Annata 2012
Nelle ultime settimane di marzo degli atroci atti di violenza hanno scioccato il mondo.
All’inizio di marzo, nella provincia afghana di Kandahar, il sergente americano Robert Bales ha sparato freneticamente sulla gente. E’ andato di casa in casa, sparando metodicamente sui civili afghani. Ha ucciso 16 persone, la maggior parte donne e bambini. A metà marzo c’era stato il massacro a Toulouse, in Francia, per mano di Mohammed Merah[1] che ha detto voleva vendicarsi del divieto di portare il burqa in Francia, dell’invio dell’esercito francese in Afghanistan e dell’oppressione dei palestinesi da parte dello Stato di Israele.
La ragione del delirio omicida di Robert Bales è ancora sconosciuta. In ogni casso egli ha perso ogni controllo e nella sua cieca sete di distruzione voleva uccidere più gente possibile.
Non vogliamo soffermarci sulla traiettoria particolare di questo soldato americano che ha affilato gli artigli omicidi “legalizzati” agli ordini dei suoi capi. Né vogliamo qui soffermarci sulle sofferenze infinite che vivono le popolazioni vittime delle molteplici guerre in tutto il mondo. Non è una novità che la guerra apre la porta ai peggiori abusi, collettivi e individuali. Tutta la storia delle società di classe, e al primo posto quella della borghesia e del capitalismo, è piena di prove in tal senso. Le due guerre mondiali del 20° secolo, ma anche tutti gli altri orrori e abomini che hanno puntellato la barbarie dei massacri che si sono moltiplicati negli ultimi 60 anni, hanno dimostrato che questa tendenza non fa che accelerarsi. Vogliamo invece qui soprattutto illustrare attraverso il soldato Bales (e Mohamed Merah) fino a che grado di lavaggio del cervello gli individui vengono spinti in un contesto di nazionalismo esacerbato e di sottomissione alla logica dell’omicidio pianificato e giustificato da e per un’ideologia dell'odio alimentata quotidianamente da tutti i campi della borghesia.
“Voglio aiutare il mio paese....”
Il New York Times del 17 marzo ha riferito che Bales si era arruolato nell’esercito subito dopo l’11 settembre. “Voglio aiutare il mio paese” era stata la sua motivazione. Tuttavia quando è stato inviato sul campo di battaglia, ha preso coscienza che la vita dei soldati americani (come quella di tutte le truppe dell’ISAF[2]) era in pericolo 24 ore su 24. Ogni giorno dovevano aspettarsi un attacco odioso e criminale in qualsiasi momento, spesso a sorpresa. Il giorno prima del massacro, Bales era stato testimone di una scena orrenda in cui uno dei suoi colleghi aveva perso una gamba su una mina. Non sappiamo quante vittime civili o tra combattenti nemici ha visto né a quante fucilazioni ha dovuto partecipare. Ma il caso di Robert Bales non è un’eccezione.
È provato che la guerra crea terribili danni psicologici. “Più di 200.000 persone (cioè un quinto di tutti i veterani della guerra in Iraq e in Afghanistan) fin dall’inizio della guerra in questi paesi, hanno subito un trattamento negli ospedali militari - tutti in trattamento per turbe da stress post traumatiche (PTSD). ‘USA Today’ ha pubblicato dei dati nel novembre 2011 che si rifanno agli archivi dell’Associazione dei Veterani. La stima del numero di casi non riportati di veterani di guerra ammalati è probabilmente molto più elevata. (…) L’esercito riconosce solo 50.000 casi di PTSD (Post Traumatic Syndrom Disorder)”[3].
Circa un terzo dei soldati della guerra del Vietnam tornò a casa con disturbi psicologici molto importanti. Anche se solo l’1% della popolazione ha prestato servizio nell’esercito americano, il suicidio di soldati rappresenta il 20% di tutti i suicidi. Quasi 1.000 veterani tentano di suicidarsi ogni mese. Come loro stessi dicono: “È un orrore. La guerra cambia il tuo cervello. Tra la guerra e la vita a casa c’è un abisso. Tu cambi, che lo voglia o no. Una volta ritornato a casa, non puoi più trovare un equilibrio”[4].
Il caso di Robert Bales nè è un’illustrazione: se ci si fa prendere dal patriottismo e il nazionalismo si viene catturati da un ingranaggio di distruzione che non fa che danneggiare o distruggere la vita del nemico e della sua popolazione civile, ma i soldati stessi ne vengono dilaniati, mutilati mentalmente ed emotivamente destabilizzati, profondamente feriti. Mentre la classe dominante e suoi ideologi abbelliscono le guerre parlando di “missione umanitaria”, di “missioni di stabilizzazione”, la realtà sul teatro di guerra è completamente diversa.
Sul campo di guerra i soldati vengono precipitati nell’abisso, dove la loro inevitabile diffidenza iniziale evolve in odio e paranoia. Se non erano già inclini al facile uso della violenza prima dell’arruolamento, o se non erano già psicologicamente instabili, molti di loro ritorno a casa profondamente destabilizzati. Quello che viene dipinto come intervento “umanitario” si dimostra essere in realtà l’esercizio del terrore sulla popolazione, con l’umiliazione e la tortura. I soldati sviluppano un senso di soddisfazione/compensazione se possono sfigurare o distruggere i simboli che la popolazione locale ha in grande considerazione, o se possono umiliare degli esseri umani direttamente e apertamente. La popolazione locale che è stata spinta in un impasse spesso non sente che disprezzo per i “liberatori” e, tra essa, molti possono essere facilmente mobilitati per degli attacchi suicidi. In breve, la macchina per uccidere gira a pieno regime.
Dopo tante esperienze traumatiche il soldato Bales non poteva più dire “voglio aiutare il mio paese” perché era particolarmente indignato del fatto che dopo 4 campagne era stato di nuovo mandato in Afghanistan. Secondo la sua compagna le truppe avrebbero preferito essere inviate in paesi più pacifici, Germania, Italia o Hawaii. Il corpo e lo spirito di così tanti soldati vengono mutilati. La brutalità si sviluppa. Una volta tornati a casa, la maggior parte di loro devono affrontare la disoccupazione e la sensazione di non essere a casa da nessuna parte. Il caso della città di Los Angeles è rivelatore: “A Los Angeles ci sono molti veterani senza domicilio. Hanno perso tutto: il loro lavoro, il loro partner, la loro casa. Tutto questo a causa dei loro problemi psicologici e perché non ricevono nessun aiuto. Quasi un terzo di tutti i senzatetto di Los Angeles sono dei veterani”[5].
La NAPO (Associazione Nazionale Britannica degli Agenti di libertà vigilata) stima che “12.000 (soldati precedentemente impiegati) sono in libertà vigilata e altri 8.500 dietro le sbarre in Inghilterra e nel Galles. Questo totale di più di 20.000 è più del doppio del numero di militati attualmente in servizio in Afghanistan”[6].
Il soldato Bales può essere condannato alla pena di morte per la legge americana. Invece di cercare e di spiegare perché il patriottismo e il nazionalismo portano necessariamente a orge di violenza e alla distruzione delle vittime, il sistema giudiziario americano, che ne è l’istigatore, agisce da giudice e fa “giustizia”. Vuole lavarsi le mani della sua responsabilità dopo che la guerra e l’esercito hanno talmente danneggiato i soldati da far loro perdere l’auto controllo e “collassare”. Il “benessere” per gli psicologi dell’esercito ha un unico scopo: i soldati devono essere idonei a combattere. Lo psicologo e regista Jan Haaken ha mostrato nel suo documentario “Mind Zone” il ruolo che giocano gli psicologi: “Non siamo qui per ridurre il numero di soldati. In caso di dubbio i soldati sono dichiarati idonei al combattimento, per tutto il tempo che possono fare il lavoro”6.
Mentre la maggior parte dei soldati (che si vedono all’inizio come chi contribuisce alla “liberazione” del paese dal giogo dei talebani), come pure la popolazione locale sottoposta a grande sofferenza fisica e psicologica, lo stesso sistema, dal canto suo, è asfissiato dall’onere economico della guerra. Gli Stati Uniti, che hanno scatenato la guerra più lunga nella loro storia, hanno accumulato una spesa enorme per questa. “La fattura finale sarà almeno di 3,7 miliardi di dollari, secondo il progetto di ricerca ‘Costs of War’(Spese di guerra) dell’Istituto Watson degli Studi Internazionali dell’Università Brown”[7].
La guerra, in quanto meccanismo di “sopravvivenza” del sistema richiede un prezzo sempre più alto. La sopravvivenza di questo modo di produzione decadente diventa una cosa totalmente irrazionale.
Combattere la barbarie con dei mezzi barbari?
La spirale di violenza, la macchina di distruzione, che eliminano tutto ciò che è umano, non possono essere rotti con gli strumenti del sistema capitalista. Per rovesciare questo sistema disumano il fine e i mezzi devono essere in armonia l’un l’altro.
“La rivoluzione proletaria non ha bisogno del terrore per raggiungere i suoi obiettivi. Odia e aborre l’assassinio. Non ha bisogno di questi strumenti, perché lotta non contro gli individui, ma contro le istituzioni, perché non scende in campo con ingenue illusioni da vendicare con il sangue allorquando vengano deluse. Non è il tentativo disperato di una minoranza che con la violenza vuole modellare il mondo secondo il suo ideale, ma l’azione della grande massa di milioni di uomini che compongono il popolo, chiamati ad assolvere al loro compito storico e fare della necessità storica una realtà” (Rosa Luxemburg, Cosa vuole la Lega Spartakus?)
DV (25 marzo)
[1] Vedi “Les drames de Toulouse et Montauban sont des syptômes de l’agonie barbare de la société capitaliste”, https://fr.internationalism.org/icconline/2012/la_folie_meurtriere_du_soldat_bales_en_afghanistan_reflete_la_folie_du_monde_capitaliste.html [1]
[2] . International Security Assistance Force (ISAF) è una forza speciale internazionale che impiega circa 58.300 militari provenienti da una quarantina di nazioni in missione di supporto al governo dell’Afghanistan.
[3]https://www.spiegel.de/politik/ausland/amoklaeufer-bales-litt-offenbar-unter-posttraumatischem-stress-a-822232.html [2]
Se le responsabilità sono ancora tutte da verificare, e chissà se saranno mai accertate, quello che invece sembra da subito chiaro è l’uso di questo attentato che lo Stato ha deciso di fare. Subito dopo lo scoppio, a partire da un video che ritrae un uomo che preme un telecomando, il procuratore di Brindisi avanzava l’interpretazione che si trattasse di un gesto isolato di una personalità distorta che aveva qualche motivo per avercela con il mondo, e sulla base di questa ipotesi il quotidiano Repubblica di lunedì 21 pubblicava tutto un articolo per spiegare che i motivi del gesto erano legati alla scuola. Contemporaneamente però il procuratore antimafia di Lecce e quello nazionale cominciavano a parlare di gesto terroristico con finalità stragiste, e questo a prescindere dal fatto che il gesto “provenga dalla mafia, o da un folle isolato o da un’organizzazione eversiva” (parole del procuratore nazionale antimafia Grasso). Insomma sin dal primo momento gli organi dello Stato ai più alti livelli hanno imposto che la bomba di Brindisi venisse etichettata come atto di terrorismo, e questo a prescindere dalle responsabilità precise. Pochi giorni dopo, l’inchiesta è stata tolta al procuratore di Brindisi e affidata alla procura antimafia di Lecce, a conferma che bisognava continuare sulla strada della strage terroristica. Dietro questa generica definizione ci si può mettere quello che si vuole, ma quello che è chiaro è che con questa caratterizzazione si vuole creare un clima di paura, un clima in cui anche i semplici cittadini si sentano in pericolo, in qualsiasi luogo e senza motivo apparente, come è stato per la scuola di Brindisi. Creato questo clima[4], da un lato si spingono i settori più deboli della popolazione[5] a stringersi intorno allo Stato, dall’altro si può cominciare ad additare il nemico pubblico nel terrorismo, mescolando in questo termine le vicende più diverse: il gesto di un folle, le stragi di mafia, gli atti dimostrativi del terrorismo politico …, fino agli scontri di piazza.
