Inviato da CCI il
Nella prima parte di questo articolo abbiamo cercato di analizzare le basi teoriche dell’Autonomia Operaia, partendo da gruppi come Socialisme ou Barbarie che - negli anni di profonda demoralizzazione dovuti all’apparente stabilizzazione del capitalismo nel secondo dopoguerra – giunsero a rigettare il catastrofismo economico marxista. Si sviluppa così la teoria dei capitalismo burocratico che non conosce crisi e che sarà vulnerabile colo alla rivolta degli “oppressi” dalla noia della vita quotidiana.
Il Maggio ‘68 è il canto del cigno di queste concezioni come concezioni “rivoluzionarie”; la realtà della crisi e della lotta operaia lasciano spazio solo alla loro versione, operaista.
In Italia è Potere Operaio che riconosce la crisi, ma la attribuisce alla lotta operaia e non alle contraddizioni insanabili del sistema capitalista. Si tratta della nota teoria della crisi del comando, la cui conseguenza è l’illusione che le lotte operaie possono essere scatenate a piacimento dalle avanguardie opportunamente organizzate. Di qui un volontarismo sempre più disperato fino alle farneticazioni sulla militarizzazione del movimento.
Lo scioglimento di P.O. e la formazione dell’Area dell’Autonomia Operaia nel ‘73 si basano su una messa in discussione solo degli aspetti più criticabili di queste teorie, ma non arrivano a rigettarne l’essenziale. Per cui l’Area rimane completamente disorientata di fronte al riflusso dopo il Marzo ‘73 e vede la sua progressiva degradazione in quanto espressione sia pure confusa della classe.
In questa seconda parte (ricordiamo che la prima parte è stata pubblicata su Rivoluzione Internazionale n° 8) abbiamo cercato di seguire le grandi linee di questa decadenza, tra i pantani del marginalismo e le trappole del terrorismo.
Il testo è lungo e ce ne scusiamo con i compagni, ma non era possibile altrimenti. Con tutto questo sono molti gli avvenimenti e le posizioni degne di nota che ne sono rimasti fuori, ma di questo non dobbiamo scusarci. Le “Storie” le scrivono i compagni sopravvissuti alle sconfitte, nei lunghi anni della pace sociale e dell’annientamento del proletariato. Questi, non sono gli anni della sconfitta, ma quelli della forza e della lotta. E’ giusto che già da oggi i nostri articoli, le nostre “armi dei la critica” siano sempre più ad immagine dei giorni futuri, in cui si passerà alla “critica delle armi”.
A conti fatti: bilancio di una sconfitta
“In Italia le giornate del Marzo ‘73 a Mirafiori sono la sanzione ufficiale del passaggio alla seconda fase del movimento, così come le giornate di Piazza Statuto lo erano state per la prima fase. La lotta armata, gestita dall’avanguardia operaia dentro al movimento di massa costituisce la forma superiore della lotta operaia... Il compito del partito che va costituendosi è quello di sviluppare in forma molecolare, generalizzata e centralizzata, questa nuova esperienza di attacco.” ([1])
Con queste parole, piene di beate illusioni sulla “formidabile continuità del movimento italiano”, Potere Operaio annunciava il proprio scioglimento nell’Area dell’Autonomia e l’imminente centralizzazione di quest’Area in quanto:
“fusione di volontà soggettiva, capacità di battere la ciclicità delle lotte dominate dal padrone e dal sindacato, per imporre invece l’iniziativa dell’attacco”, (sottolineatura nostra, NdR).([2])
Come si vede cambia la sigla ma le vecchie illusioni di “mettere in piedi” a piacimento cicli di lotte operaie, sono dure a morire.
Purtroppo per gli illusi, Mirafiori ‘73 non è stato il trampolino verso la massificazione di un nuovo livello di lotte armate, ma l’ultima spallata del movimento prima di entrare nel periodo di riflusso più lungo e drammatico dopo il ‘68. La classe operaia invece di iniziare la “transizione al comunismo” ha visto aggravarsi progressivamente le proprie condizioni di vita ed ha assistito impotente ed apparentemente apatica alla messa in atto di tutta una serie di misure antiproletarie, che negli anni precedenti avrebbero provocato reazioni semi-insurrezionali. Come spiegare questa interruzione nella formidabile continuità del movimento italiano? Ricordando che essa è una caratteristica tipica delle lotte operaie odierne, che si svolgono nel quadro di un capitalismo decadente, incapace di migliorare in generale le condizioni di vita dei lavoratori. In più, finiti anche gli sgoccioli del boom della “ricostruzione” dopo il II macello imperialista, la crisi economica è tornata dal ‘68 in poi ad esasperare la situazione:
“In questo contesto la borghesia non può permettersi, persino sotto una pressione delle lotte operaie, di dare soddisfazione alle rivendicazioni del proletariato. Malgrado le promesse del capitale, le firme apposte su accordi solenni, le allusioni “umanitarie” che potrebbero essere alimentate da questa o quella frazione riformista o “progressista” della borghesia, malgrado il timore di importanti movimenti sociali, la realtà del capitalismo decadente è implacabile: il capitale non può più accordare delle vere riforme al proletariato.
