Anni 2010-2019
Anno 2010
Il capitalismo sprofonda nella crisi
La borghesia si rianima quando sente le prospettive positive annunciate talvolta dagli indicatori economici, in particolare dalle cifre della crescita che timidamente sembrano ripartire verso l’alto. Ma dietro queste "buone notizie", la realtà è molto diversa. Fin dal 2008, per evitare lo scenario catastrofico della crisi degli anni 30, la borghesia ha speso miliardi per sostenere le banche in difficoltà e ha messo in opera misure keynesiane. Queste misure consistono, in particolare, nel diminuire i tassi d'interesse delle banche centrali che determinano il prezzo del credito, e, per lo Stato, nell’impegnare risorse per il rilancio economico, spesso finanziate con l'indebitamento. Una tale politica è supposta avere per effetto benefico lo sviluppo di una forte crescita. Oggi, ciò che a colpo d’occhio colpisce, è l'estrema lentezza della crescita mondiale in rapporto alle astronomiche spese di rilancio ed all'aggressività delle politiche inflazionistiche. Gli Stati Uniti si trovano intanto in una situazione che gli economisti borghesi, mancando loro un'analisi marxista, non comprendono: lo Stato americano si è indebitato per parecchie centinaia di miliardi di dollari ed il tasso d'interesse della FED è vicino allo zero; tuttavia, la crescita dovrebbe innalzarsi solo del 1,6% nel 2010, contro il 3,7% sperati. Come dimostra il caso americano, se, dal 2008, la borghesia è riuscita ad evitare momentaneamente il peggio indebitandosi massicciamente, ciò non ha tuttavia prodotto una ripresa. Incapace di comprendere che il sistema capitalista è un modo di produzione transitorio, prigioniero di schemi sclerotizzati, l'economista borghese non vede l'evidenza: il keynesianismo ha dimostrato il suo insuccesso storico dagli anni 1970 perché le contraddizioni del capitalismo sono oramai insolubili, ivi compreso il barare attraverso l’indebitamento con le leggi fondamentali del capitalismo.
L'economia capitalista si mantiene faticosamente da numerosi decenni gonfiando prodigiosamente il debito di tutti i paesi del mondo per creare un mercato artificiale destinato ad assorbire una parte della sovrapproduzione cronica. Ma la relazione del capitalismo all'indebitamento somiglia all'oppiomania: più si consuma, meno la dose è sufficiente. In altri termini, la borghesia ha mantenuto la testa fuori dall'acqua aggrappandosi ad un'ancora di salvezza putrefatta, la quale alla fine del 2008 si è sgretolata. È così che alla patente inefficacia dei deficit di bilancio si aggiunge il rischio di insolvenza di numerosi paesi, come la Grecia, l'Italia, l'Irlanda o la Spagna. In questo contesto, i governi di tutti i paesi sono ridotti a procedere alla giornata, modificando le loro politiche economiche dal rilancio al rigore in funzione degli avvenimenti, senza che niente possa migliorare durevolmente la situazione. Lo Stato, ultimo ricorso contro la crisi storica che strangola il capitalismo, in definitiva, non è più in grado di nascondere la sua impotenza.
Ovunque, nel mondo, continuano ad abbattersi attacchi senza precedenti contro la classe operaia che viaggiano alla stessa velocità con cui aumentano i tassi di disoccupazione. I governi, di destra come di sinistra, impongono ai proletari delle riforme e dei tagli di bilancio di una brutalità inusuale, come in Spagna dove, tra l’altro, quest’anno i dipendenti pubblici hanno visto il loro stipendio diminuito del 5% dal governo socialista di Zapatero, il quale già oggi ne promette il blocco per il 2011. In Grecia, è proprio l'età media per andare in pensione ad aver subito un aumento di 14 anni mentre i valori delle pensioni sono congelate fino al 2012. In Irlanda, paese che la borghesia ancora recentemente vantava per il suo dinamismo, il tasso ufficiale di disoccupazione è aumentato al 14%, mentre gli stipendi dei dipendenti pubblici sono stati alleggeriti anche dal 5% al 15%, così come le indennità dei disoccupati o i sussidi familiari. Secondo l'Organizzazione Internazionale del Lavoro, il numero di disoccupati nel mondo è passato da 30 milioni nel 2007 a 210 milioni di oggi[1]. Gli esempi si potrebbero moltiplicare perché, su tutti i continenti, la borghesia fa pagare alla classe operaia il pesante prezzo della crisi. Ma dietro i piani di austerità, ipocritamente chiamati riforme, dietro i licenziamenti e le chiusure di fabbrica, intere famiglie sprofondano nella povertà. Negli Stati Uniti, secondo un rapporto del Census Bureau circa 44 milioni di persone vivono sotto la soglia di povertà, ossia un aumento di 6,3 milioni di poveri in due anni che vanno ad aggiungersi al già forte sviluppo della povertà conosciuto nei tre anni precedenti. Del resto, negli Stati Uniti il decennio è stato segnato da una forte diminuzione del valore dei bassi redditi.
Non è solo nei “paesi ricchi” che la crisi viene pagata con la miseria. Recentemente, l'organizzazione delle Nazioni Unite per l'alimentazione e l'agricoltura, meglio conosciuta sotto la sigla FAO, si rallegrava nell’osservare nel 2010 un arretramento della malnutrizione che colpisce particolarmente l'Asia con 578 milioni di persone e l'Africa con 239 milioni, per un totale di 925 milioni di persone nel mondo. Ciò che le statistiche non rivelano allo stesso tempo, è che questa cifra resta largamente superiore a quella pubblicata nel 2008, prima che gli effetti dell’inflazione speculativa dei prezzi dei prodotti alimentari si erano fatti sentire fino a provocare una serie di sommosse in numerosi paesi. La diminuzione significativa dei prezzi agricoli ha modestamente "ridotto la fame nel mondo" ma la tendenza su parecchi anni, quella cioè che resta indipendente da una congiuntura economica immediata, è innegabilmente in aumento. Del resto, le canicole estive in Russia, in Europa dell'Est e, recentemente, in America latina hanno diminuito molto sensibilmente il rendimento dei raccolti mondiali, ciò che, in un contesto di aumento dei prezzi, accrescerà inevitabilmente per il prossimo anno la malnutrizione. Non è solo a livello economico che il capitalismo si esprime: le irregolarità climatiche e la gestione borghese delle catastrofi ambientalistiche costituiscono una causa crescente di mortalità e di miseria.
Il capitalismo distrugge il pianeta
Quest’estate, violente catastrofi si sono abbattute ovunque sulle popolazioni nel mondo: le fiamme hanno arroventato la Russia, il Portogallo e numerosi altri paesi; monsoni devastatori hanno sprofondato il Pakistan, l'India, il Nepal e la Cina nel fango. In primavera, il Golfo del Messico ha conosciuto la peggiore catastrofe ecologica della storia in seguito all'esplosione di una piattaforma petrolifera. L'elenco delle catastrofi dell'anno 2010 è ancora lungo. La moltiplicazione di questi fenomeni e la loro gravità crescente non sono il frutto del caso perché dall'origine delle catastrofi fino alla loro gestione, il capitalismo ne porta una pesante responsabilità.
Recentemente, il crollo di una vasca di ritenzione di una fabbrica di produzione di alluminio ha generato una catastrofe industriale ed ecologica in Ungheria: più di un milione di metri cubi di "fango rosso" tossico si sono sparsi intorno alla fabbrica, causando parecchi morti e numerosi feriti. I danni ambientali e sanitari sono enormi. Gli industriali, per "minimizzare gli impatti" di questi rifiuti, trattano il fango rosso nel seguente modo: ne rigettano in mare migliaia di tonnellate o lo depositano in una immensa vasca di ritenzione, come quella che è crollata in Ungheria, mentre da molto tempo esistono tecnologie per riciclare tali rifiuti, in particolare nell'edilizia e nell'orticoltura.
La distruzione del pianeta da parte della borghesia non si limita tuttavia alle innumerevoli catastrofi industriali che colpiscono ogni anno numerose regioni. Secondo il parere di numerosi scienziati, il riscaldamento del pianeta ha un ruolo principale nella moltiplicazione dei fenomeni climatici estremi: "Sono avvenimenti che sono destinati a riprodursi e ad intensificarsi in un clima perturbato dall'inquinamento dei gas ad effetto serra" secondo il vicepresidente del Gruppo di esperti intergovernativi sull'evoluzione del clima (Giec). E per tale motivo dal 1997 al 2006, mentre la temperatura del pianeta non ha smesso di aumentare, il numero di catastrofi, sempre più devastatrici, è aumentato del 60% rispetto al decennio precedente, trascinando nella loro scia sempre più nuove vittime. Da ora al 2015, il numero di vittime di catastrofi meteorologiche dovrebbe aumentare più del 50%.
Gli scienziati delle compagnie petrolifere possono agitarsi come vogliono nel dichiarare che il riscaldamento planetario non è il risultato di un inquinamento massiccio dell'atmosfera, ma l'insieme delle ricerche scientifiche serie dimostra una correlazione evidente tra la liberazione dei gas ad effetto serra, il riscaldamento climatico e la moltiplicazione delle catastrofi naturali. Tuttavia, gli scienziati si sbagliano quando affermano che basterebbe un minimo di volontà politica dei governi per potere cambiare le cose. Il capitalismo è incapace di limitare il rilascio di gas ad effetto serra perché dovrebbe andare contro le sue leggi, quelle del profitto, della produzione a costi minimi e della concorrenza. È la necessaria sottomissione a queste leggi che costringe la borghesia ad inquinare con, tra altri esempi, la sua industria pesante, o che fa percorrere inutilmente alle sue merci migliaia di chilometri.
Del resto, la responsabilità del capitalismo sull'ampiezza di queste catastrofi non si limita all’inquinamento atmosferico ed all'irregolarità climatica. La distruzione metodica degli ecosistemi, attraverso, per esempio, la deforestazione massiccia, lo stoccaggio dei rifiuti nelle zone naturali di drenaggio, o l'urbanizzazione anarchica, talvolta fino nel letto dei fiumi prosciugati ed al centro di zone a forte rischio d'incendio, ha aggravato di molto l'intensità delle catastrofi.
La serie di incendi che ha colpito la Russia in piena estate, in particolare una larga regione intorno a Mosca, è significativa dell'incuria della borghesia e della sua impotenza a dominare questi fenomeni. Le fiamme hanno arroventato centinaia di migliaia di ettari causando un numero indeterminato di vittime. Per parecchi giorni, un denso fumo, le cui conseguenze sulla salute sono state catastrofiche al punto da raddoppiare il tasso quotidiano di mortalità, ha invaso la capitale. E per non essere da meno, enormi rischi nucleari e chimici minacciano ancora le popolazioni al di là delle frontiere russe a causa, soprattutto, degli incendi su delle terre contaminate dall'esplosione della centrale di Chernobyl e dei magazzini di armi e di prodotti chimici più o meno dimenticati nella natura.
Un elemento essenziale per comprendere le responsabilità della borghesia relativamente alla violenza degli incendi è lo stupefacente stato di abbandono delle foreste. La Russia è un paese immenso dotato di un parco forestale molto importante e denso, che necessita di una cura particolare per circoscrivere velocemente gli inizi di incendi allo scopo di evitare la loro estensione non più controllabile. Ora, numerosi ed estesi boschi russi non sono dotati neanche di vie d'accesso, tanto che i camion dei vigili del fuoco sono incapaci di raggiungere il cuore della maggior parte degli incendi. Del resto, la Russia conta solo 22.000 vigili del fuoco, ossia meno di un piccolo paese come la Francia, per lottare contro le fiamme, ed i governatori regionali, notevolmente corrotti, preferiscono adoperare i magri mezzi di cui dispongono per la gestione delle foreste per acquistare automobili di lusso, come hanno rivelato i numerosi scandali.
Lo stesso cinismo vale per i famosi fuochi di torbiera, zone il cui suolo è costituito da materia organica in decomposizione particolarmente infiammabile: oltre a lasciare le torbiere in abbandono, la borghesia russa ha favorito la costruzione di abitazioni su queste zone dove degli incendi già avevano imperversato con forza nel 1972. Il calcolo è molto semplice: su questi pericolosi settori, i promotori immobiliari hanno potuto acquistare dei campi, dichiarati edificabili dalla legge, ad un prezzo irrisorio.
È in tal modo che il capitalismo trasforma dei fenomeni naturali umanamente dominabili in vere catastrofi. Ma, in materia di orrore, la borghesia non si ferma davanti a niente. È così che intorno alle devastanti inondazioni che hanno colpito il Pakistan, si è giocata una delle più immonde lotte imperialiste.
Per parecchie settimane, piogge torrenziali si sono abbattute sul Pakistan, causando enormi inondazioni, smottamenti di terreni, migliaia di vittime, più di 20 milioni di sinistrati e danni materiali considerevoli. La carestia e la propagazione di malattie, come il colera, hanno peggiorato una situazione già disperata. Per più di un mese, nel mezzo di questo orribile quadro, la borghesia pakistana ed il suo esercito hanno mostrato solo un'incompetenza ed un cinismo allucinante, accusando l'implacabilità della natura, mentre, come in Russia, tra urbanizzazione anarchica e servizi di soccorsi impotenti, le leggi del capitalismo appaiono come l'elemento essenziale per comprendere l'ampiezza della catastrofe.
Ma un aspetto particolarmente nauseante di questa tragedia è il modo con cui le potenze imperialiste hanno ancora una volta tentato di trarre profitto dalla situazione, a scapito delle vittime, utilizzando le operazioni umanitarie come alibi. Infatti, gli Stati Uniti sostengono, nella cornice della guerra con il confinante Afghanistan, il governo molto contestato di Youssouf Raza Gilani, e hanno approfittato con una certa urgenza degli avvenimenti per dispiegare un importante contingente "umanitario" costituito da portaelicotteri, da navi di assalto anfibie, ecc. Col pretesto di impedire un sollevamento dei terroristi di Al-Qaida, favorito dalle inondazioni, gli Stati Uniti frenano, per quanto è possibile, l’arrivo dell' “aiuto internazionale” proveniente da altri paesi, "aiuto umanitario" anche questo costituito da militari, diplomatici ed investitori senza scrupoli.
Come per ogni catastrofe di grande portata, tutti i mezzi sono messi in opera da tutti gli Stati per fare valere i loro interessi imperialisti. Tra questi, la promessa di doni è diventata un'operazione sistematica: tutti i governi annunciano ufficialmente una sostanziosa manna finanziaria che è accordata ufficiosamente solamente se si soddisfano le ambizioni dei donatori. Per esempio, attualmente, solo il 10% dell'aiuto internazionale promesso nel gennaio 2010 dopo il terremoto ad Haiti è stato versato effettivamente alla borghesia haitiana. Ed il Pakistan non farà certamente eccezione alla regola; i milioni promessi saranno versati solamente a titolo di commissione di Stato contro servizi resi.
I fondamenti del capitalismo, la ricerca del profitto, la concorrenza, ecc., sono dunque, a tutti i livelli, al centro della problematica ambientalista. Ma le lotte intorno al Pakistan illustrano anche le tensioni imperialiste crescenti che devastano una parte del pianeta.
Il capitalismo semina il caos e la guerra
L'elezione di Barack Obama alla testa della prima potenza mondiale ha suscitato molte illusioni sulla possibilità di pacificare i rapporti internazionali. In realtà, la nuova amministrazione americana ha solamente confermato la dinamica imperialista iniziata col crollo del blocco dell'Est. L'insieme delle nostre analisi secondo cui "la disciplina rigida dei blocchi imperialisti" doveva, in seguito al crollo del blocco dell'Est, cedere il posto all'indisciplina, ad un caos strisciante ed ad una lotta generalizzata di tutti contro tutti con una moltiplicazione incontrollabile dei conflitti militari locali, è stato pienamente verificato. Il periodo aperto dalla crisi e l'aggravamento considerevole della situazione economica non hanno fatto che acuire le tensioni imperialistiche tra le nazioni. Secondo L'Istituto Internazionale Peace Research di Stoccolma non meno di 1531 miliardi di dollari sarebbero stati spesi nei bilanci militari di tutti i paesi nel 2009, ossia un aumento del 5,9% rispetto al 2008 e del 49% rispetto al 2000. Ed ancora, queste cifre non tengono conto del traffico illegale delle armi. Anche se la borghesia di certi Stati si trova costretta, obbligata dalla crisi, a ridurre le sue spese militari, fondamentalmente la militarizzazione crescente del pianeta è il riflesso del solo futuro che viene riservato all'umanità: la moltiplicazione dei conflitti imperialisti.
Gli Stati Uniti, con i loro 661 miliardi di spese militari nel 2009, beneficiano di una superiorità militare assolutamente incontestabile. Tuttavia, dal crollo del blocco dell'Est, il paese è sempre meno in grado di mobilitare altre nazioni dietro di sè, come lo ha dimostrato la guerra dell'Iraq iniziata nel 2003 dove, a dispetto del ritiro annunciato recentemente, le truppe americane contano ancora parecchie decine di migliaia di soldati. Non solo gli Stati Uniti non sono stati in grado di raggruppare altre potenze sotto la loro bandiera, in particolare la Russia, la Francia, la Germania e la Cina ma, in più, altre si sono disimpegnate poco a poco dal conflitto, come la Gran Bretagna e la Spagna. Soprattutto, la borghesia americana sembra sempre meno capace di assicurare la stabilità di un paese conquistato (il pantano afgano ed iracheno sono sintomatici di questa impotenza) o di una regione, come lo dimostra il modo con cui l'Iran sfida gli Stati Uniti senza timore di rappresaglia. L'imperialismo americano è nettamente declinante e cerca di riconquistare la sua leadership persa da parecchi anni attraverso le guerre che, alla fine, l'indeboliscono considerevolmente.
Di fronte agli Stati Uniti, la Cina tenta di fare prevalere le sue ambizioni imperialiste attraverso lo sforzo di armamento (100 miliardi di dollari di spese militari nel 2009, con aumenti annui a due cifre dagli anni 90) e sul campo. In Sudan, per esempio, come in molti altri paesi, la Cina si stabilisce economicamente e militarmente. Il regime sudanese e le sue milizie, armate dalla Cina, massacrano le popolazioni accusate di sostenere i ribelli del Darfour, armati a loro volta dalla Francia, tramite il Ciad, e dagli Stati Uniti, vecchio avversario della Francia nella regione. Tutte queste manovre nauseanti hanno determinato la morte di centinaia di migliaia di persone e l'esodo di parecchi milioni d'altre.
Tuttavia, non sono solo Gli Stati Uniti e la Cina a portare la responsabilità del caos guerriero sul pianeta. In Africa, per esempio, la Francia, direttamente o attraverso milizie interposte, tenta di salvare ciò che le è possibile della sua influenza, principalmente in Ciad, in Costa d'Avorio, in Congo ecc. Le cricche palestinesi ed israeliane, sostenute dai rispettivi padrini perseguono una guerra interminabile. La decisione israeliana di non prolungare la moratoria sulle costruzioni nei territori occupati, mentre sono in atto "negoziati di pace" organizzati dagli Stati Uniti, mostra del resto il vicolo cieco della politica di Obama che voleva distinguersi da quella di Bush attraverso una maggiore diplomazia. La Russia, con la guerra in Georgia e l'occupazione della Cecenia tenta di ricreare una sfera di influenza attorno a sé. La litania dei conflitti imperialisti è troppo lunga per poterla esporre qui in modo esauriente. Tuttavia, ciò che la moltiplicazione dei conflitti rivela, è che tutte le frazioni nazionali della borghesia, potenti o non, non hanno altra alternativa da proporre se non spargimenti di sangue in difesa dei loro interessi imperialisti.
La classe operaia riprende la strada della lotta
Di fronte alla profondità della crisi nella quale affonda il capitalismo, palesemente la combattività operaia non è all’altezza degli attacchi, le sconfitte del proletariato esercitano ancora una pesante pressione sulla coscienza della nostra classe. Ma le armi della rivoluzione si fabbricano nel cuore delle lotte che la crisi comincia a sviluppare significativamente. Da parecchi anni numerose lotte aperte sono esplose, talvolta simultaneamente a livello internazionale. La combattività operaia si esprime simultaneamente sia a livello dei paesi "ricchi" - in Germania, in Spagna, negli Stati Uniti, in Grecia, in Irlanda, in Francia, in Giappone, ecc. - che nei paesi "poveri". La borghesia dei paesi ricchi diffonde l'immonda e menzognera idea che i lavoratori dei paesi poveri si appropriano dei posti di lavoro dei paesi ricchi, ma mette molta cura ad imporre quasi un blackout sulle lotte di questi operai perché li farebbe apparire vittime degli stessi attacchi che il capitalismo in crisi impone in tutti i paesi.
In Cina, in un paese dove la parte dei salari nel PIL è passata dal 56% nel 1983 al 36% nel 2005, gli operai di parecchie fabbriche hanno cercato di liberarsi dei sindacati, malgrado con forti illusioni sulla possibilità di un sindacato libero. Soprattutto, gli operai cinesi sono riusciti a coordinare da soli la loro azione e ad al-largare la loro lotta al di là della fabbrica. A Panama, il 1 luglio, è esploso uno sciopero nelle piantagioni di banane della provincia di Bocas di Toro per richiedere il pagamento degli stipendi ed opporsi ad un riforma antisciopero. Là anche, malgrado un viva repressione poliziesca ed i molteplici sabotaggi sindacali, i lavoratori hanno cercato immediatamente, e con successo, di estendere il loro movimento. La stessa solidarietà e la stessa volontà di battersi hanno animato collettivamente un movimento di sciopero selvaggio in Bangladesh, violentemente represso dalla polizia.
Nei paesi centrali, la reazione operaia è proseguita attraverso nu-merose lotte in Grecia e in particolare in Spagna dove gli scioperi si moltiplicano contro le misure draconiane di austerità. Lo sciopero organizzato dai lavoratori della metropolitana di Madrid è significativo della volontà degli operai di estendere la loro lotta e di organizzarsi collettivamente attraverso le assemblee generali. È perciò che esso è stato il bersaglio di una campagna denigratoria orchestrata dal governo socialista di Zapatero e dai suoi media. In Francia, se i sindacati riescono ad inquadrare gli scioperi e le manifestazioni, la riforma che mira ad innalzare l'età pensionabile provoca la mobilitazione di un larga frangia della classe operaia e dà luogo ad espressioni che, per quanto minoritarie, sono anche molto significative di una volontà di organizzarsi fuori dai sindacati attraverso le assemblee generali sovrane e di estendere le lotte.
Evidentemente, la coscienza del proletariato mondiale è ancora insufficiente e queste lotte, sebbene simultanee, non sono immediatamente in grado di creare le condizioni di un’unica lotta a livello internazionale. Tuttavia, la crisi nella quale affonda il capitalismo, le cure di austerità e la miseria crescente vanno a produrre inevitabilmente ed in maniera crescente una moltiplicazione di lotte massicce attraverso cui gli operai svilupperanno poco a poco la loro identità di classe, la loro unità, la loro solidarietà, la loro volontà di battersi collettivamente. Questo campo è il concime di una politicizzazione cosciente del combattimento operaio per la sua emancipazione. La strada verso la rivoluzione è ancora lunga ma, come scrivevano Marx ed Engels nel Manifesto comunista: "La borghesia non ha forgiato solamente le armi che la metteranno a morte; ha prodotto anche gli uomini che maneggeranno queste armi, gli operai moderni, i proletari".
V. (08/10/10)
[1] Queste statistiche mettono in evidenza un aumento generale della disoccupazione che la borghesia con i suoi giochetti di pre-stigio non può più dissimulare. Bisogna essere tuttavia coscienti che queste cifre sono lungi dal riflettere l'ampiezza del fenomeno poiché, in tutti i paesi, compresi quelli in cui la borghesia si è do-vuta impegnare per mettere in opera un dispositivo di ammortiz-zatori sociali, il fatto di non ritrovare lavoro ha per conseguenza che dopo un certo tempo non si è più considerati disoccupati.
Nel precedente articolo abbiamo rievocato la grande lotta portata avanti dalla classe operaia in Italia alla fine degli anni ‘60 che è rimasta nella storia con il nome di “autunno caldo”, nome che, come abbiamo già ricordato nel suddetto articolo, è troppo angusto dal punto di vista temporale per designare una fase di lotte che ha investito i proletari in Italia per almeno tutto il biennio 1968-69 e che ha lasciato una traccia profonda negli anni successivi. Ugualmente abbiamo messo in luce come questa lotta in Italia non sia stata che uno dei tanti episodi all’interno di un processo di ripresa internazionale della lotta di classe dopo il lungo periodo di controrivoluzione che aveva attraversato il mondo intero in seguito alla sconfitta dell’ondata rivoluzionaria degli anni ’20. Concludevamo questo primo articolo ricordando che questo enorme sviluppo di combattività, accompagnato da momenti di chiarificazione importanti nella classe operaia, incontrerà però, nel periodo successivo, degli ostacoli importanti. La borghesia italiana, come quella degli altri paesi che avevano dovuto far fronte al risveglio della classe operaia, non rimane a lungo con le mani in mano e, a parte gli interventi frontali messi in atto dai corpi di polizia, cerca gradualmente di aggirare l’ostacolo con strumenti diversi. Come vedremo in questa seconda parte dell’articolo, la capacità di recupero della borghesia si basa molto sulle debolezze di un movimento proletario che, nonostante un’enorme combattività, era ancora privo di una chiara coscienza di classe e le cui stesse avanguardie non avevano la maturità e la chiarezza necessarie a svolgere il loro ruolo.
Le debolezze della classe operaia nell’autunno caldo
Le debolezze della classe operaia nell’autunno caldo sono legate principalmente alla profonda rottura organica che si era prodotta nel movimento operaio dopo la sconfitta dell’ondata rivoluzionaria degli anni ’20 e il soffocante dominio dello stalinismo. Ciò aveva giocato in maniera doppiamente negativa sulla coscienza della classe operaia. Da una parte infatti era stato cancellato tutto il patrimonio politico di classe, la prospettiva del comunismo essendo confusa con interclassistici programmi di nazionalizzazioni e la stessa lotta di classe confusa sempre più con la lotta per la “difesa della propria patria”![1] D’altra parte, l’apparente continuità con cui si era passati dall’ondata rivoluzionaria degli anni ’20 alla più atroce fase controrivoluzionaria, con le purghe staliniane e i milioni di proletari trucidati “in nome del comunismo”, ha impresso nella mente della gente comune, grazie anche alla perversa propaganda della borghesia sui comunisti come gente sempre pronta ad ogni angheria e violenza sull’uomo, l’idea che effettivamente il marxismo o il leninismo andassero respinti o per lo meno profondamente rivisti. Così, quando la classe operaia si risveglia, a livello italiano e internazionale, non ha alle spalle alcuna organizzazione rivoluzionaria con delle solide basi teoriche che possa sostenerne lo sforzo di ripresa. Infatti, quasi tutti i nuovi gruppi che si ricostituiscono sull’onda della ripresa della lotta di classe della fine degli anni ‘60, pur riprendendo in mano i classici, lo fanno con un certo aprioristico criticismo che non li aiuterà a ritrovare ciò di cui hanno bisogno. D’altra parte le stesse formazioni della sinistra comunista che erano sopravvissute ai lunghi decenni della controrivoluzione, non erano rimaste politicamente indenni. Così i consiliaristi, testimonianza quasi larvale della eroica esperienza della sinistra tedesco-olandese degli anni ’20, ancora terrorizzati dal ruolo nefasto che avrebbe potuto assumere in futuro un partito degenerato che, come quello stalinista, avesse potuto assumere il comando sullo Stato e sul proletariato, si ritagliano sempre più un ruolo di “partecipatori alle lotte” senza giocare alcun ruolo di avanguardia e mantenendo dunque per sé tutto il bagaglio di lezioni del passato. Per i bordighisti e la sinistra italiana del dopo ‘43 (Programma Comunista e Battaglia Comunista), che invece tale ruolo lo rivendicano con forza, si arriva al paradosso che, per l’incapacità di comprendere la fase in cui si trovavano e per una sorta di adulazione per lo strumento partito che si congiunge ad una certa sottovalutazione delle lotte operaie sviluppatesi in assenza dei rivoluzionari, si rifiutano tutti di riconoscere, nell’autunno caldo e nelle lotte di fine anni ’60, la ripresa storica della classe a livello internazionale finendo per avere all’epoca una presenza praticamente nulla[2].
Ciò fece sì che i nuovi gruppi politici che si erano formati durante gli anni ’60, vuoi per le diffidenze che questi nutrivano nei confronti delle precedenti esperienze politiche, vuoi per l’assenza di riferimenti politici già presenti, fossero spinti a reinventarsi delle posizioni e un programma d’azione. Il problema è però che il punto da cui partivano era l’esperienza fatta all’interno del vecchio e decrepito partito stalinista. Per cui la folta generazione di militanti che viene allo scoperto in contrapposizione a tali partiti ed ai sindacati, rompendo i ponti con i partiti di sinistra li rompe un po’ anche con la tradizione marxista, andando alla ricerca di una via rivoluzionaria nelle “novità” che pensa di incontrare per strada, sviluppando molto spontaneismo e molto volontarismo. Anche perché chi si presenta nelle vesti di ufficialità è o lo stalinismo vecchia maniera (URSS e i PC classici) o quello nuova maniera dei “cinesi”.
L’ideologia dominante dell’Autunno caldo: l’operaismo
E’ in questo contesto che si sviluppa l’operaismo, l’ideologia dominante dell’autunno caldo. La giusta reazione dei proletari che si risvegliavano alla lotta di classe contro le strutture burocratizzate e asfittiche del PCI[3] e dei sindacati li spinse a togliere a queste strutture ogni fiducia e a riporla solo nella classe operaia medesima. Questo sentimento viene bene espresso nell’intervento di un operaio della Om di Milano al Palasport di Torino in occasione di un coordinamento della nascente Lotta Continua nel gennaio 1970:
“A differenza del Partito comunista, non siamo guidati da quattro borghesi. (…) Noi non faremo come il Pci, perché saranno gli operai a guidare questa organizzazione”[4].
E’ il momento magico in cui nelle manifestazioni si grida: “Siamo tutti delegati!”.
Il giudizio sui sindacati è infatti particolarmente forte:
«Non pensiamo né che si possa cambiare il sindacato “dall’interno”, né che si debba costruirne uno nuovo più “rosso”, più “rivoluzionario”, più “operaio”, senza burocrati. Noi pensiamo che il sindacato sia una rotella del sistema dei padroni … e quindi vada combattuto come i padroni»[5].
Qui di seguito cercheremo di presentare i principali aspetti dell’operaismo, in particolare nella versione difesa da Toni Negri - che resta a tutt’oggi uno degli esponenti più accreditati di questa corrente politica – in modo da poterne valutare gli elementi di forza ma anche quelli che ne hanno sancito il successivo fallimento. Per fare questo faremo riferimento all’opera di Toni Negri Dall’operaio massa all’operaio sociale. Intervista sull’operaismo[6]. Cominciamo proprio da una definizione di operaismo:
“Il cosiddetto “operaismo” nasce e si forma come un tentativo di risposta politica alla crisi del movimento operaio degli anni Cinquanta, crisi determinata fondamentalmente dalla vicenda storica del movimento operaio attorno al XX congresso.”[7]
Come si vede già da questo passaggio, nonostante la rottura anche profonda con le forse ufficiali di sinistra, la concezione che si ha di queste – ed in particolare del PCI – è del tutto inadeguata perché basata solo su elementi empirici e non radicata su una comprensione teorica di fondo. Si parte infatti da una cosiddetta “crisi del movimento operaio degli anni cinquanta”, quando invece all’epoca quello che viene definito “movimento operaio” è solo l’internazionale della controrivoluzione stalinista nella misura in cui l’ondata rivoluzionaria era stata sconfitta già negli anni ‘20 e la gran parte dei quadri politici operai ormai annientata perché dispersa e massacrata. Questa ambiguità nei confronti del PCI si esprimerà attraverso un rapporto di odio-amore verso il partito di origine e spiegherà come mai, nel tempo, tantissimi elementi non troveranno niente di male nel tornare all’ovile![8]
L’operaismo si fonda in origine sulla quella che viene definita la figura dell’operaio massa, ovvero la nuova generazione di proletari che, proveniente in larga misura dal meridione in una fase di espansione e di modernizzazione dell’industria dalla seconda metà degli anni ‘50 ai primi anni ‘60, va a sostituire la vecchia figura dell’operaio professionalizzato, svolgendo in genere un lavoro dequalificato e ripetitivo. Il fatto che questa componente proletaria, giovane e senza storia, fosse molto meno sensibile alle sirene dello stalinismo e del sindacalismo e molto più pronta a porsi sul piano della lotta, ha indotto gli operaisti dell’epoca a lasciarsi prendere da un’analisi sociologica secondo cui il PCI sarebbe stato l’espressione politica degli strati di operai professionalizzati, di una aristocrazia operaia[9]. Vedremo più avanti dove condurrà questa sorta di purismo sociale a livello di scelte politiche.
Dalla concezione partitista allo scioglimento nel movimento
Il contesto degli anni ‘60, la grande forza e durata del movimento di classe in Italia di quel periodo, la mancanza di esperienze trasmesse per via diretta da organizzazioni proletarie preesistenti, suggerisce alla generazione di giovani militanti dell’epoca l’idea secondo cui si era ormai arrivati ad una situazione rivoluzionaria[10] e che occorreva stabilire, nei confronti della borghesia, un rapporto di conflitto permanente, una sorta di dualismo di potere. Ciò impone ai gruppi che difendono questa idea (principalmente Potere Operaio) di assumersi un ruolo dirigente nei confronti del movimento (“l’agire da partito”) e di sviluppare un’azione continua e sistematica contro lo Stato. Ecco come si esprime a proposito Tony Negri:
“L’attività politica di Potere Operaio sarà dunque tale da ricomporre sistematicamente il movimento di classe, le varie situazioni, i vari settori della classe operaia e del proletariato, e da portarli verso scadenze, verso momenti di scontro di massa che possano intaccare questa realtà dello Stato così come ci si presenta dinnanzi. L’esercizio di un contropotere, come contropotere legato alle singole esperienze, ma che si tratta di volta in volta di garantire ed esercitare contro il potere dello Stato: anche questo è un soggetto fondamentale dell’analisi e una funzione dell’organizzazione.”[11]
Purtroppo la mancata critica alle pratiche dello stalinismo ha condotto i gruppi, operaisti e non, nati negli anni ’60, a portarsi dietro logiche riconducibili a quella stalinista. Tra queste particolarmente pesante è l’idea dell’“azione esemplare”, capace di spingere le masse ad assumere un certo comportamento:
«“Non avevo posizioni pacifiste”, dice Negarville, uno dei capi del servizio d’ordine che aveva cercato e trovato lo scontro con gli agenti in corso Traiano (3 luglio 1969: 70 poliziotti feriti, 160 manifestanti fermati). “L’idea dell’azione esemplare che provoca la reazione della polizia fa parte della teoria e della prassi di LC fin dall’inizio, gli scontri di piazza sono come le battaglie operaie per il salario, funzionali alla crescita del movimento”, dice Negarville; e non c’è nulla di peggio di una manifestazione pacifica o di un buon contratto; quel che importa non è raggiungere l’obiettivo ma la lotta, la lotta continua appunto».[12]
Questa logica è la stessa che spingerà più tardi le varie formazioni terroristiche a giocare sulla pelle della classe operaia la propria sfida allo Stato, puntando sul fatto che più avanti era portato l’attacco al cuore dello Stato, più coraggio avrebbero acquistato i proletari. L’esperienza ci ha invece dimostrato che, ogni volta che delle bande terroristiche hanno rubato alla classe l’iniziativa mettendola in una situazione di obiettivo ricatto, la conseguenza è stata sistematicamente una paralisi della classe stessa.[13]
Questa ricerca dello scontro continuo produce però, alla lunga, sia un esaurimento di energie che una difficoltà, per queste formazioni operaiste, di trovare lo spazio per una seria e necessaria riflessione politica:
“Di fatto, la vita organizzativa di Potere Operaio è continuamente rotta dalla necessità di scadenze che spesso, di volta in volta, esorbitano dalla capacità di massa di sostenerle; spesso, d’altro lato, il radicamento sul livello di massa è povero ed esclude capacità di scadenza.”[14]
D’altra parte il movimento di lotta della classe, dopo aver espresso una grande spinta con lo sviluppo di importanti lotte ancora nei primi anni ’70, comincia tuttavia a declinare e ciò porta all’epilogo dell’esperienza di Potere Operaio con lo scioglimento del gruppo nel 1973:
“… appena abbiamo capito che il problema che ponevamo era, nella situazione e nel rapporto di forza dati, irrisolvibile, ci siamo sciolti. Se con le nostre forze non riuscivamo a risolvere questo problema, a questo punto era la forza del movimento di massa che doveva in qualche modo risolverlo, o per lo meno proporre una nuova impostazione al problema.”[15]
L’ipotesi da cui si era partiti secondo cui si era in presenza di un attacco operaio al capitale permanente e linearmente crescente, e quindi in presenza delle condizioni materiali per costruire un “nuovo partito rivoluzionario”, si rivela ben presto infondata e non corrispondente alla realtà negativa del “riflusso”.
Ma piuttosto che prenderne atto, gli operaisti si fanno prendere da un crescente soggettivismo, immaginando di aver messo in crisi il sistema economico con le proprie lotte e perdendo un po’ alla volta ogni supporto materialistico nelle loro analisi, raggiungendo a volte dei punti di vista decisamente interclassisti.
Dall’operaismo all’autonomia operaia
Come vedremo, i temi politici che hanno caratterizzato l’operaismo non sono sempre gli stessi e non sono portati avanti sempre con la stessa forza. In ogni caso, tutte le posizioni di Potere Operaio (e dell’operaismo in genere) sono segnate da questa esigenza di una continua contrapposizione frontale allo Stato, una contrapposizione ostentata di continuo come segnale di azione politica, come espressione di vitalità. Quello che invece cambia gradualmente è il riferimento alla classe operaia, o meglio alla figura di operaio a cui si fa riferimento che, dopo quella dell’operaio massa, con il venir meno delle lotte, sfuma progressivamente in quella di un cosiddetto “operaio sociale”. E’ questa evoluzione del riferimento sociale che spiega in qualche modo tutta l’evoluzione, o meglio l’involuzione politica, dell’operaismo.
Il tentativo di spiegare questa evoluzione di posizioni dell’operaismo si lega ad un presunto disegno del capitale tendente a vincere la combattività operaia, precedentemente concentrata in fabbrica, disperdendo la classe sul territorio:
“… la ristrutturazione capitalista cominciava a identificarsi come colossale operazione sulla composizione della classe operaia, operazione di dissoluzione della forma nella quale la classe era venuta costituendosi, determinandosi negli anni Sessanta. Questi anni avevano visto una prevalenza dell’operaio massa in quanto figura cerniera della produzione capitalistica e della produzione sociale di valore concentrata sulla fabbrica. La ristrutturazione capitalistica era costretta, da questa rigidità politica interna tra produzione e riproduzione, a giocare man mano l’isolamento dell’operaio massa nella fabbrica rispetto al processo di socializzazione della produzione e alla figura operaia che veniva distendendosi socialmente. D’altra parte, nella misura stessa in cui il processo di produzione veniva estendendosi socialmente, la legge del valore cominciava a funzionare solo formalmente, cioè funzionava non sulla relazione diretta tra lavoro individuale, determinato, e plusvalore estorto, ma sul complesso del lavoro sociale.”[16]
Così la figura operaia di riferimento diventa quella di un fantomatico “operaio sociale”, figura quanto mai fumosa nella quale, nonostante le precisazioni di Negri[17], il movimento dell’epoca ci ha messo di tutto.
In realtà, con la transizione dall’operaio massa all’operaio sociale lo stesso operaismo organizzato si scioglie (Potere Operaio) o degenera verso il parlamentarismo (Lotta Continua) e si presenta un nuovo fenomeno che è quello dell’autonomia operaia[18], che vuole essere la continuazione, in forma di movimento, dell’esperienza operaista.
L’Autonomia Operaia nasce di fatto nel 1973 al congresso di Bologna, in una fase in cui tutta una parte della gioventù si riconosce nella figura dell’operaio sociale coniata da Toni Negri. Per questo “proletariato giovanile” la liberazione non passa più attraverso la conquista del potere, ma attraverso lo sviluppo di una “area sociale capace di incarnare l’utopia di una comunità che si risveglia e che si organizza al di fuori del modello economico, del lavoro e del salario”[19] e dunque attraverso la messa in atto di un “comunismo immediato”. La politica diviene “libidine”, dettata e sottoposta al desiderio e ai bisogni. Articolato intorno a Centri sociali, dove si riuniscono i giovani dei quartieri popolari, questo “comunismo immediato” si traduce nella pratica della diffusione di azioni dirette, tra cui principalmente “espropri proletari”, immaginati come prelievo di un “salario sociale”, auto-riduzioni, occupazioni di alloggi pubblici e privati, e una diffusa esperienza di autogestione e di vita alternativa. Inoltre si rafforza l’atteggiamento volontarista che scambia i propri desideri per realtà, fino a immaginare una situazione in cui la borghesia sia sotto l’attacco da parte dell’operaio sociale:
“… oggi ormai la situazione italiana è dominata da un contropotere irriducibile, radicale, che non ha nulla più a che fare, semplicemente, con l’esistenza operaia nelle fabbriche, con la situazione registrata dallo “Statuto dei lavoratori” o da determinate articolazioni istituzionali post-sessantottesche. Ci troviamo invece in una situazione nella quale, all’interno dell’intero processo di riproduzione - é questo che va sottolineato -, l’auto-organizzazione operaia è data in termini ormai definitivi.”[20]
Ma questa analisi non è limitata alla sola situazione italiana, ma viene estesa a livello internazionale, soprattutto a paesi dall’economia più avanzata come Usa e Gran Bretagna. La convinzione che il movimento operaio sia in una posizione di forza è talmente alta da far credere a Toni Negri (e agli autonomi dell’epoca) che ormai gli Stati abbiano deciso di porre mano ai loro portafogli per cercare di arginare l’offensiva proletaria attraverso la distribuzione di maggiori quote di reddito:
“… questi sono fenomeni che conosciamo perfettamente in economie più mature delle nostre, fenomeni che tutti gli anni Sessanta hanno visto completamente in atto sia negli Stati Uniti che in Gran Bretagna, dove appunto la possibilità di blocco del movimento è stata cercata, da un lato, attraverso la distruzione delle avanguardie soggettive del movimento, dall’altro, in maniera importante, attraverso la capacità di controllo che si fondava su un’enorme disponibilità di cash, su un’enorme articolazione della distribuzione del reddito. [21]
Anzi, in una situazione in cui “tutto il processo del valore è saltato”, i padroni sarebbero stati anche disposti a non guadagnarci più niente pur di “restaurare le regole dell’accumulazione” e “socializzare in maniera completa strumenti di controllo, di comando”[22]. In altri termini ci si immagina di aver destabilizzato lo Stato, di averlo messo in crisi con la propria lotta senza neanche rendersi conto che ormai chi rimaneva in piazza era sempre più una gioventù che con il mondo delle fabbriche e del lavoro aveva sempre meno a che vedere e che di conseguenza aveva sempre meno capacità di imporre un rapporto di forza nei confronti della borghesia.
Caratteristico di questo periodo è il concetto di “autovalorizzazione operaia” che, al di là degli aspetti relativi alle conquiste materiali, si riferiva “a momenti di contropotere”, cioè “a momenti politici di autodeterminazione, di separazione della propria realtà di classe da quella che è complessivamente la realtà della produzione capitalistica.”[23] In questo contesto “la conquista proletaria di reddito” sarebbe stata capace di “distrugge[re] di volta in volta l’equazione della legge del valore”[24]. Qui si confonde la capacità della classe di strappare più alti salari e di ridurre dunque la quota di plus valore estorto dai capitalisti con una pretesa “distruzione” della legge del valore. La legge del valore invece, come ha dimostrato tutta la storia del capitalismo, è ben dura a morire ed è sopravvissuta finanche nei paesi del cosiddetto “socialismo reale” (i paesi dell’est che all’epoca venivano chiamati, subdolamente, comunisti).
Dall’insieme delle cose che abbiamo visto possiamo vedere come esistesse, all’interno dell’area dell’autonomia operaia, la forte illusione che il proletariato potesse, all’interno della società borghese, crearsi e godere di posizioni di contropotere relativamente “stabili” laddove il rapporto di doppio potere è una condizione particolarmente precaria tipica delle fasi rivoluzionarie che o evolvono nell’offensiva vincente della rivoluzione proletaria con l’affermazione del potere esclusivo della classe operaia e l’annientamento del potere borghese, o degenerano nella sconfitta della classe.
E’ questo forte disancoraggio dalla realtà materiale, dalla base economica della lotta, a produrre lo sviluppo fantasioso e goliardico delle posizioni politiche dell’autonomia.
Tra le posizioni particolarmente in voga tra i militanti dell’autonomia operaia c’era quella sul rifiuto del lavoro a cui si lega strettamente quella sulla teoria dei bisogni. Alla giusta osservazione secondo cui l’operaio deve tendere a non rimanere invischiato nella logica degli interessi padronali e a reclamare il soddisfacimento dei propri sacrosanti bisogni, i teorici dell’autonomia sovrappongono una teoria che va oltre, identificando l’autovalorizzazione operaia con il sabotaggio della macchina padronale, fino a pretendere che ci sia un gusto in questa stessa azione di sabotaggio. E’ quanto emerge dalla descrizione soddisfatta che fa Toni Negri parlando della libertà che si prendono gli operai dell’Alfa quando, per le prime volte, si mettono a fumare sulle linee senza preoccuparsi del danno prodotto alla produzione. Non c’è dubbio che, in certi momenti, si prova una soddisfazione profonda a fare qualcosa che ti viene inutilmente proibito, a fare comunque qualcosa che ti viene negato con la prepotenza della forza. C’è una soddisfazione psicologica e finanche fisica. Ma che c’entra questo con le conclusioni che ne trae Toni Negri secondo cui questa fumata sarebbe “una cosa importantissima […] importante, dal punto di vista teorico, quasi quanto la scoperta che la classe operaia determina lo sviluppo del capitale.”??? Secondo Negri, la “sfera dei bisogni” non è più quella dei bisogni materiali, oggettivi, naturali, ma qualcosa che si crea di volta in volta, “che passava attraverso, e riusciva a dominare, tutte le occasioni che la controcultura offriva”.
In qualche modo il giusto rifiuto di rimanere alienati, non solo materialmente ma anche mentalmente, sul posto di lavoro, cosa che viene espressa attraverso degli strappi alla disciplina di fabbrica, viene fatto passare come “un fatto qualitativo formidabile; un fatto che riferisce esattamente la dimensione dell’espansione dei bisogni. Che cosa significa infatti godere il rifiuto del lavoro, che cos’altro può significare se non aver costruito dentro se stessi una serie di capacità materiali di godimento che sono completamente alternative al ritmo lavoro-famiglia-bar, e funzionali alla rottura di questo mondo chiuso, scoprendo nell’esperienza di rivolta delle capacità e un potere di alternativa radicale?”[25].
In realtà, è perdendosi dietro queste chimere vuote e prive di ogni prospettiva che l’operaismo, nella sua versione di operaio sociale, degenera completamente dissolvendosi in tante iniziative separate, ognuna volta a rivendicare il soddisfacimento dei bisogni di qualche categoria, ben lontani dall’esprimere quella solidarietà di classe che si era espressa nell’autunno caldo e che ritornerà soltanto più tardi quando la parola tornerà alla classe operaia.
Reazioni dello Stato ed epilogo dell’autunno caldo
Come abbiamo anticipato nell’introduzione, la capacità di recupero della borghesia si è basata molto sulle debolezze del movimento proletario che abbiamo finora evocato. Occorre però anche dire che la borghesia, dopo un primo momento in cui è apparsa parzialmente sorpresa, è stata poi capace di sferrare un attacco senza precedenti contro il movimento operaio, sia in maniera diretta sul piano della repressione, che sul piano delle manovre di tutti i tipi.
A livello di repressione
E’ l’arma classica della borghesia contro il proprio nemico di classe, anche se non è l’arma decisiva che le permette veramente di realizzare un rapporto di forza contro il proletariato. Tra l’ottobre 1969 e il gennaio 1970 ci sono state oltre tredicimila denunce contro studenti e operai.
“Studenti e operai, oltre tredicimila tra l’ottobre 1969 e il gennaio 1970, vengono denunciati. Vengono riesumati gli articoli del codice fascista che puniscono la “propaganda sovversiva” e la “istigazione all’odio tra le classi”. Polizia e carabinieri sequestrano opere di Marx, Lenin, Che Guevara.”[26]
A livello del gioco fascismo/antifascismo
Questa è l’arma classica giocata contro il movimento studentesco, meno nei confronti della classe operaia, che consiste nel distrarre i movimenti in sterili scontri di strada tra bande rivali con il necessario appello, ad un certo punto, alle componenti cosiddette “democratiche e antifasciste” della borghesia. Insomma una maniera per ricondurre le pecore smarrite all’ovile!
A livello di strategia della tensione
Questo è stato sicuramente il capolavoro della borghesia italiana di quegli anni che è riuscita a cambiare profondamente il clima politico che si viveva. Tutti ricordano la strage della Banca dell’Agricoltura di piazza Fontana del 12 dicembre 1969, che provocò 16 morti e 88 feriti. Ma non tutti sanno o ricordano che a partire dal 25 aprile ‘69 l’Italia è stata martoriata da una serie infinita di attentati:
“Il 25 aprile due bombe esplodono a Milano, una alla stazione centrale e l’altra, che provoca il ferimento di venti persone, allo stand Fiat della Fiera. Il 12 maggio tre ordigni esplosivi, due a Roma e uno a Torino, non esplodono per puro caso. In luglio il settimanale “Panorama” riferisce voci di un colpo di stato di destra. Gruppi neofascisti lanciano un appello alla mobilitazione, il Pci mette in stato di vigilanza le sue sezioni. Il 24 luglio un ordigno simile a quelli scoperti in maggio a Roma e a Torino, viene rinvenuto inesploso nel palazzo di Giustizia di Milano. L’8 e il 9 agosto otto attentati ferroviari provocano danni ingenti e alcuni feriti. Il 4 ottobre, a Trieste, un ordigno collocato in una scuola elementare e predisposto per esplodere all’ora di uscita dei bambini, non esplode per un difetto tecnico; viene incriminato un militante di Avanguardia nazionale. A Pisa, il 27 ottobre, il bilancio di una giornata di scontri tra polizia e dimostranti, che reagiscono a una manifestazione di fascisti italiani e greci, è di un morto e centoventicinque feriti. (…) il 12 dicembre quattro ordigni esplosivi vengono fatti esplodere a Roma e Milano. I tre di Roma non fanno vittime, ma quello di Milano, a piazza Fontana di fronte alla Banca dell’Agricoltura, provoca sedici morti e ottantotto feriti. Un quinto ordigno, sempre a Milano, viene rinvenuto inesploso. Inizia così, per l’Italia, quella che è stata efficacemente definita la lunga notte della Repubblica”.[27]
E per quanto riguarda il periodo successivo il ritmo è solo leggermente calato, ma non si è mai fermato. Dal 1969 al 1980 in Italia si sono verificati 12690 attentati ed altri episodi di violenza ispirati da ragioni politiche, che hanno provocato 362 morti e 4490 feriti. Di questi, 150 e 551 sono rispettivamente i morti e i feriti da stragi, undici in tutto, la prima nel dicembre 1969 a piazza Fontana a Milano, la più grave (85 morti e 200 feriti) alla stazione di Bologna nell’agosto 1980.[28]
“… lo Stato violento si rivelò al di là di ogni aspettativa: organizzava le stragi, depistava le indagini, arrestava innocenti, ne uccideva uno, Pinelli, oltretutto con l’avallo di alcuni giornali e della tv. Il 12 dicembre rappresentò la scoperta di una dimensione imprevista della lotta politica e anche la rivelazione dell’ampiezza del fronte contro cui dovevamo batterci. […] Con piazza Fontana si scoprì dunque un nuovo nemico: lo Stato. Prima gli avversari erano il professore, il caposquadra, il padrone. E i riferimenti erano transnazionali, de territorializzati: il Vietnam, il Maggio francese, le Black Panthers, la Cina. La rivelazione dello Stato stragista spalancò un nuovo orizzonte alle lotte: quello delle trame occulte, dell’uso strumentale dei neofascisti.”[29]
L’obiettivo evidente di questa strategia era quella di spaventare e disorientare il più possibile la classe operaia, trasmettere il terrore delle bombe e dell’insicurezza, cosa che in parte riuscì. Ma ci fu anche un altro effetto, certamente più nefasto. Nella misura in cui con piazza Fontana si scoprì, almeno a livello di minoranze, che era lo Stato il vero nemico con cui fare i conti, una serie di componenti proletarie e studentesche virarono verso il terrorismo come metodo di lotta politica.
Favorendo la dinamica terrorista
La pratica del terrorismo è diventata così la maniera in cui una serie di compagni coraggiosi ma avventurosi hanno bruciato la loro esistenza e il loro impegno politico in una pratica che con la lotta di classe non ha nulla a che fare. Che anzi ha prodotto i peggiori risultati provocando un arretramento dell’intera classe operaia stretta dalla doppia minaccia della repressione dello Stato da una parte e del ricatto del mondo brigatista e terrorista dall’altra.
Recupero dei sindacati tramite i CdF
L’ultimo elemento, ma non certo per importanza, su cui ha puntato la borghesia in questo periodo è stato il sindacato. Non potendo più far conto sulla repressione per tenere a bada il proletariato, il padronato, che per tutti gli anni del dopoguerra fino alla vigilia dell’autunno caldo aveva così fortemente osteggiato il sindacato, adesso si riscopre democratico e amante delle buone relazioni aziendali. Il trucco ovviamente è che, quello che non si riesce a ottenere con le cattive, si cerca di averlo con le buone, ricercando il dialogo con i sindacati considerati gli unici interlocutori in grado di controllare le lotte e le rivendicazioni operaie. Questo maggiore spazio democratico fornito ai sindacati, che si espliciterà con la diffusione dei Consigli di fabbrica, una forma di sindacalismo sviluppato dal basso e con una partecipazione non necessariamente di tesserati, dà agli operai l’illusione di essere stati loro ad aver realizzato questa conquista e di potersi fidare di queste nuove strutture per continuare la loro lotta. Come abbiamo visto infatti la lotta degli operai, sebbene spesso fortemente critica nei confronti del sindacato, non arriva a farne una critica radicale, limitandosi a denunciarne le inconseguenze.
Per concludere …
In questi due articoli abbiamo cercato di mostrare, da una parte, la forza e le potenzialità della classe operaia, dall’altra l’importanza che la sua azione sia sorretta da una chiara consapevolezza della strada da percorrere. Il fatto che i proletari che si erano risvegliati, alla fine degli anni ’60, alla lotta di classe, in Italia e nel mondo intero, non disponessero della memoria di esperienze precedenti e che dovessero puntare solo sulle acquisizioni empiriche che di volta in volta potevano accumulare, costituì l’elemento di maggiore debolezza del movimento.
Oggi, nelle varie rievocazioni del 68 francese e dell’autunno caldo italiano, non poche persone si lasciano andare a sospiri di nostalgia pensando che siamo lontani da un’epoca come quella e che simili lotte non potranno più riprodursi. Noi pensiamo che sia vero proprio il contrario. Infatti l’Autunno caldo, il Maggio francese e l’insieme di lotte che hanno scosso la società mondiale alla fine degli anni ’60 sono stati solo l’inizio della ripresa della lotta di classe, ma gli anni successivi hanno mostrato uno sviluppo e una maturazione della situazione. Oggi in particolare esiste, a livello mondiale, una presenza più significativa di avanguardie politiche internazionaliste (benché ancora ultraminoritarie) che, contrariamente ai gruppi sclerotizzati del passato, sono capaci di interloquire tra di loro e di lavorare e di intervenire assieme, essendo le sorti della lotta di classe l’obiettivo comune di tutte queste formazioni.[30] Inoltre è presente nella classe, a livello internazionale, non più soltanto una combattività di fondo che permette lo scatenarsi di lotte un po’ in tutto il mondo[31], ma anche una sensazione diffusa che ormai questa società in cui viviamo non ha più nulla da offrire a nessuno, sul piano economico come su quello della sicurezza rispetto a catastrofi ambientali o a guerre, ecc. Questo sentimento è così diffuso che si sente talvolta parlare della necessità di una rivoluzione da parte di persone che non hanno alcuna esperienza politica alle spalle, anche se la maggior parte di queste persone considera che la rivoluzione non sia possibile, che gli sfruttati non avranno la forza di rovesciare il sistema capitalista:
“Si può riassumere questa situazione nel modo seguente: alla fine degli anni ’60, l’idea che la rivoluzione fosse possibile poteva essere relativamente diffusa, ma non quella della sua necessità. Oggi, al contrario, l’idea che la rivoluzione sia necessaria ha un impatto non trascurabile, ma non altrettanto quella della sua possibilità.
Perché la coscienza della possibilità della rivoluzione comunista possa guadagnare un terreno significativo in seno alla classe operaia è necessario che questa possa riacquistare fiducia nelle proprie forze e questo passa attraverso lo sviluppo di lotte di massa. L’enorme attacco che essa subisce attualmente a scala internazionale dovrebbe costituire la base oggettiva per tali lotte. Tuttavia, la forma principale che prende oggi questo attacco, quella dei licenziamenti di massa, non favorisce, in un primo momento, l’emergenza di tali movimenti. In generale, (…) i momenti di forte aumento della disoccupazione non sono quelli in cui si sviluppano lotte importanti. La disoccupazione, i licenziamenti di massa, tendono a provocare una certa paralisi momentanea della classe. (…) Perciò anche se, nel prossimo periodo, non si assisterà a una risposta poderosa della classe operaia di fronte agli attacchi, non bisognerà considerare questo fatto come una rinuncia a lottare in difesa dei propri interessi. Sarà in un secondo momento, quando essa sarà capace di resistere ai ricatti della borghesia, quando si imporrà l’idea che sono la lotta unita e solidale può frenare la brutalità degli attacchi della classe dominante, in particolare quando questa cercherà di far pagare a tutti i lavoratori gli enormi deficit statali che si accumulano oggi con i piani di salvataggio delle banche e di “rilancio” dell’economia, che lotte operaie di grande ampiezza potranno svilupparsi molto di più.” (XVIII Congresso della CCI. Risoluzione sulla situazione internazionale [2], ICConline 2009)
Questa empasse ha pesato e pesa ancora sull’attuale generazione di proletari e talvolta spiega le esitazioni, i ritardi, le mancate reazioni agli attacchi della borghesia. Ma noi dobbiamo guardare alla nostra classe con la fiducia che ci proviene dalla conoscenza della sua storia e delle sue lotte passate; dobbiamo lavorare per riannodare le esperienze del passato con le lotte del presente; dobbiamo essere partecipi alle lotte e al loro interno infondere coraggio e fiducia nel futuro, accompagnando e stimolando nel proletariato il recupero della coscienza che il futuro dell’umanità riposa sulle sue spalle e che esso ha la capacità si svolgere questo compito immenso.
Ezechiele (23/08/2010)
[1] Vedi in particolare il ruolo nefasto della “resistenza al fascismo” che, in nome di una presunta lotta per la libertà, porterà i proletari a farsi massacrare per una frazione della borghesia contro un’altra prima nella guerra di Spagna (1936-39) e poi nella Secondo Guerra mondiale.
[3] Sul PCI vedi i due articoli Breve Storia del P.C.I. (1921-1936) ad uso dei proletari che non vogliono credere più a niente ad occhi chiusi [4] e BREVE STORIA DEL PCI (1936-1947) ad uso dei proletari che non vogliono più credere a niente ad occhi chiusi [5] (Rivoluzione Internazionale n°63 e 64). E’ particolarmente interessante, per comprendere la pesantezza dei rapporti all’interno del PCI di quegli anni, la lettura del romanzo storico di Ermanno Rea, Mistero napoletano, Einaudi.
[4] Aldo Cazzullo, I ragazzi che volevano fare la rivoluzione. 1968-1978 Storia critica di Lotta continua. Sperling e Kupfer Editori, pag. 82.
[5] “Tra servi e padroni”, in Lotta Continua del 6 dicembre 1969, riportato anche in Aldo Cazzullo, op. cit., pag. 89.
[6] Antonio Negri, Dall’operaio massa all’operaio sociale. Intervista sull’operaismo, Ombre corte.
[7] Antonio Negri, op. cit., pag. 36-37.
[8] E’ a dir poco impressionante la quantità di elementi che nel mondo di oggi sono figure pubbliche di politici, giornalistici o scrittori, con posizioni politiche di centro-sinistra o addirittura di destra, che ieri sono passati per dei gruppi della sinistra extraparlamentare ed in particolare per l’operaismo. Ne citiamo giusto qualcuno: Massimo Cacciari, deputato PD (già Margherita) e due volte sindaco di Venezia; Alberto Asor Rosa, scrittore e critico letterario; Adriano Sofri, opinionista moderato de La Repubblica e de Il Foglio; Mario Tronti, tornato nel PCI a livello di Comitato Centrale ed eletto senatore; Paolo Liguori, giornalista con responsabilità direttive nei vari TG e testate editoriali di Berlusconi … e l’elenco potrebbe continuare con decine e decine di altri nomi.
[9] Noi non condividiamo l’analisi di Lenin sull’esistenza di una aristocrazia operaia all’interno della classe operaia. Leggi a tale proposito la nostra brochure L’aristocrazia operaia: una teoria sociologica per dividere la classe operaia.
[10] Idea questa diffusa parecchio anche a livello internazionale.
[11] Antonio Negri, op. cit., pag. 105.
[12] Aldo Cazzullo, op. cit., pag. XII.
[14] Antonio Negri, op. cit., pag. 105.
[15] Antonio Negri, op. cit., pag. 108.
[16] Antonio Negri, op. cit., pag. 113.
[17] “Quando si dice “operaio sociale” si dice fino in fondo, con estrema precisione, che da questo soggetto si estrae plusvalore. Quando parliamo di “operaio sociale” parliamo di un soggetto che è produttivo; e quando diciamo che è produttivo diciamo che è produttivo di plusvalore, mediatamente o immediatamente.” Antonio Negri, op. cit., pag. 18.
[18] Sull’argomento vedi pure i nostri articoli: L'Area della Autonomia: la confusione contro la classe operaia (I) [9] (Rivoluzione Internazionale n°8) e L'Area dell'Autonomia: la confusione contro la classe operaia (II) [10] (Rivoluzione Internazionale n°10).
[19] N. Balestrini, P. Moroni, L’orda d’oro, Milano, SugarCo Edizioni, 1988, pag.334.
[20] Antonio Negri, op. cit., pag. 138.
[21] Antonio Negri, op. cit., pag. 116-117.
[22] Antonio Negri, op. cit., pag. 118.
[23] Antonio Negri, op. cit., pag. 142.
[24] Idem.
[25] Antonio Negri, op. cit., pag. 130-132.
[26] Alessandro Silj, Malpaese, Criminalità, corruzione e politica nell’Italia della prima Repubblica 1943-1994, Donzelle Editore, pagg. 100-101.
[27] Alessandro Silj, op. cit., pag. 95-96.
[28] Alessandro Silj, op. cit., pag. 113.
[29] Testimonianza di Marco Revelli, all’epoca militante di Lotta Continua, in Aldo Cazzullo, op. cit., pag. 91.
[30] Non essendo possibile riportare qui l’elenco dei vari articoli relativi a questa nuova generazione di internazionalisti, invitiamo i lettori a consultare il nostro sito web www.internationalism.org [11] dove potranno trovare abbondanza di informazioni.
[31] Anche sullo sviluppo attuale della lotta di classe rimandiamo al nostro sito web, suggerendo in particolare la lettura degli articoli su Vigo (Spagna), Grecia, sulla Tekel (Turchia), …
Ma altri economisti dell'epoca, che non si erano ancora completamente allontanati dal movimento operaio, cercarono di fondare la loro strategia riformista su un passaggio "marxista". Ricordiamo Il Russo Tugan-Baranowsky che pubblicò, nel 1901, un libro intitolato Studies in the Theory and History of Commercial Crises in England. Sulla scia dei lavori di Struve e di Bulgakov di alcuni anni prima, Tugan-Baranowski faceva parte di coloro che si chiamavano "i marxisti legali" ed il suo studio si inseriva nella risposta di questi ultimi alla corrente dei populisti russi che volevano dimostrare che il capitalismo si sarebbe dovuto scontrare con difficoltà insormontabili per stabilirsi in Russia; una di queste difficoltà consisteva nell'insufficienza di mercati per smerciare la sua produzione. Come Bulgakov, Tugan tentò di utilizzare gli schemi della riproduzione allargata di Marx, nel Volume II del Capitale, per provare che non esisteva un problema fondamentale per la realizzazione del plusvalore nel sistema capitalista; a quest’ultimo, come "sistema chiuso", era possibile accumulare indefinitamente ed in modo armonioso. Rosa Luxemburg riassunse così questo tentativo: "Sicuramente, i marxisti russi "legali" hanno superato i loro avversari, i "populisti", ma hanno strafatto. Tutti e tre, Struve, Bulgakov, Tugan-Baranowsky hanno, nell'ardore della lotta, provato più di quanto occorresse. Si trattava di sapere se il capitalismo in generale ed il capitalismo russo in particolare erano suscettibili di sviluppo ed i tre marxisti citati hanno dimostrato così bene questa capacità che hanno provato anche attraverso le loro teorie la possibilità della durata eterna del capitalismo"[1].
La tesi di Tugan provocò una risposta immediata da parte di coloro che continuavano a difendere la teoria marxista delle crisi, in particolare del portavoce de "l'ortodossia marxista", Karl Kautsky che, riprendendo le conclusioni di Marx, sostenne che non potendo né i capitalisti né gli operai consumare l'insieme del plusvalore prodotto dal sistema, quest’ultimo era allora continuamente spinto a conquistare nuovi mercati all'infuori di sé:
"I capitalisti e gli operai da loro sfruttati costituiscono un mercato per i mezzi di consumo prodotti dall'industria, mercato che si ingrandisce con l'incremento della ricchezza dei primi ed il numero dei secondi, meno velocemente tuttavia dell'accumulazione del capitale e della produttività del lavoro, e che non basta da solo ad assorbire i mezzi di consumo prodotti dalla grande industria capitalista. L'industria deve cercare sbocchi supplementari all'esterno della sua sfera nelle professioni e nelle nazioni che non producono ancora secondo il modo capitalista. Li trova e li allarga continuamente, ma troppo lentamente. Perché questi sbocchi supplementari non posseggono, e di molto, l'elasticità e la capacità d'estensione della produzione capitalista.
Dal momento in cui la produzione capitalista si è sviluppata in grande industria, come già accadeva in Inghilterra nel diciannovesimo secolo, essa ha avuto la facoltà di avanzare a grandi salti, così da superare l'estensione del mercato in poco tempo. Così ogni periodo di prosperità che segue un'estensione brusca del mercato è condannato ad una vita breve, la crisi pone un termine inevitabile. Tale è in poche parole la teoria delle crisi adottate generalmente, per quanto si conosce, dai "marxisti ortodossi" e fondata da Marx". Kautsky (Neue Zeit n°5, 1902) citato da RL nella Critica delle critiche[2].
Pressappoco nella stessa epoca, pubblicando The Theoretical System of Karl Marx[3], un membro dell'ala sinistra dell'American Socialist Party, Luis Budin, partecipava al dibattito con un'analisi simile ed anche più avanzata, e la pubblicava.
Mentre Kautsky, come viene sottolineato da Rosa Luxemburg ne L'accumulazione del capitale e nella Critica delle critiche (1915), aveva posto il problema della crisi in termini di "sottoconsumo", e nel quadro piuttosto impreciso della velocità relativa all'accumulazione ed all'espansione del mercato[4], Budin in modo più esatto la situava nel carattere unico del modo di produzione capitalista e nelle sue contraddizioni che lo portavano al fenomeno di sovrapproduzione:
"Nei vecchi sistemi schiavista e feudale, un problema come la sovrapproduzione non è mai esistito avendo la produzione per scopo il solo consumo familiare, il solo problema che semmai poteva presentarsi era: quale parte della produzione sarà attribuita allo schiavo o al servo della gleba e quanto andrà al proprietario di schiavi o al signore feudale. Una volta che le rispettive parti delle due classi erano definite, ciascuna procedeva al consumo da parte sua senza incontrare un nuovo problema. In altri termini, la questione cadeva sempre sul modo di dividere i prodotti ed il problema della sovrapproduzione non si poneva perché i prodotti non dovevano essere venduti sul mercato ma consumati dalle persone direttamente coinvolte dalla loro produzione, o da padrone o da schiavo.... per la nostra industria capitalista moderna le cose funzionano in maniera diversa. Sicuramente tutta la produzione, ad eccezione della parte che va agli operai, va come in passato al padrone, oggi al capitalista. Ma il problema non si risolve, per il fatto che il capitalista non produce per sé ma per il mercato. Non vuole accaparrarsi i beni che producono gli operai ma vuole venderli e, se non li vende, per lui questi non hanno assolutamente alcun valore. Nelle mani del capitalista, le merci vendibili sono la sua fortuna, il suo capitale, ma quando diventano invendibili, tutta la fortuna contenuta nei suoi depositi di merci si liquefa appena queste non sono monetizzate.
Allora chi va ad acquistare le merci dai nostri capitalisti che hanno introdotto nuove macchine nella loro produzione per cui la loro produzione aumenta notevolmente? Evidentemente altri capitalisti possono volere questi prodotti ma, quando si considera la produzione della società nel suo insieme, che cosa ne fa la classe capitalista della produzione aumentata che gli operai non possono consumare? I capitalisti non possono utilizzarla conservando ciascuno la propria produzione, né scambiandosela tra loro. E ciò per una ragione molto semplice, perché la classe capitalista non può da sola utilizzare tutto il sovraprodotto che gli operai producono e di cui essa si appropria in quanto profitti di produzione. Ciò è già escluso dalle stesse premesse della produzione capitalista a grande scala e dall'accumulazione del capitale. La produzione capitalista a grande scala implica l'esistenza di vaste quantità di lavoro cristallizzato sotto forma di ferrovie, di battelli a vapore, di fabbriche, di macchine e di altri prodotti manifatturieri che non sono stati consumati dai capitalisti e che rappresentano la loro parte o profitto della produzione degli anni precedenti. Come è stato stabilito già precedentemente, tutte le grandi fortune dei nostri re, principi e baroni capitalisti moderni ed altri grandi dignitari dell'industria, con o senza titoli, consistono in attrezzi sotto una forma o un'altra, e cioè sotto una forma non consumabile. È questa parte dei profitti capitalisti che i capitalisti "hanno economizzato" e dunque non consumata. Se i capitalisti consumassero tutto il loro profitto, non ci sarebbero capitalisti nel senso moderno della parola, non ci sarebbe accumulazione di capitale. Affinché il capitale possa accumularsi, i capitalisti non devono in nessuna circostanza consumare tutto il loro profitto. Il capitalista che lo fa, smette di essere un capitalista e perisce nella concorrenza con i suoi pari capitalisti. In altri termini, il capitalismo moderno presuppone l'abitudine di economizzare dei capitalisti, vale a dire che questa parte dei profitti dei capitalisti individuali non deve essere consumata ma posta da parte per aumentare il capitale esistente.... non può dunque consumare tutta la sua parte del prodotto manifatturiero. È evidente dunque che né l'operaio, né il capitalista possono consumare l'insieme del prodotto aumentato della manifattura. Chi l’acquisterà allora?" (tradotto dall’inglese da noi).
Budin tenta poi di spiegare il modo con cui il capitalismo tratta questo problema. Luxemburg ne cita un lungo passaggio in una nota de L'accumulazione del capitale e lo presenta come "una brillante critica" al libro di Tugan[5]:
"Il sovrapprodotto" creato nei paesi capitalisti non ha ostacolato - tranne alcune eccezioni che menzioneremo dopo - il corso della produzione perché la produzione è stata ripartita in modo più razionale nelle differenti sfere o perché la produzione di cotonato ha ceduto il posto ad una produzione di macchine, ma perché, essendosi alcuni paesi trasformati più velocemente che altri in paesi capitalisti, e che ancora oggi alcuni paesi restano sottosviluppati dal punto di vista capitalista, i paesi capitalisti hanno a loro disposizione un reale mondo esterno in cui hanno potuto esportare quei prodotti che loro stessi non possono consumare, indipendentemente dalla natura di questi prodotti: siano essi cotonati o siderurgici. Ciò non significa affatto che la sostituzione dei cotonati con i prodotti dell'industria siderurgica, in quanto prodotti essenziali dei paesi capitalisti più importanti, sarebbe priva di significato. Al contrario, essa riveste un ruolo importante, ma il suo significato è tutt’altro che quello attribuitogli da Tugan-Baranowsky. Essa annuncia l'inizio della fine del capitalismo. Fino a che i paesi capitalisti hanno esportato merci per il consumo, c'era ancora speranza per il capitalismo di questi paesi. Non si trattava ancora di sapere qual’era la capacità di assorbimento del mondo esterno non capitalista per le merci prodotte nei paesi capitalisti e quanto tempo avrebbe potuto persistere ancora. L'incremento della fabbricazione di macchine nell'esportazione dei principali paesi capitalisti a spese dei beni di consumo indica che i territori che, un tempo, si trovavano lontano dal capitalismo e, per questa ragione, servivano da luogo di smercio per i suoi sovrapprodotti, sono oggi trascinati nell'ingranaggio del capitalismo e mostra ancora che il loro capitalismo si sviluppa e che loro stessi producono i loro beni di consumo. Oggi, allo stadio iniziale del loro sviluppo capitalista, hanno ancora bisogno di macchine prodotte secondo il modo capitalista. Ma più presto di quanto si pensi, non ne avranno più bisogno. Produrranno da sé i loro prodotti siderurgici, come producono da ora i loro cotonati ed i loro principali beni di consumo. Smetteranno allora non solo di essere un luogo di assorbimento per il sovrapprodotto dei paesi capitalisti propriamente detti, ma loro stessi avranno un sovrapprodoto che solo difficilmente potranno smerciare". (Die Neue Zeit, 25 anno, 1 vol, Mathematische Formeln gegen Karl Marx, citato da Luxemburg in una nota del capitolo 23 de L'accumulazione del capitale)[6].
Budin va dunque più lontano di Kautsky ed insiste sul fatto che il vicino completamento della conquista del globo da parte del capitalismo significa anche "l'inizio della fine del capitalismo".
Rosa Luxemburg esamina il problema dell’accumulazione
Nel tempo in cui questo dibattito ebbe luogo, Rosa Luxemburg insegnava alla scuola del Partito a Berlino. Esponendo a grandi linee l'evoluzione storica del capitalismo come sistema mondiale, fu portata a ritornare in maniera più approfondita ai lavori di Marx, e ciò sia per la sua integrità come professore e come militante (aborriva ripetere continuamente idee note presentandole soltanto sotto una nuova forma, e considerava che era dovere di ogni marxista sviluppare ed arricchire la teoria marxista), che per la necessità urgente di comprendere le prospettive che il capitalismo mondiale doveva affrontare. Riesaminando Marx, aveva scoperto molti elementi su cui basare il suo punto di vista secondo cui il problema di sovrapproduzione in relazione al mercato costituisce una chiave per comprendere la natura transitoria del modo di produzione capitalista (vedere "Le contraddizioni mortali della società borghese" nel n.139 della Révue Internationale). Rosa era perfettamente consapevole che gli schemi della riproduzione allargata di Marx nel Volume II del Capitale erano concepiti dal loro autore come un modello teorico puramente astratto, utilizzato per studiare la questione dell'accumulazione che, per chiarezza dell’argomento, prendeva per ipotesi una società composta solo da capitalisti e da operai. A lei, tuttavia, sembrava che da ciò conseguiva l'idea che il capitalismo potesse accumulare in modo armonioso in un sistema chiuso, disponendo della totalità del plusvalore prodotto attraverso l'interazione reciproca dei due rami principali della produzione (il settore dei beni di produzione e quello dei beni di consumo). Ciò apparve a Rosa Luxemburg in contraddizione con altri passi di Marx (nel Volume III del Capitale per esempio) che insistono sulla necessità di un'espansione continua del mercato e, nello stesso tempo, stabiliscono un limite inerente a questa espansione. Se il capitalismo fosse capace di autoregolarsi, potrebbe avere squilibri provvisori tra i rami della produzione ma non avrebbe avuto la tendenza a produrre una massa di beni non assorbibili, da crisi di sovrapproduzione insolubile; se la tendenza del capitalismo all'accumulazione semplicemente per se stessa generasse costantemente l'aumento della domanda necessaria per realizzare l'insieme del plusvalore, allora come avrebbero argomentato i marxisti, contro i revisionisti, che il capitalismo era destinato ad entrare in una fase di crisi catastrofica che avrebbe offerto le basi obiettive della rivoluzione socialista?
A questa domanda, la Luxemburg rispose che era necessario riporre l'ascesa del capitalismo nel suo vero contesto storico. Non si poteva cogliere l’insieme della storia dell'accumulazione capitalistica se non come un processo costante di interazione con le economie non capitaliste che le erano intorno. Le più primitive comunità che vivevano di caccia e di raccolta, e che non avevano ancora prodotto un'eccedenza sociale e commerciabile, per il capitalismo non avevano utilità e dovevano essere spazzate via attraverso politiche di distruzione diretta e genocidio (anche le risorse umane di queste comunità avevano la tendenza ad essere inutilizzabili per il lavoro di schiavo). Ma le economie che avevano sviluppato un'eccedenza commercializzabile e dove la produzione di merci in particolare era già sviluppata nel loro seno (come nelle grandi civiltà di India e Cina), fornivano non solo materie prime ma enormi sbocchi per la produzione delle metropoli capitalistiche, permettendo al capitalismo dei paesi centrali di superare l’ingorgo periodico delle merci (questo processo è descritto in modo eloquente ne Il Manifesto Comunista). Ma come sottolinea anche Il Manifesto, anche quando le potenze capitaliste costituite tentarono di restringere lo sviluppo capitalista delle loro colonie, queste regioni del mondo diventarono ineluttabilmente parti integranti del mondo borghese, rovinando le economie precapitaliste e convertendole alle delizie del lavoro salariato - spostando così il problema della domanda addizionale richiesta per l'accumulazione ad un altro livello. Così, come lo stesso Marx l'aveva annunciato, più il capitalismo tendeva a diventare universale, più era destinato a crollare: "L'universalità verso cui tende senza tregua il capitale incontra dei limiti immanenti alla sua natura che, ad un certo stadio del suo sviluppo, lo fanno apparire come il più grande ostacolo a questa tendenza e lo spingono alla sua autodistruzione". (Grundrisse)[7].
Questo passo permise a Rosa Luxemburg di comprendere il problema dell'imperialismo. Il Capitale aveva solo iniziato a trattare la questione dell'imperialismo e dei suoi fondamenti economici, questione che, all'epoca in cui il libro fu scritto, non era diventata ancora il centro delle preoccupazioni dei marxisti. Al momento, quest’ultimi erano confrontati non solo all'imperialismo come una spinta per la conquista del mondo non capitalista ma, anche, come un acuirsi delle rivalità imperialiste tra le principali nazioni capitaliste per il dominio del mercato mondiale. L'imperialismo era una scelta, una comodità per il capitale mondiale, come lo intendevano molti dei suoi critici liberali e riformisti, o era una necessità inerente all'accumulazione capitalista ad un certo stadio della sua maturità? Là ancora, le implicazioni erano vaste perché se l'imperialismo era solamente un'opzione supplementare per il capitale, si poteva argomentare allora in favore di politiche più ragionevoli e pacifiche. Luxemburg concluse tuttavia che l'imperialismo era una necessità per il capitale - un mezzo per prolungare il suo regno che in tal modo lo trascinava inesorabilmente verso la sua rovina.
"L'imperialismo è l'espressione politica del processo d'accumulazione capitalista che si manifesta attraverso la concorrenza tra i capitalismi nazionali intorno agli ultimi territori non capitalisti ancora liberi del mondo. Geograficamente, questo campo ancora oggi rappresenta grande parte del globo. Tuttavia, il campo di espansione offerto all'imperialismo appare come molto piccolo comparato all'alto livello raggiunto dallo sviluppo delle forze produttive capitaliste; bisogna tenere conto in effetti della enorme massa di capitale già accumulata nei vecchi paesi capitalisti e che lotta per smerciare il suo sovrapprodotto e per capitalizzare il suo plusvalore, e, inoltre, della rapidità con cui i paesi precapitalisti si trasformano in paesi capitalisti. Sulla scena internazionale, dunque, il capitale deve procedere attraverso metodi appropriati. Con l'elevato grado di evoluzione raggiunto dai paesi capitalisti e l'esasperazione della concorrenza dei paesi capitalisti per la conquista dei territori non capitalisti, la spinta imperialistica, sia nella sua aggressione contro il mondo non capitalista che nei conflitti più acuti tra i paesi capitalisti concorrenti, aumenta di energia e di violenza. Ma più aumentano la violenza e l'energia con cui il capitale procede alla distruzione delle civiltà non capitaliste, più restringe la sua base di accumulazione. L'imperialismo è al tempo stesso un metodo storico per prolungare i giorni del capitale ed il mezzo il più sicuro e più veloce di mettervi obiettivamente un termine. Ciò non significa che il punto finale abbia bisogno di essere raggiunto alla lettera. La sola tendenza verso questo scopo dell'evoluzione capitalista si manifesta già attraverso dei fenomeni che fanno della fase finale del capitalismo un periodo di catastrofi"[8].
