare passi indietro di decenni, se non di secoli, merita di essere spazzato via, visto che costituisce un ostacolo alla sopravvivenza della specie umana e del pianeta stesso.

Un esempio di quanto questo sia vero ci viene fornito dagli stessi esponenti ufficiali della borghesia, come il governatore della Banca d’Italia, che nella sua recente relazione generale sullo stato dell’economia ha ricordato che l’evasione fiscale è arrivata a 120 miliardi di euro: se questo è vero, significa che basterebbe recuperare il 20% di questa evasione in due anni per racimolare la stessa cifra del piano di austerità di Tremonti. Naturalmente non lo faranno. Draghi dice questo solo per fare demagogia, perché gli autori di questa evasione sono quegli stessi borghesi che sono responsabili dell’aumento dello sfruttamento e che possiedono il potere politico oltre che economico; se abbiamo citato questo dato non è per unirci alle ipocrite e flebili proteste della cosiddetta sinistra, ma per dire che di ricchezza in giro ce n’è tanta, solo che questa ricchezza sta in poche mani, ed è per mantenerla in queste mani che si riducono alla fame milioni di persone (e si chiudono fabbriche, scuole ospedali, cioè si impedisce la produzione di ulteriore ricchezza in termini di merci e di servizi).

Questa crisi non l’hanno prodotta i lavoratori, ma sono loro a pagarla. Servisse almeno a qualcosa! Sono decenni che in nome della crisi ci vengono chiesti sacrifici, e il risultato qual è? Che la crisi è diventata ancora più grave, al punto che adesso ci sono interi Stati sull’orlo del fallimento.

E che sacra unione c’è a difesa di questo sistema: il governo e la sua maggioranza naturalmente, che sulla manovra finanziaria o sul piano FIAT è assolutamente compatta (a conferma che le sue divisioni interne sono solo una questione di potere), ma anche la cosiddetta sinistra parlamentare che sulla finanziaria fa finta di essere in disaccordo (ma è comunque d’accordo sul fatto che bisogna fare i sacrifici) e nulla dice sul piano FIAT. E Rifondazione? Chi l’ha vista? Proprio ora che sarebbe libera dall’imbarazzo di un ruolo istituzionale (al governo o comunque al Parlamento) chi ancora si illude sulla natura di questa forza si sarebbe aspettata di vederla in piazza in difesa dei lavoratori. Appunto, pura illusione.

Ci restano i sindacati. E tutti possono vedere cosa fanno: cercano di demoralizzare i lavoratori, di dividerli, di farli stancare in inutili e rituali scioperi (quasi)generali, che costituiscono allo stesso tempo l’apertura e la chiusura della “lotta”. E questa non è la conclusione di noi estremisti, ma la realtà che sta sotto i nostri occhi: la CISL e la UIL ormai accettano aprioristicamente ogni decisione del governo, sperando così di demoralizzare i lavoratori, o comunque di dividerli tra quelli che vorrebbero lottare e quelli che esitano per rispetto della loro tessera. La CGIL fa finta di dire no ad ogni misura, ma poi boicotta le lotte spontanee dei lavoratori[4] contro la finanziaria e i tagli, proponendo uno sciopero generale per il 25 giugno (il più lontano possibile insomma), nella speranza che quale che sia l’adesione a questo sciopero si possa poi far cadere tutto, visto che lo sciopero è anche a ridosso delle ferie.

Se lasciamo fare a questi signori possiamo essere sicuri che passeranno tutti gli attacchi. Ma i lavoratori possono fare a meno di loro e lanciarsi nella lotta, senza la quale non c’è prospettiva possibile.

Helios, 15/6/2010


[1] Sui motivi di questo scontro vedi il nostro articolo “I perché dello scontro Fini-Berlusconi [43]”.

[2] Ultima in ordine di tempo l’attacco di Luca di Montezemolo, che ha accusato la politica di scarsa serietà, e la risposta di Cicchitto del PDL, che ha letteralmente detto che “non è la cricca della FIAT, che può dare lezioni di morale”. Peccato che con questo giudizio lo stesso deputato del PDL non chieda di intervenire sulla FIAT per farle attenuare i piani di ristrutturazione dei suoi stabilimenti in Italia.

[3] Diciamo l’umanità perché quello che sta succedendo in Italia succede anche negli altri paesi, anche quelli che sono l’avanguardia del capitalismo, come la Francia, la Germania o la Gran Bretagna, volendo volutamente non citare la Cina che non ha mai superato le condizioni di sfruttamento proprie dell’ottocento. In merito alle misure di austerità vedi il nostro volantino “Alle misure di austerità rispondiamo con la lotta!”, in questo stesso numero ed il volantino per il 1° Maggio “Adesso arriva il conto della crisi, ma noi non lo paghiamo! [44]”.

[4] Vedi l’articolo “Italia: la difficile ma inesorabile crescita della lotta di classe” in questo stesso numero.

Geografiche: 

  • Italia [9]

Situazione italiana: 

  • economia italiana [45]
  • politica della borghesia in Italia [32]

Italia: la difficile ma inesorabile crescita della lotta di classe

Una delle questioni su cui, tra proletari, ci si ritrova più frequentemente a discutere è la prospettiva della lotta di classe. Tale discussione non è stata mai così importante ma anche così difficile. Così importante perché ci troviamo oggi sul bordo di un baratro dalle dimensioni inesplorabili. I disastri sul piano dell’economia – il cui riscontro sono il recente crollo della Grecia e le misure di austerità prese di conseguenza a livello mondiale – sul piano ecologico – vedi l’attuale sversamento di petrolio dal fondo oceanico nel golfo del Messico – e le rinnovate minacce di guerra – vedi la Corea, ma anche l’Iran, l’Afghanistan, la Cina, … stanno a dimostrare, se ce ne fosse ancora bisogno, che un mondo migliore è indispensabile per garantire, perlomeno, la stessa sopravvivenza dell’umanità. Ma una discussione sulla prospettiva è anche difficile perché, stranamente ma non troppo, proprio adesso che ce n’è bisogno, la classe operaia esita, manca di fiducia in sé stessa e della spinta necessaria. Le ragioni che determinano questo atteggiamento le abbiamo suggerite numerose volte negli ultimi tempi e le ricordiamo solo per cenni: il clima creato dalla caduta del muro di Berlino, su cui si sono innestate le campagne borghesi sul presunto fallimento del comunismo e l’estinzione della classe operaia; l’azione del sindacalismo, che spinge ogni lotta verso il localismo ed il settorialismo; una certa influenza della democrazia e dell’antifascismo, che spinge a pensare che, se c’è un problema, questo deriva necessariamente dal “cattivo di turno” (il governo “neofascista” di Berlusconi, i padroni “sempre più esosi”, …), insomma una questione di uomini cambiando i quali si possono cambiare le sorti della società e non una questione di sistema sociale in quanto tale che non funziona più[1]; un certo stordimento di fronte a degli attacchi - come i licenziamenti - di fronte ai quali è difficile organizzare una lotta adeguata nel singolo settore. Così, le discussioni che si svolgono tra proletari sulle prospettive di lotta della nostra classe sono spesso infarcite di dubbi, di se. Ed anche quando si riconosce l’esistenza di qualche lotta importante, questa è sempre la lotta di un altro paese. Il dubbio che viene espresso da compagni pur generosi e combattivi è spesso del tipo: sì, ci vorrebbe una bella lotta, un grande sciopero, un’enorme manifestazione, ma chi ci seguirebbe; la gente se ne sta a casa sua e non ha intenzione di implicarsi.

Questa sensazione viene naturalmente alimentata dal terribile boicottaggio delle informazioni (come avviene del resto in tutti i paesi del mondo) che nasconde le diecine e diecine di lotte che si stanno sviluppando contemporaneamente in tutto il paese. E’ perciò che con questo articolo vogliamo dimostrare che non c’è motivo di scoraggiarsi, che esiste in Italia, come nel mondo intero, una grande carica di combattività e che bisogna uscire dal proprio settore e unirsi ai lavoratori del mondo intero perché i problemi con cui ci troviamo a che fare oggi sono esattamente gli stessi dappertutto.

Se si dà un’occhiata al forum https://napolioltre.forumfree.net [46], messo su dal gruppo di discussione di Napoli da circa sei mesi e al quale partecipano anche dei nostri militanti, si può rimanere sbalorditi non tanto e non solo dal numero di episodi di lotta e di testimonianze riportati, ma soprattutto dalla loro qualità.

Un primo aspetto che emerge con forza dagli interventi riportati su questo forum, ma non solo, è la rivendicazione della dignità da parte dei lavoratori. Quella stessa dignità che, quando viene fortemente calpestata, può causare addirittura il suicidio degli elementi più sensibili[2], ha portato ad esempio i lavoratori di un call-center di Firenze a denunciare le condizioni umilianti in cui erano costretti a lavorare[3]. Un commento all’interno di questa pagina su Napolioltre ricordava peraltro come sia abitudine dei proprietari dei call-center manipolare la coscienza dei lavoratori puntando a fare assumere loro degli atteggiamenti poco etici nei confronti dei potenziali acquirenti. Nello stesso senso va la denuncia di una lavoratrice della Fiat di Pomigliano, Napoli, che grida il proprio dolore in una lettera aperta al suo terzo figlio, per non poter svolgere il suo ruolo naturale di madre passando del tempo a giocare con i propri figli perché il lavoro sfiancante della fabbrica glielo impedisce. In questa lettera di risposta allo spot “Fabbrica Italia”, realizzato dall’azienda e in onda sulle reti nazionali, l’operaia contesta lo spot e le condizioni di lavoro chieste dall’azienda per la produzione della Panda nello stabilimento locale”[4].

Abbiamo poi fenomeni come i no-workers che fanno della dignità negata di diventare dei lavoratori (da cui il nome no workers), un tema centrale della loro propaganda:

“Siamo disoccupati, lavoratori a nero, lavoratori migranti in schiavitù, viviamo senza reddito o con reddito insufficiente, reclamiamo lavoro e/o reddito, ma soprattutto diritti.

Siamo il popolo cui è stata negata la dignità di esistere, quella primaria di “campare”.

Siamo “no-workers” sotto il continuo ricatto del licenziamento ed il rischio di morire sul posto di lavoro. Nelle “fabbriche diffuse” del nostro territorio veniamo sfruttati e sottopagati.

Siamo precari, regaliamo per pochi spiccioli tutto il nostro tempo a speculatori e affaristi in call center e centri commerciali, lavoriamo senza essere pagati per stages universitari o come operatori sociali nei vari luoghi dello sfruttamento della conoscenza.

Siamo “no workers” perché questo non è lavoro. Si chiama ricatto.

Ci dicono che il lavoro significa dignità, ma queste nuove forme di sfruttamento la negano ogni giorno. Chiedetelo agli operai della FIAT. Ci dicono che c’è la crisi e con questo condannano all’insicurezza una generazione di uomini e donne che non possono pensare, programmare e sognare un “domani”, troppo impegnati ad affrontare un “oggi” fatto di fame, sfruttamento, di precarizzazione dei rapporti umani, temporali e sociali! (…)[5]”

Un secondo aspetto fondamentale che emerge è la tendenza di vari settori di lavoratori ad organizzarsi e a prendere in mano la propria lotta, a volte denunciando esplicitamente il ruolo dei sindacati, almeno di quelli maggiori, altre volte ignorandoli semplicemente, con tendenze pronunciate a creare dei coordinamenti tra settori diversi. Da questo punto di vista ci sono vari episodi particolarmente significativi, come la richiesta ufficiale rivolta alla CGIL da parte del Coordinamento dei lavoratori della Cultura in Lotta di “ritirare la firma dall’accordo capestro firmato con Cisl, Uil e Fondazione la Biennale di Venezia in data 24 maggio 2010 (…) (che) sancisce una drastica riduzione del personale stagionale e del monte ore complessivo. Molti lavoratori non matureranno i requisiti minimi per ricevere il sussidio di disoccupazione. Inoltre, che fine faranno quelli in esubero?”[6]

Con la significativa precisazione che “La firma dell’accordo all’insaputa dei lavoratori stagionali (metodo), i suoi contenuti (merito), la rete di interessi che lega sindacati e aziende sono indice di una pericolosa deriva che va a totale discapito degli operatori della Cultura, sempre più sfruttati e precarizzati.”[7]

Ancora abbiamo “I lavoratori dei magazzini Unicoop (che) hanno votato all’unanimità un documento in cui diffidano i sindacati dal prendere iniziative inerenti ai magazzini senza previa e vincolante consultazione del personale interessato” precisando che “la sfiducia nei confronti delle OO.SS. di rappresentanza (?) viene da lontano nei magazzini Unicoop.”[8]

Ancora importante è l’azione di sciopero degli scrutini organizzata dal Coordinamento precari della scuola di Modena. Nella “Lettera aperta ai 500 lavoratori della scuola di Modena” il Coordinamento esprime una disillusione per i sindacati (nella fattispecie per CGIL, CISL, UIL e SNALS):

“Riteniamo vergognosa la risposta data dalle direzioni provinciali della Flc Cgil, della Cisl, della Uil e dello Snals alla nostra richiesta. Non solo hanno ignorato le 500 firme dichiarandosi indisponibili a proclamare lo sciopero stesso ma, soprattutto, stanno in queste settimane operando un boicottaggio attivo dello sciopero stesso, mandando circolari nelle scuole in cui esplicitano la loro contrarietà allo sciopero (per la gioia dei presidi), in questo dimostrando di ritrovare una perfetta unità sindacale.”[9]

Per finire in bellezza, citiamo uno dei casi più significativi in questo momento, l’iniziativa di un coordinamento operaio nato intorno alla lotta della MAFLOW di Trezzano sul Naviglio, Milano, che ha raccolto una ventina di realtà lavorative diverse e che ha organizzato un’assemblea autoconvocata per venerdì 18 giugno alle ore 18.00 alla Maflow in via Boccaccio 1 a Trezzano sul Naviglio per decidere come costruire unitariamente la mobilitazione del 25 giugno:

“Migliaia di lavoratori e lavoratrici in lotta in provincia di Milano e in Lombardia si stanno opponendo alle ristrutturazioni, ai licenziamenti e ai tagli alla scuola e ai pubblici servizi in generale cercando di unire le forze per resistere meglio. Non si può rispondere a un attacco così pesante in ordine sparso come tentano di imporci le numerose sigle sindacali. (…) Il 25 giugno sono stati proclamati due scioperi e due manifestazioni, sia Cgil che sindacalismo di base: non possiamo permetterci di restare divisi in piazza. Uniamoci tutti”[10].

Per chiudere dunque con i quesiti da cui siamo partiti, il problema non è la mancanza della volontà di lotta, né una certa coscienza di chi sono i nostri nemici (il padronato, i sindacati, lo Stato …), ma la difficoltà ad immaginare di poter fare a meno di qualcuno che ti rappresenti, di qualcuno che ti organizzi la lotta, la difficoltà a pensare che si abbia la forza di potercela fare da soli. E’ perciò che questa maturazione avverrà principalmente a partire dalla lotta stessa, attraverso dei primi tentativi anche locali e limitati di presa in mano della lotta stessa che mostreranno all’insieme della classe che ce la possiamo fare.

Ezechiele         13 giugno 2010


[1] Su questo piano é particolarmente efficace come elemento di freno tutta la propaganda condotta da giornali come La Repubblica e più recentemente il Fatto Quotidiano o trasmissioni come Anno Zero.

[2] Vedi l’articolo pubbicato sul nostro sito web: "Riunioni Pubbliche della CCI: Al suicidio e alla sofferenza sul posto di lavoro, una sola risposta: la solidarietà di classe [28]".

[3] https://napolioltre.forumfree.it/?t=48193629 [47]

[4] www.controlacrisi.org/joomla/index....id=36&Itemid=68 [48]

[5] https://www.facebook.com/pages/NO-WORKERS/114173721946296 [49]

[6] www.culturainlotta.altervista.org/i...id=47&Itemid=72 [50]

[7] Idem.

[8] https://lavoratori-unicoop.blogspot.com/201...ni-unicoop.html [51]

[9] precariscuolamodena.wordpress.com [52]

[10] https://vogliamocontinuarealavorareallamaflow.blogspot.com/2010/06/sciopero-generale-costruiamolo-dal.html [53]

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  • Italia [9]

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Sciopero selvaggio di autisti di autobus in Brasile

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Pubblichiamo qui di seguito la testimonianza di lotta, datata 18 maggio 2010 e presa dal blog di un compagno della CNT/AIT della regione di Goias in Brasile[1]. Questo tipo di testimonianza è particolarmente importante perché la nostra classe prenda coscienza che dappertutto sta lottando contro gli stessi attacchi e per gli stessi interessi. Gli autisti di autobus della città di Goiânia e della sua regione hanno paralizzato i servizi martedì mattina 18 maggio senza preavviso, lasciando migliaia di passeggeri senza trasporti. Lo sciopero, illimitato, ha toccato la popolazione del capoluogo e degli 11 municipi vicini che sono serviti dallo stesso sistema di trasporto.

Gli autisti protestano contro la mancanza di dialogo con il sindacato che rappresenta i proprietari dei trasporti pubblici. Oltre a denunciare salari troppo bassi, gli autisti evocano quelle che loro chiamano condizioni di lavoro umilianti, con giornate molto pesanti a volte di 12 ore e cinque viaggi in più di due ore senza pause di riposo.

Inoltre, secondo gli autisti, il blocco è stato iniziato dagli autisti stessi e non dai due sindacati che esistono nella capitale. Ecco anche perché, secondo quanto ascoltato attraverso i mass media dalla bocca degli stessi autisti, le condizioni legali per lo sciopero con un servizio minimo del 30% di funzionamento non sono state rispettate!

Questi borghesi sembrano stupefatti che i lavoratori sono entrati in sciopero senza l’avallo dei sindacati legali. Questa è l’azione diretta! Finché non agiremo in prima persona, non avremo mai quello che esigiamo, e gli altri lavoratori, molto calmi in questo momento, devono capire che stiamo dalla stessa parte, che dobbiamo anche essere solidali con la lotta dei nostri compagni salariati! Quindi, per quanto sia difficile questa situazione precaria senza autobus, non considerate questi autisti come dei nemici. Alla loro comparsa allo stazionamento “Giardino Veiga” degli autobus sono stati attaccati da parte della popolazione, credo che questa non sia la migliore reazione! Proporremo uno sciopero di solidarietà con la lotta dei nostri compagni salariati dei trasporti.

Contro il patronato, azione diretta sindacale![2]

Viva la solidarietà tra i lavoratori!

CNT AIT di Goias, Brasile


[1] fogocob.blogspot.com.

[2] A questa formulazione noi preferiamo “presa in mano delle lotte da parte dei lavoratori stessi” perché, a parer nostro, “azione diretta sindacale” rinvia inevitabilmente all’ideologia sindacale che si basa, al contrario, sul fatto che i lavoratori vengono rappresentati in maniera permanente da “specialisti della lotta” (che nei fatti, come è denunciato in questa testimonianza, sono specialisti nel sabotaggio delle lotte operaie).

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Presa di posizione del TPTG sulla manifestazione del 5 maggio in Grecia

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Pubblichiamo qui di seguito ampi estratti di una testimonianza del TPTG (Ta Paida Tis Galarias), gruppo comunista libertario greco[1] sulla manifestazione del 5 maggio contro il piano d’austerità. Abbiamo già pubblicato alcuni articoli di questo gruppo sul nostro sito web (internationalism.org) in varie lingue, in particolare in inglese ed in francese. Se non condividiamo ogni punto delle loro posizioni, siamo però d’accordo sull’essenziale, in particolare su:

- il rigetto del riformismo e di ogni alleanza con qualsiasi forza borghese, anche con quelle cosiddette “progressiste” o di “sinistra”;

- la difesa della presa in mano delle lotte da parte degli operai stessi e non da parte di presunti “specialisti” quali le organizzazioni sindacali;

- e soprattutto l’internazionalismo!

Vogliamo qui in particolare salutare e sostenere la riflessione di questi compagni sul ruolo ed il posto che ha la violenza nelle lotte.

Il 5 maggio, in Grecia, tre lavoratori sono morti asfissiati in una banca in fiamme. Di fronte a questo tragico avvenimento il TPTG afferma nel suo testo: “La questione della violenza è diventata centrale. Così come valutiamo la gestione della violenza da parte dello Stato, siamo costretti ad analizzare la violenza proletaria”.

Darsi ad una violenza cieca sarebbe infatti cadere nella trappola tesa dalla borghesia, sarebbe un segno di disperazione, d’impotenza, di “nichilismo” come scrive il TPTG.

Come affermano questi compagni, lo Stato esercita su di noi un vero e proprio terrore. Gli operai ergendosi di fronte a questo moloch devono necessariamente utilizzare anche loro una certa violenza. Lottare, fare sciopero, manifestare è già in sé un’espressione di violenza contro l’ordine del capitale.

Ma la classe operaia non può utilizzare qualsiasi tipo di violenza: l’omicidio, il linciaggio la vendetta cruenta, ad esempio, non appartengono alla lotta proletaria. Sono al contrario le stimmate di questa società barbara che è il capitalismo; appartengono alla borghesia, questa classe dominante pronta a tutto pur di difendere i suoi privilegi.

La violenza proletaria è tutt’altra cosa. Questa è frutto della riflessione collettiva, è organizzata; ha lo scopo di rovesciare questo sistema di sfruttamento e sostituirlo con una società senza classi né miseria. È comparabile all’atto apparentemente “violento” dell’ostetrica che libera il bambino durante il parto. La violenza proletaria deve anch’essa servire al parto di un nuovo mondo[2].

Tempi critici e soffocanti

Quello che segue è il resoconto della manifestazione del 5 maggio e di quanto avvenuto nei giorni seguenti, accompagnato da alcune riflessioni di carattere generale sulla situazione critica che il movimento greco sta attraversando. Malgrado si collochi all’interno di una fase parossistica di terrorismo finanziario, che cresce in ampiezza di giorno in giorno attraverso la minaccia costante della bancarotta dello Stato e i reiterati appelli a “fare sacrifici”, la risposta del proletariato, alla vigilia del voto delle nuove misure di austerità in Parlamento, è stata impressionante. Si è trattato, probabilmente, della più grande manifestazione di lavoratori dai tempi della fine della dittatura (più imponente persino di quella del 2001 che portò al ritiro del progetto di riforma delle pensioni).

Stimiamo che vi fossero almeno 200.000 manifestanti nelle strade del centro di Atene, e circa 50.000 di più nel resto del paese.

Vi sono stati scioperi pressoché in tutti i settori (…) del processo di (ri)produzione. È riapparsa sulla scena una moltitudine proletaria simile a quella che aveva preso possesso delle strade nel dicembre 2008 (anche in questa occasione i media della propaganda ufficiale hanno parlato, in termini peggiorativi, di “giovani incappucciati”), ugualmente armata di asce, mazze, martelli, bottiglie molotov, pietre, bastoni, maschere e occhialini anti-gas. Nonostante in alcuni casi i manifestanti mascherati siano stati accolti con grida di disapprovazione, allorché cercavano, talvolta con successo, di attaccare degli edifici, in generale si sono trovati in sintonia con questa marea variopinta, colorata di manifestanti inferociti. Gli slogan andavano dal rifiuto del sistema politico nel suo insieme – “Bruciamo il bordello parlamentare!” – alle parole d’ordine patriottiche – “Fuori dal FMI!” – o populiste – “Ladri!”, o anche “La gente esige che gli imbroglioni vadano in prigione”. (…) Gli slogan aggressivi contro i politici in generale, nel corso della giornata, sono diventati via via preponderanti.

Alla manifestazione indetta dalla GSEE-ADEDY (confederazione sindacale che include sia il settore pubblico che quello privato), i partecipanti hanno riempito la piazza a migliaia. Il presidente della GSEE è stato accolto da fischi e ululati, quando ha iniziato a parlare. (…) E quando la direzione del sindacato ha voluto ripetere la manovra che aveva già tentato una prima volta l'11 marzo scorso, per aggirare il grosso della manifestazione e prenderne la testa, solo in pochi l'hanno seguita...

La manifestazione convocata dal PAME (il “Fronte operaio” del KKE, il Partito comunista greco), è stata a sua volta imponente (oltre 20.000 persone) ed è arrivata in piazza Syntagma per prima. L’intenzione era quella di restarvi soltanto qualche istante, e di andarsene prima dell’arrivo del grosso del corteo. Tuttavia, i partecipanti alla manifestazione si sono fermati per lo più nella piazza, gridando slogan rabbiosi contro i politici. (…) Secondo il leader del KKE, si sarebbe trattato di provocatori fascisti (di fatto egli ha accusato il LAOS, partito che raccoglie un mix di militanti dell'ultra-destra e di nostalgici della Giunta dei colonnelli) che, brandendo le bandiere del PAME, avrebbero incitato i militanti del KKE a entrare di forza nel palazzo del Parlamento, screditando in tal modo la lealtà costituzionale del partito! Malgrado questa accusa possieda un qualche fondamento, poiché alcuni fascisti sono stati effettivamente visti sul posto, la verità – secondo alcune testimonianze – è che i dirigenti del KKE hanno avuto non poche difficoltà a convincere i propri militanti ad abbandonare rapidamente la piazza, e a non gridare slogan contro il Parlamento.

È forse troppo azzardato vedere in questo episodio un segno della disobbedienza montante verso le regole d’acciaio di questo partito monolitico; ma in tempi così incerti, nessun può davvero saperlo...

La settantina di fascisti che fronteggiavano le forze anti-sommossa insultavano i politici (“Politici, figli di puttana!”), cantavano l’inno nazionale e lanciavano pietre contro il palazzo del Parlamento, probabilmente con l’intenzione, rivelatasi vana, di evitare un’escalation di violenza.

Tuttavia, sono stati rapidamente riassorbiti dall’enorme ondata di manifestanti che nel frattempo aveva raggiunto la piazza.

Ben presto, una moltitudine di lavoratori (elettrici, postali, impiegati municipali etc,) ha cercato in tutti i modi di entrare nel palazzo del Parlamento, ma le migliaia di poliziotti in tenuta antisommossa schierati sul piazzale antistante l’entrata glielo hanno impedito. Un altro gruppo di lavoratori, uomini e donne dall’età più disparate, ha preso a insultare e minacciare i poliziotti che si trovavano davanti alla Tomba del Milite Ignoto. Per quanto la polizia sia riuscita, grazie a un massiccio contrattacco con tanto di lancio di gas lacrimogeni, a disperdere la folla, altri gruppi di manifestanti continuavano ad affluire davanti al Parlamento, mentre i primi gruppi che erano stati costretti a battere in ritirata, si riorganizzavano in via Panepistimiou e in corso Syngrou. Qui, questi gruppi hanno iniziato a distruggere ogni cosa e hanno attaccato le forze anti-sommossa che si trovavano nelle strade adiacenti.

Nonostante la maggior parte dei grandi edifici del centro fossero stati protetti con imposte metalliche, i manifestanti sono riusciti ad attaccare alcune banche ed edifici pubblici. Si è potuto assistere a una vasta distruzione di proprietà, soprattutto in corso Syngrou. Qui, infatti, le forze di polizia non avevano sufficienti effettivi per reagire tempestivamente a questo gruppo di manifestanti poiché avevano ricevuto l’ordine di dare priorità alla protezione del Parlamento e all’evacuazione delle vie Panepistimiou e Stadiou, lungo le quali i manifestanti riconfluivano senza sosta verso il Parlamento stesso. Alcune automobili di lusso, un ufficio del Ministero delle Finanze e uno della Prefettura di Atene sono stati incendiati. Qualche ora più tardi, questa parte della città sembrava ancora una zona di guerra. Gli scontri si sono susseguiti per quasi tre ore. (…)È impossibile raccontare tutto quello che è accaduto per le strade. Riportiamo un solo episodio: alcuni insegnanti, insieme ad altri lavoratori, sono riusciti a circondare degli agenti del gruppo Delta – un nuovo corpo anti-sommossa che si sposta in moto – e hanno dato loro una buona dose di legnate, mentre i poliziotti gridavano: “Per favore, no! Siamo lavoratori anche noi!”.

I manifestanti che erano stati respinti verso via Panepestimiou, intanto, tornavano a gruppi verso il Parlamento, dove hanno a lungo fronteggiato la polizia. (…) Qui si sono nuovamente mescolati e si sono fermati. Un impiegato municipale di mezza età, che teneva delle pietre tra le mani, ci ha raccontato, commosso, come la situazione gli ricordasse i primi anni dopo la fine della dittatura, e la manifestazione del 1980 – alla quale partecipò – che commemorava gli avvenimenti del Politecnico e nel corso della quale la polizia uccise una donna di 20 anni, la lavoratrice Kanellopoulou.

Di lì a poco sono arrivate, tramite i telefoni cellulari, le terribili notizie battute dalle agenzie di stampa estere: 3 o 4 persone morte nell’incendio di una banca. C’era stato in effetti qualche tentativo di dar fuoco a delle banche, ma nella maggior parte dei casi, i manifestanti si erano fermati, poiché vi erano dei crumiri barricati all’interno. Solo lo stabile della Marfin Bank è stato dato effettivamente alle fiamme. Nondimeno, soltanto pochi minuti prima della tragedia, non erano affatto degli “hooligan mascherati” che gridavano “crumiri!” all’indirizzo degli impiegati della banca, ma dei gruppi organizzati di scioperanti, che li apostrofavano e li insultavano affinché lasciassero l’edificio. (…)

Date le dimensioni e la densità della manifestazione, il fracasso, i canti, evidentemente una certa confusione – naturale in situazioni come questa – rende difficile riferire con precisione ciò che è accaduto in quel tragico frangente. L’ipotesi che appare più plausibile (mettendo insieme i frammenti d’informazione raccolti da alcuni testimoni), è quella che in questa banca posta nel cuore della città, il giorno dello sciopero generale, circa 20 impiegati siano stati costretti dal loro padrone a lavorare, chiusi a chiave nell’edificio “per garantire la loro sicurezza”, e che tre di essi siano morti per asfissia. Inizialmente è stata lanciata una bottiglia molotov attraverso un buco fatto nel vetro di una finestra al pianterreno. Quando alcuni impiegati sono usciti sul balcone, dei manifestanti hanno gridato loro di uscire e hanno cercato di spegnere l’incendio. Non sappiamo dire cosa è accaduto a quel punto e come in un istante l’edificio sia andato a fuoco.

La macabra serie di fatti che sono seguiti all’incendio è stata probabilmente già riportata a sufficienza: i manifestanti che cercano di soccorrere le persone rimaste intrappolate all’interno, i pompieri che ci mettono troppo tempo a fare uscire alcuni impiegati, il sorridente banchiere miliardario inseguito da una folla inferocita.

(In seguito, il Primo ministro ha riferito in Parlamento sull’accaduto, denunciando “l’irresponsabilità politica” di chi si oppone alle misure di austerità e provoca morte, mentre i “provvedimenti salutari” del governo “difendono la vita”).

Il ribaltamento della situazione ha avuto successo. Ne è immediatamente seguita un’imponente operazione delle forze anti-sommossa: la folla è stata dispersa e inseguita e l’intero centro della città è rimasto accerchiato fino a tarda notte. L’enclave libertaria di Exarchia è stata posta in stato d’assedio; uno squat anarchico è stato sgomberato e diversi occupanti sono stati arrestati; un locale frequentato da immigrati è stato devastato. Una nube di fumo persistente ha continuato a incombere sulla città, lasciando un misto di amarezza e di inebetimento.

Le conseguenze dell’accaduto sono diventate visibili l’indomani: gli avvoltoi dei media hanno strumentalizzato la tragica morte dei 3 impiegati, (…)presentandola come una “tragedia personale”, separata dal suo contesto reale (meri corpi umani astratti dalle loro relazioni sociali); alcuni si sono spinti a chiedere la criminalizzazione della resistenza e della protesta in quanto tali. Nel frattempo, il governo ha preso tempo spostando l’attenzione su altre questioni e i sindacati si sono sentiti sollevati da ogni obbligo di indire uno sciopero, il giorno stesso in cui le misure del governo venivano approvate.

In questo clima di paura e di delusione, nel pomeriggio alcune migliaia di persone si sono ugualmente riunite davanti al Parlamento, nel corso di una manifestazione organizzata dai sindacati e dalle organizzazioni di sinistra. La rabbia era ancora palpabile. Alcuni pugni si sono levati, sono stati lanciati bottiglie d’acqua e petardi contro le forze antisommossa, si sono gridati slogan contro la polizia e il Parlamento. Una donna anziana ha chiesto agli altri manifestanti di cantare: “Che se ne vadano!” (i politici); un giovane, dopo avere pisciato in una bottiglia, l’ha lanciata contro la polizia. Era presente anche qualche anti-autoritario e quando è scesa la notte, e i sindacati e la maggior parte delle organizzazioni di sinistra hanno abbandonato il campo, alcune persone, del tutto ordinarie, a mani nude, hanno deciso di rimanere. Caricati con violenza dalla polizia in assetto anti-sommossa, inseguiti e calpestati dagli squadroni di piazza Syntagma, giovani e vecchi, spaventati ma furiosi, si sono dispersi nelle vie adiacenti.

L’ordine era finalmente ristabilito. Tuttavia, nei loro occhi si poteva leggere non soltanto paura ma anche odio. Non c’è dubbio, torneranno...

Passiamo ora a qualche riflessione di carattere più generale:

1) Severe misure contro gli anarchici e gli anti-autoritari sono già state prese, e si profila un loro ulteriore inasprimento. La criminalizzazione di un intero movimento politico-sociale, che coinvolge anche le organizzazioni dell’estrema sinistra, è sempre stata utilizzata dallo Stato come strategia di diversione, e a maggior ragione sarà utilizzata oggi, nel momento in cui i tre morti della Marfin Bank hanno creato un clima favorevole alla manovra[3]. (…)

2 e 3 (…)

Tuttavia, la demonizzazione degli anarchici non indurrà le centinaia di migliaia di persone che hanno sfilato in corteo, né coloro che sono rimasti a casa – ma che sono comunque coinvolti – a dimenticare il FMI e il “pacchetto di salvataggio” che il governo ha imposto. La persecuzione del nostro movimento non aiuterà le persone a pagare le fatture, né garantirà loro un avvenire che rimane incerto. Il governo sarà presto costretto a criminalizzare la resistenza tout court; anzi si può dire che abbia già cominciato a farlo, come testimoniano gli avvenimenti del 6 maggio.

2) Lo Stato farà un piccolo sforzo, tirando le orecchie a qualche uomo politico per placare “l’emozione popolare” ed evitare che si trasformi in “sete di sangue”. Alcuni casi flagranti di “corruzione” saranno forse puniti, e alcuni uomini politici sacrificati, per confondere le acque.

3) Vi è un costante riferimento a una “deriva costituzionale”, che viene tanto dal LAOS (estrema destra) quanto dal KKE, in uno spettacolo di recriminazioni che rivela i crescenti timori, da parte della classe dirigente, di un aggravarsi della crisi politica e della crisi di legittimità delle istituzioni. Vengono riciclati diversi scenari (un “partito di uomini d’affari”, un regime sul modello della Giunta dei colonnelli), che riflettono le paure profonde di un sollevamento proletario, ma che in realtà sono utilizzate per spostare la questione della “crisi del debito” dalle strade all’arena politica – sotto forma della domanda banale: “chi è la soluzione?” anziché “qual è la soluzione?”.

4) (…) Ciò detto, è tempo di approcciare le questioni più cruciali. È ormai chiaro che il giochetto rivoltante che consiste nel trasformare la paura/colpa del debito nella paura/colpa della resistenza e del sollevamento (violento) contro il terrorismo del debito, è già cominciato. Se la lotta di classe si intensifica, le condizioni potranno assomigliare sempre di più a quelle di un’autentica guerra civile.

La questione della violenza è diventata centrale. Così come valutiamo la gestione della violenza da parte dello Stato, siamo costretti ad analizzare la violenza proletaria: il movimento deve affrontare il problema della legittimazione della violenza e del suo contenuto in termini pratici.

Per quel che riguarda il movimento anarchico e anti-autoritario, e la sua tendenza insurrezionalista che è preponderante, la tradizionale glorificazione “machista” e feticizzata della violenza sussiste da troppo tempo ed è stata troppo importante, perché oggi ce la si possa lasciare alle spalle. La violenza fine a sé stessa, in tutte le sue varianti (inclusa la lotta armata propriamente detta) non ha smesso di diffondersi negli ultimi anni, soprattutto dopo la rivolta del dicembre 2008, allorché un certo grado di decomposizione nichilista ha fatto la sua apparizione (…) (vi abbiamo fatto riferimento nel nostro testo Le passage rebelle d’une minorité prolétarienne...), estendendosi al movimento stesso. Alla periferia di questo movimento, ai suoi margini, sono apparsi in numero crescente dei giovanissimi, portatori di una violenza nichilista senza limiti (il “nichilismo di dicembre”) e propugnatori di una “distruzione” che può coinvolgere anche il “capitale variabile” (i crumiri, gli “elementi piccolo-borghesi, i “cittadini rispettosi della legge”). Che una tale degenerazione nasca dalla rivolta e dai suoi limiti, piuttosto che dalla crisi in quanto tale, è di un’evidenza palmare.

Alcune condanne di questi atteggiamenti avevano già allora iniziato a farsi sentire, e così pure una certa auto-critica (alcuni gruppi anarchici arrivarono a designare gli autori di quegli atti con l’epiteto di “canaglie para-statali”), ed è molto probabile che gli anarchici e gli anti-autoritari organizzati (gruppi o squat) cercheranno di isolare, sia politicamente che operativamente, queste tendenze. (…) Tuttavia, la situazione è molto più complessa, e va oltre la capacità di (auto)critica teorica e pratica del movimento. A posteriori, si può sostenere che i tragici avvenimenti di cui abbiamo riferito, con tutte le loro conseguenze, si sarebbero potuti verificare già all’epoca della rivolta del dicembre 2008. Se ciò non è accaduto non è stato solamente frutto del caso (la stazione di servizio che si trovava accanto a un palazzo in fiamme e che non è esplosa, il fatto che gli scontri più violenti, quelli di sabato 7 dicembre, si siano svolti di notte, quando la maggior parte degli edifici erano vuoti); ma è stato anche in virtù della creazione di una sfera pubblica proletaria (per quanto limitata) e di diverse comunità di lotta impegnate a costruire un proprio percorso, non soltanto per mezzo della violenza, ma anche attraverso i propri contenuti e discorsi, e con altri mezzi di comunicazione.

Sono state queste comunità preesistenti (studenti, tifosi di calcio, immigrati, anarchici) a trasformarsi in comunità di lotta, talvolta attorno a delle tematiche di rivolta che hanno potuto dare alla violenza un ruolo significativo. Emergeranno ancora comunità come quelle, adesso che non è più soltanto una minoranza di proletari a essere coinvolta? Emergeranno delle forme pratiche di auto-organizzazione nei luoghi di lavoro, nei quartieri e nelle strade in misura tale da determinare la forma e il contenuto della lotta, e collocare di conseguenza la violenza in una prospettiva di liberazione?

Si tratta di questioni complesse e urgenti, alle quali potremo trovare una risposta soltanto nella lotta.

TPTG, 9.5.2010



[1] Ta Paidia Tis Galarias (I ragazzi della galleria), è un gruppo-rivista greco di area comunista radicale, attento ai conflitti di classe internazionali e alla critica serrata alle ideologie. Il suo sito è www.tapaidiatisgalarias.org/ [54], dove è disponibile la versione integrale di questo articolo in diverse lingue.

[2] Per conoscere più a fondo la posizione della CCI sulla questione della violenza vedi “Terrore, terrorismo e violenza di classe” che può essere richiesto al nostro indirizzo.

[3] Questa tendenza a criminalizzare alcuni gruppi anarchici, così come alcuni gruppi marxisti definiti di “ultra sinistra”, è presente anche a livello internazionale (ndr)

Geografiche: 

  • Grecia [21]

Patrimonio della Sinistra Comunista: 

  • Lotta proletaria [5]

Dalla Turchia: “Se i sindacati sono dalla nostra parte, perché ci sono 15.000 poliziotti antisommossa fra noi e loro?”

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Pubblichiamo qui di seguito la traduzione di un articolo scritto da un operaio turco che ha partecipato alle lotte della Tekel e che si è avvicinato alla sezione della CCI in questo paese. Cogliamo l’occasione per ringraziare calorosamente questo lavoratore.

Gli scioperi della Tekel sono scarsamente conosciuti a livello internazionale in seguito al black-out mediatico promosso dalla borghesia. La classe dominante preferisce ovviamente puntare i proiettori su tutte le espressioni di nazionalismo (che in genere alimenta essa stessa) e passare sotto silenzio le manifestazioni di solidarietà operaia tra lavoratori di diverse origini etniche, culturali, religiose … Chiediamo perciò a tutti i nostri lettori di far circolare tra di loro tutte le informazioni disponibili su questa lotta.

Il 2 marzo, malgrado tutte le nostre obiezioni, i capi del sindacato ci hanno fatto smontare le tende e la strada di fronte al quartier generale della Turk-Is[1] è stata sgombrata mentre a noi veniva detto di tornare a casa. 70-80 di noi sono rimasti ad Ankara per valutare assieme cosa si poteva fare nei tre giorni seguenti. Dopo questi tre giorni, 60 di noi sono tornati nelle loro città d’origine, mentre gli altri 20, tra cui io stesso, sono rimasti ancora per due giorni. Così, benché la lotta di Ankara sia durata 78 giorni, noi siamo rimasti 83 giorni. Abbiamo convenuto che avremmo dovuto lavorare duro per far progredire la lotta, ed anch’io alla fine sono tornato ad Adiyaman. Fin dal mio ritorno da Ankara, 40 di noi sono andati a far visita ai nostri fratelli e sorelle di classe implicati nello sciopero di Cemen Tekstil a Gaziantep. La lotta della Tekel era un esempio per la classe. Come lavoratore della Tekel ero fiero e pensavo anche che avremmo potuto fare di più per la nostra classe e che dovevo contribuire a questa lotta. Benché la mia situazione economica non me lo permettesse e nonostante l’esaurimento prodotto dagli 83 giorni di lotta e da altri problemi, dovevo fare l’impossibile per spingere il processo il più avanti possibile. Quello che dovevamo fare era costituire un comitato ufficiale e prendere la lotta nelle nostre mani. Anche se non avessimo potuto formalizzarlo, dovevamo comunque crearlo prendendo contatto con i lavoratori di tutte le città poiché dovevamo tornare ad Ankara il 1° aprile.

Dobbiamo andare dovunque possibile per raccontare alla gente la lotta della Tekel nei minimi particolari. Per questo dobbiamo formare un comitato ed unirci alla classe. Il nostro compito è più difficile di quello che sembra! Da una parte abbiamo a che fare con il capitale, dall’altra sia con il governo che con i leader sindacali. Dobbiamo lottare tutti nel miglior modo possibile. Anche se la nostra situazione economica non è buona, anche se siamo fisicamente affaticati, se vogliamo la vittoria, dobbiamo lottare, lottare, lottare!!!

Benché fossi stato lontano dalla mia famiglia per 83 giorni, sono rimasto a casa soltanto per una settimana. Sono andato ad Istanbul per parlare con la gente della resistenza della Tekel, senza neanche poter vedere mia moglie ed i miei figli. Abbiamo fatto parecchie riunioni del comitato informale dei lavoratori della Tekel, specialmente a Diyarbakir, Izmir, Hatay, ed io ho partecipato a numerose riunioni con compagni della commissione informale ad Istanbul. Abbiamo avuto riunioni all’Università Mimar Sinan, una nella scuola alberghiera di Sirinevler, una nell’edificio del sindacato dell’Industria, abbiamo avuto discussioni con dei piloti ed altri lavoratori dell’aeronautica del movimento dissidente Rainbow dell’Hava-Is (un sindacato), ed abbiamo incontrato dei salariati del tribunale. Abbiamo anche incontrato il presidente del Partito della pace e della democrazia (PDP) di Istanbul e gli abbiamo chiesto che i lavoratori della Tekel potessero prendere la parola in occasione della festa di Newroz. Le riunioni sono state tutte molto calorose. La nostra richiesta al PDP è stata accettata e mi hanno chiesto di partecipare alle manifestazioni di Newroz come oratore. Poiché dovevo ritornare ad Adiyaman, ho suggerito che un compagno operaio di Istambul parlasse al posto mio. Mentre ero ad Istanbul ho fatto visita ai vigili del fuoco in lotta, agli operai della Sinter Metal, ai lavoratori comunali d’Esenyurt, agli scioperanti del giornale Sabah e dell’ATV, l’ultimo giorno, ai lavoratori in lotta del Servizio delle Acque e delle Fogne di Istanbul (ISKI). Con questi operai abbiamo discusso per una mezza giornata su come potevamo far crescere la lotta ed abbiamo anche fornito loro informazioni sulla lotta alla Tekel. Gli operai della ISKI mi hanno detto che hanno cominciato la lotta grazie al coraggio dato loro dai lavoratori della Tekel. Durante la settimana che ho trascorso ad Istanbul, ovunque andassi, alle manifestazioni o a visitare i posti dove si lottava, sentivo dire sempre: “Abbiamo preso coraggio grazie alla Tekel”, cosa che mi rendeva molto felice. Il tempo trascorso ad Istanbul ha arricchito molto anche me stesso. Ci sono state purtroppo anche delle cose negative: uno dei miei parenti è purtroppo morto, ma ho deciso di non partire e di restare tutta la settimana come previsto.

Per parlare delle cose più nere di questo periodo, 24 studenti, fratelli e sorelle di classe, sono stati espulsi dalla loro università (Mehemetcik High School) per avere sostenuto la lotta della Tekel. Inoltre ad Ankara, una delle nostre sorelle di classe del Consiglio della Ricerca Scientifica e Tecnologica della Turchia (TUBITAK), Aynur Camalan, è stata uccisa. Quando il capitale ci attacca in questo modo, noi, operai, senza alcuna pietà, ci dobbiamo unire contro di lui. Così, abbiamo fatto due comunicati sulla stampa ad Adiyaman mostrando che i nostri amici non erano soli. Ci siamo anche preparati per la manifestazione del 1° aprile. I capi sindacali volevano andare ad Ankara con 50 persone da ogni città, per un totale di un migliaio di persone. Come comitato informale abbiamo aumentato questo numero da 50 a 180 soltanto a Adiyaman ed io stesso sono arrivato ad Ankara con altri dieci operai il 31 marzo. Nonostante tutte le dichiarazioni dei sindacati per limitare il numero a 50, siamo riusciti a permettere che venissero 180 lavoratori (siamo stati noi e non i sindacati a coprire le spese), perché sapevamo come i sindacati volevano manipolare, come avevano già fatto prima. Abbiamo avuto riunioni con molte organizzazioni di massa, associazioni e sindacati. Siamo andati a trovare Aynur Camalan, l’operaia di TUBITAK, che aveva perso il lavoro.

Il 1° aprile ci siamo riuniti a Kizilay (il centro di Ankara, la capitale della Turchia, NDT), ma abbiamo dovuto fare molti sforzi per arrivare fino alla strada di fronte alla Turk-Is, perché 15.000 poliziotti stavano in difesa dell’edificio. Cosa facevano tutti questi poliziotti tra noi e il sindacato? Ora, dobbiamo chiedere a quelli che si ergono contro di noi anche quando parliamo dei dirigenti sindacali, anche quando diciamo che i sindacati dovrebbero essere messi in discussione: se c’è un potente sbarramento di 15.000 poliziotti tra noi ed il sindacato, perché esistono i sindacati? Se voi pensate che sia del tutto naturale che la polizia protegga il sindacato ed i dirigenti sindacali, questo non significa forse che il sindacato ed i sindacalisti proteggono il governo ed il capitale? I sindacati non esistono forse solo per mantenere sotto controllo i lavoratori per conto del capitale?

Il 1° aprile, malgrado tutto, 35-40 di noi sono riusciti a superare la sbarramento, uno dopo l’atro, per ritrovarsi nella via di fronte alla Turk-Is. Il nostro scopo era avere una certa maggioranza e fare in modo che nostri altri amici ci raggiungessero, ma purtroppo abbiamo fallito: la nostra maggioranza non poteva negoziare con 15.000 poliziotti. Il sindacato aveva precedentemente dichiarato che soltanto 1.000 di noi dovevano venire ad Ankara. Con il comitato informale siamo riusciti ad aumentarne il numero a 2.300. 15.000 poliziotti bloccavano la strada a 2.300 persone! Ci siamo riuniti in via Sakarya. Eravamo pronti a passarvi almeno la notte, con tutti coloro che erano venuti ad incoraggiarci. Durante la giornata, siamo stati attaccati due volte dalla polizia con gas irritanti e manganelli. Il nostro obiettivo era trascorrere la notte per strada di fronte al quartier generale della Turk-Is, ma quando ci siamo scontrati con la polizia siamo rimasti in via Sakarya. Ma durante la notte i sindacalisti hanno silenziosamente e sornionamente invitato i nostri compagni operai a lasciare la regione. Ci siamo ritrovati in una minoranza. I sindacalisti ci hanno chiesto due volte di lasciare la zona, ma non abbiamo ascoltato l’appello dei dirigenti sindacali ed una minoranza di noi è restata. Quando i simpatizzanti sono andati via verso le 23.00, anche noi siamo dovuti andar via.

Ci doveva essere un comunicato stampa il 2 aprile. Quando siamo stati sul punto di entrare in via Sakarya, verso le 9 di mattina, siamo stati attaccati dalla polizia che ha di nuovo utilizzato gas al pepe e manganelli. Un’ora dopo un centinaio di noi è riuscito a superare la sbarramento e fare un sit-in. La polizia non la smetteva di minacciarci. Noi abbiamo continuato a resistere. La polizia ha dovuto alla fine aprire lo sbarramento e siamo riusciti ad unirci all’altro gruppo che era restato fuori. Abbiamo iniziato ad andare verso la Turk-Is, ma i dirigenti sindacali hanno fatto il loro comunicato alla stampa a 100 metri dal quartier generale della Turk-Is. Senza tener conto della nostra insistenza i dirigenti sindacali non sono scesi in strada davanti alla Turk-Is. Il sindacato e la polizia si sono trovati mano nella mano e così alcuni di noi non hanno potuto alla fine andare dove volevano andare. C’era un punto interessante tra le cose dette dai sindacalisti. Avevano detto che saremmo ritornati il 3 giugno e saremmo rimasti di fronte alla Turk-Is per tre notti. Sarebbe interessante sapere come saremmo riusciti a restarvi 3 notti, quando noi non eravamo riusciti a restarci neanche una sola notte. La polizia doveva prima di tutto proteggere i sindacalisti da noi ed aiutarli a scappare ed allora noi ci siamo ritrovati da soli con la polizia. Nonostante le minacce e le pressioni della polizia non ci siamo dispersi e siamo stati nuovamente attaccati con gas al pepe e manganelli ed alla fine abbiamo dovuto disperderci. Nel pomeriggio abbiamo ricevuto una corona funebre, fatta da alcuni fiorai per condannare la Turk-Is ed il governo, che abbiamo lasciato sulla facciata della Turk-Is.

Cari fratelli e sorelle di classe, la questione che abbiamo di fronte è: se ci sono 15.000 poliziotti che formano uno sbarramento tra il sindacato e gli operai, perché esistono i sindacati? Dichiaro a tutti i miei fratelli e sorelle di classe che se vogliamo la vittoria dobbiamo lottare insieme. Noi operai della Tekel abbiamo acceso una scintilla e tutti insieme ne faremo un’enorme palla di fuoco. In questo senso, per esprimere il mio rispetto per tutti voi, ci tengo a finire il mio testo con una poesia[2]:

Il vapore del the s’invola mentre le nostre vite sono ancora fresche

Gli abiti formano una catena lunga come strade, e non c’è che il dispiacere che ritorna

Una ciotola di riso, dicono che il nostro cibo è atterrato sulle nostre case

I desideri diventano strade, strade, da dove viene il lavoro

La fame è per noi, il freddo è per noi, la povertà è per noi

Hanno invocato il destino, vivere con lui è per noi

Noi che produciamo, noi che abbiamo fame, noi che siamo nudi di nuovo

Non abbiamo scritto noi questo destino, siamo noi che lo spezzeremo di nuovo

Noi, lavoratori della Tekel diciamo che, anche se la nostra testa tocca il suolo, lasceremo sempre un futuro onorevole per i nostri figli.

Un lavoratore della Tekel di Adiyaman



[1] Confederazione dei sindacati Turchi

[2] E’ sempre difficile tradurre una poesia. Speriamo di non averne alternato troppo il senso né la musicalità (ndr)

Patrimonio della Sinistra Comunista: 

  • Lotta proletaria [5]

Tailandia: gli operai devono lottare per i propri interessi

Nel momento in cui stiamo scrivendo[1] le strade di Bangkok in Tailandia hanno l’aspetto di una guerra civile. Migliaia di manifestanti, organizzati nel movimento delle ‘camicie rosse’, hanno installato un accampamento con barricate e sono adesso assediati dall’esercito, che ha dichiarato il coprifuoco in alcune zone della città con lo scopo di intimidire i manifestanti ed impedire l’arrivo di qualsiasi rinforzo. Nella sola giornata del 14 maggio le truppe governative hanno ucciso minimo 16 persone. Hanno sostenuto di agire per legittima difesa, ma le camice rosse sono armate principalmente di bastoni e pietre. Inoltre le truppe stanno chiaramente usando i tiratori scelti contro obiettivi specifici: un generale dissidente, che si era unito alle camice rosse e dava loro dei consigli sulla sicurezza, è stato colpito alla testa da una pallottola sparata a grande distanza ed ha poche possibilità di sopravvivere.

 

La maggior parte delle camicie rosse è composta da thailandesi poveri ed espropriati. Molti di essi provengono dalle zone agricole del nord e del nord-ovest del paese, ma sembra che ricevano il sostegno dei poveri della città. Secondo un articolo della rivista Time, citato sul sito World Socialist (“Dieci morti nell’assedio ai manifestanti dei militari thailandesi”, 15/5/10), durante gli scontri “i soldati sono stati sotto l’attacco di centinaia di abitanti dei bassifondi del porto Klong Toey, che si sono riversati nelle strade per dar fuoco a dei razzi e lanciare colpi di fionda contro le truppe … Quando la folla di Klong Toey ha continuato ad avanzare, i soldati hanno aperto il fuoco con pallottole di gomma. Centinaia di persone prese dal panico sono tornate indietro, rifugiandosi nelle stradine adiacenti. Almeno tre persone sono state ferite”.

Non c’è dubbio riguardo al coraggio dei manifestanti, né sul fatto che ciò che li ha spinti nelle strade è stato l’impoverimento che si è riversato su di loro non solo con l’attuale crisi mondiale, ma anche a causa dell’impatto del crollo delle “Tigri” e dei “Dragoni” dell’Estremo Oriente nel 1997 e ancora di decenni di sottosviluppo precedenti. Ma il movimento delle Camicie Rosse non è un movimento di sfruttati ed oppressi che lottano per i loro propri interessi. Piuttosto è un esempio del profondo malcontento popolare incanalato in una falsa direzione: la lotta per sostituire l’attuale cricca di militari e milionari che governano in Thailandia con un’altra fazione borghese. La principale richiesta delle Camice Rosse è di indire nuove elezioni più giuste e il ristabilimento dell’ex Primo Ministro Thaksin Shinawatra, che ha guadagnato molta popolarità fra i poveri della  campagna dopo la sua ascesa al potere nel 2001 offrendo ai coltivatori crediti e sovvenzioni facili e mantenendo alti i prezzi del raccolto; ci sono state anche delle “riforme” rivolte alle masse urbane per facilitare l’accesso alle cure sanitarie.

Questi cambiamenti hanno generato una reazione violenta da parte di settori benestanti della classe dirigente e settori della classe media (che a volte sfilano con il “Movimento delle Camicie Gialle”) ed in particolare dei militari che hanno spodestato Thaksin nel 2006. Ma la principale obiezione che questi facevano a Thaksin non era tanto il suo “sostegno” ai contadini o ai proletari quanto il fatto che stava cominciando a dirigere la Thailandia come se fosse una sua proprietà personale. Thaksin era un “nuovo ricco”, il miliardario dei media ed il suo modello di governo rompeva i tradizionali settori di influenza e di privilegio che uniscono la burocrazia e l’esercito.

Ci sono state dichiarazioni da parte di elementi del movimento delle Camicie Rosse che invitavano a “sbarazzarsi dell’elite” e appelli ai soldati per unirsi a loro. Tutto ciò indica che un domani potrebbe emergere in Thailandia un movimento con vere rivendicazioni di classe. Ma la campagna delle Camicie Rosse – il cui nome ufficiale è “Fronte nazionale unificato per la democrazia contro la dittatura” – è un ostacolo allo sviluppo di un tale movimento perché è orientato verso l’instaurazione di una democrazia borghese “pulita” in Thailandia. Un tale obiettivo ha smesso da molto tempo di avere la benché minima utilità per la classe operaia in tutti i paesi del mondo. Come abbiamo scritto nelle conclusioni di un nostro recente articolo[2], il movimento delle Camicie Rosse è fondamentalmente un movimento di poveri delle città e delle campagne, mobilitati dietro la nuova borghesia che si oppone alle “vecchie” fazioni militari e monarchiche. Non è un movimento della classe operaia, né controllato da essa. L’unica azione operaia di questo periodo, uno sciopero di 8.000 operai nella fabbrica di macchine fotografiche della Nikon, è apparso in modo completamente indipendente dal movimento delle Camicie Rosse. E qui si trova il punto centrale della nostra argomentazione. Queste sedicenti “rivoluzioni”, come il recente “Movimento verde” in Iran, non sono dei movimenti della classe operaia. È vero che ci sono molti operai implicati, e nel caso del Kirghizistan la maggioranza dei partecipanti erano probabilmente operai, ma essi partecipano a queste azioni come individui e non come operai. Il movimento della classe operaia è un movimento che può basarsi solo sulla lotta di classe dei lavoratori per i loro propri interessi, non è né un movimento “interclassista” né un movimento populista. Solo all’interno di un movimento di massa la classe operaia può sviluppare i suoi propri organi, delle riunioni di massa, dei comitati di sciopero e infine i consigli operai, che possono assicurare il controllo della classe operaia sul movimento e permettere lo sviluppo di una lotta per gli interessi di classe dei lavoratori. Al di fuori di questa prospettiva, gli operai non possono che essere utilizzati come carne da cannone per le differenti fazioni politiche. In Grecia, forse, possiamo vedere l’inizio di un lungo sviluppo verso questo processo. Nel Kirghizistan e in Thailandia non vediamo altro che operai uccisi nelle strade per conto di quelli che vogliono essere i nuovi padroni.

Amos



[1] Il riferimento è dell’articolo originale pubblicato sulla pagina inglese il 18 maggio scorso.

[2] “Kyrgyzstan and Thailand: Are revolutions going on?”,

https://en.internationalism.org/wr/334/thailand-kyrgyzstan [55]

Geografiche: 

  • Asia [56]

Il calcio, un concentrato di nazionalismo

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Pubblichiamo qui di seguito larghi estratti di un articolo della nostra sezione in Turchia. Nel testo si ricordano alcuni avvenimenti calcistici degli ultimi decenni che mostrano fino a che punto questo sport è stato sempre utilizzato per esacerbare il nazionalismo.

Sono inziati i mondiali di calcio in Sud Africa. Ora, il calcio serve spesso alla classe dominante per incoraggiare i sentimenti nazionalistici e dividere la classe operaia.

In Turchia quando la squadra di Instambul Galatasary vinse la coppa EUFA, nel 2000, ci furono due morti durante la semi-finale e tre nella finale.

Le partite di qualificazione per questa Coppa del Mondo tra l’Egitto e l’Algeria, dello scorso anno, hanno fatto esplodere l’odio nazionalista. Al Cairo sono stati ammazzati sei tifosi algerini e ne sono stati feriti 21. A Khartoum, in Sudan, sono stati feriti 23 egiziani e uccisi 14 algerini. Ci sono stati anche centinaia di feriti in Algeria durante i festeggiamenti dopo la partita! Molti dei 15.000 operai egiziani che vivevano in Algeria sono stati attaccati e costretti a partire. Migliaia di tifosi egiziani si sono scontrati in vere e proprie battaglie campali contro la polizia nel centro del Cairo, con 11 feriti tra i poliziotti e 24 tra i tifosi. Alcuni tifosi, non potendo raggiungere i supporter algerini, si sono scagliati contro la vicina ambasciata indiana.

Nel maggio 1990 la partita Dynamo di Zagabria/Red Star di Belgrado ha avuto un ruolo importante nella marcia alla guerra nell’ex - Jugoslavia. Certo, le guerre non sono prodotte dalle partite di calcio. Tuttavia tali dimostrazioni pubbliche di odio nazionalista servono a mobilitare la classe operaia verso la guerra. Questa partita si concluse infatti con una battaglia campale tra bande nazionaliste croate e serbe (i serbi erano guidati da Arkan, un nazionalista che sarebbe stato poi ricercato dall’ONU per crimini contro l’umanità!). La polizia fu rapidamente sopraffatta dal gran numero di gente, ma ritornò con rinforzi, autocarri blindati e cannoni ad acqua per aggiungere del suo al clima di violenza generale. Un’ora dopo, con centinaia di feriti e svariati morti per pallottole, armi bianche o avvelenati dai gas lacrimogeni, la battaglia continuava ancora. La guerra degli anni 1990-2001, nella quale più di 60.000 persone avrebbero trovato la morte, era pronta a partire. Le Tigri di Arkan, milizia nella quale sono stati arruolati molti dei tifosi del Red Star, hanno svolto un ruolo non trascurabile in alcuni dei peggiori episodi di pulizia etnica. Zvonimir Boban, che ha avuto più tardi una grande notorietà nella A. C. Milan, si vantò di avere attaccato un poliziotto durante la sommossa. Afferma contiuamente che lui ama la Croazia più di ogni altra cosa e che morirebbe per il suo paese. Lui non ha certo sacrificato la sua vita sull’altare della nazione ma decine di migliaia di sventurati operai, loro, l’hanno fatto!

Nel 1969, la corsa alla qualificazione per la Coppa del Mondo del 1970 tra il Salvador e l’Honduras fu la scintilla che infiammò quella che già era una situazione di tensione di guerra. Dopo l’incontro di ritorno, i mass media dei due paesi fecero servizi giornalistici che inasprivano l’odio nazionalistico verso l’altro e incitavano gli operai di ciascuno dei due paesi ad uccidersi l’un l’altro. La guerra, che effettivamente scoppiò, fece 4.000 morti in quattro giorni.

Sabrì

In Corea, le grandi potenze giocano con il fuoco attorno ad un barile di polvere

A fine maggio, la Corea del Sud effettuava delle importanti manovre navali alle frontiere marittime della Corea del Nord. In reazione a queste il governo della Corea del Nord rispondeva che si trattava da parte della Corea del Sud di “una provocazione deliberata che mira a provocare un altro conflitto militare nel mar Giallo e spingere così verso una nuova guerra” e ha minacciato di “mettere in opera delle misure militari per difendere le sue acque territoriali, e il Sud sarà tenuto responsabile delle conseguenze”.

Le tensioni militari tra le due sorelle nemiche della penisola coreana non datano da oggi. Alla fine della Seconda guerra mondiale e nell’insieme degli accordi di Yalta che delimitavano le loro zone di influenza nel mondo, l’URSS e gli Stati Uniti hanno deciso nel 1948 la spartizione della Corea sulla linea del 38° parallelo.  Ma, con lo stesso pretesto di “liberare” la Corea dal giogo giapponese, le due teste di blocco russo ed americano si sono avventate su questo piccolo paese per difendere i loro interessi imperialistici importanti per il controllo di questa regione del mondo, l’Asia del Sud-Est. Ciò ha portato molto rapidamente ad un conflitto diretto e mortale e ad alimentare le relazioni conflittuali tra lo Stato del Nord, filosovietico, e quello del Sud, filoamericano.

La guerra di Corea, triste prefigurazione di quella del Vietnam, fu un episodio tanto chiaro quanto feroce di ciò che significava “la liberazione” della Corea per le due teste di blocco che pensavano di avere diritto di vita e di morte sulle popolazioni sottoposte alla loro “protezione”. Dal 1950 al 1953, gli Stati Uniti sganciarono ogni mese quasi 13.000 tonnellate di bombe sul Nord[1], quattro volte in più che sul Giappone. Dall’altra parte, gli eserciti russi e cinesi si impegnarono in maniera massiccia in questa guerra dove il solo risultato prodotto, dato che le frontiere tra il nord ed il sud non cambiarono di un pollice, fu l’affermazione della superiorità militare dell’America e la sua volontà manifesta di controllare il Giappone.

Il tutto al prezzo di 2 milioni di morti, di cui i tre quarti nella Corea del Nord. Questa entrata in scena nella storia del dopoguerra è particolarmente significativa del posto che occupa la Corea sulla scacchiera mondiale e delle sfide strategiche alle quali è sottoposta da oltre 50 anni. Già prima del crollo dell’URSS, la Cina, dopo essere stata il giocattolo dell’URSS, potenza in crescita nell’interminabile e sadico gioco internazionale tra superpotenze, aveva preso le inevitabili distanze da Mosca dopo l’integrazione di Pechino nel blocco americano. Integrazione ratificata dalla fine della guerra del Vietnam. Ma questo non è andato a vantaggio degli Stati Uniti, perché la Cina si è riservata da sempre la Corea del Nord come riserva di caccia e mezzo di pressione contro il suo nuovo mentore della Casa Bianca.

D’altronde, è soprattutto per mantenere una pressione indiretta sulla Cina che Washington ha dichiarato fin dagli anni 1990 la Corea del Nord come facente parte degli Stati canaglia che “la democrazia” doveva tenere sott'occhio. Dal 2001 è passata allo statuto di potenza inevitabilmente terroristica per definizione.

Anche gli ultimi avvenimenti della primavera, in questo “Paese del fresco mattino” sempre tagliato in due, non sono che un episodio in più nel larvato scontro tra gli Stati Uniti e la Cina dove si sa che quest’ultima controlla oggi il regime di Pyongyang. Dopo le minacce di ricorso all’armamento nucleare del Nord verso il Sud, è stato orchestrato un braccio di ferro “diplomatico” tra gli Stati Uniti e la Corea del Nord per calmare il gioco. Ma queste manovre erano una risposta all’affondamento d’una corvetta della Corea del Sud, con 46 morti, colpita da un siluro lanciato il 26 marzo scorso sicuramente da un sottomarino della Corea del Nord.

Quest’episodio “anodino” (secondo la formula di Hillary Clinton), che è lungi dall’essere il primo “relazioni” tese tra le due Coree mostra un aggravarsi delle tensioni militari ed imperialiste tra questi due paesi, e, dietro loro, dei paesi che li sostengono. Ma né la Cina né gli Stati Uniti hanno interesse a che la situazione in Corea si deteriori oltre una certa soglia. La Cina non ha i mezzi per condurre un’offensiva militare di fronte ad un nemico che sarebbero in realtà gli Stati Uniti. E nonostante le minacce ripetute contro il suo alleato di Seul, gli Stati Uniti non hanno alcun interesse nel provocare un paese alleato della Cina e causare una certa e irreparabile destabilizzazione di questa regione. Tuttavia, se i grandi padrini cercano di controllare la situazione, le pressioni crescenti che esercitano su ogni governo locale rischiano al contrario di fare scivolare quest’ultimi nell’ingranaggio irrazionale “del ciascuno per sé” ed in una fuga militare in davanti, in particolare attraverso l’isolamento della Corea del Nord, come illustrato dalla minaccia dell’impiego del suo arsenale nucleare. La situazione attuale rafforza ed illustra fin d’ora il clima di terrore che si esercita come una spada di Damocle sospesa in permanenza sulla sorte delle popolazioni locali e su tutta l’umanità.

Inoltre, sotto la pressione permanente delle loro rispettive potenze tutelari, l’equilibrio delle forze strategiche in questa penisola resta sempre molto precario e fragile. Questo implica che la presenza permanente di forze armate e la quasi militarizzazione della società fanno subire, da 60 anni, al Nord come al Sud della Corea, una pressione costante ed insopportabile sul proletariato di questi due paesi, proletariato le cui lotte sono in un tale contesto sempre esemplari per il coraggio.

Mulan



[1] Durante tutta la guerra del Vietnam, ne sono state sganciate ogni mese tre volte di più.

Geografiche: 

  • Asia [56]

Questioni teoriche: 

  • Imperialismo [37]

Marea nera nel golfo del Messico: il capitalismo é una catastrofe

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Pubblichiamo la traduzione di un articolo di Welt Revolution, organo della CCI in Germania.

L’attuale marea nera nel Golfo del Messico getta una luce cruda sull’assenza di scrupoli e sulla pericolosità dei metodi che il capitalismo utilizza per sfruttare le risorse naturali.

Dall’affondamento della piattaforma petrolifera della BP “Deepwater Horizon”, il 22 aprile scorso, durante il quale sono morti undici operai, almeno 800.000 litri di petrolio greggio si versano ogni giorno nel golfo del Messico contaminando le coste per centinaia di chilometri e formando uno strato enorme di petrolio nel golfo stesso. Nessuno può stabilire esattamente quale quantità di petrolio sia stata già versata[1]. “Un mese dopo l’affondamento della piattaforma di perforazione Deepwater Horizon, la maggior parte del petrolio che è sfuggito finora è restata sotto l’acqua[2]. Queste enormi masse d’acqua contaminate dal petrolio che fluttuano sotto la superficie del golfo del Messico possono avere delle dimensioni di circa sedici chilometri di lunghezza, sei chilometri di larghezza ed un centinaio di metri di spessore.” Con l’aiuto di opportuni mezzi disperdenti si è evitato finora “che una parte del petrolio raggiunga la terra. È là che aspetta la maggior parte dei giornalisti”. (cioè il grande pubblico)[3].

Le prime indagini hanno mostrato che “il Minerals Management Service (MMS), il servizio amministrativo americano per la gestione dei minerali, responsabile della sorveglianza della produzione petrolifera, ha rilasciato le sue autorizzazioni senza avere effettuato controlli al piano di sicurezza e di compatibilità con l’ambiente (…). In questo caso concreto, l’MMS ha omesso di verificare la capacità del Blowout Preventer (la valvola centrale di sicurezza destinata a prevenire le fughe, nota) prima della sua messa in servizio. (…) Nel sistema idraulico-chiave di quest’elemento di molte tonnellate, si è avuta manifestamente una fuga. Inoltre, un test di sicurezza effettuato poche ore prima dell’esplosione sarebbe fallito”[4].

Altre indagini hanno mostrato che la BP non disponeva neppure di attrezzature adeguate per aspirare dai fondali marini il petrolio suscettibile di sfuggire e di depositarvisi. Così come non esistono mezzi per realizzare perforazioni di alleggerimento in tali casi di emergenza. Cosa rivela quest’atteggiamento consistente nello sfruttare a grandi profondità marine giacimenti petroliferi senza disporre di alcuna possibilità di captazione di soccorso del petrolio e di dispositivi d’interruzione del pompaggio in stato di funzionamento?

“La piattaforma petrolifera Deepwater Horizon, di un costo di 560 milioni di dollari, era una delle piattaforme di perforazione più moderne del mondo. Era capace di resistere ad onde di dodici metri ed agli uragani”[5]. Da una parte, costi di produzione astronomici per la costruzione di tale piattaforma (più di un mezzo miliardo di dollari!), delle spese di sfruttamento di 100 milioni di euro per la perforazione e, allo stesso tempo, nessun sistema di sicurezza esistente o in stato di funzionamento per le situazioni di emergenza. Come spiegare questa contraddizione?

La corsa al profitto a spese della natura

Quando la perforazione sistematica del petrolio è cominciata un centinaio di anni fa, c’era bisogno soltanto di modesti investimenti finanziari e tecnici per sfruttare le fonti petrolifere. Tuttavia, un secolo più tardi, le compagnie petrolifere devono far fronte ad una situazione nuova. “Una grande parte del petrolio del mondo viene estratta da campi che sono stati scoperti più di 60 anni fa senza grandi investimenti tecnologici. Oggi, invece, gli esploratori di giacimenti minerari devono utilizzare metodi costosi per ricercare campi petrolifèri che, inoltre, si trovano in posti sempre più difficilmente accessibili della terra - e forniscono delle quantità di petrolio considerate finora soltanto come marginali. (…) Soprattutto, le imprese occidentali non possono più accedere come prima alle fonti facili, economiche e ricche di utili dell’Asia e dell’America latina. Queste fonti si trovano infatti nelle mani di società petrolifere nazionali, come la Saudi Aramco (Arabia Saudita), Gazprom (Russia), NIOC (Iran) o PDVSA (Venezuela) e sono sotto il controllo di uno Stato nazionale. Questi sono i veri giganti in quest’affare e controllano più dei tre quarti delle riserve globali”.

I “Big Oil” (i grandi petrolieri), come si chiamano ancora le vecchie multinazionali private, controllano ancora appena il dieci per cento delle riserve di gas e di petrolio globali. Non resta più a BP & Co. che dei progetti costosi, onerosi e pericolosi. È dunque per necessità che queste società sono spinte ai limiti estremi per raggiungere questi giacimenti che nessun altro vorrebbe esplorare. (…).”

Spese sempre più elevate, rischi sempre più grandi

“E’ da tempo ormai che le società petrolifere hanno abbandonato le piattaforme fermamente ancorate ai fondali marini. Mostri fluttuanti, detti semi-sommergibili, nuotano sugli oceani con chilometri d’acqua sotto di loro. Dei tubi verticali d’acciaio speciale o di materiali compositi estremamente saldi si spingono nell’oscurità degli abissi. Dei normali tubi si romperebbero sotto il loro stesso peso. A 1500 metri di profondità, la temperatura dell'acqua scende a cinque gradi centigradi - tuttavia il petrolio scaturisce quasi all’ebollizione. Ciò comporta non pochi problemi nella gestione dell’impianto. I rischi sono considerevoli. Con la profondità, le esigenze tecniche in materia di perforazione sono enormemente più grandi. La tecnica è pericolosa: indurendo, appaiono delle fessure nel cemento attraverso le quali il petrolio ed il gas possono sfuggire con una violenza inaudita. Basta allora una scintilla per provocare l’esplosione”[6] … come è poi accaduto!

Febbrilmente decine di migliaia di persone hanno combattuto, invano fino ad oggi, per tenere il petrolio lontano dalle spiagge. Aerei tipo Lockheed C-130 hanno polverizzato tonnellate di Corexit, prodotto sparso per sciogliere lo strato di petrolio - benché si sospetti che questo miscuglio chimico possa contribuire a danneggiare esso stesso l’ambiente acquatico. In futuro, c’è da temere che queste misure di salvataggio chimico possano produrre danni ancora più grandi e più imprevedibili a lungo termine sulla natura[7]. Per il momento, le conseguenze economiche per la popolazione del posto sono già catastrofiche poiché molti pescatori sono spinti alla rovina.

