Febbraio-marzo 2010
Ci avevano detto che la crisi era passata, che ormai si andava verso la ripresa e che, a parte qualche strascico, si poteva girare pagina. La verità è invece che il 2010 si sta prospettando anche peggio dell’anno scorso, le famiglie continuano a perdere potere di acquisto e sempre più difficilmente si arriva a coprire le spese del mese con degli stipendi che sono sempre più incerti, rarefatti e leggeri. Non vogliamo e non ci interessa in questa apertura di giornale riportare dati sull’economia. La gente che soffre sa bene qual è l’andamento reale dell’economia, lo avverte fino in fondo nella propria carne. Quello che vogliamo ricordare è invece proprio questa sofferenza che nell’immediato sta provocando un sentimento di scoraggiamento e di sfiducia nella classe operaia ma che costituisce in prospettiva la molla per dare vigore alla lotta di classe. Dopo la serie di suicidi avvenuti in Francia dal 2007 in poi, particolarmente alla Renault e a France Telecom, adesso anche l’Italia viene colpita da questo fenomeno. L’ultimo di questi è di un elettricista napoletano impiccatosi nel bosco di Capodimonte perché, dopo 23 anni di lavoro precario presso una ditta a 600 euro al mese, questa gli offre finalmente l’assunzione ma con il ricatto di non riconoscergli tutta l’attività passata a livello di contributi, privandolo così di qualunque copertura per l’anzianità e dunque non offrendogli alcun futuro. Questa situazione ha completamente gettato nello sconforto il povero operaio che non ha retto alla situazione. Le parole lasciate scritte per la moglie sono particolarmente significative: “Sono umiliato. Mi vergognavo quando tu andavi a lavorare”. Ma ce ne sono tanti altri dove non sempre è facile capire le motivazioni che hanno indotto a questo atto estremo ma dove si tratta sempre di gente che soffre per le condizioni in cui vive. La crisi economica è comunque all’origine di tutti i malesseri sofferti. C’è ad esempio il caso di un operaio della Ericsson di Roma di 47 anni che si è gettato giù dal tetto della fabbrica perché temeva di essere licenziato. “Era nel gruppo degli emarginati” ha ricordato una ex dipendente licenziata, confermando quanto dicono anche altri dipendenti sull’esistenza di un gruppo di lavoratori che viene tenuto emarginato dagli altri e in cui si raggruppano disabili, sindacalisti, dipendenti con vertenza in corso, anziani, …[1] Ed ancora quello di Sergio M. che “si è suicidato perché non ha retto al dolore dell’abbandono, non ha retto alla violenza emotiva di dover vivere senza “il lavoro”. Sergio si è dato la morte per un senso di inutilità che lo aveva pervaso da quando “il lavoro lo aveva tradito”, abbandonando la sua esistenza a vuote giornate. Sergio aveva soltanto 36 anni.”[2] E ancora così per un operaio bolognese di 32 anni che aveva saputo di essere stato messo in mobilità, o per l’ex operaio edile di 46 anni di Trieste o per l’insegnante di 57 anni di Benevento, tutti suicidi che si sono concentrati negli ultimi mesi. A spingere i proletari a questo atto estremo sono certamente le condizioni di miseria in cui sempre più ci spinge la crisi economica e l’accentuato ricatto padronale. Ma c’è anche il sentimento di perdere la propria dignità di lavoratore, la propria rispettabilità, di sentirsi inutile in questa società che spinge nello sconforto più totale gli elementi più sensibili, tanto più se condizioni di disoccupazione o di cassa integrazione isolano materialmente il singolo proletario dai suoi compagni di lavoro e non gli permettono di trovare nella socialità del lavoro quella valvola di compensazione così necessaria all’animo umano.
Tuttavia, come abbiamo detto più volte, la situazione attuale non è affatto proibitiva dal punto di vista dello sviluppo della lotta di classe, tutt’altro! Le condizioni oggettive per una lotta consapevole e matura ci sono tutte in seguito all’acuirsi della crisi economica. Il problema è che, sul piano soggettivo, la classe giustamente esita perché avverte che non si tratta più di strappare un piccolo aumento ma che si tratta caso mai di mettere in discussione tutto il sistema economico attuale e, pur avendo la netta sensazione che questo sistema non ha più niente da offrirle, non ha abbastanza fiducia in sé stessa per poter sferrare l’offensiva. Questo stallo in cui ci troviamo, e a cui abbiamo fatto cenno anche nel numero scorso del nostro giornale, è quello che porta da una parte allo sconforto di tanti proletari che restano isolati, ma che produce pure tutta una serie di lotte importanti ma ancora isolate in tutta una serie di città e di paesi[3] del mondo e che sta producendo anche l’emergere di una folta schiera di nuovi elementi di avanguardia che si stanno collocando su chiare posizioni internazionaliste. Perciò l’unica maniera per superare le difficoltà presenti della classe è creare il massimo di collegamenti tra proletari, unire le lotte isolate tra di loro, far sentire che si tratta della stessa lotta, che non si tratta di salvarsi affidandosi al sindacalista o al politico di turno. In una parola creare nella lotta quel clima di solidarietà che solo può permettere alla classe di maturare la fiducia in se stessa per poter osare sfidare il sistema attuale e proporsi come classe rivoluzionaria.
Ezechiele (10 febbraio 2009)
[1] www.blitzquotidiano.it/agenzie/roma-suicida-operaio-la-ericsson-lo-vuole-licenziare-lui-si-getta-dal-tetto-della-fabbrica-29830 [2]
[3] Vedi gli esempi di lotte in corso in questo stesso numero del giornale.
Di fronte alle manifestazioni, il potere risponde con la repressione sanguinosa
Nello scorso mese di dicembre, in occasione della festa dell’Achoura[1] (per gli Sciiti si tratta tra l’altro della commemorazione del massacro dell’imam Hussein e di 72 suoi seguaci da parte del califfato di omayyade a Kerbala nell’anno 680), le strade delle principali città del paese sono state nuovamente invase da immense manifestazioni. Queste hanno toccato la maggior parte delle grandi città iraniane: Teheran, Chiraz, Ispahan, Qazvin, Tabriz ed anche Qom, la città santa. A decine di migliaia sono le persone che si sono ritrovate per strada. Ma la risposta del potere non si è fatta attendere. Le milizie baasiste, spalleggiate dalle forze dell’ordine, hanno allora effettuato una feroce repressione. La polizia ufficiale parla di cinque morti tra i manifestanti, ma la realtà é evidentemente ben più drammatica! Bisogna ricordare che in occasione del 12 giugno scorso al momento dell’elezione del presidente Ahmadinejad, il bilancio era stato di sessanta morti e di 4000 arresti. Oggi, in una popolazione ferita, presa dalla collera, gli slogan si radicalizzano e non se la prendono più soltanto con il governo e con Ahmadinejad, ma anche, il che è una novità, con la stressa guida suprema: Ali Khamenei.
Crisi e divisioni all’interno della borghesia e del clero iraniano
Nel mese di giugno scorso, in occasione delle elezioni, lo stato di deliquescenza della borghesia iraniana era già apparsa in tutta evidenza. La crescita di potere di Hossein Moussavi ne era l’espressione più visibile. Dietro la frazione di Ahmanidejad che manteneva il potere, appoggiata dai guardiani della rivoluzione islamica (i bassiji) comandati dal generale Mohammad Ali Jafari, vera rete di gangster che ha le mani in pasta in tutti i traffici illegali del paese, si ritrova tutta una parte del clero la cui guida suprema é l’ayatollah Ali Khamenei che, in quanto tale, è il capo degli eserciti. Al contrario un’altra parte del clero cerca sempre più di prendere le distanze da coloro che considera come una banda di canaglie che hanno preso le redini del potere. All’inizio di gennaio, un influente dignitario religioso conservatore, Ahmad Janati, ha chiamato i servizi segreti a punire i «corrotti sulla terra», un’accusa passibile di pena di morte. Pena di morte che sembra venga già applicata visto che Ali Moussavi, membro della famiglia di Mir Hossein Moussavi, principale oppositore al regime sul posto, è stato assassinato dalle milizie bassidji.
Per conoscere la vera natura dell’opposizione, occorre ascoltare il suo capofila: «Io credo che sia necessario sottolineare che noi abbiamo, all’interno del movimento verde, un’identità islamica e nazionale e siamo contro qualunque dominazione straniera» (Jeune Afrique del 2 gennaio). In poche parole è detto tutto! Di fronte alla fazione corrotta e sanguinaria di Ahmadinedjad, noi troviamo delle persone che gli sono simili come delle gocce d’acqua! Anche loro sono chiaramente per una repubblica islamica e per il proseguimento della fabbricazione della bomba atomica iraniana. Tutte queste persone si somigliano perché difendono tutte i loro propri interessi nazionalisti e personali! E’ per questo e soltanto per questo «che una buona parte del clero condanna la repressione. Anche se i mullah si sono eclissati davanti ai guardiani della rivoluzione, il regime non può ignorarli senza corre qualche pericolo. Può un regime teocratico fare a meno della legittimità religiosa? Moussavi che l’ha compreso va spesso nella città santa di Qom. Un’occasione per avvicinarsi al più celebre rappresentante ayatollah d’Irak, Ali Sistani, molto popolare in Iran.» (Contre info, giugno 2009).
La classe operaia in Iran ha tutto da perdere seguendo un campo o l’altro campo
La borghesia iraniana e il suo clero si frantumano. Una guerra senza pietà si sviluppa al loro interno per il potere. Le ragioni sono semplici, la crisi economica devasta il paese. La miseria e la collera si diffondono come una cortina di fumo. L’instabilità e la corruzione guadagnano tutti i livelli delle classi dominanti iraniane, religiose e civili. La torta da dividere si restringe a vista d’occhio mentre la piazza rumoreggia! Hussein Moussavi cerca di canalizzare la collera della classe operaia e della popolazione dietro i propri interessi popolari e di cricca. Ahmadinejdad e la parte del clero che lo sostiene, da parte loro, sono spinti in una fuga in avanti che si accompagna sempre più ad una repressione sanguinosa e a delle provocazioni verbali. In questo paese devastato dalla crisi economica e dalla senilità della sua borghesia, la classe operaia non può che sviluppare ancor più la sua combattività e la sua collera. Ma non deve in nessun caso farlo sostenendo una cricca borghese piuttosto che un’altra, o una frazione religiosa in lotta contro un’altra. Su questo cammino infatti gli operai incontreranno soltanto sconfitte e morte.
Tino (27 gennaio)
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In quest’inizio d’inverno tutte le associazioni benefiche suonano il campanello d’allarme. La crisi economica sta colpendo brutalmente tutta la classe operaia e una parte crescente di questa si trova fin d’ora immersa nella miseria.
Secondo Didier Piard, direttore della Croce Rossa francese: “L’intensità della povertà aumenta. I poveri sono più poveri di ieri (…). Il numero di persone assistite ha avuto un incremento superiore al 20%. (…). Le associazioni benefiche vedono un 2010 nero per quanto riguarda la disoccupazione massiccia e la situazione di una parte dei disoccupati che perdono ogni diritto (…). Popolazioni che non abbiamo visto prima vengono nei nostri centri a chiedere aiuti alimentari, abiti o aiuti finanziari: sono pensionati, precari, giovani, lavoratori con contratto a tempo indeterminato che non riescono più a far quadrare il bilancio. Si aggiungono alle famiglie con un solo genitore ed ai precari che non hanno mai cessato di venire (…). Uno studio su una quarantina di località ha mostrato che più del 40% delle persone accolte venivano a chiedere aiuto per pagare le loro bollette della luce o il loro affitto”[1].
Stessa constatazione per i Restos del Cœur (Ristoranti del cuore). L’anno scorso quest’associazione aveva già battuto un triste record, quello della grande affluenza. E tuttavia, quest’inverno si annuncia ancora peggiore. Per il Presidente dei Restos, Olivier Berthe, “nel corso della primavera e dell’estate scorse, l’affluenza nei nostri centri di distribuzione è aumentata del 20% in un anno, ci si aspetta un forte aumento della domanda, che era già progredita del 14% l’anno scorso”.
Anche quelli che conservano ancora un lavoro hanno grande difficoltà a far quadrare il bilancio. Le associazioni benefiche hanno dato loro un nome: “Le nuove teste”. Si tratta di tutti quei lavoratori sotto-pagati (ma super sfruttati, ovviamente) che vengono a cercare da mangiare per loro e la loro famiglia.
Per la classe operaia la crisi economica fa rima con licenziamenti, disoccupazione, precarietà… Nel 2009, circa 451.000 posti di lavoro sono stati distrutti e l’anno 2010 si annuncia altrettanto terribile. “La disoccupazione continuerà ad aumentare” così titolava il giornale economico la Tribune del 18 dicembre.
Cosa fa lo Stato di fronte a questa situazione drammatica? Fa tutto il possibile per limitare questo incremento delle statistiche della disoccupazione… alterando le cifre, cancellando dagli elenchi centinaia di migliaia di disoccupati senza più diritto ai sussidi di disoccupazione. Per essere precisi, 850.000 persone classificate “senza indennità di disoccupazione” sono state tolte dalle cifre ufficiali della disoccupazione nel 2009 e l’Ufficio del Lavoro ritiene che saranno più di un milione nel 2010! Concretamente ciò significa per tutte queste famiglie operaie la scomparsa di risorse già ridotte al minimo vitale, la minestra popolare in versione moderna (Restos del Cœur) e… spesso la strada!
Quando lo Stato sfrutta la paura della miseria e di restare per strada!
La borghesia non può nascondere quest’aumento considerevole della povertà. La dura realtà è troppo palese perché i mass media possano giocare la carta del “del tutto va bene”. Allora, all’improvviso, ne parlano a modo loro, fino alla nausea[2]. Lo scopo è alimentare la paura, dire agli operai che hanno ancora un’occupazione stabile: “Vedete come della gente soffre per la miseria, allora consideratevi felici e non compatitevi troppo poiché altri sognano di prendere il vostro posto”.
L’esempio più abietto di questa propaganda è rappresentato senza dubbio dai sondaggi sul timore di diventare disoccupati o senza fissa dimora i cui risultati sono sempre annunciati in pompa magna ai telegiornali della sera. L’ultimo, quello del TNS Sofres, ha “rivelato” i suoi sondaggi come se si trattasse di un vero scoop: la preoccupazione riguardo alla disoccupazione è ridiventata nel dicembre 2009 la principale preoccupazione del 73% dei francesi; i più preoccupati sono gli operai (84%) ed i giovani (83%). Che rivelazione!
Questo tipo di discorso fa effettivamente paura, paralizza, fa rassegnare e distrugge la volontà di lotta. È precisamente questa sensazione d’insicurezza di fronte alla crisi economica che ha costretto la classe operaia a tenere un basso profilo dall’inizio del 2009 e, con la complicità dei sindacati, ha contribuito alle sue difficoltà ad entrare in lotta.
Detto ciò, l’effetto paralizzante dovuto alla brutalità con la quale la crisi ha colpito in questi ultimi mesi ed ai discorsi terroristici che l’hanno accompagnata può essere soltanto temporaneo. Per parafrasare Karl Marx in Miseria della filosofia (1847), non bisogna vedere nella miseria solo la miseria ma anche e soprattutto il suo lato rivoluzionario, sovversivo. Poco a poco, il timore e la rassegnazione cederanno il posto alla rabbia. E perché questa rabbia si trasformi in una volontà di lotta contro questo sistema sarà necessario per la classe operaia riacquistare fiducia nella propria capacità di lottare contro tutti questi attacchi, in modo unito e solidale.
DP, 18 dicembre
(da Revolution Internationale n.409)
[1] Le Monde del 4 dicembre 09
[2] In particolare in questo periodo invernale quando un grande freddo e la neve si sono abbattuti sul paese, con le campagne mediatiche “sui mezzi investiti dallo Stato o dai municipi per venire in aiuto ai più poveri” come gli autobus di raccolta del SAMU (servizio di aiuto medico d’emergenza) o la riapertura di sovrappopolati alloggi notturni che alcuni senzatetto rifiutano per timore della promiscuità.
Il 7 gennaio a Rosarno dei giovani sparano con un fucile ad aria compressa su degli immigrati africani. Due di questi vengono feriti gravemente. Dietro questi “giovani” si nasconde in realtà la mano della ndrangheta, la mafia calabrese. E’ questa che costituisce il padronato locale ed assume gli operai agricoli reclutando una mano d’opera che viene dall’Africa, molto numerosa ed a basso costo. Questi lavoratori lavorano tutto il giorno per una paga da fame[1] e dormono la sera in un vecchio caseificio fatiscente ed insalubre. Ma questa mano d’opera a buon mercato è diventata all’improvviso ingombrante. La crisi colpisce anche Rosarno, le arance ed i mandarini non si smaltiscono e diventa più redditizio farli marcire sugli alberi che raccoglierli. Questi lavoratori africani sono quindi diventati, per la maggior parte, non sfruttabili, inutili. Inoltre la nuova legge anti-immigrazione ha rafforzato la caccia al clandestino e condanna a multe salate i proprietari che assumono lavoratori illegali. La mafia locale, per coprire quel poco di lavoro che resta da fare, sembra quindi più orientata verso gli immigrati “legali” dei paesi dell’Est (in particolare dell’Ucraina e della Romania). 1.500 africani venuti fin qui per racimolare giusto di che sopravvivere si sono dunque ritrovati nella morsa del supersfruttamento e della disoccupazione. La tensione e la rabbia ovviamente aumentano; questi semi-schiavi, abitualmente così mansueti, hanno iniziato a dare segni di insofferenza. Per quest’insieme di motivi la ndrangheta decide di colpirli per farli scappare, sparandogli addosso. Da bestie da soma sono diventati selvaggina. Solo che, anziché tirarsi indietro, questi lavoratori sono scesi nelle strade a incendiare cassonetti ed automobili, rompere finestre e danneggiare qualche casa. Come reazione centinaia di abitanti di Rosarno, armati di spranghe e bastoni, si sono dati ad una caccia “al negro” al grido di “in Africa, in Africa!”, “li vogliamo morti”. Bilancio degli scontri: 67 feriti (31 immigrati, 19 poliziotti e 17 autoctoni). Anche qui la mafia ha svolto un ruolo centrale istigando la popolazione locale e ponendosi alla testa di queste milizie improvvisate[2].
Non è stato certo difficile instillare quest’odio in una popolazione toccata anch’essa dalla povertà ed una disoccupazione che colpisce, ufficialmente, quasi il 18% della classe operaia in questa regione.
Ma la miseria non può da sola piegare perché una parte della popolazione si è lasciata trascinare in questo modo in una vendetta razzista e nauseabonda, e neanche perché gli immigrati che erano stati attaccati se la sono presa con i beni degli abitanti dei dintorni. In realtà la causa di fondo di questa “lotta tra poveri”, come l’ha definita la stampa internazionale (cioè tra proletari) è la totale assenza di prospettiva. “Era un inferno non si capiva niente è vero che abbiamo rotto tutto quel che potevamo rompere, ma eravamo solo arrabbiati. Siamo disperati, e se alla disperazione aggiungi pure la rabbia è facile sbagliare. Quando siamo tornati alla fabbrica, ci siamo guardati negli occhi e ci siamo vergognati di quello che abbiamo fatto. Ho pianto tutta la notte pensando a quella gente spaventata. Spaventata da me che a volte ho paura anche della mia ombra. Ora voglio andar via, se avessi un posto dove andare partirei subito. Ma io non ho posti in cui sperare” Godwin, bracciante, 28 anni, ghanese (da La Repubblica del 9 gennaio)
Solo le lotte operaie possono ridare fiducia nel futuro, possono permettere di intravedere che un altro mondo è possibile, un mondo fatto non di odio ma di solidarietà. Uno sciopero recente lo ha mostrato chiaramente, uno sciopero che non ha avuto gli onori delle prime pagine della stampa, contrariamente agli episodi di Rosarno. In Inghilterra, nel giugno scorso, gli operai delle raffinerie di Lindsey hanno resistito alle sirene del nazionalismo e della xenofobia, mentre tutta la stampa metteva in evidenza slogan come “lavoro inglese per gli operai inglesi!”. Comprendendo che si trattava di una trappola, che non avevano nulla da guadagnare a lasciarsi dividere in questo modo tra operai “locali” e “immigrati”, hanno opposto alla borghesia uno sciopero animato dalla solidarietà internazionale. Nelle manifestazioni hanno portato striscioni che chiamavano gli operai portoghesi ed italiani ad unirsi alla lotta e dove si poteva leggere il grido di unità del proletariato mondiale sin dal 1848: “Operai di tutto il mondo, unitevi!”.[3]
Gli avvenimenti di Rosarno e di Lindsey sono come la tesi e l’antitesi. Il primo porta le stimmate di questa società in decomposizione che non ha alcun avvenire e può solo alimentare la miseria, la paura, l’odio. Il secondo invece mostra che esiste un altro futuro per l’umanità. La solidarietà che è capace di esprimere la classe quando lotta è, per tutti, un faro di speranza.
Albert, 28-1-2010
[1] Un euro a cassetta di mandarini e 6 centesimi al kilo di arance raggiungendo un massimo di circa 15 euro al giorno per 12-14 ore di lavoro
[2] Se la mafia ha fatto il suo sporco gioco, la borghesia ed il suo Stato non sono stati da meno. Il governo Berlusconi ha approfittato dell’occasione per portare avanti la sua politica xenofoba e giustificare le nuove misure anti-immigrazione Il ministro dell’interno Maroni ha subito affermato: “quella di Rosarno è una situazione difficile, risultato di una immigrazione clandestina tollerata in tutti questi anni senza fare nulla di efficace”. In realtà, lo Stato da un lato dà la caccia ai clandestini e li espelle per limitare il numero degli immigrati e, dell’altro, lascia che questa mano d’opera a costo basso venga sfruttata in maniera massiccia ed ignobile (quando non lo fa lui stesso direttamente), per migliorare la “competitività nazionale”. Sono più di 50.000 i lavoratori immigrati che vivono in Italia in alloggi insalubri simili a quelli di Rosarno. Per ritornare agli eventi recenti e alla “protezione” offerta dallo Stato agli immigrati vittime di questo pogrom c’è da dire che anche l’intervento della polizia ha fatto numerosi feriti tra gli immigrati e, dopo, per proteggerli, questa non ha trovato niente di meglio che parcheggiarli nei centri di accoglienza per “controllare la loro situazione” ed espellere tutti coloro che non sono in regola! Questa è “l’umanità” di cui è capace la borghesia, che si presenti sotto la maschera della mafia o con i tratti delle rispettabili alte cariche dello Stato!
In questi giorni la Fiat ha chiesto la cassa integrazione per 30.000 operai per due settimane, vale a dire la chiusura di uno stabilimento come Termini Imerese per un anno! In breve ha anticipato la chiusura di questo stabilimento prevista per la fine del 2011.
All’annuncio della cassa integrazione i sindacati hanno decretato uno sciopero di 4 ore in tutti gli stabilimenti Fiat, aggiungendo il danno alla beffa! Che danno può provocare uno sciopero fatto così ad una azienda che vuole mandare a casa i lavoratori? È servito solo a far abbassare la tensione esistente tra i lavoratori, i quali sanno tutti che si prepara per loro un avvenire di inferno! A Milano, come d’altronde in altri posti, i sindacati hanno portato i lavoratori a presidiare le sedi comunali e regionali per far pressione sugli amministratori locali, per chiedere protezione ognuno per la fabbrica della propria regione!
Secondo Rinaldini, sindacalista della Fiom Cgil, “Termini Imerese non può chiudere, in Italia non esiste una sovraccapacità, anzi il nostro Paese, in Europa, è l’unico, tra quelli industrializzati, a importare auto perché se ne producono poche rispetto alla richiesta di mercato…. Faremo di tutto per impedirne la chiusura, non abbiamo timori e paure di affrontare qualsiasi tipo di lotta”; quello che non dice Rinaldini è che in Italia si producono solo auto Fiat e che non si può imporre agli italiani di acquistare auto nazionali. Il mercato è mondiale e i produttori stranieri hanno gli stessi problemi della Fiat, chi non è concorrenziale scompare dal mercato. Questo lo sanno i sindacalisti, quindi risulta sorprendente la dichiarazione di Raffaele Bonanni, segretario generale della Cisl: “cassa integrazione, una doccia fredda …. Quando abbiamo di fronte a noi perdite di posti di lavoro la cui difesa è l’essenza dell’azione sindacale arriveremo a tutto per scoraggiare la Fiat ad abbandonare in questo momento particolare posti di lavoro”. Che ha poi aggiunto: “Spero che da parte della Fiat ci sia un maggior senso di responsabilità perché queste docce fredde non servono a nessuno, non servono all’azienda, non servono al lavoro e non servono all’Italia”. Anche il governo, attraverso varie dichiarazioni dei ministri, si è detto meravigliato di questa notizia, aggiungendo che non ci saranno più incentivi governativi per la Fiat. Al che Marchionne ha fatto presente che se ne frega degli incentivi, mentre vuole una seria politica industriale nel settore dell’auto. Questo è il problema! L’Italia non ha fatto grosse riforme strutturali e strategiche nel settore industriale, riforme necessarie per abbassare i costi di produzione e battere la concorrenza internazionale. I problemi della Fiat non finiranno con la chiusura di uno o due stabilimenti, ma resteranno perché il problema della sovrapproduzione è insito nel meccanismo del capitalismo decadente. Molte importanti firme automobilistiche sono scomparse e molte altre scompariranno, riuscirà a sopravvivere solo chi produce a costi più basti, il che vuol dire soprattutto spremere ancor di più i lavoratori.
E non è solo la Fiat a licenziare!
Ci sono migliaia e migliaia di aziende in crisi, anche se a fare notizia quando chiudono i battenti sono solo le più grandi, mentre le piccole non ricevono neanche l’onore della cronaca. Nei giorni scorsi è ritornata sulla scena l’Alcoa, la multinazionale americana che produce alluminio e che non ha intenzione di restare in Italia perché il costo dell’energia elettrica non è concorrenziale. Nei mesi scorsi i sindacati hanno portato i lavoratori a scioperare e a manifestare contro la chiusura degli impianti in Italia, in particolare quello sardo, nei fatti a sostenere la richieste dell’Alcoa di pagare tariffe energetiche preferenziali. Questo non è bastato, l’Alcoa si aspetta di più dal governo, un po’ come la Fiat e tutte le altre aziende. In barba alle scorse politiche di liberismo economico oggi, in tempi di crisi, tutte le aziende per poter sopravvivere chiedono di continuo sovvenzioni allo Stato e una politica che porti alla riduzione dei costi delle materie prime, dei servizi, dei trasporti, … E, per fare sfogare la rabbia dei lavoratori che cominciano a vedersela brutta, i sindacati, dopo aver appoggiato le richieste aziendali di più basse tariffe elettriche, adesso cercano di polarizzare l’attenzione contro un’azienda che, essendo “straniera”, può essere accusata di tutte le nefandezze di questo mondo, cercando di compattare tutti nell’attacco alla cattiva multinazionale americana e spingendo i lavoratori ad usare le “maniere forti” come occupare l’aeroporto di Cagliari o espellere i dirigenti dai loro uffici!
Maniere forti, si dice! Ma queste iniziative non hanno nulla di forte perché servono solo ad isolare ed esasperare i lavoratori, tenendoli separati dai loro compagni di classe. Non spingono alla difesa dei comuni interessi, cioè del posto di lavoro e delle condizioni di vita. I sindacalisti portano i lavoratori davanti alle sedi comunali ma non davanti ad un’altra fabbrica o non chiamano a manifestazioni comuni di tutti i lavoratori, disoccupati, studenti, precari, etc…
Hanno paura che i lavoratori possano vedere e capire che il problema non è la chiusura di Termini Imerese, di Portovesme o dell’Omsa di Faenza, dove a rischiare il posto sono in 320, ma è il licenziamento, la precarietà, la miseria di milioni di persone. Capire che la soluzione non sta nella difesa del “proprio” posto di lavoro, ma nella difesa delle condizioni di vita di tutti i lavoratori, che solo la solidarietà e l’unione rafforza la classe operaia. Quando i lavoratori lottano uniti, i governi e la borghesia sono obbligati a cedere e a ritirare i licenziamenti, la chiusura degli impianti e i tagli salariali anche quando le finanze governative non lo permettono. La lotta di massa della classe operaia serve anche a sostenere i lavoratori delle piccole imprese, i disoccupati, che in assenza di essa spesso si chiudono nella depressione e in azioni disperate che non portano a nulla.
La borghesia vuole che i lavoratori in lotta si isolino sui tetti delle fabbriche, nell’occupazione di uffici e stabilimenti, non per niente fa di tutto per pubblicizzare questi avvenimenti! I sindacati non diranno mai che è necessaria l’unione di tutti i lavoratori, la discussione comune per poter difendere il nostro futuro, sta a noi portare avanti questa necessità.
Contro l’offensiva del capitale è necessaria una lotta unita e solidale!
Oblomov 6 febbraio 2010
“Doccia fredda a Copenaghen”[1], “Il peggiore accordo della storia”[2], “Copenaghen si conclude con un insuccesso”[3], “Delusione a Copenaghen”[4],… la stampa è unanime, questo vertice annunciato come “storico” è stato un vero fiasco!
Per parecchie settimane, i media ed i politici hanno fatto seguire a ruota dichiarazioni magniloquenti che in sostanza affermavano tutte: “l’avvenire dell’umanità e del pianeta si gioca a Copenaghen”. La fondazione Nicolas Hulot aveva anche lanciato un ultimatum: “l’avvenire del pianeta e, con esso, la sorte di un miliardo di affamati […] si giocherà a Copenaghen. Scegliere la solidarietà o subire il caos, l’umanità ha un appuntamento con se stessa”. Un ultimatum che conteneva una mezza verità. I documentari televisivi, i film (come Home di Yann Arthus Bertrand), i risultati delle ricerche scientifiche mostrano che il pianeta sta per essere distrutto. Il riscaldamento climatico si aggrava e con esso la desertificazione, gli incendi, i cicloni … L’inquinamento e lo sfruttamento intensivo delle risorse determinano la scomparsa massiccia di molte specie. Dal 15 al 37% delle biodiversità dovrebbero sparire da qui al 2050. Oggi un mammifero su quattro, un uccello su otto, un terzo degli anfibi ed il 70% delle piante è in pericolo d’estinzione[5]. Secondo il Forum Umanitario Mondiale, il “cambiamento climatico” implicherebbe la morte di 300.000 persone l’anno di cui la metà per malnutrizione! Nel 2050 dovremmo avere “250 milioni di profughi climatici”[6]. Ebbene sì, c’è un’emergenza. Sì, l’umanità è confrontata ad una posta in gioco storica e vitale!
Ma non c’era nessuna illusione da farsi, niente di buono poteva uscire da questo vertice di Copenaghen dove erano rappresentati 193 Stati. Il capitalismo distrugge l’ambiente da sempre. Già, nel XIX secolo Londra era un’immensa fabbrica fumante che scaricava i suoi rifiuti nel Tamigi. Questo sistema produce al solo scopo di fare profitto ed accumulare capitale, con ogni mezzo. Poco importa se per fare questo deve radere al suolo le foreste, saccheggiare gli oceani, inquinare i fiumi, stravolgere il clima … Capitalismo ed ecologia sono necessariamente antagonisti.
Tutte le riunioni internazionali, i comitati, i vertici, come quello di Rio de Janeiro nel 1992 o quello di Kyoto nel 1997, sono sempre stati delle foglie di fico, cerimonie teatralizzate per fare credere che i “grandi di questo mondo” si preoccupano dell’avvenire del pianeta. Gli Hulot, Yann Arthus Bertrand, ed altri Al Gore hanno voluto farci credere che questa volta sarebbe andato diversamente di fronte all’emergenza della situazione, gli alti dirigenti sarebbero “rinsaviti”. Meglio ancora, avrebbero compreso che si trattava di un’opportunità storica per cambiare in profondità il capitalismo, orientandosi verso una green economy capace di tirar fuori il mondo dalla recessione attraverso una crescita duratura ed ecologica! Mentre tutti questi ideologi rimestavano aria, gli “alti dirigenti” affilavano le loro armi eco… nomiche! Perché questa è la realtà: il capitalismo è diviso in nazioni, tutte concorrenti l’una contro l’altra, in perenne guerra commerciale e, se necessario, anche militare. Un solo esempio: il polo Nord si sta fondendo. Gli scienziati vi vedono una vera catastrofe ecologica. Gli Stati vi vedono invece un’opportunità per sfruttare risorse fino ad ora inaccessibili e per aprire nuove vie marittime liberate dai ghiacci. La Russia, il Canada, gli Stati Uniti, la Danimarca (attraverso la Groenlandia) si stanno facendo adesso una guerra diplomatica senza pietà. Il Canada ha anche iniziato a posizionare le sue armi alla frontiera dirette in questa direzione! Capitalismo ed ecologia sono effettivamente antagonisti.
E volevano farci credere che, in un tale contesto, gli Stati Uniti e la Cina avrebbero accettato di “ridurre le proprie emissioni di CO2”, cioè limitare la loro produzione? Del resto lo stesso concetto di “limitazione delle emissioni di CO2” ci fa capire cosa rappresenta il surriscaldamento climatico per il capitalismo, un’arma ideologica per farsi concorrenza. Ogni paese vuole fissare gli obiettivi che più gli convengono: i paesi dell’Africa vogliono cifre molto basse che corrispondono alla loro produzione per mettere i bastoni tra le ruote alle altre nazioni, i paesi del Sud America sperano in cifre un poco più elevate, e così via per l’India, gli Stati europei, essi stessi divisi tra loro, la Cina, gli Stati Uniti …
La borghesia non riesce neanche più a salvare le apparenze
Il solo elemento forse sorprendente di questo fiasco di Copenaghen è che tutti questi capi di Stato non sono riusciti neanche a salvare le apparenze. Abitualmente, si tira fuori un accordo finale firmato in pompa magna che fissa alcuni vaghi obiettivi da raggiungere un giorno e tutti se ne congratulano. Questa volta si parla ufficialmente di “insuccesso storico”. Le tensioni ed i mercanteggiamenti sono usciti dalle quinte e sono stati portati davanti la scena. Non si è riusciti neanche a fare la tradizionale foto dei capi di Stato che si auto-congratulano con tanto di abbracci e larghi sorrisi da star del cinema. E’ tutto dire!
In effetti, la recessione non spinge i capi di Stato a cogliere la “formidabile opportunità” di una green economy mondiale ma, al contrario, può solo acuire le tensioni e la concorrenza internazionale. Il vertice di Copenaghen ha dato dimostrazione della guerra accanita a cui si stanno dedicando le grandi potenze. Non è più tempo di fingere intese e proclamare accordi, benché bidoni. E’ tempo di tirar fuori i coltelli, tanto peggio per la foto!
Il capitalismo non sarà mai “verde”. Domani la crisi economica colpirà ancora più forte. La sorte del pianeta sarà allora l’ultima delle preoccupazioni della borghesia. Ogni borghesia nazionale avrà un unico obiettivo: sostenere la propria economia nazionale scontrandosi sempre più duramente con le altre nazioni, chiudendo le fabbriche non abbastanza redditizie, a costo di lasciarle cadere a pezzi, riducendo i costi di produzione, tagliando dai bilanci le spese per la manutenzione, il che significherà più inquinamento e più incidenti industriali. È esattamente quello che è già accaduto in Russia negli anni 90, coi suoi sottomarini nucleari lasciati in abbandono e la Siberia inquinata a tal punto da far morire una larga parte dei suoi abitanti.
Infine, una parte sempre più grande dell’umanità si ritroverà nella miseria, senza cibo e senza casa e sarà dunque ancora più vulnerabile agli effetti del cambiamento climatico, ai cicloni, alla desertificazione.
È tempo di distruggere il capitalismo prima che distrugga il pianeta e decimi l’umanità!
Pawel, 19 dicembre
(da Révolution Internationale n.408)
Siamo perfettamente d’accordo con i compagni che si tratta di un tentativo di intimidazione da parte dello Stato contro dei militanti e contro la classe operaia in generale. Il contrasto tra la severità delle pene chieste per i compagni ed il silenzio benevolo e complice che ha coperto dei criminali di guerra come Karadzic e Mladic per tanti anni dalla guerra nella ex-Iugoslavia è tanto loquace sull’ipocrisia d’accusa di “terrorismo” che di più non si può.
Esprimiamo tutta la nostra solidarietà verso i militanti incarcerati e le loro famiglie e incoraggiamo i nostri lettori a diffondere il più largamente possibile la dichiarazione della CNT-AIT.
CCI, 27 ottobre 2009
COMUNICATO della CNT-AIT di Marsiglia
Sicuramente siete al corrente che dei militanti anarco-sindacalisti serbi, tra cui l’attuale segretario dell’AIT, sono detenuti nella prigione di Belgrado. La procedura adottata nei loro confronti è quella di “terrorismo” e, per il momento, non sappiamo fin dove essa arriverà. L’accusa si basa su delle citazioni per danni materiali minimi che sarebbero stati commessi da un gruppo anarchico contro l’ambasciata greca di Belgrado in solidarietà con un compagno greco ancora incarcerato. Gli imputati negano i fatti, ma rischiano dai 3 ai 15 anni di reclusione.
Questa sproporzione tra i fatti addebitati e l’accusa ci fa pensare che la volontà del potere serbo sia di mettere la museruola ai nostri compagni la cui attività militante arreca visibilmente disturbo.
Vi chiediamo con la presente di diffondere il più largamente possibile il seguente comunicato dell'ASI:
“Il 4 settembre 2009, il Tribunale locale di Belgrado ha deciso che i militanti dell’ASI saranno incarcerati per 30 giorni. I nostri compagni sono accusati di un atto di “terrorismo internazionale”.
La Confederazione di sindacati “Iniziativa anarco-sindacalista” è stata informata dai media dell’attacco contro l’ambasciata greca e dell’organizzazione che l’ha rivendicata. Profittiamo dell’occasione per ricordare ancora una volta all’opinione pubblica che questi mezzi di lotta politica individualistica non sono quelli dell’anarco-sindacalismo, al contrario: noi affermiamo pubblicamente le nostre posizioni politiche e cerchiamo di attirare le masse verso il movimento sindacalista e le organizzazioni libertarie e progressiste attraverso la nostra azione.
Lo Stato vuole fare tacere le nostre critiche con i suoi mezzi di repressione e lo fa con la sua assurda logica, dichiarando sospetti quelli che esprimono pubblicamente il loro punto di vista libertario e conclude l’atto arrestandoli per dare una falsa immagine all’opinione pubblica. Si possono notare, fin dai primi momenti della detenzione, le forme poco scrupolose d’azione delle istituzioni del regime, la perquisizione illegale degli appartamenti, l’intimidazione delle famiglie e le accuse sproporzionate di terrorismo internazionale.
Sebbene noi non sosteniamo le azioni dell’ormai celebre gruppo anarchico “Crni Ilija”, non possiamo caratterizzarlo come “terrorismo internazionale” poiché il terrorismo, per definizione, è una minaccia contro la vita di civili, mentre in questo caso nessuno è stato ferito e i danni materiali sono stati simbolici. È chiaro che questa farsa dello Stato è una maniera per intimidire coloro che denunciano l'ingiustizia e la disperazione di questa società.
In questi tempi di narcosi sociale ci sono individui che scelgono di fare azioni incredibili, talvolta auto lesive, per rompere il blocco mediatico ed attirare l’attenzione sulle loro richieste (ricordiamoci dei lavoratori che si sono tagliate le dita e che le hanno mangiate, oppure di quell’uomo disperato che ha minacciato di fare esplodere una granata nell’edificio della Presidenza serba), il tutto per far conoscere in modo più ampio possibile i loro problemi.
Noi non lasceremo passare il tentativo di far credere che un tale atto simbolico di solidarietà, benché espresso in modo sbagliato, possa essere considerato come un atto antisociale o terroristico, così come qualunque atto di ribellione di coloro che sono stati privati dei loro diritti. Esprimiamo la nostra solidarietà ai compagni incarcerati ed alle loro famiglie e chiediamo che vanga stabilita la verità su questo fatto.
Libertà per gli anarco-sindicalisti! Iniziativa anarco-sindacalista.
5 settembre 2009
Salute compagni, voglio leggere il finale del Manifesto Comunista:
“Sulla Germania i comunisti rivolgono principalmente la loro attenzione, perché la Germania è alla vigilia della rivoluzione borghese, e perché essa compie tale rivoluzione in condizioni di civiltà generale europea più progredite e con un proletariato molto più sviluppato che non avessero l’Inghilterra nel secolo XVII e la Francia nel XVIII; per cui la rivoluzione borghese tedesca non può essere che l’immediato preludio di una rivoluzione proletaria.
In una parola, i comunisti appoggiano ovunque ogni moto rivoluzionario contro le condizioni sociali e politiche esistenti.
In tutti questi movimenti essi mettono avanti sempre la questione della proprietà, abbia essa raggiunto una forma più o meno sviluppata, come la questione fondamentale del movimento.
Infine, i comunisti lavorano per l’unione e l’accordo tra i partiti democratici di tutti i paesi.
I comunisti sdegnano di nascondere le proprie idee e i propri fini. Proclamano apertamente che i loro obiettivi si possono realizzare solo rovesciando con la violenza l’ordine sociale esistente. Le classi dominanti devono tremare di fronte a una Rivoluzione Comunista. I proletari non hanno da perdere che le loro catene. Ed hanno un mondo da guadagnare”.
Dopo anni che non parlavate di anarchici, ora parlate di due gruppi anarchici del Messico che sul loro sito web attaccano Marx e idealizzano Bakunin, come un essere creato per arrivare ad essere il DIO di tutti gli anarchici.
Se si guarda il loro sito, si trovano insulti contro Marx. Noi, in quanto comunisti, dobbiamo fare attenzione a questi compagni di viaggio, come Marx spiegò bene nel Manifesto Comunista e in tutte le discussioni che tenne con Bakunin, e dopo di lui Lenin. Vedo che voi state dando fiducia a molti gruppi che stanno nascendo in America Latina, che li state sopravvalutando per il fatto che una organizzazione della Sinistra comunista, come la CCI, solidarizza con le lotte dei lavoratori.
Vorrei ancora sapere come avete solidarizzato con quelli di Luz y Fuerza, mentre penso che i comunisti devono organizzarsi al di fuori di ogni altro gruppo, che non bisogna dimenticare le lezioni di Marx a proposito dell’anarchismo. Mi sembra che voi stiate abbassando la guardia, che non vedete che sul loro sito ci stanno insultando perché siamo marxisti, e che si stanno accodando agli altri gruppi anarchici, mentre la CCI vacilla; è vero che stanno sorgendo molti gruppi, ma di che ideologia sono? Sono comunisti o anarchici? Gli anarchici non hanno mai visto di buon occhio i comunisti e bisogna fare molta attenzione perché ci possono distruggere.
Voi state abbassando la guardia e spero che non vi anarchizziate.
Un forte abbraccio ai compagni di AP (CCI).
Fraterni saluti.
SOC. Salute
LA NOSTRA RISPOSTA
Caro SOC,
abbiamo letto la tua lettera e apprezzato la tua franchezza. Riceviamo le tue osservazioni e le tue critiche con fiducia e ti rispondiamo in maniera non difensiva ma sviluppando i motivi del nostro atteggiamento. Al tempo stesso ci auguriamo che tuo atteggiamento sia sempre ispirato dalla fiducia e dall’onesto desiderio di spingere la Sinistra comunista nel cammino della rivoluzione mondiale.
La prima questione che vogliamo affrontare e che sembra essere una delle tue preoccupazioni è il “nuovo” atteggiamento della CCI verso l’anarchismo. La nostra posizione in proposito non è cambiata. Quando parliamo dell’anarchismo dobbiamo fare varie distinzioni perché, se mettiamo in un unico sacco tutto quello che si riferisce all’anarchismo, facciamo confusione.
Innanzitutto c’è quello che si chiama Anarchismo ufficiale con organizzazioni che hanno appoggiato la seconda guerra mondiale o, prima ancora con Kropotkin, la prima guerra mondiale o che, con la CNT, hanno partecipato con propri ministri al governo dello Stato spagnolo nel 1936 e trascinato attivamente il proletariato e tutta la popolazione nella guerra civile spagnola del 1936. L’Anarchismo ufficiale appartiene al campo borghese allo stesso titolo di altre correnti che si richiamano al “marxismo”, come lo stalinismo, la socialdemocrazia, il trotskysmo, ecc. Con ognuna di queste non è possibile alcun dialogo e per una ragione essenziale: hanno tutte calpestato l’arma più importante del proletariato, l’INTERNAZIONALISMO, abbracciando in cambio la difesa della guerra imperialista e del capitale nazionale.
In secondo luogo, dobbiamo prendere in considerazione l’ideologia anarchica. Essa esprime una volontà di lotta contro lo sfruttamento e l’oppressione e, per questo, si situa inequivocabilmente sul terreno della lotta contro il capitalismo.
Condividendo chiaramente questo terreno, le divergenze che abbiamo si situano al livello del metodo, ed in particolare su due aspetti:
Ma, in terzo luogo, dobbiamo riconoscere una realtà che è indiscutibile: ci sono gruppi e collettivi che, richiamandosi all’anarchismo o avendo simpatia per alcune sue posizioni, sono animati da uno spirito proletario di ricerca di posizioni di classe genuine. Con questi gruppi non solo è necessario il dibattito, ma anche una collaborazione perché essi fanno parte dello sforzo di presa di coscienza che esiste nella classe e questo lo facciamo con massima lealtà e spirito fraterno, al di là della etichette che essi si danno o di questa o quella posizione particolare con cui noi non siamo d’accordo.
Per quanto riguarda poi la collaborazione con gli anarchici in Messico, dobbiamo aggiungere una seconda spiegazione. La sezione della CCI in Messico ha avuto quasi 4 anni di discussioni, incontri e collaborazione con il GSL. Questo gruppo ha dovuto confrontarsi con gli attacchi dell’anarchismo “ufficiale” ogni volta che ha preso una posizione internazionalista e ha tenuto a dire che “staremo con la CCI se questa difende l’internazionalismo proletario, se altri anarchici difendono il nazionalismo in qualunque sua forma noi non staremo con loro.” E’ questo principio fondamentale che ha permesso un lavoro comune. Qualcosa di simile è successo con i compagni del PAM (spinti dai compagni del GSL a venire alle nostre riunioni pubbliche e a leggere la nostra stampa) che condividono con la CCI l’internazionalismo, la denuncia dei sindacati, del parlamentarismo e del suo circo elettorale, il nazionalismo e, in maniera esplicita, condividono con la CCI una denuncia dell’anarchismo ufficiale.
Nel caso degli elettricisti di Luz e Fuerza del Centro, prima dell’enorme attacco e della odiosa trappola sindacale, questi compagni hanno stabilito una collaborazione con la CCI e hanno condiviso pienamente la denuncia dello Stato, della sinistra del capitale, dei sindacati e dell’estrema sinistra (i trotzkisti, per esempio), che l’attacco era brutale ed era in realtà contro tutta la classe, che la difesa del sindacalismo e delle “istituzioni democratiche” era una trappola.
Il GSL ha fatto un viaggio di 12 ore in autobus per partecipare, nel Distretto federale, ad una manifestazione di 100.000 partecipanti in cui abbiamo diffuso un volantino che avevamo preparato assieme. Anche il PAM ha partecipato alla diffusione del volantino. C’è stata inoltre una riunione comune e insieme abbiamo portato avanti la denuncia di questo enorme attacco. Essi hanno insistito sul fatto che “essere controcorrente” rispetto a tutti (l’ambiente era quello della difesa del sindacato, dell’impresa pubblica, delle “conquiste operaie” ed altri luoghi comuni della sinistra del capitale) non li turbava affatto e che anzi questo rafforzava il sentimento di stare sulla giusta strada. Noi siamo stati molto soddisfatti di condividere con loro questo orientamento proletario.
Sappiamo che esistono delle differenze, ma cercheremo di realizzare delle attività in comune, attività che portino ad un avanzamento nella coscienza che è la premessa per demolire questo regime putrescente.
Infine, noi comunisti sappiamo che la risposta a questa società basata sullo sfruttamento sorgerà dal seno stesso della lotta contro l’alienazione. Sappiamo anche che questa risposta nascerà attraverso vacillamenti, errori, in rottura e facendo i conti con tutto il peso di secoli di dominazione. E’ vero che sui siti di questi gruppi si possono incontrare cose come “insulti” al marxismo, ma ci sono anche sforzi per porsi a fianco del proletariato, sforzi sinceramente internazionalisti. Anche se si dicono “non marxisti”, essi risultano più internazionalisti di molti altri, come ad esempio i trotskysti che a parole si dicono internazionalisti. Molti operai che oggi “rinnegano” il comunismo, o perché lo identificano con lo stalinismo o perché non lo capiscono, domani saranno in prima linea nella lotta per la rivoluzione mondiale. L’importante è come organizzare una lotta comune, come avanzare nella unificazione degli sforzi del proletariato. Siamo convinti che il volantino firmato assieme è un tentativo che va nella prospettiva di creare un polo di raggruppamento intorno alla difesa di un internazionalismo nei fatti (vedi per esempio la risposta che esso ha suscitato in gruppi del Perù e dell’Equador). Una caratteristica essenziale di questi gruppi (GSL e PAM) è che essi sono composti da elementi molto giovani, che non sono segnati dall’anarchismo “ufficiale” e che sono animati dalla volontà di andare incontro al proletariato; per questi motivi lavoreremo con loro fraternamente e senza riserve, perché siamo coscienti che procediamo sulla stessa strada. Come dicevamo all’inizio, questo lavoro in comune non costituisce una “politica di alleanza”, nello stile dell’estrema sinistra del capitale, si tratta di un intervento comune basato innanzitutto su un accordo su questioni di principio (non è un’apertura pubblica, per tutti e senza criteri). Sappiamo che ci sono differenze che stiamo discutendo, e può anche essere che non riusciremo mai a convincerli a “diventare marxisti”, ma potremo in cambio costruire un ambiente di solidarietà, di fiducia, di dibattito, che prepari, di fronte al futuro, una lotta a morte contro il capitale. Lotteremo per questo sapendo che in questa battaglia non ci sono garanzie. Speriamo che questi elementi di riflessione aiutino ad avanzare nella comprensione dell’intervento dei comunisti.
Restiamo in attesa di tuoi commenti per poter andare più avanti nella riflessione o, almeno, che i dubbi e le critiche ci aiutino ad approfondire le nostre idee.
Fraternamente. CCI 08-12-09
La teoria darwinista dell’evoluzione contro il creazionismo
150 anni fa, nel novembre 1859, Darwin pubblicava l’Origine delle specie. Questo lavoro, basato su un’abbondante raccolta di osservazioni e sperimentazioni nella natura, ha rivoluzionato la visione delle origini dell’uomo e della sua collocazione nell’universo dei viventi. Essa dimostrava per la prima volta che esisteva una base comune allo sviluppo delle specie e degli esseri viventi, basandosi e superando i lavori precedenti di naturalisti come Leclerc e Linneo fino al trasformismo di Lamarck[1]. La teoria di Darwin mirava a dimostrare in modo dialettico, rigoroso e scientifico, la capacità di adattamento degli esseri viventi nel loro ambiente e ad integrare questa teoria in una nuova concezione dell’evoluzione delle specie. Appariva così l’esistenza di una genealogia comune agli esseri viventi che si iscrivono in una filiazione in seno alla quale l’essere umano non era più una specie superiore scelta e creata di tutto punto da Dio, ma il prodotto aleatorio di una differenziazione tra le specie. Si trattava di una rimessa in causa radicale degli “insegnamenti” della Bibbia e della sua Genesi che confutava l’idea di una creazione divina, ed annullava tutte le tradizioni religiose monoteiste (cristianesimo, giudaismo, islam). Questo approccio materialista e scientifico di Darwin fu subito attaccato violentemente da ogni parte, ed in particolare dagli stessi dogmi religiosi che avevano messo alla gogna del pensiero umano Galileo e Copernico (teorici che, per primi, con le loro scoperte scientifiche avevano rigettato il geocentrismo religioso che pretendeva che la Terra fosse il centro dell’universo, e soprattutto, il centro della Creazione divina).
Lo scandalo di questa scoperta di Darwin non risiedeva tanto nell’avere evidenziato l’evoluzione delle specie ma nel fatto che le interazioni agenti in questa evoluzione non ubbidiscono a nessuna finalità in natura[2]. “L’albero della vita” non somiglia ad un grande albero genealogico gerarchizzato, una piramide al cui vertice si troverebbe l’uomo, homo sapiens, ma ad un albero cespuglioso alla cui base ci sono tutte le forme di vita più vecchie e di cui l’uomo sarebbe solamente una specie particolare, tra milioni delle innumerevoli ramificazioni ancora presenti sulla terra. Questa visione implica una parentela ed una filiazione comune tra l’uomo e le forme di vita più elementari come l’ameba. Ciò appare insopportabile per i numerosi animi che subiscono, molto spesso inconsapevolmente, la costrizione dell’arretramento religioso. Ancora oggi l’approccio ed il procedere di Darwin sono rimessi in causa con virulenza, mentre tutti gli apporti scientifici in paleontologia, in biologia, in genetica ed in ben altri campi della conoscenza, non hanno fatto che confermare la validità della teoria di Darwin[3]. Le religioni sono state costrette tuttavia a mascherare il prosieguo della loro crociata anti-darwinista propagando un’ideologia che mira a mantenere la credenza religiosa dietro una pseudo “costruzione scientifica” alternativa: il “disegno intelligente” (intelligent design). In effetti la chiesa non difende più il creazionismo come ai tempi di Darwin. Ricordiamo il dibattito che oppose il vescovo di Oxford, Samuel Wilberforce a Thomas Huxley, ardente difensore dell’evoluzionismo nel 1860. Il primo scherniva il secondo chiedendogli: “È attraverso vostro nonno o vostra nonna che discendete da una scimmia, Signore Huxley?”. E questo gli avrebbe ribattuto: “Non avrei vergogna di avere una scimmia per avo, ma di essere imparentato ad un uomo che utilizza il suo talento per oscurare la verità!”. La chiesa cattolica non ha mai osato mettere L’Origine delle specie all’indice dei libri vietati ma, l’ha condannata ufficiosamente e si è rifiutata per molto tempo di parlare dell’evoluzione nei programmi scolastici che essa promulgava. Oggi la religione si è adattata mettendo avanti una dottrina più sorniona e perniciosa: il “disegno intelligente”. Secondo questa “teoria” c’è stata un’evoluzione ma questa sarebbe stata voluta e “pilotata” da un potere “divino”. Così, l’uomo non sarebbe un “caso della natura” ma realmente il frutto della volontà di un creatore tanto potente da desiderarlo e “programmarlo”.
Questa variante del creazionismo approfitta dell’attuale ritorno di popolarità di ideologie spiritualistiche, oscurantiste e settarie. Queste ideologie reazionarie sono spesso inoculate direttamente da certe frazioni della borghesia che ne fanno materia per manipolare masse di popolazioni disorientate e disperate dalla miseria, dalla barbarie e dalla mancanza di prospettive del mondo capitalista. È proprio questo che le spinge ad evadere dalla realtà obiettiva, rifugiandosi nella fede, nella credenza cieca in un aldilà, in un “ordine superiore”, invisibile ed onnipotente che sfugge ad ogni pensiero razionale. La credenza in un Dio creatore onnipotente e la proliferazione di ogni tipo di sette (che ne traggono d’altra parte un profitto mercantile pienamente capitalista) sono state utilizzate dalle ideologie della New Age per cristallizzare le paure, le sofferenze, le angosce proprie degli infelici, disorientati di fronte al vicolo cieco della società capitalista. Questa constatazione dimostra la pertinenza dell’analisi che ne dava Marx fin dal 1843 nella sua Critica della filosofia politica di Hegel: “La miseria religiosa è allo stesso tempo l’espressione della miseria reale e la protesta contro la miseria reale. La religione è il sospiro della creatura prostrata dalla disgrazia, l’anima di un mondo senza cuore, lo spirito di un stato di cose dove non c’è affatto spirito. Essa è l’oppio del popolo”.
La religione è sempre stata il primo bastione delle forze conservatrici e reazionarie per anestetizzare le coscienze contro le conquiste scientifiche. Tenta di adattarsi per cercare di preservare lo status quo pretendendo di essere sempre un rifugio per “consolare gli uomini delle disgrazie della società”, sottomettendoli ad una credenza e soprattutto ad una sottomissione verso l’ordine sociale esistente.
La teoria reazionaria del “disegno intelligente”
Il “disegno intelligente” si pone al rango di teoria scientifica con la scusa di cercare di conciliare l’evoluzionismo ed il creazionismo. Presenta l’uno e l’altro come scelte “filosofiche” concorrenti che cercano fraudolentemente di darsi una base scientifica. Il precursore del “disegno intelligente”, il gesuita Teilhard di Chardin (1881-1955), ha cercato negli anni ‘20 di dimostrare, per esempio, che esiste una teleologia, una finalità nell’evoluzione chiamata “punto Omega”, definito come il polo divino di convergenza e di armonizzazione che culmina nella “noosfera”, tipo di beatitudine celeste animata dallo spirito divino … Ben più che nel cattolicesimo, è nel protestantesimo e le sue diverse varietà di “chiese evangeliche”, basandosi sulla lettura strettamente letterale della Bibbia, che si troveranno gli avversari più accaniti di Darwin (è questa del resto la ragione del successo dell’Intelligent Design negli Stati Uniti, in particolare durante gli “anni Bush”, dove il governo la sosteneva quasi apertamente!). Gli obiettivi dei propagandisti attuali del “piano intelligente” sono stati definiti chiaramente dal think tank[4] all’origine del movimento, il Discovery Institute, in un documento ad uso interno, The Wedge. Alcune fughe permetteranno la sua diffusione nel 1999. In questo documento sono definiti senza la minima ambiguità gli obiettivi principali del Discovery Institute[5]: in primo luogo si tratta per esso di “vincere il materialismo scientifico e le sue eredità morali, culturali e scientifiche; poi di sostituire le spiegazioni materialiste con la comprensione che la natura e l’essere umano sono creati da Dio”. Il suo progetto a breve o medio termine è “veder diventare la teoria del disegno intelligente un’alternativa accettata nelle scienze e vedere delle ricerche scientifiche condotte nella prospettiva della teoria del disegno; assistere all’inizio dell’influenza della teoria del disegno in altre sfere oltre che in quella delle scienze naturali; vedere posti all’ordine del giorno nazionale nuovi e più ampi dibattiti nell’educazione, su gli argomenti relativi alla vita, la responsabilità penale e personale”. È infatti nel dominio prioritario dell’educazione scolastica e dell’insegnamento, e parallelamente sul piano giuridico, che questo dogma spinge la sua offensiva, pur cercando di seminare la confusione nei circoli scientifici, al fine di radicarsi in tutte le sfere della società, grazie soprattutto a campagne pubblicitarie e di manipolazione dell’opinione (publicity and opinione making). Internet gli ha aperto anche un immenso serbatoio per scaricare la sua propaganda, come i missionari partiti alla conquista della “conversione” del mondo all’epoca della colonizzazione delle nuove terre. Il principio è far passare il “disegno intelligente” come ipotesi “scientifica” concorrente al darwinismo. Esso manifesta anche la sua ambizione di “vedere la teoria del disegno intelligente come prospettiva dominante nella scienza; vedere delle applicazioni della teoria del disegno nei campi specifici che includano la biologia molecolare, la biochimica, la paleontologia, la fisica e la cosmologia nelle scienze naturali; la psicologia, l’etica, la politica, la teologia, la filosofia e le materie letterarie; vedere la sua influenza nelle arti”. Ma questa esposizione al grande pubblico delle mire fondamentaliste del “disegno intelligente” ha avuto il suo rovescio della medaglia: ha portato un duro colpo ai suoi promotori che, non potendo negare l’esistenza del documento, ne propongono oggi una versione edulcorata.
Tuttavia, questo progetto è stato ripreso con forza e si è esteso in particolare nel mondo musulmano. Dalla Turchia, Harun Yahia, il cui vero nome è Adnan Oktar, alla testa di una lobby mafiosa, ha cominciato a diffondere gratuitamente e massicciamente la sua propaganda presso gli insegnanti e i capi di istituti di collegi e licei. Ha inondato le scuole nel mondo intero col suo Atlante della Creazione, anche via Internet. Ha prodotto anche più di 200 film documentari e 300 lavori già tradotti in una sessantina di lingue. I tentativi di rendere irriconoscibile la storia dello sviluppo delle specie e degli esseri viventi, così come tutte le menzogne inventate dalle classi dominanti nella storia dell’umanità, fanno parte dello stesso lavaggio del cervello per frenare lo sviluppo della coscienza (in particolare dei proletari) per inebetirli ed impedirgli di liberarsi delle loro catene. È attraverso l’oscurantismo che diffondono il riflesso della putrefazione della società capitalista e le maschere ideologiche che gettano sulla realtà del mondo serve solo a preservare i rapporti di sfruttamento. L’approccio religioso è solamente una di queste maschere.
Scienza e coscienza
Tutto oppone la credenza religiosa alla scienza ed al metodo scientifico. Per la religione e la tradizione teologica il sapere, la conoscenza non possono che essere, in fin dei conti, di natura divina e restare inaccessibili al comune mortale. Il metodo materialista della scienza (i fatti e lo studio delle reazioni, le differenze o le similitudini, e le condizioni che le determinano sono la base di ogni esperienza scientifica) non è né una “filosofia” né una “ideologia” ma la condizione necessaria di un approccio cosciente e storico dei rapporti tra l’uomo ed il suo ambiente naturale, ivi compreso prendendo come oggetto di studio il suo comportamento; è un approccio verso i limiti della conoscenza che non fissa in anticipo alcun limite. Lo sviluppo della scienza è totalmente associato allo sviluppo della coscienza nell’umanità. La scienza ha una storia, ma una storia né lineare, né legata meccanicamente ai progressi tecnici o alle tecnologie avanzate (ciò che esclude ogni “positivismo”, ogni idea di “progressismo”). È intimamente legata ai rapporti sociali di produzione da cui è condizionata. La credenza si basa su della paure di fronte all’ignoto. Contrariamente ai pregiudizi religiosi (che sono innanzitutto un’ideologia al servizio dell’ordine esistente, del potere stabilito che attinge la loro salvaguardia nel conservatorismo e lo status quo) lo sviluppo della coscienza è l’elemento motore che accompagna lo sviluppo della scienza. Il metodo scientifico non teme la messa in causa delle sue ipotesi, lo sconvolgimento delle sue esperienze e per questo si evolve ed è dinamico. Come dice Patrick Tort (L’effetto Darwin): “La scienza inventa, progredisce e si trasforma. L’ideologia recupera, si adatta e rimaneggia se stessa”.
E, come è citato in un articolo del Monde de l’Education[6], del giugno 2005: “il ‘dialogo' tra scienza e religione è una finzione inventata dalla politica. In effetti non c’è niente in comune né può essere scambiato tra la ricerca immanente della conoscenza obiettiva e il ricorso al soprannaturale che caratterizza la posizione del credente. Se si ammettesse una sola volta che un elemento soprannaturale può contribuire a costruire la spiegazione scientifica di un fenomeno, si rinuncerebbe in un sol colpo alla coerenza metodologica di tutta la scienza. Il metodo scientifico non si negozia. E’necessaria tutta la scaltrezza del liberismo individualistico (…) per convincere che ci possa essere una via di mezzo tra la spiegazione scientifica e le interpretazioni teologiche, o che queste possano essere combinate, come se la legge della caduta dei corpi fosse stato un fatto di convinzione personale, di democrazia elettiva o di ‘libertà'”.
In effetti, il termine “politica” non ha senso in questa citazione se non come politica della classe dominante. Ecco perché il metodo scientifico di un Copernico, di un Marx, di un Engels o di un Darwin è stato, ed è ancora per la maggior parte di loro, combattuto o deformato con un tale accanimento da parte di coloro che difendono l’immutabilità di un ordine sociale.
W (24/11/09)
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Alcuni precursori di Darwin
Dopo la pubblicazione della teoria dell’evoluzione di Darwin, Leclerc, Linneo e Lamarck sono stati screditati largamente e gettati in parte nella pattumiera della storia. Tutte le parti superate delle loro tesi sono state additate come errori grossolani e vergognosi. Tuttavia, in realtà, ciascuno ha contribuito a fare avanzare la conoscenza, in quanto il lavoro di ognuno di loro, pur con i suoi limiti, ha permesso il superamento degli altri. E’per tale motivo che possiamo dire che furono tutti e tre dei precursori, dei maestri di pensiero per Darwin. Non è un caso se essi hanno rilevato le somiglianze tra l’uomo e la scimmia e le possibilità di una genealogia comune.
L’attenzione che Georges-Louis Leclerc, conte di Buffon (1707-1788) attribuì all’anatomia interna lo pone tra i precursori dell’anatomia comparativa. “L’interno negli esseri viventi è la base del disegno della natura”, scrive nei Quadrupedi. Leclerc va contro la religione: pone deliberatamente l’uomo al centro del regno animale. Anche se conviene che non bisogna fermarsi all’aspetto esterno perché l’uomo ha una “anima” dotata di ragione che lo pone al vertice della creazione, afferma che l’uomo è simile agli animali per la sua fisiologia. Dimostra che esistono altrettante varietà di uomini neri come di uomini bianchi; dopo parecchie generazioni un gruppo di uomini bianchi in un particolare ambiente naturale diventerebbe nero; esiste solamente una sola specie umana e non diverse. Ne conclude che le varietà umane sono generate da un ceppo iniziale che si è adattato, secondo l’ambiente in cui abitano.
In quanto a Linneo (1707-1778) è un naturalista “fissista”. Per lui le specie viventi sono state create da Dio all’epoca della Genesi e da allora non hanno subito variazioni. Lo scopo primo del suo sistema è dimostrare la grandezza della creazione divina. Tuttavia, data l’importanza che attribuisce agli organi di riproduzione delle piante, è importante notare che la pertinenza del suo sistema di classificazione richiama inevitabilmente ipotesi evoluzionistiche: poiché tale specie somiglia straordinariamente a quella specie vicina, perché non presumere che l’una ha preceduto l’altra nel tempo? Anche la scelta degli organi di riproduzione come criterio andava nel senso di un’interpretazione dinamica ed evoluzionista della storia delle piante.
Lamarck (1744-1829) è un naturalista conosciuto per avere proposto per primo una teoria materialista e meccanicistica della vita e dell’evoluzione degli esseri viventi. È anche uno dei rari evoluzionisti ad avere compreso la necessità teorica dell’evoluzione degli esseri viventi. La sua teoria trasformista è fondata su due principi: la sua tesi sull’evoluzione afferma che gli individui si adattano durante la loro vita in particolare utilizzando più o meno certe funzioni organiche, che si sviluppano o si attenuano in rapporto all’uso o non uso degli organi. E’ questo che scriveva Lamarck a proposito della giraffa per esempio: “Relativamente alle abitudini, è curioso osservarne il prodotto nella forma particolare e la taglia della giraffa (camelo-pardalis): si sa che questo animale, il più grande dei mammiferi, abita l’interno dell’Africa, e vive nei luoghi dove la terra, quasi sempre arida e senza pascolo, l’obbliga a brucare il fogliame degli alberi, sforzandosi continuamente per raggiungerlo. Il risultato di questo comportamento, sostenuto per molto tempo e da tutti gli individui della sua razza, ha determinato che le sue zampe anteriori sono diventate più lunghe delle posteriori e che il suo collo si è esteso talmente che la giraffa, senza drizzarsi sulle gambe posteriori, alzando la testa raggiunge i sei metri d’altezza (circa a venti piedi)” (Lamarck, Filosofia zoologica).
W.
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[2] Si potrebbero aggiungere a questi “scandali” causati dalla scienza, le resistenze agli avanzamenti della paleontologia (che confermano le deduzioni di Darwin) che fanno degli altopiani africani la culla dell’umanità ed assestano quindi un colpo ferale alla pretesa “superiorità della razza bianca portatrice di civiltà” (leggi in particolarmente Richard E. Leakey, le Origini dell’uomo, edizione Superbur, scienza).
[3] Abbiamo visto in precedenti articoli che la visione darwinista è stata anche abbondantemente snaturata e deformata con interpretazioni reazionarie che vanno dal “darwinismo sociale” di Spencer all’eugenetica razzista di Galton, d’altro canto esplicitamente rigettate dallo stesso Darwin (leggi “Il darwinismo sociale: un’ideologia reazionaria del capitalismo”, Revolution Internationale n.404, settembre 2009, sul nostro sito).
[4] Un think tank (letteralmente “serbatoio di pensiero”) è un organismo [16], un istituto [17], una società [18] o un gruppo, tendenzialmente indipendente dalle forze politiche [19] (anche se non mancano think tank governativi), che si occupa di analisi delle politiche pubbliche [20].
[5] Vedi gli articoli “Creazionismo” e “Disegno intelligente” sul sito Wikipedia di Internet.
[6] Supplemento alla testata francese Le Monde
Aprile-maggio 2010
La borghesia mostra apertamente le sue intenzioni. Il suo freddo e disumano discorso si riassume in poche parole: “Se volete evitare il peggio, la catastrofe economica ed il fallimento, bisogna che stringiate la cinta come fino ad ora non avete mai fatto!”. Certo, nell’immediato, gli Stati capitalisti non si trovano tutti nella stessa situazione di deficit incontrollabile o di cessazione di pagamento dei pagamenti, ma tutti sanno che sono irrimediabilmente trascinati in questa direzione. E tutti utilizzano questa realtà per difendere i loro sordidi interessi. Dove trovare il denaro necessario per tentare di ridurre, anche se di poco e per poco tempo, questi mostruosi deficit? Non c'è da cercare lontano. Se già alcuni sono passati all’offensiva contro la classe operaia, tutti ne preparano ideologicamente il terreno.
La Grecia, l’Irlanda, il Portogallo e la Spagna: un antipasto di quello che toccherà a tutta la classe operaia
Il piano di austerità greco destinato a ridurre i deficit pubblici è di un’estrema brutalità e di un cinismo inaudito. Il primo ministro delle finanze di questo paese ha dichiarato senza batter ciglio che “gli impiegati devono dar prova di patriottismo … e dare l’esempio”[1]. Dovrebbero accettare senza dire niente, senza battersi, la riduzione dei salari, la soppressione delle indennità, che le sostituzioni di coloro che vanno in pensione avvengano col contagocce e che il pensionamento venga promulgato oltre i 65 anni ed, infine, che si possa essere licenziati e gettati via come dei fazzolettini usati. Tutto ciò per difendere l’economia nazionale, quella del loro Stato sfruttatore, dei loro padroni e di altre sanguisughe. Tutte le borghesie nazionali europee partecipano attivamente all’attuazione di questo piano di drastica austerità. La Germania, la Francia, la Spagna e anche l’Italia prestano difatti un’attenzione tutta particolare alla politica ed agli attacchi portati avanti da questo Stato. Vogliono lanciare al proletariato a scala internazionale questo messaggio: “Guardate la Grecia, i suoi abitanti sono costretti ad accettare sacrifici per salvare l’economia. Tutti voi dovrete fare lo stesso”.
Dopo le famiglie americane, le banche, e le imprese, ecco giunto il tempo in cui sono gli stessi Stati a subire pienamente la crisi economica e ad essere minacciati dal fallimento. Risultato: a loro volta devono orchestrare attacchi spietati. Nei prossimi mesi dovranno organizzare una draconiana riduzione del numero di impiegati, del “costo del lavoro” in generale e, dunque, del livello di vita di tutti. La borghesia, quando i suoi interessi meschini lo comandano, tratta gli operai come bestiame da condurre al macello. La situazione è identica in Portogallo, in Irlanda ed in Spagna, identici piani brutali, e misure anti-operaie. In Francia ed in Italia tutta la borghesia prepara il terreno per seguire questa strada. Ma questa non è una specificità della zona euro. Negli Stati Uniti, il paese più potente del pianeta, dopo nemmeno due anni di crisi, si censiscono più del 17% di disoccupati, 20 milioni di nuovi poveri e 35 milioni di persone che sopravvivono grazie a buoni pasto. Ed ogni giorno che passa apporta la sua nuova fetta di miseria.
Gli Stati confrontati alla loro insolvenza
Come si è arrivati a questo? Per tutta la borghesia, in particolare per la sua frazione di estrema sinistra, la risposta è molto semplice. Ci sarebbe un solo errore, quello commesso dai banchieri e dai mastodonti come Goldman Sachs, J.P. Morgan ed altri. È vero che il sistema finanziario è diventato pazzo. Conta solamente l’interesse immediato, secondo il vecchio adagio “dopo di me, il diluvio”. È noto a tutti che ora queste grandi banche, per guadagnare sempre più denaro, hanno accelerato la cessazione di pagamento dei pagamenti di pagamento della Grecia scommettendo sul suo fallimento. Faranno sicuramente la stessa cosa domani con il Portogallo o la Spagna. Le grandi banche mondiali e le istituzioni finanziarie non sono che avvoltoi. Ma questa politica del mondo finanziario, in fin dei conti suicida, non è la causa della crisi del capitalismo. Ne è al contrario l’effetto che, ad un certo stadio del suo sviluppo, ne diventa un fattore aggravante.
Come al solito la borghesia di ogni risma mente. Stende davanti agli occhi della classe operaia una vera cortina di fumo. Per lei la posta è grossa. Consiste nel fare di tutto per evitare che gli operai trovino il legame tra le insolvenze crescenti degli Stati ed il fallimento dell’intero sistema capitalista. Perché la verità è proprio lì: il capitalismo è moribondo e la follia della sua sfera finanziaria è una delle conseguenze visibili.
Quando è esplosa la crisi con forza a metà 2007 dovunque, ed in particolare negli Stati Uniti, è venuto fuori il fallimento del sistema bancario. Questa situazione era solamente il prodotto di decine di anni di politica di indebitamento generalizzata ed incoraggiata dagli stessi Stati per creare dei mercati artificiali indispensabili alla vendita delle merci. Ma quando, infine, gli individui e le imprese, strangolati da questi prestiti, si sono rivelati incapaci di effettuare i rimborsi, le banche si sono ritrovate sull’orlo del crollo insieme a tutta l’economia capitalista. E’ allora che gli Stati hanno dovuto addossarsi tutta una parte dei debiti del settore privato e fare piani di rilancio faraonici e costosi per tentare di limitare la recessione.
Adesso sono quindi gli Stati stessi a ritrovarsi indebitati fino al collo, incapaci di far fronte ai loro debiti (senza per altro che il settore privato si sia salvato) e in una potenziale situazione di fallimento. Certo uno Stato non è un’impresa, quando si trova in cessazione dei pagamenti, non mette la chiave sotto la porta. Può ancora sperare di indebitarsi pagando sempre più interessi, praticare un salasso da tutte le nostre economie, stampare ancora più carta moneta. Ma ci sarà un tempo in cui i debiti (almeno gli interessi) devono essere rimborsati, anche da uno Stato. Per comprendere ciò basta guardare ciò che sta accadendo per lo Stato greco, portoghese ed anche spagnolo. In Grecia lo Stato ha tentato di finanziarsi attraverso il prestito sui mercati internazionali. Il risultato non si è fatto attendere. Tutti, sapendo che questo è oggi insolvibile, gli hanno proposto dei prestiti a breve termine ed a tassi di più dell’8%. Inutile dire che una tale situazione finanziaria è impossibile da sopportare. Che cosa resta allora come soluzione? Prestiti anch’essi a breve termine da parte di altri Stati, come la Germania o la Francia. Ma attenzione, queste potenze possono forse riuscire a far recuperare puntualmente le casse greche, ma saranno poi incapaci di aiutare il Portogallo, la Spagna ed ancor meno l’Inghilterra ... Non avranno mai tanta liquidità. E questa politica, in ogni caso, può condurre solo ad un loro rapido indebolimento finanziario. Anche un paese come gli Stati Uniti, che tuttavia può appoggiarsi sul dominio internazionale del dollaro, vede aumentare senza sosta il suo deficit pubblico. La metà degli Stati americani è in fallimento. In California il governo paga i suoi funzionari non più in dollari ma con una specie di “moneta locale”, buoni validi unicamente sul territorio californiano!
In breve, nessuna politica economica può tirare fuori gli Stati dalla loro insolvenza. Per rinviare le scadenze non hanno altra scelta che ridurre di molto le “spese”. Ecco esattamente il senso dei piani adottati in Grecia, in Portogallo, in Spagna e domani inevitabilmente in tutti gli altri paesi. Non si tratta più di semplici piani di austerità come quelli conosciuti regolarmente dalla classe operaia dalla fine degli anni 1960. Adesso si chiede di far pagare molto cara alla classe operaia la sopravvivenza del capitalismo. L’immagine che dobbiamo avere presente sono le interminabili file d’attesa di famiglie operaie che negli anni 30 facevano la coda davanti alle panetterie per un pezzo di pane. Ecco l’unico futuro che ci promette la crisi senza via d’uscita del capitalismo. Di fronte alla miseria crescente, solo le lotte di massa della classe operaia mondiale possono aprire la prospettiva di una nuova società rovesciando questo sistema basato sullo sfruttamento, la produzione di merci ed il profitto.
Tino, 26 febbraio
(da Révolution Internationale, n. 410, organo della CCI in FranciaQuesto articolo ha anche anticipato con una certa precisione quello che sarebbe accaduto dal 10 al 24 febbraio: giornate di scioperi effettuate massicciamente da una classe operaia che non vuole più subire i violenti attacchi dello Stato, con dei sindacati che ordiscono per dividere gli operai e sterilizzare il crescente malcontento.
La situazione greca è importante perché è una sorte di test per la borghesia europea ed anche per quella mondiale. Numerosi Stati nei prossimi mesi saranno costretti a fare gli stessi attacchi frontali come quelli che lo Stato greco sta attuando contro le condizioni di vita della classe operaia. Se in questo paese passeranno le misure di drastica austerità, ciò servirà da test positivo per dare l’avvio a tutta una serie di attacchi a livello mondiale. È per tale motivo che le borghesie francesi e tedesche, soprattutto, mettono a disposizione la loro abile esperienza nell’inquadramento della classe operaia. Aiutano il governo di Papandreu a suddividere a scacchiera il territorio ed a consegnarlo in mano ai sindacati. Questi, agendo d’anticipo ed organizzando giornate di lotte, sperano di riuscire a canalizzare il crescente malcontento.
Un anno fa, ci sono state tre settimane di lotte massicce in Grecia dopo l’assassinio da parte della polizia di un giovane anarchico, Alexandros Grigoropoulos. Ma il movimento nelle strade, nelle scuole e nelle università ha incontrato notevoli difficoltà a coordinarsi con le lotte sui posti di lavoro. C’è stato un solo sciopero, quello degli insegnanti delle scuole primarie, che per una mattina ha sostenuto il movimento. Anche se quello è stato un periodo di massicce agitazioni sociali, compreso uno sciopero generale, alla fine non ci sono stati collegamenti.
Tuttavia in Grecia le azioni dei lavoratori sono proseguite anche oltre la fine del movimento di protesta e fino ad oggi. Infatti, il ministro del Lavoro, Andreas Lomberdos, è stato costretto a mettere in allarme la borghesia internazionale. Ha affermato che le misure previste per i prossimi tre mesi per arginare il crollo del debito nazionale che minaccia di gettare la Grecia fuori dalla zona euro, potrebbero implicare uno spargimento di sangue. “Non possiamo fare gran che per impedirlo” ha aggiunto. Il mese scorso il Primo ministro greco, in un discorso davanti al Parlamento, ha dichiarato che la crisi del debito nazionale è “la prima crisi di sovranità nazionale dal 1974”. Il nuovo governo socialista parla di riunire tutti i partiti borghesi e tentare di costituire un governo di unità nazionale di emergenza che dovrebbe essere in grado di sospendere alcuni articoli della Costituzione che garantiscono il diritto di riunione pubblica, di manifestazione e di sciopero!
Anche prima del tentativo da parte del governo di mettere in opera le sue “riforme” e cioè gli attacchi contro la classe operaia per ridurre il deficit di bilancio dal 12,7% al 2,8%, c’è stata una grande ondata di lotte operaie. In questi ultimi due mesi sono entrati in sciopero gli scaricatori di porto, i lavoratori della Telecom, i netturbini, i medici, le infermiere, gli insegnanti delle scuole materne e primarie, i tassisti, gli operai della siderurgia e gli impiegati municipali! A prima vista, tutte queste lotte sembrano esplodere ogni volta per ragioni distinte, in realtà sono tutte delle risposte agli attacchi che lo Stato ed il capitale sono costretti ad attuare nel tentativo di fare pagare la crisi ai lavoratori.
Prima ancora di portare avanti il programma di austerità (approvato dall’Unione Europea) il Primo Ministro Papandreu ha avvertito che esso sarebbe stato “doloroso”. Ed il 29 gennaio, prima ancora che il piano fosse esposto nei dettagli, c’è stata una manifestazione di collera da parte dei vigili del fuoco e di altri lavoratori del settore pubblico ad Atene.
Il piano governativo ha previsto su tre anni un congelamento totale dei salari per i lavoratori del settore pubblico ed una riduzione del 10% sulle indennità. Si stima che ciò equivale ad una diminuzione dei salari che va dal 5 al 15%. Gli impiegati che andranno in pensione non saranno sostituiti, e si prevede anche l’aumento dell’età pensionabile che lo Stato presenta come un mezzo per economizzare sui costi delle pensioni.
Il fatto che lo Stato, proprio ora, sia costretto a portare degli attacchi ancora più duri contro una classe operaia combattiva rivela la profondità della crisi che colpisce la Grecia. Il ministro Lomberdos l’ha precisato con estrema chiarezza quando ha detto che “queste misure possono essere applicate solamente in modo violento”. Tuttavia questi attacchi sferrati contemporaneamente contro tutti i settori operai danno a quest’ultimi una reale possibilità di condurre una lotta comune per delle rivendicazioni comuni.
Se esaminiamo attentamente ciò che fanno i sindacati in Grecia, possiamo vedere come le loro azioni hanno per obiettivo mantenere le lotte divise. Il 4 e 5 febbraio c’è stato uno sciopero ufficiale di 48 ore dei doganieri e degli agenti delle tasse che hanno chiuso i porti e le stazioni di frontiera, mentre alcuni agricoltori mantenevano i loro blocchi. L’Indipendent (05/02/10) è uscito col titolo “Gli scioperi mettono la Grecia in ginocchio” e descrive l’azione come la “prima manifestazione di un’attesa eruzione di scioperi clamorosi”. Questa “attesa eruzione” di scioperi comprende un progetto di sciopero del settore pubblico ed una marcia sul Parlamento promossa dal ADEDY per protestare contro gli attacchi alle pensioni, il 10 febbraio; uno sciopero indetto dal PAME, il sindacato stalinista, l’11 febbraio; uno sciopero del settore privato indetto dal GSEE, il sindacato più importante, che rappresenta 2 milioni di lavoratori, il 24 febbraio.
Così divisa, la classe operaia non metterà “in ginocchio” lo Stato greco. Il Financial Times del 5 febbraio ha stimato che finora “i sindacati hanno reagito moderatamente ai piani di austerità del governo, il che riflette uno stato d’animo disponibile a fare dei sacrifici per superare la crisi economica”, ma ha identificato allo stesso tempo “una reazione violenta dei sindacati contro il programma di austerità del governo”. In realtà, i sindacati non hanno improvvisamente tolto il loro sostegno al governo socialista ma, con il montare della collera espressa dalla classe operaia, sanno che se non si danno da fare c’è il rischio che i lavoratori comincino a smascherare la commedia sindacale. Per il momento i sindacati hanno mostrato il loro volto radicale; hanno interrotto il dialogo sui piani futuri per le pensioni e previsto degli scioperi di una o due giornate in date differenti. I sindacati vorrebbero veramente fare accettare ai lavoratori i sacrifici ma ora devono tenere conto della reazione della classe operaia.
Per lo sviluppo futuro delle loro lotte è necessario che i lavoratori diffidino non solo dei sindacati ma anche di altri “falsi amici”. Per esempio il KKE (partito comunista greco), che ha una certa influenza nella classe operaia, un anno fa qualificava i manifestanti come agenti segreti di “misteriose forze straniere” e “provocatori”. Adesso dice che “i lavoratori e i contadini hanno il diritto di ricorrere ad ogni mezzo di lotta per difendere i loro diritti”. Le altre forze di sinistra, come i trotskisti, servono solo a deviare la collera dei lavoratori, focalizzando l’attenzione contro i fascisti o altre forze di destra, o contro l’influenza dell’imperialismo americano - qualsiasi cosa purché i lavoratori non prendano nelle loro mani le lotte e le dirigano contro il più alto rappresentante del capitale, lo Stato. Con gli scioperi nel paese limitrofo, la Turchia, che si svolgono nello stesso momento degli scioperi in Grecia[2], i sindacati ed i loro alleati stanno particolarmente attenti a presentare tutti i problemi che incontrano gli operai come specificità greche e non come espressione della crisi internazionale ed irrimediabile del capitalismo.
Ciò che è caratteristico della situazione in Grecia, è la proliferazione di diversi gruppi armati che mettono bombe sotto gli edifici pubblici, che non fanno altro che aggiungere ancora più violenza allo spettacolo abituale, favorendo così un’ulteriore repressione da parte dello Stato. Questi gruppi, dai nomi esotici come “Congiura delle cellule del Fuoco”, “Gruppo di guerriglia dei terroristi” o “Frazione nichilista”, non offrono assolutamente niente come prospettiva alla classe operaia. Gli operai possono costruire la loro solidarietà di classe prendendo coscienza della propria forza, sviluppando fiducia in sé stessi a partire dalle lotte e sviluppando le proprie forme di organizzazione, non restando seduti a casa a guardare in televisione le bombe poste dai gauchisti radicali. Il rumore che provoca una riunione di massa di lavoratori, che discutono del modo con cui devono organizzare la propria lotta, spaventa la classe dominante molto più di migliaia di bombe.
DD (5 febbraio)
(da Révolution Internationale n. 410, organo della CCI in Francia)
[1] Mentre andiamo in stampa, nuovi scioperi e scontri si stanno sviluppando in Grecia, e ci sembra che la situazione confermi nella sostanza quanto da noi analizzato
[2] Vedi “Turchia: Solidarietà con la resistenza degli operai di Tekel contro il governo ed i sindacati!”, ICC online, pagina italiana.
Pubblichiamo la traduzione di un articolo apparso sul nostro sito Internet in lingua spagnola su una nuova lotta a Vigo, in Galizia, provincia spagnola[1].
Abbiamo appreso la notizia di una lotta congiunta di operai disoccupati ed operai attivi dei cantieri navali della città di Vigo.
Ringraziamo uno dei nostri lettori che ci ha mandato il suo commento e come prima cosa affermiamo che condividiamo la conclusione che lui trae da questa lotta: “Soltanto l’unità e la solidarietà di tutti i disoccupati e i lavoratori, in assemblee e manifestazioni congiunte, potranno portarci alla vittoria. Salutiamo i lavoratori ed i disoccupati dei cantieri navali di Vigo. I disoccupati e gli operai del mondo intero dovrebbero prendere esempio dai [proletari dei] cantieri navali di Vigo, per la loro unità, la loro solidarietà, perché è tutti uniti che riusciremo a vincere il capitalismo mondiale”. Abbiamo poi ricevuto sul nostro forum un altro messaggio che andava nello stesso senso: “L’articolo sulle lotte condotte dai disoccupati e gli attivi dei cantieri navali di Vigo è stato pubblicato senza la minima reazione, eppure possiamo trarre da queste una lezione che dobbiamo sempre avere in testa: quella dell’unità della classe; qualche cosa di molto importante sta accadendo a Vigo, perché a manifestare insieme sono lavoratori attivi e disoccupati, raggruppando altri lavoratori fino all’arresto di tutto il settore navale. Leggete ed apprenderete molte cose. Saluti”.
A Vigo ci sono più di 60.000 disoccupati. Soltanto nel 2009 e nel solo settore della metallurgia, sono spariti 8.000 posti di lavoro. L’indignazione, unita alla preoccupazione di fronte ad un avvenire sempre più difficile, si diffonde tra gli operai. In particolare nei cantieri navali, i disoccupati, attraverso un accordo tra sindacati e padronato, sono stati iscritti ad una “Borsa del lavoro” da cui si sarebbe dovuto attingere tutte le volte che si fossero resi disponibili dei posti di lavoro.
I disoccupati iscritti a questa Borsa del lavoro - circa 700 – si sono resi conto, andando su tutte le furie, che al posto loro nei cantieri venivano assunti puntualmente operai stranieri con salari ben più bassi e a condizioni terribili. Secondo il portavoce dei disoccupati, ad esempio, “ci sono dei lavoratori che dormono nei parcheggi e che mangiano solo un panino al giorno”.
Questo è stato l’elemento detonatore della lotta. Gli operai hanno tenuto a precisare che loro non sono assolutamente contro l’assunzione di lavoratori stranieri. Ed è così che un loro portavoce ha insistito: “non abbiamo alcuna obiezione sul fatto che vengano assunte persone che vengono da altre parti, ma a condizione che il padronato non passi al di sopra della convenzione collettiva della provincia, perché con il salario di uno solo di noi vengono pagati due o tre stranieri”. Malgrado ciò, i media, specialisti della “comunicazione”, se ne sono usciti con la loro “spiegazione” accusando i lavoratori di xenofobia. Per esempio, El Faro de Vigo così intitolava l’articolo che parlava della lotta: “I disoccupati della metallurgia si oppongono all’assunzione di stranieri”, che è una spudorata menzogna. Infatti sono stati gli stessi operai disoccupati a denunciare le manovre del padronato che “fa venire della mano d’opera a buon mercato in condizioni di quasi schiavitù”.
La borghesia è una classe cinica, machiavellica. Assume lavoratori stranieri sottomettendoli a condizioni salariali molto peggiori di quelle degli operai del paese. Se questi ultimi si mettono in lotta, opponendosi a tali condizioni di assunzione, vengono subito accusati di razzismo, di xenofobia, di “difesa d’idee di estrema destra”, di nazionalismo, ecc., mentre la risposta immediata degli operai non è stata affatto contro i loro fratelli di classe, ma contro il fatto di stabilire un precedente assumendoli a condizioni salariali inferiori, ciò che fa solamente abbassare di più le condizioni salariali per tutti. È quello che abbiamo visto in Gran Bretagna all’epoca della lotta degli operai edili[2] o della lotta degli operai dei cantieri navali di Sestao[3].
Il 3 febbraio, i disoccupati si sono recati alle porte di Astilleros Barreras (l’impresa più importante del settore navale) con l’intenzione di organizzare un’assemblea generale insieme ai lavoratori di questa impresa. Trovando le porte chiuse, si sono messi a gridare slogan al megafono ed a spiegare le loro rivendicazioni finché alla fine la grande maggioranza degli impiegati ha abbandonato le installazioni e si è unita ai disoccupati. Secondo la cronaca di Europa-Press, “cinque furgoni di polizia antisommossa si sono presentati sul posto. I poliziotti si sono schierati su tutta la zona armati di fucili a proiettili di gomma e scudi, ma alla fine le forze di sicurezza hanno ripiegato verso la rotonda di Beiramar (…). Alla fine il gruppo, composto di disoccupati e di lavoratori, è partito in una manifestazione in direzione di Bouzas e su questo tragitto gli operai degli altri cantieri navali della zona (come Cardama, Armon e Freire-Así) si sono uniti a loro, in modo che l’attività si è fermata in tutte le industrie navali”.
Questa esperienza ci ha mostrato come si concretizza la solidarietà e l’unità tra i compagni disoccupati e quelli che hanno ancora un lavoro: assemblee generali unite, manifestazione di strada per fare conoscere la lotta agli altri lavoratori, comunicazione e legame diretto con i lavoratori delle altre imprese per guadagnarli alla lotta comune.
In altre parole, la stessa cosa di quello che è successo a Vigo nel 2006[4]: gli operai riprendono i metodi proletari di lotta che non hanno niente a che vedere con la divisione, il corporativismo, la passività, tipici dei metodi sindacali[5].
Il 4 febbraio, queste azioni si sono ripetute. Verso le 10 di mattina, i disoccupati si sono recati di nuovo alle porte di Barreras. Ed ancora una volta, i loro compagni dell’impresa sono usciti per unirsi alla lotta. Malgrado il dispiegamento poliziesco, tutti sono ripartiti manifestando. Secondo El Faro di Vigo, “La protesta di ieri era sorvegliata da un forte dispiegamento poliziesco. Ci sono stati momenti di tensione, ma alla fine non ci sono state baruffe. I disoccupati hanno manifestato nelle zone di Beiramar e Bouzas di Vigo, accompagnati dai lavoratori del settore, e hanno affermato che continueranno le mobilitazioni finché i padroni non accetteranno di regolare con essi i problemi che, secondo quanto loro stessi denunciano, esistono nell’assunzione al lavoro del personale”.
Non abbiamo altre notizie. Ma pensiamo che questi fatti hanno un forte significato sulla combattività e sulla presa di coscienza dei lavoratori, sulla ricerca dell’unità e della solidarietà di fronte ai colpi bassi che il capitale ci assesta.
Esprimiamo la nostra solidarietà ai nostri compagni lotta. Incoraggiamo a trarne delle lezioni ed alla nascita di una solidarietà attiva. Non sono i motivi che mancano visto che è stata da poco superata la soglia dei 4 milioni di disoccupati, il governo annuncia l’innalzamento dell’età pensionabile a 67 anni, ecc.
CCI (5 febbraio)
[1] Questo articolo è stato scritto grazie ad un messaggio del 3 febbraio 2010 inviatoci da un lettore alla sezione “Commenti” del nostro sito:https://es.internationalism.org/node/2765#comment-636 [22].
[2] Vedi “Grèves en Grande Bretagne : les ouvriers commencent à remettre en cause le nationalisme [23]” su Révolution Internationale n°399, marzo 2010.
[4] “ Sciopero della metallurgia a Vigo in Spagna, un passo avanti nella lotta proletaria [25]”, in Rivoluzione Internazionale n°145.
[5] Sul sabotaggio sindacale, leggere il nostro articolo pubblicato a settembre 2009: “Vigo (Espagne): les méthodes syndicales mènent tout droit à la défaite [26]”
In Gran Bretagna la classe dominante può anche utilizzate il patriottismo mostrato a Wooton Bassett[1] per sostenere ideologicamente la propaganda che il conflitto in Afganistan è “umanitario” e “contro il terrore”, ma non può nascondere il fatto che masse di giovani, che molto spesso sono obbligati a fare il soldato per motivi economici, stanno ritornando a casa nelle bare mentre il caos continua a regnare nella regione.
C’è un altro fattore: il fatto che la classe lavoratrice non è sconfitta. Fin dalla fine del periodo di controrivoluzione, verso la fine degli anni 60, la classe operaia a livello internazionale ha continuato, attraverso alti e bassi, a sviluppare la sua combattività. Basta guardare i recenti scioperi in Turchia, in Grecia ed in Gran Bretagna per rendersene conto. La borghesia questo lo sa e sono queste lotte o il pericolo che rappresentano a costituire un fattore frenante della tendenza a guerre più generalizzate. L’incapacità della borghesia a dominare completamente la scena sociale le impedisce, per quanto sofisticata possa essere sua propaganda, di farci marciare verso la guerra mondiale come ha fatto nel 1914 e nel 1939.
Per sua natura la classe operaia è una classe internazionale, non ha nazioni da difendere, nessuna parte da sostenere nelle guerre fra gli Stati capitalisti. I lavoratori di tutti i paesi devono, come ha scritto Lenin nel 1914, trasformare le guerre imperialiste in guerre civili e combattere l’unica guerra che può mettere un fine a tutte le guerre: la guerra di classe.
La nebbia ideologica del patriottismo che è calata nel 1914 e nel 1939, che ha oscurato questa necessità, è stata dispersa fino ad un certo punto dalla lotta di classe ma i rivoluzionari devono lavorare alla sua scomparsa totale per permettere alla classe operaia di vedere lo Stato capitalista per ciò che è in realtà, un mostro militarista assetato di sangue.
Queste erano le idee che hanno dominato le discussioni in entrambe le riunioni. Alla prima riunione, di novembre, sull’internazionalismo e la seconda guerra mondiale il punto centrale era su come la borghesia utilizza l’ideologia per difendere la guerra imperialista e quale è l’alternativa proletaria alla guerra. Ma più interessante è stata la discussione alla seconda riunione a febbraio su come gli internazionalisti rispondono alla guerra.
Durante gli ultimi anni la CCI ha visto uno sviluppo internazionale di un nuovo ambiente internazionalista. Alcuni di questi gruppi si identificano con la tradizione della Sinistra comunista mentre altri con l’anarchismo e il sindacalismo. Ma quale che sia la loro origine, questi pongono al centro della loro politica l’internazionalismo. Questo sviluppo ci ha obbligato a rivedere il nostro atteggiamento verso l’anarchismo. C’è un ampio movimento con una gamma di posizioni e i comunisti di sinistra, piuttosto che rifarsi a vecchi schemi, devono trovare il modo di lavorare con gli elementi internazionalisti di questo milieu ogni volta che è possibile. In questa ottica WR ha invitato esplicitamente i compagni della Anarchist Federation (AF), di Solidarity Federation e della Communist Workers Organisation (CWO) a partecipare alla riunione con lo scopo di chiarificare su che cosa siamo d’accordo o in disaccordo e come gli internazionalisti possono intervenire insieme in futuro. Dalla riunione è emerso chiaramente che tutti i presenti (i compagni della CWO e di AF e alcuni anarchici sciolti) erano d’accordo sulla centralità dell’internazionalismo come risposta alla guerra imperialista. La presenza di un membro della Tendenza Internazionale Bolscevica Trotzkista ha reso questo accordo più esplicito quando tutti i presenti hanno denunciato la versione dell’antimperialismo difesa da questa tendenza: essenzialmente un grezzo antiamericanismo basato sul chiamare gli sfruttati ed i diseredati a sostenere la propria borghesia, in quanto “male minore”, contro l’imperialismo più grande. C’è stato anche un certo accordo, basato sull’esperienza condivisa dei gruppi di No War But the Class War a Londra e Sheffield, su come i comunisti di sinistra e altri internazionalisti possono discutere e lavorare insieme. Le azioni esemplari e l’attivismo frenetico del passato sono stati rifiutati in favore di ulteriori discussioni e interventi unitari sui principi nel caso di altre campagne di guerra e manifestazioni pacifiste.
Questa riunione rappresenta un piccolo passo avanti nei rapporti tra internazionalisti in Gran Bretagna e per questo deve essere salutata, ma c’è ancora molto lavoro da fare. Questa prima discussione deve essere sviluppata e noi facciamo un appello a tutti gli internazionalisti, con qualsiasi corrente essi si identifichino, a prendere contatti con noi per organizzare riunioni comuni e sviluppare la discussione.
Kino 8/3/10
[1] Cittadina inglese dove si svolti i funerali dei soldati morti il l’1 ed il 5 aprile scorso in Afghanistan.
La maggior parte delle persone presenti alla riunione ha condiviso l’idea che oggi votare non ha alcun valore per la classe operaia e che malgrado molti lavoratori abbiano ancora illusioni verso il Partito laburista (qualcuno nella riunione si è riferito questo come al “male minore”), il Partito laburista ha dimostrato, fin dalla sua formazione all’inizio del Novecento, la sua lealtà completa alla classe dirigente piuttosto che alla classe lavoratrice.
E non solo in Gran Bretagna: dappertutto i governi di sinistra hanno stabilito record negli attacchi di austerità (un altro compagno ha fatto l’esempio del PASOK nell’attuale situazione in Grecia) e nel sostegno alla guerra (i sindacati ed il Partito laburista hanno un forte pedigree su questo piano sia nel secolo scorso che oggi e l’agitatore di sinistra recentemente defunto, Michael Foot, è stato un entusiasta della guerra delle Falklands-Malvinas).
Anche se le indicazioni di letture distribuite prima della riunione (Lettera aperta a Lenin di Gorter e L’estremismo, malattia infantile del comunismo di Lenin) e la presentazione hanno posto l’attenzione sui dibattiti della Terza Internazionale dove l’antiparlamentarismo è diventato una posizione chiave della Sinistra Comunista, non c’è stata la possibilità di sviluppare una discussione reale su questo punto, anche se sono stati ventilati diversi punti di vista sulle intenzioni e le preoccupazioni di Lenin e dei bolscevichi in questo periodo della rivoluzione russa (1920).
Gli altri gruppi politici presenti erano la CCI e Solidarity Federation e c’era un certo numero di persone non appartenenti ad alcun gruppo. La riunione è stata condotta in un’atmosfera fraterna e il forum si incontrerà di nuovo il 1° aprile.
Duffy 8/3/10
Il 14 marzo la CCI ha tenuto una Riunione Pubblica nella città di Monterrey, in Messico; ad essa ha assistito il Grupo Socialista Libertario e alcuni compagni che, sebbene fossero in numero limitato, rappresentano le diverse generazioni che costituiscono oggi la nostra classe. Il tema della riunione “Sviluppo della crisi economica e le mobilitazioni operaie in Grecia e Spagna”. La presentazione e la discussione che ne è seguita hanno riconosciuto la somiglianza con gli attacchi e le trappole con cui si confronta il proletariato in Messico, e quindi la discussione si è orientata verso l’analisi degli attacchi che stanno subendo i lavoratori del settore elettrico. La riunione ha quindi deciso di pronunciarsi in questo senso su questi problemi, con l’intento di offrire all’insieme della classe operaia la possibilità di inserire nella sua riflessione le idee che altri proletari producono, cosa che può permettere un migliore bilancio delle esperienze e di trarre le lezioni da queste.
1. La crisi che assilla il capitalismo spinge la classe dominante a mettere in pratica misure che colpiscono in modo profondo le condizioni di vita dei salariati; questa situazione non è propria del Messico, in ogni parte del mondo si mettono in atto programmi che alzano il livello dello sfruttamento al fine di recuperare e proteggere i profitti capitalisti. In questa direzione vanno le politiche che si annunciano in Spagna e che già si stanno attuando in Grecia, ma anche gli attacchi in Messico, con l’aumento dei prezzi e delle tasse e con i licenziamenti massicci di lavoratori, come è stato con gli elettrici e i minatori.
2. I governi di destra come di sinistra sono nemici dei lavoratori. In Messico è stato un governo di destra ad applicare violente misure contro i salariati, ma in Spagna e in Grecia, governati da partiti di sinistra, vengono attuati piani simili. Destra e sinistra attuano attacchi che hanno il solo obiettivo di aumentare lo sfruttamento e peggiorare le condizioni di vita degli operai. L’unica preoccupazione dei governi di destra o di sinistra è soddisfare la sete di profitti. E’ per questo che i lavoratori non possono sperare di poter risolvere i loro problemi con un semplice cambio di governo.
3. Lo sviluppo della combattività operaia di fronte agli attacchi della borghesia, fa sì che si cerchi di costruire trappole per disperdere il malcontento e la forza delle mobilitazioni dei lavoratori. Un esempio particolarmente significativo lo si è avuto alla Compagnia LyFC[1], dove il sindacato asseconda gli attacchi del governo con manovre ed inganni. E’ noto lo sforzo del sindacato per isolare gli operai del settore elettrico dal resto della classe, imponendo obiettivi estranei ai loro interessi, come la “difesa dell’impresa statale”, della “economia nazionale” o del sindacato, e con la smobilitazione con la scusa che le leggi o gli avvocati avrebbero potuto aiutare e dare una soluzione.
4. La difesa delle proprie condizioni di vita da parte dei lavoratori è già, in sé, una critica al sistema che si basa sulla separazione tra i proprietari dei mezzi di produzione e i salariati, ma perché queste espressioni mostrino la forza reale dei lavoratori occorre che esse siano sotto il controllo dei lavoratori stessi, senza delegarlo a qualsivoglia sindacato e senza che esse siano deviate in strade senza uscita come quelle delle urne elettorali.
5. L’appello fatto dallo SME[2] di fare ricorso agli avvocati come soluzione, le mobilitazioni inquadrate in modo da impedire una reale unificazione, gli sforzi per sottomettere il malcontento e piegarlo di fronte a qualche partito, deputato o personaggio politico, mostrano come lo SME – come tutti i sindacati, senza eccezione - non è una struttura proletaria visto che il suo lavoro è stato di evitare la solidarietà, far passare i licenziamenti e diffondere la demoralizzazione. L’insistenza dello SME nel fare appelli alla difesa del capitale statale e di cercare di usare i lavoratori come carne da cannone, “recuperando postazioni” e spingendo agli scontri con la polizia, anche se sembrano pratiche radicali non sono che provocazioni che arricchiscono la trappola in cui hanno trascinato i lavoratori.
6. Di fronte agli attacchi portati dai governi e alle trappole costruite dai sindacati, i lavoratori devono riflettere sulla propria condizioni di sfruttati e sulle capacità che hanno come classe quando si uniscono e si organizzano. Le esperienze degli scioperi in Turchia[3] di dicembre e gennaio dimostrano come il proletariato può lottare al di fuori della struttura sindacale, mettendo in campo così la sua vera forza.
14 marzo 2010
Nel mese di marzo la nostra organizzazione ha tenuto delle Riunioni Pubbliche sul tema “Al suicidio e alla sofferenza sul posto di lavoro, una sola risposta: la solidarietà di classe [28]”[1].
In essa si metteva innanzitutto in evidenza come il fenomeno dei suicidi sul posto di lavoro o comunque legati a questioni di lavoro si sono moltiplicati negli ultimi mesi, e non solo in Italia; anzi, in alcuni paesi e in alcune fabbriche, come la Telecom francese, il numero di lavoratori spinti al suicidio ha raggiunto un livello assolutamente inedito e clamoroso. I motivi di questi suicidi possono sembrare a volte diversi: in alcuni casi, come a France Telecom, è soprattutto il clima pesante che si vive al lavoro (controlli, spostamenti, ritmi sostenuti, ecc.) che creano uno stress che ha spinto un certo numero di lavoratori al suicidio; in altri casi è la perdita del lavoro la causa scatenante di questi gesti estremi. Ma a guardare più da vicino, al di là della fenomenologia immediata, la causa di questi suicidi è come si vive il lavoro in questa fase della storia del capitalismo: non più soltanto come una fatica, uno sfruttamento e una alienazione (per non poter godere pienamente del frutto del proprio lavoro), ma come una vera e propria sofferenza, una sofferenza che giunge fino a diventare tanto insopportabile da spingere a farla finita direttamente con la vita.
Questo fenomeno è stato studiato anche da psicologi che confermano come questa sofferenza non abbia niente di “esistenziale”, di personale, ma sia legato alle condizioni che si vivono oggi sul posto di lavoro.
Nelle discussioni che si sono avute nelle diverse riunioni tenute da noi su questo tema, ci sono state diverse testimonianze a conferma di questo clima. Ma, più interessanti ancora, sono state le riflessioni che, a partire dalla nostra introduzione, si sono sviluppate nelle discussioni, sempre vivaci e partecipate.
Una di queste ha riguardato come considerare queste persone che si suicidano: sono i più deboli, cioè quelli che crollano per una loro debolezza personale, o sono quelli più sensibili, che risentono più fortemente questa situazione, che non vogliono accettare e che, in questa fase particolare, esprimono la loro rabbia, la loro ribellione con un gesto eclatante, che possa spingere altri a riflettere, o che comunque venga sbattuta in faccia ai responsabili di questa situazione. Nella discussione la maggioranza degli intervenuti, se non tutti, hanno optato per questa seconda spiegazione, che più si lega ad una analisi oggettiva della società attuale, rispetto all’altra che rischia di ridurre un fenomeno ormai sociale ad una questione individuale.
Se questo grido di ribellione assume questa forma è per le difficoltà attuali della lotta di classe, per l’isolamento che questi lavoratori sentono, per la mancanza di quella solidarietà che possa trasformare questa volontà di ribellione in lotta aperta e collettiva (che a sua volta dà coraggio e sviluppa ulteriormente il senso di solidarietà, fino all’estremo limite di aprire una prospettiva di una diversa società). L’esistenza di queste difficoltà non vuol dire che non esistono le lotte o che in queste lotte non si manifestino anche esempi di solidarietà:
- In Turchia, a dicembre e gennaio scorsi, ci sono state lotte operaie alla Teckel che hanno unito operai turchi e curdi, e hanno mostrato una volontà tenace di estendere la lotta ad altri settori[2];
- in Spagna, a Vigo, i lavoratori attivi dei cantieri navali e i disoccupati hanno manifestato insieme, raggruppando altri lavoratori fino ad ottenere il fermo di tutto il settore navale[3];
- e questo costituisce la ripetizione di quello che era già successo in Gran Bretagna alla raffineria di Lindsey da parte di operai edili nel gennaio2009 o in Spagna, ai cantieri navali di Sestao nell’aprile 2009[4].
Il punto è che queste lotte sono ancora troppo poche o poco estese e quindi non all’altezza di contrastare le conseguenze anche psicologiche della crisi.
La questione della solidarietà è veramente al centro dei problemi attuali che i lavoratori incontrano sul posto di lavoro, ma è anche un sentimento che attraversa la società tutta intera, toccando non solo gli strati popolari (quelli che, per le loro condizioni materiali, sono più portati alla ricerca della solidarietà). Nella discussione alle riunioni pubbliche sono stati fatti diversi esempi in cui si mostrava come all’origine di alcuni suicidi ci fosse stato un sentimento di profondo sconforto nell’essere costretti ad assumere un ruolo di vessazione rispetto ad altri. E’ il caso di quei piccoli imprenditori, ex operai, che provano ripugnanza a ricorrere ai licenziamenti a causa della crisi, o dei dirigenti che sono indignati da quello che bisogna fare agli operai a causa della crisi: è successo, ad esempio, pochi mesi fa vicino Napoli, dove il direttore di un supermercato sull’orlo del fallimento si è suicidato perché il padronato, a fronte dei mesi di salari arretrati vantati dagli operai, gli aveva ordinato di dare a questi l’elemosina di duecento euro: piuttosto che rendersi complice di questa umiliazione per i suoi ex compagni di lavoro, il direttore si è suicidato, esprimendo in questa maniera estrema la sua volontà di ribellarsi alla barbarie di questo sistema.
Questi episodi dimostrano che il senso della solidarietà è insito nell’essere umano, al punto da coinvolgere anche persone che non fanno parte (o non fanno più parte) della classe operaia. Un altro esempio lo si è avuto di recente con quell’imprenditore che ha pagato, al posto di quei genitori che non avevano potuto farlo, le rette per la mensa scolastica a dei bambini a cui il sindaco aveva tagliato il cibo, scrivendo anche una lettera in cui spiegava che a spingerlo era stato lo schifo verso il razzismo insito nella decisione del sindaco.
Da questi esempi la discussione nelle riunioni pubbliche ha anche sviluppato l’idea che è in corso una proletarizzazione dei ceti medi che allarga il numero di persone interessate ad opporsi a questo sistema: altro che scomparsa della classe operaia! (Da sempre erroneamente identificata con gli operai di fabbrica). La crisi storica e insormontabile di questo sistema allarga sempre più la forbice fra chi possiede di gran lunga più di quanto gli serve per vivere (una stretta minoranza della popolazione, anche nei pesi “ricchi”) e chi è ormai ridotto alla miseria, o alla soglia di questa anche quando ha un lavoro.
Un ulteriore punto, contenuto nella relazione e non sviluppato a sufficienza nelle discussioni, vale la pena di riprendere qui: è la questione del significato sociale del lavoro, anche quello alienato dell’operaio. I lavoratori che si sono suicidati perché licenziati, non lo hanno fatto solo perché così veniva a mancare il mezzo di sostentamento per sé e la propria famiglia, ma anche perché con la perdita del lavoro essi si sentivano inutili socialmente. In questo aspetto tragico e negativo c’è tuttavia, almeno implicitamente, il senso dell’importanza che i lavoratori danno al loro lavoro, anche quello alienato e sfruttato che ci offre il capitalismo. In effetti è il lavoro degli sfruttati che fa funzionare la società, e non certo il capitale o i suoi funzionari (che economicamente sono dei semplici funzionari del capitale e socialmente dei parassiti). Questo sentimento è fondamentale e se oggi la perdita del lavoro può portare al suicidio, la comprensione piena e cosciente di questa importanza è anche uno degli elementi che porterà la classe operaia a proporsi per la direzione e la trasformazione della società: è il sudore e il sangue dei lavoratori che produce la ricchezza di questa società, ricchezza che viene però loro strappata, è per questo che gli operai non hanno che da perdere le loro catene, e hanno un mondo da conquistare.
Helios
[1] La presentazione della riunione è scaricabile dal nostro sito dal nostro sito [28].
[2] Vedi articolo sul nostro sito web nella sezione ICConline.
[3] Vedi articolo in questo stesso numero.
I dati essenziali che hanno caratterizzato queste elezioni e che al tempo stesso sono fonte di dilemma e preoccupazione per molti, in particolare per quanti si sentono parte del “popolo della sinistra”, sono due: il forte astensionismo e la scalata della Lega che è l’unica che ha veramente vinto e che ha permesso al centro destra di conquistare anche delle regioni finora roccaforti della sinistra.
Molti si chiedono: come è possibile che con tutti gli attacchi che ci ha fatto questo governo, con tutto il marciume politico e morale di cui ha dato prova, tanti lavoratori continuano a votare Pdl o votano addirittura per la Lega? Non è forse questa l’espressione di un’adesione all’ideologia reazionaria, razzista e antidemocratica di queste forze politiche e pertanto di un pericoloso segno di arretramento politico e culturale dei lavoratori?
Questo gran numero di astensioni non ha forse favorito la vittoria della coalizione di centro destra favorendo così una prospettiva di ulteriore degrado politico sociale e culturale della società?
La crescita dell’astensionismo
Per rispondere all’insieme di queste questioni è necessario capire innanzitutto di cosa è espressione l’aumento dell’astensionismo. Effettivamente, con queste elezioni, si è raggiunto un record: se ai 14,6 milioni di persone che non sono andate a votare si aggiungono gli altri 2 milioni e mezzo che ci sono andati ma per annullare la scheda, si arriva al 41% di persone che nei fatti non ha votato. E’ vero che le elezioni regionali riscuotono un interesse limitato. Ma non è solo questo. Questi dati confermano una dinamica che è in aumento: dal 2000 ad oggi c’e stato un calo complessivo dell’affluenza alle urne del 12,4%. In più questa erosione della partecipazione alle urne è riscontrabile anche nelle altre grandi democrazie del mondo. In Francia, ad esempio, le recenti elezioni regionali hanno visto un’astensione del 53% al primo turno e del 49% al secondo.
E’ evidente che c’è una tendenza sempre più forte ad una disaffezione della popolazione verso le elezioni. Come spiegarlo? E’ certo che l’alternanza destra-sinistra permette alla borghesia di mantenere il gioco democratico, ma come contropartita mostra sempre più chiaramente che con la destra o con la sinistra le condizioni dei lavoratori non fanno che peggiorare, il che non può che sviluppare il sentimento che le elezioni non servono a niente. Questo astensionismo è il prodotto di uno scoraggiamento verso i “politici” che non esitano a fare imbrogli, ingannare la gente, pensare ai propri interessi senza alcun rispetto per niente e nessuno, tantomeno per la stragrande maggioranza della gente che, per poter sopravvivere, deve fare i salti mortali. E’ significativo a questo proposito l’astensione di un intero paese, Bocchigliero in Calabria, dove è stato lo stesso sindaco a dire ai cittadini di non votare in segno di protesta rispetto al disinteresse delle forze politiche per i bisogni del paese.
Questo sentimento non è esclusivo di chi si è astenuto, ma anche di quanti, pur tappandosi il naso, hanno votato il Pd o Idv solo perché altrimenti si sarebbe lasciato campo libero alla “fascistizzazione della società”.
Ma allora, perché la Lega ha avuto tanti voti? Un primo aspetto da tenere in conto è che nei fatti la Lega ha recuperato essenzialmente i voti persi dal Pdl, così come dei voti Pd sono passati all’Idv, cioè sono state “premiate” le due frazioni politiche meno screditate da scandali e baruffe interne e che, per lo meno, mostrano una maggiore coerenza e radicalità nel portare avanti le loro “battaglie”. Inoltre, quando la crisi economica getta milioni di persone nella miseria, quando si è constatato per anni che sia da destra che da sinistra arrivano solo chiacchiere e belle promesse, il richiamo ideologico nella scelta del voto tende a scemare e, nel momento in cui ti trovi da solo tu individuo e la scheda, o ti sfoghi sulla scheda mandando tutti a quel paese, o scegli in base a quello che nell’immediato ti viene proposto per migliorare il posto dove vivi, sperando che questa volta almeno si possano togliere i cumuli di spazzatura per strada, si possa avere una scuola o un ospedale che funzioni meglio, ecc. La speranza di chi vota Lega è uguale a quella di chi vota Pd, Idv o altro: sperare di poter vivere in condizioni più decenti.
Ma c’è ancora un altro aspetto. Più c’è miseria, precarietà e disagio, più ha buon gioco una forza populista come la Lega che, sul territorio, si fa paladina dei bisogni della gente contro il “governo ladrone”, sfruttando ed alimentando una lotta tra poveri. Se mancano i posti all’asilo o non ci sono case popolari per tutti, quando non si vede come fare una battaglia che coinvolga tutti quelli che ne hanno bisogno, siano essi italiani, polacchi, rumeni o africani, il precario italiano che non sa dove vivere o la donna italiana che non sa dove lasciare il figlio quando va a lavorare, sono spinti a votare chi gli promette di poter risolvere il suo problema immediato, anche se a scapito di un altro che è immigrato. Naturalmente questo è un pericolo importante perché divide la classe operaia mettendo i proletari gli uni contri gli altri, ma è una conseguenza della miseria e di una azione precisa di mistificazione e divisione che non può essere superata con la buona coscienza del singolo individuo nel chiuso di un’urna, ma solo con lo sviluppo di una reazione unita e solidale dei proletari contro le politiche di tagli e di attacchi fatte sulla propria pelle.
La crescita dell’Idv esprime per certi versi la stessa presa del populismo, anche se su di un piano diverso: quello del rigetto di un mondo politico fatto di corruzione, di disprezzo per il senso di giustizia sociale, di prepotenza e prevaricazione nella soddisfazione dei propri interessi. E’ su questo sano sdegno che un Di Pietro, un Santoro, un Travaglio o un Saviano riscuotono tanta simpatia. Come esprime molto bene un intervento fatto sul forum NapoliOltre[1]: “Il popolo della sinistra (…) continua a dire che non si sente rappresentato dalle persone che si sono candidate per essere elette ma comunque si vota per evitare il peggio. Quindi si vota contro più che si vota per… (…). Io stessa riconosco che manca una reale politica di sinistra in questo come anche nei precedenti appuntamenti elettorali ma non ce la faccio proprio ad astenermi, perchè penso che lasciare spazio al Pdl, determina un arretramento sociale e culturale”
Ma le forze della sinistra borghese possono rappresentare una reale alternativa almeno su questo piano? E’ difficile crederlo visto, ad esempio, su cosa si è basata la gestione Bassolino in Campania: clientele e favori, che non hanno al fondo nulla di diverso dal “metodo Berlusconi” se non l’entità e la spudoratezza[2].
Il peso dell’ideologia democratica
La realtà della crisi economica e della decomposizione sociale ed il fatto che per decenni governi di destra o di sinistra non hanno migliorato in niente le condizioni dei lavoratori, spinge alla comprensione che scegliere una frazione della borghesia o un’altra non risolve un bel niente. Tuttavia l’astensionismo non è tanto espressione di una consapevolezza di cosa siano veramente le elezioni, quanto piuttosto dello sconforto di fronte alla mancanza di una prospettiva reale. Non a caso anche chi si è astenuto, in modo più o meno cosciente, ha vissuto la vittoria del centro destra comunque come una sconfitta. D’altro canto chi, nonostante il disgusto, ha votato, tende a colpevolizzare gli altri per le sorti che ci aspettano: come puoi lamentarti degli attacchi del governo se poi non fai niente per manifestare il tuo dissenso?
Questo è espressione del peso ancora forte dell’ideologia democratica, secondo la quale: “Puoi anche non credere più nella politica, ma devi votare perché è un tuo diritto, ma anche un tuo dovere di cittadino che attraverso il voto partecipa alla vita sociale esprimendosi liberamente”. E questo è lo strumento più potente per mantenere l’illusione che, per quanto orribile, siamo in una società libera; in una società dove, nonostante tutto, ogni individuo può decidere della propria sorte e di quella della propria collettività. Quando invece è esattamente l’opposto. Come ha scritto un gruppo di lavoratori di un ospedale di Napoli in un volantino:
“O si lotta uniti e solidali attraverso l’autorganizzazione di scioperi di massa per la difesa delle proprie condizioni di vita ed a largo raggio, senza delegare a nessuno la nostra vita, o nelle urne si perde: il trucco sta nel fatto che spingendoci a votare ci danno l’illusione che possiamo scegliere democraticamente e quindi autonomamente il nostro futuro. In realtà andiamo solo a votare quelle politiche economiche antioperaie che la borghesia attraverso il proprio quadro politico (parlamento borghese) ha già deciso di adottare prima dell’elezioni”. (Aprile/2010, Lavoratori Comunisti (che pensano con la loro testa)”[3]
I proletari devono essere coscienti che, al di là della maggiore comprensione della futilità e della sterilità del processo elettorale, è l’ideologia democratica quella che costituisce uno dei più forti ostacoli alla piena espressione della classe operaia come unica forza politica e sociale capace di cambiare concretamente la società e dare a tutti un futuro.
Eva, 25 aprile 2010
[2] Vedi su questo stesso numero “Corruzione: parte integrante della politica parlamentare”
[3] volantino esposto e diffuso in un ospedale di Napoli scaturito da una discussione tra colleghi sulle elezioni e pubblicato sul forum NapoliOltre: https://napolioltre.forumfree.it/?t=47112886&st=15 [31]
La gente si mette a fare politica borghese per i motivi più vari, ma pochi possono resistere all’opportunità di usare il fatto di essere membri del parlamento o del governo per cercare di aumentare le proprie finanze. La loro lealtà allo Stato nell’ingannare e sfruttare la popolazione è ampiamente ricompensata dai lauti stipendi, dai regali, dai lussuosi privilegi e da tutto ciò che passa abbondantemente tra le loro mani.
Il continuo scandalo delle spese di ministri e parlamentari, dei responsabili delle varie strutture statali ha rivelato questa verità elementare del funzionamento della macchina democratica dello Stato.
È certamente interessante conoscere i brutti particolari dell’ingordigia di quelli il cui lavoro dovrebbe essere l’applicazione dei principi di uguaglianza e di responsabilità sociale. È anche istruttivo vedere l’inesorabile aumento dell’avarizia dei politici: sembra che più il capitalismo affondi nella sua crisi irrisolvibile, più i responsabili del sistema cercano di conservare la propria pelle a scapito della popolazione con un numero sempre maggiore di furti dalle finanze pubbliche. Le colossali indennità pagate ai manager delle banche, che spesso sono gli stessi responsabili delle perdite di miliardi di euro avutesi nella crisi del credito, sono una eco del settore privato della sordida mungitura dei parlamentari dalla mucca pubblica. Ma perché i media sbattono tutta queste venalità davanti ai nostri occhi sulle prime pagine dei giornali e con le prime notizie televisive? Perché non continuano a tenerle nascoste per non far infuriare la massa della popolazione che nel frattempo affonda nella povertà? La borghesia ha imparato da tempo – forse con le inchieste sul lavoro infantile nelle fabbriche del diciannovesimo secolo – che non può nascondere completamente la corruzione e l’ampia disumanità del sistema capitalista agli occhi dei lavoratori. Deve trovare un modo per presentarle e preservare il sistema sociale attuale dalla grave minaccia degli sfruttati deviandoli su false questioni. Quindi le classi dirigenti più intelligenti e più potenti del mondo a volte ci fanno vedere un pezzo di verità ma nello stesso tempo presentano la loro intrinseca natura di sfruttatori come qualche cosa di provvisorio, di eccezionale oppure come qualcosa che possa essere “riformata” facendo pressione tramite l’attuale macchina democratica.
Su questo piano la sinistra del capitale mostra la sua totale dedizione al capitalismo con la pretesa che possiamo “smascherare” tutti i vari abusi del sistema. Così gli scandali delle spese dei parlamentari, delle frequentazioni poco pulite, della corruzione dei politici, etc., vengono scoperti da un giornalista coraggioso o da un magistrato inflessibile; i politici sorpresi in queste attività poco edificanti scompaiono temporaneamente dalla scena, mentre i politici più esperti si uniscono nell’impegno di ripulire la vita pubblica e… bla, bla, bla. Tuttavia questo familiare processo di redenzione che avviene dopo ogni scandalo spesso è poco convincente; il meccanismo elettorale non sempre ne viene rinvigorito. Oggi la borghesia ha meno possibilità di manovre e gli scandali sono sempre di più e più grandi. La corruzione dei parlamentari e dei politici non è un’eccezione del sistema, è il sistema democratico.
Como 6/3/10
(da World Revolution, n.332, organo della CCI in Gran Bretagna)
Il giorno 22 aprile 2010, dopo 16 anni di politica di stretta alleanza, dopo quasi due anni dalla co-fondazione del PDL e a un mese circa dalla conclusione di una tornata elettorale che li ha visti stravincere su una sinistra sempre più pallida e insignificante, Berlusconi e Fini hanno dato luogo ad uno scontro storico, epocale, di quelli di cui la stampa di tutti i paesi è sempre ghiotta perché dà da scrivere per settimane e settimane. Ma cosa è mai successo? Si tratta di un dissapore momentaneo o di una spaccatura permanente? E Fini non poteva evitarla? E se no, perché si è deciso soltanto adesso? Ed infine, cambierà qualcosa, cambierà qualcosa a favore dell’Italia?
Cosa è successo
Quello che è successo è la maturazione di uno scontro le cui premesse si trovano nella storia del rapporto tra Fini e Berlusconi e a cui abbiamo già fatto cenno in precedenza:
“… la questione morale assume un’importanza tutta particolare per la borghesia. Un governo che deve far fronte ad aziende che chiudono, ad un aumento enorme della disoccupazione, ad un numero crescente di famiglie che non riescono più a sopravvivere, ad una massa enorme di giovani senza alcuna prospettiva ed al pericolo che tutto questo comporta sul piano sociale, deve essere un governo che abbia un minimo di credibilità. Non può presentarsi come una banda di faccendieri e uomini di malaffare, impegnati in faide continue per conservare il potere, di personaggi senza alcuna etica e morale. Ed è infatti da qualche tempo che Fini, da uomo politico di vecchia guardia, parla del pericolo di “disaffezione alla politica” soprattutto tra i giovani. (…)
Anche se esistono degli interventi che sembrerebbero portare di tanto in tanto serenità e pacificazione nel centro-destra (…), bisogna tener presente che mentre in un partito come la vecchia Democrazia Cristiana scontri anche durissimi tra correnti differenti venivano sempre ricomposti quando era in gioco la vita del partito, nel Pdl, che è essenzialmente l’unione contingente di forze con tradizioni politiche e un modo di fare politica abbastanza diversi, la lotta intestina tra queste rischia di mettere in gioco il partito stesso e di conseguenza la capacità della destra di governare in questo momento.” [1]
Questo lo scenario che noi abbiamo ricordato nel settembre scorso. Quello che è successo il 22 aprile, e che non si era mai visto prima, è che Fini, dopo anni di incubazione di critiche piuttosto dure rivolte all’operato di Berlusconi, le ha finalmente esternate nell’ambito della prima riunione della direzione del partito davanti ai microfoni e alle telecamere che trasmettevano in diretta a tutto il popolo italiano. La critica di Fini ha toccato ripetutamente gli aspetti più legati al dispotismo berlusconiano facendo riferimento a “gli insulti ricevuti da giornalisti lautamente pagati da stretti familiari del presidente del Consiglio”[2] o alle leggi ad personam sulla giustizia[3]. Ma la critica più importante è stata quella di appiattimento sulla Lega Nord, con una politica fotocopia rispetto a quella di Bossi, articolata su una serie di punti come quello degli immigrati, che vanno comunque rispettati come persone umane, anche se clandestini, o quello del 150° anniversario dell’unità d’Italia, che viene preparato in sordina per non rabbuiare il prezioso alleato padano, o ancora quello del federalismo, “che senza alcune cautele, in tempi di vacche magre, rischia di mettere a repentaglio la coesione sociale”[4]. Ugualmente importante la preoccupazione di Fini per la credibilità dell’operato del governo: “L’ottimismo va bene, ma fra tre anni dobbiamo presentare agli elettori fatti (per cui, siccome c’è la crisi) “dobbiamo rimodulare il programma sulle cose che è possibile fare da qui alla fine della legislatura”[5].
Un dissapore momentaneo o una spaccatura permanente?
Come la stessa stampa ha lasciato intendere, quella a cui abbiamo assistito non è un malinteso passeggero ma una resa dei conti che ha lasciato segni profondi e che ha reso la convivenza dei due leader nello stesso partito di fatto insostenibile. Ma questo non significa che Fini se ne uscirà dal partito, almeno con le sue gambe, non ne ha alcun interesse. Infatti l’obiettivo reale che ha in questo momento Fini non è tanto quello di recuperare un Larussa, un Alemanno o uno Schifani, che sono ben contenti di essere passati nella squadra di Berlusconi che sa bene come ripagarli per la loro infedeltà, ma di cominciare a lavorare dall’interno del partito verso la sua base e soprattutto verso una parte non trascurabile del suo elettorato che, pur avendo votato in passato Berlusconi, si è sentito a disagio per la serie di porcate che avrebbe commesso il capo del governo e che la magistratura a più riprese gli ha attribuito. Insomma Fini cerca di coprire tutto lo spazio a destra che c’è per una destra seria e responsabile, spazio che finora era stato lasciato parzialmente coperto solo dall’UDC di Casini.
Perché Fini si è deciso soltanto adesso e non ha spaccato prima con Berlusconi?
Se Fini si è deciso solo adesso a fare questo passo è perché è stato un po’ travolto dall’irruenza di Berlusconi. La stessa fondazione del PDL è stata una pensata di Berlusconi maturata dalla sera alla mattina e sbandierata pubblicamente per la prima volta in un comizio improvvisato dal capo del governo salendo sul predellino di un’automobile in una pubblica piazza di Milano. Fini aveva solo da prendere o lasciare, e ha scelto di prendere. Ma in qualche modo Fini si è anche illuso di poter usare Berlusconi e la sua capacità di attirare consensi salendo sul suo carro, ma questo gli è costato la perdita della fedeltà di una serie di colonnelli del suo ex partito che, un po’ alla volta, si sono disaffezionati al capo storico per accostarsi sempre più a chi poteva concedere loro fette reali di potere. Ma adesso, dopo le ultime elezioni regionali, Fini non poteva più attendere. Le ragioni sono tutte nel discorso che lui ha fatto alla direzione del Pdl. E queste ragioni riguardano effettivamente la natura stessa del partito e la sua azione.
Berlusconi, Bossi, Fini, tre anime diverse e non sempre conciliabili della destra italiana
In realtà Berlusconi, Bossi e Fini rappresentano tre anime diverse della destra italiana. Berlusconi, lo abbiamo detto più volte, è un personaggio ambiguo dal passato non chiaro che è sceso in politica essenzialmente per curare i suoi affari personali e questo è l’unico dato sicuro. Il suo straripante potere economico ha forzato, una dopo l’altra, le varie regole del gioco fino a comprare, in qualche modo, i favori dei suoi vari competitori e a raggiungere una situazione di dominio pressoché incontrastato sulla scena politica italiana. La sua politica populista, la menzogna ripetuta ad oltranza come metodo di convincimento delle masse popolari, la corruzione come sistema di vita, hanno ottenuto finora risultanti devastanti per l’Italia, ma estremamente vantaggiosi per la sua gang.
Bossi è il leader di un partito che ha fatto dalla sua origine del separatismo della cosiddetta Padania la sua bandiera. Nella sostanza la Lega è una bella pensata che punta a drenare nelle regioni del nord tutta la ricchezza prodotta sul territorio italiano. In particolare il federalismo fiscale, ovvero l’idea che ogni singola regione provveda a gestire economicamente le proprie risorse, significa che, sebbene la ricchezza di una regione sia il prodotto ultimo di una serie di elementi che spesso provengono da altre parti del paese o da altri paesi, come la mano d’opera, le materie prime e gli stessi consumatori che costituiscono il mercato per le merci prodotte, il ricavato resta esclusivamente sul posto in cui si realizza il passaggio ultimo del ciclo economico. E’ esattamente la stessa logica della politica neocolonialista dove le potenze economiche hanno drenato e drenano, secondo i sacri principi del capitalismo, tutte le risorse ai paesi “emergenti” togliendo loro ogni possibilità di recuperare alcunché.
Fini è invece un ex fascista convertito alla democrazia perché ha capito in tempo che sono cambiati i tempi e che il fascismo non è più attuale. Ma, da persona che fa le cose a modo e non essendo né un arruffapopoli né tantomeno un secessionista alla Bossi, essendo anzi erede di una destra che, pur nei suoi eccessi, ha fatto della mistificazione sociale la sua bandiera, tiene sia all’unità del paese sia a basare la sua leadership sulla credibilità della sua azione politica. E non avendo il centone facile come ce l’ha Berlusconi, deve badare a fare bene i suoi passi.
Anche se il quadro che abbiamo dato è piuttosto essenziale, si capisce abbastanza bene come mentre Berlusconi può convivere tranquillamente con Bossi, e Bossi con Berlusconi, non altrettanto si può dire per Fini che risulta, sulla distanza, incompatibile sia con l’uno che con l’altro. In particolare si capisce perché Fini, nel suo discorso alla direzione del Pdl, abbia additato Bossi come l’elemento di divisione nella misura in cui Fini giustamente si preoccupa della perdita di consenso che potrà subire il Pdl, e la componente ex-AN in particolare, in seguito alla realizzazione di un federalismo fiscale che dovesse penalizzare eccessivamente le regioni del centro-sud. Tutto questo tanto più che la crisi economica non è esaurita e che i vari Stati si preparano a imporre alle loro popolazioni misure draconiane del tipo di quelle che si sta cercando di imporre in Grecia e che stanno suscitando giustamente tanta reazione.
Naturalmente è ancora troppo presto per capire cosa accadrà nel prossimo futuro. Ma di una cosa possiamo essere sicuri fin da questo momento: comunque vadano le cose, i lavoratori non ne avranno alcun vantaggio.
Ezechiele 25 aprile 2010
[1]Vedi Dietro lo scandalo di escort, festini e cocaina, gli scontri nella maggioranza governativa [34], su RI n°162;
[2] Corriere della Sera del 23/4/2010.
[3] “… non dobbiamo dare l’impressione che stiamo difendendo sacche di impunità, ricordati quando volevi far saltare seicentomila processi. (…)? Quello era un’amnistia mascherata …” (La Repubblica 23/04/2010).
[4] da La Repubblica del 23/4/2010.
[5] Idem.
Le truppe britanniche, nel frattempo, hanno adottato nuove regole da seguire denominate “courageous restraint” (riduzione coraggiosa). Ciò significa che il prode esercito britannico ha generosamente deciso di utilizzare meno artiglieria pesante nelle zone popolate. L’idea è che la popolazione afgana, non essendo più macellata indiscriminatamente, sarà riconoscente agli alleati e si allineerà dietro il governo di Karzai.
Presi tra due fuochi
Gli alleati stanno provando a spostarsi da un uso della nuda forza ad una strategia più sfumata destinata a vincere su ‘i cuori e la mente’ della popolazione afgana. La brutalità dell’occupazione è bene illustrata da un avvenimento orribile (riportato solamente da The Times in Gran Bretagna) - il presunto massacro di parecchi bambini da parte delle truppe degli Stati Uniti nella provincia di Nurang nel dicembre 2009: “gli investigatori del governo afgano hanno detto che otto scolari sono stati uccisi, tutti eccetto uno della stessa famiglia. La gente del posto ha detto che alcune vittime erano state ammanettate prima di essere uccise". Questa atrocità ha innescato dimostrazioni antiamericane a Kabul, dove ci sono stati altri numerosi ‘errori’in sparatorie, esecuzioni, attacchi missilistici e raid aerei sui civili.
Ma malgrado la nuova politica della ‘riduzione’, sono state ancora utilizzate armi pesanti e durante i primi giorni del ‘Moshtarak’ un missile ha distrutto una casa, uccidendo 12 persone, di cui 6 bambini. Inizialmente, gli Stati Uniti si sono scusati e hanno addotto problemi tecnici, ma successivamente hanno ritrattato, dicendo che la casa veniva usata dai Talebani. Naturalmente questo è il logico risultato dell’incoraggiamento degli alleati nei confronti dei residenti a rimanere nelle loro case durante l’offensiva. I residenti sono stati avvertiti con un volantino che diceva di non dare riparo ai Talebani.
Qualunque sia la realtà che si cela dietro questo avvenimento, è chiaro che dei civili innocenti sono, ancora una volta, le reali vittime del conflitto. Se riescono a resistere ai ribelli armati che entrano nelle loro case, si trasformano in legittimi obiettivi dei missili degli Stati Uniti.
Questo non vuol dire che i Talebani applicano la politica della ‘riduzione’ quando uccidono i civili. Per niente. Secondo la missione delle Nazioni Unite in Afghanistan, i morti tra i civili nel 2009 sono stati 2412 con in più 3566 feriti. Il 67% è direttamente attribuibile alle forze antigovernative (cioè ai Talebani), il 25% alle forze filogovernative, il resto è poco chiaro.
Prospettive di successo
Indipendentemente dalla valutazione dell’entità delle forze in gioco, non c'è motivo di supporre che l’Operazione Moshtarak giunga ad una rapida conclusione. Questo l’abbiamo già detto. Il nucleo originale dei Talebani è stato in gran parte schiacciato dall’offensiva iniziale degli Stati Uniti nel 2001. Ciò non ha impedito il ricostituirsi e il reinsediamento del governo fantoccio di Karzai. In effetti, il risorgere dei Talebani è dovuta almeno in parte alla corruzione e al gangsterismo diffuso dal regime di Karzai.
In una recente inchiesta fatta da Oxfam in Afghanistan “il 70 per cento della popolazione intervistata ha visto la povertà e la disoccupazione come le principali conseguenze del conflitto. Quasi la metà degli intervistati ha detto che la corruzione e l’inefficacia del loro governo erano i motivi principali per il combattimento continuo, mentre il 36 % ha detto che la colpa era dell’insurrezione dei Talebani”.
La terribile povertà della maggior parte della popolazione afgana è dovuta al 40% del tasso di disoccupazione, una base di potenziali reclute per i Talebani. Per quanto riguarda la corruzione, in qualche inchiesta viene evidenziata come ancora più preoccupante della violenza e della povertà. Le tangenti rappresentano quasi il 23% del P.I.L. nazionale (approssimativamente uguale al commercio dell’oppio). Non sono gli afgani a guadagnarci nell’affare: tre quarti di tutte le indagini di corruzione riguardano gli occidentali.
Lungi dal risolvere questi problemi così profondamente radicati, è chiaro che la presenza occidentale serve solo ad esacerbarli. Questo potente mix farà in modo che il disordine continuerà a permanere, indipendentemente dalle vittorie o dalle sconfitte militari.
Il ruolo che ha la povertà nello spingere i giovani ad arruolarsi nelle forze armate è ben illustrato dal caso afgano. Grazie alla continua crescita della disoccupazione, l’esercito britannico ha raggiunto per la prima volta dopo anni i suoi obiettivi di reclutamento. In realtà, il soldato britannico medio è stato condotto sul campo di battaglia dalla stessa penuria generata dal capitalismo che ha mosso i loro nemici talebani.
Sia gli Alleati che i Talebani sono nemici della classe lavoratrice
L’Afghanistan incarna la realtà della guerra nell’epoca del capitalismo decadente. In assenza di una speranza che possa rassicurare se stessi e le proprie famiglie, i lavoratori ed altri strati sfruttati sono spinti nelle braccia dei capitalisti e dei loro eserciti e milizie reazionarie. Là si massacrano l’uno con l’altro al servizio della classe dirigente che è responsabile in primis del loro impoverimento.
Le terribili condizioni di questi conflitti, l’indottrinamento e la disciplina imposti loro allo scopo di superare la naturale riluttanza umana ad uccidere, tendono a disumanizzare i militari fino a che i brutali massacri testimoniati in Afghanistan non diventano inevitabili.
I comunisti non sostengono nessuna delle parti in questi conflitti. Noi denunciamo i crimini di tutte le parti in causa mentre mettiamo in mostra i processi della società capitalista che li producono. Soltanto quando gli sfruttati rifiuteranno di sacrificarsi per i loro sfruttatori, inizierà a farsi strada la prospettiva di sostituire il capitalismo con una società veramente umana senza sfruttamento e senza guerra.
Ishamael 4/3/10
Il 3 marzo scorso abbiamo ricevuto sul nostro sito in lingua spagnola un commento relativo alla situazione degli abitanti dei quartieri operai e popolari dell’agglomerato di Concepción, in seguito al sisma di fine febbraio. Contrariamente a quanto propagandato dai media a livello internazionale che hanno denigrato il comportamento delle popolazioni locali attribuendo loro dei «saccheggi scandalosi», questo testo restituisce la realtà dei fatti mettendo avanti lo spirito autenticamente proletario di solidarietà e di mutua assistenza che ha animato gli operai nella ridistribuzione dei beni, opponendosi all’azione predatrice delle bande armate contro le quali la popolazione operaia ha tentato di assumere e di organizzare la sua propria difesa.
L’autorganizzazione dei proletari di fronte alla catastrofe, ai lumpen-capitalisti e all’incapacità dello Stato
(Da parte di un compagno anonimo)
Sarebbe auspicabile che nella misura in cui voi [CCI] avete questo mezzo di diffusione [il nostro sito Internet], rendiate conto di ciò che si sta passando a Concepción e nei suoi dintorni[1], come pure in altre regioni del Cile che sono state pesantemente toccate dal sisma. Si sa che fin dal primo momento, la gente ha messo in pratica il buono senso più ovvio rendendosi ai depositi di derrate alimentari per prendere tutto ciò di cui avevano bisogno. Ciò è così logico, così razionale, necessario ed inevitabile, che appare assurdo farne la critica. La gente ha creato un'organizzazione spontanea (soprattutto a Concepción) per distribuire il latte, i pannolini per bambini e l'acqua, in funzione delle necessità di ciascuno, tenendo conto, fra l'altro, del numero di bambini per famiglia. La necessità di prendere i prodotti disponibili appariva così ovvia, e così potente la determinazione del popolo a mettere in pratica il suo diritto a sopravvivere, che finanche i poliziotti hanno aiutato la gente a portare via i prodotti alimentari dal supermercato Leader a Concepción, per esempio. E quando si è provato ad impedire che la gente facesse la sola cosa ragionevole, gli impianti in questione sono stati semplicemente incendiati, per la semplice e logica ragione che fa sì che se tonnellate di prodotti alimentari finiranno per marcire anziché essere logicamente consumate, è meglio che questi prodotti alimentari siano bruciati, evitando così il pericolo di focolai supplementari d'infezione. Questi “saccheggi” hanno permesso a migliaia di persone di sostentarsi per qualche tempo, al buio, senza acqua potabile e senza la minima speranza che arrivasse un aiuto qualunque.
Ma, dopo alcune ore, la situazione è cambiata completamente. In tutto l'agglomerato di Concepción delle bande ben armate che viaggiavano in auto di buona qualità, hanno cominciato a saccheggiare non solo i piccoli negozi, ma anche degli appartamenti particolari e gruppi di case interi. Il loro obiettivo era di accaparrarsi di quel poco di beni che la gente avrebbe potuto recuperare nei supermercati, così come gli attrezzi domestici, il denaro e tutto ciò che queste bande potevano trovare. In alcune zone di Concepción, queste bande hanno prima saccheggiato le case e poi le hanno incendiate, scappando subito dopo. Gli abitanti, che si sono trovati all'inizio senza la minima difesa, hanno cominciato ad organizzarsi per potersi difendere, facendo delle ronde di sorveglianza, creando delle barricate per proteggere gli accessi ai quartieri ed in alcune zone mettendo in comune i viveri per assicurare l'alimentazione di tutti gli abitanti. Con questo breve richiamo dei fatti che si sono verificati nei giorni scorsi, non pretendo “di completare” le informazioni fornite da altri mezzi. Vorrei soltanto richiamare l'attenzione su tutto ciò che questa situazione critica contiene da un punto di vista anticapitalista. Lo slancio spontaneo della gente per appropriarsi di tutto ciò che è necessario alla loro sussistenza, la loro tendenza al dialogo, alla ripartizione, a cercare accordi e ad agire insieme, è stata presente dall'inizio di questa catastrofe. Tutti abbiamo potuto vedere intorno a noi questa tendenza comunitaria naturale sotto forme differenti. In mezzo all'orrore vissuto da migliaia di lavoratori e dalle loro famiglie, questo slancio per la vita in comune è emerso come una luce di speranza in mezzo alle tenebre, ricordandoci che non è mai troppo tardi per ridiventare noi stessi.
Di fronte a questa tendenza organica, naturale, comunista, che ha animato il popolo durante queste ore di spavento, lo Stato è impallidito e si è mostrato per ciò che è: un mostro freddo ed impotente. Inoltre l'interruzione brutale del ciclo demenziale di produzione e di consumo, ha lasciato il padronato alla mercé degli eventi, ad attendere, acquattato, che l'ordine fosse ristabilito. Così la situazione ha aperto una vera breccia nella società, attraverso la quale potrebbero scaturire le fonti di un mondo nuovo che è già nei cuori della gente meno agiata. Diventava dunque urgente e necessario ristabilire ad ogni costo il vecchio ordine di rapina, di abuso e di accaparramento. Ma questo non è stato fatto a partire dalle alte sfere, ma a partire dal terreno stesso della società di classe: coloro che si sono incaricati di rimettere le cose al loro posto, in altre parole, di imporre con la forza i rapporti di terrore che permettono l'esistenza dell'appropriazione privata capitalista, sono state le mafie dei narcotrafficanti radicati come delle metastasi nelle zone popolari, degli arrivisti tra i più arrivisti, dei figli della classe operaia alleati con dei borghesi al prezzo dell’avvelenamento dei loro fratelli, del commercio sessuale delle loro sorelle, dell’avidità consumatrice dei loro propri figli. Dei mafiosi, altrimenti detti dei capitalisti allo stato puro, dei predatori del popolo, ben sistemati nei loro veicoli 4x4 ed armati di fucili, disposti ad intimidire ed a spogliare i loro propri vicini o gli abitanti di altri quartieri per cercare di monopolizzare il mercato nero ed ottenere denaro facile, in altre parole per ottenere potere. Che questi individui siano alleati naturali dello Stato e della classe padronale è dimostrato dal fatto che le loro indegne malefatte siano state utilizzate dai mass media per creare il panico in una popolazione già demoralizzata, giustificando così la militarizzazione del paese. Quale altro scenario potrebbe essere più propizio ai nostri padroni politici e padronali, che vedono in questa crisi catastrofica soltanto una buona occasione per fare lauti affari e ulteriori profitti spremendo ancor più una forza-lavoro dominata dal timore e dalla disperazione?
Da parte degli avversari di quest'ordine sociale, è un nonsenso tessere degli elogi ai saccheggi senza precisare il contenuto sociale di tali azioni. Non c’è proprio paragone tra una massa di gente più o meno organizzata, ma almeno con un obiettivo in comune, che prende e distribuisce prodotti di prima necessità per sopravvivere e delle bande armate che rapinano la popolazione per arricchirsi. Il sisma di sabato 27 non si è limitato a colpire molto duramente la classe operaia e a distruggere le infrastrutture esistenti. Ha anche seriamente rovesciato i rapporti sociali in questo paese. In alcune ore, la lotta di classe è emersa con tutta la sua forza davanti ai nostri occhi, troppo abituati forse alle immagini della televisione per potere cogliere bene l'essenziale degli avvenimenti. La lotta di classe è qui, nei nostri quartieri ridotti in rovine nella penombra, crepitando e scricchiolando sotto i nostri passi, sul suolo stesso della società, dove si affrontano in uno scontro mortale due tipi di esseri umani che si trovano infine l’uno di fronte all’altro: da un lato, le donne e gli uomini dallo spirito collettivo che si cercano per aiutarsi e condividere; dall'altro gli antisociali che li saccheggiano e gli sparano contro per cominciare così la loro propria accumulazione primitiva di capitale. Qui, ci siamo noi, gli esseri invisibili ed anonimi di sempre, presi dalle nostre vite di sfruttati, dei nostri vicini e dei nostri genitori, ma pronti a stabilire dei legami con tutti quelli che condividono la stessa alienazione. Là ci sono loro, poco numerosi ma pronti a spogliarci con la forza di quel poco o quasi niente che possiamo dividerci. Da un lato il proletariato, dall'altro, il capitale. È così semplice. In molti quartieri di questo territorio devastato, in queste ore di prima mattina, la gente comincia ad organizzare la propria difesa di fronte a queste orde armate. A quest'ora ha cominciato a prendere una forma materiale la coscienza di classe di quelli che si sono visti costretti, brutalmente ed in un batter d’occhio, a capire che le loro vite gli appartengono e che nessuno verrà loro in aiuto.
Messaggio ricevuto il 3 marzo 2010.
[1] Il sisma ha avuto luogo il 27 febbraio 2010 in piena notte, con una magnitudo di 8,8. Ha provocato la morte di circa 500 persone, ma lo tsunami che l’ha seguito ha accumulato ancora più morti. Sono state toccate molte città del Cile, tra cui la capitale Santiago. Ma è nel secondo agglomerato del paese, quello di Concepción (900.000 abitanti in tutto l’agglomerato), che le morti e i danni sono stati più gravi [NdT].
giugno-agosto
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Grecia, Turchia, Portogallo, Spagna, Italia, Inghilterra, Irlanda, Francia, Germania, Romania, Stati Uniti, Giappone, Cina …
Alle misure di austerità rispondiamo con la lotta!
In Grecia si è sviluppata una rabbia immensa e la situazione sociale è esplosiva. In questo momento lo Stato greco sta sferrando dei colpi terribili al proletariato. Tutte le fasce di età e tutti i settori proletari sono fortemente colpiti. I lavoratori del settore privato, gli impiegati statali, i disoccupati, i pensionati, gli studenti, i precari, … nessuno viene risparmiato. Tutta la classe operaia rischia di sprofondare nella miseria.
Di fronte a questi attacchi, il proletariato non resta senza reagire. Scende per strada e si batte, mostrando così di non essere disposto ad accettare i sacrifici imposti dal capitale senza batter ciglio.
Ma, per il momento, questa lotta non riesce a svilupparsi, a diventare di massa. Gli operai della Grecia stanno vivendo delle ore difficili. Che fare quando tutti i mass-media e tutti i responsabili politici affermano che non c’è altra soluzione se non stringere la cinghia per salvare il paese dal fallimento? Come resistere a questo mostro divoratore che è lo Stato? Quali metodi di lotta mettere in opera per costruire un rapporto di forza favorevole agli sfruttati?
Tutte queste questioni non riguardano solo gli operai che vivono in Grecia, ma i proletari del mondo intero. Non possiamo farci nessuna illusione, la “tragedia greca” è solo un anticipo di quello che toccherà a tutti gli operai in tutto il mondo. Ed infatti, delle “misure di austerità alla greca” sono state già annunciate ufficialmente in Portogallo, in Romania, in Giappone ed in Spagna (dove il governo ha appena abbassato del 5% il salario dei dipendenti statali!). In Italia si stanno preparando a fare la stessa cosa. Tutti questi attacchi portati avanti simultaneamente dimostrano ancora una volta che gli operai, indipendentemente dalla loro nazionalità, formano una sola ed unica classe che ha ovunque gli stessi interessi e gli stessi nemici. La borghesia fa portare al proletariato le pesanti catene del lavoro salariato, ma gli anelli di queste catene legano tra loro gli operai di tutti i paesi, al di là delle frontiere.
Quelli che vengono attaccati oggi in Grecia e che hanno iniziato, faticosamente, a provare a battersi sono dunque i nostri fratelli di classe. La loro lotta è anche la nostra lotta.
Solidarietà con gli operai della Grecia!
Una sola classe, una stessa lotta!
Rifiutiamo tutte le divisioni che tenta di imporci la borghesia. Al vecchio principio delle classi dominanti “dividere per meglio regnare”, contrapponiamo il grido di unità degli sfruttati “Proletari di tutti i paesi, unitevi!”
In Europa, le diverse borghesie nazionali cercano di far credere agli operai che dovranno stringere la cinghia a causa della Grecia. La disonestà dei responsabili greci, che hanno lasciato che il paese vivesse a credito per decenni truccando i conti pubblici, sarebbe secondo loro la causa principale di una “crisi di fiducia internazionale” verso l’euro. Tutti i governi stanno usando questo pretesto per giustificare, uno dopo l’altro, la necessità di ridurre i deficit statali e l’adozione di piani di austerità draconiani.
In Grecia tutti i partiti ufficiali, Partito Comunista in testa, attizzano i sentimenti nazionalisti, indicando le “forze straniere” come responsabili degli attacchi. “Abbasso il FMI e l’Unione europea”, “Abbasso la Germania”, questi sono gli slogan che la sinistra e l’estrema sinistra mettono avanti nelle manifestazioni per salvare, volutamente, il capitale nazionale greco.
Negli Stati Uniti, se le Borse cadono, la colpa sarebbe dell’instabilità dell’Unione europea; se le imprese chiudono, la colpa sarebbe della debolezza dell’euro che ostacolerebbe il dollaro e le esportazioni …
Insomma, ogni borghesia nazionale accusa il vicino ed esercita sul proprio proletariato questo infame ricatto: “accettate i sacrifici altrimenti il paese si indebolirà ed i concorrenti ne approfitteranno”. La classe dominante cerca così di iniettare nelle vene operaie il nazionalismo, vero veleno per le lotte.
Questo mondo diviso in nazioni concorrenti non è il nostro. I proletari non hanno niente da guadagnare a legare la propria sorte a quella del capitale del paese in cui vivono. Accettare dei sacrifici oggi in nome della “difesa dell’economia nazionale”, significa preparare altri sacrifici, ancora più duri, per domani.
Se la Grecia è “sull’orlo del baratro”, se la Spagna, l’Italia, l’Irlanda, il Portogallo stanno per seguirla, se il Regno Unito, la Francia, la Germania, gli Stati Uniti sono nella tempesta, è perché il capitalismo è un sistema moribondo. Tutti i paesi sono condannati a sprofondare irrimediabilmente in questo marasma. L’economia mondiale è in crisi da 40 anni. Le recessioni si susseguono una dopo l’altra. Solo una disperata fuga in avanti nell’indebitamento ha permesso al capitalismo di avere, finora, un po’ di crescita. Risultato, oggi le famiglie, le imprese, le banche, gli Stati sono tutti super indebitati. Il fallimento della Grecia non è che una delle espressioni più eclatanti del fallimento generale e storico di questo sistema di sfruttamento.
La borghesia vuole dividerci. Opponiamo la nostra solidarietà!
La forza della classe operaia è la sua unità!
I piani di austerità annunciati costituiscono un attacco frontale e generalizzato alle nostre condizioni di vita. La sola risposta possibile è quindi un movimento di massa dei lavoratori. È impossibile portare avanti questa lotta rimanendo chiusi nella propria impresa, nella propria scuola o nel proprio settore, da soli, isolati, in piccoli gruppi. Lottare in massa è una necessità, se non vogliamo essere tutti schiacciati e ridotti alla miseria.
Ora, che fanno i sindacati, queste organizzazioni che sulla carta sarebbero gli “specialisti ufficiali della lotta”? Organizzano sì scioperi in diverse fabbriche … ma senza mai cercare di unificarli. Essi lavorano attivamente per rafforzare il corporativismo, mettendo in particolare in contrapposizione i lavoratori del settore pubblico e quelli del settore privato. Sfiancano i lavoratori portandoli a spasso in sterili “giornate di mobilitazione”. In realtà sono proprio degli “specialisti della divisione operaia”! E non sono da meno nel distillare il nazionalismo. Un solo esempio: lo slogan più scandito nelle manifestazioni dalla GSEE (la CGIL greca) dalla metà di marzo è … “comperare greco”!
Seguire i sindacati significa andare sempre verso la divisione e la sconfitta. Gli operai invece devono prendere l’iniziativa della lotta, organizzando in prima persona le assemblee generali, decidendo collettivamente le parole d’ordine e le rivendicazioni, eleggendo delegati revocabili in ogni momento e formando delegazioni di massa per andare a discutere con i lavoratori più vicini, nelle fabbriche, gli uffici, le scuole, gli ospedali vicini … per incoraggiarli a raggiungere il movimento.
Fare a meno dei sindacati, osare prendere le redini della propria lotta, fare il passo di andare incontro ai propri fratelli di classe … tutto ciò può sembrare difficile. Ed infatti è proprio questo oggi uno dei maggiori freni allo sviluppo della lotta: il proletariato manca di fiducia in sé stesso, non ha ancora coscienza della forza che rappresentano le sue formidabili capacità. Per il momento, la violenza degli attacchi del capitale, la brutalità della crisi economica, la mancanza di fiducia del proletariato in sé stesso, agiscono come dei fattori paralizzanti. Le risposte operaie, anche in Grecia, sono ben lontane da quello che richiederebbe la gravità della situazione. Eppure, il futuro appartiene alla lotta di classe. Di fronte agli attacchi, la prospettiva è quella dello sviluppo di movimenti sempre più di massa.
Alcuni ci chiederanno: “Perché fare queste lotte? A cosa ci portano? Poiché il capitalismo è in fallimento, nessuna riforma è realmente possibile. Quindi non c’è via d’uscita.” Effettivamente, all’interno di questo sistema di sfruttamento, non c’è alcuna via d’uscita. Ma rifiutare di essere trattati da cani e lottare collettivamente vuol dire battersi per la nostra dignità, vuol dire prendere coscienza che in questo mondo di sfruttamento la solidarietà esiste e che la classe operaia è capace di far vivere questo inestimabile sentimento umano. Allora, la possibilità che un altro mondo possa esistere comincia ad apparire, un mondo senza frontiere né patrie, senza sfruttamento né miseria, un mondo fatto per gli uomini e non più per il profitto. La classe operaia può e deve avere fiducia in sé. Essa sola è capace di costruire questa nuova società e riconciliare l’umanità con sé stessa passando “dal regno della necessità a quello della libertà” (Marx)!
Il capitalismo è un sistema in fallimento.
Ma un altro mondo è possibile: il comunismo!
Corrente Comunista Internazionale, 30 maggio 2010
Se vuoi discutere con altre persone dei contenuti di questo volantino internazionale, partecipa alle riunioni pubbliche che la nostra organizzazione promuove regolarmente nei luoghi e nelle date riportate sul nostro sito: it.internationalism.org [40]. Le prossime sono previste a:
Napoli, sabato 5 giugno 2010, alle ore 17,00, presso Libreria JAMM, via S. Giovanni Maggiore Pignatelli, n°32 e a Milano, sabato 26 giugno 2010, alle ore 16,30, presso la Libreria Calusca, via Conchetta n°18.
Per contatti scrivi a: [email protected] [41] o alla casella di posta RI, C.P. 469, 80100 Napoli.
I tempi che viviamo sono senz’altro inediti e pieni di elementi di riflessione, tempi di una maturazione della storia che, e ci sono tanti elementi a farlo pensare, non può sboccare che in grandi sconvolgimenti.
In effetti nella storia del capitalismo, pur ricca di tanti orrori e vergogne, non si era mai visto uno spettacolo così indecoroso da parte dell’insieme della borghesia, padroni e loro rappresentanti politici (che nel caso italiano si trovano a coincidere ai massimi livelli dello Stato).
Da un lato, nonostante la crisi e i sacrifici che vengono richiesti alla stragrande maggioranza dei lavoratori, lor signori non si fanno scrupolo di ostentare la loro ricchezza, con le ville, gli yacht e le feste faraoniche al Billionaire del re dei cafoni arricchiti, Briatore. E anche in questo il presidente del consiglio è il primo nell’ostentazione della sua ricchezza. Se poi si pensa a come questa ricchezza è stata acquisita, il senso di schifo non può che aumentare a dismisura. Ma non è solo questo. La corruzione, che ha sempre contraddistinto il sistema capitalista, un sistema che mette la ricchezza al di sopra di ogni morale, ha raggiunto livelli incredibili: non c’è politico, di destra come di sinistra, che non sia sospettato, se non indagato, per aver ricevuto, in cambio di favoritismi, regali sotto forma di escort, regali (e che regali), mazzette. E, come è stato fatto notare, se ai tempi di Tangentopoli le mazzette servivano in prima istanza a “pagare i costi della politica”, oggi servono solo a pagare l’insaziabile sete di questi fedeli servitori del capitale. E sono questi corrotti patentati che, non solo non sono chiamati a pagare anche quando vengono scoperti , ma restano al loro posto a prendere quelle misure di austerità che stanno riducendo alla miseria un gran numero di lavoratori.
Altrettanto indecoroso è lo spettacolo che la classe dominante offre quando “discute”. Non ci riferiamo tanto alle risse verbali delle trasmissioni “politiche” televisive (Ballarò, Porta a Porta, AnnoZero, ecc.), che sono messe su proprio per evitare che al pubblico sia offerto un dibattito vero, su cui potersi fare una opinione, ma alle vere divisioni che emergono non solo fra maggioranza ed opposizione, ma all’interno della stessa maggioranza (vedi lo scontro fra Fini e Berlusconi alla direzione del PDL)[1], o anche le bordate che si tirano politici e industriali[2] .
Queste divisioni sono normali visto che parliamo di cricche di briganti che difendono ognuno i propri interessi, personali o politici che siano.
Ma queste divisioni scompaiono quando si tratta di attaccare i livelli di vita dei lavoratori. Ed anche questo è normale: quando si tratta di difendere gli interessi del capitale la borghesia ritrova tutta la sua unità, perché sa che si trova di fronte al suo nemico mortale: il proletariato.
Ed il livello di questi attacchi è anch’esso un elemento di portata storica, proporzionale alla gravità della crisi del sistema capitalista. Quello che sta avvenendo è ormai un ritorno alle condizioni di decenni fa, cioè la perdita di tutta una serie di acquisizioni (non ci piace parlare di “diritti”, dal momento che nel sistema capitalista i lavoratori non hanno veri e propri diritti, ma solo conquiste che bisogna difendere a denti stretti) sia sul piano economico che normativo.
E questi attacchi colpiscono tutti i lavoratori:
- con i licenziamenti che toccano gli operai, ma anche i lavoratori del pubblico impiego (sono decine di migliaia i precari che hanno perso il posto di lavoro sia nella scuola che negli altri settori);
- con la cassa integrazione che taglia drasticamente i redditi dei lavoratori (lo scorso anno si è avuto il record delle ore di cassa integrazione)
- con la nuova finanziaria che blocca i salari dei dipendenti pubblici (con la conseguente perdita di centinaia di euro al mese per due anni), taglia i fondi agli enti locali e conseguentemente i servizi sociali che questi possono offrire, rimanda i pensionamenti di un anno (e per le donne di 4 anni), chiudendo ancora di più la porta in faccia ai giovani in cerca di lavoro.
Altrettanto impressionante è il piano che la FIAT ha preparato, e presentato come un piano di rilancio della sua attività in Italia:
- chiusura di Termini Imerese
- mantenimento dello stabilimento di Pomigliano solo a patto di un nuovo accordo che fa tornare le condizioni di lavoro di decenni indietro (18 turni settimanali su sei giorni, sanzioni in caso di sciopero il sabato, pause ridotte da 40 a 30 minuti, 80 ore di straordinario obbligatorio all’anno, messa in ferie d’ufficio nel caso di chiusura della fabbrica per causa di forza maggiore, punibilità dei lavoratori nel caso in cui le assenze superino l’andamento medio di assenteismo); non si può aver alcun dubbio che se passa questo accordo su Pomigliano, le stesse norme la FIAT pretenderà di applicarle a tutti i suoi stabilimenti e, una volta aperta questa falla, sarà l’intera industria manifatturiera ad adeguarsi (Tremonti lo ha già dichiarato: “Pomigliano è il modello da seguire”). E, purtroppo, il piano rischia fortemente di passare, visto il ricatto con cui è accompagnato (o l’accordo o la chiusura di Pomigliano) e la complicità dei sindacati ufficiali.
Ci dicono che tutto questo è colpa della crisi, come se la crisi fosse un cataclisma naturale e non un male legato a questo tipo di sistema di produzione, che non è né eterno, né insuperabile, ma che anzi, proprio perché sta riducendo l’umanità[3] alla miseria, facendole fare passi indietro di decenni, se non di secoli, merita di essere spazzato via, visto che costituisce un ostacolo alla sopravvivenza della specie umana e del pianeta stesso.
Un esempio di quanto questo sia vero ci viene fornito dagli stessi esponenti ufficiali della borghesia, come il governatore della Banca d’Italia, che nella sua recente relazione generale sullo stato dell’economia ha ricordato che l’evasione fiscale è arrivata a 120 miliardi di euro: se questo è vero, significa che basterebbe recuperare il 20% di questa evasione in due anni per racimolare la stessa cifra del piano di austerità di Tremonti. Naturalmente non lo faranno. Draghi dice questo solo per fare demagogia, perché gli autori di questa evasione sono quegli stessi borghesi che sono responsabili dell’aumento dello sfruttamento e che possiedono il potere politico oltre che economico; se abbiamo citato questo dato non è per unirci alle ipocrite e flebili proteste della cosiddetta sinistra, ma per dire che di ricchezza in giro ce n’è tanta, solo che questa ricchezza sta in poche mani, ed è per mantenerla in queste mani che si riducono alla fame milioni di persone (e si chiudono fabbriche, scuole ospedali, cioè si impedisce la produzione di ulteriore ricchezza in termini di merci e di servizi).
Questa crisi non l’hanno prodotta i lavoratori, ma sono loro a pagarla. Servisse almeno a qualcosa! Sono decenni che in nome della crisi ci vengono chiesti sacrifici, e il risultato qual è? Che la crisi è diventata ancora più grave, al punto che adesso ci sono interi Stati sull’orlo del fallimento.
E che sacra unione c’è a difesa di questo sistema: il governo e la sua maggioranza naturalmente, che sulla manovra finanziaria o sul piano FIAT è assolutamente compatta (a conferma che le sue divisioni interne sono solo una questione di potere), ma anche la cosiddetta sinistra parlamentare che sulla finanziaria fa finta di essere in disaccordo (ma è comunque d’accordo sul fatto che bisogna fare i sacrifici) e nulla dice sul piano FIAT. E Rifondazione? Chi l’ha vista? Proprio ora che sarebbe libera dall’imbarazzo di un ruolo istituzionale (al governo o comunque al Parlamento) chi ancora si illude sulla natura di questa forza si sarebbe aspettata di vederla in piazza in difesa dei lavoratori. Appunto, pura illusione.
Ci restano i sindacati. E tutti possono vedere cosa fanno: cercano di demoralizzare i lavoratori, di dividerli, di farli stancare in inutili e rituali scioperi (quasi)generali, che costituiscono allo stesso tempo l’apertura e la chiusura della “lotta”. E questa non è la conclusione di noi estremisti, ma la realtà che sta sotto i nostri occhi: la CISL e la UIL ormai accettano aprioristicamente ogni decisione del governo, sperando così di demoralizzare i lavoratori, o comunque di dividerli tra quelli che vorrebbero lottare e quelli che esitano per rispetto della loro tessera. La CGIL fa finta di dire no ad ogni misura, ma poi boicotta le lotte spontanee dei lavoratori[4] contro la finanziaria e i tagli, proponendo uno sciopero generale per il 25 giugno (il più lontano possibile insomma), nella speranza che quale che sia l’adesione a questo sciopero si possa poi far cadere tutto, visto che lo sciopero è anche a ridosso delle ferie.
Se lasciamo fare a questi signori possiamo essere sicuri che passeranno tutti gli attacchi. Ma i lavoratori possono fare a meno di loro e lanciarsi nella lotta, senza la quale non c’è prospettiva possibile.
Helios, 15/6/2010
[1] Sui motivi di questo scontro vedi il nostro articolo “I perché dello scontro Fini-Berlusconi [43]”.
[2] Ultima in ordine di tempo l’attacco di Luca di Montezemolo, che ha accusato la politica di scarsa serietà, e la risposta di Cicchitto del PDL, che ha letteralmente detto che “non è la cricca della FIAT, che può dare lezioni di morale”. Peccato che con questo giudizio lo stesso deputato del PDL non chieda di intervenire sulla FIAT per farle attenuare i piani di ristrutturazione dei suoi stabilimenti in Italia.
[3] Diciamo l’umanità perché quello che sta succedendo in Italia succede anche negli altri paesi, anche quelli che sono l’avanguardia del capitalismo, come la Francia, la Germania o la Gran Bretagna, volendo volutamente non citare la Cina che non ha mai superato le condizioni di sfruttamento proprie dell’ottocento. In merito alle misure di austerità vedi il nostro volantino “Alle misure di austerità rispondiamo con la lotta!”, in questo stesso numero ed il volantino per il 1° Maggio “Adesso arriva il conto della crisi, ma noi non lo paghiamo! [44]”.
[4] Vedi l’articolo “Italia: la difficile ma inesorabile crescita della lotta di classe” in questo stesso numero.
Una delle questioni su cui, tra proletari, ci si ritrova più frequentemente a discutere è la prospettiva della lotta di classe. Tale discussione non è stata mai così importante ma anche così difficile. Così importante perché ci troviamo oggi sul bordo di un baratro dalle dimensioni inesplorabili. I disastri sul piano dell’economia – il cui riscontro sono il recente crollo della Grecia e le misure di austerità prese di conseguenza a livello mondiale – sul piano ecologico – vedi l’attuale sversamento di petrolio dal fondo oceanico nel golfo del Messico – e le rinnovate minacce di guerra – vedi la Corea, ma anche l’Iran, l’Afghanistan, la Cina, … stanno a dimostrare, se ce ne fosse ancora bisogno, che un mondo migliore è indispensabile per garantire, perlomeno, la stessa sopravvivenza dell’umanità. Ma una discussione sulla prospettiva è anche difficile perché, stranamente ma non troppo, proprio adesso che ce n’è bisogno, la classe operaia esita, manca di fiducia in sé stessa e della spinta necessaria. Le ragioni che determinano questo atteggiamento le abbiamo suggerite numerose volte negli ultimi tempi e le ricordiamo solo per cenni: il clima creato dalla caduta del muro di Berlino, su cui si sono innestate le campagne borghesi sul presunto fallimento del comunismo e l’estinzione della classe operaia; l’azione del sindacalismo, che spinge ogni lotta verso il localismo ed il settorialismo; una certa influenza della democrazia e dell’antifascismo, che spinge a pensare che, se c’è un problema, questo deriva necessariamente dal “cattivo di turno” (il governo “neofascista” di Berlusconi, i padroni “sempre più esosi”, …), insomma una questione di uomini cambiando i quali si possono cambiare le sorti della società e non una questione di sistema sociale in quanto tale che non funziona più[1]; un certo stordimento di fronte a degli attacchi - come i licenziamenti - di fronte ai quali è difficile organizzare una lotta adeguata nel singolo settore. Così, le discussioni che si svolgono tra proletari sulle prospettive di lotta della nostra classe sono spesso infarcite di dubbi, di se. Ed anche quando si riconosce l’esistenza di qualche lotta importante, questa è sempre la lotta di un altro paese. Il dubbio che viene espresso da compagni pur generosi e combattivi è spesso del tipo: sì, ci vorrebbe una bella lotta, un grande sciopero, un’enorme manifestazione, ma chi ci seguirebbe; la gente se ne sta a casa sua e non ha intenzione di implicarsi.
Questa sensazione viene naturalmente alimentata dal terribile boicottaggio delle informazioni (come avviene del resto in tutti i paesi del mondo) che nasconde le diecine e diecine di lotte che si stanno sviluppando contemporaneamente in tutto il paese. E’ perciò che con questo articolo vogliamo dimostrare che non c’è motivo di scoraggiarsi, che esiste in Italia, come nel mondo intero, una grande carica di combattività e che bisogna uscire dal proprio settore e unirsi ai lavoratori del mondo intero perché i problemi con cui ci troviamo a che fare oggi sono esattamente gli stessi dappertutto.
Se si dà un’occhiata al forum https://napolioltre.forumfree.net [46], messo su dal gruppo di discussione di Napoli da circa sei mesi e al quale partecipano anche dei nostri militanti, si può rimanere sbalorditi non tanto e non solo dal numero di episodi di lotta e di testimonianze riportati, ma soprattutto dalla loro qualità.
Un primo aspetto che emerge con forza dagli interventi riportati su questo forum, ma non solo, è la rivendicazione della dignità da parte dei lavoratori. Quella stessa dignità che, quando viene fortemente calpestata, può causare addirittura il suicidio degli elementi più sensibili[2], ha portato ad esempio i lavoratori di un call-center di Firenze a denunciare le condizioni umilianti in cui erano costretti a lavorare[3]. Un commento all’interno di questa pagina su Napolioltre ricordava peraltro come sia abitudine dei proprietari dei call-center manipolare la coscienza dei lavoratori puntando a fare assumere loro degli atteggiamenti poco etici nei confronti dei potenziali acquirenti. Nello stesso senso va la denuncia di una lavoratrice della Fiat di Pomigliano, Napoli, che grida il proprio dolore in una lettera aperta al suo terzo figlio, per non poter svolgere il suo ruolo naturale di madre passando del tempo a giocare con i propri figli perché il lavoro sfiancante della fabbrica glielo impedisce. In questa lettera di risposta allo spot “Fabbrica Italia”, realizzato dall’azienda e in onda sulle reti nazionali, l’operaia contesta lo spot e le condizioni di lavoro chieste dall’azienda per la produzione della Panda nello stabilimento locale”[4].
Abbiamo poi fenomeni come i no-workers che fanno della dignità negata di diventare dei lavoratori (da cui il nome no workers), un tema centrale della loro propaganda:
“Siamo disoccupati, lavoratori a nero, lavoratori migranti in schiavitù, viviamo senza reddito o con reddito insufficiente, reclamiamo lavoro e/o reddito, ma soprattutto diritti.
Siamo il popolo cui è stata negata la dignità di esistere, quella primaria di “campare”.
Siamo “no-workers” sotto il continuo ricatto del licenziamento ed il rischio di morire sul posto di lavoro. Nelle “fabbriche diffuse” del nostro territorio veniamo sfruttati e sottopagati.
Siamo precari, regaliamo per pochi spiccioli tutto il nostro tempo a speculatori e affaristi in call center e centri commerciali, lavoriamo senza essere pagati per stages universitari o come operatori sociali nei vari luoghi dello sfruttamento della conoscenza.
Siamo “no workers” perché questo non è lavoro. Si chiama ricatto.
Ci dicono che il lavoro significa dignità, ma queste nuove forme di sfruttamento la negano ogni giorno. Chiedetelo agli operai della FIAT. Ci dicono che c’è la crisi e con questo condannano all’insicurezza una generazione di uomini e donne che non possono pensare, programmare e sognare un “domani”, troppo impegnati ad affrontare un “oggi” fatto di fame, sfruttamento, di precarizzazione dei rapporti umani, temporali e sociali! (…)[5]”
Un secondo aspetto fondamentale che emerge è la tendenza di vari settori di lavoratori ad organizzarsi e a prendere in mano la propria lotta, a volte denunciando esplicitamente il ruolo dei sindacati, almeno di quelli maggiori, altre volte ignorandoli semplicemente, con tendenze pronunciate a creare dei coordinamenti tra settori diversi. Da questo punto di vista ci sono vari episodi particolarmente significativi, come la richiesta ufficiale rivolta alla CGIL da parte del Coordinamento dei lavoratori della Cultura in Lotta di “ritirare la firma dall’accordo capestro firmato con Cisl, Uil e Fondazione la Biennale di Venezia in data 24 maggio 2010 (…) (che) sancisce una drastica riduzione del personale stagionale e del monte ore complessivo. Molti lavoratori non matureranno i requisiti minimi per ricevere il sussidio di disoccupazione. Inoltre, che fine faranno quelli in esubero?”[6]
Con la significativa precisazione che “La firma dell’accordo all’insaputa dei lavoratori stagionali (metodo), i suoi contenuti (merito), la rete di interessi che lega sindacati e aziende sono indice di una pericolosa deriva che va a totale discapito degli operatori della Cultura, sempre più sfruttati e precarizzati.”[7]
Ancora abbiamo “I lavoratori dei magazzini Unicoop (che) hanno votato all’unanimità un documento in cui diffidano i sindacati dal prendere iniziative inerenti ai magazzini senza previa e vincolante consultazione del personale interessato” precisando che “la sfiducia nei confronti delle OO.SS. di rappresentanza (?) viene da lontano nei magazzini Unicoop.”[8]
Ancora importante è l’azione di sciopero degli scrutini organizzata dal Coordinamento precari della scuola di Modena. Nella “Lettera aperta ai 500 lavoratori della scuola di Modena” il Coordinamento esprime una disillusione per i sindacati (nella fattispecie per CGIL, CISL, UIL e SNALS):
“Riteniamo vergognosa la risposta data dalle direzioni provinciali della Flc Cgil, della Cisl, della Uil e dello Snals alla nostra richiesta. Non solo hanno ignorato le 500 firme dichiarandosi indisponibili a proclamare lo sciopero stesso ma, soprattutto, stanno in queste settimane operando un boicottaggio attivo dello sciopero stesso, mandando circolari nelle scuole in cui esplicitano la loro contrarietà allo sciopero (per la gioia dei presidi), in questo dimostrando di ritrovare una perfetta unità sindacale.”[9]
Per finire in bellezza, citiamo uno dei casi più significativi in questo momento, l’iniziativa di un coordinamento operaio nato intorno alla lotta della MAFLOW di Trezzano sul Naviglio, Milano, che ha raccolto una ventina di realtà lavorative diverse e che ha organizzato un’assemblea autoconvocata per venerdì 18 giugno alle ore 18.00 alla Maflow in via Boccaccio 1 a Trezzano sul Naviglio per decidere come costruire unitariamente la mobilitazione del 25 giugno:
“Migliaia di lavoratori e lavoratrici in lotta in provincia di Milano e in Lombardia si stanno opponendo alle ristrutturazioni, ai licenziamenti e ai tagli alla scuola e ai pubblici servizi in generale cercando di unire le forze per resistere meglio. Non si può rispondere a un attacco così pesante in ordine sparso come tentano di imporci le numerose sigle sindacali. (…) Il 25 giugno sono stati proclamati due scioperi e due manifestazioni, sia Cgil che sindacalismo di base: non possiamo permetterci di restare divisi in piazza. Uniamoci tutti”[10].
Per chiudere dunque con i quesiti da cui siamo partiti, il problema non è la mancanza della volontà di lotta, né una certa coscienza di chi sono i nostri nemici (il padronato, i sindacati, lo Stato …), ma la difficoltà ad immaginare di poter fare a meno di qualcuno che ti rappresenti, di qualcuno che ti organizzi la lotta, la difficoltà a pensare che si abbia la forza di potercela fare da soli. E’ perciò che questa maturazione avverrà principalmente a partire dalla lotta stessa, attraverso dei primi tentativi anche locali e limitati di presa in mano della lotta stessa che mostreranno all’insieme della classe che ce la possiamo fare.
Ezechiele 13 giugno 2010
[1] Su questo piano é particolarmente efficace come elemento di freno tutta la propaganda condotta da giornali come La Repubblica e più recentemente il Fatto Quotidiano o trasmissioni come Anno Zero.
[2] Vedi l’articolo pubbicato sul nostro sito web: "Riunioni Pubbliche della CCI: Al suicidio e alla sofferenza sul posto di lavoro, una sola risposta: la solidarietà di classe [28]".
[7] Idem.
Pubblichiamo qui di seguito la testimonianza di lotta, datata 18 maggio 2010 e presa dal blog di un compagno della CNT/AIT della regione di Goias in Brasile[1]. Questo tipo di testimonianza è particolarmente importante perché la nostra classe prenda coscienza che dappertutto sta lottando contro gli stessi attacchi e per gli stessi interessi. Gli autisti di autobus della città di Goiânia e della sua regione hanno paralizzato i servizi martedì mattina 18 maggio senza preavviso, lasciando migliaia di passeggeri senza trasporti. Lo sciopero, illimitato, ha toccato la popolazione del capoluogo e degli 11 municipi vicini che sono serviti dallo stesso sistema di trasporto.
Gli autisti protestano contro la mancanza di dialogo con il sindacato che rappresenta i proprietari dei trasporti pubblici. Oltre a denunciare salari troppo bassi, gli autisti evocano quelle che loro chiamano condizioni di lavoro umilianti, con giornate molto pesanti a volte di 12 ore e cinque viaggi in più di due ore senza pause di riposo.
Inoltre, secondo gli autisti, il blocco è stato iniziato dagli autisti stessi e non dai due sindacati che esistono nella capitale. Ecco anche perché, secondo quanto ascoltato attraverso i mass media dalla bocca degli stessi autisti, le condizioni legali per lo sciopero con un servizio minimo del 30% di funzionamento non sono state rispettate!
Questi borghesi sembrano stupefatti che i lavoratori sono entrati in sciopero senza l’avallo dei sindacati legali. Questa è l’azione diretta! Finché non agiremo in prima persona, non avremo mai quello che esigiamo, e gli altri lavoratori, molto calmi in questo momento, devono capire che stiamo dalla stessa parte, che dobbiamo anche essere solidali con la lotta dei nostri compagni salariati! Quindi, per quanto sia difficile questa situazione precaria senza autobus, non considerate questi autisti come dei nemici. Alla loro comparsa allo stazionamento “Giardino Veiga” degli autobus sono stati attaccati da parte della popolazione, credo che questa non sia la migliore reazione! Proporremo uno sciopero di solidarietà con la lotta dei nostri compagni salariati dei trasporti.
Contro il patronato, azione diretta sindacale![2]
Viva la solidarietà tra i lavoratori!
CNT AIT di Goias, Brasile
[1] fogocob.blogspot.com.
[2] A questa formulazione noi preferiamo “presa in mano delle lotte da parte dei lavoratori stessi” perché, a parer nostro, “azione diretta sindacale” rinvia inevitabilmente all’ideologia sindacale che si basa, al contrario, sul fatto che i lavoratori vengono rappresentati in maniera permanente da “specialisti della lotta” (che nei fatti, come è denunciato in questa testimonianza, sono specialisti nel sabotaggio delle lotte operaie).
- il rigetto del riformismo e di ogni alleanza con qualsiasi forza borghese, anche con quelle cosiddette “progressiste” o di “sinistra”;
- la difesa della presa in mano delle lotte da parte degli operai stessi e non da parte di presunti “specialisti” quali le organizzazioni sindacali;
- e soprattutto l’internazionalismo!
Vogliamo qui in particolare salutare e sostenere la riflessione di questi compagni sul ruolo ed il posto che ha la violenza nelle lotte.
Il 5 maggio, in Grecia, tre lavoratori sono morti asfissiati in una banca in fiamme. Di fronte a questo tragico avvenimento il TPTG afferma nel suo testo: “La questione della violenza è diventata centrale. Così come valutiamo la gestione della violenza da parte dello Stato, siamo costretti ad analizzare la violenza proletaria”.
Darsi ad una violenza cieca sarebbe infatti cadere nella trappola tesa dalla borghesia, sarebbe un segno di disperazione, d’impotenza, di “nichilismo” come scrive il TPTG.
Come affermano questi compagni, lo Stato esercita su di noi un vero e proprio terrore. Gli operai ergendosi di fronte a questo moloch devono necessariamente utilizzare anche loro una certa violenza. Lottare, fare sciopero, manifestare è già in sé un’espressione di violenza contro l’ordine del capitale.
Ma la classe operaia non può utilizzare qualsiasi tipo di violenza: l’omicidio, il linciaggio la vendetta cruenta, ad esempio, non appartengono alla lotta proletaria. Sono al contrario le stimmate di questa società barbara che è il capitalismo; appartengono alla borghesia, questa classe dominante pronta a tutto pur di difendere i suoi privilegi.
La violenza proletaria è tutt’altra cosa. Questa è frutto della riflessione collettiva, è organizzata; ha lo scopo di rovesciare questo sistema di sfruttamento e sostituirlo con una società senza classi né miseria. È comparabile all’atto apparentemente “violento” dell’ostetrica che libera il bambino durante il parto. La violenza proletaria deve anch’essa servire al parto di un nuovo mondo[2].
Tempi critici e soffocanti
Quello che segue è il resoconto della manifestazione del 5 maggio e di quanto avvenuto nei giorni seguenti, accompagnato da alcune riflessioni di carattere generale sulla situazione critica che il movimento greco sta attraversando. Malgrado si collochi all’interno di una fase parossistica di terrorismo finanziario, che cresce in ampiezza di giorno in giorno attraverso la minaccia costante della bancarotta dello Stato e i reiterati appelli a “fare sacrifici”, la risposta del proletariato, alla vigilia del voto delle nuove misure di austerità in Parlamento, è stata impressionante. Si è trattato, probabilmente, della più grande manifestazione di lavoratori dai tempi della fine della dittatura (più imponente persino di quella del 2001 che portò al ritiro del progetto di riforma delle pensioni).
Stimiamo che vi fossero almeno 200.000 manifestanti nelle strade del centro di Atene, e circa 50.000 di più nel resto del paese.
Vi sono stati scioperi pressoché in tutti i settori (…) del processo di (ri)produzione. È riapparsa sulla scena una moltitudine proletaria simile a quella che aveva preso possesso delle strade nel dicembre 2008 (anche in questa occasione i media della propaganda ufficiale hanno parlato, in termini peggiorativi, di “giovani incappucciati”), ugualmente armata di asce, mazze, martelli, bottiglie molotov, pietre, bastoni, maschere e occhialini anti-gas. Nonostante in alcuni casi i manifestanti mascherati siano stati accolti con grida di disapprovazione, allorché cercavano, talvolta con successo, di attaccare degli edifici, in generale si sono trovati in sintonia con questa marea variopinta, colorata di manifestanti inferociti. Gli slogan andavano dal rifiuto del sistema politico nel suo insieme – “Bruciamo il bordello parlamentare!” – alle parole d’ordine patriottiche – “Fuori dal FMI!” – o populiste – “Ladri!”, o anche “La gente esige che gli imbroglioni vadano in prigione”. (…) Gli slogan aggressivi contro i politici in generale, nel corso della giornata, sono diventati via via preponderanti.
Alla manifestazione indetta dalla GSEE-ADEDY (confederazione sindacale che include sia il settore pubblico che quello privato), i partecipanti hanno riempito la piazza a migliaia. Il presidente della GSEE è stato accolto da fischi e ululati, quando ha iniziato a parlare. (…) E quando la direzione del sindacato ha voluto ripetere la manovra che aveva già tentato una prima volta l'11 marzo scorso, per aggirare il grosso della manifestazione e prenderne la testa, solo in pochi l'hanno seguita...
La manifestazione convocata dal PAME (il “Fronte operaio” del KKE, il Partito comunista greco), è stata a sua volta imponente (oltre 20.000 persone) ed è arrivata in piazza Syntagma per prima. L’intenzione era quella di restarvi soltanto qualche istante, e di andarsene prima dell’arrivo del grosso del corteo. Tuttavia, i partecipanti alla manifestazione si sono fermati per lo più nella piazza, gridando slogan rabbiosi contro i politici. (…) Secondo il leader del KKE, si sarebbe trattato di provocatori fascisti (di fatto egli ha accusato il LAOS, partito che raccoglie un mix di militanti dell'ultra-destra e di nostalgici della Giunta dei colonnelli) che, brandendo le bandiere del PAME, avrebbero incitato i militanti del KKE a entrare di forza nel palazzo del Parlamento, screditando in tal modo la lealtà costituzionale del partito! Malgrado questa accusa possieda un qualche fondamento, poiché alcuni fascisti sono stati effettivamente visti sul posto, la verità – secondo alcune testimonianze – è che i dirigenti del KKE hanno avuto non poche difficoltà a convincere i propri militanti ad abbandonare rapidamente la piazza, e a non gridare slogan contro il Parlamento.
È forse troppo azzardato vedere in questo episodio un segno della disobbedienza montante verso le regole d’acciaio di questo partito monolitico; ma in tempi così incerti, nessun può davvero saperlo...
La settantina di fascisti che fronteggiavano le forze anti-sommossa insultavano i politici (“Politici, figli di puttana!”), cantavano l’inno nazionale e lanciavano pietre contro il palazzo del Parlamento, probabilmente con l’intenzione, rivelatasi vana, di evitare un’escalation di violenza.
Tuttavia, sono stati rapidamente riassorbiti dall’enorme ondata di manifestanti che nel frattempo aveva raggiunto la piazza.
Ben presto, una moltitudine di lavoratori (elettrici, postali, impiegati municipali etc,) ha cercato in tutti i modi di entrare nel palazzo del Parlamento, ma le migliaia di poliziotti in tenuta antisommossa schierati sul piazzale antistante l’entrata glielo hanno impedito. Un altro gruppo di lavoratori, uomini e donne dall’età più disparate, ha preso a insultare e minacciare i poliziotti che si trovavano davanti alla Tomba del Milite Ignoto. Per quanto la polizia sia riuscita, grazie a un massiccio contrattacco con tanto di lancio di gas lacrimogeni, a disperdere la folla, altri gruppi di manifestanti continuavano ad affluire davanti al Parlamento, mentre i primi gruppi che erano stati costretti a battere in ritirata, si riorganizzavano in via Panepistimiou e in corso Syngrou. Qui, questi gruppi hanno iniziato a distruggere ogni cosa e hanno attaccato le forze anti-sommossa che si trovavano nelle strade adiacenti.
Nonostante la maggior parte dei grandi edifici del centro fossero stati protetti con imposte metalliche, i manifestanti sono riusciti ad attaccare alcune banche ed edifici pubblici. Si è potuto assistere a una vasta distruzione di proprietà, soprattutto in corso Syngrou. Qui, infatti, le forze di polizia non avevano sufficienti effettivi per reagire tempestivamente a questo gruppo di manifestanti poiché avevano ricevuto l’ordine di dare priorità alla protezione del Parlamento e all’evacuazione delle vie Panepistimiou e Stadiou, lungo le quali i manifestanti riconfluivano senza sosta verso il Parlamento stesso. Alcune automobili di lusso, un ufficio del Ministero delle Finanze e uno della Prefettura di Atene sono stati incendiati. Qualche ora più tardi, questa parte della città sembrava ancora una zona di guerra. Gli scontri si sono susseguiti per quasi tre ore. (…)È impossibile raccontare tutto quello che è accaduto per le strade. Riportiamo un solo episodio: alcuni insegnanti, insieme ad altri lavoratori, sono riusciti a circondare degli agenti del gruppo Delta – un nuovo corpo anti-sommossa che si sposta in moto – e hanno dato loro una buona dose di legnate, mentre i poliziotti gridavano: “Per favore, no! Siamo lavoratori anche noi!”.
I manifestanti che erano stati respinti verso via Panepestimiou, intanto, tornavano a gruppi verso il Parlamento, dove hanno a lungo fronteggiato la polizia. (…) Qui si sono nuovamente mescolati e si sono fermati. Un impiegato municipale di mezza età, che teneva delle pietre tra le mani, ci ha raccontato, commosso, come la situazione gli ricordasse i primi anni dopo la fine della dittatura, e la manifestazione del 1980 – alla quale partecipò – che commemorava gli avvenimenti del Politecnico e nel corso della quale la polizia uccise una donna di 20 anni, la lavoratrice Kanellopoulou.
Di lì a poco sono arrivate, tramite i telefoni cellulari, le terribili notizie battute dalle agenzie di stampa estere: 3 o 4 persone morte nell’incendio di una banca. C’era stato in effetti qualche tentativo di dar fuoco a delle banche, ma nella maggior parte dei casi, i manifestanti si erano fermati, poiché vi erano dei crumiri barricati all’interno. Solo lo stabile della Marfin Bank è stato dato effettivamente alle fiamme. Nondimeno, soltanto pochi minuti prima della tragedia, non erano affatto degli “hooligan mascherati” che gridavano “crumiri!” all’indirizzo degli impiegati della banca, ma dei gruppi organizzati di scioperanti, che li apostrofavano e li insultavano affinché lasciassero l’edificio. (…)
Date le dimensioni e la densità della manifestazione, il fracasso, i canti, evidentemente una certa confusione – naturale in situazioni come questa – rende difficile riferire con precisione ciò che è accaduto in quel tragico frangente. L’ipotesi che appare più plausibile (mettendo insieme i frammenti d’informazione raccolti da alcuni testimoni), è quella che in questa banca posta nel cuore della città, il giorno dello sciopero generale, circa 20 impiegati siano stati costretti dal loro padrone a lavorare, chiusi a chiave nell’edificio “per garantire la loro sicurezza”, e che tre di essi siano morti per asfissia. Inizialmente è stata lanciata una bottiglia molotov attraverso un buco fatto nel vetro di una finestra al pianterreno. Quando alcuni impiegati sono usciti sul balcone, dei manifestanti hanno gridato loro di uscire e hanno cercato di spegnere l’incendio. Non sappiamo dire cosa è accaduto a quel punto e come in un istante l’edificio sia andato a fuoco.
La macabra serie di fatti che sono seguiti all’incendio è stata probabilmente già riportata a sufficienza: i manifestanti che cercano di soccorrere le persone rimaste intrappolate all’interno, i pompieri che ci mettono troppo tempo a fare uscire alcuni impiegati, il sorridente banchiere miliardario inseguito da una folla inferocita.
(In seguito, il Primo ministro ha riferito in Parlamento sull’accaduto, denunciando “l’irresponsabilità politica” di chi si oppone alle misure di austerità e provoca morte, mentre i “provvedimenti salutari” del governo “difendono la vita”).
Il ribaltamento della situazione ha avuto successo. Ne è immediatamente seguita un’imponente operazione delle forze anti-sommossa: la folla è stata dispersa e inseguita e l’intero centro della città è rimasto accerchiato fino a tarda notte. L’enclave libertaria di Exarchia è stata posta in stato d’assedio; uno squat anarchico è stato sgomberato e diversi occupanti sono stati arrestati; un locale frequentato da immigrati è stato devastato. Una nube di fumo persistente ha continuato a incombere sulla città, lasciando un misto di amarezza e di inebetimento.
Le conseguenze dell’accaduto sono diventate visibili l’indomani: gli avvoltoi dei media hanno strumentalizzato la tragica morte dei 3 impiegati, (…)presentandola come una “tragedia personale”, separata dal suo contesto reale (meri corpi umani astratti dalle loro relazioni sociali); alcuni si sono spinti a chiedere la criminalizzazione della resistenza e della protesta in quanto tali. Nel frattempo, il governo ha preso tempo spostando l’attenzione su altre questioni e i sindacati si sono sentiti sollevati da ogni obbligo di indire uno sciopero, il giorno stesso in cui le misure del governo venivano approvate.
In questo clima di paura e di delusione, nel pomeriggio alcune migliaia di persone si sono ugualmente riunite davanti al Parlamento, nel corso di una manifestazione organizzata dai sindacati e dalle organizzazioni di sinistra. La rabbia era ancora palpabile. Alcuni pugni si sono levati, sono stati lanciati bottiglie d’acqua e petardi contro le forze antisommossa, si sono gridati slogan contro la polizia e il Parlamento. Una donna anziana ha chiesto agli altri manifestanti di cantare: “Che se ne vadano!” (i politici); un giovane, dopo avere pisciato in una bottiglia, l’ha lanciata contro la polizia. Era presente anche qualche anti-autoritario e quando è scesa la notte, e i sindacati e la maggior parte delle organizzazioni di sinistra hanno abbandonato il campo, alcune persone, del tutto ordinarie, a mani nude, hanno deciso di rimanere. Caricati con violenza dalla polizia in assetto anti-sommossa, inseguiti e calpestati dagli squadroni di piazza Syntagma, giovani e vecchi, spaventati ma furiosi, si sono dispersi nelle vie adiacenti.
L’ordine era finalmente ristabilito. Tuttavia, nei loro occhi si poteva leggere non soltanto paura ma anche odio. Non c’è dubbio, torneranno...
Passiamo ora a qualche riflessione di carattere più generale:
1) Severe misure contro gli anarchici e gli anti-autoritari sono già state prese, e si profila un loro ulteriore inasprimento. La criminalizzazione di un intero movimento politico-sociale, che coinvolge anche le organizzazioni dell’estrema sinistra, è sempre stata utilizzata dallo Stato come strategia di diversione, e a maggior ragione sarà utilizzata oggi, nel momento in cui i tre morti della Marfin Bank hanno creato un clima favorevole alla manovra[3]. (…)
2 e 3 (…)
Tuttavia, la demonizzazione degli anarchici non indurrà le centinaia di migliaia di persone che hanno sfilato in corteo, né coloro che sono rimasti a casa – ma che sono comunque coinvolti – a dimenticare il FMI e il “pacchetto di salvataggio” che il governo ha imposto. La persecuzione del nostro movimento non aiuterà le persone a pagare le fatture, né garantirà loro un avvenire che rimane incerto. Il governo sarà presto costretto a criminalizzare la resistenza tout court; anzi si può dire che abbia già cominciato a farlo, come testimoniano gli avvenimenti del 6 maggio.
2) Lo Stato farà un piccolo sforzo, tirando le orecchie a qualche uomo politico per placare “l’emozione popolare” ed evitare che si trasformi in “sete di sangue”. Alcuni casi flagranti di “corruzione” saranno forse puniti, e alcuni uomini politici sacrificati, per confondere le acque.
3) Vi è un costante riferimento a una “deriva costituzionale”, che viene tanto dal LAOS (estrema destra) quanto dal KKE, in uno spettacolo di recriminazioni che rivela i crescenti timori, da parte della classe dirigente, di un aggravarsi della crisi politica e della crisi di legittimità delle istituzioni. Vengono riciclati diversi scenari (un “partito di uomini d’affari”, un regime sul modello della Giunta dei colonnelli), che riflettono le paure profonde di un sollevamento proletario, ma che in realtà sono utilizzate per spostare la questione della “crisi del debito” dalle strade all’arena politica – sotto forma della domanda banale: “chi è la soluzione?” anziché “qual è la soluzione?”.
4) (…) Ciò detto, è tempo di approcciare le questioni più cruciali. È ormai chiaro che il giochetto rivoltante che consiste nel trasformare la paura/colpa del debito nella paura/colpa della resistenza e del sollevamento (violento) contro il terrorismo del debito, è già cominciato. Se la lotta di classe si intensifica, le condizioni potranno assomigliare sempre di più a quelle di un’autentica guerra civile.
La questione della violenza è diventata centrale. Così come valutiamo la gestione della violenza da parte dello Stato, siamo costretti ad analizzare la violenza proletaria: il movimento deve affrontare il problema della legittimazione della violenza e del suo contenuto in termini pratici.
Per quel che riguarda il movimento anarchico e anti-autoritario, e la sua tendenza insurrezionalista che è preponderante, la tradizionale glorificazione “machista” e feticizzata della violenza sussiste da troppo tempo ed è stata troppo importante, perché oggi ce la si possa lasciare alle spalle. La violenza fine a sé stessa, in tutte le sue varianti (inclusa la lotta armata propriamente detta) non ha smesso di diffondersi negli ultimi anni, soprattutto dopo la rivolta del dicembre 2008, allorché un certo grado di decomposizione nichilista ha fatto la sua apparizione (…) (vi abbiamo fatto riferimento nel nostro testo Le passage rebelle d’une minorité prolétarienne...), estendendosi al movimento stesso. Alla periferia di questo movimento, ai suoi margini, sono apparsi in numero crescente dei giovanissimi, portatori di una violenza nichilista senza limiti (il “nichilismo di dicembre”) e propugnatori di una “distruzione” che può coinvolgere anche il “capitale variabile” (i crumiri, gli “elementi piccolo-borghesi, i “cittadini rispettosi della legge”). Che una tale degenerazione nasca dalla rivolta e dai suoi limiti, piuttosto che dalla crisi in quanto tale, è di un’evidenza palmare.
Alcune condanne di questi atteggiamenti avevano già allora iniziato a farsi sentire, e così pure una certa auto-critica (alcuni gruppi anarchici arrivarono a designare gli autori di quegli atti con l’epiteto di “canaglie para-statali”), ed è molto probabile che gli anarchici e gli anti-autoritari organizzati (gruppi o squat) cercheranno di isolare, sia politicamente che operativamente, queste tendenze. (…) Tuttavia, la situazione è molto più complessa, e va oltre la capacità di (auto)critica teorica e pratica del movimento. A posteriori, si può sostenere che i tragici avvenimenti di cui abbiamo riferito, con tutte le loro conseguenze, si sarebbero potuti verificare già all’epoca della rivolta del dicembre 2008. Se ciò non è accaduto non è stato solamente frutto del caso (la stazione di servizio che si trovava accanto a un palazzo in fiamme e che non è esplosa, il fatto che gli scontri più violenti, quelli di sabato 7 dicembre, si siano svolti di notte, quando la maggior parte degli edifici erano vuoti); ma è stato anche in virtù della creazione di una sfera pubblica proletaria (per quanto limitata) e di diverse comunità di lotta impegnate a costruire un proprio percorso, non soltanto per mezzo della violenza, ma anche attraverso i propri contenuti e discorsi, e con altri mezzi di comunicazione.
Sono state queste comunità preesistenti (studenti, tifosi di calcio, immigrati, anarchici) a trasformarsi in comunità di lotta, talvolta attorno a delle tematiche di rivolta che hanno potuto dare alla violenza un ruolo significativo. Emergeranno ancora comunità come quelle, adesso che non è più soltanto una minoranza di proletari a essere coinvolta? Emergeranno delle forme pratiche di auto-organizzazione nei luoghi di lavoro, nei quartieri e nelle strade in misura tale da determinare la forma e il contenuto della lotta, e collocare di conseguenza la violenza in una prospettiva di liberazione?
Si tratta di questioni complesse e urgenti, alle quali potremo trovare una risposta soltanto nella lotta.
TPTG, 9.5.2010
[1] Ta Paidia Tis Galarias (I ragazzi della galleria), è un gruppo-rivista greco di area comunista radicale, attento ai conflitti di classe internazionali e alla critica serrata alle ideologie. Il suo sito è www.tapaidiatisgalarias.org/ [54], dove è disponibile la versione integrale di questo articolo in diverse lingue.
[2] Per conoscere più a fondo la posizione della CCI sulla questione della violenza vedi “Terrore, terrorismo e violenza di classe” che può essere richiesto al nostro indirizzo.
[3] Questa tendenza a criminalizzare alcuni gruppi anarchici, così come alcuni gruppi marxisti definiti di “ultra sinistra”, è presente anche a livello internazionale (ndr)
Gli scioperi della Tekel sono scarsamente conosciuti a livello internazionale in seguito al black-out mediatico promosso dalla borghesia. La classe dominante preferisce ovviamente puntare i proiettori su tutte le espressioni di nazionalismo (che in genere alimenta essa stessa) e passare sotto silenzio le manifestazioni di solidarietà operaia tra lavoratori di diverse origini etniche, culturali, religiose … Chiediamo perciò a tutti i nostri lettori di far circolare tra di loro tutte le informazioni disponibili su questa lotta.
Il 2 marzo, malgrado tutte le nostre obiezioni, i capi del sindacato ci hanno fatto smontare le tende e la strada di fronte al quartier generale della Turk-Is[1] è stata sgombrata mentre a noi veniva detto di tornare a casa. 70-80 di noi sono rimasti ad Ankara per valutare assieme cosa si poteva fare nei tre giorni seguenti. Dopo questi tre giorni, 60 di noi sono tornati nelle loro città d’origine, mentre gli altri 20, tra cui io stesso, sono rimasti ancora per due giorni. Così, benché la lotta di Ankara sia durata 78 giorni, noi siamo rimasti 83 giorni. Abbiamo convenuto che avremmo dovuto lavorare duro per far progredire la lotta, ed anch’io alla fine sono tornato ad Adiyaman. Fin dal mio ritorno da Ankara, 40 di noi sono andati a far visita ai nostri fratelli e sorelle di classe implicati nello sciopero di Cemen Tekstil a Gaziantep. La lotta della Tekel era un esempio per la classe. Come lavoratore della Tekel ero fiero e pensavo anche che avremmo potuto fare di più per la nostra classe e che dovevo contribuire a questa lotta. Benché la mia situazione economica non me lo permettesse e nonostante l’esaurimento prodotto dagli 83 giorni di lotta e da altri problemi, dovevo fare l’impossibile per spingere il processo il più avanti possibile. Quello che dovevamo fare era costituire un comitato ufficiale e prendere la lotta nelle nostre mani. Anche se non avessimo potuto formalizzarlo, dovevamo comunque crearlo prendendo contatto con i lavoratori di tutte le città poiché dovevamo tornare ad Ankara il 1° aprile.
Dobbiamo andare dovunque possibile per raccontare alla gente la lotta della Tekel nei minimi particolari. Per questo dobbiamo formare un comitato ed unirci alla classe. Il nostro compito è più difficile di quello che sembra! Da una parte abbiamo a che fare con il capitale, dall’altra sia con il governo che con i leader sindacali. Dobbiamo lottare tutti nel miglior modo possibile. Anche se la nostra situazione economica non è buona, anche se siamo fisicamente affaticati, se vogliamo la vittoria, dobbiamo lottare, lottare, lottare!!!
Benché fossi stato lontano dalla mia famiglia per 83 giorni, sono rimasto a casa soltanto per una settimana. Sono andato ad Istanbul per parlare con la gente della resistenza della Tekel, senza neanche poter vedere mia moglie ed i miei figli. Abbiamo fatto parecchie riunioni del comitato informale dei lavoratori della Tekel, specialmente a Diyarbakir, Izmir, Hatay, ed io ho partecipato a numerose riunioni con compagni della commissione informale ad Istanbul. Abbiamo avuto riunioni all’Università Mimar Sinan, una nella scuola alberghiera di Sirinevler, una nell’edificio del sindacato dell’Industria, abbiamo avuto discussioni con dei piloti ed altri lavoratori dell’aeronautica del movimento dissidente Rainbow dell’Hava-Is (un sindacato), ed abbiamo incontrato dei salariati del tribunale. Abbiamo anche incontrato il presidente del Partito della pace e della democrazia (PDP) di Istanbul e gli abbiamo chiesto che i lavoratori della Tekel potessero prendere la parola in occasione della festa di Newroz. Le riunioni sono state tutte molto calorose. La nostra richiesta al PDP è stata accettata e mi hanno chiesto di partecipare alle manifestazioni di Newroz come oratore. Poiché dovevo ritornare ad Adiyaman, ho suggerito che un compagno operaio di Istambul parlasse al posto mio. Mentre ero ad Istanbul ho fatto visita ai vigili del fuoco in lotta, agli operai della Sinter Metal, ai lavoratori comunali d’Esenyurt, agli scioperanti del giornale Sabah e dell’ATV, l’ultimo giorno, ai lavoratori in lotta del Servizio delle Acque e delle Fogne di Istanbul (ISKI). Con questi operai abbiamo discusso per una mezza giornata su come potevamo far crescere la lotta ed abbiamo anche fornito loro informazioni sulla lotta alla Tekel. Gli operai della ISKI mi hanno detto che hanno cominciato la lotta grazie al coraggio dato loro dai lavoratori della Tekel. Durante la settimana che ho trascorso ad Istanbul, ovunque andassi, alle manifestazioni o a visitare i posti dove si lottava, sentivo dire sempre: “Abbiamo preso coraggio grazie alla Tekel”, cosa che mi rendeva molto felice. Il tempo trascorso ad Istanbul ha arricchito molto anche me stesso. Ci sono state purtroppo anche delle cose negative: uno dei miei parenti è purtroppo morto, ma ho deciso di non partire e di restare tutta la settimana come previsto.
Per parlare delle cose più nere di questo periodo, 24 studenti, fratelli e sorelle di classe, sono stati espulsi dalla loro università (Mehemetcik High School) per avere sostenuto la lotta della Tekel. Inoltre ad Ankara, una delle nostre sorelle di classe del Consiglio della Ricerca Scientifica e Tecnologica della Turchia (TUBITAK), Aynur Camalan, è stata uccisa. Quando il capitale ci attacca in questo modo, noi, operai, senza alcuna pietà, ci dobbiamo unire contro di lui. Così, abbiamo fatto due comunicati sulla stampa ad Adiyaman mostrando che i nostri amici non erano soli. Ci siamo anche preparati per la manifestazione del 1° aprile. I capi sindacali volevano andare ad Ankara con 50 persone da ogni città, per un totale di un migliaio di persone. Come comitato informale abbiamo aumentato questo numero da 50 a 180 soltanto a Adiyaman ed io stesso sono arrivato ad Ankara con altri dieci operai il 31 marzo. Nonostante tutte le dichiarazioni dei sindacati per limitare il numero a 50, siamo riusciti a permettere che venissero 180 lavoratori (siamo stati noi e non i sindacati a coprire le spese), perché sapevamo come i sindacati volevano manipolare, come avevano già fatto prima. Abbiamo avuto riunioni con molte organizzazioni di massa, associazioni e sindacati. Siamo andati a trovare Aynur Camalan, l’operaia di TUBITAK, che aveva perso il lavoro.