La conclusione essenziale de L'accumulazione del capitale era dunque che il capitalismo entrava in "un periodo di catastrofi". È importante notare che essa non considerava - come spesso viene riportato in modo erroneo - che il capitalismo era sul punto di perire. Stabilisce molto chiaramente che il campo non capitalista "rappresenta [geograficamente] ancora oggi grande parte del globo" e che le economie non capitaliste esistevano non solo nelle colonie ma in grandi parti della stessa Europa[9]. E' certo che la scala di queste zone economiche in termine di valore andava diminuendo relativamente alla capacità crescente del capitale a generare nuovi valori. Ma il mondo aveva ancora molta strada da percorrere prima di diventare un sistema di capitalismo puro come immaginato negli schemi della riproduzione di Marx:
"Se lo si comprende bene, lo schema marxista dell'accumulazione è per la sua insolubilità anche il pronostico esatto del crollo economico inevitabile del capitalismo, risultato finale del processo di espansione imperialistica, l'espansione che si dà per scopo particolare di realizzare ciò che era l'ipotesi di partenza di Marx: il dominio esclusivo e generale del capitale.
Questo termine finale può essere mai raggiunto nella realtà? Si tratta a dire il vero di una finzione teorica, per la ragione precisa che l'accumulazione del capitale non è solamente un processo economico ma un processo politico"[10].
Per Rosa Luxemburg, un mondo unicamente costituito da capitalisti e da operai era “una finzione teorica” ma più ci si avvicinerebbe a questo punto, più il processo di accumulazione diventerebbe difficile e disastroso, scatenando delle calamità che non sarebbero “semplicemente” economiche, ma anche militari e politiche. La guerra mondiale che esplose dopo poco tempo la pubblicazione de L'accumulazione, costituiva una chiara conferma di questo pronostico. Per Rosa Luxemburg, non c'è un crollo puramente economico del capitalismo ed ancora meno un legame automatico, garantito, tra il crollo capitalista e la rivoluzione socialista. Ciò che annunciava nel suo lavoro teorico era precisamente ciò che avrebbe confermato la storia catastrofica del secolo seguente: la manifestazione crescente del declino del capitalismo come modo di produzione, mettendo l'umanità di fronte all'alternativa socialismo o barbarie, e chiamando specificamente la classe operaia a sviluppare l’organizzazione e la coscienza necessaria al capovolgimento del sistema ed alla sua sostituzione attraverso un ordine sociale superiore.
Una tempesta di critiche
Rosa Luxemburg pensava che la sua tesi non sarebbe stata soggetta a controversia, precisamente perché l'aveva basata fermamente sugli scritti di Marx e dei sostenitori del suo metodo. Tuttavia, fu accolta da un diluvio di critiche - non solo da parte dei revisionisti e dei riformisti ma, anche, da parte di rivoluzionari come Pannekoek e Lenin che, in questo dibattito, si trovò non solo affianco ai marxisti legali della Russia ma anche agli austro-marxisti che facevano parte del campo semi-riformistico nella socialdemocrazia:
"Ho letto il nuovo libro di Rosa L'accumulazione del capitale. Si ingarbuglia in modo sconveniente. Ha distorto Marx. Sono molto contento che Pannekoek, Eckstein e O. Bauer l’abbiano condannata tutti di comune accordo ed espresso contro di lei ciò che avevo detto nel 1899 contro i Narodinikis"[11].
Questo accordo si fece sull'idea che Luxemburg aveva semplicemente letto male Marx ed inventato un problema che non esisteva: gli schemi della riproduzione allargata mostrano che il capitalismo in effetti può accumulare senza nessuno limite interno in un mondo puramente composto di operai e di capitalisti. I calcoli di Marx sono giusti dopo tutto, ciò deve dunque essere vero. Bauer era un poco più sfumato: riconosceva che l'accumulazione non poteva avere luogo solo se fosse alimentata da una domanda effettiva crescente, ma dava una risposta semplice: la popolazione aumenta, ci sono dunque più operai, e dunque un aumento della domanda - soluzione che ritornava al punto di partenza del problema poiché questi nuovi operai non potevano che consumare solo il capitale variabile che era dato loro dai capitalisti. La questione essenziale - che quasi tutti i critici di Luxemburg sostengono fino ai nostri giorni - è che gli schemi della riproduzione mostrano in effetti che non esiste problema insolubile di realizzazione per il capitalismo.
Luxemburg era molto cosciente che gli argomenti sviluppati da Kautsky (o da Budin, ma quest'ultimo era evidentemente una figura ben meno conosciuta del movimento operaio) per difendere in fondo la stessa tesi non avevano provocato la stessa indignazione:
"Rimane il fatto che Kautsky ha confutato nel 1902, nel lavoro di Tugan-Baranowsky, esattamente gli stessi argomenti che gli "esperti" di oggi oppongono alla mia teoria dell'accumulazione, e che gli "esperti" ufficiali del marxismo attaccano nel mio libro come una deviazione della fede ortodossa ciò che è solamente lo sviluppo esatto, applicato al problema dell'accumulazione, delle tesi sostenute da Kautsky quattordici anni fa contro il revisionista Tugan-Baranowsky e che chiama "la teoria delle crisi generalmente adottate dai marxisti ortodossi"[12].
Perché una tale indignazione? È facile da comprendere venendo dai riformisti e dai revisionisti che si preoccupavano innanzitutto di rigettare la possibilità di un crollo del sistema capitalista. Da parte dei rivoluzionari, è più difficile da capire. Possiamo segnalare certamente il fatto - ed è molto significativo del carattere isterico delle reazioni - che Kautsky non aveva cercato il legame tra i suoi argomenti e gli schemi della riproduzione[13] e non era apparso, per questo, come un "critico" di Marx. Forse questo conservatorismo è al cuore di molte critiche portate a Rosa Luxemburg: la visione secondo la quale Il Capitale è una specie di bibbia che fornisce tutte le risposte per comprendere l'ascendenza ed il declino del modo di produzione capitalista - un sistema chiuso, in effetti! Luxemburg difendeva al contrario con vigore il fatto che i marxisti dovevano considerare Il Capitale per ciò che era - un'opera geniale ma incompiuta, in particolare i suoi Volumi II ed III; e che, ad ogni modo, non poteva includere tutti gli sviluppi ulteriori dell'evoluzione del sistema capitalista.
Nel mezzo di tutte queste risposte scandalizzate, ci fu tuttavia almeno una difesa molto chiara della Luxemburg, scritta al momento dei sollevamenti della guerra e della rivoluzione: “Rosa Luxemburg, marxista”, da parte dell’ungherese Georg Lukàcs che era, in quel momento, un rappresentante dell’ala sinistra del movimento comunista. L’articolo di Lukàcs, pubblicato nella libro Storia e coscienza di classe (1922), comincia col sottolineare la principale considerazione metodologica nella discussione della teoria di Luxemburg. Difende l'idea che ciò che distingue fondamentalmente la visione proletaria dalla visione borghese del mondo è il fatto che, mentre la borghesia è condannata dalla sua posizione sociale ad esaminare la società dal punto di vista di un'unità atomizzata, in concorrenza, il proletariato soltanto può sviluppare una visione della realtà come totalità: " Quello che distingue in modo decisivo il marxismo dalla scienza borghese non è la predominanza dei motivi economici nella spiegazione della storia, ma il punto di vista della totalità. Il dominio, determinante ed in tutti i campi, del tutto sulle parti, costituisce l'essenza del metodo che Marx ha chiesto in prestito a Hegel e che ha trasformato in modo originale per farne il fondamento di una scienza interamente nuova. La separazione capitalista tra il produttore ed i processi di insieme della produzione, il frazionamento del processo del lavoro in parti che lasciano da parte il carattere umano del lavoratore, l'atomizzazione della società in individui che producono diritto davanti ad essi senza piano, senza concertarsi, ecc., tutto ciò doveva avere necessariamente anche un'influenza profonda sul pensiero, la scienza e la filosofia del capitalismo. E ciò che c'è di fondamentalmente rivoluzionario nella scienza proletaria, non è solamente che essa oppone alla società borghese dei contenuti rivoluzionari, ma è, innanzitutto, l'essenza rivoluzionaria del metodo stesso. Il regno della categoria della totalità è il portatore del principio rivoluzionario nella scienza".
Prosegue dimostrando che l'assenza di questo metodo proletario aveva impedito ai critici della Luxemburg di afferrare il problema che essa aveva sollevato ne L'Accumulazione del capitale:
"I dibattiti condotti da Bauer, Eckstein, ecc., non si aggiravano intorno alla questione se la soluzione del problema dell’accumulazione del capitale proposta da Rosa Luxemburg fosse materialmente corretta o falsa. Si discuteva invece se vi fosse qui, in generale, un problema. Ciò che veniva contestato con estrema violenza era proprio la presenza di un effettivo problema. Dal punto di vista metodologico dell’economia volgare ciò è del tutto comprensibile, anzi necessario. Infatti, se da un lato la questione dell’accumulazione viene trattata come questione particolare dell’economia politica, e se dall’altro la si considera dal punto di vista del capitalista singolo, non sussiste allora di fatto alcun problema.
Questo rifiuto del problema nella sua interezza è strettamente dipendente dal fatto che i critici di Rosa Luxemburg non si sono soffermati sul capitolo decisivo di tutto il libro ("Le condizioni storiche dell'accumulazione") e, coerentemente con loro stessi, hanno posto la questione sotto la seguente forma: le formule di Marx che derivano dall’aver assunto, in un isolamento determinato da ragioni metodologiche, una società composta unicamente da capitalisti e proletari, sono giuste? E come possono essere interpretate in maniera migliore? Che questa assunzione sia in Marx stesso soltanto di natura metodologica, servendo ad afferrare più chiaramente il problema prima di passare ad una impostazione più comprensiva, alla posizione del problema della totalità della società, tutto ciò è stato del tutto trascurato da questi critici. Essi hanno trascurato che Marx ha compiuto questo passo del primo volume del Capitale e, a proposito della cosiddetta accumulazione originaria; essi hanno - coscientemente o no – taciuto il fatto che l’intero Capitale, proprio su questo problema, è un frammento che si interrompe nello stesso punto in cui esso deve essere messo sul tappeto; che quindi Rosa Luxemburg non ha fatto altro che portare sino alle sue ultime conseguenze ed integrare il frammento di Marx nel suo senso e nel suo spirito.
Eppure essi si sono comportati in modo del tutto coerente. Infatti, dal punto di vista del capitalista singolo, dal punto di vista dell’economia volgare questo problema non deve di fatto essere posto. Dal punto di vista del capitalista singolo, la realtà appare come un mondo dominato dalle leggi eterne della natura alle quali egli deve adattare la propria attività. La realizzazione del plusvalore, l’accumulazione si compie per lui (naturalmente non sempre, ma molto spesso) nella forma di uno scambio con altri capitalisti singoli. E l’intero problema dell’accumulazione è dunque soltanto quello di una forma delle molteplici trasformazioni subite dalle formule D-M-D e M-D-M nel corso della produzione, della circolazione, ecc. Così, esso diventa per l’economia volgare , un problema scientifico-particolare di dettaglio, che non ha quasi nessun legame con il destino del capitalismo nel suo complesso, un problema la cui soluzione è sufficientemente garantita dalla giustezza delle “formule” di Marx, che dovranno al massimo – secondo Otto Bauer – essere perfezionate in modo da renderle “aggiornate”. Come a suo tempo gli allievi di Ricardo non compresero la problematica marxista, così Bauer e soci non hanno capito che per principio con queste formule non si coglierà mai la realtà economica, dal momento che il loro presupposto è una astrazione da questa realtà complessiva (considerazione della società come se consistesse soltanto di capitalisti e di proletari); le formule perciò possono servire solo per chiarire il problema, come punto di avvio verso una sua corretta impostazione[14].
Un passaggio dei Grundrisse, che Lukàcs non conosceva ancora, conferma questo passo: l'idea che la classe operaia costituisce un mercato sufficiente per i capitalisti è un'illusione tipica della visione ristretta della borghesia:
"Qui noi non abbiamo ancora da considerare il rapporto di un capitalista dato con gli operai degli altri capitalisti. Questo rapporto fa rivelare solamente l'illusione di ogni capitalista, ma non cambia niente al rapporto fondamentale capitale-lavoro. Sapendo che non si trova nei confronti del suo operaio nella situazione del produttore di fronte al consumatore, ogni capitalista cerca di limitarne al massimo il consumo, diversamente detto capacità di scambio, il salario . Si augura, naturalmente, che gli operai degli altri capitalisti consumino al massimo la sua merce; ma il rapporto di ogni capitalista con i suoi operai è il rapporto generale del capitale con il lavoro. È precisamente di là che nasce l'illusione che, ad eccezione dei propri operai, tutta la classe operaia costituisce per lui i consumatori e clienti, non operai, ma dispensatori di denaro. Si dimentica che, secondo Malthus, "l'esistenza stessa di un profitto su qualsiasi merce presuppone una domanda esterna a quella dell'operaio che l'ha prodotta", e che di conseguenza "la domanda dell'operaio stesso non può essere mai una domanda adeguata". Dato che una produzione mette in movimento un'altra e che essa si crea così dei consumatori presso gli operai di un terzo capitale, ogni capitale ha l'impressione che la domanda della classe operaia, come è posta dalla stessa produzione, è una "domanda adeguata". Questa domanda posta dalla stessa produzione l'incita e deve incitarla a superare i limiti proporzionali in cui essa dovrebbe produrre rispetto agli operai; d'altra parte, se la "domanda esterna a quella dei loro stessi operai" sparisce o si assottigli, la crisi esplode"[15].
Mettendo in discussione la lettera di Marx, Luxemburg ha mostrato più di ogni altro che era fedele al suo spirito; ma ci sono bene altri scritti di Marx che potrebbero essere citati per difendere l'importanza centrale del problema che essa sollevò.
[1] L’accumulazione del capitale, capitolo 24.
[3] Apparso per la prima volta sotto forma di libro pubblicato da Charles Kerr (Chicago) nel 1915, questo studio si basa su una serie di articoli pubblicati, da maggio 1905 all'ottobre 1906, nella rivista Internazionale Socialist Review.
[4] Citazione di Rosa Luxemburg: "Non teniamo conto dell'ambiguità dei termini di Kautsky, che chiama questa teoria una spiegazione delle crisi "per sottoconsumo"; ora una tale spiegazione è oggetto degli scherni di Marx nel secondo libro del Capitale. Facciamo anche astrazione per il fatto che Kautsky si interessa solamente al problema delle crisi senza vedere, sembra, che l'accumulazione capitalista, al di fuori anche delle variazioni della congiuntura, costituisce di per sé un problema. Infine non insistiamo sul carattere vago delle affermazioni di Kautsky - il consumo dei capitalisti e degli operai non cresce abbastanza rapidamente" per l'accumulo, quest'ultimo ha bisogno di un "mercato supplementare" dunque - che non cerca di afferrare con più precisione il meccanismo dell'accumulo". (Critica delle critiche).
È interessante notare che tanti critici di Rosa Luxemburg - ivi compreso quelli che erano "marxisti" - l'accusano di sotto-consomismo, mentre essa rigetta esplicitamente questa nozione! È evidentemente completamente esatto che Marx argomenta in più occasioni che "la ragione estrema di tutte le crisi reali è sempre la povertà ed il consumo restretto delle masse" (Il Capitale, Volume III, capitolo 30), ma Marx si prende cura di precisare che non si riferisce "al potere di consumo assoluto", ma al "potere di consumo che ha per base delle condizioni di ripartizione antagoniste che riducono il consumo della grande massa della società ad un minimo variabile in limiti più o meno stretti. È, inoltre, limitato dal desiderio di accumulare, la tendenza ad aumentare il capitale ed a produrre del plusvalore su una scala più estesa." (Il Capitale, Volume III, capitolo 15). In altri termini, le crisi non risultano dalla reticenza della società a consumare fintanto che è fisicamente possibile, né per il fatto che i salari sarebbero troppo "bassi" - cosa che bisogna precisare a causa delle numerose mistificazioni su questo argomento emanato in particolare dall'ala sinistra del capitale. Se fosse vero, si potrebbero eliminare allora le crisi aumentando i salari e ed è precisamente questo che Marx ridicolizza nel Volume II del Capitale. Il problema risiede piuttosto nell'esistenza di "condizioni di ripartizione antagoniste", vale a dire nel rapporto dello stesso lavoro salariato che deve sempre permettere un "plusvalore" in più di ciò che il capitalista paga agli operai.
[5] La principale critica di Luxemburg a Budin portava sull'idea apparentemente visionaria secondo la quale le spese di armamento costituivano una forma di spreco o di spese sconsiderate; questo punto di vista andava contro quello di Luxemburg su "il militarismo, campo di azione del capitale", elaborato in un capitolo dallo stesso nome ne L'accumulazione del capitale. Ma il militarismo non poteva essere campo di accumulazione del capitale che in un'epoca in cui esistevano delle possibilità reali che la guerra - le conquiste coloniali per essere precisi - aprivano nuovi mercati sostanziali per l'espansione capitalista. Col restringimento di questi sbocchi, il militarismo diventa veramente un puro spreco per il capitalismo globale: anche se l'economia di guerra sembra fornire una "soluzione" alla crisi di sovrapproduzione facendo girare l'apparato economico (in modo più evidente nella Germania di Hitler per esempio e durante la Seconda Guerra mondiale), essa costituisce in realtà un'immensa distruzione di valore.
[7] Pubblicati in italiano dalla Nuova Italia, Firenze, nel 1974, con il titolo “Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica” parte II: "Il capitale", "Mercato mondiale e sistema di bisogni.”
[8] L’Accumulazione del capitale, III, 31: “Il protezionismo e l’accumulazione”.
[9] “In realtà in tutti i paesi capitalisti, ed anche in quelli in cui la grande industria è molto sviluppata, esistono, accanto alle imprese capitaliste, numerose imprese industriali ed agricole di carattere artigianale e contadino, dove regna un'economia commerciale semplice. Accanto ai vecchi paesi capitalisti esistono, nella stessa Europa, dei paesi in cui la produzione contadina ed artigianale domina ancora oggi l'economia, per esempio la Russia, i paesi balcanici, la Scandinavia, la Spagna. Infine, accanto all'Europa capitalista ed al Nordamerica, esistono immensi continenti dove la produzione capitalista si è installata solamente in certi punti poco numerosi ed isolati, mentre peraltro i territori di questi continenti presentano tutte le strutture economiche possibili, dal comunismo primitivo fino alla società feudale, contadina ed artigianale.” (Critica delle critiche, I).
Vedere l'articolo “La sovrapproduzione cronica, un ostacolo insuperabile dell'accumulazione capitalista” per un contributo alla comprensione del ruolo giocato dai mercati extra-capitalisti nel periodo di decadenza capitalista (in francese, ICC on line).
[10] Critica delle critiche, [17] II, V [17].
[11] Nella Genesi del Capitale di Marx, (The making of Marx's Capital, Pluto Press, 1977), Roman Rosdolsky diventa un'eccellente critico dell'errore commesso da Lenin schierandosi con i legalisti russi e con i riformisti austriaci contro Luxemburg (p. 472 edizione in inglese). Benché lui stesso abbia delle critiche da portare a Luxemburg, insiste sul fatto che il marxismo è necessariamente una teoria "del crollo" e sottolinea la tendenza alla sovrapproduzione identificata da Marx come la questione chiave per comprenderla. In effetti, le sue critiche a Luxemburg sono abbastanza difficili da decifrare. Insiste sul fatto che il principale errore di Luxemburg risiedeva nel fatto che non comprendeva che gli schemi della riproduzione erano semplicemente una "esercitazione metodologica" e, pertanto, tutta l'argomentazione di Luxemburg contro la sua critica porta precisamente sul fatto che questo schema può essere utilizzato solamente come una esercitazione e non come una descrizione reale dell'evoluzione storica del capitale, né come una prova matematica della possibilità di un accumulazione illimitata. (p.490, edizione inglese).
[12] Critica delle critiche, I.
[13] Più tardi, Kautsky si allineò lui stesso sulla posizione degli austro-marxisti: "Nella sua opera maggiore, critica molto "l'ipotesi" di Luxemburg secondo la quale il capitalismo deve crollare per ragioni economiche; afferma che Luxemburg "è in contraddizione con Marx che ha dimostrato il contrario nel secondo Volume del Capitale, e cioè negli schemi della riproduzione". (Rosdolsky, op cit., citando Kautsky ne La concezione materialista della storia, tradotto da noi dall'inglese).
[14] In Storia e coscienza di classe, Sugarco Edizioni, 1974, pagine 40-41.
[15] Grundrisse o Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, Ed. La Nuova Italia, Tomo II, "II. Il Capitale". Marx spiega anche in altri punti che l'idea secondo la quale gli stessi capitalisti possono costituire il mercato per la riproduzione allargata, è basata su un'incomprensione della natura del capitalismo: "Il capitale insegue, in effetti, non la soddisfazione dei bisogni, ma l'ottenimento di un profitto, ed il suo metodo consiste nel regolare la massa dei prodotti secondo la scala della produzione e non quest'ultima secondo i prodotti che dovrebbero essere ottenuti; c'è dunque conflitto continuo tra il consumo compresso e la produzione per riuscire a raggiungere il limite assegnato a quest'ultima, e siccome il capitale consiste in merci, la sua sovrapproduzione si riduce ad una sovrapproduzione di merci. Un fenomeno bizzarro è che gli stessi economisti che negano la possibilità di una sovrapproduzione di merci ammettono che il capitale possa esistere in eccesso. Tuttavia quando dicono che non c'è sovrapproduzione universale, ma semplicemente una sproporzione tra i diversi rami di produzione, affermano che in regime capitalista la proporzionalità dei diversi rami di produzione risulta continuamente dalla loro sproporzione; perché per essi la coesione della produzione tutta intera si impone ai produttori come una legge cieca, che essi non possono volere, né controllare. Questo ragionamento implica, inoltre, che i paesi dove il regime capitalista non è sviluppato consumano e producono nella stessa misura delle nazioni capitaliste. Dire che la sovrapproduzione è solamente relativa è perfettamente esatto. Ma tutto il sistema capitalista di produzione è solamente un sistema relativo i cui limiti sono assoluti solamente quanto si considera il sistema in sé. Come è possibile che talvolta degli oggetti che indubbiamente mancano alla massa del popolo non facciano l'oggetto di nessuna domanda del mercato, e come è che bisogna cercare allo stesso tempo degli ordini lontano, rivolgersi ai mercati stranieri per potere pagare agli operai del paese la media dei mezzi di esistenza indispensabili? Unicamente perché in regime capitalista il prodotto in eccesso riveste una forma tale che colui che la possiede non può metterlo a disposizione del consumatore se non quando si riconverte per lui in capitale. Infine, quando si dice che i capitalisti non hanno che da scambiare tra loro e consumare loro stessi le loro merci, si perde di vista il carattere essenziale della produzione capitalista, il cui scopo è la messa in valore del capitale e non il consumo. Riassumendo tutte le obiezioni che vengono opposte ai fenomeni così evidenti della sovrapproduzione (fenomeni che si svolgono malgrado queste obiezioni), si torna a dire che i limiti che si attribuiscono alla produzione capitalista non essendo dei limiti inerenti alla produzione in generale, non sono neanche dei limiti di questa produzione specifica che si chiama capitalista. Ragionando così si dimentica che la contraddizione che caratterizza il modo capitalista di produzione, risiede soprattutto nella sua tendenza a sviluppare in maniera assoluta le forze produttive, senza preoccuparsi delle condizioni di produzione al centro delle quali si muove e può muoversi il capitale."
Il Capitale, Volume III, capitolo 15: "lo sviluppo delle contraddizioni immanenti della legge", 3 parte. – evidenziato da noi.
Nel precedente articolo di questa serie abbiamo visto che Rosa Luxemburg, attraverso la sua analisi dei processi fondamentali alla base della espansione imperialista, aveva previsto che le calamità che le regioni precapitaliste del globo subivano sarebbero ritornate nel cuore stesso del sistema, nella borghese Europa. E come sottolineava ne La crisi della socialdemocrazia tedesca (Juniusbroshure), scritta in prigione nel 1915, lo scoppio della guerra mondiale nel 1914 non era solo una catastrofe per la distruzione e la miseria che faceva cadere sulla classe operaia dei due campi in guerra, ma anche che essa era stata resa possibile dal più grande atto di tradimento della storia del movimento operaio: la decisione della maggioranza dei partiti socialdemocratici, fino ad allora fari dell’internazionalismo, educati alla visione marxista del mondo, di sostenere lo sforzo di guerra delle classi dominanti dei loro rispettivi paesi, di ratificare il massacro reciproco del proletariato europeo, a dispetto delle sonanti dichiarazioni di opposizione alla guerra che essi avevao adottato nelle numerose riunioni della Seconda Internazionale e dei suoi partiti costituenti nel corso degli anni precedenti.
Questo costituì la morte dell’Internazionale, scoppiata in diversi partiti nazionali le cui maggior parti, spesso i loro organi dirigenti, agirono come agenti reclutatori nell’interesse della loro borghesia: perciò furono designati come i «socialsciovinisti» o i «socialpatrioti»; essi trascinarono con sè la maggioranza dei sindacati. In questa terribile sconfitta un’altra parte importante della socialdemocrazia, i «centristi», si impantanò in ogni sorta di confusioni, incapace di rompere definitivamente con i socialpatrioti, attaccandosi ad assurde illusioni sulla possibilità di accordi di pace e, come nel caso di Kautsky, l’antico «papa del marxismo», voltando molto spesso le spalle alla lotta di classe in nome del fatto che l’Internazionale non poteva essere che uno strumento di pace, non di guerra. Durante questa epoca traumatizzante solo una minoranza mantenne con fermezza i principi che tutta l’Internazionale aveva sottoscritto alla vigilia della guerra – innanzitutto il rifiuto di fermare la lotta di classe per il fatto che essa metteva in pericolo lo sforzo di guerra della propria borghesia e, per estensione, la volontà di usare la crisi sociale causata dalla guerra come mezzo per affrettare la caduta del sistema capitalista. Ma di fronte allo stato di spirito da isteria nazionalista che dominava all’inizio della guerra, la «atmosfera da progrom» di cui parla Luxemburg nel suo opuscolo, anche i miglior militanti della sinistra rivoluzionaria si trovarono in preda ai dubbi e alle difficoltà. Quando Lenin prese conoscenza della edizione del Vorwarts, giornale della SPD, che annunciava che il partito aveva votato i crediti di guerra al Reichstag, pensò che si trattava di un falso architettato dalla polizia politica. Al parlamento tedesco l’antimilitarista Liebknecht votò all’inizio i crediti di guerra per disciplina di partito. Il seguente estratto di una lettera di Rosa Luxemburg mostra a qual punto lei sentiva che l’opposizione di sinistra nella socialdemocrazia fosse ridotta a una piccola raccolta di individui:
«Vorrei agire con la massima energia contro quello che succede al gruppo parlamentare. Disgraziatamente non trovo molta gente disposta ad aiutarmi. (…) Non si può mai raggiungere Karl (Liebknecht) perchè corre da tutti i lati come una nuvola nel cielo; Franz (Mehring) mostra poca attenzione per ogni azione diversa dalla letteratura, la reazione di tua madre (Clara Zetkin) è isterica e assolutamente disperata. Ma a dispetto di tutto questo, ho intenzione di cercare di vedere cosa si può fare.» (Lettera a Konstantin Zetkin, fine 1914)[1].
Tra gli anarchici c’era altrettanta confusione o il tradimento aperto. Il venerabile anarchico Kropotkin chiamò alla difesa della civilizzazione francese contro il militarismo tedesco (quelli che seguirono il suo esempio furono chiamati ‘gli anarchici delle trincee’), e il richiamo del patriottismo si rivelò particolarmente forte nella CGT in Francia. Ma la corrente anarchica, proprio a causa del suo carattere eterogeneo, non fu sconvolta fino alle sue fondamenta come avvenne per il “partito marxista”. Numerosi gruppi e militanti anarchici continuarono a difendere le stesse posizioni internazionaliste di prima[2].
L’imperialismo: il capitalismo in declino
Naturalmente i gruppi della vecchia sinistra della socialdemocrazia dovettero dedicarsi al compito di riorganizzazione e di raggruppamento per portare avanti il fondamentale lavoro di propaganda e di agitazione a dispetto della frenesia nazionalista e della repressione statale. Ma quello che occorreva soprattutto era una revisione teorica, uno sforzo rigoroso per capire come la guerra aveva potuto spazzare via dei principi difesi da tanto tempo dal movimento. Tanto più che era necessario strappare il velo «socialista» dietro cui i traditori nascondevano il loro patriottismo, utilizzando le parole di Marx ed Engels, selezionandole con cura e, soprattutto, estraendole dal loro contesto storico, per giustificare la loro posizione di difesa nazionale – soprattutto in Germania dove c’era stata una lunga tradizione della corrente marxista che sosteneva i movimenti nazionali contro la minaccia reazionaria costituita dallo zarismo russo.
La necessità di una rivisitazione teorica completa è stata simboleggiata da Lenin che all’inizio della guerra passava ‘calmamente’ il suo tempo a leggere Hegel in biblioteca. In un articolo pubblicato recentemente in The Commune, Kevin Anderson del Marxist Humanist Committee (Comitato marxista umanista) americano sostiene che lo studio di Hegel portò Lenin alla conclusione che la maggioranza della Seconda Internazionale, compreso il suo mentore Plekanov (e per estensione lui stesso) non avevano rotto con il materialismo volgare, e che la loro ignoranza di Hegel li aveva portati ad avere poca padronanza della vera dialettic della storia[3]. Ed uno dei principi dialettici impliciti di Hegel è che ciò che era razionale in un’epoca, diventa irrazionale in un’altra. Ed è certo questo il metodo che Lenin utilizzò per rispondere ai socialsciovinisti – Plekanov in particolare – che cercavano di giustificare la guerra riferendosi agli scritti di Marx ed Engels:
“I socialsciovinisti russi, con Plekanov alla testa, si richiamano alla tattica di Marx nella guerra del 1870; i tedeschi sul tipo di Lensch, di David e soci, si richiamano alla dichiarazione di Engels del 1891 sull'obbligo per i socialisti tedeschi di difendere la patria in caso di guerra contro la Russia e la Francia unite; infine, i socialsciovinisti tipo Kautsky, che desiderano conciliare e legalizzare lo sciovinismo internazionale, si richiamano al fatto che Marx ed Engels, pur condannando le guerre, si posero nondimeno, continuamente dal 1854-1855 fino al 1870-1871 e 1876-1877, dalla parte di un determinato Stato belligerante, una volta che la guerra era scoppiata.
Tutte queste citazioni rappresentano di per sé una ripugnante deformazione a profitto della borghesia e degli opportunisti, delle teorie di Marx ed Engels, precisamente come gli scritti degli anarchici Guillaume e soci rappresentano una deformazione delle teorie di Marx ed Engels, fatta per giustificare l'anarchismo. La guerra del 1870-1871, finché Napoleone III non fu vinto, era storicamente progressiva per la Germania; perché Napoleone, insieme allo zar, oppresse per lunghi anni la Germania, mantenendovi il frazionamento feudale. Ma non appena la guerra finì con la rapina a danno della Francia (annessione dell'Alsazia-Lorena), Marx ed Engels condannarono decisamente i tedeschi. Inoltre, al’inizio di quella guerra, Marx ed Engels avevano approvato il rifiuto di Bebel e di Liebknecht di votare per i crediti di guerra, e avevano consigliato i socialdemocratici a non fondersi con la borghesia e a difendere gli interessi di classe indipendenti del proletariato. Trasferire il giudizio dato su quella guerra, borghese-progressista e di liberazione nazionale, alla attuale guerra imperialista, è farsi beffa della verità. Lo stesso si deve dire, ed a maggior ragione, della guerra del 1854-1855 e di tutte le guerre del XIX secolo, quando non c'erano né l'imperialismo attuale né le condizioni obiettive già mature del socialismo, né partiti socialisti di massa in tutti i paesi belligeranti, quando cioè mancavano precisamente quelle condizioni dalle quali il manifesto di Basilea aveva dedotto la tattica della " rivoluzione proletaria" in rapporto alla guerra fra le grandi potenze.
Chi si richiama adesso all'atteggiamento di Marx verso le guerre del periodo progressivo della borghesia e dimentica le parole di Marx: "gli operai non hanno patria" - parole che si riferiscono precisamente all'epoca della borghesia reazionaria, superata, all'epoca della rivoluzione socialista - deforma spudoratamente Marx e sostituisce al punto di vista socialista il punto di vista borghese”. (Il socialismo e la guerra, 1915)[4].
E’ qui sta la questione chiave: il capitalismo era diventato un sistema reazionario come Marx aveva previsto. La guerra ne era una prova e questo implicava una rivalutazione completa di tutte le antiche tattiche del movimento, una comprensione chiara delle caratteristiche del capitalismo nella sua crisi di senilità e quindi delle nuove condizioni a cui la lotta di classe era confrontata. Per le frazioni di sinistra questa analisi fondamentale della evoluzione del capitalismo era universale. Rosa Luxemburg, nella Brochure di Junius, sulla base di una rivisitazione approfondita del fenomeno dell’imperialismo nel corso del periodo che aveva portato alla guerra, riprese quanto era stato annunciato da Engels: l’umanità era confrontata alla scelta socialismo o barbarie; e lei dichiarava che questa non era più una prospettiva, ma una realtà immediata: «questa guerra è la barbarie». Nello stesso documento Luxemburg sosteneva che nell’epoca dell’imperialismo sviluppato la vecchia tattica di sostegno a certi movimenti di liberazione nazionale aveva perso ogni contenuto progressista: «Nell’epoca in cui l’imperialismo si è scatenato non ci possono più essere delle guerre nazionali. Gli interessi nazionali non sono che una mistificazione che ha per scopo di mettere le masse lavoratrici al servizio del loro nemico mortale: l’imperialismo.»[5]
Trotsky, che scriveva sul Nashe Slovo, evolveva in una direzione parallela, difendendo che la guerra era il segno che lo Stato nazionale era diventato lui stesso un ostacolo ad ogni ulteriore progresso umano: «Lo Stato nazionale è superato come quadro per lo sviluppo delle forze produttive, come base per la lotta di classe e, in particolare, come forma statale della dittatura del proletariato. (Nashe Slovo, 4 febbraio 1916, tradotto dall’inglese da noi).
In un’opera più conosciuta, L’imperialismo fase suprema del capitalismo, Lenin – come Luxemburg – riconosceva che il sanguinoso conflito tra le grandi potenze mondiali esprimeva il fatto che queste potenze si erano ormai divise tutto il pianeta e che, di conseguenza, la torta imperialista non poteva che essere ridivisa attraverso dei violenti regolamenti di conti tra gli orchi capitalisti: «… il tratto caratteristico del periodo considerato è la divisione definitiva del globo, definitiva non nel senso che una nuova divisione sia impossibile, - nuove divisioni essendo invece possibili ed inevitabili - , ma nel senso che la politica coloniale dei paesi capitalisti è finita con la conquista dei territori non occupati del nostro pianeta. Per la prima volta il mondo si trova interamente ripartito, al punto che in futuro non potrà che aversi una nuova ripartizione, cioè il passaggio da un possessre all’altro, e non l’impossessamento di territori senza padrone[6].»
Nello stesso libro Lenin caratterizza lo «stadio supremo» del capitalismo come quello del «parassitismo e del declino» o del «capitalismo moribondo». Parassitario perchè – in particolare nel caso della gran Bretagna - egli vedeva una tendenza al fatto che il contributo delle nazioni industrializzate alla produzione della ricchezza globale fosse rimpiazzato da una dipendenza crescente dal capitale finanziario e dai superprofitti estratti dalle colonie (un punto di vista che si può sicuramente criticare ma che conteneva un elemento di intuizione, come testimonia oggi lo sviluppo della speculazione finanziaria e l’avanzamento della disindustrializzazione in certe nazioni fra le più potenti). Il declino (che non significava, per Lenin, una stagnazione assoluta della crescita) per il fatto che la tendenza del capitalismo ad abolire la libera concorrenza a profitto del monopolio significava il bisogno crescente che la società borghese cedesse il posto a un modo di produzione superiore.
L’imperialismo di Lenin soffre di un certo numero di debolezze. La sua definizione dell’imperialismo è più una descrizione di certe sue manifestazioni più evidenti (‘le cinque caratteristiche’ tanto spesso citate dai gauchiste per provare che questa o quella nazione, o blocco di nazioni, non sono imperialiste) che una analisi delle radici del fenomeno nel processo di accumulazione come aveva fatto Rosa Luxemburg. La sua visione di un centro capitalista vivente in maniera parassitaria dei superprofitti estratti dalle colonie (con cui si corrompeva anche una parte della classe operaia, la «aristocrazia operaia», condotta così a sostenere i progetti imperialisti della borghesia) apriva una breccia per la penetrazione dell’ideologia nazionalista sotto forma di sostegno ai movimenti di «liberazione nazionale» nelle colonie. In più, la fase monopolistica (nel senso di giganteschi cartelli privati) aveva già nel corso della guerra ceduto il posto ad una espressione «superiore» del declino capitalista: l’enorme crescita del capitalismo di Stato.
Su quest’ultima questione il contributo più importante fu certamente quello di Bukarin, che fu uno dei primi a dimostrare che all’epoca dello “Stato imperialista”, la totalità della vita politica, economica e sociale è stata assorbita dall’apparato statale, soprattutto allo scopo di gestire la guerra con gli imperialismi rivali:
"Contrariamente a quello che era nel periodo del capitalismo industriale, lo Stato imperialista si caratterizza per uno straordinario accrescimento della complessità delle sue funzioni e per una brusca incursione nella vita economica della società. Esso rivela una tendenza a prendere in carico l’insieme della sfera produttiva e l’insieme della sfera della circolazione delle merci. I tipi intermedi di imprese miste saranno costituiti da una pura regolamentazione da parte dello Stato poichè è in questa maniera che si può sviluppare la centralizzazione. Tutti i membri delle classi dominanti (o più esattamente della classe dominante giacchè il capitalismo finanziario elimina gradualmente i differenti sottogruppi delle classi dominanti, unendoli nella sola banda del capitalismo finanziario) diventano azionari o partner di una gigantesca impresa di Stato. Assicurando innanzitutto la preservazione e la difesa dello sfruttamento, lo stato si trasforma una una organizzazione sfruttatrice unica centralizzata che si confronta direttamente con il proletariato, oggetto di questo sfruttamento. Poichè i prezzi del mercato cono determinati dallo Stato, questo assicura agli operai una razione sufficiente alla preservazione della loro forza lavoro. Una burocrazia gerarchizzata assolve alla funzione di organizzazione in pieno accordo con le autorità militari il cui ruolo e potenza crescono senza interruzione. L’economia nazionale è assorbita dallo Stato che è organizzato in maniera militare e dispone di un esercito e di una marina immensi e disciplinati. Nella loro lotta gli operai devono confrontarsi con tutta la potenza di questo mostruoso apparato, perchè ogni loro iniziativa di scontrerà direttamente con lo Stato: la lotta economica e la lotta politica smetteranno di essere due categorie separate e la rivolta contro lo sfruttamento significherà una rivolta diretta contro l’organizzazione statale della borghesia.» (‘Verso una teoria dello Stato imperialista’, 1915, tradotto dall’inglese da noi).
Il capitalismo di Stato totalitario e l’economia di guerra si sarebbero rivelate le caratteristiche fondamentale del secolo entrante. Data l’onnipresenza di questo mostro capitalista Bukarin concludeva a giusta ragione che, ormai, ogni lotta operaia significativa non aveva altra scelta che confrontarsi con lo Stato e che la sola via per il proletariato di andare avanti era «far esplodere» l’insieme dell’apparato, cioè distruggere lo stato borghese e rimpiazzarlo con i suoi propri organi di potere. Questo significava il rigetto definitivo di ogni potesi sulla possibilità di conquistare pacificamente lo Stato esistente, cosa che Marx ed Engels non avevano interamente escluso, anche dopo l’esperienza della Comune, e che era diventata progressivamente la posizione ortodossa della Seconda Internazionale. Pannekoek aveva sviluppato questa posizione già nel 1912 e quando Bukarin la riprese, Lenin all’inizio lo accusò con forza di cadere nell’anarchismo. Ma mentre preparava la sua risposta, e stimolato dalla necessità di capire la rivoluzione che stava avvenendo in Russia, Lenin fu ancora una volta vinto dalla dialettica e arrivò alla conclusione che Pannekoek e Bukarin avevano avuto ragione – una conclusione espressa in Stato e rivoluzione, scritto alla viglia dell’insurrezione d’Ottobre.
Nel libro di Bukarin, L’imperialismo e l’economia mondiale (1917), c’è anche un tentativo per situare il corso verso l’espansione imperialista nelle contraddizioni economiche identificate da Marx; egli sottolinea la pressione esercitata dalla caduta del tasso di profitto ma riconosce ugualmente la necessità di una estensione costante del mercato. Come Luxemburg e Lenin, lo scopo di Bukarin è di dimostrare che proprio per il fatto che il processo di ‘mondializzazione’ imperialista aveva creato un’economia mondiale unificata, il capitalismo aveva compiuto la sua missione storica e non poteva ormai che entrare in declino. Cosa del tutto coerente con la prospettiva sottolineata da Marx quando scriveva che “il compito proprio della società borghese è la costruzione del mercato mondiale, almeno nelle sue grandi linee, e di una produzione fondata su questa base” (Lettera di Marx ad Engels, 9 ottobre 1858).
Così, contro i socialsciovinisti e i centristi che volevano tornare allo statu quo di prima della guerra, che snaturavano il marxismo per giustificare il loro sostegno all’uno o all’altro dei campi in guerra, i marxisti autentici affermarono unanimemente che non c’era più un capitalismo progressista e che il suo rovesciamento rivoluzionario era ormai storicamente all’ordine del giorno.
L’epoca della rivoluzione proletaria
La fondamentale questione del periodo storico si pose di nuovo in Russia nel 1917, punto culminante di un’ondata internazionale crescente di resistenza del proletariato alla guerra. Dal momento che la classe operaia russa, organizzata in soviet, si rendeva progressivamente conto del fatto che essersi sbarazzata dello zarismo non aveva risolto nessuno dei suoi problemi fondamentali, le frazioni di destra e i centristi della socialdemocrazia svilupparono una grossa campagna contro l’appello dei Bolscevichi alla rivoluzione proletaria e a che i soviet regolassero i loro conti non solo con i vecchi elementi zaristi, ma anche con tutta la borghesia russa, che considerava la rivoluzione di febbraio come la propria rivoluzione. In questo la borghesia russa era sostenuta dai Menscevichi che riprendevano gli scritti di Marx per dimostrare che il socialismo non poteva essere costruito che sulla base di un sistema capitalista pienamente sviluppato: siccome la Russia era troppo arretrata essa non poteva andare oltre la fase di una rivoluzione borghese democratica e i Bolscevichi erano degli avventurieri che cercavano di giocare alla cavallina con la storia. La risposta data da Lenin nelle Tesi di aprile era ancora una volta coerente con la sua lettura di Hegel che aveva già sottolineato la necessità di considerare il movimento della storia come un tutto. Essa rifletteva anche il suo profondo impegno internazionalista. E’ certamente giusto dire che le condizioni di una rivoluzione devono maturare storicamente, ma l’avvento di una nuova epoca storica non si giudica guardando questo o quel paese preso separatamente. Il capitalismo, come la teoria dell’imperialismo dimostrava, era un sistema globale e quindi il suo declino e la necessità del suo rovesciamento maturavano anch’essi su una scala globale: lo scoppio della guerra imperialista mondiale lo provava ampiamente. Non c’era una rivoluzione russa isolata : l’insurrezione proletaria in Russia non poteva essere che il primo passo verso una rivoluzione internazionale o, come si espresse Lenin nel suo discorso, che fece l’effetto di una bomba, indirizzato agli operai e ai soldati che era accorsi ad accoglierlo al suo ritorno dall’esilio alla Stazione Finlandia di S. Pietroburgo: «Cari compagni, soldati, marinai e operai, sono felice di salutare in voi la rivoluzione russa vittoriosa, di salutarvi come l’avanguardia dell’esercito proletario mondiale… Non è lontana l’ora in cui, secondo l’appello del nostro compagno Karl Liebknecht, i popoli rivolgeranno e loro armi contro i capitalisti sfruttatori…La rivoluzione russa compiuta da voi ha aperto una nuov epoca. Viva la rivoluzione socialsita mondiale!...»
Questa comprensione che il capitalismo avva allo stesso tempo realizzato le condizioni necessarie all’avvento del socialismo ed era entrato nella sua crisi storica di senilità – due facce della stessa medaglia – è contenuta anche in una nota frase della Piattaforma dell’Internazionale scritta al momento del suo PrimoCongresso nel 1919: «Una nuova epoca è nata. L’epoca della disgregazione del capitalismo e del suo crollo. L’epoca della rivoluzione comunista del proletariato.»
Quando la sinistra rivoluzionaria internazionalista si riunì nel Primo Congresso dell’IC, il movimento rivoluzionaria scatenato dalla rivoluzione d’Ottobre era al suo punto più alto. Benchè il sollevamento ‘spartachista’ di gennaio a Berlino fosse stato sconfitto e Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht fossero stati selvaggiamente assassinati, si era appena formata la repubblica dei soviet in Ungheria, e scioperi di massa scuotevano l’Europa e parti degli Stati Uniti e dell’America del sud. L’entusiasmo rivoluzionario dell’epoca si ritrova nei testi fondamentali adottati dal Congresso. In accordo con il discorso di Rosa Luxemburg al Congresso di fondazione del KPD, l’alba di una nuova epoca significava che la vecchia distinzione fra il programma minimo e il programma massimo non era più valido, e di conseguenza il compito di organizzarsi in seno al capitalismo attraverso l’attività sindacale e con la partecipazione al parlamento al fine di guadagnare delle riforme significative aveva perso storicamente la sua ragion d’essere. La crisi storica del sistema capitalista mondiale, espressa non solo dalla guerra imperialista mondiale, ma anche dal caos economico e sociale che essa aveva lascito nella sua scia, significava che la lotta diretta per il potere organizzato in soviet era ora all’ordine del giorno in maniera realista ed urgente, e qusto programma era valido per tutti i paesi, compresi quelli coloniali e semicoloniali. In più, l’adozione di questo nuovo programma massimo non poteva essere messo in pratica se con con una rottura completa con le organizzazioni che avevano rappresentato la classe operaia nel corso dell’epoca precedente e che avevano tradito i suoi interessi quando avevano dovuto passare il test della storia – il test della guerra e della rivoluzione, nel 1914 e nel 1917. I riformisti della socialdemocrazia e la burocrazia sindacale erano ormai definiti come i lacchè del capitale e non più come l’ala destra del movimento operaio. Il dibattito al primo Congresso mostra che la giovane Internazionale era aperta alle conclusioni più audaci tirate dall’esperienza diretta della lotta rivoluzionaria. Benchè l’esperienza russa avesse seguito un cammino un po’ differente, i Bolscevichi ascoltavano con serietà la testimonianza dei delegati della Germania, della Svizzera, della Finlandia, degli Stati Uniti, della Gran Bretagna e di altri paesi, che sostenevano che i sindacati non erano più semplicemente inutili, ma erano diventati un ostacolo controrivoluzionario diretto – degli ingranaggi dell’apparato statale – e che gli operai si organizzavano sempre più spesso al di fuori e contro di essi attraverso la forma organizzativa dei consigli nelle fabbriche e nelle strade. E poichè la lotta di classe si basava appunto sui luoghi di lavoro e nelle strade, questi centri viventi della lotta e della coscienza di classe apparivano, nei documenti ufficiali dell’IC, in flagrante contrasto con il guscio vuoto del parlamento, strumento anch’esso che era non solo inutile per la lotta per la rivoluzione proletaria ma anche uno strumento diretto della classe dominante, utilizzato per sabotare i consigli operai, come si era dimostrato sia nella Russia del 1917 che nella Germania nel 1918. Infine il Manifesto dell’IC era molto vicino alla posizione, sviluppata dalla Luxemburg, secondo cui le lotte nazionali erano superate e le nuove nazioni nascenti erano diventate delle semplici pedine degli interessi imperialisti rivali. In quel momento queste conclusioni rivoluzionarie ‘estreme’ sembravano alla maggioranza discendere logicamente dall’apertura del nuovo periodo[7].
I dibattiti al Terzo Congresso
Quando la storia si accelera, come avvenne a partire dal 1914, ci possono essere i cambiamenti più drammatici nel corso di un anno o due. Nel momento in cui l’IC si riuniva per il suo terzo Congresso, nel giugno-luglio del 1921, la speranza di una estensione immediata della rivoluzione, tanto forte al momento del Primo Congresso, aveva subito dei duri colpi. La Russia aveva attraversato tre anni di estenuante guerra civile e, anche se i Rossi avevano vinto militarmente i Bianchi, il prezzo pagato fu politicamente mortale : un gran numero degli operai più avanzati erano morti, lo Stato ‘rivoluzionario’ si era burocratizzato al punto che i soviet ne avevano perso il controllo. I rigori del ‘Comunismo di guerra’ e gli eccessi distruttori del terrore rosso avevano finito per suscitare una rivolta aperta nella classe operaia: a marzo scioperi di massa scoppiarono a S. Pietroburgo, seguiti dal sollevamento armato dei marinai e degli operai di Kronstadt, che facevano appello per la rinascita dei soviet e per la fine della militarizzazione del lavoro e delle azioni repressive della Ceca. Ma la direzione bolscevica, impastoiata nello Stato, non vide in questo movimento che un’espressione della controrivoluzione bianca e la represse in maniera impietosa e sanguinosa. Tutto questo era l’espressione dell’isolamento crescente del bastione russo. La sconfitta faceva seguito a quella delle repubbliche sovietiche di Ungheria e Baviera, alla sconfitta degli scioperi generali di Winnipeg, Seattle, Red Clydeside, a quella delle occupazioni delle fabbriche in Italia, del sollevamento della Ruhr in Germania e di molti altri movimenti di massa.
Sempre più consapevoli del loro isolamento, il partito aggrappato al potere in Russia e altri partiti comunisti in altri paesi cominciarono a fare ricorso a misure disperate per estendere la rivoluzione, come la marcia dell’Armata Rossa sulla Polonia e l’Azione di marzo in Germania nel 1921 – due tentativi falliti di forzare il corso della rivoluzione senza sviluppo massiccio della coscienza di classe e dell’organizzazione necessarie per una vera presa del potere da parte della classe operaia. Nel frattempo il sistema capitalista, benché dissanguato dalla guerra e in preda ad ulteriori sintomi di una profonda crisi economica, riuscì a trovare un equilibrio sul piano economico e sociale, in parte grazie al nuovo ruolo giocato dagli Stati Uniti come forza motrice industriale e bancaria del mondo.
All’interno dell’Internazionale Comunissta il Secondo Congresso del 1920 aveva già sentito l’impatto delle precedenti sconfitte. Ne fu simbolo la publicazione da parte di Lenin dell’opuscolo L’estremismo, malattia infantile del comunismo, che fu distribuito al Congresso[8]. Invece di aprirsi all’esperienza viva del proletarato mondiale, l’esperienza bolscevica – o una versione particolare di questa – veniva ora presentata come un modelllo universale. I Bolscevichi avevano avuto un certo successo alla Duma dopo il 1905, per cui la tattica del ‘parlamentarismo rivoluzionario’ veniva presentato come una tattica valida universalmente; i sindacati si erano formati di recente in Russia e non avevano perduto ogni segno di vita proletaria…, per cui i comunisti di tutti i paesi dovevano fare tutto il possibile per restare nei sindacati rivoluzionari e cercare di conquistarli eliminando i burocrati corrotti. A fianco di questa codificazione delle tattiche sindacale e parlamentare, in totale opposizione alle correnti comuniste di sinistra che le rigettavano, venne l’appello a costruire dei partiti comunisti di massa, incorporando in gran parte organizzazioni come l’USPD in Germania e il Partito Socialista in Italia.
L’anno 1921 mostrò altre manifestazion di scivolamento verso l’opportunismo, del sacrificio dei principi e degli obiettivi a lungo termine a profitto di successi a breve termine e della crescita numerica. Al posto di una chiara denuncia dei partiti socialdemocratici come agenti della borghesia, si usava ora il sofisma della ‘lettera aperta’ a questi partiti, con lo scopo di ‘forzare i dirigenti a battersi’ o, se non lo facevano, a smascherarsi di fronte ai loro membri operai. In breve l’adozione di una politica di manovre in cui le masse devono in qualche maniera essere ingannate per sviluppare la loro coscienza. Queste tattiche furono rapidamente seguite dalla proclamazione di quella del «fronte unico» e dallo slogan ancor più privo di principi del «governo operaio», una sorta di coalizione parlamentare tra i socialdemocratici e i comunisti. Dietro tutta questa corsa all’influenza ad ogni costo si trovava il bisogno dello Stato ‘sovietico’ di far fronte ad un mondo capitalista ostile, di trovare un modus vivendi con il capitalismo mondiale, al prezzo di un ritorno alla pratica della diplomazia segreta che era stata chiaramente condannata dal potere sovietico nel 1917 (nel 1922 lo Stato ‘sovietico’ firmava un accordo segreto con la Germania, fornendole anche delle armi che sarebbero servite ad uccidere gli operai comunisti un anno dopo). Tutto questo indicava l’accelerazione di una traiettoria che si allontanava dalla lotta per la rivoluzione e si orientava verso la incorporazione nello statu quo capitalista – non ancora definitiva, ma che indicava il cammino della degenerazione che sarebbe culminata con la vittoria della controrivoluzione stalinista.
Ciò non voleva dire che ogni chiarezza o ogni dibattito serio sul periodo storico fossero spariti. Al contrario, i ‘comunisti di sinistra’, reagendo a questo corso opportunista, andavano rafforzando ancora più solidamente i loro argomenti sul punto di vista che il capitalismo era entrato in un nuovo periodo: il programma del KAPD del 1920 cominciava con la proclamazione che il capitalismo era nella sua crisi storica e che ciò metteva il proletariato di fronte alla scelta ‘socialismo o barbarie’[9]; lo stesso anno gli argomenti della sinistra italiana contro il parlamentarismo partono dalle premesse secondo cui le campagne per le elezioni parlamentari avevano avuto la loro validità nel passato, ma l’avvento una nuova epoca rendeva non più valida questa antica pratica. Ma anche tra le voci ‘ufficiali’ dell’Internazionale c’era sempre un tentativo autentico di capire le caratteristiche e le conseguenze del nuovo periodo.
Il Rapporto e le Tesi sulla situazione mondiale presentati da Trotsky al terzo Congresso nel 1921 offrivano un’analisi molto lucida dei meccanismi a cui aveva fatto ricorso un malandato capitalismo per assicurare la sua sopravvivenza nel nuovo periodo – innanzitutto la fuga nel credito e nel capitale fittizio. Analizzando i primi segni di una ripresa nel dopo guerra, il rapporto di Trotsky sulla crisi economica mondiale e i nuovi compiti dell’Internazionale Comunista pone le questioni in questa maniera: “Come è avvenuta la ripresa, e come può essere spiegata? In primo luogo con delle cause economiche: le relazioni internazionali sono state riannodate, anche se in proporzioni ristrette, e dovunque vediamo una richiesta di merci le più varie; poi si spiega con delle cause politiche e finanziarie: i governi europei avevano avuto paura della crisi che si poteva produrre dopo la guerra e avevano preso le loro misure per far durare questa ripresa artificiale che era stata provocata dalla guerra. I governi hanno continuato a mettere in circolazione della moneta in gran quantità, hanno lanciato nuovi prestiti, tassatole rendite, i salari e il prezzo del pane; riuscivano così a coprire una parte dei salari degli operai smobilitati attingendo a fondi nazionali, e creavano una attività economica artificiale nel paese. In questa maniera, per tutto questo tempo, il capitale fittizio continuava crescere, soprattutto nei paesi in cui l’industria diminuiva.”
Tutta la vita del capitalismo a partire da questa epoca non fa che confermare questa diagnosi di un sistema che non poteva mantenersi a galla se non violando le proprie leggi economiche. Questi testi cercavano anche di approfondire l’idea che senza una rivoluzione proletaria il capitalismo avrebbe certamente scatenato nuove guerre ancora più distruttive (anche se le previsioni di un imminente confronto tra l’antica potenza britannica e la nascente potenza americana erano lungi dall’essere giuste, anche se non senza fondamento). Ma la chiarificazione più importante contenuta in questo documento e in altri era la conclusione che l’avvento del nuovo periodo non significava che il declino, la crisi economica aperta e la rivoluzione sarebbero state simultanee – una ambiguità che si può trovare nella formulazione di orgine dell’IC nel 1919, ‘Una nuova epoca è nata’, che poteva essere interpretata nel senso che il capitalismo era entrato simultaneamente in una crisi economica ‘fnale’ e in una fase ininterrotta di conflitti rivoluzionari. Questo avanzamento nella comprensione è forse espresso più chiaramente nel testo di Trotsky “Gli insegnamenti del Terzo Congresso dell’IC”, scritto nel luglio 1921. Il testo cominciava così: “Le classi hanno le loro origini nel processo di produzione. Esse sono capaci di vivere fin quando esse giocano il ruolo necessario nell’organizzazione comune del lavoro. Le classi perdono senso se le loro condizioni di esistenza sono in contradizione con lo svluppo della produzione, cioè con lo sviluppo dell’economia. E’ in questa situazione che la borghesia si trova attualmente. Questo non significa che la classe che ha perduto le sue radici e che è diventata parassitaria deve morire immediatamente. Benchè le fondamenta della dominazione di classe posino sull’economia, le classi si mantengono grazie agli apparati e agli organi dello Stato politico: esercito, polizia, partiti, tribunali, stampa, ecc. Con l’aiuto di questi organismi la classe dominante può trascinare nella sua caduta il paese e la nazione che essa domina…La rappresentazione puramente meccanica della rivoluzione proletaria avente come punto di partenza la rovina costante della società capitalista spingeva qualche gruppo di compagni alla falsa teoria dell’iniziativa delle minoranze capace di far crollare con la propria arditezza “i muri della passività comune del proletariato” e degli attacchi incessanti dell’avanguardia del proletariato come nuovo metodo di combattimento nelle lotte e dell’uso dei metodi delle rivolte armate. Inutile dire che questa sorta di teoria della tattica non ha niente a che fare con il marxismo.”
Così, l’apertura del declino non escludeva delle riprese a livello economico, nè degli arretramenti del proletariato. Evidentemente nessuno poteva vedere a qual punto le sconfitte del 1919-21 fossero già state decisive, ma esisteva un bisogno bruciante di chiarificare cosa fare ora, in una nuova epoca ma non in un momento immediato di rivoluzione. Un testo a parte, le Tesi sulla tattica, adottato dal Congresso, metteva giustamente avanti la necessità che i partiti comunisti prendessero parte alle lotte difensive al fine di sviluppare la fiducia e la coscienza della classe operaia e questo, insieme al riconoscimento che declino e rivoluzione non erano sinonimi, costituiva un rigetto necessario della “teoria dell’offensiva” che aveva ispirato la conduzione semi-golpista dell’Azione di marzo. Questa teoria – secondo cui le condizioni oggettive erano mature, il partito comunista doveva condurre un’offensiva insurrezionale più o meno permanente per spingere le masse all’azione – era difesa principalmente dalla sinistra del partito comunista tedesco, da Bela Kun e altri e non, come è spesso detto in maniera errata, dalla Sinistra comunista in senso stretto, anche se il KAPD e degli elementi a lui vicino non erano sempre chiari su questa questione[10].
A questo proposito gli interventi delle delegazioni del KAPD al Terzo Congresso sono molto istruttivi. Contraddicendo l’etichetta di ‘settario’ che gli era affibbiata nelle tesi sulla tattica, l’atteggiamento del KAPD al Congresso fu un modello della maniera responsabile con cui una minoranza deve comportarsi in una organizzazione proletaria. Benchè disponesse di un tempo estremamente ristretto per i suoi interventi e avesse dovuto sopportare le interruzioni e i sarcasmi dei sostenitori della linea ufficiale, il KAPD si considerava come partecipante a pieno titolo allo svolgimento del Congresso e i suoi delegati erano estremamente disposti a sottolineare i punti d’accordo quando ne avevano; essi non erano interessati a mettere avanti le loro divergenze per esaltarle, come è caratteristica dell’atteggiamento settario[11]. Per esempio, nella discussione sulla situazione mondiale, un certo numero di delegati del KAPD condividevano molti punti dell’analisi di Trotsky, in particolare l’idea secondo sui il capitalismo era sul punto di ricostruirsi sul piano economico e di riprendere il controllo sul piano sociale: così Seeman sottolineò la capacità della borghesia internazionale di mettere temporaneamente da parte le sue rivalità interimperialiste al fine di far fronte al pericolo proletario, in particolare in Germania.
L’implicazione di questo – in particolare del fatto che il rapporto di Trotsky e le Tesi sulla situazione mondiale erano in gran parte orientati per rigettare la “teoria dell’offensiva” e i suoi partigiani – è che il KAPD non difendeva che non ci sarebbe potuta essere stabilizzazione del capitale né che la lotta dovesse essere offensiva in qualsiasi momento. Ed espresse questo punto di vista in numerosi interventi.
Sachs, nella sua risposta alla presentazione di Trotsky sulla situazione economica mondiale, si espresse così: «Abbiamo visto eri in dettaglio come il compagno Trotsky – e tuti quelli che sono qui saranno, penso, d’accordo con lui – si rappresenti i rapporti tra, da un lato, le piccole crisi e i piccoli periodi di ripresa ciclici e momentanei e, dall’altro lato, il problema dello sviluppo e del declino del capitalismo, visto su grandi periodi storici. Saremo tutti d’accordo che la grande curva che andava verso l’alto ora va irresistibilmente verso il basso, e che all’interno di questa grande curva, sia nel suo tratto scendente che in quello discendente, ci siano delle oscillazioni.» (La sinistra tedesca)[12].
Insomma, quale che siano le ambiguità che siano esistite nella visione del KAPD sulla « crisi mortale », esso non considerava che l’apertura della decadenza significava uno sprofondamento improvviso e definitivo della vita economica del capitalismo.
Analogamente, l’intervento di Hempel sulla tattica dell’Internazionale mostra chiaramente che l’accusa di « settario » portata al KAPD, per il suo supposto rifiuto di lotte difensive e il suo preteso appello all’offensiva in qualsiasi momento, era falsa : « Ora la questione delle azioni parziali. Noi diciamo che non respingamo nessuna azione parziale. Noi diciamo : ogni azione, ogni lotta, perchè questa è un’azione, deve essere prevista, spinta in avanti. Non si può dire : respingiamo questa o quella lotta. La lotta che nasce dalle necessità economiche della classe operaia, questa lotta deve essere spinta avanti con ogni mezzo. Proprio in un paese come la Germania, l’Inghilterra e tutti gli altri paesi di democrazia borghese che hanno subito per quaranta o cinquanta anni una democrazia borghese e i suoi effetti, la classe operaia deve essere innanzitutto abituata alle lotte. Le parole d’ordine devono corrispondere alle azioni parziali. Facciamo un esempio: in una impresa, in diverse imprese scoppia uno sciopero che comprende una certa zona. Là la parola d’ordine non potrebbe essere ‘lottare per la dittatura del proletariato’. Sarebbe un’assurdità. Le parole d’ordine devono essere adattate ai rapporti di forza e a quello che ci si può attendere in una data situazione.» (Ibidem)
Ma dietro molti di questi interventi c’era l’insistenza del KAPD sul fatto che l’IC non andava abbastanza lontano nella sua comprensione che un nuovo periodo nella vita del capitalismo e quindi della lotta di classe si era aperto. Sachs, per esempio, dopo aver espresso il suo accordo con Trotsky sulla possibilità di riprese temporanee, sostenne che : « quello che non è stato espresso in queste Tesi,… è giustamente il carattere fondamentalmente differente di questa epoca di declino rispetto alla precedente epoca di ascesa del capitalismo considerato nella sua totalità » (ibidem) e che questo aveva delle implicazioni nella maniera in cui ormai il capitalismo sopravviveva : « il capitale ricostruisce il suo potere distruggendo l’economia » (ibidem), un punto di vista visionario sulla maniera con cui il capitalismo sarebbe continuato come sistema nel secolo che si era aperto. Hempel, nella discussione sulla tattica, espone le implicazioni del nuovo periodo per quello che riguardava le posizioi politiche che i comunisti devono difendere, in particolare sulla questione sindacale e parlamentare. Contrariamente agli anarchici, a cui il KAPD è spesso assimilato, Hempel insiste sul fatto che l’utilizzazione del parlamento e dei sindacati era stato giusto nel periodo precedente: «…se si va con la memoria ai compiti che aveva il vecchio movimento operaio o, per meglio dire, il movimento operaio prima dell’epoca di questa irruzione della rivoluzione diretta, vediamo che esso aveva, da un lato, grazie alle organizzazioni politiche della classe operaia,i partiti,il compito di inviare dei delegati al parlamentoe nelle istituzioni che la borghesia e la burocrazia avevano lasciato aperte alla rappresentanza della classe operaia.Questo era uno dei compiti. Così fu fatto e all’epoca era giusto. Dal loro canto le organizzazioni economiche della classe operaia dovevano preoccuparsi di migliorare la situazione del proletariato all’interno del capitalismo, di spingere alla lotta e di negoziare quando la lotta difermava… questi erano i compiti delle organizzazioni operaie prima della guerra. Ma la rivoluzione arrivò ed altri compiti divennero attuali. Le organzzazioni operaie non potevano adattarsi alla lotta per degli aumenti salariali e sentirsi soddisfatte ; e nemmeno potettero più porsi – come loro compito principale – quello di essere rappresentati in parlamento e strappare dei miglioramenti per la classe operaia.» (ibidem), e ancora «continamente sperimentiamo il fatto che tutte le organizzazioni di lavoratori che prendono questa strada, a dispetto di tutti i loro discorsi rivoluzionari,vengono meno nelle lotte decisive» (ibidem), è per questo che la classe operaia aveva bisogno di creare delle nuove organizzazioni capaci di esprimere la necessità dell’autorganizzazione del proletariato e il confronto diretto con lo Stato e il capitale ; questo era valido tanto per le piccole lotte difensive che le lotte di massa più ampie.
In un altro momento Bergmann definisce i sindacati come degli ingranaggi dello Stato e mostra che è quindi illusorio volerli riconquistare : « Noi siamo profondamente convinti che bisogna sbarazzarsi dei vecchi sindacati. Non perchè abbiamo sete di distruzione, ma perchè noi vediamo che queste organizzazioni sono diventate, nel senso peggiore del termine, degli organi dello Stato capitalista per reprimere la rivoluzione. » (ibidem). Con la stessa vena Sachs criticò la regressione verso la nozione di partito di massa e la tattica della lettera aperta ai partiti socialdemocratici – queste erano delle regressioni verso delle pratiche socialdemocratiche e forme di organizzazione superate o, peggio, verso gli stessi partiti socialdemocratici passati al nemico.
* * *
In generale, la storia è scritta dai vincitori, o almeno da quelli che sembrano tali. Negli anni che seguirono il Terzo Congresso i partiti comunisti ufficiali rimasero delle organizzazioni capaci di attirare la lealtà di milioni di operai, mentre il KAPD esplose rapidamente in molte componenti, di cui poche mantennero la chiarezza espressa dai suoi rappresentanti a Mosca nel 1921. Allora dei veri tratti settari emersero in primo piano, in particolare nella decisione affrettata della tendenza di Essen del KAPD, organizzata intorno a Gorter, di fondare una ‘quarta internazionale’ (La KAI, Internazionale Comunista Operaia) mentre ciò che era necessario in una fase di arretramento della rivoluzione era lo sviluppo di na frazione internazionale che combattesse la degenerazione della Terza Internazionale. Questo abbandono prematuro dell’Internazionale comunista si accompagnò logicamente con una svolta nell’analisi della rivoluzione d’Ottobre, sempre più considerata come una rivoluzione borghese. Il punto di vista della tendenza Schroder nella KAI, che considerava che all’epoca della ‘crisi mortale’ le lotte per i salari fossero opportuniste, era ugualmente settario ; altre correnti cominciarono a mettere in questione la possibilità stessadi un partito politico del proletariato, dando nascita a quello che è diventato noto con il nome di « consiliarismo ». Ma queste manifestazioni di un indebolimento e di una frammentazione più generale dell’avanguardia rivoluzionaria erano il prodotto della sconfitta e della controrivoluzione che si aggravavano ; allo stesso tempo il mantenimento, durante questo periodo, dei partiti comunisti come organizzazioni di massa influenti era anch’esso il prodotto della controrivoluzione borghese, ma con questa terribile particolarità che questi partiti si erano messi alla testa di questa controrivoluzione, a fianco dei boia fascisti e democratici. Dall’altro lato, le posizioni più chiare del KAPD e della sinistra italiana, prodotto dei momenti più alti della rivoluzione e solidamente ancorati alla teoria della decadenza del capitalismo, non sparirono, in gran parte grazie al lavoro paziente di piccoli gruppi rivoluzionari, spesso estremamente isolati ; quando le nebbie della controrivoluzione cominciarono a dissiparsi, queste posizioni trovarono una nuova via con l’emergere di una nuova generazione di rivoluzionari e rimasero delle acquisizioni fondamentali su cui il futuro partito della rivoluzione dovrà basarsi.
Gerrard
[1] Citato in J.P. Nettl, “La vie et l'œuvre de Rosa Luxemburg”, Ed. Maspero, Francia, Tomo II, p.593.
[2] Sarebbe interessante fare ulteriori ricerche sui tentativi attuali all’interno del movimento anarchico di analizzare il significato della guerra.
[5] Capitolo annesso: Tesi sui compiti della socialdemocrazia.
[7] Per ulteriori elementi sulla discussione durante il primo Condere l’articolo della Révue internationale n°123 "La théorie de la décadence au cœur du matérialisme historique – De Marx à la Gauche communiste (2) [23]"
[8] Segnaliamo che questa lettera non restò senza risposta o critiche, in particolare quella di Gorter.
[9] "La crisi economica mondiale, con i suoi effetti economici e sociali mostruosi, e la cui visione d’insieme dà l’impressione di un unico campo di rovine, non significa che una cosa: il crepuscolo degli dei dell’ordine borghese-capitalista è cominciato. Oggi non abbiamo di fronte una delle crisi economiche cicliche, proprie del modo di produzione capitalista; si tratta della crisi del capitalismo in quanto tale; convulsioni dell’insieme dell’organismo sociale, scoppio for-midabile di antagonismi di classe di un’acutezza mai vista, miseria generale per vaste masse popolari, tutto ciò è un fatidico avvertimento alla società borghese. Appare sempre più chiaramente che l’opposizione tra sfruttati e sfruttatori cresce sempre di più, che la contraddizione fra capitale e lavoro, di cui prendono sempre più coscienza anche gli strati di lavoratori finora piùpassivi, non può essere risolta. Il capitalismo ha fatto l’esperienza del suo falllimento definitivo; si è da solo ridotto al niente nella guerra di brigantaggio imperialista, ha creato un caos, il cui insopportabile prosieguo pone il proletariato davanti all’alternativa storica : caduta nella barbarie o costruzione di un mondo socialista."
[10] Per esempio, il paragrafo introduttivo del programma del KAPD, citato sopra, può facilmente essere letto come la descrizione della crisi finale del capitalismo e, rispetto al pericolo di golpismo, certe attività del KAPD durante l’Azione di Marzo sono certamente cadute in questa tendenza, come per esempio l’alleanza con il VKPD nell’utilizzazione dei suoi membi dsoccupati per cercare di trascinare letteralmente con la forza gli operai allo sciopero generale, e nei suoi rapporti ambigui con le forza armate ‘indipendenti’ create da Max Hoelz e altri. Si può anche vedere l’intervento di Hempel al Terzo Congresso che riconosce che l’Azione di Marzo non avrebbe potuto rovesciare il capitalismo, ma insiste comunque sulla necessità di lanciare slogan di rovesciamento del governo – una posizione che sembra mancare di coerenza, visto che per il KAPD non era possibile difendere nessun tipo di governo ‘operaio’ senza la dittatura del proletariato.
[11] L’atteggiamento di Hempel verso gli anarchici e i sindacalisti rivoluzionari era anch’esso privo di spirito settario, e sottolineava la necessità di lavorare con tutte le espressioni autenticamente rivoluzionarie di questa corrente.
[12] Edito da Invariance, La vecchia talpa, 1973.
Nostra presentazione
Anche in Russia, fin dal 1918, comparvero in seno al partito bolscevico alcune frazioni di sinistra[3] espressioni dei differenti disaccordi con la politica di quest’ultimo[4]. Ciò era una prova del carattere proletario del bolscevismo. Proprio perché era un’espressione vivente della classe operaia, unica classe che può fare una critica radicale e continua della sua pratica, il partito bolscevico generò continuamente delle frazioni rivoluzionarie. Ad ogni tappa di degenerazione, si sollevavano al suo interno voci che protestavano, si formavano gruppi dentro al partito o se ne separavano per denunciarne l’abbandono del programma iniziale del bolscevismo. Solo quando il partito venne definitivamente seppellito dai suoi becchini stalinisti non si produssero più frazioni. I comunisti di sinistra russi erano tutti dei bolscevichi. Erano loro a difendere la continuità col bolscevismo degli anni eroici della rivoluzione, mentre quelli che li hanno calunniati, perseguitati ed assassinati, per quanto celebri siano stati, avevano rotto con l’essenza del bolscevismo.
Il ritiro di Lenin dalla vita politica fu uno dei fattori che provocò lo scoppio di una crisi aperta nel partito bolscevico.
Da un lato, la frazione burocratica, un blocco instabile costituito inizialmente dal “triumvirato” Stalin, Zinoviev, Kamenev il cui principale collante era la volontà di isolare Trotsky, andava consolidando il suo ascendente sul partito. In questo periodo Trotsky, nonostante molte esitazioni, fu costretto ad evolvere apertamente verso una posizione di opposizione in seno al partito.
Allo stesso tempo, il regime bolscevico era confrontato a nuove difficoltà sul piano economico e sociale. Durante l’estate 1923, la prima crisi de “l’economia di mercato” instaurata dalla NEP minacciava l’equilibrio di tutta l’economia. Se la NEP era stata introdotta per bloccare l’eccessiva centralizzazione da parte dello Stato del Comunismo di guerra risultato nella crisi del 1921, diventava evidente che la liberalizzazione dell’economia esponeva la Russia ad alcune delle più classiche difficoltà della produzione capitalista. Queste difficoltà economiche e soprattutto la risposta che dava il governo - una politica di tagli rispetto all’impiego e sui salari come in qualsiasi Stato capitalista “normale” - aggravavano a loro volta la condizione di una classe operaia già al limite della miseria. Nell’agosto-settembre 1923, scioperi spontanei cominciarono ad estendersi ai principali centri industriali.
Il triumvirato, interessato innanzitutto al mantenimento dello status quo, aveva cominciato a considerare la NEP come la via reale al socialismo in Russia; questo punto di vista era teorizzato principalmente da Bukharin che era passato dall’estrema sinistra del partito all’estrema destra e che aveva preceduto Stalin nella teoria del socialismo in un solo paese, sebbene a “passo di lumaca” a causa dello sviluppo di un’economia di mercato “socialista”. Trotsky, da parte sua, aveva cominciato già a chiedere più centralizzazione e pianificazione statale per rispondere alle difficoltà economiche del paese. Ma la prima presa di posizione chiara dell’opposizione emanata dall’interno dei circoli dirigenti del partito fu la Piattaforma dei 46, sottoposta all’Ufficio politico nell’ottobre 1923. I 46 erano composti sia da compagni vicino a Trotsky come Piatakov e Préobrajensky, che da elementi del gruppo Centralismo democratico come Sapranov, V. Smirnov ed Ossinski. E’ significativo che il documento non portò la firma di Trotsky: il timore di essere considerato come facente parte di una frazione (dal momento che le frazioni erano state vietate nel 1921) certamente influenzò il suo atteggiamento. Tuttavia, la sua lettera aperta al Comitato centrale, pubblicata nella Pravda del dicembre 1923 ed il suo opuscolo Corso nuovo esprimevano delle preoccupazioni molto simili a quelle dell’Opposizione e lo ponevano definitivamente nelle fila di quest’ultima.
Originariamente la Piattaforma dei 46 era una risposta ai problemi economici in cui si trovava il regime. Sosteneva una maggiore pianificazione statale contro il pragmatismo dell’apparato dominante e la sua tendenza ad elevare la NEP al rango di principio immutabile. Questo sarà un tema costante dell’opposizione di sinistra intorno a Trotsky e, come vedremo, non uno dei suoi punti di forza. Più importante era l’allerta lanciata riguardante il soffocamento della vita interna del partito[5].
Allo stesso tempo la Piattaforma prendeva le distanze da quelli che chiamava gruppi di opposizione “malsana”, anche se li considerava come espressione della crisi del partito facendo sicuramente riferimento alle correnti come Il Gruppo operaio intorno a Miasnikov e La Verità operaia intorno a Bogdanov che erano sorti nello stesso periodo. Poco dopo Trotsky adotterà un punto di vista simile: il rigetto delle loro analisi perché troppo estreme, pur considerandole come manifestazioni della cattiva salute del partito. Tantomeno Trotsky voleva collaborare con i metodi di repressione che avevano per scopo l’eliminazione di questi gruppi.
Nei fatti, questi gruppi non possono assolutamente essere scartati come fenomeni “malsani”. È vero che La Verità operaia esprimeva una certa tendenza al disfattismo ed anche al menscevismo; come la maggior parte delle correnti della Sinistra tedesca ed olandese, la sua analisi dello sviluppo del capitalismo di Stato in Russia era indebolita dalla tendenza a mettere in discussione la stessa rivoluzione d’Ottobre ed a considerarla come una rivoluzione borghese più o meno progressista[6].
Questa non era affatto la posizione del Gruppo operaio del Partito comunista russo (bolscevico), diretto da operai bolscevichi di lunga data come Miasnikov, Kuznetsov e Moiseev. Il gruppo si fece subito conoscere nell’aprile-maggio 1923 con la distribuzione del suo Manifesto, giusto dopo il 13° Congresso del partito bolscevico. L’esame di questo testo conferma la serietà del gruppo, la sua profondità e la sua perspicacia politica.
Il testo non è privo di debolezze. In particolare, esso si lascia prendere dalla “teoria dell’offensiva”, la quale non vedeva il riflusso della rivoluzione internazionale e la conseguente necessità di lotte difensive della classe operaia. Questa era l’altra faccia della medaglia rispetto all’analisi dell'Internazionale Comunista che vedeva il riflusso dal 1921 ma ne traeva conclusioni largamente opportuniste. Allo stesso modo, il Manifesto adotta un punto di vista erroneo sul fatto che nell’epoca della rivoluzione proletaria le lotte per aumenti salariali non avrebbero più un ruolo positivo.
Malgrado ciò, i punti di forza di questo documento pesano ben più che le debolezze:
- il suo internazionalismo risoluto. Contrariamente al gruppo de L’Opposizione operaia della Kollontaï, non c’è traccia di localismo russo nella sua analisi. Tutta la parte introduttiva del Manifesto tratta della situazione internazionale, individuando chiaramente le difficoltà della rivoluzione russa nel ritardo della rivoluzione mondiale, ed insistendo sul fatto che la salvezza della prima risiedeva sull’avvento della seconda: “Il lavoratore russo (…) ha imparato a considerarsi come soldato dell’esercito mondiale del proletariato internazionale ed a vedere nelle sue organizzazioni di classe le truppe di questo esercito. Ogni volta dunque che è sollevata la domanda inquietante del destino delle conquiste della rivoluzione d’Ottobre, rivolge il suo sguardo laggiù, al di là delle frontiere dove sono riunite le condizioni per una rivoluzione, ma dove, tuttavia, la rivoluzione non viene”
- la sua critica acuta della politica opportunista del Fronte unico e dello slogan del Governo operaio; la precedenza accordata a questa questione costituisce una conferma supplementare dell’internazionalismo del gruppo poiché si trattava innanzitutto di una critica della politica dell’Internazionale Comunista. La sua posizione non era neanche macchiata di settarismo: affermava la necessità dell’unità rivoluzionaria tra le differenti organizzazioni comuniste (come il KPD ed il KAPD in Germania) ma rigettava completamente l’appello dell’Internazionale a fare blocco con i traditori della socialdemocrazia ed il suo ultimo falso argomento secondo il quale la rivoluzione russa aveva avuto un esito vittorioso proprio perché i bolscevichi avevano utilizzato in modo intelligente la tattica del fronte unico: “... la tattica che doveva condurre il proletariato insorto alla vittoria non poteva essere quella del fronte unico socialista ma quella della lotta mortale, senza riguardo, contro le frazioni borghesi dalla terminologia socialista confusa. Solo questa lotta poteva portare la vittoria e fu così. Il proletariato russo ha vinto non alleandosi ai socialisti-rivoluzionari, ai populisti ed ai menscevichi, ma lottando contro di essi. (…) È necessario abbandonare la tattica della “Fronte unico socialista” ed avvertire il proletariato che “le frazioni borghesi dalla fraseologia socialista ambigua” - attualmente tutti i partiti della Seconda internazionale - marceranno al momento decisivo armi alla mano per la difesa del sistema capitalista”.
- la sua interpretazione dei pericoli che affrontava lo Stato sovietico - la minaccia della “sostituzione della dittatura del proletariato da parte di un’oligarchia capitalista”. Il Manifesto descrive l’ascesa di una élite burocratica e la perdita dei diritti politici della classe operaia e reclama la restaurazione dei comitati di fabbrica e soprattutto che i soviet prendano la direzione dell’economia e dello Stato[7]. Per il Gruppo operaio rinnovare la democrazia operaia costituiva il solo mezzo per bloccare l’ascesa della burocrazia ed esso rigettava esplicitamente l’idea di Lenin secondo la quale un mezzo per andare avanti consisteva nello stabilire una Ispezione operaia, mentre questa avrebbe solo rappresentato un tentativo di controllare la burocrazia attraverso dei mezzi burocratici.