Gli interventi che vanno in questo senso si susseguono con ritmo crescente: dapprima Monti ha detto che il pericolo principale era il terrorismo, e questo a partire dal semplice agguato al dirigente Ansaldo gambizzato dai sedicenti anarchici della FAI (Federazione Anarchica Informale, raggruppamento di cui si sa molto poco), poi si è aggiunto il capo della polizia Manganelli a lanciare lo stesso allarme, con i giornali borghesi pronti a raccogliere il segnale: “Ma come se non bastasse il terrorismo anarchico, anche le proteste violente (Napoli) contro Equitalia, oltre che i pacchi esplosivi, è poi arrivato l’attentato di Brindisi, la morte di Melissa.” (La Stampa, 26/5/2012), e la settimana precedente il TG3 (sì, quello dell’estrema sinistra) in un servizio dedicato alla gambizzazione del dirigente Ansaldo mostrava … le immagini degli scontri di Napoli davanti alla sede di Equitalia![6]
Così il cerchio si chiude! Per quelli che non accettano di schierarsi dietro lo Stato, è pronta l’etichetta di terrorista, e perché no, anche di stragista, visto che tutto viene messo sullo stesso piano.
Non ci si deve meravigliare di questo uso cinico della morte di una ragazzina[7]: un sistema in piena crisi economica, sociale e politica, non arretra di fronte a nessuna nefandezza pur di sopravvivere; un sistema che non esita a bombardare civili inermi, come in Iraq e in Afganistan, chiamando questi interventi “missioni di pace” o di ristabilimento della democrazia, un sistema in cui leader affermati e rispettati nel resto del mondo non esitano a bombardare le loro stesse popolazioni per difendere il loro potere, un sistema ridotto così non ha nessun rispetto né per le vite umane, né per le sofferenze delle persone che vedono distrutte le loro vite, che sia per la crisi o per la morte dei propri cari. Un sistema così è già la barbarie dispiegata, e in un sistema così non ci si deve meravigliare nemmeno che una ragazzina possa morire senza motivo, mentre entra a scuola.
Helios, 02/06/2012
[1] Nel 1993-94 la mafia fece scoppiare bombe a Roma e a Firenze, con morti e feriti tra i passanti. Le indagini più recenti affermano che era in atto una trattativa tra mafia e Stato, su quali fossero i limiti della prima che il secondo avrebbe sopportato, e che perciò la mafia, con le bombe, cercava di spingere il braccio di ferro dalla propria parte. In realtà la questione era un po’ più complessa perché il braccio di ferro era tra diverse frazioni della borghesia, con la mafia che appoggiava l’una piuttosto che l’altra, e quindi gli attentati facevano parte di questa guerra tra gang borghesi. Vedere in proposito gli articoli: Attentati di mafia: I regolamenti di conti tra capitalisti [9], su Rivoluzione Internazionale n°77 di ottobre 1992, e “Bombe di Roma e Firenze: nessuna solidarietà con lo Stato borghese”, su Rivoluzione Internazionale n°81 di giugno 1993.
[2] Repubblica di lunedì 21 maggio faceva generici riferimenti ad una possibile responsabilità di “anarchici greci” nella strage. Checché se ne pensi degli anarchici greci, che interesse potrebbero avere a fare strage di ragazzine innocenti? Ma quando si tratta di spargere veleno la logica se ne va a farsi benedire.
[3] La strategia della tensione fu il clima creato contro le lotte di lavoratori e studenti di fine anni sessanta, inizio anni settanta, un clima creato con bombe e stragi (Piazza Fontana, Milano 1969, Piazza della Loggia, Brescia 1974, Stazione di Bologna 1980, …) di cui non sono mai stati trovati dei responsabili certi… Nelle indagini su queste stragi, si è spesso parlato di “forze oscure” che avrebbero manovrato gli esecutori di queste stragi, in genere settori di servizi segreti, definiti per comodo “settori deviati”.
[4] A meno di una settimana dalla bomba di Brindisi alla preside di un liceo romano è arrivato un sms che minacciava un attentato anche lì. Che si sia trattato del gesto sconsiderato di qualche irresponsabile o di apparati dello Stato che hanno il compito di alimentare questo clima di paura, il dato di fatto è che questo clima si sta sviluppando.
[5] Cioè quei settori più suscettibili di essere influenzati dalla propaganda borghese: piccola borghesia, quelli che vedono solo la televisione e non hanno la possibilità di confrontarsi in una riflessione più approfondita, e così via.
[6] En passant va detto che quelli di Napoli non sono stati nemmeno dei veri scontri, ma una semplice violenza della polizia contro dei lanci di uova e scritte sulle mura.
[7] Poiché non ci piace lanciarci in speculazioni, ci limitiamo a parlare di uso, ma niente esclude che lo zampino dello Stato possa esserci stato fin dall’inizio.
Presentazione del testo
Questo testo, che noi condividiamo nella sua impostazione e nei suoi contenuti, è stato prodotto da un nostro simpatizzante che ci segue da moltissimo tempo e che ha voluto in questo modo offrire il suo prezioso contributo all’attività dell’organizzazione. Noi non possiamo che incoraggiare questa pratica di sostegno che viene da compagni che, pur non militando. almeno nell’immediato, nella nostra organizzazione, ne condividono gli obiettivi e la politica condotta in generale. E’ quanto abbiamo espresso anche nel nostro recente articolo Come aiutare la CCI [13]. Per quanto riguarda l’articolo, le tematiche affrontate al suo interno risultano di particolare attualità in un momento in cui l’Italia viene attraversata ancora una volta dal terrore delle bombe. Sull’analisi della strage di Brindisi torneremo appena possibile, ma intanto questo articolo ci può aiutare a ricordare cosa è e cosa è stata la mafia nella storia d’Italia e non solo.
I primi rapporti Stato/mafia
Le connivenze tra mafia e Stato hanno un’origine lontana nel tempo e hanno inizio dal periodo compreso tra la fine del regno delle Due Sicilie e l’inizio dello Stato unitario. In una condizione storica di depressione economica, legata ad un tipo di economia latifondista ed ancora semifeudale, quale si presentava in particolare l’arretrato sud Italia durante l’ultimo periodo del regno delle due Sicilie, i notabili feudali e la semi-nobiltà siciliana, per assicurare i propri interessi e la salvaguardia delle rispettive proprietà terriere, solitamente, assoldavano certi individui appartenenti ad un particolare ceto sociale: massari, fattori, gabellotti (Fonte: Wikipedia). Questi, nello svolgimento di tale lavoro, ed anche per avere loro stessi ulteriori vantaggi economici, tendevano ad ottenere dagli ultimi servi della gleba, poveri contadini e braccianti in genere, un aumento della loro produttività lavorativa.
E ciò era possibile tenendoli costantemente sotto controllo con l’uso di metodi coercitivi e violenti, avvalendosi di scagnozzi prezzolati, proprio come i bravi di manzoniana memoria. Questi, trasformandosi ben presto in gruppi semisegreti e permanenti, assunsero per l’appunto il nome di sette, confraternite e cosche. Alcuni storici attribuiscono la nascita di tale fenomeno ad una scarsa presenza dello Stato sul territorio, e ciò è vero, ma questa era soprattutto prodotta dalla depressione economica alla cui origine troviamo principalmente, come precedentemente detto, l’arretratezza economica della zona.
È da notare come queste primitive organizzazioni malavitose, che vivevano, come su detto, estorcendo gran parte dei loro privilegi economici agli sfruttati, ai braccianti o a piccoli artigiani, e spesso anche “derubando” gli stessi proprietari terrieri, nella misura in cui la stessa zona evolveva verso una certa modernizzazione, da fenomeni prettamente locali subiscono un processo di trasformazione che le porta ad acquisire una crescente ed importante dimensione nazionale ed addirittura internazionale: diventano veri e propri organismi di controllo sociale al servizio diretto dello Stato, e di conseguenza anche degli imperialismi, pur mantenendo, almeno nelle loro diramazioni più periferiche, comportamenti organizzativi da manovalanza malavitosa (cosa nostra).
Le “collusioni” tra Stato e mafia sono poi proseguite nel corso dell’Italia del XX secolo, dall’era giolittiana al fascismo, dallo sbarco degli alleati in Sicilia e fino ai nostri giorni.
Nel 1910 Gaetano Salvemini, socialista meridionalista, denunciò il malcostume politico e le gravi responsabilità del democratico socialisteggiante Giovanni Giolitti accusando quest’ultimo di essere: "Il ministro della malavita" nel suo omonimo libro (Fonte: Wikipedia).
Nella metà degli anni 20 Mussolini dichiarò guerra alla Mafia. “Io la prosciugherò come ho prosciugato le paludi pontine” afferma. Le truppe del prefetto Cesare Mori hanno proprio questo incarico in Sicilia. Ma dopo i primi successi contro i residui di un brigantaggio rurale il prefetto di ferro, come fu nominato per i suoi modi risolutivi, scontrandosi con i santuari dello stesso PNF (Partito nazionale fascista) in Sicilia, coinvolgendo anche il federale e deputato del PNF Alfredo Cucco, uno dei massimi esponenti del fascio dell’isola, verrà promosso senatore dallo stesso duce e quindi rimosso dall’incarico. Per più dettagli leggere La menzogna dello Stato "democratico". L'esempio degli organismi segreti nello Stato italiano [14] su Rivista Internazionale n°18.
Con l’entrata in guerra nel 1941, gli USA riconoscono l’importanza strategica della Mafia, che renderà effettivamente servizi molto importanti allo Stato americano durante la guerra. Dopo aver piazzato le sue carte in entrambi i campi, quando a metà del 1942 il rapporto di forze pende nettamente a favore degli Alleati, la Mafia mette le sue forze a disposizione degli Stati Uniti. Sul piano interno, impegna i suoi sindacati nello sforzo di guerra. Ma è soprattutto in Italia che mostra il suo ruolo. Durante lo sbarco del 1943 in Sicilia le truppe americane beneficiano dell’efficace sostegno della Mafia locale. Sbarcati il 10 luglio, i soldati americani fanno una vera passeggiata, incontrano poca opposizione e dopo solo sette giorni Palermo è sotto il loro controllo. Per maggiori dettagli leggere: La menzogna dello Stato "democratico". L'esempio degli organismi segreti nello Stato italiano [14] su Rivista Internazionale n°18.
Prima ancora che la seconda guerra mondiale fosse finita, quando il destino delle forze dell’Asse era già segnato, il nuovo antagonismo che si sviluppa tra gli Stati Uniti e l'URSS polarizza l'attività degli stati maggiori e dei servizi segreti. In Italia, la situazione è particolarmente delicata per gli interessi occidentali. Vi è il Partito stalinista più forte dell’Europa occidentale che esce dalla guerra con un’aureola di gloria per il suo determinante ruolo nella resistenza contro il fascismo. Mentre si preparano le elezioni del 1948, in conformità alla nuova costituzione nata con la Liberazione, aumenta l’inquietudine tra gli strateghi occidentali, perché nessuno è certo del risultato, ed una vittoria del PCI sarebbe una catastrofe. La campagna elettorale che dovrebbe santificare la nuova repubblica democratica è al suo culmine. L’apparato finanziario ed industriale, l’esercito, la polizia, che erano stati i principali sostenitori del regime fascista, si mobilitano e, di fronte al pericolo “comunista”, abbracciano la causa della difesa della democrazia occidentale. La Mafia, nel sud Italia, si impegna attivamente nella campagna elettorale, finanziando la Democrazia Cristiana, dando indicazioni di voto alla sua clientela.
Uno degli episodi più significativi di questo periodo è quello della La strage di portella delle ginestre dove lo Stato impara a far eseguire il lavoro sporco alla mafia per non compromettere la sua immagine democratica.