Il 1° aprile ci siamo riuniti a Kizilay (il centro di Ankara, la capitale della Turchia, NDT), ma abbiamo dovuto fare molti sforzi per arrivare fino alla strada di fronte alla Turk-Is, perché 15.000 poliziotti stavano in difesa dell’edificio. Cosa facevano tutti questi poliziotti tra noi e il sindacato? Ora, dobbiamo chiedere a quelli che si ergono contro di noi anche quando parliamo dei dirigenti sindacali, anche quando diciamo che i sindacati dovrebbero essere messi in discussione: se c’è un potente sbarramento di 15.000 poliziotti tra noi ed il sindacato, perché esistono i sindacati? Se voi pensate che sia del tutto naturale che la polizia protegga il sindacato ed i dirigenti sindacali, questo non significa forse che il sindacato ed i sindacalisti proteggono il governo ed il capitale? I sindacati non esistono forse solo per mantenere sotto controllo i lavoratori per conto del capitale?
Il 1° aprile, malgrado tutto, 35-40 di noi sono riusciti a superare la sbarramento, uno dopo l’atro, per ritrovarsi nella via di fronte alla Turk-Is. Il nostro scopo era avere una certa maggioranza e fare in modo che nostri altri amici ci raggiungessero, ma purtroppo abbiamo fallito: la nostra maggioranza non poteva negoziare con 15.000 poliziotti. Il sindacato aveva precedentemente dichiarato che soltanto 1.000 di noi dovevano venire ad Ankara. Con il comitato informale siamo riusciti ad aumentarne il numero a 2.300. 15.000 poliziotti bloccavano la strada a 2.300 persone! Ci siamo riuniti in via Sakarya. Eravamo pronti a passarvi almeno la notte, con tutti coloro che erano venuti ad incoraggiarci. Durante la giornata, siamo stati attaccati due volte dalla polizia con gas irritanti e manganelli. Il nostro obiettivo era trascorrere la notte per strada di fronte al quartier generale della Turk-Is, ma quando ci siamo scontrati con la polizia siamo rimasti in via Sakarya. Ma durante la notte i sindacalisti hanno silenziosamente e sornionamente invitato i nostri compagni operai a lasciare la regione. Ci siamo ritrovati in una minoranza. I sindacalisti ci hanno chiesto due volte di lasciare la zona, ma non abbiamo ascoltato l’appello dei dirigenti sindacali ed una minoranza di noi è restata. Quando i simpatizzanti sono andati via verso le 23.00, anche noi siamo dovuti andar via.
Ci doveva essere un comunicato stampa il 2 aprile. Quando siamo stati sul punto di entrare in via Sakarya, verso le 9 di mattina, siamo stati attaccati dalla polizia che ha di nuovo utilizzato gas al pepe e manganelli. Un’ora dopo un centinaio di noi è riuscito a superare la sbarramento e fare un sit-in. La polizia non la smetteva di minacciarci. Noi abbiamo continuato a resistere. La polizia ha dovuto alla fine aprire lo sbarramento e siamo riusciti ad unirci all’altro gruppo che era restato fuori. Abbiamo iniziato ad andare verso la Turk-Is, ma i dirigenti sindacali hanno fatto il loro comunicato alla stampa a 100 metri dal quartier generale della Turk-Is. Senza tener conto della nostra insistenza i dirigenti sindacali non sono scesi in strada davanti alla Turk-Is. Il sindacato e la polizia si sono trovati mano nella mano e così alcuni di noi non hanno potuto alla fine andare dove volevano andare. C’era un punto interessante tra le cose dette dai sindacalisti. Avevano detto che saremmo ritornati il 3 giugno e saremmo rimasti di fronte alla Turk-Is per tre notti. Sarebbe interessante sapere come saremmo riusciti a restarvi 3 notti, quando noi non eravamo riusciti a restarci neanche una sola notte. La polizia doveva prima di tutto proteggere i sindacalisti da noi ed aiutarli a scappare ed allora noi ci siamo ritrovati da soli con la polizia. Nonostante le minacce e le pressioni della polizia non ci siamo dispersi e siamo stati nuovamente attaccati con gas al pepe e manganelli ed alla fine abbiamo dovuto disperderci. Nel pomeriggio abbiamo ricevuto una corona funebre, fatta da alcuni fiorai per condannare la Turk-Is ed il governo, che abbiamo lasciato sulla facciata della Turk-Is.
Cari fratelli e sorelle di classe, la questione che abbiamo di fronte è: se ci sono 15.000 poliziotti che formano uno sbarramento tra il sindacato e gli operai, perché esistono i sindacati? Dichiaro a tutti i miei fratelli e sorelle di classe che se vogliamo la vittoria dobbiamo lottare insieme. Noi operai della Tekel abbiamo acceso una scintilla e tutti insieme ne faremo un’enorme palla di fuoco. In questo senso, per esprimere il mio rispetto per tutti voi, ci tengo a finire il mio testo con una poesia[2]:
Il vapore del the s’invola mentre le nostre vite sono ancora fresche
Gli abiti formano una catena lunga come strade, e non c’è che il dispiacere che ritorna
Una ciotola di riso, dicono che il nostro cibo è atterrato sulle nostre case
I desideri diventano strade, strade, da dove viene il lavoro
La fame è per noi, il freddo è per noi, la povertà è per noi
Hanno invocato il destino, vivere con lui è per noi
Noi che produciamo, noi che abbiamo fame, noi che siamo nudi di nuovo
Non abbiamo scritto noi questo destino, siamo noi che lo spezzeremo di nuovo
Noi, lavoratori della Tekel diciamo che, anche se la nostra testa tocca il suolo, lasceremo sempre un futuro onorevole per i nostri figli.
Un lavoratore della Tekel di Adiyaman
La maggior parte delle camicie rosse è composta da thailandesi poveri ed espropriati. Molti di essi provengono dalle zone agricole del nord e del nord-ovest del paese, ma sembra che ricevano il sostegno dei poveri della città. Secondo un articolo della rivista Time, citato sul sito World Socialist (“Dieci morti nell’assedio ai manifestanti dei militari thailandesi”, 15/5/10), durante gli scontri “i soldati sono stati sotto l’attacco di centinaia di abitanti dei bassifondi del porto Klong Toey, che si sono riversati nelle strade per dar fuoco a dei razzi e lanciare colpi di fionda contro le truppe … Quando la folla di Klong Toey ha continuato ad avanzare, i soldati hanno aperto il fuoco con pallottole di gomma. Centinaia di persone prese dal panico sono tornate indietro, rifugiandosi nelle stradine adiacenti. Almeno tre persone sono state ferite”.
Non c’è dubbio riguardo al coraggio dei manifestanti, né sul fatto che ciò che li ha spinti nelle strade è stato l’impoverimento che si è riversato su di loro non solo con l’attuale crisi mondiale, ma anche a causa dell’impatto del crollo delle “Tigri” e dei “Dragoni” dell’Estremo Oriente nel 1997 e ancora di decenni di sottosviluppo precedenti. Ma il movimento delle Camicie Rosse non è un movimento di sfruttati ed oppressi che lottano per i loro propri interessi. Piuttosto è un esempio del profondo malcontento popolare incanalato in una falsa direzione: la lotta per sostituire l’attuale cricca di militari e milionari che governano in Thailandia con un’altra fazione borghese. La principale richiesta delle Camice Rosse è di indire nuove elezioni più giuste e il ristabilimento dell’ex Primo Ministro Thaksin Shinawatra, che ha guadagnato molta popolarità fra i poveri della campagna dopo la sua ascesa al potere nel 2001 offrendo ai coltivatori crediti e sovvenzioni facili e mantenendo alti i prezzi del raccolto; ci sono state anche delle “riforme” rivolte alle masse urbane per facilitare l’accesso alle cure sanitarie.
Questi cambiamenti hanno generato una reazione violenta da parte di settori benestanti della classe dirigente e settori della classe media (che a volte sfilano con il “Movimento delle Camicie Gialle”) ed in particolare dei militari che hanno spodestato Thaksin nel 2006. Ma la principale obiezione che questi facevano a Thaksin non era tanto il suo “sostegno” ai contadini o ai proletari quanto il fatto che stava cominciando a dirigere la Thailandia come se fosse una sua proprietà personale. Thaksin era un “nuovo ricco”, il miliardario dei media ed il suo modello di governo rompeva i tradizionali settori di influenza e di privilegio che uniscono la burocrazia e l’esercito.
Ci sono state dichiarazioni da parte di elementi del movimento delle Camicie Rosse che invitavano a “sbarazzarsi dell’elite” e appelli ai soldati per unirsi a loro. Tutto ciò indica che un domani potrebbe emergere in Thailandia un movimento con vere rivendicazioni di classe. Ma la campagna delle Camicie Rosse – il cui nome ufficiale è “Fronte nazionale unificato per la democrazia contro la dittatura” – è un ostacolo allo sviluppo di un tale movimento perché è orientato verso l’instaurazione di una democrazia borghese “pulita” in Thailandia. Un tale obiettivo ha smesso da molto tempo di avere la benché minima utilità per la classe operaia in tutti i paesi del mondo. Come abbiamo scritto nelle conclusioni di un nostro recente articolo[2], il movimento delle Camicie Rosse è fondamentalmente un movimento di poveri delle città e delle campagne, mobilitati dietro la nuova borghesia che si oppone alle “vecchie” fazioni militari e monarchiche. Non è un movimento della classe operaia, né controllato da essa. L’unica azione operaia di questo periodo, uno sciopero di 8.000 operai nella fabbrica di macchine fotografiche della Nikon, è apparso in modo completamente indipendente dal movimento delle Camicie Rosse. E qui si trova il punto centrale della nostra argomentazione. Queste sedicenti “rivoluzioni”, come il recente “Movimento verde” in Iran, non sono dei movimenti della classe operaia. È vero che ci sono molti operai implicati, e nel caso del Kirghizistan la maggioranza dei partecipanti erano probabilmente operai, ma essi partecipano a queste azioni come individui e non come operai. Il movimento della classe operaia è un movimento che può basarsi solo sulla lotta di classe dei lavoratori per i loro propri interessi, non è né un movimento “interclassista” né un movimento populista. Solo all’interno di un movimento di massa la classe operaia può sviluppare i suoi propri organi, delle riunioni di massa, dei comitati di sciopero e infine i consigli operai, che possono assicurare il controllo della classe operaia sul movimento e permettere lo sviluppo di una lotta per gli interessi di classe dei lavoratori. Al di fuori di questa prospettiva, gli operai non possono che essere utilizzati come carne da cannone per le differenti fazioni politiche. In Grecia, forse, possiamo vedere l’inizio di un lungo sviluppo verso questo processo. Nel Kirghizistan e in Thailandia non vediamo altro che operai uccisi nelle strade per conto di quelli che vogliono essere i nuovi padroni.
Amos
[1] Il riferimento è dell’articolo originale pubblicato sulla pagina inglese il 18 maggio scorso.
https://en.internationalism.org/wr/334/thailand-kyrgyzstan [55]
Sono inziati i mondiali di calcio in Sud Africa. Ora, il calcio serve spesso alla classe dominante per incoraggiare i sentimenti nazionalistici e dividere la classe operaia.
In Turchia quando la squadra di Instambul Galatasary vinse la coppa EUFA, nel 2000, ci furono due morti durante la semi-finale e tre nella finale.
Le partite di qualificazione per questa Coppa del Mondo tra l’Egitto e l’Algeria, dello scorso anno, hanno fatto esplodere l’odio nazionalista. Al Cairo sono stati ammazzati sei tifosi algerini e ne sono stati feriti 21. A Khartoum, in Sudan, sono stati feriti 23 egiziani e uccisi 14 algerini. Ci sono stati anche centinaia di feriti in Algeria durante i festeggiamenti dopo la partita! Molti dei 15.000 operai egiziani che vivevano in Algeria sono stati attaccati e costretti a partire. Migliaia di tifosi egiziani si sono scontrati in vere e proprie battaglie campali contro la polizia nel centro del Cairo, con 11 feriti tra i poliziotti e 24 tra i tifosi. Alcuni tifosi, non potendo raggiungere i supporter algerini, si sono scagliati contro la vicina ambasciata indiana.
Nel maggio 1990 la partita Dynamo di Zagabria/Red Star di Belgrado ha avuto un ruolo importante nella marcia alla guerra nell’ex - Jugoslavia. Certo, le guerre non sono prodotte dalle partite di calcio. Tuttavia tali dimostrazioni pubbliche di odio nazionalista servono a mobilitare la classe operaia verso la guerra. Questa partita si concluse infatti con una battaglia campale tra bande nazionaliste croate e serbe (i serbi erano guidati da Arkan, un nazionalista che sarebbe stato poi ricercato dall’ONU per crimini contro l’umanità!). La polizia fu rapidamente sopraffatta dal gran numero di gente, ma ritornò con rinforzi, autocarri blindati e cannoni ad acqua per aggiungere del suo al clima di violenza generale. Un’ora dopo, con centinaia di feriti e svariati morti per pallottole, armi bianche o avvelenati dai gas lacrimogeni, la battaglia continuava ancora. La guerra degli anni 1990-2001, nella quale più di 60.000 persone avrebbero trovato la morte, era pronta a partire. Le Tigri di Arkan, milizia nella quale sono stati arruolati molti dei tifosi del Red Star, hanno svolto un ruolo non trascurabile in alcuni dei peggiori episodi di pulizia etnica. Zvonimir Boban, che ha avuto più tardi una grande notorietà nella A. C. Milan, si vantò di avere attaccato un poliziotto durante la sommossa. Afferma contiuamente che lui ama la Croazia più di ogni altra cosa e che morirebbe per il suo paese. Lui non ha certo sacrificato la sua vita sull’altare della nazione ma decine di migliaia di sventurati operai, loro, l’hanno fatto!
Nel 1969, la corsa alla qualificazione per la Coppa del Mondo del 1970 tra il Salvador e l’Honduras fu la scintilla che infiammò quella che già era una situazione di tensione di guerra. Dopo l’incontro di ritorno, i mass media dei due paesi fecero servizi giornalistici che inasprivano l’odio nazionalistico verso l’altro e incitavano gli operai di ciascuno dei due paesi ad uccidersi l’un l’altro. La guerra, che effettivamente scoppiò, fece 4.000 morti in quattro giorni.
Sabrì
Le tensioni militari tra le due sorelle nemiche della penisola coreana non datano da oggi. Alla fine della Seconda guerra mondiale e nell’insieme degli accordi di Yalta che delimitavano le loro zone di influenza nel mondo, l’URSS e gli Stati Uniti hanno deciso nel 1948 la spartizione della Corea sulla linea del 38° parallelo. Ma, con lo stesso pretesto di “liberare” la Corea dal giogo giapponese, le due teste di blocco russo ed americano si sono avventate su questo piccolo paese per difendere i loro interessi imperialistici importanti per il controllo di questa regione del mondo, l’Asia del Sud-Est. Ciò ha portato molto rapidamente ad un conflitto diretto e mortale e ad alimentare le relazioni conflittuali tra lo Stato del Nord, filosovietico, e quello del Sud, filoamericano.
La guerra di Corea, triste prefigurazione di quella del Vietnam, fu un episodio tanto chiaro quanto feroce di ciò che significava “la liberazione” della Corea per le due teste di blocco che pensavano di avere diritto di vita e di morte sulle popolazioni sottoposte alla loro “protezione”. Dal 1950 al 1953, gli Stati Uniti sganciarono ogni mese quasi 13.000 tonnellate di bombe sul Nord[1], quattro volte in più che sul Giappone. Dall’altra parte, gli eserciti russi e cinesi si impegnarono in maniera massiccia in questa guerra dove il solo risultato prodotto, dato che le frontiere tra il nord ed il sud non cambiarono di un pollice, fu l’affermazione della superiorità militare dell’America e la sua volontà manifesta di controllare il Giappone.
Il tutto al prezzo di 2 milioni di morti, di cui i tre quarti nella Corea del Nord. Questa entrata in scena nella storia del dopoguerra è particolarmente significativa del posto che occupa la Corea sulla scacchiera mondiale e delle sfide strategiche alle quali è sottoposta da oltre 50 anni. Già prima del crollo dell’URSS, la Cina, dopo essere stata il giocattolo dell’URSS, potenza in crescita nell’interminabile e sadico gioco internazionale tra superpotenze, aveva preso le inevitabili distanze da Mosca dopo l’integrazione di Pechino nel blocco americano. Integrazione ratificata dalla fine della guerra del Vietnam. Ma questo non è andato a vantaggio degli Stati Uniti, perché la Cina si è riservata da sempre la Corea del Nord come riserva di caccia e mezzo di pressione contro il suo nuovo mentore della Casa Bianca.
D’altronde, è soprattutto per mantenere una pressione indiretta sulla Cina che Washington ha dichiarato fin dagli anni 1990 la Corea del Nord come facente parte degli Stati canaglia che “la democrazia” doveva tenere sott'occhio. Dal 2001 è passata allo statuto di potenza inevitabilmente terroristica per definizione.
Anche gli ultimi avvenimenti della primavera, in questo “Paese del fresco mattino” sempre tagliato in due, non sono che un episodio in più nel larvato scontro tra gli Stati Uniti e la Cina dove si sa che quest’ultima controlla oggi il regime di Pyongyang. Dopo le minacce di ricorso all’armamento nucleare del Nord verso il Sud, è stato orchestrato un braccio di ferro “diplomatico” tra gli Stati Uniti e la Corea del Nord per calmare il gioco. Ma queste manovre erano una risposta all’affondamento d’una corvetta della Corea del Sud, con 46 morti, colpita da un siluro lanciato il 26 marzo scorso sicuramente da un sottomarino della Corea del Nord.
Quest’episodio “anodino” (secondo la formula di Hillary Clinton), che è lungi dall’essere il primo “relazioni” tese tra le due Coree mostra un aggravarsi delle tensioni militari ed imperialiste tra questi due paesi, e, dietro loro, dei paesi che li sostengono. Ma né la Cina né gli Stati Uniti hanno interesse a che la situazione in Corea si deteriori oltre una certa soglia. La Cina non ha i mezzi per condurre un’offensiva militare di fronte ad un nemico che sarebbero in realtà gli Stati Uniti. E nonostante le minacce ripetute contro il suo alleato di Seul, gli Stati Uniti non hanno alcun interesse nel provocare un paese alleato della Cina e causare una certa e irreparabile destabilizzazione di questa regione. Tuttavia, se i grandi padrini cercano di controllare la situazione, le pressioni crescenti che esercitano su ogni governo locale rischiano al contrario di fare scivolare quest’ultimi nell’ingranaggio irrazionale “del ciascuno per sé” ed in una fuga militare in davanti, in particolare attraverso l’isolamento della Corea del Nord, come illustrato dalla minaccia dell’impiego del suo arsenale nucleare. La situazione attuale rafforza ed illustra fin d’ora il clima di terrore che si esercita come una spada di Damocle sospesa in permanenza sulla sorte delle popolazioni locali e su tutta l’umanità.
Inoltre, sotto la pressione permanente delle loro rispettive potenze tutelari, l’equilibrio delle forze strategiche in questa penisola resta sempre molto precario e fragile. Questo implica che la presenza permanente di forze armate e la quasi militarizzazione della società fanno subire, da 60 anni, al Nord come al Sud della Corea, una pressione costante ed insopportabile sul proletariato di questi due paesi, proletariato le cui lotte sono in un tale contesto sempre esemplari per il coraggio.
Mulan
L’attuale marea nera nel Golfo del Messico getta una luce cruda sull’assenza di scrupoli e sulla pericolosità dei metodi che il capitalismo utilizza per sfruttare le risorse naturali.
Dall’affondamento della piattaforma petrolifera della BP “Deepwater Horizon”, il 22 aprile scorso, durante il quale sono morti undici operai, almeno 800.000 litri di petrolio greggio si versano ogni giorno nel golfo del Messico contaminando le coste per centinaia di chilometri e formando uno strato enorme di petrolio nel golfo stesso. Nessuno può stabilire esattamente quale quantità di petrolio sia stata già versata[1]. “Un mese dopo l’affondamento della piattaforma di perforazione Deepwater Horizon, la maggior parte del petrolio che è sfuggito finora è restata sotto l’acqua[2]. Queste enormi masse d’acqua contaminate dal petrolio che fluttuano sotto la superficie del golfo del Messico possono avere delle dimensioni di circa sedici chilometri di lunghezza, sei chilometri di larghezza ed un centinaio di metri di spessore.” Con l’aiuto di opportuni mezzi disperdenti si è evitato finora “che una parte del petrolio raggiunga la terra. È là che aspetta la maggior parte dei giornalisti”. (cioè il grande pubblico)[3].
Le prime indagini hanno mostrato che “il Minerals Management Service (MMS), il servizio amministrativo americano per la gestione dei minerali, responsabile della sorveglianza della produzione petrolifera, ha rilasciato le sue autorizzazioni senza avere effettuato controlli al piano di sicurezza e di compatibilità con l’ambiente (…). In questo caso concreto, l’MMS ha omesso di verificare la capacità del Blowout Preventer (la valvola centrale di sicurezza destinata a prevenire le fughe, nota) prima della sua messa in servizio. (…) Nel sistema idraulico-chiave di quest’elemento di molte tonnellate, si è avuta manifestamente una fuga. Inoltre, un test di sicurezza effettuato poche ore prima dell’esplosione sarebbe fallito”[4].
Altre indagini hanno mostrato che la BP non disponeva neppure di attrezzature adeguate per aspirare dai fondali marini il petrolio suscettibile di sfuggire e di depositarvisi. Così come non esistono mezzi per realizzare perforazioni di alleggerimento in tali casi di emergenza. Cosa rivela quest’atteggiamento consistente nello sfruttare a grandi profondità marine giacimenti petroliferi senza disporre di alcuna possibilità di captazione di soccorso del petrolio e di dispositivi d’interruzione del pompaggio in stato di funzionamento?
“La piattaforma petrolifera Deepwater Horizon, di un costo di 560 milioni di dollari, era una delle piattaforme di perforazione più moderne del mondo. Era capace di resistere ad onde di dodici metri ed agli uragani”[5]. Da una parte, costi di produzione astronomici per la costruzione di tale piattaforma (più di un mezzo miliardo di dollari!), delle spese di sfruttamento di 100 milioni di euro per la perforazione e, allo stesso tempo, nessun sistema di sicurezza esistente o in stato di funzionamento per le situazioni di emergenza. Come spiegare questa contraddizione?
La corsa al profitto a spese della natura
Quando la perforazione sistematica del petrolio è cominciata un centinaio di anni fa, c’era bisogno soltanto di modesti investimenti finanziari e tecnici per sfruttare le fonti petrolifere. Tuttavia, un secolo più tardi, le compagnie petrolifere devono far fronte ad una situazione nuova. “Una grande parte del petrolio del mondo viene estratta da campi che sono stati scoperti più di 60 anni fa senza grandi investimenti tecnologici. Oggi, invece, gli esploratori di giacimenti minerari devono utilizzare metodi costosi per ricercare campi petrolifèri che, inoltre, si trovano in posti sempre più difficilmente accessibili della terra - e forniscono delle quantità di petrolio considerate finora soltanto come marginali. (…) Soprattutto, le imprese occidentali non possono più accedere come prima alle fonti facili, economiche e ricche di utili dell’Asia e dell’America latina. Queste fonti si trovano infatti nelle mani di società petrolifere nazionali, come la Saudi Aramco (Arabia Saudita), Gazprom (Russia), NIOC (Iran) o PDVSA (Venezuela) e sono sotto il controllo di uno Stato nazionale. Questi sono i veri giganti in quest’affare e controllano più dei tre quarti delle riserve globali”.
I “Big Oil” (i grandi petrolieri), come si chiamano ancora le vecchie multinazionali private, controllano ancora appena il dieci per cento delle riserve di gas e di petrolio globali. Non resta più a BP & Co. che dei progetti costosi, onerosi e pericolosi. È dunque per necessità che queste società sono spinte ai limiti estremi per raggiungere questi giacimenti che nessun altro vorrebbe esplorare. (…).”
Spese sempre più elevate, rischi sempre più grandi
“E’ da tempo ormai che le società petrolifere hanno abbandonato le piattaforme fermamente ancorate ai fondali marini. Mostri fluttuanti, detti semi-sommergibili, nuotano sugli oceani con chilometri d’acqua sotto di loro. Dei tubi verticali d’acciaio speciale o di materiali compositi estremamente saldi si spingono nell’oscurità degli abissi. Dei normali tubi si romperebbero sotto il loro stesso peso. A 1500 metri di profondità, la temperatura dell'acqua scende a cinque gradi centigradi - tuttavia il petrolio scaturisce quasi all’ebollizione. Ciò comporta non pochi problemi nella gestione dell’impianto. I rischi sono considerevoli. Con la profondità, le esigenze tecniche in materia di perforazione sono enormemente più grandi. La tecnica è pericolosa: indurendo, appaiono delle fessure nel cemento attraverso le quali il petrolio ed il gas possono sfuggire con una violenza inaudita. Basta allora una scintilla per provocare l’esplosione”[6] … come è poi accaduto!
Febbrilmente decine di migliaia di persone hanno combattuto, invano fino ad oggi, per tenere il petrolio lontano dalle spiagge. Aerei tipo Lockheed C-130 hanno polverizzato tonnellate di Corexit, prodotto sparso per sciogliere lo strato di petrolio - benché si sospetti che questo miscuglio chimico possa contribuire a danneggiare esso stesso l’ambiente acquatico. In futuro, c’è da temere che queste misure di salvataggio chimico possano produrre danni ancora più grandi e più imprevedibili a lungo termine sulla natura[7]. Per il momento, le conseguenze economiche per la popolazione del posto sono già catastrofiche poiché molti pescatori sono spinti alla rovina.
Mentre la corsa allo sfruttamento di nuove fonti petrolifere esige investimenti sempre più elevati, si assumono rischi tecnici sempre più grandi. Le condizioni della concorrenza capitalista trascinano gli imprenditori concorrenti ad assumersi dei rischi sempre più elevati e a rispettare sempre meno le necessità di protezione della natura. La fusione delle calotte glaciali dei poli che apre il passaggio marittimo a Nord-ovest, il disgelo del permafrost, hanno già da tempo acuito l’appetito delle compagnie petrolifere e provocano tensioni tra paesi che rivendicano territori in queste regioni.
Mentre l’utilizzo senza freni delle fonti di energia non rinnovabili e fossili, come il petrolio, costituisce in realtà un puro spreco, e la ricerca di fonti petrolifere sempre nuove una pura assurdità, la crisi economica - e la concorrenza che le è legata – spingono le imprese a investire sempre meno denaro nei sistemi di sicurezza possibili e necessari. Il capitalismo saccheggia in maniera sempre più predatoria le risorse del pianeta. In passato, la politica “della terra bruciata”, messa in pratica ed utilizzata ad esempio dagli Stati Uniti nel corso della prima guerra del golfo nel 1991, dove gli impianti petroliferi nel Golfo Persico sono stati attaccati, provocando incendi enormi e la fuga di quantità ingenti di petrolio, era stato un metodo corrente della guerra. Ora, è la pressione quotidiana della crisi che comporta la pratica della “terra bruciata” e la contaminazione dei mari, per potere imporre i propri interessi economici.
La marea nera attuale era prevedibile – così come lo era la catastrofe del 2005, quando l’uragano Katrina ha sommerso la città di New Orleans, provocando la morte di 1800 persone, l’evacuazione dell’intera città e lo spostamento di centinaia di migliaia di abitanti. L’attuale marea nera è del tutto simile alla catastrofe di New Orleans, il risultato dell’incapacità del capitalismo di offrire una protezione sufficiente contro i pericoli della natura. È il prodotto della ricerca del massimo profitto da parte del capitalismo.
Dv
[1] Sui luoghi dell'incidente, secondo le prime stime, circa 1000 barili (160.000 litri) di petrolio greggio al giorno si versavano nel mare. Alcuni giorni più tardi, in seguito alla scoperta di una terza fuga, sono state rivalutate a circa a 5000 barili (circa 800.000 litri) al giorno. Recenti calcoli di diversi ricercatori, basati su riprese video sottomarine delle fuoriuscite del petrolio, ritengono che la perdita sia di almeno 50.000 barili (circa 8 milioni di litri) al giorno.
[2] A grandi profondità si trovano grandi volumi d’acqua inquinata da particelle di petrolio. La concentrazione in petrolio è meno di un litro per metro cubo d’acqua, ma l’estensione di questa contaminazione è importante (Wikipedia).
[3] Da “Prodotti chimici contro catastrofe petrolifera. Operazione camuffamento e ritardo”, Spiegelonline, 18 maggio 2010
[4] https://www.spiegel.de/wissenschaft/natur/0,1518,694602,00.html [57] et https://www.spiegel.de/spiegel/0,1518,694271,00.html [58]
[5] Idem.
[6] Idem.
[7] 1,8 milioni di litri di liquido speciale Corexit sono stati utilizzati finora nel golfo del Messico … Esiste il pericolo che una parte di queste nuvole di petrolio sotto la superficie si sposti in direzione dell’Oceano Atlantico.
ottobre-novembre 2010
Quale che sia il nome dato alla violenza degli attacchi che a vagonate ci sta scaricando addosso il governo: riforme, politica del rigore o programmi d’austerità, il taglio è netto! Quale che sia il modo in cui si subisce la pressione dello sfruttamento capitalista, che sia da operaio di una grande fabbrica o di una piccola impresa, che sia da cassa integrato o con un’occupazione parziale, che sia da precario, da lavoratore dei servizi, impiegato, ingegnere, quadro, studente, disoccupato, pensionato…, tutti siamo presi alla gola.
La borghesia ci ha dichiarato una vera e propria guerra!
Se gli effetti dell’attacco sulle pensioni iniziano a farsi sentire già adesso, nei prossimi anni questi peseranno molto di più sulle nuove generazioni di proletari. Sicuramente già oggi tutti i proletari avvertono l’ampiezza e la profondità degli attacchi che sui vari piani vengono portati avanti simultaneamente.
I budget sociali sono ridotti all’osso ed i rispettivi servizi sono in piena rovina. La non sostituzione di chi va in pensione sta sfociando in una situazione da incubo o da catastrofe in particolare nel settore sanitario e dell’istruzione. La chiusura di strutture ospedaliere e di intere classi nelle scuole, in nome dell’economia da realizzare sul budget, prendono una piega sempre più drammatica. In sempre più imprese si esercita un ricatto sul licenziamento per far accettare una diminuzione dei salari o condizioni di lavoro sempre peggiori, come alla Fiat recentemente o alla General Motors di Strasburgo in Francia dove i salari sono stati ridotti del 10%. E le molteplici esperienze di questi ultimi anni mostrano che questi “sacrifici” non servono a niente: le carrettate di licenziamenti riprenderanno alla grande dopo qualche mese.
Le condizioni draconiane imposte ai disoccupati, che li sottomettono alla minaccia costante di essere cancellati delle liste di collocamento, diventano sempre più insopportabili. Chi non ha lavoro viene brutalmente isolato da ogni vita sociale, immerso nella miseria e l’inoperosità. Nel settore pubblico come nel privato, il sovraccarico per quelli che restano al lavoro è tale che non ne possono più. La sofferenza ed i suicidi per il lavoro sono diventati un fenomeno sociale sempre più diffuso. Un numero crescente di lavoratori dipendenti e di famiglie si trovano in “situazione di emergenza” non solo finanziaria ma anche fisiologica e psicologica. Il deterioramento delle condizioni di vita è accentuato dagli aumenti a ripetizione dei prezzi del gas, dell’elettricità, del combustibile, dell’affitto, dai nuovi aumenti di tariffe dei trasporti pubblici mentre, nei negozi, ciascuno può constatare l’altalena dell’aumento dei prodotti alimentari di prima necessità. Le cure mediche vengono rimborsate sempre meno mentre i contributi per la sanità schizzano in alto, così come le assicurazioni.
Finanche la caccia agli “evasori” fiscali, decretata come priorità dal governo, chi colpisce in massima parte? I milionari che possono disporre di ogni mezzo, più o meno “legale”, per mettere al sicuro i loro capitali o chi è costretto a pagare multe esorbitanti rispetto alle proprie misere entrate perché magari ha sbagliato a compilare la dichiarazione dei redditi?
Ormai è nel quotidiano che dobbiamo porci il problema di come nutrirci, avere un tetto, curarci, vestirci in modo decente, anche chi fino a pochi anni fa poteva ritenersi relativamente “tranquillo”.
Ed i giovani stanno ancora peggio: farsi una vita propria, avere di che vivere, pensare di avere dei figli, insomma avere una prospettiva davanti, tutto diventa estremamente difficile e vago, potendo contare solo sul quel poco di aiuto che la propria famiglia riesce ancora a darti.
Tocca a noi ingaggiare frontalmente la lotta!
L’aumento della rabbia e della indignazione è alimentato da una sensazione profonda d’ingiustizia. La borghesia dispiega senza sosta un’arroganza incredibile. Siamo costretti ogni giorno a sentire di sperperi del denaro pubblico, di imbrogli, clientele, intrecci dell’apparato politico ed imprenditoriale con la malavita, di corruzioni. Abbiamo dovuto assistere al fatto che anche di fronte alla sofferenza di intere popolazioni (per i rifiuti, il terremoto, le maree di fango, ecc) l’unico interesse è stato ed è ancora il lucro. Tutto questo da parte di chi (e non si tratta certo solo di un Berlusconi, ma di tutta l’apparato politico) al tempo stesso, con una ipocrisia mai vista, non solo ci viene a parlare di moralità e spirito di sacrificio, ma ci riduce ad una vita sempre più misera, da tutti i punti di vista. Da parte di chi a quelli che perdono il posto di lavoro, alle migliaia di precari della scuola che si troveranno a spasso, a quelli che non vengono pagati per mesi perché la sanità non ha soldi, sanno solo dire “abbiate pazienza, c’è la crisi!”. E quando hanno fatto qualcosa è stato dare la caccia all’immigrato, come a Milano con gli autobus blindati, o respingere i profughi, destinandoli ad una sorte atroce perché non sapevano che farsene, e adesso come in Francia si passa ai rom, non senza averne fatto di tutti loro il capro espiatorio della delinquenza dilagante, dell’insicurezza sociale, ecc.
Tutto questo ha certamente gettato un discredito importante sullo Stato ed il suo governo, ma non bisogna farsi illusioni. Un cambio di gestione, magari andando di nuovo a votare, non cambierà in niente la situazione e non impedirà nuovi attacchi. Ne è una prova il fatto che la politica del rigore viene adottata dappertutto tanto da governi di sinistra che da governi di destra. Le misure prese vanno dappertutto nella stessa direzione. In tutti i paesi i proletari sono confrontati ad attacchi simili ed ovunque sono di fronte alle stesse prospettive di condizioni di vita ancora più misere. In Grecia e in Spagna sono i governi di sinistra e social-democratici che, oltre all’attacco sulle pensioni, hanno appena imposto una brutale riduzione dei salari dal 10 al 20% a tutti i proletari. È questo che ci aspetta e che mostra il futuro che ci è riservato ovunque. E non è necessario essere indovini per sapere che sarà sempre peggio.
Non è perché abbiamo a che fare con dei poco di buono o gente marcia che la borghesia ci fa pagare a così caro prezzo la sua crisi, ma perché il sistema capitalista è in pieno fallimento su scala mondiale.
Il capitalismo non ci darà mai un governo più sociale o più equo. In Spagna, è stato il governo “socialista” di Zapatero che, di concerto con la destra, ha lanciato a fine giugno ed inizio luglio una grande campagna ideologica diffamatoria per screditare ed isolare il coraggioso sciopero dei lavoratori della metropolitana di Madrid in lotta contro la riduzione del 5% del salario[1].
La classe operaia sarà sempre più spinta a difendersi e del resto sta già iniziando a farlo[2]. In questa difesa non può evitare lo scontro con la classe dominante ed il suo sistema.
I proletari in Italia non sono soli!
La classe operaia in Italia deve prendere coscienza che non è sola ad affrontare questa realtà terribile, che in tutti i paesi, come classe, è spinta a fare la stessa lotta contro gli stessi attacchi. Dalla Cina a Panama, passando per il Bangladesh ed il Kashmir[3], la classe operaia sta mostrando di essere capace di sviluppare, in maniera massiccia e con determinazione, la sua lotta di classe contro classe su scala mondiale. Non c’è altra prospettiva che scendere in massa in lotta per difendersi, altrimenti il peggioramento delle nostre condizioni di vita è certo. Entrare in lotta in massa significa lottare insieme ed in modo determinato per realizzare la maggior estensione e unità possibile nella lotta. Solo un’ampia mobilitazione di fronte agli stessi attacchi è capace di far arretrare la borghesia. Ed anche se questa ritornerà inevitabilmente alla carica, questo è il solo modo per impedire ulteriori attacchi ancora peggiori. Ricordiamo ad esempio come, nel 2006 in Francia, i giovani studenti, in quanto futuri precari, sono riusciti ad imporre al governo Villepin il ritiro del Contratto di Primo Impiego[4].
Non è attraverso il susseguirsi di giornate di sciopero episodiche e sterili proposte dal sindacato che potremo fare questo.
Non è mettendoci nelle mani dei sindacati, questi specialisti del sabotaggio delle lotte e della divisione tra i lavoratori, che potremo stabilire un rapporto di forza rispetto alla classe dominante, ma prendendo noi stessi collettivamente l’iniziativa delle lotte, chiamando in prima persona DAPPERTUTTO a delle assemblee generali aperte a TUTTI i lavoratori, senza l’esclusiva di corporazioni o di settori, ai disoccupati, ai pensionati, agli studenti. E potremo farlo mantenendo il controllo di queste lotte nelle nostre mani attraverso il controllo permanente delle assemblee generali ed eleggendo delegati revocabili in qualsiasi momento.
Non c’è altra via possibile per imporre il nostro rifiuto ad un futuro che trascina l’umanità alla sua perdita e per costruire un altro futuro.
W./Eva, 26 settembre
[1] Vedi Spagna: Solidarietà con i lavoratori della metropolitana di Madrid! [59] ed il messaggio Piena solidarietà con gli scioperanti della metropolitana di Madrid [60].
[2] Vedi Italia: la maturazione della lotta di classe [61].
[3] Vedi gli articoli rispettivi su queste lotte sul nostro sito www.internationalism.org [62].
La situazione politica attuale, che dura da qualche tempo in Italia, ha qualcosa di paradossale. Da una parte infatti abbiamo un governo che sembra essere tra i più odiati di tutta la storia repubblicana, che va avanti menando mazzate a più non posso contro lavoratori, immigrati e povera gente ed esibendo al tempo stesso il disprezzo più elementare per un senso di giustizia e di equità sociale, intascando tutto quello che si può razziare sul piano economico e garantendosi tutte le impunità attraverso la creazione di leggi ad hoc. Dall’altra abbiamo invece un’opposizione di centro-sinistra che, di fronte ad un avversario così smaccatamente cialtrone e colto più volte con le mani nel sacco, piuttosto che passare all’offensiva per cacciare via i mariuoli e gli affamatori, attende, cincischia, si divide, si fa auto-concorrenza, insomma le imbrocca tutte per non vincere. Anche se può sembrare inutile riportare in questo articolo gli elementi che confermano questa nostra osservazione, pensiamo che sia comunque importante farlo per capire fino a che punto è stato superato, da una parte come dall’altra, abbondantemente il segno.
Le porcate della destra …
Non c’è giorno che passi senza una dichiarazione di politici, soprattutto della maggioranza parlamentare, o di un episodio riportato da giornali che accresca l’assurdità della situazione politica italiana. Qualche settimana fa la deputata Angela Napoli, del gruppo di Fini (Fli), dichiarava che molte deputate si erano concesse in cambio di cariche pubbliche e, dopo essere stata zittita da tutti i partiti - compreso il suo - rincarava la dose un altro deputato della maggioranza (Pdl), Giorgio Stracquadanio, che dichiarava: “È assolutamente legittimo che per fare carriera ognuno di noi utilizzi quel che ha, l’intelligenza o la bellezza che siano”. Da ricordare che Stracquadanio è consigliere politico del ministro della Pubblica Istruzione Mariastella Gelmini!! Certo è che chi ragiona così può consigliare qualsiasi riforma scolastica!
Il 22 settembre la Camera nega la richiesta di autorizzazione per l’uso delle intercettazioni contro Nicola Cosentino, ex sottosegretario all’Economia e attuale coordinatore campano del Pdl, indagato per concorso esterno in associazione di tipo mafioso. Che il parlamento vieti l’uso di intercettazioni contro un indagato per associazione mafiosa non fa altro che confermare l’idea che si ha in Italia e forse in tutto il mondo della classe politica nostrana! Che la classe politica italiana, inoltre, avesse e abbia a che fare con associazioni mafiose non è un mistero per nessuno da decenni. La novità, con l’arrivo di Berlusconi, è che questo stato di cose viene quasi pubblicamente dichiarato e difeso senza il minimo pudore, come l’utilizzo del proprio corpo per entrare nei palazzi del potere.
Berlusconi - e molti della sua corte - dedicano la maggior parte del tempo non per portare l’economia italiana a standard europei, come richiesto dalla borghesia industriale[1], ma per modificare le leggi in modo da evitare i processi, diluire i procedimenti, condonare le pene, in breve per salvare la propria pelle dopo 30 anni e più di misfatti. Come confermato dall’ennesima storia di manomissione del bene pubblico con la scellerata storia della P3 che doveva servire tra l’altro, con l’avvicendamento di alcuni giudici costituzionali, ad influire sull’esito del lodo Alfano[2]. Fare l’elenco dei processi penali di Berlusconi è come studiare da avvocato, si riesce ad averne un’immagine leggendo qualche articolo di Marco Travaglio, ma risulta interessante vedere che non è solo lui ad avere a che fare con la legge, perché molti membri del suo partito e del Governo sono frequentatori assidui di avvocati e tribunali. E intorno ai parlamentari brandiscono coltello e forchetta gruppi di palazzinari e appaltatori pronti a spartirsi il bottino della ricostruzione, degli appalti, degli interventi straordinari, ecc...
Ci sono sempre stati scandali tra i politici, la corruzione non è di oggi e neanche le cosche mafiose sono una novità tra i banchi parlamentari. Questo è vero. Il parlamento e i governi sono, nel loro insieme, espressione della borghesia e quindi la corruzione, gli scandali sono nella norma. Ciò che è cambiato è la quantità e la qualità. Finora le abitudini sessuali dei politici restavano private, non venivano usate come arma di ricatto da sbandierare pubblicamente, non ci si vantava di certe amicizie come quelle mafiose, c’era un certo pudore anche perché non si doveva mostrare al popolo la sostanza di cui erano fatti i “loro rappresentanti” nelle istituzioni.
… e quelle della sinistra
Per quanto riguarda l’area del centro-sinistra, questa viene da tempo un po’ derisa e un po’ tempestata di critiche per la sua assoluta inerzia, per il suo andamento da bradipo (senza voler offendere questa cara creatura sudamericana). Il Partito Democratico, pur avendo molti parlamentari, è come se non esistesse. Non fa una vera opposizione, è ingovernabile a causa delle divisioni interne e non ha la capacità di coagulare attorno a sé tutta l’area che si oppone a Berlusconi. Anzi, di fronte alla possibilità di agguantare finalmente l’avversario politico, pare farlo apposta a disgregarsi ulteriormente. Prima l’uscita di Rutelli che, da vice premier del secondo governo Prodi fino al maggio del 2008, se ne esce dal PD per andare a dialogare con l’ex fascista Fini, quello che finora ha sostenuto anni e anni di malapolitica berlusconiana e che, dalla sala di regia della Questura di Genova, ha seguito (diretto?) il furioso pestaggio dei dimostranti contro il G8 del 2001. E ancora più di recente la sortita di Veltroni che, un po’ seccato di essere stato messo da parte, ha cominciato a rimettere tutto in discussione nel partito, la strategia, la politica, tanto da far gridare al sabotaggio. Certo è che è veramente deprimente leggere le parole d’ordine che lancia questo partito, anche nella versione del presunto “cattivo” Bersani il quale, di fronte a tanto provocatorio squallore, sa dire solo … “rimbocchiamoci le maniche”! Ma per fare che! I disoccupati, i cassaintegrati, quelli che stanno perennemente sotto ricatto di perderlo un lavoro, che maniche si devono rimboccare, per fare che? E’ questa ignavia, questa indolenza, questa vacuità di pensiero che è tutto il programma della sinistra e che riempie la scena di tutti i giorni. Tolto il PD, resta poi l’IDV di Di Pietro che, da ex poliziotto ed ex magistrato, si è convertito ad un ruolo di difensore della legalità, cercando di nascondere il fatto basilare che la legalità è quella dei padroni e che dunque, come questo governo mostra chiaramente, viene mutata tutte le volte che si rende necessario farlo per difendere gli interessi dei potenti.
Ma come è possibile una situazione del genere?
Se siamo arrivati a tanto è perché questa società non ha più futuro, perché non c’è più una prospettiva che possa perseguire. La crisi economica che si è installata ormai in maniera permanente a livello internazionale è una crisi irrisolvibile. Per cui la mancanza di dinamismo, lo stallo, la decomposizione in cui versa la società non è “colpa” di questo o quel personaggio politico, di questo o quel partito, ma è viceversa l’espressione dei tempi che viviamo. Il fatto che non ci sia spazio per uno sviluppo dell’economia secondo i meccanismi classici di mercato apre tutte le vie alternative della speculazione, del malaffare, del parassitismo per far fruttare comunque i capitali che girano per il mondo. Ugualmente sul piano politico i partiti, privi di ideali o di prospettive a lungo termine a cui far riferimento, cercano sempre più nel populismo la base su cui raccogliere adesioni, scavando spesso consapevolmente negli istinti più triviali della popolazione. Questo fenomeno non è soltanto di stampo italiano, perché al nostro Berlusconi fa da sponda Sarkozy in Francia, Putin in Russia e, in forme diverse, molti altri.
In questa fase di declino la società sembra perdere ogni principio etico e morale. La prevaricazione, l’abuso, il disprezzo delle regole, l’assenza di senso civico prendono il sopravento e questo – paradossalmente - particolarmente da parte della classe che domina la società.
Anche lo scontro fra le varie componenti borghesi non è più per la difesa di una strategia di sviluppo economico rispetto ad un altra[3], quanto piuttosto per imporre gli interessi economici della propria “banda” o quanto meno difenderla dallo strapotere degli altri. Ed allora la battaglia si fa a colpi di scandali, di rivelazioni scottanti sull’avversario, scavando con ogni mezzo nella vita privata degli altri per trovare quello che può screditarli agli occhi dell’opinione pubblica. Ed in questo sono maestri tutti, dall’ala democratica e legalista che ha messo allo scoperto le escort, i legami con la mafia e gli imbrogli finanziari di Berlusconi, a quella più apertamente prevaricatrice e opportunista che ha messo sotto accusa Fini per la casa a Montecarlo[4].
Per quanto riguarda le sinistre in particolare, anch’esse devono ricorrere in questo periodo a degli argomenti forti per poter avere un certo seguito, come i vari leader che l’hanno spuntata uno dopo l’altro in sud America, da Chavez a Evo Morales e Lula da Silva, anche se i loro argomenti contro la globalizzazione e in difesa della loro patria si trasforma presto in qualcosa di diverso, come le brame imperialiste che ha tirato fuori il Venezuela di Chavez. Per cui a breve anche queste “speranze” che alcuni hanno voluto riporre nella salita al potere delle sinistre in sud America non sembra portare lontano. Ma se mancano anche questi argomenti, come in Italia, …
Il governo Berlusconi non ha fatto altro che mostrare pubblicamente il degrado della classe politica, ma se Berlusconi è entrato in scena come rappresentante della borghesia è perché questa non è stata capace di produrre altro. Quale che sia l’esito del governo attuale, per i proletari non ne verrà nulla di buono perché dietro le chiacchiere di un Fini, di un Bersani o di un Di Pietro (e loro compari di sinistra come Vendola o Ferrero), non c’è altro se non continuare a farsi ammazzare di fatica perché non sanno offrire altro che il mantenimento di questa società, laddove l’unica salvezza per l’umanità intera è il rivolgimento completo di questo regime e l’instaurazione di una società nuova senza sfruttamento e senza classi.
CCI, 5 ottobre 2010
[1] Emma Marcegaglia all’attacco: “Non è vero che siamo andati meglio degli altri”, www.affaritaliani.it/economia/marcegaglia_berlusconi_pil_meglio24092010.... [64].
[2] Tutto sulla P3: piani, favori, appalti e giudici corrotti: www.blogo.it/post/8128/tutto-sulla-p3-piani-favori-appalti-e-giudici-cor... [65].
[3] Cosa del resto non facilmente realizzabile visto che le uniche misure reali di fronte alla crisi economica mondiale possono essere solo quelle di attacco ulteriore alle condizioni di vita dei lavoratori, cosa che appunto stanno facendo e su cui tutti sono concordi.
Dall’inizio del 2010 ad oggi ci sono state molte novità. Il governo e il padronato da una parte hanno sferrato attacchi furibondi contro la classe operaia, dimostrando così di essere perfettamente consapevoli del fatto che la crisi economica non è affatto finita e che il peggio deve ancora venire. Ma anche i lavoratori, da parte loro, non sono rimasti a guardare è hanno espresso una resistenza niente affatto passiva, sviluppando uno strumento che va acquisendo sempre più peso e importanza per la classe operaia: la solidarietà tra settori diversi.
Quali sono i fatti? Vediamo.
Innanzitutto i licenziamenti striscianti o nascosti che si sono ripetuti a migliaia e migliaia su tutto il territorio nazionale, a partire da quelli prodotti dal cosiddetto decreto Gelmini che ha fatto sì che i precari della scuola, insegnanti e personale ATA, a decine di migliaia quest’anno non lavoreranno, passando così da una situazione di precarietà lavorativa a quella di una precarietà sociale, senza stipendi e senza sussidi, se non una piccola e temporanea indennità di disoccupazione. Ma anche i tanti casi in cui aziende di dimensioni importanti, avendo al loro interno settori non più competitivi o comunque a rischio, vengono sottoposte a quello che ha preso il significativo nome di spezzatino, cioè lo smembramento in più aziende diverse tra cui una viene caricata di tutti i debiti e di tutti gli esuberi di manodopera, mentre le altre, alleggerite da questi problemi, vengono rilanciate sul mercato. E’ questo ad esempio il caso dell’Agile srl ex Eutelia dove, come viene giustamente denunciato dagli stessi lavoratori implicati, si è trovata la maniera di “Licenziare 9000 persone senza che nessuno se ne accorga!!! E’ iniziato il licenziamento dei primi 1200 lavoratori di Olivetti-Getronics-Bull-Eutelia-Noicom-Edisontel tutti confluiti in: AGILE s.r.l. ora Gruppo Omega Agile ex Eutelia (che) è stata consegnata a professionisti del FALLIMENTO. Agile ex Eutelia è stata svuotata di ogni bene mobile ed immobile. Agile ex Eutelia è stata condotta con maestria alla perdita di commesse e clienti. Il gruppo Omega continua la sua opera di killer di aziende in crisi, l’ultima è Phonemedia 6600 dipendenti che subirà a breve la stessa sorte. Siamo una realtà di quasi 10.000 dipendenti e considerando che ognuno di noi ha una famiglia, le persone coinvolte sono circa 40.000 eppure nessuno parla di noi.”[1]
In secondo luogo, naturalmente, condizioni di vera schiavitù per quelli che restano al lavoro, con un tentativo di generalizzare il più possibile la precarietà, sia dal punto di vista della sicurezza di potersi garantire un salario nel tempo, sia di quello delle condizioni di lavoro. Il cosiddetto piano Marchionne, imposto con una insolenza incredibile non solo dalla FIAT, ma dall’insieme dei partiti e dei sindacati alla classe operaia di quello stabilimento attraverso tutta una campagna di obiettivo ricatto, è ben più di un contratto locale e limitato ad un settore, ma esprime ormai chiaramente lo spartito su cui si muoverà d’ora in poi tutta l’imprenditoria nostrana. La deregulation a livello di contratti collettivi di lavoro, la libertà del padrone di poter imporre gli straordinari quando gli servono e di vietare qualunque reazione degli operai, la riduzione del salario, tutto ciò è il portato della politica padronale degli ultimi mesi.
Ma se gli attacchi sono arrivati a questo punto la reazione non si è fatta attendere. Le lotte di questi ultimi tempi riguardano molti settori e aziende a rischio. Così i precari della scuola, di fronte ad un vero e proprio licenziamento di massa che non ha dato luogo a nessuna protesta sindacale, a nessun intervento di quelle forze politiche che si dicono progressiste e di sinistra, si sono organizzati da soli, promuovendo la loro lotta con i mezzi che potevano utilizzare visto che a loro, senza posto di lavoro, non è concesso nemmeno scioperare. Sono state le manifestazioni di piazza che questi lavoratori hanno scelto per portare avanti la lotta: presidii davanti agli uffici scolastici provinciali o davanti al ministero, occupazione di questi uffici, manifestazioni di strada. Collegati fra loro tramite internet e le assemblee cittadine, i precari hanno cercato innanzitutto di far conoscere la loro situazione e le loro rivendicazioni, con manifestazioni anche clamorose, come lo sciopero della fame, effettuato in diverse città, o il blocco dello stretto di Messina[2], che ha visto la partecipazione di migliaia di lavoratori sulle due sponde dello stretto. Accanto a questo, i precari hanno cercato la solidarietà degli altri lavoratori della scuola[3], e quella dei genitori degli alunni, chiamati a manifestare con i precari in difesa di una scuola dove i loro figli possano vivere in condizioni più decenti e non stipati in 35 in aule che non li possono contenere.
Di questi giorni è ancora la lotta degli operai della Fincantieri, azienda in crisi che minaccia centinaia di licenziamenti e la chiusura di centri di produzione. Gli operai non ci stanno e hanno dato luogo a diverse manifestazioni, sia locali che a Roma, dove sono andati a rivendicare l’intervento del governo che, con le sue commesse, potrebbe evitare questi licenziamenti. Nelle loro manifestazioni gli operai si sono presi anche le manganellate della polizia, alla faccia della democrazia![4]
La lista non si ferma qui, molti altri sono gli episodi di lotta sparpagliati nel resto d’Italia. Ma la lotta non si manifesta solo attraverso scioperi e manifestazioni, ma anche attraverso una serie di altri fenomeni della più alta importanza, il cui elemento comune è la ricerca della solidarietà di classe come risultato finale di una riflessione su come lottare. La questione di come rendere più efficace la lotta è al centro di tutte le manifestazioni di questi mesi, in Italia come altrove. Nel recente passato la strada scelta è stata spesso quella della ricerca di manifestazioni clamorose, spettacolari, che i mezzi di informazione non potessero nascondere. Dalla presa in ostaggio dei dirigenti (copiata dai lavoratori francesi), all’occupazione di tetti e di carroponte (come all’INSE di Milano), agli scioperi della fame, all’occupazione del carcere dell’Asinara, ecc., i lavoratori le hanno inventate tutte per rompere il black-out con cui la borghesia cerca di nascondere le manifestazioni della lotta della classe. E che questa questione sia al centro della riflessione dei lavoratori è testimoniato dal dibattito che c’è stato a Milano tra una delegazione di operai della Tekel (Turchia) in lotta da anni contro i licenziamenti[5], e una di operai dell’INSE: qui i lavoratori si sono esplicitamente posti la questione se è più efficace accentrare l’attenzione sulla propria fabbrica anche con manifestazioni spettacolari (INSE) o se lo è invece di più andare a cercare gli altri lavoratori con manifestazioni di piazza (Tekel).
Ma questa tendenza alla solidarietà si manifesta anche in maniera esplicita in altri episodi. E’ indubbio che intorno a lotte che hanno segnato delle tappe in Italia c’è stata un’attenzione e una solidarietà, per lo meno morale, da parte di tantissimi proletari, come nel già citato caso dell’INNSE di Milano, quello dell’Agile ex Eutelia, della FIAT di Pomigliano, ecc. ecc. E questa solidarietà per la prima volta comincia, in Italia ma non solo, a superare le frontiere, con le due lettere di solidarietà che gli operai di Pomigliano hanno ricevuto da quelli della Fiat di Tichy in Polonia[6] o il sentimento di solidarietà che ha attraversato i proletari d’Italia all’ascolto delle notizie degli scioperi in Grecia, per esempio.
Ma c’è di più. Ormai da almeno un anno c’è una ricerca attiva della solidarietà attraverso la creazione di coordinamenti cittadini – tra cui i più interessanti sono a Milano, Roma e Torino - dei vari comitati di operai attivi nei vari posti di lavoro per cercare di dare una risposta unitaria agli attacchi che continuano a piovere da tutte le parti. Questi coordinamenti, che raccolgono un’impressionante lista di aziende e luoghi di lavoro diversi, sono assolutamente trasversali e raccolgono qualunque tipo di settore. Accanto a questi esiste poi il coordinamento precari della scuola, un coordinamento dei lavoratori della cultura ed una serie di altri coordinamenti più o meno di settore. Questi vari coordinamenti hanno avuto vari momenti di unificazione a livello nazionale. In particolare un’assemblea a giugno scorso e una prossima si terrà il 9 ottobre a Milano. La nascita di questi “coordinamenti di lavoratori in lotta” parte in generale da una forte insoddisfazione nei confronti dei sindacati:
“Dopo la finanziaria, la quasi certa approvazione del “collegato lavoro” e i diktat sull’austerità promossi dalla comunità europea, i padroni non sono soddisfatti e hanno concretamente trasformato unilateralmente in pratica, sostenuti da cisl-uil-ugl e dall’inerzia CGIL, tutte le loro richieste di flessibilità, precarietà, e produttività (…) Il sindacalismo di base, pur contribuendo in modo significativo nelle lotte di resistenza, allo stato attuale dimostra ancora i suoi limiti e una insufficiente capacità di attrazione tra le classi lavoratrici. La FIOM invece, l’unico sindacato tra i confederali, incatenata da decine di contraddizioni interne, fortemente limitata da una CGIL che non vuole rinnegare la via della concertazione coi padroni, oppone un corretta resistenza di principio che però non si traduce immediatamente in una forte mobilitazione almeno tra i metalmeccanici”.[7]
Ed anche se si considera il sindacato uno strumento ancora valido in generale, c’è una fortissima spinta a prendere nelle proprie mani l’iniziativa della lotta e a unificarla il più possibile:
“Quanto sta succedendo ci pone come lavoratrici e lavoratori di fronte a delle scelte da condividere in modo trasversale a prescindere dalla sigle sindacali di appartenenza e non (…).Seguiamo le proposte e le dinamiche di costruzione di mobilitazioni contro la precarietà e la disoccupazione a livello internazionale”.[8]”
“E’ necessario ricostruire, il più velocemente possibile, un´unità sempre maggiore della classe lavoratrice a prescindere dal comparto lavorativo, dall'appartenenza sindacale, dalla nazionalità, ecc.”[9]
Questa spinta all’unità sulla base degli interessi di classe è quello che ha orientato giustamente l’Assemblea autoconvocata del 18 giugno a Milano a partecipare, “con uno spezzone unitario ad entrambe le manifestazioni, della CUB e della CGIL, per coinvolgere nel percorso di unità quanti più lavoratori possibile”,[10] saltando a piè pari uno dei principali strumenti di divisione che offre da sempre il sindacato, quello di chiamare ognuno i propri aderenti a delle iniziative separate.
Un aspetto importante è la comprensione che la crisi è una crisi generale che tocca tutti, che l’attacco è unico e che la reazione deve essere altrettanto unica, anche se su questo piano occorre andare ancora avanti in quanto sussiste una debolezza nella comprensione della sua origine. Infatti, nelle varie prese di posizione, la crisi viene considerata spesso come il prodotto della cattiva gestione dei padroni e non come l’espressione del fallimento della società capitalista. Questa debolezza, che la classe saprà superare man mano che si confronterà con la dimensione mondiale di questa crisi e con l’impossibilità di poterla superare, è poi a sua volta all’origine di un’altra debolezza che consiste nel rivendicare la difesa di un certo settore produttivo o di una certa fabbrica (vedi INNSE) perché produttivi e moderni! Il che può essere sfruttato dai padroni per giustificare la chiusura di quei settori poco moderni o poco redditizi (vedi Termini Imerese)!
Ma quali che siano le debolezze che possono essere oggi presenti nel movimento della nostra classe, l’aspetto più importante, più dinamizzante, più potente è questa determinazione a non rimanere più isolati che viene con estrema chiarezza formulato in questo appello per la prossima assemblea nazionale:
“In questa situazione di profonda sconfitta che stiamo attraversando, in cui anche le singole vertenze contro le chiusure e i licenziamenti stanno mostrando tutti i limiti dell’isolamento e della mancanza di prospettiva, tutti noi lavoratori dobbiamo ritrovare la capacità di riunirci, di riorganizzarci in maniera autonoma e indipendente, per ricostruire la nostra capacità di organizzazione e resistenza e mettere efficacemente in discussione fino a rigettare i piani di ristrutturazione dei padroni. Dopo la riunione del febbraio scorso a Roma, nella quale lanciammo la proposta di cominciare a lavorare per la costruzione di un coordinamento stabile di lotta nazionale contro la crisi, nel quale ricomporre e organizzare le lotte dei lavoratori di tutti i comparti, crediamo sia giunto il momento di riconvocarci e rilanciare la piattaforma comune di tutti i lavoratori in lotta, organizzare la partecipazione comune alla manifestazione del 16 ottobre a Roma per renderla una giornata di riorganizzazione e ricompattamento di tutta l’opposizione di classe nel nostro paese, per promuovere una mobilitazione dal basso, articolata e permanente fino all’autorganizzazione dello sciopero generale come momento finale e decisivo di una grande mobilitazione di massa dei lavoratori contro governo e padroni.
SABATO 9 OTTOBRE, ORE 11.00 ALL’ARCI BELLEZZA
Milano, via Giovanni Bellezza 16, nell’ambito degli stati generali della precarietà.
Per aderire all’appello: [email protected] [67] – 3494906191 – 3495107754
Primi firmatari: Coordinamento Lavoratori Uniti Contro la Crisi, Milano; Comitato di Lotta per il Diritto al Lavoro, Livorno; Assemblea Lavoratori Autoconvocati, Torino; Coordinamento Lavoratori Autoconvocati, Roma”.
E’ per questo che invitiamo tutti i lavoratori, tutti i compagni, a partecipare a questa assemblea e a sostenere lo sforzo che la classe operaia, in Italia come nel resto del mondo, sta cercando di portare avanti per costruire la sua unità e la sua coscienza, le due armi indispensabili per affrontare l’inevitabile scontro di classe.
30/09/2010 CCI
[2] Vedi gli articoli riportati sul web ai seguenti indirizzi: www.orizzontescuola.it/node/11452 [69].
[5] Il resoconto di questo dibattito si trova sul forum Napolioltre, all’indirizzo https://napolioltre.forumfree.it/?t=49536058 [72] mentre notizie sulla lotta alla Tekel si trovano sullo stesso forum e sul n°166 di Rivoluzione Internazionale.
[6] https://www.dirittidistorti.it/articoli/12-...pomigliano.html [73], https://libcom.org/article/letter-fiat-workers-tychy [74] www.infoaut.org/articolo/lettera-dalla-fiat-di-tychy-lavoriamo-con-lentezza [75], https://libcom.org/news/strikes-fiat-letter...poland-15072010 [76]
[7] "Appello dal basso per una assemblea nazionale dei lavoratori contro la crisi".
[10] Risoluzione finale dopo l'assemblea del 18 giugno: "22.06.10 - Milano - Assemblea autoconvocata dei lavoratori in lotta"
Pubblichiamo la presa di posizione della CCI in Spagna sullo sciopero alla Metropolitana di Madrid alla quale aggiungiamo una dichiarazione di solidarietà di un gruppo di impiegati postali della capitale spagnola.
Alcune righe per esprimere la nostra più calorosa e fraterna solidarietà ai lavoratori della metropolitana di Madrid.
In primo luogo perché danno l’esempio che la lotta ampia e determinata è la sola risposta che hanno in mano gli sfruttati contro gli attacchi brutali che gli sfruttatori vogliono imporci. In questo caso contro una riduzione salariale del 5%. Un colpo d’ascia anti-operaio che è anche illegale dal punto di vista della stessa legalità borghese, perché si tratta né più né meno che di una violazione unilaterale della convenzione collettiva firmata precedentemente. E questi signori si permettono ancora di trattare da “delinquenti” gli operai della metropolitana!
Solidarietà anche contro la campagna di diffamazione ed il tentativo di “linciaggio morale” di questi compagni. Una campagna lanciata come si deve dai politici e dai media della destra più rancida, che ha presentato gli scioperanti come pedina di una campagna del PSOE contro il capofila del Partito Popolare a Madrid, Esperanza Aguirre, e che ha preteso, con la rabbia ed il fiele di cui questa destra è capace: “sanzioni!”, “licenziamenti”![1]. Ma soprattutto non bisogna dimenticare la vigorosa collaborazione della sinistra in questa campagna di isolamento e di denigrazione dei lavoratori. Aguirre e Rajoy hanno reclamato fermezza e frustate contro questi “vandali”, ma il ministro dell’Industria (del PSOE) ha messo a disposizione della regione una mobilitazione massiccia di altri mezzi di trasporto per spezzare lo sciopero, ed il ministro dell’Interno socialista ha messo a disposizione di Aguirre fino a 4.500 poliziotti supplementari!
I media “di sinistra”, con meno astio ma più ipocrisia, hanno invece rafforzato l’idea di “uno sciopero con presa di ostaggi” come intitolava El País il 30 giugno. Questi lacchè del sistema capitalista, cosiddetti “rossi” e che osano portare ancora nella loro sigla la “O” di operaio, sanno molto bene con chi devono schierarsi tra Esperanza Aguirre e le lotte operaie contro le esigenze degli sfruttatori.
Ciò che li ha più indignati non sono stati i “disagi” causati agli utenti. Basta vedere in quali condizioni devono spostarsi “gli utenti” nei giorni “normali” ed il caos che i “cittadini” devono sopportare a causa della loro negligenza crescente rispetto alle infrastrutture, in particolare i trasporti pubblici. Malgrado ciò che dicono, non sono neanche particolarmente irritati per le perdite causate alle imprese dovute ai ritardi e alle assenze degli impiegati. Infatti bisogna avere una notevole faccia tosta per accusare gli scioperanti della metropolitana di oltraggiare il “diritto al lavoro”, mentre il capitale spagnolo ha privato di questo diritto non meno di cinque milioni di proletari!
No. In verità ciò che li infastidisce e li preoccupa in questa lotta dei lavoratori della metropolitana di Madrid, è proprio il fatto che la lotta sia esplosa; che i lavoratori non abbiano accettato con rassegnazione i sacrifici e gli attacchi che piovono dappertutto e su tutti; che per respingere le ingiunzioni dell’azienda, gli operai non si sono accontentati di un piagnucolio sterile come quello dello sciopero dei funzionari dell’8 giugno[2], ma hanno dato l’esempio dell’unità e della determinazione. Anche El País lo riconosce nell’editoriale su citato: “Il comitato di impresa afferma che esisteva una convenzione in vigore fino al 2012 che la decisione della Comunità di Madrid (Regione di Madrid, ndr) rompe unilateralmente. Ma anche i funzionari avevano questa convenzione (e quest’ultimi si sono accontentati della pantomima dell’8 giugno”, sembra aggiungere in modo subliminale il gesuitico El País). È possibile che sia mancata una spiegazione più pedagogica sulla gravità della situazione che obbliga a fare questi sacrifici in cambio della sicurezza dell’impiego (… e poi accusano gli scioperanti di ricatto!), ed una maggiore chiarezza per spiegare come far quadrare la riduzione di stipendio con la garanzia ulteriore del mantenimento del potere di acquisto …”.
In quanto espressione di questa risposta di classe dei lavoratori, la lotta dei compagni di lotta della metropolitana di Madrid è piena di insegnamenti per tutti gli operai.
Le assemblee: cuore e cervello della lotta operaia
Una delle caratteristiche della lotta degli operai della metropolitana madrilena è stata quella di basarsi su assemblee veramente di massa. Già il 29 giugno, quando è stato deciso di non accettare di fare il servizio minimo garantito, molte persone non sono potute entrare nella sala dell’assemblea perché strapiena, ma il 30, mentre la campagna di denigrazione raggiungeva il culmine, c’erano ancora più persone del giorno precedente. Perché? Sono gli stessi lavoratori della metropolitana a rispondere: “bisognava dimostrare che siamo uniti come le dita di una mano”.
Grazie a queste assemblee si è cercato di evitare le molteplici astuzie abituali dei sindacati. Ad esempio, la dispersione e la confusione negli appelli allo sciopero. Ed infatti l’assemblea del 30 giugno ha deciso di applicare il servizio minimo garantito l’1 ed il 2 luglio per evitare di restare incastrati tra i sindacati favorevoli alla convocazione di uno sciopero totale e gli altri. L’assemblea ha deciso anche di mettere da parte il radicalismo verbale del vecchio portavoce del Comitato le cui dichiarazioni del tipo “andiamo a fare esplodere Madrid” erano più che altro utili ai nemici della lotta nella loro campagna di diffamazione e di isolamento dei lavoratori della metropolitana.
Ma le assemblee non sono solo servite a moderare le esaltazioni inutili o a evitare di cadere nelle provocazioni. Sono servite soprattutto a dare coraggio e determinazione a tutti i compagni di lotta ed a permettere quindi di misurare lo stato reale della combattività di tutto il personale. Per questo, invece del voto segreto ed individuale dei referendum sindacali, lo sciopero della metropolitana è stato deciso ed organizzato votando per alzata di mano, un voto dove la determinazione degli altri compagni ha incoraggiato gli incerti. Per quanto la stampa abbia agitato lo spettro della “pressione” su alcuni operai da parte dei picchetti di scioperanti, si sa bene che quello che ha incoraggiato gli operai ad unirsi allo sciopero è stata una decisione cosciente e volontaria, frutto di una discussione aperta e schietta dove si è potuto esporre i propri timori ma anche le ragioni per lottare. Su un sito aperto per esprimere la sua solidarietà con questo sciopero (usuariossolidarios.wordpress.com [79]) una giovane lavoratrice della metropolitana dice francamente che era andata all’assemblea del 29 giugno “per non avere più paura di lottare”.
La trappola del “servizio minimo garantito”
Nel caso di questo sciopero il decreto sul servizio minimo garantito è stato utilizzato come base di lancio per bombardare gli scioperanti, cercando di intimidirli e far loro abbandonare la lotta.
Per quanto la signora Esperanza Aguirre, nel suo palazzo presidenziale, abbia cercato di presentarsi come una donzella indifesa nelle le mani dei questi energumeni di scioperanti, la verità è che la legge permette alle autorità (cioè al padronato per gli impiegati pubblici) di fissare i termini per il servizio minimo garantito. Sapendo per esperienza di avere questo margine di manovra legale e, soprattutto, sentendosi sostenuta dal cuore mediatico delle reti TV, la presidentessa della Regione di Madrid ha macchinato una vera e propria provocazione: imporre un servizio minimo garantito sulla base del 50% del personale.
Con questa trappola ha cercato di mettere i dipendenti della metropolitana con le spalle al muro. Se accettavano il servizio minimo garantito veniva intaccata la loro volontà di non piegarsi ai diktat del padronato. Se non lo accettavano si assumevano la responsabilità di tutte le avversità che avrebbero dovuto sopportare i loro fratelli di classe, gli altri proletari, che costituiscono il grosso degli utenti della metropolitana.... In più, questa legge del servizio minimo garantito, che a detta dei difensori dell’ordine borghese “non esiste” benché “bisognerebbe rafforzarla”, offre la possibilità al governo, che è anche qui in ultima istanza il padrone, di imporre delle sanzioni se questo servizio minimo non viene garantito, il che gli dà un’ulteriore forza nel negoziato. Due giorni dopo che i lavoratori della metropolitana avevano ritirato il loro rifiuto al servizio minimo, la direzione della compagnia ha aumentato il numero dei lavoratori colpiti da sanzioni da 900 a 2800.
L’unico modo per uscire da una tale trappola è rompere la trappola grazie alla solidarietà di classe.
La solidarietà di classe è l’humus su cui cresce la combattività e la forza dei lavoratori
La forza delle lotte operaie non si misura alla loro capacità di provocare delle perdite nelle imprese capitaliste. Per fare questo, ed è quello che si può constatare anche nel caso della metropolitana di Madrid, bastano e avanzano gli stessi dirigenti delle imprese.
Questa forza non si misura neanche nella capacità di paralizzare una città o un settore. Anche qui è difficile rivaleggiare con lo Stato borghese stesso.
La forza delle lotte operaie nasce soprattutto dal fatto che esse enunciano, più o meno esplicitamente, un principio universale valido per tutti gli sfruttati: i bisogni umani non devono essere sacrificati sull’altare delle leggi del profitto e della concorrenza proprie del capitalismo.
Un scontro di questo o quel settore di lavoratori col proprio padrone per quanto possa essere radicale, se la borghesia riesce a presentarlo come qualche cosa di specifico o particolare riuscirà a sconfiggere questa lotta dando nel contempo un colpo al morale a tutta la classe operaia. Se, al contrario, i lavoratori arrivano a conquistare la solidarietà degli altri operai, se arrivano a convincerli del fatto che le loro rivendicazioni non sono una minaccia per gli altri sfruttati, ma l’espressione degli stessi interessi di classe, se fanno delle loro assemblee ed i loro assembramenti degli strumenti utili che altri lavoratori possono raggiungere, allora sì, si rafforzano loro e con loro l’insieme della classe operaia.
La cosa più importante per la lotta degli operai della metropolitana madrilena non è mandare i picchetti ad impedire l’uscita di questa o quella quantità di treni (anche se evidentemente è necessario che l’assemblea sappia se le sue decisioni sono state realizzate) ma, oltre a questo, spiegare ai loro compagni le ragioni della loro lotta, cominciando da quelli dell’EMT (Impresa municipale dei trasporti) o di Télémadrid (TV regionale) ed gli impiegati. Per il futuro della lotta non è essenziale realizzare questa o quella percentuale di “servizio minimo” (anche se la maggioranza dei lavoratori deve essere liberata delle costrizioni del lavoro in modo che le assemblee, i picchetti e gli assembramenti possano tenersi). La cosa più importante è guadagnare la fiducia e la solidarietà degli altri settori, andare nei quartieri per spiegare perché le rivendicazioni degli operai della metropolitana non sono né un privilegio né una minaccia per gli altri lavoratori, ma una risposta agli attacchi dovuti alla crisi.
Questi attacchi andranno a toccare tutti i lavoratori, di tutti i paesi, di tutte le condizioni, di tutte le categorie.... Se la borghesia riuscisse a far scontrare tra di loro i lavoratori, o se non altro a farli lottare isolati, con tutto il radicalismo che si vorrà ma ciascuno nel proprio angolo, finirebbe per imporre le esigenze del suo sistema di sfruttamento. Ma se, al contrario, le lotte operaie cominciano a far fermentare l’unità e l’aspetto di massa delle lotte contro queste esigenze criminali, saremo in grado di impedire l’applicazione di nuovi sacrifici ancora più cruenti sulle condizioni di vita dei lavoratori. Questo sarebbe un passo molto importante per lo sviluppo dell’alternativa proletaria di fronte alla miseria ed alla barbarie capitaliste.
Accion Proletaria, 12 luglio 2010
[1] Il governo spagnolo è alle mani del Partito socialista (PSOE), mentre la regione di Madrid (di cui è presidente la su detta Aguirre) e la città di Madrid, da cui dipende la gestione dalla metropolitana, sono tra quelle della destra (Partito popolare il cui dirigente nazionale è Rajoy). E per questo che questi due partiti hanno giocato al rimbalzo politichese dicendosene di tutti i colori ma mettendosi ben d’accordo sulle spalle dei lavoratori della metropolitana [NdT].
Naturalmente noi salutiamo calorosamente questa lettera espressione vivente di ciò che è la solidarietà operaia!
Buongiorno compagni!
Vi scriviamo questo testo dal Distretto 43 delle Poste di Madrid. In quanto fattorini stiamo tutto il giorno per strada; in quanto lavoratori, come chiunque di noi, abitiamo a chilometri di distanza dal posto di lavoro (del resto sono i padroni che hanno imposto le delocalizzazioni, obbligando i lavoratori a fare spostamenti sempre più lunghi e spossanti); siamo noi che soffriamo e paghiamo, in quanto settore pubblico, il banchetto al quale il governo ha invitato le banche; stiamo per essere privatizzati e siamo lavoratori con contratti precari e discontinui e, come voi lavoratori della metropolitana, non siamo dei funzionari. Vogliamo mandarvi il nostro sostegno più determinato. Vogliamo che sappiate che anche noi siamo stati costretti ad andare al lavoro in autobus facendo tragitti più lunghi[1], ma lo abbiamo fatto con il sorriso sulle labbra per la semplice ragione che avete dimostrato che SI PUO’, che non c’è ragione di essere sempre delle vittime schiacciate da questo mondo, ci avete ridato un po’ della nostra dignità persa da tanto tempo.
Vogliamo che sappiate che noi, che tutti i giorni parliamo con centinaia di persone per gli spostamenti di lavoro, sappiamo perfettamente che l’immagine del vostro movimento non è quella che danno i media: ci sono delle persone scontente, ma ce ne sono anche molte altre che il vostro movimento ha riempito di speranza, ci sono dovunque delle discussioni negli autobus, nelle strade, nei bar. Non c’è affatto una sola e unica reazione di condanna unanime.
Siamo con voi perché ci date speranza. Nel nostro distretto, durante il lavoro sentiamo commenti del tipo: “Sono sempre gli stessi che pagano” ai quali altri rispondono “Questa è una lotta con le palle” e altri dicono: “Questa si che è una lotta, non i nostri scioperi di un giorno”. Ci state mostrando la via.
Stiamo imparando delle lezioni. Delle lezioni come ad esempio il fatto che quando gli scioperi si decidono per alzata di mano dai lavoratori non veniamo venduti in anticipo. Noi siamo molto stanchi dei nostri sindacati, stanchi e ancora stanchi delle migliaia di volte che ci hanno venduto.
Per questo finiamo la nostra lettera dicendovi che i nostri cuori battono più rapidamente da lunedì, che qui stiamo facendo fronte con voi difendendo la vostra lotta ovunque andiamo.
Non fatevi intimidire, sappiamo bene che Aguirre o Zapatero, la COPE o la Prisa[2] hanno degli interessi opposti ai nostri, si sa che hanno l’abitudine di attaccarci. E’ quello che vogliono, sanno che migliaia di lavoratori hanno lo sguardo su di voi, perché siete il FUTURO e non il futuro grigio che loro vogliono venderci.
Se avete bisogno di noi sappiate che noi ci siamo; nell’attesa continueremo a difendervi di fronte a tutti quelli che oseranno denigrarvi.
Postini e postine del Distretto 43
1 luglio 2010
[1] Forse si fa riferimento al fatto che durante lo sciopero il governo ha messo in opera un servizio di autobus alternativo per trasportare le persone in maniera tale da sfruttare il maggior disagio contro gli scioperanti della metropolitana.
[2] Il COPE è la radio di destra e Prisa è l’azienda di comunicazione di sinistra (El País,…).
Pensiamo che non è necessario aggiungere altro per spiegare perché pubblichiamo questo articolo scritto dalla nostra sezione in Francia a fine agosto.
Decisamente Sarkozy non ha finito di regolare i suoi conti con l’immigrazione. Dopo la “pulizia della Francia alla Kärcher[2]”, Francia che occorre “sbarazzare dalla gentaglia”, il presidente francese si è lanciato nell’attuazione di una politica repressiva più aggressiva nei confronti della comunità “rom”.
Un centinaio di campi di “nomadi” sono stati evacuati manu militari. Gli occupanti, privati dei loro caravan e delle loro roulotte, sono stati gettati in mezzo alla strada, trattati peggio del bestiame, con i fucili puntati alle spalle. Con più di un migliaio di “rom” espulsi dalla Francia da fine luglio, il ministro dell’interno Hortefeux spera di superare la cifra di 9.875 espulsioni realizzate nel 2009 verso la Bulgaria e la Romania di questi indesiderabili rom, di cui più di 8.000 sono stati già espulsi dal territorio da gennaio 2010. Tuttavia, anche all’interno dell’apparato politico francese, numerosi “pezzi grossi” di varie sponde hanno sottolineato la loro opposizione a questa politica che puzza tanto di xenofobia la più abietta, una politica di pogrom. Gli unici a salutare queste posizioni di Sarkozy sono stati Le Pen, il cui partito difende questo da trent’anni, ed i “sarkozisti” stretti come Estrosi e … Kouchner (fondatore di Medici senza Frontiere e attuale ministro degli Esteri francese). Infatti il capo della diplomazia francese, in risposta ad una seconda messa in guardia dell’ONU di cui ha stigmatizzato “le caricature” e “le amalgami”[3], ha dichiarato: “Mai il Presidente della repubblica ha stigmatizzato una minoranza in funzione della sua origine” (!).
Così Villepin che, come ministro dell’Interno e poi Primo ministro della presidenza Chirac, aveva attuato parecchie misure anti-immigrati, si è levato con vigore contro questa politica troppo grossolana parlando di “macchia sulla bandiera francese”. Bernard Debré, deputato UMP[4] di Parigi, si dice “colpito” e sottolinea “il rischio di slittamento verso la xenofobia ed il razzismo”.
Il PS (Partito Socialista), pur denunciando quest’operazione con Rocard (Segretario del PS) che dichiara che “non si era mai visto questo dopo i nazisti” ha criticato Sarkozy ma per impegnarlo a proseguire il suo sforzo. Infatti in un comunicato datato 18 agosto critica il progetto del governo di eliminare 3.500 posti di poliziotti nei tre prossimi anni, e dichiara: “Non c’è mai stata tanta distanza tra le parole e le azioni di un governo. Se il PS critica il governo, non è perché fa troppo sulla sicurezza, è, al contrario, perché non agisce realmente”. È vero che il PS, da Joxe, Cresson e lo stesso Rocard, ne sa qualcosa visto che è stato questo partito ad attuare le prime misure restrittive negli anni 80.
Eppure, nonostante queste critiche sparate da ogni parte anche all’estero, dal papa all’ONU passando per l’Unione europea, e nonostante l’opposizione crescente nella popolazione francese a questa nauseante politica discriminatoria, Sarkozy e il suo ministro dell’Immigrazione, “l’ex” socialista Éric Besson, ha annunciato il 24 agosto “un’accelerazione delle espulsioni di extracomunitari bulgari e rumeni” la cui partenza, ipocritamente presentata come “volontaria”, significa “un ritorno” in paesi in cui questa frangia della popolazione è spesso perseguitata. E per dissuadere questi “approfittatori” e “delinquenti” dal ritornare per prendere di nuovo i 300 euro di “premio di espulsione”, il ministro istituirà delle schede biometriche verso i possibili contravventori per proibirne l’accesso alle frontiere.
In realtà, questo discorso del governo e questa politica particolarmente repressiva verso i rom servono a molti scopi.
Il più importante è focalizzarsi su una popolazione molto marginalizzata, spesso arretrata ed analfabeta, che forma una comunità chiusa e poco comunicativa, e che pertanto è facile criminalizzare per farne il capro espiatorio della crisi economica e una giustificazione della politica generale di repressione che adotta lo Stato francese. La cosa più ripugnante è che questa etnia, già relegata ad una sopravvivenza in vere cloache e scarichi della società, si ritrova facilmente esposta alla strumentalizzazione. L’attacco di Sarkozy contro i rom, in questo momento, poteva generare al massimo solo della compassione ma non un movimento attivo di solidarietà in loro difesa all’interno della classe lavoratrice; tanto più che la maggior parte degli sgombri ha avuto luogo durante le vacanze estive. Al di là delle dichiarazioni enfatiche ed ipocrite dei politicanti e di alcuni gruppi politici, nulla vi si è opposto.
Un altro aspetto di questo intenso battage mediatico è fare molto rumore per creare un diversivo alle tensioni sociali che si delineavano per il “rientro”. Per la sua vernice di “sicurezza”, questa propaganda serve anche a procurare dei mezzi giuridici per perpetrare arresti in massa o altri che mirano ad imporre forti ammende alle famiglie di immigrati i cui giovani hanno a che fare con la polizia. I genitori saranno ritenuti legalmente responsabili delle azioni del loro minore, quando questo è stato perseguito o condannato per un’infrazione e che viola i divieti e gli obblighi ai quali è sottoposto. Questi genitori potrebbero vedersi infliggere fino a due anni di prigione e 30.000 euro di multa quando nei fatti è la disoccupazione, la precarietà, la miseria che li ha erosi e reso incapaci di assumere il loro ruolo educativo.
Uno dei fiori all’occhiello delle nuove misure di sicurezza proposte da Sarkozy è “la decadenza della nazionalità francese”. Una delle argomentazioni avanzate da alcuni sostenitori della misura in oggetto è che “essere francese si merita”, cioè le stesse parole usate da Raphaël Alibert, Guardia dei Sigilli di Pétain, nel luglio 1940, per giustificare una legge che portava alla creazione della “Commissione di revisione delle naturalizzazioni”, la quale procederà alla “denaturalizzazione” di centinaia di migliaia di francesi, soprattutto ebrei[5]. E’ evidente che dal punto di vista dell’efficacia e dell’impatto che potrebbe avere nella pratica oggi, questa misura non ha nulla da vedere con quella del 1940. Ma presenta il vantaggio di tentare di aumentare la divisione della classe operaia tra lavoratori francesi e lavoratori immigrati di data più o meno recente. Inoltre permette una focalizzazione mediatica su un falso problema, completamente estraneo agli interessi degli sfruttati, quello della “nazionalità”.
No, nessuna nazionalità “si merita” e gli operai non sanno che farsene. Come diceva il Manifesto comunista del 1848 “I proletari non hanno patria”. Ed è tutti insieme, quale che sia il colore della pelle o l’origine etnica o nazionale, che dovremo lottare contro questa società che impone a tutti noi condizioni di vita ed un futuro catastrofici.
Wilma, 27 agosto
[1] https://www.corriere.it/politica/10_agosto_21/maroni_d57cd780-acea-11df-b3a2-00144f02aabe.shtml [81]
[3] Il suo amico Sarkozy, lui, non ha fatto un amalgama mettendo nello stesso sacco rom, “nomadi” di nazionalità francese da generazioni, immigrati e delinquenti!
[4] UMP (Union pour un mouvement populaire), partito di Sarkozy
[5] Sarkozy, contrariamente a Le Pen di cui prova a recuperare gli elettori, non se la prende con gli ebrei. Del resto, secondo la tradizione ebrea, lui stesso è ebreo poiché sua madre è ebrea. Ma fondamentalmente, dopo quello che è avvenuto durante la Seconda Guerra mondiale, una cosa del genere da parte di un Presidente della repubblica non sarebbe certo opportuno.
The Guardian chiama questi documenti sulla guerra in Afganistan “l’immagine disvelata” ma non è esattamente vero. Questi documenti sono segreti ma non sono “top secret” o con una classificazione ancora più alta. Molto di ciò che contengono (o di quello che è stato rapportato finora) era già di dominio pubblico e molto si poteva indovinare ragionevolmente dalle prese di posizioni ufficiali e dai servizi giornalistici. Un punto sulla controversa “intelligence” contenuta in molti dei documenti è che questa è una delle maggiori industrie lucrative in tutto il corrotto “Stato” dell’Afganistan, uno Stato putrido fino al midollo; molte delle informazioni, a questo livello, non sono per nulla affidabili. L’informazione proveniente dai ranghi più alti non è migliore: il servizio di intelligence afgano, il National Directorate of Security, è un forte rivale dell’ISI[2] del Pakistan, e i suoi servizi segreti agiscono di conseguenza. Gulbuddin Hekmatyar[3], ex alleato degli Usa e potente signore della guerra, è collegato con i servizi segreti iraniani, il che intorbida ancora di più le acque. Il generalmaggiore americano Michael Flynn ha detto in gennaio che gli articoli dei giornali stranieri sull’Afganistan erano più utili dell’intelligence sul posto.
Ciò che i documenti mostrano chiaramente però è l’estensione e la profondità della guerra, la sua vera dimensione e le rivalità imperialiste, i massacri e il caos che si estende. Mostrano la vera natura della guerra, le atrocità, le torture, le macchinazioni, la corruzione, e la crescente consapevolezza che la guerra non si può vincere. L’idea di un governo stabile in Afganistan fra due, quattro o dieci anni è chiaramente una battuta. Alla fine di questo mese 100.000 militari americani saranno sul posto, più altri 50.000, una decina di migliaia di “contractor”[4] e mercenari e migliaia di ONG che fanno più o meno gli interessi degli Stati di provenienza, più centinaia di migliaia di soldati afgani.
La propaganda attuale dell’ISAF/NATO è su come sia diminuito il numero dei civili feriti con la loro politica “courageous restraint”[5], e su come i talebani stanno incrementando il numero dei civili uccisi. Non c’è dubbio su quest’ultimo dato soprattutto man mano che la guerra si estende, ma i recenti ordini del generale Petrus di “perseguire il nemico senza sosta”, può significare solo maggiori sofferenze per i civili. Non esiste un nemico Talebano ma fazioni, gruppi etnici, tribù e spesso contadini locali che prendono le armi contro la distruzione militare della loro vita e della loro terra. Uno dei fattori di questa guerra è che quando c’è un attacco della Nato, a Kandahar o a Helmand per esempio, i talebani e le forze anticoalizione appaiono dove prima non esistevano. In aggiunta al caos così generato, le guardie frontaliere afghane, unità della polizia e dell’esercito in alcune circostanze lottano uno contro l’altro. Questa non è più una lotta contro i talebani o al-Qaeda ma una guerra locale regionale sempre più complessa che coinvolge fazioni di Pashtun, Uzbeki, Tagiki e Hazari con le grandi potenze coinvolte.
La guerra si sta allargando
La guerra si sta allargando, coinvolgendo e risvegliando altre forze imperialiste. Il territorio pachistano e la popolazione sono stati colpiti dalle unità speciali “nere” degli Stati Uniti, da aerei militari, elicotteri apache, droni e proiettili di obice e sono stati bombardati anche dai B52 per negare ai talebani quelle zone sicure descritte come “inaccettabili… intollerabili” dalla Casa Bianca. Questa è la lenta realizzazione della minaccia fatta molti anni fa dagli Stati Uniti di far ritornare il Pakistan “all’età della pietra”. Il presidente afgano Karzai ha avuto riunioni segrete con il servizio segreto pachistano (ISI), dove quest’ultimo auspicava un avvicinamento tra la sua fazione e la rete jihadista, patrocinata dall’ISI, di Sira-juddin Haqqani[6] concedendo a questi il sud dei Pashtun e consolidando Karzai a Kabul (gli Stati Uniti non erano presenti a queste trattative).
Sull’esempio del Grande Gioco tra Gran Bretagna e Russia più di cento anni fa, il Pakistan guarda alla piccola ma significativa, presenza dell’India in quello che loro chiamano il loro cortile con la paura e l’orrore di un imperialismo minacciato. Questo pericolo è sottolineato in un rapporto di Matt Waldmen dell’Harvard Carr Center, che documenta come l’ISI “orchestra, sostiene e influenza fortemente (i talebani)…(ed è ) rappresentato come partecipante o osservatore nel consiglio del comando supremo talebano, il Quetta Shura”. Come dice William Dalrymple nel The Guardian del 2 luglio 2010, l’Afganistan si sta trasformando in una guerra per procura tra India e Pakistan.
Dietro al Pakistan, la Cina si apposta nell’ombra e negli affari geostrategici in gioco, particolarmente nel confronto con l’Iran, Stati Uniti e forze britanniche hanno via libera lungo il confine afgano-iraniano. Quest’ultimo elemento è uno delle “utilità” della presenza americana in Afghanistan. Ci sono ulteriori tensioni all’interno della stessa ISAF/Nato; disaccordi ed azioni unilaterali che coinvolgono Germania, Francia, Olanda, Canada rispetto alla “politica” degli Stati Uniti che dimostrano la tendenza verso il caos imperialista dentro e fuori lo stesso Afghanistan.
Iraq: la guerra continua
A questo proposito la guerra in Iraq è istruttiva. Il Presidente Obama, che la chiamò “una guerra muta”, ha detto ora che lui l’ha portata ad “una fine responsabile... come promesso e nei tempi previsti”. Chiaramente questo è una novità per la popolazione dell’Iraq dove molti civili stanno vivendo in intollerabili condizioni spaventose e stanno morendo più che in Afganistan. Dopo 5 mesi dalle elezioni “democratiche” in Iraq non c’è ancora un governo che funziona; e, dal nulla, al-Qaeda ora si è fortemente installata qui. In ogni caso gli Stati Uniti non lasceranno l’Iraq così presto ma semplicemente si ritireranno dentro le loro fortezze.
Come Seumus Milne mostra nel The Guardian del 5 agosto, almeno 50.000 soldati degli Stati Uniti (più le forze britanniche e decine di migliaia di mercenari) rimarranno in 94 basi, “stando il allerta, addestrando... provvedendo alla sicurezza e mettendo in atto misure di antiterrorismo”. Nei fatti, come Milne chiarisce, c’è un “afflusso” di mercenari con “presenza durevole” in Iraq. Qui le uccisioni e la tortura sono ancora comuni, la salute e l’istruzione sono peggiorati, così come la posizione delle donne; millecinquecento posti di controllo dividono la capitale e gli iracheni che protestano nelle strade sui frequenti tagli di elettricità vengono identificati come “hooligan” e attaccati dalle truppe irachene. Se la guerra in Iraq è stata un monumentale e cruento fallimento da parte degli Stati Uniti e dell’imperialismo britannico, questi non solo vi sono ancora molto implicati ma ora si ritrovano impantanati in un caos ancora più sanguinario ed irrazionale in Afghanistan, che ha implicazioni anche più pericolose per l’intera regione ed oltre.
Baboon, 12-8-2010
[1] organizzazione internazionale che pubblica sul proprio sito documenti coperti da segreto, https://wikileaks.org/ [84]
[2] L’Inter-Services Intelligence (o ISI) è la più importante e potente delle tre branche dei servizi di Intelligence del Pakistan.
[3] Questo Hekmatyar è ben conosciuto come massacratore. Gli è stato dato aiuto e addestramento dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna nel 1980 e ha avuto colloqui con ufficiali britannici a Whitehall, sede del governo. I britannici addestrarono Hekmatyar nel condurre operazioni segrete nelle repubbliche mussulmane dell’Unione Sovietica.
[5] Letteralmente “controllo coraggioso”, cioè astenersi dall’aprire il fuoco in situazioni di pericolo . per evitare i cosiddetti “danni collaterali” (90 civili uccisi per errore in 5 mesi, ad esempio!).
[6] Haqqani è un signore della guerra della rete terroristica dell’Harkat-ul-Mujahideen (HUM). Il Pakistan l’ha appoggiato anche nella sua guerra per procura contro l’India in Kashmir. La Gran Bretagna ha offerto aiuto sottobanco all’HUM in passato e ci sono rapporti che dicono che la GB è stata coinvolta in unità di questo gruppo che sono state spedite per combattere nell’ex-Iugoslavia e nel Kosovo negli anni novanta. Molti combattenti dell’HUM hanno ricevuto aiuto indiretto dalla Gran Bretagna. Due dei quattro attentatori londinesi sono stati addestrati in campi del Pakistan controllati dall’HUM.
Nel 2009 si è fatta passare per una disoccupata alla ricerca di un impiego nella regione francese della Bassa Normandia. La sua motivazione? “La crisi. Non si parlava d’altro, ma senza realmente conoscerla, né che dimensioni avesse. Tutto dava l’impressione di un mondo sul punto di crollare. E tuttavia, intorno a noi, le cose sembravano sempre al loro posto”. Il suo scopo? Ottenere un CDI[2]. L’otterrà alla fine di 6 mesi di galera: “le condizioni sono miracolose (…): un contratto dalle 5.30 alle 8.00 di mattina, pagate alla tariffa della convenzione collettiva, 8,94 euro all’ora” (sic!). Ciò dà l’idea delle condizioni di vita di milioni di disoccupati o lavoratori precari: si arriva a chiamare “miracoloso” un misero contratto che permette di lavorare solo 2 ore e mezza al giorno, poco più del SMIC![3]
Le agenzie interinali e l’ufficio di collocamento
Il suo percorso comincia “ingenuamente” (secondo le sue parole), attraverso i lavori ad interim. Florence Aubenas vi giunge precisando fieramente “accetterò tutto”. “Qui, tutti accettano tutto” le rispondono! Rapidamente li gira tutti. Rapidamente li conosce tutti. Rapidamente capisce che non ha nessuna speranza di ottenere un impiego in questi tempi di crisi: non ha lavorato da 20 anni… non ha nessuna esperienza professionale … lei non ha un profilo “affidabile” per l’interim …
Raggiunge l’ufficio di collocamento, una delle esperienze più traumatizzanti. Tutto è organizzato per stare male. I locali sono tristi, non ci sono mezzi adeguati per la ricerca di lavoro, ci sono pochi computer ed uno solo è collegato ad una stampante funzionante. Uno schermo televisivo trasmette continuamente lo stesso ignobile slogan: “Avete dei diritti, ma anche dei doveri. Potete essere radiati”. Radiati… Lo Stato vuole incidere questa minaccia nelle menti, vera spada di Damocle… Niente più sussidi, niente più diritti, più niente… il vuoto… il nulla… Tutto è fatto per colpevolizzare gli operai, per far loro credere che se sono radiati è solo solo colpa loro. “Avete dei doveri”. Capite bene: “è normale fare qualche sforzo per cercare un impiego, voi che vivete alle spalle degli onesti lavoratori e siete pagati per non fare niente”. No! Tutte queste costrizioni imposte dal governo hanno un unico scopo: radiare quanti più disoccupati possibile per barare sulle cifre della disoccupazione e risparmiare.
Col passare delle pagine la ricerca di un lavoro diventa un percorso da combattimento usurante e scoraggiante.
Tutto comincia col primo appuntamento. L’impiegato annuncia a Florence Aubenas che deve avere il secondo appuntamento nelle successive 24 ore, se no…
Il secondo appuntamento non durerà più di venti minuti, nuove direttive “dall’alto”. (…).
E poi c’è l’appuntamento mensile, “un obbligo stabilito dall’amministrazione”, a costo di sborsare una grossa spesa per il trasporto. “Davanti allo sportello, una disoccupata aspetta, arrabbiata ma in silenzio, con gli occhi di disapprovazione. La si sente gonfia di lagnanze che non osa esprimere e che l’accompagnano da molto. Deve pensare continuamente alle convocazioni all’agenzia, soprattutto la notte. Sono obbligatorie una volte al mese, passa tutto un giorno qui, lo sa, bisogna venire in autobus da Dives per essere ricevuta venti minuti all’ufficio di collocamento - e talvolta anche dieci, come l’ultima volta. In un ufficio esposto a tutte le correnti d’aria, un impiegato che sospira tanto più che non le proporrà niente. E durante questo tempo, su tutte le trasmissioni televisive, sente i politici spiegare che le cifre della disoccupazione non sono così cattive. C’è da impazzire”
E ci sono ancora gli stage dai temi “bidoni”[4] che finiscono per “essere peggio di un lavoro”. Là ognuno a turno si presenta, racconta il suo doloroso percorso, e poi … Quando si conclude lo stage “imparare a redigere un CV”, non è previsto nessuno materiale per battere né stampare i nuovi CV redatti! Quando bisogna andare ad una “riunione speciale di informazione” risulta subito evidente che “che l’ufficio di collocamento non ha, in realtà, niente da annunciare a questa riunione!”. D’altra parte uno degli impiegati finisce per spiegare che loro hanno delle consegne, che bisogna far abbassare le cifre della disoccupazione e che questa riunione è uno dei modi: “si convoca una categoria di disoccupati, quadri, precari, poco importa. Una parte non verrà e senza giustifica è statistica. Saranno radiati”.
Del resto il personale dell’ufficio di collocamento non ha più nessuna illusione sul proprio ruolo: “è stato costituito da molto tempo (…) da lavoratori sociali. Oramai, il reclutamento mira innanzitutto al settore commerciale”. Non bisogna più dire “richiedenti impiego” ma “clienti”. Non bisogna più “fare del sociale” ma “fare delle cifre”. “Guadagnare in produttività è la priorità” del governo… altrimenti niente premi collettivi per l’agenzia! Allora, la durata dei colloqui non deve superare i 20 minuti. “In certe agenzie, certe volte ogni impiegato ha più di 180 richiedenti nel suo portafoglio, quando dovrebbe averne 60. La regione ha più di 4.000 dossier in ritardo. Nessuno arriva più a tenere il ritmo”.
Ed il personale scoppia: appaiono tentativi di suicidio, alcuni con triste successo: “sembra che si è appeso alle scale dell’ufficio di collocamento”. E gli utenti sono sempre più aggressivi. Gli impiegati dell’ufficio di collocamento ne sono sicuri, “(…) un giorno finirà per succedere un dramma, qualcuno entrerà nell’agenzia, taglierà loro la gola o sparerà loro addosso”. No, l’ufficio di collocamento non illude più nessuno, soprattutto non quelli che vi lavorano.
Alla fine, dunque, Florence Aubenas si vedrà giudicare, valutare e proporre un lavoro in meno di venti minuti: “volete cominciare una nuova vita? Fare le pulizie, che cosa ne pensate?” In realtà al suo profilo non corrisponde nessun’altra gran cosa. Accetta. In quanto al CDI che si è fissata come obiettivo, si rivela una missione impossibile: “questo tipo di impiego non esiste più nel vostro circuito. Presto non esisterà più da nessuna parte. Non si sa”.
Dopo 15 lunghi giorni di ricerche, Florence Aubenas trova il suo primo impiego, un “impiego” che nessuno vuole, anche i più poveri: fare le pulizie su un traghetto a Ouistreham.
Una moltitudine di piccoli contratti…
Eppure tutti l’avevano avvertita: se vedi un annuncio sul traghetto “non andarci. Non rispondere. Non pensarci nemmeno. Dimenticalo. (…) Quel posto è peggio di tutto”. Ouistreham, è peggio del “penitenziario e della galera messi insieme”. Si fanno le pulizie durante lo scalo tra le 21.30 e le 22.30, tutte le sere, con un guadagno “poco più di 250 euro al mese, con dei premi i giorni festivi o le domeniche”, ed è un contratto di 6 mesi. Bisogna avere un mezzo di trasporto. Florence Aubenas ne trova uno per caso: un’amica conosce qualcuno che può prestarle un’auto per qualche tempo… Il tragitto d’andata durerà 1 ora: “siccome solo il tempo passato a bordo è pagato, si perdono due ore per guadagnarne una”. Florence Aubenas chiede ad una collega: “non pensi che viene sprecato troppo tempo per il salario che si riscuote?” La collega non comprende. Da dove viene “per non sapere che è normale? Per il lavoro della mattina, lei deve percorrere un tragitto di tre ore”.
Sul posto, si tratta di pulire in tempi record i servizi e le cabine del traghetto: per esempio, massimo 3 minuti per i bagni! Il lavoro è duro, faticoso e senza interruzione. Tutto deve essere perfetto. Se non lo è, tutto deve essere rifatto. “In un quarto d’ora le mie ginocchia sono raddoppiate in volume, le mie braccia sono divorate da formiche e schiumo dal caldo (…)”. L’ora di lavoro dura un secondo ed un’eternità”.
Oltre a questo lavoro, Florence Aubenas trova un CDD (contratto a tempo determinato) tutti i sabati mattina per pulire dei bungalow in un campeggio. Viene assunta da un’agenzia di pulizia, l’Immacolata.
Per riuscire a sopravvivere bisogna effettivamente cumulare diversi impieghi, diversi contratti, diversi luoghi, diversi orari e ore di spostamento. Florence Aubenas ha “l’impressione di passare (il suo) tempo a girare, pensando senza pensare, la testa attraversata dalle combinazioni complicate di orari, di tragitti, di consegne”. L’Immacolata le “propone” anche delle sostituzioni. Le chiamate vengono effettuate di giorno in giorno, all’ultimo momento. Bisogna accettare. È il solo modo di sperare di ottenere qualche contratto che non sia breve. Vive nell’attesa e dorme poco. Le condizioni di lavoro saranno sempre le stesse: “lavare, spolverare, aspirare in tempo record una superficie enorme, senza sforare. E quando supera gli orari, non le vengono pagate le ore supplementari.
Per il datore di lavoro dare un lavoro estenuante e sottopagato è presentato quasi come un favore… “se non sei contenta, ce ne sono migliaia fuori pronte a prendere il tuo posto”. E’ semplice: gli operai non hanno scelta. Devono accettare tutto: essere costretti al servizio gratuito, fare delle ore non remunerate, essere presenti appena c’è bisogno … Il ricatto è insidioso, ma Florence Aubenas comprende bene che se si rifiuta o si lamenta, non avrà “una seconda opportunità”.
I contratti di pulizia sono disputati aspramente da parecchie imprese che negoziano orari sempre più ridotti: “l’impresa di pulizia precedente assicurava la prestazione in due ore, l’Immacolata le ha strappato il mercato rimediando quindici minuti”. Florence Aubenas ripartirà con tre quarti d’ora di ritardo… Al campeggio è ancora peggio. Il padrone annuncia fieramente: “vedrete, è veramente tranquillo. Laggiù ne avrete al massimo per 3 ore ed il vostro contratto ne prevede 3 ed un quarto”. Alla fine la squadra di 5 persone impiegherà 5 ore. “Si finisce faticosamente verso le 15,30. Non si è mangiato niente dalla mattina, non si riesce più a portare i secchi, non si è avuto il tempo di andare al bagno, ci si sente montare da una rabbia folle e disordinata”. Tutte le settimane seguenti somiglieranno a questa: con l’eccedenza di orario di 2 o 3 ore. E queste ore supplementari non saranno mai pagate!
Con un’altra impresa, Florence Aubenas farà l’esperienza del lavoro gratuito: “da noi i periodi di prova non sono pagati!”.
I sindacati…
Durante il suo periplo, Florence Aubenas conosce Victoria, settuagenaria che ha fatto tutta la sua carriera come donna delle pulizie e combattente sindacalista della prima ora. L’incontro avviene alla fine della manifestazione contro la crisi del 19 marzo 2009. Victoria spiegherà più tardi che aveva 22 anni quando si è iscritta al sindacato: “Questo era scontato”. Ma “il sindacalismo non era un affare facile in questo mondo di uomini, organizzato intorno alle grosse sezioni, i metallurgici, i cantieri navali, (…) Nelle manifestazioni, alcuni avevano vergogna di essere visti accanto alle cassiere di Continente o alle donne con una scopa. Era il loro sciopero, la loro marcia, la loro bandiera, il loro sindacato”. Victoria era nella sezione dei precari. Durante le riunioni non capiva tutti i termini usati. Ma se qualcuno chiedeva delle spiegazioni i responsabili sindacali si innervosivano: “non vedi che infastidisci tutti con le tue domande?” Alcuni se ne burlavano anche apertamente se un precario prendeva la parola. La redazione dei volantini si svolgeva sempre allo stesso modo. Le ragazze cominciavano a scrivere ma non appena ci mettevano un po’ di tempo in più, un responsabile scriveva il volantino al loro posto. Nessuno “aveva la pazienza di ascoltare quello che avevano da dire”. Alla fine le ragazze non distribuivano il volantino perché non corrispondeva alle loro idee. “Si facevano trattare da ‘scocciatrici’.”. “Mancavano definitivamente di ‘coscienza di lotta’.". Negli anni 80, viene tolta la parola a Victoria da un amico sindacalista in piena riunione mentre esprime il punto di vista delle donne delle pulizie: “mi rendo conto che i militanti non passano ormai più la scopa nei locali. Si cerca qualcuno per farlo. Perché non tu, Victoria, alcune ore per settimana? Saresti salariata”. Viene nominato allora un responsabile per dirigere la sezione dei “precari”, “un vero letterato, bardato di diplomi”, perché “occorre un intellettuale per rappresentare degnamente il sindacato (…). Non si può mandare una cassiera o una donna delle pulizie alle riunioni!” Alla fine degli anni 80 il sindacato non ha più denaro per Victoria: viene cacciata. “Quel giorno, li vede uscire dalla sala ridendo. (…) Non si trattiene. Grida: ‘banda di immondizie’.
Per la sua amica Fanfan, anche lei iscritta ad un sindacato nello stesso periodo, è la stessa storia. Viene cacciata ingiustamente dall’ipermercato dove lavora perché è alla testa di una piccola sezione sindacale. “Il sindacato non muove un dito per aiutarla. Fanfan lascia la militanza sindacale”.
Il sindacalismo, organo permanente di lotta, viene descritto come è veramente: un organo staccato dagli interessi della classe operaia, un organo elitario dove si difende un solo punto di vista: quello della centrale sindacale, quello di coloro i quali sono pagati per, come loro pretendono, “rappresentare i lavoratori”. Questo è un organo che decide per la classe operaia contro gli interessi della classe operaia.
Florence Aubenas ha scelto di raccontare la vita dei lavoratori e dei disoccupati di Caen ma la stessa storia si sarebbe potuta svolgere in qualsiasi altro posto. Il bilancio sarebbe stato lo stesso, le esperienze raccontate ed il dolore per la mancanza di futuro identici.
Detto questo, anche se la situazione dello sfruttamento capitalista e la descrizione del lavoro dei sindacati è implacabile (“A che serve? I sindacati hanno fatto casino a Caen per anni e le fabbriche hanno chiuso lo stresso”), questo libro non lascia alla fine nient’altro che disperazione. Quando il lettore finisce queste 300 pagine è facile immaginarlo silenzioso, scoraggiato, triste e spaventato per la situazione drammatica descritta dalla giornalista. Perché, alla fin fine, non emerge nessuna prospettiva per il futuro, nessun barlume di luce. Nella regione di Caen, come in molti posti, “in meno di un secolo, si è costruita l’industria, poi è stata completamente smantellata” ed ha lasciato solo desolazione e un sentimento di “no future”. “La Francia diventerà come il Brasile, (…) ci ritroveremo su mucchi di rifiuti, cercando di sopravvivere con quello che si trova”.
Florence Aubenas non va fino in fondo al suo ragionamento, non tira le conclusioni che le sue stesse descrizioni impongono.
Sì, il capitalismo semina la miseria! Sì, la sorte della classe operaia è indegna! Ma tutto questo è anche, e soprattutto, rivoltante. Di fronte all’orrore della schiavitù salariale, non è la paura né la disperazione che devono animare la classe operaia ma la combattività e la convinzione che essa può costruire un altro mondo! È proprio questa fiducia in sé stessa che oggi più le manca e che l’ha tanto inibita … fino ad ora.
Cunégonde (29 giugno)
[1] In italiano “Il lungosenna di Ouistreham”, edito in Francia dalla casa editrice Editions de l’Olivier
[2] Contratto a tempo indeterminato
[3] “Salario minimo interprofessionale di crescita” che corrisponde al vecchio “salario minimo interprofessionale garantito” ma senza l’aggancio all’inflazione. Il suo valore è di 8,86 euro lordi per ora di lavoro.
[4] “Lettera di candidatura spontanea”, “come redigere una lettera di risposta ad un’inserzione”?, “mettere in valore le proprie competenze”, “utilizzare il telefono nella ricerca di impiego”…
Dicembre 2010-gennaio 2011
La classe operaia in Italia, come nel resto del mondo, non ha minori motivi per essere arrabbiata. E ci sono segnali che indicano che questa rabbia sta prendendo una forma visibile, come ad esempio:
Il problema che devono affrontare i proletari è che queste ed altre lotte sono rimaste isolate. In Francia, la richiesta di abbandonare la riforma delle pensioni è stata ripresa da tutto il movimento, creando la possibilità di manifestazioni di massa non solo contro questo attacco, ma anche contro tutti gli altri che i padroni e lo Stato sono costretti ad imporre per la crisi economica. Questo non significa che i francesi siano all’alba della rivoluzione: anche lì lo Stato può contare sul suo apparato politico e sindacale per impedire una reale unificazione e di auto-organizzazione della lotta, nonostante i piccoli passi in quella direzione.
Nonostante la frammentazione delle lotte e il loro isolamento, non c’è dubbio tuttavia che l’attacco della borghesia sia rivolto a tutta la classe operaia, occupati, disoccupati, studenti, pensionati, lavoratori part time. C’è un disperato bisogno di mobilitazione in cui tutti possano identificarsi e partecipare.
In passato, i sindacati erano una forza che rappresentava gli interessi dei lavoratori nei confronti del capitale. Ma ormai a partire dall’inizio del secolo scorso i sindacati sono diventati parte delle forze dell’ordine, si sono fatti i difensori della sostenibilità delle rivendicazioni salariali e hanno finito per integrarsi nello Stato. La conseguenza è che oggi, per mantenere una credibilità nei confronti dei lavoratori, sono costretti a rispondere al loro malcontento chiamando a delle giornate di sciopero e di manifestazioni, ma facendo il possibile per mantenere gli scioperi divisi e senza risultati.
Se ci deve essere una risposta concreta al violento attacco dello Stato alle condizioni di vita dei lavoratori, sarà prima o poi necessario uscire dai canali ufficiali: i lavoratori dovranno farsi carico in prima persona delle proprie lotte, dovranno combattere insieme e manifestare insieme, raccogliendo le istanze comuni che possono portare le diverse parti della classe operaia nello stesso movimento.
Una tale risposta di massa non verrà fuori dal nulla: può essere preparata solo prendendo parte alle lotte esistenti, per quanto ostacolate dai sindacati possano essere. E’ fondamentale che coloro che vedono la necessità di un movimento veramente indipendente della classe lavoratrice comincino a mettere assieme le loro forze e le loro idee.
CCI, 14 dicembre 2010
Le lotte degli studenti universitari, con un’interessante eco nel mondo dei ricercatori e dei precari nonché delle scuole superiori, sono tornate ancora una volta, fragorose e vivissime come sempre, a riempire le cronache delle ultime settimane, innescate dalla discussione in parlamento sul cosiddetto decreto Gelmini, ma alimentate nel profondo dalla ricerca di un futuro che è stato negato a tutta l’attuale generazione di giovani. Le ragioni della protesta sono profonde: il mondo dell’istruzione, da momento propulsivo per la crescita di tutta la società, è diventato in anni di crisi economica una palla al piede per il governo che cerca tutte le occasioni per ridurre i costi di gestione del settore. Così, nel mondo universitario:
Come si vede, è tutto il sistema universitario che si sta mettendo in discussione e che scricchiola in maniera sempre più inquietante. Ed è altrettanto chiaro che gli studenti, che vivono sul piano sociale la crisi economica nelle loro famiglie e la crisi dell’istituzione universitaria nella loro vita quotidiana, sono fortemente angosciati da questa situazione sociale che non dà loro alcuna garanzia per il futuro. La loro lotta è perciò, come detto, per rivendicare un futuro che si vedono negato. Da questo punto di vista, come era già avvenuto per le lotte del 2008, queste lotte non hanno nulla di studentesco né sono i capricci di figli di papà che una volta erano i soli utenti degli studi superiori, ma esprimono viceversa la lotta di una generazione che non vuole essere emarginata, che reagisce al vuoto di prospettive di una società in crisi.
D’altra parte non è solo in Italia e solo ora che sorgono movimenti di questo tipo. Le lotte contro il contratto di primo impiego degli studenti francesi nel 2006[1], e poi quelle dell’Onda in Italia nel 2008[2], e successivamente in Germania[3], in Grecia, Spagna[4], fino alle recenti lotte in Irlanda[5] e Gran Bretagna[6] (dove la causa scatenante è stata l’aumento vertiginoso delle tasse universitarie: in Irlanda da 1500 a 2500 euro e in Gran Bretagna da 3000 a 9000 sterline!) sono tutte espressione di questo malessere sociale di una componente a pieno titolo proletaria. E che la natura del movimento sia proletaria si vede anche dalle manifestazioni di solidarietà che sono state espresse nel percorso di questo movimento, a partire da quella dei lavoratori e precari dell’università, che spesso si sono uniti alle stesse assemblee degli studenti, a quella dei precari della scuola, che l’hanno espressa per iscritto e nelle piazze, fino alla più recente manifestazione di solidarietà espressa dai lavoratori del S. Carlo nei confronti degli studenti napoletani caricati dalla polizia all’interno dello stesso teatro:
“Arrivati all'ingresso del teatro gli studenti hanno parlato con i lavoratori per chiedere di poter entrare per esporre uno striscione e per raccogliere la loro solidarietà: i tagli che ha subito l’Università rispondono alla stessa logica di quelli effettuati a tutto il settore culturale!” Ma, “incassata la solidarietà dei lavoratori (gli attori avevano addirittura fermato le prove per discutere assieme dei tagli alla cultura e all'università), la celere ha fatto irruzione nel teatro.”[7] Ma l’aspetto più importante è che le forze della repressione non sono riuscite a spezzare quella solidarietà che si stava costruendo attraverso il dibattito improvvisato, e che si è espresso sia in uno specifico comunicato da parte dei lavoratori del S. Carlo (I lavoratori del san Carlo e gli studenti tutti, che hanno partecipato alla manifestazione, DENUNCIANO CON FORZA, l'atto di violenza gratuita delle forze dell'ordine e chiedono il rilascio immediato dei ragazzi fermati di cui ad ora non si hanno notizie)[8] che attraverso delle prese di posizione personali. D’altra parte lo stesso movimento degli studenti, oltre a far giungere attestati di solidarietà nei confronti delle contestazioni di cui si stanno rendendo protagonisti gli universitari del Regno Unito, ha promosso svariate iniziative per rompere l’isolamento mediatico sulle lotte, utilizzando una politica nuova, quella dei flash mob[9], attraverso cui sono stati esposti striscioni sui principali monumenti di tutta Italia e, attraverso gli studenti Erasmus, anche in Europa.
Naturalmente non mancano le debolezze in questo movimento, come ad esempio una eccessiva polarizzazione sulle tematiche della riforma Gelmini, che si giustifica almeno per il fatto che è proprio adesso che questa è in discussione in parlamento, o ancora un certo atteggiamento naif nei confronti della sinistra, del sindacato e della FIOM in particolare, che passa attualmente in alcune parti del movimento come una struttura credibile. O ancora - ma non gliene possiamo fare una colpa - il fatto che non si è realizzato l’incontro tra le lotte degli studenti e quelle dei lavoratori, mancando in questo momento una dinamica di lotte aperte e di massa nei luoghi di lavoro. Ma, al di là di qualsivoglia debolezza possa essere presente in questo movimento, occorre guardarsi da posizioni come quella espressa da un giornalista[10] che fa un paragone tra il movimento studentesco del '68 e quello attuale, considerando il movimento del ‘68 come un movimento “rivoluzionario”, mentre quello attuale sarebbe solo un movimento riformatore, che riuscirà nel suo obiettivo proprio perché gli studenti oggi “non vogliono tutto”, ma solo “un cambio di marcia”. Ora, con tutti i meriti che possiamo attribuire alla generazione del ‘68, ed in particolare quella di aver interrotto con il prorompere nelle lotte di quegli anni la lunga controrivoluzione seguita alla sconfitta dell’ondata rivoluzionaria degli anni ’20, nonostante un lessico rivoluzionario e il continuo riferimento ai classici del marxismo, questa generazione non era pronta per la rivoluzione per il semplice motivo che questa era ancora confusa dal boom economico da cui proveniva e non aveva ancora maturato la necessità di un evento rivoluzionario. Viceversa la generazione attuale, nonostante le sue debolezze, è materialmente costretta a fare i conti con la realtà della crisi economica e dunque del sistema in cui vive, ponendosi il problema della necessità di un cambio storico nel sistema. Come abbiamo già detto, mentre “alla fine degli anni ’60, l’idea che la rivoluzione fosse possibile poteva essere relativamente diffusa, ma non quella della sua necessità. Oggi, al contrario, l’idea che la rivoluzione sia necessaria ha un impatto non trascurabile, ma non altrettanto quella della sua possibilità”. Ma la crisi e lo sviluppo delle lotte a livello internazionale stanno lavorando pazientemente a favore della causa del proletariato.
Ezechiele, 8 dicembre 2010
[1] Vedi Tesi sul movimento degli studenti della primavera 2006 in Francia [63], in www.internationalism.org [62], ICConline 2006.
[2] Vedi “Noi la crisi non la paghiamo!” [87] in www.internationalism.org [62], ICConline del 2008.
[3] Vedi Manifestazione di liceali e universitari in Germania: “Manifestiamo perché ci stanno rubando il nostro futuro” [88] in www.internationalism.org [62], ICConline del 2009.
[4] Vedi Grecia, Germania, Francia, Italia, Spagna … Le rivolte dei giovani confermano lo sviluppo della lotta di classe [89] in www.internationalism.org [62], ICConline del 2009.
[6] Vedi Student/worker demonstrations: We need to control our own struggles! [90] e Revolt in universities, colleges, schools: A beacon for the whole working class [91] in www.internationalism.org [62], ICConline (lingua inglese) del 2010.
[7] Dal comunicato degli studenti, riportato su Caricati gli studenti che protestavano al Teatro San Carlo contro i tagli alla cultura [92], https://www.flickr.com/photos/cau_napoli/sets/72157625515285532/ [93].
[8] Ancora in Caricati gli studenti che protestavano al Teatro San Carlo contro i tagli alla cultura [92]
[9] Dall’inglese flash: breve esperienza o in un lampo, e mob: folla: indica un gruppo di persone che si riunisce all’improvviso in uno spazio pubblico, mette in pratica un’azione insolita generalmente per un breve periodo di tempo per poi successivamente disperdersi. Il raduno viene generalmente organizzato attraverso comunicazioni via internet o tramite telefoni cellulari (da Wikipedia).
Il 9/10 ottobre 2010 a Milano, presso il circolo Arci Bellezza, si è tenuta un’importante riunione indetta da coordinamenti e lavoratori in lotta contro i licenziamenti e il precariato intitolata 2° Incontro Nazionale Autoconvocati in lotta contro la crisi - Stati generali della precarietà[1]. Di questa tendenza dei lavoratori a riunirsi e della convocazione di questa seconda riunione avevamo dato notizia nel numero scorso del nostro giornale[2].
Nel volantino di convocazione[3] si legge che “la crisi internazionale del capitalismo è tutt'altro che finita. Di conseguenza l’attacco senza precedenti alle nostre condizioni di lavoro e ai nostri salari si sta amplificando e portando alle estreme conseguenze.” …“in questa situazione di profonda sconfitta che stiamo attraversando (…) tutti noi lavoratori dobbiamo trovare la capacità di riunirci, di riorganizzarci in maniera autonoma e indipendente, per ricostruire la nostra capacità di organizzazione e resistenza e mettere efficacemente in discussione fino a rigettare i piani di ristrutturazione dei padroni.”
A questa riunione, dove si discutevano in contemporanea più aree tematiche[4] in diversi locali, hanno partecipato, secondo gli organizzatori, circa 500 persone. La sessione a cui abbiamo partecipato - Lavoratori uniti contro la crisi - vedeva un’enorme sala piena di lavoratori di molte città del centro e del nord Italia. Anche se non mancava la presenza di elementi del sindacato e del sindacalismo di base, finanche tra le firme del volantino di convocazione, nei fatti chi era presente interveniva come lavoratore, spinto dalla crisi economica e dal duro attacco della borghesia e dello Stato alle nostre condizioni di vita.
La discussione è stata introdotta da una presentazione sulla situazione economica e sociale molto interessante in cui si diceva tra l’altro che:
La discussione, che si è sviluppata successivamente con interventi ordinati di 10 minuti massimo a testa, ha ripreso sviluppandoli diversi dei punti della relazione introduttiva, arricchendo ognuno di questi con la passione e le sofferenze dei vari compagni che sono intervenuti. La discussione ha espresso il chiaro sentimento che non c’è possibilità di uscita dalla crisi, che non ci sono settori privilegiati, che gli attacchi prima o poi colpiranno tutti, ed ancora è emerso con altrettanta chiarezza che non c’è in generale granché da fidarsi dei sindacati, anche se sullo strumento del sindacalismo restano dei dubbi perché i proletari ancora non hanno preso coscienza della propria forza e della possibilità di prendere in mano la gestione della propria lotta.
Da qualche intervento è venuta fuori anche la necessità di andare oltre: non è abbastanza la denuncia della situazione presente, noi dobbiamo fare un salto qualitativo, oggi la lotta è per il lavoro e per vivere: “basta con i lavoratori che vanno sui tetti o che si suicidano!”
Come detto anche in un articolo precedente, questa tendenza a incontrarsi per confrontarsi e coordinarsi nell’azione a livello di tutto il territorio nazionale e tra lavoratori di tutte le categorie, disoccupati, precari, immigrati, studenti, ecc., costituisce in sé un elemento di grande forza e di incoraggiamento per tutti. La traiettoria finora seguita è la traiettoria vincente. Ma questo non significa che non ci siano debolezze nel percorso seguito e delle insidie poste sul cammino che stiamo percorrendo che è importante individuare.
La prima questione riguarda la richiesta ripetuta più e più volte di uno sciopero generale. Questa richiesta, ripresa in diversi interventi, era già presente nel volantino di convocazione:
“organizzare la partecipazione comune alla manifestazione del 16 ottobre a Roma per renderla una giornata di riorganizzazione e ricompattamento di tutta l’opposizione di classe nel nostro paese, per promuovere una mobilitazione dal basso, articolata e permanente fino all’autorganizzazione dello sciopero generale come momento finale e decisivo di una grande mobilitazione di massa dei lavoratori contro governo e padroni.”
Diciamo che noi, in prima battuta, abbiamo letto questa richiesta di sciopero generale anzitutto come il desiderio di tutti i proletari che l’hanno evocato di realizzare una unità nella lotta a livello territoriale e fra tutte le diverse categorie. Da questo punto di vista non si può che essere d’accordo con questa aspirazione. Dov’è dunque la debolezza? La debolezza non è di chi aspira a questo obiettivo parlando di sciopero generale, ma nel fatto che questa parola d’ordine può essere facilmente recuperata dai sindacati che usano questa carta per “addormentare” la lotta in attesa del fatidico sciopero generale che, quando arriva, finisce per essere una sfilata vuota e anonima. Di scioperi generali indetti, controllati e manovrati dai sindacati ne abbiamo visti a bizzeffe e non sono mai stati decisivi nel bloccare l’attacco dei padroni e dello Stato. Al contrario essi sono stati spesso l’atto finale, di chiusura di una ondata di lotte, come l’ultima arma da usare. E perciò vengono preparati con mesi di anticipo in modo tale che anche la controparte possa prepararsi, spostano l’attenzione sulla giornata fatale che si dimostra una grande passeggiata, una prova di forza del ... sindacato. Non dei lavoratori.
Un secondo elemento critico riguarda la parte conclusiva della riunione di Milano che, al di là dello spirito appassionato e assolutamente fraterno con cui si è svolta, ha espresso a nostro avviso una debolezza. Nella risoluzione finale[5] infatti non è stato ripreso il punto riguardante la crisi del capitalismo intesa come crisi di sovrapproduzione e di saturazione dei mercati, come detto nella presentazione e non messo in discussione da nessuno. Al contrario si fa riferimento a speculazioni edilizie e finanziarie come cause principali della chiusura di fabbriche e delle delocalizzazioni. L’introduzione di un’interpretazione della crisi basata sui giochi del capitale finanziario, oltre a favorire una lettura della realtà con dei capitalisti “cattivi” (gli speculatori) a cui potrebbero corrispondere altri capitalisti … “buoni”, esprime anche una forzatura politica procedurale. Nella misura in cui le assemblee dei lavoratori devono servire soprattutto a fare chiarezza, le risoluzioni diventano utili ed acquistano forza quando ribadiscono ciò che è stato detto nella discussione e su cui c’è accordo.
Ma queste debolezze possono essere superate se c’è dietro la spinta all’unità e alla solidarietà. Perciò sono così importanti questi momenti di discussione intercategoriali, in cui si costruisce solidarietà tra settori diversi e si pongono le basi per sentirsi un’unica classe di lavoratori con un unico nemico, la borghesia e il suo Stato.
Oblomov 5 dicembre 2010
[2] Italia: la maturazione della lotta di classe [61], in Rivoluzione Internazionale n°167.
[3] https://www.precaria.org/stati-generali-2010/ii-incontro-nazionale-dei-lavoratori-uniti-contro-la-crisi/ [96]
[4] II Incontro Nazionale dei Lavoratori Uniti Contro la Crisi - Welfare europei: una panoramica - EuroMayDay: General Assembly - Le lotte dei precari - Saperi, formazione e reti - Grandi Eventi - Safety o Security? - Laboratorio sulla Precarietà.
[5] uniti.gnumerica.org/2010/10/12/comunicato-finale-ii-incontro-nazionale
L'era Berlusconi sembra volgere al termine. Il perché lo abbiamo più volte analizzato nella nostra stampa[1] dove abbiamo messo in evidenza la necessità per la borghesia di cambiare assetto governativo, di liberarsi di Berlusconi o quanto meno ridimensionarne il ruolo. Una maggioranza di governo profondamente divisa al suo interno da interessi e preoccupazioni contrapposte, il cui leader mette avanti i propri “affari” e continua a ricorrere ad una politica populista che perde efficacia al confronto con la realtà di peggioramento crescente delle condizioni di vita e di lavoro, il cui degrado morale ed etico getta fango e discredito sul mondo politico ed istituzionale sia al proprio interno che sulla scena internazionale, non può essere in grado di far fronte ad una crisi internazionale incessante. Una crisi che richiede misure drastiche e dolorose, la capacità di farle accettare mantenendo un controllo sul piano sociale, una credibilità sia all’interno che rispetto alle altre potenze. Come andrà a finire? Difficile dirlo perché, come abbiamo sottolineato nei precedenti articoli, un’alternativa solida, omogenea e credibile in effetti non esiste né a destra, né al centro né tantomeno a sinistra.
Una cosa è certa, quale che sia la soluzione che troverà la borghesia italiana, per i proletari saranno sempre e comunque batoste. Licenziamenti, perdita di posti di lavoro, riduzione del salario reale, precarietà, mancanza di prospettive, degrado ambientale e manganellate non sono frutto del solo governo Berlusconi ma della crisi del sistema che non finirà, anche cambiando governo.
Che Berlusconi e tutto il suo mondo di personaggi al suo soldo, dai fidati ministri ai vari deputati e avvocati, faccendieri e puttanieri, suscitino in larga parte della popolazione un senso di nausea e di repulsione è qualcosa di istintivo e salutare. La loro arroganza, l’esplicito disprezzo per le difficoltà della “gente comune”, la spudoratezza delle loro menzogne, è qualcosa che si scontra sempre di più con le crescenti difficoltà in cui versa la popolazione. Ma su questo naturale disgusto la sinistra del capitale, in mancanza di una reale alternativa da proporre, va via via alimentando una vera e propria campagna anti Berlusconi. Stampa, programmi televisivi, cinema, teatro, quasi tutto è impregnato di anti berlusconismo a tal punto che ormai la cosa più frequente che si sente dire in giro è: “qualsiasi altra cosa è meglio di Berlusconi”.
Noi pensiamo che questa campagna sia un’arma contro la classe operaia per due diversi motivi: anzitutto perché tutto questo can-can ostacola la comprensione delle cause di fondo dello sfascio della società attribuendole esclusivamente alla politica di Berlusconi; in secondo luogo perché è uno strumento per compattare la classe operaia e la sua nuova generazione dietro la difesa dello Stato e della democrazia.
L’antiberlusconismo: un ostacolo alla presa di coscienza
E la lista potrebbe continuare a lungo (alla maniera di “Vieni via con me”).
Ora, queste cose sono senz’altro vere. Ma l’idea di fondo che viene trasmessa in tutti i dibattiti televisivi, da Annozero a Ballarò, o dalle “liste” di Vieni via con me, è che la colpa di questo disastro è esclusivamente di Berlusconi & Co. Individuare un responsabile risulta molto utile alla borghesia perché serve a distrarre l’attenzione dei proletari dal fatto che la crisi economica è profonda ed internazionale e che i tagli alle condizioni di vita, al mondo dell’istruzione, alle pensioni li stanno facendo dappertutto. Serve a far dimenticare che in Francia l’aumento dei suicidi a causa del lavoro è dovuto agli stessi problemi di aumento dei ritmi e minacce di licenziamento che viviamo qui da noi. Serve a far dimenticare che la precarizzazione del lavoro è stata introdotta non da Berlusconi, ma da un governo di sinistra con il sostegno dei sindacati che all’epoca dicevano che la dinamicità della moderna economia non era conciliabile con la “vecchia fissazione del posto fisso”. Serve a far dimenticare che ad Haiti, a nove mesi dal terremoto, la gente sta morendo di colera perché completamente abbandonata a se stessa[2] o che in Irpinia interi paesi distrutti dal terremoto di trent’anni fa sono ormai morti completamente. Serve ad evitare che si faccia un legame tra il problema spazzatura in Campania e in Sicilia e la distruzione di interi territori in Africa avvelenati da rifiuti tossici scaricati dai democratici paesi industrializzati e l’isola di plastica grande quanto un continente che galleggia nell’oceano Pacifico[3].
La borghesia deve impedirci il più possibile di pensare con la nostra testa, di arrivare a farci una visione d’insieme dei problemi che viviamo come lavoratori e come essere umani: potremmo arrivare a capire che abbiamo tutto da perdere a mantenere in piedi questa società ed allora sarebbe messo in discussione il suo predominio.
L’antiberlusconismo baluardo della difesa della democrazia e dello Stato italiano
E’ proprio questo il problema, la voglia di reagire a tutto questo, l’insofferenza crescente verso un mondo che non solo non ci dà niente, nessun futuro, ma che ci costringe anche a subire il suo marciume; la tendenza sempre più forte a vedere che destra e sinistra nella sostanza non sono poi tanto diverse e che quindi il voto non serve a niente. Come fare dunque per bloccare questa riflessione? Attirando tutta l’attenzione sul falso obiettivo dell’antiberlusconismo, che non è solo l’essere contro la persona Berlusconi come uomo politico e di governo, ma vuole esprimere anche un rigetto per quello che lui rappresenta: l’illecito, il malaffare, la corruzione, la mancanza di etica che domina la società. La trasmissione di Fazio e Saviano, Vieni via con me ha parlato di tutto questo riscuotendo un successo enorme. Basta vedere i commenti su facebook, forum o altri siti internet per rendersi conto di quanti, soprattutto tra i giovani, hanno fatto salti di gioia nel vedere finalmente emergere, tra lo squallore di trasmissioni quali il Grandefratello o Amici una trasmissione dove si parla di cose serie, della difficoltà di chi cerca lavoro, di chi vive con cumuli putrescenti di spazzatura sotto il naso. Senza tanto clamore, senza il politichese incomprensibile dei dibattiti dove ci si urla addosso, senza inutili commenti. Solo fatti raccontati, storie, come le chiama Saviano, che parlano del malessere che ognuno di noi avverte quotidianamente. Ma, al di là dell’indubbia qualità del programma, qual è il messaggio che viene trasmesso, qual è la risposta che viene data alla voglia di reagire a tutto questo? Il monologo di Saviano sulla Costituzione italiana ed il voto di scambio, nell’ultima puntata di “Vieni via con me”[4], è chiaro: è facile criticare e tirarsi fuori dalla politica sporca. Bisogna invece “partecipare”. Non partecipare significa lasciare il paese ai potenti per i loro tornaconto. E partecipare significa difendere la Costituzione italiana, “farla vivere come una propria responsabilità”. Perché, come ci spiega altrove, la Costituzione non è né di destra né di sinistra, ma “una base per garantire una convivenza equa a tutti i cittadini, per conservare lo stato di diritto che è una condizione indispensabile anche per la lotta alle mafie. E credo pure che il suo richiamo all’unità di questo Paese sia qualcosa d’importante. Personalmente, terrei che continuasse a esistere un paese di nome Italia”[5].
“Dobbiamo semplicemente pretendere, come fanno migliaia di cittadini (forse quelli che vanno a votare? ndr), che la legge sia uguale per tutti, un diritto costituzionale, che è anche un dovere per chi ha le più alte responsabilità.(…) si può persino difendere la libertà, la giustizia, la legalità”[6].
Il messaggio è chiarissimo, puoi anche scendere in piazza a protestare per far sentire la tua voce quando i tuoi “diritti” vengono calpestati (come fanno a Terzigno o gli studenti), ma hai il “dovere” di assumerti le tue responsabilità che sono difendere la democrazia e la Costituzione che ne è il “pilastro”. Se non lo fai, se non rigetti il voto di scambio, se non combatti la mafia, chi specula, chi si arricchisce illegalmente, sei anche tu corresponsabile di tutto quello che a parole critichi e contribuisci a disgregare la tua patria!
Ma è proprio vero che questa Costituzione, o una qualsiasi altra, possa liberarci dallo stato di schiavitù salariare, dallo sfruttamento incessante, dalla necessità di sottomettere la maggior parte della nostra vita al bisogno della sopravvivenza? Che possa veramente riconoscere e garantire “i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità”, come è scritto nell’articolo 3? Nel capitalismo no! Perché il suo sistema economico si basa proprio sull’assoggettamento della stragrande maggioranza dell’umanità agli interessi di una ristretta classe dominante. La necessità per questa stragrande maggioranza non è sconfiggere questo o quel governo, mandare in galera tutti i mafiosi o i corrotti, ma distruggere il sistema stesso e con lui tutto il suo marciume.
Eva, 12-12-2010
[1] Vedi Dietro lo scandalo di escort, festini e cocaina, gli scontri nella maggioranza governativa [34], I perché dello scontro Fini-Berlusconi [43] e Il paradosso della borghesia italiana [97] in Rivoluzione Internazionale n°162, 165 e 167 rispettivamente.
[2] Vedi Epidemia di colera ad Haiti: la borghesia è una classe di assassini [98] sul nostro sito web.
[3] Vedi gli articoli A proposito degli appelli di Saviano. Se “la malavita avvelena la società”, la risposta non è più democrazia! [99] e L’emergenza rifiuti è solo in Campania? Una “zuppa di plastica” nell’Oceano Pacifico [100], Rivoluzione Internazionale 163 e 154 rispettivamente; “Disastri ambientali, inquinamento, variazioni climatiche. Il mondo sulla soglia di un collasso ambientale. 1a parte [101] Rivista Internazionale n. 30.
[5] Intervista esclusiva all’altro Saviano: “La lotta alla mafia non ha colore”, www.robertosaviano.it [103]
[6] “La macchina della paura”, di R. Saviano, La Repubblica del 29/9/2010
Pubblichiamo qui di seguito due volantini che rappresentano lo sforzo manifestato da una parte della classe operaia, ancora molto minoritaria, a prendere il controllo delle sue lotte. Il primo è stato redatto e adottato dall’Assemblea Generale di Saint-Sernin (Tolosa). Il secondo è stato realizzato da alcuni partecipanti all’Assemblea Generale interprofessionale della Stazione dell’est a Parigi.
Ci sarebbero molti altri episodi interessanti, tra i quali ricordiamo solo quelli di Tours o di Rennes, dove dei lavoratori si sono raggruppati in assemblee generali intercategoriali, e l’iniziativa della CNT-AIT che ha organizzato un po’ dappertutto in Francia delle Assemblee popolari autonome.
“L’emancipazione dei lavoratori sarà opera dei lavoratori medesimi” (Karl Marx).
Volantino dell’Assemblea generale di Saint-Sernin (Tolosa)
Di fronte alla determinazione di Sarkozy, i suoi mezzi di comunicazione e lo Stato poliziesco ad annullare la lotta attuale ed a screditarla attraverso le più infami provocazioni:
Disoccupati, pensionati, precari, lavoratori, studenti, universitari,
Affermiamo la nostra unità e prendiamo l’iniziativa delle nostre lotte!
La mobilitazione e l’entusiasmo manifestati in occasione della manifestazione di martedì scorso sono stati giganteschi. Noi abbiamo raggiunto il numero, adesso dobbiamo sviluppare la coscienza che soltanto attraverso il controllo delle lotte, la discussione la più larga possibile, la fusione di tutti i settori, l’appoggio degli studenti liceali ed universitari, dei precari e dei disoccupati possiamo realmente guadagnare ed imporre la volontà delle più ampie masse.
Teniamo immediatamente delle assemblee generali aperte a tutti, decidiamo azioni comuni che estendano il più possibile la lotta e la solidarietà! Condividiamo l’esperienza degli ultimi picchetti e blocchi: inviamo delle delegazioni di sostegno, coordiniamo i nostri sforzi. E’ arrivato infine il momento di portare la lotta nei settori più folti come Thales o Airbus. La nostra sola “violenza” è di voler generalizzare lo sciopero. La vera violenza è lo Stato che la genera e la provoca.
Solidarietà con le vittime della repressione! La lotta che noi portiamo avanti riceve la solidarietà da altri paesi, come in Spagna o in Grecia per esempio: in tutti i paesi, la classe operaia subisce le esigenze del Capitale e della sua sete irrefrenabile di accumulare.
I proletari di tutti i paesi contano sulla nostra vittoria per le loro lotte future!
Ritroviamoci per condividere le informazioni e le prospettive della lotta nell’Assemblea Generale alla fine della manifestazione, ma anche tutte le sere di questa settimana: Camera del lavoro, piazza Saint-Sernin – ore 18.00.
Volantino prodotto da pensionati, disoccupati, lavoratori e studenti riuniti davanti la Camera del Lavoro, 20/10/2010.
saint-sernin.internationalisme.fr
Volantino dei partecipanti all’Assemblea generale della Stazione dell’Est a Parigi
APPELLO a tutti i lavoratori
Per iniziativa dei ferrovieri della Stazione dell’Est e degli insegnanti del 18° Distretto, un centinaio di salariati (delle ferrovie, della scuola, delle poste, del settore agroalimentare, dell’informatica …), di pensionati, di disoccupati, studenti, di immigrati con o senza permesso di soggiorno, di sindacalizzati e non, si è riunito il 28 settembre e il 5 ottobre per discutere delle pensioni e più in generale degli attacchi che subiamo e delle prospettive che abbiamo di fronte per fare arretrare questo governo.
In occasione delle ultime giornate di azione siamo scesi a milioni a manifestare e a fare sciopero. E il governo non arretra ancora. Solo un movimento di massa sarà capace di farlo. Questa idea si sta facendo strada attraverso tutte le discussioni a proposito di sciopero illimitato, generale, prorogabile e del blocco dell’economia …
La forma che prenderà il movimento è un problema nostro. Tocca a noi tutti costruirlo sui nostri posti di lavoro attraverso i comitati di sciopero, nei nostri quartieri attraverso delle Assemblee Generali sovrane. Queste strutture devono riunire il più ampiamente possibile la popolazione lavoratrice, coordinata a livello nazionale attraverso dei delegati eletti e revocabili. Tocca a noi decidere sui mezzi di azione, sulle rivendicazioni … e a nessun altro.
Lasciare gli Chérèque (CFDT), Thibault (CGT) e compagnia decidere al nostro posto significa prepararsi a nuove sconfitte. Chérèque é per un’anzianità di lavoro di 42 anni. Non si può ugualmente avere fiducia in Thibault che non rivendica il ritiro della legge, così come non dimentichiamo che nel 2009 beveva champagne con Sarkozy mentre migliaia di noi venivano licenziati, lasciandoci sconfiggere separati gli uni dagli altri. Non abbiamo fiducia neanche nei pretesi sindacati “radicali”. La radicalità di Mailly (FO) è quella di stringere la mano a Aubry nella manifestazione mentre il PS vota per le 42 annualità. E per quanto riguarda la Sud-Solidaires, la CNT o l’estrema sinistra (LO, NPA), questa non ci offre altra prospettiva che l’unità sindacale. Vale a dire l’unità dietro quelli che vogliono negoziare dei passi indietro.
Se oggi i sindacati usano l’arma degli scioperi prorogabili, è soprattutto per evitare di farsi scavalcare. Il controllo delle nostre lotte serve come moneta di scambio per essere ammessi al tavolo dei negoziati … e perché? Per, come sta scritto nella lettera firmata da sette organizzazioni sindacali della CFTC a Solidaire, “fare intendere il punto di vista delle organizzazioni sindacali nella prospettiva di definire un insieme di misure giuste ed efficaci per assicurare la perennità del sistema delle pensioni per ripartizione.” Si può credere per un solo istante che vi possa essere un’intesa possibile con coloro che hanno messo le mani sulle nostre pensioni dal 1993 in poi, con quelli che hanno intrapreso la distruzione metodica delle nostre condizioni di vita e di lavoro?
La sola unità capace di far retrocedere questo governo e le classi dirigenti, é quella tra pubblico e privato, tra salariati e disoccupati, tra giovani e pensionati, tra lavoratori regolari e immigrati senza carta di soggiorno, tra sindacalizzati e non, che sia alla base di Assemblee Generali comuni dove siamo capaci noi stessi di controllare le lotte.
Noi pensiamo che il ritiro della legge sulle pensioni sia l’obiettivo minimo. Questo non ci deve bastare. Centinaia di migliaia di lavoratori in pensione già sopravvivono con meno di 700 euro al mese, mentre centinaia di migliaia di giovani vivacchiano con l’RSA, quando ce l’hanno, per mancanza di lavoro. Per milioni di noi, il problema cruciale è già quello di poter mangiare, avere un alloggio e potersi curare. Di queste cose non ne vogliamo più.
In realtà gli attacchi contro le pensioni sono l’albero che nasconde la foresta. Dall’inizio della crisi, le classi dirigenti con l’aiuto dello Stato gettano per la strada centinaia di migliaia di lavoratori, sopprimendo migliaia di posti nei servizi pubblici. E siamo solo all’inizio. La crisi continua e gli attacchi contro di noi diventano sempre più violenti.
Per far fronte alla situazione, dobbiamo soprattutto stare attenti a non avere alcuna fiducia nei partiti di sinistra (PS, PCF, PG …). Questi hanno sempre gestito lealmente gli affari della borghesia non rimettendo mai in discussione la proprietà privata industriale e finanziaria così come la grande proprietà fondiaria. D’altra parte, in Spagna come in Grecia, è la sinistra al potere che organizza l’offensiva del capitale contro i lavoratori. Per le nostre pensioni, la salute, l’istruzione, i trasporti e per non crepare di fame, i lavoratori dovranno accaparrarsi le ricchezze prodotte per sopperire ai loro bisogni.
In questa lotta, noi non dobbiamo apparire come difensori di interessi categoriali ma di quelli di tutti i lavoratori, compresi i piccoli contadini, i pescatori, i piccoli artigiani, i piccoli negozianti, che sono gettati nella miseria con la crisi del capitalismo. Li dobbiamo trascinare e metterci alla testa di tutte le lotte per meglio far fronte al Capitale.
Che noi siamo salariati, disoccupati, precari, lavoratori senza permesso di soggiorno, e indipendentemente di quale sia la nostra nazionalità, siamo tutti quanti nella stessa barca.
Vediamoci per discutere in Assemblea Generale intercategoriale martedì 12 ottobre alle ore 18,00 e mercoledì 13 ottobre alle ore 17,00. Camera del lavoro, métro République.
Alcuni lavoratori e precari dell’Assemblea Generale intercategoriale della Stazione dell’Est
([email protected] [105]) 8 ottobre 2010
In Irlanda i turisti sono invitati ad esplorare una terra di miti e leggende. Nel corso degli ultimi quindici anni racconti fantasiosi sullo stato dell’economia irlandese sono stati aggiunti in gran quantità alla mitologia. Nella metà degli anni 90 ci fu il mito della Tigre Celtica, della radicata prosperità irlandese. Come George Osborne (membro del Partito Conservatore) diceva nel 2006 “L’Irlanda rappresenta un fulgido esempio dell’arte del possibile nelle politiche economiche a lungo termine”. Ma da quando l’Irlanda è diventato il primo paese dell’eurozona ad entrare in recessione si sono susseguite, dal budget di emergenza dell’ottobre 2008 in poi, una serie crescente di misure di austerità e di fondi pompati nelle banche nel corso del 2009 e del 2010. Lungi dall’aver portato ad un lieto fine i tagli di spesa e gli aumenti fiscali hanno portato solo all’ultimo round di tagli e al piano di salvataggio da 85 miliardi di euro da parte del FMI, dell’UE e della BCE (Banca Centrale Europea). Non c’era nulla di sostanziale nella “prosperità” irlandese e l’imposizione dell’austerità porterà solo sofferenza, senza offrire alcuna soluzione alla crisi dell’economia capitalista.
L’ultima serie di attacchi
Le misure più recenti proposte alla fine di novembre non sono affatto le ultime: ne sono previste altre nel bilancio del 7 dicembre. Negli ultimi due anni abbiamo già visto la perdita di migliaia di posti di lavoro e il taglio dei servizi per la maggioranza della popolazione. Uno su sette è già ufficialmente senza lavoro ed ai lavoratori del settore pubblico sono già stati tagliati i salari. Nell’ultima busta paga il salario minimo è stato ridotto di 1 euro all’ora (cioè del 12%). La soglia minima per l’imposta sul reddito è stata ridotta da 18.000 a circa 15.300 euro, portando più lavoratori con basso reddito nel regime fiscale. Le pensioni sono state congelate per i prossimi quattro anni. L’età pensionistica sarà gradualmente aumentata a 68 anni. Ci saranno tagli di vari sussidi, tra cui l’indennità di disoccupazione, ma i dettagli saranno resi noti solo al 7 dicembre. La VAT (corrispondente all’IVA) salirà nel 2013 ed anche nel 2014. La Carbon Tax sta per essere raddoppiata. Sta per essere introdotta una nuova tassa per l’acqua, come pure una tassa sulla proprietà che interesserà tutte le famiglie. I calcoli del governo prevedono che 100.000 persone emigreranno entro il 2014.
In risposta ad ogni attacco del governo c’è stata una grande manifestazione organizzata dai sindacati. Questa volta il Congresso Irlandese dei Sindacati detto che le misure di austerità sono ingiuste e troppo dure ed che è un peccato che non fosse prevista una tassa sui profitti (Corporation Tax). Molti dimostranti hanno insistito sul fatto che il governo è stato una “marionetta della UE e del FMI”. Anche i ministri hanno lamentato il fatto che l’Irlanda, come il Portogallo, fosse obbligata ad accettare le condizioni della UE e del FMI. Mentre riceveva il sostegno finanziario dal FMI, da vari organismi dell’Unione Europea, da Regno Unito, Svezia e Danimarca, lo Stato irlandese è stato costretto a dare il suo contributo al fondo di salvataggio bancario prelevando 17.5 miliardi di euro dal National Pensions Reserve Fund (Fondo Nazionale di Riserva delle Pensioni). Perché allora il FMI e l’UE corrono in aiuto?. Dopo la Grecia, la borghesia internazionale temeva che il crollo delle economie dell’Irlanda e del Portogallo avrebbe avuto un impatto sulla stabilità non solo dell’eurozona ma ben oltre. Il Regno Unito non fa parte dell’eurozona, ma il governo ha ritenuto necessario dare 7 miliardi di euro proprio nell’interesse dell’economia britannica. Tutte le economie sono interdipendenti, nessuna può funzionare isolata dal resto dell’economia mondiale. Dopo l’ultimo salvataggio resta comunque una preoccupazione per la possibilità di successo con l’economia irlandese, così come ci si interroga su quale paese, tra Spagna, Italia e Belgio, possa essere il prossimo ad aver bisogno di cure urgenti.
Le false alternative
Per quanto riguarda la durezza degli attacchi, i “critici” possono non essere d’accordo sui dettagli, ma, come dappertutto, concordano sulla necessità di affrontare il deficit. Il Sinn Fein (movimento indipendentista irlandese [106]), per esempio, ha recentemente prodotto un documento intitolato “C’è un modo migliore”, che vantano esser stato “pienamente valutato e approvato da economisti indipendenti”. In esso sostengono che una maggiore tassazione delle società ricche e grandi genererà miliardi, e se il governo dovesse “prendere 7 miliardi di euro dal National Pensions Reserve Fund per tre anni e mezzo con un ampio programma di investimenti” ciò potrebbe “stimolare l’economia e creare posti di lavoro”. Il disavanzo verrebbe ridotto perché lo stimolo all’economia porterebbe crescita. L’esperienza dell’economia capitalista durante gli ultimi cento anni ha dimostrato, al contrario, che pur ricorrendo al debito, facendo investimenti, tagli alla spesa o aumenti delle tasse, nessun governo ha trovato un modo per sfuggire la realtà della crisi economica capitalistica.
Socialist Worker[1] del 27 novembre, scrivendo sulla crisi irlandese, trova una soluzione buona per tutti i paesi: “I governi potrebbero prendere le banche sotto il pieno controllo – prelevando gli utili, saccheggiando i banchieri e utilizzando il denaro per progetti di cui ha bisogno la società ... Le tasse devono essere aumentate in maniera massiccia sui ricchi e le imprese (...). Le spese per la guerra imperialista e l’esercito dovrebbero cessare da domani. Governi come la Grecia e l’Irlanda potrebbero sfidare il Fondo Monetario Internazionale e l’Unione Europea sulle richieste di tagli”.
La nazionalizzazione delle banche è già molto spinta in Irlanda, come altrove. Dopo l’ultimo salvataggio, la partecipazione del governo nella Allied Irish Bank è superiore al 96%; nella Anglo Irish Bank è al 100%; nella Bank of Ireland (così rimpicciolita che è ormai un istituto finanziario più piccolo dell’allibratore Paddy Power, ma è ancora una banca) è oltre il 70%, nella Irish Nationwide è al 100%, così per l’EBS. L’intervento dello Stato capitalista in ogni aspetto della vita economica è stato una tendenza dominante nel secolo scorso e in nessun modo ha rappresentato un guadagno per la classe operaia. Il SWP parla della necessità di un “potente movimento di massa”, ma in realtà solo come sostegno ai governi. Dire che la Grecia o l’Irlanda potrebbero “sfidare” il Fondo Monetario Internazionale e l’Unione Europea significa negare la realtà dell’economia capitalista: i mendicanti non possono scegliere. E se ci dovesse essere una folle manifestazione di “sfida”, la rinuncia alla spesa militare sarebbe sconsigliabile, perché le potenze capitaliste potrebbero facilmente ricorrere alla forza militare per far rispettare la loro volontà.
Per quanto riguarda l’aumento della tassazione, c’è dietro l’idea che se la società capitalista fosse organizzata in modo diverso si potrebbe funzionare senza sfruttamento e crisi economica. Un anno fa, nel dicembre 2009, il ministro delle finanze irlandese Brian Lenihan ha dichiarato: “Abbiamo svoltato l’angolo … Se adesso lavoriamo insieme e condividiamo gli oneri, possiamo avere una crescita economica sostenibile per tutti”. Un anno dopo possiamo vedere che non c’è stata alcuna svolta e che, lungi dal condividere l’onere, i più poveri ne sono le maggiori vittime. Per quanto riguarda la crescita e la sostenibilità, laddove sia possibile dimostrare che ci siano, si può essere certi che sarebbero comunque a spese di qualche altro paese.
Le grandi manifestazioni che hanno accompagnato ogni annuncio di nuovi attacchi hanno dimostrato che c’è una rabbia diffusa in Irlanda. Secondo i sondaggi, il 57% della gente pensa che il governo non dovrebbe pagare i suoi debiti. Ma questo non porterebbe alcun vantaggio così come non lo portano le manifestazioni controllate dai sindacati. Come dappertutto, i bisogni della classe operaia possono essere soddisfatti solo lottando per i propri interessi, organizzandosi in prima persona, discutendo come e su quali obiettivi lottare. Riporre ogni fiducia nei governi o nei sindacati è fatale per le lotte dei lavoratori. La storia del movimento operaio dall’inizio del secolo scorso ad oggi mostra che le riforme dei governi ed i cortei sindacali non offrono nulla alla classe operaia, l’unica prospettiva certa sta nello sviluppo di lotte di massa per la conclusione ultima del rovesciamento rivoluzionario del capitalismo.
World Revolution, 1/12/10, organo della CCI in Inghilterra
Il 17 febbraio 2010 il segretario alla difesa americano, Robert Gates, ha approvato, in una nota indirizzata al capo del Comando Centrale David Petraeus, la nuova strategia della missione americana in Iraq. Nella nota egli sottolinea che l’operazione “Iraqi Freedom”, il nome americano per l’invasione del 2003 e l’occupazione di questo paese per sette anni, “è giunto alla fine e le nostre forze operano nel quadro di una nuova missione” Sei mesi dopo, il 19 agosto, le ultime brigate americane di combattimento hanno attraversato la frontiera irakena per entrare in Kuwait, e 12 giorni dopo, cioè più di sette anni dopo che il presidente Bush aveva fatto un annuncio simile, il presidente Obama annunciava “la fine della nostra missione di guerra in Iraq”.
La politica estera americana nell’era del dopo Guerra Fredda
Al momento della guerra del Golfo, nel 1991, la principale preoccupazione della borghesia americana era quella di rafforzare il suo controllo su un blocco imperialista i cui membri di secondo piano avevano perduto le motivazioni per aderire alla signoria americana dopo il crollo del blocco dell’Est e la diminuzione della minaccia costituita dalla Russia. Prima di questo avvenimento, per gli USA era molto facile implicare nell’intervento militare, non solo i paesi della NATO, ma anche l’URSS che stava affondando, tramite le sanzioni dell’ONU. Il decennio seguente ha visto il rafforzamento della tendenza al “ciascuno per sé” a livello delle tensioni imperialiste, con delle potenze di seconda e terza categoria sempre più spinte alla difesa dei propri interessi (nell’ex Jugoslavia, nel Medio Oriente, in Africa). L’obiettivo degli Stati Uniti nel 1991 era quindi quello di stabilire un controllo militare in zone di importanza strategica in Asia e in Medio Oriente che potessero essere utilizzate per esercitare una pressione sui suoi concorrenti, piccoli e grandi.
Gli attentati dell’11 settembre sono stati l’occasione per lanciare la “guerra contro il terrorismo” e giustificare la prima incursione in Afganistan nel 2001, ma lo slancio non è durato a lungo. Nel 2003 gli Stati Uniti sono stati incapaci di mobilitare la loro vecchia coalizione per la seconda mobilitazione in Iraq. La Francia e la Germania, in particolare, pur non potendo creare un loro proprio blocco imperialista, si sono mostrate reticenti a seguire gli Stati Uniti, vedendo la “guerra al terrorismo” per quello che effettivamente era: un tentativo degli Stati Uniti di rafforzare la loro posizione di superpotenza mondiale.
Le vere intenzioni del ritiro americano dall’Iraq
Nel 2007 c’è stato un notevole cambiamento nella strategia americana in Iraq a causa delle molteplici difficoltà incontrate. La prima è stata una sanguinosa contro-insurrezione che alla fine ha visto la morte di 4.400 soldati americani, 36.000 feriti e 100.000 civili irakeni morti (anche se certe stime parlano di più di mezzo milione, comunque ben al di sopra delle “decine di migliaia” riportate dai principali mezzi di informazione). La guerra in Iraq stava diventando un vero inferno e il più grande disastro sul piano delle relazioni pubbliche, vista anche l’inesistenza delle “armi di distruzione di massa” che erano state la giustificazione dell’invasione. Il fantasma del Vietnam percorreva i corridoi di Washington. E pesava anche il costo crescente della guerra: lo stesso Obama ha ammesso che è costata più di un bilione di dollari[1]. e che ha contribuito al deficit del bilancio e danneggiato la capacità dell’economia americana di far fronte alla crisi economica. Una seconda preoccupazione è stata la controffensiva dei talebani in Afganistan, espulsi dalle forze americane nel 2001, ma non vinti, e l’estensione degli attacchi terroristi in Europa e in Asia sostenuti da elementi con base nelle regioni frontaliere dell’Afganistan e del Pakistan.
Quando Kerry, che aspirava alla ricomposizione del vecchio blocco imperialista, si è dimostrato ineleggibile, gli Stati Uniti hanno puntato ad affermare la loro supremazia sulla regione. Adottata questa strategia, il dibattito ha cominciato ad accentrarsi sul numero di soldati necessari per un tale obiettivo. Rumsfeld si fissava sul suo progetto di una militarizzazione più leggera, più automatizzata. I democratici, alleati con certi elementi della destra, erano sostenere il “pic”, un dispiegamento temporaneo di truppe supplementari in Iraq per mantenere l’ordine, difendere la giovane “democrazia” e assicurare il trasferimento delle responsabilità militari alle forze irakene. Questa fu la politica di Bush nei suoi ultimi anni di presidenza, e questa è ora la politica di Obama in Afganistan.
La strategia complessiva adottata dalla borghesia americana è rimasta essenzialmente la stessa. Se l’amministrazione Obama sembra mettere l’accento innanzitutto sulla diplomazia, in realtà c’è continuità con l’amministrazione precedente. Come lo stesso Obama ha detto nel discorso del 31 agosto: “… uno degli insegnamenti dei nostri sforzi in Iraq è che l’influenza americana nel mondo non è funzione della sola forza militare. Noi dobbiamo utilizzare tutti gli elementi della nostra potenza, compreso la nostra diplomazia, la nostra forza economica, e il potere dell’esempio dell’America, per garantire i nostri interessi e sostenere i nostri alleati… Gli Stati Uniti d’America hanno l’intenzione di mantenere e rafforzare la nostra leadership in questo nuovo secolo…”.
Bilancio della guerra in Iraq
Dobbiamo pensare che il ritiro delle forze americane dall’Iraq significhi che il mondo è ora un posto più sicuro? Per niente! Il Segretario alla Difesa, Bob Gates, è stato ancora più esplicito di Obama: “Anche con la fine ufficiale delle operazioni di combattimento, l’esercito americano continuerà a sostenere l’esercito e la polizia irakene, ad aiutare lo sviluppo della marina e della forza aerea dell’Iraq, e ad aiutarlo nelle sue operazioni di lotta contro il terrorismo”.
L’amministrazione americana afferma pubblicamente di essere ampiamente soddisfatta dello stato del governo e della società civile in Iraq. Tuttavia l’Iraq detiene oggi il record per il numero di volte in cui uno Stato-nazione moderno non riesce ad avere un governo efficace. Anche se l’Iraq sembra sufficientemente forte da permettere agli Stati Uniti di occuparlo di meno, questi devono ancora rinforzare lo Stato iracheno formando altri militari e poliziotti. Gli Stati Uniti lasciano in Iraq un esercito di 50.000 soldati “non combattenti” per almeno un anno. Queste forze permetteranno loro un dominio senza rivali sul governo irakeno: nessun’altra potenza ha una forza simile così vicina ai centri del potere irakeno e così necessaria perché quest’ultimo continui ad esistere. Questo approccio è simile a quello avuto dagli Usa in Corea del Sud dopo la seconda Guerra Mondiale, dove furono stanziati 40.000 soldati per mantenere una presenza nella regione. Il fatto di avere delle basi militari nell’Iraq, anche se in numero più ridotto, assicurerà agli Stati Uniti una certa pressione sull’Iran e su altre potenze regionali.
Bisogna fare attenzione ad avere una visione troppo superficiale dell’influenza dell’amministrazione americana. In realtà è molto probabile che l’Iraq si disintegri quando gli Stati Uniti se ne andranno, con tutte le differenti parti che contribuiranno allo scoppio del paese, in particolare i nazionalisti curdi, con lo scatenamento di una guerra civile. Anche la situazione dell’Afganistan è assolutamente catastrofica e mostra tutti i segni di un peggioramento, con il rischio della disintegrazione del Pakistan e dell’esportazione della guerra in questo paese.
Nonostante le disillusioni, la borghesia americana ha quanto meno registrato il fatto che esiste un mondo di tutti contro tutti, ed ha tirato delle preziose lezioni sulla maniera di fare la guerra e di condurre un’occupazione oggi. Il ritiro delle truppe dall’Iraq non significa la fine della guerra. Da una parte, le truppe americane avranno una presenza permanente nel paese, e Stati Uniti, Turchia, Israele, Russia, Iran e Germania continueranno i loro giochi di influenza imperialista nella regione come facevano prima. Dall’altra parte, gli Stati Uniti potranno concentrare i loro sforzi sull’Afganistan, e avranno anche liberato una certa capacità per intervenire in altre parti del mondo. La fine della guerra in Iraq, sotto l’influenza dell’imperialismo, è, in effetti, la continuazione di una guerra già devastante e l’inizio di guerre altrove. La conseguenza logica dell’imperialismo è la distruzione dell’umanità. Di fronte a ciò, il difensore dell’umanità è il proletariato, portatore di comunismo.
RW, 10 novembre2010
(da Internationalism, organo della CCI negli USA)
Il fango tossico rosso proveniente dalla fabbrica di alluminio in prossimità della città di Ajka[1], che ha insozzato il Danubio, inondando i corsi d’acqua vicini e i villaggi di Devecser Kolontar (i più toccati), non poteva che generare un sentimento di desolazione. Si tratta del più grave inquinamento che l’Ungheria abbia conosciuto nella sua storia! Sono migliaia i metri cubi di fango tossico che sono stati riversati nella natura. Tuttavia, al di là delle immagini spettacolari del paesaggio devastato dei primi servizi televisivi, un’altra realtà altrettanto scioccante, ma molto meno pubblicizzata, si faceva strada tra le righe dei comunicati ufficiali: quella delle persone morte, nell’immediato e successivamente. L’orrore generato dalla decina di vittime (tra cui una bimba di 14 mesi), dai dispersi, il fatto che più di un centinaio di feriti con gravi lesioni si ritrova oggi in preda ad atroci sofferenze. Questo fango rosso, corrosivo e caustico, contenente metalli pesanti e leggermente radioattivo, provoca in effetti delle forti bruciature e irrita fortemente gli occhi. Migliaia di abitanti hanno deciso di fuggire da casa per evitare di mettere in pericolo la loro salute.
Tutti i drammi umani di questa catastrofe sono stati intenzionalmente nascosti nei commenti che i giornalisti ci hanno presentato. Come al solito la classe dominante ha minimizzato la catastrofe: “Il rischio di inquinamento del Danubio a causa del fango rosso tossico è evitato”. Ecco cosa annunciava il Primo ministro ungherese, Victor Orban, in una conferenza stampa a Sofia solo qualche giorno dopo l’incidente, aggiungendo senza arrossire che “le autorità ungheresi controllavano la situazione”[2]. Allo stesso tempo i giornalisti hanno distolto l’attenzione e la riflessione sulle conseguenze tragiche dell’incidente, contentandosi di immagini spettacolari, destinate a terrorizzare le popolazioni, evitando così ogni vera spiegazione[3]. Comunque, secondo la propaganda dello Stato, gli incidenti industriali legati ai “rischi tecnologici”[4] sono solo “l’inevitabile prezzo da pagare per l’avanzare del progresso”. In altre parole, il fatto che ci siano delle vittime deve essere accettata come una fatalità, per non dire come qualche cosa di “normale”!
Non possiamo che denunciare con rabbia e indignazione questa nauseabonda ideologia e soprattutto la volontà di nascondere degli omicidi programmati da una classe capitalista senza scrupoli. Non possiamo che denunciare con fermezza la barbarie che obbliga le popolazioni a vivere in un ambiente pericoloso, per poi spostare freddamente dei cittadini, come se si spostassero dei polli d’allevamento, dopo che li si è deliberatamente sovraesposti ai rischi, in totale disprezzo della loro vita.
Da tempo erano state individuate delle perdite di fango rosso da un serbatoio difettoso e si sapeva a quali rischi di contaminazione diretta i villaggi vicini e i corsi d’acqua erano sottoposti. L’esposizione delle popolazioni non era un segreto per i padroni e per i politici locali! Ma poiché la prevenzione non è un’attività che rende, la borghesia ha preferito economizzare, anche a costo di giocare alla roulette russa con una parte della popolazione. A questo gioco sono sempre gli stessi che la pagano.
Gli “esperti”, i politici, i padroni e i giornalisti sanno perfettamente che la zona industriale del Danubio è una discarica a cielo aperto, che le istallazioni vecchie, non messe in sicurezza per mancanza di mezzi, non possono che provocare nuove catastrofi delle stesso tipo. Dalle prime fuoriuscite di fango hanno fatto di tutto per minimizzare l’ampiezza dei danni, per sminuire l’impatto della catastrofe. Dopodiché, di fronte all’evidenza, hanno fatto finta di scoprire con sorpresa le condizioni di questa nuova catastrofe, puntando il dito sull’eredità lasciata loro dal periodo del cosiddetto “comunismo”, per meglio assolvere il proprio sistema e la loro responsabilità[5].
Anche se oggi i mezzi di informazione sono passati ad altro, se l’avvenimento non fa più notizia, la catastrofe e le sofferenze non sono ancora terminate!
Questa catastrofe non è né naturale, né è il prodotto della fatalità. Essa è l’espressione della follia distruttrice generata dalla ricerca sfrenata del profitto. La concorrenza sfrenata, in un mondo in cui i mercati si restringono come un tessuto bagnato, obbliga tutti gli industriali e gli Stati ad assumere sempre più rischi, a ridurre sempre più i margini di sicurezza per fare economia. Nello stesso tempo le risorse naturali sono sottoposte dappertutto a un vero saccheggio e sono sottomesse a distruzioni accelerate. La catastrofe in Ungheria ne è un esempio. Non solo il Danubio, secondo fiume europeo per lunghezza, è inquinato, ma certi corsi d’acqua appartenenti al suo bacino idrografico hanno un ecosistema completamente distrutto. E’ il caso del fiume Marcal (che si getta nel Raab, affluente diretto del Danubio) dove i pesci morti galleggiano su un’acqua color ruggine. Ci vorranno molti anni, se non decenni, prima di vedervi rinascere la vita; senza contare i danni prodotti in tutte le terre circostanti e le acque di infiltrazione, di ruscellamento e quelle che filtrano fino ad arrivare nella falda freatica. Più di un migliaio di ettari contaminati hanno ormai danneggiato l’attività agricola e la catena alimentare di questo spazio inquinato. Dopo un certo tempo cosa provocherà la polvere, quando il fango si sarà seccato? Perché è stato appurato che finché i fanghi restano liquidi la loro pericolosità è minore.
Ancora una volta la borghesia mostra il suo disinteresse e il suo disprezzo totale per la vita umana. E non solo il suo istinto di classe è guidato solo dalla sete di un profitto immediato, ma il suo accecamento è tale che essa scivola ogni giorno di più sulla china su cui si trova. Certo, esistono dei borghesi che chiedono al resto della propria classe di frenare la caduta verso la catastrofe. E’ tempo perso, perché la logica generale del capitalismo del profitto immediato, congiunta con l’involuzione attuale nella crisi e dunque nel crollo di intere porzioni di economia, non può che spingere ancora più i rapaci dell’industria e della finanza a succhiare fino al midollo le poche industrie ancora redditizie, le regioni del pianeta in cui è ancora possibile un profitto rapido sfruttando peggio delle bestie i proletari, infischiandosene di ogni misura di sicurezza, troppo “costose”. E questo anche a costo di trascinare con loro, e senza pensarci su un secondo, il resto dell’umanità.
WH (14 ottobre 2010)
[1] A 160 chilometri a ovest della capitale, Budapest.
[2] fr.sputniknews.com [108].
[3] Ricordiamo, tra l’altro, il silenzio orchestrato non molto tempo fa sugli 11 operai morti a seguito dell’esplosione della piattaforma petrolifera nel Golfo del Messico. Tutte le immagini mostrate di questa spettacolare esplosione sono state accompagnate da commenti che hanno sistematicamente omesso di parlare delle vittime (Vedi Révolution Internationale n°413, giugno 2010).
[4] Nei programmi di geografia dei licei francesi esiste un argomento di studio dal titolo « rischi tecnologici ». Una maniera per abituare i giovani ad integrare con fatalismo il fatto che le popolazioni urbane sono sempre più esposte alle catastrofi.
[5] In Francia, a Gardanne (Bouches-du-Rhône), il problema posto da una parte di questi fanghi, in forma liquida, è stata regolata in partenza: sono stati buttate al largo, nel mare Mediterraneo!
Legalmente spetterebbe ai sindacati il compito ufficiale di organizzare queste lotte e la risposta a tutti gli attacchi. Questi dovrebbero quindi essere in piena attività per tessere legami tra le fila operaie. Ma che cosa fanno? Esattamente il contrario! Questi “professionisti della lotta” non smettono nemmeno un attimo di organizzare... la dispersione e la divisione! Una giornata di sciopero qui per questa fabbrica, una giornata di lotta per quel settore pubblico lì... La risposta orchestrata dai sindacati non è semplicemente “debole”, è soprattutto frammentata, spezzettata, impregnata di veleno corporativo. Non c’è modo migliore per portare la classe operaia alla sconfitta.
Allora, perché il sindacato fa questa politica? Si tratta semplicemente di un errore tattico o invece sono proprio i sindacati a pugnalare volontariamente la classe operaia alla schiena? A quale campo appartengono veramente i sindacati?
19° secolo: i sindacati, strumenti per la lotta e la solidarietà operaie
Per comprendere ciò che è diventato il sindacalismo oggi, occorre inevitabilmente rifarci al suo passato. In realtà il sindacalismo si è sviluppato in una situazione storica particolare, durante la più dinamica e fiorente epoca del capitalismo, il 19° secolo. Questo sistema è in piena espansione. Le merci inglesi, tedesche, francesi invadono tutti i continenti. Data l’ottima salute economica, il capitalismo è in grado di concedere importanti miglioramenti alle condizioni di vita di numerose categorie della classe operaia. Pertanto, quando lotta, il proletariato riesce a strappare delle riforme reali e durature. Nel 1848, per esempio, la classe operaia ottiene in Inghilterra una riduzione del tempo di lavoro da dodici a dieci ore al giorno[1]. E’ proprio per portare avanti queste lotte che gli operai si organizzano in sindacati.
Nel 19° secolo, ogni padrone affronta direttamente ed isolatamente gli operai che sfrutta. Non c’è unità padronale organizzata (solo nell’ultimo terzo del secolo si sviluppano sindacati padronali). Meglio ancora, in questi conflitti, non è raro vedere dei capitalisti approfittare delle difficoltà di una fabbrica concorrente in sciopero per appropriarsi della sua clientela. In quanto allo Stato, in generale questo si tiene al di fuori di tali conflitti, intervenendo solo nel caso limite quando cioè questi ultimi rischiano di turbare “l’ordine pubblico”. La forma della lotta operaia corrisponde evidentemente a queste caratteristiche del capitale. Gli scioperi sono in genere di lunga durata. Questa è una delle condizioni della loro efficacia per piegare, attraverso la pressione economica, il padrone minacciato di bancarotta. Queste lotte che espongono gli operai al rischio di carestia, richiedono una necessaria preparazione preventiva di fondi di sostegno (“casse di resistenza”) e di far ricorso alla solidarietà finanziaria degli altri operai, da una corporazione all’altra ed anche da un paese all’altro.
La forma che prende il sindacalismo è adeguata a questi tipi di lotta. I sindacati sono generalmente delle organizzazioni unitarie (capaci di raggruppare l’insieme dei lavoratori, di una stessa corporazione) e permanenti (esistenti anche al di fuori dei periodi di sciopero al fine di prepararli). In altre parole, la lotta sistematica per le riforme è un compito permanente che unisce gli operai. Concretamente, gli operai vivono all’interno del sindacato. Giorno dopo giorno si raggruppano, discutono, si organizzano e preparano la lotta futura. I sindacati sono allora dei veri focolari di vita della classe; costituiscono delle scuole di solidarietà dove gli operai comprendono la loro appartenenza ad una stessa classe.
Marx ed Engels così sottolineano questo ruolo inestimabile dei sindacati: “I sindacati e gli scioperi che intraprendono hanno un’importanza fondamentale perché sono il primo tentativo fatto dai loro operai per sopprimere la concorrenza. Implicano di fatto la coscienza che il dominio della borghesia si basa necessariamente sulla concorrenza tra gli stessi operai, cioè sulla divisione del proletariato e sull’opposizione tra gruppi individualizzati di operai” (Raccolta di testi su “Il sindacalismo” Edizioni Maspéro). O ancora: “La grande industria raccoglie in un solo luogo una folla di persone sconosciute le une alle altre. La concorrenza le divide, nei loro interessi. Ma il mantenimento del salario, questo interesse comune che essi hanno contro il loro padrone, li unisce in uno stesso proposito di resistenza: coalizione. Così la coalizione ha sempre un duplice scopo, di far cessare la concorrenza degli operai tra loro, per poter fare una concorrenza generale al capitalista. Se il primo scopo della resistenza era solo il mantenimento dei salari, nella misura in cui i capitalisti si uniscono a loro volta in un proposito di repressione, le coalizioni, dapprima isolate, si costituiscono in gruppi e, di fronte al capitale sempre unito, il mantenimento dell’associazione diviene per gli operai più necessario ancora di quello del salario. Ciò è talmente vero, che gli economisti inglesi rimangono stupiti a vedere come gli operai sacrifichino una buona parta del salario a favore di associazioni che, agli occhi di questi economisti, erano istituite solo a favore del salario” (Marx, Miseria della Filosofia).
20° e 21° secolo: i sindacati, strumento di divisione e sabotaggio delle lotte
All’inizio del 20° secolo, le condizioni che avevano permesso la straordinaria espansione del capitalismo cominciano a sparire. La costituzione del mercato mondiale si conclude e, con essa, si inaspriscono gli antagonismi tra potenze capitaliste per la dominazione dei mercati. Lo scatenamento della prima carneficina mondiale nel 1914 segna l’entrata del capitalismo nella sua fase di decadenza[2]. La vita economica e sociale di ogni nazione, ma soprattutto la vita e la lotta del proletariato, si trovano profondamente sconvolte. Il sistema capitalista ha smesso di essere progressista. Da allora, la guerra economica spietata alla quale si dedicano tutte le nazioni per la ripartizione dei mercati si traduce in una lotta accanita di ogni capitale nazionale contro ogni miglioramento duraturo delle condizioni di esistenza della “sua” classe operaia. Nessun capitale nazionale può più accordare concessioni al “suo” proletariato senza correre lui stesso il rischio di arretrare sull’arena internazionale nei confronti dei rivali. Pertanto le basi dell’attività proletaria sul piano della conquista delle riforme diventano caduche. D’ora in poi, di fronte alla classe operaia, c’è un’unità ed una solidarietà ben più grande tra i capitalisti di una stessa nazione. Questi creano organizzazioni specifiche per non affrontare più individualmente la classe operaia. E soprattutto lo Stato, che esercita un controllo sempre più potente, onnipresente e sistematico su tutti gli aspetti della vita sociale, interviene direttamente nei conflitti sociali opponendosi al proletariato in quanto rappresentante degli interessi della borghesia nel suo insieme. Di conseguenza, lo sciopero lungo in una sola fabbrica non è più un’arma efficace. Al contrario, sono gli operai che finiscono per sfiancarsi e riprendere il lavoro, demoralizzati. Il successo degli scioperi non dipende più dai fondi finanziari raccolti dagli operai ma fondamentalmente dalla loro capacità a coinvolgere una parte crescente dei loro fratelli di classe di fronte all’insieme del capitale nazionale, di cui lo Stato è l’incarnazione. In altre parole, la solidarietà nei riguardi dei lavoratori in lotta non risiede più nel solo sostegno finanziario ma nell’unirsi alla lotta. Una tale dinamica di estensione della lotta, specifica al periodo di decadenza, non può essere pianificata in anticipo. Al contrario, gli scioperi esplodono spontaneamente. Il sindacato, quest’organo specializzato nel 19° secolo alla pianificazione ed el finanziamento delle lotte per corporazione, di questo braccio di ferro tra un padrone ed i “suoi” operai, diventa non solo inadatto ma un freno allo sviluppo della lotta. Se nel 19° secolo i sindacati operai potevano essere delle organizzazioni permanenti ed unitarie della classe operaia perché la lotta sistematica per le riforme poteva produrre riforme durature e con risultati concreti, con l’entrata nella fase di decadenza del capitalismo, non è più possibile avere un raggruppamento generale e permanente del proletariato. Questo non può organizzarsi per molto tempo e in massa intorno ad un’attività senza avere un’efficacia immediata.
L’esperienza delle lotte operaie dall’inizio del 20° secolo ha provato largamente che non è possibile mantenere un rapporto di forze contro la borghesia ed il suo Stato al di fuori delle fasi di lotte aperte. In particolar modo perché, immediatamente dopo la lotta, lo Stato fa gravare di nuovo pesantemente le necessità del capitalismo in crisi sulla classe operaia e impone con ancora più determinazione nuovi attacchi. Sotto la penna di Rosa Luxemburg, alcune righe bastano a fare vivere tutto questo profondo sconvolgimento per la lotta del proletariato. Descrivendo il grande sciopero che animò gli operai in Belgio nel 1912, uno sciopero che aveva “il carattere metodico, rigorosamente limitato, di uno sciopero sindacale ordinario”[3], Rosa Luxemburg dimostra magistralmente che i metodi sindacali sono diventati obsoleti e nocivi, ed afferma con forza la maggiore importanza della spontaneità e della presa in mano delle lotte direttamente da parte degli operai: “Spontaneamente, come un uragano, il proletariato belga si sollevò di nuovo dopo le elezioni del giugno 1912, (...). Poiché era impossibile domare diversamente l’impetuosa volontà popolare, si propose agli operai di disarmare lo sciopero di massa già iniziato e di preparare in modo completamente sistematico uno sciopero di massa. (...) La preparazione di lungo periodo dello sciopero di massa appariva questa volta come un mezzo per calmare le masse operaie, per spegnere il loro entusiasmo combattivo e per far loro abbandonare provvisoriamente l’arena. (...) È così che si realizzò finalmente lo sciopero di aprile, dopo nove mesi di preparazione e dei tentativi ripetuti per impedirlo e rinviarlo. Dal punto di vista materiale, esso fu preparato certamente come mai lo era stato nessuno sciopero di massa al mondo. Se delle casse di soccorsi molto copiose e la ripartizione molto organizzata dei viveri avessero dovuto decidere dell’esito di un movimento di massa, lo sciopero generale belga di aprile avrebbe dovuto fare miracoli. Ma il movimento rivoluzionario di massa non è purtroppo un semplice calcolo che si può risolvere con i libri cassa o con i depositi di viveri delle cooperative. Il fattore decisivo in ogni movimento di massa è l’energia rivoluzionaria delle masse, lo spirito di risoluzione dei capi e la loro precisione sullo scopo da raggiungere. Questi due fattori riuniti possono, all’occorrenza, rendere la classe operaia insensibile alle privazioni materiali più dure e farle compiere, a dispetto di queste privazioni, le prodezze più grandi. Essi al contrario non possono essere sostituiti da casse di soccorso ben guarnite”[4]. Rosa Luxemburg già percepiva il ruolo crescente dello Stato contro la classe operaia e le sue ripercussioni sulla lotta: “È chiaro, in ogni caso - ed è ciò che conferma la storia degli scioperi di massa nei differenti paesi - che più uno sciopero politico cade velocemente ed inaspettatamente sulla testa delle classi dirigenti, più l’effetto è grande e la probabilità di vittoria considerevole. Quando il Partito operaio annuncia, tre trimestri in anticipo, la sua intenzione di scatenare uno sciopero politico, non è solamente lui, ma anche la borghesia e lo Stato che guadagnano tutto il tempo necessario per prepararsi materialmente e psicologicamente a questo avvenimento”[5].
Se i sindacati sono il prodotto della possibilità della lotta per le riforme nel capitalismo ascendente del 19° secolo, ciò significa anche che sono segnati dal marchio di questo periodo storico particolare. L’arma sindacale fu forgiata ed affilata dal proletariato per condurre le battaglie per le riforme, non per distruggere il capitalismo ed il salariato. Pertanto quando il capitalismo smette di essere progressista, diventa un sistema decadente e “l’era delle riforme” lascia il posto a “l’era delle guerre e delle rivoluzioni”, i sindacati smettono di essere uno strumento della classe operaia per diventare al contrario il braccio armato della borghesia contro gli interessi della classe operaia. Così durante la Prima Guerra mondiale si è potuto assistere all’integrazione definitiva dei sindacati allo Stato totalitario ed alla sua partecipazione attiva alla mobilitazione degli operai nella carneficina imperialistica, affianco ai partiti socialdemocratici. Nell’ondata rivoluzionaria internazionale che seguirà questi faranno di tutto per ostacolare gli slanci del proletariato. Da allora i sindacati appartengono alla borghesia e si sono integrati definitivamente nello Stato ergendosi al suo fianco rispetto alla classe operaia. Del resto anche finanziariamente i sindacati sono tenuti in vita, non dagli operai, ma in maniera determinante dallo Stato. Essi costituiscono uno degli ingranaggi essenziali dell’apparato statale. Tutta la loro attività è orientata verso il sostegno della borghesia ed il sabotaggio “l’interno” delle lotte operaie. Partecipano attivamente alla regolamentazione del lavoro permettendo l’intensificazione dello sfruttamento. Mostrano un grande zelo nel far rispettare “il diritto del lavoro”, cioè il diritto borghese che codifica lo sfruttamento. Fanno del negoziato uno scopo in sé, nel segreto degli uffici padronali o ministeriali, chiedendo agli operai di mettersi nelle loro mani, di delegare loro il potere, per controllare meglio le lotte. La loro funzione è non solo inquadrare la classe operaia e le sue lotte, ma assicurare continuamente una presenza poliziesca nelle fabbriche, gli uffici, le imprese. Dividono ed isolano gli operai servendosi del corporativismo allo scopo di impedire l’unificazione delle lotte e la loro necessaria generalizzazione. In breve, da più di un secolo e fino ad ora, i sindacati sono i cani da guardia del capitale!
Come lottare e sviluppare la solidarietà operaia?
Come battersi senza i sindacati? Come eliminare questi “professionisti ufficiali della lotta?” La principale debolezza di ogni classe sfruttata è la mancanza di fiducia in sé stessa. Nelle società divise in classi tutto viene costruito per inculcare nello spirito degli sfruttati l’idea del carattere inevitabile della loro situazione e della loro impotenza a sconvolgere l’ordine delle cose, sentimento che i “professionisti dello sciopero”, questi impiegati a tempo indefinito pagati dallo Stato, sostengono vivacemente. Invece, la classe operaia è capace di battersi massicciamente e di prendere le redini, in prima persona, dell’organizzazione della lotta. Da più di 100 anni, le uniche grandi lotte sono state gli scioperi selvaggi, spontanei e di massa. E tutte queste lotte si sono date come base di organizzazione, non la forma sindacale, ma quella delle assemblee generali, dove tutti gli operai discutono della propria loro lotta e dei problemi da risolvere, con i comitati eletti e revocabili per centralizzare la lotta. Il grande sciopero del Maggio 1968 in Francia si scatena nonostante i sindacati. In Italia, durante gli scioperi dell’autunno caldo del 1969, i lavoratori cacciano i rappresentanti sindacali dalle assemblee di scioperanti. Nel 1973, gli scaricatori di Anversa in sciopero attaccano il locale dei sindacati. Negli anni 1970, in Inghilterra, gli operai malmenano spesso i sindacati proprio come quelli di Longwy, Denain, e Dunkerque in Francia, all’epoca dello sciopero del 1979. Nell’agosto 1980, in Polonia, gli operai rigettano i sindacati che sono apertamente degli ingranaggi dello Stato ed organizzano lo sciopero di massa sulla base di assemblee generali e comitati eletti e revocabili, gli MKS. Durante i negoziati, vengono utilizzati dei microfoni affinché tutti gli operai possano seguire, intervenire e controllare i delegati. Ed occorre ricordare in particolare come questa lotta è finita: con l’illusione di un nuovo sindacato, libero, autonomo e combattivo a cui la classe operaia poteva affidare le redini della lotta. Il risultato fu immediato. Questo nuovo sindacato chiamato Solidarnosc, “tutto bello e nuovo, nuovo”, tagliò i microfoni per trattare in segreto ed orchestrò, di concerto con lo Stato polacco, la dispersione, la divisione e, alla fine, la sconfitta violenta della classe operaia![6] Sono numerosissimi gli esempi delle continue manovre di sabotaggio e della necessità di contare solamente su noi stessi. Più recentemente, nel 2006, in Francia, all’epoca della lotta contro il CPE[7], decine di migliaia di studenti, in quanto futuri lavoratori precari, hanno mostrato la capacità della classe operaia a prendere in mano le redini della propria lotta, ad organizzarsi ed a discutere collettivamente nelle assemblee generali, sovrane ed aperte a tutti i lavoratori, disoccupati e pensionati.
Da tutti questi momenti di lotta, si possono tirare due lezioni essenziali:
1) Sono le assemblee generali che decidono ed organizzano l’estensione ed il coordinamento della lotta. Sono esse che si spostano, che mandano delegazioni massicce o dei delegati, per chiamare allo sciopero in altri luoghi di lavoro. Sono esse che nominano e revocano in qualsiasi momento, se necessario, i delegati. Queste assemblee generali devono essere coordinate anche tra loro attraverso comitati costituiti dai delegati eletti, responsabili continuamente davanti ad esse e dunque revocabili. Questa è la prima condizione di una reale estensione delle lotte e di un reale controllo di queste da parte dei lavoratori e delle loro assemblee.
2) Quando dei lavoratori entrano in lotta, devono ricercare la solidarietà e spingere ad estendere il movimento verso i centri operai (fabbriche, amministrazioni, ospedali...) più vicini geograficamente e più combattivi.
Ecco per i proletari di tutti i paesi l’unica via da seguire per arginare lo sviluppo degli attacchi e della miseria. La prospettiva della lotta operaia è di assumere sempre più il suo vero contenuto anti-capitalista, affermando il suo carattere di classe e dunque la sua unità, rompendo tutte le barriere corporative, settoriali, razziali, nazionali... sindacali! Come affermava Marx nel Manifesto del 1848: “Ogni tanto vincono gli operai; ma solo transitoriamente. Il vero e proprio risultato delle loro lotte non è il successo immediato, ma il fatto che l’unione degli operai si estende sempre più”.
Pawel
(da Revolution Internationale n.394, ottobre 2008)
[1] Queste riforme erano “reali e durature” nel senso che non venivano annullate subito dopo con l’obbligo di fare delle ore straordinarie o con un aumento immediato dei ritmi contrariamente, per esempio, alla legge sulle “35 ore” (settimanali) che ha permesso di imporre flessibilità, contratti a termine, aumento dei carichi di lavoro e congelamento dei salari.
[2] Vedi il nostro opuscolo “La decadenza del capitalismo”.
[3] Leipziger Volkszeitung (quotidiano della socialdemocrazia tedesca dal 1894 al 1933), 19 maggio 1913.
[4] Leipziger Volkszeitung, 16 maggio 1913.
[5] Leipziger Volkszeitung, 19 maggio 1913.
[6] Per conoscere meglio questo avvenimento leggere il nostro opuscolo “Polonia 1980”.
[7] Contratto di Primo Impiego.
febbraio-marzo 2011
Indipendentemente dai cartelli che i manifestanti agitano, tutte queste manifestazioni hanno la loro origine nella crisi mondiale del capitalismo e nelle sue dirette conseguenze: la disoccupazione, il rialzo dei prezzi, l’austerità, la repressione e la corruzione dei governi che dirigono questi attacchi brutali contro le condizioni di vita. Sono le stesse origini della rivolta della gioventù greca contro la repressione poliziesca nel 2008, della lotta contro le “riforme” delle pensioni in Francia, delle ribellioni degli studenti in Italia e in Gran Bretagna, e di tutti gli scioperi dei lavoratori, dal Bangladesh alla Cina, dalla Spagna agli Stati Uniti.
La determinazione, il coraggio ed il senso di solidarietà che si sono visti nelle strade di Tunisi, del Cairo, di Alessandria e di numerose altre città sono una vera fonte di ispirazione. Le masse che hanno occupato la piazza Tahrir al Cairo o altri luoghi pubblici hanno respinto gli attacchi dei teppisti al soldo del regime e della polizia, hanno chiamato i soldati a solidarizzare con loro, hanno curato i loro feriti, hanno apertamente rigettato le divisioni settarie tra musulmani e cristiani, tra religiosi e laici. Nei quartieri, si sono formati dei comitati per proteggere le loro case contro i saccheggiatori manipolati dalla polizia. Decine di migliaia di persone si sono effettivamente messe in sciopero per giorni e anche per delle settimane, per poter aumentare il numero dei manifestanti.
Di fronte allo spettro di una rivolta di massa, con la prospettiva da incubo di una sua propagazione attraverso tutto il mondo arabo, ed anche oltre, la classe dirigente ha reagito nel mondo intero con le sue due armi più importanti, la repressione e la mistificazione:
A livello internazionale, la classe capitalista alterna ugualmente i suoi discorsi secondo la convenienza: alcuni, in particolare quelli di destra, e certamente quelli dei dirigenti di Israele, hanno sostenuto apertamente il regime di Mubarak come il solo bastione contro una presa di potere islamica. Ma successivamente, dopo qualche esitazione, Obama ha dato il “la” lanciando il messaggio che Mubarak doveva andare via ed anche in fretta, presentando la “transizione verso la democrazia” come la sola via possibile per le masse oppresse dell’Africa del Nord e del Medio Oriente.
I pericoli che minacciano il movimento
Questo grande movimento, che ha avuto per il momento il suo baricentro nell’Egitto, è dunque confrontato con due diversi pericoli.
Il primo è che lo spirito di rivolta sia annegato nel sangue, cosa a cui ad esempio il regime di Mubarak, per salvarsi, sarebbe arrivato applicando il pugno di ferro se la situazione non avesse superato il segno costringendo la polizia a ritirarsi dalla strada di fronte a manifestazioni di grandi masse di persone, per lasciare il posto a dei teppisti pro-Mubarak. E’ importante in questo contesto comprendere il ruolo dell’esercito, che si è presentato come una forza “neutra”, finanche come una forza scesa in campo a fianco dei manifestanti anti-Mubarak per proteggerli dalle aggressioni dei difensori del regime. Non c’è alcun dubbio che molti soldati simpatizzano per i manifestanti e non sarebbero disponibili a sparare sulle masse presenti nelle strade. D’altra parte, alcuni di loro hanno anche disertato. E’ ugualmente vero che ai vertici della gerarchia dell’esercito vi erano delle frazioni che volevano l’allontanamento di Mubarak. Ma non bisogna farsi illusioni che l’esercito dello Stato capitalista possa essere una forza neutra. La “protezione” della piazza Tahrir da parte sua è anche una specie di confinamento, un enorme accerchiamento dei dimostranti, e quando le cose si metteranno male, l’esercito sarà effettivamente utilizzato contro la popolazione sfruttata, a meno che quest’ultima non riesca a neutralizzare le truppe facendole aderire alla sua causa.
Ma qui arriviamo al secondo grave pericolo che incombe: quello che risiede nelle illusioni ampiamente diffuse sulla democrazia, nel credere che forse lo Stato potrebbe, dopo qualche riforma, essere messo al servizio del popolo, nella convinzione che “tutti gli Egiziani”, ad eccezione forse di qualche corrotto, hanno gli stessi interessi fondamentali, nel credere nella neutralità dell’esercito, nel credere che la terribile povertà alla quale è confrontata la gran parte della popolazione possa essere superata se ci sarà un parlamento funzionante e la fine del regno dispotico di un Ben Ali o di un Mubarak.
Queste illusioni, espresse ogni giorno nelle parole degli stessi manifestanti e sui loro cartelli, disarmano il vero movimento di emancipazione che non può avanzare che come movimento della classe operaia, che combatta per i suoi propri interessi, distinto da quello di altri strati sociali, e che si sviluppi su un percorso diametralmente opposto agli interessi della borghesia e di tutti i suoi partiti e fazioni. Le innumerevoli espressioni di solidarietà e di autorganizzazione che abbiamo finora visto riflettono già l’elemento veramente proletario delle rivolte sociali attuali e, come molti manifestanti l’hanno già detto, lasciano presagire una società nuova e più umana. Ma questa società nuova e migliore non può essere realizzata attraverso delle elezioni parlamentari, che faranno salire un El Baradei o i Fratelli musulmani o qualunque altra fazione borghese alla testa dello Stato. Queste fazioni, che possono essere portate al potere dalla forza delle illusioni delle masse, non esiteranno più tardi a utilizzare la repressione contro queste stesse masse.
Vi sono stati molti discorsi su una presunta “rivoluzione” in Tunisia e in Egitto, sia da parte dei principali mass-media che dell’estrema sinistra. Ma la sola rivoluzione che abbia un senso oggi è la rivoluzione proletaria, perché viviamo in un’epoca in cui il capitalismo, democratico o dittatoriale che sia, non può semplicemente offrire nulla all’umanità. Una tale rivoluzione non può riuscire che a livello internazionale, rompendo il cordone di tutte le frontiere nazionali e rovesciando tutti gli Stati-nazione. Le lotte della classe e le rivolte di massa di oggi sono certamente delle tappe sulla via di una tale rivoluzione, ma esse si scontrano con una serie di ostacoli sulla loro strada. Per raggiungere l’obiettivo della rivoluzione devono ancora prodursi dei profondi cambiamenti nell’organizzazione politica e nella coscienza di milioni di persone.
In qualche modo, la situazione attuale in Egitto rappresenta una sintesi della situazione storica dell’insieme dell’umanità. Il capitalismo è nella sua fase terminale. La classe dirigente non può offrire alcuna prospettiva per l’avvenire del mondo, ma la classe sfruttata non è ancora cosciente della sua forza, della sua prospettiva, del suo programma per la trasformazione della società. Il pericolo maggiore è che questa impasse temporanea porti alla fine a “la rovina comune delle classi in lotta”, come dice il Manifesto Comunista, in un precipitare nel caos e la distruzione. Ma la classe operaia, il proletariato, scoprirà la sua vera forza solo ingaggiandosi in delle vere lotte, è per questo che ciò che sta avvenendo attualmente nell’Africa del nord e in Medio Oriente é, malgrado tutte le debolezze ed illusioni presenti, un vero faro per i lavoratori del mondo intero.
E soprattutto è un appello ai proletari dei paesi più sviluppati, che stanno riprendendo la strada della resistenza agli attacchi, perché compiano il prossimo passo, esprimendo concretamente la loro solidarietà alle masse del “terzo mondo”, intensificando la loro lotta contro l’austerità e l’impoverimento e, così facendo, mettendo a nudo tutte le menzogne sulla libertà e la democrazia capitalista, di cui essi hanno una lunga e amara esperienza.
Il proletariato dimostra una volta di più la sua condizione di classe rivoluzionaria; tutto il mondo vibra sorpreso dagli ultimi avvenimenti in Egitto e nei paesi vicini. I borghesi piangono, si riuniscono, cospirano, chiamano i loro economisti, i loro funzionari e profeti, ma non sanno che fare di fronte alle rivolte e ai sollevamenti degli sfruttati. Migliaia e migliaia di nostri fratelli si sollevano, rompono le catene che li sottomettono alla macchina borghese e prendono la loro vita nelle proprie mani. D’altra parte non gli resta altra strada quando si guardano intorno e vedono lo stesso dolore nelle loro vite, la stessa preoccupazione per il futuro dei loro figli, l’indignazione per l’ingiustizia, e, ancora più importate, vedono che solamente loro possono cambiare la loro infame esistenza. Gli scioperi, le proteste di strada, l’occupazione di uffici, le barricate, i dibattiti spontanei, l’organizzazione di quartiere autonoma, i servizi collettivi, sono le strofe della poesia chiamata rivolta sociale.
Sappiamo bene, noi che scriviamo, che i nostri fratelli hanno sfidato il coprifuoco, i carri armati, i blindati, i candelotti lacrimogeni, il fucili, le pallottole, la polizia e i soldati. Paura della morte? Tutti i giorni ci alziamo ed esistiamo per lavorare, arricchire altri, fare quello che ci ordinano ed essere messi per strada quando ci “usuriamo”; l’unica paura che possiamo avere è passare per questo mondo e non sapere cosa significa veramente vivere. Questo è il motore della lotta ed è anche la dimostrazione che la classe lavoratrice si sta rialzando, che le pallottole non possono uccidere la speranza di un mondo nuovo e che solo noi possiamo liberare l’umanità dalla schiavitù salariata.
I quartieri del Cairo, di Suez e di Alessandria esistono per lottare, il pugno alzato è la costante di questi luoghi. Geograficamente siamo tanto lontani da questi quartieri, ma siamo tanto vicini negli interessi che stanno difendendo. Noi, una parte dei lavoratori del Perù, siamo parte di questa grande massa di sfruttati, viviamo e sentiamo lo stesso sfruttamento, la stessa miseria, lo stesso putridume di un sistema che si alimenta con la nostra vita, quella dei nostri figli, della loro innocenza, dei nostri padri, della loro fatica, dei nostri fratelli, della loro gioventù, delle nostre risate, allegria e sogni. Ma siamo anche parte della speranza, di un potere che nasce, di un pugno che si alza e colpisce, talvolta a tentoni, ma ogni volta più vicino all’obiettivo. Francia, Gran Bretagna, Italia, Grecia, Tunisia, Algeria, Cina, Bangladesh e adesso Egitto, sono parte di un gigante che comincia a rialzarsi, di un gigante che comincia a ricordarsi delle sue vecchie battaglie contro il demonio antropofago chiamato Capitalismo, e vede un futuro più promettente.
La classe sfruttatrice, i padroni di tutto, i padroni del mondo, quelli che si sono appropriati della nostra vita, vogliono farci pensare che le lotte che stiamo sviluppando sono per ottenere la democrazia, per cacciare qualche politico corrotto, per conquistare più “libertà” nel capitalismo. Cercano di farci credere che lottiamo solo per riformare lo sfruttamento e la miseria, che lottiamo non per farla finita con questo mondo borghese, per andare alla radice dei nostri problemi, ma per renderlo un “poco meglio”. Non dobbiamo consentirgli questi inganni, da qui denunciamo questi ideologi borghesi vestiti da “nostri difensori”, questi “estremisti” di sinistra, nazionalisti, socialdemocratici, che vogliono deviarci dalla nostra lotta perché vogliono dirigerci, vogliono che dedichiamo la nostra vita per portare loro al potere e continuare a vivere con la servitù e la schiavitù. Solo i lavoratori, organizzati autonomamente possono creare un nuovo potere per decidere cosa fare delle nostre vite e del mondo che solo noi facciamo muovere.
Mentre scriviamo questa presa di posizione, in Egitto si riuniscono milioni di nostri fratelli, senza paura e con il cuore aperto, l’umanità prende respiro, la sua esistenza dipende dalle nostre future lotte. In realtà non sappiamo come finirà questo processo di combattività, questa tappa della lotta storica degli sfruttati contro gli sfruttatori, non sappiamo nemmeno se il peso delle ideologie religiose e gauchiste avrà presa sui nostri fratelli. Quello che però sappiamo è che questo non finirà con una riforma, non finirà con l’uscita di qualche presidente. Ogni generazione proletaria si nutre delle lotte, prende fiducia in se stessa, nell’insieme delle lezioni che la classe ci ha lasciato. La solidarietà è stata presente e sarà presente in questo processo, solo uniti siamo forti. Comunque finirà questa battaglia, sarà un avanzamento per noi in questa guerra contro il capitale.
La nostra vittoria finale si avvicina ogni giorno, già non è tanto lontano quanto pensavamo, anche se resta da percorrere un lungo cammino. L’esempio dell’Egitto, come della Grecia, della Tunisia, alimenta lo spirito rivoluzionario e segnala il cammino che bisogna seguire; sono le scintille della grande esplosione che sarà la rivoluzione.
Da qui sentiamo il clima della lotta proletaria al Cairo, a Suez, ad Alessandria, dal Perù sentiamo questa emozione indescrivibile di sentirci vivi, di sapere che niente è stato vano, che la storia ci appartiene e che il futuro che ci aspetta sarà costruito per l’umanità libera dalla schiavitù salariata, libera dalle classi sociali, libera dallo sfruttamento.
Benché il cammino non sia chiaro e che le nostre azioni non sono ancora in grado di raggiungere l’obiettivo, quanta allegria sentiamo al sapere che ci stiamo liberando delle vecchie catene, che la classe comincia a riconoscere il suo vero nemico e quale debba essere la maniera di affrontarlo. Le armi della classe sono state massicciamente evidenziate: il Dibattito, le Assemblee, lo Sciopero, la Riflessione, la Solidarietà, la Fiducia nel Futuro, ecc.
Vogliamo finire ringraziando di tutto cuore i fratelli lavoratori che stanno lottando, siamo con loro, ci hanno riempito di felicità, hanno riempito di sangue rivoluzionario le nostre vene. Siamo vicini a voi, parte della rivoluzione mondiale di domani.
All’erta Proletari, un nuovo mondo ci aspetta.
Proletari di tutti i paesi, uniamoci!
Grupo de Esclarecimiento Comunista - G.E.C. (Gruppo di chiarificazione comunista)
https://esclarecimientocomunista.blogspot.com/ [112]
Martedì, 01 febbraio 2011
Commento della CCI:
Pubblichiamo il testo dei compagni del gruppo GEC del Perù. E’ un testo vibrante, pieno di emozioni, che esprime il calore e la solidarietà di compagni che anche se situati a migliaia di chilometri dall’Egitto sentono come proprie le lotte che si stanno svolgendo lì. “Geograficamente siamo tanto lontani da questi quartieri, ma siamo tanto vicini negli interessi che stanno difendendo.” dicono i compagni.
L’internazionalismo conseguente è la prima cosa che salutiamo in questa presa di posizione. Il proletariato ha bisogno di concepirsi come una classe unita internazionale che colpisce con una sola mano il mostro capitalista. Lo sviluppo della solidarietà internazionale, la convergenza internazionale delle minoranze rivoluzionarie, la ricerca del contatto e dell’azione comune su scala internazionale, perlomeno all’inizio, tra minoranze proletarie sono tutti contributi alla grande meta della rivoluzione mondiale alla cui esplosione contribuiscono anche i piccoli passi, apparentemente “solo teorici e di propaganda”, che stiamo facendo oggi.
Nello stesso tempo in cui manifestano il loro entusiasmo per queste lotte del proletariato, questi compagni sono lucidi rispetto al cammino ancora lungo che bisogna percorrere e rispetto ai pericoli di deviazione verso la trappola senza uscita della democrazia con cui tutta la borghesia mondiale cerca congiuntamente di ucciderle “dal di dentro”.
Non abbiamo il minimo dubbio che queste lotte che vediamo nel Magreb costituiscono un nuovo episodio nel cammino duro e difficile che il proletariato mondiale ha iniziato verso lo sviluppo di lotte di massa, che, a loro volta, gli daranno quella imprescindibile fiducia nelle sue proprie forze, una maturazione nelle sue capacità di autorganizzazione e di politicizzazione, tutti passaggi che servono per realizzare le condizioni per lo sviluppo internazionale di lotte con una prospettiva rivoluzionaria.
Si tratta di movimenti che sono partiti dal cuore stesso della gioventù proletaria, fuori dal controllo ingannevole di sindacati e partiti di opposizione; esprimono l’entrata in lotta delle nuove generazioni del proletariato; queste lotte fanno sì che il Magreb e il Medio Oriente, che fino ad ora facevano notizia solo per la barbarie della guerra, oggi sono in prima pagina per motivi diametralmente opposti: la rivolta sociale di proletari che si sollevano contro la disoccupazione incontrollata, un’inflazione che rende impossibile acquistare perfino gli alimenti di prima necessità, un’assenza totale di prospettiva per il futuro.
Allo stesso tempo non possiamo nascondere la mancanza di esperienza, le illusioni democratiche, l’assenza di organizzazioni di massa, tutte mancanze che indeboliscono e deviano il movimento e permettono alla borghesia di attaccarlo sistematicamente con il cavallo di Troia della democrazia, il rafforzamento dell’opposizione, la polarizzazione sul semplice “via Mubarak” e il silenzio quasi totale sulle rivendicazioni sociali…
Nel presentarlo come “movimento per la democrazia guidato dall’opposizione”, la borghesia vuole mostrarlo come se fosse qualche altra cosa, come “l’ultima tappa” del supposto festino che sarebbe “lo sfruttamento della democrazia”, così da cercare di nascondere che lì si sta lottando per gli stessi motivi per cui si sta lottando in Grecia, Francia, Gran Bretagna o Bangladesh: contro il deterioramento accelerato e irreversibile delle nostre condizioni di vita, contro la barbarie della crisi capitalista.