Mentre la corsa allo sfruttamento di nuove fonti petrolifere esige investimenti sempre più elevati, si assumono rischi tecnici sempre più grandi. Le condizioni della concorrenza capitalista trascinano gli imprenditori concorrenti ad assumersi dei rischi sempre più elevati e a rispettare sempre meno le necessità di protezione della natura. La fusione delle calotte glaciali dei poli che apre il passaggio marittimo a Nord-ovest, il disgelo del permafrost, hanno già da tempo acuito l’appetito delle compagnie petrolifere e provocano tensioni tra paesi che rivendicano territori in queste regioni.

Mentre l’utilizzo senza freni delle fonti di energia non rinnovabili e fossili, come il petrolio, costituisce in realtà un puro spreco, e la ricerca di fonti petrolifere sempre nuove una pura assurdità, la crisi economica - e la concorrenza che le è legata – spingono le imprese a investire sempre meno denaro nei sistemi di sicurezza possibili e necessari. Il capitalismo saccheggia in maniera sempre più predatoria le risorse del pianeta. In passato, la politica “della terra bruciata”, messa in pratica ed utilizzata ad esempio dagli Stati Uniti nel corso della prima guerra del golfo nel 1991, dove gli impianti petroliferi nel Golfo Persico sono stati attaccati, provocando incendi enormi e la fuga di quantità ingenti di petrolio, era stato un metodo corrente della guerra. Ora, è la pressione quotidiana della crisi che comporta la pratica della “terra bruciata” e la contaminazione dei mari, per potere imporre i propri interessi economici.

La marea nera attuale era prevedibile – così come lo era la catastrofe del 2005, quando l’uragano Katrina ha sommerso la città di New Orleans, provocando la morte di 1800 persone, l’evacuazione dell’intera città e lo spostamento di centinaia di migliaia di abitanti. L’attuale marea nera è del tutto simile alla catastrofe di New Orleans, il risultato dell’incapacità del capitalismo di offrire una protezione sufficiente contro i pericoli della natura. È il prodotto della ricerca del massimo profitto da parte del capitalismo.

Dv



[1] Sui luoghi dell'incidente, secondo le prime stime, circa 1000 barili (160.000 litri) di petrolio greggio al giorno si versavano nel mare. Alcuni giorni più tardi, in seguito alla scoperta di una terza fuga, sono state rivalutate a circa a 5000 barili (circa 800.000 litri) al giorno. Recenti calcoli di diversi ricercatori, basati su riprese video sottomarine delle fuoriuscite del petrolio, ritengono che la perdita sia di almeno 50.000 barili (circa 8 milioni di litri) al giorno.

[2] A grandi profondità si trovano grandi volumi d’acqua inquinata da particelle di petrolio. La concentrazione in petrolio è meno di un litro per metro cubo d’acqua, ma l’estensione di questa contaminazione è importante (Wikipedia).

[3] Da “Prodotti chimici contro catastrofe petrolifera. Operazione camuffamento e ritardo”, Spiegelonline, 18 maggio 2010

[4] https://www.spiegel.de/wissenschaft/natur/0,1518,694602,00.html [57] et https://www.spiegel.de/spiegel/0,1518,694271,00.html [58]

[5] Idem.

[6] Idem.

[7] 1,8 milioni di litri di liquido speciale Corexit sono stati utilizzati finora nel golfo del Messico … Esiste il pericolo che una parte di queste nuvole di petrolio sotto la superficie si sposti in direzione dell’Oceano Atlantico.

Questioni teoriche: 

  • Ambiente [12]

Rivoluzione Internazionale n°167

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ottobre-novembre 2010

Di fronte agli attacchi brutali contro i lavoratori lo scontro con la borghesia è inevitabile

Quale che sia il nome dato alla violenza degli attacchi che a vagonate ci sta scaricando addosso il governo: riforme, politica del rigore o programmi d’austerità, il taglio è netto! Quale che sia il modo in cui si subisce la pressione dello sfruttamento capitalista, che sia da operaio di una grande fabbrica o di una piccola impresa, che sia da cassa integrato o con un’occupazione parziale, che sia da precario, da lavoratore dei servizi, impiegato, ingegnere, quadro, studente, disoccupato, pensionato…, tutti siamo presi alla gola.

La borghesia ci ha dichiarato una vera e propria guerra!

Se gli effetti dell’attacco sulle pensioni iniziano a farsi sentire già adesso, nei prossimi anni questi peseranno molto di più sulle nuove generazioni di proletari. Sicuramente già oggi tutti i proletari avvertono l’ampiezza e la profondità degli attacchi che sui vari piani vengono portati avanti simultaneamente.

I budget sociali sono ridotti all’osso ed i rispettivi servizi sono in piena rovina. La non sostituzione di chi va in pensione sta sfociando in una situazione da incubo o da catastrofe in particolare nel settore sanitario e dell’istruzione. La chiusura di strutture ospedaliere e di intere classi nelle scuole, in nome dell’economia da realizzare sul budget, prendono una piega sempre più drammatica. In sempre più imprese si esercita un ricatto sul licenziamento per far accettare una diminuzione dei salari o condizioni di lavoro sempre peggiori, come alla Fiat recentemente o alla General Motors di Strasburgo in Francia dove i salari sono stati ridotti del 10%. E le molteplici esperienze di questi ultimi anni mostrano che questi “sacrifici” non servono a niente: le carrettate di licenziamenti riprenderanno alla grande dopo qualche mese.

Le condizioni draconiane imposte ai disoccupati, che li sottomettono alla minaccia costante di essere cancellati delle liste di collocamento, diventano sempre più insopportabili. Chi non ha lavoro viene brutalmente isolato da ogni vita sociale, immerso nella miseria e l’inoperosità. Nel settore pubblico come nel privato, il sovraccarico per quelli che restano al lavoro è tale che non ne possono più. La sofferenza ed i suicidi per il lavoro sono diventati un fenomeno sociale sempre più diffuso. Un numero crescente di lavoratori dipendenti e di famiglie si trovano in “situazione di emergenza” non solo finanziaria ma anche fisiologica e psicologica. Il deterioramento delle condizioni di vita è accentuato dagli aumenti a ripetizione dei prezzi del gas, dell’elettricità, del combustibile, dell’affitto, dai nuovi aumenti di tariffe dei trasporti pubblici mentre, nei negozi, ciascuno può constatare l’altalena dell’aumento dei prodotti alimentari di prima necessità. Le cure mediche vengono rimborsate sempre meno mentre i contributi per la sanità schizzano in alto, così come le assicurazioni.

Finanche la caccia agli “evasori” fiscali, decretata come priorità dal governo, chi colpisce in massima parte? I milionari che possono disporre di ogni mezzo, più o meno “legale”, per mettere al sicuro i loro capitali o chi è costretto a pagare multe esorbitanti rispetto alle proprie misere entrate perché magari ha sbagliato a compilare la dichiarazione dei redditi?

Ormai è nel quotidiano che dobbiamo porci il problema di come nutrirci, avere un tetto, curarci, vestirci in modo decente, anche chi fino a pochi anni fa poteva ritenersi relativamente “tranquillo”.

Ed i giovani stanno ancora peggio: farsi una vita propria, avere di che vivere, pensare di avere dei figli, insomma avere una prospettiva davanti, tutto diventa estremamente difficile e vago, potendo contare solo sul quel poco di aiuto che la propria famiglia riesce ancora a darti.

Tocca a noi ingaggiare frontalmente la lotta!

L’aumento della rabbia e della indignazione è alimentato da una sensazione profonda d’ingiustizia. La borghesia dispiega senza sosta un’arroganza incredibile. Siamo costretti ogni giorno a sentire di sperperi del denaro pubblico, di imbrogli, clientele, intrecci dell’apparato politico ed imprenditoriale con la malavita, di corruzioni. Abbiamo dovuto assistere al fatto che anche di fronte alla sofferenza di intere popolazioni (per i rifiuti, il terremoto, le maree di fango, ecc) l’unico interesse è stato ed è ancora il lucro. Tutto questo da parte di chi (e non si tratta certo solo di un Berlusconi, ma di tutta l’apparato politico) al tempo stesso, con una ipocrisia mai vista, non solo ci viene a parlare di moralità e spirito di sacrificio, ma ci riduce ad una vita sempre più misera, da tutti i punti di vista. Da parte di chi a quelli che perdono il posto di lavoro, alle migliaia di precari della scuola che si troveranno a spasso, a quelli che non vengono pagati per mesi perché la sanità non ha soldi, sanno solo dire “abbiate pazienza, c’è la crisi!”. E quando hanno fatto qualcosa è stato dare la caccia all’immigrato, come a Milano con gli autobus blindati, o respingere i profughi, destinandoli ad una sorte atroce perché non sapevano che farsene, e adesso come in Francia si passa ai rom, non senza averne fatto di tutti loro il capro espiatorio della delinquenza dilagante, dell’insicurezza sociale, ecc.

Tutto questo ha certamente gettato un discredito importante sullo Stato ed il suo governo, ma non bisogna farsi illusioni. Un cambio di gestione, magari andando di nuovo a votare, non cambierà in niente la situazione e non impedirà nuovi attacchi. Ne è una prova il fatto che la politica del rigore viene adottata dappertutto tanto da governi di sinistra che da governi di destra. Le misure prese vanno dappertutto nella stessa direzione. In tutti i paesi i proletari sono confrontati ad attacchi simili ed ovunque sono di fronte alle stesse prospettive di condizioni di vita ancora più misere. In Grecia e in Spagna sono i governi di sinistra e social-democratici che, oltre all’attacco sulle pensioni, hanno appena imposto una brutale riduzione dei salari dal 10 al 20% a tutti i proletari. È questo che ci aspetta e che mostra il futuro che ci è riservato ovunque. E non è necessario essere indovini per sapere che sarà sempre peggio.

Non è perché abbiamo a che fare con dei poco di buono o gente marcia che la borghesia ci fa pagare a così caro prezzo la sua crisi, ma perché il sistema capitalista è in pieno fallimento su scala mondiale.

Il capitalismo non ci darà mai un governo più sociale o più equo. In Spagna, è stato il governo “socialista” di Zapatero che, di concerto con la destra, ha lanciato a fine giugno ed inizio luglio una grande campagna ideologica diffamatoria per screditare ed isolare il coraggioso sciopero dei lavoratori della metropolitana di Madrid in lotta contro la riduzione del 5% del salario[1].

La classe operaia sarà sempre più spinta a difendersi e del resto sta già iniziando a farlo[2]. In questa difesa non può evitare lo scontro con la classe dominante ed il suo sistema.

I proletari in Italia non sono soli!

La classe operaia in Italia deve prendere coscienza che non è sola ad affrontare questa realtà terribile, che in tutti i paesi, come classe, è spinta a fare la stessa lotta contro gli stessi attacchi. Dalla Cina a Panama, passando per il Bangladesh ed il Kashmir[3], la classe operaia sta mostrando di essere capace di sviluppare, in maniera massiccia e con determinazione, la sua lotta di classe contro classe su scala mondiale. Non c’è altra prospettiva che scendere in massa in lotta per difendersi, altrimenti il peggioramento delle nostre condizioni di vita è certo. Entrare in lotta in massa significa lottare insieme ed in modo determinato per realizzare la maggior estensione e unità possibile nella lotta. Solo un’ampia mobilitazione di fronte agli stessi attacchi è capace di far arretrare la borghesia. Ed anche se questa ritornerà inevitabilmente alla carica, questo è il solo modo per impedire ulteriori attacchi ancora peggiori. Ricordiamo ad esempio come, nel 2006 in Francia, i giovani studenti, in quanto futuri precari, sono riusciti ad imporre al governo Villepin il ritiro del Contratto di Primo Impiego[4].

Non è attraverso il susseguirsi di giornate di sciopero episodiche e sterili proposte dal sindacato che potremo fare questo.

Non è mettendoci nelle mani dei sindacati, questi specialisti del sabotaggio delle lotte e della divisione tra i lavoratori, che potremo stabilire un rapporto di forza rispetto alla classe dominante, ma prendendo noi stessi collettivamente l’iniziativa delle lotte, chiamando in prima persona DAPPERTUTTO a delle assemblee generali aperte a TUTTI i lavoratori, senza l’esclusiva di corporazioni o di settori, ai disoccupati, ai pensionati, agli studenti. E potremo farlo mantenendo il controllo di queste lotte nelle nostre mani attraverso il controllo permanente delle assemblee generali ed eleggendo delegati revocabili in qualsiasi momento.

Non c’è altra via possibile per imporre il nostro rifiuto ad un futuro che trascina l’umanità alla sua perdita e per costruire un altro futuro.

W./Eva, 26 settembre

 

[1] Vedi Spagna: Solidarietà con i lavoratori della metropolitana di Madrid! [59] ed il messaggio Piena solidarietà con gli scioperanti della metropolitana di Madrid [60].

[2] Vedi Italia: la maturazione della lotta di classe [61].

[3] Vedi gli articoli rispettivi su queste lotte sul nostro sito www.internationalism.org [62].

[4] Vedi Tesi sul movimento degli studenti della primavera 2006 in Francia [63].

Il paradosso della borghesia italiana

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La situazione politica attuale, che dura da qualche tempo in Italia, ha qualcosa di paradossale. Da una parte infatti abbiamo un governo che sembra essere tra i più odiati di tutta la storia repubblicana, che va avanti menando mazzate a più non posso contro lavoratori, immigrati e povera gente ed esibendo al tempo stesso il disprezzo più elementare per un senso di giustizia e di equità sociale, intascando tutto quello che si può razziare sul piano economico e garantendosi tutte le impunità attraverso la creazione di leggi ad hoc. Dall’altra abbiamo invece un’opposizione di centro-sinistra che, di fronte ad un avversario così smaccatamente cialtrone e colto più volte con le mani nel sacco, piuttosto che passare all’offensiva per cacciare via i mariuoli e gli affamatori, attende, cincischia, si divide, si fa auto-concorrenza, insomma le imbrocca tutte per non vincere. Anche se può sembrare inutile riportare in questo articolo gli elementi che confermano questa nostra osservazione, pensiamo che sia comunque importante farlo per capire fino a che punto è stato superato, da una parte come dall’altra, abbondantemente il segno.

Le porcate della destra …

Non c’è giorno che passi senza una dichiarazione di politici, soprattutto della maggioranza parlamentare, o di un episodio riportato da giornali che accresca l’assurdità della situazione politica italiana. Qualche settimana fa la deputata Angela Napoli, del gruppo di Fini (Fli), dichiarava che molte deputate si erano concesse in cambio di cariche pubbliche e, dopo essere stata zittita da tutti i partiti - compreso il suo - rincarava la dose un altro deputato della maggioranza (Pdl), Giorgio Stracquadanio, che dichiarava: “È assolutamente legittimo che per fare carriera ognuno di noi utilizzi quel che ha, l’intelligenza o la bellezza che siano”. Da ricordare che Stracquadanio è consigliere politico del ministro della Pubblica Istruzione Mariastella Gelmini!! Certo è che chi ragiona così può consigliare qualsiasi riforma scolastica!

Il 22 settembre la Camera nega la richiesta di autorizzazione per l’uso delle intercettazioni contro Nicola Cosentino, ex sottosegretario all’Economia e attuale coordinatore campano del Pdl, indagato per concorso esterno in associazione di tipo mafioso. Che il parlamento vieti l’uso di intercettazioni contro un indagato per associazione mafiosa non fa altro che confermare l’idea che si ha in Italia e forse in tutto il mondo della classe politica nostrana! Che la classe politica italiana, inoltre, avesse e abbia a che fare con associazioni mafiose non è un mistero per nessuno da decenni. La novità, con l’arrivo di Berlusconi, è che questo stato di cose viene quasi pubblicamente dichiarato e difeso senza il minimo pudore, come l’utilizzo del proprio corpo per entrare nei palazzi del potere.

Berlusconi - e molti della sua corte - dedicano la maggior parte del tempo non per portare l’economia italiana a standard europei, come richiesto dalla borghesia industriale[1], ma per modificare le leggi in modo da evitare i processi, diluire i procedimenti, condonare le pene, in breve per salvare la propria pelle dopo 30 anni e più di misfatti. Come confermato dall’ennesima storia di manomissione del bene pubblico con la scellerata storia della P3 che doveva servire tra l’altro, con l’avvicendamento di alcuni giudici costituzionali, ad influire sull’esito del lodo Alfano[2]. Fare l’elenco dei processi penali di Berlusconi è come studiare da avvocato, si riesce ad averne un’immagine leggendo qualche articolo di Marco Travaglio, ma risulta interessante vedere che non è solo lui ad avere a che fare con la legge, perché molti membri del suo partito e del Governo sono frequentatori assidui di avvocati e tribunali. E intorno ai parlamentari brandiscono coltello e forchetta gruppi di palazzinari e appaltatori pronti a spartirsi il bottino della ricostruzione, degli appalti, degli interventi straordinari, ecc...

Ci sono sempre stati scandali tra i politici, la corruzione non è di oggi e neanche le cosche mafiose sono una novità tra i banchi parlamentari. Questo è vero. Il parlamento e i governi sono, nel loro insieme, espressione della borghesia e quindi la corruzione, gli scandali sono nella norma. Ciò che è cambiato è la quantità e la qualità. Finora le abitudini sessuali dei politici restavano private, non venivano usate come arma di ricatto da sbandierare pubblicamente, non ci si vantava di certe amicizie come quelle mafiose, c’era un certo pudore anche perché non si doveva mostrare al popolo la sostanza di cui erano fatti i “loro rappresentanti” nelle istituzioni.

… e quelle della sinistra

Per quanto riguarda l’area del centro-sinistra, questa viene da tempo un po’ derisa e un po’ tempestata di critiche per la sua assoluta inerzia, per il suo andamento da bradipo (senza voler offendere questa cara creatura sudamericana). Il Partito Democratico, pur avendo molti parlamentari, è come se non esistesse. Non fa una vera opposizione, è ingovernabile a causa delle divisioni interne e non ha la capacità di coagulare attorno a sé tutta l’area che si oppone a Berlusconi. Anzi, di fronte alla possibilità di agguantare finalmente l’avversario politico, pare farlo apposta a disgregarsi ulteriormente. Prima l’uscita di Rutelli che, da vice premier del secondo governo Prodi fino al maggio del 2008, se ne esce dal PD per andare a dialogare con l’ex fascista Fini, quello che finora ha sostenuto anni e anni di malapolitica berlusconiana e che, dalla sala di regia della Questura di Genova, ha seguito (diretto?) il furioso pestaggio dei dimostranti contro il G8 del 2001. E ancora più di recente la sortita di Veltroni che, un po’ seccato di essere stato messo da parte, ha cominciato a rimettere tutto in discussione nel partito, la strategia, la politica, tanto da far gridare al sabotaggio. Certo è che è veramente deprimente leggere le parole d’ordine che lancia questo partito, anche nella versione del presunto “cattivo” Bersani il quale, di fronte a tanto provocatorio squallore, sa dire solo … “rimbocchiamoci le maniche”! Ma per fare che! I disoccupati, i cassaintegrati, quelli che stanno perennemente sotto ricatto di perderlo un lavoro, che maniche si devono rimboccare, per fare che? E’ questa ignavia, questa indolenza, questa vacuità di pensiero che è tutto il programma della sinistra e che riempie la scena di tutti i giorni. Tolto il PD, resta poi l’IDV di Di Pietro che, da ex poliziotto ed ex magistrato, si è convertito ad un ruolo di difensore della legalità, cercando di nascondere il fatto basilare che la legalità è quella dei padroni e che dunque, come questo governo mostra chiaramente, viene mutata tutte le volte che si rende necessario farlo per difendere gli interessi dei potenti.

Ma come è possibile una situazione del genere?

Se siamo arrivati a tanto è perché questa società non ha più futuro, perché non c’è più una prospettiva che possa perseguire. La crisi economica che si è installata ormai in maniera permanente a livello internazionale è una crisi irrisolvibile. Per cui la mancanza di dinamismo, lo stallo, la decomposizione in cui versa la società non è “colpa” di questo o quel personaggio politico, di questo o quel partito, ma è viceversa l’espressione dei tempi che viviamo. Il fatto che non ci sia spazio per uno sviluppo dell’economia secondo i meccanismi classici di mercato apre tutte le vie alternative della speculazione, del malaffare, del parassitismo per far fruttare comunque i capitali che girano per il mondo. Ugualmente sul piano politico i partiti, privi di ideali o di prospettive a lungo termine a cui far riferimento, cercano sempre più nel populismo la base su cui raccogliere adesioni, scavando spesso consapevolmente negli istinti più triviali della popolazione. Questo fenomeno non è soltanto di stampo italiano, perché al nostro Berlusconi fa da sponda Sarkozy in Francia, Putin in Russia e, in forme diverse, molti altri.

In questa fase di declino la società sembra perdere ogni principio etico e morale. La prevaricazione, l’abuso, il disprezzo delle regole, l’assenza di senso civico prendono il sopravento e questo – paradossalmente - particolarmente da parte della classe che domina la società.

Anche lo scontro fra le varie componenti borghesi non è più per la difesa di una strategia di sviluppo economico rispetto ad un altra[3], quanto piuttosto per imporre gli interessi economici della propria “banda” o quanto meno difenderla dallo strapotere degli altri. Ed allora la battaglia si fa a colpi di scandali, di rivelazioni scottanti sull’avversario, scavando con ogni mezzo nella vita privata degli altri per trovare quello che può screditarli agli occhi dell’opinione pubblica. Ed in questo sono maestri tutti, dall’ala democratica e legalista che ha messo allo scoperto le escort, i legami con la mafia e gli imbrogli finanziari di Berlusconi, a quella più apertamente prevaricatrice e opportunista che ha messo sotto accusa Fini per la casa a Montecarlo[4].

Per quanto riguarda le sinistre in particolare, anch’esse devono ricorrere in questo periodo a degli argomenti forti per poter avere un certo seguito, come i vari leader che l’hanno spuntata uno dopo l’altro in sud America, da Chavez a Evo Morales e Lula da Silva, anche se i loro argomenti contro la globalizzazione e in difesa della loro patria si trasforma presto in qualcosa di diverso, come le brame imperialiste che ha tirato fuori il Venezuela di Chavez. Per cui a breve anche queste “speranze” che alcuni hanno voluto riporre nella salita al potere delle sinistre in sud America non sembra portare lontano. Ma se mancano anche questi argomenti, come in Italia, …

Il governo Berlusconi non ha fatto altro che mostrare pubblicamente il degrado della classe politica, ma se Berlusconi è entrato in scena come rappresentante della borghesia è perché questa non è stata capace di produrre altro. Quale che sia l’esito del governo attuale, per i proletari non ne verrà nulla di buono perché dietro le chiacchiere di un Fini, di un Bersani o di un Di Pietro (e loro compari di sinistra come Vendola o Ferrero), non c’è altro se non continuare a farsi ammazzare di fatica perché non sanno offrire altro che il mantenimento di questa società, laddove l’unica salvezza per l’umanità intera è il rivolgimento completo di questo regime e l’instaurazione di una società nuova senza sfruttamento e senza classi.

CCI, 5 ottobre 2010 


[1] Emma Marcegaglia all’attacco: “Non è vero che siamo andati meglio degli altri”, https://www.affaritaliani.it/economia/marcegaglia_berlusconi_pil_meglio24092010.html [64].

[2] Tutto sulla P3: piani, favori, appalti e giudici corrotti: https://www.blogo.it/post/8128/tutto-sulla-p3-piani-favori-appalti-e-giudici-corrotti [65].

[3] Cosa del resto non facilmente realizzabile visto che le uniche misure reali di fronte alla crisi economica mondiale possono essere solo quelle di attacco ulteriore alle condizioni di vita dei lavoratori, cosa che appunto stanno facendo e su cui tutti sono concordi.

[4] “Dietro lo scandalo di escort, festini e cocaina, gli scontri nella maggioranza governativa [34]”, “I perché dello scontro Fini-Berlusconi [43]”, rispettivamente in Rivoluzione Internazionale n. 162 e 165.

Geografiche: 

  • Italia [9]

Questioni teoriche: 

  • Decomposizione [66]

Italia: la maturazione della lotta di classe

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Dall’inizio del 2010 ad oggi ci sono state molte novità. Il governo e il padronato da una parte hanno sferrato attacchi furibondi contro la classe operaia, dimostrando così di essere perfettamente consapevoli del fatto che la crisi economica non è affatto finita e che il peggio deve ancora venire. Ma anche i lavoratori, da parte loro, non sono rimasti a guardare è hanno espresso una resistenza niente affatto passiva, sviluppando uno strumento che va acquisendo sempre più peso e importanza per la classe operaia: la solidarietà tra settori diversi.

Quali sono i fatti? Vediamo.

Innanzitutto i licenziamenti striscianti o nascosti che si sono ripetuti a migliaia e migliaia su tutto il territorio nazionale, a partire da quelli prodotti dal cosiddetto decreto Gelmini che ha fatto sì che i precari della scuola, insegnanti e personale ATA, a decine di migliaia quest’anno non lavoreranno, passando così da una situazione di precarietà lavorativa a quella di una precarietà sociale, senza stipendi e senza sussidi, se non una piccola e temporanea indennità di disoccupazione. Ma anche i tanti casi in cui aziende di dimensioni importanti, avendo al loro interno settori non più competitivi o comunque a rischio, vengono sottoposte a quello che ha preso il significativo nome di spezzatino, cioè lo smembramento in più aziende diverse tra cui una viene caricata di tutti i debiti e di tutti gli esuberi di manodopera, mentre le altre, alleggerite da questi problemi, vengono rilanciate sul mercato. E’ questo ad esempio il caso dell’Agile srl ex Eutelia dove, come viene giustamente denunciato dagli stessi lavoratori implicati, si è trovata la maniera di “Licenziare 9000 persone senza che nessuno se ne accorga!!! E’ iniziato il licenziamento dei primi 1200 lavoratori di Olivetti-Getronics-Bull-Eutelia-Noicom-Edisontel tutti confluiti in: AGILE s.r.l. ora Gruppo Omega Agile ex Eutelia (che) è stata consegnata a professionisti del FALLIMENTO. Agile ex Eutelia è stata svuotata di ogni bene mobile ed immobile. Agile ex Eutelia è stata condotta con maestria alla perdita di commesse e clienti. Il gruppo Omega continua la sua opera di killer di aziende in crisi, l’ultima è Phonemedia 6600 dipendenti che subirà a breve la stessa sorte. Siamo una realtà di quasi 10.000 dipendenti e considerando che ognuno di noi ha una famiglia, le persone coinvolte sono circa 40.000 eppure nessuno parla di noi.”[1]

In secondo luogo, naturalmente, condizioni di vera schiavitù per quelli che restano al lavoro, con un tentativo di generalizzare il più possibile la precarietà, sia dal punto di vista della sicurezza di potersi garantire un salario nel tempo, sia di quello delle condizioni di lavoro. Il cosiddetto piano Marchionne, imposto con una insolenza incredibile non solo dalla FIAT, ma dall’insieme dei partiti e dei sindacati alla classe operaia di quello stabilimento attraverso tutta una campagna di obiettivo ricatto, è ben più di un contratto locale e limitato ad un settore, ma esprime ormai chiaramente lo spartito su cui si muoverà d’ora in poi tutta l’imprenditoria nostrana. La deregulation a livello di contratti collettivi di lavoro, la libertà del padrone di poter imporre gli straordinari quando gli servono e di vietare qualunque reazione degli operai, la riduzione del salario, tutto ciò è il portato della politica padronale degli ultimi mesi.

Ma se gli attacchi sono arrivati a questo punto la reazione non si è fatta attendere. Le lotte di questi ultimi tempi riguardano molti settori e aziende a rischio. Così i precari della scuola, di fronte ad un vero e proprio licenziamento di massa che non ha dato luogo a nessuna protesta sindacale, a nessun intervento di quelle forze politiche che si dicono progressiste e di sinistra, si sono organizzati da soli, promuovendo la loro lotta con i mezzi che potevano utilizzare visto che a loro, senza posto di lavoro, non è concesso nemmeno scioperare. Sono state le manifestazioni di piazza che questi lavoratori hanno scelto per portare avanti la lotta: presidii davanti agli uffici scolastici provinciali o davanti al ministero, occupazione di questi uffici, manifestazioni di strada. Collegati fra loro tramite internet e le assemblee cittadine, i precari hanno cercato innanzitutto di far conoscere la loro situazione e le loro rivendicazioni, con manifestazioni anche clamorose, come lo sciopero della fame, effettuato in diverse città, o il blocco dello stretto di Messina[2], che ha visto la partecipazione di migliaia di lavoratori sulle due sponde dello stretto. Accanto a questo, i precari hanno cercato la solidarietà degli altri lavoratori della scuola[3], e quella dei genitori degli alunni, chiamati a manifestare con i precari in difesa di una scuola dove i loro figli possano vivere in condizioni più decenti e non stipati in 35 in aule che non li possono contenere.

Di questi giorni è ancora la lotta degli operai della Fincantieri, azienda in crisi che minaccia centinaia di licenziamenti e la chiusura di centri di produzione. Gli operai non ci stanno e hanno dato luogo a diverse manifestazioni, sia locali che a Roma, dove sono andati a rivendicare l’intervento del governo che, con le sue commesse, potrebbe evitare questi licenziamenti. Nelle loro manifestazioni gli operai si sono presi anche le manganellate della polizia, alla faccia della democrazia![4]

La lista non si ferma qui, molti altri sono gli episodi di lotta sparpagliati nel resto d’Italia. Ma la lotta non si manifesta solo attraverso scioperi e manifestazioni, ma anche attraverso una serie di altri fenomeni della più alta importanza, il cui elemento comune è la ricerca della solidarietà di classe come risultato finale di una riflessione su come lottare. La questione di come rendere più efficace la lotta è al centro di tutte le manifestazioni di questi mesi, in Italia come altrove. Nel recente passato la strada scelta è stata spesso quella della ricerca di manifestazioni clamorose, spettacolari, che i mezzi di informazione non potessero nascondere. Dalla presa in ostaggio dei dirigenti (copiata dai lavoratori francesi), all’occupazione di tetti e di carroponte (come all’INSE di Milano), agli scioperi della fame, all’occupazione del carcere dell’Asinara, ecc., i lavoratori le hanno inventate tutte per rompere il black-out con cui la borghesia cerca di nascondere le manifestazioni della lotta della classe. E che questa questione sia al centro della riflessione dei lavoratori è testimoniato dal dibattito che c’è stato a Milano tra una delegazione di operai della Tekel (Turchia) in lotta da anni contro i licenziamenti[5], e una di operai dell’INSE: qui i lavoratori si sono esplicitamente posti la questione se è più efficace accentrare l’attenzione sulla propria fabbrica anche con manifestazioni spettacolari (INSE) o se lo è invece di più andare a cercare gli altri lavoratori con manifestazioni di piazza (Tekel).

Ma questa tendenza alla solidarietà si manifesta anche in maniera esplicita in altri episodi. E’ indubbio che intorno a lotte che hanno segnato delle tappe in Italia c’è stata un’attenzione e una solidarietà, per lo meno morale, da parte di tantissimi proletari, come nel già citato caso dell’INNSE di Milano, quello dell’Agile ex Eutelia, della FIAT di Pomigliano, ecc. ecc. E questa solidarietà per la prima volta comincia, in Italia ma non solo, a superare le frontiere, con le due lettere di solidarietà che gli operai di Pomigliano hanno ricevuto da quelli della Fiat di Tichy in Polonia[6] o il sentimento di solidarietà che ha attraversato i proletari d’Italia all’ascolto delle notizie degli scioperi in Grecia, per esempio.

Ma c’è di più. Ormai da almeno un anno c’è una ricerca attiva della solidarietà attraverso la creazione di coordinamenti cittadini – tra cui i più interessanti sono a Milano, Roma e Torino - dei vari comitati di operai attivi nei vari posti di lavoro per cercare di dare una risposta unitaria agli attacchi che continuano a piovere da tutte le parti. Questi coordinamenti, che raccolgono un’impressionante lista di aziende e luoghi di lavoro diversi, sono assolutamente trasversali e raccolgono qualunque tipo di settore. Accanto a questi esiste poi il coordinamento precari della scuola, un coordinamento dei lavoratori della cultura ed una serie di altri coordinamenti più o meno di settore. Questi vari coordinamenti hanno avuto vari momenti di unificazione a livello nazionale. In particolare un’assemblea a giugno scorso e una prossima si terrà il 9 ottobre a Milano. La nascita di questi “coordinamenti di lavoratori in lotta” parte in generale da una forte insoddisfazione nei confronti dei sindacati:

“Dopo la finanziaria, la quasi certa approvazione del “collegato lavoro” e i diktat sull’austerità promossi dalla comunità europea, i padroni non sono soddisfatti e hanno concretamente trasformato unilateralmente in pratica, sostenuti da cisl-uil-ugl e dall’inerzia CGIL, tutte le loro richieste di flessibilità, precarietà, e produttività (…) Il sindacalismo di base, pur contribuendo in modo significativo nelle lotte di resistenza, allo stato attuale dimostra ancora i suoi limiti e una insufficiente capacità di attrazione tra le classi lavoratrici. La FIOM invece, l’unico sindacato tra i confederali, incatenata da decine di contraddizioni interne, fortemente limitata da una CGIL che non vuole rinnegare la via della concertazione coi padroni, oppone un corretta resistenza di principio che però non si traduce immediatamente in una forte mobilitazione almeno tra i metalmeccanici”.[7]

Ed anche se si considera il sindacato uno strumento ancora valido in generale, c’è una fortissima spinta a prendere nelle proprie mani l’iniziativa della lotta e a unificarla il più possibile:

“Quanto sta succedendo ci pone come lavoratrici e lavoratori di fronte a delle scelte da condividere in modo trasversale a prescindere dalla sigle sindacali di appartenenza e non (…).Seguiamo le proposte e le dinamiche di costruzione di mobilitazioni contro la precarietà e la disoccupazione a livello internazionale”.[8]”

“E’ necessario ricostruire, il più velocemente possibile, un´unità sempre maggiore della classe lavoratrice a prescindere dal comparto lavorativo, dall'appartenenza sindacale, dalla nazionalità, ecc.”[9]

Questa spinta all’unità sulla base degli interessi di classe è quello che ha orientato giustamente l’Assemblea autoconvocata del 18 giugno a Milano a partecipare, “con uno spezzone unitario ad entrambe le manifestazioni, della CUB e della CGIL, per coinvolgere nel percorso di unità quanti più lavoratori possibile”,[10] saltando a piè pari uno dei principali strumenti di divisione che offre da sempre il sindacato, quello di chiamare ognuno i propri aderenti a delle iniziative separate.

Un aspetto importante è la comprensione che la crisi è una crisi generale che tocca tutti, che l’attacco è unico e che la reazione deve essere altrettanto unica, anche se su questo piano occorre andare ancora avanti in quanto sussiste una debolezza nella comprensione della sua origine. Infatti, nelle varie prese di posizione, la crisi viene considerata spesso come il prodotto della cattiva gestione dei padroni e non come l’espressione del fallimento della società capitalista. Questa debolezza, che la classe saprà superare man mano che si confronterà con la dimensione mondiale di questa crisi e con l’impossibilità di poterla superare, è poi a sua volta all’origine di un’altra debolezza che consiste nel rivendicare la difesa di un certo settore produttivo o di una certa fabbrica (vedi INNSE) perché produttivi e moderni! Il che può essere sfruttato dai padroni per giustificare la chiusura di quei settori poco moderni o poco redditizi (vedi Termini Imerese)!

Ma quali che siano le debolezze che possono essere oggi presenti nel movimento della nostra classe, l’aspetto più importante, più dinamizzante, più potente è questa determinazione a non rimanere più isolati che viene con estrema chiarezza formulato in questo appello per la prossima assemblea nazionale:

“In questa situazione di profonda sconfitta che stiamo attraversando, in cui anche le singole vertenze contro le chiusure e i licenziamenti stanno mostrando tutti i limiti dell’isolamento e della mancanza di prospettiva, tutti noi lavoratori dobbiamo ritrovare la capacità di riunirci, di riorganizzarci in maniera autonoma e indipendente, per ricostruire la nostra capacità di organizzazione e resistenza e mettere efficacemente in discussione fino a rigettare i piani di ristrutturazione dei padroni. Dopo la riunione del febbraio scorso a Roma, nella quale lanciammo la proposta di cominciare a lavorare per la costruzione di un coordinamento stabile di lotta nazionale contro la crisi, nel quale ricomporre e organizzare le lotte dei lavoratori di tutti i comparti, crediamo sia giunto il momento di riconvocarci e rilanciare la piattaforma comune di tutti i lavoratori in lotta, organizzare la partecipazione comune alla manifestazione del 16 ottobre a Roma per renderla una giornata di riorganizzazione e ricompattamento di tutta l’opposizione di classe nel nostro paese, per promuovere una mobilitazione dal basso, articolata e permanente fino all’autorganizzazione dello sciopero generale come momento finale e decisivo di una grande mobilitazione di massa dei lavoratori contro governo e padroni.

SABATO 9 OTTOBRE, ORE 11.00 ALL’ARCI BELLEZZA

Milano, via Giovanni Bellezza 16, nell’ambito degli stati generali della precarietà.

Per aderire all’appello: [email protected] [67] – 3494906191 – 3495107754

Primi firmatari: Coordinamento Lavoratori Uniti Contro la Crisi, Milano; Comitato di Lotta per il Diritto al Lavoro, Livorno; Assemblea Lavoratori Autoconvocati, Torino; Coordinamento Lavoratori Autoconvocati, Roma”.

E’ per questo che invitiamo tutti i lavoratori, tutti i compagni, a partecipare a questa assemblea e a sostenere lo sforzo che la classe operaia, in Italia come nel resto del mondo, sta cercando di portare avanti per costruire la sua unità e la sua coscienza, le due armi indispensabili per affrontare l’inevitabile scontro di classe.

30/09/2010                                         CCI

 

[1] https://colsenter.noblogs.org/ [68]

[2] Vedi gli articoli riportati sul web ai seguenti indirizzi: www.orizzontescuola.it/node/11452 [69].

[3] www.orizzontescuola.it/node/11380 [70]

[4] https://www.ilgazzettinovesuviano.com/2010/...icati-a-freddo/ [71]

[5] Il resoconto di questo dibattito si trova sul forum Napolioltre, all’indirizzo https://napolioltre.forumfree.it/?t=49536058 [72] mentre notizie sulla lotta alla Tekel si trovano sullo stesso forum e sul n°166 di Rivoluzione Internazionale.

[6] https://www.dirittidistorti.it/articoli/12-...pomigliano.html [73], https://libcom.org/news/letter-fiat-14062010 [74] www.infoaut.org/articolo/lettera-dalla-fiat-di-tychy-lavoriamo-con-lentezza [75], https://libcom.org/news/strikes-fiat-letter...poland-15072010 [76]

[7] "Appello dal basso per una assemblea nazionale dei lavoratori contro la crisi".

[8] "Assemblea nazionale dei coordinamenti di lavoratori in lotta: il documento finale [77]".

[9] www.proletaria.it/index.php/proletaria/Articolo-1/Lavoro/Proposta-per-un... [78].

[10] Risoluzione finale dopo l'assemblea del 18 giugno: "22.06.10 - Milano - Assemblea autoconvocata dei lavoratori in lotta"

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Spagna: Solidarietà con i lavoratori della metropolitana di Madrid!

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Pubblichiamo la presa di posizione della CCI in Spagna sullo sciopero alla Metropolitana di Madrid alla quale aggiungiamo una dichiarazione di solidarietà di un gruppo di impiegati postali della capitale spagnola.

Alcune righe per esprimere la nostra più calorosa e fraterna solidarietà ai lavoratori della metropolitana di Madrid.

In primo luogo perché danno l’esempio che la lotta ampia e determinata è la sola risposta che hanno in mano gli sfruttati contro gli attacchi brutali che gli sfruttatori vogliono imporci. In questo caso contro una riduzione salariale del 5%. Un colpo d’ascia anti-operaio che è anche illegale dal punto di vista della stessa legalità borghese, perché si tratta né più né meno che di una violazione unilaterale della convenzione collettiva firmata precedentemente. E questi signori si permettono ancora di trattare da “delinquenti” gli operai della metropolitana!

Solidarietà anche contro la campagna di diffamazione ed il tentativo di “linciaggio morale” di questi compagni. Una campagna lanciata come si deve dai politici e dai media della destra più rancida, che ha presentato gli scioperanti come pedina di una campagna del PSOE contro il capofila del Partito Popolare a Madrid, Esperanza Aguirre, e che ha preteso, con la rabbia ed il fiele di cui questa destra è capace: “sanzioni!”, “licenziamenti”![1]. Ma soprattutto non bisogna dimenticare la vigorosa collaborazione della sinistra in questa campagna di isolamento e di denigrazione dei lavoratori. Aguirre e Rajoy hanno reclamato fermezza e frustate contro questi “vandali”, ma il ministro dell’Industria (del PSOE) ha messo a disposizione della regione una mobilitazione massiccia di altri mezzi di trasporto per spezzare lo sciopero, ed il ministro dell’Interno socialista ha messo a disposizione di Aguirre fino a 4.500 poliziotti supplementari!

I media “di sinistra”, con meno astio ma più ipocrisia, hanno invece rafforzato l’idea di “uno sciopero con presa di ostaggi” come intitolava El País il 30 giugno. Questi lacchè del sistema capitalista, cosiddetti “rossi” e che osano portare ancora nella loro sigla la “O” di operaio, sanno molto bene con chi devono schierarsi tra Esperanza Aguirre e le lotte operaie contro le esigenze degli sfruttatori.

Ciò che li ha più indignati non sono stati i “disagi” causati agli utenti. Basta vedere in quali condizioni devono spostarsi “gli utenti” nei giorni “normali” ed il caos che i “cittadini” devono sopportare a causa della loro negligenza crescente rispetto alle infrastrutture, in particolare i trasporti pubblici. Malgrado ciò che dicono, non sono neanche particolarmente irritati per le perdite causate alle imprese dovute ai ritardi e alle assenze degli impiegati. Infatti bisogna avere una notevole faccia tosta per accusare gli scioperanti della metropolitana di oltraggiare il “diritto al lavoro”, mentre il capitale spagnolo ha privato di questo diritto non meno di cinque milioni di proletari!

No. In verità ciò che li infastidisce e li preoccupa in questa lotta dei lavoratori della metropolitana di Madrid, è proprio il fatto che la lotta sia esplosa; che i lavoratori non abbiano accettato con rassegnazione i sacrifici e gli attacchi che piovono dappertutto e su tutti; che per respingere le ingiunzioni dell’azienda, gli operai non si sono accontentati di un piagnucolio sterile come quello dello sciopero dei funzionari dell’8 giugno[2], ma hanno dato l’esempio dell’unità e della determinazione. Anche El País lo riconosce nell’editoriale su citato: “Il comitato di impresa afferma che esisteva una convenzione in vigore fino al 2012 che la decisione della Comunità di Madrid (Regione di Madrid, ndr) rompe unilateralmente. Ma anche i funzionari avevano questa convenzione (e quest’ultimi si sono accontentati della pantomima dell’8 giugno”, sembra aggiungere in modo subliminale il gesuitico El País). È possibile che sia mancata una spiegazione più pedagogica sulla gravità della situazione che obbliga a fare questi sacrifici in cambio della sicurezza dell’impiego (… e poi accusano gli scioperanti di ricatto!), ed una maggiore chiarezza per spiegare come far quadrare la riduzione di stipendio con la garanzia ulteriore del mantenimento del potere di acquisto …”.

In quanto espressione di questa risposta di classe dei lavoratori, la lotta dei compagni di lotta della metropolitana di Madrid è piena di insegnamenti per tutti gli operai.

Le assemblee: cuore e cervello della lotta operaia

Una delle caratteristiche della lotta degli operai della metropolitana madrilena è stata quella di basarsi su assemblee veramente di massa. Già il 29 giugno, quando è stato deciso di non accettare di fare il servizio minimo garantito, molte persone non sono potute entrare nella sala dell’assemblea perché strapiena, ma il 30, mentre la campagna di denigrazione raggiungeva il culmine, c’erano ancora più persone del giorno precedente. Perché? Sono gli stessi lavoratori della metropolitana a rispondere: “bisognava dimostrare che siamo uniti come le dita di una mano”.

Grazie a queste assemblee si è cercato di evitare le molteplici astuzie abituali dei sindacati. Ad esempio, la dispersione e la confusione negli appelli allo sciopero. Ed infatti l’assemblea del 30 giugno ha deciso di applicare il servizio minimo garantito l’1 ed il 2 luglio per evitare di restare incastrati tra i sindacati favorevoli alla convocazione di uno sciopero totale e gli altri. L’assemblea ha deciso anche di mettere da parte il radicalismo verbale del vecchio portavoce del Comitato le cui dichiarazioni del tipo “andiamo a fare esplodere Madrid” erano più che altro utili ai nemici della lotta nella loro campagna di diffamazione e di isolamento dei lavoratori della metropolitana.

Ma le assemblee non sono solo servite a moderare le esaltazioni inutili o a evitare di cadere nelle provocazioni. Sono servite soprattutto a dare coraggio e determinazione a tutti i compagni di lotta ed a permettere quindi di misurare lo stato reale della combattività di tutto il personale. Per questo, invece del voto segreto ed individuale dei referendum sindacali, lo sciopero della metropolitana è stato deciso ed organizzato votando per alzata di mano, un voto dove la determinazione degli altri compagni ha incoraggiato gli incerti. Per quanto la stampa abbia agitato lo spettro della “pressione” su alcuni operai da parte dei picchetti di scioperanti, si sa bene che quello che ha incoraggiato gli operai ad unirsi allo sciopero è stata una decisione cosciente e volontaria, frutto di una discussione aperta e schietta dove si è potuto esporre i propri timori ma anche le ragioni per lottare. Su un sito aperto per esprimere la sua solidarietà con questo sciopero (www.usuariossolidarios.wordpress.com [79]) una giovane lavoratrice della metropolitana dice francamente che era andata all’assemblea del 29 giugno “per non avere più paura di lottare”.

La trappola del “servizio minimo garantito”

Nel caso di questo sciopero il decreto sul servizio minimo garantito è stato utilizzato come base di lancio per bombardare gli scioperanti, cercando di intimidirli e far loro abbandonare la lotta.

Per quanto la signora Esperanza Aguirre, nel suo palazzo presidenziale, abbia cercato di presentarsi come una donzella indifesa nelle le mani dei questi energumeni di scioperanti, la verità è che la legge permette alle autorità (cioè al padronato per gli impiegati pubblici) di fissare i termini per il servizio minimo garantito. Sapendo per esperienza di avere questo margine di manovra legale e, soprattutto, sentendosi sostenuta dal cuore mediatico delle reti TV, la presidentessa della Regione di Madrid ha macchinato una vera e propria provocazione: imporre un servizio minimo garantito sulla base del 50% del personale.

Con questa trappola ha cercato di mettere i dipendenti della metropolitana con le spalle al muro. Se accettavano il servizio minimo garantito veniva intaccata la loro volontà di non piegarsi ai diktat del padronato. Se non lo accettavano si assumevano la responsabilità di tutte le avversità che avrebbero dovuto sopportare i loro fratelli di classe, gli altri proletari, che costituiscono il grosso degli utenti della metropolitana.... In più, questa legge del servizio minimo garantito, che a detta dei difensori dell’ordine borghese “non esiste” benché “bisognerebbe rafforzarla”, offre la possibilità al governo, che è anche qui in ultima istanza il padrone, di imporre delle sanzioni se questo servizio minimo non viene garantito, il che gli dà un’ulteriore forza nel negoziato. Due giorni dopo che i lavoratori della metropolitana avevano ritirato il loro rifiuto al servizio minimo, la direzione della compagnia ha aumentato il numero dei lavoratori colpiti da sanzioni da 900 a 2800.

L’unico modo per uscire da una tale trappola è rompere la trappola grazie alla solidarietà di classe.

La solidarietà di classe è l’humus su cui cresce la combattività e la forza dei lavoratori

La forza delle lotte operaie non si misura alla loro capacità di provocare delle perdite nelle imprese capitaliste. Per fare questo, ed è quello che si può constatare anche nel caso della metropolitana di Madrid, bastano e avanzano gli stessi dirigenti delle imprese.

Questa forza non si misura neanche nella capacità di paralizzare una città o un settore. Anche qui è difficile rivaleggiare con lo Stato borghese stesso.

La forza delle lotte operaie nasce soprattutto dal fatto che esse enunciano, più o meno esplicitamente, un principio universale valido per tutti gli sfruttati: i bisogni umani non devono essere sacrificati sull’altare delle leggi del profitto e della concorrenza proprie del capitalismo.

Un scontro di questo o quel settore di lavoratori col proprio padrone per quanto possa essere radicale, se la borghesia riesce a presentarlo come qualche cosa di specifico o particolare riuscirà a sconfiggere questa lotta dando nel contempo un colpo al morale a tutta la classe operaia. Se, al contrario, i lavoratori arrivano a conquistare la solidarietà degli altri operai, se arrivano a convincerli del fatto che le loro rivendicazioni non sono una minaccia per gli altri sfruttati, ma l’espressione degli stessi interessi di classe, se fanno delle loro assemblee ed i loro assembramenti degli strumenti utili che altri lavoratori possono raggiungere, allora sì, si rafforzano loro e con loro l’insieme della classe operaia.

La cosa più importante per la lotta degli operai della metropolitana madrilena non è mandare i picchetti ad impedire l’uscita di questa o quella quantità di treni (anche se evidentemente è necessario che l’assemblea sappia se le sue decisioni sono state realizzate) ma, oltre a questo, spiegare ai loro compagni le ragioni della loro lotta, cominciando da quelli dell’EMT (Impresa municipale dei trasporti) o di Télémadrid (TV regionale) ed gli impiegati. Per il futuro della lotta non è essenziale realizzare questa o quella percentuale di “servizio minimo” (anche se la maggioranza dei lavoratori deve essere liberata delle costrizioni del lavoro in modo che le assemblee, i picchetti e gli assembramenti possano tenersi). La cosa più importante è guadagnare la fiducia e la solidarietà degli altri settori, andare nei quartieri per spiegare perché le rivendicazioni degli operai della metropolitana non sono né un privilegio né una minaccia per gli altri lavoratori, ma una risposta agli attacchi dovuti alla crisi.

Questi attacchi andranno a toccare tutti i lavoratori, di tutti i paesi, di tutte le condizioni, di tutte le categorie.... Se la borghesia riuscisse a far scontrare tra di loro i lavoratori, o se non altro a farli lottare isolati, con tutto il radicalismo che si vorrà ma ciascuno nel proprio angolo, finirebbe per imporre le esigenze del suo sistema di sfruttamento. Ma se, al contrario, le lotte operaie cominciano a far fermentare l’unità e l’aspetto di massa delle lotte contro queste esigenze criminali, saremo in grado di impedire l’applicazione di nuovi sacrifici ancora più cruenti sulle condizioni di vita dei lavoratori. Questo sarebbe un passo molto importante per lo sviluppo dell’alternativa proletaria di fronte alla miseria ed alla barbarie capitaliste.

Accion Proletaria, 12 luglio 2010

 

[1] Il governo spagnolo è alle mani del Partito socialista (PSOE), mentre la regione di Madrid (di cui è presidente la su detta Aguirre) e la città di Madrid, da cui dipende la gestione dalla metropolitana, sono tra quelle della destra (Partito popolare il cui dirigente nazionale è Rajoy). E per questo che questi due partiti hanno giocato al rimbalzo politichese dicendosene di tutti i colori ma mettendosi ben d’accordo sulle spalle dei lavoratori della metropolitana [NdT].

[2] Vedi il nostro bilancio di questa lotta in: “¿Qué balance podemos sacar de la huelga de funcionarios del 8 de junio?” https://es.internationalism.org/node/2891 [80]

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Piena solidarietà con gli scioperanti della metropolitana di Madrid

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Naturalmente noi salutiamo calorosamente questa lettera espressione vivente di ciò che è la solidarietà operaia!

Buongiorno compagni!

Vi scriviamo questo testo dal Distretto 43 delle Poste di Madrid. In quanto fattorini stiamo tutto il giorno per strada; in quanto lavoratori, come chiunque di noi, abitiamo a chilometri di distanza dal posto di lavoro (del resto sono i padroni che hanno imposto le delocalizzazioni, obbligando i lavoratori a fare spostamenti sempre più lunghi e spossanti); siamo noi che soffriamo e paghiamo, in quanto settore pubblico, il banchetto al quale il governo ha invitato le banche; stiamo per essere privatizzati e siamo lavoratori con contratti precari e discontinui e, come voi lavoratori della metropolitana, non siamo dei funzionari. Vogliamo mandarvi il nostro sostegno più determinato. Vogliamo che sappiate che anche noi siamo stati costretti ad andare al lavoro in autobus facendo tragitti più lunghi[1], ma lo abbiamo fatto con il sorriso sulle labbra per la semplice ragione che avete dimostrato che SI PUO’, che non c’è ragione di essere sempre delle vittime schiacciate da questo mondo, ci avete ridato un po’ della nostra dignità persa da tanto tempo.

Vogliamo che sappiate che noi, che tutti i giorni parliamo con centinaia di persone per gli spostamenti di lavoro, sappiamo perfettamente che l’immagine del vostro movimento non è quella che danno i media: ci sono delle persone scontente, ma ce ne sono anche molte altre che il vostro movimento ha riempito di speranza, ci sono dovunque delle discussioni negli autobus, nelle strade, nei bar. Non c’è affatto una sola e unica reazione di condanna unanime.

Siamo con voi perché ci date speranza. Nel nostro distretto, durante il lavoro sentiamo commenti del tipo: “Sono sempre gli stessi che pagano” ai quali altri rispondono “Questa è una lotta con le palle” e altri dicono: “Questa si che è una lotta, non i nostri scioperi di un giorno”. Ci state mostrando la via.

Stiamo imparando delle lezioni. Delle lezioni come ad esempio il fatto che quando gli scioperi si decidono per alzata di mano dai lavoratori non veniamo venduti in anticipo. Noi siamo molto stanchi dei nostri sindacati, stanchi e ancora stanchi delle migliaia di volte che ci hanno venduto.

Per questo finiamo la nostra lettera dicendovi che i nostri cuori battono più rapidamente da lunedì, che qui stiamo facendo fronte con voi difendendo la vostra lotta ovunque andiamo.

Non fatevi intimidire, sappiamo bene che Aguirre o Zapatero, la COPE o la Prisa[2] hanno degli interessi opposti ai nostri, si sa che hanno l’abitudine di attaccarci. E’ quello che vogliono, sanno che migliaia di lavoratori hanno lo sguardo su di voi, perché siete il FUTURO e non il futuro grigio che loro vogliono venderci.

Se avete bisogno di noi sappiate che noi ci siamo; nell’attesa continueremo a difendervi di fronte a tutti quelli che oseranno denigrarvi.

Postini e postine del Distretto 43

1 luglio 2010



[1] Forse si fa riferimento al fatto che durante lo sciopero il governo ha messo in opera un servizio di autobus alternativo per trasportare le persone in maniera tale da sfruttare il maggior disagio contro gli scioperanti della metropolitana.

[2] Il COPE è la radio di destra e Prisa è l’azienda di comunicazione di sinistra (El País,…).

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Francia. Espulsione dei Rom: capri espiatori ed una scusa per la politica di rigore

«Sarkozy ha ragione ma non è certo una novità. Anche l’Italia usa da anni la tecnica dei rimpatri assistiti e volontari. Nel 2007, proprio con i rom, usò questa strada pure il sindaco di Roma, che non era Jean-Marie Le Pen ma Walter Veltroni. E figuriamoci se allora qualche professionista dell’antirazzismo si sognò di gridare allo scandalo». Secondo il ministro dell’Interno Roberto Maroni, dunque, la Francia non sta «facendo altro che copiare l’Italia». Semmai, dice, è arrivato il momento di fare un passo in più. Per arrivare dove, ministro? «Alla possibilità di espellere anche i cittadini comunitari». I comunitari? «Sì, espulsioni come per i clandestini, non rimpatri assistiti e volontari. Naturalmente solo per chi viola la direttiva che fissa i requisiti per chi vive in un altro Stato membro: reddito minimo, dimora adeguata e non essere a carico del sistema sociale del Paese che lo ospita. Molti rom sono comunitari ma non rispettano nessuno di questi requisiti» (Corriere della sera, 21 agosto)[1],

Pensiamo che non è necessario aggiungere altro per spiegare perché pubblichiamo questo articolo scritto dalla nostra sezione in Francia a fine agosto.

Decisamente Sarkozy non ha finito di regolare i suoi conti con l’immigrazione. Dopo la “pulizia della Francia alla Kärcher[2]”, Francia che occorre “sbarazzare dalla gentaglia”, il presidente francese si è lanciato nell’attuazione di una politica repressiva più aggressiva nei confronti della comunità “rom”.

Un centinaio di campi di “nomadi” sono stati evacuati manu militari. Gli occupanti, privati dei loro caravan e delle loro roulotte, sono stati gettati in mezzo alla strada, trattati peggio del bestiame, con i fucili puntati alle spalle. Con più di un migliaio di “rom” espulsi dalla Francia da fine luglio, il ministro dell’interno Hortefeux spera di superare la cifra di 9.875 espulsioni realizzate nel 2009 verso la Bulgaria e la Romania di questi indesiderabili rom, di cui più di 8.000 sono stati già espulsi dal territorio da gennaio 2010. Tuttavia, anche all’interno dell’apparato politico francese, numerosi “pezzi grossi” di varie sponde hanno sottolineato la loro opposizione a questa politica che puzza tanto di xenofobia la più abietta, una politica di pogrom. Gli unici a salutare queste posizioni di Sarkozy sono stati Le Pen, il cui partito difende questo da trent’anni, ed i “sarkozisti” stretti come Estrosi e … Kouchner (fondatore di Medici senza Frontiere e attuale ministro degli Esteri francese). Infatti il capo della diplomazia francese, in risposta ad una seconda messa in guardia dell’ONU di cui ha stigmatizzato “le caricature” e “le amalgami”[3], ha dichiarato: “Mai il Presidente della repubblica ha stigmatizzato una minoranza in funzione della sua origine” (!).

Così Villepin che, come  ministro dell’Interno e poi Primo ministro della presidenza Chirac, aveva attuato parecchie misure anti-immigrati, si è levato con vigore contro questa politica troppo grossolana parlando di “macchia sulla bandiera francese”. Bernard Debré, deputato UMP[4] di Parigi, si dice “colpito” e sottolinea “il rischio di slittamento verso la xenofobia ed il razzismo”.

Il PS (Partito Socialista), pur denunciando quest’operazione con Rocard (Segretario del PS) che dichiara che “non si era mai visto questo dopo i nazisti” ha criticato Sarkozy ma per impegnarlo a proseguire il suo sforzo. Infatti in un comunicato datato 18 agosto critica il progetto del governo di eliminare 3.500 posti di poliziotti nei tre prossimi anni, e dichiara: “Non c’è mai stata tanta distanza tra le parole e le azioni di un governo. Se il PS critica il governo, non è perché fa troppo sulla sicurezza, è, al contrario, perché non agisce realmente”. È vero che il PS, da Joxe, Cresson e lo stesso Rocard, ne sa qualcosa visto che è stato questo partito ad attuare le prime misure restrittive negli anni 80.

Eppure, nonostante queste critiche sparate da ogni parte anche all’estero, dal papa all’ONU passando per l’Unione europea, e nonostante l’opposizione crescente nella popolazione francese a questa nauseante politica discriminatoria, Sarkozy e il suo ministro dell’Immigrazione, “l’ex” socialista Éric Besson, ha annunciato il 24 agosto “un’accelerazione delle espulsioni di extracomunitari bulgari e rumeni” la cui partenza, ipocritamente presentata come “volontaria”, significa “un ritorno” in paesi in cui questa frangia della popolazione è spesso perseguitata. E per dissuadere questi “approfittatori” e “delinquenti” dal ritornare per prendere di nuovo i 300 euro di “premio di espulsione”, il ministro istituirà delle schede biometriche verso i possibili contravventori per proibirne l’accesso alle frontiere.

In realtà, questo discorso del governo e questa politica particolarmente repressiva verso i rom servono a molti scopi.

Il più importante è focalizzarsi su una popolazione molto marginalizzata, spesso arretrata ed analfabeta, che forma una comunità chiusa e poco comunicativa, e che pertanto è facile criminalizzare per farne il capro espiatorio della crisi economica e una giustificazione della politica generale di repressione che adotta lo Stato francese. La cosa più ripugnante è che questa etnia, già relegata ad una sopravvivenza in vere cloache e scarichi della società, si ritrova facilmente esposta alla strumentalizzazione. L’attacco di Sarkozy contro i rom, in questo momento, poteva generare al massimo solo della compassione ma non un movimento attivo di solidarietà in loro difesa all’interno della classe lavoratrice; tanto più che la maggior parte degli sgombri ha avuto luogo durante le vacanze estive. Al di là delle dichiarazioni enfatiche ed ipocrite dei politicanti e di alcuni gruppi politici, nulla vi si è opposto.

Un altro aspetto di questo intenso battage mediatico è fare molto rumore per creare un diversivo alle tensioni sociali che si delineavano per il “rientro”. Per la sua vernice di “sicurezza”, questa propaganda serve anche a procurare dei mezzi giuridici per perpetrare arresti in massa o altri che mirano ad imporre forti ammende alle famiglie di immigrati i cui giovani hanno a che fare con la polizia. I genitori saranno ritenuti legalmente responsabili delle azioni del loro minore, quando questo è stato perseguito o condannato per un’infrazione e che viola i divieti e gli obblighi ai quali è sottoposto. Questi genitori potrebbero vedersi infliggere fino a due anni di prigione e 30.000 euro di multa quando nei fatti è la disoccupazione, la precarietà, la miseria che li ha erosi e reso incapaci di assumere il loro ruolo educativo.

Uno dei fiori all’occhiello delle nuove misure di sicurezza proposte da Sarkozy è “la decadenza della nazionalità francese”. Una delle argomentazioni avanzate da alcuni sostenitori della misura in oggetto è che “essere francese si merita”, cioè le stesse parole usate da Raphaël Alibert, Guardia dei Sigilli di Pétain, nel luglio 1940, per giustificare una legge che portava alla creazione della “Commissione di revisione delle naturalizzazioni”, la quale procederà alla “denaturalizzazione” di centinaia di migliaia di francesi, soprattutto ebrei[5]. E’ evidente che dal punto di vista dell’efficacia e dell’impatto che potrebbe avere nella pratica oggi, questa misura non ha nulla da vedere con quella del 1940. Ma presenta il vantaggio di tentare di aumentare la divisione della classe operaia tra lavoratori francesi e lavoratori immigrati di data più o meno recente. Inoltre permette una focalizzazione mediatica su un falso problema, completamente estraneo agli interessi degli sfruttati, quello della “nazionalità”.

No, nessuna nazionalità “si merita” e gli operai non sanno che farsene. Come diceva il Manifesto comunista del 1848 “I proletari non hanno patria”. Ed è tutti insieme, quale che sia il colore della pelle o l’origine etnica o nazionale, che dovremo lottare contro questa società che impone a tutti noi condizioni di vita ed un futuro catastrofici.

Wilma, 27 agosto



[1] https://www.corriere.it/politica/10_agosto_21/maroni_d57cd780-acea-11df-b3a2-00144f02aabe.shtml [81]

[2] Kärcher produttore di macchine per la pulizia. Questa espressione fu usata da Sarcozy nel 2005 dopo i tumulti nelle periferie francesi. Su questi avvenimenti vedi: “Francia: la borghesia utilizza gli scontri nelle periferie contro la classe operaia”,

https://it.internationalism.org/rziz/2995/143_francia [82]

[3] Il suo amico Sarkozy, lui, non ha fatto un amalgama mettendo nello stesso sacco rom, “nomadi” di nazionalità francese da generazioni, immigrati e delinquenti!

[4] UMP (Union pour un mouvement populaire), partito di Sarkozy

[5] Sarkozy, contrariamente a Le Pen di cui prova a recuperare gli elettori, non se la prende con gli ebrei. Del resto, secondo la tradizione ebrea, lui stesso è ebreo poiché sua madre è ebrea. Ma fondamentalmente, dopo quello che è avvenuto durante la Seconda Guerra mondiale, una cosa del genere da parte di un Presidente della repubblica non sarebbe certo opportuno.

Geografiche: 

  • Francia [83]

Wikileaks conferma la crescita del caos in Afganistan

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A luglio, dopo la pubblicazione ad aprile delle riprese di un elicottero Apache americano che spara sui civili, bambini inclusi, Wikileaks[1], in coordinamento con The Guardian, Der Spiegel e New York Times, ha pubblicato 92.000 documenti segreti americani datati da gennaio 2004 a dicembre 2009, relativi alla guerra in Afghanistan. Altre migliaia non sono stati ancora pubblicati. Julian Assange, il primo promotore di Wikileaks ha detto che “per capire devi scavare in profondità negli archivi”. Ma non c’è bisogno di molta archeologia. Le fughe di notizie mostrano, nelle stesse parole dei militari americani, le atrocità commesse contro civili da parte delle truppe ISAF statunitensi, britanniche, francesi, tedesche e polacche e la loro copertura; l’ampiezza e l’estensione degli attacchi Talebani; il ruolo equivoco del Pakistan ed il coinvolgimento dell’Iran; le squadre assassine e le forze speciali al lavoro ed i relativi danni “collaterali”; le bugie e le disinformazioni prodotte dagli Stati Uniti, dalla Gran Bretagna e dagli altri eserciti coinvolti e la mancanza di fiducia tra gli “alleati”. I primi commenti del presidente Obama sulle fughe di notizie sono state che queste mostravano come erano brutte le cose sotto il regime di Bush, e la Casa Bianca ha utilizzato ulteriormente le informazioni per incolpare Bush di aver dato risorse “insufficienti” alla guerra. Il segretario della difesa Robert Gates ha detto, con la faccia tosta propria di un capo militare americano, che Wikileaks “ha le mani sporche di sangue” e che sta danneggiando “i nostri rapporti e la nostra reputazione in una parte importante del mondo”!

The Guardian chiama questi documenti sulla guerra in Afganistan “l’immagine disvelata” ma non è esattamente vero. Questi documenti sono segreti ma non sono “top secret” o con una classificazione ancora più alta. Molto di ciò che contengono (o di quello che è stato rapportato finora) era già di dominio pubblico e molto si poteva indovinare ragionevolmente dalle prese di posizioni ufficiali e dai servizi giornalistici. Un punto sulla controversa “intelligence” contenuta in molti dei documenti è che questa è una delle maggiori industrie lucrative in tutto il corrotto “Stato” dell’Afganistan, uno Stato putrido fino al midollo; molte delle informazioni, a questo livello, non sono per nulla affidabili. L’informazione proveniente dai ranghi più alti non è migliore: il servizio di intelligence afgano, il National Directorate of Security, è un forte rivale dell’ISI[2] del Pakistan, e i suoi servizi segreti agiscono di conseguenza. Gulbuddin Hekmatyar[3], ex alleato degli Usa e potente signore della guerra, è collegato con i servizi segreti iraniani, il che intorbida ancora di più le acque. Il generalmaggiore americano Michael Flynn ha detto in gennaio che gli articoli dei giornali stranieri sull’Afganistan erano più utili dell’intelligence sul posto.

Ciò che i documenti mostrano chiaramente però è l’estensione e la profondità della guerra, la sua vera dimensione e le rivalità imperialiste, i massacri e il caos che si estende. Mostrano la vera natura della guerra, le atrocità, le torture, le macchinazioni, la corruzione, e la crescente consapevolezza che la guerra non si può vincere. L’idea di un governo stabile in Afganistan fra due, quattro o dieci anni è chiaramente una battuta. Alla fine di questo mese 100.000 militari americani saranno sul posto, più altri 50.000, una decina di migliaia di “contractor”[4] e mercenari e migliaia di ONG che fanno più o meno gli interessi degli Stati di provenienza, più centinaia di migliaia di soldati afgani.

La propaganda attuale dell’ISAF/NATO è su come sia diminuito il numero dei civili feriti con la loro politica “courageous restraint”[5], e su come i talebani stanno incrementando il numero dei civili uccisi. Non c’è dubbio su quest’ultimo dato soprattutto man mano che la guerra si estende, ma i recenti ordini del generale Petrus di “perseguire il nemico senza sosta”, può significare solo maggiori sofferenze per i civili. Non esiste un nemico Talebano ma fazioni, gruppi etnici, tribù e spesso contadini locali che prendono le armi contro la distruzione militare della loro vita e della loro terra. Uno dei fattori di questa guerra è che quando c’è un attacco della Nato, a Kandahar o a Helmand per esempio, i talebani e le forze anticoalizione appaiono dove prima non esistevano. In aggiunta al caos così generato, le guardie frontaliere afghane, unità della polizia e dell’esercito in alcune circostanze lottano uno contro l’altro. Questa non è più una lotta contro i talebani o al-Qaeda ma una guerra locale regionale sempre più complessa che coinvolge fazioni di Pashtun, Uzbeki, Tagiki e Hazari con le grandi potenze coinvolte.

La guerra si sta allargando

La guerra si sta allargando, coinvolgendo e risvegliando altre forze imperialiste. Il territorio pachistano e la popolazione sono stati colpiti dalle unità speciali “nere” degli Stati Uniti, da aerei militari, elicotteri apache, droni e proiettili di obice e sono stati bombardati anche dai B52 per negare ai talebani quelle zone sicure descritte come “inaccettabili… intollerabili” dalla Casa Bianca. Questa è la lenta realizzazione della minaccia fatta molti anni fa dagli Stati Uniti di far ritornare il Pakistan “all’età della pietra”. Il presidente afgano Karzai ha avuto riunioni segrete con il servizio segreto pachistano (ISI), dove quest’ultimo auspicava un avvicinamento tra la sua fazione e la rete jihadista, patrocinata dall’ISI, di Sira-juddin Haqqani[6] concedendo a questi il sud dei Pashtun e consolidando Karzai a Kabul (gli Stati Uniti non erano presenti a queste trattative).

Sull’esempio del Grande Gioco tra Gran Bretagna e Russia più di cento anni fa, il Pakistan guarda alla piccola ma significativa, presenza dell’India in quello che loro chiamano il loro cortile con la paura e l’orrore di un imperialismo minacciato. Questo pericolo è sottolineato in un rapporto di Matt Waldmen dell’Harvard Carr Center, che documenta come l’ISI “orchestra, sostiene e influenza fortemente (i talebani)…(ed è ) rappresentato come partecipante o osservatore nel consiglio del comando supremo talebano, il Quetta Shura”. Come dice William Dalrymple nel The Guardian del 2 luglio 2010, l’Afganistan si sta trasformando in una guerra per procura tra India e Pakistan.

Dietro al Pakistan, la Cina si apposta nell’ombra e negli affari geostrategici in gioco, particolarmente nel confronto con l’Iran, Stati Uniti e forze britanniche hanno via libera lungo il confine afgano-iraniano. Quest’ultimo elemento è uno delle “utilità” della presenza americana in Afghanistan. Ci sono ulteriori tensioni all’interno della stessa ISAF/Nato; disaccordi ed azioni unilaterali che coinvolgono Germania, Francia, Olanda, Canada rispetto alla “politica” degli Stati Uniti che dimostrano la tendenza verso il caos imperialista dentro e fuori lo stesso Afghanistan.

Iraq: la guerra continua

A questo proposito la guerra in Iraq è istruttiva. Il Presidente Obama, che la chiamò “una guerra muta”, ha detto ora che lui l’ha portata ad “una fine responsabile... come promesso e nei tempi previsti”. Chiaramente questo è una novità per la popolazione dell’Iraq dove molti civili stanno vivendo in intollerabili condizioni spaventose e stanno morendo più che in Afganistan. Dopo 5 mesi dalle elezioni “democratiche” in Iraq non c’è ancora un governo che funziona; e, dal nulla, al-Qaeda ora si è fortemente installata qui. In ogni caso gli Stati Uniti non lasceranno l’Iraq così presto ma semplicemente si ritireranno dentro le loro fortezze.

Come Seumus Milne mostra nel The Guardian del 5 agosto, almeno 50.000 soldati degli Stati Uniti (più le forze britanniche e decine di migliaia di mercenari) rimarranno in 94 basi, “stando il allerta, addestrando... provvedendo alla sicurezza e mettendo in atto misure di antiterrorismo”. Nei fatti, come Milne chiarisce, c’è un “afflusso” di mercenari con “presenza durevole” in Iraq. Qui le uccisioni e la tortura sono ancora comuni, la salute e l’istruzione sono peggiorati, così come la posizione delle donne; millecinquecento posti di controllo dividono la capitale e gli iracheni che protestano nelle strade sui frequenti tagli di elettricità vengono identificati come “hooligan” e attaccati dalle truppe irachene. Se la guerra in Iraq è stata un monumentale e cruento fallimento da parte degli Stati Uniti e dell’imperialismo britannico, questi non solo vi sono ancora molto implicati ma ora si ritrovano impantanati in un caos ancora più sanguinario ed irrazionale in Afghanistan, che ha implicazioni anche più pericolose per l’intera regione ed oltre.

Baboon, 12-8-2010



[1] organizzazione internazionale che pubblica sul proprio sito documenti coperti da segreto, https://wikileaks.org/ [84]

[2] L’Inter-Services Intelligence (o ISI) è la più importante e potente delle tre branche dei servizi di Intelligence del Pakistan.

[3] Questo Hekmatyar è ben conosciuto come massacratore. Gli è stato dato aiuto e addestramento dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna nel 1980 e ha avuto colloqui con ufficiali britannici a Whitehall, sede del governo. I britannici addestrarono Hekmatyar nel condurre operazioni segrete nelle repubbliche mussulmane dell’Unione Sovietica.

[4] Gente stipendiata dalle cosiddette Compagnie militari private, cioè vere e proprie imprese che forniscono consulenze, servizi speciali militari e naturalmente “mano d’opera” agli Stati in guerra

[5] Letteralmente “controllo coraggioso”, cioè astenersi dall’aprire il fuoco in situazioni di pericolo . per evitare i cosiddetti “danni collaterali” (90 civili uccisi per errore in 5 mesi, ad esempio!).

[6] Haqqani è un signore della guerra della rete terroristica dell’Harkat-ul-Mujahideen (HUM). Il Pakistan l’ha appoggiato anche nella sua guerra per procura contro l’India in Kashmir. La Gran Bretagna ha offerto aiuto sottobanco all’HUM in passato e ci sono rapporti che dicono che la GB è stata coinvolta in unità di questo gruppo che sono state spedite per combattere nell’ex-Iugoslavia e nel Kosovo negli anni novanta. Molti combattenti dell’HUM hanno ricevuto aiuto indiretto dalla Gran Bretagna. Due dei quattro attentatori londinesi sono stati addestrati in campi del Pakistan controllati dall’HUM.

Questioni teoriche: 

  • Guerra [36]
  • Imperialismo [37]

Recenti e attuali: 

  • Afganistan [85]

“Le quai de Ouistreham” di Florence Aubenas, una terribile testimonianza della condizione operaia

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Nel suo ultimo libro, Le Quai de Ouistreham[1], la giornalista Florence Aubenas ci svela la cruda e spaventosa verità della vita dei lavoratori precari.