E’ diventato banale ormai constatare che, dopo cinquant’anni, tutte le lotte per rivendicazioni salariali non hanno portato a niente... La situazione normale, quella che caratterizza il capitalismo attuale, non è l’aumento dei prezzi che segue l’aumento dei salari, ma esattamente l’inverso. Non è il capitale che cerca di recuperare in permanenza ciò che i lavoratori gli strappano, ma sono i lavoratori che cercano di resistere all’intensificazione del loro sfruttamento.” ([3])
Con il primo vero e proprio collasso della economia italiana, che si verifica appunto nel ‘73 ([4]), i già angusti margini di manovra dei sindacati per chiedere aumenti salariali si restringono drasticamente, e sempre più nelle piattaforme rivendicative la parte del leone tocca alle “grandi battaglie” per gli investimenti al sud, le riforme ([5]). Sempre più spesso scioperi anche lunghi e violenti terminano senza che nessuna delle richieste operaie sia stata accolta; in una parola gli operai scoprono, sconfitta dopo sconfitta, che per difendere le proprie condizioni di vita bisogna ormai scontrarsi direttamente con lo Stato, di cui i sindacati non sono che un ingranaggio.
In una situazione del genere, se gli elementi più politicizzati sono portati dall’attivismo e dalla disperazione ad “alzare il livello dello scontro”, la maggioranza della classe arretra, per non dissanguarsi in scioperi senza storia e senza significato. Per caratterizzare questa fase, che con particolari differenti si è presentata in tutti i paesi industrializzati, noi abbiamo spesso detto che è come se la classe operaia arretrasse di fronte ad un nuovo ostacolo per poter meglio prendere una rincorsa adeguata al salto. Questi anni di apparente passività sono stati anni di sotterranea maturazione e chi sperava che il riflusso sarebbe stato eterno sta già avendo qualche delusione. Nei fatti, la difficoltà di difendere vittoriosamente le proprie condizioni di vita, può disorientare e demoralizzare gli operai, ma alla lunga non potrà che rigettarli di nuovo nella lotta, con una rabbia e una determinazione cento volte moltiplicata.
Tutto ciò era ed è inevitabile. Ma come poteva capirlo chi, rifiutando la teoria marxista della crisi economica, considerava come ormai “automatiche” le conquiste sul salario e sull’orario, e si preoccupava di cercare “nuovi piani di lotta”:
“E ciò che diventerà sempre più pesante con lo sviluppo del capitalismo nei paesi occidentali non sarà tanto il raggiungimento di obiettivi di tipo quantitativo come nel passato (occupazione, salario, etc.). Certo il padrone non smetterà di combatterci anche su questo piano, ma questi obiettivi saranno comunque assicurati alla classe operaia dell’occidente avanzato.
Diventerà invece sempre più pesante garantirsi obiettivi di tipo qualitativo per cambiare la vita in fabbrica, fuori, nei rapporti personali, a letto.” ([6])
La realtà ha poi svelato a questi entusiasti del capitalismo occidentale che per i proletari di assicurato non c’è neanche lo sfruttamento (vedi i milioni di disoccupati nell’area CEE). La parola magica delle 35 ore pagate 40 che doveva coagulare tutta la classe operaia più le donne, i giovani, i disoccupati, etc., non ha coagulato che qualche miserabile spezzone di sinistra sindacale, Lotta Continua in testa, ed é quindi andata al macero assieme a tutte le altre brillanti “trovate” dei suscitatori di lotte operaie.
Di fronte agli insuccessi le risposte dell’Autonomia sono essenzialmente di due tipi:
1) il tentativo volontaristico di controbilanciare il riflusso, grazie ad un attivismo sempre più frenetico e sempre più “sostituzionista” nei confronti della classe; 2) il graduale spostamento della lotta di fabbrica a nuovi piani di scontro, ovviamente “superiori”. Su questa progressiva divaricazione fra “duri” ed “alternativi” inciampa e si frantuma il progetto di centralizzazione dell’Area ambiziosamente emerso al momento della confluenza di Potete Operaio nel costituendo Coordinamento Nazionale. Queste due linee sono state, grosso modo, il terreno di sviluppo delle due deviazioni simmetriche dell’Autonomia, terrorismo e marginalismo, che tornano continuamente ad intrecciarsi fra di loro.
Senta avere la pretesa di analizzare a fondo questi due filoni, su cui dovremo sicuramente ritornare, vale qui la pena di mostrare come entrambi siano non la negazione, ma il logico sviluppo dell’originario classismo operaista.