Quello che può dare un nuovo impulso alle lotte in Tunisia e in Egitto, è che le lotte operaie si sviluppino in Europa, negli USA, in Cina, che continuino ad estendersi in tutta la regione araba ed irrompano anche negli altri continenti. Di qui l’importanza vitale che ha l’iniziativa dei compagni del GEC dal “lontano Perù”. Facciamo appello a che altri gruppi e collettivi seguano il suo esempio in altri paesi.
L’acuirsi della crisi capitalista si vede senza dubbio nell’aggravamento delle condizioni di vita della classe operaia; ma se questi attacchi ci sono è perché la borghesia vede i suoi profitti messi in discussione. La crisi non è qualcosa che la classe dominante cerca con premeditazione, né tantomeno viene da fattori esterni al sistema capitalista, ma è l’espressione delle contraddizioni di questo. E questa crisi, che affligge il capitalismo dalla fine degli anni sessanta, ad ogni momento recessivo conosce una profondità maggiore che viene scaricata sui lavoratori in ogni parte del pianeta.
Intorno alla crisi la borghesia sviluppa tutto un velo ideologico che, se non le permette di evitarla, permette però di mistificare la realtà, giustificare i suoi attacchi e l’esistenza stessa del capitalismo. Un esempio maggiore di questa dinamica si nota a Cuba, dove le relazioni di produzione capitalista dominanti, che si basano sullo sfruttamento del lavoro salariato, si nascondono dietro lo statalismo e nell’uso ingannevole di un vocabolario radicale, qualificando i colpi dati agli operai come “sacrifici necessari per il socialismo”. L’aggravamento della crisi capitalista ha portato alla messa in atto di un’ondata di attacchi contro le condizioni di vita degli sfruttati cubani, che sono già così precarie. Il preteso isolamento che l’economia cubana avrebbe mantenuto di fronte alla crisi capitalista non si può più sostenere e i discorsi sul blocco economico come causa (esterna) della crisi sono ormai un argomento logorato con il quale non si può più nascondere che a Cuba, anche se non esistono individui che impersonano il capitale, questo esprime il suo dominio in quanto il capitale è innanzitutto una relazione sociale.
Licenziamenti di massa a Cuba
Lo stalinista partito cubano ha presentato un progetto chiamato “Lineamenti della politica economica e sociale” che descrive i meccanismi per ottenere – ci dicono – la “riorganizzazione dello Stato e del Governo”. La proposta è così riassunta dal giornale La Jornada: “Il documento prevede di ridurre i sussidi alla loro minima espressione; alzare le imposte; legare i salari al rendimento; esigere utili dalle imprese pubbliche, eliminando il controllo del governo; ampliare le cooperative, le microimprese, l’autoimpiego e il commercio immobiliare…” (2/12/2010). Tutti questi punti trovano le loro argomentazioni nel documento ufficiale[1] che, come ogni progetto capitalista, serve a giustificare lo sfruttamento e la necessità della sua intensificazione. Il programma annuncia che si vuole “incrementare la produttività del lavoro, alzare la disciplina e il livello di motivazione del salario e gli incentivi (…) (Sopprimendo) gratuità indebite e sussidi personali eccessivi”. Tutto questo si traduce in colpi ai salari diretti e indiretti (cure mediche, scuola…) e attraverso questo in licenziamenti di massa.
La struttura sindacale cubana, come in tutto il mondo, svolge il suo ruolo di strumento del capitale infiltrato nelle file operaie; così la Centrale dei Lavoratori di Cuba (CTC) giustifica l’annuncio del licenziamento di mezzo milione di lavoratori dicendo: “Lo Stato non può né deve continuare a mantenere imprese (…) con organici gonfiati e perdite che ostacolano l’economia, (…) generano cattive abitudini e deformano la condotta dei lavoratori”. In più, seguendo il cinismo di Fidel Castro che si divertiva col fatto che centinaia di giovani, a causa della miseria che vivono sono costrette a prostituirsi, dicendo che Cuba può vantare le prostitute più colte e sane, Salvador Valdès, leader della CTC assicura che: “Un lavoratore statale licenziato (…) ha la possibilità di realizzare attività private che gli fruttano molto di più”. E facendo un esempio, parla di come un lavoro precario genera una vita migliore: “Un ingegnere che smise di lavorare per lo Stato anni fa (…) riparando scarpe guadagna tra 70 e 100 dollari USA al mese…” (BBC Mundo, 3/02/2010).
Cuba è uno Stato operaio?
Tutte le misure descritte nei “Lineamenti della politica…” sono senza dubbio attacchi diretti contro i lavoratori che smascherano la natura borghese dello Stato cubano, nonostante che di fronte ad esso la grande maggioranza dei gruppuscoli stalinisti mantengono il silenzio; solo in qualche sito e forum di discussione (per esempio kaosenlared.com) si trovano argomenti di accaniti difensori di Stalin e Castro, che continuano ad affermare che le misure annunciate dal partito del governo cubano sono misure dolorose ma necessarie per “perfezionare la Rivoluzione e renderla strategicamente viva”. Ma se la difesa degli attacchi contro i lavoratori, per la loro rozzezza e spudoratezza non fanno che confermare che stalinismo e governo cubano sono nemici della classe operaia, in cambio gli argomenti dei trotskisti, usando un linguaggio farcito di citazioni di Marx e Trotsky per mascherare il carattere capitalista dello Stato cubano dietro un tono di apparente critica, aiutano bene la borghesia nel rafforzare la confusione nella classe operaia sull’esistenza del capitalismo in Cuba.
E’ certo che le posizioni intorno a Cuba sono tante quanti i gruppi trotskisti che ci sono, ma tutte concordano nel dichiarare che il colpo di Stato realizzato da Castro servì ad espropriare la borghesia e cambiare le relazioni economiche capitaliste, instaurando uno “Stato Operaio” che – per darci una botta di critica – chiamano “deformato”. Con questo argomento, gli uni dicono che quello che ci vuole è una “rivoluzione politica”, gli altri che dopo la caduta del blocco sovietico a Cuba si respira una svolta di apertura, che sta “restaurando” il capitalismo… e sebbene solo alcuni di loro hanno preso posizione di fronte alle minacce lanciate dal governo cubano con il suo “nuovo” piano economico, tutti si uniscono per chiamare alla difesa… non dei lavoratori, ma delle “conquiste della rivoluzione”, cioè dello statalismo. Questi argomenti, che si presentano come marxisti e critici, non sono altro che trappole ideologiche che (coscientemente o incoscientemente) servono solo alla borghesia che si impegna a macchiare la tradizione comunista presentando lo stalinismo come prodotto della lotta proletaria. Il trotskismo nasconde il carattere borghese dello stalinismo presentando certe misure come miglioramenti per gli operai (quelle chiamate “conquiste della rivoluzione”), incluso il socialismo in un solo paese, anche se lo criticano in quanto “deformato”. Così facendo si uniscono alla campagna borghese nel diffondere l’idea che il marxismo ha come obiettivo quello di costruire una società come quella cubana, in cui i lavoratori sono sottomesi a uno Stato militarizzato, repressivo e sfruttatore.
Gli attacchi contro i lavoratori cubani chiariscono che cosa esiste (ed è esistito) in questo paese, non uno “Stato operaio degenerato”, ma uno Stato capitalista che ha come unico obiettivo la difesa dell’economia nazionale per il perpetuarsi dello sfruttamento.
Tatlin / Dicembre-2010
(da Revolucion Mundial, n.120)
[1] Il documento completo si può trovare sul sito: rouslyn.files.wordpress.com/2010/11/proyecto-lineamientos-pcc.pdf
Ciò che è stato presentato da tutti i media borghesi, comprese le sue espressioni più radicali di sinistra, come un problema lavorativo limitato ad un ramo industriale italiano relativo alla sola produzione d’auto, quello della Fiat, quindi un qualcosa che non dovrebbe riguardare gli altri settori industriali, è invece un problema internazionale che riguarda l’insieme dell’economia capitalista e l’intera classe operaia.
Infatti, bisogna inquadrare i fatti di Mirafiori nel contesto di una crisi da sovrapproduzione generalizzata che attanaglia tutti gli Stati ed i padroni del mondo, dove ogni settore capitalista ed in particolare quello dell’auto, se vuole avere la speranza di rimanere a galla deve mettersi nella condizione di poter vincere l’accanita concorrenza, aumentare cioè la produzione ed a costi minimi. In altre parole abbassare ancora una volta il costo del lavoro attaccando con più vigore e maggiore cinismo i già bassi salariali della classe operaia e degradando ulteriormente le sue già ridotte condizioni di vita.
Nel caso particolare della produzione automobilistica della FIAT, dopo anni di sovvenzionamenti statali per evitare, forse, il suo fallimento definitivo (nel senso che non è più possibile salvarla attraverso un intervento diretto e massiccio dello Stato, tra cui bisogna ricordare i ripetuti incentivi statali per la rottamazione delle vecchie vetture) è arrivato alla sua guida come AD (amministratore delegato) Sergio Marchionne. Questi svela, senza troppi preamboli a tutti coloro che avevano creduto, si fa per dire, in un progetto “socialdemocratico” dei mercati, qual’è la vera natura della democrazia borghese quando si trova immersa nell’asfissia mercantile. Presentatosi all’Unione industriali Marchionne in modo arrogante ha informato le organizzazioni sindacali presenti che non avrebbe accettato nessuna trattativa per il suo piano di ristrutturazione aziendale: o lo si accettava oppure la Fiat sarebbe andata via da Mirafiori e dall’Italia. E forse questo è solo un bluff, visto i costi elevati per impiantare le stesse strutture tecnologiche in altri paesi che ne sono sprovvisti. Intanto, non bisogna credere che una tale politica economica sia il solo desiderio di Marchionne. Essa è agognata da tutta la borghesia italiana. Tuttavia, il metodo Marchionne serve da esperimento per aprire un varco più ampio nel mondo operaio nel tentativo di stravolgere, dopo Pomigliano D’Arco e Mirafiori, tutte le conquiste operaie (che ipocritamente vengono chiamate dai sindacati “diritti”) nell’intento di instaurare un nuovo rapporto tra capitale e lavoro a discapito chiaramente di tutti i lavoratori e su scala nazionale. Non a caso, dopo la chiusura della FIAT di Termini Imerese, soprattutto per una conduzione suicida della lotta da parte dei sindacati, in perfetta continuità con la trappola referendaria già imposta il 22 giugno del 2010 agli operai della Fiat di Pomigliano D’Arco, Marchionne passa a Torino l’11 gennaio del 2010 imponendo ai lavoratori della Fiat Mirafiori un altro referendum per approvare il nuovo piano. In particolare in entrambi i referendum, sotto il pesante ricatto di una delocalizzazione della fabbrica all’estero, si chiede ai lavoratori di accettare il seguente accordo/ricatto:
- lavorare 6 giorni alla settimana su sette su tre turni di lavoro al giorno ed all’occorrenza arrivare anche a turni di 10 ore
- abolizione dell’indennità salariale per i nuovi assunti ed una significativa riduzione per quelli già assunti
- spacco mensa spostato a fine turno
- riduzione della pausa di lavoro da 40 a 30 minuti in una giornata di lavoro
- straordinario obbligatorio fino ad 80 ore all’anno (non pensionabile)
- in caso di fermo di produzione - chiaramente non per volontà degli operai ma per motivi esterni (per esempio mancata consegna di materiale da parte di fornitori) il recupero delle ore di lavoro perse anche durante la mezz’ora di spacco, cioè il lavoratore non potrà usufruire dopo una giornata di lavoro della mensa
- l’assenza per malattia accreditato per legge da un certificato medico, dovrà essere vagliata dall’azienda (sindacati?) ed in caso che quest’ultima, e solo lei, dovesse ritenere che l’assenza possa contenere anomalie non verranno pagati i tre giorni di malattia
- contrattazione (trattative aziendali) solo per i firmatari dei contratti ossia solo per quelle organizzazioni sindacali che ubbidiscono al padrone (sic!)
- possibilità di contratti individuali e ciò è possibile in quanto Marchionne ha posto la società aziendale fuori dalla Confindustria
- lo sciopero che possa produrre danni alla produzione sarà punito fino al licenziamento.
In quest’ultimo caso, bisogna sottolineare che la Fiom, come alcuni politici, uomini di cultura, giuristi, artisti, organici o vicini alla sinistra borghese, parlano ipocritamente di attacchi al “diritto” allo sciopero quando sanno benissimo che lo sciopero non è un diritto che la borghesia, folgorata sulla strada di Damasco da un attacco altruistico, ha concesso alla classe operaia, ma una conquista delle vecchie generazioni operaie che per imporlo ai padroni hanno sacrificato finanche la loro vita. Intanto sono stati proprio i sindacati a reintrodurre, in accordo con governi di sinistra e Confindustria, i limiti dello sciopero approfittando di un abbassamento di guardia della classe operaia (accordo Governo sindacati e Confindustria 1993 – accettazione del pacchetto Treu). Tutti questi sacrifici solo per 1.150 euro al mese, salario medio di un operaio! E’ il caso di dirlo, si tratta di una schiavitù salariale che riporta i proletari ai tempi di Valletta, come è stato sottolineato da operai anziani e da pensionati Fiat. E’ toccante la visione filmata su YouTube[1] del vecchio operaio che piange di fronte a questi attacchi fuori ai cancelli di Mirafiori durante le votazioni ed alla divisione che i sindacati determinano tra i ranghi proletari!
Intanto, sia il presidente della Confindustria, Emma Marcegaglia, sia il ministro del welfare, Sacconi, hanno sostenuto pubblicamente la validità di un tale piano avallato anche dal “super mandrillone” Presidente del consiglio Silvio Berlusconi, che ha dichiarato, mentre si trovava in Germania, che in caso di sconfitta referendaria Marchionne avrebbe fatto bene ad andarsene dall’Italia.
I sindacati, FIOM in testa, i migliori difensori … del capitale
Fino ad ora però abbiamo parlato dei padroni, ma ora vediamo chi sono stati i suoi migliori alleati, gli artefici impagabili per la borghesia, che hanno consentito che passasse un tale attacco attraverso il “consenso degli stessi operai”. Ancora una volta dobbiamo sottolineare l’indispensabile azione mistificatoria dei guardiani degli interessi borghesi effettuata dagli specialisti della sconfitta operaia: i sindacati. Questi micidiali organismi, purtroppo ancora presenti nei ranghi operai, non solo accettano e sostengono i referendum proposti dai padroni in quanto essi rappresentano un terreno di lotta non proletario (non a caso tanto cari proprio ai partiti della sinistra borghese ed ai sui sindacati come la GGIL), ma poi con le loro divisioni attuate ad arte e distribuendosi in ruoli diversificati, UGL, CISL ed UIL schierati apertamente con Marchionne e FIOM e Cobas contro, mettono operai contro altri operai, li dividono, li disorientano, creando nella classe paura e mancanza di fiducia in se stessa. Sotto il ricatto di una “pistola puntata alla testa” esaltato anche dalla stessa propaganda sbandierata da politici di destra ma anche di sinistra (vedi le dichiarazioni di Fassino), la classe, così atomizzata, è costretta ad accettare un terreno di lotta che non le appartiene ma che è proprio della borghesia. Così ogni operaio, nel chiuso di una cabina, costretto a fare i conti con se stesso, ha davvero una notevole difficoltà a respingere il ricatto del padrone. Tuttavia, la borghesia che ben conosce la reattività operaia, temendo la possibilità di scoppi di scioperi spontanei rispetto agli attacchi portati (che comunque si sono verificati durante il periodo pre-referendario) e l’eventuale perdita di controllo da parte dei sindacati sulla classe operaia, ha avuto la necessità di selezionare un’organizzazione sindacale più dura e radicale per tenere nei ranghi gli operai più decisi e determinati nel rifiutare il ricatto padronale. La scelta, vista l’esiguità delle organizzazioni sindacali più estreme della sinistra borghese (Cobas ecc.), non poteva che cadere sulla FIOM che non a caso all’occorrenza ha sostituito Rinaldini, faccia compromessa della FIOM, con una più radicale, quella di Landini. Non dimentichiamo, infatti, che la Fiom è stata firmataria insieme alle altre sigle sindacali del pacchetto antioperaio Treu e che qualche tempo fa Rinaldini fu contestato duramente durante un comizio a Torino perché a Pomigliano la FIOM aveva fatto passare un provvedimento punitivo per le operaie più combattive lasciando passare la proposta da parte dell’azienda di “esiliarle” in zone confino come veniva per esempio considerato l’insediamento Fiat nolano[2].
Un altro aspetto del ruolo di divisione tra i ranghi operai che questo sindacato ha messo in opera anche dopo i risultati del referendum è stato quello di aver affermato che la vittoria dei si è passata per i voti di quei “traditori operai” che hanno votato si ed anche per i voti degli impiegati, come se quest’ultimi fossero per natura qualcosa di diverso dalla classe operaia! Che ci siano stati voti a favore dei si tra gli operai in tuta blu e gli altri lavoratori, che vengono definiti falsamente impiegati in quanto questi appartengono ai ranghi proletari, è innegabile. Ma la responsabilità non è dei ricattati ma di chi ha consentito questo ricatto: i sindacati compresa la Fiom. Quest’ultima, infatti, invece di accettare il referendum avrebbe dovuto lavorare in favore dell’unità della classe. Risulta evidente che quello che avrebbe potuto veramente sconfiggere Marchionne non era l’urna ma un’attivazione capillare in tutti i posti di lavoro possibili (volantinaggio, convegni, comizi, assemblee aperte a tutti) e non solo tra i metalmeccanici ma nell’indotto ed anche chiedendo solidarietà alla lotta ai tanti altri proletari in lotta come i precari, gli studenti, i ricercatori ecc. per spiegare qual è la vera posta in gioco contenuta dal modello Marchionne. Per poi proclamare uno sciopero. Invece che cosa fa? Lo proclama per il 28/01, a cose ormai chiuse e di venerdì, quando gli altri lavoratori non possono andarci e regione per regione, e in luoghi decentrati come Cassino, Pomigliano ecc.
Ma la vittoria dei Si è una sconfitta per i lavoratori?
Tuttavia, quella che sul piano numerico può rappresentare una sconfitta della classe operaia, sul piano politico non deve essere ritenuta tale. La sfida tra la classe operaia ed i padroni è ancora aperta. Infatti, è lo stesso Marchionne a dichiarare la sua delusione: per i risultati raggiunti dal referendum di Pomigliano in cui fu approvato il piano di ristrutturazione degli accordi da lui proposto con la vittoria dei si 63% e la sconfitta dei no 36 %; a maggior ragione su quelli di Mirafiori dove la vittoria dei si all’accordo/ricatto è stata del 54% (2735 si) mentre la sconfitta con i suoi 2325 ha raggiunto il 46%.
Da dove nasce questa delusione di Marchionne condivisa anche dai sindacati sostenitori del si come giustamente riferisce in un intervista Maurizio Peverati della UILM? : “loro si aspettavano qualcosa di più ma li giustifica con il fatto che forse i lavoratori non abbiano capito bene l’accordo affermando che questo è un grande accordo che rilancia innanzitutto l’auto – tiene in piedi l’indotto e dà la possibilità ai 70 mila lavoratori che ruotano attorno all’indotto di avere almeno un pò di serenità”[3]. A questo punto c’è da chiedere a questi signori com’è che non hanno indetto assemblee generali per spiegare “bene” le “delizie” di questo accordo agli operai e soprattutto perché le hanno lasciate fare (non in assemblee generali) ai vertici Fiat. In realtà i padroni insieme ai sindacati ed a tutta la borghesia italiana si aspettavano una sconfitta più netta, decisiva della classe operaia sia per avere le mani più libere e proseguire ad ampio raggio alla liberalizzazione selvaggia del costo del lavoro, ma anche per attaccare politicamente la classe inviando un messaggio molto chiaro da riprendere in altri settori e cioè: o si accettano ulteriori sacrifici o l’alternativa è il licenziamento. Dunque un messaggio ricattatorio bello e buono rivolto a tutti i proletari in vista di ulteriori attacchi che la borghesia deve fare. Infatti già stanno dicendo che in effetti la crisi non è affatto passata.
Proprio considerando il ricatto subito dalla classe da tutto un piano prestabilito dalla borghesia, l’azione perniciosa dei sindacati, un terreno di classe che non solo non le appartiene ma che addirittura le è ostile, possono mai parlare di sconfitta degli operai di Pomigliano e di Mirafiori? Assolutamente no! Bisogna considerare oltre ai no dichiarati, anche quei si che, come è stato dichiarato da moltissimi operai intervistati, erano dovuti solo al ricatto e non ad una convinzione ragionata sulle “delizie” del nuovo contratto, solo dalla paura di perdere tutto, di trovarsi con la fabbrica chiusa da un giorno all’altro senza sapere dove e come sopravvivere. E la storia ci insegna che dalla paura può nascere l’indignazione e l’indignazione di una massa di operai può rappresentare per la borghesia una bomba ad orologeria. E questo i padroni lo sanno bene. Inoltre se consideriamo in che contesto internazionale si inserisce l’episodio di Mirafiori, e cioè che ormai in ogni angolo del mondo in tutti i paesi il proletariato sta cominciando a lottare sotto i colpi della crisi economica producendo scioperi e lotte in cui cominciano a riemergere la necessità di scioperi unitari, massicci, solidali, ed anche AG, possiamo dire che anche Mirafiori, rappresenta l’indisponibilità crescente dei lavoratori ad essere trattati peggio che da schiavi. Ecco da dove nasce la preoccupazione di Marchionne, dell’intera borghesia e dei suoi cani da guardia i sindacati. E’ chiaro che i lavoratori di Pomigliano e di Mirafiori, come di altre realtà lavorative, dovranno rifiutare ogni trappola che li porta a scontrarsi su un terreno non proletario e dovranno trovare la forza di liberarsi del sindacato attuando come forme di lotta le Assemblee generali in cui possono ritrovare la forza e la loro dignità di classe sfruttata. Una classe che con le sue massicce lotte a scala internazionale possiede in se la forza di liberare, e con essa l’intera umanità, dall’oppressione del lavoro salariale e dei mercati (il capitalismo) ed essere portatrice di una nuova società in cui non ci saranno più sfruttati ne sfruttatori, né guerre né miseria.
R., 23 gennaio 2011
[1] Vedi YouTube : Lacrime davanti ai cancelli di Mirafiori https://www.youtube.com/results?search_query=Lacrime+davanti+ai+cancelli+di+Mirafiori&aq=f [113]
[2] Nola, città dell’entroterra campano.
[3] YouTube: Risultato Referendum Mirafiori FIAT 14/1/11. https://www.youtube.com/watch?v=v5LrTvFX0-U [114]
Questo sdegno non fa che accumularsi alle numerose altre frustrazioni che la stragrande parte della popolazione subisce giorno dopo giorno, determinate da disoccupazione da una parte e ricatto di licenziamento dall’altra, da buste paga in calo e precarietà e insicurezza per il futuro. Sembra veramente, anche su questo piano, non esserci limite al peggioramento delle condizioni di esistenza e di vita della classe lavoratrice. E’ per questo che la borghesia, preoccupata per il potenziale carattere esplosivo della situazione sociale, cerca continuamente di spostare l’attenzione dei proletari sui falsi piani dell’interclassismo e della democrazia, invocando una giustizia sociale e un’uguaglianza tra i cittadini che, all’interno di una società divisa in classi, non potrà mai esistere.
E’ stato così, ad esempio, con la manifestazione per la dignità delle donne, quella promossa con lo slogan “se non adesso, quando?”, con la sinistra che ne ha fatto un’occasione per tornare sulla scena e chiedere, guarda un po’, le dimissioni di Berlusconi. Così la giusta indignazione di 1 milione di donne e di uomini contro la mercificazione della donna è stata dirottata in una manifestazione per cacciare via Berlusconi.
Neanche il festival di San Remo resta immune dalla propaganda per la democrazia e dal tentativo di riscaldare nell’animo degli “italiani” un amor di patria piuttosto tiepido, con un monologo di oltre mezz’ora con cui Benigni ci ha spiegato il significato autentico dell’inno di Mameli e ricordato i sacri valori a cui ognuno di noi dovrebbe fare riferimento. E intanto il governo si “spacca” su grave problema se fare o meno un giorno di festa lavorativa per celebrare il 150° anniversario dell’unità d’Italia.
Certo! La patria, la democrazia! Ma queste parole attecchivano ed avevano un senso quando, nella fase di costituzione delle nazioni nel 19° secolo, unificando la nazione e sottraendola al dominio di una potenza straniera che la voleva solo come terra asservita ai suoi interessi, il paese poteva avere uno sviluppo proprio e dare una prospettiva anche alla sua classe proletaria, alla stessa classe degli sfruttati. Ma oggi queste stesse parole sanno di niente perché effettivamente davanti a noi c’è il buio più assoluto.
Questa mancanza di prospettiva, questa mancanza di futuro che lamenta tanto e a buon motivo la nuova generazione, è in realtà il riflesso, la conseguenza immediata della mancanza di prospettive che ha la stessa borghesia. Molti in Italia, di fronte alle enormità di Berlusconi e della sua banda, si chiedono come sia possibile che la sinistra non sia capace di profittarne, come mai non sappia esprimere il benché minimo programma di alternativa al governo attuale. Questa mancanza di opposizione, così palese in Italia, non è un caso esclusivo italiano. Lo stesso si presenta in altri paesi come la Francia, dove Sarkozy è rinomato per le sue gaffe e la sua impresentabilità quasi quanto Berlusconi, ma dove la sinistra non ha ugualmente la forza di venire allo scoperto. Facendo le dovute differenze, un problema analogo si pone per i paesi del nord Africa e del medio oriente in rivolta, dove tutti i vecchi figuri stanno saltando l’uno dopo l’altro ma dove le varie borghesie locali non sanno chi mettere al loro posto perché fondamentalmente, al di là di una pulizia di facciata, i nuovi governi non hanno nessuna nuova politica da proporre sul piano sociale ed economico se non concedere … più democrazia per tutti! Così, tornando all’Italia, gli scandali che si muovono intorno alla figura di Berlusconi fanno comodo perché riempiono il vuoto, focalizzano lo sdegno contro un personaggio o anche contro un partito, facendo apparire passabili o addirittura eroiche finanche figure come quella dell’ex fascista Fini o dell’ex democristiano Casini. Quanti in questo periodo dicono: “chiunque altro è meglio di Berlusconi”, pensando che nella politica della borghesia ci sia una gradualità, un meglio e un peggio. Ma nella politica, tanto più nella politica di oggi della borghesia, non ci sono differenze sostanziali perché, al di là della maggiore o minore decenza dell’uno o dell’altro, nessuno ha da offrirci nulla e, in Italia come nel mondo intero, un partito di opposizione che va al governo non potrebbe che proseguire nella stessa direzione del governo precedente, cioè continuare con gli attacchi a tappeto contro la classe dei lavoratori. E’ per questo che non dobbiamo farci ingannare dalla trappola della democrazia e dell’antiberlusconismo, ma denunciare e combattere tutti i partiti della borghesia, di destra come di sinistra, come nostri nemici.
Ezechiele 20 febbraio 2011
Terremoti, tempeste, ondate di calore, inondazioni ... fare un elenco di tutti questi disastri è quasi impossibile. E la lista è già lunga anche per il 2011! È il caso dell’Australia, per esempio, con le due successive ondate di tempeste che hanno martoriato il paese il 13 e il 22 marzo 2010, distruggendo molte case e impianti elettrici. E ora dai primi di gennaio, il paese conosce la peggiore inondazione degli ultimi 40 anni, descritta come “biblica” da parte delle autorità australiane. Si parla di una trentina di morti, con una zona allagata più grande di Francia e Germania messe assieme. Anche in Brasile l’anno è iniziato con piogge torrenziali che hanno ucciso più di 250 persone in 2 giorni[1]!
Così, per citare solo le principali calamità del 2010:
- Il 12 gennaio 2010 ad Haiti, un terremoto di magnitudo 7.3 ha provocato 230.000 morti, 300.000 feriti e 1,2 milioni di senza tetto, seminando caos e malattie in un paese già afflitto da povertà[2].
- Il 27 febbraio infuria la tempesta Xynthia sulla costa atlantica della Francia, lasciando 47 morti e distruggendo numerose case. Anche due vittime in Portogallo e tre in Spagna.
- In Cile, lo stesso giorno, un terremoto di magnitudo 8,8 uccide 521 persone e distrugge quasi 500.000 case.
- Nel mese di giugno in Russia si verifica un’ondata di caldo senza precedenti, con 15.000 vittime e la devastazione di molte foreste e campi di grano.
- Il 4 settembre è tocca alla Nuova Zelanda subire un terremoto di una magnitudo simile a quella di Haiti (7.1) ma questa volta la normativa antisismica è servita a limitare a due feriti gravi il numero delle vittime.
Tutti questi eventi sono particolarmente tragici e non si può che deplorarne le terribili conseguenze. E noi esprimiamo tutta la nostra solidarietà alle vittime di queste catastrofi mortali. Tuttavia, se dei fenomeni “naturali”, che siano meteorologici, geologici o altro, ne sono spesso la causa, le conseguenze disastrose che portano questi eventi non hanno nulla di naturale o inevitabile. Come viene mostrato nel nostro articolo sulla tragedia di Haiti, sono sempre gli stessi a che pagare il prezzo più alto delle conseguenze dei disastri: la classe sfruttata e i più poveri. Ricordiamoci il cinismo con cui l’amministrazione Bush tardò a fornire assistenza alle persone di New Orleans dopo il passaggio dell’uragano Katrina nell’agosto 2005.
Purtroppo il bilancio del 2010 non si ferma qui. Il capitalismo è responsabile di altre due gravi catastrofi:
• L’esplosione della piattaforma petrolifera “Deepwater” nel Golfo del Messico, il 20 aprile, che ha causato una fuoriuscita di petrolio di proporzioni precedenti nella storia già “ricca” di inquinamento dovuto all’irresponsabilità delle compagnie petrolifere e degli Stati, produttori o meno, che traggono enormi benefici dall’oro nero. Per quasi cinque mesi 780 milioni di litri di petrolio si sono riversati nel Golfo, senza contare gli 11 lavoratori uccisi nell’esplosione[3].
• Poi, in ottobre, la rottura di una diga di un impianto di trattamento della bauxite vicino Ajka in Ungheria ha causato la peggiore catastrofe ecologica che questo paese abbia mai conosciuto facendo numerose vittime. 1,1 milioni di litri di rifiuti tossici (fanghi alcalini) sono finiti nel Marcal, trasformandolo in un fiume morto. “L’elevato tasso alcalino ha ucciso tutto”, si rammarica Tibor Dobson e continuando: “Tutti i pesci sono morti e non abbiamo potuto salvare neanche la vegetazione”[4].
Per questi veri e propri disastri ecologici e umani, i cui effetti sono ancora da venire, la causa non è, ovviamente, quello che la classe dirigente vorrebbe far passare per “malefatte” quasi inevitabili di “Madre Natura”. Quest’ultima è una vittima diretta delle conseguenze della corsa al profitto del capitalismo e delle contraddizioni sempre più mostruose che genera, e con essa i 6 miliardi di persone che abitano il pianeta. Oggi per la classe dominante non conta altro che la sopravvivenza del sistema capitalista, che si chiami “democrazia” o “dittatura”. Nessuna regione del mondo ne è immune, dalle più “ricche” alle più povere. A qualunque prezzo, l’importante è che il mostro faccia profitti, e quindi che produca, fino a vomitare la sua propria sovrapproduzione. Cosa importa la vita di quelli che producono: i lavoratori. Cosa importa la vita delle popolazioni colpite duramente da questo sistema decadente. Se non sono solvibili “che crepino!” Questo è il discorso chiaro e netto che fanno i nostri sfruttatori a microfono spento, quando non sono davanti alle telecamere, le loro lacrime di coccodrillo servono a mascherare, a mala pena, la loro avida cupidigia ed a completare i loro costumi da clown umanitari che usano per giustificare i più bassi appetiti[5].
Oggi il capitalismo stringe l’umanità nella sua morsa: da un lato, distrugge il pianeta per piegarlo alle leggi della concorrenza, il che fa aumentare le catastrofi naturali, e dall’altro, impoverisce la stragrande maggioranza degli sfruttati e ci rende tutti più vulnerabili. “I fenomeni naturali non dovrebbero essere che fenomeni, per quanto spettacolari possano essere. Ma resteranno catastrofi finché le leggi capitaliste governeranno il mondo”[6]
Maxim (18 gennaio)
(da Révolution Internationale, 419)
[1] da “www.lemonde.fr [115]” del 14/01/2011. Il bilancio è di oltre 500 morti.
[3]: “Marea nera nel Golfo del Messico: il capitalismo è una catastrofe [117]”, https://it.internationalism.org/node/926 [117], Rivoluzione Internazionale n.166
[4] Dichiarazione di Tibor Dobson, capo regionale dei servizi anti-calamità. Il suo staff aveva cercato di versare gesso e acido per ridurre il tasso alcalino del fiume Marcal. Ma invano.
[5] “Haiti, l’aiuto umanitario come alibi” Révolution Internationale n.409, https://fr.internationalism.org/ri409/en_haiti_l_humanitaire_comme_alibi.html [118]
[6] Vedi il nostro articolo sull’ennesimo disastro “Coulées de boues en Amérique latine: le capitalisme est une catastrophe meurtrière permanente”, Révolution Internationale n.412, https://fr.internationalism.org/ri412/coulees_de_boues_en_amerique_latine_le_capitalisme_est_une_catastrophe_meurtriere_permanente.html [119]
Da circa tre anni alcuni elementi e gruppi anarchici e la CCI hanno fatto cadere alcune barriere cominciando a discutere in modo aperto e fraterno. L’indifferenza o il rigetto reciproco, aprioristico e sistematico, dell’anarchismo e del marxismo hanno fatto posto ad una volontà di discutere, di comprendere le posizioni dell’altro, di stabilire con onestà i punti di convergenza e di divergenza.
In Messico, questo nuovo spirito ha permesso la redazione comune di un volantino firmato da due gruppi anarchici (il GSL ed il PAM[1]) e un’organizzazione della Sinistra comunista, la CCI. In Francia, recentemente, la CNT-AIT di Tolosa ha invitato la CCI a fare la relazione introduttiva ad una delle sue riunioni pubbliche[2]. Anche in Germania cominciano ad essere stabiliti dei legami.
Sulla base di questa dinamica la CCI ha iniziato un lavoro di fondo sulla storia dell’internazionalismo all’interno dell’ambiente anarchico. Abbiamo pertanto pubblicato nel corso del 2009 una serie di articoli intitolati “Gli anarchici e la guerra”[3]. Il nostro obiettivo era dimostrare che, ad ogni conflitto imperialistico, una parte degli anarchici aveva saputo evitare la trappola del nazionalismo e difendere l’internazionalismo proletario. In questi articoli abbiamo mostrato come questi compagni avevano continuato a lavorare per la rivoluzione e per il proletariato internazionale nonostante intorno a loro si fosse scatenato lo sciovinismo e la barbarie.
Conoscendo l’importanza che la CCI dà all’internazionalismo - frontiera che delimita i rivoluzionari che lottano realmente per l’emancipazione dell’umanità da quelli che tradiscono la lotta del proletariato - si poteva vedere come questi articoli, oltre ad esprimere una critica senza concessioni agli anarchici che hanno partecipato alla guerra, fossero soprattutto un saluto agli anarchici internazionalisti!
Tuttavia la nostra intenzione non è stata ben percepita. Questa serie ha invece determinato nell’immediato una certa freddezza. Da un lato, alcuni anarchici vi hanno visto un attacco in piena regola contro il loro movimento. Dall’altro, alcuni simpatizzanti della Sinistra comunista e della CCI non hanno capito la nostra volontà di “avvicinarci agli anarchici”[4].
Al di là di grossolane sviste contenute nei nostri articoli e che hanno potuto “urtare” qualcuno[5], queste critiche apparentemente contraddittorie hanno in effetti la stessa radice. Mostrano la difficoltà a vedere, al di là delle divergenze, gli elementi essenziali che avvicinano i rivoluzionari.
Andare al di là delle etichette!
Quelli che si richiamano alla lotta per la rivoluzione vengono tradizionalmente classificati in due categorie: i marxisti e gli anarchici. Ci sono nei fatti delle divergenze molto importanti che li dividono:
- centralizzazione/federalismo;
- materialismo/idealismo;
- “periodo di transizione” o “abolizione immediata dello Stato”;
- Riconoscimento o denuncia della rivoluzione dell’Ottobre 1917 e del Partito bolscevico
- …
Tutte queste questioni sono effettivamente estremamente importanti. È nostra responsabilità non evitarle ma dibatterne apertamente. Tuttavia, per la CCI queste non delimitano “due campi”. Concretamente, la nostra organizzazione, che è marxista, ritiene di lottare per il proletariato al fianco dei militanti anarchici internazionalisti e in contrapposizione ai Partiti “comunisti” e maoisti (che si proclamano tuttavia anche loro marxisti). Perché?
In seno alla società capitalista, esistono due campi fondamentali: quello della borghesia e quello della classe operaia. Noi denunciamo e combattiamo tutte le organizzazioni politiche che appartengono al primo. Discutiamo, talvolta vivacemente ma sempre fraternamente, e proviamo a collaborare con tutti i membri del secondo. Ora, sotto la stessa etichetta “marxista” si nascondono delle organizzazioni autenticamente borghesi e reazionarie. La stessa cosa vale anche per l’etichetta “anarchico”!
Non si tratta di pura retorica. La storia pullula di esempi di organizzazioni “marxiste” o “anarchiche” che giurano mano sul cuore di difendere la causa del proletariato per meglio in realtà pugnalarlo alla schiena. Nel 1919 la socialdemocrazia tedesca si diceva “marxista” nello stesso momento in cui assassinava Rosa Luxemburg, Karl Liebknecht e migliaia di operai. I partiti stalinisti hanno schiacciato nel sangue le insurrezioni operaie di Berlino nel 1953 e d’Ungheria nel 1956 in nome del “comunismo” e del “marxismo”, in realtà nell’interesse del blocco imperialistico diretto dall’URSS. In Spagna, nel 1937, alcuni dirigenti della CNT partecipando al governo sono serviti da cauzione ai boia stalinisti che hanno massacrato e represso nel sangue migliaia di rivoluzionari… anarchici! Oggi, in Francia ad esempio, la stessa denominazione “CNT” raccoglie due organizzazioni anarchiche, una dalle posizioni autenticamente rivoluzionarie, la CNT-AIT, ed un’altra puramente “riformista” e reazionaria, la CNT Vignoles[6].
È dunque vitale identificare i falsi amici che si nascondono dietro le “etichette”.
Ma non bisogna cadere nella trappola inversa e credere di essere soli al mondo, i detentori esclusivi della “verità rivoluzionaria”. I militanti comunisti sono oggi ancora poco numerosi e non c’è niente di più nefasto dell’isolamento. Bisogna dunque lottare anche contro la tendenza, ancora troppo diffusa, della difesa della “propria parrocchia”, della propria “famiglia” (anarchica o marxista) e contro lo spirito bottegaio che non ha niente a che vedere con il campo della classe operaia. I rivoluzionari non sono concorrenti tra loro. Le divergenze, i disaccordi, per quanto profondi possano essere, sono una fonte di arricchimento per la coscienza di tutta la classe operaia quando sono discussi apertamente e sinceramente. Creare dei legami e discutere a livello internazionale sono necessità assolute.
Ma per fare questo bisogna saper distinguere i rivoluzionari (quelli che difendono la prospettiva del capovolgimento del capitalismo da parte del proletariato) dai reazionari (quelli che, in un modo o nell’altro, contribuiscono alla perpetuazione di questo sistema) senza focalizzarsi sulla sola etichetta “marxismo” o “anarchismo”.
Ciò che unisce i marxisti e gli anarchici internazionalisti
Per la CCI esistono dei criteri fondamentali che distinguono le organizzazioni borghesi da quelle proletarie.
Sostenere la lotta della classe operaia contro il capitalismo significa al tempo stesso combattere nell’immediato contro lo sfruttamento (negli scioperi, ad esempio) e non perdere mai di vista la prospettiva storica di questa lotta: il rovesciamento di questo sistema di sfruttamento attraverso la rivoluzione. Per fare ciò, un’organizzazione non deve mai dare il suo appoggio, in nessun modo (anche se “critico”, “tattico”, in nome del “male minore”…) ad un settore della borghesia: né alla borghesia “democratica” contro la borghesia “fascista”, né alla sinistra contro la destra, né alla borghesia palestinese contro la borghesia israeliana, ecc. Questa politica ha due implicazioni concrete:
1. Bisogna rifiutare ogni sostegno elettorale, ogni collaborazione, con i partiti che gestiscono il sistema capitalista o che difendono questa o quella forma di quest’ultimo (socialdemocrazia, stalinismo, “chavismo”, ecc.);
2. Soprattutto, rispetto ad ogni guerra, bisogna mantenere un internazionalismo intransigente, rifiutandosi di scegliere tra questo o quel campo imperialista. Durante la Prima Guerra mondiale come durante tutte le guerre imperialiste del 20° secolo, tutte le organizzazioni che, per cercare un campo da sostenere, hanno abbandonando il campo dell’internazionalismo hanno nei fatti tradito la classe operaia e sono state integrate definitivamente nel campo borghese[7].
Questi criteri, esposti qui molto brevemente, spiegano perché la CCI considera certi anarchici compagni di lotta e perché si augura di discutere e collaborare con loro mentre, parallelamente, denuncia con forza altre organizzazioni anarchiche.
Per esempio, collaboriamo con il KRAS (sezione dell’AIT anarco-sindacalista in Russia), pubblicando e salutando le sue prese di posizione internazionaliste di fronte alla guerra, in particolare quella in Cecenia. La CCI considera questi anarchici, malgrado le divergenze, come facenti parte del campo proletario. Questi si distinguono chiaramente da tutti quegli anarchici e da tutti quei “comunisti” (come quelli dei Partiti “comunisti” o maoisti o trotzkisti) che in teoria difendono l’internazionalismo ma in pratica vi si oppongono difendendo in ogni guerra un campo belligerante contro un altro. Non bisogna dimenticare che nel 1914, all’epoca dello scoppio della Prima Guerra mondiale, e nel 1917, all’epoca della Rivoluzione russa, la maggior parte dei “marxisti” della socialdemocrazia si schierarono con la borghesia contro il proletariato, mentre la CNT spagnola denunciava la guerra imperialista e sosteneva la rivoluzione! All’epoca dei movimenti rivoluzionari della fine degli anni 1910, gli anarchici ed i marxisti, che lavoravano sinceramente alla causa proletaria, si sono ritrovati fianco a fianco nella lotta nonostante i loro disaccordi. In questo periodo c’è stata anche una certa collaborazione di grande ampiezza tra i rivoluzionari marxisti (i bolscevichi, gli spartakisti tedeschi, i tribunisti olandesi, gli astensionisti italiani, ecc. che si erano staccati dalla II Internazionale che degenerava) e numerosi gruppi che si rivendicavano all’anarchismo internazionalista. Un esempio di questo processo è il fatto che un’organizzazione come la CNT abbia previsto la possibilità, alla fine rigettata, di integrarsi nella Terza Internazionale[8].
Per portare un esempio più recente, un po' ovunque nel mondo esistono gruppi anarchici e sezioni dell’AIT che di fronte agli avvenimenti attuali mantengono non solo una posizione internazionalista ma lottano anche per l’autonomia della proletariato contro tutte le ideologie e tutte le correnti della borghesia:
- questi anarchici difendono la lotta diretta e di massa come anche l’auto-organizzazione in assemblee generali ed in Consigli operai;
- rigettano ogni partecipazione alla mascherata elettorale ed ogni sostegno a qualsiasi partito politico, anche “progressista”, che partecipa a questa mascherata.
In altre parole, fanno proprio uno dei principi formulati dalla Prima Internazionale: “L’emancipazione dei lavoratori sarà opera dei lavoratori stessi”, lavorando in tal modo per la lotta per la rivoluzione ed una comunità umana mondiale.
La CCI appartiene allo stesso campo di questi anarchici internazionalisti che difendono realmente l’autonomia operaia! Sì, li consideriamo come dei compagni con i quali ci auguriamo di discutere e collaborare! Sì, pensiamo anche che questi militanti anarchici hanno molto più in comune con la Sinistra comunista che non con quelli che, sotto la stessa etichetta anarchica, difendono in realtà delle posizioni nazionaliste o “riformistiche” e che quindi sono in realtà dei difensori del capitalismo, dei reazionari!
Nel dibattito che poco a poco si sta sviluppando tra tutti gli elementi e gruppi rivoluzionari ed internazionalisti del pianeta, ci saranno inevitabilmente errori, discussioni vivaci ed animate, spigolosità, malintesi e veri disaccordi. Ma i bisogni della lotta del proletariato contro un capitalismo sempre più invivibile e barbaro, la prospettiva indispensabile della rivoluzione proletaria mondiale, condizione per garantire la sopravvivenza dell’umanità e del pianeta, esigono questo sforzo. E’ un dovere. E oggi, che emergono di nuovo minoranze proletarie rivoluzionarie in numerosi paesi che si richiamano o al marxismo o all’anarchismo (o che sono aperte ai due), questo dovere di discutere e collaborare deve incontrare un’adesione determinata ed entusiasta!
CCI (giugno 2010)
I prossimi articoli di questa serie tratteranno le seguenti questioni:
- Sulle nostre difficoltà a discutere ed i mezzi per superarle.
- Come coltivare il dibattito.
[1] GSL: Grupo Socialista Libertario, https://webgsl.wordpress.com [120], PAM: Proyecto Anarquista Metropolitano, proyectoanarquistametropolitano.blogspot.com.
[2] Un clima caloroso ha regnato durante tutta questa riunione. Leggi il resoconto “Réunion CNT-AIT de Toulouse du 15 avril 2010: vers la constitution d’un creuset de réflexion dans le milieu internationaliste [121], sulla pagina in francese del nostro sito.
[4] Dei compagni, in particolare, sono stati turbati dalla realizzazione di un volantino in comune GSL-PAM-CCI. Abbiamo quindi cercato di spiegare il nostro approccio in un articolo in spagnolo dal titolo “Quale è il nostro atteggiamento di fronte a dei compagni che si richiamano all’anarchismo?”, https://es.internationalism.org/node/2715 [124]
[5] In effetti alcuni compagni anarchici hanno giustamente sottolineato delle sviste, delle formulazioni imprecise ed anche degli errori storici. Vi torneremo in seguito, ma vogliamo sin da ora rettificarne due dei più grossolani:
– La serie “Gli anarchici e la guerra” afferma più volte che, all’epoca della Prima guerra mondiale, la maggioranza dell’ambiente anarchico cadde nel nazionalismo mentre solo un pugno di individui riuscì a difendere la posizione internazionalista mettendo in pericolo la propria vita. Gli elementi storici apportati nel dibattito da membri dell’AIT, e confermati dalle nostre ricerche, mostrano che in realtà una gran parte degli anarchici si è opposta alla guerra sin dal 1014 (delle volte in nome dell’internazionalismo o dell’antinazionalismo, più spesso in nome del pacifismo)
– L’errore più imbarazzante (e che finora nessuno ha sollevato) riguarda l’insurrezione di Barcellona nel maggio 1937. Infatti noi abbiamo scritto che “gli anarchici si fanno complici della repressione operata dal Fronte popolare e dal governo di Catalogna”. In realtà sono invece i militanti della CNT e della FAI a costituire la maggior parte degli operai insorti a Barcellona e che sono state le principali vittime della repressione organizzata dalle orde staliniste! Sarebbe stato più giusto denunciare la collaborazione a questo massacro da parte della direzione della CNT piuttosto che “degli anarchici”. Questo del resto è il senso della nostra posizione sulla Guerra di Spagna che difendiamo in particolare nell’articolo “Lezioni degli avvenimenti della Spagna” nella Rivista Internazionale n.3 dove vengono riportati gli articoli di Bilan (novembre 1936) su questi avvenimenti.
[6] “Vignoles” è il nome della strada dove si trova la loro sede principale.
[7] Tuttavia elementi o gruppo hanno potuto emergere da organizzazioni che erano passate nel campo borghese, ad esempio la tendenza di Munis o quella che avrebbe formato “Socialisme ou Barbarie” all’interno della “IV Internazionale” trotskysta.
A Marx premeva dimostrare, contro queste definizioni restrittive e deformate, che il comunismo non significa ridurre in generale gli uomini ad un filisteismo incolto, ma l’elevazione dell’umanità alle sue più alte capacità creatrici.
Il comunismo volgare aveva compreso con una certa correttezza che le realizzazioni culturali delle società precedenti erano basate sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Ma esso le rigettava in modo erroneo mentre il comunismo di Marx cercava, al contrario, di appropriarsene e di rendere fruttuosi tutti gli sforzi culturali e, se si può utilizzare questo termine, spirituali precedenti dell’umanità, liberandoli dalle distorsioni di cui la società di classe inevitabilmente li aveva segnati. Facendo di queste realizzazioni il bene comune di tutta l’umanità, il comunismo le fonderebbe in una sintesi superiore e più universale. E’ una visione profondamente dialettica la quale, anche prima che Marx esprimesse una chiara comprensione delle forme comunitarie di società che avevano preceduto la formazione delle divisioni in classe, riconosce che l’evoluzione storica, in particolare nella sua fase finale capitalista, ha spogliato l’uomo e lo ha privato dei suoi rapporti sociali “naturali” originari. Ma il fine di Marx non è un ritorno ad una semplicità primitiva persa ma l’instaurazione cosciente dell’essere sociale dell’uomo, un accesso ad un livello superiore che integra tutti gli avanzamenti contenuti nel movimento della storia.
La produzione comunista come realizzazione della natura sociale dell’uomo
La critica di Marx del lavoro alienato presenta parecchi aspetti:
- il lavoro alienato separa il produttore dal suo prodotto: ciò che l’uomo crea con le proprie mani diventa una forza ostile che schiaccia il suo creatore; si separa il produttore dall’atto di produzione: il lavoro alienato è una forma di tortura, un’attività totalmente estranea al lavoratore. Dato che la caratteristica fondamentale umana, “l’essere generico dell’uomo” come dice Marx, è la produzione creatrice cosciente, trasformare questa in fonte di tormento, significa separare l’uomo dal suo vero essere generico;
- si separa l’uomo dall’uomo: c’è non solo una profonda separazione tra lo sfruttatore e lo sfruttato, ma anche tra gli stessi sfruttati, atomizzati in individui rivali per le leggi della concorrenza capitalista.
Nelle sue prime definizioni del comunismo, Marx tratta questi aspetti dell’alienazione sotto diverse angolazioni ma sempre con la stessa preoccupazione di mostrare che il comunismo fornisce una soluzione concreta e positiva a questi mali. Nella conclusione degli Estratti degli elementi di economia politica di James Mill, commento che scrisse nella stessa epoca dei Manoscritti, Marx spiega perché la sostituzione del lavoro salariato capitalista (che non produce che per il profitto), con il lavoro associato che produce per i bisogni umani, costituisce la base del superamento delle alienazioni enumerate in alto.
Marx ci dice di immaginare “di produrre come esseri umani: ciascuno di noi si affermerebbe doppiamente nella sua produzione, per sé stesso e per l’altro! 1) Nella mia produzione realizzerei la mia identità, la mia particolarità; lavorando proverei il godimento di una manifestazione individuale della mia vita, e, nella contemplazione dell’oggetto, avrei la gioia individuale di riconoscere la mia personalità come potere reale, concretamente percepibile e al di fuori di ogni dubbio. 2) Nel tuo godimento o nel tuo impiego del mio prodotto, avrei la gioia spirituale immediata di soddisfare attraverso il mio lavoro un bisogno umano, di realizzare la natura umana e di fornire al bisogno di un altro l’oggetto della sua necessità. 3) Avrei consapevolezza di servire da mediatore tra te ed il genere umano, di essere riconosciuto e sentito da te come un complemento al tuo proprio essere e come una parte necessaria di te stesso; di essere accettato nel tuo spirito come nel tuo amore. 4) Avrei, nelle mie manifestazioni individuali, la gioia di creare la manifestazione della tua vita, cioè di realizzare e di affermare nella mia attività individuale la mia vera natura, il mio essere socievole umano. Le nostre produzioni sarebbero altrettanti specchi dove i nostri esseri risplenderebbero uno di fronte all’altro. (...) Il mio lavoro sarebbe una manifestazione libera della vita, un godimento della vita”.
Così, per Marx, gli esseri umani produrranno in modo umano solo quando ogni individuo sarà capace di realizzarsi pienamente nel suo lavoro: realizzazione che viene dal godimento attivo dell’atto produttivo; dalla produzione di oggetti che abbiano non solo un’utilità reale per altri esseri umani ma che meritano anche di essere contemplati per sé stessi, perché sono stati prodotti, per usare un’espressione dei Manoscritti, “secondo le leggi della bellezza”, del lavoro in comune con altri esseri umani, e per uno scopo comune.
Per Marx la produzione dei bisogni non ha costituito mai un semplice minimo, una soddisfazione puramente quantitativa dei bisogni elementari di nutrirsi, di alloggiare, ecc. La produzione per i bisogni è anche il riflesso della necessità per l’uomo di produrre - per l’atto di produzione in quanto attività sensuale e piacevole, in quanto celebrazione dell’energia comunitaria del genere umano. Questa è una posizione che Marx non ha mai modificato. Come scrive, per esempio, il Marx “maturo” nella Critica del Programma di Gotha (1874), quando parla di una “fase più elevata della società comunista, dopo che è scomparsa la subordinazione asservitrice degli individui alla divisione del lavoro, e quindi anche il contrasto tra lavoro intellettuale e fisico; dopo che il lavoro sarà divenuto non soltanto mezzo di vita, ma anche il primo bisogno della vita; dopo che con lo sviluppo onnilaterale degli individui sono cresciute anche le forze produttive e tutte le sorgenti della ricchezza scorrono in tutta la loro pienezza...”.
Nella società futura la principale motivazione per lavorare sarà “il primo bisogno della vita”, il godimento della vita - cuore dell’attività umana e realizzazione dei desideri essenziali dell’uomo.
Superare la divisione del lavoro
Nel primo volume del Capitale Marx passa pagine e pagine a scagliarsi contro il modo in cui il lavoro della fabbrica riduce l’operaio a semplice frammento di sé stesso; contro il modo in cui trasforma gli uomini in corpo senza testa, la cui specializzazione ha ridotto il lavoro alla ripetizione delle azioni più meccaniche per intorpidire la mente. Ma questa polemica contro la divisione del lavoro si trova già nei suoi primi lavori ed è chiaro in quello che dice che per Marx non può esserci superamento dell’alienazione implicita nel sistema salariato senza che ci sia una profonda trasformazione della divisione del lavoro esistente. Un passo famoso dell’Ideologia tedesca tratta questo problema: “E infine la divisione del lavoro offre anche il primo esempio del fatto che fintanto gli uomini si trovano nella società naturale, fintanto che esiste, quindi, la scissione fra interesse particolare e interesse comune, fin tanto che l’attività, quindi, è divisa non volontariamente ma naturalmente, l’azione propria dell’uomo diventa una potenza a lui estranea, che lo sovrasta, che lo soggioga, invece di essere da lui dominata. Cioè appena il lavoro comincia ad essere diviso ciascuno ha una sfera di attività determinata ed esclusiva che gli viene imposta e dalla quale non può sfuggire: è cacciatore, pescatore, o pastore, o critico critico, e tale deve restare se non vuol perdere i mezzi per vivere; laddove nella società comunista, in cui ciascuno non ha una sfera di attività esclusiva ma può perfezionarsi in qualsiasi ramo a piacere, la società regola la produzione generale e appunto in tal modo mi rende possibile di fare oggi questa cosa, domani quell’altra, la mattina andare a caccia, il pomeriggio pescare, la sera allevare il bestiame, dopo pranzo criticare, cosi come mi vien voglia; senza diventare né cacciatore, né pescatore, né pastore, né critico”.
Questa meravigliosa immagine della vita quotidiana in una società comunista pienamente sviluppata utilizza evidentemente una certa licenza poetica, ma essa tratta il punto essenziale: dato lo sviluppo delle forze produttive apportato dal capitalismo, non c’è assolutamente bisogno che gli esseri umani passino gran parte della loro vita nella prigione di un unico genere di attività - soprattutto nel genere di attività che permette l’espressione solo di una minuscola parte delle capacità reali dell’individuo. Allo stesso modo, parliamo dell’abolizione della vecchia divisione tra piccole minoranze di individui che hanno il privilegio di vivere di un lavoro realmente creativo e gratificante, e la vasta maggioranza condannata all’esperienza del lavoro come alienazione della vita: “Il fatto che il talento artistico sia concentrato esclusivamente in alcuni individui e che esso sia, per questa ragione, soffocato nella gran massa delle persone è una conseguenza della divisione del lavoro. (...) in un’organizzazione comunista della società l’assoggettamento dell’artista allo spirito ristretto del luogo e della nazione sarà scomparso. Questa grettezza di spirito è un puro risultato della divisione del lavoro. Scomparirà anche l’assoggettamento dell’individuo a tale arte determinata che lo riduce al ruolo esclusivo di pittore, di scultore, ecc., in modo che, di per sé, la denominazione rifletta perfettamente la ristrettezza del suo sviluppo professionale e la sua dipendenza dalla divisione del lavoro. In una società comunista, non ci sono pittori, ma al massimo degli esseri umani che, tra le altre cose, dipingono”.
L’immagine eroica della società borghese nella sua aurora nascente è quella dell’ “Uomo del Rinascimento” - di individui come Leonardo Da Vinci che ha combinato i talenti di artista, scienziato e filosofo. Ma tali uomini non sono che esempi eccezionali, geni straordinari, in una società in cui l’arte e la scienza si basano sulla fatica spossante dell’immensa maggioranza. La visione del comunismo di Marx è quella di una società composta interamente da “Uomini del Rinascimento”.
L’emancipazione dei sensi
Le descrizioni di Marx dei fini ultimi del comunismo sono estremamente ardite, ben più di quanto possano sospettare di solito i “realisti”, perché esse non considerano solo i profondi cambiamenti che implica la trasformazione comunista (produzione per il consumo, abolizione della divisione del lavoro, ecc.); esse si addentrano anche nei cambiamenti soggettivi che il comunismo apporterà permettendo una trasformazione spettacolare della percezione e della stessa esperienza sensitiva dell’uomo.
Anche qui il metodo di Marx è partire dal problema reale, concreto, posto dal capitalismo e cercare la soluzione contenuta nelle contraddizioni presenti della società. In questo caso egli descrive il modo in cui il regno della proprietà privata riduce le capacità dell’uomo di godere veramente dei suoi sensi. Innanzitutto, questa restrizione è una conseguenza della semplice povertà materiale che smussa i sensi, riduce tutte le funzioni fondamentali della vita al loro livello animale ed impedisce agli esseri umani di realizzare la loro potenza creatrice.
Al contrario, “… i sensi dell’uomo sociale sono altri da quelli dell’uomo asociale. È soltanto per la dispiegata ricchezza dell’ente umano che la ricchezza della soggettiva umana sensibilità, che un orecchio musicale, che un occhio per la bellezza delle forme, in breve dei sensi capaci di godimento umano, diventano dei sensi capaci, dei sensi che si affermano quali umane forze essenziali... così la società formatasi produce l’uomo in questa intera ricchezza del suo essere, l’uomo ricco, e profondo, di senso universale, come sua ferma realtà”.
Ma non è solamente la privazione materiale quantificabile che restringe il libero gioco dei sensi. È qualche cosa di più profondamente inciso dalla società della proprietà privata, la società dell’alienazione. È la “stupidità” indotta da questa società che ci convince che niente “è veramente vero” finché non si lo possiede: “La proprietà privata ci ha fatti così ottusi e unilaterali che un oggetto è nostro solo quando lo abbiamo, quando, dunque, esiste per noi come capitale, o è immediatamente posseduto, mangiato, bevuto, portato sul nostro corpo, abitato, ecc., in breve utilizzato. Sebbene la proprietà privata comprenda tutte queste immediate realizzazioni del possesso soltanto come mezzo di vita, la vita, cui servono come mezzi, è la vita della proprietà privata: lavoro e capitalizzazione. Tutti i sensi, fisici e spirituali, sono stati quindi sostituiti dalla semplice alienazione di essi tutti, dal senso dell’avere”.
E di nuovo, in opposizione a ciò:
"... la soppressione effettiva della proprietà privata – cioè l’appropriazione sensibile dell’esistenza e vita umana, dell’uomo oggettivo, delle opere umane, per e attraverso l’uomo - non è da prendersi soltanto nel senso dell’immediato, unilaterale godimento, nel senso del possedere, dell’avere. L’uomo si immedesima, in guisa onnilaterale, nel suo essere onnilaterale, dunque da uomo totale. Ognuno dei suoi umani rapporti col mondo, il vedere, l’udire, l’odorare, il gustare, il toccare, il pensare, l’intuire, il sentire, il volere, l’agire, l’amare, in breve ognuno degli organi dell’individualità, come organi che sono immediatamente nella loro forma organi comuni sono, nel loro oggettivo contegno, ossia nel loro comportamento verso l’oggetto, appropriazione di questo medesimo (...) La soppressione della proprietà privata è, dunque, la completa emancipazione di tutti i sensi umani e di tutte le qualità umane; ma è questa emancipazione precisamente perché questi sensi e queste qualità sono divenuti umani, sia soggettivamente che oggettivamente. L’occhio è divenuto occhio umano in quanto il suo oggetto è divenuto un oggetto sociale, umano, dell’uomo per l’uomo. I sensi sono quindi divenuti dei teorici immediatamente, nella loro pratica. Essi si rapportano, sì, alla cosa per amore della cosa, ma la cosa stessa è un comportamento oggettivo-umano seco stessa e con l’uomo e viceversa. Il bisogno o il godimento hanno perciò perduto la loro natura egoistica, e la natura ha perduto la sua pura utilità, dal momento che l’utile è divenuto utile umano”.
Chiaramente per Marx la sostituzione del lavoro alienato con una forma realmente umana di produzione condurrebbe ad una modifica fondamentale dello stato di coscienza dell’uomo. La liberazione della specie dal tributo paralizzante pagato alla lotta contro la penuria, il superamento dell’associazione dell’ansietà e del desiderio imposto dal dominio della proprietà privata, liberano i sensi dell’uomo dalla loro prigione e gli permettono di vedere, di comprendere e di sentire in modo nuovo. È difficile discutere di tali forme di coscienza perché non sono “semplicemente” razionali. Ma questo non vuol dire che esse siano regredite ad un livello anteriore allo sviluppo della ragione. Ciò vuol dire che sono andate al di là del pensiero razionale come è stato concepito finora in quanto attività separata ed isolata, raggiungendo una condizione nella quale “non solo nel pensare, ma con tutti i suoi sensi, l’uomo si afferma nel mondo degli oggetti”.
Un primo approccio per comprendere tali trasformazioni interne, è rifarsi allo stato di ispirazione che esiste in ogni grande opera d’arte. In questo stato di ispirazione, il pittore o il poeta, il ballerino o il cantante intravedono un mondo trasfigurato, un mondo splendente di colore e di musica, un mondo di un significato elevato che fa si che il nostro stato “normale” di percezione appare parziale, limitato ed anche irreale – il che è giusto quando si ricorda che la “normalità” è precisamente la normalità dell’alienazione. L’analogia con l’artista non è fortuita. Quando Marx scriveva i Manoscritti il suo amico più stimato era il poeta Heine e per tutta la sua vita Marx fu appassionato dalle opere di Omero, Shakespeare, Balzac ed altri grandi scrittori. Per lui tali personaggi e la loro creatività liberata costituivano dei modelli duraturi del vero potenziale dell’umanità. Come abbiamo visto, il fine di Marx era una società in cui tali livelli di creatività diventerebbero un attributo “normale” dell’uomo; ne consegue dunque che lo stato elevato della percezione dei sensi descritto nei Manoscritti diventerebbe sempre più lo stato “normale” di coscienza dell’umanità sociale.
In seguito Marx svilupperà di più l’analogia con l’attività creatrice dello scienziato che con quella dell’artista, pur conservando l’essenziale: la liberazione dalla corvée del lavoro, il superamento della separazione tra lavoro e tempo libero, producono un nuovo soggetto umano.
CDW
(da Révolution Internationale, 419)
Aprile-Maggio 2011
Dichiarandosi vivamente preoccupato per il deterioramento della situazione, la scalata della violenza e le pesanti perdite civili, (…)
Condannando la violazione flagrante e sistematica dei diritti dell’uomo, ivi compreso detenzioni arbitrarie, sparizioni forzate, torture ed esecuzioni sommarie, (…)
Considerando che gli attacchi generalizzati e sistematici commessi attualmente nella Jamahiriya arabo-libica contro la popolazione civile possono costituire dei crimini contro l'umanità, (…)
Dichiarandosi risoluto ad assicurare la protezione dei civili, (…)
Autorizza gli Stati Membri che hanno inviato al Segretario generale una notificazione a questo fine (…) a prendere ogni misura necessaria, (…) per proteggere le popolazioni (…)” (Risoluzione ONU 1973 - Libia, 17 marzo 2011).
Una volta ancora, gli alti dirigenti di questo mondo utilizzano belle formule umanitarie, fanno bei discorsi, con voce vibrante, sulla “democrazia”, la “pace” e la “sicurezza delle popolazioni”, per giustificare meglio le loro avventure imperialiste.
Così, dal 20 marzo, una “coalizione internazionale”[1] conduce in Libia un’operazione militare di grande portata, chiamata poeticamente dagli Stati Uniti “Alba dell’Odissea”. Ogni giorno, decine di aerei decollano dalle due potenti portaerei francese ed americana per sganciare tappeti di bombe su tutte le regioni dove si suppone la presenza di forze armate fedeli al regime di Gheddafi[2].
Detto con chiarezza, è guerra!
Tutti questi Stati non fanno che difendere i propri interessi… a colpi di bombe.
Evidentemente Gheddafi è un dittatore pazzo e sanguinario. Dopo settimane di arretramento di fronte alla ribellione, l’autoproclamata “Guida libica” ha saputo riorganizzare le sue truppe scelte per contrattaccare. Giorno dopo giorno, è riuscito a riguadagnare terreno, schiacciando tutto al suo passaggio, “ribelli” e popolazione. E sicuramente, quando è stata scatenata l’operazione Alba dell’Odissea, si preparava ad annegare nel loro stesso sangue gli abitanti di Bengasi.
Le sortite aeree della coalizione hanno provocato pesanti danni alle forze di repressione del regime e dunque, effettivamente, hanno evitato il massacro annunciato.
Ma chi può credere per un solo istante che questo spiegamento di forze armate abbia avuto realmente per scopo il benessere della popolazione libica?
Dov’era questa stessa coalizione quando Gheddafi nel 1996 ha fatto massacrare 1000 detenuti nella prigione Abu Salim di Tripoli? In realtà, è da quarant'anni che questo regime arresta, tortura, terrorizza, fa sparire, ammazza … in tutta impunità.
Dove era ieri questa stessa coalizione quando Ben Ali in Tunisia, Mubarak in Egitto o Buteflika in Algeria ordinavano di sparare sulla folla all’epoca dei sollevamenti di gennaio e febbraio?
E che fa oggi questa stessa coalizione di fronte ai massacri che hanno luogo nello Yemen, in Siria o in Bahrein? Oh pardon… qui non possiamo dire che essa è completamente assente: uno dei suoi membri, l’Arabia Saudita, interviene infatti per sostenere lo Stato del Bahrein… a reprimere i manifestanti! Ed i suoi complici a chiudere gli occhi.
I Sarkozy, i Cameron, gli Obama ed amici possono anche presentarsi come fieri salvatori, difensori di vedove e di orfani, ma la sofferenza dei “civili” di Bengasi è stata per loro solo un alibi per intervenire militarmente in zona a difendere i loro rispettivi sordidi interessi imperialisti. Tutti questi gangster hanno una ragione, che non ha niente a che vedere con l’altruismo, nel lanciarsi in questa crociata imperialista.
Questa volta, contrariamente alle ultime guerre, gli Stati Uniti non sono i capofila dell’operazione militare. Perché? In Libia, la borghesia americana è costretta a giocare all’equilibrista.
Da un lato, non può permettersi di intervenire massicciamente per via terrestre sul suolo libico. Ciò sarebbe percepito dall’insieme del mondo arabo come un’aggressione ed una nuova invasione. Le guerre di Iraq e dell’Afghanistan hanno in effetti rafforzato ancor più l’avversione generalizzata per “l’imperialismo americano, alleato di Israele”. Ed il cambiamento di regime in Egitto, tradizionale alleato dello Zio Sam, ha indebolito ulteriormente la sua posizione nella regione[3].
Tuttavia, non possono restare fuori dal gioco senza rischiare totalmente di compromettere il loro statuto di “combattenti per la democrazia nel mondo”. Ed evidentemente è fuori questione per loro lasciare il campo libero al tandem Francia/Gran Bretagna.
La partecipazione della Gran Bretagna ha un doppio obiettivo. Anch’essa tenta, presso i paesi arabi, di ridorare il suo blasone sbiadito dai suoi interventi in Iraq ed in Afghanistan. Ma serve anche ad abituare la propria popolazione agli interventi militari esterni che in avvenire non mancheranno di moltiplicarsi. Perciò “Salvare il popolo libico da Gheddafi” è l'occasione perfetta[4].
Il caso della Francia è un po’ differente. Si tratta del solo grande paese occidentale a godere di una certa popolarità nel mondo arabo (acquistata sotto De Gaulle) ed amplificata dal suo rifiuto a partecipare all’invasione dell’Iraq nel 2003.
Intervenendo in favore del “popolo libico”, il presidente Sarkozy sapeva perfettamente che sarebbe stato accolto a braccia spalancate dalla popolazione e che i paesi vicini avrebbero visto di buon occhio questo intervento contro un Gheddafi per loro estremamente incontrollabile ed imprevedibile. Ed infatti, a Bengasi, hanno echeggiato dei “Viva Sarkozy”, “Viva la Francia”[5]. Per una volta, lo Stato francese è riuscito ad approfittare con tempestiva opportunità della cattiva posizione americana.
Il presidente della Repubblica francese ne ha approfittato anche per effettuare dei recuperi relativi ai ripetuti spropositi del suo governo in Tunisia ed in Egitto (sostegno ai dittatori alla fine cacciati dalle rivolte sociali, consultazioni conosciute durante queste lotte tra i suoi ministri ed i regimi locali, proposta di mandare le sue forze di polizia per affiancare la repressione in Tunisia…).
Non possiamo qui dettagliare gli interessi particolari di ogni Stato della coalizione che colpisce oggi la Libia, ma una cosa è sicura: non si tratta per niente di umanesimo o di filantropia! E ciò vale anche per coloro che, reticenti, si sono astenuti dal votare la risoluzione dell’ONU o lo hanno fatto con la punta delle dita.
Per quanto riguarda Cina, Russia e Brasile, questi paesi si sono mostrati molto ostili a questo intervento semplicemente perché non hanno niente da guadagnare dalla cacciata di Gheddafi.
L’Italia ha invece tutto da perdere. Il regime attuale assicurava finora un accesso facile al petrolio ed un controllo draconiano delle frontiere. La destabilizzazione del paese può rimettere in causa tutto ciò.
La Germania di Angela Merkel oggi è ancora un nano militare. Tutte le sue forze sono impegnate in Afghanistan. Partecipare a queste operazioni avrebbe reso più chiara questa debolezza. Come scrive il giornale spagnolo El País “Assistiamo ad una riedizione del riequilibrio costante della relazione tra il gigantismo economico tedesco, che si è manifestato durante la crisi dell’euro, e la capacità politica francese che si esercita anche attraverso la potenza militare”[6].
Alla fine la Libia, come l’insieme del Medio Oriente, somiglia oggi ad un’immensa scacchiera dove le grandi potenze tentano di avanzare le loro pedine.
Perché le grandi potenze intervengono adesso?
Sono settimane che le truppe di Gheddafi avanzano verso Bengasi, il feudo dei ribelli, massacrando qualsiasi cosa che si muova sul loro passaggio. Perché i paesi della coalizione, se avevano tali interessi ad intervenire militarmente nella regione, hanno aspettato tanto?
Nei primi giorni, il vento di rivolta che ha soffiato in Libia veniva dalla Tunisia e dall’Egitto. La stessa collera contro l’oppressione e la miseria arroventava tutti gli strati sociali. Era dunque fuori discussione che le “Grandi democrazie di questo mondo” potessero sostenere realmente questo movimento sociale, malgrado i loro bei discorsi di condanna della repressione. La loro diplomazia rifiutava infatti ipocritamente ogni ingerenza e sosteneva il “diritto dei popoli a fare la loro storia”. L’esperienza insegna che: ad ogni lotta sociale la borghesia di tutti i paesi chiude gli occhi sulle più orribili repressioni, quando non dà loro direttamente man forte!
Ma in Libia, quella che inizialmente sembrava una vera rivolta di “quelli in basso”, con civili disarmati che partono coraggiosamente all’assalto dalle caserme dei militari ed incendiano i Quartier Generali dei pretesi Comitati del Popolo, si è trasformata velocemente in una sanguinosa “guerra civile” tra frazioni della borghesia. In altre parole, il movimento è scappato dalle mani degli strati non sfruttatori. La prova è che uno dei capi della ribellione e del CNT (Consiglio Nazionale di Transizione) è Al Jeleil, l’ex ministro della Giustizia di Gheddafi! Quest’uomo, che sicuramente ha le mani coperte di tanto sangue quanto la sua vecchia “Guida”, ne diventa rivale. Altro indizio, mentre “i proletari non hanno patria”, questo governo provvisorio si è dato per bandiera i colori del vecchio regno della Libia. Ed infine, Sarkozy ha riconosciuto i membri del CNT come i “legittimi rappresentanti del popolo libico”.
La rivolta in Libia ha dunque preso una piega diametralmente opposta a quella delle sue grandi sorelle tunisine ed egiziane. Ciò è dipeso principalmente dalla debolezza della classe operaia di questo paese. La principale industria, il petrolio, dà possibilità di lavoro quasi esclusivamente ai lavoratori venuti dall’Europa, dal resto del Medio Oriente, dall’Asia e dall’Africa. Questi ultimi, fin dall’inizio, non hanno preso parte al movimento di contestazione sociale. Il risultato è che la piccola borghesia locale ha dato i propri colori alla lotta, da cui si spiega per esempio l’esibizione continua della bandiera nazionale. Peggio ancora! I lavoratori “stranieri”, non potendo riconoscersi in questi combattimenti, sono fuggiti. Si sono avute anche delle persecuzioni di lavoratori neri per mano delle forze “ribelli” perché, correndo voci abbastanza diffuse che certi mercenari dell’Africa nera erano stati reclutati dal regime per schiacciare le manifestazioni, il sospetto cadeva su tutti gli immigranti provenienti da quelle regioni.
Lotte operaie contro guerre imperialistiche
Questo ribaltamento di situazione in Libia ha delle conseguenze che superano largamente le sue frontiere. La repressione di Gheddafi prima e l’intervento della coalizione internazionale poi costituiscono un freno per tutti i movimenti sociali della regione. Ciò permette anche agli altri regimi dittatoriali contestati di dedicarsi senza problemi ad una sanguinosa repressione. Ed è ciò che è capitato in Bahrein, dove l’esercito saudita ha dato man forte al regime di questo paese nel reprimere violentemente le manifestazioni[7], nello Yemen, dove il 18 marzo le forze governative non hanno esitato a sparare sulla folla, provocando altri 51 morti, e più recentemente in Siria.
Detto ciò, non è del tutto certo che la Libia costituisca un punto di arresto della rivolta. Anche se la situazione libica rappresenta una pesante palla al piede del proletariato mondiale, essa, di fronte ad una collera così profonda dovuta allo sviluppo della miseria, non riesce a paralizzarlo totalmente. Nel momento in cui scriviamo sono previste manifestazioni a Riad, anche se il regime saudita ha già decretato che tutte le manifestazioni sono contro la sharia. In Egitto ed in Tunisia, dove si pretende che la “rivoluzione” abbia già trionfato, continuano scontri tra i manifestanti e lo Stato, ora “democratico” ed amministrato dalle forze che sono più o meno le stesse che hanno condotto la danza prima della destituzione dei “dittatori”. Allo stesso modo continuano manifestazioni in Marocco, malgrado l’annuncio del re Mohammed VI di passare ad una monarchia costituzionale.
Comunque sia, per tutte queste popolazioni prese sotto il giogo di terribili repressioni e talvolta sotto le bombe democratiche delle differenti coalizioni internazionali, il cielo si schiarirà veramente solo quando il proletariato dei paesi centrali, in particolare dell’Europa occidentale, svilupperà a sua volta lotte massicce e determinate. Allora, armato della sua esperienza, particolarmente rispetto alle trappole del sindacalismo e della democrazia borghese, potrà mostrare le sue capacità di autorganizzarsi ed aprire la via di una vera prospettiva rivoluzionaria, unico avvenire per tutta l’umanità.
Essere solidali con tutti coloro che oggi cadono sotto i proiettili non significa sostenere il regime di Gheddafi, né i “ribelli”, né la coalizione dell’ONU! Al contrario, bisogna denunciare tutti questi come cani imperialisti!
Essere solidali, significa scegliere il campo dell’internazionalismo proletario, lottare contro i nostri specifici sfruttatori e massacratori in tutti i paesi, partecipare allo sviluppo delle lotte operaie e della coscienza di classe ovunque nel mondo!
Pawel (25 marzo)
[1] Regno Unito, Francia, Stati Uniti in particolare, ma anche Italia, Spagna, Belgio, Danimarca, Grecia, Norvegia, Paesi Bassi, Emirati Arabi Uniti e Qatar.
[2] A voler credere ai mass-media occidentali, solo gli uomini di Gheddafi muoiono sotto queste bombe. Ricordiamoci invece che, durante la Guerra del Golfo, questi stessi media avevano anche fatto credere ad una “guerra pulita”. In realtà, nel 1991, in nome della protezione del “piccolo Kuwait” invaso dall’esercito del “macellaio” Saddam Hussein, la guerra provocò parecchie centinaia di migliaia di vittime.
[3] Anche se la borghesia americana è riuscita a limitare i danni sostenendo l’esercito per sostituire il regime maledetto dalla popolazione.
[4] Bisogna ricordare che nel 2007, a Tripoli, l’ex primo ministro britannico Tony Blair baciava calorosamente il colonnello Gheddafi, ringraziandolo della firma di un contratto con BP. Le denunce attuali del “dittatore pazzo” sono solo puro cinismo ed ipocrisia!
[5] Ricordiamo che la borghesia francese in questo caso non fa che rivoltare ancora una volta vestito, dopo aver ricevuto in pompa magna Gheddafi nel 2007. Del resto, le immagini della sua tenda piantata nel bel mezzo di Parigi hanno fatto il giro del mondo ridicolizzando ancora una volta e di più Sarkozy e la sua cricca. Ma oggi, la scena è cambiata.
[7] Anche qui, del resto, la debolezza della classe operaia favorisce queste repressioni. Il movimento è dominato in effetti dalla maggioranza sciita, sostenuta dall’Iran.
Di norma le elezioni amministrative non assumono una grande importanza in quanto si tratta del governo locale e i fronti elettorali possono essere trasversali. Queste votazioni si inseriscono però in una situazione particolarmente calda, con un governo che, portato al potere con una maggioranza schiacciante soltanto tre anni fa, sembra essere oggi alla frutta avendo perso prima l’appoggio del gruppo di Fini e ultimamente finanche l’intesa con la Lega Nord che sembrava inossidabile.
Nei fatti la situazione è cambiata moltissimo da quando Berlusconi è stato eletto in quanto tutti hanno potuto verificare che il premier non è stato assolutamente all’altezza di difendere il sistema Italia di fronte alla concorrenza internazionale nella misura in cui è stato totalmente preso dalla difesa dei suoi interessi personali che non coincidevano con quelli dello Stato. Di fronte a questa situazione, la componente più responsabile della borghesia italiana ha cercato, invano, di farlo fuori, di farlo dimettere, ma ha trovato di fronte a sé un osso duro. Berlusconi, forte della sua maggioranza parlamentare, ha stravolto di continuo le regole del gioco, bloccando uno per uno tutti i processi in cui era coinvolto con tutti i mezzi a sua disposizione, compresa la modifica delle leggi in modo da prescrivere i suoi reati. Nel momento del massimo pericolo, quando si è avuto il distacco del gruppo di Fini e la messa in minoranza del suo governo alla Camera, ha dimostrato che cosa sono i deputati e i senatori in un sistema democratico: una merce! Basta pagare il giusto prezzo e li si acquista! Insomma, Berlusconi ha dimostrato che cosa è la democrazia, il parlamento, qualcosa utile solo ad approvare ciò che l’esecutivo decide. La sopravvivenza di Berlusconi passa quindi attraverso la vittoria alle prossime elezioni amministrative; se le vince, vuol dire che lui ha il diritto di fare ciò che vuole, viene sgravato da qualsiasi delitto, visto che il popolo continua a sostenerlo: vox populi, vox dei!
Ma la permanenza di Berlusconi sarebbe una vera catastrofe per la borghesia. Berlusconi non è soltanto un personaggio impresentabile, sia a livello nazionale che internazionale, essendo diventato lo zimbello di tutti, per le sue caratteristiche “umane”, per come si comporta da pagliaccio in tutte le occasioni pubbliche, ma soprattutto perché fa danni alla stessa borghesia curando, ad esempio, nelle relazioni internazionali con un Putin o un Gheddafi, più i suoi interessi personali che quelli del paese, o ancora rimandando per ben 5 mesi la nomina del nuovo ministro dello sviluppo economico in piena crisi economica solo per riservarsi il posto di governo come carta di scambio per i favori che gli occorrono. Un premier che si attornia di cosiddette escort, personaggi più o meno squallidi, che considera il personale dello Stato come dei suoi servitori, che sputa sulla magistratura, sui dipendenti statali, sul parlamento, etc. non può continuare a gestire gli affari dello Stato. Il discredito gettato sulle istituzioni borghesi e sulla democrazia è a un punto critico, tanto è vero che Napolitano è sempre più costretto a intervenire per riportare le cose al loro posto.
E’ proprio per recuperare un certo livello di credibilità per la classe politica che da più parti si levano appelli ad una correttezza in uno stato di diritto “teorico”, che sono la magistratura, un parlamento fatto di persone degne, la costituzione, il presidente della Repubblica, quegli elementi che è necessario difendere e sostenere. Più Berlusconi attacca queste istituzioni, come se fosse un rivoluzionario, più si rafforzano le campagne per difenderle.
Questa campagna politica viene portata avanti da moltissimi mesi, soprattutto da quando il premier è inciampato nel caso Ruby, in modi del tutto anomali rispetto agli anni passati. Non sono tanto i grandi partiti di centro sinistra presenti nel parlamento ad organizzarla, anzi questi sono diventati del tutto incapaci di dare una qualsiasi risposta alle esigenze dello Stato, ma i gruppi più o meno informali nati dal basso come il popolo viola o costruiti da personaggi capaci di polarizzare l’attenzione del pubblico, come i Grillo, Santoro, Travaglio,… e naturalmente alcune testate giornalistiche come La Repubblica, Il fatto quotidiano ed il Manifesto.
Il programma televisivo Anno Zero, condotto da Santoro, vede l’ascolto di milioni di persone; Travaglio è diventato la punta di diamante dell’opposizione con le sue denunce perfettamente documentate delle malefatte di Berlusconi; i blog e le pagine di Facebook ci riportano ogni giorno l’ennesima denuncia dell’ennesima escort e tutti insieme ci fanno vedere la possibilità di pulire questa società una volta fatto fuori Berlusconi.
Arrivano lettere, e-mail che ci dicono che se andiamo a votare per il SI abrogativo nei 3 referendum risolviamo il problema dell’Italia! Perché, in caso di vittoria dei SI, Berlusconi dovrà per forza dimettersi, ma non spiegano perché dovrebbe farlo visto che se ne frega anche delle accuse più infamanti e documentate. Ci bombardano con argomentazioni del tipo che è necessario raggiungere il 50% degli aventi diritto al voto altrimenti il referendum non vale, che ogni voto non dato è un voto regalato a Berlusconi. Quindi ogni cittadino deve sentirsi obbligato a partecipare alla farsa elettorale, altrimenti è colpa sua se le cose restano così in Italia. Farsa elettorale, perché è lo stesso Berlusconi che, ancora una volta, ha ben dimostrato che i referendum non servono a niente, come è emerso a proposito del nucleare dove prima è stata sospesa ogni iniziativa per ordine del governo dal 19 aprile scorso in seguito al disastro di Fukushima, per poi confessare, nel recente incontro con Sarkozy, che in realtà la sospensione delle iniziative era solo un bluff per evitare che gli italiani votassero sul nucleare in una situazione emotiva forte per gli eventi giapponesi. Come dire, va bene la democrazia, ma solo quando sono sicuro che non escano fuori delle brutte sorprese dal cappello.
D’altra parte è proprio il sistema democratico che ha partorito Berlusconi. E lui, riconoscente, ha mostrato al gran pubblico cos’è il sistema democratico, un sistema che è a disposizione solo del potere, del capitale. Che una parte della borghesia non sia in accordo con lui, con la sua strategia, nulla toglie a ciò che è la democrazia. La borghesia sta comunque sfruttando fino in fondo l’odio che Berlusconi genera in strati popolari e proletari per rafforzare la difesa di questo sistema, dei suoi meccanismi di partecipazione e delega, e in ciò sta la pericolosità della campagna referendaria in atto. La volgarità di questo sistema democratico e borghese spinge molti lavoratori a prendere le distanze dai suoi meccanismi di delega con il voto segreto infilato nell’urna mentre l’“opposizione” di sinistra fa di tutto per eliminare questa presa di coscienza con uno stillicidio di inviti ad personam sull’utilità e necessità di ritornare a far vivere il sistema democratico partecipando alle elezioni e ai referendum.
Questi inviti a “partecipare” sono tanto più pressanti nella misura in cui è sempre più manifesto che i meccanismi di delega democratica borghese sono sempre più avvertiti come inefficaci, come qualcosa che non riuscirà a cambiare la condizione di sfruttamento e pauperizzazione continua in atto; che tende a farsi strada una riflessione sul fatto che invece è necessario organizzarsi in modo autonomo e con la partecipazione attiva alle lotte, che il problema non è solo Berlusconi ma tutto il sistema borghese.
Oblomov, 1 maggio 2011
Studenti e lavoratori greci residenti a Lione, in Francia, ci hanno recentemente interpellato sulla difficile situazione dei lavoratori immigrati stabilitisi sul suolo greco. Come in tutti i paesi i lavoratori immigrati presenti lì sono ora l’obiettivo di una politica disumana. Le loro condizioni di vita spaventose li stanno semplicemente spingendo verso la morte.
E’ per questo che dal 25 gennaio al 9 marzo circa 300 lavoratori immigrati hanno fatto uno sciopero della fame ad Atene e Salonicco. Hanno chiesto diritti politici e sociali uguali a quelli dei lavoratori nati in Grecia, la loro regolarizzazione e soprattutto una vita più dignitosa. Dopo più di un mese di lotta la maggior parte di loro presenta problemi di salute forse irreversibili. Il loro “Appello degli immigrati, in sciopero della fame”, chiamato anche “l’Appello dei 300” è una testimonianza commovente. Esso mostra quale crudeltà si nasconde dietro ogni discorso dei politici sulla “necessità del controllo dei flussi migratori”. Tutti questi leader politici in giacca e cravatta o in tailleur di sartoria non sono altro che assassini. La realtà di questi uomini e donne che vivono in clandestinità e sono denunciati da tutti i ministri del mondo come “approfittatori” e persino “parassiti”, è questa: “Siamo immigrati e immigrate provenienti da tutta la Grecia. Siamo arrivati inseguiti da povertà, disoccupazione, guerre e dittature”.
Questo “Appello” sottolinea anche con forza che l’unico modo per noi, lavoratori migranti e non, per resistere all’assalto del capitalismo è la solidarietà di classe nella lotta!
D’altronde, se il governo greco ha in parte ceduto alle rivendicazioni dei 300, dando loro qualche briciola (come lo sgravio fiscale), non è certamente per carità o bontà d’animo. La classe dirigente se ne frega di vedere 300 lavoratori morire a bocca aperta per uno sciopero della fame! No, ciò che l’ha costretta a reagire è l’ondata d’indignazione e di solidarietà che ha cominciato a svilupparsi nel paese. Come hanno detto gli studenti greci che ci hanno invitati a un incontro di solidarietà con i 300 a Lione: “Ci sono state in tutto il paese molte azioni di solidarietà (riunioni, manifestazioni, striscioni, occupazioni di edifici pubblici, interventi in canali televisivi, in radio, in eventi culturali, etc.), e anche all’estero. Le pressioni create da tutti questi movimenti di solidarietà possono portare alla vittoria!”
Appello degli immigrati, in sciopero della fame (Grecia, gennaio 2011)
Se vogliamo far sentire le nostre voci, non abbiamo altra scelta. Il 25 gennaio trecento di noi hanno iniziato uno sciopero della fame. I nostri centri di lotta saranno ad Atene e Salonicco.
Siamo immigrati e immigrate provenienti da tutta la Grecia. Siamo arrivati inseguiti da povertà, disoccupazione, guerre e dittature. Le multinazionali del mondo occidentale e i loro servi politici nel nostro paese non ci lasciano altra scelta che rischiare la vita decine di volte per raggiungere la porta d’Europa. L’Occidente, che saccheggia i nostri paesi e dove il tenore di vita è infinitamente migliore (rispetto al nostro), è la nostra unica speranza di vivere come esseri umani. Siamo arrivati in Grecia (per vie legali e non) e lavoriamo per la nostra sopravvivenza e la sopravvivenza dei nostri figli. Viviamo nella galera e all’ombra dell’illegalità per il profitto dei padroni e degli organismi statali, che a loro volta sfruttano brutalmente il nostro lavoro. Ci guadagniamo il pane con il sudore della fronte sognando di ottenere un giorno la parità di diritti.
Ultimamente le nostre condizioni di vita diventano sempre più difficili. Man mano che i salari e le pensioni vengono rosicchiati e che aumentano tutti i prezzi, l’immigrato viene presentato come il responsabile, il colpevole del deterioramento e dello sfruttamento selvaggio dei lavoratori greci e dei piccoli commercianti. La propaganda fascista e razzista è già diventata la lingua ufficiale degli apparati dello Stato. La terminologia fascista è riprodotta dai media quando parlano di noi. Le loro “proposte” sono già consacrate come la politica del governo: il muro a Evros, i campi fluttuanti e l’esercito europeo nel Mar Egeo, la repressione brutale nelle città, le deportazioni di massa. Vogliono far credere ai lavoratori greci che noi siamo, all’improvviso, una minaccia per loro, e che siamo gli unici colpevoli del nuovo attacco lanciato dai loro stessi governi.
La risposta alle loro menzogne e alla loro crudeltà implacabile deve essere immediata. E tocca a noi, agli immigrati, darla. Vi facciamo fronte, con la nostra vita come arma, per porre fine all’ingiustizia che ci viene fatta. Chiediamo la messa in regola di tutti gli immigrati e di tutte le immigrate. Chiediamo gli stessi diritti politici e sociali e gli stessi obblighi dei lavoratori greci.
Chiediamo ai nostri compagni di lavoro greci e ad ogni essere umano che soffre oggi dello sfruttamento del proprio sudore, di restare al nostro fianco.
Chiediamo di sostenere la nostra lotta, per non lasciare che trionfino le loro menzogne, l’ingiustizia, il fascismo e il totalitarismo delle élite politiche ed economiche. Cioè di non permettere quello che ha prevalso nei nostri paesi e che ci ha costretto ad espatriare per rivendicare una vita dignitosa per noi e per i nostri figli.
Non abbiamo altro modo per far sentire la nostra voce e per far sentire la voce dei nostri diritti.
Il 25 gennaio, trecento (300) di noi hanno cominciato uno sciopero della fame a livello nazionale, ad Atene e Salonicco. Mettiamo in pericolo le nostre vite perché comunque non viviamo con dignità. Preferiamo morire qui piuttosto che lasciare che i nostri figli ereditino quello che noi abbiamo vissuto.
Gennaio 2011
L’assemblea degli immigrati in sciopero della fame
Per ulteriori informazioni sulla lotta dei 300 è possibile visitare:
solidarité grec (francese)
L’appel de solidarité [132] (inglese e spagnolo)
Nouvelles Hors Les Murs [133] (francese)
Contra Info [134] (multi lingue)
Occupied London (inglese)
La borghesia sapeva bene che con la crisi economica e con l’instabilità che si era creata nei paesi del Nord Africa a seguito delle rivolte popolari e poi della guerra civile in Libia, gli sbarchi sarebbero aumentati. Maroni l’aveva detto già all’inizio di marzo. Però non è stato fatto niente per preparare un’accoglienza dignitosa a queste persone. Si sono invece rimpallate le responsabilità su chi doveva occuparsene con gli altri paesi europei, che facevano finta di niente.
Se nella missione guerriera in Libia hanno litigato a chi faceva di più e a chi doveva comandare la missione, rispetto ai profughi il litigio era tra chi girava le spalle di qua e chi lo faceva di là. Quando finalmente il governo italiano si è deciso a dare dei permessi di soggiorno, almeno provvisori ai profughi, in particolare tunisini, la Francia (paese preferito dai tunisini per questione di lingua e per le parentele che hanno laggiù) ha chiuso addirittura le frontiere, alla faccia di tutti gli accordi di Schengen e di libera circolazione di merci e persone nell’Unione Europea, ennesima dimostrazione che nel capitalismo non esistono diritti, ma anche le leggi scritte vengono rinnegate senza scrupoli quando non convengono più.
Ma è davvero così terribile accogliere poche decine di migliaia di persone in Europa? Chi può credere che un’area di 300 milioni di abitanti, dove si concentra il massimo del Prodotto Interno Lordo mondiale non può reggere ed organizzare l’accoglienza di qualche decina di migliaia di persone che fuggono alla miseria e alla guerra?
C’è davvero una difficoltà economica a fare questo? Quanto costa l’attuale missione contro Gheddafi, non costa sicuramente più di un’accoglienza minima ai profughi? Ed anche in termini organizzativi, le forze schierate nel Mediterraneo per fare la guerra a Gheddafi non sarebbero state più che sufficienti per aiutare queste persone a non morire per mare e a sistemarsi in una maniera decente?
Nel capitalismo in crisi non c’è niente di logico, se non la volontà di sopravvivere di un sistema agonizzante, che per farlo non esita a passare sopra ogni senso morale. Se i profughi vengono rigettati in mare è perché questo sistema non riesce nemmeno più a sfruttarli, come ha fatto per secoli. Se potesse integrarli nell’apparato produttivo non esiterebbe ad accettarli, anche solo offrendo loro una vita da schiavi salariati, come nel settecento e nell’ottocento non esitò ad andare a prenderli con la forza in quella stessa Africa, per deportarli in un’America a corto di braccia per lo sviluppo di un capitalismo ancora in ascesa. Se potesse, oggi il capitalismo butterebbe a mare anche i propri operai, ma non può farlo senza causare una rivolta sociale, per cui si “limita” a ridurli alla fame con la disoccupazione, la cassa integrazione, i bassi salari. Nel capitalismo i proletari sono tutti immigrati, non solo nel senso che spesso sono stati costretti a lasciare i propri paesi d’origine per poter lavorare, ma perché in questo sistema essi hanno cittadinanza solo a condizione che esistano le condizioni per poterli sfruttare, in caso contrario sono degli indesiderati.
Il capitalismo non ha niente di umanitario, non lo sono certo le guerre che si combattono in Afganistan o in Libia o altrove; non lo è certo l’atteggiamento che si ha verso i profughi da queste stesse guerre o dalla fame. Quando Gheddafi era un “amico” si lasciava a lui il lavoro sporco di riprenderseli ed incarcerarli. Ora che non si può più contare su di lui li si lascia all’aperto sui moli di Lampedusa, senza letti e senza cibo, per poi rinchiuderli in tendopoli-carceri, quando solo l’esercito possiede una quantità enorme di caserme abbandonate che in un niente possono essere attrezzate come centri di accoglienza (oltre a quelli che comunque esistono, anche se adesso si chiamano CIE).
I recenti avvenimenti del Nord Africa hanno messo in evidenza l’esistenza di due mondi opposti che si manifestano e che cominciano a scontrarsi: quello del capitale che implica guerra, morte, miseria, disumanità, mancanza di prospettive, e quello del proletariato che significa solidarietà, ricerca dell’unità, lotta per assicurarsi un futuro, come si è visto nelle rivolte in questi paesi e nell’atteggiamento che i giovani tunisini hanno avuto verso i proletari stranieri fuggiti dalla Libia (ed accolti in maniera mille volte più umana di come fatto dallo Stato italiano a Lampedusa) o della popolazione lampedusana, che ha sfamato e vestito i profughi finché ha potuto.
Dallo scontro di questi due mondi dipende il futuro dell’umanità stessa.
Helios
La Commune è una pubblicazione che fa riferimento all’eredità marxista. Sul suo sito web, a metà febbraio, è stato pubblicato un articolo “Sull’Egitto e la rivoluzione” che comincia così:
“Le rivoluzioni sono in realtà molto comuni. Siamo soltanto a febbraio e ci sono state già, quest’anno, due rivoluzioni: in Tunisia e in Egitto. Altre rivoluzioni recenti riguardano la Serbia (2000), la Georgia (2003), il Kirghizistan (2005) e l’Ucraina (2005). Vi sono stati due fallimenti recenti che riguardano la Tailandia (2009), il Myanmar (ex Birmania, 2007) e l’Iran (2009). Tutte queste rivoluzioni sono state, per utilizzare il termine marxista, delle rivoluzioni politiche più che sociali. Vale a dire che esse hanno rovesciato la fazione che deteneva il potere statale rimpiazzandola con un’altra”. La distinzione che fa l’autore tra rivoluzione politica e rivoluzione sociale è che “una rivoluzione sociale è quella che non cambia solo la cricca al potere ma anche il modo in cui la società è organizzata”.
La visione di Trotskij nel periodo di sconfitta
Questo orientamento, da parte di chi afferma di essere marxista, non è un caso unico. Ne La Rivoluzione tradita, Trotskij considera lo Stato della Russia e dà una prospettiva alla classe operaia. Supponendo che la burocrazia sovietica sia cacciata dal potere da un nuovo partito rivoluzionario, questo partito, provvedendo a ristabilire un regime più democratico “Non avrebbe da ricorrere a misure rivoluzionarie per quanto riguarda la proprietà. Continuerebbe e spingerebbe a fondo l’esperienza dell’economia pianificata. Dopo la rivoluzione politica, dopo il rovesciamento della burocrazia, il proletariato dovrebbe compiere nell’economia riforme importantissime, non avrebbe da fare una nuova rivoluzione sociale”. In questo passaggio, la “rivoluzione politica” vuol dire non dover “ricorrere a delle misure rivoluzionarie” - cioè non è una “rivoluzione sociale”.[1]
D’altra parte, nella stessa opera, Trotskij dice: “il rovesciamento della casta bonapartista avrà, naturalmente, delle conseguenze sociali serie, ma essa stessa non si limita ai confini della rivoluzione politica”. Questo concetto dei “confini della rivoluzione politica” si trova anche nel testo In difesa del Marxismo di Trotskij, un’opera che è una raccolta di lavori scritti negli anni 1939 e 1940. In questa opera, Trotskij vede lo Stato russo “come un complesso di istituzioni sociali che continuano a persistere nonostante il fatto che le idee della burocrazia siano adesso quasi all’opposto delle idee della Rivoluzione d’Ottobre. E’ per questo che non abbiamo rinunciato alla possibilità di rigenerare lo Stato sovietico attraverso una rivoluzione politica”. A dispetto del fatto che lo Stato russo sia stato lo strumento del mantenimento dello sfruttamento e di una schiacciante repressione della classe operaia, Trotskij pensava che questo potesse essere rigenerato attraverso il processo di “rivoluzione politica”.
I principi fondanti del marxismo sulla questione
Per trovare le basi della comprensione marxista di cosa sia una rivoluzione, bisogna partire da Marx.
Nel suo articolo del 1844 «Glosse marginali di critica all’articolo «Il re di Prussia e la riforma sociale», firmato: un Prussiano”[2], Marx analizza la frase: «una rivoluzione sociale con un’anima politica» e conclude che “Ogni rivoluzione dissolve la vecchia società; in questo senso è sociale. Ogni rivoluzione rovescia il vecchio potere: in questo senso è politica.”Egli continua: “Quanto parafrasata e insensata è una rivoluzione sociale con un’anima politica, altrettanto è invece razionale una rivoluzione politica con un'anima sociale. La rivoluzione in generale - il rovesciamento del potere esistente e la dissoluzione dei vecchi rapporti - è un atto politico. Senza rivoluzione però il socialismo non si può attuare. Esso ha bisogno di questo atto politico, nella misura in cui ha bisogno della distruzione e della dissoluzione. Ma non appena abbia inizio la sua attività organizzativa non appena emergano il suo proprio fine, la sua anima, allora il socialismo si scrolla di dosso il rivestimento politico.”[3]
E’ chiaro che pur ponendosi sempre nello stesso quadro, Marx ha preso in conto gli sviluppi storici avvenuti lungo l’arco della sua vita. La prefazione all’edizione tedesca de Il Manifesto Comunista riporta che gli avvenimenti fanno sì che alcuni dettagli del suo programma politico risultino “datati”. In particolare, l’esperienza della Comune di Parigi (citando La Guerra Civile in Francia) ha dimostrato che “la classe operaia non può semplicemente impadronirsi della macchina statale esistente e farla funzionare per i suoi obiettivi”. Lo Stato deve essere distrutto dalla classe operaia affinché questa possa compiere la trasformazione della società al livello più elevato. La Comune di Parigi “fu essenzialmente un governo della classe operaia, il prodotto della lotta della classe dei produttori contro la classe degli appropriatori, la forma politica finalmente scoperta che consentiva di realizzare l’emancipazione economica dal lavoro … Il dominio politico dei produttori non può coesistere con la perpetuazione del loro asservimento sociale. La Comune doveva pertanto servire da leva per estirpare le basi economiche sulle quali si fonda l’esistenza delle classi, e quindi dell’oppressione di classe.”[4]
Vi sono stati in seguito altri sviluppi nella visione marxista del processo rivoluzionario, in particolare con Stato e rivoluzione di Lenin. Ciò che hanno di più chiaro in comune è la comprensione che una rivoluzione della classe operaia è “politica” nel senso che distrugge lo Stato dei suoi sfruttatori e “sociale” nel senso che il suo scopo è la trasformazione della società. Il “politico” e il “sociale” non sono due fenomeni separati ma le due facce di una stessa lotta. Quando una fazione capitalista ne rimpiazza un’altra in seguito ad elezioni parlamentari, quando una fazione capitalista s’impadronisce del potere grazie ad un colpo di Stato militare o quando la realtà forza la borghesia a riorganizzare il suo modo di funzionare come classe dominante, nessuno di questi casi è una “rivoluzione”. In altri termini, non si può parlare di rivoluzione se lo stato capitalista resta intatto!
Le ‘rivoluzioni’ evocate nella lista della pubblicazione La Commune non sono né delle rivoluzioni sociali né delle rivoluzioni politiche. Rimpiazzare una fazione con un’altra, dal punto di vista della classe operaia, non è affatto una rivoluzione. Per la classe operaia, la distruzione dello Stato capitalista è un momento politico essenziale nella rivoluzione sociale, una parte del processo che può condurre alla liberazione di tutta l’umanità.
Barrow (4 marzo)
Tradotto da World Revolution, organo della CCI in Gran Bretagna.
Durante queste manifestazioni, mentre il Dipartimento di Stato americano chiedeva a più riprese ai dirigenti arabi di dar prova di moderazione verso i manifestanti, il governatore Walker minacciava, in caso di necessità, di chiamare la Guardia Nazionale per reprimere le lotte!
Ma alcuni gruppi di vecchi militari hanno risposto che il compito della Guardia Nazionale era di intervenire di fronte alle catastrofi e non di mettersi al servizio della squadra di delinquenti del governatore. La situazione politica nel Wisconsin è fragile, con la minaccia di una crisi costituzionale. L’insieme dei 14 senatori democratici dello Stato hanno disertato l’Assemblea. In più, il sindacato e i dirigenti democratici parlano apertamente di revocare il governatore e i senatori che sostengono il suo progetto di legge. Ad ogni crisi, la politica americana somiglia sempre più ad un fumetto comico!
La crisi nel Wisconsin è stata presentata dai mezzi di informazione nazionali come il primo vero scontro di un dirigente repubblicano, sostenuto dal Tea Party, che utilizza il suo nuovo potere politico per metter su un programma ideologico di distruzione dei sindacati degli impiegati del settore pubblico, che molti membri del Tea Party e del Partito Repubblicano rimproverano per il quasi fallimento dei governi dei vari Stati americani. Questi repubblicani sostengono che è necessario adottare misure di austerità per equilibrare i bilanci dello Stato paralizzato da un enorme deficit di 137 milioni di dollari. D’altra parte i Democratici e i loro amici nei sindacati lanciano grida di indignazione verso il governatore Repubblicano e i suoi alleati nazionali. Il Tea Party fa buon uso politico di un vero dilemma finanziario per alimentare la sua ideologia antisindacale. Chi ha ragione?
E’ vero che, proprio come in Europa, anche gli Stati americani sono confrontati con l’insolvibilità. Mentre a livello centrale il governo federale può disporre ancora di una certa flessibilità (stampando più dollari), i singoli Stati non hanno questo privilegio e sono dunque confrontati con il bisogno urgente di far adottare rigide misure di austerità per equilibrare i loro bilanci e mantenerli finanziariamente affidabili sul mercato obbligazionario. Nel merito, il progetto di legge del governatore Walker sembra rispondere al bisogno vitale della borghesia di ridurre i costi della forza lavoro nello Stato e guadagnare un vantaggio durevole nei futuri negoziati limitando la portata dei prossimi contratti. Questo potrebbe costituire un modello da seguire in altri Stati nella lotta per superare la loro terribile situazione fiscale.
Tuttavia, più in generale, la borghesia è anche consapevole del rischio politico e sociale insito nel lanciare attacchi pesanti contro lavoratori già martellati da un’alta disoccupazione, dal congelamento dei salari, da licenziamenti e dal crollo del mercato immobiliare. Da qui la strategia utilizzata negli USA consistente nel lanciare degli attacchi a livello locale o a quello di un singolo Stato, piuttosto che lanciare un assalto frontale, diretto e immediato sui programmi del diritto federale. Tuttavia c’è il rischio che la legge del governatore Walker vada troppo lontano destabilizzando i sindacati, che agiscono come delle unità di polizia per controllare la collera dei lavoratori, e lo stesso Partito Democratico che si appoggia sui sindacati per il finanziamento di gran parte della sua campagna elettorale. La politica del governatore Walker rischierebbe non solo di evirare i sindacati quando la borghesia ne avrà più bisogno, ma potrebbe anche minacciare di perturbare il sistema a due partiti in un vitale “Stato oscillante” che il presidente Obama ha conquistato nel 2008.
L’anno scorso ci sono state manifestazioni in California contro i tagli al bilancio dell’istruzione e recentemente gli operai nell’Ohio hanno protestato contro un progetto di legge che avrebbe limitato la negoziazione collettiva per i lavoratori dello Stato, come avevano già fatto gli insegnanti a Indianapolis. Quando il bisogno di nuovi attacchi si fa sentire, la borghesia ha bisogno di un apparato sindacale in ordine di battaglia per contenere la combattività dei lavoratori e assicurarsi che la lotta resti sul terreno della negoziazione sui salari e sui sussidi piuttosto che minacciare lo Stato stesso.
Lo stato drammatico delle finanze del Wisconsin non è un’eccezione. Quest’anno deve far fronte a un deficit di 137 milioni di dollari e per i prossimi due anni alla modica cifra di 3,6 miliardi. L’aspetto più feroce del riassetto del bilancio statale portato avanti dal governatore Walker è che la maggior parte degli impiegati dello Stato e degli enti locali devono contribuire con la metà del costo dei loro contributi pensionistici e almeno per il 12,6% dei loro premi di assicurazione malattia. Comunque, tutto questo serve a far incassare allo Stato 30 milioni di dollari da qui alla fine di giugno, cioè solo il 10% del deficit. Il resto del progetto di legge propone di economizzare quest’anno 165 milioni di dollari attraverso il semplice rifinanziamento del debito statale. Così, i risparmi più importanti non hanno niente a che vedere con gli impiegati pubblici. Ma questo non è di conforto per i lavoratori colpiti da un aumento pesante dei contributi pensionistici e dei costi sanitari. Secondo una stima, il progetto equivale mediamente a una riduzione del 10% del reddito per gli insegnanti della città di Madison.
Dato che la negoziazione dei contratti dura in media 15 mesi, il governatore ha rifiutato di incontrare i sindacati, ha prospettato misure drastiche, minacciando di licenziamento 1500 lavoratori dello Stato se il piano non fosse stato accettato. Sembra così voler rimanere fedele alla sua reputazione di soggetto aggressivo. Dobbiamo forse pensare che si tratta di un altro caso in cui un Repubblicano si piazza all’estrema destra del suo partito smantellando i sindacati? Walker è stato chiaro in proposito: “Per noi è semplice. Siamo senza un quattrino. Non ce ne frega niente dei sindacati. Noi dobbiamo riequilibrare il bilancio”. (New York Times). Dal fronte sindacale, David Ahrens, dell’UW-Madison’s Carbone Cancer Center, contesta il carattere di urgenza della situazione, dicendo: “Il tutto sarebbe più credibile se, per cominciare, il governatore avesse avuto la preoccupazione di incontrare i sindacati”. (Wisconsin State Journal)
Lo stesso presidente Obama si è speso a favore dei sindacati con il rimborso dei 200 milioni di dollari che essi avevano speso per la sua campagna elettorale a novembre e definendo i propositi di Walker “un attacco contro i sindacati”. Invece il Presidente della Camera, il repubblicano John Boehner, dell’Ohio, si è congratulato con Walker per “aver affrontato i problemi che ha davanti, che sono stati trascurati per anni a discapito dell’occupazione e della crescita economica”.
Come ci si poteva aspettare, la sinistra è corsa in difesa dei sindacati in quanto migliore difesa dei lavoratori nei momenti difficili, mentre la destra li descrive come anacronismi storici che ostacolano la crescita economica e ammazzano l’occupazione. Di fronte a questo cosa devono fare i lavoratori?
Innanzitutto è importante capire il ruolo chiave che i sindacati giocano nel quadro dell’apparato statale. Essi sono i “pompieri sociali”, che agiscono da valvola di sicurezza a livello economico e politico. I contratti collettivi, gli accordi sulle negoziazioni, che sono oggi sotto attacco, sono stati introdotti da gente come il Presidente Kennedy che ci hanno visto un interesse in termini di controllo sociale offerto dai sindacati, in particolare quando certe “vittorie” ottenute dai sindacati includevano la rinuncia agli scioperi! Alla fine degli anni 60 e 70, queste “concessioni” erano certamente più abbordabili in termini economici di quanto lo siano oggi. Quaranta anni di crisi economica hanno portato a una grande erosione del salario sociale di cui aveva goduto la generazione figlia del “boom” del dopoguerra. Ma anche se i sindacati costano in termini economici, essi sono allo stesso tempo degli strumenti efficaci per imporre l’austerità alla classe operaia. Per esempio, nel Wisconsin i sindacati “avevano già negoziato un accordo con l’amministrazione precedente di 100 milioni di dollari di tagli nelle prestazioni con una riduzione secca dei salari del 3%.”. Si percepisce chiaramente che la collera dei sindacati rispetto al progetto del governo non è tanto causata dalle riduzioni per i lavoratori che loro dovrebbero rappresentare, ma dalla prospettiva di non essere più considerati dei partner dello Stato nella gestione dell’economia. Nei fatti Marty Beil, il capo del sindacato degli impiegati pubblici del Wisconsin, ha sostenuto che il sindacato era perfettamente disposto ad accettare alcuni tagli, ma non poteva sopportare l’insolenza del governatore: “Siamo pronti ad accettare le concessioni finanziarie proposte per aiutare ad equilibrare il bilancio del nostro Stato, ma non ci lasceremo privare del nostro diritto, dato da Dio, di aderire ad un vero sindacato… non lasceremo, lo ripeto, non lasceremo che venga negato il nostro diritto alla negoziazione collettiva”. In una conferenza telefonica con la stampa, ha aggiunto “Non è una questione di soldi (…) Noi comprendiamo la necessità dei sacrifici” (Milwaukee Journal Sentinel).
Tutti i discorsi sullo smantellamento dei sindacati è in fondo un tentativo per far deviare il malcontento manifestato dai lavoratori contro gli attacchi alle loro condizioni di vita nel vicolo cieco della difesa dei sindacati stessi e della democrazia che essi dovrebbero incarnare, allontanandosi così da una lotta efficace per difendere le condizioni di vita e di lavoro. Nel movimento del Wisconsin i sindacati sono stati molto bravi rappresentandolo con l’espressione “difesa della democrazia” (da cui il legame con l’Egitto), anche se sono i loro alleati, i senatori democratici, che sembrano al momento aver ostacolato il funzionamento dell’apparato al governatore democratico borghese, abbandonando l’Assemblea. I militanti del Tea Party hanno organizzato delle contromanifestazioni in sostegno del governatore “democraticamente eletto” e per proteggere “la maggioranza dei cittadini del Wisconsin” che hanno votato per le sue azioni severe contro i sindacati. Se uno ha come obiettivo principale la “difesa della democrazia”, non è scontato sapere quale campo va a sostenere!
In un certo senso, la caccia ai senatori spariti da parte della polizia di Stato è emblematica della caccia più importante che la borghesia americana sta facendo per trovare una soluzione alla crisi economica. Poiché questa soluzione si rivela più improbabile che mai, la borghesia a tutti i livelli, federale, statale e locale, dovrà fare ricorso a nuovi attacchi contro la classe operaia. Gli impiegati, i pompieri, i lavoratori della nettezza urbana e soprattutto gli insegnanti, saranno i primi a subirli. Non è un caso né un’inclinazione ideologica della destra, se il Tea Party e i Repubblicani hanno preso di mira gli impiegati pubblici. Il progetto di legge contro i loro salari e i loro contributi è quello che avrà l’impatto più immediato sulla solvibilità finanziaria dello Stato.
Inoltre, gli attacchi contro gli impiegati pubblici non si sono limitati agli Stati governati dai Repubblicani. A New York, il governatore democratico Cuomo ha minacciato quasi 10.000 licenziamenti se i negoziati con i sindacati si bloccano, mentre il democratico Jerry Brown in California ha parlato della necessità di tagli dolorosi per risolvere i perpetui problemi di bilancio. A livello federale, il presidente Obama stesso ha congelato i salari degli impiegati federali e la sua commissione bilancio ha minacciato di licenziare il 10% degli effettivi! Nondimeno, lo zelo con il quale repubblicani del Tea Party come Walker hanno portato avanti la loro crociata contro le basi stesse di esistenza dei sindacati può avere l’effetto opposto se portato fino in fondo. Se la lotta di classe continua a svilupparsi la borghesia avrà inevitabilmente bisogno dei sindacati. Il tentativo di un governatore repubblicano novellino di far sparire i sindacati dal suo Stato è ancora un altro esempio delle difficoltà della borghesia americana a controllare il proprio apparato politico a causa della decomposizione sociale che si aggrava ogni giorno in questo sistema.
Internationalism
(organo della CCI negli USA)
[1] Il Tea Party (https://it.wikipedia.org/wiki/Boston_Tea_Party [138]) è un movimento politico populista americano che é generalmente riconosciuto come conservatore e libertario. Sostiene la necessità che i governi spendano meno e che ci siano meno tasse in modo da ridurre il debito nazionale e il deficit budgetario federale.
[2] Vedi la lettera spedita dai manifestanti egiziani ai lavoratori del Wisconsin, riportata sul forum https://napolioltre.forumfree.it/?t=54195028 [139]
Facendo leva sull’inquietudine e le riflessioni crescenti generate nella classe operaia, e nella sua nuova generazione, dalla crisi del 2007, questo editore è riuscito a fare un manga dell’opera maggiore di Karl Marx e di Friedrich Engels, Il Capitale. Vent’anni e più di ricerche e scrittura, quattro libri divisi ciascuno in parecchi volumi, più di 3000 pagine, si trovano condensati in due volumi di disegni di 190 pagine.
Non è un caso che questa pubblicazione, sia apparsa in primo luogo in Giappone. Innanzitutto perché è la terra natale del manga. Ma anche perché il Partito comunista giapponese ha superato i 400.000 aderenti nel 2008 e ne guadagna 1000 al mese, con uno slancio di sindacalizzazione che cresce presso i giovani giapponesi. Ed infatti fino ad oggi sono state vendute più di un milione di copie di questo manga.
Una tale infatuazione per questi “vecchi” Marx ed Engels, destinati regolarmente alla gogna, regolarmente denunciati come i precursori del futuro stalinismo da numerosi filosofi e da altri “teorici” socio-politici, non è insignificante. Essa, innanzitutto è direttamente emersa dalla crisi dei subprime del 2007 e dall’incapacità della borghesia e dei suoi economisti a dare una spiegazione soddisfacente di questo evento che ha gettato dappertutto decine di milioni di persone sul lastrico e nella miseria. Ci hanno ripetuto che in fondo, è stata una “sfortuna”, ma che la produzione stava per ripartire. E non è stato così. Esiste pertanto una ricerca profonda nell’insieme della classe operaia mondiale e nella sua generazione giovanile per cercare di capire e darsi delle prospettive al di fuori di questo sistema di sfruttamento che mostra ogni giorno la sua incapacità a soddisfare i bisogni umani più elementari. Questo manga su Il Capitale si sforza di rispondere a questo bisogno. Un editore francese, “Soleil Manga”, se ne è così impossessato pubblicando 50.000 esemplari, il che potrebbe sembrare strano dato che il fondatore di questa casa editrice è anche il proprietario del Racing Club di Tolone, ambito sportivo che in genere non milita per l’emancipazione politica delle masse. Il fatto è che l’interesse per Marx ed il marxismo da parte di un qualsivoglia padrone, anche se dall’animo “socialista”, non è per elevare la coscienza collettiva ma per la presenza di un mercato. Come lo era negli anni 1960 e 1970 il mercato delle opere di Mao, di Stalin, ma anche di Marx e di Engels da parte di editori maoisti come le edizioni Maspéro o di librai trotskisti come Fnac[3].
Per quanto riguarda il manga, il risultato è molto sorprendente. Contro tutte le negative aspettative da parte delle vecchie barbe che prevedevano una volgarizzazione pietosa e falsa del Capitale, il risultato, malgrado alcune note insolite come quella di un Marx presentato sotto forma di un arcangelo sceso dal cielo a predicare, o ancora un Engels che chiama Marx “Signore”, è abbastanza preciso[4].
Nel Capitolo 1, il lettore segue l’avventura di Robin, giovane caseario figlio di artigiano, che lascia l’impresa familiare per fondare una fabbrica di formaggio grazie ai sussidi di un giovane e rampante finanziatore pieno di soldi che gli presta il denaro necessario per fondare la sua impresa. In piena rivoluzione industriale (non viene specificato nel manga ma si tratta del 19° secolo), il giovane caseario passa dunque da una fabbrica artigianale e familiare ad una più grande con maggiori ambizioni. Robin scopre le responsabilità e gli arrovellamenti di un giovane padrone, la necessità di conciliare la qualità del prodotto, le scadenze di produzione, la massa salariale. Deve far fronte al suo investitore che lo spinge a sfruttare sempre più i suoi operai per produrre sempre più ed a basso costo, dunque ad aumentare i ritmi e farli lavorare più a lungo. A ciò si aggiunge il “sorvegliante” (cioè il “caposquadra”) della fabbrica, un bruto demenziale che manganella gli operai e che Robin inizialmente tenta di calmare prima di rassegnarsi a lasciarlo picchiare perché la produttività dipende da questo aguzzino. Arringati da uno di loro che prende coscienza che i padroni traggono il loro profitto dalla parte dei loro salari non pagata, gli operai abbozzano un tentativo di rivolta (per tre/quattro pagine) che viene domata dalla polizia e tutto ritorna rapidamente nei ranghi. Quello che emerge, lasciando da parte l’aspetto piuttosto moralizzatore e manicheo dell’opera, è che il capitalismo è in effetti disumano perché riduce degli individui alla miseria e che sfrutta la loro forza lavoro come nessun altro sistema precedente.
L’esempio di un piccolo padrone come Robin mostra anche che questo è uno sfruttatore non perché è una carogna (vuole solo diventare ricco) ma perché questa è la logica del sistema capitalista. E se non segue questa legge si fa schiacciare dalla concorrenza e per prospettiva ha solo quella di chiudere bottega con i debiti da pagare per il suo fallimento. Ad essere “carogne” sono invece gli investitori e, lo si vedrà nel secondo capitolo, il banchiere. Ma, per la platea questa è “attualità”.
Il capitolo 2, più teorico, vede Friedrich Engels rivolgersi direttamente al lettore in una sorta di corso magistrale illustrato. Tramite esempi viventi, vengono spiegati il “valore d’uso”, il “valore di scambio”, il “valore monetario” (il denaro) ed il “plusvalore” che “si ottiene grazie al lavoro del proletariato”, poi la sovrapproduzione ed infine le crisi capitaliste. Si tratta di una volgarizzazione del linguaggio economico che è spiegato in modo chiaro e semplice ma senza essere troppo riduttivo, avente per supporto pedagogico delle situazioni comprensibili e che non falsificano il pensiero marxista.
In questa seconda parte è ben visto e riassunto il processo che porta alla crisi. La competizione tra padroni implica l’acquisto di materiali sotto forma di macchine più moderne che costano di più e costringono ad esigere una maggiore produttività da parte degli operai ed un abbassamento dei loro salari in termini reali. Inoltre la competizione tra capitalisti spinge alla sovrapproduzione ed alla saturazione dei mercati. Il tutto provoca la crisi economica con la chiusura di fabbriche ed il licenziamento degli operai ed il fallimento di un certo numero di capitalisti. Questa logica implacabile per la quale il capitalismo non può che condurre alla crisi è affermata chiaramente: “Lo scopo della posta in gioco per i capitalisti è arrivare ad approfittare al massimo dei lavoratori per ottenere quanto più profitto possibile! E per riuscire a superare la concorrenza, vengono prodotte sempre più nuove macchine (…) Ma è a questo punto preciso che il capitalismo mostra il suo volto contraddittorio [perché] le macchine rappresentano un capitale costante che non genera valore aggiunto” e dunque fanno abbassare “il tasso di profitto [e la] redditività”, alimentando ancora di più la concorrenza e la competizione su tutto il pianeta e con esse le crisi.
Questo secondo capitolo si conclude su un appello di Marx che sale al cielo in compagnia di Engels con un’aureola sulla testa (!!!): “l’ombra nefasta del capitalismo ricopre il pianeta intero. Quest’ombra provoca degli effetti devastanti (…) Per i capitalisti, tutto si vende, tutto si acquista, tutto è buono per fare profitto. (…) Lasciate dunque parlare coloro che non vedono la realtà in faccia! Ma voi, prendete la strada della giustizia! Rimettete in discussione il capitalismo!”
Non è dunque l’avidità di alcuni sfruttatori, ma è il sistema nella sua interezza a condurre alla catastrofe permanente.
Tuttavia a quest’appello manca la reale prospettiva rivoluzionaria che non può realizzarsi realmente se non con la coscienza che le crisi finiscono per condurre al fallimento generale del sistema capitalista e con la coscienza dell’alternativa marxista “Socialismo o barbarie”. Quest’ultima non solo è assente ma il manga, per bocca di Marx, presenta le crisi come una cura di giovinezza, dura ma utile: “È innegabile che nelle società capitaliste … il panico e le crisi economiche sono moneta corrente … ma non andate a biasimare le crisi! In effetti, sono esse che vanno a ristabilire l’equilibrio tra l’offerta e la vera domanda. Ma dopo quali danni?” In fin dei conti, il capitalismo in qualche modo auto-regola le sue crisi ed in modo infinito. Ciò ha un’implicazione fondamentale: la rivolta contro questo sistema non può essere una rivoluzione ma una reazione contro l’ingiustizia, contro lo sfruttamento, ecc., una specie di volontà morale di “risanamento” o di “riforma”, senza una reale prospettiva di superamento e di abolizione del capitalismo. Ora, da oltre un secolo, questo sistema è in decadenza e mostra le espressioni del suo fallimento generalizzato, attraverso le crisi, ma anche attraverso le catastrofi in serie e tutti gli aspetti della vita quotidiana che vanno aggravandosi a ritmo accelerato, anche nei paesi “ricchi”[5].
Difficilmente si potrebbe rimproverare questa mancanza a questa edizione, che peraltro ha fatto un enorme lavoro. In compenso c’è la prefazione dell’edizione francese, firmata Olivier Besancenot. Alla mano, parlando con il tu al lettore, nell’insieme di buona fattura, ed in tutta evidenza in accordo con il Capitale, possiamo anche leggervi: “Così, il sistema capitalista produce più, senza riuscire più a vendere la sua produzione. È il marchio delle crisi di sovrapproduzione, come le conosciamo oggi”. Che lucidità! Besancenot si rivendica anche a Marx: “Marx è il fondatore della prima associazione internazionale dei lavoratori il cui scopo era rovesciare il capitalismo ed edificare il socialismo”. Ed è qui che casca l’asino. Perché l’NPA[6] il cui leader Besancenot rivendica la necessità della rivoluzione sulla base di una comprensione marxista delle leggi del capitalismo “le cui crisi a ripetizione disgregano sempre la società a più di 140 anni dalla sua apparizione [del Capitale]”, e concorda con questo manga che non si tratta di “cattiveria” o di “cupidigia” in sé dei padroni, continua a ripetere che bisogna “riformare” questo sistema; che occorre “un capitalismo dal volto umano”, “più giusto”, che bisogna perciò “nazionalizzare", rendere lo Stato più sociale … In sostanza, questo è il gioco del doppio linguaggio, quello del venditore da fiera che ti dice che ti dà due cose al prezzo di una e in realtà ti prende il doppio. Come il capitalista che pretende di pagarti il salario al giusto valore e ti sottrae di nascosto il plusvalore necessario alla sua sopravvivenza.
Mulan (24 febbraio)
[1] Manga è un termine giapponese [141] che in Giappone [142] indica i fumetti [143] in generale, mentre nel resto del mondo viene usato per indicare “storie a fumetti giapponesi”.In Giappone i fumetti hanno un ruolo culturale ed economico rilevante e sono considerati un mezzo artistico ed espressivo non meno degno della letteratura, del cinema o di altre espressioni culturali.
[2] L’onomatopea è una figura retorica [144] che riproduce, attraverso i suoni linguistici di una determinata lingua [145], il rumore [146] o il suono [147] associato a un oggetto o a un soggetto cui si vuol fare riferimento.
[3] In Italia potremmo citare Feltrinelli o Samonà e Savelli.
[4] Ha inoltre la qualità, a differenza del normale “modo d’uso” di potere essere letto da sinistra a destra, ciò che non è trascurabile per coinvolgere un pubblico più largo ed eventualmente raccogliere diverse generazioni.
[5] D’altra parte una delle debolezze di questo manga è dare ad intendere, come messaggio più che subliminale, la distinzione tra paesi poveri sfruttati e paesi popolati da “benestanti”.
[6] Nouveau Parti anticapitaliste (Nuovo Partito Anticapitalista), partito della sinistra borghese nato in Francia nel 2009.
1) rifiutare ogni sostegno elettorale, ogni collaborazione con dei partiti gestori del sistema capitalista o difensori di questa o quella forma di questo (socialdemocrazia, stalinismo, “chavismo”, ecc.);
2) mantenere un internazionalismo intransigente, rifiutando di scegliere tra questo o quel campo imperialista in ogni guerra.
Tutti quelli che difendono teoricamente e nella pratica queste posizioni essenziali devono avere la consapevolezza di appartenere ad uno stesso campo: quello della classe operaia, quello della rivoluzione.
All’interno di questo campo esistono necessariamente delle differenze di opinione e di posizione tra gli individui, i gruppi, le tendenze. E' proprio dibattendo a livello internazionale, apertamente, fraternamente, ma anche con fermezza, senza false concessioni, che i rivoluzionari riusciranno a partecipare al meglio allo sviluppo generale della coscienza proletaria. Ma per fare questo, essi devono comprendere l’origine delle difficoltà che, ancora oggi, ostacolano un tale dibattito.
Queste difficoltà sono il frutto della storia. L’ondata rivoluzionaria che, a partire dal 1917 in Russia e dal 1918 in Germania, ha messo fine alla Prima Guerra mondiale è stata vinta dalla borghesia. Una terribile controrivoluzione si è quindi abbattuta sulla classe operaia di tutti i paesi le cui le manifestazioni più mostruose sono state lo stalinismo ed il nazismo, proprio nei due paesi dove il proletariato era stato all’avanguardia della rivoluzione.
Per gli anarchici, l’attuazione da parte di un partito che si richiamava al “marxismo” di una terribile dittatura poliziesca sul paese della rivoluzione dell’Ottobre ’17, è stata considerata la conferma alle loro critiche sostenute da tempo contro le concezioni marxiste. A queste concezioni veniva rimproverato il loro “autoritarismo”, il loro “centralismo”, il fatto che non sostenevano l’abolizione immediata dello Stato all’indomani della rivoluzione, il fatto che non si davano come valore cardine il principio di Libertà. Alla fine del 19° secolo, il trionfo del riformismo e del “cretinismo parlamentare” all’interno dei partiti socialisti veniva già considerato dagli anarchici come la conferma della validità del loro rigetto di ogni partecipazione alle elezioni. È un poco la stessa cosa che si è prodotta in seguito al trionfo dello stalinismo. Per loro questo regime era la conseguenza logica de “l’autoritarismo congenito” del marxismo. In particolare, ci sarebbe stata una “continuità” tra la politica di Lenin e quella di Stalin, poiché, dopo tutto, la polizia politica ed il terrore si sono sviluppati mentre il primo era ancora in vita e anche poco dopo la rivoluzione.
Evidentemente uno degli argomenti dati per illustrare questa “continuità” è il fatto che, fin dalla primavera 1918, alcuni gruppi anarchici in Russia sono stati repressi e la loro stampa è stata imbavagliata. Ma l’argomento “decisivo” è lo schiacciamento nel sangue dell’insurrezione di Kronstadt nel marzo 1921 da parte del potere bolscevico, con Lenin e Trotsky alla sua testa. L’episodio di Kronstadt è evidentemente molto significativo perché i marinai e gli operai di questa base navale erano stati nell’ottobre ‘17 una delle avanguardie dell’insurrezione che aveva rovesciato il governo borghese e permesso la presa del potere da parte dei soviet (i consigli di operai e di soldati). Ed è giustamente questo settore tra i più avanzati della rivoluzione che si è rivoltato nel1921 con la parola d’ordine “il potere ai soviet, senza i partiti”.
La Sinistra comunista di fronte all’esperienza russa
In seno alla Sinistra comunista esiste un pieno accordo tra le sue differenti tendenze su alcuni punti essenziali:
Su questi tre punti fondamentali la Sinistra comunista si trova dunque in accordo con gli anarchici internazionalisti ma si oppone totalmente al trotskismo che considera lo Stato stalinista uno “Stato operaio degenerato”, i partiti “comunisti” “partiti operai” e che, nella sua grande maggioranza, si è arruolato nella Seconda Guerra mondiale, in particolare nei ranghi della Resistenza.
Viceversa, all’interno stesso della Sinistra comunista esistono delle notevoli differenze relative alla comprensione del processo che ha portato la rivoluzione dell’Ottobre 17 a sfociare nello stalinismo.
La corrente della Sinistra olandese (i “comunisti dei consigli” o “consiliaristi”) considera che la rivoluzione di Ottobre è stata una rivoluzione borghese che ha avuto per funzione la sostituzione del regime zarista feudale con uno Stato borghese più adattato allo sviluppo di un’economia capitalista moderna. Il partito bolscevico, che si è trovato alla testa di questa rivoluzione, è lui stesso considerato come un partito borghese di un genere particolare incaricato di attuare un capitalismo di Stato, anche se i suoi militanti e dirigenti non ne erano veramente coscienti. Così, per i “consiliaristi”, c’è proprio una continuità tra Lenin e Stalin, essendo quest’ultimo in qualche modo “l’esecutore testamentario” del primo. In questo senso, esiste una certa convergenza tra gli anarchici ed i consiliaristi ma questi ultimi non hanno però rigettato il riferimento al marxismo.
L’altra grande tendenza della Sinistra comunista, quella che si ricollega alla Sinistra comunista d’Italia, ritiene che la rivoluzione di Ottobre ed il partito bolscevico hanno avuto una natura proletaria. La cornice in cui questa tendenza inscrive la comprensione del trionfo dello stalinismo è quella dell’isolamento della rivoluzione in Russia a causa della sconfitta delle lotte rivoluzionarie negli altri paesi, in primo luogo in Germania. Ancor prima della rivoluzione di Ottobre, l’insieme del movimento operaio, e gli anarchici non facevano eccezione, considerava che se la rivoluzione non si fosse estesa a livello mondiale, sarebbe stata vinta. Il fatto storico fondamentale che ha illustrato la sorte tragica della rivoluzione russa è che questa sconfitta non è venuta dall’esterno (le armate bianche sostenute dalla borghesia mondiale sono state sconfitte) ma dall’interno per la perdita del potere da parte della classe operaia, ed in particolare di ogni controllo sullo Stato che era sorto all’indomani della rivoluzione, e per la degenerazione ed il tradimento del partito che aveva condotto la rivoluzione a causa della sua integrazione in questo Stato.
In questo quadro, i differenti gruppi che si richiamano alla Sinistra italiana non condividono le stesse analisi sulla politica dei bolscevichi durante i primi anni della rivoluzione. Per i bordighisti il monopolio del potere da parte di un partito politico, l’instaurazione di una forma di monolitismo in questo partito, l’impiego del terrore ed anche la repressione sanguinosa del sollevamento di Kronstadt non è criticabile. Al contrario, ancora oggi se ne rivendicano pienamente e per molto tempo, dato che la corrente della Sinistra italiana era conosciuta a livello internazionale essenzialmente attraverso il bordighismo, questo è servito ad allontanare gli anarchici dalle idee della Sinistra comunista.
Ma la corrente della Sinistra italiana non si riduce al bordighismo. La Frazione di Sinistra del partito comunista d‘Italia (divenuta in seguito Frazione italiana della Sinistra comunista) ha intrapreso negli anni 30 tutto un lavoro di bilancio dell’esperienza russa, (Bilan era infatti il nome della sua rivista in francese). Tra il 1945 e 1952, la Sinistra comunista di Francia (GCF, che pubblicava Internationalisme) ha continuato questo lavoro e la corrente che costituirà nel 1975 la CCI ne ha preso il testimone fin dal 1964 in Venezuela e nel 1968 in Francia.
Questa corrente (ed in parte anche quella che si ricollega al Partito comunista internazionalista in Italia), considera necessaria la critica di certi aspetti della politica dei bolscevichi fin dall’indomani della rivoluzione. In particolare molti aspetti che denunciano gli anarchici, la presa del potere da parte di un partito, il terrore e soprattutto la repressione di Kronstadt, sono considerati dalla nostra organizzazione (sulla scia di Bilan e della GCF) degli errori, vuoi delle colpe, commessi dai bolscevichi che possono perfettamente essere criticate nel quadro del marxismo e delle stesse concezioni di Lenin, in particolare quelle espresse in Stato e Rivoluzione scritto nel 1917. Questi errori trovano una spiegazione in diverse ragioni che non possiamo sviluppare qui ma che fanno parte del dibattito generale tra la Sinistra comunista e gli anarchici internazionalisti. Diciamo semplicemente che la ragione essenziale sta nel fatto che la rivoluzione russa è stata la prima (ed unica fino ad ora) esperienza storica di rivoluzione proletaria momentaneamente vittoriosa. Ma è compito dei rivoluzionari trarre gli insegnamenti da questa esperienza come ha fatto Bilan negli anni 30, per il quale “la conoscenza profonda della causa della sconfitta” era un’esigenza primordiale. “E questa conoscenza non deve temere nessun divieto e nessun ostracismo. Tirare il bilancio dagli avvenimenti dopo la guerra, significa quindi stabilire le condizioni per la vittoria del proletariato in tutti i paesi”. (Bilan n.1, novembre 1933).
Gli anarchici e la Sinistra comunista
I periodi di controrivoluzione non sono certo favorevoli all’unità, né alla cooperazione delle forze rivoluzionarie. Lo smarrimento e la dispersione che colpiscono l’insieme della classe operaia si ripercuotono anche nei ranghi dei suoi elementi più coscienti. Come è accaduto ai gruppi che hanno rotto con lo stalinismo pur rifacendosi alla rivoluzione di ottobre per i quali il dibattito non è stato facile a partire dagli anni 1920 e durante gli anni 1930, anche il dibattito tra anarchici e Sinistra comunista è stato particolarmente difficile lungo tutto il periodo di controrivoluzione.
Come abbiamo visto sopra, il fatto che la sorte della rivoluzione russa sembrava portare acqua al mulino delle sue critiche al marxismo, l’atteggiamento dominante nel movimento anarchico era il rigetto di ogni discussione con i marxisti “necessariamente autoritari” della Sinistra comunista. Tanto più che, negli anni 1930, questo movimento aveva una notorietà ben superiore rispetto a quella dei piccoli gruppi della Sinistra comunista, in particolare per il posto di primo piano occupato dagli anarchici nel proletariato di un paese, la Spagna, dove si è avuto uno degli avvenimenti storici decisivi di questo periodo.
Reciprocamente, il fatto che, in modo quasi unanime, il movimento anarchico abbia considerato gli avvenimenti della Spagna confermavano la validità delle sue concezioni, mentre la Sinistra comunista vi vedeva soprattutto la prova del loro fallimento, ha per molto tempo costituito un ostacolo ad una collaborazione con gli anarchici. Bisogna tuttavia sottolineare che Bilan si è rifiutato di porre tutti gli anarchici nello stesso sacco e questa rivista ha pubblicato, al momento del suo assassinio da parte dello stalinismo nel maggio 1937, un omaggio all’anarchico italiano Camillo Berneri che aveva intrapreso una critica senza concessioni alla politica condotta dalla direzione della CNT spagnola.
Più significativo è ancora il fatto che si sia tenuto nel 1947 una conferenza che raggruppa la Sinistra comunista italiana (il gruppo di Torino), la Sinistra comunista di Francia, la Sinistra olandese e … un certo numero degli anarchici internazionalisti! Uno di essi ha anche presieduto questa conferenza. Ciò mostra che, anche durante la controrivoluzione, certi militanti della Sinistra comunista e dell’anarchismo internazionalista erano animati da un vero spirito di apertura, una volontà di discutere e una capacità di riconoscere i criteri fondamentali che uniscono i rivoluzionari al di là delle divergenze!
Questi compagni del 1947 ci danno una lezione ed una speranza per l’avvenire.
Evidentemente le atrocità commesse dallo stalinismo nel nome, usurpato, del marxismo e del comunismo pesano ancora oggi. Creano un muro emozionale che ostacola sempre potentemente il dibattito sincero e la collaborazione leale. “La tradizione di tutte le generazioni morte [assassinate, NDLR] pesa come un incubo sul cervello dei viventi” (Marx, Il 18-Brumaire di Louis Bonaparte). Questo muro che ci inibisce può essere demolito ma non dall’oggi al domani. Tuttavia, esso comincia a sgretolarsi. Dobbiamo alimentare il dibattito che poco a poco sta nascendo sotto i nostri occhi, sforzarci di essere animati di slancio fraterno, avendo sempre in mente che tutti noi, sinceramente, stiamo lavorando per l’avvento del comunismo, per una società senza classi.
CCI (agosto 2010)
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La Sinistra comunista e l’anarchismo internazionalista: Dobbiamo discutere e collaborare.
Per Lenin: “In Europa occidentale, il sindacalismo rivoluzionario è apparso in numerosi paesi come risultato diretto ed inevitabile dell’opportunismo, del riformismo, del cretinismo parlamentare”. (Prefazione all’opuscolo di Voïnov (Lunatcharski) “Sull’atteggiamento del partito verso i sindacati” (1907). L’anarchismo che esisteva molto prima del sindacalismo rivoluzionario ma che ne è vicino, ha beneficiato anch’esso di questa evoluzione dei partiti socialisti.
Bisogna notare che in Russia sono esistiti anche parecchi gruppi usciti dal partito bolscevico che condividevano queste stesse analisi. Vedere su questo argomento il nostro opuscolo su La Sinistra comunista in Russia.
In effetti, il dibattito, la cooperazione ed il rispetto reciproco tra anarchici internazionalisti e comunisti non era in quel momento una cosa nuova.
Tra altri esempi, si può citare ciò che scriveva l’anarchica americana Emma Goldman nella sua autobiografia, pubblicata nel 1931, dieci anni dopo Kronstadt: “… il bolscevismo era una concezione sociale portata dallo spirito brillante di uomini animati dall’ardore e dal coraggio dei martiri. (…) Era della massima urgenza che gli anarchici e altri veri rivoluzionari assumessero risolutamente la difesa di questi uomini diffamati e della loro causa negli avvenimenti che precipitavano in Russia” (Living my life).
Un altro anarchico molto conosciuto, Victor Serge, in un articolo redatto nell’agosto 1920, “Gli anarchici e l’esperienza della rivoluzione russa”, ha la stessa impostazione e pur continuando a richiamarsi all’anarchismo ed a criticare certi aspetti della politica del partito bolscevico, continua a dare il suo sostegno a questo partito.
D’altro canto, i bolscevichi hanno invitato una delegazione della CNT spagnola anarco-sindacalista al 2° congresso dell’Internazionale Comunista. Hanno potuto sviluppare con questa dei dibattiti realmente fraterni e hanno invitato la CNT ad unirsi all’Internazionale.
giugno-agosto
Le premesse del movimento
Il movimento degli “Indignati” in Spagna è maturato dopo lo sciopero generale del 29 settembre 2010 contro il progetto di riforma delle pensioni. Lo sciopero generale si chiuse con una sconfitta, semplicemente perché i sindacati negoziarono con il governo accettando la proposta di riforma (i lavoratori attivi di 40-45 anni riceveranno, al momento del pensionamento, una pensione inferiore del 20 % a quella attuale). Questa sconfitta ha causato un profondo senso di amarezza tra la classe operaia. Ma ha suscitato un profondo senso di rabbia tra i giovani che si erano mobilitati e avevano partecipato attivamente al movimento, soprattutto con la loro solidarietà nei picchetti di sciopero.
All’inizio del 2011, la rabbia inizia a manifestarsi nelle università. Nel mese di marzo, in Portogallo, viene lanciato su Internet un appello ad una manifestazione del gruppo Giovani Precari che sfocia in una manifestazione con 250 mila persone a Lisbona. Questo esempio ha avuto un impatto immediato nelle università spagnole, in particolare a Madrid. La stragrande maggioranza degli studenti e dei giovani sotto i 30 anni sopravvive con 600 euro al mese facendo piccoli lavori. È in questo contesto che un centinaio di studenti ha formato il gruppo “Giovani senza futuro” (Jovenes sin futuro). Questi studenti poveri, provenienti dalla classe operaia, si sono riuniti attorno allo slogan “senza cure, senza casa, senza reddito, senza paura". Hanno indetto una manifestazione per il 7 aprile. Il successo di questa prima mobilitazione che ha riunito circa 5.000 persone, ha spinto il gruppo “Giovani senza futuro”, a programmare un nuovo evento per il 15 maggio. Nel frattempo è apparso a Madrid il collettivo “Democracia Real Ya!” (Democrazia Reale Adesso!) la cui piattaforma si pronunciava anche contro la disoccupazione e la “dittatura dei mercati”, ma affermava di essere “apolitica”, né di destra né di sinistra. Democracia Real Ya! ha anche lanciato appelli a manifestare il 15 maggio in altre città. Ma è a Madrid che il corteo ha ottenuto il maggior successo con circa 25.000 manifestanti. Un corteo pacifico che doveva concludersi tranquillamente nella piazza Puerta del Sol.
La rabbia dei giovani “senza futuro” prende l’insieme della popolazione
Le manifestazioni del 15 maggio convocate da Real Democracia Ya! hanno avuto un successo spettacolare: esprimevano un malcontento generale, soprattutto tra i giovani che affrontano il problema della disoccupazione alla fine dei loro studi. Apparentemente tutto avrebbe dovuto finire qui, ma alla fine delle manifestazioni di Madrid e Granada degli incidenti causati da un piccolo gruppo di “black block” sono stati repressi con delle cariche della polizia che ha tratto in arresto una ventina di persone. Gli arrestati, brutalizzati nei commissariati, si sono riuniti in un collettivo ed hanno fatto un comunicato che denunciava le violenze della polizia. La diffusione di questo comunicato ha provocato un’immediata reazione di solidarietà generale di fronte alla brutalità delle forze dell’ordine. Una trentina di persone, totalmente sconosciute e non organizzate, decidono di occupare piazza Puerta del Sol a Madrid con un accampamento. Questa iniziativa ha subito preso piede ed ha suscitato la simpatia della popolazione. Lo stesso giorno, l’esempio madrileno si estende a Barcellona, Granada e Valencia. Una nuova fiammata di repressione poliziesca mette il fuoco alle polveri e da allora, gli assembramenti sempre più di massa nelle piazze centrali si sono diffusi in oltre 70 città crescendo rapidamente.
Nel pomeriggio di martedì 17 maggio, gli organizzatori del “Movimento del 15 maggio”, avevano previsto delle proteste silenziose o recite teatrali ludiche “di sfogo”, ma la folla nelle piazze in continuo aumento chiedeva a gran voce la tenuta di assemblee. Alle 20, iniziano a tenersi riunioni a Madrid, Barcellona,Valencia e in altre città. A partire da mercoledì 18, queste assemblee assumono la forma di una valanga. Le manifestazioni si trasformano in assemblee generali aperte nelle pubbliche piazze.
Di fronte alla repressione e con la prospettiva delle elezioni comunali e regionali, il collettivo Democracia Real Ya! lancia un dibattito su un obiettivo: il “rinnovamento democratico” dello Stato spagnolo. Esso rivendica una riforma della legge elettorale per porre fine al bipartitismo PSOE/Partito Popolare reclamando una “vera democrazia” dopo 34 anni di “democrazia imperfetta” seguita al regime di Franco.
Ma il movimento degli “Indignati” si è esteso ben al di là della mera piattaforma rivendicativa, democratica e riformista, del collettivo Democracia Ya Real! Non si è limitato alla sola rivolta della giovane “generazione perduta dei 600 euro”. Nelle manifestazioni e nelle piazze occupate a Madrid, Barcellona, Valencia, Malaga, Siviglia etc., sui cartelloni e striscioni, si leggevano slogan come “Democrazia senza capitale”, “PSOE e PP, la stessa merda”, “Costruiamo un futuro senza capitalismo!”, “Se non ci fate sognare, noi non vi lasceremo dormire”, “Tutto il potere alle Assemblee”, “Il problema non è la democrazia, il problema è il capitalismo!”, “Senza lavoro, senza casa, senza paura”, “Operai, svegliatevi!”, “600 euro al mese, ecco dov’è la violenza!”.
A Valencia, delle donne gridavano, “hanno imbrogliato i nonni, anche i figli sono stati imbrogliati, “Hanno ingannato i nonni, hanno ingannato i figli, nipoti non lasciatevi ingannare!”.
Le assemblee di massa, una “arma carica di futuro”
Di fronte alla democrazia borghese che riduce la “partecipazione” al fatto di “scegliere” ogni quattro anni il politico che non manterrà mai le sue promesse elettorali e che metterà in atto i piani di austerità richiesti dall’aggravamento inesorabile della crisi economica, il movimento degli “Indignati” in Spagna si è riappropriato spontaneamente di un’arma di lotta della classe operaia: le Assemblee Generali aperte. Dappertutto sono sorte assemblee di massa cittadine, coinvolgendo decine di migliaia di persone di tutte le generazioni provenienti da settori non sfruttatori della società. In queste assemblee ognuno può parlare, esprimere la rabbia, lanciare dibattiti su differenti temi, fare delle proposte. In questa atmosfera di effervescenza generale la parola si libera, tutti gli aspetti della vita sociale vengono presi in esame (politici, culturali, economici, ...). Le piazze sono inondate da una gigantesca ondata collettiva di idee discusse in un clima di solidarietà e di rispetto reciproco. In alcune città vengono installate “scatole per i suggerimenti”, urne in cui chiunque può deporre idee scritte su un pezzo di carta. Il movimento si organizza con grande intelligenza. Si costituiscono delle commissioni, in particolare per evitare sconfinamenti e scontri con le forze dell’ordine: la violenza è vietata, viene bandito l’alcol con lo slogan “La revolución no es botellón” (“La rivoluzione non è un bottiglione”). Ogni giorno vengono organizzate squadre di pulizia. Delle mense pubbliche servono i pasti, con dei volontari si organizzano asili per i bambini e un pronto soccorso. Sono a disposizione delle biblioteche e una “banca del tempo” (dove vengono organizzati corsi sia scientifici che culturali, artistici, politici, economici). Vengono pianificate delle “giornate di riflessione”. Ognuno apporta le sue conoscenze e le sue competenze.
Apparentemente, questo torrente di pensieri sembra che non porti da nessuna parte. Non ci sono proposte concrete né rivendicazioni realiste o immediatamente realizzabili. Ma ciò che appare chiaramente è, prima di tutto e soprattutto, un’enorme esasperazione per la miseria, i piani di austerità e l’ordine sociale attuale, una volontà collettiva di rompere l’atomizzazione sociale, di raggrupparsi per discutere, riflettere tutti insieme. Nonostante le molte confusioni e illusioni, nei discorsi come sugli striscioni e i cartelli la parola “rivoluzione” è ricomparsa e non fa più paura.
Nelle Assemblee le discussioni hanno messo in luce alcune questioni fondamentali:
- Bisogna limitarsi al “rinnovamento democratico”? I problemi non sono originati dal capitalismo, un sistema che non può essere riformato e deve essere distrutto da cima a fondo?
- Il movimento deve fermarsi al 22 maggio, dopo le elezioni, o bisogna continuarlo per lottare in massa contro gli attacchi alle condizioni di vita, alla disoccupazione, alla precarietà, agli sfratti?
- Non dovremmo estendere le assemblee nei posti di lavoro, nei quartieri, negli uffici di collocamento, nelle scuole, nelle università? Dovremmo estendere il movimento tra i lavoratori che sono gli unici ad avere la forza di condurre una lotta generalizzata?
In questi dibattiti sono emerse in modo molto chiaro due tendenze:
- una, conservatrice, animata da strati non proletari che diffondono l’illusione che sia possibile riformare il sistema capitalista attraverso una “rivoluzione democratica e popolare”;
- l’altra, proletaria, che evidenzia la necessità di porre fine al capitalismo.
Le assemblee tenutesi domenica 22 maggio, giorno delle elezioni, hanno deciso di proseguire il movimento. In molti interventi è stato detto: “Non siamo qui per le elezioni, anche se queste hanno fatto da detonatore”. La tendenza proletaria si è chiaramente affermata con la proposta di “andare verso la classe operaia”, avanzando rivendicazioni contro la disoccupazione, la precarietà, gli attacchi allo stato sociale. Alla Puerta del Sol, si è deciso di organizzare “assemblee popolari” nei quartieri. Si sono iniziate a sentire proposte di estensione ai luoghi di lavoro, alle università e uffici di collocamento. A Malaga, Barcellona e Valencia, le assemblee hanno posto la questione di organizzare una protesta contro i tagli salariali, proponendo un nuovo sciopero generale che, come ha sostenuto un partecipante, sia “veramente” tale.
È soprattutto a Barcellona, capitale industriale del paese, che l’Assemblea centrale di Plaza de Catalunya, appare come la più radicale, la più animata dalla tendenza proletaria e la più distante dall’illusione del “rinnovamento democratico”. Infatti, lavoratori di Telefonica, ospedalieri, vigili del fuoco, studenti mobilitati contro i tagli sociali, hanno raggiunto le assemblee di Barcellona e hanno cominciato a infondervi un tono diverso. Il 25 maggio, l’Assemblea di Plaza de Catalunya decide di sostenere attivamente lo sciopero dei lavoratori ospedalieri, mentre l’Assemblea di Puerta del Sol a Madrid decide di decentrare il movimento convocando “assemblee popolari” nei quartieri per attuare una “democrazia partecipativa orizzontale”. A Valencia le manifestazioni degli autisti di bus si sono unite ad una manifestazione dei residenti contro i tagli di bilancio nel settore dell’istruzione. A Saragozza, gli autisti di autobus hanno partecipato agli assembramenti con lo stesso entusiasmo.
A Barcellona gli Indignati” decidono di mantenere il loro accampamento e continuare ad occupare Plaza de Catalunya fino al 15 giugno.
Il futuro è nelle mani delle nuove generazioni della classe operaia
Qualunque sia la direzione che prenderà il movimento, a prescindere dal suo esito, è evidente che questa rivolta iniziata dalle giovani generazioni con il problema della disoccupazione (in Spagna, il 45% della popolazione tra 20 e 25 anni è disoccupata), si ricollega pienamente alla lotta della classe operaia. Il suo contributo alla lotta internazionale della classe operaia è indiscutibile.
Si tratta di un diffuso movimento che ha coinvolto tutti i soggetti sociali non sfruttatori, tra cui tutte le generazioni della classe operaia. Anche se questa si è mescolata all’ondata di rabbia “popolare” e non si è affermata in modo autonomo attraverso scioperi e manifestazioni di massa, avanzando proprie rivendicazioni economiche immediate. Questo movimento esprime in realtà una profonda maturazione della coscienza all’interno della sola classe che può cambiare il mondo rovesciando il capitalismo: la classe operaia.
Questo movimento mostra chiaramente che, di fronte al fallimento del capitalismo sempre più evidente, grandi masse iniziano a sollevarsi nei paesi “democratici” dell’Europa occidentale, spianando la strada alla politicizzazione della lotta del proletariato.
Ma soprattutto, questo movimento ha rivelato che i giovani, per lo più lavoratori disoccupati e precari, sono stati in grado di appropriarsi delle armi di lotta della classe operaia: le assemblee generali di massa e aperte, che hanno permesso loro di sviluppare la solidarietà e di prendere nelle proprie mani il movimento al di fuori dei partiti politici e dei sindacati.
Lo slogan “Tutto il potere alle assemblee!” sorto nel movimento, anche se ancora minoritario, non è che un remake del vecchio slogan della rivoluzione russa “Tutto il potere ai consigli operai!” (i soviet).
Anche se oggi la parola “comunismo” fa ancora paura (a causa del peso della campagna scatenata dalla borghesia in seguito al crollo del blocco dell’Est e dei regimi stalinisti), il termine “rivoluzione” non ha spaventato nessuno, anzi.
Questo movimento non è affatto una “Spanish Revolution”, come la presenta il collettivo Democracia Real Ya! La disoccupazione, la precarietà, l’alto costo della vita e il continuo deterioramento delle condizioni di vita delle masse sfruttate, non sono una specificità spagnola! Il volto sinistro della disoccupazione, in particolare la disoccupazione giovanile, lo si vede sia a Madrid che al Cairo, a Londra e a Parigi, ad Atene e a Buenos Aires. Siamo tutti uniti nella caduta nel baratro della decomposizione della società capitalistica. L’abisso non è solo quello della povertà e della disoccupazione, ma anche quello della proliferazione dei disastri nucleari, delle guerre e di una frammentazione delle relazioni sociali accompagnate da una barbarie morale (come evidenziato, tra l’altro, dall’aumento delle aggressioni sessuali e delle violenze contro le donne nei paesi “civilizzati”).
Il movimento degli “Indignati" non è una “rivoluzione”. E’ una nuova tappa nello sviluppo delle lotte sociali e degli scontri della classe operaia di tutto il mondo, i soli che possano aprire una prospettiva per il futuro dei giovani “senza futuro”, così come per tutta l’umanità.
Questo movimento (nonostante tutte le sue confusioni e illusioni sulla “Repubblica indipendente di Puerta del Sol”), rivela che nelle viscere della società borghese è in gestazione la prospettiva di un’altra società. Il “terremoto spagnolo” rivela che le nuove generazioni della classe operaia, che non hanno nulla da perdere, sono già protagoniste della storia. Stanno scavando un tunnel per altri terremoti sociali che finiranno per aprire la strada verso l’emancipazione dell’umanità. Attraverso l’uso di social network su Internet, telefonini e moderni mezzi di comunicazione, queste giovani generazioni hanno dimostrato la loro capacità di rompere il black-out della borghesia e dei suoi media per iniziare a sviluppare la solidarietà al di là delle frontiere.
Questa nuova generazione della classe operaia è emersa sulla scena internazionale sociale a partire dal 2003, prima contro l’intervento militare in Iraq dell’amministrazione Bush (in molti paesi, giovani manifestanti protestavano contro la “busheria” – macelleria di Bush), poi con le prime manifestazioni in Francia contro la riforma delle pensioni. E’ emersa ancora nella primavera del 2006, sempre in Francia, con il massiccio movimento di liceali e universitari contro il CPE. In Grecia, Italia, Portogallo, Gran Bretagna, i giovani hanno fatto sentire la loro voce di fronte all’unica prospettiva che il capitalismo è in grado di offrire: assoluta povertà e disoccupazione.
La grande ondata di questa nuova generazione “senza futuro” ha colpito recentemente la Tunisia e l’Egitto, portando ad una gigantesca rivolta sociale che ha provocato la caduta di Ben Ali e Mubarak. Ma non dobbiamo dimenticare che il fattore decisivo che ha costretto la borghesia dei grandi paesi “democratici” (e in particolare Barack Obama) a far dimettere Ben Ali e Mubarak, sono stati gli scioperi operai e la minaccia di uno sciopero generale contro la cruenta repressione dei manifestanti.
Da allora piazza Tahrir è diventata un emblema, un incoraggiamento alla lotta per le giovani generazioni della classe operaia in molti paesi. Seguendo questo modello gli “Indignati” in Spagna hanno stabilito il loro accampamento a Puerta del Sol, hanno occupato le piazze in più di 70 città e aggregato nelle assemblee tutte le generazioni e tutti i ceti sociali non sfruttatori (a Barcellona, gli “Indignati" hanno addirittura ribattezzato la Plaza Catalunya in Plaza Tahrir).
Il movimento degli “Indignati” è in realtà molto più profondo della rivolta spettacolare che si è cristallizzata al Cairo in piazza Tahrir.
Questo movimento è esploso nelle città principali della penisola iberica e costituisce il ponte tra due continenti. Il fatto che esso abbia luogo in uno Stato “democratico” dell’Europa occidentale (e, in più, diretto da un governo “socialista”!) contribuirà, alla fine, a spazzare le mistificazioni democratiche sparse dai media dopo la “Rivoluzione dei gelsomini” in Tunisia.
Inoltre, anche se Democracia Real Ya! qualifica questo movimento come “Rivoluzione spagnola”, nessuna bandiera spagnola è stata sbandierata, mentre piazza Tahrir era inondata di bandiere nazionali[1].
Nonostante le delusioni e le confusioni che inevitabilmente costellano questo movimento iniziato dai giovani “Indignati”, esso costituisce un anello molto importante nella catena delle lotte sociali che esplodono oggi. Con l’aggravarsi della crisi mondiale del capitalismo, le lotte sociali non possono che continuare a convergere con la lotta di classe del proletariato e contribuire al suo sviluppo.
Il coraggio, la determinazione e il forte senso di solidarietà della nuova generazione “senza futuro” ci mostra che un altro mondo è possibile: il comunismo, vale a dire l’unificazione della comunità umana globale. Ma affinché questo “vecchio sogno” dell’umanità possa diventare realtà, è necessario in primo luogo che la classe operaia, che produce la maggior parte della ricchezza della società, ritrovi la sua identità di classe sviluppando massicciamente le sue lotte in tutti i paesi contro lo sfruttamento e contro tutti gli attacchi del capitalismo.
Il movimento degli “Indignati” ha cominciato a porre di nuovo la questione della “rivoluzione”. È compito del proletariato mondiale risolverla e darle una direzione di classe negli scontri futuri per rovesciare il capitalismo. Solo sulle rovine di questo sistema di sfruttamento, basato sulla produzione di merci e il profitto, le nuove generazioni potranno costruire un’altra società, rendere alla specie umana la sua dignità e realizzare una vera e propria “democrazia” universale.
Sofiane, 27 maggio 2011
(Da ICConline 2011, pagina in francese)
[1] Al contrario si sono sentiti slogan che chiamavano ad una “rivoluzione globale” ed alla “estensione” del movimento oltre i confini nazionali. In tutte le Assemblee è stata creata una “commissione internazionale”. Il movimento degli “Indignati” si è diffuso in tutte le principali città in Europa e del continente americano (anche a Tokyo, Phnom Penh e Hanoi, gruppi di giovani espatriati spagnoli sventolavano la bandiera di Real Democracia Ya!).
Il primo dato importante è quello sull’affluenza: alle provinciali ha votato il 59,62% degli aventi diritto, contro un 60,88% delle precedenti elezioni, e un 71,04% alle comunali, contro il 72,85% delle precedenti elezioni; si registra quindi un calo dell’affluenza alle amministrative 2011, sia per le comunali sia per le provinciali. In altri termini il primo partito in Italia è quello degli astenuti, segno che la farsa elettorale convince via via sempre di meno. La vittoria tra i contendenti è andata al centrosinistra che ha conquistato 29 tra comuni e province contro i 12 andati al centrodestra, con alcuni comuni strappati dal primo al secondo (tra cui importantissimo quello di Milano). Anche in termini di voti raggiunti il partito di Berlusconi e la Lega perdono consensi, mentre a sinistra il PD perde, rispetto alle precedenti amministrative, mentre ottengono buoni risultati gli altri partiti della coalizione[1]. Il risultato del PD ci porta a dire che il vero significato del risultato è che non è stato il centrosinistra a vincere, quanto il centrodestra a perdere. Per dirlo in altri termini, in una situazione in cui la gente perde fiducia verso questo strumento, prevale chi perde meno consensi, o chi ha dalla sua parte candidati che hanno le sembianze di qualcosa di nuovo rispetto alla solita solfa, ai soliti visi. E’ indubbio infatti che laddove la vittoria del centrosinistra è stata più significativa, Milano e Napoli[2], questa vittoria non ci sarebbe stata se i candidati non fossero stati un Pisapia e un De Magistris, entrambi non espressione del PD, e candidati capaci di conquistare un consenso personale che va ben al di là dei partiti di cui sono espressione.
Nei fatti a perdere veramente è stato Berlusconi, che aveva lui stesso politicizzato queste elezioni locali e ne aveva quasi fatto un referendum sulla sua persona (a Milano era capolista alle comunali e ha visto dimezzare i suoi voti di preferenza)[3]. E quindi il vero dato politico da analizzare è proprio questo.
Berlusconi non è mai stato molto simpatico alla borghesia italiana, per certi lati del suo carattere (lui veramente si crede Napoleone) e perché espressione di una frazione della borghesia che non ama giocare con le carte pulite (massoneria e centri del malaffare), ed infatti ci sono imprenditori che non hanno nascosto le loro antipatie (Diego Della Valle, padrone della Tod’s, da sempre, e Luca di Montezemolo, presidente della Ferrari, in maniera chiara di recente). Tuttavia Berlusconi ha costituito una vera ancora di salvezza per la borghesia in un momento di massima difficoltà per questa a far funzionare la mistificazione democratica, quando sono spariti, sotto i colpi del pool Mani Pulite i principali partiti del centrodestra o comunque al governo da decenni, Democrazia Cristiana, Partito Liberale e Partito Socialista.
La sparizione di DC e PSI dalla scena politica ha reso vacante il lato destro dell’apparato politico borghese, con la conseguente difficoltà a mantenere il fulcro centrale della mistificazione elettorale, che è la possibilità dell’alternanza destra-sinistra. E’ questo vuoto che Berlusconi ha colmato, mettendo a disposizione della borghesia il suo apparato aziendale e le sue indubbie capacità di venditore abile a piazzare le sue merci.
Per diversi anni Berlusconi ha dimostrato di poter rappresentare gli interessi della borghesia, alternandosi, laddove era necessario, con la sinistra al governo. Ma negli ultimi anni, ed in particolare da quando la crisi ha subito la brusca accelerazione del 2007-2008, l’azione del governo è stata molto al disotto di quanto la borghesia italiana necessitava per difendere i propri interessi sull’arena internazionale. E questo da diversi punti di vista: economico, politico (imperialista), ed anche di immagine.
Dal punto di vista economico, il capitale italiano ha perso molte posizioni in termini di competitività con gli altri paesi occidentali (ed oggi anche nei confronti della Cina); la “crescita” del Prodotto Interno Lordo è da un decennio almeno più lenta di quella dei suoi concorrenti, e questo a dispetto di un debito pubblico che è il più alto d’Europa e di un deficit che è inferiore solo a quello dei paesi che stanno sull’orlo del fallimento (come Grecia e Spagna, per esempio). In altri termini, se la crisi economica ha toccato tutta l’economia capitalista, nel tentativo di restare a galla l’Italia è uno dei paesi che ci riesce con maggiori difficoltà.
Dal punto di vista della difesa dei propri interessi imperialisti Berlusconi pure dimostra delle debolezze, non certo perché non persegue una politica imperialista (vedi avventure guerriere in Iraq o in Afganistan), ma perché lo fa con una grande incoerenza e, a volte, mettendo davanti agli interessi generali i suoi personali: vedi la politica verso la Russia di Putin, troppo di apertura rispetto agli interessi delle altre potenze occidentali, o la sua amicizia verso Gheddafi che lo hanno portato ad esitare molto prima di intervenire in Libia a difesa degli interessi imperialisti italiani, e solo quando la Francia e la Gran Bretagna avevano già preso l’iniziativa.
Dal punto di vista dell’immagine, Berlusconi come premier non fa che rendere ridicola l’Italia agli occhi sia della popolazione interna che, soprattutto, internazionale: un premier che dice di aver creduto che Ruby fosse la nipote di Mubarak, che fa le corna nelle foto ufficiali dei grandi vertici internazionali, che gioca a nascondino con la cancelliera tedesca Merkel, non è certo qualcuno a cui gli altri leader possono rivolgersi per un confronto sui grandi temi, per concertare accordi seri, per vedere quali alleanze creare nei conflitti internazionali, e così via… Ma soprattutto con le sue vicende personali di malcostume, corruzione e malaffare, Berlusconi discredita lo Stato ed il suo apparato agli occhi dei lavoratori.
Perciò Berlusconi è diventato un peso di cui liberarsi, e questo già da un po’ di tempo. Come abbiamo più volte analizzato, quello che ha fatto esitare la borghesia finora è stata la mancanza di un’alternativa credibile: il principale partito di opposizione, il PD è bravissimo a dividersi, spesso proprio in vista di scadenze importanti[4]4; il progetto di grande centro di Casini si è dimostrato ben poca cosa, anche a queste elezioni. Insomma ce n’è di che dubitare di riuscire a sostituire Berlusconi con un governo credibile e capace di durare (non dimentichiamoci che il precedente governo di centrosinistra, quello di Prodi del 2006, è caduto dopo due anni per la fragilità della coalizione che lo costituiva). Intanto la situazione, soprattutto quella economica, richiede un cambiamento di rotta, per cui il risultato delle elezioni amministrative va letto come un vero e proprio ultimatum a Berlusconi: o cambi rotta o te ne vai, con le buone o con le cattive. Il fatto che in questi giorni Berlusconi insista tanto con Tremonti per fare la riforma fiscale, sta a significare che ha capito il messaggio, anche se è difficile dire come andrà a finire nell’immediato futuro.
Come andrà a finire nelle vicende dell’apparato politico borghese non si può ancora dire, mentre possiamo stare sicuri che per i lavoratori che resti Berlusconi o che venga sostituito da un altro, non ci possono essere che ulteriori sacrifici. Quegli stessi sacrifici che i governi di destra, come in Gran Bretagna e Francia, o di sinistra, come in Spagna e Grecia stanno imponendo da più di un paio di anni, senza che i relativi paesi escano fuori dalla crisi o addirittura dalla minaccia di bancarotta.
Ma, potrebbe dire qualcuno, almeno i referendum ci hanno portato qualcosa di buono, “hanno vinto gli interessi della gente”. Davvero? Anche ammettendo che ci fossero settori seri ed importanti della borghesia italiana a volerlo e che fosse possibile farlo, cosa impedirà di fare una nuova legge che lo consenta? Nel 1984 non c’era stato un altro referendum contro il nucleare e a suo dispetto Berlusconi non aveva fatto un’altra legge per renderlo possibile? Lo stesso potremmo tranquillamente dire per gli altri referendum: questo strumento è solo abrogativo di leggi esistenti, ma non impedisce che vengano varate altre leggi in sostituzione di quelle abrogate.
In realtà i referendum un risultato lo hanno ottenuto, ed è quello di controbilanciare la sfiducia crescente dei lavoratori verso lo strumento elettorale, riuscendo addirittura a creare entusiasmo per il suo risultato, che è stato letto non solo come la vittoria sulle questioni sottoposte a referendum, ma anche come un avviso di sfratto per Berlusconi. In questo senso, se una vittoria politica c’è stata, è stata quella della mistificazione democratica, che costituisce l’antitesi della necessaria mobilitazione di piazza dei lavoratori per difendere i propri interessi materiali, come hanno fatto i lavoratori della Fincantieri negli stessi giorni della campagna elettorale. Una vittoria politica certo momentanea, perché passata l’ubriacatura elettorale i lavoratori torneranno a dover fare i conti con i licenziamenti, la cassa integrazione, i contratti schiavistici e la precarietà crescente e questo non potranno contrastarlo se non con la loro lotta di massa, come stanno facendo i loro fratelli di classe in Spagna o in Grecia in questi stessi giorni.
Elios, 13/06/2011
[1] O autonomi rispetto a questa, come i seguaci di Grillo. Questo risultato conferma il discredito dell’apparato politico ufficiale che si sviluppa fra la popolazione, e il cui primo risultato è l’aumento dell’astensione.
[2] Più significativa perché a Milano erano decenni che il centrosinistra non vinceva, e a Napoli, perché i disastri combinati dalla coppia Bassolino-Iervolino davano per scontata la sconfitta del centrosinistra.
[3] Anche la sconfitta della Lega è da attribuire alla sua troppo poco critica alleanza con Berlusconi, che comincia a stancare gli elettori della Lega, come testimoniato dai tanti interventi fatti in questo senso dai seguaci della Lega a Radio Padania.
[4] . Alle ultime elezioni politiche, Berlusconi ha vinto con molto meno del 50% di voti, ma il PD aveva scelto di andare al voto da solo per cui era chiaro che non avrebbe vinto. Alle comunali di Napoli (dove già sarebbe stato difficilissimo vincere) ha dato lo squallido spettacolo di primarie truccate!
1. La risoluzione adottata dal precedente congresso della CCI metteva subito in evidenza la pungente smentita inflitta dalla realtà alle previsioni ottimiste dei dirigenti della classe borghese all’inizio dell’ultimo decennio del secolo scorso, particolarmente dopo il crollo di questo “Impero del male” che costituiva il blocco imperialista detto “socialista”. Essa citava in particolare l’ormai famosa dichiarazione del presidente George Bush senior del marzo 1991 che annunciava la nascita di un “Nuovo ordine mondiale” basato sul “rispetto del diritto internazionale” e sottolineava il suo carattere surrealista di fronte al caos crescente in cui sprofonda oggi la società capitalista. Venti anni dopo questi discorsi “profetici”, e particolarmente dopo l’inizio di questo nuovo decennio, mai, dalla fine della seconda guerra mondiale, il mondo aveva mostrato un volto così caotico. A poche settimane di distanza abbiamo assistito ad una nuova guerra in Libia, che viene ad aggiungersi alla lista di tutti i conflitti sanguinosi che hanno toccato il pianeta nel corso dell’ultimo periodo, a dei nuovi massacri in Costa d’Avorio ed ancora alla tragedia che ha toccato uno dei paesi più potenti e moderni del mondo, il Giappone. Il terremoto che ha devastato una parte di questo paese ha sottolineato ancora una volta che non esistono “catastrofi naturali” ma solo delle conseguenze catastrofiche a dei fenomeni naturali. Ha mostrato che la società dispone oggi dei mezzi necessari per costruire edifici capaci di resistere ai terremoti e che permetterebbero di evitare tragedie come quelle di Haiti l’anno scorso. Ma ha anche mostrato tutta l’imprevidenza di cui ha dato prova uno Stato pur così avanzato come il Giappone: il terremoto in sé ha provocato ben poche vittime ma lo tsunami che l’ha seguito ha falciato circa 30 000 esseri umani in pochi minuti. Ma non basta: provocando una nuova Chernobyl, ha messo in luce non solo l’imprevidenza della classe dominante, ma anche il suo incedere da apprendista stregone, incapace di controllare le forze che essa stessa ha messo in movimento. L’impresa Tepco, che sfruttava l’energia della centrale atomica di Fukushima, non è la prima né tanto meno l’unica responsabile della catastrofe. E’ il sistema capitalista nel suo insieme, basato com’è sulla ricerca sfrenata del profitto e sulla competizione tra settori nazionali e non sulla soddisfazione dei bisogni dell’umanità, che è fondamentalmente responsabile delle catastrofi presenti e future subite dalla specie umana. In fin dei conti, la Chernobyl giapponese costituisce una nuova illustrazione del fallimento ultimo del modo di produzione capitalista, un sistema la cui sopravvivenza costituisce una minaccia crescente per la stessa sopravvivenza dell’umanità.
2. Evidentemente è la crisi che subisce attualmente il capitalismo mondiale che esprime più direttamente il fallimento storico di questo modo di produzione. Due anni fa la borghesia di tutti i paesi era presa da un timor panico di fronte alla gravità della situazione economica. L’OCSE non esitava a scrivere: “L’economia mondiale é in preda alla sua recessione più profonda e più sincronizzata degli ultimi decenni” (Rapporto intermedio del marzo 2009). Tenendo conto di tutta la moderazione con cui questa venerabile istituzione si esprime abitualmente, ci si può fare un’idea del terrore che avvertiva la classe dominante di fronte al fallimento potenziale del sistema finanziario internazionale, il crollo brutale del commercio mondiale (più del 13% nel 2009), la brutalità della recessione delle principali economie, l’ondata dei fallimenti che toccano o minacciano imprese emblematiche dell’industria come la General Motors o la Chrysler. Questo terrore della borghesia l’aveva condotta a convocare i vertici del G20 di cui quello del marzo 2009 a Londra decideva in particolare il raddoppio delle riserve del Fondo monetario internazionale e l’iniezione massiccia di liquidità nell’economia da parte degli Stati allo scopo di salvare un sistema bancario in difficoltà e rilanciare la produzione. Lo spettro della “Grande depressione degli anni ‘30” ossessionava gli spiriti cosa che conduceva la stessa OCSE a scongiurare tali demoni scrivendo: “Benché talvolta questa severa recessione mondiale sia stata qualificata come una ‘grande recessione’, siamo lontani da una nuova ‘grande depressione’ come quella degli anni ‘30, grazie alla qualità e all’intensità delle misure che i governi prendono attualmente” (Ibid.). Ma, come riportato nella risoluzione del 18° congresso[1], “una delle caratteristiche della classe dominante è di dimenticare oggi i discorsi fatti ieri” e lo stesso rapporto intermedio dell’OCSE della primavera 2011 esprime un vero sollievo di fronte al ripristino della situazione del sistema bancario e alla ripresa economica. La classe dominante non può fare altrimenti. Incapace di avere una visione lucida, globale e storica, sulle difficoltà che incontra il suo sistema perché tale visione la porterebbe a scoprire l’impasse definitiva in cui questo si trova, essa è costretta a commentare giorno per giorno le fluttuazioni della situazione immediata cercando di trovare in queste dei motivi di consolazione. Così facendo, essa viene spinta a sottovalutare la situazione anche se, di tanto in tanto, i mass-media adottano un tono allarmista a proposito del significato del principale fenomeno che è emerso negli ultimi due anni: la crisi del debito sovrano di un certo numero di Stati europei. Di fatto, il fallimento potenziale di un numero crescente di Stati costituisce una nuova tappa dell’inabissamento del capitalismo nella sua crisi insanabile. Essa mette in evidenza i limiti delle politiche con cui la borghesia é riuscita a frenare l’evoluzione della crisi capitalista degli ultimi decenni.
3. Sono ormai più di 40 anni che il sistema capitalista fa fronte alla crisi. Il Maggio 68 in Francia e l’insieme delle lotte proletarie che l’hanno seguito a livello internazionale hanno avuto una tale portata perché erano alimentati da un peggioramento globale delle condizioni di vita della classe operaia, peggioramento conseguente ai primi sintomi della crisi capitalista, tra cui l’aumento della disoccupazione. Questa crisi ha poi conosciuto una brutale accelerazione nel 1973-75 con la prima grande recessione internazionale del dopoguerra. In seguito, nuove recessioni ogni volta più profonde ed estese hanno sconvolto l’economia mondiale fino a culminare in quella del 2008-2009 che ha riportato alla mente lo spettro degli anni ’30. Le misure adottate dal G20 del marzo 2009 per evitare una nuova “Grande Depressione” sono significative della politica condotta da diversi decenni dalla classe dominante: esse si riassumono nell’iniezione nelle economie di masse considerevoli di crediti. Tali misure non sono nuove. Di fatto, da oltre 35 anni, queste costituiscono il cuore delle politiche condotte dalla classe dominante per cercare di scappare alla principale contraddizione del modo di produzione capitalista: l’incapacità a trovare dei mercati solvibili capaci di assorbire la sua produzione. La recessione del 1973-75 era stata superata attraverso massicci crediti ai paesi del Terzo Mondo ma, dall’inizio degli anni ‘80, con la crisi del debito di questi paesi, la borghesia dei paesi più avanzati aveva dovuto rinunciare a questo polmone per la sua economia. Sono quindi gli Stati dei paesi più avanzati, e primo fra tutti gli Stati Uniti, che hanno preso il posto di “locomotive” dell’economia mondiale. La “reaganomics” (politica neoliberale dell’Amministrazione Reagan) dell’inizio degli anni 80, che aveva permesso un rilancio significativo dell’economia di questo paese, era basata sulla creazione di deficit budgetari inediti e considerevoli nello stesso momento in cui Ronald Reagan dichiarava che “lo Stato non è la soluzione ma il problema”. Contemporaneamente, i deficit commerciali anch’essi considerevoli di questa potenza permettevano alle merci prodotte dagli altri paesi di trovare uno sbocco. Nel corso degli anni ‘90, le “tigri” e i “dragoni” asiatici (Singapore, Taiwan, Corea del Sud, ecc.) hanno accompagnato per un certo tempo gli Stati Uniti in questo ruolo di “locomotiva”: i loro spettacolari tassi di crescita ne facevano una destinazione importante per le merci dei paesi più industrializzati. Ma questa “storia di successo” è stata costruita a prezzo di un indebitamento considerevole che ha condotto questo paese a delle convulsioni importanti nel 1997 così come la Russia “nuova” e “democratica” che si è ritrovata insolvente, cosa che ha amaramente deluso quelli che avevano puntato sulla “fine del comunismo” per rilanciare in maniera durevole l’economia mondiale. All’inizio degli anni 2000 l’indebitamento ha conosciuto una nuova accelerazione, particolarmente grazie all’enorme sviluppo dei mutui ipotecari per la costruzione in diversi paesi, in particolare negli Stati Uniti. Quest’ultimo paese ha allora accentuato il suo ruolo di “locomotiva dell’economia mondiale”, ma al prezzo di una crescita abissale dei debiti, – particolarmente tra la popolazione americana – debiti basati su ogni sorta di “prodotti finanziari” ritenuti capaci di scongiurare il rischio di cessazione dei pagamenti. In realtà, la dispersione dei crediti sospetti non ha assolutamente abolito il loro carattere di spada di Damocle sospesa sull’economia americana e mondiale. Al contrario essa ha fatto accumulare nel capitale delle banche gli “attivi tossici” che sono stati all’origine del loro crollo a partire dal 2007 e della brutale recessione mondiale del 2008-2009.
4. Come riportato nella risoluzione adottata al precedente congresso, “non è la crisi finanziaria che è all’origine della recessione attuale. Al contrario, la crisi finanziaria non fa che illustrare il fatto che la fuga in avanti nell’indebitamento - che aveva permesso di superare i problemi della sovrapproduzione - non può proseguire all’infinito. Prima o poi, l’“economia reale” si vendica, perché quello che è alla base delle contraddizioni del capitalismo, la sovrapproduzione, l’incapacità dei mercati ad assorbire la totalità delle merci prodotte, torna in primo piano.” Dopo il vertice del G20 del marzo 2009 questa stessa risoluzione precisava che “la fuga in avanti nell’indebitamento è uno degli ingredienti della brutalità della recessione attuale. La sola “soluzione” che sia capace di mettere in piedi la borghesia è … una nuova fuga in avanti nell’indebitamento. Il G20 non ha potuto inventare una soluzione alla crisi per la semplice ragione che non ne esistono.”.
La crisi dei debiti sovrani che si propaga oggi, il fatto che gli Stati siano incapaci di onorare i loro debiti, costituisce un’illustrazione spettacolare di questa realtà. Il potenziale fallimento del sistema bancario e la recessione hanno obbligato tutti gli Stati a iniettare delle somme considerevoli nelle loro economie mentre le vendite erano in caduta libera per la riduzione della produzione. Per questo motivo i deficit pubblici hanno conosciuto, nella gran parte dei paesi, un aumento considerevole. Per i più esposti tra questi, come l’Irlanda, la Grecia o il Portogallo, ciò ha significato una situazione di potenziale fallimento, l’incapacità di pagare i loro funzionari e di rimborsare i loro debiti. Le banche si rifiutano ormai di consentire nuovi prestiti, se non a dei tassi esorbitanti poiché non hanno più alcuna garanzia di poter essere rimborsate. I “piani di salvataggio” di cui esse hanno beneficiato da parte della Banca europea e del Fondo monetario internazionale costituiscono dei nuovi debiti il cui rimborso si aggiunge a quello dei debiti precedenti. E’ più che un circolo vizioso, è una spirale infernale. La sola “efficacia” di questi piani consiste nell’attacco senza precedenti contro i lavoratori, contro i dipendenti pubblici i cui salari ed il cui numero vengono ridotti in maniera drastica, ma anche contro l’insieme della classe operaia attraverso sia i tagli nei settori dell’educazione, della salute e delle pensioni che l’aumento di tasse ed imposte. Ma tutti questi attacchi antioperai, tagliando selvaggiamente il potere d’acquisto dei lavoratori, non potranno che contribuire ad un’ulteriore nuova recessione.
5. La crisi del debito sovrano dei PIIGS (Portogallo, Islanda, Irlanda, Grecia, Spagna) costituisce solo una parte infima del terremoto che minaccia l’economia mondiale. Non è certo perché beneficiano ancora per il momento del rating[2] AAA[3] come indice di fiducia delle agenzie di rating (le stesse agenzie che, fino alla vigilia dello scompiglio delle banche del 2008, avevano accordato loro il rating massimo) che le grandi potenze industriali se la cavano molto meglio. Alla fine di aprile 2011, l’agenzia Standard and Poor’s emetteva un’opinione negativa di fronte alla prospettiva di un Quantitative Easing n°3, cioè di un terzo piano di rilancio dello Stato federale americano destinato a sostenere l’economia. In altri termini, la prima potenza mondiale corre il rischio di vedersi ritirata la fiducia “ufficiale” sulla sua capacità di rimborsare i suoi debiti, se non con un dollaro fortemente svalutato. Di fatto, in maniera ufficiosa, questa fiducia comincia a mancare con la decisione della Cina e del Giappone, dopo l’autunno scorso, di effettuare massicci acquisti di oro e di materie prime piuttosto che dei buoni del Tesoro americani, cosa che ha condotto la Banca federale americana a comprarne per il 70-90% alla loro emissione. Questa perdita di fiducia si giustifica perfettamente quando si constati l’incredibile livello di indebitamento dell’economia americana: nel gennaio 2010, l’indebitamento pubblico (Stato federale, singoli Stati federati, comuni, ecc.) rappresentava già all’incirca il 100% del PIL, ma questo costituiva solo una parte dell’indebitamento totale del paese (che comprende anche i debiti delle famiglie e delle imprese non finanziarie) che raggiungeva il 300% del PIL. E la situazione non era migliore per gli altri grandi paesi dove il debito totale ammontava nello stesso periodo al 280% del PIL per la Germania, 320% per la Francia, 470% per la Gran Bretagna ed il Giappone. In questi ultimi paesi, il debito pubblico ha da solo raggiunto il 200% del PIL. Successivamente, per tutti i paesi, la situazione é solo peggiorata nonostante i diversi piani di rilancio.
Pertanto il fallimento dei PIIGS costituisce solo la punta di un iceberg che nasconde il fallimento di un’economia mondiale che deve la sua sopravvivenza ormai da decenni alla disperata fuga in avanti nell’indebitamento. Gli Stati che dispongono della propria moneta come la Gran Bretagna, il Giappone e naturalmente gli USA hanno potuto mascherare questo fallimento stampando banconote a tutta forza (al contrario di quelli della zona Euro, come la Grecia, l’Irlanda o il Portogallo, che non dispongono di questa possibilità). Ma questa frode permanente degli Stati che sono diventati dei veri contraffattori, con a capo della gang lo Stato americano, non potrà proseguire indefinitamente così come non potevano proseguire le manipolazioni del sistema finanziario, come lo ha dimostrato la crisi di questo nel 2008 che non riuscita però a farlo esplodere. Uno dei segni visibili di questa realtà è l’attuale accelerazione dell’inflazione mondiale. Spostandosi dalla sfera delle banche a quella degli Stati, la crisi dell’indebitamento marca l’entrata del modo di produzione capitalista in una nuova fase della sua crisi acuta in cui si aggravano ulteriormente la violenza e l’estensione delle sue convulsioni. Non c’è via di “uscita dal tunnel” per il capitalismo. Questo sistema può solo condurre la società in una crescente barbarie.
CCI (maggio 2011)
[2] Il rating è un metodo utilizzato per classificare sia i titoli obbligazionari, che le imprese (vedi anche modelli di rating IRB [150] secondo Basilea 2 [151]) in base alla loro rischiosità. In questo caso, essi si definiscono rating di merito creditizio (https://it.wikipedia.org/wiki/Rating [152]).
[3] AAA = indice di rating che corrisponde ad una situazione di elevata capacità di ripagare il debito.
Aspettando questo bello slancio di “solidarietà” verso gli insorti anti-Gheddafi riuniti intorno al Consiglio nazionale di transizione libica, i cui rappresentanti passano più tempo nelle ambasciate occidentali che nelle zone di combattimento, bisogna veramente fare uno sforzo notevole per dare credito ad una guerra che giorno dopo giorno si impantana sempre di più. Le forze di Gheddafi, nonostante i 2700 attacchi aerei subiti, continuano a colpire i ribelli sia a Bengasi che a Misurata. Si è ben lontani dal farla finita con questo potere libico recentemente denunciato dalla “comunità internazionale” per la sua crudeltà e quindi dall’avvento di quella democrazia che è servita da pretesto per questa nuova avventura militare imperialista, perché la “guida della rivoluzione verde” sta aggrappata disperatamente al potere. Così, il paese offre uno spettacolo desolante, incapace di soddisfare la speranza o l’entusiasmo che hanno accompagnato, nonostante la durezza degli avvenimenti, i movimenti in Tunisia ed in Egitto. I morti si contano a dozzine ogni giorno, almeno a Misurata (secondo l’OMS), e le carcasse di blindati e di automobili sommariamente armate tappezzano le strade, mentre le città somigliano sempre più ad un gruviera, all’immagine di Beirut negli anni 1970 e 1980. Evidentemente, i nostri “degni” rappresentanti non smetteranno di colpire il governo libico e di esigere che “i responsabili degli attacchi contro i civili vengano processati”, senza omettere di mobilitare preventivamente la Corte penale internazionale su questi “crimini”. Conosciamo i loro grandi discorsi, così come conosciamo la loro menzognera ipocrisia: sono proprio loro i responsabili delle morti, nei due campi, comprese quelle tra le popolazioni civili. E’ così che funzionano le “incursioni aeree”, che non fanno morti solo nel campo dei cattivi, come avviene nei film di serie B. Ricordiamo giusto l’esempio dei pretesi attacchi “mirati” delle due guerre in Iraq e le centinaia di migliaia di morti “collaterali” che ci sono state, o di quella in Afghanistan dove regolarmente interi villaggi sono oggetto di “errori” logistici. La lista delle responsabilità delle grandi potenze - che non toglie nulla a quella dei piccoli Stati - per la morte di “civili” è molto lunga, così come le loro responsabilità nel creare caos.
Così, la riconferma dell’ultimo vertice del G8 di accentuare la pressione militare contro Gheddafi con la decisione di effettuare attacchi con elicotteri francesi e inglesi per essere “più vicini al suolo” è il preludio di un attacco “di terra” a breve. Se l’intervento militare è partito su basi piuttosto confuse ed instabili, con gli Stati Uniti che tergiversavano, e Italia e Russia che si opponevano, oggi l’orientamento sembra chiaro: gettarsi sulla preda. La popolazione libica, che i campioni di ogni tipo di democrazia occidentale sono venuti a “soccorrere” per “salvarla”, subisce oramai lo stesso calvario di quelle sottoposte al giogo di questo o quel dittatore o del terrorismo internazionale. Questo avvenire, questo dopo-Gheddafi annunciato, è quello di uno scontro più o meno larvato tra le differenti cricche tribali libiche, sostenute dalle varie potenze in campo, con la parola d’ordine: ciascuno per sé e tutti contro tutti.
La questione che si pone oggi è sapere se, a breve, toccherà la stessa sorte alla popolazione siriana; una popolazione che ha subito almeno un migliaio di morti dall’inizio delle manifestazioni contro Assad due mesi fa e decine di migliaia di arresti da parte delle forze di repressione del governo di Damasco. Torture, pestaggi, assassini sono la sorte quotidiana dei Siriani, in effetti lo stesso di quanto avvenuto in Libia e che ha all’improvviso “contrariato” i rappresentanti dell’Unione europea. Trasmettendo le loro velleitarie proteste contro questa “repressione sanguinosa” siriana al Consiglio di sicurezza dell’ONU, la Francia, la Germania, la Gran Bretagna ed il Portogallo hanno chiesto di colpire il regime siriano con “sanzioni internazionali” che, per il momento, procurano a quest’ultimo la stessa paura del “lupo cattivo” delle fiabe.
Contrariamente a ciò che è accaduto con la Libia, l’ONU è ben lontano dal raggiungere un accordo e ad una risoluzione per un impegno militare contro la Siria. Anzitutto perché lo Stato siriano possiede, al contrario di Gheddafi, mezzi militari più avanzati ed all’altezza della situazione; inoltre perché la regione è strategicamente ben più importante rispetto al territorio libico. Ed è qui che si può misurare ancora una volta il poco credito che si può accordare alle potenze occidentali nel sostenere le “rivoluzioni democratiche arabe”, delle quali a parole questi bugiardi patentati si riempiono la bocca mentre da anni sostengono il regime della famiglia Al-Assad. La posta in gioco imperialistica riguardante la Siria é di primo ordine. Vicina ed alleata dell’Iraq, dove gli Stati Uniti continuano a sfiancarsi per trovare una via d’uscita militare minimamente onorevole, la Siria è, inoltre, sempre più sostenuta dall’Iran che le ha fornito, dopo gli ultimi avvenimenti, milizie agguerrite e rotte a tutti i tipi di sevizie richiesti dalla necessità di attuare una repressione massiccia della popolazione.
La prima potenza mondiale non può permettersi di ritrovarsi in un nuovo pantano in Siria, cosa che la discrediterebbe ancora più nei confronti dei paesi arabi, dal momento che fa sempre più fatica a calmare le tensioni israelo-palestinesi, incoraggiate proprio da Israele e dalla Siria. Inoltre, il vantaggio momentaneo ottenuto sull’arena mondiale dagli Stati Uniti – ed in particolare da Obama che assicura a quest’ultimo quasi di sicuro la futura rielezione – dal successo della caccia e della morte supermediatizzata di Bin Laden, che “ha lavato l’affronto dell’11 settembre”, non significa tuttavia uno sradicamento del terrorismo, scopo proclamato della grande crociata americana da 20 anni. Al contrario, questa nuova situazione espone sempre più il mondo ad una recrudescenza di attentati omicidi ed i recenti attentati sanguinosi in Pakistan ed a Marrakech non hanno tardato a dimostrarlo. Dovunque, si assiste ad una moltiplicazione dei focolari di guerra e ad una fuga in avanti delle tensioni imperialiste, maggiormente acuite dalle rivalità tra le grandi potenze e ad un accumularsi d’instabilità e barbarie.
Non bisogna farsi nessuna illusione. Il capitalismo è guerra, caos, e in nessuna parte del mondo potrà portare una pretesa liberazione o un’emancipazione dei popoli.
Mulan, 28 maggio
(da Revolution International, n.423, organo della CCI in Francia)
Abbiamo conosciuto Enzo nel 2003 ad una nostra riunione pubblica a Milano dove è approdato dopo una lunga e travagliata traiettoria politica nella sinistra borghese e tutto un lavoro di studio, riflessione, critica ed autocritica che il compagno ha sviluppato con determinazione negli anni in cui, in seguito al crollo del blocco sovietico, imperversava la campagna borghese sul “fallimento del comunismo” e l’impossibilità di un’alternativa al capitalismo. Una campagna che ha significato un riflusso profondo della combattività e della coscienza della classe operaia a livello internazionale. Eppure Enzo, sin da giovanissimo, era convinto che si potesse cambiare, che si potesse lavorare per costruire un mondo diverso e non ha mai smesso di voler capire come fare, di cercare, come lui stesso ci racconta:
“Ho cominciato a svolgere attività politica nel mio piccolo paese in Sicilia per circa 8 anni nel PCI, dopo il diploma all’Istituto tecnico commerciale e aver svolto il servizio militare presso i vigili del fuoco. Nel 1993, trasferitomi a Milano, ho militato per 5 anni nella Lega trotskista d’Italia (Lega Comunista Internazionale) che pubblica il giornale “Spartaco”, filiale della “Spartacist League/US che pubblica il quindicinale “Workers Vanguard”. All’inizio del 2000 mi sono dimesso, fondamentalmente sulla questione della “difesa incondizionata dell’URSS” e la difesa dei Fronti Partigiani durante la II Guerra mondiale imperialista. Ma nonostante questo pensavo di aver rotto organizzativamente con la LTd’I/LCI, ma non programmaticamente con il trotskismo. La lettura dei libri e della stampa della Sinistra comunista, la mia partecipazione ai dibattiti pubblici di Battaglia Comunista e Rivoluzione Internazionale, unite ad una lettura senza dogmi e tabù degli avvenimenti internazionali, mi hanno aiutato a chiarire meglio le questioni politiche; così ho avuto una lenta ma costante evoluzione verso le posizioni politiche della Sinistra comunista e in particolare quelle della CCI[1]” (dalla lettera di Enzo alla CCI del 16/1/2005).
La sua determinazione e il suo porsi “senza dogmi e tabù”, lo hanno portato non solo a comprendere la vera natura antioperaia dei partiti della sinistra del capitale, ma anche a comprendere e far proprio il marxismo come strumento di lotta:“Il marxismo ci dà le chiavi per fare avanzare l’umanità, per combattere l’oppressione e lo sfruttamento, ma nello stesso tempo il marxismo non è un metodo per l’interpretazione passiva del processo storico, ma un metodo per un’azione rivoluzionaria; non una bibbia, né una serie di ricette valide in ogni luogo ed in ogni tempo, ma un metodo che deve essere sempre arricchito alla luce dell’esperienza proletaria” (idem)
Enzo faceva parte della classe operaia non solo per scelta politica. Proveniva da una famiglia di lavoratori ed anche lui, dopo la scuola, ha fatto vari lavori ed alla fine ha dovuto trasferirsi a Milano per trovare un lavoro che gli permettesse di crearsi una propria vita. Come per tutti i proletari, la crisi economica ha significato per Enzo condizioni di lavoro sempre più dure fino alla perdita del posto di lavoro. Nel 2008 la ditta SEA, una società di servizi che gestisce gli aeroporti di Malpensa e Linate, ha iniziato a “tagliare sui costi”, mettendo in cassa integrazione Enzo ed altri suoi compagni di lavoro. Una cassa integrazione che è durata più di un anno e mezzo, tanto che alla fine Enzo ha preferito andarsene per trovare un altro lavoro, magari in Spagna, paese che amava molto. Nel frattempo, non riuscendo a vivere in una città cara come Milano, con in più un mutuo da pagare per la casa che aveva comprato, è stato costretto a vendere la casa costata tanti sacrifici e ritornare al suo paese in Sicilia.
Tuttavia, nonostante le difficoltà, le rinunce a cui è stato costretto e gli importanti problemi di salute che ha avuto, Enzo ha mantenuto intatta la sua convinzione militante. Come abbiamo già detto nel breve comunicato pubblicato sul nostro sito subito dopo la sua morte “La sua militanza nella CCI è stata sempre caratterizzata da questa convinzione e dalla sua determinazione, anche in situazioni difficili, a dare il suo contributo a questa lotta. Per questo la sua morte è una perdita per la CCI e per l’insieme della classe operaia”.
Nonostante le traversie, Enzo è anche riuscito a preservare la sua grande vivacità, la voglia di vivere, di conoscere cose nuove, gente diversa e più in generale di cogliere il positivo della vita. Al tempo stesso aveva una grande sensibilità per le barbarie di questo sistema. Si commuoveva fino alle lacrime discutendo della gente che muore di fame e di malattie in Africa, degli immigrati torturati nei loro paesi e ridotti in schiavitù nei cosiddetti paesi democratici, di quelli che muoiono in mare … e con altrettanta foga e sentimento esprimeva la sua avversione viscerale per ogni forma di ipocrisia della classe dominante, in particolare per quella della sua componente religiosa.
Amava molto leggere, non solo di politica, ma anche e soprattutto di storia perché riteneva che conoscere la storia dell’umanità fosse essenziale per capire l’oggi. Amava anche molto viaggiare e quando andava in un paese nuovo gli piaceva leggere dei libri sulla storia e sulla cultura di quel popolo e parlarcene quando ne avevamo l’occasione, trasmettendoci l’entusiasmo di queste sue nuove conoscenze.
La sua perdita lascia un vuoto nell’intera CCI, in particolare nei compagni della sezione in Italia ed in altri compagni delle sezioni in Francia e in Svizzera che hanno lavorato più strettamente con lui e che lo conoscevano da più tempo. Ma proprio per la sua evidente voglia di cambiare questa società e per la sua sensibilità e vivacità intellettuale, Enzo lascia un forte dolore anche in quei compagni vicini all’organizzazione che lo avevano conosciuto, come dimostrano le diverse manifestazioni di affetto nei suoi confronti che ci sono giunte[2], come la poesia e la lettera che seguono che danno un’immagine efficace e vivente del nostro compagno.
Ringraziamo di cuore tutti questi compagni ed anche i compagni dell’Istituto Onorato Damen[3] che ci hanno scritto per esprimere la loro solidarietà alla CCI per questa perdita: “Vi esprimiamo la nostra sincera vicinanza per questa grave perdita, confidando che il nostro impegno, il lavoro dell’Istituto Onorato Damen, possa rappresentare un contributo concreto a quella battaglia per il socialismo che ha animato la vita del compagno Enzo”. E non possiamo che concordare con i compagni quando, facendo riferimento a quanto scritto da noi nel comunicato circa le difficoltà lavorative di Enzo, dicono giustamente: “Elementi di drammaticità nella vita di un proletario che sempre più diventano atroce attualità per tutti i venditori di forza lavoro, ma che in Enzo, come ricordate, erano accompagnati da una determinazione a lottare per il socialismo che deve essere da motivazione per tutti i comunisti”.
Naturalmente Enzo lascia un vuoto ed un enorme dolore nei suoi familiari ai quali vogliamo esprimere ancora una volta tutta la nostra solidarietà e disponibilità per qualsiasi cosa possa essere loro di aiuto in un momento così difficile, anche se la lontananza geografica non ci ha permesso ancora di essere loro fisicamente vicini. Abbiamo scritto loro una lettera per esprimere il nostro dolore e per chiedere di poterli incontrare per ricordare insieme Enzo e con grande piacere abbiamo ricevuto una risposta dove ci dicono che “sentitamente e con grande commozione ringraziano per la pubblicazione del vostro articolo. Sarebbe cosa molto gradita avere contatti con tutti coloro che conoscevano Enzo, per cui comunichiamo la nostra completa disponibilità”. Ci auguriamo di poter incontrare al più presto la madre di Enzo che abbiamo conosciuto a Milano e conoscere per intero la sua famiglia.
Enzo non è più fisicamente con noi, ma resterà sempre con noi come compagno di lotta e di viaggio verso una società senza più sfruttamento e barbarie, ma finalmente a misura d’uomo. Una società che Enzo era convinto di poter costruire ed alla quale ha dedicato gran parte della sua vita.
CCI, 11 giugno 2011
Per Enzo …
L’ho appena saputo : te ne sei andato,
in silenzio, come spesso ti ho visto.
Non ti conoscevo da molto tempo,
eppure c’era qualcosa che mi faceva sentire
che eri un mio compagno,
non solo e non tanto perché condividevamo
simili visioni politiche,
ma perché ho subito sentito che provavi come me
la stessa insofferenza per questa società,
la stessa voglia di cambiare,
la stessa voglia di gioire,
la stessa voglia di costruire insieme
un mondo dove veramente tutti saranno liberi e felici.
Ora chissà dove sei andato,
eppure sono convinto
che continuerai a vivere qui con noi,
nelle nostre idee e nelle nostre azioni,
e che quello che saremo in grado di costruire lo
costruiremo anche grazie alla tua presenza viva nei nostri cuori.
Volevi andare in Spagna, poi in Marocco, e poi chissà dove
ma forse il vero viaggio che volevi fare era quello che tutti sogniamo
quello che ci porti in un posto dove potere essere veramente noi stessi,
un posto che non c’è,
un posto che va costruito,
un posto per tutti e di tutti,
un posto che proveremo a costruire anche per te …
Stefano, 16/5/2011
V. per Enzo
Mi dispiace di sentire della morte di Enzo. Era una persona straordinaria, determinata nel suo impegno per la lotta rivoluzionaria, passionale contro le ingiustizie sociali e sempre desideroso di comprendere il mondo in cui viviamo, al fine di trasformarlo.
Mi ricordo quando l’ho incontrato per la prima volta – nelle riunioni pubbliche a Milano. Lui arrivava come una brezza di mare; scoppiettante di pensieri e domande e riflessioni - spesso alla rinfusa, ogni idea cercando di trovare il suo giusto posto tra le altre - ma sempre stimolante e vitale e sempre pronto a sfidare il vecchio modo di guardare le cose.
Per molti lavoratori che, come lui, hanno trascorso molti anni nella convinzione che il trotzkismo offrisse un quadro valido per la trasformazione della società, il crollo del blocco “sovietico” deve essere stato un colpo brutale per la loro fiducia in un’alternativa della classe operaia a questo marcio sistema. Ma Enzo si rimboccò le maniche e cercò un modo per capire cosa stava succedendo nel mondo capitalista e come lottare contro di esso - e con grande determinazione ha trovato la sinistra comunista.
Non posso evitare di pensare che la passione e il contributo di militanti come Enzo rimangano per sempre nel cuore della storica lotta e che la classe operaia porterà una parte di lui con sé quando alla fine tenterà l’attacco al cielo.
Le mie più sentite condoglianze alla famiglia di Enzo, agli amici e ai compagni.
V. 27 maggio 2011
[1] In realtà Enzo percorre un’ulteriore tappa politica intermedia all’interno di “Ombre Rosse” - della galassia di Rifondazione Comunista – prima di approdare definitivamente alle posizioni della sinistra comunista.
[2] Alcune di queste sono state postate sul forum Napolioltre alla voce “Per Enzo…”, all’indirizzo https://napolioltre.forumfree.it/?t=55713652#lastpost.
Questa serie di articoli si è data come obiettivo di dimostrare che i membri della Sinistra comunista e gli anarchici internazionalisti hanno il dovere di discutere ed anche di collaborare. La ragione è semplice. Al di là delle divergenze che sono talvolta importanti, noi condividiamo le posizioni rivoluzionarie essenziali: l’internazionalismo, il rigetto di ogni collaborazione e compromesso con le forze politiche borghesi, la difesa de “la presa in mano delle lotte da parte degli stessi operai”…[1]
Malgrado questa evidenza, da tempo le relazioni tra queste due correnti rivoluzionarie sono state quasi inesistenti. Solo da qualche anno cominciamo appena a vedere l’inizio di un dibattito e di una collaborazione. Tutto ciò è il frutto della dolorosa storia del movimento operaio. L’atteggiamento della maggioranza del Partito bolscevico negli anni 1918-1924, (l’interdizione di ogni stampa anarchica senza distinzione, lo scontro con l’esercito di Makhno, lo schiacciamento nel sangue dei marinai insorti di Kronstadt …) ha scavato un fossato tra rivoluzionari marxisti ed anarchici. Ma soprattutto, lo stalinismo, che ha massacrato migliaia di anarchici[2] in nome del “comunismo”, ha causato un vero trauma per dei decenni[3].
Esistono ancora oggi, da una parte come dall’altra, timori a dibattere ed a collaborare. Per superare queste difficoltà bisogna essere persuasi di appartenere allo stesso campo, quello della rivoluzione e del proletariato, nonostante le divergenze. Ma ciò non può bastare. Dobbiamo fare anche uno sforzo cosciente per coltivare la qualità dei nostri dibattiti. “Elevarsi dall’astratto al concreto” è sempre la tappa più pericolosa. E’ per questo che, con quest’articolo, la CCI tiene a precisare con quale stato d'animo essa affronta questa possibile e necessaria relazione tra la Sinistra comunista e l’anarchismo internazionalista.
La critica costruttiva tra rivoluzionari è una necessità assoluta
La nostra stampa ha molte volte ripetuto, sotto differenti forme, l’affermazione secondo la quale l’anarchismo porta il segno d’origine dell’ideologia piccolo borghese. Questa critica, effettivamente radicale, è spesso giudicata inaccettabile dai militanti anarchici, compresi quelli abitualmente più aperti alla discussione. Ed ancora oggi, ancora una nuova, questo epiteto di “piccolo-borghese” affiancato alla parola “anarchismo” è sufficiente a certi per non volere più sentire parlare della CCI. Recentemente, sul nostro forum Internet, un partecipante che si rifà all’anarchismo ha finanche qualificato questa critica come una vera “ingiuria”. Ma noi non pensiamo che sia così.
Per quanto profondi siano i nostri reciproci disaccordi, essi non devono farci perdere di vista che i militanti della Sinistra comunista e quelli dell’anarchismo internazionalista dibattono tra rivoluzionari. Del resto, gli stessi anarchici internazionalisti muovono numerose critiche al marxismo, a cominciare dalle sue pretese inclinazioni naturali per l’autoritarismo ed il riformismo. Il sito della CNT-AIT in Francia, per esempio, contiene molteplici passi di questo genere:
“I marxisti diventavano progressivamente [a partire dal 1871] coloro che addormentavano gli sfruttati e firmavano l’atto di nascita del riformismo operaio”[4].
“Il marxismo è responsabile dell’orientamento della classe operaia verso l’azione parlamentare […]. Solo quando si sarà compreso questo si vedrà che la via della liberazione sociale ci conduce verso la terra felice dell’anarchismo, passando bene al di sopra del marxismo”[5].
Non si tratta qui di “ingiurie” ma di critiche radicali … con cui evidentemente siamo in totale disaccordo! È anche nel senso della critica aperta che deve essere considerata la nostra analisi della natura dell’anarchismo. Per cui pensiamo sia importante riproporla qui sinteticamente. Nel 1994, in un capitolo intitolato “Il nucleo piccolo-borghese dell’anarchismo”, noi scrivevamo: “Lo sviluppo dell’anarchismo nella seconda metà del XIX secolo era il prodotto della resistenza di strati piccolo-borghesi (artigiani, commercianti, piccoli contadini) alla marcia trionfante del capitale, resistenza al processo di proletarizzazione che li privava della loro “indipendenza” sociale passata. Più forte nei paesi dove il capitale industriale si è sviluppato tardivamente, alla periferia orientale e meridionale dell’Europa, esso esprimeva al tempo stesso la ribellione di questi strati contro il capitalismo e la loro incapacità a vedere oltre quest’ultimo, verso il futuro comunista; al contrario, enunciava il loro desiderio di ritorno ad un passato semi-mitico di comunità locali libere e di produttori rigorosamente indipendenti, sbarazzati dall’oppressione del capitale industriale e dallo Stato borghese centralizzato. Il “padre” dell’anarchismo, Pierre-Joseph Proudhon, era l’incarnazione classica di quest’atteggiamento, col suo odio feroce non solo verso lo Stato ed i grandi capitalisti, ma anche verso il collettivismo sotto tutte le sue forme, ivi compreso verso i sindacati, gli scioperi e le espressioni similari della collettività della classe operaia. Contrariamente a tutte le tendenze profonde che si sviluppavano all’interno della società capitalista, l’ideale di Proudhon era una società “mutualistica”, fondata sulla produzione artigianale individuale, legata dal libero scambio e dal libero credito”[6].