Il 1°maggio 1947, nell'immediato dopoguerra, si tornava a festeggiare la festa dei lavoratori, spostata al 21 aprile durante il regime fascista. Circa duemila lavoratori della zona di Piana degli Albanesi, in prevalenza contadini, si riunirono nella vallata di Portella della Ginestra per manifestare contro il latifondismo, a favore dell'occupazione delle terre incolte, e per festeggiare la vittoria del Blocco del Popolo nelle recenti elezioni per l'Assemblea Regionale Siciliana, svoltesi il 20 aprile di quell’anno e nelle quali la coalizione PSI-PCI aveva conquistato 29 rappresentanti (con il 29% circa dei voti) contro i soli 21 della DC (crollata al 20% circa). Sulla gente in festa partirono dalle colline circostanti numerose raffiche di mitra che lasciarono sul terreno, secondo le fonti ufficiali, 11 morti (9 adulti e 2 bambini) e 27 feriti, di cui alcuni morirono in seguito per le ferite riportate. La CGIL proclamò lo sciopero generale, accusando i latifondisti siciliani di voler “soffocare nel sangue le organizzazioni dei lavoratori”. Solo quattro mesi dopo si seppe che a sparare materialmente erano stati gli uomini del bandito separatista Salvatore Giuliano, colonnello dell’E.V.I.S (Esercito Volontario per l’Indipendenza della Sicilia). Il rapporto dei carabinieri sulla strage faceva chiaramente riferimento ad “elementi reazionari in combutta con i mafiosi locali” (Fonte: Wikipedia).
Da quel momento lo Stato italiano, i suoi servizi segreti con l’organizzazione clandestina GLADIO, insieme ad ambienti legati alla destra estrema ed a cosa nostra sono andati a braccetto e sotto la regia dell’imperialismo USA si sono divisi i compiti per affrontare sia problemi inerenti alla contrapposizione dell’altro blocco imperialista, l’URSS, e sia per affrontare quelli di ordine interno. Questo connubio si è protratto fino a quando non è crollato alla fine degli anni 1980 ed all’inizio degli anni 1990 il blocco dell’Est. Per maggiori dettagli leggere: La menzogna dello Stato "democratico". L'esempio degli organismi segreti nello Stato italiano [14] su Rivista Internazionale n°18.
In breve, fin dalle loro origini, se ci riferiamo all’Italia, tali organizzazioni non sono che parti organiche dello Stato, prima borbonico e poi sabaudo post unitario. Tuttavia, attribuire questo fenomeno solo al sud Italia sarebbe comunque un errore perché è la borghesia mondiale di tutte le nazioni che, costretta dal suo sistema di sfruttamento, in un modo o nell’altro, ha dovuto fare lo stesso percorso costituendo una sua componente illegale e mafiosa, come è dimostrato dall’esistenza della potente Yakuza (mafia) giapponese, quella russa, albanese, messicana, cinese, americana, ecc.
Specifica ai sistemi sociali classisti di sfruttamento dell’uomo sull’uomo, la mafia è inscritta nelle basi genetiche (DNA) dello Stato borghese ....
L’11 maggio del 1860 i Mille sbarcarono a Marsala e, sbaragliando la prima resistenza borbonica, avanzarono verso Palermo, che fu presa dai garibaldini il 30 maggio. Presto tutta l’isola sarà governata dalle truppe garibaldine e da notabili siculi che avevano appoggiato la loro impresa. In questa occasione, secondo lo storico Giacinto de’ Vivo, si segnalarono scorribande in tutta l’isola di camorristi armati di coltelli, pistole e persino fucili inneggiando all’Italia, Vittorio e Garibaldi.
“Nel 1860, mentre con la spedizione dei Mille si apriva la fase finale del regno delle due Sicilie, Liborio Romano, nonostante sia stato un ex carbonaro e per questo condannato al carcere e poi all’esilio, venne nominato dal re Francesco II prefetto di Polizia. Il 14 luglio 1860 Romano venne nominato ministro di polizia e, avendo capito in anticipo l'ineluttabilità della fine del regno, iniziò a prendere contatti segreti con Camillo Benso conte di Cavour e con Giuseppe Garibaldi e a preparare il traghettamento del Mezzogiorno dai Borbone ai Savoia. (fonte: Wikipedia). Risale a questo momento il coinvolgimento diretto della camorra da parte sua, «in virtù della sua organizzazione e del suo potere di controllo territoriale».[1]
“Nel suo domicilio privato [Romano] ospita l’uomo più potente della camorra di quei tempi Salvatore de Crescenzo detto Tore’ e Crescienzo. Romano convince il re a firmare alcuni decreti di amnistia ad personam per Crescienzo ed i suoi accoliti. In cambio costoro vengono arruolati nella polizia per far fronte ai gravi disordini di quei giorni. Alla fine i delinquenti si trasformano in “collaboratori di giustizia”. I ladri fanno le guardie … Quel patto Romano lo conclude subito … D’altronde quella condotta non scandalizza l’uomo politico italiano più influente in quel momento, ossia il conte Camillo Benso di Cavour. Lui manifesta espressamente il suo plauso a Romano per come si comporta da ministro della polizia a Napoli”.[2] “Sempre nel 1860 a Caserta i camorristi vengono incaricati dall’ex governatore Pizzi della gestione dell’ordine pubblico in occasione dell’arrivo in città dei garibaldini. Nelle strade di Caserta, Marcianise, e Santa Maria Capua Vetere c’erano duemila affiliati. … [dice Morosini] Se la mafia e la camorra fossero solo bande criminali non sarebbero presenti sul territorio nazionale a partire dall’unità d’Italia. La loro longevità è sintomo di alcune gravi fragilità istituzionali del nostro Paese. Le associazioni mafiose, soprattutto nelle regioni del Sud, si sono progressivamente rafforzate con la “frequentazione” di politici, amministratori, uomini delle forze dell’ordine, magistrati. Lo dicono le nostre origini” [3].
In realtà era il governo che aveva bisogno della mafia, della malavita organizzata, di questo suo braccio armato illegale per difendere l’ordine pubblico del nuovo Stato unitario, come affermò coraggiosamente il parlamentare calabrese Diego Tajani in un suo clamoroso intervento denuncia tenuto alla camera il 12 giugno 1875:
“La mafia che esiste in Sicilia non è pericolosa, non è invincibile di per sé, ma perché è strumento di governo locale. Questa è la prima verità incontrastabile. [...] L'altro insegnamento è questo: che le leggi non funzionano completamente per la mancanza di fiducia degli amministratori nell'amministrazione. Imperocché, o Signori, che cosa è mai una legge? Una legge è un pezzo di carta: essa sarà buona, sarà pessima, sarà ottima, se sono buoni, se sono pessimi, se sono ottimi i funzionari! Che le devono infondere l'anima”[4].
Alla fine del suo discorso l'aula di Montecitorio si trasforma in una bolgia. Tajani viene accerchiato dai colleghi della maggioranza. Lo vogliono aggredire. Sono inviperiti. Il deputato calabrese non si scompone. È una sfinge. Fisico asciutto e vigoroso, calvizie incipiente e occhiali sul naso, li guarda con un freddo sorriso. Il calabrese Tajani non ha paura. Punta il dito verso il governo del nuovo Stato. Lo accusa di utilizzare i mafiosi per difendere l’ordine pubblico. E parla a ragion veduta. Prima di essere eletto alla Camera, è stato per quattro anni (1868-1872) Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Palermo. Sa tante cose su come la Destra ha governato la Sicilia agli albori dell’Italia unita, sugli strumenti utilizzati per fronteggiare il banditismo e garantire l’ordine pubblico. (Fonte: Attentato alla giustizia - Piergiorgio Morosini - Rubettino)
Un altro eclatante episodio che mette in chiaro i rapporti tra Stato e mafia è legato all’omicidio di uno stimato uomo delle istituzioni, Emanuele Notarbartolo, avvenuto il 1° febbraio del 1893 su una carrozza ferroviaria di un treno che stava percorrendo la linea Termini Imerese Palermo. Dell’omicidio fu accusato come mandante il deputato Salvatore Palizzolo, mentre come esecutori materiali furono accusati due esponenti della cosca di Villabate, Matteo Filippelli e Giuseppe Fontana. Nonostante che la testimonianza diretta del questore di Palermo, Ermanno Sangiorgi, ed i vari accertamenti di polizia inchiodassero al muro il mandante e gli esecutori materiali, costoro alla fine vennero assolti. Il Sangiorgi, intanto, dovette far fronte ad accuse infamanti che una certa regia di stampo governativo, attraverso la stampa dell’epoca, gli aveva lanciato contro durante appunto le fasi processuali. Chiaramente queste accuse risultarono successivamente infondate, ma intanto erano servite a rendere nulle le sue testimonianze. Tuttavia, i giudici della Corte di Appello di Palermo il 26 ottobre del 1891 assolvono Albanese per l’omicidio Termini e per gli altri reati con una motivazione alquanto discussa: “Verosimile che il Questore il quale conoscea Termini un facitore di lettere di scrocco si fosse mostrato soddisfatto della morte di lui, ed avesse fatto ogni insistenza, perché risultandone indiziata la forza pubblica oculatamente si procedesse”. (Fonte: Attentato alla giustizia - Piergiorgio Morosini - Rubettino).
Questa ricostruzione storica è essenziale per capire che, come da sempre sostenuto dalla CCI, occorre sfatare il luogo comune diffuso strumentalmente dai media borghesi secondo cui, pur ammettendo la stretta collusione che ci può essere stata o che ci sta ancora tra mafia e Stato, queste due organizzazioni restano comunque distinte. Invece mafia e Stato borghese, oggi come oggi, nel periodo di decadenza e decomposizione della società borghese, si confondono perfettamente, tanto che si fa sempre più fatica ad individuare negli apparati portanti dello Stato (politica, giustizia, interni, esercito, servizi pubblici e privati, industriali, ecc.) settori che non abbiano direttamente o indirettamente avuto rapporti organici con quella che viene in genere definita malavita organizzata (mafia/cosa nostra, ‘ndrangheta, camorra o sotto qualsiasi nome la si voglia definire), o che non lo siano loro stessi in prima persona.
Come si è potuto vedere, oltre alle fonti su citate, gran parte dei riferimenti storici riportati in questo testo, sono da attribuirsi, come è segnalato ad ogni fine citazione, al libro del magistrato Piergiorgio Morosini: Attentato alla giustizia. Tuttavia, in questo suo libro ricerca, l’autore, pur dimostrando con una dettagliata ricchezza di documentazioni storiche tutta una serie di collusioni tra mafia e Stato e fin dai tempi dello Stato borbonico, resta essenzialmente - ed oserei dire ingenuamente convinto - che la mafia, per quanto possa essersi infiltrata nei gangli statali, resti qualcosa di estraneo allo Stato e che pertanto, combattuta dalle forze sane di quest’ultimo, potrebbe essere debellata e sconfitta. Ma non è così!
... di conseguenza per distruggere la mafia è necessario distruggere il capitalismo e proprio a partire dal suo Stato
In ogni società classista di sfruttamento dell’uomo sull’uomo, ed in particolar modo nel capitalismo, è prevalente il carattere mafioso specifico degli sfruttatori. Anche se quest’ultimo, nei periodi di prosperità economica, possa essere alquanto mascherato da certe politiche di falsa trasparenza dal forte sapore “moralistico” con cui si cerca di far passare la borghesia come un “sistema democratico libero ed uguale per tutti”. Ed è per tale motivo che la forma di dominio della borghesia risulta essere la più subdola e perniciosa organizzazione (mafiosa) di tutte le classi sociali dominanti della storia, perché non solo sfrutta gli operai, ma sa anche ostacolarne la presa di coscienza, mascherando bene la sua natura brigantesca.