Dalla guerriglia di fabbrica al “Partito Combattente”
“Quando la lotta operaia spinge il capitale alla crisi, sulla difensiva, l’organizzazione operaia deve avere già allestiti strumenti tecnicamente (sottolineatura nostra, NdR) validi con i quali prolungare, rafforzare ed armare la volontà di attacco della classe... Suscitare, organizzare la rivoluzione ininterrotta contro il lavoro, determinare fin da subito momenti di liberazione ... questi sono i compiti dell’avanguardia operaia come dittatura.” ([7])
Come si vede già in Potere Operaio sono espresse chiaramente le posizioni di fondo che stanno alla base della scelta terrorista: 1) da una parte la visione della crisi come imposta dalla lotta di classe; 2) dall’altra la concezione dei rivoluzionari come organizzatori tecnici di questa lotta di classe, per cui bisogna superare “una soglia minima di organizzazione” oltre la quale si è “credibili” di fronte alla classe e si può concorrere nella “gestione” delle lotte con il sindacato.
Mano a mano che l’ondata del ‘68 si affievolisce, aumentano i “trucchi” che un buon tecnico della guerriglia di fabbrica deve conoscere per condurre i suoi compagni di lavoro verso la terra promessa. Nasce e si sviluppa così la mistica della “inchiesta operaia”, cioè dello studio da parte delle avanguardie della struttura della fabbrica e del ciclo produttivo, per individuarne i “punti deboli”: basterà colpire questi per bloccare l’intero ciclo e fottere i padroni. Ma, come al solito, quello che c’è di buono non è nuovo, e quello che è nuovo non è buono. L’idea di colpire senza preavviso dove e quando è massimo il danno per i padroni e minima la perdita per gli operai, non è un’idea, ma una scoperta pratica della classe ed ha un nome preciso: sciopero selvaggio. Quello che c’è di nuovo è l’idea (e questa sì che è una “idea”) che lo sciopero selvaggio possa essere programmato dalle avanguardie, ciò che è una contraddizione in termini.
Ci si potrebbe rispondere che tutto questo è vero ma che se non si conosce la fabbrica, non si possono unire le lotte dei vari reparti, ci si perde, etc. Giustissimo, ma non è certo con gli studi notturni di qualche militante che gli operai, mettiamo, della Verniciatura imparano ad orientarsi nelle Carrozzerie o alle Presse. E’ con i cortei interni di massa che la classe risolve praticamente il problema dei cancelli: sfondandoli.
Questa storia, che potrebbe sembrare secondaria, fa vedere chiaramente come ogni visione tecnico-militarista guardi alla lotta di classe con un’ottica completamente rovesciata: non è il fatto di avere in ogni reparto dei compagni con la pianta della fabbrica stampata in mente che permette l’unificazione delle lotte; è l’esigenza di unificare le lotte, per uscire dai vicoli ciechi delle lotte settoriali, che spinge la classe a superare gli ostacoli che si frappongono a questa unificazione (ed a stamparsi in mente i vicoli ciechi dei corridoi). Per andare in corteo a chiamare gli operai delle altre fabbriche, la cosa fondamentale non è sapere dov’è l’uscita ma aver compreso che solo la generalizzazione della lotta può renderla vincente. In realtà gli ostacoli più temibili non sono i cancelli, ma coloro che all’interno della classe si oppongono con la loro demagogia alla maturazione della sua coscienza. Il vero muro da abbattere è quello fabbricato giorno dopo giorno dai delegati sindacali, dagli attivisti dei partiti e partitini “operai”, é il muro invisibile ma tenace che chiude il proletariato all’interno del “popolo italiano” e lo separa dai suoi fratelli di classe di tutto il mondo, è la catena vischiosa che lo lega alle sorti dell’economia nazionale in difficoltà. Spogliare questi ostacoli dei loro travestimenti demagogici ed “estremisti”, denunciarne la natura controrivoluzionaria, ecco il ruolo specifico dei rivoluzionari in fabbrica e fuori, ecco il loro contributo indispensabile nel. forgiare quella coscienza e quell’unità di classe che abbatteranno ben altre porte che quelle della Fiat ([8]).
Credendo di “dare un contenuto offensivo alle lotte degli operai delle grandi fabbriche” ([9]), ci si pone su di un piano inclinato che è sempre più difficile da rimontare. Dai processi di massa ai capi del Marzo ‘73 si passa agli “incidenti” in fabbrica ai dirigenti e capi più amati, quindi al sequestro, anzi all’“arresto ed interrogatorio” in una “prigione del popolo” (!) del capo del personale FIAT, Amerio (dicembre 1973). E’ ormai tempo di “portare l’attacco al cuore dello Stato” con il sequestro Sossi (maggio ‘74), per finire nel giugno ‘75 con il rapimento a scopo di estorsione dell’industriale Gancia. Come si vede la linea di tendenza, indicata con questi esempi, è quella dell’autonomia, sì, ma dell’autonomia dalla lotta di classe, che si allontana sempre più sullo sfondo.