Nel 2009 si è fatta passare per una disoccupata alla ricerca di un impiego nella regione francese della Bassa Normandia. La sua motivazione? “La crisi. Non si parlava d’altro, ma senza realmente conoscerla, né che dimensioni avesse. Tutto dava l’impressione di un mondo sul punto di crollare. E tuttavia, intorno a noi, le cose sembravano sempre al loro posto”. Il suo scopo? Ottenere un CDI[2]. L’otterrà alla fine di 6 mesi di galera: “le condizioni sono  miracolose (…): un contratto dalle 5.30 alle 8.00 di mattina, pagate alla tariffa della convenzione collettiva, 8,94 euro all’ora” (sic!). Ciò dà l’idea delle condizioni di vita di milioni di disoccupati o lavoratori precari: si arriva a chiamare “miracoloso” un misero contratto che permette di lavorare solo 2 ore e mezza al giorno, poco più del SMIC![3]

Le agenzie interinali e l’ufficio di collocamento

Il suo percorso comincia “ingenuamente” (secondo le sue parole), attraverso i lavori ad interim. Florence Aubenas vi giunge precisando fieramente “accetterò tutto”. “Qui, tutti accettano tutto” le rispondono! Rapidamente li gira tutti. Rapidamente li conosce tutti. Rapidamente capisce che non ha nessuna speranza di ottenere un impiego in questi tempi di crisi: non ha lavorato da 20 anni… non ha nessuna esperienza professionale … lei non ha un profilo “affidabile” per l’interim …

Raggiunge l’ufficio di collocamento, una delle esperienze più traumatizzanti. Tutto è organizzato per stare male. I locali sono tristi, non ci sono mezzi adeguati per la ricerca di lavoro, ci sono pochi computer ed uno solo è collegato ad una stampante funzionante. Uno schermo televisivo trasmette continuamente lo stesso ignobile slogan: “Avete dei diritti, ma anche dei doveri. Potete essere radiati”. Radiati… Lo Stato vuole incidere questa minaccia nelle menti, vera spada di Damocle… Niente più sussidi, niente più diritti, più niente… il vuoto… il nulla… Tutto è fatto per colpevolizzare gli operai, per far loro credere che se sono radiati è solo solo colpa loro. “Avete dei doveri”. Capite bene: “è normale fare qualche sforzo per cercare un impiego, voi che vivete alle spalle degli onesti lavoratori e siete pagati per non fare niente”. No! Tutte queste costrizioni imposte dal governo hanno un unico scopo: radiare quanti più disoccupati possibile per barare sulle cifre della disoccupazione e risparmiare.

Col passare delle pagine la ricerca di un lavoro diventa un percorso da combattimento usurante e scoraggiante.

Tutto comincia col primo appuntamento. L’impiegato annuncia a Florence Aubenas che deve avere il secondo appuntamento nelle successive 24 ore, se no…

Il secondo appuntamento non durerà più di venti minuti, nuove direttive “dall’alto”. (…).

E poi c’è l’appuntamento mensile, “un obbligo stabilito dall’amministrazione”, a costo di sborsare una grossa spesa per il trasporto. “Davanti allo sportello, una disoccupata aspetta, arrabbiata ma in silenzio, con gli occhi di disapprovazione. La si sente gonfia di lagnanze che non osa esprimere e che l’accompagnano da molto. Deve pensare continuamente alle convocazioni all’agenzia, soprattutto la notte. Sono obbligatorie una volte al mese, passa tutto un giorno qui, lo sa, bisogna venire in autobus da Dives per essere ricevuta venti minuti all’ufficio di collocamento - e talvolta anche dieci, come l’ultima volta. In un ufficio esposto a tutte le correnti d’aria, un impiegato che sospira tanto più che non le proporrà niente. E durante questo tempo, su tutte le trasmissioni televisive, sente i politici spiegare che le cifre della disoccupazione non sono così cattive. C’è da impazzire”

E ci sono ancora gli stage dai temi “bidoni”[4] che finiscono per “essere peggio di un lavoro”. Là ognuno a turno si presenta, racconta il suo doloroso percorso, e poi … Quando si conclude lo stage “imparare a redigere un CV”, non è previsto nessuno materiale per battere né stampare i nuovi CV redatti! Quando bisogna andare ad una “riunione speciale di informazione” risulta subito evidente che “che l’ufficio di collocamento non ha, in realtà, niente da annunciare a questa riunione!”. D’altra parte uno degli impiegati finisce per spiegare che loro hanno delle consegne, che bisogna far abbassare le cifre della disoccupazione e che questa riunione è uno dei modi: “si convoca una categoria di disoccupati, quadri, precari, poco importa. Una parte non verrà e senza giustifica è statistica. Saranno radiati”.

Del resto il personale dell’ufficio di collocamento non ha più nessuna illusione sul proprio ruolo: “è stato costituito da molto tempo (…) da lavoratori sociali. Oramai, il reclutamento mira innanzitutto al settore commerciale”. Non bisogna più dire “richiedenti impiego” ma “clienti”. Non bisogna più “fare del sociale” ma “fare delle cifre”. “Guadagnare in produttività è la priorità” del governo… altrimenti niente premi collettivi per l’agenzia! Allora, la durata dei colloqui non deve superare i 20 minuti. “In certe agenzie, certe volte ogni impiegato ha più di 180 richiedenti nel suo portafoglio, quando dovrebbe averne 60. La regione ha più di 4.000 dossier in ritardo. Nessuno arriva più a tenere il ritmo”.

Ed il personale scoppia: appaiono tentativi di suicidio, alcuni con triste successo: “sembra che si è appeso alle scale dell’ufficio di collocamento”. E gli utenti sono sempre più aggressivi. Gli impiegati dell’ufficio di collocamento ne sono sicuri, “(…) un giorno finirà per succedere un dramma, qualcuno entrerà nell’agenzia, taglierà loro la gola o sparerà loro addosso”. No, l’ufficio di collocamento non illude più nessuno, soprattutto non quelli che vi lavorano.

Alla fine, dunque, Florence Aubenas si vedrà giudicare, valutare e proporre un lavoro in meno di venti minuti: “volete cominciare una nuova vita? Fare le pulizie, che cosa ne pensate?” In realtà al suo profilo non corrisponde nessun’altra gran cosa. Accetta. In quanto al CDI che si è fissata come obiettivo, si rivela una missione impossibile: “questo tipo di impiego non esiste più nel vostro circuito. Presto non esisterà più da nessuna parte. Non si sa”.

Dopo 15 lunghi giorni di ricerche, Florence Aubenas trova il suo primo impiego, un “impiego” che nessuno vuole, anche i più poveri: fare le pulizie su un traghetto a Ouistreham.

Una moltitudine di piccoli contratti… 

Eppure tutti l’avevano avvertita: se vedi un annuncio sul traghetto “non andarci. Non rispondere. Non pensarci nemmeno. Dimenticalo. (…) Quel posto è peggio di tutto”. Ouistreham, è peggio del “penitenziario e della galera messi insieme”. Si fanno le pulizie durante lo scalo tra le 21.30 e le 22.30, tutte le sere, con un guadagno “poco più di 250 euro al mese, con dei premi i giorni festivi o le domeniche”, ed è un contratto di 6 mesi. Bisogna avere un mezzo di trasporto. Florence Aubenas ne trova uno per caso: un’amica conosce qualcuno che può prestarle un’auto per qualche tempo… Il tragitto d’andata durerà 1 ora: “siccome solo il tempo passato a bordo è pagato, si perdono due ore per guadagnarne una”. Florence Aubenas chiede ad una collega: “non pensi che viene sprecato troppo tempo per il salario che si riscuote?” La collega non comprende. Da dove viene “per non sapere che è normale? Per il lavoro della mattina, lei deve percorrere un tragitto di tre ore”.

Sul posto, si tratta di pulire in tempi record i servizi e le cabine del traghetto: per esempio, massimo 3 minuti per i bagni! Il lavoro è duro, faticoso e senza interruzione. Tutto deve essere perfetto. Se non lo è, tutto deve essere rifatto. “In un quarto d’ora le mie ginocchia sono raddoppiate in volume, le mie braccia sono divorate da formiche e schiumo dal caldo (…)”. L’ora di lavoro dura un secondo ed un’eternità”.

Oltre a questo lavoro, Florence Aubenas trova un CDD (contratto a tempo determinato) tutti i sabati mattina per pulire dei bungalow in un campeggio. Viene assunta da un’agenzia di pulizia, l’Immacolata. 

Per riuscire a sopravvivere bisogna effettivamente cumulare diversi impieghi, diversi contratti, diversi luoghi, diversi orari e ore di spostamento. Florence Aubenas ha “l’impressione di passare (il suo) tempo a girare, pensando senza pensare, la testa attraversata dalle combinazioni complicate di orari, di tragitti, di consegne”. L’Immacolata le “propone” anche delle sostituzioni. Le chiamate vengono effettuate di giorno in giorno, all’ultimo momento. Bisogna accettare. È il solo modo di sperare di ottenere qualche  contratto che non sia breve. Vive nell’attesa e dorme poco. Le condizioni di lavoro saranno sempre le stesse: “lavare, spolverare, aspirare in tempo record una superficie enorme, senza sforare. E quando supera gli orari, non le vengono pagate le ore supplementari.

Per il datore di lavoro dare un lavoro estenuante e sottopagato è presentato quasi come un favore… “se non sei contenta, ce ne sono migliaia fuori pronte a prendere il tuo posto”. E’ semplice: gli operai non hanno scelta. Devono accettare tutto: essere costretti al servizio gratuito, fare delle ore non remunerate, essere presenti appena c’è bisogno … Il ricatto è insidioso, ma Florence Aubenas comprende bene che se si rifiuta o si lamenta, non avrà “una seconda opportunità”.

I contratti di pulizia sono disputati aspramente da parecchie imprese che negoziano orari sempre più ridotti: “l’impresa di pulizia precedente assicurava la prestazione in due ore, l’Immacolata le ha strappato il mercato rimediando quindici minuti”. Florence  Aubenas ripartirà con tre quarti d’ora di ritardo… Al campeggio è ancora peggio. Il padrone annuncia fieramente: “vedrete, è veramente tranquillo. Laggiù ne avrete al massimo per 3 ore ed il vostro contratto ne prevede 3 ed un quarto”. Alla fine la squadra di 5 persone impiegherà 5 ore. “Si finisce faticosamente verso le 15,30. Non si è mangiato niente dalla mattina, non si riesce più a portare i secchi, non si è avuto il tempo di andare al bagno, ci si sente montare da una rabbia folle e disordinata”. Tutte le settimane seguenti somiglieranno a questa: con l’eccedenza di orario di 2 o 3 ore. E queste ore supplementari non saranno mai pagate!

Con un’altra impresa, Florence Aubenas farà l’esperienza del lavoro gratuito: “da noi i periodi di prova non sono pagati!”.

I sindacati…

Durante il suo periplo, Florence Aubenas conosce Victoria, settuagenaria che ha fatto tutta la sua carriera come donna delle pulizie e combattente sindacalista della prima ora. L’incontro avviene alla fine della manifestazione contro la crisi del 19 marzo 2009. Victoria spiegherà più tardi che aveva 22 anni quando si è iscritta al sindacato: “Questo era scontato”. Ma “il sindacalismo non era un affare facile in questo mondo di uomini, organizzato intorno alle grosse sezioni, i metallurgici, i cantieri navali, (…) Nelle manifestazioni, alcuni avevano vergogna di essere visti accanto alle cassiere di Continente o alle donne con una scopa. Era il loro sciopero, la loro marcia, la loro bandiera, il loro sindacato”. Victoria era nella sezione dei precari. Durante le riunioni non capiva tutti i termini usati. Ma se qualcuno chiedeva delle spiegazioni i responsabili sindacali si innervosivano: “non vedi che infastidisci tutti con le tue domande?” Alcuni se ne burlavano anche apertamente se un precario prendeva la parola. La redazione dei volantini si svolgeva sempre allo stesso modo. Le ragazze cominciavano a scrivere ma non appena ci mettevano un po’ di tempo in più, un responsabile scriveva il volantino al loro posto. Nessuno “aveva la pazienza di ascoltare quello che avevano da dire”. Alla fine le ragazze non distribuivano il volantino perché non corrispondeva alle loro idee. “Si facevano trattare da ‘scocciatrici’.”. “Mancavano definitivamente di ‘coscienza di lotta’.". Negli anni 80, viene tolta la parola a Victoria da un amico sindacalista in piena riunione mentre esprime il punto di vista delle donne delle pulizie: “mi rendo conto che i militanti non passano ormai più la scopa nei locali. Si cerca qualcuno per farlo. Perché non tu, Victoria, alcune ore per settimana? Saresti salariata”. Viene nominato allora un responsabile per dirigere la sezione dei “precari”, “un vero letterato, bardato di diplomi”, perché “occorre un intellettuale per rappresentare degnamente il sindacato (…). Non si può mandare una cassiera o una donna delle pulizie alle riunioni!” Alla fine degli anni 80 il sindacato non ha più denaro per Victoria: viene cacciata. “Quel giorno, li vede uscire dalla sala ridendo. (…) Non si trattiene. Grida: ‘banda di immondizie’.

Per la sua amica Fanfan, anche lei iscritta ad un sindacato nello stesso periodo, è la stessa storia. Viene cacciata ingiustamente dall’ipermercato dove lavora perché è alla testa di una piccola sezione sindacale. “Il sindacato non muove un dito per aiutarla. Fanfan lascia la militanza sindacale”.

Il sindacalismo, organo permanente di lotta, viene descritto come è veramente: un organo staccato dagli interessi della classe operaia, un organo elitario dove si difende un solo punto di vista: quello della centrale sindacale, quello di coloro i quali sono pagati per, come loro pretendono, “rappresentare i lavoratori”. Questo è un organo che decide per la classe operaia contro gli interessi della classe operaia.

Florence Aubenas ha scelto di raccontare la vita dei lavoratori e dei disoccupati di Caen ma la stessa storia si sarebbe potuta svolgere in qualsiasi altro posto. Il bilancio sarebbe stato lo stesso, le esperienze raccontate ed il dolore per la mancanza di futuro identici.

Detto questo, anche se la situazione dello sfruttamento capitalista e la descrizione del lavoro dei sindacati è implacabile (“A che serve? I sindacati hanno fatto casino a Caen per anni e le fabbriche hanno chiuso lo stresso”), questo libro non lascia alla fine nient’altro che disperazione. Quando il lettore finisce queste 300 pagine è facile immaginarlo silenzioso, scoraggiato, triste e spaventato per la situazione drammatica descritta dalla giornalista. Perché, alla fin fine, non emerge nessuna prospettiva per il futuro, nessun barlume di luce. Nella regione di Caen, come in molti posti, “in meno di un secolo, si è costruita l’industria, poi è stata completamente smantellata” ed ha lasciato solo desolazione e un sentimento di “no future”. “La Francia diventerà come il Brasile, (…) ci ritroveremo su mucchi di rifiuti, cercando di sopravvivere con quello che si trova”.

Florence Aubenas non va fino in fondo al suo ragionamento, non tira le conclusioni che le sue stesse descrizioni impongono.

Sì, il capitalismo semina la miseria! Sì, la sorte della classe operaia è indegna! Ma tutto questo è anche, e soprattutto, rivoltante. Di fronte all’orrore della schiavitù salariale, non è la paura né la disperazione che devono animare la classe operaia ma la combattività e la convinzione che essa può costruire un altro mondo! È proprio questa fiducia in sé stessa che oggi più le manca e che l’ha tanto inibita … fino ad ora.

Cunégonde (29 giugno)



[1] In italiano “Il lungosenna di Ouistreham”, edito in Francia dalla casa editrice Editions de l’Olivier

[2] Contratto a tempo indeterminato

[3] “Salario minimo interprofessionale di crescita” che corrisponde al vecchio “salario minimo interprofessionale garantito” ma senza l’aggancio all’inflazione. Il suo valore è di 8,86 euro lordi per ora di lavoro.

[4] “Lettera di candidatura spontanea”, “come redigere una lettera di risposta ad un’inserzione”?, “mettere in valore le proprie competenze”, “utilizzare il telefono nella ricerca di impiego”…

Patrimonio della Sinistra Comunista: 

  • Coscienza di classe [86]

Rivoluzione Internazionale n°168

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Dicembre 2010-gennaio 2011

Lavoratori, disoccupati, pensionati, studenti … Abbiamo tutti bisogno di lottare assieme

Di fronte agli attacchi ripetuti della borghesia, che stanno portando ad un forte incremento della povertà e della disoccupazione, la reazione è stata spesso isolata. Dove e come possiamo cominciare a combattere contro questo attacco? Seguendo la stampa che ha riportato le notizie di milioni di persone che hanno manifestato per strada in Francia contro la riforma delle pensioni del governo Sarkozy, la reazione è stata spesso “Ma perché non possiamo fare come i francesi? Loro sanno come lottare”.

La classe operaia in Italia, come nel resto del mondo, non ha minori motivi per essere arrabbiata. E ci sono segnali che indicano che questa rabbia sta prendendo una forma visibile, come ad esempio:

  • i precari della scuola, di fronte ad un vero e proprio licenziamento di massa, si sono organizzati da soli, promuovendo manifestazioni di piazza con presidii, occupazione, manifestazioni di strada;
  • gli operai della Fincantieri, che hanno dato luogo a manifestazioni locali e nazionali, scontrandosi pure con la polizia;
  • le lotte degli studenti (e del mondo dell’istruzione più in generale) contro il decreto Gelmini, alimentate nel profondo dalla ricerca di un futuro che è stato negato a tutta l’attuale generazione di giovani;
  • la ricerca attiva della solidarietà attraverso la creazione di coordinamenti cittadini – tra cui i più interessanti sono a Milano, Roma e Torino - dei vari comitati di operai attivi nei vari posti di lavoro per cercare di dare una risposta unitaria agli attacchi che continuano a piovere da tutte le parti;
  • una moltitudine di lotte di piccola dimensione un po’ in tutti i settori (sanità, industria, costruzioni, ecc.).

Il problema che devono affrontare i proletari è che queste ed altre lotte sono rimaste isolate. In Francia, la richiesta di abbandonare la riforma delle pensioni è stata ripresa da tutto il movimento, creando la possibilità di manifestazioni di massa non solo contro questo attacco, ma anche contro tutti gli altri che i padroni e lo Stato sono costretti ad imporre per la crisi economica. Questo non significa che i francesi siano all’alba della rivoluzione: anche lì lo Stato può contare sul suo apparato politico e sindacale per impedire una reale unificazione e di auto-organizzazione della lotta, nonostante i piccoli passi in quella direzione.

Nonostante la frammentazione delle lotte e il loro isolamento, non c’è dubbio tuttavia che l’attacco della borghesia sia rivolto a tutta la classe operaia, occupati, disoccupati, studenti, pensionati, lavoratori part time. C’è un disperato bisogno di mobilitazione in cui tutti possano identificarsi e partecipare.

In passato, i sindacati erano una forza che rappresentava gli interessi dei lavoratori nei confronti del capitale. Ma ormai a partire dall’inizio del secolo scorso i sindacati sono diventati parte delle forze dell’ordine, si sono fatti i difensori della sostenibilità delle rivendicazioni salariali e hanno finito per integrarsi nello Stato. La conseguenza è che oggi, per mantenere una credibilità nei confronti dei lavoratori, sono costretti a rispondere al loro malcontento chiamando a delle giornate di sciopero e di manifestazioni, ma facendo il possibile per mantenere gli scioperi divisi e senza risultati.

Se ci deve essere una risposta concreta al violento attacco dello Stato alle condizioni di vita dei lavoratori, sarà prima o poi necessario uscire dai canali ufficiali: i lavoratori dovranno farsi carico in prima persona delle proprie lotte, dovranno combattere insieme e manifestare insieme, raccogliendo le istanze comuni che possono portare le diverse parti della classe operaia nello stesso movimento.

Una tale risposta di massa non verrà fuori dal nulla: può essere preparata solo prendendo parte alle lotte esistenti, per quanto ostacolate dai sindacati possano essere. E’ fondamentale che coloro che vedono la necessità di un movimento veramente indipendente della classe lavoratrice comincino a mettere assieme le loro forze e le loro idee.

CCI, 14 dicembre 2010

Patrimonio della Sinistra Comunista: 

  • Lotta proletaria [5]

La lotta degli studenti: una generazione alla ricerca di un futuro negato

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Le lotte degli studenti universitari, con un’interessante eco nel mondo dei ricercatori e dei precari nonché delle scuole superiori, sono tornate ancora una volta, fragorose e vivissime come sempre, a riempire le cronache delle ultime settimane, innescate dalla discussione in parlamento sul cosiddetto decreto Gelmini, ma alimentate nel profondo dalla ricerca di un futuro che è stato negato a tutta l’attuale generazione di giovani. Le ragioni della protesta sono profonde: il mondo dell’istruzione, da momento propulsivo per la crescita di tutta la società, è diventato in anni di crisi economica una palla al piede per il governo che cerca tutte le occasioni per ridurre i costi di gestione del settore. Così, nel mondo universitario:

  •  é passata la Legge 133/08, che prevede tagli per quasi 1.5 miliardi di euro al Fondo di Funzionamento Ordinario delle Università, da realizzarsi in 5 anni (2009-2013), con tagli già operati per gli anni 2009 e 2010 che hanno messo in ginocchio diecine di università italiane e a rischio gli stessi stipendi dei lavoratori, alimentando inoltre una vera e propria competizione tra i diversi atenei. Infatti le Università, per ricevere quegli stracci di finanziamenti residui da parte dello Stato, devono concorrere l’una contro l’altra in una sfida basata su criteri assolutamente aberranti che stanno portando alla degenerazione e al collasso dell’istruzione superiore. Ad esempio, vengono premiate le università dove risulta un maggior numero di promozioni al primo anno (che evidentemente incoraggia la promozione facile) o ancora quelle i cui laureati trovano più lavoro nei primi tre anni dalla laurea (leggi università del nord);
  • sono stati congelati gli scatti stipendiali per tutto il personale docente e tecnico-amministrativo per i prossimi 3 anni che, per un giovane assunto, fosse anche un ricercatore (che ha uno stipendio base di inizio carriera di circa 1.200 euro), significa essere fortemente penalizzati sulla carriera futura;
  • è stato ridotto ai minimi termini il turn-over del personale sia tecnico-amministrativo che docente, con la conseguenza che, chi è rimasto, deve fare il doppio o il triplo del lavoro con conseguenze prevedibili sulla qualità della didattica e della ricerca;
  • è stato quasi del tutto azzerato il diritto allo studio, essendo passato il relativo fondo ministeriale dai 246 milioni di euro nel 2009 a 99 milioni nel 2010 e successivamente a soli 76 milioni di € per il 2011. Ma l'ultima manovra finanziaria, approvata in Consiglio dei Ministri il 14 ottobre, ha ridotto a solo 25.731.000 € il fondo per il diritto allo studio per l'anno 2011/2012 e per il 2013 sono previste risorse per soli 12.939.000 €!!!
  • grazie alla “Gelmini”, è previsto il blocco di fatto della carriera dei ricercatori attuali, cioè quella categoria di lavoratori che ha finora assicurato una parte significativa del lavoro globale svolto in un ateneo, istituendo nuove figure di ricercatori … a tempo definito, cioè precari per definizione;
  • ed ancora è previsto l’ingresso del 40% di privati nei consigli di amministrazione, che sarà da una parte una giustificazione per lo Stato a ritirarsi in buon ordine e a deresponsabilizzarsi nel prossimo futuro delle università, dall’altra una maniera per selezionare alcune singole sedi di élite per perseguire specifiche esigenze imprenditoriali e lasciare il resto all’abbandono più completo.

Come si vede, è tutto il sistema universitario che si sta mettendo in discussione e che scricchiola in maniera sempre più inquietante. Ed è altrettanto chiaro che gli studenti, che vivono sul piano sociale la crisi economica nelle loro famiglie e la crisi dell’istituzione universitaria nella loro vita quotidiana, sono fortemente angosciati da questa situazione sociale che non dà loro alcuna garanzia per il futuro. La loro lotta è perciò, come detto, per rivendicare un futuro che si vedono negato. Da questo punto di vista, come era già avvenuto per le lotte del 2008, queste lotte non hanno nulla di studentesco né sono i capricci di figli di papà che una volta erano i soli utenti degli studi superiori, ma esprimono viceversa la lotta di una generazione che non vuole essere emarginata, che reagisce al vuoto di prospettive di una società in crisi.

D’altra parte non è solo in Italia e solo ora che sorgono movimenti di questo tipo. Le lotte contro il contratto di primo impiego degli studenti francesi nel 2006[1], e poi quelle dell’Onda in Italia nel 2008[2], e successivamente in Germania[3], in Grecia, Spagna[4], fino alle recenti lotte in Irlanda[5] e Gran Bretagna[6] (dove la causa scatenante è stata l’aumento vertiginoso delle tasse universitarie: in Irlanda da 1500 a 2500 euro e in Gran Bretagna da 3000 a 9000 sterline!) sono tutte espressione di questo malessere sociale di una componente a pieno titolo proletaria. E che la natura del movimento sia proletaria si vede anche dalle manifestazioni di solidarietà che sono state espresse nel percorso di questo movimento, a partire da quella dei lavoratori e precari dell’università, che spesso si sono uniti alle stesse assemblee degli studenti, a quella dei precari della scuola, che l’hanno espressa per iscritto e nelle piazze, fino alla più recente manifestazione di solidarietà espressa dai lavoratori del S. Carlo nei confronti degli studenti napoletani caricati dalla polizia all’interno dello stesso teatro:

“Arrivati all'ingresso del teatro gli studenti hanno parlato con i lavoratori per chiedere di poter entrare per esporre uno striscione e per raccogliere la loro solidarietà: i tagli che ha subito l’Università rispondono alla stessa logica di quelli effettuati a tutto il settore culturale!” Ma, “incassata la solidarietà dei lavoratori (gli attori avevano addirittura fermato le prove per discutere assieme dei tagli alla cultura e all'università), la celere ha fatto irruzione nel teatro.”[7] Ma l’aspetto più importante è che le forze della repressione non sono riuscite a spezzare quella solidarietà che si stava costruendo attraverso il dibattito improvvisato, e che si è espresso sia in uno specifico comunicato da parte dei lavoratori del S. Carlo (I lavoratori del san Carlo e gli studenti tutti, che hanno partecipato alla manifestazione, DENUNCIANO CON FORZA, l'atto di violenza gratuita delle forze dell'ordine e chiedono il rilascio immediato dei ragazzi fermati di cui ad ora non si hanno notizie)[8] che attraverso delle prese di posizione personali. D’altra parte lo stesso movimento degli studenti, oltre a far giungere attestati di solidarietà nei confronti delle contestazioni di cui si stanno rendendo protagonisti gli universitari del Regno Unito, ha promosso svariate iniziative per rompere l’isolamento mediatico sulle lotte, utilizzando una politica nuova, quella dei flash mob[9], attraverso cui sono stati esposti striscioni sui principali monumenti di tutta Italia e, attraverso gli studenti Erasmus, anche in Europa.

Naturalmente non mancano le debolezze in questo movimento, come ad esempio una eccessiva polarizzazione sulle tematiche della riforma Gelmini, che si giustifica almeno per il fatto che è proprio adesso che questa è in discussione in parlamento, o ancora un certo atteggiamento naif nei confronti della sinistra, del sindacato e della FIOM in particolare, che passa attualmente in alcune parti del movimento come una struttura credibile. O ancora - ma non gliene possiamo fare una colpa - il fatto che non si è realizzato l’incontro tra le lotte degli studenti e quelle dei lavoratori, mancando in questo momento una dinamica di lotte aperte e di massa nei luoghi di lavoro. Ma, al di là di qualsivoglia debolezza possa essere presente in questo movimento, occorre guardarsi da posizioni come quella espressa da un giornalista[10] che fa un paragone tra il movimento studentesco del '68 e quello attuale, considerando il movimento del ‘68 come un movimento “rivoluzionario”, mentre quello attuale sarebbe solo un movimento riformatore, che riuscirà nel suo obiettivo proprio perché gli studenti oggi “non vogliono tutto”, ma solo “un cambio di marcia”. Ora, con tutti i meriti che possiamo attribuire alla generazione del ‘68, ed in particolare quella di aver interrotto con il prorompere nelle lotte di quegli anni la lunga controrivoluzione seguita alla sconfitta dell’ondata rivoluzionaria degli anni ’20, nonostante un lessico rivoluzionario e il continuo riferimento ai classici del marxismo, questa generazione non era pronta per la rivoluzione per il semplice motivo che questa era ancora confusa dal boom economico da cui proveniva e non aveva ancora maturato la necessità di un evento rivoluzionario. Viceversa la generazione attuale, nonostante le sue debolezze, è materialmente costretta a fare i conti con la realtà della crisi economica e dunque del sistema in cui vive, ponendosi il problema della necessità di un cambio storico nel sistema. Come abbiamo già detto, mentre “alla fine degli anni ’60, l’idea che la rivoluzione fosse possibile poteva essere relativamente diffusa, ma non quella della sua necessità. Oggi, al contrario, l’idea che la rivoluzione sia necessaria ha un impatto non trascurabile, ma non altrettanto quella della sua possibilità”. Ma la crisi e lo sviluppo delle lotte a livello internazionale stanno lavorando pazientemente a favore della causa del proletariato.

Ezechiele, 8 dicembre 2010

 

[1] Vedi Tesi sul movimento degli studenti della primavera 2006 in Francia [63], in www.internationalism.org [62], ICConline 2006.

[2] Vedi “Noi la crisi non la paghiamo!” [87] in www.internationalism.org [62], ICConline del 2008.

[3] Vedi Manifestazione di liceali e universitari in Germania: “Manifestiamo perché ci stanno rubando il nostro futuro” [88] in www.internationalism.org [62], ICConline del 2009.

[4] Vedi Grecia, Germania, Francia, Italia, Spagna … Le rivolte dei giovani confermano lo sviluppo della lotta di classe [89] in www.internationalism.org [62], ICConline del 2009.

[5] Vedi Scontri a Dublino tra polizia e studenti, su studiolavoro.irlandaonline.com/scontri-dublino-tra-polizia-studenti.

[6] Vedi Student/worker demonstrations: We need to control our own struggles! [90] e Revolt in universities, colleges, schools: A beacon for the whole working class [91] in www.internationalism.org [62], ICConline (lingua inglese) del 2010.

[7] Dal comunicato degli studenti, riportato su Caricati gli studenti che protestavano al Teatro San Carlo contro i tagli alla cultura [92], https://www.flickr.com/photos/cau_napoli/sets/72157625515285532/ [93].

[8] Ancora in Caricati gli studenti che protestavano al Teatro San Carlo contro i tagli alla cultura [92]

[9] Dall’inglese flash: breve esperienza o in un lampo, e mob: folla: indica un gruppo di persone che si riunisce all’improvviso in uno spazio pubblico, mette in pratica un’azione insolita generalmente per un breve periodo di tempo per poi successivamente disperdersi. Il raduno viene generalmente organizzato attraverso comunicazioni via internet o tramite telefoni cellulari (da Wikipedia).

[10] https://corrieredelveneto.corriere.it/venet...257098470.shtml [94]

Patrimonio della Sinistra Comunista: 

  • Lotta proletaria [5]

Assemblea autoconvocata del 9 ottobre a Milano: un importante momento di discussione tra lavoratori

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Il 9/10 ottobre 2010 a Milano, presso il circolo Arci Bellezza, si è tenuta un’importante riunione indetta da coordinamenti e lavoratori in lotta contro i licenziamenti e il precariato intitolata 2° Incontro Nazionale Autoconvocati in lotta contro la crisi - Stati generali della precarietà[1]. Di questa tendenza dei lavoratori a riunirsi e della convocazione di questa seconda riunione avevamo dato notizia nel numero scorso del nostro giornale[2].

Nel volantino di convocazione[3] si legge che “la crisi internazionale del capitalismo è tutt'altro che finita. Di conseguenza l’attacco senza precedenti alle nostre condizioni di lavoro e ai nostri salari si sta amplificando e portando alle estreme conseguenze.” …“in questa situazione di profonda sconfitta che stiamo attraversando (…) tutti noi lavoratori dobbiamo trovare la capacità di riunirci, di riorganizzarci in maniera autonoma e indipendente, per ricostruire la nostra capacità di organizzazione e resistenza e mettere efficacemente in discussione fino a rigettare i piani di ristrutturazione dei padroni.”

A questa riunione, dove si discutevano in contemporanea più aree tematiche[4] in diversi locali, hanno partecipato, secondo gli organizzatori, circa 500 persone. La sessione a cui abbiamo partecipato - Lavoratori uniti contro la crisi - vedeva un’enorme sala piena di lavoratori di molte città del centro e del nord Italia. Anche se non mancava la presenza di elementi del sindacato e del sindacalismo di base, finanche tra le firme del volantino di convocazione, nei fatti chi era presente interveniva come lavoratore, spinto dalla crisi economica e dal duro attacco della borghesia e dello Stato alle nostre condizioni di vita.

La discussione è stata introdotta da una presentazione sulla situazione economica e sociale molto interessante in cui si diceva tra l’altro che:

  • siamo di fronte ad una crisi che è di natura internazionale, permanente, e che è una crisi di sovrapproduzione che si produce a fronte della saturazione di tutti i mercati;
  • non dobbiamo avere nessuna fiducia nel fatto che i sindacati ci possano difendere e la stessa opposizione espressa dalla Fiom negli ultimi tempi è superficiale;
  • occorre perciò creare organi di base controllati dai lavoratori;
  • riconoscere l’importanza dello sviluppo della solidarietà tra i lavoratori, essenziale per evitare la sconfitta di lotte isolate e per raggruppare immigrati, studenti, precari, etc.;
  • riconoscere la necessità di manifestare per strada e in maniera solidale; in questo contesto è importante partecipare alla manifestazione del 16 ottobre a Roma, non per dare man forte alla Fiom, ma per mostrare una grande presenza della classe operaia che contesta ciò che i sindacati stanno facendo, ovvero la divisione della classe dietro ai singoli sindacati;
  • lavorare meno e lavorare tutti con salario uguale;
  • nessuna separazione tra precari e non precari, tra settore pubblico e privato, tutti sono sotto l’attacco della borghesia;
  • nessun lavoro è garantito, siamo tutti precari.

La discussione, che si è sviluppata successivamente con interventi ordinati di 10 minuti massimo a testa, ha ripreso sviluppandoli diversi dei punti della relazione introduttiva, arricchendo ognuno di questi con la passione e le sofferenze dei vari compagni che sono intervenuti. La discussione ha espresso il chiaro sentimento che non c’è possibilità di uscita dalla crisi, che non ci sono settori privilegiati, che gli attacchi prima o poi colpiranno tutti, ed ancora è emerso con altrettanta chiarezza che non c’è in generale granché da fidarsi dei sindacati, anche se sullo strumento del sindacalismo restano dei dubbi perché i proletari ancora non hanno preso coscienza della propria forza e della possibilità di prendere in mano la gestione della propria lotta.

Da qualche intervento è venuta fuori anche la necessità di andare oltre: non è abbastanza la denuncia della situazione presente, noi dobbiamo fare un salto qualitativo, oggi la lotta è per il lavoro e per vivere: “basta con i lavoratori che vanno sui tetti o che si suicidano!”

Come detto anche in un articolo precedente, questa tendenza a incontrarsi per confrontarsi e coordinarsi nell’azione a livello di tutto il territorio nazionale e tra lavoratori di tutte le categorie, disoccupati, precari, immigrati, studenti, ecc., costituisce in sé un elemento di grande forza e di incoraggiamento per tutti. La traiettoria finora seguita è la traiettoria vincente. Ma questo non significa che non ci siano debolezze nel percorso seguito e delle insidie poste sul cammino che stiamo percorrendo che è importante individuare.

La prima questione riguarda la richiesta ripetuta più e più volte di uno sciopero generale. Questa richiesta, ripresa in diversi interventi, era già presente nel volantino di convocazione:

“organizzare la partecipazione comune alla manifestazione del 16 ottobre a Roma per renderla una giornata di riorganizzazione e ricompattamento di tutta l’opposizione di classe nel nostro paese, per promuovere una mobilitazione dal basso, articolata e permanente fino all’autorganizzazione dello sciopero generale come momento finale e decisivo di una grande mobilitazione di massa dei lavoratori contro governo e padroni.”

Diciamo che noi, in prima battuta, abbiamo letto questa richiesta di sciopero generale anzitutto come il desiderio di tutti i proletari che l’hanno evocato di realizzare una unità nella lotta a livello territoriale e fra tutte le diverse categorie. Da questo punto di vista non si può che essere d’accordo con questa aspirazione. Dov’è dunque la debolezza? La debolezza non è di chi aspira a questo obiettivo parlando di sciopero generale, ma nel fatto che questa parola d’ordine può essere facilmente recuperata dai sindacati che usano questa carta per “addormentare” la lotta in attesa del fatidico sciopero generale che, quando arriva, finisce per essere una sfilata vuota e anonima. Di scioperi generali indetti, controllati e manovrati dai sindacati ne abbiamo visti a bizzeffe e non sono mai stati decisivi nel bloccare l’attacco dei padroni e dello Stato. Al contrario essi sono stati spesso l’atto finale, di chiusura di una ondata di lotte, come l’ultima arma da usare. E perciò vengono preparati con mesi di anticipo in modo tale che anche la controparte possa prepararsi, spostano l’attenzione sulla giornata fatale che si dimostra una grande passeggiata, una prova di forza del ... sindacato. Non dei lavoratori.

Un secondo elemento critico riguarda la parte conclusiva della riunione di Milano che, al di là dello spirito appassionato e assolutamente fraterno con cui si è svolta, ha espresso a nostro avviso una debolezza. Nella risoluzione finale[5] infatti non è stato ripreso il punto riguardante la crisi del capitalismo intesa come crisi di sovrapproduzione e di saturazione dei mercati, come detto nella presentazione e non messo in discussione da nessuno. Al contrario si fa riferimento a speculazioni edilizie e finanziarie come cause principali della chiusura di fabbriche e delle delocalizzazioni. L’introduzione di un’interpretazione della crisi basata sui giochi del capitale finanziario, oltre a favorire una lettura della realtà con dei capitalisti “cattivi” (gli speculatori) a cui potrebbero corrispondere altri capitalisti … “buoni”, esprime anche una forzatura politica procedurale. Nella misura in cui le assemblee dei lavoratori devono servire soprattutto a fare chiarezza, le risoluzioni diventano utili ed acquistano forza quando ribadiscono ciò che è stato detto nella discussione e su cui c’è accordo.

Ma queste debolezze possono essere superate se c’è dietro la spinta all’unità e alla solidarietà. Perciò sono così importanti questi momenti di discussione intercategoriali, in cui si costruisce solidarietà tra settori diversi e si pongono le basi per sentirsi un’unica classe di lavoratori con un unico nemico, la borghesia e il suo Stato.

Oblomov 5 dicembre 2010


[1] https://www.precaria.org/assemblea-metropolitana-stati-generali-della-precarieta.html [95]

[2] Italia: la maturazione della lotta di classe [61], in Rivoluzione Internazionale n°167.

[3] https://www.precaria.org/stati-generali-2010/ii-incontro-nazionale-dei-lavoratori-uniti-contro-la-crisi [96]

[4] II Incontro Nazionale dei Lavoratori Uniti Contro la Crisi - Welfare europei: una panoramica - EuroMayDay: General Assembly - Le lotte dei precari - Saperi, formazione e reti - Grandi Eventi - Safety o Security? - Laboratorio sulla Precarietà.

[5] uniti.gnumerica.org/2010/10/12/comunicato-finale-ii-incontro-nazionale

Geografiche: 

  • Italia [9]

Situazione italiana: 

  • lotte in Italia [4]

Patrimonio della Sinistra Comunista: 

  • Lotta proletaria [5]

L’anti-berlusconismo: una doppia arma contro la classe operaia

L'era Berlusconi sembra volgere al termine. Il perché lo abbiamo più volte analizzato nella nostra stampa[1] dove abbiamo messo in evidenza la necessità per la borghesia di cambiare assetto governativo, di liberarsi di Berlusconi o quanto meno ridimensionarne il ruolo. Una maggioranza di governo profondamente divisa al suo interno da interessi e preoccupazioni contrapposte, il cui leader mette avanti i propri “affari” e continua a ricorrere ad una politica populista che perde efficacia al confronto con la realtà di peggioramento crescente delle condizioni di vita e di lavoro, il cui degrado morale ed etico getta fango e discredito sul mondo politico ed istituzionale sia al proprio interno che sulla scena internazionale, non può essere in grado di far fronte ad una crisi internazionale incessante. Una crisi che richiede misure drastiche e dolorose, la capacità di farle accettare mantenendo un controllo sul piano sociale, una credibilità sia all’interno che rispetto alle altre potenze. Come andrà a finire? Difficile dirlo perché, come abbiamo sottolineato nei precedenti articoli, un’alternativa solida, omogenea e credibile in effetti non esiste né a destra, né al centro né tantomeno a sinistra.

Una cosa è certa, quale che sia la soluzione che troverà la borghesia italiana, per i proletari saranno sempre e comunque batoste. Licenziamenti, perdita di posti di lavoro, riduzione del salario reale, precarietà, mancanza di prospettive, degrado ambientale e manganellate non sono frutto del solo governo Berlusconi ma della crisi del sistema che non finirà, anche cambiando governo.

Che Berlusconi e tutto il suo mondo di personaggi al suo soldo, dai fidati ministri ai vari deputati e avvocati, faccendieri e puttanieri, suscitino in larga parte della popolazione un senso di nausea e di repulsione è qualcosa di istintivo e salutare. La loro arroganza, l’esplicito disprezzo per le difficoltà della “gente comune”, la spudoratezza delle loro menzogne, è qualcosa che si scontra sempre di più con le crescenti difficoltà in cui versa la popolazione. Ma su questo naturale disgusto la sinistra del capitale, in mancanza di una reale alternativa da proporre, va via via alimentando una vera e propria campagna anti Berlusconi. Stampa, programmi televisivi, cinema, teatro, quasi tutto è impregnato di anti berlusconismo a tal punto che ormai la cosa più frequente che si sente dire in giro è: “qualsiasi altra cosa è meglio di Berlusconi”.

Noi pensiamo che questa campagna sia un’arma contro la classe operaia per due diversi motivi: anzitutto perché tutto questo can-can ostacola la comprensione delle cause di fondo dello sfascio della società attribuendole esclusivamente alla politica di Berlusconi; in secondo luogo perché è uno strumento per compattare la classe operaia e la sua nuova generazione dietro la difesa dello Stato e della democrazia.

L’antiberlusconismo: un ostacolo alla presa di coscienza

  • I tagli all’istruzione? E’ il ministro Gelmini di questo governo Berlusconi a non capire che il futuro dell’Italia sta nella formazione dei giovani, nella loro crescita come forza produttiva del paese.
  • I tagli alla cultura? I crolli a Pompei? E’ questo governo che non capisce l’enorme potenzialità di sviluppo economico che costituiscono per l’Italia la sua tradizione culturale ed il suo patrimonio artistico.
  • I licenziamenti, il dilagare del precariato? Colpa di una politica economica poco lungimirante del governo Berlusconi che sa fare solo demagogia ma nessuna politica economica di lungo respiro, di risanamento e rilancio della produttività italiana.
  • L’incapacità a far fronte alle cosiddette “calamità naturali” (terremoti, frane, allagamenti…)? Il film Draquila di Sabina Guzzanti ci dice che la colpa è di Berlusconi, di Bertolaso e dei loro compari di malaffare che speculano sulle disgrazie altrui per arricchirsi.
  • La spazzatura in Campania? Ancora colpa di Berlusconi che aveva promesso di risolvere tutto e subito, mentre invece la spazzatura sta sempre lì; tanto più che, pur sapendo come all’origine dei problemi ci sia l’infiltrazione della camorra, non fa niente per risolvere i problemi a monte.

E la lista potrebbe continuare a lungo (alla maniera di “Vieni via con me”).

Ora, queste cose sono senz’altro vere. Ma l’idea di fondo che viene trasmessa in tutti i dibattiti televisivi, da Annozero a Ballarò, o dalle “liste” di Vieni via con me, è che la colpa di questo disastro è esclusivamente di Berlusconi & Co. Individuare un responsabile risulta molto utile alla borghesia perché serve a distrarre l’attenzione dei proletari dal fatto che la crisi economica è profonda ed internazionale e che i tagli alle condizioni di vita, al mondo dell’istruzione, alle pensioni li stanno facendo dappertutto. Serve a far dimenticare che in Francia l’aumento dei suicidi a causa del lavoro è dovuto agli stessi problemi di aumento dei ritmi e minacce di licenziamento che viviamo qui da noi. Serve a far dimenticare che la precarizzazione del lavoro è stata introdotta non da Berlusconi, ma da un governo di sinistra con il sostegno dei sindacati che all’epoca dicevano che la dinamicità della moderna economia non era conciliabile con la “vecchia fissazione del posto fisso”. Serve a far dimenticare che ad Haiti, a nove mesi dal terremoto, la gente sta morendo di colera perché completamente abbandonata a se stessa[2] o che in Irpinia interi paesi distrutti dal terremoto di trent’anni fa sono ormai morti completamente. Serve ad evitare che si faccia un legame tra il problema spazzatura in Campania e in Sicilia e la distruzione di interi territori in Africa avvelenati da rifiuti tossici scaricati dai democratici paesi industrializzati e l’isola di plastica grande quanto un continente che galleggia nell’oceano Pacifico[3].

La borghesia deve impedirci il più possibile di pensare con la nostra testa, di arrivare a farci una visione d’insieme dei problemi che viviamo come lavoratori e come essere umani: potremmo arrivare a capire che abbiamo tutto da perdere a mantenere in piedi questa società ed allora sarebbe messo in discussione il suo predominio.

L’antiberlusconismo baluardo della difesa della democrazia e dello Stato italiano

E’ proprio questo il problema, la voglia di reagire a tutto questo, l’insofferenza crescente verso un mondo che non solo non ci dà niente, nessun futuro, ma che ci costringe anche a subire il suo marciume; la tendenza sempre più forte a vedere che destra e sinistra nella sostanza non sono poi tanto diverse e che quindi il voto non serve a niente. Come fare dunque per bloccare questa riflessione? Attirando tutta l’attenzione sul falso obiettivo dell’antiberlusconismo, che non è solo l’essere contro la persona Berlusconi come uomo politico e di governo, ma vuole esprimere anche un rigetto per quello che lui rappresenta: l’illecito, il malaffare, la corruzione, la mancanza di etica che domina la società. La trasmissione di Fazio e Saviano, Vieni via con me ha parlato di tutto questo riscuotendo un successo enorme. Basta vedere i commenti su facebook, forum o altri siti internet per rendersi conto di quanti, soprattutto tra i giovani, hanno fatto salti di gioia nel vedere finalmente emergere, tra lo squallore di trasmissioni quali il Grandefratello o Amici una trasmissione dove si parla di cose serie, della difficoltà di chi cerca lavoro, di chi vive con cumuli putrescenti di spazzatura sotto il naso. Senza tanto clamore, senza il politichese incomprensibile dei dibattiti dove ci si urla addosso, senza inutili commenti. Solo fatti raccontati, storie, come le chiama Saviano, che parlano del malessere che ognuno di noi avverte quotidianamente. Ma, al di là dell’indubbia qualità del programma, qual è il messaggio che viene trasmesso, qual è la risposta che viene data alla voglia di reagire a tutto questo? Il monologo di Saviano sulla Costituzione italiana ed il voto di scambio, nell’ultima puntata di “Vieni via con me”[4], è chiaro: è facile criticare e tirarsi fuori dalla politica sporca. Bisogna invece “partecipare”. Non partecipare significa lasciare il paese ai potenti per i loro tornaconto. E partecipare significa difendere la Costituzione italiana, “farla vivere come una propria responsabilità”. Perché, come ci spiega altrove, la Costituzione non è né di destra né di sinistra, ma “una base per garantire una convivenza equa a tutti i cittadini, per conservare lo stato di diritto che è una condizione indispensabile anche per la lotta alle mafie. E credo pure che il suo richiamo all’unità di questo Paese sia qualcosa d’importante. Personalmente, terrei che continuasse a esistere un paese di nome Italia”[5].

“Dobbiamo semplicemente pretendere, come fanno migliaia di cittadini (forse quelli che vanno a votare? ndr), che la legge sia uguale per tutti, un diritto costituzionale, che è anche un dovere per chi ha le più alte responsabilità.(…) si può persino difendere la libertà, la giustizia, la legalità”[6].

Il messaggio è chiarissimo, puoi anche scendere in piazza a protestare per far sentire la tua voce quando i tuoi “diritti” vengono calpestati (come fanno a Terzigno o gli studenti), ma hai il “dovere” di assumerti le tue responsabilità che sono difendere la democrazia e la Costituzione che ne è il “pilastro”. Se non lo fai, se non rigetti il voto di scambio, se non combatti la mafia, chi specula, chi si arricchisce illegalmente, sei anche tu corresponsabile di tutto quello che a parole critichi e contribuisci a disgregare la tua patria!

Ma è proprio vero che questa Costituzione, o una qualsiasi altra, possa liberarci dallo stato di schiavitù salariare, dallo sfruttamento incessante, dalla necessità di sottomettere la maggior parte della nostra vita al bisogno della sopravvivenza? Che possa veramente riconoscere e garantire “i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità”, come è scritto nell’articolo 3? Nel capitalismo no! Perché il suo sistema economico si basa proprio sull’assoggettamento della stragrande maggioranza dell’umanità agli interessi di una ristretta classe dominante. La necessità per questa stragrande maggioranza non è sconfiggere questo o quel governo, mandare in galera tutti i mafiosi o i corrotti, ma distruggere il sistema stesso e con lui tutto il suo marciume.

Eva, 12-12-2010

 

[1] Vedi Dietro lo scandalo di escort, festini e cocaina, gli scontri nella maggioranza governativa [34], I perché dello scontro Fini-Berlusconi [43] e Il paradosso della borghesia italiana [97] in Rivoluzione Internazionale n°162, 165 e 167 rispettivamente.

[2] Vedi Epidemia di colera ad Haiti: la borghesia è una classe di assassini [98] sul nostro sito web.

[3] Vedi gli articoli A proposito degli appelli di Saviano. Se “la malavita avvelena la società”, la risposta non è più democrazia! [99] e L’emergenza rifiuti è solo in Campania? Una “zuppa di plastica” nell’Oceano Pacifico [100], Rivoluzione Internazionale 163 e 154 rispettivamente; “Disastri ambientali, inquinamento, variazioni climatiche. Il mondo sulla soglia di un collasso ambientale. 1a parte [101] Rivista Internazionale n. 30.

[4] www.robertosaviano.it/gallery/vieni-via-con-me-4a-puntata-la-costituzion... [102]

[5] Intervista esclusiva all’altro Saviano: “La lotta alla mafia non ha colore”, www.robertosaviano.it [103]

[6] “La macchina della paura”, di R. Saviano, La Repubblica del 29/9/2010

https://www.repubblica.it/politica/2010/09/29/news/saviano_macchina_paura-7530177/index.html?ref=search [104]

Geografiche: 

  • Italia [9]

Situazione italiana: 

  • politica della borghesia in Italia [32]

Tentativi di lottare al di fuori del controllo sindacale

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Pubblichiamo qui di seguito due volantini che rappresentano lo sforzo manifestato da una parte della classe operaia, ancora molto minoritaria, a prendere il controllo delle sue lotte. Il primo è stato redatto e adottato dall’Assemblea Generale di Saint-Sernin (Tolosa). Il secondo è stato realizzato da alcuni partecipanti all’Assemblea Generale interprofessionale della Stazione dell’est a Parigi.

Ci sarebbero molti altri episodi interessanti, tra i quali ricordiamo solo quelli di Tours o di Rennes, dove dei lavoratori si sono raggruppati in assemblee generali intercategoriali, e l’iniziativa della CNT-AIT che ha organizzato un po’ dappertutto in Francia delle Assemblee popolari autonome.

“L’emancipazione dei lavoratori sarà opera dei lavoratori medesimi” (Karl Marx).

Volantino dell’Assemblea generale di Saint-Sernin (Tolosa)

Di fronte alla determinazione di Sarkozy, i suoi mezzi di comunicazione e lo Stato poliziesco ad annullare la lotta attuale ed a screditarla attraverso le più infami provocazioni:

Disoccupati, pensionati, precari, lavoratori, studenti, universitari,

Affermiamo la nostra unità e prendiamo l’iniziativa delle nostre lotte!

La mobilitazione e l’entusiasmo manifestati in occasione della manifestazione di martedì scorso sono stati giganteschi. Noi abbiamo raggiunto il numero, adesso dobbiamo sviluppare la coscienza che soltanto attraverso il controllo delle lotte, la discussione la più larga possibile, la fusione di tutti i settori, l’appoggio degli studenti liceali ed universitari, dei precari e dei disoccupati possiamo realmente guadagnare ed imporre la volontà delle più ampie masse.

Teniamo immediatamente delle assemblee generali aperte a tutti, decidiamo azioni comuni che estendano il più possibile la lotta e la solidarietà! Condividiamo l’esperienza degli ultimi picchetti e blocchi: inviamo delle delegazioni di sostegno, coordiniamo i nostri sforzi. E’ arrivato infine il momento di portare la lotta nei settori più folti come Thales o Airbus. La nostra sola “violenza” è di voler generalizzare lo sciopero. La vera violenza è lo Stato che la genera e la provoca.

Solidarietà con le vittime della repressione! La lotta che noi portiamo avanti riceve la solidarietà da altri paesi, come in Spagna o in Grecia per esempio: in tutti i paesi, la classe operaia subisce le esigenze del Capitale e della sua sete irrefrenabile di accumulare.

I proletari di tutti i paesi contano sulla nostra vittoria per le loro lotte future!

Ritroviamoci per condividere le informazioni e le prospettive della lotta nell’Assemblea Generale alla fine della manifestazione, ma anche tutte le sere di questa settimana: Camera del lavoro, piazza Saint-Sernin – ore 18.00.

Volantino prodotto da pensionati, disoccupati, lavoratori e studenti riuniti davanti la Camera del Lavoro, 20/10/2010.

https://saint-sernin.internationalisme.fr [105]

Volantino dei partecipanti all’Assemblea generale della Stazione dell’Est a Parigi

APPELLO a tutti i lavoratori

Per iniziativa dei ferrovieri della Stazione dell’Est e degli insegnanti del 18° Distretto, un centinaio di salariati (delle ferrovie, della scuola, delle poste, del settore agroalimentare, dell’informatica …), di pensionati, di disoccupati, studenti, di immigrati con o senza permesso di soggiorno, di sindacalizzati e non, si è riunito il 28 settembre e il 5 ottobre per discutere delle pensioni e più in generale degli attacchi che subiamo e delle prospettive che abbiamo di fronte per fare arretrare questo governo.

In occasione delle ultime giornate di azione siamo scesi a milioni a manifestare e a fare sciopero. E il governo non arretra ancora. Solo un movimento di massa sarà capace di farlo. Questa idea si sta facendo strada attraverso tutte le discussioni a proposito di sciopero illimitato, generale, prorogabile e del blocco dell’economia …

La forma che prenderà il movimento è un problema nostro. Tocca a noi tutti costruirlo sui nostri posti di lavoro attraverso i comitati di sciopero, nei nostri quartieri attraverso delle Assemblee Generali sovrane. Queste strutture devono riunire il più ampiamente possibile la popolazione lavoratrice, coordinata a livello nazionale attraverso dei delegati eletti e revocabili. Tocca a noi decidere sui mezzi di azione, sulle rivendicazioni … e a nessun altro.

Lasciare gli Chérèque (CFDT), Thibault (CGT) e compagnia decidere al nostro posto significa prepararsi a nuove sconfitte. Chérèque é per un’anzianità di lavoro di 42 anni. Non si può ugualmente avere fiducia in Thibault che non rivendica il ritiro della legge, così come non dimentichiamo che nel 2009 beveva champagne con Sarkozy mentre migliaia di noi venivano licenziati, lasciandoci sconfiggere separati gli uni dagli altri. Non abbiamo fiducia neanche nei pretesi sindacati “radicali”. La radicalità di Mailly (FO) è quella di stringere la mano a Aubry nella manifestazione mentre il PS vota per le 42 annualità. E per quanto riguarda la Sud-Solidaires, la CNT o l’estrema sinistra (LO, NPA), questa non ci offre altra prospettiva che l’unità sindacale. Vale a dire l’unità dietro quelli che vogliono negoziare dei passi indietro.

Se oggi i sindacati usano l’arma degli scioperi prorogabili, è soprattutto per evitare di farsi scavalcare. Il controllo delle nostre lotte serve come moneta di scambio per essere ammessi al tavolo dei negoziati … e perché? Per, come sta scritto nella lettera firmata da sette organizzazioni sindacali della CFTC a Solidaire, “fare intendere il punto di vista delle organizzazioni sindacali nella prospettiva di definire un insieme di misure giuste ed efficaci per assicurare la perennità del sistema delle pensioni per ripartizione.” Si può credere per un solo istante che vi possa essere un’intesa possibile con coloro che hanno messo le mani sulle nostre pensioni dal 1993 in poi, con quelli che hanno intrapreso la distruzione metodica delle nostre condizioni di vita e di lavoro?

La sola unità capace di far retrocedere questo governo e le classi dirigenti, é quella tra pubblico e privato, tra salariati e disoccupati, tra giovani e pensionati, tra lavoratori regolari e immigrati senza carta di soggiorno, tra sindacalizzati e non, che sia alla base di Assemblee Generali comuni dove siamo capaci noi stessi di controllare le lotte.

Noi pensiamo che il ritiro della legge sulle pensioni sia l’obiettivo minimo. Questo non ci deve bastare. Centinaia di migliaia di lavoratori in pensione già sopravvivono con meno di 700 euro al mese, mentre centinaia di migliaia di giovani vivacchiano con l’RSA, quando ce l’hanno, per mancanza di lavoro. Per milioni di noi, il problema cruciale è già quello di poter mangiare, avere un alloggio e potersi curare. Di queste cose non ne vogliamo più.

In realtà gli attacchi contro le pensioni sono l’albero che nasconde la foresta. Dall’inizio della crisi, le classi dirigenti con l’aiuto dello Stato gettano per la strada centinaia di migliaia di lavoratori, sopprimendo migliaia di posti nei servizi pubblici. E siamo solo all’inizio. La crisi continua e gli attacchi contro di noi diventano sempre più violenti.

Per far fronte alla situazione, dobbiamo soprattutto stare attenti a non avere alcuna fiducia nei partiti di sinistra (PS, PCF, PG …). Questi hanno sempre gestito lealmente gli affari della borghesia non rimettendo mai in discussione la proprietà privata industriale e finanziaria così come la grande proprietà fondiaria. D’altra parte, in Spagna come in Grecia, è la sinistra al potere che organizza l’offensiva del capitale contro i lavoratori. Per le nostre pensioni, la salute, l’istruzione, i trasporti e per non crepare di fame, i lavoratori dovranno accaparrarsi le ricchezze prodotte per sopperire ai loro bisogni.

In questa lotta, noi non dobbiamo apparire come difensori di interessi categoriali ma di quelli di tutti i lavoratori, compresi i piccoli contadini, i pescatori, i piccoli artigiani, i piccoli negozianti, che sono gettati nella miseria con la crisi del capitalismo. Li dobbiamo trascinare e metterci alla testa di tutte le lotte per meglio far fronte al Capitale.

Che noi siamo salariati, disoccupati, precari, lavoratori senza permesso di soggiorno, e indipendentemente di quale sia la nostra nazionalità, siamo tutti quanti nella stessa barca.

Vediamoci per discutere in Assemblea Generale intercategoriale martedì 12 ottobre alle ore 18,00 e mercoledì 13 ottobre alle ore 17,00. Camera del lavoro, métro République.

Alcuni lavoratori e precari dell’Assemblea Generale intercategoriale della Stazione dell’Est

([email protected] [106]) 8 ottobre 2010

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  • Francia [83]

Patrimonio della Sinistra Comunista: 

  • Lotta proletaria [5]

Irlanda: un lampante esempio del crollo del capitalismo

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In Irlanda i turisti sono invitati ad esplorare una terra di miti e leggende. Nel corso degli ultimi quindici anni racconti fantasiosi sullo stato dell’economia irlandese sono stati aggiunti in gran quantità alla mitologia. Nella metà degli anni 90 ci fu il mito della Tigre Celtica, della radicata prosperità irlandese. Come George Osborne (membro del Partito Conservatore) diceva nel 2006 “L’Irlanda rappresenta un fulgido esempio dell’arte del possibile nelle politiche economiche a lungo termine”. Ma da quando l’Irlanda è diventato il primo paese dell’eurozona ad entrare in recessione si sono susseguite, dal budget di emergenza dell’ottobre 2008 in poi, una serie crescente di misure di austerità e di fondi pompati nelle banche nel corso del 2009 e del 2010. Lungi dall’aver portato ad un lieto fine i tagli di spesa e gli aumenti fiscali hanno portato solo all’ultimo round di tagli e al piano di salvataggio da 85 miliardi di euro da parte del FMI, dell’UE e della BCE (Banca Centrale Europea). Non c’era nulla di sostanziale nella “prosperità” irlandese e l’imposizione dell’austerità porterà solo sofferenza, senza offrire alcuna soluzione alla crisi dell’economia capitalista.

L’ultima serie di attacchi

Le misure più recenti proposte alla fine di novembre non sono affatto le ultime: ne sono previste altre nel bilancio del 7 dicembre. Negli ultimi due anni abbiamo già visto la perdita di migliaia di posti di lavoro e il taglio dei servizi per la maggioranza della popolazione. Uno su sette è già ufficialmente senza lavoro ed ai lavoratori del settore pubblico sono già stati tagliati i salari. Nell’ultima busta paga il salario minimo è stato ridotto di 1 euro all’ora (cioè del 12%). La soglia minima per l’imposta sul reddito è stata ridotta da 18.000 a circa 15.300 euro, portando più lavoratori con basso reddito nel regime fiscale. Le pensioni sono state congelate per i prossimi quattro anni. L’età pensionistica sarà gradualmente aumentata a 68 anni. Ci saranno tagli di vari sussidi, tra cui l’indennità di disoccupazione, ma i dettagli saranno resi noti solo al 7 dicembre. La VAT (corrispondente all’IVA) salirà nel 2013 ed anche nel 2014. La Carbon Tax sta per essere raddoppiata. Sta per essere introdotta una nuova tassa per l’acqua, come pure una tassa sulla proprietà che interesserà tutte le famiglie. I calcoli del governo prevedono che 100.000 persone emigreranno entro il 2014.

In risposta ad ogni attacco del governo c’è stata una grande manifestazione organizzata dai sindacati. Questa volta il Congresso Irlandese dei Sindacati detto che le misure di austerità sono ingiuste e troppo dure ed che è un peccato che non fosse prevista una tassa sui profitti (Corporation Tax). Molti dimostranti hanno insistito sul fatto che il governo è stato una “marionetta della UE e del FMI”. Anche i ministri hanno lamentato il fatto che l’Irlanda, come il Portogallo, fosse obbligata ad accettare le condizioni della UE e del FMI. Mentre riceveva il sostegno finanziario dal FMI, da vari organismi dell’Unione Europea, da Regno Unito, Svezia e Danimarca, lo Stato irlandese è stato costretto a dare il suo contributo al fondo di salvataggio bancario prelevando 17.5 miliardi di euro dal National Pensions Reserve Fund (Fondo Nazionale di Riserva delle Pensioni). Perché allora il FMI e l’UE corrono in aiuto?. Dopo la Grecia, la borghesia internazionale temeva che il crollo delle economie dell’Irlanda e del Portogallo avrebbe avuto un impatto sulla stabilità non solo dell’eurozona ma ben oltre. Il Regno Unito non fa parte dell’eurozona, ma il governo ha ritenuto necessario dare 7 miliardi di euro proprio nell’interesse dell’economia britannica. Tutte le economie sono interdipendenti, nessuna può funzionare isolata dal resto dell’economia mondiale. Dopo l’ultimo salvataggio resta comunque una preoccupazione per la possibilità di successo con l’economia irlandese, così come ci si interroga su quale paese, tra Spagna, Italia e Belgio, possa essere il prossimo ad aver bisogno di cure urgenti.

Le false alternative

Per quanto riguarda la durezza degli attacchi, i “critici” possono non essere d’accordo sui dettagli, ma, come dappertutto, concordano sulla necessità di affrontare il deficit. Il Sinn Fein (movimento indipendentista irlandese [107]), per esempio, ha recentemente prodotto un documento intitolato “C’è un modo migliore”, che vantano esser stato “pienamente valutato e approvato da economisti indipendenti”. In esso sostengono che una maggiore tassazione delle società ricche e grandi genererà miliardi, e se il governo dovesse “prendere 7 miliardi di euro dal National Pensions Reserve Fund per tre anni e mezzo con un ampio programma di investimenti” ciò potrebbe “stimolare l’economia e creare posti di lavoro”. Il disavanzo verrebbe ridotto perché lo stimolo all’economia porterebbe crescita. L’esperienza dell’economia capitalista durante gli ultimi cento anni ha dimostrato, al contrario, che pur ricorrendo al debito, facendo investimenti, tagli alla spesa o aumenti delle tasse, nessun governo ha trovato un modo per sfuggire la realtà della crisi economica capitalistica.

Socialist Worker[1] del 27 novembre, scrivendo sulla crisi irlandese, trova una soluzione buona per tutti i paesi: “I governi potrebbero prendere le banche sotto il pieno controllo – prelevando gli utili, saccheggiando i banchieri e utilizzando il denaro per progetti di cui ha bisogno la società ... Le tasse devono essere aumentate in maniera massiccia sui ricchi e le imprese (...). Le spese per la guerra imperialista e l’esercito dovrebbero cessare da domani. Governi come la Grecia e l’Irlanda potrebbero sfidare il Fondo Monetario Internazionale e l’Unione Europea sulle richieste di tagli”.

La nazionalizzazione delle banche è già molto spinta in Irlanda, come altrove. Dopo l’ultimo salvataggio, la partecipazione del governo nella Allied Irish Bank è superiore al 96%; nella Anglo Irish Bank è al 100%; nella Bank of Ireland (così rimpicciolita che è ormai un istituto finanziario più piccolo dell’allibratore Paddy Power, ma è ancora una banca) è oltre il 70%, nella Irish Nationwide è al 100%, così per l’EBS. L’intervento dello Stato capitalista in ogni aspetto della vita economica è stato una tendenza dominante nel secolo scorso e in nessun modo ha rappresentato un guadagno per la classe operaia. Il SWP parla della necessità di un “potente movimento di massa”, ma in realtà solo come sostegno ai governi. Dire che la Grecia o l’Irlanda potrebbero “sfidare” il Fondo Monetario Internazionale e l’Unione Europea significa negare la realtà dell’economia capitalista: i mendicanti non possono scegliere. E se ci dovesse essere una folle manifestazione di “sfida”, la rinuncia alla spesa militare sarebbe sconsigliabile, perché le potenze capitaliste potrebbero facilmente ricorrere alla forza militare per far rispettare la loro volontà.

Per quanto riguarda l’aumento della tassazione, c’è dietro l’idea che se la società capitalista fosse organizzata in modo diverso si potrebbe funzionare senza sfruttamento e crisi economica. Un anno fa, nel dicembre 2009, il ministro delle finanze irlandese Brian Lenihan ha dichiarato: “Abbiamo svoltato l’angolo … Se adesso lavoriamo insieme e condividiamo gli oneri, possiamo avere una crescita economica sostenibile per tutti”. Un anno dopo possiamo vedere che non c’è stata alcuna svolta e che, lungi dal condividere l’onere, i più poveri ne sono le maggiori vittime. Per quanto riguarda la crescita e la sostenibilità, laddove sia possibile dimostrare che ci siano, si può essere certi che sarebbero comunque a spese di qualche altro paese.

Le grandi manifestazioni che hanno accompagnato ogni annuncio di nuovi attacchi hanno dimostrato che c’è una rabbia diffusa in Irlanda. Secondo i sondaggi, il 57% della gente pensa che il governo non dovrebbe pagare i suoi debiti. Ma questo non porterebbe alcun vantaggio così come non lo portano le manifestazioni controllate dai sindacati. Come dappertutto, i bisogni della classe operaia possono essere soddisfatti solo lottando per i propri interessi, organizzandosi in prima persona, discutendo come e su quali obiettivi lottare. Riporre ogni fiducia nei governi o nei sindacati è fatale per le lotte dei lavoratori. La storia del movimento operaio dall’inizio del secolo scorso ad oggi mostra che le riforme dei governi ed i cortei sindacali non offrono nulla alla classe operaia, l’unica prospettiva certa sta nello sviluppo di lotte di massa per la conclusione ultima del rovesciamento rivoluzionario del capitalismo.

World Revolution, 1/12/10, organo della CCI in Inghilterra



[1] Organo di stampa del Socialist Workers Party (SWP), Partito Socialista dei Lavoratori.

Geografiche: 

  • Irlanda [108]

Questioni teoriche: 

  • Economia [7]

Il ritiro delle truppe americane dall’Iraq non significa la fine della carneficina

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Il 17 febbraio 2010 il segretario alla difesa americano, Robert Gates, ha approvato, in una nota indirizzata al capo del Comando Centrale David Petraeus, la nuova strategia della missione americana in Iraq. Nella nota egli sottolinea che l’operazione “Iraqi Freedom”, il nome americano per l’invasione del 2003 e l’occupazione di questo paese per sette anni, “è giunto alla fine e le nostre forze operano nel quadro di una nuova missione” Sei mesi dopo, il 19 agosto, le ultime brigate americane di combattimento hanno attraversato la frontiera irakena per entrare in Kuwait, e 12 giorni dopo, cioè più di sette anni dopo che il presidente Bush aveva fatto un annuncio simile, il presidente Obama annunciava “la fine della nostra missione di guerra in Iraq”.

La politica estera americana nell’era del dopo Guerra Fredda

Al momento della guerra del Golfo, nel 1991, la principale preoccupazione della borghesia americana era quella di rafforzare il suo controllo su un blocco imperialista i cui membri di secondo piano avevano perduto le motivazioni per aderire alla signoria americana dopo il crollo del blocco dell’Est e la diminuzione della minaccia costituita dalla Russia. Prima di questo avvenimento, per gli USA era molto facile implicare nell’intervento militare, non solo i paesi della NATO, ma anche l’URSS che stava affondando, tramite le sanzioni dell’ONU. Il decennio seguente ha visto il rafforzamento della tendenza al “ciascuno per sé” a livello delle tensioni imperialiste, con delle potenze di seconda e terza categoria sempre più spinte alla difesa dei propri interessi (nell’ex Jugoslavia, nel Medio Oriente, in Africa). L’obiettivo degli Stati Uniti nel 1991 era quindi quello di stabilire un controllo militare in zone di importanza strategica in Asia e in Medio Oriente che potessero essere utilizzate per esercitare una pressione sui suoi concorrenti, piccoli e grandi.

Gli attentati dell’11 settembre sono stati l’occasione per lanciare la “guerra contro il terrorismo” e giustificare la prima incursione in Afganistan nel 2001, ma lo slancio non è durato a lungo. Nel 2003 gli Stati Uniti sono stati incapaci di mobilitare la loro vecchia coalizione per la seconda mobilitazione in Iraq. La Francia e la Germania, in particolare, pur non potendo creare un loro proprio blocco imperialista, si sono mostrate reticenti a seguire gli Stati Uniti, vedendo la “guerra al terrorismo” per quello che effettivamente era: un tentativo degli Stati Uniti di rafforzare la loro posizione di superpotenza mondiale.

Le vere intenzioni del ritiro americano dall’Iraq

Nel 2007 c’è stato un notevole cambiamento nella strategia americana in Iraq a causa delle molteplici difficoltà incontrate. La prima è stata una sanguinosa contro-insurrezione che alla fine ha visto la morte di 4.400 soldati americani, 36.000 feriti e 100.000 civili irakeni morti (anche se certe stime parlano di più di mezzo milione, comunque ben al di sopra delle “decine di migliaia” riportate dai principali mezzi di informazione). La guerra in Iraq stava diventando un vero inferno e il più grande disastro sul piano delle relazioni pubbliche, vista anche l’inesistenza delle “armi di distruzione di massa” che erano state la giustificazione dell’invasione. Il fantasma del Vietnam percorreva i corridoi di Washington. E pesava anche il costo crescente della guerra: lo stesso Obama ha ammesso che è costata più di un bilione di dollari[1]. e che ha contribuito al deficit del bilancio e danneggiato la capacità dell’economia americana di far fronte alla crisi economica. Una seconda preoccupazione è stata la controffensiva dei talebani in Afganistan, espulsi dalle forze americane nel 2001, ma non vinti, e l’estensione degli attacchi terroristi in Europa e in Asia sostenuti da elementi con base nelle regioni frontaliere dell’Afganistan e del Pakistan.

Quando Kerry, che aspirava alla ricomposizione del vecchio blocco imperialista, si è dimostrato ineleggibile, gli Stati Uniti hanno puntato ad affermare la loro supremazia sulla regione. Adottata questa strategia, il dibattito ha cominciato ad accentrarsi sul numero di soldati necessari per un tale obiettivo. Rumsfeld si fissava sul suo progetto di una militarizzazione più leggera, più automatizzata. I democratici, alleati con certi elementi della destra, erano sostenere il “pic”, un dispiegamento temporaneo di truppe supplementari in Iraq per mantenere l’ordine, difendere la giovane “democrazia” e assicurare il trasferimento delle responsabilità militari alle forze irakene. Questa fu la politica di Bush nei suoi ultimi anni di presidenza, e questa è ora la politica di Obama in Afganistan.

La strategia complessiva adottata dalla borghesia americana è rimasta essenzialmente la stessa. Se l’amministrazione Obama sembra mettere l’accento innanzitutto sulla diplomazia, in realtà c’è continuità con l’amministrazione precedente. Come lo stesso Obama ha detto nel discorso del 31 agosto: “… uno degli insegnamenti dei nostri sforzi in Iraq è che l’influenza americana nel mondo non è funzione della sola forza militare. Noi dobbiamo utilizzare tutti gli elementi della nostra potenza, compreso la nostra diplomazia, la nostra forza economica, e il potere dell’esempio dell’America, per garantire i nostri interessi e sostenere i nostri alleati… Gli Stati Uniti d’America hanno l’intenzione di mantenere e rafforzare la nostra leadership in questo nuovo secolo…”.

Bilancio della guerra in Iraq

Dobbiamo pensare che il ritiro delle forze americane dall’Iraq significhi che il mondo è ora un posto più sicuro? Per niente! Il Segretario alla Difesa, Bob Gates, è stato ancora più esplicito di Obama: “Anche con la fine ufficiale delle operazioni di combattimento, l’esercito americano continuerà a sostenere l’esercito e la polizia irakene, ad aiutare lo sviluppo della marina e della forza aerea dell’Iraq, e ad aiutarlo nelle sue operazioni di lotta contro il terrorismo”.