La borghesia è una classe sociale che, quando ha potuto, proprio per non sporcare la propria immagine più di quanto non faccia il suo barbaro sfruttamento sulle classi subalterne, ha preferito lavare i suoi panni sporchi in famiglia. Tuttavia, oggi, questa classe non si fa troppi scrupoli a parlare diffusamente e con una certa insistenza della escalation mafiosa e della malavita organizzata nei vari settori della vita sociale italiana (politici, imprenditoriali ecc.) ed addirittura fino a vertici statali. E parla in particolare del presunto patto Stato/mafia avvenuto nel 1993, che avrebbe prodotto ingenti danni alla società civile che si sono protratti, aggravandosi ulteriormente, fino ai giorni nostri.
Intanto, questo patto ci viene presentato come un gravissimo evento, il cui contenuto può essere essenzialmente così riassunto: “Sicuramente la mafia, per continuare il suo sporco lavoro illegale, i suoi business legati ad appalti pubblici, privati ecc, si è sempre preoccupata di ricercare delle impunità in alcuni settori statali, e per certi versi, in certi periodi, le ha trovate persino negli apparati verticistici di quest’ultimo, in cambio chiaramente di appoggi elettorali, di controllo territoriale e di altri favori; tuttavia, fino ad ora, non si era mai spinta a chiedere attraverso il papello[5] un vero patto con lo Stato: quest’ultimo, in cambio della fine della strategia del terrore (1992/1993)[6] e della restaurazione di una certa stabilità politica, avrebbe dovuto impegnarsi a garantire certe impunità agli aderenti di cosa nostra e a non ostacolarne gli affari”.
E’ chiaro che “questi panni sporchi lavati pubblicamente” servono a farci intendere che, nonostante ci sia stata tra loro una presenza costante di complessi e stretti rapporti, Stato e malavita organizzata essenzialmente sono rimasti sempre e comunque distinti. Viceversa essi sono stati, come abbiamo visto sopra, intrinsecamente e funzionalmente legati fin dalla nascita dello Stato borghese, e se si arriva ad un momento di frizione come l’episodio del patto, questo bisogna vederlo solo come una delle tante espressioni delle molteplici rese dei conti tra diversi settori contrapposti della borghesia, ispirati ognuno da padrini imperialisti antagonisti, proprio come avviene tra organizzazioni malavitose quando si rompono gli equilibri sul “controllo” territoriale.
Tuttavia, questa resa dei conti del 1993 assume una particolare importanza rispetto a tutte le altre che l’hanno preceduta perché, essendo espressione di un periodo storico inedito nella storia del capitalismo mondiale, ha rappresentato un significativo avanzamento nella decomposizione dei rapporti imperialisti internazionali.
In effetti, alla fine degli anni ′80 ed all’inizio degli anni ′90, in seguito all’ennesima e gravissima crisi economica internazionale, il blocco dell’Est, detto falsamente socialista, crollava implodendo su se stesso. Ciò determinò la rottura dei vecchi equilibri imperialisti e lo sconvolgimento dei rapporti politici ad essi legati. Infatti, gli avvenimenti politici che si svolsero all’indomani di tale evento videro la borghesia europea ed in particolare quella italiana rimettere in discussione la stretta obbedienza agli USA non essendoci più il comune nemico sovietico da combattere. In Italia ciò si concretizzò innanzitutto attraverso la distruzione del vecchio quadro politico, incentrato sul partito della Democrazia Cristiana, ormai sempre più impantanato in un sistema di corruzione, concussione e finanziamento illecito ai partiti, denominato “tangentopoli”[7], ad opera di un’azione giudiziaria condotta da un pugno di magistrati che è passata alla storia con il nome di “mani pulite”[8]. Questa operazione fu stimolata, sebbene in un modo abbastanza trasversale e caotico, da quelle forze politiche che, a fatica, cercavano di ricomporsi raggruppandosi tendenzialmente intorno ad interessi filo-europei (asse franco-tedesco). In quel particolare momento storico, quest’ultime, in tal modo, si contrapponevano a quelli del rimanente partito filoamericano espresso ancora e soprattutto da quei ranghi politici ed economici ancora legati a cosa nostra. Tuttavia, questo vecchio quadro politico, che andava sempre più sgretolandosi, non avrebbe potuto svolgere quei compiti di risanamento dei conti pubblici e quelle riforme strutturali draconiane, necessarie già allora alla borghesia italiana per evitare il rischio di fallimento della propria economia. Ed, infatti, all’epoca, proprio per far digerire alla classe operaia i nuovi sacrifici richiesti dalla crisi economica, come oggi accade con il governo Monti[9], si ebbe bisogno, di un governo tecnico - governo Amato - e di un patto sociale sottoscritto da governo, sindacato e Confindustria.
In quel periodo, il partito filo-americano sembrava il più debole, dilaniato anche da una serie di eventi sorprendenti e sanguinosi. Tra questi ricordiamo alcuni tra i più significativi: l’uccisione il 12 marzo del 1992 a colpi di pistola, come regolamento di conti tra ex alleati mafiosi, dell’europarlamentare democristiano Salvo Lima, proconsole di Andreotti in Sicilia, eletto a Strasburgo con circa 300.000 preferenze, ma già accusato di Mafia; l’arresto il 24 dicembre 1992 di Bruno Contrada, capo in Italia meridionale di quella componente dei servizi segreti denominata SISDE (Servizio per le Informazioni e la Sicurezza Democratica), accusato di concorso esterno in associazione di stampo mafioso, e per questo reato condannato il 24 settembre 2011 a 10 anni di reclusione.
Sentendosi minacciato nei propri gangli vitali (politica, affari ecc.) il partito filo-americano, sotto la regia dei servizi segreti dello zio Sam (USA), approntò, attraverso la strategia delle stragi il terreno adatto per proporre il famoso patto. Questo favorì, com’è ormai noto, la nascita nel 1994 del primo governo Berlusconi.
Ora perché dunque la borghesia insiste tanto su un patto tra Stato e mafia?
C’è un’opinione artatamente diffusa dai media borghesi, secondo la quale a minare ed ad aggravare l’economia nazionale, sarebbero una parte di settori politici corrotti, imprenditori, finanzieri, lobbisti, massoni piduisti, evasori fiscali ecc., che a diversi livelli incrocerebbero i loro affari con quelli della malavita organizzata. Per cui se si riuscisse a combattere ed a sconfiggere questi mali sociali, rafforzando la partecipazione dei cittadini alle istituzioni democratiche, magari eleggendo forze politiche sane, responsabili di fronte allo Stato ed alle sue esigenze di “organo nazionale al di sopra delle parti”, sarebbe possibile dare all’azienda Italia una sterzata verso il risanamento economico e quindi sociale[10]. Ed in questo particolare momento di ennesima richiesta di sacrifici è necessariamente importante per la borghesia italiana far credere ai lavoratori occupati, ai disoccupati, ai precari, ai pensionati, ecc. che, se ci si vuole salvare, è proprio lo Stato come un tutto che deve essere liberato da questi pesanti mali che ne minano la ripresa. Ciò dovrebbe servire a rendere, insieme ad altre mistificazioni economiche (cattiva gestione dell’economia da parte dell’ultraliberismo, finanziarizzazione dell’economia, consumo oltre il consentito ecc.), più docili i lavoratori ad accettare i sacrifici ed ad evitare che essi possano comprendere che l’appello a sostenere quella parte sana dello Stato che potrebbe dare un importante contributo ad aggiustare le cose, è tutto solo trucco, al di là di reali sentimenti di buona fede che possono albergare in questo o quel servitore dello Stato. In altri termini, sfruttando i miasmi della sua decomposizione, la borghesia cerca di impedire agli sfruttati di comprendere che è il capitalismo come un tutto ad essere, lui, un vero sistema di gangster.
Che lo Stato borghese, Stato di capitalisti, sia uno strumento per far funzionare al meglio le leggi del capitale, non è più una novità per alcuno, e come tale, questo Stato, lungi dall’essere un organo sovra partes, non è altro che uno strumento di sfruttamento della classe borghese sul proletariato, e cioè su quella parte della popolazione mondiale che, pur essendo la più importante produttrice di ricchezza sociale, ne risulta la più alienata. Tuttavia, come classe dominante, organizzata in uno Stato di sfruttatori, la borghesia per governare o, più esplicitamente, per far funzionare al meglio l’organizzazione di sfruttamento sulla classe subalterna, ha bisogno di mostrarsi quanto più democratica possibile, deve cioè avere il consenso di quest’ultima, ed è per tale motivo che sostiene ancora con forza e determinazione la sua mistificatoria trappola elettorale. E ciò, oggi, è tanto più necessario in quanto quest’ultima, sotto il peso della crisi economica permanente, che spinge la società in una condizione avanzata di decomposizione, risulta sempre più screditata agli occhi dei lavoratori, come lo dimostra l’alta percentuale - circa il 40% - del cosiddetto “partito” degli astensionisti.
La borghesia non ha scelte, non può rinunciare allo Stato e pertanto lo deve riorganizzare necessariamente, anche a costo di scendere a livelli ancora più apertamente compromettenti con il malaffare organizzato. Ed, infatti, nel 1993 lo Stato e le sue istituzioni, sempre più prede di un processo di decomposizione avanzata, per mantenere ancora a galla ciò che rimaneva della loro “migliore” forma di governo, sono stati costretti a mediare con una delle espressioni più avanzate della loro decomposizione e soprattutto con quella parte di borghesia italiana ancora legata direttamente all’imperialismo USA. E ciò è stato espresso con il diretto passaggio dell’esercizio del governo, anche se ancora “sotto una forma democratica”, nelle mani di settori sociali che, per motivi storici, tradizionalmente risultavano ai margini della legalità e delle istituzioni (governo Berlusconi). Non a caso ad Arcore, residenza del presidente del consiglio Silvio Berlusconi abbiamo trovato come “stalliere” un famoso boss mafioso, Vittorio Mangano, o che al senato troviamo Marcello Dell’Utri, co-fondatore di Forza Italia e senatore poi del PDL, condannato il 29 giugno 2010 presso la Corte d'appello di Palermo a sette anni di carcere per concorso esterno in associazione di tipo mafioso e che ha patteggiato anche una pena di due anni e tre mesi per frode fiscale; ed ancora un Totò Cuffaro, esponente politico dell’UDC, ex governatore della Sicilia, condannato per concorso esterno in associazione mafiosa, e la lista potrebbe continuare ancora per un bel po’.
Però bisogna ben interpretare questi arresti e queste inquisizioni giudiziarie perché, fondamentalmente, restano espressioni degli scontri dovuti ad interessi contrapposti tra bande borghesi. Tuttavia, in un’epoca di decadenza e decomposizione avanzata, quale oggi si trova a vivere il nostro sistema sociale, è proprio vero il contrario e cioè che non esistono più settori borghesi che non ricorrono al malaffare per continuare a fare profitti. In realtà quando gli spazi dell’economia reale si chiudono (crisi da sovrapproduzione generalizzata aggravata da una caduta verticale del saggio del profitto) solo l’economia illegale può essere ancora “conveniente”, essendo legata a profitti parassitari come traffico d’armi, droga, devastazione della pubblica amministrazione, finanza illecita, speculazione edilizia, ecomafia, ecc. Pertanto, se la borghesia continua ad esistere come classe dominante, con il suo Stato, i suoi apparati e le sue istituzioni, non può che essere compromessa con il malaffare diffuso, quindi è come insieme che essa deve comportarsi da vera e propria organizzazione mafiosa. Nonostante ciò, si sforza di selezionare quei settori, quei personaggi o gruppi che, almeno nell’immediato, apparentemente risultano i meno collusi nel tentativo di ridare credibilità ad istituzioni ormai marce. Proprio come fa la chiesa quando sfrutta la “santità” di alcuni uomini (vedi per esempio Francesco d’Assisi) per ridarsi una veste divina ormai compromessa di fronte ai fedeli, così fa la borghesia che cerca di costruirsi una verginità democratica attaccando proprio la sua espressione “illegale”, anche se ogni tentativo, pur ricevendo un incerto credito iniziale, risulta sempre meno convincente. D’altra parte è quasi impossibile trovare un San Francesco nei ranghi della borghesia decadente e decomposta. È veramente difficile credere, per esempio, in un governo Monti che, mentre prepara nuovi attacchi vigorosi alle già disastrose condizioni di vita di tutti i lavoratori italiani, a Montecitorio si esprime contro l’arresto del sottosegretario di Stato all'Economia e alle Finanze del quarto Governo Berlusconi, on. Nicola Cosentino, accusato di essere il referente politico dei casalesi, gruppo camorristico campano ma con diramazioni internazionali.