- il suo profondo senso di responsabilità. Contrariamente alle note critiche aggiunte dal KAPD quando pubblicò il Manifesto in Germania (Berlino 1924) che esprimevano da parte della la Sinistra tedesca la sentenza prematura di morte della rivoluzione russa e dell’Internazionale comunista, il Gruppo operaio fu molto prudente prima di proclamare il trionfo definitivo della controrivoluzione in Russia o la morte dell’Internazionale. Durante la “crisi di Curzon” del 1923, nel momento in cui sembrava che la Gran Bretagna stesse per dichiarare guerra alla Russia, i membri del Gruppo operaio si impegnarono a difendere la repubblica sovietica in caso di guerra e, soprattutto, in essi non c’era la minima traccia di ripudio della rivoluzione d’Ottobre e dell’esperienza bolscevica. In effetti, l’attitudine adottata dal gruppo sul proprio ruolo corrisponde precisamente alla nozione di frazione di sinistra come sarà elaborata più tardi dalla Sinistra italiana in esilio. Riconosceva la necessità di organizzarsi indipendentemente ed anche clandestinamente, ma il nome del gruppo (Gruppo operaio del Partito comunista russo - bolscevico) come anche il contenuto del suo Manifesto dimostrano che esso si considerava in totale continuità con il programma e gli statuti del partito bolscevico. Chiamava dunque tutti gli elementi sani in seno al partito, della direzione e dei differenti raggruppamenti di opposizione come La Verità operaia, l’Opposizione operaia ed il Centralismo democratico a raggrupparsi ed a condurre una lotta decisa per rigenerare il partito e la rivoluzione. E sotto certi aspetti, era una politica ben più realistica rispetto alla speranza che avevano i “46” di far abolire il regime di fazioni nel partito “in primo luogo” da parte della stessa fazione dominante.
Insomma, non c’era niente di malsano nel progetto del Gruppo operaio ed esso non era una semplice setta senza influenza nella classe. Alcune stime valutano a circa 200 il numero dei suoi membri a Mosca, ed era totalmente coerente quando diceva di trovarsi affianco al proletariato nella sua lotta contro la burocrazia. Cercò dunque di condurre un intervento politico attivo negli scioperi selvaggi dell’estate e dell’autunno 1923. Nei fatti, è proprio per questa ragione ed anche a causa dell’influenza crescente del gruppo all’interno del partito che l’apparato gli scatenò contro la sua repressione. Come lui stesso aveva previsto, Miasnikov subì anche un tentativo di assassinio “durante un tentativo di evasione”. Miasnikov sopravvisse e sebbene incarcerato e forzato all’esilio, dopo essere scappato, proseguì la sua attività rivoluzionaria all’estero per due decenni. Il gruppo in Russia fu alquanto destabilizzato dagli arresti di massa, sebbene emerga con chiarezza da L’enigma russo, il prezioso rapporto di A. Ciliga sui gruppi di opposizione in prigione alla fine degli anni 1920, che non sparì completamente e continuò ad influenzare “l’estrema sinistra” del movimento di opposizione. Tuttavia questa prima repressione non presagiva proprio niente di buono: era la prima volta che un gruppo apertamente comunista subiva direttamente la violenza dello Stato sotto il regime bolscevico.
Manifesto del Gruppo Operaio del Partito Comunista Russo (bolscevico)
In luogo di prefazione
Ogni operaio cosciente, al quale non siano estranei i dolori, le sofferenze e la titanica, straordinaria lotta della propria classe, ha assai spesso meditato sulla sorte della nostra rivoluzione in tutti i suoi successivi sviluppi. Ognuno sa che il suo destino è legato strettamente a quello del movimento proletario mondiale.
Ancora si legge nel vecchio programma socialdemocratico che “lo sviluppo degli scambi crea una stretta unione fra tutti i paesi del mondo civile” e che “il movimento proletario deve diventare ed è già divenuto internazionale”. Da allora anche l’operaio russo ha imparato a considerarsi un soldato nell’esercito mondiale del proletariato internazionale, a considerare le sue organizzazioni di classe come reparti di quell’esercito. Ogni volta, quindi, che viene posta l’inquietante questione sul destino delle conquiste dalla Rivoluzione d’Ottobre, egli volge lo sguardo ancora là, oltre le frontiere, dove sono le condizioni obiettive per una rivoluzione, che, tuttavia, tarda, tarda ancora a venire.
Ma, anche se la rivoluzione non è ancora avvenuta, il proletario non deve lamentarsi, non deve piegare il capo; invece, deve porsi in tal caso la domanda: che bisogna fare perché la rivoluzione si realizzi?
Se egli volge lo sguardo alla sua terra, vede che la classe operaia russa, che ha guidato la rivoluzione socialista e ha affrontato le difficilissime prove della NEP (Nuova Politica Economica), osservando i sempre più grassi eroi di quest’ultima e raffrontando le condizioni di costoro con le proprie, chiede inquieta: dove stiamo veramente andando?
Gli vengono così amari pensieri. Il lavoratore, che ha sopportato tutto il peso delle guerre borghesi e imperialiste, che da tutti i giornali russi è stato esaltato come un eroe, che nella lotta proletaria ha versato il proprio sangue, conduce ora una vita miserabile, a pane e acqua; invece, coloro che sfruttano la timorosa soggezione e la miseria dei lavoratori che hanno deposto le armi con cui combatterono, conducono ora una vita magnifica e lussuosa. Dove stiamo andando? Che accadrà in seguito? Invero, è possibile che la NEP, da Nuova Politica Economica” si converta in nuovo sfruttamento del proletariato? Che occorre fare per stornare da noi questo pericolo?
Quando d’improvviso queste domande si presentano alla mente dell’operaio, questi si volge spontaneamente indietro per stabilire un legame tra il presente e il passato, per capire come egli sia potuto arrivare a tal punto. Ma per quanto amare ed istruttive siano le sue esperienze, l’operaio non sempre riesce ad orientarsi nella complessa rete degli avvenimenti storici che si presentano ai suoi occhi.
Perciò noi vogliamo aiutarlo, secondo le nostre forze, a capire gli eventi e, se possibile, indicargli la via per la vittoria del proletariato. Non pretendiamo affatto di essere dei maghi o profeti dalla parola sacra ed infallibile; al contrario, vogliamo che tutto quanto diremo sia sottoposto alla critica più severa e alle necessarie correzioni.
Ai compagni comunisti di tutti i paesi!
Lo stato attuale delle forze di produzione nei paesi progrediti, e particolarmente in quelli a più alto sviluppo capitalistico, dà al movimento proletario di questi paesi l’aspetto di una lotta per la rivoluzione comunista, per il potere delle mani callose, per la dittatura del proletariato. O l’umanità, attraverso inaudite guerre borghesi nazionali, sarà immersa nel proprio sangue e scivolerà nella barbarie, oppure il proletariato compirà la sua storica missione: conquistare il potere e una volta per sempre porre fine allo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, alle guerre borghesi e di classe fra popoli e nazioni, e alzare il vessillo della pace, del lavoro e della fratellanza.
Il precipitoso potenziamento delle flotte aeree inglese, francese, statunitense, giapponese, ecc., minaccia una nuova guerra, una guerra mai vista, nella quale periranno milioni di uomini e saranno distrutte le ricchezze accumulate nel mondo in tanto tempo, le fabbriche, le imprese, le attività, tutto ciò che operai e contadini hanno costruito nei secoli con faticoso lavoro.
In ciascun paese questo è il compito del proletariato: abbattere la propria borghesia nazionale. Quanto più presto il proletariato rovescerà la borghesia del proprio paese, tanto più presto il proletariato mondiale attuerà il suo compito storico.
Per porre fine allo sfruttamento, all’oppressione, alle guerre, il proletariato non deve lottare per più alti salari, per la diminuzione del tempo di lavoro: ciò è stato necessario in una prima fase, oggi occorre lottare per il potere.
La borghesia e gli altri oppressori di tutte le razze e sfumature sono particolarmente soddisfatti dei socialtraditori di tutti i paesi, perché essi distolgono l’attenzione del proletariato dai principali obiettivi della lotta contro il potere e lo sfruttamento della borghesia perseguendo spicciole e meschine rivendicazioni, senza poter offrire alcuna resistenza all’assoggettamento e alla violenza. I socialisti di tutti i paesi sono a un certo momento i veri salvatori della borghesia di fronte alla rivoluzione proletaria: poiché la massa innumerevole degli operai accoglie abitualmente con diffidenza ciò che le viene detto dai suoi sfruttatori, ma quando le stesse cose le sono presentate come ispirate al suo interesse ed abbellite con frasi socialistiche, allora essa, confusa da queste frasi, crede ai traditori ed impegna le sue forze in una lotta inutile. La borghesia ha e avrà nei socialisti i suoi migliori avvocati.
Le avanguardie comuniste del proletariato devono innanzitutto eliminare il sudiciume borghese dalle menti dei loro compagni di classe, dei quali devono conquistare le coscienze per condurli alla lotta vittoriosa.
Ma per bruciare questo ciarpame borghese bisogna essere uno dei loro, dei proletari, condividere tutti i loro mali e le pene. Quando questi proletari che hanno finora seguito gli ordini della borghesia iniziano a lottare, a fare scioperi non bisogna respingerli rimproverandoli con disprezzo - bisogna, al contrario, restare con loro nella loro lotta spiegando senza sosta che questa lotta serve soltanto alla borghesia. Inoltre per dire loro una parola di verità, si è talvolta costretti a salire sulla merda (presentarsi alle elezioni) sporcandosi le oneste scarpe rivoluzionarie.
Certo, tutto dipende dal rapporto di forze in ogni paese. E potrebbe darsi che non sia necessario né presentarsi alle elezioni, né partecipare agli scioperi, ma impegnarsi direttamente in una battaglia. Non si possono mettere tutti i paesi in uno stesso sacco.
Si deve naturalmente cercare di conquistare la simpatia del proletariato con ogni mezzo e maniera, ma non col cedimento, la negligenza, la rinuncia dei fondamentali principi. Bisogna combattere chi, per desiderio di successi immediati, abbandona questi principi, non guida e non cerca di guidare le masse ma piuttosto le imita, non le conquista ma si mette al loro rimorchio.
Non si può stare sempre a guardare, ad attendere che -la rivoluzione proletaria scoppi contemporaneamente in tutti i paesi; non si può giustificare la propria esitazione con l’immaturità del movimento proletario mondiale, e neanche si può parlare in questo modo: “Noi siamo pronti per la rivoluzione e anche abbastanza forti, ma gli altri non sono maturi, e se noi rovesciamo la nostra borghesia e gli altri no, che cosa allora accadrà?”
Poniamo che il proletariato tedesco rovesci la borghesia del suo paese e quanti socialmente si schierano con essa. Che accadrà allora? Accadrà che la borghesia e i socialtraditori di tutti i paesi tedeschi fuggiranno lontano dalla collera proletaria, verso la Francia e il Belgio e, supplicando Poincaré e compagni di regolare i conti col proletariato tedesco, prometteranno ai Francesi di rispettare il Trattato di Versailles, magari offrendo in aggiunta i territori del Reno e della Ruhr: cioè si comporteranno come si comportarono e si comportano la borghesia russa e i suoi alleati socialtraditori. Naturalmente Poincaré sarà molto lieto di interessarsi a questo buon affare, di salvare la Germania dal suo proletariato, così come fanno i delinquenti di tutto il mondo con la Russia sovietica. Ma la sfortuna di Poincaré e compagni sta nel fatto che il loro esercito, composto di operai e contadini, appena capirà di dover aiutare la borghesia tedesca e i suoi alleati contro il proletariato tedesco, contro i Consigli operai della Germania, rivolgerà le armi contro la propria borghesia, contro Poincaré. Questi, per salvare la propria pelle e quella dei borghesi francesi, richiamerà le truppe e abbandonerà al loro destino la povera borghesia tedesca e i suoi alleati socialisti. Questo avverrà anche se il proletariato tedesco romperà il trattato di Versailles, scaccerà Poincaré dal Reno e dalla Ruhr e proclamerà la pace senza annessioni ed indennità, sulla base della autodeterminazione dei popoli. Non sarà difficile per Poincaré accordarsi con Cuno e i fascisti, ma la Germania dei Consigli gli spezzerà le ossa. Quando si dispone della forza, bisogna servirsene e non girare in tondo.
Un altro pericolo minaccia la rivoluzione tedesca: lo sparpagliamento delle sue forze. Nell’interesse della rivoluzione proletaria mondiale, l’intero proletariato rivoluzionario deve unire i suoi sforzi. Se la vittoria del proletariato è impensabile senza una decisiva rottura e una lotta implacabile contro i nemici della classe operaia - i socialtraditori della Seconda Internazionale che a mano armata schiacciano il movimento rivoluzionario proletario nei loro cosiddetti liberi paesi - questa vittoria del proletariato è impensabile anche senza l’unione di tutte le forze che mirano alla rivoluzione comunista e alla dittatura del proletariato. E perciò noi, Gruppo Operaio del Partito Comunista Russo (bolscevico), organizzativamente e idealmente annoverato tra i partiti aderenti alla III Internazionale, ci rivolgiamo a tutti i proletari comunisti rivoluzionari con l’appello a unire le loro forze per l’ultima e decisiva battaglia. Noi chiamiamo a costituire un fronte unito tutti i partiti della III Internazionale, i partiti aderenti alla IV Internazionale comunista operaia[8] e anche quelle singole organizzazioni che non appartengono ad alcuna Internazionale, ma che perseguono il nostro stesso scopo. Un fronte unito per la lotta e la vittoria.
La fase iniziale si è compiuta. Il proletariato russo, attenendosi alle regole dell’arte rivoluzionaria proletaria e comunista, ha abbattuto la borghesia e i suoi alfieri di ogni specie e sfumatura (socialrivoluzionari, menscevichi, ecc.) che la difendevano con tanto vigore. E come vedete, esso, benché più debole del proletariato tedesco, ha respinto l’intera borghesia mondiale negli attacchi che questa ha condotto sull’incitamento della borghesia, dei proprietari fondiari e dei rinnegati socialisti della Russia.
Ora tocca al proletariato occidentale agire, riunire le proprie forze e cominciare la lotta per il potere. Com’è ovvio, sarebbe grave chiudere gli occhi dinanzi ai pericoli che minacciano nel cuore della Russia sovietica la Rivoluzione d’Ottobre e la stessa rivoluzione mondiale. La Russia sovietica sta passando attualmente uno dei suoi momenti più difficili: vi sono tali e tante deficienze che potrebbero riuscire fatali al proletariato russo e a quello del mondo intero. Queste deficienze derivano dalla debolezza della classe operaia russa e del movimento operaio mondiale. Il proletariato russo non è ancora in grado di opporsi alle tendenze che da un lato portano alla degenerazione burocratica della Nuova Politica Economica e dall’altro mettono in gran pericolo sia all’interno che all’estero le conquiste della rivoluzione proletaria russa.
Il proletariato di tutto il mondo è direttamente e immediatamente interessato a che le conquiste della Rivoluzione d’Ottobre siano difese contro ogni pericolo. L’esistenza di un paese come la Russia quale base della rivoluzione comunista mondiale significa già una garanzia di vittoria: quindi l’avanguardia dell’esercito proletario internazionale - i comunisti di tutti i paesi - deve dar voce all’inespressa convinzione del proletariato sulle deficienze e sui mali di cui soffrono la Russia sovietica e il suo esercito di proletari comunisti, il PCR(bolscevico). Il Gruppo Operaio del PCR, che è il meglio informato sulla situazione russa, intende avviare l’azione. Non condividiamo l’opinione secondo la quale noi, proletari comunisti, non potremmo parlare dei nostri difetti, perché vi sono nel mondo social traditori e delinquenti che - così si sostiene - potrebbero utilizzare le nostre parole contro la Russia sovietica e il comunismo. Tutti questi timori sono infondati. Che i nostri nemici siano palesi o nascosti è del tutto indifferente: essi restano dei disgraziati che non potrebbero comunque vivere senza nuocere a noi, proletari e comunisti, che vogliamo liberarci dal giogo del capitalismo. Che cosa ne consegue? Dobbiamo noi nascondere allora i nostri mali e le nostre deficienze, non discuterne e non prendere le misure per eliminarli? Che cosa avverrà se noi ci lasciamo mettere nel sacco dai social traditori e ce ne stiamo zitti? In volizione d’Ottobre rimanga solo il ricordo. Ciò sarà molto utile per i socialtraditori, ma per il movimento internazionale proletario comunista sarà il colpo di grazia. E’ proprio nell’interesse della rivoluzione proletaria mondiale e della classe operaia russa se noi, Gruppo operaio del PCR (bolscevico), senza temere l’opinione dei social traditori, affrontiamo le questioni decisive del movimento proletario internazionale e di quello russo considerandone tutta la portata. Noi abbiamo già osservato al riguardo che l manchevolezze possono essere chiarite considerando le debolezze sia del proletariato internazionale sia di quello russo, e che il miglio aiuto che il proletariato degli altri paesi può dare a quello russo è la rivoluzione nei propri paesi, anche soltanto in uno o due paesi a capitalismo avanzato. Anche se al presente le forze non fossero sufficienti a questo scopo, esse sarebbero in ogni caso tali da essere in grado di aiutare la classe operaia russa a conservare le posizioni conquistate con la Rivoluzione d’Ottobre fino a che gli operai degli altri paesi non insorgano e vincano il nemico. Invero, la classe operaia russa, fiaccata dalla guerra mondiale imperialista, dalla guerra civile e dalla fame, non è forte, ma di fronte ai pericoli che attualmente incombono, essa può prepararsi proprio perché ha già conosciuto questi pericoli e farà ogni sforzo possibile per superarli, e ci riuscirà con l’aiuto dei proletari degli altri paesi. Il Gruppo operaio del PCR (bolscevico) ha dato l’allarme ed il suo appello trova larga eco un tutta la Russia sovietica. Quanti nel PCR hanno una sincera coscienza proletaria vanno raccogliendosi e iniziano la lotta. Riusciremo sicuramente a destare nella mente di tutti i proletari russi coscienti la preoccupazione per la sorte delle conquiste della Rivoluzione d’Ottobre. La lotta è difficile, essendo costretti ad una attività clandestina: noi operiamo nell’illegalità. Il nostro Manifesto non può essere pubblicato in Russia: noi lo abbiamo scritto e lo diffondiamo illegalmente. I compagni sospettati di aderire al nostro Gruppo sono esclusi dal partito e dai sindacati, arrestati e confinati, in base al semplice sospetto.
Al 12° Congresso del PCR, il compagno Zinoviev, in seguito alle intese intercorse tra il partito ed i burocrati sovietici, ha dettato una nuova formula per reprimere ogni critica da parte della classe operaia, dicendo: “Ogni critica al Comitato Centrale del PCR, non importa se da destra o da sinistra, è menscevismo” (suo ultimo discorso al 12° Congresso”. Che significa ciò? Significa che se a un qualsiasi operaio comunista la linea del Comitato Centrale non sembrerà giusta, ed egli nella sua proletaria semplicità, esprimerà le sue critiche, verrà escluso dal partito e dal sindacato, verrà semplicemente dichiarato un menscevico e consegnato alla Ghepeù. Il Comitato Centrale del partito non tollera alcuna critica, poiché si ritiene infallibile come il papa romano. La nostra preoccupazione, la preoccupazione dell’operaio russo, per il destino delle conquiste della Rivoluzione d’Ottobre, viene dichiarata controrivoluzionaria. Noi, Gruppo operaio del PCR (bolscevico), di fronte al proletariato i tutto il mondo, affermiamo che la Russia sovietica è una delle più grandi conquiste del movimento
Proletario internazionale. E proprio per questo noi lanciamo il grido d’allarme, perché il potere sovietico, il potere del proletariato, la vittoria d’Ottobre della classe operaia russa minacciano di trasformarsi in un’oligarchia capitalista. Noi dichiariamo che impediremo con tutte le nostre forze il tentativo di rovesciare il potere dei soviet. Noi faremo questo anche se sappiamo che, in nome del potere dei soviet, potremo essere imprigionati ed uccisi. Se il gruppo dirigente del PCR dichiara che la nostra preoccupazione per le sorti della Rivoluzione d’Ottobre è illegale e controrivoluzionaria, voi potete, proletari rivoluzionari di tutti i paesi, e prima i tutti voi che aderite alla III Internazionale, esprimere il vostro decisivo giudizio in base alla conoscenza del nostro Manifesto. Su di voi, compagni, è rivolto lo sguardo di tutti i proletari russi, inquieti per i pericoli che minacciano il grande Ottobre. Noi non vi avanziamo grosse pretese, o compagni. Chiediamo solo che nelle vostre riunioni discutiate sosteniate il nostro Manifesto e che i delegati dei vostri paesi al V Congresso della III Internazionale sollevino la questione delle frazioni all’interno del Partito e della politica del PCR verso i soviet. Discutete, compagni, il nostro Manifesto e votate le vostre risoluzioni. Sappiate, compagni, che in questo modo voi avrete aiutato la indebolita e martoriata classe operaia russa a salvare le conquiste della Rivoluzione d’Ottobre, la quale è una parte della rivoluzione mondiale!
Al lavoro, compagni!
Viva le conquiste della Rivoluzione d’Ottobre del proletariato russo!
Viva la Rivoluzione mondiale!
Segue …
Il seguito del Manifesto, che sarà pubblicato sul nostro sito web, comprende i seguenti argomenti:
- I principali compiti di oggi
- I Saul e Paolo nella rivoluzione russa
- Il fronte unico socialista
- La questione del fronte unico nel paese in cui il proletariato è al potere (democrazia operaia)
- La questione nazionale
- La Nuova politica economica (NEP)
- La NEP e la campagna
- La NEP e la politica semplicemente
- La NEP e la gestione dell'industria.
[1] Gavril Ilyich Myasnikov, operaio degli Urali, si era distinto nel partito bolscevico nel 1921 quando, subito dopo il cruciale X Congresso, aveva reclamato “la libertà di stampa, dai monarchici agli anarchici inclusi”, (citato da Carr, L’interregno). Malgrado gli sforzi di Lenin per dissuaderlo dal condurre un dibattito su questa questione, non indietreggiò e fu espulso dal partito all’inizio del 1922. A marzo del 1923 si raggruppò con altri militanti per fondare il “Gruppo Operaio del Partito comunista russo (bolscevico)” e quest’ultimo pubblicò e distribuì il suo Manifesto al XII Congresso del PCR. Il gruppo cominciò a fare del lavoro illegale tra gli operai, che appartenessero o no al partito, e sembra essere stato presente in modo significativo nell’ondata di scioperi dell’estate 1923, chiamando alle manifestazioni di massa e provando a politicizzare un movimento di classe essenzialmente difensivo. La sua attività in questi scioperi fu sufficiente a convincere la Ghepeù che rappresentava una vera e propria minaccia ed un’ondata di arresti di dirigenti assestò un colpo severo al gruppo. Tuttavia proseguì il suo lavoro clandestino fino all’inizio degli anni 1930 sebbene a livello ridotto. La storia ulteriore di Myasnikov è la seguente: dal 1923 al 1927, passò gran parte del tempo in esilio o in prigione a causa delle sue attività clandestine; evaso dalla Russia nel 1927 fuggì in Persia ed in Turchia, dove conoscerà anche qui la prigione; nel 1930 si istallerà definitivamente in Francia. Durante questo periodo provò sempre ad organizzare il suo gruppo in Russia. A fine guerra chiese a Stalin il permesso di tornare in URSS. Stalin mandò un aereo a prelevarlo. A partire dal giorno in cui tornò nel suo paese non si hanno più sue notizie. Ed è normale! Dopo un giudizio segreto emesso da un tribunale militare, fu fucilato in una prigione di Mosca il 16 novembre 1945.
[2] Leggi il nostro articolo La sinistra comunista e la continuità del marxismo, https://fr.internationalism.org/icconline/1998/gauche-communiste [24]
[3] La CCI ha da tempo pubblicato in inglese ed in russo l’opuscolo La sinistra comunista russa dedicato allo studio delle differenti espressioni della Sinistra comunista in Russia. La versione inglese includeva il Manifesto del Gruppo operaio ma quella che qui riproduciamo ne è una nuova versione più completa recuperata solo recentemente in Russia. Il testo che riproduciamo è quello pubblicato nel libro “Mjasnokov e la rivoluzione russa”, R. Sinigaglia, edizione Jaca Book rivisto alla luce della traduzione dal francese del Manifesto nella versione integrale.
[4] Leggi il nostro articolo La Sinistra comunista in Russia nella Rivista Internazionale n°2, https://it.internationalism.org/rint/2_sinistrarussa [25].
[5] “I membri del partito che non sono soddisfatti di questa o quella decisione del comitato centrale, che hanno in mente questo o quel dubbio, che rilevano in privato questo o quell’errore, questa o quella irregolarità o questa o quella confusione, hanno paura di parlarne nelle riunioni del partito ed hanno anche paura di parlarne in una conversazione. (...) Oggi, non è il partito, non le sue larghe masse che promuovono e scelgono i membri dei comitati provinciali e del comitato centrale del Partito comunista della Russia. Al contrario, è sempre più la gerarchia della segreteria del partito che recluta i membri delle conferenze e dei congressi che diventano sempre più a loro volta le assemblee esecutive di questa gerarchia. (...) La posizione che si è creata si spiega per il fatto che il regime è la dittatura di una fazione in seno al partito. (...) Il regime di fazione deve essere abolito e questo deve essere fatto, in primo luogo, da quelli che l’hanno creato; deve essere sostituito da un regime di unità fraterna e di democrazia interna del partito”.
[6] Vedi nota 3.
[7] Tuttavia, il Manifesto sembra anche difendere che i sindacati debbano diventare degli organi della centralizzazione della direzione economica - vecchia posizione dell’Opposizione operaia che Miasnikov aveva criticato nel 1921.
[8] Si tratta del KAI (Internazionale degli operai comunisti, 1921-22) fondata per iniziativa del KAPD, da non confondere con la IV Internazionale trotzkista.
La CCI ha pubblicato recentemente, in occasione del bicentenario della nascita di Charles Darwin, numerosi articoli su questo grande scienziato e sulla sua teoria sull’evoluzione delle specie[1]. Questi articoli si inseriscono in ciò che è sempre stato presente nel movimento operaio, l’interesse per le questioni scientifiche, e che si esprime al massimo livello nella teoria rivoluzionaria del proletariato, il marxismo. Quest’ultimo ha sviluppato una critica delle visioni religiose ed idealiste della società umana e della storia che si sono sviluppate nel corso delle società feudali e capitalista ma che hanno impregnato anche le teorie socialiste influenzando i primi passi del movimento operaio, all’inizio del diciannovesimo secolo. Contrariamente a queste, il marxismo si è posto come uno dei suoi obiettivi quello di fondare la prospettiva della futura società che libererà l’essere umano dallo sfruttamento, dall’oppressione e dall’insieme dei mali che l’opprimono da millenni, non sulla base di una “realizzazione dei principi di uguaglianza e di giustizia” ma su di una necessità materiale che deriva dalla stessa evoluzione della storia umana, dalla natura di cui fa parte, essa stessa trasformata, in ultima istanza, da forze materiali e non spirituali. È per tale motivo che il movimento operaio, a cominciare dagli stessi Marx ed Engels, ha sempre prestato una particolare attenzione alla scienza.
La scienza ha preceduto di molto l’apparizione del movimento operaio e della stessa classe operaia. Si può dire anche che quest’ultima si è potuta sviluppare su larga scala solo col progresso delle scienze che hanno costituito una delle condizioni dello sviluppo del capitalismo, modo di produzione basato sullo sfruttamento del proletariato. In questo senso, la borghesia è la prima classe della storia ad avere avuto bisogno in modo ineluttabile della scienza per il proprio sviluppo e per l’affermazione del suo dominio sulla società. Ed è proprio appellandosi alla scienza che essa ha combattuto l’influenza della religione che costituiva lo strumento ideologico fondamentale di difesa e di giustificazione della società feudale. Ma ancor più, la scienza ha costituito le fondamenta per la padronanza delle tecnologie della produzione e dei trasporti, condizione essenziale dello sviluppo del capitalismo. Quando quest’ultimo ha raggiunto il suo apogeo, permettendo in tal modo l’apparizione sulla scena sociale di ciò che il Manifesto Comunista ha definito il suo “becchino”, il proletariato moderno, la borghesia si è affrettata a riconsiderare la religione e le visioni mistiche della società che hanno il grande merito di giustificare il mantenimento di un ordine sociale basato sullo sfruttamento e l’oppressione. Così facendo, pur continuando a promuovere e finanziare tutte le ricerche che le erano indispensabili per garantire i suoi profitti, per aumentare la produttività della forza lavoro e l’efficacia delle sue forze militari, si è allontanata dall’approccio scientifico per ciò che riguarda la conoscenza della società umana.
Spetta al proletariato, nella sua lotta contro il capitalismo e per il suo rovesciamento, riprendere la fiaccola nei campi della conoscenza scientifica abbandonati dalla borghesia. Ed è proprio questo che ha fatto dalla metà del diciannovesimo secolo, opponendo all’apologetica nella quale si era convertito lo studio dell’economia, cioè della “ossatura della società”, una visione critica e rivoluzionaria di questo studio, una visione necessariamente scientifica quale è espressa, ad esempio, ne Il Capitale di Karl Marx. È per tale motivo che le organizzazioni rivoluzionarie del proletariato hanno la responsabilità di incoraggiare l’interesse per le conoscenze e le ricerche scientifiche, in particolare nei domini riguardanti la società umana, l’essere umano e la sua psiche, domini dove la classe dominante ha tutto l’interesse a coltivare l’oscurantismo. Questo non significa che per far parte di un’organizzazione comunista, sia necessario aver fatto degli studi scientifici, essere in grado di difendere la teoria di Darwin o risolvere un’equazione di secondo grado. Le basi di adesione alla nostra organizzazione sono le posizioni espresse nella nostra piattaforma con la quale ogni militante deve essere d’accordo e che ha la responsabilità di difendere. Allo stesso modo, su tutta una serie di questioni, come per esempio l’analisi su questo o quell’aspetto della situazione internazionale, l’organizzazione ha il dovere di avere una posizione che viene espressa in genere nelle risoluzioni adottate ad ogni congresso o alle riunioni plenarie del nostro organo centrale. In questi casi non è obbligatorio che ogni militante condivida tale presa di posizione. Il semplice fatto che queste risoluzioni siano adottate in seguito ad una discussione ed un voto indica che possono perfettamente esistere dei punti di vista differenti che, se permangono e quando sono elaborati sufficientemente, vengono espressi pubblicamente nella nostra stampa, come è possibile constatarlo nel dibattito sulla dinamica del boom economico che è seguito alla Seconda Guerra mondiale.
Per quanto riguarda gli articoli che affrontano questioni culturali (critica di libri o di film, per esempio) o scientifici, non solo questi non hanno lo scopo di raccogliere l’adesione di ogni militante, come è per la piattaforma, ma in generale non devono essere considerati come precisa espressione della posizione dell’organizzazione, come lo sono invece le risoluzioni adottate dai congressi. Pertanto, proprio come per gli articoli che abbiamo pubblicato su Darwin, quello che segue, scritto in occasione dei 70 anni della scomparsa di Sigmund Freud, non impegna la CCI in questo senso. Piuttosto deve essere considerato come un contributo ad una discussione aperta non solo ai militanti della CCI che non ne condividono il contenuto, ma anche all’esterno della nostra organizzazione. Esso si inscrive in una rubrica della Rivista Internazionale, che la CCI ci tiene a rendere la più vivente possibile e che ha per scopo di render conto delle riflessioni e delle discussioni che toccano questioni culturali e scientifiche. In questo senso costituisce un appello ai contributi che difendono un punto di vista differente da quello che vi è espresso.
CCI
L'eredità di Freud
Il 23 settembre 1939, Sigmund Freud moriva a Hampstead House, quello che oggi è il Museo Freud a Londra. Alcune settimane prima era scoppiata la Seconda Guerra mondiale. Secondo un aneddoto si dice che Freud, ascoltando la radio o parlando a suo nipote (le versioni variano) e rispondendo alla domanda scottante: “sarà l'ultima guerra?”, avrebbe laconicamente risposto: “In ogni caso, sarà la mia ultima guerra”.
Freud si era allontanato dalla sua casa e dal suo studio di Vienna poco dopo che scagnozzi nazisti penetrati nel suo appartamento arrestarono sua figlia, Anna Freud, rilasciata poco dopo. Freud avrebbe dovuto affrontare la persecuzione del potere nazista adottata dopo l'Anschluss tra la Germania e l’Austria, non solo perché era ebreo, ma anche perché era il fondatore della psicoanalisi, disciplina condannata dal regime come un esempio del "pensiero ebraico degenerato": i lavori di Freud, come quelli di Marx, di Einstein, di Kafka, di Thomas Mann e di altri, hanno avuto l'onore di essere stati tra i primi consegnati alle fiamme degli autodafé nel 1933.
Ma i nazisti non erano i soli ad odiare Freud. Anche i loro omologhi stalinisti avevano stabilito che le teorie di Freud dovevano essere denunciate dalle cattedre dello Stato. Così come mise un termine ad ogni sperimentazione nell'arte, l'educazione ed in altre sfere della vita sociale, lo stalinismo trionfante condusse una caccia alle streghe contro i sostenitori della psicoanalisi in Unione Sovietica ed, in particolare, contro quelli che ritenevano che i lavori di Freud erano compatibili col marxismo. Il potere dei soviet aveva avuto, all’inizio, un tutt’altro atteggiamento. Sebbene i bolscevichi non abbiano adottato per niente un atteggiamento omogeneo nei confronti di questa questione, alcuni noti bolscevichi, come Lunacharsky, Bukarin e lo stesso Trotsky, nutrivano delle simpatie per gli scopi ed i metodi della psicoanalisi; per tale motivo, la branca russa dell'associazione internazionale di Psicoanalisi fu la prima al mondo ad ottenere il sostegno, compreso quello finanziario, di uno Stato. All'epoca, uno degli scopi fondamentali di questa branca era di creare una "scuola per gli orfani" che doveva sollevare e curare i bambini traumatizzati dalla perdita dei loro genitori durante la guerra civile. Lo stesso Freud nutriva un grande interesse per queste esperienze: era particolarmente curioso di sapere fino a che punto i differenti sforzi per allevare i bambini in modo collettivo, e non sulla base ristretta e tirannica del nucleo familiare, avrebbero influito sul complesso di Edipo che lui aveva identificato come un problema centrale nella storia psicologica dell'individuo. Allo stesso tempo, altri bolscevichi come Lev Vygotskij, Alexander Lurija, Tatiana Rosenthal e M.A Reisner diedero dei contributi alla teoria psicanalitica esplorando anche le sue relazioni col materialismo storico[2].
Tutto ciò ebbe fine dal momento in cui la burocrazia stalinista si assicurò il suo dominio sullo Stato. Le idee di Freud furono denunciate sempre più come piccolo-borghesi, decadenti ed innanzitutto idealistiche, mentre le esperienze più meccanicistiche di Pavlov e la sua teoria del "riflesso condizionato" venivano promosse ad esempio della psicologia materialista. Alla fine degli anni '20, ci fu una formidabile inflazione di testi redatti dai portavoce del regime che si opponevano a Freud in modo capzioso, una serie di "defezioni" di suoi vecchi adepti come Aron Zalkind, ed anche attacchi isterici contro una "morale degradata" associata con infamia alle idee di Freud in quello che fu più generalmente il "Termidoro della famiglia", secondo l'espressione di Trotsky.
La vittoria finale dello stalinismo contro il “Freudismo” fu sancita al Congresso sul Comportamento umano del 1930, in particolare attraverso il discorso di Zalkind che ridicolizzò l'insieme del lavoro freudiano e sostenne che il suo punto di vista sul comportamento umano era totalmente incompatibile con “la costruzione del socialismo”: “Come possiamo utilizzare la concezione freudiana dell'uomo nella costruzione socialista? Abbiamo bisogno di un uomo socialmente "aperto" che sia facile da collettivizzare, da trasformare velocemente ed in profondità nel suo comportamento - un uomo che sappia mostrarsi solido, cosciente ed indipendente, ben formato politicamente ed ideologicamente …” (citato in Miller Freud and the Bolcheviks, Yale, 1998, p.102, tradotto da noi). Sappiamo bene che significato avrebbero avuto realmente questa “formazione” e questa “trasformazione”: rompere la personalità umana e la resistenza dei lavoratori al servizio del capitalismo di Stato e del suo spietato Piano quinquennale. In questa visione, evidentemente, non c’era posto per le finezze e la complessità della psicoanalisi che poteva essere utilizzata per dimostrare che il “socialismo” stalinista non aveva guarito nessuno dalle malattie dell'umanità. E, beninteso, il fatto che la psicoanalisi aveva goduto di un certo grado di sostegno da parte di Trotsky, ora esiliato, veniva esagerato nell'offensiva ideologica contro le teorie di Freud.
E nel mondo "democratico"?
Ma qual è l’atteggiamento dei rappresentanti del campo democratico del capitalismo? L'America di Roosevelt non faceva pressione affinché Freud e la sua famiglia potessero lasciare Vienna? E la Gran Bretagna non ha donato una comoda casa all'eminente Professore e Dottore Freud? La psicoanalisi non è diventata in Occidente, particolarmente negli Stati Uniti, un nuovo tipo di chiesa ortodossa di psicologia, certamente redditizia per molti suoi praticanti?
In effetti, la reazione degli intellettuali e degli scienziati alle teorie di Freud nelle democrazie è sempre stata molto variegata, fatta di venerazione, di fascino e di rispetto, combinata all'indignazione, alla resistenza ed al disprezzo.
Durante gli anni che hanno seguito la morte di Freud, si sono viste due tendenze maggiori nel campo d’accoglienza della teoria psicoanalitica: da un lato, una, tra i suoi portavoce e praticanti, che cercava di attenuare alcune delle sue implicazioni più sovversive, come l'idea che la civiltà attuale sia fondata necessariamente sulla repressione degli istinti umani più profondi, a favore di una visione più pragmatica e revisionista, più adatta a farsi accettare socialmente e politicamente da questa stessa civilizzazione; e dall’altro, presso un certo numero di filosofi, di psicologi che appartenevano a scuole rivali, autori che avevano più o meno un certo successo commerciale, una tendenza a rigettare sempre più l’insieme del corpus freudiano perché sarebbe soggettivo, non verificabile e fondamentalmente non scientifico. Le tendenze dominanti della psicologia moderna (vi sono delle eccezioni, come nella "neuro-psicoanalisi" che riesamina il modello freudiano della psiche in funzione di ciò che conosciamo oggi sulla struttura del cervello) hanno abbandonato il viaggio di Freud sulla "strada maestra verso l'inconscio", il suo sforzo per esplorare il significato dei sogni, sulle battute di spirito, sui lapsus ed altre manifestazioni immateriali, a favore dello studio di fenomeni più osservabili e misurabili: le manifestazioni fisiologiche, esterne degli stati mentali, e le forme concrete di comportamento dagli esseri umani, dei topi e di altri animali osservati nelle condizioni di laboratorio. In materia di psicoterapia, il welfare state, molto interessato a ridurre potenzialmente i costi enormi indotti dal trattamento dell'epidemia crescente di stress, di nevrosi e di malattie mentali classiche, generate dal sistema sociale attuale, favorisce le soluzioni veloci come le "terapie cognitive e comportamentali" piuttosto che gli sforzi della psicoanalisi per penetrare alle radici profonde delle nevrosi[3]. Soprattutto, ed è particolarmente vero per gli ultimi due decenni, abbiamo visto un vero torrente di libri e di articoli tentare di fare passare Freud per un ciarlatano, un frodatore che si è, da solo, fabbricato le sue prove, un tiranno nei confronti dei suoi discepoli, un ipocrita e, (perché no?) un perverso. Questa offensiva ha molti tratti in comune con la campagna anti Marx lanciata all'indomani del crollo del preteso "comunismo" alla fine degli anni ‘80 e, proprio come quest’ultima campagna aveva dato nascita al Libro nero del comunismo, ci hanno servito un Libro nero della psicoanalisi[4] che ha dedicato non meno di 830 pagine per trascinare Freud e tutto il movimento psicanalitico nel fango.
Il marxismo e l’inconscio
L'ostilità alla psicoanalisi non ha sorpreso Freud: ha confermato che aveva visto giusto. Dopo tutto, come avrebbe potuto essere popolare sviluppando l'idea che la civiltà, almeno la civiltà attuale, è antitetica agli istinti umani, infliggendo una ferita, e portando un nuovo colpo all’"ingenuo amor proprio" dell'uomo - secondo la sua espressione?
“Attribuendo un'importanza simile all'inconscio nella vita psichica noi abbiamo issato contro la psicoanalisi i peggiori spiriti della critica. Non stupitevi e non crediate che la resistenza che ci si oppone regge alla difficoltà di concepire l'inconscio o all'inaccessibilità delle esperienze che si riportano. Nel corso dei secoli, la scienza ha inflitto all'egoismo ingenuo dell'umanità due gravi smentite. La prima volta, è stata quando ha mostrato che la terra, lungi da essere il centro dell'universo, non è che una briciola insignificante del sistema cosmico di cui a malapena riusciamo ad immaginare la grandezza. Questa prima dimostrazione per noi si ricollega al nome di Copernico, sebbene la scienza alessandrina abbia annunciato già qualche cosa di simile. La seconda smentita è stata inflitta all'umanità dalla ricerca biologica, quando ha ridotto a niente le pretese dell'uomo di occupare un posto privilegiato nell'ordine della creazione, stabilendo la sua discendenza dal regno animale e mostrando l'indistruttibilità della sua natura animale. Quest’ultima rivoluzione si è avverata oggigiorno, in seguito ai lavori di Charles Darwin, di Wallace e dei loro predecessori, lavori che hanno provocato la più accanita resistenza dei contemporanei. Una terza smentita sarà inflitta alla megalomania umana dalla ricerca psicologica dei nostri giorni che si propone di mostrare all'io che non è padrone nemmeno nella sua casa, che è ridotto ad accontentarsi di informazioni rare e frammentarie su ciò che accade, all'infuori della sua coscienza, nella sua vita psichica”. (Introduzione alla psicoanalisi, Terza parte, Conferenza 18, “Ricongiungimento ad un'azione traumatica – l’inconscio”, 1917[5]).
Per i marxisti, tuttavia, non c'è niente di sconvolgente nell'idea che la vita cosciente dell'uomo sia - o sia stata fin qui - dominata da motivi incoscienti. Il concetto marxista di ideologia che ingloba tutte le forme di coscienza sociale prima della nascita della coscienza di classe del proletariato, è ancorato esattamente su questa nozione.
"Ogni ideologia, una volta costituita, si sviluppa sulla base degli elementi di rappresentazione data e continua ad elaborarli; altrimenti non sarebbe un'ideologia, e cioè il fatto di occuparsi di idee prese come entità autonome, sviluppandosi in una maniera indipendente ed unicamente sottomesse alle proprie leggi. Che le condizioni di esistenza materiale degli uomini, nella mente dei quali prosegue questo processo mentale, ne determinano in fin dei conti il corso, ciò resta presso di loro necessariamente incosciente, altrimenti sarebbe la fine di ogni ideologia". (Friedrich Engels, Ludwig Feuerbach e la fine della filosofia tedesca classica, 1888, IV "Il materialismo dialettico")[6].
Il marxismo riconosce dunque che, fino ad oggi, la consapevolezza che l'uomo ha della sua posizione reale nel mondo è stata inibita e deformata da fattori di cui non è cosciente, che la vita sociale come è stata costituita fino ad ora ha creato dei blocchi fondamentali nei processi mentali dell'uomo. Un chiaro esempio è l'incapacità storica della borghesia di considerare una forma di società superiore, qualcosa di altro che il capitalismo, per il fatto che ciò implicherebbe la sua scomparsa. È ciò che Lukács chiamava un "inconscio condizionato di classe" (Storia e coscienza di classe). E si può considerare anche la questione dal punto di vista della teoria di Marx sull'alienazione: l'uomo alienato si è separato dal suo simile, dalla natura e da se stesso, mentre il comunismo supererà questa dicotomia e l'uomo sarà pienamente cosciente di sé.
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Trotsky difende la psicoanalisi
Tra tutti i marxisti del ventesimo secolo, è probabilmente Trotsky quello che ha più contribuito all'apertura di un dialogo con le teorie di Freud, che lui aveva incontrato durante il suo soggiorno a Vienna nel 1908. Sempre implicato nello Stato sovietico ma sempre più emarginato, Trotsky insisteva sul fatto che il lavoro di Freud verso la psicologia fondamentalmente era materialista. Non era d’accordo che una particolare scuola di psicologia diventasse la linea "ufficiale" dello Stato o del partito, ma di contro esortava ad un dibattito largo ed aperto. In Cultura e socialismo, scritti del 1925/26, Trotsky valuta i differenti lavori delle scuole freudiana e pavloviana, e fa uno schizzo di quello che secondo lui dovrebbe essere l'atteggiamento del partito nei confronti di questi argomenti:
“La critica marxista della scienza deve essere non solo vigile ma anche prudente, altrimenti potrebbe degenerare in un vero sicofantismo, in famusovismo. (Famusov è un personaggio di Griboedov, che raffigura un funzionario di grado elevato che ha orrore di tutto quello che possa offendere l’autorità e turbare osì la sua condizione confortevole, ndr). Prendiamo la psicologia per esempio. Lo studio dei riflessi di Pavlov si trova interamente sulla via del materialismo dialettico. Abbatte definitivamente il muro che esisteva tra la fisiologia e la psicologia. Il più semplice riflesso è fisiologico, ma il sistema dei riflessi darà la "coscienza". L'accumulo della quantità fisiologica dà una nuova qualità, la qualità “psicologica”. Il metodo della scuola di Pavlov è sperimentale e scrupoloso. La generalizzazione si conquista passo dopo passo dalla bava del cane fino alla poesia (in altri termini fino al meccanismo mentale di quest’ultima e non al suo contenuto sociale), sebbene le vie verso la poesia non siano ancora apparse.
È in un modo differente che la scuola dello psicanalista viennese Freud affronta la questione. Parte, innanzitutto, dalla considerazione che le forze motrici dei più complessi e delicati processi psichici si rivelano essere delle necessità fisiologiche. In questo senso generale, questa scuola è materialista, lasciando da parte la questione se non attribuisca un peso eccessivo al fattore sessuale a scapito di altri (questa è già una discussione entro i confini del materialismo). Pertanto, lo psicanalista non affronta in modo sperimentale il problema della coscienza, dai fenomeni primari fino ai fenomeni più elevati, dal semplice riflesso fino al riflesso più complesso; si sforza di superare con un solo salto tutti gli scalini intermedi, dall'alto in basso, dal mito religioso, dalla poesia lirica o dal sogno, direttamente alle basi fisiologiche della psiche.
Gli idealisti insegnano che la psiche è autonoma, che il 'pensiero' è un pozzo senza fondo. Pavlov e Freud, invece, considerano che il fondo del 'pensiero' è costituito dalla fisiologia. Ma mentre Pavlov, come un palombaro, scende fino al fondo ed esplora minuziosamente il pozzo, dal basso in alto, Freud si tiene al di sopra del pozzo e con sguardo acuto cerca di penetrarne le acque sempre mosse e torbide, di intravedere o di indovinare la configurazione del fondo. Il metodo di Pavlov, è la sperimentazione. Il metodo di Freud, la congettura, talvolta fantastica. Il tentativo di dichiarare la psicoanalisi 'incompatibile' con il marxismo e girare la schiena senza cerimonia al freudismo è troppo semplicistico, o piuttosto troppo 'sempliciotto'. Ma comunque non siamo tenuti ad adottare il freudismo. È un'ipotesi di lavoro che può dare - e che incontestabilmente dà - delle ipotesi e delle conclusioni che si inseriscono nella linea della psicologia materialista. Il procedimento sperimentale fornirà al momento debito la prova. Ma noi non abbiamo né motivo né diritto di alzare un veto ad un'altra via, benché meno sicura, che si sforza di anticipare conclusioni alle quali la via sperimentale conduce solamente più lentamente”[7].
Trotsky ha messo, in effetti, troppo velocemente in questione il percorso un poco ‘meccanicistico’ di Pavlov che tendeva a ridurre l'attività cosciente al famoso "riflesso condizionato". In un discorso pronunciato poco dopo la pubblicazione del testo sopra citato, Trotsky si chiedeva se si sarebbe potuto giungere veramente ad una conoscenza delle sorgenti della poesia umana attraverso lo studio della salivazione canina (vedere di Trotsky Notebooks 1933/35, Writings on Lenin, Dialectics and Evolutionism, tradotti in inglese ed introdotti da Philip Pomper, New York, 1998, p. 49). E nelle ulteriori riflessioni sulla psicoanalisi contenuta in questi "appunti filosofici", composti in esilio, insiste più sulla necessità di comprendere che il riconoscere una certa autonomia della vita psichica, se è conflittuale con una versione meccanicistica del materialismo, è in realtà perfettamente compatibile con una visione più dialettica del materialismo: "È noto che esiste tutta una scuola di psichiatria (la psicoanalisi di Freud), che in pratica non tiene nessun conto della fisiologia, basandosi sul determinismo interno dei fenomeni psichici come sono. Certi critici accusano dunque la scuola freudiana di idealismo. […] Ma in se stesso il metodo della psicoanalisi che prende come punto di partenza 'l'autonomia' dei fenomeni psicologici, non contraddice per niente il materialismo. È vero proprio il contrario, è precisamente il materialismo dialettico che ci porta all'idea che la psiche non potrebbe formarsi se non giocasse, è vero entro certi limiti, un ruolo autonomo ed indipendente nella vita dell'individuo e della specie.
Comunque qui ci confrontiamo in qualche modo con una questione cruciale, una rottura nel gradualismo, una transizione della quantità in qualità: la psiche che emerge dalla materia, è ‘liberata’ dal determinismo della materia e può in modo indipendente, attraverso le proprie leggi, influenzare la materia".
(Notebooks di Trotsky, op.cit., p. 106, nostra traduzione).
Trotsky afferma qui che esiste una vera convergenza tra il marxismo e la psicoanalisi. Per i due, la coscienza, o piuttosto l'insieme della vita psichica, è un prodotto materiale del movimento reale della natura e non una forza che esiste all'esterno del mondo; è il prodotto di processi incoscienti che la precedono e la determinano. Ma diventa a sua volta un fattore attivo che, in una certa misura, sviluppa una propria dinamica e che, più importante, è capace di agire e trasformare l'inconscio. È là l'unica base di un percorso che fa dell'uomo un qualcosa di più di una creatura di circostanze obiettive, e che lo rende capace di cambiare il mondo intorno a lui.
Forse, qui arriviamo a quella che è la più importante conclusione che trae Trotsky dalla sua investigazione sulle teorie di Freud. Freud, ricordiamolo, aveva affermato che la principale ferita inflitta dalla psicoanalisi al "narcisismo ingenuo" dell'uomo, era la conferma che l'ego non è padrone nella sua casa, che in larga misura la sua visione ed il suo approccio del mondo sono condizionati da forze istintive che sono state respinte nell'inconscio. Lo stesso Freud, in una o più occasioni, è riuscito quasi a considerare una società che avrebbe superato la lotta senza fine contro le privazioni materiali e così non avrebbe più da imporre questa repressione ai suoi membri[8]. Ma nell'insieme, il suo punto di vista restava prudentemente pessimista per il fatto che non vedeva una via che potesse condurre ad una tale società. Trotsky, in quanto rivoluzionario, era tenuto a sollevare la possibilità di un'umanità pienamente cosciente che diventerebbe così padrona nella propria casa. In effetti, per Trotsky, la liberazione dell'umanità dal dominio dell'inconscio diventa il progetto centrale della società comunista: “Infine, l'uomo comincerà seriamente ad armonizzare il suo proprio essere. Mirerà ad ottenere una precisione, un discernimento, un'economia più grande, e di conseguenza, bellezza nei movimenti del suo corpo, al lavoro, nella marcia, al gioco. Vorrà dominare i processi semicoscienti ed incoscienti del proprio organismo: la respirazione, la circolazione del sangue, la digestione, la riproduzione. E, nei limiti inevitabili, cercherà di subordinarli al controllo della ragione e della volontà. L'homo sapiens, adesso congelato, tratterà se stesso come oggetto dei metodi più complessi della selezione artificiale e degli esercizi psicofisici.
Queste prospettive derivano da tutta l'evoluzione dell'uomo. Ha cominciato a cacciare le tenebre della produzione e dell'ideologia, per rompere, per mezzo della tecnologia, la routine barbara del suo lavoro, e per superare la religione per mezzo della scienza. Ha espulso l'inconscio della politica rovesciando le monarchie alle quali ha sostituito le democrazie e parlamentarismi razionalistici, poi la dittatura senza ambiguità dei soviet. Per mezzo dell'organizzazione socialista, elimina la spontaneità cieca, elementare dei rapporti economici. Ciò permette di ricostruire su tutte altri basi la tradizionale vita di famiglia. Alla fine, se la natura dell'uomo si trova rannicchiata nei recessi più oscuri dell'inconscio, va da sé che in questo senso devono essere diretti i più grandi sforzi del pensiero che cerca e che crea?” (Letteratura e rivoluzione, 1924).
Evidentemente, in questo passo, Trotsky guarda verso un futuro comunista molto lontano. La priorità dell'umanità nelle prime fasi del comunismo cadrà sicuramente sugli strati dell'inconscio dove le origini delle nevrosi e delle sofferenze mentali possono essere rintracciate, mentre la prospettiva di controllare dei processi fisiologici ancora più fondamentali solleva altre domande che vanno al di là di questo articolo e che, ad ogni modo, saranno poste probabilmente solamente in una cultura comunista di un livello più avanzato.
I comunisti oggi possono essere d’accordo o non con molte idee di Freud. Ma sicuramente dobbiamo esprimere la più grande diffidenza nei confronti delle campagne attuali contro Freud e conservare un atteggiamento il più aperto possibile, come Trotsky sosteneva. Come minimo, dobbiamo ammettere che finché vivremo in un mondo dove le "cattive passioni" dell'umanità possono esplodere con una forza terribile, dove le relazioni sessuali tra gli esseri umani, che siano incarcerate nelle ideologie medievali o svalutate e prostituite sul mercato, continuano ad essere una sorgente di miseria umana indicibile, dove, per la grande maggioranza degli uomini, le forze creatrici dello spirito restano largamente soffocate ed inaccessibili, i problemi affrontati da Sigmund Freud restano non solo tanto pertinenti oggi come quando furono sollevati per la prima volta, ma anche che la loro risoluzione sarà certamente un elemento insostituibile nella costruzione di una società realmente umana.
Amos
[1] Vedi “Darwinismo e marxismo” di Anton Pannekoek (prima e seconda parte) sul nostro sito web e l'articolo “Darwin e il movimento operaio” anche su Rivoluzione Internazionale n°160, “A proposito del libro: L’effetto Darwin: una concezione materialista delle origini della morale e della civiltà” e “il ‘darwinismo sociale’, una ideologia reazionaria del capitalismo”, rispettivamente nei numeri 399, 400 e 404 di Révolution Internationale.
[2] Le seguenti parole di Lenin, riportate da Clara Zetkin, mostrano che i bolscevichi non avevano un comportamento unilaterale verso le teorie di Freud - anche se è da ritenere che le critiche di Lenin cadevano più sui difensori di queste teorie che sulle stesse teorie: “La stessa situazione in Germania esige l’estrema concentrazione di tutte le forze rivoluzionarie, proletarie, per la lotta contro la reazione sempre più insolente! Ma i militanti discutono della questione sessuale, e delle forme di matrimonio nel passato, presente e futuro. Considerano che il loro compito più importante è illuminare le lavoratrici su questo punto. Lo scritto più diffuso in questo momento è l'opuscolo di una giovane compagna di Vienna sulla questione sessuale. Ciò è una sciocchezza! Ciò che c'è dentro, gli operai l'hanno letto da molto in Bebel. Esso non è espresso in modo così noioso, come in questo opuscolo, ma con un carattere d’agitazione, d’attacco contro la società borghese. La discussione sulle ipotesi di Freud vi dà un’aria 'colta' ed anche scientifica, ma in fondo esso non è che un volgare lavoro di scolaro. La stessa teoria di Freud è una 'follia' alla moda. Diffido delle teorie sessuali e di tutta questa letteratura speciale che crescono abbondantemente sul letame della società borghese. Diffido di coloro che vedono solamente la questione sessuale, alla stessa stregua del prete indù che vede solo la sua nuvola. Considero questa sovrabbondanza di teorie sessuali che sono per la maggior parte delle ipotesi, e spesso ipotesi arbitrarie, proveniente da un bisogno personale di giustificare davanti alla morale borghese la propria vita anormale o ipertrofica, o almeno trovarle una giustificazione. Questo rispetto mascherato della morale borghese mi è tanto antipatico quanto questa importanza concessa alle questioni sessuali. Quest’ultima può sembrare rivoluzionaria quanto si vuole, ma essa, in fondo, è profondamente borghese. È soprattutto una moda di intellettuali. Non c'è posto per ciò nel partito, nel proletariato cosciente”. (“Ricordi su Lenin”, Clara Zetkin, gennaio 1924).
[3] Vogliamo precisare, tuttavia, che quest’articolo non ha per scopo giudicare l'efficacia terapeutica del lavoro di Freud. Non siamo qualificati per farlo e, ad ogni modo, non c'è legame meccanico tra le applicazioni pratiche della teoria freudiana e la teoria della mente che la sottende - ancora più per il fatto che "curare" le nevrosi in una società che le generano continuamente, è un problema che si pone in fin dei conti su un piano sociale e non individuale. Sono i fondamenti della teoria della mente di Freud che consideriamo qui, e sono innanzitutto questi fondamenti che consideriamo come una vera eredità per il movimento operaio.
[4] Il libro nero della psicoanalisi, Catherine Meyer, Mikkel Borch-Jacobsen, Jean Cottraux, Didier Pleux e Giacomo Vaglio Rillaer, L’Arena, Parigi, Francia, 2005.
[8] Contrariamente al cliché così spesso ripetuto secondo cui Freud "ridurrebbe tutto al sesso", quest’ultimo ha affermato chiaramente che "la base sulla quale rimette la società umana è, in ultima analisi, di natura economica: non possedendo abbastanza mezzi di sussistenza per permettere ai suoi membri di vivere senza lavorare, la società è obbligata a limitare il numero dei suoi membri e a deviare la loro energia dall'attività sessuale verso il lavoro. Siamo là in presenza dell'eterno bisogno vitale che, nato nello stesso momento in cui è nato l'uomo, persiste fino ai nostri giorni". (Introduzione alla psicoanalisi [27], Conferenza 20, La vita sessuale dell'uomo).
In altri termini: la repressione è il prodotto di organizzazioni sociali degli uomini dominati dalla penuria materiale. In un altro passo, ne L'avvenire di un'illusione (1927), Freud ha mostrato una comprensione della natura di classe della società "civilizzata" e si è spinto, anche se di passaggio, a considerarne lo stadio ulteriore: "Ma quando una cultura non è riuscita a superare lo stato in cui la soddisfazione di un certo numero di partecipanti presuppone l'oppressione di certi altri, forse della maggioranza - ed è il caso di tutte le culture attuali - è allora comprensibile che questi oppressi sviluppano un'ostilità intensa contro la stessa cultura anche se essi la rendono possibile attraverso il loro lavoro, ma dei cui benefici hanno solamente una minima parte. […] L'ostilità alla cultura manifestata da queste classi è così evidente che a causa sua non abbiamo visto l'ostilità piuttosto latente degli strati sociali meglio suddivisi. Va da sé che una cultura che lascia insoddisfatti un così grande numero di partecipanti e li spinge alla rivolta non ha nessuna possibilità di mantenersi durevolmente e tantomeno meritarlo". (L'avvenire di un'illusione, capitolo 2 p. 12, Quadrige/PUF, 1995). Così l'ordine attuale non solo non ha "alcuna prospettiva di esistenza duratura", ma potrebbe forse esserci una cultura che potrebbe “superato lo stato "a partire dal quale ogni divisione di classe (e, di conseguenza, i meccanismi di repressione mentale che esistono fin qui) diventerebbe superflua.
Anno 2011
In un nostro precedente articolo abbiamo parlato della lotta che si sviluppava in Spagna[1]. Dopo di allora il contagio del suo esempio si è propagato fino alla Grecia e ad Israele[2]. In questo articolo vogliamo tirare le lezioni di questi movimenti e vedere quali prospettive se ne possono tirare di fronte a una situazione di fallimento del capitalismo e di attacchi feroci contro il proletariato e la grande maggioranza della popolazione mondiale.
Per comprenderli bisogna rifuggire categoricamente dal metodo immediatista ed empirico che predomina nella società attuale. Con questo metodo ogni avvenimento viene analizzato in sé, al di fuori di ogni contesto storico e isolandolo nel paese in cui si svolge. Questo metodo fotografico è un riflesso della degenerazione ideologica della classe capitalista, giacché “il solo progetto che questa classe è capace di offrire all’insieme della società è quello di resistere giorno per giorno, colpo su colpo, e senza speranza di riuscita, al crollo irrimediabile del modo di produzione capitalista”[3].
Una fotografia può mostrarci una persona che sfoggia un gran sorriso, ma questo non esclude che qualche secondo prima la stessa persona avesse un’aria angosciata. Non è in questa maniera che si possono capire i movimenti sociali. Si può comprenderli solo alla luce del passato che li ha fatti maturare e del futuro che essi annunciano; è necessario situarli nel quadro mondiale e non in quello nazionale in cui appaiono; e, soprattutto, essi devono essere compresi nella loro dinamica, non per quello che sono in un momento dato, ma per quello che possono diventare sulla base delle tendenze, delle forze e delle prospettive che essi contengono e che usciranno prima o poi alla superficie.
Il proletariato sarà capace di rispondere alla crisi del capitalismo?
All’inizio del 21° secolo abbiamo pubblicato una serie di due articoli dal titolo “All’alba del 21° secolo, perché il proletariato non ha ancora rovesciato il capitalismo?”[4]. In essi ricordavamo che la rivoluzione comunista non è una fatalità e che il suo avvento dipende dall’unione di due fattori, quello oggettivo e quello soggettivo. Il fattore oggettivo è dato dalla decadenza del capitalismo[5] e dallo sviluppo di una crisi aperta della società borghese che dimostri che i rapporti di produzione capitalisti devono essere rimpiazzati da altri rapporti di produzione[6]. Il fattore soggettivo è legato all’azione collettiva e cosciente del proletariato.
L’articolo riconosce che il proletariato ha mancato i suoi appuntamenti con la storia. Nel primo caso – La Prima Guerra mondiale – il tentativo di risposta con un’ondata rivoluzionaria mondiale nel 1917-23 fu sconfitto; nel secondo – la grande Depressione del 1929 – il proletariato fu assente come classe autonoma; nel terzo – la Seconda Guerra mondiale – non solo esso fu assente ma fu anche portato a credere che la democrazia e lo Stato assistenziale, questi miti manipolati dai vincitori, costituissero la sua vittoria. In seguito, con il ritorno della crisi alla fine degli anni ‘60, il proletariato “non mancò l’appuntamento (…) ma allo stesso tempo abbiamo potuto misurare la quantità di ostacoli ai quali si è scontrato e che hanno rallentato il suo cammino verso la rivoluzione proletaria”[7]. Questi freni si manifestarono in coincidenza di un nuovo avvenimento di primaria importanza – il crollo dei regimi cosiddetti “comunisti” nel 1989 - in cui non solo non fu un fattore attivo, ma in cui fu vittima di una formidabile campagna anticomunista che lo ha fatto retrocedere tanto a livello della sua coscienza che della sua combattività.
Quello che potremmo definire il “quinto appuntamento con la storia” si apre dal 2007. La crisi che si manifesta con più ampiezza dimostra il fallimento praticamente definitivo delle politiche che il capitalismo aveva messo in piedi per accompagnare l’emergere della sua crisi insolubile. L’estate 2011 ha messo in evidenza che le enormi somme immesse nel sistema non possono arrestare l’emorragia e che il capitalismo viene trascinato sulla china della Grande Depressione, ben più grave di quella del 1929[8].
Ma, in un primo tempo, e nonostante i colpi che piovono su di lui, il proletariato sembra comunque assente. Al nostro 18° Congresso Internazionale avevamo ipotizzato il verificarsi di una situazione di questo tipo: “Queste saranno probabilmente, in un primo tempo, lotte disperate e relativamente isolate, anche se possono beneficiare di una simpatia reale in altri settori della classe operaia. Perciò anche se, nel prossimo periodo, non si assisterà a una risposta poderosa della classe operaia di fronte agli attacchi, non bisognerà considerare questo fatto come una rinuncia a lottare in difesa dei propri interessi. Sarà in un secondo momento, quando essa sarà capace di resistere ai ricatti della borghesia, quando si imporrà l’idea che solo la lotta unita e solidale può frenare la brutalità degli attacchi della classe dominante, in particolare quando questa cercherà di far pagare a tutti i lavoratori gli enormi deficit statali che si accumulano oggi con i piani di salvataggio delle banche e di “rilancio” dell’economia, che lotte operaie di grande ampiezza potranno svilupparsi molto di più.”[9].
Gli attuali movimenti in Spagna, Israele e Grecia mostrano che il proletariato comincia ad assumere questo “quinto appuntamento con la storia”, a prepararsi per essere presente, a darsi i mezzi per vincere[10].
Negli articoli citati prima dicevamo che due dei pilastri su cui il capitalismo – almeno nei paesi centrali – si è appoggiato per tenere il proletariato sotto il suo controllo sono la democrazia e quello che viene definito lo “Stato assistenziale”. Quello che questi tre movimenti rivelano è che i pilastri cominciano ad essere contestati, anche se ancora confusamente, contestazione che sarà alimentata dall’evoluzione catastrofica della crisi.
La contestazione della democrazia
In questi tre movimenti si è manifestata la collera contro i politici e, in generale, contro la democrazia. Così come si è manifestata l’indignazione rispetto al fatto che i ricchi e il loro personale politico siano sempre più ricchi e corrotti, che la grande maggioranza della popolazione sia trattata come una merce al servizio dei privilegi scandalosi della minoranza sfruttatrice, merce gettata nella spazzatura quando i “mercati non vanno più bene”; anche i drastici programmi di austerità sono stati denunciati, programmi di cui nessuno parla mai al momento delle campagne elettorali e che poi diventano la principale occupazione di quelli che vengono eletti.
E’ evidente che questi sentimenti non sono nuovi: per esempio, parlar male dei politici è stata cosa comune in questi ultimi trent’anni. E’ chiaro anche che questi sentimenti possono essere deviati verso vicoli ciechi come hanno cercato di fare con perseveranza le forze della borghesia in azione in questi tre movimenti: “per una democrazia partecipativa”, per un “rinnovamento della democrazia”, ecc.
Ma quello che c’è di nuovo e che riveste un’importanza significativa è che questi temi che, lo si voglia o no, mettono in questione la democrazia, lo Stato borghese e i suoi apparati di dominio, sono l’oggetto di innumerevoli assemblee. Non si possono paragonare degli individui che rimuginano il loro disgusto da soli, atomizzati, passivi e rassegnati con questi stessi individui che lo esprimono liberamente in assemblee. Al di là degli errori, delle confusioni, dei momenti di stallo che vi si esprimono inevitabilmente e che devono essere discussi con la massima pazienza ed energia, l’essenziale sta proprio nel fatto che i problemi siano posti pubblicamente, cosa che contiene in potenza un’evidente politicizzazione delle grandi masse e, anche, l’inizio di una messa in discussione di questa democrazia che ha reso tanti servizi al capitalismo lungo tutto l’ultimo secolo.
La fine del presunto “Stato assistenziale”
Dopo la Seconda Guerra mondiale, il capitalismo istituì quello che fu chiamato “lo Stato assistenziale”[11]. Questo ha costituito uno dei principali pilastri del dominio capitalista nel corso degli ultimi 70 anni. Ha creato l’illusione che il capitalismo avesse superato gli aspetti più brutali della sua realtà: lo Stato assistenziale avrebbe garantito una sicurezza di fronte alla disoccupazione, la pensione, la gratuità delle cure mediche e dell’educazione, degli alloggi sociali, ecc.
Questo “Stato sociale”, complemento della democrazia politica, ha subito delle significative amputazioni nel corso degli ultimi 25 anni e va verso la pura e semplice sparizione. In Grecia, in Spagna o in Israele (dove è stata innanzitutto la penuria di alloggi a mobilitare i giovani), l’inquietudine creata dalla soppressione dei sussidi sociali è stata alla base delle lotte. E’ evidente che la borghesia ha cercato di deviare le mobilitazioni verso le “riforme della costituzione”, l’adozione di leggi che “garantiscano” queste prestazioni, e così via. Ma l’ondata crescente di inquietudine contribuirà a rimettere in discussione queste dighe che servono a controllare i lavoratori.
I movimenti degli Indignati, punto culminante di otto anni di lotte
Il cancro dello scetticismo domina l’attuale ideologia e infetta anche il proletariato e le sue minoranze rivoluzionarie. Come si è detto prima il proletariato ha mancato tutti gli appuntamenti che la storia aveva creato durante quasi un secolo di decadenza capitalista e da questo è nato un dubbio angosciante nelle sue fila circa la sua propria identità e le sue capacità, al punto che, anche durante delle manifestazioni di combattività, alcuni arrivano a rigettare il termine “classe operaia”[12]. Questo scetticismo è tanto più forte in quanto alimentato dalla decomposizione del capitalismo[13]: la disperazione, l’assenza di un progetto concreto per l’avvenire favoriscono l’incredulità e la diffidenza verso ogni prospettiva di azione collettiva.
I movimenti in Spagna, Israele e Grecia – nonostante tutte le debolezze che contengono – cominciano a fornire un rimedio efficace contro il cancro dello scetticismo, innanzitutto per la loro stessa esistenza e per quello che essi significano nella continuità delle lotte e degli sforzi di presa di coscienza che il proletariato mondiale sta realizzando dal 2003[14]. Essi non costituiscono un temporale a ciel sereno ma sono il risultato di una lenta condensazione di questi ultimi otto anni di piccole nuvole, di pioggerelle, di lampi timidi che è cresciuta fino a raggiungere una qualità nuova.
Dal 2003 il proletariato comincia a riprendersi dal lungo periodo di riflusso della sua coscienza e della combattività che aveva subito a partire dagli avvenimenti del 1989. Questo processo segue un ritmo lento, contraddittorio e molto tortuoso, che si manifesta attraverso:
- una successione di lotte molto isolate in diversi paesi, tanto al centro che alla periferia, caratterizzate da manifestazioni “cariche di futuro”: ricerca della solidarietà, tentativi di autorganizzazione, presenza di nuove generazioni, riflessioni sull’avvenire;
- uno sviluppo di minoranze internazionaliste alla ricerca di una coerenza rivoluzionaria, che si pongono tante questioni e cercano il contatto fra loro, discutono, tracciano prospettive…
Nel 2006 scoppiano due movimenti - la lotta contro il CPE in Francia[15] e lo sciopero massiccio dei lavoratori di Vigo in Spagna - che, nonostante la distanza, la differenza di condizioni e di età dei partecipanti, presentano tratti simili: assemblee generali, estensione ad altri settori, partecipazione di massa alle manifestazioni … E’ come una prima semina che, apparentemente, non ha seguito[16].
Un anno più tardi un embrione di sciopero di massa scoppia in Egitto a partire da una grande fabbrica tessile. All’inizio del 2008 scoppiano numerose lotte isolate le une dalle altre, ma contemporaneamente in un gran numero di paesi, dalla periferia al centro del capitalismo. Altri movimenti si fanno notare, come la proliferazione di rivolte della fame in 33 paesi durante il primo trimestre del 2008. In Egitto queste lotte sono sostenute e in gran parte prese in carico dal proletariato. Alla fine del 2008 scoppia la rivolta della gioventù operaia in Grecia, appoggiata da una parte del proletariato. Da ricordare ancora dei germi di reazioni internazionaliste nel 2009 a Lindsay (Gran Bretagna) e un esplosivo sciopero generalizzato nel sud della Cina (a giugno).
Dopo un primo indietreggiamento del proletariato di fronte al primo impatto della crisi, come visto prima, questo comincia a lottare in maniera ben più decisa e, nel 2010, la Francia è scossa da movimenti di massa di protesta contro la riforma delle pensioni, movimenti nel corso dei quali fanno la loro comparsa tentativi di assemblee intercategoriali; i giovani inglesi si rivoltano in dicembre contro l’aumento brutale delle tasse scolastiche. L’anno 2011 vede le grandi rivolte sociali in Egitto e Tunisia. Il proletariato sembra prendere lo slancio per un nuovo salto in avanti: il movimento degli Indignati in Spagna, poi in Grecia e in Israele.
Questo movimento appartiene alla classe operaia?
Questi tre ultimi movimenti non possono essere compresi al di fuori del contesto che stiamo analizzando. Essi costituiscono una specie di primo puzzle che unisce tutti gli elementi intervenuti lungo questi ultimi otto anni. Ma lo scetticismo è molto forte e molti si domandano: si può parlare di movimenti della classe operaia visto che questa non vi è presente come tale e che essi non sono rafforzati da scioperi o assemblee sui luoghi di lavoro?
Il movimento si chiama “Gli Indignati”, concetto sicuramente valido per la classe operaia[17], ma che non rivela immediatamente quello di cui è portatore dal momento che non si identifica direttamente con la sua natura di classe. Ci sono due elementi che gli conferiscono essenzialmente un’apparenza di rivolta sociale:
– la perdita dell’identità di classe
Il proletariato ha attraversato un lungo periodo di riflusso che gli ha inflitto danni significativi per quanto riguarda la fiducia in se stesso e la coscienza della propria identità: “dopo il crollo del blocco dell’Est e dei regimi cosiddetti ‘socialisti’, le assordanti campagne della borghesia sul “fallimento del comunismo”, la “vittoria definitiva del capitalismo liberale e democratico”, la “fine della lotta di classe” e della classe operaia stessa, portò ad un importante arretramento del proletariato, sia a livello della coscienza che della combattività. Questo arretramento fu profondo è durò più di dieci anni (…) D’altra parte, (la borghesia) è riuscita a creare in seno alla classe operaia un forte sentimento di impotenza legato alla sua incapacità a ingaggiare delle lotte di massa”[18]. Questo spiega in parte perché la partecipazione del proletariato come classe non è stata dominante, ma che è stato presente attraverso la partecipazione individuale di lavoratori (salariati, disoccupati, studenti, pensionati) che cercano di chiarificarsi, di implicarsi secondo il loro istinto, ma a cui mancano la forza, la coesione e la chiarezza che dà il fatto di agire collettivamente come classe.
Da questa perdita di identità deriva il fatto che il programma, la teoria, le tradizioni, i metodi del proletariato non sono riconosciuti come propri dall’immensa maggioranza dei lavoratori. Il linguaggio, le forme di azione, i simboli stessi che compaiono nel movimento degli Indignati si rifanno ad altre fonti. Questa è una debolezza pericolosa che deve essere pazientemente combattuta perché si realizzi una riappropriazione critica di tutto il patrimonio teorico, di esperienza, di tradizioni che il proletariato ha accumulato durante gli ultimi due secoli.
– la presenza di strati sociali non proletari
tra gli indignati c’è una forte presenza di strati sociali non proletari, in particolare di un ceto medio in via di proletarizzazione. Per quanto riguarda Israele il nostro articolo sottolineava: “Un’altra questione è quella di etichettare questo come un movimento della ‘classe media’. E’ vero che, come per tutti gli altri movimenti, siamo di fronte a una rivolta sociale ampia che può esprimere l’insoddisfazione di molti diversi strati sociali, dai piccoli imprenditori ai lavoratori nei punti di produzione, tutti colpiti dalla crisi economica mondiale, un divario crescente tra ricchi e poveri e, in un paese come Israele, dall’aggravamento delle condizioni di vita per le insaziabili esigenze dell’economia di guerra. Ma ‘classe media’ è diventata un’espressione vaga, onnicomprensiva che indica chiunque abbia un titolo di studio o un lavoro, e in Israele come in Nord Africa, Spagna o Grecia, un numero crescente di giovani istruiti sono spinti nei ranghi del proletariato, svolgendo lavori mal retribuiti e non qualificati, dove possono anche non trovare affatto alcun lavoro”[19].
Benché il movimento sembri vago e mal definito, questo non può bastare per rimettere in causa il suo carattere di classe, soprattutto se consideriamo le cose nella loro dinamica, nella prospettiva futura, come fanno anche i compagni del TPTG a proposito del movimento in Grecia: “Quello che inquieta i politici di ogni schieramento in questo movimento delle assemblee, è che la collera e l’indignazione crescenti dei proletari (e di strati piccolo-borghesi) non si esprime più attraverso il circuito mediatico dei partiti politici e dei sindacati. Per questo esso non è controllabile ed è potenzialmente pericoloso per il sistema rappresentativo del mondo politico e sindacale in generale”.[20]
La presenza del proletariato non è visibile come forza dirigente del movimento e nemmeno attraverso una mobilitazione a partire dai posti di lavoro. Essa sta invece nella dinamica di ricerca, di chiarificazione, di preparazione del terreno sociale, di riconoscimento della lotta che si prepara. Qui sta tutta la sua importanza, nonostante il fatto che resta un piccolo passo avanti estremamente fragile. Riferendosi alla Grecia, i compagni del TPTG dicono che il movimento “costituisce un’espressione della crisi dei rapporti di classe e della politica in generale. Nessun’altra lotta si è espressa in maniera così ambivalente ed esplosiva negli ultimi decenni”[21], e su Israele, un giornalista segnala che: “per quanto riguarda la comunità ebraica in Israele, non è mai stata l’oppressione che ha mantenuto l’ordine sociale. Se ne è incaricato l’indottrinamento – l’ideologia dominante, per utilizzare i termini preferiti dai teorici critici. E’ quest’ordine culturale che è stato sconvolto da questo turbinio di proteste. Per la prima volta una gran parte della classe media ebrea – è troppo presto per valutare l’importanza che questa rappresenta – ha riconosciuto che il suo problema non era verso altri israeliani, né verso gli arabi, e nemmeno con questo o quel politico, ma con l’ordine sociale nel suo complesso, con il sistema in quanto tale. Per questo esso costituisce un avvenimento inedito nella storia di Israele”[22].
Le caratteristiche delle lotte future
In questa ottica possiamo considerare i tratti di queste lotte come delle caratteristiche che le lotte future potranno riprendere con spirito critico e sviluppare a dei livelli superiori:
- l’entrata in lotta di nuove generazioni del proletariato con, tuttavia, una differenza importante con i movimenti del 1968: mentre la gioventù di allora tendeva a ripartire da zero e considerava i più anziani come “sconfitti e imborghesiti”, oggi vediamo una lotta unita di differenti generazioni della classe operaia;
- l’azione diretta delle masse: la lotta ha guadagnato la strada, le piazze sono state occupate. Gli sfruttati vi si sono ritrovati direttamente e hanno potuto vivere, discutere e agire insieme;
- l’inizio della politicizzazione: al di là delle false risposte che vengono o verranno date, è importante che grandi masse comincino a implicarsi direttamente e attivamente nelle grandi questioni della società, è l’inizio della loro politicizzazione come classe;
- le assemblee: queste sono legate alla tradizione proletaria dei consigli operai del 1905 e 1917 in Russia, che si estesero in Germania e ad altri paesi durante l’ondata rivoluzionaria del 1917-23. Esse riapparvero nel 1956 in Ungheria e nel 1980 in Polonia. Le assemblee sono l’arma dell’unità, dello sviluppo della solidarietà, della capacità di comprensione e di decisione delle masse operaie. Lo slogan “Tutto il potere alle assemblee!”, molto popolare in Spagna, esprime la nascita di una riflessione-chiave su questioni come lo Stato, il doppio potere, ecc.;
- la cultura del dibattito: la chiarezza che ispira la determinazione e l’eroismo delle masse proletarie non può essere decretata, né è il frutto di un indottrinamento da parte di una minoranza detentrice della “verità”: essa è il prodotto della combinazione dell’esperienza, della lotta e in particolare del dibattito. La cultura del dibattito è stata molto presente in questi tre movimenti: tutto è stato sottomesso alla discussione, niente di ciò che è politico, sociale, economico, umano, è sfuggito alla critica di queste immense agorà improvvisate. Come abbiamo detto nell’introduzione all’articolo dei compagni greci, questo fatto ha un’importanza enorme: “lo sforzo determinato per contribuire all’emergere di ciò che i compagni del TPTG chiamano ‘una sfera proletaria pubblica’ che renderà possibile ad un numero crescente di elementi della nostra classe non soltanto di operare per la resistenza agli attacchi capitalisti contro le nostre condizioni di vita ma anche per sviluppare le teorie e le azioni che insieme conducono ad un nuovo modo di vivere”[23];
- il modo di considerare la questione della violenza: il proletariato “è stato confrontato fin dall’inizio con la violenza estrema della classe sfruttatrice, con la repressione quando ha provato a difendere i suoi interessi, con la guerra imperialista ed anche con la violenza quotidiana dello sfruttamento. Contrariamente alle classi sfruttatrici, la classe portatrice del comunismo non porta in sé violenza, ed anche se non può fare a meno di usarla non deve mai identificarsi con essa. In particolare, la violenza di cui dovrà dare prova per rovesciare il capitalismo e di cui dovrà servirsi con determinazione, è necessariamente una violenza cosciente ed organizzata e dunque deve essere preceduta da tutto un processo di sviluppo della sua coscienza e della sua organizzazione attraverso le differenti lotte contro lo sfruttamento”[24]. Come in occasione del movimento degli studenti nel 2006, la borghesia ha tentato più volte di trascinare il movimento degli Indignati (soprattutto in Spagna) nella trappola degli scontri violenti contro la polizia in un contesto di dispersione e di debolezza, per poter così discreditare il movimento e rendere più facile il suo isolamento. Queste trappole sono state evitate ed è iniziata ad emergere una riflessione attiva sulla questione della violenza[25].