L’amministrazione americana afferma pubblicamente di essere ampiamente soddisfatta dello stato del governo e della società civile in Iraq. Tuttavia l’Iraq detiene oggi il record per il numero di volte in cui uno Stato-nazione moderno non riesce ad avere un governo efficace. Anche se l’Iraq sembra sufficientemente forte da permettere agli Stati Uniti di occuparlo di meno, questi devono ancora rinforzare lo Stato iracheno formando altri militari e poliziotti. Gli Stati Uniti lasciano in Iraq un esercito di 50.000 soldati “non combattenti” per almeno un anno. Queste forze permetteranno loro un dominio senza rivali sul governo irakeno: nessun’altra potenza ha una forza simile così vicina ai centri del potere irakeno e così necessaria perché quest’ultimo continui ad esistere. Questo approccio è simile a quello avuto dagli Usa in Corea del Sud dopo la seconda Guerra Mondiale, dove furono stanziati 40.000 soldati per mantenere una presenza nella regione. Il fatto di avere delle basi militari nell’Iraq, anche se in numero più ridotto, assicurerà agli Stati Uniti una certa pressione sull’Iran e su altre potenze regionali.

Bisogna fare attenzione ad avere una visione troppo superficiale dell’influenza dell’amministrazione americana. In realtà è molto probabile che l’Iraq si disintegri quando gli Stati Uniti se ne andranno, con tutte le differenti parti che contribuiranno allo scoppio del paese, in particolare i nazionalisti curdi, con lo scatenamento di una guerra civile. Anche la situazione dell’Afganistan è assolutamente catastrofica e mostra tutti i segni di un peggioramento, con il rischio della disintegrazione del Pakistan e dell’esportazione della guerra in questo paese.

Nonostante le disillusioni, la borghesia americana ha quanto meno registrato il fatto che esiste un mondo di tutti contro tutti, ed ha tirato delle preziose lezioni sulla maniera di fare la guerra e di condurre un’occupazione oggi. Il ritiro delle truppe dall’Iraq non significa la fine della guerra. Da una parte, le truppe americane avranno una presenza permanente nel paese, e Stati Uniti, Turchia, Israele, Russia, Iran e Germania continueranno i loro giochi di influenza imperialista nella regione come facevano prima. Dall’altra parte, gli Stati Uniti potranno concentrare i loro sforzi sull’Afganistan, e avranno anche liberato una certa capacità per intervenire in altre parti del mondo. La fine della guerra in Iraq, sotto l’influenza dell’imperialismo, è, in effetti, la continuazione di una guerra già devastante e l’inizio di guerre altrove. La conseguenza logica dell’imperialismo è la distruzione dell’umanità. Di fronte a ciò, il difensore dell’umanità è il proletariato, portatore di comunismo.

RW, 10 novembre2010

(da Internationalism, organo della CCI negli USA)



[1] Cioè mille miliardi di dollari!

Pesante inquinamento in Ungheria: quando il Valzer del Danubio blu diventa una danza macabra

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Il fango tossico rosso proveniente dalla fabbrica di alluminio in prossimità della città di Ajka[1], che ha insozzato il Danubio, inondando i corsi d’acqua vicini e i villaggi di Devecser Kolontar (i più toccati), non poteva che generare un sentimento di desolazione. Si tratta del più grave inquinamento che l’Ungheria abbia conosciuto nella sua storia! Sono migliaia i metri cubi di fango tossico che sono stati riversati nella natura. Tuttavia, al di là delle immagini spettacolari del paesaggio devastato dei primi servizi televisivi, un’altra realtà altrettanto scioccante, ma molto meno pubblicizzata, si faceva strada tra le righe dei comunicati ufficiali: quella delle persone morte, nell’immediato e successivamente. L’orrore generato dalla decina di vittime (tra cui una bimba di 14 mesi), dai dispersi, il fatto che più di un centinaio di feriti con gravi lesioni si ritrova oggi in preda ad atroci sofferenze. Questo fango rosso, corrosivo e caustico, contenente metalli pesanti e leggermente radioattivo, provoca in effetti delle forti bruciature e irrita fortemente gli occhi. Migliaia di abitanti hanno deciso di fuggire da casa per evitare di mettere in pericolo la loro salute.

Tutti i drammi umani di questa catastrofe sono stati intenzionalmente nascosti nei commenti che i giornalisti ci hanno presentato. Come al solito la classe dominante ha minimizzato la catastrofe: “Il rischio di inquinamento del Danubio a causa del fango rosso tossico è evitato”. Ecco cosa annunciava il Primo ministro ungherese, Victor Orban, in una conferenza stampa a Sofia solo qualche giorno dopo l’incidente, aggiungendo senza arrossire che “le autorità ungheresi controllavano la situazione”[2]. Allo stesso tempo i giornalisti hanno distolto l’attenzione e la riflessione sulle conseguenze tragiche dell’incidente, contentandosi di immagini spettacolari, destinate a terrorizzare le popolazioni, evitando così ogni vera spiegazione[3]. Comunque, secondo la propaganda dello Stato, gli incidenti industriali legati ai “rischi tecnologici”[4] sono solo “l’inevitabile prezzo da pagare per l’avanzare del progresso”. In altre parole, il fatto che ci siano delle vittime deve essere accettata come una fatalità, per non dire come qualche cosa di “normale”!

Non possiamo che denunciare con rabbia e indignazione questa nauseabonda ideologia e soprattutto la volontà di nascondere degli omicidi programmati da una classe capitalista senza scrupoli. Non possiamo che denunciare con fermezza la barbarie che obbliga le popolazioni a vivere in un ambiente pericoloso, per poi spostare freddamente dei cittadini, come se si spostassero dei polli d’allevamento, dopo che li si è deliberatamente sovraesposti ai rischi, in totale disprezzo della loro vita.

Da tempo erano state individuate delle perdite di fango rosso da un serbatoio difettoso e si sapeva a quali rischi di contaminazione diretta i villaggi vicini e i corsi d’acqua erano sottoposti. L’esposizione delle popolazioni non era un segreto per i padroni e per i politici locali! Ma poiché la prevenzione non è un’attività che rende, la borghesia ha preferito economizzare, anche a costo di giocare alla roulette russa con una parte della popolazione. A questo gioco sono sempre gli stessi che la pagano.

Gli “esperti”, i politici, i padroni e i giornalisti sanno perfettamente che la zona industriale del Danubio è una discarica a cielo aperto, che le istallazioni vecchie, non messe in sicurezza per mancanza di mezzi, non possono che provocare nuove catastrofi delle stesso tipo. Dalle prime fuoriuscite di fango hanno fatto di tutto per minimizzare l’ampiezza dei danni, per sminuire l’impatto della catastrofe. Dopodiché, di fronte all’evidenza, hanno fatto finta di scoprire con sorpresa le condizioni di questa nuova catastrofe, puntando il dito sull’eredità lasciata loro dal periodo del cosiddetto “comunismo”, per meglio assolvere il proprio sistema e la loro responsabilità[5].

Anche se oggi i mezzi di informazione sono passati ad altro, se l’avvenimento non fa più notizia, la catastrofe e le sofferenze non sono ancora terminate!

Questa catastrofe non è né naturale, né è il prodotto della fatalità. Essa è l’espressione della follia distruttrice generata dalla ricerca sfrenata del profitto. La concorrenza sfrenata, in un mondo in cui i mercati si restringono come un tessuto bagnato, obbliga tutti gli industriali e gli Stati ad assumere sempre più rischi, a ridurre sempre più i margini di sicurezza per fare economia. Nello stesso tempo le risorse naturali sono sottoposte dappertutto a un vero saccheggio e sono sottomesse a distruzioni accelerate. La catastrofe in Ungheria ne è un esempio. Non solo il Danubio, secondo fiume europeo per lunghezza, è inquinato, ma certi corsi d’acqua appartenenti al suo bacino idrografico hanno un ecosistema completamente distrutto. E’ il caso del fiume Marcal (che si getta nel Raab, affluente diretto del Danubio) dove i pesci morti galleggiano su un’acqua color ruggine. Ci vorranno molti anni, se non decenni, prima di vedervi rinascere la vita; senza contare i danni prodotti in tutte le terre circostanti e le acque di infiltrazione, di ruscellamento e quelle che filtrano fino ad arrivare nella falda freatica. Più di un migliaio di ettari contaminati hanno ormai danneggiato l’attività agricola e la catena alimentare di questo spazio inquinato. Dopo un certo tempo cosa provocherà la polvere, quando il fango si sarà seccato? Perché è stato appurato che finché i fanghi restano liquidi la loro pericolosità è minore.

Ancora una volta la borghesia mostra il suo disinteresse e il suo disprezzo totale per la vita umana. E non solo il suo istinto di classe è guidato solo dalla sete di un profitto immediato, ma il suo accecamento è tale che essa scivola ogni giorno di più sulla china su cui si trova. Certo, esistono dei borghesi che chiedono al resto della propria classe di frenare la caduta verso la catastrofe. E’ tempo perso, perché la logica generale del capitalismo del profitto immediato, congiunta con l’involuzione attuale nella crisi e dunque nel crollo di intere porzioni di economia, non può che spingere ancora più i rapaci dell’industria e della finanza a succhiare fino al midollo le poche industrie ancora redditizie, le regioni del pianeta in cui è ancora possibile un profitto rapido sfruttando peggio delle bestie i proletari, infischiandosene di ogni misura di sicurezza, troppo “costose”. E questo anche a costo di trascinare con loro, e senza pensarci su un secondo, il resto dell’umanità.

WH (14 ottobre 2010)

 

[1] A 160 chilometri a ovest della capitale, Budapest.

[2] fr.sputniknews.com [109].

[3] Ricordiamo, tra l’altro, il silenzio orchestrato non molto tempo fa sugli 11 operai morti a seguito dell’esplosione della piattaforma petrolifera nel Golfo del Messico. Tutte le immagini mostrate di questa spettacolare esplosione sono state accompagnate da commenti che hanno sistematicamente omesso di parlare delle vittime (Vedi Révolution Internationale n°413, giugno 2010).

[4] Nei programmi di geografia dei licei francesi esiste un argomento di studio dal titolo « rischi tecnologici ». Una maniera per abituare i giovani ad integrare con fatalismo il fatto che le popolazioni urbane sono sempre più esposte alle catastrofi.

[5] In Francia, a Gardanne (Bouches-du-Rhône), il problema posto da una parte di questi fanghi, in forma liquida, è stata regolata in partenza: sono stati buttate al largo, nel mare Mediterraneo!

Questioni teoriche: 

  • Ambiente [12]

A quale campo appartengono i sindacati?

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Sotto i colpi violenti della crisi economica, le condizioni di vita della classe operaia si stanno degradando velocemente. Siamo colpiti con forza tutti, lavoratori del settore privato e di quello pubblico, disoccupati e precari, pensionati e futuri lavoratori. Per far fronte a questi attacchi sempre più violenti, c’è solo un modo: lottare sviluppando la nostra unità e la nostra solidarietà. Questo oggi ci sembra evidente. Se ognuno si batte nel proprio angolo, inevitabilmente perderemo tutti, uno dopo l’altro.

Legalmente spetterebbe ai sindacati il compito ufficiale di organizzare queste lotte e la risposta a tutti gli attacchi. Questi dovrebbero quindi essere in piena attività per tessere legami tra le fila operaie. Ma che cosa fanno? Esattamente il contrario! Questi “professionisti della lotta” non smettono nemmeno un attimo di organizzare... la dispersione e la divisione! Una giornata di sciopero qui per questa fabbrica, una giornata di lotta per quel settore pubblico lì... La risposta orchestrata dai sindacati non è semplicemente “debole”, è soprattutto frammentata, spezzettata, impregnata di veleno corporativo. Non c’è modo migliore per portare la classe operaia alla sconfitta.

Allora, perché il sindacato fa questa politica? Si tratta semplicemente di un errore tattico o invece sono proprio i sindacati a pugnalare volontariamente la classe operaia alla schiena? A quale campo appartengono veramente i sindacati?

19° secolo: i sindacati, strumenti per la lotta e la solidarietà operaie

Per comprendere ciò che è diventato il sindacalismo oggi, occorre inevitabilmente rifarci al suo passato. In realtà il sindacalismo si è sviluppato in una situazione storica particolare, durante la più dinamica e fiorente epoca del capitalismo, il 19° secolo. Questo sistema è in piena espansione. Le merci inglesi, tedesche, francesi invadono tutti i continenti. Data l’ottima salute economica, il capitalismo è in grado di concedere importanti miglioramenti alle condizioni di vita di numerose categorie della classe operaia. Pertanto, quando lotta, il proletariato riesce a strappare delle riforme reali e durature. Nel 1848, per esempio, la classe operaia ottiene in Inghilterra una riduzione del tempo di lavoro da dodici a dieci ore al giorno[1]. E’ proprio per portare avanti queste lotte che gli operai si organizzano in sindacati.

Nel 19° secolo, ogni padrone affronta direttamente ed isolatamente gli operai che sfrutta. Non c’è unità padronale organizzata (solo nell’ultimo terzo del secolo si sviluppano sindacati padronali). Meglio ancora, in questi conflitti, non è raro vedere dei capitalisti approfittare delle difficoltà di una fabbrica concorrente in sciopero per appropriarsi della sua clientela. In quanto allo Stato, in generale questo si tiene al di fuori di tali conflitti, intervenendo solo nel caso limite quando cioè questi ultimi rischiano di turbare “l’ordine pubblico”. La forma della lotta operaia corrisponde evidentemente a queste caratteristiche del capitale. Gli scioperi sono in genere di lunga durata. Questa è una delle condizioni della loro efficacia per piegare, attraverso la pressione economica, il padrone minacciato di bancarotta. Queste lotte che espongono gli operai al rischio di carestia, richiedono una necessaria preparazione preventiva di fondi di sostegno (“casse di resistenza”) e di far ricorso alla solidarietà finanziaria degli altri operai, da una corporazione all’altra ed anche da un paese all’altro.

La forma che prende il sindacalismo è adeguata a questi tipi di lotta. I sindacati sono generalmente delle organizzazioni unitarie (capaci di raggruppare l’insieme dei lavoratori, di una stessa corporazione) e permanenti (esistenti anche al di fuori dei periodi di sciopero al fine di prepararli). In altre parole, la lotta sistematica per le riforme è un compito permanente che unisce gli operai. Concretamente, gli operai vivono all’interno del sindacato. Giorno dopo giorno si raggruppano, discutono, si organizzano e preparano la lotta futura. I sindacati sono allora dei veri focolari di vita della classe; costituiscono delle scuole di solidarietà dove gli operai comprendono la loro appartenenza ad una stessa classe.

Marx ed Engels così sottolineano questo ruolo inestimabile dei sindacati: “I sindacati e gli scioperi che intraprendono hanno un’importanza fondamentale perché sono il primo tentativo fatto dai loro operai per sopprimere la concorrenza. Implicano di fatto la coscienza che il dominio della borghesia si basa necessariamente sulla concorrenza tra gli stessi operai, cioè sulla divisione del proletariato e sull’opposizione tra gruppi individualizzati di operai” (Raccolta di testi su “Il sindacalismo” Edizioni Maspéro). O ancora: “La grande industria raccoglie in un solo luogo una folla di persone sconosciute le une alle altre. La concorrenza le divide, nei loro interessi. Ma il mantenimento del salario, questo interesse comune che essi hanno contro il loro padrone, li unisce in uno stesso proposito di resistenza: coalizione. Così la coalizione ha sempre un duplice scopo, di far cessare la concorrenza degli operai tra loro, per poter fare una concorrenza generale al capitalista. Se il primo scopo della resistenza era solo il mantenimento dei salari, nella misura in cui i capitalisti si uniscono a loro volta in un proposito di repressione, le coalizioni, dapprima isolate, si costituiscono in gruppi e, di fronte al capitale sempre unito, il mantenimento dell’associazione diviene per gli operai più necessario ancora di quello del salario. Ciò è talmente vero, che gli economisti inglesi rimangono stupiti a vedere come gli operai sacrifichino una buona parta del salario a favore di associazioni che, agli occhi di questi economisti, erano istituite solo a favore del salario” (Marx, Miseria della Filosofia).

20° e 21° secolo: i sindacati, strumento di divisione e sabotaggio delle lotte

All’inizio del 20° secolo, le condizioni che avevano permesso la straordinaria espansione del capitalismo cominciano a sparire. La costituzione del mercato mondiale si conclude e, con essa, si inaspriscono gli antagonismi tra potenze capitaliste per la dominazione dei mercati. Lo scatenamento della prima carneficina mondiale nel 1914 segna l’entrata del capitalismo nella sua fase di decadenza[2]. La vita economica e sociale di ogni nazione, ma soprattutto la vita e la lotta del proletariato, si trovano profondamente sconvolte. Il sistema capitalista ha smesso di essere progressista. Da allora, la guerra economica spietata alla quale si dedicano tutte le nazioni per la ripartizione dei mercati si traduce in una lotta accanita di ogni capitale nazionale contro ogni miglioramento duraturo delle condizioni di esistenza della “sua” classe operaia. Nessun capitale nazionale può più accordare concessioni al “suo” proletariato senza correre lui stesso il rischio di arretrare sull’arena internazionale nei confronti dei rivali. Pertanto le basi dell’attività proletaria sul piano della conquista delle riforme diventano caduche. D’ora in poi, di fronte alla classe operaia, c’è un’unità ed una solidarietà ben più grande tra i capitalisti di una stessa nazione. Questi creano organizzazioni specifiche per non affrontare più individualmente la classe operaia. E soprattutto lo Stato, che esercita un controllo sempre più potente, onnipresente e sistematico su tutti gli aspetti della vita sociale, interviene direttamente nei conflitti sociali opponendosi al proletariato in quanto rappresentante degli interessi della borghesia nel suo insieme. Di conseguenza, lo sciopero lungo in una sola fabbrica non è più un’arma efficace. Al contrario, sono gli operai che finiscono per sfiancarsi e riprendere il lavoro, demoralizzati. Il successo degli scioperi non dipende più dai fondi finanziari raccolti dagli operai ma fondamentalmente dalla loro capacità a coinvolgere una parte crescente dei loro fratelli di classe di fronte all’insieme del capitale nazionale, di cui lo Stato è l’incarnazione. In altre parole, la solidarietà nei riguardi dei lavoratori in lotta non risiede più nel solo sostegno finanziario ma nell’unirsi alla lotta. Una tale dinamica di estensione della lotta, specifica al periodo di decadenza, non può essere pianificata in anticipo. Al contrario, gli scioperi esplodono spontaneamente. Il sindacato, quest’organo specializzato nel 19° secolo alla pianificazione ed el finanziamento delle lotte per corporazione, di questo braccio di ferro tra un padrone ed i “suoi” operai, diventa non solo inadatto ma un freno allo sviluppo della lotta. Se nel 19° secolo i sindacati operai potevano essere delle organizzazioni permanenti ed unitarie della classe operaia perché la lotta sistematica per le riforme poteva produrre riforme durature e con risultati concreti, con l’entrata nella fase di decadenza del capitalismo, non è più possibile avere un raggruppamento generale e permanente del proletariato. Questo non può organizzarsi per molto tempo e in massa intorno ad un’attività senza avere un’efficacia immediata.

L’esperienza delle lotte operaie dall’inizio del 20° secolo ha provato largamente che non è possibile mantenere un rapporto di forze contro la borghesia ed il suo Stato al di fuori delle fasi di lotte aperte. In particolar modo perché, immediatamente dopo la lotta, lo Stato fa gravare di nuovo pesantemente le necessità del capitalismo in crisi sulla classe operaia e impone con ancora più determinazione nuovi attacchi. Sotto la penna di Rosa Luxemburg, alcune righe bastano a fare vivere tutto questo profondo sconvolgimento per la lotta del proletariato. Descrivendo il grande sciopero che animò gli operai in Belgio nel 1912, uno sciopero che aveva “il carattere metodico, rigorosamente limitato, di uno sciopero sindacale ordinario”[3], Rosa Luxemburg dimostra magistralmente che i metodi sindacali sono diventati obsoleti e nocivi, ed afferma con forza la maggiore importanza della spontaneità e della presa in mano delle lotte direttamente da parte degli operai: “Spontaneamente, come un uragano, il proletariato belga si sollevò di nuovo dopo le elezioni del giugno 1912, (...). Poiché era impossibile domare diversamente l’impetuosa volontà popolare, si propose agli operai di disarmare lo sciopero di massa già iniziato e di preparare in modo completamente sistematico uno sciopero di massa. (...) La preparazione di lungo periodo dello sciopero di massa appariva questa volta come un mezzo per calmare le masse operaie, per spegnere il loro entusiasmo combattivo e per far loro abbandonare provvisoriamente l’arena. (...) È così che si realizzò finalmente lo sciopero di aprile, dopo nove mesi di preparazione e dei tentativi ripetuti per impedirlo e rinviarlo. Dal punto di vista materiale, esso fu preparato certamente come mai lo era stato nessuno sciopero di massa al mondo. Se delle casse di soccorsi molto copiose e la ripartizione molto organizzata dei viveri avessero dovuto decidere dell’esito di un movimento di massa, lo sciopero generale belga di aprile avrebbe dovuto fare miracoli. Ma il movimento rivoluzionario di massa non è purtroppo un semplice calcolo che si può risolvere con i libri cassa o con i depositi di viveri delle cooperative. Il fattore decisivo in ogni movimento di massa è l’energia rivoluzionaria delle masse, lo spirito di risoluzione dei capi e la loro precisione sullo scopo da raggiungere. Questi due fattori riuniti possono, all’occorrenza, rendere la classe operaia insensibile alle privazioni materiali più dure e farle compiere, a dispetto di queste privazioni, le prodezze più grandi. Essi al contrario non possono essere sostituiti da casse di soccorso ben guarnite”[4]. Rosa Luxemburg già percepiva il ruolo crescente dello Stato contro la classe operaia e le sue ripercussioni sulla lotta: “È chiaro, in ogni caso - ed è ciò che conferma la storia degli scioperi di massa nei differenti paesi - che più uno sciopero politico cade velocemente ed inaspettatamente sulla testa delle classi dirigenti, più l’effetto è grande e la probabilità di vittoria considerevole. Quando il Partito operaio annuncia, tre trimestri in anticipo, la sua intenzione di scatenare uno sciopero politico, non è solamente lui, ma anche la borghesia e lo Stato che guadagnano tutto il tempo necessario per prepararsi materialmente e psicologicamente a questo avvenimento”[5].

Se i sindacati sono il prodotto della possibilità della lotta per le riforme nel capitalismo ascendente del 19° secolo, ciò significa anche che sono segnati dal marchio di questo periodo storico particolare. L’arma sindacale fu forgiata ed affilata dal proletariato per condurre le battaglie per le riforme, non per distruggere il capitalismo ed il salariato. Pertanto quando il capitalismo smette di essere progressista, diventa un sistema decadente e “l’era delle riforme” lascia il posto a “l’era delle guerre e delle rivoluzioni”, i sindacati smettono di essere uno strumento della classe operaia per diventare al contrario il braccio armato della borghesia contro gli interessi della classe operaia. Così durante la Prima Guerra mondiale si è potuto assistere all’integrazione definitiva dei sindacati allo Stato totalitario ed alla sua partecipazione attiva alla mobilitazione degli operai nella carneficina imperialistica, affianco ai partiti socialdemocratici. Nell’ondata rivoluzionaria internazionale che seguirà questi faranno di tutto per ostacolare gli slanci del proletariato. Da allora i sindacati appartengono alla borghesia e si sono integrati definitivamente nello Stato ergendosi al suo fianco rispetto alla classe operaia. Del resto anche finanziariamente i sindacati sono tenuti in vita, non dagli operai, ma in maniera determinante dallo Stato. Essi costituiscono uno degli ingranaggi essenziali dell’apparato statale. Tutta la loro attività è orientata verso il sostegno della borghesia ed il sabotaggio “l’interno” delle lotte operaie. Partecipano attivamente alla regolamentazione del lavoro permettendo l’intensificazione dello sfruttamento. Mostrano un grande zelo nel far rispettare “il diritto del lavoro”, cioè il diritto borghese che codifica lo sfruttamento. Fanno del negoziato uno scopo in sé, nel segreto degli uffici padronali o ministeriali, chiedendo agli operai di mettersi nelle loro mani, di delegare loro il potere, per controllare meglio le lotte. La loro funzione è non solo inquadrare la classe operaia e le sue lotte, ma assicurare continuamente una presenza poliziesca nelle fabbriche, gli uffici, le imprese. Dividono ed isolano gli operai servendosi del corporativismo allo scopo di impedire l’unificazione delle lotte e la loro necessaria generalizzazione. In breve, da più di un secolo e fino ad ora, i sindacati sono i cani da guardia del capitale!

Come lottare e sviluppare la solidarietà operaia?

Come battersi senza i sindacati? Come eliminare questi “professionisti ufficiali della lotta?” La principale debolezza di ogni classe sfruttata è la mancanza di fiducia in sé stessa. Nelle società divise in classi tutto viene costruito per inculcare nello spirito degli sfruttati l’idea del carattere inevitabile della loro situazione e della loro impotenza a sconvolgere l’ordine delle cose, sentimento che i “professionisti dello sciopero”, questi impiegati a tempo indefinito pagati dallo Stato, sostengono vivacemente. Invece, la classe operaia è capace di battersi massicciamente e di prendere le redini, in prima persona, dell’organizzazione della lotta. Da più di 100 anni, le uniche grandi lotte sono state gli scioperi selvaggi, spontanei e di massa. E tutte queste lotte si sono date come base di organizzazione, non la forma sindacale, ma quella delle assemblee generali, dove tutti gli operai discutono della propria loro lotta e dei problemi da risolvere, con i comitati eletti e revocabili per centralizzare la lotta. Il grande sciopero del Maggio 1968 in Francia si scatena nonostante i sindacati. In Italia, durante gli scioperi dell’autunno caldo del 1969, i lavoratori cacciano i rappresentanti sindacali dalle assemblee di scioperanti. Nel 1973, gli scaricatori di Anversa in sciopero attaccano il locale dei sindacati. Negli anni 1970, in Inghilterra, gli operai malmenano spesso i sindacati proprio come quelli di Longwy, Denain, e Dunkerque in Francia, all’epoca dello sciopero del 1979. Nell’agosto 1980, in Polonia, gli operai rigettano i sindacati che sono apertamente degli ingranaggi dello Stato ed organizzano lo sciopero di massa sulla base di assemblee generali e comitati eletti e revocabili, gli MKS. Durante i negoziati, vengono utilizzati dei microfoni affinché tutti gli operai possano seguire, intervenire e controllare i delegati. Ed occorre ricordare in particolare come questa lotta è finita: con l’illusione di un nuovo sindacato, libero, autonomo e combattivo a cui la classe operaia poteva affidare le redini della lotta. Il risultato fu immediato. Questo nuovo sindacato chiamato Solidarnosc, “tutto bello e nuovo, nuovo”, tagliò i microfoni per trattare in segreto ed orchestrò, di concerto con lo Stato polacco, la dispersione, la divisione e, alla fine, la sconfitta violenta della classe operaia![6] Sono numerosissimi gli esempi delle continue manovre di sabotaggio e della necessità di contare solamente su noi stessi. Più recentemente, nel 2006, in Francia, all’epoca della lotta contro il CPE[7], decine di migliaia di studenti, in quanto futuri lavoratori precari, hanno mostrato la capacità della classe operaia a prendere in mano le redini della propria lotta, ad organizzarsi ed a discutere collettivamente nelle assemblee generali, sovrane ed aperte a tutti i lavoratori, disoccupati e pensionati.

Da tutti questi momenti di lotta, si possono tirare due lezioni essenziali:

1) Sono le assemblee generali che decidono ed organizzano l’estensione ed il coordinamento della lotta. Sono esse che si spostano, che mandano delegazioni massicce o dei delegati, per chiamare allo sciopero in altri luoghi di lavoro. Sono esse che nominano e revocano in qualsiasi momento, se necessario, i delegati. Queste assemblee generali devono essere coordinate anche tra loro attraverso comitati costituiti dai delegati eletti, responsabili continuamente davanti ad esse e dunque revocabili. Questa è la prima condizione di una reale estensione delle lotte e di un reale controllo di queste da parte dei lavoratori e delle loro assemblee.

2) Quando dei lavoratori entrano in lotta, devono ricercare la solidarietà e spingere ad estendere il movimento verso i centri operai (fabbriche, amministrazioni, ospedali...) più vicini geograficamente e più combattivi.

Ecco per i proletari di tutti i paesi l’unica via da seguire per arginare lo sviluppo degli attacchi e della miseria. La prospettiva della lotta operaia è di assumere sempre più il suo vero contenuto anti-capitalista, affermando il suo carattere di classe e dunque la sua unità, rompendo tutte le barriere corporative, settoriali, razziali, nazionali... sindacali! Come affermava Marx nel Manifesto del 1848: “Ogni tanto vincono gli operai; ma solo transitoriamente. Il vero e proprio risultato delle loro lotte non è il successo immediato, ma il fatto che l’unione degli operai si estende sempre più”.

Pawel

(da Revolution Internationale n.394, ottobre 2008)



[1] Queste riforme erano “reali e durature” nel senso che non venivano annullate subito dopo con l’obbligo di fare delle ore straordinarie o con un aumento immediato dei ritmi contrariamente, per esempio, alla legge sulle “35 ore” (settimanali) che ha permesso di imporre flessibilità, contratti a termine, aumento dei carichi di lavoro e congelamento dei salari.

[2] Vedi il nostro opuscolo “La decadenza del capitalismo”.

[3] Leipziger Volkszeitung (quotidiano della socialdemocrazia tedesca dal 1894 al 1933), 19 maggio 1913.

[4] Leipziger Volkszeitung, 16 maggio 1913.

[5] Leipziger Volkszeitung, 19 maggio 1913.

[6] Per conoscere meglio questo avvenimento leggere il nostro opuscolo “Polonia 1980”.

[7] Contratto di Primo Impiego.

Patrimonio della Sinistra Comunista: 

  • La questione sindacale [110]

Rivoluzione Internazionale n°169

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febbraio-marzo 2011

Rivolte in Tunisia e in Egitto: la migliore solidarietà è la lotta di classe

Il vento di collera che soffia in Tunisia ed Egitto da settimane sta conquistando l’Algeria, la Libia, il Marocco, la striscia di Gaza, la Giordania, la Siria, l’Iraq, il Bahrein e lo Yemen!

Indipendentemente dai cartelli che i manifestanti agitano, tutte queste manifestazioni hanno la loro origine nella crisi mondiale del capitalismo e nelle sue dirette conseguenze: la disoccupazione, il rialzo dei prezzi, l’austerità, la repressione e la corruzione dei governi che dirigono questi attacchi brutali contro le condizioni di vita. Sono le stesse origini della rivolta della gioventù greca contro la repressione poliziesca nel 2008, della lotta contro le “riforme” delle pensioni in Francia, delle ribellioni degli studenti in Italia e in Gran Bretagna, e di tutti gli scioperi dei lavoratori, dal Bangladesh alla Cina, dalla Spagna agli Stati Uniti.

La determinazione, il coraggio ed il senso di solidarietà che si sono visti nelle strade di Tunisi, del Cairo, di Alessandria e di numerose altre città sono una vera fonte di ispirazione. Le masse che hanno occupato la piazza Tahrir al Cairo o altri luoghi pubblici hanno respinto gli attacchi dei teppisti al soldo del regime e della polizia, hanno chiamato i soldati a solidarizzare con loro, hanno curato i loro feriti, hanno apertamente rigettato le divisioni settarie tra musulmani e cristiani, tra religiosi e laici. Nei quartieri, si sono formati dei comitati per proteggere le loro case contro i saccheggiatori manipolati dalla polizia. Decine di migliaia di persone si sono effettivamente messe in sciopero per giorni e anche per delle settimane, per poter aumentare il numero dei manifestanti.

Di fronte allo spettro di una rivolta di massa, con la prospettiva da incubo di una sua propagazione attraverso tutto il mondo arabo, ed anche oltre, la classe dirigente ha reagito nel mondo intero con le sue due armi più importanti, la repressione e la mistificazione:

  • In Tunisia, oltre cento persone sono state massacrate nelle strade, ed ora la classe dirigente proclama “l’inizio di una transizione verso la democrazia”;
  • In Egitto, il regime di Mubarak, prima di cedere le redini definitivamente all’esercito, ha alternato per giorni vaghe promesse con percosse, insulti e gas lacrimogeni, lasciando per terra 365 vite stroncate;
  • A Gaza, Hamas arresta i manifestanti che cercano di esprimere solidarietà alle rivolte in Tunisia ed Egitto;
  • In Cisgiordania, l’OLP ha vietato “le riunioni non autorizzate” che chiamano a sostenere le rivolte;
  • In Iraq, le manifestazioni contro la disoccupazione e la penuria sono prese di mira dal regime messo su dai “liberatori” americani e britannici;
  • In Algeria, dopo il soffocamento dei primi segni di rivolta, vengono fatte delle concessioni per legalizzare delle timide rivendicazioni;
  • In Giordania, il re licenzia il suo governo per prevenire situazioni pericolose.

A livello internazionale, la classe capitalista alterna ugualmente i suoi discorsi secondo la convenienza: alcuni, in particolare quelli di destra, e certamente quelli dei dirigenti di Israele, hanno sostenuto apertamente il regime di Mubarak come il solo bastione contro una presa di potere islamica. Ma successivamente, dopo qualche esitazione, Obama ha dato il “la” lanciando il messaggio che Mubarak doveva andare via ed anche in fretta, presentando la “transizione verso la democrazia” come la sola via possibile per le masse oppresse dell’Africa del Nord e del Medio Oriente.

I pericoli che minacciano il movimento

Questo grande movimento, che ha avuto per il momento il suo baricentro nell’Egitto, è dunque confrontato con due diversi pericoli.

Il primo è che lo spirito di rivolta sia annegato nel sangue, cosa a cui ad esempio il regime di Mubarak, per salvarsi, sarebbe arrivato applicando il pugno di ferro se la situazione non avesse superato il segno costringendo la polizia a ritirarsi dalla strada di fronte a manifestazioni di grandi masse di persone, per lasciare il posto a dei teppisti pro-Mubarak. E’ importante in questo contesto comprendere il ruolo dell’esercito, che si è presentato come una forza “neutra”, finanche come una forza scesa in campo a fianco dei manifestanti anti-Mubarak per proteggerli dalle aggressioni dei difensori del regime. Non c’è alcun dubbio che molti soldati simpatizzano per i manifestanti e non sarebbero disponibili a sparare sulle masse presenti nelle strade. D’altra parte, alcuni di loro hanno anche disertato. E’ ugualmente vero che ai vertici della gerarchia dell’esercito vi erano delle frazioni che volevano l’allontanamento di Mubarak. Ma non bisogna farsi illusioni che l’esercito dello Stato capitalista possa essere una forza neutra. La “protezione” della piazza Tahrir da parte sua è anche una specie di confinamento, un enorme accerchiamento dei dimostranti, e quando le cose si metteranno male, l’esercito sarà effettivamente utilizzato contro la popolazione sfruttata, a meno che quest’ultima non riesca a neutralizzare le truppe facendole aderire alla sua causa.

Ma qui arriviamo al secondo grave pericolo che incombe: quello che risiede nelle illusioni ampiamente diffuse sulla democrazia, nel credere che forse lo Stato potrebbe, dopo qualche riforma, essere messo al servizio del popolo, nella convinzione che “tutti gli Egiziani”, ad eccezione forse di qualche corrotto, hanno gli stessi interessi fondamentali, nel credere nella neutralità dell’esercito, nel credere che la terribile povertà alla quale è confrontata la gran parte della popolazione possa essere superata se ci sarà un parlamento funzionante e la fine del regno dispotico di un Ben Ali o di un Mubarak.

Queste illusioni, espresse ogni giorno nelle parole degli stessi manifestanti e sui loro cartelli, disarmano il vero movimento di emancipazione che non può avanzare che come movimento della classe operaia, che combatta per i suoi propri interessi, distinto da quello di altri strati sociali, e che si sviluppi su un percorso diametralmente opposto agli interessi della borghesia e di tutti i suoi partiti e fazioni. Le innumerevoli espressioni di solidarietà e di autorganizzazione che abbiamo finora visto riflettono già l’elemento veramente proletario delle rivolte sociali attuali e, come molti manifestanti l’hanno già detto, lasciano presagire una società nuova e più umana. Ma questa società nuova e migliore non può essere realizzata attraverso delle elezioni parlamentari, che faranno salire un El Baradei o i Fratelli musulmani o qualunque altra fazione borghese alla testa dello Stato. Queste fazioni, che possono essere portate al potere dalla forza delle illusioni delle masse, non esiteranno più tardi a utilizzare la repressione contro queste stesse masse.

Vi sono stati molti discorsi su una presunta “rivoluzione” in Tunisia e in Egitto, sia da parte dei principali mass-media che dell’estrema sinistra. Ma la sola rivoluzione che abbia un senso oggi è la rivoluzione proletaria, perché viviamo in un’epoca in cui il capitalismo, democratico o dittatoriale che sia, non può semplicemente offrire nulla all’umanità. Una tale rivoluzione non può riuscire che a livello internazionale, rompendo il cordone di tutte le frontiere nazionali e rovesciando tutti gli Stati-nazione. Le lotte della classe e le rivolte di massa di oggi sono certamente delle tappe sulla via di una tale rivoluzione, ma esse si scontrano con una serie di ostacoli sulla loro strada. Per raggiungere l’obiettivo della rivoluzione devono ancora prodursi dei profondi cambiamenti nell’organizzazione politica e nella coscienza di milioni di persone.

In qualche modo, la situazione attuale in Egitto rappresenta una sintesi della situazione storica dell’insieme dell’umanità. Il capitalismo è nella sua fase terminale. La classe dirigente non può offrire alcuna prospettiva per l’avvenire del mondo, ma la classe sfruttata non è ancora cosciente della sua forza, della sua prospettiva, del suo programma per la trasformazione della società. Il pericolo maggiore è che questa impasse temporanea porti alla fine a “la rovina comune delle classi in lotta”, come dice il Manifesto Comunista, in un precipitare nel caos e la distruzione. Ma la classe operaia, il proletariato, scoprirà la sua vera forza solo ingaggiandosi in delle vere lotte, è per questo che ciò che sta avvenendo attualmente nell’Africa del nord e in Medio Oriente é, malgrado tutte le debolezze ed illusioni presenti, un vero faro per i lavoratori del mondo intero.

E soprattutto è un appello ai proletari dei paesi più sviluppati, che stanno riprendendo la strada della resistenza agli attacchi, perché compiano il prossimo passo, esprimendo concretamente la loro solidarietà alle masse del “terzo mondo”, intensificando la loro lotta contro l’austerità e l’impoverimento e, così facendo, mettendo a nudo tutte le menzogne sulla libertà e la democrazia capitalista, di cui essi hanno una lunga e amara esperienza.

Geografiche: 

  • Africa [111]
  • Medio Oriente [112]

Patrimonio della Sinistra Comunista: 

  • Lotta proletaria [5]

Presa di posizione internazionalista su Egitto. Lo stesso cuore, la stessa necessità di vivere. Cambieremo il mondo alla base!

I lavoratori del mondo intero sono gli unici che possono porre fine allo sfruttamento e all’oppressione sociale capitalista e liberarci dalla miseria che affligge tutta l’umanità. Questa non è una creazione ideologica nostra, o un’invenzione profetica comunista, ma una realtà storica, che smentisce ogni ideologia borghese e si manifesta con le combattive lotte di massa proletarie che si svolgono in ogni angolo del mondo.

Il proletariato dimostra una volta di più la sua condizione di classe rivoluzionaria; tutto il mondo vibra sorpreso dagli ultimi avvenimenti in Egitto e nei paesi vicini. I borghesi piangono, si riuniscono, cospirano, chiamano i loro economisti, i loro funzionari e profeti, ma non sanno che fare di fronte alle rivolte e ai sollevamenti degli sfruttati. Migliaia e migliaia di nostri fratelli si sollevano, rompono le catene che li sottomettono alla macchina borghese e prendono la loro vita nelle proprie mani. D’altra parte non gli resta altra strada quando si guardano intorno e vedono lo stesso dolore nelle loro vite, la stessa preoccupazione per il futuro dei loro figli, l’indignazione per l’ingiustizia, e, ancora più importate, vedono che solamente loro possono cambiare la loro infame esistenza. Gli scioperi, le proteste di strada, l’occupazione di uffici, le barricate, i dibattiti spontanei, l’organizzazione di quartiere autonoma, i servizi collettivi, sono le strofe della poesia chiamata rivolta sociale.

Sappiamo bene, noi che scriviamo, che i nostri fratelli hanno sfidato il coprifuoco, i carri armati, i blindati, i candelotti lacrimogeni, il fucili, le pallottole, la polizia e i soldati. Paura della morte? Tutti i giorni ci alziamo ed esistiamo per lavorare, arricchire altri, fare quello che ci ordinano ed essere messi per strada quando ci “usuriamo”; l’unica paura che possiamo avere è passare per questo mondo e non sapere cosa significa veramente vivere. Questo è il motore della lotta ed è anche la dimostrazione che la classe lavoratrice si sta rialzando, che le pallottole non possono uccidere la speranza di un mondo nuovo e che solo noi possiamo liberare l’umanità dalla schiavitù salariata.

I quartieri del Cairo, di Suez e di Alessandria esistono per lottare, il pugno alzato è la costante di questi luoghi. Geograficamente siamo tanto lontani da questi quartieri, ma siamo tanto vicini negli interessi che stanno difendendo. Noi, una parte dei lavoratori del Perù, siamo parte di questa grande massa di sfruttati, viviamo e sentiamo lo stesso sfruttamento, la stessa miseria, lo stesso putridume di un sistema che si alimenta con la nostra vita, quella dei nostri figli, della loro innocenza, dei nostri padri, della loro fatica, dei nostri fratelli, della loro gioventù, delle nostre risate, allegria e sogni. Ma siamo anche parte della speranza, di un potere che nasce, di un pugno che si alza e colpisce, talvolta a tentoni, ma ogni volta più vicino all’obiettivo. Francia, Gran Bretagna, Italia, Grecia, Tunisia, Algeria, Cina, Bangladesh e adesso Egitto, sono parte di un gigante che comincia a rialzarsi, di un gigante che comincia a ricordarsi delle sue vecchie battaglie contro il demonio antropofago chiamato Capitalismo, e vede un futuro più promettente.

La classe sfruttatrice, i padroni di tutto, i padroni del mondo, quelli che si sono appropriati della nostra vita, vogliono farci pensare che le lotte che stiamo sviluppando sono per ottenere la democrazia, per cacciare qualche politico corrotto, per conquistare più “libertà” nel capitalismo. Cercano di farci credere che lottiamo solo per riformare lo sfruttamento e la miseria, che lottiamo non per farla finita con questo mondo borghese, per andare alla radice dei nostri problemi, ma per renderlo un “poco meglio”. Non dobbiamo consentirgli questi inganni, da qui denunciamo questi ideologi borghesi vestiti da “nostri difensori”, questi “estremisti” di sinistra, nazionalisti, socialdemocratici, che vogliono deviarci dalla nostra lotta perché vogliono dirigerci, vogliono che dedichiamo la nostra vita per portare loro al potere e continuare a vivere con la servitù e la schiavitù. Solo i lavoratori, organizzati autonomamente possono creare un nuovo potere per decidere cosa fare delle nostre vite e del mondo che solo noi facciamo muovere.

Mentre scriviamo questa presa di posizione, in Egitto si riuniscono milioni di nostri fratelli, senza paura e con il cuore aperto, l’umanità prende respiro, la sua esistenza dipende dalle nostre future lotte. In realtà non sappiamo come finirà questo processo di combattività, questa tappa della lotta storica degli sfruttati contro gli sfruttatori, non sappiamo nemmeno se il peso delle ideologie religiose e gauchiste avrà presa sui nostri fratelli. Quello che però sappiamo è che questo non finirà con una riforma, non finirà con l’uscita di qualche presidente. Ogni generazione proletaria si nutre delle lotte, prende fiducia in se stessa, nell’insieme delle lezioni che la classe ci ha lasciato. La solidarietà è stata presente e sarà presente in questo processo, solo uniti siamo forti. Comunque finirà questa battaglia, sarà un avanzamento per noi in questa guerra contro il capitale.

La nostra vittoria finale si avvicina ogni giorno, già non è tanto lontano quanto pensavamo, anche se resta da percorrere un lungo cammino. L’esempio dell’Egitto, come della Grecia, della Tunisia, alimenta lo spirito rivoluzionario e segnala il cammino che bisogna seguire; sono le scintille della grande esplosione che sarà la rivoluzione.

Da qui sentiamo il clima della lotta proletaria al Cairo, a Suez, ad Alessandria, dal Perù sentiamo questa emozione indescrivibile di sentirci vivi, di sapere che niente è stato vano, che la storia ci appartiene e che il futuro che ci aspetta sarà costruito per l’umanità libera dalla schiavitù salariata, libera dalle classi sociali, libera dallo sfruttamento.

Benché il cammino non sia chiaro e che le nostre azioni non sono ancora in grado di raggiungere l’obiettivo, quanta allegria sentiamo al sapere che ci stiamo liberando delle vecchie catene, che la classe comincia a riconoscere il suo vero nemico e quale debba essere la maniera di affrontarlo. Le armi della classe sono state massicciamente evidenziate: il Dibattito, le Assemblee, lo Sciopero, la Riflessione, la Solidarietà, la Fiducia nel Futuro, ecc.

Vogliamo finire ringraziando di tutto cuore i fratelli lavoratori che stanno lottando, siamo con loro, ci hanno riempito di felicità, hanno riempito di sangue rivoluzionario le nostre vene. Siamo vicini a voi, parte della rivoluzione mondiale di domani.

All’erta Proletari, un nuovo mondo ci aspetta.

Proletari di tutti i paesi, uniamoci!

Grupo de Esclarecimiento Comunista - G.E.C. (Gruppo di chiarificazione comunista)

https://esclarecimientocomunista.blogspot.com/ [113]

Martedì, 01 febbraio 2011

Commento della CCI:

Pubblichiamo il testo dei compagni del gruppo GEC del Perù. E’ un testo vibrante, pieno di emozioni, che esprime il calore e la solidarietà di compagni che anche se situati a migliaia di chilometri dall’Egitto sentono come proprie le lotte che si stanno svolgendo lì. “Geograficamente siamo tanto lontani da questi quartieri, ma siamo tanto vicini negli interessi che stanno difendendo.” dicono i compagni.

L’internazionalismo conseguente è la prima cosa che salutiamo in questa presa di posizione. Il proletariato ha bisogno di concepirsi come una classe unita internazionale che colpisce con una sola mano il mostro capitalista. Lo sviluppo della solidarietà internazionale, la convergenza internazionale delle minoranze rivoluzionarie, la ricerca del contatto e dell’azione comune su scala internazionale, perlomeno all’inizio, tra minoranze proletarie sono tutti contributi alla grande meta della rivoluzione mondiale alla cui esplosione contribuiscono anche i piccoli passi, apparentemente “solo teorici e di propaganda”, che stiamo facendo oggi.

Nello stesso tempo in cui manifestano il loro entusiasmo per queste lotte del proletariato, questi compagni sono lucidi rispetto al cammino ancora lungo che bisogna percorrere e rispetto ai pericoli di deviazione verso la trappola senza uscita della democrazia con cui tutta la borghesia mondiale cerca congiuntamente di ucciderle “dal di dentro”.

Non abbiamo il minimo dubbio che queste lotte che vediamo nel Magreb costituiscono un nuovo episodio nel cammino duro e difficile che il proletariato mondiale ha iniziato verso lo sviluppo di lotte di massa, che, a loro volta, gli daranno quella imprescindibile fiducia nelle sue proprie forze, una maturazione nelle sue capacità di autorganizzazione e di politicizzazione, tutti passaggi che servono per realizzare le condizioni per lo sviluppo internazionale di lotte con una prospettiva rivoluzionaria.

Si tratta di movimenti che sono partiti dal cuore stesso della gioventù proletaria, fuori dal controllo ingannevole di sindacati e partiti di opposizione; esprimono l’entrata in lotta delle nuove generazioni del proletariato; queste lotte fanno sì che il Magreb e il Medio Oriente, che fino ad ora facevano notizia solo per la barbarie della guerra, oggi sono in prima pagina per motivi diametralmente opposti: la rivolta sociale di proletari che si sollevano contro la disoccupazione incontrollata, un’inflazione che rende impossibile acquistare perfino gli alimenti di prima necessità, un’assenza totale di prospettiva per il futuro.

Allo stesso tempo non possiamo nascondere la mancanza di esperienza, le illusioni democratiche, l’assenza di organizzazioni di massa, tutte mancanze che indeboliscono e deviano il movimento e permettono alla borghesia di attaccarlo sistematicamente con il cavallo di Troia della democrazia, il rafforzamento dell’opposizione, la polarizzazione sul semplice “via Mubarak” e il silenzio quasi totale sulle rivendicazioni sociali…

Nel presentarlo come “movimento per la democrazia guidato dall’opposizione”, la borghesia vuole mostrarlo come se fosse qualche altra cosa, come “l’ultima tappa” del supposto festino che sarebbe “lo sfruttamento della democrazia”, così da cercare di nascondere che lì si sta lottando per gli stessi motivi per cui si sta lottando in Grecia, Francia, Gran Bretagna o Bangladesh: contro il deterioramento accelerato e irreversibile delle nostre condizioni di vita, contro la barbarie della crisi capitalista.

Quello che può dare un nuovo impulso alle lotte in Tunisia e in Egitto, è che le lotte operaie si sviluppino in Europa, negli USA, in Cina, che continuino ad estendersi in tutta la regione araba ed irrompano anche negli altri continenti. Di qui l’importanza vitale che ha l’iniziativa dei compagni del GEC dal “lontano Perù”. Facciamo appello a che altri gruppi e collettivi seguano il suo esempio in altri paesi.

America Latina. Come in ogni paese capitalista, a Cuba i lavoratori pagano la crisi

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L’acuirsi della crisi capitalista si vede senza dubbio nell’aggravamento delle condizioni di vita della classe operaia; ma se questi attacchi ci sono è perché la borghesia vede i suoi profitti messi in discussione. La crisi non è qualcosa che la classe dominante cerca con premeditazione, né tantomeno viene da fattori esterni al sistema capitalista, ma è l’espressione delle contraddizioni di questo. E questa crisi, che affligge il capitalismo dalla fine degli anni sessanta, ad ogni momento recessivo conosce una profondità maggiore che viene scaricata sui lavoratori in ogni parte del pianeta.

Intorno alla crisi la borghesia sviluppa tutto un velo ideologico che, se non le permette di evitarla, permette però di mistificare la realtà, giustificare i suoi attacchi e l’esistenza stessa del capitalismo. Un esempio maggiore di questa dinamica si nota a Cuba, dove le relazioni di produzione capitalista dominanti, che si basano sullo sfruttamento del lavoro salariato, si nascondono dietro lo statalismo e nell’uso ingannevole di un vocabolario radicale, qualificando i colpi dati agli operai come “sacrifici necessari per il socialismo”. L’aggravamento della crisi capitalista ha portato alla messa in atto di un’ondata di attacchi contro le condizioni di vita degli sfruttati cubani, che sono già così precarie. Il preteso isolamento che l’economia cubana avrebbe mantenuto di fronte alla crisi capitalista non si può più sostenere e i discorsi sul blocco economico come causa (esterna) della crisi sono ormai un argomento logorato con il quale non si può più nascondere che a Cuba, anche se non esistono individui che impersonano il capitale, questo esprime il suo dominio in quanto il capitale è innanzitutto una relazione sociale.

Licenziamenti di massa a Cuba

Lo stalinista partito cubano ha presentato un progetto chiamato “Lineamenti della politica economica e sociale” che descrive i meccanismi per ottenere – ci dicono – la “riorganizzazione dello Stato e del Governo”. La proposta è così riassunta dal giornale La Jornada: “Il documento prevede di ridurre i sussidi alla loro minima espressione; alzare le imposte; legare i salari al rendimento; esigere utili dalle imprese pubbliche, eliminando il controllo del governo; ampliare le cooperative, le microimprese, l’autoimpiego e il commercio immobiliare…” (2/12/2010). Tutti questi punti trovano le loro argomentazioni nel documento ufficiale[1] che, come ogni progetto capitalista, serve a giustificare lo sfruttamento e la necessità della sua intensificazione. Il programma annuncia che si vuole “incrementare la produttività del lavoro, alzare la disciplina e il livello di motivazione del salario e gli incentivi (…) (Sopprimendo) gratuità indebite e sussidi personali eccessivi”. Tutto questo si traduce in colpi ai salari diretti e indiretti (cure mediche, scuola…) e attraverso questo in licenziamenti di massa.

La struttura sindacale cubana, come in tutto il mondo, svolge il suo ruolo di strumento del capitale infiltrato nelle file operaie; così la Centrale dei Lavoratori di Cuba (CTC) giustifica l’annuncio del licenziamento di mezzo milione di lavoratori dicendo: “Lo Stato non può né deve continuare a mantenere imprese (…) con organici gonfiati e perdite che ostacolano l’economia, (…) generano cattive abitudini e deformano la condotta dei lavoratori”. In più, seguendo il cinismo di Fidel Castro che si divertiva col fatto che centinaia di giovani, a causa della miseria che vivono sono costrette a prostituirsi, dicendo che Cuba può vantare le prostitute più colte e sane, Salvador Valdès, leader della CTC assicura che: “Un lavoratore statale licenziato (…) ha la possibilità di realizzare attività private che gli fruttano molto di più”. E facendo un esempio, parla di come un lavoro precario genera una vita migliore: “Un ingegnere che smise di lavorare per lo Stato anni fa (…) riparando scarpe guadagna tra 70 e 100 dollari USA al mese…” (BBC Mundo, 3/02/2010).

Cuba è uno Stato operaio?

Tutte le misure descritte nei “Lineamenti della politica…” sono senza dubbio attacchi diretti contro i lavoratori che smascherano la natura borghese dello Stato cubano, nonostante che di fronte ad esso la grande maggioranza dei gruppuscoli stalinisti mantengono il silenzio; solo in qualche sito e forum di discussione (per esempio kaosenlared.com) si trovano argomenti di accaniti difensori di Stalin e Castro, che continuano ad affermare che le misure annunciate dal partito del governo cubano sono misure dolorose ma necessarie per “perfezionare la Rivoluzione e renderla strategicamente viva”. Ma se la difesa degli attacchi contro i lavoratori, per la loro rozzezza e spudoratezza non fanno che confermare che stalinismo e governo cubano sono nemici della classe operaia, in cambio gli argomenti dei trotskisti, usando un linguaggio farcito di citazioni di Marx e Trotsky per mascherare il carattere capitalista dello Stato cubano dietro un tono di apparente critica, aiutano bene la borghesia nel rafforzare la confusione nella classe operaia sull’esistenza del capitalismo in Cuba.

E’ certo che le posizioni intorno a Cuba sono tante quanti i gruppi trotskisti che ci sono, ma tutte concordano nel dichiarare che il colpo di Stato realizzato da Castro servì ad espropriare la borghesia e cambiare le relazioni economiche capitaliste, instaurando uno “Stato Operaio” che – per darci una botta di critica – chiamano “deformato”. Con questo argomento, gli uni dicono che quello che ci vuole è una “rivoluzione politica”, gli altri che dopo la caduta del blocco sovietico a Cuba si respira una svolta di apertura, che sta “restaurando” il capitalismo… e sebbene solo alcuni di loro hanno preso posizione di fronte alle minacce lanciate dal governo cubano con il suo “nuovo” piano economico, tutti si uniscono per chiamare alla difesa… non dei lavoratori, ma delle “conquiste della rivoluzione”, cioè dello statalismo. Questi argomenti, che si presentano come marxisti e critici, non sono altro che trappole ideologiche che (coscientemente o incoscientemente) servono solo alla borghesia che si impegna a macchiare la tradizione comunista presentando lo stalinismo come prodotto della lotta proletaria. Il trotskismo nasconde il carattere borghese dello stalinismo presentando certe misure come miglioramenti per gli operai (quelle chiamate “conquiste della rivoluzione”), incluso il socialismo in un solo paese, anche se lo criticano in quanto “deformato”. Così facendo si uniscono alla campagna borghese nel diffondere l’idea che il marxismo ha come obiettivo quello di costruire una società come quella cubana, in cui i lavoratori sono sottomesi a uno Stato militarizzato, repressivo e sfruttatore.

Gli attacchi contro i lavoratori cubani chiariscono che cosa esiste (ed è esistito) in questo paese, non uno “Stato operaio degenerato”, ma uno Stato capitalista che ha come unico obiettivo la difesa dell’economia nazionale per il perpetuarsi dello sfruttamento.

Tatlin / Dicembre-2010

(da Revolucion Mundial, n.120)

 

[1] Il documento completo si può trovare sul sito: rouslyn.files.wordpress.com/2010/11/proyecto-lineamientos-pcc.pdf

Geografiche: 

  • Sud e Centro America [38]

Che cosa ha significato il Referendum alla Fiat Mirafiori di Torino

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Ciò che è stato presentato da tutti i media borghesi, comprese le sue espressioni più radicali di sinistra, come un problema lavorativo limitato ad un ramo industriale italiano relativo alla sola produzione d’auto, quello della Fiat, quindi un qualcosa che non dovrebbe riguardare gli altri settori industriali, è invece un problema internazionale che riguarda l’insieme dell’economia capitalista e l’intera classe operaia.

Infatti, bisogna inquadrare i fatti di Mirafiori nel contesto di una crisi da sovrapproduzione generalizzata che attanaglia tutti gli Stati ed i padroni del mondo, dove ogni settore capitalista ed in particolare quello dell’auto, se vuole avere la speranza di rimanere a galla deve mettersi nella condizione di poter vincere l’accanita concorrenza, aumentare cioè la produzione ed a costi minimi. In altre parole abbassare ancora una volta il costo del lavoro attaccando con più vigore e maggiore cinismo i già bassi salariali della classe operaia e degradando ulteriormente le sue già ridotte condizioni di vita.

Nel caso particolare della produzione automobilistica della FIAT, dopo anni di sovvenzionamenti statali per evitare, forse, il suo fallimento definitivo (nel senso che non è più possibile salvarla attraverso un intervento diretto e massiccio dello Stato, tra cui bisogna ricordare i ripetuti incentivi statali per la rottamazione delle vecchie vetture) è arrivato alla sua guida come AD (amministratore delegato) Sergio Marchionne. Questi svela, senza troppi preamboli a tutti coloro che avevano creduto, si fa per dire, in un progetto “socialdemocratico” dei mercati, qual’è la vera natura della democrazia borghese quando si trova immersa nell’asfissia mercantile. Presentatosi all’Unione industriali Marchionne in modo arrogante ha informato le organizzazioni sindacali presenti che non avrebbe accettato nessuna trattativa per il suo piano di ristrutturazione aziendale: o lo si accettava oppure la Fiat sarebbe andata via da Mirafiori e dall’Italia. E forse questo è solo un bluff, visto i costi elevati per impiantare le stesse strutture tecnologiche in altri paesi che ne sono sprovvisti. Intanto, non bisogna credere che una tale politica economica sia il solo desiderio di Marchionne. Essa è agognata da tutta la borghesia italiana. Tuttavia, il metodo Marchionne serve da esperimento per aprire un varco più ampio nel mondo operaio nel tentativo di stravolgere, dopo Pomigliano D’Arco e Mirafiori, tutte le conquiste operaie (che ipocritamente vengono chiamate dai sindacati “diritti”) nell’intento di instaurare un nuovo rapporto tra capitale e lavoro a discapito chiaramente di tutti i lavoratori e su scala nazionale. Non a caso, dopo la chiusura della FIAT di Termini Imerese, soprattutto per una conduzione suicida della lotta da parte dei sindacati, in perfetta continuità con la trappola referendaria già imposta il 22 giugno del 2010 agli operai della Fiat di Pomigliano D’Arco, Marchionne passa a Torino l’11 gennaio del 2010 imponendo ai lavoratori della Fiat Mirafiori un altro referendum per approvare il nuovo piano. In particolare in entrambi i referendum, sotto il pesante ricatto di una delocalizzazione della fabbrica all’estero, si chiede ai lavoratori di accettare il seguente accordo/ricatto:

- lavorare 6 giorni alla settimana su sette su tre turni di lavoro al giorno ed all’occorrenza arrivare anche a turni di 10 ore

- abolizione dell’indennità salariale per i nuovi assunti ed una significativa riduzione per quelli già assunti

- spacco mensa spostato a fine turno

- riduzione della pausa di lavoro da 40 a 30 minuti in una giornata di lavoro

- straordinario obbligatorio fino ad 80 ore all’anno (non pensionabile)

- in caso di fermo di produzione - chiaramente non per volontà degli operai ma per motivi esterni (per esempio mancata consegna di materiale da parte di fornitori) il recupero delle ore di lavoro perse anche durante la mezz’ora di spacco, cioè il lavoratore non potrà usufruire dopo una giornata di lavoro della mensa

- l’assenza per malattia accreditato per legge da un certificato medico, dovrà essere vagliata dall’azienda (sindacati?) ed in caso che quest’ultima, e solo lei, dovesse ritenere che l’assenza possa contenere anomalie non verranno pagati i tre giorni di malattia

- contrattazione (trattative aziendali) solo per i firmatari dei contratti ossia solo per quelle organizzazioni sindacali che ubbidiscono al padrone (sic!)

- possibilità di contratti individuali e ciò è possibile in quanto Marchionne ha posto la società aziendale fuori dalla Confindustria

- lo sciopero che possa produrre danni alla produzione sarà punito fino al licenziamento.

In quest’ultimo caso, bisogna sottolineare che la Fiom, come alcuni politici, uomini di cultura, giuristi, artisti, organici o vicini alla sinistra borghese, parlano ipocritamente di attacchi al “diritto” allo sciopero quando sanno benissimo che lo sciopero non è un diritto che la borghesia, folgorata sulla strada di Damasco da un attacco altruistico, ha concesso alla classe operaia, ma una conquista delle vecchie generazioni operaie che per imporlo ai padroni hanno sacrificato finanche la loro vita. Intanto sono stati proprio i sindacati a reintrodurre, in accordo con governi di sinistra e Confindustria, i limiti dello sciopero approfittando di un abbassamento di guardia della classe operaia (accordo Governo sindacati e Confindustria 1993 – accettazione del pacchetto Treu). Tutti questi sacrifici solo per 1.150 euro al mese, salario medio di un operaio! E’ il caso di dirlo, si tratta di una schiavitù salariale che riporta i proletari ai tempi di Valletta, come è stato sottolineato da operai anziani e da pensionati Fiat. E’ toccante la visione filmata su YouTube[1] del vecchio operaio che piange di fronte a questi attacchi fuori ai cancelli di Mirafiori durante le votazioni ed alla divisione che i sindacati determinano tra i ranghi proletari!

Intanto, sia il presidente della Confindustria, Emma Marcegaglia, sia il ministro del welfare, Sacconi, hanno sostenuto pubblicamente la validità di un tale piano avallato anche dal “super mandrillone” Presidente del consiglio Silvio Berlusconi, che ha dichiarato, mentre si trovava in Germania, che in caso di sconfitta referendaria Marchionne avrebbe fatto bene ad andarsene dall’Italia.

I sindacati, FIOM in testa, i migliori difensori … del capitale

Fino ad ora però abbiamo parlato dei padroni, ma ora vediamo chi sono stati i suoi migliori alleati, gli artefici impagabili per la borghesia, che hanno consentito che passasse un tale attacco attraverso il “consenso degli stessi operai”. Ancora una volta dobbiamo sottolineare l’indispensabile azione mistificatoria dei guardiani degli interessi borghesi effettuata dagli specialisti della sconfitta operaia: i sindacati. Questi micidiali organismi, purtroppo ancora presenti nei ranghi operai, non solo accettano e sostengono i referendum proposti dai padroni in quanto essi rappresentano un terreno di lotta non proletario (non a caso tanto cari proprio ai partiti della sinistra borghese ed ai sui sindacati come la GGIL), ma poi con le loro divisioni attuate ad arte e distribuendosi in ruoli diversificati, UGL, CISL ed UIL schierati apertamente con Marchionne e FIOM e Cobas contro, mettono operai contro altri operai, li dividono, li disorientano, creando nella classe paura e mancanza di fiducia in se stessa. Sotto il ricatto di una “pistola puntata alla testa” esaltato anche dalla stessa propaganda sbandierata da politici di destra ma anche di sinistra (vedi le dichiarazioni di Fassino), la classe, così atomizzata, è costretta ad accettare un terreno di lotta che non le appartiene ma che è proprio della borghesia. Così ogni operaio, nel chiuso di una cabina, costretto a fare i conti con se stesso, ha davvero una notevole difficoltà a respingere il ricatto del padrone.  Tuttavia, la borghesia che ben conosce la reattività operaia, temendo la possibilità di scoppi di scioperi spontanei rispetto agli attacchi portati (che comunque si sono verificati durante il periodo pre-referendario) e l’eventuale perdita di controllo da parte dei sindacati sulla classe operaia, ha avuto la necessità di selezionare un’organizzazione sindacale più dura e radicale per tenere nei ranghi gli operai più decisi e determinati nel rifiutare il ricatto padronale. La scelta, vista l’esiguità delle organizzazioni sindacali più estreme della sinistra borghese (Cobas ecc.), non poteva che cadere sulla FIOM che non a caso all’occorrenza ha sostituito Rinaldini, faccia compromessa della FIOM, con una più radicale, quella di Landini. Non dimentichiamo, infatti, che la Fiom è stata firmataria insieme alle altre sigle sindacali del pacchetto antioperaio Treu e che qualche tempo fa Rinaldini fu contestato duramente durante un comizio a Torino perché a Pomigliano la FIOM aveva fatto passare un provvedimento punitivo per le operaie più combattive lasciando passare la proposta da parte dell’azienda di “esiliarle” in zone confino come veniva per esempio considerato l’insediamento Fiat nolano[2].

Un altro aspetto del ruolo di divisione tra i ranghi operai che questo sindacato ha messo in opera anche dopo i risultati del referendum è stato quello di aver affermato che la vittoria dei si è passata per i voti di quei “traditori operai” che hanno votato si ed anche per i voti degli impiegati, come se quest’ultimi fossero per natura qualcosa di diverso dalla classe operaia! Che ci siano stati voti a favore dei si tra gli operai in tuta blu e gli altri lavoratori, che vengono definiti falsamente impiegati in quanto questi appartengono ai ranghi proletari, è innegabile. Ma la responsabilità non è dei ricattati ma di chi ha consentito questo ricatto: i sindacati compresa la Fiom. Quest’ultima, infatti, invece di accettare il referendum avrebbe dovuto lavorare in favore dell’unità della classe. Risulta evidente che quello che avrebbe potuto veramente sconfiggere Marchionne non era l’urna ma un’attivazione capillare in tutti i posti di lavoro possibili (volantinaggio, convegni, comizi, assemblee aperte a tutti) e non solo tra i metalmeccanici ma nell’indotto ed anche chiedendo solidarietà alla lotta ai tanti altri proletari in lotta come i precari, gli studenti, i ricercatori ecc. per spiegare qual è la vera posta in gioco contenuta dal modello Marchionne. Per poi proclamare uno sciopero. Invece che cosa fa? Lo proclama per il 28/01, a cose ormai chiuse e di venerdì, quando gli altri lavoratori non possono andarci e regione per regione, e in luoghi decentrati come Cassino, Pomigliano ecc.

Ma la vittoria dei Si è una sconfitta per i lavoratori?

Tuttavia, quella che sul piano numerico può rappresentare una sconfitta della classe operaia, sul piano politico non deve essere ritenuta tale. La sfida tra la classe operaia ed i padroni è ancora aperta. Infatti, è lo stesso Marchionne a dichiarare la sua delusione: per i risultati raggiunti dal referendum di Pomigliano in cui fu approvato il piano di ristrutturazione degli accordi da lui proposto con la vittoria dei si 63% e la sconfitta dei no 36 %; a maggior ragione su quelli di Mirafiori dove la vittoria dei si all’accordo/ricatto è stata del 54% (2735 si) mentre la sconfitta con i suoi 2325 ha raggiunto il 46%.

Da dove nasce questa delusione di Marchionne condivisa anche dai sindacati sostenitori del si come giustamente riferisce in un intervista Maurizio Peverati della UILM? : “loro si aspettavano qualcosa di più ma li giustifica con il fatto che forse i lavoratori non abbiano capito bene l’accordo affermando che questo è un grande accordo che rilancia innanzitutto l’auto – tiene in piedi l’indotto e dà la possibilità ai 70 mila lavoratori che ruotano attorno all’indotto di avere almeno un pò di serenità”[3]. A questo punto c’è da chiedere a questi signori com’è che non hanno indetto assemblee generali per spiegare  “bene” le “delizie” di questo accordo agli operai e soprattutto perché le hanno lasciate fare (non in assemblee generali) ai vertici Fiat. In realtà i padroni insieme ai sindacati ed a tutta la borghesia italiana si aspettavano una sconfitta più netta, decisiva della classe operaia sia per avere le mani più libere e proseguire ad ampio raggio alla liberalizzazione selvaggia del costo del lavoro, ma anche per attaccare politicamente la classe inviando un messaggio molto chiaro da riprendere in altri settori e cioè: o si accettano ulteriori sacrifici o l’alternativa è il licenziamento. Dunque un messaggio ricattatorio bello e buono rivolto a tutti i proletari in vista di ulteriori attacchi che la borghesia deve fare. Infatti già stanno dicendo che in effetti la crisi non è affatto passata.

Proprio considerando il ricatto subito dalla classe da tutto un piano prestabilito dalla borghesia, l’azione perniciosa dei sindacati, un terreno di classe che non solo non le appartiene ma che addirittura le è ostile, possono mai parlare di sconfitta degli operai di Pomigliano e di Mirafiori? Assolutamente no! Bisogna considerare oltre ai no dichiarati, anche quei si che, come è stato dichiarato da moltissimi operai intervistati, erano dovuti solo al ricatto e non ad una convinzione ragionata sulle “delizie” del nuovo contratto, solo dalla paura di perdere tutto, di trovarsi con la fabbrica chiusa da un giorno all’altro senza sapere dove e come sopravvivere. E la storia ci insegna che dalla paura può nascere l’indignazione e l’indignazione di una massa di operai può rappresentare per la borghesia una bomba ad orologeria. E questo i padroni lo sanno bene. Inoltre se consideriamo in che contesto internazionale si inserisce l’episodio di Mirafiori, e cioè che ormai in ogni angolo del mondo in tutti i paesi il proletariato sta cominciando a lottare sotto i colpi della crisi economica producendo scioperi e lotte in cui cominciano a riemergere la necessità di scioperi unitari, massicci, solidali, ed anche AG, possiamo dire che anche Mirafiori, rappresenta l’indisponibilità crescente dei lavoratori ad essere trattati peggio che da schiavi. Ecco da dove nasce la preoccupazione di Marchionne, dell’intera borghesia e dei suoi cani da guardia i sindacati. E’ chiaro che i lavoratori di Pomigliano e di Mirafiori, come di altre realtà lavorative, dovranno rifiutare ogni trappola che li porta a scontrarsi su un terreno non proletario e dovranno trovare la forza di liberarsi del sindacato attuando come forme di lotta le Assemblee generali in cui possono ritrovare la forza e la loro dignità di classe sfruttata. Una classe che con le sue massicce lotte a scala internazionale possiede in se la forza di liberare, e con essa l’intera umanità, dall’oppressione del lavoro salariale e dei mercati (il capitalismo) ed essere portatrice di una nuova società in cui non ci saranno più sfruttati ne sfruttatori, né guerre né miseria.

R., 23 gennaio 2011

 


[1] Vedi YouTube : Lacrime davanti ai cancelli di Mirafiori https://www.youtube.com/results?search_query=Lacrime+davanti+ai+cancelli+di+Mirafiori&aq=f [114]

[2] Nola, città dell’entroterra campano.

[3] YouTube: Risultato Referendum Mirafiori FIAT 14/1/11. https://www.youtube.com/watch?v=v5LrTvFX0-U [115]

 

Geografiche: 

  • Italia [9]

Patrimonio della Sinistra Comunista: 

  • Lotta proletaria [5]

Dietro l’antiberlusconismo, il tentativo di riportare tutti i problemi sul piano della contrapposizione dittatura-democrazia

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Il crescendo di scandali che coinvolgono Berlusconi ed il suo entourage sembra davvero non avere termine. E la faccia tosta dell’attuale governo manifestata nel respingere l’evidenza dei fatti, parlando di congiure di stampa e magistrati, è per davvero vomitevole. Il livello a cui è arrivata la politica ha qualche cosa di incredibile che ancora qualche anno fa non avremmo mai creduto potesse realizzarsi. Tutto ciò ha giustamente creato nel paese un diffusissimo senso di sdegno per il capo del governo, ma anche per la politica in generale che, anche a “sinistra”, non sa andare oltre un timido “si dimetta”, rivolto a Berlusconi. Questo sdegno è tanto più forte e sentito nella misura in cui, in una situazione di crisi acuta in cui la gente non ce la fa più neanche a tirare fino alla seconda decina del mese, si vede un capo di governo che, grazie a tutti i soldi che “guadagna” da perfetto parassita togliendoli ai proletari, attivi o disoccupati che siano, si permette di tenere nelle sue residenze festini con ragazze che paga a 50.000 euro alla volta. Ma c’è anche lo sdegno di tutte le donne e di tutti gli uomini onesti per questo “uso” della donna come oggetto sessuale, come carne da godere a pagamento, usando il portafogli come passe-partout per arrivare a qualunque obiettivo. Ed ancora, a proposito di portafogli, sdegno per come la politica sia arrivata a un tale livello di mercificazione da permettere, come al calciomercato, la compravendita di parlamentari a suon di bigliettoni e di promesse di posti nel governo.

Questo sdegno non fa che accumularsi alle numerose altre frustrazioni che la stragrande parte della popolazione subisce giorno dopo giorno, determinate da disoccupazione da una parte e ricatto di licenziamento dall’altra, da buste paga in calo e precarietà e insicurezza per il futuro. Sembra veramente, anche su questo piano, non esserci limite al peggioramento delle condizioni di esistenza e di vita della classe lavoratrice. E’ per questo che la borghesia, preoccupata per il potenziale carattere esplosivo della situazione sociale, cerca continuamente di spostare l’attenzione dei proletari sui falsi piani dell’interclassismo e della democrazia, invocando una giustizia sociale e un’uguaglianza tra i cittadini che, all’interno di una società divisa in classi, non potrà mai esistere.

E’ stato così, ad esempio, con la manifestazione per la dignità delle donne, quella promossa con lo slogan “se non adesso, quando?”, con la sinistra che ne ha fatto un’occasione per tornare sulla scena e chiedere, guarda un po’, le dimissioni di Berlusconi. Così la giusta indignazione di 1 milione di donne e di uomini contro la mercificazione della donna è stata dirottata in una manifestazione per cacciare via Berlusconi.