Nessuna illusione per i proletari: non è combattendo affianco ad alcun settore dello Stato borghese che è possibile distruggere la mafia, la malavita organizzata, il malcostume imperante e palese tra alcuni settori politici, imprenditoriali, finanziari della borghesia ecc. per sperare che si possa uscire dalla crisi. E’ solo con lo sviluppo della nostra lotta autonoma, unita ed a livello internazionale contro gli attacchi della borghesia che noi lavoratori, precari, disoccupati, pensionati possiamo dare a tutta l’umanità una concreta prospettiva di un mondo senza crisi, senza più mafia e Stato, e soprattutto senza più classi sociali da sfruttare.
R.
[2] Piergiorgio Morosini, Attentato alla giustizia, Rubettino.
[3] Piergiorgio Morosini, op. cit.
[4] Idem
[5] Denominazione dialettale sicula per indicare una lista di richieste, nel nostro caso, compilata da capi di cosa nostra.
[6] Tra le più note: 23 maggio 1992, attentato a Giovanni Falcone; 19 luglio 1992, attentato a Paolo Borsellino; 27 maggio 1993, bombe di via dei Georgofili a Firenze; 27 luglio 1993, bombe in via Palestro a Milano; 28 luglio 1993, bombe a Roma a S. Giovanni in Laterano e a S. Giorgio a Velabro. Per maggiori approfondimenti leggere i seguenti articoli: “Attentati di mafia: i regolamenti di conti tra capitalisti” su Rivoluzione Internazionale n°77; “Stragi, mafia, Tangentopoli, massoneria: lotta tra fazioni borghesi e alleanze imperialiste” su Rivoluzione Internazionale n°78; “Bombe a Roma ed a Firenze” su Rivoluzione Internazionale n°81.
[7] Tangentopoli, bombe, scandali: la sanguinosa lotta intestina della borghesia italiana. Rivoluzione Internazionale n°83.
[8] Idem.
[9] Vedere per maggiori dettagli sul ruolo dei governi tecnici l’articolo pubblicato su Rivoluzione Internazionale n°173 “Tolto Berlusconi resta la crisi e le batoste sulla pelle dei proletari”.
[10] Vedere articolo su Rivoluzione Internazionale n°163 [15] “A proposito degli appelli di Saviano. Se la malavita avvelena la società”, la risposta non è più democrazia!”
Tra le caratteristiche costanti si può ricordare:
o esprime questo divenire attraverso la formulazione di obiettivi della classe e del cammino da seguire per raggiungerli;
o raccoglie le posizioni essenziali che l’organizzazione deve difendere nella classe;
o serve da base di adesione;
Tra le caratteristiche più circostanziali si possono mettere in evidenza:
2) Il modo in cui la CCI é organizzata corrisponde direttamente a questi diversi criteri sopra citati:
Ma il carattere unitario a livello internazionale é tanto più marcato per la CCI che, contrariamente alle organizzazioni sorte in precedenza durante il periodo di decadenza (Internazionale Comunista, frazioni di sinistra), non ha alcun legame organico con le organizzazioni provenienti dalla II Internazionale, dove la struttura per paese era più marcata. E’ perciò che la CCI è sorta immediatamente come organizzazione internazionale, stimolando progressivamente l’apparizione di sezioni territoriali, e non come risultato di un processo di avvicinamento di organizzazioni già formate a livello nazionale.
Questo elemento più “positivo” risultante dalla rottura organica é tuttavia controbilanciato da tutta una serie di debolezze legate a questa rottura e riguardanti la comprensione di questioni organizzative. Debolezze che non sono specifiche alla CCI ma che riguardano l’insieme dell’ambiente politico rivoluzionario. Sono queste debolezze che si sono manifestate ancora una volta nella CCI e che hanno richiesto la tenuta di una Conferenza Internazionale e il presente testo.
3) Al centro delle incomprensioni che pesano sulla CCI figura la questione del centralismo. Il centralismo non é un principio astratto o facoltativo della struttura dell’organizzazione. E’ la concretizzazione del suo carattere unitario: esso esprime il fatto che é una sola e stessa organizzazione che prende posizione e che agisce nella classe. Nei rapporti tra le diverse parti dell’organizzazione e il tutto, é sempre il tutto che prevale. Non é concepibile che, nei confronti della classe, vi siano posizioni politiche o concezioni dell’intervento specifiche di questa o quella sezione territoriale o locale. Queste devono sempre concepirsi come parte di un tutto. Le analisi e le posizioni che si esprimono nella stampa, nei volantini, nelle riunioni pubbliche, nelle discussioni con i simpatizzanti; i metodi impiegati nella nostra propaganda come nella nostra vita interna, sono quelli dell’organizzazione nel suo insieme, anche se esistono dei disaccordi su questo o quel punto, in questo o quel luogo, o da parte di questo o quel militante e anche se l’organizzazione porta all’esterno i dibattiti politici che si sviluppano al suo interno. La concezione secondo cui questa o quella parte dell’organizzazione può adottare, di fronte alla classe o all’organizzazione, delle posizioni o degli atteggiamenti che le sembrano corretti al posto di quelli dell’organizzazione ritenuti sbagliati, è del tutto fuori luogo perché:
Nell’organizzazione, il tutto non é la somma delle singole parti. Queste sono delegate a compiere una specifica attività particolare (pubblicazioni territoriali, interventi locali, ecc.) e sono dunque responsabili davanti all’insieme dell’organizzazione del mandato che hanno ricevuto.
4) Il momento privilegiato in cui si esprime in tutta la sua ampiezza l’unità dell’organizzazione è il suo Congresso Internazionale. E’ al Congresso Internazionale che viene definito, arricchito, rettificato il programma della CCI, che sono stabilite, modificate o precisate le sue modalità di organizzazione e di funzionamento, che vengono adottate le sue analisi e gli orientamenti generali, che viene fatto un bilancio delle sue attività passate ed elaborate le sue prospettive di lavoro per il futuro. E’ per questo che la preparazione del Congresso deve essere presa in carica con la più grande cura ed energia da parte dell’insieme dell’organizzazione. E’ perciò che gli orientamenti e le decisioni del Congresso devono servire da riferimento costante all’insieme della vita successiva dell’organizzazione.
5) Tra un congresso e l’altro, l'unità e la continuità dell'organizzazione si esprimono attraverso l’esistenza di organi centrali nominati dal Congresso e responsabili nei suoi confronti. Tocca agli organi centrali la responsabilità (a seconda del livello di competenza: internazionale o territoriale) di:
L’organo centrale é una parte dell’organizzazione e come tale é responsabile nei suoi confronti quando questa é riunita in Congresso. Tuttavia è una parte che ha la specificità di esprimere e di rappresentare il tutto; per questo fatto le posizioni e le decisioni dell’organo centrale prevalgono sempre su quelle delle altre parti dell’organizzazione prese separatamente.
Contrariamente a certe concezioni, particolarmente quelle dette “leniniste”, l’organo centrale é uno strumento dell'organizzazione e non il contrario. Esso non è il vertice di una piramide, secondo una visione gerarchica e militare dell’organizzazione dei rivoluzionari. L’organizzazione non é formata da un organo centrale più i militanti, ma costituisce un tessuto stretto e unito all’interno del quale trovano posto e agiscono tutte le sue componenti. Occorre dunque vedere l’organo centrale piuttosto come il nucleo di una cellula che coordina il metabolismo di una entità vivente.
In questo senso, l’insieme dell’organizzazione é implicata costantemente dalle attività dei suoi organi centrali, i quali sono tenuti a fare dei rapporti regolari sulla loro attività. Anche se il mandato viene reso solo in occasione del Congresso, gli organi centrali sono tenuti a tenere sempre le orecchie aperte alla vita dell’organizzazione e a tenere costantemente conto di questa.
Secondo le necessità e circostanze, gli organi centrali possono essere condotti a designare al loro interno delle sottocommissioni a cui tocca la responsabilità di eseguire e di fare eseguire le decisioni adottate in occasione delle riunioni plenarie degli organi centrali così come di compiere ogni altro compito (particolarmente le prese di posizione) che si renda necessario tra una riunione plenaria e l’altra.
Queste sottocommissioni sono responsabili di fronte a queste riunioni plenarie. Più in generale, i rapporti che si stabiliscono tra l’insieme dell’organizzazione e gli organi centrali valgono anche tra questi e le loro sottocommissioni permanenti.
6) La preoccupazione della più grande unità all’interno dell’organizzazione presiede ugualmente alla definizione dei meccanismi che permettono le prese di posizione e la nomina degli organi centrali. Non esiste alcun meccanismo ideale che garantisca la migliore scelta sulle decisioni da prendere, sulle orientazioni da adottare e sui militanti da nominare negli organi centrali. Tuttavia, il voto e l’elezione sono la migliore garanzia per l’unità dell’organizzazione e la più ampia partecipazione dell’insieme di questa alla sua propria vita.
In generale, le decisioni a tutti i livelli (Congresso, organi centrali, sezioni locali) sono prese (quando non c’è unanimità) a maggioranza semplice. Tuttavia, certe decisioni che possono avere una ripercussione diretta sull’unità dell’organizzazione (modifica della piattaforma o degli statuti, integrazione o esclusione di militanti) sono prese con criteri di maggioranza più forti della maggioranza semplice (3/5, 3/4, ecc.).
Viceversa, nella stessa preoccupazione dell’unità, una minoranza dell’organizzazione può portare alla convocazione di un Congresso straordinario a partire dal momento in cui assume una certa consistenza (per esempio i 2/5): per regola generale, tocca al Congresso pronunciarsi sulle questioni essenziali, e l’esistenza di una forte minoranza che chiede la tenuta di un congresso è evidentemente l’indice dell’esistenza di problemi importanti all’interno dell’organizzazione.
Infine, é chiaro che il voto non ha senso se non nel caso in cui i membri che restano in minoranza si impegnano ad applicare le decisioni prese e che diventano quelle dell’organizzazione.
Nella nomina degli organi centrali é necessario prendere in considerazione i tre elementi che seguono:
E’ in questo senso che si può dire che l’assemblea, (Congresso o altro), che deve designare un organo centrale, nomina una equipe: è perciò che, in generale, l’organo centrale uscente fa una proposta di candidati. Tuttavia tocca a questa assemblea (ed é diritto di ogni militante) proporre altre candidature se viene ritenuto necessario e, in ogni caso, eleggere individualmente i membri degli organi centrali. Solo questo tipo di elezione permette all’organizzazione di dotarsi di organi in cui riporre il massimo di fiducia.