O ancora, in “Anarchismo e comunismo”, del 2001: “Nella genesi dell’anarchismo si esprime il punto di vista del lavoratore da poco proletarizzato e che rifiuta con tutte le sue forze questa proletarizzazione. Usciti di recente dal mondo contadino o dall’artigianato, spesso per metà operai e metà artigiani (come gli orologiai del Giura svizzero, per esempio), questi operai esprimevano il rimpianto per il passato di fronte al dramma che costituiva per loro cadere allo stato di operai. Le loro aspirazioni sociali consistevano nel voler far girare la ruota della storia a ritroso. Al centro di questa concezione c’è la nostalgia della piccola proprietà. E’ per questo che, con Marx, analizziamo l’anarchismo come espressione della penetrazione dell’ideologia piccolo borghese all’interno del proletariato”[7].
In altre parole, noi pensiamo che, fin dalla sua nascita, l’anarchismo sia segnato da un profondo sentimento di rivolta contro la barbarie dello sfruttamento capitalista ma che esso erediti anche alcuni punti di vista degli “artigiani, commercianti, piccoli contadini” che l’hanno costituito alla sua nascita. Ciò non significa assolutamente che oggi, tutti i gruppi anarchici sono “piccoli-borghesi”. È evidente che la CNT-AIT, il KRAS[8] ed altri gruppi sono animati dal soffio rivoluzionario della classe operaia. Più in generale, durante tutto il XIX e XX secolo, numerosi operai hanno sposato la causa anarchica e hanno lottato realmente per l’abolizione del capitalismo e l’avvento del comunismo, da Louise Michel a Durruti passando, tra gli altri, per Voline o Malatesta. All’epoca dell’ondata rivoluzionaria del 1917, una parte degli anarchici ha anche formato, nei ranghi operai, alcuni battaglioni tra i più combattivi.
C’è da sempre, all’interno dell’ambiente anarchico, una battaglia contro questa tendenza originaria ad essere influenzata dall’ideologia della piccola borghesia radicalizzata. Ed in parte è questo che caratterizza le profonde divergenze tra gli anarchici individualistici, mutualistici, riformisti, comunisti-nazionalisti e comunisti-internazionalisti (solo questi ultimi appartengono realmente al campo rivoluzionario). Ma, anche gli anarchici internazionalisti subiscono l’influenza delle radici storiche della loro corrente. Tale è, per esempio, la causa della loro tendenza a sostituire la “lotta della classe operaia” con la “resistenza popolare autonoma”.
Per la CCI è dunque una questione di responsabilità esporre onestamente, alla luce del giorno, tutti questi disaccordi, allo scopo di contribuire al meglio al rafforzamento generale del campo rivoluzionario. Così come è responsabilità degli anarchici internazionalisti continuare ad esprimere le loro critiche verso il marxismo. Ciò non deve costituire affatto un ostacolo alla tenuta fraterna dei nostri dibattiti o rappresentare un freno alle eventuali collaborazioni, tutt’altro[9].
Secondo la CCI, tra marxisti e anarchici esiste un rapporto da maestro ad alunno?
Tutte queste critiche, la CCI non le muove agli anarchici come se fosse un maestro che corregge il suo alunno. Tuttavia, sul nostro forum, alcuni interventi hanno rimproverato alla nostra organizzazione il suo tono “da professori”. Al di là del gusto per questo o quello stile letterario, dietro queste osservazioni si nasconde una vera domanda teorica. La CCI verso la CNT-AIT e, più in generale, la Sinistra comunista verso l’anarchismo internazionalista, hanno un ruolo di “guida” o di “modello”? Pensiamo noi di essere una minoranza illuminata che deve infondere la verità, la buona coscienza?
Una tale concezione sarebbe in totale contraddizione con la stessa tradizione della Sinistra comunista. E rinvia più profondamente ancora al legame che unisce i rivoluzionario comunisti alla loro classe.
Negli Annali franco-tedeschi Marx afferma: “Non ci presentiamo al mondo come dottrinari armati di un nuovo principio: ecco la verità, inginocchiatevi! Sviluppiamo per il mondo dei principi nuovi che traiamo dagli stessi principi del mondo. Noi non gli diciamo: “rinuncia alle tue lotte, sono delle puerilità; tocca a noi farti capire il vero motto della lotta”. Tutto ciò che noi facciamo, è mostrare al mondo perché in realtà lotta”[10].
I rivoluzionari, marxisti o anarchici internazionalisti, non sono al di sopra della classe operaia, ne fanno integralmente parte, sono uniti ad essa da mille legami. La loro organizzazione è la secrezione collettiva del proletariato.
La CCI non si è dunque mai considerata un’organizzazione avente per vocazione di imporre il suo punto di vista alla classe operaia o agli altri gruppi rivoluzionari. Noi facciamo interamente nostro questo passaggio del Manifesto comunista del 1848: “I comunisti non sono un partito particolare di fronte agli altri partiti operai. I comunisti non hanno interessi distinti dagli interessi di tutto il proletariato. I comunisti nonpongono principi speciali sui quali vogliono modellare il movimento proletario”. È questo stesso principio che Bilan, organo della Sinistra comunista italiana, fa vivere in occasione dell’uscita del suo primo numero nel 1933: “Certamente, la nostra frazione si reclama ad un lungo passato politico,ad una tradizione profonda nel movimento italiano ed internazionale, ad un insieme di posizioni politiche fondamentali. Ma non intende avvalersi dei suoi precedenti politici per chiedere delle adesioni alle soluzioni che preconizza per la situazione attuale. Al contrario, invita i rivoluzionari a sottomettere alla verifica degli avvenimenti le posizioni che essa difende attualmente così come le posizioni politiche contenute nei suoi documenti di base”.
Dalla sua nascita, la nostra organizzazione si sforza di coltivare questo stesso spirito di apertura e questa stessa volontà di dibattere. Così, fin dal 1977, scrivevamo:
“Nei nostri rapporti con [gli altri gruppi rivoluzionari], vicini alla CCI ma esterni, il nostro scopo è chiaro. Cerchiamo di stabilire una discussione fraterna ed approfondita sulle differenti questioni affrontate dalla classe operaia.
“Non potremo assumere realmente la nostra funzione (…) nei loro confronti se non siamo capaci contemporaneamente di:
- guardarci dal considerarci il solo ed unico raggruppamento rivoluzionario esistente oggi;
- difendere di fronte a loro le nostre posizioni con fermezza;
- conservare nei loro confronti un atteggiamento aperto alla discussione che deve condursi pubblicamente e non attraverso scambi confidenziali”[11].
Si tratta per noi di una regola di condotta. Siamo convinti della validità delle nostre posizioni, pur essendo aperti ad una critica ragionata, ma non le prendiamo come “la soluzione ai problemi del mondo”. Si tratta per noi di un apporto alla lotta collettiva della classe operaia. È per tale motivo che diamo un’importanza tutta particolare alla cultura del dibattito. Nel 2007, la CCI ha anche dedicato tutto un testo di orientamento a questa specifica questione: “La cultura del dibattito: un’arma della lotta di classe” in cui si afferma: “Se le organizzazioni rivoluzionarie vogliono assolvere al loro compito fondamentale di sviluppo ed estensione della coscienza di classe, la cultura di una discussione collettiva, internazionale, fraterna e pubblica è assolutamente essenziale”[12].
Il lettore attento avrà notato che tutte queste citazioni contengono, oltre all’idea della necessità di dibattere, l’affermazione che la CCI deve anche difendere fermamente le sue posizioni politiche. Non si tratta di una contraddizione. Voler discutere apertamente non significa credere che tutte le idee sono uguali o che tutte le posizioni si equivalgono. Come sottolineato nel nostro testo del 1977: “Lungi dall’escludersi, fermezza sui principi ed apertura nell'atteggiamento vanno di pari passo: non abbiamo paura di discutere proprio perché siamo convinti della validità delle nostre posizioni”.
Nel passato come in avvenire, il movimento operaio ha avuto e avrà bisogno di dibattiti sinceri, aperti e fraterni tra le sue differenti tendenze rivoluzionarie. Questa molteplicità di punti di vista e di approcci sarà una ricchezza ed un apporto indispensabile alla lotta del proletariato ed allo sviluppo della sua coscienza. Lo ripetiamo, all’interno del campo rivoluzionario vi possono anche essere delle profonde divergenze e queste devono assolutamente esprimersi ed essere dibattute. Noi non chiediamo agli anarchici internazionalisti di rinunciare ai loro criteri né a quello che considerano il loro patrimonio teorico. Al contrario, ci auguriamo vivamente che essi li espongano con chiarezza, in risposta alle domande che si pongono a tutti, che essi accettino la critica e la polemica così come noi non consideriamo le nostre posizioni come “l’ultima parola”, ma come un contributo aperto a degli argomenti contraddittori. Noi non diciamo a questi compagni: “arrendetevi di fronte alla proclamata superiorità del marxismo”.
Rispettiamo profondamente la natura rivoluzionaria degli anarchici internazionalisti e sappiamo che combatteremo fianco a fianco quando si svilupperanno dei grandi movimenti di lotta. Ma difenderemo anche fermamente, in maniera convinta - e, speriamo, convincente - le nostre posizioni sulla Rivoluzione russa ed il Partito bolscevico, la centralizzazione, il periodo di transizione, la decadenza del capitalismo, il ruolo anti-operaio del sindacalismo … Questo non significa porci in un rapporto da maestro ad alunno o sperare di convertire alcuni anarchici per farli passare nei nostri ranghi, ma partecipare pienamente al dibattito necessario tra i rivoluzionari.
Come vedete, compagni, questo dibattito rischia di essere fortemente animato … ed appassionante!
Concludiamo questa serie di tre articoli su “La Sinistra comunista e l’anarchismo internazionalista”, con una citazione di Malatesta: “Se noi, anarchici, potessimo fare la rivoluzione da soli o se i socialisti[13] potessero farla da soli, potremmo concederci il lusso di agire ciascuno per conto proprio, e forse venire anche alle mani. Ma la rivoluzione, è l’intero proletariato che la farà, il popolo intero, di cui i socialisti e gli anarchici non sono numericamente che una minoranza, anche se il popolo sembra avere molta simpatia per gli uni e per gli altri. Dividerci, anche là dove possiamo essere uniti, significherebbe dividere il proletariato, o più esattamente, raffreddare le sue simpatie e renderlo meno incline a seguire questo nobile orientamento socialista comune che insieme i socialisti e gli anarchici potrebbero fare trionfare all’interno della rivoluzione. Spetta ai rivoluzionari vegliare, ed in particolare ai socialisti ed agli anarchici, non accentuando i motivi dei loro dissensi e soprattutto occupandosi dei fatti e degli scopi che possono unirli e far loro raggiungere il più grande risultato rivoluzionario possibile”. (Volontà, 1 maggio 1920)
CCI, settembre 2010
[1] Vedi la prima parte di questa serie: “Quello che abbiamo in comune”.
[2] D’altra parte, come le migliaia di marxisti ed in generale i milioni di proletari.
[3] Vedi la seconda parte di questa serie “Sulle nostre difficoltà a dibattere e come superarle”.
[4] cnt-ait.info.
[5] Si tratta qua più precisamente di una citazione di Rudolf Rocker che la CNT-AIT riprende a proprio conto.
[8] Si tratta della sezione in Russia dell’AIT con cui noi intratteniamo buone relazioni di cameratismo e di cui abbiamo pubblicato parecchie prese di posizione nella nostra stampa.
[9] Ciò detto, nel corso del dibattito che ha avuto luogo in questi ultimi mesi, dei compagni anarchici hanno giustamente protestato contro delle formulazioni oltranziste che pronunciavano una sentenza definitiva ed ingiustificata nei riguardi dell’anarchismo. Rituffandoci di nuovo in alcuni dei nostri vecchi testi, abbiamo trovato a nostra volta dei passaggi che oggi non scriveremmo più. Per esempio:
- “Certi elementi operai possono pensare di aderire alla rivoluzione a partire dall’anarchismo, ma per aderire ad un programma rivoluzionario bisogna rompere con l’anarchismo” (https://fr.internationalism.org/rinte102/anar.htm [157]).
- “È per questo che il proletariato deve allontanarsi risolutamente da questi commercianti di illusioni che sono gli anarchici" (https://fr.internationalism.org/ri321/anarchisme.htm [158]).
- Il nostro articolo “Anarchismo e comunismo”, che pertanto descrive meticolosamente la lotta degli “Amici di Durruti” all’interno della CNT nella Spagna degli anni 1930, caricatura con una frase la visione dell’anarchismo che ha la CCI affermando che nel 1936 non c’era più “una fiamma rivoluzionaria” all’interno della CNT. La nostra serie di articoli più recenti sull'anarco-sindacalismo, pur denunciando di nuovo l’integrazione della direzione della CNT negli ingranaggi dello Stato ed il suo contributo al disarmo politico degli operai anarchici (cosa che ha facilitato il lavoro degli assassini stalinisti), ha mostrato fino a che punto la situazione era complessa. Ci sono stati all’interno della CNT, a livello internazionale, delle vere lotte per difendere le posizioni autenticamente proletarie contro il tradimento che costituiva l’integrazione di questa organizzazione allo Stato spagnolo (vedi la nostra serie [159] sul sindacalismo rivoluzionario).
[10] Citato da Franz Mehring nella sua biografia di K. Marx.
[11] In “I gruppi politici proletari”, Revue internationale n°11, 4° trimestre 1977.
[12] Questo articolo è disponibile sul nostro sito Internet al seguente indirizzo: https://fr.internationalism.org/rint131/la_culture_du_debat_une_arme_de_la_lutte_de_classe.html [160].
[13] Nel momento in cui Malatesta scrive questo articolo, il Partito socialista italiano raggruppa ancora, accanto ai riformisti, gli elementi rivoluzionari che vanno a fondare il PCI nel gennaio 1921 al Congresso di Livorno.
Periodo settembre-novembre 2011
1. Dalle menzogne alla realtà
Va ricordato che, alla fine del 2007 e all’inizio del 2008, il fallimento della banca americana Lehman Brothers aveva condotto l’economia sull’orlo del baratro. L’intero sistema finanziario, come un castello di carte, rischiava di crollare. Allora gli Stati hanno assunto a loro carico una parte del debito bancario, che rappresenta spesso dei valori incalcolabili, spingendo a loro volta questi sulla strada del fallimento. Su questa strada, le stesse banche centrali non hanno tardato a ritrovarsi in una situazione pericolosa. E per tutto questo tempo, la borghesia si è cinicamente fatto gioco del mondo intero. Abbiamo dovuto ascoltare discorsi uno più mistificatorio dell’altro. Certamente gli stessi borghesi sono in parte vittime dei loro discorsi. Gli sfruttatori non possono mai avere una piena lucidità di fronte al crollo del loro sistema. Tuttavia, mentire, ingannare per nascondere i fatti, è una necessità degli sfruttatori per mantenere gli sfruttati sotto il loro controllo.
Hanno cominciato col dire che tutto ciò non era grave, che la situazione era completamente sotto controllo. Era già difficile essere più ridicoli. Eppure, in questo campo, il meglio doveva ancora arrivare. All’inizio del 2008, dopo la caduta delle borse del 20% circa e il calo della crescita mondiale, ci avevano promesso, con la faccia seria, una rapida uscita dalla crisi. Questa era infatti presentata come passeggera e puntuale; ma i fatti sono più testardi delle parole. La situazione, infischiandosene decisamente di tutti questi imbonitori, ha continuato a peggiorare. Questi signori sono poi passati a degli argomenti bassamente nazionalisti, falsi e perfidi quanto ignobili. Per cominciare, è stata data la colpa ai poveri americani che avevano comprato a credito senza riflettere delle case senza avere i mezzi per rimborsare i loro crediti, parliamo dei famosi subprime. Naturalmente, questa spiegazione non poteva essere più valida quando la crisi ha colpito la zona euro, quando è diventato evidente che lo Stato greco non poteva evitare il fallimento. L’ignominia è allora cresciuta: gli sfruttati di questi paesi sono stati tutti trattati semplicemente come sfaticati e profittatori; la crisi in Grecia era specifica per questo paese, come lo era stato per l’Islanda e come lo sarà, pochi mesi dopo, per l’Irlanda. Per radio e televisione i vari leader trasmettevano le loro piccole frasi assassine. Secondo loro, la gente spendeva troppo; a sentire loro, gli sfruttati vivevano al di sopra delle loro possibilità, come dei pascià! Ma di fronte alla collera legittima che si sviluppava in questo paese, i discorsi menzogneri sono ancora una volta mutati. In Italia, l’indescrivibile Berlusconi, Presidente del Consiglio, viene indicato come il solo responsabile di una politica economica totalmente … irresponsabile. Ma come è possibile che abbia fatto lo stesso il serissimo premier spagnolo Zapatero?
Ora la borghesia indica col dito accusatore una parte di se stessa. La colpa della crisi si sposta in parte sul mondo della finanza, popolata da squali avidi di guadagni sempre maggiori. Negli Stati Uniti, nel dicembre 2008, B. Madoff, ex capo di Nasdaq e uno dei consulenti di investimento più conosciuti e rispettati a New York, si è trasformato dalla sera alla mattina nel peggiore truffatore del mondo. Ugualmente le agenzie di rating continuano a servire come capri espiatori. Alla fine del 2007, le si accusava di incompetenza per aver trascurato nelle loro valutazioni il peso dei debiti sovrani degli Stati. Oggi, esse sono accusate al contrario di puntare eccessivamente il dito su questi stessi debiti sovrani nella zona euro (per Moody) e negli Stati Uniti (per Standard & Poors).
Essendo divenuta infine visibilmente e apertamente mondiale, bisognava trovare una bugia più credibile, più realistica. Così, da qualche mese, sentiamo circolare con sempre maggiore insistenza che la crisi è dovuta a un indebitamento generalizzato, insopportabile, organizzato dalla finanza a beneficio dei grandi speculatori. Con l'estate del 2011 e la nuova esplosione della crisi finanziaria, questi discorsi hanno invaso i nostri televisori.
Anche se tutti questi esempi mostrano che la borghesia ha una difficoltà crescente a far passare delle menzogne credibili, possiamo essere certi che continuerà a servircene; a prova di ciò, tutto il clamore sviluppato dai partiti di sinistra, dai gauchisti e da molti economisti, secondo cui è la finanza - e non il capitalismo in quanto tale - che sarebbe responsabile dell’attuale escalation della crisi. Certo, l’economia crolla sotto i debiti che non può più né rimborsare né sopportare. Viene quindi minato il valore della valuta, il prezzo delle merci viene spinto verso l’alto e si apre la porta ad un processo di fallimento per gli individui, le banche, le assicurazioni e gli Stati. Cosa che rischia di implicare ad un certo punto la paralisi delle banche centrali. Ma questo indebitamento non era motivato fondamentalmente dall’avidità insaziabile del mondo della finanza e di altri speculatori, e ancor meno dal consumo degli sfruttati. Al contrario, questo indebitamento generalizzato era necessario, vitale per la sopravvivenza del sistema da più di mezzo secolo per evitare la sovrapproduzione sempre più massiccia. Il progressivo sviluppo della speculazione finanziaria non è dunque la causa della crisi, ma la conseguenza degli strumenti che gli Stati hanno adottato per cercare di farvi fronte da cinquant’anni a questa parte. Senza questa politica di credito facile e di indebitamento crescente fino a diventare incontrollabile, il capitalismo non avrebbe potuto vendere merci in quantità sempre crescenti. Di fatto, é l’accentuazione di questo indebitamento che ha permesso per tutto questo tempo di sostenere la sua crescita. Il fatto che lo sviluppo mostruoso della finanza speculativa sia diventata progressivamente un cancro per il capitalismo è in realtà solo il prodotto della crescente difficoltà del capitalismo di investire e di vendere con profitto. L’esaurimento storico di questa capacità, a fine 2007/inizio 2008, ha spalancato le porte alla depressione[1].
2. Nei giorni di depressione e di fallimento
Gli avvenimenti che si svolgono in questo mese di agosto ne sono la chiara manifestazione. Il presidente della Banca Centrale Europea, J.C. Trichet, ha dichiarato a tale proposito che “la crisi attuale è tanto grave quanto quella del 1930”. Come prova, a partire dall’apertura della fase attuale della crisi alla fine dell’anno 2007, la sopravvivenza dell’economia mondiale si racchiude in poche parole: creazione accelerata e titanica di denaro da parte delle banche centrali e in primo luogo dagli Stati Uniti. Quello che è stato chiamato “Quantitative Easing” n°1 e n°2[2] non sono che le fasi visibili di un iceberg di una creazione massiccia di moneta. In realtà, la FED ha letteralmente inondato l’economia, le banche e lo Stato americano di nuovi dollari e, di conseguenza, ha fatto lo stesso per l’intera economia mondiale. Il risultato è stato la sopravvivenza del sistema bancario e una crescita mondiale mantenuta per fleboclisi. La depressione iniziata quattro anni fa è stata attenuata. Quello a cui assistiamo in questa estate 2011 è il suo gran ritorno sulla scena mondiale. Una delle cose che spaventa di più la borghesia è l’attuale forte rallentamento dell’attività. La crescita alla fine del 2009 e nel 2010 è crollata. Negli Stati Uniti il PIL del terzo trimestre del 2010 aveva raggiunto 14730 miliardi di dollari in valore. Esso aveva rimontato in totale del 3,5% rispetto al punto più basso della metà del 2009. Tuttavia, era rimasto inferiore dello 0,8% rispetto al suo livello di prima del 2007. Attualmente, negli Stati Uniti, mentre era stato previsto per il primo trimestre 2011un tasso di crescita su scala annua dell’1,5%, la cifra reale è caduta a solo lo 0,4%. Per il secondo semestre la crescita, stimata all’1,3%, sarà effettivamente molto vicina a 0. E’ lo stesso fenomeno a cui assistiamo in Gran Bretagna e nella zona euro. L’economia mondiale si orienta verso dei tassi di crescita in ribasso, e anche in alcuni grandi paesi, come gli Stati Uniti, si prende il cammino verso dei tassi di crescita negativi. Eppure, in questo contesto di recessione, l’inflazione è in aumento. Essa è ufficialmente del 2,985% negli USA, ma del 10% secondo il metodo di calcolo dell’ex direttore della Federal Reserve Paul Volcker. Per la Cina, che esprime il tono di tutti i paesi emergenti, essa arriva ogni anno ad oltre il 9%.
Nel mese di agosto 2011, il panico generale dei mercati finanziari riflette, tra l’altro, la presa di coscienza che il denaro iniettato dalla fine del 2007 non è riuscito a rilanciare l’economia e ad uscire dalla depressione. Al contrario esso ha esacerbato per quattro anni lo sviluppo del debito mondiale al punto che il crollo del sistema finanziario è tornato attuale, ma in una situazione economica complessiva molto più degradata che alla fine del 2007. Attualmente la situazione economica è tale che è necessaria e vitale ogni giorno l’iniezione di nuova liquidità, anche se in quantità più ridotta. Attualmente, la Banca centrale europea (BCE) è obbligata ad acquistare quotidianamente parte del debito italiano e spagnolo per una somma di circa 2 miliardi di euro per evitare di veder crollare questi paesi. Se, dunque, questo nuovo danaro è essenziale per la sopravvivenza del sistema giorno per giorno, esso non potrà mai avere gli effetti, per quanto limitati, che ha avuto la creazione di moneta dalla fine del 2007. In effetti ci vorrebbe molto di più per riassorbire dei debiti che per la Spagna e l’Italia (e non sono i soli) ammontano a centinaia di miliardi di euro. La possibilità di degrado del rating AAA[3] della Francia sarebbe un colpo mortale per la zona Euro. Solo i paesi inclusi in questa categoria possono finanziare i fondi di sostegno europeo. Se la Francia non lo potrà più fare, l’intera area crollerà. Il panico che abbiamo appena vissuto nella prima metà di agosto non è ancora finito! Stiamo per assistere alla presa di coscienza improvvisa da parte della borghesia e dei suoi leader che il sostegno necessario e continuo alla crescita dell’attività economica - anche moderata - diventa impossibile. E’ questo che provoca lo spettacolo deplorevole al quale stiamo assistendo. Ecco le ragioni profonde della lacerazione della borghesia americana sulla questione di elevare il tetto del suo debito. Lo stesso si dica per i cosiddetti accordi - annunciati con la fanfara - dei leader della zona euro sul salvataggio della Grecia, piani rimessi in discussione pochi giorni dopo da alcuni governi europei. I conflitti tra repubblicani e democratici sull’aumento del tetto del debito non sono semplici divergenze, come cerca di presentarceli la stampa borghese, che opporrebbero delle persone responsabili agli irresponsabile della destra americana, anche se l’aberrazione rappresentata dalle rivendicazioni e dal dogmatismo assurdo di quest’ultima - in particolare del Tea Party[4] - aggravano i problemi ai quali è confrontata la classe dirigente americana. L’incapacità dei leader della zona euro ad accordarsi su una politica ordinata e consensuale di sostegno ai paesi europei non più capaci di far fronte al rimborso dei loro debiti, rileva solo gli antagonismi di interessi meschini dei leader di ogni capitale nazionale. Ciò riflette una realtà molto più profonda e ancora più drammatica per il capitalismo. La borghesia si sta semplicemente rendendo conto che un nuovo e consistente sostegno dell’economia, come quello praticato tra il 2008 e il 2010, è particolarmente pericoloso. Perché rischia di provocare sia il crollo del valore dei buoni del tesoro dei diversi paesi che quello della moneta di questi stessi paesi, compreso l’euro; crollo che annuncia, in questi ultimi mesi, lo sviluppo dell’inflazione.
3. Quali sono le prospettive per l’economia mondiale?
La depressione è lì e la borghesia non può più impedire il suo sviluppo. Ecco quello che ci mostra l’estate 2011. La tempesta è scoppiata. La prima potenza mondiale intorno alla quale si organizza tutta l’economia del mondo dal 1945 è sulla strada del default[5]. Impossibile da immaginare solo qualche tempo fa, questa realtà storica marca a fuoco il processo di fallimento di tutta l’economia mondiale. Il ruolo di locomotiva dell’economia svolto dagli Stati Uniti da oltre 60 anni è ormai superato. Gli Stati Uniti lo stanno dimostrando pubblicamente. Essi non possono più continuare come prima, a prescindere dall’importo del riacquisto di una parte del loro debito da parte di paesi come la Cina o l’Arabia Saudita. Il loro proprio finanziamento è diventato un grande problema e, di conseguenza, sono da ora in poi incapaci di sostenere la domanda mondiale. Chi se ne farà carico al loro posto? La risposta è semplice: nessuno! La zona euro non può che andare di crisi in crisi, sia a livello di debito pubblico che privato, incamminandosi a breve verso l’esplosione di questa zona nella sua configurazione attuale. I famosi “paesi emergenti”, tra cui la Cina, sono, per quanto li riguarda, completamente dipendenti dai mercati americani, europei e giapponesi. Nonostante i loro costi di produzione molto bassi, questi ultimi anni mostrano che si tratta di economie che si sviluppano attraverso ciò che viene chiamato dai media una “bolla economica”, vale a dire un investimento enorme che non potrà mai essere redditizio. E’ lo stesso fenomeno che abbiamo ben conosciuto con quello che gli esperti ed i media hanno chiamato “crisi immobiliare” negli Stati Uniti e la “new economy” qualche anno prima. In entrambi i casi abbiamo assistito allo stesso risultato: un crollo. La Cina ha voglia di aumentare il costo del proprio credito, ma non c’è niente da fare. Dei crack minacciano l’Impero di Mezzo ad immagine di ciò che sta accadendo in Occidente. La Cina, l’India, il Brasile, lungi dall’essere i futuri poli di crescita dell’economia, non possono che prendere il loro posto nel processo di depressione mondiale. L’insieme di tutte queste crepe nell’economia sarà un potente fattore di destabilizzazione e di disorganizzazione di questa. Quello che sta accadendo attualmente negli Stati Uniti e nell’Eurozona spinge il mondo in una depressione e verso dei fallimenti che si alimentano a vicenda in maniera sempre più rapida e profonda. La tregua relativa che abbiamo avuto dalla metà del 2009 è dunque terminata. Il processo di bancarotta in cui l’economia capitalistica mondiale è adesso entrata non pone solo agli sfruttati del mondo intero la necessità di rifiutare di pagare gli effetti quotidiani di questa grave crisi del sistema. Con questo, non è più solo una questione di licenziamenti di massa o di riduzione dei nostri salari reali. Ciò che la situazione implica è l’avvio di un processo di generalizzazione della miseria, una incapacità crescente per tutti i proletari di soddisfare i loro bisogni più elementari. Questa prospettiva drammatica ci obbliga a comprendere che non è una forma particolare di capitalismo che sta crollando, come il capitale finanziario, per esempio, ma il capitalismo in quanto tale. E’ l’intera società capitalistica che viene trascinata verso l’abisso e noi con essa, se non reagiamo. Non vi è altra alternativa che il suo completo rovesciamento, che lo sviluppo della lotta di massa contro questo sistema putrescente, portatore di morte e senza futuro. Al fallimento del capitalismo dobbiamo opporre una nuova società in cui gli uomini non producano a vantaggio solo di alcuni, ma per soddisfare i bisogni umani, una società veramente umana, collettiva e solidale. Questa società è il comunismo (che non ha nulla a che fare con i regimi politici e i loro modelli economici di sfruttamento forniti dall’ex Unione Sovietica o dalla Cina). Questa società è necessaria e possibile al tempo stesso.
TX (14/08/2011)
[1] Si definisce depressione un lungo periodo di caduta dell’attività economica, come è avvenuto negli anni 1930. I media parlano oggi del rischio di una nuova “recessione”. Il governo americano definisce una “recessione” come un calo della produzione per tre trimestri consecutivi. Se possiamo definire il periodo attuale di depressione è perché il periodo di stagnazione e di declino della produzione, nel quale ci troviamo, non ha nulla a che vedere, come mostrato nel resto dell’articolo, con la durata limitata che definisce, secondo la classe dominante, una recessione.
[2] Le banche centrali creano sempre della moneta per permettere alla massa di merci create dal capitale nazionale di circolare; l’aumento della creazione di moneta dipende dunque, in tempi normali, dalla crescita della produzione. Di fatto, dall’inizio dell’aggravarsi della crisi nel 2007, le banche centrali hanno creato molta più moneta di quanto fosse necessario per la circolazione delle merci (che si sono globalmente ridotte nei paesi sviluppati), perché si è reso rapidamente necessario per loro acquistare dalle banche e dagli altri Stati dei titoli che non potevano essere rimborsati al loro valore da parte dei debitori. Nonostante questo aumento, poiché era diventato evidente che né le banche americane, né lo Stato americano erano in grado di rimborsare un gran numero di debiti, si è reso necessario alla Federal Reserve emettere più denaro di quanto il suo status e i suoi libri contabili avrebbero dovuto permettergli per riscattare questi debiti “imputriditi”. Così alla fine del 2009, ha deciso di emettere una somma supplementare di 1.700 miliardi di dollari (detto Quantitative Easing - QE n°1) e, nel novembre 2010, per lo stesso scopo, un nuovo importo di denaro chiamato QE n°2 di 600 miliardi di dollari.
[3] Il rating è un metodo utilizzato per classificare sia i titoli obbligazionari, che le imprese (vedi anche modelli di rating IRB [150] secondo Basilea 2 [151]) in base alla loro rischiosità. In questo caso, essi si definiscono rating di merito creditizio. AAA = indice di rating che corrisponde ad una situazione di elevata capacità di ripagare il debito. (https://it.wikipedia.org/wiki/Rating [152])
[4] Il Tea Party (https://it.wikipedia.org/wiki/Boston_Tea_Party [138]) è un movimento politico populista americano che é generalmente riconosciuto come conservatore e libertario. Sostiene la necessità che i governi spendano meno e che ci siano meno tasse in modo da ridurre il debito nazionale e il deficit budgetario federale.
[5] Nell’ambito della finanza viene definita come situazione di default (in italiano insolvenza) l’incapacità tecnica di un’emittente di rispettare le clausole contrattuali previste dal regolamento del finanziamento (da https://it.wikipedia.org/wiki/Default_%28finanza%29 [161]).
In Israele, nelle ultime tre settimane, centinaia di migliaia di persone hanno manifestato per le strade per protestare contro l’aumento vertiginoso del costo della vita, la crescente difficoltà per il ceto medio di farsi una casa, lo smantellamento dei servizi di welfare. I manifestanti chiedono “giustizia sociale”, ma molti parlano anche di “rivoluzione”. Essi non fanno mistero del fatto che sono stati ispirati dall’ondata di rivolte nel mondo arabo, ora diffusa in Spagna e Grecia. Il primo ministro israeliano Netanyahu, le cui politiche sfacciatamente di destra sembravano aver guadagnato un seguito popolare, viene improvvisamente confrontato con il dittatori d’Egitto (Mubarak, ora sotto processo per aver sparato contro i manifestanti) e della Siria (Assad, che sta ordinando stragi atroci contro una popolazione sempre più esasperata con il suo regime).
Come i movimenti nel mondo arabo ed in Europa, le manifestazioni e le tendopoli che stanno sorgendo in numerose città di Israele, e a Tel Aviv in particolare, sembrano provenire dal nulla: dei messaggi su Facebook, alcune persone che montano la tenda in piazza ... e da questo, da un week-end all’altro ci sono stati tra 50.000 e 150.000 dimostranti che marciano a Tel Aviv, (con più di 200.000 sabato 6 agosto) e forse un numero tre o quattro volte superiore di persone nell’intero paese, con una maggioranza di giovani.
Come negli altri paesi, i dimostranti si sono scontrati frequentemente con la polizia. Come negli altri paesi, i partiti politici ufficiali ed i sindacati non hanno svolto un ruolo di primo piano nel movimento, anche se sono certamente presenti. Le persone coinvolte nel movimento sono spesso legate ad idee di democrazia diretta e anche all’anarchismo. Un manifestante intervistato al telegiornale di RT news network cui era stato chiesto se le proteste erano state ispirate dagli eventi nei paesi arabi ha risposto: “C’è una grande influenza di quello che è successo in piazza Tahrir ... C’è una grande influenza naturalmente. Questo è quando la gente capisce che hanno il potere, che possono organizzarsi da soli, che non hanno più bisogno di un governo che dica loro cosa devono fare, ma che loro possono cominciare a dire al governo quello che vogliono”. Questi punti di vista, anche se esprimono solo l’opinione di una minoranza consapevole, certamente riflettono una sensazione molto più generale di disillusione con l’intero sistema politico borghese, sia nella sua forma dittatoriale che democratica.
Come i suoi omologhi altrove, questo movimento è storico nel suo significato, come osservato da un giornalista israeliano, Noam Sheizaf: “A differenza della Siria o della Libia, dove i relativi dittatori macellano i propri cittadini a centinaia, non è stata mai l’oppressione che ha garantito l’ordine sociale in Israele, per quanto riguarda la società ebraica. E’ stato invece l’indottrinamento - una ideologia dominante, per usare un termine preferito dai teorici critici. Ed é questo ordine culturale che è stato intaccato in questo giro di proteste. Per la prima volta, una parte importante della classe media ebraica - è troppo presto per valutare quanto grande sia questo gruppo - ha riconosciuto che il suo problema non è con altri israeliani, o con gli arabi, o con un politico determinato, ma con l'intero ordine sociale, con l'intero sistema. In questo senso, è un evento unico nella storia d'Israele”. È per questo che questa protesta ha un tale enorme potenziale. Questo è anche il motivo per cui non dobbiamo guardare solo la ricaduta politica immediata - non credo che vedremo la caduta del governo in tempi brevi - ma le conseguenze a lungo termine, la corrente sotterranea, che sicuramente arriverà”.[1]
Minimizzare l’importanza degli eventi
Eppure ci sono quelli che sono ben felici di sminuire il significato di questi eventi. La stampa ufficiale ha in grande misura ignorato del tutto gli avvenimenti. Ci sono da 800 a 1.000 giornalisti esteri accreditati a Gerusalemme (secondi per numero solo a quelli di Washington), che hanno solo cominciato a mostrare qualche interesse dopo che il movimento era già in corso da un paio di settimane. Dovremo cercare a lungo e duramente per avere qualche menzione di questo movimento in giornali “progressisti” come il Guardian o Socialist Worker in Gran Bretagna.
Un'altra questione è quella di etichettare questo come un movimento della “classe media”. E 'vero che, come per tutti gli altri movimenti, siamo di fronte a una rivolta sociale ampia che può esprimere l’insoddisfazione di molti diversi strati sociali, dai piccoli imprenditori ai lavoratori nei punti di produzione, tutti colpiti dalla crisi economica mondiale, un divario crescente tra ricchi e poveri e, in un paese come Israele, dall’aggravamento delle condizioni di vita per le insaziabili esigenze dell’economia di guerra. Ma “classe media” è diventata un’espressione vaga, onnicomprensiva che indica chiunque abbia un titolo di studio o un lavoro, e in Israele come in Nord Africa, Spagna o Grecia, un numero crescente di giovani istruiti sono spinti nei ranghi del proletariato, svolgendo lavori mal retribuiti e non qualificati, dove possono anche non trovare affatto alcun lavoro. In ogni caso, anche settori di classe operaia più “classici” sono stati coinvolti nelle manifestazioni: il settore pubblico e i lavoratori dell’industria, i settori più poveri dei disoccupati, alcuni dei quali immigrati non ebrei dall’Africa e da altri paesi del terzo mondo. C’è stato anche uno sciopero generale di 24 ore quando la federazione sindacale Histradut ha cercato di affrontare il malcontento dei propri membri.
Ma i più grandi detrattori del movimento sono quelli dell’estrema sinistra. Ecco ad esempio quello che viene riportato su uno dei post su libcom [163][2]: “Ho avuto una grande discussione con una dirigente del SWP del mio ramo sindacale, secondo la quale Israele non aveva una classe operaia. Le ho allora chiesto che guidava gli autobus, chi costruiva le strade, chi si occupava dei bambini, ecc., al che lei ha schivato la domanda ed ha farneticato su sionismo e occupazione”.
La stessa pagina di libcom contiene anche un link ad un blog gauchiste [164][3] che presenta una versione più sofisticata di questo argomento: “Certamente, ogni livello della società israeliana, dai sindacati ai sistemi di istruzione, le forze armate e i partiti politici dominanti, sono implicati nel sistema di apartheid. Questo è stato vero fin dall’inizio, nelle forme embrionali dello Stato israeliano costruito nel periodo del Mandato britannico. Israele è una società di coloni, e questo ha conseguenze enormi per lo sviluppo della coscienza di classe. Finché prospera sulla costruzione di avamposti coloniali, finché le persone identificano i loro interessi con l’espansione del colonialismo, ci saranno scarse prospettive che la classe operaia sviluppi un’azione indipendente rivoluzionaria. Non si tratta solo di una società di coloni, ma è anche una finanziata con risorse materiali dell’imperialismo americano”.
L’idea che la classe operaia israeliana rappresenti un caso particolare conduce molti gauchiste a sostenere che il movimento di protesta non dovrebbe essere sostenuto, o che dovrebbe essere sostenuto solo se prima esso prendesse posizione sulla questione palestinese: “Le proteste sociali sono state riconosciute come le più ampie che si siano svolte in Israele dagli anni 1970 e si prevede che provochino politiche di riforme o addirittura un rimpasto governativo. Ma finché le riforme non saranno indirizzate tutte sulle questioni che stanno al centro della situazione oppressiva e discriminatoria della casa in Israele, finché i cambiamenti di politica non mettono i Palestinesi su un piano di parità con gli Israeliani, finché gli annunci di sfratto non vengono più distribuiti per un capriccio, le riforme sono infondate e le proteste sono inutili”, da La protesta unilaterale, “liberale” per le case è un movimento a cui non vale la pena partecipare e neanche difenderlo, Sami Kishawi, Sixteen Minutes to Palestine blog.
In Spagna, tra i partecipanti al movimento 15M, dibattiti simili hanno avuto luogo, per esempio intorno ad una proposta secondo cui “i manifestanti israeliani dovrebbero essere sostenuti solo se “prendono una posizione come movimento sulla questione palestinese, denunciando chiaramente e apertamente l’occupazione, il blocco di Gaza e [chiedendo] la fine degli insediamenti” (dalla stessa pagina su Libcom).
Questi argomenti gauchiste ricevono una risposta nella pratica dello stesso movimento in Israele. Tanto per cominciare, la contestazione che sta avendo luogo nelle strade di Israele sta già sfidando la divisione tra ebrei, arabi ed altri. Alcuni esempi: a Jaffa, decine di manifestanti arabi ed ebrei portavano cartelli in ebraico e in arabo con la scritta “Arabi ed ebrei vogliono alloggi a prezzi accessibili”, e “Jaffa non vuole offerte per i soli ricchi”.
Attivisti arabi hanno creato un accampamento nel centro di Taibeh[4] e centinaia di persone lo visitano ogni sera. “Questa è una protesta sociale derivante dal disagio profondo nella comunità araba. Tutti gli arabi soffrono per il costo della vita e la carenza di alloggi” ha detto uno degli organizzatori, il dott. Zoheir Tibi. Un certo numero di giovani drusi[5] hanno piantato tende al di fuori dei villaggi di Yarka e Julis nella Galilea occidentale. “Stiamo cercando di attirare tutti alla tenda per farli unire alla protesta” ha detto Wajdi Khatar, uno degli iniziatori della protesta. Un campo comune ebraico e palestinese è stato costituito nella città di Akko, così come nella parte orientale di Gerusalemme dove ci sono state proteste continue sia di ebrei che di arabi contro gli sfratti di questi ultimi dal quartiere di Sheikh Jarrah. A Tel Aviv, ci sono stati contatti con i residenti dei campi profughi nei territori occupati, che hanno fatto visita alle tendopoli e si sono impegnati in discussioni con i manifestanti[6].
Al Levinsky Park, nel sud di Tel Aviv, dove la seconda più grande tendopoli della città ha resistito per quasi una settimana, lunedì 1° agosto oltre un centinaio di migranti africani e di rifugiati si sono riuniti per una discussione [165] sulle proteste che si stanno svolgendo in tutta Israele sulla qualità della vita.
Non c’è motivo di rassegnarsi all’austerità
Numerosi manifestanti hanno espresso la loro frustrazione per il modo in cui viene utilizzato il ritornello incessante sulla “sicurezza” e la “minaccia del terrorismo” per far sopportare la crescente miseria economica e sociale. Alcuni hanno apertamente messo in guardia rispetto al pericolo che il governo possa provocare scontri militari o addirittura una nuova guerra per ripristinare l’“unità nazionale” e dividere così il movimento di protesta[7]. Apparentemente, il governo Netanyahu al momento sembra essere sulla difensiva, colto di sorpresa e alla ricerca di contentini da offrire per raffreddare il movimento. Resta il fatto che c’è davvero una consapevolezza crescente che la situazione militare e la situazione sociale siano strettamente collegate.
Come sempre, la situazione materiale della classe lavoratrice è la chiave per lo sviluppo della coscienza, e il movimento sociale attuale sta fortemente accelerando la possibilità di inquadrare la situazione militare da un punto di vista di classe. Il proletariato israeliano, spesso descritto dalla sinistra del capitale come una casta “privilegiata” che vive sulla miseria dei palestinesi, paga attualmente molto pesantemente lo sforzo bellico israeliano a livello di vite umane, danni psicologici e impoverimento materiale. Un esempio molto preciso legato ad una delle questioni chiave che stanno dietro il movimento attuale é quello degli alloggi: il governo sta riversando una quantità enormemente sproporzionata di denaro nella costruzione di insediamenti nei territori occupati piuttosto che aumentare lo stock di abitazioni nel resto di Israele.
L’importanza dell’attuale movimento in Israele, nonostante tutte le sue confusioni ed esitazioni, è che esso ha confermato molto chiaramente l’esistenza dello sfruttamento di classe e del conflitto di classe all’interno dell’apparente monolite nazionale di Israele. La difesa delle condizioni di vita della classe operaia si scontrerà inevitabilmente con la richiesta di sacrifici per la guerra; di conseguenza, tutte le questioni politiche concrete poste dalla guerra dovranno essere sollevate, discusse e chiarite: le leggi sull’apartheid in Israele e i territori occupati, la brutalità dell’occupazione, la coscrizione, fino all’ideologia del sionismo e al falso ideale dello Stato ebraico. Certo, queste sono questioni difficili che possono provocare divisioni e vi è stata una forte attenzione a cercare di evitare di sollevarle direttamente. Ma la politica ha un modo di introdursi in ogni conflitto sociale. Un esempio di ciò è stato il crescente conflitto tra i manifestanti e i rappresentanti di estrema destra, i Kahanists che vogliono espellere gli arabi da Israele ed i coloni fondamentalisti che vedono i manifestanti come traditori.
Ma non si farebbe nessun passo avanti se il movimento respingesse queste ideologie di destra e adottasse le posizioni dell’ala sinistra del capitale: sostegno al nazionalismo palestinese, per una soluzione con due Stati o uno “Stato democratico laico”. L’attuale ondata internazionale di rivolte contro l’austerità capitalista sta aprendo la porta a tutt’altra soluzione: la solidarietà di tutti gli sfruttati al di là di ogni divisione religiosa o nazionale; la lotta di classe in tutti i paesi con l’obiettivo finale di un mondo nuovo che sarà la negazione dei confini nazionali e degli Stati. Uno o due anni fa una tale prospettiva sarebbe sembrata completamente utopica ai più. Oggi, un numero crescente di persone si rende conto che una rivoluzione globale costituisce un’alternativa realistica al collasso dell’ordine del capitalista globale.
Amos 7/8/11
[1] Vedi: The real importance of the tent protest [166]
[2] Libcom (abbreviazione di libertarian communism) é un sito web libertario-comunista che ospita anche forum, blog, ecc.
[3] Il termine gauchiste, che per il dizionario di lingua italiana rappresenta chi “milita nella o simpatizza per la sinistra extraparlamentare” (Sabatini Coletti), ha per noi più in generale il significato di chi si fa portatore di una ideologia di sinistra e soprattutto di estrema sinistra borghese.
[4] Taibeh: città della Cisgiordania che dista 30 km a Nord-Est di Gerusalemme.
[5] Il termine Drusi indica i seguaci di una religione, di derivazione musulmana.
[6] Uno degli israeliani che prendeva parte a questi incontri ha descritto gli effetti positivi [167] che le discussioni hanno avuto sullo sviluppo della consapevolezza e della solidarietà: “I nostri ospiti, alcuni con un pio copricapo, ascoltano attentamente la storia relativa ai giovani della classe media ebraica, che sono senza un posto dove vivere, studiare e lavorare. Le tende sono così tante, così piccole. Annuiscono con stupore, esprimendo simpatia o forse anche un certo piacere per le nuove potenzialità che si aprono sul piano della solidarietà. Una lingua tagliente si affretta allora a fare una battuta a cui nessuno di noi avrebbe mai pensato: “Hada Muchayem Lajiyin Israeliyin” – “Un campo profughi per gli israeliani”, esclama.
“Ridiamo a questa battuta intelligente. Nessuna somiglianza di certo - o forse solo un po’, dopo tutto. I giovani di Rothschild [si tratta di Rothschild Boulevard, una delle principali arterie di Tel Aviv, ndr] (che Allah li aiuti, che le loro proteste portino loro dei frutti), sono presumibilmente in grado di alzarsi in qualsiasi momento e di tornare alla vita triste cui erano abituati prima di stabilirsi nel torrido Boulevard. Tuttavia, essi sono condannati a vita ai margini inferiori della catena israeliana di alloggi - senza proprietà, senza terra e senza tetto per loro. Alcune delle donne che abbiamo con noi questa sera - esuberanti, piene di curiosità e amanti del divertimento - hanno vissuto in “veri” campi profughi per la gran parte della loro vita. Alcune sono nate lì, altre si sono sposate e si sono trasferite per condividere il destino di famiglie numerose concentrate in case fatiscenti che erano partite all’inizio come tende provvisorie alla periferia delle città e villaggi della West Bank molti anni fa.
“I residenti arrabbiati dei “campi profughi” di Israele in tutto il paese stanno attraversando in questi giorni un processo di risveglio dalla falsa coscienza che li ha portati a questo momento delicato dell’estate del 2011. Non è un processo facile, ma vale la pena fare lo sforzo per andare alla radice dei nostri problemi. Quelli di noi, che ebbero il privilegio lo scorso fine settimana di ballare, cantare e di abbracciarsi su un terrazzo di Tel Aviv con i nostri amici provenienti dai villaggi e dai campi profughi dei territori occupati, non accetteranno mai di rinunciare al caldo contatto umano con le persone che un tempo consideravamo nemici. Basti pensare a quanti buoni appartamenti potrebbero essere prodotti con il patrimonio sprecato nel corso dei decenni per fortificare lo stupido concetto che tutti quelli che non sono ebrei costituiscono un “pericolo per la nostra demografia”.
[7] Si veda ad esempio l’intervista con Stav Shafir su RT news [168].
Questa violenta accelerazione degli attacchi è l’immediata conseguenza di un nuovo aggravamento della crisi economico-finanziaria scoppiata nel 2008 e che non era mai stata superata, al di là di una relativa ed effimera ripresa della produzione.
Ed infatti i motivi che l’hanno provocata nel 2008 non solo sono tutti lì, ma si sono anche aggravati: i debiti sovrani, cioè i debiti degli Stati, sono ulteriormente aumentati, sia per l’aiuto dato alle banche per salvarle dal fallimento (almeno per alcuni Stati come gli USA), sia per la mancanza di nuove entrate dovuta alla stagnazione dell’economia, un’economia che non è ripartita perché alla base della crisi c’è una carenza di mercati solvibili, cioè di mercati capaci di assorbire, pagandole, tutte le merci che si producono.
Se la “speculazione” si è scatenata contro gli stessi Stati è perché, dopo il venir meno della credibilità (cioè della solvibilità) degli istituti finanziari, è la solvibilità degli Stati a diventare critica: le minori entrate degli Stati, in diminuzione per la recessione, mettono in pericolo la capacità di questi di pagare gli interessi del debito accumulato, il che significa che, per poter convincere il mercato a comprare i propri titoli, gli Stati devono aumentare i loro rendimenti, con il conseguente aggravamento del debito, e così via.
Perciò gli Stati non hanno altra strada che quella di ridurre le proprie spese e cercare di rastrellare risorse dall’insieme della popolazione, ed, evidentemente, in primo luogo dalla classe operaia[2].
E’ quello che da più di due anni sta facendo il governo greco, che ha varato misure di austerità mai viste prima, da nuove tasse su tutto al licenziamento del 20% degli impiegati statali (in Italia una misura di questo tipo significherebbe più di 600.000 licenziamenti).
E’ quello che sta facendo il governo Berlusconi e non solo da questa estate: al blocco dei salari dei lavoratori del P.I. ormai da due anni (e il blocco degli scatti di anzianità significa, per quelli che l’avrebbero maturato in questi anni, la perdita di più di mille euro all’anno, ben più di quello che veniva richiesto con il cosiddetto contributo di solidarietà ai redditi, per es., di 100.000 euro), al licenziamento di più di 100.000 precari della scuola, il più grosso piano di licenziamenti che ci sia mai stato in Italia e passato quasi sotto silenzio (se non fosse per le lotte dei precari), ai ticket sulle ricette per i medicinali si aggiungono ora le misure prese in queste due ultime manovre estive:
Per tornare alla questione economica, ci siamo limitati a ricordare le misure più importanti che il governo ha preso sotto la spinta degli attacchi della speculazione, che rischiavano di far salire gli interessi sui BOT a valori insostenibili per lo Stato. Una speculazione che, da un lato, deriva dalla situazione di perdita di fiducia anche verso gli Stati sovrani e la loro capacità di far fronte ai propri debiti, ma che per l’Italia si acuisce per la presenza di un governo che sempre più si mostra non all’altezza della drammatica situazione economica. Se ne è avuto conferma nella confusione che ha accompagnato il varo di queste due manovre: la prima è stata giudicata, dai mercati e dalla BCE, non abbastanza efficace, almeno per i tempi di attuazione; la seconda ha avuto 4 riscritture prima di arrivare a quella che abbiamo descritto sopra. In più molte delle misure prese, se certamente significano sacrifici ulteriori per i lavoratori e la popolazione, non garantiscono affatto una uscita dalla crisi, anzi alcune hanno effetti controproducenti tali da annullare i benefici che portano al bilancio dello Stato:
La conseguenza di tutto questo è che presto ci vorranno altre manovre, altri sacrifici; e non siamo solo noi a dirlo, ma molti commentatori borghesi stessi: già si vocifera di un intervento più massiccio sulle pensioni, con il probabile allungamento dell’età lavorativa se non la riduzione pura e semplice delle pensioni di anzianità. E’ per questo che si parla ancora di un nuovo governo, un governo più ampio, che abbia la forza e il coraggio di prendere ulteriori misure antipopolari, e magari più efficaci (che è la vera critica che tutta l’opposizione fa a Berlusconi, un leader sempre più preso dai suoi affari personali e che non difende abbastanza gli interessi del capitale nazionale).
Insomma la borghesia si prepara a sferrare nuovi e più pesanti attacchi ai lavoratori, a questi tocca tirare le somme di quanto sta accadendo e prepararsi a loro volta a rispondere agli attacchi con le loro lotte.
Helios, 20/09/2011
[1] Poiché le due manovre si sommano e la seconda riprende anticipando alcune misure prese nella prima, è anche difficile sapere esattamente il valore della cifra che le due manovre si propongono di recuperare.
[2] Per una analisi più approfondita della situazione economica mondiale, vedere l’articolo Crisi economica mondiale: un’estate micidiale [170] e la parte sulla crisi della Risoluzione sulla situazione internazionale del XIX congresso della CCI [171], entrambi pubblicati su CCI online.
[3] Dobbiamo ricordare Termini Imerese, Eutelia, Irisbus, …?
La maggioranza ha tirato un sospiro di sollievo dopo il voto di fiducia dato alla nuova manovra per aver allentato finalmente la pressione dei mercati, della UE e del presidente Napolitano. Ma sembrerebbe che anche l’opposizione parlamentare, nonostante le polemiche di facciata, abbia tratto vantaggio dal passaggio secco di questa manovra. Come dice La Stampa dell’8 settembre riguardo al voto al Senato: “Il voto di fiducia è stato chiesto per evitare sorprese e per abbreviare i tempi di approvazione, malgrado Pd e Terzo polo avessero deciso di dare il via libera alla manovra entro oggi rinunciando a molti emendamenti e riducendo al minimo gli interventi nel dibattito generale.”[1] In altri termini le opposizioni si sono risparmiate finanche di fare quel minimo di sfoggio di opposizione di fronte a delle misure che andavano prese in ogni caso perché, contrariamente a quanto vorrebbero far credere, il problema non è Berlusconi e il suo governo ma la crisi economica internazionale che colpisce tutto il mondo, nessun paese escluso, e che richiede dappertutto misure di una severità del tutto inedita. D’altra parte le opposizioni attuali, ed in particolare le sinistre, si sono già tante volte sporcate le mani nell’appoggiare o nel promuovere in prima persona - quando erano al governo - misure vergognose contro i lavoratori: lo hanno fatto a luglio scorso con la finanziaria, quando hanno difeso “l’onorabilità” dell’Italia nel pagamento del debito pubblico per evitare l’abbassamento del rating; lo hanno fatto votando a favore delle varie missioni di guerra all’estero o conducendo in prima persona la guerra, come per l’intervento contro la Serbia del governo D’Alema nel 1999; lo hanno fatto stravolgendo il mercato del lavoro con l’introduzione legale del precariato e garantendo di fatto il mantenimento e lo sviluppo del lavoro nero, ed ancora appoggiando o promuovendo le più grandi manovre finanziarie come al solito pagate dai lavoratori, come la sonora batosta che dette il governo di “sinistra” Amato. E se qualcuno avesse speranze di un ravvedimento per il futuro, si legga quello che ha detto il “sinistro” del PD Veltroni nel suo intervento alla Camera del 14 settembre: “Non manovre, riforme. Subito un Governo con un ampio sostegno parlamentare che possa affrontare l’emergenza e compiere le scelte più dolorose. È quello che fecero, con successo, Giuliano Amato e Carlo Azeglio Ciampi.”[2] Appunto quello che dicevamo! Infatti, le scelte dolorose dei due ex presidenti del consiglio nominati consisterono non solo nel fare man bassa sui conti correnti di tutti gli italiani, racimolando soldi anche dai pensionati, ma anche nel fare tagli e licenziamenti nelle ferrovie e nella scuola, nell’applicare ticket al servizio sanitario. In realtà, quello che la sinistra rimprovera a Berlusconi non è di non fare tagli, ma di non essere capace di affondare fino in fondo il coltello.
Ma, al di là dell’opposizione parlamentare, quali sono le proposte che girano. E’ possibile che ci sia una maniera per risolvere il problema del debito senza intaccare i lavoratori? E chi se ne fa portavoce? Dappertutto è un fiorire di iniziative e discussioni, soprattutto sui social network come Facebook, su come risolvere la questione del debito dello Stato, del deficit, e far riprendere l’economia. Ma quello che caratterizza l’insieme delle proposte è un muoversi all’interno delle compatibilità del sistema capitalista. Molti infatti non credono che sia possibile una società alternativa al capitalismo e si danno da fare per lanciare proposte atte a far quadrare i bilanci di questa società. Ma è possibile?
Si può combattere meglio l’evasione fiscale?
Una prima riguarda la tanto invocata questione dell’evasione fiscale. Per l’Italia effettivamente ci sarebbe da fare non pochi soldi se si potessero mettere le mani su quello che altri non pagano:
“Dieci finanziarie ogni anno. È l'ammontare dell’evasione fiscale in Italia: ogni anno circa 300 miliardi di euro di imponibile vengono sottratte all’erario. Di queste, l’evasione di imposte dirette è 115 miliardi di euro, l'economia sommersa sottrae 105 miliardi, la criminalità organizzata 40 miliardi e 25 miliardi chi ha il secondo o terzo lavoro. La stima è stata fatta da Krls Network of Business Ethics per conto di Contribuenti.it, Associazione contribuenti italiani, elaborando dati ministeriali e dell’Istat.”[3]
E’ proprio su questo che ad esempio punta il dito una serie di associazioni a livello internazionale, legate da una parola d’ordine: “Chiudiamo i paradisi fiscali”[4], e la cui posta viene rincarata da Beppe Grillo quando, rispondendo al presidente dei vescovi italiani cardinale Bagnasco che se la prende con gli evasori fiscali, aggiunge sul suo blog: “Mi trovo per una volta perfettamente d’accordo con Angelo Bagnasco, il presidente dei vescovi. Le sue parole[5] sono miele del deserto (…). Bagnasco dovrebbe far seguire alle parole i fatti, alla predica l’esempio. Proponga il pagamento dell'ICI sui beni immobiliari del Vaticano, ora esenti. Un patrimonio di circa 100.000 fabbricati sui quali non vengono pagati 2 miliardi all'anno[6]. Anche il Vaticano deve fare la "propria giusta parte"”[7].
Il problema è però che l’obiettivo è semplice a dirsi ma complicato da portare avanti. Infatti, se facciamo riferimento alla distribuzione dei 300 miliardi di dollari riportati nella citazione precedente, si capisce come questi non sono capitali che sfuggono all’erario ma sono soltanto l’espressione del particolare funzionamento del capitale nazionale italiano che, con la complicità dei vari governi, trattiene per sé quote di capitale da versare come imposte o perché lavora completamente in nero, come nel caso delle varie mafie, che non sono altro che pezzi di economia che si sono “guadagnate” sul campo una completa indennità fiscale. Incidere su questi capitali nascosti significa per un governo attaccare la stessa classe che rappresenta, e certamente questa non è un’operazione facile da portare avanti. Non è un caso che tutti i governi fanno grandi discorsi contro l’evasione fiscale ma ben pochi fatti. Per quanto poi riguarda la campagna di Grillo sull’applicazione dell’ICI alle proprietà del Vaticano, si tratta di solo 2 miliardi di euro che veramente non cambiano la situazione.
Si possono ridurre o azzerare le spese militari?
Una seconda idea, che viene fuori da tutta l’area pacifista e di sinistra più o meno radicale[8], è quella di azzerare le spese militari, di rinunciare alla partecipazione alle missioni di guerra e, più recentemente, di non acquistare i 131 cacciabombardieri F-35[9]. Il costo di questi caccia è di 16 miliardi di euro, anche se la spesa è spalmata fino al 2026. Ma può uno Stato capitalista privarsi del rinnovo del suo armamentario bellico? Dire di sì significa credere che l’Italia ha inviato l’esercito in Afghanistan, in Libano, nella ex Jugoslavia e altrove per proteggere la popolazione locale e costruire scuole, ospedali ecc. e non per affermare il suo ruolo imperialista nel mondo. D’altra parte per convincersi del grande amore che lo Stato italiano nutre per le popolazioni dei paesi in difficoltà, basta vedere quello che fa per proteggere i profughi che arrivano in Italia, ch sono trattati come clandestini e lasciati in completo abbandono. Dire ad uno Stato che non deve avere armi significa dire ai mafiosi di presentarsi con la chitarra a chiedere i soldi e di mettersi l’avvocato se i commercianti non pagano il pizzo.
Ma perché pagare i debiti dello Stato? Perché non fare come l’Islanda?
Che dire poi della proposta di non pagare il debito estero[10] come sta facendo l’Islanda? In verità, prima di tutto bisogna correggere l’informazione: non si tratta di un debito contratto dallo Stato islandese con banche o Stati esteri. Lo Stato islandese ha nazionalizzato le tre più importanti banche locali, privatizzate nel 2003, poi fallite con la crisi degli anni scorsi. In queste banche avevano investito in conti di risparmio online (IceSave) molti cittadini inglesi e olandesi per i rendimenti elevati. Rendimenti che avevano attratto quantità eccezionali di denaro che superavano di molte volte il Pil nazionale. Dopo il fallimento delle banche, gli investitori esteri sono stati risarciti dai loro governi, soprattutto Gran Bretagna e Olanda, che poi hanno chiesto il rimborso al governo islandese. Data l’enormità della somma da rimborsare rispetto alle esigue finanze di uno Stato da 320 mila abitanti, la popolazione si è rifiutata, attraverso un referendum, di pagare il debito[11]. A prima vista non è successo niente all’Islanda, non sono state viste cannoniere o portaerei all’orizzonte, ma ha avuto il rating del debito sovrano abbassato da Moody's e S&P quasi a spazzatura. Chi presterà più soldi all’Islanda?[12]
Quindi non si tratta di un debito sovrano e soprattutto riguarda uno Staterello. Nel caso, come propongono vari gruppi di estrema sinistra, che l’Italia o la Grecia facessero lo stesso non pagando il loro debito contratto con le istituzioni estere, le cose non andrebbero altrettanto lisce. L’economia sarebbe privata di qualunque aiuto internazionale se non a tassi elevatissimi, tutte le forniture di merci e servizi dall’estero sarebbero sospesi (vedi tra l’altro una quota del 20% dell’energia elettrica consumata nel paese), e il paese crollerebbe in un caos indicibile.
Togliere ai ricchi per dare ai poveri! La colpa è tutta dei banchieri! La società si deve disfare del parassitismo e degli speculatori!
Queste parole d’ordine partono dall’idea che i soldi ci stanno e che basta cercarli dove sono nascosti. Che la società ha tutti i numeri per funzionare bene se non ci fossero i banchieri egoisti e truffatori, se non ci fossero i parassiti e gli speculatori. Ma questa è una falsa impostazione, una mistificazione che serve solo a nascondere alla gente che, all’interno di questo sistema, non c’è niente da fare, non c’è più alcuna possibilità di trovare misure di rilancio dell’economia. E’ questa la posizione che cercano di portare, naturalmente solo a voce, l’insieme dei sindacati e più in generale la sinistra borghese, dal PD a Rifondazione Comunista. In realtà, se si ragiona nel quadro delle compatibilità di questo sistema economico, non si può trovare alcuna soluzione alla crisi del debito, ed in generale dell’economia, semplicemente perché questa crisi non ha soluzione. Questa crisi infatti non è dovuta al gioco spregiudicato di qualche investitore o ai consumi eccessivi di qualche popolazione, ma solo ai meccanismi intrinseci del sistema capitalista che ormai sono andati irreversibilmente in panne[13].
Ma allora, possiamo almeno affidarci ai sindacati?
Per quanto poi riguarda i sindacati, ovvero quelle organizzazioni create dagli stessi lavoratori a costo di lotte lunghe e penose durante la seconda metà del 19° secolo, oggi come oggi queste stesse organizzazioni o si schierano sistematicamente a fianco delle misure governative, come fanno quasi sempre CISL, UIL, UGL, oppure conducono una lotta semplicemente simbolica, come nel caso della CGIL che ha dedicato alla manovra uno sciopero generale il 6 settembre scorso a cui non è seguito nulla più e dopo il quale la manovra è passata liscia come l’olio, trasmettendo di fatto ai lavoratori l’idea che quello che si poteva fare era stato fatto e che di più non si poteva. La verità è che dei sindacati non ci possiamo fidare perché anche loro portano avanti una politica che si muove all’interno delle compatibilità del capitalismo. Finché pensiamo che dobbiamo preoccuparci di risanare i debiti dello Stato, non riusciremo mai a venir fuori da questa logica che ci imprigiona, che ci impedisce di liberare il nostro pensiero, di immaginare che la nostra vera prospettiva è nella lotta senza precondizioni e senza frontiere perché il proletariato non ha nazione e non ha confini. Ma le spinte che vengono dai paesi del nord Africa, dalla Spagna, dalla Grecia e più di recente da Israele aiutano la classe dei proletari a riflettere e a liberarsi dalle false preoccupazioni e ad unirsi alla marea internazionale di lotte che è in corso.
Oblomov,17/9/2011
[1] www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/419109
[2] www.camera.it/668?idSeduta=518&resoconto=stenografico&indice=completo&tit=0 [172] oppure beta.partitodemocratico.it/doc/216473/con-la-fiducia-numero-50-passa-alla-camera-una-manovra-iniqua.htm
[3] www.corriere.it/economia/08_settembre_20/evasione_fiscale_ac39d4b0-8701-11dd-bd39-00144f02aabc.shtml [173]
[7] www.beppegrillo.it/2011/08/lici_del_vatica/index.html [177] “Un patrimonio di circa 100.000 fabbricati sui quali non vengono pagati 2 miliardi all’anno. Anche il Vaticano deve fare la “propria giusta parte”.
[8] Vedi ad esempio il PCL di Marco Ferrando: www.pclavoratori.it/files/index.php?obj=APP&oid=1558 [178].
[10] E’ la proposta che in Italia viene portata avanti ad esempio dal PCL di Marco Ferrando. Vedi www.pclavoratori.it/files/index.php?obj=APP&oid=1558 [178].
[11] Breve storia della questione: promotori.bancaipibi.it/Sergio-Ardemagni/2011/04/13/debito-sovrano-lislanda-rifiuta-i-risarcimenti-a-gran-bretagna-ed-olanda
[12] Vedi l’evoluzione del rating dell’Islanda riportata nel sito seguente: www.sedlabanki.is/?PageID=789 [180]
Solo pochi anni fa, uomini politici come David Milliband (allora ministro degli Esteri britannico) e il presidente francese Nicolas Sarkozy lustravano le scarpe al presidente siriano Bashar al-Assad e al suo regime di assassini e di torturatori, ma oggi le democrazie occidentali gli chiedono in coro di dimettersi. Le potenze Usa, Gran Bretagna, Germania e Francia hanno finora dimostrato una complicità molto prudente, ma reale, nella repressione e nelle atrocità dell’esercito siriano, permettendo alle potenze regionali più piccole di esercitare delle pressioni, pur sostenendo le proprie forze “d’opposizione” all’interno del regime (per esempio, l’appoggio della Gran Bretagna ad un importante leader dissidente, Walid al-Bunni e al suo entourage ). A metà agosto, le grandi potenze di cui sopra, con l’Unione europea, hanno congiuntamente invitato Assad a ritirarsi e minacciato di possibile arresto diverse figure di spicco del regime. Alcuni rapporti indicano che gli Stati Uniti hanno chiesto alla Turchia di non mantenere la sua “zona cuscinetto” rispetto alla Siria e di prendere le distanze rispetto ad una tale provocazione. Tuttavia, gli Stati Uniti hanno notevolmente rafforzato la loro presenza navale nel Mediterraneo al largo delle coste siriane, nel mare Egeo, nell’Adriatico e nel Mar Nero, con una particolare concentrazione in termini di missili anti-missile e di marines. Le democrazie occidentali non si curano affatto della sofferenza della popolazione siriana: tra le altre cose, sono anni che la Gran Bretagna fornisce armi all’esercito siriano per permettergli di reprimere. Ciò che temono di più è che la possibile eliminazione di Assad possa creare una maggiore instabilità e pericoli da parte di “diavoli che ancora non si conoscono”: l’Iran, in particolare, occupa un posto particolarmente importante negli incubi dei ministeri degli Esteri dei paesi occidentali. Tuttavia, l’Arabia Saudita, che ha inviato le sue truppe nel Bahrain per schiacciare le dimostrazioni, è sempre più preoccupata per il crescente rapporto strategico tra la Siria e l’Iran, incluso il loro sostegno a Hezbollah e ad Hamas. Inoltre, “Da qualche tempo, vi sono voci che l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti e il Kuwait finanziano tranquillamente degli oppositori siriani.”[1]
Il caos delle relazioni imperialiste e le crescenti tensioni tra Stati Uniti e Iran
Ai tempi del mondo bipolare della NATO e del Patto di Varsavia, tutto era relativamente semplice nei rapporti imperialistici, ma il crollo dei blocchi ha liberato delle forze centrifughe. Oggi, le alleanze e le rivalità tra le nazioni cambiano in funzione di come tira il vento imperialista dominante. Anche se le relazioni tra Turchia, Iran, Israele, Siria, nelle loro diverse combinazioni, hanno mostrato cambiamenti nel recente passato, la pietra angolare della politica americana e dei suoi necessari piani di guerra è di proteggere Israele e di tenere sotto tiro l’Iran. Una riconciliazione tra Iran e Stati Uniti non è impossibile, ma con il corso degli eventi, uno scontro militare appare più probabile, soprattutto considerando la politica aggressiva che l’imperialismo USA è spinto a condurre per mantenere il suo ruolo di padrino nel mondo.
Le incessanti difficoltà americane in Iraq e la loro tendenza generale a indebolirsi, mantengono in ebollizione l’influenza iraniana in questo paese, soprattutto attraverso la maggiore forza in Iran, i Corpi delle Guardie Rivoluzionarie di Al-Qods. Secondo un rapporto di The Guardian (28 luglio), questa forza tira praticamente le fila del governo iracheno rispetto a quella che è stata una vera guerra tra gli Stati Uniti e gli agenti dell’Iran in Iraq nel corso degli ultimi 8 anni. L’anno scorso, in occasione della riunione a Damasco che ha formato l’attuale governo iracheno, il generale Suleiman, capo di Al-Quds, “era presente (...) con i dirigenti di Siria, Turchia, Iran e di Hezbollah: li ha costretti tutti a cambiare idea e a incoronare Malaki come leader per un secondo mandato”. Il rapporto continua dicendo “che, ad eccezione di due soldati uccisi in Iraq a giugno, da due anni a questa parte il maggior numero di soldati americani sono stati uccisi per opera delle milizie sotto il controllo (della Guardia Rivoluzionaria): le Brigate di Hezbollah e le Brigate del Giorno della Promessa”. L’ambasciatore statunitense in Iraq aveva già riferito che gli agenti iraniani sono responsabili per circa un quarto delle vittime americane in Iraq (1100 morti e migliaia di feriti).
La crescente influenza iraniana in Iraq, lo è anche in Siria. Secondo il Wall Street Journal del 14 aprile anonimi funzionari statunitensi hanno detto che l’Iran ha aiutato le forze di sicurezza siriane nella repressione contro i manifestanti. La Siria è da tempo un corridoio per le armi e l’influenza iraniana verso Hamas a Gaza ed Hezbollah in Libano. Questa influenza è aumentata dopo il ritiro siriano dal Libano nel 2005 e con l’indebolimento delle forze filo-americane nel paese. Anche se hanno i loro propri interessi nazionali da difendere, e anche se hanno delle divergenze – ad esempio su Israele - Damasco e l’Iran vedono la loro alleanza più forte che mai e anche se l’Iran preferirebbe che la clicca Assad resti al potere, nel caso cadesse, allora i loro “partner” lavorerebbero per installare un regime ancora più filo-iraniano.
Nel maggio 2007, l’Istituto Americano per la Pace segnalò che le relazioni tra l’Iran e la Siria si erano approfondite. Non c’è dubbio che l’Iran stia aumentando la propria presenza nel paese. Nel 2006 è stato firmato un nuovo patto di mutua difesa, oltre che un ulteriore accordo di cooperazione militare a metà del 2007. Gli investimenti e gli scambi tra i due paesi sono aumentati e le difficoltà economiche della Siria, con l’impatto dell’aggravarsi della crisi, non possono che rafforzare l’influenza dell’Iran sul paese. In effetti, lo sviluppo della crisi economica sembra rendere più improbabile che gli Stati Uniti siano in grado di espellere l’Iran dalla Siria.
Il ruolo della Turchia
Tutto questo non è una buona notizia per gli interessi dell’imperialismo turco e le sue aspirazioni a giocare un ruolo importante nella regione. Le ondate di profughi siriani sono state un gran problema per la borghesia turca e il primo ministro turco Erdogan ha condannato la “barbarie” del regime siriano. Ugualmente preoccupante è il colpo portato ai suoi sforzi per eliminare il Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK) nel sud-est. The Guardian (Simon Tisdall, World Briefing, 09/08/11) riferisce che molti combattenti del PKK nella regione, compresa la Turchia, Siria, Iran e Iraq sono di origine siriana e ricorda la polveriera degli anni 90, quando la Turchia e la Siria stavano per entrare in guerra per questo. Gli attacchi del PKK contro le truppe turche e i successivi raid aerei, il 17 e 18 agosto nel nord dell’Iraq, non sono certo estranei a un aumento della tensione. Teheran ha anche respinto tutti i tentativi turchi di agire come mediatore con le potenze occidentali.
Naturalmente, la popolazione che si batte in Siria contro la miseria e la povertà ha dimostrato un coraggio straordinario, ma l’estrema debolezza della classe operaia nella regione rendono questi combattenti vulnerabili alla peggiore ideologia borghese: l’imbrigliamento imperialista. Perché tutte le frazioni presenti, al potere o all’opposizione, così come le “grandi democrazie” coinvolte in questo conflitto, utilizzano senza alcuna vergogna le popolazioni locali come carne da cannone per difendere i loro sordidi interessi di cricca.
Baboun, 20/08/11
Dicembre 2011- Gennaio 2012
C’è stato un tempo, non così lontano, in cui i rivoluzionari non incontravano che scetticismo, derisione o scherno quando affermavano che il sistema capitalista stava andando verso la catastrofe. Oggi a dirlo sono i più accesi sostenitori del capitalismo “Il caos è qua, proprio davanti a noi”[1] (Jacques Attali, ex collaboratore del presidente Mitterrand, ex direttore del BERS[2] e, attualmente, consigliere del presidente Sarkozy). “Io credo che non vi rendiate conto che tra due giorni, o una settimana, il nostro mondo potrebbe sparire. È Armagedon… Siamo prossimi ad una grande rivoluzione sociale”[3] (Jean-Pierre Mustier, ex banchiere di Société Générale e attualmente vice direttore generale di UniCredit). Non è volentieri che questi difensori del capitalismo ammettono che il loro idolo è moribondo. Ne sono evidentemente dispiaciuti, tanto più che prendono atto che le soluzioni che propongono per salvarlo sono irrealistiche. Come sottolinea la giornalista che riporta i propositi di Jean-Pierre Mustier: “Per le soluzioni, ci si aspettava di più”. E a ragione!
Non sono certamente coloro che pensano sia impossibile un altro sistema, nonostante la loro lucidità sulle prospettive del capitalismo, a poter proporre delle soluzioni alla catastrofe che oggi si abbatte sull’umanità. Perché in questo sistema non c’è soluzione alle contraddizioni del capitalismo. Le contraddizioni con cui si scontra sono insormontabili perché non dipendono dalla “cattiva gestione” di questo o quel governo o dalla “finanza internazionale” ma semplicemente dalle stesse leggi su cui esso si fonda[4]. É solo uscendo da queste leggi, sostituendo il capitalismo con un’altra società, che l’umanità potrà superare la catastrofe nella quale affonda inesorabilmente.
L’unica soluzione è liberare l’umanità dal giogo capitalista
Come le società che lo hanno preceduto, schiavismo e feudalesimo, il capitalismo non è un sistema eterno. Lo schiavismo predominava nella società antica perché corrispondeva al livello delle tecniche agricole di allora. Quando queste si sono evolute, esigendo un diverso rapporto di produzione, la società è entrata in una crisi profonda (per esempio la decadenza romana) ed è stata sostituita dal feudalesimo dove il servo della gleba era legato alla sua terra pur lavorando su quelle del signore o cedendo a quest’ultimo una parte dei suoi raccolti. Alla fine del Medioevo questo sistema è diventato antiquato spingendo la società in una nuova crisi storica. È stato allora sostituito dal capitalismo che non era più fondato sulla piccola produzione agricola ma sul commercio, il lavoro associato e la grande industria, questi stessi permessi dai progressi della tecnologia (per esempio la macchina a vapore). A causa delle sue stesse leggi, il capitalismo oggi, è diventato, a sua volta, antiquato. E a sua volta, deve cedere il posto.
Ma cedere il posto a che cosa? Ecco la domanda angosciante che si pongono tutti quelli che, sempre più numerosi, prendono coscienza che il sistema attuale non ha più futuro, che trascina con sé l’umanità nel baratro della miseria e della barbarie. Sarebbe una pretesa da indovino descrivere nei minimi dettagli questa società futura, ma una cosa è certa: essa in primo luogo dovrà abolire la produzione mercantile e sostituirla con una produzione che ha come solo obiettivo la soddisfazione dei bisogni umani.
Oggi, siamo davanti ad una vera assurdità: in tutti i paesi aumenta la povertà estrema, la maggioranza della popolazione è costretta a privarsi sempre più, non perché il sistema non produca abbastanza ma al contrario perché produce troppo. Si pagano gli agricoltori affinché riducano la loro produzione, si chiudono le imprese, si licenziano in massa i salariati, si condannano ad uno stato di disoccupazione masse enormi di giovani lavoratori, anche quando hanno fatto lunghi anni di studi e, accanto a ciò, si obbligano gli sfruttati a stringersi di più la cinghia. La miseria e la povertà non sono la conseguenza di una mancanza di mano d’opera capace di produrre, di una mancanza di mezzi di produzione, ma di un modo di produzione che è diventato una calamità per la specie umana. É solo rigettando radicalmente la produzione per il mercato, abolendo ogni mercato, che il sistema che deve succedere al capitalismo potrà realizzare il motto: “Da ciascuno secondo i suoi mezzi, a ciascuno secondo i suoi bisogni”.
Ma come arrivare ad una tale società? Quale forza nel mondo è capace di attuare un tale sconvolgimento di tutta la vita dell’umanità?
È chiaro che un tale sconvolgimento non può essere effettuato dagli stessi capitalisti né dai governi esistenti che, TUTTI - qualunque sia il loro colore politico - difendono il sistema ed i privilegi che esso procura loro. Solo la classe sfruttata dal capitalismo, la classe dei lavoratori salariati, il proletariato, può realizzare un tale sconvolgimento. Questa classe non è la sola a subire la miseria, lo sfruttamento e l’oppressione. Nel mondo esistono ancora moltitudini di piccoli contadini poveri, anch’essi sfruttati e che spesso vivono in una miseria peggiore di quella degli operai del loro paese. Ma il posto nella società che essi occupano non consente loro di edificare la nuova società, pur essendo evidentemente essi stessi interessati dai vantaggi di un tale sconvolgimento. Sempre più rovinati dal sistema capitalista, questi piccoli produttori aspirano a far girare alla rovescia la ruota della storia, a ritornare al tempo benedetto dove potevano vivere del loro lavoro, dove le grandi compagnie agroalimentari non gli toglievano il pane dalla bocca. Diverso è per i produttori salariati del capitalismo moderno. Ciò che sta alla base del loro sfruttamento e della loro miseria, cioè del salariato, è il fatto che i mezzi di produzione sono tra le mani della classe capitalista, sotto forma di capitali privati o di capitali di Stato, e che il solo mezzo per guadagnarsi il pane ed il tetto è vendere la propria forza lavoro ai detentori del capitale. Pertanto l’abolizione del loro sfruttamento passa attraverso l’eliminazione del salariato: l’acquisto e la vendita della forza lavoro. In altri termini, l’aspirazione profonda della classe dei produttori salariati, anche se la maggioranza dei suoi membri non ne ha ancora consapevolezza, è abolire la separazione tra produttori e mezzi di produzione che caratterizza il capitalismo; è abolire i rapporti commerciali attraverso i quali sono sfruttati e che giustificano continuamente gli attacchi contro il loro reddito, poiché, come dice il padrone, e tutti i governi, “bisogna essere competitivi”. Si tratta dunque per il proletariato di espropriare i capitalisti, di prendere collettivamente in mano l’insieme della produzione mondiale per farne un mezzo di soddisfazione reale dei bisogni della specie umana.
Questa rivoluzione, poiché è di questo che si tratta, va a cozzare necessariamente contro tutti gli organi di cui il capitalismo si è dotato per stabilire e preservare il suo dominio sulla società, in primo luogo i suoi Stati, le sue forze di repressione ma anche tutto l’apparato ideologico destinato a convincere gli sfruttati, giorno dopo giorno, che non c’è altro sistema possibile che il capitalismo. La classe dominante è molto decisa ad impedire con tutti i mezzi la “grande rivoluzione sociale” che assilla il banchiere su citato e molti suoi pari.
Il compito sarà dunque immenso. Le lotte che sono state già ingaggiate contro l’aggravamento della miseria nei paesi come la Grecia e la Spagna[5]5 non sono che una prima tappa, necessaria, dei preparativi del proletariato per rovesciare il capitalismo. É in queste lotte, nella solidarietà e l’unione che esse permettono di sviluppare, è nel favorire attraverso di esse la presa di coscienza della necessità e della possibilità di rovesciare un sistema il cui fallimento diventa ogni giorno più evidente, che gli sfruttati forgeranno le armi necessarie per abolire il capitalismo e per instaurare una società infine liberata dallo sfruttamento, dalla miseria, dalle carestie e dalle guerre.
Il cammino è lungo e difficile ma non esistono altre vie. La catastrofe economica che si profila, e che suscita tanta inquietudine nel campo borghese, significherà per l’insieme degli sfruttati della terra un aggravamento terribile delle loro condizioni di esistenza. Ma permetterà anche che essi si impegnino su questa strada, quella della rivoluzione e della liberazione dell’umanità.
Fabienne, 7 dicembre 2011
(da Révolution Internationale n.428, organo della CCI in Francia)
[1] Le Journal du dimanche, 27/11/2011.
[2] Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo.
[3] www.challenges.fr/finance-et-marche/quand-l-ex-patron-de-jerome-kerviel-prevoit-l-apocalypse_1294 [181].
[4] Vedi “La crisi del debito: perché?” che analizza queste leggi e sottolinea le vere radici della crisi storica del sistema capitalista, di prossima pubblicazione in italiano sul nostro sito e attualmente disponibile in inglese [182] e francese [183].
[5] Vedi “Movimento degli indignati in Spagna, Grecia e Israele: dall’indignazione alla preparazione delle battaglie di classe [184]”, https://it.internationalism.org/node/1120 [184] ed in questo stesso numero.
L’estrema gravità della crisi economica internazionale, la particolare posizione di fragilità dell’Italia e le pressioni della borghesia a livello internazionale l’hanno avuta vinta alla fine sulle resistenze opposte da Berlusconi e dal suo governo a dimettersi. Questa transizione, che sulle prime ha suscitato finanche un certo entusiasmo in alcuni settori sociali (vedi i festeggiamenti sotto il Quirinale il giorno delle dimissioni), ha mostrato sulla distanza che, al di là delle buffonate di Berlusconi di cui nessuno sentirà la mancanza, dal punto di vista delle condizioni di vita la musica non solo rimane la stessa, ma che il nuovo governo Monti é capace di andare anche oltre negli attacchi, sfondando finanche quel presidio rinforzato da anni che sono le pensioni. In effetti, proprio perché Monti non è il leader di nessun partito, non è stato neanche eletto da nessun “popolo”, ma è stato chiamato a svolgere l’ufficio di “salvare l’Italia”, si può permettere di prendere le misure le più impopolari, come quelle che stiamo già patendo in queste settimane[1] senza che più nessuno, o quasi, osi dire niente[2]. Ma è sempre più diffusa la sensazione che tutto questo non serva a niente. Negli ultimi decenni - e più chiaramente ancora in questo ultimo scorcio di anni – il sistema capitalista mostra di non essere più capace di garantire un qualunque futuro alle giovani generazioni. Per cui sempre di più cresce la consapevolezza che non è più in gioco un singolo aumento, un singolo contratto annuale, un singolo sussidio di disoccupazione, ma che c’è da recuperare una dimensione nuova di società e che questo lo si può fare solo a livello unito, globale. Ma questa consapevolezza fa fatica a farsi avanti fino in fondo perché, come abbiamo detto tante volte, il proletariato ha ancora da recuperare la fiducia in sé stesso, deve ancora riconoscersi come classe, deve riallacciare la sua storia a quella delle generazioni che l’hanno preceduto.
Uno degli elementi importanti che giocano da freno sulla classe operaia è in particolare il sindacato e la logica sindacale. Infatti, che significa lotta sindacale? Significa anzitutto dare la delega della propria lotta ad una squadra di esperti che si incaricano per la classe di portare avanti la vertenza. E quando la delegazione del sindacato tratta col padrone, ai lavoratori tocca aspettare i risultati e sperare che questi siano i migliori possibili. In conclusione il sindacato, ammesso (e non concesso) che riesca a fare un buon lavoro, in ogni caso espropria la classe della sua iniziativa, della sua capacità di portare avanti la lotta. Ma, ancora, che significa oggi lottare? E’ possibile ottenere qualcosa stando chiusi nelle proprie fabbriche in 100, 500 o finanche in 10.000? O non è molto più efficace una lotta che, pur utilizzando la fabbrica come punto di appoggio, si porti all’esterno alla ricerca di altri compagni di lotta che, pur facendo parte di altre fabbriche, altri settori o che siano addirittura senza lavoro, avvertano l’esigenza di unirsi alla lotta perché si riconoscono alla fine negli stessi obiettivi? Nella misura in cui, come detto, questa società ci sottopone ad attacchi sempre più massicci e generalizzati, non è possibile pensare di poter resistere rimanendo divisi fabbrica per fabbrica, città per città, paese per paese, ... E’ per questo che la logica sindacale è perdente, perché è intrinsecamente votata alla trattativa locale, settoriale e non parte invece dalla necessaria unità dei lavoratori, non intesi come somma delle singole situazioni di lotta ma come unico soggetto agente che lotta per un futuro diverso.
Se si dà uno sguardo alla mappa della lotta di classe presente oggi in Italia, c’è da rimanere stupiti per il numero di lotte che si svolgono contemporaneamente in questo paese. La scintilla per far scoppiare una lotta, d’altra parte, con la situazione che c’è, non è difficile da trovare. Il problema però è che tipo di lotte si sviluppano in questo momento. In qualche modo è proprio l’esitazione presente nella classe a prendere in mano la situazione, ad accettare la sfida della storia, ad avere fiducia nella propria iniziativa che la spinge a dare la delega a dei rappresentanti sindacali. Non tanto ai grandi sindacati, la CGIL, la CISL e la UIL, che ormai da parecchi anni sostengono una “responsabile” politica di sostegno alle misure antioperaie dei vari governi, tant’è che la loro popolarità è calata notevolmente[3], ma a quelli che non si sono sporcati le mani firmando i vari protocolli di intesa con i governi di turno, ai vari sindacati cosiddetti di base, che dicono di battersi per una reale difesa degli interessi proletari, o al limite alla FIOM, che ha coperto un ruolo di maggiore combattività all’interno della CGIL. Ed effettivamente si vede che, quando la lotta diventa tesa, sul fronte di lotta dei sindacati ufficiali è presente solo la FIOM (che pur essendo un sindacato categoriale dei metalmeccanici, sta giocando negli ultimi tempi un ruolo da jolly anche in altri settori, come i disoccupati, gli studenti,…). Ma più di frequente il S.I.Cobas[4], la CUB[5], l’USB[6], lo SLAI Cobas[7], ecc.
Per capire più precisamente che vogliamo dire quando diciamo che la logica sindacale non è quella che risponde alle esigenze proletarie di questa fase storica, diamo un’occhiata più da vicino a quello che succede nelle fabbriche e nei luoghi di lavoro in genere, a cominciare da una di quelle che sta diventando il luogo simbolo della lotta in Italia negli ultimi mesi, l’Esselunga di Pioltello.
A Pioltello, Milano sono mesi che i 300 lavoratori della cooperativa SAFRA appaltata dalla Esselunga sono in agitazione, con un’accentuazione di scioperi continui dall’inizio di ottobre scorso[8]. I lavoratori, sostenuti dal SICobas, hanno dato vita ad un presidio permanente all’ingresso dello stabilimento sia per creare un punto di incontro e di solidarietà con gli esterni alla lotta, sia per portare avanti la tattica del blocco del traffico dei camion in entrata e in uscita. Nel caso specifico il blocco delle merci costituisce un’arma particolarmente importante perché significa bloccare il rifornimento dei punti vendita e quindi spegnere la fonte di entrate dell’impresa. La risposta padronale è stata particolarmente dura[9]: polizia permanente davanti alle fabbriche, con ripetuti interventi per forzare i picchetti operai e lettere di licenziamento a 15 degli operai più combattivi. In più, “a ben tre anni di distanza, stanno arrivando una serie di avvisi di garanzia per la mobilitazione dei lavoratori delle coop alla Bennet di Origgio, la lotta che ha dato il via alle agitazioni tuttora in corso nelle cooperative. Lavoratori, iscritti del SI Cobas (allora eravamo Slai Cobas), compagni del CSA Vittoria e del Coordinamento di Sostegno alle lotte delle Cooperative, sono raggiunti da avvisi di garanzia con accuse di "resistenza", "lesioni", ecc.”[10]
Lo scenario, cambiando il nome dell’azienda e il luogo, è pressoché identico in centinaia di altri luoghi di lavoro, di cui ricordiamo solo alcuni dei più recenti o significativi:
- le Ceramiche Ricchetti di Mordano/Bologna, con 62 lavoratori in bilico[11],
- la ditta di trasporti CEVA di Cortemaggiore/Piacenza, dove coloro che sono impiegati come facchini da tempo lamentano mancanze contrattuali inaccettabili. “Le tredicesime e le quattordicesime vengono segnate come pagate nelle buste paga, ma in realtà quel denaro non ci viene versato” spiega Elmitwali, delegato Si Cobas tra i facchini “Chiediamo solo il rispetto dell’accordo sancito tra la cooperativa e il nostro sindacato”[12];
- le Cooperative di trasporto di Bergamo, con 150 operai in sciopero, la stragrande maggioranza dei quali immigrati;
- la Elnagh di Trivolzio, Pavia, fabbrica di camper, dove c’è minaccia di chiusura e di licenziamento per i 130 lavoratori dell’azienda;
- ex-ILA di Porto Vesme, Carbonia Iglesias, che produceva profilati di alluminio, dove il 31 Dicembre scade per i 166 lavoratori il termine degli ammortizzatori sociali;
- Ferrovie dello Stato, con 800 lavoratori tra manutentori, impiegati, personale viaggiante, addetti alle pulizie che sono stati licenziati dall’inizio di dicembre, provocando così l’occupazione da parte di alcuni di questi di una delle torri della stazione di Milano centrale[13];
- Iribus di Valle Ufita, Avellino che chiude la produzione di autobus mettendo sulla strada 600 lavoratori;
- FIAT di Termini Imerese, che chiude anch’essa la produzione di auto mettendo in mobilità 640 lavoratori che, dopo 2 anni di cassa integrazione, se non riusciranno con le varie agevolazioni ad andare in pensione, saranno assunti da un’azienda balorda, la DR Motors, “minuscola casa automobilistica specializzata nel ricarrozzare, parzialmente, auto cinesi. Marchio dalle ridottissime quote di mercato, un mercato per di più in generale restrizione, per cui la capacità produttiva di Termini appare grandemente eccedente”.[14]
- Innova Service, azienda che gestisce le portinerie sull’area dell'ex Alfa Romeo di Arese, dove una cinquantina di operai licenziati hanno organizzato un presidio all’interno di un supermercato Iper in piazzale Accursio a Milano.
- la Jabil, ex Siemens Nokia, Cassina de’ Pecchi, Milano, con 325 licenziati, dove il padrone ha chiuso la fabbrica con una serrata e successivamente i lavoratori l’hanno occupata per evitarne lo smantellamento[15].
- precari della ricerca dell’Ospedale Gaslini di Genova, dove 200 lavoratori circa molti dei quali attendono la stabilizzazione del posto di lavoro da oltre 15 anni hanno dato luogo ad un presidio fuori l’ospedale;
- la petroliera Marettimo Mednav, a Trapani, presa all’arrembaggio da 58 operai del Cantiere Navale di Trapani dopo due mesi di presidio permanente davanti i cancelli del Cantiere, discussioni, assemblee, solidarietà, ecc. Adesso, “ogni sera intorno alle 23:00, gli operai all’arrembaggio della Marettimo Mednav ricordano alla cittadinanza trapanese la loro esistenza con un disperato TamTam tribale, che risuona per le vie limitrofe al porto, riecheggia sui balconi e sulle terrazze dei familiari e amici dei 58 operai prossimi alla mobilità”[16].
- le 29 operaie in cassa integrazione della Tacconi, Latina, che occupano da oltre 300 giorni lo stabilimento nella speranza che la loro ditta … fallisca per avere diritto ad un intervento dello Stato.[17]
Come si vede esiste un potenziale di lotta incredibile, con lotte a volte commoventi e sempre di grande valore. Ci sono decine di migliaia di proletari che sono riscaldati al colore rosso vivo sul piano della lotta, ma che esprimono la loro combattività nel chiuso del loro posto di lavoro. Infatti il minimo comune denominatore di tutte le lotte citate, e di tante altre non citate ma che esistono sul territorio, è la presenza di:
· presidi agli ingressi dei posti di lavoro, per bloccare l’attività della fabbrica e per impedire ai “crumiri” di entrare;
· una sorveglianza della fabbrica, che in caso di una sua chiusura diventa anche una sua occupazione con l’intento di impedire un suo eventuale smantellamento (come alla Elnagh di Trivolzio,…);
· una solidarietà espressa da proletari e cittadini generici che portano soldi, alimenti e il proprio sostegno personale;
· costituzione di casse di solidarietà per sostenere i proletari colpiti da licenziamenti o da decurtazioni per le numerose giornate di sciopero.
Anche se tutto questo esprime certamente un grande potenziale di lotta, il fatto che tutto ciò non vada oltre la dimensione della propria fabbrica - cosa favorita particolarmente dalla logica sindacale - diventa a lungo andare una trappola. Non è un caso se in tanti casi i lavoratori, intenti a fare settimane e mesi di lotte estenuanti ai cancelli delle proprie fabbriche o sui tetti o le ciminiere di una fabbrica, lamentino il fatto di rimanere inascoltati da altri proletari. Per evitare questo occorre ribaltare la logica della lotta, bisogna uscire dalla propria fabbrica mandando delle delegazioni in altre fabbriche, in altri posti di lavoro. La solidarietà è un’arma essenziale della lotta di classe, ma non è qualcosa che funziona a senso unico. La solidarietà significa un mutuo sostegno tra diversi settori della classe in lotta e tra gli stessi proletari. Perché dovrebbe vincere la lotta dei proletari di 100 aziende diverse, ognuna in lotta per conto proprio, e non piuttosto la lotta di tutte e 100 aziende messe assieme, con tutti i proletari che vi appartengono, indipendentemente da quali siano le loro condizioni di partenza?
Il futuro prossimo cui siamo confrontati dipende strettamente da questa alternativa. Se gli operai di fabbrica resteranno fermi nelle loro fabbriche mentre i giovani senza lavoro e senza speranze continueranno a scontrarsi nelle piazze contro il falso obiettivo della polizia, le cose stenteranno a maturare. Se invece gli uni e gli altri ritroveranno un percorso comune, a livello di assemblee, di manifestazioni, di delegazioni di massa inviate da un posto di lavoro ad un altro, allora la prospettiva che si apre sarà tutt’altra.
Ezechiele, 18 dicembre 2011
[1] Vedi l’articolo “Tolto Berlusconi resta la crisi e le sue batoste sulla pelle dei proletari” in questo stesso numero.
[2] L’opposizione della Lega serve solo a fare un poco di colore e a recuperare credibilità per un partito che si era molto screditato negli ultimi tempi appoggiando Berlusconi. La Lega è arrivata addirittura a recuperare la dimensione proletaria con la deputata leghista che interviene con indosso la tuta da operaia … ma con lo stipendio da deputata!
[3] Solo di recente, ed in seguito al cambio di governo, la triplice sindacale sembra aver cambiato politica tornando a fare opposizione “intransigente” contro la manovra del governo, e per di più unitaria e non più con le divisioni che hanno caratterizzato la fase precedente. Evidentemente le cose sono diventate così grosse – e il discredito così importante – che non era possibile rinviare ulteriormente un recupero di credibilità con un po’ di scioperi.
[4] Sindacato Intercategoriale dei CoBas, scissione dello SLAI Cobas.
[5] Confederazione Unitaria di Base
[6] Sorta nel 2010 dalla unificazione di Rdb-Cub, Sindacato dei Lavoratori e parte della Cub
[7] Sindacato Lavoratori Autonomi Intercategoriale Cobas
[8] https://www.youtube.com/watch?feature=endscreen&v=EKZgYvto0A8&NR=1 [185], https://www.youtube.com/watch?v=FNheQ6sNgAU&feature=related [186]
[9] E’ emblematico che il capo della Esselunga, Caprotti, si sia sempre dato arie da grande democratico, come si evince da questo video (https://www.youtube.com/watch?v=ZskBPlKmSyk&feature=related [187]), dove arriva a parlare dell’azienda come di un monastero. Ma la sua è evidentemente tutta e solo immagine pubblicitaria, come sapientemente denunciato in questi altri imperdibili video: https://www.youtube.com/watch?NR=1&v=CbcFLo41si4&feature=endscreen [188] e https://www.youtube.com/watch?NR=1&v=XGYw4PxjatM [189].
[10] S.I. COBAS NOTIZIE del 22/11/2011.
[13] https://napolioltre.forumfree.it/?t=59355199#lastpost e https://www.youtube.com/watch?feature=endscreen&NR=1&v=zrKtiJBQk-s [192]
[14] https://www.facebook.com/notes/metalmeccanici-autorganizzati/termini-la-fiat-chiude/314291481931388 [193]
[15] https://www.youtube.com/watch?v=3thJLYg6zms [194], https://www.ilfattoquotidiano.it/2011/12/15/jabil-lazienda-chiude-senza-lavoro-operai-lotta-occupano-fabbrica/ [195]. Vedi anche la discussione sul forum https://napolioltre.forumfree.it/?t=58572467 [196].
Le dimissioni di Berlusconi richieste all’infinito da tutti o quasi tutti, non solo in Italia ma da tutto il mondo, hanno fatto tirare un respiro di sollievo a chi pensava di essere arrivato al bordo del precipizio. Il colpo finale glielo ha dato lo spread[1], che si innalzava giorno dopo giorno.
Chi poteva a questo punto “salvare” l’Italia e di conseguenza l’Europa se non uno “al di sopra” delle parti, uno che non si rispecchiasse nelle logiche parlamentari e dei partiti. Uno che non aveva nulla da perdere, qualunque cosa facesse. Uno delle istituzioni, insomma. E come si usava nel medioevo e forse anche prima, gli è arrivata l’investitura di duca, ovvero senatore, in modo che nessuno avesse da ridire sul suo incarico da Primo Ministro. Il governo cosiddetto tecnico da lui organizzato sembra un commando militare per operazioni speciali. Eseguire un compito, vita o morte! Qualcuno ha cercato di trovare delle macchie nella vita di questo o quel ministro, cosa facile nel governo precedente, ma qui subito è stato messo a tacere. Sono tutti esperti. In che cosa? Nel dare una casa ai senzatetto? Nel dare un lavoro ai disoccupati? Nel risanare i conti scovando evasori e svuotando le casseforti dei miliardari? Potremmo continuare ad elencare le cose che si potrebbero fare ma che nessun governo farà mai. Niente di tutto questo.
Farà ciò che hanno sempre fatto tutti i governi dei padroni, da che mondo è mondo, ma lo farà sommando tutto ciò che hanno fatto prima. Inutile andare nei dettagli perché i media ne dicono tanti e Monti potrebbe modificarne alcuni dopo il dibattito parlamentare. Comunque è sicuro che pagheremo più tasse sia dirette (casa, imposta comunale, ecc.) sia indirette (tagli ai servizi che ricadranno sui cittadini). Pagheremo di più perché, mentre i prezzi galoppano, i salari e le pensioni resteranno bloccati. Pagheremo di più perché lavoreremo di più, molto di più. Altro che vivere di più! Aumenterà la mortalità perché molti non si cureranno, non faranno analisi cliniche, risparmieranno sul cibo, sulle medicine, sul riscaldamento e così via. Perché moriranno sul lavoro a causa di incidenti dovuti a vecchiaia e a stanchezza - dovendo fare straordinari - e a mancata prevenzione. E se non moriranno, molti avranno una pessima vecchiaia con malattie dovute allo stress, con misere pensioni, mancanza di trattamenti sanitari. Fermiamoci qui per ora.
Questo governo non può fare diversamente dall’attaccare lavoratori e pensionati perché deve avere la fiducia del parlamento e i deputati e i senatori sono espressione della borghesia. Forse sotto la pressione dell’opinione pubblica, che si aspettava una manovra cosiddetta più equa, farà qualche concessione togliendo qualche briciola a dei settori della borghesia.
Ma come mai questo governo riesce a fare una manovra così spregiudicata?
Ci riesce perché non ha nulla da perdere: Monti e i suoi ministri non hanno un partito alle spalle da proteggere per gli anni a venire, non hanno elettori che possono perdere, non hanno interessi particolari da difendere. E soprattutto questo governo è sostenuto da tutti i media perché è autorevole, non concede spazio agli scandali di qualsiasi natura e fa sentire sulle spalle di tutti la spada di Damocle del debito pubblico e dell’eventuale crollo dell’euro.
Ma questa pazzesca manovra che cambierà la vita a milioni di lavoratori, trattenendoli sul posto di lavoro fino a 65-70 anni, impedendo a milioni di giovani di avere un ruolo sociale, che affamerà i pensionati, servirà a qualcosa? Cioè riuscirà a riportare un benché minimo ritorno ad una vita normale senza sussulti continui, dove si possa ricominciare a pensare al futuro, farsi una famiglia, avere dei figli, dormire insomma sonni tranquilli anche se con qualche spesa? Riuscirà a rimettere a posto i conti dello Stato e a dare ripresa allo sviluppo economico?
No! Niente di tutto questo! Perché?
Facciamo un po’ di conti con cifre tonde.
Il debito dello Stato a tutt’oggi si aggira attorno ai 1.900 miliardi di euro. Gli interessi annui su questo debito sono all’incirca 80 miliardi[2]. I tassi pagati anni fa erano più bassi, oggi tutti i BTP e simili in scadenza vengono rifinanziati a tassi elevati, vedi l’aumento del cosiddetto spread. Questo significa che ogni anno lo Stato deve non solo far quadrare i conti tra entrate ed uscite (pareggio di bilancio) ma anche avere un surplus per coprire e non aggravare il debito statale. Per ottenere il pareggio di bilancio lo Stato dovrebbe fare delle politiche che portino ad un tasso di crescita del Pil, cioè più investimenti, più esportazioni con un aumento della produttività e diminuzione dei costi (pensione, lavoro, scuola, sanità, ecc.) e nello stesso tempo effettuare una gigantesca dismissione dei suoi beni sia immobiliari sia di partecipazione azionaria. E in tempi di crisi chi acquista?
Su Wikipedia c’è una trattazione matematica della questione del debito e delle varie possibili soluzioni molto precisa che esamina il caso Italia con numeri simili alla nostra realtà[3], da cui si arriva a capire che partendo da un Pil di 1666 miliardi di € e con un debito al 120% del Pil, con tassi di interesse al 7%, affinché si verifichi il pareggio di bilancio, occorre che vi sia un avanzo primario di 118 miliardi di €, cioè che le entrate siano più delle uscite di 118 miliardi di €.
Quindi, per ottenere ogni anno una cifra del genere, lo Stato deve svenarsi dal punto di vista dei suoi beni e deve svenare fino all’inverosimile i lavoratori e i pensionati oltre che ridurre all’osso le prestazioni sulla salute e l’educazione dei suoi cittadini. E tutto per il solo pareggio di bilancio (interessi compresi) senza scalfire il debito, che resterebbe identico. Ma con la crisi economica mondiale, con le politiche aggressive di Stati meglio dotati, l’Italia avrà enormi difficoltà a non aggravare il debito in valore assoluto e in rapporto al PIL. Dopotutto i grafici che rappresentano il debito di tutti i paesi evidenziano come non ci sia scampo alla sua crescita. La situazione è simile a quella che ha ogni persona caduta sotto le grinfie degli usurai, una volta che non si riesce a ripagare il debito entro brevi tempi ci si impoverisce sempre più, svendendo tutto e finendo per... dichiarare fallimento! Ma prima che avvenga questo fallimento, la situazione sociale diventerebbe insostenibile dal punto di vista delle classi sfruttate, la miseria e la povertà la farebbero da padroni, le speranze di vita media crollerebbero, la delinquenza sarebbe inimmaginabile.
Data questa situazione, qualsiasi risposta alle manovre del governo Monti che resti nell’ambito delle compatibilità dello Stato (facciamo pagare l’Ici alla Chiesa cattolica, non paghiamo il debito, facciamo un’imposta patrimoniale, no alle spese militari, etc.) non farebbe che bloccare qualsiasi iniziativa di classe. La questione del debito è irrisolvibile mentre è possibile fare in modo che gli attacchi contro la classe non siano facilmente attuabili, dando una risposta massiccia e unitaria da parte di tutti i lavoratori, studenti, pensionati. Ciò è possibile se ci si libera delle catene sindacali e dell’ideologia borghese che dice che siamo tutti sulla stessa barca che rischia di affondare.
Non è vero che siamo tutti sulla stessa barca. Gli sfruttati hanno la possibilità e la capacità di sganciare la decomposta barca borghese e liberarsi di tutti i fardelli di questa società senza futuro.
Oblomov, 10 dicembre 2011
link interessanti:
it.wikipedia.org/wiki/Stati_per_debito_pubblico [199]
www.dt.mef.gov.it//it/debito_pubblico/_link_rapidi/debito_pubblico.html [200]
[1] Lo “spread Btp-Bund” altro non è che la differenza (spread in inglese) tra i rendimenti dei Bund (titoli tedeschi) e dei Btp (titoli di stato italiani). Come si calcola ? Si prende un Btp a 10 anni e si calcola il rendimento a scadenza. Poi si prende un Bund a 10 anni e si calcola il rendimento a scadenza. Facendo la differenza tra questi due rendimenti si ottiene lo spread.
[2] Da “Via d’uscita dal labirinto del debito” su Il Sole 24 ore del 24 agosto 2011: “L’intero mondo avanzato si è perso nel labirinto del debito, da cui è difficilissimo uscire una volta che vi si è entrati, come dimostra l’esperienza italiana. Infatti, un Paese come il nostro, con un debito pubblico di 1.900 miliardi di euro in gran parte ereditato dal passato, se vuole mantenere tale debito semplicemente invariato in livello assoluto deve conseguire un bilancio statale rigorosamente in pareggio. Il che significa non soltanto avere entrate superiori alle spese di esercizio ma anche in grado di pagare gli enormi interessi sul debito stesso, pari attualmente a circa 80 miliardi all’anno. Per ‘neutralizzare’ questa cifra il nostro avanzo primario dovrebbe essere già ora di pari entità. Vale a dire che le attuali entrate dovrebbero essere superiori alle normali spese di esercizio di circa 5 punti percentuali di Pil. Il che, purtroppo, per il momento è solo un obiettivo che stiamo cercando faticosamente di raggiungere.
A fine 2010, infatti, il nostro bilancio primario era quasi in pareggio, tra i migliori in Europa, pari a -0,1 punti di Pil, ma il deficit statale complessivo era comunque ancora del 4,6%, composto, per l’appunto, di 4,5 punti di interessi sul debito e solo di un modesto disavanzo primario di 0,1 punti.
Con la manovra attualmente in via di definizione, resasi necessaria per il precipitare degli eventi, per l’impennata dei tassi e per dare di conseguenza un chiaro segnale di reazione ai mercati, l’Italia dovrebbe raggiungere l’obiettivo del pareggio di bilancio nel 2013, cioè assai prima di tutti gli altri grandi Paesi europei e degli Stati Uniti.
Vale a dire che a quella data il nostro surplus primario annuale sarà finalmente di circa 80 miliardi di euro: la cifra necessaria per pagare completamente gli interessi. A quel punto e solo allora il livello assoluto del nostro debito pubblico, che sarà arrivato intanto a 2mila miliardi di euro, smetterà di crescere. Ma a quella data, assumendo che nel frattempo la crescita nominale del Pil possa essere stata almeno del 3% annuo, il nostro debito pubblico sarà ancora pari a circa il 118% del Pil, cioè di un punto soltanto inferiore a oggi. Come abbattere dunque questo rapporto ancora troppo elevato persino nel fatidico 2013?” st.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2011-08-23/uscita-labirinto-debito-223808_PRN.shtml [201].
Pubblichiamo qui di seguito la presentazione fatta alle nostre riunioni pubbliche di dicembre su questo tema. La presentazione è basata sull’articolo, dallo stesso titolo, pubblicato sul nostro sito (https://it.internationalism.org/node/1120 [184]) che argomenta più estesamente gli elementi di analisi qui presentati. La preoccupazione di questo articolo e della presentazione che segue è fare un bilancio dei movimenti degli Indignati che si sono sviluppati in Spagna, in Grecia ed in Israele per comprendere cosa hanno rappresentato questi movimenti e quali lezioni e prospettive se ne possono trarre per le lotte future[1].
La nostra presentazione
Perché è importante fare questo bilancio?
Perché questi movimenti esprimono un fenomeno nuovo di risposta della classe operaia:
- per l’ampiezza internazionale di questi movimenti che, partiti dall’Egitto, dalla Spagna, dalla Grecia, da Israele, hanno avuto un’eco importante nel resto del mondo: dagli Stati Uniti all’Italia, dalla Germania al Messico, dal Cile all’Inghilterra, ecc.;
- per la partecipazione di massa in questi movimenti: migliaia e migliaia di proletari, occupati, disoccupati, precari e soprattutto giovani, insieme a migliaia di elementi provenienti da strati sociali in via di proletarizzazione;
- per le modalità della lotta: occupazione di una piazza per farne un centro di aggregazione e dibattito e assemblee generali;
- per la profondità della crisi economica che costringerà ancora la borghesia a colpire ulteriormente e su tutti i piani i proletari, ma anche strati sempre più ampi di popolazione, e questo non potrà che far crescere la tendenza alla reazione, non solo sui posti di lavoro, ma anche con movimenti come quelli degli Indignati.
Capire quindi di cosa sono espressione questi movimenti, quali ne sono i punti di forza e quali i punti di debolezza è essenziale per capire quali sono le prospettive per la lotta di classe.
Come possiamo fare questo bilancio?
I commenti che spesso sentiamo sono del tipo: “Tutto sommato cosa hanno ottenuto questi movimenti? Niente!”, “E’ vero, migliaia di persone sono scese in piazza, ma per cosa? Per difendere una Vera Democrazia!”, “E’ vero, si scende in piazza, ma nei fatti dietro forze politiche e sindacati camuffati”. Effettivamente questo è quello che appare se si fotografano questi movimenti, se si guardano con un’ottica immediatista ed empirica. Ma i movimenti sociali non possono essere valutati con questo metodo che è tipico di questa società. Si può comprendere a fondo un movimento sociale solo ponendolo in un quadro storico e mondiale, prendendo in esame la dinamica storica che lo ha fatto maturare e soprattutto vedendo non quello che è in un dato momento ma quello che può diventare, o meglio il terreno che può costruire, sulla base delle tendenze, delle forze e delle prospettive che esso contiene, quindi del futuro che può annunciare.
Per questo motivo vogliamo ricordare brevemente gli elementi essenziali del contesto storico e della dinamica in cui, secondo noi, vanno valutati questi movimenti.
Il primo elemento di contesto storico che dobbiamo ricordare è quello della decadenza del capitalismo[2], cioè il fatto che il capitalismo ha raggiunto il suo limite come sistema di produzione.
Il raggiungimento di questo limite pone all’ordine del giorno la necessità del superamento del sistema capitalista, cioè della rivoluzione comunista. Perché essa possa compiersi è necessario che il soggetto capace di farla, il proletariato, prenda coscienza della sua necessità e della propria capacità di costruire una società diversa. Dall’inizio della decadenza del capitalismo il proletariato si è trovato più volte a cercare di dare una svolta alla storia.
La prima è stata la Prima Guerra Mondiale, a cui ha risposto con l’ondata rivoluzionaria dal ‘17 al ‘23, che fu alla fine sconfitta. La seconda fu la grande crisi del ‘29 e successivamente il secondo olocausto mondiale dove, a causa della profonda sconfitta degli anni venti e la controrivoluzione stalinista, il proletariato non riuscì ad andare al di là di sporadiche e limitate reazioni di lotta, anzi fu anche portato a credere che la democrazia e lo Stato assistenziale fossero una sua vittoria.
Il terzo momento si ha con il riapparire della crisi economica aperta alla fine degli anni 60 dove il proletariato riprende una dinamica di lotta sul proprio terreno di classe il cui punto più altro è stato lo sciopero di massa in Polonia nell’80, dinamica che viene interrotta dal crollo del blocco dei cosiddetti paesi socialisti dell’Est[3] e la conseguente campagna sulla fine del comunismo scatenata dalla borghesia.
Una campagna che crea disorientamento nella classe e un suo vero e proprio riflusso sia sul piano della coscienza che della combattività.
Da questo riflusso il proletariato inizia ad uscirne, lentamente e con grandi difficoltà solo all’inizio del nuovo millennio con lotte sporadiche e isolate. Dal 2003 le lotte aperte si intensificano a livello internazionale con momenti particolarmente importanti (CPE in Francia e Vigo in Spagna nel 2006, lotte di massa in Egitto ne 2007, rivolta dei giovani in Grecia a partire dal 2008, …).
Importanti per la tendenza ad estendere la lotta ed a ricercare o dare la solidarietà, ad utilizzare le assemblee generali come strumento per decidere e gestire la lotta con le proprie mani, una tendenza a porsi delle domande sul futuro, sulla prospettiva, soprattutto da parte della nuova generazione.
Il movimento degli Indignati in Spagna, Israele e Grecia e le loro ripercussioni in molti altri paesi sono senz’altro una reazione all’accelerazione brutale della crisi economica, ma soprattutto sono il frutto di questa dinamica di faticosa e tortuosa, ma decisa ripresa dello scontro di classe a livello mondiale.
Se questo è il quadro storico ed internazionale, come comprendere le debolezze ed i punti di forza di questi movimenti?
La prima cosa da tenere presente è che non esistono lotte o movimenti “puri”. In ogni lotta, in ogni movimento, al di là dell’azione specifica delle forze politiche borghesi e dei sindacati, c’è sempre una lotta che si opera tra il peso dell’ideologia e delle mistificazioni borghesi nella classe e lo sforzo da parte del proletariato di liberarsi di queste ed attestare i propri principi, le proprie posizioni politiche ed i propri metodi di lotta.
Questo si traduce nei movimenti degli Indignati in una lotta tra il peso delle illusioni e delle mistificazioni borghesi tendenti a configurare un’ala “riformista e democratica” e delle posizioni ancora minoritarie di natura più propriamente proletarie che cominciano a vedere che il capitalismo non offre alcun futuro e che bisogna costruire qualcosa di nuovo.
Ma in più, bisogna tener presenti altri due elementi che caratterizzano questa fase ed in particolare questi movimenti:
- il fatto che la partecipazione del proletariato come classe non è stata dominante. I proletari vi hanno partecipato come individui, come salariati, precari, disoccupati, senza quella forza, quella coesione e quella chiarezza che dà il fatto di agire collettivamente con la consapevolezza di far parte di un’unica classe. Questo deriva da quel lungo periodo di riflusso attraversato dal proletariato di cui parlavamo prima che ha significato la perdita della propria identità di classe e della fiducia in se stesso;
- la presenza di strati sociali non proletari, ma che si stanno proletarizzando, sui quali il peso dell’ideologia democratica e delle illusioni riformistiche è ben maggiore, anche se la realtà della crisi economica li spinge a reagire scendendo in piazza e ricercando delle risposte alternative alle spiegazioni sempre più inefficaci che la borghesia propina sul perché stanno finendo in miseria.
Questi due elementi però non ci possono portare a ritenere questi movimenti interclassisti e quindi a sottovalutarne l’importanza. La presenza del proletariato va riconosciuta invece negli elementi di maturazione di coscienza e nei metodi di lotta di questi movimenti.
Quali sono gli elementi di maturazione in questi movimenti?
- La contestazione della democrazia e la fine del presunto “Stato assistenziale”. Per mantenere il suo dominio ideologico sul proletariato, la borghesia si è basata per decenni su due pilastri: la democrazia, cioè l’idea della giustizia sociale, della possibilità, illusoria in questa società, di avere tutti la possibilità di partecipare alle decisioni riguardanti la società attraverso dei propri rappresentanti, e lo “Stato sociale”, cioè l’idea di uno Stato al di sopra delle parti, che garantisce i diritti basilari della sopravvivenza: una sicurezza di fronte alla disoccupazione, la pensione, la gratuità delle cure mediche e dell’educazione, degli alloggi sociali.
La crisi economica sta smantellando ogni forma di Stato sociale e sta mettendo a nudo la vera natura e l’ipocrisia dello Stato, delle sue istituzioni e delle sue forze politiche.
Alla base delle lotte in Grecia, in Spagna o in Israele c’è stata proprio l’inquietudine creata dalla soppressione dei sussidi sociali. Ed è la stessa inquietudine che adesso avvertono i proletari in Italia con i tagli della nuova finanziaria.
Così come si è manifestata l’indignazione rispetto al fatto che i ricchi e il loro personale politico siano sempre più ricchi e corrotti, che la grande maggioranza della popolazione sia trattata come una merce al servizio dei privilegi scandalosi della minoranza sfruttatrice.
E’ evidente quindi che, nonostante tutte le illusioni, le confusioni e le debolezze che ci sono ancora, questi due pilastri della borghesia iniziano nei fatti ad essere messi in discussione e, col peggiorare della crisi e le conseguenze disastrose che provocherà, questa rimessa in discussione non potrà che approfondirsi.
- Questo inizio di rimessa in discussione porta ad un altro elemento importante di questi movimenti che è l’inizio della politicizzazione: al di là delle false risposte che vengono o verranno date, è importante che grandi masse stanno iniziando a implicarsi direttamente e attivamente nelle grandi questioni della società: la natura della crisi, il ruolo dello Stato e delle sue istituzioni, la prospettiva futura. Queste questioni sono state al centro delle assemblee. E questo, nonostante il peso dell’apoliticismo ancora fortemente presente in questi movimenti, è l’inizio di un passaggio importante dalla sola lotta di difesa economica alla lotta politica di emancipazione del proletariato;
- l’entrata in lotta di nuove generazioni del proletariato con la differenza importante rispetto ai movimenti del 1968 che, mentre la gioventù di allora tendeva a ripartire da zero e considerava i più anziani come “sconfitti e imborghesiti”, oggi c’è una lotta che unisce tutte le generazioni della classe operaia.
Inoltre, l’entrata in lotta di questa nuova generazione che si pone il problema della prospettiva è un incoraggiamento formidabile per le generazioni che hanno subito il riflusso e fanno fatica a superare le loro esitazioni;
- la cultura del dibattito: questa è un’arma fondamentale per la crescita del proletariato come classe capace di costruire una nuova società, perché la determinazione delle masse proletarie a sbarazzarsi del capitalismo viene dalla chiarezza e questa non nasce per decreto, né è il frutto di un indottrinamento da parte di una minoranza detentrice della “verità”, ma è il prodotto della combinazione dell’esperienza, della lotta e in particolare del dibattito reale e costruttivo all’interno della classe. E questa cultura del dibattito è stata molto presente in questi movimenti dove tutte le questioni politiche, sociali, economiche sono state discusse in piazza, nelle assemblee, nei dibattiti improvvisati;
- il modo di considerare la questione della violenza: la borghesia ha tentato più volte di trascinare il movimento degli Indignati (soprattutto in Spagna) nella trappola degli scontri violenti contro la polizia in un contesto di dispersione e di debolezza, per poter così screditare il movimento e rendere più facile il suo isolamento. In molte situazioni queste trappole sono state evitate, come in Spagna ad esempio, non per pacifismo, ma perché appunto si è capito che non era questo il terreno per sviluppare la partecipazione alla lotta. Inoltre è iniziata ad emergere una riflessione attiva sulla questione della violenza, una riflessione necessaria perché più la crisi lascerà pochi margini di manovra alla borghesia, più questa sarà costretta a togliersi la maschera democratica e usare direttamente la violenza contro le proteste dei proletari.
Quali sono le maggiori debolezze di questi movimenti?
Come abbiamo detto prima, in questi movimenti c’è una forte presenza di un’ala democratica che spinge alla realizzazione di una “vera democrazia” e naturalmente questa presenza viene largamente sfruttata dagli apparati della borghesia per fare in modo che l’insieme del movimento si identifichi con essa.
Bisogna senz’altro combattere tutte le mistificazioni di cui quest’ala si fa portatrice, ma bisogna anche chiedersi: “Perché, nonostante l’evidenza dei fatti, l’illusione che possa esistere una “Vera democrazia” è ancora tanto forte in questi movimenti?”
A parte le considerazioni che abbiamo fatto prima, sul peso dell’ideologia borghese sulla classe e soprattutto sugli strati non proletari presenti nel movimento, c’è da fare un’ulteriore considerazione.
Oggi gli avvenimenti mettono in evidenza il fallimento del capitalismo, la necessità di distruggerlo e di costruire una nuova società. Questa è la condizione oggettiva la cui percezione si fa strada tra i proletari, ma,
- per un proletariato che dubita delle proprie capacità e che non ha recuperato la propria identità,
- per una nuova generazione di proletari che non ha ancora una propria esperienza politica ed ha difficoltà a recuperare quella delle generazioni passate, ma che soprattutto è nata quando imperava la propaganda borghese sulla scomparsa della classe operaia e della lotta di classe,
questo compito appare immane e sgomenta, e nell’immediato, quello che predomina è la tendenza ad aggrapparsi a qualcosa di più “vicino”, di più “fattibile”, cioè delle misure di “riforme” e di “democratizzazione”, anche se con tanti dubbi.
Un’altra debolezza dei movimenti degli Indignati è l’apoliticismo. Questo è frutto della delusione e del profondo scetticismo provocato dalla controrivoluzione stalinista e socialdemocratica, che porta a pensare che ogni opzione politica, comprese quelle che si richiamano al proletariato, porti necessariamente al tradimento e all’oppressione. Il pericolo maggiore dell’apoliticismo sta nel rendere possibile alle diverse forze della borghesia di camuffarsi, nascondere la loro natura ed agire nel movimento, nelle assemblee per prenderne il controllo.
Il pericolo del nazionalismo. Anche questo ha le sue radici nella perdita dell’identità di classe e della fiducia in sé, cosa che favorisce la tendenza, in un mondo ostile e pieno di incertezze, a rifugiarsi nella “comunità nazionale”. Ed anche questo sentimento viene sfruttato dalla borghesia per:
- da una parte nascondere la natura della crisi economica (come in Grecia, dove si getta la colpa dell’austerità sulla prepotenza della Germania, o come in Italia dove si stanno facendo discorsi dello stesso tipo);
- dall’altra, utilizzare i tagli nella sanità, nella scuola, ecc. per rinchiudere le proteste sul terreno nazionalistico della rivendicazione per una “buona formazione scolastica” (perché questa ci rende competitivi sul mercato mondiale) e di una “sanità al servizio di tutti i cittadini”.
Qual è la prospettiva?
Il divario tra la velocità del peggioramento della crisi e la lentezza e la debolezza del livello di politicizzazione con i quali il proletariato sta reagendo può sembrare inquietante. Ma se vediamo da cosa veniamo e cosa esprimono realmente questi movimenti, così come le lotte sui posti di lavoro che scoppiano con sempre maggior frequenza e dappertutto, riusciamo a vederne le potenzialità enormi per lo sviluppo della lotta di classe.
Uno sviluppo che certamente non è immediato, né lineare, né semplice perché il nodo centrale sta nel fatto che il proletariato si riconosca come classe e riacquisti fiducia nella propria forza, il che richiede lo sviluppo di lotte di massa su un terreno direttamente proletario.
Difficile dire come raggiungeremo questa prospettiva, ma gli elementi che abbiamo messo in evidenza dimostrano, secondo noi, che i movimenti degli Indignati hanno fatto un primo passo in questa direzione.
Anche perché questi movimenti hanno gettato il seme per la crescita di due fattori che sono indispensabili per arrivare a distruggere il capitalismo e creare una nuova società:
- la coscienza internazionalista: il movimento degli Indignati in Spagna diceva che la sua fonte d’ispirazione era stata piazza Tahrir in Egitto ed ha cercato un’estensione internazionale della lotta, anche se in modo molto confuso. Da parte loro, i movimenti in Israele ed in Grecia hanno dichiarato esplicitamente che seguivano l’esempio degli Indignati di Spagna. In tanti altri paesi questi tre movimenti sono stati presi come punti di riferimento;
- l’emergere di avanguardie proletarie che potranno costituire gli elementi di cristallizzazione di un processo di ricerca dell’autorganizzazione e della lotta intransigente, a partire da posizioni di classe per la distruzione del capitalismo, il che costituisce un’arma essenziale per le battaglie future.
[1] Su questi movimenti, le lotte proletarie più recenti e quelle passate a cui si fa riferimento nella presentazione, vedi i numerosi articoli sul nostro sito it.internationalism.org [40].
[2] Per approfondire il concetto di decadenza del capitalismo vedi, tra gli altri, l’articolo dell’ultima Rivista Internazionale, 146 “Per i rivoluzionari la Grande depressione conferma l’obsolescenza del capitalismo” disponibile al momento in inglese, https://en.internationalism.org/ir/146/great-depression [203], in spagnolo [204] e in francese https://fr.internationalism.org/rint146/pour_les_revolutionnaires_la_grande_depression_confirme_l_obsolescence_du_capitalisme.html [205]
[3] “Tesi sulla crisi economica e politica in URSS e nei paesi dell’est”, https://it.internationalism.org/node/578 [206].
La miseria crescente, i morsi brutali della crisi economica, il bisogno di libertà di fronte al regno del terrore, l’indignazione di fronte alla corruzione, continuano ad agitare un po’ ovunque le popolazioni in rivolta, specialmente in Egitto[2].
Dopo le grandi mobilitazioni di gennaio e febbraio scorsi, le occupazioni ormai permanenti e quotidiane di piazza Tahrir del Cairo si sono trasformate, dal 18 novembre, in nuove dimostrazioni di massa. Questa volta ad essere preso maggiormente di mira è l’esercito ed i suoi capi. Questi avvenimenti dimostrano che la collera resta perché, contrariamente a quello che pretendeva la borghesia ed i suoi media, all’inizio del 2011 non c’è stata una “rivoluzione” ma solo un movimento di contestazione di massa. Di fronte a questo movimento la borghesia è riuscita ad imporre un semplice cambiamento di gestione del paese: l’esercito agisce esattamente come Mubarak e niente è cambiato sulle condizioni di sfruttamento e repressione della maggioranza della popolazione.
La borghesia reprime nel sangue e calunnia i manifestanti
Tutte le grandi città egiziane sono state di nuovo toccate dal contagio del malcontento di fronte al degrado delle condizioni di vita ed all’onnipresenza dell’esercito nell’assicurare il mantenimento dell’ordine. Il clima di scontro è tanto presente ad Alessandria e Porto-Saïd nel Nord che al Cairo; alcuni scontri importanti si sono avuti al centro del paese, a Suez e Qena, ma anche nel Sud ad Assyut, Assuan, ed ancora verso ovest a Marsa Matrouh. La repressione è stata brutale: sono stati censiti ufficialmente 42 morti e circa 2.000 feriti! L’esercito non esita a violentare le folle con le sue forze antisommossa. Spara e lancia gas lacrimogeni particolarmente nocivi. Alcune vittime muoiono dopo inalazione per soffocamento. Una parte del lavoro sporco di repressione è “subappaltata”: alcuni tiratori scelti assunti ed imboscati usano, coperti da ogni impunità, armi da fuoco. Giovani manifestanti cadono in strada sotto le pallottole di questo genere di mercenari. La polizia, per compensare i limiti imposti dall’uso di proiettili di gomma, non esita a mirare sistematicamente in pieno viso. E’ circolato un video agghiacciante, che ha provocato la collera dei manifestanti, dove si sente uno sbirro “cavatore di occhi” che si congratula col suo collega: “Nel suo occhio! È nel suo occhio! Bravo, amico mio!” (https://www.lexpress.fr/ [207]). I manifestanti che si ritrovano con un occhio in meno sono diventati una legione! A ciò, bisogna aggiungere gli arresti selvaggi e le torture. Spesso, i militari sono accompagnati da miliziani, i “baltaguis”[3], utilizzati in sordina dal regime per seminare disordine. Armati di sbarre di ferro e di randelli, hanno il compito di reprimere, più o meno con discrezione, i manifestanti tentando di isolarli. Sono stati loro, per esempio, l’inverno scorso, a strappare e bruciare le tende degli oppositori e a prestare man forte per numerosi arresti (https://www.lemonde.fr/ [208]).
Contrariamente a quello che i media propagandano, le donne, oggi più numerose nella folla degli scontenti, sono aggredite spesso sessualmente dalle “forze di sicurezza” e sono costrette frequentemente a sottoporsi ad orribili umiliazioni come gli “esami di verginità”. Queste in genere sono più considerate e rispettate dai manifestanti, sebbene l’aggressione di alcune giornaliste occidentali sia stata strumentalizzata (come quella di Caroline Sinz, giornalista di France 3, in cui sarebbero implicati giovani “civili”). Così, “gli eccessi di Tahrir non devono far dimenticare che in piazza si stabilisce un nuovo rapporto tra uomini e donne. Il semplice fatto che i due sessi possano dormire vicino all’aperto costituisce una vera novità. E le donne si sono impadronite di questa libertà nata dalla piazza. Esse sono parti pregnanti della lotta…” (https://www.lepoint.fr/ [209]).
Si lascia anche intendere, insidiosamente, che gli occupanti di Tahrir sono dei “teppisti” perché “se ne infischiano delle elezioni” e rischiano di “mettere in pericolo la transizione democratica”. Sono gli stessi media che, dopo aver sostenuto per molto tempo Mubarak e la sua cricca, hanno sostenuto e salutato qualche mese dopo il regime militare qualificandolo “liberatore”, oggi screditato, approfittando delle illusioni sull’esercito presenti nella popolazione!
Il ruolo chiave dell’esercito per la borghesia egiziana
Anche se, al momento, l’esercito si è molto screditato, sono soprattutto il CSFA (Consiglio supremo delle forze armate) ed il suo capo Hussein Tantaoui ad essere presi di mira. Quest’ultimo, ministro della Difesa per dieci anni sotto Mubarak, percepito come un clone del dittatore, genera una voce unanime delle folle che si riassume così: “Sgombra!”. Ma l’esercito, sostegno storico di Mubarak, è un solido bastione e continua a tenere l’insieme delle leve dello Stato. Esso ha continuato a manovrare per mantenere la propria posizione con il sostegno di tutte le grandi potenze, in particolare degli Stati Uniti. Questo perché l’Egitto è un’importante zona di controllo della situazione in Medio Oriente ed un fattore di stabilità essenziale nella strategia imperialista nella regione, soprattutto nel conflitto israelo-palestinese. Vantando un “ritorno dell’esercito nelle caserme”, la borghesia riesce per ora a mistificare sull’essenziale. Non senza ragioni, il quotidiano Al Akhbar metteva in guardia: “La cosa più pericolosa che possa accadere è il deterioramento della relazione tra il popolo e l’esercito”. Infatti, l’esercito non solo ha assunto un ruolo politico centrale con l’arrivo al potere di Nasser nel 1954, costituendo da allora un pilastro essenziale e costante del potere, ma detiene anche un ruolo economico di primo piano gestendo direttamente numerose imprese. In effetti, dalla sconfitta della “guerra dei 6 giorni” contro Israele e soprattutto dagli accordi di Camp David nel 1979, quando decine di migliaia di militari sono stati smobilitati, la borghesia ha incoraggiato e largamente avvantaggiato una parte dell’esercito a riconvertirsi in imprenditori, per timore che i suoi disoccupati potessero aggravare ulteriormente il mercato del lavoro già interessato da una massiccia disoccupazione endemica. “Ha iniziato dalla produzione di materiale per i suoi bisogni: armamento, accessori ed abbigliamento poi, col tempo, si è lanciato in differenti industrie civili ed ha investito negli sfruttamenti agricoli, esonerati da tasse ed altre imposte” (Libération del 28/11/2011) investendo il 30% della produzione e lubrificando tutti gli ingranaggi della borghesia egiziana. “Il CSFA può essere considerato come un consiglio d’amministrazione di un gruppo industriale, composto da società possedute dall’istituzione [militare] e gestite da generali in pensione. Così, quest’ultimi sono ultra presenti nell’alta amministrazione: 21 dei 29 governatorati del paese sono diretti da anziani ufficiali dell’esercito e della sicurezza”, secondo Ibrahim al-Sahari, rappresentante del Centro degli studi socialisti del Cairo, che aggiunge: “… possiamo comprendere l’angoscia dell’esercito di fronte all’insicurezza ed alle agitazioni sociali che si sono sviluppate in questi ultimi mesi. C’è il timore del contagio degli scioperi alle proprie imprese, dove gli impiegati sono privati di ogni diritto sociale e sindacale mentre ogni protesta è considerata come un crimine di tradimento” (Libération del 28/11). La stretta di ferro con la quale dirige il paese rivela dunque il suo vero volto repressivo.
Una determinazione coraggiosa i cui limiti riguardano il proletariato dei paesi centrali
Se il proseguimento della repressione e la protesta dei “comitati delle famiglie di feriti” hanno cristallizzato la situazione e la collera contro l’esercito, non è stato solo per chiedere ai militari di lasciare il potere, più democrazia ed elezioni. Infatti, ciò che oggi soprattutto spinge i manifestanti in strada è l’aggravamento della miseria nera e della disoccupazione. Con la disoccupazione di massa, nutrire la propria famiglia diventa sempre più difficile. Ed è precisamente questa dimensione sociale che i media occultano. Noi salutiamo il coraggio e la determinazione dei manifestanti che si oppongono a mani nude alle violenze dello Stato. Per difendersi contro gli sbirri armati fino ai denti, i manifestanti hanno solo i marciapiedi divelti come munizioni, usando i lastricati e i cocci come proiettili. I manifestanti esprimono una grande volontà ad organizzarsi in uno slancio collettivo e spontaneo per i bisogni della lotta. Sono costretti ad organizzarsi ed a sviluppare con ingegnosità una vera logistica di fronte alla repressione. Ospedali di fortuna vengono improvvisati un po’ ovunque sulla grande piazza, catene umane lasciano passare le ambulanze. Con gli scooter vengono trasportati i feriti per le prime cure o verso i centri di soccorso. Ma la situazione non è più la stessa rispetto al momento della caduta di Mubarak dove il proletariato ha giocato un ruolo determinante, dove l’estensione rapida di scioperi in massa ed il rigetto dell’inquadramento sindacale ha contribuito ampiamente a spingere i capi militari, sotto la pressione degli Stati Uniti, a cacciare l’ex presidente egiziano dal potere. Oggi per la classe operaia la situazione è molto diversa. Una delle prime misure prese dall’esercito, sin dal mese di aprile, è stata quella di rendere più dura la legislazione “contro i movimenti di sciopero suscettibili di perturbare la produzione per ogni gruppo o settore portando danni all’economia nazionale” e spingere i sindacati ad inquadrare maggiormente i movimenti. Questa legge prevede un anno di prigione ed una multa di 80.000 dollari (in un paese dove il salario minimo è di 50 euro) per gli scioperanti o per quelli che incitano allo sciopero. Pertanto il ricorso allo sciopero è rimasto in quest’ultimi giorni molto localizzato, limitandosi a movimenti puramente economici di fronte alle chiusure di fabbriche o a salari non retribuiti. La mobilitazione operaia non è stata più in grado di giocare un ruolo importante come forza autonoma nel movimento.
Se il movimento rigetta oggi il potere dell’esercito, questo non significa che esso sia meno debole e permeabile a molte illusioni. Innanzitutto perché si richiama ad un governo “civile democratico”, ed i primi effetti si sono visti con i Fratelli musulmani, vedi i salafiti (i due partiti dati in testa alle legislative attraverso il processo elettorale), che, stando per entrare in un “governo civile” di facciata e senza reale potere (nella misura in cui l’esercito continuerà ad assicurare il reale potere politico), si sono smarcati dal movimento di contestazione e non hanno fatto appello ad assembramenti e manifestazioni per poter da subito trattare il loro avvenire politico con i militari. Tuttavia, il miraggio “di elezioni libere”, le prime da più di 60 anni, sembra momentaneamente in grado di evitare la collera. Però, anche se reali, queste illusioni democratiche non sono così forti come la borghesia vorrebbe farci credere: in Tunisia, dove ci si è vantati dell’86% di votanti, non si è avuto che il 50% degli elettori potenziali iscritti alle liste elettorali. Così in Marocco, dove il tasso di partecipazione alle elezioni è stato del 45% e, in Egitto, dove le cifre sono rimaste più sfumate, il 62% degli iscritti ma 17 milioni di votanti su 40.
Oggi le frazioni di sinistra radicale di tutti i paesi gridano: “Tahrir ci mostra il cammino!”, come se si trattasse di copiare questo modello di lotta punto per punto, ovunque, dall’Europa all’America. Questa è una trappola tesa ai lavoratori. Perché non bisogna riprendere tutto da queste lotte. Se è vero che il coraggio, la determinazione, lo slogan oramai celebre “Noi non abbiamo più paura!”, la volontà di raggrupparsi in massa in piazza per vivere e lottare insieme … costituiscono una sorgente di ispirazione e di speranza inestimabili, occorre anche, e forse soprattutto, avere consapevolezza dei limiti di questo movimento: le illusioni democratiche, nazionaliste e religiose, la relativa debolezza dei lavoratori … Questi ostacoli sono legati alla mancanza di esperienza rivoluzionaria e storica della classe operaia di questa regione del mondo. I movimenti sociali dell’Egitto e della Tunisia hanno portato alla lotta internazionale degli sfruttati il massimo di quello che era loro possibile per il al momento. Essi oggi raggiungono i loro limiti obiettivi. Ora tocca al proletariato più sperimento, quello che vive nei paesi del cuore storico del capitalismo, in particolare dell’Europa, portare oltre la spada della lotta contro questo sistema disumano. La mobilitazione degli Indignati in Spagna appartiene a questa indispensabile dinamica internazionale. Essa ha cominciato ad aprire nuove prospettive con le sue assemblee generali aperte ed autonome, con i suoi dibattiti da cui talvolta sono emersi interventi chiaramente internazionalisti e che hanno denunciato la mascherata della democrazia borghese. Solo un tale sviluppo della lotta contro la miseria ed i piani di austerità draconiani nei paesi del cuore del capitalismo può aprire nuove prospettive agli sfruttati, non solo in Egitto ma anche nel resto del mondo. Questa è la condizione indispensabile per offrire un avvenire all’umanità!
WH, 1 dicembre 2011
[1] Vedi i video postati su https://napolioltre.forumfree.it/?t=59352730#lastpost.
[2] E’ chiaramente anche il caso della Siria dove il regime, reprimendo nel sangue le manifestazioni iniziate dal mese di marzo, ha ucciso più di 4.000 persone, tra cui più di 300 bambini.
[3] Una specie di milizia specializzata nell’agitazione e la violenza reclutata tra il sottoproletariato.
“Ci sarà un crac e la caduta sarà violenta”. “Assolutamente nessuno crede ai piani di salvataggio, tutti sanno che il mercato è cotto e che la borsa è finita”. “I trader se ne infischiano di come si dovrà raddrizzare l’economia, il nostro lavoro è fare soldi in questa situazione”. “Io mi corico tutte le sere sognando una nuova recessione”. “Nel 1929 qualcuno era preparato a fare del denaro col crac e tutti oggi lo possono fare, e non solamente l’élite”. “Questa crisi economica è come un cancro”. “Preparatevi! Non è il momento di sperare che i governi risolvano i problemi. I governi non dirigono il mondo, è Goldman Sachs che dirige il mondo. Questa banca se ne frega dei piani di salvataggio”. “Predico che in meno di 12 mesi le economie di milioni di persone spariranno, e sarà solo l’inizio...”.
Questo è stato detto lunedì 26 settembre alla BBC dal trader[1] londinese Alesio Rastani. Da allora, il video gira su Internet creando un vero e proprio buzz[2]. Naturalmente condividiamo la prospettiva nera tracciata da questo economista. Senza avventurarci a predire precise scadenze, come fa lui, tuttavia possiamo affermare senza temere di sbagliarci che il capitalismo continuerà a sprofondare, che la crisi si aggraverà e sarà sempre più devastante, e che le mille sofferenze della miseria andranno ad abbattersi su di una fetta sempre più larga dell’umanità.
Ma questa dichiarazione di Alesio Rastani alimenta una delle più grosse menzogne di questi ultimi anni: il pianeta sarebbe in fallimento a causa della finanza… e solo a causa della finanza. “È Goldman Sachs che dirige il mondo”. Ed allora tutte le voci altermondialiste, di sinistra e di estrema-sinistra, esclamano in coro: “Quale orrore! Ecco la causa di tutti i nostri mali. Dobbiamo riprendere il controllo dell’economia. Dobbiamo mettere in riga le banche e la speculazione. Dobbiamo lottare per uno Stato più forte e più umano!”. Questo discorso viene incessantemente ripetuto dal 2008, dal fallimento del gigante bancario americano Lehman Brothers. Oggi, anche una parte della destra classica ha fatto propria questa critica “radicale” della “finanza selvaggia” ed ha proclamato la necessità di un ritorno a più moralità ed a più Stato. Questa propaganda è solo una disperata cortina di fumo ideologico necessaria per nascondere la causa reale del cataclisma in corso: il fallimento storico del capitalismo. E non si tratta di una sfumatura o di una questione di termini. Accusare il liberismo o accusare il capitalismo è profondamente diverso. Nel primo caso, c’è l’illusione che questo sistema di sfruttamento possa essere riformato. Nel secondo, c’è la comprensione che il capitalismo non ha futuro, che deve essere distrutto da cima a fondo e deve essere sostituito da una nuova società. E’ quindi normale che la classe dominante, i suoi media ed i suoi esperti ci mettano tanta energia nel puntare il dito contro l’irresponsabilità della finanza accusandola di tutte le attuali delusioni economiche: cercano di risparmiare il loro sistema e sviare la riflessione in corso sulla necessità di un cambiamento radicale e dunque di una rivoluzione.
“E’ colpa degli speculatori”!: la pietosa ricerca del capro espiatorio.
Da quattro anni, ad ogni crac della borsa esplode un caso di investitore disonesto. Nel gennaio 2008, lo “scandalo Jérôme Kirviel” ha occupato le prime pagine dei giornali. Viene giudicato responsabile del capovolgimento della Société générale (banca francese) per aver perso 4,82 miliardi di euro in seguito a cattivi investimenti. La vera ragione di questa crisi, cioè lo scoppio della bolla immobiliare negli Stati Uniti, è relegata in secondo piano. Nel dicembre 2008, l’investitore Bernard Madoff è indagato per una truffa di 65 miliardi di dollari. Diventa il più grande truffatore di tutti i tempi e puntualmente fa dimenticare il fallimento del gigante bancario americano Lehman Brothers. Nel settembre 2011, il trader Kweku Adoboli è accusato di una frode di 2,3 miliardi di dollari alla banca svizzera UBS. Questa faccenda cade, guarda caso, nel pieno, di un nuovo disastro economico mondiale. Evidentemente tutti sanno che questi individui sono dei capri espiatori. I trucchi adottati in questi casi dalle banche per giustificare i loro insuccessi sono alquanto grossolani per non essere visti. Ma questa intensa propaganda mediatica permette di focalizzare tutte le attenzioni sul mondo marcio della finanza. L’immagine di questi squali speculatori, senza fede né legge, sta insinuandosi nelle nostre teste fino a diventare ossessiva e annebbiare la nostra riflessione.
Allora fermiamoci un momento e riflettiamo: come possono questi vari fatti spiegare in qualche modo le minacce di fallimento che planano sull’economia mondiale? Per quanto rivoltanti possano essere questi intrallazzi di miliardi di dollari quando milioni di persone muoiono di fame in tutto il mondo, per quanto cinici e vergognosi possano essere i propositi di Alesio Rastani quando dice di sperare in un crac in borsa per speculare ed arricchirsi, non c’è nulla in questo che possa giustificare al fondo l’ampiezza della crisi economica mondiale che attualmente colpisce tutti i settori e tutti i paesi.
I capitalisti, banchieri o capi d’industria che siano, sono da sempre alla ricerca del massimo profitto senza preoccuparsi mai del benessere dell’umanità. In questo non c’è niente di nuovo. Il capitalismo è un sistema di sfruttamento disumano dalla sua nascita. Il saccheggio barbaro e sanguinario delle popolazioni africane e dell’Asia durante il 18° ed il 19° secolo ne è una tragica prova. Quindi, il comportamento amorale degli speculatori e delle banche non spiega assolutamente la crisi attuale. Se oggi le truffe finanziarie provocano perdite colossali e talvolta mettono in pericolo l’equilibro delle banche, la causa reale sta nella loro fragilità indotta dalla crisi e non l’inverso. Se, per esempio, Lehman Brothers è fallito nel 2008, non è per l’irresponsabilità della sua politica di investimento ma perché il mercato immobiliare americano è crollato durante l’estate 2007 e questa banca si è ritrovata con un mucchio di crediti senza nessun valore. Con la crisi dei subprime le famiglie americane indebitate si sono rivelate essere insolvibili e tutti hanno preso allora coscienza che i prestiti accordati non sarebbero stati mai rimborsati.
“E’ colpa delle agenzie di rating”: come accusare il termometro in caso di febbre
Anche queste agenzie sono sotto il fuoco incrociato delle critiche. Alla fine del 2007 furono accusate di incompetenza per aver trascurato il peso dei debiti sovrani degli Stati. Oggi, al contrario, sono accusate di puntare troppo il dito su questi stessi debiti sovrani della zona euro (Moody's) e degli Stati Uniti (Standard & Poor's).
E’ vero che queste agenzie hanno dei propri interessi e che quindi la loro valutazione non è neutra. Ad esempio, le agenzie cinesi sono state le prime a degradare lo Stato americano, e le agenzie americane sono più severe verso l’Europa che verso il proprio paese. Ed è anche vero che ad ogni declassamento i finanzieri ne approfittano per speculare il che accelera il degrado delle condizioni economiche. Gli specialisti parlano allora di “profezie auto-realizzatrici”.
Ma la realtà è che tutte queste agenzie sottovalutano volontariamente la gravità della situazione; le valutazioni che fanno sono ben al di sopra della capacità reale di banche, imprese e di alcuni Stati a poter un giorno rimborsare i loro debiti. E’ fuori discussione che queste agenzie hanno interesse a non criticare troppo i fondamenti economici per non creare panico, perché tutte loro poggiano sull’economia mondiale. Se sono costrette a declassare, è perché devono conservare un minimo di credibilità. Negare totalmente la gravità della situazione dell’economia mondiale sarebbe grottesco e nessuno crederebbe più in loro; è più intelligente, per la classe dominante, riconoscere certe debolezze per meglio minimizzare i problemi di fondo del suo sistema. Tutti quelli che oggi accusano le agenzie di rating sono perfettamente al corrente di tutto ciò. Se denigrano la qualità del termometro, è per evitare ogni riflessione sulla strana malattia che colpisce il capitalismo mondiale, e ciò allo scopo di evitare che ci si accorga che essa è una malattia degenerativa ed incurabile!
“È colpa della finanza”: si confonde la malattia con il sintomo
Queste critiche agli speculatori e alle agenzie di rating fanno parte di un piano di propaganda molto più vasto sulla follia e l’ipertrofia della finanza. Come sempre, questa ideologia menzognera si appoggia su una briciola di verità. Infatti bisogna riconoscerlo, il mondo della finanza in questi ultimi decenni è diventato effettivamente un mostro gigantesco, quasi obeso, che è stato preso poco a poco dall’irrazionalità.
Le prove sono numerosissime. Nel 2008, il totale delle transazioni finanziarie mondiali è arrivato a 2.200.000 miliardi di dollari, contro un PIL mondiale di 55.000 miliardi[3]. L’economia speculativa è dunque circa 40 volte più importante della cosiddetta economia “reale”! E nel corso degli anni questi miliardi sono stati investiti in maniera sempre più folle ed auto-distruttrice. Un esempio che, di per sé, è edificante: che cosa è la vendita allo scoperto? “Nel meccanismo di vendita allo scoperto, cominciamo vendendo un valore che non possediamo per ricomprarlo più tardi. È ben evidente che lo scopo del gioco è vendere un valore ad un certo prezzo e ricomprarlo ad un prezzo inferiore per incassare la differenza. Come vediamo, il meccanismo è completamente opposto a quello di un acquisto in seguito ad una vendita”[4].
Concretamente, la vendita allo scoperto richiede un immenso flusso finanziario speculativo su certi valori scommettendo sul loro abbassamento, ciò che talvolta può provocare il fallimento dell’obiettivo. Oggi questo scandalizza. Numerosi economisti e politici ci spiegano anche che qui sta il problema principale, questa è LA causa del fallimento della Grecia o della caduta dell’euro. La soluzione che propongono è quindi semplice: vietare la vendita allo scoperto e tutto andrà di nuovo per il meglio. Ed è vero che queste vendite allo scoperto sono una pura follia e che accelerano la distruzione di pezzi interi dell’economia. Ma appunto, non fanno che “accelerarla”, non ne sono la causa! E’ necessario che la crisi economica già imperversi affinché queste vendite siano vantaggiose ad un livello così alto. Il fatto che i capitalisti scommettono in modo crescente sulla caduta e non sul rialzo dei mercati rivela in realtà la totale diffidenza che loro stessi hanno sul futuro dell’economia mondiale. È anche per questo che c’è sempre meno stabilità ed investimento a lungo periodo: gli investitori fanno “dei colpi” sul breve termine, senza preoccuparsi minimamente della sopravvivenza delle imprese e delle fabbriche perché, comunque, non esistono quasi più settori industriali sicuri e redditizi sul lungo termine. Ed è qui che, alla fine, cominciamo a toccare con le mani il nocciolo del problema: l’economia “reale” o “tradizionale” è immersa da decenni in un profondo marasma. I capitali scappano da questa sfera che è sempre meno redditizia. Con il commercio mondiale saturo di merci invendibili, le fabbriche non girano più sufficientemente e non accumulano più abbastanza. Risultato, i capitalisti investono il loro denaro nella speculazione, nel “virtuale”. Da qui l’ipertrofia della finanza che è solo un sintomo della malattia incurabile del capitalismo: la sovrapproduzione.
“E’ colpa del liberismo”: come incatenare gli sfruttati allo Stato
Quelli che lottano contro il liberismo condividono questa constatazione di rovina dell’economia reale. Ma nemmeno per un attimo l’attribuiscono all’impossibilità per il capitalismo di continuare a svilupparsi; negano che questo sistema sia diventato decadente e che affonda nella sua agonia. I sostenitori dell’ideologia altermondialista attribuiscono la distruzione dell’industria fin dagli anni 60 ad una cattiva scelta politica e dunque all’ideologia ultra liberista. Per questi, come per il nostro trader Alesio Rastani, “è Goldman Sachs che dirige il mondo”. Loro dunque lottano per più Stato, più inquadramento, più politica sociale. Partendo dalla critica al liberismo, vengono a riproporci un’altra cianfrusaglia già avariata, lo statalismo: “Con più Stato per inquadrare la finanza, potremmo costruire una nuova economia, più sociale e prospera”.
Il “più Stato” non permette affatto di regolare i problemi economici del capitalismo. Lo ripetiamo, ciò che mina fondamentalmente questo sistema è la sua tendenza naturale a produrre più merci rispetto alla capacità di assorbimento dei suoi mercati. Da decenni riesce ad evitare la paralisi della sua economia smerciando artificialmente la sovrapproduzione in un mercato creato attraverso l’indebitamento. In altri termini, il capitalismo sopravvive a credito dagli anni 60. E’ per tale motivo che attualmente, gli individui, le imprese, le banche, gli Stati, crollano tutti sotto una gigantesca montagna di crediti e che l’attuale recessione è chiamata “la crisi del debito”. Dal 2008 e dal fallimento di Lehman Brothers, che cosa fanno gli Stati, attraverso le loro banche centrali, Fed e BCE in testa? Iniettano miliardi di dollari per evitare i fallimenti. E da dove vengono questi miliardi? Da nuovi debiti! Dunque, non fanno che spostare l’indebitamento privato verso la sfera pubblica e così preparare futuri fallimenti di Stato, come oggi vediamo con la Grecia. Le future burrasche economiche rischiano di essere di una violenza inaudita[5].
“Ma se non aggiusta la crisi, lo Stato potrebbe comunque proteggerci, essere più sociale”, ci dicono tutti quelli della sinistra. Questo significa dimenticare che lo Stato è, ed è sempre stato, il peggiore dei padroni. Le nazionalizzazioni non hanno mai rappresentato una buona nuova per i lavoratori. All’indomani della Seconda Guerra mondiale, l’importante ondata di nazionalizzazioni ha avuto per obiettivo rimettere in piedi l’apparato produttivo distrutto aumentando i ritmi di lavoro. All’epoca, Thorez, segretario generale del Partito comunista francese ed allora vicepresidente del governo diretto da De Gaulle, sferrò il seguente attacco alla classe operaia in Francia, ed in modo particolare agli operai delle imprese pubbliche: “Se dei minatori dovranno morire facendo il loro dovere, le loro donne li sostituiranno”, o: “Rimboccatevi le maniche per la ricostruzione nazionale!”; e ancora “Lo sciopero è l’arma dei trust”. Benvenuti nel meraviglioso mondo delle imprese nazionalizzate! Qui non c’è niente di inatteso o stupefacente. I rivoluzionari comunisti hanno sempre messo in evidenza, sin dall’esperienza della Comune di Parigi del 1871, il ruolo visceralmente anti-proletario dello Stato. “Lo stato moderno, qualunque ne sia la forma, è una macchina essenzialmente capitalista: lo Stato dei capitalisti, il capitalista collettivo ideale. Più fa passare forze produttive nella sua proprietà, e più diventa capitalista collettivo nei fatti, più sfrutta i cittadini. Gli operai restano dei salariati, dei proletari. Il rapporto capitalista non è soppresso, è spinto al contrario al suo estremo”. Friedrich Engels ha scritto queste righe nel 1878, mostrando che, già all’epoca, lo Stato cominciava ad estendere i suoi tentacoli sull’insieme della società, a tenere in una morsa d’acciaio la direzione di tutta l’economia nazionale, sia delle imprese pubbliche che delle grandi società private. Da allora, il capitalismo di Stato non ha fatto che rafforzarsi; ogni borghesia nazionale è in riga e sull’attenti dietro il suo Stato per condurre nel miglior modo possibile l’incessante guerra commerciale internazionale che si fanno tutti i paesi.
“I Bric ci potranno salvare”: i miracoli economici non esistono
Il Brasile, la Russia, l’India, la Cina e l’Africa del Sud (o Bric) hanno conosciuto in questi ultimi anni un successo economico strepitoso. La Cina in particolare è considerata oggi come la seconda potenza economica mondiale, e molti sono quelli che pensano che essa non tarderà a detronizzare gli Stati Uniti. Questo successo folgorante fa sperare agli economisti che questo gruppo di paesi potrebbe diventare la nuova locomotiva dell’economia mondiale, come lo furono gli Stati Uniti dopo la Seconda Guerra mondiale. Di recente, di fronte ai rischi d’esplosione della Zona euro impantanata nella crisi dei debiti sovrani, la Cina ha proposto di recuperare in parte le casse italiane. Gli altermondialisti vedono in ciò una ragione per rallegrarsi: dato che la supremazia americana dell’ultra liberismo è stata vissuta come uno dei peggiori flagelli di questi ultimi decenni, l’ascesa dei Bric permetterebbe, secondo loro, l’avvento futuro di un mondo più equilibrato e giusto. Questa speranza di tutti i grandi borghesi e degli altermondialisti nello sviluppo dei Bric non solo è ridicola ma mostra anche quanto tutti costoro siano profondamente attaccati al mondo capitalista.
Tuttavia, questa speranza sta per essere delusa rapidamente perché in tutta questa faccenda di “miracolo economico” c’è un’aria di déjà-vu. L’Argentina e le tigri asiatiche negli anni 1980-90 o, più recentemente, l’Irlanda, la Spagna e l’Islanda sono state tutte indicate come “miracoli economici”. E come ogni miracolo, il tutto si è rivelato essere una frode. Tutti questi paesi dovevano la loro veloce crescita ad un indebitamento sfrenato e quindi hanno subito la stessa sorte: recessione e fallimento. Sarà lo stesso per i Bric. Ed infatti già crescono le inquietudini sull’indebitamento reale delle province cinesi, sul rallentamento della crescita e l’aumento dell’inflazione. Il presidente del fondo sovrano China Investment Corp, Gao Xiping, ha del resto dichiarato: “Non siamo dei salvatori, dobbiamo salvarci noi stessi”. Non potremmo essere più chiari!
La verità è che il capitalismo non ha né soluzione, né futuro
Il capitalismo non può più essere riformato. Se vogliamo essere realisti, dobbiamo ammettere che solo la rivoluzione può evitare la catastrofe. Il capitalismo, come lo schiavismo e il servaggio prima di lui, è un sistema di sfruttamento condannato a sparire. Dopo essersi sviluppato ed espanso per due secoli, dal 18° al 19° secolo, dopo avere conquistato il pianeta, il capitalismo è entrato in decadenza fragorosamente scatenando la Prima Guerra mondiale. La Grande depressione degli anni 30, poi la spaventosa carneficina della Seconda Guerra mondiale hanno confermato l’obsolescenza di questo sistema e la necessità, affinché l’umanità sopravviva, di abbattere questo moribondo sistema sociale. Ma dagli anni 50, non è esplosa nessuna crisi tanto violenta come quella del 29. La borghesia ha imparato a limitare i danni ed a rilanciare l’economia. Questo oggi fa credere ad alcuni che la nuova crisi che attraversiamo è solamente un ennesimo e nuovo episodio di questi molteplici scossoni e che la crescita non tarderà a ritornare, come è capitato dagli anni 60 ed oltre. In realtà, le recessioni successive, del 1967, 1970-71, 1974-75, 1991-93, 1997-1998 (in Asia), e 2001-2002 non hanno fatto che preparare il dramma attuale. Infatti, ogni volta, la borghesia è riuscita a rilanciare l’economia mondiale solo aprendo ancora di più le valvole del credito. Essa non è riuscita mai a risolvere il problema di fondo, la sovrapproduzione cronica. Dunque ha solo rinviato le scadenze a colpi di debiti ed oggi l’intero sistema è soffocato dai crediti: tutti i settori, tutti i paesi sono super indebitati. Questa fuga in avanti sta per arrivare alla sua fine. Questo significa che l’economia si bloccherà, che tutto si fermerà? Evidentemente no. La borghesia continuerà a dibattersi. Concretamente, oggi, la classe dominante può solo scegliere tra due politiche che sono come la peste ed il colera: austerità draconiana o rilancio monetario. La prima porta alla recessione violenta, la seconda all’esplosione di un’inflazione incontrollabile.
D’ora in poi, l’alternanza delle brevi fasi recessive e dei lunghi periodi di ripresa finanziata a forza di crediti riguarda un’epoca definitivamente conclusa: la disoccupazione esplode e la miseria come la barbarie si stanno estendendo in modo drammatico. Se ogni tanto ci saranno delle fasi di rilancio, come nel 2010, saranno solo delle “boccate di ossigeno” di breve durata alle quali seguiranno nuovi cataclismi economici. Tutti quelli che pretendono il contrario sono come quel suicida che, dopo essersi buttato nel vuoto dall’alto dell’Empire State Bulding, ad ogni piano dice “fino qui, tutto va bene”. Non dimentichiamo che all’inizio della Grande depressione del 1929, lo stesso presidente americano Hoover affermava che “la prosperità è all’angolo della strada”.
In realtà la sola vera incertezza è sapere come ne uscirà l’umanità. Sprofonderà col capitalismo? O saprà costruire un nuovo mondo di solidarietà e di reciproca assistenza, senza classi né Stato, senza sfruttamento né profitto? Come ha scritto Friedrich Engels più di un secolo fa: “La società borghese è posta davanti ad un dilemma: o passaggio al socialismo o ricaduta nella barbarie!” Le chiavi di questo futuro sono tra le mani di tutta la classe operaia e delle sue lotte che uniscono lavoratori, disoccupati, pensionati e giovani precari.
Pawel, 29 settembre
[1] In finanza [210], un trader è una persona che compra e vende in borsa. I trader possono essere dei professionisti, dei piccoli investitori o degli speculatori finanziari.
[2] Buzz! è una serie di videogiochi di quiz. Fonte: www.dailymotion.com/video/xlcg84 [211]
[5] “Più Europa” o “Più governo mondiale” evidentemente sono entrambi un vicolo cieco: che siano soli o in parecchi, gli Stati non hanno nessuna soluzione reale e duratura. La loro unione permette di rallentare un poco l’avanzata della crisi mentre le loro divisioni l’accelerano.
Febbraio-marzo 2012
La volontà di cambiare il sistema capitalista si è affermata e propagata nel mondo durante questi ultimi mesi molto velocemente, in particolare tra i giovani, attraverso il movimento degli Indignati e degli Occupy. Questo movimento di contestazione, di dimensione internazionale, è segnato profondamente dalla violenza della crisi economica e dal degrado brutale delle condizioni di vita. In Spagna, in Grecia, in Portogallo, in Israele, in Cile, negli Stati Uniti, in Gran Bretagna … ai quattro angoli del globo, una stessa angoscia di fronte all’avvenire è presente in tutte le discussioni. Ma ben più della disoccupazione o della precarietà, quello che genera tanta inquietudine è indiscutibilmente l’assenza di alternativa. Che fare? Come lottare? Contro chi? La finanza? La destra? I dirigenti? E soprattutto, un altro mondo è possibile?
Oggi, una delle risposte che emerge è la necessità di riformare, di “democratizzare” il capitalismo. Soprattutto i media, gli intellettuali e la sinistra borghese fanno grande pubblicità a questa “lotta per la democrazia”. Il movimento partito dalla Spagna si è chiamato “Indignati” in riferimento all’opuscolo Indignatevi! di Stéphane Hessel, che si è affrettato a pubblicare una seconda parte, Impegnatevi!, per veicolare il malcontento verso le urne ed allontanarlo così dalla strada. Anche le organizzazioni altermondialiste hanno orientato il movimento verso una lotta per “più democrazia”. La rappresentanza ufficiale del movimento degli Indignati è stata presa da DRY, ¡Democracia real Ya ! (democrazia reale adesso). Questa battaglia democratica ha ottenuto realmente un certo successo. Ad inizio gennaio, gli Occupy del villaggio di tende di Saint-Paul a Londra hanno brandito un immenso striscione che reclamava la democratizzazione del capitalismo.
Perché la parola d’ordine per “un capitalismo più democratico” ha avuto tanto successo? La “primavera araba” ha reso evidente agli occhi di tutti che le cricche al potere in Tunisia, Egitto, Siria, Libia … da decenni depredavano le popolazioni, mantenendo il loro dominio con la paura e la repressione. La contestazione, prodotta dall’aumento della miseria, è riuscita a sollevare questa cappa di piombo ed ha rappresentato un forte incoraggiamento per gli sfruttati del mondo intero. Anche in Europa, se pure culla della democrazia occidentale, il malcontento si è concentrato su una “élite dirigente” incapace, disonesta … ma ricca. In Francia, la cricca del presidente Sarkozy è stata denunciata da numerosi libri, come il Presidente dei ricchi, e da altre recenti opere come l’Oligarchia degli incapaci, scritte da giornalisti, ricercatori o intellettuali, che mostrano come la borghesia francese è fatta da clan che spogliano tutta la società in nome dei loro interessi particolari. Questi comportamenti da malavitosi non possono che generare indignazione e disgusto. Da Bush a Berlusconi, è stata emessa la stessa condanna. Ma è in Spagna che questo rigetto delle élite ha preso una piega più politica. All’inizio del movimento degli Indignati quello che è stato particolarmente sorprendente è il fatto che in piena campagna elettorale, periodo tradizionalmente di attesa e privo di lotte, si è sviluppato un largo movimento di contestazione. Mentre tutti i media e i responsabili politici focalizzavano l’attenzione sul potere delle urne, le strade rifiorivano di AG (Assemblee Generali) e di discussioni di ogni genere. Del resto, era particolarmente diffusa l’idea che “destra e sinistra, sono la stessa merda”. Talvolta si sentiva echeggiare anche “tutto il potere alle assemblee!”. Un nostro compagno ha sentito una donna rispondere a quelli che volevano “far pressione sul governo” che una simile pratica politica era contraddittoria rispetto alla parola d’ordine di “tutto il potere alle assemblee!”.
Che cosa significa ciò? Che cresce l’idea che, dappertutto, sotto qualsiasi governo, è effettivamente “la stessa merda”. Che cosa hanno cambiato le elezioni democratiche in Egitto ed in Spagna? Niente! Che cosa è cambiato in Italia ed in Grecia in seguito alle rispettive dimissioni di Berlusconi o di Papandreu? Niente! I piani di austerità sono diventati più duri ed oggi sono diventati ancora più insopportabili. Elezioni o meno, la società è diretta da una minoranza dominante che mantiene i suoi privilegi sulle spalle della maggioranza. È del resto questo il significato profondo del famoso “1% e 99%” ideato e gridato dal movimento degli Occupy negli Stati Uniti. Nei fatti, fondamentalmente, c’è una volontà crescente di non subire più, di prendere le cose in mano … l’idea che devono essere le masse ad organizzare la società … A partire da “tutto il potere alle AG”, c’è una reale aspirazione a costruire una società in cui non è più una minoranza a dettare le nostre vite.
Ma la domanda è: questa nuova società può veramente essere realizzata da una lotta per “democratizzare il capitalismo?”
Il capitalismo, dittatoriale o democratico, resta un sistema di sfruttamento
Sì, essere diretti da una minoranza di privilegiati è insopportabile. Sì, tocca a “noi” prendere in mano le nostre vite … Ma chi è, questo “noi”? Nella risposta data dai movimenti attuali, in modo maggioritario, “noi” è “tutti”. “Tutti” dovrebbero dirigere la società attuale, in altre parole tutti dovremmo dirigere il capitalismo, attraverso una reale democrazia. Ma è qui che appaiono i veri problemi: il capitalismo non appartiene … ai capitalisti? Questo sistema di sfruttamento non costituisce l’essenza stessa del capitalismo? Se la democrazia, come esiste oggi, è la gestione del mondo da parte di un’élite, non è proprio perché questo mondo e questa democrazia appartengono a questa stessa élite? Andiamo fino in fondo al ragionamento, immaginiamo per un istante una società capitalista animata da una democrazia perfetta ed ideale dove “tutti” deciderebbero su tutto collettivamente. Del resto in Svizzera o in certi villaggi autogestiti in Spagna, o nel programma del 2007 di Ségolène Royal[1], si trova la presenza di questa “democrazia partecipativa”. Ed allora? Gestire una società di sfruttamento non significa sopprimere questo sfruttamento… Negli anni 1970, molti operai hanno sostenuto una rivendicazione di autogestione nella quale credevano fortemente: “Non più padroni, noi stessi produciamo e noi stessi ci paghiamo!” Gli operai della Lip in Francia l’hanno imparato a loro spese: hanno gestito collettivamente ed in modo egualitario la “loro” impresa. Ma seguendo le leggi imprescindibili del capitalismo, hanno finito per accettare la logica del mercato … l’auto-licenziamento e ciò in modo “libero” e molto “democratico”. Vediamo dunque che oggi, nel capitalismo, la democrazia più vicina alla perfezione non cambierebbe niente rispetto alla costruzione di una nuova società. La democrazia, nel capitalismo, non è un organo del potere di conquista del proletariato o di abolizione del capitalismo … è un modo politico di gestione del capitalismo! Per mettere fine allo sfruttamento, non c'è che una sola soluzione: la rivoluzione.
Chi può cambiare il mondo? Chi può fare la rivoluzione?
Siamo sempre più numerosi a sognare una società in cui l’umanità possa gestire la sua vita con le proprie mani, in cui sarebbe padrona delle sue decisioni, in cui non sarebbe divisa tra sfruttatori e sfruttati, ma unita ed egualitaria … Ma la questione è: “Chi può costruire questo mondo? Chi può permettere che domani l’umanità prenda in mano la società?” “Tutti”? Ebbene, no! Perché non “tutti” hanno interesse alla fine del capitalismo. Evidentemente, la grande borghesia lotterà sempre con le unghie e con i denti per mantenere il suo sistema e la sua posizione dominante sull’umanità, pronta a versare abbondante sangue, ivi compreso nelle “grandi democrazie”. Ed in questo “tutti”, ci sono anche gli artigiani, i notabili, i proprietari terrieri …, in breve la piccola borghesia che o vuole conservare il tenore di vita che le offre questa società o è presa dalla nostalgia di un passato idealizzato quando viene minacciata dal declassamento. La fine della proprietà privata non fa certamente parte dei suoi progetti.
Per diventare padrona della sua vita, l’umanità deve uscire dal capitalismo. Ora, solo il proletariato può rovesciare questo sistema. La classe operaia raggruppa i salariati di fabbriche e degli uffici, del privato e del pubblico, i pensionati ed i giovani lavoratori, i disoccupati ed i precari[2]. Questo proletariato costituisce la prima classe storica che è al tempo stesso sfruttata e rivoluzionaria[3]. In precedenti epoche storiche sono stati i nobili a condurre la lotta rivoluzionaria contro lo schiavismo e poi i borghesi contro il feudalismo. Ogni volta, un sistema di sfruttamento è stato cacciato ed è stato sostituito da … un nuovo sistema di sfruttamento. Oggi sono gli stessi sfruttati che possono abbattere il sistema dominante e costruire così un mondo senza classi e senza frontiere. Senza frontiere perché la nostra classe è internazionale; subisce ovunque lo stesso giogo capitalista, ha ovunque gli stessi interessi. Del resto, fin dal 1848, la nostra classe si è data questo grido di raggruppamento: “I proletari non hanno patria. Proletari di tutti i paesi, unitevi!”. Tutti i movimenti di questi ultimi mesi, quelli del Medio Oriente, degli Indignati, degli Occupy ... si richiamano gli uni agli altri, da un paese all’altro, da un continente all’altro, mostrando ancora una volta che non ci sono frontiere per la lotta degli sfruttati e degli oppressi. Ma questi movimenti di contestazione hanno anche una grande debolezza: la forza viva degli sfruttati, la classe operaia, non ha ancora coscienza di sé, della sua esistenza, della sua forza, della sua capacità ad organizzarsi come classe … e per questo essa si diluisce nel “tutti” ed è ancora vittima della trappola ideologica che si proclama “per un capitalismo più democratico”.
Per far trionfare la rivoluzione internazionale e costruire una nuova società, occorre che la nostra classe sviluppi la Sua lotta, la Sua unità, la Sua solidarietà … e soprattutto la Sua coscienza di classe. Occorre per ciò che riesca ad organizzare al suo interno il dibattito, discussioni le più ampie, le più vive, le più effervescenti possibili per sviluppare una propria comprensione del mondo, di questo sistema, della natura della sua lotta … I dibattiti devono essere liberi ed aperti a tutti coloro che vogliono provare a rispondere alle molteplici domande che si pongono agli sfruttati: come sviluppare la lotta? Come organizzarci? Come far fronte alla repressione? Ed essi devono essere chiusi a quelli che vengono a sostenere ed a propagandare l’ordine costituito. Certamente non si tratta di salvare o riformare questo mondo agonizzante e barbaro! Questi momenti devono essere, in un certo senso, lo specchio della democrazia ateniese, la sua immagine speculare: nella Grecia antica, ad Atene, la democrazia era il privilegio dei proprietari di schiavi, dei cittadini maschi, gli altri strati della società ne erano esclusi. Ebbene, nella lotta rivoluzionaria del proletariato esiste la massima libertà al suo interno ma ne sono esclusi quelli che hanno come unico interesse mantenere lo sfruttamento capitalista.
Il movimento degli Indignati e degli Occupy portano l’impronta caratteristica di questa volontà di dibattere, di questa incredibile effervescenza, di questa creatività delle masse in azione che caratterizzano la nostra classe quando lotta, come è stato possibile vedere, per esempio, nel maggio 68, dove si discuteva ad ogni angolo di strada. Ma oggi la sua forza creatrice è diluita, addirittura paralizzata, per la sua incapacità ad escludere dalla sua lotta e dai suoi dibattiti coloro che in realtà lavorano anima e corpo alla sopravvivenza del sistema attuale. Se vogliamo un giorno mandare nelle pattumiere della storia parole come profitto, sfruttamento, repressione ed essere infine i padroni della nostra vita, la strada da seguire dovrà separarsi necessariamente da questi appelli illusori per “democratizzare il capitalismo” e da tutti i sostenitori di un “capitalismo più umano”.
CCI, 28 gennaio.
[1] Candidata alle elezioni presidenziali francesi del 2007, per conto del Partito socialista.
[2] Vedi il nostro articolo “Chi è la classe operaia?” in lingua francese sul nostro sito [214].
[3] Vedi “Perché la classe operaia è la sola classe rivoluzionaria” sul nostro sito (https://fr.internationalism.org/ri330/comm.html [215]).
Venerdì 13 gennaio l’agenzia di rating americana Standard & Poor’s (S& P) declassa la nota di credito di 9 paesi della zona euro. È il “black Friday”! La Francia, l’Austria, Malta, la Slovacchia e la Slovenia cadono di una tacca, l’Italia, la Spagna, il Portogallo e Cipro di due. Questa decisione mette l’Italia allo stesso livello del Kazakhstan (BBB+) e pone il Portogallo nella categoria ad alto rischio! Inoltre S& P mette 14 paesi della zona in posizione di prospettiva negativa (in totale 15 paesi su 17 sono in prospettiva negativa). In sintesi, solo la Germania ha ancora il bollino “AAA - prospettiva stabile” in una zona euro alla deriva.
Un naufragio economico mondiale
La perdita della tripla A francese è l’indice più rivelatore della gravità della situazione economica in Europa. La Francia formava insieme alla Germania la colonna vertebrale della zona euro. Sono soprattutto questi due paesi che hanno alimentato i fondi di aiuto alla Grecia, all’Italia ed alla Spagna. Ma, non avendo più la sua AAA, la Francia non può essere più un garante credibile e la Germania si trova da sola a dover sopportare il carico dell’indebitamento europeo. Anche perché lo stesso Fondo europeo di stabilità finanziaria (FESF) è stato declassato dalla S& P.
Per la borghesia il quadro è catastrofico. Dal 2008 il sistema bancario è alla frutta, deve la sua sopravvivenza solo alla trasfusione permanente di denaro fresco delle banche centrali. Ad esempio, in Germania, che si presume essere il paese più solido della zona euro, tutte le banche sono super indebitate e nessuno sa come incasseranno i prossimi ineluttabili colpi, quali il fallimento annunciato della Grecia. Oggi, banche, fondi d’investimento, grandi industriali, Stati, banche centrali, istituzioni internazionali (come il FMI)… tutti si sostengono l’un l’altro come degli ubriachi che, uscendo da un bar, si sorreggono spalla a spalla per tentare di andare diritto e non cadere. Il risultato è prevedibile: un cammino tortuoso ed improbabile, poi… la caduta collettiva. La borghesia stessa ha, in parte, coscienza dei giorni scuri che aspettano la sua economia. Per Ben May, del Capital Economics, “il Portogallo e la Grecia subiranno delle recessioni assai severe qualunque cosa intraprendano i dirigenti nelle settimane o i mesi prossimi per salvare la zona euro”[1]. L’economia portoghese, secondo lui, si contrarrà l’anno prossimo dell’8%! La situazione dell’Italia e della Spagna non sono migliori: il loro PIL dovrebbe arretrare del 2,2% e l’1,7%!
E la crisi non devasta soltanto la zona euro. L’economia britannica si è contratta dello 0,2% all’ultimo trimestre 2011 e teme di perdere a sua volta la famosa tripla A. Anche il Giappone dovrebbe conoscere la recessione (-0,4% per l’anno fiscale in corso).
Più in generale, il FMI ha rivisto al ribasso le previsioni di crescita mondiale per il 2012. Il suo scenario più ottimista prevede il 3,3% di crescita (non più il 4% come veniva avanzato nel settembre scorso) ma, secondo il parere del suo capo economista Olivier Blanchard, “se la crisi della zona euro peggiora, il mondo ricadrà nella recessione”.
L’impossibile annullamento dei debito
Il marasma economico attuale è chiamato dagli specialisti “la crisi del debito”. La montagna di crediti accumulati nei fatti dagli anni 60 da tutti i protagonisti dell’economia mondiale, dalle imprese alle banche, dagli Stati ai privati, ha creato una sorta di iper-indebitamento generalizzato che spinge l’economia mondiale verso il fallimento[2].
Di fronte a questa situazione la borghesia non ha alcuna soluzione. Quando tenta di sdebitare la sua economia, la recessione è immediata e brutale. L’attività è come paralizzata, tutto si ferma. E, alla fine dei conti, i disavanzi aumentano. Quando tenta di rilanciare la crescita iniettando in maniera massiccia denaro, i disavanzi… aumentano. Due percorsi, una stessa destinazione: il fallimento.
In Europa, in particolare in Grecia e in Portogallo, l’austerità è violenta, i tagli netti nei bilanci sono fatti con l’accetta. Risultato? Dei paesi sul bordo del baratro. Oggi il FMI richiede alle banche europee di accettare perdite importanti sulla Grecia (e questo minaccerà a sua volta questi istituti di bancarotta) ed auspica che la zona euro aggiunga 1000 miliardi alla FESF ed al MES (Meccanismo europeo di stabilità) per salvare l’Irlanda, il Portogallo, la Spagna e l’Italia che stanno per mollare a loro volta. Naturalmente la Germania si è fin d’ora posta contro una tale possibilità poiché spetta ad essa il privilegio di fornire la maggior parte della somma.
Negli Stati Uniti, nonostante le migliaia di miliardi iniettati dal 2008, l’economia nazionale si intestardisce a non decollare. Lo Stato dunque dovrà continuare a mantenere l’attività sotto iniezione di denaro “a basso costo”. La Riserva federale ha appena annunciato che non prevedeva di aumentare i suoi tassi prima della fine del 2014, che mantiene questi vicino a zero (tra lo 0% e lo 0,25%), e molti analisti restano persuasi che la Banca centrale non sfuggirà al lancio di un nuovo ciclo “di rilancio quantitativo” (“QE3”)[3], sotto forma di 500 miliardi di dollari di riacquisto di “mortgage-backed securities”[4] e di buoni del Tesoro, in aprile o in giugno. In breve, altro debito sarà ancora aggiunto al debito e in grande, grande quantità! Tutto questo denaro creato colerà a fiotti ma senza generare alcun rilancio reale e duraturo, un po’ come se fosse versato “nel barile delle Danaidi”[5]. La borghesia potrà versare tutto il denaro che vuole nel barile dell’economia mondiale, non servirà a nulla. Il suo sistema è moribondo, condannato. Ma il raffronto con le Danaidi si ferma qui. Se nella mitologia un supplizio può durare eternamente, nel mondo reale tutto ha una fine e quella del capitalismo si avvicina.
L’Esplosione della disoccupazione
La Spagna in crisi ha appena superato il livello “storico” di 5 milioni di disoccupati. Tra chi ha di meno di 25 anni, più di uno su due (il 51,4%) è senza lavoro. In soli 4 anni il paese ha moltiplicato per 3 il tasso di disoccupazione!
La Francia conta ufficialmente quasi 2,8 milioni di disoccupati senza alcuna attività. Con i dipartimenti d’oltremare, il numero di richiedenti lavoro arriva a 4,5 milioni. Anche qui l’aumento è vertiginoso[6].
I proletari di tutti i paesi sono confrontati a questa stessa realtà drammatica. Tutti? No! La Germania farebbe eccezione … se si vuol credere ai bugiardi che ci governano. Mai, oltre Reno, il tasso di disoccupazione è stato così basso dopo la riunificazione (6,9%). Un vero “miracolo economico”. Tranne se si tiene conto dei milioni di disoccupati eliminati dalle liste o dei precari che dipendono dall’aiuto sociale… Il lungo estratto che segue dell’articolo “Disoccupazione: la faccia nascosta del miracolo economico tedesco” è edificante al riguardo:
“Nel 2001, il Cancelliere socialista Schröder (…) fa appello a Peter Hartz, direttore delle risorse umane della Volkswagen, che pensa di aver trovato la soluzione allo sperpero del sistema dei sussidi. Si tratterà delle famose leggi Hartz, delle quali la più conosciuta e la più contestata è la Legge Hartz IV. Colui che tutta la Germania chiama ben presto “Doktor Hartz”, vuole combattere la “disoccupazione volontaria” ed organizza un sistema coercitivo di ricerca di posti di lavoro. Instaura i famosi “mini-lavori”, pagati 400 euro al mese senza contributo sociale e dunque senza assicurazione, ed i “lavori da 1 euro”, essenzialmente lavori d’interesse pubblico. Tutto il sistema tedesco di sussidio viene ridotto in pezzi. (…) Si conosce il seguito: risultati impressionanti, ma illusori. Come Brigitte Lestrade, autrice di uno studio sulle riforme Hartz IV, alcuni vi vedono la messa in atto di un sistema che, per vasi comunicanti, avrebbe gradualmente fatto passare diversi milioni di tedeschi dalle liste di disoccupazione a quelle “di quasi-disoccupazione” o lavoratori poveri. La ricercatrice stima a 6,6 milioni di persone - di cui 1,7 milioni di figli - “i beneficiari” della Hartz IV. I 4,9 milioni di adulti sono nei fatti dei disoccupati, dei “quasi-disoccupati„ (che lavorano meno di 15 ore alla settimana) o dei precari. (…) Un responsabile dell’Arbeitsagentur di Amburgo (l’ufficio di collocamento tedesco), che desidera conservare l’anonimato, non nasconde la sua rabbia: ‘Che la si smetta di parlare di miracolo economico. Oggi, il governo ripete che siamo intorno a 3 milioni di disoccupati, il che sarebbe effettivamente una cosa storica. La realtà è molto diversa, 6 milioni di persone ricevono la Hartz IV, sono tutti disoccupati o grandi precari. La vera cifra non è di 3 milioni di disoccupati ma di 9 milioni di precari’”[7].
In realtà, non ci sono isole paradisiache su questa terra dominata dal capitalismo. L’inferno dello sfruttamento regna ovunque e lacera la nostra schiena con la frusta della crisi economica. Secondo l’Organizzazione internazionale del lavoro, 1,1 miliardo di persone nel mondo sono disoccupati o vivono sotto la soglia di povertà. 450 milioni di lavoratori poveri sopravvivono con meno di 1,25 dollari al giorno! E questa situazione drammatica non smette di peggiorare.
Il sistema di sfruttamento attuale sta agonizzando, non c’è alcun dubbio. C’è solo un’incertezza: l’umanità si estinguerà con esso o sarà capace di generare un altro mondo? In altre parole, noi, gli sfruttati, accetteremo ancora per molto le mille sofferenze che il capitalismo ci fa patire?
Pawel (28 gennaio)
[1] Fonte: lexpansion.lexpress.fr/actualite-economique [216].
[2] Vedi: “La catastrofe economica mondiale è inevitabile”, Rivista Internazionale n.33 (https://it.internationalism.org/node/1134 [217]); “Crisi economica: accusano la finanza per risparmiare il capitalismo!”, Rivoluzione Internazionale n. 173 (https://it.internationalism.org/node/1122 [218]).
[3] I QE 1 e 2 sono stati dei piani di rilancio dell’economia americana, entrambi sono stati inefficaci. Concretamente, attraverso questi, dal 2008 sono stati iniettati 2000 miliardi di dollari cosa che ha giusto permesso alla “crescita” di non crollare.
[4] Si tratta di titoli garantiti da un insieme di prestiti ipotecari. Essi derivano da un processo di securization, processo che trasforma i debiti ipotecari in titoli negoziabili sui mercati.
[5] Nella mitologia greca le Danaidi erano le cinquanta figlie del re Danaos. Questo re accettò di far sposare le sue figlie con i cinquanta figli di suo fratello, col quale era in contrasto, ma fece promettere alle figlie di uccidere i loro mariti subito dopo le nozze. Tutte lo fecero, eccetto Ipermestra, che salvò il suo sposo Linceo il quale però uccise le altre 49 ragazze per vendicare i suoi fratelli. Agli inferni, le Danaidi come punizione furono condannate a riempire eternamente d’acqua un barile bucato.
[6] Per l’Italia l’Istat segnala che a dicembre 2011 il tasso di disoccupazione è salito all’8,9%, con 2 milioni e 243mila disoccupati, circa 20mila in più rispetto a novembre. Fonte: Economia e Finanza, del 31 gennaio 1012 (economiaefinanza.blogosfere.it/2012/01/disoccupazione-giovanile-e-record-negativo-in-italia.html).
[7] Fonte: fr.myeurop.info/2011/10/04/chomage-la-face-cachee-du-miracle-economique-allemand-3478.
In tutti i paesi le imprese stanno licenziando massicciamente, la disoccupazione sta esplodendo a livello mondiale. Sono all’ordine del giorno le notizie di chiusura di aziende o di ridimensionamento del personale.
Ovunque nel mondo assistiamo ad attacchi senza precedenti contro la classe operaia; dappertutto governi di destra o di sinistra stanno imponendo manovre che comportano tagli di bilancio brutali.
Il licenziamento di 15.000 statali, la riduzione degli stipendi minimi del 20%, i tagli alle pensioni superiori a 1200 euro e a quelle integrative, la vendita di beni pubblici e il taglio della spesa sanitaria sono solo l’ultima tessera in Grecia di un puzzle internazionale che si stringe sempre di più intorno agli strati sociali più deboli.
E nonostante tutto questo, dappertutto resta l’impossibilità per i giovani di poter contare su una prospettiva che dia loro la possibilità di mettere su una famiglia, avere dei figli, vivere la propria vita.
Tutto ciò sta determinando un degrado crescente nelle condizioni di vita di milioni di famiglie in tutto il mondo. Sempre più questa società regala precarietà e miseria, non essendo in grado di assicurare a nessuno un futuro e una vita degna di questo nome.
Dopo una lunga campagna contro le banche, contri gli uomini della finanza, gli Stati e le popolazioni spendaccione di qua o di là, ormai la borghesia comincia ad ammettere che la crisi che stiamo vivendo è una crisi sistemica, come per dire che è qualcosa che viene dall’alto, che non è colpa di nessuno e che pertanto ce la dobbiamo tenere. Ma il suo acutizzarsi sta provocando problemi non solo sul piano economico, ma anche politico, minando ulteriormente la coerenza della classe politica borghese, favorendo un andare ognuno per proprio conto, quello che noi riferiamo come decomposizione, provocando la caduta di governi di destra e di sinistra, come in Spagna, in Grecia e in Italia (oltre a quello che ha provocato nel nord Africa e in medio oriente), scuotendo fortemente anche quelli statunitense e francese.
La borghesia italiana e la crisi
Da noi, la gravità della crisi è diventata tale da costringere l’Europa a fare pressione sull’Italia per un cambio di governo vista la perdita di credibilità sui mercati finanziari del governo Berlusconi; cambio orchestrato dal capo dello Stato che ha prima nominato Monti senatore a vita e poi gli ha conferito l’incarico per formare un nuovo governo, come chiesto dall’Europa e dai mercati finanziari.
Caso del tutto inedito questo, visto che il governo Berlusconi non è mai stato sfiduciato dal Parlamento ed era dunque legittimato a rimanere in carica nonostante le cose andassero sempre peggio.
Tutto ciò, lo ripetiamo, è proprio l’espressione della situazione di decomposizione in cui versa la borghesia italiana, come abbiamo potuto constatare, nostro malgrado, nelle ultime fasi del governo Berlusconi. Ormai questo governo aveva fatto il suo tempo e una serie di settori della borghesia l’avevano ormai lasciato (tra cui la stessa chiesa, la Confindustria e i sindacati ufficiali), tanto che lo stesso Berlusconi è stato costretto a fare un passo indietro per non rischiare di perdere il proprio consenso politico presso l’elettorato.
Ciò detto, c’è da chiedersi in che misura l’intermezzo del governo Monti sarà capace di aiutare l’apparato politico della borghesia a ritrovare una coerenza e un senso dello Stato, tali da fargli reggere le redini del paese in momenti che saranno anche più drammatici di quelli attuali. A giudicare da quello che succede, si può dire che l’appoggio forzato di PD e PDL al governo Monti li mette in una situazione di stallo, che certo non li favorisce, mentre dei due partiti che si sono messi all’opposizione, IDV e Lega Nord, solo il primo sta recuperando qualcosa mentre la Lega continua a perdere colpi ed è stata anche vicina ad una spaccatura, pagando così il pedaggio di un appoggio forzato anche questo al precedente governo Berlusconi.
E’ questo il motivo per cui, anche se non possiamo certo escludere colpi di scena, la parte più responsabile del capitale italiano ha interesse che il governo Monti duri fino a fine legislatura, e non solo per promuovere gli interventi di economia per “salvare” l’Italia, ma anche per permettere ai “politici” di recuperare una credibilità. Da questo punto di vista il governo Monti si conferma per essere un governo pienamente politico e non tecnico, un governo espressione degli interessi della borghesia italiana e non solo il “governo dei banchieri”, come da più parti si va dicendo.
Ma è veramente credibile che con il governo Monti le cose si possano sanare? Che si possa avere un “rilancio dell’economia italiana”, che sia possibile riottenere il posto di lavoro perduto o trovarne uno nuovo, avere un salario decente, avere una prospettiva migliore, che si possa avere un minimo di “giustizia sociale”? A giudicare da quello che sta facendo il governo Monti, fase 1 e fase 2 comprese, il risultato non è soltanto deludente, ma assolutamente deprimente, facendo svanire anche quelle deboli aspettative alimentate dai partiti di sinistra che avevano per anni attribuito tutte le difficoltà economiche della gente comune al governo Berlusconi. Ma la permanenza della crisi e le misure prese da Monti stanno minando questa situazione di attesa e le critiche al governo sono già presenti ed esplicite, nonostante che Monti sia là da soli poci mesi. Questo potrebbe favorire una riflessione più di fondo all’interno della classe. Peraltro ci si aspettava una maggiore equità delle misure, una mazzata anche alle caste e ai privilegi, laddove Monti invece si è limitato ad attaccare i soliti noti.
La risposta dei proletari alla crisi
Di fronte a tutto questo, quale è la situazione della classe operaia e qual è lo stato d’animo dei proletari?
Se si fa una ricerca su internet si scopre un’Italia pervasa da lotte e da situazioni di effervescenza sociale. Basti qui fare solo un rapidissimo cenno ad alcune delle più note: i ferrovieri del binario 24 a Milano, i lavoratori della Esselunga di Pioltello a Milano, quelli della FIAT di Termini Imerese, delle Ceramiche Ricchetti di Mordano/Bologna, della Jabil, ex Siemens Nokia a Cassina de’ Pecchi, Milano, la petroliera Marettimo Mednav, a Trapani, i precari della ricerca dell’Ospedale Gaslini di Genova, e ci fermiamo qui, ma sono decine di migliaia i proletari che stanno cercando di difendere il posto di lavoro ed il loro futuro con le unghie e con i denti. A queste lotte va poi aggiunto tutto il fermento che esiste nella società e che tocca tante altre figure di lavoratori non necessariamente proletarie ma comunque portate alla fame dalla crisi attuale, come tassisti, camionisti, pescatori, piccoli commercianti, partite IVA, artigiani, contadini, allevatori, pastori, ecc. ecc.
Tuttavia queste lotte non riescono ad avere un esito positivo anche perché non riescono ad unirsi in un fronte unico. Perciò dobbiamo cominciare proprio da questo punto. Come mai le manifestazioni di solidarietà e i momenti di incontro tra lavoratori in lotta, che pure ci sono, non riescono a rompere l’isolamento dei proletari nel proprio posto di lavoro, nella propria fabbrica, nella propria torre? Quali sono i problemi che incontrano i proletari, quali sono gli ostacoli che hanno di fronte?
Come abbiamo detto in precedenti occasioni, il proletariato ha ancora da recuperare la fiducia in sé stesso, deve ancora riconoscersi come classe, deve riallacciare la sua storia a quella delle generazioni che l’hanno preceduto. Uno degli elementi importanti che giocano da freno sulla classe operaia è in particolare il sindacato e la logica sindacale. Infatti, che significa lotta sindacale? Significa anzitutto dare la delega della propria lotta ad una squadra di esperti che si incaricano per la classe di portare avanti la vertenza. E quando la delegazione del sindacato tratta col padrone, ai lavoratori tocca aspettare i risultati e sperare che questi siano i migliori possibili. In conclusione il sindacato, ammesso (e non concesso) che riesca a fare un buon lavoro, in ogni caso espropria la classe della sua iniziativa, della sua capacità di portare avanti la lotta. Ma, ancora, che significa oggi lottare? E’ possibile ottenere qualcosa stando chiusi nelle proprie fabbriche in 100, 500 o finanche in 10.000? O non è molto più efficace una lotta che, pur utilizzando la fabbrica come punto di appoggio, si porti all’esterno alla ricerca di altri compagni di lotta che, pur facendo parte di altre fabbriche, altri settori o che siano addirittura senza lavoro, avvertano l’esigenza di unirsi alla lotta perché si riconoscono alla fine negli stessi obiettivi? Nella misura in cui, come detto, questa società ci sottopone ad attacchi sempre più massicci e generalizzati, non è possibile pensare di poter resistere rimanendo divisi fabbrica per fabbrica, città per città, paese per paese, ... E’ per questo che la logica sindacale è perdente, perché è intrinsecamente votata alla trattativa locale, settoriale e non parte invece dalla necessaria unità dei lavoratori, non intesi come somma delle singole situazioni di lotta ma come unico soggetto agente che lotta per un futuro diverso.
Per capire più precisamente come passa la logica sindacale, vogliamo fare alcuni esempi raccolti da una recente assemblea di avanguardie di lotta tenuta il 24 gennaio alla stazione di Milano (e riportata sul forum Napolioltre[1]) dove erano presenti numerosi sindacalisti di base. Questa assemblea, pur nella importanza che riveste come tentativo di andare oltre l’isolamento delle singole lotte, mostra tutti i limiti presenti attualmente nella classe.
Occorre ancora premettere che questa assemblea è stata tenuta per coordinare le varie azioni di lotta presenti nella provincia di Milano, anzi, secondo i termini utilizzati dagli stessi proletari intervenuti, per unire queste lotte. Questa premessa è importante per capire come il processo di unificazione delle lotte non sia una questione di slogan, ma di contenuti.
Il primo elemento che vogliamo sollevare è il riferimento, fatto all’interno di questa assemblea, alle “fabbriche di eccellenza” che, essendo tali, non dovrebbero mai essere chiuse. Il ferroviere che parlava, facendo riferimento in particolare alla Jabil, decantava tutta la “professionalità, i macchinari così all’avanguardia lasciati marcire, lasciati andare solo per motivi di profitto”, aggiungendo che anche nelle ferrovie “non è possibile che un servizio come quello (dei treni notte) (…) che era utile come l’acqua, il fuoco, (…) che serviva il paese, sia stato tolto solo per una guerra commerciale per il profitto …”. Ora, al di là di quale sia stata la logica sindacale alla Jabil o per la Compagnia dei treni notte, la questione è come si può sentire un altro lavoratore che ascolti questo intervento e che appartenga ad una fabbrica o un’impresa decotta, fatiscente? Che deve concludere? Che è giusto che la fabbrica chiuda e che si perda il lavoro?
Un secondo elemento, che ha caratterizzato una fetta significativa di episodi di lotta di questi ultimi anni e che è stato recentemente riproposto dai ferrovieri dei treni notte è l’idea che si possa stabilire un rapporto di forza con la controparte mandando un certo numero di persone su una torre, una gru o altro con la minaccia di buttarsi giù in caso di tentato sgombero. Questo tipo di lotta, che ha come punto di riferimento più significativo la lotta dell’INSSE del 2008-2009[2], lotta peraltro vittoriosa, ma solo perché la fabbrica, che non era completamente decotta, ha trovato un acquirente che l’ha fatta ripartire, si basa sulla logica secondo cui pochi individui si sacrificano e rischiano la vita rimanendo giorno e notte in condizioni assolutamente precarie su qualche cosa in alto mentre gli altri si danno da fare per propagandare questo atto di sacrificio. Con tutto il rispetto per gli uni e per gli altri, quello che ci pare è che la logica sia quella della ricerca del pietismo dei padroni che, prima o poi, dovranno pur accorgersi della situazione e intervenire. E’ dunque una lotta che parte, evidentemente, dall’idea che la controparte - il padrone, lo Stato o chicchessia - possa essere sensibilizzato da queste occupazioni di torri e di gru e quindi cedere alle richieste. C’è dunque dietro una incomprensione della gravità del livello di crisi a cui siamo arrivati e che fa sì che non è una questione di buona o cattiva volontà ma solo una valutazione strettamente economica che spinge i padroni a prendere delle misure. Va ancora notato che questo tipo di lotta porta necessariamente alla concorrenza tra iniziative parallele dello stesso tipo. Non è un caso che ancora il lavoratore delle ferrovie faccia riferimento con rammarico al fatto che, mentre loro se ne stanno “pacifici, in un angolino, senza dare fastidio a nessuno, da 44 giorni, altre categorie in tre giorni hanno fatto un po’ di casino e sono stati ricevuti al tavolo ministeriale”. Concludendo in maniera piccata che “probabilmente in Italia funziona così: più fai casino, più fai l’arrogante, più vieni ricevuto.”
Per fortuna, almeno questo secondo aspetto, ha ricevuto una forte critica già all’interno della stessa assemblea. Ma il problema è che anche chi si batte per l’unità, lo fa in maniera parziale, incompleta. Infatti si parla di mettere assieme le lotte, di fare delle azioni comuni, di individuare degli obiettivi comuni e di formulare una piattaforma comune. Ma al fondo la proposta è più che altro quella di creare una federazione di lotte piuttosto che di promuovere un’unica lotta. Di conseguenza il marciare assieme è visto essenzialmente nell’ottica che ogni singola lotta possa guadagnare visibilità dall’appoggio ricevuto dalle altre lotte e non che la lotta degli altri sia vista come la propria lotta. Questa debolezza viene poi accentuata dal fatto che i vari sindacati presenti veicolano i contatti con altre fabbriche in lotta preferenzialmente in funzione delle proprie influenze sindacali nelle altre aziende, finendo così per competere tra vari tipi di “coordinamenti”, quello del Si Cobas, quello dello Slai-Cobas, ecc. ecc.
Queste debolezze, presenti nella classe ed alimentate dalle pratiche del sindacalismo di base, sono in grande misura responsabili delle attuali difficoltà a lottare. Nel loro insieme queste difficoltà, al di là di tutti i passi avanti fatti dal proletariato in questo periodo, fanno riferimento ad un elemento maggiore di debolezza che presenta il proletariato in questa fase che è lo smarrimento della propria identità di classe, cioè lo spirito di fratellanza, la consapevolezza di appartenere alla stessa classe perché sottoposti allo stesso sfruttamento, la comprensione della necessità di sostenersi reciprocamente nella lotta perché la solidarietà è una fondamentale arma di lotta.
Beninteso, questa non è una debolezza del solo proletariato italiano, ma di tutta la classe a livello internazionale. Ma il superamento di questa debolezza si può avere soltanto nella lotta, ed in particolare nei momenti di lotta aperta, di massa, di piazza, perché è lì che i proletari misurano la forza di essere una classe unità, la potenzialità di portare avanti la stessa lotta, la forza di mettere a confronto delle esperienze diverse. Da questo punto di vista il fallimento della manifestazione del 15 ottobre scorso a Roma, fallimento provocato in buona misura dalle operazioni di provocazione della polizia, ha impedito che il proletariato in Italia potesse avere un momento importante di raggruppamento e di contatto in piazza e che potesse da lì sviluppare delle possibili ulteriori potenzialità di lotta. Così come la debolezza del movimento degli indignati in Italia ha mancato di fornire quello scenario di assemblee di piazza, capannelli, commissioni, collegamenti tra posti di lavoro, che viceversa si è presentato in altri paesi, non permettendo alle lotte evocate in precedenza di poter fare riferimento a questa dinamica più ampia e di uscire di conseguenza dal chiuso della loro lotta.
Ma i tempi che viviamo sono di un carattere particolare e non è strettamente necessario che le cose si vivano in casa propria per essere conosciute e riconosciute. Oggi, tramite i social network, soprattutto la giovane generazione viene a conoscenza in tempo reale di quello che succede e l’effetto contagio che ha avuto la primavera maghrebina prima, Puerta del sol dopo fino alle varie occupy, mostrano che la situazione si sta riscaldando significativamente a livello internazionale. Per cui, se in questa presentazione abbiamo particolarmente insistito sulle debolezze che presenta in questo momento la classe in Italia, non é per rimanere su queste difficoltà ma per tradurle in armi di lotta per il futuro.
11 febbraio 2012 CCI
Gli esperti della borghesia includono la Cina nella loro collezione di potenze che hanno espresso di recente un avanzato sviluppo economico. Questa categoria, riferita con l’acronimo “BRIC” e che include anche il Brasile, la Russia e l’India, si presume possa costituire la salvezza del capitalismo in crisi. Questi paesi vengono dipinti come l’opposto di quelli che formano il “PIIG” (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna). In realtà, non sono che l’altra faccia della stessa medaglia. I PIIGS sono sprofondati velocemente nella crisi economica aperta, i BRIC sono in procinto di farlo, spegnendo le deboli speranze della classe dominante in un miracolo economico capace di superare la crisi mortale del capitalismo. Come riportato nella Rivista Internazionale n. 148[1]: “I paesi emergenti, come l’India e il Brasile, stanno vedendo una rapida riduzione di attività. Anche la Cina, che dal 2008 è stata presentata come la nuova locomotiva dell’economia mondiale, ufficialmente sta andando sempre peggio. Un articolo apparso sul sito del China Daily il 26 dicembre afferma che due province (tra cui quella di Guangdong, che è certamente una delle più ricche del paese poiché ospita gran parte del settore manifatturiero per i prodotti di grande consumo) hanno notificato a Pechino che esse avrebbero ritardato i pagamenti degli interessi sul loro debito. In altre parole, il fallimento minaccia anche la Cina”
Nello sviluppo minaccioso per l’economia cinese - e per il capitalismo più in generale - vi è una massiccia bolla speculativa legata al boom delle costruzioni che si gonfia e che, come quelle negli USA, in Irlanda, Spagna ed altrove, può solo scoppiare con delle conseguenze terribili. A Shanghai c’è una vasta capacità di spazio abitativo inutilizzato ed invendibile valutato in centinaia di milioni di metri quadrati. Qui ed a Pechino gli alloggi hanno un prezzo circa 20 volte superiore a quello della paga annuale media di un lavoratore. L’85% dei lavoratori che ne hanno bisogno, non può permettersi una nuova casa. Il regime ha frenato il credito a causa di un aumento dell’inflazione così, proprio come per Gran Bretagna, Stati Uniti, Irlanda, Spagna, ecc., lo sgonfiamento della bolla minaccia il sistema bancario, in particolare la versione cinese dei “sub-prime”, un sistema di mercato bancario al nero, non ufficiale, finanziato da grandi imprese statali del regime. Queste perdite a loro volta hanno un impatto negativo su importanti amministrazioni locali dello Stato che saranno quindi incapaci di soddisfare i loro obblighi. Lungi dall’essere un faro di speranza, lo sviluppo della crisi globale del capitalismo significa ancora di più che l’economia cinese è solo un ulteriore fattore di disperazione per il capitalismo.
Gli sviluppi nella lotta di classe in Cina mostrano che questa fa pienamente parte dell’ondata generale globale di lotta di classe e proteste sociali che si sta sviluppando dal 2003. Inoltre, l’estensione e la profondità delle lotte, che ora coinvolgono una nuova generazione di proletari in gran parte migranti e altamente istruiti, fanno degli avvenimenti in Cina un grande potenziale. Non come espressione di illusione borghese in una qualche “ripresa economica” ma come importante segnale per il proletariato mondiale nello sviluppo della lotta di classe.
Migliaia e migliaia di notizie di “incidenti” di scioperi e proteste nelle città, insieme ad agitazioni nelle campagne che stanno aumentando di numero e di intensità. Gli scioperi stanno diventando più ampi: lo sciopero di tre giorni nel gennaio scorso nella zona industriale di Chengdu, è stato, secondo The Economist (02/02/12) “… insolitamente grande per un’impresa di proprietà del governo centrale”. Gli operai hanno guadagnato un piccolo aumento di circa 40 dollari mensili che, conquistato a furia scioperi e con un’aperta repressione, presto non sarà più sufficiente. Il black-out mediatico su questa agitazione non è durato a lungo grazie all’uso di internet. Anche nel settore privato la frequenza degli scioperi è aumentata nello scorso anno.
Nel delta del Pearl River, che produce circa un terzo delle esportazioni cinesi, migliaia di lavoratori a Dongguan, lo scorso novembre, sono scesi in piazza per protestare contro i tagli salariali e si sono scontrati con la polizia. Su internet sono apparse le foto dei lavoratori feriti. In queste ultime settimane la protesta si è estesa. The Economist, osservando le recenti proteste ed il loro sviluppo nell’intera provincia del Guangdong, sottolinea come queste stiano assumendo una forma diversa, in contrasto con gli scioperi ordinati e pacifici che hanno avuto luogo sempre qui nel 2010: “... attualmente, piuttosto che chiedere di migliorare la loro sorte, gli operai stanno soprattutto protestando per i tagli ai salari ed ai posti di lavoro. Gli scioperanti sembrano più militanti... Un rapporto pubblicato questo mese dall’Accademia cinese delle scienze sociali, dice che, rispetto al 2010, gli scioperi del 2011 sono stati meglio organizzati, più conflittuali e più probabilmente un innesco per azioni simili. ‘Gli operai questa volta non sono disposti ad accettare di fare sacrifici e, in secondo luogo, ancor meno sono disposti a mollare e tornare a casa’” (idem).
La repressione è ancora l’arma principale dello Stato cinese – la polizia in borghese è dappertutto. Ma questa politica può essere pericolosa. Quando una lavoratrice incinta è stata recentemente malmenata dalla polizia nel Guangdong, migliaia di lavoratori hanno attaccato gli edifici del governo e della polizia.