Neanche il festival di San Remo resta immune dalla propaganda per la democrazia e dal tentativo di riscaldare nell’animo degli “italiani” un amor di patria piuttosto tiepido, con un monologo di oltre mezz’ora con cui Benigni ci ha spiegato il significato autentico dell’inno di Mameli e ricordato i sacri valori a cui ognuno di noi dovrebbe fare riferimento. E intanto il governo si “spacca” su grave problema se fare o meno un giorno di festa lavorativa per celebrare il 150° anniversario dell’unità d’Italia.

Certo! La patria, la democrazia! Ma queste parole attecchivano ed avevano un senso quando, nella fase di costituzione delle nazioni nel 19° secolo, unificando la nazione e sottraendola al dominio di una potenza straniera che la voleva solo come terra asservita ai suoi interessi, il paese poteva avere uno sviluppo proprio e dare una prospettiva anche alla sua classe proletaria, alla stessa classe degli sfruttati. Ma oggi queste stesse parole sanno di niente perché effettivamente davanti a noi c’è il buio più assoluto.

Questa mancanza di prospettiva, questa mancanza di futuro che lamenta tanto e a buon motivo la nuova generazione, è in realtà il riflesso, la conseguenza immediata della mancanza di prospettive che ha la stessa borghesia. Molti in Italia, di fronte alle enormità di Berlusconi e della sua banda, si chiedono come sia possibile che la sinistra non sia capace di profittarne, come mai non sappia esprimere il benché minimo programma di alternativa al governo attuale. Questa mancanza di opposizione, così palese in Italia, non è un caso esclusivo italiano. Lo stesso si presenta in altri paesi come la Francia, dove Sarkozy è rinomato per le sue gaffe e la sua impresentabilità quasi quanto Berlusconi, ma dove la sinistra non ha ugualmente la forza di venire allo scoperto. Facendo le dovute differenze, un problema analogo si pone per i paesi del nord Africa e del medio oriente in rivolta, dove tutti i vecchi figuri stanno saltando l’uno dopo l’altro ma dove le varie borghesie locali non sanno chi mettere al loro posto perché fondamentalmente, al di là di una pulizia di facciata, i nuovi governi non hanno nessuna nuova politica da proporre sul piano sociale ed economico se non concedere … più democrazia per tutti! Così, tornando all’Italia, gli scandali che si muovono intorno alla figura di Berlusconi fanno comodo perché riempiono il vuoto, focalizzano lo sdegno contro un personaggio o anche contro un partito, facendo apparire passabili o addirittura eroiche finanche figure come quella dell’ex fascista Fini o dell’ex democristiano Casini. Quanti in questo periodo dicono: “chiunque altro è meglio di Berlusconi”, pensando che nella politica della borghesia ci sia una gradualità, un meglio e un peggio. Ma nella politica, tanto più nella politica di oggi della borghesia, non ci sono differenze sostanziali perché, al di là della maggiore o minore decenza dell’uno o dell’altro, nessuno ha da offrirci nulla e, in Italia come nel mondo intero, un partito di opposizione che va al governo non potrebbe che proseguire nella stessa direzione del governo precedente, cioè continuare con gli attacchi a tappeto contro la classe dei lavoratori. E’ per questo che non dobbiamo farci ingannare dalla trappola della democrazia e dell’antiberlusconismo, ma denunciare e combattere tutti i partiti della borghesia, di destra come di sinistra, come nostri nemici.

Ezechiele 20 febbraio 2011

Geografiche: 

  • Italia [9]

Situazione italiana: 

  • politica della borghesia in Italia [32]

2010: l’inflazione …. delle catastrofi

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Il 2010 è stato riconosciuto dalla stessa stampa borghese come l’anno “record” delle catastrofi. Inoltre, dagli tsunami agli uragani, dall’enorme inquinamento al disastro ecologico, il secolo scorso e ancora di più l’inizio del XXI secolo non sono stati avari di morti e di sbalorditivi deterioramenti dell’ambiente insieme a massacri di ogni genere dovuti ai “prodigi” dei cosiddetti “operatori di pace” nel mondo. Il primo decennio di questo secolo, che ci avevano promesso come una nuova era di modernità, cambiamento, ecc, si conclude con questa constatazione: un incredibile numero di disastri, “naturali” e non verificatisi un po’ dappertutto nel mondo.

Terremoti, tempeste, ondate di calore, inondazioni ... fare un elenco di tutti questi disastri è quasi impossibile. E la lista è già lunga anche per il 2011! È il caso dell’Australia, per esempio, con le due successive ondate di tempeste che hanno martoriato il paese il 13 e il 22 marzo 2010, distruggendo molte case e impianti elettrici. E ora dai primi di gennaio, il paese conosce la peggiore inondazione degli ultimi 40 anni, descritta come “biblica” da parte delle autorità australiane. Si parla di una trentina di morti, con una zona allagata più grande di Francia e Germania messe assieme. Anche in Brasile l’anno è iniziato con piogge torrenziali che hanno ucciso più di 250 persone in 2 giorni[1]!

Così, per citare solo le principali calamità del 2010:

- Il 12 gennaio 2010 ad Haiti, un terremoto di magnitudo 7.3 ha provocato 230.000 morti, 300.000 feriti e 1,2 milioni di senza tetto, seminando caos e malattie in un paese già afflitto da povertà[2].

- Il 27 febbraio infuria la tempesta Xynthia sulla costa atlantica della Francia, lasciando 47 morti e distruggendo numerose case. Anche due vittime in Portogallo e tre in Spagna.

- In Cile, lo stesso giorno, un terremoto di magnitudo 8,8 uccide 521 persone e distrugge quasi 500.000 case.

- Nel mese di giugno in Russia si verifica un’ondata di caldo senza precedenti, con 15.000 vittime e la devastazione di molte foreste e campi di grano.

- Il 4 settembre è tocca alla Nuova Zelanda subire un terremoto di una magnitudo simile a quella di Haiti (7.1) ma questa volta la normativa antisismica è servita a limitare a due feriti gravi il numero delle vittime.

Tutti questi eventi sono particolarmente tragici e non si può che deplorarne le terribili conseguenze. E noi esprimiamo tutta la nostra solidarietà alle vittime di queste catastrofi mortali. Tuttavia, se dei fenomeni “naturali”, che siano meteorologici, geologici o altro, ne sono spesso la causa, le conseguenze disastrose che portano questi eventi non hanno nulla di naturale o inevitabile. Come viene mostrato nel nostro articolo sulla tragedia di Haiti, sono sempre gli stessi a che pagare il prezzo più alto delle conseguenze dei disastri: la classe sfruttata e i più poveri. Ricordiamoci il cinismo con cui l’amministrazione Bush tardò a fornire assistenza alle persone di New Orleans dopo il passaggio dell’uragano Katrina nell’agosto 2005.

Purtroppo il bilancio del 2010 non si ferma qui. Il capitalismo è responsabile di altre due gravi catastrofi:

• L’esplosione della piattaforma petrolifera “Deepwater” nel Golfo del Messico, il 20 aprile, che ha causato una fuoriuscita di petrolio di proporzioni precedenti nella storia già “ricca” di inquinamento dovuto all’irresponsabilità delle compagnie petrolifere e degli Stati, produttori o meno, che traggono enormi benefici dall’oro nero. Per quasi cinque mesi 780 milioni di litri di petrolio si sono riversati nel Golfo, senza contare gli 11 lavoratori uccisi nell’esplosione[3].

• Poi, in ottobre, la rottura di una diga di un impianto di trattamento della bauxite vicino Ajka in Ungheria ha causato la peggiore catastrofe ecologica che questo paese abbia mai conosciuto facendo numerose vittime. 1,1 milioni di litri di rifiuti tossici (fanghi alcalini) sono finiti nel Marcal, trasformandolo in un fiume morto. “L’elevato tasso alcalino ha ucciso tutto”, si rammarica Tibor Dobson e continuando: “Tutti i pesci sono morti e non abbiamo potuto salvare neanche la vegetazione”[4].

Per questi veri e propri disastri ecologici e umani, i cui effetti sono ancora da venire, la causa non è, ovviamente, quello che la classe dirigente vorrebbe far passare per “malefatte” quasi inevitabili di “Madre Natura”. Quest’ultima è una vittima diretta delle conseguenze della corsa al profitto del capitalismo e delle contraddizioni sempre più mostruose che genera, e con essa i 6 miliardi di persone che abitano il pianeta. Oggi per la classe dominante non conta altro che la sopravvivenza del sistema capitalista, che si chiami “democrazia” o “dittatura”. Nessuna regione del mondo ne è immune, dalle più “ricche” alle più povere. A qualunque prezzo, l’importante è che il mostro faccia profitti, e quindi che produca, fino a vomitare la sua propria sovrapproduzione. Cosa importa la vita di quelli che producono: i lavoratori. Cosa importa la vita delle popolazioni colpite duramente da questo sistema decadente. Se non sono solvibili “che crepino!” Questo è il discorso chiaro e netto che fanno i nostri sfruttatori a microfono spento, quando non sono davanti alle telecamere, le loro lacrime di coccodrillo servono a mascherare, a mala pena, la loro avida cupidigia ed a completare i loro costumi da clown umanitari che usano per giustificare i più bassi appetiti[5].

Oggi il capitalismo stringe l’umanità nella sua morsa: da un lato, distrugge il pianeta per piegarlo alle leggi della concorrenza, il che fa aumentare le catastrofi naturali, e dall’altro, impoverisce la stragrande maggioranza degli sfruttati e ci rende tutti più vulnerabili. “I fenomeni naturali non dovrebbero essere che fenomeni, per quanto spettacolari possano essere. Ma resteranno catastrofi finché le leggi capitaliste governeranno il mondo”[6]

Maxim (18 gennaio)

(da Révolution Internationale, 419)



[1] da “www.lemonde.fr [116]” del 14/01/2011. Il bilancio è di oltre 500 morti.

[2] “Terremoto ad Haiti: gli Stati capitalisti sono tutti sciacalli”, ICConline, https://it.internationalism.org/node/872 [117] e “Epidemia di colera ad Haiti: la borghesia è una classe di assassini”, ICConline, https://it.internationalism.org/node/973 [98].

[3]: “Marea nera nel Golfo del Messico: il capitalismo è una catastrofe [118]”, https://it.internationalism.org/node/926 [118], Rivoluzione Internazionale n.166

[4] Dichiarazione di Tibor Dobson, capo regionale dei servizi anti-calamità. Il suo staff aveva cercato di versare gesso e acido per ridurre il tasso alcalino del fiume Marcal. Ma invano.

[5] “Haiti, l’aiuto umanitario come alibi” Révolution Internationale n.409, https://fr.internationalism.org/ri409/en_haiti_l_humanitaire_comme_alibi.html [119]

[6] Vedi il nostro articolo sull’ennesimo disastro “Coulées de boues en Amérique latine: le capitalisme est une catastrophe meurtrière permanente”, Révolution Internationale n.412, https://fr.internationalism.org/ri412/coulees_de_boues_en_amerique_latine_le_capitalisme_est_une_catastrophe_meurtriere_permanente.html [120]

Questioni teoriche: 

  • Ambiente [12]

Sinistra comunista ed anarchismo internazionalista: ciò che abbiamo in comune

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Da circa tre anni alcuni elementi e gruppi anarchici e la CCI hanno fatto cadere alcune barriere cominciando a discutere in modo aperto e fraterno. L’indifferenza o il rigetto reciproco, aprioristico e sistematico, dell’anarchismo e del marxismo hanno fatto posto ad una volontà di discutere, di comprendere le posizioni dell’altro, di stabilire con onestà i punti di convergenza e di divergenza.

 

In Messico, questo nuovo spirito ha permesso la redazione comune di un volantino firmato da due gruppi anarchici (il GSL ed il PAM[1]) e un’organizzazione della Sinistra comunista, la CCI. In Francia, recentemente, la CNT-AIT di Tolosa ha invitato la CCI a fare la relazione introduttiva ad una delle sue riunioni pubbliche[2]. Anche in Germania cominciano ad essere stabiliti dei legami.

Sulla base di questa dinamica la CCI ha iniziato un lavoro di fondo sulla storia dell’internazionalismo all’interno dell’ambiente anarchico. Abbiamo pertanto pubblicato nel corso del 2009 una serie di articoli intitolati “Gli anarchici e la guerra”[3]. Il nostro obiettivo era dimostrare che, ad ogni conflitto imperialistico, una parte degli anarchici aveva saputo evitare la trappola del nazionalismo e difendere l’internazionalismo proletario. In questi articoli abbiamo mostrato come questi compagni avevano continuato a lavorare per la rivoluzione e per il proletariato internazionale nonostante intorno a loro si fosse scatenato lo sciovinismo e la barbarie.

Conoscendo l’importanza che la CCI dà all’internazionalismo - frontiera che delimita i rivoluzionari che lottano realmente per l’emancipazione dell’umanità da quelli che tradiscono la lotta del proletariato - si poteva vedere come questi articoli, oltre ad esprimere una critica senza concessioni agli anarchici che hanno partecipato alla guerra, fossero soprattutto un saluto agli anarchici internazionalisti!

Tuttavia la nostra intenzione non è stata ben percepita. Questa serie ha invece determinato nell’immediato una certa freddezza. Da un lato, alcuni anarchici vi hanno visto un attacco in piena regola contro il loro movimento. Dall’altro, alcuni simpatizzanti della Sinistra comunista e della CCI non hanno capito la nostra volontà di “avvicinarci agli anarchici”[4].

Al di là di grossolane sviste contenute nei nostri articoli e che hanno potuto “urtare” qualcuno[5], queste critiche apparentemente contraddittorie hanno in effetti la stessa radice. Mostrano la difficoltà a vedere, al di là delle divergenze, gli elementi essenziali che avvicinano i rivoluzionari.

Andare al di là delle etichette!

Quelli che si richiamano alla lotta per la rivoluzione vengono tradizionalmente classificati in due categorie: i marxisti e gli anarchici. Ci sono nei fatti delle divergenze molto importanti che li dividono:

- centralizzazione/federalismo;

- materialismo/idealismo;

- “periodo di transizione” o “abolizione immediata dello Stato”;

- Riconoscimento o denuncia della rivoluzione dell’Ottobre 1917 e del Partito bolscevico

- …

Tutte queste questioni sono effettivamente estremamente importanti. È nostra responsabilità non evitarle ma dibatterne apertamente. Tuttavia, per la CCI queste non delimitano “due campi”. Concretamente, la nostra organizzazione, che è marxista, ritiene di lottare per il proletariato al fianco dei militanti anarchici internazionalisti e in contrapposizione ai Partiti “comunisti” e maoisti (che si proclamano tuttavia anche loro marxisti). Perché?

In seno alla società capitalista, esistono due campi fondamentali: quello della borghesia e quello della classe operaia. Noi denunciamo e combattiamo tutte le organizzazioni politiche che appartengono al primo. Discutiamo, talvolta vivacemente ma sempre fraternamente, e proviamo a collaborare con tutti i membri del secondo. Ora, sotto la stessa etichetta “marxista” si nascondono delle organizzazioni autenticamente borghesi e reazionarie. La stessa cosa vale anche per l’etichetta “anarchico”!

Non si tratta di pura retorica. La storia pullula di esempi di organizzazioni “marxiste” o “anarchiche” che giurano mano sul cuore di difendere la causa del proletariato per meglio in realtà pugnalarlo alla schiena. Nel 1919 la socialdemocrazia tedesca si diceva “marxista” nello stesso momento in cui assassinava Rosa Luxemburg, Karl Liebknecht e migliaia di operai. I partiti stalinisti hanno schiacciato nel sangue le insurrezioni operaie di Berlino nel 1953 e d’Ungheria nel 1956 in nome del “comunismo” e del “marxismo”, in realtà nell’interesse del blocco imperialistico diretto dall’URSS. In Spagna, nel 1937, alcuni dirigenti della CNT partecipando al governo sono serviti da cauzione ai boia stalinisti che hanno massacrato e represso nel sangue migliaia di rivoluzionari… anarchici! Oggi, in Francia ad esempio, la stessa denominazione “CNT” raccoglie due organizzazioni anarchiche, una dalle posizioni autenticamente rivoluzionarie, la CNT-AIT, ed un’altra puramente “riformista” e reazionaria, la CNT Vignoles[6].

È dunque vitale identificare i falsi amici che si nascondono dietro le “etichette”.

Ma non bisogna cadere nella trappola inversa e credere di essere soli al mondo, i detentori esclusivi della “verità rivoluzionaria”. I militanti comunisti sono oggi ancora poco numerosi e non c’è niente di più nefasto dell’isolamento. Bisogna dunque lottare anche contro la tendenza, ancora troppo diffusa, della difesa della “propria parrocchia”, della propria “famiglia” (anarchica o marxista) e contro lo spirito bottegaio che non ha niente a che vedere con il campo della classe operaia. I rivoluzionari non sono concorrenti tra loro. Le divergenze, i disaccordi, per quanto profondi possano essere, sono una fonte di arricchimento per la coscienza di tutta la classe operaia quando sono discussi apertamente e sinceramente. Creare dei legami e discutere a livello internazionale sono necessità assolute.

Ma per fare questo bisogna saper distinguere i rivoluzionari (quelli che difendono la prospettiva del capovolgimento del capitalismo da parte del proletariato) dai reazionari (quelli che, in un modo o nell’altro, contribuiscono alla perpetuazione di questo sistema) senza focalizzarsi sulla sola etichetta “marxismo” o “anarchismo”.

Ciò che unisce i marxisti e gli anarchici internazionalisti

Per la CCI esistono dei criteri fondamentali che distinguono le organizzazioni borghesi da quelle proletarie.

Sostenere la lotta della classe operaia contro il capitalismo significa al tempo stesso combattere nell’immediato contro lo sfruttamento (negli scioperi, ad esempio) e non perdere mai di vista la prospettiva storica di questa lotta: il rovesciamento di questo sistema di sfruttamento attraverso la rivoluzione. Per fare ciò, un’organizzazione non deve mai dare il suo appoggio, in nessun modo (anche se “critico”, “tattico”, in nome del “male minore”…)  ad un settore della borghesia: né alla borghesia “democratica” contro la borghesia “fascista”, né alla sinistra contro la destra, né alla borghesia palestinese contro la borghesia israeliana, ecc. Questa politica ha due implicazioni concrete:

1. Bisogna rifiutare ogni sostegno elettorale, ogni collaborazione, con i partiti che gestiscono il sistema capitalista o che difendono questa o quella forma di quest’ultimo (socialdemocrazia, stalinismo, “chavismo”, ecc.);

2. Soprattutto, rispetto ad ogni guerra, bisogna mantenere un internazionalismo intransigente, rifiutandosi di scegliere tra questo o quel campo imperialista. Durante la Prima Guerra mondiale come durante tutte le guerre imperialiste del 20° secolo, tutte le organizzazioni che, per cercare un campo da sostenere, hanno abbandonando il campo dell’internazionalismo hanno nei fatti tradito la classe operaia e sono state integrate definitivamente nel campo borghese[7].

Questi criteri, esposti qui molto brevemente, spiegano perché la CCI considera certi anarchici compagni di lotta e perché si augura di discutere e collaborare con loro mentre, parallelamente, denuncia con forza altre organizzazioni anarchiche.

Per esempio, collaboriamo con il KRAS (sezione dell’AIT anarco-sindacalista in Russia), pubblicando e salutando le sue prese di posizione internazionaliste di fronte alla guerra, in particolare quella in Cecenia. La CCI considera questi anarchici, malgrado le divergenze, come facenti parte del campo proletario. Questi si distinguono chiaramente da tutti quegli anarchici e da tutti quei “comunisti” (come quelli dei Partiti “comunisti” o maoisti o trotzkisti) che in teoria difendono l’internazionalismo ma in pratica vi si oppongono difendendo in ogni guerra un campo belligerante contro un altro. Non bisogna dimenticare che nel 1914, all’epoca dello scoppio della Prima Guerra mondiale, e nel 1917, all’epoca della Rivoluzione russa, la maggior parte dei “marxisti” della socialdemocrazia si schierarono con la borghesia contro il proletariato, mentre la CNT spagnola denunciava la guerra imperialista e sosteneva la rivoluzione! All’epoca dei movimenti rivoluzionari della fine degli anni 1910, gli anarchici ed i marxisti, che lavoravano sinceramente alla causa proletaria, si sono ritrovati fianco a fianco nella lotta nonostante i loro disaccordi. In questo periodo c’è stata anche una certa collaborazione di grande ampiezza tra i rivoluzionari marxisti (i bolscevichi, gli spartakisti tedeschi, i tribunisti olandesi, gli astensionisti italiani, ecc. che si erano staccati dalla II Internazionale che degenerava) e numerosi gruppi che si rivendicavano all’anarchismo internazionalista. Un esempio di questo processo è il fatto che un’organizzazione come la CNT abbia previsto la possibilità, alla fine rigettata, di integrarsi nella Terza Internazionale[8].

Per portare un esempio più recente, un po' ovunque nel mondo esistono gruppi anarchici e sezioni dell’AIT che di fronte agli avvenimenti attuali mantengono non solo una posizione internazionalista ma lottano anche per l’autonomia della proletariato contro tutte le ideologie e tutte le correnti della borghesia:

- questi anarchici difendono la lotta diretta e di massa come anche l’auto-organizzazione in assemblee generali ed in Consigli operai;

- rigettano ogni partecipazione alla mascherata elettorale ed ogni sostegno a qualsiasi partito politico, anche “progressista”, che partecipa a questa mascherata.

In altre parole, fanno proprio uno dei principi formulati dalla Prima Internazionale: “L’emancipazione dei lavoratori sarà opera dei lavoratori stessi”, lavorando in tal modo per la lotta per la rivoluzione ed una comunità umana mondiale.

La CCI appartiene allo stesso campo di questi anarchici internazionalisti che difendono realmente l’autonomia operaia! Sì, li consideriamo come dei compagni con i quali ci auguriamo di discutere e collaborare! Sì, pensiamo anche che questi militanti anarchici hanno molto più in comune con la Sinistra comunista che non con quelli che, sotto la stessa etichetta anarchica, difendono in realtà delle posizioni nazionaliste o “riformistiche” e che quindi sono in realtà dei difensori del capitalismo, dei reazionari!

Nel dibattito che poco a poco si sta sviluppando tra tutti gli elementi e gruppi rivoluzionari ed internazionalisti del pianeta, ci saranno inevitabilmente errori, discussioni vivaci ed animate, spigolosità, malintesi e veri disaccordi. Ma i bisogni della lotta del proletariato contro un capitalismo sempre più invivibile e barbaro, la prospettiva indispensabile della rivoluzione proletaria mondiale, condizione per garantire la sopravvivenza dell’umanità e del pianeta, esigono questo sforzo. E’ un dovere. E oggi, che emergono di nuovo minoranze proletarie rivoluzionarie in numerosi paesi che si richiamano o al marxismo o all’anarchismo (o che sono aperte ai due), questo dovere di discutere e collaborare deve incontrare un’adesione determinata ed entusiasta!

CCI (giugno 2010)

 

 

I prossimi articoli di questa serie tratteranno le seguenti questioni:

-          Sulle nostre difficoltà a discutere ed i mezzi per superarle.

-          Come coltivare il dibattito.

 

[1] GSL: Grupo Socialista Libertario, https://webgsl.wordpress.com [121], PAM: Proyecto Anarquista Metropolitano, proyectoanarquistametropolitano.blogspot.com.

[2] Un clima caloroso ha regnato durante tutta questa riunione. Leggi il resoconto “Réunion CNT-AIT de Toulouse du 15 avril 2010: vers la constitution d’un creuset de réflexion dans le milieu internationaliste [122], sulla pagina in francese del nostro sito.

[3] Questa serie di Quattro articoli intitolata “Gli anarchici e la guerra” è disponibile in inglese [123] e francese [124].

[4] Dei compagni, in particolare, sono stati turbati dalla realizzazione di un volantino in comune GSL-PAM-CCI. Abbiamo quindi cercato di spiegare il nostro approccio in un articolo in spagnolo dal titolo “Quale è il nostro atteggiamento di fronte a dei compagni che si richiamano all’anarchismo?”, https://es.internationalism.org/node/2715 [125]

[5] In effetti alcuni compagni anarchici hanno giustamente sottolineato delle sviste, delle formulazioni imprecise ed anche degli errori storici. Vi torneremo in seguito, ma vogliamo sin da ora rettificarne due dei più grossolani:

– La serie “Gli anarchici e la guerra” afferma più volte che, all’epoca della Prima guerra mondiale, la maggioranza dell’ambiente anarchico cadde nel nazionalismo mentre solo un pugno di individui riuscì a difendere la posizione internazionalista mettendo in pericolo la propria vita. Gli elementi storici apportati nel dibattito da membri dell’AIT, e confermati dalle nostre ricerche, mostrano che in realtà una gran parte degli anarchici si è opposta alla guerra sin dal 1014 (delle volte in nome dell’internazionalismo o dell’antinazionalismo, più spesso in nome del pacifismo)

– L’errore più imbarazzante (e che finora nessuno ha sollevato) riguarda l’insurrezione di Barcellona nel maggio 1937. Infatti noi abbiamo scritto che “gli anarchici si fanno complici della repressione operata dal Fronte popolare e dal governo di Catalogna”. In realtà sono invece i militanti della CNT e della FAI a costituire la maggior parte degli operai insorti a Barcellona e che sono state le principali vittime della repressione organizzata dalle orde staliniste! Sarebbe stato più giusto denunciare la collaborazione a questo massacro da parte della direzione della CNT piuttosto che “degli anarchici”. Questo del resto è il senso della nostra posizione sulla Guerra di Spagna che difendiamo in particolare nell’articolo “Lezioni degli avvenimenti della Spagna” nella Rivista Internazionale n.3 dove vengono riportati gli articoli di Bilan (novembre 1936) su questi avvenimenti.

[6] “Vignoles” è il nome della strada dove si trova la loro sede principale.

[7] Tuttavia elementi o gruppo hanno potuto emergere da organizzazioni che erano passate nel campo borghese, ad esempio la tendenza di Munis o quella che avrebbe formato “Socialisme ou Barbarie” all’interno della “IV Internazionale” trotskysta.

[8] Vedi “Storia del movimento operaio: la CNT di fronte alla guerra ed alla rivoluzione (1914-1919), secondo articolo di una serie sulla storia della CNT disponibile in: francese [126]; inglese [127]; spagnolo [128].

Correnti politiche e riferimenti: 

  • Anarchismo internationalista [14]

Questioni teoriche: 

  • Internazionalismo [129]

Il comunismo, punto d’inizio della società umana: Marx e il raggiungimento della pienezza dell’uomo nel comunismo

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Nei Manoscritti economici e filosofici, dopo aver esaminato i diversi aspetti dell’alienazione umana, Marx si è impegnato a criticare le concezioni del comunismo, rudimentali ed inadeguate, che predominavano nel movimento proletario della sua epoca. Marx rigettava le concezioni ereditate da Babeuf che gli adepti di Blanqui hanno continuato a difendere, perché queste tendevano a presentare il comunismo come un livellamento generale verso il basso, una negazione della cultura nella quale “la condizione di lavoratore non è abolita, è estesa a tutti gli uomini”. In questa concezione tutti dovevano diventare lavoratori salariati sotto il dominio di un capitale collettivo, della “comunità in quanto capitalista universale”. Rigettando queste concezioni Marx anticipava già certi argomenti che i rivoluzionari successivi hanno dovuto sviluppare per dimostrare la natura capitalista dei regimi sedicenti “comunisti” dell’ex-blocco dell’Est.

A Marx premeva dimostrare, contro queste definizioni restrittive e deformate, che il comunismo non significa ridurre in generale gli uomini ad un filisteismo incolto, ma l’elevazione dell’umanità alle sue più alte capacità creatrici.

Il comunismo volgare aveva compreso con una certa correttezza che le realizzazioni culturali delle società precedenti erano basate sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Ma esso le rigettava in modo erroneo mentre il comunismo di Marx cercava, al contrario, di appropriarsene e di rendere fruttuosi tutti gli sforzi culturali e, se si può utilizzare questo termine, spirituali precedenti dell’umanità, liberandoli dalle distorsioni di cui la società di classe inevitabilmente li aveva segnati. Facendo di queste realizzazioni il bene comune di tutta l’umanità, il comunismo le fonderebbe in una sintesi superiore e più universale. E’ una visione profondamente dialettica la quale, anche prima che Marx esprimesse una chiara comprensione delle forme comunitarie di società che avevano preceduto la formazione delle divisioni in classe, riconosce che l’evoluzione storica, in particolare nella sua fase finale capitalista, ha spogliato l’uomo e lo ha privato dei suoi rapporti sociali “naturali” originari. Ma il fine di Marx non è un ritorno ad una semplicità primitiva persa ma l’instaurazione cosciente dell’essere sociale dell’uomo, un accesso ad un livello superiore che integra tutti gli avanzamenti contenuti nel movimento della storia.

La produzione comunista come realizzazione della natura sociale dell’uomo

La critica di Marx del lavoro alienato presenta parecchi aspetti:

- il lavoro alienato separa il produttore dal suo prodotto: ciò che l’uomo crea con le proprie mani diventa una forza ostile che schiaccia il suo creatore; si separa il produttore dall’atto di produzione: il lavoro alienato è una forma di tortura, un’attività totalmente estranea al lavoratore. Dato che la caratteristica fondamentale umana, “l’essere generico dell’uomo” come dice Marx, è la produzione creatrice cosciente, trasformare questa in fonte di tormento, significa separare l’uomo dal suo vero essere generico;

- si separa l’uomo dall’uomo: c’è non solo una profonda separazione tra lo sfruttatore e lo sfruttato, ma anche tra gli stessi sfruttati, atomizzati in individui rivali per le leggi della concorrenza capitalista.

Nelle sue prime definizioni del comunismo, Marx tratta questi aspetti dell’alienazione sotto diverse angolazioni ma sempre con la stessa preoccupazione di mostrare che il comunismo fornisce una soluzione concreta e positiva a questi mali. Nella conclusione degli Estratti degli elementi di economia politica di James Mill, commento che scrisse nella stessa epoca dei Manoscritti, Marx spiega perché la sostituzione del lavoro salariato capitalista (che non produce che per il profitto), con il lavoro associato che produce per i bisogni umani, costituisce la base del superamento delle alienazioni enumerate in alto.

Marx ci dice di immaginare “di produrre come esseri umani: ciascuno di noi si affermerebbe doppiamente nella sua produzione, per sé stesso e per l’altro! 1) Nella mia produzione realizzerei la mia identità, la mia particolarità; lavorando proverei il godimento di una manifestazione individuale della mia vita, e, nella contemplazione dell’oggetto, avrei la gioia individuale di riconoscere la mia personalità come potere reale, concretamente percepibile e al di fuori di ogni dubbio. 2) Nel tuo godimento o nel tuo impiego del mio prodotto, avrei la gioia spirituale immediata di soddisfare attraverso il mio lavoro un bisogno umano, di realizzare la natura umana e di fornire al bisogno di un altro l’oggetto della sua necessità. 3) Avrei consapevolezza di servire da mediatore tra te ed il genere umano, di essere riconosciuto e sentito da te come un complemento al tuo proprio essere e come una parte necessaria di te stesso; di essere accettato nel tuo spirito come nel tuo amore. 4) Avrei, nelle mie manifestazioni individuali, la gioia di creare la manifestazione della tua vita, cioè di realizzare e di affermare nella mia attività individuale la mia vera natura, il mio essere socievole umano. Le nostre produzioni sarebbero altrettanti specchi dove i nostri esseri risplenderebbero uno di fronte all’altro. (...) Il mio lavoro sarebbe una manifestazione libera della vita, un godimento della vita”.

Così, per Marx, gli esseri umani produrranno in modo umano solo quando ogni individuo sarà capace di realizzarsi pienamente nel suo lavoro: realizzazione che viene dal godimento attivo dell’atto produttivo; dalla produzione di oggetti che abbiano non solo un’utilità reale per altri esseri umani ma che meritano anche di essere contemplati per sé stessi, perché sono stati prodotti, per usare un’espressione dei Manoscritti, “secondo le leggi della bellezza”, del lavoro in comune con altri esseri umani, e per uno scopo comune.

Per Marx la produzione dei bisogni non ha costituito mai un semplice minimo, una soddisfazione puramente quantitativa dei bisogni elementari di nutrirsi, di alloggiare, ecc. La produzione per i bisogni è anche il riflesso della necessità per l’uomo di produrre - per l’atto di produzione in quanto attività sensuale e piacevole, in quanto celebrazione dell’energia comunitaria del genere umano. Questa è una posizione che Marx non ha mai modificato. Come scrive, per esempio, il Marx “maturo” nella Critica del Programma di Gotha (1874), quando parla di una “fase più elevata della società comunista, dopo che è scomparsa la subordinazione asservitrice degli individui alla divisione del lavoro, e quindi anche il contrasto tra lavoro intellettuale e fisico; dopo che il lavoro sarà divenuto non soltanto mezzo di vita, ma anche il primo bisogno della vita; dopo che con lo sviluppo onnilaterale degli individui sono cresciute anche le forze produttive e tutte le sorgenti della ricchezza scorrono in tutta la loro pienezza...”.

Nella società futura la principale motivazione per lavorare sarà “il primo bisogno della vita”, il godimento della vita - cuore dell’attività umana e realizzazione dei desideri essenziali dell’uomo.

Superare la divisione del lavoro

Nel primo volume del Capitale Marx passa pagine e pagine a scagliarsi contro il modo in cui il lavoro della fabbrica riduce l’operaio a semplice frammento di sé stesso; contro il modo in cui trasforma gli uomini in corpo senza testa, la cui specializzazione ha ridotto il lavoro alla ripetizione delle azioni più meccaniche per intorpidire la mente. Ma questa polemica contro la divisione del lavoro si trova già nei suoi primi lavori ed è chiaro in quello che dice che per Marx non può esserci superamento dell’alienazione implicita nel sistema salariato senza che ci sia una profonda trasformazione della divisione del lavoro esistente. Un passo famoso dell’Ideologia tedesca tratta questo problema: “E infine la divisione del lavoro offre anche il primo esempio del fatto che fintanto gli uomini si trovano nella società naturale, fintanto che esiste, quindi, la scissione fra interesse particolare e interesse comune, fin tanto che l’attività, quindi, è divisa non volontariamente ma naturalmente, l’azione propria dell’uomo diventa una potenza a lui estranea, che lo sovrasta, che lo soggioga, invece di essere da lui dominata. Cioè appena il lavoro comincia ad essere diviso ciascuno ha una sfera di attività determinata ed esclusiva che gli viene imposta e dalla quale non può sfuggire: è cacciatore, pescatore, o pastore, o critico critico, e tale deve restare se non vuol perdere i mezzi per vivere; laddove nella società comunista, in cui ciascuno non ha una sfera di attività esclusiva ma può perfezionarsi in qualsiasi ramo a piacere, la società regola la produzione generale e appunto in tal modo mi rende possibile di fare oggi questa cosa, domani quell’altra, la mattina andare a caccia, il pomeriggio pescare, la sera allevare il bestiame, dopo pranzo criticare, cosi come mi vien voglia; senza diventare né cacciatore, né pescatore, né pastore, né critico”.

Questa meravigliosa immagine della vita quotidiana in una società comunista pienamente sviluppata utilizza evidentemente una certa licenza poetica, ma essa tratta il punto essenziale: dato lo sviluppo delle forze produttive apportato dal capitalismo, non c’è assolutamente bisogno che gli esseri umani passino gran parte della loro vita nella prigione di un unico genere di attività - soprattutto nel genere di attività che permette l’espressione solo di una minuscola parte delle capacità reali dell’individuo. Allo stesso modo, parliamo dell’abolizione della vecchia divisione tra piccole minoranze di individui che hanno il privilegio di vivere di un lavoro realmente creativo e gratificante, e la vasta maggioranza condannata all’esperienza del lavoro come alienazione della vita: “Il fatto che il talento artistico sia concentrato esclusivamente in alcuni individui e che esso sia, per questa ragione, soffocato nella gran massa delle persone è una conseguenza della divisione del lavoro. (...) in un’organizzazione comunista della società l’assoggettamento dell’artista allo spirito ristretto del luogo e della nazione sarà scomparso. Questa grettezza di spirito è un puro risultato della divisione del lavoro. Scomparirà anche l’assoggettamento dell’individuo a tale arte determinata che lo riduce al ruolo esclusivo di pittore, di scultore, ecc., in modo che, di per sé, la denominazione rifletta perfettamente la ristrettezza del suo sviluppo professionale e la sua dipendenza dalla divisione del lavoro. In una società comunista, non ci sono pittori, ma al massimo degli esseri umani che, tra le altre cose, dipingono”.

L’immagine eroica della società borghese nella sua aurora nascente è quella dell’ “Uomo del Rinascimento” - di individui come Leonardo Da Vinci che ha combinato i talenti di artista, scienziato e filosofo. Ma tali uomini non sono che esempi eccezionali, geni straordinari, in una società in cui l’arte e la scienza si basano sulla fatica spossante dell’immensa maggioranza. La visione del comunismo di Marx è quella di una società composta interamente da “Uomini del Rinascimento”.

L’emancipazione dei sensi

Le descrizioni di Marx dei fini ultimi del comunismo sono estremamente ardite, ben più di quanto possano sospettare di solito i “realisti”, perché esse non considerano solo i profondi cambiamenti che implica la trasformazione comunista (produzione per il consumo, abolizione della divisione del lavoro, ecc.); esse si addentrano anche nei cambiamenti soggettivi che il comunismo apporterà permettendo una trasformazione spettacolare della percezione e della stessa esperienza sensitiva dell’uomo.

Anche qui il metodo di Marx è partire dal problema reale, concreto, posto dal capitalismo e cercare la soluzione contenuta nelle contraddizioni presenti della società. In questo caso egli descrive il modo in cui il regno della proprietà privata riduce le capacità dell’uomo di godere veramente dei suoi sensi. Innanzitutto, questa restrizione è una conseguenza della semplice povertà materiale che smussa i sensi, riduce tutte le funzioni fondamentali della vita al loro livello animale ed impedisce agli esseri umani di realizzare la loro potenza creatrice.

Al contrario, “… i sensi dell’uomo sociale sono altri da quelli dell’uomo asociale. È soltanto per la dispiegata ricchezza dell’ente umano che la ricchezza della soggettiva umana sensibilità, che un orecchio musicale, che un occhio per la bellezza delle forme, in breve dei sensi capaci di godimento umano, diventano dei sensi capaci, dei sensi che si affermano quali umane forze essenziali... così la società formatasi produce l’uomo in questa intera ricchezza del suo essere, l’uomo ricco, e profondo, di senso universale, come sua ferma realtà”.

Ma non è solamente la privazione materiale quantificabile che restringe il libero gioco dei sensi. È qualche cosa di più profondamente inciso dalla società della proprietà privata, la società dell’alienazione. È la “stupidità” indotta da questa società che ci convince che niente “è veramente vero” finché non si lo possiede: “La proprietà privata ci ha fatti così ottusi e unilaterali che un oggetto è nostro solo quando lo abbiamo, quando, dunque, esiste per noi come capitale, o è immediatamente posseduto, mangiato, bevuto, portato sul nostro corpo, abitato, ecc., in breve utilizzato. Sebbene la proprietà privata comprenda tutte queste immediate realizzazioni del possesso soltanto come mezzo di vita, la vita, cui servono come mezzi, è la vita della proprietà privata: lavoro e capitalizzazione. Tutti i sensi, fisici e spirituali, sono stati quindi sostituiti dalla semplice alienazione di essi tutti, dal senso dell’avere”.

E di nuovo, in opposizione a ciò:

"... la soppressione effettiva della proprietà privata – cioè l’appropriazione sensibile dell’esistenza e vita umana, dell’uomo oggettivo, delle opere umane, per e attraverso l’uomo - non è da prendersi soltanto nel senso dell’immediato, unilaterale godimento, nel senso del possedere, dell’avere. L’uomo si immedesima, in guisa onnilaterale, nel suo essere onnilaterale, dunque da uomo totale. Ognuno dei suoi umani rapporti col mondo, il vedere, l’udire, l’odorare, il gustare, il toccare, il pensare, l’intuire, il sentire, il volere, l’agire, l’amare, in breve ognuno degli organi dell’individualità, come organi che sono immediatamente nella loro forma organi comuni sono, nel loro oggettivo contegno, ossia nel loro comportamento verso l’oggetto, appropriazione di questo medesimo (...) La soppressione della proprietà privata è, dunque, la completa emancipazione di tutti i sensi umani e di tutte le qualità umane; ma è questa emancipazione precisamente perché questi sensi e queste qualità sono divenuti umani, sia soggettivamente che oggettivamente. L’occhio è divenuto occhio umano in quanto il suo oggetto è divenuto un oggetto sociale, umano, dell’uomo per l’uomo. I sensi sono quindi divenuti dei teorici immediatamente, nella loro pratica. Essi si rapportano, sì, alla cosa per amore della cosa, ma la cosa stessa è un comportamento oggettivo-umano seco stessa e con l’uomo e viceversa. Il bisogno o il godimento hanno perciò perduto la loro natura egoistica, e la natura ha perduto la sua pura utilità, dal momento che l’utile è divenuto utile umano”.

Chiaramente per Marx la sostituzione del lavoro alienato con una forma realmente umana di produzione condurrebbe ad una modifica fondamentale dello stato di coscienza dell’uomo. La liberazione della specie dal tributo paralizzante pagato alla lotta contro la penuria, il superamento dell’associazione dell’ansietà e del desiderio imposto dal dominio della proprietà privata, liberano i sensi dell’uomo dalla loro prigione e gli permettono di vedere, di comprendere e di sentire in modo nuovo. È difficile discutere di tali forme di coscienza perché non sono “semplicemente” razionali. Ma questo non vuol dire che esse siano regredite ad un livello anteriore allo sviluppo della ragione. Ciò vuol dire che sono andate al di là del pensiero razionale come è stato concepito finora in quanto attività separata ed isolata, raggiungendo una condizione nella quale “non solo nel pensare, ma con tutti i suoi sensi, l’uomo si afferma nel mondo degli oggetti”.

Un primo approccio per comprendere tali trasformazioni interne, è rifarsi allo stato di ispirazione che esiste in ogni grande opera d’arte. In questo stato di ispirazione, il pittore o il poeta, il ballerino o il cantante intravedono un mondo trasfigurato, un mondo splendente di colore e di musica, un mondo di un significato elevato che fa si che il nostro stato “normale” di percezione appare parziale, limitato ed anche irreale – il che è giusto quando si ricorda che la “normalità” è precisamente la normalità dell’alienazione. L’analogia con l’artista non è fortuita. Quando Marx scriveva i Manoscritti il suo amico più stimato era il poeta Heine e per tutta la sua vita Marx fu appassionato dalle opere di Omero, Shakespeare, Balzac ed altri grandi scrittori. Per lui tali personaggi e la loro creatività liberata costituivano dei modelli duraturi del vero potenziale dell’umanità. Come abbiamo visto, il fine di Marx era una società in cui tali livelli di creatività diventerebbero un attributo “normale” dell’uomo; ne consegue dunque che lo stato elevato della percezione dei sensi descritto nei Manoscritti diventerebbe sempre più lo stato “normale” di coscienza dell’umanità sociale.

In seguito Marx svilupperà di più l’analogia con l’attività creatrice dello scienziato che con quella dell’artista, pur conservando l’essenziale: la liberazione dalla corvée del lavoro, il superamento della separazione tra lavoro e tempo libero, producono un nuovo soggetto umano.

CDW

(da Révolution Internationale, 419)

Questioni teoriche: 

  • Comunismo [130]

Rivoluzione Internazionale n°170

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Aprile-Maggio 2011

Libia: una guerra umanitaria? No, una guerra imperialista!

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Il Consiglio di sicurezza [dell’ONU],

Dichiarandosi vivamente preoccupato per il deterioramento della situazione, la scalata della violenza e le pesanti perdite civili, (…)

Condannando la violazione flagrante e sistematica dei diritti dell’uomo, ivi compreso detenzioni arbitrarie, sparizioni forzate, torture ed esecuzioni sommarie, (…)

Considerando che gli attacchi generalizzati e sistematici commessi attualmente nella Jamahiriya arabo-libica contro la popolazione civile possono costituire dei crimini contro l'umanità, (…)

Dichiarandosi risoluto ad assicurare la protezione dei civili, (…)

Autorizza gli Stati Membri che hanno inviato al Segretario generale una notificazione a questo fine (…) a prendere ogni misura necessaria, (…) per proteggere le popolazioni (…)” (Risoluzione ONU 1973 - Libia, 17 marzo 2011).

Una volta ancora, gli alti dirigenti di questo mondo utilizzano belle formule umanitarie, fanno bei discorsi, con voce vibrante, sulla “democrazia”, la “pace” e la “sicurezza delle popolazioni”, per giustificare meglio le loro avventure imperialiste.

Così, dal 20 marzo, una “coalizione internazionale”[1] conduce in Libia un’operazione militare di grande portata, chiamata poeticamente dagli Stati Uniti “Alba dell’Odissea”. Ogni giorno, decine di aerei decollano dalle due potenti portaerei francese ed americana per sganciare tappeti di bombe su tutte le regioni dove si suppone la presenza di forze armate fedeli al regime di Gheddafi[2].

Detto con chiarezza, è guerra!

Tutti questi Stati non fanno che difendere i propri interessi… a colpi di bombe.

Evidentemente Gheddafi è un dittatore pazzo e sanguinario. Dopo settimane di arretramento di fronte alla ribellione, l’autoproclamata “Guida libica” ha saputo riorganizzare le sue truppe scelte per contrattaccare. Giorno dopo giorno, è riuscito a riguadagnare terreno, schiacciando tutto al suo passaggio, “ribelli” e popolazione. E sicuramente, quando è stata scatenata l’operazione Alba dell’Odissea, si preparava ad annegare nel loro stesso sangue gli abitanti di Bengasi.

Le sortite aeree della coalizione hanno provocato pesanti danni alle forze di repressione del regime e dunque, effettivamente, hanno evitato il massacro annunciato.

Ma chi può credere per un solo istante che questo spiegamento di forze armate abbia avuto realmente per scopo il benessere della popolazione libica?

Dov’era questa stessa coalizione quando Gheddafi nel 1996 ha fatto massacrare 1000 detenuti nella prigione Abu Salim di Tripoli? In realtà, è da quarant'anni che questo regime arresta, tortura, terrorizza, fa sparire, ammazza … in tutta impunità.

Dove era ieri questa stessa coalizione quando Ben Ali in Tunisia, Mubarak in Egitto o Buteflika in Algeria ordinavano di sparare sulla folla all’epoca dei sollevamenti di gennaio e febbraio?

E che fa oggi questa stessa coalizione di fronte ai massacri che hanno luogo nello Yemen, in Siria o in Bahrein? Oh pardon… qui non possiamo dire che essa è completamente assente: uno dei suoi membri, l’Arabia Saudita, interviene infatti per sostenere lo Stato del Bahrein… a reprimere i manifestanti! Ed i suoi complici a chiudere gli occhi.

I Sarkozy, i Cameron, gli Obama ed amici possono anche presentarsi come fieri salvatori, difensori di vedove e di orfani, ma la sofferenza dei “civili” di Bengasi è stata per loro solo un alibi per intervenire militarmente in zona a difendere i loro rispettivi sordidi interessi imperialisti. Tutti questi gangster hanno una ragione, che non ha niente a che vedere con l’altruismo, nel lanciarsi in questa crociata imperialista.

Questa volta, contrariamente alle ultime guerre, gli Stati Uniti non sono i capofila dell’operazione militare. Perché? In Libia, la borghesia americana è costretta a giocare all’equilibrista.

Da un lato, non può permettersi di intervenire massicciamente per via terrestre sul suolo libico. Ciò sarebbe percepito dall’insieme del mondo arabo come un’aggressione ed una nuova invasione. Le guerre di Iraq e dell’Afghanistan hanno in effetti rafforzato ancor più l’avversione generalizzata per “l’imperialismo americano, alleato di Israele”. Ed il cambiamento di regime in Egitto, tradizionale alleato dello Zio Sam, ha indebolito ulteriormente la sua posizione nella regione[3].

Tuttavia, non possono restare fuori dal gioco senza rischiare totalmente di compromettere il loro statuto di “combattenti per la democrazia nel mondo”. Ed evidentemente è fuori questione per loro lasciare il campo libero al tandem Francia/Gran Bretagna.

La partecipazione della Gran Bretagna ha un doppio obiettivo. Anch’essa tenta, presso i paesi arabi, di ridorare il suo blasone sbiadito dai suoi interventi in Iraq ed in Afghanistan. Ma serve anche ad abituare la propria popolazione agli interventi militari esterni che in avvenire non mancheranno di moltiplicarsi. Perciò “Salvare il popolo libico da Gheddafi” è l'occasione perfetta[4].

Il caso della Francia è un po’ differente. Si tratta del solo grande paese occidentale a godere di una certa popolarità nel mondo arabo (acquistata sotto De Gaulle) ed amplificata dal suo rifiuto a partecipare all’invasione dell’Iraq nel 2003.

Intervenendo in favore del “popolo libico”, il presidente Sarkozy sapeva perfettamente che sarebbe stato accolto a braccia spalancate dalla popolazione e che i paesi vicini avrebbero visto di buon occhio questo intervento contro un Gheddafi per loro estremamente incontrollabile ed imprevedibile. Ed infatti, a Bengasi, hanno echeggiato dei “Viva Sarkozy”, “Viva la Francia”[5]. Per una volta, lo Stato francese è riuscito ad approfittare con tempestiva opportunità della cattiva posizione americana.

Il presidente della Repubblica francese ne ha approfittato anche per effettuare dei recuperi relativi ai ripetuti spropositi del suo governo in Tunisia ed in Egitto (sostegno ai dittatori alla fine cacciati dalle rivolte sociali, consultazioni conosciute durante queste lotte tra i suoi ministri ed i regimi locali, proposta di mandare le sue forze di polizia per affiancare la repressione in Tunisia…).

Non possiamo qui dettagliare gli interessi particolari di ogni Stato della coalizione che colpisce oggi la Libia, ma una cosa è sicura: non si tratta per niente di umanesimo o di filantropia! E ciò vale anche per coloro che, reticenti, si sono astenuti dal votare la risoluzione dell’ONU o lo hanno fatto con la punta delle dita.

Per quanto riguarda Cina, Russia e Brasile, questi paesi si sono mostrati molto ostili a questo intervento semplicemente perché non hanno niente da guadagnare dalla cacciata di Gheddafi.

L’Italia ha invece tutto da perdere. Il regime attuale assicurava finora un accesso facile al petrolio ed un controllo draconiano delle frontiere. La destabilizzazione del paese può rimettere in causa tutto ciò.

La Germania di Angela Merkel oggi è ancora un nano militare. Tutte le sue forze sono impegnate in Afghanistan. Partecipare a queste operazioni avrebbe reso più chiara questa debolezza. Come scrive il giornale spagnolo El País “Assistiamo ad una riedizione del riequilibrio costante della relazione tra il gigantismo economico tedesco, che si è manifestato durante la crisi dell’euro, e la capacità politica francese che si esercita anche attraverso la potenza militare”[6].

Alla fine la Libia, come l’insieme del Medio Oriente, somiglia oggi ad un’immensa scacchiera dove le grandi potenze tentano di avanzare le loro pedine.

Perché le grandi potenze intervengono adesso?

Sono settimane che le truppe di Gheddafi avanzano verso Bengasi, il feudo dei ribelli, massacrando qualsiasi cosa che si muova sul loro passaggio. Perché i paesi della coalizione, se avevano tali interessi ad intervenire militarmente nella regione, hanno aspettato tanto?

Nei primi giorni, il vento di rivolta che ha soffiato in Libia veniva dalla Tunisia e dall’Egitto. La stessa collera contro l’oppressione e la miseria arroventava tutti gli strati sociali. Era dunque fuori discussione che le “Grandi democrazie di questo mondo” potessero sostenere realmente questo movimento sociale, malgrado i loro bei discorsi di condanna della repressione. La loro diplomazia rifiutava infatti ipocritamente ogni ingerenza e sosteneva il “diritto dei popoli a fare la loro storia”. L’esperienza insegna che: ad ogni lotta sociale la borghesia di tutti i paesi chiude gli occhi sulle più orribili repressioni, quando non dà loro direttamente man forte!

Ma in Libia, quella che inizialmente sembrava una vera rivolta di “quelli in basso”, con civili disarmati che partono coraggiosamente all’assalto dalle caserme dei militari ed incendiano i Quartier Generali dei pretesi Comitati del Popolo, si è trasformata velocemente in una sanguinosa “guerra civile” tra frazioni della borghesia. In altre parole, il movimento è scappato dalle mani degli strati non sfruttatori. La prova è che uno dei capi della ribellione e del CNT (Consiglio Nazionale di Transizione) è Al Jeleil, l’ex ministro della Giustizia di Gheddafi! Quest’uomo, che sicuramente ha le mani coperte di tanto sangue quanto la sua vecchia “Guida”, ne diventa rivale. Altro indizio, mentre “i proletari non hanno patria”, questo governo provvisorio si è dato per bandiera i colori del vecchio regno della Libia. Ed infine, Sarkozy ha riconosciuto i membri del CNT come i “legittimi rappresentanti del popolo libico”.

La rivolta in Libia ha dunque preso una piega diametralmente opposta a quella delle sue grandi sorelle tunisine ed egiziane. Ciò è dipeso principalmente dalla debolezza della classe operaia di questo paese. La principale industria, il petrolio, dà possibilità di lavoro quasi esclusivamente ai lavoratori venuti dall’Europa, dal resto del Medio Oriente, dall’Asia e dall’Africa. Questi ultimi, fin dall’inizio, non hanno preso parte al movimento di contestazione sociale. Il risultato è che la piccola borghesia locale ha dato i propri colori alla lotta, da cui si spiega per esempio l’esibizione continua della bandiera nazionale. Peggio ancora! I lavoratori “stranieri”, non potendo riconoscersi in questi combattimenti, sono fuggiti. Si sono avute anche delle persecuzioni di lavoratori neri per mano delle forze “ribelli” perché, correndo voci abbastanza diffuse che certi mercenari dell’Africa nera erano stati reclutati dal regime per schiacciare le manifestazioni, il sospetto cadeva su tutti gli immigranti provenienti da quelle regioni.

Lotte operaie contro guerre imperialistiche

Questo ribaltamento di situazione in Libia ha delle conseguenze che superano largamente le sue frontiere. La repressione di Gheddafi prima e l’intervento della coalizione internazionale poi costituiscono un freno per tutti i movimenti sociali della regione. Ciò permette anche agli altri regimi dittatoriali contestati di dedicarsi senza problemi ad una sanguinosa repressione. Ed è ciò che è capitato in Bahrein, dove l’esercito saudita ha dato man forte al regime di questo paese nel reprimere violentemente le manifestazioni[7], nello Yemen, dove il 18 marzo le forze governative non hanno esitato a sparare sulla folla, provocando altri 51 morti, e più recentemente in Siria.

Detto ciò, non è del tutto certo che la Libia costituisca un punto di arresto della rivolta. Anche se la situazione libica rappresenta una pesante palla al piede del proletariato mondiale, essa, di fronte ad una collera così profonda dovuta allo sviluppo della miseria, non riesce a paralizzarlo totalmente. Nel momento in cui scriviamo sono previste manifestazioni a Riad, anche se il regime saudita ha già decretato che tutte le manifestazioni sono contro la sharia. In Egitto ed in Tunisia, dove si pretende che la “rivoluzione” abbia già trionfato, continuano scontri tra i manifestanti e lo Stato, ora “democratico” ed amministrato dalle forze che sono più o meno le stesse che hanno condotto la danza prima della destituzione dei “dittatori”. Allo stesso modo continuano manifestazioni in Marocco, malgrado l’annuncio del re Mohammed VI di passare ad una monarchia costituzionale.

Comunque sia, per tutte queste popolazioni prese sotto il giogo di terribili repressioni e talvolta sotto le bombe democratiche delle differenti coalizioni internazionali, il cielo si schiarirà veramente solo quando il proletariato dei paesi centrali, in particolare dell’Europa occidentale, svilupperà a sua volta lotte massicce e determinate. Allora, armato della sua esperienza, particolarmente rispetto alle trappole del sindacalismo e della democrazia borghese, potrà mostrare le sue capacità di autorganizzarsi ed aprire la via di una vera prospettiva rivoluzionaria, unico avvenire per tutta l’umanità.

Essere solidali con tutti coloro che oggi cadono sotto i proiettili non significa sostenere il regime di Gheddafi, né i “ribelli”, né la coalizione dell’ONU! Al contrario, bisogna denunciare tutti questi come cani imperialisti!

Essere solidali, significa scegliere il campo dell’internazionalismo proletario, lottare contro i nostri specifici sfruttatori e massacratori in tutti i paesi, partecipare allo sviluppo delle lotte operaie e della coscienza di classe ovunque nel mondo!

Pawel (25 marzo)



[1] Regno Unito, Francia, Stati Uniti in particolare, ma anche Italia, Spagna, Belgio, Danimarca, Grecia, Norvegia, Paesi Bassi, Emirati Arabi Uniti e Qatar.

[2] A voler credere ai mass-media occidentali, solo gli uomini di Gheddafi muoiono sotto queste bombe. Ricordiamoci invece che, durante la Guerra del Golfo, questi stessi media avevano anche fatto credere ad una “guerra pulita”. In realtà, nel 1991, in nome della protezione del “piccolo Kuwait” invaso dall’esercito del “macellaio” Saddam Hussein, la guerra provocò parecchie centinaia di migliaia di vittime.

[3] Anche se la borghesia americana è riuscita a limitare i danni sostenendo l’esercito per sostituire il regime maledetto dalla popolazione.

[4] Bisogna ricordare che nel 2007, a Tripoli, l’ex primo ministro britannico Tony Blair baciava calorosamente il colonnello Gheddafi, ringraziandolo della firma di un contratto con BP. Le denunce attuali del “dittatore pazzo” sono solo puro cinismo ed ipocrisia!

[5] Ricordiamo che la borghesia francese in questo caso non fa che rivoltare ancora una volta vestito, dopo aver ricevuto in pompa magna Gheddafi nel 2007. Del resto, le immagini della sua tenda piantata nel bel mezzo di Parigi hanno fatto il giro del mondo ridicolizzando ancora una volta e di più Sarkozy e la sua cricca. Ma oggi, la scena è cambiata.

[6] https://www.elpais.com/articulo/internacional/guerra/europea/elpepuint/2... [131].

[7] Anche qui, del resto, la debolezza della classe operaia favorisce queste repressioni. Il movimento è dominato in effetti dalla maggioranza sciita, sostenuta dall’Iran.

Geografiche: 

  • Africa [111]

Questioni teoriche: 

  • Guerra [36]
  • Imperialismo [37]

Referendum, elezioni, democrazia: ovvero quanto vale il mio voto?

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Il 15 e il 16 maggio 2011 si svolgeranno le elezioni amministrative per l’elezione di sindaci e presidenti di provincia di numerose amministrazioni locali, tra cui Milano, Napoli, Torino e Bologna. Mentre il 12-13 giugno si voterà per i tre referendum abrogativi su acqua pubblica, energia nucleare, legittimo impedimento.

Di norma le elezioni amministrative non assumono una grande importanza in quanto si tratta del governo locale e i fronti elettorali possono essere trasversali. Queste votazioni si inseriscono però in una situazione particolarmente calda, con un governo che, portato al potere con una maggioranza schiacciante soltanto tre anni fa, sembra essere oggi alla frutta avendo perso prima l’appoggio del gruppo di Fini e ultimamente finanche l’intesa con la Lega Nord che sembrava inossidabile.

Nei fatti la situazione è cambiata moltissimo da quando Berlusconi è stato eletto in quanto tutti hanno potuto verificare che il premier non è stato assolutamente all’altezza di difendere il sistema Italia di fronte alla concorrenza internazionale nella misura in cui è stato totalmente preso dalla difesa dei suoi interessi personali che non coincidevano con quelli dello Stato. Di fronte a questa situazione, la componente più responsabile della borghesia italiana ha cercato, invano, di farlo fuori, di farlo dimettere, ma ha trovato di fronte a sé un osso duro. Berlusconi, forte della sua maggioranza parlamentare, ha stravolto di continuo le regole del gioco, bloccando uno per uno tutti i processi in cui era coinvolto con tutti i mezzi a sua disposizione, compresa la modifica delle leggi in modo da prescrivere i suoi reati. Nel momento del massimo pericolo, quando si è avuto il distacco del gruppo di Fini e la messa in minoranza del suo governo alla Camera, ha dimostrato che cosa sono i deputati e i senatori in un sistema democratico: una merce! Basta pagare il giusto prezzo e li si acquista! Insomma, Berlusconi ha dimostrato che cosa è la democrazia, il parlamento, qualcosa utile solo ad approvare ciò che l’esecutivo decide. La sopravvivenza di Berlusconi passa quindi attraverso la vittoria alle prossime elezioni amministrative; se le vince, vuol dire che lui ha il diritto di fare ciò che vuole, viene sgravato da qualsiasi delitto, visto che il popolo continua a sostenerlo: vox populi, vox dei!

Ma la permanenza di Berlusconi sarebbe una vera catastrofe per la borghesia. Berlusconi non è soltanto un personaggio impresentabile, sia a livello nazionale che internazionale, essendo diventato lo zimbello di tutti, per le sue caratteristiche “umane”, per come si comporta da pagliaccio in tutte le occasioni pubbliche, ma soprattutto perché fa danni alla stessa borghesia curando, ad esempio, nelle relazioni internazionali con un Putin o un Gheddafi, più i suoi interessi personali che quelli del paese, o ancora rimandando per ben 5 mesi la nomina del nuovo ministro dello sviluppo economico in piena crisi economica solo per riservarsi il posto di governo come carta di scambio per i favori che gli occorrono. Un premier che si attornia di cosiddette escort, personaggi più o meno squallidi, che considera il personale dello Stato come dei suoi servitori, che sputa sulla magistratura, sui dipendenti statali, sul parlamento, etc. non può continuare a gestire gli affari dello Stato. Il discredito gettato sulle istituzioni borghesi e sulla democrazia è a un punto critico, tanto è vero che Napolitano è sempre più costretto a intervenire per riportare le cose al loro posto.

E’ proprio per recuperare un certo livello di credibilità per la classe politica che da più parti si levano appelli ad una correttezza in uno stato di diritto “teorico”, che sono la magistratura, un parlamento fatto di persone degne, la costituzione, il presidente della Repubblica, quegli elementi che è necessario difendere e sostenere. Più Berlusconi attacca queste istituzioni, come se fosse un rivoluzionario, più si rafforzano le campagne per difenderle.

Questa campagna politica viene portata avanti da moltissimi mesi, soprattutto da quando il premier è inciampato nel caso Ruby, in modi del tutto anomali rispetto agli anni passati. Non sono tanto i grandi partiti di centro sinistra presenti nel parlamento ad organizzarla, anzi questi sono diventati del tutto incapaci di dare una qualsiasi risposta alle esigenze dello Stato, ma i gruppi più o meno informali nati dal basso come il popolo viola o costruiti da personaggi capaci di polarizzare l’attenzione del pubblico, come i Grillo, Santoro, Travaglio,… e naturalmente alcune testate giornalistiche come La Repubblica, Il fatto quotidiano ed il Manifesto.

Il programma televisivo Anno Zero, condotto da Santoro, vede l’ascolto di milioni di persone; Travaglio è diventato la punta di diamante dell’opposizione con le sue denunce perfettamente documentate delle malefatte di Berlusconi; i blog e le pagine di Facebook ci riportano ogni giorno l’ennesima denuncia dell’ennesima escort e tutti insieme ci fanno vedere la possibilità di pulire questa società una volta fatto fuori Berlusconi.

Arrivano lettere, e-mail che ci dicono che se andiamo a votare per il SI abrogativo nei 3 referendum risolviamo il problema dell’Italia! Perché, in caso di vittoria dei SI, Berlusconi dovrà per forza dimettersi, ma non spiegano perché dovrebbe farlo visto che se ne frega anche delle accuse più infamanti e documentate. Ci bombardano con argomentazioni del tipo che è necessario raggiungere il 50% degli aventi diritto al voto altrimenti il referendum non vale, che ogni voto non dato è un voto regalato a Berlusconi. Quindi ogni cittadino deve sentirsi obbligato a partecipare alla farsa elettorale, altrimenti è colpa sua se le cose restano così in Italia. Farsa elettorale, perché è lo stesso Berlusconi che, ancora una volta, ha ben dimostrato che i referendum non servono a niente, come è emerso a proposito del nucleare dove prima è stata sospesa ogni iniziativa per ordine del governo dal 19 aprile scorso in seguito al disastro di Fukushima, per poi confessare, nel recente incontro con Sarkozy, che in realtà la sospensione delle iniziative era solo un bluff per evitare che gli italiani votassero sul nucleare in una situazione emotiva forte per gli eventi giapponesi. Come dire, va bene la democrazia, ma solo quando sono sicuro che non escano fuori delle brutte sorprese dal cappello.

D’altra parte è proprio il sistema democratico che ha partorito Berlusconi. E lui, riconoscente, ha mostrato al gran pubblico cos’è il sistema democratico, un sistema che è a disposizione solo del potere, del capitale. Che una parte della borghesia non sia in accordo con lui, con la sua strategia, nulla toglie a ciò che è la democrazia. La borghesia sta comunque sfruttando fino in fondo l’odio che Berlusconi genera in strati popolari e proletari per rafforzare la difesa di questo sistema, dei suoi meccanismi di partecipazione e delega, e in ciò sta la pericolosità della campagna referendaria in atto. La volgarità di questo sistema democratico e borghese spinge molti lavoratori a prendere le distanze dai suoi meccanismi di delega con il voto segreto infilato nell’urna mentre l’“opposizione” di sinistra fa di tutto per eliminare questa presa di coscienza con uno stillicidio di inviti ad personam sull’utilità e necessità di ritornare a far vivere il sistema democratico partecipando alle elezioni e ai referendum.

Questi inviti a “partecipare” sono tanto più pressanti nella misura in cui è sempre più manifesto che i meccanismi di delega democratica borghese sono sempre più avvertiti come inefficaci, come qualcosa che non riuscirà a cambiare la condizione di sfruttamento e pauperizzazione continua in atto; che tende a farsi strada una riflessione sul fatto che invece è necessario organizzarsi in modo autonomo e con la partecipazione attiva alle lotte, che il problema non è solo Berlusconi ma tutto il sistema borghese.

Oblomov, 1 maggio 2011

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Di fronte alla politica anti-immigrati, solidarietà di classe!

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Studenti e lavoratori greci residenti a Lione, in Francia, ci hanno recentemente interpellato sulla difficile situazione dei lavoratori immigrati stabilitisi sul suolo greco. Come in tutti i paesi i lavoratori immigrati presenti lì sono ora l’obiettivo di una politica disumana. Le loro condizioni di vita spaventose li stanno semplicemente spingendo verso la morte.

E’ per questo che dal 25 gennaio al 9 marzo circa 300 lavoratori immigrati hanno fatto uno sciopero della fame ad Atene e Salonicco. Hanno chiesto diritti politici e sociali uguali a quelli dei lavoratori nati in Grecia, la loro regolarizzazione e soprattutto una vita più dignitosa. Dopo più di un mese di lotta la maggior parte di loro presenta problemi di salute forse irreversibili. Il loro “Appello degli immigrati, in sciopero della fame”, chiamato anche “l’Appello dei 300” è una testimonianza commovente. Esso mostra quale crudeltà si nasconde dietro ogni discorso dei politici sulla “necessità del controllo dei flussi migratori”. Tutti questi leader politici in giacca e cravatta o in tailleur di sartoria non sono altro che assassini. La realtà di questi uomini e donne che vivono in clandestinità e sono denunciati da tutti i ministri del mondo come “approfittatori” e persino “parassiti”, è questa: “Siamo immigrati e immigrate provenienti da tutta la Grecia. Siamo arrivati inseguiti da povertà, disoccupazione, guerre e dittature”.

Questo “Appello” sottolinea anche con forza che l’unico modo per noi, lavoratori migranti e non, per resistere all’assalto del capitalismo è la solidarietà di classe nella lotta!

D’altronde, se il governo greco ha in parte ceduto alle rivendicazioni dei 300, dando loro qualche briciola (come lo sgravio fiscale), non è certamente per carità o bontà d’animo. La classe dirigente se ne frega di vedere 300 lavoratori morire a bocca aperta per uno sciopero della fame! No, ciò che l’ha costretta a reagire è l’ondata d’indignazione e di solidarietà che ha cominciato a svilupparsi nel paese. Come hanno detto gli studenti greci che ci hanno invitati a un incontro di solidarietà con i 300 a Lione: “Ci sono state in tutto il paese molte azioni di solidarietà (riunioni, manifestazioni, striscioni, occupazioni di edifici pubblici, interventi in canali televisivi, in radio, in eventi culturali, etc.), e anche all’estero. Le pressioni create da tutti questi movimenti di solidarietà possono portare alla vittoria!”

Appello degli immigrati, in sciopero della fame (Grecia, gennaio 2011)

Se vogliamo far sentire le nostre voci, non abbiamo altra scelta. Il 25 gennaio trecento di noi hanno iniziato uno sciopero della fame. I nostri centri di lotta saranno ad Atene e Salonicco.

Siamo immigrati e immigrate provenienti da tutta la Grecia. Siamo arrivati inseguiti da povertà, disoccupazione, guerre e dittature. Le multinazionali del mondo occidentale e i loro servi politici nel nostro paese non ci lasciano altra scelta che rischiare la vita decine di volte per raggiungere la porta d’Europa. L’Occidente, che saccheggia i nostri paesi e dove il tenore di vita è infinitamente migliore (rispetto al nostro), è la nostra unica speranza di vivere come esseri umani. Siamo arrivati in Grecia (per vie legali e non) e lavoriamo per la nostra sopravvivenza e la sopravvivenza dei nostri figli. Viviamo nella galera e all’ombra dell’illegalità per il profitto dei padroni e degli organismi statali, che a loro volta sfruttano brutalmente il nostro lavoro. Ci guadagniamo il pane con il sudore della fronte sognando di ottenere un giorno la parità di diritti.

Ultimamente le nostre condizioni di vita diventano sempre più difficili. Man mano che i salari e le pensioni vengono rosicchiati e che aumentano tutti i prezzi, l’immigrato viene presentato come il responsabile, il colpevole del deterioramento e dello sfruttamento selvaggio dei lavoratori greci e dei piccoli commercianti. La propaganda fascista e razzista è già diventata la lingua ufficiale degli apparati dello Stato. La terminologia fascista è riprodotta dai media quando parlano di noi. Le loro “proposte” sono già consacrate come la politica del governo: il muro a Evros, i campi fluttuanti e l’esercito europeo nel Mar Egeo, la repressione brutale nelle città, le deportazioni di massa. Vogliono far credere ai lavoratori greci che noi siamo, all’improvviso, una minaccia per loro, e che siamo gli unici colpevoli del nuovo attacco lanciato dai loro stessi governi.

La risposta alle loro menzogne e alla loro crudeltà implacabile deve essere immediata. E tocca a noi, agli immigrati, darla. Vi facciamo fronte, con la nostra vita come arma, per porre fine all’ingiustizia che ci viene fatta. Chiediamo la messa in regola di tutti gli immigrati e di tutte le immigrate. Chiediamo gli stessi diritti politici e sociali e gli stessi obblighi dei lavoratori greci.

Chiediamo ai nostri compagni di lavoro greci e ad ogni essere umano che soffre oggi dello sfruttamento del proprio sudore, di restare al nostro fianco.

Chiediamo di sostenere la nostra lotta, per non lasciare che trionfino le loro menzogne, l’ingiustizia, il fascismo e il totalitarismo delle élite politiche ed economiche. Cioè di non permettere quello che ha prevalso nei nostri paesi e che ci ha costretto ad espatriare per rivendicare una vita dignitosa per noi e per i nostri figli.

Non abbiamo altro modo per far sentire la nostra voce e per far sentire la voce dei nostri diritti.

Il 25 gennaio, trecento (300) di noi hanno cominciato uno sciopero della fame a livello nazionale, ad Atene e Salonicco. Mettiamo in pericolo le nostre vite perché comunque non viviamo con dignità. Preferiamo morire qui piuttosto che lasciare che i nostri figli ereditino quello che noi abbiamo vissuto.

Gennaio 2011

L’assemblea degli immigrati in sciopero della fame

Per ulteriori informazioni sulla lotta dei 300 è possibile visitare:

solidarité grec (francese)

L’appel de solidarité [133] (inglese e spagnolo)

Nouvelles Hors Les Murs [134] (francese)

Contra Info [135] (multi lingue)

Occupied London (inglese)

Il respingimento degli immigrati: la borghesia non ha più niente da offrire all’umanità

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Il problema dell’immigrazione ritorna ogni tanto con la sua drammatica attualità. E non può essere altrimenti, perché solo una classe ottusa come la borghesia della decadenza può pensare che con le proprie leggi (Turco-Napolitano prima, Bossi-Fini dopo) può far sparire un fenomeno le cui cause sono sempre e tuttora lì: miseria generalizzata, guerre, persecuzioni. La violenza della repressione di Gheddafi aveva per qualche tempo ridotto il problema dei viaggi della disperazione (aveva ridotto i viaggi, non certo la disperazione, a cui rispondeva con l’imprigionamento); la crisi del suo regime, insieme ai nuovi problemi emersi con le rivolte nei paesi del Nord Africa, ha significato anche la ripresa dei viaggi, con tutti i drammi che ne seguono: 250 annegati solo nell’ultimo naufragio, altri due morti nell’ultimo sbarco, annegati in un metro d’acqua.

La borghesia sapeva bene che con la crisi economica e con l’instabilità che si era creata nei paesi del Nord Africa a seguito delle rivolte popolari e poi della guerra civile in Libia, gli sbarchi sarebbero aumentati. Maroni l’aveva detto già all’inizio di marzo. Però non è stato fatto niente per preparare un’accoglienza dignitosa a queste persone. Si sono invece rimpallate le responsabilità su chi doveva occuparsene con gli altri paesi europei, che facevano finta di niente.

Se nella missione guerriera in Libia hanno litigato a chi faceva di più e a chi doveva comandare la missione, rispetto ai profughi il litigio era tra chi girava le spalle di qua e chi lo faceva di là. Quando finalmente il governo italiano si è deciso a dare dei permessi di soggiorno, almeno provvisori ai profughi, in particolare tunisini, la Francia (paese preferito dai tunisini per questione di lingua e per le parentele che hanno laggiù) ha chiuso addirittura le frontiere, alla faccia di tutti gli accordi di Schengen e di libera circolazione di merci e persone nell’Unione Europea, ennesima dimostrazione che nel capitalismo non esistono diritti, ma anche le leggi scritte vengono rinnegate senza scrupoli quando non convengono più.

Ma è davvero così terribile accogliere poche decine di migliaia di persone in Europa? Chi può credere che un’area di 300 milioni di abitanti, dove si concentra il massimo del Prodotto Interno Lordo mondiale non può reggere ed organizzare l’accoglienza di qualche decina di migliaia di persone che fuggono alla miseria e alla guerra?