Debolezze e confusioni da combattere
Non vogliamo affatto glorificare questi movimenti. Niente è più estraneo al metodo marxista che fare di una determinata lotta, per importante e ricca che sia, un modello definitivo, concluso e monolitico che bisogna seguire alla lettera. Comprendiamo perfettamente le loro debolezze e difficoltà che vediamo con lucidità.
La presenza di un’ala democratica
Questa spinge alla realizzazione di una “vera democrazia”. Questa linea è rappresentata da diverse correnti, comprese alcune di destra come in Grecia. E’ evidente che i media ed i politici si appoggiano su quest’ala per fare in modo che l’insieme del movimento si identifichi con essa.
I rivoluzionari devono combattere energicamente tutte le mistificazioni, le false misure, gli argomenti fallaci di questa tendenza. Tuttavia bisogna chiedersi: perché esiste ancora una forte propensione a lasciarsi sedurre dal canto di sirena della democrazia, dopo tanti anni di inganni, di menzogne e di delusioni? Si possono dare tre motivazioni. La prima si trova nel peso degli strati sociali non proletari molto recettivi alle mistificazioni democratiche ed all’interclassismo. La seconda risiede nella potenza delle confusioni e delle illusioni democratiche ancora molto presenti nella classe operaia. Infine, la terza si trova nella pressione di quella che noi chiamiamo la decomposizione sociale e ideologica del capitalismo che favorisce la tendenza a cercare rifugio in un’entità “al di sopra delle classi e dei conflitti”, cioè lo Stato, che si presume potrebbe apportare un certo ordine, la giustizia e la mediazione.
Ma c’è una causa più profonda sulla quale è importante attirare l’attenzione. Ne Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte, Marx constata che “Le rivoluzioni proletarie (…) indietreggiano di nuovo costantemente davanti all’immensità infinita dei loro propri fini”[26]. Oggi, gli avvenimenti mettono in evidenza il fallimento del capitalismo, la necessità di distruggerlo e di costruire una nuova società. Per un proletariato che dubita delle proprie capacità, che non ha recuperato la propria identità, questo crea, e continuerà ancora a creare per un certo tempo, la tendenza ad aggrapparsi a dei rami marci, a delle false misure di “riforme” e di “democratizzazione”, anche se con tanti dubbi. Tutto questo, indiscutibilmente, dà un margine di manovra alla borghesia che le permette di seminare divisione e demoralizzazione e, di conseguenza, rendere ancora più difficile per il proletariato il recupero di questa fiducia in sé e di questa identità di classe.
Il peso dell’apoliticismo
Si tratta di una vecchia debolezza che si porta dietro il proletariato dal 1968 e che trova la sua origine nell’enorme delusione ed il profondo scetticismo provocato dalla controrivoluzione stalinista e social-democratica, che induce a credere che ogni opzione politica, comprese quelle che si richiamano al proletariato, non è che una vile menzogna che porta in sé la serpe del tradimento e dell’oppressione. Di questo approfittano largamente le forze della borghesia che, occultando la propria identità e imponendo la finzione di un intervento “in quanto liberi cittadini”, hanno operato nel movimento per prendere il controllo delle assemblee e sabotarle dall’interno. I compagni del TPTG lo mettono chiaramente in evidenza: “All’inizio c’era uno spirito comunitario nello sforzo di auto-organizzare l’occupazione della piazza e ufficialmente i partiti politici non erano tollerati. Tuttavia, i gauchisti e, in particolare, quelli che venivano da SYRIZA (coalizione della Sinistra radicale) furono rapidamente implicati nelle assemblee di Syntagma e conquistarono dei posti importanti nei gruppi che erano stati formati per gestire l’occupazione di piazza Syntagma e, più specificamente, nei gruppi per il ‘segretariato di sostegno’ e quello responsabile della ‘comunicazione’. Questi due gruppi sono i più importanti perché organizzano gli ordini del giorno delle assemblee e la tenuta delle discussioni. Bisogna notare che queste persone non facevano sapere della loro filiazione politica e apparivano come degli ‘individui’”[27].
Il pericolo del nazionalismo
Questo è più presente in Grecia e in Israele. Come denunciano i compagni del TPTG, “il nazionalismo (principalmente sotto la sua forma populista) è dominante, favorito sia dalle diverse cricche di estrema destra che da quelle di sinistra e gauchiste. Anche per molti proletari e piccolo-borghesi colpiti dalla crisi che non si sono affiliati a dei partiti politici, l’identità nazionale appare come un ultimo rifugio immaginario quando tutto il reso crolla rapidamente. Dietro le parole d’ordine contro ‘il governo venduto allo straniero’ o per ‘la salvezza del paese’, ‘la sovranità nazionale’, la rivendicazione di una ‘nuova costituzione’ essa appare come una soluzione magica e unificatrice”[28].
La riflessione dei compagni è tanto giusta quanto profonda. La perdita dell’identità e della fiducia del proletariato nella propria forza, il lento processo che attraversa la lotta nel resto del mondo, favoriscono la tendenza ad “aggrapparsi alla comunità nazionale” rifugio utopico di fronte ad un mondo ostile e pieno d’incertezze.
Così, ad esempio, le conseguenze dei tagli nella sanità e l’educazione, il problema concreto creato dall’indebolimento di questi servizi, vengono utilizzati per rinchiudere le lotte dietro le sbarre nazionaliste della rivendicazione di una “buona educazione” (perché questa ci rende competitivi sul mercato mondiale) e di una “sanità al servizio di tutti i cittadini”.
La paura e la difficoltà ad assumere lo scontro di classe
L’angosciante minaccia della disoccupazione, la precarietà di massa, la crescente frammentazione degli impiegati – divisi, nello stesso posto di lavoro, in una rete inestricabile di subappaltatori e attraverso un’incredibile varietà di modalità di assunzione – provocano un potente effetto intimidatorio e rendono più difficile il raggruppamento dei lavoratori per la lotta. Questa situazione non può essere superata con appelli volontaristici alla mobilitazione, tanto meno ammonendo i lavoratori per la loro supposta “vigliaccheria” o “servilismo”.
Pertanto, il passo verso la mobilizzazione massiccia dei disoccupati, dei precari, dei centri di lavoro e di studio, è reso più difficile di ciò che potrebbe sembrare a prima vista, difficoltà che causa a sua volta un’esitazione, un dubbio ed una tendenza ad aggrapparsi a delle “assemblee” che diventano ogni giorno più minoritarie e la cui “unità” favorisce soltanto le forze borghesi che agiscono al loro interno. Questo dà un margine di manovra alla borghesia per preparare i suoi colpi bassi destinati a sabotare le assemblee generali dall’interno. È ciò che denunciano giustamente i compagni del TPPG: “La manipolazione dell’assemblea principale in piazza Syntagma (ce ne sono molte altre in varie zone di Atene ed in altre città) da parte di membri ‘non dichiarati’ partiti e di organizzazioni di sinistra è evidente ed è un ostacolo reale ad una direzione di classe del movimento. Tuttavia, a causa della profonda crisi di legittimità del sistema politico di rappresentanza in generale, anche loro dovevano nascondere la loro identità politica e mantenere un equilibrio - non sempre riuscito – tra, da un lato, un discorso generale ed astratto su ‘l’autodeterminazione’, la ‘democrazia diretta’, ‘l’azione collettiva’, ‘l’antirazzismo’, il ‘cambiamento sociale’, ecc., e dall’altro contenere il nazionalismo estremo, il comportamento da delinquente di alcuni individui di estrema destra che partecipavano ai raggruppamenti in piazza”[29].
Guardare al futuro con serenità
Se è evidente che “perché viva l’umanità, il capitalismo deve morire”[30], il proletariato è ancora lontano dall’aver raggiunto la capacità di rendere esecutiva la sentenza. Il movimento degli Indignati pone una prima pietra.
Nella serie di nostri articoli citata prima, diciamo: “Una delle ragioni per le quali le previsioni dei rivoluzionari del passato sulla scadenza della rivoluzione non si sono realizzate è che loro hanno sottovalutato la forza della classe dirigente, in particolare la sua intelligenza politica”[31]. Questa capacità della borghesia di utilizzare la sua intelligenza politica contro le lotte è oggi più viva che mai! Ad esempio, i movimenti degli Indignati nei tre paesi sono stati completamente occultati altrove, eccetto quando se ne è data una versione light di “rinnovamento democratico”. Altro esempio, la borghesia britannica è stata capace di approfittare del malcontento per incanalarlo verso una rivolta nichilista che gli è servita da pretesto per rafforzare la repressione ed intimidire la benché minima risposta di classe[32].
I movimenti degli Indignati hanno posto una prima pietra nel senso che hanno fatto i primi passi perché il proletariato recuperi la fiducia in sé stesso e la sua identità di classe, ma quest’obiettivo resta ancora molto lontano perché richiede lo sviluppo di lotte di massa su un terreno direttamente proletario che metta in evidenza che la classe operaia, di fronte alla rovina del capitalismo, è capace di offrire un’alternativa rivoluzionaria agli strati sociali non sfruttatori.
Noi non sappiamo come raggiungeremo questa prospettiva e dobbiamo restare vigili verso le capacità e le iniziative delle masse, come quella del 15 maggio in Spagna. Ciò di cui siamo sicuri è che un fattore essenziale in questa direzione sarà l’estensione internazionale delle lotte.
Questi tre movimenti hanno piantato il germe di una coscienza internazionalista: il movimento degli Indignati in Spagna, diceva che la sua fonte d’ispirazione era stata piazza Tahrir in Egitto[33] ed ha cercato un’estensione internazionale della lotta, anche se ciò è stato fatto in modo molto confuso. Da parte loro, i movimenti in Israele ed in Grecia hanno dichiarato esplicitamente che seguivano l’esempio degli Indignati di Spagna. I dimostranti di Israele esibivano cartelli che dicevano: “Mubarak, Assad, Netanyahou: tutti uguali!”, cosa che mostra non soltanto un inizio di coscienza di chi è il nemico ma una comprensione almeno embrionale del fatto che la loro lotta si fa con gli sfruttati di questi paesi e non contro di loro nel quadro della difesa nazionale[34]. “A Jaffa, decine di manifestanti arabi ed ebrei portavano cartelli in ebraico e in arabo con la scritta ‘Arabi ed ebrei vogliono alloggi a prezzi accessibili”, e “Jaffa non vuole offerte per i soli ricchi”. (…) ci sono state proteste continue sia di ebrei che di arabi contro gli sfratti di questi ultimi dal quartiere di Sheikh Jarrah. A Tel Aviv, ci sono stati contatti con i residenti dei campi profughi nei territori occupati, che hanno fatto visita alle tendopoli e si sono impegnati in discussioni con i manifestanti”.[35]. I movimenti in Egitto ed in Tunisia, come quelli in Israele, cambiano le carte in tavola della situazione, in una parte del pianeta che è probabilmente il centro principale dello scontro imperialista nel mondo. Come dice il nostro articolo, “L’attuale ondata internazionale di rivolte contro l’austerità capitalista sta aprendo la porta a tutt’altra soluzione: la solidarietà di tutti gli sfruttati al di là di ogni divisione religiosa o nazionale; la lotta di classe in tutti i paesi con l’obiettivo finale di un mondo nuovo che sarà la negazione dei confini nazionali e degli Stati. Uno o due anni fa una tale prospettiva sarebbe sembrata completamente utopica ai più. Oggi, un numero crescente di persone si rende conto che una rivoluzione globale costituisce un’alternativa realistica al collasso dell’ordine del capitalista globale”[36].
Questi tre movimenti hanno contribuito alla cristallizzazione di un’ala proletaria: tanto in Grecia che in Spagna, ma anche in Israele[37], sta emergendo un’ala proletaria alla ricerca dell’auto-organizzazione, della lotta intransigente a partire da posizioni di classe e dalla lotta per la distruzione del capitalismo. I problemi ma anche le potenzialità e le prospettive di quest’ampia minoranza non possono essere affrontati nel quadro di quest’articolo. Ciò che è certo, è che essa costituisce un’arma vitale a cui il proletariato ha dato vita per preparare le sue battaglie future.
C. Mir, 23-9-2011
[1] Vedi “La mobilitazione degli "indignati" in Spagna e le sue ripercussioni nel mondo: un movimento portatore di avvenire” https://it.internationalism.org/node/1074 [30]. Nella misura in cui quest’articolo analizza in dettaglio quest’esperienza, non vi ritorneremo qui.
[2] Vedi https://it.internationalism.org/node/1055 [31], https://it.internationalism.org/node/1094 [32], https://it.internationalism.org/node/1113 [33].
[3] “Rivoluzione comunista o distruzione dell’umanità”, Manifesto del IX Congresso della CCI, 1991, https://it.internationalism.org/manifesto-91 [34].
[4] .Vedi Rivista Internazionale n. 103 e 104, in inglese, francese e spagnolo rispettivamente alle pagine: https://en.internationalism.org/booktree/2145 [35], https://fr.internationalism.org/booktree/2859 [36] e https://es.internationalism.org/booktree/2023 [37].
[5] Per approfondire questo concetto cruciale di decadenza del capitalismo vedi, tra gli altri, l’articolo dell’ultima Rivista Internazionale, 146 “per i rivoluzionari la Grande depressione conferma l’obsolescenza del capitalismo” disponibile al momento in inglese, https://en.internationalism.org/ir/146/great-depression [38], in spagnolo [39] e in francese https://fr.internationalism.org/rint146/pour_les_revolutionnaires_la_grande_depression_confirme_l_obsolescence_du_capitalisme.html [40].
[6] “ La seconda condizione della rivoluzione proletaria sta nello sviluppo di una crisi aperta della società borghese che dimostri chiaramente che i rapporti di produzione capitalisti devono essere sostituiti da altri rapporti di produzione”, Rivista Internazionale n. 103, vedi nota 4.
[7] Rivista Internazionale n. 104, “All’ alba del 21° secolo, perché il proletariato non ha ancora rovesciato il capitalismo?” II parte, vedi nota 4.
[8] “Crisi economica mondiale: una crisi micidiale”, https://it.internationalism.org/node/1075 [41].
[9] Vedi ICC online 2009: https://it.internationalism.org/node/808 [2].
[10] “Poiché è privo di qualsiasi punto d’appoggio economico nell’ambito del capitalismo, la sua sola vera forza, oltre al suo numero e la sua organizzazione, è la capacità di prendere chiaramente coscienza della natura, dei fini e dei mezzi della sua lotta”, Rivista internazionale n. 103, op. cit.
[11] “Le nazionalizzazioni, così come un certo numero di misure ‘sociali’ (ad esempio una maggiore presa in carico da parte dello Stato del sistema sanitario) sono misure perfettamente capitaliste (…) I capitalisti hanno tutto l’interesse a disporre di operai in buona salute (…) Eppure, queste misure capitaliste vengono presentate come “vittorie operaie’”, Rivista Internazionale n. 104, op. cit.
[12] Non possiamo sviluppare qui perché la classe operaia è la classe rivoluzionaria della società e neppure perché la sua lotta rappresenta il futuro per tutti gli strati sociali non sfruttatori, questione scottante come vedremo più avanti rispetto al movimento degli Indignati. Il lettore potrà trovare degli elementi di risposta per alimentare il dibattito su questa questione nella serie di due articoli pubblicati nei n. 73 e 74 della Rivista Internazionale, “Chi può cambiare il mondo?”, in inglese https://en.internationalism.org/node/2104 [42], spagnolo [43] e francese https://fr.internationalism.org/rinte73/proletariat.htm [44]
[13] “La decomposizione, fase ultima del capitalismo”, https://it.internationalism.org/node/976 [45]
[14] Vedi gli articoli di analisi della lotta di classe nella nostra Rivista Internazionale.
[15] Rivista Internazionale n. 125, “Tesi sul movimento degli studenti della primavera 2006 in Francia”, https://it.internationalism.org/rint/28_tesi_studenti [46].
[16] La borghesia sta ben attenta a nascondere questi avvenimenti: le sommosse nichiliste delle banlieue parigine nel novembre 2005 in Francia sono molto più conosciute, anche negli ambienti politicizzati, rispetto al movimento cosciente degli studenti cinque mesi più tardi.
[17] L’indignazione non è né la rassegnazione né l’odio. Contro la dinamica insopportabile del capitalismo, la rassegnazione esprime una passività, una tendenza a respingere senza vedere come affrontare. L’odio, da parte sua, esprime una sensazione attiva poiché il rifiuto si trasforma in lotta, ma si tratta di un combattimento cieco, privo di prospettive e di riflessione per elaborare un progetto alternativo, esso è puramente distruttivo, che assembla una somma di risposte individuali ma che non generano nulla di collettivo. L’indignazione esprime la trasformazione attiva del rifiuto accompagnata dal tentativo di lottare coscientemente, ricercando l’elaborazione concomitante di un’alternativa, essa è dunque collettiva e costruttiva. “ … L’indignazione porta alla necessità di un rinnovamento morale, di un cambiamento culturale, le proposte che si fanno - anche se sembrano ingenue o peregrine -manifestano un’ansia, ancora timida e confusa, di voler ‘vivere in modo diverso’”, (“Da piazza Tahrir a Puerta del Sol”, ICC on-line, https://it.internationalism.org/node/1058 [47]).
[19] “Protesta in Israele: Mubarak, Assad, Netanyahu. Sono tutti uguali!”, Rivoluzione Internazionale n. 172, https://it.internationalism.org/node/1077 [49].
[20] ICC on-line, “Un contributo del TPTG sul movimento degli Indignati in Grecia”, https://fr.internationalism.org/node/4776 [50].
[21] Idem.
[22] “Rivolte sociali in Israele…” , op.cit.
[23] “Un contributo del TPTG”, op. cit.
[24] “Tesi sul movimento degli studenti della primavera 2006 in France”, op. cit.
[25] CCI online, “Cosa c’è dietro la campagna contro ‘violenti’ attorno agli incidenti di Barcellona?”, https://fr.internationalism.org/icconline/2011/dossier_special_indignes/quyatil_derriere_la_campagne_contre_les_violents_autour_des_incidents_de_barcelone.html [51].
[26] Karl Marx, Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte
[27] “Un contributo del TPTG… “, op. cit e anche “L’apoliticismo è una mistificazione pericolosa per la classe operaia”, in lingua francese su ICC online https://fr.internationalism.org/ri424/_apolitisme_une_mystification_dangereuse_pour_la_classe_ouvriere.html [52].
[28] idem
[29] Idem.
[30] Parola d’ordine della Terza Internazionale.
[31] Rivista Internazionale n. 140
[32] “Le rivolte in Gran Bretagna e la prospettiva senza futuro del capitalismo”, ICC online, https://it.internationalism.org/node/1092 [53].
[33] La “Plaza de Cataluña” è stata ribattezzata dall’Assemblea “Piazza Tahrir”, cosa che non soltanto afferma una volontà internazionalista ma costituisce anche un affronto al nazionalismo catalano che considera questa piazza il suo “pezzo forte”.
[34] Citato in “Rivolte sociali in Israele”, op. cit.: “Un manifestante intervistato al telegiornale di RT news network cui era stato chiesto se le proteste erano state ispirate dagli eventi nei paesi arabi ha risposto: “C’è una grande influenza di quello che è successo in piazza Tahrir ... C’è una grande influenza naturalmente. Questo è quando la gente capisce che hanno il potere, che possono organizzarsi da soli, che non hanno più bisogno di un governo che dica loro cosa devono fare, ma che loro possono cominciare a dire al governo quello che vogliono”.
[35] Idem.
[36] Idem.
[37] In questo movimento, “Alcuni hanno apertamente messo in guardia rispetto al pericolo che il governo possa provocare scontri militari o addirittura una nuova guerra per ripristinare l’“unità nazionale” e dividere così il movimento di protesta” (idem), cosa che, anche se ancora implicitamente, rivela una presa di distanza riguardo allo Stato israeliano di Unione nazionale al servizio dell’economia di guerra e della guerra.
In questi ultimi mesi si sono susseguiti, uno dopo l’altro, avvenimenti di grande portata che manifestano la gravità della situazione economica mondiale: incapacità della Grecia a far fronte ai suoi debiti; minacce analoghe per la Spagna e l’Italia; richiamo alla Francia per la sua estrema vulnerabilità di fronte ad un’eventuale cessazione di pagamento da parte della Grecia o dell’Italia; blocco alla Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti sul rialzo del tetto del debito dello Stato; perdita per questo paese della sua “tripla A” – valutazione massima che fin qui ha caratterizzato la garanzia di rimborso del suo debito; voci sempre più persistenti sul rischio di fallimento di alcune banche, le cui smentite non ingannano nessuno, considerando le massicce soppressioni di posti di lavoro già effettuate; prima conferma di queste voci con il fallimento della banca franco-belga Dexia. Ogni volta i dirigenti di questo mondo corrono ai ripari ma le falle che sembravano aver tappato si aprono di nuovo, qualche settimana o anche qualche giorno dopo. La loro impotenza a contenere la scalata della crisi non evidenzia tanto la loro incompetenza e la loro visione a breve termine, quanto piuttosto la dinamica attuale del capitalismo verso catastrofi che non possono essere evitate: fallimenti di istituti finanziari, fallimenti di Stati, caduta in una profonda recessione mondiale.
Conseguenze drammatiche per la classe operaia
Le misure di austerità prese dal 2010 sono implacabili e pongono sempre più la classe operaia - e gran parte del resto della popolazione – nell’incapacità di far fronte ai propri bisogni vitali. Enumerare tutte le misure di austerità che sono state attuate nella zona euro, o che sono in via di attuazione, porterebbe ad una lista lunghissima. Tuttavia è necessario menzionarne alcune che tendono a generalizzarsi e sono particolarmente significative rispetto alla sorte riservata a milioni di sfruttati. In Grecia, nel 2010 sono già state aumentate le tasse sui beni di consumo, l’età pensionabile è stata portata a 67 anni e gli stipendi dei funzionari pubblici sono stati ridotti brutalmente, a settembre 2011 è stato deciso di: mettere in cassa integrazione 30.000 impiegati del pubblico impiego con una diminuzione del 40% dello stipendio; ridurre del 20% l’importo delle pensioni che superano i 1.200 euro; tassare tutti i redditi superiori a 5.000 euro annui[1] In quasi tutti i paesi le tasse aumentano, l’età per la pensione viene innalzata e gli impieghi pubblici vengono soppressi a decine di migliaia. Ne risultano pesanti disfunzioni nei servizi pubblici, compresi quelli di vitale importanza. Ad esempio, in una città come Barcellona, sono state ridotte le ore di servizio delle sale operatorie e dei servizi di pronto intervento e sono stati eliminati in maniera massiccia i posti letto ospedalieri[2] a Madrid, 5.000 professori non di ruolo hanno perso il posto[3] e questo è stato compensato aumentando di 2 ore la settimana lavorativa ai professori di ruolo.
Le cifre della disoccupazione sono sempre più allarmanti: il 7,9% nel Regno Unito a fine agosto, il 10% in zona euro (il 20% in Spagna) a fine settembre[4] e 9,1% negli Stati Uniti nello stesso periodo. Per tutta l’estate i piani di licenziamento o di soppressione di posti di lavoro si sono susseguiti senza tregua: 6.500 presso Cisco, 6.000 alla Lockheed Martin, 10.000 all’HSBC, 30.000 alla Bank of America, e l’elenco non finisce qui. I redditi degli sfruttati crollano: secondo le cifre ufficiali, dall’inizio del 2011 in Grecia il salario reale è diminuito più del 10% in un anno, più del 4% in Spagna e, in misura minore, in Portogallo ed in Italia. Negli Stati Uniti 45,7 milioni di persone, ossia con un aumento del 12% in un anno[5], sopravvivono solo grazie al sistema di buoni pasto di 30 dollari a settimana rilasciati dall’Amministrazione.
Eppure, il peggio deve ancora venire.
Pertanto è sempre con più urgenza che si pone la necessità del capovolgimento del sistema capitalista prima che questo, nel suo crollo, trascini in rovina tutta l’umanità. I movimenti di protesta in reazione agli attacchi che sono iniziati nella primavera 2011 in un certo numero di paesi, qualunque siano le insufficienze o le debolezze che possono esprimere, costituiscono i primi passi di un’ampia risposta proletaria alla crisi del capitalismo (vedi su questo argomento l’articolo “Dall’indignazione alla preparazione delle battaglie di classe” in questo stesso numero della Rivista Internazionale).
Dal 2008 la borghesia non è riuscita ad arginare la tendenza alla recessione
All’inizio del 2010 poteva esserci l’illusione che gli Stati fossero riusciti a mettere il capitalismo al riparo da un prosieguo della recessione emersa nel 2008 ed all’inizio 2009 e che si era manifestata con una caduta vertiginosa della produzione. Per tale motivo, tutte le grandi banche centrali del mondo hanno fatto massicce iniezioni di moneta nell’economia. È in questa occasione che Ben Bernanke, il presidente della FED (all’origine del lancio dei piani di rilancio), venne soprannominato “Helicopter Ben” proprio perché sembrava annaffiare gli Stati Uniti di dollari da un elicottero. Tra il 2009 ed il 2010, secondo le cifre ufficiali, che notoriamente sono sempre sopravvalutate, il tasso di crescita è passato negli Stati Uniti dal 2,6% al +2,9% e nella zona euro dal 4,1% al +1,7%. I paesi emergenti, i cui tassi di crescita erano intanto diminuiti, sembrano ritrovare nel 2010 i valori antecedenti alla crisi finanziaria: il 10,4% in Cina, il 9% in India. Tutti gli Stati ed i loro media intonano allora la solfa della ripresa mentre in realtà la produzione dell’insieme dei paesi sviluppati non è mai riuscita a ritrovare i livelli del 2007. In altre parole, invece di ripresa, si può giusto parlare di un palliativo all’interno di un movimento di caduta della produzione. E questo palliativo è durato solo qualche trimestre:
- Nei paesi sviluppati, i tassi di crescita hanno ricominciato a cadere dalla metà del 2010. La crescita prevista negli Stati Uniti
per il 2011 è dello 0,8%. Ben Bernanke ha annunciato che la ripresa americana sta per “segnare il passo”. Peraltro, la crescita dei grandi paesi europei (Germania, Francia, Regno Unito) è vicina allo zero e se i governi dei paesi del Sud Europa (Spagna, 0,6% nel 2011 dopo il - 0,1% nel 2010[6]; Italia, 0,7% nel 2011)[7] stanno ripetendoci in tutti i modi che il proprio paese “non è in recessione”, in realtà, tenuto conto dei piani di rigore che hanno subito e che dovranno ancora subire, la prospettiva che li aspetta non si allontana di molto da quella che attualmente conosce la Grecia, paese la cui caduta della produzione nel 2011 supererà il 5%.
- Per i paesi emergenti la situazione è lungi dall’essere brillante. Se hanno conosciuto dei tassi di crescita importanti nel 2010, l’anno 2011 si presenta molto meno favorevole. Il FMI aveva previsto che questi avrebbero conosciuto una crescita dell’8,4% annuale per il 2011[8], ma certi indici mostrano che l’attività in Cina sta rallentando[9]. Si prevede che la crescita del Brasile nel 2011 passerà dal 7,5% del 2010 al 3,7%[10]. Ed infine, i capitali stanno fuggendo dalla Russia[11]. In breve, contrariamente a ciò che da anni ci vanno ripetendo gli economisti e parecchi politici, i paesi emergenti non saranno la locomotiva che permetterà un ritorno della crescita mondiale. Al contrario, questi paesi soffriranno per primi la degradazione della situazione dei paesi sviluppati e vedranno una caduta delle loro esportazioni che fino ad ora hanno rappresentato il loro fattore di crescita.
Il FMI ha appena rivisto le sue previsioni che contavano su una crescita del 4% a livello mondiale per gli anni 2011 e 2012, segnalando, dopo aver precedentemente constatato che la crescita si era “indebolita considerevolmente”, “che non può essere esclusa”[12] una recessione per l’anno 2012. In altri termini, la borghesia sta prendendo coscienza fino a che punto l’attività economica va a contrarsi. Alla vista di una tale evoluzione non possiamo che domandarci: perché le banche centrali non hanno continuato ad annaffiare il mondo di moneta come hanno fatto alla fine dell’anno 2008 e nel 2009, aumentando così in modo considerevole la massa monetaria (è stata moltiplicata per 3 negli Stati Uniti e per 2 nella zona euro)? La ragione è che scaricare “moneta fasulla” sulle economie non risolve le contraddizioni del capitalismo. Il risultato più che un rilancio della produzione è l’inflazione e quest’ultima rasenta il 3% in zona euro, un poco di più negli Stati Uniti, il 4,5% nel Regno Unito, tra il 6% e 9% nei paesi emergenti.
L’emissione di carta moneta o elettronica permette che siano possibili nuovi prestiti … e che venga quindi aumentato l’indebitamento mondiale. Lo scenario non è nuovo, è proprio così che i grandi attori economici mondiali si sono indebitati ad un punto tale da non poter più adesso rimborsare il loro debito. In altri termini, oggi sono insolvibili e tra questi contiamo, niente meno, che gli Stati europei, lo Stato americano e l’insieme del sistema bancario.
Il cancro del debito pubblico
La zona euro
Gli Stati europei hanno sempre più difficoltà ad onorare il pagamento degli interessi del loro debito.
Se è nella zona euro che si sono manifestate per prime le insolvenze di pagamento di certi Stati è perché questi non avendo, come invece è per gli Stati Uniti, Regno Unito e Giappone, la gestione dell’emissione della loro moneta, non hanno avuto la possibilità di stampare carta moneta per onorare con moneta fasulla le scadenze del loro debito. L’emissione di Euro è di competenza della Banca Centrale europea (BCE) che è sottoposta alla volontà dei grandi Stati europei, in particolare della Germania. E, come ognuno sa, moltiplicare la massa monetaria per due o per tre, mentre la produzione ristagna, non può che tradursi in uno sviluppo dell’inflazione. È per evitare ciò che la BCE ha sempre più espresso riluttanza ad assicurare il finanziamento degli Stati in difficoltà per non ritrovarsi, lei stessa, in una situazione di insolvenza.
È una delle ragioni essenziali per la quale i paesi della zona euro vivono, da un anno e mezzo, sotto la minaccia di mancato pagamento da parte dello Stato greco. In effetti, il problema che si pone alla zona euro non ha soluzione perché il suo rifiuto di finanziare il debito greco provocherebbe la cessazione di pagamento della Grecia e la sua uscita dalla zona euro. I creditori della Grecia, tra cui figurano alcuni Stati e banche europee importanti, incontrerebbero a loro volta delle difficoltà per far fronte ai propri impegni, e sarebbero loro stessi minacciati di fallimento. È l’esistenza stessa della zona Euro che si trova così messa in questione, mentre la sua esistenza è essenziale per i paesi esportatori situati a nord di questa, soprattutto la Germania.
È essenzialmente la Grecia che, da un anno e mezzo, ha polarizzato l’attenzione sulle questioni di insolvenza. Ma paesi come la Spagna e l’Italia si trovano in una situazione simile visto che non riusciranno mai prendere misure fiscali necessarie all’ammortamento di una parte del loro debito.
Un semplice sguardo sull’ampiezza del debito dell’Italia, la cui insolvenza a breve termine è molto probabile, mostra che la zona euro non potrà sostenere questo paese per permettergli di assumere i suoi impegni. Gli investitori credono sempre meno nelle sue capacità di rimborso ed è per tale motivo che si rifiutano di prestarle denaro se non a tassi molto elevati. La situazione della Spagna è abbastanza vicina a quella della Grecia.
Le prese di posizione dei governi e delle istanze della zona euro, in particolare del governo tedesco, traducono la loro incapacità a far fronte alla situazione creata dalla minaccia di fallimento di certi paesi. La maggior parte della borghesia della zona euro è cosciente che il problema non è più sapere se la Grecia è inadempiente: l’annuncio che le banche sarebbero intervenute per partecipare al salvataggio della Grecia relativo al 21% del suo debito è un riconoscimento di questa situazione, già confermato durante il vertice Merkel-Sarkozy del 9 ottobre dove è stato ammesso che ci sarebbe stato un default di pagamento della Grecia pari al 60% del suo debito.
Da allora il problema che si è posto alla borghesia è quello di trovare i mezzi per far sì che questo default provochi il minor danno possibile nella zona euro. Il che non è facile e rende la situazione particolarmente delicata provocando anche esitazioni e divisioni al suo interno. Infatti, i partiti politici al potere in Germania sono alquanto divisi sul fatto se bisogna aiutare finanziariamente la Grecia, come aiutarla e se è necessario aiutare anche gli altri Stati che si dirigono a grandi passi verso la stessa insolvenza che oggi riguarda questo paese. A titolo illustrativo, è notevole che il piano deciso il 21 luglio dalle autorità della zona euro per “salvare” la Grecia e che prevede un rafforzamento della capacità di prestito del Fondo europeo di Stabilità Finanziaria da 220 a 440 miliardi di euro (con l’evidente corollario di un aumento delle quote dei diversi Stati) sia stato rimesso in causa per settimane da una parte importante dei partiti al potere in Germania. E poi, alla fine è stato votato in massa dal Bundestag il 29 settembre! Allo stesso modo, fin da inizio agosto il governo tedesco si era opposto al fatto che la BCE ricomprasse titoli del debito sovrano dell’Italia e della Spagna. Considerando l’alto livello di degrado della situazione finanziaria di questi paesi, lo Stato tedesco ha alla fine accettato che a partire dal 7 agosto la BCE potesse ricomprare tali obbligazioni[13]. Tanto che tra il 7 agosto ed il 22 agosto, la BCE avrà ricomprato l’equivalente di 22 miliardi di debito sovrano di questi due paesi[14]! In effetti, queste contraddizioni ed indugi mostrano che anche una borghesia tanto importante internazionalmente come quella tedesca non sa quale politica portare avanti. In generale, l’Europa, spinta dalla Germania, ha scelto la via dell’austerità. Ciò non esclude di poter finanziare un minimo gli Stati e le banche attraverso l’istituzione del Fondo europeo di Solidarietà Finanziaria (che presuppone dunque anche l’aumento delle risorse finanziarie di questo organismo), né di autorizzare la BCE a creare sufficiente moneta per venire in aiuto ad uno Stato che non può più pagare più i suoi debiti, in modo che il fallimento non avvenga subito.
Certamente il problema non è della borghesia tedesca, ma di tutta la classe dominante perché è lei, nel suo insieme, che dalla fine degli anni 60 si è indebitata per evitare la sovrapproduzione, e ciò ad un punto tale che oggi è molto difficile non solo rimborsare le rate del debito alla scadenza ma anche onorare gli interessi di questo. Da qui il tentativo di fare risparmi adesso attraverso politiche di austerità draconiana che drenano tutti i redditi ma che, nello stesso tempo, non possono che provocare una diminuzione della domanda, accrescere la sovrapproduzione e accelerare la caduta nella depressione.
Gli Stati Uniti
Questo paese è stato confrontato allo stesso tipo di problema durante l’estate scorsa.
Il tetto del debito che era stato fissato nel 2008 a 14.294 miliardi di dollari, è stato raggiunto nel maggio 2011. Doveva essere innalzato affinché potesse consentire, come per i paesi della zona euro, di far fronte agli impegni, compresi quelli interni e cioè assicurare il funzionamento dello Stato. Anche se l’inverosimile arcaismo e la stupidità del Tea Party sono stati un fattore di aggravamento della crisi, questi non hanno costituito il fondo del problema che si è posto al Presidente ed al Congresso degli Stati Uniti. Il vero problema era proprio la scelta da fare di fronte all’alternativa che si poneva:
- o proseguire con la politica di indebitamento dello Stato federale, come chiedevano i democratici, cioè fondamentalmente chiedere alla FED di creare moneta con il rischio di provocare una caduta incontrollata del suo valore;
- o praticare una politica di austerità drastica come esigevano i repubblicani, in particolare attraverso la riduzione, su 10 anni, delle spese pubbliche da 4.000 a 8.000 miliardi di dollari. A titolo di paragone, il PIL degli Stati Uniti nel 2010 era di 14.624 miliardi di dollari, il che dà un’idea dell’ampiezza dei tagli di bilancio e dunque delle soppressioni di impieghi pubblici implicati in un tale piano.
Riassumendo, l’alternativa posta quest’estate negli Stati Uniti è stata la seguente: o correre il rischio di aprire la porta ad un’inflazione che poteva diventare galoppante, o praticare una politica d’austerità che non poteva che ridurre fortemente la domanda, provocando la caduta o anche la scomparsa dei profitti con, alla fin dei conti, la chiusura a catena di tutta una serie di imprese ed una caduta vertiginosa della produzione. Dal punto di vista degli interessi del capitale nazionale, sia la posizione dei Repubblicani che quella dei Democratici è legittima. Tormentate dalle contraddizioni che attaccano l’economia nazionale, le autorità americane di questo paese si sono ridotte a prendere delle mezze misure… contraddittorie ed incoerenti. Il Congresso si troverà dunque nuovamente confrontato alla necessità di realizzare migliaia di miliardi di dollari di risparmi di bilancio e contemporaneamente un nuovo piano di rilancio dell’impiego.
L’esito del conflitto tra repubblicani e democratici mostra che, contrariamente all’Europa, gli Stati Uniti hanno scelto l’aggravamento del debito poiché il tetto del debito federale è stato alzato a 2.100 miliardi di dollari fino al 2013 con, come contropartita, delle riduzioni di spese di bilancio di circa 2.500 miliardi nei prossimi dieci anni.
Ma, come per l’Europa, questa decisione mostra che lo Stato americano non sa quale politica condurre di fronte al vicolo cieco dell’indebitamento.
L’abbassamento in negativo dell’affidabilità del debito americano da parte dell’agenzia Standard and Poor's e le reazioni che esso ha provocato sono una dimostrazione di come la borghesia sappia perfettamente che è in un vicolo cieco e che non sa con quali mezzi uscirne. Contrariamente a ben altre decisioni delle agenzie di rating dall’inizio della crisi dei subprime, la decisione della Standard and Poor's di quest’estate appare coerente: l’agenzia mostra che non ci sono ricette sufficienti per compensare l’aumento dell’indebitamento accettato dal Congresso e che, quindi, la capacità degli Stati Uniti di rimborsare i propri debiti ha perso credibilità. In altri termini, per questa istituzione il compromesso che ha evitato una grave crisi politica negli Stati Uniti, aggravando l’indebitamento di questo paese, va ad aumentare l’insolvenza dello stesso Stato americano. La perdita di fiducia dei finanzieri del pianeta verso il dollaro che risulterà inevitabilmente dalla sentenza della Standard and Poor's abbasserà così il suo valore. Peraltro, se il voto dell’aumento del tetto del debito federale permette di evitare la paralisi all’amministrazione federale, i differenti Stati federati e le municipalità in fallimento non ne saranno risparmiati. Dal 4 luglio, lo Stato del Minnesota è in default e ha dovuto chiedere a 22.000 funzionari di restare a casa[15]. Un certo numero di città americane (tra le quali Central Falls e Harrisburg, capitale della Pennsylvania) sono nella stessa situazione; situazione che lo Stato della California - e non è il solo - sembra non potere evitare in un prossimo futuro.
Di fronte all’aggravamento della crisi dal 2007, tanto la politica economica della zona euro che quella degli Stati Uniti non hanno potuto evitare agli Stati di addossarsi i debiti che, all’origine, erano stati contratti dal settore privato. Questi nuovi debiti del settore pubblico non hanno fatto che accrescere il debito pubblico che, da parte sua, si sviluppava da decenni. Ne è risultato uno scadenzario di rimborsi ai quali gli Stati non possono far fronte. Negli Stati Uniti, come nella zona euro, questo si traduce in licenziamenti di massa nel settore pubblico, con l’abbassamento senza fine degli stipendi e l’aumento, anche senza fine, delle tasse.
La minaccia di un grave crisi bancaria
Nel 2008-2009, dopo il crollo di alcune banche come Bear Stearns e Northern Rock ed il fallimento puro e semplice di Lehman Brothers, gli Stati sono volati in soccorso di molte altre, ricapitalizzandole per evitare loro la stessa sorte. Come stanno oggi in salute degli istituti bancari? Di nuovo molto male. Innanzitutto, i libri dei conti bancari sono lontani dall’essersi liberati di tutta una serie di crediti irrecuperabili. Poi, molte banche sono esse stesse detentrici di una parte del debito di Stati oggi in difficoltà di pagamento. Il loro problema è che il valore del debito acquistato è notevolmente diminuito rispetto a prima.
La recente dichiarazione del FMI, che si basa sulla conoscenza delle difficoltà attuali delle banche europee e stipula che queste debbano aumentare i loro fondi di 200 miliardi, ha provocato di rinvio reazioni indispettite e dichiarazioni da parte di queste istituzioni secondo le quali per loro tutto andava bene. E questo mentre, nello stesso momento, tutto dimostrava il contrario:
- le banche americane non vogliono rifinanziare più in dollari le filiali americane delle banche europee e rimpatriano i fondi che avevano depositato in Europa;
- le banche europee effettuano sempre meno prestiti tra loro stesse perché sono sempre meno sicure di essere rimborsate e preferiscono porre, anche a tassi molto bassi, le loro liquidità alla BCE;
- conseguenza di questa mancanza di fiducia che si diffonde, i tassi dei prestiti tra banche continuano ad aumentare, anche se non hanno raggiunto ancora i livelli di fine 2008[16].
Il colmo è che, qualche settimana dopo che le banche avevano affermato il loro ottimo stato di salute, abbiamo assistito al fallimento ed alla liquidazione della banca franco-belga Dexia senza che nessun’altra banca sia stata interessata a correre in suo soccorso.
Aggiungiamo che le banche americane sono piazzate molto male per “far ruotare gli ingranaggi” di fronte alle loro consorelle europee: a causa delle difficoltà che incontrano, Bank of America ha appena soppresso il 10% dei suoi posti di lavoro e Goldman Sachs, la banca che è diventata il simbolo della speculazione mondiale, si appresta a licenziare 1.000 persone. E anch’esse preferiscono depositare le loro liquidità alla FED piuttosto che concedere prestiti ad altre banche americane.
La salute delle banche è essenziale per il capitalismo perché quest’ultimo non può funzionare senza un sistema bancario che l’approvvigiona in moneta. Ora, la tendenza alla quale assistiamo è quella che conduce al “Credit Crunch”, cioè una situazione nella quale le banche non vogliono più concedere prestiti appena c’è il minimo rischio di non rimborso. Alla fine ciò determina un blocco della circolazione del capitale, in altre parole il blocco dell’economia. Si comprende meglio, sotto quest’angolazione, perché il problema del rafforzamento dei fondi propri delle banche è diventato il primo punto all’ordine del giorno delle molteplici riunioni di vertice che hanno luogo al livello internazionale, anche prima della situazione della Grecia che, pertanto, resta sempre non risolta. In fondo, il problema delle banche mostra l’estrema gravità della situazione economica e di per sé illustra le difficoltà inestricabili alle quali il capitalismo deve far fronte.
Quando gli Stati Uniti hanno perso la qualifica AAA, il quotidiano economico francese Les Echos, l’8 agosto 2011, in prima pagina titolava: “L’America degradata, il mondo nell’ignoto”. Quando il primo media economico della borghesia francese esprime un tale disorientamento, una tale angoscia rispetto al futuro, non fa che esprimere il disorientamento della stessa borghesia. Dal 1945 il capitalismo occidentale (ed il capitalismo mondiale dopo il crollo dell’URSS) è basato sul fatto che la forza del capitale americano costituisce in ultima istanza il pegno estremo garantendo l’insieme dei dollari che assicurano in tutto il mondo la circolazione delle merci e dunque del capitale. Ora, l’immenso accumulo di debiti che la borghesia americana ha contratto per far fronte, dalla fine degli anni 60, al ritorno della crisi aperta del capitalismo, ha finito per costituire un fattore di accelerazione ed aggravamento di questa stessa crisi. Tutti quelli che detengono delle parti del debito americano, a cominciare dallo stesso Stato americano, hanno in realtà un bene… che vale sempre meno. La moneta nella quale viene valutato, non può a sua volta che indebolirsi così come… lo Stato americano.
La base della piramide sulla quale il mondo è costruito dal 1945 si disgrega. Nel 2007, all’epoca della crisi finanziaria, il sistema finanziario mondiale è stato salvato dalle banche centrali, cioè dagli Stati; adesso questi sono sull’orlo del fallimento ed è fuori questione che le banche possano andare a soccorrerli; da qualsiasi lato i capitalisti si girano, non esiste niente che possa permettere una reale ripresa economica. Infatti, una crescita anche molto debole presuppone l’emissione di nuovi debiti per creare una domanda che permetta di smerciare le merci; ora anche gli interessi dei debiti già contratti non sono più rimborsabili e gettano banche e Stati in bancarotta.
Come si è visto, decisioni date per irrevocabili sono rimesse in discussione dopo pochi giorni, certezze affermate sulla salute dell’economia o delle banche vengono smentite velocemente. In un tale contesto, gli Stati navigano sempre più a vista. È probabile, ma non certo proprio perché la borghesia è disorientata da una situazione inedita, che per far fronte all’immediato, per guadagnare un poco di tempo, questa continui ad annaffiare di moneta il capitale, sia esso finanziario, commerciale o industriale, anche se questo porta ad un’inflazione che è già cominciata, che continuerà a crescere e che diventerà incontrollabile. Ciò non impedirà il susseguirsi di licenziamenti, di abbassamenti di salari e di aumenti delle tasse; ma, in più, l’inflazione aggraverà ulteriormente la miseria della grande maggioranza degli sfruttati. Il giorno stesso in cui Les Echos titolava “L’America degradata, il mondo nell’ignoto”, un altro quotidiano economico francese, La tribune, titolava “Superati”, a proposito dei grandi del pianeta che hanno il potere di decidere, la cui foto era pure riportata la foto in prima pagina. Sì, quelli che ci hanno promesso monti e meraviglie, che poi ci hanno consolati quando era diventato evidente che di meraviglia c’era solo l’incubo che ci aspettava, adesso confessano che “sono superati”. E se “sono superati” è perché il loro sistema, il capitalismo, è definitivamente antiquato e sta trascinando la stragrande maggioranza della popolazione mondiale nella miseria più terribile.
Vitaz, 10-10-2011
[1] https://www.lefigaro.fr/conjoncture/2011/09/22/04016-20110922ARTFIG00699-la-colere-gronde-de-plus-en-plus-fort-en-grece.php [54]
[2] news.fr.msn.com/m6-actualite/monde/espagne-les-enseignants-manifestent-%C3%A0-madrid-contre-les-coupes-budg%C3%A9taires.
[4] Statistiche Eurostat
[5] Le Monde, 7-8 agosto 2011
[8] FMI, prospettive dell’economia mondiale, luglio 2010
[9] Le Figaro, 3 ottobre 2011
[10] Les Echos, 9 agosto 2011
[12] https://www.lefigaro.fr/flash-eco/2011/10/05/97002-20111005FILWWW00435-fmi-recession-mondiale-pas-exclue.php [59]
[13] Les Echos, agosto 2011
[14] Les Echos, 16 agosto 2011
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“Non ridere, non lugere, neque detestari, sed intelligere”
“Non ridere, non piangere, né maledire ma comprendere” (“L’etica”, Spinoza)
I dibatti attuali nella CCI sulla solidarietà e sulla fiducia sono cominciati nel 1999 e nel 2000, in risposta ad una serie di debolezze su queste questioni centrali all’interno della nostra organizzazione. Dietro la mancanza concreta di espressioni di solidarietà nei confronti di compagni in difficoltà, è stata identificata una debolezza più profonda nello sviluppo di un atteggiamento permanente di solidarietà quotidiana tra i nostri militanti. Dietro il ripetersi di manifestazioni di immediatismo nell’analisi e nell’intervento all’interno della lotta di classe (in particolare il rifiuto di riconoscere tutta l’ampiezza del riflusso dopo il 1989) ed una tendenza marcata a consolarci attraverso delle “prove immediate” supposte confermare il corso storico, abbiamo messo in luce una mancanza fondamentale di fiducia nel proletariato e nel nostro stesso quadro di analisi. Dietro la degradazione del tessuto organizzativo che cominciava a concretizzarsi, in particolare nella sezione della CCI in Francia, siamo stati capaci di riconoscere una mancanza di fiducia tra differenti parti dell’organizzazione e nel nostro proprio modo di funzionamento.
Del resto, è il fatto che ci siamo trovati di fronte a diverse manifestazioni di mancanza di fiducia nelle nostre posizioni fondamentali, nella nostra analisi storica ed i nostri principi organizzativi, e tra compagni ed organi centrali, che ci ha obbligato ad andare al di là dei casi particolari e a porre queste questioni in maniera più generale e fondamentale, e dunque più teoriche e storiche.
Più in particolare, la riapparizione del clanismo[1] nel cuore stesso dell’organizzazione necessita l’approfondimento della nostra comprensione su queste questioni. Come è detto nella risoluzione di attività del 14° Congresso della CCI: “... la lotta degli anni ‘90 è stata necessariamente contro lo spirito di circolo ed i clan. Ma, come già detto all’epoca, i clan erano una falsa risposta ad un problema reale: quello della debolezza della fiducia e della solidarietà proletarie nella nostra organizzazione. È per tale motivo che l’abolizione dei clan esistenti non ha risolto in modo automatico il problema della creazione di uno spirito di partito e di una vera fraternità al nostro interno che possono essere il risultato solo di uno sforzo profondamente cosciente.
Mentre avevamo insistito, all’epoca, sul fatto che la lotta contro lo spirito di circolo è permanente, è rimasta l’idea secondo la quale, come fu il caso all’epoca della Prima e della Seconda Internazionale, questo problema restava legato principalmente ad una fase di immaturità che sarebbe stata superata.
In realtà, il pericolo dello spirito di circolo e del clanismo oggi è ben più permanente ed insidioso che all'epoca della lotta di Marx contro Bakunin, o di Lenin contro il menscevismo. In effetti, esiste un parallelo tra le difficoltà attuali della classe nel suo insieme a ritrovare la sua identità di classe ed i riflessi elementari di solidarietà con gli altri operai, e quelle dell’organizzazione rivoluzionaria a mantenere uno spirito di partito nel funzionamento quotidiano.
In questo senso, ponendo le questioni della fiducia e della solidarietà come questioni centrali del periodo, l’organizzazione ha ripreso la lotta del 1993, aggiungendovi una dimensione “in positivo”, ed andando dunque più in profondità per armarsi contro l’intrusione di scivolamenti organizzativi piccolo-borghesi”.
In questo senso, il dibattito attuale riguarda direttamente non solo la difesa ma anche la sopravvivenza stessa dell'organizzazione. Ma proprio per questa ragione, è essenziale sviluppare al massimo tutte le implicazioni teoriche e storiche di queste questioni. Così, rispetto ai problemi organizzativi ai quali siamo confrontati oggi, esistono due approcci fondamentali. La messa a nudo delle debolezze organizzative e delle incomprensioni che hanno permesso il risorgere del clanismo e l’analisi concreta dello sviluppo di questa dinamica sono il compito del rapporto che presenterà la Commissione di investigazione[2]. Il compito di questo Testo di Orientamento, invece, è essenzialmente quello di fornire un quadro teorico che permetta una comprensione storica più profonda ed una risoluzione di questi problemi.
In effetti, è essenziale comprendere che la battaglia per lo spirito di partito comporta necessariamente una dimensione teorica. È proprio la povertà del dibattito che c’è stata finora su fiducia e solidarietà che ha costituito un fattore determinante per lo sviluppo del clanismo. Il fatto stesso che questo Testo di Orientamento sia scritto non all’inizio ma oltre un anno dopo l’apertura di questo dibattito, manifesta le difficoltà che l’organizzazione ha avuto per riuscire ad avere un controllo su queste questioni. Ma la prova migliore di queste debolezze è il fatto che il dibattito sulla fiducia e la solidarietà è stato accompagnato da un deterioramento senza precedenti dei legami di fiducia e di solidarietà tra i compagni!
In realtà, noi siamo qui confrontati a delle questioni fondamentali del marxismo, che sono alla base stessa della nostra comprensione della natura della rivoluzione proletaria, che fanno parte integrante della piattaforma e degli statuti della CCI. In questo senso, la povertà del dibattito ci ricorda che il pericolo di atrofia teorica e di sclerosi è sempre presente per un’organizzazione rivoluzionaria.
La tesi centrale di questo Testo di Orientamento è che la difficoltà a sviluppare, nella CCI, una fiducia ed una solidarietà più profondamente radicate ha costituito un problema fondamentale durante tutta la storia dell’organizzazione. Questa debolezza è a sua volta il risultato delle caratteristiche essenziali del periodo storico che si è aperto nel 1968. È una debolezza non solo della CCI, ma di tutta la generazione proletaria coinvolta. Come riportato nella risoluzione del 14° Congresso: “È un dibattito che deve mobilitare la riflessione in profondità dell’insieme della CCI, perché contiene la capacità potenziale di approfondire non solo la nostra comprensione della costruzione di un’organizzazione che abbia una vita veramente proletaria, ma anche del periodo storico nel quale viviamo”.
In questo senso, le questioni in gioco vanno ben oltre la questione organizzativa in quanto tale. In particolare, la questione della fiducia tocca tutti gli aspetti della vita del proletariato e del lavoro dei rivoluzionari - così come la mancanza di fiducia nella classe si manifesta anche attraverso l’abbandono delle acquisizioni programmatiche e teoriche.
1. Gli effetti della controrivoluzione sulla fiducia in sé e le tradizioni di solidarietà delle generazioni contemporanee del proletariato
a) Nella storia del movimento marxista non troviamo un solo testo scritto sulla fiducia o sulla solidarietà. D’altronde, queste questioni sono al centro stesso di molti contributi fondamentali del marxismo, da “L’ideologia tedesca” e “Il Manifesto del Partito comunista” fino a “Riforma sociale o rivoluzione?” e “Stato e rivoluzione”. L’assenza di una discussione specifica su queste questioni nel movimento operaio del passato non è segno del loro carattere secondario. Tutto al contrario. Queste questioni erano così fondamentali ed evidenti che non venivano mai poste in quanto tali, ma sempre in risposta ad altri problemi sollevati.
Se oggi siamo obbligati a dedicare un dibattito specifico ed uno studio teorico a queste questioni è perché esse hanno perso il loro carattere di “evidenza”.
È la controrivoluzione iniziata negli anni 20 e la rottura della continuità organica delle organizzazioni politiche proletarie che hanno prodotto questo effetto. Per questa ragione, per quanto riguarda l’accumulo di fiducia e di solidarietà vivente all’interno del movimento operaio, è necessario distinguere due fasi nella storia del proletariato. Nella prima fase, che va dagli inizi della sua autoaffermazione come classe autonoma fino all’ondata rivoluzionaria del 1917-23, la classe operaia è stata capace, malgrado una serie di sconfitte spesso sanguinose, di sviluppare in maniera più o meno continua la fiducia in sé stessa e la sua unità politica e sociale. Le manifestazioni più importanti di questa capacità sono state, oltre alle stesse lotte operaie, lo sviluppo di una visione socialista, di una capacità teorica di un’organizzazione politica rivoluzionaria. Questo processo di accumulazione, opera di decenni e di generazioni, è stato interrotto e anche rovesciato dalla controrivoluzione. Solo delle minuscole minoranze rivoluzionarie sono state capaci di mantenere la loro fiducia nel proletariato durante i decenni che sono seguiti. Il risorgere storico della classe operaia nel 1968, mettendo fine alla controrivoluzione, ha cominciato a rovesciare di nuovo questa tendenza. Tuttavia, le nuove espressioni di fiducia in sé e di solidarietà di classe manifestate da questa nuova generazione proletaria non sconfitta sono rimaste in gran parte legate a delle lotte immediate. Non si basavano ancora, come nel periodo precedente alla controrivoluzione, su una visione socialista ed una formazione politica, su una teoria di classe e sulla trasmissione, da una generazione all’altra, di un’esperienza e di una comprensione accumulate. In altri termini, la fiducia in sé storica del proletariato e la sua tradizione di unità attiva e di lotta collettiva appartengono agli aspetti della sua lotta che hanno più sofferto della rottura della continuità organica. Allo stesso modo, esse fanno parte degli aspetti più difficili da ristabilire, poiché dipendono, più di molti altri, da una continuità politica e sociale vivente. Ciò a sua volta determina una particolare vulnerabilità delle nuove generazioni della classe e delle sue minoranze rivoluzionarie.
Innanzitutto, è la controrivoluzione stalinista che ha contribuito a sabotare la fiducia del proletariato nella sua missione storica, nella teoria marxista e nelle sue minoranze rivoluzionarie. Il risultato è che il proletariato, dopo il 1968, tende più delle generazioni non sconfitte del passato a soffrire del peso dell’immediatismo, di un’assenza di visione a lungo termine. Rubandogli gran parte del suo passato, la controrivoluzione e la borghesia di oggi privano il proletariato di una visione chiara del suo futuro senza la quale la classe non può sviluppare una fiducia più profonda nella propria forza.
Ciò che distingue il proletariato da tutte le altre classi nella storia è il fatto che, fin dalla sua prima apparizione come forza sociale indipendente, ha portato avanti un progetto di società futura, basato sulla proprietà collettiva dei mezzi di produzione; come prima classe della storia il cui sfruttamento è basato sulla separazione radicale dei produttori dai mezzi di produzione e sulla sostituzione del lavoro individuale attraverso il lavoro socializzato, la sua lotta di liberazione si caratterizza per il fatto che la lotta contro gli effetti dello sfruttamento (che è comune a tutte le classi sfruttate), è sempre stato legato allo sviluppo di una visione del superamento di questo sfruttamento. Prima classe nella storia che produce in maniera collettiva, il proletariato è chiamato a rifondare la società su una base collettiva cosciente. Poiché è incapace, in quanto classe senza proprietà, di conquistare un potere qualsiasi all’interno alla società attuale, il significato storico della sua lotta di classe contro lo sfruttamento deve rivelare, a sé stesso e dunque alla società nel suo insieme, il segreto della sua propria esistenza come affossatore dello sfruttamento e dell’anarchia capitalista.
Per questa ragione, la classe operaia è la prima classe la cui fiducia nel proprio ruolo storico è inseparabile dalla soluzione che essa apporta alla crisi della società capitalista.
Questa posizione unica del proletariato in quanto unica classe della storia ad essere al tempo stesso sfruttata e rivoluzionaria comporta due conseguenze importanti:
In questo senso, la dialettica della rivoluzione proletaria è essenzialmente quella del rapporto tra lo scopo ed il movimento, tra la lotta contro lo sfruttamento e la lotta per il comunismo. L’immaturità naturale dei primi passi de “l’infanzia” della classe sulla scena storica si caratterizza per un parallelismo tra lo sviluppo di lotte operaie e quello della teoria del comunismo. L’interconnessione tra questi due poli all’inizio non è stata compresa dagli stessi partecipanti. Ciò si è riflesso, da un lato, nel carattere spesso cieco ed istintivo delle lotte operaie, e dall’altro, nell’utopismo del progetto socialista.
È la maturazione storica del proletariato che ha permesso a questi due elementi di congiungersi, cosa che si è concretizzata nelle rivoluzioni del 1848-49 e soprattutto attraverso la nascita del marxismo, la comprensione scientifica del movimento storico e dello scopo della classe.
Due decenni dopo, la Comune di Parigi, prodotto di questa maturazione, ha rivelato l’essenza della fiducia del proletariato nel suo proprio ruolo: l’aspirazione a prendere la direzione della società per trasformarla secondo la sua propria visione politica.
Che c’è all’origine di questa stupefacente fiducia in sé stessa da parte di una classe oppressa e spossessata, una classe che concentra tutta la miseria dell’umanità nei suoi ranghi e che si è rivelata dal 1871? Come per tutte le classi sfruttate, la lotta del proletariato comporta un aspetto spontaneo. Il proletariato non può che reagire alle costrizioni e agli attacchi che gli impone la classe dominante. Ma, contrariamente alle lotte di tutte le altre classi sfruttate, quella del proletariato ha anzitutto un carattere cosciente. I progressi della sua lotta sono fondamentalmente il prodotto del suo processo di maturazione politica. Il proletariato di Parigi era una classe educata politicamente che era passata per diverse scuole di socialismo, dal blanquismo al proudhonismo. È questa formazione politica durante i decenni precedenti che spiega, in grande misura, la capacità della classe a sfidare l’ordine dominante in tale modo, così come spiega le debolezze di questo movimento. Il 1871 è stato, allo stesso tempo, anche il risultato dello sviluppo di una tradizione cosciente di solidarietà internazionale che ha caratterizzato tutte le principali lotte degli anni 1860 in Europa occidentale.
In altri termini, la Comune è stata il prodotto di una maturazione sotterranea, caratterizzata in particolare da una più grande fiducia nella missione storica della classe e da una pratica più evoluta della solidarietà di classe. Una maturazione il cui punto culminante era la Prima internazionale.
Con l’entrata del capitalismo nel suo periodo di decadenza, il ruolo centrale della fiducia e della solidarietà si accentua, poiché la questione della rivoluzione proletaria si porta all’ordine del giorno della storia. Da un lato, il carattere spontaneo della lotta operaia è più sviluppato vista l’impossibilità della preparazione organizzativa delle lotte attraverso i partiti di massa e dei sindacati[3]. Dall’altro, la preparazione politica di queste lotte, attraverso il rafforzamento della fiducia e della solidarietà, diventa ancora più importante. I settori più avanzati del proletariato russo che, nel 1905, furono i primi a scoprire l’arma dello sciopero di massa e dei consigli operai, sono passati per la scuola di marxismo attraverso una serie di fasi: quella della lotta contro il terrorismo, la formazione di circoli politici, i primi scioperi e manifestazioni politiche, la lotta per la formazione del partito di classe e le prime esperienze di agitazione di massa. Rosa Luxemburg, che fu la prima a comprendere il ruolo della spontaneità all’epoca dello sciopero di massa, insisté sul fatto che, senza una tale scuola di socialismo, gli avvenimenti de1905 non sarebbero mai stati possibili.
Ma è l’ondata rivoluzionaria del 1917-23 e soprattutto la Rivoluzione di Ottobre che hanno rivelato chiaramente la natura delle questioni della fiducia e della solidarietà. La quintessenza della crisi storica era contenuta nella questione dell’insurrezione. Per la prima volta in tutta la storia dell’umanità, una classe sociale era nelle condizioni di cambiare in modo deliberato e cosciente il corso gli avvenimenti mondiali. I bolscevichi sono ritornati alla concezione di Engels su “l’arte dell'insurrezione”. Lenin ha dichiarato che la rivoluzione era una scienza. Trotskij parlava de “l’algebra della rivoluzione”. Attraverso lo studio della realtà sociale, attraverso la costruzione di un partito di classe in grado di superare l’esame della storia, attraverso la preparazione paziente e vigile del momento in cui le condizioni oggettive e soggettive per la rivoluzione saranno riunite, ed attraverso l’audacia rivoluzionaria necessaria per afferrare l’occasione, il proletariato e la sua avanguardia cominciarono, in un trionfo di coscienza e di organizzazione, a superare l’alienazione che condanna la società ad essere la vittima impotente di forze cieche. Allo stesso tempo, la decisione cosciente di prendere il potere in Russia e dunque di assumere tutte le prove di un tale atto nell’interesse della rivoluzione mondiale, ha costituito la più alta espressione della solidarietà di classe. È una nuova qualità nell’ascesa dell’umanità, l’inizio del salto dal regno della necessità al regno della libertà. Ed è l’essenza della fiducia del proletariato in sé stesso e della solidarietà al suo interno.
b) Uno dei più vecchi principi della strategia militare è la necessità di destabilizzare la fiducia e l’unità dell’esercito nemico. Allo stesso modo, la borghesia ha sempre compreso la necessità di combattere queste qualità nel proletariato. In particolare, con il crescere del movimento operaio durante la seconda metà del XIX secolo, la necessità di combattere l’idea della solidarietà operaia è diventata sempre più centrale nella visione del mondo della classe capitalista, come testimoniato dall’ascesa dell’ideologia del Darwinismo sociale, la filosofia di Nietzsche, il “socialismo” elitario del Fabianismo, ecc. Tuttavia, fino all’entrata del suo sistema in decadenza, la borghesia era incapace di trovare i mezzi per rovesciare l’avanzata di questi principi all’interno della classe operaia. In particolare, la repressione feroce che ha imposto al proletariato di Parigi nel 1848 e nel 1871, ed al movimento operaio in Germania sotto le leggi anti socialiste, pur provocando degli indietreggiamenti momentanei nel progresso del socialismo, non è riuscita a destabilizzare né la fiducia storica della classe operaia, né le sue tradizioni di solidarietà.
Gli avvenimenti della Prima guerra mondiale hanno rivelato che è il tradimento dei principi proletari attraverso parti della stessa classe operaia, soprattutto attraverso parti delle organizzazioni politiche della classe, a distruggere questi principi “dall'interno”. La liquidazione di questi principi all’interno della Socialdemocrazia era cominciata già all’inizio del XX secolo col dibattito sul “revisionismo”. Il carattere distruttore, pernicioso, di questo dibattito non si è rivelato solamente attraverso la penetrazione di posizioni borghesi e l’abbandono progressivo del marxismo, ma innanzitutto attraverso l’ipocrisia che esso ha introdotto nella vita dell’organizzazione. Benché, formalmente, sia stata adottata la posizione della Sinistra, il risultato principale di questo dibattito è stato in realtà di isolare completamente la Sinistra - soprattutto nel partito tedesco. Le campagne ufficiose di denigrazione di quella che era stata all’avanguardia della lotta contro il revisionismo, Rosa Luxemburg, descritta nei corridoi dei congressi del partito come un elemento estraneo e finanche come un’assetata di sangue, preparavano già il terreno al suo assassinio nel 1919.
In effetti, il principio fondamentale della controrivoluzione che è cominciata negli anni 20, è stato la demolizione dell’idea stessa di fiducia e di solidarietà. Il disprezzabile principio del “capro espiatorio”, una barbarie del Medioevo, riappare nel capitalismo industriale con la caccia alle streghe da parte della Socialdemocrazia contro gli spartachisti e del fascismo contro gli ebrei, minoranze “diaboliche” che da sole sarebbero state capaci di impedire il ritorno nell’Europa del dopoguerra ad uno stato di pacifica armonia. Ma è soprattutto lo stalinismo, cioè il ferro di lancia dell’offensiva borghese, che ha sostituito i principi di fiducia e di solidarietà con quelli della diffidenza e della denuncia nei giovani partiti comunisti, che ha screditato lo scopo del comunismo ed i mezzi per giungervi.
Tuttavia, l'annichilimento di questi principi non ha avuto luogo dall’oggi al domani. Anche durante la seconda guerra mondiale, decine di migliaia di famiglie operaie mostravano ancora abbastanza solidarietà da rischiare la loro vita nascondendo coloro che erano perseguitati dallo Stato. E la lotta del proletariato olandese contro la deportazione degli ebrei sta là a ricordarci che la solidarietà della classe operaia costituisce la sola solidarietà reale con l’insieme dell'umanità. Ma questo fu l’ultimo movimento di sciopero del ventesimo secolo nel quale i comunisti di sinistra abbiano avuto un’influenza significativa[4].
Come sappiamo, questa controrivoluzione fu superata nel 1968 da una nuova generazione non sconfitta di operai che recuperarono di nuovo la fiducia per intraprendere l’estensione della loro lotta e la solidarietà di classe, porre di nuovo la questione della rivoluzione e produrre nuove minoranze rivoluzionarie. Tuttavia, traumatizzata dal tradimento di tutte le principali organizzazioni operaie del passato, questa nuova generazione ha adottato un atteggiamento di scetticismo verso la politica, verso il proprio passato, la sua teoria di classe e la sua missione storica. Ciò non la protegge dal sabotaggio delle forze politiche della sinistra del capitale e le impedisce al tempo stesso di riallacciarsi alle radici della fiducia in sé stessa e di fare rivivere in modo cosciente la sua grande tradizione di solidarietà. Anche le minoranze rivoluzionarie sono profondamente colpite. Per la prima volta si crea una situazione in cui, mentre le posizioni rivoluzionarie assumono un’eco crescente nella classe, le organizzazioni che le difendono non sono riconosciute, anche tra gli operai più combattivi, come appartenenti alla classe.
Malgrado l'impertinenza e la sicurezza arrogante di questa nuova generazione del dopo 1968, che è riuscita all’inizio a prendere la classe dominante di sorpresa, dietro il suo scetticismo nei confronti della politica risiede una profonda mancanza di fiducia in sé. Non si era mai visto prima un tale contrasto tra, da un lato, questa capacità ad impegnarsi in lotte di massa in grande parte autorganizzate e, dall’altro, l’assenza di questa sicurezza elementare che ha caratterizzato il proletariato dagli anni 1848-50 fino al 1917-18. Questa mancanza di fiducia in sé segna ugualmente in maniera profonda le organizzazioni della Sinistra comunista. E non solo le nuove organizzazioni, come la CCI o la CWO, ma anche un gruppo come il PCI bordighista che, dopo essere sopravvissuto alla controrivoluzione, è poi esploso all’inizio degli anni 80 a causa della sua impazienza ad essere riconosciuto dalla classe nel suo insieme. Come sappiamo, il bordighismo ed il consiliarismo hanno teorizzato, durante la controrivoluzione, questa perdita di fiducia in sé stabilendo una separazione tra i rivoluzionari e la classe nel suo insieme, chiamando una parte della classe a diffidare dell'altra[5]. Inoltre, sia l’idea bordighista de “l’invarianza” che l’idea consiliarista di un “nuovo movimento operaio” erano, teoricamente, su questa questione, delle false risposte alla controrivoluzione. Ma la stessa CCI, che ha rigettato tali teorizzazioni, non era tuttavia esente dai danni causati alla fiducia in sé stesso del proletariato ed al restringimento della base di questa fiducia.
Così possiamo vedere come, in questo periodo storico, sono legati tra loro tutta una serie di elementi: la mancanza di fiducia della classe in sé stessa, degli operai nei rivoluzionari e reciprocamente, la mancanza di fiducia delle organizzazioni politiche in sé stesse, nel loro ruolo storico, nella teoria marxista e nei principi organizzativi ereditati dal passato, e la mancanza di fiducia dell’insieme della classe nella natura storica a lungo termine della sua missione.
In realtà, questa debolezza politica ereditata dalla controrivoluzione costituisce uno dei principali fattori dell’entrata del capitalismo nella sua fase di decomposizione. Privato della sua esperienza storica, delle sue armi teoriche e della visione del suo ruolo storico, il proletariato manca della fiducia necessaria per sviluppare una prospettiva rivoluzionaria. Con la decomposizione, questa mancanza di fiducia, di prospettiva diventa il destino dell’insieme della società, imprigionando l’umanità nel presente[6]. Non è una coincidenza dunque se il periodo storico di decomposizione è stato inaugurato dal crollo delle principali vestigia della controrivoluzione, quelle dei regimi stalinisti. Il risultato di questo nuovo discredito degli obiettivi della classe e delle principali armi politiche del movimento proletario è che quest’ultimo deve far fronte ancora una volta ad una situazione senza precedenti storici: una generazione non sconfitta di operai che perde in gran parte la sua identità di classe. Per uscire da questa crisi, essa dovrà riapprendere la solidarietà di classe, sviluppare di nuovo una prospettiva storica, riscoprire nel fuoco della lotta di classe la possibilità e la necessità per i diversi settori della classe di avere fiducia gli uni negli altri. Il proletariato non è stato sconfitto. Ha dimenticato ma non perso le lezioni delle sue lotte. Ciò che ha perso è innanzitutto la sua fiducia in sé stesso.
È perciò che le questioni della fiducia e della solidarietà sono tra le principali chiavi di lettura della situazione di impasse storico in cui ci troviamo. Esse sono centrali per tutto il futuro dell’umanità, per il rafforzamento della lotta operaia negli anni futuri, per la costruzione dell’organizzazione marxista, per la riapparizione concreta di una prospettiva comunista in seno alla lotta di classe.
2. Gli effetti delle debolezze sulla fiducia e la solidarietà all’interno della CCI
a) Come dimostra il Testo di orientamento del 1993[7], tutte le crisi, le tendenze e le scissioni nella storia della CCI hanno le loro radici nella questione organizzativa. Anche quando esistevano importanti divergenze politiche, non c’era accordo su queste questioni tra i membri delle “tendenze”, e queste divergenze non giustificavano certo una scissione, di sicuro non il tipo di scissione irresponsabile e prematura che è diventata la regola generale all’interno della nostra organizzazione.
Come dimostra il Testo di orientamento del ‘93, tutte queste crisi avevano dunque per origine lo spirito di circolo ed in particolare il clanismo. Da ciò, possiamo concludere che attraverso tutta la storia della CCI, il clanismo ha sempre costituito la principale manifestazione della perdita di fiducia nel proletariato e la causa principale della messa in discussione dell’unità dell’organizzazione. Inoltre, come è stato spesso confermato dalla loro ulteriore evoluzione al di fuori della CCI, i clan hanno costituito i principali portatori del germe della degenerazione programmatica e teorica al nostro interno[8].
Questo fatto, messo in luce 8 anni fa, è tuttavia così stupefacente che merita una riflessione storica. Il 14° Congresso della CCI ha già cominciato questa riflessione, mostrando che nel movimento operaio del passato, il peso predominante dello spirito di circolo e del clanismo si è limitato essenzialmente agli inizi del movimento operaio, mentre la CCI è stata tormentata da questo problema per tutta la sua lunga esistenza. La verità, è che la CCI è la sola organizzazione nella storia del proletariato nella quale la penetrazione di un’ideologia estranea si é manifestata così regolarmente ed in modo predominante attraverso i problemi relativi alla organizzazione.
Questo problema senza precedenti deve essere compreso nel contesto storico degli ultimi tre decenni. La CCI si considera l’erede della più alta sintesi dell’eredità del movimento operaio e della Sinistra comunista in particolare. (...) Ma la storia mostra che la CCI ha assimilato la sua eredità programmatica ben più facilmente di quella organizzativa. Ciò è dovuto principalmente alla rottura della continuità organica causata dalla controrivoluzione. Innanzitutto perché è più facile assimilare le posizioni politiche attraverso lo studio di testi del passato che comprendere le questioni organizzative che sono molto più una tradizione vivente, dipendenti, per essere trasmesse, dal legame tra le generazioni. In secondo luogo perché, come già detto, il colpo portato dalla controrivoluzione alla fiducia in sé della classe ha colpito principalmente la sua fiducia nella sua missione storica e nelle sue organizzazioni politiche. Così, mentre la validità delle nostre posizioni programmatiche è stata spesso confermata in modo spettacolare dalla realtà (e dal 1989, questa validità è confermata anche da nuovi gruppi emergenti), la nostra costruzione organizzativa non ha avuto lo stesso clamoroso successo. Nel 1989, fine del periodo del dopoguerra, la CCI non aveva compiuto alcun passo decisivo in termini di crescita numerica, nella diffusione della sua stampa, a livello di impatto nella lotta di classe né di riconoscimento dell’organizzazione da parte della classe nel suo insieme. Era dunque una situazione storica paradossale. Da un lato, la fine della controrivoluzione e l’apertura di un nuovo corso storico hanno favorito lo sviluppo delle nostre posizioni: la nuova generazione non sconfitta era più o meno apertamente diffidente verso la sinistra del capitale, le elezioni borghesi, il sacrificio per la nazione, ecc. Ma, dall’altro, la nostra militanza comunista era forse meno rispettata - da un punto di vista generale - che all’epoca di Bilan. Questa situazione storica ha portato a dei dubbi profondamente radicati nei confronti del ruolo storico dell’organizzazione. Questi dubbi sono talvolta affiorati a livello politico generale attraverso lo sviluppo di concezioni apertamente consiliariste, moderniste o anarchiche, capitolazioni più o meno aperte all’ideologia dominante. Ma soprattutto, si sono espresse in modo più vergognoso al livello organizzativo.
A questo dobbiamo aggiungere che nella storia della lotta della CCI per lo spirito di partito, sebbene ci siano delle somiglianze con delle organizzazioni del passato – l’eredità dei principi di funzionamento dei nostri predecessori ed il loro ancoraggio attraverso una serie di lotte organizzative - vi sono anche delle grandi differenze. La CCI è la prima organizzazione che forgia lo spirito di partito non in condizioni di illegalità, ma in un’atmosfera impregnata di illusioni democratiche. Su questa questione, la borghesia ha imparato dalla storia: la migliore arma della liquidazione organizzativa non è la repressione ma lo sviluppo di un’atmosfera di diffidenza. Ciò che è vero per l’insieme della classe lo è anche per i rivoluzionari: è il tradimento dei principi dall'interno che distrugge la fiducia proletaria.
Il risultato è che la CCI non è stata mai capace di sviluppare il tipo di solidarietà vivente che nel passato si è sempre forgiato nella clandestinità e che costituisce una delle principali componenti dello spirito di partito. Inoltre, il democraticismo costituisce il concime ideale per la cultura del clanismo poiché è l’antitesi vivente del principio proletario secondo cui ciascuno dà il meglio delle sue capacità alla causa comune; favorisce inoltre l’individualismo, l'informalismo e l’oblio dei principi. Non dobbiamo dimenticare che i partiti della Seconda internazionale furono in larga parte distrutti dal democraticismo, e che anche il trionfo dello stalinismo è stato democraticamente legittimato, come l'ha sottolineato la Sinistra italiana (…).
b) È evidente che il peso di tutti questi fattori negativi si è moltiplicato con l'apertura del periodo di decomposizione. Non ripeteremo ciò che la CCI ha già detto a questo argomento. Ciò che è importante qui è che, come risultato del fatto che la decomposizione tende a erodere le basi sociali, culturali, politiche, ideologiche della comunità umana, in particolare intaccando la fiducia e la solidarietà, c’è una tendenza spontanea nella società attuale a raggrupparsi in clan, cricche e bande. Questi raggruppamenti, quando non sono basati su degli interessi commerciali o altri interessi materiali, hanno spesso un carattere puramente irrazionale, basato su delle lealtà personali all’interno del gruppo ed un odio spesso insensato verso dei nemici, reali o immaginari. In realtà, questo fenomeno costituisce in parte un ritorno, nel contesto attuale, a delle forme ataviche completamente pervertite di fiducia e di solidarietà, riflettendo la perdita di fiducia nelle strutture sociali esistenti, ed un tentativo di trovare sicurezza di fronte all’anarchia crescente della società. Va da sé che questi raggruppamenti, lungi dal rappresentare una risposta alla barbarie della decomposizione, ne sono essi stessi un’espressione. È significativo che oggi, anche le due principali classi ne siano colpite. In effetti, per il momento, solo i settori più forti della borghesia sembrano essere più o meno capaci di resistere al loro sviluppo. Per il proletariato, il livello raggiunto da questo fenomeno nella sua vita quotidiana è espresso innanzitutto dal danno causato alla sua identità di classe e dalla necessità che ne risulta di riappropriarsi della sua propria solidarietà di classe.
Come è stato detto al 14° Congresso della CCl: a causa della decomposizione, la lotta contro il clanismo non è alle nostre spalle ma davanti a noi.
c) Il clanismo ha costituito dunque la principale espressione della perdita di fiducia nel proletariato nella storia della CCI. Ma la forma che esso prende è la sfiducia aperta non verso l’organizzazione, ma verso una sua parte. Tuttavia il significato della sua esistenza è, in realtà, la messa in discussione dell’unità dell’organizzazione e dei suoi principi di funzionamento. È per questo che il clanismo, sebbene possa prendere origine da una preoccupazione corretta, e con una fiducia più o meno intatta, sviluppa necessariamente della diffidenza verso tutti quelli che non sono dalla sua parte, degenerando in paranoia aperta. In generale, quelli che sono vittime di questa dinamica sono completamente incoscienti di questa realtà. Ciò non vuole dire che un clan non abbia una certa coscienza di ciò che fa. Ma è una falsa coscienza che serve solo a ingannare se stessi e gli altri.
Il Testo d’orientamento del ‘93 spiegava già le ragioni di questa vulnerabilità che ha, nel passato, colpito militanti come Martov, Plekhanov o Trotskij: il peso particolare del soggettivismo nelle questioni organizzative. (...)
Nel movimento operaio, il clanismo ha avuto quasi sempre per origine la difficoltà di diverse personalità a lavorare insieme. In altri termini, rappresenta una sconfitta di fronte alla prima tappa di costruzione di una comunità. È per questo che gli atteggiamenti clanici appaiono spesso in momenti in cui arrivano nuovi membri, o quando si formalizzano e si sviluppano strutture organizzative. Nella Prima Internazionale, è stata l’incapacità dell’ultimo arrivato, Bakunin, a “trovare il suo posto” nell’organizzazione a cristallizzare dei risentimenti preesistenti verso Marx. Nel 1903, al contrario, è la preoccupazione di preservare lo statuto della “vecchia guardia” che ha prodotto quello che, nella storia, è diventato il menscevismo. Evidentemente ciò non ha impedito ad un nuovo venuto come Lenin di difendere lo spirito di partito, o ad un nuovo venuto che aveva provocato il maggiore risentimento nei suoi confronti – come Trotskij - di mettersi a fianco di coloro che avevano avuto paura di lui[9].
Proprio perché supera l'individualismo, lo spirito di partito è capace di rispettare la personalità e l’individualità di ciascuno dei suoi membri. L’arte della costruzione dell’organizzazione non fa a ameno di prendere in considerazione tutte queste differenti personalità in modo da armonizzarle al massimo e permettere a ciascuna di dare il meglio di sé alla collettività. Il clanismo si cristallizza al contrario proprio attorno ad una diffidenza nei confronti di personalità e al loro differente peso. È per questo che è così difficile identificare una dinamica clanica all’inizio. Anche se molti compagni avvertono il problema, la realtà del clanismo è così sordida e ridicola che occorre del coraggio per dichiarare che “Il Re é nudo”. Che imbarazzo!