E’ diventato ormai un luogo comune, sulle pubblicazioni dell’Autonomia, la critica delle Brigate Rosse perché “esagerano” col militarismo, perché si staccano dalle masse, etc. Le BR hanno semplicemente percorso fino in fondo il piano inclinato del volontarismo nel tentativo impossibile di rispondere con un “salto di qualità” delle avanguardie alle nuove difficoltà del movimento di classe:
“... le lotte più recenti ci costringono a riflettere seriamente su due fenomeni divenuti ormai evidenti: il deteriorarsi delle forme di lotta tradizionali e la crisi dell’ipotesi del sindacalismo di sinistra. E’ inutile piagnucolare sulla contraddizione che esiste tra la tensione creata fra gli operai dal problema dei licenziamenti, per esempio, e l’incapacità a trovare delle forme di lotta appropriata... Bisogna agire simultaneamente per approfondire la crisi di regime, che è, sopra di tutto, crisi di potere della borghesia sul proletariato; bisogna trasformarle in primi momenti di potere del proletariato armato, di lotta armata per il comunismo.” ([10])
Il fatto che tutte le critiche dell’Autonomia Operaia alle BR non siano mai andate oltre le solite lamentele opportuniste sul carattere prematuro di certe azioni etc., senza mai arrivare all’essenziale, non è certo casuale, ma trova le sue radici nelle teorizzazioni stesse dell’Autonomia Operaia:
“Oggi nelle metropoli capitaliste, e particolarmente in Italia, le lotte operaie hanno imposto un’altra forma di crisi al capitalismo. Non si tratta più di una crisi spontanea, dovuta alle contraddizioni interne del meccanismo economico, o più globalmente del sistema; si tratta né più né meno di una crisi politica che i movimenti soggettivi delle lotte operaie hanno imposto con la loro offensiva sui salari, contro il lavoro, con la loro capacità di rompere sistematicamente ed a tutti i livelli con il comando capitalista. Una teoria insurrezionale classica non è più applicabile alle metropoli capitaliste; essa si rivela sorpassata, come è sorpassata l’interpretazione della crisi in termini di crollo… la lotta armata corrisponde alla nuova forma della crisi imposta dall’autonomia operaia, così come l’insurrezione era la conclusione logica della vecchia teoria della crisi come crollo economico.” ([11])
Non si può rigettare il marxismo in nome della volontà soggettiva delle masse e poi essere in grado di criticare seriamente chi, autoproclamatosi “partito combattente”, cerca di accelerare i tempi della storia, portando alle masse un po’ della propria “volontà”. Il militarismo delle Brigate Rosse non è che lo sviluppo coerente e logico dell’attivismo operaista delle famigerate “inchieste operaie” ([12]).
Rimane da constatare che negli ultimi mesi tanta coerenza e preveggenza non ha impedito alle BR di dover rincorrere a colpi di comunicati ed appelli le giovani leve del “partito della P 38” che, per passare alla lotta armata, non hanno ritenuto di dover passare per le BR. Qualcuno potrebbe parlare di apprendisti stregoni incapaci di controllare le forze imprudentemente evocate. Nulla di più falso: questa incapacità ad inquadrare i pistoleri metropolitani è la prova schiacciante che non è stata la “azione esemplare” delle BR ad evocarli, ma il procedere inesorabile della crisi economica, che getta nella disperazione ampi strati di piccola borghesia, specie intellettuale.
Nuclei d’acciaio del partito armato, “cani sciolti” della P38 non possono imporre niente, nel bene o nel male. E’ stata la logica dei fatti ad imporli, sarà le logica dei fatti a spazzarli via. ([13])
Il marginalismo: “oltre” la lotta di classe, fuori dalla storia
Mentre i “duri” si militarizzano per sostituire il movimento in riflusso nelle fabbriche, la maggioranza dell’Area è alla ricerca di più praticabili scorciatoie al comunismo. Detto fatto: il movimento non è in riflusso, ma sta attaccando da un’altra parte per disorientare i padroni. E’ il momento magico del territorio, come “nuova dimensione dell’autonomia operaia”.