C’è davvero una difficoltà economica a fare questo? Quanto costa l’attuale missione contro Gheddafi, non costa sicuramente più di un’accoglienza minima ai profughi? Ed anche in termini organizzativi, le forze schierate nel Mediterraneo per fare la guerra a Gheddafi non sarebbero state più che sufficienti per aiutare queste persone a non morire per mare e a sistemarsi in una maniera decente?

Nel capitalismo in crisi non c’è niente di logico, se non la volontà di sopravvivere di un sistema agonizzante, che per farlo non esita a passare sopra ogni senso morale. Se i profughi vengono rigettati in mare è perché questo sistema non riesce nemmeno più a sfruttarli, come ha fatto per secoli. Se potesse integrarli nell’apparato produttivo non esiterebbe ad accettarli, anche solo offrendo loro una vita da schiavi salariati, come nel settecento e nell’ottocento non esitò ad andare a prenderli con la forza in quella stessa Africa, per deportarli in un’America a corto di braccia per lo sviluppo di un capitalismo ancora in ascesa. Se potesse, oggi il capitalismo butterebbe a mare anche i propri operai, ma non può farlo senza causare una rivolta sociale, per cui si “limita” a ridurli alla fame con la disoccupazione, la cassa integrazione, i bassi salari. Nel capitalismo i proletari sono tutti immigrati, non solo nel senso che spesso sono stati costretti a lasciare i propri paesi d’origine per poter lavorare, ma perché in questo sistema essi hanno cittadinanza solo a condizione che esistano le condizioni per poterli sfruttare, in caso contrario sono degli indesiderati.

Il capitalismo non ha niente di umanitario, non lo sono certo le guerre che si combattono in Afganistan o in Libia o altrove; non lo è certo l’atteggiamento che si ha verso i profughi da queste stesse guerre o dalla fame. Quando Gheddafi era un “amico” si lasciava a lui il lavoro sporco di riprenderseli ed incarcerarli. Ora che non si può più contare su di lui li si lascia all’aperto sui moli di Lampedusa, senza letti e senza cibo, per poi rinchiuderli in tendopoli-carceri, quando solo l’esercito possiede una quantità enorme di caserme abbandonate che in un niente possono essere attrezzate come centri di accoglienza (oltre a quelli che comunque esistono, anche se adesso si chiamano CIE).

I recenti avvenimenti del Nord Africa hanno messo in evidenza l’esistenza di due mondi opposti che si manifestano e che cominciano a scontrarsi: quello del capitale che implica guerra, morte, miseria, disumanità, mancanza di prospettive, e quello del proletariato che significa solidarietà, ricerca dell’unità, lotta per assicurarsi un futuro, come si è visto nelle rivolte in questi paesi e nell’atteggiamento che i giovani tunisini hanno avuto verso i proletari stranieri fuggiti dalla Libia (ed accolti in maniera mille volte più umana di come fatto dallo Stato italiano a Lampedusa) o della popolazione lampedusana, che ha sfamato e vestito i profughi finché ha potuto.

Dallo scontro di questi due mondi dipende il futuro dell’umanità stessa.

Helios

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Cos’é una rivoluzione?

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Oggi, tutto il mondo non parla che di “rivoluzione”. I recenti sollevamenti nell’Africa del nord sono stati descritti come delle “rivoluzioni”. In Irlanda, , il leader del partito Fine Gael (letteralmente Famiglia degli irlandesi), Enda Kenny, ha proclamato una “rivoluzione democratica” perché adesso tocca a lui imporre le misure di austerità portate avanti in precedenza dai suoi predecessori, il Fianna Fail (partito repubblicano) e il Partito Verde. Negli Stati Uniti, il celebre cuoco Jamie Oliver combatte per una “rivoluzione dell’alimentazione” contro l’obesità. Dai mezzi di comunicazione non possiamo aspettarci nessuno sforzo serio di esaminare l’idea della rivoluzione nel modo in cui l’intendono i marxisti nel movimento operaio.

La Commune è una pubblicazione che fa riferimento all’eredità marxista. Sul suo sito web, a metà febbraio, è stato pubblicato un articolo “Sull’Egitto e la rivoluzione” che comincia così:

“Le rivoluzioni sono in realtà molto comuni. Siamo soltanto a febbraio e ci sono state già, quest’anno, due rivoluzioni: in Tunisia e in Egitto. Altre rivoluzioni recenti riguardano la Serbia (2000), la Georgia (2003), il Kirghizistan (2005) e l’Ucraina (2005). Vi sono stati due fallimenti recenti che riguardano la Tailandia (2009), il Myanmar (ex Birmania, 2007) e l’Iran (2009). Tutte queste rivoluzioni sono state, per utilizzare il termine marxista, delle rivoluzioni politiche più che sociali. Vale a dire che esse hanno rovesciato la fazione che deteneva il potere statale rimpiazzandola con un’altra”. La distinzione che fa l’autore tra rivoluzione politica e rivoluzione sociale è che “una rivoluzione sociale è quella che non cambia solo la cricca al potere ma anche il modo in cui la società è organizzata”.

La visione di Trotskij nel periodo di sconfitta

Questo orientamento, da parte di chi afferma di essere marxista, non è un caso unico. Ne La Rivoluzione tradita, Trotskij considera lo Stato della Russia e dà una prospettiva alla classe operaia. Supponendo che la burocrazia sovietica sia cacciata dal potere da un nuovo partito rivoluzionario, questo partito, provvedendo a ristabilire un regime più democratico “Non avrebbe da ricorrere a misure rivoluzionarie per quanto riguarda la proprietà. Continuerebbe e spingerebbe a fondo l’esperienza dell’economia pianificata. Dopo la rivoluzione politica, dopo il rovesciamento della burocrazia, il proletariato dovrebbe compiere nell’economia riforme importantissime, non avrebbe da fare una nuova rivoluzione sociale”. In questo passaggio, la “rivoluzione politica” vuol dire non dover “ricorrere a delle misure rivoluzionarie” - cioè non è una “rivoluzione sociale”.[1]

D’altra parte, nella stessa opera, Trotskij dice: “il rovesciamento della casta bonapartista avrà, naturalmente, delle conseguenze sociali serie, ma essa stessa non si limita ai confini della rivoluzione politica”. Questo concetto dei “confini della rivoluzione politica” si trova anche nel testo In difesa del Marxismo di Trotskij, un’opera che è una raccolta di lavori scritti negli anni 1939 e 1940. In questa opera, Trotskij vede lo Stato russo “come un complesso di istituzioni sociali che continuano a persistere nonostante il fatto che le idee della burocrazia siano adesso quasi all’opposto delle idee della Rivoluzione d’Ottobre. E’ per questo che non abbiamo rinunciato alla possibilità di rigenerare lo Stato sovietico attraverso una rivoluzione politica”. A dispetto del fatto che lo Stato russo sia stato lo strumento del mantenimento dello sfruttamento e di una schiacciante repressione della classe operaia, Trotskij pensava che questo potesse essere rigenerato attraverso il processo di “rivoluzione politica”.

I principi fondanti del marxismo sulla questione

Per trovare le basi della comprensione marxista di cosa sia una rivoluzione, bisogna partire da Marx.

Nel suo articolo del 1844 «Glosse marginali di critica all’articolo «Il re di Prussia e la riforma sociale», firmato: un Prussiano”[2], Marx analizza la frase: «una rivoluzione sociale con un’anima politica» e conclude che “Ogni rivoluzione dissolve la vecchia società; in questo senso è sociale. Ogni rivoluzione rovescia il vecchio potere: in questo senso è politica.”

Egli continua: “Quanto parafrasata e insensata è una rivoluzione sociale con un’anima politica, altrettanto è invece razionale una rivoluzione politica con un'anima sociale. La rivoluzione in generale - il rovesciamento del potere esistente e la dissoluzione dei vecchi rapporti - è un atto politico. Senza rivoluzione però il socialismo non si può attuare. Esso ha bisogno di questo atto politico, nella misura in cui ha bisogno della distruzione e della dissoluzione. Ma non appena abbia inizio la sua attività organizzativa non appena emergano il suo proprio fine, la sua anima, allora il socialismo si scrolla di dosso il rivestimento politico.”[3]

E’ chiaro che pur ponendosi sempre nello stesso quadro, Marx ha preso in conto gli sviluppi storici avvenuti lungo l’arco della sua vita. La prefazione all’edizione tedesca de Il Manifesto Comunista riporta che gli avvenimenti fanno sì che alcuni dettagli del suo programma politico risultino “datati”. In particolare, l’esperienza della Comune di Parigi (citando La Guerra Civile in Francia) ha dimostrato che “la classe operaia non può semplicemente impadronirsi della macchina statale esistente e farla funzionare per i suoi obiettivi”. Lo Stato deve essere distrutto dalla classe operaia affinché questa possa compiere la trasformazione della società al livello più elevato. La Comune di Parigi “fu essenzialmente un governo della classe operaia, il prodotto della lotta della classe dei produttori contro la classe degli appropriatori, la forma politica finalmente scoperta che consentiva di realizzare l’emancipazione economica dal lavoro … Il dominio politico dei produttori non può coesistere con la perpetuazione del loro asservimento sociale. La Comune doveva pertanto servire da leva per estirpare le basi economiche sulle quali si fonda l’esistenza delle classi, e quindi dell’oppressione di classe.”[4]

Vi sono stati in seguito altri sviluppi nella visione marxista del processo rivoluzionario, in particolare con Stato e rivoluzione di Lenin. Ciò che hanno di più chiaro in comune è la comprensione che una rivoluzione della classe operaia è “politica” nel senso che distrugge lo Stato dei suoi sfruttatori e “sociale” nel senso che il suo scopo è la trasformazione della società. Il “politico” e il “sociale” non sono due fenomeni separati ma le due facce di una stessa lotta. Quando una fazione capitalista ne rimpiazza un’altra in seguito ad elezioni parlamentari, quando una fazione capitalista s’impadronisce del potere grazie ad un colpo di Stato militare o quando la realtà forza la borghesia a riorganizzare il suo modo di funzionare come classe dominante, nessuno di questi casi è una “rivoluzione”. In altri termini, non si può parlare di rivoluzione se lo stato capitalista resta intatto!

Le ‘rivoluzioni’ evocate nella lista della pubblicazione La Commune non sono né delle rivoluzioni sociali né delle rivoluzioni politiche. Rimpiazzare una fazione con un’altra, dal punto di vista della classe operaia, non è affatto una rivoluzione. Per la classe operaia, la distruzione dello Stato capitalista è un momento politico essenziale nella rivoluzione sociale, una parte del processo che può condurre alla liberazione di tutta l’umanità.

Barrow (4 marzo)

Tradotto da World Revolution, organo della CCI in Gran Bretagna.



[1] Lev D. Trotskij, La rivoluzione tradita, Savelli editore, pag. 231.

[2] https://www.marxists.org/italiano/marx-engels/1844/8/glosse.htm [136]

[3] idem

[4] Friedrich Engels, Karl Marx, 1871 La Comune di Parigi, La Guerra Civile in Francia, Edizioni International, Savona, La Vecchia Talpa, Napoli

Patrimonio della Sinistra Comunista: 

  • Rivoluzione proletaria [137]

Gli impiegati del Pubblico Impiego del Wisconsin: la difesa dei sindacati conduce alla sconfitta

[138]
Più di 200.000 lavoratori del settore pubblico e studenti sono scesi in strada e hanno occupato il Campidoglio (palazzo del governo) dello Stato del Wisconsin per protestare contro delle modifiche ai contratti collettivi, seguite ad accordi negoziati tra il governo statale e i sindacati del Pubblico impiego. Scott Walker, il neogovernatore repubblicano dello Stato, sostenuto dal Tea Party[1], aveva presentato un progetto di legge che sopprimeva i diritti di contrattazione collettiva per la maggior parte dei 175.000 impiegati pubblici dello Stato, vietando loro di contrattare i contributi pensionistici e sanitari, lasciando solo il diritto di negoziare sui salari. In più, conformemente alla legislazione, i sindacati del pubblico impiego avrebbero dovuto sottomettersi ai voti di autenticazione annuale per conservare il diritto di rappresentare i lavoratori nei futuri negoziati. I pompieri, che non erano toccati dalle modifiche proposte (perché il loro sindacato aveva appoggiato Walker nelle elezioni di novembre) hanno manifestato la loro solidarietà con quelli che venivano attaccati, unendosi alle manifestazioni che secondo molti si erano ispirate all’ondata di agitazioni che hanno sconvolto l’Egitto e il Medio Oriente. Molti manifestanti hanno mostrato con fierezza dei cartelli che attribuivano al governatore il sinistro soprannome di “Scott Mubarak Walker”, mentre altri cantavano “Se l’Egitto può avere una democrazia, perché il Wisconsin no?”. Anche in Egitto, dei partecipanti ai movimenti di protesta hanno mostrato la loro solidarietà ai lavoratori del Wisconsin![2]

Durante queste manifestazioni, mentre il Dipartimento di Stato americano chiedeva a più riprese ai dirigenti arabi di dar prova di moderazione verso i manifestanti, il governatore Walker minacciava, in caso di necessità, di chiamare la Guardia Nazionale per reprimere le lotte!

Ma alcuni gruppi di vecchi militari hanno risposto che il compito della Guardia Nazionale era di intervenire di fronte alle catastrofi e non di mettersi al servizio della squadra di delinquenti del governatore. La situazione politica nel Wisconsin è fragile, con la minaccia di una crisi costituzionale. L’insieme dei 14 senatori democratici dello Stato hanno disertato l’Assemblea. In più, il sindacato e i dirigenti democratici parlano apertamente di revocare il governatore e i senatori che sostengono il suo progetto di legge. Ad ogni crisi, la politica americana somiglia sempre più ad un fumetto comico!

La crisi nel Wisconsin è stata presentata dai mezzi di informazione nazionali come il primo vero scontro di un dirigente repubblicano, sostenuto dal Tea Party, che utilizza il suo nuovo potere politico per metter su un programma ideologico di distruzione dei sindacati degli impiegati del settore pubblico, che molti membri del Tea Party e del Partito Repubblicano rimproverano per il quasi fallimento dei governi dei vari Stati americani. Questi repubblicani sostengono che è necessario adottare misure di austerità per equilibrare i bilanci dello Stato paralizzato da un enorme deficit di 137 milioni di dollari. D’altra parte i Democratici e i loro amici nei sindacati lanciano grida di indignazione verso il governatore Repubblicano e i suoi alleati nazionali. Il Tea Party fa buon uso politico di un vero dilemma finanziario per alimentare la sua ideologia antisindacale. Chi ha ragione?

E’ vero che, proprio come in Europa, anche gli Stati americani sono confrontati con l’insolvibilità. Mentre a livello centrale il governo federale può disporre ancora di una certa flessibilità (stampando più dollari), i singoli Stati non hanno questo privilegio e sono dunque confrontati con il bisogno urgente di far adottare rigide misure di austerità per equilibrare i loro bilanci e mantenerli finanziariamente affidabili sul mercato obbligazionario. Nel merito, il progetto di legge del governatore Walker sembra rispondere al bisogno vitale della borghesia di ridurre i costi della forza lavoro nello Stato e guadagnare un vantaggio durevole nei futuri negoziati limitando la portata dei prossimi contratti. Questo potrebbe costituire un modello da seguire in altri Stati nella lotta per superare la loro terribile situazione fiscale.

Tuttavia, più in generale, la borghesia è anche consapevole del rischio politico e sociale insito nel lanciare attacchi pesanti contro lavoratori già martellati da un’alta disoccupazione, dal congelamento dei salari, da licenziamenti e dal crollo del mercato immobiliare. Da qui la strategia utilizzata negli USA consistente nel lanciare degli attacchi a livello locale o a quello di un singolo Stato, piuttosto che lanciare un assalto frontale, diretto e immediato sui programmi del diritto federale. Tuttavia c’è il rischio che la legge del governatore Walker vada troppo lontano destabilizzando i sindacati, che agiscono come delle unità di polizia per controllare la collera dei lavoratori, e lo stesso Partito Democratico che si appoggia sui sindacati per il finanziamento di gran parte della sua campagna elettorale. La politica del governatore Walker rischierebbe non solo di evirare i sindacati quando la borghesia ne avrà più bisogno, ma potrebbe anche minacciare di perturbare il sistema a due partiti in un vitale “Stato oscillante” che il presidente Obama ha conquistato nel 2008.

L’anno scorso ci sono state manifestazioni in California contro i tagli al bilancio dell’istruzione e recentemente gli operai nell’Ohio hanno protestato contro un progetto di legge che avrebbe limitato la negoziazione collettiva per i lavoratori dello Stato, come avevano già fatto gli insegnanti a Indianapolis. Quando il bisogno di nuovi attacchi si fa sentire, la borghesia ha bisogno di un apparato sindacale in ordine di battaglia per contenere la combattività dei lavoratori e assicurarsi che la lotta resti sul terreno della negoziazione sui salari e sui sussidi piuttosto che minacciare lo Stato stesso.

Lo stato drammatico delle finanze del Wisconsin non è un’eccezione. Quest’anno deve far fronte a un deficit di 137 milioni di dollari e per i prossimi due anni alla modica cifra di 3,6 miliardi. L’aspetto più feroce del riassetto del bilancio statale portato avanti dal governatore Walker è che la maggior parte degli impiegati dello Stato e degli enti locali devono contribuire con la metà del costo dei loro contributi pensionistici e almeno per il 12,6% dei loro premi di assicurazione malattia. Comunque, tutto questo serve a far incassare allo Stato 30 milioni di dollari da qui alla fine di giugno, cioè solo il 10% del deficit. Il resto del progetto di legge propone di economizzare quest’anno 165 milioni di dollari attraverso il semplice rifinanziamento del debito statale. Così, i risparmi più importanti non hanno niente a che vedere con gli impiegati pubblici. Ma questo non è di conforto per i lavoratori colpiti da un aumento pesante dei contributi pensionistici e dei costi sanitari. Secondo una stima, il progetto equivale mediamente a una riduzione del 10% del reddito per gli insegnanti della città di Madison.

Dato che la negoziazione dei contratti dura in media 15 mesi, il governatore ha rifiutato di incontrare i sindacati, ha prospettato misure drastiche, minacciando di licenziamento 1500 lavoratori dello Stato se il piano non fosse stato accettato. Sembra così voler rimanere fedele alla sua reputazione di soggetto aggressivo. Dobbiamo forse pensare che si tratta di un altro caso in cui un Repubblicano si piazza all’estrema destra del suo partito smantellando i sindacati? Walker è stato chiaro in proposito: “Per noi è semplice. Siamo senza un quattrino. Non ce ne frega niente dei sindacati. Noi dobbiamo riequilibrare il bilancio”. (New York Times). Dal fronte sindacale, David Ahrens, dell’UW-Madison’s Carbone Cancer Center, contesta il carattere di urgenza della situazione, dicendo: “Il tutto sarebbe più credibile se, per cominciare, il governatore avesse avuto la preoccupazione di incontrare i sindacati”. (Wisconsin State Journal)

Lo stesso presidente Obama si è speso a favore dei sindacati con il rimborso dei 200 milioni di dollari che essi avevano speso per la sua campagna elettorale a novembre e definendo i propositi di Walker “un attacco contro i sindacati”. Invece il Presidente della Camera, il repubblicano John Boehner, dell’Ohio, si è congratulato con Walker per “aver affrontato i problemi che ha davanti, che sono stati trascurati per anni a discapito dell’occupazione e della crescita economica”.

Come ci si poteva aspettare, la sinistra è corsa in difesa dei sindacati in quanto migliore difesa dei lavoratori nei momenti difficili, mentre la destra li descrive come anacronismi storici che ostacolano la crescita economica e ammazzano l’occupazione. Di fronte a questo cosa devono fare i lavoratori?

Innanzitutto è importante capire il ruolo chiave che i sindacati giocano nel quadro dell’apparato statale. Essi sono i “pompieri sociali”, che agiscono da valvola di sicurezza a livello economico e politico. I contratti collettivi, gli accordi sulle negoziazioni, che sono oggi sotto attacco, sono stati introdotti da gente come il Presidente Kennedy che ci hanno visto un interesse in termini di controllo sociale offerto dai sindacati, in particolare quando certe “vittorie” ottenute dai sindacati includevano la rinuncia agli scioperi! Alla fine degli anni 60 e 70, queste “concessioni” erano certamente più abbordabili in termini economici di quanto lo siano oggi. Quaranta anni di crisi economica hanno portato a una grande erosione del salario sociale di cui aveva goduto la generazione figlia del “boom” del dopoguerra. Ma anche se i sindacati costano in termini economici, essi sono allo stesso tempo degli strumenti efficaci per imporre l’austerità alla classe operaia. Per esempio, nel Wisconsin i sindacati “avevano già negoziato un accordo con l’amministrazione precedente di 100 milioni di dollari di tagli nelle prestazioni con una riduzione secca dei salari del 3%.”. Si percepisce chiaramente che la collera dei sindacati rispetto al progetto del governo non è tanto causata dalle riduzioni per i lavoratori che loro dovrebbero rappresentare, ma dalla prospettiva di non essere più considerati dei partner dello Stato nella gestione dell’economia.  Nei fatti Marty Beil, il capo del sindacato degli impiegati pubblici del Wisconsin, ha sostenuto che il sindacato era perfettamente disposto ad accettare alcuni tagli, ma non poteva sopportare l’insolenza del governatore: “Siamo pronti ad accettare le concessioni finanziarie proposte per aiutare ad equilibrare il bilancio del nostro Stato, ma non ci lasceremo privare del nostro diritto, dato da Dio, di aderire ad un vero sindacato… non lasceremo, lo ripeto, non lasceremo che venga negato il nostro diritto alla negoziazione collettiva”. In una conferenza telefonica con la stampa, ha aggiunto “Non è una questione di soldi (…) Noi comprendiamo la necessità dei sacrifici” (Milwaukee Journal Sentinel).

Tutti i discorsi sullo smantellamento dei sindacati è in fondo un tentativo per far deviare il malcontento manifestato dai lavoratori contro gli attacchi alle loro condizioni di vita nel vicolo cieco della difesa dei sindacati stessi e della democrazia che essi dovrebbero incarnare, allontanandosi così da una lotta efficace per difendere le condizioni di vita e di lavoro. Nel movimento del Wisconsin i sindacati sono stati molto bravi rappresentandolo con l’espressione “difesa della democrazia” (da cui il legame con l’Egitto), anche se sono i loro alleati, i senatori democratici, che sembrano al momento aver ostacolato il funzionamento dell’apparato al governatore democratico borghese, abbandonando l’Assemblea. I militanti del Tea Party hanno organizzato delle contromanifestazioni in sostegno del governatore “democraticamente eletto” e per proteggere “la maggioranza dei cittadini del Wisconsin” che hanno votato per le sue azioni severe contro i sindacati. Se uno ha come obiettivo principale la “difesa della democrazia”, non è scontato sapere quale campo va a sostenere!

In un certo senso, la caccia ai senatori spariti da parte della polizia di Stato è emblematica della caccia più importante che la borghesia americana sta facendo per trovare una soluzione alla crisi economica. Poiché questa soluzione si rivela più improbabile che mai, la borghesia a tutti i livelli, federale, statale e locale, dovrà fare ricorso a nuovi attacchi contro la classe operaia. Gli impiegati, i pompieri, i lavoratori della nettezza urbana e soprattutto gli insegnanti, saranno i primi a subirli. Non è un caso né un’inclinazione ideologica della destra, se il Tea Party e i Repubblicani hanno preso di mira gli impiegati pubblici. Il progetto di legge contro i loro salari e i loro contributi è quello che avrà l’impatto più immediato sulla solvibilità finanziaria dello Stato.

Inoltre, gli attacchi contro gli impiegati pubblici non si sono limitati agli Stati governati dai Repubblicani. A New York, il governatore democratico Cuomo ha minacciato quasi 10.000 licenziamenti se i negoziati con i sindacati si bloccano, mentre il democratico Jerry Brown in California ha parlato della necessità di tagli dolorosi per risolvere i perpetui problemi di bilancio. A livello federale, il presidente Obama stesso ha congelato i salari degli impiegati federali e la sua commissione bilancio ha minacciato di licenziare il 10% degli effettivi! Nondimeno, lo zelo con il quale repubblicani del Tea Party come Walker hanno portato avanti la loro crociata contro le basi stesse di esistenza dei sindacati può avere l’effetto opposto se portato fino in fondo. Se la lotta di classe continua a svilupparsi la borghesia avrà inevitabilmente bisogno dei sindacati. Il tentativo di un governatore repubblicano novellino di far sparire i sindacati dal suo Stato è ancora un altro esempio delle difficoltà della borghesia americana a controllare il proprio apparato politico a causa della decomposizione sociale che si aggrava ogni giorno in questo sistema.

Internationalism

(organo della CCI negli USA)



[1] Il Tea Party (https://it.wikipedia.org/wiki/Boston_Tea_Party [139]) è un movimento politico populista americano che é generalmente riconosciuto come conservatore e libertario. Sostiene la necessità che i governi spendano meno e che ci siano meno tasse in modo da ridurre il debito nazionale e il deficit budgetario federale.

[2] Vedi la lettera spedita dai manifestanti egiziani ai lavoratori del Wisconsin, riportata sul forum https://napolioltre.forumfree.it/?t=54195028 [140]

Geografiche: 

  • Stati Uniti [141]

Patrimonio della Sinistra Comunista: 

  • Lotta proletaria [5]
  • La questione sindacale [110]

La pubblicazione del “Capitale” di Marx in manga è una risposta ad un bisogno della classe operaia

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Da curiosità destinata ai giovani degli anni 80, fan di “Goldrake” ed altri “Dragonball Z”, il manga[1] è diventato un vero fenomeno culturale. A tal punto che tutta una generazione e la successiva ne hanno fatto le loro letture preferite e dei segni di adesione sociale, con il rammarico di numerosi genitori ed insegnanti che disperano di vedere questa “generazione manga” aprire un giorno un “vero” libro senza immagini! La semplicità del disegno, quella dei testi, ridotti spesso a onomatopee[2], il tutto letto da destra a sinistra per aumentare al fascino dell’esotismo, hanno fatto l’universalità dei manga, in un periodo di scarsa socializzazione e di calo generalizzato dell’alfabetizzazione, associata alla perdita del gusto per la lettura che prende tutti gli strati sociali. Yusuke Maruo dirige presso l’editore East Press la collezione “Leggere tutto in fumetti”, specializzata nella ripresa di grandi opere (Dante, Machiavelli, Dostoïevski, Kafka, Buddha, ecc.) e di testi dal passato grave, come Mein Kampf di Hitler. Al di là della finzione, la violenza o la pornografia ai quali, fuori dall’arcipelago giapponese, molto spesso riduciamo i manga, il genere permette di diffondere una gran quantità di informazioni e conoscenze.

Facendo leva sull’inquietudine e le riflessioni crescenti generate nella classe operaia, e nella sua nuova generazione, dalla crisi del 2007, questo editore è riuscito a fare un manga dell’opera maggiore di Karl Marx e di Friedrich Engels, Il Capitale. Vent’anni e più di ricerche e scrittura, quattro libri divisi ciascuno in parecchi volumi, più di 3000 pagine, si trovano condensati in due volumi di disegni di 190 pagine.

Non è un caso che questa pubblicazione, sia apparsa in primo luogo in Giappone. Innanzitutto perché è la terra natale del manga. Ma anche perché il Partito comunista giapponese ha superato i 400.000 aderenti nel 2008 e ne guadagna 1000 al mese, con uno slancio di sindacalizzazione che cresce presso i giovani giapponesi. Ed infatti fino ad oggi sono state vendute più di un milione di copie di questo manga.

Una tale infatuazione per questi “vecchi” Marx ed Engels, destinati regolarmente alla gogna, regolarmente denunciati come i precursori del futuro stalinismo da numerosi filosofi e da altri “teorici” socio-politici, non è insignificante. Essa, innanzitutto è direttamente emersa dalla crisi dei subprime del 2007 e dall’incapacità della borghesia e dei suoi economisti a dare una spiegazione soddisfacente di questo evento che ha gettato dappertutto decine di milioni di persone sul lastrico e nella miseria. Ci hanno ripetuto che in fondo, è stata una “sfortuna”, ma che la produzione stava per ripartire. E non è stato così. Esiste pertanto una ricerca profonda nell’insieme della classe operaia mondiale e nella sua generazione giovanile per cercare di capire e darsi delle prospettive al di fuori di questo sistema di sfruttamento che mostra ogni giorno la sua incapacità a soddisfare i bisogni umani più elementari. Questo manga su Il Capitale si sforza di rispondere a questo bisogno. Un editore francese, “Soleil Manga”, se ne è così impossessato pubblicando 50.000 esemplari, il che potrebbe sembrare strano dato che il fondatore di questa casa editrice è anche il proprietario del Racing Club di Tolone, ambito sportivo che in genere non milita per l’emancipazione politica delle masse. Il fatto è che l’interesse per Marx ed il marxismo da parte di un qualsivoglia padrone, anche se dall’animo “socialista”, non è per elevare la coscienza collettiva ma per la presenza di un mercato. Come lo era negli anni 1960 e 1970 il mercato delle opere di Mao, di Stalin, ma anche di Marx e di Engels da parte di editori maoisti come le edizioni Maspéro o di librai trotskisti come Fnac[3].

Per quanto riguarda il manga, il risultato è molto sorprendente. Contro tutte le negative aspettative da parte delle vecchie barbe che prevedevano una volgarizzazione pietosa e falsa del Capitale, il risultato, malgrado alcune note insolite come quella di un Marx presentato sotto forma di un arcangelo sceso dal cielo a predicare, o ancora un Engels che chiama Marx “Signore”, è abbastanza preciso[4].

Nel Capitolo 1, il lettore segue l’avventura di Robin, giovane caseario figlio di artigiano, che lascia l’impresa familiare per fondare una fabbrica di formaggio grazie ai sussidi di un giovane e rampante finanziatore pieno di soldi che gli presta il denaro necessario per fondare la sua impresa. In piena rivoluzione industriale (non viene specificato nel manga ma si tratta del 19° secolo), il giovane caseario passa dunque da una fabbrica artigianale e familiare ad una più grande con maggiori ambizioni. Robin scopre le responsabilità e gli arrovellamenti di un giovane padrone, la necessità di conciliare la qualità del prodotto, le scadenze di produzione, la massa salariale. Deve far fronte al suo investitore che lo spinge a sfruttare sempre più i suoi operai per produrre sempre più ed a basso costo, dunque ad aumentare i ritmi e farli lavorare più a lungo. A ciò si aggiunge il “sorvegliante” (cioè il “caposquadra”) della fabbrica, un bruto demenziale che manganella gli operai e che Robin inizialmente tenta di calmare prima di rassegnarsi a lasciarlo picchiare perché la produttività dipende da questo aguzzino. Arringati da uno di loro che prende coscienza che i padroni traggono il loro profitto dalla parte dei loro salari non pagata, gli operai abbozzano un tentativo di rivolta (per tre/quattro pagine) che viene domata dalla polizia e tutto ritorna rapidamente nei ranghi. Quello che emerge, lasciando da parte l’aspetto piuttosto moralizzatore e manicheo dell’opera, è che il capitalismo è in effetti disumano perché riduce degli individui alla miseria e che sfrutta la loro forza lavoro come nessun altro sistema precedente.

L’esempio di un piccolo padrone come Robin mostra anche che questo è uno sfruttatore non perché è una carogna (vuole solo diventare ricco) ma perché questa è la logica del sistema capitalista. E se non segue questa legge si fa schiacciare dalla concorrenza e per prospettiva ha solo quella di chiudere bottega con i debiti da pagare per il suo fallimento. Ad essere “carogne” sono invece gli investitori e, lo si vedrà nel secondo capitolo, il banchiere. Ma, per la platea questa è “attualità”.

Il capitolo 2, più teorico, vede Friedrich Engels rivolgersi direttamente al lettore in una sorta di corso magistrale illustrato. Tramite esempi viventi, vengono spiegati il “valore d’uso”, il “valore di scambio”, il “valore monetario” (il denaro) ed il “plusvalore” che “si ottiene grazie al lavoro del proletariato”, poi la sovrapproduzione ed infine le crisi capitaliste. Si tratta di una volgarizzazione del linguaggio economico che è spiegato in modo chiaro e semplice ma senza essere troppo riduttivo, avente per supporto pedagogico delle situazioni comprensibili e che non falsificano il pensiero marxista.

In questa seconda parte è ben visto e riassunto il processo che porta alla crisi. La competizione tra padroni implica l’acquisto di materiali sotto forma di macchine più moderne che costano di più e costringono ad esigere una maggiore produttività da parte degli operai ed un abbassamento dei loro salari in termini reali. Inoltre la competizione tra capitalisti spinge alla sovrapproduzione ed alla saturazione dei mercati. Il tutto provoca la crisi economica con la chiusura di fabbriche ed il licenziamento degli operai ed il fallimento di un certo numero di capitalisti. Questa logica implacabile per la quale il capitalismo non può che condurre alla crisi è affermata chiaramente: “Lo scopo della posta in gioco per i capitalisti è arrivare ad approfittare al massimo dei lavoratori per ottenere quanto più profitto possibile! E per riuscire a superare la concorrenza, vengono prodotte sempre più nuove macchine (…) Ma è a questo punto preciso che il capitalismo mostra il suo volto contraddittorio [perché] le macchine rappresentano un capitale costante che non genera valore aggiunto” e dunque fanno abbassare “il tasso di profitto [e la] redditività”, alimentando ancora di più la concorrenza e la competizione su tutto il pianeta e con esse le crisi.

Questo secondo capitolo si conclude su un appello di Marx che sale al cielo in compagnia di Engels con un’aureola sulla testa (!!!): “l’ombra nefasta del capitalismo ricopre il pianeta intero. Quest’ombra provoca degli effetti devastanti (…) Per i capitalisti, tutto si vende, tutto si acquista, tutto è buono per fare profitto. (…) Lasciate dunque parlare coloro che non vedono la realtà in faccia! Ma voi, prendete la strada della giustizia! Rimettete in discussione il capitalismo!”

Non è dunque l’avidità di alcuni sfruttatori, ma è il sistema nella sua interezza a condurre alla catastrofe permanente.

Tuttavia a quest’appello manca la reale prospettiva rivoluzionaria che non può realizzarsi realmente se non con la coscienza che le crisi finiscono per condurre al fallimento generale del sistema capitalista e con la coscienza dell’alternativa marxista “Socialismo o barbarie”. Quest’ultima non solo è assente ma il manga, per bocca di Marx, presenta le crisi come una cura di giovinezza, dura ma utile: “È innegabile che nelle società capitaliste … il panico e le crisi economiche sono moneta corrente … ma non andate a biasimare le crisi! In effetti, sono esse che vanno a ristabilire l’equilibrio tra l’offerta e la vera domanda. Ma dopo quali danni?” In fin dei conti, il capitalismo in qualche modo auto-regola le sue crisi ed in modo infinito. Ciò ha un’implicazione fondamentale: la rivolta contro questo sistema non può essere una rivoluzione ma una reazione contro l’ingiustizia, contro lo sfruttamento, ecc., una specie di volontà morale di “risanamento” o di “riforma”, senza una reale prospettiva di superamento e di abolizione del capitalismo. Ora, da oltre un secolo, questo sistema è in decadenza e mostra le espressioni del suo fallimento generalizzato, attraverso le crisi, ma anche attraverso le catastrofi in serie e tutti gli aspetti della vita quotidiana che vanno aggravandosi a ritmo accelerato, anche nei paesi “ricchi”[5].

Difficilmente si potrebbe rimproverare questa mancanza a questa edizione, che peraltro ha fatto un enorme lavoro. In compenso c’è la prefazione dell’edizione francese, firmata Olivier Besancenot. Alla mano, parlando con il tu al lettore, nell’insieme di buona fattura, ed in tutta evidenza in accordo con il Capitale, possiamo anche leggervi: “Così, il sistema capitalista produce più, senza riuscire più a vendere la sua produzione. È il marchio  delle crisi di sovrapproduzione, come le conosciamo oggi”. Che lucidità! Besancenot si rivendica anche a Marx: “Marx è il fondatore della prima associazione internazionale dei lavoratori il cui scopo era rovesciare il capitalismo ed edificare il socialismo”. Ed è qui che casca l’asino. Perché l’NPA[6] il cui leader Besancenot rivendica la necessità della rivoluzione sulla base di una comprensione marxista delle leggi del capitalismo “le cui crisi a ripetizione disgregano sempre la società a più di 140 anni dalla sua apparizione [del Capitale]”, e concorda con questo manga che non si tratta di “cattiveria” o di “cupidigia” in sé dei padroni, continua a ripetere che bisogna “riformare” questo sistema; che occorre “un capitalismo dal volto umano”, “più giusto”, che bisogna perciò “nazionalizzare", rendere lo Stato più sociale … In sostanza, questo è il gioco del doppio linguaggio, quello del venditore da fiera che ti dice che ti dà due cose al prezzo di una e in realtà ti prende il doppio. Come il capitalista che pretende di pagarti il salario al giusto valore e ti sottrae di nascosto il plusvalore necessario alla sua sopravvivenza.

Mulan (24 febbraio)



[1] Manga è un termine giapponese [142] che in Giappone [143] indica i fumetti [144] in generale, mentre nel resto del mondo viene usato per indicare “storie a fumetti giapponesi”.In Giappone i fumetti hanno un ruolo culturale ed economico rilevante e sono considerati un mezzo artistico ed espressivo non meno degno della letteratura, del cinema o di altre espressioni culturali.

[2] L’onomatopea è una figura retorica [145] che riproduce, attraverso i suoni linguistici di una determinata lingua [146], il rumore [147] o il suono [148] associato a un oggetto o a un soggetto cui si vuol fare riferimento.

[3] In Italia potremmo citare Feltrinelli o Samonà e Savelli.

[4] Ha inoltre la qualità, a differenza del normale “modo d’uso” di potere essere letto da sinistra a destra, ciò che non è trascurabile per coinvolgere un pubblico più largo ed eventualmente raccogliere diverse generazioni.

[5] D’altra parte una delle debolezze di questo manga è dare ad intendere, come messaggio più che subliminale, la distinzione tra paesi poveri sfruttati e paesi popolati da “benestanti”.

[6] Nouveau Parti anticapitaliste (Nuovo Partito Anticapitalista), partito della sinistra borghese nato in Francia nel 2009.

Questioni teoriche: 

  • Cultura [149]

Sinistra comunista ed anarchismo internazionalista (II parte). Sulle nostre difficoltà a dibattere ed i mezzi per superarle

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Nella prima parte di questa nuova serie di articoli, abbiamo tentato di dimostrare che alcuni punti fondamentali di accordo avvicinavano gli anarchici internazionalisti e la Sinistra comunista. Per la CCI, senza negare l’esistenza di divergenze importanti, l’aspetto cruciale è che entrambi difendano con determinazione l’autonomia della classe operaia rifiutando “di dare sostegno, qualunque esso sia, (anche se ‘critico’, ‘tattico’, in nome del ‘male minore’…), ad un settore della borghesia: né alla borghesia ‘democratica’ contro la borghesia ‘fascista’; né alla sinistra contro la destra; né alla borghesia palestinese contro la borghesia israeliana; ecc.”. Più concretamente, si tratta di:

1) rifiutare ogni sostegno elettorale, ogni collaborazione con dei partiti gestori del sistema capitalista o difensori di questa o quella forma di questo (socialdemocrazia, stalinismo, “chavismo”, ecc.);

2) mantenere un internazionalismo intransigente, rifiutando di scegliere tra questo o quel campo imperialista in ogni guerra.

Tutti quelli che difendono teoricamente e nella pratica queste posizioni essenziali devono avere la consapevolezza di appartenere ad uno stesso campo: quello della classe operaia, quello della rivoluzione.

All’interno di questo campo esistono necessariamente delle differenze di opinione e di posizione tra gli individui, i gruppi, le tendenze. E' proprio dibattendo a livello internazionale, apertamente, fraternamente, ma anche con fermezza, senza false concessioni, che i rivoluzionari riusciranno a partecipare al meglio allo sviluppo generale della coscienza proletaria. Ma per fare questo, essi devono comprendere l’origine delle difficoltà che, ancora oggi, ostacolano un tale dibattito.

Queste difficoltà sono il frutto della storia. L’ondata rivoluzionaria che, a partire dal 1917 in Russia e dal 1918 in Germania, ha messo fine alla Prima Guerra mondiale è stata vinta dalla borghesia. Una terribile controrivoluzione si è quindi abbattuta sulla classe operaia di tutti i paesi le cui le manifestazioni più mostruose sono state lo stalinismo ed il nazismo, proprio nei due paesi dove il proletariato era stato all’avanguardia della rivoluzione.

Per gli anarchici, l’attuazione da parte di un partito che si richiamava al “marxismo” di una terribile dittatura poliziesca sul paese della rivoluzione dell’Ottobre ’17, è stata considerata la conferma alle loro critiche sostenute da tempo contro le concezioni marxiste. A queste concezioni veniva rimproverato il loro “autoritarismo”, il loro “centralismo”, il fatto che non sostenevano l’abolizione immediata dello Stato all’indomani della rivoluzione, il fatto che non si davano come valore cardine il principio di Libertà. Alla fine del 19° secolo, il trionfo del riformismo e del “cretinismo parlamentare” all’interno dei partiti socialisti veniva già considerato dagli anarchici come la conferma della validità del loro rigetto di ogni partecipazione alle elezioni. È un poco la stessa cosa che si è prodotta in seguito al trionfo dello stalinismo. Per loro questo regime era la conseguenza logica de “l’autoritarismo congenito” del marxismo. In particolare, ci sarebbe stata una “continuità” tra la politica di Lenin e quella di Stalin, poiché, dopo tutto, la polizia politica ed il terrore si sono sviluppati mentre il primo era ancora in vita e anche poco dopo la rivoluzione.

Evidentemente uno degli argomenti dati per illustrare questa “continuità” è il fatto che, fin dalla primavera 1918, alcuni gruppi anarchici in Russia sono stati repressi e la loro stampa è stata imbavagliata. Ma l’argomento “decisivo” è lo schiacciamento nel sangue dell’insurrezione di Kronstadt nel marzo 1921 da parte del potere bolscevico, con Lenin e Trotsky alla sua testa. L’episodio di Kronstadt è evidentemente molto significativo perché i marinai e gli operai di questa base navale erano stati nell’ottobre ‘17 una delle avanguardie dell’insurrezione che aveva rovesciato il governo borghese e permesso la presa del potere da parte dei soviet (i consigli di operai e di soldati). Ed è giustamente questo settore tra i più avanzati della rivoluzione che si è rivoltato nel1921 con la parola d’ordine “il potere ai soviet, senza i partiti”.

La Sinistra comunista di fronte all’esperienza russa

In seno alla Sinistra comunista esiste un pieno accordo tra le sue differenti tendenze su alcuni punti essenziali:

  • il riconoscimento della natura controrivoluzionaria e borghese dello stalinismo;
  • il rifiuto di ogni “difesa del bastione operaio” che avrebbe costituito l’URSS, ed in particolare il rigetto di ogni partecipazione alla Seconda Guerra mondiale in nome di questa difesa (o per qualsiasi altro pretesto);
  • la caratterizzazione del sistema economico e sociale dell’URSS come una forma particolare di capitalismo, un capitalismo di Stato nella sua forma estrema.

Su questi tre punti fondamentali la Sinistra comunista si trova dunque in accordo con gli anarchici internazionalisti ma si oppone totalmente al trotskismo che considera lo Stato stalinista uno “Stato operaio degenerato”, i partiti “comunisti” “partiti operai” e che, nella sua grande maggioranza, si è arruolato nella Seconda Guerra mondiale, in particolare nei ranghi della Resistenza.

Viceversa, all’interno stesso della Sinistra comunista esistono delle notevoli differenze relative alla comprensione del processo che ha portato la rivoluzione dell’Ottobre 17 a sfociare nello stalinismo.

La corrente della Sinistra olandese (i “comunisti dei consigli” o “consiliaristi”) considera che la rivoluzione di Ottobre è stata una rivoluzione borghese che ha avuto per funzione la sostituzione del regime zarista feudale con uno Stato borghese più adattato allo sviluppo di un’economia capitalista moderna. Il partito bolscevico, che si è trovato alla testa di questa rivoluzione, è lui stesso considerato come un partito borghese di un genere particolare incaricato di attuare un capitalismo di Stato, anche se i suoi militanti e dirigenti non ne erano veramente coscienti. Così, per i “consiliaristi”, c’è proprio una continuità tra Lenin e Stalin, essendo quest’ultimo in qualche modo “l’esecutore testamentario” del primo. In questo senso, esiste una certa convergenza tra gli anarchici ed i consiliaristi ma questi ultimi non hanno però rigettato il riferimento al marxismo.

L’altra grande tendenza della Sinistra comunista, quella che si ricollega alla Sinistra comunista d’Italia, ritiene che la rivoluzione di Ottobre ed il partito bolscevico hanno avuto una natura proletaria. La cornice in cui questa tendenza inscrive la comprensione del trionfo dello stalinismo è quella dell’isolamento della rivoluzione in Russia a causa della sconfitta delle lotte rivoluzionarie negli altri paesi, in primo luogo in Germania. Ancor prima della rivoluzione di Ottobre, l’insieme del movimento operaio, e gli anarchici non facevano eccezione, considerava che se la rivoluzione non si fosse estesa a livello mondiale, sarebbe stata vinta. Il fatto storico fondamentale che ha illustrato la sorte tragica della rivoluzione russa è che questa sconfitta non è venuta dall’esterno (le armate bianche sostenute dalla borghesia mondiale sono state sconfitte) ma dall’interno per la perdita del potere da parte della classe operaia, ed in particolare di ogni controllo sullo Stato che era sorto all’indomani della rivoluzione, e per la degenerazione ed il tradimento del partito che aveva condotto la rivoluzione a causa della sua integrazione in questo Stato.

In questo quadro, i differenti gruppi che si richiamano alla Sinistra italiana non condividono le stesse analisi sulla politica dei bolscevichi durante i primi anni della rivoluzione. Per i bordighisti il monopolio del potere da parte di un partito politico, l’instaurazione di una forma di monolitismo in questo partito, l’impiego del terrore ed anche la repressione sanguinosa del sollevamento di Kronstadt non è criticabile. Al contrario, ancora oggi se ne rivendicano pienamente e per molto tempo, dato che la corrente della Sinistra italiana era conosciuta a livello internazionale essenzialmente attraverso il bordighismo, questo è servito ad allontanare gli anarchici dalle idee della Sinistra comunista.

Ma la corrente della Sinistra italiana non si riduce al bordighismo. La Frazione di Sinistra del partito comunista d‘Italia (divenuta in seguito Frazione italiana della Sinistra comunista) ha intrapreso negli anni 30 tutto un lavoro di bilancio dell’esperienza russa, (Bilan era infatti il nome della sua rivista in francese). Tra il 1945 e 1952, la Sinistra comunista di Francia (GCF, che pubblicava Internationalisme) ha continuato questo lavoro e la corrente che costituirà nel 1975 la CCI ne ha preso il testimone fin dal 1964 in Venezuela e nel 1968 in Francia.

Questa corrente (ed in parte anche quella che si ricollega al Partito comunista internazionalista in Italia), considera necessaria la critica di certi aspetti della politica dei bolscevichi fin dall’indomani della rivoluzione. In particolare molti aspetti che denunciano gli anarchici, la presa del potere da parte di un partito, il terrore e soprattutto la repressione di Kronstadt, sono considerati dalla nostra organizzazione (sulla scia di Bilan e della GCF) degli errori, vuoi delle colpe, commessi dai bolscevichi che possono perfettamente essere criticate nel quadro del marxismo e delle stesse concezioni di Lenin, in particolare quelle espresse in Stato e Rivoluzione scritto nel 1917. Questi errori trovano una spiegazione in diverse ragioni che non possiamo sviluppare qui ma che fanno parte del dibattito generale tra la Sinistra comunista e gli anarchici internazionalisti. Diciamo semplicemente che la ragione essenziale sta nel fatto che la rivoluzione russa è stata la prima (ed unica fino ad ora) esperienza storica di rivoluzione proletaria momentaneamente vittoriosa. Ma è compito dei rivoluzionari trarre gli insegnamenti da questa esperienza come ha fatto Bilan negli anni 30, per il quale “la conoscenza profonda della causa della sconfitta” era un’esigenza primordiale. “E questa conoscenza non deve temere nessun divieto e nessun ostracismo. Tirare il bilancio dagli avvenimenti dopo la guerra, significa quindi stabilire le condizioni per la vittoria del proletariato in tutti i paesi”. (Bilan n.1, novembre 1933).

Gli anarchici e la Sinistra comunista

I periodi di controrivoluzione non sono certo favorevoli all’unità, né alla cooperazione delle forze rivoluzionarie. Lo smarrimento e la dispersione che colpiscono l’insieme della classe operaia si ripercuotono anche nei ranghi dei suoi elementi più coscienti. Come è accaduto ai gruppi che hanno rotto con lo stalinismo pur rifacendosi alla rivoluzione di ottobre per i quali il dibattito non è stato facile a partire dagli anni 1920 e durante gli anni 1930, anche il dibattito tra anarchici e Sinistra comunista è stato particolarmente difficile lungo tutto il periodo di controrivoluzione.

Come abbiamo visto sopra, il fatto che la sorte della rivoluzione russa sembrava portare acqua al mulino delle sue critiche al marxismo, l’atteggiamento dominante nel movimento anarchico era il rigetto di ogni discussione con i marxisti “necessariamente autoritari” della Sinistra comunista. Tanto più che, negli anni 1930, questo movimento aveva una notorietà ben superiore rispetto a quella dei piccoli gruppi della Sinistra comunista, in particolare per il posto di primo piano occupato dagli anarchici nel proletariato di un paese, la Spagna, dove si è avuto uno degli avvenimenti storici decisivi di questo periodo.

Reciprocamente, il fatto che, in modo quasi unanime, il movimento anarchico abbia considerato gli avvenimenti della Spagna confermavano la validità delle sue concezioni, mentre la Sinistra comunista vi vedeva soprattutto la prova del loro fallimento, ha per molto tempo costituito un ostacolo ad una collaborazione con gli anarchici. Bisogna tuttavia sottolineare che Bilan si è rifiutato di porre tutti gli anarchici nello stesso sacco e questa rivista ha pubblicato, al momento del suo assassinio da parte dello stalinismo nel maggio 1937, un omaggio all’anarchico italiano Camillo Berneri che aveva intrapreso una critica senza concessioni alla politica condotta dalla direzione della CNT spagnola.

Più significativo è ancora il fatto che si sia tenuto nel 1947 una conferenza che raggruppa la Sinistra comunista italiana (il gruppo di Torino), la Sinistra comunista di Francia, la Sinistra olandese e … un certo numero degli anarchici internazionalisti! Uno di essi ha anche presieduto questa conferenza. Ciò mostra che, anche durante la controrivoluzione, certi militanti della Sinistra comunista e dell’anarchismo internazionalista erano animati da un vero spirito di apertura, una volontà di discutere e una capacità di riconoscere i criteri fondamentali che uniscono i rivoluzionari al di là delle divergenze!

Questi compagni del 1947 ci danno una lezione ed una speranza per l’avvenire.

Evidentemente le atrocità commesse dallo stalinismo nel nome, usurpato, del marxismo e del comunismo pesano ancora oggi. Creano un muro emozionale che ostacola sempre potentemente il dibattito sincero e la collaborazione leale. “La tradizione di tutte le generazioni morte [assassinate, NDLR] pesa come un incubo sul cervello dei viventi” (Marx, Il 18-Brumaire di Louis Bonaparte). Questo muro che ci inibisce può essere demolito ma non dall’oggi al domani. Tuttavia, esso comincia a sgretolarsi. Dobbiamo alimentare il dibattito che poco a poco sta nascendo sotto i nostri occhi, sforzarci di essere animati di slancio fraterno, avendo sempre in mente che tutti noi, sinceramente, stiamo lavorando per l’avvento del comunismo, per una società senza classi.

CCI (agosto 2010)

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La Sinistra comunista e l’anarchismo internazionalista: Dobbiamo discutere e collaborare.

Per Lenin: “In Europa occidentale, il sindacalismo rivoluzionario è apparso in numerosi paesi come risultato diretto ed inevitabile dell’opportunismo, del riformismo, del cretinismo parlamentare”. (Prefazione all’opuscolo di Voïnov (Lunatcharski) “Sull’atteggiamento del partito verso i sindacati” (1907). L’anarchismo che esisteva molto prima del sindacalismo rivoluzionario ma che ne è vicino, ha beneficiato anch’esso di questa evoluzione dei partiti socialisti.

Bisogna notare che in Russia sono esistiti anche parecchi gruppi usciti dal partito bolscevico che condividevano queste stesse analisi. Vedere su questo argomento il nostro opuscolo su La Sinistra comunista in Russia.

In effetti, il dibattito, la cooperazione ed il rispetto reciproco tra anarchici internazionalisti e comunisti non era in quel momento una cosa nuova.

Tra altri esempi, si può citare ciò che scriveva l’anarchica americana Emma Goldman nella sua autobiografia, pubblicata nel 1931, dieci anni dopo Kronstadt: “… il bolscevismo era una concezione sociale portata dallo spirito brillante di uomini animati dall’ardore e dal coraggio dei martiri. (…) Era della massima urgenza che gli anarchici e altri veri rivoluzionari assumessero risolutamente la difesa di questi uomini diffamati e della loro causa negli avvenimenti che precipitavano in Russia” (Living my life).

Un altro anarchico molto conosciuto, Victor Serge, in un articolo redatto nell’agosto 1920, “Gli anarchici e l’esperienza della rivoluzione russa”, ha la stessa impostazione e pur continuando a richiamarsi all’anarchismo ed a criticare certi aspetti della politica del partito bolscevico, continua a dare il suo sostegno a questo partito.

D’altro canto, i bolscevichi hanno invitato una delegazione della CNT spagnola anarco-sindacalista al 2° congresso dell’Internazionale Comunista. Hanno potuto sviluppare con questa dei dibattiti realmente fraterni e hanno invitato la CNT ad unirsi all’Internazionale.

Vita della CCI: 

  • Corrispondenza con altri gruppi [13]

Correnti politiche e riferimenti: 

  • Anarchismo internationalista [14]

Rivoluzione Internazionale n°171

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giugno-agosto

Solidarietà con gli “Indignados” in Spagna. Il futuro appartiene alla classe operaia!

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Nel momento in cui in molti paesi i media, giorno dopo giorno, titolano sul “terremoto” dello “scandalo DSK” (Dominique Strauss-Kahn - direttore del FMI), un vero e proprio terremoto scuote l’Europa: quello del vasto movimento sociale in Spagna che si è cristallizza dal 15 maggio con l’occupazione, giorno e notte, della piazza Puerta del Sol a Madrid da una marea umana composta essenzialmente da giovani, indignati per la disoccupazione, le misure di austerità del governo Zapatero, i politici corrotti. Questo movimento sociale si è diffuso a macchia d’olio nelle città di tutto il paese attraverso i social network (Facebook, Twitter ...): Barcellona, Valencia, Granada, Siviglia, Malaga, Leon ... Ma le informazioni non hanno attraversato la barriera dei Pirenei. In Italia, in Francia ed altrove, solo i social network e alcuni media alternativi hanno ampiamente pubblicizzato le immagini e i video di ciò che è successo in Spagna. Se i media borghesi hanno fatto un tale black-out su questi avvenimenti, preferendo intossicarci con la “soap americana” sul caso DSK (o in Italia con quella di Berlusconi, le elezioni ed il referendum) è proprio perché questo movimento costituisce una tappa molto importante nello sviluppo delle lotte sociali e delle lotte della classe operaia mondiale di fronte al vicolo cieco del capitalismo.

Le premesse del movimento

Il movimento degli “Indignati” in Spagna è maturato dopo lo sciopero generale del 29 settembre 2010 contro il progetto di riforma delle pensioni. Lo sciopero generale si chiuse con una sconfitta, semplicemente perché i sindacati negoziarono con il governo accettando la proposta di riforma (i lavoratori attivi di 40-45 anni riceveranno, al momento del pensionamento, una pensione inferiore del 20 % a quella attuale). Questa sconfitta ha causato un profondo senso di amarezza tra la classe operaia. Ma ha suscitato un profondo senso di rabbia tra i giovani che si erano mobilitati e avevano partecipato attivamente al movimento, soprattutto con la loro solidarietà nei picchetti di sciopero.

All’inizio del 2011, la rabbia inizia a manifestarsi nelle università. Nel mese di marzo, in Portogallo, viene lanciato su Internet un appello ad una manifestazione del gruppo Giovani Precari che sfocia in una manifestazione con 250 mila persone a Lisbona. Questo esempio ha avuto un impatto immediato nelle università spagnole, in particolare a Madrid. La stragrande maggioranza degli studenti e dei giovani sotto i 30 anni sopravvive con 600 euro al mese facendo piccoli lavori. È in questo contesto che un centinaio di studenti ha formato il gruppo “Giovani senza futuro” (Jovenes sin futuro). Questi studenti poveri, provenienti dalla classe operaia, si sono riuniti attorno allo slogan “senza cure, senza casa, senza reddito, senza paura". Hanno indetto una manifestazione per il 7 aprile. Il successo di questa prima mobilitazione che ha riunito circa 5.000 persone, ha spinto il gruppo “Giovani senza futuro”, a programmare un nuovo evento per il 15 maggio. Nel frattempo è apparso a Madrid il collettivo “Democracia Real Ya!” (Democrazia Reale Adesso!) la cui piattaforma si pronunciava anche contro la disoccupazione e la “dittatura dei mercati”, ma affermava di essere “apolitica”, né di destra né di sinistra. Democracia Real Ya! ha anche lanciato appelli a manifestare il 15 maggio in altre città. Ma è a Madrid che il corteo ha ottenuto il maggior successo con circa 25.000 manifestanti. Un corteo pacifico che doveva concludersi tranquillamente nella piazza Puerta del Sol.

La rabbia dei giovani “senza futuro” prende l’insieme della popolazione

Le manifestazioni del 15 maggio convocate da Real Democracia Ya! hanno avuto un successo spettacolare: esprimevano un malcontento generale, soprattutto tra i giovani che affrontano il problema della disoccupazione alla fine dei loro studi. Apparentemente tutto avrebbe dovuto finire qui, ma alla fine delle manifestazioni di Madrid e Granada degli incidenti causati da un piccolo gruppo di “black block” sono stati repressi con delle cariche della polizia che ha tratto in arresto una ventina di persone. Gli arrestati, brutalizzati nei commissariati, si sono riuniti in un collettivo ed hanno fatto un comunicato che denunciava le violenze della polizia. La diffusione di questo comunicato ha provocato un’immediata reazione di solidarietà generale di fronte alla brutalità delle forze dell’ordine. Una trentina di persone, totalmente sconosciute e non organizzate, decidono di occupare piazza Puerta del Sol a Madrid con un accampamento. Questa iniziativa ha subito preso piede ed ha suscitato la simpatia della popolazione. Lo stesso giorno, l’esempio madrileno si estende a Barcellona, Granada e Valencia. Una nuova fiammata di repressione poliziesca mette il fuoco alle polveri e da allora, gli assembramenti sempre più di massa nelle piazze centrali si sono diffusi in oltre 70 città crescendo rapidamente.

Nel pomeriggio di martedì 17 maggio, gli organizzatori del “Movimento del 15 maggio”, avevano previsto delle proteste silenziose o recite teatrali ludiche “di sfogo”, ma la folla nelle piazze in continuo aumento chiedeva a gran voce la tenuta di assemblee. Alle 20, iniziano a tenersi riunioni a Madrid, Barcellona,Valencia e in altre città. A partire da mercoledì 18, queste assemblee assumono la forma di una valanga. Le manifestazioni si trasformano in assemblee generali aperte nelle pubbliche piazze.

Di fronte alla repressione e con la prospettiva delle elezioni comunali e regionali, il collettivo Democracia Real Ya! lancia un dibattito su un obiettivo: il “rinnovamento democratico” dello Stato spagnolo. Esso rivendica una riforma della legge elettorale per porre fine al bipartitismo PSOE/Partito Popolare reclamando una “vera democrazia” dopo 34 anni di “democrazia imperfetta” seguita al regime di Franco.

Ma il movimento degli “Indignati” si è esteso ben al di là della mera piattaforma rivendicativa, democratica e riformista, del collettivo Democracia Ya Real! Non si è limitato alla sola rivolta della giovane “generazione perduta dei 600 euro”. Nelle manifestazioni e nelle piazze occupate a Madrid, Barcellona, Valencia, Malaga, Siviglia etc., sui cartelloni e striscioni, si leggevano slogan come “Democrazia senza capitale”, “PSOE e PP, la stessa merda”, “Costruiamo un futuro senza capitalismo!”, “Se non ci fate sognare, noi non vi lasceremo dormire”, “Tutto il potere alle Assemblee”, “Il problema non è la democrazia, il problema è il capitalismo!”, “Senza lavoro, senza casa, senza paura”, “Operai, svegliatevi!”, “600 euro al mese, ecco dov’è la violenza!”.

A Valencia, delle donne gridavano, “hanno imbrogliato i nonni, anche i figli sono stati imbrogliati, “Hanno ingannato i nonni, hanno ingannato i figli, nipoti non lasciatevi ingannare!”.

Le assemblee di massa, una “arma carica di futuro”

Di fronte alla democrazia borghese che riduce la “partecipazione” al fatto di “scegliere” ogni quattro anni il politico che non manterrà mai le sue promesse elettorali e che metterà in atto i piani di austerità richiesti dall’aggravamento inesorabile della crisi economica, il movimento degli “Indignati” in Spagna si è riappropriato spontaneamente di un’arma di lotta della classe operaia: le Assemblee Generali aperte. Dappertutto sono sorte assemblee di massa cittadine, coinvolgendo decine di migliaia di persone di tutte le generazioni provenienti da settori non sfruttatori della società. In queste assemblee ognuno può parlare, esprimere la rabbia, lanciare dibattiti su differenti temi, fare delle proposte. In questa atmosfera di effervescenza generale la parola si libera, tutti gli aspetti della vita sociale vengono presi in esame (politici, culturali, economici, ...). Le piazze sono inondate da una gigantesca ondata collettiva di idee discusse in un clima di solidarietà e di rispetto reciproco. In alcune città vengono installate “scatole per i suggerimenti”, urne in cui chiunque può deporre idee scritte su un pezzo di carta. Il movimento si organizza con grande intelligenza. Si costituiscono delle commissioni, in particolare per evitare sconfinamenti e scontri con le forze dell’ordine: la violenza è vietata, viene bandito l’alcol con lo slogan “La revolución no es botellón” (“La rivoluzione non è un bottiglione”). Ogni giorno vengono organizzate squadre di pulizia. Delle mense pubbliche servono i pasti, con dei volontari si organizzano asili per i bambini e un pronto soccorso. Sono a disposizione delle biblioteche e una “banca del tempo” (dove vengono organizzati corsi sia scientifici che culturali, artistici, politici, economici). Vengono pianificate delle “giornate di riflessione”. Ognuno apporta le sue conoscenze e le sue competenze.

Apparentemente, questo torrente di pensieri sembra che non porti da nessuna parte. Non ci sono proposte concrete né rivendicazioni realiste o immediatamente realizzabili. Ma ciò che appare chiaramente è, prima di tutto e soprattutto, un’enorme esasperazione per la miseria, i piani di austerità e l’ordine sociale attuale, una volontà collettiva di rompere l’atomizzazione sociale, di raggrupparsi per discutere, riflettere tutti insieme. Nonostante le molte confusioni e illusioni, nei discorsi come sugli striscioni e i cartelli la parola “rivoluzione” è ricomparsa e non fa più paura.

Nelle Assemblee le discussioni hanno messo in luce alcune questioni fondamentali:

- Bisogna limitarsi al “rinnovamento democratico”? I problemi non sono originati dal capitalismo, un sistema che non può essere riformato e deve essere distrutto da cima a fondo?

- Il movimento deve fermarsi al 22 maggio, dopo le elezioni, o bisogna continuarlo per lottare in massa contro gli attacchi alle condizioni di vita, alla disoccupazione, alla precarietà, agli sfratti?

- Non dovremmo estendere le assemblee nei posti di lavoro, nei quartieri, negli uffici di collocamento, nelle scuole, nelle università? Dovremmo estendere il movimento tra i lavoratori che sono gli unici ad avere la forza di condurre una lotta generalizzata?

In questi dibattiti sono emerse in modo molto chiaro due tendenze:

- una, conservatrice, animata da strati non proletari che diffondono l’illusione che sia possibile riformare il sistema capitalista attraverso una “rivoluzione democratica e popolare”;

- l’altra, proletaria, che evidenzia la necessità di porre fine al capitalismo.

Le assemblee tenutesi domenica 22 maggio, giorno delle elezioni, hanno deciso di proseguire il movimento. In molti interventi è stato detto: “Non siamo qui per le elezioni, anche se queste hanno fatto da detonatore”. La tendenza proletaria si è chiaramente affermata con la proposta di “andare verso la classe operaia”, avanzando rivendicazioni contro la disoccupazione, la precarietà, gli attacchi allo stato sociale. Alla Puerta del Sol, si è deciso di organizzare “assemblee popolari” nei quartieri. Si sono iniziate a sentire proposte di estensione ai luoghi di lavoro, alle università e uffici di collocamento. A Malaga, Barcellona e Valencia, le assemblee hanno posto la questione di organizzare una protesta contro i tagli salariali, proponendo un nuovo sciopero generale che, come ha sostenuto un partecipante, sia “veramente” tale.

È soprattutto a Barcellona, capitale industriale del paese, che l’Assemblea centrale di Plaza de Catalunya, appare come la più radicale, la più animata dalla tendenza proletaria e la più distante dall’illusione del “rinnovamento democratico”. Infatti, lavoratori di Telefonica, ospedalieri, vigili del fuoco, studenti mobilitati contro i tagli sociali, hanno raggiunto le assemblee di Barcellona e hanno cominciato a infondervi un tono diverso. Il 25 maggio, l’Assemblea di Plaza de Catalunya decide di sostenere attivamente lo sciopero dei lavoratori ospedalieri, mentre l’Assemblea di Puerta del Sol a Madrid decide di decentrare il movimento convocando “assemblee popolari” nei quartieri per attuare una “democrazia partecipativa orizzontale”. A Valencia le manifestazioni degli autisti di bus si sono unite ad una manifestazione dei residenti contro i tagli di bilancio nel settore dell’istruzione. A Saragozza, gli autisti di autobus hanno partecipato agli assembramenti con lo stesso entusiasmo.

A Barcellona gli Indignati” decidono di mantenere il loro accampamento e continuare ad occupare Plaza de Catalunya fino al 15 giugno.

Il futuro è nelle mani delle nuove generazioni della classe operaia

Qualunque sia la direzione che prenderà il movimento, a prescindere dal suo esito, è evidente che questa rivolta iniziata dalle giovani generazioni con il problema della disoccupazione (in Spagna, il 45% della popolazione tra 20 e 25 anni è disoccupata), si ricollega pienamente alla lotta della classe operaia. Il suo contributo alla lotta internazionale della classe operaia è indiscutibile.

Si tratta di un diffuso movimento che ha coinvolto tutti i soggetti sociali non sfruttatori, tra cui tutte le generazioni della classe operaia. Anche se questa si è mescolata all’ondata di rabbia “popolare” e non si è affermata in modo autonomo attraverso scioperi e manifestazioni di massa, avanzando proprie rivendicazioni economiche immediate. Questo movimento esprime in realtà una profonda maturazione della coscienza all’interno della sola classe che può cambiare il mondo rovesciando il capitalismo: la classe operaia.

Questo movimento mostra chiaramente che, di fronte al fallimento del capitalismo sempre più evidente, grandi masse iniziano a sollevarsi nei paesi “democratici” dell’Europa occidentale, spianando la strada alla politicizzazione della lotta del proletariato.

Ma soprattutto, questo movimento ha rivelato che i giovani, per lo più lavoratori disoccupati e precari, sono stati in grado di appropriarsi delle armi di lotta della classe operaia: le assemblee generali di massa e aperte, che hanno permesso loro di sviluppare la solidarietà e di prendere nelle proprie mani il movimento al di fuori dei partiti politici e dei sindacati.

Lo slogan “Tutto il potere alle assemblee!” sorto nel movimento, anche se ancora minoritario, non è che un remake del vecchio slogan della rivoluzione russa “Tutto il potere ai consigli operai!” (i soviet).

Anche se oggi la parola “comunismo” fa ancora paura (a causa del peso della campagna scatenata dalla borghesia in seguito al crollo del blocco dell’Est e dei regimi stalinisti), il termine “rivoluzione” non ha spaventato nessuno, anzi.

Questo movimento non è affatto una “Spanish Revolution”, come la presenta il collettivo Democracia Real Ya! La disoccupazione, la precarietà, l’alto costo della vita e il continuo deterioramento delle condizioni di vita delle masse sfruttate, non sono una specificità spagnola! Il volto sinistro della disoccupazione, in particolare la disoccupazione giovanile, lo si vede sia a Madrid che al Cairo, a Londra e a Parigi, ad Atene e a Buenos Aires. Siamo tutti uniti nella caduta nel baratro della decomposizione della società capitalistica. L’abisso non è solo quello della povertà e della disoccupazione, ma anche quello della proliferazione dei disastri nucleari, delle guerre e di una frammentazione delle relazioni sociali accompagnate da una barbarie morale (come evidenziato, tra l’altro, dall’aumento delle aggressioni sessuali e delle violenze contro le donne nei paesi “civilizzati”).

Il movimento degli “Indignati" non è una “rivoluzione”. E’ una nuova tappa nello sviluppo delle lotte sociali e degli scontri della classe operaia di tutto il mondo, i soli che possano aprire una prospettiva per il futuro dei giovani “senza futuro”, così come per tutta l’umanità.

Questo movimento (nonostante tutte le sue confusioni e illusioni sulla “Repubblica indipendente di Puerta del Sol”), rivela che nelle viscere della società borghese è in gestazione la prospettiva di un’altra società. Il “terremoto spagnolo” rivela che le nuove generazioni della classe operaia, che non hanno nulla da perdere, sono già protagoniste della storia. Stanno scavando un tunnel per altri terremoti sociali che finiranno per aprire la strada verso l’emancipazione dell’umanità. Attraverso l’uso di social network su Internet, telefonini e moderni mezzi di comunicazione, queste giovani generazioni hanno dimostrato la loro capacità di rompere il black-out della borghesia e dei suoi media per iniziare a sviluppare la solidarietà al di là delle frontiere.

Questa nuova generazione della classe operaia è emersa sulla scena internazionale sociale a partire dal 2003, prima contro l’intervento militare in Iraq dell’amministrazione Bush (in molti paesi, giovani manifestanti protestavano contro la “busheria” – macelleria di Bush), poi con le prime manifestazioni in Francia contro la riforma delle pensioni. E’ emersa ancora nella primavera del 2006, sempre in Francia, con il massiccio movimento di liceali e universitari contro il CPE. In Grecia, Italia, Portogallo, Gran Bretagna, i giovani hanno fatto sentire la loro voce di fronte all’unica prospettiva che il capitalismo è in grado di offrire: assoluta povertà e disoccupazione.

La grande ondata di questa nuova generazione “senza futuro” ha colpito recentemente la Tunisia e l’Egitto, portando ad una gigantesca rivolta sociale che ha provocato la caduta di Ben Ali e Mubarak. Ma non dobbiamo dimenticare che il fattore decisivo che ha costretto la borghesia dei grandi paesi “democratici” (e in particolare Barack Obama) a far dimettere Ben Ali e Mubarak, sono stati gli scioperi operai e la minaccia di uno sciopero generale contro la cruenta repressione dei manifestanti.

Da allora piazza Tahrir è diventata un emblema, un incoraggiamento alla lotta per le giovani generazioni della classe operaia in molti paesi. Seguendo questo modello gli “Indignati” in Spagna hanno stabilito il loro accampamento a Puerta del Sol, hanno occupato le piazze in più di 70 città e aggregato nelle assemblee tutte le generazioni e tutti i ceti sociali non sfruttatori (a Barcellona, gli “Indignati" hanno addirittura ribattezzato la Plaza Catalunya in Plaza Tahrir).

Il movimento degli “Indignati” è in realtà molto più profondo della rivolta spettacolare che si è cristallizzata al Cairo in piazza Tahrir.

Questo movimento è esploso nelle città principali della penisola iberica e costituisce il ponte tra due continenti. Il fatto che esso abbia luogo in uno Stato “democratico” dell’Europa occidentale (e, in più, diretto da un governo “socialista”!) contribuirà, alla fine, a spazzare le mistificazioni democratiche sparse dai media dopo la “Rivoluzione dei gelsomini” in Tunisia.

Inoltre, anche se Democracia Real Ya! qualifica questo movimento come “Rivoluzione spagnola”, nessuna bandiera spagnola è stata sbandierata, mentre piazza Tahrir era inondata di bandiere nazionali[1].

Nonostante le delusioni e le confusioni che inevitabilmente costellano questo movimento iniziato dai giovani “Indignati”, esso costituisce un anello molto importante nella catena delle lotte sociali che esplodono oggi. Con l’aggravarsi della crisi mondiale del capitalismo, le lotte sociali non possono che continuare a convergere con la lotta di classe del proletariato e contribuire al suo sviluppo.

Il coraggio, la determinazione e il forte senso di solidarietà della nuova generazione “senza futuro” ci mostra che un altro mondo è possibile: il comunismo, vale a dire l’unificazione della comunità umana globale. Ma affinché questo “vecchio sogno” dell’umanità possa diventare realtà, è necessario in primo luogo che la classe operaia, che produce la maggior parte della ricchezza della società, ritrovi la sua identità di classe sviluppando massicciamente le sue lotte in tutti i paesi contro lo sfruttamento e contro tutti gli attacchi del capitalismo.

Il movimento degli “Indignati” ha cominciato a porre di nuovo la questione della “rivoluzione”. È compito del proletariato mondiale risolverla e darle una direzione di classe negli scontri futuri per rovesciare il capitalismo. Solo sulle rovine di questo sistema di sfruttamento, basato sulla produzione di merci e il profitto, le nuove generazioni potranno costruire un’altra società, rendere alla specie umana la sua dignità e realizzare una vera e propria “democrazia” universale.

Sofiane, 27 maggio 2011

(Da ICConline 2011, pagina in francese)



[1] Al contrario si sono sentiti slogan che chiamavano ad una “rivoluzione globale” ed alla “estensione” del movimento oltre i confini nazionali. In tutte le Assemblee è stata creata una “commissione internazionale”. Il movimento degli “Indignati” si è diffuso in tutte le principali città in Europa e del continente americano (anche a Tokyo, Phnom Penh e Hanoi, gruppi di giovani espatriati spagnoli sventolavano la bandiera di Real Democracia Ya!).