Come è stato sottolineato da Plekhanov, nel rapporto tra la coscienza e le emozioni, sono queste ultime a giocare un ruolo conservatore. Ma ciò non vuol dire che il marxismo condivida il disprezzo del razionalismo borghese verso il loro ruolo. Ci sono delle emozioni che servono ed altre che recano danno alla causa del proletariato. Ed è certo che la missione storica di quest’ultimo non può riuscire senza uno sviluppo gigantesco di passione rivoluzionaria, una volontà incrollabile di vincere, uno sviluppo inaudito di solidarietà, di disinteresse e di eroismo senza i quali la prova della lotta per il potere e della guerra civile non potrebbe mai essere sopportata. E senza la cultura cosciente dei tratti sociali ed individuali della vera umanità, una società nuova non può essere fondata. Queste qualità non sono delle precondizioni. Come diceva Marx, devono essere forgiate durante la lotta.
3. Il ruolo della fiducia e della solidarietà nell’ascesa dell'umanità
Contrariamente all’atteggiamento della borghesia rivoluzionaria per la quale il punto di partenza del suo radicalismo era il rigetto del passato, il proletariato ha sempre basato, in modo cosciente, la sua prospettiva rivoluzionaria su tutte le acquisizioni della storia dell’umanità che l’ha preceduto. Fondamentalmente, il proletariato è capace di sviluppare una tale visione storica perché la sua rivoluzione non difende nessun interesse particolare in opposizione a quelli dell’insieme dell’umanità. Dunque, il punto di vista del marxismo è sempre stato, per quel che riguarda tutte le questioni teoriche poste da questa missione, di prendere come punto di partenza tutte le acquisizioni che gli sono state trasmesse. Per noi, non solo la coscienza del proletariato, ma anche quella dell’umanità nel suo insieme, è qualche cosa che si accumula e si trasmette attraverso la storia. Tale era la visione di Marx ed Engels riguardante la filosofia tedesca classica, l'economia politica inglese o il socialismo utopico francese.
Allo stesso modo, dobbiamo comprendere che la fiducia e la solidarietà proletarie costituiscono delle concretizzazioni specifiche dell’evoluzione generale di queste qualità nella storia umana. Su queste due questioni, il compito della classe operaia è di andare al di là di ciò che è stato già realizzato. Ma per farlo, la classe deve basarsi su ciò che è già stato compiuto.
Le questioni poste qui sono di un’importanza storica fondamentale. Senza una solidarietà di base minima, la società umana diventa impossibile. E senza un minimo di fiducia reciproca, nessuno progresso sociale è possibile. Nella storia, la rottura di questi principi ha sempre condotto ad una barbarie senza limiti.
a) La solidarietà è un’attività pratica di sostegno reciproco tra gli esseri umani nella lotta per l’esistenza. È un’espressione concreta della natura sociale dell’umanità. Contrariamente agli impulsi come la carità o il sacrificarsi, che presuppongono l’esistenza di un conflitto di interessi, la base materiale della solidarietà è una comunità di interessi. È per questo che la solidarietà non è un ideale utopico, ma una forza materiale vecchia quanto la stessa umanità. Ma questo principio, rappresentando il mezzo più efficace ma anche collettivo nella difesa dei propri “sordidi” interessi materiali, può dar luogo agli atti più disinteressati, compreso il sacrificio della propria vita. Questo fatto, che l’utilitarismo borghese non è stato mai capace di spiegare, risulta dalla semplice realtà secondo la quale a partire dal momento in cui esistono degli interessi comuni, le parti sono sottomesse ... al bene comune. La solidarietà è dunque il superamento non dell’“l’egoismo”, ma dell’individualismo e del particolarismo nell’interesse dell’insieme. È per questo che la solidarietà è sempre una forza attiva, caratterizzata dall’iniziativa, e non dall’atteggiamento di aspettare la solidarietà degli altri. Là dove regna il principio borghese del calcolo dei vantaggi e degli svantaggi, non c’è solidarietà possibile.
Benché nella storia dell’umanità, la solidarietà tra i membri della società sia stata anzitutto un riflesso istintivo, più la società umana diventa complessa e conflittuale, più alto è il livello di coscienza necessario al suo sviluppo. In questo senso, la solidarietà di classe del proletariato costituisce la forma più alta di solidarietà umana fino a questo momento.
Tuttavia, l’estensione della solidarietà non dipende solo dalla coscienza in generale, ma anche dalla cultura delle emozioni sociali. Per svilupparsi, la solidarietà richiede un quadro culturale ed organizzativo che favorisca la sua espressione. Dato un tale quadro all’interno di un raggruppamento sociale, è possibile sviluppare delle abitudini, delle tradizioni e delle regole “non scritte” di solidarietà che possono trasmettersi da una generazione all’altra. In questo senso, la solidarietà non ha solamente un impatto immediato ma anche storico.
Ma a dispetto di tali tradizioni, la solidarietà ha sempre un carattere volontario. È per questo che l’idea che lo Stato sarebbe l’incarnazione della solidarietà, come è stato propagandato in particolare dalla Socialdemocrazia e dallo stalinismo, è una delle più grandi menzogne della storia. La solidarietà non può mai essere imposta contro la volontà. Essa è possibile solo se coloro che esprimono la solidarietà e quelli che la ricevono sono tutti convinti della sua necessità. La solidarietà è il cemento che tiene assieme un gruppo sociale, che trasforma un gruppo di individui in una sola forza unita.
b) Come la solidarietà, la fiducia è un’espressione del carattere sociale dell’umanità. Come tale, anch’essa presuppone una comunità di interessi. Per cui essa non può esistere che in relazione con altri esseri umani, con degli scopi e delle attività condivise. Da ciò conseguono i suoi due aspetti principali: la fiducia reciproca dei partecipanti e la fiducia nello scopo condiviso. Le basi principali della fiducia sociale sono dunque sempre un massimo di chiarezza e di unità.
Tuttavia, la differenza essenziale tra il lavoro umano e le attività animali, tra il lavoro dell’architetto e la costruzione di un alveare, come dice Marx, risiede nella premeditazione di questo lavoro sulla base di un piano[10]. È per tale motivo che la fiducia è sempre legata al futuro, a qualche cosa che nel presente esiste solo sotto forma di un’idea o di una teoria. Allo stesso tempo, è per questo che la fiducia reciproca è sempre concreta, basata sulle capacità di una comunità a compiere un compito dato.
Così, contrariamente alla solidarietà che è un'attività che esiste solo nel presente, la fiducia è anzitutto un’attività diretta verso il futuro. È questo che le dà il suo carattere particolarmente enigmatico, difficile da definire o da identificare, difficile da sviluppare o da mantenere. Non c’è quasi nessuna altra area della vita umana nei confronti della quale c’è tanto inganno ed auto-inganno. In effetti la fiducia è basata sull’esperienza, l’apprendimento attraverso dei tentennamenti, per stabilire degli scopi realistici e sviluppare dei mezzi appropriati. Ma poiché il suo compito è di rendere possibile la nascita di ciò che non esiste ancora, non perde mai il suo aspetto “teorico”. Nessuna delle grandi realizzazioni dell’umanità sarebbe stata mai possibile senza questa capacità di perseverare in un compito realistico ma difficile in assenza di successo immediato. È l’estensione del raggio della coscienza che permette una crescita della fiducia, mentre l’azione delle forze cieche ed incoscienti nella natura, nella società e nell'individuo tende a distruggere questa fiducia. Non è tanto l’esistenza di pericoli che mina la fiducia umana, ma piuttosto l’incapacità a comprenderli. Ma poiché la vita ci espone costantemente ai nuovi pericoli, la fiducia è una qualità particolarmente fragile, che richiede anni per svilupparsi ma che può essere distrutta dall’oggi al domani.
Come la solidarietà, la fiducia non può né essere decretata, né essere imposta, ma richiede una struttura ed un’atmosfera adeguate per il suo sviluppo. Ciò che rende così difficili le questioni della solidarietà e della fiducia è che esse non hanno a che fare solo con la testa ma anche col cuore. È necessario “sentirsi fiduciosi”. L’assenza di fiducia implica a sua volta il regno della paura, dell’incertezza, dell’esitazione e la paralisi delle forze collettive coscienti.
c) Mentre l’ideologia borghese si sente oggi rafforzata dalla pretesa “morte del comunismo” nella sua convinzione che è l’eliminazione dei deboli nella lotta competitiva per la sopravvivenza ad assicurare la perfezione della società, in realtà sono proprio queste forze collettive e coscienti che costituiscono la base dell’ascesa della specie umana.
Già i predecessori dell’umanità appartenevano a queste specie animali altamente sviluppate a cui gli istinti sociali davano un vantaggio decisivo nella lotta per la sopravvivenza. Queste specie portavano già i segni rudimentali della forza collettiva: i deboli erano protetti e la forza di ogni membro individuale diventava la forza di tutti. Questi aspetti sono stati cruciali nella nascita della specie umana la cui prole resta senza difesa per molto più tempo che qualunque altra specie. Con lo sviluppo della società umana e delle forze produttive, questa dipendenza dell’individuo verso la società non ha mai smesso di crescere; gli istinti sociali (che Darwin chiama “altruistici”) che esistevano già nel mondo animale, prendono un carattere sempre più cosciente. Il disinteresse, il coraggio, la lealtà, la devozione alla comunità, la disciplina e l’onestà sono glorificate nelle prime espressioni culturali della società, le prime espressioni di una solidarietà veramente umana.
Ma l’uomo è soprattutto la sola specie che utilizza gli attrezzi che ha fabbricato. È questo modo di acquisire dei mezzi di sussistenza che dirige l’attività umana verso il futuro.
“Nell’animale, l’azione segue in modo immediato. Esso cerca la sua preda o il suo cibo ed immediatamente, balza, acchiappa, mangia, o fa ciò che è necessario per afferrare, e questo è ereditato come istinto.... Tra l’impressione e l’azione dell’uomo, invece, una lunga catena di pensieri e di considerazioni passa per la sua testa. Da dove nasce questa differenza? Non è difficile vedere che essa è strettamente legata all’uso di strumenti. Come i pensieri nascono tra le impressioni dell’uomo e le sue azioni, lo strumento nasce tra l’uomo e ciò che quest'ultimo cerca di ottenere. Inoltre, come lo strumento si trova tra l’uomo e gli oggetti esterni, il pensiero deve nascere tra l’impressione e la realizzazione. Prende uno strumento, dunque la sua mente deve fare anch’essa lo stesso percorso, non seguire la prima impressione”.[11]
Imparare a “non seguire la prima impressione”, è una buona descrizione del salto dal mondo animale al genere umano, dal regno dell’istinto a quello della coscienza, dalla prigione immediatista del presente all’attività orientata verso il futuro. Ogni sviluppo importante nella prima società umana si è accompagnato con un rafforzamento di questo aspetto. Ancora, con l'apparizione delle società agricole sedentarie, i vecchi non sono più uccisi ma amati teneramente come coloro che possono trasmettere l’esperienza.
In quello che chiamiamo comunismo primitivo, questa fiducia embrionale nella potenza della coscienza per dominare le forze della natura era estremamente tenue mentre era potente la forza della solidarietà in seno ad ogni gruppo. Ma fino all’apparizione delle classi, della proprietà privata e dello Stato, queste due forze, per quanto impari siano state, si rafforzavano reciprocamente.
La società di classe fa esplodere questa unità, accelerando la lotta per il dominio sulla natura, ma sostituendo la solidarietà sociale con la lotta di classe all’interno di una stessa società. Sarebbe falso credere che questo principio sociale generale sia stato sostituito dalla solidarietà di classe. Nella storia delle società di classe, il proletariato è la sola classe capace di una reale solidarietà. Mentre le classi dominanti sono sempre state delle classi sfruttatrici per le quali la solidarietà non va mai oltre l’opportunità del momento, il carattere necessariamente reazionario delle classi sfruttate del passato significava che la loro solidarietà aveva necessariamente un carattere furtivo, utopico come “la comunità dei beni” dei primi cristiani e delle sette del Medio Evo. La principale espressione della solidarietà sociale all’interno della società di classe prima dell’avvento del capitalismo è quella che derivava dalle vestigia dell’economia naturale, ivi compresi i diritti ed i doveri che legavano ancora le classi opposte tra loro. Tutto ciò fu distrutto alla fine dalla produzione di merci e dalla sua generalizzazione sotto il capitalismo.
“Se, nella società attuale, gli istinti sociali hanno ancora conservato una certa forza, è solo grazie al fatto che la produzione generalizzata di merce costituisce ancora un fenomeno nuovo, appena vecchio di un secolo, e che nella misura in cui il comunismo democratico primitivo sparisce e che (...) smette dunque di essere la fonte di istinti sociali, una nuova fonte e ben più forte sorge, la lotta di classe delle classi ascendenti popolari e sfruttate”.
Con lo sviluppo delle forze produttive, la fiducia della società nella sua capacità di dominare le forze della natura è cresciuta in maniera accelerata. Il capitalismo è stato il periodo che ha dato, di gran lunga, il principale contributo in questo senso, con un picco nel XIX secolo, il secolo del progresso e dell’ottimismo. Ma, allo stesso tempo, mettendo gli uomini l’uno contro l’altro nello scontro della concorrenza ed acuendo la lotta di classe ad un livello mai raggiunto, ha minato ad un livello senza precedenti un altro pilastro della fiducia in sé della Società, quello dell’unità sociale. Inoltre, per liberare l’umanità dalle forze cieche della natura, l’ha sottomessa al dominio delle nuove forze cieche in seno alla stessa società: quelle scatenate dalla produzione di merci le cui leggi operano al di fuori del controllo o anche della comprensione – “alle spalle” - della società. Ciò ha portato a sua volta al 20° secolo, il più tragico della storia, che ha spinto una grande parte dell'umanità in una disperazione indicibile.
Nella sua lotta per il comunismo, la classe operaia si basa non solo sullo sviluppo delle forze produttive generate dal capitalismo, ma fonda anche una parte della sua fiducia nell’avvenire sulle realizzazioni scientifiche e le visioni teoriche apportate in precedenza dall’umanità. Allo stesso modo, l’eredità della classe nella sua lotta per una solidarietà effettiva integra tutta l’esperienza dell’umanità fino ai nostri giorni nella creazione di legami sociali, l’unità di scopo, i legami di amicizia, gli atteggiamenti di rispetto e di attenzione per i compagni di lotta, ecc.
[1] Per ulteriori elementi sull’analisi fatta dalla CCI sulle questioni della trasformazione dello spirito di circolo in clanismo, sui clan esistiti nella nostra organizzazione e sulla nostra lotta condotta a partire dal 1993 contro queste debolezze, vedere il nostro testo “La questione del funzionamento dell’organizzazione nella CCI” ed il nostro articolo “La battaglia per la difesa dei principi organizzativi” rispettivamente nei numeri 109 e 110 della Rivista Intenazionale (in lingua inglese, francese e spagnola).
[2] Si tratta della Commissione di investigazione nominata dal 14° congresso della CCI. Vedere a questo proposito il nostro articolo della Rivista Intenazionale n°110 (in lingua inglese, francese e spagnola).
[3] Su questo argomento, vedi il nostro articolo “La lotta del proletariato nella decadenza del capitalismo” nella Rivista Intenazionale n°23 (in lingua inglese, francese e spagnola). In questo articolo, mettiamo in evidenza le ragioni per cui, contrariamente alle lotte del XIX secolo, quelle del XX secolo non potevano appoggiarsi su un’organizzazione prestabilita della classe.
[4] A febbraio del 1941, le misure antisemite delle autorità di occupazione tedesca provocarono una mobilitazione di massa degli operai olandesi. Scoppiato ad Amsterdam il 25 febbraio, lo sciopero si estese all’indomani in numerose città, in particolare a L’Aia, Rotterdam, Groningen, Utrecht, Hilversum, Haarlem e fino in Belgio, prima di essere represso selvaggiamente dalle autorità, in particolare dalle SS. Vedi a questo riguardo il nostro libro su “La Sinistra olandese”, pagina 247.
[5] La concezione consiliarista sulla questione del partito sviluppata dalla Sinistra comunista olandese e la concezione bordighista, un avatar della Sinistra italiana, all’inizio sembrano radicalmente opposte: la seconda ritiene che il ruolo del partito comunista sia quello di prendere il potere ed esercitare la dittatura in nome del proletariato, anche opponendosi all’insieme della classe, mentre la prima ritiene che ogni partito, compreso un partito comunista, costituisca un pericolo per la classe essendo necessariamente destinato ad usurpare il potere a detrimento degli interessi della rivoluzione. In realtà, le due concezioni si congiungono in quanto stabiliscono entrambe una separazione, o finanche un’opposizione, tra il partito e la classe e manifestano una mancanza di fiducia di base verso quest’ultima. Per i bordighisti, l’insieme della classe non ha la capacità di esercitare la dittatura ed è per tale motivo che spetta al partito di prendere in carico questo compito. Malgrado le apparenze, il consiliarismo non manifesta una fiducia maggiore verso il proletariato poiché considera che quest’ultimo sia destinato a lasciarsi privare del suo potere da un partito dal momento che questo dovesse sorgere.
[6] Sulla nostra analisi della decomposizione, vedi in particolare “La decomposizione, fase ultima della decadenza del capitalismo [45]” nella Rivista Internazionale n°14 (in lingua italiana).
[7] Testo pubblicato nella Rivista Internazionale n°109 (in lingua inglese, francese o spagnola) sotto il titolo “La questione del funzionamento dell’organizzazione nella CCI”.
[8] È così perché “In una dinamica di clan, i percorsi comuni non partono da un reale accordo politico ma da legami di amicizia, di fedeltà, dalla convergenza di interessi personali specifici o da frustrazioni condivise. (…) Quando una tale dinamica appare, i membri o i simpatizzati del clan non si determinano più, nei loro comportamenti o nelle decisioni che prendono, in funzione di una scelta cosciente o ragionata basata sugli interessi generali dell’organizzazione, ma in funzione del punto di vista e degli interessi del clan, che tendono a porsi in contraddizione con quelli del resto dell’organizzazione”. (“La questione del funzionamento dell’organizzazione nella CCI”, Revue Internationale n°109, pp29-30). Dal momento che dei militanti adottano un tale atteggiamento, sono portati a voltare la schiena ad un pensiero rigoroso, al marxismo, finendo per farsi i portatori di una tendenza alla degenerazione teorica e programmatica. Per citare solo un esempio, ricordiamo che il raggruppamento clanico che era apparso nella CCI nel 1984 e che avrebbe formato la “Frazione Esterna della CCI”, ha finito per rimettere totalmente in causa la nostra piattaforma, di cui si presentava peraltro come il migliore difensore, e per rigettare l’analisi della decadenza del capitalismo che era il patrimonio dell’Internazionale Comunista e della Sinistra comunista.
[9] Quando, nell’autunno 1902, arriva in Europa occidentale dopo la sua evasione dalla Siberia, Trotskij viene preceduto da una reputazione di redattore di elevato talento (uno degli pseudonimi che gli sono stati dati è "Pero", la penna). In poco tempo diventa un collaboratore di primo piano dell'Iskra, giornale pubblicato da Lenin e Plekhanov. Nel marzo 1903, Lenin scrive a Plekhanov per proporgli di cooptare Trotsky nella redazione dell'Iskra, ma cozza contro il suo rifiuto: in realtà, Plekhanov teme che il talento di questo giovane militante, di soli 23 anni, possa mettere in ombra il suo prestigio. È una delle prime manifestazioni della deriva di colui che era stato il principale artefice della penetrazione del marxismo in Russia e che, dopo avere raggiunto i menscevichi, finirà la sua carriera come socialsciovinista al servizio della borghesia.
[10] “Il ragno compie operazioni che assomigliano a quelle del tessitore, l’ape fa vergognare molti architetti la costruzione delle sue cellette di cera. Ma ciò che fin da principio distingue il peggiore architetto dall’ape migliore è il fatto che egli ha costruito la celletta nella sua testa prima di costruirla in cera. Alla fine del processo lavorativo emerge un risultato che era già presente al suo inizio nell’idea del lavoratore, che quindi era già presente idealmente. Non che egli effettui soltanto un cambiamento di forma dell’elemento naturale; egli realizza nell’elemento naturale, allo tempo stesso, il proprio scopo, che egli conosce, che determina come legge il modo del suo operare, e al quale deve subordinare la sua volontà. E questa subordinazione non è un atto singolo e isolato. Oltre lo sforzo degli organi che lavorano, è necessaria per tutta la durata del lavoro, la volontà conforme allo scopo, che si estrinseca come attenzione (…)”. Il Capitale, libro I, Tomo I, III sezione, cap.5.
[11] Pannekoek: Marxism and Darwinism.
- Gli effetti della controrivoluzione sulla fiducia in sé e le tradizioni di solidarietà delle generazioni contemporanee del proletariato;
- Gli effetti delle debolezze nella fiducia e nella solidarietà all’interno della CCI;
- Il ruolo della fiducia e della solidarietà nello sviluppo dell'umanità.
4. La dialettica della fiducia in sé della classe operaia: passato, presente, futuro
Poiché il proletariato è la prima classe della società che abbia una visione storica cosciente, si capisce come mai le basi della sua fiducia nella sua missione siano anch’esse storiche, incorporando la totalità del processo che gli ha dato nascita. E’ per questo, in particolare, che questa fiducia si basa in modo decisivo sul futuro e dunque su una comprensione teorica. Ed è sempre per tale motivo che il rafforzamento della teoria costituisce l’arma privilegiata per superare le debolezze congenite della CCI riguardanti il problema della fiducia. Quest’ultima, per definizione, è sempre la fiducia nell’avvenire. Il passato non può essere cambiato, dunque non ci può essere una fiducia orientata verso quest’ultimo.
Ogni classe rivoluzionaria in ascesa basa la sua fiducia nella propria missione storica non solo sulla sua forza attuale ma anche sulle sue esperienze e le sue realizzazioni passate così come sui suoi obiettivi futuri. Tuttavia, la fiducia delle classi rivoluzionarie del passato, e della borghesia in particolare, era principalmente radicata nel presente - nel potere economico e politico che esse avevano già conquistato all’interno della società esistente. Poiché il proletariato non potrà mai avere un tale potere nella società capitalista, non potrà mai avere una tale predominanza del presente. Senza la capacità di apprendere dalla sua esperienza storica e senza una chiarezza ed una convinzione reale degli obiettivi che ha come classe, non può mai acquisire fiducia in sé stesso per superare l’attuale società di classe. In questo senso, il proletariato è, più di qualunque altra classe sociale che l'abbia preceduto, una classe storica nel senso pieno del termine. Il passato, il presente ed il futuro sono le tre componenti indispensabili della fiducia in sé stesso. E’ perciò che il marxismo, l'arma scientifica della rivoluzione proletaria, è stato chiamato dai suoi fondatori: materialismo storico o dialettico.
a) Questa preminenza del futuro non elimina affatto il ruolo del presente nella dialettica della lotta di classe. Proprio perché il proletariato è una classe sfruttata, ha bisogno di sviluppare la sua lotta collettiva affinché la classe nel suo insieme diventi cosciente della sua forza reale e del suo potenziale futuro. Questa necessità che la classe nel suo insieme prenda fiducia in sé stessa costituisce un problema completamente nuovo nella storia della società di classi. La fiducia in sé delle classi rivoluzionarie del passato, che erano delle classi sfruttatrici, si basava sempre su una chiara gerarchia all’interno di ciascuna di queste classi e all’interno della società nel suo insieme. Si basava sulla capacità di comandare, di sottomettere altre parti della società alla propria volontà, e dunque sul controllo dell’apparato produttivo e dell’apparato dello Stato. In effetti, è caratteristico della borghesia il fatto che essa trovava, anche nella sua fase rivoluzionaria, altre categorie sociali disposte a battersi al suo servizio e che, una volta al potere, “delegava” sempre più i suoi compiti a dei servitori retribuiti.
Il proletariato non può delegare a nessuno il proprio compito storico. È per questo che è necessario che la classe sviluppi la fiducia in sé stessa. Ed è per questo che la fiducia nel proletariato è sempre necessariamente una fiducia nella classe nel suo insieme, mai solo in una sua parte.
Proprio perché il proletariato è una classe sfruttata, la fiducia in sé ha un carattere fluttuante e finanche erratico, con degli alti e dei bassi in funzione dell’andamento della lotta di classe. Inoltre, le stesse organizzazioni politiche rivoluzionarie sono profondamente influenzate da queste fluttuazioni, nella misura in cui il modo in cui si organizzano, si raggruppano ed intervengono nella classe dipende in grande parte da questo movimento. E come sappiamo, nei periodi di profonda sconfitta, solo minuscole minoranze sono capaci di conservare la loro fiducia nella classe.
Ma queste fluttuazioni nella fiducia non sono legate soltanto alle vicissitudini della lotta di classe. In quanto classe sfruttata, il proletariato può essere in ogni momento vittima di una crisi di fiducia, anche nel fuoco di lotte rivoluzionarie. La rivoluzione proletaria “interrompe costantemente il suo proprio corso, ritornando su ciò che aveva apparentemente già compiuto per ricominciare d’accapo”, ecc. In particolare “indietreggia continuamente davanti all’immensità dei suoi propri scopi”, come scriveva Marx[2].
La rivoluzione russa del 1917 mostra chiaramente che non solo la classe nel suo insieme ma anche il partito rivoluzionario può essere colto da tali esitazioni. Infatti, tra febbraio ed ottobre 1917, i bolscevichi hanno attraversato parecchie crisi di fiducia nella capacità della classe a portare avanti i compiti del momento, crisi che sono culminate nel panico che ha interessato il comitato centrale del partito bolscevico di fronte all’insurrezione.
La rivoluzione russa è dunque la migliore illustrazione del fatto che le radici più profonde della fiducia nel proletariato, contrariamente a quella della borghesia, non possono risiedere mai nel presente. Durante questi mesi drammatici, è innanzitutto Lenin che ha personificato la fiducia incrollabile nella classe, fiducia senza la quale nessuna vittoria è possibile. Ed egli l’ha fatto perché non ha mai abbandonato il metodo teorico e storico proprio del marxismo.
Tuttavia, la lotta di massa del proletariato è un momento indispensabile allo sviluppo della fiducia rivoluzionaria. Oggi, è una chiave di tutta la situazione storica. Permettendo il recupero dell’identità di classe, è una condizione preliminare affinché la classe nel suo insieme assimili di nuovo le lezioni del passato e sviluppi una prospettiva rivoluzionaria.
Così, come per la questione della coscienza di classe alla quale è legata intimamente, dobbiamo distinguere due dimensioni di questa fiducia: da una parte l’accumulo storico, teorico, programmatico e organizzativo della fiducia, rappresentato dalle organizzazioni rivoluzionarie e, più largamente, dal processo storico di maturazione sotterranea in seno alla classe, dall’altra il grado e l’estensione della fiducia in sé all’interno della classe nel suo insieme ad un dato momento.
b) Il contributo del passato a questa fiducia non è meno indispensabile. In primo luogo perché la storia contiene delle prove inconfutabili del potenziale rivoluzionario della classe operaia. La stessa borghesia comprende l'importanza di questi esempi passati per il suo nemico di classe, ed è per tale motivo che attacca costantemente questa eredità e, soprattutto, la rivoluzione di Ottobre 1917.
In secondo luogo, uno dei fattori più adatti a rassicurare il proletariato dopo una sconfitta consiste nella sua capacità di correggere i suoi errori passati e di trarre delle lezioni dalla storia. Contrariamente alla rivoluzione borghese che va di vittoria in vittoria, la vittoria finale del proletariato si prepara attraverso una serie di sconfitte. Il proletariato è dunque capace di trasformare le sue sconfitte passate in elementi di fiducia nel futuro. E’ stato questo tipo di fiducia che ha permesso principalmente a Bilan di tenere nel periodo di controrivoluzione più profonda. In effetti, più la fiducia nella classe è profonda, più i rivoluzionari hanno il coraggio di criticare senza sconti le loro debolezze e quelle della classe, meno hanno bisogno di consolarsi e più si distinguono per una sobria lucidità e l’assenza di euforia insensata. Come ripetuto tante volte da Rosa, il compito dei rivoluzionari è di dire ciò che è.
In terzo luogo, la continuità, in particolare la capacità di trasmettere le lezioni da una generazione all’altra, è sempre stata fondamentale per lo sviluppo della fiducia dell’umanità in sé stessa. Gli effetti devastatori della controrivoluzione del XX secolo sul proletariato ne costituiscono una prova in negativo. E’ tanto più importante per noi studiare oggi le lezioni della storia, perché occorre trasmettere la nostra esperienza e quella di tutta la classe operaia alle generazioni di rivoluzionari che ci succederanno.
c) Ma è la prospettiva futura che offre la base più profonda per la nostra fiducia nel proletariato. Ciò può sembrare paradossale. Come è possibile fondare la fiducia su qualche cosa che non esiste ancora? Ma questa prospettiva è ben presente. Esiste come obiettivo cosciente, come costruzione teorica, nello stesso modo in cui esiste l’edificio da costruire nella testa dell’architetto. Prima ancora di realizzarlo praticamente, il proletariato è l’architetto del comunismo.
Abbiamo già visto che nello stesso momento in cui il proletariato è apparso come forza indipendente nella storia, è apparsa la prospettiva del comunismo: la proprietà collettiva non dei mezzi di consumo, ma dei mezzi di produzione. Quest’idea era il prodotto della separazione dei produttori dai mezzi di produzione, attraverso il lavoro salariato e la socializzazione del lavoro. In altri termini, era il prodotto del proletariato, della sua posizione nella società capitalista. O, come Engels scrive ne L’Anti-Dühring: la principale contraddizione nel cuore del capitalismo è quella tra due principi sociali, un principio collettivo alla base della produzione moderna, rappresentato dal proletariato, ed un principio individuale, anarchico, basato sulla proprietà privata dei mezzi di produzione, rappresentato dalla borghesia.
La prospettiva comunista era sorta già prima che le lotte del proletariato avessero rivelato il loro potenziale rivoluzionario. Ciò che questi avvenimenti hanno dunque chiarito è che solo le lotte operaie possono condurre al comunismo. Ma la prospettiva esisteva già prima e si basava principalmente sulle lezioni passate e contemporanee della lotta proletaria. E anche negli anni 1840, quando Marx ed Engels hanno cominciato a trasformare il socialismo da utopia in scienza, la classe non aveva ancora dato molte prove delle sue capacità rivoluzionarie.
Ciò vuole dire che, fin dall’inizio, la teoria era essa stessa un’arma della lotta di classe. E fino alla sconfitta dell’ondata rivoluzionaria, come abbiamo detto, questa visione del suo ruolo storico era cruciale per dare fiducia alla classe per scontrarsi con il capitale.
Dunque, assieme alla lotta immediata e alle lezioni del passato, la teoria rivoluzionaria è per il proletariato un fattore indispensabile di fiducia, in particolare del suo sviluppo in profondità, ma a lungo termine anche della sua estensione. Poiché la rivoluzione è necessariamente un atto cosciente, non può essere vittoriosa se la teoria rivoluzionaria non viene fatta propria dalle masse.
Nella rivoluzione borghese, la prospettiva non era molto più di una proiezione dello spirito dell’evoluzione presente e passata: la conquista graduale del potere all’interno della vecchia società. Nella misura in cui la borghesia ha sviluppato delle teorie del futuro, esse si sono rivelate per delle grossolane mistificazioni che hanno per compito principale di infiammare le passioni rivoluzionarie. Il carattere irrealistico di queste visioni non portava pregiudizio alla causa che servivano. Per il proletariato, al contrario, è il futuro il punto di partenza. Nella misura in cui non può costruire gradualmente il suo potere di classe all’interno del capitalismo, la chiarezza teorica diventa una delle sue armi più importanti.
“La filosofia idealista classica ha sempre postulato che l’umanità vive in due mondi differenti, il mondo materiale in cui domina la necessità e quello dello spirito o dell’immaginazione in cui regna la libertà.
A dispetto della necessità di rigettare i due mondi ai quali, secondo Platone o Kant, l’umanità appartiene, è invece corretto che gli esseri umani vivano simultaneamente in due mondi differenti (...). I due mondi in cui vive l’umanità sono il passato ed il futuro. Il presente è la frontiera tra i due. Ogni sua esperienza risiede nel passato (...). L’umanità non può cambiare il passato, tutto ciò che può fare è accettare la sua necessità. Perciò il mondo dell’esperienza, il mondo della conoscenza è anche quello della necessità. E’ diverso per il futuro. Io non ne ho la minima esperienza. Esso si presenta apparentemente libero davanti a me, come un mondo che non posso esplorare sulla base della conoscenza, ma nel quale devo affermarmi con l’azione. (...) Agire vuol sempre dire scegliere tra diverse possibilità, ed anche se la scelta è solo tra agire o non agire, ciò vuole dire accettare e rigettare, difendere ed attaccare. (…) Ma il sentimento di libertà non è solo una condizione preliminare dell’azione, è anche uno scopo dato. Se il mondo del passato è governato dai rapporti tra la causa e l’effetto (causalità), quello dell’azione, del futuro lo è per la determinazione (teleologia)”[3].
Già prima di Marx, è Hegel che ha risolto, dal punto di vista teorico, il problema del rapporto tra la necessità e la libertà, tra il passato ed il futuro. La libertà consiste nel fare ciò che è necessario, diceva Hegel. In altri termini, non è rivoltandosi contro le leggi di evoluzione del mondo, ma comprendendole ed utilizzandole ai suoi propri fini che l’uomo ingrandisce il suo spazio di libertà. “La necessità è cieca solamente nella misura in cui essa non è compresa”[4]. Allo stesso modo, è necessario per il proletariato comprendere le leggi di evoluzione della storia per essere capace di comprendere e dunque di compiere la sua missione storica. Perciò, se la scienza - e con essa la fiducia della borghesia - era in grande misura basata su una comprensione crescente delle leggi della natura, la scienza e la fiducia della classe operaia sono basate sulla comprensione della società e della storia.
Come mostrato da MC in un contributo di difesa classica del marxismo su questa questione[5], è il futuro che deve predominare sul passato ed il presente in un movimento rivoluzionario perché è esso che ne determina la direzione. Il predominio del presente conduce invariabilmente a delle esitazioni, creando una vulnerabilità enorme verso l’influenza della piccola borghesia, personificazione dell’esitazione. Il predominio del passato conduce all’opportunismo e dunque all’influenza della borghesia come bastione della reazione moderna. Nei due casi, è la perdita della visione a lungo termine che conduce alla perdita della direzione rivoluzionaria.
Come diceva Marx, “la rivoluzione sociale del 19° secolo non può trarre la sua poesia del passato, ma solamente dal futuro”[6].
Da ciò dobbiamo concludere che l’immediatismo è il principale nemico della fiducia in sé del proletariato, non solo perché la strada verso il comunismo è lunga e tortuosa, ma anche perché questa fiducia si radica nella teoria e nel futuro, mentre l’immediatismo è una capitolazione di fronte al presente, l’adorazione dei fatti immediati. Attraverso la storia, l’immediatismo ha costituito il fattore dominante del disorientamento nel movimento operaio. È stato alla radice di tutte le tendenze che hanno posto “il movimento prima del fine”, come diceva Bernstein, e dunque dell’abbandono dei principi di classe. Che prenda la forma dell’opportunismo (come nel caso dei revisionisti alla svolta del secolo XIX o dei trotskisti negli anni ’30) o dell’avventurismo (come per gli Indipendenti nel 1919 e il KPD nel 1921 in Germania), questa impazienza politica piccolo-borghese riporta sempre al tradimento del futuro per un piatto di lenticchie, per riprendere l’immagine biblica. Alla radice di questo atteggiamento assurdo, c’è sempre una perdita di fiducia nella classe operaia.
Nell'ascesa storica del proletariato, passato, presente e futuro formano un’unità. Allo stesso tempo, ciascuno di questi “mondi” ci avverte di un pericolo specifico. Il pericolo che riguarda il passato è quello di dimenticare le sue lezioni. Il pericolo del presente è di essere vittima delle apparenze immediate, della superficie delle cose. Il pericolo del futuro è trascurare e indebolire gli sforzi teorici.
Questo ci ricorda che la difesa e lo sviluppo delle armi teoriche della classe operaia costituiscono il compito specifico delle organizzazioni rivoluzionarie, e che queste ultime hanno una responsabilità particolare nella salvaguardia della fiducia storica nella classe.
5. La fiducia, la solidarietà e lo spirito di partito non sono mai delle esperienze definitive
Come abbiamo detto, la chiarezza e l’unità sono le principali basi dell’azione sociale fiduciosa. Nel caso della lotta di classe del proletariato internazionale, questa unità evidentemente non è che una tendenza che potrà un giorno realizzarsi attraverso un consiglio operaio a scala mondiale. Ma politicamente, le organizzazioni unitarie che sorgono nella lotta sono già l’espressione di questa tendenza. Anche al di fuori di queste espressioni organizzate, la solidarietà operaia – anche quando si esprima ad un livello individuale - manifesta lo stesso questa unità. Il proletariato è la prima classe al cui interno non ci sono interessi economici divergenti; in questo senso, la sua solidarietà annuncia la natura della società per la quale lotta.
Tuttavia, l'espressione più importante e permanente dell’unità di classe è l’organizzazione rivoluzionaria ed il programma che essa difende. Per tale motivo, quest’ultima è l’incarnazione più evoluta della fiducia nel proletariato - ed anche la più complessa.
Come tale, la fiducia è al cuore stesso della costruzione di una tale organizzazione. Qui, la fiducia nella missione del proletariato si esprime direttamente nel programma politico della classe, nel metodo marxista, nella capacità storica della classe, nel ruolo dell’organizzazione verso la classe, nei suoi principi di funzionamento, nella fiducia dei militanti e delle differenti parti dell’organizzazione in sé stessi e degli uni verso gli altri. In particolare, è l’unità dei differenti principi politici ed organizzativi che essa difende e l’unità tra le differenti parti dell’organizzazione che sono le espressioni più dirette della fiducia nella classe: unità di scopo e d’azione, dello scopo della classe e dei mezzi per giungervi.
I due principali aspetti di questa fiducia sono la vita politica ed quella organizzativa. Il primo aspetto si esprime nella lealtà ai principi politici, ma anche nella capacità di sviluppare la teoria marxista in risposta all’evoluzione della realtà. Il secondo aspetto si esprime nella lealtà ai principi di funzionamento proletario e alla capacità di sviluppare una fiducia ed una solidarietà reali all’interno dell’organizzazione. Il risultato di un indebolimento della fiducia nei confronti dell’uno o dell’altro di questi due livelli sarà sempre una rimessa in causa dell'unità - e dunque dell’esistenza – dell’organizzazione.
A livello organizzativo, l'espressione più evoluta di questa fiducia, di questa solidarietà e di questa unità è ciò che Lenin ha chiamato lo spirito di partito. Nella storia del movimento operaio vi sono tre esempi celebri di messa in opera di un tale spirito di partito: il partito tedesco degli anni 1870 e 1880, i bolscevichi a partire dal 1903 fino alla rivoluzione, il partito italiano e la frazione che ne è uscita dopo l’ondata rivoluzionaria. Questi esempi ci aiuteranno a mostrare la natura e la dinamica di questo spirito di partito ed i pericoli che lo minacciano.
a) Ciò che ha caratterizzato il partito tedesco su questo piano è che esso ha basato il suo modo di funzionamento sui principi organizzativi stabiliti dalla Prima internazionale nella sua lotta contro il bakuninismo (ed il lassallismo), che questi principi sono stati ancorati in tutto il partito attraverso una serie di lotte organizzative e che, nella lotta per la difesa dell’organizzazione contro la repressione statale, si è costruita una tradizione di solidarietà tra i militanti e le differenti parti dell’organizzazione. In effetti, è durante il periodo “eroico” di clandestinità che il partito tedesco ha sviluppato le tradizioni di difesa senza concessione dei principi, di studio teorico e di unità organizzativa che ne hanno fatto il dirigente naturale del movimento operaio internazionale. La solidarietà quotidiana nei suoi ranghi era un potente catalizzatore di tutte queste qualità. Tuttavia, alla svolta del secolo, lo spirito di partito era quasi completamente morto al punto che Rosa Luxemburg poteva dichiarare che c’era più umanità in un villaggio siberiano che in tutto il partito tedesco[7]. In realtà, molto prima del suo tradimento programmatico, la scomparsa della solidarietà annunciava il tradimento a venire.
b) Ma la bandiera dello spirito di partito è stata ripresa dai bolscevichi. Là ancora troviamo le stesse caratteristiche. I bolscevichi hanno ereditato i loro principi organizzativi dal partito tedesco, li hanno radicati in ogni sezione ed in ogni membro attraverso una serie di lotte organizzative, hanno forgiato una solidarietà vivente attraverso anni di lavoro illegale. Senza queste qualità, il partito non avrebbe potuto mai superare il test della rivoluzione. Sebbene tra agosto 1914 ed ottobre 1917 il partito abbia subito una serie di crisi politiche, ed abbia anche dovuto rispondere, in modo ripetuto, alla penetrazione di posizioni apertamente borghesi nei suoi ranghi e nella sua direzione (come il sostegno alla guerra nel 1914 e dopo il febbraio 1917), l’unità dell’organizzazione, la sua capacità a chiarire le sue divergenze, a correggere i suoi errori ed ad intervenire nella classe non sono state mai messe in questione.
c) Come sappiamo, molto prima del trionfo finale dello stalinismo, nel partito di Lenin lo spirito di partito era completamente rifluito. Ma ancora una volta, la bandiera è stata ripresa prima dal partito italiano e dopo dalla Frazione di fronte alla controrivoluzione stalinista. Il partito italiano è diventato l’erede dei principi organizzativi e delle tradizioni del bolscevismo. Ha sviluppato la sua visione della vita di partito nella lotta contro lo stalinismo, arricchendola più tardi con la visione ed il metodo della Frazione. E ciò ha avuto luogo nelle più terribili condizioni oggettive, di fronte alle quali, ancora una volta, bisognava forgiare una solidarietà vivente.
Alla fine della 2a guerra mondiale, la Sinistra italiana a sua volta ha abbandonato i principi organizzativi che avevano costituito la sua caratteristica. In effetti, né la parodia semi-religiosa di vita collettiva di partito sviluppata dal bordighismo nel dopoguerra, né l’informalismo federalista di Battaglia hanno a che vedere con la vita organizzativa della Sinistra italiana degli anni ‘20 e ‘30. In particolare, tutta la concezione della Frazione è stata abbandonata.
È la Sinistra comunista di Francia che ha recuperato l’eredità di questi principi organizzativi e di lotta per lo spirito di partito. E tocca oggi alla CCI perpetuare e far vivere questa eredità.
d) Lo spirito di partito non è mai un’acquisizione definitiva. Le organizzazioni e le correnti del passato che l’hanno meglio incarnato, hanno finito tutte per perderlo completamente e definitivamente. (...)
In ciascuno degli esempi dati, le circostanze in cui lo spirito di partito è sparito erano molto differenti. L’esperienza della lenta degenerazione di un partito di massa o dell’integrazione di un partito nell’apparato statale di un bastione operaio isolato non si ripeteranno probabilmente mai più. Tuttavia, ci sono delle lezioni generali da trarre. In ogni caso:
· lo spirito di partito è sparito in un momento di svolta storica: in Germania, tra l’ascesa e le decadenza del capitalismo; in Russia con il riflusso della rivoluzione; e per la Sinistra italiana, tra la rivoluzione e la controrivoluzione. Oggi, è l’entrata nella fase di decomposizione che minaccia lo spirito di partito.
· l’illusione che le realizzazioni passate possono essere definitive ha impedito la vigilanza necessaria. La malattia infantile di Lenin è un perfetto esempio di questa illusione. Oggi, la sopravvalutazione della maturità organizzativa della CCI contiene lo stesso pericolo.
· sono l’immediatismo e l'impazienza che hanno aperto la porta all’opportunismo programmatico ed organizzativo. L’esempio della Sinistra italiana è particolarmente sorprendente poiché storicamente è il più vicino a noi. È il desiderio di riuscire infine ad estendere la propria influenza ed a reclutare dei nuovi membri che ha spinto la Sinistra italiana nel 1943-45 ad abbandonare le lezioni della Frazione ed il PCI bordighista nel 1980-81 ad abbandonare alcuni dei suoi principi programmatici. Oggi, la CCl a sua volta è confrontata a simili tentazioni legate all’evoluzione della situazione storica.
· questo abbandono è stato l'espressione a livello organizzativo della perdita di fiducia nella classe operaia che si è espressa inevitabilmente anche al livello politico (perdita della chiarezza programmatica). Fino ad oggi ciò non ha mai riguardato la CCI come tale. Ma ha sempre riguardato le differenti “tendenze” che si sono scisse dalla CCI, (come la FECCI o il “Circolo di Parigi” che hanno rigettato l’analisi della decadenza.
Durante gli ultimi mesi, è soprattutto la simultaneità di un indebolimento dei nostri sforzi teorici e della vigilanza, una certa euforia rispetto alla progressione dell’organizzazione e dunque un accecamento nei confronti delle nostre difficoltà ed il riemergere del clanismo che rivelano il pericolo della perdita dello spirito di partito, di una degenerazione organizzativa e di sclerosi teorica. Il fatto che la fiducia nei nostri ranghi sia stata minata e l’incapacità di fare dei passi avanti decisivi nello sviluppo della solidarietà hanno costituito i fattori dominanti in questa tendenza che può, potenzialmente, condurre al tradimento programmatico o alla scomparsa dell’organizzazione.
6. Non c’è spirito di partito senza una responsabilità individuale
Dopo la lotta del 1993-96 contro il clanismo, sono cominciati ad emergere degli atteggiamenti di diffidenza verso i rapporti politici e sociali dei compagni al di fuori del quadro formale delle riunioni e delle attività programmate. L’amicizia, i rapporti amorosi, i legami e le attività sociali, i gesti di solidarietà personale, le discussioni politiche ed altro tra i compagni sono stati talvolta trattati, nella pratica, come un male necessario, di fatto come il terreno privilegiato per lo sviluppo del clanismo. Al contrario, si è cominciato a considerare che le strutture formali delle nostre attività potessero offrire, in qualche modo, una garanzia contro il ritorno del clanismo.
Tali reazioni contro il clanismo rivelano di per sé un’insufficiente assimilazione della nostra analisi e ci disarmano di fronte a questo pericolo. Come abbiamo detto, il clanismo è in parte sorto come una falsa risposta ad un reale problema di mancanza di fiducia e di solidarietà al nostro interno. Inoltre, la distruzione dei rapporti di fiducia e di solidarietà reciproci che realmente esistevano tra i compagni, è dovuta principalmente al lavoro del clanismo e ha costituito un precondizione per un nuovo sviluppo di questo. È prima di tutto il clanismo che ha minato lo spirito di amicizia: la reale amicizia non è mai diretta contro una terza persona e non esclude mai la critica reciproca. Il clanismo ha distrutto la tradizione indispensabile di discussioni politiche e di legami sociali tra i compagni convertendoli in “discussioni informali” alle spalle dell’organizzazione. Accrescendo l’atomizzazione e demolendo la fiducia, intervenendo in modo eccessivo ed irresponsabile nella vita personale dei compagni isolandoli socialmente dall’organizzazione, il clanismo ha minato la solidarietà naturale che deve esprimere il “dovere di rispetto” dell’organizzazione verso le difficoltà personali che possono incontrare i suoi militanti.
È impossibile combattere il clanismo utilizzando le sue armi. Non è la diffidenza verso il pieno sviluppo della vita politica e sociale al di fuori del semplice quadro formale delle riunioni di sezione, ma la vera fiducia in questa tradizione del movimento operaio che ci rende più resistenti al clanismo.
Sullo sfondo di questa diffidenza ingiustificata verso la vita “informale” di un’organizzazione operaia risiede l’utopia piccolo-borghese di una garanzia contro lo spirito di circolo che può condurre solamente al dogma illusorio del catechismo contro il clanismo. Un tale comportamento tende a trasformare gli statuti in leggi rigide, il “dovere di rispetto” in sorveglianza e la solidarietà in un rituale vuoto.
Uno dei modi in cui la piccola borghesia esprime la sua paura del futuro è un dogmatismo morboso che sembra offrire protezione contro il pericolo dell’imprevedibile. È ciò che ha portato la “vecchia guardia” del partito russo ad accusare costantemente Lenin di abbandonare i principi e le tradizioni del bolscevismo. È un tipo di conservatorismo che mina lo spirito rivoluzionario. Nessuno è esente da questo pericolo, come lo dimostra il dibattito nell’Internazionale Socialista sulla questione polacca in cui non solo Wilhem Liebknecht, ma in parte anche Engels hanno adottato un tale atteggiamento quando Rosa Luxemburg ha affermato la necessità di rimettere in causa la vecchia posizione di sostegno dell’indipendenza della Polonia.
In realtà il clanismo, proprio perché è un’emanazione di strati intermedi, instabili, senza futuro, è non solo capace ma anche condannato a prendere delle forme e delle caratteristiche sempre mutevoli. La storia mostra che il clanismo non prende solamente la forma dell’informalismo del bohémien e delle strutture parallele così apprezzate dai declassati, ma che è anche capace di utilizzare le strutture ufficiali dell’organizzazione e l’apparenza del formalismo e della routine piccolo-borghese per promuovere la sua politica parallela. Mentre in un’organizzazione in cui lo spirito di partito è debole e lo spirito di contestazione forte, un clan informale ha più chance di successo, in un’atmosfera più rigorosa dove esiste una grande fiducia negli organi centrali, l’apparenza formale e l’adozione di strutture ufficiali può rispondere perfettamente ai bisogni del clanismo.
In realtà, il clanismo contiene le due facce della medaglia. Storicamente, è condannato a vacillare tra questi due poli che apparentemente si escludono reciprocamente. Nel caso della politica di Bakunin, troviamo i due aspetti contenuti in una “sintesi superiore”: la libertà individuale anarchica assoluta, proclamata dall’alleanza ufficiale, e la fiducia e l’ubbidienza cieca chiesta dall’alleanza segreta:
“Come i gesuiti, non allo dell’asservimento ma dell’emancipazione popolare, ciascuno di essi ha rinunciato alla sua propria volontà. Nel Comitato, come in tutta l'organizzazione, non è l’individuo che pensa, che vuole ed agisce, ma la collettività” scrive Bakunin. Ciò che caratterizza questa organizzazione, continua, è “la fiducia cieca che gli offrono delle personalità conosciute e rispettate”[8].
I rapporti sociali che ci possiamo aspettare che si sviluppino in una tale organizzazione sono chiari: “Tutti i sentimenti di affetto, sentimenti che rammolliscono di parentela, di amicizia, d’amore, di riconoscenza devono essere soffocati dalla passione unica e fredda dell’opera rivoluzionaria”[9]
Qui possiamo vedere chiaramente che il monolitismo non è un’invenzione dello stalinismo, ma è già contenuto nella mancanza di fiducia clanica nel compito storico, nella vita collettiva e nella solidarietà proletaria. Per noi, non c'è niente di nuovo né di sorprendente in ciò. È la paura piccolo-borghese ben nota nei riguardi della responsabilità individuale che, oggigiorno, porta un gran numero di personaggi molto individualisti nelle braccia delle diverse sette in cui possono smettere di pensare e di agire per proprio conto.
È veramente un’illusione credere che si possa combattere il clanismo senza la responsabilizzazione dei singoli membri dell’organizzazione. E sarebbe paranoico pensare che la sorveglianza “collettiva” potrebbe sostituirsi alla convinzione ed alla vigilanza individuale in questa lotta. In realtà, il clanismo incorpora la mancanza di fiducia sia nella vita collettiva reale che nella possibilità di una responsabilità individuale reale.
Quale è la differenza tra le discussioni tra compagni al di fuori delle riunioni e le “discussioni informali” del clanismo? È il fatto che le prime e non le seconde sarebbero rapportate all’organizzazione? Sì, sebbene non sia possibile riportare formalmente ogni discussione. Ma più importante ancora, ciò che fa la differenza è l’atteggiamento con il quale una tale discussione viene condotta. È lo spirito di partito che dobbiamo tutti sviluppare perché nessuno lo farà per noi. Questo spirito di partito resterà sempre lettera morta se i militanti non possono imparare ad avere fiducia gli uni negli altri. Ugualmente non può esserci solidarietà vivente senza un impegno personale di ogni militante su questo piano.
Se la lotta contro lo spirito di circolo dipendesse unicamente dalla salute delle strutture collettive formali, non ci sarebbe mai problema di clanismo nelle organizzazioni proletarie. I clan si sviluppano a causa dell’indebolimento della vigilanza e del senso di responsabilità a livello individuale. È per questo che una parte del Testo di orientamento del 1993[10] è dedicata all’identificazione degli atteggiamenti contro cui ogni compagno deve armarsi. Questa responsabilità individuale è indispensabile, non solo nella lotta contro il clanismo, ma nello sviluppo positivo di una vita proletaria sana. In una tale organizzazione, i militanti hanno imparato a pensare per proprio conto, e la loro fiducia è radicata in una comprensione teorica, politica ed organizzativa della natura della causa proletaria, non nella lealtà o la paura nei confronti di questo o quel compagno o comitato centrale.
“Il ‘corso nuovo’ deve avere come primo risultato di fare sentire a tutti che nessuno oserà mai più terrorizzare il Partito. La nostra gioventù non deve limitarsi a ripetere le nostre formule. Deve conquistarle, assimilarle, formarsi una sua opinione, una sua fisionomia ed essere capace di lottare per la loro vita col coraggio che danno una convinzione profonda ed un’intera indipendenza di carattere. Fuori dal Partito l’ubbidienza passiva che fa seguire meccanicamente il passo dei capi: fuori dal Partito l’impersonalità, il servilismo, il carrierismo! Il bolscevico non è solamente un uomo disciplinato: è un uomo che, in ogni caso e su ogni questione, si forgia un’opinione ferma e la difende coraggiosamente, non solo contro i suoi nemici, ma anche all’interno del suo stesso partito”[11].
E Trotsky aggiunge: “L’eroismo supremo, nell’arte militare come nella rivoluzione, sono la veracità ed il sentimento di responsabilità"[12].
La responsabilità collettiva e la responsabilità individuale, lungi dall’escludersi reciprocamente, dipendono l’una dall’altra e si condizionano a vicenda. Come sviluppato da Plekhanov, l’eliminazione del ruolo dell’individuo nella storia è legata ad un fatalismo incompatibile col marxismo. “Se certi soggettivisti, nei loro sforzi per attribuire a ‘l’individuo’ il massimo di importanza nella storia, rifiutavano di tenere in conto che l’evoluzione storica dell’umanità è un processo che obbedisce a delle leggi, alcuni dei loro più recenti avversari, nel loro sforzo di sottolineare al massimo le leggi che reggono questa evoluzione, sono apparsi sul punto di dimenticare che la storia è fatta dagli uomini e che, di conseguenza, l’azione degli individui non può essere privata di importanza”[13].
Un tale rigetto della responsabilità individuale è ugualmente legata al democraticismo piccolo borghese, al desiderio di rimpiazzare il nostro principio “del ciascuno secondo i propri mezzi” con l’utopia reazionaria dell’egualitarismo dei membri di un corpo collettivo. Questo progetto, già condannato nel Testo di Orientamento del 1993, non costituisce né un obiettivo dell’organizzazione oggi né quello della futura società comunista.
Uno dei compiti che abbiamo tutti, è di apprendere dall’esempio di tutti i grandi rivoluzionari (quelli celebri e tutti i combattenti anonimi della nostra classe) che non hanno tradito i nostri principi programmatici ed organizzativi. Ciò non ha niente a che vedere con un qualsiasi culto della personalità. Come si legge nella conclusione di Plekhanov nel celebre saggio sul ruolo dell’individuo: “Non è solo per quelli che cominciano, non è solo per i “grandi” uomini, che si apre un largo campo d’azione. Esso è aperto a tutti gli uomini, a tutti quelli che hanno degli occhi per vedere, degli orecchi per sentire ed un cuore per amare il loro prossimo. La nozione di grandioso è relativa. Nel senso morale, e citando Il nuovo testamento, è grande qualunque uomo che dà la propria vita per i suoi amici”.
A mo’ di conclusione
Da ciò segue che l’assimilazione e l’approfondimento delle questioni che abbiamo cominciato a discutere da più di un anno costituiscono oggi una priorità assoluta.
Il compito della coscienza è di creare il quadro politico e organizzativo che favorisca al meglio lo sviluppo della fiducia e della solidarietà. Questo compito è centrale nella costruzione dell’organizzazione, arte o scienza tra le più difficili. Alla base di questo lavoro si trova il rafforzamento dell’unità dell’organizzazione, principio che è il più “sacro” del proletariato. E come per ogni comunità collettiva, la sua premessa è l’esistenza di regole di comportamento comuni. Concretamente, gli Statuti, i testi del 1981 sulla funzione e il funzionamento e del 1993 sul tessuto organizzativo danno già degli elementi per un tale quadro. È necessario ritornare, in maniera ripetuta, su questi testi, e soprattutto quando l’unità dell’organizzazione è in pericolo. Essi devono essere il punto di partenza di una vigilanza permanente.
A questo livello, l’incomprensione principale nei nostri ranghi è l’idea che queste questioni siano facili e semplici. Secondo questo atteggiamento, basta decretare la fiducia perché questa esista. E poiché la solidarietà è un’attività pratica, basta “just go and do it” (solo metterla in opera). Niente è più falso di questo! La costruzione dell’organizzazione è un’impresa estremamente complicata ed anche delicata. E non esiste alcun prodotto della cultura umana che sia così difficile e fragile come la fiducia. Nessuna cosa è più difficile da costruire e così facile da distruggere. È per questo che, di fronte a questa o quella mancanza di fiducia da parte di questa o quella parte dell’organizzazione, la prima questione che deve essere posta sempre è ciò che può essere fatto, collettivamente, per ridurre la diffidenza o anche la paura al nostro interno. Lo stesso vale per la solidarietà: benché questa sia “pratica” e anche “naturale” per la classe operaia, quest’ultima vive nella società borghese ed è circondata da fattori che lavorano contro tale solidarietà. Inoltre, la penetrazione di un’ideologia straniera porta alle concezioni aberranti su questa questione, come il recente atteggiamento di considerare il rifiuto di pubblicare i testi di compagni come un’espressione di solidarietà, o di trovare come base valida per un dibattito sulla fiducia la spiegazione delle origini di certe divergenze politiche nella vita personale dei compagni (…)[14].
In particolare nella lotta per la fiducia, la nostra parola d'ordine deve essere prudenza e ancora prudenza.
La teoria marxista è la nostra arma principale nella lotta contro la perdita di fiducia. In generale, è il mezzo privilegiato per resistere all’immediatismo e per difendere una visione a lungo termine. È la sola base possibile per una fiducia reale, scientifica nel proletariato che è a sua volta la base della fiducia di tutte le differenti parti della classe in sé e delle une nelle altre. Specificamente, solo un approccio teorico ci permette di andare alle radici più profonde dei problemi organizzativi che devono essere trattati a pieno titolo come questioni teoriche e storiche. Allo stesso modo, in assenza di una tradizione vivente su questa questione e in assenza finora della prova del fuoco della repressione, la CCI deve basarsi su uno studio del movimento operaio del passato nello sviluppo volontario e cosciente di una tradizione di solidarietà attiva e di una vita sociale al suo interno.
Se la storia ci ha reso particolarmente vulnerabili nei confronti dei pericoli del clanismo, ci ha anche dato i mezzi per superarli. In particolare, non dobbiamo mai dimenticare che il carattere internazionale dell’organizzazione e la creazione di commissioni di informazioni sono i mezzi indispensabili per restaurare la fiducia reciproca nei momenti di crisi quando questa fiducia è stata danneggiata e persa.
Il vecchio Liebknecht ha detto di Marx che lui trattava la politica come un argomento di studio[15]. Come abbiamo detto, è l’allargamento della zona della coscienza nella vita sociale che libera l’umanità dall'anarchia delle forze cieche, rendendo possibili la fiducia, la solidarietà e la vittoria del proletariato. Per superare le difficoltà presenti e risolvere le questioni poste, la CCI deve studiarle perché, come diceva il filosofo, “l’ignorantia non est argumentum” (L’ignoranza non è un argomento). (“L'etica”, Spinoza)
CCI 15 giugno 2001
[1] Per maggiori informazioni su questa Conferenza vedi l’articolo “La lotta per la difesa dei principi organizzativi” (Rivista Internazionale n°110, in lingua inglese, francese o spagnola).
[2] Il 18 Brumaio
[3] Kautsky, La concezione materialistista della storia.
[4] Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche.
[5] MC è il nostro compagno Marc Chirik, morto nel 1990. Lui aveva conosciuto direttamente la Rivoluzione del 1917 nella sua città di Kichinev in Moldavia. Era stato membro fin dall’età di 13 anni del partito comunista di Palestina da cui era stato espulso a causa del suo disaccordo con le posizioni dell’Internazionali comunista sulla questione nazionale. Immigrato in Francia, era entrato nel PCF prima di esserne espulso contemporaneamente all’insieme delle opposizioni di Sinistra. Era stato membro della Ligue communiste (trotskista) poi dell’Union Communiste (UC) che aveva lasciato nel 1938 per raggiungere la Frazione italiana della Sinistra comunista internazionale (GCI), di cui condivideva la posizione sulla guerra di Spagna contro quella dell’UC. Durante la guerra e l’occupazione tedesca, ha dato impulso alla ricostituzione della Frazione italiana intorno al nucleo di Marsiglia dopo che il Bureau internazionale della GCI, animato da Vercesi, aveva considerato che le frazioni non avessero più ragione di continuare il loro lavoro durante la guerra. Nel maggio 1945 si è opposto all’autoscioglimento della Frazione italiana la cui conferenza aveva deciso l’integrazione individuale dei suoi militanti nel Partito comunista internazionalista fondato poco prima. Ha raggiunto la Frazione francese della Sinistra comunista che si era costituita nel 1944 e che in seguito si è ribattezzata Sinistra comunista di Francia (GCF). A partire dal 1964 in Venezuela e dal 1968 in Francia, MC ha sostenuto un ruolo decisivo nella formazione dei primi gruppi da cui avrebbe avuto origine la CCI alla quale ha apportato l’esperienza politica ed organizzativa che aveva acquisito nelle diverse organizzazioni comuniste di cui era stato precedentemente membro. Si troveranno ulteriori elementi sulla biografia politica del nostro compagno nel nostro opuscolo La Gauche communiste de France e nell’articolo che la Rivista Internazionale (in lingua inglese, francese e spagnola) gli ha dedicato, nei numeri 65 e 66.
Il testo di MC qui evocato è un contributo al dibattito interno della CCI intitolato Marxismo rivoluzionario e centrismo nella realtà presente ed il dibattito attuale nella CCI, pubblicato a marzo 1984.
[6] Il 18 Brumaio
[7] Corrispondenza con K. Zetkin.
[8] Bakunin, “Appello agli ufficiali dell’esercito russo” (traduzione francese ne La prima internazionale T.11, da Giacomo Freymont, Ginevra 1962).
[9] Bakunin, Il catechismo rivoluzionario (Ibid)
[10] Si tratta del testo “La questione del funzionamento dell’organizzazione nella CCI” pubblicato nella Rivista internazionale n°109 (in lingua inglese, francese o spagnola).
[11] Trotskv, Corso nuovo
[12] Sul routinisme nell’esercito ed altrove.
[13] “A proposito del ruolo dell’individuo nella storia”, Opere filosofiche, Volume II, Éditions du Progrès.
[14] Questo passaggio fa riferimento principalmente a fatti che abbiamo già evocato nel nostro articolo “La lotta per la difesa dei principi organizzativi” (Rivista Internationale n°110, in lingua inglese, francese o spagnola) che riporta la nostra Conferenza straordinaria del marzo 2002 e le difficoltà organizzative che avevano motivato la sua tenuta: “Che delle parti dell’organizzazione facessero delle critiche ad un testo adottato dall’organo centrale della CCI non aveva mai costituito un problema per quest'ultima. Al contrario, la CCI ed il suo organo centrale hanno sempre insistito affinché ogni divergenza, ogni dubbio si esprimesse apertamente all’interno dell’organizzazione per fare la massima chiarezza possibile. L’atteggiamento dell’organo centrale, quando si trovava di fronte a dei disaccordi, era di rispondervi con la massima serietà possibile. Ora, a partire dalla primavera 2000, la maggioranza dell’SI (Segreteriato internazionale, la commissione permanente dell’organo centrale della CCI) ha adottato un atteggiamento completamente opposto. Piuttosto che sviluppare delle argomentazioni serie, ha adottato un atteggiamento totalmente contrario a quello lo aveva caratterizzato in passato. Nella sua mente, se una piccola minoranza di compagni faceva delle critiche ad un testo dell’SI, ciò doveva esprimere necessariamente spirito di contestazione, o anche il fatto che uno di loro aveva dei problemi familiari, che l’altro era colpito da una malattia psichica. (...) La risposta data agli argomenti dei compagni in disaccordo non era dunque basata su altri argomenti, ma su delle denigrazioni di questi compagni o decisamente sul tentativo di non pubblicare alcuni dei loro contributi con l’argomento che questi ultimi andavano “a buttare merda sull’organizzazione”, o ancora che una delle compagne che era toccata dalla pressione che si sviluppava intorno a lei “non avrebbe sopportato” le risposte che altri militanti della CCI avrebbero fatto ai suoi testi. Insomma, la maggioranza dell’SI, in maniera totalmente ipocrita, sviluppava una politica di soffocamento dei dibattimenti in nome della solidarietà.
[15] K Wilhem Liebknecht, Karl Marx
La CCI ha tenuto il suo 19° congresso lo scorso maggio. Il congresso costituisce, in generale, il momento più importante della vita delle organizzazioni rivoluzionarie e, dal momento che queste sono parti integranti della classe operaia, è loro compito portare a conoscenza di quest’ultima le principali conclusioni del loro congresso. E’ quello che ci proponiamo con questo articolo. La prima cosa da segnalare subito è che lo stesso congresso ha messo in pratica questa volontà di apertura verso l’esterno dell’organizzazione visto che, oltre alle delegazioni delle sezioni della CCI erano presenti non solo dei suoi simpatizzanti o membri di circoli di discussione ai quali militanti della CCI partecipano, ma anche delle delegazioni di altri gruppi con cui la CCI è in contatto e in discussione, due gruppi della Corea e Opop del Brasile[1]. Altri gruppi erano stati invitati e avevano accettato l’invito, ma non sono potuti venire a causa degli ostacoli sempre più severi che la borghesia europea oppone ai cittadini dei paesi non europei.
Secondo gli statuti della nostra organizzazione:
«Il Congresso internazionale è l’organo sovrano della CCI. Come tale esso ha per compiti di:
- elaborare le analisi e gli orientamenti generali dell’organizzazione, in particolare per quanto riguarda la situazione internazionale;
- esaminare e fare il bilancio delle attività dell’organizzazione dopo il congresso precedente;
- definire le sue prospettive di lavoro per il futuro.»
E’ a partire da questi elementi che si può tirare il bilancio e gli insegnamenti del 19° congresso.
Il primo punto che è importante affrontare è quello delle nostre analisi e discussioni sulla situazione internazionale. In effetti se l’organizzazione non è capace di elaborare una comprensione chiara di questa situazione, essa non è capace di intervenirvi in maniera appropriata. La storia ci ha insegnato come può essere catastrofica una valutazione sbagliata della situazione internazionale da parte delle organizzazioni rivoluzionarie. Come caso più drammatico si può ricordare la sottovalutazione del pericolo di guerra da parte della maggioranza della II Internazionale alla vigilia della prima carneficina imperialista mondiale, laddove nel periodo precedente, sotto l’impulso della Sinistra dell’Internazionale, i suoi congressi avevano correttamente messo in guardia contro questo pericolo e avevano chiamato il proletariato alla mobilitazione contro di esso.
Un altro esempio è quello dell’analisi fatta da Trotsky durante gli anni trenta, quando lui vedeva negli scioperi operai in Francia del 1936 o nella guerra civile in Spagna le premesse di una nuova ondata rivoluzionaria internazionale. Questa analisi lo portò a fondare, nel 1938, una «IV Internazionale» che doveva, di fronte alla «politica conservatrice dei partiti comunisti e socialisti», prendere il loro posto alla testa «delle masse di milioni di uomini [che] si impegnano senza tregua sulla via della rivoluzione». Questo errore contribuì fortemente al passaggio delle sezioni della IV Internazionale nel campo borghese nel corso della Seconda Guerra Mondiale : volendo ad ogni costo «restare incollati alle masse», esse si sono infognate nelle politiche della «Resistenza» condotte dai partiti socialisti e «comunisti», cioè nel sostegno al campo imperialista degli Alleati.
Per venire più vicini a noi, si è visto come certi gruppi che si richiamavano alla Sinistra Comunista siano rimasti ai margini dello sciopero generale del Maggio ’68 in Francia e dell’insieme del movimento internazionale di lotte operaie che l’hanno seguito, perché lo consideravano un «movimento di studenti». Si è anche assistito al triste destino di altri gruppi, che, considerando che il maggio ’68 fosse una «rivoluzione», sono caduti nella disperazione e sono infine scomparsi quando questo movimento non ha mantenuto le promesse che essi vi avevano visto.
Oggi è della più grande importanza per i rivoluzionari elaborare un’analisi corretta delle prospettive della situazione internazionale perché queste prospettive hanno acquisito, negli ultimi tempi, un’importanza tutta particolare.
Poiché in questo stesso numero pubblichiamo la risoluzione adottata dal Congresso non è necessario ritornare sui punti trattati in essa. Vogliamo sottolinearne solo gli aspetti più importanti.
Il primo, il più fondamentale è il passo decisivo fatto dalla crisi del capitalismo con la crisi del debito statale di certi Stati europei come la Grecia.
"Nei fatti, questo fallimento potenziale di un numero crescente di Stati costituisce una nuova tappa nello sprofondamento del capitalismo nella sua crisi irrisolvibile. Esso mette in rilievo i limiti delle politiche con cui la borghesia è riuscita a frenare l’evoluzione della crisi capitalista da diversi decenni. (…) le misure adottate dal G20 di marzo 2009 per evitare una nuova «grande depressione» sono significative della politica condotta da diversi decenni da parte della classe dominante : essa si riassume nell’iniezione nelle economie di masse considerevoli di crediti. Queste misure non sono nuove. Nei fatti da più di 35 anni esse costituiscono il cuore delle politiche portate avanti dalla classe dominante per cercare di sfuggire alla contraddizione principale del modo di produzione capitalista: la sua incapacità a trovare dei mercati solvibili capaci di assorbire la sua produzione (…) Il potenziale fallimento del sistema bancario e la recessione hanno obbligato tutti gli Stati a iniettare delle somme considerevoli nelle loro economie mentre le vendite erano in caduta libera per la riduzione della produzione. Per questo motivo i deficit pubblici hanno conosciuto, nella gran parte dei paesi, un aumento considerevole. Per i più esposti tra questi, come l’Irlanda, la Grecia o il Portogallo, ciò ha significato una situazione di potenziale fallimento, l’incapacità di pagare i loro funzionari e di rimborsare i loro debiti. (…) I “piani di salvataggio” di cui esse hanno beneficiato da parte della Banca europea e del Fondo monetario internazionale costituiscono dei nuovi debiti il cui rimborso si aggiunge a quello dei debiti precedenti. E’ più che un circolo vizioso, è una spirale infernale. (…) La crisi del debito sovrano dei PIIGS (Portogallo, Islanda, Irlanda, Grecia, Spagna) costituisce solo una parte infima del terremoto che minaccia l’economia mondiale. Non è certo perché beneficiano ancora per il momento del rating AAA come indice di fiducia delle agenzie di rating … che le grandi potenze industriali se la cavano molto meglio… la prima potenza mondiale corre il rischio di vedersi ritirata la fiducia “ufficiale” sulla sua capacità di rimborsare i suoi debiti, se non con un dollaro fortemente svalutato…per tutti i paesi, la situazione é solo peggiorata nonostante i diversi piani di rilancio…Pertanto il fallimento dei PIIGS costituisce solo la punta di un iceberg che nasconde il fallimento di un’economia mondiale che deve la sua sopravvivenza ormai da decenni alla disperata fuga in avanti nell’indebitamento. (…) la crisi dell’indebitamento marca l’entrata del modo di produzione capitalista in una nuova fase della sua crisi acuta in cui si aggravano ulteriormente la violenza e l’estensione delle sue convulsioni. Non c’è via di “uscita dal tunnel” per il capitalismo. Questo sistema può solo condurre la società in una crescente barbarie.”
Il periodo successivo al congresso ha confermato questa analisi. Da una parte, la crisi dei debiti sovrani dei paesi europei, che adesso è chiaro che non riguarda solo i «PIIGS» (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia, Spagna) ma minaccia tutta la zona Euro, ha cominciato ad occupare l’attualità in maniera sempre più insistente. E non è il presunto «successo» del vertice europeo del 22 luglio sulla Grecia che cambierà granché le cose. Tutti i precedenti vertici avevano preteso di aver risolto in maniera duratura le difficoltà incontrate da questo paese, e oggi vediamo con che efficacia!
D’altra parte, nello stesso momento, con le difficoltà incontrate da Obama per far adottare la sua politica economica, i mezzi di informazione «scoprono» che anche gli Stati Uniti sono afflitti da un debito sovrano colossale, il cui livello (130% del PIL) non ha niente da invidiare a quello dei PIIGS. Questa conferma delle analisi che erano state fatte al congresso non deriva da nessun merito speciale della nostra organizzazione. Il solo «merito» che noi rivendichiamo è quello di essere fedeli alle analisi classiche del movimento operaio che hanno sempre, dopo lo sviluppo della teoria marxista, messo in avanti il fatto che il modo di produzione capitalista, come i precedenti, non era che transitorio e che esso non potrà, alla fine, superare le sue contraddizioni economiche. E’ in questo quadro dell’analisi marxista che si è sviluppata la discussione al congresso. Si sono anche espressi diversi punti di vista, in particolare sulle cause ultime delle contraddizioni del capitalismo (che richiamano in gran parte quelli espressi nel nostro dibattito sul boom economico del dopoguerra[2]) o anche sulla possibilità che l’economia mondiale cada nell’iperinflazione a causa dell’utilizzazione sfrenata da parte degli Stati della stampa di carta moneta, in particolare gli Stati Uniti. Ma c’è stata una omogeneità reale nel sottolineare tutta la gravità della situazione attuale, come affermato nella risoluzione approvata all’unanimità.
Il congresso ha anche discusso sull’evoluzione dei conflitti imperialisti, come riportato nella risoluzione. Su questo piano i due anni che ci separano dal precedente congresso non hanno portato elementi fondamentalmente nuovi, se non una conferma del fatto che , malgrado tutti i suoi sforzi militari, la prima potenza mondiale si mostra incapace di ristabilire la leadership che aveva esercitato al momento della Guerra Fredda e che il suo impegno in Iraq e in Afganistan non hanno potuto stabilire una «Pax americana» sul mondo, al contrario: «Il “nuovo ordine mondiale” predetto 20 anni fa da Georg Bush padre, e che lui sognava sotto l’egida degli Stati Uniti, non può che presentarsi sempre più come un “caos mondiale”, un caos che le convulsioni dell’economia capitalista non potranno che aggravare ancora. “ (punto 8 della risoluzione).
Era naturalmente importante che il congresso si occupasse in particolare dell’attuale evoluzione della lotta di classe, dal momento che, al di là dell’importanza primaria che questa questione ha per i rivoluzionari, il proletariato si confronta oggi in tutti i paesi a degli attacchi senza precedenti alle sue condizioni di esistenza. Questi attacchi sono particolarmente brutali nei paesi messi sotto tutela dalla Banca Europea e dal Fondo Monetario Internazionale, come la Grecia. Ma essi si scatenano in tutti i paesi con l’esplosione della disoccupazione e soprattutto a seguito della necessità per tutti i governi di ridurre i deficit di bilancio.
La risoluzione adottata al precedente congresso metteva avanti che: “la forma principale che prende oggi questo attacco,quella dei licenziamenti di massa, non favorisce, in un primo momento, l’emergenza di tali movimenti [lotte di massa] . Sarà in un secondo momento, quando essa sarà capace di resistere ai ricatti della borghesia, quando si imporrà l’idea che sono la lotta unita e solidale può frenare la brutalità degli attacchi della classe dominante, in particolare quando questa cercherà di far pagare a tutti i lavoratori gli enormi deficit statali che si accumulano oggi con i piani di salvataggio delle banche e di “rilancio” dell’economia, che lotte operaie di grande ampiezza potranno svilupparsi molto di più.”
Il 19° congresso ha constatato che: “I due anni che ci separano dal precedente congresso hanno ampiamente confermato questa previsione. Questo periodo non ha conosciuto lotte ampie contro i licenziamenti di massa e contro la crescita senza precedenti della disoccupazione subiti dalla classe operaia nei paesi più sviluppati. Al contrario, è a partire dagli attacchi portati direttamente dai governi in applicazione dei piani di “risanamento dei conti pubblici” che hanno cominciato a svilupparsi delle lotte significative.”
Tuttavia il Congresso ha dovuto constatare che: “Questa risposta è ancora molto timida, particolarmente là dove questi piani di austerità hanno preso le forme più violente, in paesi come la Grecia o la Spagna per esempio dove, tuttavia, la classe operaia aveva dato prova nel recente passato di una combattività relativamente importante. In un certo modo sembra che la brutalità stessa degli attacchi provochi un sentimento d’impotenza nei ranghi operai, tanto più che questi attacchi sono condotti da governi “di sinistra”.
In seguito la classe operaia ha mostrato in questi stessi paesi che essa non si rassegnava. Lo si è visto in particolare in Spagna,dove il movimento degli «Indignati» è diventato per parecchi mesi una specie di «faro» per gli altri paesi d’Europa o di altri continenti.
Questo movimento è cominciato nel momento stesso in cui si svolgeva il congresso e questo non ha potuto, evidentemente, discuterne. Viceversa il congresso si è soffermato sui movimenti sociali che avevano toccato i paesi arabi alla fine dello scorso anno. In proposito non c’è stata una omogeneità totale, anche per il loro carattere inedito, ma l’insieme del congresso si è ritrovato sull’analisi che si trova nella risoluzione: «i movimenti più di massa che si sono conosciuti nel corso dell’ultimo periodo non sono venuti dai paesi più industrializzati ma dai paesi della periferia del capitalismo, particolarmente in un certo numero di paesi del mondo arabo, e specificamente la Tunisia e l’Egitto dove, alla fine, dopo aver tentato di soffocarli con una feroce repressione, la borghesia è stata costretta a licenziare i dittatori del posto. Questi movimenti non erano delle lotte operaie classiche come ce n’erano state in questi stessi paesi in un recente passato (vedi ad esempio le lotte a Gafsa in Tunisia nel 2008 o gli ampi scioperi nell’industria tessile in Egitto, durante l’estate del 2007, che ricevettero la solidarietà attiva da parte di numerosi altri settori). Infatti hanno preso spesso la forma di rivolte sociali in cui si trovavano associati ogni sorta di settore della società: lavoratori del settore pubblico e privato, disoccupati, ma anche dei piccoli commercianti, degli artigiani, le professioni libere, la gioventù scolarizzata, ecc. E’ per questo che il proletariato, il più delle volte, non è comparso direttamente in maniera distinta (come è apparso, per esempio, negli scioperi in Egitto verso la fine delle rivolte), ancor meno assumendo il ruolo di forza dirigente. Tuttavia, all’origine di questi movimenti (cosa che si rifletteva in molte delle rivendicazioni portate avanti) si trovano fondamentalmente le stesse cause che sono all’origine delle lotte operaie negli altri paesi: l’aggravamento considerevole della crisi, la miseria crescente che questa provoca all’interno di tutta la popolazione non sfruttatrice. E se in generale il proletariato non é apparso direttamente come classe in questi movimenti, la sua impronta era ben presente in questi paesi dove ha avuto un peso notevole, particolarmente attraverso la profonda solidarietà che si è manifestata nelle rivolte, la loro capacità di evitare di lanciarsi in atti di violenza cieca e disperata malgrado la terribile repressione che hanno dovuto affrontare. In fin dei conti, se la borghesia in Tunisia e in Egitto si é finalmente decisa, spinta anche dai buoni consigli della borghesia americana, a sbarazzarsi dei vecchi dittatori, è in gran parte a causa della presenza della classe operaia in questi movimenti.”
Questo riemergere della classe operaia nei paesi della periferia del capitalismo ha portato il congresso a tornare all’analisi elaborata dalla nostra organizzazione al momento dello sciopero di massa del 1980 in Polonia: «Allora la CCI aveva messo avanti, basandosi sulle posizioni elaborate da Marx ed Engels, che è dai paesi centrali del capitalismo, e in particolare dai vecchi paesi industriali dell’Europa occidentale, che verrà il segnale della rivoluzione proletaria mondiale, grazie alla concentrazione del proletariato in questi paesi, e più ancora per la sua esperienza storica, che gli danno le migliori armi per smascherare finalmente le trappole ideologiche più sofisticate messe in atto da lungo tempo da parte della borghesia. Così una delle tappe fondamentali del movimento della classe operaia mondiale nel futuro sarà costituita non solo dallo sviluppo di lotte di massa nei paesi dell’Europa occidentale, ma anche per la loro capacità a smascherare le trappole democratiche e sindacali, in particolare attraverso la presa in mano delle lotte da parte dei lavoratori stessi. Questi movimenti costituiranno un faro per la classe operaia mondiale, ivi compresa quella della principale potenza capitalista, gli Stati Uniti, la cui caduta in una miseria crescente, una miseria che tocca già decine di milioni di lavoratori, sta per trasformare il ‘sogno americano’ in un vero incubo.»