“Da Forcella a S. Basilio l’insubordinazione proletaria si qualifica come iniziativa politica per il comunismo: il terreno di lotta per l’appropriazione come terreno strategico di attacco alla crisi... Alla luce di questi fatti il territorio va visto non solo come “area di ricomposizione” dell’autonomia operaia, ma come un nodo centrale dello scontro di classe in atto.” ([14])
Accanto all’esaltazione pura e semplice della “svolta” non manca la speranza di “appoggiarsi” a queste lotte per rilanciare l’offensiva in fabbrica, per cui lo sviluppo della insubordinazione sul territorio: “si misura su tutto il terreno della crisi in stretto rapporto con la ripresa generalizzata delle lotte aziendali.”([15])
In realtà lo spostarsi della lotta sul “sociale” non facilita assolutamente il “dilagare dell’iniziativa operaia dalla fabbrica nel territorio”. La lotta contro l’aumento dei prezzi, degli affitti, in genere la lotta di quartiere non può che basarsi su tutta la popolazione del quartiere stesso. Sarebbe infatti assurda e destinata a fine rapida un’autoriduzione della luce portata avanti solo dalle famiglie operaie o solo dalle famiglie impiegatizie. Questo significa che l’autonomia operaia lungi dal dilagare, viene allagata da fiumi di piccola borghesia e da torrente in piena si trasforma in palude stagnante e popolare. La tanto vantata generalizzazione della lotta si rivela essere il passaggio dalla corporativa difesa delle proprie condizioni di vita in quanto operai alla generale lotta per i propri diritti in quanto cittadini.
Ben altra è la realtà storica delle esplosioni operaie: non per suggestione di comitati popolari ed interclassisti, ma per dinamica interna di classe, il proletariato di fabbrica, ai momenti cruciali della lotta, trova in sé la forza di dilagare oltre i soffocanti limiti dell’officina, a preannunciare ai padroni e ai loro servi quel dilagare futuro cui non seguirà mai più “ritorno alla calma”. Pietroburgo ’17, Polonia ‘70, Inghilterra ‘72, Spagna ‘76, Egitto ‘77, è stato ogni volta dietro alle grandi concentrazioni operaie che si è realizzata l’unificazione dell’intero corpo collettivo del proletariato e la spaccatura del “popolo unito” in due campi distinti e contrapposti.
Così la logica stessa dei vari movimenti “riappropriatori” é stata quella di una progressiva diluizione del “rapporto con le lotte aziendali” a favore delle componenti piccolo-borghesi e marginali. Questo è stato particolarmente evidente nel movimento di occupazione delle case:
“Le case non vengono più occupate per avere un tetto decente sotto cui dormire, solamente per alloggiare la famiglia... Le occupazioni di centri del proletariato sono un salto in avanti rispetto alle esperienze del Festival del Parco Lambro e di Umbria Jazz: il proletariato giovanile si salda con il movimento delle occupazioni.” ([16])
Dal territorio come “area di ricomposizione della autonomia operaia” ai circoli del proletariato giovanile, dal potere operaio al potere dromedario degli indiani metropolitani, la traiettoria è nota. Ogni strato di piccola borghesia sbalestrato dalla crisi si promuove a “frazione della classe” ed inalbera la bandiera della propria “autonomia”. Per brevità (e per carità verso i nostri lettori) accenneremo brevemente solo al movimento femminista. Il suo sviluppo di massa, come quello di tutti i movimenti marginalisti, è legato appunto alla “crisi dei gruppi”, alla delusione seguita al Marzo ‘73, quando il comunismo “tutto e subito” non è sceso a posarsi tipo Spirito santo sulle volitive fronti degli operai di Mirafiori. Questo “fallimento” è stato un vero e proprio trauma per tutti i piccolo-borghesi che si erano già mentalmente riservati un posto in Paradiso, in virtù dei sacrifici fatti al servizio delle masse popolari. “Abbiamo lavorato per niente a favore del proletariato!” è stato il grido di rimorso di tanti esponenti di uno strato sociale storicamente abituato a non lavorare per niente, alle spalle del proletariato. Tornati rapidamente all’ovile (da cui non erano mai usciti) tutti questi strati si sono dedicati con entusiasmo rinnovato al vecchio sogno della loro classe: aprire un commercio in proprio. D’ora in poi invece di lottare per il socialismo “degli operai” (?), ognuno lotterà per il “suo” socialismo, per un socialismo tagliato su misura di tutte le varianti della sociologia borghese.
Come tutte le concezioni idealistiche, il femminismo crede che siano le ideologie, i “ruoli” imposti dal capitalismo a determinare l’esistenza, e non il contrario. Per cui basterà negare, rifiutare i ruoli impostici per mettere in crisi la società borghese. Quello che applicato alla lotta di classe era semplicemente una interpretazione sbagliata (è il rifiuto del lavoro che determina la crisi economica, etc.) diventa pura ideologia reazionaria: sarà l’affermazione della propria autonomia da parte di ogni strato oppresso della società a mettere in crisi il “comando” capitalista.