E’ improbabile che questi lavoratori ritornino indietro a fare i contadini, in particolare quando la campagna sta sollevando una propria forma di protesta contro gli effetti della crisi – come di recente nel villaggio di Wukan. Ci sono 160 milioni di lavoratori immigrati (20 milioni hanno perso il lavoro quando l’onda d’urto della crisi economica del 2008 ha colpito la Cina) e adesso vivono nelle città. Non c’è nulla per loro nelle campagne che possa spingerli a tornare indietro e, dato che come migranti devono pagare anche l’istruzione per i loro figli e la sanità per la famiglia (che dovrebbero pagare le imprese che però in larga parte non fanno per i salari minimi), si apre un’altra area del conflitto di classe.
La crisi economica mondiale sta peggiorando e questo avrà un effetto significativo sulla Cina e la sua economia. Dato il livello attuale e in via di sviluppo della lotta di classe in questo paese, possiamo aspettarci ulteriori sviluppi nelle lotte dei lavoratori in Cina, a partire dalla serie di scioperi e proteste che abbiamo visto nel mese di gennaio.
Baboon, 2-2-2012
[1] In Inglese, francese e spagnolo sul nostro sito: www.internationalism.org [62]
È particolarmente significativo che queste grandi mobilitazioni si producano nel paese epicentro della controrivoluzione mondiale da decenni (dalla metà degli anni 1920), dove lo schiacciamento fisico e ideologico del proletariato da parte dello stalinismo in nome del comunismo è stato assoluto. In più, il crollo e lo smembramento dell’URSS negli anni 90, uno dei fenomeni che hanno segnato l’entrata del capitalismo decadente nella sua fase ultima di decomposizione, hanno spinto al parossismo il disorientamento e la demoralizzazione di questa parte del proletariato mondiale. Questi movimenti sono oggi inevitabilmente fortemente segnati da questa storia e sono soprattutto portatori d’importanti illusioni sulla democrazia. Eppure, sono innanzitutto un’espressione della dinamica internazionale che, partita dai paesi arabi e dilagata in numerosi paesi (come attualmente in Romania) vede la protesta di tutti gli strati e classi vittime del capitalismo sollevarsi contro un presente di miseria ed un avvenire catastrofico a cui li condanna questo sistema in fallimento. Al di là dell’immediato esplosione contro la frode elettorale, è la profonda insoddisfazione della propria condizione di vita e di lavoro che spinge così larghi settori della popolazione e di sfruttati in Russia ad esprimere il loro malcontento ed ad uscire da quella passività che la cricca di Putin amava far passare per approvazione al suo regime di terrore e di sfruttamento senza freno. Per questo motivo l’emergere di questi movimenti costituisce un avvenimento di grande portata.
Il 4 dicembre 2011 ci sono state le elezioni parlamentari in Russia. Le frodi elettorali sono state così spudorate ed insolenti che hanno indignato centinaia di migliaia di cittadini. Decine di migliaia di persone hanno preso parte alle manifestazioni di protesta svoltesi in diverse città del paese “per elezioni oneste”. Ma bisogna notare che la gran maggioranza degli indignati conserva delle illusioni democratiche e lotta per migliorare il sistema capitalista, invece di combatterlo con la lotta di classe.
Ricchi e poveri insieme in strada
Le manifestazioni più grandiose si sono svolte a Mosca, il 10 dicembre a piazza Bolotnaïa ed il 24 in corso Sakharov dove, secondo diverse stime, il numero di partecipanti ha raggiunto parecchie decine di migliaia di persone. Le contestazioni hanno visto forze politiche diverse, le insegne dei liberali accanto alle bandiere rosse, i gonfaloni dei nazionalisti accanto agli striscioni rossi e neri degli anarchici. Ma la maggior parte dei manifestanti non apparteneva a nessuna organizzazione o tendenza politica.
La rivendicazione principale della manifestazione era quella di “elezioni oneste”. Allo stesso tempo, molte persone non impegnate politicamente insistevano a non voler nient’altro che sottomettere le autorità alla legge e fare delle trasformazioni democratiche pacifiche. In generale, la grande massa era sorda agli appelli alla rivoluzione o ad ogni azione radicale.
Bisogna notare anche il forte contrasto nella composizione sociale dei manifestanti. Da una parte si trovavano uomini d’affari, vecchi membri del governo (compreso l’ex-primo ministro Mikhaïl Kassianov), star dello show, celebri giornalisti ed anche una mondana, come Xénia Sobtchak, il cui padre Anatoli Sobtchak passa per essere il “padrino” politico di Putin. Dall’altra, c’era invece molta gente comune: impiegati di ufficio, studenti, operai, pensionati, disoccupati ... Secondo alcuni osservatori la composizione sociale dei manifestanti in provincia (cioè praticamente l’insieme della Russia salvo San Pietroburgo e Mosca) era più proletaria che nella capitale.
Le ragioni delle contestazioni e la reazione del Cremlino
Non c’è alcun dubbio che la crisi economica mondiale abbia avuto un ruolo catalizzatore delle proteste in Russia. Nonostante l’ottimismo ostentato delle autorità, questa crisi viene avvertita sempre di più dalla gente comune. Gli imbrogli elettorali durante le elezioni parlamentari del 2011 sono servite solo da pretesto allo scoppio di manifestazioni di massa. La rivendicazione di “elezioni oneste” è stata il leitmotiv di quasi tutte le azioni di massa, dall’Estremo Oriente alle due metropoli, Mosca e San Pietroburgo.
Le reti Internet sono diventate la principale arma ideologica dell’opposizione a Putin. Sullo schermo si possono trovare centinaia, se non migliaia di video dove sono registrate, secondo i loro autori, le violazioni alla legge elettorale. Del resto, nessuno ne ha verificato la credibilità perché l’indignazione ha piuttosto trovato nelle falsificazioni elettorali un pretesto formale, mentre, come abbiamo detto, la sua causa principale è stato il malcontento generale di milioni di persone poste di fronte alla loro situazione.
A loro volta, le autorità pretendono che le accuse di falsificazione durante le elezioni sono in gran parte infondate. Inoltre, il Cremlino porta avanti una campagna mediatica che mira a presentare i manifestanti come sotto l’influenza di agenti dell’Occidente al servizio dello Zio Sam e del Dipartimento di Stato. Tuttavia, temendo questo malcontento generalizzato, il regime di Putin è costretto a fare delle concessioni. Per esempio, Medvedev ha appena promesso alcune riforme democratiche alla popolazione, in particolare quella di ristabilire l’elezione diretta dei governatori di regione, abolita qualche anno fa da Putin col pretesto della lotta contro il terrorismo.
Le illusioni democratiche
Non c’è dubbio che il malcontento abbia delle ragioni sociali. La Russia, come parte dell’economia mondiale, è interessata dalla stessa crisi degli altri paesi. La gente comune in Russia, alla stessa stregua dei milioni di lavoratori ovunque nel mondo, cominciano a comprendere che il capitalismo non assicura loro nessun “avvenire radioso”. Ma questo sentimento non si è ancora trasformato in coscienza di classe. E le illusioni democratiche imposte dalla propaganda borghese in larga misura serviranno sicuramente a qualcosa. Purtroppo, molta gente non capisce ancora che le elezioni non sono che il diritto degli oppressi a scegliere un rappresentante della classe dirigente ad intervalli regolari (secondo l’espressione di Marx). E qualunque sia il volto del potere, la sua natura sarà sempre la stessa, capitalista e sfruttatrice. Che importa se si ha questo o quel presidente, questo o quel deputato, i proletari, i salariati manuali ed intellettuali privati dei mezzi di produzione e del potere politico rimarranno sfruttati. I lavoratori otterranno l’emancipazione sociale solo organizzandosi (sull’esempio della Comune di Parigi del 1871 e dei Consigli operai del 1905 e 1917) e rovesciando il sistema capitalista, perché è solamente un cambiamento di sistema che permetterà loro di porre fine allo sfruttamento.
Chi ha preso la testa dell’opposizione a Putin?
I liberali, la “sinistra” (soprattutto gli stalinisti) ed i nazionalisti si sono messi alla testa del movimento. Insieme hanno formato il Centro di coordinamento “Per delle elezioni oneste”. Tra i leader dell’opposizione si vedono personaggi come Boris Nemtsov, vice primo ministro sotto Eltsin che ha “contribuito” non poco al saccheggio sulle spalle dei lavoratori della Russia.
Tutto sommato, i rivali di Putin non ottengono nessuna simpatia da parte dei proletari russi. Le persone si ricordano bene la povertà, la miseria, i ritardi nel pagamento dei salari e delle pensioni, quando alcuni oppositori attuali erano al potere. I leader dell’opposizione non si sono fatti scrupoli ad utilizzare il malcontento delle masse a fini elettorali. Questa volta si tratta della futura presidenza. Nelle manifestazioni di protesta, si chiamano gli elettori a votare “come si deve”. Ma è chiarissimo che anche se “l’opposizione” attuale dovesse succedere a Putin ed al suo regime, i lavoratori non ne trarrebbero alcun beneficio.
I compiti dei rivoluzionari
Sappiamo bene che la rivendicazione di elezioni oneste non ha niente a che vedere con la lotta di classe. Ma bisogna rendersi conto che tra le decine di migliaia dei manifestanti ci sono molti nostri compagni di classe. In una tale situazione, dobbiamo criticare apertamente le illusioni democratiche, anche se questo non contribuirà ad aumentare la simpatia per le nostre posizioni tra i sostenitori di “elezioni oneste”. Senza la comprensione che alla base di tutti i problemi contemporanei c’è la natura del sistema capitalista, non ci sarà sviluppo della coscienza di classe rivoluzionaria. E’ per tale motivo che, nonostante il battage mediatico che circonda le elezioni, i rivoluzionari devono smascherare instancabilmente la falsità e l’illusione delle “libertà” borghesi. Pur criticando gli errori dei partecipanti alle manifestazioni per oneste elezioni, non bisogna dimenticare mai la differenza tra “l’opposizione” borghese che vuole utilizzare il malcontento delle masse per guadagnare dei posti comodi all’interno degli organi del potere e le persone comuni che s’indignano sinceramente di fronte all’insolenza, all’impudenza ed alla perfidia delle attuali autorità del Cremlino.
E come mostra la stessa esperienza di tali proteste, per quanto sterili ed insignificanti possano essere le manifestazioni a Mosca per il potere, uno stato d’animo radicale in seno alla società può emergere molto rapidamente. Ancora un mese fa, prima di queste azioni di massa, nessuno avrebbe potuto supporre che decine di migliaia di persone sarebbero scese in strada a protestare contro il regime di Putin.
Il nostro dovere di rivoluzionari consiste nello smascherare la vera natura della cricca di Putin e dei suoi oppositori politici. Dobbiamo spiegare ai lavoratori che solo la lotta di classe autonoma per il capovolgimento del capitalismo e la costruzione di una nuova società senza sfruttamento potranno risolvere realmente i loro problemi personali e quelli dell’intera umanità.
Dei simpatizzanti della CCI nell’ex-URSS (gennaio 2012)
Il 29 novembre, degli studenti hanno fatto irruzione nell’edificio, causando danni agli uffici dell’ambasciata e a dei veicoli. Dominick Chilcott, l’ambasciatore britannico, in un’intervista alla BBC, ha accusato il regime iraniano di essere dietro questi attacchi “spontanei”. Per rappresaglia, il Regno Unito ha espulso l’ambasciata iraniana di Londra. Questi avvenimenti sono un nuovo episodio della crescente tensione in Medio Oriente tra l’Occidente e l’Iran, sulla questione delle armi nucleari della Siria. Il recente rapporto dell’AIEA (International Atomic Energy Agency) sul nucleare iraniano ha dichiarato che l’Iran aveva sviluppato un programma nucleare militare. In risposta, la Gran Bretagna, il Canada e gli Stati Uniti hanno introdotto delle nuove sanzioni. In questi ultimi giorni l’Iran ha affermato di aver abbattuto un drone americano che tentava di raccogliere informazioni militari. Rispetto alla Siria, l’articolo menziona la collaborazione tra il regime di Assad e la Guardia Rivoluzionaria Iraniana nel massacro della popolazione siriana. Nell’attacco all’ambasciata britannica, si è visto ugualmente un colpo di mano da parte della sezione giovanile del Basij, teleguidato da El-Assad.
Oltre alle rivalità interimperialiste, non dobbiamo mai dimenticare le rivalità interne all’interno delle stesse borghesie nazionali. L’estate scorsa è risultato chiaro che stava aumentando la distanza tra il presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad e l’ayatollah Ali Khamenei. Malgrado le sue diatribe antisemite e la sua retorica piena di vaneggiamenti, Ahmadinejad rappresenta una frazione della borghesia iraniana che vuole mantenere qualche legame con l’Occidente. Khamenei aveva arrestato alcuni dei più stretti alleati di Ahmadinejad nel governo silurato. In risposta, Ahmadinejad si è messo “in sciopero” per 11 giorni, rifiutandosi di svolgere le sue funzioni di capo del governo. I recenti eventi relativi al saccheggio dell’Ambasciata britannica sono considerati da alcuni analizzatori politici come facenti parte di questa querelle. Si pensa che Khamenei e i suoi sostenitori conservatori siano dietro gli attacchi per minare la politica più conciliante di Ahmadinejad e fargli perdere credibilità in vista delle prossime elezioni del 2012.
Con l’aggravarsi delle tensioni tra l’Iran e l’Occidente, alcuni prevedono lo scoppio di una Terza Guerra Mondiale. La questione è un’altra e bisogna chiedersi: i lavoratori del Medio Oriente e dell’Occidente sono pronti ad essere mobilitati a sostegno di un’altra grande guerra? In realtà i lavoratori di tutto il mondo sopportano il peso della crisi sulle loro spalle e cominciano a rispondere. La guerra significherebbe ancor più austerità, più violenza contro i lavoratori, più disperazione. I lavoratori non hanno alcun interesse in questi massacri imperialisti sanguinari e non sono disposti ad esservi arruolati in massa.
CCI (28 gennaio)
Contributo del compagno
Dopo otto mesi di proteste, nate all’interno di un movimento regionale e internazionale contro l’oppressione, la disoccupazione e la miseria, che ha coinvolto drusi, sunniti, cristiani, curdi, uomini, donne e bambini, gli avvenimenti in Siria hanno preso un aspetto sinistro. Se rispetto alla difesa dei propri interessi e della loro strategia, gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e la Francia diffidano di un attacco diretto contro l’Iran, tuttavia possono contribuire a un’aggressione al suo più stretto alleato, il regime di Assad in Siria, nella logica delle rivalità inter-imperialiste. Le brutali forze di sicurezza di Assad, con il supporto logistico di “300-400 Guardiani della Rivoluzione” d’Iran (The Guardian, 17 novembre 2011), hanno massacrato migliaia di persone e dato nascita alla falsa e ipocrita “preoccupazione per i civili” da parte delle tre maggiori potenze del fronte anti-iraniano citate sopra. Come nel caso della Libia, anche adesso gli Stati Uniti sono i “registi occulti” dell’operazione, questa volta spingendo la Lega araba, di cui la Siria era una potenza importante, a sospendere l’adesione di questo paese e sottomettendolo a delle ulteriori umilianti scadenze. Al contempo spinge la Lega araba a distaccarsi dagli alleati algerini, iracheni e libanesi di Assad. In prima fila tra i sostenitori di questa preoccupazione-bidone per la vita e l’integrità fisica della popolazione si trova il regime assassino dell’Arabia Saudita che, qualche tempo fa, aveva inviato circa 2.000 soldati delle sue truppe scelte, formate dalla Gran Bretagna, per schiacciare le dimostrazioni nel Bahrain e per proteggere gli interessi e le basi statunitensi e britanniche. Per colmo dell’ipocrisia, la conferma della sospensione da parte della Siria del suo “bagno di sangue” è stato fatto dalla riunione della Lega Araba nella capitale marocchina, Rabat, il 16 novembre, mentre le forze di sicurezza di questo paese stavano per attaccare e reprimere migliaia di suoi manifestanti. Esistono delle ramificazioni imperialiste più ampie rispetto all’azione della Lega araba, nel senso che le sue decisioni sono state condannate dalla Russia, ma sostenute dalla Cina.
La Gran Bretagna e gli Stati Uniti spingono in avanti in questa direzione non solo la Lega Araba, ma anche la potenza regionale che è la Turchia, che ha anche partecipato alle riunioni a Rabat. Dopo aver apparentemente scoraggiato lo Stato turco a stabilire una sorta di zona cuscinetto o una “no-fly zone” al confine tra la Turchia e la Siria, l’amministrazione americana ha cambiato idea. Così, Ben Rhodes, consigliere di Obama per la sicurezza nazionale, la settimana scorsa ha detto: “Salutiamo con forza l’atteggiamento di fermezza preso dalla Turchia ...”. Il leader in esilio dei Fratelli Musulmani in Siria ha anche dichiarato la settimana scorsa ai giornalisti che l’azione militare turca (“per proteggere i civili”, naturalmente) sarebbe accettabile (The Guardian, 18 novembre 2011). La possibilità di una zona cuscinetto lungo il confine pesantemente militarizzato turco-siriano permetterebbe al misterioso “Esercito siriano libero”, ben impiantato in Turchia (e in Libano) e, per ora numericamente inferiore all’esercito siriano, di muoversi con un armamento molto più pesante. In questa convergenza di interessi imperialisti si trovano gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, la Francia, la maggior parte della Lega Araba, vari esponenti della sinistra, i Fratelli Musulmani ed gli jihadisti salafiti della Siria che hanno assunto un ruolo maggiore nell’opposizione ad Assad. Inoltre, la destabilizzazione della regione e la prospettiva di un aggravamento dei problemi sono ben evidenti in due cose: sia nel monito del presidente turco Gul rivolto alla Siria, che precisava che questa avrebbe dovuto pagare per il fatto di creare problemi nel sud-est curdo della Turchia; sia nella “rinnovata volontà di Washington di ignorare le incursioni militari turche contro le basi della guerriglia curda nel nord dell’Iraq” (The Guardian, 18 novembre 2011). Tutta questa instabilità, alimentata da queste potenze e questi interessi, rendono molto probabile l’intervento militare da parte della Turchia in territorio siriano. “L’esercito siriano libero” è stato anch'esso implicato in uccisioni settarie e di civili in Siria (Newsnight, 17 novembre 2011) e, poiché opera a partire dai suoi rifugiati al di fuori del paese, per combattere e uccidere le forze governative e la polizia, le rappresaglie ricadono sulla popolazione civile. Il Consiglio Nazionale Siriano, che ha fatto la sua comparsa il mese scorso, ha fatto appello ad un intervento militare contro le forze di Assad, mentre un’altra forza di opposizione, il Comitato di Coordinamento Nazionale, ha denunciato questa posizione. Il ministro francese degli Affari Esteri, Alain Juppé, ha già incontrato le forze di opposizione a Parigi e il segretario del Foreing Office inglese, Hague, li ha incontrati a Londra il 21 novembre. Non è stato precisato quali fossero queste “forze di opposizione” nè se includessero l’Esercito siriano libero, il Consiglio Nazionale siriano, il Comitato di Coordinamento Nazionale, l’opposizione curda, i Fratelli Musulmani e gli jihadisti salafiti. Inoltre, le coalizioni di opposizione includono degli stalinisti, undici organizzazioni curde, delle strutture tribali e di clan, più una quantità sconcertante di settori dagli interessi contrastanti. In ogni caso, Hague ha fatto appello ad un “fronte unito” ed ha nominato un “ambasciatore designato” per loro (BBC News, 21 novembre)!
Teheran, l’obiettivo finale.
Da diversi anni gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, Israele e l’Arabia Saudita hanno montato l’isteria anti-iraniana ed è questo che si nasconde dietro il loro sostegno all’opposizione siriana e la loro “preoccupazione per i civili”. Questa campagna è stata notevolmente potenziata con un recente rapporto dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (AIEA), che lasciava intravedere una “possibile” dimensione militare alle ambizioni nucleari dell’Iran. Ma gli Stati Uniti accerchiano l’Iran da qualche tempo. Sul confine orientale dell’Iran ci sono oltre centomila soldati americani in Afghanistan, a nord-est, c’è il Turkmenistan, con le sue basi militari americane. Nel sud del Bahrain ci sono le basi navali americane e britanniche. Anche nel Qatar, c’è la sede del comando delle forze statunitensi e la marionetta anti-iraniana, l’Arabia Saudita. L’unico spazio dove l’Iran può respirare ora è attorno al suo confine occidentale con l’Iraq e anche qui le forze speciali statunitensi e britanniche hanno fatto una serie di incursioni dirette o indirette: nel 2007, Bush ha ottenuto l’approvazione del Congresso per un programma di 400 milioni di dollari per sostenere i gruppi “etnici”, mentre più di recente Seymour Hersh nel The Daily Telegraph e Brian Ross della ABC hanno avuto informazioni segrete sul gruppo di gangster terroristi iraniano Jundullah.. Il leader del gruppo, Abdolmalek Rigi, catturato dai servizi segreti iraniano mentre andava a Doha, ha affermato di essersi incontrato con la CIA alla base aerea americana di Manas nel Kirghizistan per dare il suo aiuto in degli attacchi terroristici in Iran.
Al largo delle coste dell’Iran, nel Golfo Persico e in tutta la regione del Golfo, vi è un’enorme concentrazione di navi da guerra americane: gli Stati Uniti vanno così a rafforzare la loro attività in Kuwait, Bahrain ed Emirati Arabi Uniti. Recenti rivelazioni (The Guardian, 11 marzo 2011) hanno mostrato che la Gran Bretagna stava preparando dei piani di intervento con le forze americane per un possibile attacco navale ed aereo contro obiettivi in Iran.
A soli 1500 km circa di distanza si trova Israele, che possiede armi nucleari, che è stata coinvolta nell’attacco al virus Stuxnet, che è riuscita ad arrestare definitivamente all’incirca un quinto degli impianti nucleari dell'Iran, e che è coinvolta ancora nella morte di scienziati iraniani, tra cui un esperto nucleare di primo piano, il generale maggiore Moghaddam, ucciso con 16 altre persone in una enorme esplosione in una base dei Guardiani della Rivoluzionarie, nei pressi di Teheran, poco tempo fa. Ancora una volta, l’ipocrisia della democrazia supera la nostra fantasia: a dispetto della loro retorica sul disarmo, la British American Security Information Council afferma che gli Stati Uniti spenderanno 700 miliardi di dollari per l’ammodernamento dei loro impianti nucleari nel corso del prossimo decennio e che “altri paesi, tra cui Cina, India, Israele, Francia e Pakistan dovranno spendere ingenti somme per i sistemi missilistici tattici e strategici” (The Guardian, 31 ottobre 2011). La relazione prosegue affermando che “alle armi nucleari viene assegnato un ruolo che va oltre la dissuasione ... un ruolo da armi da guerra nella pianificazione militare”. Per quanto riguarda Israele, il rapporto dichiara: “... la dimensione delle testate nucleari dei missili da crociera della sua flotta sottomarina è aumentata e il paese sembra essere sulla buona strada, grazie al suo programma di lancio con il suo satellite lanciarazzi, per il futuro sviluppo di un missile balistico intercontinentale (ICBM)”.
La Gran Bretagna, che ha contribuito a fornire ad Israele delle armi nucleari, non è menzionata in questo rapporto commissionato da questo paese. Tutti sanno che un attacco all’Iran sarebbe una follia, anche il Mossad e lo Shin Bet, i servizi segreti per la sicurezza esterna ed interna di Israele. Utilizzando il loro canale abituale per produrre fughe di notizie contro i loro politici, il quotidiano kuwaitiano Al-Jarida, entrambe queste agenzie hanno espresso seri dubbi sull’attacco e il capo del Mossad, che è recentemente andato in pensione, Meir Dagan, ha definito la prospettiva di un attacco all’Iran “la più stupida delle idee” di cui avesse mai sentito parlare. Ma il fatto che sia stupida o irrazionale non la rende per questo improbabile: basta guardare le guerre in Iraq e l’incubo senza fine, del tutto irrazionale, in Afghanistan e Pakistan. La Siria è un altro passo visibile nella trasformazione della guerra segreta contro l’Iran. Ciò non ha nulla a che fare con “la protezione dei civili”, ma si identifica totalmente nel progredire degli obiettivi sempre più irrazionali imposti da un sistema capitalista in piena decadenza.
Baboon (21 novembre)
L’11 marzo 2011, uno tsunami gigantesco inonda le coste orientali del Giappone. Onde alte da 12 a 15 metri causano danni incredibili. Più di 20.000 persone vengono uccise mentre migliaia di altre vengono ancora oggi date per disperse. Un numero incalcolabile di persone ha perso la casa.
Ma il peggio doveva ancora venire con la catastrofe nucleare di Fukushima. Un anno dopo possiamo affermare che questa è una catastrofe mondiale ancora in corso.
Chernobyl, Fukushima: dappertutto l’impotenza e la mancanza di scrupoli della classe dirigente
Di fronte a questa catastrofe nucleare la classe dominante ha ancora una volta mostrato tutta la sua incuria. L’evacuazione della popolazione è cominciata troppo tardi e la zona di sicurezza vietata è stata insufficiente. Anche se si può obiettare che le misure di salvataggio e di evacuazione sono state ritardate e rese più difficili a causa delle conseguenze dello tsunami, il governo ha evitato un’evacuazione su larga scala soprattutto perché voleva minimizzare a tutti i costi i pericoli che c’erano. All’improvviso è diventato evidente che i responsabili giapponesi della società Tepco, che gestisce la centrale nucleare, così come il governo, non avevano mai previsto un simile scenario e che le misure di sicurezza in caso di terremoto e di uno tsunami di tale ampiezza erano insufficienti. Le misure di urgenza previste sono state completamente insufficienti ed hanno fatto apparire il Giappone, con una reputazione di paese di alta tecnologia, come un gigante mal equipaggiato ed impotente.
Alcuni giorni dopo la catastrofe, quando il governo ha discusso della questione dell’evacuazione, di fatto necessaria, della zona metropolitana di Tokio, con i suoi 35 milioni di abitanti, quest’idea è stata immediatamente respinta semplicemente perché non c’erano i mezzi per attuarla e avrebbe implicato il pericolo di un crollo del governo.
Nella centrale nucleare e nei suoi dintorni le radiazioni registrate hanno raggiunto un’intensità letale. Poco dopo la catastrofe il Primo ministro Kan ha reclamato la formazione di un commando-suicida di lavoratori con il compito di far abbassare il livello di radioattività nella centrale. I lavoratori che sono intervenuti sul posto erano equipaggiati molto male. Dopo poco tempo sono venuti a mancare i dosimetri e gli stivali di sicurezza adeguati e regolamentari. Un operaio ha segnalato che i lavoratori avevano dovuto attaccare dei sacchetti di plastica con il nastro adesivo intorno alle scarpe. Spesso era impossibile per i lavoratori comunicare gli uni con gli altri o con i centri di controllo. Molti lavoratori hanno dovuto dormire sul posto e non avevano che coperte al piombo per coprirsi. Il tasso critico per i lavoratori della centrale in situazioni di emergenza è stato aumentato il 15 marzo da 100 a 250 millisievert all’anno[1]. In molti casi i lavoratori hanno potuto verificare il loro stato di salute solo settimane o mesi dopo. 25 anni fa, quando ci fu Chernobyl, il regime stalinista dell’URSS, che stava ad un passo dal crollo per mancanza di risorse, non trovò altro da fare che mandare di forza un gigantesco esercito tutto fatto di reclute per combattere il disastro sul posto. Secondo l’OMS furono inviati da 600.000 a 800.000 “liquidatori”, e di questi centinaia di migliaia sono morti o si sono ammalati a causa delle radiazioni. Il governo non ha mai pubblicato cifre ufficiali affidabili.
Oggi, 25 anni dopo, un paese ad alta tecnologia e molto democratico come il Giappone ha disperatamente tentato di estinguere il fuoco e raffreddare il sito con lance antincendio e con polverizzazione d’acqua con gli elicotteri.
In contraddizione con tutti i piani precedenti, la Tepco è stata costretta ad utilizzare grandi masse d’acqua di mare per il raffreddamento della fabbrica e versare le acque inquinate nell’Oceano Pacifico. E come a Chernobyl, migliaia di lavoratori sono stati costretti a rischiare la vita (non sotto la minaccia della repressione questa volta, ma sotto quella della miseria). La Tepco, tra l’altro, ha reclutato lavoratori tra senza tetto e disoccupati nelle regioni più povere di Osaka e Kamagasaki ai quali, in molti casi, non diceva dove avrebbero dovuto lavorare, né a quali rischi sarebbero andati incontro.
Ed è stata messa in pericolo non solo la vita di questi “liquidatori”, ma della stessa popolazione civile, in particolare dei bambini della zona contaminata che sono stati esposti a quantità elevatissime di radiazioni. Da quando è stata registrata l’emissione di queste radiazioni, il governo ha deciso di alzare la soglia di non-pericolosità che riguarda l’esposizione dei bambini nella regione di Fukushima, a 20 millisievert …
Nel 1986 i dirigenti dell’URSS stalinista avevano provato, nei primi giorni, a conservare il silenzio totale sulla catastrofe nucleare di Chernobyl; nel 2011, il governo del democratico Giappone si è mostrato altrettanto determinato a nascondere l’ampiezza della catastrofe. I responsabili in Giappone non hanno mostrato meno cinismo e disprezzo per la vita umana del regime stalinista al potere all’epoca di Chernobyl.
È impossibile oggi valutare realisticamente le conseguenze che ci saranno a lungo termine. Le barre di combustibile fuse hanno formato un gigantesco grumo radioattivo che ha bucato il container sotto pressione. L’acqua di raffreddamento è diventata estremamente contaminata. Le barre di combustibile hanno bisogno di un raffreddamento permanente per cui si accumulano continuamente gigantesche masse d’acqua contaminata. Ma, a parte l’acqua, anche i reattori non protetti emettono isotopi di cesio, stronzio e plutonio. Questi vengono chiamati “particelle calde” e si trovano disseminati in tutto il Giappone. Ad oggi, non esistono mezzi tecnici disponibili per eliminare i rifiuti nucleari accumulati a Fukushima. Lo stesso processo di raffreddamento durerà anni. A Chernobyl fu necessario costruire un sarcofago che dovrebbe essere demolito, al più tardi, al termine di cento anni, giusto il tempo di essere sostituito da un altro. Per Fukushima non si intravedono ancora soluzioni. Intanto l’acqua contaminata si accumula e le autorità responsabili non sanno dove conservarla.
Gran parte dell’acqua di raffreddamento viene direttamente versata nell’oceano, dove le correnti la diffondono nel Pacifico e con delle conseguenze per la catena alimentare e per gli esseri umani che non sono ancora calcolabili. E’ già stata toccata la costa del nord-est del Giappone, che è una tra le zone di pesca più abbondanti; ben preso lo sarà lo stretto di Bering, con le sue riserve di salmoni[2].
Dato che la densità della popolazione in questa regione del Giappone è 15 volte superiore a quella dell’Ucraina, non è ancora possibile avere una stima di quali saranno le conseguenze sulla popolazione.
Questo ci dimostra che le conseguenze di questa catastrofe nucleare sono completamente fuori controllo.
Gli irresponsabili politici potevano scegliere tra peste e colera: o lasciar avvenire l’esplosione senza alcun intervento, o tentare di raffreddare il cuore dei reattori con l’acqua di mare, provocando però una maggiore propagazione della radioattività attraverso la diffusione dell’acqua nei dispositivi di estinzione. Il governo, impotente, ha optato per la contaminazione dell’acqua di mare con le acque di raffreddamento altamente radioattive.
La decontaminazione: anziché risolvere i problemi, li aggrava
I tentativi di sbarazzarsi della terra contaminata hanno mostrato una mancanza di responsabilità e di scrupolo assoluta. Fino all’agosto 2011, nella città di Fukushima, che conta 300.000 abitanti, sono stati riputi solo 334 cortili di scuole ed asili. Ma in realtà le autorità non sanno neanche dove mettere il terreno contaminato. Ad esempio a Koriyama, nella regione di Fukushima, il terreno contaminato è stato sepolto … negli stessi cortili delle scuole. 17 delle 48 zone prefettizie del Giappone, fra cui Tokio, sono considerate zone con suolo contaminato, ma le amministrazioni pubbliche non sanno cosa fare. A solo 20 km da Tokio si sono registrate forti radiazioni. Migliaia di edifici hanno bisogno di essere ripuliti. Anche le montagne boscose avranno probabilmente bisogno di essere decontaminate, cosa che potrebbe richiedere il disboscamento e un vero e proprio raschiamento del suolo. I mass media giapponesi hanno riportato che il governo deve trovare depositi provvisori per milioni di tonnellate di rifiuti contaminati.
Poiché non esiste alcuna soluzione, alcune delle discariche contaminate dalla radioattività sono state bruciate. Ma attraverso i fumi la radioattività si sparge ancora di più. Questo sentimento di impotenza riguardo ai cumuli di rifiuti nucleari getta una cruda luce sull’impossibilità della decontaminazione. Secondo le informazioni delle organizzazioni ambientaliste giapponesi, il governo prevede di distribuire i rifiuti contaminati della regione di Fukushima attraverso il paese intero e bruciarli. Il ministero giapponese dell’ambiente valuta la quantità di rifiuti da eliminare a circa 23,8 milioni di tonnellate. Come attesta Mainichi Daily News, un primo carico di 1000 tonnellate di macerie di Iwate a Tokio è stato fatto ad inizio novembre 2011. Le autorità di Iwate ritengono che queste macerie contengano 133 Becquerel[3] per chilo di materiale radioattivo. Prima del marzo 2011, quest’operazione sarebbe stata illegale, ma il governo giapponese ha stabilito nuove norme spostando il valore limite da 100 Bq/kg a 8000 Bq/kg in luglio, ed a 10.000 Bq/kg in ottobre. La città di Tokio ha annunciato che raccoglierebbe da parte sua circa 500.000 tonnellate di rifiuti radioattivi.
La decontaminazione nucleare: un’eredità disastrosa per il futuro
La caratteristica specifica della produzione di elettricità mediante l’utilizzo di energia nucleare è che il decadimento nucleare non si ferma una volta che le centrali nucleari sono alla fine della loro durata di funzionamento e sono estinte. Il processo di fissione nucleare non termina una volta estinta la centrale nucleare. Cosa fare allora dei rifiuti nucleari, di tutta questa materia che è stata in contatto con materie radioattive ed è contaminata? Secondo la World Nuclear Association, ogni anno si accumulano circa 12.000 tonnellate di rifiuti altamente radioattivi. Fino alla fine del 2010 in tutto il mondo sono stati accumulati circa 300.000 tonnellate di rifiuti altamente radioattivi. Per la sola Francia, secondo la rivista satirica Le Canard enchaîné[4] (“Nucleare, dove è l’uscita?”), più di un milione di metri cubi di suolo sono contaminati da rifiuti radioattivi.
Lo stoccaggio geologico che è stato praticato o che è previsto in molti paesi, ad esempio in vecchie miniere, non è altro che una “soluzione” di fortuna, i cui pericoli vengono più o meno passati sotto silenzio da parte dei difensori dell’energia nucleare. Ad esempio in Germania 125.000 barili di rifiuti nucleari sono depositati in una vecchia miniera ad Asse. Questi barili sono corrosi dal sale e già adesso ne fuoriesce una salamoia contaminata. I responsabili ordinano l’accumulo dei rifiuti nucleari in discariche lasciando alle generazioni future il compito di vedere cosa farsene.
Inoltre il funzionamento “normale” di una centrale nucleare non è così “impeccabile” come proclamano i difensori dell’industria nucleare. In realtà, per il raffreddamento delle barre di combustibile sono necessarie quantità enormi d’acqua, per cui le centrali nucleari devono essere costruite in prossimità di fiumi o del mare. Ogni 14 mesi, in ogni reattore, il quarto delle barre di combustibile deve essere rinnovato. Tuttavia, dato che sono estremamente calde, dopo la sostituzione devono essere messe in piscine per essere raffreddate per un periodo dai 2 ai 3 anni. L’acqua di raffreddamento che viene pompata nei fiumi o nel mare comporta un inquinamento termico che porta allo sviluppo di un’alga che fa morire i pesci. D’altra parte, in queste acque vengono espulsi prodotti chimici quali il sodio, l’acido cloridrico e l’acido borico. E infine, quest’acqua è anche inquinata dalla radioattività, anche se solo in piccole quantità[5].
(Segue…)
Di, 25 gennaio 2012
[1] Il sievert è l’unità di misura degli effetti e del danno provocato dalle radiazioni su un organismo.
[2] A nord-est di Fukushima si fondono due correnti, quella calda Kuroshio e quella fredda Oyashio. Il che fa di questa zona di mare uno dei settori più abbondanti della terra per la pesca. In questa regione le barche da pesca giapponesi prendono circa la metà della quantità di pesce consumata in Giappone. Pertanto l’approvvigionamento di pesce del Giappone potrebbe essere messo in pericolo dato che “un’emissione così elevata di radioattività nel mare non è stata mai misurata”, https://www.ippnw.de/commonFiles/pdfs/Atomenergie/Zu_den_Auswirkungen_der_Reaktorkatastrophe_von_Fukushima_auf_den_Pazifik_und_die_Nahrungsketten.pdf [223].
[3] Il becquerel (simbolo Bq) è l’unità di misura [224] del Sistema internazionale [225] dell’attività [226] di un radionuclide [227] (spesso chiamata in modo non corretto radioattività), ed è definita come l’attività di un radionuclide che ha un decadimento [228] al secondo [229]. 1 Bq equivale ad 1 disintegrazione al secondo.
[5] In Francia, se durante le stagioni secche non c’è sufficiente acqua disponibile, alcune centrali nucleari devono essere raffreddate da elicotteri, mentre le foreste bruciano! (Les dossiers du Canard enchaîné, “Nucléaire: c’est où la sortie?”, le Grand débat après Fukushima, p. 80).
Aprile-maggio 2012
Misure di austerità senza precedenti in una situazione di vicolo cieco per la borghesia
L’ultimo treno di misure imposte dalla “troika” (Fondo Monetario Internazionale, Unione Europea e Banca Centrale Europea) è proprio inammissibile. Tutti i manifestanti lanciavano lo stesso grido: non è più possibile nutrire la nostra famiglia né curare i nostri bambini, non siamo più disposti a farci strangolare.
Il tasso di disoccupazione ufficiale nel novembre 2011 era del 20,9%, aumentato del 48,7% in un anno. Il tasso di disoccupazione dei giovani tra i 18 e 25 anni rasenta il 50%.
In due anni il numero dei senza-tetto è aumentato del 25% ed incombe la carestia: la fame è diventata una preoccupazione quotidiana per molti, come al tempo dell’occupazione subita dal paese durante la Seconda Guerra mondiale.
Nel quotidiano Libération del 30 gennaio 2012 viene riportata la testimonianza di un medico di un’ONG: “Ho cominciato a preoccuparmi quando nel consultorio ho visto uno, poi due, poi dieci bambini che venivano a farsi curare il ventre vuoto, e che non avevano pranzato il giorno prima”
Il numero di suicidi è raddoppiato in due anni, soprattutto tra i giovani, una persona su due soffre di depressione, il super indebitamento delle case esplode.
Il rigetto quasi unanime dell’ultimo piano di austerità è stato tale che al momento del voto, un centinaio di deputati si sono astenuti o si sono opposti, compresi una quarantina appartenenti alle due grandi formazioni maggioritarie di destra e di sinistra, dissociandosi così dalla disciplina di voto del loro partito. In questo clima generale, la borghesia sta avendo enormi difficoltà ad organizzare le prossime elezioni legislative annunciate per il mese di aprile.
Tanto che la decisione di sbloccare i 130 miliardi di euro previsti dal piano di aiuto che doveva corredare il voto delle misure di austerità da parte del parlamento greco, è stata rinviata dai ministri delle finanze dell’UE alla settimana seguente. Questo perché le pressioni e le reticenze dei 3 paesi dell’UE ancora dotate della tripla A, in particolare la Germania che preferirebbe vedere la Grecia dichiararsi in fallimento e lasciare l’UE piuttosto che trascinarsela come una palla al piede, si fanno sempre più forti.
E la Grecia non è che un anello di questa catena di austerità brutale che strangola già numerosi paesi europei. Non c’è nessuna illusione da farsi! Dopo la Grecia, la “troika” si è già spostata in Portogallo per inviare lo stesso ultimatum. L’Irlanda sarà tartassata in corsa. Poi sarà la volta della Spagna e dell’Italia; anche il nuovo presidente del Consiglio italiano Monti, andato al potere per far ingoiare la stessa pozione amara, si preoccupava per l’avvenire riservato all’Italia quando ha contestato la “durezza con cui la Grecia viene trattata”. La Francia, la cui economia vacilla sempre più, prossimamente si troverà presto sull’elenco. Nella stessa Germania, di cui si vantano la salute e la solidità economica, una parte crescente della sua popolazione, specialmente gli studenti, affonda nella precarietà. L’Europa non è e non sarà la sola zona colpita ed nessun paese nel mondo sarà risparmiato. Non c’è soluzione ad una crisi mondiale che mostra apertamente il fallimento totale del sistema capitalista.
Come battersi contro gli attacchi?
Un’insegnante esasperata dichiarava: “Prima della crisi, arrivavo a 1200 euro, oramai arrivo a 760. Ad ogni giorno di sciopero, mi prelevano 80 euro e le misure sono retroattive: questo mese non ho percepito che 280 euro. Non vale più la pena lavorare, tanto vale manifestare e rompere tutto affinché comprendano che non siamo disposti a farci sconfiggere”.
Questa esasperazione e questa collera si sono diffuse e si sono rafforzate di fronte alla sterilità accertata e l’impotenza nel fare arretrare i piani di rigore con le giornate di sciopero generale di 24 o 48 ore indette a ripetizione da 2 anni dai sindacati che in perfetto accordo lavorano per dividere i lavoratori, per controllarli e far sfogare il loro malcontento.
In questa situazione, l’agitazione sociale in Grecia è intensa e la solidarietà tenta di organizzarsi. Nei quartieri vengono organizzate assemblee, nelle città e nei villaggi vengono costituite mense e centri di distribuzioni di cibo, l’occupazione dell’università di Novicki si è data come scopo servire da luogo di scambio e di dibattiti. Ci sono state occupazioni di ministeri (Lavoro, Economia, Salute), di consigli regionali (nelle isole Ioniche o in Tessaglia), della centrale elettrica di Megalopolis, del municipio di Holargos, mentre alcuni produttori hanno distribuito latte e patate alla popolazione.
Tuttavia, la reazione più significativa, quella che mostra la determinazione del movimento in Grecia, illustra anche in modo concentrato tutte le sue debolezze e le sue illusioni. Ci riferiamo a quanto avvenuto all’ospedale di Kilkis in Macedonia centrale nel nord del paese, dove il personale ospedaliero riunito in assemblea generale ha deciso di mettersi in sciopero e di occupare l’ospedale per richiedere gli stipendi non pagati pur prendendo l’iniziativa di continuare a far funzionare le emergenze ed a prodigare cure gratuite ai più indigenti. Questi lavoratori hanno lanciato un appello[1]1 diretto agli altri lavoratori con cui si proclamava che “la sola autorità legittima per prendere le decisioni amministrative sarà l’assemblea generale dei lavoratori”. Abbiamo riprodotto sul nostro sito la traduzione di questo appello perché manifesta una chiara volontà di non restare isolati chiamando, non solo gli altri ospedali ma tutti i lavoratori di tutti i settori a raggiungerli nella lotta. Tuttavia, quest’appello traduce anche molte illusioni democratiche laddove si vuole appoggiare su di “una reazione cittadina” e su un’indistinta “unione popolare”, “con la collaborazione di tutti i sindacati ed organizzazioni politiche progressiste ed i media di buona volontà”. L’appello è anche pesantemente impregnato di patriottismo e di nazionalismo: “Siamo determinati a continuare finché i traditori che hanno venduto il nostro paese se ne vadano”, che sono dei veri veleni per l’avvenire della lotta. Sono questi, in effetti, i principali fattori di deterioramento di questo movimento “popolare” in Grecia che resta arenato ed invischiato nella trappola del nazionalismo e delle divisioni nazionali tesa e sostenuta con ogni mezzo dai politici e dai sindacati. Al centro delle manifestazioni si vedono ovunque sventolare bandiere greche. Tutti i partiti ed i sindacati spingono ad inasprire un sentimento di “fierezza nazionale offesa”. Al vertice di questa demagogia populista, il Partito comunista greco, il KKE, che gioca lo stesso ruolo della Lega nostrana e di varie frange di destra e di sinistra, continua a diffondere questa propaganda sciovinista largamente attizzata dai principali partiti, spingendo verso il vicolo cieco della difesa degli interessi del paese: il governo è accusato di vendere, ed anche di svendere, il paese all’estero, di essere un traditore della difesa della nazione. Si inocula l’idea che il responsabile della situazione non è il sistema capitalista in sé ma che la colpa sarebbe dell’Europa, della Germania o degli Stati Uniti. Questo autentico veleno che devia la lotta di classe sul campo putrido delle divisioni nazionali, dove si esercita a pieno la concorrenza capitalista, rappresenta non solo un vicolo cieco ma anche uno dei maggiori ostacoli all’indispensabile sviluppo dell’internazionalismo proletario.
Noi non abbiamo interessi nazionali da difendere. La nostra lotta deve svilupparsi ed unificarsi al di là delle frontiere. E per questo è vitale che i proletari degli altri paesi entrino in lotta dimostrando nel concreto che la risposta degli sfruttati del mondo intero di fronte agli attacchi del capitalismo non è e non può avvenire sul campo nazionale.
W. (8 febbraio)
[1] “L’ospedale di Kilkis in Grecia sotto il controllo dei lavoratori”, https://it.internationalism.org/node/1156 [232]
Una crisi da paura!
Ormai la crisi economica non è più soltanto un argomento importante di discussione. La crisi è diventata qualcosa che si vive e si patisce ogni giorno, con i licenziamenti e la mancanza di lavoro per i giovani, con l’aumento di qualunque genere di prima necessità e la riduzione al lumicino degli ammortizzatori sociali, con un governo che sforna una legge dopo l’altra per togliere il pane di bocca a famiglie già allo stremo e con il controcanto di partiti e sindacati che fanno finta di fare opposizione per giustificare la propria esistenza ma che, alla fine, fanno passare qualunque porcheria. Come giustamente ha ricordato più volte la Fornero, questo è un governo che è stato chiamato a svolgere un compito preciso, quello di fare la pelle alla povera gente per rimettere in sesto un capitalismo ormai barcollante. Insomma esattamente come avviene per i killer assoldati per compiere il lavoro sporco che altri non vogliono o non possono fare. I lavoratori precari e le partite iva “mascherate”, utilizzati ormai al posto dei dipendenti in numerosi settori, sono oggi più che mai sotto ricatto e ridotti alla pura sopravvivenza; quelli “disdettati” dall’oggi al domani sono ridotti alla fame perché non è per loro previsto nessun tipo di ammortizzatore sociale e sempre più cadono in profonda disperazione alimentata anche dalle condizioni di isolamento e concorrenza nelle quali abitualmente lavorano. Gli “esodati”, ovvero quei lavoratori (da 130.000 a 300.000) che avevano accettato di lasciare le aziende in crisi pensando di poter andare in pensione dopo pochi mesi, si sono ritrovati tra capo e collo una riforma previdenziale che ha aumentato l’età di pensionamento, finendo incredibilmente in una situazione sociale che non prevede per loro né una pensione né uno stipendio fino a maturazione della nuova età pensionabile prevista dalla nuova legge, ovvero tra 2, 3, 4… anni.
Nessuna meraviglia che questa situazione porti allo sconforto più profondo. Già nel 2010[1]ben 392 disoccupati si erano tolti la vita. E, a dimostrazione del fatto che la crisi non è un escamotage degli imprenditori per tenere sotto ricatto i lavoratori ma l’espressione di un processo oggettivo, fa dolorosamente da contrappunto la notizia che nello stesso anno 336 imprenditori hanno a loro volta deciso di suicidarsi. Insomma in media ogni giorno un lavoratore dipendente e un imprenditore decidono che non riescono più a sopportare le sofferenze che comporta questa società. E il governo che fa? Continua nella sua marcia di stritolamento della popolazione come se niente fosse, affrontando adesso la riforma del lavoro e la modifica dell’articolo 18. Certo, l’abolizione dell’articolo 18 sarebbe una vera porcheria. Ma c’è da chiedersi come mai i media, i politici, i sindacati, soprattutto quelli di "sinistra", hanno dato tanta enfasi all'articolo 18. Forse che questo è servito in passato a difendere dei posti di lavoro, a bloccare il dilagare della precarizzazione o a restituire ai giovani e meno giovani una prospettiva di vita decente? Non ci pare proprio! Ed allora, perché la Camusso solo in questa occasione ha fatto la tosta, “minacciando” una lotta “durissima”?[2] La realtà è che l’attacco serio è già passato o sta passando, ma attraverso altre forme, mentre l’articolo 18 può far comodo sia per veicolare tutto lo scontento su una singola questione che per creare un elemento di divisione all’interno del mondo del lavoro. Nel 2010 sono “quasi 7 milioni i “protetti”, circa 6 milioni e 400 mila gli “esclusi”. (…) Tra gli esclusi (…) 4 milioni e 640 mila dipendenti in aziende con meno di 15 dipendenti, 825 mila dipendenti a termine delle aziende medio-grandi e poco più di 900 mila collaboratori e partite iva con un unico committente. (…) Scendendo lungo lo stivale il rapporto tra lavoratori protetti e non diminuisce, anche perché sale la proporzione di lavoratori in aziende con meno di 15 dipendenti. Solo per il 45% delle donne vale il reintegro sul posto di lavoro, ed il divario tra giovani ed adulti in protezione dal licenziamento è di quasi 20 punti percentuali, a causa anche dell’elevata incidenza di contratti a termine tra gli Under 30.”[3] Si capisce bene dalle cifre riportate come la focalizzazione su questo punto possa essere utilizzata per creare una spaccatura a vari livelli all’interno della classe tra chi è coinvolto dalla misura e chi, non essendo toccato, può essere indotto a pensare che forse è addirittura meglio che ci sia un unico destino per tutti, che nessuno venga protetto dalla legge e così via. Inoltre il ridimensionamento dell’articolo 18, anche se non ha un significato economico immediato, tornerà utile in certe occasioni per liberarsi di lavoratori “scomodi”; infatti, con la nuova versione dell’art.18, sarà più facile trovare un “pretesto” economico per licenziare chi dà fastidio; stanno usando insomma la gravità della crisi sia per dare mazzate che servono nell’immediato, sia per aumentare ancora di più la ricattabilità dei lavoratori.
D’altra parte, di fronte alla necessità di procedere ad ulteriori attacchi (“Sacrifici fino al 2013, ci battiamo per evitare il destino della Grecia”, Monti, 18 aprile 2012) e di fronte alla prospettiva più che probabile di scossoni sociali sempre più forti, la borghesia non ha altra carta da giocarsi che quella di confondere l’avversario, appunto cercando di dividerlo. Così si mettono dipendenti privati contro dipendenti pubblici, impiegati a tempo indeterminato contro precari e partite iva, come già per le pensioni sono stati messi anziani contro giovani, dipendenti contro autonomi o come per la lotta all'evasione sono stati contrapposti dipendenti contro autonomi, commercianti ecc., il tutto con la partecipazione attiva del Presidente della Repubblica, ex-“comunista”, dei sindacati e dei partiti di “sinistra”.
Almeno servisse a qualcosa tutto questo sacrificarsi!
Eppure ci avevano raccontato che questa crisi era di natura finanziaria e che la sua origine era colpa di qualche banchiere e di pochi “furbetti”, e che se si era aggravata era per colpa di politici incapaci e dediti solo a fare festini e bunga-bunga, che non erano capaci di intervenire contro l’aumento della disoccupazione, l’evasione fiscale, ecc. E’ per questo che è stato chiamato, con un’insistenza da parte di tutti i paesi europei, il nuovo governo composto da tecnici, professori ed esperti che dovevano, con onestà e rigore, rimettere le cose a posto. Oggi da questo governo, appoggiato dai tre partiti più rappresentativi, ci viene detto che per “salvarci”, per non fare la fine della Grecia, dobbiamo fare ancora “sacrifici”, e che non c’è altra via di salvezza; che il rigore e l’onestà ci riporteranno ad essere un paese solido e “virtuoso”; che finalmente questo governo farà pagare le tasse a tutti; che grazie alle manovre (fatte di tagli ed aumenti di tasse) fin qui approvate è sceso lo spread ed è aumentata la credibilità del nostro paese nel panorama mondiale, grazie anche alla migliore ”immagine” di questo governo rispetto al precedente.
C’è pure il discorso secondo il quale se tutti pagassero le tasse, allora il povero imprenditore non sarebbe arrivato al suicidio. Per cui i blitz fatti dalla guardia di finanza nelle ricche città del turismo di lusso servono per mostrare che la situazione è difficile ma che “ci stiamo dando da fare”.
Ci raccontano anche che gli italiani, anche se molto preoccupati, hanno capito e sono solidali con questo governo formato da gente seria ed onesta, e ci sentiamo dire da più parti che se il Professor Monti si dovesse presentare alle prossime elezioni politiche del 2013 prenderebbe la maggioranza schiacciante dei voti.
Ma dopo cinque mesi di governo “tecnico” del Professor Monti, non solo la crisi continua, ma le previsioni a livello internazionale sono decisamente critiche mentre il famoso spread, che è stato l’espediente per far fuori Berlusconi, torna a puntare su quota 400 e le borse crollano. Possibile che dopo tutto quanto abbiamo fatto siamo ancora al punto di partenza?
La disoccupazione è in notevole aumento, le tariffe lievitano, le tasse aumentano vistosamente così come i prezzi dei generi di prima necessità, a fronte di una diminuzione dei redditi, insomma quel tanto decantato miglioramento dov’è?
Assistiamo semmai ad un crescente impoverimento generale!
In risposta a questa situazione abbiamo finora assistito a reazioni e a lotte da parte dei lavoratori, già descritte in precedenti articoli[4]4, con i sindacati a farla da padrone nel frenare e dividere eventuali spinte dal basso.
La situazione alla quale stiamo in questo momento assistendo è quella di una borghesia del tutto incapace di dare una risposta credibile a questa crisi per il semplice motivo che non c’è una risposta, che mette a rischio la sopravvivenza del suo stesso sistema e che tira mazzate alla cieca, tentando di dividere ed isolare e portando sempre più larghi strati di popolazione alla disperazione.
Ma tutto ciò dimostra solo che questo sistema è alla frutta e che la borghesia, nonostante la sua palese incapacità di trovare vie di uscita, piuttosto che lasciare è disposta a distruggere tutto, il che rende evidente che senza l’abbattimento di questo sistema ci aspetta la barbarie. Per questo oggi più che mai è necessario che il proletariato si unisca e prenda coscienza del compito che lo aspetta.
Tommaso, 20/4/2012
[1] Dato Istat riportato dalla stampa il 18 aprile scorso.
[2] Cioè 16 ore di sciopero, mamma mia che paura per i padroni.
[4] “Lotta di classe in Italia: perché le lotte non riescono ad unirsi in un unico fronte contro il capitale?” https://it.internationalism.org/node/1125 [234] e “Tolto Berlusconi, venuto Monti, restano la crisi e le batoste sulla pelle dei proletari. Come possiamo rispondere?”, https://it.internationalism.org/node/1147 [235]
Ma lo scoppio degli scandali non corrisponde certo a un sussulto di moralità di una parte dell’apparato. Al contrario, gli scandali non sono altro che un modo di regolare i conti fra queste bande di gangster, tutte unite quando si tratta di tenere sotto controllo gli oppressi, ma pronte a scannarsi fra loro appena è possibile, o necessario per aggiustare un po’ di carte per il proprio capitale[1].
Ed è anche questo il caso per l’attuale scandalo che coinvolge la Lega. La Lega è sempre stata un partito anomalo nel quadro politico classico, un partito regionale senza un’etnia di riferimento (la Padania non è mai esistita), che con la sua politica localista metteva in difficoltà la stabilità del regime, con un linguaggio poco politically correct (anche se efficace verso i propri seguaci), ma che tuttavia è stata utile per assicurare la resistenza dei governi di centrodestra fino a che l’irresponsabilità e l’incapacità di Berlusconi non hanno convinto la borghesia a metterlo da parte e formare un governo che fosse più capace di far fronte alla tempesta della crisi economica attuando una feroce politica di austerità. Fino ad allora (e stiamo parlando di cinque mesi fa) nemmeno veniva ipotizzato che nella Lega ci potesse essere corruzione, eppure l’elezione di un personaggio come Renzo Bossi era un bel segno di quel nepotismo che è un parente stretto della corruzione, la villa di Gemonio della famiglia Bossi era già stata ristrutturata con i soldi della Lega, la casa che una simpatizzante aveva lasciato in eredità alla Lega Bossi se l’era già venduta trattenendosi i soldi; insomma tutti gli atti oggi sotto accusa e che hanno già causato un terremoto interno alla Lega erano già stati commessi e non è possibile che nessuno sapesse o sospettasse. La questione è che cinque mesi fa la Lega tornava comoda ed oggi non è più così.
L’operazione governo Monti non serve solo ad affrontare con energia diversa la crisi economica, serve anche a cercare di rinnovare la politica italiana, a mettere fine a quel teatrino politico che, a dispetto di tutte le alchimie sul sistema elettorale, o non garantisce una stabilità ai governi, o comunque non garantisce un sufficiente senso di responsabilità verso gli interessi generali del capitale nazionale (che è l’accusa vera che la borghesia fa a Berlusconi, anche se i giornali preferiscono parlare del suo scarso senso etico): insomma il governo Monti è un monito a tutti i partiti ad essere più seri e più responsabili.
In questo quadro un partito come la Lega (che peraltro non serve ad assicurare la maggioranza al governo) non andava più bene, almeno non andava più bene così come si era presentato finora[2]. Perciò scoppia lo scandalo, che non necessariamente ha l’obiettivo di farla sparire, anzi molto più probabilmente ha il doppio obiettivo di ridimensionarla e soprattutto di costringerla a rientrare nei canoni di comportamenti politici più seri. Non a caso ci sono frange interne alla Lega stessa che spingono per un cambiamento radicale, un cambiamento che ovviamente deve anche significare una rimozione dei rappresentanti più importanti della Lega partito folcloristico e populista[3]3. E quello delle denunce e della messa in evidenza delle malefatte è ovviamente il metodo più rapido e sicuro per portare a termine l’operazione di rinnovamento. Un ulteriore elemento che lascia pensare che l’obiettivo sia un ridimensionamento e non la sparizione della Lega è la preoccupazione con cui anche il principale alfiere del rinnovamento e dell’operazione di pulizia, Maroni, sta ben attento a salvare il gran capo, Bossi, a dispetto del fatto che molti dei soldi sottratti alle case del partito siano stati spesi per la famiglia di Bossi e per quelli che gli erano più vicini. Maroni non cerca di salvare Bossi per affetto (tra questi banditi questi sentimenti non esistono), ma perché il coinvolgimento fino in fondo di Bossi sarebbe probabilmente fatale per la sopravvivenza stessa della Lega.
Questi scandali, se hanno come primo obiettivo di regolare i conti interni alle forze politiche borghesi, vengono utilizzati contro i proletari seminando l’illusione che ci possano essere campagne moralizzatrici in questo sistema si sfruttamento e di ruberie, mentre deve essere chiaro che questo sistema non conosce né morale, né scrupoli, e può solo aumentare il degrado della società, dal punto di vista morale oltre che economico.
Helios, 25/4/2012
[1] . Il caso più famoso di queste operazioni di pulizia tutte a profitto dei piani del capitale è stato Mani Pulite, un sistema per fare fuori un partito ormai non più utile dopo il crollo del blocco sovietico, e cioè quella DC che aveva garantito per 40 anni la fedeltà dell’Italia all’alleanza con gli USA contro il pericolo “rosso”.
[2] . La Lega ha comunque svolto, e può continuare a svolgere, un ruolo utile al mantenimento del sistema, nella misura in cui riesce a controllare settori importanti di popolazione (anche di lavoratori) in una regione cruciale dal punto di vista produttivo come il nord Italia.
[3] . Sembra addirittura che le indagini siano partite con denunce di militanti della Lega, militanti evidentemente ben guidati da quei dirigenti che sapevano e non volevano esporsi in una denuncia.
La storia potrebbe finire qui, aspettando il verdetto della magistratura indiana e avendo a disposizione le poche ma chiare informazioni: non c’è stato uno scontro a fuoco ma una incapacità dei marò nel controllare la situazione e non premere il grilletto. Ma i due Stati, il Kerala e l’Italia, ne hanno approfittato per tirare acqua al proprio mulino.
Ambedue, infatti, nell’illustrare i fatti, non si sono preoccupati affatto dei due pescatori uccisi e del grave pericolo che corrono le piccole imbarcazioni, come quella dei pescatori, quando vengono avvicinate da petroliere e portacontainer con uomini armati a bordo. Ambedue invece hanno utilizzato argomenti giuridici relativi al processo ai due marò, a favore o contro la loro punizione, facendo di tutta la storia solo una questione di dignità nazionale, di solidarietà nazionale.
In più, in Italia, è stata scatenata una campagna di orgoglio nazionale che ha trovato sbocco non solo sulle prime pagine dei quotidiani, ma anche nelle pagine dei social network con frasi come “sosteniamo i nostri marò”, “non compriamo prodotti indiani” e simili. Non sappiamo cosa dicono i giornali del Kerala, ma potremmo immaginarlo pensando a quante ne sono state dette in Italia contro i piloti americani che nel febbraio ’98, volando a bassa quota, tranciarono i cavi di una funivia facendo 20 vittime, tra cui tre italiani. In quel caso le parti erano rovesciate, ma gli Stati Uniti riuscirono ad imporsi. Di casi analoghi se ne possono trovare a decine.
Il governo italiano solleva la questione che “l’incidente” sarebbe avvenuto, in acque internazionali per poter affidare alla magistratura italiana il giudizio sulla vicenda, non avendo fiducia nella magistratura indiana. E qui ci sarebbe da ridere, sapendo come vanno le cose in casa nostra, con i delinquenti che la fanno sempre franca e i poveri cristi lasciati a marcire nelle patrie galere. In breve, si vorrebbe incolpare i pescatori indiani di abbordaggio e far pagare all’India le spese processuali e i danni economici per il blocco della nave. Nessuno si meraviglia del fatto che dei soldati pagati da noi lavoratori vengano incaricati del controllo della sicurezza di navi di società private. L’armatore paga per l’utilizzo di questi soldati? E a chi? Nessuno si meraviglia dell’armamento trovato a bordo, 8 tra fucili mitragliatori e simili solo per due soldati!
I due soldati, che in un primo momento hanno ammesso di aver sparato, hanno poi mantenuto il più stretto silenzio tranne che proclamare il loro “orgoglio italiano!”, come hanno ampiamente riportato i giornali di quei giorni. E dov’è l’orgoglio nello sparare con un mitra col cannocchiale addosso a della gente senza accertarsi prima di chi si tratta?
Il governo del Kerala, da parte sua, ha usato la mano dura contro i due soldati e ha trattenuto la nave, non per fare giustizia ma perché è in periodo elettorale e non può dimostrare una debolezza nei confronti di uno Stato estero. Nei fatti ci sono anche trattative segrete dove sicuramente si faranno proposte di pagamento come risarcimento, ma ben poco finirà alle famiglie dei pescatori uccisi. Il governo centrale dell’India, che non può permettersi di portare avanti per le lunghe questa storia perché nuoce ai suoi interessi commerciali con l’Italia, farà di tutto per far liberare i due soldati.
Difficilmente i governi si preoccupano di fare chiarezza e giustizia su storie come questa, per loro la vita degli uomini non conta nulla, soprattutto quella dei “semplici” lavoratori, e quando se ne occupano, lo fanno per ben altri interessi.
I funerali di Stato, le onorificenze, i bei discorsi sui giovani soldati italiani che muoiono per la pace in Afghanistan, servono a giustificare e a cercare la complicità con lo Stato italiano nel massacro quotidiano di decine e decine di esseri umani in questo paese. E chi muore sul lavoro, chi si toglie la vita perché disoccupato, perché pieno di debiti, perché esasperato dal fatto di non poter mantenere la famiglia, non ha diritto neanche ai funerali di Stato né a qualsiasi altro riconoscimento, anzi, se si è dato fuoco perché pieno di debiti, questi li devono comunque pagare i suoi famigliari. Questi sono solo fatti di cronaca o tutt’al più vengono usati come dato in qualche statistica.
Per questo, da parte nostra nessuna solidarietà allo Stato del Kerala, allo Stato italiano né tantomeno ai rispettivi eserciti e tribunali. Noi siamo per lo smantellamento di tutti gli eserciti e tutti gli Stati. La nostra solidarietà va tutta alle famiglie dei due pescatori uccisi, ai proletari indiani che per sopravvivere devono rischiare la vita ogni giorno, così come ai proletari di tutto il mondo.
Oblomov
Pubblichiamo qui un volantino internazionale, che la CCI sta diffondendo ovunque è presente, dove si fa un primo bilancio dei movimenti degli Indignati e degli “Occupy” che si sono sviluppati nel 2011, per contribuire al dibattito sul loro significato e la loro importanza.
I due eventi più significativi del 2011 sono stati la crisi globale del capitalismo[1] ed i movimenti sociali in Tunisia, in Egitto, in Spagna, in Grecia, in Israele, in Cile, negli Stati Uniti, in Gran Bretagna …
L’indignazione ha preso una dimensione internazionale
Le conseguenze della crisi capitalista sono estremamente dure per l’immensa maggioranza della popolazione mondiale: deterioramento delle condizioni di vita, disoccupazione che si prolunga per anni, precarietà che rende impossibile la benché minima esigenza vitale di stabilità, situazioni estreme di povertà e di fame …
Milioni di persone si rendono conto con preoccupazione del fatto che ogni possibilità di “una vita stabile e normale”, di “un futuro per i loro figli” diventa irraggiungibile. Questo ha provocato un’indignazione profonda, ha portato a rompere la passività, a scendere nelle strade e nelle piazze, a porsi delle domande sulle cause di una crisi che, nella sua fase attuale, dura già da oltre cinque anni.
L’indignazione è montata ancora di più per l’arroganza, la voracità e l’indifferenza rispetto alle sofferenze della maggioranza della popolazione di banchieri, politici e altri rappresentanti della classe capitalista. Ma anche a causa dell’incompetenza dei governi di fronte ai gravi problemi della società: le misure che questi prendono non fanno che aumentare la miseria e la disoccupazione senza darvi la minima soluzione.
Il movimento d’indignazione si è esteso a livello internazionale. È nato in Spagna dove il governo socialista aveva realizzato uno dei primi e più duri piani d’austerità; in Grecia, diventata il simbolo della crisi economica mondiale attraverso l’indebitamento; negli Stati Uniti, tempio del capitalismo mondiale; in Egitto ed in Israele paesi situati in uno dei peggiori e più acuti fronti del conflitto imperialista, quello del Medio Oriente.
La coscienza che si tratta di un movimento globale inizia a svilupparsi, nonostante il peso distruttivo del nazionalismo (presenza di bandiere nazionali nelle manifestazioni in Grecia, in Egitto e negli Stati Uniti). In Spagna, la solidarietà con i lavoratori in Grecia si è espressa al grido di “Atene resisti, Madrid si solleva!”. Gli scioperanti di Oakland (California, novembre 2011) proclamavano la loro “solidarietà con i movimenti di occupazione a livello mondiale”. In Egitto è stata approvata una Dichiarazione del Cairo di sostegno al movimento negli Stati Uniti. In Israele, gli Indignati hanno gridato “Netanyahu, Mubarak, El Assad, sono la stessa cosa” ed hanno preso contatto con i lavoratori palestinesi.
Oggi, il punto culminante di questi movimenti è dietro di noi, anche se si vedono apparire nuove lotte (Spagna, Grecia, Messico). E allora molta gente si chiede: a cosa è servita tutta quest’ondata d’indignazione? Abbiamo guadagnato qualcosa?
“Prendi la strada!”, slogan comune ai vari movimenti
Erano più di trent’anni che non si vedevano le folle occupare le strade e le piazze per provare a lottare per i propri interessi, al di là delle illusioni e delle confusioni che possono esistere.
Quelle persone, i lavoratori, gli sfruttati, tutti quelli che sono stati dipinti come indolenti falliti, gente senza iniziativa o incapace di fare qualcosa in comune, sono arrivati ad unirsi, a condividere, a creare e rompere l’asfissiante passività che ci condanna alla sinistra normalità quotidiana di questo sistema.
E’ stata un’iniezione di incoraggiamento, l’inizio di uno sviluppo della fiducia nella nostra capacità, della riscoperta della forza che dà l’azione collettiva di massa. La scena sociale sta cambiando. Il monopolio sulle questioni pubbliche esercitato dai politici, gli esperti, i “grandi di questo mondo” inizia ad essere messo in discussione dalle folle anonime che vogliono farsi ascoltare[2].
Certo è un punto di partenza fragile. Le illusioni, le confusioni, l’inevitabile va e vieni degli stati d’animo, la repressione, i pericolosi vicoli ciechi verso i quali spingono le forze d’inquadramento dello Stato capitalista (i partiti di sinistra ed i sindacati) imporranno passi dietro e amare sconfitte. E’ è un cammino lungo e difficile, disseminato di ostacoli e sul quale non si ha nessuna garanzia di successo, ma il fatto stesso di mettersi in marcia è già una vittoria.
Le Assemblee generali sono il cuore del movimento
Le folle non si sono limitate a gridare passivamente il loro malessere ma hanno preso l’iniziativa di organizzarsi in assemblee. Le assemblee di massa sono la concretizzazione dello slogan della Prima Internazionale (1864) “L’emancipazione dei lavoratori sarà opera dei lavoratori stessi o non sarà”. Esse si iscrivono nella continuità della tradizione del movimento operaio che prende inizio con la Comune di Parigi e assume la sua espressione più elevata in Russia nel 1905 e nel 1917, continuando nel 1918 in Germania, 1919 e 1956 in Ungheria, 1980 in Polonia.
Le assemblee generali ed i consigli operai sono le forme distintive dell’organizzazione della lotta del proletariato ed il nucleo di una nuova organizzazione della società.
Assemblee per unirsi in massa ed iniziare a rompere le catene che ci legano alla schiavitù salariale: l’atomizzazione, il ciascuno per sé, la chiusura nel ghetto del settore o della categoria sociale.
Assemblee per riflettere, discutere e decidere, diventare collettivamente responsabili di quello che viene deciso, partecipando tutti sia alla decisione che alla messa in opera di quello che è stato deciso.
Assemblee per costruire la fiducia reciproca, l’empatia, la solidarietà, che non sono soltanto indispensabili per portare avanti la lotta ma saranno anche i pilastri di una società futura senza classi né sfruttamento.
Il 2011 ha conosciuto un’esplosione della vera solidarietà, che non ha niente a che vedere con la “solidarietà” ipocrita ed interessata che ci predicano: a Madrid ci sono state manifestazioni per esigere la liberazione degli arrestati o impedire che la polizia fermasse gli emigrati; azioni di massa contro gli sfratti in Spagna, in Grecia e negli Stati Uniti; a Oakland, “l’assemblea degli scioperanti ha deciso di inviare dei picchetti o occupare qualsiasi impresa e scuola che in qualche modo prenda sanzioni contro dipendenti e studenti che hanno partecipato allo sciopero generale del 2 novembre”. Si sono potuti vivere momenti, certo ancora molto episodici, dove chiunque poteva sentirsi protetto e difeso dai suoi simili, cosa che è in forte contrasto con quella che è la “normalità” in questa società, cioè il sentimento angosciante di essere senza difese e vulnerabile.
La cultura del dibattito illumina il futuro
La coscienza necessaria perché milioni di lavoratori trasformino il mondo non si acquisisce in corsi universitari o seguendo le consegne geniali di capi illuminati, ma è il frutto di un’esperienza di lotta accompagnata e guidata da un dibattito che analizza ciò che si sta vivendo, tenendo conto del passato e proiettandosi sempre verso il futuro perché, come diceva un cartello in Spagna “Non c’è futuro senza rivoluzione!”.
La cultura del dibattito, cioè la discussione aperta che parte dal rispetto reciproco e dall’ascolto attento, è iniziata a germogliare non solo nelle assemblee ma anche intorno ad esse: sono state messe su biblioteche ambulanti, sono state organizzati incontri, discussioni, scambi … Nelle strade e nelle piazze si è improvvisata una vasta attività intellettuale con mezzi precari che, come per le assemblee, ha significato un ricollegarsi all’esperienza passata del movimento operaio: “La sete d’istruzione, non soddisfatta per tanto tempo, è diventata con la rivoluzione un vero delirio. Dall’Istituto Smolny ogni giorno, durante i primi sei mesi, sono uscite tonnellate di letteratura che, in carri o in treni, si sono riversate sul paese. La Russia assorbiva, insaziabile, come la sabbia calda assorbe l’acqua. E non dei romanzi grotteschi, della storia falsificata, della religione diluita, tutta questa letteratura a buon mercato che perverte, ma teorie economiche e sociali, filosofia, opere di Tolstoj, di Gogol, di Gorki”[3]. Di fronte alla cultura di questa società che propone di lottare per dei “modelli di successo”, il che è alla base di milioni di fallimenti, contro i falsi e alienanti stereotipi che l’ideologia dominante ed i suoi mass media martellano giorno dopo giorno, migliaia di persone hanno iniziato a ricercare una cultura popolare autentica, costruita da loro stessi, provando a forgiare dei propri valori, in modo critico ed indipendente. In questi assembramenti si è parlato della crisi e delle sue cause, del ruolo delle banche, ecc. Si è parlato di rivoluzione, anche se in questo concetto sono state versate molte cose differenti, a volte disparate; si è parlato di democrazia e di dittatura, il tutto sintetizzato nei due slogan complementari: “La chiamano democrazia e non lo è!” e “E’ una dittatura e non si vede!”[4].
Si sono fatti i primi passi perché emerga una vera politica della maggioranza, distante dal mondo degli intrighi, delle menzogne e delle torbide manovre che sono propri della politica dominante. Una politica che abborda tutti gli argomenti che ci toccano, non soltanto l’economia o la politica, ma anche l’ambiente, l’etica, la cultura, l’istruzione o la salute.
Il proletariato ha tra le sue mani le chiavi del futuro
Se tutto quello che abbiamo detto fa del 2011 l’anno dell’inizio della speranza, dobbiamo tuttavia avere una visione lucida e critica sui movimenti che abbiamo vissuto, i loro limiti e le loro debolezze che sono ancora numerosi.
Anche se sempre più gente in tutto il mondo è convinta che il capitalismo sia un sistema obsoleto, che “perché l’umanità possa vivere, il capitalismo deve morire”, si tende però a ridurre il capitalismo ad un pugno di “cattivi” (finanzieri senza scrupoli, dittatori senza pietà) mentre c’è una complessa rete di relazioni sociali che deve essere attaccata nella sua totalità e non bisogna disperdersi dietro le sue espressioni multiple e variegate (la finanza, la speculazione, la corruzione dei poteri politico-economici).
Se il rigetto di una violenza di cui il capitalismo trasuda da tutti i pori (repressione, terrore e terrorismo, barbarie morale) è più che giustificato, ciò non toglie che questo sistema non potrà essere abolito dalla semplice pressione pacifica e cittadina. La classe minoritaria non abbandona volontariamente il potere, essa si protegge dietro uno Stato che, nella sua versione democratica, è legittimato da elezioni ogni 4 o 5 anni, con partiti che promettono quello che non faranno mai e fanno quello che non avevano mai detto, e con dei sindacati che mobilitano per smobilitare e finiscono per firmare tutto quello che la classe dominante gli mette sul tavolo. Solo una lotta di massa, dura e tenace, potrà dare agli sfruttati la forza necessaria per distruggere i mezzi di repressione di cui dispone lo Stato e rendere reale la parola d’ordine così spesso ripresa in Spagna: “Tutto il potere alle Assemblee”.
Anche se lo slogan “Siamo il 99% contro l’1%”, popolare nei movimenti di occupazione negli Stati Uniti, manifesta un inizio di comprensione del fatto che la società è crudelmente divisa in classi, la maggioranza dei partecipanti a questi movimenti si vede come “cittadini attivi” che vogliono essere riconosciuti in una società di “cittadini liberi ed uguali”.
E tuttavia la società è divisa in classi, una classe capitalista che possiede tutto e non produce niente ed una classe sfruttata, il proletariato, che produce tutto e possiede sempre meno. Il motore dell’evoluzione sociale non è il gioco democratico della “decisione di una maggioranza di cittadini” (questo gioco è piuttosto la maschera che copre e legittima la dittatura della classe dominante) ma la lotta di classe.
Il movimento sociale ha bisogno di articolarsi intorno alla lotta della principale classe sfruttata, il proletariato, che produce collettivamente l’essenziale delle ricchezze e garantisce il funzionamento della vita sociale: le fabbriche, gli ospedali, le scuole, le università, i porti, gli uffici, gli uffici postali … In alcuni movimenti nel 2011 la forza di questa classe sfruttata ha iniziato ad apparire: a partire dal momento in cui è scoppiata in Egitto l’ondata di scioperi, il potere è stato costretto a sbarazzarsi di Mubarak. A Oakland (California), gli “occupiers”[5] hanno chiamato ad uno sciopero generale, sono andati al porto e sono riusciti ad avere il sostegno attivo dei lavoratori del porto e dei camionisti. A Londra, gli elettrici in sciopero e gli occupanti di Saint-Paul sono confluiti in azioni comuni. In Spagna, le assemblee di piazza ed alcuni settori in lotta hanno teso ad unificarsi.
Non esiste alcuna opposizione tra la lotta del proletariato moderno ed i bisogni profondi degli strati sociali ridotti in miseria dall’oppressione capitalista. La lotta del proletariato non è un movimento particolare o egoista ma la base del “movimento autonomo dell’immensa maggioranza a beneficio dell’immensa maggioranza” (Manifesto Comunista).
Riprendendo in modo critico le esperienze di due secoli di lotta proletaria, i movimenti attuali potranno trarre vantaggio dai tentativi di lotta e di liberazione sociale del passato. Il cammino è lungo e pieno di ostacoli, cosa insita in uno slogan ripetuto spesso l’anno scorso in Spagna “l’essenziale non è andare veloce, ma andare lontano”. Sviluppando un dibattito il più ampio possibile, senza alcuna restrizione e senza scoraggiamento, per preparare coscientemente nuovi movimenti, possiamo agire perché diventi realtà questa speranza: un’altra società è possibile!
CCI, 12 marzo 2012
[1] In stretta relazione alla crisi globale del sistema, il gravissimo incidente alla centrale nucleare di Fukushima in Giappone ci mostra i grandi pericoli in cui incorre l’umanità.
[2] E’ significativo che il Times Magazine abbia designato “Uomo dell’anno” il “Protester” (l’Indignato). Vedi: time.com/time/specials/packages/article/0,28804,2101745_2102132_2102373,00.html
[3] John Reed, “10 giorni che sconvolsero il mondo”.
[4] In spagnolo: “Lo llaman democracia y no lo es” e “Es una dictadura y no se ve”.
[5]Letteralmente “Occupanti”, indica i partecipanti al movimento Occupy.
In India, il 28 febbraio scorso c’è stata una giornata di sciopero proclamata dalle undici centrali sindacali nazionali (è la prima volta dall’indipendenza del paese nel 1947 che queste agiscono insieme) e da 50.000 sindacati più piccoli, che rappresentano 100 milioni di lavoratori attraverso tutto il paese. Lo sciopero ha riguardato numerosi settori, in particolare gli impiegati di banca, i lavoratori delle poste e dei trasporti pubblici, gli insegnanti, i portuali … Questa mobilitazione è stata salutata come uno degli scioperi più grandi del mondo fino ad oggi.
Il fatto che milioni di lavoratori si siano mobilitati mostra che, nonostante tutti i discorsi sul boom economico indiano, la situazione che vive la classe operaia è tutt’altra. Ad esempio, i centri della telefonia e l’industria legata all’informatica in India, che dipendono al 70% da società americane, subiscono pesantemente il peso della crisi economica. E questo è vero per molti altri settori. L’economia indiana non è al di fuori dal resto dell’economia mondiale e dalla sua crisi.
Anche in India quindi la rabbia operaia si fa sentire. Ecco perché i sindacati si sono messi tutti d’accordo sull’appello comune allo sciopero … per far fronte, uniti, a … la classe operaia! Quale altro senso dare a quest’intesa improvvisa tra le organizzazioni sindacali, le stesse che in passato hanno al contrario sapientemente e sistematicamente mantenuto la divisione in tutte le precedenti mobilitazioni contro le misure governative.
Lungi dal mostrare che oggi la borghesia attacca senza tregua i lavoratori a causa della crisi di un sistema malato e putrescente, gli sforzi dei sindacati mirano a far credere che bisognerebbe dar fiducia a questo sistema e che la borghesia potrebbe accordare qualsiasi cosa se solo volesse. La prova è il cocktail di rivendicazioni avanzate che puntano in particolare all’ottenimento di un salario minimo nazionale, reclamando anche posti di lavoro permanenti per 50 milioni di lavoratori precari, misure governative per strozzare l’inflazione (che ha superato il 9% per buona parte di questi ultimi due anni), miglioramenti sulla previdenza sociale e sulle pensioni per tutti i lavoratori, un rafforzamento del diritto del lavoro e dei diritti sindacali, la fine della privatizzazione delle imprese statali. Queste rivendicazioni messe avanti dai sindacati poggiano tutte sull’ipotesi che il governo è capace di soddisfare i bisogni delle classi sfruttate. Così come avvalorano la falsa idea che si potrebbe ridurre l’inflazione o che smettere di vendere a privati pezzi interi dell’attività del settore pubblico, naturalmente sotto la spinta di appelli in difesa dei servizi pubblici, potrebbe in qualche modo andare a beneficio della classe operaia.
Uno “sciopero unitario” molto selettivo
I sindacati non hanno sempre richiesto ai loro membri di unirsi allo sciopero. Infatti, più di un milione e mezzo di ferrovieri e molti altri operai, la maggior parte dei quali membri di questi sindacati, non sono stati proprio chiamati a fare sciopero. Nella maggior parte delle zone industriali, in centinaia di città grandi e piccole, in tutta l’India, mentre i lavoratori del settore pubblico si mettevano in sciopero, milioni di lavoratori del settore privato continuavano a lavorare ed i loro sindacati non hanno dato nessuna indicazione di sciopero. Pur chiamando ad un “sciopero generale”, i sindacati non si sono affatto “turbati” del fatto che milioni di loro membri andassero normalmente al lavoro quel giorno.
Anche nei settori in cui i sindacati hanno chiamato allo sciopero, il loro atteggiamento è stato piuttosto quello di chiamare ad un “sciopero assenteista”. Molti lavoratori hanno fatto sciopero restando a casa. I sindacati non si sono sforzati molto per portarli in piazza tutti insieme e per organizzare delle manifestazioni, né per implicare nello sciopero i milioni di lavoratori loro iscritti del settore privato. Bisogna associare questa manovra al fatto che recentemente, e per molto tempo, gli operai del settore privato sono stati molto tra i più combattivi e meno rispettosi delle leggi della borghesia. Anche zone industriali come Gurgaon e le industrie automobilistiche vicino a Chennai, le fabbriche come la Maruti a Gurgaon e la Hyundai vicino a Chennai, dove recentemente ci sono state grandi lotte, non hanno raggiunto questo sciopero.
Perché i sindacati hanno indetto lo sciopero?
È chiaro che i sindacati non hanno usato lo sciopero per mobilitare i lavoratori, per scendere in piazza e unirsi. L’hanno usato come un rituale, come un valvola di sfogo per allentare la pressione, per dividere gli operai, incitarli alla passività e smobilitarli. Restare a casa a guardare la tv non rafforza l’unità e la coscienza dei lavoratori. Al contrario, fa solo aumentare il sentimento d’isolamento, la passività e la sensazione di aver perso un’occasione. Dato quest’atteggiamento, perché i sindacati hanno indetto lo sciopero? E cosa li ha portati ad unirsi tutti quanti, compreso il BMS[1]1 e i suoi 6 milioni e passa di iscritti? Per capirlo, dobbiamo vedere quale è la situazione reale a livello economico e sociale ed anche quello che si muove all’interno della classe operaia in India.
Il deterioramento delle condizioni di vita dei lavoratori
Nonostante i grandi discorsi sul boom economico, la situazione economica è peggiorata in questi ultimi anni. Come dappertutto l’economia è in crisi. Secondo le statistiche governative, il tasso di crescita annuale è caduto dal 9 al 6% circa. Molto industrie sono state pesantemente colpite nei settori dell’informatica, del tessile, della lavorazione dei diamanti, dei beni di consumo, dell’infrastruttura, delle società private di elettricità, dei trasporti aerei. Ciò ha portato ad intensificare gli attacchi contro la classe operaia. L’inflazione generale si attesta attorno al 10% da oltre due anni. L’inflazione a livello dei prodotti alimentari e dei beni di prima necessità è molto più alta, arrivando fino al 16%. La classe operaia affonda nella miseria.
Lo sviluppo della lotta di classe
In un tale quadro di deterioramento delle condizioni di vita e di lavoro, la classe operaia ha ripreso la via della lotta di classe. Dal 2005 si è vista un’accelerazione progressiva della lotta di classe nell’intera India, che la iscrive chiaramente nello sviluppo attuale della lotta di classe internazionale. In particolare negli anni 2010 e 2011 ci sono stati numerosi scioperi in molti settori e migliaia di lavoratori hanno preso parte ad occupazioni di fabbriche, a scioperi selvaggi e ad assembramenti di protesta. Alcuni di questi scioperi sono stati molto importanti in particolare nel settore dell’auto, come ad esempio quelli degli operai della Honda Motorcycle nel 2010 a Gurgaon e della Hyundai Motors a Chennai nel 2011, dove i lavoratori hanno più volte fermato il lavoro contro la precarietà e gli altri attacchi dei padroni ed hanno espresso un grande combattività ed una forte determinazione nello scontro con l’apparato di sicurezza dei padroni. Recentemente, tra giugno ed ottobre 2011, sempre nelle fabbriche di produzione d’auto, i lavoratori hanno agito di loro iniziativa senza aspettare le consegne sindacali mobilitandosi con una forte tendenza alla solidarietà e la volontà di estendere la lotta ad altre fabbriche.
Hanno anche espresso tendenze all’auto-organizzazione e promosso delle assemblee generali, come in occasione degli scioperi alla Maruti-Suzuki a Manesar, una città nuova legata al boom industriale nella regione di Delhi, durante i quali gli operai hanno occupato la fabbrica contro il parere del “loro” sindacato. Dopo un negoziato firmato dai sindacati all’inizio ottobre, 1.200 lavoratori sotto contratto a termine non sono stati riassunti e 3.500 operai sono quindi ripartiti in sciopero ed hanno occupato la fabbrica di assemblaggio delle automobili per esprimere la loro solidarietà. Ciò ha trainato in altre azioni di solidarietà 8.000 operai di una dozzina di altre fabbriche della regione. Per evitare il sabotaggio dei sindacati si sono creati assembramenti ed assemblee generali.
La riscoperta dell’assemblea generale, come forma più adeguata per estendere la lotta e garantire lo scambio di idee più ampio possibile, rappresenta un formidabile avanzamento per la lotta di classe. Le assemblee generali della Maruti-Suzuki a Manesar erano aperte a tutti ed incoraggiavano ognuno a partecipare alla riflessione sulla direzione e gli scopi della lotta. Oltre a quest’ondata di lotta di classe che monta lentamente, le lotte che si sono sviluppate in Medio Oriente, in Grecia, in Gran Bretagna, e l’insieme del “movimento Occupy” hanno avuto un’eco nella classe operaia indiana.
La borghesia teme il contagio della lotta di classe
Al momento dello scontro violento alla fabbrica di moto Honda e di fronte agli scioperi ripetuti alla Maruti-Suzuki, si è potuto vedere chiaramente sorgere un certo timore da parte della borghesia. I mass media hanno continuamente avanzato il fatto che gli scioperi potevano estendersi ed implicare altre compagnie automobilistiche a Gurgaon e paralizzare tutta la regione. E non era della speculazione. Quando gli scioperi principali toccavano solo poche fabbriche, altri operai sono venuti alle porte delle fabbriche in sciopero. Ci sono state manifestazioni comuni ed anche uno sciopero in tutta la città industriale di Gurgaon. Anche il governo provinciale era seriamente inquieto per la propagazione dello sciopero. Il Primo ministro ed il ministro del Lavoro dell’Haryana (uno Stato dell’India), istigati dal Primo ministro e dal ministro del Lavoro dell’Unione indiana, hanno riunito i padroni delle imprese ed i sindacati per soffocare lo sciopero.
I sindacati erano ancora più preoccupati di perdere il controllo sugli operai se la combattività fosse continuata a crescere. La stessa ansia è stata evidente negli scioperi alla Maruti nel 2011, quando gli operai hanno intrapreso molte azioni contrarie a quello che volevano le direzioni sindacali. Questa paura ha spinto i sindacati a volersi mostrare come quelli che fanno qualcosa. Hanno quindi indetto un certo numero di scioperi rituali, tra cui uno sciopero dei bancari nel novembre 2011. Lo sciopero attuale, pur essendo senza alcun dubbio un’espressione dell’aumento della rabbia e della combattività nella classe operaia, è anche uno degli ultimi sforzi in ordine di data dei sindacati per contenerla ed incanalarla.
Prendere le lotte nelle nostre mani
I lavoratori devono capire che fare una giornata di sciopero rituale e restare a casa non ci porta da nessuna parte. Ancor meno radunarsi in un parco per ascoltare i discorsi dei capoccia sindacali e dei membri delle partiti parlamentari. I padroni ed il loro governo ci attaccano perché il capitalismo è in crisi e non hanno altra scelta. Dobbiamo capire che tutti i lavoratori vengono attaccati. Restare passivi ed isolati gli uni dagli altri non scoraggia i padroni dall’intensificare gli attacchi contro i lavoratori. Gli operai devono utilizzare queste occasioni di mobilitazione per conquistare la strada, raggrupparsi e discutere con altri lavoratori. Devono prendere le lotte nelle proprie. Questo non risolverà immediatamente i problemi ma renderà possibile un vero sviluppo della lotta. Ci aiuterà a sviluppare la nostra lotta contro il sistema capitalista e a lavorare alla sua distruzione. Come dicevano quelli che hanno occupato la facoltà di legge in Grecia nel febbraio 2012, “Per liberarci dalla crisi attuale, dobbiamo distruggere l’economia capitalista!”.
Da due articoli di Communist Internationalist, organo del CCI in India (marzo 2012)
[1] Bharatiya Mazdoor Sangh, il più grande sindacato del paese, legato al BJP, il partito religioso induista fondamentalista.
Introduzione della CCI
Durante gli anni 1990 il territorio di quello che era lo Stato della Jugoslavia fu lo scenario di una serie di orribili massacri basati sull'ideologia dello sciovinismo etnico. La guerra nei Balcani causò la più feroce carneficina avvenuta nel centro del capitalismo dal 1945. La borghesia locale fece di tutto per trascinare la popolazione in una frenesia di odio etnico e nazionalista, precondizione per il sostegno o la partecipazione alla successiva e sanguinosa carneficina.
Questi odi non sono stati eliminati con la difficile pace che regna ora nella regione, per cui è di grande incoraggiamento vedere segnali dell'esistenza di quelli che in questa regione si battono per movimenti sociali contro il capitalismo e non per qualche sogno di espansione nazionale. Abbiamo visto, per esempio, un certo numero di lotte studentesche in Serbia e in Croazia, che vanno considerate come un'altra espressione della stessa tendenza internazionale sviluppatasi nell'Europa occidentale e negli USA con i movimenti degli Indignati e di Occupy. Ed ora stiamo assistendo allo sviluppo di una minoranza politicizzata genuinamente internazionalista in entrambi i paesi, che rigetta apertamente le divisioni nazionali e cerca la cooperazione fra tutti i rivoluzionari internazionalisti.
Un’espressione di questo nuovo movimento è la Dichiarazione del collettivo Birov in Serbia, recentemente formatosi da un gruppo in crescita in questo paese (vedere il loro sito web, www.revoltlib.com [237]). La pubblichiamo qui di seguito. La cosa più interessante di questa Dichiarazione, secondo noi, è la chiarezza e l’immediatezza con cui essa afferma una serie di posizioni di classe:
Gli ultimi due punti sono particolarmente importanti dati i recenti conflitti nella regione e il crescente uso della retorica nazionalista da parte della classe dominante.
La sottolineatura di queste posizioni rivoluzionarie è un implicito riconoscimento del fatto che il capitalismo non è più nella sua fase progressiva e non può più assicurare riforme permanenti: in altre parole esso è un sistema in declino[1].
La Dichiarazione fa anche un’interessante osservazione sul periodo di transizione, riconoscendo il problema di una tendenza conservatrice insita in certi organismi di semi-stato.
Chiaramente ci sono ancora aree che meritano una discussione e una chiarificazione tra internazionalisti, come per esempio la questione dell'organizzazione, le prospettive per la lotta di classe, e il significato dell'anarcosindacalismo oggi. Comunque noi possiamo salutare il sano realismo contenuto nell'affermazione della dichiarazione per cui “nessuna organizzazione può essere più grande o più forte di quello che stabilisce la posizione generale degli operai”. Queste ed altre questioni possono essere chiarite solo attraverso un aperto e fraterno dibattito.
CCI, febbraio 2012
Dichiarazione per l'organizzazione rivoluzionaria, Belgrado (2011)
“Seppure c'è una sola speranza, si trova fra i proletari.” - George Orwell, 1984
Consapevoli delle divisioni di classe all’interno del capitalismo, del brutale sfruttamento di cui tutti noi siamo vittime, dell’oppressione dello Stato che rende possibile questo sfruttamento, ed anche dell’insostenibile natura dell’attuale ordine militaristico che inevitabilmente ci porta verso la catastrofe, noi ci organizziamo in “Birov”, un’organizzazione il cui scopo è di opporsi radicalmente a questi fenomeni sociali e di raggiungere la loro finale eliminazione attraverso la lotta di classe.
Partendo dalla comprensione che la classe operaia, in quanto classe più colpita dall’attuale struttura sociale, possiede il più grande potenziale rivoluzionario, “Birov” organizza i lavoratori coscienti militanti di classe con l’intenzione di diffondere la coscienza di classe nella classe operaia, e per dirigerla verso la lotta organizzata attraverso i consigli operai. Noi rigettiamo tutte le mistificazioni “post-marxiste” che cianciano della sparizione o dell’inesistenza della classe operaia e quindi negano la lotta di classe e il ruolo cruciale degli operai come attori di un cambiamento rivoluzionario. Un membro della classe operaia è [per costoro] qualcuno che deve solo vendere la propria forza lavoro al capitale: come un macellaio, un operaio dell’industria sessuale o una ragazza che lavora in una tipografia.
L’azione emancipatrice deve essere basata sull’auto attività degli oppressi, e sui consigli operai autonomi, indirizzata verso la creazione di una società auto–diretta, senza uno Stato, senza classi e senza involontarie istituzioni di società civili. Ogni tentativo di superamento della vecchia società deve essere diretto verso l’organizzazione di un sistema di consigli su scala internazionale, perché solo un cambiamento radicale nei rapporti di forza sociali può dare inizio a un progressivo cambiamento sociale. La forma consiliare costruita dopo la dissoluzione della tradizionale, gerarchica macchina dello Stato capitalista non è qualcosa che la rivoluzione dovrebbe inventarsi – durante la rivoluzione può esistere solo un organo conservatore, e l’autorganizzazione ed emancipazione finali della classe operaia minaccerà il suo potere, come l’esistenza di questo ordine sociale stesso. In questo imminente conflitto i rivoluzionari devono riconoscere gli operai organizzati autonomamente come l’avanguardia rivoluzionaria nella finale e decisiva battaglia contro il vecchio ordine e per una società di liberi produttori.
Solo un’aperta e irriducibile opposizione alle divisioni create da questa società potrà liberare il potenziale sovversivo che l’attuale lotta operaia possiede oggi. La lotta degli operai deve basarsi sui luoghi di lavoro, dove gli operai si riconoscono come produttori e dove le differenze di classe vengono proiettate e risolte nella loro essenza. Noi rigettiamo il partito come completamente inadeguato per l’organizzazione rivoluzionaria della classe operaia. I vecchi partiti riformisti che sono ricordati per le vittorie sulle libertà politiche e sulla riduzione dell’orario di lavoro non erano che questo: il loro scopo primario era una lotta per riforme economiche e politiche, che era lontana da una coscienza antipolitica ed era ancora indirizzata verso forme di rappresentanza tradizionali e gerarchiche.
Noi possiamo concludere che “Birov” può essere caratterizzato come un’organizzazione di propaganda anarco-sindacalista. “Birov” spinge gli operai in lotta e i gruppi anarco-sindacalisti attivi a formare gruppi di classe militanti sui propri posti di lavoro. Questi gruppi non devono essere confusi con i sindacati perché il loro obiettivo non è crescere in numero ma partecipare ai movimenti assembleari. Essi non hanno una struttura formale e un programma politico. Questi gruppi vengono formati sui luoghi di lavoro, dove c’è già una tradizione di organizzazioni operaie autonome e dove una rete di operai tende a continuare la propria attività e sviluppa nuove strade per la lotta.
Noi pensiamo che oggi i sindacati non possono avere un programma politico che non sia reazionario, e quindi la sola possibilità di organizzazione per le masse operaie sono le assemblee; un’organizzazione di massa permanente non sarà possibile finché la rivoluzione non diventa un obiettivo immediato. I sindacati, in quanto strumenti della lotta per le riforme ed organizzazione economica separata, hanno perso la loro ragion d’essere in una situazione in cui non possono più riflettere in maniera efficace le aspirazioni della classe operaia. Oggi essi non sono altro che uno strumento incorporato allo Stato che porta la lotta operaia alla spoliticizzazione e in un ambito strettamente limitato. Essi rappresentano un tipo di prigione per la classe operaia, senza la quale gli operai potrebbero essere liberi di sviluppare la loro tendenza verso l’autorganizzazione. I burocrati sindacali stipendiati e spesso corrotti non sono altro che le guardie e i custodi di queste prigioni. In definitiva i sindacati sono solo un’arma dello Stato che implementa un altro tipo di oppressione della classe operaia. Il capitalismo non può più offrire riforme permanenti: ogni lotta in difesa degli interessi immediati e quotidiani del proletariato, quando non è sabotata da sindacati e partiti, necessariamente evolve verso una radicalizzazione delle masse e dell’azione contro le istituzioni repressive e sfruttatrici dell’ordine capitalista. Per questi motivi, oggi, ogni fenomeno tendente a depoliticizzare la lotta degli operai e a confinarla in un quadro preconfezionato è necessariamente reazionario. Le posizioni che hanno la pretesa che le organizzazioni anarco-sindacaliste dovrebbero essere “non-ideologiche” non sono alternative alle subdole divisioni imposte dal capitalismo, ma solo la riproposizione della vecchia (irrealistica) idea sulla separazione dell’organizzazione economica, e in pratica molto spesso finiscono in reti attiviste gauchiste che riproducono l’ideologia della dominante “sinistra” nazionalista. Contro queste pretese, le organizzazioni anarco-sindacaliste sono organizzazioni politiche e militanti di classe: i soli principi di anarcosindacalismo che sono accettati da tutti membri sono necessariamente a contenuto politico.
Noi ci vediamo non come un’organizzazione che necessariamente tende alla crescita numerica considerando così se stessa come un fine, un’idea che troviamo spesso nell’attivismo radicale; né ci consideriamo come una specie di avanguardia della classe operaia che stabilisce gli interessi di quest’ultima. Il nostro obiettivo è sviluppare un’organizzazione che sia capace di intervenire nelle lotte operaie. Noi condividiamo la nostra esperienza accumulata con gli operai e mediante questo possiamo aumentare l’efficacia della lotta operaia, aiutando la sua estensione e la sua ulteriore organizzazione. Un tale tipo di relazione crea una mutua interdipendenza e quindi nessuna organizzazione rivoluzionaria può essere più grande o più forte di quello che stabilisce la posizione generale degli operai; per questo noi non siamo turbati per l’autorganizzazione degli operai o per una “perdita di controllo”; questo è, al contrario, il nostro obiettivo. Conseguentemente, la base per l’unificazione degli strati oppressi nel capitalismo non sarà stabilita da un partito o un “fronte”, né da un sindacato di massa, o da un gruppo anarchico che agisce nella fase di preparazione, la fase del raggruppamento delle forze rivoluzionarie, ma da una lotta anticapitalista organizzata nei consigli operai sotto la cui ala solo può essere costruita una vera visione di emancipazione. Quindi la strada migliore per esprimere la solidarietà con gli strati oppressi è lo sviluppo della nostra propria lotta sul posto di lavoro la costante educazione sui problemi dell’oppressione.
Noi condanniamo come completamente reazionaria ogni difesa del carattere rivoluzionario delle lotte di “liberazione nazionale”. Stabilire un parallelo con i movimenti nazionali borghesi-rivoluzionari è sbagliata e in questo periodo il rigetto del nazionalismo costituisce una linea di demarcazione tra la sinistra rivoluzionaria e quella patriottica, socialdemocratica. Nella società capitalista di oggi ogni Stato è imperialista e la crescita di una coscienza nazionale può essere vista solo come un mezzo per preservare l’ordine capitalista in una situazione di crisi permanente e di destino incerto. Ogni accettazione di discorsi populisti e nazionalisti può solo trascinare gli operai verso una sanguinosa guerra imperialista; questo è il preludio di ogni momento storico, come noi tutti abbiamo potuto verificare durante l’inizio e la metà del 20° secolo.
In contrasto totale con il movimento contro la Guerra della Prima Guerra Mondiale l’ideologia controrivoluzionaria sottomette i lavoratori alle necessità della borghesia nazionale, in nome dell’”antimperialismo” e della “liberazione dei popoli”. I risultati sono facilmente riconoscibili e possono essere visti nelle “rivoluzioni socialiste” sopraggiunte dopo la fine del periodo rivoluzionario partito con l’Ottobre ’17, che sono vittime della strumentalizzazione del partito e della soppressione di ogni forma di autorganizzazione operaia e sono sfociate in regimi imperialisti totalitari di capitalismo di Stato, i cosiddetti “socialismi reali”.
La liberazione della classe operaia sarà opera dei lavoratori stessi, o non sarà.
Belgrado, Serbia, ottobre 2011
[1] Vedere le loro their FAQ, che danno ulteriori spiegazione su questo ed altri aspetti della politica del gruppo.
Sabato 4 febbraio, un pomeriggio come un altro a Homs. Una folla immensa seppellisce i suoi morti e manifesta contro il regime di Bashar Al-Assad. Dall’inizio degli avvenimenti nell’aprile 2011, non passa un giorno in Siria senza che una manifestazione non venga repressa. In meno di un anno, ci sarebbero stati più di 2.500 morti e migliaia di feriti.
Ma nella notte tra il 4 e 5 di febbraio, la pratica dell’assassinio di massa aumenta ulteriormente. Per ore, nell’oscurità, si sentono tuonare solo i cannoni dell’esercito di Assad e le grida degli uomini che muoiono. All’alba appare tutto l’orrore di quella che oggi è chiamata “la notte rossa di Homs”: alla luce del giorno, le vie si rivelano coperte di cadaveri. Il bilancio della carneficina sarebbe di 250 morti, senza contare tutti quelli che sono morti in seguito per le ferite o che sono stati finiti dopo, a freddo, dai militari al soldo del potere. E questo massacro non si è concluso all’alba; i feriti sono stati inseguiti fin nei letti dell’ospedale per essere finiti, alcuni medici sorpresi a curare dei “ribelli” sono stati uccisi, alcuni abitanti di Homs sono stati abbattuti con un colpo alla testa semplicemente per avere commesso il crimine di trasportare dei medicinali nelle loro tasche. Né le donne né i bambini sfuggono a questa carneficina. La stessa notte, il telegiornale di Al Jazeera ha annunciato che forti esplosioni sono state sentite nella regione di Harasta, nella provincia di Rif Damasco. In questa città, situata ad una quindicina di chilometri a nord di Damasco, violenti combattimenti oppongono l’esercito siriano libero (ASL) alle forze del regime. Anche là i massacri sono abominevoli.
Come è possibile tutto ciò? Come ha potuto un movimento di protesta che ha esordito contro la miseria, la fame e la disoccupazione trasformarsi in alcuni mesi in un tale bagno di sangue? Chi è responsabile di questo orrore? Chi comanda la mano omicida dei militari e dei mercenari?
Non serve più dimostrare la barbarie del regime siriano. La cricca al potere non indietreggerà davanti a nessun sopruso, a nessun massacro per mantenersi alla testa dello Stato e conservare così i suoi privilegi. Ma chi è questo “esercito siriano libero” che si è posto al comando della “protesta del popolo”? Un’altra cricca di assassini! L’ASL, che pretende di battersi per liberare il popolo, non è che il braccio armato di una frazione borghese concorrente a quella di Bashar Al-Assad. Ed è qui il dramma dei manifestanti. Quelli che vogliono lottare contro le loro condizioni di vita insopportabili, contro la miseria, contro lo sfruttamento, sono presi tra l’incudine e il martello e vengono schiacciati, torturati, massacrati...
In Siria, gli sfruttati sono troppo deboli per sviluppare una lotta autonoma; la loro collera è stata così immediatamente deviata e strumentalizzata dalle differenti cricche borghesi del paese, i manifestanti sono diventati carne da cannone, arruolati in una guerra che non è la loro, per interessi che non sono i loro, come era capitato in Libia alcuni mesi prima.
L’ASL non ha niente da invidiare alla natura sanguinaria del regime siriano al potere. All’inizio di febbraio, ha, tra altri esempi, minacciato di bombardare Damasco, tutti i posti di comando del regime e le sue roccheforti. L’ASL ha chiesto alla popolazione di Damasco di allontanarsi da questi bersagli pur sapendo che ciò è impossibile. In effetti, gli abitanti di Damasco non hanno altra scelta che rintanarsi, terrorizzati, nelle cantine o nei sotterranei come talpe e topi, così come i loro fratelli sfruttati di Homs.
Ma la borghesia siriana non è la sola responsabile di questi massacri. Le complicità internazionali sono tanto numerose che trovano posto nelle sedi ONU. Così, Ammar AL-Wawi, uno dei comandanti dell’ASL, accusa direttamente la Russia e certi paesi vicini, come il Libano e l’Iran per la loro implicazione, ed indirettamente la Lega araba e la comunità internazionale per la loro inoperosità e di avere dato il via libera ad Assad per massacrare il popolo. Che scoperta!
La Siria sull’orlo di un conflitto imperialista generalizzato
Ogni giorno aumentano le tensioni tra l’Iran e un buon numero di potenze imperialiste nel mondo: Stati Uniti, Inghilterra, Francia, Arabia Saudita, Israele, ecc. La guerra minaccia, ma per il momento non esplode. Siamo in attesa, i rumori degli stivali si fanno sentire sempre più in direzione della Siria, amplificati ancora dal veto della Cina e della Russia in seno all’ONU riguardante una proposta di risoluzione che condanna la repressione da parte del regime di Bashar Al-Assad. Tutti questi avvoltoi imperialisti prendono il pretesto dell’infamia e dell’inumanità del regime siriano per preparare l’entrata in guerra totale in questo paese. Attraverso il mezzo di informazione russo la Voce di Russia, che riprende la rete televisiva pubblica iraniana Pess TV, sono state date notizie secondo cui la Turchia si preparerebbe col sostegno americano ad attaccare la Siria. A tale scopo, lo Stato turco ammasserebbe truppe e materiali alla sua frontiera siriana. Da allora, questa notizia è stata ripresa dall’insieme dei media occidentali. Dalla parte opposta, in Siria, dei missili balistici terra-terra di fabbricazione sovietica sono stati posti nelle regioni di Kamechi e di Deir Ezzor, alla frontiera con l’Iraq e la Turchia. Tutto ciò fa seguito ad una riunione tenuta in novembre ad Ankara che ha dato adito ad una serie di incontri. L’emissario del Qatar ha offerto ad Erdogan, Primo ministro turco, di finanziare ogni operazione militare dal territorio turco contro il presidente Al Assad. Riunioni alle quali hanno partecipato anche le opposizioni libanesi e siriane. Questi preparativi hanno portato gli alleati della Siria, in primo luogo l’Iran e la Russia, ad alzare il tono ed a proferire delle minacce appena velate contro la Turchia. Per il momento, il Consiglio nazionale siriano (CNS), che secondo la stampa borghese raggrupperebbe la maggioranza dell’opposizione in questo paese, ha fatto sapere che non chiede nessun intervento militare esterno sul suolo siriano. È sicuramente questo rifiuto che paralizza ancora le braccia armate della Turchia ed eventualmente dello Stato israeliano. Il CNS se ne infischia, come tutte le altre frazioni borghesi implicate, delle sofferenze umane che scaturirebbero da una guerra totale sul suolo siriano. Ciò che teme, è semplicemente di perdere totalmente, in caso di conflitto allargato, il poco potere che attualmente possiede.
Gli orrori che vediamo ogni giorno in televisione o sulla stampa borghese in prima pagina sono drammaticamente veri. Se la classe dominante da tempo ci mostra tutto ciò, non è né per compassione, né per umanità. È per prepararci ideologicamente agli interventi militari sempre più sanguinari e massicci. In questo genocidio in corso, Bashar Al-Assad e la sua cricca non sono i soli boia. Il boia dell’umanità è questo sistema capitalista agonizzante che secerne la barbarie di questi massacri imperialisti come gli addensamenti nuvolosi portano il temporale.
Tino (16 febbraio)
Pubblichiamo la traduzione della seconda parte dell’articolo di Welt Revolution, organo di stampa della CCI in Germania, in cui viene tracciato, ad un anno dalla catastrofe nucleare di Fukushima, un primo bilancio. Nella prima parte di questo articolo [238], i nostri compagni sottolineavano la gravità dell’avvenimento e le incurie della classe dominante che al disastro in atto ha saputo opporre soltanto le sue menzogne e le sue manipolazioni. Ora, si vuole mostrare che il peggio, per il pianeta e l’umanità, deve ancora venire.
È solo un’illusione pensare che i detentori del potere, i responsabili, siano interessati ad andare alla radice del problema del nucleare nel mondo. Al contrario, sotto il peso della concorrenza e dell’aggravamento della crisi, la tendenza è al drastico abbassamento degli investimenti nella manutenzione, la sicurezza e il personale qualificato.
Oggi è noto che molte delle 442 centrali nucleari sfruttate sul pianeta sono state costruite in zone a rischio sismico. Nello stesso Giappone sono state costruite più di 50 centrali in tali zone. In Russia, parecchie centrali nucleari non dispongono neanche di un meccanismo automatico di messa fuori-tensione, in caso di incidentale nucleare. Visto il loro stato generale, probabilmente Tchernobyl non è stata un’eccezione. Pertanto una tale catastrofe può riprodursi in qualsiasi momento. La Cina, che dal punto di vista di rischio sismico rappresenta una delle zone più attive nel mondo, si è impegnata nella costruzione di 27 nuove centrali nucleari.
Il periodo di funzionamento delle vecchie centrali nucleari destinate alla chiusura è stato prolungato. Negli Stati Uniti la loro durata di sfruttamento è stata prolungata a 60 anni, in Russia a 45 anni.
Sebbene i meccanismi di controllo sull’industria nucleare da parte degli Stati, a scala nazionale si siano rivelati insufficienti, questi ultimi si sono opposti alle norme di sicurezza ritenendole troppo restrittive o troppo interventiste da parte delle organizzazioni internazionali di sorveglianza. Hanno affermato che “La sovranità nazionale prevale sulla sicurezza”.
In Germania il governo ha deciso di abbandonare l’energia nucleare dall’estate 2011 e fino al 2022. Poi, poco dopo l’esplosione di Fukushima, come misura immediata ha chiuso alcune centrali nucleari. Possiamo pensare che il capitale tedesco abbia agito in un modo più responsabile? Non del tutto! In realtà, solamente alcuni mesi prima di Fukushima, lo stesso governo aveva prolungato la durata di funzionamento di parecchie centrali nucleari. Oggi ha deciso di abbandonare l’energia nucleare, ma ciò corrisponde, da una parte, ad una tattica politica, in effetti, spera di migliorare le sue probabilità di essere rieletto, e dall’altra certamente ad un calcolo economico, legato al fatto che l’industria tedesca è molto competitiva nella produzione di energie alternative, essendo padrona in questo campo. Adesso l’industria tedesca spera di ottenere mercati molto redditizi. Tuttavia, la questione dello smaltimento delle scorie nucleari resta sempre irrisolta.
Per riassumere: malgrado Fukushima, l’umanità si trova sempre di fronte a queste bombe ad orologeria nucleari che, o per terremoti o per altri punti deboli, in parecchi posti possono scatenare nuove catastrofi.
Il profitto a detrimento della società e della natura
Spesso sentiamo dire dai difensori dell’energia nucleare che l’elettricità nucleare prodotta è meno cara, più pulita e che non c’è altra alternativa. E’ un fatto che la costruzione di una centrale ha costi giganteschi che, grazie all’aiuto di sovvenzioni da parte dello Stato, sono presi in carico dalle compagnie elettriche. Ma la maggiore parte dei costi di eliminazione delle scorie nucleari non è presa in carico dalle società di sfruttamento. Inoltre, i costi di demolizione di una centrale nucleare sono enormi. In Gran Bretagna si è calcolato che il costo di smantellamento delle centrali nucleari esistenti nel paese raggiunge i 100 miliardi di euro, ossia circa 3 miliardi di euro per centrale nucleare.
E in caso di incidente nucleare tocca allo Stato intervenire. A Fukushima i costi di demolizione e di controllo, la cui entità è ancora sconosciuta, sono stimati a circa 250 miliardi di euro. Tepco non ha potuto mettere assieme una tale somma. Lo Stato giapponese ha quindi “promesso il suo aiuto”, a condizione che gli impiegati facessero dei sacrifici: riduzione delle pensioni e dei salari e la soppressione di migliaia impieghi! Nel bilancio giapponese sono previsti anche carichi fiscali speciali. Avendo tirato le lezioni dagli incidenti precedenti, le imprese che operano in Francia hanno limitato in caso di incidente la loro responsabilità a 700 milioni di euro, con la benedizione, lautamente retribuita, dei politicanti locali e nazionali, e ciò non è niente in paragone al costo economico di una catastrofe nucleare.
Da un punto di vista economico ed ecologico, il costo reale del funzionamento delle centrali e la questione non risolta delle scorie nucleari è un pozzo senza fondo. Ad ogni modo, la potenza nucleare è un progetto irrazionale. Le società di energia nucleare ricevono massicce quantità di denaro per la produzione di energia, ma fanno ricadere i costi di gestione sull’insieme della società. Le centrali nucleari incarnano l’insormontabile contraddizione capitalista tra la ricerca del profitto e la protezione a lungo termine dell’uomo e della natura.
Ad essere minacciata e’ l’umanità tutta intera
L’energia nucleare non costituisce il solo pericolo per l’ambiente naturale. Il capitalismo pratica un impoverimento permanente della natura. Saccheggia continuamente tutte le risorse, senza preoccuparsi minimamente del futuro per l’umanità e dell’armonia con la natura, tratta quest’ultima come una gigantesca discarica.
Oggi interi lembi della terra sono diventati inabitabili e vaste zone del mare sono inquinate irreversibilmente. Questo sistema decadente è lanciato in una dinamica irrazionale, dove sono sempre più sviluppati nuovi mezzi tecnologici ma il cui sfruttamento diventa sempre più costoso e distruttivo delle risorse naturali. Quando nel 2010, sulle rive della principale potenza industriale, gli Stati Uniti, esplose la piattaforma petrolifera Deepwater Horizon, l’inchiesta sull’incidente svelò importanti carenze riguardanti le regole di sicurezza.
La pressione derivante dalla concorrenza costringe i rivali, quando questi devono investire grosse somme di denaro nella costruzione e nella gestione di siti di produzione, ad economizzare e quindi a risparmiare anche sulle norme di sicurezza. L’esempio più recente è l’inquinamento da idrocarburi a largo delle coste atlantiche del Brasile. Tutte queste negligenze non si verificano solo nei paesi tecnologicamente arretrati, ma anche in quelli più evoluti dove paradossalmente assumono proporzioni ancora più grandi proprio perché i mezzi di quest’ultimi sono infinitamente più potenti.
L’energia nucleare è stata sviluppata durante la Seconda Guerra mondiale, come strumento di guerra. In questo sistema decadente il bombardamento nucleare di due città giapponesi ha inaugurato un nuovo livello di distruzione. La corsa agli armamenti durante la Guerra Fredda, col suo dispiegamento sistematico dell’arma nucleare, ha spinto la capacità militare di distruzione al punto in cui l’umanità potrebbe essere annientata da un momento all’altro. Oggi, a più di venti anni dal 1989 e dal crollo del blocco dell’Est, che avrebbe dovuto permettere la nascita di una nuova era di “pace”, restano ancora circa 20.000 testate nucleari la cui potenzialità potrebbe annientare l’umanità e per più volte.
Non solo sulla questione dell’energia nucleare, ma anche sulla protezione dell’ambiente naturale, la classe dirigente è sempre più irresponsabile, come l’ha dimostrato il plateale insuccesso del recente vertice di Durban. Oggi la distruzione dell’ambiente naturale ha raggiunto un livello superiore e la classe dirigente è totalmente incapace di cambiare rotta e prendere misure appropriate. Il pianeta e l’umanità vengono sacrificati sull’altare del profitto.
È iniziata una corsa contro il tempo. O il capitalismo distrugge tutto il pianeta, o gli sfruttati e gli oppressi, con la classe operaia in testa, riescono a rovesciare il sistema. Poiché il capitalismo costituisce una minaccia per l’umanità a differenti livelli (crisi, guerra, ambiente), non bisogna accontentarsi di lottare solamente contro un aspetto della realtà capitalista, per esempio, contro l’energia nucleare. C’è un legame indefettibile tra queste differenti minacce e le loro radici nel sistema capitalista. Durante gli anni 1980 e 1990 ci sono stati molti movimenti che hanno poggiato la loro lotta su un solo aspetto (come la lotta contro l’energia nucleare, contro la militarizzazione, contro la penuria di alloggi, ecc.), il che ha dato come risultato la frammentazione delle lotte. Oggi più che mai, è necessario mostrare il fallimento del sistema come insieme. È vero che le connessioni tra i differenti aspetti non sono facili da comprendere, ma se non consideriamo il legame tra la crisi, la guerra e le distruzioni ecologiche, la nostra lotta si ritroverà in un vicolo cieco, credendo a torto di poter trovare delle soluzioni nel sistema, dove le cose potrebbero essere riformate mantenendo lo stesso modo di produzione. Se seguissimo questa via, la nostra lotta sarebbe destinata a fallire.
Di (gennaio 2012)
Giugno-agosto 2012
In Europa, la violenza della crisi economica e delle politiche di austerità producono un ulteriore aumento della povertà della popolazione. Secondo l’organismo ufficiale europeo di statistica, Eurostat, il 16,4% della popolazione dell’Unione europea (80 milioni di persone) vive oramai sotto la soglia di povertà nel 2010[1], i più colpiti essendo giovani con meno di 25 anni[2].
La gioventù dell’Europa è duramente colpita...
Secondo l'istituto di ricerche economiche e sociali (IRES), “nell’Unione europea, l’occupazione giovanile è calata più di quella totale e dell’attività economica tra il 2007 ed il 2010. (…) Dopo quattro anni, la crisi si è anche tradotta in un aumento di lavori temporanei e a tempo parziale, un aumento della disoccupazione e della disoccupazione di lungo periodo, un incremento della proporzione di giovani senza impiego e fuori da ogni forma di educazione culturale e di formazione (i “NEET”)[3], e più generalmente attraverso un importante degrado della situazione economica e sociale dei giovani”[4]. A tutto questo si aggiunge, in certi paesi come il Regno Unito, il peso enorme dell’indebitamento privato degli studenti necessario al finanziamento della loro formazione e le difficoltà di rimborso conseguenti alla mancanza di impiego stabile alla fine dei loro studi. Ciò ha per conseguenza che, “confrontati alla degradazione del mercato del lavoro, una parte dei giovani l’ha lasciato o non vi è entrato affatto, cedendo spesso allo scoraggiamento, rifugiandosi nel sistema educativo prolungando i loro studi, o restando inattivi”. Risultato, i giovani lasciano il loro paese sperando di trovare lontano un impiego per potere vivere: “Le cifre provvisorie sono incerte, ma parecchie fonti confermano una forte emigrazione di giovani, in particolare di diplomati. (…) In Italia, (…) si stima che ci sono 60.000 giovani emigranti ogni anno di cui il 70% sono laureati”[5].
Tra tutti i paesi dell'UE, solo la gioventù tedesca è per ora relativamente risparmiata dall’impoverimento.
… in Italia …
La situazione di degrado è tale che lo Stato si vede costretto a truccare le carte per nascondere il disastro. “Non è vero che siamo meno poveri, come gli ultimi dati ufficiali sulla povertà (luglio 2010) farebbero pensare. Secondo l’Istat lo scorso anno l’incidenza della povertà relativa (cioè la percentuale di famiglie con un reddito al di sotto di una cosiddetta linea di povertà relativa, ndr) è stata pari al 10,8% (era 11,3% nel 2008), mentre quella della povertà assoluta risulta del 4,7%. Secondo l’Istat si tratta di dati “stabili” rispetto al 2008. In realtà, si tratta di un’illusione «ottica»: succede che, visto che tutti stanno peggio, la linea della povertà relativa si è abbassata, passando da 999,67 euro del 2008 a 983,01 euro del 2009 per un nucleo di due persone. Se però aggiornassimo la linea di povertà del 2008 sulla base della variazione dei prezzi tra il 2008 e il 2009, il valore di riferimento non calerebbe, ma al contrario salirebbe a 1.007,67 euro. Con questa operazione di ricalcolo, alzando la linea di povertà relativa di soli 25 euro mensili, circa 223 mila famiglie ridiventano povere relative: sono circa 560 mila persone da sommare a quelle già considerate dall’Istat (cioè 7 milioni e 810 mila poveri) con un risultato ben più amaro rispetto ai dati ufficiali: sarebbero 8 milioni e 370 mila i poveri nel 2009 (+3,7%).[6]”
“Accanto ai poveri ufficiali, ci sono le persone impoverite che, pur non essendo povere, vivono in una situazione di forte fragilità economica. Sono persone che, soprattutto in questo periodo di crisi, hanno dovuto modificare, in modo anche sostanziale, il proprio tenore di vita, privandosi di una serie di beni e di servizi, precedentemente ritenuti necessari. Il fenomeno è confermato anche da alcuni dati: nel 2009 il credito al consumo è sceso dell’11%, i prestiti personali hanno registrato un -13% e la cessione del quinto a settembre 2009 ha raggiunto il +8%. Facendo una media di questi indicatori, si può calcolare un 10% in più di poveri, da sommare agli oltre 8 milioni stimati.
La povertà familiare è un fenomeno consolidato, che non accenna a diminuire. Diversamente da altri paesi, in Italia più alto è il numero di figli, maggiore è il rischio di povertà: se in famiglia c’è un solo figlio minore l’incidenza della povertà relativa sale dal 10,8%, che è il dato medio, al 12,1%, mentre se ci sono tre o più figli l’incidenza è del 26,1%. La società italiana si nega così la possibilità di futuro: il numero medio di figli minori per famiglia era trent’anni fa di 0,75, passato nei primi anni novanta a 0,6 e ulteriormente sceso a 0,5 nel 2000 per arrivare all’attuale 0,43.
L’assistenza alle persone non autosufficienti è un altro problema incalzante che grava sulle famiglie, che non vogliono separarsi dai propri cari o non possono permettersi le rette delle case di riposo o le assistenti familiari.[7]”
… in Francia...
Sul problema della povertà giovanile, la Francia si colloca ad un livello intermedi rispetto agli altri paesi dell'Unione Europea. Concretamente, “su quattro giovani sul mercato del lavoro, uno è disoccupato, un secondo ha un impiego precario e gli ultimi due occupano un impiego normale. E per ottenerli, per la maggior parte, hanno dovuto accettare degli stage o impieghi temporanei. Anche con un diploma o laurea, l’inserimento nel campo del lavoro dei giovani è difficile. (…) Così, il 29% dei giovani non riesce ad avere un alloggio confortevole o a riscaldarsi ed il 17% non riesce a pagare le sue fatture ritrovandosi a decine di migliaia in una situazione di superindebitamento. Prima dei 25 anni, i giovani non sempre hanno diritto ad un reddito minimo, salvo condizioni draconiane”[8]. E la situazione è ancora peggiore per i giovani delle “zone urbane sensibili” dove il tasso di disoccupazione ufficiale raggiunge il 43%!
… come in Spagna
Ma l’Irlanda, la Spagna e la Grecia sono attualmente i paesi dove le condizioni di vita dei giovani si sono più fortemente degradate tra il 2007 ed il 2011: “Un notevole calo dell’impiego giovanile, troppo poco attenuato da un aumento dell’inattività, provocando un aumento del lavoro precario, un’esplosione del lavoro part-time e della disoccupazione, in particolare della disoccupazione di lunga durata, esplosione della proporzione di giovani poveri o in pericolo di esclusione, una forte emigrazione”[9].
La situazione in Spagna è un’illustrazione concreta del reale significato di tale degrado; in questo paese, “700.000 giovani dai 15 ai 29 anni erano già disoccupati a metà 2007, cioè un tasso del 14%, il più basso dei trenta anni precedenti. In poco più di tre anni, si è ritornati ai livelli più elevati conosciuti: il numero dei giovani disoccupati ha raggiunto nel 2° trimestre 2011 circa 1,6 milioni, con un tasso di disoccupazione del 32%. Il numero dei giovani disoccupati di lunga durata si è moltiplicato per sei nel periodo 2007-2011. Oggi, il 42% dei giovani disoccupati lo sono di lunga durata, mentre nel 2007 erano solo il 15%”[10], e il degrado della situazione nel primo trimestre 2012 ha anche portato il tasso di disoccupazione ufficiale dei minori di 25 anni al di sopra del 52%![11] Perciò, “si assiste ad una inversione di tendenza da parte dei giovani che lasciano il domicilio dei loro genitori: il tasso di giovani che lo fanno si è ridotto di circa il 5% per la fascia di età 18-34 anni, scendendo al 45,6%. Questo calo è ancora più accentuato per gli ultra 29venni, per i quali questo tasso cala del 10%”[12].
Quale è la risposta del governo spagnolo di fronte a questa miseria crescente? Ancora più austerità! Così, in seguito alle misure prese il 20 aprile dal governo conservatore, gli studenti vedranno presto salire alle stesse le loro tasse di iscrizione universitaria, passando in media da 1000 a 1500 €[13].
Pensioni di miseria e morte prematura aspettano la vecchiaia
Queste ultime misure del governo spagnolo colpiscono anche i pensionati che fino ad oggi avevano un accesso gratuito ai medicinali ma che oramai dovranno pagare in funzione dei loro redditi, fino a 18 € al mese per procurarseli[14].
In effetti, anche se, a livello di tutta l’UE, gli anziani sono meno colpiti dei giovani dall’impoverimento, la loro situazione si deteriora drammaticamente nei paesi che hanno già adottato dei severi piani di austerità.
Così, in Portogallo, “secondo la Direzione generale della salute portoghese (DGS), a febbraio scorso sono morte circa 11.600 persone, ossia il 10% in più rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. La maggior parte delle vittime avevano più di 75 anni”[15]. Numerosi medici denunciano le misure di austerità e le loro conseguenze sulle magre pensioni: denutrizione legata al rialzo del prezzo dell’alimentazione, ipotermia legata al rialzo del prezzo dell’elettricità ed ai tentativi di ridurre le fatture del riscaldamento, alloggi insalubri, incapacità di pagare i trasporti, le spese ospedaliere ed i medicinali. Alcuni anziani così riassumono la situazione: “Possiamo acquistare o il cibo o i medicinali, ma non tutte e due le cose insieme”[16].
Detto in altri termini, la borghesia portoghese ormai lascia crepare di fame, di freddo e di malattie gli anziani più miserabili, improduttivi da un punto di vista capitalista, impossibili da sfruttare. E con l’aggravarsi della crisi economica e l’austerità crescente che ne risulta, non c’è alcun dubbio che questa pandemia di miseria e di morte che comincia a colpire gli anziani del Portogallo si propagherà presto in tutta Europa.
Tuttavia, le cifre sopra menzionate sono in parte ingannevoli. Da un lato, certe cifre, come quelle relative alla disoccupazione, sono sistematicamente falsificate, attraverso complesse manovre statistiche, dagli organi statali incaricati di produrle. Dall’altro, questi stessi organi statali riuniscono nello stesso paniere statistico “i giovani” o “gli anziani” come se si trattasse di categorie popolari non divise in classi sociali. Da tutto questo risulta che all’interno delle classi oppresse, che rappresentano l’immensa maggioranza della popolazione, la situazione sociale è ancora peggiore rispetto a quello che ci lasciano intravedere queste cifre!
Il proletariato non troverà vie d’uscita che nella lotta!
Ma, come diceva Marx, stiamo attenti a non vedere “nella miseria solo la miseria, senza vedere il lato rivoluzionario, sovversivo che rovescerà la vecchia società”[17].
La classe operaia, in particolare la sua gioventù, non ha intenzione di subire senza combattere. È ciò che hanno mostrato i movimenti sociali che hanno percorso il pianeta nel 2011, nel corso dei quali i giovani proletari, ancora studenti, già al lavoro o disoccupati, sono stati tra gli elementi più combattivi[18].
Perché tra gli operai, giovani o anziani, si sviluppa progressivamente la coscienza che la possibilità di una vita migliore può realizzarsi soltanto attraverso la lotta.
DM (29 aprile)
[1] La soglia di povertà è fissata al 60% del reddito medio nazionale. In Francia per esempio, questa soglia corrisponde ad un reddito mensile di 876 euro per una persona sola, secondo le stime di Eurostat.
[3] NEET, “Not in Education, Employment or Training”, sono coloro che non sono “né studenti, né impiegati, né corsisti”.
[4] Dossier di stampa, n° speciale 133 della Cronaca internazionale dell’Ires (Chronique internationale de l’Ires) “I giovani nella crisi Principali risultati”, www.ires-fr.org/images/pdf/IresDossierConferencePresseLesJeunesdanslaCri... [240]
[5] Idem.
[7] Idem.
[9] “I giovani nella crisi”, op. cit.
[10] Idem.
[12] “I giovani nella crisi”, op. cit.
[14] Idem.
[16] Idem.
[18] Su queste lotte, vedi in particolare fr.internationalism.org/ri431/2011_de_l_indignation_a_l_espoir.html [247].
Il governo Monti si è mostrato fin dall’inizio di non essere un semplice governo “tecnico”, di transizione, a termine, ma una compagine governativa che ha ricevuto il preciso mandato dal capo dello Stato di far fronte ad una situazione estremamente difficile in cui l’Italia era caduta: una situazione economica di estrema fragilità che avrebbe potuto avere, a termine, importanti risvolti sul piano politico e sociale. Questo fatto, dopo le buffonate a cui ci aveva abituato il governo precedente e tutto il can-can che è stato fatto su Monti, è servito a creare intorno a questo governo qualche aspettativa, almeno la speranza di non finire ancora peggio. Quello che però questo governo ha mostrato abbastanza presto è che avrebbe fatto - come ha fatto - quello che governi di destra e di sinistra non erano mai arrivati a fare in precedenza contro i lavoratori e i settori meno agiati della società a livello di attacchi sul piano sociale ed economico [1]. Le famose lacrime di coccodrillo versate dalla Fornero durante una delle prime conferenze stampa di questo governo volevano solo nascondere il cinismo che questo ministro avrebbe mostrato successivamente nella gestione del mondo del lavoro, fino ad osare parlare di “pari opportunità tra settore pubblico e privato” a livello di licenziamenti[2], cercando così di cavalcare in maniera mistificata le richieste di giustizia sociale con una proposta di livellamento al ribasso nel trattamento dei lavoratori.
D’altra parte la necessità di dare una maggioranza parlamentare a questo governo ha costretto i tre partiti, Pdl, Pd e Udc, ad appoggiarlo, anche se non sempre volentieri e facendo spesso buon viso a cattivo gioco, accentuando ulteriormente l’erosione della base di consensi elettorali, in particolare per il Pdl. Con la destra allo sbando - anche e soprattutto dopo il fallimento del governo Berlusconi - e una sinistra ancora una volta del tutto invisibile, le elezioni amministrative che si sono svolte a maggio scorso hanno mostrato un quadro della situazione piuttosto preoccupante per la borghesia. Se guardiamo ai risultati globali si potrebbe dire banalmente che, con la vittoria politica della sinistra nella grande maggioranza dei comuni in cui si è votato[3], siamo alla normale alternanza destra/sinistra nel governo della cosa pubblica. Ma questa è solo un’immagine ingannevole della realtà. Viceversa, se la sinistra ha “vinto” è perché la destra è crollata[4]. Se andiamo ad analizzare anche solo un po’ più nel dettaglio la situazione, vediamo che i due partiti veramente emergenti sono il partito “Movimento Cinque Stelle” (M5S) di Grillo, partito ultrapopulista che riesce a vendere solo fumo[5], e un altro che neanche esiste, il partito degli astenuti, cioè l’insieme di persone che neanche si sono avvicinati ad un seggio elettorale, il primo attestandosi, secondo alcuni sondaggi effettuati[6], al 20% dei votanti ed il secondo, con un incremento del 12% rispetto al 2007, alla cifra record del 49% degli aventi diritto al voto[7]. Questa situazione dice chiaramente che la borghesia comincia ad avere serie difficoltà ad influenzare, attraverso i suoi mass-media, l’elettorato in modo da ottenere la maggioranza che serve in una certa fase politica, vista la dispersione di circa il 60% dei voti tra astenuti, schede nulle e voti dati al partito M5S. Qualcuno naturalmente potrebbe obiettare che i voti dati a Grillo non sono stati buttati, che Grillo ha addirittura conquistato la gestione di una città importante come Parma con i suoi 180.000 abitanti e che, a questo punto, occorre lasciare lavorare le nuove giunte comunali e aspettare i risultati. In verità, ogni volta che si presenta una forza politica nuova ritorna questo motivetto del “lasciamoli lavorare” e “aspettiamo i risultati”. Ma la questione non è di quanto “nuova” sia questa forza politica e neanche di quante e quali promesse riesca a fare, ma di quanto irrisolvibile sia il compito a cui qualunque forza politica, di destra o di sinistra, viene chiamata a svolgere assumendo la gestione di una città o del governo di un paese, visto che il sistema in cui ci si trova ad operare resta quello capitalista, con le sue regole infernali, e visto ancora che la crisi economica impone necessariamente delle misure sempre più atroci. E, per essere concreti, ricordiamo che il partito di Grillo è stato particolarmente veloce nel mostrare che non è per niente diverso dagli altri partiti. Ricordiamo anzitutto come il sindaco neoeletto di Parma, Pizzarotti, non abbia neanche fatto in tempo a insediarsi alla guida del comune che è subito scoppiato un litigio con Grillo, facendo tramontare prima ancora che nascesse il sogno del “Movimento Cinque Stelle”. Infatti si è creato immediatamente uno scontro sulla nomina del direttore generale del Comune di Parma: il sindaco neoeletto aveva indicato Valentino Tavolazzi, ma il leader del Movimento Cinque Stelle Beppe Grillo si è fatto subito sentire sul suo blog bollando questa nomina come “una scelta impossibile, incompatibile e ingestibile politicamente”. Ma sembra esserci di più. Grillo, il leader dell’antipolitica, sembra dirigere il suo movimento come il peggiore dei despoti, a giudicare dalle numerose proteste ed espulsioni presenti nel suo partito[8]. E sembra ancora che un ruolo preminente nel partito, all’ombra di Grillo, ce l’abbia un personaggio dai connotati non del tutto trasparenti, un tale Gianroberto Casaleggio, che dice di sé:
“In seguito progettammo insieme (a Beppe Grillo, ndr) il blog beppegrillo.it, proponemmo la rete dei Meetup (gruppi che si incontrano sul territorio grazie alla Rete), organizzammo insieme i Vday di Bologna e di Torino, l'evento Woodstock a 5 Stelle a Cesena e altri incontri nazionali, come a Milano dove, il 4 ottobre 2009, giorno di San Francesco, al teatro Smeraldo prese vita il MoVimento 5 Stelle”[9].
Un personaggio che “ha fatto parte del consiglio d’amministrazione di 11 società, dalla Olivetti alla Lottomatica[10]” e di cui si parla molto in giro su storie di questo tipo:
“dove ci sono informatica e affari, lì c’è Casaleggio. Il quale è riuscito a trasformare la popolarità del sito di Grillo in altro. «Chi spera di trovare un blog in realtà entra in uno splendido negozio con un sistema di vendita che funziona benissimo» dice Edoardo Fleischner, docente di nuovi media e società alla Statale di Milano e coautore del saggio Chi ha paura di Beppe Grillo?”
“Negli anni 90 ha lavorato all’Olivetti (…) per poi diventare amministratore delegato della Webegg (società con 600 dipendenti) (…). Nel 2004 si è messo in proprio con un gruppo di soci. Tutta gente che si muove bene nel mondo degli affari e della finanza, come Enrico Sassoon, ex direttore del settimanale confindustriale Mondo economico e oggi alla guida della prestigiosa Harvard business review.”
“In 8 anni la Casaleggio associati ne ha fatta di strada. Nel 2007 ha chiuso il bilancio con un fatturato di 2,4 milioni e un utile di 668 mila euro. Nel 2008 l’attivo è salito a 807 mila, per flettere nel 2009 e nel 2010 (rispettivamente a 584 mila e 447 mila). Il calo coincide con la nascita del Movimento 5 stelle: l’impresa evidentemente lo assorbe molto.”[11].
Sembrerebbe dunque che, dietro Grillo e il suo movimento per una ultrademocrazia dal basso ci siano i peggiori istinti antidemocratici e affaristici a cui siamo abituati da sempre.
La situazione che dunque emerge complessivamente da queste elezioni è particolarmente difficile per la borghesia che ha sempre puntato sulla mistificazione democratica delle elezioni per far credere alla cittadinanza, e particolarmente agli strati più depressi, di poter decidere almeno una volta ogni tanto, sul corso della politica, mentre invece quello che emerge mostra, con l’altissima astensione registrata e lo screditamento dei partiti di massa, che questo controllo tende a indebolirsi, anche se i forti consensi ricevuti da Grillo, se non risolvono i problemi della borghesia dal punto di vista di costruzione di maggioranze, servono comunque a mantenere viva la fiducia nello strumento elettorale e dunque che, attraverso la democrazia, si possa arrivare ad un cambiamento.
Ma la vera prova del nove l’avremo l’anno prossimo, con le elezioni politiche. Come abbiamo già ricordato nei mesi scorsi il cosiddetto governo “tecnico” di Monti, oltre a svolgere una funzione di intervento economico fondamentale, ha avuto ed ha anche una funzione di supplenza politica a fronte di un quadro partitico completamente inadeguato e in parte allo sbando. Le difficoltà in cui naviga l’economia mondiale costituiscono una sfida impossibile per partiti e governi mettendone a dura prova le capacità di governare o comunque di rispondere ai problemi del momento. Della crisi della borghesia i proletari possono fare tesoro e capire che se quelli di su non sono più capaci di governare, anche quelli di giù non se la sentono più di sottostare a questo sistema di sfruttamento senza futuro.
Ezechiele 16 giugno 2012
[1] Il che non significa affatto che questi governi non abbiano già stangato abbondantemente la popolazione dal punto di vista economico. Vedi l’articolo “Giovani ed anziani oppressi, principali vittime della crisi economica in Europa”, pubblicato in questo stesso numero.
[2] st.ilsole24ore.com/art/notizie/2012-06-04/fornero-rilancia-parificare-dipendenti-221533.shtml?uuid=AbGzARnF [248]
[3] “Fino a ieri, tra i comuni con più di 15.000 abitanti, il centrodestra ne amministrava 98, il centrosinistra 56. Da oggi è l’opposto: il centrosinistra governa 95 città, il centrodestra solo 34”. (La Repubblica, 22 maggio 2012).
[4] Infatti il Pd perde “appena” il 3,8% rispetto al 2009-2010 contro il 13% del Pdl. Per quanto riguarda la Lega, questa viene superata anche da M5S e Idv.
[5] Vedi a tale proposito l’articolo: Corrispondenza: Dove porta il movimento del “Vaffa Day” di Beppe Grillo? [249] Pubblicato su https://it.internationalism.org/icconline/Grillo [249].
[6] https://www.corriere.it/politica/12_giugno_15/grillo-quasi-primo-partito_7a2bacda-b6c5-11e1-b636-304ca8822896.shtml [250].
[8] italia.panorama.it/politica/Gianroberto-Casaleggio-l-uomo-che-ha-inventato-Grillo
[10] italia.panorama.it/politica/Gianroberto-Casaleggio-l-uomo-che-ha-inventato-Grillo
[11] idem
La mattina dell’11 giugno un plotone di polizia e carabinieri in tenuta antisommossa ha attaccato un picchetto di lavoratori delle cooperative, in servizio presso il magazzino logistico del supermercato Gigante, in sciopero contro i licenziamenti. Il picchetto serviva a non far entrare altri lavoratori venuti dall’esterno per lavorare al loro posto. Tutto questo è successo a Biasiano, paesino tra Milano e Bergamo.
“Hanno sparato lacrimogeni ad altezza d’uomo, spezzato le gambe a due lavoratori e pestato duramente gli scioperanti ferendone una quindicina. Lo scontro è stato violento: gli operai, soprattutto pakistani ed egiziani, hanno tentato di resistere a mani nude alla carica della polizia ma di fronte all’armamentario messo in campo dagli avversari hanno dovuto soccombere. I crumiri sono, così, entrati grazie al distaccamento armato della polizia sempre al servizio dei padroni per reprimere la lotta dei lavoratori, questi ultimi erano lì a difendere il loro posto di lavoro (90 su 120 lavoratori li vogliono licenziare nel cambio d’appalto delle cooperative ). Alla fine dello scontro hanno arrestato e portato via uno dei delegati dei lavoratori in sciopero.” (da una dichiarazione[1] dell’SICobas).
Dalle dichiarazioni dei compagni del Centro Sociale Vittoria di Milano[2]: “subito dopo l’alba arrivano carabinieri e digos con l’invito di sgomberare i cancelli a cui segue un deciso diniego motivato dei lavoratori. Il numero ridotto delle “forze dell’ordine per il ripristino della legalità” li riporta a più miti consigli e subito dopo arriva (come in un film già visto davanti all’Esselunga di Pioltello) un pullman pieno di crumiri. Un pullman stracolmo di esseri umani, stipati come bestie, utilizzati in contrapposizione ai lavoratori in sciopero. Da qui in poi il racconto veloce è quello di una carica criminale e violenta contro i lavoratori, di pestaggi squadristici, di calci a terra e manganelli che mandano in coma un lavoratore, di candelotti tirati ad altezza d’uomo usati come proiettili e il risultato è di numerosi feriti, gambe fratturate, arresti in ospedale, una scena in poche parole di legalità borghese.”
Come detto dal Centro Sociale Vittoria non è la prima volta che le forze di repressione dello Stato accompagnano i “crumiri” che, proprio come a Pioltello e in tanti altri centri lavorativi dove si utilizzano i lavoratori come bestie da lavoro, non sono lavoratori della fabbrica ma esterni, pagati pochi euro all’ora ma ricattabilissimi con i permessi di soggiorno da rinnovare. Ciò che risulta nuovo è l’innalzamento dello scontro e della repressione deciso dallo Stato, non solo contro i lavoratori immigrati, verso i quali c’è estrema libertà d’azione, ma contro tutti i settori di lavoratori che non chinano più il capo contro i tagli di salario, l’intensificazione dello sfruttamento, i licenziamenti. Non bastano più i sindacati e i partiti di sinistra a garantire la calma, la divisione, la lotta tra sfruttati; non bastano più le promesse del capo dello Stato e del nuovo primo ministro che avrebbe dovuto dare più fiducia sul futuro ai “cittadini”; sta venendo fuori la realtà, la cruda realtà che questo sistema non concederà niente ai lavoratori, non riuscirà a far ripartire l’economia, taglierà a più non posso perché il problema non è Berlusconi o chi per lui ma il sistema capitalista nel suo complesso, il suo modo di produzione[3].
I lavoratori non possono arrendersi alle belle parole di chi dice che, aspettando con calma in fila, arriverà un momento migliore, che è necessario fare sacrifici oggi per stare meglio domani. È vero il contrario, più sacrifici facciamo adesso più aumenta la richiesta di ulteriori sacrifici in nome della concorrenza, del profitto.
Come rispondere a questo innalzamento dello scontro che nei paesi democratici può apparire come frutto del caso e degli stessi lavoratori in lotta, (tv e giornali sicuramente sapranno scaricare le colpe sui lavoratori)?
I lavoratori, i disoccupati, gli sfruttati non hanno le stesse armi della borghesia; ma possono bloccare e contrastare questi attacchi manifestando la solidarietà ai loro compagni di classe, diffondendo e difendendo le posizioni dei lavoratori in lotta contro chi tenta di criminalizzarle e di ridurle al silenzio. Fare in modo che le rivendicazioni dei vari settori non siano messe in concorrenza le une contro le altre ma siano unificanti nei contenuti, andando aldilà delle sigle sindacali che spesso sono elementi di divisione tra lavoratori. E dove è possibile, costruire comitati di lotta intercategoriali, per discutere su come rispondere agli attacchi dei padroni e dello Stato ed eliminare le diffidenze e gli steccati creati ad arte.
Le lotte dei lavoratori, di qualsiasi settore siano, sono le nostre lotte, non esistono lotte che riguardano il settore privato o quello statale, quello dei dipendenti fissi o dei precari e disoccupati. Esiste una lotta unica per la difesa delle nostre condizioni di vita contro il sistema capitalistico. E questa è l’unica via che possiamo seguire perché il sistema non lascia scampo a nessuno e ci sta crollando addosso.
Oblomov 15 giugno 2012
[1] sicobas.org/index.php/notizie/ultime-3/935-violenta-carica-della-polizia-al-picchetto-dei-lavoratori-al-gigante
[3] scontri a Roma tra polizia e giovani che protestano contro la riforma Fornero. https://roma.repubblica.it/cronaca/2012/06/14/news/pantheon_contro_il_ddl_lavoro_continua_blockupy_fornero_-37187168/?ref=HREC1-8 [254]
Di nuovo morti sotto le macerie, di nuovo migliaia di famiglie ridotte allo stremo delle forze fisiche e psicologiche, impaurite dalle continue scosse ma anche, e soprattutto, dalla prospettiva di non poter avere più una casa, un lavoro, una vita “normale”.
Certo un terremoto è un evento naturale che l’uomo non può impedire né modularne l’intensità, ma l’effetto devastante e distruttivo di un tale evento non è necessariamente altrettanto “naturale” e “incontrollabile”. Così come poteva non esserlo quello del terremoto in Abruzzo del 2009 o quello ad Haiti del 2009; né dell’alluvione di Sarno e Quindici del 1998, dove fu il dissesto idrogeologico della zona a generare un mare di fango che distrusse vite umane ed interi paesi; così come la catastrofe nucleare di Fukushima del 2011 non è stata una “inevitabile conseguenza” del “naturale” maremoto nel mare del Giappone.
Oggi la scienza e la tecnologia potrebbero permettere non solo di prevedere molti degli eventi naturali e quindi di prendere le misure necessarie (come ad esempio allertare ed evacuare le zone a rischio com’era possibile fare ad Haiti) ma anche costruire edifici antisismici, monitorare lo stato delle vecchie costruzioni, mettere in sicurezza le zone disboscate, e così via.
Ma la realtà è che per il capitalismo la vita umana conta ben poco. Tanto più che a morire sono soprattutto operai schiacciati sotto il peso dei capannoni crollati, strutture molto più semplici da costruire e probabilmente costruite male non tanto per risparmiare ma per l'assoluto disinteresse del capitale per la vita umana. Quello che veramente conta è il profitto e se non si ha un utile immediato nel fabbricare case, fabbriche ed edifici pubblici antisismici, nel fare opere di contenimento dei fiumi e delle montagne disboscate, se è meno oneroso costruire delle centrali nucleari lungo la costa o se è troppo oneroso evacuare migliaia e migliaia di persone, anche se si conosce il pericolo che incombe, non lo si fa preferendo poi appellarsi alla natura crudele. A Napoli, durante il terremoto che colpì la Campania nel 1980, a cadere non furono le case vecchie di centinaia e centinaia di anni, addirittura del periodo feudale, ma un palazzo in cemento armato di recente costruzione.
Immaginarsi poi in un capitalismo decadente affetto da una crisi economica senza soluzione. Come si può sperare che si punti alla sicurezza delle persone quando, anche senza alcun terremoto, crollano i soffitti delle scuole di mezza Italia e 4 scuole su 10 sono complessivamente a rischio, quando tanti ospedali cadono a pezzi e le case se hanno un minimo di manutenzione è solo grazie allo sforzo personale di chi se lo può ancora permettere?
E che dire della distruzione del patrimonio artistico? Palazzi, chiese, edifici rimasti in piedi per secoli a testimonianza della storia della comunità umana oggi crollano in Emilia come nel 2009 sono crollati in Abruzzo e prima ancora in Campania. E’ tutta colpa del terremoto? E’ ben difficile pensarlo quando pezzi del Colosseo si sbriciolano, quando ogni tanto crolla una casa del sito archeologico di Pompei. Sono pezzi della cultura storica dell’umanità che rischiano di scomparire per sempre perché … non ci sono i soldi!
Tutto questo manifesta la follia di questo sistema.
Ancora una volta ecco i grandi discorsi sulla ricostruzione. Il governo Monti si è impegnato a ridare le case, far ripartire l’economia delle zone colpite dal sisma, ecc., ecc. Ma di “ricostruzione” c’è una lunga e triste esperienza in Italia.
Nel centro storico di Napoli, dal terremoto dell’80 (cioè da 32 anni fa!), ci sono ancora palazzi fatiscenti che si reggono in piedi perché ingabbiati dai tubolari costruiti all’epoca per non farli crollare. E molti di questi sono ancora abitati. Due quartieri di Torre Annunziata (vicino Napoli) distrutti dal terremoto sono stati ricostruiti in parte e poi abbandonati lasciandoli in balia del degrado totale. Molti paesi dell’Irpinia sono città fantasma.
E la ricostruzione dell’Abruzzo? Idem. Paesi dimenticati e la stessa città dell’Aquila resta ancora con le macerie a terra e palazzi pericolanti. Allora c’era il governo Berlusconi e tutta la responsabilità fu scaricata sulla sua inefficienza ed il suo malaffare, tanto che il film della Guzzanti, “Draquila” fece grande audience. Ma prima, in Campania, Berlusconi non c’era così come non c’era all’epoca dell’alluvione di Sarno, ad Haiti o a Fukushima.
Adesso il governo Monti mette le mani avanti dicendo che c’è la crisi e …. Intanto a farne ancora una volta le spese sarà la gente che ha perso i suoi cari sotto le macerie, che ha perso la casa, il lavoro perché l’impresa dove lavorava è in difficoltà. E tutto questo gran parlare che si sta facendo sulla necessità di ricostruire il tessuto economico fatto di piccole e medie imprese di queste zone quali basi solide può avere quando l’intera Italia, l’intera Europa e l’intero mondo vede il sistema economico complessivo sgretolarsi?
Eva, 15-6-2012
È con grande gioia che la nostra organizzazione ed i suoi militanti salutano la costituzione di due nuove sezioni della CCI, in Perù ed in Ecuador.
La costituzione di una nuova sezione nella nostra organizzazione rappresenta sempre per noi un avvenimento della più grande importanza. Da una parte, perché costituisce una verifica ulteriore della capacità del proletariato mondiale, malgrado le sue difficoltà, a secernere delle minoranze rivoluzionarie a scala internazionale e, dall’altra, perché rafforza la presenza nel mondo della nostra organizzazione.
La fondazione di queste due nuove sezioni della CCI avviene in una fase in cui il proletariato, a partire dal 2003, comincia a recuperare rispetto al lungo periodo di riflusso della sua coscienza e della sua combattività subito dopo gli avvenimenti del 1989[1]. Questo recupero si è manifestato attraverso un insieme di lotte che dimostrano una coscienza crescente dell’impasse in cui si trova il capitalismo e attraverso la nascita, a livello internazionale, di minoranze internazionaliste che ricercano un contatto tra loro, ponendosi numerose questioni, che ricercano una coerenza rivoluzionaria e che dibattono delle prospettive per sviluppare la lotta di classe. Una parte di queste minoranze si orienta verso le posizioni della Sinistra comunista ed alcuni suoi elementi o gruppi raggiungono la nostra organizzazione. È così che, nel 2007, è sorto un nucleo della CCI in Brasile[2]e che, nel 2009, abbiamo salutato la creazione di due nuove sezioni della CCI nelle Filippine ed in Turchia[3].
Queste due nuove sezioni sono anche il prodotto dello sforzo sostenuto da tutta la nostra organizzazione e dai suoi militanti per partecipare alla discussione ed al chiarimento politico, per tessere legami ovunque esistano gruppi o elementi in ricerca, orientati o non che siano ad entrare nella nostra organizzazione.
Le nostre nuove sezioni erano, prima di raggiungerci, dei gruppi di elementi in ricerca che, o si sono subito orientati verso il chiarimento politico intorno alle posizioni della CCI, come in Ecuador, o provengono da differenti ambienti politici, come in Perù. In ogni caso, si sono sviluppati attraverso la discussione con altre forze politiche e nelle discussioni sistematiche con la CCI, in particolare della sua piattaforma. Peraltro, hanno avuto la preoccupazione di prendere posizione sui maggiori avvenimenti della situazione internazionale e nazionale[4]. Oggi, continuano a lavorare in un contesto politico ricco di contatti.
Collocate in Sudamerica, queste due nuove sezioni vengono a rafforzare l’intervento della CCI in lingua spagnola e la sua presenza in America latina, dove la CCI era già presente in Venezuela, in Messico e Brasile.
L'insieme della CCI invia un caloroso e fraterno saluto a queste due nuove sezioni ed ai compagni che le costituiscono.
CCI - Aprile 2012
[1] Il crollo dello stalinismo aveva dato luogo allo sviluppo di campagne della borghesia secondo le quali ancora una volta veniva identificato fraudolentemente il comunismo con il capitalismo di Stato che si era sviluppato nei paesi dell'Est in seguito alla degenerazione della rivoluzione russa.
[2] Leggere "Saluto alla creazione di un nucleo della CCI in Brasile [255]".
[3] Leggere Saluto alle nuove sezioni della CCI nelle Filippine e in Turchia! [256]
[4] Alcune di queste prese di posizione sono state pubblicate in Accion Proletaria, organo della CCI in Spagna, e su ICC online sul nostro sito in lingua spagnola.
Pubblichiamo qui di seguito la traduzione di un articolo scritto dalla nostra nuova sezione in Ecuador.
Da quando Correa1 è arrivato al potere in Ecuador gli attacchi contro la classe lavoratrice non sono mai cessati, al contrario si sono intensificati. Il “correismo” si è dimostrato molto più efficace di altri governi nel suo lavoro antiproletario. Il “correismo” è quindi la continuazione di tutti i governi che lo hanno preceduto dal 1979 quando i militari, insieme ai partiti borghesi di destra e sinistra, si ripartirono a porte chiuse i ruoli nel nuovo scenario per una gestione più efficace della crisi del capitalismo che scoppiò alla fine degli anni ‘60 e che in Ecuador si manifestò soprattutto attraverso il debito esterno.
Di fronte alla situazione di stallo in cui si trova il capitalismo decadente, segnata da una decomposizione galoppante che rende il futuro ancora più incerto anche agli occhi degli economisti più ottimisti, la borghesia non può che ricorrere con una passione folle all’indebitamento e all’applicazione di politiche economiche di austerità che hanno come conseguenza il ridurre la classe operaia a condizioni di estrema povertà.
Lo Stato ecuadoriano, le cui esportazioni hanno avuto la tendenza a diminuire nel corso degli ultimi tre anni (2008-2010), non fa eccezione a questa tendenza. La cosiddetta economia sana si basa sulla quantità del reddito nazionale in dollari, basato sul prezzo del petrolio, che genera apparentemente un’espansione delle entrate di circa il 13%. Si tratta in realtà di un miraggio dovuto al fatto che le riserve mondiali si stanno esaurendo e che la speculazione si scatena, ma i passaggi essenziali per affrontare l’instabilità si trovano nello stringere la cinghia dei lavoratori. Così tende a scomparire la parte del salario indiretto rappresentato dalla riduzione delle spese per la sanità e l’istruzione che provoca licenziamenti nella classe operaia, così come fanno Obama, Sarkozy, Angela Merkel, Rajoy o qualsiasi altro governo al mondo.
Correa, tutelando gli interessi della classe dominante, impone politiche di flessibilità nel mondo del lavoro, licenziamenti brutali, congelamento dei salari, l’eliminazione dei contratti collettivi, evitando il “trauma” delle dimostrazioni di piazza ... grazie agli abbellimenti dei discorsi incentrati sulla difesa della democrazia e delle leggi imposte per conto del “potere popolare”.
Alcuni esempi concreti:
- 30 aprile 2008, l’imposizione dell’“ordinanza n°8” con lo scopo di standardizzare la “terziarizzazione e l’intermediazione del lavoro” ha significato il licenziamento di 39.200 lavoratori, di cui solo una parte è stata riassunta dalle imprese dove lavoravano prima, ma con un subcontratto;
- dal 30 aprile 2009 è stato applicato il “decreto 1701” per limitare i “privilegi” dati dai contratti collettivi firmati dai funzionari pubblici e dello Stato: migliaia di lavoratori sono stati immediatamente messi in prepensionamento e altri, dopo aver subito delle “valutazioni” delle loro capacità, sono stati costretti a dimettersi; nell’istruzione, non meno di 2957 insegnanti sono stati portati a seguire questa “Via Crucis”;
- dal 7 luglio 2011 è stato applicato il “decreto esecutivo 813”, che ha riformato le norme del servizio pubblico ed ha istituito “l’acquisto delle dimissioni obbligatorie”2; 7.093 posti di lavoro sono stati eliminati a partire dal 2011, minando in particolare il settore sanitario che ha subito il maggior numero di licenziamenti.
Tra la popolazione attiva dell’Ecuador (che ha raggiunto il 55,5% della popolazione totale), il 57% non ha lavoro stabile, vale a dire che è sballotto fra il lavoro informale (vendere qualsiasi cosa per strada), il lavoro precario e la zona della miseria abietta privata di tutto ...
Ma anche i lavoratori che hanno un lavoro fisso non hanno un reddito sufficiente a soddisfare i loro bisogni di base. Il salario di un lavoratore “qualificato” (diploma tecnico o altro titolo professionale) è di 280 dollari al mese, quello di un medico uscito dall’università dopo sette anni di studio varia tra i 500 ei 700 dollari al mese. Gli unici che hanno visto aumentare i loro salari appartengono alla polizia. Correa ha decretato un aumento degli stipendi dei militari che varia dal 5 al 25%. Oggi, ad un soldato semplice appena uscito dalla scuola militare, addestrato per uccidere, spetta un mensile di 900 dollari.
Questa è l’essenza del “correismo”, avvolto in questa aberrazione chiamata “rivoluzione dei cittadini”, che fa parte di questa ignobile e abominevole ideologia del “socialismo del 21° secolo” tanto cara a Chavez.
Le promesse di Correa e degli ideologi del “socialismo del 21° secolo” non sono opzioni valide per i lavoratori, solo la loro lotta può tracciare una propria prospettiva che contenga un vero futuro.
Internacionalismo-Ecuador (marzo 2012)
1. Rafael Correa Delgado, ex professore di economia politica, formatosi in Europa e negli Stati Uniti, viene dalla scuola borghese. Diventato consigliere del presidente e ministro delle Finanze sotto il regime di Palacio, presentandosi come “umanista e cristiano di sinistra”, si fa notare per la sua breve “crociata” ideologica contro i diktat del FMI e della Banca mondiale. Portato alla testa di una coalizione di vari partiti di sinistra, è stato eletto al secondo turno delle elezioni presidenziali nell’ottobre 2006 e si ritrova a capo dello Stato ecuadoriano dal marzo 2007. Ha riformato la Costituzione ed è stato rieletto al primo turno delle nuove elezioni presidenziali anticipate da lui provocate nell’aprile 2009 (NdR).
2. “Compra de renuncias obligatorias”, che facilita i licenziamenti.
Pubblichiamo qui di seguito la traduzione di un articolo prodotto dalla nostra nuova sezione in Perù.
Da un po’ di tempo lo Stato peruviano sta sviluppando una campagna contro il terrorismo, in particolare contro alcuni gruppi indeboliti ma armati, come Sendero Luminoso. All’inizio era solo una campagna per indebolire il tentativo di legalizzare una frazione di Sendero Luminoso - il Movadef1 - che aspirava a partecipare al gioco politico con gli altri partiti. Quando i gruppi terroristici, come è avvenuto con l’IRA in Irlanda o adesso con l’ETA in Spagna, tentano di integrarsi “normalmente” nel circo politico, le forze già presenti nello Stato scatenano sempre delle campagne di discredito, di demolizione e di molestia affinché i nuovi arrivati siano quanto più deboli possibile e non possano capitalizzare ciò che hanno acquisito in precedenza con la lotta armata. Quando i partiti borghesi si alleano è normale che prima si diano dei colpi bassi. Il che non è paradossale: ognuno cerca di allearsi con un “partner” il più debole possibile, perché in questo mercanteggiare spietato, non farlo significherebbe esporsi ad essere indeboliti a propria volta.
Ma dopo che il tentativo di legalizzare il Movadef non ha avuto successo, ecco che lo Stato si mette a parlare di incursioni e atti di violenza da parte di Sendero Luminoso (dai graffiti alle autobombe, dagli assassinii ai rapimenti, ecc.). E col tempo, vediamo lo Stato iniziare a fare connessioni tra alcuni settori della popolazione e il gruppo terroristico, in settori particolari quali le miniere dove i conflitti diventano sempre più acuti, come è il caso, ad esempio, per Conga in Cajamarca o per i minatori che lavorano illegalmente nella foresta amazzonica,. Perché lo Stato si inventa questo collegamento? Perché lo Stato comincia a fare un legame tra le manifestazioni contro le miniere con Sendero Luminoso?
La risposta è ovvia: perché questo rende più facile esercitare una repressione estremamente violenta sotto il pretesto che “in questi movimenti sono presenti membri infiltrati di Sendero Luminoso”. Lo Stato ha già iniziato questa repressione contro i contadini impoveriti che lottano contro l’inquinamento minerario nei loro villaggi e per sopravvivere. La campagna contro Sendero Luminoso serve a giustificare la repressione dello Stato contro i movimenti di protesta ed è un chiaro avvertimento ai movimenti che appariranno in futuro. Questa campagna non cerca inoltre di stabilire un legame tra il comunismo e il terrorismo. La lotta della classe operaia non ha nulla a che fare con il terrorismo e il terrorismo non ha nulla a che fare con la classe operaia, perché il terrorismo è sempre stato il nemico ed un fattore di distruzione di questa. I comunisti, quindi, rigettano apertamente i metodi e le visioni del terrorismo, le sue pratiche e posizioni sono antagoniste a quelle della classe operaia.
“Il terrorismo non è per niente uno strumento di lotta della classe operaia. Espressione di strati sociali senza avvenire storico e della decomposizione della piccola borghesia, quando non è addirittura l'espressione della guerra che si fanno in permanenza gli Stati, esso costituisce sempre un terreno privilegiato di manipolazione della borghesia. Spingendo all'azione segreta di piccole minoranze, esso si situa su un piano che è completamente all'opposto della violenza di classe, che richiede l'azione di massa cosciente e organizzata del proletariato”2.
Il terrorismo è dunque una pratica che non appartiene in niente alla tradizione del movimento operaio. Il terrorismo non permette un processo né di critica né di riflessione, al contrario, provoca paura e angoscia; così come in un paese in guerra i bombardamenti non favoriscono la riflessione o la presa di coscienza sui motivi della guerra, ma al contrario provocano gli esodi, le fughe di popolazioni che sono spinte al si salvi chi può, generando così una perdita e un ostacolo alla presa di coscienza collettiva della classe operaia.
Le pratiche terroristiche (e quelle di Sendero Luminoso in particolare) non esprimono altro che la disperazione e la decomposizione della piccola borghesia attraverso le “azioni esemplari” di gruppi di élite, una pratica che è totalmente all’opposto della violenza di classe che si pone come azione collettiva e cosciente delle masse in lotta per la distruzione del capitalismo, come avvenne in Russia nel 1917 con il movimento dei Soviet. Le pratiche proletarie si basano sulle assemblee generali, le decisioni collettive, la pratica comune e su tutto ciò che promuove le condizioni per lo sviluppo della coscienza. La coscienza della classe operaia si forgia nella lotta collettiva e unitaria.
Noi rigettiamo pertanto la politica d’amalgama che la borghesia e lo Stato peruviano, guidata dal burattino Humala, stanno facendo per mettere nello stesso sacco “terrorismo ed eversione” o qualsiasi espressione di malcontento o di lotta contro l’ordine attuale. Il loro scopo non è altro che preparare il terreno per giustificare la repressione cruenta contro la classe operaia in Perù, in un contesto di crisi globale del capitalismo che porta in sé tutta una serie di attacchi alle condizioni di vita della nostra classe, provocando reazioni di indignazione e di lotta.
Possiamo vedere fino a che punti questi gruppi terroristici sono estranei alla classe operaia con il recente rapimento di 30 lavoratori dell’impianto di gassificazione Camisea, eseguito da un gruppo di Sendero Luminoso, che voleva scambiarli con il “compagno Artemio” imprigionato. La cattura del “compagno Artemio” e la legalizzazione del Movadef, insieme ai presunti attacchi di questo gruppo terroristico, servono allo Stato come cavallo di Troia per preparare il terreno alla brutale repressione della classe operaia, classe che ha iniziato a lottare in altre parti del mondo (Spagna, Grecia ...) e la cui lotta si materializzerà sia in Perù che nel resto del continente americano.
Internacionalismo - Perù (aprile)1. Movadef: “Movimiento por Amnistía y Derechos Fundamentales” (Movimento per l’Amnistia e i Diritti Fondamentali). Sendero Luminoso, fondato nel 1970, è un movimento di ispirazione maoista che sostiene la lotta armata e gli atti terroristici. La sua “tattica di guerriglia” ha seminato il terrore in tutto il paese e ha portato a sanguinosi massacri della popolazione (circa 70 mila morti) nel corso degli anni 1980 e 1990 in Perù, in particolare nelle zone rurali e nei villaggi dove hanno condotto le sue “azioni (NdR).
2. Estratto dalle posizioni di base della CCI: https://it.internationalism.org/posizioni [257]
Pubblichiamo la traduzione di un articolo di Internasyonalismo, organo della CCI nelle Filippine.
“Lavoratori di tutti i paesi, unitevi!” Questa è la verità e la realtà nel sistema capitalista. Noi lavoratori non abbiamo né interessi nazionali, né nazionalità a cui legarci, e noi ci difendiamo in quanto classe internazionalista. In qualunque parte del mondo, noi siamo comunque sfruttati ed oppressi dal capitale e dallo Stato nazionale.
Il patriottismo e l’interesse nazionale sono al servizio di una sola classe. La storia ci ha insegnato che la sovranità, il patriottismo e lo Stato servono solo gli interessi della borghesia, per controllare e sfruttare la classe operaia ed il resto delle masse lavoratrici.
L’attuale braccio di ferro nelle Isole Spratly tra la borghesia filippina e quella cinese, ognuna delle quali rivendicando per sé le risorse di questa ricca piccola isola, si accompagna alle dichiarazioni di “sovranità nazionale” e di “integrità territoriale”. Echeggiano appelli a “l’unità nazionale” ed alla “difesa del territorio nazionale”. I media borghesi avvelenano le menti delle masse lavoratrici, inculcando in loro l’idea che capitalisti ed operai, appartenendo alla stessa razza ed alla stessa nazione, sarebbero fratelli ed alleati. La borghesia ha iniettato negli operai dei due paesi “l’amore della madre patria” per dividere i lavoratori, per farli combattere e ammazzarsi reciprocamente.
Un conflitto per aumentare i profitti ed accrescere la concorrenza interimperialistica in Asia
Il conflitto nelle Isole Spratly non si riduce esclusivamente alla Cina ed alle Filippine. Altri paesi, come il Vietnam, la Tailandia e la Malesia[1] litigano con questi paesi ed anche il Brunei[2] si è aggiunto a quelli che rivendicano questa isola ricca di risorse. Il fondamento, per ogni paese, risiede nella loro lunga storia d'aggressione coloniale e non nella loro “sovranità nazionale”[3].
La principale motivazione di ogni borghesia nazionale che si sta contendendo le Isole Spratly è accumulare più profitto. Chiunque la spunterà nello scontro attuale, non saranno certo le masse lavoratrici cinesi e quelle Filippine a guadagnaci qualche cosa, ma il governo, i burocrati ed i capitalisti.
Un’altra ragione importante, è l'interesse imperialistico delle borghesie nazionali in gioco; l’arcipelago di Spratly è una piattaforma strategicamente importante per una base militare, ed a maggior ragione la Cina, il Vietnam, Taiwan e gli Stati Uniti se lo contendono. Per decenni infatti ci sono state frizioni e conflitti armati tra la Cina ed il Vietnam (oggi alleato degli Stati Uniti).
Chiaramente, questa tensione sulle Isole Spratly esprime ugualmente la rivalità imperialistica tra la Cina e gli Stati Uniti in Asia. È una necessità per l’ambiziosa Cina imperialista estendere il suo territorio a causa della crisi globale del capitalismo. La potenza imperialista numero uno, gli USA, ne è cosciente e fa ogni sforzo per rafforzare e mantenere le sue posizioni in Asia[4].
I capitali nazionali uniti contro la classe operaia
Malgrado la naturale concorrenza tra le differenti fazioni capitaliste, i capitali nazionali sono uniti nell’attaccare la classe operaia.
Finché l’ideologia nazional-patriottica avvelena i lavoratori, la cooperazione diplomatica ed economica tra i paesi in conflitto continua[5]. Finché alcuni settori della popolazione di queste zone in conflitto restano assoggettati a queste dispute sulla sovranità nazionale[6], i loro capitalisti ed i loro burocrati statali hanno campo libero (e si strofinano le mani) come i loro concorrenti delle Filippine, della Cina, degli Stati Uniti, con una sola preoccupazione: trovare il modo di rafforzare la loro presa economica sulla popolazione. In altri termini, vedere come intensificare i loro attacchi contro il proletariato.
La borghesia nazionale dei paesi in conflitto sfrutta ed opprime a fondo i lavoratori. Quasi ogni giorno centinaia di migliaia di lavoratori in Cina hanno dato luogo a scioperi selvaggi o hanno partecipato a delle manifestazioni contro il loro Stato ed i capitalisti. Ci sono stati scioperi in Vietnam causati dai bassi salari e dall’assenza di misure di sussidi sociali. Gli operai filippini sono confrontati e sottomessi alla stessa realtà. Le difficoltà dei proletari del “terzo mondo” non sono differenti da quelle dei loro fratelli/sorelle dei paesi del “primo mondo”, in particolare degli Stati Uniti.
L’obiettivo principale e centrale di ogni capitale nazionale è di attizzare le braci in modo da favorire il malcontento delle masse nei riguardi delle nazioni straniere che “calpestano il nostro diritto sovrano”.
L'unità della classe e la lotta contro il veleno del nazionalismo e del patriottismo
È la classe capitalista, che sia locale o “straniera”, il primo e vero nemico della classe operaia.
Noi non dobbiamo sostenere gli appelli alla “sovranità nazionale” ed alla “difesa del territorio nazionale” della nostra borghesia nazionale. Ciò che si nasconde dietro questi appelli è la sovranità borghese nello sfruttare ed opprimere ancora di più la classe operaia; è terreno del capitale accumulare ancora più profitto a partire dal lavoro non pagato.
Al contrario noi dobbiamo unire i lavoratori filippini e cinesi con i nostri fratelli e sorelle di classe nel mondo per rovesciare le “nostre” borghesie nazionali. Dobbiamo condannare il can-can incessante dei nostri governi e le minacce di guerra; guerra che non può che aggravare le nostre condizioni di vita gettandoci nella più estrema povertà, nella morte, con distruzione di beni e con la divisione tra di noi.
Sappiamo che, nel conflitto attuale, nessuna delle parti in gioco ha la capacità né l’interesse di scatenare un’aggressione ed uno scontro militare di grande portata[7]. Tuttavia, la propaganda su una guerra possibile può attirare e portare dei settori della popolazione, che sono relativamente poco coscienti, a sostenere la loro borghesia nazionale locale contro una borghesia straniera. L’obiettivo principale e centrale della borghesia nazionale della Cina e delle Filippine è di avvelenare le menti delle masse lavoratrici con l’ideologia ed il fervore nazionalista.
Compagni, operai filippini e cinesi, non lasciamoci condizionare da questi propositi di unione nazionale, dai discorsi accattivanti e dalla propaganda velenosa del nostro “proprio” governo! Continuiamo la nostra lotta contro tutti gli attacchi del capitale alla nostra classe, in ogni paese! Continuiamo a denunciare la natura sfruttatrice ed oppressiva della classe capitalista, locale o straniera. Dobbiamo rafforzare la nostra unità in quanto classe.
“La sovranità nazionale” e “l’unità nazionale” sono delle catene che ci legheranno per sempre alla nostra schiavitù salariata nella prigione capitalista. Sono manovre per dividere ovunque nel mondo la classe operaia. I movimenti che seguono una linea nazionalista sono dei movimenti che mirano ad indebolire ancora più il movimento proletario internazionale.
Proletari cinesi e filippini, non è nostro interesse e non abbiamo niente da guadagnare, qualunque sia la potenza imperialista che conquisterà l'arcipelago Spratly. Nostro interesse è liberarci della povertà, della schiavitù salariata. Nostro interesse è farla finita con il capitalismo e costruire una società libera dallo sfruttamento e dall'oppressione. Nostri nemici sono i governi delle Filippine, della Cina imperialista e di tutti i paesi imperialisti[8].
Il capitalismo è la causa delle guerre nell’epoca dell’imperialismo. L’unica garanzia per l’umanità di conoscere una pace duratura, è la distruzione del capitalismo.
Lavoratori del mondo intero, unitevi!
Abbasso la classe capitalista, locale o straniera!
Rovesciamo i “nostri” governi nazionali e l’ideologia nazionalista!
Abbasso la Cina e gli Stati Uniti imperialisti!
Abbasso il sistema imperialista mondiale!
Internasyonalismo (28 aprile)
[1] www1.american.edu/ted/SPRATLY.htm
[3] In più territori riconosciuti dal diritto Internazionale, le Filippine rivendicano il possesso di Scarborough Shoal dall’epoca della colonizzazione spagnola. (https://globalnation.inquirer.net/34031/ph-sovereignty-based-si-unclos-p... [259]) mentre il Vietnam lo fa dall’era della colonizzazione francese. La Cina imperialista reclama dei diritti su basi analoghe. (en.wikipedia.org/wiki/Spratly_Islands [260]).
[4] Nel rapporto di forze tra gli imperialismi cinese ed americano in Asia, la Corea del Nord è il solo alleato della Cina. La conseguenza non è che gli Stati Uniti siano il primo nemico in Asia e che gli altri paesi rivali e concorrenti siano dei “nemici secondari” o degli “alleati tattici”. Il primo nemico del proletariato mondiale è la borghesia mondiale.
[5] Le relazioni economiche tra le Filippine e la Cina si allargano continuamente, così come tra Cina e Stati Uniti. In effetti, la Cina è il più grande creditore degli Usa. Fonti: www.mb.com.ph/articles/346111/robust-philippineschina-trade-relations [261], https://www.census.gov/foreign-trade/balance/c5700.html [262], https://money.cnn.com/2011/01/18/news/international/thebuzz/index.html [263].
[6] Alcuni hackers cinesi e filippini distruggono siti web dei loro paesi “nemici”.
[7] Il conflitto dell’arcipelago Spratly ha conosciuto parecchie ma piccole schermaglie militari tra il Vietnam e la Cina, controllate dai due paesi in modo da impedirne l’esplosione in una guerra a grande scala poiché il loro solo obiettivo è quello di ravvivare al massimo l’ideologia nazionalista dei loro paesi. Tra la Cina e le Filippine, c’è la possibilità di uno scontro militare di dimensioni ridotte, annunciato da rulli di tamburo dalle forze armate filippine, degli Stati Uniti e della Cina. I media cinesi ultimamente si sono fatti eco di queste minacce tra la Cina e le Filippine.
[8] Il movimento maoista filippino aiuta la borghesia filippina nella sua campagna per infondere ideologia nazianalista all’interno dei lavoratori filippini. I maoisti si attengono fermamente alla tattica controrivoluzionaria di “scegliere il male minore”, la qualcosa si esprime chiaramente nelle dichiarazioni delle loro organizzazioni legali, a proposito delle frizioni tra Cina ed USA. https://anakbayannynj.wordpress.com/2012/04/19/us-intervention-not-china-is-the-greatest-threat-to-peace-security-in-the-philippines-bayan-usa/ [264]). Tuttavia, non è solo il movimento maoista a pensarla così, il resto delle organizzazioni di sinistra cade nella stessa tattica fallimentare.
settembre-ottobre 2012
In Siria[1], nel Mali e in altri numerosi punti caldi, i civili continuano ad essere ostaggi e vittime di sanguinarie guerre imperialiste. Ovunque il terrore capitalista impone il suo ordine nel sangue e la miseria. Questa estate, mentre in Francia gli sbirri del governo socialista cacciavano brutalmente i Rom, la polizia dell’ANC in Sudafrica sparava sui minatori[2]. Dappertutto il capitale in fallimento semina barbarie!
Nessuno paese viene risparmiato dalla crisi economica che fa esplodere la disoccupazione[3]. In Europa il tasso di disoccupazione già supera la soglia del 10% e colpisce particolarmente i giovani che non riescono più a inserirsi in un apparato produttivo ormai saturo. In Spagna ed in Grecia più del 50% dei giovani sono senza lavoro[4]! Ormai gran parte della popolazione è in uno stato di impoverimento assoluto, senza casa, presa dalla preoccupazione di trovare i mezzi per sopravvivere e con la paura delle pressioni poliziesche. In Spagna, in 1.700.000 famiglie nessuno lavora né percepisce la minima indennità! In alcune regioni, come l’Andalusia, il 35% delle famiglie delle grandi città è al di sotto della soglia di povertà
E di fronte alle contestazioni dei proletari la repressione poliziesca si amplifica, come per gli operai dell’Alcoa.
Non è un caso se la Germania ormai autorizza l’intervento dell’esercito sul proprio territorio, anche se ci tiene a precisare subito che “questo non è diretto contro le manifestazioni!”!
In questo contesto l’Italia si trova in una posizione particolarmente fragile e, nonostante le misure draconiane che sono state finora prese, il debito consolidato è di quasi 2000 miliardi di euro, con una tendenza continua a crescere![5] D’altra parte la politica imposta all’Italia (come alla Spagna, alla Grecia, ed in genere alle popolazione europee) di tagliare su spese e salari, porta necessariamente a una riduzione della domanda e ben difficilmente, ammesso che ce ne possano essere i margini, la situazione che ne consegue può portare ad una ripresa dell’economia. Inoltre l’andamento impazzito dei mercati finanziari strozza sempre più la cosiddetta economia reale e gli impianti che chiudono in giro per l’Italia non si contano, con incremento di disoccupazione, povertà, precarietà: “La disoccupazione in Italia dovrebbe salire dall'8,4% del 2010 e del 2011 al 9,4% nel 2012 e al 9,9% nel 2013. (…) Tra il 2010 e il 2011 è cresciuta in Italia la disoccupazione di lunga durata. L'anno scorso il 51,9% dei disoccupati lo era da più di 12 mesi contro 48,5% nel 2010”[6]. “Con il tasso record del 35,9% segnato a marzo, l'Italia è al quarto posto tra i 33 Paesi aderenti all'Ocse nella poco invidiabile classifica della disoccupazione giovanile ed è nella stessa, difficile posizione per i 'Neet', i giovani totalmente inattivi cioè “né a scuola, né al lavoro”. Nella Penisola la disoccupazione nella fascia d'età tra 15-16 e 24 anni è aumentata durante la crisi di 16,5 punti percentuali rispetto al 19,4% del maggio 2007.”[7]
Gli attacchi economici …
Altro che governo Berlusconi! Questo governo cosiddetto tecnico, di “seri ed onesti professionisti”, si è distinto per il cinismo e la ferocia degli attacchi contro i lavoratori: innalzamento dei contributi dovuti all’Inps; aumento notevole sulle accise sui carburanti e il conseguente amento dei prezzi dei generi di prima necessità; possibile aumento dell’Iva del 2%, che arriverebbe al 23%; taglio di ulteriori 3,1 miliardi di euro di fondi alle regioni che queste dovranno recuperare con tagli sui servizi ed aumento delle tasse; nuova imposta municipale sulla casa, IMU, basata su una rivalutazione di circa il 60% sugli estimi catastali e con aliquote dello 0,4% sulla prima casa e 0,75% sulle altre; incremento di 3 punti dell’Irpef; facoltà di licenziare per motivi economici per aziende in crisi. Il lavoratore ha diritto a una indennità risarcitoria dalle 16 alle 24 mensilità; abolizione della pensione di anzianità, partenza del sistema contributivo e aumento dell’età pensionabile a 66 anni.
Adusbef e Federconsumatori hanno calcolato che, con questa manovra, le ricadute saranno, nel 2014, pari a 1.129 euro per ogni famiglia. Tali ricadute, sommate alle misure per il 2011 volute dal governo Berlusconi, raggiungono la cifra di 3.160 euro. L’impatto sulla capacità di consumo è pari al 7,6% all’anno.
Tra le varie storie di ordinaria follia con cui procede ormai questo governo nella sua azione di bonifica delle pubbliche finanze, (si intende, solo a carico dei lavoratori!), la storia degli esodati: 390 mila lavoratori truffati dallo Stato e che adesso si ritrovano senza alcuna garanzia di ricevere né uno stipendio o pensione né alcun sussidio.
Cosa ha prodotto questa serie di attacchi nella popolazione?
…l’aumento della povertà e del rischio di povertà per migliaia di famiglie.
Per “mantenere la calma” ci hanno detto che anche in passato ci sono stati periodi bui, in particolare nel II dopoguerra, ma siamo un “popolo che lavora”, che è sempre riuscito a “venirne fuori”. Eppure nessuno nel mondo intero, neanche i loro migliori economisti, riesce ad immaginare un superamento vero e duraturo di questa crisi economica.
E la situazione di continuo degrado è tale che lo Stato si vede costretto a truccare le carte per nascondere il disastro, come ci dice la stessa Caritas:
“Secondo l’Istat lo scorso anno l’incidenza della povertà relativa (cioè la percentuale di famiglie con un reddito al di sotto di una cosiddetta linea di povertà relativa, ndr) è stata pari al 10,8% (era 11,3% nel 2008), mentre quella della povertà assoluta risulta del 4,7%. Secondo l’Istat si tratta di dati “stabili” rispetto al 2008. In realtà, si tratta di un’illusione «ottica»: succede che, visto che tutti stanno peggio, la linea della povertà relativa si è abbassata, passando da 999,67 euro del 2008 a 983,01 euro del 2009 per un nucleo di due persone. Se però aggiornassimo la linea di povertà del 2008 sulla base della variazione dei prezzi tra il 2008 e il 2009, il valore di riferimento non calerebbe, ma al contrario salirebbe a 1.007,67 euro. Con questa operazione di ricalcolo, alzando la linea di povertà relativa di soli 25 euro mensili, circa 223 mila famiglie ridiventano povere relative: sono circa 560 mila persone da sommare a quelle già considerate dall’Istat (cioè 7 milioni e 810 mila poveri) con un risultato ben più amaro rispetto ai dati ufficiali: sarebbero 8 milioni e 370 mila i poveri nel 2009 (+3,7%).»[8]
Se poi si considera l’indicatore della vulnerabilità alla povertà che non misura la povertà di oggi, ma quella di domani il quadro diventa ancora più nero:
«Sono infatti vulnerabili le famiglie che hanno una probabilità superiore alla media nazionale di sperimentare, nel futuro (tipicamente nei dodici mesi successivi all’intervista), un episodio di povertà. Si tratta tanto di famiglie povere oggi, e che hanno bassa probabilità di uscire domani da questa condizione (si parla in tal caso di povertà cronica), quanto di famiglie non ancora povere, ma che non hanno strumenti idonei per fronteggiare eventuali shock negativi di reddito. Alcune stime preliminari hanno prodotto risultati molto netti che, se confermati, suggeriscono dimensioni insospettate del fenomeno. Dal 1985 al 2001 si stima che circa la metà della popolazione abbia un rischio elevato di cadere in povertà (…). Sorprendentemente, il gruppo dei vulnerabili, è composto non solo da famiglie povere, ma soprattutto da famiglie non povere. Il 40 per cento circa delle famiglie non povere è vulnerabile. Accanto a una povertà assoluta stabile, se non in leggera flessione [cosa smentita dal rapporto sulla povertà citato prima], emerge dunque una latente fragilità delle famiglie italiane.»[9]
Quale prospettiva abbiamo di fronte a noi?
La miseria degli anni del II dopoguerra non sta dietro di noi, ma è la situazione verso la quale stiamo andando in tutto il mondo. Con l’aggravante che adesso non c’è nessun piano Marshall che ci possa venir a tirare fuori, non c’è nessuna capacità di recupero del capitalismo che ha ormai, e da tempo, esaurito tutte le sue risorse. E proprio per questo continuerà a seminare distruzione e morte con le sue guerre.
Ma questa non è l’unica prospettiva possibile. E le lotte di difesa delle proprie condizioni di vita che già oggi migliaia di lavoratori stanno portando avanti, dalle rivolte nel Nord’Africa e Medio Oriente alla Grecia, dagli Indignati in Spagna alle lotte in Italia all’Alcoa, all’Ilva, alla Carbosulcis e tante altre ancora, lo dimostrano. Lotte che nei fatti, al di là della consapevolezza immediata che ne possono avere i partecipanti, iniziano a mettere in discussione questo sistema attraverso il sentimento che “così non si può andare avanti!”.
Eva, 23 settembre
[1] Vedi l’articolo “In Siria, le grandi potenze gesticolano, i massacri continuano”, in questo numero….
[2] Vedere i nostri articoli sul massacro di Marikana a pag ….e la caccia al Rom su https://fr.internationalism.org/ri435/pour_les_roms_le_changement_c_est_maintenant_et_plus_ca_change_plus_ca_empire.html [268]
[3] HP prevede di sopprimere 27.000 posti di lavoro, Nokia 10.000, Sony 10.000, RWE, secondo gruppo nel settore servizi in Germania, prevede di sopprimere altri 5.000 posti in Europa, il gruppo giapponese di elettronica Sharp si accinge a sopprimerne altri 5.000, in Francia al centro industriale della Citroen PSA a Aulnay-sous-Bois è stata annunciata la soppressione di 8.000 posti, 5.000 all’Alcatel ed altrettanti all’Air Francee ... l’elenco è molto lungo.
[4] Vedi il volantino diffuso dalla nostra sezione in Spagna: “Come possiamo rispondere agli attacchi mentre l’economia affonda?”, https://it.internationalism.org/node/1212 [269]
[5] Si calcola che il debito aumenti ad un ritmo di 14 mila euro ogni secondo. E’ come se ogni italiano avesse un debito pari a 32.270 euro e dovesse pagare ai creditori un volume di interessi equivalente a 1.154 euro all’anno Vedi: Debito pubblico: Pochi giorni alla soglia dei 2.000 miliardi [270], (30 marzo 2012 in https://www.ijobs.it/ [271]).
[6] Ocse, sale la disoccupazione "L'Italia colpita duramente" [272] (10 luglio 2012 su www.repubblica.it/ [273]).
[7] Ocse lancia allarme sulla disoccupazione giovanile: Italia quarta nel mondo [274], (15 maggio 2012 su https://www.ilsole24ore.com/ [275]).
[8] In caduta libera, X Rapporto su povertà ed esclusione sociale in Italia, A cura di Caritas Italiana, Fondazione Zancan (su www.caritasitaliana.it/ [276]).
[9] Amendola N., Rossi M.C. e Vecchi G., Le tre povertà degli Italiani [277], (17.10.2011 su www.lavoce.info/). [278]
Quest’articolo, scritto in risposta ai problemi che si pongono oggi gli operai dell’Ilva, dell’Alcoa e del Carbosulcis, è di fatto dedicato a tutti i proletari d’Italia che, in varia misura, vivono esattamente gli stessi problemi, gli stessi ricatti dei loro compagni sardi o di Taranto, anche se vissuti in situazioni meno note ma non per questo meno gravi e laceranti. Come cercheremo di dimostrare, i vari casi che sorgono in giro per l’Italia non sono la conseguenza della cattiva gestione di questo o di quello, non sono la conseguenza dell’egoismo e del menefreghismo dei padroni, cose che comunque esistono, ma sono principalmente la conseguenza di una crisi economica[1] profonda e senza uscite che investe non solo l’Italia ma il mondo intero.
ILVA: ovvero quando ti chiedono di scegliere tra il posto di lavoro e la salute!
La storia dell’impianto dell’Ilva di Taranto, grande due volte e mezzo l’intera città, è recentemente esplosa sulle pagine dei quotidiani con il sequestro senza facoltà d’uso dell’intera area a caldo dello stabilimento e gli arresti di Emilio Riva, presidente dell’Ilva Spa fino al maggio 2010, del figlio Nicola Riva, succedutogli nella carica, e di tre grandi dirigenti dell’impianto. La motivazione del GIP è che “chi gestiva e gestisce l’Ilva ha continuato nell’attività inquinante con coscienza e volontà per la logica del profitto, calpestando le più elementari regole di sicurezza”.
Questo impianto è nato all’insegna del massacro dei lavoratori. Massacro che è cominciato già nei primi anni ‘60, nella stessa fase di costruzione dell’impianto, con lavoratori in nero, senza controlli e senza alcun rispetto delle norme di sicurezza, grazie anche all’Italsider di allora (nata come fabbrica statale) che favoriva appalti e subappalti per tagliare tempi e costi dei lavori e disporre di manodopera sottomessa. Da allora in poi c’è stata una “lunga sequela (di morti) che avrebbe scandito la vita quotidiana della città. Già altissimo nella fase della costruzione dello stabilimento, il tasso d’infortuni, compresi i mortali, nel 1970 s’impennò a 1.694 ogni 1.000 operai: in sostanza quasi due infortuni l’anno per ogni operaio (Z. Iafrate, Omicidi bianchi: il primato Italsider, “Rassegna Sindacale”, n. 228, 1972).”[2]
Il sequestro dell’impianto è avvenuto sulla base di una perizia del Tribunale secondo cui dallo stabilimento si sarebbero diffusi “gas, vapori, sostanze aeriformi e sostanze solide (polveri ecc.), contenenti sostanze pericolose per la salute dei lavoratori operanti all’interno degli impianti e per la popolazione del vicino centro abitato di Taranto (…) con particolare, ma non esclusivo, riguardo a benzo(a)pirene, Ipa di varia natura e composizione nonché diossine, Pcb, polveri di minerali e altro”. (…) Ancora “i livelli di diossina e Pcb rinvenuti negli animali abbattuti, appartenenti alle persone offese indicate nell’ordinanza ammissiva dell’incidente probatorio del 27.10.2010, e (…) i livelli di diossina e Pcb accertati nei terreni circostanti l’area industriale di Taranto, (sono) riconducibili alle emissioni di fumi e polveri dello stabilimento Ilva”. Concludendo dunque che “all’interno dello stabilimento Ilva di Taranto” non sono “osservate tutte le misure idonee ad evitare la dispersione incontrollata di fumi e polveri nocive alla salute dei lavoratori e di terzi”.[3]
E’ stata poi riscontrata, su un campione di 141 soggetti analizzati, 67 uomini e 74 donne, una media di piombo nelle urine di 10,8 mg/L mentre i valori di riferimento per la popolazione vanno da meno di 0,5 a 3,5 mg/L. Per capirci il piombo è neurotossico e cancerogeno. La stessa indagine ha riscontrato valori eccedenti anche per il cromo, con un valore medio di 0,45 mg/L contro un intervallo di riferimento di 0,05-0,32 mg/L[4].
Ancora è ormai noto che “attorno all’Ilva per un raggio di venti chilometri e’ vietato dalla Regione il pascolo libero in zone incolte perché il terreno è contaminato da diossine e policlorobifenili. Parliamo di inquinanti persistenti con effetto cancerogeno e che hanno il potere di danneggiare il dna che viene trasferito dai genitori ai figli. Dal 2008 sono state abbattute duemila pecore e capre perché contaminate da diossine e pcb e gli allevatori sono rimasti senza lavoro. Nel 2011 sono state distrutte grandi quantità di cozze, contaminate da diossine e pcb, colpendo famiglie di miticoltori che lavoravano da decenni.”[5] “A Taranto si può morire anche solo respirando all’aria aperta. I parchi minerali allo scoperto e i fumi di scarico hanno cambiato per sempre la vita di un intero quartiere, Tamburi, dove almeno una famiglia su due piange la morte di un proprio caro per tumore.”[6]
D’altra parte tutti questi elementi sono da tempo fedelmente documentati da studi scientifici prodotti da strutture dello Stato italiano, come lo studio SENTIERI (Studio Epidemiologico Nazionale dei Territori e degli Insediamenti Esposti a Rischio da Inquinamento), pubblicato lo scorso anno dall’Istituto Superiore di Sanità col Ministero della Salute e altri enti pubblici, in cui si dice, nero su bianco, che a Taranto c’è un eccesso:
· tra il 10% e il 15% nella mortalità generale e per tutti i tumori in entrambi i generi;
· di circa il 30% nella mortalità per tumore del polmone, per entrambi i generi;
· in entrambi i generi, dei decessi per tumore della pleura (…);
· compreso tra il 50% (uomini) e il 40% (donne) di decessi per malattie respiratorie acute (…) associato a un aumento di circa il 10% nella mortalità per tutte le malattie dell’apparato respiratorio;
· di circa il 15% tra gli uomini e 40% nelle donne della mortalità per malattie dell’apparato digerente.[7]
Ma che a Taranto si morisse di ILVA la gente lo avvertiva da tempo, ma le proteste reiterate di cittadini e lavoratori non hanno mai smosso né le autorità locali né quelle nazionali. E tuttora l’insieme dei partiti e dei sindacati continua a difendere l’idea che vada salvaguardato lo stabilimento a scapito della salute (vedi la manifestazione sindacale di luglio scorso e di marzo scorso). E non bisogna farsi ingannare dalle chiacchiere sul mantenere il funzionamento dell’Ilva risanandola che, oltre ad avere in spregio la vita umana, cercano di far credere che sia possibile un’operazione che è del tutto improponibile visto che l’impianto è ormai vecchio e poco adatto a essere rattoppato di qua o di là. A tale proposito è da notare tutto il can can che si sta facendo sull’AIA, l’Autorizzazione Integrata Ambientale di cui l’ILVA ha bisogno per poter continuare a funzionare, e la cui concessione, laddove si dovesse avere, equivarrebbe più o meno ad assegnare il bollino eco 5 ad un’automobile degli anni ’60!
Ma se c’è tanta resistenza a non mollare è perché l’ILVA rappresenta una grossa fetta dell’economia italiana. Lo sa bene la famiglia Riva che, dopo aver acquistato la fabbrica a prezzi stracciati, ne gode adesso tutti i profitti senza averci speso granché (motivo appunto dell’attuale degrado!). Lo sa bene il governo in quanto l’acciaieria di Taranto partecipa al 60% della produzione di acciaio italiano e al 3% del PIL. Così, lo stesso ministro dell’ambiente Clini, che 12 anni fa aveva dichiarato, a proposito degli impianti dell’Ilva di Cornigliano (Genova), che: “La chiusura dell’altoforno e della cokeria delle Acciaierie è una questione urgente. Sul piano dei danni ambientali, dell’inquinamento e della salute dei cittadini siamo già in ritardo”[8] oggi, rispetto all’ILVA di Taranto, tende addirittura a mettere in dubbio o a nascondere la verità di morte prodotta dall’acciaieria.[9]
Tra l’altro l’appoggio all’Ilva sembra sia stato favorito anche attraverso “altre vie”, che hanno fatto aprire un altro filone di indagini per corruzione “per una sospetta mazzetta versata a un perito incaricato di eseguire delle indagini sulle emissioni dello stabilimento. Per questo ultimo filone di indagini, che vede coinvolti nel malaffare dell'acciaio politici e organi di controllo ambientale, a saltare all'interno del gruppo Riva è stato Girolano Archinà ormai ex responsabile delle relazioni esterne. (…) Nelle intercettazioni Archinà parla di come fosse facile azzittire (la stampa, ndr) pagandola.”[10] “Io ho sempre sostenuto che bisogna pagare la stampa per tagliargli la lingua! Cioè pagare la stampa per non parlare!”[11].
Addirittura il governo Berlusconi è arrivato a varare una legge “salva-ILVA” (DLgs 155/2010) che, sospendendo una precedente legge che imponeva un limite alle emissioni di 1nanogrammo per ogni metro cubo del terribile e cancerogeno benzo(a)pirene nelle città con più di 150 mila abitanti, ha praticamente lasciato libertà di inquinare. “Non è un caso - conclude Marescotti di Peacelink- perché non può essere che il Governo abbia avviato l´iter del decreto salva-Ilva il 13 maggio, cioè quando l´Arpa, noi e la Regione avevamo cominciato a denunciare con forza il problema del benzoapirene a Taranto”.[12]
Di fronte a tutto questo sfacelo, la stessa cosiddetta sinistra dà segnali confusi se non addirittura di parte, come Vendola che, da buon capo di un partito che si chiama Sinistra, Ecologia, Libertà (SEL), afferma: “Noi ci siamo sempre opposti sia ad un industrialismo cieco sia ad un ambientalismo fondamentalista ed isterico di chi pensa che tra i beni da tutelare non ci debba essere il bene lavoro, in una storia come quella di Taranto”[13]. E’ evidente come, a fronte delle stragi provocate dall’ILVA, la dichiarazione non possa suonare che come difesa della continuazione della produzione, come richiede il ruolo istituzionale di governatore della regione Puglia ricoperto dall’ex “rivoluzionario” Vendola.
Ma la stessa Rifondazione Comunista, che non avendo vincoli istituzionali non ha neanche l’obbligo a prese di posizioni più compromettenti, non riesce ad esprimere posizioni che abbiano un minimo di concretezza: “L’alternativa (…) è una e una sola, garantita dalla nostra Costituzione: l’esproprio dell’azienda e la ri-nazionalizzazione dell’Ilva con lo Stato come protagonista diretto di un grande progetto di ammodernamento e messa a norma degli impianti.”[14] Questa posizione, che è anche del PCL di Ferrando[15], non tiene i piedi per terra e crea solo polverone, confusione. Che senso ha parlare di grande progetto di ammodernamento e messa a norma degli impianti, che aggiungerebbero altri miliardi a quelli dell’acquisto della fabbrica, quando non ci sono neanche i soldi per pagare gli stipendi a quelli che già lavorano nel settore pubblico? A meno che non si voglia seguire l’idea del PCL di Ferrando che parla addirittura di esproprio senza indennizzo, cioè un colpo di mano! Ma ci siamo resi conto che viviamo in regime capitalista? Se i proletari avessero la forza di fare tutto questo, si limiterebbero a perpetuare il loro sfruttamento facendo passare la proprietà della fabbrica da un privato a quello dello Stato? Sarebbe veramente fatica sprecata!
Per quanto riguarda i sindacati, la situazione non migliora. Se Cisl e Uil sono arrivate addirittura a fare manifestazioni a sostegno dell’azienda, cavalcando il naturale timore dei lavoratori di ritrovarsi in mezzo ad una via, la Fiom da parte sua, dopo “una prima fase, (in cui) si accodava a FIM e UILM, nella partecipazione a scioperi e blocchi stradali (sostanzialmente telecomandati dal padrone), successivamente al 2 agosto ha preso le distanze dagli altri sindacati confederali, mantenendo una posizione di “sostegno alla magistratura”.[16] Ma fondamentalmente anche la Fiom sta dalla parte del padrone, come si è visto negli interventi televisivi di Landini in cui il dirigente sindacale tendeva continuamente a spostare la responsabilità dell’inquinamento sugli altri centri industriali della città di Taranto, come se questo potesse alleggerire la responsabilità di un sindacato sul piano della connivenza col padrone.
Un quadro abbastanza interessante della situazione ci viene fornito da un esponente del Comitato Cittadini e Lavoratori Liberi e Pensanti: “«sono un lavoratore, ma sono anche un cittadino. Non posso difendere un posto di lavoro che crea morte nella mia città». Per questo, ribadisce, «Taranto non può essere rappresentata dai sindacati». E si chiede: «Dov’erano i dirigenti delle varie sigle, che ora difendono i posti di lavoro e il Pil italiano, mentre a Taranto si moriva di diossina? Perché ora scendono in piazza quando per anni non hanno mai fatto uno sciopero contro l'azienda? (…) Sono stato dirigente del sindacato dei metalmeccanici in azienda. E ho a casa un fascicolo pieno di tutte le denunce che ho presentato per far emergere la condizione di pericolo per la salute e l'ambiente creata dai fumi di questi stabilimenti. Ma poi ho dato le dimissioni, perché mi vergognavo di essere come loro. Le nostre richieste si fermavano tutte alla segreteria provinciale. Le nostre proteste trovavano un muro. Tant’è che nel 2007 mandammo una lettera a Landini in cui chiedevamo le dimissioni del segretario provinciale, ma dopo qualche giorno molti lavoratori scelsero di ritirare la firma da quella petizione.»”[17]
Ma se le forze politiche e sindacali difendono un ipocrita diritto al lavoro, che significa di fatto difesa del capitale, qual è l’alternativa proposta dagli ambientalisti? Chiusura degli impianti e riconversione dei lavoratori Ilva in lavori di bonifica! “L’opera di bonifica del terreno attorno all’Ilva e’ vastissima e richiede non meno lavoratori di quanti ne impiega oggi l’Ilva”.[18] Ancora una volta una pura illusione visto che, in un periodo di crisi, eliminare l’Ilva significa “un impatto negativo che è stato valutato attorno ad oltre 8 miliardi di euro annui imputabile per circa 6 miliardi alla crescita delle importazioni, per 1,2 miliardi al sostegno al reddito ed ai minori introiti per l'amministrazione pubblica e per circa 500 milioni in termini di minore capacità di spesa per il territorio direttamente interessato”[19], a cui naturalmente andrebbero aggiunti i costi della bonifica del territorio.
Come si vede la contrapposizione tra lavoro e salute è un non senso, è qualcosa che può solo disorientare i proletari. In realtà. L’unica soluzione al problema è uscire dalla logica del capitale. Ma che significa uscire dalla logica del capitale? Significa che dobbiamo imparare a ragionare con dei punti di vista che siano i nostri e non quelli che cercano di imporci i padroni e il loro Stato. I casi dell’Alcoa e del Carbosulcis ci possono aiutare a capire ulteriormente il problema.
Alcoa e Carbosulcis: bisogna difendere il punto di vista dei lavoratori, non quello del capitale
I casi di Alcoa e Carbosulcis sono anch’essi abbastanza noti a tutti. In entrambi i casi i lavoratori rischiano di perdere il loro lavoro: all’Alcoa perché i proprietari americani della fabbrica hanno deciso di chiudere la loro attività perché risulterebbe troppo onerosa, particolarmente per le tariffe elettriche da pagare per produrre l’alluminio per elettrolisi; stessa cosa per il Carbosulcis che è fermo al palo in attesa che la Regione sarda, proprietaria dell’azienda, produca un nuovo progetto per l’estrazione e utilizzo del carbone con contemporanea cattura e immagazzinamento nel sottosuolo del biossido di carbonio prodotto.
Ancora in entrambi i casi i lavoratori hanno dato vita a varie dimostrazioni di protesta, anche abbastanza dure: asserragliamento di 80 minatori a 400 metri di profondità con minaccia di utilizzare l’esplosivo, auto ferimento di un operaio durante una conferenza stampa in miniera e magliette con la scritta “disposti a tutto” da una parte e rabbia espressa alla manifestazione del 10 settembre scorso dove ci sono stati scontri con le forze dell’ordine con lancio di bombe carta e tondini di alluminio e il ferimento di 14 poliziotti, contestazione del responsabile economico del PD Fassina e lacerazione di tessere di partiti e sindacati in piazza, occupazione per due volte di seguito di una torre dello stabilimento Alcoa a 70 metri di altezza dall’altra parte. In entrambi i casi i lavoratori stanno lottando contro lo spettro della disoccupazione, ma la strada che viene loro indicata dai sindacati è quanto di peggio ci possa essere. Per l’Alcoa, in attesa che qualche capitalista acquisti la fabbrica in liquidazione, si chiede allo Stato di far ridurre il più possibile le tariffe elettriche per agevolare il capitalista entrante[20]. Per il Carbosulcis si preme perché l’azienda ottenga il finanziamento del “progetto integrato miniera-centrale-cattura stoccaggio dell’anidride carbonica nel sottosuolo” che serve per continuare oltre il termine previsto di chiusura dell’impianto del 31 dicembre 2012 ma che, nella versione attuale, non è “economicamente sostenibile”. Insomma in entrambi i casi, seguendo le consegne sindacali, i lavoratori sono costretti ad abbracciare delle esigenze che sono quelle del capitale, non quelle degli operai, arrivando anche a vantare l’efficienza e la produttività della propria fabbrica come elemento che dovrebbe incoraggiare il prosieguo dell’attività produttiva al suo interno.
Allora sorge spontanea una domanda: se è vero che fabbriche come l’Alcoa sono così produttive, come mai restano chiuse e senza acquirenti? La risposta è semplicemente che altrove è ancora più conveniente svolgere la stessa produzione. Quando si accetta il principio che lavorare - in questo caso in miniera - è possibile solo se tornano i conti dell’azienda, si finisce completamente nelle mani della borghesia.
In conclusione, in tutti e tre i casi di Ilva, Alcoa e Carbosulcis i proletari si trovano di fronte a un bivio: seguire le consegne sindacali e rimanere ficcati nella stretta logica aziendale difendendo, senza volerlo, gli interessi del padrone, oppure seguire un cammino autonomo di difesa dei propri bisogni. Ed il primo bisogno, che ci sia o meno profitto per l’azienda o per l’economia nazionale, che ci sia o meno il posto di lavoro, è quello gridato dagli stessi lavoratori in lotta: vivere, difendere la propria dignità di essere umani, avere un futuro per sé e per i propri figli. E’ chiaro che questa seconda strada può apparire più ardua perché poco praticata, ma è l’unica che può portare a dei risultati perché è l’unica che consente l’aggregazione di altri proletari. Finché si difende la propria fabbrica, rivendicandone la produttività e l’efficienza, di fatto ci si mette in una posizione concorrenziale con altri settori proletari che caso mai vivono una situazione del tutto simile ma in una fabbrica meno (o più) efficiente. Ma il diritto a sopravvivere non può essere invocato subordinatamente all’efficienza della propria fabbrica, così come non si può cedere al ricatto di lavorare con l’intossicazione dell’Ilva pena la perdita del posto.
I lavoratori sardi e di Taranto, così come tanti altri in Italia e nel mondo, stanno dimostrando tutta la loro determinazione a lottare, ma per creare un rapporto di forza che possa realmente imporre le proprie esigenze ai padroni e allo Stato l’unica possibilità che hanno è quella di unirsi, di unire la propria lotta a quella di altre aziende o settori: minatori della Carbosulcis insieme agli operai dell’Alcoa, questi insieme a quelli dell’Ilva di Taranto, della Fiat, … per scendere insieme in piazza, per discutere in assemblea e capire quale futuro abbiamo di fronte e decidere assieme cosa fare per rafforzare ed allargare la lotta.