Questa analisi ha conosciuto una prima verifica con il recente movimento degli ‘Indignati’. Mentre i manifestanti di Tunisi o del Cairo imbracciavano la bandiera nazionale come emblema della loro lotta, le bandiere nazionali erano assenti nella maggior parte delle città europee alla fine della scorsa primavera (in Spagna in particolare). Certo, il movimento degli ‘indignati’ è ancora fortemente intriso di illusioni democratiche, ma esso ha il merito di mettere in evidenza che ogni Stato, anche il più ‘democratico’ e anche se vestito di ‘sinistra’, è un nemico feroce degli sfruttati.
Come si è ricordato prima, la capacità delle organizzazioni rivoluzionarie di analizzare correttamente la situazione storica in cui esse si trovano, anche sapendo eventualmente rimettere in discussioni delle analisi che sono state inficiate dalla realtà dei fatti, condiziona la qualità, nella forma come nel contenuto, del loro intervento in seno alla classe operaia, cioè, in fin dei conti, della loro capacità di essere all’altezza delle responsabilità per cui quest’ultima le ha fatte sorgere.
Il 19° congresso della CCI, sulla base dell’esame della crisi economica, dei terribili attacchi che questa scatenerà contro la classe operaia e sulla base delle prime risposte di questa a questi attacchi, ha considerato che noi stiamo entrando in un periodo di sviluppo di lotte proletarie ben più intense e massicce di quelle che si sono avute dal 2003 ad oggi. In questo campo, forse ancora più che in quello dell’evoluzione della crisi che lo condiziona fortemente, è difficile fare delle previsioni a breve termine. Sarebbe illusorio cercare dove e quando si svilupperanno le prossime lotte importanti della classe. Quello che è importante fare, piuttosto, è tracciare una tendenza generale ed essere particolarmente vigilanti di fronte all’evoluzione della situazione per poter reagire rapidamente ed in modo appropriato quando questa lo richiederà sia in termini di prese di posizione che di intervento diretto nelle lotte.
Il 19° congresso ha valutato che il bilancio dell’intervento della CCI dopo il precedente congresso era indiscutibilmente positivo. Tutte le volte che è stato necessario, e spesso in maniera molto rapida, prese di posizione sono state pubblicate in numerose lingue sul nostro sito internet e sulla nostra stampa cartacea dei diversi paesi. Nella misura delle nostre deboli forze, questa è stata diffusa largamente nelle manifestazioni che hanno accompagnato i movimenti sociali che ci sono stati nello scorso periodo, in particolare al momento del movimento contro la riforma delle pensioni nell’autunno 2010 in Francia o al momento delle mobilitazioni della gioventù scolarizzata contro gli attacchi che toccavano in particolare gli studenti provenienti dalla classe operaia (come l’aumento consistente delle tasse di iscrizione nelle università britanniche alla fine del 2010). Parallelamente la CCI ha tenuto delle riunioni Pubbliche in numerosi paesi e su diversi continenti sui movimenti sociali in corso. Ancora, dei militanti della CCI sono intervenuti, ogni volta che è stato possibile, nelle assemblee, nei comitati di lotta, nei circoli di discussione, nei forum Internet per sostenere le analisi e le posizioni dell’organizzazione e partecipare al dibattito internazionale che questi movimenti avevano suscitato.
Questo bilancio non è un atto propagandistico destinato a consolare i militanti o ingannare quelli che leggeranno questo articolo. Esso può essere verificato, e contestato, da tutti quelli che hanno seguito le attività della nostra organizzazione, dal momento che stiamo parlando di attività pubbliche.
Il congresso ha anche tirato un bilancio positivo del nostro intervento verso elementi e gruppi che difendono delle posizioni comuniste o che si avvicinano a queste posizioni.
In effetti, la prospettiva di uno sviluppo significativo delle lotte operaie porta con sé quella della formazione di minoranze rivoluzionarie. Prima ancora che il proletariato mondiale non si sia impegnato in lotte di massa, si è potuto constatare (come era stato riscontrato già nella risoluzione adottata dal 17° congresso[3]) che questa formazione cominciava a intravedersi, come conseguenza del fatto che a partire dal 2003 la classe operaia aveva cominciato a superare il riflusso che aveva subito in seguito al crollo del cosiddetto blocco ‘socialista’ nel 1989 e alle forti campagne sulla ‘fine del comunismo’, se non addirittura ‘fine della lotta di classe’. In seguito, anche se in maniera ancora timida, questa tendenza si è confermata, il che ha portato allo stabilirsi di contatti e discussioni con elementi e gruppi in un numero significativo di paesi. «Questo fenomeno di sviluppo di contatti riguarda sia paesi in cui la CCI non ha sezioni, che altri in cui è già presente. Tuttavia l’afflusso dei contatti non è immediatamente riscontrabile a livello di ogni paese in cui la CCI esiste. Si può anche dire che le sue manifestazioni più evidenti sono ancora riservate a una minoranza delle sezioni della CCI.» (Presentazione al congresso del rapporto sui contatti).
Nei fatti, molto spesso, i nuovi contatti della nostra organizzazione sono apparsi in paesi in cui non esiste (o non esiste ancora) una sua sezione. E’ quello che si è potuto constatare per esempio al momento della conferenza ‘panamericana’ che si è tenuta nel novembre 2010 e in cui erano presenti, oltre ad Opop e altri compagni del Brasile, dei compagni del Perù, di S. Domingo e dell’Equador[4]. Per lo sviluppo di questi contatti «il nostro intervento verso questi ultimi ha conosciuto una accelerazione molto importante, che ha richiesto un investimento militante e finanziario superiore a quanto avevamo fatto nel passato per questa attività, cosa che ha permesso che abbiano avuto luogo gli incontri e le discussioni più numerose e ricche della nostra esistenza» (Rapporto sui contatti presentato al congresso).
Questo rapporto «mette l’accento sulle novità della situazione riguardante i contatti, in particolare la nostra collaborazione con gli anarchici. Noi siamo riusciti, in certe occasioni, a fare causa comune nelle lotte con elementi o gruppi che si trovano nel nostro stesso campo, quello dell’internazionalismo.» (Presentazione del rapporto al congresso). Questa collaborazione con elementi e gruppi che si richiamano all’anarchismo ha suscitato al nostro interno numerose e ricche discussioni che ci hanno permesso di conoscere meglio i diversi aspetti di questa corrente e in particolare di capire tutta l’eterogeneità esistente al suo interno (dal puro gauchisme, pronto a sostenere ogni tipo di movimenti o ideologie borghesi, come il nazionalismo, fino ad elementi chiaramente proletari e difensori di un internazionalismo irreprensibile).
«Un’altra novità è a nostra collaborazione, a Parigi, con elementi che si richiamano al trotskysmo (…) Essenzialmente questi elementi (…) erano molto attivi [durante la mobilitazione contro la riforma delle pensioni] nel senso di favorire la presa in carico da parte della classe operaia delle sue lotte, al di fuori del quadro sindacale e favorivano lo sviluppo della discussione tra i lavoratori, proprio come avrebbe fatto la CCI. Perciò noi avevamo tutte le ragioni per associarci ai loro sforzi. Che poi il loro atteggiamento fosse in contraddizione con la pratica classica del trotzkismo, non può che andarci bene.» (Presentazione del rapporto)
Così il congresso ha potuto tirare un bilancio positivo della politica della nostra organizzazione verso gli elementi che difendono le posizioni rivoluzionarie o che si stanno avvicinando ad esse. Questa è una parte importante del nostro intervento verso la classe operaia, quella che partecipa alla futura costituzione di un partito rivoluzionario, indispensabile per il trionfo della rivoluzione comunista[5].
Ogni discussione sulle attività di una organizzazione rivoluzionaria deve puntare al bilancio del suo funzionamento. E’ su questo piano che il congresso, sulla base dei differenti rapporti, ha constatato le più grandi debolezze nella nostra organizzazione. Abbiamo già trattato pubblicamente, nella nostra stampa o anche in riunioni pubbliche, delle difficoltà organizzative che la CCI ha potuto conoscere per il passato. Non è esibizionismo, ma una pratica classica del movimento operaio. Il congresso si è lungamente soffermato su queste difficoltà e in particolare sullo stato a volte degradato del tessuto organizzativo e del lavoro collettivo che pesa su un certo numero di sezioni. Noi non pensiamo che la CCI conosce oggi una crisi come fu il caso nel 1981, 1993 o 2001. Nel 1981 ci fu l’abbandono da parte di una fetta significativa dell’organizzazione dei principi politici e organizzativi su cui essa era stata fondata, cosa che provocò convulsioni abbastanza serie e in particolare la perdita della metà della nostra sezione in Gran Bretagna. Nel 1993 e nel 2001, la CCI ha dovuto affrontare delle difficoltà di tipo clanico che avevano provocato il rigetto della lealtà organizzativa e nuove perdite di militanti (in particolare dei membri della sezione di Parigi nel 1995 e dei membri dell’organo centrale nel 2001)[6]. Tra le cause di queste due ultime crisi, la CCI ha identificato il peso delle conseguenze del crollo del blocco ‘socialista’, che ha provocato un riflusso importante nella coscienza del proletariato mondiale, e più in generale della decomposizione sociale che affligge oggi la moribonda società capitalista. Le cause delle difficoltà attuali sono in parte dello stesso ordine, ma esse non comportano fenomeni di perdita di convinzione o di slealtà. Tutti i militanti delle sezioni in cui queste difficoltà si manifestano sono fermamente convinti della validità della lotta condotta dalla CCI, sono totalmente leali verso di essa e continuano a manifestare la loro devozione nei suoi confronti. Mentre la CCI ha dovuto far fronte al periodo più nero conosciuto dalla classe operaia dalla fine della controrivoluzione marcata dal botto del Maggio 1968 in Francia, quello di un riflusso generale della sua coscienza e della sua combattività a partire dall’inizio degli anni ’90, questi militanti sono rimasti «fedeli al loro posto». Molto spesso questi compagni si conoscono e militano insieme da più di trenta anni. Per questo spesso ci sono tra di loro legami di amicizia e fiducia solidi. Ma i piccoli difetti, le piccole debolezze, le differenze di carattere che ognuno deve poter accettare presso gli altri hanno spesso condotto allo sviluppo di tensioni o di una difficoltà crescente a lavorare insieme per decine di anni in piccole sezioni che non sono state irrigate di ‘sangue nuovo’, di nuovi militanti, proprio a causa del riflusso generale subito dalla classe operaia. Oggi questo ‘sangue nuovo’ comincia ad alimentare certe sezioni della CCI, ma è chiaro che questi nuovi membri non potranno essere correttamente integrati se non con un miglioramento del suo tessuto organizzativo. Il congresso ha discusso con molta franchezza di queste difficoltà, cosa che ha spinto qualcuno dei gruppi invitati a parlare anch’esso delle proprie difficoltà organizzative. Tuttavia non è stata apportata nessuna ‘soluzione miracolosa’ a queste difficoltà che erano state già in precedenti congressi. La risoluzione sulle attività che il congresso ha adottato ricorda il comportamento che l’organizzazione ha già adottato e chiama l’insieme dei militanti e sezioni a prenderlo in carico con più sistematicità:
«A partire dal 2001, la CCI si è impegnata in un progetto teorico ambizioso che è stato concepito, tra l’altro, per spiegare e sviluppare cosa è la militanza comunista (e quindi lo spirito di partito). C’è voluto uno sforzo creativo per capire a livello più profondo:
· le radici della solidarietà e della fiducia proletaria;
· la morale e la dimensione etica del marxismo;
· la democrazia e il democraticismo e la loro ostilità verso la militanza comunista;
· la psicologia e l’antropologia e il loro rapporto con il progetto comunista;
· il centralismo e il lavoro collettivo;
· la cultura del dibattito proletario;
· il marxismo e la scienza
In breve, la CCI si è impegnata in uno sforzo per ristabilire una migliore comprensione della dimensione umana dell’obiettivo comunista e dell’organizzazione comunista, per riscoprire l’ampiezza della visione della militanza che si è quasi perduta nel corso della controrivoluzione e quindi per premunirsi contro la riapparizione di circoli, di clan che si sviluppano in un’atmosfera di ignoranza o di negazione di queste questioni più generali di organizzazione e di militanza.» (Punto 10)
«La realizzazione dei principi unitari dell’organizzazione – il lavoro collettivo – richiede lo sviluppo di tutte le qualità umane in legame con lo sforzo teorico per comprendere la militanza comunista in maniera positiva come esposto nel punto 10. Ciò significa che il rispetto reciproco, la solidarietà, i riflessi alla cooperazione, uno spirito caloroso di comprensione e di simpatia per gli altri, i legami sociali e la generosità devono svilupparsi.» (Punto 15)
Una delle insistenze delle discussioni e della risoluzione adottata dal congresso è stata sulla necessità di approfondire gli aspetti teorici delle questioni a cui siamo confrontati. E’ perciò che, come nel precedente congresso, anche questo ha consacrato un punto del suo ordine del giorno a una questione teorica: «Marxismo e scienza» che costituisce anche l’occasione, come abbiamo fatto per la maggior parte delle altre questioni teoriche discusse al nostro interno, per la pubblicazione di uno o più documenti. Perciò non riporteremo qui gli elementi della discussione, che faceva seguito a numerose discussioni che si erano tenute prima all’interno delle sezioni. Quello che vogliamo segnalare è la grande soddisfazione che le delegazioni hanno avuto da questa discussione, soddisfazione che deve molto ai contributi di uno scienziato, Chris Knight[7], che noi abbiamo invitato a partecipare a una parte del congresso. Non è la prima volta che la CCI invitava uno scienziato ad un suo congresso. Due anni fa, Jean Louis Dessalles era venuto a presentare le sue riflessioni sull’origine del linguaggio, cosa che aveva provocato delle discussioni partecipate e interessanti[8]. Come prima cosa vogliamo ringraziare Chris Knight di aver accettato il nostro invito e ci teniamo a salutare la qualità dei suoi interventi, insieme al loro carattere vivace ed accessibile a dei non specialisti come lo sono la maggior parte dei militanti della CCI. Chris Knight è intervenuto in tre occasioni[9]. Ha preso la parola nel dibattito generale e tutti i partecipanti sono stati impressionati non solo dalla qualità dei suoi argomenti, ma anche dalla notevole disciplina che ha saputo dimostrare, rispettando strettamente il tempo per l’intervento e il quadro del dibattito (disciplina che a volte si fa fatica ad imporre a molti membri della CCI). In seguito egli ha presentato, in maniera molto evocativa, un riassunto della sua teoria sull’origine della civilizzazione e del linguaggio umano, evocando la prima delle ‘rivoluzioni’ conosciute dall’umanità, in cui le donne hanno giocato un ruolo motore (idea che egli riprende da Engels), rivoluzione che è stata seguita da molte altre, consentendo così ogni volta alla società di progredire. Egli vede la rivoluzione comunista come punto culminante di questa serie di rivoluzioni e considera che, come in precedenza, l’umanità dispone dei mezzi per portarla a termine.
Il terzo intervento di Chris Knight è stato un saluto molto simpatico che egli ha indirizzato al nostro congresso.
Dopo il congresso, l’insieme delle delegazioni ha valutato che la discussione su ‘Marxismo e scienza’, e la partecipazione di Chris Knight ad essa, hanno costituito uno dei momenti più interessanti e soddisfacenti del congresso, un momento che incoraggia l’insieme delle sezioni a proseguire e approfondire l’interesse per le questioni teoriche.
Prima di passare alla conclusione di questo articolo, dobbiamo segnalare che i partecipanti al 19° congresso della CCI (delegazioni, gruppi e compagni invitati), che si è tenuto 140 anni, quasi negli stessi giorni, dopo la settimana di sangue che mise fine alla Comune di Parigi, ci hanno tenuto a salutare la memoria dei combattenti di questo primo tentativo rivoluzionario del proletariato[10].
Noi non tiriamo un bilancio trionfalistico del 19° congresso della CCI, soprattutto per il fatto che questo congresso ha dovuto prendere atto delle difficoltà organizzative che la nostra organizzazione sta incontrando, difficoltà che essa dovrà superare se vuole continuare ad essere presente agli appuntamenti che la storia dà alle organizzazioni rivoluzionarie. Quello che ci attende è quindi una battaglia lunga e difficile. Ma questa prospettiva non la avanziamo per scoraggiarci. Dopo tutto, anche la lotta dell’insieme della classe operaia è lunga e difficile, seminata di trappole e di sconfitte. Quello che questa prospettiva deve ispirare ai militanti è la ferma volontà di portare fino in fondo questa lotta. D’altra parte una delle caratteristiche fondamentali di ogni militante comunista è di essere un combattente.
CCI (31/07/2011)
[1] Opop era già presente ai due precedenti congressi della CCI. Per la sua presentazione, vedere gli articoli dedicati al 17° e 18° congresso della CCI nel numero 29 della Rivista Internazionale e sul nostro sito in italiano alla pagina ICC on line 2009.
[2] Vedere in merito l’articolo in italiano sulla Rivista Internazionale n° 30 nonché le Revue Internationale n° 133, 135, 136, 138 e 141.
[3] “Oggi, come nel 1968, la ripresa delle lotte della classe è accompagnata da una riflessione in profondità di cui l'emergere di nuovi elementi che che si avvicinano alle posizioni della Sinistra Comunista costituisce la punta emergente dell'iceberg” (punto 17).
[4] Vedere l'articolo 5ª Conferencia Panamericana de la Corriente Comunista Internacional - Un paso importante hacia la unidad de la clase obrera [64].
[5] Il congresso ha discusso e fatta sua una critica contenuta nel rapporto sui contatti riguardante la seguente formulazione contenuta nella risoluzione sulla situazione internazionale del 16° Congresso della CCI: «la CCI costituisce già lo scheletro del futuro partito». In effetti, «non è possibile definire fin da adesso la forma che prenderà la partecipazione organizzativa della CCI alla formazione del futuro partito, perché questo dipenderà dallo stato generale e dalla configurazione del nuovo ambiente internazionalista ma anche della nostra stessa organizzazione». Chiarito questo, la CCI ha la responsabilità di mantenere vivo e di arricchire il patrimonio che ha ereditato dalla Sinistra Comunista per poterla consegnare alle generazioni attuali e future di rivoluzionari, e quindi al futuro partito. In altri termini, essa ha la responsabilità di partecipare alla funzione di ponte fra l'ondata rivoluzionaria degli anni '17-23 e la futura ondata rivoluzionaria.
[6] Questi elementi che abbandonano la loro lealtà verso l'organizzazione sono spesso trascinati in una traiettoria che noi abbiamo definita «parassitaria»: pur avendo la pretesa di continuare a difendere le «vere posizioni dell’organizzazione», essi consacrano l'essenziale dei loro sforzi a denigrarla e a cercare di discreditarla. Noi abbiamo dedicato un documento al fenomeno del parassitismo politico (Vedere «Costruzione dell’organizzazione dei rivoluzionari: tesi sul parassitismo» sulla Rivista Internazionale n° 22). Bisogna notare che certi compagni della CCI, pur riconoscendo questo tipo di comportamento e rivendicando la necessità di difendere fermamente l’organizzazione contro di essi, non condividono questa analisi del parassitismo, disaccordo che si è espresso al congresso.
[7] Chris Knight è un universitario britannico che ha insegnato Antropologia fino al 2009 al London East College. E’ in particolare l’autore di Blood Relations, Menstruation and the Origins of Culture di cui abbiamo reso conto sul nostro sito in inglese (https://en.internationalism.org/2008/10/Chris-Knight [65]) e che si appoggia in maniera molto fedele sulla teoria dell’evoluzione di Darwin così come sui lavori di Marx e soprattutto di Engels (in particolare L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato). Si dice 100% marxista in antropologia. E’ anche un militante politico che anima il gruppo Radical Antropology che ha come uno dei suoi principali modi di intervento l’organizzazione di rappresentazioni di teatro di strada che denunciano e ridicolizzano le istituzioni capitaliste. E’ stato escluso dall’Università per aver organizzato delle manifestazioni contro la tenuta del G20 a Londra nel marzo 2009. In particolare è stato accusato di «istigazione all’omicidio» per aver appeso un manichino rappresentante banchieri e aver esposto un cartello che diceva «Eat the banquers» (Mangiate i banchieri). Noi non condividiamo una certo numero di posizioni politiche o dei modi di azione di Chris Knigt ma, avendo discusso con lui per un certo tempo, ci teniamo ad affermare la nostra convinzione della sua totale sincerità, della sua reale devozione alla causa dell’emancipazione del proletariato e della sua accanita convinzione che la scienza e la conoscenza sono delle armi fondamentali di questa. Per questo vogliamo indirizzargli la nostra calorosa solidarietà di fronte alle misure repressive di cui è stato oggetto (licenziamento, arresto).
[8] Vedere l’articolo sul 18° congresso della CCI citato sopra.
[9] Pubblicheremo sul nostro sito internet degli estratti degli interventi di Chris Knight.
[10] I partecipanti al 19° Congresso della CCI dedicano questo congresso alla memoria dei combattenti della Comune di Parigi, caduti, esattamente 140 anni fa, di fronte alla borghesia scatenata che ha fatto pagare loro la volontà di partire all’«assalto del cielo».
Nel maggio 1871, per la prima volta nella Storia, il proletariato ha fatto tremare la classe dominante. E’ questa paura della borghesia di fronte ai becchini del capitalismo che spiega la furia e la barbarie della sanguinosa repressione degli insorti della Comune.
L'esperienza della Comune di Parigi ha apportato delle lezioni fondamentali alle successive generazioni della classe operaia. Lezioni che le hanno permesso di impegnarsi nella Rivoluzione russa nel 1917.
I combattenti della Comune di Parigi, caduti sotto la mitraglia del capitale, non avranno versato il loro sangue inutilmente se nelle lotte future la classe operaia sarà capace di ispirarsi alla Comune di Parigi per rovesciare il capitalismo.
"La Parigi operaia, con la sua Comune, sarà celebrata in eterno, come l’araldo glorioso di una nuova società. I suoi martiri hanno per urna il grande cuore della classe operaia. I suoi sterminatori, la storia li ha già inchiodati a quella gogna eterna dalla quale non riusciranno a riscattarli tutte le preghiere dei loro preti." (Karl Marx, La guerra civile in Francia).
Crisi economica
1. La risoluzione adottata dal precedente congresso della CCI metteva subito in evidenza la pungente smentita inflitta dalla realtà alle previsioni ottimiste dei dirigenti della classe borghese all’inizio dell’ultimo decennio del secolo scorso, particolarmente dopo il crollo di questo “Impero del male” che costituiva il blocco imperialista detto “socialista”. Essa citava in particolare l’ormai famosa dichiarazione del presidente George Bush senior del marzo 1991 che annunciava la nascita di un “Nuovo ordine mondiale” basato sul “rispetto del diritto internazionale” e sottolineava il suo carattere surrealista di fronte al caos crescente in cui sprofonda oggi la società capitalista. Venti anni dopo questi discorsi “profetici”, e particolarmente dopo l’inizio di questo nuovo decennio, mai, dalla fine della seconda guerra mondiale, il mondo aveva mostrato un volto così caotico. A poche settimane di distanza abbiamo assistito ad una nuova guerra in Libia, che viene ad aggiungersi alla lista di tutti i conflitti sanguinosi che hanno toccato il pianeta nel corso dell’ultimo periodo, a dei nuovi massacri in Costa d’Avorio ed ancora alla tragedia che ha toccato uno dei paesi più potenti e moderni del mondo, il Giappone. Il terremoto che ha devastato una parte di questo paese ha sottolineato ancora una volta che non esistono “catastrofi naturali” ma solo delle conseguenze catastrofiche a dei fenomeni naturali. Ha mostrato che la società dispone oggi dei mezzi necessari per costruire edifici capaci di resistere ai terremoti e che permetterebbero di evitare tragedie come quelle di Haiti l’anno scorso. Ma ha anche mostrato tutta l’imprevidenza di cui ha dato prova uno Stato pur così avanzato come il Giappone: il terremoto in sé ha provocato ben poche vittime ma lo tsunami che l’ha seguito ha falciato circa 30 000 esseri umani in pochi minuti. Ma non basta: provocando una nuova Chernobyl, ha messo in luce non solo l’imprevidenza della classe dominante, ma anche il suo incedere da apprendista stregone, incapace di controllare le forze che essa stessa ha messo in movimento. L’impresa Tepco, che sfruttava l’energia della centrale atomica di Fukushima, non è la prima né tanto meno l’unica responsabile della catastrofe. E’ il sistema capitalista nel suo insieme, basato com’è sulla ricerca sfrenata del profitto e sulla competizione tra settori nazionali e non sulla soddisfazione dei bisogni dell’umanità, che è fondamentalmente responsabile delle catastrofi presenti e future subite dalla specie umana. In fin dei conti, la Chernobyl giapponese costituisce una nuova illustrazione del fallimento ultimo del modo di produzione capitalista, un sistema la cui sopravvivenza costituisce una minaccia crescente per la stessa sopravvivenza dell’umanità.
2. Evidentemente è la crisi che subisce attualmente il capitalismo mondiale che esprime più direttamente il fallimento storico di questo modo di produzione. Due anni fa la borghesia di tutti i paesi era presa da un timor panico di fronte alla gravità della situazione economica. L’OCSE non esitava a scrivere: “L’economia mondiale é in preda alla sua recessione più profonda e più sincronizzata degli ultimi decenni” (Rapporto intermedio del marzo 2009). Tenendo conto di tutta la moderazione con cui questa venerabile istituzione si esprime abitualmente, ci si può fare un’idea del terrore che avvertiva la classe dominante di fronte al fallimento potenziale del sistema finanziario internazionale, il crollo brutale del commercio mondiale (più del 13% nel 2009), la brutalità della recessione delle principali economie, l’ondata dei fallimenti che toccano o minacciano imprese emblematiche dell’industria come la General Motors o la Chrysler. Questo terrore della borghesia l’aveva condotta a convocare i vertici del G20 di cui quello del marzo 2009 a Londra decideva in particolare il raddoppio delle riserve del Fondo monetario internazionale e l’iniezione massiccia di liquidità nell’economia da parte degli Stati allo scopo di salvare un sistema bancario in difficoltà e rilanciare la produzione. Lo spettro della “Grande depressione degli anni ‘30” ossessionava gli spiriti cosa che conduceva la stessa OCSE a scongiurare tali demoni scrivendo: “Benché talvolta questa severa recessione mondiale sia stata qualificata come una ‘grande recessione’, siamo lontani da una nuova ‘grande depressione’ come quella degli anni ‘30, grazie alla qualità e all’intensità delle misure che i governi prendono attualmente” (Ibid.). Ma, come riportato nella risoluzione del 18° congresso[1], “una delle caratteristiche della classe dominante è di dimenticare oggi i discorsi fatti ieri” e lo stesso rapporto intermedio dell’OCSE della primavera 2011 esprime un vero sollievo di fronte al ripristino della situazione del sistema bancario e alla ripresa economica. La classe dominante non può fare altrimenti. Incapace di avere una visione lucida, globale e storica, sulle difficoltà che incontra il suo sistema perché tale visione la porterebbe a scoprire l’impasse definitiva in cui questo si trova, essa è costretta a commentare giorno per giorno le fluttuazioni della situazione immediata cercando di trovare in queste dei motivi di consolazione. Così facendo, essa viene spinta a sottovalutare la situazione anche se, di tanto in tanto, i mass-media adottano un tono allarmista a proposito del significato del principale fenomeno che è emerso negli ultimi due anni: la crisi del debito sovrano di un certo numero di Stati europei. Di fatto, il fallimento potenziale di un numero crescente di Stati costituisce una nuova tappa dell’inabissamento del capitalismo nella sua crisi insanabile. Essa mette in evidenza i limiti delle politiche con cui la borghesia é riuscita a frenare l’evoluzione della crisi capitalista degli ultimi decenni.
3. Sono ormai più di 40 anni che il sistema capitalista fa fronte alla crisi. Il Maggio 68 in Francia e l’insieme delle lotte proletarie che l’hanno seguito a livello internazionale hanno avuto una tale portata perché erano alimentati da un peggioramento globale delle condizioni di vita della classe operaia, peggioramento conseguente ai primi sintomi della crisi capitalista, tra cui l’aumento della disoccupazione. Questa crisi ha poi conosciuto una brutale accelerazione nel 1973-75 con la prima grande recessione internazionale del dopoguerra. In seguito, nuove recessioni ogni volta più profonde ed estese hanno sconvolto l’economia mondiale fino a culminare in quella del 2008-2009 che ha riportato alla mente lo spettro degli anni ’30. Le misure adottate dal G20 del marzo 2009 per evitare una nuova “Grande Depressione” sono significative della politica condotta da diversi decenni dalla classe dominante: esse si riassumono nell’iniezione nelle economie di masse considerevoli di crediti. Tali misure non sono nuove. Di fatto, da oltre 35 anni, queste costituiscono il cuore delle politiche condotte dalla classe dominante per cercare di scappare alla principale contraddizione del modo di produzione capitalista: l’incapacità a trovare dei mercati solvibili capaci di assorbire la sua produzione. La recessione del 1973-75 era stata superata attraverso massicci crediti ai paesi del Terzo Mondo ma, dall’inizio degli anni ‘80, con la crisi del debito di questi paesi, la borghesia dei paesi più avanzati aveva dovuto rinunciare a questo polmone per la sua economia. Sono quindi gli Stati dei paesi più avanzati, e primo fra tutti gli Stati Uniti, che hanno preso il posto di “locomotive” dell’economia mondiale. La “reaganomics” (politica neoliberale dell’Amministrazione Reagan) dell’inizio degli anni 80, che aveva permesso un rilancio significativo dell’economia di questo paese, era basata sulla creazione di deficit budgetari inediti e considerevoli nello stesso momento in cui Ronald Reagan dichiarava che “lo Stato non è la soluzione ma il problema”. Contemporaneamente, i deficit commerciali anch’essi considerevoli di questa potenza permettevano alle merci prodotte dagli altri paesi di trovare uno sbocco. Nel corso degli anni ‘90, le “tigri” e i “dragoni” asiatici (Singapore, Taiwan, Corea del Sud, ecc.) hanno accompagnato per un certo tempo gli Stati Uniti in questo ruolo di “locomotiva”: i loro spettacolari tassi di crescita ne facevano una destinazione importante per le merci dei paesi più industrializzati. Ma questa “storia di successo” è stata costruita a prezzo di un indebitamento considerevole che ha condotto questo paese a delle convulsioni importanti nel 1997 così come la Russia “nuova” e “democratica” che si è ritrovata insolvente, cosa che ha amaramente deluso quelli che avevano puntato sulla “fine del comunismo” per rilanciare in maniera durevole l’economia mondiale. All’inizio degli anni 2000 l’indebitamento ha conosciuto una nuova accelerazione, particolarmente grazie all’enorme sviluppo dei mutui ipotecari per la costruzione in diversi paesi, in particolare negli Stati Uniti. Quest’ultimo paese ha allora accentuato il suo ruolo di “locomotiva dell’economia mondiale”, ma al prezzo di una crescita abissale dei debiti, – particolarmente tra la popolazione americana – debiti basati su ogni sorta di “prodotti finanziari” ritenuti capaci di scongiurare il rischio di cessazione dei pagamenti. In realtà, la dispersione dei crediti sospetti non ha assolutamente abolito il loro carattere di spada di Damocle sospesa sull’economia americana e mondiale. Al contrario essa ha fatto accumulare nel capitale delle banche gli “attivi tossici” che sono stati all’origine del loro crollo a partire dal 2007 e della brutale recessione mondiale del 2008-2009.
4. Come riportato nella risoluzione adottata al precedente congresso, “non è la crisi finanziaria che è all’origine della recessione attuale. Al contrario, la crisi finanziaria non fa che illustrare il fatto che la fuga in avanti nell’indebitamento - che aveva permesso di superare i problemi della sovrapproduzione - non può proseguire all’infinito. Prima o poi, l’“economia reale” si vendica, perché quello che è alla base delle contraddizioni del capitalismo, la sovrapproduzione, l’incapacità dei mercati ad assorbire la totalità delle merci prodotte, torna in primo piano.” Dopo il vertice del G20 del marzo 2009 questa stessa risoluzione precisava che “la fuga in avanti nell’indebitamento è uno degli ingredienti della brutalità della recessione attuale. La sola “soluzione” che sia capace di mettere in piedi la borghesia è … una nuova fuga in avanti nell’indebitamento. Il G20 non ha potuto inventare una soluzione alla crisi per la semplice ragione che non ne esistono.”.
La crisi dei debiti sovrani che si propaga oggi, il fatto che gli Stati siano incapaci di onorare i loro debiti, costituisce un’illustrazione spettacolare di questa realtà. Il potenziale fallimento del sistema bancario e la recessione hanno obbligato tutti gli Stati a iniettare delle somme considerevoli nelle loro economie mentre le vendite erano in caduta libera per la riduzione della produzione. Per questo motivo i deficit pubblici hanno conosciuto, nella gran parte dei paesi, un aumento considerevole. Per i più esposti tra questi, come l’Irlanda, la Grecia o il Portogallo, ciò ha significato una situazione di potenziale fallimento, l’incapacità di pagare i loro funzionari e di rimborsare i loro debiti. Le banche si rifiutano ormai di consentire nuovi prestiti, se non a dei tassi esorbitanti poiché non hanno più alcuna garanzia di poter essere rimborsate. I “piani di salvataggio” di cui esse hanno beneficiato da parte della Banca europea e del Fondo monetario internazionale costituiscono dei nuovi debiti il cui rimborso si aggiunge a quello dei debiti precedenti. E’ più che un circolo vizioso, è una spirale infernale. La sola “efficacia” di questi piani consiste nell’attacco senza precedenti contro i lavoratori, contro i dipendenti pubblici i cui salari ed il cui numero vengono ridotti in maniera drastica, ma anche contro l’insieme della classe operaia attraverso sia i tagli nei settori dell’educazione, della salute e delle pensioni che l’aumento di tasse ed imposte. Ma tutti questi attacchi antioperai, tagliando selvaggiamente il potere d’acquisto dei lavoratori, non potranno che contribuire ad un’ulteriore nuova recessione.
5. La crisi del debito sovrano dei PIIGS (Portogallo, Islanda, Irlanda, Grecia, Spagna) costituisce solo una parte infima del terremoto che minaccia l’economia mondiale. Non è certo perché beneficiano ancora per il momento del rating[2] AAA[3] come indice di fiducia delle agenzie di rating (le stesse agenzie che, fino alla vigilia dello scompiglio delle banche del 2008, avevano accordato loro il rating massimo) che le grandi potenze industriali se la cavano molto meglio. Alla fine di aprile 2011, l’agenzia Standard and Poor’s emetteva un’opinione negativa di fronte alla prospettiva di un Quantitative Easing n°3, cioè di un terzo piano di rilancio dello Stato federale americano destinato a sostenere l’economia. In altri termini, la prima potenza mondiale corre il rischio di vedersi ritirata la fiducia “ufficiale” sulla sua capacità di rimborsare i suoi debiti, se non con un dollaro fortemente svalutato. Di fatto, in maniera ufficiosa, questa fiducia comincia a mancare con la decisione della Cina e del Giappone, dopo l’autunno scorso, di effettuare massicci acquisti di oro e di materie prime piuttosto che dei buoni del Tesoro americani, cosa che ha condotto la Banca federale americana a comprarne per il 70-90% alla loro emissione. Questa perdita di fiducia si giustifica perfettamente quando si constati l’incredibile livello di indebitamento dell’economia americana: nel gennaio 2010, l’indebitamento pubblico (Stato federale, singoli Stati federati, comuni, ecc.) rappresentava già all’incirca il 100% del PIL, ma questo costituiva solo una parte dell’indebitamento totale del paese (che comprende anche i debiti delle famiglie e delle imprese non finanziarie) che raggiungeva il 300% del PIL. E la situazione non era migliore per gli altri grandi paesi dove il debito totale ammontava nello stesso periodo al 280% del PIL per la Germania, 320% per la Francia, 470% per la Gran Bretagna ed il Giappone. In questi ultimi paesi, il debito pubblico ha da solo raggiunto il 200% del PIL. Successivamente, per tutti i paesi, la situazione é solo peggiorata nonostante i diversi piani di rilancio.
Pertanto il fallimento dei PIIGS costituisce solo la punta di un iceberg che nasconde il fallimento di un’economia mondiale che deve la sua sopravvivenza ormai da decenni alla disperata fuga in avanti nell’indebitamento. Gli Stati che dispongono della propria moneta come la Gran Bretagna, il Giappone e naturalmente gli USA hanno potuto mascherare questo fallimento stampando banconote a tutta forza (al contrario di quelli della zona Euro, come la Grecia, l’Irlanda o il Portogallo, che non dispongono di questa possibilità). Ma questa frode permanente degli Stati che sono diventati dei veri contraffattori, con a capo della gang lo Stato americano, non potrà proseguire indefinitamente così come non potevano proseguire le manipolazioni del sistema finanziario, come lo ha dimostrato la crisi di questo nel 2008 che non riuscita però a farlo esplodere. Uno dei segni visibili di questa realtà è l’attuale accelerazione dell’inflazione mondiale. Spostandosi dalla sfera delle banche a quella degli Stati, la crisi dell’indebitamento marca l’entrata del modo di produzione capitalista in una nuova fase della sua crisi acuta in cui si aggravano ulteriormente la violenza e l’estensione delle sue convulsioni. Non c’è via di “uscita dal tunnel” per il capitalismo. Questo sistema può solo condurre la società in una crescente barbarie.
6. La guerra imperialista costituisce la massima manifestazione della barbarie verso cui il capitalismo decadente precipita la società umana. La storia tragica del 20° secolo ne costituisce la manifestazione più evidente: di fronte al vicolo cieco in cui si trova il suo modo di produzione, di fronte all’esacerbazione delle rivalità commerciali fra Stati, la classe dominante è spinta verso una fuga in avanti nelle politiche di guerra, negli scontri militari. Per la maggior parte degli storici, compresi quelli che non si richiamano al marxismo, è chiaro che la Seconda Guerra Mondiale è figlia della grande Depressione degli anni ’30. Analogamente, l’aggravamento delle tensioni imperialiste della fine degli anni ’70 e dell’inizio degli anni ’80 tra i due blocchi di allora, quello americano e quello russo (invasione dell’Afganistan da parte dell’URSS nel 1979, crociata contro “l’Impero del male” da parte dell’amministrazione Reagan) derivavano in gran parte dal ritorno della crisi aperta dell’economia capitalista alla fine degli anni sessanta. Tuttavia, la storia ha mostrato che questo legame tra l’aggravarsi degli scontri imperialisti e crisi economica del capitalismo non è diretto o immediato. L’intensificazione della “guerra fredda” si è alla fine conclusa con la vittoria del blocco occidentale e l’implosione del blocco avversario, che ha poi portato alla disgregazione del primo. Ma pur sfuggendo alla minaccia di una nuova guerra generalizzata che poteva portare alla sparizione della specie umana, il mondo non è stato risparmiato da un’esplosione delle tensioni e degli scontri militari: la fine dei blocchi rivali ha significato la fine della disciplina che essi riuscivano ad imporre nei loro rispettivi territori. Da allora, l’arena imperialista planetaria è dominata dal tentativo della prima potenza mondiale di mantenere la propria leadership sul mondo, e in primo luogo sui suoi antichi alleati. La 1a Guerra del Golfo, nel 1991, aveva già questo obiettivo, ma la storia degli anni ’90, in particolare la guerra in Jugoslavia, ha mostrato il fallimento di questa ambizione. La “guerra contro il terrorismo mondiale” dichiarata dagli Stati Uniti in seguito agli attentati dell’11 settembre 2001 voleva essere un nuovo tentativo per riaffermare la loro leadership, ma il loro esaurimento in Afganistan e in Iraq ha sottolineato ancora una volta l’incapacità di ristabilire questa leadership.
7. Questi fallimenti degli Stati Uniti non li hanno scoraggiati dal proseguire la politica offensiva che portano avanti dall’inizio degli anni ’90 e che fa degli USA il principale fattore di instabilità sulla scena mondiale. Come riportato nella risoluzione del precedente congresso: “Di fronte a questa situazione, Obama e la sua amministrazione non potranno fare altro che proseguire la politica bellicista dei loro predecessori (…); se Obama aveva previsto di ritirare le forze americane dall’Iraq, era per poter rafforzare l’intervento in Afghanistan e in Pakistan”. E’ quello che si è prodotto recentemente con l’esecuzione di Bin Laden da parte di un commando americano in territorio pakistano. Questa operazione “eroica” aveva evidentemente uno scopo elettorale ad un anno e mezzo dalle prossime elezioni presidenziali. Essa voleva in particolare contrastare le critiche dei repubblicani che rimproveravano ad Obama la sua debolezza nell’affermazione della preminenza degli Stati Uniti sul piano militare, critiche che si erano radicalizzate al momento dell’intervento in Libia in cui la leadership dell’operazione era stata lasciata al tandem franco-britannico. L’uccisione di Bin Laden voleva anche significare che, dopo aver fatto giocare a questi il ruolo del cattivo della storia per quasi 10 anni, era tempo di sbarazzarsene per evitare di sembrare impotenti. Facendo così, la potenza americana dava prova di essere la sola ad avere i mezzi militari, tecnologici e logistici per portare a termine questo tipo di operazione, giusto nel momento in cui la Francia e la Gran Bretagna facevano fatica a condurre a buon fine la loro operazione anti-Gheddafi. Essa voleva indicare al mondo che gli USA non esitano nemmeno a violare la “sovranità nazionale” di un “alleato”, che essi intendono fissare le regole del gioco ovunque lo ritengano necessario. Infine, questa uccisione è riuscita ad obbligare la maggior parte dei governi del mondo a salutare, spesso a malincuore, il valore di questa operazione.
8. Ciò detto, il colpo spettacolare riuscito ad Obama in Pakistan non può in alcun modo permettergli di stabilizzare la situazione nella regione, in particolare nello stesso Pakistan dove questo schiaffo assestato alla sua “fierezza nazionale” rischia di attizzare i vecchi conflitti tra diversi settori della borghesia e dell’apparato statale. Analogamente, la morte di Bin Laden non permetterà agli Stati Uniti e agli altri paesi impegnati in Afghanistan di riprendere il controllo del paese e di consolidare l’autorità del governo Karzai completamente minato dalla corruzione e dalle divisioni tribali. Più in generale, essa non permetterà per niente di mettere un freno alle tendenze al “ciascuno per sé” e alla contestazione dell’autorità della prima potenza mondiale che si continuano a manifestare, come si è recentemente visto con la costituzione di una serie di alleanze puntuali sorprendenti: riavvicinamento tra Turchia e Iran, alleanza tra Iran, Brasile e Venezuela (strategica e anti-USA), tra India e Israele (militare e come rottura dell’isolamento), tra Cina e Arabia Saudita (militare e strategica), ecc. In particolare, essa non potrebbe scoraggiare la Cina dal portare avanti le ambizioni imperialiste che il suo recente statuto di grande potenza industriale le permette. E’ chiaro che questo paese, malgrado la sua importanza demografica ed economica, non ha assolutamente i mezzi militari o tecnologici, né è pronto ad averli, per costituire la testa di un nuovo blocco. Tuttavia esso ha i mezzi per disturbare ancora di più le ambizioni americane – che sia in Africa, in Iran, nella Corea del Nord, in Birmania – e di dare il suo contributo all’instabilità crescente che caratterizza i rapporti imperialisti. Il “nuovo ordine mondiale” predetto 20 anni fa da Georg Bush padre, e che lui sognava sotto l’egida degli Stati Uniti, non può che presentarsi sempre più come un “caos mondiale”, un caos che le convulsioni dell’economia capitalista non potranno che aggravare ancora.
9. Di fronte al caos che investe la società borghese su tutti i piani - economico, guerriero ed anche ambientale - come abbiamo potuto vedere recentemente in Giappone – solo il proletariato può apportare un soluzione, la sua soluzione, la rivoluzione comunista. La crisi insolubile dell’economia capitalista, le convulsioni crescenti che la caratterizzano, costituiscono le condizioni oggettive di questa rivoluzione. E ciò da una parte obbligando la classe operaia a sviluppare sempre più le sue lotte di fronte agli attacchi drammatici che essa subisce da parte della classe sfruttatrice. Dall’altra permettendole di comprendere che queste lotte assumono tutto il loro significato come momenti di preparazione del suo scontro decisivo con un modo di produzione ormai condannato dalla storia - il capitalismo – in vista del suo rovesciamento.
Tuttavia, come riportato nella risoluzione del precedente congresso internazionale: “Il cammino che porta alle lotte rivoluzionarie e al rovesciamento del capitalismo é ancora lungo e difficile. (…) Perché la coscienza della possibilità della rivoluzione comunista possa guadagnare un terreno significativo in seno alla classe operaia, é necessario che questa possa riacquistare fiducia nelle proprie forze e questo passa attraverso lo sviluppo di lotte di massa.” Più nell’immediato la risoluzione precisava che “la forma principale che prende oggi questo attacco, quella dei licenziamenti di massa, non favorisce, in un primo momento, l’emergenza di tali movimenti. (…) Sarà in un secondo momento, quando essa sarà capace di resistere ai ricatti della borghesia, quando si imporrà l’idea che sono la lotta unita e solidale può frenare la brutalità degli attacchi della classe dominante, in particolare quando questa cercherà di far pagare a tutti i lavoratori gli enormi deficit statali che si accumulano oggi con i piani di salvataggio delle banche e di “rilancio” dell’economia, che lotte operaie di grande ampiezza potranno svilupparsi molto di più”.
10. I due anni che ci separano dal precedente congresso hanno ampiamente confermato questa previsione. Questo periodo non ha conosciuto lotte ampie contro i licenziamenti di massa e contro la crescita senza precedenti della disoccupazione subiti dalla classe operaia nei paesi più sviluppati. Al contrario, è a partire dagli attacchi portati direttamente dai governi in applicazione dei piani di “risanamento dei conti pubblici” che hanno cominciato a svilupparsi delle lotte significative. Questa risposta è ancora molto timida, particolarmente là dove questi piani di austerità hanno preso le forme più violente, in paesi come la Grecia o la Spagna per esempio dove, tuttavia, la classe operaia aveva dato prova nel recente passato di una combattività relativamente importante. In un certo modo sembra che la brutalità stessa degli attacchi provochi un sentimento d’impotenza nei ranghi operai, tanto più che questi attacchi sono condotti da governi “di sinistra”. Paradossalmente é proprio là dove questi attacchi sembrano meno violenti, come in Francia, che la combattività operaia si è espressa più massicciamente, con il movimento contro la riforma delle pensioni dell’autunno 2010.
11. Allo stesso tempo i movimenti più di massa che si siano conosciuti nel corso dell’ultimo periodo non sono venuti dai paesi più industrializzati ma dai paesi della periferia del capitalismo, particolarmente in un certo numero di paesi del mondo arabo, e specificamente la Tunisia e l’Egitto dove, alla fine, dopo aver tentato di soffocarli con una feroce repressione, la borghesia è stata costretta a licenziare i dittatori del posto. Questi movimenti non erano delle lotte operaie classiche come ce n’erano state in questi stessi paesi in un recente passato (vedi ad esempio le lotte a Gafsa in Tunisia nel 2008 o gli ampi scioperi nell’industria tessile in Egitto, durante l’estate del 2007, che ricevettero la solidarietà attiva da parte di numerosi altri settori). Infatti hanno preso spesso la forma di rivolte sociali in cui si trovavano associati ogni sorta di settore della società: lavoratori del settore pubblico e privato, disoccupati, ma anche dei piccoli commercianti, degli artigiani, le professioni libere, la gioventù scolarizzata, ecc. E’ per questo che il proletariato, il più delle volte, non è comparso direttamente in maniera distinta (come è apparso, per esempio, negli scioperi in Egitto verso la fine delle rivolte), ancor meno assumendo il ruolo di forza dirigente. Tuttavia, all’origine di questi movimenti (cosa che si rifletteva in molte delle rivendicazioni portate avanti) si trova fondamentalmente le stesse cause che sono all’origine delle lotte operaie negli altri paesi: l’aggravamento considerevole della crisi, la miseria crescente che questa provoca all’interno di tutta la popolazione non sfruttatrice. E se in generale il proletariato non é apparso direttamente come classe in questi movimenti, la sua impronta era ben presente in questi paesi dove ha avuto un peso notevole, particolarmente attraverso la profonda solidarietà che si è manifestata nelle rivolte, la loro capacità di evitare di lanciarsi in atti di violenza cieca e disperata malgrado la terribile repressione che hanno dovuto affrontare. In fin dei conti, se la borghesia in Tunisia e in Egitto si é finalmente decisa, spinta anche dai buoni consigli della borghesia americana, a sbarazzarsi dei vecchi dittatori, è in gran parte a causa della presenza della classe operaia in questi movimenti. Una delle prove, in negativo, di questa realtà, é l’involuzione che hanno conosciuto i movimenti in Libia: non il rovesciamento del vecchio dittatore Gheddafi ma lo scontro militare tra cricche borghesi dove gli sfruttati sono stati arruolati come carne da cannone. In questo paese, una gran parte della classe operaia era costituita da lavoratori immigrati (egiziani, tunisini, cinesi, subsahariani, bengalesi) la cui reazione principale è stata di fuggire di fronte alla repressione che si è abbattuta con ferocia dai primi giorni.
12. La degenerazione in conflitto armato del movimento in Libia, con l’entrata in gioco dei paesi della NATO, ha permesso alla borghesia di promuovere delle campagne di mistificazione nei confronti degli operai dei paesi avanzati la cui reazione spontanea era stata di sentirsi solidali con i manifestanti di Tunisi e del Cairo e di salutare il loro coraggio e la loro determinazione. In particolare, la presenza massiccia delle giovani generazioni nel movimento, specialmente della gioventù scolarizzata il cui avvenire si presenta sotto gli auspici sinistri della disoccupazione e della miseria, faceva eco ai recenti movimenti che hanno animato la gioventù studentesca in numerosi paesi europei nell’ultimo periodo: movimento contro il CPE in Francia della primavera del 2006, rivolte e scioperi in Grecia alla fine del 2008, manifestazioni e scioperi degli studenti di scuola e università in Gran Bretagna alla fine 2010, movimenti studenteschi in Italia nel 2008 e negli Stati Uniti nel 2010, ecc.). Queste campagne borghesi per snaturare, agli occhi dei lavoratori degli altri paesi, il significato delle rivolte in Tunisia ed in Egitto, sono state evidentemente facilitate dalle illusioni che pesano fortemente sulla classe operaia di questi paesi: le illusioni nazionaliste, democratiche e sindacaliste in particolare, come fu d’altra parte il caso nel 1980-81 con la lotta del proletariato polacco.
13. Questo movimento di trent’anni fa aveva permesso alla CCI di elaborare la sua analisi critica della teoria dell’anello debole sviluppata particolarmente da Lenin al momento della rivoluzione in Russia. La CCI, basandosi sulle posizioni elaborate da Marx ed Engels, aveva messo avanti a questo punto l’idea che fosse dai paesi centrali del capitalismo, e particolarmente dai vecchi paesi industrializzati dell’Europa occidentale, che venisse il segnale della rivoluzione proletaria mondiale, per la concentrazione del proletariato di questi paesi, e più ancora per la sua esperienza storica, e che gli danno le armi migliori per evitare finalmente le trappole ideologiche più sofisticate messe in atto da tempo dalla borghesia. Così, una delle tappe fondamentali del movimento della classe operaia mondiale nell’avvenire sarà costituita non solo dallo sviluppo delle lotte di massa nei paesi centrali dell’Europa occidentale, ma anche dalla loro capacità di evitare le trappole democratiche e sindacali, in particolare attraverso una presa in mano di queste lotte da parte dei lavoratori stessi. Questi movimenti costituiranno un faro per la classe operaia mondiale, compresa quella della principale potenza capitalistica, gli Stati Uniti, la cui caduta in una miseria crescente, una miseria che tocca già decine di milioni di lavoratori, sta trasformando il “sogno americano” in un vero incubo.
CCI (maggio 2011)
[2] Il rating è un metodo utilizzato per classificare sia i titoli obbligazionari, che le imprese (vedi anche modelli di rating IRB [66] secondo Basilea 2 [67]) in base alla loro rischiosità. In questo caso, essi si definiscono rating di merito creditizio (https://it.wikipedia.org/wiki/Rating [68]).
[3] AAA = indice di rating che corrisponde ad una situazione di elevata capacità di ripagare il debito.
Rivista Internazionale n°34
La CCI ha tenuto riunioni pubbliche in diversi paesi e città in occasione del 50° anniversario del maggio ‘68. In generale i partecipanti si sono dichiarati in accordo globalmente con le principali caratteristiche del movimento da noi presentate:
- Ciò che conferisce a questi eventi il loro carattere storico è il risveglio della lotta di classe espresso dal più imponente sciopero operaio mai esistito in quest’epoca - 10 milioni di operai in sciopero – sviluppatosi non certo per azione dei sindacati, ma solo per iniziativa degli stessi operai che sono entrati spontaneamente in lotta;
- Il movimento della classe operaia, che non è stato per niente a rimorchio di una concomitante, sebbene importante, agitazione studentesca, è stato in parte catalizzato dalla brutale repressione degli studenti che ha suscitato una profonda indignazione tra gli operai;
- Questo episodio storico ha dato vita ad un’atmosfera inedita, che si vede solo durante i grandi movimenti della classe operaia: le parole si liberano nelle strade, nelle università e nelle fabbriche occupate, e queste diventano il centro di intense discussioni politiche;
- Fondamentalmente, questo formidabile movimento è la risposta ai primi morsi della crisi economica aperta, che tornava a colpire una classe operaia costituita da giovani generazioni che non avevano subito la demoralizzazione dovuta al periodo di contro-rivoluzione;
- Questo movimento ha visto crollare un importante ostacolo sul cammino della lotta di classe, il controllo schiacciante dello stalinismo e delle sue cinghie di trasmissione: i sindacati.
Che Maggio 1968 abbia costituito il segno di uno sviluppo di un’ondata di lotte internazionali non ha, in generale, sorpreso i partecipanti a queste riunioni. Ma paradossalmente, esso non è stato recepito come segnale della fine del lungo periodo di contro-rivoluzione seguito alla sconfitta della prima ondata rivoluzionaria mondiale e che, allo stesso tempo, abbia aperto un nuovo corso di scontri di classe tra borghesia e proletariato. Infatti, certe caratteristiche del periodo attuale, come per esempio lo sviluppo del fondamentalismo, la moltiplicazione di guerre sul pianeta e così via, tendono ad essere interpretate come segni di un periodo controrivoluzionario. E questo errore secondo noi è originato da una duplice difficoltà.
Da un lato, la conoscenza insufficiente di ciò che è stato il periodo della contro-rivoluzione a livello mondiale con la sconfitta della prima ondata rivoluzionaria, che rende difficile la comprensione di quello che veramente ha rappresentato per la classe operaia e la sua lotta un tale periodo; ma c’è un altro fattore da considerare e cioè l'aspetto umano, dal momento che la barbarie del capitalismo in crisi non conosce più alcun limite. Ed è per questo motivo che abbiamo deciso di ritornare più dettagliatamente con il seguente articolo su tale periodo.
D'altra parte, il periodo aperto con Maggio 68, anche se è potuto sembrare più familiare alle generazioni che - direttamente o indirettamente - lo hanno conosciuto, ha una dinamica che non si afferra spontaneamente. In particolare essa può essere oscurata da eventi, situazioni che pur essendo importanti non ne costituiscono fattori determinanti. Ed per questo motivo che su questo periodo andiamo ad evidenziare ancora una volta le sue differenze fondamentali con quello della contro-rivoluzione.
La storia della lotta di classe è fatta di avanzamenti e di battute d'arresto
Il fenomeno che tutti immediatamente hanno potuto constatare, e cioè che dopo una lotta la mobilitazione degli operai tende a rifluire e con essa, spesso, la volontà di combattere, esiste anche a un livello più profondo a scala storica. In realtà, ciò ci permette di verificare la validità di quanto è stato segnalato da Marx ne Il 18 Brumaio, vale a dire l'alternanza tra avanzamenti, spesso molto vivaci e folgoranti della lotta proletaria (1848-49, 1864-71, 1917-23) e le sue battute d'arresto (a partire dal 1850, 1872 e 1923) che, inoltre, ogni volta hanno determinato la scomparsa o la degenerazione di organizzazioni politiche che la classe si era data nel periodo montante delle lotte (Lega dei Comunisti: fondata nel 1847, sciolta nel 1852; AIT, Associazione internazionale dei Lavoratori, fondata nel 1864, sciolta nel 1876; l'Internazionale Comunista: fondata nel 1919, degenerata e morta a metà degli anni '20; la vita dell'Internazionale socialista 1889-1914, complessivamente ha seguito un corso simile anche se meno chiaro ("Il corso storico", Révue internationale n°18).
La sconfitta della prima ondata rivoluzionaria mondiale del 1917-23 ha aperto il più lungo, il più profondo e il più terribile periodo di contro-rivoluzione mai sperimentato dal proletariato, che ha significato anche, per la classe operaia, la perdita dei suoi riferimenti politici dato che le poche organizzazioni rimaste fedeli alla rivoluzione si sono trovate ridotte a infime minoranze. Ma essa ha anche aperto la porta a un'esplosione di barbarie che avrebbe superato persino gli orrori della prima guerra mondiale. Di contro dal 1968 si è sviluppata una dinamica opposta, e non c'è ragione di dire che quest'ultima si sia già esaurita, nonostante le gravi difficoltà incontrate dal proletariato dall'inizio degli anni '90 con l'estensione e l’approfondimento della barbarie sul pianeta.
Il periodo 1924 - 1967: la più profonda contro-rivoluzione mai subita dalla classe operaia
L'espressione "È la mezzanotte del secolo", dal titolo di un libro di Victor Serge[1], è perfettamente applicabile alla realtà di questo lungo incubo, durato quasi mezzo secolo.
I diversi e terribili colpi caduti molto presto sull'ondata rivoluzionaria mondiale, aperta con la Rivoluzione russa del 1917, andranno già a costituire l'anticamera della lunga serie di offensive borghesi contro la classe operaia che faranno precipitare il movimento operaio nelle profondità della contro-rivoluzione. Per la borghesia, infatti, non si è trattato di vincere solo la rivoluzione, ma anche di abbattere necessariamente la classe operaia e in maniera definitiva. Di fronte a un'ondata rivoluzionaria che minacciava l'ordine mondiale capitalistico, questo era effettivamente il suo obiettivo cosciente e dichiarato[2], la borghesia non poteva semplicemente accontentarsi di respingere il proletariato. Doveva fare tutto ciò che è in suo potere affinché in futuro quest’esperienza fosse cancellata dalla testa de proletari di tutto il mondo per non farla ripetere. Soprattutto, doveva cercare di screditare per sempre l'idea della rivoluzione comunista e la possibilità di creare una società senza guerra, senza classi e senza sfruttamento. In questo è stata in grado di beneficiare di circostanze politiche che le sono state significativamente favorevoli: la perdita del bastione rivoluzionario in Russia non è stata determinata dalla sconfitta militare contro gli eserciti Bianchi che hanno cercato di invadere la Russia, ma più tardi, dalla sua stessa degenerazione interna (a cui, naturalmente, il considerevole sforzo bellico ha notevolmente contribuito). Ciò ha reso facile alla borghesia far passare per comunismo la mostruosità nata dalla sconfitta politica della rivoluzione, l'URSS stalinista. Allo stesso tempo, è necessario che quest'ultima sia vista come l'inevitabile destino di ogni lotta proletaria per la sua emancipazione. A questa menzogna hanno partecipato tutte le frazioni della borghesia mondiale, in tutti i paesi, dall'estrema destra all'estrema sinistra trotskista[3].
Quando le principali borghesie coinvolte nella guerra mondiale le mettono fine nel novembre 1918, è con il chiaro obiettivo di evitare che nuovi focolai rivoluzionari possano ingrossare la marea della rivoluzione, vittoriosa in Russia e che minaccia la Germania, in un momento in cui la borghesia di questo paese risulta indebolita dalla sconfitta militare. Ciò ha evitato che la febbre rivoluzionaria, alimentata dalla barbarie del campo di battaglia, così come dallo sfruttamento e dalla miseria insopportabile nelle retrovie, potesse colpire altri paesi come la Francia, Gran Bretagna, ... E questo obiettivo è stato raggiunto a livello globale. Nei paesi vincitori, il proletariato che aveva con fervore applaudito la rivoluzione russa, non si impegna in maniera massiccia dietro la bandiera della rivoluzione per il rovesciamento del capitalismo, al fine di porre fine per sempre agli orrori della guerra. Esausto per quattro anni di sofferenze nelle trincee o nelle fabbriche di armamenti, ora aspira a riposare "approfittando" della pace che gli è appena stata offerta dai briganti imperialisti. E poiché in tutte le guerre è sempre il vinto che, alla fine, viene additato come l'iniziatore di quest'ultime, nelle argomentazioni dell'Intesa (Francia, Regno Unito, Russia) la responsabilità del capitalismo come un tutto viene nascosta addossando la colpa ai soli imperi centrali (Germania, Austria, Ungheria). Peggio ancora, in Francia, la borghesia promette ai lavoratori una nuova era di prosperità sulla base delle riparazioni di guerra che sarebbero state imposte alla Germania. In tal modo il proletariato in Germania e in Russia tenderà ad essere ancora più isolato.
Ma ciò che stava accadendo nei paesi conquistatori e in quelli vinti è proprio quel futuro che Rosa Luxemburg aveva tracciato nella sua brochure di Junius: se il proletariato mondiale non riesce, con la sua lotta rivoluzionaria, ad erigere una nuova società al di sopra delle rovine fumanti del capitalismo, inevitabilmente quest’ultimo avrebbe inflitto all'umanità calamità ancora peggiori.
La storia di questa nuova discesa agli inferi, che culminerà con gli orrori della Seconda Guerra Mondiale, su molti aspetti è confusa con quella della contro-rivoluzione che conoscerà il suo culmine alla fine di tale conflitto.
L’offensiva degli eserciti bianchi contro la Russia sovietica e il fallimento dei tentativi rivoluzionari in Germania e Ungheria
Ben presto, dopo l'ottobre 1917, il potere sovietico si scontra con le offensive militari dell'imperialismo tedesco che non vuole sentire parlare di pace[4]. Gli eserciti bianchi, economicamente sostenuti dall'estero, si strutturano in diverse parti del paese. E poi, nuovi eserciti bianchi, direttamente preparati dall'estero, vengono lanciati contro la rivoluzione fino al 1920. Il paese è circondato, preso nella morsa degli eserciti bianchi e soffocato economicamente. La guerra civile lascia dietro di sé un paese totalmente esangue. Quasi 980.000 morti nelle file dell'Armata Rossa, circa 3 milioni nella popolazione civile[5].
In Germania, l'asse della contro-rivoluzione è costituito dall'alleanza di due forze principali: il SPD traditore e l'esercito. Queste sono all'origine dell'istituzione di una nuova forza, i Free Corps o corpi franchi, i mercenari contro-rivoluzionari, il nucleo di quello che diventerà il movimento nazista. La borghesia infligge un colpo terribile al proletariato di Berlino inducendolo ad un'insurrezione prematura a Berlino, brutalmente repressa nel gennaio 1919 (la comune di Berlino). Migliaia di operai berlinesi e comunisti - la cui maggior parte è costituita comunque da operai - vengono uccisi (1200 operai vengono passati per le armi), torturati e gettati in prigione. R. Luxemburg, K. Liebknecht e dopo poco Leo Jogisches vengono assassinati. La classe operaia perde una parte della sua avanguardia e il suo più lucido leader nella persona di Rosa Luxemburg, la quale avrebbe potuto rappresentare una preziosa bussola di fronte alle future tormente.
Oltre alla sua incapacità per contrastare queste manovre, il movimento operaio in Germania soffre anche di una grave mancanza di coordinamento tra i diversi centri del movimento: Dopo la comune di Berlino, lotte difensive scoppiano nella Ruhr coinvolgendo minatori, siderurgici, operai tessili, nelle regioni industriali del Basso Reno e della Vestfalia (1° trimestre 1919); seguiranno altre lotte alla fine di marzo nella Germania centrale e di nuovo a Berlino. Il consiglio esecutivo della Repubblica dei consigli di Baviera viene proclamato a Monaco, poi viene rovesciato e la repressione lo abbatte. Berlino, la Ruhr, di nuovo Berlino, Amburgo, Brema, Germania centrale, Baviera, ovunque il proletariato è schiacciato pezzo dopo pezzo. Tutta la ferocia, la barbarie, l'astuzia, l’appello alla delazione e la tecnologia militare vengono usate dalla repressione. Ad esempio, "per riconquistare Alexanderplatz a Berlino, vengono utilizzate per la prima volta nella storia delle rivoluzioni tutte le armi utilizzate sul campo di battaglia: artiglieria leggera e pesante, bombe di peso fino a un quintale, ricognizione e bombardamento aereo" [6]. Migliaia di lavoratori vengono fucilati o uccisi nei combattimenti; i comunisti sono braccati e molti condannati a morte.
A marzo anche gli operai in Ungheria si sollevano contro il capitale dando luogo a scontri rivoluzionari. Il 21 marzo 1919 viene proclamata la Repubblica dei Consigli, ma essa è schiacciata l'estate successiva dalle truppe controrivoluzionarie.[7]
Nonostante i successivi eroici tentativi del proletariato in Germania, nel 1920 (di fronte al colpo di Stato di Kapp) e nel 1921 (azione di Marzo)[8], che testimoniano la persistenza di un forte spirito combattivo, la dinamica non sarà più verso un rafforzamento politico dell'insieme del proletariato tedesco, ma verso il suo contrario.
La degenerazione della rivoluzione nella stessa Russia
Le devastazioni della guerra, in particolare le considerevoli perdite subite dal proletariato, l'indebolimento politico di quest'ultimo con la perdita del suo potere politico nei consigli operai e lo scioglimento della Guardia rossa, l'isolamento politico della rivoluzione, tutto questo ha costituito il terreno per lo sviluppo dell'opportunismo all'interno del partito bolscevico e dell'Internazionale comunista[9]. La repressione dell'insurrezione di Kronstadt nel 1921, che ha luogo in reazione alla perdita del loro potere da parte dei soviet, è ordinata dal partito bolscevico. Da avanguardia della rivoluzione al momento della presa del potere, quest'ultimo sarebbe diventato l'avanguardia della controrivoluzione al termine di una degenerazione interna che le frazioni staccatesi da questo partito per combattere contro l'aumento dell'opportunismo non hanno potuto impedire[10].
Sono scomparse le grandi masse che in Russia, Germania, Ungheria, ... erano partite all'assalto del cielo. Quest'ultime, esangui, sfinite, sconfitte, non ce la fanno più. Nei paesi vittoriosi della guerra, il proletariato non si manifesta sufficientemente. Tutto ciò significò la sconfitta politica del proletariato in ogni parte del mondo.
Lo stalinismo diventa la punta di lancia della borghesia mondiale contro la rivoluzione
Il processo di degenerazione della rivoluzione russa conosce un'accelerazione con la presa del controllo del partito bolscevico da parte di Stalin. L'adozione nel 1925 della tesi del "socialismo in un paese", che diviene la dottrina del partito bolscevico e dell'Internazionale comunista, costituisce un punto di rottura e di non ritorno. Questo vero tradimento dell'internazionalismo proletario, principio fondamentale della lotta proletaria e della rivoluzione comunista, è ormai adottato e difeso da tutti i partiti comunisti del mondo[11] contro il progetto storico della classe operaia. Nello stesso tempo in cui segna l'abbandono di qualsiasi progetto proletario, la tesi del socialismo in un paese solo corrisponde anche al processo di inserimento della Russia nel capitalismo mondiale.
Verso la metà degli anni '20, Stalin comincia a condurre una politica spietata per liquidare tutti gli ex compagni di Lenin utilizzando ad oltranza gli organi repressivi che il Partito bolscevico aveva messo in atto per resistere agli eserciti bianchi (specialmente la polizia politica, Ceka)[12]. L'intero mondo capitalista sta riconoscendo in Stalin l'uomo della provvidenza, colui che sta per sradicare le ultime vestigia della rivoluzione d'Ottobre e al quale si deve dare tutto il sostegno necessario per spezzare, per sterminare la generazione dei proletari e dei rivoluzionari che, nel pieno della guerra mondiale, ha osato impegnarsi nella lotta a morte contro l'ordine capitalista[13].
I rivoluzionari, ovunque essi si trovino, sono braccati e repressi dallo stalinismo, con l'aiuto complice delle grandi democrazie, le stesse che avevano inviato i loro eserciti bianchi ad affamare e a tentare di rovesciare il potere dei soviet.
D'ora in poi, "il socialismo è l'URSS di Stalin", mentre il vero progetto proletario tende a sparire dalle coscienze
La Russia di Stalin sarà presentata dalla borghesia staliniana, e dal resto della borghesia mondiale, come la realizzazione dell'obiettivo finale del proletariato, l'instaurazione del socialismo. In questa impresa, collaboreranno tutte le frazioni mondiali della borghesia, sia quelle democratiche che i vari PC nazionali.
La stragrande maggioranza di coloro che credono ancora nella rivoluzione identificherà il suo obiettivo con l'istaurazione di un regime stile USSR negli altri paesi. Più luce sarà fatta sulla realtà della condizioni della classe operaia nell'URSS e più profonda sarà la divisione nel proletariato mondiale: quelli che continueranno a difendere il carattere "progressista" (nonostante tutti i suoi difetti), "senza borghesia", dell'Unione Sovietica e coloro per i quali, al contrario, la situazione nell'URSS sarà un incubo, ma senza avere la forza di concepire un progetto alternativo. Il progetto proletario viene quindi sostenuto solo da minoranze di rivoluzionari, sempre più ridotte, che gli sono rimaste fedeli.
Il proletariato di fronte alla crisi del 1929 e degli anni '30
Gli anni successivi alla crisi del 1929 sono drammatici per le condizioni di vita del proletariato mondiale, specialmente in Europa e negli Stati Uniti. Ma in generale le sue reazioni a questa situazione non costituiranno una risposta capace di poter sviluppare una dinamica di lotta di classe tale da mettere in discussione l'ordine costituito. Lungi da ciò. Ma peggio ancora, le reazioni degne di nota in Francia e in Spagna saranno deviate sul terreno dell'impasse della lotta antifascista.
In Francia, la grande ondata di scioperi che seguirà l'arrivo al governo del Fronte popolare nel 1936 esprime chiaramente i limiti della classe operaia sotto il peso della contro-rivoluzione. L'ondata di scioperi inizia con occupazioni spontanee di fabbriche mostrando comunque una certa combattività degli operai. Ma, fin dai primi giorni, la sinistra sarà in grado di utilizzare questa massa gigantesca per manovrarla ed imporre all'intera borghesia francese le misure di capitalismo di Stato necessarie per affrontare la crisi economica e preparare la guerra. Se è vero che per la prima volta si assiste in Francia ad occupazioni di fabbriche, è anche vero che per la prima volta si vedono operai cantare sia l'internazionale che la marsigliese, marciando dietro lo sventolio della bandiera rossa mescolato con quello della bandiera tricolore[14]. L'apparato di inquadramento costituito dal PC e dai sindacati è padrone della situazione, riuscendo a racchiudere nelle fabbriche gli operai che si lasciano cullare al suono di fisarmonica.
Il proletariato spagnolo, rimasto relativamente isolato dalla prima guerra mondiale e dall'ondata rivoluzionaria[15], si è ritrovato le sue forze fisiche relativamente intatte per affrontare gli attacchi di cui sarà vittima negli anni '30. Infatti, tra il 1931 e il 1939 si conteranno più di un milione di morti, soprattutto come conseguenza della guerra civile tra il campo repubblicano e quello del generale Franco, e questa guerra civile non ha più nulla a che fare con la lotta di classe del proletariato, essa è la permessa dal suo indebolimento. La situazione precipitò nel 1936 con il colpo di Stato del generale Franco. La risposta dei lavoratori fu immediata: il 19 luglio ‘36 gli operai dichiareranno lo sciopero ed in massa si recheranno alla caserma per ostacolare questo tentativo, senza preoccuparsi delle direttive contrarie del Fronte popolare e del governo repubblicano. Unendo la lotta rivendicativa alla lotta politica, gli operai fermano con questa azione la mano micidiale di Franco. Ma non quella della frazione della borghesia organizzata nel Fronte popolare. Appena un anno dopo, nel maggio 1937, il proletariato di Barcellona si solleva nuovamente, ma viene massacrato dal governo del Fronte popolare, con in testa il Partito comunista spagnolo e il suo ramo catalano del PSUC, mentre le truppe franchiste interrompono volontariamente la loro avanzata per permettere ai carnefici stalinisti di schiacciare gli operai.
Questa terribile tragedia operaia, ancora oggi presentata in modo menzognero come "una rivoluzione sociale spagnola" o "una grande esperienza rivoluzionaria" segna al contrario, attraverso lo schiacciamento ideologico e fisico delle ultime forze vive del proletariato europeo, il trionfo della contro-rivoluzione. Questo massacro è la prova generale che aprirà la strada maestra allo scatenamento della guerra imperialista[16].
Anni '30: la borghesia ha di nuovo le mani libere per imporre la sua soluzione di fronte alla crisi
La Repubblica di Weimar si è messa in evidenza per l'introduzione di un'estrema razionalizzazione dello sfruttamento della classe operaia in Germania accompagnata da misure di rappresentanza operaie nelle fabbriche per imbrogliarle.
In Germania, tra la Repubblica di Weimar (1923) e il Nazismo (1933), non emergerà alcuna opposizione: la prima ha permesso di schiacciare la minaccia rivoluzionaria, disperdere il proletariato, confondere la sua coscienza; il secondo, il nazismo, alla fine di questa evoluzione, terminerà questo lavoro, realizzando con mano di ferro l’unità della società capitalista sulla base della soppressione di ogni minaccia proletaria[17].
In tutti i paesi europei si sviluppano così partiti che si rifanno a Hitler o Mussolini, il cui programma è il rafforzamento e la concentrazione del potere politico ed economico nelle mani di un singolo partito nello Stato. Il loro sviluppo è combinato con una vasta offensiva anti-operaia dello Stato, facendo affidamento su un apparato repressivo rinforzato dall'esercito e dalle truppe fasciste in caso di bisogno. Dalla Romania alla Grecia si sviluppano organizzazioni di tipo fascista che, con la complicità dello Stato nazionale, si adoperano per impedire qualsiasi reazione operaia. La dittatura capitalista diventa aperta e molto spesso prende la forma del modello mussoliniano o hitleriano.
Il mantenimento del quadro democratico è tuttavia reso possibile nei paesi industrializzati meno colpiti dalla crisi. E la democrazia è anche una necessità per mistificare il proletariato. Il fascismo, avendo dato alla luce “l’antifascismo”, ha rafforzato le capacità di mistificazione delle “potenze democratiche”. Sotto la copertura dell'ideologia dei Fronti Popolari[18], che permettono di mantenere i lavoratori disorientati dietro i programmi di unità nazionale e di preparazione per la guerra imperialista, e in complicità con la borghesia russa, la maggior parte dei PC asserviti al nuovo imperialismo organizzeranno una vasta campagna sull'avanzamento del pericolo fascista[19]. La borghesia può condurre la guerra alla sola condizione di ingannare i proletari, facendo loro credere che quella è anche la loro guerra: "È la fine della lotta di classe, o più esattamente la distruzione della potenza di classe del proletariato, la distruzione della sua coscienza, la deviazione delle sue lotte, che la borghesia riesce ad ottenere attraverso suoi agenti nel proletariato, svuotando le sue lotte del loro contenuto rivoluzionario e impegnandole sui binari del riformismo e del nazionalismo, che è la condizione ultima e decisiva per lo scoppio della guerra imperialista". (Relazione sulla situazione internazionale della conferenza di luglio 1945 della Sinistra comunista di Francia)[20].
I massacri della seconda guerra mondiale
La maggior parte dei combattenti arruolati in entrambi i campi non sono partiti col sorriso fra i denti, paralizzati come erano dalla morte dei loro padri solo 25 anni prima. E ciò che incontreranno certamente non gli risolleverà il morale: la "Guerra lampo" causerà comunque 90.000 morti e 120.000 feriti francesi, 27.000 morti tedeschi. Il disastro in Francia ha sprofondato dieci milioni di persone nelle più spaventose delle condizioni. Un milione e mezzo di prigionieri vengono inviati in Germania. Ovunque le condizioni di sopravvivenza sono disumane: l'esodo di massa in Francia, il terrore dello Stato nazista che irreggimenta la popolazione tedesca.
In Italia come in Francia, molti operai si uniscono alla Resistenza di quest'epoca (in Francia “maquis”). Il partito stalinista e i trotskisti indicano loro l'esempio mistificato della Comune di Parigi (non si oppongono i lavoratori alla loro stessa borghesia guidata da Pétain, il nuovo Thiers, mentre i tedeschi occupano la Francia?). Nel bel mezzo di una popolazione terrorizzata e indifesa allo scatenarsi della guerra, molti operai francesi ed europei, reclutati nelle bande della resistenza, saranno uccisi credendo di combattere per la "liberazione socialista" della Francia, dell'Italia, .... Le bande della resistenza staliniste e trotskiste concentrano la loro propaganda odiosa soprattutto affinché gli operai possano impegnarsi "in prima linea nella lotta per l'indipendenza dei popoli".
Se la prima guerra mondiale ha causato 20 milioni di morti, la seconda ne farà 50 milioni, di cui 20 milioni di russi caduti sul fronte europeo. 10 milioni di persone sono morte nei campi di concentramento, 6 milioni delle quali sono da mettere sul conto della politica nazista di sterminio degli ebrei. Sebbene nessuna delle atrocità raccapriccianti del nazismo è oggi sconosciuta al grande pubblico, contrariamente ai crimini delle grandi democrazie, i crimini nazisti rimangono un esempio inconfutabile della barbarie senza limiti del capitalismo decadente, ... e anche dell'odiosa ipocrisia del campo degli alleati. In effetti, solo durante la liberazione, gli alleati fingono di scoprire i campi di concentramento. Pura mascherata per nascondere la propria barbarie esponendo quella del nemico sconfitto. In realtà la borghesia, sia inglese che americana, conosceva perfettamente l'esistenza dei campi e quello che stava succedendo. Eppure, guarda che stranezza, non ne parla praticamente durante la guerra e non ne fa un tema centrale della sua propaganda. In realtà, i governi di Churchill e Roosevelt hanno temuto come la peste che i nazisti espellessero gli ebrei in maniera massiccia per svuotare i campi. Così hanno rifiutato le offerte per lo scambio di 1 milione di ebrei. Non li volevano nemmeno senza dare nulla in cambio?[21]
Nell'ultimo anno di guerra, ad essere prese direttamente di mira dai bombardamenti saranno le concentrazioni operaie per indebolire il più possibile la classe operaia decimandola o terrorizzandola.
La borghesia mondiale prende le sue misure per eliminare ogni rischio di sollevamento proletariato
L'obiettivo è prevenire la ripetizione di un sollevamento proletario come nel 1917 e 18 di fronte agli orrori della guerra. Questo è il motivo per cui i bombardamenti anglo-americani - principalmente sulla Germania, ma anche sulla Francia – sono stati così barbaramente efficaci. Il risultato di quello che è stato indubbiamente uno dei più grandi crimini di guerra del secondo massacro mondiale, sono i circa 200.000 morti[22], quasi tutti civili, del bombardamento nel 1945 di Dresda, città riparo di rifugiati che non aveva alcun interesse strategico. Solo per decimare e terrorizzare la popolazione civile[23]. Allo stesso titolo, l’altro crimine efferato su Hiroshima che causò 75.000 morti e i terribili bombardamenti americani su Tokyo nel marzo 1945 che causarono 85.000 morti!
Nel 1943, quando Mussolini è rovesciato e sostituito dal maresciallo Badoglio, favorevole agli Alleati, questi ultimi, che già controllano il Sud del paese, non fanno niente per spostarsi a Nord. E ciò per consentire ai fascisti di regolare i loro conti con le masse operaie che cominciano a sollevarsi su basi di classe nelle regioni industriali del nord Italia. Interpellato per questa passività, Churchill risponderà: "E’ necessario far cuocere gli italiani nel loro brodo".
Appena finita la guerra, gli alleati favoriscono l'occupazione russa ovunque sorgevano rivolte operaie. L'Armata Rossa è la meglio piazzata per mettere ordine in questi paesi, o massacrando il proletariato o deviandolo dal suo terreno di classe in nome del "socialismo".
Una condivisione del lavoro dello stesso tipo si attua tra l'Armata Rossa e l'Esercito tedesco. A Varsavia e Budapest, quando si trova già nei loro sobborghi, l '"Armata Rossa" lascerà, senza muovere un dito, schiacciare dall'esercito tedesco le insurrezioni contro quest'ultimo. Stalin quindi affida a Hitler il compito di massacrare decine di migliaia di operai armati che avrebbero potuto contrastare i suoi piani[24].
Non contento di offrire a Stalin i territori ad "alto rischio sociale", la "democratica" borghesia dei paesi vincitori chiama i PC al governo nella maggior parte dei paesi europei (in particolare in Francia e in Italia) affidando loro un posto di prim’ordine nei vari ministeri (Thorez - segretario del Partito comunista francese - in Francia sarà nominato vicepresidente del Consiglio nel 1944).
Nell’immediato dopoguerra, il terrore imposto alla popolazione tedesca
Nella continuità dei massacri preventivi destinati a impedire un sollevamento proletario in Germania alla fine della guerra, quelli che si avranno dopo non saranno meno sanguinosi.