Non è quindi casuale che il “nuovo modo di fare politica” scoperto dalle femministe sia stato principalmente quello dei piccoli gruppi di autocoscienza. E’ il destino di ogni “categoria” della società borghese (neri, donne, giovani, omosessuali, etc.) totalmente impotenti di fronte alla storia e quindi incapaci di forgiarsi una coscienza storica: quello di finire a crogiolarsi nell’autocoscienza della propria miseria. Se il proletariato è la classe rivoluzionaria della nostra epoca, non è perché si è fatto convincere dai socialisti nell’800 e poi si è abituato a questa idea, ma per la sua collocazione pratica al centro della produzione capitalista.
“Se gli autori socialisti attribuiscono al proletariato questo ruolo storico mondiale, non è, come pretende di credere la Critica Critica, perché considerino i proletari degli dei. E’ piuttosto il contrario... Non si tratta di ciò che questo o quel proletario, o perfino l’intero proletariato, si immagina di volta in volta come suo fine. Si tratta di ciò che esso è, e di ciò che sarà storicamente costretto a fare in conformità a questo essere.” ([17])
L’unica componente del movimento femminista che si è in qualche modo resa conto di quanto fosse campata in aria una lotta basata sull’auto-coscienza è stata Lotta Femminista ([18]). Ma per quanto rifiuti con orrore questa idea, tutto quello che ha saputo fare è coniugare al femminile le idee di Potere Operaio, da cui d’altra parte proviene. Rendendosi conto che la capacità del proletariato di porsi come classe rivoluzionaria si basa sulla sua lotta in difesa delle proprie condizioni di esistenza, e non su una ideologia, si cava dagli impicci “scoprendo” che la casalinghe sono operaie della casa, che il loro lavoro è produttivo e deve essere pagato. Per cui:
“Da oggi apriamo (?) la lotta perché (il Salario al lavoro domestico) sia pagato” ([19]). E con ciò Lotta Femminista si è assicurato il premio Nobel del Volontarismo per gli anni ‘70. Se Potere Operaio si illudeva di poter risvegliare a piacimento la lotta operaia, Lotta Femminista è arrivata a far nascere per decisione politica una lotta di “classe” che non è mai esistita. Le loro illusioni tardo-leniniste sulla organizzazione cosciente portata dall’esterno è tale che sono arrivate a prendersela con i socialisti che non hanno organizzato le donne perché disperse mentre hanno organizzato i braccianti ed i contadini, ugualmente dispersi. Come se i contadini avessero aspettato il nascere del movimento socialista per iniziare a lottare e a rivoltarsi. (La Guerra dei Contadini in Germania è del 1525!).
Il fatto quindi che le donne non siano state capaci di condurre una lotta di classe contro il capitale non dipende dal fatto che Marx “questa centralità del lavoro domestico avrebbe pur dovuto vederla” ed invece non l’ha vista. Dipende dal fatto che non sono né una classe, né una frazione di classe, ma una delle tante categorie che il capitale contrappone fra di loro (divisioni di razza, sesso, nazione, religione, ecc.) per cercare di diluire la contraddizione centrale, quella risolutiva per tutte. Perché il proletariato:
“Non può liberarsi senza sopprimere le sue stesse condizioni di esistenza. Non può sopprimere le sue condizioni di esistenza senza sopprimere tutte le inumane condizioni di esistenza della società attuale, che si condensano nella sua situazione.” ([20])
Che questo o quell’individuo “si immagini” di aver visto quello che Marx non aveva visto, non può cambiare di una virgola questa realtà.
Quello di L.F. è stato l’unico tentativo di andare controcorrente alla naturale tendenza del movimento femminista di tornare sotto l’ala protettrice e Referendaria dei partiti di Sinistra. Si può già fare un bilancio di questo tentativo di organizzazione autonoma delle donne su una propria strategia? Forse sì. La prima a saltare è stata la struttura di gruppo di Lotta Femminista, scioltasi nell’ottobre ‘74 per la presenza al suo interno di “differenti analisi e pratiche politiche”. La sostituisce il Coordinamento Nazionale dei Comitati per il Salario al Lavoro Domestico, struttura federativa dove ogni sede pensa quello che vuole e Padova fa per tutte (compreso il giornale). Ma i guai interni al Coordinamento non sono che il riflesso di una mutata situazione generale: nel recente movimento di occupazioni universitarie le leaders “storiche” sono state violentemente attaccate nelle loro stesse roccaforti (Padova, etc.) dalle nuove 1eve del femminismo, dalle autonome smaniose di imitare la compagna Mara o Maria Pia Vianale. Come risposta nel n° 4 de “Le operaie della casa” dedicato alla critica dell’Autonomia, i Comitati per il SLD accusano le “nuove” femministe di rinunciare al lavoro di costruzione di un’organizzazione autonoma femminista e di agire come semplice colonna di appoggio del costruendo partito combattente. Ed hanno perfettamente ragione. Ma per un’amara ironia, quella che loro vedono come debolezza delle nuove femministe, si impone invece come forza delle cose: il femminismo non è capace di organizzarsi come forza autonoma.