Questo è un percorso più difficile, ma non impossibile: nel dicembre 2009, in Turchia, gli operai della fabbrica Tekel sono confluiti ad Ankara per lottare contro i licenziamenti e la miseria imposta dalla ristrutturazione della fabbrica dal governo. Per mesi, sono rimasti mobilitati occupando le piazze, coinvolgendo la popolazione e mandando delegazioni in altre aziende per chiamare altri proletari ad unirsi alla lotta con la parola d’ordine "Operai curdi e turchi tutti insieme”. Alla manifestazione del Primo Maggio a Istanbul c’erano 350.000 persone in piazza Taskim, che hanno occupano il palco e cacciato via i sindacati[21].
E’ costruendo un simile rapporto di forza che saremo capaci di contrapporci ai ricatti e alle lusinghe di ministri e sindacati e di aprire un percorso verso la costruzione di una società diversa.
Tommaso & Ezechiele, 19 settembre 2012
[1] Vedi La catastrofe economica mondiale è inevitabile [217] su Rivista Internazionale n°33.
[2] Il lavoro o la vita. Taranto, l’Ilva e la logica del profitto, www.micromega.net [279].
[3] Taranto i periti del tribunale "Inquinamento, è colpa dell'Ilva" https://bari.repubblica.it/cronaca/2012/01/27/news/ilva-28885863/index.html?ref=search [280].
[4] E’ stata riscontrata la presenza del piombo nelle urine dei tarantini, https://www.pressenza.com/it/2012/07/10204/ [281].
[5] Lettera aperta di PeaceLink ai sindacati, https://www.pressenza.com/it/2012/08/lettera-aperta-di-peacelink-ai-sindacati/ [282].
[6] "Taranto, la città dei veleni".
[8] Lettera delle associazioni a Clini, https://www.pressenza.com/it/2012/09/lettera-delle-associazioni-a-clini/ [284].
[9] Ilva di Taranto: il ministro dell’Ambiente insulta e nega i dati sulle morti, www.valigiablu.it/ilva-di-taranto-il-ministro-clini-insulta-e-nega-i-dat... [285].
[10] Il destino di Taranto nelle mani dello Stato, affaritaliani.libero.it/cronache/destino-taranto170812.html?refresh_ce.
[11] "ILVA, una favola noir", beppegrillo.it [286].
[12] La nebbia dei veleni sopra Taranto e il governo vara il decreto salva Ilva, https://bari.repubblica.it/cronaca/2010/09/23/news/la_nebbia_dei_veleni_sopra_taranto_e_il_governo_vara_il_decreto_salva_ilva-7347169/ [287].
[13] "Ilva, Vendola: “Contro industrialismo cieco e ambientalismo isterico”".
[14] "Ilva di Taranto: paghi il padrone! [288]".
[15] Speciale Ilva di Taranto: no alla contrapposizione diritto alla salute - diritto al lavoro!, https://marcherosse.blogspot.it/2012/08/speciale-ilva-di-taranto-no-alla.html [289].
[16] "Taranto: espropriare i padroni delle ferriere!"
[17] "Dov’erano i sindacati mentre all’Ilva si moriva di diossina?
[18] Lettera aperta di PeaceLink ai sindacati, https://www.pressenza.com/it/2012/08/lettera-aperta-di-peacelink-ai-sindacati/ [282].
[19] Passera: "La chiusura dell'Ilva costerebbe oltre 8 miliardi".
[20] Nel caso dell’Alcoa ci si mettono anche i sedicenti “comunisti italiani” che la girano a lotta nazionalista contro i profittatori americani: “Il vero problema è l’immobilismo del Governo e della Regione Sardegna che consentono, in casa propria, di dettare legge alla multinazionale americana. Altro che sovranismo, la Regione Sardegna è schiava di questi squallidi briganti a stelle e strisce.” Corona (PdCI-Fds): “Gli americani di Alcoa come degli avvoltoi. Il Governo e la Regione schiavi di questi squallidi briganti”, .
[21] Vedi gli articoli “Turchia: Solidarietà con la resistenza degli operai della Tekel contro il governo ed i sindacati!”, https://it.internationalism.org/node/918 [290]; “Dalla Turchia: Se i sindacati sono dalla nostra parte, perché ci sono 15.000 poliziotti antisommossa fra noi e loro?”, https://it.internationalism.org/node/930 [291]; “Giro in Europa di una delegazione di lavoratori della Tekel (Turchia): trasmettere l’esperienza della lotta di classe”, https://it.internationalism.org/node/1004. [292]
Ma questa crisi storica del capitalismo fu in parte oscurata, ricoperta sotto una massa di propaganda e di bugie. Ad ogni decade si levava la stessa solfa: se un paese, una parte del pianeta o un settore economico andava un po’ meglio di prima, subito gli si dava importanza per creare la falsa impressione che la crisi non era qualche cosa di fatale, che era sufficiente mettere in piedi delle efficaci “riforme strutturali” nel capitalismo per riattivare e stimolare la crescita e la prosperità. Tra il 1980 e il 1990, l’Argentina e le “tigri asiatiche” furono indicate come modello di successo, e lo stesso nel decennio successivo toccò all’Irlanda e alla Spagna… Come sempre, questi “miracoli” si trasformarono in illusioni: nel 1997, le tigri asiatiche si dimostrarono delle tigri di carta; alla fine del decennio 1990 l’Argentina dichiarò bancarotta, ed ora sono l’Irlanda e la Spagna a stare sull’orlo del fallimento… In tutti questi casi la “formidabile crescita” fu finanziata con il ricorso al credito e poi le false speranze crollarono col tempo sotto il peso del debito. Senza dubbio, contando sulla memoria corta della maggioranza di noi, gli stessi ciarlatani ci provano ancora una volta. Secondo loro, la malattia dell’Europa è legata a ragioni specifiche della sua creazione: difficoltà per realizzare le riforme e distribuire il peso dei suoi debiti tra i suoi membri, la mancanza di unità e solidarietà fra i paesi, una banca centrale incapace a stimolare l’economia visto che non può stampare moneta a suo piacimento.
Ma questi argomenti non reggono al confronto di un’analisi rigorosa. La crisi ha colpito l’Europa perché c’è una mancanza di riforme e di competenze e dobbiamo copiare l’Asia? Sciocchezze, anche questi paesi hanno problemi.
La ripresa non è sufficientemente posta sotto il controllo della banca Centrale e la risposta sta nella stampa di moneta? E’ una follia : gli Stati Uniti e la loro Banca Centrale hanno difeso ogni tipo di creazione di denaro dal 2007, ma ciononostante si trovano in cattivo stato.
Una grande scoperta: i BRICS non galleggiano[1]1
L’acronimo “BRIC” si riferisce ai quattro paesi le cui economie hanno avuto più successo negli ultimi anni: Brasile, Russia, India e Cina (a volte viene aggiunta la S per il Sudafrica). Ma come per l’Eldorado questa buona salute è più un mito che una realtà. Tutti questi “boom” sono finanziati in gran parte con il debito e finiscono, come i loro predecessori, con lo sprofondare nell’orrore della recessione. Ed ora questa burrasca si scatena anche sopra di noi.
In Brasile, il credito al consumo è cresciuto in maniera spropositata nell’ultimo decennio. Ma come accadde negli Stati Uniti tra il 2000 e il 2010, i creditori sono sempre meno capaci di essere in regola con i pagamenti. Il ritardo nel pagamento dei debiti da parte dei lavoratori ha battuto tutti i record. Peggio ancora, la bolla immobiliare sembra identica a quella conosciuta in Spagna prima che scoppiasse: nuovi ed enormi complessi abitativi recentemente costruiti restano completamente vuoti.
In Russia, l’inflazione è fuori controllo: ufficialmente ha raggiunto il 6%, ma sembra accertato un 7,5%, secondo degli analisti indipendenti. E i prezzi di frutta e verdura sono esplosi nei mesi di giugno e luglio, raggiungendo quasi il 40%!
In India, il deficit preventivato si sta gonfiando pericolosamente (si stima che nel 2012 sarà il 5,8% del Prodotto Interno Lordo). Il settore industriale va incontro alla recessione (- 0,3% nel primo trimestre di quest’anno), il consumo si sta bruscamente riducendo, l’inflazione è molto alta (7,2% ad aprile, e lo scorso ottobre i prezzi degli alimentari sono cresciuti di quasi il 10%). Il mondo finanziario ora considera l’India un paese in cui è rischioso investire: gli viene data una valutazione di tripla B (la classificazione più bassa nella categoria denominata di “qualità inferiore alla media”). E’ vicina la minaccia di essere presto messa nel gruppo dei paesi considerati un “cattivo investimento”.
L’economia della Cina va frenando e ogni tanto ci sono segnali di pericolo. L’attività manifatturiera si è contratta, a giugno, per l’ottavo mese consecutivo. I prezzi degli appartamenti stanno crollando e i settori legati all’edilizia sono sempre meno attivi. Un esempio molto illuminante: la città di Pechino, da sola, ha il 50% delle sue abitazioni vuote, più che in tutti gli Stati Uniti (a Pechino ci sono 3,8 milioni di case vuote a confronto dei 2,5 milioni che ci sono in America). Ma la cosa senza dubbio più preoccupante è il preventivo fatto dallo Stato per le province. In effetti, se lo Stato non è ufficialmente collassato sotto il debito, è solo perché il peso del debito è scaricato tutto su di esse. Molte province sono sull’orlo del fallimento.
Gli investitori sono coscienti della cattiva salute dei BRIC, per cui evitano queste quattro monete: il real, il rublo, la rupia e lo yuan, come se fossero la peste (il loro corso è diminuito continuamente negli ultimi mesi).
Negli Stati Uniti, la bomba ad orologeria del debito
La città di Stockton (California) si è dichiarata in fallimento martedì 26 giugno, come già avevano fatto prima Jefferson County (Alabama) e Harrisur (Pennsylvnia). Per 3 anni i 300.000 abitanti di questa città hanno sopportato ogni sorta di “sacrificio necessario per il risanamento”: tagli valutati per 90 milioni di dollari, con il 30% di pompieri licenziati insieme al 40% degli altri impiegati municipali, un taglio di 11,2 milioni di dollari nei salari degli impiegati municipali, una riduzione drastica dei fondi pensione.
Questo esempio concreto mostra il vero stato di decadenza dell’economia degli Stati Uniti. Le famiglie, le imprese, le banche, le municipalità, gli Stati e il governo federale, ogni settore è letteralmente sotterrato sotto montagne di debito che non saranno mai rimborsati. La borghesia americana si scontra con un problema che è impossibile risolvere: ha bisogno di generare sempre più debito per stimolare l’economia mentre, allo stesso tempo, deve ridurre il debito per evitare il fallimento.
Ogni parte indebitata dell’economia è una bomba ad orologeria: qui c’è una banca vicino alla bancarotta, lì c’è una città o un’impresa quasi in fallimento… e se la bomba esplode potremmo vedere la conseguente reazione a catena. Attualmente la “bolla dei prestiti studenteschi” è una vera preoccupazione per il mondo finanziario. Studiare è sempre più caro e i giovani trovano sempre meno lavoro alla fine dei loro corsi universitari. In altre parole, i prestiti studenteschi stanno diventando sempre più essenziali e il rischio che il debito non sia pagato sta diventando sempre più probabile. Per essere più precisi:
- dopo i propri studi universitari gli studenti nordamericani contraggono un debito del valore medio di 25.000 dollari;
- questi prestiti ancora aperti superano tutti i prestiti al consumo del paese. Si tratta di 904 miliardi di dollari (quasi raddoppiato negli ultimi cinque anni) e corrisponde al 6% del PIL;
- il numero di disoccupati tra i laureati con meno di 25 anni è superiore al 9%;
- il 14% degli studenti laureati che hanno ricevuto prestiti non hanno completato il pagamento del proprio debito tre anni dopo la laurea.
Questo esempio è molto significativo per capire cosa è diventato il capitalismo: un sistema malato che ha sempre meno futuro. I giovani negli Stati Uniti – e in un numero crescente di paesi in cui si è generalizzato il sistema di studiare grazie a crediti da “restituire quando si trova un lavoro”- sopravvivono incatenati a un carico di debito che compromette un futuro salario che con tutta probabilità non arriverà mai. Non è un caso che nei Balcani, in Inghilterra e in Quebec le nuove generazioni hanno dato luogo a grandi manifestazioni negli ultimi due anni a causa dell’aumento del costo dell’iscrizione ai corsi universitari. Annegando nel debito da 20 anni e di fronte alla prospettiva della disoccupazione e della caduta dei salari nei prossimi anni il sistema capitalista mostra di non avere un futuro da offrire all’umanità.
Gli Stati Uniti, come l’Europa, come tutti i paesi del mondo, sono malati, e non ci sarà un momento reale e duraturo sotto il capitalismo che ci permetta di respirare, perché questo sistema di sfruttamento è la radice dell’infezione.
World Revolution, sezione della CCI in Gran Bretagna
[1] Nel testo originale in inglese si fa un gioco di parole con “BRICs” e “bricks” (che significa mattoni), la cui pronuncia è la stessa.
Il 16 agosto, nei pressi delle miniere di Marikana, a nord-ovest di Johannesburg, 34 persone sono cadute sotto i colpi della polizia sudafricana e altre 78 sono rimaste ferite. Centinaia di manifestanti sono stati arrestati. Immediatamente le immagini insopportabili delle esecuzioni sommarie hanno fatto il giro del mondo. Ma, come sempre, la borghesia e i suoi media hanno sminuito il carattere di classe dello sciopero, riducendolo ad un sordido confronto tra i due principali sindacati del settore minerario e sventolando la solita solfa del “demone dell’apartheid”.
Il Sudafrica non è stato risparmiato dalla crisi mondiale
Nonostante l’investimento di centinaia di miliardi di euro per sostenere l’economia, “la crescita è inconsistente e la disoccupazione è di massa”[1]. Il paese ha basato una parte della sua ricchezza sull’esportazione di minerali come platino, cromo, oro e diamanti. Tuttavia questo settore, che rappresenta quasi il 10% del PIL nazionale, il 15% delle esportazioni e più di 800.000 posti di lavoro, ha subito una grave recessione nel 2011. Il prezzo del platino, di cui il Sudafrica ha l’80% delle riserve mondiali, crolla dall’inizio dell’anno.
Le condizioni di vita e di lavoro dei minatori, già particolarmente difficili, si sono fortemente degradate: con paghe miserabili (circa 400 euro al mese), alloggiati in baraccopoli, spesso immersi per 9 ore nel profondo di una miniera surriscaldata e soffocante, ora stanno subendo licenziamenti, chiusure di miniere e disoccupazione. Il Sudafrica è stato teatro di molti scioperi. Nel mese di febbraio la più grande miniera di platino del mondo, gestita da Impala Platinum, è stata paralizzata da uno sciopero di sei mesi. È questa dinamica che il governo guidato dal presidente Zuma, successore dell’emblematico Nelson Mandela, insieme con i sindacati, ha voluto bloccare. Infatti lo sviluppo delle lotte in Sudafrica partecipa in pieno alle reazioni della classe operaia a scala internazionale di fronte alla crisi globale.
Il massacro di Marikana, una trappola tesa dai sindacati
È in questo contesto che, il 10 agosto, 3.000 minatori di Marikana decidono di smettere di lavorare per chiedere salari decenti, l’equivalente di 1.250 euro: “Siamo sfruttati, né il governo né i sindacati sono venuti in nostro aiuto [...]. Le compagnie minerarie fanno soldi grazie al nostro lavoro e a noi non pagano quasi nulla. Non possiamo avere una vita decente. Viviamo come animali a causa dei bassi salari”[2]. I minatori iniziano immediatamente uno sciopero selvaggio sulle cui spalle i due sindacati, l’Unione nazionale dei minatori (NUM) e il sindacato dell’associazione dei minatori e dell’edilizia (AMCU) si sfidano ferocemente per difendere i reciproci interessi mentre intrappolano gli operai nello scontro con la polizia.
Il NUM è un sindacato completamente corrotto e asservito al potere del presidente Jacob Zuma. Il suo sostegno aperto e sistematico al partito al governo, l’African National Congress (ANC), lo ha screditato agli occhi di molti lavoratori. Questo discredito ha portato alla creazione di un sindacato più radicale: l’AMCU.
Ma proprio come il NUM, l’AMCU non si preoccupa dei minatori: dopo una campagna di reclutamento attraverso l’aggressione fisica, il sindacato ha approfittato dello sciopero per poter gareggiare con il NUM. Risultato: dieci morti e diversi feriti a carico dei minatori. Al di là della guerra per il territorio, questi scontri intersindacali hanno permesso alla polizia di intervenire, di provocare un bagno di sangue e di farne un esempio per frenare la dinamica delle lotte dei lavoratori.
Infatti, dopo alcuni giorni di scontri, Frans Baleni, segretario generale del NUM, ha avuto buon gioco per fare appello all’intervento dell’esercito: “Chiediamo l’urgente dispiegamento di forze speciali o delle forze armate sudafricane prima che la situazione vada fuori controllo”[3] ... e perché non un bombardamento aereo sulle miniere, signor Baleni? Ma la trappola era già chiusa sui lavoratori. Il giorno dopo, il governo ha inviato migliaia di poliziotti, veicoli corazzati e due elicotteri (!) per “ristabilire l’ordine”, l’ordine borghese, naturalmente!
Secondo diverse testimonianze che, data la reputazione delle forze di repressione in Sudafrica, sono probabilmente vere, la polizia ha trascorso il suo tempo a provocare i minatori sparando su di essi con proiettili di gomma e cannoni ad acqua, con gas lacrimogeni e granate assordanti, con il falso pretesto che gli scioperanti possedevano armi da fuoco.
Il 16 agosto, data la stanchezza e l’eccitazione alimentata dai “rappresentanti sindacali”, che casualmente erano improvvisamente scomparsi dalla circolazione in quel giorno, alcuni minatori in rivolta hanno osato “caricare” (sic) i poliziotti con dei bastoni. Come? La vile plebe “carica” la polizia? Che insolenza! E che potevano dunque fare migliaia di poliziotti con le loro armi da fuoco, i loro giubbotti antiproiettile, i veicoli blindati, i loro cannoni ad acqua, le granate e gli elicotteri contro un’orda di 34 “selvaggi” che li “caricavano” con dei bastoni? Sparare nel mucchio ... “per proteggere la loro vita”[4].
Questo c’è dietro le immagini disgustose, mostruose e insopportabili che conosciamo. Ma, se la classe operaia non può che esprimere la sua indignazione per tale barbarie, deve capire che la diffusione di queste immagini serviva a mistificarla sottolineando come i proletari dei paesi “veramente democratici” sono fortunati nel poter “liberamente” sfilare dietro le bandiere del sindacato. È anche un avvertimento implicito gettato di fronte a tutti coloro che nel mondo hanno il coraggio ergersi contro la miseria e il sistema che la genera.
La borghesia tenta di snaturare il movimento
Subito dopo il massacro, in tutto il mondo si levano le voci per denunciare il “demone dell’apartheid” e si moltiplicano le dichiarazioni di compassione. La borghesia ora vuole dare al movimento una dimensione mistificatrice spostando la ricerca della verità su questioni etniche e nazionaliste. Julius Malenna, escluso dalla ANC nel mese di aprile, è andato a Marikana a denunciare le società estere, chiedendo la nazionalizzazione delle miniere e l’espulsione dei “grandi proprietari terrieri bianchi”.
Affondando nella più crassa ipocrisia, il presidente Jacob Zuma ha detto in una conferenza stampa: “Dobbiamo far luce su quello che è successo qui, è per questo che ho deciso di creare una commissione d’indagine per scoprire le vere cause di questo incidente”. La verità è questa: la borghesia cerca di ingannare la classe operaia nascondendo la lotta di classe nelle vesti mistificatrici della lotta razziale. Ma gli argomenti utilizzati non sono convincenti: non è un governo “nero” che ha risposto alla richiesta di un sindacato “nero” con l’utilizzo della sua polizia? Non è un governo “nero” che sta facendo tutto il possibile con le leggi per lasciare i minatori in indegne condizioni di vita? Non è un governo “nero” che si avvale della polizia proveniente dall’epoca dell'apartheid e vota delle leggi autorizzandola a “sparare per uccidere”? E questo governo “nero” non è forse uscito dalle fila dell’ANC, il partito guidato da Nelson Mandela, celebrato in tutto il mondo come emblema della democrazia e della tolleranza?
Lo sciopero si estende
Nella notte tra il 19 e il 20 d'agosto, sperando di utilizzare il vantaggio, la direzione di Lonmin, società di gestione della miniera, ha ordinato ai “3.000 dipendenti in sciopero illegale di tornare al lavoro il lunedi 20 agosto, altrimenti rischiavano il licenziamento”[5]. Ma la rabbia e le condizioni di vita dei minatori sono tali che questi hanno inviato un esplicito rifiuto alla direzione, preferendo esporsi ai licenziamenti: “Vogliono eliminare anche quelli che sono all’ospedale e all’obitorio? In ogni caso, è meglio essere buttati fuori perché qui si soffre. La nostra vita non cambierà. Lonmin se ne frega del nostro benessere, finora si sono rifiutati di parlare con noi, hanno mandato la polizia a ucciderci”[6]. Mentre Lonmin faceva rapidamente marcia indietro, il 22 agosto, lo sciopero si estendeva con le stesse rivendicazioni a diverse altre miniere gestite da Royal Bafokeng Platinum e Amplats.
Nel momento in cui scriviamo, non è ancora possibile sapere se gli scioperi scivoleranno su un terreno di conflitto interrazziale o continueranno ad estendersi. Ma ciò che ha esplicitamente mostrato il massacro di Marikana è la violenza di uno Stato democratico. Neri o bianchi, i governi sono pronti a ogni massacro contro la classe operaia.
El Generico, 22 agosto
[1] Il tasso di disoccupazione arrivava al 35,4% alla fine del 2011, secondo i dati ufficiali.
[2] Le Monde, 16 agosto 2012.
[3] Comunicato del NUM del 13 agosto 2012.
[4] Dichiarazione della polizia dopo la strage. Il portavoce della polizia ha anche osato dire: “La polizia è stata attaccata vigliaccamente da un gruppo, che ha fatto uso di varie armi, tra cui armi da fuoco. La polizia, per proteggere la propria vita e in situazione di legittima autodifesa, è stata costretta a rispondere con la forza.”
[5] Comunicato di Lonmin, domenica 19 Agosto 2012.
[6] Citato su www.jeuneafrique.com [293] 19 agosto 2012.
Secondo l’Osservatorio siriano dei Diritti dell’Uomo, dal 15 marzo 2011 si contano 23.000 morti. E quanti dei 200.000 feriti resteranno storpi a vita, o non sopravvivranno alle ferite? Bisogna dire che Assad lascia loro poche probabilità, visto che bombarda proprio gli ospedali e poi ci manda le sue truppe per finire l’opera e terrorizzare. Al-Qoubir, Damasco, Rifha, Alep, Deraâ, ultimamente Daraya, ecc., tutte queste città-martirio sono il simbolo della brutalità estrema che dilaga in tutto il paese.
A ciò si aggiunge una situazione in cui i viveri, il latte per i bambini, i medicinali (non parliamo poi delle cure) e l’acqua mancano nella maggior parte delle città ed in intere regioni. Le case sono distrutte ed un si avverte già una grave mancanza di alloggi. I tagli di elettricità durano spesso dai 4 a 5 giorni per ritornare per appena un’ora come ad Alep.
Fuggendo dai combattimenti e dalle repressioni dell’esercito di Assad ma anche dell’Esercito siriano di Liberazione, additato sempre più come responsabile di certi massacri, circa 300.000 persone hanno preso la strada dell’esilio. Al Sud della Siria, verso il Libano e la Giordania, al Nord verso la Turchia, e anche in Iraq, masse di profughi si accalcano nei campi di miseria, nell'attesa disperata di ritornare un giorno a casa loro... dove tutto è distrutto.
Secondo l’ONU, in totale sarebbero più di 2,5 milioni di persone, donne, bambini, vecchi a trovarsi in “situazione di pericolo”.
Evidentemente, queste allarmanti cifre sono un pretesto per versare fiumi di lacrime di coccodrillo per i sensibili dirigenti del pianeta. Per esempio, ministro degli esteri francese, Fabius, ha detto che si tratta di una “situazione inammissibile ed inaccettabile”. Una rivolta legittima davanti a tanti orrori? Niente affatto!
Il 27 agosto scorso, François Hollande dichiara: “Lo dico con la dovuta solennità: restiamo molto vigili con i nostri alleati per prevenire l’impiego di armi chimiche da parte del regime (siriano) che per la comunità internazionale sarebbe una causa legittima di intervento diretto”. Questo intervento ricalcava quello di Barack Obama che poco prima aveva affermato che questa questione dell’utilizzazione delle armi chimiche avrebbe costituito una “linea rossa” ed una ragione per mandare delle truppe contro lo Stato siriano. In altre parole, finché le carneficine vengono perpetrate con le armi “tradizionali”, e cioè “lealmente”(!), allora va bene. Ma attenzione alla “linea rossa!”
L’ipocrisia putrida della borghesia si svela ancora una volta in questa situazione drammatica. Da parecchi mesi tutti minacciano di intervenire ma non sono in grado di fare nulla e anche se lo facessero non sarebbe per sostenere la popolazione ma per aprire la porta ad una nuova babele di cui i siriani farebbero inevitabilmente le spese e ciò costituirebbe solo una scalata nell’orrore.
In realtà, questa pretesa guerra di “liberazione” o di “lotta per la democrazia” è semplicemente una guerra imperialista nella quale sono impegnate tutte le potenze regionali e soprattutto quelle più grosse, Stati Uniti, Russia, Cina, Francia e Gran Bretagna. L’implicazione e la responsabilità di tutti questi gangster non si manifestano solamente attraverso le loro gesticolazioni all’ONU o altrove, ma anche per l’armamento e per i soldi che già elargiscono ai due campi siriani[1].
La richiesta della creazione di una zona-tampone in Siria alla frontiera con la Turchia, per offrire un sedicente riparo alle decine di migliaia di profughi che affluiscono, è una grande balla. Questa non sarebbe transitabile data l’opposizione di Assad e richiederebbe una guerra aperta con Damasco, proprio perché rappresenterebbe una retrovia di quasi tutti i pescecani in campo, sotto la bandiera della “difesa della pace” con, in fin dei conti, altrettanti rischi per i profughi. Ricordiamoci, infatti, con quale attenzione l’ONU nel 1995 lasciò che le truppe di Milosevic massacrassero migliaia di persone a Srebrenica in Bosnia.
Se l’ONU interviene bisognerà ricordarsi della sollecitudine con cui gli afghani sono stati trattati dal 2001, poi gli iracheni, in nome della lotta “contro il terrorismo” o “per la democrazia”, e quello che ne è rimasto: campi di rovine e milioni di persone offerte in pasto alle bande armate di questa o quella cricca con la prospettiva della miseria e la sottomissione al volere dei più signori della guerra, uno peggio dell’altro.
Bisogna ancora ricordare l’ipocrisia e la violenza proprie dei protettorati francesi e britannici in questa regione del Medio Oriente all’epoca del crollo dell’impero ottomano, all'epoca della Prima Guerra mondiale, e dell’accordo Sykes-Picot del 1916 che fu un vero e proprio smembramento della Siria e dell’Iraq, sulla base di promesse di liberazione agli arabi, e le carneficine ricorrenti. La borghesia è sempre piena di buone intenzioni per nascondere i suoi veri obiettivi e non può che rilanciare menzogne per realizzarli.
Di una cosa siamo certi, ciò che accade oggi è l’espressione non solo della follia di Assad ma anche di questo mondo decadente. Ed è senza alcun dubbio, qualunque sia l’evoluzione di questo dramma, il preludio ad un ulteriore aggravamento della situazione di tutto il Medio Oriente. Le conseguenze saranno disastrose, come già si vede con l’attuale estensione del conflitto in Libano.
Wilma, 31 agosto.
[1] Bisogna sottolineare la sfrontatezza della Russia che pretende di consegnare ad Assad degli elicotteri da combattimento che erano in “riparazione”, quella degli Stati Uniti che pretendono di fornire solamente “dei mezzi di comunicazione”, benché notoriamente procurino armi anticarro attraverso l’Arabia Saudita, il Qatar ed il Kuwait. La Francia contribuisce vendendo telecamere termiche alla Russia per i suoi carri.
La condizione della donna nel ventunesimo secolo”: perché un titolo del genere, perché affrontare questo argomento? Non è anacronistico o sorpassato? Dopo tutto, non siamo nel 2012? I diritti delle donne alla parità non sono riconosciuti in Italia e in una moltitudine di convenzioni e dichiarazioni in tutto il mondo?
In realtà, la questione della sofferenza delle donne in una società che rimane fondamentalmente patriarcale rimane irrisolta[1]. In tutto il mondo, la violenza domestica, le mutilazioni genitali rituali, lo sviluppo di ideologie del tutto anacronistiche, come il fondamentalismo religioso, per esempio, continuano ad operare e a svilupparsi[2].
Quello che i socialisti del XIX secolo chiamavano “la questione femminile” si pone dunque tuttora: come creare una società in cui le donne non subiscano più questa particolare oppressione? E quale deve essere l’atteggiamento dei comunisti rivoluzionari nei confronti delle “lotte delle donne”?
Una prima osservazione: la società capitalistica ha gettato le basi per il cambiamento più radicale che la società umana abbia mai conosciuto. Tutte le società precedenti, senza eccezione, si basavano sulla divisione sessuale del lavoro. Qualunque fosse la loro natura di classe, e al di là del fatto che la situazione delle donne fosse più o meno favorevole, era scontato che certe occupazioni fossero riservate agli uomini, altre alle donne. Le occupazioni maschili e femminili potevano cambiare da una società all’altra, ma la divisione era universale. Non possiamo entrare qui in uno studio approfondito sul perché di questo fatto, ma molto verosimilmente esso è legato ai vincoli del parto, e risale agli albori dell’umanità. Il capitalismo, per la prima volta nella storia, tende ad eliminare questa divisione. Dalla sua nascita, il capitalismo rende il lavoro astratto. Mentre una volta vi era il lavoro pratico dell’artigiano o del contadino, inquadrato dalle regole delle corporazioni o dalle leggi consuetudinarie, adesso vi è solo la mano d’opera pagata con una tariffa oraria o a cottimo indipendentemente da chi esegua il lavoro. Poiché le donne sono pagate di meno, spesso queste vengono fatte entrare in fabbrica per sostituire gli uomini che vi lavoravano prima. Questo è ad esempio il caso dei tessitori. Con l’aiuto della meccanizzazione, il lavoro richiede sempre meno forza fisica poiché la forza dell’uomo viene sostituita da quella, decuplicata, delle macchine. Oggi, il numero di posti di lavoro che richiedono ancora la forza fisica del maschio è limitata e si vedono sempre più donne entrare in campi precedentemente riservati agli uomini. I vecchi pregiudizi sulla presunta “irrazionalità” delle donne cadono quasi da soli, e si vedono sempre più donne occupare posti di ricercatori o nelle professioni mediche che in precedenza erano riservate agli uomini.
L’entrata massiccia delle donne nel mondo del lavoro associato[3] ha avuto due conseguenze potenzialmente rivoluzionarie:
Nel capitalismo, negli anni tra il XIX ed il XX secolo, la rivendicazione a partecipare alla vita politica non si limitava alle donne operaie. Le donne della borghesia e della piccola borghesia rivendicavano anche loro parità di diritti ed in particolare il diritto al voto. Per il movimento operaio, ciò poneva il problema di quale atteggiamento adottare nei confronti dei movimenti femministi. Infatti, se il movimento operaio era contro ogni oppressione della donna, i movimenti femministi, ponendo la questione sociale a partire dal sesso e non dal conflitto di classe, negavano la necessità di un rovesciamento rivoluzionario della società da parte di una classe sociale composta di uomini e di donne: il proletariato. Mutatis mutandis, questa è la stessa questione che si pone oggi: quale atteggiamento devono adottare i rivoluzionari verso il movimento di liberazione della donna?
In un articolo pubblicato nel maggio 1912 sulla lotta per il suffragio femminile, la rivoluzionaria Rosa Luxemburg fa una netta distinzione tra le donne della borghesia ed il proletariato femminile: “Molte di queste donne borghesi che si comportano come leonesse nella lotta contro le “prerogative maschili” marcerebbero come delle docili pecore nel campo della reazione conservatrice e clericale, se avessero il diritto di voto (...) Economicamente e socialmente, le donne delle classi sfruttatrici non sono un segmento indipendente della popolazione. La loro unica funzione sociale è quella di essere strumenti della riproduzione naturale delle classi dominanti. Al contrario, le donne proletarie sono economicamente indipendenti. Esse sono produttive per la società così come lo sono gli uomini”[4]. La Luxemburg fa dunque una distinzione molto netta tra la lotta per il suffragio delle donne proletarie e quella delle donne della borghesia, e insiste inoltre sul fatto che la lotta per i diritti delle donne è una questione che riguarda tutta la classe operaia: “Il suffragio delle donne è l'obiettivo. Ma il movimento di massa che potrà ottenerlo non è quello delle sole donne, perché questa è una preoccupazione della classe comune delle donne e degli uomini del proletariato.”
Il rifiuto del femminismo borghese è altrettanto chiaro in Aleksandra Kollontaj, membro del partito bolscevico, che pubblica nel 1908 La base sociale della questione femminile:
“Qualunque cosa dicano le femministe, l’istinto di classe si mostra sempre più potente dei nobili entusiasmi della politica “al di sopra delle classi”. Finché le donne borghesi e le loro “sorelline” [vale a dire le operaie, ndr] sono uguali nella loro disuguaglianza, le prime possono in tutta sincerità fare dei grandi sforzi per difendere gli interessi generali delle donne. Ma, una volta superata la barriera e avuto accesso all’attività politica, quelle stesse donne borghesi che fino a poco prima si erano fatte sostenitrici dei “diritti per tutte le donne” diventano sostenitrici entusiaste dei privilegi della loro classe (...). Quando le femministe parlano agli operai della necessità di una lotta comune per raggiungere un qualche “principio generale delle donne”, le donne della classe operaia sono naturalmente diffidenti”[5].
Che questa diffidenza avanzata dalla Kollontaj e dalla Luxemburg fosse del tutto giustificata, fu dimostrato in pratica durante la Prima Guerra mondiale. Il movimento delle “suffragette” si divise in due: da un lato, le femministe guidate da Emmeline Pankhurst e da sua figlia Christabel che diedero il loro sostegno inequivocabile alla guerra e al governo; dall’altro, Sylvia Pankhurst in Gran Bretagna e sua sorella Adela in Australia, che si separarono dal movimento femminista per difendere una posizione internazionalista. Durante la guerra, Sylvia Pankhurst abbandonò gradualmente il riferimento al femminismo: la sua “Women’s Suffrage Federation” divenne la “Workers’ Suffrage Federation” nel 1916, e il suo giornale Women’s Dreadnought[6] cambiò nome per diventare Workers’ Dreadnought en 1917.
La Luxemburg e la Kollontaj ammisero che le lotte delle femministe e quelle delle donne proletarie potevano trovarsi temporaneamente su un terreno comune, ma non che le donne proletarie potessero fondersi nella lotta delle femministe su un terreno puramente di “diritti delle donne”. Ci sembra che i rivoluzionari debbano adottare oggi lo stesso atteggiamento, naturalmente nelle condizioni della nostra epoca.
Vogliamo concludere con una riflessione su “l’uguaglianza” come rivendicazione per le donne. Dato che il capitalismo considera la forza lavoro come un’astrazione, finanziariamente contabile, la sua visione di uguaglianza è ugualmente astratta, contabile: un’“uguaglianza di diritti”. Ma dal momento che gli esseri umani sono tutti diversi, un’uguaglianza di diritti diventa molto presto una disuguaglianza di fatto[7], ed è per questo che i comunisti, da Marx in poi, non rivendicano una “uguaglianza” sociale. Al contrario, lo slogan della società comunista è: “Da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni”. E vi è un bisogno, ma anche una capacità, che le donne hanno e che gli uomini non avranno mai: quella di partorire.
Una donna deve dunque avere la possibilità di dare alla luce il suo bambino, di allevarlo per i suoi primi anni, senza che ciò vada in contraddizione né con la sua indipendenza né con la sua partecipazione alla vita sociale in tutte le sue dimensioni. E’ una necessità, un bisogno fisico, che la società deve sostenere; ed è una capacità di cui la società ha tutto l’interesse a consentirne l’espressione dal momento che si tratta del suo avvenire[8]. Non è dunque difficile vedere che una società veramente umana, una società comunista, non cercherà di imporre un’“uguaglianza” astratta alle donne, che sarebbe solo una disuguaglianza reale di fatto. Essa cercherà al contrario di integrare questa capacità specifica alle donne nell’insieme dell’attività sociale, completando al tempo stesso un processo che il capitalismo non poteva che iniziare, mettendo così fine per la prima volta nella storia alla divisione sessuale del lavoro.
Jens, giugno 2012
[1] Secondo l’indagine nazionale sulle violenze contro le donne del 2000, “nel 1999, più di un milione e mezzo di donne hanno dovuto affrontare una situazione di violenza, verbale, fisica e/o sessuale. Circa una donna su 20 ha subito un’aggressione fisica nel 1999, dei colpi per tentato omicidio, [mentre] l’1,2% sono state vittime di violenza sessuale, dalle palpazioni allo stupro. Questa sale al 2,2% nella fascia di età di 20-24 anni” (cf. www.sosfemmes.com/violences/violences_chiffres.htm [295])
[2] Per fare solo un esempio, secondo un articolo pubblicato nel 2008 da Human Rights Watch, gli Stati Uniti hanno conosciuto un drammatico aumento della violenza contro le donne nel corso dei due ultimi anni (cf. www.hrw.org/news/2008/12/18/us-soaring-rates-rape-and-violence-against-women [296]).
[3] Le donne, naturalmente, hanno sempre lavorato. Ma nelle società di classe precedenti al capitalismo, il loro lavoro è rimasto per lo più rinchiuso nel dominio domestico privato.
[4] Dall’articolo “Suffragio femminile e lotta di classe”, del maggio 1912, riprodotto in francese sul sito www.marxists.org/francais/luxembur/works/1912/05/suffrage.htm [297] e tradotto in italiano da noi.
[5] Pubblicato in Aleksandra Kollontaj : Selected writings, Alison & Busby, 1977, p. 73. Tradotto in italiano da noi.
[6] Riferimento alle navi da battaglia della marina britannica dell’epoca.
[7] “Il diritto può consistere soltanto, per sua natura, nell’applicazione di un’uguale misura; ma gli individui disuguali (e non sarebbero individui diversi se non fossero disuguali) sono misurabili con uguale misura solo in quanto vengono sottomessi a un uguale punto di vista, in quanto vengono considerati soltanto secondo un lato determinato: per esempio in questo caso, soltanto come operai, e si vede in loro soltanto questo, prescindendo da ogni altra cosa.” (Marx, Critica del Programma di Gotha, https://www.marxists.org/italiano/marx-engels/1875/gotha/cpg-cp.htm [298]).
[8] Stiamo qui parlando in generale. E’ ovvio che non tutte le donne avvertono questa esigenza.
Per questo, dopo la 2^ guerra mondiale, nel pieno del “boom” della tecnologia e dello sviluppo scientifico degli anni ’60, la scienza si trovava in una situazione simile a quella della fine del secolo 19°, come mise in evidenza la corrente bordighista:
“...il «progresso scientifico» è uno dei grandi alibi della borghesia… Inoltre, prende argomenti dai risultati delle scienze della natura per costruire una ‘scienza sociale’ che si proclama al di sopra delle classi, in realtà per giustificare la sua filosofia sociale e la sua forma di società…” scriveva il partito bordighista nella sua riunione generale di Torino nel 1968.
Durante il 20° secolo, a causa della sconfitta del tentativo rivoluzionario e del peso dello stalinismo, il Movimento Operaio è stato vittima di una visione dogmatica e materialista volgare della scienza, che si riassumeva negli “avanzamenti” dell’Accademia delle Scienze dell’Unione Sovietica e in “scienziati” come Lyssenko; ma anche, all’opposto, da un rifiuto della scienza, che si identificava con la corsa agli armamenti e con lo sfruttamento, come denunciavano i giovani degli anni ’60. Solo eccezionalmente si sono prodotti sforzi per recuperare un’impostazione marxista del problema, partendo dal materialismo storico. E questo principalmente su un terreno teorico e isolato dalle lotte della classe, un terreno filosofico.
Come, ad esempio, gli sforzi di Lukács, che anche se cominciarono nel fuoco della lotta della Sinistra Comunista nella rivista Kommunismus, si persero in seguito in un contesto “teorico” astratto e furono infine utilizzati da Stalin nella sua battaglia contro Trotsky.
Lukács critica la scienza nel capitalismo perché questa viene costruita a partire dalle premesse della società capitalista stessa, che preesistono ai suoi postulati, per cui difetta di una visione storica e dialettica:
“Il carattere storico di quei ‘fatti’ che sembrano essere appresi dalla scienza in questa ‘purezza’ si fa valere con conseguenze ancora più gravi. Essi non sono soltanto compresi come prodotti dello sviluppo storico in una costante trasformazione, ma sono anche – proprio nella struttura della loro oggettualità - prodotti di un’epoca storica determinata: quella del capitalismo. Di conseguenza quella ‘scienza’ che riconosce il modo in cui essi sono dati immediatamente come base della fattualità scientificamente rilevante e la loro forma oggettuale come premessa della formazione scientifica del concetto, si dispone semplicemente e dogmaticamente sul terreno della società capitalista, assumendo acriticamente la loro essenza, la loro struttura oggettuale, la loro legalità come base immodificabile della ‘scienza’. Per passare da questi ‘fatti’ ai fatti nel senso vero del termine, la loro condizionatezza storica deve essere penetrata come tale, abbandonando il punto di vista a partire dal quale essi si mostrano immediatamente: essi stessi sono da sottoporre ad una trattazione storico-dialettica. Infatti Marx dice: “La struttura (Gestalt) definitiva dei rapporti economici, così come si manifesta alla superficie, nella sua esistenza reale, e perciò anche le rappresentazioni attraverso le quali gli agenti attivi e passivi di tali rapporti cercano di venire in chiaro su di essi, differiscono notevolmente dal loro nucleo strutturale (Kerngestalt) interno, essenziale e tuttavia nascosto, e dal concetto che corrisponde ad esso, ne sono anzi il rovesciamento opposto.” Perciò, se si vogliono comprendere correttamente i fatti, si deve innanzitutto cogliere con chiarezza e precisione questa differenza fra la loro esistenza reale e il loro nucleo strutturale interno, tra le rappresentazioni che si formano in rapporto ad essi ed i loro concetti. Questa distinzione è il primo presupposto di una considerazione realmente scientifica che, secondo le parole di Marx, “sarebbe superflua se l’essenza delle cose e la loro forma fenomenica coincidessero direttamente.” Ciò che importa è dunque, da un lato, liberare i fenomeni da questa forma immediata di dadità, trovare le mediazioni mediante le quali essi possano essere riferiti al loro nucleo, alla loro essenza e colti nella loro stessa essenza, e, d’altro lato, ottenere la comprensione di questo loro carattere di fenomeno, del loro apparire come loro necessaria forma fenomenica. Questa forma è necessaria a causa della loro essenza storica, per il fatto che essi si sono sviluppati sul terreno della società capitalista. Il rapporto dialettico consiste appunto in questa doppia determinazione, in questo contemporaneo riconoscimento e superamento dell’essere immediato”. (Storia e coscienza di classe, Sugarco edizioni, 1974, “Che cosa è il marxismo ortodosso?”, pag. 10-11).
La dittatura dei “fatti” nasconde una incapacità a comprendere l’evoluzione dialettica della realtà.
«L’essenza dell’evoluzione capitalista, resa estranea all’uomo, immobilizzata, trasformata in cosa impenetrabile, si cristallizza nel “fatto” sotto una forma che fa di questa immobilità e di questa alienazione il fondamento più evidente, il più indubitabile, della realtà e della comprensione del mondo. Di fronte alla immobilità di questi “fatti” ogni movimento appare come un semplice movimento al suo livello, ogni tendenza a modificarlo come un principio esclusivamente soggettivo (desideri, giudizi di valore, dover essere, ecc.). Quando questa priorità metodologica dei “fatti” è stata infranta, quando il carattere di processo di ogni fenomeno è stato riconosciuto, si può infine comprendere che quello che si suole chiamare “fatti” consiste anch’esso in processo. Si può quindi capire che i fatti non sono giustamente altra cosa che parti, momenti del processo complessivo, separati, artificialmente isolati e immobilizzati. Allo stesso tempo si capisce anche perché il processo complessivo, in cui l’essenza del processo si afferma senza falsificazione e la cui essenza non è oscurata da nessuna immobilità, rappresenta rispetto ai fatti la realtà superiore ed autentica. E si comprende allo stesso tempo perché il pensiero borghese ossificato debba necessariamente fare di questi “fatti” il proprio massimo feticcio teorico e pratico. Questa fatticità pietrificata, dove tutto si immobilizza in “grandezza fissa”, dove la realtà del momento è presente in una immobilità totale e assurda, rende ogni comprensione, anche di questa realtà immediata, metodologicamente impossibile.» (Lukács, op cit, Rosa Luxemburg marxista)
Si può anche citare il lavoro “filosofico” della scuola di Francoforte. Horkheimer e Adorno dimostrarono ne La dialettica dell’illustrazione che dietro il successo della scienza nel 20° secolo si nasconde un “ritorno a Kant”[2]:
«Il dominio della natura traccia il cerchio in cui la critica della ragion pura ha racchiuso il pensiero. Kant unì la tesi del suo faticoso e incessante progresso fino all’infinito con una inflessibile insistenza sull’insufficienza e l’eterna limitazione. La risposta che ha dato sembra il verdetto di un oracolo. Non c’è essere al mondo che non possa essere penetrato dalla scienza, però quello che può essere penetrato dalla scienza non è l’essere. Per questo, secondo Kant, il giudizio filosofico punta al nuovo, ma non conosce mai niente di nuovo, dal momento che ripete sempre solo quello che la ragione ha posto già nell’oggetto. Ma a questo modo di pensare, protetto e garantito – nei diversi dipartimenti della scienza – per i sogni di un visionario (riferimento a uno degli appellativi dello stesso Kant, ndr) viene presentato presto il conto. Il dominio universale sulla natura si ritorce contro lo stesso soggetto pensante, del quale non resta più che questo stesso, eternamente uguale “io penso”, che deve accompagnare tutte le mie rappresentazioni. Soggetto e oggetto si annullano fra di loro. Il sé astratto, il diritto di registrare e sistematizzare, non ha di fronte a sé altro che l’astratto materiale, che non ha altra caratteristica se non quella di servire da substrato a questo possesso. L’equazione di spirito e mondo finisce per risolversi, ma solo perché i due membri di essa si elidono reciprocamente. Nella riduzione del pensiero alla categoria dell’apparato matematico si trova la consacrazione del mondo come misura di se stesso. Quello che sembra un trionfo della razionalità oggettiva, la sottomissione di tutto l’esistente al formalismo logico, è ricompensato con la docile sottomissione della ragione ai dati immediati. Comprendere il dato come tale, non limitarsi a leggere nei dati astratte relazioni spaziotemporali, grazie alle quali possono essere presi e trattati, senza intenderli in cambio come la superficie, come momenti mediati del concetto, che si compiono solo attraverso la spiegazione del suo significato storico, sociale e umano: ogni pretesa di conoscenza è abbandonata. Perché la conoscenza non consiste solo nella percezione, nella classificazione e nel calcolo, ma giustamente nella negazione determinante di quello che è immediato. Mentre il formalismo matematico, il cui strumento è il numero, la forma più astratta dell’immediato, fissa il pensiero nella pura immediatezza. Se dà ragione a quello che è di fatto, il pensiero si limita alla sua ripetizione, si riduce alla tautologia. Quanto più l’apparato teorico si impadronisce di tutto quello che esiste, tanto più ciecamente si limita a riprodurlo.» (Marc Horkheimer e Theodor Adorno, Dialettica della illustrazione, Il concetto di illustrazione).
La prossima rivoluzione non potrà evitare questi problemi.
Quale deve essere l’atteggiamento della rivoluzione rispetto alla scienza?
Purtroppo Lenin si fece trascinare, nel suo Materialismo ed Empiriocriticismo, in una deriva materialista volgare. Ma quello che fu un errore fu in seguito eretto, dallo stalinismo, a norma. Gli errori di Lenin diventarono la base del dogmatismo sterile, arrivando all’assurdo di negare la ‘teoria della relatività’ e voltando le spalle allo sviluppo della scienza, per instaurare una specie di catechismo che si chiamò “leninismo”. Lo stalinismo arrivò alla posizione caricaturale che il marxismo era l’unica “visione integrale della realtà” e perciò tutti i campi della scienza sono “limitati” e devono essere supervisionati o inquadrati nel marxismo. Sappiamo che nella Russia controrivoluzionaria questo portò all’aberrazione di una scienza “marxista”, che sarebbe “superiore”:
“Per quanto il punto di vista assunto successivamente da Lenin esteriormente possa apparire imparentato a quello engelsiano, in realtà si differenzia da esso come il giorno dalla notte: mentre Engels individua il compito essenziale del materialismo dialettico nel “salvare la dialettica cosciente trasferendola dalla filosofia idealistica tedesca nella concezione materialistica della natura e della storia” (prefazione alla seconda edizione dell’Antidühring, del 1885), Lenin, al contrario, individua il compito essenziale nel mantenimento e nella salvaguardia della posizione materialistica stessa, che in fondo nessuno ha messo seriamente in questione. Così Engels giunge ad affermare, in accordo con la progressiva evoluzione delle scienze, che il materialismo moderno applicato alla natura e alla storia “in entrambi i casi è essenzialmente dialettico e non necessita più di una filosofia che si collochi al di sopra delle altre scienze”, mentre Lenin cavilla attorno alle “deviazioni filosofiche” che ha individuato anche nei ricercatori scientifici più produttivi, pretendendo che alla sua “filosofia materialistica” spetti una specie di autorità giudiziaria suprema nei confronti dei risultati passati, presenti e futuri della ricerca scientifica settoriale.
Questa tutela “filosofica” materialistica di tutte le scienze della natura e della società come pure dell’ulteriore sviluppo complessivo della coscienza culturale nella letteratura, nel teatro, nelle arti figurative, ecc., che dagli epigoni di Lenin è stata spinta fino alle più assurde conseguenze, ha finito col condurre alla formazione di quella singolare dittatura ideologica, oscillante tra progresso rivoluzionario e oscura reazione, che nella Russia sovietica dei nostri giorni, in nome del cosiddetto “marxismo leninismo”, viene esercitata su tutta la vita spirituale non solo della burocrazia di partito che detiene il potere, ma dell’intera classe operaia, e che recentemente si è tentato di estendere anche oltre le frontiere della Russia sovietica, a tutti i partiti comunisti dell’Occidente e del mondo intero”[3].
Evidentemente è da qui che nasce l’idea nella storia (e in Gracchus) che la rivoluzione avrebbe “negato” la scienza per imporle una specie di “conoscenza” – parola di Marx-Stalin -, chiamata “leninismo”. Ovviamente, contro di questo, Gracchus sottolinea che la prossima rivoluzione dovrà partire e integrare gli apporti della scienza. Ma questo è di fatto la tradizione del Movimento operaio fino allo stalinismo. Non solo Marx ed Engels incorporarono le scoperte di Morgan o Darwin o Engels rifletté sulla teoria cellulare di Virchow, ma anche nella 2^ Internazionale questa fu la norma.
Di fatto, la Rivoluzione d’Ottobre, contrariamente al suo becchino Stalin, aprì e stimolò diversi fronti di lavoro sul terreno scientifico, per esempio sull’ecologia o la psicologia.
Il movimento operaio ha sempre mantenuto una dimensione culturale e scientifica nei dibattiti in seno alla socialdemocrazia tedesca e le cui ultime testimonianze conosciute sono gli scritti di Trotsky e la sua relazione con la corrente surrealista, per esempio. Una dimensione che è stata sepolta dalla controrivoluzione e che la CCI oggi tenta di recuperare.
18.04.12
[1] Vedi Rivoluzione Internazionale n. 176
[2] Con il termine di “ritorno a Kant” si ricorda un dibattito storico svoltosi nella Socialdemocrazia alla fine del 19° secolo e che costituiva il risvolto teorico-filosofico del riformismo. In effetti, riassumendo, Bernstein sosteneva che le analisi di Marx erano scientifiche in quanto descrivevano e analizzavano la società capitalista, però erano “idealiste” quando stabilivano una prospettiva rivoluzionaria. Sul terreno della prospettiva rivoluzionaria, delle questioni sociali, si sarebbe dovuto “recuperare la filosofia di Kant”.
[3] Karl Korsch, Marxismo e filosofia. Edizione Sugar, pag. 31-32.
Un po’ di tempo fa il compagno Gracchus, polemizzando con un articolo pubblicato a proposito della scoperta, in seguito smentita, che i neutrini viaggerebbero più veloci della luce[1] inviò un contributo su Il Marxismo e il metodo scientifico[2], pubblicato sul nostro sito in spagnolo, aggiornato in seguito con una Versione finale nella rubrica commenti del sito.
Allora salutammo il contributo del compagno rispondendo puntualmente a una delle sue affermazioni relativa alle minoranze rivoluzionarie. La successiva riflessione e discussione su Marxismo e metodo scientifico ci spinge oggi ad approfondire il punto centrale della sua esposizione, senza intaccare il giudizio già espresso sul contributo del compagno. Al contrario, questi suoi contributi animano la discussione e la chiarificazione su questo tema che non è per niente scontato.
Nella sua Versión final, Gracchus espone il centro della sua riflessione in questa maniera:
“Già Marx sottolineava il carattere storico e dialettico delle conoscenze scientifiche, a differenza del materialismo volgare tipo quello di Diderot o Laplace, che la borghesia trionfante del 19° secolo dava per scontato e specchio di un presunto ‘dominio della natura’. Questa scienza nascente così sicura di se stessa e delle sue applicazioni tecniche, che si imponevano a ritmo di macchina a vapore (e in seguito del generatore elettrico), si crede atemporale e oggettiva. Questa critica marxista non restò inascoltata e di fatto influenzò filosofi e scienziati rivoluzionari come Dietzgen o Pannekoek. Nonostante la stessa borghesia della fine del secolo 19° fosse cosciente dei limiti della propria scienza, essa era più preoccupata dal supposto pericolo per il suo potere insito in una scienza che avanzasse al ritmo di quella naturale. Da qui il “malessere nella scienza” di cui parlava Pannekoek nel suo “Lenin filosofo”, che provocò una serie di controversie su concetti di base tra la stessa scienza e la filosofia borghese di cui, malgrado la sua tendenza a ricadere nell’idealismo e nel soggettivismo, non possiamo sottovalutare la lucidità e il livello di autocoscienza (vedi le posizioni di Mach, Avenarius o Poincaré).
Quello che vogliamo sviluppare in questo articolo è che, ci piaccia o meno ammetterlo, la scienza naturale borghese in gran misura seppe affrontare le difficoltà in cui si trovò implicata, ed anche superarle, con l’applicazione a tutti i terreni del nuovo paradigma einsteiniano-quantistico con tutte le sue applicazioni pratiche: sviluppo del transistor, microscopia elettronica, effetto tunnel, ecc. In più, per quanto riguarda le Scienze naturali e le loro applicazioni, non possiamo mancare di costatare il loro sviluppo esponenziale durante il 20° secolo”.
Cercando di seguire il ragionamento di Grachus, possiamo dire che il centro della sua tesi consiste nel segnalare che la scienza nel 20° secolo ha superato il blocco, o “malessere” che aveva subito alla fine del 19° (e che Pannekoek aveva caratterizzato come tendenza all’idealismo; Grachus, pur senza negare quanto detto prima, sembra riferirsi principalmente ad un paradigma equivocato, in cui si stabilisce un domino della natura, e, in definitiva, una pretesa di essere in possesso di una spiegazione definitiva di una realtà acquisita e immutabile per sempre). La scienza del 20° secolo sarebbe tornata con i suoi paradigmi ai principi materialisti che già Marx aveva riconosciuto.
Secondo lui, la teoria rivoluzionaria dovrebbe integrare i suoi risultati e superarli, invece di negarli, come fece lo stalinismo, in nome del marxismo e del determinismo.
In questo ragionamento si sovrappongono due problemi che non sono uguali e questo alla fine fa confusione. Le due questioni che dobbiamo discutere sono:
- Qual è il problema a cui era confrontata la scienza alla fine del 19° secolo? E questo problema è stato superato nel 20° secolo?
- Quale deve essere l’atteggiamento della rivoluzione rispetto alla scienza?
Qual è il problema a cui era confrontata la scienza alla fine del 19° secolo? E questo problema è stato superato nel 20° secolo?
A grandi linee, e solo per accennare una risposta, sembra che Grachus vede solo una parte del problema. Egli vede che l’ostacolo centrale della scienza del 19° secolo stava nell’aver preso per realtà quello che era solo un paradigma per capire la realtà. Così la fisica Newtoniana e la teoria atomica classica vengono prese come la spiegazione definitiva della materia, o ancor più, per la materia stessa. Il successivo sviluppo della relatività e della fisica quantistica mise in evidenza che il paradigma precedente era arrivato ai suoi limiti e permise, come dice Grachus, un gran progresso della scienza.
Il libro di Pannekoek, Lenin filosofo, come dice il suo nome è in realtà una critica alle incursioni filosofiche di questo nel libro Materialismo ed empiriocriticismo. Lenin scrisse questo libro nel 1908, in polemica con la tendenza di Bogdanov e Lunacharsky, che si richiamavano alle posizioni dell’empiriocriticismo (Mach e Avenarius), che Lenin caratterizzava come una deviazione verso l’idealismo. Il problema è, però, che Lenin stesso finisce con lo sviluppare una posizione schematica, materialista volgare[3]. Come disse Korsch in Marxismo e filosofia, Lenin difende il marxismo contro l’idealismo, mentre gli attacchi non venivano da qui, ma da una tendenza materialista volgare:
“Se si tiene presente questa posizione assunta da Lenin nei confronti della filosofia o di ogni ideologia in generale, il giudizio che deve essere portato sulla sua particolare “filosofia materialista” dipende innanzitutto da una prima questione che, in conformità con il principio adottato da Lenin stesso, è una questione storica: nell’epoca contemporanea esiste effettivamente quella trasformazione della situazione ideologica complessiva sostenuta da Lenin, per cui il materialismo dialettico non dovrebbe più opporre la dialettica al materialismo volgare, predialettico e oggi in parte coscientemente adialettico e antidialettico delle scienze borghesi, ma dovrebbe invece contrapporre il materialismo alle crescenti tendenze idealistiche della filosofia borghese? Secondo la mia opinione, che ho già avuto occasione di esporre altrove, ciò non corrisponde in alcun caso alla realtà. Nonostante che taluni fenomeni di superficie dell’attuale attività filosofica e scientifica della borghesia paiano contraddire tale tendenza, e nonostante che indubbiamente esistano certune correnti realmente diverse e contrarie, anche oggi, come sessanta o settant’anni fa, si deve considerare tendenza fondamentale della filosofia borghese non quella che si ispira a una concezione idealistica, ma piuttosto quella che si ispira a una concezione materialistica influenzata dalle scienze naturali”. (K. Korsch, Marxismo e Filosofía, Sugar editore).
Il libro di Pannekoek ha il merito di mostrare come il materialismo volgare stava sviluppando una posizione idealista, dal punto di vista epistemologico, dal momento che la crisi del paradigma newtoniano per spiegare la realtà stava portando all’idea che la realtà è inspiegabile. La vera questione non è quindi materialismo contro idealismo, ma materialismo volgare contro materialismo dialettico.
"Il materialismo non poteva regnare all’interno dell’ideologia borghese se non per un tempo molto breve. Finchè la borghesia poteva credere che la sua società, quella della proprietà privata, della libertà individuale e della libera concorrenza, avrebbe potuto risolvere i problemi vitali di tutta l’umanità grazie allo sviluppo della produzione, della scienza e della tecnica, poteva anche credere che la scienza avrebbe permesso di risolvere i suoi problemi teorici senza che fosse necessario ricorrere a forze spirituali soprannaturali. Ma dal momento che la lotta del proletariato, con il suo sviluppo, mise in evidenza che il capitalismo non era in condizione di risolvere i problemi vitali delle masse, anche la filosofia materialista sicura di sé entrò in crisi. L’universo fu nuovamente rappresentato come pieno di contraddizioni insolubili e di incertezze, popolato da potenze funeste che minacciavano la civilizzazione. Perciò la borghesia si diede ad ogni sorta di credenza religiosa e gli intellettuali e filosofi borghesi furono preda dell’influenza di tendenze mistiche. Ben presto furono messe in evidenza le debolezze e le insufficienze della filosofia materialista e presero spazio grandi discorsi sui ‘limiti della scienza’ e sugli ‘enigmi’ insolubili dell’universo”.
Pannekoek mostra che la via che porta dal materialismo all’idealismo nello sviluppo della scienza borghese si spiega con la sua pretesa di considerare la materia, la vita reale, come qualcosa di fisso, completamente sviluppato, la cui spiegazione si trova nelle leggi e nei calcoli sempre più complessi degli scienziati; allo stesso tempo fa vedere come questa visione sia il prodotto della sua visione limitata della realtà, che separa ed oppone materia e spirito, essere e pensiero, concreto ed astratto, soggetto ed oggetto.
Il marxismo non si presenta come una conoscenza finita della realtà circostante, ma vede l’apparizione degli uomini come il prodotto di uno sviluppo prima della natura e poi sociale. Considera che a partire dalla scoperta che gli esseri umani sono un prodotto e un fattore attivo delle trasformazioni storiche e sociali, la realtà deve essere vista come un processo contraddittorio in cui interagiscono diversi elementi che si riassumono nella natura e nel fattore umano e che sono in continuo cambiamento. Ogni momento costruisce le sue ipotesi, le sue controversie, le sue scoperte, in dipendenza del passato, del presente e della prospettiva, e non può essere spiegato se lo si astrae dall’unità dell’insieme o mettendo i vari elementi in opposizione; in questa maniera si costruisce una visione del mondo che, senza eliminare gli imprevisti, il caso, ecc., (non è una teleologia), non dà luogo a una concezione mistica, all’idea che al di là dell’esperienza dei nostri sensi e dei nostri tentativi di spiegazione esisterebbe la “cosa in sé”.
Fin dai primi lavori di Marx nel decennio del 1840, c’è una sensibilità verso questo problema, che viene apertamente affrontato già nei Manoscritti economici e filosofici:
“Le scienze naturali hanno sviluppato un’enorme attività e si sono appropriate di un materiale sempre in aumento. La filosofia è rimasta frattanto estranea a loro, tanto quanto le scienze naturali sono rimaste estranee alla filosofia. La loro momentanea unione è tata soltanto un’illusione fantastica. C’era la volontà, ma mancava la capacità. La storiografia stessa tiene conto della scienza naturale solo di sfuggita, come momento della illuminazione e dell’utilità di alcune singole grandi scoperte. Ma la scienza naturale si è intromessa tanto più praticamente nella vita dell’uomo mediante l’industria, e l’ha trasformata, e ha preparato l’emancipazione dell’uomo, pur avendo dovuto immediatamente condurre a compimento la sua disumanizzazione. L’industria è il rapporto storico reale della natura e quindi anche della scienza naturale con l’uomo; perciò se essa viene intesa come la rivelazione esoterica delle forze essenziali dell’uomo, viene pure compresa l’essenza umana della natura o l’essenza naturale dell’uomo; di conseguenza le scienze naturali perdono la loro direzione astrattamente materiale o meglio idealistica, e diventano la base della scienza umana, come già oggi sono diventate, per quanto in forma estraniata, la base della vita umana reale; onde il dire che una è la base della vita e un’altra è quella della scienza è sin da principio una menzogna. La natura che diviene nella storia dell’uomo, nell’atto di nascita della società umana, è la natura reale dell’uomo, onde la natura, quale diviene attraverso l’industria, se pure in forma estraniata, è la vera natura antropologica.
La sensibilità (vedi Feuerbach) deve costituire la base di ogni scienza. Questa è scienza reale solo se procede dalla sensibilità, nella sua duplice forma, tanto della coscienza sensibile quanto del bisogno sensibile: dunque soltanto se procede dalla natura. Tutta la storia è la storia della preparazione a che l’“uomo” diventi oggetto della coscienza sensibile, e il bisogno dell’“uomo in quanto uomo”diventi bisogno. La storia stessa è una parte reale della storia naturale, della natura che diventa uomo. La scienza naturale sussumerà in un secondo tempo sotto di sé la scienza dell’uomo, allo stesso modo che la scienza dell’uomo sussumerà la scienza della natura; allora ci sarà una sola scienza.» (Karl Marx, Manoscritti economici e filosofici del 1844, Einaudi 1978, 3° Manoscritto, parte Proprietà privata e comunismo).
La scienza del 20° secolo non ha superato i problemi della scienza del 19° secolo, perché malgrado possa essere più dinamica e puntualmente anche critica intravedendo certi aspetti della globalità, non può mettere in questione il sistema di produzione. I differenti rami della scienza, inclusi i settori che possiamo considerare onesti delle scienze sociali, hanno portato e porteranno apporti preziosi per la prospettiva rivoluzionaria, ma non possono adottare il punto di vista della teoria rivoluzionaria. Di fatto, malgrado che, in particolare a partire dagli anni ’90 (per quanto le premesse di questa tendenza risalgono agli anni ’70), si sviluppi una tendenza all’indagine multidisciplinare, che cerca di unire in una visione integrale la ricerca sul terreno delle scienze naturali e delle scienze sociali, essa incontra enormi difficoltà a sviluppare una visione dialettica[4].
La seconda parte dell’articolo [302] dà ulteriori elementi a sostegno di questa conclusione e svilupa l’altro aspetto, quello dell’atteggiamento della rivoluzione rispetto alla scienza.
1. “Confirmada la existencia de neutrinos:¿ha logrado el progreso científico ‘ir más rápido que su sombra’? [303]” (Confermata l’esistenza dei neutrini: il progresso scientifico è riuscito ad ‘andare più veloce della propria ombra’?”).
2. “Contribución sobre El ‘Marxismo’ y el método científico [304]” (“Contributo su Il Marxismo e il metodo scientifico”).
3. Se in questo punto la posizione di Pannekoek è inconfutabile, non si può dire la stessa cosa con la conclusione politica che lui pretende di tirarne e che riguarda la natura di classe della rivoluzione russa e del partito bolscevico. Pannekoek pretende di trovare negli errori che Lenin commette in questo libro la spiegazione della degenerazione della rivoluzione russa e l’origine dello stalinismo…! Questo significa stravolgere le cose! Come mostrò la Sinistra Comunista di Francia, Internationalisme, nella sua critica a Lenin filosofo, alla base della prospettiva rivoluzionaria nel 1917 in Russia non ci sono gli errori di filosofia di Lenin nel 1908, ma i migliori apporti del Movimento operaio e del marxismo internazionale.
4. Solo una minoranza di ricercatori onesti ed impegnati nella lotta allo sfruttamento cercano di integrare i loro studi e le loro teorie in una prospettiva rivoluzionaria, il che li porta di fatto a rifarsi alla teoria marxista.
gennaio-marzo 2013
E’ passato poco più di un anno dall’avvento del governo Monti e tutti ci ricordiamo il sospiro di sollievo che, anche tra i più avvertiti, si è tirato per la messa al bando di Berlusconi e di quell’accozzaglia di cialtroni che componevano il suo governo. Quel sospiro è durato fin troppo poco perché, come tutti ci ricordiamo, in nome del raddrizzamento dell’Italia e dello spread che continuava a salire, il nuovo governo Monti ha dimostrato di non essere affatto imbarazzato per il fatto che tutti lo chiamavano “governo tecnico” ed ha cominciato a sparare nel mucchio con degli attacchi che non si erano ancora visti fino a quel momento e che andavano ad aggiungersi a quelli che avevano già prodotto i vari governi precedenti, di destra e di “sinistra”[1]. Ma a cosa hanno portato questi interventi, tanto sbandierati dalle varie componenti politiche e dalle stesse centrali sindacali come indispensabili al risanamento dell’Italia, alla fine di quest’anno? Se non c’è stata ripresa economica - perché, a sentire il premier, non ce ne sarebbero state le condizioni e i tempi - almeno una parte dei guai finanziari sono stati messi a posto? Ahimè, le notizie riportate nel recente supplemento “Finanza pubblica” al bollettino statistico della Banca d’Italia dicono proprio di no, e in maniera decisa! Infatti, il debito pubblico italiano ha superato ad ottobre scorso il valore di 2.000 miliardi di euro, il livello più alto mai raggiunto[2], aumentando dall’inizio dell’anno, sotto il governo Monti, di ben 71,238 miliardi (+3,7%). Con il livello raggiunto a ottobre, il debito pubblico italiano pesa per circa 33.081mila euro a testa, neonati compresi[3].
Inoltre, come si vede dalla maggiore pendenza del tratto a freccia rispetto alla linea tratteggiata in figura, la velocità con cui questo debito cresce con il tempo è addirittura aumentata dal 2007 ad oggi, il che significa che non solo siamo indebitati, ma che continuiamo a indebitarci sempre più velocemente nonostante tutti i sacrifici che abbiamo già patito (nel 2007, l’ultima volta che il debito è diminuito, questo era pari al 103,6% del PIL, nel 2011 era passato al 120,6% e nel 2012, dopo un anno di governo Monti, sarebbe passato – per ora si tratta di una stima - al 126,4%).[4] A questo si aggiunge l’allarme rosso per la sanità pubblica. Il Servizio sanitario nazionale “affoga” nei debiti: circa 40 miliardi di euro verso i fornitori.[5] “Dal lato della crescita invece l'OCSE stima (per il poco valore che ha) un 4% complessivo per i prossimi 10 anni, il che significa uno 0,4% annuo. Quindi una crescita pressoché nulla. (…) Nel terzo trimestre il Pil è sceso dello 0,2% rispetto al trimestre precedente e del 2,4% rispetto al 3° trimestre del 2011. Rispetto alle previsioni del Governo e dell'FMI (di parte) un risultato quindi disastroso. (…) L'indice armonizzato dei prezzi al consumo, a base 100 nel 2005, è pari a 119,2, +2,7 punti rispetto alla lettura di 116,5 di luglio. Ciò significa che in 7 anni il potere di acquisto è diminuito di quasi il 20% vale a dire che una persona compra con lo stesso denaro il 20% in meno dei beni che comprava nel 2005. La disoccupazione, ultimo dato aggiornato questo, sta all'11,1%, ma bisognerebbe aggiungere circa un 2,3% dovuto a oltre un miliardo e cento circa di ore di Cassa Integrazione che qui significano, anche in ragione del trend economico, disoccupazione, e non quindi una misura temporanea. Il tasso di disoccupazione fra i giovani tra i 15 e 24 anni è 35,1% (dati vecchi, di Settembre)”.[6]
Ma è vero che è tutta colpa della Germania?
Certo, qualcuno potrebbe obiettare che non siamo l’unico paese a essere indebitato, che il Giappone ha un debito di oltre 11.000 miliardi, con un rapporto debito/PIL da capogiro del 229%, o che gli USA arrivano addirittura a 12.500 miliardi di euro, con un più misurato ma non leggero rapporto debito/PIL del 105%[7].
La stessa Germania è dal 2011 il paese con il più alto debito pubblico dell’Eurolandia e con un rapporto rispetto al PIL che supera l’80% (ben oltre 20 punti al di sopra del valore richiesto dagli accordi di Maastricht) tanto che, nel “2012 Fiscal Sustainability Report”, la Commissione Europea ha parlato, a proposito della Germania, di necessità di una inversione di tendenza sulla questione del debito pubblico. Ma non è solo un problema di indebitamento, è tutto il decantato sistema tedesco che, visto da vicino, mostra più di una crepa, come quella della disoccupazione, ufficialmente al 6,7%, ma dietro la quale c’è la vergogna dell’assunzione di moltissimi lavoratori, specie i più giovani, attraverso i mini-job, lavori scarsamente retribuiti (circa 400 euro mensili) che occupano ormai circa sette milioni di tedeschi (che su 39 milioni di occupati rappresentano il 18% circa della forza lavoro).[8] Tanto che è molto diffusa la voce, accreditata sia dalla destra berlusconiana che da una certa sinistra populista alla Grillo e che ha una presa significativa su molte persone[9], secondo cui le condizioni dell’Italia non sarebbero tanto cattive ma che sarebbe la Germania che ci vuole in crisi per poter guadagnare “sul suo debito. Il Bund tedesco a dieci anni viene remunerato sotto il tasso di inflazione a dispetto peraltro dei fondamentali dell’economia tedesca. (…) La Germania in questo modo può ricapitalizzare le sue banche che sono intossicate molto di più delle altre da titoli spazzatura consentendo una sorta di riciclaggio del denaro. La terza ragione: deprimendo le economie dei suoi competitor e in particolare dell’Italia che è il secondo Paese europeo esportatore la Germania si assicura i mercati.”[10]
Naturalmente non si può non riconoscere un fondo di verità anche a questi argomenti. Ma quello che sfugge a chi porta avanti questi ragionamenti è che, con i processi di sovrapproduzione di merci che rendono sempre più asfittici i mercati e la politica dell’indebitamento su cui ormai si basa il mercato capitalista, l’economia reale cede sempre più il posto ad un’economia fittizia, basata sulla semplice speculazione di denaro, con capitali che corrono per il mondo intero alla ricerca di risorse da parassitare, principalmente dove ci sono economie deboli sul punto di crollare. Così, una delle qualità più importanti da esibire oggi sul mercato è la fiducia che riescono a ispirare i singoli soggetti (individui, aziende o nazioni) ai loro creditori. Infatti, se il problema fosse solo una questione di debito pubblico, come abbiamo visto prima il Giappone o gli stessi USA dovrebbero essere KO da tempo. Invece in Europa, in seguito alla crisi economica della Grecia, si è sparsa una contagiosa sfiducia verso i paesi più deboli che ha messo in forti difficoltà in successione Grecia, Spagna e poi Italia. Che lo si voglia o no, il governo Monti ha dunque avuto il “merito” di restituire la fiducia dei creditori nella capacità dell’azienda Italia di restituire il suo debito. Ma attenzione! Come abbiamo detto prima l’operazione Monti si ferma qui e non c’è alcun segnale che si possa andare oltre. Anzi, grazie al Governo Monti, le imposte sono aumentate, la tassa sulla spazzatura aumenterà e gli italiani hanno utilizzato le tredicesime per pagare l’Imu, con la conseguenza che a Natale sono crollate le attività commerciali perché gli italiani, lasciati senza soldi, non hanno potuto acquistare granché e la situazione economica del Paese, nonostante i sacrifici chiesti ai cittadini, è peggiorata. E se dopo la “cura Monti” la maggioranza degli italiani è più povera di prima, se lo stesso Stato è più indebitato di prima, cose che avevamo puntualmente previsto[11], su che basi potremmo sperare in una prossima “ripresa”?
Che abbiamo da sperare dalle nuove elezioni?
Quali sono dunque le prospettive che si aprono con le prossime elezioni politiche di febbraio prossimo? Purtroppo la situazione non permette una grande scelta, e questo non tanto per la qualità dei candidati e delle parti politiche in lizza, che comunque è quella che è, cioè pessima, ma soprattutto perché chiunque andrà al potere non potrà fare altro che continuare a portare avanti la stessa politica di Monti. L’unica variante potrà essere quella di accompagnare queste misure con delle leggi a favore delle fasce meno protette che faranno finta di proteggere la parte di popolazione in condizioni di maggiore povertà, cioè di salvare dalla morte per fame e freddo qualche migliaio di persone, spingendo però decine di milioni di persone verso condizioni di vita sempre meno sostenibili.
Si, perché ormai non si tratta più soltanto dei poveri di una volta, dei proletari, ma sono interi strati sociali, a volte anche di commercianti, di ex benestanti, che sono progressivamente scaraventati in condizioni di miseria crescente. E con una situazione all’orizzonte che, secondo gli stessi economisti di regime, non è destinata a risolversi domani, dopodomani, ma che forse potrebbe schiarirsi un poco nel giro dei prossimi anni. Per cui, di fronte ad un nuovo anno che tutti percepiscono già come un anno di ulteriori batoste, non possiamo restare inermi e dobbiamo cominciare a porci la domanda: come opporci a tutto questo? E la strada che dobbiamo seguire è di porre questo quesito a tutti, perché lo stesso quesito è presente nella testa di ognuno di noi, anche se la risposta non è ancora matura. Insomma, se Monti è il meglio che ci potevano dare, non c’è più nulla da attendersi! Facciamo sentire la nostra voce!!
Ezechiele 3 gennaio 2013
[1] Vedi Rapporto sull’Italia 2012 [306] ed in particolare la parte 1. Crisi economica [307].
[3] https://www.repubblica.it/economia/2012/12/14/news/debito_italia_supera_2mila_miliardi-48721806/ [309].
[4] La Repubblica, 14/11/2012.
[5] https://www.repubblica.it/economia/2012/12/14/news/debito_italia_supera_2mila_miliardi-48721806/ [309].
[7] https://intermarketandmore.finanza.com/debito-pubblico-italia-e-record-ringraziamo-sentitamente-chi-ne-e-stato-responsabile-51613.html [311]
[8] www.termometropolitico.it/18481_le-balle-che-la-germania-racconta-ai-tedeschi-e-a-noi.html [312]
[9] La capacità di presa di queste campagne è significativa della situazione attuale. Come la natura ha paura del vuoto, così la gente, che si rende ben conto dell’entità della crisi economica, non riesce a concepire che questa sia legata all’esaurimento dell’attuale modo di produzione: il capitalismo. Di qui una certa disponibilità ad accettare nel frattempo frottole che rimandano il problema di fare i conti con la situazione reale.
[10] www.liberoquotidiano.it/news/home/1016279/Ecco-perche-alla-Merkel-conviene-un-Italia-in-crisi.html [313]
[11] Vedi l’articolo Tolto Berlusconi resta la crisi e le batoste sulla pelle degli proletari [234] pubblicato all’inizio del mandato Monti su Rivoluzione Internazionale n°173.
Gaza viene punita ancora una volta, come nel caso del precedente massacro, anche attraverso il blocco che ha paralizzato la sua economia, affamato le popolazioni e sbriciolato gli sforzi di ricostruzione dopo le devastazioni del 2008.
Rispetto alla potenza dello Stato israeliano, le capacità militari di Hamas e degli altri gruppi jihadisti radicali di Gaza sono irrisorie. Tuttavia, grazie al caos in Libia, Hamas ha messo le mani su missili a lunga gittata più efficaci. Oltre a Ashdod nel sud (dove tre abitanti di un edificio residenziale sono stati uccisi da un razzo sparato dalla striscia di Gaza), anche Tel Aviv e Gerusalemme sono adesso alla loro portata. La minaccia di paralisi che ha preso Gaza inizia a farsi sentire nelle principali città israeliane.
Chiaramente, le popolazioni su entrambi i lati del confine sono gli ostaggi delle logiche militariste avversarie che dominano Israele e la Palestina - con un aiuto discreto dell’esercito egiziano che pattuglia le frontiere di Gaza per impedire incursioni o fughe indesiderate. Le due popolazioni sono vittime di una guerra permanente - sotto forma di razzi e bombe, ma anche del peso crescente di un’economia zavorrata dalle esigenze della guerra. Inoltre la crisi economica globale costringe oggi la classe dirigente in Israele come in Palestina ad adottare nuove misure di restrizione del tenore di vita, ad aumentare il prezzo dei prodotti di prima necessità.
In Israele, l’anno scorso, l’aumento dei prezzi delle case è stato all’origine del movimento di protesta che ha preso la forma di manifestazioni di massa e assemblee - movimento direttamente ispirato alle rivolte del mondo arabo e che aveva come parole d’ordine “Netanyahu, Assad e Mubarak sono tutti uguali” e “Arabi e Ebrei vogliono case accessibili e decenti”. Durante questo breve ma stimolante movimento di lotta, ogni cosa nella società israeliana era aperta alla critica e al dibattito – compresa la “questione palestinese”, il futuro delle colonie e dei territori occupati.
Uno delle maggiori paure dei manifestanti era che il governo rispondesse a questa sfida chiamando all’“unità nazionale” e lanciando si in una nuova avventura militare.
D’altro canto, l’estate scorsa, nei territori occupati della striscia di Gaza e della Cisgiordania, l’aumento del prezzo del carburante e del cibo ha causato una serie di manifestazioni di collera, di scioperi e blocchi stradali. I lavoratori dei trasporti, della sanità e dell’istruzione, studenti ma anche disoccupati, si sono ritrovati in strada di fronte alla polizia dell’Autorità Palestinese per esigere aumenti salariali, lavoro, prezzi più bassi e la fine della corruzione[1]. Manifestazioni contro il carovita si sono avute anche nel vicino Regno di Giordania.
Nonostante le differenze nel tenore di vita tra i popoli israeliano e palestinese, a dispetto del fatto che quest’ultimo subisce in più oppressione e l’umiliazione militare, le radici di queste due rivolte sociali sono esattamente le stesse: la crescente incapacità di vivere in un sistema capitalistico in crisi.
Le motivazioni per l’ultima escalation militare sono state oggetto di molte speculazioni. Netanyahu cerca di fomentare l’odio nazionalista per migliorare le sue possibilità di rielezione? Hamas ha causato questi attacchi per dimostrare la sua determinazione alle bande islamiste più radicali? Quale ruolo sarà chiamato a giocare nel conflitto il nuovo regime in Egitto? In che modo questi eventi influenzeranno la guerra civile in Siria?
Queste domande sono pertinenti, ma non permettono di rispondere al problema di fondo che le lega. La realtà è che si tratta di un’escalation della guerra imperialista, l’antitesi di quelli che sono gli interessi e le esigenze delle popolazioni palestinesi, israeliane e più in generale del Medio Oriente.
Mentre le rivolte sociali permettono agli sfruttati di lottare insieme per i loro interessi materiali contro i capitalisti e lo Stato che li sfruttano, la guerra imperialista crea una falsa unità tra gli sfruttati e loro sfruttatori, accentuando loro divisione tra i primi. Gli aerei di Israele che bombardano Gaza offrono nuove reclute ad Hamas e alla Jihad per i quali ogni ebreo che si rispetti è considerato il nemico. Quando i razzi jihadisti cadono su Ashdod o Tel Aviv, ancor più israeliani si volgono verso la protezione e gli appelli alla vendetta del “loro” Stato contro gli “Arabi”. Le pressanti questioni sociali che animano le rivolte vengono inghiottite in una valanga di odio e isteria nazionalista.
Grandi o piccole, tutte le nazioni sono imperialiste; grandi o piccole, tutte le frazioni borghesi non hanno mai alcuno scrupolo ad usare la popolazione come carne da cannone in nome degli interessi della “patria”. Del resto, di fronte all’attuale escalation di violenza a Gaza, quando i governi “responsabili” e democratici come gli Stati Uniti e la Gran Bretagna fanno appello alla “calma”, al ritorno verso un “processo di pace”, l’ipocrisia raggiunge il suo apice. Perché sono questi stessi governi che fanno la guerra in Afghanistan, in Pakistan, in Iraq. Gli Stati Uniti sono anche il principale sostenitore finanziario e militare di Israele. Le grandi potenze imperialiste non hanno alcuna soluzione “pacifica”, non più di Stati quali l’Iran che arma apertamente Hamas e Hezbollah. La vera speranza di una pace mondiale non sta nei “nostri” governanti, ma nella resistenza degli sfruttati, nella loro crescente comprensione che hanno gli stessi interessi in tutti i paesi, lo stesso bisogno di lottare e di unirsi contro un sistema che non può offrire altro che la crisi, la guerra e la distruzione.
Amos (20 novembre)
(da World Révolution, organo della CCI in Gran Bretagna)
Pubblichiamo di seguito un articolo scritto da un compagno molto vicino alla CCI in Spagna che racconta e trae degli insegnamenti dalle mobilitazioni dei lavoratori e delle masse oppresse della Palestina. Salutiamo con forza questa iniziativa. In una regione dove c'è un brutale scontro imperialistico, con enormi sofferenze per la popolazione, parole come classe, proletariato, lotta sociale, autonomia del proletariato... sono seppellite dalle parole guerra, nazionalismo, rivalità etniche, conflitti religiosi, ecc. Per questo tali mobilitazioni sono importanti e devono essere conosciute e prese in considerazione dai proletari di tutti i paesi. Ci propongono di essere solidali con nazioni, popoli, governi, organizzazioni di “liberazione” di vario tipo... dobbiamo rigettare una tale solidarietà! La nostra solidarietà può andare solo ai lavoratori e agli oppressi della Palestina, di Israele, dell’Egitto, della Tunisia e dal resto del mondo. SOLIDARIETÀ DI CLASSE CONTRO “SOLIDARIETÀ” NAZIONALE.
CCI
Manifestazioni di massa in Cisgiordania contro il carovita, la disoccupazione e l’Autorità Palestinese
In questa parte del mondo, il Medio Oriente, così spesso in prima pagina a causa di massacri e barbarie, di rivalità tra i diversi gangster imperialisti che tengono in ostaggio la popolazione civile e di ogni genere di odio e movimenti nazionalisti, etnici e religiosi (che le potenze “democratiche” occidentali fomentano e sostengono secondo i loro interessi), mentre i titoli della stampa borghese erano occupati in questi ultimi giorni dai disordini nei paesi musulmani in seguito alle vignette su Maometto, non è stato praticamente scritto nulla sulle grandi manifestazioni e gli scioperi che ci sono stati durante il mese di settembre contro gli effetti della crisi capitalista internazionale sulla vita dei proletari e degli strati oppressi dei territori palestinesi della Cisgiordania, eppure sono state le più grandi manifestazioni da anni[1].
In una situazione spesso disperata, il proletariato e la popolazione sfruttata dei territori palestinesi, sottomessi all’occupazione militare, al blocco e al disprezzo totale per le loro vite e le loro sofferenze da parte dello Stato israeliano, hanno enormi difficoltà a fuggire alle influenze sia nazionaliste sia islamiste e alla tendenza a lasciarsi imbrigliare dalle varie organizzazioni per la “resistenza militare” contro Israele, cioè ad andare al macello sacrificale di fronte a un’enorme superiorità militare. È proprio la lotta contro gli effetti della profonda crisi del capitalismo internazionale che apre la possibilità al riemergere di lotte proletarie di massa a livello mondiale e al superamento delle divisioni settoriali, nazionali, etniche o di altro genere all’interno della classe operaia, come anche al superamento delle illusioni e mistificazioni di ogni tipo (le illusioni “democratiche” all’interno del capitalismo, della “liberazione nazionale”, ecc.).
Scioperi e manifestazioni
Il fattore scatenante dell’ondata di scioperi e manifestazioni è stato l’annuncio fatto dal governo del Primo ministro Fayyad[2] dell’aumento dei prezzi dei generi di prima necessità (cibo...) e della benzina. Questa è stata la goccia che ha fatto traboccare la sfiducia sempre più forte della popolazione della Cisgiordania verso l’Autorità Palestinese. Questa è vista sempre più come un covo di arrivisti e corrotti nel quale trova protezione per il proprio operato ogni casta di capitalisti palestinesi e di cui Fayyad è la personificazione[3]. Non ha nemmeno una parvenza di legittimità, senza circo elettorale dal 2006 e in conflitto con Hamas. Inoltre è incapace a risolvere il benché minimo problema di un’economia palestinese con le spalle al muro e totalmente dipendente dalle “donazioni” esterne[4], soffocata tanto dall’occupazione militare quanto dal controllo totale di Israele sulle importazioni e le esportazioni, sui prezzi, la riscossione delle imposte o le risorse naturali (accordi di Parigi, la contropartita economica degli accordi di Oslo).
Già durante l’estate il disagio si è espresso attraverso varie proteste. Ad esempio, a fine giugno, una manifestazione a Ramallah dopo l’annuncio di un incontro tra il Presidente Abbas e il vice primo ministro israeliano Shauz Mofaz è finita nella brutale repressione da parte della polizia palestinese[5].
Con una disoccupazione di massa (57% secondo le Nazioni Unite, insopportabile soprattutto tra i giovani) e un costo della vita tale che la maggior parte delle persone riesce solo giusto a mangiare e con gran parte dei settori popolari scontenti (ad esempio, 150.000 dipendenti statali non hanno avuto lo stipendio), l’annuncio del 1° settembre dell’aumento dei prezzi ha fatto da detonatore.
Dal 4 settembre in tutta la Cisgiordania si succedono manifestazioni di massa giorno dopo giorno per un miglioramento delle condizioni di vita (Hebron, Betlemme, Ramallah, Jenin, ecc.). Le manifestazioni sono dirette anche contro il controllo israeliano dell’economia dei territori (accordi di Parigi), ma è chiaro che il malcontento non si limita a un sentimento nazionalista o anti-israelita, l’asse centrale delle manifestazioni sono le condizioni di vita e di lavoro. A Ramallah dei giovani gridavano: “Prima lottavamo per la Palestina, ora lottiamo per un sacco di farina”[6].
All’inizio delle proteste, Abbas, nell’ovvia lotta all’interno del potere contro il suo rivale Fayaad, ha manifestato simpatia per la “primavera palestinese”. Ma man mano che le proteste si sviluppavano e dove l’espressione del malessere non si limitava al governo Fayaad o agli accordi di Parigi, ma si estendeva contro la stessa Autorità Palestinese, l’organizzazione Fatah, che all’inizio ha forse giocato un certo ruolo per incanalare e anche organizzare le manifestazioni, ha fatto di tutto per porre fine gradualmente alla loro radicalizzazione e alla loro estensione[7].
Possiamo dire la stessa cosa di Hamas, che senz’altro ha approfittato delle mobilitazioni per cercare di destabilizzare l’attuale governo dell’Autorità Palestinese, ma di fronte alla loro ampiezza e il pericolo di contagio nella striscia di Gaza, ha ovviamente fatto marcia indietro.
A Nablus, una manifestante ha detto: “Siamo qui per dire al governo basta... vogliamo un governo che vive come il suo popolo vive e mangia quello che il suo popolo mangia”[8]. “Siamo stanchi di sentir parlare di riforme... un governo dopo l’altro... un ministro dopo l’altro... e la corruzione è sempre là” come dice un cartellone nella città di Beit Jala[9].
A Jenin, i manifestanti hanno chiesto un salario minimo, la creazione di posti di lavoro per tutti i disoccupati e la riduzione delle tasse d’iscrizione all’università[10]. Il Primo ministro Fayyad dichiara che è “pronto a dimettersi”.
Le manifestazioni di massa continuano, con barricate sulle strade e scontri con la polizia dell’Autorità Palestinese. Il 10 settembre è iniziato uno sciopero generale dei trasporti proclamato dai sindacati. Tassisti, tranvieri, autisti di autobus hanno partecipato in massa. Molti settori, come quello dei dipendenti degli asili hanno aderito allo sciopero. Il movimento si è esteso. L’11 nelle università e nelle scuole viene interrotto il lavoro per 24 ore in solidarietà con lo sciopero generale[11].
I lavoratori di tutte le università palestinesi, insieme agli studenti, convocano uno sciopero di 24 ore per il 13 settembre[12].
Di fronte a tale situazione e dopo una riunione con i sindacati, il governo annuncia che ritira l’aumento dei prezzi che era stato annunciato, che pagherà la metà dei salari dovuti ai dipendenti dal mese di agosto e che farà dei tagli agli stipendi e ai privilegi dei politici e degli alti funzionari dell’Autorità palestinese (AP).
Il 14, il sindacato dei trasporti annulla l’appello allo sciopero perché sono state intavolate delle “costruttive negoziazioni” con l’AP.
Così le proteste di massa sembrano essersi calmate almeno temporaneamente, ma il malessere sociale è ben lungi dall’essere scomparso. I sindacati dei dipendenti statali e degli insegnanti annunciano mobilitazioni con interruzioni parziali del lavoro a partire dal 17[13]. I sindacati del settore sanitario annunciano il 18 settembre che daranno inizio a dei movimenti se le loro rivendicazioni (aumento degli effettivi, miglioramento della mobilità e degli avanzamenti dei lavoratori) continueranno a non essere ascoltate dal governo[14].
I movimenti sembrano essere limitati alla zona controllata dall’Autorità Palestinese, la Cisgiordania.
L’importanza di questo movimento
Al di là degli elementi concreti o particolari, questo movimento assume un’importanza particolare per la regione in cui si è sviluppato. Questa è una regione dagli interminabili e cruenti conflitti imperialistici, sia direttamente tra gli Stati, che per interposte pedine[15], con una popolazione civile che ne subisce le conseguenze[16] e che è diventato il terreno fertile per lo sviluppo dei movimenti reazionari di influenza nazionalista o religiosa. Ma soprattutto, va notato che questi movimenti hanno luogo in un contesto di lotte simili che si sviluppano sia nella regione sia a livello internazionale. Non dimentichiamo le grandi mobilitazioni in Israele negli ultimi mesi contro il carovita che, nonostante le loro debolezze e illusioni “democratiche”, possono significare un importante primo passo verso la rottura della “unità nazionale” in uno Stato così militarizzato come lo Stato israeliano. Non dimentichiamo che sono stati i grandi scioperi operai in tutto l’Egitto che hanno dato lo slancio decisivo che ha portato alla caduta di Mubarak, il protetto degli Stati Uniti.
È necessario che il proletariato e gli strati oppressi della Palestina, e di ogni luogo, comprendano che l’unica speranza di avere condizioni di vita e di lavoro degni e un’esistenza in pace (che è il vero desiderio della stragrande maggioranza della popolazione palestinese) passa attraverso lo sviluppo di lotte di massa con tutti gli sfruttati della regione, al di sopra di ogni divisione nazionale o religiosa. Rompere “unità nazionale” palestinese, unificare le lotte, in primo luogo con gli sfruttati e gli oppressi di Israele e dell’intera regione, questa è l'arma più potente per indebolire e paralizzare il braccio assassino dello Stato israeliano e degli altri gangster imperialisti. La “resistenza armata”, cioè la sottomissione agli interessi dei diversi gruppi nazionalisti o religiosi portano solo al massacro e alla sofferenza senza fine e al rafforzamento degli sfruttatori e di altri corrotti palestinesi.
E’ necessario che gli sfruttati palestinesi, come quelli del resto del mondo, non abbiamo il minimo dubbio: se non lottano per i propri interessi di classe contro il capitalismo, se si lasciano trascinare in lotte di “liberazione nazionale”, razziale o altre della stessa risma, se si sottomettono agli “interessi generali del paese”, cioè agli interessi generali della borghesia e del suo Stato, il presente e il futuro che li attende sotto il sistema capitalista è lo stesso di quello che l’ANC di Mandela riserva ai suoi “fratelli” e “compatrioti” minori: la miseria, lo sfruttamento e la morte[17].
Draba (23 settembre)
[1] Le poche informazioni che ci sono state erano ovviamente centrate sull’occupazione israeliana e l’anti-imperialismo (che è, per loro, “anti-americanismo” e i loro alleati) come per l’agenzia cubana Prensa latina o la tv iraniana di Stato Press TV, dei media sempre così loquaci per tutto ciò che riguarda i movimenti nazionalisti. Neanche i forum della sinistra e dell’estrema sinistra del capitale, almeno in Spagna, (ad esempio lahaine.org, kaosenlared.net o rebelion.org) hanno mostrato grande interesse per questi avvenimenti. Se si capisce bene, la “solidarietà con il popolo palestinese” si limita ai momenti in cui questo serve a sostenere i vari interessi sulla scacchiera imperialista mondiale o per pubblicizzare una qualsiasi causa sciovinista. Quando si lotta contro il “proprio” governo e si rompe l’“unità nazionale” per difendere le proprie condizioni di vita, allora questa lotta non merita notorietà.
[2] Uomo nel FMI, nominato da Abbas nel 2007 nel contesto della guerra con Hamas, sotto la pressione dagli Stati Uniti.
[3] www.aljazeera.com/opinions/2012/9/13/economic-exploitation-of-palestinians-flourishes-under-occupation [316]
[5] https://altahrir.wordpress.com/2012/07/01/ramallah-protesters-attacked-by-palestinian-authority-police/ [318]
[11] https://www.latimes.com/archives/blogs/world-now/story/2012-09-10/palestinians-protest-in-west-bank-cities-over-economy [323]
[15] . Sono ben noti i legami tra l’Iran e la Siria con Hamas, così come i legami della Siria di Assad con la Russia (suo principale alleato tra le grandi potenze imperialiste) e con l’Iran (suo principale alleato regionale).
[16] Non dimentichiamo che la guerra tra Hamas e Fatah per controllo della striscia di Gaza nel 2007 ha fatto innumerevoli vittime e causato sofferenze tra la popolazione civile. Ecco i “danni collaterali” della “liberazione nazionale”... www.haaretz.com/1.4942705 [327], e https://libcom.org/article/palestinian-union-hit-all-sides [328]
[17] Vedi : “Sudafrica: la borghesia sguinzaglia poliziotti e sindacati contro la classe operaia”, https://it.internationalism.org/node/1236 [329]
Dopo la pubblicazione di questo articolo, abbiamo assistito al più importante movimento di scioperi in Africa del Sud dalla fine dell’apartheid, nel 1994. Questi scioperi sono doppiamente significativi perché non solo dimostrano – ammesso che sia ancora necessario – che dietro il presunto miracolo economico dei “paesi emergenti” si nasconde, come dappertutto, una miseria crescente, ma essi mettono anche in evidenza che i lavoratori del mondo intero, lungi dall’avere interessi divergenti, si battono dappertutto contro le indegne condizioni di vita che il capitalismo impone. Per questo motivo, nonostante le debolezze su cui ritorneremo, gli scioperi che scuotono l’Africa del Sud si iscrivono nel solco delle lotte operaie di tutto il mondo.
Dopo il massacro del 16 agosto, la lotta sembrava doversi esaurire, schiacciata dal peso delle manovre della borghesia. In effetti, mentre lo sciopero si estendeva a diverse altre miniere con rivendicazioni identiche, una concertazione di pescecani veniva organizzata tra i soli sindacati di Marikana, la direzione e lo Stato, il tutto sotto la santa mediazione dei dignitari religiosi. La manovra aveva lo scopo di soffocare l’estensione degli scioperi dividendo gli operai tra quelli, da una parte, che beneficiavano di negoziati e di tutta l’attenzione mediatica e quelli, dall’altra, che si lanciavano nello sciopero nell’indifferenza generale, ad eccezione dell’attenzione dei poliziotti (bianchi e neri) che proseguivano la loro campagna di terrore, le loro provocazioni e le loro scorrerie notturne.
Sul terreno l’AMCU, sindacato che aveva approfittato dello scatenamento dello sciopero selvaggio a Marikana il 10 agosto per stendere la sua longa manus in una guerra di territorio sanguinosa contro il suo concorrente MUN , incitava gli operai a scontrarsi fisicamente con i minatori che avevano ripreso il lavoro: “La polizia non potrà proteggerli per sempre, la polizia non dorme con loro nelle loro baraccopoli. Se tu vai a lavorare, devi sapere che ne subirai le conseguenze.” A causa del blackout mediatico che si è brutalmente abbattuto su questa lotta, non siamo in grado di determinare se gli operai hanno effettivamente ceduto alla violenza o se i sindacati hanno proseguito i loro regolamenti di conti sotto la copertura degli scioperi; comunque diversi assassini e aggressioni sono stati perpetrati durante tutto il movimento.
Sebbene la propaganda intorno al “ritorno dell’apartheid” non sia mai stata presa sul serio dagli operai in un tale contesto, la lotta era comunque rifluita. Pur tuttavia attualmente il movimento conosce una nuova vita.
Il 30 agosto la popolazione veniva a sapere, attraverso il giornale di Johannesburg, The Star, che quando la polizia aveva affermato di aver sparato sui minatori di Marikana “per legittima difesa”, aveva mentito vergognosamente, perché i risultati dell’autopsia mostravano che i minatori erano stati abbattuti di spalle, mentre cercavano di fuggire ai loro carnefici. Secondo numerose testimonianze di giornalisti presenti sul posto, i poliziotti s’erano messi anche ad inseguire gli scioperanti per assassinarli a sangue freddo. Quasi nello stesso momento il tribunale di Pretoria annunciava la sua intenzione di accusare i 270 minatori arrestati il 16 agosto durante la sparatoria della polizia… dell’uccisione dei loro compagni (!), sulla base di una legge antisommossa che prevedeva l’imputazione di omicidio di tutte le persone arrestate sul luogo di una sparatoria da parte della polizia.
Questo è quello che si fa nella “più grande democrazia africana”: mentre nessuno dei poliziotti che hanno colpito i minatori di Marikana è stato indagato, lo Stato incolpa i sopravvissuti alla sparatoria. Con un po’ di immaginazione, il tribunale di Pretoria avrebbe potuto giustiziare una seconda volta i morti per il loro assassinio!
La costernazione fu tale che il 2 settembre il tribunale fu costretto ad indietreggiare, annunciando l’annullamento delle accuse e la liberazione di tutti i prigionieri. Lo Stato era stato costretto a rendersi conto del suo errore per il fatto che gli scioperi di erano ben presto diffusi nella maggior parte delle miniere del paese, con le stesse rivendicazioni. In effetti il 31 agosto quindicimila impiegati di una miniera d’oro sfruttata dal gruppo Gold Fields, vicino Johannesburg, iniziavano uno sciopero selvaggio. Il 3 settembre i minatori di Modder East, impiegati di Gold One, entrano a loro volta in lotta. Il 5 settembre quasi tutti i minatori di Marikana manifestavano con l’appoggio della popolazione e rifiutavano, il giorno dopo, di sottoscrivere il miserabile accordo firmato tra i sindacati e la direzione di Lomin. Dal 14 settembre le compagnie Amplats, Aquarius e Xstrata, ognuna delle quali sfrutta diversi siti, annunciavano la sospensione della loro attività, mentre la produzione di quasi tutte le miniere del paese sembravano arrestarsi. L’ondata di scioperi si estendeva anche ad altri settori, in particolare quello dei trasportatori su gomma.
Questa dinamica era, in parte, alimentata dall’indignazione suscitata dalle testimonianze degli scioperanti incarcerati: “Essi [i poliziotti] ci hanno colpito e ci hanno schiaffeggiato, ci hanno camminato sulle dita con i loro stivali”, “Non arrivo a capire cosa mi è successo, è la prima volta che vado in prigione! Noi rivendicavamo un aumento di salario e loro si sono messi a spararci addosso, e in prigione i poliziotti ci hanno picchiato, ed hanno anche rubato i 200 rand [20 euro] che avevo con me!”
Il terrore poliziesco si abbatteva anche sugli scioperanti rimasti liberi con interventi molto violenti, che hanno causato diversi arresti con motivazioni le più disparate, numerosi feriti e diversi morti[1]. Il 14 settembre il portavoce del governo dichiarava: “E’ necessario intervenire perché siamo arrivati ad un punto in cui bisogna fare delle scelte importanti.” Dopo questo bell’esempio di frase vuota di cui solo i politici hanno il segreto, il portavoce aggiungeva, molto più esplicitamente: “Se lasciamo che questa situazione si sviluppi, l’economia ne soffrirà fortemente.” Il giorno dopo fu organizzata una spedizione estremamente brutale, verso le due del mattino, nei dormitori degli operai di Marikana e delle loro famiglie. La polizia, appoggiata dall’esercito, ha ferito numerose persone, per la maggior parte donne. Al mattino scoppiano delle rivolte, con barricate costruite per le strade. La polizia non aspettava altro per scatenare la sua violenza sugli operai in tutto il paese in nome della “sicurezza delle persone”.
Mentre i suoi sbirri terrorizzavano la popolazione, lo Stato, con la complicità dei sindacati, portava, il 18 settembre, un colpo importante alla lotta, concedendo ai soli minatori di Marikana aumenti dall’11 al 22%. Questa vittoria ingannevole aveva chiaramente l’obiettivo di dividere gli operai e togliere dal movimento i lavoratori che fino ad allora erano stati al centro della lotta. In altri termini,la borghesia sacrificava un 22% per gli operai di Marikana per soffocare la combattività degli altri scioperanti, stoppare l’estensione della lotta e privare la maggior parte degli operai degli aumenti salariali rivendicati.
Ciononostante, il 25 settembre i novemila impiegati della miniera Beatrix entravano a loro volta in sciopero, quelli di Atlatsa si gettavano nella lotta il 1 ottobre. La violenza della polizia crebbe di nuovo con i suoi interrogatori brutali, i rastrellamenti e gli assassini. Il 5 ottobre la compagnia Amplats alzava il tiro annunciando il licenziamento di dodicimila minatori. Su questa onda parecchie compagnie, con l’appoggio dei tribunali, minacciavano di licenziare in massa con uno scoraggiante ricatto: o gli operai accettavano i miseri aumenti salariali proposti dalle direzioni, oppure sarebbero stati cacciati. Gold One finì col licenziare 1.400 persone, Gold Field altri 1.500, e così via.
Nel momento in cui scriviamo questo articolo, le ultime schiere di scioperanti tornano a poco a poco al lavoro. Ma questa lotta, malgrado le debolezze che la hanno caratterizzata, esprime una certa crescita della coscienza di classe. Gli operai sudafricani hanno sentito la necessità di lottare collettivamente, hanno formulato rivendicazioni precise ed unitarie, hanno cercato costantemente di estendere la loro lotta. In un contesto in cui la crisi e la miseria vanno inesorabilmente ad approfondirsi questo movimento è un’esperienza incancellabile nello sviluppo della coscienza di tutti i proletari della regione e una lezione per i proletari del mondo intero.
El Generico, 22 ottobre
[1] E’ ancora impossibile stabilire il numero di scioperanti abbattuti dalla polizia sudafricana, ma la stampa ha parlato di sette morti a Rustenburg e di almeno un morto tra le fila degli autisti di camion.
La crisi è ormai aperta, è chiara a tutti e nessuno può sfuggirne.
Pochi credono ancora all’“uscita dalla crisi” di cui ci parlano tutti i giorni.
Il pianeta ci mostra sempre più il suo spettacolo quotidiano di desolazione: guerra e barbarie, fame insopportabile, epidemie, per non parlare delle manipolazioni da irresponsabili apprendisti stregoni che i capitalisti operano sulla natura, la vita e la salute, al solo scopo di realizzare sempre più profitto.
Di fronte a tutto questo è difficile immaginare quale altro sentimento possa pervaderci se non l’indignazione e la voglia di rivolta. E’ difficile pensare che la maggioranza del proletariato creda ancora a un futuro nel capitalismo. Purtuttavia le masse non hanno ancora ripreso appieno il cammimo della lotta.
Bisogna allora pensare che è finita? Che il rullo compressore della crisi è troppo forte, che la demoralizzazione che produce è insuperabile?
Ci sono delle grandi difficoltà…….
E’ innegabile che oggi la classe operaia vive difficoltà importanti, dovute almeno a quattro motivi;
• Il primo, di gran lunga quello principale, consiste nel fatto che il proletariato non ha coscienza di se stesso, avendo perduto la sua propria identità di classe. In seguito alla caduta del muro di Berlino, negli anni ‘90 si è scatenata una propaganda volta a convincerci del fallimento del comunismo. I più audaci - ed i più stupidi - annunciavano anche “la fine della storia”, il trionfo della pace e della democrazia… Associando il comunismo alla carcassa putrefatta del mostro stalinista, la classe dominante ha cercato di screditare in anticipo qualsiasi prospettiva di classe tesa a rovesciare il sistema capitalista. Non contento di cercare di distruggere qualsiasi idea di prospettiva rivoluzionaria si è anche sforzato di fare della lotta del proletariato una sorta di arcaismo da conservare come “memoria culturale” nel museo della Storia, come i fossili di dinosauri o la grotta di Lascaux.
E soprattutto, la borghesia ha continuato ad insistere senza sosta sulla scomparsa della classe operaia nella sua forma classica dallo scenario politico. Sociologi, giornalisti, politici e filosofi vari insistono incessantemente sull’idea che le classi sociali sono sparite, fuse nel magma informe delle “classi medie”.
E’ il sogno permanente della borghesia: una società nella quale i proletari si trasformano in semplici “cittadini”, divisi in categorie socio-professionali, più o meno ben individuabili e soprattutto attentamente divise - in colletti bianchi e colletti bleu, impiegati, precari, disoccupati, ecc. - con interessi divergenti e che si “uniscono” solo temporaneamente, isolati e passivi, nelle urne elettorali. E’ vero che il battage sulla sparizione della classe operaia, ripetuto ed illustrato con l’ausilio di reportage, libri, trasmissioni televisive… ha fatto si che molti proletari per il momento non riescono a concepirsi come parte integrante della classe operaia e ancor meno come classe sociale indipendente.
• Da questa perdita d’identità di classe del proletariato derivano le difficoltà ad affermare la sua lotta e le sue prospettive storiche. In un contesto nel quale la borghesia stessa non ha altro da offrire che l’austerità, dominano il ciascuno per sé, l’isolamento ed il si salvi chi può. La classe dominante sfrutta questi sentimenti per mettere gli sfruttati gli uni contro gli altri, dividerli per impedire ogni risposta unitaria, per spingerli alla disperazione.
• Il terzo fattore, conseguenza dei primi due, è che la brutalità della crisi tende a paralizzare molti proletari, per la paura di cadere nella miseria assoluta, di non poter nutrire la propria famiglia e di ritrovarsi in mezzo alla strada, isolati ed esposti alla repressione. Anche se alcuni, messi con le spalle al muro, sono spinti a manifestare la propria collera, come gli “Indignati”, non si concepiscono come una reale classe in lotta. Ciò, nonostante gli sforzi ed il carattere talvolta relativamente esteso dei movimenti, limita la capacità di resistere alle mistificazioni e alle trappole tese dalla classe dominante, a riappropriarsi delle esperienze storiche e trarre le lezioni con la necessaria riflessione e profondità.
• Vi è infine un quarto elemento importante che spiega le difficoltà attuali della classe operaia a sviluppare la sua lotta contro il sistema: l’arsenale di inquadramento della borghesia, apertamente repressivo, come le forze di polizia, o soprattutto più insidiose e ben più efficaci, come le forze sindacali. Su quest’ultimo aspetto in particolare, la classe operaia non è ancora pervenuta a superare i timori a lottare al di fuori del loro inquadramento, anche se sono sempre di meno quelli che si illudono sulla capacità dei sindacati a difendere i nostri interessi. E questo inquadramento fisico si accoppia ad uno ideologico più o meno controllato dal sindacato, i media, gli intellettuali, i partiti di sinistra, ecc. Quello che oggi la borghesia riesce a sviluppare di più è sicuramente l’ideologia democratica. Ogni avvenimento viene sfruttato per vantare i benefici della democrazia. La democrazia è presentata come il quadro in cui ogni libertà può svilupparsi, dove tutte le opinioni si esprimono, dove il potere è legittimato dal popolo, sono favorite le iniziative, tutti possono accedere alla conoscenza, alla cultura, ai sogni e, perché no, al potere.
In realtà la democrazia offre solo un quadro nazionale allo sviluppo del potere di élites, del potere della borghesia e il resto non è che un’illusione, l’illusione che nella cabina elettorale si possa esercitare qualsiasi potere, che nell’emiciclo parlamentare si possano esprimere le opinioni del popolo attraverso il voto dei propri “rappresentanti”. Non bisogna sottovalutare il condizionamento di questa ideologia sulle coscienze proletarie, così come non si deve dimenticare il grande choc provocato dalla caduta dello stalinismo alla fine degli anni ’80. A tutto questo arsenale ideologico si aggiunge l’ideologia religiosa. Questa non è nuova se si pensa che ha accompagnato l’umanità sin dai suoi primi passi nel bisogno di comprendere il mondo circostante. Non è nuova soprattutto se si considera fino a che punto essa ha contribuito a legittimare tutti i poteri nella storia. Ma oggi, il dato nuovo è che questa si innesta nelle riflessioni di una parte della classe operaia di fronte all’effetto distruttivo di un capitalismo in fallimento. Essa cerca di fuorviare questa riflessione spiegando la “decadenza” del mondo occidentale come conseguenza della perdita dei valori portati avanti dalle religioni nel corso dei millenni, in particolare da quelle monoteiste. L’ideologia religiosa ha la forza di ridurre a nulla l’estrema complessità della situazione. Essa dà risposte semplici, apparentemente facili da applicare. Nelle sue forma integraliste riesce a convincere solo una minoranza di proletari, ma in generale contribuisce a parassitare la riflessione della classe operaia.
… e un enorme potenziale
Questo quadro può sembrare un po’ disperato: di fronte ad una borghesia che controlla efficacemente le sue armi ideologiche, ad un sistema che sta minacciando se non addirittura portando alla miseria gran parte dell’umanità, c’è ancora la possibilità di sviluppare un pensiero positivo per far nascere una speranza? C’è ancora una forza sociale capace di mettere in atto un’operazione così grande come la trasformazione radicale della società? A ciò bisogna rispondere si, cento volte si, senza alcun dubbio. Non si tratta di avere una fiducia cieca nella lasse operaia, una fede quasi religiosa negli scritti di Marx o uno slancio disperato verso una rivoluzione già persa. Bisogna invece prendere un certo distacco nel valutare la situazione, operare un’analisi serena al di là delle questioni immediate, cercare di capire il valore reale delle lotte della classe operaia sulla scena sociale e studiare a fondo il ruolo storico del proletariato.
Nella nostra stampa abbiamo già analizzato come, a partire dal 2003, la classe sia entrata in una dinamica positiva rispetto al riflusso che aveva subito con il crollo dei paesi dell’Est. Numerose manifestazioni a conferma di questa analisi si trovano nelle lotte più o meno ampie di questo periodo. Lotte che mostrano tutte una progressiva riappropriazione da parte della classe di alcuni tratti storici della propria essenza: la solidarietà, la riflessione collettiva e l’entusiasmo di fronte all’avversità.
Abbiamo potuto vedere questi elementi all’opera nelle lotte contro le riforme delle pensioni in Francia nel 2003 e nel 2010-2011, nella lotta contro il CPE(Contratto di primo impiego), sempre in Francia nel 2006, ma anche in modo meno esteso in Gran Bretagna (aeroporto di Heathrow, raffinerie di Lindsay), negli stati Uniti (Metrò di New York), in Spagna (Vigo), in Egitto, a Dubai, in Cina, ecc. Il movimento degli Indignati ed di Occupy, in particolare, hanno espresso questa tendenza in maniera più generale ed ambiziosa rispetto alle lotte di singole imprese.
Cosa abbiamo visto nel movimento degli Indignati? Proletari di ogni genere, dal precario all’impiegato “stabile”, riunitisi per vivere un’esperienza collettiva ed ottenere da questa una migliore comprensione della posta in gioco del periodo. Abbiamo visto persone entusiasmarsi alla sola idea di potere di nuovo discutere liberamente con gli altri, persone discutere di esperienze alternative individuandone i pregi ed i difetti. Abbiamo visto persone rifiutarsi di essere vittime passive di una crisi che non hanno provocato e che non vogliono pagare. Persone che hanno messo in piazza assemblee spontanee, adottando forme di espressione che favorissero la riflessione ed il confronto, evitando le perturbazioni ed il sabotaggio delle discussioni. Infine e soprattutto, il movimento degli Indignati ha permesso lo schiudersi di un sentimento internazionalista, la comprensione che, in tutto il mondo, subiamo la stessa crisi e quindi è necessario lottare contro di essa al di là delle frontiere.
Certo non abbiamo quasi per nulla sentito parlare esplicitamente di comunismo, di rivoluzione proletaria, di classe operaia e di borghesia, di guerra civile, ecc. Ma ciò che hanno mostrato questi movimenti è stato anzitutto l’eccezionale creatività della classe operaia, la sua capacità di organizzarsi dovute alla sua caratteristica inalienabile di forza sociale indipendente. La riappropriazione cosciente di queste sue caratteristiche è ancora all’inizio di un percorso lungo e tortuoso, ma è inevitabilmente in marcia. Questa si accompagna indissolubilmente ad un processo di decantazione, di riflusso, di scoraggiamenti parziali. Ciononostante alimenta la riflessione di minoranze che si pongono in prima linea nella lotta della classe operaia a livello mondiale ed il cui sviluppo è visibile, quantificabile, da diversi anni.
E’ un processo sano, che contribuisce alla chiarificazione della posta in gioco alla quale classe operaia è oggi confrontata.
Quindi, anche se le difficoltà che si pongono alla classe operaia sono enormi, niente nella situazione attuale ci può far affermare che i giochi sono fatti, che essa non avrà la forza di sviluppare delle lotte di massa e poi rivoluzionarie. Al contrario, le espressioni viventi della classe si moltiplicano e studiandone approfonditamente la loro effettiva valenza, e non solo ciò che sembrano in apparenza dove si evidenzia solo la fragilità, ne emerge il potenziale e la promessa di futuro che esse contengono. Il loro carattere minoritario e sporadico è là per ricordarci che le principali qualità dei rivoluzionari sono la pazienza e la fiducia nella classe operaia[1].
Questa pazienza e fiducia si basa sulla comprensione di ciò che rappresenta storicamente la classe operaia: la prima classe al contempo espropriata e rivoluzionaria che ha la missione storica di emancipare l’intera umanità dal giogo dello sfruttamento. Si tratta di acquisire una visione materialista, storica, di lungo termine ed è questa visione che ci ha permesso di scrivere nel 2003, nel formulare il bilancio del nostro XV Congresso Internazionale: “Come affermano Marx ed Engels, non si tratta di considerare “ciò che questo o quel proletario od anche tutto il proletariato immagini momentaneamente come suo fine. Interessa solamente ciò che esso è e ciò che sarà storicamente costretto ad essere” (La Sacra famiglia). Una tale visione ci mostra in particolare che, di fronte ai colpi sempre più forti della crisi del capitalismo, che si traducono in attacchi sempre più feroci, la classe reagisce e reagirà necessariamente sviluppando la sua lotta. Questa lotta all’inizio consisterà in una serie di scaramucce che annunceranno uno sforzo verso lotte sempre più di massa. E’ in questo processo che la classe si vedrà di nuovo come una classe distinta, che ha degli interessi propri e tenderà a ritrovare la sua identità, aspetto essenziale che a sua volta stimolerà la lotta”.
GD, 25 ottobre
Il processo che si è tenuto a L’Aquila a fine ottobre è all’altezza delle ultime stupidaggini di tele reality. Si trattava di veri attori? Di una barzelletta di cattivo gusto? Si potrebbe anche crederlo. Ma no, non stiamo sognando! Il tribunale dell’Aquila ha realmente condannato i cinque scienziati della Commissione “Grandi Rischi” a sei anni di reclusione per “omicidio per imprudenza”. In concreto si rimprovera loro di aver utilizzato delle espressioni troppo rassicuranti in un comunicato stampa, proprio una settimana prima che arrivasse il sisma che ha distrutto l’Aquila, il 6 aprile 2009. Bisogna ricordarsi che questo sisma, di magnitudo 6,3 della scala Richter, fece più di 300 vittime ed oltre 1500 feriti, distruggendo numerosi edifici. Ma di qui a far portare tutta la responsabilità all’equipe di scienziati, ce ne passa! Soprattutto quando si prenda in considerazione la grande complessità di questo tipo di previsioni.
D’altra parte la comunità scientifica ha prontamente reagito: “Si fa portare agli scienziati la responsabilità di una catastrofe non prevedibile”, ha dichiarato all’Agenzia di stampa Sipa, Jean-Paul Montagner, professore di geofisica presso l’Istituto di Fisica della Terra di Parigi (IPGP) e all’Università di Parigi-Diderot. “E’ l’insieme del sistema che ha fallito, e si attribuisce la responsabilità agli scienziati.” O ancora : “E’ piuttosto sconcertante e sconvolgente”, stima Alexis Rigo, sismologo del CNRS di Tolosa. “Come si può condannare dei ricercatori su qualche cosa di imprevedibile?”[1].
Per vederci un po’ più chiaro, occorre fare un piccolo passo indietro, all’inizio del 2009.
All’epoca il territorio italiano era colpito da numerose scosse telluriche che inquietavano già la popolazione. Al di fuori di qualche lesione qua e là, non si lamentava tuttavia alcun danno, ma il ripetersi del fenomeno crea un tale stato d’animo che il presidente della Protezione Civile, Guido Bertolaso, aveva chiamato l’assistente alla Protezione Civile della Regione, Daniela Stati, per convocare una riunione della commissione “Grandi Rischi” una settimana prima della catastrofe.
Più recentemente, Repubblica TV ha diffuso delle intercettazioni telefoniche che ci informano su questa misteriosa chiamata tra Bertolaso e la sua assistente. L’oggetto di questa chiamata non potrebbe essere più chiaro : “Ti chiamerà De Bernardinis, adesso, il mio vice, al quale ho detto di fare una riunione lì all'Aquila domani su questa vicenda di questo sciame sismico che continua, in modo da zittire subito qualsiasi imbecille, placare illazioni, preoccupazioni, eccetera. ... Però devi dire ai tuoi di non fare comunicati dove non sono previste altre scosse di terremoto, perché quelle sono cazzate, non si dicono mai queste cose quando si parla di terremoti … Digli che quando devono fare comunicati parlassero con il mio ufficio stampa. … Vengono Zamberletti, Barberi, Boschi, quindi i luminari del terremoto d’Italia. Li faccio venire all’Aquila o da te o in prefettura, decidete voi, a me non frega niente, di modo che è più un’operazione mediatica, hai capito? Così loro, che sono i massimi esperti di terremoti diranno: è una situazione normale, sono fenomeni che si verificano, meglio che ci siano 100 scosse di 4 scala Richter piuttosto che il silenzio perché 100 scosse servono a liberare energia e non ci sarà mai la scossa, quella che fa male. Hai capito?”.[2]
Altrettanto illuminante è la telefonata tra Bertolaso e il sismologo Enzo Boschi. E’ il 9 aprile 2009 quando Bertolaso convoca una riunione di esperti della commissione Grandi Rischi ma prima chiama Boschi e dice: “Mi hanno chiesto: ma ci saranno nuove scosse?” dice Bertolaso “La riunione di oggi è finalizzata a questo, quindi è vero che la verità non la si dice”. Boschi risponde: “Non ti preoccupare, sai che il nostro è un atteggiamento estremamente collaborativo. Facciamo un comunicato stampa che prima sottoponiamo alla tua attenzione”.[3]
Ecco come il potere del capitale compra le parole degli scienziati per far “tacere gli imbecilli” e per liberarsi di misure di sicurezza troppo impegnative. Questa non è una novità. Ci ricordiamo bene la favolosa storia della nube radioattiva di Chernobyl che - ci dicevano nel 1986 - non avrebbe raggiunto l’Europa occidentale... Con un tale approccio, se ne può essere certi, la catastrofe è assicurata. E’ chiaro che per il potere si tratta di trovare dei colpevoli, per placare gli spiriti e ritrovare la pace. E da questo punto di vista, cosa poteva apparire più semplice e logico che incolpare gli scienziati di “negligenza, imprudenza e inesperienza”?[4]
Senza togliere la parte di responsabilità che tocca a questi scienziati[5], farne dei capri espiatori fortemente esposti sui media permette alle autorità di nascondere un’altra verità: le vere ragioni per cui gli effetti delle catastrofi naturali sono così devastanti e i veri responsabili.
Nel 2000, la situazione sismica della penisola italiana era stata oggetto di un rapporto molto dettagliato. Ugualmente alla fine degli anni 1990, “[il rapporto Barberi][6] raggruppava il lavoro di tecnici incaricati di verificare lo stato di migliaia di costruzioni pubbliche. Tutti i sindaci ne avevano ottenuto una copia. Numerosi monumenti de L’Aquila che sono crollati con il terremoto erano elencati in questo rapporto.”
“C’era anche un ex ingegnere che aveva lanciato un allarme basandosi sul rilevamento del radon, ricorda Jean-Paul Montagner. Nelle settimane che hanno preceduto il terremoto, Giampaolo Giuliani ha ripetutamente lanciato degli allarmi su un terremoto imminente a L’Aquila.” Con tali testimonianze, la responsabilità delle autorità non è più da dimostrare. Un’altra realtà che la borghesia italiana spera probabilmente di nascondere attraverso la frenetica ricerca di capri espiatori, è la propria indifferenza e incapacità a venire in aiuto della popolazione de L'Aquila. Come conclude l’articolo di Rue89: “Qui, 37.000 persone, in mancanza di meglio, vivono ancora attraverso gli aiuti di Stato. I lavori diventano eterni e la speranza che un giorno la città possa essere rimessa a nuovo è andata in fumo... E la politica di austerità del governo Mario Monti non ha alcuna priorità per l'assistenza alle vittime dei terremoti”, [ Rue89, 26/10/12].
Enkidu (5 dicembre 2012)
[1] Citazioni tratte dal Nouvel Observateur del 23/10/12.
[3] https://abexpress.it/ [331], leggi l'articolo [332], ascolta l’intercettazione [333].
[4] Processo verbale de L’Aquila citato ne Il Fatto quotidiano.
[5] Va infatti ricordato che questi hanno effettivamente ceduto alla pressione politica per rassicurare gli abitanti.
[6] “Il rapporto Barberi, dal nome dell’ex capo della Protezione Civile, era il più grande studio mai realizzato riguardante la vulnerabilità sismica del paese”, Rue89, 26/10/12.
Pubblichiamo qui di seguito il contributo di una lettrice che permette, alla luce delle ricerche in psicologia sociale e in neurologia, di capire meglio i legami tra le condizioni di vita ed i comportamenti di dipendenza da sostanze psicoattive. Spiegando i meccanismi che sono alla base di questo fenomeno crescente, questo contributo illustra un aspetto dell’impasse del capitalismo e tutto il cinismo della classe dominante. Prendere coscienza della realtà delle sofferenze generate dallo sfruttamento e dalla barbarie della società è importante. L’appello alla “coscienza collettiva” é, a questo titolo, perfettamente valido in quanto si tratta di un'arma degli sfruttati usata per criticare e rovesciare una società disumana. Noi ci teniamo dunque a salutare vivamente il contributo della compagna e ad incoraggiare questo approccio. Si precisa che i riferimenti di legge e le statistiche si riferiscono alla Francia, ma un discorso del tutto analogo vale per tutti gli altri paesi, compresa naturalmente l’Italia. Le note 9 e 11 sono state aggiunte all’articolo originale.
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Gli individui che sono senza lavoro sono costantemente stigmatizzati per la loro presunta mancanza di volontà, in particolare a causa del maggiore uso di psicofarmaci[1] che fanno rispetto al resto della popolazione, come testimoniato da numerosi studi che sono regolarmente realizzati sui comportamenti di dipendenza dei giovani e delle persone senza lavoro. Al contrario, ben pochi studi sono stati svolti sull’uso di psicofarmaci tra le persone professionalmente attive. Questa è tuttavia una realtà che colpisce molti lavoratori e le cui cause sono molteplici e spesso mascherate. Inoltre, le strutture e le azioni che vengono messe in campo da parte dello Stato per la lotta contro le dipendenze sono deboli e ipocrite.
Il consumo dei dipendenti pubblici esclusi e ansiosi di fronte all’avvenire
I dipendenti pubblici che perdono il lavoro consumano più tabacco, alcool, psicofarmaci (ansiolitici, antidepressivi, miorilassanti, ecc.) e droghe illegali. Così, secondo uno studio dell’INPES[2] condotto su 2594 disoccupati nel 2005, il 10,5% di loro erano dipendenti da alcool, il 12% consumava la cannabis e il 17,4% ingeriva psicofarmaci. Inoltre, il 45% dei destinatari di Reddito di solidarietà attiva ha problemi con l’alcool contro il 15% dei lavoratori attivi[3]. Anche i giovani sono vittime di un grande consumo di sostanze psicoattive. Secondo gli studi dell’OFDT[4] svolti nel 2002 e dell’ADSP[5] nel 2007, il 40% dei giovani di 18 anni fuma tabacco quotidianamente, contro il 29% delle persone di età tra 18 e 75 anni. Inoltre, il 10,5% dei giovani fanno un uso elevato di bevande alcoliche e il 13,3% fumano abitualmente cannabis.
Diverse spiegazioni possono essere avanzate a questo consumo elevato tra le persone alla ricerca di una integrazione sociale. Da un lato, alcuni autori ritengono che l’adolescenza e i suoi molteplici cambiamenti (fisiologici, psicologici, di transizione verso l'età adulta, ecc.) sia la causa principale dei comportamenti a rischio dei giovani. In effetti, gli adolescenti percepiscono l’alcol come un mezzo sia per vivere meglio questo sconvolgimento che genera un malessere, sia per creare legami sociali. E’ vero che se l’aspetto conviviale dell’alcool non è proprio dell’adolescenza, è comunque un modo percepito come efficace e facilmente accessibile da parte dei giovani. D’altra parte, i professionisti del settore delle bevande alcoliche conoscono questo fenomeno e sviluppano delle strategie di marketing indirizzate ai giovani consumatori che sono attirati da sapori dolci. Dei prodotti chiamati “premix” o “alcopops” sono creati a destinazione di questo pubblico. Questi superalcolici (vodka, whisky o rum) sono mescolati con bevande analcoliche fortemente zuccherate (bevande gassate o succhi di frutta) per nascondere il gusto forte di alcool. Ora, anche se la quantità di alcool ingerita è minore rispetto ad una bevanda alcolica tradizionale, il rischio è quello di dimenticare la loro gradazione alcolica e di consumarne in grandi quantità, cosa che ha delle gravi conseguenze su dei cervelli ancora in via di sviluppo.
D’altra parte, l’ansia per il futuro e la paura della disoccupazione legate alla situazione economica accentuano ugualmente il consumo di sostanze psicoattive delle popolazioni precarie. A tale riguardo, Isabelle Varescon mostra che la dipendenza da alcool è una conseguenza di un fallimento di fronte ad un compito. Questo fallimento si traduce in un sentimento di incompetenza personale e sociale. Attraverso il suo effetto analgesico, il consumo di sostanze psicoattive è un modo per superare la scarsa considerazione che l’individuo ha di se stesso.
La ricerca di un legame sociale attraverso l’alcool e l’effetto analgesico di sostanze psicoattive sono strategie di adattamento di cui spesso troppo tardi i consumatori si rendono conto del loro potere ulteriormente destabilizzante.
Il consumo dei lavoratori
La stessa inchiesta dell’INPES, condotta su 15.994 “occupati attivi” di età compresa tra 16 a 65 anni, ha stimato che il 28,1% degli intervistati fuma regolarmente, il 13,8% assume psicofarmaci, l’8.1% ha una dipendenza da alcool e l’8% fa uso di droghe illecite.
Questa inchiesta ha ugualmente mostrato che esistono dei legami tra il tipo di sostanza utilizzata e l’ambiente di lavoro. A parte il settore finanziario, nessun altro settore sembra essere risparmiato. Ma i settori delle costruzioni e dei trasporti sono i più colpiti nella misura in cui l’uso di tabacco, di alcool, di psicofarmaci e di droghe illegali è superiore a tutti gli altri ambienti professionali. Un consumo eccessivo di tabacco e di droghe illecite è dimostrato anche nell’ambiente della ristorazione. Per quanto riguarda i farmaci psicotropi, nelle persone dedite ad attività domestiche o amministrative si registra un consumo più importante che in altri settori, come l’industria, i servizi e la ristorazione.
Studi recenti hanno mostrato che l’alto consumo di sostanze psicoattive in campo professionale è il risultato di un malessere sul lavoro che si traduce con uno stress. Lo stress appare quando una situazione di lavoro supera le capacità normali di un individuo (risorse adattative)[6]. Per far fronte a queste situazioni tese di lavoro, i lavoratori sviluppano delle strategie di adattamento. In questo quadro, i dipendenti che fanno uso di sostanze psicoattive lo fanno per gestire al meglio il loro stress o per aumentare la loro capacità di lavorare[7]. In particolare, l’esperienza Niezborala (2000) mostra che su 2.106 lavoratori attivi intervistati durante il periodico controllo della salute sul lavoro, quasi uno su tre consuma sostanze psicoattive per far fronte alle difficoltà sul luogo di lavoro. Così, “il 20% utilizza un farmaco per essere “in forma al lavoro”, il 12% prende il proprio farmaco sil loro posto di lavoro per affrontare un “sintomo fastidioso”, e il 18% utilizza un medicinale “per rilassarsi alla fine di una giornata difficile”.
Altri autori, come Reynaud-Maurupt e Hoare (2010) e Fontaine e Fontana (2003) ritengono inoltre che un consumo eccessivo di sostanze psicoattive riguardino essenzialmente i lavoratori attivi che hanno delle condizioni di lavoro penose, che inducono il “bisogno di sentirsi superuomini”. Questa strategia mira a migliorare le prestazioni, al fine di adattarsi alle esigenze professionali. Inoltre, Angel mostra che i salariati che hanno delle condizioni di lavoro fisico e penoso consumano più sostanze psicoattive rispetto ai dipendenti di altri settori di attività.
Il consumo di sostanze psicoattive è dunque una strategia per far fronte allo stress da lavoro. Questo fenomeno è la diretta conseguenza del lavoro faticoso e della crescente precarietà. Allo stesso modo, l’isolamento sociale all’interno dell’impresa e nella vita privata, di cui sono sempre più vittime i lavoratori, conduce al rischio di un consumo accresciuto. Questo consumo permette, da un lato, di ripristinare i legami sociali attraverso un uso collettivo (tabacco e alcool in particolare) e, in secondo luogo, di sopportare meglio i disturbi fisici e psicologici legati al lavoro (alcool, psicofarmaci e droghe illecite soprattutto).
Come rispondere allo sviluppo dei comportamenti di dipendenza?
Questo consumo eccessivo di sostanze psicoattive tra i lavoratori precari del settore pubblico e tra quelli che hanno delle condizioni di lavoro che agiscono sulla loro salute fisica e mentale hanno delle conseguenze drammatiche. Infatti, ogni anno in Francia, circa 45000 decessi sono direttamente correlati all’abuso di alcool. Questo consumo di sostanze genera anche dei conflitti, degli incidenti sul lavoro, delle malattie di breve e lungo periodo, dei suicidi, ecc. Hassé Consultants e Angel stimano che in media il 20% degli incidenti e dei blocchi del lavoro siano legati al consumo di sostanze psicoattive. Inoltre, nel 40-45% dei casi, gli incidenti mortali sul lavoro sono il risultato diretto di un loro uso eccessivo.
Alcune strutture ed azioni vengono messe in campo per lottare contro le dipendenze, in particolare dei centri per la disintossicazione. Questi centri accolgono, in un contesto di ospedalizzazione, delle persone in condizioni di dipendenza da un prodotto psicoattivo.[8] In un primo tempo viene imposta una disintossicazione fisica di circa una settimana, poi viene proposta una disintossicazione psicologica più lunga. In occasione di questa disintossicazione psicologica, sempre più le strutture scelgono di informare i pazienti sul funzionamento fisiologico delle dipendenze. Così viene messa spesso in atto una fase tesa a rimuovere il senso di colpa attraverso la comprensione dei meccanismi cerebrali di dipendenza.
Nel quadro di un consumo eccessivo di alcool, per esempio, l’etanolo squilibra i recettori sui neuroni, chiamati recettori GABA.[9] Questi recettori, divenuti dipendenti, solleciteranno per tutta la vita una quantità crescente di etanolo per essere soddisfatti. L’arresto del consumo di alcool si rivela dunque estremamente difficile in quanto appare una sindrome da astinenza, più o meno importante a seconda degli individui. In questi casi viene allora consigliata un’astinenza a vita nella misura in cui questi recettori non ritroveranno mai un funzionamento normale. Così, una piccola quantità di alcool ingerito è sufficiente per riattivare questo processo.
Tuttavia, la disintossicazione è niente a confronto delle difficoltà future dell’ex alcool-dipendente. In realtà, oltre alla difficoltà a sfuggire alle numerose sollecitazioni sociali (feste, riunioni di famiglia, cene di lavoro, ecc.), tutto è fatto per spingerlo a consumare bevande alcoliche. Per quanto riguarda le bevande analcoliche che dire, se non che non è molto “divertente” visto che ...queste contengono per la maggior parte dell’alcol?! Sì, una sordida legislazione vuole che al di sotto di 1,2° di etanolo, le bevande possano essere etichettate come “senza alcool”[10], senza indicare nella loro etichetta che invece questo è presente, pur sapendo che la minima quantità di alcool è sufficiente per la ricaduta[11].
Ecco la prova che le ricadute sono dovute ad una mancanza di volontà degli alcolizzati! ... Quanto al loro lavoro, ammesso che ne abbiano uno, questo non va a migliorare durante la loro terapia. Ah, questi lavoratori che hanno la fortuna di avere un lavoro e un padrone gentile che li aspetta dopo il loro “piccolo problema personale!” ... purché mantengano la stessa docilità di prima della loro terapia! In caso contrario, che vi ricadano in fretta! Sarà sempre un mezzo di pressione supplementare perché il lavoro sia fatto rapidamente e senza reclami.
L'esclusione sociale è in crescita a causa della precarizzazione del lavoro, la disoccupazione, le difficoltà finanziarie, ecc., e le condizioni di lavoro sono più difficili. L’isolamento sociale, che spesso ne è la conseguenza, aumenta e diventa persistente. Gli individui cercano delle soluzioni a questa degenerazione lenta e laboriosa. Queste soluzioni possono assumere varie forme: la lotta contro queste condizioni di vita o l’abbandono. Lottare contro delle condizioni di vita penose non dovrebbe mai essere fatto adattando il proprio organismo a queste condizioni mediante delle sostanze psicoattive. Lottare contro l’origine del problema sarebbe molto più efficace ma questa lotta, piuttosto che una risposta individuale, richiede una coscienza collettiva.
Agnosia, 17 settembre
[1] Le sostanze psicoattive (tabacco, alcool, psicofarmaci e droghe illegali) agiscono sul funzionamento del cervello degli individui modificandone il loro comportamento.
[2] Istituto Nazionale per la prevenzione e l’educazione sanitaria.
[3] I dati sono tratti dal sito web ALPA (alcol, prevenzione e assistenza).
[4] Osservatorio francese delle droghe e delle tossicodipendenze.
[5] Attualità e Dossier in Salute Pubblica.
[6] Guillet, Hermand et Py (2003).
[7] Angel, Amar, Gava et Vaudolon (2005).
[8] In generale, alcol e droghe illegali.
[9] G. Giannelli, G. Smeraldi, L. Agostini, M. Stella. "Alcool: effetti tossicologici e comportamentali [334]". Bollettino degli Ordini dei Medici e degli Odontoiatri della Romagna n. 4, 1998.
[10] Articolo L3321-1 del codice della sanità pubblica
[11] Si tratta dei soft drink [335], che per la legislazione italiana sono definite bevande analcoliche pur essendo consentito un tasso di alcool fino all’1% (vedi Osservatorio Internazionale Food-Beverage-Equipment, https://www.oifb.com/index.php?option=com_content&view=category&id=32&Itemid=59 [335]).
Così scrisse Marx nel 1848, nel Manifesto del Partito Comunista. Il capitalismo, alla fine, è durato più a lungo di quanto Marx si aspettasse, ma la lotta di classe è più che mai presente in giro per il mondo. Se i lavoratori del 1848 potevano fare affidamento sulle ferrovie, che non furono certo create per il loro bene, i lavoratori e i rivoluzionari del 2013 si basano sempre più su Internet per diffondere le loro idee, per discutere, e - speriamo - a poco a poco per forgiare quella “unione che si estende sempre più” di cui parlava Marx. Internet ha profondamente modificato il nostro modo di lavorare, e soprattutto il nostro modo di comunicare.
Quando la CCI fu costituita nel 1975, Internet, naturalmente, non esisteva: le idee venivano diffuse attraverso i giornali, distribuiti in centinaia di piccole librerie radicali che spuntarono in seguito al maggio francese, all’autunno caldo e ad altre lotte simili in tutto il mondo alla fine degli anni ‘60. La corrispondenza veniva condotta attraverso la posta, con lettere spesso scritte a mano! Per trovare dei rivoluzionari in altri paesi, non c’era altra soluzione che recarvisi fisicamente nella speranza che sarebbe stato possibile stabilire un contatto.
Oggi tutto questo, tranne il contatto fisico, si è spostato dalla carta ai supporti elettronici. E mentre una volta vendevamo i nostri giornali e riviste nelle librerie di tutto il mondo, oggi le nostre vendite avvengono soprattutto nelle manifestazioni e nei luoghi di lavoro in lotta.
La nostra stampa si è sempre basata sulla condivisione di articoli oltre i confini nazionali, cercando in questo modo di contribuire allo sviluppo di una visione internazionalista nella classe operaia. Oggi, la maggiore velocità dei media elettronici ha reso possibile per le sezioni della CCI lavorare più strettamente assieme, in particolare per quelle sezioni che condividono la stessa lingua, e vogliamo usare questa occasione per rafforzare l’unità internazionale della nostra stampa.
Tutto questo ci ha condotto a rivedere la nostra stampa e in particolare il posto relativo della stampa elettronica e di quella cartacea nel nostro intervento complessivo. Noi siamo convinti che la stampa cartacea rimane una parte vitale del nostro arsenale - è attraverso la stampa cartacea che possiamo essere presenti sul campo, direttamente nelle lotte. Ma la stampa cartacea non gioca più esattamente lo stesso ruolo che in passato: essa ha bisogno di diventare più flessibile, adattabile a situazioni che evolvono.
Date le nostre forze limitate, siamo giunti alla conclusione che, se vogliamo rafforzare e migliorare il nostro sito web, dobbiamo al tempo stesso ridurre lo sforzo messo nella stampa cartacea. Una delle prime conseguenze di questo riorientamento delle nostre pubblicazioni è perciò una riduzione della frequenza delle pubblicazioni cartacee. Concretamente, nel caso della stampa in lingua italiana, questo significa che il giornale passerà da 5 a 4 numeri all’anno.
Siamo solo all’inizio della nostra riflessione sulla stampa ed è possibile che, nel corso di quest’anno, ci siano ulteriori cambiamenti, in particolare nel modo in cui il nostro sito è strutturato. Saremo ben lieti se i nostri lettori vorranno coinvolgersi in questo sforzo, trasmettendoci i loro suggerimenti per mail.
Tutto quello che abbiamo detto sopra vale, ovviamente, per quelle zone dove l’accesso a Internet è molto diffuso. Esistono però ancora regioni in cui la mancanza o la difficoltà di accesso a Internet fa sì che la stampa cartacea continui a giocare lo stesso ruolo ricoperto in passato. Ciò vale in particolare per l’India e l’America Latina, per cui stiamo lavorando con le nostre sezioni in India, Messico, Venezuela, Perù ed Ecuador per capire come meglio adattare la stampa cartacea alle condizioni di quei paesi.
Stiamo scrivendo separatamente a tutti gli abbonati su ciò che questo significa per la durata e il futuro dei loro abbonamenti. Ovviamente incoraggiamo ancora fortemente i nostri lettori a sostenere il nostro lavoro facendo delle sottoscrizioni per le pubblicazioni e chiedendo delle copie in più da vendere.
CCI 5 gennaio 2013
giugno-settembre 2013
Lo sviluppo degli eventi
Nel novembre 2011 il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, in una situazione in cui il governo Berlusconi risultava gravemente screditato sia all’interno del paese che all’estero, impone al suo leader di fare un passo indietro dando incarico a Monti di costituire un nuovo governo. Il nuovo esecutivo riesce nell’intento di risollevare la credibilità dell’Italia come paese-azienda, ma al costo di lacrime di sangue della popolazione. Un altro pedaggio pesante lo pagano i due partiti maggiori, il PD e il PDL, costretti nonostante la loro reciproca rivalità storica a sostenere entrambi lo stesso governo, il che evidentemente non può che produrre un’usura della loro reputazione. Tanto che il PDL si sfila dal governo prima della sua scadenza naturale proprio per poter meglio demarcarsi rispetto ai rivali nelle imminenti elezioni politiche del 2013.
Le elezioni regionali del 28 ottobre 2012 in Sicilia danno un segnale importante di questa usura e perdita di controllo dei partiti maggiori nei confronti del territorio, in particolare della destra e di Berlusconi sul territorio siciliano dove, in altri tempi, i risultati elettorali si erano conclusi con un cappotto a favore della destra. Se il governo della regione passa a una coalizione di sinistra, questo si fa sulla base di un’affluenza alle urne che si riduce dal 66,68% al 47,42% delle precedenti amministrative del 2008. Dunque i risultati esprimono un primo segnale di un discredito diffuso in tutto il paese nei confronti dei partiti tutti. Infatti, il Movimento 5 stelle diventa a sorpresa, con il suo quasi 15%, il primo partito a livello regionale.
Se possibile, le elezioni politiche del febbraio 2013 costituiscono un ulteriore e ancor più forte choc. Infatti, chi pregustava già una fase politica finalmente liberata perlomeno dagli oltranzismi spudorati e arroganti del berlusconismo, ha dovuto assistere con amarezza alla rimonta del cavaliere che, benché in parte annunciata alla vigilia, ha sorpreso tutti, così che la vittoria del PD e del centro sinistra, se di vittoria si può parlare, è stata di stretta misura. Ma ancora una volta è il Movimento 5 Stelle che si è imposto incredibilmente come primo partito a livello nazionale arrivando da solo a competere con le rispettive coalizioni di centro-sinistra e di destra. La riduzione dell’affluenza alle urne scende di oltre 5 punti rispetto alle precedenti politiche, dall’80,46 al 75,21%, mostra che quella situazione di perdita di credibilità dei due schieramenti maggiori, già registrata 4 mesi prima in Sicilia, si conferma a livello nazionale con voti persi da entrambi i partiti maggiori sia attraverso il calo di affluenza alle urne (5%) sia nella migrazione di voti verso il partito di Grillo (25,55% alla Camera).
L’interludio che ha portato, alla fine, all’attuale governo Letta, è anch’esso di notevole significato e occorre rievocarne alcuni passaggi. Il PD, nominalmente vincitore delle elezioni ma di fatto vero perdente, ha imbroccato una serie interminabile di passi falsi arrivando alla fine a una vera debacle che ha portato alle dimissioni del segretario Bersani e a cedere il passo alla corrente più aperta ad un dialogo con la destra. I passaggi sono stati segnati prima da una corte sfrenata al M5S per indurlo a partecipare al governo, poi dalla candidatura di Marini alla presidenza della Repubblica, che è stato il primo schiaffo in faccia a tutta quella parte del popolo di sinistra che si aspettava una svolta anche attraverso questa elezione. D’altra parte lo stesso M5S, che ha giocato a fare l’innamorata schizzinosa con il PD, aveva avanzato e fatta propria la candidatura di una figura del mondo della sinistra quale Stefano Rodotà. Ma, di fatto, sia Marini che Rodotà sono stati bocciati dallo stesso PD che non è riuscito a trovare un’unità su nomi del suo stesso partito, tanto da ricorrere all’aiuto in calcio d’angolo del presidente della repubblica uscente che è stato costretto a ricandidarsi per superare lo stallo in cui il PD era caduto. La lacerazione che ne è seguita è quella che ha suggellato l’ulteriore indebolimento del PD e una sorta di genuflessione nei confronti del PDL che, a questo punto, è giustamente entrato in campo come il “salvatore della patria”.
La formazione del governo Letta ha fatto registrare nell’animo della gente comune un vero ultimo schianto. E’ come se tutta una serie di attese, di speranze e di sacrifici per cui si era vissuto fino a quel momento fossero stati in un istante vanificati. Tutte le aspettative diffuse dalle campagne sull’antiberlusconismo, cavallo di battaglia da sempre della sinistra, portavano adesso al suo opposto, al famigerato governo delle larghe intese, messo sotto ricatto fin dal primo giorno da un Berlusconi mai veramente domato. Letta sembra più una controfigura che un capo di governo mentre è Berlusconi che ha guadagnato alla grande, con un conflitto perenne tra PD e PDL in cui Berlusconi tiene sotto tiro Letta e usa questo governo per navigare a vista pronto a mollare tutto quando gli farà comodo. E’ un governo costruito contro ogni promessa elettorale. Il popolo di sinistra è andato a votare per dire basta a Monti e a Berlusconi soprattutto, e dopo chi si ritrova? Una sconfitta totale ed un governo con il peggior nemico. Questo ha creato uno schianto morale per il popolo della sinistra tra cui moltissimi hanno dichiarato che non avrebbero più votato. La prospettiva è quindi di forte instabilità, anche a livello internazionale.
L’ultimo atto di questo breve riepilogo è costituito dalle elezioni amministrative del maggio 2013. Come tutti sappiamo queste elezioni, alquanto stranamente, hanno attribuito una schiacciante vittoria alla sinistra che, tra primo e secondo turno, ha fatto cappotto al PDL vincendo per 16 a 0 nelle città capoluogo di provincia. Ora bisogna subito precisare che, nonostante la loro natura di elezioni locali a cui si attribuisce usualmente una minore rilevanza, queste elezioni costituiscono un episodio particolarmente illuminante per il semplice fatto che sono state assolutamente omogenee dal nord al sud, mostrando di esprimere più gli orientamenti generali del paese che degli interessi locali. Cosa è venuto fuori? La prima cosa è che non è affatto vero che il PD abbia vinto ma che invece ha perso una barca di voti e che, se è riuscito a piazzarsi davanti al PDL, è perché questo ha perso ancora di più. In una situazione in cui a livello nazionale il voto è crollato mediamente del 15%, risulta emblematica la situazione di Roma, con i suoi 2.359.263 aventi diritto al voto e una percentuale di votanti inferiore al 53%. Facendo riferimento alle percentuali assolute di voti sugli aventi diritto al voto e non alle percentuali relative ai votanti viene fuori uno scenario che è veramente raccapricciante per i partiti di governo. Infatti, rispetto alle precedenti amministrative del 2008, il PD scende dal 25,03% al 13,87%, ma riesce a vincere grazie al fatto che chi prima aveva vinto, il PDL con il 26,89%, adesso si ferma ad un misero 10,14%. Lo stesso discorso lo si può fare nelle altre città. La stessa Lega è stata ridotta a effimera rappresentanza di un passato ormai tramontato.
Ma la sorpresa è che anche chi, solo 4 mesi prima, aveva sorpreso per l’exploit mostrato alle politiche, il M5S di Grillo, adesso risulta completamente sconfessato dalle urne delle amministrative. Questo movimento, che abbiamo già caratterizzato come bluff populista, è condotto da un vertice che non ha nulla “di sinistra” e la cui parola d’ordine è “lo Stato può funzionare se a gestirlo saremo noi”, dimostrando così come questo movimento non metta minimamente in discussione l’ordine delle cose esistenti. Altra cosa è però l’illusione che si è fatta chi ha votato il M5S e che si aspettava che, dopo tanto urlare, con tutti i voti presi, qualcosa si potesse fare. Grillo non ha escluso l’occupazione del potere (in varie città sta al potere o collabora), ma probabilmente la vittoria alle politiche ha creato un contesto nuovo. E’ come se Grillo e Casaleggio avessero capito di essere arrivati un po’ troppo avanti rispetto alle aspettative e avessero avuto timore di andare oltre. Partecipare al governo potrebbe essere stato un passo troppo rischioso per loro perché, finché si è minoranza o si sta all’opposizione, si può dare la colpa agli altri, ma se si assumono responsabilità governative, si rischia di rimanere invischiati e di bruciare le posizioni guadagnate. Al tempo stesso i voti che hanno ricevuto sono tanti che questa loro riluttanza ad andare al governo li ha posti in contraddizione rispetto a chi li ha votati e che avrebbe voluto, dopo tante promesse, che adesso si mettesse a frutto il ricco pacchetto di parlamentari acquisito. Forse anche per questo in Sicilia, dopo che Grillo aveva dichiarato “Il modello siciliano? Meraviglioso”, il M5S ha rotto con l’appoggio esterno alla giunta siciliana PD-UDC di Crocetta. Su questa base si può ben capire come il M5S, che era riuscito a fare il pieno del voto di protesta dell’elettorato alle politiche diventando addirittura il primo partito a livello nazionale, sia caduto a percentuali anche 10 volte più basse alle amministrative.
Il peso della decomposizione sull’apparato politico
Come si vede la sequenza di avvenimenti, che è regolata da uno scontro continuo tra le varie formazioni politiche della borghesia, talvolta sembra essere dettata dall’assenza più assoluta di una logica. Se questo avviene è perché, nella misura in cui ci troviamo di fronte ad una crisi economica che non ha alcuna via d’uscita, che questa società non offre alcuna prospettiva, le stesse forze politiche borghesi in campo non sono più capaci di dare una visione di marcia credibile e dunque di avere un controllo serio sull’elettorato. E’ quello che abbiamo definito come la fase di decomposizione del capitalismo[1]. In più la situazione italiana è stata particolarmente marcata dall’affare Tangentopoli dei primissimi anni ’90 che, sotto le mentite spoglie di un’operazione della magistratura, è stata in realtà l’espressione dello scontro a morte tra due diverse frazioni della borghesia, l’una per mantenere il controllo degli USA sulla politica dell’Italia, l’altra per liberarsene. Questo scontro ha condotto, come è noto, a cancellare letteralmente il vecchio quadro politico governativo incentrato sulla DC spingendo nuove formazioni politiche a entrare in gioco per riempire il vuoto rimasto. Ma i vari partiti che via via si sono costituiti hanno tutti mostrato una grande precarietà politica. In particolare tutti sono nati sotto il carisma di un capo, caduto il quale il partito è andato in sofferenza. Si veda ad esempio il rapporto tra PDL e Berlusconi, Lega Nord e Bossi, Italia dei Valori e Di Pietro fino al M5S e Grillo. Tra questi partiti, in mancanza di alternative percorribili, si sviluppa sempre più il populismo, di destra o di sinistra.
La sinistra, e in particolare il PD, costituisce invece l’ultimo frammento di quella classe politica che ha una tradizione politica e quello che si chiama “senso dello Stato”, che significa assunzione di responsabilità di fronte ai problemi dell’insieme della borghesia di quel paese. Ma questo non significa che non ci siano problemi anche per il PD e che la decomposizione non si avverta anche in questo partito. Solo che questa decomposizione si esprime in maniera diversa e si produce a partire da un contesto diverso. Il PD infatti si è caratterizzato fondamentalmente per una mancanza di iniziativa e questo perché esso viene fuori dalla confluenza dei due vecchi partiti che tradizionalmente si sono combattuti per quarant’anni dalla fine della guerra fino al crollo del muro di Berlino, la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista Italiano. Per cui tutte le volte che, di fronte a delle difficoltà, emergono le due diverse anime del partito, come adesso in occasione di tutta la faccenda post-elettorale, il partito si spacca e si paralizza. In più, in quanto partito “di sinistra”, il PD ha qualche difficoltà a proporsi come gestore dell’emergenza e come massacratore della popolazione, visto che gli risulta sempre più difficile trovare in nome di che proporre ulteriori attacchi.
Può il M5S essere la risposta che la gente cerca?
Di fronte a questo sconquasso dell’apparato politico della borghesia è chiaro che la gente sta cercando freneticamente un’alternativa valida, che è stata intravista ad un certo momento nel movimento di Grillo, tanto che un terzo dei votanti alle politiche ha fatto affidamento sul M5S. Ma può essere il M5S la risposta che la gente cerca? Su questo, in aggiunta a quanto abbiamo già detto in passato[2], vogliamo sviluppare solo due punti ulteriori. Il primo riguarda la “democrazia interna” di questo cosiddetto movimento. Le espulsioni continue dal movimento, decretate direttamente dal líder máximo Beppe Grillo e motivate sulla base del fatto che non si è d’accordo con un “non statuto”, sono un’offesa alla dignità e all’intelligenza umana. Ammesso pure che Grillo e Casaleggio siano delle grandi teste (e non aggiungiamo altro!), può questo bastare per imporre a tutti i partecipanti al M5S di spegnere il proprio cervello e di sfilare come tanti soldatini di fronte ai generalissimi?
In secondo luogo vogliamo attirare l’attenzione dei lettori su quanto riportato sul blog di Grillo il 26 maggio scorso in cui l’ex comico, per giustificare il proprio fallimento alle amministrative, ne attribuisce la responsabilità a quell’“Italia di serie A” che, “guidata dall’interesse personale” sosterrebbe “tutti gli altri partiti” e che sarebbe “composta da chi vive di politica, 500.000 persone, da chi ha la sicurezza di uno stipendio pubblico, 4 milioni, dai pensionati, 19 milioni”, un’Italia interessata “allo status quo” e pronta a sventolare la “bandiera del ‘teniamo famiglia’”, che avrebbe scelto per “se stessa e poi per il paese”, a differenza di un’altra Italia, stavolta di serie B, che avrebbe deciso per il bene del paese e avrebbe votato “rischiando” per il Movimento, un’Italia composta da “lavoratori autonomi, cassintegrati, precari, piccole e medie imprese, studenti”, un’Italia di “sfrattati, imprenditori falliti, disoccupati che si danno fuoco, si buttano dalla finestra o si impiccano.”
Ma non esistono le due Italie così dipinte perché è solo grazie all’aiuto di genitori con uno stipendio da statale o una pensione che i figli studenti, disoccupati o precari possono tirare a campare. E’ solo attraverso una salda solidarietà tra generazioni che la popolazione italiana e mondiale sta riuscendo a reggere l’impatto della crisi. Inoltre evidentemente Grillo non capisce cosa significa per una famiglia tirare a campare con una miserabile pensione a volte anche di sole 400-500 euro al mese o con uno stipendio da statale di poco più di 1000 euro. Se esistono ancora “posti fissi” nelle strutture pubbliche, diventa questo elemento di vergogna e di biasimo per chi si è sottoposto allo sfruttamento capitalista per tutta una vita?
In sostanza questo tentativo di dividere i lavoratori tra lavativi (col posto fisso e pensionati) e non (cassintegrati, precari e disoccupati) è esattamente quello che hanno sempre fatto tutte le forze della borghesia: mettere gli uni contro gli altri settori della stessa classe, che hanno gli stessi interessi, e che si scambiano continuamente di ruolo per cui un operaio oggi al lavoro domani potrà essere cassintegrato, precario e finanche disoccupato, e viceversa. Questa opera di divisione e il mescolare gli uni e gli altri con settori della classe dominante, i politici da una parte, gli imprenditori dall’altra, sono l’esatto contrario di quello che serve ai proletari: il concepirsi come una classe, un corpo unico che comprende la stragrande maggioranza della gente, la cui forza coesa può, lei si, cambiare le cose.
Ezechiele 16/06/2013
Un’ondata di proteste contro l’aumento del prezzo dei trasporti pubblici si sta sviluppando attualmente nelle grandi città del Brasile, particolarmente nella città di San Paolo, ma anche a Rio de Janeiro, Porto Alegre, Goiânia, Aracaju e Natal. Questa mobilitazione raccoglie dei giovani, studenti liceali e universitari e in una misura minore ma non trascurabile anche dei lavoratori salariati e autonomi.
La borghesia brasiliana, con alla testa il Partito del Lavoro (PT) e i suoi alleati, ha insistito per riaffermare che tutto andava bene. E questo mentre in maniera evidente esistono delle grandi difficoltà a contenere l’inflazione nel momento in cui vengono adottate delle misure di sostegno ai consumi delle famiglie per evitare che l’economia entri in recessione. Senza alcun margine di manovra, la sola alternativa sulla quale può appoggiarsi per contenere l’inflazione consiste, da una parte, nell’aumento del tasso di interesse e dall’altra nel ridurre le spese dei servizi pubblici (la scuola, la salute e lo stato sociale).
In questi ultimi anni sono scoppiati molti scioperi contro la riduzione dei salari e la precarizzazione delle condizioni di lavoro, della scuola e del sistema di assistenza. Tuttavia, nella maggioranza dei casi, gli scioperi sono stati isolati dal cordone sanitario dei sindacati legati al governo dominato dal PT e il malcontento è stato contenuto in modo da non rimettere in questione la “pace sociale” a beneficio dell’economia nazionale. E’ in questo contesto che sono intervenuti l’aumento del prezzo dei trasporti a San Paolo e nel resto del Brasile: sempre più sacrifici per i lavoratori per sostenere l’economia nazionale, cioè il capitale nazionale.
Senza alcun dubbio, gli esempi dei movimenti che sono esplosi nel mondo in questi ultimi anni, con la partecipazione della gioventù, mettono in evidenza che il capitalismo non ha altra alternativa da offrire per il futuro dell’umanità che la disumanità. E’ per questo che la recente mobilitazione in Turchia ha avuto un’eco così forte nelle proteste contro il costo dei trasporti in Brasile. La gioventù brasiliana ha mostrato di non voler accettare la logica dei sacrifici imposti dalla borghesia e s’inscrive nelle lotte che hanno scosso il mondo in questi ultimi anni, come la lotta dei figli della classe operaia in Francia (lotta contro il CPE nel 2006), della gioventù e dei lavoratori in Grecia, Egitto e in Africa del Nord, degli Indignati in Spagna, degli “Occupy” negli Stati Uniti e in Gran Bretagna.
Une settimana di proteste e la reazione brutale della borghesia
Incoraggiate dal successo delle manifestazioni nelle città di Porto Alegre e di Goiânia, che hanno dovuto far fronte ad una forte repressione e che, nonostante ciò, sono riuscite ad ottenere la sospensione dell’aumento del prezzo dei trasporti, sono partite delle manifestazioni anche a San Paolo il 6 giugno. Queste sono state indette dal Movimento per il libero accesso ai trasporti (MPL), gruppo costituito in maggioranza da giovani studenti influenzati da posizioni di sinistra, ed anche anarchiche, che ha visto un aumento sorprendente dei suoi aderenti tra 2000 e 5000 persone. Altre manifestazioni si sono avute poi il 7, l’11 e il 13 giugno. Dall’inizio la repressione è stata brutale ed ha portato a numerosi arresti e a molti giovani feriti. Bisogna sottolineare il coraggio e la combattività dei manifestanti e la simpatia che hanno rapidamente suscitato, fin dall’inizio, nella popolazione, a un livello tale che la cosa ha sorpreso gli stessi organizzatori.
Di fronte alle manifestazioni, la borghesia ha scatenato un livello di violenza non comune nella storia di movimenti di questo tipo, violenza perfettamente ripresa dai mezzi di comunicazione che si sono precipitati a qualificare i manifestanti come dei vandali e degli irresponsabili. Una persona altolocata nella gerarchia statale, il procuratore Rogério Zagallo, si è esposto pubblicamente consigliando alla polizia di picchiare e di uccidere: “Sono due ore che cerco di tornare a casa ma c’è una banda di scimmie in rivolta che bloccano le stazioni Faria Lima et Marginal Pinheiros. Qualcuno può informare la Tropa de Choque [una sorta di squadra antisommossa, unità d’élite della polizia militare] che questa zona fa parte della mia giurisdizione e che se ammazzano qualcuno, questi figli di puttana, sarò io a istruire l’inchiesta poliziesca (…). Come si fa a non avere nostalgia dell’epoca in cui questo genere di cose si risolvevano con un proiettile di gomma nella parte posteriore di queste merde”.
Oltre a questo, c’è stata una successione di discorsi di uomini politici appartenenti a partiti avversari tra di loro, come il governatore di Stato Geraldo Alckmin, del PSDB (Partito della Socialdemocrazia brasiliana) e il sindaco di San Paolo, del PT, ma che si sono pronunciati entrambi in difesa della repressione poliziesca e per condannare il movimento. Una tale sintonia non è comune, visto che il gioco politico della borghesia consiste tipicamente nell’attribuire la responsabilità dei problemi che si pongono alla frazione borghese che si trova in quel momento al potere.
In risposta alla crescente repressione e alla cortina di fumo dei principali giornali, catene televisive e radio, sempre più partecipanti si sono riuniti ad ogni mobilitazione, fino a 20.000 persone giovedì scorso, 13 giugno. La repressione è stata allora ancora più feroce traducendosi con 232 arresti e numerosi feriti.
Vale la pena sottolineare l’apparizione di una nuova generazione di giornalisti. Per quanto minoritaria, attraverso una chiara manifestazione di solidarietà, questi hanno reso conto delle violenze poliziesche e, allo stesso tempo, ne sono stati anche vittime. Coscienti delle manipolazioni sempre presenti negli editoriali dei grandi media, questi giornalisti sono pervenuti, in un certo modo, a far percepire che gli atti di violenza dei giovani sono una reazione di autodifesa e che, certe volte, i vandalismi effettuati essenzialmente contro gli uffici del governo e contro i tribunali sono delle manifestazioni non contenute d’indignazione contro lo Stato. Oltre a questo sono state ugualmente rapportate delle azioni messe in atto da provocatori, cosa che la polizia utilizza abitualmente durante le manifestazioni.
La messa in evidenza di una serie di manipolazioni che ha permesso di smentire le versioni statali ufficiali, dei media e della polizia - che invece cercavano di distorcere i fatti, di demoralizzare e criminalizzare un movimento legittimo - ha avuto l'effetto di moltiplicare la partecipazione dei manifestanti e di aumentare il sostegno della popolazione. In questo senso, è importante sottolineare il grande contributo che ha avuto l’azione sui social network di elementi attivi nel movimento o di suoi simpatizzanti. Per paura che la situazione sfuggisse di mano, alcuni settori della borghesia hanno cominciato a cambiare discorso. Le grandi imprese di comunicazione, dopo una settimana di silenzio sulla repressione poliziesca nei loro giornali e televisioni, hanno infine menzionato gli “eccessi” dell’azione di polizia. Ugualmente alcuni politici hanno criticato gli “eccessi” su cui promettono di indagare.
La violenza della borghesia attraverso il suo Stato, qualunque sia il suo volto, democratico o "radicale", ha come fondamento il terrore totalitario contro le classi sfruttate o oppresse. Se con lo Stato democratico questa violenza non è così aperta come nelle dittature ed è, in più, nascosta in modo che gli sfruttati accettino le loro condizioni di sfruttamento e si identifichino con loro, ciò non significa che lo Stato rinunci ai metodi più diversi e moderni di repressione fisica quando la situazione lo richieda. Non è una dunque una sorpresa che la polizia scateni una tale violenza contro il movimento. Tuttavia, come in tante storie precedenti, si è visto che l’aumento della repressione ha provocato solo una solidarietà crescente in Brasile ed anche nel mondo, anche se in maniera ancora del tutto minoritaria. Delle mobilitazioni di solidarietà sono già previste al di fuori del Brasile, soprattutto per iniziativa di brasiliani che vivono all'estero. Bisogna dire chiaramente che la violenza poliziesca è nella natura stessa dello Stato e che non è un caso isolato o un “eccesso” di dimostrazione di forza da parte della polizia, come vorrebbero far credere i media borghesi e le autorità legate al sistema. In questo senso, non si tratta di un errore dei “dirigenti” e non porta a niente “chiedere giustizia” o chiedere un comportamento più cortese da parte della polizia perché, per fare fronte alla repressione ed imporre un rapporto di forza, non vi è altro modo che l’estensione del movimento verso ampi strati di lavoratori. Per fare questo, non possiamo rivolgerci allo Stato e chiedere l'elemosina. La denuncia della repressione e dell’aumento del prezzo dei trasporti deve essere sostenuta da tutta la classe operaia, chiamandola ad ingrossare le azioni di protesta in una lotta comune contro la precarizzazione e la repressione.
Le manifestazioni, che sono tutt’altro che terminate, si sono estese a tutto il Brasile e le proteste sono state presenti alla partenza della Coppa delle Confederazioni di calcio del 2013, che è stato caratterizzato dai fischi indirizzati alla presidente Dilma Rousseff, così come al presidente della Fifa, Joseph Blatter, prima della partita di apertura del torneo tra Brasile e Gappone[1]. Entrambi non hanno potuto nascondere l’imbarazzo per questi segnali di ostilità, tanto che il loro discorso è stato abbreviato per limitare la confusione. Intorno allo stadio si è anche tenuta una grande manifestazione alla quale hanno partecipato circa 1200 persone in solidarietà con il movimento contro l’aumento del costo dei trasporti. Ma questi sono stati fortemente repressi dalla polizia che ha ferito 27 persone e ha fatto 16 arresti. Per rafforzare ulteriormente la repressione, lo Stato ha dichiarato che qualsiasi manifestazione nei pressi degli stadi durante la Coppa delle Confederazioni sarebbe stata vietata, con il pretesto di non portare pregiudizio a questo evento, al movimento delle persone e dei veicoli, così come al funzionamento dei servizi pubblici.
I limiti del movimento per la gratuità dei trasporti e qualche proposta
Come si sa, questo movimento si è sviluppato a livello nazionale grazie alla sua propria dinamica e alla capacità di mobilitazione dei giovani studenti contro l’aumento dei prezzi dei trasporti. Tuttavia è importante tenere presente che esso ha, come obiettivo a medio e lungo termine, di negoziare l’esistenza di trasporti pubblici gratuiti per tutta la popolazione a carico dello Stato.
E’ proprio là che si pone il limite della sua principale rivendicazione, visto che un trasporto universale e gratuito non può esistere nella società capitalista. Per raggiungere questo obiettivo, la borghesia e il suo Stato dovrebbero aumentare ancora di più il grado di sfruttamento della classe operaia e di altri lavoratori attraverso un aumento delle imposte sui salari. Perciò occorre tener conto che la lotta non deve essere collocata nella prospettiva di una riforma impossibile, ma nell’ottica di costringere lo Stato a revocare i suoi decreti.
Attualmente le possibilità del movimento sembrano superare la semplice rivendicazione contro l’aumento delle tariffe dei trasporti. Delle manifestazioni per la prossima settimana sono già previste in decine di città grandi e medie.
Il movimento deve essere vigile nei confronti della sinistra del capitale, specializzata nel sabotare manifestazioni dirigendole verso vicoli ciechi, come ad esempio chiedendo che le corti di giustizia risolvano i problemi e che i manifestanti tornino a casa.
Perché questo movimento si sviluppi, è necessario creare luoghi per ascoltare e discutere collettivamente i diversi punti di vista sulla lotta. E questo è possibile solo attraverso assemblee generali con la partecipazione di tutti, dove sia garantito indistintamente il diritto di parola ad ogni manifestante. In più, è necessario chiamare i lavoratori, invitarli a delle assemblee e a delle azioni di protesta perché loro e le loro famiglie sono toccati dall’aumento del prezzo dei trasporti.
Il movimento di protesta che si è sviluppato in Brasile è una confutazione eclatante della campagna della borghesia brasiliana, sostenuta d’altronde dalla borghesia mondiale, secondo la quale il Brasile sarebbe un “paese emergente”, sul punto di superare la povertà e di mettere in atto il proprio sviluppo. Questa campagna è stata promossa particolarmente da Lula, che è conosciuto in tutto il mondo per la sua pretesa di aver tirato fuori dalla miseria milioni di brasiliani, mentre in realtà il suo grande risultato per il capitale è stato quello di ripartire delle briciole tra le masse più povere per mantenerle nell’illusione ed accentuare la precarietà del proletariato brasiliano in generale.
Di fronte all’aggravarsi della crisi mondiale e dei suoi attacchi contro le condizioni di vita del proletariato, non c'è altra via che la lotta contro il capitalismo.
Revolução Internacional (Corrente Comunista Internazionale), 16 giugno
All’alba del XXI secolo: perché il proletariato non ha rovesciato il capitalismo?
(...) In questo contesto di sfide per la classe operaia nello sviluppo della sua presa di coscienza sarebbe intervenuto alla fine del 1989 un significativo evento storico, esso stesso manifestazione della decomposizione del capitalismo: il crollo dei regimi stalinisti dell’Europa dell’est, di quei regimi che tutti i settori della borghesia avevano sempre presentato come “socialisti”:
“Gli avvenimenti che attualmente agitano i cosiddetti paesi “socialisti”, la sparizione di fatto del blocco russo, il fallimento patente e definitivo dello stalinismo sul piano economico, politico e ideologico, costituiscono il fatto storico più importante dalla seconda guerra mondiale insieme con il risorgere internazionale del proletariato alla fine degli anni ‘60. Un avvenimento di tale portata si ripercuoterà, e già ha iniziato a farlo, sulla coscienza della classe operaia, e ciò tanto più che esso riguarda un’ideologia e un sistema politico presentati per più di un mezzo secolo come “socialisti” e “operai”. Con lo stalinismo è il simbolo e la punta di diamante della più terribile controrivoluzione della storia che spariscono. Ma ciò non significa che lo sviluppo della coscienza del proletariato mondiale ne risulti facilitato, al contrario. Anche nella sua fine lo stalinismo rende un ultimo servizio alla dominazione capitalista: decomponendosi il suo cadavere continua ad appestare l’atmosfera che il proletariato respira. Per i settori dominanti della borghesia il definitivo crollo dell’ideologia stalinista, i movimenti “democratici”, “liberali” e nazionalisti che sconvolgono i paesi dell’est costituiscono un’occasione per scatenare e intensificare le loro campagne di mistificazione. L’identificazione sistematica tra comunismo e stalinismo, la menzogna mille volte ripetuta e martellata oggi ancora più di prima per cui la rivoluzione proletaria non potrebbe condurre che al fallimento, vanno a trovare con il crollo dello stalinismo, e per tutto un periodo di tempo, un impatto accresciuto nei ranghi della classe operaia. E’ dunque un riflusso momentaneo della coscienza del proletariato, di cui già ora si possono notare le manifestazioni - in particolare con il ritorno in forze del sindacato - che bisogna attendersi. Se gli attacchi incessanti e sempre più brutali che il capitalismo non mancherà di sferrare contro gli operai costringeranno questi a scendere in lotta, in un primo tempo non ne risulterà una maggiore capacità della classe di avanzare nella sua presa di coscienza. In particolare, l’ideologia riformista peserà molto fortemente sulle lotte del prossimo periodo, favorendo grandemente l’azione dei sindacati.”[2]
Questa previsione che abbiamo fatto ad ottobre 1989 è stata completamente verificata in tutti gli anni ‘90. Il declino della coscienza all’interno della classe operaia si è manifestato con una perdita di fiducia nella propria forza che ha causato il calo generale nella combattività di cui ancor oggi possiamo vedere gli effetti.
Nel 1989 abbiamo definito le condizioni per una uscita della classe operaia da questa condizione di perdita di acquisizioni:
“Tenuto conto dell’importanza storica dei fatti che lo determinano, l’attuale riflusso del proletariato, benché non rimetta in causa il corso storico, la prospettiva generale agli scontri fra le classi, si presenta come ben più profondo di quello che aveva accompagnato la sconfitta del 1981 in Polonia. Ciò detto, noi non ne possiamo prevedere né l’ampiezza reale, né la durata. In particolare, il ritmo di sprofondamento del capitalismo occidentale - di cui si può percepire attualmente un’accelerazione con la prospettiva di una nuova recessione aperta - va a costituire un fattore determinante del momento in cui il proletariato potrà riprendere la sua marcia verso la coscienza rivoluzionaria. Rovesciando le illusioni sul “raddrizzamento” dell’economia mondiale, mettendo a nudo la menzogna che presenta il capitalismo “liberale” come una soluzione al fallimento del preteso “socialismo”, svelando il fallimento storico dell’insieme del modo di produzione capitalista, e non solamente delle sue incarnazioni staliniste, l’intensificazione della crisi capitalista spingerà il proletariato a volgersi di nuovo verso la prospettiva di un’altra società, a iscrivere in maniera crescente le sue lotte in questa prospettiva.”[3]
(…)
Ciò detto, c'è un altro elemento più generale per spiegare le difficoltà della politicizzazione attuale del proletariato, una politicizzazione che gli consentirebbe di comprendere, anche in modo embrionario, le sfide delle lotte che porta avanti in modo da fertilizzarle e amplificarle:
Per comprendere tutti i dati nel periodo attuale e futuro, dobbiamo anche tener conto delle caratteristiche del proletariato che oggi conduce la lotta:
per il fatto che solo le generazioni che non hanno subito la sconfitta sono state in grado di trovare la via della lotta di classe, esiste tra queste generazioni e quelle che hanno condotte le ultime battaglie decisive negli anni ‘20, un fossato enorme che oggi il proletariato paga con un prezzo elevato:
Queste caratteristiche spiegano in particolare il carattere difficile del corso attuale delle lotte operaie. Esse permettono di capire i momenti di mancanza di fiducia in se stessi di un proletariato che non ha coscienza della forza che può costituire di fronte alla borghesia. Esse mostrano anche la lunghezza della strada che attende il proletariato, che non potrà fare la rivoluzione se non integrando consapevolmente le esperienze del passato e costruendo il suo partito di classe. (...)
Fabienne
Come spiegare un tale paradosso? La classe dominante ci dà le sue risposte. Questo fenomeno mostruoso sarebbe legato ad un "esaurimento delle risorse[2] ed alla crescita demografica"[3].
In realtà, la penuria cronica che si diffonde come la peste è solamente il prodotto del sistema capitalista, della sua legge del profitto. Ed è questa legge che porta ad un'assurdità nei riguardi dello stesso mercato e degli uomini, la sovrapproduzione di merci. Questa ultima induce un fenomeno totalmente irrazionale e scandaloso, che la borghesia passa largamente sotto silenzio: lo spreco.
Un articolo de Le Monde riporta un recente studio rivelando che "il 30- 40% dei 4 miliardi di tonnellate di alimenti prodotti ogni anno sul pianeta non finisce mai in un piatto "[4]. Poiché lo studio non può mettere in evidenza le cause profonde dello spreco senza rimettere in causa il capitalismo, sottolineando che in Europa e negli Stati Uniti gli stessi consumatori gettano il cibo nella pattumiera esso resta allo stato di superficie, per cui tali comportamenti sono legati semplicemente al condizionamento dei prodotti ed al marketing (con le sue "promozioni 'due al prezzo di uno' "). Lo studio non osa rivelare che lo spreco è generato soprattutto dalla sovrapproduzione e dalla ricerca del profitto a breve termine, che induce gli industriali a moltiplicare "infrastrutture inadatte e luoghi di stoccaggio poco redditizi con "le più importanti perdite (...) a valle della catena di produzione". Questo studio dimentica di dire che una merce sempre più di scarsa qualità, pletorica, che non può essere venduta per mancanza di cliente, viene stipata volontariamente in questi luoghi trascurati per ridurne i costi! Per economizzare e fare profitto, i capitalisti speculano e giungono spesso a distruggere deliberatamente certe merci, principalmente derrate alimentari. Per gli stessi motivi, "fino al 30% delle culture di legumi nel Regno Unito non sono mai raccolte!" Le produzioni sono dunque spesso distrutte per non fare cadere il costo delle merci. Per esempio, certi produttori che non possono vendere la loro frutta o verdura, anche in perdita, le spruzzano di gasolio per mantenere artificialmente alti i costi.
Nei paesi detti "in via di sviluppo", esiste lo stesso fenomeno, amplificato ed aggravato anche fin dall'inizio della catena di produzione, "tra il campo ed i mercati, a causa di trasporti locali inadeguati", dando luogo a perdite colossali. Le "deficienze" possono essere tali che "nel Sud-est asiatico (…) le perdite di riso oscillano tra il 37 e l'80% della produzione totale in funzione del livello di sviluppo del paese, la Cina per esempio si trova al 45% ed il Vietnam all' 80%".
Il rapporto sottolinea anche una cupa realtà:"Questa perdita netta non si limita agli scarti generati dagli alimenti non consumati. Lo scempio è visibile a tutti i livelli della catena di produzione alimentare, nell'utilizzazione delle terre, dell'acqua, dell'energia. Circa 550 miliardi di metri cubi di acqua sono così persi per fare aumentare raccolti che non raggiungeranno mai i consumatori".
Secondo gli ingegneri di questo studio, un semplice sfruttamento razionale delle risorse esistenti permetterebbe "di offrire dal 60 al 100% di cibo in più senza aumentare la produzione ma liberando anche del terreno e diminuendo il consumo d'energia". L'affermiamo di netto qui: questa prospettiva di "buon senso" è impossibile da realizzare nel sistema capitalista! Il problema non consiste in una mancanza di competenze o di volontà: risiede innanzitutto nelle contraddizioni di un sistema economico che non produce per soddisfare i bisogni umani, di cui non gliene importa un fico secco, ma per il mercato, per realizzare un profitto. Da cui conseguono le peggiori assurdità, l'anarchia e l'irrazionalità più totale.
Tra migliaia di esempi, prendiamo uno dei più scandalosi: nel momento in cui i bambini dell’Africa sub-sahariana urlavano per la fame, nello stesso momento in cui si imponevano quote latte e abbandoni di terre in Europa, delle associazioni caritatevoli e delle ONG chiedevano fondi a colpi di campagne pubblicitarie costose e colpevolizzanti, per finanziare degli stoccaggi di latte in polvere destinati a questi bambini affamati, ai quali regolarmente mancava … l’acqua! Se il fatto non fosse stato così triste e tragico, avrebbe potuto diventare una battuta di basso livello.
Il capitalismo è un modo di produzione obsoleto diventato una forza distruttrice addestrata contro la civiltà. Genera ed attiva ogni pulsione mortale. Le sue contraddizioni, di fronte alle crescenti tragedie che genera, inaspriscono i più irrazionali ed antisociali comportamenti. La carestia e lo spreco, la povertà e la disoccupazione, come le guerre, sono i suoi naturali prodotti. Ma nel suo seno, coltiva anche la sua negazione ed il proprio becchino, la classe operaia, quella degli sfruttati rivolti verso il futuro. Essi solo potranno mettere fine a questo sistema putrido. Più che mai, l'alternativa resta "socialismo o barbarie!"
WH (1 gennaio)
[1] Ciò significa un’alimentazione giornaliera inferiore alla quantità necessaria per soddisfare i bisogni dell'organismo di una persona (2500 calorie giornaliere).
[2] Ogni menzogna ha un fondo di verità. In sé, non c’è una mancanza di risorse. E’ il sistema capitalista, invece, a generare delle situazioni che conducono alla distruzione massiccia di quest’ultime.
[3] Saremo teoricamente intorno a 9 miliardi nel 2050.
[4] Rapporto Globale Food Waste Not, Want not, pubblicato giovedì 10 gennaio 2013 dall'Istituzione of Mechanical Engineers (IME), organizzazione britannica degli ingegneri in ingegneria meccanica. (Fonte: https://écologie.blog.lemonde.fr)
Pubblichiamo qui di seguito un nostro contributo al dibattito che si è sviluppato sul nostro forum[1] in lingua spagnola a proposito dei criteri che dovrebbero essere alla base dell’economia in una futura società comunista.
Il calcolo economico nel comunismo
Il compagno Graccus ha postato sul nostro forum un commento che contiene un link ad un sito dove viene posta la questione del calcolo economico nel comunismo:
https://icorsoc.blogspot.com.es/2012/07/debate-sobre-el-calculo-economico-en-el.html [340]
Su questo sito c’è un punto di partenza giusto: “Innanzitutto dobbiamo fare una serie di considerazioni: la confusione e la mistificazione storica intorno al termine ‘socialismo’. Evidentemente non consideriamo tali le società di Capitalismo di Stato (Collettivismo di Stato secondo altri, in ogni caso società di sfruttamento) che a questo si rivendicavano (URSS, Paesi dell’Est, Cina...)”.
Qualsiasi discussione sulla società futura deve avere come premessa che in URSS, Cina, Cuba o Corea del Nord, non c’è mai stato comunismo né nulla che gli assomigliasse, ciò che impera in questi paesi - in URSS fino al suo crollo - è una forma particolare della tendenza generale verso il Capitalismo di Stato.
Il compagno sottolinea che “la realizzazione della società socialista-comunista presuppone il superamento dello sfruttamento e della legge del valore; vale a dire del sistema del lavoro salariato, con la conseguente abolizione non solo del mercato ma anche del denaro e l’acquisizione dei beni in funzione del loro valore d’uso”. E anche su questo siamo d’accordo. La società comunista è una società senza Stato, senza sfruttamento e senza confini, è basato sulla comunità umana globale, cioè l’umanità unificata che ha abolito la divisione in classi sociali. La produzione è concepita a scala mondiale e non secondo le leggi della concorrenza tra nazioni o tra aziende; il suo obiettivo è la piena soddisfazione dei bisogni umani e il pieno sviluppo naturale. Cioè è orientata alla produzione di valori d’uso e non di valori di scambio (merci).
Il compagno sottolinea che “l’economia socialista pienamente sviluppata (non si tratta di un ritorno al comunismo primitivo) dove partire dal livello di sviluppo delle forze produttive apportato dal capitalismo. Quindi, una ‘associazione di produttori liberi’ non può evitare calcoli relativi a problemi quali le necessità, le forze produttive disponibili, la corretta assegnazione delle risorse”. Questo è globalmente vero, come anche il fatto che “l’economia socialista non può prescindere dalla pianificazione e il calcolo, superando anche ogni sfruttamento e ogni legame burocratico. E se si assume che il socialismo può essere solo una società instaurata a livello mondiale, la complessità della rete di produzione aumenta”.
Il compagno interviene in questo dibattito sul calcolo economico nel socialismo con il seguente obiettivo: “Questo dibattito è di assoluta necessità come punto di partenza per qualsiasi movimento che pretenda di trasformare veramente la società (ovviamente al meglio, poiché l’alternativa contraria purtroppo non si può escludere). Perché senza un costante rinnovamento teorico e un apprendimento della realtà oggettiva non è possibile una teoria rivoluzionaria e senza teoria rivoluzionaria non c’è rivoluzione. È questo enorme deficit teorico che attualmente permette alle classi dominanti di applicare misure brutali nonostante le mobilitazioni di massa che, senza volerne escluderne i meriti (15-M, lotte in Grecia, Occupy Wall Street) non sono sufficienti quanto meno a far retrocedere di poco la determinazione dei ‘pesci grossi’”.
Siamo pienamente d’accordo con il compagno sulla necessità di dotarsi di una solida base programmatica e della cultura del dibattito, condividiamo il suo interesse per la teoria e gli sviluppi scientifici e siamo d’accordo che entrambi sono di vitale importanza per un avanzamento reale delle lotte proletarie verso una prospettiva rivoluzionaria.
Il compagno propone di iniziare un primo approccio al dibattito a partire dal seguente testo riportato da Wikipedia:
https://es.wikipedia.org/wiki/Debate_sobre_el_c%C3%A1lculo_econ%C3%B3mico_en_el_socialismo [341]
Purtroppo questo testo non apporta la benché minima chiarezza, anzi proprio il contrario: la sua tesi e i suoi calcoli si basano sull’identificazione tra il capitalismo di Stato e il “socialismo”. Come illustrazione, vediamone due passaggi:
• il testo inizia così: “La funzione del calcolo economico in un’economia nazionale che coinvolge un numero molto elevato di individui è stata interpretata in modi diversi da economisti pro-capitalismo di diverso tipo ed economisti socialisti di diverso tipo”. L’approccio nazionale è proprio del capitalismo e non ha nulla a che fare con il comunismo che o sarà mondiale o non sarà.
• Il testo cita anche tre modelli possibili di dibattito sul calcolo economico: “capitalismo di mercato”, “socialismo pianificato” e “socialismo di mercato”. In altri termini, si tratta di un calcolo economico che si situa completamente sul terreno del funzionamento dell’economia capitalistica, seppure con etichette diverse: quella degli USA sarebbe un’economia “liberale”, l’ex-URSS sarebbe “economia pianificata”, mentre la Cina “socialismo di mercato”. Vuota retorica per nascondere che sono tutte capitalistiche!
Il testo di Wikipedia fa riferimento a Oskar Lange, un economista stalinista, quindi è più che giustificata la risposta che un altro compagno, Comunero, dà sempre sul nostro forum (https://es.internationalism.org/node/3501#comment-1828 [342]):
“Vorrei fare una puntualizzazione sull’articolo a cui si fa riferimento: quando Lange parla di socialismo si sta riferendo al capitalismo di Stato (basta vedere il fatto che prende come esempio della superiorità del socialismo rispetto al capitalismo le “conquiste” dell’URSS degli anni trenta), lo stesso dà ad intendere in ogni descrizione che fa del suo ‘socialismo’ e quando cita Kautsky parlando dell’impossibilità di raggiungere la seconda fase del comunismo.
Lange utilizza un tipo di analisi che non tiene conto del processo di produzione e respinge espressamente l’analisi marxista, come ad esempio l’esistenza della legge del valore.
In definitiva credo che la verbosità di questo tipo di “economisti” dovrebbe essere lasciata da parte in una discussione di questo genere, soprattutto quando questi “economisti” non riconoscono l’esistenza delle classi né le sue implicazioni politiche”.
Il dibattito della Sinistra comunista negli anni trenta
A nostro parere il dibattito non dovrebbe essere incentrato sul terreno del calcolo economico della riproduzione del capitalismo (senza entrare nel merito della validità scientifica, in molti casi discutibile, delle teorie relative).
Nella società comunista sarà necessario un calcolo economico? È evidente che l’umanità ricorrerà a metodi scientifici di pianificazione, organizzazione e distribuzione della produzione. Quali saranno questi metodi? Su quali unità di misura ci si baserà?
Suggeriamo di analizzare criticamente il contributo dei Comunisti dei Consigli Olandesi, in particolare del GIK - Gruppo di Comunisti Internazionali. Questo gruppo nel 1930 scrisse il testo Principi fondamentali della produzione e della distribuzione comunista, conosciuto come “Grund-prinzipien”, dove si difende l’idea che la misura del tempo di lavoro costituisce la base per il calcolo della produzione e di un’equa distribuzione dei beni di consumo.
Questa posizione suscitò un dibattito al quale parteciparono Bilan - organo della Sinistra comunista italiana[2] - e Pannekoek[3].
Lo studio di questo dibattito è raccolto nel nostro libro La Sinistra olandese: contributo ad una storia del movimento rivoluzionario. Questo libro è disponibile al momento solo in inglese e francese, per questo ne riassumiamo qui i tratti essenziali esponendo in successione la posizione del GIK, di Pannekoek e la nostra[4]
La posizione del GIK
Il GIK parte da una visione economicistica: “Considerando che la lotta di classe del proletariato è essenzialmente di natura economica (...) Il dominio del proletariato sulle forze produttive nella rivoluzione è la questione primaria. La dittatura del proletariato, attraverso il ‘consiliarismo’, è una dittatura economica prima ancora che politica”[5].
Secondo i “Grund-prinzipien” la causa della sconfitta della rivoluzione in Russia nel 1917 è stata la negligenza o la sottovalutazione del terreno economico: “La Russia ha cercato per quanto riguarda l’industria di edificare la vita economica secondo i principi comunisti ed in questo ha fallito completamente”[6].
Le lezioni che invece trae la Sinistra comunista dalla Rivoluzione russa non vengono considerate valide dal GIK. La più importante, cioè il fallimento dell’estensione della rivoluzione a livello mondiale, viene scartata in un sol colpo: “Né l’assenza di rivoluzione mondiale né l’inadeguatezza della singola azienda agricola rurale alla gestione statale possono essere considerate responsabili del fallimento della rivoluzione russa nel dominio economico”[7]. La stessa sottovalutazione si manifesta rispetto al ruolo negativo dello Stato che nasce dopo la rivoluzione: “Sembra che non ci sia problema con l’esistenza di uno Stato (o semi-Stato) nel periodo di transizione verso il comunismo. La sua stessa esistenza, la sua caratterizzazione (Stato “proletariato” o “male” che eredita il proletariato) non si pone mai. Questi problemi sono praticamente scomparsi”[8].
Per il GIK tutto si riduce al controllo dell’economia da parte del proletariato: “Si tratta soprattutto del fatto che i produttori controllino e distribuiscano il prodotto sociale in modo egualitario ad ognuno e mediante un’autorità esercitata dal basso (...) La soluzione secondo il GIK risiede nel calcolo del costo di produzione misurato in tempo di lavoro delle imprese in relazione alla quantità di beni sociali creati. Certamente, secondo la produttività delle rispettive imprese, per lo stesso prodotto la quantità di lavoro necessario per la sua produzione non è uguale. Ma per risolvere il problema basta calcolare il tempo di lavoro sociale medio di produzione per ogni prodotto. La quantità di lavoro delle imprese più produttive che superano la media sociale verrebbe versata a un Fondo Comune, questo si incaricherebbe di collocarla, al livello medio, alle imprese meno produttive. Questo servirebbe, contemporaneamente, a introdurre il progresso tecnologico necessario per lo sviluppo della produttività delle aziende di un determinato ramo, in modo da ridurre il tempo medio di produzione”[9].
Secondo il GIK questo sistema porrebbe fine al predominio della legge del valore sull’economia: “I prodotti non circolerebbero secondo il loro valore di scambio, soggetti al modello universale del denaro. D’altra parte, con la costituzione di un centro di contabilità e statistica “neutrale”, non separato dai Consigli, ma indipendente da qualsiasi gruppo di persone o qualsiasi istanza di carattere centrale, la nuova società sfuggirebbe al pericolo della formazione di una burocrazia parassitaria che si appropria di una parte del prodotto sociale”[10].
La risposta di Pannekoek
Pannekoek, legato come il GIK al Comunismo dei Consigli, condivide con questo una stessa visione economicistica, perché per lui “La tradizione significa dominio dell’economia da parte della politica. Quello che i lavoratori devono portare avanti è il dominio sulla politica da parte dell’economia”[11]. Tuttavia, non condivide completamente le tesi dei “Grund-prinzipien” e infatti si rifiutò di scrivere una prefazione alla pubblicazione di questo libro. Anni dopo, nel 1946, nella sua opera I Consigli Operai cerca di definire la propria posizione.
Questa condivide con il GIK la tendenza a vedere tutto ridotto all’aspetto economico: “Nel nuovo sistema di produzione, il dato fondamentale è il numero di ore di lavoro, sia se espresso inizialmente in unità monetaria o nella sua forma reale”, per trarre la conclusione che “la contabilità generale, che riguarda e abbraccia le amministrazioni delle diverse imprese le riunirà tutte in una tabella del processo economico della società. L’organizzazione sociale della produzione ha come base una buona gestione mediante statistiche e dati contabili. Il processo di produzione è sotto gli occhi di tutti sotto forma di un’immagine numerica semplice e intellegibile”[12].
Come il GIK, Pannekoek ignora il difficile problema della persistenza dello Stato dopo la rivoluzione, lasciando intendere che il tutto si risolverebbe con un decentramento del potere statale in una molteplicità di poteri costituiti da “comunità operaie di fabbrica”: “Tutto il potere appartiene ai lavoratori stessi. Laddove sia necessario l’esercizio del potere - contro disordini o attacchi all’ordine esistente – il potere emana dalle comunità operaie nelle fabbriche e rimane sotto il loro controllo”[13].
Ora, rispetto alla visione del GIK, la posizione di Pannekoek è molto più realistica. Per il GIK la presa del potere del proletariato in un paese permette “di mettersi a costruire il comunismo” immediatamente, dando per scontato che è già scomparsa l’influenza dei rapporti capitalistici di produzione sul “territorio liberato”. Invece per Pannekoek “All’inizio del periodo di transizione, quando si tratta di risollevare un’economia in rovina, il problema essenziale è mettere in piedi l’apparato produttivo e garantire l’esistenza immediata della popolazione. È molto probabile che in queste condizioni si continui a ripartire in modo uniforme i prodotti alimentari, come si fa in tempo di guerra o carestia. Ma è più probabile che in questa fase di ricostruzione, dove tutte le forze disponibili devono essere impiegate a fondo e dove i nuovi principi morali del lavoro in comune prendono forma in modo graduale, il diritto al consumo è vincolato all’adempimento di un lavoro. Il vecchio detto popolare che chi non lavora non mangia esprime un sentimento istintivo di giustizia”[14].
Quello che Pannekoek ricorda è che il comunismo non potrà sorgere immediatamente dopo la presa del potere del proletariato in un paese. Sostenere un’idea simile porta inevitabilmente al concetto stalinista del “socialismo in un paese”, il che, qualsiasi sia l’etichetta che si dà la società che si trasforma, conduce necessariamente al ritorno all’ovile del capitalismo. Ma è necessario andare oltre: dopo il rovesciamento del potere borghese in tutti i paesi si apre un periodo di transizione dove, per porre le basi del comunismo, il proletariato deve condurre una dura lotta contro i resti della legge del valore capitalista, contro i residui della divisione in classi sociali e contro la conseguenza di tutto il passato che è la persistenza dello Stato.
Su questa linea, Pannekoek critica anche la pretesa del GIK che il pagare a ciascun lavoratore secondo le sue ore di lavoro costituisca un’equa distribuzione del consumo. Come diciamo nel nostro libro, Pannekoek “Nel rifiutare un “uguale diritto” nella distribuzione del consumo, è più vicino alla posizione di Marx nella sua Critica del programma di Ghota. Questa mostrava, infatti, che una distribuzione uguale basata sull’orario di lavoro portava necessariamente a nuove disuguaglianze, perché i produttori differiscono uno dall’altro sia per capacità di lavoro che per condizioni fisiche e famigliari”[15].
La nostra posizione
La nostra posizione[16] cerca di seguire le linee di analisi tracciate da Bilan. La riflessione su come potrà essere la futura società comunista ha due punti di origine:
• la comprensione profonda delle contraddizioni che portano al fallimento del capitalismo, così come la natura e la dinamica della classe rivoluzionaria, il proletariato;
• l’analisi critica delle esperienze storiche vissute dal proletariato nei suoi tentativi rivoluzionari: la Comune di Parigi, la Rivoluzione russa e l’ondata rivoluzionaria mondiale del 1917-23.
Da questo punto di partenza, il nostro libro sottolinea le nostre divergenze con il GIK. In primo luogo, “Il GIK pensa che sia immediatamente possibile, dopo la presa del potere da parte dei Consigli operai in un dato paese, la costruzione del comunismo nella sua forma più evoluta. Esso parte da una situazione ideale, dove il proletariato vittorioso si impadronisce dell’apparato produttivo di paesi altamente sviluppati che non hanno subito le devastazioni di una guerra civile”[17].
Ignorare la realtà significa condannarsi ad essere prigioniera di questa. Il tentativo rivoluzionario mondiale del 1917-23, si scontrò, soprattutto in Russia, con le conseguenze terribili della Prima guerra mondiale e quasi senza tregua con gli effetti ancora più traumatici di una brutale guerra civile (1918-21) guidata da Gran Bretagna, USA, Francia e Giappone. Nella nostra epoca, stiamo verificando come interi continenti, vedi l’Africa, siano stati ormai abbandonati nell’abisso dalla crisi capitalista, crisi che ora sta spazzando via come uno tsunami le economie considerate “privilegiate”. Per non parlare delle guerre imperialiste, dei disastri ambientali e della barbarie morale dilagante che, come un altro tsunami ancora più pericoloso per i suoi effetti profondi, riguarda tutta l’umanità! È serio pensare che in tali condizioni si possa impostare la costruzione immediata del comunismo? Peggio ancora sarebbe pretendere di isolarsi dal mondo, rinchiudersi nel paese “conquistato” e mettersi a costruire solo qui, il “comunismo”.
In secondo luogo, “Il GIK dà una forma automatica e quasi naturale all’edificazione della società comunista. Questa non sarebbe il risultato di un lungo processo contraddittorio di lotta di classe per il dominio del semi-Stato contro le forze conservatrici, ma il frutto di uno sviluppo lineare e armonioso, praticamente matematico”[18]. Nella transizione dal capitalismo al comunismo, la lotta di classe continua: contro i resti della borghesia sconfitta e soprattutto contro il semi-Stato. Quest’ultimo infatti è un’arma a doppio taglio: mentre è essenziale per eliminare i resti della borghesia sconfitta e integrare gli strati sociali non sfruttatori, è contemporaneamente il luogo di concentramento di tutte le forze che vogliono mantenere lo status quo, che tentano di espropriare il proletariato della sua autorganizzazione e così chiudere il percorso verso il comunismo.
Ma nello specifico, analizzando la tesi del calcolo del tempo di lavoro come misura di organizzazione della produzione e della distribuzione, si vede che questa presenta un difetto scientifico importante: questo è un sistema che “reintroduce la legge del valore, dando un valore contabile e non sociale al tempo di lavoro necessario per la produzione. Il GIK si contrappone a Marx per il quale il metro di valutazione nella società comunista non è il tempo di lavoro ma il tempo disponibile, quello del tempo libero disponibile”[19]. Attraverso una lunga lotta, nel periodo di transizione che segue alla distruzione dello Stato capitalista in tutti i paesi, si vanno costruendo le basi per recuperare quello che il capitalismo portava in germe, ma che dopo un secolo di decadenza gli è impossibile sviluppare: la società dell’abbondanza, uno dei fondamenti del comunismo. Nel comunismo, “la vera ricchezza sarà la piena potenza produttiva di tutti gli individui, il metro di valutazione non sarà più il tempo di lavoro, ma il tempo a disposizione. Adottare il tempo di lavoro come misura della ricchezza vuol dire basare la società sulla povertà; è volere che il tempo libero non esista più che in e per opposizione al tempo di lavoro; è ridurre tutto il tempo esclusivamente al tempo di lavoro”[20].
Da dove iniziare?
Come abbiamo detto all’inizio è molto valido l’interesse a voler capire come sarà la società comunista per la quale lottiamo. Ebbene, dall’analisi del dibattito circa i Grund-prinzipien si evince la chiara lezione che il punto di partenza devono essere le questioni politiche: estensione mondiale della rivoluzione, mantenere e sviluppare l’autorganizzazione del proletariato, rafforzare l’iniziativa e l’attività autonoma delle masse operaie, lotta feroce contro il semi-Stato fino alla sua completa estinzione.
Questa preminenza della politica include necessariamente delle priorità vitali sul terreno economico: la sistematica riduzione dell’orario di lavoro, il miglioramento permanente delle condizioni di lavoro e di vita (alimentazione, salute, cultura, istruzione, sicurezza e igiene sul lavoro, ecc.), in modo che il proletariato possa godere della migliore situazione materiale possibile per sviluppare la sua autorganizzazione, la sua autonomia politica, la sua coscienza, la sua capacità di avanzare verso il comunismo.
“Di tutti gli strumenti di produzione, la maggiore forza produttiva è la stessa classe rivoluzionaria” dice Marx ne La miseria della filosofia[21]. L’autorganizzazione, lo sviluppo della coscienza, la solidarietà e la fiducia reciproca in continuo sviluppo, l’iniziativa e la creatività delle masse lavoratrici, la capacità di integrare con pazienza e spirito costruttivo gli strati sociali non sfruttatori, tutto questo è il motore della marcia verso il comunismo. Lo slogan “L’emancipazione dei lavoratori sarà opera dei lavoratori stessi”, formulato dalla Prima Internazionale (1864-76) non è retorico, esprime l’essenza della rivoluzione comunista. Ma questa capacità della classe operaia necessita del rafforzamento, seppur lento e graduale, delle sue condizioni di vita. Non si può pensare e agire insieme se i lavoratori e le loro famiglie sono soggetti a un lavoro estenuante, alla necessità di cercare disperatamente lavoro, cibo e quello che serve per vivere!
L’esperienza del 1918-20 in Russia è molto istruttiva a questo proposito: le fabbriche chiudevano in massa, il razionamento era feroce, lo sfruttamento dei lavoratori aumentò, la classe operaia fu sottomessa alla militarizzazione e al taylorismo... Quello che fu chiamato, creando ancora più confusione, “comunismo di guerra” contribuì fatalmente all’indebolimento politico e sociale del proletariato e alla morte dei Soviet dei lavoratori[22].
Quando Pannekoek parla del primato dell’economia sulla politica applica alla rivoluzione proletaria lo schema seguito dalle rivoluzioni borghesi. Nel lungo periodo che va dalla metà del XV secolo fino alla fine del XVIII secolo, la borghesia sviluppò rispetto al feudalesimo un potere economico enorme, era la classe dominante della società in molti paesi europei dal punto di vista economico. Da questa posizione poté realizzare lo “scacco matto” al potere feudale attraverso rivoluzioni nazionali in paesi come la Gran Bretagna, nel 1640, o la Francia, nel 1789.
Oltre ad essere mondiale, e mai nazionale, la rivoluzione proletaria segue lo schema inverso: lotta politica per porre le basi di una società dove non ci sarà la produzione mercantile, il lavoro salariato e lo sfruttamento. “Solo in un contesto in cui non esistono più classi né antagonismo di classe, le evoluzioni sociali smetteranno di essere rivoluzioni politiche”, allora “la classe operaia sostituirà, nel corso del suo sviluppo, la vecchia società civile con un’associazione che escluderà le classi e il loro antagonismo; non ci sarà un potere politico propriamente detto, poiché il potere politico è precisamente la concretizzazione ufficiale dell’antagonismo nella società civile”[23].
[2] Bilan, fondato nel 1933, fu l’organo della Sinistra comunista italiana. Vedi il nostro libro La Sinistra comunista italiana 1927-1952 che può essere richiesto al nostro indirizzo mail o postale.
[3] Antón Pannekoek (1873-1960) è stato un importante militante proletariato che partecipò attivamente al movimento della Sinistra comunista internazionale.
[4] Il libro può essere acquistato sul nostro sito.
[5] Edizione francese del libro La Sinistra olandese: contributo a una storia del movimento rivoluzionario, capitolo VII, paragrafo I, pagina 182.
[6] Idem, capitolo VII; paragrafo 4, pagina 195.
[7] Idem, pagina 196.
[8] Idem, pagina 195.
[9] Idem, pagina 196.
[10] Idem.
[11] Idem, pagina 194.
[12] Idem, pagina 198.
[13] Idem. Notiamo che se ci sono “attacchi contro l’ordine costituito” è perché persistono dei conflitti di classe che rendono necessario lo Stato proprio per reprimere i tentativi di restaurare il capitalismo.
[14] Idem pagina 199.
[15] Idem.
[16] Per maggiori elementi sui problemi economici del periodo di transizione dal capitalismo al comunismo vedi i numeri 127, 130, 132 e 134 della nostra Rivista Internazionale, in inglese, francese e spagnolo sul nostro sito.
[17] La Sinistra olandese, op. cit., pagina 196.
[18] Idem, pagina 197.
[19] Idem.
[20] Marx, Grundisse, tomo II.
[21] Capitolo II: La metafisica dell’economia politica.
[22] Vedi a questo proposito la nostra critica al FOR (Fomento Obrero Revolucionario) sul comunismo di guerra e le collettività del 1936 in Spagna, entrambe espressioni, secondo questo gruppo, di “relazioni non-capitaliste”: “Le confusioni del FOR sull’Ottobre 1917 e la Spagna 1936”, Rivista Internazionale n.25, disponibile in inglese e francese sul nostro sito.
[23] Marx, op. cit., capitolo II: La metafisica dell’economia politica
“Intensificazione militare in Corea del Nord”, “La Corea del Nord annuncia che è in stato di guerra con il Sud”, “La Corea del Nord minaccia di colpire gli Stati Uniti”, “Minaccia di guerra nucleare”… i titoli dei giornali ci hanno fatto sudare freddo. Ma contrariamente alla propaganda che ci è stata servita mattina, pomeriggio e sera, questa palpabile tensione militare non è il frutto dei soli cervelli malati dei dirigenti nord-coreani. Tutta l’Asia del Sud-est è presa in questa spirale. Ad esempio, negli ultimi mesi, il Giappone si è scontrato continuamente con la Cina per il controllo delle isole Senkaku/Diyao e con la Corea del Sud per quello dell’isola di Takeshima/Dokdo, a colpi di dichiarazioni bellicose e di campagne nazionaliste. Del resto, per comprendere realmente ciò che avviene oggi in Corea, è imperativo studiare la storia moderna, molto densa, dei conflitti che hanno devastato l’Asia.
Le radici del conflitto
Durante la Prima Guerra mondiale, l’Asia orientale è stata relativamente risparmiata. Ma durante la Seconda, la deflagrazione è stata più terribile: probabilmente più di 20 milioni di morti![1] E la capitolazione del Giappone, il 2 settembre 1945, se ha significato la fine della Seconda Guerra mondiale nel Pacifico, non ha per niente aperto un periodo di “pace”. La prima guerra ne ha solo preparato un’altra: la nuova sarà chiamata “Fredda”. Dal 1945, mentre le rovine fumavano ancora, l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti entrano in conflitto per il controllo dell’Asia. Questa è la vera causa dello sganciamento delle prime bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki: dal momento che il Giappone è già in ginocchio (Tokio è stata schiacciata sotto un tappeto di bombe incendiarie durante l’inverno 1944/1945), gli Stati Uniti vogliono dimostrare tutta la loro potenza per bloccare l’avanzata del loro nuovo nemico numero uno, l’URSS. Questo stesso scontro imperversa anche in Cina. La Russia sostiene l’esercito Rosso di Mao, gli Stati Uniti le truppe di Chiang Kai Shek. La Cina è così il primo paese ad essere diviso in un territorio pro-russo (La Repubblica popolare cinese) ed uno pro-americano (Taiwan). Ancora oggi, queste due nazioni si puntano reciprocamente contro un terrificante arsenale militare.