La Germania in effetti è trasformata in un vasto campo di sterminio dalle potenze occupanti russe, britanniche, francesi e americane. A guerra finita saranno morti, a causa dei bombardamenti e nei campi di concentramento, molti più tedeschi di quelli caduti in battaglia,. Secondo James Bacque, autore di "Crimini e misericordie: la sorte dei civili tedeschi sotto occupazione alleata, 1944-1950"[25], oltre 9 milioni di persone sono morte a causa della politica dell'imperialismo alleato tra il 1945 e il 1950.
Solo quando viene raggiunto questo obiettivo omicida l'imperialismo americano si rende conto che la devastazione dell'Europa, dopo la guerra, avrebbe rischiato di portare al potere l'imperialismo russo in tutto il continente e di conseguenza la politica di Potsdam viene cambiata. La ricostruzione dell'Europa occidentale richiede la rinascita dell'economia tedesca. Il ponte aereo di Berlino del 1948 è stato il simbolo di questo cambio di strategia[26]. Proprio come per il bombardamento di Dresda, "... il migliore raid terroristico di tutta la guerra messo in opera dagli Alleati vittoriosi", la borghesia democratica ha fatto il possibile per oscurare la realtà del vero costo della Barbarie ampiamente condivisa nei due campi della guerra mondiale.
Il proletariato non è stato in grado di sollevarsi in una lotta frontale contro la guerra
Nonostante puntuali manifestazioni di lotte in diversi luoghi, specialmente in Italia nel 1943, il proletariato non riesce ad alzare la testa contro la barbarie della Seconda Guerra Mondiale, come aveva fatto con la Prima guerra mondiale.
La prima guerra mondiale aveva conquistato milioni di lavoratori all'internazionalismo, la seconda li ha sprofondati nei bassifondi del più abietto sciovinismo, la caccia ai "boches"[27] e ai "collaborazionisti"[28].
Il proletariato tocca il fondo. Ciò che gli viene presentato, e che interpreta come sua grande "vittoria", il trionfo della democrazia contro il fascismo, costituisce la sua più totale sconfitta storica. Essa permette di erigere i pilastri ideologici dell'ordine capitalista: il sentimento di vittoria e l'euforia che travolge il proletariato, la sua fede nelle "virtù sacre" della democrazia borghese - proprio quella che l'ha portato a due macelli imperialisti e che ha schiacciato la sua rivoluzione nei primi anni 1920. E, dopo, il periodo di ricostruzione, poi il boom economico del dopoguerra, il momentaneo miglioramento delle sue condizioni di vita in Occidente, non gli consentono di misurare la vera sconfitta che ha subito[29].
Nei paesi dell'Europa dell'Est, che non beneficiano della manna americana del piano Marshall, in quanto i partiti stalinisti l'hanno rifiutato su ordine di Mosca, la situazione richiede più tempo per migliorare un po'. La mistificazione che viene presentata ai lavoratori è quella della "costruzione del socialismo". E tale mistificazione riporta un certo successo, come ad esempio in Cecoslovacchia dove il "colpo di Praga" del febbraio 1948, cioè la presa del controllo del governo da parte degli stalinisti, è realizzata con la simpatia di molti operai.
Una volta che questa illusione si è esaurita, cominciano a manifestarsi rivolte operaie, come quella in Ungheria nel 1956, ma esse sono duramente represse dalle truppe russe[30].
Il coinvolgimento delle truppe russe nella repressione è quindi un ulteriore alimento per il nazionalismo nei paesi dell'Europa dell'Est. Allo stesso tempo, tale repressione è ampiamente utilizzata dalla propaganda dei settori "democratici" e filo-americani della borghesia dei paesi dell'Europa occidentale, mentre i partiti stalinisti di questi paesi usano questa stessa propaganda per presentare l'insurrezione dei lavoratori ungheresi come un movimento sciovinista, persino "fascista", al soldo dell'imperialismo USA.
Inoltre, durante la "Guerra fredda", e anche quando essa lascia il posto alla "coesistenza pacifica" dopo il 1956, la divisione del mondo in due blocchi costituirà uno strumento di prim'ordine per ingannare la classe operaia.
Negli anni '50, lo stesso tipo di politica degli anni '30 continua a dividere e a disorientare la classe operaia: una parte di quest'ultima non vuole più sentir parlare di comunismo (identificandolo con l'URSS) mentre un'altra parte continua a subire il dominio ideologico dei partiti stalinisti e dei loro sindacati. Così, dalla Guerra di Corea, lo scontro Est-Ovest viene usato per opporre gli uni contro gli altri i diversi settori della classe operaia e per imbrigliare milioni di operai dietro il campo sovietico nel nome della "lotta contro l'imperialismo". Allo stesso tempo, le guerre coloniali offrono un'ulteriore opportunità per deviare gli operai dal loro terreno di classe nel nome, ancora una volta, della "lotta contro l'imperialismo" (e non della lotta contro il capitalismo) rispetto alla quale l'Unione Sovietica viene presentata come il paladino del "diritto e della libertà dei popoli". Questo tipo di campagna continuerà in molti paesi negli anni '50 e '60, in particolare con la guerra del Vietnam, dove gli Stati Uniti si impegnano in maniera massiccia dal 1961[31].
Un'altra conseguenza di questo lungo e profondo riflusso della classe operaia è stata la rottura organica con le frazioni comuniste del passato[32], imponendo così alle future generazioni di rivoluzionari la necessità di riappropriarsi in modo critico delle acquisizioni del movimento operaio.
Maggio 1968, fine della contro-rivoluzione
La crisi del 1929 e degli anni 1930, ha, nel migliore dei casi, suscitato alcune reazioni di combattività proletarie in Francia e in Spagna, ma, come abbiamo visto sopra, queste sono state deviate dal terreno di classe verso la difesa dell'antifascismo e della democrazia, grazie al lavoro degli stalinisti, dei trotskisti, dei sindacati. E ciò non ha fatto che approfondire ulteriormente la contro-rivoluzione.
Nel 1968, siamo solo all'inizio di una nuova manifestazione della crisi economica mondiale. E saranno gli effetti in Francia di questa crisi economica globale (aumento della disoccupazione, congelamento degli aumenti salariali, intensificazione dei ritmi di lavoro, attacchi alla Sicurezza sociale) a spiegare in gran parte la crescente combattività operaia in questo paese a partire dal 1967. Invece di lasciarsi incanalare dagli stalinisti e dai sindacati, il risveglio della combattività operaia comincia ad allontanarsi dagli "scioperetti" e dalle giornate d'azione sindacale. Già dal 1967, assistiamo a conflitti molto duri, molto determinati di fronte alla violenta repressione padronale e della polizia, e in cui i sindacati vengono più volte messi alle corde. Lo scopo di questo articolo non è quello di tornare su tutti i principali aspetti del Maggio 68 in Francia. Per questo rimandiamo il lettore agli articoli "Maggio 68 e la prospettiva rivoluzionaria" scritti in occasione del 40° anniversario di questi eventi[33].
Tuttavia, il richiamo di alcuni fatti è importante per illustrare il cambiamento della dinamica della lotta di classe avvenuta a Maggio 1968.
A Maggio, l'atmosfera sociale cambia radicalmente. "Il 13 maggio, tutte le città del paese conoscono le più importanti manifestazioni [in solidarietà con gli studenti vittime della repressione] dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. La classe operaia è presente in modo massiccio accanto agli studenti (...) Alla fine delle manifestazioni, praticamente tutte le università sono occupate non solo dagli studenti ma anche da molti giovani operai. Ovunque si parla liberamente. Le discussioni non si limitano a questioni universitarie, alla repressione. Esse cominciano ad affrontare tutti i problemi sociali: le condizioni di lavoro, lo sfruttamento, il futuro della società (...) Il 14 maggio, in molte fabbriche, le discussioni continuano. Dopo le grandi dimostrazioni del giorno prima, con l'entusiasmo e il senso di forza emersi, è difficile tornare a lavorare come se niente fosse successo. A Nantes, i lavoratori di Sud-Aviation, coinvolti dai più giovani tra loro, lanciano uno sciopero spontaneo e decidono di occupare la fabbrica. La classe operaia inizia a prendere il sopravvento"[34].
L'apparato classico d’inquadramento della borghese non riesce ad averla vinta sulla spontaneità della classe operaia ad entrare in lotta. Così, nei tre giorni successivi alla manifestazione del 13 maggio, lo sciopero si estende spontaneamente alle fabbriche in tutta la Francia. I sindacati superati e messi da parte non possono che mettersi al rimorchio del movimento seguendone l'esempio. Nessuna richiesta specifica. Una tratto comune: sciopero totale, occupazione illimitata, sequestro della Direzione, bandiera rossa innalzata. Alla fine, la CGT chiede l'estensione, cercando di "salire sul treno in marcia"[35]. Ma ancora prima che l'appello della CGT sia noto, già un milione di lavoratori è sceso in sciopero.
La coscienza crescente della propria forza da parte della classe operaia stimola la discussione al suo interno e la discussione politica in particolare. Ciò ricorda, con le dovute proporzioni, la vita politica che attraversò la classe operaia, come riportato dagli scritti di Trotsky e J. Reed sulla effervescenza rivoluzionaria del 1917.
Il velo di menzogne tessuto per decenni dalla contro-rivoluzione e dai suoi sostenitori stalinisti e democratici sta iniziando a svanire. Video amatoriali girati nella fabbrica occupata Sud-Aviation a Nantes mostrano una appassionata discussione all'interno di un gruppo di lavoratori sul ruolo dei comitati di sciopero nella "dualità del potere". La dualità del potere nel 1917 è stato il prodotto della lotta per il potere reale tra lo Stato borghese e i consigli operai. In molte fabbriche in sciopero nel 1968, gli operai hanno eletto dei comitati di sciopero. Siamo molto lontani dall'essere in una situazione pre-rivoluzionaria, ma quello che sta succedendo è un tentativo da parte della classe operaia di rivendicare la propria esperienza, il suo passato rivoluzionario. Un'altra esperienza lo attesta: "Alcuni operai chiedono a coloro che difendono l'idea della rivoluzione di andare a difendere il loro punto di vista nella loro impresa occupata. Così a Tolosa, dove il piccolo nucleo che fonderà in seguito la sezione della CCI in Francia è invitato ad andare ad esporre l'idea dei consigli operai nella fabbrica JOB (carta e cartone) occupata E la cosa più significativa è che questo invito proviene da militanti ... della CGT e del PCF. Questi ultimi dovranno discutere per un'ora con i funzionari della CGT della grande fabbrica Sud-Aviation che è giunta a "rafforzare" il picchetto della JOB per ottenere l'autorizzazione lasciare entrare dei "gauchiste" in fabbrica. Per più di sei ore, operai e rivoluzionari, seduti su rotoli di cartone, discuteranno della rivoluzione, della storia del movimento operaio, dei soviet e dei tradimenti ... del PCF e della CGT ... "[36].
Una tale riflessione consentirà a migliaia di operai di riscoprire il ruolo storico dei consigli operai, nonché i grandi eventi della lotta della classe operaia, come ad esempio i tentativi rivoluzionari in Germania nel 1919. Allo stesso modo, si sviluppa un critica del ruolo svolto dal PC (che definisce se stesso come un partito dell'ordine) in relazione agli stessi eventi del 1968 ma anche della rivoluzione russa. Questa è stata la prima rimessa in causa di un certo spessore allo stalinismo e al ruolo dei PC come custodi dell'ordine stabilito. La critica colpisce anche i sindacati, che crescerà quando essi si manifesteranno apertamente come gli agenti della divisione della classe operaia per riportarla al lavoro[37].
È un'altra epoca che si sta aprendo, caratterizzata da una "rinascita" nella coscienza di classe nelle vaste masse operaie. Questa rottura con la contro-rivoluzione non significa che quest'ultima non avrebbe continuato a pesare negativamente sull'ulteriore sviluppo della lotta di classe, né che la coscienza dei lavoratori fosse libera da forti illusioni soprattutto nei riguardi degli ostacoli da superare sul cammino della rivoluzione, molto più lontana di come la grande maggioranza l'aveva immaginata all'epoca.
Una tale caratteristica del Maggio 68, come dimostrazione della fine del periodo di contro-rivoluzione, troverà la sua conferma nel fatto che, lungi dall'essere un fenomeno isolato, questi eventi costituiscono piuttosto il punto di partenza per la ripresa della lotta di classe a livello internazionale, stimolata dalla profonda crisi economica e il cui corollario è stato lo sviluppo di un movimento politico proletario internazionale[38]. La fondazione nel 1968 di "Révolution Internationale" ne costituisce un esempio, dal momento che questo gruppo svolgerà un ruolo di primo piano nel processo di raggruppamento che porterà alla fondazione della CCI nel 1975, e di cui "Révolution Internationale" sarà la sezione in Francia. A differenza del periodo buio della contro-rivoluzione, la borghesia ha ora di fronte una classe che non è pronta ad accettare i sacrifici della guerra economica mondiale, e che pertanto costituisce un ostacolo allo scoppio della seconda guerra mondiale, come vedremo più avanti.
La ripresa internazionale della lotta di classe dal 1968
La CCI ha appena dedicato un articolo su questa questione, "Gli avanzamenti e i riflussi della lotta di classe dopo il 1968"[39] che consigliamo ai nostri lettori e da cui prendiamo molti elementi necessari per evidenziare le differenze tra il periodo di contro-rivoluzione e il periodo storico aperto con maggio 1968. In poche parole la differenza fondamentale tra il pe riodo di contro-rivoluzione, iniziato da una profonda sconfitta della classe operaia, e quella aperta con il maggio 68, risiede nel fatto che dalla rinascita della lotta, e nonostante tutte le difficoltà con cui il proletariato si è confrontato, quest'ultimo non ha subito una sconfitta profonda.
L'approfondimento della crisi economica aperta, che agli inizi degli anni '60 era ancora ai suoi inizi, è stata da stimolo per il proletariato per sviluppare il suo spirito combattivo e la sua coscienza.
Tre ondate di lotta si sono sviluppate nei due decenni successivi al 68
La prima, senza dubbio la più spettacolare, ha visto l’autunno caldo italiano nel '69, la violenta rivolta a Cordoba in Argentina nel 69 e in Polonia nel '70, e importanti movimenti in Spagna e in Gran Bretagna nel 1972. C'è stato anche un autunno caldo in Germania nel '69 con numerosi scioperi selvaggi. In Spagna, in particolare, i lavoratori hanno iniziato ad organizzarsi attraverso assemblee di massa, un processo culminato a Vitoria nel 1976. La dimensione internazionale dell'ondata è stata dimostrata dai suoi echi in Israele (1969) e in Egitto (1972) e, in seguito, dalle insurrezioni nelle township (divisioni territoriali costituite dall’apartheid) del Sud Africa dirette da comitati di lotta (i Civics).
Dopo una breve pausa a metà degli anni '70, c'è stata una seconda ondata di scioperi degli operai petroliferi iraniani, degli operai siderurgici in Francia nel 1978, "l'inverno del malcontento" in Gran Bretagna, lo sciopero dei portuali a Rotterdam, guidato da un comitato di sciopero indipendente, e gli scioperi dei lavoratori dell'industria siderurgica in Brasile nel 1979, che hanno anche sfidato il controllo sindacale. In Asia c'è stata la rivolta di Kwangju (Corea del Sud). Questa ondata di lotte è culminata in Polonia nel 1980, certamente l'episodio più importante della lotta di classe dal 1968, e anche dagli anni '20.
Sebbene la severa repressione dei lavoratori polacchi abbia fermato questa ondata, non è passato molto tempo per assistere ad un nuovo movimento di lotte in Belgio nel 1983 e nel 1986, lo sciopero generale in Danimarca nel 1985, lo sciopero dei minatori in Inghilterra nel 1984-85, le lotte dei ferrovieri e degli operatori sanitari in Francia nel 1986 e 1988, e il movimento degli insegnanti in Italia nel 1987. Le lotte in Francia e in Italia, in particolare, come lo sciopero di massa in Polonia, hanno mostrato una reale capacità di auto-organizzazione con assemblee generali e comitati di sciopero.
Questo movimento di ondate di lotte non è girato a vuoto, ha determinato, infatti, veri progressi nella coscienza di classe espressi attraverso le seguenti caratteristiche:
- una perdita di illusioni sulle forze politiche della sinistra del capitale e, prima di tutto, sui sindacati nei cui riguardi le illusioni hanno lasciato il posto alla sfiducia e ad un'ostilità sempre più aperta;
- l'abbandono sempre più marcato di forme di mobilitazione inefficaci, impasse in cui i sindacati hanno tante volte convogliato la combattività operaia: giornate d'azione, dimostrazioni, passeggiate, o scioperi lunghi e isolati ...
Ma l'esperienza di questi 20 anni di lotta non ha solo dato alla classe operaia insegnamenti "negativi" (cosa non fare). Ha anche portato lezioni su come:
- ricercare l'estensione della lotta (in particolare Belgio1986);
- ricercare la presa in mano delle proprie lotte, organizzandosi in assemblee e comitati di sciopero eletti e revocabili (Principalmente in Francia fine 86 ed Italia 1987).
Allo stesso modo, le manovre più sofisticate sviluppate dalla borghesia per affrontare la lotta di classe hanno dimostrato proprio lo sviluppo di quest'ultima durante questo periodo. Per esempio essa ha dovuto affrontare il crescente disincanto di fronte ai sindacati ufficiali e alla minaccia di auto-organizzazione sviluppando un tipo di sindacalismo che potrebbe ricoprire anche forme "al di fuori dei sindacati" (ad esempio, i coordinamenti creati dall'estrema sinistra in Francia).
Il proletariato ostacola la guerra
Alla fine di questi vent'anni dopo il 1968, la borghesia non è riuscita ad infliggere una decisiva sconfitta storica alla classe operaia, e quindi non ha potuto mobilitarla per una nuova guerra mondiale, a differenza degli anni '30 come abbiamo già mostrato in questo articolo.
In effetti, la borghesia non può lanciarsi in una guerra mondiale senza prima essersi assicurata di una certa docilità del proletariato. Infatti, quest’ultima costituisce la condizione essenziale per fargli accettare i sacrifici richiesti dallo stato di guerra, che richiede la mobilitazione di tutte le forze vive della nazione sia nella produzione che al fronte. Intanto, un simile obiettivo è del tutto irrealistico visto che il proletariato non si è dimostrato nemmeno pronto ad accettare con obbedienza cieca le misure di austerità che la borghesia doveva prender per far fronte alle conseguenze della crisi economica. E questo è il motivo per cui la Terza Guerra Mondiale non ha avuto luogo durante questo periodo, nonostante che le tensioni tra i blocchi avevano raggiunto il loro apice e le alleanze erano già state formate attraverso i due blocchi. Inoltre, in nessuna delle concentrazioni storiche del proletariato la borghesia ha cercato di mobilitarlo massicciamente per farlo partecipare come carne da macello nelle varie guerre locali, espressioni della rivalità Est-Ovest, e che anche durante questo periodo hanno insanguinato il mondo.
Ciò è particolarmente vero per la classe operaia in Occidente, ma anche per quella dell'Est, sebbene quest’ultima sia politicamente più debole dato il danno provocato dal rullo compressore dello stalinismo, specialmente in URSS. In effetti, la borghesia staliniana, impantanata in una palude economica, ha avuto di fronte una classe reattiva, che lottava (come illustrato in particolare dagli scioperi in Polonia nel 1980) e quindi era chiaramente impossibile mobilitarla in modo massiccio in una soluzione militare a causa del fallimento della sua economia.
Ciò detto, anche se la classe operaia ha rappresentato un ostacolo alla guerra mondiale fino alla fine degli anni '80, se è stata in grado di sviluppare le sue lotte di resistenza contro gli attacchi del capitale nei due decenni successivi al 1968, senza subire una profonda sconfitta e invertendo una dinamica globale di sviluppo dello scontro tra classi, non ha potuto comunque impedire l’avvicendarsi di guerre su altre parti del pianeta. In effetti, durante questo periodo, le guerre non si sono mai fermate.
Nella maggior parte dei casi, esse, espressione delle rivalità imperialiste tra l’Est e l’Ovest e in mancanza di uno scontro frontale tra questi, sono scoppiate attraverso paesi interposti. E in questi paesi appartenenti al capitalismo periferico, il proletariato non ha avuto una forza in grado di paralizzare il braccio armato della borghesia.
Il proletariato di fronte alla decomposizione del capitalismo
Nonostante questi progressi della lotta di classe, in particolare attraverso importanti sviluppi nella coscienza di classe, e anche perché la borghesia non è stata in grado di mobilitare il proletariato per un nuovo conflitto mondiale, la classe operaia non è riuscita a sviluppare la prospettiva della rivoluzione, di porre la propria alternativa politica alla crisi del sistema.
Quindi, nessuna delle due classi fondamentali è stata in grado di imporre la sua soluzione alla crisi del capitalismo. Privato di ogni via d'uscita ma ancora bloccato da una crisi economica di lunga durata, il capitalismo ha cominciato a marcire e questo putridume ha colpito la società capitalista a tutti i livelli. Il capitalismo è così entrato in una nuova fase della sua decadenza, quella della sua decomposizione sociale. Come abbiamo già spesso messo in evidenza, questa fase è sinonimo di maggiori difficoltà per la lotta del proletariato[40].
Andando indietro negli ultimi tre decenni, possiamo dire che il declino della coscienza si è approfondito, causando una sorta di amnesia nei confronti dei risultati e dei progressi del periodo 1968-1989 e che si spiega fondamentalmente attraverso due fattori:
- L'enorme impatto del crollo del blocco dell'Est nel 1989-91, falsamente fatto identificare dalle campagne della borghesia come il crollo del comunismo;
- Le caratteristiche dello stesso periodo di decomposizione, inaugurato da questo crollo, ed in particolare: l'aumento permanente della criminalità, l'insicurezza, la violenza urbana; lo sviluppo del nichilismo, del suicidio giovanile, della disperazione, dell'odio e della xenofobia; l'ondata di droga; la profusione di sette, il risveglio dello spirito religioso, anche in alcuni paesi avanzati; il rifiuto di un pensiero razionale, coerente, costruito; l'invasione dei media con spettacoli di violenza, orrore, sangue, massacri (...) lo sviluppo del terrorismo, la presa di ostaggi, come mezzi di guerra tra Stati.
Nonostante queste enormi difficoltà della classe operaia dal 1990, per comprendere seriamente l'attuale periodo devono essere presi in considerazione due elementi:
- le crescenti difficoltà e persino le sconfitte parziali non sono ancora sinonimo di una sconfitta storica della classe e della scomparsa della possibilità del comunismo;
- la maturazione sotterranea continua perché, nonostante la decomposizione, il capitalismo continua a sopravvivere e le due classi antagoniste della società si fronteggiano.
In effetti, negli ultimi decenni, ci sono stati una serie di movimenti importanti che forniscono una base per questa analisi:
- Nel 2006, la massiccia mobilitazione degli studenti in Francia contro il CPE[41]. I suoi protagonisti hanno riscoperto forme di lotta che erano apparse nel maggio 1968, in particolare le assemblee generali in cui si sono potute svolgere vere discussioni e dove i giovani partecipanti sono stati pronti ad ascoltare le testimonianze dei compagni più anziani invitati a prendere parte agli eventi. Questo movimento, che ha sopraffatto la leadership sindacale, rischiava seriamente di attrarre dipendenti pubblici ed operai in modo altrettanto "incontrollato", proprio come nel maggio 1968, ed è per questo che il governo ha ritirato il suo progetto di legge CPE.
- Inoltre, nel maggio 2006, 23.000 metallurgici a Vigo, nella provincia della Galizia in Spagna, hanno scioperato contro una riforma del lavoro in questo settore e invece di rimanere chiusi in fabbrica sono andati a cercare solidarietà in altre fabbriche, soprattutto alle porte dei cantieri navali e delle fabbriche Citroën; poi hanno organizzato manifestazioni nella città per radunare l'intera popolazione e soprattutto assemblee pubbliche quotidianamente aperte ad altri lavoratori, occupati, disoccupati o in pensione.
- Nel 2011, l'ondata di rivolte sociali in Medio Oriente e in Grecia, che è culminata nel movimento degli "Indignados" in Spagna. L'elemento proletario in questi movimenti è variato da un paese all'altro, ma è stato più forte in Spagna, dove si é avuto lo sviluppo di assemblee generali; un potente slancio internazionalista che ha salutato con espressioni di solidarietà i partecipanti di tutti gli angoli del mondo e dove lo slogan "rivoluzione mondiale" è stato preso sul serio, forse per la prima volta dall'ondata rivoluzionaria del 1917; un riconoscimento che "il sistema è obsoleto" e una forte volontà di discutere della possibilità di una nuova forma di organizzazione sociale. Nelle molteplici e vivaci discussioni che hanno avuto luogo nelle assemblee e commissioni sulle questioni morali, la scienza e la cultura, nella rimessa in discussione, molto presente, dei dogmi secondo il quale i rapporti di produzione capitalistici sono eterni - abbiamo visto qui di nuovo lo spirito reale di Maggio 68 prendere forma. Ovviamente, questo movimento ha avuto molte debolezze che abbiamo analizzato altrove[42], non ultimo la tendenza da parte delle persone coinvolte a vedere se stessi come "cittadini", piuttosto che come proletari, e quindi una reale vulnerabilità all'ideologia democratica.
Le minacce che la sopravvivenza del capitalismo fa correre all'umanità provano che la rivoluzione è più che mai una necessità per la specie umana: estensione del caos militare, catastrofe ecologica, carestia e malattie su scala mai vista prima. La decadenza del capitalismo e della decomposizione minacciano di distruggere definitivamente la base oggettiva di una nuova società se la decomposizione avanza oltre un certo punto. Ma anche nella sua ultima fase, il capitalismo produce ancora le forze che possono essere utilizzate per rovesciarlo - nei termini del Manifesto comunista del 1848, "ciò che la borghesia soprattutto produce è il suo becchino" (il proletariato).
Così, con l'entrata del capitalismo nella sua fase di decomposizione, anche se ciò comporta maggiori difficoltà per il proletariato, non c'è nulla che indichi che quest'ultimo abbia subito una sconfitta con conseguenze irreversibili e che sia disposto ad accettare ogni sacrificio richiesto sia riguardo alle condizioni di lavoro, che in una marcia verso la guerra imperialista. Non sappiamo quando, né con quale ampiezza si svolgeranno le prossime manifestazioni di tali potenzialità del proletariato. Ciò che sappiamo, tuttavia, è che l'intervento determinato e appropriato della minoranza rivoluzionaria condiziona già da oggi il futuro rafforzamento della lotta di classe.
Silvio (luglio 2018)
[1] Victor Serge è noto soprattutto per la sua famosa narrazione della storia della rivoluzione russa: “L'anno I della Rivoluzione russa”, Einaudi.
[2] "Una nuova era è sorta: il tempo della disintegrazione del capitalismo, del suo crollo interno. L'era della rivoluzione comunista del proletariato". Lettera di invito al primo congresso dell'Internazionale comunista. A tale proposito, leggi il nostro articolo della serie "Il comunismo non è un bell'ideale, esso è all'ordine del giorno della storia", "La Piattaforma dell'Internazionale comunista". Révue internationale n°94.
[3] La Quarta Internazionale, sostenendo la Russia imperialista (dopo la morte di Trotsky), tradì a sua volta l'internazionalismo proletario. Vedi il nostro articolo "Il trotskismo e la seconda guerra mondiale" all'interno della nostra brochure "Il trotskismo contro la classe operaia".
[4] Cosa che porterà alla necessità per il potere in Russia a firmare gli accordi di Brest-Litovsk, al fine di evitare il peggio.
[5] Leggi il nostro articolo “La borghesia mondiale contro la rivoluzione di ottobre” (parte I), su Révue Internationale n°160.
[6] Paul Frölich, Rudolf Lindau, Albert Schreiner, Jakob Walcher, “Rivoluzione e contro-rivoluzione in Germania 1918-1920”, Edizioni Pantarei.
[7] Per ulteriori informazioni vedere gli articoli dedicati alla Rivoluzione in Germania su Rivoluzione Internazionale nn.158 e 159, sulla Rivista Internazionale n. 30 e su CCI on line 25/01/2019.
[8] Leggi il nostro articolo "L'azione di marzo 1921, il pericolo dell'impazienza piccolo-borghese" della Révue internationale n°93.
[9] "I tentativi di ottenere il sostegno delle masse in una fase di declino dell'attività di queste masse hanno portato a "soluzioni "opportunistiche - la crescente insistenza sul lavoro all'interno del parlamento e dei sindacati, gli appelli ai "Popoli dell'Est" a sollevarsi contro l'imperialismo e, soprattutto, alla politica del fronte unico con i partiti socialista e socialdemocratico gettando fuori bordo tutta la chiarezza acquisita sulla natura capitalista di coloro che erano diventati dei socialpatrioti". "La sinistra comunista e la continuità del marxismo" in "Cos'è la CCI?" sul nostro sito in francese.
[10] Leggi nella serie "Il comunismo non è un bell'ideale, esso è all'ordine del giorno della storia" il nostro articolo "1922-23: frazioni comuniste contro l'ascesa della contro-rivoluzione" dalla Révue internationale n°101.
[11] Anche questi ultimi conosceranno frazioni di sinistra. Su tale argomento, vedi il citato articolo "La Sinistra Comunista e la continuità del marxismo”
[12] Vedere il nostro articolo "Come Stalin ha sterminato i militanti nella rivoluzione di ottobre" in Révolution internationale n° 387.
[13] Per esempio, a partire dal 1925 Stalin riceve il sostegno senza riserve da parte della borghesia mondiale nella sua lotta contro l'opposizione di sinistra che, all’interno del partito bolscevico, cercava di mantenere una politica in-ternazionalista contro la tesi della "costruzione del socialismo in un solo paese". Vedere il nostro articolo "Quando i democratici sostenevano Stalin per schiacciare il proletariato" in Révolution internationale n° 385
[14] Come diceva il nostro compagno Marc Chirik: "Passare questi anni di terribile isolamento, vedere il proletariato francese inalberare il vessillo tricolore, quello dei Versagliesi, e cantare la Marsigliese, tutto questo in nome del comunismo, era, per tutte le generazioni che erano rimaste rivoluzionarie, fonte di una orribile tristezza. Ed è al momento della guerra di Spagna che questo sentimento di isolamento raggiunge uno dei suoi punti culminanti dal momento che numerose delle organizzazioni che erano riuscite a mantenere delle posizioni di classe vengono trascinate nell’ondata antifascista". Vedere il nostro articolo "Marc: De la révolution d'octobre 1917 à la deuxième guerre mondiale", Révue internationale n°65.
[15] Va tuttavia segnalato che una forte minoranza in seno alla CNT si era dichiarata favorevole all’adesione all'Internazionale comunista al momento della sua fondazione.
[16] Vedi “La lezione degli avvenimenti di Spagna” in Bilan n°36 (novembre 1936), ripubblicato nel nostro opuscolo “Fascisme & démocratie, deux expressions de la dictature du capital”.
[17] Vedere in proposito "Lo schiacciamento del proletariato tedesco e l'avvento del fascismo" nel numero 16 della Rivista Bilan (mars 1935), ripubblicato nella Révue internationale n° 71.
[18] Per ulteriori informazioni vedere l’articolo "1936 : Fronti popolari in Francia e in Spagna : come la borghesia ha mobilitato la classe operaia per la guerra", Rivista internazionale n° 28.
[19] Vedere "Le commemorazioni del 1944 : 50 anni di menzogne imperialiste (1a parte)" in Révue internationale n° 78.
[20] Ripubblicato nella Rèvue Internationale n. 59.
[21] Vedere in proposito "I massacri e i crimini delle grandi democrazie`'". Révue internationale n° 66.
[22] Questa è la cifra fornita dagli americani dopo la guerra.
[23] I bombardamenti più sanguinosi per le popolazioni che ebbero luogo precedentemente in Germania sono quelli di Amburgo (50.000 morti e 40.000 feriti nel luglio 1943, essenzialmente in zone residenziali e operaie), Kassel (10.000 morti nell’ ottobre 1943), Darmstadt, Königsberg, Heilbronn (più di 24.000 morti all’inizio del 1944), Braunschweig (23.000 persone carbonizzate o asfissiate), Berlino (25.000 morti).
[24] Leggere l'articolo "Quando le democrazie sostenevano Stalin per schiacciare il proletariato" del nostro opuscolo sul crollo dello stalinismo.
[25] Per questo autore, "Più di 9 milioni di tedeschi sono morti a causa della carestia provocata dagli Alleati dopo la Seconda Guerra mondiale - un quarto del paese è stato annesso e circa 15 milioni di persone sono state espulse nel più grande atto di pulizia etnica che il mondo abbia mai conosciuto. Più di 2 milioni di questi, tra cui un numero incalcolabile di bambini, sono morti negli spostamenti o nei campi di concentramento in Polonia e altrove. I governi occidentali continuano a negare che queste morti siano avvenute."
[26] Vedere il nostro articolo "Berlino 1948 : il ponte aereo di Berlino nasconde i crimini dell’imperialismo alleato" sulla Révue internationale n° 95.
[27] Boche è il termine dispregiativo per indicare un soldato tedesco o una persona di origine tedesca, il cui uso da parte de PCF in particolare aveva lo scopo di attizzare l’odio sciovinista verso i tedeschi.
[28] Termine che indica le persone che, durante la seconda guerra mondiale, hanno "tradito" collaborando con il nemico tedesco.
[29] Leggere in proposito il nostro articolo "All’alba del 21° secolo... perché il proletariato non ha ancora rovesciato il capitalismo (I)" su Révue internationale n° 103.
[30] Per maggiori informazioni leggere il nostro articolo "Lotta di classe nell’Europa dell'est (1920-1970) : la necessità dell’internazionalizzazione delle lotte", Révue internationale n° 27, e, in italiano l’’articolo sull’insurrezione in Ungheria del 1956 su Rivoluzione Internazionale n.148.
[31] Leggere in proposito il nostro articolo "All’alba del 21° secolo...perchè il proletariato non ha ancora rovesciato il capitalismo (II)" su Révue internationale n° 104.
[32] Quelle che si sono staccate dai vecchi partiti operai che erano degenerati dopo la sconfitta del’ondata rivoluzionaria mondiale del 1917-23.
[33] Maggio 68: "Il movimento degli studenti nel mondo negli anni 1960" e "Fine della controrivoluzione, ripresa storica del proletariato mondiale" pubblicati su CCI on line nel 2018.
[34] "Fine della controrivoluzione, ripresa storica del proletariato mondiale" pubblicato su CCI on line nel 2018.
[35] Questo permetterà alla CGT di essere presente al momento dei negoziati e di giocare il ruolo di principale divisore del movimento facendo riprendere il lavoro, settore dopo settore, attraverso negoziati isolati per ciascuno di essi.
[36] "Fine della controrivoluzione, ripresa storica del proletariato mondiale" pubblicato su CCI on line nel 2018.
[37] La nostra insistenza sulla messa in discussione dell’inquadramento del PC e dei sindacati non deve comunque lasciar pensare che questi sono rimasti inattivi. In un buon numero di fabbriche occupate, i sindacati fanno di tutto per isolare gli operai da ogni contatto con l’esterno che poteva esercitare su di essi un’influenza "nefasta" (da parte di quelli che essi chiamavano i "gauchistes"). In più tengono occupati gli operai facendoli giocare tutto il giorno a ping-pong.
[38] Questa questione merita un articolo apposito. Lo faremo successivamente in un articolo dedicato all’evoluzione dell’ambiente politico proletario dopo il 1968.
[39] Articolo presente in questo stesso numero della Rivista Internazionale.
[40] Vedi “La decomposizione, fase ultima della decadenza del capitalismo” su Rivista Internazionale n. 14
[41] CPE (contratto di primo impiego) : una misura finalizzata ad accrescere la precarietà del lavoro per i giovani. Per un’analisi di questo movimento vedere l’articolo "Tesi sul movimento degli studenti della primavera 2006 in Francia", Rivista Internazionale n° 29.
[42] Vedere "Gli indignati in Spagna, Grecia ed Israele: dall’indignazione alla preparazione della lotta di classe", su Rivoluzione Internazionale n. 173.
Cento anni fa eravamo nel pieno dell’ondata rivoluzionaria mondiale, più precisamente della rivoluzione in Germania, un anno dopo la presa del potere politico da parte del proletariato in Russia, nell’ottobre 1917.
Come in Russia, la classe operaia in Germania aveva fatto nascere dei consigli operai, organi di unificazione di tutti gli operai e della futura presa del potere politico. Quando scoppia nel paese più industrializzato del mondo capitalista, con la classe operaia più numerosa, la rivoluzione in Germania apre la possibilità di rompere l’isolamento del potere proletario in Russia e di estendere la rivoluzione in Europa. La borghesia del resto non si è sbagliata visto che mette fine alla guerra imperialista firmando l’armistizio dell’11 novembre 1918, dato che la sua prosecuzione costituiva un fattore di radicalizzazione delle masse, di demistificazione di tutte le frazioni della borghesia, le più “a sinistra” in particolare, come già era accaduto in Russia nei mesi che seguirono la rivoluzione di febbraio 1917.
Inoltre, quando la maggior parte delle frazioni di destra dell’apparato statale erano in piena disgregazione a causa del disastro militare, la borghesia tedesca ha saputo puntare sulla socialdemocrazia traditrice per indebolire e schiacciare la rivoluzione e la classe operaia in Germania.
È un insegnamento fondamentale per la rivoluzione del futuro, che troverà sul suo cammino tutte le frazioni della sinistra e dell’estrema sinistra del capitale che faranno di tutto per sconfiggere il proletariato.
Rivoluzione in Germania – 100 anni fa il proletariato faceva tremare la borghesia
Un simile titolo può sembrare oggi molto strano visto come questo immenso avvenimento storico è caduto nell’oblio. La borghesia è riuscita a cancellarlo dalla memoria operaia. Ma nel 1918 tutti gli occhi sono ben puntati verso la Germania, sguardi pieni di speranza per il proletariato, di paura per la borghesia.
La classe operaia ha appena preso il potere in Russia; è l’Ottobre 1917, i soviet, i bolscevichi, l’insurrezione… Ora, come scrisse Lenin: “La Rivoluzione russa non è che un distaccamento dell’esercito socialista mondiale, e il successo e il trionfo della rivoluzione che noi abbiamo compiuto dipende dalla azione di questa armata. È un fatto che nessuno di noi dimentica (…). Il proletariato russo ha coscienza del suo isolamento rivoluzionario, e vede chiaramente che la sua vittoria ha come condizione indispensabile e premessa fondamentale l’azione unita degli operai del mondo intero”. (“Rapporto alla Conferenza dei comitati/ consigli di fabbrica della provincia di Mosca”, 23 luglio 1918).
La Germania è la porta tra l’Est e l’Ovest. Una rivoluzione vittoriosa qui apre la porta della lotta di classe nel resto del vecchio continente, la deflagrazione rivoluzionaria in Europa.
Nessuna borghesia vuole vedere questa porta “cadere”. È per questo che la classe dominante concentrerà su di essa tutto il suo odio e le sue trappole più sofisticate: la rivoluzione del proletariato in Germania era la maggiore posta in gioco per la riuscita o il fallimento della rivoluzione mondiale iniziata in Russia.
La forza della classe operaia
1914. Scoppia la guerra mondiale. Seguono quattro anni, durante i quali il proletariato subisce la peggiore carneficina della storia dell’umanità: le trincee, i gas, la fame, i milioni di morti… Quattro anni durante i quali i sindacati e la socialdemocrazia sfruttano il loro glorioso passato proletario – tradito nel 1914 col sostegno allo sforzo bellico della borghesia - e la fiducia che gli accordano gli operai in nome dello stesso passato, per imporgli i peggiori sacrifici e giustificare lo sforzo bellico.
Ma durante questi quattro anni la classe operaia sviluppa anche gradualmente la sua lotta. In tutte le città gli scioperi e i disordini nell’esercito si moltiplicano. Ovviamente la borghesia, dall’altro lato, non resta inerte, e reagisce in modo davvero violento. I leader delle fabbriche, denunciati dai sindacati, vengono arrestati. Soldati sono giustiziati per indisciplina o diserzione.
1916. Il 1°maggio Karl Liebknecht scandisce: “Abbasso la guerra! Abbasso il governo!”. Rosa Luxemburg viene incarcerata, così come altri rivoluzionari: Meyer, Eberlein, Mehring (all’età di 70 anni!)[1]. Karl Liebknecht[2] viene inviato al fronte. Ma questa repressione non bastò a far tacere il malcontento…al contrario! L’agitazione cresce sempre più nelle fabbriche.
1917. I sindacati sono sempre più criticati. Compaiono gli Obleute, delegati di fabbrica, formati essenzialmente da delegati sindacali di “base” che hanno rotto con le direzioni centrali. Soprattutto gli operai tedeschi s’ispirano al coraggio dei loro fratelli di classe dell’Est, il vento della rivoluzione di Ottobre si fa sentire sempre più.
1918. La borghesia tedesca è cosciente del pericolo, sa che la situazione di stallo della guerra deve assolutamente cessare. Ma la parte più arretrata della classe dominante, proveniente dall’aristocrazia, e in particolare dall’aristocrazia militare, non comprende le sue manovre e i suoi obiettivi politici, rifiutando qualsiasi accordo di pace e qualsiasi sconfitta. In particolare, a novembre, gli ufficiali della marina di stanza a Kiel rifiutano la resa senza combattere, preferendo morire “per l’onore”… con i loro soldati ovviamente! I marinai si ammutinano su più navi e su molte sventola la bandiera rossa. Allora è dato l’ordine alle navi “non infettate” di sparare. Gli ammutinati si arrendono rifiutandosi di rivolgere le armi contro i loro fratelle e sorelle di classe. Rischiano così la pena di morte. Per solidarietà con i condannati, un’ondata di scioperi si propaga, e coinvolge i marinai e poi gli operai di Kiel. Ispirandosi alla rivoluzione di Ottobre, la classe operaia prende in mano le proprie lotte e crea i primi consigli di marinai e operai. La borghesia si rivolge allora ad uno dei più fedeli cani da guardia: la socialdemocrazia. Così, Gustav Noske, dirigente del SPD, esperto di questioni militari e della “salvaguardia del morale delle truppe” (sic!), viene inviato sul posto per calmare e soffocare il movimento. Ma arriva troppo tardi, i consigli dei soldati diffondono le loro rivendicazioni: un movimento spontaneo conquista altre città portuali, poi i grandi centri operai della Ruhr e della Baviera. È in moto l’estensione geografica delle lotte. Noske non può più agire apertamente. Il 7 novembre il consiglio operaio di Kiel incita alla rivoluzione proclamando: “Il potere è nelle nostre mani”. L’8 novembre praticamente tutto il nord-ovest è in mano ai consigli operai. Contemporaneamente, in Baviera è in Sassonia, gli avvenimenti provocano le dimissioni dei grandi capi locali. In tutte le città dell’impero, da Metz a Berlino, si diffondono i consigli operai.
È proprio la generalizzazione di questa forma di organizzazione politica, vero motore della lotta di classe, che fa tremare la borghesia. L’organizzazione della classe in consigli operai con dei rappresentanti eletti, che devono rispondere all’assemblea e sono revocabili in ogni momento, è una forma di organizzazione estremamente dinamica. Non è altro che l’espressione di un vero processo rivoluzionario. È il luogo in cui tutta la classe operaia, in modo unitario, discute della sua lotta, della presa in mano della gestione della società, della prospettiva rivoluzionaria. D’altronde, con l’esperienza del 1917, la borghesia lo ha capito fin troppo bene. Perciò si impegnerà per corrompere dall’interno i consigli operai, approfittando delle illusioni ancora grandi della classe operaia nei confronti del suo vecchio partito, il SPD. Noske è eletto a capo del consiglio operaio di Kiel. Questa debolezza della (nostra) classe avrà conseguenze tragiche nelle settimane seguenti.
Ma per il momento, il mattino del 9 novembre 1918, la lotta continua a svilupparsi. A Berlino gli operai si mobilitano e vanno davanti alle caserme per spingere i soldati ad aderire alla loro causa e davanti alle prigioni per liberare i loro fratelli di classe. La borghesia è allora consapevole che la pace deve essere immediata e che il regime del Kaiser deve cadere. Ha imparato dagli errori della borghesia russa. Il 9 novembre 1918 Guglielmo II è destituito. L’11 novembre viene firmato l’armistizio.
La lotta degli operai in Germania ha accelerato la fine della guerra, ma è ancora la borghesia che firma il trattato di pace e che se ne servirà per lavorare contro la rivoluzione.
Il machiavellismo della borghesia
Ecco un breve riassunto sullo stato dei rapporti di forza all’inizio della guerra civile nel novembre 1918:
Il SPD dunque fa propria la parola d’ordine della rivoluzione: “fine della guerra” pur incitando all’“unità del partito” e farà dimenticare il suo ruolo preponderante nel cammino verso la guerra. Firmando il trattato di pace, il SPD sfrutta le debolezze del proletariato, utilizza il veleno democratico e mette da parte ciò che riteneva più insostenibile per gli operai: la guerra e i suoi disastri, la fame. Per rendere ancora più efficace l’obiettivo, la socialdemocrazia trova un capro espiatorio di comodo: l’aristocrazia militare e la monarchia.
Ma il più grande pericolo per la socialdemocrazia restano i consigli e la parola d’ordine “Tutto il potere ai soviet” arrivata dalla Russia. La revocabilità dei delegati poneva un reale problema alla borghesia, perché consentiva ai consigli di rinnovarsi e radicalizzarsi continuamente. I consigli sono dunque assediati dai fedeli rappresentanti del SPD, sulla scia delle illusioni ancora esistenti su questo vecchio partito “operaio”. I consigli sono incancreniti dall’interno, svuotati della loro sostanza, da dirigenti del SPD noti (Noske a Kiel, Ebert a Berlino) e meno noti. Il veleno democratico vi è sparso, in particolare con il sostegno al progetto di elezione di una assemblea costituente. L’obiettivo è chiaro: neutralizzare i consigli operai eliminando la loro natura rivoluzionaria. Il congresso nazionale dei consigli tenuto a Berlino il 16 dicembre 1918 ne è il migliore esempio:
Il sistema dei consigli è un’aggressione al capitalismo e al suo funzionamento democratico. La borghesia ne è pienamente cosciente. Perciò agisce così, dall’interno. Ma sa anche che il tempo non gioca a suo favore e che l’immagine del SPD si indebolisce. La revocabilità dei delegati eletti è un pericolo troppo importante per il SPD che tenta di tenere sotto controllo la situazione. Esso ha dovuto accelerare gli eventi, mentre il proletariato aveva bisogno di maggiore tempo per maturare, per svilupparsi politicamente.
Parallelamente a queste manovre ideologiche, all’indomani del 9 novembre, Ebert e il SPD concludono accordi segreti con l’esercito per schiacciare la rivoluzione. Moltiplicano provocazioni, menzogne e calunnie per arrivare allo scontro militare. Menzogne e calunnie soprattutto nei confronti della Spartakudbund che “ammazza, saccheggia e esorta gli operai a versare ancora il loro sangue…”. Essi incitano all’assassinio di Liebknecht e Luxemburg. Creano una “armata bianca”: i Freikorps, o corpi franchi, formati da soldati distrutti e traumatizzati dalla guerra che non conoscevano altro che l’odio cieco come unico sfogo.
A partire dal 6 dicembre 1918, vengono lanciate vaste offensive controrivoluzionarie:
Ma invece di spaventare il proletariato in marcia, ciò non fa che aumentare la rabbia degli operai e armare le manifestazioni per rispondere alla provocazione. La reazione è: solidarietà di classe, con la conseguente manifestazione del 25 dicembre 1918, la più imponente dal 9 novembre! Cinque giorni dopo a Berlino viene fondato il KPD, Partito comunista tedesco.
Di fronte a questi scacchi, la borghesia impara e si adatta velocemente. Già alla fine del dicembre 1918 capisce che contrastare direttamente le grandi figure rivoluzionarie la discredita e rafforza la solidarietà di classe. Decide allora di intensificare le dicerie e le calunnie, evita gli scontri armati diretti e manovra intorno a personaggi meno noti. Colpisce allora il prefetto di polizia di Berlino Emil Eichhorn che era stato eletto a capo di un comitato di soldati a Berlino. Il governo borghese lo rimuove dalla sua carica il 4 gennaio.
Gli operai della città vivono ciò come un’aggressione. Il proletariato berlinese reagisce in modo compatto il 5 gennaio 1919: 150.000 persone scendono in strada, cosa che sorprende persino la borghesia. Ma ciò non impedirà alla classe operaia di cadere nella trappola dell’insurrezione prematura. Sebbene la protesta non abbia seguito altrove in Germania, dove Eichhorn non è conosciuto, e di fronte all’euforia del momento, il comitato rivoluzionario provvisorio [3], inclusi Pieck e Liebknecht, decide la stessa sera di lanciare l’insurrezione armata, contro le decisioni del congresso del KPD. Le conseguenze di questa improvvisazione sono drammatiche: scesi compatti nelle strade, gli operai restano là, senza istruzioni, senza obiettivi precisi e nella più grande confusione. Cosa peggiore, i soldati si rifiutano di partecipare all’insurrezione, il che significa il suo fallimento. Di fronte a questo errore di analisi e alla situazione molto pericolosa che ne deriva, Rosa Luxemburg e Leo Jogiches difendono la sola posizione valida per evitare un bagno di sangue: continuare la mobilitazione armando il proletariato e invitandolo a circondare le caserme fino a che i soldati non si mobilitino in favore della rivoluzione. Questa posizione è sostenuta dalla giusta analisi che se il rapporto di forza politico non è a favore del proletariato in Germania, all’inizio di gennaio 1919, il rapporto di forza militare è invece a favore della rivoluzione (almeno a Berlino).
Ma piuttosto che cercare di armare gli operai, il “comitato provvisorio” inizia a negoziare con il governo che ha appena dichiarato deposto. Pertanto, il tempo non gioca più a favore del proletariato, ma in favore della controrivoluzione.
Il 10 gennaio 1919, il KPD chiede a Liebknecht e Pieck di dimettersi. Ma il male è fatto. Segue la “settimana di sangue” o “settimana Spartakus”. Il “putsch comunista” è sventato “dagli eroi della libertà e della democrazia”. Si instaura il terrore bianco. I corpi-franchi danno la caccia ai rivoluzionari in tutta la città e le esecuzioni sommarie diventano sistematiche. La sera del 15 gennaio, Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht sono rapiti dalla milizia, poi subito assassinati. Nel marzo del 1919 sarà la volta di Leo Jogiches e di centinaia di militanti della sinistra rivoluzionaria.
Le illusioni democratiche della classe operaia e le debolezze del KPD
A cosa è dovuto questo drammatico fallimento? Gli avvenimenti del gennaio 1919 contengono da soli tutti gli elementi che hanno condotto alla sconfitta della rivoluzione: da una parte una borghesia astuta, e dall’altra parte una classe operaia ancora ingannata dalla socialdemocrazia e un partito comunista scarsamente organizzato, malgrado gli sforzi per dargli delle basi programmatiche solide. Effettivamente il KPD è alquanto disorientato, troppo giovane (ci sono molti giovani compagni, i più vecchi sono scomparsi con la guerra o la repressione), senza esperienza, privo di unità, che non riesce a dare indicazioni chiare alla classe operaia.
Al contrario dei bolscevichi che avevano una continuità storica dal 1903 e l’esperienza della rivoluzione del 1905 e dei consigli operai, la sinistra rivoluzionaria tedesca molto minoritaria nel SPD deve fare fronte al tradimento di questo partito nell’agosto del 1914, e quindi costruire in gran fretta un partito, nel pieno degli avvenimenti. Il KPD viene fondato il 30 dicembre 1918 a partire dalla Lega Spartachista (Spartakudbund) e dai Comunisti internazionalisti tedeschi (IKD). In questa conferenza la maggioranza dei delegati si pronuncia molto chiaramente contro la partecipazione alle elezioni borghesi e rifiuta i sindacati. Ma la questione organizzativa è sostanzialmente sottovalutata. La questione del partito non viene compresa in tutta la sua importanza relativamente alla posta in gioco in quel momento.
Questa sottovalutazione porterà alla decisione dell’insurrezione armata da parte di Liebknecht e altri compagni senza aspettare una nuova analisi del partito, senza un metodo di analisi chiara dell’evoluzione dei rapporti di forza. Manca la centralizzazione delle decisioni. In fin dei conti, è proprio la mancanza di un partito mondiale (l’Internazionale Comunista (IC) sarà fondata solo due mesi più tardi, nel marzo del 1919), che si riflette nell’impreparazione del KPD, che porterà a questo dramma. Nel giro di poche ore il rapporto di forza è invertito: è arrivato il tempo per la borghesia di seminare il suo terrore bianco.
Tuttavia gli scioperi non si fermano. Da gennaio a marzo 1919 lo sciopero di massa si sviluppa in modo impressionante. Ma intanto la borghesia continua il suo sporco lavoro: esecuzioni, dicerie, calunnie…il terrore schiaccia il proletariato poco a poco. Mentre a febbraio nascono scioperi imponenti in tutta la Germania, il proletariato berlinese, il nucleo della rivoluzione, non è più capace di proseguire, messo fuori gioco dalla sconfitta di gennaio. Quando, infine, si muove è troppo tardi. Le lotte a Berlino e nel resto della Germania non riusciranno a unirsi. Nello stesso tempo, il KPD “decapitato” è costretto all’illegalità. Così, nell’ondata di scioperi da febbraio ad aprile 1919, non può svolgere il ruolo determinante che gli spetta. La sua voce è praticamente soffocata dal capitale. Se il KPD avesse avuto la possibilità di smascherare la provocazione della borghesia, durante la settimana di gennaio, e di impedire che tutti gli operai cadessero in questa trappola, il movimento avrebbe sicuramente avuto tutt’altro esito. Ovunque si fa la caccia ai “comunisti”. Le comunicazioni tra ciò che resta degli organi centrali e i delegati locali o regionali del KPD sono più volte interrotte. Durante la conferenza nazionale del 29 marzo 1919, si ammette che “le organizzazioni locali sono inondate da agenti provocatori”.
In conclusione
La rivoluzione in Germania è prima di tutto il movimento di sciopero di massa del proletariato, che si è esteso geograficamente, che ha opposto la solidarietà operaia alla barbarie capitalista, che si è riappropriato degli insegnamenti dell’ Ottobre 1917 e che si è organizzato in consigli operai. La rivoluzione in Germania mette anche in luce la necessità di un Partito comunista internazionale centralizzato, con basi organizzative e programmatiche chiare, senza le quali il proletariato non potrà sventare il machiavellismo della borghesia. Ma la rivoluzione in Germania è anche la capacità delle borghesie di unirsi contro il proletariato con il loro arsenale di manovre, menzogne e manipolazioni di ogni tipo. È il tanfo di un mondo in agonia che rifiuta di estinguersi. È la trappola mortale delle illusioni sulla democrazia. È la distruzione accanita dall’interno dei consigli operai. Sebbene gli eventi del 1919 siano stati decisivi, le braci ancora ardenti della rivoluzione in Germania non si spensero per diversi anni. Ma in termini storici, le conseguenze di questa sconfitta furono drammatiche per l’umanità: l’ascesa del nazismo in Germania, dello stalinismo in Russia, il cammino verso la Seconda Guerra mondiale all’insegna dell’antifascismo. Questi avvenimenti da incubo possono essere tutti imputati al fallimento dell’ondata rivoluzionaria, tra il 1917 e il 1923, che aveva minato l’ordine borghese senza poterlo sovvertire una volta per tutte. Ecco cosa rappresenta per noi la rivoluzione in Germania nel 1918, una fonte di ispirazione e di insegnamento per le lotte future del proletariato. Perché come ha scritto Rosa Luxemburg, alla vigilia del suo assassinio da parte della soldatesca della socialdemocrazia:” Cosa ci insegna tutta la storia delle rivoluzioni moderne e del socialismo? Il primo scoppio della lotta di classe in Europa: l’insurrezione dei setaioli lionesi del 1831 è finita con una grave sconfitta. Sconfitta anche per il movimento cartista in Inghilterra. Sconfitta schiacciante per il sollevamento del proletariato parigino durante le giornate di giugno 1848. La Comune di Parigi ha conosciuto una terribile sconfitta. La strada del socialismo (per quel che riguarda le battaglie rivoluzionarie) è lastricata di sconfitte. (…) Dove saremmo oggi senza quelle “sconfitte”, dalle quali abbiamo tratto la nostra esperienza, le nostre conoscenze, la forza e l’idealismo che ci animano? Oggi, (…) noi poggiamo i piedi proprio su quelle sconfitte, a nessuna delle quali possiamo rinunciare, perché da ciascuna traiamo una parte della nostra forza, una parte della nostra lucidità.(…) Le rivoluzioni (…) non ci hanno portato finora che sconfitte, ma esse, nella loro inevitabilità, sono altrettante garanzie della vittoria finale. A una condizione, però! Perché bisogna capire in che modo ogni volta si è arrivati alla sconfitta. (…)
“L’ordine regna a Berlino!”, stupidi sbirri! Il vostro “ordine” è costruito sulla sabbia. Già da domani la rivoluzione “di nuovo si rizzerà in alto con fracasso” e annuncerà al suono delle trombe con il vostro terrore: “Io ero, io sono, io sarò!”. (“L’ordine regna a Barlino”, gennaio 1919)
Corrente Comunista Internazionale, 29 ottobre 2018
[1] Tutti e tre facevano parte della minoranza del SPD che si era opposta ai crediti di guerra ed avevano aderito alla Lega spartachista
[2] Con Rosa Luxemburg, uno dei due dirigenti più noti e perseguitati della Lega spartachista
[3] Il 5 gennaio, i rivoluzionari Obleutes, i membri del USPD (partito nato nel 1917 dalla scissione interna al SPD) di Berlino, Liebknecht e Pieck del Partito comunista si riunirono in prefettura per discutere su come continuare l’azione (…) i rappresentanti degli operai rivoluzionari istituirono un comitato rivoluzionario provvisorio di 52 membri incaricato di dirigere il movimento rivoluzionario e di assumere in caso di necessità tutte le funzioni di governo e amministrative. La decisione di iniziare la lotta per cercare di rovesciare il governo fu presa durante questa riunione, malgrado sei pareri contrari. (da Rivoluzione e controrivoluzione in Germania- Paul Frölich)
Un secolo fa, un vento di speranza soffiava sull'umanità. Dapprima in Russia la classe operaia era riuscita a prendere il potere. Poi in Germania, in Ungheria e in Italia, ha coraggiosamente lottato per continuare il lavoro degli operai russi con una sola parola d'ordine: l'abolizione del modo di produzione capitalista le cui contraddizioni hanno fatto precipitare la civiltà in quattro anni di guerra. Quattro anni di barbarie senza precedenti fino ad allora che testimoniano l'ingresso del capitalismo nella sua fase di decadenza.
In queste condizioni, riconoscendo il fallimento della Seconda Internazionale, facendo affidamento su tutto il lavoro di ricostruzione dell'unità internazionale iniziato a Zimmerwald nel settembre 1915 e a Kiental nell'aprile 1916, la Terza Internazionale fu fondata il 4 marzo 1919 a Mosca.
Già, nelle Tesi di aprile del 1917, Lenin chiamava alla fondazione di un nuovo partito mondiale ma l'immaturità del movimento rivoluzionario aveva necessità di rinviarla. Per Lenin, il passo decisivo fu compiuto durante i terribili giorni di gennaio 1919 in Germania durante i quali fu fondato il Partito Comunista Tedesco (KPD). In una "Lettera ai lavoratori dell'Europa e dell'America" del 26 gennaio, Lenin scrisse: "Nel momento in cui alla Lega di Spartaco è stato dato il nome di Partito Comunista Tedesco, la fondazione della Terza Internazionale è diventata una realtà. Formalmente questa fondazione non è stata ancora sancita, ma in realtà fin da ora la Terza Internazionale esiste". A parte l'eccessivo entusiasmo di un tale giudizio, come vedremo in seguito, i rivoluzionari dell'epoca compresero che oramai era indispensabile forgiare il partito per la vittoria della rivoluzione su scala mondiale. Dopo diverse settimane di preparativi, 51 delegati si incontrarono, dal 2 al 6 marzo 1919, per stabilire le tappe organizzative e programmatiche che avrebbero consentito al proletariato mondiale di proseguire la lotta contro l'insieme delle forze borghesi.
La CCI si richiama ai contributi dell'Internazionale Comunista (IC). Pertanto, questo centenario è un'opportunità per salutare e sottolineare l'inestimabile contributo dell'IC nella storia del movimento rivoluzionario, ma anche per trarre le lezioni da questa esperienza, sottolineando le sue debolezze al fine di armare il proletariato di oggi per le lotte future.
Difendere la lotta della classe operaia nel fuoco rivoluzionario
Come affermava Trotzky nella sua "Lettera di invito al Congresso": "I partiti e le organizzazioni sottoscritti ritengono che la convocazione del primo congresso della nuova Internazionale rivoluzionaria è urgentemente necessaria. (...) L'ascesa molto veloce della rivoluzione mondiale che pone costantemente nuovi problemi, il rischio di soffocamento di questa rivoluzione da parte dell'alleanza degli Stati capitalisti contro la rivoluzione sotto l'ipocrita bandiera della "Società delle Nazioni", i tentativi dei partiti socialtraditori di riunirsi e aiutare ancora i loro governi e la loro borghesia per tradire la classe operaia dopo aver ottenuto una "amnistia" reciproca, infine la ricchissima esperienza rivoluzionaria già acquisita e il carattere mondiale di tutto il movimento rivoluzionario - tutte queste circostanze ci obbligano a mettere all'ordine del giorno della discussione la questione della convocazione di un congresso internazionale dei partiti rivoluzionari".
Come questo primo appello lanciato dai bolscevichi, la fondazione dell'IC esprimeva la volontà di raggruppamento delle forze rivoluzionarie del mondo intero. Ma anche la difesa dell'internazionalismo proletario che era stato calpestato dalla grande maggioranza dei partiti socialdemocratici costituenti la Seconda Internazionale. Dopo quattro anni di guerra atroce che avevano diviso e decimato milioni di proletari sui campi di battaglia, l'emergere di un nuovo partito mondiale testimoniava la volontà di approfondire il lavoro iniziato dalle organizzazioni rimaste fedeli all'internazionalismo. In questo, l'IC è l’espressione della forza politica del proletariato che si stava manifestando dappertutto dopo il profondo riflusso causato dalla guerra, nonché della responsabilità dei rivoluzionari di continuare a difendere gli interessi della classe operaia e della rivoluzione mondiale. È stato detto molte volte durante il congresso di fondazione che l'IC era il partito dell'azione rivoluzionaria. Come affermato nel suo Manifesto, l'IC nasceva quando il capitalismo stava chiaramente dimostrando la sua obsolescenza. L'umanità ora stava entrando nell'"era delle guerre e delle rivoluzioni".
In altre parole, l'abbattimento del capitalismo diveniva estremamente necessario per il futuro della civiltà. È con questa nuova comprensione dell'evoluzione storica del capitalismo che l'IC difende instancabilmente i consigli operai e la dittatura del proletariato: "il nuovo apparato di potere deve rappresentare la dittatura della classe operaia (...) cioè, deve essere lo strumento del rovesciamento sistematico della classe sfruttatrice e della sua espropriazione. Il potere dei consigli operai o delle organizzazioni operaie è la sua forma concreta". (Lettera d'invito al congresso). Questi orientamenti furono difesi durante tutto il congresso. Inoltre, le "Tesi sulla democrazia borghese", scritte da Lenin e adottate dal congresso, si proponevano di denunciare le mistificazioni della democrazia ma soprattutto di mettere in guardia il proletariato sul pericolo che quest'ultime avrebbero esercitato nella sua lotta contro la società borghese. Fin dall'inizio, l'IC si è posta risolutamente nel campo proletario difendendo i principi e i metodi di lotta della classe operaia e ha denunciato in modo energico l'appello della corrente centrista a un'unità impossibile tra i socialtraditori e i comunisti, "l'unità degli operai comunisti con gli assassini dei leader comunisti Liebknecht e Luxemburg", secondo gli stessi termini della "Risoluzione del primo congresso dell'IC sulla posizione verso le correnti socialiste e la conferenza di Berna".
Prova della difesa intransigente dei principi proletari, questa risoluzione, votata all'unanimità dal Congresso, fu una reazione alla recente partecipazione della maggior parte dei partiti socialdemocratici della Seconda Internazionale ad una riunione[1] in cui furono adottati parecchi orientamenti apertamente diretti contro l'ondata rivoluzionaria. La risoluzione si concluse in questi termini: "Il Congresso invita i lavoratori di tutti i paesi ad iniziare la lotta più energica contro l'Internazionale gialla e a preservare le più larghe masse proletarie da questa Internazionale di menzogna e tradimento".
La fondazione dell'IC si rivelò un passo fondamentale per la continuazione della lotta storica del proletariato.
Essa seppe prendere in considerazione i migliori contributi della Seconda Internazionale pur rompendo con quest'ultima su posizioni o analisi che non corrispondevano più al periodo storico appena aperto[2].
Mentre il vecchio partito mondiale aveva tradito l'internazionalismo proletario in nome della Sacra Unione alla vigilia della Prima guerra mondiale, la fondazione del nuovo partito consentiva di rafforzare l'unità della classe operaia e di armarla nella feroce lotta che stava conducendo in molti paesi del pianeta per l'abolizione del modo di produzione capitalista. Pertanto, nonostante le circostanze sfavorevoli e gli errori commessi, come vedremo, salutiamo e sosteniamo una tale impresa. I rivoluzionari dell'epoca si sono presi la loro responsabilità, dovevano farlo e l'hanno fatto!
Una fondazione in circostanze sfavorevoli
I rivoluzionari di fronte alla massiccia spinta del proletariato nel mondo
L'anno 1919 è il punto culminante dell'ondata rivoluzionaria. Dopo la vittoria della rivoluzione in Russia nell'ottobre 1917, l'abdicazione di Guglielmo II e la firma affrettata dell'armistizio di fronte agli ammutinamenti e alla rivolta delle masse operaie in Germania, si videro sorgere insurrezioni operaie, principalmente con l'instaurazione della Repubblica dei Consigli in Baviera e Ungheria. Ci furono anche degli ammutinamenti nella flotta e tra le truppe francesi, così come nelle unità militari britanniche che si rifiutarono di intervenire contro la Russia sovietica, ed anche un'ondata di scioperi, in particolare nei centri di protesta rivoluzionaria (Clyde, Sheffield, nel sud del Galles) nel Regno Unito (1919).
Ma a marzo del 1919, nel momento in cui veniva fondata a Mosca l’IC, la maggior parte di queste insurrezioni venivano soppresse o stavano per esserlo.
Non c'è dubbio che i rivoluzionari dell'epoca si trovarono in una situazione di emergenza e che furono costretti ad agire nel fuoco della lotta rivoluzionaria.
Come lo segnalò la Frazione francese della Sinistra Comunista (FFGC) nel 1946: "I rivoluzionari tentano di colmare il divario esistente tra la maturità della situazione oggettiva e l'immaturità del fattore soggettivo (l'assenza del Partito) attraverso un ampio raggruppamento di gruppi e correnti, politicamente eterogenei, e proclamano questo raggruppamento come il nuovo Partito"[3].
Non si tratta qui di discutere la validità o meno della fondazione del nuovo partito che è l'Internazionale. Era una necessità imperativa. Ma, vogliamo segnalare una serie di errori nell'approccio con cui è stata fondata.
Una sopravvalutazione della situazione in cui è stato fondato il partito
Anche se la maggior parte delle relazioni presentate dai vari delegati sulla situazione della lotta di classe in ciascuno dei paesi teneva conto della risposta della borghesia all'avanzata della rivoluzione (una risoluzione sul Terrore Bianco venne d'altronde votata alla fine del Congresso), è sorprendente constatare quanto questo aspetto sia stato ampiamente sottovalutato durante questi cinque giorni di lavoro.
Già pochi giorni dopo la notizia della fondazione del KPD (Partito Comunista Tedesco), che seguì la fondazione dei partiti comunisti d'Austria (novembre 1918) e della Polonia (dicembre 1918), Lenin considerò che i dadi erano stati lanciati: "Quando la lega Spartakus tedesca, guidata da questi illustri leader, conosciuti in tutto il mondo, questi fedeli sostenitori della classe operaia quali sono Liebknecht, Rosa Luxemburg, Clara Zetkin, Franz Mehring, hanno definitivamente rotto qualsiasi legame con i socialisti come Scheidemann, (...) quando la Lega Spartakus è stata chiamata Partito Comunista Tedesco, allora la fondazione della Terza Internazionale, dell'Internazionale Comunista, veramente proletaria, veramente internazionale, veramente rivoluzionaria, è divenuta una realtà. Formalmente, questa fondazione non è stata dichiarata, ma, di fatto, la Terza Internazionale esiste, fin da ora"[4].
La scrittura di questo testo fu terminata il 21 gennaio 1919, data in cui Lenin veniva informato dell'assassinio di K. Liebknecht. Questa certezza incrollabile apparteneva all'intero congresso. Già nel discorso di apertura, Lenin ne aveva annunciato il taglio: "La borghesia può scatenarsi, potrà uccidere ancora milioni di lavoratori, la vittoria è nostra, la vittoria della rivoluzione comunista mondiale è assicurata".
Successivamente, tutti i relatori presenti trasmettevano lo stesso traboccante ottimismo; così il compagno Albert, membro del giovane KPD, il 2 marzo di fronte al congresso si esprimeva in questi termini: "Non credo di essere troppo ottimista nel dire che i partiti Comunisti tedeschi e russi proseguiranno la lotta, sperando fermamente che il proletariato tedesco condurrà la rivoluzione alla vittoria finale e che la dittatura del proletariato possa essere egualmente stabilita in Germania, nonostante tutte le assemblee nazionali, nonostante gli Scheidemann e nonostante il nazionalismo borghese (…). È questo che mi ha spinto ad accettare il vostro invito con gioia, convinto che tra non molto combatteremo fianco a fianco con il proletariato di altri paesi, in particolare d'Inghilterra e Francia per la rivoluzione mondiale per realizzare anche in Germania gli obiettivi della rivoluzione". Pochi giorni dopo, tra il 6 e il 9 marzo, una terribile repressione colpiva Berlino, l'8 marzo vennero uccise 3.000 persone, tra cui 28 marinai fatti prigionieri e poi giustiziati con mitragliatrici nella pura tradizione di Versailles! Il 10 marzo, Leo Jogiches veniva assassinato. Heinrich Dorrenbach[5] subiva la stessa sorte il 19 maggio.
Tuttavia, le ultime parole di Lenin nel discorso conclusivo dimostrarono che il Congresso non si era spostato di una virgola sull'analisi del rapporto di forza. Affermava senza esitazione che "la vittoria della rivoluzione proletaria è assicurata in tutto il mondo. È in corso la fondazione della Repubblica Internazionale dei Consigli".
Ma come osservava Amedeo Bordiga un anno dopo: "Dopo che la parola d'ordine del "regime dei soviet" fu lanciata nel mondo dal proletariato russo e dal proletariato internazionale, abbiamo visto elevarsi per prima l'ondata rivoluzionaria, dopo la fine della guerra, e il proletariato di tutto il mondo mettersi in marcia. Abbiamo visto in tutti i paesi gli ex partiti socialisti dividersi e dare vita a partiti comunisti che hanno ingaggiato la lotta rivoluzionaria contro la borghesia. Sfortunatamente, il periodo che seguì subì un arresto perché le rivoluzioni tedesche, bavaresi e ungheresi furono schiacciate dalla borghesia". In realtà, importanti debolezze della coscienza all'interno del proletariato costituirono un grosso ostacolo allo sviluppo rivoluzionario della situazione:
- una difficoltà di questi movimenti a superare la lotta contro la sola guerra per elevarsi ad un livello superiore, quello della rivoluzione proletaria. Questa ondata rivoluzionaria fu prodotta soprattutto dalla lotta contro la guerra.
- Lo sviluppo dello sciopero di massa per l'unificazione delle rivendicazioni politiche ed economiche restava ancora abbastanza fragile e pertanto improbabile che potesse stimolare un livello superiore di coscienza.
- Il picco rivoluzionario stava per essere raggiunto. Il movimento non ha avuto la stessa dinamica dopo la sconfitta delle lotte in Germania e in Europa centrale. Anche se l'ondata continuava, stava già perdendo forza a partire dal 1919 -1920.
- La Repubblica dei Soviet in Russia rimaneva crudelmente isolata. Essa costituiva l'unico bastione rivoluzionario con tutto ciò che quest'ultimo poteva favorire come regressione della coscienza, sia al suo interno che nel mondo.
Una fondazione in una situazione d'urgenza che apre la porta all'opportunismo.
Il campo rivoluzionario molto indebolito alla fine della guerra
“Il movimento operaio all'indomani della prima guerra imperialista mondiale si trovò in uno stato di estrema divisione. La guerra imperialista aveva rotto l'unità formale delle organizzazioni politiche del proletariato. La crisi del movimento operaio, già esistente da prima, aveva raggiunto, a causa della guerra mondiale e delle posizioni da prendere di fronte a questa guerra, il suo punto culminante. Tutti i partiti ed organizzazioni anarchiche, sindacali e marxiste furono violentemente scossi. Le scissioni si moltiplicarono. Nascevano nuovi gruppi. Si produsse una delimitazione politica. La minoranza rivoluzionaria della II Internazionale rappresentata dai bolscevichi, dalla sinistra tedesca di Luxemburg e dai Tribunisti olandesi, già di per sé non tanto omogenea, non si trovò più davanti ad un blocco opportunista. Tra lei e gli opportunisti un arcobaleno di gruppi e tendenze politiche più o meno confusi, più o meno centristi, più o meno rivoluzionari, che rappresentavano uno spostamento generale delle masse che stavano rompendo con la guerra, con l'unione sacra, con il tradimento dei vecchi partiti della socialdemocrazia. Qui si assistette al processo di liquidazione dei vecchi partiti il cui collasso diede vita a una moltitudine di gruppi. Questi gruppi esprimevano meno il processo di costituzione del nuovo Partito che quello della dislocazione, della liquidazione, della morte del vecchio Partito. Questi gruppi contenevano certamente elementi per la costituzione del nuovo Partito, ma non ne costituivano in alcun modo la base. Queste correnti esprimevano essenzialmente la negazione del passato e non l'affermazione positiva del futuro. La base del nuovo Partito di classe risiedeva solo nella vecchia sinistra, nel lavoro critico e costruttivo, nelle posizioni teoriche, nei principi programmatici che questa Sinistra aveva elaborato durante i 20 anni della SUA ESISTENZA E DELLA SUA LOTTA DI FRAZIONE all'interno del vecchio Partito"[6].
Quindi, il campo rivoluzionario era estremamente frammentato, composto da gruppi privi di chiarezza e che mostravano ancora immaturità. Solo le frazioni di sinistra della Seconda Internazionale (i Bolscevichi, i Tribunisti e gli Spartakisti, solo in maggior parte, perché sono eterogenei o addirittura divisi) furono in grado di impostare un corso e porre solide fondamenta per la fondazione del nuovo partito.
Inoltre, a molti militanti mancava l'esperienza politica. Tra i 43 delegati del congresso fondatore, di cui si conosce l'età, 5 erano ventenni, 24 sulla trentina, solo uno aveva più di 50 anniDei 42 delegati, la cui traiettoria politica può essere rintracciata, 17 si erano uniti ai partiti socialdemocratici prima della rivoluzione russa del 1905, mentre 8 erano diventati socialisti attivi solo dopo il 1914[7].
Nonostante il loro entusiasmo e la loro passione rivoluzionaria, a molti di loro mancava l'esperienza necessaria per questo tipo di circostanze.
Disaccordi tra l'avanguardia del proletariato
Come già segnalato dalla FFGC nel 1946: "È innegabile che una delle cause storiche della vittoria della rivoluzione in Russia e della sua sconfitta in Germania, Ungheria, Italia risieda nell'esistenza del partito rivoluzionario nel momento decisivo in questo primo paese e la sua assenza o incompletezza in altri paesi".
La fondazione della Terza Internazionale è stata per un certo tempo rinviata a causa delle varie insidie che si contrapponevano al campo proletario durante la fase rivoluzionaria. Nel 1918-19, ben consapevole che l'assenza del nuovo partito era una debolezza irrimediabile per la vittoria della rivoluzione mondiale, l'avanguardia del proletariato rimase unanime sull'imperativa necessità di fondare il nuovo partito. Tuttavia, non tutti erano d'accordo sulla data di tale fondazione e soprattutto sull'approccio da adottare.
Mentre la stragrande maggioranza delle organizzazioni e dei gruppi comunisti erano a favore di una fondazione il più presto possibile, il KPD, e in particolare Rosa Luxemburg e Leo Jogiches, optarono per un rinvio, considerando che la situazione fosse prematura, che la coscienza comunista delle masse restasse ancora debole e anche che il campo rivoluzionario mancasse di chiarezza[8]. Il delegato del KPD per la conferenza, il compagno Albert, aveva avuto il mandato di difendere questa posizione e di non votare a favore della fondazione immediata dell'Internazionale Comunista.
"Quando ci viene detto che il proletariato ha bisogno nella sua lotta di un centro politico, possiamo dire che questo centro esiste già e tutti gli elementi che sono alla base del sistema dei consigli hanno già rotto con gli elementi della classe operaia che si appoggiano ancora alla democrazia borghese: costatiamo che la rottura si prepara ovunque e che si sta realizzando. Ma una Terza Internazionale non deve essere solo un centro politico, un'istituzione in cui i teorici si fanno reciprocamente discorsi calorosi, essa deve essere la base di un potere organizzativo. Se vogliamo fare della Terza Internazionale uno strumento efficace di lotta, se vogliamo farne un mezzo di scontro, allora è necessario che esistano anche queste precondizioni. La questione non deve dunque, a nostro avviso, essere discussa e decisa da un punto di vista semplicemente intellettuale, ma è necessario che noi ci chiediamo concretamente se esistano le basi d'organizzazione. Ho sempre la sensazione che i compagni che stanno spingendo in modo energico per la fondazione si lascino fortemente influenzare dall'evoluzione della Seconda Internazionale, e che vogliono, dopo lo svolgimento della conferenza di Berna, imporle una concorrente. Questo ci sembra meno importante, e quando si dice che il chiarimento è necessario, altrimenti gli elementi indecisi raggiungeranno l'Internazionale gialla, dico che la fondazione della Terza Internazionale non manterrà gli elementi che oggi raggiungono la Seconda, e che, se comunque ci vanno, è perché là è il loro posto"[9].
Come abbiamo visto, il delegato tedesco metteva in guardia contro il pericolo di fondare un partito che scendeva a compromessi sui principi e sulla chiarificazione organizzativa e programmatica. Sebbene i bolscevichi prendessero molto seriamente le riserve del KPD, non c'è dubbio che anche loro erano rimasti condizionati da questa corsa contro il tempo. Da Lenin a Zinoviev, passando per Trotzky e Rakovsky, tutti insistevano sull'importanza di far aderire tutti i partiti, organizzazioni, gruppi o individui che si richiamassero da vicino o da lontano al comunismo e ai consigli. Come è segnalato in una biografia di Rosa Luxemburg, "Lenin vedeva nell'Internazionale un mezzo per aiutare i vari partiti comunisti a costituirsi o a rafforzarsi"[10] attraverso la decantazione prodotta dalla lotta contro il centrismo e l'opportunismo. Per il KPD, si trattava innanzitutto di formare dei partiti comunisti "solidi", con le masse dietro di loro, prima di ratificare la creazione del nuovo partito.
Un metodo di fondazione che non arma il nuovo partito
La composizione del congresso era un'illustrazione della precipitazione e delle difficoltà imposte alle organizzazioni rivoluzionarie dell'epoca. Dei 51 delegati che avevano preso parte ai lavori, considerando i ritardi, le partenze prima della fine e le assenze momentanee, circa quaranta erano militanti bolscevichi provenienti dal partito russo, ma anche lettone, lituano, bielorusso, armeno e della Russia orientale. Oltre al partito bolscevico, solo i partiti comunisti tedesco, polacco, austriaco e ungherese avevano un'esistenza propria.
Le altre forze invitate al congresso erano composte da una moltitudine di organizzazioni, gruppi o elementi non apertamente "comunisti", ma tutti prodotti da un processo di decantazione all'interno della socialdemocrazia e del sindacalismo. La lettera di invito al congresso chiamava tutte le forze che, più o meno, sostenevano la Rivoluzione Russa e che erano ben intenzionate a lavorare per la vittoria della rivoluzione mondiale:
- “10. È necessario allearsi con quegli elementi del movimento rivoluzionario che, sebbene non appartenessero precedentemente ai partiti socialisti, oggi si pongono nell'insieme sul terreno della dittatura del proletariato sotto forma del potere dei consigli. Si tratta in primo luogo di elementi sindacali del movimento operaio.
11. È infine necessario conquistare tutti i gruppi o organizzazioni proletarie che, sebbene non si siano mobilitati apertamente con la corrente rivoluzionaria, mostrano tuttavia nella loro evoluzione una tendenza in questa direzione"[11].
Questo approccio produsse parecchie incongruenze che riflettevano la mancanza di rappresentatività di una parte del congresso. Ad esempio, l'americano Boris Reinstein non aveva un mandato dal suo partito, il Socialist Labor Party (Partito socialista laburista). L'olandese S.J. Rutgers rappresentava una lega per la propaganda socialista. Christian Rakovsky[12] avrebbe dovuto rappresentare la Federazione balcanica, la tendenza Tesniaka bulgara e il Partito comunista rumeno. Ma, dal 1915 al 1916 non aveva avuto contatti con queste tre organizzazioni[13]. Pertanto, nonostante le apparenze, questo congresso fondatore rifletteva alla lettera l'insufficienza della coscienza della classe operaia mondiale.