L’organo centrale ha la responsabilità di applicare e di difendere le decisioni adottate dal Congresso che lo ha eletto. In questo senso, é opportuno che figuri al suo interno una forte proporzione di militanti che, in occasione del Congresso, si siano pronunciati a favore di queste decisioni e orientamenti. Ciò non vuol dire tuttavia che solo quelli che hanno difeso nel Congresso le posizioni maggioritarie, posizioni che sono divenute dopo il Congresso quelle dell’organizzazione, possano far parte dell’organo centrale. I tre criteri definiti sopra restano validi indipendentemente dalle posizioni difese in occasione dei dibattiti da questo o quel candidato eventuale. Ciò non vuol dire neanche che debba esistere un principio di rappresentanza - per esempio proporzionale – delle posizioni minoritarie all’interno dell’organo centrale. Questa è una pratica vigente nei partiti borghesi, particolarmente i partiti socialdemocratici, in cui la direzione é costituita dai rappresentanti delle diverse correnti o tendenze in proporzione dei voti raccolti nei Congressi. Un tal modo di designare l’organo centrale corrisponde al fatto che, in un’organizzazione borghese, l’esistenza di divergenze é basata sulla difesa di questa o quella visione di gestione del capitalismo, o più semplicemente sulla difesa di questo o quel settore della classe dominante o di questa o quella cricca, orientamento o interessi che si mantengono in maniera durevole e che occorre conciliare attraverso una “ripartizione equa” dei posti tra rappresentanti. Niente di tutto questo appartiene ad un’organizzazione comunista in cui le divergenze non esprimono per niente la difesa di interessi materiali, personali o di gruppi di pressione particolari, ma sono la traduzione di un processo vivente e dinamico di chiarificazione dei problemi che si pongono alla classe e sono destinati come tali ad essere riassorbiti con l’approfondimento della discussione e alla luce dell’esperienza. Una rappresentazione stabile, permanente e proporzionale delle diverse posizioni che sono apparse sui diversi punti all’ordine del giorno di un Congresso volgerebbe dunque le spalle al fatto che i membri degli organi centrali:
7) L’utilizzazione dei termini "democratico" o "organico" per qualificare il centralismo dell’organizzazione dei rivoluzionari è da evitare perché:
In effetti, il “centralismo democratico” (termine che si deve a Lenin) é segnato oggi dal marchio dello stalinismo che l’ha impiegato per mascherare e ricoprire il processo di soffocamento e di liquidazione di tutta la vita rivoluzionaria all’interno dei partiti dell’Internazionale, processo nel quale d’altra parte lo stesso Lenin porta una responsabilità per aver chiesto ed ottenuto al 10°Congresso del PCUS (1921) il divieto delle frazioni che lui riteneva, a torto, necessario (anche se a titolo provvisorio) di fronte alle terribili difficoltà attraversate dalla Rivoluzione. D’altra parte non ha ugualmente alcun senso la rivendicazione di un “vero centralismo democratico” che sarebbe stato praticato nel partito bolscevico nella misura in cui:
In un certo qual modo, il termine “organico” (che si deve a Bordiga), sarebbe più corretto per qualificare la natura del centralismo che esiste nell’organizzazione dei rivoluzionari. Tuttavia, l’uso che ne fa la corrente bordighista per giustificare un modo di funzionamento che esclude ogni controllo sugli organi centrali e sulla sua vita da parte dell’insieme dell’organizzazione, lo squalifica e rende necessario ugualmente rigettarlo. In effetti per il bordighismo, il fatto – giusto in sé – che l’esistenza di una maggioranza a favore di una posizione non garantisce che questa sia quella corretta, o che l’elezione degli organi centrali non sia un meccanismo perfetto che possa impedire una loro qualunque degenerazione, viene utilizzato per difendere una concezione dell’organizzazione in cui il voto e le elezioni sono banditi. In questa concezione, le posizioni corrette e i “capi” si impongono “da soli” attraverso un processo cosiddetto “organico”, ma che in pratica, significa affidare al “centro” il compito di decidere da solo su tutte le questioni, di decidere su qualsiasi dibattito, e conduce questo “centro” ad allinearsi sulle posizioni di un “leader storico”, che sarebbe investito di una sorta di infallibilità divina. Combattendo ogni forma di spirito religioso e mistico, i rivoluzionari non possono rimpiazzare il pontefice di Roma con quello di Napoli o di Milano.
Ancora una volta, il voto e le elezioni, per quanto imperfette possano essere, sono ancora il mezzo migliore, nelle condizioni attuali, per garantire il massimo di unità e di vita nell’organizzazione.
8) Contrariamente alla visione bordighista, l’organizzazione dei rivoluzionari non può essere “monolitica”. L’esistenza di divergenze al suo interno é la manifestazione che é un organo vivente che non ha delle risposte sempre pronte da fornire immediatamente ai problemi che si pongono alla classe. Il marxismo non è né un dogma, né un catechismo. E’ lo strumento teorico di una classe che, attraverso la sua esperienza e con la prospettiva del suo divenire storico, avanza progressivamente, con degli alti e dei bassi, verso una presa di coscienza che è la condizione indispensabile della sua emancipazione. Come qualunque riflessione umana, quella che presiede allo sviluppo della coscienza proletaria non è un processo lineare e meccanico, ma piuttosto contraddittorio e critico. Essa suppone necessariamente il confronto tra argomenti diversi. Di fatto, il famoso “monolitismo” o la famosa “invarianza” dei bordighisti sono una chimera (come si può verificare facilmente dalle prese di posizione di questa organizzazione e delle sue diverse sezioni); o l’organizzazione è completamente sclerotizzata e non ha più alcun contatto con la vita della classe, oppure non è monolitica e le sue posizioni non sono invarianti.
9) Se l’esistenza di divergenze all’interno dell’organizzazione é un segno della sua vita, solo il rispetto di un certo numero di regole nella discussione di queste divergenze permette che queste contribuiscano al rafforzamento dell’organizzazione e al miglioramento dei compiti per i quali la classe l’ha fatta nascere.
Possiamo enumerare alcune di queste regole:
Nella misura in cui i dibattiti che attraversano l’organizzazione riguardano in generale l’insieme del proletariato, è opportuno che questa li porti all’esterno, rispettando le seguenti condizioni:
10) Le divergenze esistenti nell’organizzazione dei rivoluzionari possono condurre all’apparizione di forme organizzate di posizioni minoritarie. Se, di fronte ad un tale processo, nessuna misura di tipo amministrativo (come il divieto di tali forme organizzate) potrebbe sostituirsi alla discussione più approfondita possibile, occorre ugualmente che questo processo sia preso in carica in maniera responsabile, il che suppone:
La tendenza é anzitutto l’espressione della vita dell’organizzazione per il fatto che il pensiero non si sviluppa mai in maniera rettilinea, ma attraverso un processo contraddittorio e di confronto delle idee. Come tale, una tendenza é destinata in generale a riassorbirsi nella misura in cui una questione diventa sufficientemente chiara perché l’insieme dell’organizzazione possa dotarsi di un’analisi unica, sia come risultato della discussione, sia per l’apparizione di dati nuovi che vengano a confermare una delle visioni e a confutare l’altra.
D’altra parte, una tendenza si sviluppa essenzialmente su dei punti che condizionano l’orientamento e l’intervento dell’organizzazione. La sua costituzione non ha dunque come punto di partenza delle questioni di analisi teorica. Una tale concezione della tendenza comporterebbe un indebolimento dell’organizzazione e a una parcellizzazione ad oltranza delle energie militanti.
La frazione è l’espressione del fatto che l’organizzazione é in crisi per l’apparizione di un processo di degenerazione al suo interno, per la capitolazione di fronte al peso dell’ideologia borghese. Contrariamente al caso della tendenza, che si applica solo a delle divergenze su come orientarsi rispetto a delle questioni circostanziali, la frazione si riferisce al caso di divergenze programmatiche che non possono trovare soluzione che nell’esclusione della posizione borghese o attraverso l’uscita dall’organizzazione della frazione comunista ed è nella misura in cui la frazione porta in sé la separazione delle due posizioni divenute incompatibili all’interno dello stesso organismo che essa tende a prendere una forma organizzata con dei suoi propri organi di propaganda.
Proprio perché l’organizzazione della classe non é mai garantita contro una possibile degenerazione, il ruolo dei rivoluzionari è di lottare in ogni momento per l’eliminazione delle posizioni borghesi che possono svilupparsi al suo interno. Ed è quando si trovano in minoranza in questa lotta che il loro ruolo é di organizzarsi in frazione, o per guadagnare l’insieme dell’organizzazione alle posizioni comuniste ed escludere la posizione borghese oppure, quando questa lotta sia divenuta sterile per l’abbandono del terreno proletario da parte dell’organizzazione – generalmente in occasione di un riflusso della classe - di costituire il ponte verso la ricostituzione del partito di classe che non può dunque sorgere che in una fase di rimonta delle lotte.
In ogni caso, la preoccupazione che deve guidare i rivoluzionari è quella che esiste all’interno della classe in generale. Quella di non disperdere le deboli energie rivoluzionarie di cui dispone la classe. Quella di vegliare senza sosta al mantenimento e allo sviluppo di uno strumento tanto indispensabile quanto fragile com’è l’organizzazione dei rivoluzionari.
11) Se l’organizzazione non può utilizzare alcun mezzo amministrativo o disciplinare di fronte a dei disaccordi, ciò non vuol dire che essa debba privarsi di questi mezzi in ogni caso. E’ viceversa necessario ricorrere a tali mezzi, come la sospensione temporanea o l’esclusione definitiva, quando si ha a che fare con degli atteggiamenti, dei comportamenti o dei modi di fare che possono costituire un pericolo per la sua esistenza, la sua sicurezza o la sua capacità di far fronte ai suoi compiti. Ciò si applica a dei comportamenti all’interno o all’esterno dell’organizzazione che sarebbero incompatibili con l’appartenenza ad una organizzazione comunista.
D’altra parte occorre che l’organizzazione prenda tutte le disposizioni necessarie alla sua protezione di fronte a tentativi di infiltrazione o di distruzione da parte degli organi dello Stato capitalista o di elementi che, senza essere direttamente manipolati da questi organi, hanno dei comportamenti che finiscono per favorirne il lavoro.
Quando dei tali comportamenti sono messi in evidenza, é dovere dell’organizzazione prendere delle misure non solo a favore della propria sicurezza, ma anche a favore della sicurezza delle altre organizzazioni comuniste.
12) Una condizione fondamentale dell’attitudine di una organizzazione a far fronte ai suoi compiti nella classe é una comprensione corretta al suo interno dei rapporti che si stabiliscono tra i militanti e l’organizzazione. E’ questa una questione particolarmente difficile da comprendere nella nostra epoca, tenuto conto del peso della rottura organica con le frazioni del passato e dell’influenza della componente studentesca nelle organizzazioni rivoluzionarie del dopo ‘68 che hanno favorito il risorgere di una delle tare del movimento operaio del l9° secolo: l’individualismo.
In generale, i rapporti che si stabiliscono tra i militanti e l’organizzazione fanno riferimento agli stessi principi evocati prima e concernenti i rapporti tra le parti e il tutto.
Più precisamente, è opportuno affermare a questo proposito quanto segue:
[1] Questa affermazione non é soltanto ad uso interno; essa non riguarda solo le scissioni che si sono prodotte (o che potranno ancora prodursi) nella CCI. Nel campo politico proletario abbiamo sempre difeso questa posizione. In particolare, nel caso della scissione della sezione di Aberdeen dalla “Communist Workers' Organisation” e della scissione del Nucleo Comunista Internazionalista da “Programma Comunista”. Noi abbiamo criticato all’epoca il carattere frettoloso delle scissioni basate su divergenze apparentemente non fondamentali e che non avevano avuto l’occasione di essere chiarificate da un dibattito interno approfondito. In generale, la CCI si oppone alle “scissioni” senza principi basate su divergenze secondarie (anche quando i militanti implicati pongono in seguito la loro candidatura alla CCI, come fu nel caso di Aberdeen). Le scissioni su questioni secondarie esprimono in realtà una concezione monolitica dell’organizzazione che non tollera alcuna discussione né divergenza al suo interno. E’ il caso tipico delle sette.
Mercoledì 15 febbraio, la polizia ha represso i liceali e gli studenti che avevano bloccato la circolazione in via Xativa a Valencia in occasione della manifestazione contro i tagli di bilancio. Un giovane minatore è stato fermato. Da allora sono seguite manifestazioni ed assembramenti e lo Stato ha risposto con una vera e propria escalation della repressione: 17 persone fermate e trattate in modo umiliante, in particolare le ragazze, insultate rudemente, trascinate per terra … Quelli che si sono raggruppati di fronte al palazzo di polizia di Zapadores sono state vittime di una trappola e sono stati schedati uno ad uno.