La storia della Corea si inscrive pienamente in questa opposizione frontale tra il blocco dell’Est e quello dell’Ovest. Nel 1945, dopo la sconfitta degli occupanti giapponesi, mentre le truppe russe si preparavano ad occupare tutta la penisola coreana, gli Stati Uniti costringono la Russia ad accettare un’occupazione congiunta della Corea. La Corea fu così divisa lungo il 38° parallelo. La guerra di Corea del 1950-1953 è stata uno dei primi e dei più cruenti conflitti della Guerra Fredda (tre milioni di morti, Seul e Pyongyang rase al suolo parecchie volte). Il paese è da allora rimasto diviso e gli eserciti non hanno mai smesso lo stato di allerta.
L’escalation attuale si inscrive in questa continuità. Le sue radici affondano nelle suddivisioni imperialiste, la frammentazione del mondo in nazioni impegnate in lotte a morte per la loro sopravvivenza. La Corea dunque non è affatto un’eccezione. L’insieme dell'Europa è stata divisa in due blocchi dopo il 1945 (la Germania è rimasta divisa fino al 1989); il subcontinente indiano è stato diviso tra Pakistan, Bangladesh ed India; è stato diviso anche il Vietnam; nel 1990, la Jugoslavia è stata lacerata da numerose guerre di secessione ed oggi si ritrova frammentata in Serbia, Bosnia, Croazia, Slovenia, Montenegro e Macedonia; i territori dell’ex-impero ottomano in Medio Oriente sono stati spezzettati in numerose piccole nazioni costantemente in guerra, con, in più, la fondazione d’Israele al centro di questo scenario che ha creato un’altra zona di guerra permanente… Tutto questo mostra che la formazione delle nuove nazioni non rappresenta più un progresso per l’umanità ma genera solo morte e desolazione.
La scacchiera imperialistica attuale
La Cina
Il regime nord-coreano è stato sostenuto dalla Cina fin dai suoi primi giorni di esistenza perché questa vi ha visto la possibilità di costituire una zona “tampone” tra sé stessa ed il Giappone. Ancora oggi, dietro la Corea del Nord, troviamo il gigante cinese. La Cina sfrutta l’attitudine aggressiva del regime di Pyongyang: le forze armate dei suoi avversari (Corea del Sud, Giappone e Stati Uniti) devono concentrarsi sulla bellicosa Corea del Nord e sono quindi costretti ad allentare un po’ la pressione sulla Cina. E l’idea di una riunificazione delle Coree del Nord e del Sud (sotto il dominio sud-coreano) e la prospettiva di una base americana presso la frontiera cinese non possono che rafforzare la sua determinazione. Ma una sconfitta del regime nord-coreano in uno scontro militare con gli Stati Uniti rappresenterebbe un indebolimento significativo della Cina. Essa deve dunque tentare di “frenare” la Corea del Nord, pur lasciandole le truppe americane mobilitate contro di lei. Si tratta di un gioco pericoloso, dall’equilibrio instabile.
La Russia
In quanto alla Russia, questa, come in molte altre zone di conflitto dal 1989, si ritrova in una posizione contraddittoria. Da un lato, è stata una rivale della Cina dagli anni 1960 (dopo averla sostenuta all’inizio della Guerra Fredda), ma dall’ascesa della Cina come “potenza emergente” durante l’ultimo decennio, la Russia ha preso le parti della Cina contro gli Stati Uniti pur volendo limitarne il potere. Rispetto alla Corea del Nord, la Russia non vuole che gli Stati Uniti aumentino la loro presenza.
Gli Stati Uniti
Gli Stati Uniti non sono stati mai d’accordo a lasciare cadere la Corea nelle mani della Cina e della Russia. Nella situazione presente, sono di nuovo i difensori inflessibili della Corea del Sud e del Giappone. Certamente, il loro obiettivo maggiore è frenare la Cina. Fino ad un certo punto, le minacce militari nord-coreane sono una giustificazione gradita agli Stati Uniti per aumentare il loro arsenale di guerra nel Pacifico (hanno già spostato più armi in Guam, in Alaska ed in Corea). Naturalmente, queste armi possono essere utilizzate contro la Corea del Nord, ma anche contro la Cina. Allo stesso tempo, ogni paese che può sfidare o anche direttamente minacciare le basi americane in Guam o in Alaska - come lo pretende la Corea del Nord - contribuisce ad un indebolimento del dominio americano. Così, dopo l'indebolimento delle posizioni dello Zio Sam rispetto alla Cina, le ambizioni nord-coreane di minacciare gli Stati Uniti con le armi nucleari non possono essere tollerate da questi ultimi. La politica americana di contenimento della Cina contribuisce significativamente ad alimentare le tensioni con la Corea del Nord.
Il Giappone
Il Giappone è in una situazione estremamente complessa e piena di contraddizioni. In quanto nemico storico della Cina, si sente il più minacciato da quest’ultima e dal suo alleato, la Corea del Nord. Allo stesso tempo, il Giappone è in conflitto con la Corea del Sud a proposito delle isole Dokdo/Takeshima. Il dilemma perciò è tutto conflittuale con gli Stati Uniti: dalla scomparsa del blocco russo dopo il 1989, il Giappone ha avuto come obiettivo di allentare la stretta americana; ma a causa dell’ascesa della Cina e dei conflitti ripetuti e sempre più acuti con la Corea del Nord, il Giappone non ha potuto ridurre la sua dipendenza dalla potenza militare degli Stati Uniti. Se la Corea dovesse essere riunita, il Giappone dovrebbe fare fronte ad un altro grande rivale nella regione. Il Giappone che ha occupato la Corea per oltre tre decenni avrebbe anche - paradossalmente – non avere piacere a vedere sparire lo stato-tampone Nord-coreano. L'incremento recente delle tensioni con la Cina e la Corea del Nord è stato un ottimo pretesto per il governo giapponese per aumentare le sue spese di armamento.
Così, a quasi 60 anni dalla fine della guerra della Corea nel 1953, le stesse forze si oppongono le une alle altre; l'Asia dell'estremo oriente è una zona di conflitti permanenti con ricadute mondiali.
Corea del Nord, Corea del Sud: due regimi nemici giurati della classe operaia
Il regime della Corea del Nord non è giunto al potere in seguito ad un sollevamento operaio ma solamente grazie all'aiuto militare della Russia e della Cina. Dipendendo interamente dai suoi padroni stalinisti, il regime ha diretto le sue risorse verso il mantenimento e l'espansione del suo apparato militare. Conformemente a questa militarizzazione gigantesca, su una popolazione di 24,5 milioni, il paese afferma disporre di un esercito di mestiere forte di 1,1 milione di uomini e di 4,7 milioni di riservisti. Come tutti gli ex-paesi stalinisti dell'Europa dell'Est, l'economia della Corea del Nord non ha prodotti civili concorrenziali da offrire sul mercato del commercio mondiale. L'ipertrofia del settore militare significa che, durante i sei ultimi decenni, ci sono stati razionamenti permanenti di cibo e di prodotti di consumo. Dal crollo del blocco russo nel 1989, la produzione industriale è caduta più del 50%. La popolazione è stata decimata da una carestia nel mezzo degli anni 1990, carestia che è stata apparentemente fermata solo attraverso donazioni alimentari da parte la Cina. Ancora oggi, la Corea del Nord importa il 90% della sua energia, l’80% dei beni di consumo ed approssimativamente il 45% degli alimenti dalla Cina.
Se la classe dominante non ha niente da offrire alla sua popolazione che miseria, fame e repressione, che va di pari passo con una militarizzazione permanente, e se le sue imprese non possono in alcun modo essere competitive sul mercato mondiale, il regime può provare solamente a guadagnarsi "un riconoscimento" grazie alla sua capacità di minacciare e fare ricatti sul piano militare. Un tale comportamento è l'espressione tipica di una classe in rovina che non ha niente da offrire all'umanità se non violenza, estorsione e terrore. L'atteggiamento di minacciare i suoi rivali con ogni tipo di attacco militare mostra fino a che punto la situazione è diventata imprevedibile. Sarebbe dunque un errore sottovalutare il reale pericolo crescente nella situazione. L’acuirsi delle tensioni imperialiste non sono mai dei semplici "bluff" "fanfaronate" o "diversivi". Tutti i governi nel mondo sono presi dalla spirale del militarismo. La classe dominante non ha un reale controllo sul cancro del militarismo. Anche se è evidente che un attacco della Corea del Nord contro la Corea del Sud o contro gli Stati Uniti, condurrebbe ad un indebolimento considerevole, se non al crollo di tutto il regime e dello Stato, è bene sapere che la classe dominante non conosce alcun limite alla politica di terra bruciata. Il caso della Corea del Nord mostra che uno Stato, tutto intero, può essere pronto al "suicidio". Anche se la Corea del Nord è estremamente dipendente dalla Cina, questa’ultima non può essere sicura di essere in grado di "frenare" il regime di Pyongyang che ha appena mostrato una nuova dimensione della sua follia.
Con questo regime nord-coreano così apertamente guerrafondaio, il Giappone, gli Stati Uniti e la Corea del Sud possono presentarsi facilmente oggi come "vittime innocenti ". Occorre qui ricordare come la storia abbia molte volte dimostrato fino a che punto le "grandi democrazie" sono state non meno barbare delle peggiori dittature!
La Corea del Sud non è meno feroce della sua vicina del Nord. A maggio 1948, il governo Rhee (sostenuto dagli Stati Uniti nel Sud) ha organizzato un massacro di circa 60.000 persone a Cheju, un quinto dei residenti dell'isola. Durante la guerra del 1950-1953, il governo sud-coreano ha ucciso con la stessa intensità delle truppe del Nord. Durante il periodo di ricostruzione, sotto Rhee o sotto Park Chung-Hee, quando manifestazioni di collera operaia o studentesca esplodevano, il regime ha fatto ricorso a sanguinose repressioni. Nel 1980, un sollevamento popolare a grande partecipazione operaia a Kwangju è stato schiacciato. La legge sulla Sicurezza Nazionale ancora oggi autorizza il governo a dare la caccia ad ogni voce critica del regime, accusando chiunque di essere un agente della Corea del Nord. In tanti scioperi e manifestazioni di operai o di studenti o anche di "cittadini ordinari" (vedere per esempio Ssangyong o "la manifestazione delle candele accese") lo Stato sud-coreano ha utilizzato costantemente la repressione. E la cricca al potere sud-coreano non è poi tanto meno determinata ad utilizzare mezzi militari contro il suo rivale del Nord. Recentemente, Seul ha avuto per obiettivo di approntare delle armi nucleari! La storia lo mostra: nessun regime è migliore dell’altro; i due sono nemici giurati dei lavoratori. I lavoratori non possono disporsi affianco a nessuno di essi.
L'incremento recente delle tensioni in Asia cristallizza le tendenze distruttive del capitalismo. Ma il conflitto recente non è una semplice ripetizione dei conflitti passati, il pericolo è diventato molto più grande per l'umanità. Questo sistema marcisce: è sempre più pesantemente armato e sempre meno razionale. Dei dittatori pazzi controllano la potenza nucleare di grandi potenze, una contro l’altra, pronti a tutto, il capitalismo è una vera spada di Damocle sospesa sopra le nostre teste.
Ma il potenziale per abbattere questo barbaro sistema e creare così una nuova società, senza guerra né classi sociali, è oggi reale e possibile. Al tempo della guerra di Corea e della Guerra Fredda, la classe operaia era sconfitta ed incapace ad alzare la testa. Solo, un piccolo numero, infimo, di rivoluzionari della Sinistra Comunista ha difeso una posizione internazionalista. Oggi, il proletariato del Sud-est asiatico non vuole sacrificare la sua vita nell'avanzata mortale del capitalismo. Affinché l'umanità non affondi nella barbarie, la classe operaia deve rigettare il patriottismo e l'ingranaggio militarista. No a "un fronte unito col governo!" No alla guerra imperialista! La sola soluzione per la classe operaia è combattere risolutamente contro la sua borghesia, al Nord come al Sud. Questa posizione internazionalista è stata difesa già nel 2006 ad una Conferenza di rivoluzionari. Tre gruppi e sette persone hanno firmato così una Dichiarazione internazionalista dalla Corea contro la minaccia di guerre[2] che si è conclusa con questi due punti:
"Affermiamo la nostra totale solidarietà verso i lavoratori della Corea del Nord e del Sud, di Cina, del Giappone, di Russia che saranno i primi a soffrire in caso di uno scoppio di scontri armati.
Dichiariamo che solo la lotta degli operai a scala mondiale può per sempre mettere fine alla minaccia della barbarie, della guerra imperialista e della distruzione nucleare che è sospesa sull'umanità sotto il capitalismo".
I rivoluzionari devono riprendere ovunque questa parola d’ordine.
D e P (17 aprile)
[1] In particolare attraverso il terribile conflitto cino-giapponese tra il 1937 ed il 1945.
[2] Vedi la dichiarazione contro le prove nucleari nord-coreane [344], al seguente indirizzo web.
ottobre-dicembre 2013
Nata nel 1906, Hannah Arendt era di origine ebraica. Giovane studentessa, seguì i corsi del filosofo Martin Heidegger con cui ebbe una relazione d'amore. Il fatto che non abbia mai rinnegato questa relazione, come d’altronde lo stesso Heidegger, malgrado l'adesione di quest'ultimo al partito Nazista a partire dal 1933, in seguito le è stato molto rimproverato; i suoi legami con Heidegger e con il suo pensiero filosofico, probabilmente molto complesso, avrebbero meritato quasi un romanzo a sé, ed i flashback dei suoi incontri con Heidegger sono forse le scene meno riuscite del film, le sole dove si sente la Von Trotta meno incisiva rispetto al tema trattato nel suo film: la "banalità del male".
Hannah Arendt fugge dalla Germania nel 1933, al momento dell'arrivo al potere di Hitler, e si stabilisce a Parigi dove milita nel movimento sionista malgrado nutra verso quest’ultimo posizioni critiche. È a Parigi che sposa, nel 1940, il suo secondo marito Heinrich Blücher. Con l'invasione della Francia da parte della Germania, viene internata dallo Stato francese nel campo di Gurs, ma riesce a fuggire e - dopo molte peripezie - a maggio del 1941 arriva infine negli Stati Uniti. Priva di tutto, si dà da fare per guadagnarsi da vivere e riesce a farsi assumere all’università (essa sarà anche la prima donna ammessa come professore presso la prestigiosa università di Princeton) e, nel 1960, quando il film comincia, Arendt è un'intellettuale di vigore avendo già pubblicato due delle sue opere più importanti: Le origini del totalitarismo (1951) e La condizione dell'uomo moderno (1958).
Certamente, Hannah Arendt non era una marxista, anche se si è interessata all'opera di Marx ed alla vita di Rosa Luxemburg, essendo stato suo marito Heinrich un vecchio spartachista ed in seguito membro dell'opposizione alla stalinizzazione del KPD negli anni 20, raggiungendo il KPD-opposizione (KPO) di Brandler e Thalheimer all'epoca dell'esclusione di questo dal partito[2]. Il film dà una strizzatina d’occhio all'impegno di Heinrich: si sente, da una testimonianza di un'amica americana della coppia che "Heinrich era stato con Rosa Luxemburg fino alla fine". Pur non essendo una marxista il lavoro filosofico di Arendt e soprattutto la sua analisi sui meccanismi del totalitarismo restano ancora oggi molto pertinenti. Per il suo rigore di pensiero e per la sua integrità, grazie alla quale è pronta ad impegnarsi contro i luoghi comuni dell'ideologia dominante della sua epoca, Hannah Arendt, per la sua onestà, è una donna scomoda. Nell’analizzare approfonditamente il processo ad Eichmann a Gerusalemme, Arendt cerca di comprendere come degli esseri umani siano potuti diventare i funzionari dello sterminio degli ebrei.
I primi momenti del film rievocano la cattura di Adolf Eichmann da parte del Mossad, in Argentina. Sotto il regime nazista, Eichmann aveva occupato parecchie posizioni importanti, innanzitutto nell'organizzazione che espulse gli ebrei dall'Austria, e poi, durante la guerra, nella logistica della "soluzione finale", particolarmente il trasporto degli ebrei dell'Europa verso i campi di morte di Auschwitz, Treblinka ed altri. L'intenzione di David Ben Gurion, primo ministro d'Israele e, dunque, responsabile dell'operazione del Mossad, era chiaramente di montare un processo spettacolo come fondazione del giovane Stato, dove gli stessi ebrei avrebbero giudicato uno degli autori del loro genocidio.
Apprendendo la notizia del processo Eichmann, Arendt propone alla rivista letteraria New Yorker di seguire il processo e di farne il servizio. In seguito la serie di articoli che essa ha scritto sul processo è stata pubblicata sotto forma di libro con il titolo La banalità del male.
La pubblicazione del libro creò uno scandalo notevole in Israele ed ancora più negli Stati Uniti: Arendt fu oggetto di una campagna di denuncia mediatica: "ebrea che si detesta" e "Rosa Luxemburg del nulla" non erano che due degli epiteti più gentili. Le venne chiesto di licenziarsi dal suo posto all’Università, ma lei si rifiutò. È proprio l'evoluzione del pensiero di Arendt durante il processo e la reazione al suo libro che fornisce la materia del film. Quando si pensa di fare un'opera drammatica del movimento contraddittorio e talvolta faticoso del pensiero filosofico, senza tuttavia volgarizzarlo, questo diventa una scommessa sacrosanta che Von Trotta e Sukowa raccolgono con briosa serietà.
Perché dunque il servizio di Arendt ha tanto scandalizzato?[3]. In parte la reazione era comprensibile ed anche inevitabile: Arendt maneggia il bisturi della critica come un chirurgo, ma per molti, la guerra e le sofferenze abominevoli delle vittime della Shoah erano troppo vicine, i traumi ancora troppo presenti, per dare giudizi obiettivi sugli avvenimenti. Ma le voci più forti erano interessate: interessate soprattutto a mantenere sotto silenzio le verità imbarazzanti che la critica di Arendt svelava.
Arendt colpiva nel vivo quando demoliva il tentativo del primo ministro d'Israele, David Ben Gurion, di utilizzare il processo Eichmann come un processo spettacolo per giustificare l'esistenza d'Israele strumentalizzando il calvario degli ebrei nella Shoah. Perciò, il processo Eichmann doveva essere quello di un mostro, degno rappresentante dei crimini mostruosi dei nazisti contro l'umanità. La stessa Arendt si aspettava di vedere un mostro, ma più l'osservava meno era convinta, non della colpevolezza ma della mostruosità. Nelle scene del processo, Von Trotta non pone Arendt nella sala pubblica del tribunale ma in una riservata ai giornalisti che seguivano il processo attraverso un collegamento teletrasmesso. Questo trucco cinematografico permette a Von Trotta di mostrarci, non un attore che recita Eichmann, ma il vero Eichmann, e come Arendt, possiamo vedere quest’uomo mediocre (Arendt utilizzava piuttosto il termine "banale" al posto di "mediocre") che non ha niente a che vedere con la follia omicida di un Hitler né con la fredda pazzia di un Goebbels (come abbiamo potuto vederli interpretati brillantemente da Bruno Ganz ed Ulriche Mathes in La Caduta). Al contrario, ci troviamo di fronte ad un piccolo burocrate il cui orizzonte intellettuale non supera quello del suo ufficio e del suo buon funzionamento, e le cui prospettive non superano le sue speranze di promozione e le rivalità burocratiche. Eichmann non è un mostro, conclude Arendt: "sarebbe stato molto confortante credere che Eichmann fosse un mostro (…) Il problema Eichmann era proprio che ce n'erano tanti come lui che non erano né dei perversi né dei sadici, ma al contrario notevolmente e spaventosamente normali" (p. 274)[4]. Tutto sommato, il crimine di Eichmann non era di essere stato responsabile come un Hitler dello sterminio degli ebrei, ma di avere abdicato ad ogni capacità di riflessione, di pensiero, e di avere dunque agito in tutta legalità ed in buona coscienza come un semplice ingranaggio di una macchina totalitaria di uno Stato, lui sì criminale. Il "buonsenso" indiscutibile delle "personalità" gli è servito da "guida morale". Così, la conferenza di Wannsee (che doveva mettere in moto il meccanismo operativo della "soluzione finale") "era un'opportunità molto importante per Eichmann che non si era mai immischiato ad altrettante 'grandi personalità' (…) Adesso poteva vedere con i suoi occhi e poteva sentire con le sue orecchie non solo Hitler, non solo Heydrich o la 'sfinge' Müller, non solo le SS o il Partito ma anche l'élite della buona vecchia funzione pubblica che si disputa gli onori della direzione di queste questioni 'sanguinose'. In questo momento, ho provato un'emozione alla Ponzio Pilato, mi sono sentito sollevato da ogni colpevolezza" (p. 112).
Arendt rigetta esplicitamente l'idea che "tutti sono potenzialmente colpevoli", o "colpevoli per associazione": Eichmann meritava la morte per ciò che aveva fatto (come se la sua esecuzione poteva restituire vita ai mucchi di cadaveri!). Dopo di che, la sua analisi è uno schiaffo coraggioso inflitto all'antifascismo diventato ideologia ufficiale di tutti gli Stati, e particolarmente dello Stato sionista. Dal nostro punto di vista, la "banalità" di cui parla Arendt è quella di un mondo - il mondo capitalista, - dove l'essere umano, alienato e reificato, è ridotto allo stato di una cosa, di una merce, un ingranaggio nella macchina del capitale.
Questa macchina non è solo appannaggio dello Stato Nazista. Arendt ci ricorda che la politica di "judenrein" (sbarazzarsi degli ebrei), era già stata sperimentata dallo Stato polacco prima della guerra, nel 1937, e che il democratico governo francese nella persona del suo ministro degli affari esteri, Giorgio Bonnet, aveva previsto l'espulsione dei 200.000 ebrei "non-francesi" verso il Madagascar (Bonnet aveva anche chiesto dei consigli al riguardo al suo omologo tedesco Von Ribbentrop). Arendt indica anche il tribunale di Norimberga come un "tribunale dei vincitori" dove sedevano dei giudici i cui paesi erano altrettanto responsabili di crimini di guerra: i russi colpevoli dei gulag, e gli americani colpevoli del bombardamento atomico di Nagasaki e Hiroshima.
Anche con lo Stato dl'Israele Arendt non è tenera. Contrariamente agli altri reporter, nel suo libro sottolinea l'ironia amara della messa in accusa di Eichmann per crimini a sfondo razziale, mentre anche questo Stato incorpora distinzioni razziali nelle sue leggi: "la legge rabbinica detta lo statuto personale dei cittadini ebraici, con il risultato che nessuno ebreo può sposare un non ebreo, i matrimoni all'estero sono riconosciuti ma i figli dei matrimoni misti sono illegittimi (…) e se si nasce da madre non ebraica non si può essere né sposato né sepolto". Quale ironia amara per i superstiti della politica della "purezza razziale" nazista nel cercare di creare la loro "purezza razziale" in terra promessa! Arendt detestava in generale il nazionalismo ed in particolare il nazionalismo israeliano. Già negli anni '30, si era opposta alla politica sionista ed al rifiuto di questa di cercare un modo di vita comune con i palestinesi. E lei non esita a smascherare l'ipocrisia del governo Ben Gurion che punta i riflettori sui legami di certi Stati arabi col regime Nazista mentre resta in silenzio sul fatto che la Germania dell'Ovest continuava a dare riparo ad un numero impressionante di nazisti concedendo loro posti di alta responsabilità.
Un altro motivo di scandalo era la questione dei "Judenrat" - i consigli ebraici creati dai nazisti proprio per facilitare la "soluzione finale". Pur essendo una breve parte del libro, quest’argomento ha colpito nel vivo. Ecco, ciò che dice Arendt: “Ovunque abitavano ebrei, c'erano dirigenti ebrei riconosciuti, e questa direzione, quasi senza eccezione, in un modo o nell'altro, per una ragione o per un'altra, ha cooperato con i nazisti. La verità, è che se gli ebrei fossero stati disorganizzati e senza direzione, ci sarebbero stati caos e miseria in abbondanza ma il numero totale delle vittime non sarebbe salito a 4-6 milioni di persone (…) Ho trattato questo aspetto dalla storia, che il processo di Gerusalemme ha mancato di esporre davanti al mondo intero nella sua vera dimensione, perché ci offre l'idea più sorprendente del crollo morale totale che i nazisti hanno inflitto alla rispettabile società europea" (p. 123). Essa rivela anche un elemento di distinzione di classe tra i dirigenti ebraici e le masse anonime: nella catastrofe generale, quelli che scappavano erano o sufficientemente ricchi per comprarsi la loro fuga, o sufficientemente "in vista" nella "comunità internazionale" per aver salva la vita in quella specie di ghetto privilegiato di Theresienstadt. Le relazioni tra la popolazione ebraica ed i regimi nazisti, ed anche con le altre popolazioni europee, erano molto più complesse di quanto volesse far credere la manichea ideologia dominante dei vincitori della guerra.
Il problema della Shoah e del nazismo occupa un posto centrale nella storia recente dell'Europa, ed oggi ancora più rispetto agli anni ‘60. Malgrado gli sforzi degli autori, per esempio del Libro nero del comunismo, il nazismo resta in qualche modo il "male estremo". La Shoah è una parte alquanto importante del programma scolastico, insieme alla Resistenza francese, con la quasi esclusione di ogni altra considerazione sulla guerra. Tuttavia, sul piano puramente aritmetico, lo stalinismo era molto peggio, con 20 milioni di morti nei gulag di Stalin ed almeno 20 milioni di morti nella carestia provocata dal "Grande salto in avanti" di Mao. C'è evidentemente in ciò una forte dose di opportunismo: i discendenti di Stalin e di Mao sono sempre al potere in Russia ed in Cina, sono sempre delle persone con cui si possono e si devono "fare degli affari".
Arendt non tratta direttamente questa questione, ma in una discussione sul capo di accusa contro Eichmann, insiste sul fatto che il crimine dei nazisti non era un crimine contro gli ebrei, ma un crimine contro tutta l'umanità nella persona del popolo ebraico, precisamente perché negava agli ebrei la loro appartenenza alla specie umana, e faceva di questi esseri umani un male inumano da estirpare. Questo carattere razzista, xenofobo, oscurantista del regime nazista, era mostrato con chiarezza e del resto è perciò che una parte della classe dominante europea, delle classi contadine e piccolo-borghesi rovinate dalla crisi economica, hanno potuto così ben uniformarsi. Lo stalinismo invece, si mostrava sempre come progressista: si cantava sempre che "L'internazionale sarà il genere umano", ed è per tale motivo che fino alla caduta del Muro di Berlino, ed anche dopo la sua caduta, certe persone comuni hanno potuto continuare a difendere i regimi stalinisti in nome della speranza in un avvenire migliore[5].
Ciò che essenzialmente sostiene Arendt, è che la barbarie "impensabile" della Shoah, la banalità dei funzionari nazisti, è il prodotto della distruzione della "capacità di pensare". Eichmann "non pensa", esegue gli ordini della macchina e fa correttamente il suo lavoro, in modo molto rigoroso e disciplinato, senza alcuno stato d'anima, senza alcuna capacità di immaginarsi l'orrore nei campi di sterminio. In questo senso, il film di Von Trotta deve essere visto come un elogio del pensiero.
Hannah Arendt non era marxista[6]. Non aveva una visione rivoluzionaria e storica del mondo e quindi non comprendeva che, dalla fine del comunismo primitivo, "la storia dell'umanità è la storia di lotte di classi" (Marx). Non comprendeva neanche la concezione del lavoro di Marx. Ma, ponendo delle questioni che mettono a mal partito l'ideologia antifascista ufficiale, essa è nemica del conformismo, dei luoghi comuni e dell'abbandono del pensiero critico. Il merito della sua analisi è anche quello di permettere una riflessione sulla "coscienza morale" dell'essere umano (proprio come l'esperienza dello psicologo americano Stanley Milgram, riferita nel film di Henri Verneuil "I come Icare", che mette in evidenza i meccanismi di "sottomissione all'autorità" cui sono soggetti i torturatori).
La pubblicità fatta oggi da tutta la borghesia democratica all'opera di Hannah Arendt, diventata un'icona nei campi dell'intellighenzia "democratica", non è limpida. Ciò a cui mira questo recupero della sua analisi del totalitarismo, è evidentemente l'idea perniciosa che esiste una continuità tra le macchine totalitarie dello Stato stalinista con il bolscevismo e la Rivoluzione russa di Ottobre 1917 poiché "il verme era già nel frutto": Stalin sarebbe stato solamente l'esecutore del pensiero di Lenin. Morale: ogni rivoluzione proletaria non può che condurre al totalitarismo ed a nuovi crimini contro l'umanità! È perciò che certi ideologi patentati della borghesia, come Raymond Aron, non hanno perso l'occasione per sfruttare l'analisi di Hannah Arendt del totalitarismo dello Stato stalinista salutando la sua "filosofia politica" per alimentare le campagne della Guerra fredda e quelle sul "fallimento del comunismo" scatenato dopo il crollo dell'URSS.
Hannah Arendt era una filosofa. E come diceva Marx, "I filosofi hanno interpretato il mondo. Ora si tratta di trasformarlo". Il marxismo non è una dottrina "totalitaria". È l'arma teorica della classe sfruttata per la trasformazione rivoluzionaria del mondo. Ed è perciò che solo il marxismo è stato capace di integrare gli apporti dell'arte, della scienza e dei filosofi come Epicuro, Aristotele, Spinoza, Hegel, ecc., e che è oggi capace di integrare gli apporti di Hannah Arendt: uno sguardo profondo e critico sull'epoca contemporanea ed il suo elogio del pensiero.
Jens e SL, 25 giugno
[1] Vedere la critica pubblicata nel numero 113 de la Révue internationale, https://fr.internationalism.org/french/rint/113_pianiste.html [345]
[2] Il KPO faceva parte di quei gruppi di opposizione allo stalinismo e non è riuscito mai a rompere pienamente con questo poiché, come Trotsky, tali gruppi non hanno mai accettato l'idea di una controrivoluzione in URSS.
[3] Il lettore francofono potrebbe ascoltare delle testimonianze dell'epoca molto illuminanti a questo proposito, in un documentario di France Culture (Francia Cultura): Hannah Arendt ed il processo di Eichmann, (https://www.radiofrance.fr/emission-la-fabrique-de-l-histoire-histoire-des-grands-proces-24-2013-05-07 [346])
[4] Le citazioni del libro sono tratte dall'edizione pubblicata da Penguin Books nel 2006, con un'introduzione di Amos Elon, tradotto dall'inglese da noi.
[5] Vedere a questo proposito questa affascinante serie documentaria (in inglese ed in tedesco) a proposito della vita nell'ex-RDT: https://www.youtube.com/watch?v=7fwQv5h7Lq8 [347]
[6] Arendt ha scritto una biografia molto succinta di Rosa Luxemburg a partire dal libro di Nettl. Non comprende che i due corpi franchi che hanno assassinato Rosa erano agli ordini di Noske e Scheidemann, conosciuti per il loro ruolo di primo piano nello schiacciamento della rivolta spartakista. Lei pensa che il governo Noske era solo "complice" di quei corpi franchi che avrebbero servito il nazismo.
Il 27 settembre migliaia di cittadini del Bahrein, appartenenti alle classi sfruttate, sono scesi in piazza a manifestare per la democrazia. Manifestare per la democrazia? Si illudono di cambiare la loro situazione con la democrazia!
Noi viviamo in Italia e non sappiamo nulla di ciò che succede in Bahrein, a meno che non si usi internet e si cerchino notizie particolari. Ma le nostre tv non ci nascondono solo il Bahrein: ci solo le lotte degli studenti in Cile, degli insegnanti in Messico e Spagna, dei disoccupati in Brasile e chissà in quanti altri posti. Lotte di lavoratori, di proletari.
Non ci nascondono solo le lotte dei lavoratori in altre parti del pianeta ma anche le nostre lotte, le nostre proteste, le nostre situazioni, quelle dei disoccupati, dei precari, dei cassaintegrati, dei licenziati, dei nullatenenti, dei pensionati e degli studenti, in poche parole dei proletari italiani.
A dire la verità in alcuni servizi televisivi, talk show, i proletari in tutte le loro forme appaiono ma come contorno, come a dire “visto che ci occupiamo anche dei fatti vostri!”. C’è una giornalista che intervista il sindacalista di turno che parla in nome dei lavoratori licenziati davanti la fabbrica, oppure un giornalista che intervista i pensionati che non riescono a fare la spesa e nello studio televisivo chi c’è? Carfagna, Gelmini, Santanchè, etc.. e altri omologhi del PD insieme ai soliti giornalisti de “Il Fatto” o “Il Giornale” e qualcun altro. Di che cosa parlano? Di Berlusconi!! Del fatto che è un colpo di stato farlo dimettere da senatore, che LUI ha abolito l’IMU, che la legge Severino non deve essere retroattiva, bla bla bla. Tutta questa commedia non ha senso se non per nascondere altro. Per quanto riguarda Berlusconi è comprensibile la paura di essere ridimensionato dalla scena politica, ma per la restante parte della borghesia italiana qual è il problema?
È stato difficile formare il governo ma una volta fatto avrebbe dovuto mettere in opera le misure necessarie per raddrizzare la barca che affonda. Ma ci sono queste misure e soprattutto si ha la forza e la capacità di metterle in opera? E ancora è possibile rimettere in modo la fabbrica Italia?
Qual è la situazione economica reale dell’Italia?
Per quanto riguarda il debito pubblico: “Nei primi sette mesi dell’anno il debito pubblico è cresciuto di 84,2 miliardi rispetto alla fine del 2012. Lo comunica la Banca d’Italia. (…). A luglio invece, si è attestato a 2.072,863 miliardi di euro, in diminuzione di 2,3 miliardi rispetto a giugno. Nei primi sette mesi dell’anno le entrate tributarie contabilizzate nel bilancio dello Stato sono state pari a 225 miliardi, in aumento dell’1,4% (3,2 miliardi) rispetto a quelle dello stesso periodo del 2012.”[1].
Come si vede Il debito non fa che aumentare a passi da gigante (84.1 miliardi in 7 mesi) mentre le entrate tributarie fanno piccoli spostamenti, solo 3,2 miliardi in più. L’evasione, più di 200 miliardi l’anno, resta tale.
Il PIL è in diminuzione costante, quest’anno scenderà dell’1,3% secondo le statistiche Eurostat[2] . E così il rapporto debito/Pil non fa che aumentare, ha superato il 130%. E se il debito aumenta nonostante tagli e nuove tasse, non è lecito chiedersi a che servono tutti questi sacrifici?
Qual è la situazione della popolazione italiana?
La popolazione sta subendo un vero salasso economico perché di fronte all’aumento costante dei prezzi, con o senza l’IVA al 22%, si assiste alla continua diminuzione della massa salariale dovuta ai licenziamenti, alla precarizzazione dei posti di lavoro in tante forme diverse, il che comporta salari senza anzianità e indennità varie, al mancato turnover, 500.000 occupati in meno in un anno[3], all’aumento delle imposte varie sia locali sia nazionali. I trasporti aumentano, gli affitti pure mentre i prezzi delle case diminuiscono, ma le compravendite crollano (dal 2007 si sono dimezzate). Soldi non ce ne sono e le banche non concedono mutui facilmente per il timore di non vederseli ripagare.
Per contrastare la povertà crescente in Grecia hanno messo in commercio, a prezzo ridotto, i prodotti scaduti. In Italia stanno aumentando i supermercati low cost e mense per chi non riesce a sfamarsi. Le foto di persone che vanno al mercato a raccogliere i prodotti scartati non fanno più notizia, come non fanno più notizia i suicidi e i gesti disperati perché sono all’ordine del giorno.
Per quanto riguarda i negozi, le statistiche dicono che c'è un saldo negativo di 15.000 unità. E anche le imprese chiudono[4] o vengono svendute a prezzi stracciati in quanto piene di debiti, come nel caso della Telecom consegnata agli spagnoli. E quando avvengono queste acquisizioni si procede immediatamente alla riduzione del personale.
Qual è stata la politica economica adottata dal governo?
Il governo “del fare” è nato sull'onda della eliminazione della tassa sulla prima casa, cavallo di battaglia di Berlusconi. É riuscito a bloccare la prima rata di questa tassa creandone un'altra che graverà su tutti, anche su chi non ha casa. Ma questo è servito a far dire a Berlusconi che lui mantiene le promesse. Per quanto riguarda il settore del lavoro ci sono state promesse di assunzione di precari e un aumento delle risorse scolastiche ma per ora sono solo promesse e comunque del tutto insufficienti alle reali necessità.
Per poter dare un serio segnale di cambiamento il governo avrebbe dovuto far aumentare le entrate, diminuire le spese, detassare i settori lavorativi e incrementare l'occupazione con investimenti strutturali.
Ma ad ognuna di queste voci corrisponde una risposta contraria.
Tagliare il budget militare, cioè l'acquisto degli F35, significava ridurre l'occupazione negli stabilimenti Finmeccanica e l'importanza di questa azienda strategica per l'imperialismo italiano. Lo stesso vale per la riduzione del settore militare all'estero: smettere con le “missioni di pace” significherebbe rinunciare a giocare un ruolo sullo scacchiere imperialista, cioè accettare di non contare niente.
Tagliare ulteriormente le spese statali, cioè nella sanità, scuola significa chiudere ospedali e scuole perché sono al collasso.
Aumentare le entrate significa effettuare un controllo serio degli evasori ma questo significa darsi la zappa sui piedi. Non dimentichiamo che i governi sono espressione della classe al potere, cioè della borghesia. E lo stesso sarebbe aumentare il prelievo fiscale sui milionari. Berlusconi che si aumenta le tasse? Tagliare le tasse sui salari dei lavoratori? Ma se sono loro a mantenere lo Stato!
Qualsiasi cosa si faccia si può rovesciare la situazione? Non c'è soluzione alla crisi dello Stato, non solo a quello italiano ma a tutti. I debiti sono aumentati a tal punto che non c'è più possibilità di ridurli. In Italia poi c'è una instabilità governativa che fa paura ad ogni investitore estero.
La farsesca storia della crisi di governo prima dichiarata e poi ritirata dà un’idea chiara di come sia precario il sistema politico italiano. E questa precarietà politica non fa che aggravare la situazione economica, sia perché espone il paese alla speculazione dei mercati, sia perché non si riesce nemmeno a trovare delle pezze per tappare le falle.
Oblomov, 29 settembre ’13
[1] https://www.ilfattoquotidiano.it/2013/09/13/bankitalia-debito-pubblico-cresciuto-di-842-miliardi-dallinizio-dellanno/710446/ [348]
[2] epp.eurostat.ec.europa.eu/tgm/table.do?tab=table&init=1&language=en&pcode=tec00115&plugin=1
[4] Fallimenti in costante crescita: sono 3637 le aziende fallite nel primo trimestre 2013, www.cribis.com/Pages/News-Fallimenti-Iq-2013.aspx?gclid=CLbyi5fd8LkCFYmN... [350]
In Siria, per esempio, la guerra ed i massacri a cui sono esposte le popolazioni (più di 100.000 morti in quindici mesi) illustrano tutto l’orrore e la barbarie di un sistema agonizzante. Traducono la situazione drammatica in cui sono immersi milioni di proletari, coinvolti nello scatenamento di scontri tra cricche borghesi sostenute da ogni grande potenza. Presi in ostaggio, non possono costituire una forza sufficiente per potere giocare anche minimamente un loro ruolo particolare ed a maggior ragione liberare la loro prospettiva. Purtroppo, il corollario di questa situazione è che, come in una parte crescente del Medio Oriente o dell’Africa, la gioventù sfruttata, ritrovandosi arruolata massicciamente in uno o l’altro dei campi opposti, è ridotta a carne da cannone.
All’opposto, in Turchia come in Brasile[1], centinaia di migliaia di proletari sofferenti, attualmente si organizzano e lottano. Sono capaci di suscitare un immenso slancio di solidarietà e di protesta. In prima linea, le giovani generazioni si richiamano e si ispirano fortemente ai movimenti degli Indignati in Spagna, pur dovendo affrontare una repressione feroce sia da un governo islamico retrogrado che da un potere tenuto dalla sinistra. Una sinistra che si vanta di essere la più “radicale” e “progressista”, una variante del famoso “socialismo del XXI secolo” in voga in America latina, e che pretende fare del Brasile un modello di paese emergente tale da tirare fuori la maggioranza della popolazione dalla sua immensa povertà. Anche se in Brasile, il rifiuto dell’aumento del biglietto dei trasporti pubblici è servito da detonatore/unificatore del movimento, questo non si è ridotto a rivendicazioni strettamente economiche. Alla stessa stregua del governo francese che cercando di imporre il CPE (Contratto di primo impiego) ha dovuto fare retromarcia di fronte alla mobilitazione dei giovani proletari nel 2006, l’indietreggiamento spettacolare del governo brasiliano, costretto dalla pressione a rinunciare a questo attacco, non è bastato ad arginare la mobilitazione perché quest’ultima è espressione di un profondo malcontento. L’esempio della Turchia è ancora più edificante. Vi si trova, oltre una continuità con la lotta degli operai della Tekel nel 2008, che aveva già dimostrato in modo ancora embrionale tutto un potenziale di combattività e di solidarietà al di là delle stesse divisioni inter-etniche alimentate dalla borghesia, il rigetto di una gogna e un’oppressione culturale ed ideologica insopportabile, in particolare tra le nuove generazioni di proletari all’avanguardia del movimento. I valori morali oscurantisti ed autoritari incarnati dal governo pro-islamico di Erdogan, i suoi atteggiamenti provocatori che provocano radicalizzazione ed estensione del movimento di fronte alla repressione, rafforzano la potente inspirazione alla dignità. A dispetto del peso della violenza e della decomposizione sociale, più che verso la Primavera araba facilmente recuperata dai religiosi, la protesta dei giovani proletari in Turchia, impregnata questi ultimi mesi da un contesto di lotte operaie importanti nei grandi centri industriali del paese ed influenzata dalla sua esperienza laica dopo Mustapha Kemal Atatürk, si iscrive, malgrado tutte le debolezze che esprime, in una dinamica profonda ed in linea con il movimento degli Indignati, degli Occupy e di Maggio 1968. Vi attinge le sue più vive risorse, di fronte ad un mondo di miseria, di oppressione ideologica e di sfruttamento, proprio come il movimento sociale in Brasile che si è egualmente e nettamente smarcato dalla religione di Stato e dalla sacra unione nazionale intorno al “Dio calcio” (prendendo di mira le spese esorbitanti dello Stato per i preparativi della Coppa del Mondo). Questa intensa agitazione, questo rombo fremente venuto dalle viscere della società imputridita traduce una stessa aspirazione, una stessa speranza. Essa è portata dalle giovani generazioni combattive, figli di proletari meno segnati rispetto ai loro padri dal peso delle sconfitte, dallo stalinismo ed in generale dalla controrivoluzione. Reagiscono e chiamano così agli assembramenti di massa o alle mobilitazioni attraverso portatili e social network, come Twitter. Dal profondo delle favelas a nord di Rio, alle gigantesche manifestazioni in tutte le grandi città brasiliane, fino a piazza Taksim ed alle assemblee aperte al dibattito pubblico nei parchi di Istanbul o presso gli studenti cileni, aspirano ad un altro tipo di rapporti sociali, dove non si è più disprezzati né trattati come bestie da soma.
Questi movimenti annunciano un nuovo periodo per il futuro, quello di una scossa in profondità che risuona come mezzo e promessa per sfuggire alla rassegnazione ed alla logica di concorrenza propria del capitalismo. Essi si pongono sullo stesso terreno dei paesi del centro storico del capitalismo dove, pur essendo presente lo stesso degrado delle condizioni di esistenza, la classe operaia non riesce ancora a prendere la strada di lotte massicce, in grande parte perché confrontata ad una borghesia molto esperta ed organizzata. Ma fin da ora è verso questa classe operaia dei paesi centrali, in particolare d’Europa, che si portano gli sguardi delle mobilitazioni attuali, perché essa rappresenta la parte del proletariato mondiale più concentrata, più esperta e la più rotta alle trappole ed alle più sofisticate mistificazioni tese dal nemico, come la democrazia o la libertà sindacale. I metodi di lotta che questa è potenzialmente capace di riproporre, come le assemblee generali di massa ed autonome, sono vere armi per l’insieme del proletariato internazionale. Dalla loro avvio dipenderà l’avvenire dell’umanità intera.
Wim, 26 giugno
[1] Per la Turchia vedi “Movimento sociale in Turchia: il rimedio contro il terrore di Stato non è la democrazia”, per il Brasile “Manifestazioni contro l’aumento del prezzo dei trasporti in Brasile: la repressione poliziesca provoca la collera della gioventù”.
Il movimento è iniziato contro l’abbattimento degli alberi in vista della distruzione del parco Gezi e della piazza Taksim a Istanbul, ed ha preso un’ampiezza sconosciuta nella storia della Turchia fino ad oggi. (...) Si può comprendere il vero carattere di questo movimento soltanto ponendolo nel contesto internazionale. E visto da quest’angolo, diventa chiaro che il movimento in Turchia è in continuità diretta non soltanto con le rivolte del Medio Oriente del 2011 – le più importanti delle quali (Tunisia, Egitto, Israele) ebbero un’impronta molto forte della classe operaia – ma in particolare con il movimento degli Indignati in Spagna e di Occupy negli Stati Uniti, dove la classe operaia rappresentava non solo la maggioranza della popolazione nel suo insieme ma anche dei partecipanti al movimento. Lo stesso vale per l’attuale rivolta in Brasile e per il movimento in Turchia, la cui stragrande maggioranza immensa delle componenti appartiene alla classe operaia, e particolarmente alla gioventù proletaria. (...) Il settore che vi ha partecipato maggiormente era quello chiamato: “la generazione degli anni 90”. L’apoliticismo è stata l’etichetta appiccicata ai manifestanti di questa generazione, di cui molti non potevano ricordarsi dell’epoca precedente al governo AKP[2]. Questa generazione, di cui si è detto che non si sentiva investita negli avvenimenti e che i cui membri cercavano solo di salvare stessi, ha capito che restando soli non c’era scampo ed era stufa dei discorsi del governo che gli diceva come e come vivere. Gli studenti (…) hanno partecipato in massa alle manifestazioni. I giovani operai e i giovani disoccupati erano largamente presenti nel movimento ed erano presenti anche operai e disoccupati più istruiti. In certi settori dell’economia dove lavorano soprattutto giovani in condizioni precarie e dove è di solito difficile lottare - in particolare nel settore dei servizi - i lavoratori si sono organizzati sulla base del luogo di lavoro ma in modo da trascendere ogni particolare posto di lavoro ed hanno partecipato insieme alle manifestazioni. Si trovano esempi di tale partecipazione fra i fattorini dei negozi di kebab, il personale dei bar, quello dei call center e degli uffici. Allo stesso tempo, il fatto che questo genere di partecipazione non ha prevalso sulla tendenza degli operai ad andare alle manifestazioni individualmente ha costituito una delle debolezze più significative del movimento. Ma questo è stato tipico anche dei movimenti in altri paesi, dove la preminenza della rivolta di piazza è stata un’espressione pratica del bisogno di superare la dispersione sociale creata dalle condizioni che esistono nella produzione e la crisi capitaliste – in particolare, il peso della disoccupazione e del precariato. Ma queste stesse condizioni, accoppiate agli immensi attacchi ideologici della classe dominante, hanno reso difficile alla classe operaia vedersi come classe ed hanno contribuito a rafforzare l’idea nei manifestanti di essere essenzialmente una massa di singoli cittadini, dei membri legittimi della Comunità “nazionale”. Questo è il cammino contradittorio verso la ricostituzione del proletariato in classe, ma indubbiamente questi movimenti sono un passo su questa strada.
Una delle principali ragioni per la quale una massa significativa di proletari insoddisfatti delle loro condizioni di vita ha organizzato delle manifestazioni con una tale determinazione, sta anche nell’indignazione e il sentimento di solidarietà contro la violenza poliziesca e il terrore dello Stato. Ciò nonostante, diverse tendenze politiche borghesi sono state attive nel tentare di influenzare il movimento dall’interno per mantenerlo nel quadro dell’ordine esistente, per evitarne la radicalizzazione e impedire alle masse proletarie, che avevano guadagnato la strada contro il terrore statale, di sviluppare rivendicazioni di classe sulle proprie condizioni di vita. Così, non potendo evocare rivendicazioni portavano all’unanimità nel movimento, quello che ha generalmente predominato quest’ultimo sono state le rivendicazioni democratiche. La linea che rivendicava “più di democrazia”, che si è formata attorno ad una posizione anti-AKP e, nei fatti, anti-Erdogan, in sostanza non esprimeva che una riorganizzazione dell’apparato di Stato turco su un modello più democratico. L’impatto delle rivendicazioni democratiche sul movimento ha costituito la sua più grande debolezza ideologica.
Poiché Erdogan stesso ha costruito tutti i suoi attacchi ideologici contro il movimento intorno a quest’asse della democrazia e delle elezioni; le autorità governative, benché con mucchi di menzogne e manipolazioni, hanno ripetuto a sazietà l’argomentazione secondo la quale anche nei paesi considerati più democratici, la polizia utilizza la violenza contro le manifestazioni illegali – questa su cui non avevano torto. Inoltre, la linea che mirava a ottenere diritti democratici legava le mani delle masse dinanzi agli attacchi della polizia e il terrore statale, e pacificava la loro resistenza. (...) Detto ciò, l’elemento più attivo in questa tendenza democratica che sembra aver preso il controllo della Piattaforma di Solidarietà di Taksim sta nelle confederazioni sindacali di sinistra come la KSEK e la DISK. (...) La Piattaforma di Solidarietà di Taksim e dunque la tendenza democratica, per il fatto di essere costituita da rappresentanti di ogni sorta di associazioni e organizzazioni, ha tratto la sua forza non da un legame organico con i manifestanti ma dalla legittimità borghese, dalle risorse mobilitate e dal sostegno delle sue componenti. (...) La sinistra borghese è un’altra tendenza che occorre citare. La base dei partiti di sinistra, che si possono anche definire come la sinistra legale borghese, è stata per larga parte tagliata dalle masse. In generale è stata alla coda della tendenza democratica. I circoli stalinisti e trotskisti, o la sinistra radicale borghese, erano anch’essi in gran parte tagliati delle masse. Erano influenti nei quartieri, dove hanno tradizionalmente una certa forza. Benché si opponevano alla tendenza democratica quando questa provava a disperdere il movimento, l’hanno generalmente sostenuta. Le analisi della sinistra borghese si limitavano, per la maggior parte, a rallegrarsi “del sollevamento popolare” e a cercare di presentare i propri portavoce come i leader del movimento. Anche gli appelli allo sciopero generale, una linea tradizionalmente messa avanti dalla sinistra, non hanno avuto veramente eco al suo interno a causa dell’atmosfera di gioia cieca. Il suo slogan più accettato fra le masse era “spalla contro spalla contro il fascismo”. (...) Oltre alle tendenze citate sopra, si può parlare di una tendenza proletaria o di più tendenze proletarie all’interno del movimento. (...) In generale, una parte significativa dei manifestanti difendeva l’idea che il movimento doveva creare un’auto-organizzazione che gli permettesse di determinare il proprio futuro. La parte dei manifestanti che voleva che il movimento si unisse con la classe operaia era composta da elementi coscienti dell’importanza e della forza della classe, che erano contro il nazionalismo, anche se mancava loro una chiara visione politica. (...) [Tuttavia], la debolezza comune delle manifestazioni in tutta la Turchia è la difficoltà a creare discussioni di massa e prendere il controllo del movimento grazie a forme d’auto-organizzazione sulla base di queste discussioni. Discussioni di massa simili a quelle che si sono sviluppate nei movimenti attraverso il mondo sono state assenti in particolare nei primi giorni. Un’esperienza limitata della discussione di massa, di riunioni, di assemblee generali, ecc., e la debolezza della cultura del dibattito in Turchia hanno senza dubbio giocato su questa debolezza. Allo stesso tempo, il movimento ha avvertito la necessità della discussione e i mezzi per organizzarla sono iniziati a emergere. La prima espressione della coscienza del bisogno di discutere è stata la creazione di una tribuna aperta nel parco Gezi. Questa non ha attirato molto l’attenzione, né è durata molto, ma ha avuto tuttavia un certo impatto. (...) Se si guarda questo movimento a livello del paese, l’esperienza cruciale è fornita dai manifestanti di Eskișehir.
In un’assemblea generale nella piazza della Resistenza di Eskișehir, sono stati istituiti dei comitati per organizzare e coordinare le manifestazioni. (...) Inoltre, dal 17 giugno, nei parchi di diversi quartieri di Istanbul, masse di gente ispirate dai forum del parco Gezi hanno messo su assemblee di massa anch’esse chiamate “forum”. Tra i quartieri dove si sono organizzati questi forum, ci sono Beșiktaș, Elmadağ, Harbiye, Nișantașı, Kadıköy, Cihangir, Ümraniye, Okmeydanı, Göztepe, Rumelihisarüstü, Etiler, Akatlar, Maslak, Bakırköy, Fatih, Bahçelievler, Sarıyer, Yeniköy, Sarıgazi, Ataköy e Alibeyköy. I giorni seguenti, altri se ne sono tenuti ad Ankara e in altre città. Di colpo, per paura di perdere il controllo su queste iniziative, la Piattaforma di Solidarietà di Taksim ha iniziato anche lei appelli a favore di questi forum. (...).
Benché per molti aspetti la resistenza del parco Gezi sia in continuità con il movimento di Occupy negli Stati Uniti, degli Indignati in Spagna e dei movimenti di protesta che hanno destituito Mubarak in Egitto e Ben Ali in Tunisia, ha anche delle sue particolarità: come in tutti questi movimenti, in Turchia c’è un peso vitale del giovane proletariato. L’Egitto, la Tunisia e la resistenza del parco Gezi hanno in comune la volontà di sbarazzarsi di un regime che è percepito come “una dittatura”. (...) Ma, contrariamente al movimento in Tunisia che ha organizzato comitati locali, e in Spagna o negli Stati Uniti dove le masse si sono generalmente assunte la responsabilità del movimento attraverso assemblee generali, in Turchia questa dinamica è restata all’inizio molto limitata. (...) [Inoltre] le questioni più discusse riguardavano i problemi pratici e tecnici degli scontri con la polizia. (...) La similitudine con Occupy negli Stati Uniti è stata l’occupazione effettiva [della strada]; anche se in Turchia, le occupazioni superavano in numero, con una partecipazione di massa, quelle degli Stati Uniti. Inoltre in Turchia come negli Stati Uniti, c’è stata una tendenza fra i dimostranti a comprendere l’importanza dell’implicazione nella lotta della parte del proletariato occupato. (...) Benché il movimento in Turchia non sia riuscito a stabilire un legame serio con l’insieme della classe operaia, le chiamate allo sciopero attraverso i social network hanno incontrato una certa eco che si è manifestata attraverso una maggiore astensione dal lavoro che negli Stati Uniti. Nonostante le sue particolarità, non c’è alcun dubbio che il movimento di questa “canaglia” è parte integrante della catena dei movimenti sociali internazionali. (...) Uno dei migliori indicatori che mostrano che questo movimento fa parte dell’onda internazionale si trova nel suo rifarsi ai manifestanti brasiliani. I manifestanti turchi hanno salutato la risposta venuta dall’altra sponda del mondo con le parole d’ordine: “Siamo insieme, Brasile + Turchia!” e “Brasile, resisti!”. E poiché il movimento si è ispirato alle manifestazioni in Brasile che contengono rivendicazioni di classe, questo può in futuro favorire la nascita di rivendicazioni di classe in Turchia. (...) Nonostante tutte le debolezze e i pericoli che minacciano questo movimento, se le masse in Turchia non fossero riuscite a diventare un anello della catena delle rivolte sociali che scuotono il mondo capitalista, il risultato sarebbe stato un ben più grande sentimento d’impotenza. La nascita di un movimento sociale di un’ampiezza mai vista dal 1908 in questo paese è dunque di un’importanza storica.(...)
Dünya Devrimi, il 21 giugno
[1] Disponibile in inglese, spagnolo e francese sulle rispettive pagine del nostro sito: www.internationalism.org [351].
[2] Partito per la giustizia e lo sviluppo, islamista “moderato”, al potere dal 2002 in Turchia (ndr)
Ecologia verde: trappole, mistificazioni e alternative
Anche se il libro non ci risulta essere stato pubblicato in Italia, pensiamo che quest’articolo, scritto dai nostri compagni in Belgio, possa costituire comunque un utile contributo alla riflessione sul problema del degrado ambientale e sulla risposta che questo richiede.
Il libro Il mito dell’economia verde[1], si presenta come una critica spietata de “l’economia verde”, perché rimette in causa un buon numero di soluzioni (ad esempio, il fracking) proprie di questo cosiddetto approccio “alternativo”: sia perché queste risolvono solo un problema parziale, senza tener conto dell’impatto ecologico distruttivo a lungo termine, sia perché il rimedio si rivela più terribile del male per l’uso, nel quadro de “l’economia verde”, di mezzi che mettono in moto processi che sono altrettanto inquinanti, se non di più, a medio e lungo termine.
Una critica apparentemente dura de “l’economia verde” …
Nel primo e nel secondo capitolo, la situazione disastrosa viene spiegata dal fatto che non ci si può aspettare alcuna soluzione da parte del capitalismo perché questo sistema considera la natura come “un dono gratuito”[2], che può essere utilizzato a proprio piacere.
Gli autori tentano anche di ricercare le radici di questa crisi ecologica e spiegano che queste si trovano nell’espropriazione dei beni sociali comunitari (definiti con il termine inglese common). Dimostrano molto minuziosamente come il capitalismo gioca un ruolo attivo nella degradazione della natura e come s’interessa a essa solo quando la può trasformare in valore commerciale. Ne consegue che ogni cosa riguardante la natura cui il capitalismo è interessato è destinata a essere saccheggiata o distrutta. Mostrano, infine, che la stessa “economia verde”, non solo non riesce a fermare i misfatti della mercificazione della natura, ma li aggrava.
Con fatti e argomenti, descrivono come tutte le soluzioni proposte servano solo a spostare l’ipoteca che pesa sulla società e tentino di farne ricadere la colpa sulla popolazione e “i cittadini”. Secondo gli autori, uno degli obiettivi prioritari è ridurre il consumo di petrolio e di altri combustibili fossili in quanto causa principale di inquinamento, riduzione che deve essere affrontata con urgenza.
Il libro porta poi, essenzialmente, sull’alternativa ecologica dei beni sociali comunitari o common - attaccati costantemente dalla liberalizzazione dell’economia - e sull’insuccesso evidente del neoliberismo in campo ecologico. Parlando di una necessaria alternativa, viene fatta una critica rispetto al “socialismo reale” dell’USSR e dei paesi che adesso s’ispirano, dove è flagrante la catastrofe ecologica[3]. Ma quando si fa riferimento a Cuba, questa critica improvvisamente non è più valida. Cuba sarebbe oggi un esempio, il paese con la minore impronta ecologica al mondo, grazie all’arresto improvviso delle consegne di petrolio dopo il crollo dell’USSR. Che Cuba abbia sterminato la sua foresta subtropicale per la coltivazione della canna da zucchero all’inizio degli anni 60 e che sia stata responsabile di altre catastrofi ecologiche, gli autori sembrano non averne mai sentito parlare. Ma anche questo mito è stato già da tempo sfatato da alcuni attivisti ecologici cubani[4].
… per promuovere la mistificazione della “democrazia verde”
Innanzitutto, bisogna dire che la scienza può diventare un’alleata della classe operaia e più in generale dell’umanità. Inoltre, gli studi scientifici che oggi possono liberarsi dal dominio materiale o ideologico del capitalismo e della sua inevitabile sponsorizzazione, sono più che benvenuti. Tuttavia, la domanda da porsi è: il libro esplora realmente fino in fondo la contraddizione del sistema capitalista per ciò che riguarda “l’economia verde”? Una lettura attenta del lavoro permette immediatamente di rilevare un certo numero di contraddizioni nell’argomentazione.
Da una parte, si afferma giustamente che le soluzioni che sono proposte da “l’economia verde” restano rigorosamente nel quadro della possibilità di realizzare profitti. Dall’altra, si dice che i common farebbero esattamente il contrario. Ma per dare ai beni sociali comunitari tutti i loro diritti, viene tuttavia invocato l’aiuto di una regolamentazione da parte dello Stato (o dagli organi che sono controllati o promossi dallo Stato, come i sindacati). Poiché non viene evocata nessuna soppressione dello sfruttamento capitalista, ma unicamente una diversa regolamentazione dei consumi, in sostanza non si fa altro che chiedere il sostegno dello Stato borghese che deve essere riformato “ecologicamente” per servire meglio “gli interessi del popolo”. Il presentare i regimi di Morales e di Chavez e il modello Cuba, come esempi di un’alternativa, conferma questa logica di una regolamentazione da parte dello Stato, tipico dell’ambiente gauchista. Che questi regimi oltre ad essere totalitari, abbiano anche più di una volta represso con violenza la protesta operaia – usando l’esercito a più riprese contro le fabbriche in sciopero e gli operai agricoli – non viene detto.
Sul piano delle rivendicazioni il libro è molto ambiguo: vantare i common come soluzione ecologica creativa alternativa e allo stesso tempo elemosinare l’aiuto dello Stato e dei sindacati, che sono elementi propri alla società capitalista, è come voler conciliare l’acqua con il fuoco. Questi non sono attori neutrali nel contesto capitalista: lo Stato garantisce “l’ordine sociale globale" e bada alla sopravvivenza del sistema capitalista, possibilmente attraverso elezioni democratiche o se no con le armi. La struttura sindacale, già dalla prima guerra mondiale, ha il ruolo di “disciplinare la fabbrica” e non ha mai sostenuto esigenze che possono minacciare l’interesse nazionale e il sistema. I soli che minacciano sono gli operai, quando scendo in lotta con uno sciopero “selvaggio” (come recentemente hanno sperimentato gli operai dei subappalti di Ford-Genk).
Nell’alternativa proposta dagli autori viene sostenuta “una soluzione democratica”. Ma che significa una soluzione democratica? Delle volte sembra situarsi - secondo gli autori - al di fuori del capitalismo, in altri momenti, sembra dover passare attraverso delle leggi veloci perché “il tempo stringe”. Eppure, loro stessi hanno constatato prima che tutte le misure de “l’economia verde” vanno nella direzione del sistema e sono distruttrici per la natura. Non è chiaro con quali misure pensano sia possibile rovesciare tale tendenza. Da un lato, avanzano dei “successi”, come i casi di autogestione in Argentina, in Messico e in Gran Bretagna, ma dopo viene fuori che questi sono solo temporanei…
Degli argomenti avanzati nel libro possono talvolta somigliare a quelli della componente riformista del movimento Occupy e degli “Indignados” - (Democracia Real Ya – “Una vera democrazia ora” - in Spagna), che ha tentato con tutti i mezzi di orientare il movimento di protesta verso obiettivi “concreti” nel quadro del capitalismo, mentre in questi movimenti si manifestavano molte tendenze proletarie che mettevano in discussione il sistema stesso.
Nel libro vengono poi enumerate vari elementi per un’alternativa, tipo “l’insieme dei paesi del Sud”, il proletariato ecologico, i cittadini coscienti. Ciò che colpisce è che della classe operaia non si parla proprio. Esiste ancora? A quanto pare, per gli autori non conta. A pagina 192, affermano che un capitalismo verde fabbrica “consumatori” al posto di “cittadini”! Ai “cittadini coscienti”, allora, spetterebbe il compito di impedire la catastrofe ecologica. Il posto centrale della classe operaia nel processo di produzione capitalista sparisce. Resta solo l’indignazione morale del “consumatore cosciente”, del “cittadino”. In questo modo ogni protesta viene sradicata dalla sfera della produzione e canalizzata verso quella del consumo. Diventa così impossibile avere una comprensione reale dei rapporti di produzione capitalista e del ruolo centrale della classe operaia nel capovolgimento di questi.
Alla fine, la critica “radicale” dell’economia verde diventa solo una cortina di fumo per fare ingoiare le classiche ricette dell’estrema sinistra del capitale: lo Stato, la “democrazia popolare”, la riforma dei consumi come alternativa all’interno della logica del profitto capitalista.
Il marxismo propone un’alternativa?
Nella ricerca di alternative al di fuori del capitalismo, dove si porrà fine alla produzione per il profitto (il valore di scambio delle merci) e dove l’uso (il valore d'uso), sarà posto come fine della produzione, si arriva necessariamente a Marx ed Engels.
Due attuali ricercatori accademici, John Bellamy Foster e Paul Burkett[5], hanno fornito un importante contributo sulla reale visione difesa da Marx ed Engels riguardante il rapporto tra Uomo e Natura. J. Bellamy Foster aveva constatato che i Verdi erano fortemente influenzati dal filosofo inglese Francis Bacone, un pensatore materialista che, nel 1660, è stato uno dei fondatori della Royal Society of London. Investigando ulteriormente, e attraverso Bacone e la sua visione materialista sulla natura (espressa nel suo lavoro Novum Organum), è risalito ai filosofi materialisti ed Epicuro, nell’antica Grecia, e a Lucrezio, nella cultura romana antica. Attraverso questo percorso ha “riscoperto” Marx (la cui tesi trattava di Epicuro.) A partire da qui, ha messo in evidenza che la “critica verde” era in fondo “idealista” e che attaccava in modo totalmente infondato il marxismo, per il suo sedicente “produttivismo”, sulla base di una critica delle posizioni di Stalin e di molti partiti e gruppi dell’estrema sinistra borghese. Il suo collega P. Burkett ha condotto una ricerca complementare apportando ulteriori elementi, provenienti soprattutto da Il Capitale, parte III, da Teorie sul plusvalore di Marx e dalla Dialettica della natura di Engels. Ma, in quest’articolo, per mancanza di spazio purtroppo non possiamo sviluppare questo punto.
Lo stalinismo ha tradito tutti i principi marxisti: l’internazionalismo proletario è stato messo a profitto della patria “socialista”, l’arte e la cultura sono state violate subordinandole allo Stato onnipotente, il materialismo storico è stato abbandonato a favore del materialismo volgare, la crescita mostruosa dello Stato si è sostituita alla sua soppressione, l’analisi dei rapporti di produzione è stata scalzata da quella del modo di produzione. Questo ha permesso allo stalinismo di promuovere a “socialismo” il proprio sistema di produzione di plusvalore e dunque di sfruttamento. In effetti, era una forma di capitalismo di Stato, visto che i rapporti di produzione capitalista continuavano ad esistere come plusvalore realizzato globalmente dallo Stato (la concezione di un “socialismo di Stato” era già stata rigettata da Engels).
Nei primi anni della rivoluzione russa ci si basava minuziosamente sulle idee di Marx ed Engels a proposito della natura. All’epoca dello sviluppo di nuovi complessi industriali, fu calcolato quali danni questi avrebbero potuto causare all’ambiente naturale e come compensarli, per esempio con la creazione di parchi naturali, gli zapovedniki (tra il 1919 e 1929, furono creati 61 parchi naturali con una superficie totale di circa 4 milioni di ettari), nei quali le regioni naturali erano protette come modelli da paragonare alle terre coltivate[6]. All’epoca dell’industrializzazione forzata sotto lo stalinismo, i difensori di questa politica furono liquidati e non solo nel senso figurato del termine, con tutte le conseguenze che ne sono derivate per l’ambiente[7].
In seno alla tradizione marxista, ciò ha significato un serio colpo per la riflessione relativa alla natura e all’equilibrio ecologico. A parte Christopher Caudwell e Amadeo Bordiga, la riflessione sul legame indissociabile tra uomini e natura si è fermata quasi totalmente fino agli anni 80. I comunisti di sinistra intorno a Bordiga si sono basati sulle idee di Engels riguardanti la soppressione nel socialismo della contrapposizione tra città e campagna, come mostrano queste citazioni di Engels e di Bordiga: “La soppressione dell’opposizione tra città e campagna non è un’utopia più di quanto non lo sia la soppressione dell’antagonismo tra capitalisti e salariati. Essa diventa ogni giorno di più un’esigenza pratica sia dal punto di vista della produzione industriale che della produzione agricola. Nessuno l’ha difesa con più forza di Liebig nei suoi lavori sulla chimica agricola nei quali chiede che l’uomo renda alla terra ciò che ha ricevuto da essa…”[8]; “Siamo in pieno nel quadro delle atroci contraddizioni che il marxismo rivoluzionario denunzia come proprie dell’odierna società borghese, e che non si limitano alla spartizione dei prodotti del lavoro e ai conseguenti rapporti tra i produttori, ma - inseparabilmente - si estendono alla dislocazione geografica e territoriale degli strumenti ed impianti di produzione e di trasporto, e quindi degli uomini stessi, che forse in nessun’altra epoca storica presentò caratteri così disastrosi e raccapriccianti”[9]; “La lotta rivoluzionaria per lo sventramento dei paurosi agglomerati tentacolari può definirsi: ossigeno comunista contro fogna capitalista. Spazio contro cemento”[10].
Per l’umanità, si tratta di fermare il Moloch del capitalismo attraverso la rivoluzione proletaria, la sola che può e deve rovesciare questo sistema di produzione. Solo dopo un’altra logica potrà mettersi in moto e rompere radicalmente col principio del profitto, che sfrutta l’uomo e la natura minacciando di distruggerli. Come dice Caudwell: “Da qui a quando maturerà una situazione rivoluzionaria, ci sarà una nuova sovrastruttura che esisterà in modo latente in seno alla classe sfruttata derivante da tutto ciò che questa ha appreso dallo sviluppo delle forze produttive… è il ruolo creativo delle rivoluzioni… La rivoluzione proletaria è una conseguenza dell’antagonismo crescente tra la sovrastruttura borghese ed il lavoro proletario”.
Per seguire questa strada, abbiamo bisogno di un’analisi molto più radicale di quella che è avanzata dagli autori de “Il mito dell’economia verde”. Con i loro argomenti si continua a restare prigionieri nella spirale discendente della riflessione all’interno dei limiti di un sistema di sfruttamento che distrugge tutto.
JZ
Da Internationalisme, organo della CCI in Belgio, maggio 2013
[1] Anneleen Kennis & Matthias Lievens, Le mythe de l’économie verte, EPO, Anversa, 2012.
[2] Secondo Adam Smith, economista e padre del pensiero economico capitalista.
[3] Il 20% dell’immenso territorio dell’ex-URSS è gravemente inquinato e per generazioni intere.
[4] Vedi i contributi, interessanti da questo punto di vista, dell’attivista ecologico cubano, Gilberto Romero, Cuba’s environmental Crisis, Contacto, Magazine. 1994-96, e due contributi critici che provengono dal campo anarchico: Frank Fernández, Cuban Anarchism, the history of a movement, See Sharp Press Arizona 2001 e Sam Dolgoff, The Cuban revolution, a critical perspective, Blackrose Books, Montreal 1976.
[5] John Bellamy Foster, Marx’s Ecology, materialism and nature, Monthly Review Press, Nex York, 2000. Paul Burkett, Marx and Nature, a red and green perspective, St Martins' press, New York, 1999. L’unico limite dei due ricercatori è che, anche se partono da punti di vista materialisti basati su Marx ed Engels, nella loro ricerca di prospettive non fanno riferimento alle esperienze del movimento operaio rivoluzionario, tra altro all’eredità dei comunisti di sinistra. Questo non sminuisce, tuttavia, il valore di un contributo che permette la “riabilitazione” dell’analisi marxista del rapporto tra uomo e natura di fronte alle falsificazioni staliniste.
Altre fonti interessanti al riguardo sono: The myth of the “green economy” nella nostra Rivista Internazionale n.138, 2009 (in inglese, francese e spagnolo) e il lavoro dello scienziato russo Vladimir I. Vernadsky, perseguitato dallo stalinismo, che ha elaborato il concetto di noosfera e sviluppato quello di biosfera nel suo libro La Biosfera, Mosca 1926.
[6] Arran Gare in Soviet Environmentalism: The Path not taken in “The Greening of Marxism”, edito da Ted Benton, Guilford Press, New York London, 1996.
[7] Christopher Caudwell, Studies e Further studies in Dying Culture, Monthly Review Press, 1971, Men and Nature, pag.151-2. Critico marxista morto in giovane età durante la guerra civile in Spagna.
[8] F. Engels, La Questione delle Abitazioni.
[9] A. Bordiga, Specie umana e crosta terrestre, Sul Filo del Tempo 1952, ed. Iskra.
[10] A. Bordiga, Spazio contro cemento, Sul Filo del Tempo 1953, ed. Iskra.
La popolazione siriana sacrificata sull'altare degli interessi imperialisti
Lunedì 21 agosto un attacco con armi chimiche ha provocato centinaia di morti nei pressi di Damasco, capitale siriana. Su tutte le reti televisive, su tutti i giornali si vedevano immagini strazianti di bambini, donne ed uomini agonizzanti. La borghesia, senza alcuno scrupolo, si impadroniva di questa tragedia umana per difendere sempre ed ancora i suoi sordidi interessi. Il regime di Bachar el Assad, macellaio tra i macellai, aveva appena varcato la linea rossa. Perché ufficialmente, per la classe borghese, si può massacrare con tutta la forza possibile ma non con le armi chimiche. Quelle che essa chiama nel suo gergo armi sporche, che sarebbero molto differenti secondo lei dalle armi accettabili, come le bombe e granate di ogni genere o ancora come le bombe atomiche lanciate nel 1945 dagli americani su Hiroshima e Nagasaki. Ma l'ipocrisia della borghesia non conosce limiti. Dalla Prima Guerra mondiale (1914-1918) in cui i gas tossici sono stati adoperati massicciamente per la prima volta, provocando parecchie centinaia di migliaia di morti, quest'arma chimica non ha cessato mai d’essere prodotta, "perfezionata" ed adoperata. Gli accordi di facciata sulla sua non utilizzazione, in particolare dopo le due guerre mondiali e negli anni ‘80, essendo solamente dichiarazioni di principio, non hanno mai impedito il loro impiego. E così è stato! Molti teatri di guerra da questa epoca hanno conosciuto l'utilizzazione di questo tipo di armi. Nel Nord Yemen dal 1962 al 1967, l'Egitto adoperò senza vergogna il gas mostarda (iprite). Nella guerra Iran-Iraq nel 1988, città come Halabja sono state bombardate con armi chimiche provocando più di 5.000 morti, sotto gli occhi benevoli e complici della 'comunità internazionale', dagli Stati Uniti alla Francia, passando per l'insieme dei membri dell'ONU! Ma l'utilizzazione di questo tipo di armi non è l'appannaggio dei piccoli paesi imperialisti, o delle dittature tipo Assad, come vorrebbe farci credere la borghesia. La più massiccia utilizzazione dell'arma chimica fino ad ora, accanto ai bombardamenti al napalm, è stata operata dagli Stati Uniti durante la guerra del Vietnam. Si è trattato di scaricare massicciamente del diserbante contaminato alla diossina per distruggere le risaie e le foreste. Bisognava radere tutto e ridurre la popolazione vietnamita e i Vietcong alla carestia. Terre bruciate e desertificate, popolazione bruciata ed asfissiata... ecco l'opera dell'azione del capitalismo americano in Vietnam che oggi con altre grandi potenze occidentali, come la Francia, si prepara ad intervenire in Siria per difendere falsamente la popolazione. Dall'inizio di questa guerra in Siria, ci sono stati più di 100.000 morti ed almeno un milione di profughi nei paesi limitrofi. Al di là dei discorsi sviluppati nel tempo dall'insieme dei mezzi di informazione borghesi, la classe operaia deve sapere quali sono le vere cause dello scatenamento della guerra imperialista in Siria.
La responsabilità della situazione in Siria è della società capitalista decadente
Attualmente, la Siria è al centro dello sviluppo delle tensioni inter-imperialiste e del caos che si estende dall'Africa settentrionale fino al Pakistan. Se, oggi, per continuare il suo gioco al massacro, la borghesia siriana si scontra con le armi in seno ad un paese in rovine, è perché essa può contare sull'appetito insaziabile di un buon numero di imperialismi di ogni stampo. Nella regione, l'Iran, l’Hezbollah libanese, l'Arabia Saudita, Israele, la Turchia ..., tutti sono implicati più o meno direttamente in questo conflitto sanguinoso. Ed anche i più potenti imperialismi del mondo difendono laggiù i loro sordidi interessi. La Russia, la Cina, la Francia, l'Inghilterra e gli Stati Uniti partecipano anche loro alla propagazione di questa guerra ed alla sua estensione nell'insieme della regione. Davanti alla loro impotenza crescente a semplicemente controllare la situazione, si seminano ancora più caos e distruzione, seguendo talvolta quella vecchia strategia della terra bruciata ("se non posso dominare questa regione, che essa bruci").
Durante la guerra fredda, periodo che ufficialmente va dal 1947 al 1991 e la caduta dell'URSS, due blocchi si opponevano, l'Est e l'Ovest, con, alla loro testa, rispettivamente l’ Unione Sovietica e gli Stati Uniti. Queste due superpotenze governavano con pugno di ferro i loro "alleati" o "satelliti ", costretti all'ubbidienza di fronte all'orco nemico. Il termine che qualificava questo ordine mondiale si chiamava la disciplina dei blocchi. Questo periodo storico fu molto pericoloso per l'umanità, perché se la classe operaia non fosse stata in grado di resistere, anche passivamente, al reclutamento ideologico guerriero, una terza conflagrazione mondiale sarebbe stata possibile. Dal crollo dell'URSS, non ci sono più blocchi, più rischi di una terza guerra mondiale generalizzata. Ma la disciplina dei blocchi si è volatilizzata. Ogni nazione gioca la sua carta, le alleanze imperialiste sono sempre più effimere e di circostanza ... così i conflitti si moltiplicano senza che nessuna borghesia possa alla fine controllare niente. È il caos, la decomposizione crescente della società.
Ancora, l'indebolimento accelerato della prima potenza imperialista mondiale, gli Stati Uniti, contribuisce attivamente allo sprofondamento di tutto il Medio Oriente nella barbarie. All'indomani dell'attacco chimico nei pressi di Damasco, le borghesie francesi ed inglesi, seguite più timidamente dalla borghesia americana, hanno dichiarato in modo altisonante che un tale misfatto non poteva restare impunito. La risposta militare era imminente e sarebbe stata proporzionale al crimine che si stava producendo. Però la borghesia americane e certe borghesie occidentali nella sua scia, hanno appena conosciuto due sconfitte clamorose, nelle guerre in Afghanistan e in Iraq, paesi in totale decomposizione. Come intervenire in Siria senza ritrovarsi nella stessa situazione? Ma, ancora, queste borghesie hanno a che fare con quella che chiamano l'opinione pubblica, nello stesso momento in cui la Russia invia nuove navi da guerra nella regione. La popolazione non vuole questo intervento! In maggioranza non crede più alle menzogne della propria borghesia. L'opinione pubblica sfavorevole a questo intervento, anche sotto forma di bombardamenti limitati nel tempo, pone un problema alle borghesie occidentali.
Ecco quello che ha costretto alla fine la borghesia inglese a rinunciare ad intervenire militarmente in Siria, al prezzo di rinnegare essa stessa le sue prime dichiarazioni di guerra! È anche la prova che la borghesia occidentale non ha "buone soluzioni", ma cattive: o non interviene (come ha appena scelto di fare la Gran Bretagna) ed allora questa rappresenterebbe una confessione di notevole debolezza; o interviene (come sembra verosimile per gli Stati Uniti e la Francia), ed allora essa non raccoglierà niente altro che sempre più caos, instabilità e tensioni imperialiste incontrollabili.
Solo il proletariato può, distruggendo il capitalismo, farla finita con la barbarie
Il proletariato non può restare indifferente a tutta questa barbarie. Sono gli sfruttati, famiglie intere, che si fanno massacrare, annientare da tutte le cricche imperialiste. Sciiti o sunniti, laici o drusi ... da questo punto di vista non c'è alcuna differenza. La sana reazione umana è di volere fare qualche cosa "subito", di fermare questi crimini abominevoli. È questo sentimento che sfruttano le grandi democrazie ogni volta per condurre e giustificare le loro offensive guerriere in nome dell’ "intervento umanitario". Ed ogni volta, la situazione mondiale peggiora. Si tratta dunque di una trappola.
Il solo modo per l'umanità di esprimere la sua vera solidarietà verso tutte queste vittime del capitalismo putrescente, è di abbattere questo sistema che produce tutti questi orrori. Un tale rovesciamento, in realtà, non si farà in un giorno. Ma anche se questa strada è lunga, è la sola a condurre realmente ad un mondo senza guerra, né patria, senza miseria né sfruttamento. La classe operaia non ha bandiere nazionali da difendere. Il paese dove vive è il luogo del suo sfruttamento e per alcuni nel mondo, il luogo della loro morte, stritolata dalle armi della classe capitalista. È responsabilità della classe operaia opporre al nazionalismo guerriero borghese il suo internazionalismo. Per quanto difficile sia questa strada, essa è necessaria e... possibile! La classe operaia di oggi deve ricordarsi che la Prima Guerra mondiale non ha avuto fine per la buona volontà dei belligeranti, né con la sconfitta della Germania. E' stata la rivoluzione proletaria che vi ha messo fine e solo lei
Tino, 31 agosto
“Le classi dominanti hanno sempre ricompensato i grandi rivoluzionari, durante la loro vita, con incessanti persecuzioni; la loro dottrina è stata sempre accolta con il più selvaggio furore, con l'odio più accanito e con le più impudenti campagne di menzogne e di diffamazioni. Ma, dopo morti, si cerca di trasformarli in icone inoffensive, di canonizzarli, per così dire, di cingere di una certa aureola di gloria il loro nome, a "consolazione" e mistificazione delle classi oppresse, mentre si svuota del contenuto la loro dottrina rivoluzionaria, se ne smussa la punta, la si avvilisce. La borghesia e gli opportunisti in seno al movimento operaio si accordano oggi per sottoporre il marxismo a un tale «trattamento».” (Lenin, Stato e Rivoluzione).
Non esiste rivoluzionario cui possa applicarsi meglio che a Rosa Luxemburg questa riflessione. Gli eredi dei suoi assassini, i socialdemocratici di tutte le risme, vorrebbero farne un’icona della democrazia contro i dittatoriali bolscevichi. Questo primo capitolo del suo lavoro sulla rivoluzione russa è una confutazione graffiante di questi tentativi di riscrittura della storia. Come lei dice nella sua conclusione: “Tutto l’onore rivoluzionario e la capacità di cui la socialdemocrazia occidentale mancava erano rappresentati dai bolscevichi”.
Come riportato nella sua conclusione : “Tutto l’onore rivoluzionario e tutta la capacità di cui la social-democrazia occidentale mancava erano rappresentati dai bolscevichi”.
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La rivoluzione russa è l’evento più notevole della guerra mondiale. Il suo scoppio, il suo radicalismo senza precedenti, il suo effetto duraturo, smentiscono nel migliore dei modi le frasi con cui la social-democrazia tedesca ufficiale, con grande zelo, ha sulle prime ammantato ideologicamente la campagna di conquiste dell’imperialismo tedesco: le frasi della missione delle baionette tedesche che dovevano abbattere lo zarismo e liberare i popoli da esso oppressi. Le enormi proporzioni assunte in Russia dalla rivoluzione, i profondi sussulti con cui ha scosso tutti i valori di classe, con cui ha posto sul tappeto tutti i problemi sociali ed economici, e ha continuato, con la fatalità dell’intima logica, ad avanzare conseguentemente dal primo stadio della repubblica borghese a sempre ulteriori fasi – fra le quali la caduta dello zarismo non è stato che un breve episodio, un’inizia quasi – tutto ciò dimostra chiaramente che la liberazione della Russia non è stata opera della guerra o della sconfitta militare dello zarismo, non il merito di «baionette tedesche in mani tedesche» come prometteva la «Neue Zeit» sotto la direzione di Kautsky nel suo articolo di fondo, ma aveva nel proprio paese radici profonde ed era intimamente matura. L’avventura bellica dell’imperialismo tedesco, sotto l’emblema ideologico della socialdemocrazia tedesca, non ha condotto alla rivoluzione in Russia; essa non ha fatto per qualche tempo, dapprima – dopo la sua prima marea montante negli anni 1911-1913 – che interromperla e successivamente, dopo la sua esplosione, che crearle le condizioni più difficili e più anormali.
Senonché, per ogni osservatore attento, questo svolgimento è anche una prova evidente contro la teoria dottrinaria, che Kautksy condivide col partito dei socialdemocratici governativi, secondo cui la Russia, da paese economicamente arretrato, per la sua struttura essenzialmente agricola, non era ancora matura per la rivoluzione sociale e per la dittatura del proletariato. Questa teoria, che ritiene possibile in Russia soltanto una rivoluzione borghese – dal quale concetto deriva poi anche la tattica della coalizione dei socialisti russi col liberalismo borghese – è nello stesso tempo la teoria dell’ala opportunistica del movimento operaio russo, dei cosiddetti menscevichi guidati da Axelrod e Dan. In questa concezione fondamentale della rivoluzione russa, dalla quale emerge da sé la posizione assunta riguardo alle questioni particolari della tattica, gli opportunisti russi e gli opportunisti tedeschi, si trovano perfettamente d’accordo con i socialisti del governo tedesco. Stando all’opinione di queste tre tendenze, la rivoluzione russa avrebbe dovuto arrestarsi a quello stadio che il comando militare dell’imperialismo tedesco, secondo il mito della socialdemocrazia tedesca, si era prefisso come nobile compito: l’abbattimento dello zarismo. Se la rivoluzione è andata oltre questo compito, se essa si è assegnata come meta la dittatura del proletariato, questo è stato, secondo quella dottrina, un semplice errore dell’ala estrema del movimento operaio russo, i bolscevichi; e tutte le disillusioni, che la rivoluzione ha subìto nel suo ulteriore svolgimento, tutti gli ostacoli di cui essa fu vittima, appaiono come il risultato di quell’errore fatale. Teoreticamente, questa dottrina, raccomandata come frutto di «pensiero marxista» tanto dal «Vorwarst» di Stampfer che da Kautsky, mette capo all’originale scoperta «marxista» che la rivoluzione socialista è una questione nazionale, domestica per così dire, di ogni Stato moderno preso a sé. Nella nebbia di questo schema astratto, un Kautsky sa naturalmente descrivere con molti particolari, le relazioni economico-mondiali del capitale che fa di tutti i paesi moderni un organismo unito.
La rivoluzione russa – frutto delle complicazioni internazionali e della questione agraria – non può tuttavia essere risolta entro i limiti della società borghese.
Praticamente questa dottrina tende a liberare il proletariato internazionale, in prima linea quello tedesco, dalle responsabilità riflettenti le sorti della rivoluzione russa, e a negare i nessi internazionali di questa rivoluzione. Il corso della guerra e della rivoluzione russa ha dimostrato non la immaturità della Russia, ma quella del proletariato tedesco a compiere la sua missione storica; quindi il compito principale di un esame critico della rivoluzione russa è di far emergere ciò con la massima chiarezza.
Nei suoi destini la rivoluzione russa dipendeva in tutto e per tutto dalla rivoluzione internazionale. Il fatto che i bolscevichi abbiano puntato completamente la loro politica sulla rivoluzione mondiale del proletariato è la prova più evidente del loro lungimirante acume politico, della loro fedeltà ai principi, e dell’audace slancio della loro politica.
Si vede in ciò il potente balzo compiuto dallo sviluppo capitalistico nell’ultimo decennio. La rivoluzione del 1905-1907, trovò in Europa soltanto una debole eco. Essa doveva perciò restare un capitolo non finito. La continuazione e la soluzione dipendevano dallo sviluppo europeo.
È evidente che non una apologia senza critica, ma soltanto una approfondita e ragionata critica è in grado di ricavare tesori di esperienze e di ammaestramenti. Sarebbe infatti un’idea pazzesca pretendere che la prima esperienza fatta nella storia mondiale della dittatura della classe operaia, realizzata nelle più difficili condizioni, in mezzo alla conflagrazione mondiale e al caos di un imperialistico massacro di popoli, nella ferrea morsa della più reazionaria potenza militare d’Europa, in mezzo allo smarrimento più completo del proletariato internazionale, in un esperimento di dittatura operaia in condizioni tanto anormali, proprio tutto quello che fu fatto e omesso in Russia sia stato il vertice della perfezione. Al contrario, i concetti elementari della politica socialista e la conoscenza delle necessarie premesse storiche, obbligano ad ammettere che in condizioni tanto difficili anche il più grande idealismo e la più salda energia rivoluzionaria non erano in grado di realizzare, né la democrazia né il socialismo, ma soltanto dei deboli abbozzi di entrambi.
È assolutamente dovere elementare dei socialisti di tutti i paesi tener presente tutto ciò in tutte le sue relazioni e profonde conseguenze.
Perché solo una tale amara constatazione permette di misurare tutta l’estensione della responsabilità del proletariato internazionale per le sorti della rivoluzione russa.
D’altra parte, solo in questo modo si può mettere in evidenza la decisiva importanza dell’azione coerente internazionale della rivoluzione proletaria – come condizione fondamentale – senza la quale anche la massima abilità e i più grandi sacrifici del proletariato di un sol paese, devono inevitabilmente impigliarsi in un groviglio di contraddizioni e di errori.
D’altra parte non c’è alcun dubbio: i cervelli illuminati che sono alla testa della rivoluzione russa, Lenin e Trotksy, sul loro spinoso cammino, circondato da insidie da ogni parte, hanno fatto più di un passo decisivo tra i più grandi dubbi e la più grande, intima ripugnanza e nulla potrebbe essere più lontano dalla loro mente che vedere l’Internazionale accettare tutto ciò che essi hanno dovuto fare o non fare sotto la spinta e la condizione più dura, nel tumulto degli avvenimenti in fermento, come un superiore modello di politica socialista che solo dà luogo ad ammirazione senza critica ed a fervente imitazione.
Sarebbe parimenti sbagliato temere che un esame critico delle vie battute fino ad oggi dalla rivoluzione russa, significhi minare in modo pericoloso il prestigio e l’esempio luminoso dei proletari russi, i soli capaci di vincere la fatale inerzia delle masse tedesche. Nulla di più falso. Il risveglio dell’azione rivoluzionaria della classe operaia in Germania non può essere ormai provocato nello spirito dei metodi di tutela della defunta democrazia socialista, da una suggestione incoerente sulle masse, da una cieca fede in qualche infallibile autorità, sia essa quella dei propri «organismi» o quella dell’«esempio russo».
La capacità storica d’azione del proletariato tedesco può nascere non già suscitando uno stato di spirito disposto ai clamori rivoluzionari, ma, al contrario, soltanto dalla comprensione di tutta la terribile gravità, di tutta la complessità dei compiti; soltanto dalla maturità politica, dalla illuminata indipendenza e dalla capacità critica delle masse, sistematicamente soffocata per decenni dalla socialdemocrazia tedesca sotto vari pretesti. Studiare criticamente la rivoluzione russa in tutti i suoi rapporti storici, è la migliore educazione che possa darsi la classe operaia, sia tedesca che internazionale, in vista dei compiti che la presente situazione le prepara.
Questi estratti dall’opera di un testimone della rivoluzione, Victor Serge, costituiscono una clamorosa smentita alla campagna ideologica ripetuta fino alla nausea cento anni dopo da tutti i mezzi di informazione, secondo cui quella dell’Ottobre 1917 non sarebbe stato che un volgare “colpo di Stato” operato da Lenin e da un pugno di bolscevichi.
Era il 6 ottobre. La conferenza democratica surrogato di un parlamento della rivoluzione, preparata da socialisti-rivoluzionari e menscevichi, si era aperta a Mosca verso la metà di settembre. Gli scioperi la costrinsero a traslocare, i camerieri degli alberghi e dei ristoranti si rifiutavano di servire i suoi membri. Si trasferì a Pietrogrado. Le sue deliberazioni erano prese sotto la protezione dei marinai, scelti tra quelli più fidati. E le baionette della sua guardia fremevano al passaggio di un tribuno bolscevico: “Quando potremo servircene?”.
Questo stato d'animo era generale nella flotta. Quindici giorni prima del 15 ottobre i marinai della squadra del Baltico, che erano in rada a Helsingfors, esigevano che non si perdesse più tempo e che l'insurrezione “consacrasse la distruzione, ormai ritenuta inevitabile della flotta da parte dei tedeschi”. Erano disposti a morire, ma per la rivoluzione. Il soviet di Kronstadt aveva rifiutato, dopo il 15 maggio, di riconoscere il governo provvisorio. Dopo i fatti di luglio, i commissari incaricati da Kerenskij di procedere all'arresto a bordo delle navi degli “agitatori bolscevichi” ottennero questa laconica risposta: “Qui siamo tutti agitatori!”. Era vero. La massa disponeva allora di innumerevoli agitatori. Delegati delle trincee si rivolsero al soviet di Pietrogrado con un linguaggio minaccioso: “Quanto tempo ancora si trascinerà questa situazione insopportabile? I soldati vi mandano a dire: se al primo novembre non si saranno iniziati i passi decisivi per le trattative di pace le trincee si vuoteranno e tutto l'esercito si precipiterà nelle retrovie. Voi ci avete dimenticati. Se non sapete trovare una via d'uscita a questa situazione verremo noi stessi qui a cacciare coi calci dei fucili i nostri nemici e voi insieme a loro”. Questa era, secondo il racconto di Trockij, la voce del fronte.
All'inizio di ottobre l'insurrezione nasceva ovunque spontaneamente, i disordini agrari si estendevano a tutto il paese.
“Le province di Tula, Tambov, Rjazan, Kaluga sono insorte. I contadini, che dalla rivoluzione aspettavano il pane e la terra, delusi, hanno preso le armi, si sono impadroniti dei raccolti dei proprietari terrieri, hanno bruciato le loro case. Il governo Kerenskij ricorre alla repressione, quando ne ha la forza. Fortunatamente le sue forze sono limitate, ‘Schiacciare l'insurrezione contadina, - l'avvisava Lenin – avrebbe significato uccidere la rivoluzione’”.
Nei soviet delle città e nell'esercito i bolscevichi, in minoranza ancora poco tempo prima, conquistano la maggioranza. Alle elezioni della Duma essi ottengono 199.377 voti su 387.262 votanti. Su 710 eletti ci sono 310 bolscevichi, 18 cadetti, 104 socialisti-rivoluzionari, 31 menscevichi e 41 di diversi gruppi. Alla vigilia della guerra civile i partiti moderati, di centro, sono sulla via della scomparsa, mentre si rafforzano i partiti estremi. Mentre i menscevichi perdono ogni influsso reale e il partito socialista-rivoluzionario, partito di governo, che sembrava fino a poco tempo prima disporre di una forza immensa, passa al terzo posto, i costituzionalisti democratici (cadetti), partito della borghesia, rinsaldano le loro fila e si rafforzano di fronte ai partiti rivoluzionari.
Alle precedenti elezioni in giugno, socialisti-rivoluzionari e menscevichi, avevano ottenuto il 70% dei voti espressi; essi scendono ora al 18%; su 17.000 soldati, 14.000 avevano votato per i bolscevichi. I soviet si trasformano. Cittadelle dei menscevichi e dei socialisti rivoluzionari, passano ai bolscevichi. Nuove maggioranze si formano. Il 31 agosto a Pietrogrado e il 6 settembre a Mosca, le mozioni presentate dai Bolscevichi ottengono per la prima volta la maggioranza. L'8 settembre gli uffici di presidenza dei due soviet, composti da menscevichi e socalisti-rivoluzionari danno le dimissioni. Il 25 settembre Trockij viene eletto presidente del Soviet di Pietrogrado. Il 20 settembre il Soviet di Taskent prende ufficialmente il potere. Le truppe del governo provvisorio 1o riprendono. Il 27 settembre il soviet di Reval decide in linea di principio di dare tutto il potere ai soviet. Pochi giorni prima della rivoluzione d'ottobre l'artiglieria democratica di Kerenskij spara sul soviet insorto di Kaluga.
Vogliamo qui sottolineare un fatto poco conosciuto. A Kazan’ le insurrezioni trionferanno prima che a Pietrogrado. Uno dei protagonisti dei fatti di Kazan´ ha così riferito un dialogo tra due militanti: “Ma cosa avreste fatto se il soviet non avesse preso il potere a Pietrogrado? - Era impossibile rinunciare al potere; la guarnigione non ce l'avrebbe permesso. - Ma Mosca vi avrebbe schiacciato! - No. Avete torto di crederlo. Mosca non sarebbe riuscita ad aver ragione dei 40.000 soldati di Kazan”.
In un immenso paese, le masse compatte delle classi lavoratrici, contadini, operai, soldati, si dirigono verso la rivoluzione. Forza elementare, irresistibile, simile a quella dell'oceano.
Le masse hanno milioni di facce; non sono affatto omogenee; sono dominate da interessi di classe diversi e contraddittori; non giungono a una vera coscienza - senza la quale non è possibile alcuna azione feconda - che attraverso l'organizzazione. Le masse insorte della Russia del 1917 pervengono alla chiara coscienza dell'azione necessaria, degli obiettivi da raggiungere, per mezzo del partito bolscevico. Non è una teoria, è l'enunciazione di un fatto. I rapporti tra il partito, la classe operaia, le masse lavoratrici ci appaiono con limpida evidenza. Quello che vogliono confusamente i marinai di Kronstadt, i soldati di Kazan´, gli operai di Pietrogrado, di Ivanovo-Voznesensk, di Mosca, ovunque, i contadini che saccheggiano le case dei signori, quello che tutti vogliono, senza avere la possibilità di esprimere con chiarezza le loro aspirazioni, di confrontarle con le possibilità economiche e politiche, di dare ad esse i fini più razionali, di scegliere i mezzi più idonei per raggiungerli, di scegliere il momento più propizio per l'azione, di intendersi da un capo all'altro del paese, di informarsi, di disciplinarsi, di coordinare i loro sforzi innumerevoli, in una parola, di costituire una forza compatta, intelligente, istruita, volontaria, prodigiosa, quello che tutti vogliono, il partito lo esprime -in termini chiari, - e lo fa. Il partito rivela loro quello che pensano. Il partito è il legame che li unisce tra di loro, da un capo all'altro del paese. I1 partito è la loro coscienza, la loro organizzazione.
Quando gli artiglieri delle corazzate del Baltico cercano una via, preoccupati del pericolo che incombe sulla rivoluzione, c'è un agitatore bolscevico che gliela mostra. Non ce n'è un'altra, è evidente. I soldati nelle trincee vogliono esprimere la loro volontà a porre fine al massacro, essi eleggono i candidati del partito bolscevico nel loro comitato. Quando i contadini, stanchi dei continui rinvii del partito socialista-rivoluzionario, si domandano se non sia ormai tempo di agire da soli, li raggiunge la voce di Lenin: “Contadino, prendi la terra!”. Quando gli operai si sentono circondati da tutte le parti dal complotto controrivoluzionario, la “Pravda” consegna loro le parole che essi sentivano e che sono anche quelle della necessità rivoluzionaria. Quando in una strada dei quartieri poveri si formano crocchi di persone davanti a un manifesto bolscevico, si sente esclamare: “Ma è così!”. È così. Questa è la loro voce.
L'avanzata delle masse verso la rivoluzione si traduce così in un grande fatto politico: i bolscevichi, piccola minoranza rivoluzionaria in marzo, in settembre-ottobre diventano il partito di maggioranza. Diventa impossibile distinguere tra il partito e le masse. È una sola ondata. Senza dubbio nella folla ci sono altri rivoluzionari sparsi, socialisti-rivoluzionari di sinistra - più numerosi - anarchici, massimalisti, che vogliono anche la rivoluzione: un pugno d'uomini trascinati dagli avvenimenti. Agitatori che si lasciano trascinare. In diverse occasioni vedremo come la loro coscienza dei fatti sia confusa. I bolscevichi, grazie alla loro concezione teorica della dinamica degli avvenimenti, si identificano insieme con le masse lavoratrici e con la necessità storica. “I comunisti non hanno interessi distinti da quelli dell'insieme del proletariato” è scritto nel Manifesto di Marx ed Engels. Questa frase scritta nel 1847 è ora più che mai giusta!
Dopo i fatti di luglio, il partito ha passato un periodo di clandestinità e di persecuzioni, è appena tollerato. Esso si organizza in colonna d'assalto. Ai suoi membri domanda abnegazione, passione e disciplina: la loro unica ricompensa sarà la soddisfazione di servire il proletariato. I suoi iscritti tuttavia aumentavano. In aprile poteva contare su 72 organizzazioni, forti di 80.000 membri. Alla fine di luglio i suoi iscritti raggiungono i 200.000, riuniti in 62 organizzazioni.
Victor Serge
L’immigrazione è un fenomeno che ha accompagnato la storia del capitalismo dalle sue origini: da sempre il proletariato è stato una classe di migranti[1]. Ma, negli ultimi anni, questa ha conosciuto un’accelerazione, in parte come conseguenza dell’acutizzazione della crisi economica, ma soprattutto a causa delle guerre: in Siria, in Iraq, nei differenti paesi dell’Africa, in Afghanistan, ecc.
A differenza delle precedenti ondate di migrazione di massa del secolo scorso, provocate anch’esse dalla miseria o da situazioni di guerra, ma dove la grande maggioranza dei migranti si integrava, più o meno rapidamente, nel paese che l’accoglieva, oggi avviene il contrario: la grande maggioranza dei migranti non possono più essere integrati, e vengono o respinti o raggruppati in campi di concentramento in cui vivono (ma sarebbe meglio dire sopravvivono) in condizioni penose e da cui cercano di fuggire dandosi a una esistenza di clandestinità (e a volte di vera illegalità).
La migrazione di massa di persone che fuggono dalla morte (poco importa se per la fame o la guerra) è dunque uno dei segni maggiori dell’avanzare di quel processo di sfaldamento della società che è in atto nella società, particolarmente dalla caduta del muro di Berlino nel 1989, e che noi abbiamo definito periodo di decomposizione. Ma occorre anche considerare che la degradazione sociale che essa induce costituisce a sua volta un motivo di un suo ulteriore aggravamento.
L’Italia è sempre stata un punto di arrivo dei migranti, ma negli ultimi due anni il fenomeno è diventato particolarmente importante, raggiungendo la cifra record di 181.436 sbarchi nel 2016 (dati del Viminale) e, secondo i dati dell’Agenzia ONU per i Rifugiati UNHCR, tra il 1 gennaio e il 31 maggio del 2017 sono già sbarcate 60.309 persone, corrispondenti a una crescita del 26% rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso.
I migranti che arrivano in Italia vengono soprattutto dall’Africa, da paesi che o sono molto poveri, o vivono un’instabilità politica e sociale permanente (con tutto il carico di violenza che questo implica). All’inizio l’Italia era soprattutto un paese di passaggio per i migranti; solo una piccola parte di essi vi restava (il 6% nel 2012), ma con la chiusura delle frontiere (da parte di Francia, Austria e Svizzera) il numero di migranti costretti a restare in Italia è destinato ad aumentare in maniera significativa (nel settembre 2016, dei 160.000 migranti che dovevano essere trasferiti dalla Grecia e dall’Italia verso altri paesi europei, solo 5.000 lo sono stati effettivamente).
E’ evidente che questa brusca accelerazione ha creato problemi nel dispositivo di accoglienza (e di ridistribuzione) dei migranti, così come nella percezione del fenomeno da parte della popolazione.
Se in generale l’atteggiamento della borghesia italiana è sempre stato «morbido» verso l’arrivo dei migranti, questo atteggiamento è comunque differente in funzione della composizione del governo in carica: di destra o di sinistra.
Nei periodi in cui c’era la destra al potere (governi Berlusconi), il governo poteva permettersi un atteggiamento più «duro» nella gestione degli arrivi. In particolare, la legge Bossi-Fini prevedeva una politica di «respingimenti», soprattutto dei migranti «economici». Ma in realtà questa politica era molto di facciata, visto che i migranti continuavano ad arrivare senza che ci fosse una vera azione decisa di respingimento (bisogna anche ricordare che l’ultimo governo Berlusconi ci fu nel 2011, quando il fenomeno era ancora contenuto).
Con i governi di centro-sinistra (Letta e Renzi) la politica è cambiata in un atteggiamento più «aperto» verso l’accoglienza dei migranti, con anche l’organizzazione del pattugliamento del sud del Mediterraneo (messo su con la motivazione “ufficiale” di ridurre il numero di morti in mare).
Per quanto riguarda le forze che sono all’opposizione: Forza Italia attualmente tende a non esporsi troppo, anche se, come detto prima, quando era al governo sosteneva una politica di respingimento, ma mai veramente applicata; l’M5S anche su questo mantiene un atteggiamento opportunista che cambia continuamente, secondo le convenienze: per esempio il sindaco di Roma Raggi, che all’inizio del suo mandato proponeva delle misure di integrazione, di recente ha affermato di voler meno immigrati a Roma, e gli stessi deputati del M5S hanno cambiato la loro precedente posizione, più disponibile all’accoglienza, facendosi promotori di una proposta di legge per l’espulsione degli immigrati «irregolari»[2].
Resta la Lega che, come tutti i partiti populisti di destra, incita all’odio e alla xenofobia contro i migranti, in buona compagnia dell’altro partito di destra, Fratelli d’Italia.
Come spiegare questo atteggiamento apparentemente «morbido» verso l’immigrazione?
Ci sono diverse ragioni che possono essere alla base di questa politica:
Ciò detto, bisogna subito aggiungere che questo volto accogliente è molto ipocrita: nei fatti, se non c'è una politica di rigetto dei migranti, non c'è neanche una vera politica d’integrazione. Sostanzialmente, si fanno arrivare i migranti sperando che essi continuino la loro odissea verso altri paesi, altrimenti vengono tenuti in vere e proprie galere e in condizioni che spesso sono peggiori di quelle delle prigioni stesse. Nei fatti i «centri di accoglienza» dei migranti sono spesso un affare per i diversi gruppi di clientele dei partiti politici. Se è vero che la permanenza dei migranti in Italia è un costo per lo Stato, bisogna anche dire che questi soldi servono a foraggiare questi veri e propri gruppi mafiosi, disarmati (e non)[3].
In generale la popolazione ha sempre spontaneamente mostrato un atteggiamento disponibile verso i migranti. Prima che il fenomeno della migrazione diventasse più consistente, era normale vedere sulle spiagge italiane passare degli africani che cercavano di vendere merce di diverso tipo (accendini, radioline, prodotti dell'artigianato africano, ecc.), o degli indiani (o pachistani) che vendevano bigiotteria artigianale; e anche nelle grandi città si avevano situazioni simili, con immigrati che esponevano la loro mercanzia sui marciapiedi. Di fronte a questa invasione (spesso rumorosa, ma anche gioiosa), l'atteggiamento delle persone era di simpatia, di accettazione della loro presenza; a volte si verificavano delle brevi conversazioni per meglio conoscere questi migranti (da dove vieni, come vivi, ecc.) e, soprattutto si metteva in piedi il gioco di mercanteggiare sul prezzo dei prodotti. A volte la simpatia era tale che se la polizia cercava di arrestare gli immigrati (o di impedire di vendere la loro povera mercanzia sequestrandola) le persone di passaggio intervenivano per difendere gli immigrati e permettere loro di scappare.
Anche quando gli sbarchi sono cominciati a diventare di massa, si è vista una tendenza spontanea della popolazione locale ad accogliere i migranti, dare loro da mangiare, da vestirsi, trovare loro un rifugio. L’isola di Lampedusa (uno dei luoghi privilegiati di sbarco per la sua vicinanza all'Africa) è diventata famosa per aver mantenuto questo atteggiamento per anni, con la popolazione che ha accolto un numero di migranti ben superiore al numero di abitanti dell'isola.
Evidentemente, quello di cui parliamo, è la manifestazione di una solidarietà umana e non di solidarietà di classe. La prima spinge ad aiutare perché si vede un essere umano in difficoltà, perché ci si riconosce in lui (empatia); la seconda viene dal riconoscimento dell’altro come un fratello di classe, che soffre per le stesse ragioni per cui soffri tu. La prima è un atto individuale, indirizzato ad altri in quanto individui, la seconda è un atto collettivo che si indirizza a quelli che sono i tuoi potenziali compagni di lotta. La prima è un atto che si ferma là, che non va al di là del conforto momentaneo dell’altro; la seconda è portatrice di un avanzamento nella lotta di classe, la sola che può risolvere per sempre i problemi degli sfruttati e degli esclusi[4].
Purtroppo oggi la solidarietà di classe fatica a manifestarsi. Se gli immigrati integrati in imprese regolari partecipano alle lotte, quando ci sono, in quanto compagni di lavoro, è più difficile per i lavoratori vedere nelle masse di immigrati in arrivo sulle coste italiane dei potenziali alleati e, quando sorgono manifestazioni di immigrati che protestano per ottenere miglioramenti alla loro situazione, non ci sono esempi (o sono molto rari) di lotte comuni che uniscano lavoratori italiani ed immigrati, foss'anche per rivendicazioni immediate. E’ il risultato della debolezza attuale della lotta di classe, che rende difficile l'unificazione delle lotte, e più ancora una riflessione sulle cause comuni dei problemi dei lavoratori indigeni e dei rifugiati.
In più bisogna aggiungere che oggi la situazione tende a cambiare in peggio:
Tutto questo rende un numero crescente d’immigrati dei «corpi estranei» nel paese, e, di conseguenza, anche la coabitazione e la solidarietà umana diventano sempre più difficili. Oggi, a fianco di manifestazioni di solidarietà che continuano, si cominciano a vedere anche delle manifestazioni di intolleranza verso gli immigrati, soprattutto nelle periferie delle grandi città (cioè là dove anche la vita dei locali è difficile).
Su questa situazione, creata dall'incapacità della borghesia di integrare nei cosiddetti paesi ricchi quelli che essa stessa costringe a fuggire dai propri paesi di origine, si inserisce la propaganda razzista e xenofoba delle forze populiste di destra, in particolare la Lega. Questo partito arriva ad organizzare delle manifestazioni contro gli immigrati, e lo fa in maniera subdola, cioè mettendo il dito sulle difficoltà degli italiani poveri che lo Stato «trascura per occuparsi dei migranti». «Prima gli italiani» è lo slogan con cui essa nasconde il suo razzismo e con il quale cerca di mettere i proletari indigeni contro gli immigrati.
L’impatto di queste campagne è ancora ridotto, ma in futuro esso non potrà che aggravarsi. L’unica alternativa è un risveglio della lotta e soprattutto della coscienza di classe.
Helios
[1] Il proletariato: una classe di migranti [356].
[2] Se non stessimo parlando di una tragedia, ci sarebbe di che sorridere: espulsione per gli «irregolari», ma chi stabilisce chi è «irregolare»? Gli stessi legislatori che poi vogliono espellerli!
[3] Vedi i recenti arresti di ndranghetisti in Calabria che controllavano il Centro di Accoglienza Richiedenti Asilo di Crotone, uno dei più grandi d’Europa, www.repubblica.it/cronaca/2017/05/15/news/_ndrangheta_smantellata_la_cosa_arena_68_fermi-165476854/ [357]
[4] Questa differenza ha una dimensione squisitamente politica. Va forse anche chiarita la differenza fra la solidarietà umana di cui abbiamo parlato e la «carità cristiana». La carità cristiana è qualcosa che viene dall'esterno dell’individuo: si fa la carità perché la Chiesa dice che in questa maniera si è un buon cristiano, perché si guadagnano delle indulgenze. La solidarietà di cui stiamo parlando è viceversa qualcosa che viene dall'interno dell'individuo, che è il frutto dell'empatia (e non di un imperativo categorico che viene dall'esterno), qualche cosa che fa parte della morale umana.
[5] Delphine Moralis, segretario generale di Missing Children Europe, l’organizzazione che ormai da anni si occupa soprattutto dei minori stranieri che arrivano senza genitori e in molti casi spariscono nel nulla. www.iodonna.it/attualita/in-primo-piano/2016/03/23/che-fine-fanno-i-piccoli-immigrati/?refresh_ce-cp [358].
Nonostante l’apparente temporaneo arresto dell’onda dilagante del populismo, si può dire che da qualche tempo lo scenario politico mondiale è profondamente cambiato. Saltati in larga misura i riferimenti di destra e sinistra - ridicolizzati dalle frequenti coalizioni tra ali opposte del parlamento, come nel caso della Germania e della stessa Italia - è cosa passata anche la fedeltà dell’elettorato ad una certa idea politica e dunque ad un certo partito. Per decenni, infatti, la politica dei paesi avanzati si era retta sull’esistenza di partiti storici che traevano la loro forza dal saldo controllo di determinate sezioni di popolazione, e in base a questo controllo la borghesia poteva assegnare loro il potere di governare questo o quel paese, ricorrendo alle opportune coalizioni. Le caratteristiche principali del voto popolare odierno è invece l’instabilità e l’astensione e, per conseguenza, l’imprevedibilità del suo esito. Non esistendo più una fede politica e dunque un partito di riferimento, gli elettori si orientano di volta in volta seguendo i pifferai magici che riescono meglio ad attrarli dietro il loro cammino. Possiamo giusto ricordare le manifestazioni più recenti ed eclatanti del fenomeno. Gli USA, che hanno sempre vantato la loro alternanza tra democratici e repubblicani, hanno oggi un presidente che nessuno voleva e che bisogna seguire passo passo per evitare che faccia spropositi più grandi e non più recuperabili. In Gran Bretagna, dopo decenni di alternanza sinistra/destra basata sui due partiti cardine dei laburisti e dei conservatori, la Brexit ha completamente cambiato lo scenario, ma senza che questo costituisse un inizio di crescita per un partito populista. Infatti l’UKIP, che sembrava essere l’artefice di questa “vittoria” del giugno 2016, è passato dal 12.6% delle politiche del 2015 all’inconsistente 1,8 % del 2017. D’altronde la stessa Theresa May, che aveva promosso queste ultime elezioni per consolidare e rafforzare la leadership propria e del partito conservatore, è ora alle prese con un improbabile governo con i nord-irlandesi del DUP con una risicata maggioranza, tanto che all’interno dello stesso partito conservatore è stata additata come la “morta che cammina”. La Francia, che ancora qualche mese avanti sembrava dover passare nelle mani del Front Nationale di Marine Le Pen, con le ultime elezioni ha visto quasi scomparire tutti i vecchi partiti storici per dare, con il voto di poco più di 4 elettori su 10, una maggioranza assoluta ad un partito, quello di Macron, che si era formato solo qualche mese prima.
Ma come è stato possibile un tale sconvolgimento? Come abbiamo già scritto in altri testi[1], questa situazione non è un trucco operato dalla borghesia, una manovra orchestrata da qualche grande vecchio, ma il semplice risultato di una serie di eventi usuranti che hanno agito sulla popolazione e sugli stessi settori della classe operaia, spingendo questi a non avere più fiducia in questo o quel partito e a cercare freneticamente in qualcun altro la soluzione dei propri problemi.
Ad esempio “la crisi del 2007/08 è cominciata come una crisi finanziaria dalle proporzioni enormi. Il risultato per milioni di operai, uno dei peggiori effetti, non è stato la diminuzione dei salari, l’aumento di tasse, né dei licenziamenti massicci imposti dai datori di lavoro o dallo Stato, ma la perdita delle loro case, dei loro risparmi, delle loro assicurazioni, ecc. Queste perdite, a livello finanziario, appaiono come quelle di cittadini della società borghese, non sono specifiche della classe operaia. Le loro cause restano poco chiare, favorendo la personalizzazione e la teoria del complotto. (…) Diversamente dalle manifestazioni di crisi più centrate sul settore di produzione, come licenziamenti e riduzioni di salario, gli effetti negativi sulla popolazione delle crisi finanziarie e monetarie sono molto più astratti e oscuri. (…) Senza l’aiuto del marxismo non è facile afferrare i legami reali tra, per esempio, un crac finanziario a Manhattan e il deficit di pagamento che ne risulta di una compagnia di assicurazioni o anche di uno Stato in un altro continente. Tali spettacolari sistemi d’interdipendenza, creati ciecamente tra paesi, popolazioni, classi sociali, che funzionano alle spalle dei protagonisti, conducono facilmente alla personalizzazione e alla paranoia sociale. Il fatto che l’accentuazione recente della crisi del capitalismo sia stata anche una crisi finanziaria e delle banche, legata alle bolle speculative e alla loro esplosione, non è soltanto propaganda borghese. Il fatto che una falsa manovra speculativa a Tokio o a New York possa scatenare il fallimento di una banca in Islanda, o scuotere il mercato immobiliare in Irlanda, non è una finzione ma una realtà. Solo il capitalismo crea una tale interdipendenza di vita e di morte tra persone che sono completamente estranee le une alle altre, tra protagonisti che non sono nemmeno coscienti della loro reciproca esistenza. È veramente difficile per gli esseri umani far fronte a tali livelli di astrazione, siano essi intellettuali o emotivi. Questa incapacità a capire il reale meccanismo del capitalismo porta dunque alla personalizzazione, che attribuisce tutta la colpa alle forze del male che pianificano deliberatamente come nuocerci. È tanto più importante comprendere oggi questa distinzione tra i diversi tipi di attacchi, in quanto non è più principalmente la piccola borghesia o le cosiddette classi medie a perdere i loro risparmi, come avvenne nel 1923, ma milioni di lavoratori che possiedono o tentano di possedere un proprio alloggio, dei risparmi, un’assicurazione, ecc.” [2]
Dinamiche di questo tipo sono presenti anche in Italia e un episodio significativo ci sembra essere quello del referendum costituzionale del dicembre 2016, indetto per confermare una legge che non aveva ricevuto la maggioranza dei 2/3 del Parlamento. Contrariamente ad altri casi, questa consultazione non richiedeva che fosse raggiunto il quorum del 50%+1 degli iscritti alle liste elettorali, ma solo la maggioranza relativa dei votanti.
La legge oggetto di consultazione referendaria era quella che prevedeva la cosiddetta abolizione del Senato, di fatto una sua profonda trasformazione e ridimensionamento, per permettere di velocizzare il funzionamento del parlamento, ma senza intaccare granché i cittadini. Si prevedeva in questo caso, come in altri referendum precedenti, che non ci sarebbe stata una grande affluenza alle urne. Ma in questo caso il governo Renzi ha commesso un grave errore. La proposta di riforma è stata accompagnata dalla dichiarazione secondo la quale il capo del governo si sarebbe dimesso e avrebbe addirittura abbandonato definitivamente la politica se la riforma non fosse stata approvata. Il risultato è stato quello di attirare una percentuale incredibilmente elevata per un referendum, il 68,5% della popolazione, che ha sancito la bocciatura del governo con il 59% di no contro il 41% di si.
La scelta di Renzi di promettere le proprie dimissioni in caso d’insuccesso del referendum si è rivelato nel tempo un errore fatale. Essa ha infatti incoraggiato tutti quelli che, esasperati da decenni di difficoltà economiche e di continui peggioramenti del proprio tenore di vita, hanno ritenuto, contrariamente ad altri referendum, di avere nelle loro mani lo strumento per mandare a casa il governo del paese, e l’hanno fatto.
L’Italia, infatti, con la Spagna, la Grecia, il Portogallo e l’Irlanda, è uno dei paesi a maggiore rischio economico e la mancanza di competitività della sua economia, legata a un invecchiamento della sua struttura produttiva e alla mancanza d’investimenti, si traduce nella stentata crescita del PIL. Le condizioni economiche della popolazione lavorativa sono peggiorate, mentre tutta la nuova generazione, dai 18 anni fino ad oltre 30 anni, resta completamente abbandonata a sé stessa[3]. In una società in cui le possibilità di impiego sono ridotte e dove il posto fisso è diventato un concetto astratto, senza alcun legame con la realtà, un numero rilevante di giovani fanno la scelta di emigrare in paesi ritenuti non essere in crisi, con delle maggiori possibilità di impiego. Infatti, mentre negli anni ’60, ’70, etc., il tempo necessario per inserirsi nel mondo del lavoro era ridotto a qualche mese, massimo qualche anno, oggi assistiamo al fatto che molti giovani che hanno superato i 30 anni, con una serie incredibile di titoli di studio, vivono ancora presso i loro genitori alla ricerca di un lavoro per poter vivere. La sola solidarietà per questi giovani viene dalle loro famiglie nella misura in cui riescono ancora a sostenerli. Ma se per i giovani il problema maggiore è la mancanza assoluta di prospettive, la vecchia generazione soffre per la mancanza di stabilità, per l’incertezza della loro situazione. Per esempio l’incertezza di conservare il posto di lavoro, l’incertezza di poter arrivare alla pensione o ad una pensione decente, o ancora di poter ricevere una buonuscita per aiutare i propri figli e garantirsi una vecchiaia serena. Alcuni, come gli esodati, per una maldestra legge dello Stato, si sono visti improvvisamente privati di qualunque possibilità di mantenersi.
Oggi abbiamo, dunque, che la nostra classe, il proletariato, pur vivendo delle sofferenze enormi, non riesce a trovare una via per esprimersi in prima persona, sul proprio terreno di classe. La confusione e il disorientamento nei suoi ranghi esprimono la pesante impasse di questa fase. Ma occorre pure capire che non significa nulla cercare una soluzione in un’opposizione cieca e sul piano elettorale, che è comunque un piano di azione dei padroni. Il populismo, qualunque sia la sua espressione, non potrà mai essere la voce della classe operaia ma solo una mistificazione per toglierle a questa l’iniziativa e il coraggio di intraprendere la sua azione.
Ezechiele, 1 luglio 2017
[1] Vedi in particolare “Sul problema del populismo [359]”.
[2] idem
[3] La disoccupazione giovanile, che l’ISTAT calcola sulla popolazione giovanile dai 15 ai 24 anni, è raddoppiata dal 2007 al dicembre 2016, superando in questa seconda data il 40% (https://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2017-01-31/istat-disoccupazione-giovani-risale-401percento-100915.shtml?uuid=AEVOdGL [360]).
Al crepuscolo dell’antica Roma, gli imperatori folli erano più la regola che l'eccezione. Pochi storici oramai dubitano che questi fossero il segno della decadenza generale dell'impero. Oggi, un clown spaventoso è stato fatto re dello Stato più potente del mondo e, tuttavia, nessuno sembra comprendere che questo è solamente il segno che la civiltà capitalista ha raggiunto uno stadio avanzato di decadenza. L'apparizione del populismo negli epicentri del sistema che, in un breve lasso di tempo, ci ha portato contemporaneamente alla Brexit e alla vittoria di Donald Trump, esprime il fatto che la classe dominante sta perdendo il controllo della macchina politica utilizzata per decenni per controllare la tendenza naturale del capitalismo al suo crollo. Stiamo assistendo ad un'enorme crisi politica prodotta dall'accelerata decomposizione di tutto l'ordine sociale, a causa della completa incapacità della classe dominante ad offrire all'umanità una qualsiasi prospettiva per il futuro. Ma il populismo è anche un prodotto dell'incapacità del proletariato, la classe sfruttata, a portare avanti un'alternativa rivoluzionaria, che ha per risultato l’esistenza del grave pericolo di essere trascinato in una reazione basata sulla rabbia impotente, la paura, la trasformazione di minoranze in capri espiatori e l'illusoria ricerca di un ritorno a un passato che, in realtà, non è mai esistito in quanto tale. Quest’analisi delle radici del populismo come fenomeno globale è sviluppata maggiormente nel nostro articolo Sul problema del populismo [359], che invitiamo tutti i nostri lettori a leggere, così come la nostra prima risposta al risultato della Brexit e al momento della candidatura Trump Degli scivoloni per la borghesia che non presagiscono niente di buono per il proletariato [361], entrambi pubblicati sul nostro sito web.
Abbiamo anche pubblicato, sul sito inglese, un articolo del nostro simpatizzante americano Henk: "Trump o Clinton: nessuno dei due è una buona scelta, né per la borghesia, né per il proletariato" (Trump v Clinton: Nothing but bad choices for the bourgeoisie and for the proletariat [362]). Questo articolo, scritto ad inizio ottobre, esaminava gli sforzi frenetici delle frazioni più "responsabili" della borghesia americana, sia democratica che repubblicana, per impedire a Trump di accedere alla Casa Bianca[1]. Evidentemente questi sforzi sono falliti e una delle cause più immediate di questo insuccesso resterà l'incredibile intervento del direttore dell’FBI, James Comey, proprio nel momento in cui la Clinton sembrava essere in vantaggio nei sondaggi. L’FBI, il vero cuore dell'apparato di Stato americano, ha pesantemente compromesso le probabilità di successo della Clinton quando ha annunciato che quest’ultima poteva essere oggetto di indagini da parte dell’FBI che stava investigando sull'uso che lei aveva fatto di un server privato di mail, cosa che era contro i principi più elementari della sicurezza dello Stato. Una settimana dopo, Comey tentava di fare marcia indietro annunciando che non c'era niente di compromettente negli elementi che l’FBI aveva esaminato. Ma il danno era fatto e l’FBI ha dato un ulteriore contributo alla campagna di Trump i cui sostenitori hanno cantato a squarciagola lo slogan: «Rinchiudetela». L'intervento dell’FBI è solamente una nuova espressione della crescente perdita di controllo politico dell’apparato statale.
L'articolo "Trump o Clinton" inizia riaffermando chiaramente la posizione comunista sulla democrazia borghese e le elezioni nel periodo storico che viviamo: esse sono solamente una gigantesca truffa, e pertanto non offrono alcuna scelta per la classe operaia. È probabile che durante questa elezione l'assenza di scelta sia stata una delle più rimarchevoli, un combattimento tra il saltimbanco Trump, arrogante, apertamente razzista e misogino e la Clinton, che personifica l'ordine "neoliberale", la forma dominante di capitalismo di Stato che regna da tre decenni. Confrontato a una scelta tra la peste e il colera, una parte importante dell'elettorato, come capita sempre nelle elezioni americane, non è andata a votare; una stima iniziale della partecipazione ha dato una cifra di poco più del 54%, al di sotto di quella del 2012, malgrado tutte le pressioni per andare a votare. Allo stesso tempo, molti di quelli che erano critici nei confronti dei due campi, particolarmente quello di Trump, hanno preferito votare Hillary come male minore. Per quanto ci riguarda sappiamo che astenersi dal votare alle elezioni borghesi proprio perché non si ha nessuna illusione sulla scelta proposta è solamente un inizio di saggezza: il che è essenziale, sebbene sia molto difficile, quando la classe non agisce in quanto classe, mostrare che esiste un altro modo di organizzare la società che passa attraverso la distruzione dello Stato capitalista. Ed in questo periodo post elettorale, questo rigetto della politica e dell'ordine sociale esistente, questa insistenza sulla necessità per la classe operaia di battersi per i propri interessi contro e fuori la prigione dello Stato borghese, non è meno rilevante, perché molti andranno oltre il semplice riflesso anti Trump, che è solamente un tipo di antifascismo riveduto e corretto[2] che alla fine non potrà che allinearsi su una o l'altra fazione "democratica" della borghesia, molto probabilmente con quella che parlerà più di classe operaia e di socialismo, come ha fatto Bernie Sanders durante le primarie democratiche[3].
In questo articolo non intendiamo analizzare nei dettagli i motivi e la composizione sociale dell'elettorato di Trump. Non c'è alcun dubbio che la misoginia, la retorica antifemminista, che sono state così centrali nella sua campagna, abbiano giocato un certo ruolo e dovrebbero essere oggetto di uno studio particolare, soprattutto come elemento del "ritorno del maschio" in reazione ai cambiamenti sociali e ideologici nelle relazioni di generi durante l'ultimo decennio. Allo stesso modo, abbiamo assistito ad un sinistro sviluppo del razzismo e della xenofobia in tutti i paesi centrali del capitalismo, e ciò ha giocato un ruolo chiave nella campagna di Trump. Tuttavia, esistono degli elementi particolari nel razzismo negli Stati Uniti che devono essere analizzati: sul breve periodo, la reazione alla presidenza di Obama e la versione americana della "crisi dei migranti"; sul lungo, tutta l'eredità dello schiavismo e della segregazione. Alla vista dei primi risultati elettorali si può intravedere la lunga storia della divisione razziale negli Stati Uniti attraverso il voto pro Trump che è stato soprattutto “bianco” (anche se ha mobilitato un numero molto significativo di "ispanici"), allorché l’88% circa degli elettori neri ha scelto la Clinton. Ritorneremo su queste questioni in futuri articoli.
Ma, come riportato nel nostro contributo sul populismo, pensiamo che probabilmente l'elemento più importante della vittoria di Trump sia stata la rabbia contro l'"élite" neo liberale, essa stessa identificata con la globalizzazione e la finanziarizzazione dell'economia, dei processi macroeconomici, che hanno arricchito una piccola minoranza a spese della maggioranza, ed innanzitutto a spese della classe operaia delle vecchie industrie manifatturiere e minerarie. La “globalizzazione” ha significato lo smantellamento delle industrie manifatturiere e il loro trasferimento verso paesi come la Cina, dove la mano d’opera è molto meno cara ed il profitto di conseguenza ben più elevato. Questo ha significato anche la "libertà di circolazione del lavoro", ciò che per il capitalismo è un altro mezzo per abbassare i costi di mano d'opera attraverso la migrazione dai paesi "poveri" verso i paesi "ricchi". La finanziarizzazione ha significato per la maggioranza il dominio di leggi di mercato sempre più misteriose nella vita economica. Più concretamente ciò ha significato il crac del 2008 che ha rovinato tanti investitori ed aspiranti proprietari.
Ancora una volta, ma occorrerebbero studi statistici più dettagliati, sembra che la base elettorale della campagna di Trump sia stata il sostegno di bianchi poco istruiti ed in particolare operai della “Rast Belt” ("cintura della ruggine"), i nuovi deserti industriali che hanno votato Trump per protestare contro l'ordine politico esistente, personificato dalla sedicente "élite liberale metropolitana". Molti di questi stessi lavoratori e regioni, nelle precedenti elezioni, avevano votato per Obama ed hanno anche sostenuto Bernie Sanders alle primarie dei democratici. Il loro voto è stato innanzitutto un voto contro; contro la crescente diseguaglianza, contro un sistema che secondo loro li ha privati, insieme ai loro figli, di ogni futuro. Ma questa opposizione ha avuto come sfondo soprattutto l'assenza totale di ogni movimento reale della classe operaia, e quindi ha nutrito la visione populista che rimprovera alle élite di avere venduto il paese agli investitori stranieri, di avere dato dei particolari privilegi ai migranti, ai profughi e alle minoranze etniche, a spese della classe operaia "nativa", ed alle operaie a spese degli operai maschi. Gli elementi razzisti e misogini del trumpismo camminano mano nella mano con gli attacchi retorici contro le "élite".
Non speculeremo su ciò che sarà la presidenza Trump o quale politica proverà a portare avanti. Ciò che caratterizza innanzitutto Trump è la sua imprevedibilità, non sarà dunque facile prevedere le conseguenze del suo regno. Tuttavia, se Trump ha potuto raccontare ad ogni piè sospinto tutto ed il suo contrario, senza che ciò sembrasse turbare per niente i suoi sostenitori, questo non significa che quello che ha funzionato durante la campagna possa funzionare ancora e bene una volta al governo. Così Trump ha presentato se stesso come l'archetipo del self-made man (l’uomo che si è fatto da sé), e parla di liberare il businessman americano dalla burocrazia, ma anche di un programma massiccio di restaurazione delle infrastrutture nei centri cittadini, di costruzione di strade, scuole ed ospedali, di rivitalizzazione dell'industria dei carburanti fossili abolendo i limiti imposti dalla protezione ambientalista, e tutto ciò implica un intervento pesante dello Stato capitalista nell'economia. Si è impegnato anche ad espellere milioni di immigrati illegali in un momento in cui gran parte dell'economia americana dipende da questa mano d'opera a buon mercato. In politica estera, ha combinato il linguaggio dell'isolazionismo e della ritirata (per esempio minacciando di ridurre l'impegno americano nella NATO) a quello dell'interventismo, come quando ha minacciato di "bombardare il diabolico Stato Islamico", promettendo di aumentare i bilanci militari.
Ciò che sembra certo è che la presidenza di Trump sarà segnata da conflitti, sia interni alla classe dominante sia tra lo Stato e la società. È vero che il discorso di vittoria di Trump è stato un modello di riconciliazione: lui sarà il "presidente di tutti gli americani". E Obama, prima di riceverlo alla Casa Bianca, si è augurato la più dolce delle transizioni possibile. Inoltre, il fatto che adesso c'è una larga maggioranza repubblicana al Senato ed al Congresso può significare (se l'establishment repubblicano riesce a superare la sua profonda antipatia verso Trump), che lui sarà capace di avere il loro sostegno per un certo numero di decisioni, anche se le più demagogiche potrebbero ben essere messe in aspettativa. Ma i segni di tensioni e di scoppi futuri non sono difficili da vedere. Una parte della gerarchia militare, per esempio, è molto ostile verso certe opzioni di politica estera, come il persistente scetticismo di Trump verso la NATO o la sua ammirazione per Putin che potrebbe tradursi in tentativi di sabotare gli sforzi americani per bloccare il pericoloso riemergere dell'imperialismo russo nell'Europa dell'Est o in Medio Oriente. Alcune delle sue opzioni di politica interna potrebbero provocare un'opposizione dell'apparato di sicurezza, della burocrazia federale e di certe parti dell'alta borghesia che potrebbero decidere di assicurarsi di non essere condotte al suicidio da Trump. Intanto, la scomparsa politica della "dinastia Clinton" permetterà alle nuove opposizioni di emergere e provocherà forse delle scissioni in seno al Partito democratico, con l'uscita probabile di un'ala sinistra intorno a personaggi quali Bernie Sanders, che cercherà di capitalizzare sfruttando l'atmosfera di ostilità verso l'establishment economico e politico.
A livello sociale, (la Gran Bretagna del dopo Brexit ne può dare un'idea) probabilmente vedremo una sinistra fioritura di xenofobia "popolare" e di gruppi apertamente razzisti che si sentiranno incoraggiati a realizzare i loro spettri di violenza e di dominio; allo stesso tempo, la repressione poliziesca contro le minoranze etniche potrebbe raggiungere nuovi livelli. E se Trump comincia seriamente a realizzare il suo programma di mettere in galera e espellere gli "illegali", ciò potrebbe provocare delle resistenze di strada, in continuità con i movimenti che abbiamo visto svilupparsi in questi ultimi anni in seguito agli omicidi di negri da parte della polizia. Da quando è stato proclamato il risultato dell'elezione, abbiamo assistito a una serie di manifestazioni di collera in differenti città in tutti gli Stati Uniti cui hanno partecipato giovani assolutamente scoraggiati dalla prospettiva di un governo condotto da Trump.
A livello internazionale, la vittoria di Trump somiglia, come lui stesso ha detto, ad una "Brexit al cubo". Essa ha già dato un impressionante impulso ai partiti populisti di destra in Europa occidentale, in particolare al Fronte Nazionale in Francia, mentre si profilano le elezioni presidenziali del 2017. Questi partiti vogliono ritirarsi dalle organizzazioni multilaterali del commercio ed attuare un protezionismo economico. Le dichiarazioni più aggressive di Trump sono state indirizzate contro la competizione economica cinese, e ciò può significare che ci stiamo imbarcando in una guerra economica che, come negli anni 30, contrarrebbe ancora di più un mercato mondiale già saturo. Il modello neoliberista ha servito bene il capitalismo mondiale durante i due ultimi decenni, ma ora si avvicina ai suoi limiti, e ciò che ci attende è che il pericolo della tendenza al "ciascuno per sé" che abbiamo visto svilupparsi a livello imperialistico, valichi il confine della sfera economica, dove finora è stata, bene o male, tenuta sotto controllo. Trump ha anche dichiarato che il riscaldamento climatico è una menzogna inventata dai cinesi per sostenere le loro esportazioni e che ha l'intenzione di mettere in discussione tutti gli attuali accordi internazionali sul cambiamento climatico. Sappiamo già quanto questi accordi siano limitati, ma distruggerli significherebbe immergerci ancora più profondamente nel disastro ecologico mondiale che si annuncia.
Lo ripetiamo: Trump simboleggia una borghesia che ha perso veramente ogni prospettiva per la società attuale. La sua vanità ed il suo narcisismo non significano solo che lui è pazzo, ma personificano la follia di un sistema che ha esaurito tutte le sue opzioni, salvo quella della guerra mondiale. Malgrado la sua decadenza, la classe dominante è stata capace per un secolo di utilizzare il suo apparato politico e militare - in altri termini, il suo intervento cosciente in quanto classe - per impedire una completa perdita di controllo, un ultimo sforzo di fronte alla tendenza intrinseca del capitalismo a precipitare verso il caos. Adesso si evidenziano i limiti di questo controllo, anche se non bisogna sottovalutare la capacità del nostro nemico di trovare nuove soluzioni temporanee. Il problema per la nostra classe è che l'evidente bancarotta della borghesia a tutti i livelli - economico, politico, morale - non genera, eccetto che in piccoli gruppi di rivoluzionari, critiche rivoluzionarie al sistema, ma piuttosto rabbia e il veleno della divisione tra le nostre fila. Ciò significa una seria minaccia per la possibilità futura di sostituire il capitalismo con una società umana.
Tuttavia, una delle ragioni per le quali la guerra mondiale non è oggi possibile, malgrado la severità della crisi del capitalismo, è che la classe operaia non è stata sconfitta in scontri aperti e possiede ancora delle intatte capacità di resistenza, così come abbiamo visto durante differenti movimenti di massa durante l'ultimo decennio: la lotta degli studenti francesi nel 2006 contro il CPE, la rivolta degli "Indignados" in Spagna nel 2011 o ancora il movimento degli Occupy negli Stati Uniti lo stesso anno. In America, possiamo distinguere gli araldi di questa resistenza nelle manifestazioni contro gli omicidi commessi dalla polizia e nelle manifestazioni anti Trump che hanno seguito la sua elezione, anche se questi movimenti non hanno preso un reale carattere di classe e sono stati molto vulnerabili al recupero da parte di politici professionisti della sinistra, da differenti categorie di nazionalisti o dall'ideologia democratica. Affinché la classe operaia possa superare al tempo stesso la minaccia populista e la falsa alternativa offerta dall'ala sinistra del Capitale, occorre qualche cosa di più profondo, un movimento d’indipendenza proletario che sia capace di comprendere se stesso come movimento politico e che possa riappropriarsi delle tradizioni comuniste della nostra classe. Ciò non è per l’immediato, ma già da oggi i rivoluzionari hanno un ruolo da giocare per preparare un tale movimento, in primo luogo combattendo per la chiarezza politica e teorica che può illuminare la strada attraverso la nebbia dell'ideologia capitalista sotto tutte le sue forme.
Amos, le 13/11/2016
1. Un esempio per mostrare fino a che punto si è sviluppata l'opposizione repubblicana a Trump: lo stesso ex presidente George W. Bush, pur non essendo affatto della sinistra del partito, ha annunciato che avrebbe votato scheda bianca piuttosto che Trump.
2. Il nostro rigetto della politica di alleanze "antifasciste" con qualche settore della classe dominante è un’eredità della Sinistra comunista d’Italia che comprese correttamente che l'antifascismo era solamente un mezzo per reclutare la classe operaia nella guerra. Vedi “Antifascismo: formula di confusione”, un testo della rivista Bilan (maggio 1934) ripubblicato nella Rivista Internazionale n°24 https://it.internationalism.org/rint/24_Bilan [363]
3. Per approfondire su Sanders, leggi l'articolo (in inglese): “Trump vs Clinton”, https://en.internationalism.org/icconline/201610/14149/trump-v-clinton-nothing-bad-choices-bourgeoisie-and-proletariat [362]
Nel numero n.519 (marzo-aprile-maggio2016), Le Prolétaire, organo di stampa del Partito Comunista Internazionale (PCI) fa una critica del nostro articolo: Attentati a Parigi, abbasso il terrorismo! Abbasso la guerra! Abbasso il capitalismo![1]
Nel considerarci “superficiali” e “impressionabili”, il PCI ironizza sul fatto che “La CCI è scioccata” per gli attentati, da qui il titolo dell'articolo preso in prestito dalla scrittrice Amélie Nothomb, Stupore e tremori. In effetti, Le Prolétaire confonde l'indignazione proletaria di fronte alla barbarie con ciò che immagina essere della sensibilità leziosa piccolo-borghese o del pacifismo.
Prima di rispondere a queste critiche e indipendentemente dai disaccordi che possiamo avere con questa organizzazione, ci teniamo innanzitutto a salutare la sua iniziativa polemica. Le polemiche nell'ambito rivoluzionario sono sempre state la linfa vivificante della lotta rivoluzionaria. Troppo poco frequenti oggi, sono tanto più preziose in particolare tra le organizzazioni che difendono i principi della Sinistra comunista. Esse sono indispensabili al chiarimento politico. Devono permettere un confronto delle posizioni politiche per alimentare la riflessione a favore dell’indispensabile elaborazione teorica necessaria ad orientare il proletariato e le sue minoranze alla ricerca di una coerenza delle posizioni rivoluzionarie.
Non possiamo purtroppo rispondere qui a tutte le questioni sollevate in questo testo. A noi sembra prioritaria la questione nazionale in particolare perché in discussione tra gli elementi vicini al PCI[2]. En effetti, alla lettura dell'articolo di Le Prolétaire, appare che nell'ambito degli elementi che gravitano attorno alle posizioni “bordighiste” esiste un'interrogazione che mette in gioco la questione della nazione e dell'internazionalismo. Apprendiamo, infatti, che un partecipante a una riunione del PCI, insieme ad altri, si è seriamente chiesto se occorresse o no “condannare” l’ISIS, in virtù del “principio della lotta anti-imperialista”!
Questa problematica viene così riformulata da Le Prolétaire: “Bisognerebbe forse concluderne che l’IS rappresenterebbe una forza borghese anti-imperialista, una forza che, scuotendo lo status quo, lavorerebbe senza volerlo a favore della futura rivoluzione proletaria attraverso l’aumento del caos e l'indebolimento dell’imperialismo nella regione? Una forza che bisognerebbe dunque, più o meno, sostenere nonostante la sua brutalità e i suoi sinistri tratti reazionari?”. La risposta di Le Prolétaire a proposito di tale sostegno (o, come dice il PCI questo “più o meno sostegno”) è negativa. Ciò dimostra che i compagni del PCI si pongono dal punto di vista della classe operaia. D'altra parte si può osservare che il loro approccio sulla questione nazionale non è affatto quello degli anni 80, quando mettevano avanti la possibilità di “una lotta di liberazione del popolo palestinese”.
Ma quali sono oggi le argomentazione di Le Prolétaire? Ecco una prima affermazione: “A causa dell'assenza di qualsiasi forza proletaria, l’IS, come pure le altre formazioni armate 'moderate' o radicali, è stata la risposta contro-rivoluzionaria borghese – e non medievale o tribale – allo scombussolamento degli equilibri nazionali e regionali. L’IS non lotta per estendere il caos e indebolire l'ordine borghese, ma per restaurare quest’ultimo a suo profitto (...)”. I compagni del PCI parlano giustamente “dell'assenza di qualsiasi forza proletaria”. Ma nel passaggio di un altro articolo dello stesso numero, in risposta a questi stessi simpatizzanti, Le Prolétaire aggiunge: “L’ISIS è un nemico dei proletari, prima dei proletari della Siria e dell’Iraq, poi dei proletari dei paesi imperialisti. Prima di fare attentati in Europa, ha fatto attentati in Iraq ed altrove. Prima di fare attentati in Iraq ed altrove, ha represso i proletari nelle regioni che controlla (caso dei proletari dei trasporti a Mosul che avevano fatto un'azione di rivendicazione per le loro condizioni di lavoro e che per questa ragione sono stati giustiziati dall’ISIS)”. Un problema importante riguarda secondo noi la formulazione che evoca i proletari “dei paesi imperialisti”. In effetti, i compagni presuppongono che oggi alcuni paesi non sarebbero imperialisti. Non condividiamo assolutamente questo punto di vista. Il PCI prosegue affermando: “I proletari devono lottare contro tutte le oppressioni nazionali, per l'autodeterminazione e la libertà di separazione di tutti i popoli oppressi o colonizzati; non perché il loro ideale è la creazione di Stati borghesi, ma perché, affinché possano unirsi i proletari dei paesi dominanti e i proletari dei paesi dominati, i primi devono dimostrare nei fatti di non essere solidali all'oppressione che esercita la 'loro' borghesia e il 'loro' Stato ma, al contrario, che la combattono non solo a parole ma possibilmente in pratica. È il solo modo perché la proposta che fanno ai proletari dei paesi dominati, di unirsi su basi di classe anti-borghesi, possa essere compresa”. Questa posizione, che differisce dalle elucubrazioni nazionalistiche della sinistra del capitale, non è meno pericolosa e ambigua nelle sue premesse. Essa separa i proletari dei paesi “dominanti” da quelli dei paesi “dominati” e resta rinchiusa nella problematica “delle oppressioni nazionali”. Ma si potrebbe obiettare: questa posizione di Le Prolétaire, non è stata ereditata dalla tradizione del movimento operaio del passato?
In effetti, è stato così fino a che le condizioni storiche non sono cambiate radicalmente e che l'esperienza di nuove lotte non ha messo in discussione delle pratiche diventate inadeguate per la lotta operaia. Al suo primo congresso nel marzo 1919, l’Internazionale comunista riconosce che il capitalismo si trova nella sua fase di declino e fa riferimento al bisogno di una lotta internazionale del proletariato. Il Manifesto dell'Internazionale ai proletari del mondo intero, inizia con il riconoscere che “Lo Stato nazionale, dopo avere dato un impulso vigoroso allo sviluppo capitalista, è diventato troppo stretto per l'espansione delle forze produttive”[3]. Nella stessa logica, si sottolinea che “solo la rivoluzione proletaria può garantire alle plebi un'esistenza libera, poiché libererà le forze produttive di tutti i paesi dalle tenaglie degli Stati nazionali”. Il proletariato può dunque affrancarsi solo nel quadro di una lotta mondiale, in uno stesso movimento globale, unitario, che comprenda le roccaforti delle grandi metropoli. Come diceva Lenin, “i fatti sono testardi”. La tattica che era stata adottata dai bolscevichi, pensando di poter tutto sommato realizzare l'estensione della rivoluzione mondiale sostenendosi sul vecchio principio della liberazione nazionale, fu un terribile fiasco che fece precipitare il proletariato verso lo schiacciamento e la sconfitta. Gli esempi sono numerosi. In Finlandia la borghesia locale “liberata” approfittò “del regalo” dei bolscevichi per schiacciare l'insurrezione operaia nel gennaio 1918. Nei paese baltici, lo stesso anno, “la liberazione nazionale” permetteva alla borghesia britannica di schiacciare tranquillamente la rivoluzione sotto i tiri dei cannoni della marina!
I contributi critici più fertili sulla questione nazionale furono elaborati molto presto e con molta chiarezza da parte di Rosa Luxemburg:
“Sono gli stessi bolscevichi che hanno accentuato enormemente le difficoltà materiali, presentate dalla situazione, con una parola d’ordine messa in primo piano della loro politica: cioè ciò che si chiama il diritto delle nazioni a disporre di se stesse, o meglio ciò che si nascondeva sotto questa formula: lo spezzettamento della Russia come Stato (…) difensore dell’indipendenza nazionale fino al separatismo (…) Lenin e compagni si immaginavano che la Finlandia, la Polonia, la Lituania, l’Ucraina, i paesi balcanici, ecc. da essi liberati divenissero tanti alleati fedeli della rivoluzione russa. Noi abbiamo assistito allo spettacolo opposto: l’una dopo l’altra tali Nazioni hanno approfittato della libertà recentemente acquistata per allearsi all’imperialismo tedesco come nemiche mortali della rivoluzione russa e portare in Russia il vessillo della controrivoluzione”[4]
Nonostante al primo congresso dell’Internazionale comunista fosse emerso qualche elemento di chiarezza su questa questione, le sconfitte operaie successive e l'aumento dell'opportunismo avrebbero fagocitato questi fragili sforzi e favorito la regressione teorica. La lucida critica di Rosa Luxemburg sarà ripresa soltanto in modo molto minoritario da una parte della Sinistra italiana, in particolare da Bilan, la cui posizione fu ereditata da Internationalisme e oggi è difesa dalla CCI. Dopo l'ondata rivoluzionaria degli anni 20 e la sconfitta che portò al terribile periodo di controrivoluzione stalinista, nessuna presunta lotta di liberazione nazionale ha potuto produrre altro se non massacri e inquadramento dietro le nazioni e le potenze imperialiste rivali. Quello che all’epoca di Lenin poteva essere considerato un tragico errore, si è chiaramente attestato successivamente attraverso crimini sanguinari. Dalla prima guerra mondiale e con il declino storico del sistema capitalista, tutte le nazioni, grandi o piccole, sono diventate in realtà anelli di una catena imperialista che getta il mondo in una guerra permanente. In tutte le situazioni sono all’opera manovre imperialiste, indipendentemente dalla nazione considerata, mentre il proletariato non è che l'ostaggio della pretesa “liberazione” contro un'altra frazione borghese, e si trova contrapposto ai suoi fratelli di classe anch’essi sacrificati. E’ stato il caso, ad esempio, del Sudan che dopo l’indipendenza nel 1956 visse una guerra civile terribile, strumentalizzata dai blocchi imperialisti dell'Est e dell'Ovest, che provocò almeno due milioni di morti. In Angola, dopo i primi sollevamenti a Luanda nel 1961 e l'indipendenza nel 1975, anni e anni di guerra opposero le forze del MPLA al potere (Movimento di Liberazione dell'Angola, sostenuto dall'URSS) e i ribelli dell'UNITA (sostenuti dal Sudafrica e gli USA). Il bilancio di questa “lotta di liberazione” è stato di circa un milione di morti. In seguito, la decolonizzazione e il contesto della Guerra fredda ne saranno illustrazioni continue, dove i proletari saranno solo un carne da cannone dietro le bandiere nazionali.
Se Le Prolétaire non sostiene l’ISIS e se ha saputo evolvere sulla questione nazionale, tuttavia conserva alcune confusioni che lo hanno portato in passato ad abbandonare in maniera puntuale la posizione dell'internazionalismo proletario sostenendo, anche se in modo critico, le forze capitaliste dell’OLP (Organizzazione per la liberazione della Palestina), come mostra questo passaggio redatto all'epoca: “Con il suo impatto nelle masse arabe, la lotta contro Israele costituisce una leva formidabile nella lotta sociale e rivoluzionaria”[5]. Il quadro della lotta di liberazione nazionale, che poteva soltanto portarlo al fiasco politico, era così teorizzato da Le Prolétaire: “Il marxismo intransigente, gli riconosce, anche dove l'intervento autonomo del proletariato non ha potuto o non può ancora prodursi, anche se queste rivoluzioni non hanno potuto superare un orizzonte nazionale e democratico, il valore autenticamente rivoluzionario di sconvolgimenti tanto giganteschi quanto quelli che si sono prodotti in Oriente nel corso degli ultimi 60 anni, e che sarebbe vano ignorare col pretesto che non hanno portato al socialismo”[6].
L'abbandono puntuale della posizione di classe internazionalista a proposito del conflitto Israeliano-palestinese provocò una grave crisi all’interno del PCI che culminò con il suo smembramento con El Oumami sulla base di un posizionamento apertamente nazionalistico arabo che appunto abbiamo denunciato all'epoca: “Per El Oumami, 1’'unione sacra ebrea' fa scomparire gli antagonismi di classe all'interno di Israele. Inutile dunque fare appelli al proletariato di Israele. Questo è esattamente come ‘popolo tedesco, popolo maledetto' di staliniana memoria durante la seconda guerra mondiale. E quando durante la manifestazione 'OLP-solidarietà', al grido di 'Sabra e Chatila, vendetta!’ El Oumami si vanta ‘di avere catturato un sionista che ha ricevuto un terribile pestaggio’, si è a livello del ‘a ciascuno il suo crucco’ del PCF alla fine della seconda guerra. El Oumami si aggiunge alle file della borghesia al livello dello sciovinismo più abietto”[7]
L’opportunista presa di posizione di Le Prolétaire sul conflitto Israeliano-palestinese negli anni 80 è una concessione aperta all'ideologia nazionalista gauchiste (estrema sinistra del capitale). Sostenendo in modo critico la lotta dei palestinesi di fronte a Israele, dividendoli così dai loro fratelli di classe israeliani con il pretesto della loro fedeltà alla borghesia israeliana, Le Prolétaire partecipava a ratificare la divisione e abbandonava ogni principio di solidarietà di classe.
Oggi, Le Prolétarie non utilizza lo stesso argomento ma sembra evolvere di più verso l’empirismo. Se il PCI non affonda nella catastrofe rifiutando nettamente ogni sostegno all’ISIS, resta tuttavia ancora prigioniero di concezioni pericolose e confuse per la classe operaia, in particolare in un contesto in cui il nazionalismo riprende vigore a causa della propaganda statale e delle forti campagne populiste in corso. Le ragioni all’origine del persistere di tali confusioni sono legate al forte peso della contro-rivoluzione stalinista. Il capitalismo di Stato in URSS ha snaturato completamente l'esperienza dell'ondata rivoluzionaria degli anni 20 sfruttando i suoi errori peggiori per schiacciare il proletariato. In nome “dell'autodeterminazione”, del “diritto dei popoli a disporre di se stessi”, della “liberazione nazionale dei popoli oppressi” lo Stato stalinista ha saputo approfittare degli errori di Lenin per mistificarli e farne un dogma eterno che porterà purtroppo alcuni rivoluzionari, come quelli del PCI, a trarre delle false lezioni riprendendo a loro volta vecchi errori percepiti come “verità rivoluzionarie”.
Ora, i fatti più recenti, a partire dalle carneficine imperialiste della Guerra fredda, non hanno fatto che confermare le posizioni di Rosa Luxemburg. Il permanere di confusioni sul “l'autodeterminazione dei popoli” è, a parer nostro, in gran parte responsabile delle posizioni aberranti che persistono ancora oggi e che spingono alcuni elementi a porsi la questione aberrante se l’ISIS deve essere sostenuto e sostenuto dai rivoluzionari in una lotta cosiddetta “anti-imperialista”. Dalla scomparsa del blocco dell'Est, le presunte lotte di liberazione nazionale hanno solo alimentato il caos mondiale. Lo testimonia la nascita dei mini-Stati nati dello smembramento dell'ex-impero stalinista, che ha generato aborti che non sanno fare altro che propagare i miasmi del nazionalismo. Lo abbiamo visto con lo scoppio dell'ex Iugoslavia e la guerra che se ne è seguita tra le nuove nazioni “liberate” o in occasione del conflitto in Cecenia (dove la città di Grozny è stata ridotta in cenere) e del conflitto nella zona franca etnica del Nagorno-Karabah in Azerbaigian con le tantissime vittime e le migliaia di profughi all'inizio degli anni 90. Una tale logica si estende anche a tutte le frazioni borghesi che non possiedono un territorio, i signori della guerra o altri terroristi che incarnano l'ideologia nazionalistica e la barbarie capitalista.
Nel suo articolo il PCI critica anche una formulazione usata nel nostro articolo, secondo cui ci sarebbe stato “un passo qualitativo con gli attentati di Parigi”. Occorre riconoscere che questa formulazione è stata criticata anche al nostro interno e può essere oggetto di un dibattito. Ma non per le ragioni che ne dà Le Prolétaire che evoca le nostre “dimenticanze” “degli anni di piombo in Italia negli anni settanta”, quella degli eventi “contro i dimostranti algerini uccisi dalla polizia nel 1961”, “le ecatombi nei paesi dell'Est”, ecc. Nei fatti la nostra formulazione, certamente criticabile, voleva semplicemente significare che questi attentati traducono un aggravamento della situazione caotica a livello mondiale, cosa che è molto diversa dall'idea “di una perdita di memoria” da parte nostra. Per contro, criticare le nostre presunte “dimenticanze” rivela che, per i compagni di Le Prolétaire, questi attentati sono da mettere sullo stesso piano di quelli perpetrati negli anni 70 e gli eventi al tempo della Guerra fredda. In un certo senso non ci sarebbe nulla di nuovo sotto il sole. Questa tendenza di Le Prolétaire a non vedere la dinamica reale dell’imperialismo è legata ad una visione statica della storia, che persiste a negare la realtà di una fase di decadenza del sistema capitalista e della sua evoluzione. Difendendo lo stesso principio “di liberazione nazionale” mentre decenni d'esperienza, e le sconfitte operaie che le accompagnano, hanno dimostrato la sua pericolosità, Le Prolétaire mostra una difficoltà a essere capace di tenere conto della realtà storica nel quadro di una dinamica vivente e dialettica. Continua a interpretare gli eventi secondo lo stesso dogma immutabile, una concezione chiaramente sclerotizzata, fossilizzata della storia e degli insegnamenti da trarre per il futuro del movimento operaio che fa sì che le sue posizioni e analisi si trovano a volte in ritardo con la realtà e anche in opposizione con le necessità della lotta di classe.
Che un'organizzazione della Sinistra comunista sia portata sebbene soltanto a formulare la questione di un sostegno eventuale all’ISIS rispetto ai suoi simpatizzanti o contatti, non può, in effetti, che provocare “stupori e tremori”. Una tale confusione politica significa la perdita di vista di ciò che fa la vera forza del proletariato: la sua solidarietà, la sua unità internazionale e la sua coscienza di classe.
Nella loro essenza stessa, le condizioni d'esistenza e la lotta del proletariato sono antagonistiche al quadro nazionale. Questo anche di fronte agli arcaismi e alla stupidità sovrannazionale “del grande califfato”, forma tipica degli interessi imperialisti di una borghesia senza nazione che cerca incessantemente, attraverso conquiste militari, di imporre un'autorità, un'amministrazione ed una moneta nazionali.
Possedendo soltanto la sua forza di lavoro e privato di qualsiasi forma di proprietà, il proletariato non ha interessi specifici se non il suo progetto rivoluzionario, al di là delle frontiere nazionali. Il suo interesse comune è la sua organizzazione e lo sviluppo della sua coscienza. Proprio perché hanno questo in comune i proletari del mondo intero possono unirsi grazie ad un potente cemento: la solidarietà. Questa solidarietà non è una sorta di ideale o di utopia, è una forza materiale grazie alla quale il proletariato internazionale può difendere i suoi interessi di classe e dunque il suo progetto rivoluzionario universale.
RI (marzo 2017)
.[1] Le CCI et les attentats : stupeurs et tremblements (La CCI e gli attentati: stupori e tremori), Le Prolétaire n.519.
[2] Tra le altre questioni importanti che non possiamo trattare in questo articolo (come il nostro preteso pacifismo, il rapporto di forza tra le classi, ecc.), va sottolineata la tematica inerente alla fase di decomposizione, situazione inedita della vita del sistema capitalista e quadro di analisi di questo periodo storico essenziale oggi per orientare le attività dei rivoluzionari.
[3] Storia dell’Internazionale Comunista 1919-1923, Edizione Feltrinelli
[4] Rosa Luxemburg, La rivoluzione russa, Edizioni Prometeo
[5] Le Prolétaire n.370 (marzo-aprile 1983)
[6] Le Prolétaire n.164 (dal 7 al 27 gennaio 1974)
[7] Rivista Internazionale n.32, Il partito comunista internazionale (Programma comunista) alle sue origini, come pretende di essere, come è. Disponibile in Inglese, spagnolo e francese sul nostro sito: www.internationalism.org [62]
In Stato e Rivoluzione Lenin scriveva: “Finché sono vivi i grandi rivoluzionari le classi di oppressori li ricompensano con incessanti persecuzioni: accolgono la loro dottrina con rabbia brutale, odio feroce, con squallide campagne di menzogne e di calunnie. Dopo la loro morte si cerca di farne delle icone inoffensive, di canonizzarli, per così dire, di circondare il loro nome di una certa aureola con lo scopo di “consolare” le classi oppresse e di mistificarli: così si svuota la loro dottrina rivoluzionaria del suo contenuto, la si avvilisce e si smussa il carattere rivoluzionario”. Effettivamente, finché Marx era vivo, la borghesia ha fatto di tutto per impedirgli di agire demonizzandolo, perseguendolo senza sosta con il suo arsenale repressivo[1]. Dopo la sua morte ha fatto di tutto per snaturare la sua lotta tesa a distruggere il capitalismo e permettere l’avvento del comunismo.
L’insieme delle pubblicazioni, delle trasmissioni radio e televisive prodotte in occasione del bicentenario della nascita di Marx non si discosta dalla regola. Molti studiosi accolgono ormai gli apporti di Marx all’economia, alla filosofia o alla sociologia pur presentandolo come un pensatore “fuori dalla realtà”, del tutto “superato” o che si sarebbe completamente sbagliato sul terreno politico. Si tratta, né più né meno, di smussare il suo essere militante rivoluzionario! Uno degli argomenti su cui si pone l’accento oggi è che Marx non sarebbe che “un pensatore del XIX secolo”[2] e che dunque la sua opera non permetterebbe di comprendere l’evoluzione ulteriore del XX e XXI secolo. Una prospettiva rivoluzionaria non avrebbe dunque oggi alcuna validità. Peraltro la classe operaia non esisterebbe più e il suo progetto politico non potrebbe condurre che all’orrore stalinista. Tutto l’aspetto politico dell’opera di Marx sarebbe alla fin dei conti da gettare nella spazzatura della storia.
Ma un aspetto più sottile di questa propaganda afferma che si dovrebbe prendere da Marx il Marx “attuale”, cosa che potrebbe in fin dei conti convalidare la difesa della democrazia, del liberalismo e la critica dell’alienazione. In fondo si tratterebbe di comprendere Marx non come il militante rivoluzionario che egli era, ma come un pensatore che in alcuni aspetti della sua opera permetterebbe di “comprendere” e migliorare un capitalismo che, lasciato da solo, “non regolato” dal controllo dello Stato, genererebbe ineguaglianze e crisi economiche. Nell’ambito borghese la maggior parte preferisce così recuperare Marx presentandolo come un “economista geniale” che avrebbe previsto le crisi del capitalismo, che avrebbe predetto la globalizzazione, l’accrescimento delle diseguaglianze, ecc.
Tra gli incensatori di Marx molti sono suoi sedicenti eredi (dagli stalinisti ai gauchisti e trotskisti) che dopo un secolo continuano a deformare, snaturare e infangare il rivoluzionario Marx trasformandolo, come denunciava giustamente in anticipo Lenin, in icona quasi-religiosa, canonizzandolo, innalzandogli statue. Tutto ciò per presentare, falsamente, come socialismo o comunismo il proseguimento della dominazione del capitalismo nel suo periodo di decadenza attraverso una difesa particolare e incondizionata della forma presa dalla contro-rivoluzione, quella del capitalismo di Stato secondo il modello edificato in URSS, nei paesi dell’ex blocco dell’Est e in Cina.
Prima di tutto è necessario ricordare insieme a Engels che Marx era innanzitutto un rivoluzionario, cioè un combattente. Il suo lavoro teorico non è comprensibile senza questo punto di partenza. Alcuni hanno voluto fare di Marx uno studioso puro, chiuso con i suoi libri e isolato dal mondo, ma solo un militante rivoluzionario può essere marxista. Dalla sua partecipazione al gruppo dei giovani hegeliani a Berlino nel 1842, la vita di Marx è una lotta contro l’assolutismo prussiano. Questa lotta diventa una lotta per il comunismo quando cerca di comprendere le cause della miseria di una parte considerevole della società e quando sente con gli operai parigini le potenzialità che contiene la classe operaia. È questa lotta che fece di lui un esiliato, cacciato da un paese all’altro e lo gettò in una miseria che causò tra l’altro la morte dei suoi figli. A questo proposito è davvero osceno, come ha fatto una puntata di Arte (canale di divulgazione francese), attribuire la miseria di Marx al fatto che né lui né sua moglie sapevano gestire il budget familiare perché erano originari di ceti sociali benestanti. In realtà, impregnato della solidarietà proletaria, Marx usava regolarmente le sue modeste entrate per i bisogni della causa rivoluzionaria!
Inoltre, contrariamente a quanto afferma Jonathan Sperber, Marx non era un “giornalista”, ma un militante che sapeva che la lotta, inizialmente contro la monarchia autoritaria prussiana poi contro la borghesia, richiede un lavoro di propaganda di cui si farà carico nella Gazzetta Renana, poi nella Gazzetta tedesca di Bruxelles e negli Annali franco-tedeschi, infine ne La Nuova Gazzetta Renana. Come combattente, Marx si impegnò nella lotta della Lega dei Comunisti e accettò un mandato dalla Lega per la scrittura di un testo fondamentale del movimento operaio, il Manifesto del Partito comunista. E proprio perché combattente (come indica il titolo della biografia di Nicolaïveski e Maechen-Helfen) pone al centro della sua attività la preoccupazione per il raggruppamento dei rivoluzionari e per la loro organizzazione così come l’insieme della sua opera teorica ha per motore la lotta della classe operaia.
Marx ha potuto sviluppare un’immensa elaborazione teorica perché è partito dal punto di vista della classe operaia, classe che non ha nulla da difendere nel capitalismo e che “non ha nulla da perdere se non le proprie catene” attraverso la sua lotta contro lo sfruttamento. È partendo da questo postulato che egli ha compreso che questa lotta conterrebbe potenzialmente la fine dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo che l’umanità si trova a dover affrontare dalla comparsa delle classi sociali e che la liberazione della classe operaia permetterebbe l’avvento dell’umanità riunificata, cioè del comunismo. Quando Attali (economista francese) afferma che Marx è un “padre fondatore della democrazia moderna” non è che un falsificatore al servizio della borghesia che ci presenta la società attuale come la migliore possibile. Lo scopo di questa propaganda è impedire alla classe operaia di comprendere che la sola prospettiva possibile per uscire dall’orrore del capitalismo agonizzante è il comunismo.
È ancora partendo dai bisogni della classe operaia che Marx ha stabilito un metodo scientifico, il materialismo storico, che permette alla classe operaia di orientare la sua lotta. Questo metodo critica e supera la filosofia di Hegel, anche se recupera quanto questi aveva scoperto, e cioè che la trasformazione della realtà è sempre un processo dialettico. Questo metodo gli ha permesso di trarre lezioni dalle grandi lotte della classe operaia come quelle del 1848 e della Comune di Parigi. La sua trasmissione alle generazioni seguenti di rivoluzionari, come a quelle della Sinistra Comunista, ha ugualmente permesso di trarre lezioni dalla sconfitta della ondata rivoluzionaria del 1917. L’impostazione di Marx è ancora viva, è esaminando la realtà con il suo metodo e confrontandola con i risultati ottenuti che i rivoluzionari possono arricchire la teoria.
Partendo dal punto di vista della classe operaia, egli ha potuto comprendere che era essenziale capire contro chi la classe operaia si batte e cosa deve distruggere per liberarsi dalle sue catene. Si è quindi impegnato nello studio dei fondamenti economici della società per farne la critica. Questo studio gli ha consentito di dimostrare che il fondamento del capitalismo è lo scambio delle merci e che lo scambio è alla base del rapporto salariale, cioè del rapporto di sfruttamento dell’uomo sull’uomo nel capitalismo. È interessante confrontare questo risultato fondamentale con quello che ne fa Liberation (giornale francese) nella sua celebrazione dell’anniversario della nascita : Karl Marx “mostra che l’acquisto della forza lavoro da parte del capitalista pone un problema di incertezza sull’effettivo carico di lavoro cui sono sottoposti i lavoratori”: in altri termini, se si potesse misurare il lavoro dell’operaio affinché il suo carico di lavoro fosse sopportabile, lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo sarebbe una buona cosa: ecco un buon esempio del modo in cui Marx viene usato per giustificare il capitalismo! Per Marx “l’acquisto della forza lavoro” significa “produzione di plus-valore” e dunque sempre e comunque sfruttamento!
È anche attraverso l’aspetto profondamente militante delle sue opere teoriche che Marx ha potuto dedurne che il capitalismo non è eterno e che, come i modelli di produzione che lo hanno preceduto, questo sistema presenta dei limiti ed entra storicamente in crisi perché “ad un certo stadio del loro sviluppo le forze produttive materiali della società entrano in contrasto con i rapporti di produzione esistenti, o, nell’espressione giuridica, con i rapporti di proprietà nell’ambito dei quali si erano mosse fino ad allora. Da forme di sviluppo delle forze produttive che erano, questi rapporti ne diventano ostacoli. Allora si apre un periodo di rivoluzione sociale” (Contributo a una Critica dell’economia politica). D’altra parte Marx dimostra che il capitalismo produce il suo becchino, il proletariato, che è contemporaneamente l’ultima classe sfruttata della storia, spogliata di tutto, e la sola classe sociale potenzialmente rivoluzionaria per la natura associata e solidale del suo lavoro, una classe che, unendosi al di là delle frontiere, è la sola forza capace di rovesciare il capitalismo a livello mondiale per creare una società senza classi e senza sfruttamento.
In fin dei conti, le “grandi analisi” del XX e del XXI secolo che, considerando superficialmente i fatti, pretendono che il pensiero di Marx sia superato, o che sia ancora oggi attuale perché sarebbe “economista” o sarebbe il pensiero di un “precursore geniale” delle teorie altermondialiste attuali per “correggere gli eccessi” del capitalismo, hanno il solo scopo di mascherare la necessità della lotta per la rivoluzione proletaria.
L’identificazione della classe operaia come il solo attore che ha la possibilità di rovesciare il capitalismo e permettere l’avvento del comunismo andava di pari passo, per Marx, con la necessità del proletariato di organizzarsi. Su questo aspetto, come sugli altri, il contributo di Marx è essenziale. A partire dal 1846 egli si impegnò in un “comitato di corrispondenza” per mettere in contatto socialisti tedeschi, francesi e inglesi perché, stando alle sue parole, “nel momento dell’azione, è certamente di grande importanza, per ognuno, essere informati della situazione all’estero tanto quanto a casa propria”. La necessità di organizzarsi si concretizza nella sua costante partecipazione alle lotte per la costituzione e la difesa di un’organizzazione rivoluzionaria internazionale all’interno del proletariato. La lotta per il comunismo e la più profonda comprensione di ciò che rappresenterà questa lotta lo spingerà a impegnarsi per la trasformazione della Lega dei Giusti in Lega dei comunisti nel 1847 e nella comprensione del ruolo che questa organizzazione doveva svolgere all’interno della classe operaia. Consapevoli di questo ruolo Marx ed Engels difesero la necessità di un programma all’interno della Lega dei comunisti, cosa che porterà alla stesura del Manifesto del Partito comunista nel 1848.
La Lega dei comunisti non resisterà ai colpi della repressione dopo la sconfitta delle rivoluzioni del 1848. Ma da quando ripresero le lotte a partire dal 1860, si verificarono altri tentativi di organizzazione. Marx si impegnò, sin dagli inizi, nell’Associazione internazionale dei lavoratori (AIT) nel 1864. Avrà un ruolo importante nella redazione dei suoi Statuti e sarà l’autore del discorso inaugurale. La sua convinzione sull’importanza dell’AIT e la sua chiarezza teorica faranno di lui la persona centrale dell’organizzazione. Tanto nella Lega dei comunisti quanto nell’AIT egli porterà avanti una lotta decisa perché queste organizzazioni svolgessero la loro funzione. Le sue preoccupazioni teoriche non sono mai state separate dalle esigenze della lotta. È per queste ragioni che, nella Lega, egli esclamerà di fronte a Weitling “fino ad ora l’ignoranza non è servita a nessuno” poiché questi proponeva una visione utopista e idealista del comunismo. È anche per questo che lotterà all’interno dell’AIT contro Mazzini che voleva che l’organizzazione avesse per obiettivo la difesa di interessi nazionali e contro Bakunin che tramava per prendere il controllo dell’AIT e trascinarla in avventure cospirative che sostituissero l’azione di massa del proletariato.
L’elaborazione teorica realizzata da Marx è una formidabile luce chiarificatrice sulla società borghese, tanto nel XIX secolo quanto nei due secoli successivi. Ma se si considera questa elaborazione solo “comprensione del mondo”, sulla scia di tutti gli pseudo-esperti della borghesia che celebrano quest’anno la sua nascita, la sua opera resterà circondata da un alone di mistero. Al contrario, mentre la borghesia coltiva il no-futuro, la classe operaia deve liberarsi dalle sue catene. Per questo deve non solo servirsi delle scoperte teoriche di Marx, ma basarsi sulla sua vita di combattente e militante. Gli strumenti che egli ha saputo sviluppare sono ancora oggi in pieno accordo con il fine stesso della lotta proletaria: trasformare il mondo!
Vitaz, 15 giugno 2018
[1] Engels ai funerali di Marx: “Marx era l’uomo più odiato e calunniato del suo tempo. I governi assolutisti e repubblicani lo hanno deportato. Borghesi, conservatori e democratici si sono uniti contro di lui”.
[2] In particolare nella recente biografia dello studioso americano Jonathan Sperber, che ha avuto ampia promozione nei mezzi di informazione, titolata Karl Marx, uomo del XIX secolo.
170 anni fa fu pubblicato il Manifesto del Partito Comunista: “Al congresso del partito, Londra 1847, Marx ed Engels ricevettero l'incarico di redigere un programma completo, teorico e pratico, da pubblicare. Scritto in tedesco, il manoscritto fu stampato a Londra nel gennaio 1848, poche settimane prima della rivoluzione francese del 24 febbraio. Una traduzione francese apparve poco prima della rivolta di Parigi del giugno 1848” (prefazione di Engels all'edizione del 1888).
Da quel momento, non si contano più le numerose traduzioni e pubblicazioni di questo libro, uno dei più famosi al mondo. Oggi, con il relativo risveglio d’interesse che quest’ultimo suscita all'interno di piccole minoranze combattive alla ricerca di una prospettiva rivoluzionaria, la propaganda ufficiale dello Stato borghese è costretta a continuare a screditare fortemente l'idea di comunismo facendo del Manifesto l’opera sinistra e tragica di un sanguinoso passato. Equiparando in modo fraudolento e falso la contro rivoluzione stalinista all’avvento di un presunto fallito comunismo, il Manifesto non può che incarnare un progetto sociale “obsoleto” ed anche “pericoloso”. Infine, come agli occhi dei peggiori reazionari del diciannovesimo secolo, il Manifesto del Partito comunista rimane ancora oggi “l'opera del diavolo”.
Al culmine dell'ondata rivoluzionaria mondiale degli anni 1917-1923, cioè molto prima del crollo del blocco dell’Est e della pretesa morte del comunismo, il Manifesto era già stato diffamato e combattuto, armi alla mano, dalla classe dominante che accerchiava la Russia dei soviet. In quel tempo, il Manifesto rimaneva per i rivoluzionari, più che mai, una vera bussola che permetteva di orientare il proletariato in vista del rovesciamento del capitalismo attraverso il suo progetto rivoluzionario mondiale. Nelle conferenze sulla vita e l'attività di Marx ed Engels fatte da Ryazanov nel 1922, il Manifesto veniva considerato come un puro prodotto della lotta della classe operaia. Ciò è mostrato nel seguente passo citato dallo stesso Engels: “Gli operai si presentarono e invitarono Marx ed Engels nella loro unione; Marx ed Engels dichiararono che ne avrebbero fatto parte se fosse stato accettato il loro programma. Gli operai acconsentirono, organizzarono la Lega dei comunisti e incaricarono immediatamente Marx ed Engels di scrivere il Manifesto del Partito comunista”[1]. Questo “consenso” non fu il prodotto di un colpo di testa, di una debolezza che cedeva ad una “crisi autoritaria” e ancor meno una sorta di “atto di forza” da parte di Marx ed Engels. Era al contrario il prodotto di una reale maturazione della coscienza operaia e frutto di un lungo dibattito, un prodotto militante legato all'attività organizzata della Lega dei comunisti: “il dibattito durò parecchi giorni e Marx fece molta fatica a convincere la maggioranza della giustezza del nuovo programma. Esso fu adottato nelle linee fondamentali e il congresso incaricò soprattutto Marx di scrivere a nome della Lega dei comunisti non una professione di fede, ma un Manifesto”[2]. È molto importante sottolineare che il Manifesto è stato soprattutto un mandato che Marx ed Engels ricevettero dal Congresso come militanti e non una semplice produzione scritta di loro proprietà. Infatti in una lettera, datata 26 marzo, inviata dal Comitato centrale al Comitato regionale di Bruxelles e redatta sulla base di una risoluzione adottata il 24 gennaio, si chiede conto a Marx dello svolgimento dei suoi lavori. Nel caso in cui non avesse assunto il suo mandato in tempo Marx rischiava persino delle sanzioni: “Il Comitato centrale con la presente incarica il Comitato regionale di Bruxelles di comunicare al cittadino Marx che se il manifesto del partito comunista, della cui stesura si è assunto l'incarico all’ultimo congresso, non sarà pervenuto a Londra il 1° febbraio dell'anno in corso saranno prese contro di lui misure conseguenti. Nel caso in cui il cittadino Marx non portasse a termine il suo lavoro, il Comitato centrale esigerà la restituzione immediata dei documenti messi a sua disposizione”[3].
Marx ed Engels riuscirono a finire il loro lavoro in tempo. Ma essi, già prima e contemporaneamente, non si erano mai fermati nel promuovere l'unità del proletariato facendo anche un lavoro organizzativo esemplare, di cui lo stesso Manifesto è sia il prodotto che lo strumento tale da permetterne il perseguimento: “Gli storici non si sono resi conto di questo lavoro organizzativo di Marx di cui hanno fatto un pensatore da tavolino. In questo modo non hanno capito il ruolo di Marx in quanto organizzatore, non hanno compreso uno degli aspetti più interessanti della sua fisionomia. Se non si conosce il ruolo che Marx (sottolineo Marx e non Engels) giocava già verso il 1846-47 come dirigente e ispiratore di tutto questo lavoro organizzativo, è impossibile comprendere il grande ruolo da lui sostenuto in seguito come organizzatore nel 1848-1849 e all’epoca della Prima Internazionale”[4].
Tutto questo lavoro militante, al servizio dell'unità e della lotta del proletariato, si riflette nelle stesse formulazioni del Manifesto, che definisce la posizione dei comunisti come "avanguardia" e parte non separata della classe operaia: “i comunisti non formano un Partito distinto (...) essi non hanno interessi che li separano dall'insieme del proletariato”[5].
Anche i bolscevichi consideravano il Manifesto del Partito comunista una vera “bussola”. Ecco cosa Lenin stesso ha detto del Manifesto: “Questo libretto vale interi volumi: ispira e anima ancora oggi tutto il proletariato organizzato e combattente del mondo civilizzato”[6]. La forza teorica del Manifesto non è stata possibile, al di là della innegabile genialità di Marx, che attraverso il contesto legato ad un momento decisivo nella storia della lotta di classe, quella di un periodo in cui il proletariato stava iniziando a formarsi come classe indipendente della società. Questa lotta avrebbe permesso al comunismo di superare anche l'ideale astratto elaborato dagli utopisti per diventare un movimento sociale pratico basato su un metodo scientifico, dialettico, quello del materialismo storico. Il compito essenziale era quindi elaborare la vera natura del comunismo, della lotta di classe, e i mezzi per raggiungere questo obiettivo che doveva essere formulato in un programma. Vent'anni fa abbiamo detto del Manifesto: “Non c'è documento oggi che turbi profondamente la borghesia più del Manifesto comunista, per due ragioni. La prima è che la sua dimostrazione del carattere temporaneo storico del modo di produzione capitalistico, della natura insolubile delle sue contraddizioni interne confermate dalla realtà attuale, continua a perseguitare la classe dominante. La seconda, perché il Manifesto, già all'epoca, fu scritto proprio per dissipare la confusione della classe operaia sulla natura del comunismo”[7]. Il Manifesto è un vero tesoro per il movimento operaio. “In anticipo sui tempi”, oggi offre tutte le armi necessarie per combattere l'ideologia dominante. Ad esempio, la critica del socialismo “conservatore o borghese” dell’epoca, con i dovuti rapporti, si applica perfettamente allo stalinismo del XX secolo e ci permette di capire che cosa significa veramente l'abolizione della proprietà privata “(...) per cambiamento delle condizioni materiali di vita, però, questo socialismo non intende affatto l'abolizione dei rapporti borghesi di produzione, possibile solo per via rivoluzionaria; bensì miglioramenti amministrativi che vengono realizzati sul terreno di questi rapporti di produzione, che dunque non cambiano nulla nel rapporto tra capitale e lavoro salariato e che anzi, nel migliore dei casi, diminuiscono a vantaggio della borghesia i costi del suo dominio e semplificano il suo bilancio statale”[8]. Oltre a questi elementi critici che è possibile utilizzare come un'arma sempre attuale, il Manifesto ne indica anche altri ed essenziali che restano pienamente validi per orientare la lotta oggi:
- il primo è la dimostrazione della crisi del sistema capitalista, la realtà della “sovrapproduzione”, il fatto che il capitalismo e la società borghese sono condannati dalla storia: “la società non può più vivere sotto il dominio borghese; ciò significa che l'esistenza della borghesia e l'esistenza della società sono diventati incompatibili”;
- il secondo elemento essenziale, è che mentre la borghesia continua ad affermare il falso dicendo che il proletariato è “scomparso” e che solo le riforme “democratiche” borghesi, “per il popolo”, sono valide, il Manifesto, al contrario, mostra una prospettiva rivoluzionaria sottolineando con chiarezza che: “solo il proletariato è una classe veramente rivoluzionaria”. Espressione di una classe universale per natura sfruttata e rivoluzionaria allo stesso tempo, che lavorando in modo associato e solidale nei rapporti di produzione capitalistici, la sua lotta si inscrive e si sviluppa non solo in rapporto alla necessità ma anche nella capacità di portare avanti questo progetto. Uno dei principali chiarimenti contenuti nel Manifesto risiede nel fatto che esso afferma in modo molto più evidente di prima che l'emancipazione dell'umanità è ora nelle mani del proletariato. Quest'ultimo deve affrontare inesorabilmente la borghesia senza alcun compromesso, non può avere più alcun punto in comune con essa. Un aspetto questo che non era così tanto chiaro fino al 1848 e che, del resto, non lo è stato nemmeno successivamente. Ricordiamo che lo slogan della Lega dei Giusti (“Tutti gli uomini sono fratelli”) esprimeva ancora tutta la confusione che regnava nel movimento operaio. Al contrario, il Manifesto afferma l'irrimediabile antagonismo tra il proletariato e la borghesia. In ciò, infatti, risiede l'espressione di un passo decisivo compiuto nella coscienza di classe;
- il terzo riguarda la natura e il ruolo dei comunisti che costituiscono “la parte più risoluta (...) che coinvolge tutti gli altri: ed essi poi s'avvantaggiano teoricamente sulla restante massa del proletariato per via dell'intendimento netto che hanno, così delle condizioni e dell'andamento, come dei risultati generali del movimento proletario”;
- l'ultimo punto, ma non meno importante, è l'affermazione del Manifesto del carattere internazionalista della lotta di classe: “gli operai non hanno patria” che è sempre stata e rimane più che mai la pietra angolare della difesa delle posizioni di classe, totalmente all'opposto del nazionalismo del nemico di classe. Il fatto che il Manifesto termini con questo vibrante appello: “proletari di tutti i paesi, unitevi!” ne è l'espressione più forte che traduce la dimensione intrinsecamente internazionalista della lotta proletaria e della difesa del suo principio fondamentale.
Potremmo evidenziare molti altri aspetti importanti presenti nel Manifesto, ma desideriamo concludere questo breve omaggio militante tornando alle sue prime righe, quelle della formula non meno famosa e secondo noi sempre attuale: “Uno spettro si aggira per l'Europa: lo spettro del comunismo”. Ed affermiamo che, nonostante le difficoltà che oggi attraversa, il proletariato internazionale conserva ancora le sue capacità e la sua forza per abbattere l'ordinamento capitalista e sostituirlo con una società senza classi, senza guerra o sfruttamento. Questo "spettro", lo voglia o no la borghesia, è ancora e sempre presente!
WH, 3 giugno 2018
[1] Ryazanov, Marx ed Engels. Ed. Samonà e Savelli pag. 49
[2] Idem pag. 60
[3] Idem pag. 61
[4] Idem pag. 57
[5] Marx ed Engels, Manifesto del Partito Comunista.
[6] Lenin, Karl Marx e la sua dottrina.
[7] 1848: The Communist Manifesto is an indispensable compass for the future of humanity [366]; 1848 - Le manifeste communiste : une boussole indispensable pour l'avenir de l'humanité [367]; 1848 : el Manifiesto comunista - Una brújula indispensable para el porvenir de la humanidad [368]
[8] Marx ed Engels, Manifesto del Partito Comunista. Ed. Laterza pag. 48
Gli orientamenti principali del rapporto sulle tensioni imperialiste di novembre 2017 ci forniscono il quadro essenziale per comprendere gli sviluppi attuali:
- la fine dei due blocchi della ‘guerra fredda’ non significava la scomparsa dell'imperialismo e del militarismo. Sebbene le composizioni di nuovi blocchi e lo scoppio di una nuova ‘guerra fredda’ non siano all'ordine del giorno, i conflitti sono scoppiati in tutto il mondo. Lo sviluppo della decomposizione ha portato ad un sanguinoso e caotico scatenamento di imperialismo e militarismo;
- l'esplosione della tendenza al ‘ciascuno per sé’ ha portato al sorgere di ambizioni imperialiste di potenze di secondo e terzo livello, nonché al crescente indebolimento del controllo sul mondo da parte degli Stati Uniti;
- la situazione attuale è caratterizzata da tensioni imperialiste ovunque e da un caos che è sempre meno controllabile, ma soprattutto dal suo carattere altamente irrazionale e imprevedibile, legato all'impatto delle pressioni populiste, in particolare al fatto che la prima potenza mondiale è guidata oggi da un presidente populista con reazioni instabili.
Nel periodo recente, il peso del populismo sta diventando più tangibile esacerbando la tendenza al 'ciascuno per sé' e la crescente imprevedibilità dei conflitti imperialisti;
- gli interrogativi sugli accordi internazionali, sulle strutture sopranazionali (l'UE), su qualsiasi approccio globalizzato rendono le relazioni imperialiste più caotiche e accentuano il pericolo di scontri militari tra gli squali imperialisti (Iran e Medio Oriente, Corea del Nord e Estremo Oriente).
- Il rifiuto in molti paesi delle tradizionali élite politiche globalizzate va di pari passo con il rafforzamento di una retorica nazionalista aggressiva in tutto il mondo (non solo negli Stati Uniti con lo slogan 'America first' di Trump o in Europa, ma anche in Turchia o in Russia per esempio).
Queste caratteristiche generali del periodo trovano la loro concretizzazione oggi in una serie di tendenze particolarmente significative.
L'evoluzione della politica imperialista USA negli ultimi trent'anni è uno dei fenomeni più significativi del periodo di decomposizione: gli Usa, dopo aver promesso “una nuova era di pace e prosperità” (Bush senior) all'indomani dell'implosione del blocco sovietico, lottano in seguito contro la tendenza al ciascuno per sé per diventare oggi il principale propagatore di questa tendenza nel mondo. In effetti, l'ex leader di blocco e la sola restante superpotenza imperialista dopo l'implosione del blocco orientale, che agisce da circa 25 anni come il poliziotto mondiale combattendo contro la diffusione del ciascuno per sé a livello imperialista, istiga oggi al rifiuto dei negoziati internazionali e degli accordi globali a favore di una politica di ‘bilateralismo’.
Un principio condiviso, volto a superare il caos nelle relazioni internazionali, è riassunto nella seguente frase latina: “pacta sunt servanda”, i trattati, gli accordi devono essere rispettati. Se qualcuno firma un accordo globale - o multilaterale, dovrebbe rispettarlo, almeno apparentemente. Ma gli Stati Uniti sotto Trump hanno abolito questa concezione: firmo un trattato, ma posso scartarlo domani. Ciò è già avvenuto con il Patto Transpacifico (TPP), l'accordo di Parigi sui cambiamenti climatici, il trattato nucleare con l'Iran, l'accordo finale sull'incontro del G7 a Québec. Gli Stati Uniti respingono oggi gli accordi internazionali a favore di una negoziazione tra Stati, in cui la borghesia statunitense imporrà senza mezzi termini i suoi interessi attraverso il ricatto economico, politico e militare (come possiamo vedere oggi con il Canada prima e dopo il G7 per quanto riguarda il NAFTA o con la minaccia di ritorsioni contro le società europee che investono in Iran). Ciò avrà conseguenze tremende e imprevedibili per lo sviluppo di tensioni e conflitti imperialisti (ma anche per la situazione economica del mondo) nel prossimo periodo. Lo illustreremo con tre 'punti caldi' negli scontri imperialisti oggi:
- Medio Oriente: nel denunciare l'accordo nucleare con l'Iran, gli Stati Uniti si oppongono non solo alla Cina e alla Russia ma anche all'UE e persino alla Gran Bretagna. La sua apparentemente paradossale alleanza con Israele e Arabia Saudita porta a una nuova configurazione di forze in Medio Oriente (con un crescente riavvicinamento tra Turchia, Iran e Russia) e aumenta il rischio di una generale destabilizzazione della regione, in più scontri tra i principali squali e guerre sanguinarie più estese.
- Le relazioni con la Russia: quale posizione verso Putin? Per ragioni storiche (il periodo della 'guerra fredda' e il Russiagate durante le ultime elezioni presidenziali), ci sono poteri molto forti nella borghesia statunitense che spingono per scontri più forti con la Russia, ma l'amministrazione Trump, nonostante lo scontro imperialista in Medio Oriente, continua a non escludere un miglioramento della cooperazione con la Russia: all'ultimo G7, Trump ha suggerito di reintegrare la Russia nel Forum dei Paesi industrializzati.
- L'estremo oriente: l'imprevedibilità degli accordi pesa particolarmente sui negoziati con la Corea del Nord: (a) che dire di un accordo tra Trump e Kim, se Cina, Russia, Giappone e Corea del Sud non sono direttamente coinvolti nella negoziazione di questo accordo? Questo è già apparso in superficie quando Trump ha rivelato a Singapore, con lo sgomento dei suoi 'alleati' asiatici, che aveva promesso di fermare le manovre militari congiunte in Corea del Sud (b), se qualsiasi accordo potesse essere messo in discussione in qualsiasi momento dagli Stati Uniti, quanto ci si può fidare di Kim? (c) La Corea del Nord e la Corea del Sud in questo contesto si affideranno totalmente al loro 'alleato naturale' e stanno prendendo in considerazione una strategia alternativa?
Sebbene questa politica implichi un'incredibile crescita del caos e della tendenza al ciascuno per sé e, infine, un ulteriore declino delle posizioni globali della prima potenza mondiale, non vi è alcun approccio alternativo tangibile negli Stati Uniti. Dopo un anno e mezzo di indagini di Mueller e di altri tipi di pressioni contro Trump, non sembra probabile che Trump venga espulso dal suo incarico, tra l'altro perché non c'è una forza alternativa in vista. Il pantano all'interno della borghesia statunitense continua.
La contraddizione non potrebbe essere più sorprendente. Nello stesso tempo in cui gli Stati Uniti di Trump denunciano la globalizzazione per ricorrere ad accordi 'bilaterali', la Cina annuncia un enorme progetto globale, la “Nuova via della seta”, che coinvolge circa 65 paesi in tre continenti, che rappresentano il 60% della popolazione e circa un terzo del PIL mondiale, con investimenti per un periodo di 30 anni (2050!) fino a 1,2 trilioni di dollari.
Dall'inizio del suo riemergere, che è stato pianificato in un sistematico approccio a lungo termine, la Cina ha modernizzato il suo esercito, costruendo una 'corda di perle' - a cominciare dall'installazione/occupazione di barriere coralline nel Mare del Sud della Cina e una catena di basi militari nell'Oceano Indiano. Per ora, tuttavia, la Cina non cerca uno scontro diretto con gli Stati Uniti; al contrario, progetta di diventare l'economia più potente del mondo entro il 2050 e mira a sviluppare i suoi legami con il resto del mondo, cercando di evitare scontri troppo diretti. La politica della Cina è una politica a lungo termine, contrariamente agli accordi a breve termine di Trump. Cerca di espandere le sue competenze industriali, tecnologiche e, soprattutto, militari. A questo ultimo livello, gli Stati Uniti hanno ancora un vantaggio considerevole sulla Cina.
Nello stesso momento del fallito vertice del G7 in Canada (9-10.06.18), la Cina ha organizzato a Quingdao una conferenza dell'Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai con l'assistenza dei presidenti della Russia (Putin), dell'India (Modi), dell'Iran (Rohani), e i leader di Bielorussia, Uzbekistan, Pakistan, Afghanistan, Tagikistan e Kirghizistan (il 20% del commercio e il 40% della popolazione mondiale). Il loro vero obiettivo è chiaramente il progetto Silk-Road (la via della seta): l'obiettivo è quello di diffondere la sua influenza, un progetto a lungo termine, e uno scontro diretto con gli Stati Uniti controbatterebbe questi piani. In questa prospettiva, la Cina userà la sua influenza per spingere per un accordo che implichi una neutralizzazione di tutte le armi nucleari nella regione coreana (armi americane incluse), che, a condizione che gli Stati Uniti lo accettino, spingerebbe indietro le forze statunitensi in Giappone e ridurrebbe la minaccia immediata sulla Cina settentrionale.
Tuttavia, le ambizioni della Cina porteranno inevitabilmente a confrontarsi con gli obiettivi imperialisti non solo degli Stati Uniti ma anche di altri squali, come l'India o la Russia.
- un crescente confronto con l'India, l'altra grande potenza in Asia, è inevitabile. Entrambe le potenze hanno ingaggiato un massiccio rafforzamento dei loro eserciti e si stanno preparando per uno scontro a medio termine;
- la Russia è in questa prospettiva in una situazione difficile: entrambi i paesi stanno collaborando ma, a lungo termine, la politica della Cina non può che portare a uno scontro con la Russia. La Russia ha riacquistato il potere negli ultimi anni a livello militare e imperialista, ma la sua arretratezza economica non è stata superata, al contrario: nel 2017 il PIL russo (prodotto interno lordo) era solo del 10% superiore al PIL del Benelux!
- Infine, è probabile che le sanzioni economiche e le provocazioni politiche e militari di Trump costringeranno la Cina a confrontarsi con gli Stati Uniti più direttamente nel breve periodo.
L'esasperazione della tendenza all'ognuno per sé a livello imperialista e la crescente competizione tra gli squali imperialisti danno origine a un altro significativo fenomeno di questa fase di decomposizione: l'avvento al potere di 'leader forti' con una radicalizzazione delle prese di posizione, affermazioni forti e una retorica aggressiva e nazionalista.
L'avvento al potere di un 'leader forte' e una retorica radicale sulla difesa dell'identità nazionale (spesso associata a programmi sociali a favore di famiglie, bambini, pensionati) è tipica dei regimi populisti (Trump, ovviamente, ma anche Salvini in Italia, Orbán in Ungheria, Kaczynski in Polonia, Babiš nella Repubblica Ceca, ...) ma è anche una tendenza più generale in tutto il mondo, non solo nelle potenze più forti (Putin in Russia) ma anche in potenze imperialiste secondarie come la Turchia (Erdogan), Iran, Arabia Saudita (con il 'colpo di stato morbido' del principe ereditario Mohammed Ben Salman). In Cina, la limitazione della presidenza dello stato a due periodi di cinque anni è stata rimossa dalla costituzione, in modo che Xi Jinping tendesse ad imporsi come 'leader a vita', il nuovo imperatore cinese (presidente, capo del partito e della commissione militare centrale, cosa mai successa dopo Deng Xiaoping). Gli slogan 'democratici' o il mantenimento delle apparenze democratiche (i diritti umani) non sono più il discorso dominante (come hanno dimostrato i colloqui tra Donald e Kim), a differenza di quando è crollato il blocco sovietico e all'inizio del XXI secolo, hanno lasciato il posto a una combinazione di discorsi molto aggressivi e accordi pragmatici imperialisti.
L'esempio più forte è la crisi coreana. Trump e Kim hanno usato all'inizio un'alta pressione militare (anche con la minaccia di un confronto nucleare) e discorsi molto aggressivi e poi si sono incontrati a Singapore per contrattare. Trump ha offerto enormi vantaggi economici e politici (il modello birmano) per attirare Kim nel campo americano. Questo non è assolutamente inconcepibile in quanto i nordcoreani hanno un rapporto ambiguo e persino sfiducia nei confronti della Cina. Tuttavia, il riferimento alla Libia da parte di funzionari statunitensi (consigliere per la sicurezza nazionale John Bolton) – cioè che la Corea del Nord potrebbe avere lo stesso destino della Libia, esortando Gheddafi ad abbandonare le sue armi per poi ucciderlo - rende i nordcoreani particolarmente sospettosi delle proposte americane.
Questa strategia politica è una tendenza più generale negli attuali scontri imperialisti, come dimostrato dai tweet aggressivi di Trump contro il primo ministro canadese Trudeau, “un leader falso e debole”, poiché ha rifiutato di accettare l'aumento delle tasse d'importazione degli Stati Uniti. C'è anche il brutale ultimatum dell'Arabia Saudita contro il Qatar, accusato di 'centrismo' nei confronti dell'Iran o le bellicose dichiarazioni di Erdogan sui curdi contro l'Occidente e la NATO. Infine, citeremo lo “Stato dell'Unione” molto aggressivo di Putin, che presentava le armi più sofisticate della Russia con il messaggio: “fareste meglio a prenderci sul serio!”
Queste politiche rafforzano le caratteristiche generali del periodo, con una forte intensificazione della militarizzazione (nonostante il forte onere economico legato a questo) tra i 3 maggiori squali imperialisti ma anche una tendenza globale in un contesto di cambiamento del panorama imperialista nel mondo e in Europa. In questo contesto di politiche aggressive, il pericolo di attacchi nucleari limitati è persino molto reale, in quanto vi sono molti elementi imprevedibili nei conflitti attorno alla Corea del Nord e all'Iran.
Tutte le attuali tendenze in Europa - la Brexit, l'ascesa di un importante partito populista in Germania (AFD), il populismo che sale al potere nell'Europa orientale, dove la maggior parte dei paesi sono gestiti da governi populisti, sono accentuati da due eventi principali:
- la formazione in Italia di un governo populista al 100% (formato da i 5 Stelle e la Lega), che conduce uno scontro diretto tra i 'burocrati di Bruxelles' (UE), i 'campioni' della globalizzazione, sostenuti dall'Eurogruppo e dai mercati finanziari e dall'altra parte il 'fronte populista' della popolazione;
- la caduta di Aznar e del PP in Spagna e l'ascesa al potere di un governo di minoranza del PS sostenuto dai nazionalisti baschi, catalani e 'Podemos', che accentuerà le tensioni centrifughe in Spagna e in Europa.
Ciò avrà conseguenze enormi sulla coesione dell'UE, sulla stabilità dell'euro e sul peso dei paesi europei sulla scena imperialista.
A) L'UE è impreparata e largamente impotente nell'opporsi alla politica di Trump sull'embargo statunitense nei confronti dell'Iran: le multinazionali europee si stanno già conformando ai dettami statunitensi (Total, Lafarge). Ciò è particolarmente vero in quanto vari Stati europei supportano l'approccio populista di Trump e la sua politica in Medio Oriente (Austria, Ungheria, Repubblica Ceca e Romania erano rappresentati all'inaugurazione dell'Ambasciata USA a Gerusalemme, contro la politica ufficiale dell'UE). Per quanto riguarda l'aumento delle tasse sull'importazione, è tutt'altro che sicuro che all'interno dell'UE ci sarà un accordo per rispondere sistematicamente alle maggiori imposte sulle importazioni imposte da Trump.
B) Il progetto di un polo militare europeo rimane in gran parte ipotetico nel senso che sempre più paesi, sotto l'impulso delle forze populiste al potere o facendo pressione sul governo, non vogliono sottomettersi all'asse franco-tedesco. D'altra parte, mentre la leadership politica dell'UE è costituita dall'asse franco-tedesco, la Francia ha invece tradizionalmente orientato la sua cooperazione tecnologica militare verso l'Inghilterra che sta per lasciare l'UE.
C) le tensioni attorno all'accoglienza dei rifugiati oppongono non solo le coalizioni dei governi populisti dell'Est all'Europa occidentale, ma sono in aumento anche nei paesi occidentali mettendoli uno contro l'altro, come dimostrano le forti tensioni che si sono sviluppate tra la Francia di Macron e il governo populista italiano, mentre la Germania è sempre più divisa sull'argomento (pressione dalla CSU).
D) il peso economico e politico dell'Italia (la terza economia dell'UE) è considerevole, in nessun modo paragonabile al peso della Grecia. Il governo populista italiano intende ridurre le tasse e introdurre un reddito di base, che costerà più di cento miliardi di euro. Allo stesso tempo, il programma governativo prevede di chiedere alla Banca centrale europea di saltare 250 miliardi di euro del debito italiano!
E) Sul piano economico ma anche imperialista, la Grecia aveva già avanzata l'idea di fare appello alla Cina per sostenere la sua economia. Ancora una volta, l'Italia prevede di chiamare la Cina o la Russia per aiutare a sostenere e finanziare la ripresa economica. Tale orientamento potrebbe avere un forte impatto a livello imperialista. L'Italia si oppone già alla continuazione delle misure di embargo dell'UE nei confronti della Russia a seguito dell'annessione della Crimea.
Tutti questi orientamenti accentuano fortemente la crisi all'interno dell'UE e le tendenze alla frammentazione. In definitiva influenzeranno la politica della Germania come leader dell'UE, in quanto è divisa internamente (peso di AFD e CSU), confrontata con un'opposizione politica dei leader populisti dell'Europa orientale, un'opposizione economica dei paesi mediterranei (Italia, Grecia, ...), e in litigio con la Turchia, mentre direttamente sono presi di mira dalle tasse sulle importazioni di Trump. La crescente frammentazione dell'Europa sotto i colpi del populismo e della politica 'l'America prima' rappresenterà anche un grosso problema per la politica della Francia, perché queste tendenze sono in totale opposizione con il programma di Macron che si basa essenzialmente sul rafforzamento dell'Europa e sulla la piena assimilazione della globalizzazione.
CCI, giugno 2018
In una regione segnata dalla guerra imperialista e dalle divisioni settarie, le recenti proteste sociali in Iran, Giordania e Iraq offrono la speranza che ci sia un'altra possibilità: la lotta unitaria degli sfruttati contro il capitale e la sua violenza brutale. Questo articolo, scritto da un simpatizzante, esamina le massicce manifestazioni che hanno spazzato il centro e il sud dell'Iraq.
A partire dall'8 luglio una serie di proteste spontanee sono scoppiate nel centro e nel sud dell'Iraq coinvolgendo migliaia di manifestanti. Si sono diffuse rapidamente attraverso otto province meridionali e, circa due settimane dopo, nelle strade di Baghdad. Questa sono seguite alle significative proteste in Giordania e Iran sugli stessi problemi. Il movimento in Iraq sarebbe stato a conoscenza di queste proteste e ispirato da esse date le somiglianze alla base della situazione in questi paesi.
La classe lavoratrice in Iraq è numericamente e generalmente più debole che negli altri due paesi e sebbene ci siano notizie di manifestanti e assemblee di lavoratori del settore petrolifero, il contenuto e il contesto di questi incontri non sono noti. Ma le forze trainanti delle proteste sono questioni di classe:
- Disoccupazione: nessuno crede alle cifre ufficiali del 18% di disoccupazione giovanile visto che oltre quattrocentomila giovani entrano nel mercato del lavoro ogni anno con scarse prospettive di lavoro.
- Mancanza di servizi di base: la temperatura di 50 gradi ha ulteriormente aumentato la sofferenza derivante da restrizioni e interruzioni di energia elettrica che è disponibile solo per una breve parte della giornata e questo nonostante i 40 miliardi di dollari stanziati dal 2003 per ricostruire la rete del paese.
- Assistenza sanitaria: sono in aumento in tutto l’Iraq tumori e altre gravi malattie congenite al cervello e in tutto il corpo nei bambini e numerosi altri gravi problemi di salute. Già nel 2009, la Reuters ha riferito che molte famiglie stavano prendendo la terribile decisione di lasciare morire i propri figli (1° dicembre)[1]. La mancanza di cure in questi gravi casi si riflette in tutti i livelli di assistenza sanitaria in Iraq.
- Acqua: come i manifestanti in Giordania e Iran (dove nel sud del paese l'esercito dirottava ingenti quantità di acqua verso le proprie aziende agricole), i manifestanti hanno chiesto l'accesso all'acqua potabile pulita. La richiesta di questo bisogno fondamentale di acqua potabile mostra una convergenza di problemi economici ed ecologici all'interno delle proteste[2].
- Elevati affitti e salari non pagati (Rudaw Media, 20.7.18).
- Corruzione e clientelismo: come in Giordania e in Iran questi sono elementi essenziali dell'economia di guerra e i benestanti che vivono dii corruzione e clientelismo sono oggetto dell'indignazione delle masse per il degrado delle le condizioni di vita. I manifestanti hanno anche denunciato la "frode elettorale".
Il più anziano esponente religioso sciita dell'Iraq, Ali al-Sistani, ha chiesto al governo di accettare le richieste dei manifestanti; un "sostegno" simile alle proteste è arrivato dal religioso populista sciita, Muqtada al-Sadr[3] che, con riserva di un nuovo conteggio, ha vinto le elezioni del 12 maggio con l'aiuto del Partito comunista iracheno; il Primo Ministro del partito al governo Sawa, Haider al-Abadi, ha promesso finanziamenti e progetti per rispondere alle proteste; e i sauditi, annusando un'occasione per contrastare l'influenza iraniana, hanno promesso "aiuti".
L'obiettivo degli attacchi dei manifestanti non sono stati solo gli edifici governativi e municipali, ma anche le istituzioni sciite, smascherando così il loro finto “sostegno” all’ondata di proteste. Come mostrato con dei filmati sui social media, la delegazione del populista radicale Al-Sadr è stata attaccata e mandata via. Tutte le principali istituzioni sciite sono state respinte e i loro uffici attaccati e particolarmente significativo è il fatto che gli attacchi sono venuti dagli stessi abitanti delle terre sciite, con i manifestanti che usavano ironicamente il termine Safavids per descrivere i loro leader, un'espressione che si riferisce alle dinastie sciite del passato spesso usata dai sunniti come insulto. Gli aerei iraniani sono stati saccheggiati nell'aeroporto della città santa sciita di Najaf e il quartier generale delle milizie filo-iraniane, comprese le Unità di mobilitazione popolare, sono stati presi di mira e bruciati insieme agli uffici governativi. Secondo il Kurdistan News 24, del 14 luglio, unità regolari dell'esercito iracheno hanno aderito alle proteste in almeno una provincia. Quando le proteste hanno fatto un passo in avanti e hanno colpito Baghdad, il sito web Middle-East Eye, del 19 luglio ha riportato lo slogan "Non sunnita, non sciita, laico, laico!" gridato dalla massa dei manifestanti.
Il primo ministro al-Abadi ha licenziato un ministro e alcuni funzionari e promesso riforme, ma la schiacciante risposta dello Stato è stata la repressione, le retate, gli arresti e le torture, mentre ulteriori proteste hanno visto il rilascio di detenuti. Il governo ha dichiarato lo "stato di emergenza" e ha imposto subito un giro di vite su Internet, mentre lacrimogeni, cannoni ad acqua e vere munizioni sono stati usati contro i manifestanti. Unità antiterrorismo sono state mobilitate contro i manifestanti di Baghdad, cosa impensabile senza il permesso degli alti comandi statunitensi e britannici nella "Zona verde". Almeno 14 persone sono state uccise e 729 ferite secondo Human Rights Campaign (Campagna per i diritti umani) del 20 luglio. Ma le proteste, che durano ormai da tre settimane, sono continuate fino a questo week-end, quando le forze di sicurezza hanno attaccato dei manifestanti fuori al Consiglio provinciale e al giacimento petrolifero di Qurna, Bassora.
Come in Iran e in Giordania queste esplosioni sono dirette contro l'economia di guerra e tutti i suoi detriti parassitari. Come in Iran e in Giordania, le proteste del 2018 in Iraq sono più diffuse e più profonde dei precedenti focolai (nel 2015 nel caso iracheno) ed è abbastanza ovvio che i leader religiosi abbiano una minore influenza. Le promesse del governo e l'influenza dei leader religiosi stanno perdendo il loro potere mentre il proletariato e le masse combattono per i propri interessi in queste schermaglie contro il capitale e la sua economia di guerra.