Tutti questi elementi mostravano anche che gran parte dell'avanguardia rivoluzionaria fece prevalere la quantità a scapito di un preliminare chiarimento dei principi organizzativi. Questo approccio voltava le spalle a tutta la concezione che i bolscevichi avevano sviluppato negli ultimi quindici anni. E fu proprio questo che nel 1946 sottolineò la FFGC: "Se il metodo 'stretto' della selezione che pretende precise basi di principio, senza considerare i successi numerici immediati, ha permesso ai bolscevichi l'edificazione del Partito che, nel momento decisivo, ha potuto integrare nei suoi ranghi e assimilare tutte le energie e i militanti rivoluzionari di altre correnti e infine portare il proletariato alla vittoria, il metodo 'largo' invece, preoccupandosi innanzitutto di raggruppare nell’immediato un grande numero di persone a scapito della precisione programmatica e di principio, ha condotto alla costituzione di Partiti di massa, ponendo le basi per la costruzione di veri giganti dai piedi d'argilla, destinati a cadere alla prima sconfitta sotto il dominio dell'opportunismo. La formazione del Partito di classe si rivela infinitamente più difficile nei paesi capitalisti avanzati - dove la borghesia possiede mille mezzi di corruzione della coscienza del proletariato - ciò che non avvenne in Russia".
Accecati dalla certezza di un'imminente vittoria del proletariato, l'avanguardia rivoluzionaria sottovalutò enormemente le difficoltà oggettive che le si presentarono davanti. Questa euforia la portò a transigere sul metodo "stretto" della costruzione dell'organizzazione, difesa soprattutto dai bolscevichi in Russia e in parte dagli spartachisti in Germania. Poiché si doveva dare priorità a un grande raggruppamento rivoluzionario che avrebbe dovuto contrastare anche "l'Internazionale gialla" riformatasi a Berna poche settimane prima, questo metodo "largo" ridusse la chiarificazione dei principi organizzativi a rango secondario. Poco importavano le confusioni che i gruppi integrati nel nuovo partito avrebbero portato, in quanto la lotta si sarebbe dovuta svolgere al suo interno. Per il momento la priorità venne data alla costituzione di un esteso raggruppamento numerico.
Questo metodo "largo" avrebbe avuto come conseguenza una pesante ricaduta poiché avrebbe indebolito l'IC nella futura lotta organizzativa. In effetti, la chiarezza programmatica del primo congresso sarebbe stata calpestata dalla spinta opportunistica in un contesto di indebolimento e degenerazione dell'ondata rivoluzionaria. Fu all'interno dell'IC che emersero frazioni di sinistra che criticarono le insufficienze della rottura con la Seconda Internazionale. Come vedremo in seguito, le posizioni difese ed elaborate da questi gruppi rispondevano ai problemi sollevati nell'IC dal nuovo periodo di decadenza del capitalismo. (A seguire)
Narek, 4 marzo 2019.
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“La nuova epoca è nata! E’ l’epoca della disgregazione del capitalismo, del suo dissolvimento interno, l’epoca della rivoluzione comunista del proletariato. Il sistema imperialistico si sfascia. (…)
Sull’umanità, la cui civiltà è stata oggi abbattuta, incombe la minaccia di una distruzione totale. Una sola forza può salvarla, e quella forza è il proletariato “
(Piattaforma dell’Internazionale Comunista, marzo 1919)
[1] La conferenza di Berna del febbraio 1919 fu "un tentativo di galvanizzare il cadavere della Seconda Internazionale" e alla quale "il Centro" aveva inviato i suoi rappresentanti.
[2] Per uno sviluppo più ampio vedi l'articolo "Marzo 1919: fondazione dell'Internazionale comunista" Rivista internazionale n. 13, febbraio 1990.
[3] Internationalisme, "A proposito del Primo congresso del Partito comunista internazionalista d'Italia", n.7, gennaio-febbraio 1946.
[4] Lenin, Opere, t. XXVIII
[5] Comandante della divisione della marina popolare a Berlino nel 1918. Dopo la sconfitta di gennaio, fuggì a Brunswick e poi ad Eisenach. Fu arrestato e giustiziato nel maggio del 1919.
[6] Internationalisme, "A proposito del Primo Congresso del Partito comunista internazionalista d'Italia", n.7, gennaio-febbraio 1946.
[7] Ibidem.
[8] Questo fu il mandato che essi diedero (nella prima metà di gennaio) al delegato del KPD per il congresso di fondazione. Ciò non significa affatto che Rosa Luxemburg, ad esempio, fosse per principio contraria alla fondazione di un'internazionale. Al contrario.
[9] Intervento del delegato tedesco il 4 marzo 1919, nel Primo Congresso dell'Internazionale Comunista, testi integrali pubblicati sotto la direzione di Pierre Broué, Etudes et documentation internationales [Studi e Documentazioni Internazionali], 1974
[10] Gilbert Badia. Rosa Luxemburg. Giornalista, polemista, rivoluzionaria, Editions sociales, 1975.
[11] "Lettera di invito al congresso", in Op. Cit., Primo congresso dell'Internazionale.
[12] Uno dei delegati più influenti e determinati per una fondazione immediata dell'IC.
[13] Pierre Broué, Storia dell'Internazionale Comunista (1919-1943), Fayard, 1997, pag 79.
Senza gli avvenimenti del maggio 1968, la CCI non esisterebbe. Marc Chirik aveva già contribuito alla formazione di un gruppo in Venezuela, “Internacionalismo”, che dal 1964, e in seguito, aveva difeso tutte le posizioni di base che dovevano essere riprese un decennio dopo dalla CCI. Ma Marc era cosciente sin dall’inizio che solo una ripresa della lotta di classe nei centri del capitalismo mondiale sarebbe stata decisiva per attivare un cambiamento nel corso della storia. È questa comprensione che l’ha spinto a ritornare in Francia e a svolgere un ruolo attivo nel movimento di maggio-giugno, includendo la ricerca di contatti all’interno delle sue avanguardie politiche. Due giovani membri del gruppo venezuelano erano già partiti per la Francia per studiare all’università di Tolosa, e fu con questi compagni e con pochi altri che Marc è diventato un membro fondatore di “Révolution Internationale” nell’ottobre del 1968 - il gruppo che avrebbe svolto un ruolo centrale nella formazione della CCI sette anni dopo.
Da allora, la CCI non ha mai modificato le proprie convinzioni sul significato storico del Maggio 68, e noi siamo più volte ritornati su questo tema. Ogni dieci anni abbiamo pubblicato delle retrospettive nel nostro organo teorico, la Revue Internationale, così come altro materiale nella nostra stampa nazionale. Abbiamo tenuto riunioni pubbliche per celebrare il 40° e il 50° anniversario del Maggio e abbiamo partecipato a eventi promossi da altre organizzazioni[1]. In queste pagine iniziamo col ritornare su uno di questi articoli, scritto per un anniversario che ha poi acquisito un preciso valore simbolico: 1988.
Nella prima parte di questa nuova serie[2], noi diciamo nelle conclusioni che la prima valutazione fatta da “RI”- “Capire maggio”, scritta nel 1969, secondo la quale Maggio 68 ha rappresentato la prima grande reazione della classe operaia mondiale alla ricomparsa della crisi economica storica del capitalismo - è stata interamente confermata: nonostante la capacità spesso sorprendente del capitale di adattarsi alle sue contraddizioni che si acuiscono, la crisi, che alla fine degli anni ’60 non poteva essere avvertita che attraverso i suoi primi sintomi, è diventata al tempo stesso sempre più evidente e a tutti gli effetti, permanente.
Ma che dire della nostra insistenza sul fatto che il Maggio 68 segnava la fine dei decenni precedenti di controrivoluzione e l’apertura di una nuova fase, nella quale una classe operaia non sconfitta sarebbe andata incontro a lotte massicce e decisive; e, in cambio, l’esito di queste lotte avrebbe risolto il dilemma storico posto dalla crisi economica insanabile: guerra mondiale, nel caso di una nuova sconfitta della classe operaia, o rivoluzione mondiale e costruzione di una nuova società comunista?
L’articolo del 1988, “20 anni dopo il 1968 - lotta di classe: la maturazione delle condizioni della rivoluzione proletaria”[3] iniziava dalla critica allo scetticismo dominante dell’epoca – l’idea molto diffusa nei media borghesi e tra una ampia cerchia di intellettuali, che Maggio 68 era stato al massimo una magnifica utopia che la dura realtà ha portato ad appannarsi e a morire. In altri articoli, più o meno nello stesso periodo[4], noi abbiamo anche criticato lo scetticismo che affliggeva gran parte dell’ambiente rivoluzionario, e questo dopo gli avvenimenti stessi del 68 - una tendenza che si esprimeva sostanzialmente con il rifiuto dei principali eredi rimasti della Sinistra comunista italiana, di non vedere nel Maggio 68 niente altro che un’ondata di agitazione piccolo borghese che non ha fatto nulla per sollevare il peso morto della controrivoluzione.
Nello stesso modo hanno reagito le ali bordighiste e dameniste[5] della tradizione della Sinistra italiana del dopoguerra. Entrambe tendono a vedere il partito come qualcosa al di fuori della storia, poiché ritengono che sia possibile mantenerlo qualunque sia il rapporto di forza tra le classi. Vedendo la lotta degli operai essenzialmente circolare per sua stessa natura, poiché non può trasformarsi in senso rivoluzionario senza l’intervento del partito, ci si pone il problema da dove nasca il partito. I bordighisti, in particolare, hanno offerto nel 1968 una caricatura di questa visione, quando facevano uscire volantini che insistevano sul fatto che il movimento non sarebbe andato da nessuna parte senza mettersi sotto la bandiera del Partito (cioè il proprio piccolo gruppo politico). Dall’altra parte, la nostra corrente ha sempre replicato che si tratta di un approccio essenzialmente idealista che separa il partito dalle sue radici materiali nella lotta di classe. Noi riteniamo di basarci sull’esperienza reale della Sinistra comunista italiana, nel suo periodo teoricamente più fruttuoso, il periodo della Frazione negli anni 1930 e 40, quando essa ha riconosciuto che la sua stessa perdita d’influenza dalla fase precedente di partito era un risultato della sconfitta della classe operaia, e che solo una ripresa della lotta di classe poteva fornire le condizioni della trasformazione delle frazioni comuniste esistenti in un reale partito di classe.
D'altronde queste condizioni si sono sviluppate dopo il 1968, non solo a livello delle minoranze politicizzate, che vedevano una fase di crescita importante sulla scia degli avvenimenti del ‘68, e delle rivolte della classe operaia che ne seguirono, ma anche su scala più generale. La lotta di classe che ha fatto irruzione nel maggio 68 non era un fuoco di paglia ma il punto di partenza di un fenomeno importante che sarebbe rapidamente arrivato in primo piano a livello mondiale.
I progressi della lotta di classe tra il 1968 e il 1988
In accordo con la visione marxista che ha da tempo identificato il percorso della lotta di classe analogo a quello di ondate, l’articolo analizza tre ondate differenti di lotte nel corso dei due decenni dopo il 68: la prima, senza dubbio la più spettacolare, ha conosciuto l’autunno caldo italiano nel 69, la violenta rivolta a Cordoba in Argentina nel 69 e in Polonia nel 70, e movimenti importanti in Spagna e in Gran Bretagna nel 1972. In Spagna, in particolare, i lavoratori hanno iniziato ad organizzarsi attraverso assemblee di massa, un processo che giunse al culmine a Vitoria nel 1976. I riflessi dell’ondata di lotte con i suoi echi in Israele (1969) e in Egitto (1972) e, più tardi, le rivolte nelle townships in Sud Africa guidate da comitati di lotta (i “Civics”) ne dimostrano la dimensione internazionale.
Dopo una breve pausa nella metà degli anni 70, c’è stata una seconda ondata che ha riguardato gli scioperi degli operai del petrolio iraniani, i lavoratori delle acciaierie in Francia nel 1978, l’“inverno del malcontento” in Gran Bretagna, lo sciopero dei lavoratori portuali a Rotterdam, guidato da un comitato di lotta indipendente e in seguito gli scioperi dei lavoratori siderurgici in Brasile nel 1979 che hanno anche contestato il controllo dei sindacati. Questa ondata di lotte ha raggiunto il culmine in Polonia nel 1980, certamente l’evento più importante della lotta di classe dal 1968, e anche dagli anni ‘20. E nonostante la severa repressione degli operai polacchi abbia posto fine a questa ondata, non ci volle molto che un nuovo movimento si verificasse con le lotte in Belgio nel 1983 e 1986, lo sciopero generale in Danimarca nel 1985, lo sciopero dei minatori in Inghilterra nel 1984 - 85, le lotte dei ferrovieri e dei lavoratori della sanità in Francia nel 1986 e nel 1988, oltre al movimento dei lavoratori della scuola in Italia nel 1987. Le lotte in Francia e in Italia, in particolare - come lo sciopero di massa in Polonia- hanno dimostrato una reale capacità di auto-organizzazione con assemblee generali e comitati di sciopero.
Non era una semplice lista di scioperi. L’articolo[6] evidenzia il fatto che questo movimento a ondate di lotte non girava in tondo, ma portava a reali progressi nella coscienza di classe:
“Il semplice paragone delle caratteristiche delle lotte di 20 anni fa con quelle di oggi permette di percepire rapidamente l’ampiezza dell’evoluzione che si è lentamente realizzata nella classe. La propria esperienza, aggiunta all’evoluzione catastrofica del sistema capitalista, le ha permesso di sviluppare una visione molto più lucida della realtà della sua lotta. Questo ha comportato:
- una perdita delle illusioni sulle forze politiche della sinistra del capitale e in primo luogo sui sindacati rispetto ai quali le illusioni hanno lasciato il posto alla sfiducia e sempre più un’aperta ostilità;
- l’abbandono sempre più marcato di forme di mobilitazione inefficaci, vicoli ciechi nei quali i sindacati hanno tante volte fuorviato la combattività operaia:
- giornate di azioni, manifestazioni-processione, scioperi lunghi e isolati…
Ma l’esperienza di questi 20 anni di lotta non ha portato alla classe operaia solo insegnamenti “in negativo” (ciò che non si deve fare). Essa si è anche tradotta in insegnamenti su cosa e come si deve fare:
- cercare di estendere la lotta (in particolare in Belgio nel 1986)
- cercare di prendere in mano la lotta, organizzandosi in assemblee e comitati di sciopero eletti e revocabili (Francia alla fine del 1986, e in particolare in Italia nel 1987).
Al tempo stesso, l’articolo non trascurava le risposte della borghesia al crescere della lotta di classe: benché fosse stata sorpresa dallo scoppio del movimento del Maggio 68, rincorrendo a forme brutali di repressione che hanno accelerato l’estensione della lotta, essa ha in seguito davvero imparato molto o di nuovo su come far fronte alla resistenza del suo nemico di classe. Non ha rinunciato a impiegare la repressione, ovviamente, ma ha trovato strumenti più subdoli per proporne e giustificarne l’impiego, come lo spauracchio del terrorismo: nel frattempo ha sviluppato il suo arsenale di mistificazioni democratiche per deviare le lotte verso obiettivi politici borghesi, in particolare nei paesi che erano ancora governati da dittature. Per quanto riguarda le stesse lotte, si è trovata di fronte la disillusione crescente verso i sindacati ufficiali e la minaccia di auto-organizzazione nello sviluppo di forme di sindacalismo, che potevano abbracciare anche forme “al di fuori delle organizzazioni sindacali” (ad esempio l’attività di coordinamento messa in atto dalla estrema sinistra in Francia).
L’articolo cominciava col riconoscere che molte affermazioni ottimistiche sulla “rivoluzione nel 1968” erano state chiaramente utopistiche. In parte perché la discussione sulla possibilità della rivoluzione era stata falsata dalle posizioni gauchiste secondo le quali quelle in Vietnam o a Cuba erano proprio rivoluzioni socialiste che dovevano essere sostenute attivamente dalla classe operaia dei paesi centrali.
Ma anche perché, qualora si fosse compreso che la rivoluzione implicava realmente la trasformazione dei rapporti sociali, le condizioni oggettive del 1968, oltre la crisi economica mondiale, avevano appena iniziato a fornire la base materiale di una sfida rivoluzionaria al capitalismo. Da allora le cose sono diventate più complicate, ma più profonde.
Forse si parla meno facilmente di rivoluzione nel 1988 che nel 1968. Ma quando oggi questa parola è gridata in una manifestazione che denuncia la natura borghese dei sindacati a Roma o in una manifestazione di disoccupati a Bilbao c’è un diverso significato più concreto e profondo che nelle assemblee concitate e piene di false illusioni del 1968.
Il 1968 aveva sottolineato il ritorno dell’obiettivo rivoluzionario. Durante 20 anni le condizioni della sua realizzazione hanno continuato a maturare. Lo sprofondare del capitalismo in un punto morto, la situazione sempre più insostenibile che questo crea per l’insieme delle classi sfruttate, l’esperienza accumulata con la combattività operaia, tutto questo porta alla situazione, di cui parlava Marx, che rende “ogni passo indietro impossibile”.
La svolta del 1989
Ci sono molti aspetti in questa analisi che oggi possiamo sempre condividere. Tuttavia non possiamo che essere colpiti da una frase che sintetizza la valutazione della terza ondata di lotta di questo articolo:
“Infine, la recente mobilitazione dei lavoratori della Ruhr in Germania e la ripresa degli scioperi in Gran Bretagna nel 1988 (vedi l’editoriale di questo numero) confermano che questa terza ondata internazionale di lotte operaie, che dura ora da più di 4 anni, è tutt’altro che conclusa”.
Nei fatti, la terza ondata, e comunque tutto il periodo di lotte dal 1968, doveva arrivare a una fine improvvisa con il crollo del blocco dell’Est nel 1989-91 e la marea di campagne sulla morte del comunismo che l’ha accompagnato. Il cambiamento storico nella situazione mondiale ha segnato l’arrivo definitivo di una nuova fase nel declino del capitalismo: la fase di decomposizione.
La CCI aveva già notato i sintomi di decomposizione in precedenza, negli anni ‘80, e nell’organizzazione era già in corso una discussione sulle sue implicazioni per la lotta di classe. Tuttavia, l’articolo su Maggio 68 nella Revue Internationale n°53 così come l’editoriale nello stesso numero, mostrano chiaramente che non si era colto il suo significato più profondo. L’articolo sul ‘68 ha un sottotitolo “20 anni di decomposizione” senza che sia fornita una spiegazione del termine, mentre l’editoriale si riferisce solo alle sue manifestazioni a livello dei conflitti imperialistici - il fenomeno che in seguito è stato indicato come “libanizzazione” - la tendenza di interi paesi-nazione a disintegrarsi sotto il peso di rivalità imperialiste sempre più irrazionali. È probabile che queste imprecisioni abbiano riflesso le reali differenze che erano comparse all’8° congresso della CCI verso la fine del 1988.
L’atmosfera dominante in questo congresso era stata di un ottimismo e di un’euforia illusoria. Questo rifletteva in parte il comprensibile entusiasmo dovuto all’integrazione di due nuove sezioni della CCI al congresso, in Messico e in India. Ma soprattutto si esprimeva in alcune analisi della lotta di classe che erano state poste in risalto: l’idea che era questione di mesi e le nuove mistificazioni borghesi si sarebbero logorate a loro volta, speranze smisurate nelle lotte che c’erano in Russia, la concezione di una terza ondata che avanzava sempre tra alti e bassi, e oltre tutto, una reticenza ad accettare l’idea che, di fronte alla decomposizione sociale crescente, la lotta di classe sembrava segnare una “battuta di arresto” o arrancare (cosa che, considerata l’importanza della posta in gioco, non poteva che implicare una tendenza al riflusso o alla regressione). Al congresso Marc Chirik e una minoranza di compagni difendevano questa visione che si basava su una chiara coscienza che lo sviluppo della decomposizione esprimeva una sorta di blocco storico tra le classi. La borghesia non aveva inflitto una sconfitta storica decisiva alla classe operaia, e non era capace di mobilitarsi per una nuova guerra mondiale; ma la classe operaia, malgrado i 20 anni di lotta che avevano impedito il cammino verso la guerra, e che tra l’altro avevano visto progressi significativi della coscienza di classe, non era stata capace di sviluppare la prospettiva della rivoluzione, di porre la sua alternativa politica alla crisi del sistema. Privato di ogni via di uscita ma sempre precipitato in una crisi economica di lunga durata, il capitalismo cominciava a decomporsi, e questa putrefazione influenzava la società capitalista a ogni livello[7].
Questa diagnosi ha avuto una decisiva conferma con il crollo del blocco dell’Est. Da un lato, questo importante avvenimento era un prodotto della decomposizione. Metteva in luce l’impasse profonda della borghesia stalinista che si era arenata in una palude economica ma chiaramente incapace di mobilitare i suoi lavoratori in una soluzione militare alla bancarotta della sua economia (le lotte in Polonia nel 1980 lo avevano chiaramente dimostrato alla classe dominante stalinista). Allo stesso tempo, esso mostrava le gravi debolezze politiche di questa parte della classe operaia mondiale. Il proletariato del blocco russo aveva indubbiamente dimostrato la sua capacità di lottare sul piano economico difensivo, ma di fronte a un avvenimento storico enorme che di per sé si esprimeva sul piano decisamente politico, era del tutto incapace di offrire una propria alternativa e, come classe, è stato trascinato nelle rivolte democratiche falsamente descritte come una serie di “rivoluzioni del popolo”.
A loro volta, questi eventi hanno considerevolmente accelerato il processo di decomposizione su scala mondiale. Era più evidente a livello imperialista, quando il crollo repentino del vecchio sistema dei blocchi ha portato la tendenza al “ciascuno per sé” a dominare sempre più spesso le rivalità diplomatiche e militari. Ma era vero anche a proposito dei rapporti di forza tra le classi. A seguito del tracollo del blocco dell’Est, le campagne della borghesia mondiale sulla morte del comunismo, sull’impossibilità di qualsiasi alternativa della classe operaia al capitalismo, hanno inflitto altri colpi alla capacità della classe operaia internazionale, in particolare nei paesi centrali del sistema, di generare una prospettiva politica.
La CCI non aveva previsto gli eventi del 1989-91, ma è stata capace di dare una risposta con una analisi coerente basata sul lavoro teorico precedente. Questo era vero per quanto riguarda sia la comprensione dei fattori economici implicati nella caduta dello stalinismo[8], che la previsione del caos crescente che, in assenza dei blocchi, si sarebbe quindi scatenato nella sfera dei conflitti imperialisti[9] . In merito al livello della lotta di classe, siamo riusciti a vedere che il proletariato si trovava ad affrontare un periodo particolarmente difficile:
“L’identificazione sistematica tra comunismo e stalinismo, la menzogna mille volte ripetuta e martellata oggi ancora più di prima per cui la rivoluzione proletaria non potrebbe condurre che al fallimento, vanno a trovare con il crollo dello stalinismo, e per tutto un periodo di tempo, un impatto accresciuto nei ranghi della classe operaia. È dunque un riflusso momentaneo della coscienza del proletariato, di cui già ora si possono notare le manifestazioni - in particolare con il ritorno in forze del sindacato - che bisogna attendersi. Se gli attacchi incessanti e sempre più brutali che il capitalismo non mancherà di sferrare contro gli operai costringeranno questi a scendere in lotta, in un primo tempo non ne risulterà una maggiore capacità della classe di avanzare nella sua presa di coscienza. In particolare, l’ideologia riformista peserà molto fortemente sulle lotte del prossimo periodo, favorendo grandemente l’azione dei sindacati.
Tenuto conto dell’importanza storica dei fatti che lo determinano, l’attuale riflusso del proletariato, benché non rimetta in causa il corso storico, la prospettiva generale agli scontri fra le classi, si presenta come ben più profondo di quello che aveva accompagnato la sconfitta del 1981 in Polonia. Ciò detto, noi non ne possiamo prevedere né l’ampiezza reale, né la durata. In particolare, il ritmo di sprofondamento del capitalismo occidentale - di cui si può percepire attualmente un’accelerazione con la prospettiva di una nuova recessione aperta - costituisce un fattore determinante del momento in cui il proletariato potrà riprendere la sua marcia verso la coscienza rivoluzionaria”[10]. Questo passaggio è molto chiaro sull’impatto profondamente negativo del crollo dello stalinismo, ma contiene ancora una certa sottostima della profondità del riflusso. La stima secondo la quale “questo sarà momentaneo” attenua già la posizione successiva (che afferma) che il riflusso sarebbe stato “molto più profondo di quello che aveva accompagnato la sconfitta del 1981 in Polonia”, e questo problema si sarebbe manifestato nella nostra analisi nel corso degli anni seguenti, in particolare nell’idea che alcune lotte negli anni ‘90 - nel 92 e di nuovo nel 98 - segnavano la fine dell'arretramento. In realtà, alla luce degli ultimi tre decenni, possiamo affermare che l'arretramento nella coscienza di classe non solo è continuato, ma si è approfondito, causando una sorta di amnesia nei confronti delle conquiste e dei passi avanti del periodo 1968-1989.
Quali sono i principali indicatori di questo percorso?
- L’impatto della crisi economica nell’Ovest non è stato così lineare come presupposto nel passaggio citato prima. Le convulsioni dell’economia hanno certamente sminuito le fanfaronate della classe dominante all’inizio degli anni 90, secondo le quali, con la fine del blocco dell’Est, saremmo entrati in un periodo di prosperità assoluta. Ma la borghesia è stata capace di sviluppare nuove forme di capitalismo di Stato e manipolazioni economiche (contraddistinte dal concetto di “neoliberismo”) che hanno mantenuto almeno un’illusione di crescita, mentre lo sviluppo reale dell’economia cinese in particolare ha convinto molti che il capitalismo può adattarsi all’infinito e trovare sempre nuove vie per uscire dalla sua crisi. E quando le contraddizioni di fondo sarebbero tornate a galla, come accaduto con il grande crollo finanziario del 2008, avrebbero potuto stimolare alcune reazioni proletarie (ad esempio nel periodo 2010-2013); ma allo stesso tempo, la stessa forma che ha preso questa crisi, “una stretta creditizia” che implica una ingente perdita dei risparmi per milioni di lavoratori, rendeva più difficile rispondere sul terreno di classe, perché l’impatto sembrava colpire di più le singole famiglie che una classe associata[11].
- La decomposizione mina questa coscienza del proletariato in quanto forza sociale diversa sotto molti aspetti che aumentano tutti l’atomizzazione e l’individualismo insiti nella società borghese. Possiamo osservarli ad esempio nella tendenza alla formazione di gang nei centri urbani che esprimono allo stesso tempo la mancanza di ogni prospettiva economica per una parte consistente dei giovani proletari, e una ricerca disperata di una comunità alternativa che porta a divisioni mortali tra i giovani, basate su rivalità tra i diversi quartieri e le diverse condizioni sociali, sulla concorrenza per il controllo dell’economia locale della droga, o su differenze razziali e religiose. Ma la politica economica della classe dominante ha anche deliberatamente attaccato ogni senso di identità di classe - sia facendo saltare i vecchi centri industriali di resistenza della classe operaia, sia introducendo forme molto più atomizzate di lavoro, come la cosiddetta “gig economy” (economia dei piccoli lavoretti), in cui gli operai sono regolarmente considerati come degli “imprenditori”.
- Il numero crescente di guerre sanguinose e caotiche che caratterizza questo periodo smentisce decisamente l’affermazione che la fine dello stalinismo avrebbe regalato all’umanità un “dividendo della pace”, ma non fornisce la base per uno sviluppo generale della coscienza di classe, come è accaduto ad esempio nel corso della Prima guerra mondiale, quando il proletariato dei paesi centrali era coinvolto direttamente nella carneficina. La borghesia ha imparato dai conflitti sociali del passato provocati dalla guerra (compresa la resistenza contro la guerra del Vietnam) e, nei paesi chiave in Occidente, ha fatto il possibile per evitare l’impiego di eserciti di leva e per confinare le sue guerre nella periferia del sistema. Ciò non ha impedito che questi scontri militari avessero un impatto molto concreto sui paesi centrali, ma ha assunto principalmente forme tendenti a rinforzare il nazionalismo e a fare leva sulla “protezione” dello Stato: l’enorme crescita del numero di rifugiati che fuggono dalle zone di guerra, e l’azione di gruppi terroristici volta a colpire la popolazione dei paesi più sviluppati[12].
- A livello politico, in mancanza di una chiara prospettiva proletaria, abbiamo visto differenti parti della classe operaia influenzate dalle false critiche del sistema fornite dal populismo da un lato e dal jihadismo dall’altro. L’influenza crescente della “politica identitaria” tra gli strati più istruiti della classe operaia è un’altra espressione di questa dinamica: l’assenza di identità di classe è aggravata dalla tendenza alla frammentazione in identità razziali, sessuali ed altre, accrescendo l’esclusione e la divisione, mentre solo il proletariato che lotta per i propri interessi può essere inclusivo.
- Noi dobbiamo fare i conti con la realtà di tutte queste difficoltà e trarne le conseguenze politiche nella lotta per cambiare la società. Ma, nella nostra visione, anche se il proletariato non può evitare la dura scuola delle sconfitte, le difficoltà crescenti e persino le sconfitte parziali non significano ancora una sconfitta storica della classe e la scomparsa della possibilità del comunismo.
Negli ultimi decenni circa, alcuni movimenti importanti hanno fornito una base a questa conclusione. Nel 2006 abbiamo visto la mobilitazione massiccia degli studenti in Francia contro il CPE[13]. I mass media della classe dominante descrivono spesso le lotte in Francia, anche se sono sotto il controllo dai sindacati, come nell’ultimo caso[14] , agitando lo spettro di un “nuovo Maggio 68”, il modo migliore per deformare la vera esperienza del Maggio. Ma il movimento del 2006 ha fatto rivivere, per certi versi, lo “spirito” autentico del 68: da un lato perché i suoi protagonisti riscoprivano forme di lotta di quell’epoca, in particolare le assemblee generali dove potevano svolgersi reali dibattiti, e dove i giovani partecipanti erano pronti ad ascoltare la testimonianza dei compagni più vecchi che avevano preso parte agli avvenimenti del 68. Ma, allo stesso tempo, questo movimento, che aveva tagliato fuori i quadri sindacali, rischiava realmente di condurre impiegati e operai in una direzione probabilmente “senza controllo”, proprio come nel maggio 68, e perciò il governo ha ritirato il progetto di legge.
Sempre nel maggio 2006, 23 mila operai metallurgici di Vigo, in una provincia della Galizia in Spagna, sono scesi massicciamente in sciopero contro una riforma del lavoro del settore e invece di rimanere chiusi nelle fabbriche hanno cercato la solidarietà di altre industrie, in particolare davanti ai cancelli dei cantieri navali e degli stabilimenti della Citroën, hanno organizzato manifestazioni nella città per coinvolgere tutta la popolazione, e soprattutto quotidiane assemblee generali pubbliche aperte agli altri lavoratori, occupati, disoccupati o pensionati.
Queste assemblee proletarie sono state per una settimana linfa vitale di una lotta che ha impiegato metodi esemplari, finché il movimento non è stato preso nella morsa della repressione violenta e delle manovre dei sindacati nelle trattative con la dirigenza.
Nel 2011 abbiamo visto l’ondata di rivolte sociali in Medio Oriente e in Grecia, che è culminata nel movimento degli “Indignados” in Spagna o “Occupy” negli Stati Uniti. L’elemento proletario in questi movimenti era diverso da un paese all’altro, ma è stato più evidente in Spagna, dove abbiamo visto ampiamente diffusa l’adozione della forma assembleare; un forte slancio internazionalista che plaudeva alle manifestazioni di solidarietà dei partecipanti di tutto il mondo e dove la parola d’ordine “rivoluzione mondiale” era presa sul serio, forse per la prima volta dall’ondata rivoluzionaria del 1917; un riconoscimento che “il sistema è ormai superato” e una grande voglia di discutere la possibilità di una nuova forma di organizzazione sociale. Nelle numerose e intense discussioni che si svolgevano nelle assemblee e nelle commissioni sulla morale, sulla scienza, sulla cultura, nel rimettere sempre in discussione i dogmi secondo i quali i rapporti capitalistici sono eterni – abbiamo visto proprio qui emergere di nuovo il vero spirito del Maggio 68.
Certamente la maggior parte di questi movimenti aveva molti punti deboli che abbiamo analizzato in altri articoli[15], non ultima la tendenza dei partecipanti a vedersi come “cittadini” piuttosto che come proletari, e dunque una reale vulnerabilità all’ideologia democratica che avrebbe consentito ai partiti borghesi come Syriza in Grecia e Podemos in Spagna di presentarsi come i veri eredi di queste rivolte. E, in un certo senso, come in ogni sconfitta proletaria, più in alto si sale, più in basso si cade: il riflusso di questi movimenti ha ulteriormente diminuito la coscienza di classe. In Egitto, dove il movimento nelle piazze ha ispirato il movimento in Grecia e in Spagna, le illusioni sulla democrazia avevano preparato il terreno alla restaurazione dello stesso tipo di governo autoritario che era stato il catalizzatore iniziale della “primavera araba”; in Israele, dove le manifestazioni di massa hanno lanciato una volta la parola d’ordine internazionalista “Nethanyahu, Moubarak, Assad, stesso nemico”, la brutale politica militarista di Nethanyahu ha ripreso ora il controllo. E, cosa ancor più grave, in Spagna molti dei giovani che avevano partecipato al movimento degli “Indignados” sono stati intrappolati nel vicolo cieco del nazionalismo catalano o spagnolo.
La comparsa di questa nuova generazione di proletari nei movimenti del 2006 e 2011 ha anche dato vita a una nuova ricerca della politica comunista in una minoranza, ma le speranze che ciò avrebbe portato un apporto completamente nuovo di forze rivoluzionarie non si sono, al momento, realizzate. La Sinistra comunista resta decisamente isolata e disunita; tra gli anarchici, tra cui si stavano osservando alcuni nuovi interessanti sviluppi, la ricerca di posizioni di classe è stata minata dall’influenza della politica identitaria e anche dal nazionalismo. In un terzo articolo di questa serie analizzeremo nei dettagli l’evoluzione del campo politico proletario e del suo contesto dopo il 1968.
Ma se Maggio 68 insegna qualcosa, mostra che la classe operaia può riprendersi dalle peggiori sconfitte, risorgere dalle più gravi ritirate. I momenti di rivolta proletaria che ci sono stati nonostante la minaccia crescente della decomposizione del capitalismo rivelano la possibilità che sorgano nuovi movimenti che, riscoprendo la prospettiva della rivoluzione, possano sventare i tanti pericoli che la decomposizione comporta per il futuro della specie.
Questi pericoli - l’espansione del caos militare, della catastrofe ecologica, della fame e delle malattie a livelli mai raggiunti prima - provano che la rivoluzione è più che mai necessaria per la specie umana. Il declino del capitalismo e la decomposizione aumentano certamente il rischio che la base oggettiva di una nuova società possa essere definitivamente spazzata via se la decomposizione avanza oltre un certo limite. Ma anche nella sua ultima fase, il capitalismo produce ancora le forze che possono essere usate per sconfiggerlo - come nel testo del Manifesto Comunista del 1848, “la borghesia, prima di ogni altra cosa, produce i suoi becchini”. Il capitalismo, i suoi modi di produzione e di comunicazione sono più globali che mai - ma anche il proletariato è più internazionale, più capace di comunicare al suo interno a livello mondiale. Il capitalismo è diventato molto più avanzato a livello tecnologico ma deve quindi educare il proletariato all’uso della sua scienza e della sua tecnologia che possono essere utilizzate in una futura società per i bisogni dell’uomo piuttosto che per il profitto. Questo proletariato più istruito, più coinvolto a livello internazionale, è sempre comparso nei movimenti sociali recenti, soprattutto nei paesi centrali del sistema, e svolgerà un ruolo chiave in ogni futura ripresa della lotta di classe, come lo faranno le nuove forze proletarie create dalla vertiginosa ma malaticcia crescita del capitalismo in Asia e nelle altre regioni prima “sottosviluppate”. Noi non abbiamo visto la fine né il funerale dello spirito del Maggio 68.
Amos, giugno 2018
[1] Vedere per esempio World Revolution n°315 “Riunione della CCI su '1968 e tutto il resto': la prospettiva aperta 40 anni fa non non è scomparsa”.
[2] “50 anni fa, maggio 68. Prima parte: lo sprofondamento nella crisi economica. Revue Internationale n°160”.
[3] Rivista Internazionale n°12. L’articolo è firmato RV, uno dei giovani “venezuelani” che ha contribuito a fondare RI nel 1968.
[4] Vedere in particolare: “La confusione dei gruppi comunisti sul periodo attuale: sottovalutazione della lotta di classe” nella Revue Internationale n°54, 3° trimestre 1988.
[5] Vedere in particolare l’articolo “Gli anni 1950 e 60. Damen, Bordiga e la passione del comunismo” nella Revue Internationale n°158.
[6] “20 anni dopo il 1968: lotta di classe: la maturazione delle condizioni della rivoluzione proletaria”. Rivista Internazionale n°12, ottobre 1988.
[7] Per un bilancio più ampio delle lotte di classe degli ultimi decenni, che prende in considerazione le tendenze a sovrastimare il potenziale immediato della lotta di classe nelle nostre analisi, vedi “Rapporto sulla lotta di classe del 21° Congresso della CCI”, https://it.internationalism.org/cci/201603/1358/rapporto-sulla-lotta-di-classe [77], inverno 2016.
[8] Vedere “Tesi sulla crisi politica ed economica nei paesi dell’Est”, Rivista Internazionale n°13, febbraio 1990.
[9] Vedere in particolare “Testo di orientamento: Militarismo e decomposizione”, Rivista Internazionale n°15, https://it.internationalism.org/content/militarismo-e-decomposizione [78].
[10] “Tesi sulla crisi politica ed economica nei paesi dell’Est”, Rivista Internazionale n°13.
[11] Vedere il punto 14 della Risoluzione sulla lotta di classe del 22° Congresso della CCI, /content/1410/risoluzione-sulla-lotta-di-classe-internazionale [79]
[12] Vedere i punti 15 e 16 della risoluzione precedente.
[13] CPE: contratto di primo impiego, una misura destinata ad accrescere la precarietà del lavoro per i giovani lavoratori. Per un’analisi di questo movimento, vedere “Tesi sul movimento degli studenti della primavera 2006 in Francia”.
[14] Sciopero a singhiozzo dei ferrovieri: una manovra dei sindacati per dividerci! (volantino).
[15] Vedere “Gli indignati in Spagna, Grecia e Israele: dall’indignazione alla preparazione della lotta di classe”, Rivista Internazionale n°33, gennaio 2012.
1) 30 anni fa, la CCI ha evidenziato che il sistema capitalista era entrato nella fase finale della sua decadenza e della sua esistenza, quella della decomposizione. Quest’analisi si basava su una serie di fatti empirici, ma allo stesso tempo ha fornito un quadro per la comprensione di questi fatti: "in una situazione in cui le due classi fondamentali e antagoniste della società si affrontano tra loro senza riuscire nessuna delle due ad imporre la sua risposta decisiva, la storia non si sarebbe potuta fermare. Ancor meno degli altri modi di produzione che l'hanno preceduto, non è possibile per il capitalismo "un congelamento", una "stagnazione" della vita sociale. Mentre le contraddizioni del capitalismo in crisi non fanno che aggravarsi, l'incapacità della borghesia di offrire la minima prospettiva per la società nel suo insieme e l'incapacità del proletariato di affermare apertamente la sua nel futuro immediato non possono che tradursi in un fenomeno di decomposizione diffusa, di imputridimento dell’intera società". ("Decomposizione, fase finale della decadenza del capitalismo", punto 4, Rivista Internazionale n. 14)
La nostra analisi ha avuto cura di chiarire i due significati del termine "decomposizione"; da un lato, si applica a un fenomeno che colpisce la società, soprattutto nel periodo di decadenza del capitalismo e, in secondo luogo, designa una particolare fase storica di quest'ultimo, la sua fase finale:
"... È essenziale evidenziare la differenza fondamentale tra gli elementi di decomposizione che hanno colpito il capitalismo dall'inizio del secolo [XX secolo] e la decomposizione generalizzata in cui attualmente sta sprofondando questo sistema e che non potrà che aggravarsi. Anche qui, al di là dell'aspetto rigorosamente quantitativo, il fenomeno della decomposizione sociale sta ora raggiungendo una tale profondità e una tale ampiezza da acquisire una nuova e singolare qualità che mostra l'ingresso del capitalismo decadente in una fase specifica – la fase finale – della sua storia, quella in cui la decomposizione diventa un fattore, se non il fattore decisivo nell'evoluzione della società" (Ibid., punto 2)
È soprattutto quest'ultimo punto (il fatto che la decomposizione tende a diventare il fattore decisivo dell'evoluzione della società, e quindi di tutte le componenti della situazione mondiale, un'idea che non è per niente condivisa dagli altri gruppi della Sinistra comunista) a costituire l'asse principale di questa risoluzione.
2) Le tesi di maggio 1990 sulla decomposizione evidenziano tutta una serie di caratteristiche nell'evoluzione della società risultanti dall'ingresso del capitalismo in questa fase finale della sua esistenza. Il rapporto adottato dal 22° Congresso ha costatato il peggioramento di tutte queste caratteristiche, ad esempio:
- “la moltiplicazione delle carestie nei paesi del terzo mondo”;
- la trasformazione dello stesso “terzo mondo” in un enorme bidonville dove centinaia di milioni di esseri umani sopravvivono come ratti nelle fogne;
- lo sviluppo dello stesso fenomeno nel cuore delle principali città dei paesi “avanzati”;
- catastrofi “accidentali” che si sono moltiplicate negli ultimi tempi (...) gli effetti sempre più devastanti di disastri "naturali" sul piano umano, sociale ed economico;
- la degradazione dell'ambiente che raggiunge proporzioni sconcertanti (tesi sulla decomposizione, punto 7).
Questo stesso rapporto del 22° Congresso della CCI ha anche sottolineato la conferma e l'aggravamento delle manifestazioni politiche e ideologiche della decomposizione, come identificato nel 1990:
Il rapporto del 22° Congresso ritorna in particolare sullo sviluppo di un fenomeno già osservato nel 1990 (e che aveva svolto un ruolo importante nel riconoscimento da parte della CCI dell'ingresso del capitalismo decadente nella fase di decomposizione): l’uso del terrorismo nei conflitti imperialisti. Il rapporto rilevava che: “la crescita quantitativa e qualitativa del ruolo del terrorismo ha compiuto un passo decisivo (...) con l'attacco alle torri gemelle (...) Successivamente è stato confermato con gli attacchi a Madrid nel 2004 e Londra nel 2005 (...), la costituzione di Daesh nel 2013-14 (...) gli attacchi in Francia nel 2015-16, Belgio e Germania nel 2016.”
Ancora, il rapporto rilevava, in connessione con questi attacchi e come espressione caratteristica della decomposizione della società, la progressione dell’islamismo radicale che, se inizialmente ha avuto una ispirazione sciita (con l’introduzione nel 1979 del regime degli ayatollah in Iran) è divenuto poi argomento principale del movimento sunnita dal 1996 e dalla presa di Kabul da parte dei talebani e, ancora, dopo il rovesciamento del regime di Saddam Hussein in Iraq da parte delle truppe americane.
3) Oltre a confermare le tendenze già individuate nelle tesi del 1990, il rapporto adottato dal 22° Congresso ha rilevato l'emergenza di due nuovi fenomeni risultanti dal proseguimento della decomposizione e chiamati a svolgere un ruolo importante nella vita politica in molti paesi:
Gli spostamenti di massa delle popolazioni non sono fenomeni specifici della fase di decomposizione. Tuttavia, oggi acquisiscono una dimensione che li rende un elemento singolare di questa decomposizione sia in termini di cause attuali (in particolare il caos guerriero prevalente nei paesi di origine) che rispetto alle loro conseguenze politiche nei paesi di destinazione. In particolare, l'afflusso massiccio di rifugiati nei paesi europei è stato un alimento di prim’ordine per l'ondata populista che si sta sviluppando in Europa, anche se quest’ondata ha cominciato a manifestarsi ben prima (soprattutto in un paese come la Francia con la crescita del Fronte nazionale).
4) Infatti, negli ultimi vent'anni i partiti populisti hanno visto il numero di voti a loro favore triplicarsi in Europa (dal 7% al 25%) con forti progressioni a seguito della crisi finanziaria del 2008 e della crisi migratoria del 2015. In una dozzina di paesi, questi partiti partecipano al governo o alla maggioranza parlamentare: Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia, Bulgaria, Austria, Danimarca, Norvegia, Svizzera e Italia. Inoltre, anche quando le formazioni populiste non sono coinvolte nel governo, esse pesano significativamente sulla vita politica della borghesia. Si possono citare tre esempi:
- in Germania, è stata l'ascesa elettorale dell'AfD ad indebolire gravemente Angela Merkel costringendola ad abbandonare la propria leadership nel suo partito;
- in Francia, “l’uomo della provvidenza”, Macron, apostolo di un "nuovo mondo", se è riuscito ad imporsi largamente su Marine Le Pen nelle elezioni del 2017, non è in alcun modo riuscito a ridurre l'influenza del partito di quest'ultima che tallona il suo partito, la République en Marche che, nondimeno, è “sia di destra che di sinistra” con un personale politico recuperato in entrambi i campi (ad esempio un primo ministro della destra e un ministro degli interni del partito socialista);
- in Gran Bretagna, la borghesia tradizionalmente più abile del mondo ci ha dato per più di un anno lo spettacolo di un profondo disordine derivante dalla sua incapacità a gestire la "Brexit" impostale da correnti populiste.
Che le correnti populiste siano nel governo o semplicemente che perturbino il classico gioco politico, ciò non corrisponde a un’opzione razionale di gestione del capitale nazionale o a una carta giocata deliberatamente dai settori dominanti della classe borghese che, in particolare attraverso i loro mezzi di informazione, denunciano costantemente queste correnti. Ciò che realmente esprime l'ascesa del populismo è l'aggravamento di un fenomeno già annunciato nelle tesi del 1990: “tra le principali caratteristiche della decomposizione della società capitalista, dobbiamo sottolineare la crescente difficoltà della borghesia a controllare nel futuro la situazione politica. (Punto 9)”. Un fenomeno che si trova chiaramente nel rapporto del 22° Congresso: “quello che deve essere sottolineato nella situazione attuale è la piena conferma di questo aspetto che abbiamo identificato 25 anni fa: la tendenza a una perdita di controllo crescente dell’apparato politico da parte della classe dominante”.
L’ascesa del populismo costituisce, nelle attuali circostanze, un'espressione della crescente perdita di controllo da parte della borghesia sul funzionamento della società, risultante fondamentalmente da ciò che sta al centro della decomposizione, l’incapacità delle due classi fondamentali della società di rispondere alla crisi insolubile in cui l’economia capitalista sta sprofondando. In altre parole, la decomposizione è fondamentalmente il risultato di un’impotenza da parte della classe dirigente, che trova la sua fonte nell’incapacità di superare la crisi del suo modo di produzione e che tende sempre più a influenzare il suo apparato politico. Tra le cause attuali dell'ondata populista ci sono le principali manifestazioni di decomposizione sociale: la crescita della disperazione, il nichilismo, la violenza, la xenofobia, insieme a un crescente rifiuto delle “élite” (i “ricchi”, i politici, i tecnocrati) e in una situazione in cui la classe operaia non è in grado di presentare, anche in modo embrionale, un'alternativa.
Ovviamente è possibile che il populismo perda in futuro la sua influenza o perché lui stesso avrà mostrato la sua impotenza e corruzione, o perché una rinascita delle lotte dei lavoratori taglierà l’erba sotto i suoi piedi. Questo però non può in alcun modo rimettere in discussione la tendenza storica del naufragio della società nella decomposizione, né le varie manifestazioni della stessa, compresa la perdita di un crescente controllo da parte della borghesia del suo gioco politico. E questo ha conseguenze non solo nella politica interna di ciascuno Stato, ma anche in termini di rapporto globale tra gli Stati e tra le configurazioni imperialiste.
5) Nel 1989-90, di fronte all’implosione del blocco dell’Est, abbiamo analizzato e considerato questo fenomeno senza precedenti nella storia, il crollo di un intero blocco imperialista in assenza di scontri generalizzati, come la prima grande manifestazione del periodo di decomposizione. Allo stesso tempo abbiamo esaminato la nuova configurazione mondiale che derivava da questo evento storico: “la scomparsa del gendarme imperialista russo, e quello che ne conseguirà per il gendarme americano verso i suoi principali "partner" di ieri, aprono la porta allo scatenamento di tutta una serie di rivalità più locali. Queste rivalità e scontri non possono, al momento, degenerare in un conflitto globale (anche supponendo che il proletariato non sia più in grado di opporsi). (...) Finora, nel periodo di decadenza, una tale situazione di dispersione degli antagonismi imperialisti, l'assenza di una spartizione del mondo (o delle sue aree decisive) tra i due blocchi, non si è mai prolungata. La scomparsa delle due costellazioni imperialiste emerse dalla seconda guerra mondiale porta, con essa, la tendenza a ricomporre due nuovi blocchi. Tuttavia, una tale situazione non è ancora all'ordine del giorno, la tendenza a una nuova divisione del mondo tra due blocchi militari è destabilizzata, e può anche essere definitivamente compromessa, dal fenomeno sempre più profondo e generalizzato della decomposizione della società capitalista come abbiamo già evidenziato.
In un tale contesto di perdita di controllo della situazione da parte della borghesia mondiale, non è detto che i settori dominanti di quest’ultima siano ora in grado di attuare l'organizzazione e la disciplina necessaria per la ricostituzione dei blocchi militari.” ("Dopo il crollo del blocco dell’Est, la destabilizzazione e il caos", Revue Internationale n. 61)
Così, il 1989 segna un cambiamento fondamentale nella dinamica generale della società capitalista:
6) Nel paradigma che ha dominato la maggior parte del XX secolo, la nozione di "corso storico" definiva l’esito di una tendenza storica: o la guerra mondiale o gli scontri di classe, e quando il proletariato aveva subito una sconfitta decisiva (come alla vigilia del 1914 o dopo la sconfitta dell'ondata rivoluzionaria del 1917-23), la guerra mondiale diventava inevitabile. Nel paradigma che definisce la situazione attuale (finché non vengono ricostruiti due nuovi blocchi imperialisti, che possono anche non farsi mai) è anche possibile che il proletariato subisca una sconfitta così profonda da impedirgli definitivamente di risollevarsi, ma è altrettanto possibile che il proletariato subisca una sconfitta profonda senza che ciò abbia una conseguenza decisiva per l'evoluzione generale della società. Ecco perché la nozione di "corso storico" non è più in grado di definire la situazione del mondo attuale e il rapporto di forza tra borghesia e proletariato.
In qualche modo, la situazione storica ha somiglianze con quella del XIX secolo. In effetti, a quel tempo:
Detto questo, è importante sottolineare che la nozione di “corso storico” utilizzata dalla frazione italiana negli anni 1930 e dalla CCI tra il 1968 e il 1989 era perfettamente valida e costituiva il quadro fondamentale per la comprensione della situazione globale. In nessun modo, il fatto che la nostra organizzazione sia stata portata a prendere in considerazione nuovi ed inediti dati di questa situazione dal 1989 in poi può essere interpretato come una messa in discussione del nostro quadro analitico fino a tale data.
7) Già nel 1990, nello stesso momento in cui abbiamo visto la scomparsa dei blocchi imperialisti che dominavano la "guerra fredda", abbiamo insistito sul permanere e perfino sul peggioramento degli scontri guerrieri:
“Nel periodo di decadenza del capitalismo, TUTTI gli Stati sono imperialisti e prendono misure per affrontare questa realtà: economia di guerra, armamenti, ecc. Ecco perché il peggioramento delle convulsioni dell'economia mondiale non potrà che aumentare le lacerazioni tra questi differenti Stati, tra cui, e sempre più, quelle sul piano militare. (...) Queste rivalità e scontri non possono, al momento, degenerare in un conflitto globale (...). D’altra parte, a causa della scomparsa della disciplina imposta dalla presenza dei blocchi, questi conflitti sono suscettibili di essere più violenti e più numerosi, in particolare, naturalmente, nelle aree in cui il proletariato è più debole.” (Revue Internationale n°61, “Dopo il crollo del blocco dell’Est, destabilizzazione e caos”)
“... l'attuale scomparsa dei blocchi imperialisti non può implicare alcuna messa in discussione dell'influenza dell'imperialismo sulla vita della società. La differenza fondamentale è che (...) la fine dei blocchi apre solo la porta a una forma ancora più barbara, aberrante e caotica dell'imperialismo.” (Rivista Internazionale n°15, “Militarismo e decomposizione”)
Da allora, la situazione globale non ha fatto che confermare questa tendenza all'aggravamento del caos, come abbiamo constatato un anno fa:
“Lo sviluppo della decomposizione ha portato a uno scatenamento sanguinoso e caotico dell’imperialismo e del militarismo. L'esplosione della tendenza al ciascuno per sé ha portato all'ascesa delle ambizioni imperialiste delle potenze di secondo e terzo livello, nonché al crescente indebolimento della posizione dominante degli Stati Uniti nel mondo. La situazione attuale è caratterizzata da tensioni imperialiste ovunque e da un caos sempre meno controllabile, ma soprattutto dalla sua natura altamente irrazionale e imprevedibile, legata all'impatto delle pressioni populiste, in particolare ora che la potenza più forte del mondo è guidata da un presidente populista dalle reazioni capricciose”. ("Rapporto sulle tensioni imperialiste - giugno 2018", CCI on line)
8) Il Medio Oriente, dove l’indebolimento della leadership americana è più evidente e dove l’incapacità americana a impegnarsi sul piano militare più intensamente in Siria ha lasciato il campo aperto ad altri imperialismi, offre un concentrato di queste tendenze storiche: in particolare, la Russia si è imposta sul teatro siriano grazie alla sua forza militare e si è affermata come una potenza ineludibile per preservare la sua base navale di Tartus.
L’Iran, grazie alla sua vittoria militare a sostegno del regime alleato di Assad e per garantire un corridoio terrestre Irak-Siria che colleghi l'Iran direttamente al Mediterraneo e agli Hezbollah del Libano, è il principale beneficiario raggiungendo il suo obiettivo di porsi in prima linea in questa regione, soprattutto attraverso il dispiegamento di truppe al di fuori del suo territorio.
La stessa Turchia opera militarmente in Siria, ossessionata com’è dalla paura dell’istituzione di zone autonome curde che la destabilizzerebbero.
Le “vittorie” militari in Iraq e in Siria contro lo Stato islamico e il mantenimento di Assad al potere non offrono alcuna prospettiva di stabilità. In Iraq, la sconfitta militare dell’ISIS non ha eliminato il risentimento della vecchia frazione sunnita creata proprio da S. Hussein: l’esercizio del potere, per la prima volta da parte degli sciiti, non fa che alimentarlo ancora di più. In Siria, la vittoria militare del regime non significa stabilizzazione o pacificazione dello spazio siriano condiviso e sottoposto a imperialismi dagli interessi concorrenti. La Russia e l'Iran sono profondamente divise sul futuro dello Stato siriano e sulla presenza di truppe sul suo territorio.
Né Israele, ostile al rafforzamento di Hezbollah in Libano ed in Siria, né l’Arabia Saudita, che si mobilita contro l’ascesa dell’Iran, possono tollerare questo avanzamento iraniano; mentre la Turchia non può accettare le ambizioni regionali troppo grandi dei suoi due rivali.
Gli Stati Uniti e gli occidentali non possono loro stessi rinunciare alle loro ambizioni in questa zona strategica del mondo.
L’azione centrifuga delle varie potenze, piccole e grandi, i cui appetiti imperialisti divergenti si scontrano costantemente, alimenta solo la persistenza dei conflitti attuali, come nello Yemen, così come la prospettiva di future conflagrazioni e l'estensione del caos.
9) Bisogna considerare anche che, a seguito del crollo dell'URSS nel 1989, la Russia, che sembrava condannata a non poter più svolgere un ruolo di primo piano, ha fatto un ritorno in forza sul piano imperialista. Potenza in declino e priva di capacità economiche per sostenere la concorrenza militare con altre importanti potenze sul lungo termine, dimostra grazie al ripristino delle sue capacità militari dal 2008 la sua importante aggressività militare e la sua forza di disturbo internazionale:
- ha così dato scacco al "contenimento" americano (con l'integrazione dei suoi ex alleati del patto di Varsavia nella NATO) sul continente europeo con l'annessione della Crimea nel 2014 e l'amputazione separatista del Donbass, eliminando qualsiasi possibilità di fare dell’Ucraina un luogo centrale di dispositivo anti-russo.
- ha approfittato delle difficoltà americane per spingersi verso il Mediterraneo: il suo intervento militare in Siria ha permesso di rafforzare la sua presenza militare navale in questo paese e nel bacino dell’Est del Mediterraneo. La Russia è riuscita anche ad avvicinarsi per il momento alla Turchia, un membro della NATO che si allontana dall'orbita americana.
L’attuale riavvicinamento della Russia alla Cina sulla base dell’opposizione alle alleanze americane nella regione asiatica costituisce una fragile prospettiva di alleanza per la notevole divergenza d’interessi tra i due Stati, per cui l’instabilità dei rapporti di forza tra potenze conferisce al continente euroasiatico russo una nuova importanza strategica in vista della sua possibile posizione di contenimento della Cina.
10) Soprattutto, la situazione attuale è segnata dalla rapida ascesa in potenza della Cina. Quest’ultima si dà come prospettiva (investendo massicciamente in nuovi settori tecnologici, in particolare l'intelligenza artificiale) di ergersi a potenza economica leader entro il 2030-50 e di dotarsi da qui al 2050 di un “esercito di livello mondiale capace di vincere qualsiasi guerra moderna”. La manifestazione più visibile delle sue ambizioni è il lancio dal 2013 della “nuova via della seta” (creazione di corridoi di trasporto sul mare e sulla terraferma, accesso al mercato europeo e garanzia delle sue rotte commerciali) concepito come mezzo per rafforzare la sua presenza economica, ma anche come strumento per lo sviluppo del suo potere imperialista nel mondo e nel lungo termine, minacciando direttamente la preminenza americana.
Quest’ascesa della Cina provoca una destabilizzazione generale delle relazioni tra potenze in cui la potenza dominante, gli Stati Uniti, tenta di contenere e s’impegna a contrastare l'ascesa della potenza cinese che li minaccia. La risposta americana iniziata da Obama - ripresa e amplificata da Trump con altri mezzi - rappresenta un punto di svolta nella politica americana. La difesa dei suoi interessi come Stato nazionale è quella del ciascuno per sé che domina le relazioni imperialiste: gli Stati Uniti passano dal ruolo di gendarme dell'ordine mondiale a quello del principale agente moltiplicatore del ciascuno per sé, del caos e della rimessa in causa dell'ordine mondiale stabilito dal 1945 sotto la loro egida.
Questa “battaglia strategica per il nuovo ordine mondiale tra gli Stati Uniti e la Cina”, che si gioca in tutti i settori contemporaneamente, aumenta ulteriormente l'incertezza e l'imprevedibilità già sancite dalla situazione particolarmente complessa, instabile e mutevole di decomposizione: questo grande conflitto obbliga tutti gli Stati a riconsiderare le loro opzioni imperialiste in piena evoluzione.
11) I passi dell’ascesa della Cina sono inseparabili dalla storia dei blocchi imperialisti e dalla loro scomparsa nel 1989: la posizione della Sinistra comunista, che affermava “l’impossibilità di qualsiasi apparizione di nuove nazioni industrializzate nel periodo di decadenza e la condanna degli Stati che non sono riusciti a decollare industrialmente prima della prima guerra mondiale a ristagnare nel sottosviluppo, o a conservare un’arretratezza cronica rispetto ai paesi che avevano primeggiato”, era perfettamente valida nel periodo dal 1914 al 1989. Era l’imbrigliamento forzato dell'organizzazione del mondo in due blocchi imperialisti opposti (permanenti tra 1945 e 1989) in vista della preparazione della guerra mondiale ad impedire qualsiasi sconvolgimento della gerarchia tra potenze. L'ascesa della Cina è iniziata con l'aiuto americano che pagava il suo cambio di campo imperialista a favore degli Stati Uniti nel 1972. Fondamentalmente è continuato dopo la scomparsa dei blocchi nel 1989. La Cina appariva come il principale beneficiario della “globalizzazione” a seguito della sua adesione all’OMC nel 2001, quando è diventata l’atelier del mondo e il destinatario delle delocalizzazioni e degli investimenti occidentali, raggiungendo infine il rango di seconda potenza economica mondiale. Sono sopraggiunte circostanze senza precedenti del periodo storico di decomposizione per consentire l’ascesa della Cina, senza le quali essa non avrebbe avuto luogo.
Tuttavia la potenza cinese porta tutte le stigmate del capitalismo in fase terminale: essa si basa sul sovra-sfruttamento della forza lavoro proletaria, sullo sviluppo sfrenato dell’economia bellica attraverso il programma nazionale di “fusione militare-civile” e si accompagna a una catastrofica distruzione dell’ambiente, mentre la “coesione nazionale” si basa sul controllo poliziesco delle masse assoggettate all'educazione politica del partito unico e dalla feroce repressione delle minoranze etniche dello Xinjiang musulmano e dei tibetani. In effetti, la Cina è solo una gigantesca metastasi del cancro militaristico generalizzato dell'intero sistema capitalista: la sua produzione militare sta crescendo a un ritmo veloce, il suo budget per la difesa si è moltiplicato per sei in 20 anni e occupa dal 2010 il 2° posto mondiale.
12) La creazione della "nuova via della seta" e l’avanzamento graduale, persistente e a lungo termine della Cina (l'instaurazione di accordi economici o di partenariati inter-statali in tutto il mondo - con l'Italia, l'acquisizione del porto di Atene nel Mediterraneo, in America Latina; la creazione di una base militare a Gibuti - ingresso alla sua crescente influenza sul continente africano) - colpisce tutti gli Stati e rende altalenanti tutti gli “equilibri" esistenti.
In Asia, la Cina ha già alterato l'equilibrio delle forze imperialiste a scapito degli Stati Uniti. Tuttavia, non è possibile per lei colmare automaticamente il "vuoto" lasciato dal declino della leadership americana in ragione anche del ciascuno per sé imperialista e della sottostima che la sua potenza ispira. Importanti tensioni imperialiste si cristallizzano in particolare con:
L’ostilità di questi due stati verso la Cina favorisce la loro convergenza e il ravvicinamento con gli Stati Uniti. Quest'ultimi lanciano un'alleanza quadripartita tra Giappone, Stati Uniti, Australia e India, fornendo un quadro per il riavvicinamento diplomatico, ma anche militare, tra i diversi Stati che si opponevano all'ascesa della Cina.
In questa fase di “recupero” del potere degli Stati Uniti sulla Cina, quest’ultima tenta di mascherare le sue ambizioni egemoniche al fine di evitare il confronto diretto con il suo sfidante che risulterebbe dannoso per i suoi progetti a lungo termine, mentre gli Stati Uniti prendono l’iniziativa di far barriera fin da ora e di riconcentrare la maggior parte della loro attenzione imperialista nello spazio Indopacifico.
13) Nonostante il populismo di Trump, nonostante i disaccordi all'interno della borghesia americana su come difendere la loro leadership e in particolare le divisioni per quanto riguarda la Russia, l'amministrazione Trump adotta una politica imperialista in continuità e in coerenza con gli interessi imperialisti fondamentali dello Stato americano, con ampio consenso nei settori di maggioranza della borghesia americana: difendere il rango di prima potenza mondiale indiscussa degli Stati Uniti. Di fronte al gioco cinese, gli Stati Uniti stanno attuando un’importante mutazione della loro strategia imperialista globale. Questa svolta si basa sull'osservazione che il quadro della “globalizzazione” non ha garantito la posizione degli Stati Uniti, ma la ha addirittura indebolita.
L’ufficializzazione da parte dell'amministrazione Trump di far prevalere su qualsiasi altro principio quello della difesa dei loro soli interessi come Stato nazionale e l'imposizione di rapporti di forza favorevoli agli Stati Uniti come base principale delle relazioni con altri Stati, conferma e trae le implicazioni del fallimento della politica degli ultimi 25 anni di lotta contro il ciascuno per sé e come gendarme del mondo e della difesa dell'ordine mondiale ereditato dal 1945. La svolta degli Stati Uniti si concretizza attraverso:
Il comportamento da vandalo di un Trump che può rinnegare dall’oggi al domani gli impegni internazionali americani sfidando regole consolidate rappresenta un nuovo e potente fattore d’incertezza e impulso del ciascuno per sé. Ciò costituisce un ulteriore indice della nuova tappa che il sistema capitalista attraversa nello sprofondamento nella barbarie e nell’abisso del militarismo senza limiti.
14) Il cambiamento di strategia americana è evidente su alcuni dei principali teatri imperialisti:
- in Medio Oriente, l'obiettivo dichiarato degli Stati Uniti verso l'Iran (e le sanzioni contro di esso) è di destabilizzare e rovesciare il regime giocando sulle sue divisioni interne. Mentre cercano di eseguire il loro graduale disimpegno militare dai pantani dell'Afghanistan e della Siria, gli Stati Uniti ora si affidano unilateralmente ai loro alleati, Israele e soprattutto l’Arabia Saudita (facendola diventare la principale potenza militare regionale), come spina dorsale della politica di contenimento dell'Iran. In questa prospettiva forniscono a ciascuno di questi due Stati e ai loro rispettivi leader un sostegno indefettibile su tutti i fronti (fornitura di attrezzature militari all’avanguardia e sostegno di Trump all’Arabia nello scandalo dell'assassinio dell’oppositore Khashoggi, riconoscimento di Gerusalemme est come capitale e sovranità israeliana sull'altopiano siriano del Golan per Israele) per garantirsi la loro alleanza. La priorità del contenimento dell'Iran è accompagnata dalla prospettiva di abbandonare gli accordi di Oslo sulla soluzione dei "due Stati" (israeliano e palestinese) per la questione palestinese. La cessazione degli aiuti americani ai palestinesi e all'OLP e la proposta del "grande affare" (abbandonando qualsiasi pretesa di creazione di uno Stato palestinese in cambio di un "gigantesco" aiuto economico americano) mirano a tentare di assorbire la mela della discordia strumentalizzata da tutti gli imperialismi regionali contro gli Stati Uniti per facilitare il riavvicinamento de facto tra gli alleati arabi e israeliani;
- in America Latina, gli Stati Uniti sono impegnati in una controffensiva per garantire un migliore controllo imperialista nella sua tradizionale area d’influenza. La salita al potere di Bolsonaro in Brasile non è solo il risultato di una semplice spinta populista, ma è il risultato di una vasta operazione di pressione americana sulla borghesia brasiliana tramata dallo Stato americano con l'obiettivo, raggiunto, di riportare questo Stato nel suo grembo imperialista. Prologo di un piano generale per rovesciare i regimi anti-americani della "troika della tirannia" (Cuba, Venezuela e Nicaragua), è stato il tentativo, per il momento abortito, di respingere la clicca chavista del regime di Maduro in Venezuela.
Washington, tuttavia, sta infliggendo chiaramente una battuta d'arresto alla Cina, che aveva reso il Venezuela un alleato politico di prima scelta per ampliare la sua influenza e che si rivela impotente ad opporsi alla pressione americana. Non è impossibile che questa offensiva americana della riconquista imperialista del suo cortile latino-americano inauguri un'offensiva più sistematica contro la Cina in altri continenti. Per il momento, essa solleva la prospettiva della precipitazione del Venezuela nel caos di uno scontro a morte, così come una maggiore destabilizzazione di tutta questa zona sudamericana.
15) L'attuale peggioramento generale delle tensioni imperialiste si riflette sul rilancio della corsa agli armamenti e della supremazia tecnologica militare, non solo dove le tensioni sono più evidenti (in Asia e in Medio Oriente), ma per tutti gli Stati, grandi potenze in testa. Tutto ciò indica che c'è una nuova tappa negli scontri inter-imperialisti e nell'affondamento del sistema nella barbarie guerriera.
In questo contesto, l'Unione europea, a causa di questa situazione imperialista, continuerà ad affrontare la tendenza alla frammentazione, come evidenziato nel rapporto sulle tensioni imperialiste del giugno 2018 (In italiano sul sito web).
16) Sul piano economico, la situazione del capitalismo è stata, dall'inizio del 2018, segnata da un brusco rallentamento della crescita globale (dal 4% nel 2017 al 3,3% nel 2019), che la borghesia prevede duraturo e che peggiorerà nel 2019-20. Questo rallentamento è stato più veloce del previsto nel 2018, con il FMI che ha dovuto rivedere al ribasso le sue previsioni nei prossimi due anni, e tocca quasi simultaneamente le diverse parti del capitalismo: la Cina, gli Stati Uniti e l'area dell'euro. Nel 2019 il 70% dell'economia mondiale ha rallentato e in particolare nei paesi "avanzati" (Germania, Regno Unito). Alcuni dei paesi emergenti sono già in recessione (Brasile, Argentina, Turchia) mentre la Cina, rallentando dal 2017 e con una crescita valutata del 6,2% per il 2019 incassa i suoi dati di crescita più bassi degli ultimi trent'anni.
Il valore della maggior parte delle valute dei paesi emergenti si è indebolito, a volte con forza, come in Argentina e Turchia. Alla fine del 2018, il commercio mondiale ha registrato una crescita zero, mentre sul piano finanziario Wall Street ha conosciuto nel 2018 le più estese "correzioni" degli ultimi 10 anni. La maggior parte degli indicatori lampeggia e annuncia la prospettiva di un nuovo sprofondamento dell'economia capitalista.
17) La classe capitalista non ha futuro da offrire, il suo sistema è stato condannato dalla storia. Dalla crisi del 1929, la prima grande crisi del tempo della decadenza del capitalismo, la borghesia non ha cessato di sofisticare l’economia attraverso l'intervento dello Stato per esercitare il controllo generale su quest’ultima. Sempre più confrontato alla crescente riduzione dei mercati extra-capitalisti, sempre più minacciato dalla diffusa sovrapproduzione "il capitalismo è così rimasto vivo grazie all'intervento cosciente della borghesia che non può più permettersi di poter contare sulla mano invisibile del mercato. Anche se è vero che le soluzioni diventano esse stesse parti del problema:
- il ricorso all’indebitamento accumula chiaramente enormi problemi per il futuro
- l’ipertrofia dello Stato e del settore degli armamenti generano terribili pressioni inflazionistiche.
Fin dagli anni 70, questi problemi hanno generato diverse politiche economiche, alternando il "keynesianesimo" o il "neoliberalismo", ma poiché nessuna politica può affrontare le vere cause della crisi, nessuna procedura sarà in grado di riportare una soluzione vittoriosa. Ciò che è rimarchevole è la determinazione della borghesia a mantenere ad ogni costo tutta la sua economia in marcia e la sua capacità di frenare la tendenza al crollo attraverso un debito gigantesco". (Risoluzione situazione internazionale del 16° Congresso della CCI, in Rivista Internazionale n. 27)
Prodotto delle contraddizioni della decadenza e dell'impasse storica del sistema capitalistico, il capitalismo di Stato istituito a livello di ogni capitale nazionale, non obbedisce però a un rigido determinismo economico; al contrario, la sua azione, essenzialmente di natura politica, integra e contemporaneamente unisce nella sua organizzazione e nelle sue opzioni i piani economici e sociali (come far fronte al suo nemico di classe secondo il rapporto di forza tra classi) e imperialiste (la necessità di mantenere un enorme settore d’armamenti al centro di qualsiasi attività economica) per preservare e difendere il sistema di sfruttamento borghese su tutti i piani vitali. Così il capitalismo di Stato ha sperimentato diverse fasi e modalità di organizzazione durante la storia della decadenza.
18) Negli anni 1980, sotto l'impulso delle grandi potenze economiche, è stata inaugurata una nuova fase: quella della "globalizzazione". In un primo momento, ha preso la forma della Reaganomics, rapidamente associata ad una seconda, che ha approfittato della situazione storica inedita della caduta del blocco dell’Est, per ampliare e approfondire una vasta riorganizzazione della produzione capitalista globale tra il 1990 e il 2008. Il mantenimento della cooperazione tra gli Stati, utilizzando in particolare le vecchie strutture del blocco occidentale, e la conservazione di un certo ordine nel commercio, erano modi per far fronte al peggioramento della crisi (le recessioni del 1987 e 1991-93) ma anche ai primi effetti della decomposizione, che, in campo economico, sono stati quindi largamente attenuati.
Sul modello di riferimento dell'UE che elimina le barriere doganali tra gli Stati membri, l'integrazione di molti rami della produzione mondiale è stata rafforzata sviluppando catene di produzione reali su scala globale. Combinando la logistica, l'informatica e le telecomunicazioni, ottenendo economie di scala, il maggiore sfruttamento della forza lavoro del proletariato (attraverso una maggiore produttività, l'introduzione della concorrenza internazionale, la libera circolazione della forza lavoro per imporre salari più bassi), la sottomissione della produzione alla logica finanziaria della massima redditività, il commercio mondiale ha continuato ad aumentare, anche se più debolmente, fornendo all'economia globale un "secondo" respiro e prolungando l'esistenza del sistema capitalista.
19) La crisi del 2007-09 ha segnato una pietra miliare nello sprofondamento del sistema capitalista nella sua crisi irreversibile: dopo quattro decenni di ricorso al credito e al debito per contrastare la crescente tendenza alla sovrapproduzione, scandita da recessioni sempre più profonde e riprese sempre più limitate, la recessione del 2009 è stata la più importante dopo la grande depressione. È stato l'intervento massiccio degli Stati e delle loro banche centrali a salvare il sistema bancario dal fallimento completo di un debito pubblico sconcertante, riscattando i debiti che non potevano più essere rimborsati. Il capitale cinese, anch'esso gravemente colpito dalla crisi, ha svolto un ruolo importante nella stabilizzazione dell'economia globale attraverso l'attuazione di piani di rilancio nel 2009, 2015 e 2019 basati su massicci debiti statali. Non solo le cause della crisi 2007-2011 non sono state risolte o superate, ma la serietà e le contraddizioni della crisi si sono spostate in una fase più alta: ora sono gli stessi Stati che si confrontano con il peso schiacciante del loro indebitamento ("debito sovrano") che incide ulteriormente sulla loro capacità di intervenire per rilanciare le rispettive economie nazionali. "l’indebitamento è stato un mezzo per compensare l'insufficienza dei mercati solvibili, ma esso non può essere aumentato a tempo indeterminato, come l’ha evidenziato la crisi finanziaria a partire dal 2007. Tuttavia, tutte le misure che possono essere adottate per limitare l'indebitamento riposizionano il capitalismo di fronte alla sua crisi di sovrapproduzione, in un contesto economico internazionale che limita sempre più il suo margine di manovra". (Risoluzione della situazione internazionale 20° Congresso della CCI, su CCI on line 2014).
20) L'attuale sviluppo della crisi con le crescenti perturbazioni che esso provoca nell’organizzazione della produzione in una costruzione multilaterale unificata attraverso regole comuni internazionali mostra i limiti della “globalizzazione”: il bisogno sempre maggiore di unità (che non ha mai significato altro che l'imposizione della legge del più forte sui più deboli) a causa dell’interconnessione “transnazionale” della produzione altamente segmentata paese per paese (in cui ogni prodotto è concepito qui, assemblato là con l'ausilio di elementi prodotti altrove) si scontra con la natura nazionale di ogni capitale, con i limiti stessi del capitalismo, irrimediabilmente diviso in nazioni concorrenti e rivali, che è il massimo grado di unità che il mondo borghese può raggiungere. Il peggioramento della crisi (così come le esigenze delle rivalità imperialiste) ha gravemente eroso le istituzioni e i meccanismi multilaterali.
Ciò è illustrato dall'atteggiamento attuale delle due principali potenze che competono per l'egemonia globale:
21) L’influenza della decomposizione rappresenta un ulteriore fattore di destabilizzazione. In particolare, lo sviluppo del populismo va ad aggravare ulteriormente la situazione economica introducendo un fattore d’incertezza e d’imprevedibilità di fronte alla tormenta della crisi. L’arrivo al potere dei governi populisti, con programmi poco realistici per il capitale nazionale, che indeboliscono il funzionamento dell'economia mondiale e il commercio, è un disastro, solleva il rischio di indebolire i mezzi imposti dal capitalismo dal 1929-1945 per evitare qualsiasi ripiegamento autarchico sul quadro nazionale e il contagio incontrollato della crisi economica. Il pasticcio della Brexit e l'uscita spinosa dalla UE forniscono un'altra illustrazione: l'incapacità dei partiti della classe dirigente britannica di pronunciarsi sulle condizioni della separazione e sulla natura delle relazioni future con l'Unione europea, le incertezze intorno al "ridisegno" delle frontiere, in particolare tra l’Irlanda del Nord e l’Eire, il destino incerto della Scozia pro-europea che minaccia di separarsi dal Regno Unito colpendo l'economia inglese (destabilizzando il valore della sterlina), nonché quella degli ex partner dell'UE, privati della stabilità regolamentare necessaria per portare a termine gli affari. I disaccordi sulla politica economica in Gran Bretagna, negli Stati Uniti e altrove mostrano l’esistenza di divisioni crescenti su questo piano non solo tra nazioni rivali, ma anche all’interno di ogni borghesia nazionale tra ‘multilateralisti’ e ‘unilateralisti’ e anche all’interno di ognuna di queste opzioni (ad esempio tra “soft” e “hard” brexiters nel Regno Unito). Non solo non c'è più un consenso minimo sulla politica economica, anche tra i paesi dell'ex blocco occidentale, ma questa questione è anche sempre più conflittuale all'interno della borghesia nazionale.
22) L'accumulazione di tutte queste contraddizioni nel contesto attuale della crisi economica, nonché la fragilità del sistema monetario e finanziario e il massiccio indebitamento degli Stati a livello internazionale dopo il 2008 aprono un periodo di gravi convulsioni nel prossimo futuro e pongono nuovamente il sistema capitalista davanti alla prospettiva di un nuovo tonfo. Tuttavia, non dobbiamo perdere di vista il fatto che il capitalismo non ha certamente esaurito tutte le risorse per accompagnare lo sprofondamento nella crisi ed evitare situazioni incontrollate, soprattutto nei paesi centrali. La situazione di sovra indebitamento degli Stati, che assorbe una buona parte della ricchezza nazionale per il pagamento degli interessi, ha un forte impatto sui bilanci nazionali e riduce notevolmente il loro margine di manovra di fronte alla crisi. Tuttavia, è certo che questa situazione:
- non porrà fine alla politica di indebitamento, come principale palliativo alla crisi di sovrapproduzione e mezzo per posticipare le scadenze, nella fuga in avanti per preservare il suo sistema, al prezzo di future convulsioni sempre più gravi;
- né porrà alcun ostacolo alla folle corsa agli armamenti a cui ogni Stato è irrimediabilmente condannato. Quest’ultima prende sempre più una forma manifestamente irrazionale attraverso il peso crescente dell’economia di guerra e della produzione di armi, con il peso crescente di queste spese sul PIL (che ora raggiunge il suo più alto livello dal 1988, epoca del confronto tra blocchi imperialisti).
23) Per quanto riguarda il proletariato, queste nuove convulsioni possono portare solo ad attacchi ancora più forti ed estesi contro le sue condizioni di vita e di lavoro su tutti i fronti e in tutto il mondo, in particolare:
- rafforzando lo sfruttamento della forza lavoro, continuando ad abbassare i salari e aumentando i tassi e la produttività in tutti i settori;
- il proseguimento dello smantellamento di quel che resta dello stato sociale (ulteriori restrizioni ai vari sistemi di indennizzo concessi ai disoccupati, all'assistenza sociale e ai regimi pensionistici); e più in generale l'abbandono "morbido" del finanziamento di tutte le forme di aiuto o di sostegno sociale nei settori associativi o para pubblici;
- la riduzione da parte degli Stati dei costi dell'istruzione e della salute nella produzione e nel mantenimento della forza lavoro del proletariato (e quindi gravi attacchi contro i proletari di questi settori pubblici);
- il peggioramento e lo sviluppo ancora maggiore della precarizzazione come mezzo per imporre e far pesare lo sviluppo della disoccupazione di massa in tutte le parti della classe.
- attacchi camuffati dietro le transazioni finanziarie, come i tassi d’interesse negativi che erodono i piccoli conti di risparmio e piani pensionistici. E benché i tassi d’inflazione ufficiali per i beni di consumo siano bassi in molti paesi, le bolle speculative hanno contribuito a una vera esplosione del costo dell'alloggio.
- l’aumento del costo della vita, comprese le tasse e il prezzo dei beni di prima necessità.
Ciononostante, anche se la borghesia di tutti i paesi è sempre più costretta a rafforzare i suoi attacchi contro la classe operaia, il suo margine politico è tutt'altro che esaurito. Si può essere certi che farà tutto il possibile per impedire al proletariato di rispondere sul suo terreno di classe contro il crescente deterioramento delle condizioni di vita imposte dalle convulsioni dell'economia mondiale.
Collegamenti
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[2] https://it.internationalism.org/content/xviii-congresso-della-cci-risoluzione-sulla-situazione-internazionale
[3] https://fr.internationalism.org/rint/123_30ans
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[6] https://fr.internationalism.org/french/rint/14-terrorisme
[7] https://fr.internationalism.org/icconline/2008/sabotages_sncf_des_actes_steriles_instrumentalises_par_la_bourgeoisie_contre_la_classe_ouvriere.html
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[9] https://it.internationalism.org/cci/200711/517/larea-della-autonomia-la-confusione-contro-la-classe-operaia-i
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[11] https://world.internationalism.org
[12] https://it.internationalism.org/tag/4/75/italia
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