Proprio perché si rivolge alle donne, cioè ad uno strato che di fronte alla crisi si spacca inesorabilmente in due, lungo una frontiera di classe, il femminismo si rivela per il capitale una mistificazione di seconda categoria, incapace di distogliere una porzione considerevole di proletarie dalla linea di combattimento della loro classe. Perché abbia una qualche utilità deve essere una semplice carta ben mescolata con le altre nel miglior mazzo truccato del capitale, “l’alternativa popolare e di sinistra”, la sola capace di deviare ancora il proletariato, sfruttando le sue stesse tradizioni.
La forza della storia si impone a tutti, indipendentemente dalla loro volontà o coscienza. Le stesse militanti dei Collettivi per il SLD - che per le loro origini politiche avevano una confusa coscienza della necessità di distruggere i sindacati - si sono rapidamente adattate all’ipotesi che le lotte delle donne passino per questi organi padronali:
“A questo punto la casa non sarà di vitale importanza. Se noi le aiutiamo a muoversi sui loro obiettivi, anche quello che possono ottenere dai sindacati sarà più grande.” ([21])
Si può quindi arrivare a presentare come grande vittoria rivoluzionaria i tentativi sindacali di rendere più efficienti i Consigli di Fabbrica, questi luridi comitati d’affari della borghesia in fabbrica:
“Sull’onda di questa vittoria era nata una commissione salute donne nell’ambito del Consiglio di fabbrica che aveva proposto un’indagine ambientale tramite il Servizio di Medicina Preventiva.” ([22])
La sorte di tutti i movimenti marginali è già segnata. Durante il 1° macello mondiale, le suffragette inglesi sospesero ogni agitazione ed accorsero all’appello dello stato borghese, tutte tese nella salvaguardia del supremo intesse della patria, per sostituire come volontarie gli uomini mandati al fronte.
Alle moderne suffragette del capitale non sarà riservato compito meno ripugnante.
Capire subito, ricominciare! Ricominciare che?
Introducendo la prima parte di quest’articolo, scrivevamo:
“In questo quadro di degenerazione totale si collocano, come reazione, alcuni tentativi di critica delle concezioni confusioniste ed interclassiste da parte di settori rimasti legati ad una concezione più ‘classista’. Per quanto questi tentativi vadano incoraggiati al massimo, bisogna denunciare il grave pericolo cui vanno incontro di considerare queste deviazioni come “incidenti di percorso” e pensare quindi che basti “ricominciare da capo”.” ([23])
Gli avvenimenti degli ultimi mesi hanno dimostrato che sia la reazione sia il pericolo di non andare a fondo nella critica non erano nostre invenzioni. Nel volantone ([24]) distribuito a Milano dopo la morte dell’agente Clustrà e significativamente intitolato “Capire subito, ricominciare!” si scrive:
“Se qualcuno si faceva illusioni sul carattere “contemporaneo” ed “orizzontale” dello scontro, ora gli sono passate.” Molti settori del movimento hanno “affrontato lo scontro di classe con un taglio ed una illusione insurrezionalista, con forme di lotta tanto repentine e “spontanee” quanto incapaci di porsi e porre problemi reali nello scontro. Lo Stato, la sua ristrutturazione e la sua riorganizzazione non si cacciano come fantasmi con qualche colpo a fuoco. (…) Le masse - compagni! - non si mobilitano nello spazio di un mattino con la bacchetta magica, nemmeno con la bacchetta magica del “salario” e dell’“orario”.” (sottolineatura nostra, NdR
I fatti sono testardi - diceva Marx - e certe evidenze - come la natura di “cani da guardia” della “legalità democratica” dei gruppi - iniziano ad imporsi all’interno del movimento. Ma il pericolo sta appunto qui, nell’illusione che si possa capire subito e ricominciare la mattina dopo. “Il peso dei morti ossessiona a lungo il cervello dei vivi”; non è riconoscendo che certi errori ci sono stati, e via, ma facendone una critica radicale, che ciò che è vivo nell’Aut. Op. si strapperà dalla mente e dal cuore l’ossessivo fantasma dell’operaismo.