Di fronte a tali atti, vogliamo esprimere la nostra solidarietà con tutti gli imprigionati, il nostro sostegno a tutte le manifestazioni di solidarietà che ci sono state, come pure all’atteggiamento degli abitanti della zona di Zapadores che “hanno dimostrato il loro sostegno a quelli che si erano raggruppati lasciando scivolare dai loro balconi delle bottiglie d’acqua ed altre bevande rinfrescanti, cosa che ha provocato gli applausi dei dimostranti”[1].
Perché usare una repressione così brutale contro dei giovani liceali?
Una prima pista è che questi metodi sono stati usati in modo reiterato in altri paesi per affrontare le proteste sociali di massa: si può dunque dire che i governanti spagnoli seguono l’esempio. In Francia, in occasione delle manifestazioni contro la riforma delle pensioni, la polizia ha teso una trappola a 600 giovani a Lione, schedandoli uno ad uno come oggi a Valencia. Ed è la stessa cosa che il governo di Cameron ha fatto in Trafalgar Square, a Londra, in occasione delle mobilizzazioni contro l’aumento delle tasse d’iscrizione all’università. L’obiettivo perseguito è prendere i giovani come testa di ponte per lanciare un avvertimento ai tanti dimostranti che occupano le strade. Ecco quello che cercano di fare anche a Valencia. Non possono permettersi di affrontare migliaia di dimostranti e quindi scelgono qualche centinaia di giovani.
Una seconda pista - che completa la prima - è volerci trascinare in una specie di spirale di azione e reazione, con arresti continui, mobilizzazioni, ancora arresti, in modo che il movimento finisca per esaurirsi e che lo scopo centrale, la lotta contro i tagli e la riforma del lavoro, passi in secondo piano. In Grecia, il governo “socialista” di Papandreu ha usato a profusione questi metodi, non esitando ad utilizzare dei poliziotti provocatori per fare atti di vandalismo che, a loro volta, servivano a giustificare le cariche della polizia e gli arresti in massa.
Un altro obiettivo è quello di creare un clima di tensione che ci spinga a dare risposte improvvisate ed incoscienti. E così, grazie al clima fomentato dal potere e la sua polizia, l’occupazione aperta a tutti i lavoratori, agli studenti, di TUTTI I SETTORI, prevista per il lunedì 20 febbraio, ha dovuto essere annullata.
Infine, uno degli obiettivi della repressione è legato alle tradizioni della destra spagnola. Questa si è distinta storicamente per la sua arroganza provocatrice e la sua brutalità repressiva. L’attuale governo di destra si crogiola senza il minimo scrupolo in quest’atteggiamento e si potrebbe dire che se ne compiace. Tutto ciò fa perfettamente comodo allo Stato ed al capitale spagnolo, preso nel suo insieme, per dirottarci verso la difesa della democrazia – che sarebbe minacciata da questa destra - e verso una lotta per alternative meno “repressive e più sociali”, mentre la sola soluzione è quella di lottare contro il capitalismo in tutte le sue forme e tutte le sue colorazioni politiche.
Le trappole politiche che bisogna evitare
Un giovane, dinanzi allo scatenarsi della repressione di Valencia, gridava: “E’ qui è la Siria!”.
Ed aveva ragione su un punto: lo Stato – che sia democratico o apertamente dittatoriale come quello della cricca di Al-Assad - non esita neanche un attimo ad applicare una repressione brutale quando sono in gioco gli interessi della classe capitalista. Tuttavia esiste una differenza tra lo Stato democratico e lo Stato dittatoriale. Il primo è capace di usare la repressione con intelligenza politica, assestando dei colpi ma accompagnati da manovre politiche per deviare, dividere e smobilitare. Questo lo rende più cinico e pericoloso, perché una repressione accompagnata da manovre di divisione e trappole politiche ed ideologiche, fa molto più male di una repressione dura e cruda.
La trappola che consiste nel mostrare la repressione come se fosse una peculiarità esclusiva della destra ha il grande vantaggio di rendere presentabile lo Stato e quello che c’è dietro, il capitale e la borghesia. Non c’è forse una continuità tra quello che ha fatto il governo del PSOE (come tagli sociali e repressione) e quello che sta facendo il governo attuale? Osservando il resto del mondo, non constatiamo forse che, indipendentemente dal tipo di governo, le cose non fanno che peggiorare?
La trappola che consiste nell’accanirsi sui giovani, cosa di per sé abietta, ha lo scopo di creare una rottura tra le generazioni, dividerle, ed a questo si sono prestati alcuni rappresentanti politici e sindacali dicendo, con tono paternalistico, che i giovani “si sono lasciati trascinare dalla passione” o che “nelle proteste hanno fatto di testa loro”.
La trappola si completa con gli “alternativi” della “fedele” opposizione (il PSOE, Izquierda Unida, etc.) che deplorano questa “repressione sproporzionata”. In altre parole questi signori propongono una repressione “proporzionata”, “controllata”, che nei fatti è un modo di legittimare la repressione. In più, hanno chiesto le dimissioni del Delegato del Governo (centrale) facendo credere così che mettendo un altro burocrate al suo posto, non ci sarebbe più repressione o almeno sarebbe più “morbida”.
Bisogna rigettare queste trappole!
Non si può rispondere alla repressione con delle “richieste di dimissioni” di questo o quel rappresentante, né reclamando “più democrazia”. Tanto meno “moderando” le rivendicazioni, facendo delle concessioni. Tutto questo non fa che rendere lo Stato ancora più determinato e più forte.
Di fronte alla repressione, bisogna rispondere rendendo le manifestazioni, i raggruppamenti e le assemblee ancora più di massa. Bisogna andare verso un’assemblea generale di lavoratori, studenti, disoccupati, che chieda il sostegno ai lavoratori del resto della Spagna, degli altri paesi, che rivendichi il ritiro della Riforma del lavoro e l’annullamento dei tagli, rigettando al tempo stesso le azioni della polizia e chiedendo la liberazione immediata di tutti i prigionieri.
Dobbiamo mobilitarci tutti, giovani e meno giovani, disoccupati e attivi, dipendenti del pubblico e del privato, tutte le generazioni insieme. La sola possibilità che abbiamo di farli retrocedere sta in un’azione congiunta, di massa e solidale. Sappiamo bene, tuttavia, che qualsiasi arretramento che riusciremo ad imporre sarà soltanto temporaneo perché il potere ritornerà alla carica con nuove teste e nuovi metodi. Abbiamo visto che si è cambiato il PSOE con il PP, il quale ha continuato a colpire ancora ed ancora, come si è visto in Grecia dove il Partito cosiddetto socialista è stato sostituito da un governo di Unione nazionale, che comprende dei neofascisti.
Di fronte a tutto ciò, potremo avanzare verso una soluzione dei problemi molto gravi che ci assillano, solo se la nostra lotta prenderà il cammino della trasformazione rivoluzionaria di questa società.
Accion Proletaria (19 febbraio)
In occasione di una conferenza stampa, alla domanda sul numero di poliziotti impiegati per reprimere gli studenti, il capo supremo della polizia della regione di Valencia ha risposto: “Non è prudente, dal punto di vista della tattica e delle forze di polizia messe in campo, che io dica al nemico quali sono le mie forze e le mie debolezze”[1].
Bisogna ringraziare questo alto funzionario della polizia per la grande lezione di marxismo che ci sta dando: primo, ci si considera come nemici, e secondo, si è implicati in una guerra nella quale bisogna avere una tattica e bisogna nascondere le proprie debolezze.
Per contro, i politici di ogni risma, i sindacalisti, gli ideologi, gli opinionisti e specialisti di ogni genere, predicano in senso opposto: secondo loro faremmo parte di una comunità di “cittadini liberi ed uguali” nella quale lo Stato e le sue diverse istituzioni - tra cui la polizia – sarebbero al “servizio di tutti”. Quando i più alti responsabili dello Stato sono costretti a prendere delle misure estremamente dure, lo farebbero per il “bene di tutti”. Così la riforma dello statuto del lavoro verrebbe fatta per “favorire i disoccupati” e, con i tagli e le altre restrizioni, questi signori non farebbero altro che tentare di salvaguardare lo “Stato assistenziale”.
Le dichiarazioni del capo della polizia smentiscono radicalmente questi discorsi fumosi. Quello che ne esce fuori è che, innanzitutto, non siamo cittadini liberi ed uguali ma siamo divisi tra una classe minoritaria che possiede tutto e non produce niente ed una classe maggioritaria che non ha niente e produce tutto. E, in secondo luogo, che l’immensa ragnatela burocratica che tesse lo Stato non è al “servizio dei cittadini”, ma è un patrimonio proprio ed esclusivo di questa minoranza privilegiata, il che comporta che questa considera come nemici i manifestanti che lottano e concepisce il proprio agire come una guerra contro l’immensa maggioranza.
Ci si dirà che questa alta autorità è di destra, che la destra ha una concezione patrimoniale dello Stato e che essa non nasconde il suo egoismo ed la sua natura venale. Tuttavia, guardano la carriera politica di questa persona si apprende che ha iniziato all’interno della Brigada politico-sociale alla fine del franchismo e che nel 2008 è stato nominato al suo attuale posto dall’allora ministro degli Interni, il signor Rubalcaba che, attualmente capo dell’opposizione socialista, usa toni di una radicalità altamente incendiaria. In questa funzione, il capo della polizia di Valencia era sotto il comando di un membro del partito detto “comunista” e avvocato del lavoro del sindacato CO, il signor Peralta, quando ha avuto luogo il famoso episodio di repressione contro dei manifestanti nel quartiere di pescatori El Cabanal di Valencia[2]. Si tratta quindi di una persona che ha servito lo Stato sotto governi di ogni colore. Le sue azioni non sono quindi frutto di un “riflesso fascista della destra” ma una precisa azione di Stato, che ha una logica e una continuità che va ben al di là dell’etichetta politica del partito al comando adesso.
Bisogna ricordarsi, per non parlare che della Spagna, che su 35 anni di “Stato democratico” per ben 21 anni al governo c’è stato il PSOE (Partito Socialista Operaio Spagnolo). Non vale neanche la pena parlare del mandato tra il 2004 ed il 2011 perché è sempre ben presente nelle nostre teste. Per quanto riguarda il primo governo “socialista”, quello del signor Gonzales (1982-1996), ricordiamoci che fu il responsabile dell’assassinio di 3 manifestanti operai (a Bilbao nel 1984, a Gijón nel 1985 ed a Reinosa nel 1987) e della distruzione di un milione di posti di lavoro.
L’attuale ministro dell’Interno, Fernández Díaz, ha tentato di arrangiare le cose dicendo che si era trattato di un … lapsus. Ma un lapsus consiste, appunto, nel dire involontariamente quello che si pensa … veramente!
La società capitalista si caratterizza per l’ipocrisia ed il cinismo più ripugnanti ed in questo la classe dominante è maestra. Basta guardare le campagne elettorali dove vengono fatte mille promesse da tutti i candidati per applicare, una volta eletti, la politica contraria. Nel segreto dei loro uffici gli alti mandatari della borghesia, classe che rappresenta solo una piccola minoranza della popolazione, parlano tranquillamente di tutto quello che andranno a smentire, negare o deformare davanti ai microfoni. Ma ogni tanto un lapsus scappa, è come un lieve strappo nel sipario attraverso il quale si può osservare quello che realmente pensano e quello che riflettono le loro reali motivazioni o le loro perfide macchinazioni contro la stragrande maggioranza, in particolare contro il loro peggior nemico, la classe operaia, contro la quale sono costretti a fare una guerra permanente.