Geografiche: 

  • Spagna [27]

Patrimonio della Sinistra Comunista: 

  • Lotta proletaria [5]

Elezioni e Referendum: passata l’orgia elettorale i lavoratori dovranno fare i conti con i problemi di sempre

Con i referendum del 12 e 13 giugno si conclude quest’altra orgia della “democrazia” su cui è stata accentrata l’attenzione degli italiani negli ultimi mesi. Ora tutti a discutere su chi ha vinto e chi ha perso. Ma cambia davvero qualcosa per le condizioni di vita dei lavoratori se a vincere è stata una parte invece dell’altra? Noi pensiamo di no, e cercheremo ancora una volta di argomentarlo, anche se analizzare il risultato delle elezioni è comunque utile per capire cosa sta accadendo all’interno della borghesia italiana.

Il primo dato importante è quello sull’affluenza: alle provinciali ha votato il 59,62% degli aventi di­ritto, contro un 60,88% delle precedenti elezioni, e un 71,04% alle comunali, contro il 72,85% delle precedenti elezioni; si registra quindi un calo dell’affluenza alle amministrative 2011, sia per le co­munali sia per le provinciali. In altri termini il primo partito in Italia è quello degli astenuti, segno che la farsa elettorale convince via via sempre di meno. La vittoria tra i contendenti è andata al cen­trosinistra che ha conquistato 29 tra comuni e province contro i 12 andati al centrodestra, con alcuni comuni strappati dal primo al secondo (tra cui importantissimo quello di Milano). Anche in termini di voti raggiunti il partito di Berlusconi e la Lega perdono consensi, mentre a sinistra il PD perde, rispetto alle precedenti amministrative, mentre ottengono buoni risultati gli altri partiti della coali­zione[1]. Il risultato del PD ci porta a dire che il vero significato del risultato è che non è stato il centrosinistra a vincere, quanto il centrodestra a perdere. Per dirlo in altri termini, in una situazione in cui la gente perde fiducia verso questo strumento, prevale chi perde meno consensi, o chi ha dalla sua parte candidati che hanno le sembianze di qualcosa di nuovo rispetto alla solita solfa, ai soliti visi. E’ indubbio infatti che laddove la vittoria del centrosinistra è stata più significativa, Milano e Napoli[2], questa vittoria non ci sarebbe stata se i candidati non fossero stati un Pisapia e un De Magistris, entrambi non espressione del PD, e candidati capaci di conquistare un consenso persona­le che va ben al di là dei partiti di cui sono espressione.

Nei fatti a perdere veramente è stato Berlusconi, che aveva lui stesso politicizzato queste elezioni locali e ne aveva quasi fatto un referendum sulla sua persona (a Milano era capolista alle comunali e ha visto dimezzare i suoi voti di preferenza)[3]. E quindi il vero dato politico da analizzare è proprio questo.

Berlusconi non è mai stato molto simpatico alla borghesia italiana, per certi lati del suo carattere (lui veramente si crede Napoleone) e perché espressione di una frazione della borghesia che non ama giocare con le carte pulite (massoneria e centri del malaffare), ed infatti ci sono imprenditori che non hanno nascosto le loro antipatie (Diego Della Valle, padrone della Tod’s, da sempre, e Luca di Montezemolo, presidente della Ferrari, in maniera chiara di recente). Tuttavia Berlusconi ha costituito una vera ancora di salvezza per la borghesia in un momento di massima difficoltà per que­sta a far funzionare la mistificazione democratica, quando sono spariti, sotto i colpi del pool Mani Pulite i principali partiti del centrodestra o comunque al governo da decenni, Democrazia Cristiana, Partito Liberale e Partito Socialista.

La sparizione di DC e PSI dalla scena politica ha reso vacante il lato destro dell’apparato politico borghese, con la conseguente difficoltà a mantenere il fulcro centrale della mistificazione elettorale, che è la possibilità dell’alternanza destra-sinistra. E’ questo vuoto che Berlusconi ha colmato, met­tendo a disposizione della borghesia il suo apparato aziendale e le sue indubbie capacità di vendito­re abile a piazzare le sue merci.

Per diversi anni Berlusconi ha dimostrato di poter rappresentare gli interessi della borghesia, alter­nandosi, laddove era necessario, con la sinistra al governo. Ma negli ultimi anni, ed in particolare da quando la crisi ha subito la brusca accelerazione del 2007-2008, l’azione del governo è stata molto al disotto di quanto la borghesia italiana necessitava per difendere i propri interessi sull’arena inter­nazionale. E questo da diversi punti di vista: economico, politico (imperialista), ed anche di imma­gine.

Dal punto di vista economico, il capitale italiano ha perso molte posizioni in termini di competitivi­tà con gli altri paesi occidentali (ed oggi anche nei confronti della Cina); la “crescita” del Prodotto Interno Lordo è da un decennio almeno più lenta di quella dei suoi concorrenti, e questo a dispetto di un debito pubblico che è il più alto d’Europa e di un deficit che è inferiore solo a quello dei paesi che stanno sull’orlo del fallimento (come Grecia e Spagna, per esempio). In altri termini, se la crisi economica ha toccato tutta l’economia capitalista, nel tentativo di restare a galla l’Italia è uno dei paesi che ci riesce con maggiori difficoltà.

Dal punto di vista della difesa dei propri interessi imperialisti Berlusconi pure dimostra delle debo­lezze, non certo perché non persegue una politica imperialista (vedi avventure guerriere in Iraq o in Afganistan), ma perché lo fa con una grande incoerenza e, a volte, mettendo davanti agli interessi generali i suoi personali: vedi la politica verso la Russia di Putin, troppo di apertura rispetto agli in­teressi delle altre potenze occidentali, o la sua amicizia verso Gheddafi che lo hanno portato ad esi­tare molto prima di intervenire in Libia a difesa degli interessi imperialisti italiani, e solo quando la Francia e la Gran Bretagna avevano già preso l’iniziativa.

Dal punto di vista dell’immagine, Berlusconi come premier non fa che rendere ridicola l’Italia agli occhi sia della popolazione interna che, soprattutto, internazionale: un premier che dice di aver cre­duto che Ruby fosse la nipote di Mubarak, che fa le corna nelle foto ufficiali dei grandi vertici inter­nazionali, che gioca a nascondino con la cancelliera tedesca Merkel, non è certo qualcuno a cui gli altri leader possono rivolgersi per un confronto sui grandi temi, per concertare accordi seri, per ve­dere quali alleanze creare nei conflitti internazionali, e così via… Ma soprattutto con le sue vicende personali di malcostume, corruzione e malaffare, Berlusconi discredita lo Stato ed il suo apparato agli occhi dei lavoratori.

Perciò Berlusconi è diventato un peso di cui liberarsi, e questo già da un po’ di tempo. Come abbiamo più volte analizzato, quello che ha fatto esitare la borghesia finora è stata la mancanza di un’alternativa credibile: il principale partito di opposizione, il PD è bravissimo a dividersi, spesso proprio in vista di scadenze importanti[4]4; il progetto di grande centro di Casini si è dimostrato ben poca cosa, anche a queste elezioni. Insomma ce n’è di che dubitare di riuscire a sostituire Berlusconi con un governo credibile e capace di durare (non dimentichiamoci che il precedente governo di centrosinistra, quello di Prodi del 2006, è caduto dopo due anni per la fragilità della coalizione che lo costituiva). Intanto la situazione, soprattutto quella economica, richiede un cambiamento di rotta, per cui il risultato delle elezioni amministrative va letto come un vero e proprio ultimatum a Berlusconi: o cambi rotta o te ne vai, con le buone o con le cattive. Il fatto che in questi giorni Berlusconi insista tanto con Tremonti per fare la riforma fiscale, sta a significare che ha capito il messaggio, anche se è difficile dire come andrà a finire nell’immediato futuro.

Come andrà a finire nelle vicende dell’apparato politico borghese non si può ancora dire, mentre possiamo stare sicuri che per i lavoratori che resti Berlusconi o che venga sostituito da un altro, non ci possono essere che ulteriori sacrifici. Quegli stessi sacrifici che i governi di destra, come in Gran Bretagna e Francia, o di sinistra, come in Spagna e Grecia stanno imponendo da più di un paio di anni, senza che i relativi paesi escano fuori dalla crisi o addirittura dalla minaccia di bancarotta.

Ma, potrebbe dire qualcuno, almeno i referendum ci hanno portato qualcosa di buono, “hanno vinto gli interessi della gente”. Davvero? Anche ammettendo che ci fossero settori seri ed importanti della borghesia italiana a volerlo e che fosse possibile farlo, cosa impedirà di fare una nuova legge che lo consenta? Nel 1984 non c’era stato un altro referendum contro il nucleare e a suo dispetto Berlusconi non aveva fatto un’altra legge per renderlo possibile? Lo stesso potremmo tranquillamente dire per gli altri referendum: questo strumento è solo abrogativo di leggi esistenti, ma non impedisce che vengano varate altre leggi in sostituzione di quelle abrogate.

In realtà i referendum un risultato lo hanno ottenuto, ed è quello di controbilanciare la sfiducia cre­scente dei lavoratori verso lo strumento elettorale, riuscendo addirittura a creare entusiasmo per il suo risultato, che è stato letto non solo come la vittoria sulle questioni sottoposte a referendum, ma anche come un avviso di sfratto per Berlusconi. In questo senso, se una vittoria politica c’è stata, è stata quella della mistificazione democratica, che costituisce l’antitesi della necessaria mobilitazione di piazza dei lavoratori per difendere i propri interessi materiali, come hanno fatto i lavoratori della Fincantieri negli stessi giorni della campagna elettorale. Una vittoria politica certo momentanea, perché passata l’ubriacatura elettorale i lavoratori torneranno a dover fare i conti con i licenziamenti, la cassa integrazione, i contratti schiavistici e la precarietà crescente e questo non po­tranno contrastarlo se non con la loro lotta di massa, come stanno facendo i loro fratelli di classe in Spagna o in Grecia in questi stessi giorni.

Elios, 13/06/2011



[1] O autonomi rispetto a questa, come i seguaci di Grillo. Questo risultato conferma il discredito dell’apparato politico ufficiale che si sviluppa fra la popolazione, e il cui primo risultato è l’aumento dell’astensione.

[2] Più significativa perché a Milano erano decenni che il centrosinistra non vinceva, e a Napoli, perché i disastri combinati dalla coppia Bassolino-Iervolino davano per scontata la sconfitta del centrosinistra.

[3] Anche la sconfitta della Lega è da attribuire alla sua troppo poco critica alleanza con Berlusconi, che comincia a stancare gli elettori della Lega, come testimoniato dai tanti interventi fatti in questo senso dai seguaci della Lega a Radio Padania.

[4] . Alle ultime elezioni politiche, Berlusconi ha vinto con molto meno del 50% di voti, ma il PD aveva scelto di andare al voto da solo per cui era chiaro che non avrebbe vinto. Alle comunali di Napoli (dove già sarebbe stato difficilissimo vincere) ha dato lo squallido spettacolo di primarie truccate!

Geografiche: 

  • Italia [9]

Situazione italiana: 

  • politica della borghesia in Italia [32]

19° Congresso della CCI: la crisi economica mostra il fallimento del capitalismo

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Pubblichiamo qui di seguito la prima parte della risoluzione sulla situazione internazionale adottata dalla CCI in occasione del suo 19° Congresso che si è tenuto nel mese di maggio scorso. Questa prima parte è consacrata all’analisi della situazione economica attuale. L’intera risoluzione sarà invece pubblicata prossimamente sul sito web.

1. La risoluzione adottata dal precedente congresso della CCI metteva subito in evidenza la pungente smentita inflitta dalla realtà alle previsioni ottimiste dei dirigenti della classe borghese all’inizio dell’ultimo decennio del secolo scorso, particolarmente dopo il crollo di questo “Impero del male” che costituiva il blocco imperialista detto “socialista”. Essa citava in particolare l’ormai famosa dichiarazione del presidente George Bush senior del marzo 1991 che annunciava la nascita di un “Nuovo ordine mondiale” basato sul “rispetto del diritto internazionale” e sottolineava il suo carattere surrealista di fronte al caos crescente in cui sprofonda oggi la società capitalista. Venti anni dopo questi discorsi “profetici”, e particolarmente dopo l’inizio di questo nuovo decennio, mai, dalla fine della seconda guerra mondiale, il mondo aveva mostrato un volto così caotico. A poche settimane di distanza abbiamo assistito ad una nuova guerra in Libia, che viene ad aggiungersi alla lista di tutti i conflitti sanguinosi che hanno toccato il pianeta nel corso dell’ultimo periodo, a dei nuovi massacri in Costa d’Avorio ed ancora alla tragedia che ha toccato uno dei paesi più potenti e moderni del mondo, il Giappone. Il terremoto che ha devastato una parte di questo paese ha sottolineato ancora una volta che non esistono “catastrofi naturali” ma solo delle conseguenze catastrofiche a dei fenomeni naturali. Ha mostrato che la società dispone oggi dei mezzi necessari per costruire edifici capaci di resistere ai terremoti e che permetterebbero di evitare tragedie come quelle di Haiti l’anno scorso. Ma ha anche mostrato tutta l’imprevidenza di cui ha dato prova uno Stato pur così avanzato come il Giappone: il terremoto in sé ha provocato ben poche vittime ma lo tsunami che l’ha seguito ha falciato circa 30 000 esseri umani in pochi minuti. Ma non basta: provocando una nuova Chernobyl, ha messo in luce non solo l’imprevidenza della classe dominante, ma anche il suo incedere da apprendista stregone, incapace di controllare le forze che essa stessa ha messo in movimento. L’impresa Tepco, che sfruttava l’energia della centrale atomica di Fukushima, non è la prima né tanto meno l’unica responsabile della catastrofe. E’ il sistema capitalista nel suo insieme, basato com’è sulla ricerca sfrenata del profitto e sulla competizione tra settori nazionali e non sulla soddisfazione dei bisogni dell’umanità, che è fondamentalmente responsabile delle catastrofi presenti e future subite dalla specie umana. In fin dei conti, la Chernobyl giapponese costituisce una nuova illustrazione del fallimento ultimo del modo di produzione capitalista, un sistema la cui sopravvivenza costituisce una minaccia crescente per la stessa sopravvivenza dell’umanità.

2. Evidentemente è la crisi che subisce attualmente il capitalismo mondiale che esprime più direttamente il fallimento storico di questo modo di produzione. Due anni fa la borghesia di tutti i paesi era presa da un timor panico di fronte alla gravità della situazione economica. L’OCSE non esitava a scrivere: “L’economia mondiale é in preda alla sua recessione più profonda e più sincronizzata degli ultimi decenni” (Rapporto intermedio del marzo 2009). Tenendo conto di tutta la moderazione con cui questa venerabile istituzione si esprime abitualmente, ci si può fare un’idea del terrore che avvertiva la classe dominante di fronte al fallimento potenziale del sistema finanziario internazionale, il crollo brutale del commercio mondiale (più del 13% nel 2009), la brutalità della recessione delle principali economie, l’ondata dei fallimenti che toccano o minacciano imprese emblematiche dell’industria come la General Motors o la Chrysler. Questo terrore della borghesia l’aveva condotta a convocare i vertici del G20 di cui quello del marzo 2009 a Londra decideva in particolare il raddoppio delle riserve del Fondo monetario internazionale e l’iniezione massiccia di liquidità nell’economia da parte degli Stati allo scopo di salvare un sistema bancario in difficoltà e rilanciare la produzione. Lo spettro della “Grande depressione degli anni ‘30” ossessionava gli spiriti cosa che conduceva la stessa OCSE a scongiurare tali demoni scrivendo: “Benché talvolta questa severa recessione mondiale sia stata qualificata come una ‘grande recessione’, siamo lontani da una nuova ‘grande depressione’ come quella degli anni ‘30, grazie alla qualità e all’intensità delle misure che i governi prendono attualmente” (Ibid.). Ma, come riportato nella risoluzione del 18° congresso[1], “una delle caratteristiche della classe dominante è di dimenticare oggi i discorsi fatti ieri” e lo stesso rapporto intermedio dell’OCSE della primavera 2011 esprime un vero sollievo di fronte al ripristino della situazione del sistema bancario e alla ripresa economica. La classe dominante non può fare altrimenti. Incapace di avere una visione lucida, globale e storica, sulle difficoltà che incontra il suo sistema perché tale visione la porterebbe a scoprire l’impasse definitiva in cui questo si trova, essa è costretta a commentare giorno per giorno le fluttuazioni della situazione immediata cercando di trovare in queste dei motivi di consolazione. Così facendo, essa viene spinta a sottovalutare la situazione anche se, di tanto in tanto, i mass-media adottano un tono allarmista a proposito del significato del principale fenomeno che è emerso negli ultimi due anni: la crisi del debito sovrano di un certo numero di Stati europei. Di fatto, il fallimento potenziale di un numero crescente di Stati costituisce una nuova tappa dell’inabissamento del capitalismo nella sua crisi insanabile. Essa mette in evidenza i limiti delle politiche con cui la borghesia é riuscita a frenare l’evoluzione della crisi capitalista degli ultimi decenni.

3. Sono ormai più di 40 anni che il sistema capitalista fa fronte alla crisi. Il Maggio 68 in Francia e l’insieme delle lotte proletarie che l’hanno seguito a livello internazionale hanno avuto una tale portata perché erano alimentati da un peggioramento globale delle condizioni di vita della classe operaia, peggioramento conseguente ai primi sintomi della crisi capitalista, tra cui l’aumento della disoccupazione. Questa crisi ha poi conosciuto una brutale accelerazione nel 1973-75 con la prima grande recessione internazionale del dopoguerra. In seguito, nuove recessioni ogni volta più profonde ed estese hanno sconvolto l’economia mondiale fino a culminare in quella del 2008-2009 che ha riportato alla mente lo spettro degli anni ’30. Le misure adottate dal G20 del marzo 2009 per evitare una nuova “Grande Depressione” sono significative della politica condotta da diversi decenni dalla classe dominante: esse si riassumono nell’iniezione nelle economie di masse considerevoli di crediti. Tali misure non sono nuove. Di fatto, da oltre 35 anni, queste costituiscono il cuore delle politiche condotte dalla classe dominante per cercare di scappare alla principale contraddizione del modo di produzione capitalista: l’incapacità a trovare dei mercati solvibili capaci di assorbire la sua produzione. La recessione del 1973-75 era stata superata attraverso massicci crediti ai paesi del Terzo Mondo ma, dall’inizio degli anni ‘80, con la crisi del debito di questi paesi, la borghesia dei paesi più avanzati aveva dovuto rinunciare a questo polmone per la sua economia. Sono quindi gli Stati dei paesi più avanzati, e primo fra tutti gli Stati Uniti, che hanno preso il posto di “locomotive” dell’economia mondiale. La “reaganomics” (politica neoliberale dell’Amministrazione Reagan) dell’inizio degli anni 80, che aveva permesso un rilancio significativo dell’economia di questo paese, era basata sulla creazione di deficit budgetari inediti e considerevoli nello stesso momento in cui Ronald Reagan dichiarava che “lo Stato non è la soluzione ma il problema”. Contemporaneamente, i deficit commerciali anch’essi considerevoli di questa potenza permettevano alle merci prodotte dagli altri paesi di trovare uno sbocco. Nel corso degli anni ‘90, le “tigri” e i “dragoni” asiatici (Singapore, Taiwan, Corea del Sud, ecc.) hanno accompagnato per un certo tempo gli Stati Uniti in questo ruolo di “locomotiva”: i loro spettacolari tassi di crescita ne facevano una destinazione importante per le merci dei paesi più industrializzati. Ma questa “storia di successo” è stata costruita a prezzo di un indebitamento considerevole che ha condotto questo paese a delle convulsioni importanti nel 1997 così come la Russia “nuova” e “democratica” che si è ritrovata insolvente, cosa che ha amaramente deluso quelli che avevano puntato sulla “fine del comunismo” per rilanciare in maniera durevole l’economia mondiale. All’inizio degli anni 2000 l’indebitamento ha conosciuto una nuova accelerazione, particolarmente grazie all’enorme sviluppo dei mutui ipotecari per la costruzione in diversi paesi, in particolare negli Stati Uniti. Quest’ultimo paese ha allora accentuato il suo ruolo di “locomotiva dell’economia mondiale”, ma al prezzo di una crescita abissale dei debiti, – particolarmente tra la popolazione americana – debiti basati su ogni sorta di “prodotti finanziari” ritenuti capaci di scongiurare il rischio di cessazione dei pagamenti. In realtà, la dispersione dei crediti sospetti non ha assolutamente abolito il loro carattere di spada di Damocle sospesa sull’economia americana e mondiale. Al contrario essa ha fatto accumulare nel capitale delle banche gli “attivi tossici” che sono stati all’origine del loro crollo a partire dal 2007 e della brutale recessione mondiale del 2008-2009.

4. Come riportato nella risoluzione adottata al precedente congresso, “non è la crisi finanziaria che è all’origine della recessione attuale. Al contrario, la crisi finanziaria non fa che illustrare il fatto che la fuga in avanti nell’indebitamento - che aveva permesso di superare i problemi della sovrapproduzione - non può proseguire all’infinito. Prima o poi, l’“economia reale” si vendica, perché quello che è alla base delle contraddizioni del capitalismo, la sovrapproduzione, l’incapacità dei mercati ad assorbire la totalità delle merci prodotte, torna in primo piano.” Dopo il vertice del G20 del marzo 2009 questa stessa risoluzione precisava che “la fuga in avanti nell’indebitamento è uno degli ingredienti della brutalità della recessione attuale. La sola “soluzione” che sia capace di mettere in piedi la borghesia è … una nuova fuga in avanti nell’indebitamento. Il G20 non ha potuto inventare una soluzione alla crisi per la semplice ragione che non ne esistono.”.

La crisi dei debiti sovrani che si propaga oggi, il fatto che gli Stati siano incapaci di onorare i loro debiti, costituisce un’illustrazione spettacolare di questa realtà. Il potenziale fallimento del sistema bancario e la recessione hanno obbligato tutti gli Stati a iniettare delle somme considerevoli nelle loro economie mentre le vendite erano in caduta libera per la riduzione della produzione. Per questo motivo i deficit pubblici hanno conosciuto, nella gran parte dei paesi, un aumento considerevole. Per i più esposti tra questi, come l’Irlanda, la Grecia o il Portogallo, ciò ha significato una situazione di potenziale fallimento, l’incapacità di pagare i loro funzionari e di rimborsare i loro debiti. Le banche si rifiutano ormai di consentire nuovi prestiti, se non a dei tassi esorbitanti poiché non hanno più alcuna garanzia di poter essere rimborsate. I “piani di salvataggio” di cui esse hanno beneficiato da parte della Banca europea e del Fondo monetario internazionale costituiscono dei nuovi debiti il cui rimborso si aggiunge a quello dei debiti precedenti. E’ più che un circolo vizioso, è una spirale infernale. La sola “efficacia” di questi piani consiste nell’attacco senza precedenti contro i lavoratori, contro i dipendenti pubblici i cui salari ed il cui numero vengono ridotti in maniera drastica, ma anche contro l’insieme della classe operaia attraverso sia i tagli nei settori dell’educazione, della salute e delle pensioni che l’aumento di tasse ed imposte. Ma tutti questi attacchi antioperai, tagliando selvaggiamente il potere d’acquisto dei lavoratori, non potranno che contribuire ad un’ulteriore nuova recessione.

5. La crisi del debito sovrano dei PIIGS (Portogallo, Islanda, Irlanda, Grecia, Spagna) costituisce solo una parte infima del terremoto che minaccia l’economia mondiale. Non è certo perché beneficiano ancora per il momento del rating[2] AAA[3] come indice di fiducia delle agenzie di rating (le stesse agenzie che, fino alla vigilia dello scompiglio delle banche del 2008, avevano accordato loro il rating massimo) che le grandi potenze industriali se la cavano molto meglio. Alla fine di aprile 2011, l’agenzia Standard and Poor’s emetteva un’opinione negativa di fronte alla prospettiva di un Quantitative Easing n°3, cioè di un terzo piano di rilancio dello Stato federale americano destinato a sostenere l’economia. In altri termini, la prima potenza mondiale corre il rischio di vedersi ritirata la fiducia “ufficiale” sulla sua capacità di rimborsare i suoi debiti, se non con un dollaro fortemente svalutato. Di fatto, in maniera ufficiosa, questa fiducia comincia a mancare con la decisione della Cina e del Giappone, dopo l’autunno scorso, di effettuare massicci acquisti di oro e di materie prime piuttosto che dei buoni del Tesoro americani, cosa che ha condotto la Banca federale americana a comprarne per il 70-90% alla loro emissione. Questa perdita di fiducia si giustifica perfettamente quando si constati l’incredibile livello di indebitamento dell’economia americana: nel gennaio 2010, l’indebitamento pubblico (Stato federale, singoli Stati federati, comuni, ecc.) rappresentava già all’incirca il 100% del PIL, ma questo costituiva solo una parte dell’indebitamento totale del paese (che comprende anche i debiti delle famiglie e delle imprese non finanziarie) che raggiungeva il 300% del PIL. E la situazione non era migliore per gli altri grandi paesi dove il debito totale ammontava nello stesso periodo al 280% del PIL per la Germania, 320% per la Francia, 470% per la Gran Bretagna ed il Giappone. In questi ultimi paesi, il debito pubblico ha da solo raggiunto il 200% del PIL. Successivamente, per tutti i paesi, la situazione é solo peggiorata nonostante i diversi piani di rilancio.

Pertanto il fallimento dei PIIGS costituisce solo la punta di un iceberg che nasconde il fallimento di un’economia mondiale che deve la sua sopravvivenza ormai da decenni alla disperata fuga in avanti nell’indebitamento. Gli Stati che dispongono della propria moneta come la Gran Bretagna, il Giappone e naturalmente gli USA hanno potuto mascherare questo fallimento stampando banconote a tutta forza (al contrario di quelli della zona Euro, come la Grecia, l’Irlanda o il Portogallo, che non dispongono di questa possibilità). Ma questa frode permanente degli Stati che sono diventati dei veri contraffattori, con a capo della gang lo Stato americano, non potrà proseguire indefinitamente così come non potevano proseguire le manipolazioni del sistema finanziario, come lo ha dimostrato la crisi di questo nel 2008 che non riuscita però a farlo esplodere. Uno dei segni visibili di questa realtà è l’attuale accelerazione dell’inflazione mondiale. Spostandosi dalla sfera delle banche a quella degli Stati, la crisi dell’indebitamento marca l’entrata del modo di produzione capitalista in una nuova fase della sua crisi acuta in cui si aggravano ulteriormente la violenza e l’estensione delle sue convulsioni. Non c’è via di “uscita dal tunnel” per il capitalismo. Questo sistema può solo condurre la società in una crescente barbarie.

CCI (maggio 2011)



[1] XVIII Congresso della CCI. Risoluzione sulla situazione internazionale [150].

[2] Il rating è un metodo utilizzato per classificare sia i titoli obbligazionari, che le imprese (vedi anche modelli di rating IRB [151] secondo Basilea 2 [152]) in base alla loro rischiosità. In questo caso, essi si definiscono rating di merito creditizio (https://it.wikipedia.org/wiki/Rating [153]).

[3] AAA = indice di rating che corrisponde ad una situazione di elevata capacità di ripagare il debito.

Vita della CCI: 

  • Risoluzioni del Congresso [154]

Sviluppo della coscienza e dell' organizzazione proletaria: 

  • Corrente Comunista Internazionale [155]

Questioni teoriche: 

  • Economia [7]

Intervento occidentale in Libia: un nuovo inferno guerriero

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Dallo scatenamento dell’intervento militare in Libia, il 19 marzo, sotto la bandiera sia dell’ONU che della NATO, la situazione non si è affatto calmata. Ma possiamo stare “tranquilli”! L’ultimo vertice del G8 ha riaffermato che i coalizzati, dopo avere invitato il dirigente libico a lasciare il potere perché ha “perso ogni legittimità” ed al di là dei loro dissensi sono “determinati a finire il lavoro”. La stessa Russia si è unita al coro di tutti questi nuovi anti-Gheddafiani per proporsi in prima persona come mediatore con colui che “non considera più come il dirigente della Libia”. In segno del loro appoggio alle “rivoluzioni arabe” e dunque anche verso la popolazione libica, i dirigenti presenti si sono fatti in quattro nel fare pressioni sull’Arabia Saudita perché mettesse mano alla tasca per un dono alle “rivoluzioni arabe” di 45 miliardi di dollari.

Aspettando questo bello slancio di “solidarietà” verso gli insorti anti-Gheddafi riuniti intorno al Consiglio nazionale di transizione libica, i cui rappresentanti passano più tempo nelle ambasciate occidentali che nelle zone di combattimento, bisogna veramente fare uno sforzo notevole per dare credito ad una guerra che giorno dopo giorno si impantana sempre di più. Le forze di Gheddafi, nonostante i 2700 attacchi aerei subiti, continuano a colpire i ribelli sia a Bengasi che a Misurata. Si è ben lontani dal farla finita con questo potere libico recentemente denunciato dalla “comunità internazionale” per la sua crudeltà e quindi dall’avvento di quella democrazia che è servita da pretesto per questa nuova avventura militare imperialista, perché la “guida della rivoluzione verde” sta aggrappata disperatamente al potere. Così, il paese offre uno spettacolo desolante, incapace di soddisfare la speranza o l’entusiasmo che hanno accompagnato, nonostante la durezza degli avvenimenti, i movimenti in Tunisia ed in Egitto. I morti si contano a dozzine ogni giorno, almeno a Misurata (secondo l’OMS), e le carcasse di blindati e di automobili sommariamente armate tappezzano le strade, mentre le città somigliano sempre più ad un gruviera, all’immagine di Beirut negli anni 1970 e 1980. Evidentemente, i nostri “degni” rappresentanti non smetteranno di colpire il governo libico e di esigere che “i responsabili degli attacchi contro i civili vengano processati”, senza omettere di mobilitare preventivamente la Corte penale internazionale su questi “crimini”. Conosciamo i loro grandi discorsi, così come conosciamo la loro menzognera ipocrisia: sono proprio loro i responsabili delle morti, nei due campi, comprese quelle tra le popolazioni civili. E’ così che funzionano le “incursioni aeree”, che non fanno morti solo nel campo dei cattivi, come avviene nei film di serie B. Ricordiamo giusto l’esempio dei pretesi attacchi “mirati” delle due guerre in Iraq e le centinaia di migliaia di morti “collaterali” che ci sono state, o di quella in Afghanistan dove regolarmente interi villaggi sono oggetto di “errori” logistici. La lista delle responsabilità delle grandi potenze - che non toglie nulla a quella dei piccoli Stati - per la morte di “civili” è molto lunga, così come le loro responsabilità nel creare caos.

Così, la riconferma dell’ultimo vertice del G8 di accentuare la pressione militare contro Gheddafi con la decisione di effettuare attacchi con elicotteri francesi e inglesi per essere “più vicini al suolo” è il preludio di un attacco “di terra” a breve. Se l’intervento militare è partito su basi piuttosto confuse ed instabili, con gli Stati Uniti che tergiversavano, e Italia e Russia che si opponevano, oggi l’orientamento sembra chiaro: gettarsi sulla preda. La popolazione libica, che i campioni di ogni tipo di democrazia occidentale sono venuti a “soccorrere” per “salvarla”, subisce oramai lo stesso calvario di quelle sottoposte al giogo di questo o quel dittatore o del terrorismo internazionale. Questo avvenire, questo dopo-Gheddafi annunciato, è quello di uno scontro più o meno larvato tra le differenti cricche tribali libiche, sostenute dalle varie potenze in campo, con la parola d’ordine: ciascuno per sé e tutti contro tutti.

La questione che si pone oggi è sapere se, a breve, toccherà la stessa sorte alla popolazione siriana; una popolazione che ha subito almeno un migliaio di morti dall’inizio delle manifestazioni contro Assad due mesi fa e decine di migliaia di arresti da parte delle forze di repressione del governo di Damasco. Torture, pestaggi, assassini sono la sorte quotidiana dei Siriani, in effetti lo stesso di quanto avvenuto in Libia e che ha all’improvviso “contrariato” i rappresentanti dell’Unione europea. Trasmettendo le loro velleitarie proteste contro questa “repressione sanguinosa” siriana al Consiglio di sicurezza dell’ONU, la Francia, la Germania, la Gran Bretagna ed il Portogallo hanno chiesto di colpire il regime siriano con “sanzioni internazionali” che, per il momento, procurano a quest’ultimo la stessa paura del “lupo cattivo” delle fiabe.

Contrariamente a ciò che è accaduto con la Libia, l’ONU è ben lontano dal raggiungere un accordo e ad una risoluzione per un impegno militare contro la Siria. Anzitutto perché lo Stato siriano possiede, al contrario di Gheddafi, mezzi militari più avanzati ed all’altezza della situazione; inoltre perché la regione è strategicamente ben più importante rispetto al territorio libico. Ed è qui che si può misurare ancora una volta il poco credito che si può accordare alle potenze occidentali nel sostenere le “rivoluzioni democratiche arabe”, delle quali a parole questi bugiardi patentati si riempiono la bocca mentre da anni sostengono il regime della famiglia Al-Assad. La posta in gioco imperialistica riguardante la Siria é di primo ordine. Vicina ed alleata dell’Iraq, dove gli Stati Uniti continuano a sfiancarsi per trovare una via d’uscita militare minimamente onorevole, la Siria è, inoltre, sempre più sostenuta dall’Iran che le ha fornito, dopo gli ultimi avvenimenti, milizie agguerrite e rotte a tutti i tipi di sevizie richiesti dalla necessità di attuare una repressione massiccia della popolazione.

La prima potenza mondiale non può permettersi di ritrovarsi in un nuovo pantano in Siria, cosa che la discrediterebbe ancora più nei confronti dei paesi arabi, dal momento che fa sempre più fatica a calmare le tensioni israelo-palestinesi, incoraggiate proprio da Israele e dalla Siria. Inoltre, il vantaggio momentaneo ottenuto sull’arena mondiale dagli Stati Uniti – ed in particolare da Obama che assicura a quest’ultimo quasi di sicuro la futura rielezione – dal successo della caccia e della morte supermediatizzata di Bin Laden, che “ha lavato l’affronto dell’11 settembre”, non significa tuttavia uno sradicamento del terrorismo, scopo proclamato della grande crociata americana da 20 anni. Al contrario, questa nuova situazione espone sempre più il mondo ad una recrudescenza di attentati omicidi ed i recenti attentati sanguinosi in Pakistan ed a Marrakech non hanno tardato a dimostrarlo. Dovunque, si assiste ad una moltiplicazione dei focolari di guerra e ad una fuga in avanti delle tensioni imperialiste, maggiormente acuite dalle rivalità tra le grandi potenze e ad un accumularsi d’instabilità e barbarie.

Non bisogna farsi nessuna illusione. Il capitalismo è guerra, caos, e in nessuna parte del mondo potrà portare una pretesa liberazione o un’emancipazione dei popoli.

Mulan, 28 maggio

(da Revolution International, n.423, organo della CCI in Francia)

Geografiche: 

  • Africa [111]

Questioni teoriche: 

  • Guerra [36]
  • Imperialismo [37]

In ricordo del nostro compagno Enzo

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E’ sempre difficile rendere in poche righe la vita e soprattutto l’aspetto umano di una persona scomparsa ed è ancora più difficile per noi esprimere appieno il dolore ed il vuoto che avvertiamo per la morte del nostro compagno Enzo, avvenuta il 15 maggio scorso, a soli 44 anni. La militanza di Enzo nella nostra organizzazione non era di lunga data, poco più di 4 anni, ma oltre al rapporto politico sempre fraterno e costruttivo che ci legava, si è andato via via costruendo con Enzo anche un legame affettivo che ci rende la sua perdita ancora più dolorosa.

Abbiamo conosciuto Enzo nel 2003 ad una nostra riunione pubblica a Milano dove è approdato dopo una lunga e travagliata traiettoria politica nella sinistra borghese e tutto un lavoro di studio, riflessione, critica ed autocritica che il compagno ha sviluppato con determinazione negli anni in cui, in seguito al crollo del blocco sovietico, imperversava la campagna borghese sul “fallimento del comunismo” e l’impossibilità di un’alternativa al capitalismo. Una campagna che ha significato un riflusso profondo della combattività e della coscienza della classe operaia a livello internazionale. Eppure Enzo, sin da giovanissimo, era convinto che si potesse cambiare, che si potesse lavorare per costruire un mondo diverso e non ha mai smesso di voler capire come fare, di cercare, come lui stesso ci racconta:

“Ho cominciato a svolgere attività politica nel mio piccolo paese in Sicilia per circa 8 anni nel PCI, dopo il diploma all’Istituto tecnico commerciale e aver svolto il servizio militare presso i vigili del fuoco. Nel 1993, trasferitomi a Milano, ho militato per 5 anni nella Lega trotskista d’Italia (Lega Comunista Internazionale) che pubblica il giornale “Spartaco”, filiale della “Spartacist League/US che pubblica il quindicinale “Workers Vanguard”. All’inizio del 2000 mi sono dimesso, fondamentalmente sulla questione della “difesa incondizionata dell’URSS” e la difesa dei Fronti Partigiani durante la II Guerra mondiale imperialista. Ma nonostante questo pensavo di aver rotto organizzativamente con la LTd’I/LCI, ma non programmaticamente con il trotskismo. La lettura dei libri e della stampa della Sinistra comunista, la mia partecipazione ai dibattiti pubblici di Battaglia Comunista e Rivoluzione Internazionale, unite ad una lettura senza dogmi e tabù degli avvenimenti internazionali, mi hanno aiutato a chiarire meglio le questioni politiche; così ho avuto una lenta ma costante evoluzione verso le posizioni politiche della Sinistra comunista e in particolare quelle della CCI[1]” (dalla lettera di Enzo alla CCI del 16/1/2005).

La sua determinazione e il suo porsi “senza dogmi e tabù”, lo hanno portato non solo a comprendere la vera natura antioperaia dei partiti della sinistra del capitale, ma anche a comprendere e far proprio il marxismo come strumento di lotta:“Il marxismo ci dà le chiavi per fare avanzare l’umanità, per combattere l’oppressione e lo sfruttamento, ma nello stesso tempo il marxismo non è un metodo per l’interpretazione passiva del processo storico, ma un metodo per un’azione rivoluzionaria; non una bibbia, né una serie di ricette valide in ogni luogo ed in ogni tempo, ma un metodo che deve essere sempre arricchito alla luce dell’esperienza proletaria” (idem)

Enzo faceva parte della classe operaia non solo per scelta politica. Proveniva da una famiglia di lavoratori ed anche lui, dopo la scuola, ha fatto vari lavori ed alla fine ha dovuto trasferirsi a Milano per trovare un lavoro che gli permettesse di crearsi una propria vita. Come per tutti i proletari, la crisi economica ha significato per Enzo condizioni di lavoro sempre più dure fino alla perdita del posto di lavoro. Nel 2008 la ditta SEA, una società di servizi che gestisce gli aeroporti di Malpensa e Linate, ha iniziato a “tagliare sui costi”, mettendo in cassa integrazione Enzo ed altri suoi compagni di lavoro. Una cassa integrazione che è durata più di un anno e mezzo, tanto che alla fine Enzo ha preferito andarsene per trovare un altro lavoro, magari in Spagna, paese che amava molto. Nel frattempo, non riuscendo a vivere in una città cara come Milano, con in più un mutuo da pagare per la casa che aveva comprato, è stato costretto a vendere la casa costata tanti sacrifici e ritornare al suo paese in Sicilia.

Tuttavia, nonostante le difficoltà, le rinunce a cui è stato costretto e gli importanti problemi di salute che ha avuto, Enzo ha mantenuto intatta la sua convinzione militante. Come abbiamo già detto nel breve comunicato pubblicato sul nostro sito subito dopo la sua morte “La sua militanza nella CCI è stata sempre caratterizzata da questa convinzione e dalla sua determinazione, anche in situazioni difficili, a dare il suo contributo a questa lotta. Per questo la sua morte è una perdita per la CCI e per l’insieme della classe operaia”.

Nonostante le traversie, Enzo è anche riuscito a preservare la sua grande vivacità, la voglia di vivere, di conoscere cose nuove, gente diversa e più in generale di cogliere il positivo della vita. Al tempo stesso aveva una grande sensibilità per le barbarie di questo sistema. Si commuoveva fino alle lacrime discutendo della gente che muore di fame e di malattie in Africa, degli immigrati torturati nei loro paesi e ridotti in schiavitù nei cosiddetti paesi democratici, di quelli che muoiono in mare … e con altrettanta foga e sentimento esprimeva la sua avversione viscerale per ogni forma di ipocrisia della classe dominante, in particolare per quella della sua componente religiosa.

Amava molto leggere, non solo di politica, ma anche e soprattutto di storia perché riteneva che conoscere la storia dell’umanità fosse essenziale per capire l’oggi. Amava anche molto viaggiare e quando andava in un paese nuovo gli piaceva leggere dei libri sulla storia e sulla cultura di quel popolo e parlarcene quando ne avevamo l’occasione, trasmettendoci l’entusiasmo di queste sue nuove conoscenze.

La sua perdita lascia un vuoto nell’intera CCI, in particolare nei compagni della sezione in Italia ed in altri compagni delle sezioni in Francia e in Svizzera che hanno lavorato più strettamente con lui e che lo conoscevano da più tempo. Ma proprio per la sua evidente voglia di cambiare questa società e per la sua sensibilità e vivacità intellettuale, Enzo lascia un forte dolore anche in quei compagni vicini all’organizzazione che lo avevano conosciuto, come dimostrano le diverse manifestazioni di affetto nei suoi confronti che ci sono giunte[2], come la poesia e la lettera che seguono che danno un’immagine efficace e vivente del nostro compagno.

Ringraziamo di cuore tutti questi compagni ed anche i compagni dell’Istituto Onorato Damen[3] che ci hanno scritto per esprimere la loro solidarietà alla CCI per questa perdita: “Vi esprimiamo la nostra sincera vicinanza per questa grave perdita, confidando che il nostro impegno, il lavoro dell’Istituto Onorato Damen, possa rappresentare un contributo concreto a quella battaglia per il socialismo che ha animato la vita del compagno Enzo”. E non possiamo che concordare con i compagni quando, facendo riferimento a quanto scritto da noi nel comunicato circa le difficoltà lavorative di Enzo, dicono giustamente: “Elementi di drammaticità nella vita di un proletario che sempre più diventano atroce attualità per tutti i venditori di forza lavoro, ma che in Enzo, come ricordate, erano accompagnati da una determinazione a lottare per il socialismo che deve essere da motivazione per tutti i comunisti”.

Naturalmente Enzo lascia un vuoto ed un enorme dolore nei suoi familiari ai quali vogliamo esprimere ancora una volta tutta la nostra solidarietà e disponibilità per qualsiasi cosa possa essere loro di aiuto in un momento così difficile, anche se la lontananza geografica non ci ha permesso ancora di essere loro fisicamente vicini. Abbiamo scritto loro una lettera per esprimere il nostro dolore e per chiedere di poterli incontrare per ricordare insieme Enzo e con grande piacere abbiamo ricevuto una risposta dove ci dicono che “sentitamente e con grande commozione ringraziano per la pubblicazione del vostro articolo. Sarebbe cosa molto gradita avere contatti con tutti coloro che conoscevano Enzo, per cui comunichiamo la nostra completa disponibilità”. Ci auguriamo di poter incontrare al più presto la madre di Enzo che abbiamo conosciuto a Milano e conoscere per intero la sua famiglia.

Enzo non è più fisicamente con noi, ma resterà sempre con noi come compagno di lotta e di viaggio verso una società senza più sfruttamento e barbarie, ma finalmente a misura d’uomo. Una società che Enzo era convinto di poter costruire ed alla quale ha dedicato gran parte della sua vita.

CCI, 11 giugno 2011

 

Per Enzo …

L’ho appena saputo : te ne sei andato,

in silenzio, come spesso ti ho visto.

Non ti conoscevo da molto tempo,

eppure c’era qualcosa che mi faceva sentire

che eri un mio compagno,

non solo e non tanto perché condividevamo

simili visioni politiche,

ma perché ho subito sentito che provavi come me

la stessa insofferenza per questa società,

la stessa voglia di cambiare,

la stessa voglia di gioire,

la stessa voglia di costruire insieme

un mondo dove veramente tutti saranno liberi e felici.

Ora chissà dove sei andato,

eppure sono convinto

che continuerai a vivere qui con noi,

nelle nostre idee e nelle nostre azioni,

e che quello che saremo in grado di costruire lo

costruiremo anche grazie alla tua presenza viva nei nostri cuori.

Volevi andare in Spagna, poi in Marocco, e poi chissà dove

ma forse il vero viaggio che volevi fare era quello che tutti sogniamo

quello che ci porti in un posto dove potere essere veramente noi stessi,

un posto che non c’è,

un posto che va costruito,

un posto per tutti e di tutti,

un posto che proveremo a costruire anche per te …

Stefano, 16/5/2011

 

V. per Enzo

Mi dispiace di sentire della morte di Enzo. Era una persona straordinaria, determinata nel suo impegno per la lotta rivoluzionaria, passionale contro le ingiustizie sociali e sempre desideroso di comprendere il mondo in cui viviamo, al fine di trasformarlo.

Mi ricordo quando l’ho incontrato per la prima volta – nelle riunioni pubbliche a Milano. Lui arrivava come una brezza di mare; scoppiettante di pensieri e domande e riflessioni - spesso alla rinfusa, ogni idea cercando di trovare il suo giusto posto tra le altre - ma sempre stimolante e vitale e sempre pronto a sfidare il vecchio modo di guardare le cose.

Per molti lavoratori che, come lui, hanno trascorso molti anni nella convinzione che il trotzkismo offrisse un quadro valido per la trasformazione della società, il crollo del blocco “sovietico” deve essere stato un colpo brutale per la loro fiducia in un’alternativa della classe operaia a questo marcio sistema. Ma Enzo si rimboccò le maniche e cercò un modo per capire cosa stava succedendo nel mondo capitalista e come lottare contro di esso - e con grande determinazione ha trovato la sinistra comunista.

Non posso evitare di pensare che la passione e il contributo di militanti come Enzo rimangano per sempre nel cuore della storica lotta e che la classe operaia porterà una parte di lui con sé quando alla fine tenterà l’attacco al cielo.

Le mie più sentite condoglianze alla famiglia di Enzo, agli amici e ai compagni.

V. 27 maggio 2011



[1] In realtà Enzo percorre un’ulteriore tappa politica intermedia all’interno di “Ombre Rosse” - della galassia di Rifondazione Comunista – prima di approdare definitivamente alle posizioni della sinistra comunista.

[2] Alcune di queste sono state postate sul forum Napolioltre alla voce “Per  Enzo…”, all’indirizzo https://napolioltre.forumfree.it/?t=55713652#lastpost.

[3] www.istitutoonoratodamen.it [156]

Vita della CCI: 

  • Lettere dei lettori [15]

Sinistra comunista ed anarchismo internazionalista (3): quale stato d’animo deve animare il dibattito?

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Questa serie di articoli si è data come obiettivo di dimostrare che i membri della Sinistra comunista e gli anarchici internazionalisti hanno il dovere di discutere ed anche di collaborare. La ragione è semplice. Al di là delle divergenze che sono talvolta importanti, noi condividiamo le posizioni rivoluzionarie essenziali: l’internazionalismo, il rigetto di ogni collaborazione e compromesso con le forze politiche borghesi, la difesa de “la presa in mano delle lotte da parte degli stessi operai”…[1]

Malgrado questa evidenza, da tempo le relazioni tra queste due correnti rivoluzionarie sono state quasi inesistenti. Solo da qualche anno cominciamo appena a vedere l’inizio di un dibattito e di una collaborazione. Tutto ciò è il frutto della dolorosa storia del movimento operaio. L’atteggiamento della maggioranza del Partito bolscevico negli anni 1918-1924, (l’interdizione di ogni stampa anarchica senza distinzione, lo scontro con l’esercito di Makhno, lo schiacciamento nel sangue dei marinai insorti di Kronstadt …) ha scavato un fossato tra rivoluzionari marxisti ed anarchici. Ma soprattutto, lo stalinismo, che ha massacrato migliaia di anarchici[2] in nome del “comunismo”, ha causato un vero trauma per dei decenni[3].

Esistono ancora oggi, da una parte come dall’altra, timori a dibattere ed a collaborare. Per superare queste difficoltà bisogna essere persuasi di appartenere allo stesso campo, quello della rivoluzione e del proletariato, nonostante le divergenze. Ma ciò non può bastare. Dobbiamo fare anche uno sforzo cosciente per coltivare la qualità dei nostri dibattiti. “Elevarsi dall’astratto al concreto” è sempre la tappa più pericolosa. E’ per questo che, con quest’articolo, la CCI tiene a precisare con quale stato d'animo essa affronta questa possibile e necessaria relazione tra la Sinistra comunista e l’anarchismo internazionalista.

La critica costruttiva tra rivoluzionari è una necessità assoluta

La nostra stampa ha molte volte ripetuto, sotto differenti forme, l’affermazione secondo la quale l’anarchismo porta il segno d’origine dell’ideologia piccolo borghese. Questa critica, effettivamente radicale, è spesso giudicata inaccettabile dai militanti anarchici, compresi quelli abitualmente più aperti alla discussione. Ed ancora oggi, ancora una nuova, questo epiteto di “piccolo-borghese” affiancato alla parola “anarchismo” è sufficiente a certi per non volere più sentire parlare della CCI. Recentemente, sul nostro forum Internet, un partecipante che si rifà all’anarchismo ha finanche qualificato questa critica come una vera “ingiuria”. Ma noi non pensiamo che sia così.

Per quanto profondi siano i nostri reciproci disaccordi, essi non devono farci perdere di vista che i militanti della Sinistra comunista e quelli dell’anarchismo internazionalista dibattono tra rivoluzionari. Del resto, gli stessi anarchici internazionalisti muovono numerose critiche al marxismo, a cominciare dalle sue pretese inclinazioni naturali per l’autoritarismo ed il riformismo. Il sito della CNT-AIT in Francia, per esempio, contiene molteplici passi di questo genere:

“I marxisti diventavano progressivamente [a partire dal 1871] coloro che addormentavano gli sfruttati e firmavano l’atto di nascita del riformismo operaio”[4].

“Il marxismo è responsabile dell’orientamento della classe operaia verso l’azione parlamentare […]. Solo quando si sarà compreso questo si vedrà che la via della liberazione sociale ci conduce verso la terra felice dell’anarchismo, passando bene al di sopra del marxismo”[5].

Non si tratta qui di “ingiurie” ma di critiche radicali … con cui evidentemente siamo in totale disaccordo! È anche nel senso della critica aperta che deve essere considerata la nostra analisi della natura dell’anarchismo. Per cui pensiamo sia importante riproporla qui sinteticamente. Nel 1994, in un capitolo intitolato “Il nucleo piccolo-borghese dell’anarchismo”, noi scrivevamo: “Lo sviluppo dell’anarchismo nella seconda metà del XIX secolo era il prodotto della resistenza di strati piccolo-borghesi (artigiani, commercianti, piccoli contadini) alla marcia trionfante del capitale, resistenza al processo di proletarizzazione che li privava della loro “indipendenza” sociale passata. Più forte nei paesi dove il capitale industriale si è sviluppato tardivamente, alla periferia orientale e meridionale dell’Europa, esso esprimeva al tempo stesso la ribellione di questi strati contro il capitalismo e la loro incapacità a vedere oltre quest’ultimo, verso il futuro comunista; al contrario, enunciava il loro desiderio di ritorno ad un passato semi-mitico di comunità locali libere e di produttori rigorosamente indipendenti, sbarazzati dall’oppressione del capitale industriale e dallo Stato borghese centralizzato. Il “padre” dell’anarchismo, Pierre-Joseph Proudhon, era l’incarnazione classica di quest’atteggiamento, col suo odio feroce non solo verso lo Stato ed i grandi capitalisti, ma anche verso il collettivismo sotto tutte le sue forme, ivi compreso verso i sindacati, gli scioperi e le espressioni similari della collettività della classe operaia. Contrariamente a tutte le tendenze profonde che si sviluppavano all’interno della società capitalista, l’ideale di Proudhon era una società “mutualistica”, fondata sulla produzione artigianale individuale, legata dal libero scambio e dal libero credito”[6].

O ancora, in “Anarchismo e comunismo”, del 2001: “Nella genesi dell’anarchismo si esprime il punto di vista del lavoratore da poco proletarizzato e che rifiuta con tutte le sue forze questa proletarizzazione. Usciti di recente dal mondo contadino o dall’artigianato, spesso per metà operai e metà artigiani (come gli orologiai del Giura svizzero, per esempio), questi operai esprimevano il rimpianto per il passato di fronte al dramma che costituiva per loro cadere allo stato di operai. Le loro aspirazioni sociali consistevano nel voler far girare la ruota della storia a ritroso. Al centro di questa concezione c’è la nostalgia della piccola proprietà. E’ per questo che, con Marx, analizziamo l’anarchismo come espressione della penetrazione dell’ideologia piccolo borghese all’interno del proletariato”[7].

In altre parole, noi pensiamo che, fin dalla sua nascita, l’anarchismo sia segnato da un profondo sentimento di rivolta contro la barbarie dello sfruttamento capitalista ma che esso erediti anche alcuni punti di vista degli “artigiani, commercianti, piccoli contadini” che l’hanno costituito alla sua nascita. Ciò non significa assolutamente che oggi, tutti i gruppi anarchici sono “piccoli-borghesi”. È evidente che la CNT-AIT, il KRAS[8] ed altri gruppi sono animati dal soffio rivoluzionario della classe operaia. Più in generale, durante tutto il XIX e XX secolo, numerosi operai hanno sposato la causa anarchica e hanno lottato realmente per l’abolizione del capitalismo e l’avvento del comunismo, da Louise Michel a Durruti passando, tra gli altri, per Voline o Malatesta. All’epoca dell’ondata rivoluzionaria del 1917, una parte degli anarchici ha anche formato, nei ranghi operai, alcuni battaglioni tra i più combattivi.

C’è da sempre, all’interno dell’ambiente anarchico, una battaglia contro questa tendenza originaria ad essere influenzata dall’ideologia della piccola borghesia radicalizzata. Ed in parte è questo che caratterizza le profonde divergenze tra gli anarchici individualistici, mutualistici, riformisti, comunisti-nazionalisti e comunisti-internazionalisti (solo questi ultimi appartengono realmente al campo rivoluzionario). Ma, anche gli anarchici internazionalisti subiscono l’influenza delle radici storiche della loro corrente. Tale è, per esempio, la causa della loro tendenza a sostituire la “lotta della classe operaia” con la “resistenza popolare autonoma”.

Per la CCI è dunque una questione di responsabilità esporre onestamente, alla luce del giorno, tutti questi disaccordi, allo scopo di contribuire al meglio al rafforzamento generale del campo rivoluzionario. Così come è responsabilità degli anarchici internazionalisti continuare ad esprimere le loro critiche verso il marxismo. Ciò non deve costituire affatto un ostacolo alla tenuta fraterna dei nostri dibattiti o rappresentare un freno alle eventuali collaborazioni, tutt’altro[9].

Secondo la CCI, tra marxisti e anarchici esiste un rapporto da maestro ad alunno?

Tutte queste critiche, la CCI non le muove agli anarchici come se fosse un maestro che corregge il suo alunno. Tuttavia, sul nostro forum, alcuni interventi hanno rimproverato alla nostra organizzazione il suo tono “da professori”. Al di là del gusto per questo o quello stile letterario, dietro queste osservazioni si nasconde una vera domanda teorica. La CCI verso la CNT-AIT e, più in generale, la Sinistra comunista verso l’anarchismo internazionalista, hanno un ruolo di “guida” o di “modello”? Pensiamo noi di essere una minoranza illuminata che deve infondere la verità, la buona coscienza?

Una tale concezione sarebbe in totale contraddizione con la stessa tradizione della Sinistra comunista. E rinvia più profondamente ancora al legame che unisce i rivoluzionario comunisti alla loro classe.

Negli Annali franco-tedeschi Marx afferma: “Non ci presentiamo al mondo come dottrinari armati di un nuovo principio: ecco la verità, inginocchiatevi! Sviluppiamo per il mondo dei principi nuovi che traiamo dagli stessi principi del mondo. Noi non gli diciamo: “rinuncia alle tue lotte, sono delle puerilità; tocca a noi farti capire il vero motto della lotta”. Tutto ciò che noi facciamo, è mostrare al mondo perché in realtà lotta”[10].

I rivoluzionari, marxisti o anarchici internazionalisti, non sono al di sopra della classe operaia, ne fanno integralmente parte, sono uniti ad essa da mille legami. La loro organizzazione è la secrezione collettiva del proletariato.

La CCI non si è dunque mai considerata un’organizzazione avente per vocazione di imporre il suo punto di vista alla classe operaia o agli altri gruppi rivoluzionari. Noi facciamo interamente nostro questo passaggio del Manifesto comunista del 1848: “I comunisti non sono un partito particolare di fronte agli altri partiti operai. I comunisti non hanno interessi distinti dagli interessi di tutto il proletariato. I comunisti nonpongono principi speciali sui quali vogliono modellare il movimento proletario”. È questo stesso principio che Bilan, organo della Sinistra comunista italiana, fa vivere in occasione dell’uscita del suo primo numero nel 1933: “Certamente, la nostra frazione si reclama ad un lungo passato politico,ad una tradizione profonda nel movimento italiano ed internazionale, ad un insieme di posizioni politiche fondamentali. Ma non intende avvalersi dei suoi precedenti politici per chiedere delle adesioni alle soluzioni che preconizza per la situazione attuale. Al contrario, invita i rivoluzionari a sottomettere alla verifica degli avvenimenti le posizioni che essa difende attualmente così come le posizioni politiche contenute nei suoi documenti di base”.

Dalla sua nascita, la nostra organizzazione si sforza di coltivare questo stesso spirito di apertura e questa stessa volontà di dibattere. Così, fin dal 1977, scrivevamo:

“Nei nostri rapporti con [gli altri gruppi rivoluzionari], vicini alla CCI ma esterni, il nostro scopo è chiaro. Cerchiamo di stabilire una discussione fraterna ed approfondita sulle differenti questioni affrontate dalla classe operaia.

“Non potremo assumere realmente la nostra funzione (…) nei loro confronti se non siamo capaci contemporaneamente di:

- guardarci dal considerarci il solo ed unico raggruppamento rivoluzionario esistente oggi;

- difendere di fronte a loro le nostre posizioni con fermezza;

- conservare nei loro confronti un atteggiamento aperto alla discussione che deve condursi pubblicamente e non attraverso scambi confidenziali”[11].

Si tratta per noi di una regola di condotta. Siamo convinti della validità delle nostre posizioni, pur essendo aperti ad una critica ragionata, ma non le prendiamo come “la soluzione ai problemi del mondo”. Si tratta per noi di un apporto alla lotta collettiva della classe operaia. È per tale motivo che diamo un’importanza tutta particolare alla cultura del dibattito. Nel 2007, la CCI ha anche dedicato tutto un testo di orientamento a questa specifica questione: “La cultura del dibattito: un’arma della lotta di classe” in cui si afferma: “Se le organizzazioni rivoluzionarie vogliono assolvere al loro compito fondamentale di sviluppo ed estensione della coscienza di classe, la cultura di una discussione collettiva, internazionale, fraterna e pubblica è assolutamente essenziale”[12].

Il lettore attento avrà notato che tutte queste citazioni contengono, oltre all’idea della necessità di dibattere, l’affermazione che la CCI deve anche difendere fermamente le sue posizioni politiche. Non si tratta di una contraddizione. Voler discutere apertamente non significa credere che tutte le idee sono uguali o che tutte le posizioni si equivalgono. Come sottolineato nel nostro testo del 1977: “Lungi dall’escludersi, fermezza sui principi ed apertura nell'atteggiamento vanno di pari passo: non abbiamo paura di discutere proprio perché siamo convinti della validità delle nostre posizioni”.

Nel passato come in avvenire, il movimento operaio ha avuto e avrà bisogno di dibattiti sinceri, aperti e fraterni tra le sue differenti tendenze rivoluzionarie. Questa molteplicità di punti di vista e di approcci sarà una ricchezza ed un apporto indispensabile alla lotta del proletariato ed allo sviluppo della sua coscienza. Lo ripetiamo, all’interno del campo rivoluzionario vi possono anche essere delle profonde divergenze e queste devono assolutamente esprimersi ed essere dibattute. Noi non chiediamo agli anarchici internazionalisti di rinunciare ai loro criteri né a quello che considerano il loro patrimonio teorico. Al contrario, ci auguriamo vivamente che essi li espongano con chiarezza, in risposta alle domande che si pongono a tutti, che essi accettino la critica e la polemica così come noi non consideriamo le nostre posizioni come “l’ultima parola”, ma come un contributo aperto a degli argomenti contraddittori. Noi non diciamo a questi compagni: “arrendetevi di fronte alla proclamata superiorità del marxismo”.

Rispettiamo profondamente la natura rivoluzionaria degli anarchici internazionalisti e sappiamo che combatteremo fianco a fianco quando si svilupperanno dei grandi movimenti di lotta. Ma difenderemo anche fermamente, in maniera convinta - e, speriamo, convincente - le nostre posizioni sulla Rivoluzione russa ed il Partito bolscevico, la centralizzazione, il periodo di transizione, la decadenza del capitalismo, il ruolo anti-operaio del sindacalismo … Questo non significa porci in un rapporto da maestro ad alunno o sperare di convertire alcuni anarchici per farli passare nei nostri ranghi, ma partecipare pienamente al dibattito necessario tra i rivoluzionari.

Come vedete, compagni, questo dibattito rischia di essere fortemente animato … ed appassionante!

Concludiamo questa serie di tre articoli su “La Sinistra comunista e l’anarchismo internazionalista”, con una citazione di Malatesta: “Se noi, anarchici, potessimo fare la rivoluzione da soli o se i socialisti[13] potessero farla da soli, potremmo concederci il lusso di agire ciascuno per conto proprio, e forse venire anche alle mani. Ma la rivoluzione, è l’intero proletariato che la farà, il popolo intero, di cui i socialisti e gli anarchici non sono numericamente che una minoranza, anche se il popolo sembra avere molta simpatia per gli uni e per gli altri. Dividerci, anche là dove possiamo essere uniti, significherebbe dividere il proletariato, o più esattamente, raffreddare le sue simpatie e renderlo meno incline a seguire questo nobile orientamento socialista comune che insieme i socialisti e gli anarchici potrebbero fare trionfare all’interno della rivoluzione. Spetta ai rivoluzionari vegliare, ed in particolare ai socialisti ed agli anarchici, non accentuando i motivi dei loro dissensi e soprattutto occupandosi dei fatti e degli scopi che possono unirli e far loro raggiungere il più grande risultato rivoluzionario possibile”. (Volontà, 1 maggio 1920)

CCI, settembre 2010



[1] Vedi la prima parte di questa serie: “Quello che abbiamo in comune”.

[2] D’altra parte, come le migliaia di marxisti ed in generale i milioni di proletari.

[3] Vedi la seconda parte di questa serie “Sulle nostre difficoltà a dibattere e come superarle”.

[4] https://cnt-ait.info/article.php3  ?id_article=472&var_recherche=r%E9formisme+marxisme [157].

[5] Si tratta qua più precisamente di una citazione di Rudolf Rocker che la CNT-AIT riprende a proprio conto.

[6] In “Le communisme n’est pas un bel idéal, mais une nécessite matérielle [10 [158]e [158] partie] [158]”.

7] https://fr.internationalism.org/rinte102/anar.htm [159].

[8] Si tratta della sezione in Russia dell’AIT con cui noi intratteniamo buone relazioni di cameratismo e di cui abbiamo pubblicato parecchie prese di posizione nella nostra stampa.

[9] Ciò detto, nel corso del dibattito che ha avuto luogo in questi ultimi mesi, dei compagni anarchici hanno giustamente protestato contro delle formulazioni oltranziste che pronunciavano una sentenza definitiva ed ingiustificata nei riguardi dell’anarchismo. Rituffandoci di nuovo in alcuni dei nostri vecchi testi, abbiamo trovato a nostra volta dei passaggi che oggi non scriveremmo più. Per esempio:

- “Certi elementi operai possono pensare di aderire alla rivoluzione a partire dall’anarchismo, ma per aderire ad un programma rivoluzionario bisogna rompere con l’anarchismo” (https://fr.internationalism.org/rinte102/anar.htm [159]).

- “È per questo che il proletariato deve allontanarsi risolutamente da questi commercianti di illusioni che sono gli anarchici" (https://fr.internationalism.org/ri321/anarchisme.htm [160]).

- Il nostro articolo “Anarchismo e comunismo”, che pertanto descrive meticolosamente la lotta degli “Amici di Durruti” all’interno della CNT nella Spagna degli anni 1930, caricatura con una frase la visione dell’anarchismo che ha la CCI affermando che nel 1936 non c’era più “una fiamma rivoluzionaria” all’interno della CNT. La nostra serie di articoli più recenti sull'anarco-sindacalismo, pur denunciando di nuovo l’integrazione della direzione della CNT negli ingranaggi dello Stato ed il suo contributo al disarmo politico degli operai anarchici (cosa che ha facilitato il lavoro degli assassini stalinisti), ha mostrato fino a che punto la situazione era complessa. Ci sono stati all’interno della CNT, a livello internazionale, delle vere lotte per difendere le posizioni autenticamente proletarie contro il tradimento che costituiva l’integrazione di questa organizzazione allo Stato spagnolo (vedi la nostra serie [161] sul sindacalismo rivoluzionario).

[10] Citato da Franz Mehring nella sua biografia di K. Marx.

[11] In “I gruppi politici proletari”, Revue internationale n°11, 4° trimestre 1977.

[12] Questo articolo è disponibile sul nostro sito Internet al seguente indirizzo: https://fr.internationalism.org/rint131/la_culture_du_debat_une_arme_de_la_lutte_de_classe.html [162].

[13] Nel momento in cui Malatesta scrive questo articolo, il Partito socialista italiano raggruppa ancora, accanto ai riformisti, gli elementi rivoluzionari che vanno a fondare il PCI nel gennaio 1921 al Congresso di Livorno.

Vita della CCI: 

  • Corrispondenza con altri gruppi [13]

Correnti politiche e riferimenti: 

  • Anarchismo internationalista [14]

Rivoluzione Internazionale n°172

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Periodo settembre-novembre 2011

Crisi economica mondiale: un’estate micidiale

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I mesi di luglio e agosto di quest’anno sono stati segnati da eventi apparentemente stupefacenti. Stiamo assistendo al panico diffuso dei governi, dei dirigenti, delle banche centrali e delle altre istituzioni finanziarie internazionali. I padroni di questo mondo sembrano aver perso completamente la bussola. Ogni giorno si tengono nuove riunioni di capi di Stato, dei G8, G20, della BCE, della FED, ecc ... Allo stesso ritmo impressionante, in una totale improvvisazione, vengono pronunciate dichiarazioni che appaiono ridicole rispetto ai problemi incontrati e sono annunciate decisioni senza che la crisi economica mondiale cambi il suo corso catastrofico. Il fallimento generalizzato avanza. La depressione decolla in maniera irreversibile. In poche settimane, il piano di salvataggio dell’economia della Grecia è superato e la crisi del debito guadagna spettacolarmente dei paesi importanti come l’Italia e la Spagna. La stessa prima potenza economica mondiale, gli Stati Uniti, vede svilupparsi una grave crisi politica al suo interno di fronte alla necessità assoluta per lei di alzare il tetto del debito di oltre 14500-16600 miliardi di dollari. Tutto questo nel quadro di un piano di lotta contro il deficit pubblico che ha portato direttamente al deterioramento del rating di questo gigante dai piedi d’argilla. Cosa che è una novità nella sua storia. Il treno deraglia ed i conduttori perdono il controllo della loro macchina. Ma dove va dunque l’economia globale? Perché sembra cadere in un precipizio senza fondo? Tante domande cui è necessario rispondere: dove sta conducendo l’umanità questa economia mondiale in fallimento?

1. Dalle menzogne alla realtà

Va ricordato che, alla fine del 2007 e all’inizio del 2008, il fallimento della banca americana Lehman Brothers aveva condotto l’economia sull’orlo del baratro. L’intero sistema finanziario, come un castello di carte, rischiava di crollare. Allora gli Stati hanno assunto a loro carico una parte del debito bancario, che rappresenta spesso dei valori incalcolabili, spingendo a loro volta questi sulla strada del fallimento. Su questa strada, le stesse banche centrali non hanno tardato a ritrovarsi in una situazione pericolosa. E per tutto questo tempo, la borghesia si è cinicamente fatto gioco del mondo intero. Abbiamo dovuto ascoltare discorsi uno più mistificatorio dell’altro. Certamente gli stessi borghesi sono in parte vittime dei loro discorsi. Gli sfruttatori non possono mai avere una piena lucidità di fronte al crollo del loro sistema. Tuttavia, mentire, ingannare per nascondere i fatti, è una necessità degli sfruttatori per mantenere gli sfruttati sotto il loro controllo.

Hanno cominciato col dire che tutto ciò non era grave, che la situazione era completamente sotto controllo. Era già difficile essere più ridicoli. Eppure, in questo campo, il meglio doveva ancora arrivare. All’inizio del 2008, dopo la caduta delle borse del 20% circa e il calo della crescita mondiale, ci avevano promesso, con la faccia seria, una rapida uscita dalla crisi. Questa era infatti presentata come passeggera e puntuale; ma i fatti sono più testardi delle parole. La situazione, infischiandosene decisamente di tutti questi imbonitori, ha continuato a peggiorare. Questi signori sono poi passati a degli argomenti bassamente nazionalisti, falsi e perfidi quanto ignobili. Per cominciare, è stata data la colpa ai poveri americani che avevano comprato a credito senza riflettere delle case senza avere i mezzi per rimborsare i loro crediti, parliamo dei famosi subprime. Naturalmente, questa spiegazione non poteva essere più valida quando la crisi ha colpito la zona euro, quando è diventato evidente che lo Stato greco non poteva evitare il fallimento. L’ignominia è allora cresciuta: gli sfruttati di questi paesi sono stati tutti trattati semplicemente come sfaticati e profittatori; la crisi in Grecia era specifica per questo paese, come lo era stato per l’Islanda e come lo sarà, pochi mesi dopo, per l’Irlanda. Per radio e televisione i vari leader trasmettevano le loro piccole frasi assassine. Secondo loro, la gente spendeva troppo; a sentire loro, gli sfruttati vivevano al di sopra delle loro possibilità, come dei pascià! Ma di fronte alla collera legittima che si sviluppava in questo paese, i discorsi menzogneri sono ancora una volta mutati. In Italia, l’indescrivibile Berlusconi, Presidente del Consiglio, viene indicato come il solo responsabile di una politica economica totalmente … irresponsabile. Ma come è possibile che abbia fatto lo stesso il serissimo premier spagnolo Zapatero?

Ora la borghesia indica col dito accusatore una parte di se stessa. La colpa della crisi si sposta in parte sul mondo della finanza, popolata da squali avidi di guadagni sempre maggiori. Negli Stati Uniti, nel dicembre 2008, B. Madoff, ex capo di Nasdaq e uno dei consulenti di investimento più conosciuti e rispettati a New York, si è trasformato dalla sera alla mattina nel peggiore truffatore del mondo. Ugualmente le agenzie di rating continuano a servire come capri espiatori. Alla fine del 2007, le si accusava di incompetenza per aver trascurato nelle loro valutazioni il peso dei debiti sovrani degli Stati. Oggi, esse sono accusate al contrario di puntare eccessivamente il dito su questi stessi debiti sovrani nella zona euro (per Moody) e negli Stati Uniti (per Standard & Poors).

Essendo divenuta infine visibilmente e apertamente mondiale, bisognava trovare una bugia più credibile, più realistica. Così, da qualche mese, sentiamo circolare con sempre maggiore insistenza che la crisi è dovuta a un indebitamento generalizzato, insopportabile, organizzato dalla finanza a beneficio dei grandi speculatori. Con l'estate del 2011 e la nuova esplosione della crisi finanziaria, questi discorsi hanno invaso i nostri televisori.

Anche se tutti questi esempi mostrano che la borghesia ha una difficoltà crescente a far passare delle menzogne credibili, possiamo essere certi che continuerà a servircene; a prova di ciò, tutto il clamore sviluppato dai partiti di sinistra, dai gauchisti e da molti economisti, secondo cui è la finanza - e non il capitalismo in quanto tale - che sarebbe responsabile dell’attuale escalation della crisi. Certo, l’economia crolla sotto i debiti che non può più né rimborsare né sopportare. Viene quindi minato il valore della valuta, il prezzo delle merci viene spinto verso l’alto e si apre la porta ad un processo di fallimento per gli individui, le banche, le assicurazioni e gli Stati. Cosa che rischia di implicare ad un certo punto la paralisi delle banche centrali. Ma questo indebitamento non era motivato fondamentalmente dall’avidità insaziabile del mondo della finanza e di altri speculatori, e ancor meno dal consumo degli sfruttati. Al contrario, questo indebitamento generalizzato era necessario, vitale per la sopravvivenza del sistema da più di mezzo secolo per evitare la sovrapproduzione sempre più massiccia. Il progressivo sviluppo della speculazione finanziaria non è dunque la causa della crisi, ma la conseguenza degli strumenti che gli Stati hanno adottato per cercare di farvi fronte da cinquant’anni a questa parte. Senza questa politica di credito facile e di indebitamento crescente fino a diventare incontrollabile, il capitalismo non avrebbe potuto vendere merci in quantità sempre crescenti. Di fatto, é l’accentuazione di questo indebitamento che ha permesso per tutto questo tempo di sostenere la sua crescita. Il fatto che lo sviluppo mostruoso della finanza speculativa sia diventata progressivamente un cancro per il capitalismo è in realtà solo il prodotto della crescente difficoltà del capitalismo di investire e di vendere con profitto. L’esaurimento storico di questa capacità, a fine 2007/inizio 2008, ha spalancato le porte alla depressione[1].