Baboon, 30.7.18
[1] Gran parte di questo avvelenamento all'ingrosso è stato attribuito ai bombardamenti della coalizione guidata dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna, in particolare attraverso l'uso di uranio impoverito. Il maggior numero di danni e deformità si rileva nei luoghi più bombardati: Falluja e Bassora. A Londra, il Ministero della Difesa usa la vecchia linea "non ci sono prove" e i politici britannici che sono pronti a denunciare le bombe chimiche degli altri non dicono nulla sulle loro stesse atrocità
[2] Non è solo in Medio Oriente che c'è mancanza d’acqua potabile pulita; secondo l'Environmental Protection Agency (Agenzia per la Protezione Ambientale) degli Stati Uniti più di cinque milioni di americani sono esposti ad acqua contenente tossine sopra i livelli di sicurezza (WSWS, 27.7.18). E, a un livello più ampio, se Trump in generale rigetta il problema dei cambiamenti climatici, il Pentagono, nel pieno interesse dell'imperialismo USA, non li vede (compresa la scarsità d'acqua) come un pericolo presente – come menzionato nel suo National Security Implications of Climate-Related Risks and a Changing Climate del 27.5.15. (Implicazioni di sicurezza nazionale dei rischi correlati al clima e al suo cambiamento).
[3] Al-Sadr è stato propagandato in Occidente come "il nuovo volto della riforma", New York Times, 20.5.18
Dopo aver mostrato, nel precedente articolo “Morti di Stato a Genova, ostaggi di Stato sulla nave Diciotti”, il cinismo e l’irresponsabilità di questo governo, passiamo adesso a fare, a sei mesi dalle elezioni e a cento giorni dalla formazione del nuovo governo, un primo bilancio dell'operato di quello che si è autonominato il governo del cambiamento. Ebbene, di cambiamenti nella vita politica e sociale ne abbiamo visti abbastanza, di miglioramenti nell’economia e nelle condizioni di vita delle persone nessuno, anzi.
I provvedimenti legislativi sono stati pochi di cui uno, il cosiddetto milleproroghe, che non aggiunge niente a quanto già deciso dai precedenti governi, e un altro, il cosiddetto Decreto Dignità, che modifica in parte il Job's act di Renzi (ma i 5S in campagna elettorale avevano promesso di abolirlo). Questo Decreto, presentato come rimedio alla precarietà, riduce di un anno la possibilità di prorogare contratti a termine, senza dare nessuna garanzia che il contratto si trasformi in uno a tempo indeterminato, e aumenta, di ben poco, il risarcimento economico ai lavoratori licenziati.
Per il resto, si sono visti soprattutto rimandi, anche di problemi scottanti e urgenti, come il destino dell’ILVA (sciolto solo in questi giorni), dell’Alitalia (che sarebbe già fallita senza i 900 milioni di prestito ricevuti dallo Stato, che però devono essere restituiti), di numerose altre situazioni di crisi aziendale (Irisbus, ecc.), o di emergenze sociali (terremotati del centro Italia e di Ischia, ecc.). Addirittura è stata rinviata l’applicazione del Decreto Periferie, approvato dal precedente governo, che stanziava un miliardo e mezzo per interventi di recupero delle periferie di molti comuni. Infine c’è lo scottante capitolo delle grandi opere pubbliche (TAV, linea ad alta velocità Torino-Lione, TAP, il gasdotto azero che deve sboccare in Puglia, vari tratti autostradali, ecc.), che non viene nemmeno affrontato viste le enormi divisioni esistenti su questo tra Lega e 5S (che hanno fatto promesse opposte su queste opere in campagna elettorale). Qualcuno potrebbe dire “meglio così, meno cose fanno meno danni subiamo”, ma purtroppo non è così: se non si affrontano le varie crisi aziendali, sono migliaia i posti di lavoro a rischio, stessa cosa se si bloccano le grandi opere o gli altri lavori di pubblica utilità (vedi periferie o emergenze sociali).
Insomma, se il governo “del cambiamento” può vantare ben pochi risultati, le sue prime mosse fanno presagire ulteriori batoste per i proletari e problemi per la stessa borghesia italiana.
Ma questo non frena le dichiarazioni roboanti di entrambi i partiti dell'attuale maggioranza che si comportano come se fossero sempre in campagna elettorale: così si ribadisce che nella prossima legge di bilancio ci saranno tutte le cose promesse in campagna elettorale (flat tax, riforma della legge Fornero, reddito di cittadinanza, cancellazione di alcune accise sulla benzina, ecc.), poco importa se gli economisti dicono che questo costerebbe un centinaio di miliardi e quindi uno sforamento del 3% del deficit e un aumento del debito.
Per questi signori niente è impossibile, anche perché, da bravi populisti, sono pronti a cambiare posizione o a falsificare quello che fanno tutte le volte che gli va: così, prima dichiarano “aboliremo il job's act”, per poi limitarsi a correggerlo solo un po’; ancora, avevano dichiarato “sforeremo il tetto del 3% del deficit per far stare meglio gli italiani”, attenuando prima con “sfioreremo il tetto…” e per concludere infine “rispetteremo le regole europee” (con un po’ di flessibilità, pare l’1,5%); e ancora “costringeremo l’Unione europea a farsi carico dei migranti” e poi Salvini va ad abbracciare Orban, il presidente ungherese che di accogliere anche un solo migrante non ci pensa proprio. Potremmo continuare a lungo questa lista, ma ci sembra inutile.
Il punto è che i molti che hanno votato i 5S o la Lega si sono illusi che questi veramente costituissero una cosa diversa da quelli che li hanno preceduti, mentre invece il populismo non è quello che fa le scelte per il “popolo” (termine che accomuna tutti: ricchi e poveri, sfruttati e sfruttatori), ma quello che usa l’arma della propaganda per illudere e tenere buoni gli sfruttati e gli emarginati, quelli che parlano alla pancia delle persone per ottenere consenso, quelli che soffiano e ingigantiscono le paure legate all’insicurezza sociale ed economica trovando sempre un capro espiatorio cui attribuire la responsabilità di queste insicurezze: l’immigrato, l’Europa e, quando tutto manca, i fantomatici “poteri forti” (sempre evocati senza però che qualcuno ne citi mai nome, cognome e collocazione sociale).
Ma le leggi dell’economia capitalista sono inesorabili, ed è qui che vengono al pettine i nodi dell’attuale governo: l’impossibilità a mantenere le promesse elettorali senza far saltare i conti dello Stato. Il problema infatti non sono le “rigide regole dell’Europa”, ma il dato di fatto che l’Italia ha un debito pari al 132% del PIL, debito su cui si pagano g1i interessi ai creditori, e più aumenta il debito, più aumentano gli interessi da pagare, tant’è che nonostante il cosiddetto avanzo primario (cioè il bilancio dello Stato al netto degli interessi) sia positivo da alcuni anni, resta il deficit e non diminuisce il debito.
Nelle prossime settimane dovranno scegliere: o venire meno al grosso delle promesse elettorali, o realizzarle in gran parte mandando all’aria i conti dello Stato con il rischio di una crisi finanziaria tipo quella del 2011 che costò il governo a Berlusconi e una nuova ondata di sacrifici ai proletari (Fornero ecc.).
Se c’è qualcosa che differenzia questo governo dai precedenti (perfino da quello Berlusconi) è da un lato il dilettantismo dei suoi componenti (privi non solo di esperienza, ma spesso di qualsiasi competenza) e la sua irresponsabilità, la sua capacità di far saltare equilibri internazionali e istituzionali, col rischio di far perdere qualsiasi credibilità al paese e alla democrazia borghese. Lasciando perdere le differenti gaffe e stupidità espresse da vari esponenti del governo (obblighi “flessibili”, vaccini obbligatori un giorno sì e uno no, possibilità di autocertificazione sanitarie vietate dalla legge, gare pubbliche –ILVA- dichiarate “illegittime ma non cancellabili” …) più grave è il modo di rapportarsi degli esponenti del governo all’Europa, ai differenti paesi europei e alle stesse istituzioni nazionali. Volendo galvanizzare i propri supporter, si sono sbattuti i pugni sul tavolo della UE sulla questione dei migranti, con il solo risultato di inimicarsi molti dei paesi fondatori della UE (Francia in testa), senza ottenere un briciolo di aiuto in più. Non sono nemmeno mancate le accuse e i reciproci insulti con Malta, Francia e Spagna. I soli amici di Salvini in Europa sono i paesi del cosiddetto gruppo di Visegrad, cioè quelli che di dividersi i migranti non ne vogliono sapere (con buona pace della coerenza). Ma se questo significa sconvolgere il normale svolgimento dei rapporti fra gli stati (una delle mistificazioni dell’ideologia borghese), peggio ancora è il comportamento di questo governo verso le altre istituzioni statali: già nella formazione del governo, quando il presidente della Repubblica aveva rigettato il nome di un ministro, i 5S subito reclamarono la messa in stato d’accusa di Mattarella; il presidente della camera dei deputati, Fico, dichiara di non essere d’accordo con il respingimento dei migranti? Salvini gli dice di stare zitto, che parla solo perché non ha niente da fare (la terza carica dello Stato!). Salvini sequestra navi ed esseri umani e quando i giudici, tenuti ad agire di fronte ad ogni notizia di reato, lo indagano per questi reati, lui grida al golpe, alla lesa maestà, sostenendo praticamente che poiché lui è stato eletto, i giudici non possono inquisirlo. Insomma la rimessa in discussione continua della divisione dei poteri, dell’esistenza di pesi e contrappesi nelle diverse istituzioni dello Stato, che è una delle fondamenta della mistificazione della democrazia borghese.
Nonostante questo, il governo gode ancora di appoggio popolare, e bisogna capire perché. Innanzitutto c’è l’aspetto “luna di miele”: il governo non è stato ancora visto all’opera per cui l’illusione permane (anche Renzi, oggi odiatissimo, dopo un anno di governo riuscì a superare il 40% dei voti alle elezioni europee); c’è poi una particolare capacità dell’uso della comunicazione e dei nuovi mezzi di comunicazione (i social media): inondare i social di dichiarazioni, di affermazioni che non passano per il vaglio di nessuno, l’importante è che siano di effetto, che infiammino i supporter, che moltiplichino i like, così da dare l’impressione di una verità condivisa (ci sono anche dei veri esperti che selezionano per i leader le dichiarazioni da fare). Ma c’è qualcosa di ancora più importante che spiega il diffondersi del populismo nei diversi paesi occidentali: “Salvini sfrutta, in altre parole, l’angoscia dell’impoverimento e della perdita dei diritti degli italiani individuando in un fantomatico nemico esterno (l’immigrato) la sua causa prima. Egli alza la voce pretendendo di parlare – come accade anche per il suo collega Di Maio – in nome di tutto il popolo italiano. In questo sfrutta astutamente il carattere parziale della pulsione [la pulsione securitaria]. La pulsione, infatti, non si nutre di ideali, ma solamente di portare a soddisfazione la propria spinta”[1]. E questo è reso ancora più facile in questa fase di difficoltà della lotta della classe operaia, la sola capace di indicare una prospettiva positiva all’insieme dell’umanità.
Al di là delle chiacchiere populiste, delle dichiarazioni di voler difendere il “popolo”, l’impostazione classista, antiproletaria di questo governo è chiara:
Se il carattere di classe di questo governo è indubbio, quello che non si può sapere è quanto durerà. Infatti esso si basa su un vero e proprio matrimonio di interessi, tra forze unite solo dal desiderio di occupare il potere, mentre sono divise quasi su tutto quello che bisogna fare.
Se Salvini ha dovuto ingoiare il “Decreto Dignità” (poco gradito agli industriali), reclamando però la reintroduzione dei famigerati voucher, il M5S si è dovuto tenere la furia di Salvini contro i migranti (politica poco gradita a molti elettori grillini). Ora lo scontro si sposta sui contenuti della prossima legge di bilancio: dato che la coperta è corta, ognuno cerca di tirarla dalla propria parte: Salvini ritiene irrinunciabile la flat tax mentre per i 5S indispensabile è il reddito di cittadinanza. Altro punto di frizione è il contributo di solidarietà sulle pensioni “d’oro”: per i 5S deve essere definitivo e da applicare alle pensioni superiori ai 4000 euro, mentre la Lega ha dei dubbi e, soprattutto, la vorrebbe applicare alle pensioni superiori ai 5000 euro. I 5S vogliono una legge contro la corruzione (il disegno di legge “rivoluzionario” di Bonafede), che invece non piace alla Lega, che si propone di cambiarlo in parlamento. Le grandi opere: la Lega le considera indispensabili, il M5S aveva promesso in campagna elettorale di bloccarle tutte.
Si potrebbe continuare così a lungo perché i motivi di frizione sono ancora molti, ma la conclusione è che nessuno può dire quanto durerà questo governo, anzi, c’è chi pensa che Salvini, forte del grande aumento di consensi ottenuto con il suo attivismo di questi mesi, mollerà i 5S prima o dopo le prossime elezioni europee per andare a nuove elezioni politiche che spera di vincere con l’appoggio di Forza Italia e Fratelli d’Italia e diventare così lui il primo ministro, ruolo che già oggi usurpa di fatto a Conte. Questo gli consentirebbe di andare ancora più avanti nella sua politica xenofoba, anti-UE, a favore di professionisti e imprese.
Dovunque ci si volti c’è poco da scegliere: Renzi, Di Maio, Salvini e chiunque altro non possono che servire gli interessi del capitale, un sistema in decomposizione che può sopravvivere solo imponendo maggiore sfruttamento ai proletari, guerre dappertutto nel mondo, avvelenamento del pianeta.
No, non è seguendo le promesse dei Salvini e Di Maio di turno, né cambiando governo che i proletari potranno trovare la strada del proprio riscatto.
Helios, 20-09-2018
[1] Massimo Recalcati, psicanalista, su Repubblica del 5 settembre scorso.
Ci sono degli avvenimenti che, sgrossati di tutte le retoriche, le false lacrime, le frasi altisonanti propinate da politici, opinionisti e mass media, mostrano con chiarezza la vera essenza ipocrita e cinica della borghesia verso le sofferenze e le sorti degli essere umani; quanto poco valore ha, ed ha sempre avuto, per la classe dominante la vita dell’uomo se non come elemento indispensabile nell’ingranaggio produttivo del capitale. Attraverso l’attacco del Giappone a Pearl Harbor, il bombardamento di Dresda[1], l’attacco alle Torri Gemelle, le bombe di Stato in Italia, la storia ci dimostra che la borghesia di qualsiasi Stato e colore, di fronte ai propri interessi, non ha mai avuto alcuno scrupolo morale a far morire degli esseri umani. Così come i terremoti, le tempeste, i disastri ambientali che ogni anno mietono centinaia di vittime ci mostrano come la messa in sicurezza delle popolazioni non sia la sua preoccupazione prioritaria, nonostante la conoscenza scientifica e tecnologica di cui dispone che permetterebbe un’azione preventiva di salvaguardia di strutture e vite umane.
Il nostro sdegno per tutto questo non può che accrescersi di fronte agli avvenimenti di Genova e Catania dove, in maniera sfacciata, la sofferenza e la vita di esseri umani sono usati per la competizione e lo scontro tra le forze politiche all’interno del governo italiano e sul piano della politica internazionale per imporsi sulla scena.
Un numero significativo di parenti di vittime del Ponte Morandi hanno rifiutato i funerali di Stato dichiarando che i loro cari erano delle “vittime di Stato”, e molte altre persone lo pensano a ragione. A un mese dal crollo le notizie sulle indagini in corso dicono che già da anni (e più volte) sono stati presentati dagli enti competenti rapporti dove si evidenziava uno stato di non sicurezza del ponte Morandi che mostrava cenni di cedimento. Tanto è vero che già prima del 2014 c’era il progetto “Gronda”, una variante autostradale per diminuire il carico di transito di mezzi pesanti sul ponte. Nel 2016, l'ingegnere Antonio Brencich, professore associato di Costruzioni in cemento armato all'Università di Genova, aveva denunciato la criticità del ponte dovuta a problemi di corrosione legati alla tecnologia usata da Morandi ma solo adesso, a tragedia avvenuta, si indaga su eventuali falli nella costruzione del ponte.
Solo adesso “si scopre” che non solo il ponte Morandi aveva problemi, ma che in Italia si valuta che almeno un centinaio di ponti andrebbero revisionati se non ricostruiti perché la tecnologia usata negli anni ‘50-‘60 garantiva la sopravvivenza di queste strutture per non più di una cinquantina di anni.
Del resto, in un territorio ad alto rischio sismico e alluvionale, come quello italiano, o nella Florida, nelle Filippine, dove gli uragani si susseguono sempre più devastanti, quali sono le politiche di prevenzione e messa in sicurezza? In Italia, dato lo stato di degrado e assoluta insicurezza delle scuole, bisogna solo augurarsi che la terra tremi in un giorno festivo per evitare la morte di centinaia di bambini e ragazzi (come poteva succedere a Ischia lo scorso anno nella scuola di Casamicciola “restaurata” appena un anno prima).
I morti di Genova, così come quelli del ponte crollato sulla A14 a Camerano nel marzo dello scorso anno, quelli delle alluvioni del 2014 a Genova, Savona, Chiavari, nella zona di Orbetello e in quella di Treviso, l’alluvione di Livorno un anno fa, o quella in Sardegna nel 2013; i morti dei terremoti all’Aquila, in Umbria, in Irpinia; le migliaia di persone che in questi disastri hanno perso tutto (affetti, casa, lavoro) non sono le vittime di calamità naturali incontrollabili, né del progresso industriale, né di questo o quel governo di turno, questo o quell’ente o personaggio particolare. Certamente ci possono essere delle responsabilità precise e puntuali, ma la vera causa della loro morte e della loro sofferenza è il sistema capitalista che avendo come principio motore la legge del profitto non solo non riesce a prevenire le catastrofi, ma non riesce neanche a proteggere l’umanità dai loro effetti:
“Il capitalismo non è innocente neppure nelle catastrofi dette “naturali” […]. Che piova senza sosta (o non piova affatto) per intere settimane è certamente un fatto naturale; ma che ne segua un’inondazione (o una siccità) è un fatto sociale. Analogamente, le scosse sismiche delle Ande sfuggono all’uomo; ma il fatto che distruggano le città del Perù, mentre Macchu Picchu vi resiste da secoli, ha cause sociali […]. Non solo la civiltà borghese può essere causa diretta di queste catastrofi per la sua sete di profitto e per l’influenza predominante dell’affarismo sulla macchina amministrativa (si veda il ruolo del disboscamento nelle inondazioni o […] la costruzione di case in zone di valanghe e d’inondazioni), ma si rivela impotente ad organizzare una protezione efficace nella misura in cui la prevenzione non è un’attività redditizia”. (Prefazione a Drammi gialli e sinistri della moderna decadenza sociale, raccolta di scritti di A. Bordiga degli anni 1951-53 sui disastri nel capitalismo moderno, pag. 8-9. Edizioni Iskra).
Per questo risulta ancora più rivoltante la falsa solidarietà di tutti gli esponenti governativi e di tutti i partiti ai familiari delle 43 vittime di Genova, con i funerali di Stato, le bandiere a mezz’asta, i minuti di silenzio in parlamento, le loro visite nel quartiere del ponte Morandi per rassicurare la gente che “lo Stato è con voi”, “il vostro dolore è il nostro”.
Ma ancora più rivoltante è la “caccia al colpevole” scatenata da Salvini, Di Maio e il ministro dei Trasporti pentastellato Toninelli immediatamente dopo il crollo del ponte. Prima ancora di sapere i come e i perché del crollo, ecco trovati i carnefici: “I responsabili… hanno un nome e un cognome e sono Autostrade per l’Italia”, “Ritirare la concessione e far pagare multe fino a 150 milioni di euro. Autostrade non ha fatto la manutenzione”, “Incassano miliardi, versando in tasse pochi milioni e non fanno neanche la manutenzione … I vertici di Autostrade per l’Italia devono dimettersi prima di tutto”. Salvini in un post su facebook tuona: “Atlantia (Autostrade) riesce ancora, con faccia di bronzo incredibile e con morti ancora da riconoscere, a parlare di soldi e di affari, chiedendo altri milioni agli Italiani in caso di revoca della concessione da parte del Governo dopo la strage di Genova. Dall’alto dei loro portafogli pieni (e dei loro cuori vuoti) chiedessero scusa e ci dessero i nomi dei colpevoli del disastro, che devono pagare. Il resto non ci interessa”. Di Maio, dal canto suo, glissa opportunisticamente sul comizio di Grillo del 2014 al Circolo Massimo di Roma contro il governo Renzi che voleva sperperare 3-4 miliardi di euro degli italiani per la Gronda mentre il ponte Morandi di sicuro avrebbe retto per almeno altri 100 anni e incitava il pubblico gridando “Dobbiamo fermarli con l’esercito!”. All’epoca si urlava per accaparrarsi consensi sfruttando la rabbia e la sofferenza dopo l’alluvione di Genova, oggi si tace per lo stesso motivo sfruttando la nuova tragedia.
Se lo “scaricabarile” è proprio dell’intera classe borghese, la “caccia alle streghe”, il dare in pasto al popolo “il diavolo”, origine di tutti i mali e su cui sfogare tutto il proprio rancore e la propria rabbia, è un fattore distintivo del populismo e la politica della Lega e del M5S ne sono oggi le maggiori espressioni.[2]
Questa caccia alle streghe e l’utilizzo di essere umani per il proprio tornaconto sono stati ancora più chiari e osceni nella vicenda della nave “U. Diciotti” (pattugliatore della Guardia Costiera italiana). 177 persone sfuggite a condizioni disumane nelle loro terre, che hanno subito ricatti, violenze fisiche e morali, che hanno rischiato la vita alla ricerca di un rifugio più sicuro, vengono trattenute per giorni e giorni sulla nave in condizioni igienico-sanitarie pericolose, al solo fine di far prevalere le proprie mire politiche. E vengono messe all’indice come LA CAUSA dei problemi degli italiani, come IL NEMICO dal quale difendersi. Vengono scherniti chiamandoli “palestrati” e con affermazioni tipo: “…la storia degli 'scheletrini che scappano dalla guerra' è una farsa. …. Sono clandestini in fuga dalle leggi. Mentre è pura fantasia l'ipotesi che io li abbia sequestrati: gli unici sequestrati sono gli italiani, vittime dell'immigrazione clandestina”[3].
Una volta diventato vicepremier e ministro dell’Interno, Salvini non ha esitato ad usare questi 177 profughi, e prima ancora quelli della nave Aquarius, come testa d’ariete della propria politica antieuropeista e per accrescere il proprio credito tra gli elettori, presentandosi come quello che agisce, che non ha paura di scontrarsi con “i poteri forti” e che mantiene quello che promette: difendere gli italiani contro tutti (l’orda dei delinquenti clandestini e le potenze europee che vogliono dare ordini agli italiani). A questo scopo Salvini non ha esitato a zittire e insultare il Presidente della Camera e suo alleato di governo, Fico, che era per lo sbarco dei profughi; a sviluppare attriti al vertice EU dei Ministri degli interni a Vienna; ma soprattutto a infischiarsene delle stesse leggi nazionali e internazionali riguardanti il soccorso in mare (impedendo agli stessi marinai di una nave italiana di sbarcare sul suolo italiano). E, di fronte al fatto di essere indagato per sequestro di persona aggravato e abuso di ufficio, ha sfoderato tutta la sua arroganza di “eletto dal popolo” rispetto ai giudici non eletti da nessuno.
Non ha esitato neanche a falsificare la realtà. Trovandosi incastrato tra il rifiuto dell’UE di accettare i suoi ricatti (“se non vi prendete gli immigrati, noi non paghiamo la nostra quota all’UE”), le critiche dirette e indirette di buona parte della classe politica italiana, compreso il suo alleato Forza Italia, di Papa Francesco, e di buona parte dell’opinione pubblica internazionale e non potendo mantenere in eterno i restanti 140 profughi in ostaggio, Salvini ha cercato aiuto alla chiesa attraverso Don Buonaiuto[4] per trovare una soluzione. La CEI ne prende 100, l’Irlanda 20 (dopo la visita del Papa), l’Albania 20. In tal modo la stragrande maggioranza dei famigerati “clandestini” della Diciotti comunque sbarca in Italia, ma senza perderci la faccia completamente come ministro degli Interni.
Se Salvini è l’espressione più chiara di cosa è il populismo, il resto della classe politica non è da meno in quanto ad ipocrisia e cinismo. In questa storia tutti hanno cercato di sfruttare la situazione a proprio favore. Il M5S, ed in particolare il suo leader Di Maio, sono stati attenti a mantenere il profilo più basso possibile, evitando di esporsi (anche rispetto alla presa di posizione di Fico sullo sbarco), facendo qualche critica giusto quando proprio non se ne poteva fare a meno, come nel caso delle esternazioni di Salvini sulla magistratura che starebbe indagando perché “di sinistra”. Questo perché sanno bene che la parte debole della coalizione sono loro e non vogliono perdere il posto di comando raggiunto, ma al tempo stesso non possono neanche rinnegare tutta la parte di elettorato migrato dalla “sinistra” che di certo non si riconosce in Salvini.
Il PD da parte sua, in tutta questa storia, cerca di recuperare la sua immagine di partito di sinistra contrapponendosi a Salvini e parlando di “solidarietà”, “umanità”, “responsabilità morale nei confronti di chi scappa dalla miseria e dalla guerra”, evitando di ricordare che è stato proprio il governo Renzi a patteggiare con la Libia un piano per impedire che i profughi prendessero il largo verso l’Italia.
Se una parte della borghesia italiana e della borghesia dei paesi europei si contrappone alla politica di Salvini e cerca di arginarne gli effetti non è certo per spirito umanitario e solidale verso i profughi, ma perché questa politica costituisce un pericolo per le relazioni internazionali dell’Italia e alimenta le forze centrifughe già in atto che destabilizzano l’Unità europea[5].
La causa della crescita enorme dei profughi sono le guerre senza fine, la desertificazione, la distruzione economica e sociale di intere aree geografiche che tutti gli Stati, con i loro governi e le loro forze politiche, hanno contribuito a creare e alimentare per la salvaguardia dei propri interessi economici, strategici e politici in una crisi economica senza via d’uscita. La causa della mancanza di lavoro, della miseria, della precarietà e insicurezza di vita che aumenta nei paesi centrali del capitalismo hanno la stessa origine e gli stessi responsabili[6].
Se il crollo del ponte Morandi ha potuto costituire per molti un elemento di riflessione sulla volontà e capacità di chi governa la società di porre in primo piano la sicurezza della popolazione ed ha prodotto un sentimento di solidarietà verso i familiari delle vittime e le famiglie costrette ad abbandonare le loro case, l’effetto della vicenda Diciotti non va nella stessa direzione. Da un lato, come al momento dell’attacco al capo di Stato Mattarella durante la formazione del governo[7], tutta la campagna di Salvini contro i rifugiati e la contro-campagna di PD e dintorni ha provocato due schieramenti contrapposti tra i difensori della linea dura contro gli immigrati e i difensori dell’accoglienza, tra razzisti e anti razzisti, rispolverando anche il binomio fascismo e l’antifascismo. Dall’altro, il no allo sbarco e la voce grossa di Salvini contro l’UE ha reso più pregnante l’idea che “noi non siamo razzisti, ma se già per gli italiani c’è poco, se i nostri giovani devono andare all’estero per trovare lavoro, allora è meglio che non ci arrivino altre bocche da sfamare”. Queste due tendenze sono il pericolo più insidioso in questo momento per i proletari. La prima li divide portandoli su di un terreno che non è il loro. La classe lavoratrice non è razzista o anti razzista, perché un proletario, quale che sia il colore della sua pelle o il luogo dove è nato, quale che sia la sua collocazione immediata (occupato, disoccupato, profugo, immigrato o autoctono) è comunque un uomo che è costretto a vendere la sua forza lavoro per poter sopravvivere e non può disporre della propria vita. La seconda li divide nella falsa contrapposizione “mors tua, vita mea”, che gli impedisce di comprendere che la causa sociale della propria sofferenza è il capitalismo e che la possibilità di vivere degnamente, di avere un futuro per sé ed i propri figli dipende dalla possibilità che sia tutta l’umanità capace di liberarsi delle catene del capitalismo attraverso la lotta unita di tutti i proletari.
Eva, 19-09-2018
[1] Città tedesca piena di rifugiati distrutta con un feroce bombardamento da inglesi e americani nel febbraio ’45 quando la guerra in Europa stava nei fatti per finire.
[2] Sullo sviluppo del populismo in Italia vedi anche Elezioni in Italia. Il populismo: un problema per la borghesia, un ostacolo per il proletariato [369]
[3] https://www.ilgiornale.it/news/politica/diciotti-salvini-scheletrini-solo-dei-clandestini-che-1572895.html [370]
[4] Don Aldo Buonaiuto, direttore di In Terris, molto vicino al Vaticano.
[6] Vedi: la serie di 4 articoli Migranti e rifugiati: vittime del capitalismo (Parte I) [372]; Immigrazione: un dramma epocale di un sistema senza prospettive [373]; Migranti e rifugiati: la crudeltà e l'ipocrisia della classe dominante [374]
I media borghesi e i commentatori politici internazionali concordano sul fatto che la formazione del governo populista tra M5S e Lega in Italia potrebbe portare alla più grave crisi dell’Unione europea dopo la Brexit nel Regno Unito, il referendum secessionista in Catalogna e la crisi in Grecia. Dopo la Polonia, l’Ungheria e l’Austria (in parte), il governo di un membro fondatore dell’EU e di uno dei cinque paesi più importanti dell’Europa occidentale è nelle mani dei populisti, cioè di forze caratterizzate dall’irresponsabilità politica rispetto alle esigenze globali della borghesia sul piano nazionale ed europeo. Questa situazione in Italia può inoltre innescare un effetto domino tendente a rafforzare ulteriormente le forze centrifughe già in atto nell’UE, mettendo a rischio l’esistenza stessa di un’Unione Europea ancora capace di costituire una difesa, sul piano economico, rispetto alle altre potenze (in particolare USA, Cina, Russia).
Tre sono le questioni attorno alle quali si focalizzano gli allarmi per l’Unione Europea: l’immigrazione, la politica estera e l’economia.
Sul fronte dell’immigrazione, il problema di fondo è che questa questione viene utilizzata dalle forze populiste come perno per la loro affermazione politica sul piano interno ed internazionale[1]. Il no agli sbarchi in Italia e il battere i pugni di Salvini contro l’Europa su questa questione incoraggiano e danno vigore a forze analoghe in altri paesi. Le rassicurazioni da parte della cancelliera Merkel che l’Italia può aspettarsi tutto il sostegno per trovare una soluzione “europea” a difesa delle frontiere contro l’immigrazione e al tempo stesso il rifiuto di accettare ogni atteggiamento provocatorio e ricattatorio come nel caso della nave Diciotti, non servono solo a porre dei limiti a Salvini, ma anche a contenere in Ungheria un Orban, in Germania il ministro dell'Interno Horst Seehofer, della CSU bavarese, e soprattutto l’Afd, Alternativa per la Germania, partito anti-UE e antimmigrazione.
Sul piano della politica estera un governo “euroscettico”, che manifesta apertamente il suo risentimento in particolare nei confronti della Germania, entra in carica in Italia in un momento in cui gli altri principali leader europei (compresa Theresa May!) ripetono il mantra dell’unità europea di fronte alla Russia di Putin e all’America di Trump. Nel G7 di Charlevoix, in Canada, il capo del governo italiano, Conte, appoggia la dichiarazione dei rappresentanti europei che hanno respinto la proposta di Trump di “invitare” la Russia a rientrare nei suoi ranghi - ma omette di dire che aveva appena twittato il contrario ai suoi supporter, mentre Salvini, che primeggia sulla scena governativa italiana, non nasconde le sue “simpatie” per Trump e Putin.
Sul piano economico, Di Maio e Salvini hanno dichiarato di non voler subire le imposizioni in materia di politica economica che la Germania ha dettato all’Eurozona e voler tornare a una sorta di politica neo-keynesiana di aumento della spesa pubblica (e del debito) per stimolare l’economia nazionale. Per molti economisti, una tale politica in sé potrebbe anche non essere del tutto errata, ma il problema di fondo è che l’Italia ha uno dei debiti più alti e uno dei più bassi tassi di crescita nell'Eurozona. Una politica economica irresponsabile basata solo sulla ricerca del consenso elettorale[2], potrebbe portare a un crollo dell’economia italiana che avrebbe delle ripercussioni sul resto dell’Europa ben più pesanti di quelle della crisi in Grecia, non solo per l’economia di singoli paesi, ma anche per la stabilità dell’intera zona-euro. E la causa principale di ciò non sarebbe tanto lo stato attuale dell’economia italiana (secondo gli esperti finanziari il livello del debito è ancora gestibile e l’apparato produttivo non è uno dei peggiori d’Europa), ma la sua crisi politica. La classe dominante non è più in grado di assicurare alla guida del governo delle forze politiche capaci di perseguire una politica economica ed estera responsabile da un punto di vista capitalista.
Per questo se, da una parte, i vertici dell’UE mostrano una certa accondiscendenza su alcuni punti programmatici del governo M5S-Lega, come sul reddito di cittadinanza (che poi corrisponde a quei sussidi che in altri paesi, e già da tempo, esistono), dall’altra mantengono una posizione ferma sulle questioni centrali - come sul debito pubblico - lanciano allarmi sulle scelte economiche e seguono molto da vicino le vicende della politica italiana, come durante tutta l’epopea delle ultime elezioni e della formazione di questo governo[3].
Nel capitalismo decadente, l’Italia è stata ripetutamente alla punta nel panorama politico-sociale: il fascismo, la mafia, l’euro-comunismo, Berlusconi. L’Italia è una delle culle della politica populista contemporanea. Berlusconi è stato il modello per Trump. Oggi, mentre il Berlusconi americano sta creando il caos a Washington e nel mondo intero, l’Italia ha messo su una seconda generazione di populisti che, come Orban a Budapest e Kacynski a Varsavia, si presentano come difensori del welfare state, combinando posizioni di destra e di sinistra della borghesia e che appaiono più “realisti” della sinistra perché promettono di difendere alcuni degli oppressi a spese di altri. Lo slogan di Trump è: l’America prima di tutto. Lo slogan di Salvini non è “l'Italia prima di tutto” ma “gli Italiani prima di tutto”.
B/E, 21-09-2018
Ogni giorno le prove della catastrofe ambientale diventano sempre più allarmanti: scioglimento dei ghiacciai, incendi e inondazioni legati al riscaldamento globale, massiccia estinzione di specie, aria irrespirabile nelle città, accumulo di rifiuti plastici negli oceani. E’ quasi impossibile tenere il passo con le notizie dei media e della stampa. E praticamente ogni articolo che si legge, ogni discorso di scienziati e autori celebri, finisce per chiedere ai governi del mondo di impegnarsi di più per proteggere il pianeta, e ai singoli "cittadini" di usare i loro voti in modo più responsabile. In breve: tocca allo Stato borghese salvare il pianeta!
Le recenti marce per il clima e le numerose mobilitazioni dei giovani non si sono discostate da questa regola: se l'indignazione dei giovani è palpabile, è palpabile anche la totale incapacità di andare all’origine del problema.
E’ il capitalismo che distrugge il pianeta
Già 170 anni fa, nel suo libro La condizione della classe operaia in Inghilterra, Engels sottolineava che il capitalismo stava minando la salute della classe sfruttata attraverso l'avvelenamento dell'aria, dell'acqua e del cibo, e facendo vivere i lavoratori in baraccopoli malsane.
Questo nuovo sistema industriale mentre da un lato sviluppava le forze produttive dall’altro stava generalizzando l'inquinamento: “In questi bacini industriali, i fumi di carbone diventano una delle principali fonti di inquinamento. (...) Molti viaggiatori, investigatori sociali e romanzieri descrivono l'entità dell'inquinamento causato dai camini delle fabbriche. Tra questi, nel suo famoso romanzo "Hard Times", Charles Dickens evoca nel 1854 il fuligginoso cielo di Coketown, una città fantasmagorica di Manchester, dove si vedono solo ‘i mostruosi serpenti di fumo’ che si trovano sopra la città”[1].
Il principale responsabile di questo inquinamento, che non risale a ieri, è un sistema sociale che esiste solo per accumulare capitale senza preoccuparsi delle conseguenze sull'ambiente e sulle persone: il capitalismo.
L'episodio dello smog di Londra nel 1952[2] ha mostrato fin dove potrebbe arrivare l'inquinamento atmosferico causato dall'industria e dal riscaldamento domestico, ma oggi tutte le principali città del mondo, con in prima linea Nuova Delhi e Pechino, sono minacciate in permanenza da questi fenomeni[3].
Uno dei settori oggi più inquinanti è quello dei trasporti marittimi, i cui bassi costi sono una componente vitale dell'intera economia mondiale. E questo, insieme all'incessante distruzione delle foreste e dei fondali marini, alla coltura intensiva, ai metodi per la produzione massiccia di carne, così come a tutti i disastri industriali, rispondono alla stessa logica del profitto e della produzione a basso costo. In ogni ramo della sua attività, il capitalismo inquina e distrugge senza tener conto delle conseguenze immediate o future per il pianeta e le persone.
L'inquinamento atmosferico sta oggi raggiungendo livelli apocalittici. Qualunque cosa possano dire gli "scettici climatici" (con il generoso sostegno delle industrie petrolifere e chimiche), numerose misurazioni scientifiche del ritiro dei ghiacciai e della temperatura degli oceani non lasciano dubbi sull’aumento inesorabile della temperatura media della Terra che sta già provocando una serie di fenomeni climatici imprevedibili con un impatto drammatico sulle popolazioni di alcune regioni del mondo. Secondo uno studio della Banca Mondiale, gli effetti aggravanti del cambiamento climatico potrebbero spingere oltre 140 milioni di persone a migrare all'interno dei loro paesi entro il 2050.
In altre parole: l'industria capitalista minaccia la civiltà con un graduale ma ineluttabile scivolamento nel caos. Questa realtà sinistra sta suscitando un'inquietudine diffusa e ben comprensibile. La domanda "che tipo di mondo stiamo lasciando ai nostri figli?" si pone ovunque ed è abbastanza logico che gli adolescenti e i giovani siano i primi a preoccuparsi di dover crescere in un ambiente in rapido degrado.
In questa situazione, le "marce climatiche", gli scioperi e le altre proteste organizzate con grande copertura mediatica rispondono a questa crescente inquietudine. Quando la giovane svedese, Greta Thunberg, ha lasciato la sua classe per manifestare fuori al parlamento di Stoccolma, ha espresso queste profonde preoccupazioni per il futuro. Ma subito dopo è stata invitata a parlare alle Nazioni Unite, alla conferenza mondiale sul clima a Katowice e al parlamento britannico, con tanto di foto con politici come Angela Merkel e Jeremy Corbyn. Greta Thunberg è stata promossa a simbolo delle preoccupazioni della sua generazione. Come mai?
Un tentativo di divisione tra generazioni
Dietro slogan come "Ci stanno rubando il nostro futuro" e "se non vi comporterete da adulti, lo faremo noi" c'è l'idea che se il mondo si sta surriscaldando è perché le "vecchie generazioni" non hanno fatto nulla per impedirlo, mentre le giovani generazioni agiscono in modo più responsabile perché “agiscono” per il clima. In realtà, il disastro ambientale non è una responsabilità particolare della generazione precedente, così come non può essere ridotto all'irresponsabile comportamento individuale o alla mancanza di determinazione delle persone che sono state elette per governare. E' un prodotto del sistema capitalista e delle sue contraddizioni interne, un sistema che può sopravvivere solo attraverso la concorrenza brutale e la spietata caccia al profitto. Sia le generazioni precedenti che quelle più recenti sono soggette alle leggi implacabili di un modo di produzione che sta scivolando nella barbarie.
Il puntare il dito sulla vecchia generazione ha lo scopo di bloccare ogni solidarietà tra le generazioni e ancor più di nascondere cosa è veramente responsabile della nostra attuale situazione. Mettendo gli anziani e i giovani l'uno contro l'altro, la propaganda capitalista cerca ancora una volta di dividere e dominare sulla società. Allo stesso tempo, indicare la "vecchia" generazione come responsabile del disastro attuale occulta i meccanismi del sistema e la necessità di superarlo. La soluzione non è mettere persone nuove e più giovani a gestire l'attuale sistema sociale perché loro stesse sarebbero prigioniere delle stesse catene.
Naturalmente, tutti i “supporter” delle marce sul clima e delle proteste e gli stessi organizzatori hanno lanciato appelli a che i “vecchi” si unissero alle proteste dei “giovani”, ma anche qui solo per chiedere allo Stato capitalista di fare del suo meglio per il pianeta. Ad esempio, i firmatari di un appello della rete di Azione per il clima in Francia “chiedono che i responsabili del cambiamento climatico prendano le misure necessarie per limitare il riscaldamento globale all'1,5%, garantendo anche la giustizia sociale”.
Quando Greta Thunberg manifestava fuori al parlamento svedese, chiedeva che gli eletti alle cariche del potere nello Stato capitalista facessero il loro lavoro pensando al futuro dei giovani. E i politici si sono appropriati della sua iniziativa per lanciare appelli per il rinnovamento della democrazia e per sostenere “nuovi modelli economici”, come il New Green Deal negli Stati Uniti, da attuare da un'amministrazione democratica più attenta e di sinistra. Tutto questo per far dimenticare che gli Stati sono i difensori del loro capitale nazionale e non possono permettersi di rinunciare alla folle corsa al profitto. Questa è una manipolazione delle legittime preoccupazioni dei giovani, uno strumento per trascinarli nel vicolo cieco delle elezioni. In un momento in cui i giovani sono sempre più delusi dalle istituzioni della democrazia borghese, si capisce molto bene perché la classe dirigente cerca di cogliere ogni opportunità per invertire questa tendenza.
Allo stesso tempo, Greta Thunberg e il gruppo Extinction Rebellion chiede una "resistenza di massa", un'azione diretta per le strade, uno sciopero generale internazionale di giovani e adulti il 20 settembre 2019, ma questo non cambia l’impostazione di fondo: fare pressione sullo Stato affinché passi da lupo a pecora. Restare in questo vicolo cieco non potrà contribuire alla demoralizzazione finale di molte migliaia di persone che vorrebbero davvero che le cose cambiassero
I giovani sono un bersaglio particolare di queste campagne ideologiche, non solo perché esprimono preoccupazioni molto reali sul loro futuro, ma anche perché per la borghesia è fondamentale evitare che i giovani proletari si mobilitino su un terreno di classe, come hanno fatto, ad esempio, nella lotta degli studenti francesi contro l’attacco del governo alle loro prospettive occupazionali (CPE) nel 2006, o nel movimento degli "Indignados" spagnoli nel 2011. Combattere genericamente come "giovani" o semplicemente come "persone" serve a mettere a tacere la realtà dell’esistenza di una divisione in classi antagoniste in questa società e la necessità per la classe sfruttata di difendere i propri interessi materiali contro gli attacchi del regime capitalista.
L’ideologia “Verde” al servizio del capitalismo
Quando la stessa borghesia inizia a preoccuparsi della questione ambientale o del riscaldamento globale, si può essere sicuri che la sua preoccupazione essenziale è come mantenere lo sfruttamento e fare profitti, non la salvaguardia dell'ambiente. Vediamo come la borghesia sta già traendo profitto dalla “moda” del cibo biologico o vegano, che si presenta come un mezzo per preservare l'ambiente: i prezzi salgono nel momento in cui si acquista un prodotto biologico, e questo aumenta il divario tra i ricchi che possono permettersi di mangiare in modo più sano, e i poveri che sono condannati a mangiare cibo meno costoso e meno sano - e che sono anche in colpa per averlo comprato.
Ancora peggio, la borghesia dipinge di verde la sua strategia industriale per giustificare gli attacchi contro la classe operaia. Dati gli alti tassi di inquinamento derivanti dall'uso di veicoli a benzina e diesel, la classe dominante parla sempre più spesso di sostituirli con veicoli elettrici "non inquinanti", ma questo modo di presentare le cose è una nuova truffa. Il motivo dietro lo scandalo del "dieselgate" non è, e non è mai stato, il destino dell'umanità. Al contrario, il guadagno per i costruttori potrebbe essere molto interessante. Secondo alcune stime in Germania si potrebbe ridurre fino al 16% la forza lavoro di questo settore industriale. E ci sono ancora gravi problemi ambientali legati alla produzione e allo smaltimento delle batterie al litio. Ma il mercato delle automobili deve continuare ad espandersi nel campo di battaglia della concorrenza, altrimenti i profitti si esauriranno!
Peggio ancora, in nome delle esigenze ecologiche, aumenteranno le "tasse verdi" di ogni tipo, e molte di esse colpiranno direttamente il tenore di vita della classe operaia, come abbiamo visto in Francia con le misure imposte da Macron che inizialmente hanno provocato il movimento dei Gilet Gialli. Lo stesso vale per tutti i discorsi sulla necessità di sacrifici in nome dell'ambiente, di consumare meno per limitare gli effetti dell'inquinamento. Questo ci imprigiona nella sterile sfera della colpa individuale e delle soluzioni individuali, pur fornendo un'altra giustificazione per le misure di austerità che sono comunque richieste dalla crisi dell'economia capitalista.
È così che funziona il capitalismo e il voler farlo funzionare in modo diverso è una pura illusione. L'unico modo per agire efficacemente ed anche una necessità vitale, è distruggerlo per gettare le basi per una nuova sistema società in cui il lavoro nella sociale, a livello mondiale, sia orientato ai bisogni dell'umanità senza entrare in contraddizione con la natura e il nostro ambiente. La vera risposta per il futuro dell'umanità sta nella classe operaia internazionale. Nella sua capacità di recuperare la propria identità di classe sfruttata e veramente antagonista al capitale e al suo Stato attraverso la lotta in difesa delle proprie condizioni di vita prima che il capitalismo ci schiacci tutti sotto le sue ruote.
Adattato da Révolution Internationale 476.
Le elezioni per il rinnovo del parlamento europeo sono state precedute da una forte campagna che chiamava alla mobilitazione dei cittadini per la difesa dell’Unione, messa in pericolo dall’avanzare delle forze populiste. In effetti, come abbiamo già analizzato a proposito della formazione del governo Conte in Italia[1], lo sviluppo a livello internazionale di forze populiste in questi ultimi anni costituisce un problema per la stessa borghesia. Per le loro politiche autarchiche, la ricerca frenetica del consenso a scapito degli interessi più generali del capitale nazionale e delle politiche comunitarie, per l’ideologia xenofoba che tende a scardinare l’indispensabile mistificazione della democrazia umanitaria, queste forze borghesi tendono a rafforzare le già forti tendenze centrifughe e disgreganti presenti nella società attuale.
I risultati elettorali non hanno rovesciato i rapporti di forza a livello di parlamento europeo, ma hanno confermato la dinamica di avanzamento delle forze populiste, come in Gran Bretagna, Francia e Italia. In quest’ultimo paese, in particolare, i rapporti di forza tra i due partiti di governo si sono addirittura rovesciati: il M5S passa dal 32% delle ultime elezioni al 17%, la Lega dal 17% al 34%). Come spiegare questa inversione dopo poco più di un anno dalle elezioni politiche? Il “popolo” italiano si sta forse “fascistizzando”, aderendo a ideologie di destra? Come valutare la mini ripresa del PD che, dato ormai per morto, passa dal 18 al 22%? E l’ulteriore fallimento di Forza Italia che scende al 8.8%?
Al di là di aspetti particolari che possono in parte spiegare l’esito delle votazioni in questo o quel paese europeo, per comprendere i risultati di queste elezioni in Italia, così come negli altri paesi, è necessario partire dalle dinamiche più generali interne alla classe dominante, anche perché, ed è quello che più ci interessa da un punto di vista di classe, queste dinamiche hanno una ricaduta nefasta sul proletariato italiano e europeo tutto.
Difficoltà della borghesia a livello europeo…
Se si esaminano i risultati nei principali paesi europei, si evince ancora una volta una notevole perdita di capacità della borghesia a mantenere il controllo del suo apparato politico. I partiti “storici”, di destra e di sinistra, sui quali un tempo questa poteva contare per il gioco dell’alternanza democratica usata a seconda delle necessità del momento, sono oggi fortemente indeboliti.
In Germania, anche se la coalizione CDU/CDS resta in testa con una percentuale del 28,9%, il Partito socialdemocratico scende al 15,8% ed a Brema, per la prima volta da 75 anni, perde la maggioranza. Il partito euroscettico AfD avanza un poco, mentre i Verdi balzano al 20%, il punteggio più alto in Europa.
In Francia, Macron è votato da meno di un quarto dell’elettorato, posizionandosi al secondo posto dopo Le Pen, il che mostra la debolezza della borghesia francese a mantenere la sua “carta vincente” trovata appena due anni fa contro l’avanzata del populismo. E Macron presenta questo risultato come una vittoria! Evidentemente temevano di peggio dopo la difficile gestione del movimento dei Gilet Gialli[2]. Anche qui i Verdi guadagnano il 13% dei consensi attestandosi al terzo posto. I partiti “classici” di sinistra e di destra praticamente non hanno alcun peso.
In Gran Bretagna il neo partito Brexit di Farage stravince. Un disastro per la borghesia britannica che, a tre anni dal referendum (che era solo consultivo) ancora non sa come venire a capo di quello che la sua componente più responsabile considera un errore madornale. I due partiti di governo crollano: i laburisti calano al 14%, i conservatori all’8,7% (alle politiche del 2017, 40% e 42% rispettivamente). Anche qui avanzano gli ecologisti superando l’11%.
In Spagna le cose sembrano non seguire la dinamica generale: il PSOE ed i Popolari recuperano rispetto alle scorse elezioni politiche, mentre Podemos, fino a poco fa presentato come “il nuovo che avanza” crolla al 10%.
Questi risultati delineano degli importanti aspetti generali.
- Innanzitutto si conferma una forte volatilità del voto. In generale, la metà dell’elettorato che ancora va a votare[3], sceglie a chi dare il voto non più sulla base di una vera adesione e fiducia in quel partito e al suo progetto politico, ma più sulla base delle promesse che nell’immediato sembrano rispondere direttamente ai propri problemi economici o di “garanzie sociali” (tipo reddito di cittadinanza o legge sulla legittima difesa) o come protesta per promesse non mantenute e incapacità di risolvere i problemi concreti della vita delle persone (vedi crollo dei socialdemocratici in Germania, dei Laburisti e Conservatori in Inghilterra, del M5S in Italia).
- In secondo luogo, queste elezioni confermano un generale indebolimento dei partiti storici della borghesia che hanno perso credibilità per tutti gli attacchi economici di cui sono stati protagonisti quando erano al governo e che hanno colpito in primo luogo i proletari, ma che hanno portato duri colpi anche ad ampi settori del ceto medio. Questo è un problema per la borghesia, non solo rispetto alla capacità di mistificazione giocata dai partiti di sinistra nei confronti del proletariato, ma anche perché i partiti storici, in decenni di alternanza al governo, avevano maturato un’esperienza politica nel gestire il rapporto economico/politico con le altre nazioni ma soprattutto avevano espresso una fedeltà alla causa della borghesia come classe nella gestione del capitale nazionale che forze, come il M5S in Italia o Podemos in Spagna, hanno ampiamente dimostrato di non avere. L’Unione Europea non è nata per “abbattere le frontiere” e “unire i popoli” di questa parte di mondo o perché non c’è concorrenza tra gli stati aderenti, ma è stata creata proprio da quella borghesia più lungimirante e con una visione più ampia, per meglio reggere la guerra di mercato in questa zona e costituire una difesa per i singoli Stati nazionali, una maggiore forza e difesa nella concorrenza con gli USA e le altre potenze mondiali.
- In questo quadro un elemento nuovo che sembra delinearsi è la decisa avanzata dei Verdi. Questa forte crescita, soprattutto in Germania e Francia, sembra essere un tentativo delle frazioni più lucide e lungimiranti della borghesia di trovare una risposta alla crescita del populismo di destra. L’uso che la borghesia e i media hanno fatto del movimento Fridays for future e la popolarità data a Greta Thunberg richiedono una riflessione[4]. Greta ha parlato alla Conferenza delle Nazioni Unite sul clima, al World Economic Forum di Davos, al FMI, al parlamento europeo, è stata ricevuta da Macron, e dal Papa, … Tutta la borghesia internazionale ha sostenuto la sua protesta. Perché? La borghesia ha capito che Greta e la mobilitazione delle giovani generazioni, giustamente preoccupate per la questione climatica, poteva diventare un’arma importante da usare sia contro i populisti di destra che contro la classe operaia e i suoi giovani.
Contro le forze populiste perché, uno degli argomenti più deboli di questi è che non c’è alcun cambiamento climatico, o quanto meno questo non ha nulla a che fare con il sistema di produzione o comunque è un problema secondario rispetto al dilagare della delinquenza a causa degli immigrati.
Contro i proletari perché, ponendo il cambiamento climatico come IL problema centrale e urgente dell'umanità oggi, come la principale “contraddizione del capitalismo”, la borghesia vuole convincere in particolare le nuove generazioni che le altre questioni sociali, che la guerra e la barbarie, la disoccupazione e la precarietà di chi vive al limite della sopravvivenza, la mancanza di prospettiva, tutto questo è diventato secondario. Il cambiamento climatico, che è certamente un problema fondamentale, e l’idea che “è già troppo tardi”, diventano un modo per far sparire la divisione in classi, far sentire i proletari come parte di una popolazione indifesa ma al tempo stesso colpevole di fronte alle generazioni future e crea una falsa divisione tra “ecologisti” - per lo più per l’accoglienza dei profughi - e “populisti” contro gli immigrati, tra buoni e cattivi, tra democratici e fascistoidi.
Questo utilizzo sembra aver dato i suoi frutti in particolare in Germania dove se su internet si chiede di sciogliere il partito della Merkel, la CDU, perché non ha fatto niente per l’ambiente, i ragazzi che manifestavano per l’ambiente hanno chiamato i giovani a votare alle elezioni europee dicendo “Se non siete abbastanza grandi, spingete i vostri genitori e nonni a votare”. In altre parole, punire chi in quel momento si ritiene responsabile dell’inerzia di fronte alla distruzione del pianeta, ma al tempo stesso sostenere l’apparato politico e la mistificazione elettorale proprio di questi stessi responsabili.
Quanto la carta dei Verdi riuscirà a svilupparsi e quanto durerà è difficile dirlo, ma questa falsa polarizzazione tra le forze ecologiste e quelle populiste, che sono entrambe parte integrante dell’apparato della classe che causa tutti i disastri climatici, sociali, politici e umani, resta una trappola molto pericolosa per il proletariato e per le sue nuove generazioni.
… e in Italia
A parte l’aspetto dell’avanzata dei Verdi che in Italia non sembrano al momento avere avuto un’eco particolare, la situazione in Italia s’inscrive appieno in queste dinamiche più generali.
L’anno di vita del governo Conte conferma tutte le sue difficoltà a gestire la situazione italiana, con importanti ripercussioni anche a livello europeo. Le divisioni nella maggioranza di governo sono all’ordine del giorno, con Lega e M5S che giocano ognuno in proprio per far passare le promesse fatte ai propri elettori. Questo governo si regge essenzialmente sulla base del continuo patteggiamento tra M5S e Lega: chiusura dei porti anti immigrati contro reddito di cittadinanza, Flat tax contro salario minimo, intercalato da scontri che Conte è costretto a risolvere solo con la minaccia delle proprie dimissioni. Di fronte alla stagnazione economica, alla minaccia di chiusura di grosse aziende (ILVA, Alitalia, Almaviva, Whirpool…), e di tante altre più piccole che non fanno più notizia, il governo mostra una sconcertante inconsistenza a livello economico, in particolare sulle misure da adottare per non sforare il debito pubblico e impedire l’aumento dell’IVA, mentre rispetto all’UE ci si barcamena tra i “pugni sul tavolo sui migranti” e “non è l’Europa che decide per gli italiani” di Salvini da una parte e i tentativi del ministro Tria e del presidente del Consiglio Conte di venire a patti con la commissione europea per scongiurare la procedura di infrazione dell’UE e le relative sanzioni, senza però retrocedere completamente su reddito di cittadinanza e flat tax per non mettere in difficoltà i due vicepresidenti del Consiglio dei ministri.
A loro volta, i partiti dell’opposizione, PD e Forza Italia, non sanno fare altro che incolpare la maggioranza d’incapacità e litigiosità, di portare gli italiani nel baratro, e solfe simili, ma in quanto a programmi alternativi concreti mostrano il vuoto pneumatico. E tutti, maggioranza e minoranza, continuano a blaterare sulla priorità di piani d’investimento per rilanciare l’economia, di difesa dei cittadini, di dare una prospettiva di lavoro ai giovani.
Questo quadro desolante ci permette di capire l’esito delle votazioni in Italia per le europee.
Di Maio e i suoi ministri, che dovevano essere il “nuovo che avanza”, hanno mostrato la loro incompetenza e debolezza politica sia nella gestione dei ministeri di loro competenza che nel rapporto di forza con la Lega. Per l’elettorato penta-stellato, che aveva un’importante componente democratica e di “sinistra”, Di Maio appare come il porta borsa del vero leader di governo, il Salvini della destra più razzista e fascistoide. Inoltre, nella spartizione degli incarichi di governo, al M5S sono taccati i ministeri più difficili da gestire: quello dello Sviluppo Economico e del Lavoro, dell’Infrastrutture e della Sanità. Difficili perché direttamente legati all’economia e ai problemi avvertiti sulla pelle dai cittadini quotidianamente, per cui le misure prese o le mancate promesse hanno un impatto immediato sui lavoratori. Il problema di Di Maio è che le sue promesse hanno un costo che non è sostenibile da parte dello Stato, per cui mentre si dà una piccola cosa da una parte, si taglia dall’altra. La possibilità di andare prima in pensione per qualcuno con la “quota cento”, o di avere qualche briciola di reddito di cittadinanza non riesce a compensare il peggioramento della condizione della stragrande maggioranza delle persone, che si esprime attraverso i licenziamenti, il blocco delle pensioni, la chiusura d’interi reparti negli ospedali, il blocco delle opere pubbliche. In particolare il reddito di cittadinanza, ben lungi dall’essere la ricetta sbandierata da Di Maio per “eliminare la miseria” e “ridare dignità alle persone” e sul quale una larga fetta di disoccupati, precari e soprattutto giovani avevano posto delle speranze, si è dimostrato un bluff sia per le numerose restrizioni inserite che per la mancanza di copertura finanziaria. Intanto sul fronte dell’impiego si moltiplicano le minacce di chiusura di stabilimenti e le vertenze “storiche” tipo Ilva di Taranto, Alitalia e altre non vedono una via d’uscita.
Al contrario, nella competizione tra le due forze “alleate”, la Lega esce vincente. A differenza del M5S, la Lega è un partito populista con un’esperienza politica più solida, un’esperienza di partecipazione al governo e una macchina di propaganda molto rodata ed efficiente. Salvini si presenta come un leader che mantiene quello che dice, anche a costo di rischiare personalmente (come nel caso della Nave Diciotti: “mi indaghino pure, io difendo gli italiani”). Peraltro la chiusura dei porti italiani contro gli immigrati, la nuova legge sulla legittima difesa, corrispondono a misure concrete rispondenti a quanto promesso da Salvini sul piano della sicurezza e allo slogan “gli italiani prima di tutto”. Naturalmente Salvini ha potuto farlo perché tutto questo è a costo zero per l’economia italiana. Anche se, com’è tristemente noto, tutto questo non è privo di conseguenze in un prossimo futuro per l’economia italiana e per le tasche di ognuno di noi, Infatti, rispetto allo sforamento del debito pubblico, rispetto alle dichiarazioni altisonanti di Salvini contro la Commissione UE e le sue “letterine” di messa in guardia, "Sforare il 3%? Non solo si può ma si deve", finanche Di Maio reagisce: "Basta sparate pesano sullo spread” e un presidente fantoccio come Conte deve darsi da fare a Bruxelles per evitare la procedura di infrazione.
Per chiudere sul PD possiamo chiederci se il recupero di 4 punti percentuali possa essere attribuito a un recupero di credibilità. Noi non lo crediamo. Nonostante i mea culpa dopo il tracollo dello scorso anno e il cambio della guardia Renzi/Martina/Zingaretti, il PD ha usufruito soprattutto della campagna “democratica” e “europeista” della borghesia centrata sul pericolo populista in Europa e delle forze più “retrograde”, “antidemocratiche” e “disgreganti” che, come abbiamo detto, costituiscono un problema per la stessa borghesia. Questo in Italia si è tradotto per una parte dell’elettorato anti populista nell’idea che “bisogna andare a votare per fermare la Lega” e, di fronte alla disillusione verso il M5S, il meno peggio è stato il PD.
Populismo/anti populismo: una trappola per il proletariato
Le elezioni, di qualunque genere siano, nazionali, europee, politiche o amministrative, non sono il terreno del proletariato, ma dove la mistificazione democratica gioca maggiormente il suo ruolo di ingabbiamento dietro la borghesia nazionale. Non è questo il terreno dove il proletariato può difendere i propri interessi di classe sfruttata, né ritrovare la propria identità di forza antagonista alla barbarie di questo sistema. Non è quindi il risultato delle elezioni europee a indicare le dinamiche che si muovono nella classe o ad esprimere l’adesione o meno dei proletari all’ideologia della borghesia ed ai suoi partiti. Naturalmente le illusioni democratiche e l’idea che bisogna delegare questo o quel partito per ottenere un miglioramento della propria situazione sono ancora forti. Ma quello che ci sembra importante sottolineare è l’insidia nascosta in tutto il battage che ha preceduto e seguito queste elezioni, ovvero che ci sia un obiettivo primordiale per cui combattere, la lotta contro il populismo come stadio propedeutico a qualunque altra azione, proponendo così una falsa alternativa populismo/anti populismo. Ma tutti questi partiti, indistintamente, sono forze del dominio della borghesia. La realtà è che se noi oggi abbiamo a che fare con queste forze irresponsabili e sprezzanti delle più elementari regole di convivenza è perché ieri tutti gli altri partiti che sono oggi in affanno hanno sistematicamente tradito le aspettative della popolazione. Cadere in questa trappola porta alla divisione all’interno del proletariato tra chi vota Lega e chi M5S, chi vota PD e chi Forza Italia, facendo dimenticare che la reale divisione è tra chi detiene i mezzi di produzione e chi invece per sopravvivere è costretto a vendere la propria forza lavoro, tra chi ha tutto l’interesse a mantenere questo sistema di sfruttamento e chi invece ha tutto l’interesse a costruire una società diversa. Facendo dimenticare che i profughi della Diciotti di ieri e della Sea Watch di oggi subiscono lo stesso disprezzo per la vita umana e vengono usati da tutte le forze borghesi per i loro scontri di potere, allo stesso modo dei proletari che muoiono nei cantieri, che vengono licenziati o sono costretti a lavorare per un salario da fame. I peggiori nemici, da questo punto di vista, non sono quelli che come Salvini difendono apertamente questo stato di cose, ma quelli che tendono a mascherare questa divisione sociale, facendo credere che con un voto si possa cambiare qualcosa. Viceversa, la sola possibilità di cambiamento sta nell’azione diretta dei proletari che riconoscendosi come classe antagonista si muove a livello internazionale.
Eva, 30-6-2019
[1] Vedi Italia: il populismo al potere. Un governo antiproletario che è un problema per la borghesia [376] e Il populismo al governo in Italia, un fattore d’instabilità per l’Unione Europea [371] su Rivoluzione Internazionale n°182 [378].
[3] Seppur in crescita in alcuni paesi, come Francia o Germania, la media percentuale dei votanti resta del circa 50%, con una diminuzione significativa in Gran Bretagna e in Portogallo. Il che significa che la vittoria di una forza politica non rappresenta assolutamente la maggioranza degli elettori. Ad esempio in Italia meno di 2 italiani su 10 hanno votato per Salvini.
Questa risoluzione, adottata da una conferenza nel gennaio 2019, cerca di delineare le principali prospettive per la situazione britannica nel prossimo periodo. Uno dei compiti principali di un'organizzazione rivoluzionaria è quello di presentare la comprensione più coerente possibile delle prospettive della situazione nazionale. Questo assume un'importanza ancora maggiore quando l'intera situazione sociale è dominata dalla crisi politica senza precedenti della classe dirigente sulla Brexit - una crisi che continuerà ad aggravarsi nel prossimo periodo. Senza una comprensione delle radici e delle conseguenze di queste turbolenze, è impossibile trarre le probabili implicazioni per il proletariato britannico e internazionale nei prossimi anni.
Il ruolo della risoluzione non è quello di fornire un'analisi dettagliata delle dinamiche in atto - questo viene fatto nel rapporto sulla situazione nazionale della stessa conferenza - ma di definire un quadro teorico generale e le sue implicazioni. Nell'ultimo numero di World Revolution abbiamo pubblicato la sezione storica del rapporto, alla quale i lettori possono fare riferimento[1].
In questa introduzione vogliamo esaminare se la risoluzione è stata verificata dallo svolgersi degli eventi.
La risoluzione sostiene che la Brexit è il prodotto della combinazione del declino secolare dell'imperialismo britannico, delle divisioni all'interno della classe dirigente che questo ha generato, dell'approfondimento dell'impatto della decomposizione del capitalismo dalla crisi finanziaria del 2008 e dell'aumento del populismo. La risoluzione dimostra che la borghesia è coinvolta in contraddizioni inconciliabili. Queste sono rappresentate non solo dall'ascesa del populismo, ma anche dalle divisioni già esistenti in Europa all'interno dei principali partiti, che sono state spinte a tal punto da distruggere l'apparato politico parlamentare accuratamente costruito che ha servito così bene la borghesia britannica negli ultimi due secoli.
Ciò è stato pienamente confermato dalla paralisi della macchina parlamentare negli ultimi 6 mesi. Entrambi i principali partiti politici sono stati lacerati da lotte tra fazioni su Brexit. L'accordo di ritiro elaborato dal governo May e dall'Unione europea, volto ad evitare che il Regno Unito si ritiri semplicemente dall'Unione europea, è stato compromesso dall'incapacità delle principali fazioni di entrambe le parti di accordarsi sulle modalità di attuazione del piano. May non è stata in grado di scendere a compromessi a causa delle pressioni esercitate dai sostenitori della linea dura pro-Brexit, mentre Corbyn è stato limitato dalle divisioni all'interno del Labour, dove importanti fazioni vogliono un'unione doganale o un secondo referendum. L'ultimo sforzo disperato per ottenere quest’accordo è stato quello dei colloqui comuni tra le due parti, ma questi sono stati condannati perché è diventato ovvio che May sarebbe stata allontanata dal potere dalle fazioni del partito Tory contrari a un accordo con il Labour, come è stato dimostrato quando May ha annunciato che si sarebbe dimessa il 7 giugno. Questa paralisi ha ora prodotto una lotta per la leadership nel partito Tory, con le figure più accanite pro-Brexit facilmente in testa, ma qualunque sia il risultato non risolverà la situazione di stallo.
Questo vuoto politico ha stimolato un nuovo aumento del populismo, alimentato dalla rabbia e dalla frustrazione per l'incapacità del parlamento di progredire sulla Brexit. Farage e i suoi ricchi sostenitori borghesi hanno approfittato appieno di questo vuoto formando il Partito Brexit. Questo nuovo partito esprime un serio pericolo per i principali partiti. Rappresenta un nuovo volto del populismo. Non c'è più la stridente retorica anti-immigrazione e i personaggi strani e bizzarri che hanno reso l'UKIP inaccettabile per molti. Il nuovo partito è molto abile, svolge una sofisticata campagna internet e si vende come multiculturale e sostenuto da elettori più giovani. Farage ha guadagnato molto dal suo rifiuto del crescente razzismo e dell'islamofobia dell'UKIP. Questa operazione è un serio tentativo di penetrazione nei partiti principali, basato sull'essere l'unico partito in grado di difendere il voto democratico del "popolo".
L'ascesa del Partito Brexit, ha mandato tutto a rotoli. Un nuovo leader del partito Tory non vorrà indire elezioni generali finché Brexit non sarà risolta, perché, come ha detto un ex collaboratore di Cameron, verrebbe fatto a pezzi. Il Labour sarà anche molto riluttante ad andare alle elezioni perché il partito Brexit sta facendo uno sforzo per vendersi come il partito dei lavoratori.
Questo significa che tre anni dopo un referendum che avrebbe dovuto respingere l'ondata di populismo, la classe dirigente si trova ora di fronte a un partito populista più sofisticato e rinvigorito che getta benzina sulla sua crisi politica.
Come dice la risoluzione, questa crisi minaccia l'integrità territoriale dello Stato britannico. L'elezione di un sostenitore della Brexit di linea dura come leader dei Tory e/o l'arrivo del Partito Brexit in parlamento aggraverebbe le tensioni con la frazione scozzese filo-indipendenza della borghesia.
Questo impatto non è limitato alla Gran Bretagna. Come spiega la risoluzione, Brexit ha contribuito al rafforzamento del populismo in Europa e negli Stati Uniti. L'Unione europea e le principali potenze europee hanno risposto con una linea molto dura nei confronti della borghesia britannica. Questa linea ha prodotto alcuni vantaggi, perché il caos politico ha originato una vera paura anche tra i partiti e i governi populisti europei, che ora hanno abbandonato o attenuato la richiesta di lasciare l'Unione europea. Tuttavia, l'estrema destra populista rappresenta ancora una seria minaccia per il futuro dell'Unione europea.
Le speranze dei sostenitori della Brexit di una nuova “globale” Gran Bretagna in grado di stringere accordi di libero scambio hanno già iniziato a colpire la dura roccia della realtà. La crescente guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina ha messo in chiaro che gli Stati Uniti non esitano a minare gli interessi dei loro ex alleati nella lotta sempre più disperata con la Cina. Lo scandalo Huawei ha visto la Cina minacciare i suoi investimenti in Gran Bretagna se il governo britannico cede alle pressioni degli Stati Uniti per bandire Huawei dalle sue infrastrutture.
La lotta con la Cina per il dominio globale, insieme all'intenzione di minare i suoi rivali europei, significa che gli Stati Uniti hanno scarso interesse ad un debole Regno Unito al di fuori dell'Unione europea. Trump era felice di incoraggiare Brexit per danneggiare l'UE, ma, una volta che Brexit avrà luogo, quale ruolo potrà svolgere il Regno Unito per gli Stati Uniti?
La prospettiva della risoluzione sull'approfondimento della crisi politica è stata verificata dagli eventi. Il suo monito alla minaccia del populismo in questa situazione di paralisi era giustificato. L'emergere del Brexit Party è un altro fattore di caos e instabilità, mettendo ulteriormente a repentaglio gli sforzi dello Stato britannico per garantire una Brexit ordinata.
Le implicazioni di questa situazione per la classe operaia sono terribili. Più di un decennio di austerità ha avuto luogo con quasi nessuna risposta da parte della classe. Questo non significa che non c'è malcontento, ma non ha trovato espressione nella lotta di classe a causa della profonda mancanza di fiducia in se stessi del proletariato. Questo disorientamento e la demoralizzazione sono stati esacerbati dalla Brexit e dalla crisi politica. Il sostegno al populismo e la sua semplicistica promessa di un domani migliore tra settori proletari è espressione di questa depressione e disperazione. Tuttavia, un pericolo ancora maggiore per il proletariato si sta mobilitando dietro l'antipopulismo e la sua difesa della democrazia e dello Stato democratico. Attualmente e nel prossimo periodo il proletariato avrà difficoltà ad evitare di essere mobilitato dietro queste diverse fazioni borghesi.
Ma la crisi economica continuerà ad aggravarsi e, indipendentemente dalla fazione borghese che domina, tutti dovranno attaccare il proletariato. È solo lottando contro questi attacchi che la classe operaia può difendersi. Queste lotte vedranno la stessa risposta dei conservatori, dei laburisti o dei populisti, perché alla fine tutti difendono il capitalismo.
WR, 25.5.19
Matamoros è una città dello Stato di Tamaulipas, considerato una delle regioni più pericolose del Messico. È teatro di scontri continui tra bande mafiose che lottano per il controllo delle loro zone, seminando morte e terrore. Gli abitanti di questa regione, ma anche i migranti, messicani o centroamericani, che devono attraversare la regione per raggiungere gli Stati Uniti devono spesso fare i conti con sequestri, estorsioni e omicidi[1]. Matamoros, pur essendo caratterizzata da questo clima terribile, fa parte della zona industriale di confine creata alla fine degli anni ’60, che è stata potenziata ed estesa nella metà degli anni ’90 grazie all’ALENA[2]. Solo su questa parte del confine sono state insediate 200 maquiladoras[3], che non sono più piccoli e medi stabilimenti come negli anni ’70. Alcune sono grandi imprese situate in diverse aree e hanno fino a duemila lavoratori.
In questi stabilimenti gli operai lavorano a ritmi frenetici. Dal 2002 l’orario di lavoro è passato da 40 a 48 ore settimanali, mantenendo nel contempo salari quasi bloccati da 15 anni, con occasionali variazioni annuali minime. Per mantenere alti livelli di produzione e notevoli profitti, bisogna garantire una sorveglianza tecnica e politica ricorrendo a supervisori e capireparto, ma soprattutto attraverso l’organizzazione sindacale. Un’elevata produttività e bassi salari hanno permesso a questi progetti di investimento di fare grandi profitti, ma la presenza vigile dei sindacati è essenziale per assicurarsi la continua sottomissione degli operai. Tenuto conto del clima generale nella zona di confine, del forte controllo politico imposto in queste fabbriche dai sindacati e dalla direzione, sembrava poco probabile che si sviluppasse una reazione operaia in questa area, e ancor più, che potesse esprimere una grande combattività e una forte capacità di creare legami di solidarietà. Ciò dimostra che la classe operaia ha un potenziale e delle capacità di lotta sempre vivi, ma che non riesce ad assumere il controllo della sua lotta. Il peso della confusione e la mancanza di fiducia nelle proprie forze è infatti un problema che ha caratterizzato le mobilitazioni.
L’apparato della sinistra del capitale asserisce che ciò che è recentemente accaduto a Matamoros è stata una “rivolta operaia”, altri affermano che si è trattato di un attacco contro il Presidente Andrés Manuel López Obrador (AMLO) e la sua “quarta trasformazione”, mentre altri parlano di uno “sciopero di massa selvaggio”. Queste affermazioni, sbagliate, sono fuorvianti e attaccano direttamente gli operai occultando la realtà per evitare che possano trarre insegnamento dalle loro lotte.
Le forze proletarie sono soffocate dal Codice del lavoro della borghesia
Lo slogan che ha unificato e mobilitato gli operai per circa un mese e sintetizzava la loro rivendicazione era “20-32” cioè aumento del salario del 20% ed erogazione del bonus annuale di 32000 pesos (1660 dollari). La principale causa scatenante che ha alimentato il malcontento e animato la lotta è stata il peggioramento generalizzato delle condizioni di vita. Sin dall’inizio delle mobilitazioni si è manifestata una sfiducia nei confronti dei sindacati, ma gli operai non sono riusciti a capire che questi non erano più strumenti di cui potersi servire per difendere i propri interessi. Per questo hanno accettato le loro pratiche, dando sempre prova di indecisione e di una certa ingenuità. All’inizio hanno ritenuto possibile “fare pressione” sul “leader sindacale” e obbligarlo a “prendere la loro difesa”. Poi, questa indecisione si è trasformata in confusione generalizzata ritenendo che bastasse ricevere delle “assistenze legali oneste” per far valere i propri “diritti”.
Riponendo le speranze nelle leggi e in un avvocato per “difendere i propri interessi”, la mobilitazione operaia si è indebolita e la confusione ha guadagnato terreno. Sentendosi “protetti” non hanno più provato a prendere il controllo della loro lotta, mettendo in evidenza un grave problema con il quale si confronta attualmente la classe operaia: la mancanza di fiducia nelle proprie forze e l’assenza dell’identità di classe.
Questa difficoltà ha fatto sì che, malgrado la diffidenza nei sindacati, gli operai sono rimasti sotto il loro controllo e sul loro terreno, quello delle leggi sul lavoro. Le stesse leggi che conferiscono potere ai sindacati in quanto firmatari di contratti collettivi. Leggi che danno il potere ai sindacati di firmare i contratti collettivi. Attenedosi alle direttive sindacali, i lavoratori hanno dato il controllo della lotta al sindacato stesso, permettendogli di contenere il malcontento, smorzarne la combattività e imporre il rispetto delle leggi borghesi, impedendo così il raggiungimento di una vera unificazione delle forze operaie che avrebbero potuto organizzarsi al di fuori del sindacato.
Limitando la lotta al semplice rispetto delle leggi, gli operai, anche se scendono in piazza uniti e fanno assemblee generali, di fronte al padrone, allo Stato e al sindacato, agiscono separatamente, fabbrica per fabbrica e contratto per contratto. Esattamente quello che prevede la legislazione borghese che in questo modo divide e isola i lavoratori. In fin dei conti le leggi sono fatte apposta per sottomettere gli sfruttati.
Allora, è possibile lottare al di fuori del sindacato e al di sopra delle leggi? La classe operaia ha vissuto diverse esperienze che confermano questa possibilità. Ad esempio, nell’agosto del 1980 gli operai polacchi hanno organizzato uno sciopero di massa che hanno gestito realmente loro. Né la proclamazione dello sciopero, né la costituzione dei loro organi unitari di lotta rispettavano le disposizioni di legge, ma sono riusciti a estendere la mobilitazione a tutto il paese e a imporre una trattativa ufficiale con il governo. Le mobilitazioni di massa e la loro capacità di organizzazione hanno permesso di creare una grande forza capace di prevenire la repressione[4].
Lo strumento che lo Stato polacco ha usato per dividere e indebolire i lavoratori è stato lo stesso che impiegano tutte le borghesie del mondo: i sindacati. Con la creazione del sindacato Solidarnosc (diretto da Lech Walesa), lo Stato ha spezzato l’organizzazione e l’unità dei lavoratori il che gli ha permesso alla fine di estendere la repressione. Poi Lech Walesa è diventato capo dello Stato polacco.
Gli operai, e anche quelli di Matamoros devono recuperare la loro capacità di analisi; l’esperienza dello sciopero di massa in Polonia e della sua repressione ne è l’esempio migliore. Essa mostra chiaramente che il sindacato è un’organizzazione che agisce contro gli operai e che non basta non fidarsi: è assolutamente necessario organizzarsi al di fuori di esso e del suo terreno di mobilitazione.
I sindacati contro la classe operaia
Il primo grande insegnamento da trarre dalla lotta degli operai delle maquiladoras è che il sindacato è un’arma della borghesia[5]. I sindacati, spingendo gli operai ad accettare un aumento più basso del salario e a rifiutare il bonus, rivelano ancora una volta di non essere più uno strumento del proletariato (come nel XIX secolo). Le minacce e le aggressioni dirette perpetrate dal Sindacato dei Lavoratori giornalieri e degli Operai industriali e dell’Industria Maquiladora (SJOIIM) e dal Sindacato industriale dei lavoratori delle fabbriche di Maquilladoras e Assemblaggio (SITPME) hanno confermato chiaramente che gli interessi che difendono non sono quelli degli operai. Agendo sotto copertura nelle fila proletarie si rivelano armi della borghesia, come lupi travestiti da agnelli.
Nel corso degli scioperi i sindacati hanno agito difendendo gli interessi del padronato, per questo la maggioranza degli operai ha espresso un rifiuto dei dirigenti sindacali Juan Villafuerte e Jesús Mendoza, e le grida “fuori i sindacati!” sono risuonate senza sosta in ogni fabbrica e in ogni manifestazione. Ciò mostra il coraggio degli operai e la sfiducia verso i sindacati. Tuttavia, sono rimasti intrappolati in questa forma di coraggio e di combattività senza riuscire ad andare oltre. Non avendo fiducia nella loro forza, invece di assumere il controllo della lotta, organizzandosi in maniera unitaria in una struttura fuori dal sindacato, gli operai hanno riprodotto lo stesso schema: ufficialmente hanno smesso di seguire passivamente la direzione “traditrice” del sindacato, per seguire altrettanto passivamente la “nuova direzione” informale rappresentata dalla loro rappresentante legale, l’avvocatessa Susana Prieto, che ha usato le sue abilità di giurista[6] per riportare la lotta nel quadro della legislazione borghese ed ha suscitato una speranza nella creazione di un sindacato “indipendente” che avrebbe conteso la contrattazione collettiva alle vecchie organizzazioni sindacali.
Il lavoro di confusione, sottomissione e controllo che realizzano i sindacati non è prerogativa di alcuni paesi o di alcuni sindacati, tutti sono armi della borghesia. Esiste una differenza tra il SNTE e la CNTE[7]? Uno usa un linguaggio tradizionale, l’altro fa ricorso a discorsi e azioni apparentemente radicali, ma hanno lo stesso obiettivo: la sottomissione e il controllo dei lavoratori.
Non sorprende quindi che il governo di AMLO incoraggi con molta discrezione la creazione di nuovi sindacati che gli consentiranno di usare e di orientare il malcontento degli operai verso uno scontro con le vecchie organizzazioni sindacali, principalmente legate al Partito Rivoluzionario Istituzionale (PRI, come nel caso della CTM, della CROM e della CROC)[8]. López Obrador non ha “salvato” il boss mafioso del Sindacato messicano dei minatori e dei metalmeccanici Napoleón Gómez Urrutia (“Napito”) dal cosiddetto esilio in Canada, dove viveva nel lusso negli ultimi dodici anni, per farne un senatore, ma perché egli formasse una “nuova federazione sindacale”. Qualche mese dopo il suo ritorno in Messico, “Napito” ha creato la Confederazione Internazionale dei Lavoratori (CIT) e ha anche stretto alleanze con sindacati americani e canadesi, in particolare l’AFL-CIO[9].
Il Presidente, il 14 febbraio scorso, ha affermato che il governo non sarebbe intervenuto nella vita dei sindacati aggiungendo: “noi non possiamo impedire ai lavoratori o ai quadri del potere, in base alla legge, di chiedere la creazione di un nuovo sindacato” (dal quotidiano La Jornada)[10]. È in questa ottica che compaiono “nuovi” sindacati: progetti sindacali “alternativi” sono nati all’interno dell’IMSS, della PEMEX e dell’UNAM[11].
Nel XIX secolo i sindacati sono stati uno strumento importante di lotta e di unità degli operai. Lo stesso capitalismo, sviluppando le forze produttive, ha permesso l’attuazione di riforme economiche e sociali migliorando le condizioni di vita dei lavoratori. Oggi è impossibile per il sistema capitalistico apportare miglioramenti duraturi alla condizione operai. Questo ha portato i sindacati alla perdita del loro carattere proletario e alla loro integrazione nello Stato.
Quali insegnamenti trarre dal “Movimento 20-32”?
La mobilitazione guidata dagli operai delle maquiladoras è stata senza alcun dubbio un evento molto combattivo, ma non ha potuto evitare che la maggior parte degli operai si facesse trarre in inganno dalle leggi e dallo stesso sindacato, perché si è diffusa la confusa speranza secondo cui le leggi, come i sindacati, se diretti “in modo onesto”, potrebbero perdere la loro natura antiproletaria. Anche il richiamo al decreto di Lopez Obrador (“Decreto sugli incentivi fiscali nella regione di frontiera del Nord)[12] per dimostrare la “legalità” dell’aumento salariale nelle maquiladoras, ha mostrato che la confusione è ancora più profonda, perché alimenta la speranza che il nuovo governo possa migliorare le condizioni di vita dei lavoratori. In più, il governo di AMLO ha approfittato della mobilitazione dei lavoratori per mostrare al suo partner nordamericano la volontà di adeguarsi agli aumenti salariali negli stabilimenti dei settori automobilistici ed elettronici situati in Messico, come richiede il governo di Trump negli accordi ALENA 2.0 (ribattezzati USMCA, Accordo Stati Uniti- Messico- Canada).
Un elemento importante da considerare sono le conseguenze delle forme di organizzazione che il movimento ha adottato. Ad esempio, la mancanza di controllo della lotta da parte dei lavoratori e la frammentazione degli scioperi alla fine rompono i legami di solidarietà e permettono forme di ritorsione. Secondo le stime ufficiali 5000 operai sono stati licenziati per aver partecipato allo sciopero.
In conclusione, grazie agli scioperi è potuta emergere una combattività operaia motivata dal degrado della qualità della vita, ma la borghesia ha subito inibito queste spinte coraggiose alimentando l’illusione “del rispetto democratico” delle leggi e impedendo lo sviluppo della coscienza.
Ancora più grave il fatto che i problemi che sono emersi nel corso della mobilitazione potrebbero estendersi e aggravarsi. La mancanza di riflessione e l’entusiasmo con il quale gli scioperi sono stati revocati hanno creato un clima propizio al ritorno delle illusioni nelle leggi e nelle nuove organizzazioni sindacali. L’avvocatessa ha dichiarato che durante la “seconda fase” del movimento 20-32, si punterà alla formazione di un sindacato “indipendente” e che lei creerà a Matamoros uno studio di avvocati “onesti” per “difendere” gli operai, diffondendo ancora di più illusioni e confusione. L’unica via di uscita per gli operai di fronte a questa offensiva è la lotta, il prendere nelle propri mani il controllo e la riflessione sulla natura dei sindacati e sulla loro integrazione nell’apparato dello Stato in ogni parte del mondo.
Tatlin, aprile 2019
Da Revolución Mundial, organo della CCI in Messico
[1] È del 2010 la macabra scoperta di 79 corpi di migranti centroamericani. Nell’anno successivo, nel 2011, è stata trovata una fossa con circa 200 corpi, per alcuni erano molti di più.
[2] ALENA: Accordo di Libero scambio Nordamericano firmato da Stati Uniti, Canada e Messico, entrato in vigore nel 1994 e rinegoziato da Trump con l’ALENA 2.0
[3] Le maquiladoras sono stabilimenti di montaggio in zona franca che assemblano componenti importati esenti da dazi doganali e destinati ad essere esclusivamente riesportati. Sono soprattutto stabilimenti dell’industria tessile o fabbriche di assemblaggio del settore automobilistico. Servono anche a conservare e a sfruttare al massimo la manodopera migrante latinoamericana all’interno e lungo tutto il confine messicano.
[4] Sull’esperienza della Polonia vedi: “Polonia, Agosto 1980: 25 anni fa il proletariato rifaceva l'esperienza dello sciopero di massa” (I parte e II parte) sul nostro sito
[5] “I sindacati contro la classe operaia”, opuscolo della CCI
[6] Non mettiamo in discussione l’onestà della persona, ma i suoi dettami professionali la inducono a muoversi nel quadro delle leggi borghesi. Il fatto che esprima simpatia e sostegno al governo di López Obrador la colloca su un terreno chiaramente borghese.
[7] SNTE: Sindacato Nazionale dei Lavoratori dell’Istruzione (sindacato ufficiale). CNTE: Centrale Nazionale dei Lavoratori dell’Istruzione (sindacato “dissidente”).
[8] CTM: Confederazione dei Lavoratori del Messico, creata nel 1936. CROM: Confederazione Regionale Operaia Messicana, fondata nel 1918. CROC: Confederazione Rivoluzionaria degli Operai e dei Contadini, fondata nel 1952.
[9] La Federazione Americana del Lavoro- Assemblea delle Organizzazioni Industriali, detta AFL-CIO, è la maggiore organizzazione e federazione sindacale degli Stati Uniti, che raggruppa anche sindacati quali la United Steelworkers (metalmeccanici) del Canada.
[10] Dietro questa illusione c’è una lotta tra frazioni borghesi per il controllo del dispositivo di gestione sindacale, essendo i sindacati tradizionali largamente discreditati, cinghia di trasmissione dei vecchi governi (in particolare del PRI), mentre i “nuovi” sindacati, detti “indipendenti”, sono più o meno apertamente strumentalizzati dal nuovo governo.
[11] IMSS: Istituto Messicano della Sicurezza Sociale. PEMEX: prima compagnia petrolifera messicana. UNAM: Università nazionale autonoma del Messico, considerata una delle migliori al mondo.
[12] Il 10 dicembre 2018, il governo di AMLO ha presentato un programma per favorire l’occupazione e gli investimenti nella zona di confine rallentando così i flussi migratori verso gli Stati Uniti.
La CCI ha tenuto sei riunioni pubbliche in Francia sul tema «Perché i proletari devono difendere la loro autonomia di classe». Questo intervento, si è reso necessario per rispondere a numerose questioni riguardanti il movimento dei cosiddetti gilet gialli, questioni poste dal proletariato in generale e da numerosi elementi in via di politicizzazione. In effetti, abbiamo potuto sentire nei mezzi di informazione come nell'ambiente politicizzato che questo movimento è una manifestazione inedita della lotta di classe, qualcosa di comparabile allo sciopero generale del Maggio 1968. Noi rigettiamo questa analisi e rinviamo i lettori ai nostri articoli pubblicati fin dall'inizio di questo movimento.
In queste riunioni pubbliche era importante poter rispondere direttamente ai nostri simpatizzanti e ai nuovi elementi interessati a comprendere questo movimento, soprattutto per ricordare perché la classe operaia non può lasciarsi annegare in un movimento interclassista col rischio di farsi influenzare da ideologie reazionarie e antiproletarie come il nazionalismo patriottico, la xenofobia, il razzismo anti-immigrati. La classe operaia è una classe di immigrati e la sua parola d'ordine è «i proletari non hanno patria. Proletari di tutto il mondo unitevi!»
Era quindi necessario ricordare e dibattere su quello che significa l'interclassismo come pericolo e capire meglio il bisogno di autonomia per la classe operaia nel portare avanti la sua lotta. Non si tratta di questioni semplici e non sono «elucubrazioni idealiste» come un partecipante ci ha rimproverato durante la riunione pubblica a Lione, per esempio.
Queste nozioni di classi, di interclassismo, di autonomia di classe sono oggi secondarie, da relativizzare e da «adattare» al contesto immediato in cui si trova il proletariato? Sono diventate chiaramente obsolete? La lotta proletaria può trovare nuove vie o delle scorciatoie per ritrovare la sua prospettiva rivoluzionaria? Qualsiasi convulsione sociale è benefica per la lotta della classe operaia? Niente di più falso! L'interclassismo è un ostacolo di primo piano per la lotta del proletariato, per la sua coscienza e per la difesa dei suoi interessi di classe rivoluzionaria, la sola capace di mettere fine al caos capitalista.
Un dibattito molto animato
Tra le persone presenti in queste riunioni pubbliche alcuni incontravano la CCI per la prima volta, altri rappresentavano l'ambiente politico proletario (a Marsiglia erano presenti dei militanti della corrente bordighista).
Le discussioni, a Parigi, Lille, Tolosa, Lione, Marsiglia, Nantes, hanno tutte confermato il bisogno di chiarificare e capire la situazione sociale del momento e le prospettive della lotta proletaria.
Contrariamente ad altre riunioni pubbliche del passato, in cui i gruppi dell'ambiente politico avanzavano prioritariamente le loro divergenze con la CCI, ci siamo ritrovati insieme a questi compagni per difendere una voce proletaria e una posizione marxista di fronte all'interclassismo (senza comunque nascondere le divergenze che esistono fra noi). Vogliamo salutare questo stato di spirito responsabile per difendere l'eredità del marxismo e della Sinistra Comunista nel momento in cui altri buttano alle ortiche questa eredità e inficiano allo stesso tempo ogni sforzo di chiarificazione di fronte alle ideologie conservatrici e reazionarie.
La presenza ancora limitata di elementi politicizzati in queste riunioni ha anch'essa un significato che va riconosciuto, indipendentemente dal fatto che in contemporanea ci siano state delle manifestazioni dei gilet gialli. Essa è legata soprattutto alle grandi difficoltà che la classe operaia attualmente incontra (in particolare la perdita della sua identità di classe) e alla campagna borghese che genera diffidenza verso le idee rivoluzionarie. Tutto questo ostacola fortemente la riflessione e spinge anche i proletari più combattivi a sottostimare il pericolo che l'interclassismo rappresenta oggi per tutta la classe operaia.
Tutti i partecipanti a queste riunioni pubbliche hanno espresso un bisogno di chiarificazione politica e di resistenza a tutti i discorsi sulla presunta «boccata di ossigeno» che il movimento dei gilet gialli avrebbe potuto avere per la classe operaia e la sua coscienza. Questa cosiddetta speranza, che l'ideologia dominante coltiva scientemente, è ancora una volta una illusione molto pericolosa. Vogliamo quindi salutare la ricchezza dei dibattiti, questo sforzo di chiarificazione politica, in controcorrente rispetto al clima politico attuale che vuol far credere che «tutto ciò che si muove» per le strade è necessariamente «rivoluzionario».
Nondimeno, le discussioni in queste riunioni pubbliche hanno anche espresso tutte le difficoltà a capire in profondità le questioni cruciali poste dal movimento dei gilet gialli:
– Che cos'è un movimento interclassista?
– Che rappresentano gli strati intermedi, piccolo borghesi?
– Che cos'è l'autonomia di classe del proletariato?
– Che cos'è la classe operaia in quanto sola classe rivoluzionaria in seno alla società?
– Che significa perdita dell’identità di classe per il proletariato? Quali sono le sue debolezze oggi e come può ritrovare questa identità di classe?
– Qual è il peso della decomposizione del capitalismo sulla società, sul proletariato e sul movimento dei gilet gialli?
– Quale è la responsabilità delle organizzazioni rivoluzionarie nella trasmissione delle lezioni delle lotte della classe nel passato e nella difesa della prospettiva rivoluzionaria per le lotte future?
Qui non possiamo rispondere a tutte queste questioni. Ci limiteremo a rendere conto del dibattito che c'è stato sulle prime due.
L’interclassismo, un epifenomeno da relativizzare?
Anche se la quasi totalità dei partecipanti ha espresso il proprio accordo con la dimensione interclassista del movimento, la comprensione profonda di quello che rappresenta e significa l'interclassismo è rimasto ancora molto superficiale.
A Lille, per esempio, dei simpatizzanti hanno espresso l'idea che «c'erano delle cose positive nel movimento che potevano contribuire allo sviluppo della coscienza nella classe». Uno dei due ha, in particolare, affermato che «il movimento aveva permesso di far comprendere che siamo tutti uguali»
In realtà questo è falso. In questo movimento si trovano sia dei piccoli imprenditori, degli artigiani, dei professionisti e degli agricoltori, che degli operai impoveriti che si sono aggiunti per disperazione a questo movimento generale di collera verso gli attacchi del governo Macron. Ma in realtà gli interessi degli uni e degli altri non sono gli stessi. Negli strati intermedi, piccola borghesia in testa, la concorrenza regna sovrana e ogni padroncino spera di preservare i propri interessi. La classe operaia, da parte sua, non possedendo altro che la propria forza lavoro, non ha interessi individuali da difendere, separati dagli altri e dagli interessi generali della classe.
Movimento della classe operaia o contestazione di una somma di individui-cittadini?
Un'altra difficoltà si è espressa nelle discussioni: la classe operaia era presente in quanto tale nel movimento dei gilet gialli? Nella riunione di Lille una parte importante della discussione è stata consacrata a chiarificare la natura del movimento, e la differenza tra la presenza di operai nella rivolta dei gilet gialli e un reale movimento proletario. Questa questione è fondamentale. E' un aspetto sul quale i partecipanti alle nostre riunioni si sono soffermati spesso, senza vedere più in profondità il pericolo di tirare un segno di uguaglianza fra i due.
Nonostante le loro rivendicazioni proletarie contro la perdita del loro potere di acquisto, gli operai presenti non si sono mobilitati sul loro terreno di classe, quello del proletariato, ma in quanto individui e cittadini francesi. Nelle discussioni durante le manifestazioni la parola «popolo» era su tutte le bocche: «popolo abusato», «popolo ignorato», «popolo lavoratore», a conferma che in questo movimento quello che si esprime è la collera del «popolo francese» e non della classe sfruttata. Da qui la Marsigliese cantata regolarmente nelle manifestazioni, e la bandiera tricolore sventolata sui picchetti come stendardo di questo movimento interclassista. Tutte queste espressioni di nazionalismo non sono state MAI rimesse in discussione.
Questo concetto nazionalista di «popolo francese» non può portare che alla diluizione del proletariato in tutti gli altri strati e classi sociali. Reclamare un referendum popolare, una riduzione delle tasse, la richiesta di uno Stato più «giusto» non può portare, in certe circostanze storiche, che all'unione nazionale, alla sacra unione degli sfruttati con i loro sfruttatori.
La natura di classe di un movimento sociale non è determinato dalla sua composizione SOCIOLOGICA ma dal suo orientamento POLITICO e dai suoi metodi di lotta.
Noi dobbiamo affermare alto e forte che la nozione di «popolo francese» non appartiene al vocabolario del marxismo e del movimento operaio, e questo fin dalle giornate del 1848. La bandiera tricolore della Rivoluzione del 1789 è diventata poi quella dei Versagliesi, i massacratori della Comune di Parigi, laddove i comunardi avevano sostituito questo vessillo con la bandiera rossa, diventata il simbolo del movimento operaio e dell'internazionalismo. Il riferimento dei gilet gialli è la Rivoluzione francese del 1789 in cui la rivolta popolare dei «sanculotti» contro la miseria aveva permesso alla borghesia, asfissiata dalle tasse, di prendere il potere politico e sbarazzarsi della nobiltà che aveva il privilegio di non pagare tasse.
Su questa questione alcuni simpatizzanti della CCI hanno relativizzato questo aspetto, considerando che «i riferimenti al 1789, il canto della Marsigliese non sono coscienti, ma conseguenza di una mancanza di conoscenza di quello che significano», il che è vero, ma questo è per caso una questione secondaria, un semplice dettaglio senza importanza? Contrariamente alla rivoluzione del 1789, durante le giornate insurrezionali di giugno 1848 il proletariato ha dovuto ed è arrivato a distaccarsi dagli altri strati sociali per affermarsi come classe indipendente, e come unica forza rivoluzionaria della società. Il Manifesto comunista è diventato allora il programma rivoluzionario della classe portatrice del comunismo, anche se nel 1848, come dice anche Marx, le condizioni della rivoluzione non erano ancora mature. Molti dei partecipanti a queste riunioni pubbliche sembrano disconoscere questo episodio fondamentale della storia del movimento operaio, che permette di dare un quadro storico e teorico alle discussioni.
L'autonomia del proletariato è un lusso?
L'autonomia di classe del proletariato significa l'indipendenza rispetto alle altre classi della società, la sua capacità di dare un orientamento politico all'insieme degli altri strati sociali non sfruttatori. Questa indipendenza di classe del proletariato costituisce una condizione indispensabile per la sua azione rivoluzionaria finalizzata, a termine, al rovesciamento del capitalismo e alla edificazione di una società senza classi e quindi senza sfruttamento dell'uomo sull'uomo. Gli obiettivi della lotta del proletariato non hanno niente a che spartire con gli obiettivi del movimento nazionalista e «cittadino» dei gilet gialli: migliorare la democrazia borghese, riformare il sistema capitalista per una migliore ripartizione delle ricchezze della nazione francese, e una maggiore «giustizia fiscale». E' per questo che il riferimento dei gilet gialli alla rivoluzione del 1789 e la loro nostalgia di questa rivoluzione del «popolo francese» è completamente reazionario.
Tutti questi dubbi ed interrogativi sulla necessaria autonomia della classe operaia rispetto agli altri strati sociali privi di divenire storico (in particolare la piccola borghesia) traducono, in realtà, una difficoltà a capire quello che la classe operaia è in quanto classe rivoluzionaria. Queste difficoltà non sono di oggi e sono oggetto di discussione con tutto un insieme di elementi che si politicizzano e si interrogano sulla prospettiva rivoluzionaria chiedendosi chi o quale classe può cambiare il mondo. Queste difficoltà sono ulteriormente rafforzate dal fatto che la classe operaia ha subito un riflusso nella coscienza della propria identità, dimenticando momentaneamente la sua esperienza passata fatta di lotte gloriose contro il capitalismo.
Malgrado l'accordo dei nostri simpatizzanti sul pericolo dell'interclassismo, la maggior parte di essi ha espresso l'idea che questo movimento poteva rappresentare una scintilla, una sorta di trampolino per dei movimenti proletari a venire. Certi compagni consideravano «normale che i proletari presenti non siano coscienti, giacché la coscienza si sviluppa nella lotta, e che tocca dunque ai rivoluzionari mostrare loro che il movimento non risponde ai bisogni della classe e che bisogna fare altra cosa». Questa analisi rivela profonde illusioni sulle potenzialità del movimento dei gilet gialli e la possibilità che questo potesse far sorgere una dinamica di classe chiaramente proletaria. Una tale illusione occulta i pericoli contenuti in questo movimento interclassista, in particolare la contaminazione del proletariato da parte di ideologie e metodi di lotta che gli sono completamente estranei. L'idea che questo movimento sarebbe una specie di guida suprema per la classe operaia o un «trampolino» per le sue lotte, rivela anche una mancanza di fiducia nelle potenzialità del proletariato in quanto classe storicamente rivoluzionaria.
Solo il metodo marxista permette di identificare quali sono le forze sociali in movimento, la loro natura profonda, al di là delle semplici apparenze sociologiche. Quanto al ruolo dei rivoluzionari in questo movimento, esso è totalmente derisorio. Poiché si situano controcorrente rispetto a questa marea interclassista e nazionalista, i rivoluzionari non possono avere nessun eco. Per la grande maggioranza dei gilet gialli i rivoluzionari sembrano, nel migliore dei casi, dei «marziani» venuti da un altro pianeta, nel peggiore come dei sabotatori del loro movimento (o degli «indifferentisti»).
A Marsiglia, data la presenza alla riunione pubblica di compagni della corrente bordighista (che pubblicano «Le fil rouge»), la discussione ha permesso di approfondire la questione del pericolo dell'interclassismo, ricordando che nel 1789 la rivoluzione francese contro la monarchia era un movimento popolare interclassista che ha permesso alla borghesia di prendere il potere. Un compagno di Fil rouge ha riportato numerosi argomenti molto profondi a favore della nostra analisi della natura del movimento dei gilet gialli. Il compagno ha, tra l'altro, ricordato che una delle rivendicazioni dei piccoli commercianti in gilet giallo era il boicottaggio degli ipermercati e l'appello a fare i propri acquisti nei piccoli negozi di quartiere. Se gli operai preferiscono andare al supermercato, è semplicemente perché qui i generi di prima necessità sono molto meno cari rispetto ai piccoli negozi di quartiere. E' quindi evidente che gli interessi degli operai poveri che hanno indossato i gilet gialli non sono gli stessi di quelli dei piccoli commercianti soffocati dalla competitività degli ipermercati!
Gli interessi del proletariato non possono quindi che essere diluiti in mezzo alle rivendicazioni proprie della piccola borghesia e dei padroncini. Dobbiamo ricordare che la lotta di classe non è una lotta «popolare» tra «ricchi» e «poveri», ma una lotta di classe tra una classe sfruttata e una classe sfruttatrice.
Per quanto riguarda la questione della violenza, la discussione non si è potuta veramente sviluppare per mancanza di tempo. Anche qui sarà importante tornare e capire perché la borghesia ha fatto uso di un tale livello di repressione (di fronte a un movimento che non poteva mettere in pericolo la sua dominazione di classe) e perché gli scontri dei gilet gialli con le forze dell'ordine, molto spettacolari, non possono rappresentare uno scopo in sè, un mezzo per rafforzare la lotta e far ripiegare il governo e ancor meno di spingere Macron alle dimissioni!
In conclusione, molte questioni fondamentali restano ancora da discutere. Per affrontarle, chiarificarle e capire la posta in gioco della attuale situazione sociale, il quadro politico del marxismo basato sulla storia del movimento operaio resta assolutamente fondamentale.
Stopio, 1 marzo 2019
Cento anni fa, nel marzo 1919, si tenne il primo congresso dell'Internazionale Comunista (IC), il congresso di costituzione della Terza Internazionale.
Se le organizzazioni rivoluzionarie non avessero la volontà di celebrare questo evento, la fondazione dell'Internazionale sarebbe relegata all'oblio della storia. In effetti, la borghesia è interessata a tacere su questo evento, mentre continua ad abbeverarci con celebrazioni di ogni tipo come il centenario della fine della prima guerra mondiale. La classe dominante non vuole che la classe operaia ricordi la sua prima grande esperienza rivoluzionaria internazionale del 1917-1923. La borghesia vorrebbe poter finalmente seppellire lo spettro di questa ondata rivoluzionaria che ha dato vita alla IC. Questa ondata rivoluzionaria fu la risposta del proletariato internazionale alla prima guerra mondiale, quattro anni di massacri e scontri militari tra gli Stati capitalisti per dividersi il mondo.
Questa ondata rivoluzionaria iniziò con la vittoria della rivoluzione russa nell'ottobre del 1917. Si manifestò negli ammutinati di soldati nelle trincee e nella rivolta proletaria in Germania nel 1918.
Questa prima ondata rivoluzionaria aveva attraversato l'Europa, aveva persino raggiunto i paesi del continente asiatico (in particolare la Cina nel 1927). Anche i paesi del continente americano, come il Canada e gli Stati Uniti e fino all'America Latina, ne sono stati scossi.
Non dobbiamo mai dimenticare che è stata la paura dell'estensione internazionale della rivoluzione russa a costringere la borghesia delle grandi potenze europee a firmare l'armistizio per porre fine alla prima guerra mondiale.
In questo contesto la fondazione dell'Internazionale Comunista nel 1919 ha rappresentato il culmine di questa ondata rivoluzionaria.
L'Internazionale comunista fu fondata per dare un chiaro orientamento politico alle masse lavoratrici. Il suo obiettivo era mostrare al proletariato la via per rovesciare lo Stato borghese e costruire un nuovo mondo senza guerra e sfruttamento. Possiamo ricordare qui ciò che affermavano gli Statuti dell'IC (adottati al suo secondo Congresso nel luglio 1920): “La Terza Internazionale Comunista si è costituita alla fine della carneficina imperialista del 1914-1918, durante la quale la borghesia dei diversi paesi ha sacrificato 20 milioni di vite.
Ricorda la guerra imperialista! Ecco la prima parola che l'Internazionale Comunista rivolge a tutti i lavoratori, indipendentemente dalla loro origine e lingua. Ricorda che, a causa dell'esistenza del regime capitalista, una manciata di imperialisti ha potuto, per quattro lunghi anni, costringere i lavoratori di ogni parte a massacrarsi a vicenda! Ricorda che la guerra borghese ha fatto precipitare l'Europa e il mondo nella carestia e nella miseria! Ricorda che senza il rovesciamento del capitalismo, il ripetersi di queste guerre criminali non è solo possibile, ma inevitabile!”
La fondazione dell'IC ha espresso soprattutto la necessità che i rivoluzionari si raggruppassero per difendere il principio dell'internazionalismo proletario. Un principio fondamentale del movimento operaio che i rivoluzionari devono preservare e difendere contro venti e maree!
Per capire tutta l'importanza della fondazione dell'IC, dobbiamo innanzitutto ricordare che questa Terza Internazionale si pone in continuità storica con la Prima Internazionale (AIT) e la Seconda Internazionale (Internazionale dei partiti socialdemocratici). Ecco perché il Manifesto dell'IC affermava: “noi ci consideriamo, noi comunisti riuniti nella Terza Internazionale, come i diretti successori degli sforzi eroici e del martirio di una lunga serie di generazioni rivoluzionarie, da Babeuf a Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg. Se la Prima Internazionale ha previsto lo sviluppo della storia e preparato il suo percorso, se la Seconda ha riunito e organizzato milioni di proletari, la Terza Internazionale è l'Internazionale dell'azione di massa aperta, della realizzazione rivoluzionaria, l'Internazionale dell'azione”.
È quindi chiaro che l'IC non è sorta dal nulla. I suoi principi e il suo programma rivoluzionari sono stati il risultato di tutta la storia del movimento operaio, specialmente dopo la Lega dei comunisti e la pubblicazione del Manifesto scritto da K. Marx e F. Engels nel 1848 con la famosa parola d’ordine per il movimento operaio: “I proletari non hanno patria. Proletari di tutti i paesi, unitevi!”
Per poter comprendere il significato storico della fondazione dell'IC, dobbiamo ricordare che la Seconda Internazionale morì nel 1914 proprio perché i suoi principali partiti, i partiti socialisti, avevano tradito l'internazionalismo proletario. I dirigenti di questi partiti votarono i crediti di guerra in Parlamento. In ogni paese, chiamarono i proletari a “l'union sacrée” con i loro stessi sfruttatori. Li chiamarono ad uccidersi a vicenda nella carneficina mondiale in nome della difesa della patria, mentre il Manifesto comunista affermava che “i proletari non hanno patria”!
Di fronte al vergognoso crollo della Seconda Internazionale, solo pochi partiti socialdemocratici seppero resistere alla tempesta: il partito italiano, serbo, bulgaro e russo. In altri paesi, solo una piccola minoranza di militanti, spesso isolati, rimarrà fedele all'internazionalismo proletario. Essi denunciarono la sanguinosa orgia della guerra cercando di raggrupparsi. In Europa fu questa minoranza di rivoluzionari internazionalisti a rappresentare la sinistra in particolare intorno a Rosa Luxemburg in Germania, Pannekoek e Gorter in Olanda e, naturalmente, attorno a Lenin e la sua fazione bolscevica del partito russo.
Dalla morte della Seconda Internazionale nel 1914 alla fondazione della IC nel 1919
Due anni prima della guerra, nel 1912, si tenne il Congresso di Basilea della Seconda Internazionale. Mentre incombevano le minacce di una guerra mondiale nel cuore dell'Europa, questo Congresso di Basilea adottava una risoluzione sulla questione della guerra e della rivoluzione proletaria. La risoluzione affermava: “I governi borghesi non dimentichino che la guerra franco-tedesca (del 1870) diede vita all'insurrezione rivoluzionaria della Comune di Parigi e che la guerra russo-giapponese mise in moto le forze rivoluzionarie della Russia. Agli occhi dei proletari, è criminale uccidersi a vicenda per i profitti capitalisti, per le rivalità dinastiche e per il prosperare dei trattati diplomatici”.
Sempre all’interno della Seconda Internazionale i più coerenti teorici marxisti, in particolare Rosa Luxemburg e Lenin, furono in grado di analizzare il cambiamento del periodo storico nella vita del capitalismo. Rosa Luxemburg e Lenin avevano in effetti chiarito che il modo di produzione capitalistico aveva raggiunto il suo apice all'inizio del XX secolo e che, di conseguenza, la guerra imperialista in Europa aveva un solo scopo: la divisione del mondo tra le principali potenze rivali nella corsa per le colonie. Lenin e Rosa Luxemburg capirono che lo scoppio della prima guerra mondiale stava segnando l'ingresso del capitalismo in un periodo di decadenza, di declino storico. Ma ben prima dello scoppio della guerra, l'ala sinistra della Seconda Internazionale ha dovuto intraprendere una feroce battaglia contro la destra, contro i riformisti, i centristi e gli opportunisti. Questi futuri rinnegati teorizzavano che il capitalismo aveva ancora bei giorni davanti a sé e che il proletariato non aveva bisogno di fare la rivoluzione e rovesciare il potere della borghesia.
La lotta della sinistra per la costruzione di una nuova Internazionale
Nel settembre 1915, per iniziativa dei bolscevichi, si svolse in Svizzera la Conferenza socialista internazionale di Zimmerwald che fu seguita da una seconda conferenza nell'aprile 1916 a Kienthal, sempre in Svizzera. Nonostante le difficili condizioni di guerra e repressione, vi parteciparono delegati di undici paesi (Germania, Italia, Russia, Francia, ecc.). Ma la maggior parte dei delegati erano pacifisti e si rifiutarono di rompere con i social sciovinisti che erano passati nel campo della borghesia votando i crediti di guerra nel 1914.
C’era quindi anche alla Conferenza di Zimmerwald un'ala sinistra raggruppata dietro i delegati della fazione bolscevica, Lenin e Zinoviev. Questa "sinistra di Zimmerwald" difese la necessità di rompere con i partiti socialdemocratici traditori e pose la necessità di costruire una nuova Internazionale. Contro i pacifisti sosteneva, che “la lotta per la pace senza l'azione rivoluzionaria è una frase vuota e falsa” e adottò la parola d'ordine di Lenin: “Trasformazione della guerra imperialista in guerra civile!” Uno slogan che era già contenuto nelle risoluzioni della Seconda Internazionale votate al Congresso di Stoccarda nel 1907 e soprattutto al Congresso di Basilea nel 1912.
La Sinistra di Zimmerwald costituirà così il “primo nucleo della Terza Internazionale in formazione” (come dirà il compagno di Lenin, Zinoviev, nel marzo 1918).
I nuovi partiti che si formarono rompendo con la socialdemocrazia iniziarono quindi a prendere il nome di “partito comunista”. Fu l'ondata rivoluzionaria aperta dalla Rivoluzione russa nell’ottobre del 1917 a dare un forte impulso ai militanti rivoluzionari per la fondazione della IC. I rivoluzionari avevano infatti capito che era assolutamente indispensabile e vitale fondare un partito mondiale del proletariato per la vittoria della Rivoluzione a scala mondiale.
Il primo Congresso dell'Internazionale fu convocato a Mosca il 2 marzo 1919 su iniziativa del Partito Comunista (bolscevico) della Russia e del Partito Comunista di Germania (KPD, ex Lega Spartacus).
Il programma politico dell'Internazionale comunista
La piattaforma dell'IC era basata sul programma dei due principali partiti comunisti, il partito bolscevico e il partito comunista tedesco (fondato il 29 dicembre 1918).
La piattaforma inizia affermando chiaramente che “una nuova epoca è nata: l'epoca della disgregazione del capitalismo, del suo crollo. L'era della rivoluzione comunista del proletariato”. Riprendendo il Discorso sul programma di fondazione del Partito comunista tedesco, pronunciato da R. Luxemburg, l'Internazionale sosterrà con chiarezza che “il dilemma davanti al quale si trova oggi l’umanità si pone così: caduta nella barbarie o salvezza attraverso il socialismo”. In altre parole siamo entrati nell’ “epoca di guerre e rivoluzioni”. La sola alternativa per la società era ormai: rivoluzione proletaria mondiale o distruzione dell'umanità; socialismo o barbarie. Questa posizione è affermata con forza nel primo punto della Lettera di invito al Primo Congresso di fondazione dell'Internazionale Comunista (redatto da Trotskij nel gennaio 1919).
Per l'Internazionale, l'entrata del capitalismo nel suo periodo di decadenza significava che la lotta rivoluzionaria del proletariato assumeva una nuova forma. Questo è il periodo in cui si sviluppa lo sciopero di massa, il periodo in cui i consigli operai sono la forma della dittatura del proletariato, come annunciato dalla nascita e dallo sviluppo dei soviet in Russia nel 1905 e nel 1917.
Ma uno dei contributi fondamentali dell'Internazionale è stata soprattutto la comprensione che il proletariato deve distruggere lo Stato borghese per costruire una nuova società. E’ a partire da questa questione che il primo congresso dell'Internazionale adotta le Tesi sulla democrazia borghese e sulla dittatura proletaria (redatte da Lenin). Queste tesi iniziano col denunciare la falsa opposizione tra democrazia e dittatura “perché, in nessun paese capitalista civilizzato, esiste ‘democrazia in generale’, ma solo una democrazia borghese”.
L'Internazionale affermava quindi che difendere la democrazia “pura” nel capitalismo significa difendere, di fatto, la democrazia borghese, la forma per eccellenza della dittatura del capitale. Contro la dittatura del capitale l'Internazionale affermava che solo la dittatura del proletariato su scala mondiale può rovesciare il capitalismo, abolire le classi sociali e offrire un futuro all'umanità.
Il partito mondiale del proletariato doveva quindi dare un chiaro orientamento alle masse proletarie per consentire loro di realizzare il loro obiettivo finale. Doveva difendere ovunque la parola d'ordine dei bolscevichi nel 1917 “Tutto il potere ai soviet”. Questa era la "dittatura" del proletariato: il potere dei Soviet o Consigli operai.
Dalle difficoltà della Terza Internazionale al suo fallimento
Purtroppo l'Internazionale fu fondata troppo tardi, quando la maggior parte dei sollevamenti rivoluzionari del proletariato in Europa venivano violentemente repressi. L'IC fu fondata, in effetti, due mesi dopo la repressione del proletariato tedesco a Berlino. Il Partito comunista tedesco aveva appena perso i suoi principali dirigenti, Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht, selvaggiamente assassinati dal governo socialdemocratico durante la sanguinosa settimana di Berlino del gennaio 1919. Al momento della sua costituzione l'Internazionale subiva già la sua prima sconfitta. Con lo schiacciamento della rivoluzione in Germania, questa sconfitta rappresentò anche e soprattutto una terribile sconfitta per il proletariato internazionale.
Bisogna riconoscere che, quando fondarono l'Internazionale, i rivoluzionari dell'epoca erano in uno stato di emergenza. La rivoluzione russa era completamente isolata, soffocata e circondata dalla borghesia di tutti i paesi (per non parlare degli atti di violenza controrivoluzionari degli Eserciti bianchi in Russia). I rivoluzionari erano con le spalle al muro e fu necessario agire rapidamente per costruire il partito mondiale. Fu a causa di questa emergenza che i principali partiti fondatori dell'Internazionale, tra cui il Partito bolscevico e il KPD, non furono in grado di chiarire le loro differenze e confusioni. Con il riflusso dell'ondata rivoluzionaria questa mancanza di chiarezza è stata un fattore importante nello sviluppo dell'opportunismo nell'Internazionale.
Successivamente, a causa della cancrena dell'opportunismo, questa nuova Internazionale morì a sua volta. Anch'essa cedette al tradimento del principio di internazionalismo da parte dell'ala destra dei partiti comunisti. In particolare il suo principale partito, il partito bolscevico, dopo la morte di Lenin, iniziò a difendere la teoria della “costruzione del socialismo in un solo paese”. Stalin, a capo del partito bolscevico, fu l’artefice della repressione del proletariato che aveva fatto la rivoluzione in Russia e impose una feroce dittatura contro i vecchi compagni di Lenin che stavano lottando contro la degenerazione dell'Internazionale e dicevano chiaramente che in Russia stava tornando il capitalismo.
In seguito, negli anni '30, i partiti comunisti di tutti i paesi calpestarono la bandiera dell'Internazionale ponendosi in difesa della “patria sovietica” e chiamando i proletari a massacrarsi tra loro, sui campi di battaglia della Seconda Guerra Mondiale. Come la Seconda Internazionale nel 1914, la IC fallì, anch'essa vittima della cancrena dell’opportunismo e di un lungo processo di degenerazione.
Ma, così come la Seconda Internazionale, anche l'IC secretò una minoranza di Sinistra tra i militanti rimasti fedeli all'internazionalismo e alla parola d'ordine “I proletari non hanno patria. Proletari di tutti i paesi unitevi”. Queste minoranze di Sinistra (in Germania, Francia, Italia, Olanda ...) intrapresero una lotta politica all'interno dell'Internazionale degenerata per cercare di salvarla. Ma alla fine Stalin riuscì ad espellerli. Li perseguitò con accanimento e liquidò fisicamente (ricordiamo i processi di Mosca, l'assassinio di Trotskij da parte degli agenti della GPU e anche i Gulag stalinisti).
Così i rivoluzionari espulsi dalla Terza Internazionale cercarono di riorganizzarsi, malgrado tutte le difficoltà della guerra e della repressione. Nonostante la loro dispersione in diversi paesi, queste minuscole minoranze di militanti internazionalisti seppero fare il bilancio dell'ondata rivoluzionaria del 1917-1923 per trarne le principali lezioni per il futuro.
Questi rivoluzionari che combatterono lo stalinismo non cercarono di fondare un nuova internazionale, prima, durante e dopo la Seconda guerra mondiale. Avevano compresero che si trovavano nella “mezzanotte del secolo”: il proletariato era stato schiacciato fisicamente, arruolato in massa dietro le bandiere nazionali dell'antifascismo e era vittima della più profonda controrivoluzione della storia. La situazione storica non era più favorevole per far sorgere una nuova ondata rivoluzionaria contro la guerra mondiale. Tuttavia, durante questo lungo periodo di controrivoluzione, le minoranze rivoluzionarie continuarono a svolgere, spesso in clandestinità, un'attività preziosa per preparare il futuro, mantenendo la fiducia nella capacità del proletariato di alzare la testa e rovesciare un giorno il capitalismo.
Vogliamo ricordare che la CCI si richiama agli apporti dell'Internazionale Comunista. La nostra organizzazione si pone in continuità politica anche con le frazioni di Sinistra espulse dall'Internazionale negli anni '20 e '30, specialmente con la Frazione della Sinistra Comunista Italiana. Questo centenario è quindi l'occasione per salutare l'inestimabile contributo dell'IC nella storia del movimento operaio, ma anche per trarre insegnamento da questa esperienza e armare il proletariato per le sue future lotte rivoluzionarie.
Ancora una volta, dobbiamo comprendere pienamente l'importanza della fondazione dell'Internazionale Comunista come primo tentativo di costituire il partito mondiale del proletariato. Soprattutto dobbiamo sottolineare l'importanza della continuità storica, del filo rosso che lega i rivoluzionari di oggi con quelli del passato, con tutti quei militanti che, per la loro fedeltà ai principi del proletariato, sono stati perseguitati e brutalmente assassinati dalla borghesia in primo luogo da quelli che erano stati i loro compagni di lotta divenuti poi dei traditori: i Kautsky, Noske, Ebert, Scheidemann, Stalin. Dobbiamo anche rendere omaggio a tutti quei militanti esemplari (Rosa Luxemburg, Karl Liebknecht, Leo Jogiches, Trotskij e molti altri) che hanno pagato con la vita la loro lealtà all'internazionalismo.
Per poter costruire il futuro partito mondiale del proletariato, senza il quale il rovesciamento del capitalismo sarà impossibile, le minoranze rivoluzionarie devono riorganizzarsi, oggi come nel passato. Devono chiarire le loro differenze attraverso il confronto di idee e posizioni, attraverso la riflessione collettiva e la più ampia discussione possibile. Devono essere in grado di imparare dal passato per comprendere l'attuale situazione storica e consentire alle nuove generazioni di aprire le porte del futuro.
Di fronte alla decomposizione della società capitalista, alla barbarie della guerra, allo sfruttamento e alla crescente miseria dei proletari, oggi l'alternativa rimane quella che l'Internazionale Comunista ha chiaramente identificato 100 anni fa: socialismo o barbarie, rivoluzione proletaria mondiale o distruzione dell'umanità in un caos sempre più sanguinoso.
CCI
Il mondo della politica si mostra ogni giorno più litigioso. Un giorno è la plastic tax, un altro il meccanismo europeo detto salva-stati, i vari partiti politici non esitano a usare i loro contrasti per confonderci le idee e distrarci dai problemi reali che vivono i proletari. Ognuno di loro ha la pretesa di parlare a nome del “popolo” italiano, e quindi anche dei lavoratori. In realtà, sia il governo gialloverde come quello giallorosso attuale (come lo definiscono loro), al pari di tutti quelli che li hanno preceduti, non sono altro che i difensori del capitale nazionale e devono per questo provare ad ingannare i lavoratori con misure spacciate per panacee per le loro condizioni di vita.
Il precedente governo ha cercato di accreditarsi come governo “popolare”, sbandierando le sue misure che avrebbero dovuto creare un sollievo ai problemi del lavoro come la quota cento e il reddito di cittadinanza. Ma quando le andiamo a vedere da vicino, queste misure non hanno portato in realtà niente di veramente consistente per l’insieme dei proletari. Vediamo:
La situazione con il nuovo governo non migliora, tutt’altro. Lo scenario che con sempre maggiore nitidezza va profilandosi davanti agli occhi di tutti è di uno sgretolamento progressivo di tutta la sfera produttiva italiana. I numeri dei posti in esubero sono impressionanti: Alitalia 5000; Unicredit 8000; Ilva di Taranto 4700; Whirlpool Campania 800; Embrago a Riva di Chieri 500; Bosch di Bari 640; Pernigotti 25, Jabil 350, Conad 3105, … per citare solo i più conosciuti, ma cui andrebbero aggiunte altre decine d’imprese di medie e piccole dimensioni che si trovano nelle stesse condizioni. Sono 160 le crisi aziendali per un totale stimato di 400.000 posti di lavoro a rischio. Particolarmente significativo è il caso dell’Unicredit che, con gli 8000 esuberi (più di 6000 in Italia) e la chiusura di quasi 500 filiali, è solo l’ultimo tassello di una falcidia nel settore bancario che in 12 anni ha cancellato 74.000 posti di lavoro. In questo caso è facile vedere come il progresso del digitale e dell’informatica (nel 2019 13,7 milioni d’italiani gestivano il loro denaro attraverso lo smartphone) sia a solo vantaggio degli imprenditori e tutto a carico dei lavoratori. E se per qualcuna sembra esserci una conclusione positiva, come per Almaviva dove sono stati revocati i 3000 licenziamenti, a leggere gli accordi ci si rende conto che ciò è avvenuto solo aumentando lo sfruttamento della manodopera: 6 mesi di Contratto di Solidarietà al 45% su Roma, 45% su Palermo e 35% su Napoli e ulteriori 12 mesi di Cassa Integrazione Guadagni Straordinaria.
Questo non è vero solo in Italia, ma tocca tutti i paesi capitalisti. Perfino nella “florida” Germania sono in corso tagli al personale in tutti i settori: Deutsche Bank, 18.000 posti in meno nei prossimi anni, 5600 in meno alla T-Systems, filiale informatica di Deutsche Telekom, 700 in meno in Allianz, Thyssenkrupp 6000 licenziamenti nel mondo di cui 4000 in Germania, Siemens 2700 nel mondo, 1400 in Germania, Bayer 12.000 da qui al 2021. Mentre in Francia il governo Macron attacca i servizi sociali, le pensioni, la sanità, ecc.
Se le aziende falliscono o semplicemente licenziano, non è per loro incapacità o perché c’è qualcuno che ha speculato o ha rubato: non è colpa del singolo capitalista se stiamo andando verso una nuova profonda recessione, è una conseguenza dell’obsolescenza di questo sistema capitalista che non riesce a garantire neanche più la semplice sopravvivenza dei suoi sfruttati.
Che cosa fanno di fronte a questa rovina lo Stato e i sindacati? Se consideriamo il caso dell’ILVA di Taranto, con i suoi 4700 esuberi - che coinvolgono all’incirca 20.000 famiglie considerando anche l’indotto - l’ultima pensata dello Stato è quella di entrare in società con l’attuale gestore franco-indiano ArcelorMittal con una iniezione di soldi freschi e … riducendo gli esuberi a 1800. In pratica, è una resa dello Stato di fronte al gioco al rialzo di Mittal accettando il 40% degli esuberi dichiarati dall’azienda. Il tutto accompagnato dalla promessa di una riconversione dell’impianto con una tecnologia più pulita, puntando con questo ancora una volta a mettere in alternativa occupazione e salute, come se i lavoratori dovessero scegliere se morire di cancro o semplicemente di fame.
E i sindacati? Cosa propongono i sindacati per far fronte a questa situazione? La risposta di Landini, segretario generale della CGIL, il sindacato che si presenta come il più combattivo e di sinistra, è davvero significativa. Piuttosto che difendere le condizioni dei lavoratori passando all’attacco contro licenziamenti e peggioramenti delle condizioni di vita, Landini propone “un’alleanza con governo e imprese per impedire che il Paese si sbricioli”[3], chiedendo alle imprese di “abbandonare le sirene della finanza, di tornare a essere gli imprenditori innovativi e capaci che insieme a chi lavora hanno fatto l’Italia”[4]. In pratica si propone un patto sociale che non può essere fatto che sulle spalle dei proletari. In più il subdolo monito sulle “sirene della finanza” suggerisce l’illusoria idea che l’investimento di capitali in aree speculative in questo periodo sia il fatto di capitalisti egoisti e non la ricerca della necessaria valorizzazione di ogni capitale.
Di fronte a questi attacchi generalizzati coadiuvati e sostenuti dal sindacato, solo la lotta unita di tutti i lavoratori può mettere in campo una forza capace di opporvisi. Non ci si può opporre agli attacchi concentrici di capitalisti, Stato e sindacato con delle lotte separate, incentrate sulle specificità della propria situazione, come i sindacati ci invitano continuamente a fare. Né si può pensare di salvare il proprio posto di lavoro mettendo avanti le qualità della propria azienda, la sua alta produttività, il suo ruolo strategico. L’unica regola che il capitale conosce è quella della massima estrazione di plusvalore dai proletari e di trasformarlo in profitto; quando non ci riesce, taglia e chiude.
Per evitare che i lavoratori comincino da soli a pensare che bisogna unirsi, ecco che il sindacato si mette subito davanti per prendere tempo: “E’ necessario riflettere su uno sciopero generale unitario” ha dichiarato il segretario della CGIL Landini il 20 novembre, ma dopo ben oltre un mese ci stanno ancora riflettendo! E comunque li conosciamo gli “scioperi generali unitari” del sindacato: giornate isolate di mobilitazione, con i lavoratori a sfilare ognuno dietro il proprio striscione per andare ad ascoltare il solito comizio del sindacalista di turno e poi tornarsene a casa senza che sia cambiato niente. Non è certo così che si fa l’unità dei lavoratori: questa si forgia nelle assemblee congiunte, dove ci si riunisce in quanto proletari, dove ci si confronta per decidere come dare forza alla lotta, come dare continuità alla mobilitazione, come allargare la lotta ad altri settori, visto che gli attacchi non si limitano ai licenziamenti, ma comprendono la crescente precarizzazione del lavoro, i tagli ai salari, ecc.
Se ad attaccare è il capitale con le sue appendici dei governi borghesi e dei sindacati ormai strumenti di controllo delle lotte proletarie, la strada per i lavoratori è una sola: unirsi per difendere le proprie condizioni di lavoro, senza perdersi dietro alle specificità, dietro le sterili manifestazioni sindacali.
Certo, questa tappa è difficile. E’ una vera montagna. Essa richiede di riconoscersi non più come metalmeccanici, siderurgici, bancari, infermieri, ecc., ecc., ma come proletari, come i veri produttori della ricchezza, una ricchezza che ci viene strappata in massima parte per diventare profitto per il capitale. Per arrivarci i lavoratori più coscienti devono diffondere l’idea che è una cosa possibile, che l’esperienza del movimento del proletariato lo dimostra, che i lavoratori in Francia nel 1968 o quelli italiani nel 1969 (l’autunno caldo), o ancora quelli della Polonia nel 1980 lo hanno fatto, che il proletariato è la principale forza sociale della società quando è unito, solidale e organizzato. Questi lavoratori devono raggrupparsi, discutere, riappropriarsi delle lezioni del passato, per preparare l’avvenire della lotta di classe.
Elios
[1] Preso dall’entusiasmo, Di Maio arrivò anche a dire che per ogni pensionamento si sarebbero creati 3 nuovi posti di lavoro! Dopo la moltiplicazione dei pani e dei pesci, ora abbiamo anche la moltiplicazione dei posti di lavoro!
[2] Ogni tanto ci presentano statistiche secondo cui gli occupati sono in aumento, ma se poi si vanno a vedere le ore lavorate, si vede che queste diminuiscono; questo perché ùquesto aumento corrisponde solo ad un aumento del lavoro part time, per cui da un solo occupato ora ce ne sono due, ma a metà stipendio.
[3] La Repubblica, 9 dicembre 2019.
[4] Non deve sfuggire in questa frase l’invito a considerare gli imprenditori come dei partner, degli alleati con cui tracciare assieme un percorso comune, piuttosto che degli avversari. D’altra parte la produzione della RAI di ben cinque fiction sui grandi imprenditori italiani (Adriano Olivetti, Enrico Mattei (ENI), Giovanni Borghi (Ignis), Enzo Ferrari e Luisa Spagnoli) va esattamente nello stesso senso, cioè far passare l’idea che esistano gl’imprenditori buoni e capaci e che se le cose vanno male è per l’incapacità o l’ingordigia di qualche imprenditore.
Se c’è un obiettivo che questo governo non può non cercare di perseguire è quello di durare il più a lungo possibile. A differenza delle coalizioni del passato infatti questo governo non si basa su un progetto condiviso, almeno in linea di massima, ma sulla necessità di non andare alle elezioni consegnando il paese alla destra, alla Lega di Salvini in particolare.
L’opposizione di Salvini e della Meloni cerca in tutti i modi di utilizzare le divisioni governative per far saltare il governo e portare l’Italia alle elezioni che, visti gli attuali orientamenti politici degli Italiani, porterebbe a eleggere un parlamento con una maggioranza di destra con un’ancora più forte influenza populista. Questo risultato produrrebbe non solo un governo di destra a guida Salvini, ma anche l’elezione di un presidente della Repubblica gradito alla destra e soprattutto ai populisti. Lo scenario che si aprirebbe è davvero raccapricciante per la borghesia che finora si è aggrappata ai delicati e discreti interventi di personaggi come Napolitano e Mattarella e che con un personaggio, poniamo, alla Berlusconi, perderebbe completamente la capacità di manovra che ha avuto negli ultimi anni e prima ancora.
Essendo nato per una emergenza, si capisce dunque come un tale governo non solo non può essere portatore di uno sviluppo della situazione politica ed economica italiana, ma non riesce neanche ad avere un minimo di tranquillità al suo interno. Infatti, i vari partiti governativi sono a loro volta contrapposti su questioni specifiche, un esempio per tutti è la questione dell’acciaieria di Taranto, in affitto ad Arcelor Mittal, che vede i 5 Stelle divisi in chi è a favore della chiusura e chi per la difesa dei posti di lavoro. A Taranto si è presentato anche il presidente Conte a cercare di calmare la situazione, anche se onestamente ha detto di non avere delle soluzioni. E pare che la proposta infine accettata sia di far fuori un numero considerevole di lavoratori, sul numero si sta trattando, e investire denaro pubblico per risanare l'impianto industriale, ciò che Arcelor alla fine voleva.
Le campagne propagandistiche del governo Di Maio-Salvini erano centrate su Quota 100, Reddito di cittadinanza e No agli immigrati, quelle dell’attuale governo faticano a venir fuori non essendoci una base condivisa, si va avanti alla cieca, e quindi scompaiono dalla scena politica. Non si parla più degli sbarchi degli immigrati, cavallo di battaglia di Salvini, della TAV, delle autostrade, e neanche la questione Alitalia viene affrontata seriamente. Ma soprattutto non vengono affrontate tutte le questioni riguardanti il mondo del lavoro, del precariato che doveva essere abolito, dell'economia e dello sviluppo delle infrastrutture. Un governo che si dichiara di sinistra non ha nulla da offrire ai lavoratori se non una ridicola riduzione fiscale di 40€ al mese, ma non per tutti!
Sul piano economico, la componente più importante della manovra consisteva nel bloccare l’aumento dell’IVA, e questo sono riusciti a farlo, ma a costo di non avere più soldi per un adeguamento delle infrastrutture alle necessità del paese. Il territorio va a rotoli tra frane e crolli, allagamenti e alluvioni, non si riesce a dar inizio ad una serie di interventi di ampie dimensioni per evitare il peggio e nel frattempo i partiti al governo litigano su che cosa si dovrebbe fare.
Negli ultimi giorni, dopo un incontro a livello europeo, l’accordo sul MES, meccanismo europeo di stabilità, ha portato lo scontro tra governo e opposizione ad un livello più alto, Salvini e Meloni accusando Conte di tradimento della nazione ma quest'ultimo, dimostrando un carattere diverso dal Conte del primo governo, ha rinfacciato a Salvini il suo precedente accordo sul MES. Se Conte è sicuro dell’appoggio del Presidente della Repubblica e d’importanti settori della borghesia sul suo operato, non può dire altrettanto di Di Maio, che è tentato di pugnalarlo alle spalle.
Questo governo sembra concentrare in sé tutti i problemi del periodo. Infatti, questo è un governo che non ha i numeri per affrontare la crisi attuale non tanto per incapacità, che pure c’è, ma perché la situazione è oggettivamente non risolvibile. In più è sotto gli attacchi incessanti del populismo e si trova al centro di una crisi industriale in Italia tra le più gravi della storia degli ultimi decenni. Il problema che si pone alla borghesia in Italia è dunque come recuperare il controllo sull’elettorato e dunque la macchina delle elezioni per puntare su forze politiche più responsabili nelle prossime elezioni. Questa è un’operazione non facile, ma dei tentativi si possono vedere in almeno due fenomeni. Il primo è la creazione del tutto artificiale del movimento ecologista di Greta Tumberg, che ha già dato nuova linfa a vari partiti verdi in varie elezioni in Europa. L’altro, più locale, è lo sviluppo del movimento delle sardine[1], un movimento in prima istanza antipopulista, che ha già guadagnato la fiducia di strati importanti di popolazione e il cui intento è esplicitamente quello di contrastare il populismo di Salvini e produrre una sorta di anticorpi politici nel paese.
Quale sarà l’evoluzione di questa situazione è quasi impossibile da prevedere, ma sappiamo che dall’esito dello scontro tra le varie forze politiche dipenderà solo il ritmo con cui avanza la crisi della situazione politica ed economica italiana, non certo la sua soluzione. Questa invece dipende solo dalla ripresa della lotta di classe e dall’affermarsi del proletariato come classe protagonista di questa società.
Oblomov, 8 dicembre 2019
[1] Il movimento è nato con la protesta di Piazza Maggiore contro Matteo Salvini che dalla stessa città lanciava la campagna elettorale leghista in vista delle regionali in Emilia Romagna.
Dappertutto nel mondo si stanno estendendo e approfondendo gli attacchi contro la classe operaia[1]. Ancora una volta la classe dominante sta cercando disperatamente di frenare gli effetti del declino storico del suo modo di produzione e sono sempre ed ancora i proletari a dover pagare il conto! Nei paesi "ricchi", i piani di licenziamento sono in aumento, in particolare in Germania e nel Regno Unito e Italia. Alcuni dei cosiddetti paesi "emergenti" sono già in recessione (Brasile, Argentina, Turchia), con tutto ciò che quest'ultima comporta come fattore d’aggravamento della condizione dei proletari. Per quanto riguarda i proletari dei paesi che non sono né "ricchi" né "emergenti", la loro situazione è ancora più drammatica; ed anche altri strati della popolazione non sfruttatrice è spinta in una miseria senza fondo.
Questi ultimi paesi in particolare sono stati recentemente teatro di movimenti popolari in risposta ai ripetuti sacrifici richiesti da anni dal capitalismo e repressi da governi spesso incancreniti dalla corruzione, screditati e odiati dalle popolazioni. Tali movimenti hanno avuto luogo in Cile, Ecuador, Haiti, Iraq, Algeria, Libano e più recentemente in Iran. Le mobilitazioni, spesso molto massicce, sono accompagnate in alcuni paesi da forti violenze e da sanguinose repressioni. Il massiccio movimento di protesta a Hong Kong, che si è sviluppato in reazione non tanto alla miseria e alla corruzione quanto al rafforzamento dell'arsenale repressivo - in particolare la possibilità di estradizioni nella Cina continentale - ha recentemente visto l'irruzione di un livello superiore di repressione: la polizia ha sparato a bruciapelo contro i manifestanti.
Se la classe operaia è presente in queste "rivolte popolari", non lo è mai come classe antagonista al capitalismo, risulta sempre diluita nella popolazione. In effetti, sono le grandi difficoltà che incontra nel riconoscere la propria identità di classe e la sua assenza dalla scena sociale globale a spiegare la moltiplicazione di tali movimenti popolari sterili e inadatti ad opporsi alla logica del capitale. Inoltre, lungi dal favorire l'emergere di una futura risposta della classe operaia e, con essa, l'unica prospettiva praticabile, la lotta contro il sistema capitalista, le rivolte popolari, interclassiste, marcate dal “no futur” (nessun futuro), non fanno che oscurare una tale prospettiva. Esse rafforzano ulteriormente le difficoltà della classe operaia ad esprimere la propria lotta di classe contro le manifestazioni sempre più intollerabili del fallimento del capitalismo. Tuttavia, non possono eliminare il fatto che le contraddizioni di questo sistema, che saranno sempre più profonde, spingeranno sempre più la classe operaia mondiale a far fronte a tutte le difficoltà che sta affrontando attualmente. Il ruolo dei rivoluzionari è cruciale perché sono gli unici in grado di fare una critica senza compromessi alle sue debolezze.
Dopo anni di ripetuti attacchi è spesso un nuovo attacco, non necessariamente massiccio, ad "incendiare le polveri".
In Cile, è l'aumento del prezzo della metropolitana di Santiago a rappresentare "la goccia che fa traboccare il vaso". "Il problema non sono i 30 centesimi [d'aumento], ma i 30 anni [di attacchi]”, lo slogan emerso nelle manifestazioni. In questo paese, il salario mensile è inferiore a 400 €, la precarietà è generale, i costi del cibo e dei servizi sono esagerati, i sistemi educativi e sanitari spesso falliscono, quello pensionistico condanna i pensionati alla povertà.
In Ecuador, il movimento di protesta è causato da un aumento del prezzo del biglietto dei trasporti, che si aggiunge all'aumento di tutti i prodotti o servizi di base, che a sua volta si accompagna al congelamento dei salari, a licenziamenti di massa, alla "donazione" obbligatoria di una giornata di lavoro allo Stato, alla riduzione dei giorni di ferie e ad altre misure che portano ad un ulteriore deterioramento e precarietà alle condizioni di vita.
Ad Haiti, la carenza di carburante si abbatte sulla popolazione come un'ulteriore calamità che porta alla paralisi del paese più povero dell'America Latina, uno dei pochi al mondo a non veder ridursi il suo tasso di estrema povertà.
Se la crisi economica è di solito la causa principale degli attacchi alle condizioni di vita, in alcuni paesi, come il Libano e l'Iraq, questa si sovrappone alle conseguenze traumatiche e drammatiche delle tensioni imperialiste e delle guerre senza fine in Medio Oriente.
In Libano, è l'imposizione di una tassa sulle chiamate tramite WhatsApp a provocare la "rivolta" nel paese in cui il debito pro capite è il più elevato del mondo. Ogni anno il governo aggiunge nuove tasse, un terzo della popolazione è disoccupato e le infrastrutture sono mediocri.
In Iraq, dal primo giorno di un movimento nato spontaneamente dopo gli appelli a protestare sui social network, i manifestanti chiedono lavoro e servizi pubblici che funzionino, esprimendo la loro rabbia contro la classe dirigente accusata di corruzione.
In Iran, l'aumento del prezzo del carburante arriva in una situazione di profonda crisi economica aggravata dalle sanzioni americane contro il Paese.
In Cile, i tentativi di lotta sono stati deviati sul terreno della violenza nichilista senza alcuna prospettiva, caratteristica della decomposizione capitalista. Abbiamo così visto l'irruzione di una violenza sottoproletaria, favorita dallo Stato, attraverso atti di violenza irrazionale e minoritaria. Questo clima di violenza è stato ovviamente utilizzato dallo Stato per giustificare la repressione e intimidire il proletariato. Secondo i dati ufficiali, ci sarebbero stati 19 morti. La tortura è riapparsa come nei momenti peggiori di Pinochet. Tuttavia, la borghesia cilena ha capito che la brutale repressione non è servita a calmare il malcontento. Il governo di Piñera ha allora fatto il mea culpa, adottato una posizione "umile", e ha dichiarato di "comprendere" il "messaggio del popolo", ha "provvisoriamente" ritirato le misure e aperto la porta al "dialogo sociale". Vale a dire che gli attacchi saranno imposti dalla "negoziazione", a partire dal tavolo del "dialogo" in cui si trovano i partiti di opposizione, i sindacati, i padroni, tutti insieme a "rappresentare la nazione". Perché questo cambio di tattica? Perché la repressione non è efficace se non è accompagnata da un inganno democratico, dalla trappola dell'unità nazionale e dallo scioglimento del proletariato nella massa amorfa del "popolo"[2].
In Ecuador, le associazioni dei trasportatori hanno paralizzato il traffico e il movimento indigeno così come altri gruppi diversi hanno aderito alla mobilitazione. Le proteste degli imprenditori dei trasporti e di altri settori di piccoli sfruttatori si caratterizzano per il loro aspetto di rivolta di “cittadini” e soprattutto nazionalista. È in questo contesto che le mobilitazioni nascenti dei lavoratori contro gli attacchi - nel sud di Quito, a Tulcán e nella provincia di Bolivar - costituiscono una bussola per l'azione e la riflessione di fronte all’estensione della "mobilitazione" della piccola borghesia.
La Repubblica di Haiti si trova in una situazione prossima alla paralisi generale. Le scuole sono chiuse, le strade principali tra la capitale e le regioni sono tagliate da barricate, molti negozi sono chiusi. Il movimento è accompagnato da manifestazioni spesso violente, mentre bande criminali (tra le 76 bande armate repertoriate in tutto il territorio […], almeno tre sono al soldo del potere, il resto è sotto il controllo di un ex deputato e senatori dell'opposizione) commettono abusi, bloccano le strade e saccheggiano i pochi automobilisti. Domenica 27 ottobre, un vigilante privato ha sparato contro i manifestanti, uccidendo una persona. In seguito è stato linciato dalla folla e bruciato vivo. Un rapporto non ufficiale riporta una ventina di morti in due mesi.
Algeria: una marea umana ha nuovamente invaso le strade di Algeri nell'anniversario dello scoppio della guerra contro il colonizzatore francese. La mobilitazione è simile a quella registrata nel momento più alto dell'"Hirak", il movimento di protesta senza precedenti di cui l'Algeria è stato teatro dal 22 febbraio. Essa si oppone massicciamente alle elezioni presidenziali che il potere organizza il 12 dicembre per eleggere un successore di Bouteflika, perché considera che queste elezioni servono solo a mantenere in vita questo "sistema".
Iraq: in diverse province del sud, i manifestanti hanno attaccato istituzioni, partiti politici e gruppi armati. Impiegati, sindacati, studenti hanno dimostrato e iniziato dei sit-in. Se finora la repressione delle manifestazioni ha provocato, secondo un rapporto ufficiale, la morte di 239 persone, la maggior parte delle quali abbattute da pallottole di arma da fuoco, la mobilitazione è continuata a Baghdad e nel sud del paese. Dall'inizio della protesta, i manifestanti hanno ripetutamente affermato di rifiutare qualsiasi recupero politico del loro movimento perché volevano rinnovare l'intera classe politica. È anche necessario, dicono, porre fine al complicato sistema di distribuzione dei posti per confessione o gruppo etnico, intriso di clientelismo e che lascia sempre fuori i giovani che sono la maggioranza della popolazione. Nei giorni scorsi ci sono state imponenti manifestazioni di esultanza e picchetti di sciopero che hanno paralizzato università, scuole e amministrazioni. Inoltre, violenze notturne hanno avuto luogo contro quartieri generali (QG) di partito e delle milizie.
Libano: la rabbia popolare è generale, trascende tutte le comunità, tutte le confessioni e tutte le regioni del paese. La cancellazione della nuova tassa sulle chiamate tramite WhatsApp non ha impedito alla rivolta di guadagnare l'intero paese. Le dimissioni di Saad Hariri sono solo una piccola parte delle rivendicazioni della popolazione. I libanesi chiedono le dimissioni dell'intera classe politica, considerata corrotta e incompetente, e un cambiamento radicale del sistema.
Iran: dall'annuncio dell'aumento del prezzo dei carburanti, violenti scontri tra rivoltosi e forze dell'ordine hanno prodotto parecchi morti da entrambe le parti, particolarmente numerosi da parte dei manifestanti.
In tutte le rivolte popolari interclassiste sopra citate, e secondo le informazioni che siamo stati in grado di raccogliere, la classe operaia è riuscita solo occasionalmente a manifestarsi come tale, anche in situazioni come il Cile in cui la causa principale delle mobilitazioni è stata chiaramente la necessità di difendersi dagli attacchi economici.
Spesso, la "rivolta" prende allora per bersaglio privilegiato o addirittura unico, quelli che, al potere, si sono resi responsabili di tutti i mali che toccano la popolazione e, di conseguenza, essa risparmia il sistema di cui costoro sono i servi. Focalizzare la lotta sull’obiettivo della sostituzione dei politici corrotti è ovviamente un vicolo cieco perché, qualunque siano le formazioni al potere, qualunque sia il loro livello di corruzione, tutte queste non potranno e non faranno che difendere gli interessi della borghesia e condurre una politica al servizio del capitalismo in crisi. Questa situazione di stallo è tanto più pericolosa perché "legittimata" da richieste democratiche "per un sistema pulito", mentre la democrazia è la forma privilegiata di dominio della borghesia per mantenere il suo dominio di classe sulla società e sul proletariato. È significativo a questo proposito come in Cile, dopo la feroce repressione e di fronte a una situazione di cui la borghesia aveva sottovalutato l'esplosività, quest'ultima sia passata successivamente ad una nuova fase della sua risposta, fatta di un attacco politico basato sulla mobilitazione degli organi democratici classici di mistificazione e di inquadramento, finalizzato al progetto di una "nuova costituzione" presentata come una vittoria del movimento di protesta.
La rivendicazione democratica diluisce i proletari nell'insieme della popolazione, offusca la coscienza della loro lotta storica, li sottomette alla logica del dominio del capitalismo, li riduce all'impotenza politica.
Interclassismo e democratismo sono due metodi che si sposano e si completano a vicenda in modo terribilmente efficace contro la lotta autonoma della classe operaia. Ciò è tanto più vero che, con il periodo storico aperto con il crollo del blocco dell'Est e le ingannevoli campagne sulla morte del comunismo[3], il progetto storico del proletariato ha cessato temporaneamente di stare più o meno consapevolmente alla base della sua lotta. Quando quest'ultima riesce a imporsi, è in contrasto con il fenomeno generale della decomposizione della società in cui l’ognuno per sé, l'assenza di prospettive, ecc. acquisiscono un peso maggiore[4].
Le esplosioni di violenza che spesso accompagnano le rivolte popolari sono lungi dall'esprimere una qualsivoglia radicalità. Ciò è evidente quando esse sono fatte dai sottoproletari, che agiscono spontaneamente o agli ordini occulti della borghesia, con i loro vandalismi, saccheggi, incendi, violenza irrazionale e minoritaria. Ma, fondamentalmente, una tale violenza è intrinsecamente contenuta nei movimenti popolari quando essi non si rimettono direttamente alle istituzioni dello Stato. Non avendo ovviamente da offrire alcuna prospettiva di una radicale trasformazione della società per abolire la povertà, le guerre, la crescente insicurezza, e altre calamità del capitalismo in agonia, essi possono solo essere portatori di tutte le tare della società capitalista in decomposizione.
Il movimento di protesta a Hong Kong ne è un perfetto esempio, in quanto sempre più visibilmente privato di prospettive - in effetti non poteva averne dal momento che esso si collocava nel campo "democratico" senza mettere in discussione il capitalismo - esso si trasforma in una gigantesca vendetta dei manifestanti di fronte alla violenza della polizia, e poi degli stessi poliziotti, che a volte rispondono spontaneamente alla violenza dell'altra parte. È la costatazione che fanno certi organi della stampa borghese: "niente che Pechino abbia potuto tentare di fermarli ha funzionato, né il ritiro della legge sull'estradizione, né la repressione poliziesca, né il divieto di indossare maschere sulla strada pubblica. Ora questi giovani di Hong Kong non sono più mossi dalla speranza, ma dalla voglia di battersi, per mancanza di altri possibili risultati"[5].
Alcune persone immaginano - o vogliono farci credere - che qualsiasi violenza in questa società, quando esercitata contro le forze della repressione dello Stato, è necessariamente da sostenere, perché s'apparenterebbe alla necessaria violenza di classe del proletariato quando quest'ultimo entra in lotta contro l'oppressione e lo sfruttamento capitalistici[6]. Si tratta di un profondo errore profondo o di una mistificazione grossolana. In effetti, la violenza cieca dei movimenti interclassisti non ha nulla a che fare con la violenza di classe del proletariato che è liberatrice, per la soppressione dello sfruttamento dell'uomo da parte dell'uomo, a differenza di quella del capitalismo che è oppressiva, con lo scopo principale di difendere la società di classe. La violenza dei movimenti interclassisti è disperata, all'immagine della piccola borghesia che non ha un futuro, a cui non resta solo o aggrapparsi alla borghesia o unirsi al proletariato.
In effetti, la trilogia "interclassismo, rivendicazione democratica, violenza cieca" è il segno distintivo delle rivolte popolari che stanno scoppiando in ogni angolo del pianeta in risposta al degrado accelerato di tutte le condizioni di vita che colpiscono la classe operaia, altri strati non sfruttatori e la piccola borghesia totalmente impoverita. Il movimento dei gilet gialli che è apparso in Francia un anno fa appartiene anche a questa categoria di rivolte popolari[7] . Tali movimenti possono solo contribuire a oscurare agli occhi dei proletari quale sia la vera lotta di classe, a rafforzare le attuali difficoltà di questi ultimi a concepirsi come una classe sociale, diversa dalle altre classi, con la sua lotta specifica contro lo sfruttamento e la sua missione storica del rovesciamento del capitalismo.
Questo è il motivo per cui la responsabilità dei rivoluzionari e delle minoranze più coscienti della classe operaia è quella di lavorare affinché la classe operaia possa riappropriarsi dei suoi metodi di lotta, al centro dei quali c'è la lotta di massa; l'assemblea generale come luogo di discussione, di decisione e di difesa contro i tentativi di sabotaggio dei sindacati, aperta a tutti i settori della classe operaia; l'estensione agli altri settori, imposta contro le manovre dei sindacati e della sinistra della capitale[8]. Benché effettivamente queste prospettive appaiono oggi lontane, specialmente in quelle parti del mondo dove la classe operaia è molto minoritaria, con poca esperienza storica, esse tuttavia restano ovunque l'unica bussola che permetterà al proletariato di non dissolversi e perdersi.
Silvio. (2019/11/17)
[1] Leggi il nostro articolo “Nuova recessione: Il capitale esige più sacrifici dal proletariato!”, in francese su Révolution Internationale n. 478
[2] Per ulteriori informazioni e analisi sulla situazione in Cile, leggi il nostro articolo Mouvement social au Chili: l’alternative dictature ou démocratie est une impasse [387], su Révolution Internationale n.479
[3] Torneremo presto con articoli della nostra stampa sul notevole impatto di queste campagne menzognere sulla lotta di classe e metteremo in evidenza come lo stato del mondo sia diventato l'opposto di quanto era stato annunciato: “un’era di pace e prosperità”.
[4] Vedi in particolare le Tesi sulla decomposizione, su Rivista internazionale n. 14, https://it.internationalism.org/content/la-decomposizione-fase-ultima-della-decadenza-del-capitalismo [388]
[5] "I manifestanti di Hong Kong non sono guidati dalla speranza". The Atlantic, rivista americana
[6] Da questo punto di vista, è illuminante confrontare le recenti rivolte in Cile con l'episodio della lotta dei lavoratori in Argentina chiamato del Cordobazo nel 1969: “Il 29 maggio, in seguito a una serie di proteste nelle città operaie contro i violenti attacchi economici e la repressione della giunta militare, gli operai di Cordoba sopraffecero completamente la polizia e l'esercito (per lo più dotati di carri armati) diventando padroni della città (la seconda del paese). Il governo fu in grado di "ristabilire l'ordine" solo il giorno successivo grazie al massiccio invio di truppe militari.”; sullo stesso episodio leggere il nostro articolo "Il Cordobazo argentino (Maggio 1969): un anello di una catena di mobilitazioni operaie nel mondo", The Argentinean Cordobazo - May 1969, a moment in the resurgence of the international class struggle [389]
[7] Leggi a questo proposito il nostro supplemento a Révolution Internationale n. 478, Bilan du mouvement des “gilets jaunes”: Un mouvement interclassiste, une entrave à la lutte de classe [390]
[8] A questo proposito, leggi la risoluzione sul rapporto di forze tra le classi adottata al 23° Congresso della CCI (2019) https://it.internationalism.org/content/1502/risoluzione-sul-rapporto-di-forza-tra-le-classi-2019 [391]
La Libia è regolarmente nelle notizie di cronaca dal 2011, anno della liquidazione della sua defunta “guida” Gheddafi da parte delle potenze della NATO (Francia, Regno Unito e Stati Uniti). “Questa sfortunata Libia, che la guerra franco-britannica del 2011 ha trasformato in un paradiso per i terroristi di Daesh e Al Qaeda, ora eredita una guerra civile. Trafficanti di armi, droga o di migranti vi proliferano e raramente entrano in conflitto con i jihadisti. Ovvio, sono spesso soci in affari…”[1].
In nome della “protezione della popolazione civile”, dopo la fine della “Primavera araba” in Libia (repressa brutalmente dall'ex colonnello dittatore) le potenze occidentali dichiararono guerra al leader libico. Dopo aver schiacciato la popolazione sotto le bombe e aver liquidato Gheddafi, hanno lasciato il paese nelle mani di numerosi gruppi assetati di sangue che si disputano continuamente il controllo del moribondo Stato libico.
"I combattimenti che rimbombano di nuovo alle porte di Tripoli, "padrini" regionali che alimentano le fiamme tra i belligeranti, un diluvio di odio nella propaganda. Dal 4 aprile, giorno dell'attacco a Tripoli da parte delle truppe del maresciallo Haftar, la guerra riaccende i fuochi in Libia. Otto anni dopo l'insurrezione anti-Gheddafi (sostenuta dalle incursioni della NATO) e cinque anni dopo la guerra civile del 2014, il gigante nordafricano, convalescente, ricade nel caos, nell’'instabilità, nel rischio estremista. (...) Si torna al punto di partenza”[2].
Oggi, tra la decina di milizie coinvolte, le due fazioni più importanti pretendono lo statuto di interlocutori con le grandi potenze e le Nazioni Unite: si tratta del Governo di accordo nazionale (GAN) guidato da Faïse Sarraj, nominato dalle Nazioni Unite, sostenuto da Turchia e Qatar e dell’Esercito nazionale libico (ANL), che governa la regione cirenaica, guidato da Khalifa Haftar che è sostenuto da Egitto, Arabia, Emirati Arabi Uniti più (dietro le quinte) Francia, Russia e Stati Uniti. Intanto il governo dell'ex potenza coloniale italiana sostiene l'una o l'altra fazione delle “autorità” in campo, come ha fatto recentemente in ottobre rinnovando, ad esempio, un accordo spregevole che consente la formazione di guardie costiere libiche per dare la caccia ai migranti.
In realtà, quello che domina in questo conflitto sono il ciascuno per sé e l'ipocrisia. Questo spettacolo barbaro rivela l'atteggiamento completamente falso e abietto delle grandi potenze che fanno il doppio gioco, come il governo francese colto in flagrante menzogna quando nega senza vergogna l'esistenza di missili forniti dai suoi servizi segreti al maresciallo Haftar affermando che “la Francia è in Libia per combattere il terrorismo”.
Per quanto riguarda i due signori della guerra libici, i loro obiettivi sono altrettanto infami: “In questo modo, l’uno di fronte all’altro, i due campi non oseranno mai confessare il vero motivo del loro scontro. Il ricorso enfatico a una retorica giustificatrice ad uso esterno (“rivoluzione” o “antiterrorismo”) difficilmente nasconde la brutalità di una rivalità per appropriarsi delle risorse, che assume un significato molto particolare in questo ex Eldorado del petrolio che è la Libia. Nonostante le turbative causate dal caos post 2011, il petrolio libico continua a fornire 70 milioni di dollari (62,5 milioni €) di entrate al giorno. Pertanto il controllo dei canali di distribuzione di questa rendita petrolifera stuzzica molti appetiti”[3].
Questo è un altro aspetto del conflitto di cui nessuno parla nei discorsi ufficiali dei leader del mondo capitalista! Questa corsa al “bottino” petrolifero, aperta dal caos generato dopo il 2011, oppone fra loro un gran numero di piccoli e grandi gangster locali e internazionali sul suolo libico.
Peggio ancora, per i grandi avvoltoi capitalisti la Libia rappresenta un altro interesse inconfessabile: l'esistenza, su loro iniziativa, di mostruosi “campi di accoglienza” per i migranti rimpatriati o in attesa di un imbarco tanto ipotetico quanto mortale in Europa!
Oltre al cruento caos provocato dalle grandi potenze imperialiste, la Libia è diventata un vero “mercato” e un cimitero per i migranti di cui l'UE è responsabile. Il 14 novembre 2017 sono state trasmesse dalla CNN immagini del mercato degli schiavi in Libia dove abbiamo potuto vedere esseri umani venduti all'asta come bestiame. Sono tra i 700.000 e 1 milione i migranti caduti nella trappola di reti e trafficanti criminali di cui Stati europei e africani sono complici attivi. “Ciò che sta accadendo in Libia, paese senza leadership e consegnato alla milizia armata, è una tragedia su cui l'Unione europea chiude gli occhi. I leader africani, dopo aver optato per l'ipocrisia, seguono l'Europa come galline (...) Il reportage della CNN non cambierà molto alla situazione a Tripoli, Misrata, Bengasi o Tobruk. In un paese decimato dalla guerra civile, dove esplode l'inflazione, dove l'economia è in rovina e dove si praticano esecuzioni di massa dei prigionieri, ognuno lavora sia nel settore del contrabbando e collabora con i trafficanti che nella lotta contro il contrabbando e contro i contrabbandieri. Questo reportage mostra un caso di servitù legato alla liquidazione di un debito, ma un gran numero di migranti venduti all'asta in Libia sono detenuti in un traffico legato al pagamento di riscatti. Con la chiusura della strada libica che porta in Italia, i migranti subsahariani si trovano spesso bloccati e non possono permettersi di tornare a casa. I trafficanti li vendono quindi al miglior offerente (ad esempio una milizia). Gli acquirenti costringono poi i migranti a contattare le loro famiglie per chiedere loro di inviare un riscatto che può variare da 2000 a 3000 dinari (da 1200 a 1800 euro) a persona”[4]. Secondo un rapporto pubblicato dall'Unicef: “I centri di detenzione gestiti dalle milizie non sono altro che campi di lavoro forzato, carceri in cui tutti vengono derubati sotto la minaccia delle armi. Per migliaia di donne e bambini, la vita in queste carceri è fatta di stupri, violenza, sfruttamento sessuale, fame e abusi ripetuti”.
Tutto ciò mostra la portata di questa barbarie che coinvolge direttamente le grandi potenze imperialiste che, attraverso le loro politiche, stanno gettando i migranti tra le braccia di schiavisti come in epoca passata. L'UE, in effetti, esige una politica attiva contro gli immigrati dagli Stati vicini fallimentari e terribilmente corrotti (Niger, Nigeria, ecc.) sovvenzionandoli per la costruzione di muri e campi di sterminio. L'UE è anche coinvolta nello sviluppo di pratiche mafiose e nella contrattazione tra banditi fornendo fondi e attrezzature alle guardie costiere libiche che intercettano le barche dei migranti e le portano nei mostruosi “centri di detenzione”.
Ancora oggi i migranti si trovano sempre nella stessa situazione di miseria e sofferenza, in mezzo a pericoli che li portano a migliaia alla morte nel tentativo di attraversare il Mediterraneo, come dimostra questa storia: “Sulla spiaggia di Aghir dell'isola di Djerba, nel nord della Tunisia, ci sono più cadaveri che bagnanti in questo inizio del mese. Lunedì 1 luglio, un canotto è affondato al largo. Un’imbarcazione partita all'alba dalla città libica di Zouara, a 120 chilometri a ovest di Tripoli, con 86 persone a bordo. Tre sono stati pescati vivi. Il mare sta restituendo gli altri uno ad uno”. “Non ne posso più. Questo è troppo!”: Chemsedddine Marzog, il pescatore che per anni offre un'ultima dimora ai corpi che il mare rigetta, dice che non ne può più. “Ho seppellito quasi 400 cadaveri e, lì, dozzine arriveranno ancora nei prossimi giorni. Non è possibile, è disumano e non possiamo gestire questo da soli”, si dispera il guardiano del cimitero dei migranti di Zarzis, città del sud-est della Tunisia, vicino al confine con la Libia”[5].
Nel frattempo le “democrazie occidentali” chiudono gli occhi e si tappano il naso di fronte a questa crudele barbarie mentre continuano la loro lotta per la “messa in sicurezza” (cioè la chiusura) dei loro confini contro gli “illegali” e sbandierano il loro "umanesimo universale" quando sono proprio loro che spingono attivamente e addirittura definiscono questa famigerata politica[6].
Amina, novembre 2019
[1] Le Canard enchaîné (24 aprile 2019), giornale satirico francese
[2] Le Monde, (12-13 maggio 2019).
[3] Le Monde (3 maggio 2019)
[4] Courrier international, (7-13 dicembre 2017)
[5] Le Monde (10luglio 2019)
[6] A questo proposito, possiamo aggiungere che i paesi dell'UE non sono i soli a portare avanti una politica barbara nei confronti dei migranti. Possono anche contare sull'aiuto del loro “grande amico” e cliente saudita. Infatti Ryad massacra, imprigiona, espelle gli “indesiderabili” migranti che si trovano sul suo territorio. Secondo The Guardian: “10.000 etiopi sono stati espulsi dall'Arabia Saudita ogni mese dal 2017, quando le autorità hanno intensificato la loro campagna spietata per respingere i migranti privi di documenti. Circa 300.000 persone sono rientrate da marzo di quell'anno, secondo gli ultimi dati dell'Organizzazione internazionale per le migrazioni (OIM) e voli speciali carichi di deportati arrivano settimanalmente all'aeroporto di Addis Abeba. (...) Centinaia di migliaia di etiopi sono stati deportati durante una precedente ondata di caotica repressione condotta tra il 2013 e il 2014.” Queste pratiche del regime sanguinario saudita nei confronti di coloro che cercano di fuggire dalla miseria e la morte di casa loro è un sinistro esempio del fatto che tutti gli Stati condividono lo stesso cinismo per garantire la perpetuazione di un sistema disumanizzato.
La civiltà capitalista - questo sistema mondiale basato sul lavoro salariato e su una produzione fatta per il solo profitto - sta morendo. Come l’antico sistema schiavistico di Roma o la servitù feudale, è destinata a sparire. Ma, a differenza dei sistemi precedenti, minaccia di trascinare con sé nel baratro l’intera umanità. Per oltre cento anni i sintomi del suo declino sono diventati sempre più evidenti. Due guerre mondiali con livelli di distruzione senza precedenti seguiti da decenni di conflitti per procura tra due blocchi imperialisti (USA e URSS), conflitti che contenevano sempre la minaccia di una terza e ultima guerra mondiale. Da quando il blocco dell’est è crollato nel 1989, non abbiamo visto la pace ma guerre locali e regionali sempre più caotiche, come quelle che stanno devastando il Medio Oriente. Abbiamo attraversato convulsioni economiche globali, come quelle degli anni '30, '70 o del 2008, che hanno precipitato milioni di persone nella disoccupazione e nella povertà e che hanno accelerato la spinta verso una guerra aperta. E quando il capitalismo è riuscito a ripristinare l’accumulazione – come sulla scia della massiccia distruzione avvenuta dopo il 1945, o drogandosi con il debito - la sua crescita e la sua espansione sono avvenute solo attraverso l’ulteriore distruzione della natura che minaccia sempre di più il pianeta.
Rosa Luxemburg nel 1916, in risposta agli orrori della prima guerra mondiale, indicò l’alternativa che si poneva all’umanità: “o il trionfo dell’imperialismo e il crollo di tutta la civiltà, come nell’antica Roma, con lo spopolamento, la desolazione, la degenerazione - un grande cimitero. O la vittoria del socialismo, che significa lotta attiva e cosciente del proletariato internazionale contro l’imperialismo e la sua guerra. Questo è un dilemma della storia del mondo, un aut aut”. (Rosa Luxemburg, Brochure di Junius).
A differenza del sistema schiavistico, che alla fine ha lasciato il posto al feudalesimo che, a sua volta, ha permesso al capitalismo di crescere al suo interno, l’attuale sistema capitalista ormai moribondo non darà automaticamente origine a nuovi rapporti sociali. Una nuova società può essere costruita solo attraverso la “lotta attiva e cosciente del proletariato internazionale” - attraverso l'incontro di tutti gli sfruttati del mondo che si riconoscono come un’unica classe con gli stessi interessi in ogni parte del mondo.
Questo è un compito immenso, reso più difficile negli ultimi decenni dalla perdita del senso d’identità di classe, tanto che anche molti di quelli che avvertono che c’è qualcosa di profondamente sbagliato nel sistema attuale, trovano difficile accettare che esista ancora una classe operaia, figuriamoci poi se si aggiunge che questa è l’unica capace di cambiare il mondo.
Eppure la rivoluzione proletaria rimane l’unica speranza per il pianeta perché significa la fine di tutti i sistemi in cui l’umanità è dominata da forze economiche cieche, la prima società in cui tutta la produzione è pianificata in modo consapevole per soddisfare i bisogni dell’umanità nella sua interazione con la natura. Una società basata sulla possibilità e sulla necessità per gli esseri umani di prendere nelle loro mani la vita sociale.
È per questo motivo che dobbiamo opporci agli slogan e ai metodi di chi organizza le attuali proteste climatiche, invitandoci a esercitare i nostri diritti democratici per manifestare o votare con l’obiettivo di esercitare pressioni su governi e partiti politici affinché reagiscano alla crisi ecologica. Questo è un inganno perché il ruolo di tutti questi governi e partiti, sia di destra che di sinistra, è di gestire e difendere quello stesso sistema che è all’origine dei molteplici pericoli che affliggono il pianeta.
Le scelte che ci sono offerte dai politici di ogni genere sono delle false scelte. Una Gran Bretagna fuori o dentro l’UE non proteggerà la classe operaia di quel paese dalle tempeste che si scatenano sull’economia mondiale. Un governo americano retto dal vandalismo di Trump versione “America First” o dalle politiche “multilaterali” più tradizionali di altre fazioni non cambierà in nessun caso la natura di un potere imperialista costretto a difendere il proprio status contro tutte le altre potenze imperialiste. I governi che negano il cambiamento climatico o quelli che parlano dell’investimento in un “New Green Deal” saranno comunque obbligati a gestire un’economia nazionale che generi profitto e quindi a compiere incessanti attacchi alle condizioni di vita della classe lavoratrice. E così, perpetuando il meccanismo dell’accumulazione capitalista, porteranno avanti la trasformazione della Terra in un deserto.
Ma, ci viene detto, possiamo anche votare per una equipe governativa diversa e - nei paesi in cui anche questo “diritto” viene negato - possiamo chiedere che ci venga concesso.
In effetti, l’illusione di poter avere qualche controllo sul colosso del capitalismo dando il nostro voto ogni pochi anni è parte integrante dell’intera frode della democrazia capitalista. Il voto nel chiuso della cabina elettorale non solo ci tiene intrappolati nelle false scelte offerte, ma è esso stesso un’espressione della nostra impotenza, riducendoci a “cittadini” atomizzati di questo o quello stato.
La lotta di classe del proletariato ha mostrato una reale alternativa a questa impotenza istituzionalizzata. Nel 1917-19, la classe operaia si ribellò al massacro della guerra e formò i consigli dei lavoratori in Russia, Germania, Ungheria e altri paesi, consigli di delegati eletti e revocabili dalle assemblee operaie da cui provenivano e che per la prima volta avevano la possibilità di esercitare un controllo consapevole sulla vita politica e sociale. Questa massiccia rivolta internazionale portò i governi dell’epoca a porre fine alla guerra poiché si dovevano unire le forze per schiacciare la minaccia della rivoluzione.
L’umanità ha pagato un costo elevato per la sconfitta che ne seguì: tutta la barbarie degli ultimi cento anni ha le sue radici nel fallimento del primo tentativo di rovesciare il capitale mondiale. E il costo sarà ancora più pesante se la classe operaia non recupererà le sue forze per un secondo assalto al cielo.
Ciò può sembrare una prospettiva lontana, ma finché esisterà il capitalismo, ci sarà sempre lotta di classe. E poiché il capitalismo nella sua agonia non ha altra scelta che aumentare lo sfruttamento e la repressione dei suoi schiavi salariali, a questi ultimi non resta che resistere in vista di passare dalla lotta difensiva a una di attacco, da quella economica a quella direttamente politica, da una rivolta istintiva al rovesciamento organizzato del capitalismo.
CCI, 16.11.19
Novanta anni fa il crollo del mercato azionario dell'ottobre 1929, che annunciò la crisi economica degli anni '30, confermò il significato della Prima guerra mondiale, vale a dire che il capitalismo era definitivamente entrato nel suo periodo di decadenza. In pochi mesi, decine e decine di milioni di persone sarebbero cadute in una miseria totale. Sicuramente dopo di allora la borghesia ha imparato a mitigare la violenza della crisi ma, nonostante le lezioni che ne ha potuto tirare, questa crisi non è mai stata superata. Ciò conferma che nel periodo aperto dalla Prima guerra mondiale le contraddizioni del capitalismo non potevano che portare al degrado delle condizioni di esistenza della stragrande maggioranza dell'umanità.
La crisi del 1929 corrisponde perfettamente alla diagnosi fatta da Marx e Engels nel Manifesto del Partito Comunista rispetto alle crisi già sperimentate dal capitalismo nel diciannovesimo secolo: "Scoppia un'epidemia sociale che in ogni altra epoca sarebbe sembrata assurda: l'epidemia della sovrapproduzione". Tale diagnosi è tanto più valida se si considera che la crisi del 1929 non scoppiò con il crollo dei mercati azionari del 24 e 29 ottobre 1929, ma che ancor prima di queste date la situazione economica stava già peggiorando in un numero crescente di settori dell'economia e di paesi.
Negli Stati Uniti la produzione nel settore edilizio e dell’auto era già in calo da marzo del 1929, una caduta che si generalizza all'intera economia durante l'estate dello stesso anno. D'altra parte l'attività economica era in generale in calo nei paesi europei dove si ebbe un crollo delle borse prima che negli Stati Uniti; in queste condizioni la speculazione al rialzo alla borsa di New York non poteva che scontrarsi con la riduzione dei profitti e finire con un crollo.
Questo calo dell'attività economica nei paesi centrali del capitalismo ebbe come cause, da un lato, la sovrapproduzione mondiale dei prodotti agricoli a partire dalla metà degli anni '20, il che implicava un calo dei profitti nell'agricoltura e, d'altro, la persistente debolezza dei salari, che erano aumentati molto meno della produzione nell'insieme dei paesi industrializzati. Tale dinamica verificava pienamente la causa della sovrapproduzione identificata da Marx: "La ragione ultima di tutte le crisi reali è sempre la povertà e il consumo limitato delle masse, di fronte alla tendenza dell'economia capitalista a sviluppare le forze produttive, come se esse non avessero per limite che il potere del consumo assoluto della società"[1].
Naturalmente, il crollo del mercato azionario amputerà severamente le riserve di capitale finanziario e causerà il fallimento di grandi banche come la Bank of The United States, aggravando così la sovrapproduzione perché diventava sempre più difficile finanziare l'accumulazione di capitale.
A ciò ha fatto seguito un drastico calo degli investimenti, aggiungendo una massiccia sovrapproduzione di beni di produzione alla tendenza generale che esisteva da diversi anni. Questa dinamica ha provocato una rapida accelerazione della caduta della produzione industriale e, dato le strette relazioni finanziarie e commerciali a livello internazionale, il peggioramento della crisi diventerà mondiale. Va notato che il declino dell'attività sarà più profondo e rapido proprio nei due paesi più sviluppati, vale a dire gli Stati Uniti e la Germania.
Eppure nei primi mesi successivi al crollo la borghesia e la maggior parte dei suoi economisti, accecati dall'idea che il sistema capitalista fosse eterno, pensavano come il presidente degli Stati Uniti Hoover che "tutto sarebbe finito entro sessanta giorni" e che, come nelle crisi del diciannovesimo secolo, la ripresa economica sarebbe arrivata spontaneamente. La violenza della crisi provocò un profondo smarrimento nelle fila della classe dominante ma, poiché bisognava innanzitutto mantenere un minimo di profitto, la reazione delle imprese fu quella di attuare licenziamenti di massa e ridurre i salari. Gli Stati, nonostante delle esitazioni, cercarono di conservare la loro credibilità finanziaria mantenendo un bilancio in pareggio attraverso la riduzione della spesa pubblica. Negli Stati Uniti fu votata nel giugno 1932 una politica di riduzione della massa monetaria e un forte aumento delle imposte dirette e indirette. In Germania il cancelliere Brüning, soprannominato il cancelliere della fame, aumentò le tasse, abbassò i salari dei dipendenti pubblici del 10% e le indennità per i disoccupati già nel 1930; poi, nello stesso paese, nel giugno 1931 furono prese misure ancora più severe contro i disoccupati. In Francia, dal 1933, i vari governi ridussero la spesa pubblica, le pensioni ed i salari dei dipendenti pubblici, e nel 1935 questi stessi salari furono tagliati del 15% e poi ancora del 10%.
L'altro orientamento adottato dagli Stati fu quello di proteggere l'economia nazionale attraverso il protezionismo: tutti i paesi seguirono l'esempio degli Stati Uniti il cui Congresso aveva votato, prima del crollo dell'ottobre 1929, la legge Smoot-Hawley, che aumentava i dazi doganali del 50%. In effetti, negli anni '30 si sviluppò una vera e propria guerra commerciale e monetaria tra le grandi potenze. In particolare, la fluttuazione del valore della sterlina britannica e la sua svalutazione di oltre il 30% decisa nel settembre 1931 e quella del dollaro del 40% nel 1933, mostrano che ogni grande potenza, prendendo esempio dal Regno Unito e dal Commonwealth già orientati a privilegiare il commercio all’interno del proprio “impero”, si ripiegava sulla propria zona di influenza.
L'attuazione di tale politica mostra che la borghesia non aveva compreso che il capitalismo, a differenza del periodo precedente alla Prima guerra mondiale dove viveva ancora la sua fase ascendente, non aveva più i mezzi per controllare e frenare la sovrapproduzione verso la quale spingevano irrimediabilmente le sue contraddizioni. Nel periodo precedete le crisi erano sfociate in nuove fasi di crescita perché il mercato mondiale era ancora aperto e permetteva quindi ai capitali nazionali più moderni e dinamici di trovare nuovi mercati che potessero superare i problemi ciclici della sovrapproduzione. Come ha dimostrato Rosa Luxemburg, la Prima guerra mondiale era stata manifestazione del fatto che il mercato mondiale era globalmente ripartito tra le grandi potenze e che non c'erano più abbastanza nuovi mercati da conquistare. Ciò implicava che lo sbocco della crisi poteva essere solo la distruzione del capitalismo da parte della classe operaia o lo scoppio di una nuova guerra mondiale. Di conseguenza le politiche statali nei primi tre o quattro anni dopo l'ottobre 1929, ispirate alla situazione del secolo precedente, non riuscirono neppure a ridurre l'impatto della sovrapproduzione; al contrario, esse lo aggravarono.
In effetti, come afferma l'economista Kindleberger, questi anni sono stati "uno slittamento verso l'abisso". Tra l'autunno del 1929 e il primo trimestre del 1933, il PNL degli Stati Uniti e della Germania fu dimezzato, il livello medio dei prezzi mondiali scese del 32%, il volume degli scambi mondiali diminuì del 25%. Una tale flessione dell'attività economica causò la caduta dei profitti, il che spiega perché nel 1932 gli investimenti lordi negli Stati Uniti erano vicini allo zero. In altre parole molte aziende non sostituirono le loro macchine usurate. Come diceva Keynes, oltre un certo livello di calo dei prezzi e quindi di perdite, le imprese non possono più rimborsare i propri debiti e le banche non possono che collassare; ed è quello che successe. Le grandi banche fallirono in tutti i paesi. Il 13 maggio 1931, il KreditAnstaldt[2] sospendeva i pagamenti; nel luglio dello stesso anno, anche la grande banca tedesca Danatbank va in bancarotta e, a causa del panico bancario, tutte le banche tedesche chiusero per tre giorni; negli Stati Uniti, all'inizio del 1932, il numero di fallimenti bancari fu tale che Roosevelt, neoeletto presidente, fu obbligato a chiudere l'intero sistema bancario (più di 1.000 banche non riapriranno più!).
Le conseguenze per la classe operaia furono terrificanti: la disoccupazione aumentava in tutti i paesi: alla fine del 1932 la disoccupazione raggiunse almeno il 25% negli Stati Uniti (e in questo paese non c'era alcuna forma di assistenza per i disoccupati) e il 30% in Germania[3]. Una gran parte degli operai lavorava part-time in miseria totale; le indennità di disoccupazione vennero ridotte in Germania e Gran Bretagna; le code di persone emaciate dalla miseria e coperte di stracci per avere una ciotola di minestra si allungavano mentre tonnellate di merci invendute venivano distrutte. In Brasile vennero persino bruciate scorte di caffè nelle locomotive! In più gli aumenti delle tasse andavano a silurare ulteriormente una classe operai già impoverita.
Il crollo dell'economia mondiale costrinse la classe dominante e alcuni suoi esperti a rimettere in discussione i loro vecchi precetti liberali di non intervento da parte dello Stato, del rispetto del pareggio di bilancio, e a rendersi conto che la causa della crisi era la sovrapproduzione, che la borghesia ribattezzò abilmente con la teoria di Keynes "insufficienza della domanda".
Per fermare il crollo del capitale, bisognava innanzitutto agire affinché gli Stati prendessero nelle loro mani il controllo dell'apparato produttivo, a volte direttamente, come nel caso del trasporto ferroviario in Francia o in Gran Bretagna per i trasporti di Londra e il trasporto aereo. Ma ancora più importante, questo controllo in prima persona da parte dello Stato è consistito nel costringere l'insieme delle aziende, attraverso la regolamentazione, ad adottare una gestione coerente con gli interessi del capitale nazionale: fu questo il contenuto del famoso New Deal del presidente Roosevelt negli Stati Uniti o del piano De Man in Belgio. Tra le numerose riforme del new deal, Roosevelt presentò al Congresso l'Emergency Banking Act, il piano economico statunitense degli anni '30 in cui si doveva far fronte alla crescente e dilagante crisi del 1929. Attraverso il Banking Act l'amministrazione statunitense creò un organismo assicurativo al quale le banche dovevano aderire per ricevere fondi dalla Banca centrale (la FED). Un'altra legge organizzava il sostegno ai prezzi agricoli offrendo un indennizzo agli agricoltori se avessero ridotto le aree coltivate. Nell'industria, il NIRA chiedeva alle diverse branche industriali di organizzarsi (in Germania, ad avere un tale incarico furono le corporazioni) per fissare le quote di produzione e i prezzi di vendita delle imprese; inoltre, ai sindacati venne concesso il diritto di firmare accordi collettivi, la qual cosa permetteva a quest'ultimi di accrescere la loro presa sulla classe operaia. Tali leggi (che venivano adottate in modo simile in altri paesi come in Francia sotto il Fronte Popolare) non migliorarono i salari poiché i prezzi aumentavano di più. Per ridurre la sovrapproduzione, queste leggi avevano lo scopo non solo di diminuire la produzione ma anche di rilanciare la domanda attraverso il deficit di bilancio. Ad esempio, il NIRA organizzò una politica di grandi lavori pubblici, come il recupero della Valle degli Appalachi, la costruzione del Triborough Bridge a New York e lo sviluppo e la pianificazione di molte dighe nella valle del Tennessee. Troviamo la stessa volontà in Germania a partire dal ‘32 con la costruzione di autostrade, lo scavo di canali, il recupero di alcune aree geografiche. L'aumento artificiale della domanda rafforzando al contempo il controllo sulla classe operaia, divennero anche gli obiettivi della borghesia britannica che introdusse di nuovo i sussidi di disoccupazione, quindi un regime pensionistico e stimolò la costruzione di alloggi. Lo sviluppo della presa dello Stato sul capitale che fu introdotto in modo piuttosto caotico negli anni '30, avrà in seguito un grande futuro. Sarà anche teorizzato come keynesismo. Il controllo dell'insieme del capitale da parte dello Stato utilizzando una serie di strumenti (dalla nazionalizzazione al sostegno alle imprese attraverso di organismi pubblici) sarà sempre più sistematico. L’indebitamento sempre più grande dell'intera economia (stimolato dallo Stato), così come la pratica di deficit pubblici saranno sviluppati continuamente al fine di mitigare gli effetti della sovrapproduzione. Allo stesso modo, l'istituzione del "Welfare state" dopo la Seconda guerra mondiale, estendendo ciò che era stato fatto nei paesi dell'Europa occidentale negli anni '30, costituirà un fattore di regolamentazione della domanda e al contempo anche uno strumento di controllo ideologico della classe operaia. Come negli anni '30, il dispiegamento di tutti questi mezzi consentirà allo Stato di ritardare nel tempo gli effetti della sovrapproduzione. Ma la borghesia non potrà comunque risolvere la crisi e sfuggire realmente alla sovrapproduzione.
Oggi la crisi del sistema capitalista continua ad approfondirsi, anche se a un ritmo molto più lento rispetto agli anni '30. Questo conferma che il capitalismo di Stato non è uno strumento che può porre fine alla sovrapproduzione, perché questa è congenita al capitalismo stesso. Nei fatti la risposta del capitale alla crisi è di per sé un'espressione della senilità del modo di produzione capitalistico che continua ad affermarsi. Il capitalismo di Stato permette solo una gestione tale da limitare gli effetti della sua crisi permanente, ma a prezzo di contraddizioni sempre più acute e distruttive.
Vitaz, 8 ottobre 2019
Documentari, trasmissioni radiofoniche, notiziari, articoli di stampa, commemorazioni pubbliche ... tutti mezzi disponibili per ripetere instancabilmente che la caduta del muro, il 9 novembre 1989, è stata il vero simbolo del "fallimento del comunismo". Tuttavia, come abbiamo sempre sostenuto, i regimi stalinisti del blocco dell'Est hanno sempre incarnato una particolare forma di capitalismo di Stato e mai nemmeno lontanamente la società comunista. Se il suo ventesimo anniversario fu "celebrato" in pompa magna dalla classe dominante, specialmente in Europa, le attuali commemorazioni assumono una forma molto più sobria. Ed a ragione! La borghesia ha voglia di spremersi le meningi, per lei, ora, è molto più difficile mantenere l'illusione di un mondo che naviga verso il progresso universale sotto gli effetti benefici dell'economia di mercato capitalista e della democrazia come essa poté declamare con forza nel corso degli anni '90. Non di meno ciò le impedisce di rafforzare la sua propaganda utilizzando in particolare lo sfondamento dei partiti populisti in diversi paesi dell'ex blocco dell'Est. "In futuro, dobbiamo impegnarci per la democrazia, la libertà, i diritti dell'Uomo e la tolleranza", ha dichiarato Angela Merkel, il 9 novembre, durante la cerimonia di commemorazione. Democrazia in pericolo? È necessario a tutti i costi difenderla, ci dicono i valletti politici della borghesia. Difendere questo sistema che sarebbe servito da bulldozer per la distruzione del Muro e la caduta del blocco dell'Est, è ciò che da settimane i media affermano continuamente. Secondo loro, la caduta del muro di Berlino sarebbe in realtà il prodotto di un vasto movimento democratico nato in Polonia nel 1980 con la creazione di Solidarnosc. La grande e bella democrazia avrebbe avuto ragione sulla "barbarie comunista" ed è allo stesso modo che oggi bisognerebbe difenderla di fronte all'ascesa dei governi populisti.
Di fronte ai suoi fiumi di menzogne, ripubblichiamo, questo articolo della nostra stampa che ci riporta su questi eventi, permettendo così di ristabilire la verità storica.
Venti anni fa, il 9 novembre 1989, il muro di Berlino fu abbattuto e smantellato pezzo per pezzo da una folla delirante. Fu lì, nel cuore dell'Europa, in una Germania intossicata dalla dissipazione della "cortina di ferro" e dal miraggio della riunificazione, il simbolo più forte della fine della divisione del mondo in due blocchi rivali: Est ed Ovest. Alla fine del 1989, in pochi mesi, l'umanità fu testimone dello smantellamento dell'URSS e della scomparsa dei regimi stalinisti nell'Europa dell'Est.
All'epoca, questo evento permise alla borghesia di usare un'arma ideologica di distruzione di massa: la morte dello stalinismo dimostrava definitivamente che il comunismo era stato un sogno pericoloso che portava inevitabilmente al totalitarismo e al fallimento! Identificando così in modo fraudolento lo stalinismo con il comunismo, e facendo della dissolutezza economica e della barbarie dei regimi stalinisti l'inevitabile conseguenza della rivoluzione proletaria, la borghesia mirava ad allontanare gli operai da qualsiasi prospettiva rivoluzionaria.
Nella foga del momento, la borghesia ne approfittò anche per fare passare una seconda grande menzogna di cui solo lei custodirebbe il segreto: con la scomparsa dello stalinismo, il capitalismo avrebbe potuto veramente prosperare. Il futuro, essa prometteva, si annunciava radioso. Così, il 16 marzo 1991, George Bush padre, presidente degli Stati Uniti d'America, forte della sua recente vittoria sull'esercito iracheno di Saddam Hussein, annunciò l'avvento di un "nuovo ordine mondiale" e il compimento di un "mondo in cui le Nazioni Unite, liberate dallo stallo della guerra fredda, sono in grado di realizzare la visione storica dei loro fondatori. Un mondo in cui la libertà e i diritti umani sono rispettati da tutte le nazioni". Questa seconda impostura non durò a lungo. Gli anni 1990 e 2000 furono segnati da una successione di guerre (dalla Jugoslavia all'Afghanistan passando, ancora una volta, dall'Iraq) e da un crescente impoverimento. Inoltre, oggi, nel mezzo di un disastro economico senza precedenti, le celebrazioni della caduta del muro sono state fatte con una certa modestia ed all'insegna di una certa discrezione, visto che le promesse di "libertà", di "pace" e di "prosperità" sembrano a tutti, quello che realmente sono: una truffa.
La classe operaia non ha più illusioni su questo sistema di sfruttamento. Oggi sa che il futuro promesso dal capitalismo può essere fatto solo di disoccupazione, miseria, guerra e sofferenza. Di contro, ciò che manca per avere il coraggio di tornare a combattere è una speranza, una prospettiva, un altro mondo possibile per il quale combattere. Le menzogne che assimilano il comunismo allo stalinismo, questa immensa propaganda che si è scatenata in occasione della caduta del muro e del crollo del blocco dell'Est, pesano ancora oggi nelle teste degli operai, anche tra i più combattivi.
Questo è il motivo per cui riproduciamo di seguito larghi estratti di un documento che abbiamo pubblicato nel gennaio 1990 come supplemento alla nostra stampa territoriale e che mira proprio a combattere questa campagna nauseabonda.
Nel crepare, oggi lo stalinismo rende un ultimo servizio al capitalismo. (...)
La morte dello stalinismo costituisce oggi una vittoria ideologica per la borghesia occidentale. Al momento, il proletariato deve incassare il colpo. Ma dovrà comprendere che lo stalinismo non è mai stato altro se non la forma più caricaturale di dominio capitalista. (...) Dovrà capire che in Occidente, come in Oriente, il capitalismo non può offrire alle masse sfruttate che una miseria ed una barbarie crescente con, alla fine, la distruzione del pianeta. Dovrà capire, infine, che non esiste salvezza per l'umanità se non attraverso la lotta di classe del proletariato internazionale, una lotta a morte che, rovesciando il capitalismo, consentirà la costruzione di un reale società comunista mondiale, una società liberata da crisi, guerre, barbarie e oppressione in tutte le sue forme. (...)
Proclamando a gran voce che la barbarie stalinista è la legittima erede della rivoluzione d'Ottobre 1917, affermando che Stalin ha solo portato alle sue ultime conseguenze un sistema sviluppato da Lenin, l'intera borghesia MENTE. Tutti i giornalisti, gli storici e altri ideologi a soldo del capitalismo sanno benissimo che non c'è continuità tra l'Ottobre proletario e lo stalinismo. Tutti costoro sanno che l'istituzione di questo regime di terrore non era altro che la controrivoluzione che si instaurò sulle rovine della rivoluzione russa, con la sconfitta della prima ondata rivoluzionaria internazionale del 1917-1923. Infatti, fu proprio l'isolamento del proletariato russo, dopo il sanguinoso schiacciamento della rivoluzione in Germania, che inferse un colpo mortale al potere dei soviet operai in Russia.
La Storia non ha fatto che confermare tragicamente ciò che il marxismo ha sempre affermato fin dagli albori del movimento operaio: la rivoluzione comunista può assumere solo un carattere internazionale. "La rivoluzione comunista (...) non sarà una rivoluzione puramente nazionale; essa si produrrà allo stesso tempo in tutti i paesi civilizzati ... Avrà anche un notevole impatto su tutti gli altri paesi del mondo e trasformerà e accelererà completamente il corso del loro sviluppo. Essa è una rivoluzione universale; avrà, pertanto, un terreno universale" (F. Engels, Principi del Comunismo, 1847). E fu questa fedeltà ai principi del comunismo e dell'internazionalismo proletario che spinse Lenin, in attesa di uno slancio della rivoluzione in Europa, ad esprimersi in questi termini: "La rivoluzione russa non è che un distaccamento dell'esercito socialista mondiale e il successo e il trionfo della rivoluzione che abbiamo realizzato dipendono dall'azione di questo esercito. È un dato di fatto che nessuno di noi dimentica (...). Il proletariato russo è cosciente del suo isolamento rivoluzionario e sa chiaramente che la sua vittoria ha come condizione indispensabile e premessa fondamentale l'intervento unito degli operai del mondo intero" (Lenin, “Rapporto alla Conferenza dei Comitati di Fabbrica della Provincia di Mosca", 23 luglio 1918).
Quindi, in ogni momento, l'internazionalismo è stato la pietra angolare delle lotte della classe operaia e del programma delle sue organizzazioni rivoluzionarie. Fu questo programma che Lenin e i bolscevichi hanno costantemente difeso. Fu armato di questo programma che il proletariato fu in grado, prendendo il potere in Russia, di costringere la borghesia a porre fine alla prima guerra mondiale e quindi ad affermare la sua alternativa: contro la barbarie generalizzata del capitalismo, trasformazione della guerra imperialista in guerra di classe.
Qualsiasi rimessa in discussione di questo essenziale principio dell'internazionalismo proletario è sempre stata sinonimo di rottura con il campo proletario e con un'adesione al campo del capitale. Con il crollo interno della rivoluzione russa, lo stalinismo ha giustamente costituito questa rottura, quando, già dal 1925, Stalin avanzò la sua tesi sulla "costruzione del socialismo in un solo paese" grazie alla quale si installerà in tutto il suo orrore la più spaventosa controrivoluzione di tutta la storia umana. Da allora, l'URSS avrà di "sovietico" solo il nome: la dittatura del proletariato attraverso il potere dei "consigli operai" (soviet) si trasformerà in una dittatura implacabile dello Stato-Partito sul proletariato.
L'abbandono dell'Internazionalismo da parte di Stalin, degno rappresentante della burocrazia statale, firmerà definitivamente la condanna a morte della rivoluzione. La politica della Terza Internazionale in corso di degenerazione sarà, ovunque, sotto la guida di Stalin, una politica controrivoluzionaria in difesa degli interessi capitalisti. Fu così che, nel 1927, in Cina, il PC, seguendo le istruzioni di Stalin, sarà sciolto nel Kuomintang (Partito nazionalista cinese) disarmando il proletariato insorto di Shanghai e i suoi militanti rivoluzionari, per consegnarli legati mani e piedi alla sanguinosa repressione di Chiang Kai Tchek, proclamato "membro onorario" dell'Internazionale stalinizzata.
E di fronte all'opposizione di sinistra, che si stava quindi sviluppando contro questa politica nazionalista, la controrivoluzione stalinista scatenò tutta la sua ostilità sanguinaria: tutti i bolscevichi che stavano ancora cercando di difendere contro venti e maree i principi di Ottobre saranno espulsi dal Partito in URSS, deportati a migliaia, cacciati, perseguitati dalla GPU, e poi selvaggiamente giustiziati durante i grandi processi di Mosca (e con il sostegno e la benedizione dell'insieme dei paesi "democratici"!).
Fu così che fu istituito questo regime di terrore: fu sulle macerie della rivoluzione dell'ottobre 1917 che lo stalinismo seppe affermare il suo dominio. Fu grazie a questa negazione del comunismo costituito dalla teoria del "socialismo in un paese" che l'URSS tornò a essere uno Stato del tutto capitalista. Uno Stato in cui il proletariato sarà sottomesso, fucile alla schiena, agli interessi del capitale nazionale, in nome della difesa della "patria socialista".
Così, se l'Ottobre proletario, grazie al potere dei consigli operai, aveva fermato la guerra imperialista, la controrivoluzione stalinista, distruggendo ogni pensiero rivoluzionario, mettendo a freno tutti i tentativi di lotta di classe, provocando il terrore e la militarizzazione di tutta la vita sociale, annunciò la partecipazione dell'URSS alla seconda macelleria mondiale.
L'intera evoluzione dello stalinismo sulla scena internazionale negli anni '30 fu, infatti, segnata dalle sue contrattazioni imperialiste con le maggiori potenze capitaliste, che si stavano nuovamente preparando ad insanguinare con il ferro ed il fuoco l'Europa. Dopo aver stretto un'alleanza con l'imperialismo tedesco al fine di contrastare qualsiasi tentativo di espansione della Germania verso l'Est, Stalin cambierà casacca a metà degli anni '30 per allearsi con il blocco "democratico" (adesione dell'URSS nel 1934 a quel "covo di briganti" che era la Socistà Delle Nazioni, il patto Laval-Stalin nel 1935, la partecipazione dei PC ai "fronti popolari" e alla guerra spagnola nel corso della quale gli stalinisti non esiteranno a usare gli stessi metodi sanguinari massacrando gli operai e i rivoluzionari che contestavano le loro politiche). Alla vigilia della guerra, Stalin rivolterà ancora la sua casacca e venderà la neutralità dell'URSS a Hitler in cambio di un certo numero di territori, prima di raggiungere alla fine il campo degli "Alleati", impegnandosi a sua volta nel massacro imperialista in cui il solo Stato stalinista sacrificherà 20 milioni di vite umane. Tale fu il risultato dei sordidi rapporti dello stalinismo con i vari squali imperialisti dell'Europa occidentale. Fu su questi cumuli di cadaveri che l'URSS stalinista fu in grado di edificare il suo impero, di imporre il suo terrore in tutti quegli Stati che, con il trattato di Yalta, cadranno sotto il suo esclusivo dominio. Fu grazie alla sua partecipazione all'olocausto generalizzato a fianco delle vittoriose potenze imperialiste che, con il suo tributo di sangue delle sue 20 milioni di vittime, l'URSS fu in grado di raggiungere il rango di superpotenza mondiale.
Ma se Stalin fu "l'uomo provvidenziale" attraverso il quale il capitalismo mondiale ha potuto superare il bolscevismo, non fu la tirannia di un singolo individuo, per quanto paranoico, a essere la mente di questa spaventosa controrivoluzione. Lo Stato stalinista, come ogni Stato capitalista, è governato dalla stessa classe dirigente dappertutto, la borghesia nazionale. Una borghesia che si ricostituì, con la degenerazione interna della rivoluzione, non dalla vecchia borghesia zarista eliminata dal proletariato nel 1917, ma dalla burocrazia parassitaria dell'apparato statale con cui si confuse sempre più, sotto la direzione di Stalin, il partito bolscevico. Fu questa burocrazia Partito-Stato che, eliminando alla fine degli anni 1920 tutti i settori suscettibili di ricostituire una borghesia privata, e ai quali essa si era alleata per garantire la gestione dell'economia nazionale (proprietari terrieri e speculatori della NEP), prese il controllo di questa economia. Queste furono le condizioni storiche che spiegano perché, contrariamente ad altri paesi, il capitalismo di Stato in URSS abbia assunto questa forma totalitaria e caricaturale. Il capitalismo di Stato è il modo universale di dominio del capitalismo nel suo periodo di decadenza quando lo Stato assicura il suo controllo su tutta la vita sociale, e genera ovunque strati parassitari. Ma negli altri paesi del mondo capitalista, questo controllo statale sull'intera società non è antagonista con l'esistenza di settori privati e concorrenziali che impediscono un'egemonia totale di questi settori parassitari. In URSS, di contro, la peculiare forma di capitalismo di Stato si caratterizzò per uno sviluppo estremo di questi strati parassiti risultanti dalla burocrazia statale e la cui unica preoccupazione era non di far fruttare il capitale tenendo conto delle leggi mercato, ma riempire le proprie tasche individualmente a spese degli interessi dell'economia nazionale. Dal punto di vista del funzionamento del capitalismo, questa forma di capitalismo di Stato era quindi un'aberrazione che sarebbe necessariamente collassata con l'accelerazione della crisi economica globale. E fu proprio questo crollo del capitalismo di Stato russo derivante dalla controrivoluzione che ha segnato l'irrimediabile fallimento di tutta l'ideologia bestiale che, per più di mezzo secolo, aveva cementato il regime stalinista e fatto pesare la sua cappa di piombo su milioni di esseri umani.
È così che è nato ed è morto lo stalinismo. È nel fango e nel sangue della controrivoluzione che si è imposto sullo scenario della storia, è nel fango e nel sangue che sta crepando, come ci rivelano con tutto il loro orrore i recenti eventi in Romania, che non fanno che annunciare massacri ancora più sanguinari nel cuore di questo regime, in URSS.
In alcun modo, e qualunque cosa dicano la borghesia e i suoi media, questa mostruosa idra si apparenta né per contenuto né per forma alla rivoluzione dell'Ottobre 17. Era necessario che quest'ultima crollasse perché l'altra potesse imporsi. Di questa rottura radicale, di questa antinomia tra Ottobre e lo stalinismo, il proletariato deve prendere pienamente coscienza (...).
CCI (8 gennaio 1990)
[1] Questa intestazione è stata aggiunta alla versione originale per facilitare la lettura
Collegamenti
[1] https://it.internationalism.org/tag/1/23/rivoluzione-internazionale
[2] https://www.blitzquotidiano.it/agenzie/roma-suicida-operaio-la-ericsson-lo-vuole-licenziare-lui-si-getta-dal-tetto-della-fabbrica-29830/
[3] http://www.campaniapress.com/?p=4602
[4] https://it.internationalism.org/tag/situazione-italiana/lotte-italia
[5] https://it.internationalism.org/tag/2/29/lotta-proletaria
[6] https://it.internationalism.org/tag/4/84/iran
[7] https://it.internationalism.org/tag/3/47/economia
[8] https://it.internationalism.org/content/gb-scioperi-nelle-raffinerie-di-petrolio-e-nelle-centrali-elettriche-gli-operai-cominciano
[9] https://it.internationalism.org/tag/4/75/italia
[10] https://www.planetoscope.com/biodiversite
[11] https://www.futura-sciences.com/planete/actualites/climatologie-rechauffement-climatique-vers-30000-morts-an-chine-2-c-19468/
[12] https://it.internationalism.org/tag/3/42/ambiente
[13] https://it.internationalism.org/tag/vita-della-cci/corrispondenza-con-altri-gruppi
[14] https://it.internationalism.org/tag/correnti-politiche-e-riferimenti/anarchismo-internationalista
[15] https://it.internationalism.org/tag/vita-della-cci/lettere-dei-lettori
[16] https://it.wikipedia.org/wiki/Organismo
[17] https://it.wikipedia.org/wiki/Istituto
[18] https://it.wikipedia.org/wiki/Societ%C3%A0
[19] https://it.wikipedia.org/w/index.php?title=Forze_politiche&action=edit&redlink=1
[20] https://it.wikipedia.org/wiki/Analisi_delle_politiche_pubbliche
[21] https://it.internationalism.org/tag/4/73/grecia
[22] https://es.internationalism.org/node/2765#comment-636
[23] https://fr.internationalism.org/node/3690
[24] https://fr.internationalism.org/icconline/2009/lutte_dans_les_chantiers_navals_de_sestao_l_accusation_de_racisme_une_calomnie_contre_les_ouvriers.html
[25] https://it.internationalism.org/rziz/145/vigo
[26] https://fr.internationalism.org/icconline/2009/a_vigo_en_espagne_les_methodes_syndicales_menent_tout_droit_a_la_defaite.html
[27] https://it.internationalism.org/tag/4/79/spagna
[28] https://it.internationalism.org/content/riunioni-pubbliche-della-cci-al-suicidio-e-alla-sofferenza-sul-posto-di-lavoro-una-sola
[29] https://it.internationalism.org/tag/vita-della-cci/riunioni-pubbliche
[30] https://napolioltre.forumfree.it/?t=47112886
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[32] https://it.internationalism.org/tag/situazione-italiana/politica-della-borghesia-italia
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[50] http://www.culturainlotta.altervista.org/i...id=47&Itemid=72
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[52] https://precariscuolamodena.wordpress.com/
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[56] https://it.internationalism.org/tag/4/60/asia
[57] https://www.spiegel.de/wissenschaft/natur/0,1518,694602,00.html
[58] https://www.spiegel.de/spiegel/0,1518,694271,00.html
[59] https://it.internationalism.org/content/spagna-solidarieta-con-i-lavoratori-della-metropolitana-di-madrid
[60] https://it.internationalism.org/content/piena-solidarieta-con-gli-scioperanti-della-metropolitana-di-madrid
[61] https://it.internationalism.org/content/italia-la-maturazione-della-lotta-di-classe
[62] https://world.internationalism.org
[63] https://it.internationalism.org/icconline/2006_tesi_mov_stud_fr
[64] http://www.affaritaliani.it/economia/marcegaglia_berlusconi_pil_meglio24092010.html
[65] http://www.blogo.it/post/8128/tutto-sulla-p3-piani-favori-appalti-e-giudici-corrotti
[66] https://it.internationalism.org/tag/3/46/decomposizione
[67] mailto:[email protected]
[68] https://colsenter.noblogs.org/
[69] https://www.orizzontescuola.it/node/11452
[70] https://www.orizzontescuola.it/node/11380
[71] https://www.ilgazzettinovesuviano.com/2010/09/17/sciopero-fincantieri-a-napoli-la-polizia-carica-i-manifestanti-di-martino-operai-caricati-a-freddo/
[72] https://napolioltre.forumfree.it/?t=49536058
[73] https://www.dirittidistorti.it/articoli/12-lavoro/261-dagli-operai-della-fiat-polonia-una-lettera-ai-lavoratori-di-pomigliano.html
[74] https://libcom.org/article/letter-fiat-workers-tychy
[75] http://www.infoaut.org/articolo/lettera-dalla-fiat-di-tychy-lavoriamo-con-lentezza
[76] https://libcom.org/news/strikes-fiat-letter-solidarity-poland-15072010
[77] https://senzasoste.it/
[78] http://www.proletaria.it/index.php/proletaria/Articolo-1/Lavoro/Proposta-per-una-riunione-nazionale-autoconvocata-dei-coordinamenti-e-dei-comitati-di-lotta-dei-lavoratori-e-delle-aziende-in-crisi
[79] https://usuariossolidarios.wordpress.com/
[80] https://es.internationalism.org/node/2891
[81] https://www.corriere.it/politica/10_agosto_21/maroni_d57cd780-acea-11df-b3a2-00144f02aabe.shtml
[82] https://it.internationalism.org/rziz/2995/143_francia
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[306] https://it.internationalism.org/content/rapporto-sullitalia-2012
[307] https://it.internationalism.org/content/1-crisi-economica
[308] http://www.blogo.it/post/37369/italia-in-rosso-debito-pubblico-sopra-i-2-mila-miliardi-33-mila-euro-per-ogni-italiano-bebe-compresi
[309] https://www.repubblica.it/economia/2012/12/14/news/debito_italia_supera_2mila_miliardi-48721806/
[310] https://www.comedonchisciotte.org/site/modules.php?name=News&file=article&sid=11229
[311] https://intermarketandmore.finanza.com/debito-pubblico-italia-e-record-ringraziamo-sentitamente-chi-ne-e-stato-responsabile-51613.html
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[380] https://it.internationalism.org/content/1448/movimento-dei-gilet-gialli-contro-gli-attacchi-della-borghesia-il-proletariato-deve
[381] https://it.internationalism.org/content/1467/di-fronte-alla-distruzione-dellambiente-lideologia-verde-al-servizio-del-capitalismo
[382] https://it.internationalism.org/content/1461/il-capitalismo-minaccia-il-pianeta-e-la-sopravvivenza-dellumanita-solo-la-lotta
[383] https://en.internationalism.org/content/16634/report-national-situation-january-2019
[384] https://it.internationalism.org/tag/4/72/gran-bretagna
[385] https://it.internationalism.org/tag/4/96/messico
[386] https://it.internationalism.org/tag/sviluppo-della-coscienza-e-dell-organizzazione-proletaria/terza-internazionale
[387] https://fr.internationalism.org/content/9987/mouvement-social-au-chili-lalternative-dictature-ou-democratie-impasse
[388] https://it.internationalism.org/content/la-decomposizione-fase-ultima-della-decadenza-del-capitalismo
[389] https://en.internationalism.org/content/16757/argentinean-cordobazo-may-1969-moment-resurgence-international-class-struggle
[390] https://fr.internationalism.org/content/9960/bilan-du-mouvement-des-gilets-jaunes-mouvement-interclassiste-entrave-a-lutte-classe
[391] https://it.internationalism.org/content/1502/risoluzione-sul-rapporto-di-forza-tra-le-classi-2019
[392] https://it.internationalism.org/tag/2/28/stalinismo-il-blocco-dellest