Sempre, nelle discussioni con militanti dell’Aut. Op., si arriva al punto obbligato: “Va bene, avrete pure ragione, ma allora che si fa?”. Compagni, si smette innanzitutto di giocare sull’equivoco e come elementi di avanguardia ci si prende tutte le proprie responsabilità di fronte alla propria classe. E questo si può fare solo se ci si dà un programma preciso ed un’organizzazione militante. Ma un programma non è una piattaforma sindacale alternativa per i contratti di quest’anno, é una Piattaforma Politica che delinei chiaramente le frontiere di classe stabilite dall’esperienza storica del proletariato. Capire subito? Ma se per anni l’Aut. Op. ci ha rotto le scatole sulla Cina Rossa, la lotta dei popoli antimperialisti, etc. Ed oggi che la Cina non riesce più a mascherarsi, che nella Cambogia “liberata” regna il terrore, che i “rivoluzionari” etiopici e somali si scannano tra di loro, come reagisce l’Aut. Op.? Semplicemente non ne parla più. Ci sono già tanti problemi in Italia, mettere in discussione tutto il Vangelo su cui si è tanto giurato potrebbe far perde re tempo, bisogna ricostituire subito un qualche Coordinamento Metropolitano. Compagni, se non si capisce tutto questo, se non si arriva ad inquadrare questi fatti “misteriosi” grazie ad un insieme coerente di posizioni di classe sul capitalismo di stato, le lotte di liberazione nazionale, i “paesi socialisti”, etc., si costruisce sulla sabbia e si inganna il proletariato.
Noi non siamo qui per sparare sentenze o cazzate sul movimento, ma per lavorare con tenacia a quello che è oggi il compito fondamentale dei rivoluzionari: il raggruppamento internazionale in vista delle battaglie future e decisive. Svolgere questo ruolo per noi non significa dare la caccia a qualche compagno per rinfoltire le nostre fila, significa dare in maniera organizzata e militante il proprio contributo e stimolo attivo all’ancora confuso e discontinuo processo di chiarificazione che è in corso nel movimento di classe. Sarà questa chiarificazione ad allargare le fila dei rivoluzionari. Scorciatoie orizzontali non abbiamo da offrirne: non esistono. Se qualcuno ha ancora illusioni sulla possibilità di contrabbandare un qualche coordinamento di comitati di base come partito rivoluzionario, ora se le faccia passare e presto: di tempo ne ha già perso, e parecchio.
BEYLE
[1] “Atti del Convegno di scioglimento” in Potere Operaio n° 50, Novembre ‘73, pag. 3.
[2] Ibidem, pag. 3.
[3] “I sindacati contro la classe operaia”, in Rivoluzione Internazionale n° 1, Dicembre ‘74.
[4] Senza scendere in dettagli, ricordiamo che il debito con l’estero passa da 71 e 61 milioni di dollari del ‘71 e ‘72 a 465 milioni nel ‘73 e 890 milioni nel ‘74.
[5] Avviene qui il crollo delle ultime illusioni su un sindacalismo combattivo, autonomo dai partiti, e sul ruolo dei Consigli di Fabbrica.
[6] Rosso n° 11, giugno 1974, pag. 33.
[7] “Alle Avanguardie per il Partito” in Potere Operaio 1970, pp. 70-71.
[8] E’ chiaro che questo non ha niente a vedere con la concezione dei rivoluzionari come “consiglieri” della classe, poiché è possibile svolgere un tale ruolo solo se ha una funzione attiva all’interno del movimento proletario.
[9] Potere Operaio, luglio ‘73.
[10] Da un documento BR che, non a caso, fu scritto all’epoca del sequestro Amerio.
[11] Potere Operaio, marzo ‘73.
[12] Vedi Controinformazione n° 3-4 pag. 70 “Brigate Rosse, stile di lavoro, teoria e pratica”.
[13] La nostra caratterizzazione delle BR come gruppo controrivoluzionario non è in contraddizione con la presenza al loro interno di numerose avanguardie di fabbrica. E’ il programma che un gruppo difende che ne caratterizza la natura di classe, non la sua composizione sociale. Sulle posizioni controrivoluzionarie delle BR (battere la DC!) torneremo presto.
[14] Rosso n° 11, ottobre ‘74, pag. 10.
[15] Rosso n° 13, dicembre ‘74, pag. 9.
[16] Rosso, novembre ‘75, pag. 10.
[17] Marx-Engels, La Sacra Famiglia.
[18] Lotta Femminista, poi Comitati per il Salario al Lavoro Domestico, è il componente principale del Collettivo Internazionale Femminista, fondato a Padova nel ‘72, cui appartengono pure Power of Women di Selma James in Inghilterra ed analoghi gruppi a New York ed in Canada.
[19] Dal libro “Le Operaie della casa”, ed. Marsilio 1975, pag. 23.
[20] Marx-Engels, “La Sacra Famiglia”.
[21] Selma James, marzo 1972, ora in “Sottosopra” 1973, pag. 10.
[22] “Le operaie della casa” n°1 giugno-luglio ‘76, pag. 10.
[23] Rivoluzione Internazionale n° 8, Aprile ‘77, pag. 7.
[24] Rosso n° 19-20, giugno ‘77, pag. 3. Il Volantone è firmato da Comitati Proletari Comunisti - Comitati Comunisti per il Potete Operaio - Collettivi Politici Operai - Comitato Comunista (ml) di Unità e di Lotta - Partito Comunista (m-l) Italiano.