2. Nei giorni di depressione e di fallimento

Gli avvenimenti che si svolgono in questo mese di agosto ne sono la chiara manifestazione. Il presidente della Banca Centrale Europea, J.C. Trichet, ha dichiarato a tale proposito che “la crisi attuale è tanto grave quanto quella del 1930”. Come prova, a partire dall’apertura della fase attuale della crisi alla fine dell’anno 2007, la sopravvivenza dell’economia mondiale si racchiude in poche parole: creazione accelerata e titanica di denaro da parte delle banche centrali e in primo luogo dagli Stati Uniti. Quello che è stato chiamato “Quantitative Easing” n°1 e n°2[2] non sono che le fasi visibili di un iceberg di una creazione massiccia di moneta. In realtà, la FED ha letteralmente inondato l’economia, le banche e lo Stato americano di nuovi dollari e, di conseguenza, ha fatto lo stesso per l’intera economia mondiale. Il risultato è stato la sopravvivenza del sistema bancario e una crescita mondiale mantenuta per fleboclisi. La depressione iniziata quattro anni fa è stata attenuata. Quello a cui assistiamo in questa estate 2011 è il suo gran ritorno sulla scena mondiale. Una delle cose che spaventa di più la borghesia è l’attuale forte rallentamento dell’attività. La crescita alla fine del 2009 e nel 2010 è crollata. Negli Stati Uniti il PIL del terzo trimestre del 2010 aveva raggiunto 14730 miliardi di dollari in valore. Esso aveva rimontato in totale del 3,5% rispetto al punto più basso della metà del 2009. Tuttavia, era rimasto inferiore dello 0,8% rispetto al suo livello di prima del 2007. Attualmente, negli Stati Uniti, mentre era stato previsto per il primo trimestre 2011un tasso di crescita su scala annua dell’1,5%, la cifra reale è caduta a solo lo 0,4%. Per il secondo semestre la crescita, stimata all’1,3%, sarà effettivamente molto vicina a 0. E’ lo stesso fenomeno a cui assistiamo in Gran Bretagna e nella zona euro. L’economia mondiale si orienta verso dei tassi di crescita in ribasso, e anche in alcuni grandi paesi, come gli Stati Uniti, si prende il cammino verso dei tassi di crescita negativi. Eppure, in questo contesto di recessione, l’inflazione è in aumento. Essa è ufficialmente del 2,985% negli USA, ma del 10% secondo il metodo di calcolo dell’ex direttore della Federal Reserve Paul Volcker. Per la Cina, che esprime il tono di tutti i paesi emergenti, essa arriva ogni anno ad oltre il 9%.

Nel mese di agosto 2011, il panico generale dei mercati finanziari riflette, tra l’altro, la presa di coscienza che il denaro iniettato dalla fine del 2007 non è riuscito a rilanciare l’economia e ad uscire dalla depressione. Al contrario esso ha esacerbato per quattro anni lo sviluppo del debito mondiale al punto che il crollo del sistema finanziario è tornato attuale, ma in una situazione economica complessiva molto più degradata che alla fine del 2007. Attualmente la situazione economica è tale che è necessaria e vitale ogni giorno l’iniezione di nuova liquidità, anche se in quantità più ridotta. Attualmente, la Banca centrale europea (BCE) è obbligata ad acquistare quotidianamente parte del debito italiano e spagnolo per una somma di circa 2 miliardi di euro per evitare di veder crollare questi paesi. Se, dunque, questo nuovo danaro è essenziale per la sopravvivenza del sistema giorno per giorno, esso non potrà mai avere gli effetti, per quanto limitati, che ha avuto la creazione di moneta dalla fine del 2007. In effetti ci vorrebbe molto di più per riassorbire dei debiti che per la Spagna e l’Italia (e non sono i soli) ammontano a centinaia di miliardi di euro. La possibilità di degrado del rating AAA[3] della Francia sarebbe un colpo mortale per la zona Euro. Solo i paesi inclusi in questa categoria possono finanziare i fondi di sostegno europeo. Se la Francia non lo potrà più fare, l’intera area crollerà. Il panico che abbiamo appena vissuto nella prima metà di agosto non è ancora finito! Stiamo per assistere alla presa di coscienza improvvisa da parte della borghesia e dei suoi leader che il sostegno necessario e continuo alla crescita dell’attività economica - anche moderata - diventa impossibile. E’ questo che provoca lo spettacolo deplorevole al quale stiamo assistendo. Ecco le ragioni profonde della lacerazione della borghesia americana sulla questione di elevare il tetto del suo debito. Lo stesso si dica per i cosiddetti accordi - annunciati con la fanfara - dei leader della zona euro sul salvataggio della Grecia, piani rimessi in discussione pochi giorni dopo da alcuni governi europei. I conflitti tra repubblicani e democratici sull’aumento del tetto del debito non sono semplici divergenze, come cerca di presentarceli la stampa borghese, che opporrebbero delle persone responsabili agli irresponsabile della destra americana, anche se l’aberrazione rappresentata dalle rivendicazioni e dal dogmatismo assurdo di quest’ultima - in particolare del Tea Party[4] - aggravano i problemi ai quali è confrontata la classe dirigente americana. L’incapacità dei leader della zona euro ad accordarsi su una politica ordinata e consensuale di sostegno ai paesi europei non più capaci di far fronte al rimborso dei loro debiti, rileva solo gli antagonismi di interessi meschini dei leader di ogni capitale nazionale. Ciò riflette una realtà molto più profonda e ancora più drammatica per il capitalismo. La borghesia si sta semplicemente rendendo conto che un nuovo e consistente sostegno dell’economia, come quello praticato tra il 2008 e il 2010, è particolarmente pericoloso. Perché rischia di provocare sia il crollo del valore dei buoni del tesoro dei diversi paesi che quello della moneta di questi stessi paesi, compreso l’euro; crollo che annuncia, in questi ultimi mesi, lo sviluppo dell’inflazione.

3. Quali sono le prospettive per l’economia mondiale?

La depressione è lì e la borghesia non può più impedire il suo sviluppo. Ecco quello che ci mostra l’estate 2011. La tempesta è scoppiata. La prima potenza mondiale intorno alla quale si organizza tutta l’economia del mondo dal 1945 è sulla strada del default[5]. Impossibile da immaginare solo qualche tempo fa, questa realtà storica marca a fuoco il processo di fallimento di tutta l’economia mondiale. Il ruolo di locomotiva dell’economia svolto dagli Stati Uniti da oltre 60 anni è ormai superato. Gli Stati Uniti lo stanno dimostrando pubblicamente. Essi non possono più continuare come prima, a prescindere dall’importo del riacquisto di una parte del loro debito da parte di paesi come la Cina o l’Arabia Saudita. Il loro proprio finanziamento è diventato un grande problema e, di conseguenza, sono da ora in poi incapaci di sostenere la domanda mondiale. Chi se ne farà carico al loro posto? La risposta è semplice: nessuno! La zona euro non può che andare di crisi in crisi, sia a livello di debito pubblico che privato, incamminandosi a breve verso l’esplosione di questa zona nella sua configurazione attuale. I famosi “paesi emergenti”, tra cui la Cina, sono, per quanto li riguarda, completamente dipendenti dai mercati americani, europei e giapponesi. Nonostante i loro costi di produzione molto bassi, questi ultimi anni mostrano che si tratta di economie che si sviluppano attraverso ciò che viene chiamato dai media una “bolla economica”, vale a dire un investimento enorme che non potrà mai essere redditizio. E’ lo stesso fenomeno che abbiamo ben conosciuto con quello che gli esperti ed i media hanno chiamato “crisi immobiliare” negli Stati Uniti e la “new economy” qualche anno prima. In entrambi i casi abbiamo assistito allo stesso risultato: un crollo. La Cina ha voglia di aumentare il costo del proprio credito, ma non c’è niente da fare. Dei crack minacciano l’Impero di Mezzo ad immagine di ciò che sta accadendo in Occidente. La Cina, l’India, il Brasile, lungi dall’essere i futuri poli di crescita dell’economia, non possono che prendere il loro posto nel processo di depressione mondiale. L’insieme di tutte queste crepe nell’economia sarà un potente fattore di destabilizzazione e di disorganizzazione di questa. Quello che sta accadendo attualmente negli Stati Uniti e nell’Eurozona spinge il mondo in una depressione e verso dei fallimenti che si alimentano a vicenda in maniera sempre più rapida e profonda. La tregua relativa che abbiamo avuto dalla metà del 2009 è dunque terminata. Il processo di bancarotta in cui l’economia capitalistica mondiale è adesso entrata non pone solo agli sfruttati del mondo intero la necessità di rifiutare di pagare gli effetti quotidiani di questa grave crisi del sistema. Con questo, non è più solo una questione di licenziamenti di massa o di riduzione dei nostri salari reali. Ciò che la situazione implica è l’avvio di un processo di generalizzazione della miseria, una incapacità crescente per tutti i proletari di soddisfare i loro bisogni più elementari. Questa prospettiva drammatica ci obbliga a comprendere che non è una forma particolare di capitalismo che sta crollando, come il capitale finanziario, per esempio, ma il capitalismo in quanto tale. E’ l’intera società capitalistica che viene trascinata verso l’abisso e noi con essa, se non reagiamo. Non vi è altra alternativa che il suo completo rovesciamento, che lo sviluppo della lotta di massa contro questo sistema putrescente, portatore di morte e senza futuro. Al fallimento del capitalismo dobbiamo opporre una nuova società in cui gli uomini non producano a vantaggio solo di alcuni, ma per soddisfare i bisogni umani, una società veramente umana, collettiva e solidale. Questa società è il comunismo (che non ha nulla a che fare con i regimi politici e i loro modelli economici di sfruttamento forniti dall’ex Unione Sovietica o dalla Cina). Questa società è necessaria e possibile al tempo stesso.

TX (14/08/2011)



[1] Si definisce depressione un lungo periodo di caduta dell’attività economica, come è avvenuto negli anni 1930. I media parlano oggi del rischio di una nuova “recessione”. Il governo americano definisce una “recessione” come un calo della produzione per tre trimestri consecutivi. Se possiamo definire il periodo attuale di depressione è perché il periodo di stagnazione e di declino della produzione, nel quale ci troviamo, non ha nulla a che vedere, come mostrato nel resto dell’articolo, con la durata limitata che definisce, secondo la classe dominante, una recessione.

[2] Le banche centrali creano sempre della moneta per permettere alla massa di merci create dal capitale nazionale di circolare; l’aumento della creazione di moneta dipende dunque, in tempi normali, dalla crescita della produzione. Di fatto, dall’inizio dell’aggravarsi della crisi nel 2007, le banche centrali hanno creato molta più moneta di quanto fosse necessario per la circolazione delle merci (che si sono globalmente ridotte nei paesi sviluppati), perché si è reso rapidamente necessario per loro acquistare dalle banche e dagli altri Stati dei titoli che non potevano essere rimborsati al loro valore da parte dei debitori. Nonostante questo aumento, poiché era diventato evidente che né le banche americane, né lo Stato americano erano in grado di rimborsare un gran numero di debiti, si è reso necessario alla Federal Reserve emettere più denaro di quanto il suo status e i suoi libri contabili avrebbero dovuto permettergli per riscattare questi debiti “imputriditi”. Così alla fine del 2009, ha deciso di emettere una somma supplementare di 1.700 miliardi di dollari (detto Quantitative Easing - QE n°1) e, nel novembre 2010, per lo stesso scopo, un nuovo importo di denaro chiamato QE n°2 di 600 miliardi di dollari.

[3] Il rating è un metodo utilizzato per classificare sia i titoli obbligazionari, che le imprese (vedi anche modelli di rating IRB [151] secondo Basilea 2 [152]) in base alla loro rischiosità. In questo caso, essi si definiscono rating di merito creditizio. AAA = indice di rating che corrisponde ad una situazione di elevata capacità di ripagare il debito. (https://it.wikipedia.org/wiki/Rating [153])

[4] Il Tea Party (https://it.wikipedia.org/wiki/Boston_Tea_Party [139]) è un movimento politico populista americano che é generalmente riconosciuto come conservatore e libertario. Sostiene la necessità che i governi spendano meno e che ci siano meno tasse in modo da ridurre il debito nazionale e il deficit budgetario federale.

[5] Nell’ambito della finanza viene definita come situazione di default (in italiano insolvenza) l’incapacità tecnica di un’emittente di rispettare le clausole contrattuali previste dal regolamento del finanziamento (da https://it.wikipedia.org/wiki/Default_%28finanza%29 [163]).

Questioni teoriche: 

  • Economia [7]

Proteste in Israele: “Mubarak, Assad, Netanyahu. Sono tutti uguali!”

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[164]

In Israele, nelle ultime tre settimane, centinaia di migliaia di persone hanno manifestato per le strade per protestare contro l’aumento vertiginoso del costo della vita, la crescente difficoltà per il ceto medio di farsi una casa, lo smantellamento dei servizi di welfare. I manifestanti chiedono “giustizia sociale”, ma molti parlano anche di “rivoluzione”. Essi non fanno mistero del fatto che sono stati ispirati dall’ondata di rivolte nel mondo arabo, ora diffusa in Spagna e Grecia. Il primo ministro israeliano Netanyahu, le cui politiche sfacciatamente di destra sembravano aver guadagnato un seguito popolare, viene improvvisamente confrontato con il dittatori d’Egitto (Mubarak, ora sotto processo per aver sparato contro i manifestanti) e della Siria (Assad, che sta ordinando stragi atroci contro una popolazione sempre più esasperata con il suo regime).

Come i movimenti nel mondo arabo ed in Europa, le manifestazioni e le tendopoli che stanno sorgendo in numerose città di Israele, e a Tel Aviv in particolare, sembrano provenire dal nulla: dei messaggi su Facebook, alcune persone che montano la tenda in piazza ... e da questo, da un week-end all’altro ci sono stati tra 50.000 e 150.000 dimostranti che marciano a Tel Aviv, (con più di 200.000 sabato 6 agosto) e forse un numero tre o quattro volte superiore di persone nell’intero paese, con una maggioranza di giovani.

Come negli altri paesi, i dimostranti si sono scontrati frequentemente con la polizia. Come negli altri paesi, i partiti politici ufficiali ed i sindacati non hanno svolto un ruolo di primo piano nel movimento, anche se sono certamente presenti. Le persone coinvolte nel movimento sono spesso legate ad idee di democrazia diretta e anche all’anarchismo. Un manifestante intervistato al telegiornale di RT news network cui era stato chiesto se le proteste erano state ispirate dagli eventi nei paesi arabi ha risposto: “C’è una grande influenza di quello che è successo in piazza Tahrir ... C’è una grande influenza naturalmente. Questo è quando la gente capisce che hanno il potere, che possono organizzarsi da soli, che non hanno più bisogno di un governo che dica loro cosa devono fare, ma che loro possono cominciare a dire al governo quello che vogliono”. Questi punti di vista, anche se esprimono solo l’opinione di una minoranza consapevole, certamente riflettono una sensazione molto più generale di disillusione con l’intero sistema politico borghese, sia nella sua forma dittatoriale che democratica.

Come i suoi omologhi altrove, questo movimento è storico nel suo significato, come osservato da un giornalista israeliano, Noam Sheizaf: “A differenza della Siria o della Libia, dove i relativi dittatori macellano i propri cittadini a centinaia, non è stata mai l’oppressione che ha garantito l’ordine sociale in Israele, per quanto riguarda la società ebraica. E’ stato invece l’indottrinamento - una ideologia dominante, per usare un termine preferito dai teorici critici. Ed é questo ordine culturale che è stato intaccato in questo giro di proteste. Per la prima volta, una parte importante della classe media ebraica - è troppo presto per valutare quanto grande sia questo gruppo - ha riconosciuto che il suo problema non è con altri israeliani, o con gli arabi, o con un politico determinato, ma con l'intero ordine sociale, con l'intero sistema. In questo senso, è un evento unico nella storia d'Israele”. È per questo che questa protesta ha un tale enorme potenziale. Questo è anche il motivo per cui non dobbiamo guardare solo la ricaduta politica immediata - non credo che vedremo la caduta del governo in tempi brevi - ma le conseguenze a lungo termine, la corrente sotterranea, che sicuramente arriverà”.[1]

Minimizzare l’importanza degli eventi

Eppure ci sono quelli che sono ben felici di sminuire il significato di questi eventi. La stampa ufficiale ha in grande misura ignorato del tutto gli avvenimenti. Ci sono da 800 a 1.000 giornalisti esteri accreditati a Gerusalemme (secondi per numero solo a quelli di Washington), che hanno solo cominciato a mostrare qualche interesse dopo che il movimento era già in corso da un paio di settimane. Dovremo cercare a lungo e duramente per avere qualche menzione di questo movimento in giornali “progressisti” come il Guardian o Socialist Worker in Gran Bretagna.

Un'altra questione è quella di etichettare questo come un movimento della “classe media”. E 'vero che, come per tutti gli altri movimenti, siamo di fronte a una rivolta sociale ampia che può esprimere l’insoddisfazione di molti diversi strati sociali, dai piccoli imprenditori ai lavoratori nei punti di produzione, tutti colpiti dalla crisi economica mondiale, un divario crescente tra ricchi e poveri e, in un paese come Israele, dall’aggravamento delle condizioni di vita per le insaziabili esigenze dell’economia di guerra. Ma “classe media” è diventata un’espressione vaga, onnicomprensiva che indica chiunque abbia un titolo di studio o un lavoro, e in Israele come in Nord Africa, Spagna o Grecia, un numero crescente di giovani istruiti sono spinti nei ranghi del proletariato, svolgendo lavori mal retribuiti e non qualificati, dove possono anche non trovare affatto alcun lavoro. In ogni caso, anche settori di classe operaia più “classici” sono stati coinvolti nelle manifestazioni: il settore pubblico e i lavoratori dell’industria, i settori più poveri dei disoccupati, alcuni dei quali immigrati non ebrei dall’Africa e da altri paesi del terzo mondo. C’è stato anche uno sciopero generale di 24 ore quando la federazione sindacale Histradut ha cercato di affrontare il malcontento dei propri membri.

Ma i più grandi detrattori del movimento sono quelli dell’estrema sinistra. Ecco ad esempio quello che viene riportato su uno dei post su libcom [165][2]: “Ho avuto una grande discussione con una dirigente del SWP del mio ramo sindacale, secondo la quale Israele non aveva una classe operaia. Le ho allora chiesto che guidava gli autobus, chi costruiva le strade, chi si occupava dei bambini, ecc., al che lei ha schivato la domanda ed ha farneticato su sionismo e occupazione”.

La stessa pagina di libcom contiene anche un link ad un blog gauchiste [166][3] che presenta una versione più sofisticata di questo argomento: “Certamente, ogni livello della società israeliana, dai sindacati ai sistemi di istruzione, le forze armate e i partiti politici dominanti, sono implicati nel sistema di apartheid. Questo è stato vero fin dall’inizio, nelle forme embrionali dello Stato israeliano costruito nel periodo del Mandato britannico. Israele è una società di coloni, e questo ha conseguenze enormi per lo sviluppo della coscienza di classe. Finché prospera sulla costruzione di avamposti coloniali, finché le persone identificano i loro interessi con l’espansione del colonialismo, ci saranno scarse prospettive che la classe operaia sviluppi un’azione indipendente rivoluzionaria. Non si tratta solo di una società di coloni, ma è anche una finanziata con risorse materiali dell’imperialismo americano”.

L’idea che la classe operaia israeliana rappresenti un caso particolare conduce molti gauchiste a sostenere che il movimento di protesta non dovrebbe essere sostenuto, o che dovrebbe essere sostenuto solo se prima esso prendesse posizione sulla questione palestinese: “Le proteste sociali sono state riconosciute come le più ampie che si siano svolte in Israele dagli anni 1970 e si prevede che provochino politiche di riforme o addirittura un rimpasto governativo. Ma finché le riforme non saranno indirizzate tutte sulle questioni che stanno al centro della situazione oppressiva e discriminatoria della casa in Israele, finché i cambiamenti di politica non mettono i Palestinesi su un piano di parità con gli Israeliani, finché gli annunci di sfratto non vengono più distribuiti per un capriccio, le riforme sono infondate e le proteste sono inutili”, da La protesta unilaterale, “liberale” per le case è un movimento a cui non vale la pena partecipare e neanche difenderlo, Sami Kishawi, Sixteen Minutes to Palestine blog.

In Spagna, tra i partecipanti al movimento 15M, dibattiti simili hanno avuto luogo, per esempio intorno ad una proposta secondo cui “i manifestanti israeliani dovrebbero essere sostenuti solo se “prendono una posizione come movimento sulla questione palestinese, denunciando chiaramente e apertamente l’occupazione, il blocco di Gaza e [chiedendo] la fine degli insediamenti” (dalla stessa pagina su Libcom).

Questi argomenti gauchiste ricevono una risposta nella pratica dello stesso movimento in Israele. Tanto per cominciare, la contestazione che sta avendo luogo nelle strade di Israele sta già sfidando la divisione tra ebrei, arabi ed altri. Alcuni esempi: a Jaffa, decine di manifestanti arabi ed ebrei portavano cartelli in ebraico e in arabo con la scritta “Arabi ed ebrei vogliono alloggi a prezzi accessibili”, e “Jaffa non vuole offerte per i soli ricchi”.

Attivisti arabi hanno creato un accampamento nel centro di Taibeh[4] e centinaia di persone lo visitano ogni sera. “Questa è una protesta sociale derivante dal disagio profondo nella comunità araba. Tutti gli arabi soffrono per il costo della vita e la carenza di alloggi” ha detto uno degli organizzatori, il dott. Zoheir Tibi. Un certo numero di giovani drusi[5] hanno piantato tende al di fuori dei villaggi di Yarka e Julis nella Galilea occidentale. “Stiamo cercando di attirare tutti alla tenda per farli unire alla protesta” ha detto Wajdi Khatar, uno degli iniziatori della protesta. Un campo comune ebraico e palestinese è stato costituito nella città di Akko, così come nella parte orientale di Gerusalemme dove ci sono state proteste continue sia di ebrei che di arabi contro gli sfratti di questi ultimi dal quartiere di Sheikh Jarrah. A Tel Aviv, ci sono stati contatti con i residenti dei campi profughi nei territori occupati, che hanno fatto visita alle tendopoli e si sono impegnati in discussioni con i manifestanti[6].

Al Levinsky Park, nel sud di Tel Aviv, dove la seconda più grande tendopoli della città ha resistito per quasi una settimana, lunedì 1° agosto oltre un centinaio di migranti africani e di rifugiati si sono riuniti per una discussione [167] sulle proteste che si stanno svolgendo in tutta Israele sulla qualità della vita.

Non c’è motivo di rassegnarsi all’austerità

Numerosi manifestanti hanno espresso la loro frustrazione per il modo in cui viene utilizzato il ritornello incessante sulla “sicurezza” e la “minaccia del terrorismo” per far sopportare la crescente miseria economica e sociale. Alcuni hanno apertamente messo in guardia rispetto al pericolo che il governo possa provocare scontri militari o addirittura una nuova guerra per ripristinare l’“unità nazionale” e dividere così il movimento di protesta[7]. Apparentemente, il governo Netanyahu al momento sembra essere sulla difensiva, colto di sorpresa e alla ricerca di contentini da offrire per raffreddare il movimento. Resta il fatto che c’è davvero una consapevolezza crescente che la situazione militare e la situazione sociale siano strettamente collegate.

Come sempre, la situazione materiale della classe lavoratrice è la chiave per lo sviluppo della coscienza, e il movimento sociale attuale sta fortemente accelerando la possibilità di inquadrare la situazione militare da un punto di vista di classe. Il proletariato israeliano, spesso descritto dalla sinistra del capitale come una casta “privilegiata” che vive sulla miseria dei palestinesi, paga attualmente molto pesantemente lo sforzo bellico israeliano a livello di vite umane, danni psicologici e impoverimento materiale. Un esempio molto preciso legato ad una delle questioni chiave che stanno dietro il movimento attuale é quello degli alloggi: il governo sta riversando una quantità enormemente sproporzionata di denaro nella costruzione di insediamenti nei territori occupati piuttosto che aumentare lo stock di abitazioni nel resto di Israele.

L’importanza dell’attuale movimento in Israele, nonostante tutte le sue confusioni ed esitazioni, è che esso ha confermato molto chiaramente l’esistenza dello sfruttamento di classe e del conflitto di classe all’interno dell’apparente monolite nazionale di Israele. La difesa delle condizioni di vita della classe operaia si scontrerà inevitabilmente con la richiesta di sacrifici per la guerra; di conseguenza, tutte le questioni politiche concrete poste dalla guerra dovranno essere sollevate, discusse e chiarite: le leggi sull’apartheid in Israele e i territori occupati, la brutalità dell’occupazione, la coscrizione, fino all’ideologia del sionismo e al falso ideale dello Stato ebraico. Certo, queste sono questioni difficili che possono provocare divisioni e vi è stata una forte attenzione a cercare di evitare di sollevarle direttamente. Ma la politica ha un modo di introdursi in ogni conflitto sociale. Un esempio di ciò è stato il crescente conflitto tra i manifestanti e i rappresentanti di estrema destra, i Kahanists che vogliono espellere gli arabi da Israele ed i coloni fondamentalisti che vedono i manifestanti come traditori.

Ma non si farebbe nessun passo avanti se il movimento respingesse queste ideologie di destra e adottasse le posizioni dell’ala sinistra del capitale: sostegno al nazionalismo palestinese, per una soluzione con due Stati o uno “Stato democratico laico”. L’attuale ondata internazionale di rivolte contro l’austerità capitalista sta aprendo la porta a tutt’altra soluzione: la solidarietà di tutti gli sfruttati al di là di ogni divisione religiosa o nazionale; la lotta di classe in tutti i paesi con l’obiettivo finale di un mondo nuovo che sarà la negazione dei confini nazionali e degli Stati. Uno o due anni fa una tale prospettiva sarebbe sembrata completamente utopica ai più. Oggi, un numero crescente di persone si rende conto che una rivoluzione globale costituisce un’alternativa realistica al collasso dell’ordine del capitalista globale.

Amos 7/8/11

 

[1] Vedi: The real importance of the tent protest [168]

[2] Libcom (abbreviazione di libertarian communism) é un sito web libertario-comunista che ospita anche forum, blog, ecc.

[3] Il termine gauchiste, che per il dizionario di lingua italiana rappresenta chi “milita nella o simpatizza per la sinistra extraparlamentare” (Sabatini Coletti), ha per noi più in generale il significato di chi si fa portatore di una ideologia di sinistra e soprattutto di estrema sinistra borghese.

[4] Taibeh: città della Cisgiordania che dista 30 km a Nord-Est di Gerusalemme.

[5] Il termine Drusi indica i seguaci di una religione, di derivazione musulmana.

[6] Uno degli israeliani che prendeva parte a questi incontri ha descritto gli effetti positivi [169] che le discussioni hanno avuto sullo sviluppo della consapevolezza e della solidarietà: “I nostri ospiti, alcuni con un pio copricapo, ascoltano attentamente la storia relativa ai giovani della classe media ebraica, che sono senza un posto dove vivere, studiare e lavorare. Le tende sono così tante, così piccole. Annuiscono con stupore, esprimendo simpatia o forse anche un certo piacere per le nuove potenzialità che si aprono sul piano della solidarietà. Una lingua tagliente si affretta allora a fare una battuta a cui nessuno di noi avrebbe mai pensato: “Hada Muchayem Lajiyin Israeliyin” – “Un campo profughi per gli israeliani”, esclama.

“Ridiamo a questa battuta intelligente. Nessuna somiglianza di certo - o forse solo un po’, dopo tutto. I giovani di Rothschild [si tratta di Rothschild Boulevard, una delle principali arterie di Tel Aviv, ndr] (che Allah li aiuti, che le loro proteste portino loro dei frutti), sono presumibilmente in grado di alzarsi in qualsiasi momento e di tornare alla vita triste cui erano abituati prima di stabilirsi nel torrido Boulevard. Tuttavia, essi sono condannati a vita ai margini inferiori della catena israeliana di alloggi - senza proprietà, senza terra e senza tetto per loro. Alcune delle donne che abbiamo con noi questa sera - esuberanti, piene di curiosità e amanti del divertimento - hanno vissuto in “veri” campi profughi per la gran parte della loro vita. Alcune sono nate lì, altre si sono sposate e si sono trasferite per condividere il destino di famiglie numerose concentrate in case fatiscenti che erano partite all’inizio come tende provvisorie alla periferia delle città e villaggi della West Bank molti anni fa.

“I residenti arrabbiati dei “campi profughi” di Israele in tutto il paese stanno attraversando in questi giorni un processo di risveglio dalla falsa coscienza che li ha portati a questo momento delicato dell’estate del 2011. Non è un processo facile, ma vale la pena fare lo sforzo per andare alla radice dei nostri problemi. Quelli di noi, che ebbero il privilegio lo scorso fine settimana di ballare, cantare e di abbracciarsi su un terrazzo di Tel Aviv con i nostri amici provenienti dai villaggi e dai campi profughi dei territori occupati, non accetteranno mai di rinunciare al caldo contatto umano con le persone che un tempo consideravamo nemici. Basti pensare a quanti buoni appartamenti potrebbero essere prodotti con il patrimonio sprecato nel corso dei decenni per fortificare lo stupido concetto che tutti quelli che non sono ebrei costituiscono un “pericolo per la nostra demografia”.

[7] Si veda ad esempio l’intervista con Stav Shafir su RT news [170].

Geografiche: 

  • Israele [171]

Patrimonio della Sinistra Comunista: 

  • Lotta proletaria [5]

Manovra finanziaria: un salasso da capogiro che servirà solo a peggiorare la situazione

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Da anni ormai c’eravamo abituati a temere il momento del varo della legge di bilancio dello Stato (“La finanziaria”), perché da anni ormai queste finanziarie significano sacrifici per i lavoratori, ma quello che sta succedendo da luglio è una novità assoluta: sotto i colpi della tempesta finanziaria internazionale le manovre economiche ormai vengono varate a ripetizione, e tutte hanno sempre lo stesso carattere di dissanguamento dei lavoratori. Tra luglio e settembre sono state varate due manovre finanziarie che si proiettano al 2014, anno in cui viene promesso il pareggio di bilancio, e che superano i 60 miliardi di euro[1].

Questa violenta accelerazione degli attacchi è l’immediata conseguenza di un nuovo aggravamento della crisi economico-finanziaria scoppiata nel 2008 e che non era mai stata superata, al di là di una relativa ed effimera ripresa della produzione.

Ed infatti i motivi che l’hanno provocata nel 2008 non solo sono tutti lì, ma si sono anche aggravati: i debiti sovrani, cioè i debiti degli Stati, sono ulteriormente aumentati, sia per l’aiuto dato alle banche per salvarle dal fallimento (almeno per alcuni Stati come gli USA), sia per la mancanza di nuove entrate dovuta alla stagnazione dell’economia, un’economia che non è ripartita perché alla base della crisi c’è una carenza di mercati solvibili, cioè di mercati capaci di assorbire, pagandole, tutte le merci che si producono.

Se la “speculazione” si è scatenata contro gli stessi Stati è perché, dopo il venir meno della credibilità (cioè della solvibilità) degli istituti finanziari, è la solvibilità degli Stati a diventare critica: le minori entrate degli Stati, in diminuzione per la recessione, mettono in pericolo la capacità di questi di pagare gli interessi del debito accumulato, il che significa che, per poter convincere il mercato a comprare i propri titoli, gli Stati devono aumentare i loro rendimenti, con il conseguente aggravamento del debito, e così via.

Perciò gli Stati non hanno altra strada che quella di ridurre le proprie spese e cercare di rastrellare risorse dall’insieme della popolazione, ed, evidentemente, in primo luogo dalla classe operaia[2].

E’ quello che da più di due anni sta facendo il governo greco, che ha varato misure di austerità mai viste prima, da nuove tasse su tutto al licenziamento del 20% degli impiegati statali (in Italia una misura di questo tipo significherebbe più di 600.000 licenziamenti).

E’ quello che sta facendo il governo Berlusconi e non solo da questa estate: al blocco dei salari dei lavoratori del P.I. ormai da due anni (e il blocco degli scatti di anzianità significa, per quelli che l’avrebbero maturato in questi anni, la perdita di più di mille euro all’anno, ben più di quello che veniva richiesto con il cosiddetto contributo di solidarietà ai redditi, per es., di 100.000 euro), al licenziamento di più di 100.000 precari della scuola, il più grosso piano di licenziamenti che ci sia mai stato in Italia e passato quasi sotto silenzio (se non fosse per le lotte dei precari), ai ticket sulle ricette per i medicinali si aggiungono ora le misure prese in queste due ultime manovre estive:

  • innanzitutto l’aumento dell’IVA dal 20 al 21% che, come è stato già calcolato, implicherà una maggiore spesa, per una famiglia media, superiore ai 150 euro annui, sempreché i commercianti si limitino ad applicare l’aumento dell’1% e non aggiungano nulla di loro per “arrotondare” (in questa previsione, piuttosto realistica, c’è chi arriva a calcolare un aggravio di spesa di 400 euro all’anno);
  • i tagli agli enti locali, che implicano il necessario aumento delle tasse locali e la conseguente riduzione dei servizi sociali: già sono stati annunciati tagli ai servizi scolastici e sono già operativi quelli al trasporto locale, con la soppressione di corse su tutto l’arco della giornata il che equivale ad un allungamento significativo del tempo che i lavoratori che ne fanno uso devono impiegare per recarsi al lavoro;
  • tagli alle spese dei ministeri (6 miliardi nel 2012, 2 e mezzo nel 2013), che ancora non si sa bene che conseguenze avranno, certo comunque non di miglioramento del funzionamento della pubblica amministrazione, come si può vedere dai tagli già annunciati, per esempio, ai finanziamenti delle scuole, che sempre di più sono costrette a chiedere contributi ai genitori anche per comprare la carta igienica;
  • riduzione delle agevolazioni fiscali: anche queste non sono state ancora ben definite, ma sicuramente si ridurranno o si aboliranno le detrazioni (quelle per spese mediche, mutui, spese scolastiche, ecc.);
  • anticipo dello spostamento della pensione di vecchiaia a 65 anni per le donne che lavorano nel settore privato (per quelle che lavorano nel pubblico questo è già stato stabilito tutto in una volta l’anno scorso): oltre a imporre un allungamento dell’età lavorativa a chi ha già ceduto decine dei propri anni per arricchire il proprio padrone, questa misura è un ulteriore schiaffo in faccia ai giovani che sempre meno trovano lavoro (la disoccupazione giovanile supera ormai il 30% su base nazionale);
  • articolo 8: “Saranno possibili deroghe alle leggi nazionali sul contratto di lavoro per gli accordi aziendali e territoriali, comprese quelle sui licenziamenti fatti salvi quelli discriminatori quindi i diritti legati alla maternità e ai congedi parentali”; questo articolo non c’entra niente con la riduzione del debito statale, né serve a “rilanciare l’economia”, il suo significato è strettamente politico ed esprime un certo odio di classe nei confronti dei lavoratori (in particolar modo da parte del ministro Sacconi): infatti già oggi un’azienda che non riesce a stare sul mercato può licenziare senza problemi[3], per cui questo articolo serve solo ad autorizzare proprio gli abusi e il ricatto che, soprattutto nelle piccole fabbriche, i padroni potranno esercitare nei confronti dei lavoratori con la minaccia dei licenziamenti.

Per tornare alla questione economica, ci siamo limitati a ricordare le misure più importanti che il governo ha preso sotto la spinta degli attacchi della speculazione, che rischiavano di far salire gli interessi sui BOT a valori insostenibili per lo Stato. Una speculazione che, da un lato, deriva dalla situazione di perdita di fiducia anche verso gli Stati sovrani e la loro capacità di far fronte ai propri debiti, ma che per l’Italia si acuisce per la presenza di un governo che sempre più si mostra non all’altezza della drammatica situazione economica. Se ne è avuto conferma nella confusione che ha accompagnato il varo di queste due manovre: la prima è stata giudicata, dai mercati e dalla BCE, non abbastanza efficace, almeno per i tempi di attuazione; la seconda ha avuto 4 riscritture prima di arrivare a quella che abbiamo descritto sopra. In più molte delle misure prese, se certamente significano sacrifici ulteriori per i lavoratori e la popolazione, non garantiscono affatto una uscita dalla crisi, anzi alcune hanno effetti controproducenti tali da annullare i benefici che portano al bilancio dello Stato:

  • l’aumento dell’IVA produrrà certamente una diminuzione dei consumi, il che significa che il gettito complessivo di questa imposta rischia addirittura di diminuire, con i consumi che già rischiano di diminuire per la riduzione del reddito complessivo dei lavoratori, cosa che da un lato si ritorce contro lo Stato, dall’altro ha un effetto recessivo sull’insieme dell’economia, rendendo ancora più difficile quella ripresa che sola potrebbe assicurare un aumento reale e duraturo delle entrate dello Stato;
  • l’allungamento della giornata di lavoro (per l’aumento dei tempi di trasporto) senza un aumento delle ore lavorate, se da un lato peggiora le condizioni di vita dei lavoratori, dall’altro non ne ricava un aumento della produttività, anzi, visto che i lavoratori arriveranno già stanchi al lavoro, rischia di diminuirla.

La conseguenza di tutto questo è che presto ci vorranno altre manovre, altri sacrifici; e non siamo solo noi a dirlo, ma molti commentatori borghesi stessi: già si vocifera di un intervento più massiccio sulle pensioni, con il probabile allungamento dell’età lavorativa se non la riduzione pura e semplice delle pensioni di anzianità. E’ per questo che si parla ancora di un nuovo governo, un governo più ampio, che abbia la forza e il coraggio di prendere ulteriori misure antipopolari, e magari più efficaci (che è la vera critica che tutta l’opposizione fa a Berlusconi, un leader sempre più preso dai suoi affari personali e che non difende abbastanza gli interessi del capitale nazionale).

Insomma la borghesia si prepara a sferrare nuovi e più pesanti attacchi ai lavoratori, a questi tocca tirare le somme di quanto sta accadendo e prepararsi a loro volta a rispondere agli attacchi con le loro lotte.

Helios, 20/09/2011



[1] Poiché le due manovre si sommano e la seconda riprende anticipando alcune misure prese nella prima, è anche difficile sapere esattamente il valore della cifra che le due manovre si propongono di recuperare.

[2] Per una analisi più approfondita della situazione economica mondiale, vedere l’articolo Crisi economica mondiale: un’estate micidiale [172] e la parte sulla crisi della Risoluzione sulla situazione internazionale del XIX congresso della CCI [173], entrambi pubblicati su CCI online.

[3] Dobbiamo ricordare Termini Imerese, Eutelia, Irisbus, …?

Geografiche: 

  • Italia [9]

Situazione italiana: 

  • economia italiana [45]
  • politica della borghesia in Italia [32]

Questioni teoriche: 

  • Economia [7]

Ma quali sono le alternative che ci propongono le sinistre per risolvere la questione del debito?

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La maggioranza ha tirato un sospiro di sollievo dopo il voto di fiducia dato alla nuova manovra per aver allentato finalmente la pressione dei mercati, della UE e del presidente Napolitano. Ma sembrerebbe che anche l’opposizione parlamentare, nonostante le polemiche di facciata, abbia tratto vantaggio dal passaggio secco di questa manovra. Come dice La Stampa dell’8 settembre riguardo al voto al Senato: “Il voto di fiducia è stato chiesto per evitare sorprese e per abbreviare i tempi di approvazione, malgrado Pd e Terzo polo avessero deciso di dare il via libera alla manovra entro oggi rinunciando a molti emendamenti e riducendo al minimo gli interventi nel dibattito generale.”[1] In altri termini le opposizioni si sono risparmiate finanche di fare quel minimo di sfoggio di opposizione di fronte a delle misure che andavano prese in ogni caso perché, contrariamente a quanto vorrebbero far credere, il problema non è Berlusconi e il suo governo ma la crisi economica internazionale che colpisce tutto il mondo, nessun paese escluso, e che richiede dappertutto misure di una severità del tutto inedita. D’altra parte le opposizioni attuali, ed in particolare le sinistre, si sono già tante volte sporcate le mani nell’appoggiare o nel promuovere in prima persona - quando erano al governo - misure vergognose contro i lavoratori: lo hanno fatto a luglio scorso con la finanziaria, quando hanno difeso “l’onorabilità” dell’Italia nel pagamento del debito pubblico per evitare l’abbassamento del rating; lo hanno fatto votando a favore delle varie missioni di guerra all’estero o conducendo in prima persona la guerra, come per l’intervento contro la Serbia del governo D’Alema nel 1999; lo hanno fatto stravolgendo il mercato del lavoro con l’introduzione legale del precariato e garantendo di fatto il mantenimento e lo sviluppo del lavoro nero, ed ancora appoggiando o promuovendo le più grandi manovre finanziarie come al solito pagate dai lavoratori, come la sonora batosta che dette il governo di “sinistra” Amato. E se qualcuno avesse speranze di un ravvedimento per il futuro, si legga quello che ha detto il “sinistro” del PD Veltroni nel suo intervento alla Camera del 14 settembre: “Non manovre, riforme. Subito un Governo con un ampio sostegno parlamentare che possa affrontare l’emergenza e compiere le scelte più dolorose. È quello che fecero, con successo, Giuliano Amato e Carlo Azeglio Ciampi.”[2] Appunto quello che dicevamo! Infatti, le scelte dolorose dei due ex presidenti del consiglio nominati consisterono non solo nel fare man bassa sui conti correnti di tutti gli italiani, racimolando soldi anche dai pensionati, ma anche nel fare tagli e licenziamenti nelle ferrovie e nella scuola, nell’applicare ticket al servizio sanitario. In realtà, quello che la sinistra rimprovera a Berlusconi non è di non fare tagli, ma di non essere capace di affondare fino in fondo il coltello.

Ma, al di là dell’opposizione parlamentare, quali sono le proposte che girano. E’ possibile che ci sia una maniera per risolvere il problema del debito senza intaccare i lavoratori? E chi se ne fa portavoce? Dappertutto è un fiorire di iniziative e discussioni, soprattutto sui social network come Facebook, su come risolvere la questione del debito dello Stato, del deficit, e far riprendere l’economia. Ma quello che caratterizza l’insieme delle proposte è un muoversi all’interno delle compatibilità del sistema capitalista. Molti infatti non credono che sia possibile una società alternativa al capitalismo e si danno da fare per lanciare proposte atte a far quadrare i bilanci di questa società. Ma è possibile?

Si può combattere meglio l’evasione fiscale?

Una prima riguarda la tanto invocata questione dell’evasione fiscale. Per l’Italia effettivamente ci sarebbe da fare non pochi soldi se si potessero mettere le mani su quello che altri non pagano:

“Dieci finanziarie ogni anno. È l'ammontare dell’evasione fiscale in Italia: ogni anno circa 300 miliardi di euro di imponibile vengono sottratte all’erario. Di queste, l’evasione di imposte dirette è 115 miliardi di euro, l'economia sommersa sottrae 105 miliardi, la criminalità organizzata 40 miliardi e 25 miliardi chi ha il secondo o terzo lavoro. La stima è stata fatta da Krls Network of Business Ethics per conto di Contribuenti.it, Associazione contribuenti italiani, elaborando dati ministeriali e dell’Istat.”[3]

E’ proprio su questo che ad esempio punta il dito una serie di associazioni a livello internazionale, legate da una parola d’ordine: “Chiudiamo i paradisi fiscali”[4], e la cui posta viene rincarata da Beppe Grillo quando, rispondendo al presidente dei vescovi italiani cardinale Bagnasco che se la prende con gli evasori fiscali, aggiunge sul suo blog: “Mi trovo per una volta perfettamente d’accordo con Angelo Bagnasco, il presidente dei vescovi. Le sue parole[5] sono miele del deserto (…). Bagnasco dovrebbe far seguire alle parole i fatti, alla predica l’esempio. Proponga il pagamento dell'ICI sui beni immobiliari del Vaticano, ora esenti. Un patrimonio di circa 100.000 fabbricati sui quali non vengono pagati 2 miliardi all'anno[6]. Anche il Vaticano deve fare la "propria giusta parte"”[7].

Il problema è però che l’obiettivo è semplice a dirsi ma complicato da portare avanti. Infatti, se facciamo riferimento alla distribuzione dei 300 miliardi di dollari riportati nella citazione precedente, si capisce come questi non sono capitali che sfuggono all’erario ma sono soltanto l’espressione del particolare funzionamento del capitale nazionale italiano che, con la complicità dei vari governi, trattiene per sé quote di capitale da versare come imposte o perché lavora completamente in nero, come nel caso delle varie mafie, che non sono altro che pezzi di economia che si sono “guadagnate” sul campo una completa indennità fiscale. Incidere su questi capitali nascosti significa per un governo attaccare la stessa classe che rappresenta, e certamente questa non è un’operazione facile da portare avanti. Non è un caso che tutti i governi fanno grandi discorsi contro l’evasione fiscale ma ben pochi fatti. Per quanto poi riguarda la campagna di Grillo sull’applicazione dell’ICI alle proprietà del Vaticano, si tratta di solo 2 miliardi di euro che veramente non cambiano la situazione.

Si possono ridurre o azzerare le spese militari?

Una seconda idea, che viene fuori da tutta l’area pacifista e di sinistra più o meno radicale[8], è quella di azzerare le spese militari, di rinunciare alla partecipazione alle missioni di guerra e, più recentemente, di non acquistare i 131 cacciabombardieri F-35[9]. Il costo di questi caccia è di 16 miliardi di euro, anche se la spesa è spalmata fino al 2026. Ma può uno Stato capitalista privarsi del rinnovo del suo armamentario bellico? Dire di sì significa credere che l’Italia ha inviato l’esercito in Afghanistan, in Libano, nella ex Jugoslavia e altrove per proteggere la popolazione locale e costruire scuole, ospedali ecc. e non per affermare il suo ruolo imperialista nel mondo. D’altra parte per convincersi del grande amore che lo Stato italiano nutre per le popolazioni dei paesi in difficoltà, basta vedere quello che fa per proteggere i profughi che arrivano in Italia, ch sono trattati come clandestini e lasciati in completo abbandono. Dire ad uno Stato che non deve avere armi significa dire ai mafiosi di presentarsi con la chitarra a chiedere i soldi e di mettersi l’avvocato se i commercianti non pagano il pizzo.

Ma perché pagare i debiti dello Stato? Perché non fare come l’Islanda?

Che dire poi della proposta di non pagare il debito estero[10] come sta facendo l’Islanda? In verità, prima di tutto bisogna correggere l’informazione: non si tratta di un debito contratto dallo Stato islandese con banche o Stati esteri. Lo Stato islandese ha nazionalizzato le tre più importanti banche locali, privatizzate nel 2003, poi fallite con la crisi degli anni scorsi. In queste banche avevano investito in conti di risparmio online (IceSave) molti cittadini inglesi e olandesi per i rendimenti elevati. Rendimenti che avevano attratto quantità eccezionali di denaro che superavano di molte volte il Pil nazionale. Dopo il fallimento delle banche, gli investitori esteri sono stati risarciti dai loro governi, soprattutto Gran Bretagna e Olanda, che poi hanno chiesto il rimborso al governo islandese. Data l’enormità della somma da rimborsare rispetto alle esigue finanze di uno Stato da 320 mila abitanti, la popolazione si è rifiutata, attraverso un referendum, di pagare il debito[11]. A prima vista non è successo niente all’Islanda, non sono state viste cannoniere o portaerei all’orizzonte, ma ha avuto il rating del debito sovrano abbassato da Moody's e S&P quasi a spazzatura. Chi presterà più soldi all’Islanda?[12]

Quindi non si tratta di un debito sovrano e soprattutto riguarda uno Staterello. Nel caso, come propongono vari gruppi di estrema sinistra, che l’Italia o la Grecia facessero lo stesso non pagando il loro debito contratto con le istituzioni estere, le cose non andrebbero altrettanto lisce. L’economia sarebbe privata di qualunque aiuto internazionale se non a tassi elevatissimi, tutte le forniture di merci e servizi dall’estero sarebbero sospesi (vedi tra l’altro una quota del 20% dell’energia elettrica consumata nel paese), e il paese crollerebbe in un caos indicibile.

Togliere ai ricchi per dare ai poveri! La colpa è tutta dei banchieri! La società si deve disfare del parassitismo e degli speculatori!

Queste parole d’ordine partono dall’idea che i soldi ci stanno e che basta cercarli dove sono nascosti. Che la società ha tutti i numeri per funzionare bene se non ci fossero i banchieri egoisti e truffatori, se non ci fossero i parassiti e gli speculatori. Ma questa è una falsa impostazione, una mistificazione che serve solo a nascondere alla gente che, all’interno di questo sistema, non c’è niente da fare, non c’è più alcuna possibilità di trovare misure di rilancio dell’economia. E’ questa la posizione che cercano di portare, naturalmente solo a voce, l’insieme dei sindacati e più in generale la sinistra borghese, dal PD a Rifondazione Comunista. In realtà, se si ragiona nel quadro delle compatibilità di questo sistema economico, non si può trovare alcuna soluzione alla crisi del debito, ed in generale dell’economia, semplicemente perché questa crisi non ha soluzione. Questa crisi infatti non è dovuta al gioco spregiudicato di qualche investitore o ai consumi eccessivi di qualche popolazione, ma solo ai meccanismi intrinseci del sistema capitalista che ormai sono andati irreversibilmente in panne[13].

Ma allora, possiamo almeno affidarci ai sindacati?

Per quanto poi riguarda i sindacati, ovvero quelle organizzazioni create dagli stessi lavoratori a costo di lotte lunghe e penose durante la seconda metà del 19° secolo, oggi come oggi queste stesse organizzazioni o si schierano sistematicamente a fianco delle misure governative, come fanno quasi sempre CISL, UIL, UGL, oppure conducono una lotta semplicemente simbolica, come nel caso della CGIL che ha dedicato alla manovra uno sciopero generale il 6 settembre scorso a cui non è seguito nulla più e dopo il quale la manovra è passata liscia come l’olio, trasmettendo di fatto ai lavoratori l’idea che quello che si poteva fare era stato fatto e che di più non si poteva. La verità è che dei sindacati non ci possiamo fidare perché anche loro portano avanti una politica che si muove all’interno delle compatibilità del capitalismo. Finché pensiamo che dobbiamo preoccuparci di risanare i debiti dello Stato, non riusciremo mai a venir fuori da questa logica che ci imprigiona, che ci impedisce di liberare il nostro pensiero, di immaginare che la nostra vera prospettiva è nella lotta senza precondizioni e senza frontiere perché il proletariato non ha nazione e non ha confini. Ma le spinte che vengono dai paesi del nord Africa, dalla Spagna, dalla Grecia e più di recente da Israele aiutano la classe dei proletari a riflettere e a liberarsi dalle false preoccupazioni e ad unirsi alla marea internazionale di lotte che è in corso.

Oblomov,17/9/2011

 

[1] www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/419109

[2] www.camera.it/668?idSeduta=518&resoconto=stenografico&indice=completo&tit=0 [174] oppure beta.partitodemocratico.it/doc/216473/con-la-fiducia-numero-50-passa-alla-camera-una-manovra-iniqua.htm

[3] www.corriere.it/economia/08_settembre_20/evasione_fiscale_ac39d4b0-8701-11dd-bd39-00144f02aabc.shtml [175]

[4] www.endtaxhavensecrecy.org/it/about-us [176]

[5] https://www.repubblica.it/politica/2011/08/19/news/manovra-20609878/?ref=HRER1-1 [177]

[6] https://www.repubblica.it/esteri/2010/09/24/news/ue_ici_chiesa-7373099/ [178].

[7] www.beppegrillo.it/2011/08/lici_del_vatica/index.html [179] “Un patrimonio di circa 100.000 fabbricati sui quali non vengono pagati 2 miliardi all’anno. Anche il Vaticano deve fare la “propria giusta parte”.

[8] Vedi ad esempio il PCL di Marco Ferrando: www.pclavoratori.it/files/index.php?obj=APP&oid=1558 [180].

[9] https://www.disarmo.org/rete/a/29509.html [181].

[10] E’ la proposta che in Italia viene portata avanti ad esempio dal PCL di Marco Ferrando. Vedi www.pclavoratori.it/files/index.php?obj=APP&oid=1558 [180].

[11] Breve storia della questione: promotori.bancaipibi.it/Sergio-Ardemagni/2011/04/13/debito-sovrano-lislanda-rifiuta-i-risarcimenti-a-gran-bretagna-ed-olanda

[12] Vedi l’evoluzione del rating dell’Islanda riportata nel sito seguente: www.sedlabanki.is/?PageID=789 [182]

[13] Vedi “Crisi economica mondiale: un’estate micidiale”, https://it.internationalism.org/node/1075 [172].

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Repressione brutale e manovre imperialiste in Siria

Dopo quattro mesi di manifestazioni e proteste popolari contro la disoccupazione, la repressione e la mancanza di un futuro, gli avvenimenti in Siria prendono una svolta molto più oscura e pericolosa. Con la scusa della lotta contro le “bande armate” e i “terroristi”, il regime siriano ha scatenato il suo terrore sulla popolazione: attacchi aerei, colpi di carri armati, batterie antiaeree, tiri di cecchini, tortura, privazione di acqua, di elettricità, di alimenti per i bambini, ammassamento di persone negli stadi per “l’interrogatorio”, tutto ciò ricorda i regimi più sinistri dell’Africa e dell’America Latina. Almeno 2.000 manifestanti, per lo più disarmati, sono stati uccisi fino ad oggi, con decine di migliaia di rifugiati e molti senzatetto rimasti nel loro paese. Ci sono anche molti soldati disertori che si sono rifiutati di sparare contro altre persone dello stesso popolo.

Solo pochi anni fa, uomini politici come David Milliband (allora ministro degli Esteri britannico) e il presidente francese Nicolas Sarkozy lustravano le scarpe al presidente siriano Bashar al-Assad e al suo regime di assassini e di torturatori, ma oggi le democrazie occidentali gli chiedono in coro di dimettersi. Le potenze Usa, Gran Bretagna, Germania e Francia hanno finora dimostrato una complicità molto prudente, ma reale, nella repressione e nelle atrocità dell’esercito siriano, permettendo alle potenze regionali più piccole di esercitare delle pressioni, pur sostenendo le proprie forze “d’opposizione” all’interno del regime (per esempio, l’appoggio della Gran Bretagna ad un importante leader dissidente, Walid al-Bunni e al suo entourage ). A metà agosto, le grandi potenze di cui sopra, con l’Unione europea, hanno congiuntamente invitato Assad a ritirarsi e minacciato di possibile arresto diverse figure di spicco del regime. Alcuni rapporti indicano che gli Stati Uniti hanno chiesto alla Turchia di non mantenere la sua “zona cuscinetto” rispetto alla Siria e di prendere le distanze rispetto ad una tale provocazione. Tuttavia, gli Stati Uniti hanno notevolmente rafforzato la loro presenza navale nel Mediterraneo al largo delle coste siriane, nel mare Egeo, nell’Adriatico e nel Mar Nero, con una particolare concentrazione in termini di missili anti-missile e di marines. Le democrazie occidentali non si curano affatto della sofferenza della popolazione siriana: tra le altre cose, sono anni che la Gran Bretagna fornisce armi all’esercito siriano per permettergli di reprimere. Ciò che temono di più è che la possibile eliminazione di Assad possa creare una maggiore instabilità e pericoli da parte di “diavoli che ancora non si conoscono”: l’Iran, in particolare, occupa un posto particolarmente importante negli incubi dei ministeri degli Esteri dei paesi occidentali. Tuttavia, l’Arabia Saudita, che ha inviato le sue truppe nel Bahrain per schiacciare le dimostrazioni, è sempre più preoccupata per il crescente rapporto strategico tra la Siria e l’Iran, incluso il loro sostegno a Hezbollah e ad Hamas. Inoltre, “Da qualche tempo, vi sono voci che l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti e il Kuwait finanziano tranquillamente degli oppositori siriani.”[1]

Il caos delle relazioni imperialiste e le crescenti tensioni tra Stati Uniti e Iran

Ai tempi del mondo bipolare della NATO e del Patto di Varsavia, tutto era relativamente semplice nei rapporti imperialistici, ma il crollo dei blocchi ha liberato delle forze centrifughe. Oggi, le alleanze e le rivalità tra le nazioni cambiano in funzione di come tira il vento imperialista dominante. Anche se le relazioni tra Turchia, Iran, Israele, Siria, nelle loro diverse combinazioni, hanno mostrato cambiamenti nel recente passato, la pietra angolare della politica americana e dei suoi necessari piani di guerra è di proteggere Israele e di tenere sotto tiro l’Iran. Una riconciliazione tra Iran e Stati Uniti non è impossibile, ma con il corso degli eventi, uno scontro militare appare più probabile, soprattutto considerando la politica aggressiva che l’imperialismo USA è spinto a condurre per mantenere il suo ruolo di padrino nel mondo.

Le incessanti difficoltà americane in Iraq e la loro tendenza generale a indebolirsi, mantengono in ebollizione l’influenza iraniana in questo paese, soprattutto attraverso la maggiore forza in Iran, i Corpi delle Guardie Rivoluzionarie di Al-Qods. Secondo un rapporto di The Guardian (28 luglio), questa forza tira praticamente le fila del governo iracheno rispetto a quella che è stata una vera guerra tra gli Stati Uniti e gli agenti dell’Iran in Iraq nel corso degli ultimi 8 anni. L’anno scorso, in occasione della riunione a Damasco che ha formato l’attuale governo iracheno, il generale Suleiman, capo di Al-Quds, “era presente (...) con i dirigenti di Siria, Turchia, Iran e di Hezbollah: li ha costretti tutti a cambiare idea e a incoronare Malaki come leader per un secondo mandato”. Il rapporto continua dicendo “che, ad eccezione di due soldati uccisi in Iraq a giugno, da due anni a questa parte il maggior numero di soldati americani sono stati uccisi per opera delle milizie sotto il controllo (della Guardia Rivoluzionaria): le Brigate di Hezbollah e le Brigate del Giorno della Promessa”. L’ambasciatore statunitense in Iraq aveva già riferito che gli agenti iraniani sono responsabili per circa un quarto delle vittime americane in Iraq (1100 morti e migliaia di feriti).

La crescente influenza iraniana in Iraq, lo è anche in Siria. Secondo il Wall Street Journal del 14 aprile anonimi funzionari statunitensi hanno detto che l’Iran ha aiutato le forze di sicurezza siriane nella repressione contro i manifestanti. La Siria è da tempo un corridoio per le armi e l’influenza iraniana verso Hamas a Gaza ed Hezbollah in Libano. Questa influenza è aumentata dopo il ritiro siriano dal Libano nel 2005 e con l’indebolimento delle forze filo-americane nel paese. Anche se hanno i loro propri interessi nazionali da difendere, e anche se hanno delle divergenze – ad esempio su Israele - Damasco e l’Iran vedono la loro alleanza più forte che mai e anche se l’Iran preferirebbe che la clicca Assad resti al potere, nel caso cadesse, allora i loro “partner” lavorerebbero per installare un regime ancora più filo-iraniano.

Nel maggio 2007, l’Istituto Americano per la Pace segnalò che le relazioni tra l’Iran e la Siria si erano approfondite. Non c’è dubbio che l’Iran stia aumentando la propria presenza nel paese. Nel 2006 è stato firmato un nuovo patto di mutua difesa, oltre che un ulteriore accordo di cooperazione militare a metà del 2007. Gli investimenti e gli scambi tra i due paesi sono aumentati e le difficoltà economiche della Siria, con l’impatto dell’aggravarsi della crisi, non possono che rafforzare l’influenza dell’Iran sul paese. In effetti, lo sviluppo della crisi economica sembra rendere più improbabile che gli Stati Uniti siano in grado di espellere l’Iran dalla Siria.

Il ruolo della Turchia

Tutto questo non è una buona notizia per gli interessi dell’imperialismo turco e le sue aspirazioni a giocare un ruolo importante nella regione. Le ondate di profughi siriani sono state un gran problema per la borghesia turca e il primo ministro turco Erdogan ha condannato la “barbarie” del regime siriano. Ugualmente preoccupante è il colpo portato ai suoi sforzi per eliminare il Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK) nel sud-est. The Guardian (Simon Tisdall, World Briefing, 09/08/11) riferisce che molti combattenti del PKK nella regione, compresa la Turchia, Siria, Iran e Iraq sono di origine siriana e ricorda la polveriera degli anni 90, quando la Turchia e la Siria stavano per entrare in guerra per questo. Gli attacchi del PKK contro le truppe turche e i successivi raid aerei, il 17 e 18 agosto nel nord dell’Iraq, non sono certo estranei a un aumento della tensione. Teheran ha anche respinto tutti i tentativi turchi di agire come mediatore con le potenze occidentali.

Naturalmente, la popolazione che si batte in Siria contro la miseria e la povertà ha dimostrato un coraggio straordinario, ma l’estrema debolezza della classe operaia nella regione rendono questi combattenti vulnerabili alla peggiore ideologia borghese: l’imbrigliamento imperialista. Perché tutte le frazioni presenti, al potere o all’opposizione, così come le “grandi democrazie” coinvolte in questo conflitto, utilizzano senza alcuna vergogna le popolazioni locali come carne da cannone per difendere i loro sordidi interessi di cricca.

Baboun, 20/08/11



[1] Ian Black, recente analisi su The Guardian.

Geografiche: 

  • Medio Oriente [112]

Rivoluzione Internazionale n°173

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Dicembre 2011- Gennaio 2012

Il capitalismo è in fallimento, è necessario rovesciarlo!

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C’è stato un tempo, non così lontano, in cui i rivoluzionari non incontravano che scetticismo, derisione o scherno quando affermavano che il sistema capitalista stava andando verso la catastrofe. Oggi a dirlo sono i più accesi sostenitori del capitalismo “Il caos è qua, proprio davanti a noi”[1] (Jacques Attali, ex collaboratore del presidente Mitterrand, ex direttore del BERS[2] e, attualmente, consigliere del presidente Sarkozy). “Io credo che non vi rendiate conto che tra due giorni, o una settimana, il nostro mondo potrebbe sparire. È Armagedon… Siamo prossimi ad una grande rivoluzione sociale”[3] (Jean-Pierre Mustier, ex banchiere di Société Générale e attualmente vice direttore generale di UniCredit). Non è volentieri che questi difensori del capitalismo ammettono che il loro idolo è moribondo. Ne sono evidentemente dispiaciuti, tanto più che prendono atto che le soluzioni che propongono per salvarlo sono irrealistiche. Come sottolinea la giornalista che riporta i propositi di Jean-Pierre Mustier: “Per le soluzioni, ci si aspettava di più”. E a ragione!

Non sono certamente coloro che pensano sia impossibile un altro sistema, nonostante la loro lucidità sulle prospettive del capitalismo, a poter proporre delle soluzioni alla catastrofe che oggi si abbatte sull’umanità. Perché in questo sistema non c’è soluzione alle contraddizioni del capitalismo. Le contraddizioni con cui si scontra sono insormontabili perché non dipendono dalla “cattiva gestione” di questo o quel governo o dalla “finanza internazionale” ma semplicemente dalle stesse leggi su cui esso si fonda[4]. É solo uscendo da queste leggi, sostituendo il capitalismo con un’altra società, che l’umanità potrà superare la catastrofe nella quale affonda inesorabilmente.

L’unica soluzione è liberare l’umanità dal giogo capitalista

Come le società che lo hanno preceduto, schiavismo e feudalesimo, il capitalismo non è un sistema eterno. Lo schiavismo predominava nella società antica perché corrispondeva al livello delle tecniche agricole di allora. Quando queste si sono evolute, esigendo un diverso rapporto di produzione, la società è entrata in una crisi profonda (per esempio la decadenza romana) ed è stata sostituita dal feudalesimo dove il servo della gleba era legato alla sua terra pur lavorando su quelle del signore o cedendo a quest’ultimo una parte dei suoi raccolti. Alla fine del Medioevo questo sistema è diventato antiquato spingendo la società in una nuova crisi storica. È stato allora sostituito dal capitalismo che non era più fondato sulla piccola produzione agricola ma sul commercio, il lavoro associato e la grande industria, questi stessi permessi dai progressi della tecnologia (per esempio la macchina a vapore). A causa delle sue stesse leggi, il capitalismo oggi, è diventato, a sua volta, antiquato. E a sua volta, deve cedere il posto.

Ma cedere il posto a che cosa? Ecco la domanda angosciante che si pongono tutti quelli che, sempre più numerosi, prendono coscienza che il sistema attuale non ha più futuro, che trascina con sé l’umanità nel baratro della miseria e della barbarie. Sarebbe una pretesa da indovino descrivere nei minimi dettagli questa società futura, ma una cosa è certa: essa in primo luogo dovrà abolire la produzione mercantile e sostituirla con una produzione che ha come solo obiettivo la soddisfazione dei bisogni umani.

Oggi, siamo davanti ad una vera assurdità: in tutti i paesi aumenta la povertà estrema, la maggioranza della popolazione è costretta a privarsi sempre più, non perché il sistema non produca abbastanza ma al contrario perché produce troppo. Si pagano gli agricoltori affinché riducano la loro produzione, si chiudono le imprese, si licenziano in massa i salariati, si condannano ad uno stato di disoccupazione masse enormi di giovani lavoratori, anche quando hanno fatto lunghi anni di studi e, accanto a ciò, si obbligano gli sfruttati a stringersi di più la cinghia. La miseria e la povertà non sono la conseguenza di una mancanza di mano d’opera capace di produrre, di una mancanza di mezzi di produzione, ma di un modo di produzione che è diventato una calamità per la specie umana. É solo rigettando radicalmente la produzione per il mercato, abolendo ogni mercato, che il sistema che deve succedere al capitalismo potrà realizzare il motto: “Da ciascuno secondo i suoi mezzi, a ciascuno secondo i suoi bisogni”.

Ma come arrivare ad una tale società? Quale forza nel mondo è capace di attuare un tale sconvolgimento di tutta la vita dell’umanità?

È chiaro che un tale sconvolgimento non può essere effettuato dagli stessi capitalisti né dai governi esistenti che, TUTTI - qualunque sia il loro colore politico - difendono il sistema ed i privilegi che esso procura loro. Solo la classe sfruttata dal capitalismo, la classe dei lavoratori salariati, il proletariato, può realizzare un tale sconvolgimento. Questa classe non è la sola a subire la miseria, lo sfruttamento e l’oppressione. Nel mondo esistono ancora moltitudini di piccoli contadini poveri, anch’essi sfruttati e che spesso vivono in una miseria peggiore di quella degli operai del loro paese. Ma il posto nella società che essi occupano non consente loro di edificare la nuova società, pur essendo evidentemente essi stessi interessati dai vantaggi di un tale sconvolgimento. Sempre più rovinati dal sistema capitalista, questi piccoli produttori aspirano a far girare alla rovescia la ruota della storia, a ritornare al tempo benedetto dove potevano vivere del loro lavoro, dove le grandi compagnie agroalimentari non gli toglievano il pane dalla bocca. Diverso è per i produttori salariati del capitalismo moderno. Ciò che sta alla base del loro sfruttamento e della loro miseria, cioè del salariato, è il fatto che i mezzi di produzione sono tra le mani della classe capitalista, sotto forma di capitali privati o di capitali di Stato, e che il solo mezzo per guadagnarsi il pane ed il tetto è vendere la propria forza lavoro ai detentori del capitale. Pertanto l’abolizione del loro sfruttamento passa attraverso l’eliminazione del salariato: l’acquisto e la vendita della forza lavoro. In altri termini, l’aspirazione profonda della classe dei produttori salariati, anche se la maggioranza dei suoi membri non ne ha ancora consapevolezza, è abolire la separazione tra produttori e mezzi di produzione che caratterizza il capitalismo; è abolire i rapporti commerciali attraverso i quali sono sfruttati e che giustificano continuamente gli attacchi contro il loro reddito, poiché, come dice il padrone, e tutti i governi, “bisogna essere competitivi”. Si tratta dunque per il proletariato di espropriare i capitalisti, di prendere collettivamente in mano l’insieme della produzione mondiale per farne un mezzo di soddisfazione reale dei bisogni della specie umana.

Questa rivoluzione, poiché è di questo che si tratta, va a cozzare necessariamente contro tutti gli organi di cui il capitalismo si è dotato per stabilire e preservare il suo dominio sulla società, in primo luogo i suoi Stati, le sue forze di repressione ma anche tutto l’apparato ideologico destinato a convincere gli sfruttati, giorno dopo giorno, che non c’è altro sistema possibile che il capitalismo. La classe dominante è molto decisa ad impedire con tutti i mezzi la “grande rivoluzione sociale” che assilla il banchiere su citato e molti suoi pari.

Il compito sarà dunque immenso. Le lotte che sono state già ingaggiate contro l’aggravamento della miseria nei paesi come la Grecia e la Spagna[5]5 non sono che una prima tappa, necessaria, dei preparativi del proletariato per rovesciare il capitalismo. É in queste lotte, nella solidarietà e l’unione che esse permettono di sviluppare, è nel favorire attraverso di esse la presa di coscienza della necessità e della possibilità di rovesciare un sistema il cui fallimento diventa ogni giorno più evidente, che gli sfruttati forgeranno le armi necessarie per abolire il capitalismo e per instaurare una società infine liberata dallo sfruttamento, dalla miseria, dalle carestie e dalle guerre.

Il cammino è lungo e difficile ma non esistono altre vie. La catastrofe economica che si profila, e che suscita tanta inquietudine nel campo borghese, significherà per l’insieme degli sfruttati della terra un aggravamento terribile delle loro condizioni di esistenza. Ma permetterà anche che essi si impegnino su questa strada, quella della rivoluzione e della liberazione dell’umanità.

Fabienne, 7 dicembre 2011

(da Révolution Internationale n.428, organo della CCI in Francia)

 

[1] Le Journal du dimanche, 27/11/2011.

[2] Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo.

[3] www.challenges.fr/finance-et-marche/quand-l-ex-patron-de-jerome-kerviel-prevoit-l-apocalypse_1294 [183].

[4] Vedi “La crisi del debito: perché?” che analizza queste leggi e sottolinea le vere radici della crisi storica del sistema capitalista, di prossima pubblicazione in italiano sul nostro sito e attualmente disponibile in inglese [184] e francese [185].

[5] Vedi “Movimento degli indignati in Spagna, Grecia e Israele: dall’indignazione alla preparazione delle battaglie di classe [186]”, https://it.internationalism.org/node/1120 [186] ed in questo stesso numero.

Patrimonio della Sinistra Comunista: 

  • Lotta proletaria [5]

Questioni teoriche: 

  • Economia [7]

Lotta di classe in Italia: perché le lotte non riescono ad unirsi in un unico fronte contro il capitale?

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L’estrema gravità della crisi economica internazionale, la particolare posizione di fragilità dell’Italia e le pressioni della borghesia a livello internazionale l’hanno avuta vinta alla fine sulle resistenze opposte da Berlusconi e dal suo governo a dimettersi. Questa transizione, che sulle prime ha suscitato finanche un certo entusiasmo in alcuni settori sociali (vedi i festeggiamenti sotto il Quirinale il giorno delle dimissioni), ha mostrato sulla distanza che, al di là delle buffonate di Berlusconi di cui nessuno sentirà la mancanza, dal punto di vista delle condizioni di vita la musica non solo rimane la stessa, ma che il nuovo governo Monti é capace di andare anche oltre negli attacchi, sfondando finanche quel presidio rinforzato da anni che sono le pensioni. In effetti, proprio perché Monti non è il leader di nessun partito, non è stato neanche eletto da nessun “popolo”, ma è stato chiamato a svolgere l’ufficio di “salvare l’Italia”, si può permettere di prendere le misure le più impopolari, come quelle che stiamo già patendo in queste settimane[1] senza che più nessuno, o quasi, osi dire niente[2]. Ma è sempre più diffusa la sensazione che tutto questo non serva a niente. Negli ultimi decenni - e più chiaramente ancora in questo ultimo scorcio di anni – il sistema capitalista mostra di non essere più capace di garantire un qualunque futuro alle giovani generazioni. Per cui sempre di più cresce la consapevolezza che non è più in gioco un singolo aumento, un singolo contratto annuale, un singolo sussidio di disoccupazione, ma che c’è da recuperare una dimensione nuova di società e che questo lo si può fare solo a livello unito, globale. Ma questa consapevolezza fa fatica a farsi avanti fino in fondo perché, come abbiamo detto tante volte, il proletariato ha ancora da recuperare la fiducia in sé stesso, deve ancora riconoscersi come classe, deve riallacciare la sua storia a quella delle generazioni che l’hanno preceduto.

Uno degli elementi importanti che giocano da freno sulla classe operaia è in particolare il sindacato e la logica sindacale. Infatti, che significa lotta sindacale? Significa anzitutto dare la delega della propria lotta ad una squadra di esperti che si incaricano per la classe di portare avanti la vertenza. E quando la delegazione del sindacato tratta col padrone, ai lavoratori tocca aspettare i risultati e sperare che questi siano i migliori possibili. In conclusione il sindacato, ammesso (e non concesso) che riesca a fare un buon lavoro, in ogni caso espropria la classe della sua iniziativa, della sua capacità di portare avanti la lotta. Ma, ancora, che significa oggi lottare? E’ possibile ottenere qualcosa stando chiusi nelle proprie fabbriche in 100, 500 o finanche in 10.000? O non è molto più efficace una lotta che, pur utilizzando la fabbrica come punto di appoggio, si porti all’esterno alla ricerca di altri compagni di lotta che, pur facendo parte di altre fabbriche, altri settori o che siano addirittura senza lavoro, avvertano l’esigenza di unirsi alla lotta perché si riconoscono alla fine negli stessi obiettivi? Nella misura in cui, come detto, questa società ci sottopone ad attacchi sempre più massicci e generalizzati, non è possibile pensare di poter resistere rimanendo divisi fabbrica per fabbrica, città per città, paese per paese, ... E’ per questo che la logica sindacale è perdente, perché è intrinsecamente votata alla trattativa locale, settoriale e non parte invece dalla necessaria unità dei lavoratori, non intesi come somma delle singole situazioni di lotta ma come unico soggetto agente che lotta per un futuro diverso.

Se si dà uno sguardo alla mappa della lotta di classe presente oggi in Italia, c’è da rimanere stupiti per il numero di lotte che si svolgono contemporaneamente in questo paese. La scintilla per far scoppiare una lotta, d’altra parte, con la situazione che c’è, non è difficile da trovare. Il problema però è che tipo di lotte si sviluppano in questo momento. In qualche modo è proprio l’esitazione presente nella classe a prendere in mano la situazione, ad accettare la sfida della storia, ad avere fiducia nella propria iniziativa che la spinge a dare la delega a dei rappresentanti sindacali. Non tanto ai grandi sindacati, la CGIL, la CISL e la UIL, che ormai da parecchi anni sostengono una “responsabile” politica di sostegno alle misure antioperaie dei vari governi, tant’è che la loro popolarità è calata notevolmente[3], ma a quelli che non si sono sporcati le mani firmando i vari protocolli di intesa con i governi di turno, ai vari sindacati cosiddetti di base, che dicono di battersi per una reale difesa degli interessi proletari, o al limite alla FIOM, che ha coperto un ruolo di maggiore combattività all’interno della CGIL. Ed effettivamente si vede che, quando la lotta diventa tesa, sul fronte di lotta dei sindacati ufficiali è presente solo la FIOM (che pur essendo un sindacato categoriale dei metalmeccanici, sta giocando negli ultimi tempi un ruolo da jolly anche in altri settori, come i disoccupati, gli studenti,…). Ma più di frequente il S.I.Cobas[4], la CUB[5], l’USB[6], lo SLAI Cobas[7], ecc.

Per capire più precisamente che vogliamo dire quando diciamo che la logica sindacale non è quella che risponde alle esigenze proletarie di questa fase storica, diamo un’occhiata più da vicino a quello che succede nelle fabbriche e nei luoghi di lavoro in genere, a cominciare da una di quelle che sta diventando il luogo simbolo della lotta in Italia negli ultimi mesi, l’Esselunga di Pioltello.

A Pioltello, Milano sono mesi che i 300 lavoratori della cooperativa SAFRA appaltata dalla Esselunga sono in agitazione, con un’accentuazione di scioperi continui dall’inizio di ottobre scorso[8]