CCI (23 febbraio)
I lavoratori hanno reso pubblica la seguente dichiarazione lo scorso 4 febbraio:
1. Riconosciamo che i problemi attuali e permanenti del Sistema sanitario nazionale e delle organizzazioni associate non possono essere risolti da rivendicazioni specifiche ed isolate o da nostri interessi particolari, perché questi problemi sono il risultato di una lotta più generale contro la politica antipopolare del governo e del neoliberismo globalizzato+2. Riconosciamo anche che insistendo su questo tipo di rivendicazioni, parteciperemmo al gioco implacabile del potere che, per rispondere al suo nemico - e cioè al popolo indebolito e diviso -, tenta di evitare la creazione di un Fronte popolare universale a livello nazionale e mondiale, con interessi comuni e rivendicazioni contro l’impoverimento sociale provocato dalla politica del potere.
3. Per questa ragione, poniamo i nostri interessi particolari nel quadro delle rivendicazioni politiche ed economiche espresse da una gran parte del popolo greco che oggi soffre dell’attacco brutale del capitalismo; per avere successo queste rivendicazioni devono essere portate fino in fondo, in coordinamento con le classi medie e basse della nostra società.
4. Il solo modo per arrivarci è la rimessa in causa, attraverso l’azione, non solo della legittimità politica ma anche della legalità dell’arbitrarietà autoritaria ed antipopolare di una gerarchia che si dirige a grande velocità verso il totalitarismo.
Ospedale generale di Kilkis
Qui accesso gratuito alle cure mediche
La salute pubblica gratuita è un obbligo costituzionale
5. Noi lavoratori dell’ospedale generale di Kilkis, rispondiamo a questo totalitarismo con la democrazia. Occupiamo l’ospedale pubblico e lo mettiamo sotto il nostro controllo diretto e totale. D’ora in poi l’ospedale generale di Kilkis avrà un governo autonomo e la sola autorità legittima per prendere le decisioni amministrative sarà l’Assemblea Generale dei lavoratori.
6. Il governo non è dispensato dai suoi obblighi finanziari per ciò che riguarda la dotazione e l’approvvigionamento dell’ospedale, ma se continua ad ignorare questi obblighi, dovremo informarne il pubblico e ci rivolgeremo all’amministrazione locale e, soprattutto, alla società tutta intera affinché ci sostengano con tutti i modi possibili per: (a) la sopravvivenza del nostro ospedale, (b) un sostegno generale al diritto a cure mediche pubbliche e gratuite, (c) il capovolgimento, attraverso una lotta popolare comune, del governo attuale e la cessazione di ogni altra politica neoliberista, qualunque sia la sua origine e (d) una democratizzazione profonda e sostanziale, e cioè che sia la società, e non dei terzi ad essere responsabile delle decisioni sul suo avvenire.
7. A partire dal 6 febbraio, il comitato dei lavoratori dell’ospedale di Kilkis limiterà il lavoro alle sole emergenze fino al pagamento integrale delle ore lavorate ed il ritorno ai livelli di stipendi anteriori all’arrivo della Troica (CE, BCE e FMI). Intanto, essendo ben coscienti della nostra missione sociale e dei nostri obblighi morali, baderemo alla salute dei cittadini che vengono all’ospedale fornendo cure gratuite ed un alloggio ai bisognosi e continueremo ad esigere che il governo si assuma le sue responsabilità e metta fine alla sua politica crudele, eccessiva ed antisociale.
8. Abbiamo deciso di tenere una nuova assemblea generale lunedì 13 Febbraio nell’auditorio del nuovo edificio dell’ospedale alle 11, dove decideremo delle procedure necessarie per mettere efficacemente in opera l’occupazione dei servizi amministrativi e condurre a buon fine l’autogestione dall’ospedale che comincerà nello stesso giorno. Terremo ogni giorno un’assemblea generale che sarà lo strumento fondamentale per prendere decisioni circa gli impieghi e il funzionamento dell’ospedale. Chiamiamo alla solidarietà il popolo ed i lavoratori di tutti i settori, con la collaborazione di tutti i sindacati e delle organizzazioni progressiste ed il sostegno di tutti i media che scelgono di dire la verità. Siamo determinati a continuare finché i traditori che hanno venduto il nostro paese se ne vadano. O loro o noi!
Le decisioni prese saranno rese pubbliche attraverso una conferenza stampa alla quale sono invitati tutti i media, locali e nazionali, mercoledì 15/2/2012 alle 12, 30. Le nostre AG quotidiane inizieranno il 13 febbraio. Informeremo i cittadini di tutti gli avvenimenti importanti che si svolgono nel nostro ospedale con comunicati e conferenze stampa. Inoltre, utilizzeremo tutti i mezzi disponibili per far conoscere questi fatti affinché questa mobilitazione riesca.
Noi chiamiamo:
a) i nostri concittadini a manifestare la loro solidarietà col nostro sforzo,
b) tutti i cittadini che ricevono un trattamento ingiusto nel nostro paese alla contestazione, ad opporsi ai loro oppressori,
c) i nostri compagni lavoratori di altri ospedali a prendere decisioni simili,
d) i salariati di altri rami dei settori pubblico e privato e gli aderenti delle organizzazioni di lavoratori e progressiste, ad agire nello stesso senso, affinché la nostra mobilitazione diventi una resistenza operaia e popolare universale ed un’insurrezione, fino alla nostra vittoria finale sull’élite economica e politica che oggi opprime il nostro paese ed il mondo.
L'opposizione sindacale dei “Localisti” poi, a partire del 1897, la fondazione della Freie Vereinigung Deutscher Gewerschaften (FVDG, Unione Libera dei sindacati tedeschi) hanno costituito delle basi alla nascita del sindacalismo rivoluzionario organizzato nel movimento operaio tedesco. In modo comparabile alle tendenze sindacaliste rivoluzionarie più importanti in Francia, in Spagna e negli Stati Uniti, questa corrente ha rappresentato, in origine, una reazione proletaria sana all'interno del movimento operaio tedesco contro la politica sempre più allineata sul riformismo della direzione della potente socialdemocrazia e dei suoi sindacati.
Dopo la Prima Guerra mondiale, nel settembre del 1919, è stata fondata la Freie Arbeiter Union Deutschlands (FAUD, Unione dei Lavoratori di Germania). Oramai, in quanto organizzazione “anarcosindacalista” dichiarata, la FAUD si considerava come l'erede diretta di un movimento sindacalista rivoluzionario anteriore alla Prima Guerra mondiale.
Esistono ancora oggi molti gruppi anarcosindacalisti che si richiamano alla tradizione della FVDG e dell'anarcosindacalismo successivo della FAUD degli anni venti. Rudolf Rocker, in quanto ''teorico" più noto dell'anarcosindacalismo tedesco a partire dal 1919, serve spesso come punto di riferimento politico.
Il sindacalismo rivoluzionario in Germania ha tuttavia conosciuto, senza alcun dubbio, una grande trasformazione dopo la sua nascita. Per noi, la questione centrale è di esaminare se il movimento sindacalista rivoluzionario in Germania è stato capace di difendere gli interessi della sua classe, di apportare delle risposte politiche alle questioni scottanti e di rimanere fedele all'internazionalismo del proletariato.
Vale la pena esaminare innanzitutto la sfida più seria alla quale la classe operaia è stata confrontata nel corso degli ultimi decenni del XIX secolo in Germania: il riformismo. In mancanza di ciò, è grande il pericolo di considerare il sindacalismo rivoluzionario in Germania semplicemente come una "strategia sindacale particolarmente radicale" o di vederlo soltanto come una "importazione d'idee" provenienti da paesi latini come la Spagna o la Francia, in cui il sindacalismo rivoluzionario ha sempre svolto un ruolo da lontano più importante che in Germania. L'inizio della degenerazione della socialdemocrazia è dovuto alla comparsa degli ''antenati'' del sindacalismo rivoluzionario. Il partito socialdemocratico tedesco (SPD) ha costituito, all'interno, della II Internazionale (1889-1914), l'organizzazione proletaria più potente ed è servita, per molti anni, da bussola politica per il movimento operaio internazionale. Ma la SPD costituisce innanzitutto il simbolo di un'esperienza tragica: è il tipico esempio di un'organizzazione che, dopo anni passati sul terreno della classe operaia, ha subito un processo di degenerazione insidiosa per infine, negli anni della prima guerra mondiale, passare irrimediabilmente nel campo dominante. La direzione della SPD ha spinto la classe operaia nel 1914 nella carneficina della guerra e si è incaricata di un ruolo centrale nella difesa degli interessi dell'imperialismo tedesco.
Bismarck aveva imposto nel 1878 la “legge antisocialista” che sarebbe rimasta in vigore per 12 anni, sino al 1890. Questa legge, che reprimeva le attività e le riunioni di organizzazioni proletarie, prendeva di mira tuttavia e soprattutto ogni legame organizzativo tra organizzazioni proletarie. Ma la “legge antisocialista” non consisteva affatto, unicamente, in una repressione dura e cieca contro la classe operaia. La classe dominante ha, con le sue misure, cercato di rendere attraenti, agli occhi della direzione della SPD, la partecipazione al parlamento borghese come attività centrale. Abilmente. Essa ha in tal modo facilitato la via alla tendenza riformista in germe nella socialdemocrazia.
Le concezioni riformiste nella socialdemocrazia si espressero precocemente nel Manifesto dei Zurighesi del 1879 e si cristallizzarono intorno alla persona di Eduard Bernstein. Esse rivendicavano di porre il lavoro parlamentare al centro dell'attività del partito allo scopo di conquistare progressivamente il potere all'interno dello Stato borghese. Era dunque un rigetto della prospettiva della rivoluzione proletaria – che deve distruggere lo Stato borghese – a favore della riforma del capitalismo. Bernstein e i suoi sostenitori rivendicavano una trasformazione della SPD, da partito operaio in un'organizzazione la cui funzione era di conquistare la classe dominante alla conversione del capitale privato in capitale comune. Così, la classe dominante doveva diventare essa stessa la molla del superamento del suo proprio sistema, il capitalismo: un'assurdità! Queste concezioni rappresentavano un attacco frontale contro la natura ancora proletaria della SPD. Ma ancor più la corrente di Bernstein faceva apertamente propaganda favore del sostegno all'imperialismo tedesco nella sua politica coloniale approvando la costruzione di potenti navi transoceaniche. Le idee riformistiche di Bernstein sono state, all'epoca del Manifesto dei Zurighesi, nettamente combattute dalla maggioranza della direzione socialdemocratica e non hanno trovato nemmeno grande eco alla base del partito. La storia ha tuttavia mostrato tragicamente, nei decenni successivi, che quella era stata la prima espressione di un cancro che doveva invadere a poco a poco, inesorabilmente, grandi settori della SPD. Non è strano che questa capitolazione aperta di fronte al capitalismo, che Bernstein ha dapprima simboleggiato isolatamente ma che ottenne un'influenza sempre più grande nella socialdemocrazia tedesca, abbia scatenato un riflesso di indignazione all'interno della classe operaia. Non è strano che, in questa situazione, una reazione specifica sia venuta alla luce giustamente tra gli operai combattivi organizzati nei sindacati.
La teoria dei sindacati di Carl Hillmann
Vi era tuttavia già stato nel movimento operaio tedesco, prima del Manifesto dei Zurighesi e sin dall'inizio degli anni 70 del XIX secolo, un primo tentativo intorno a Carl Hillmann in vista di sviluppare una “teoria dei sindacati” indipendenti. Il movimento sindacalista, poco prima della prima guerra mondiale, e soprattutto l'anarcosindacalismo in seguito, non hanno smesso di richiamarvisi. A partire dal maggio del 1873, apparve una serie di articoli con il titolo Indicazioni pratiche di emancipazione sulla rivista Der Volkstaat[1] su cui Hillmann scriveva: “(…) la gran massa dei lavoratori prova una diffidenza nei confronti di tutti i partiti puramente politici perché, da una parte, essi sono spesso traditi e ingannati da questi ultimi e perché, da un'altra parte, l'ignoranza di questi partiti dei movimenti sociali conduce a mascherare l'importanza del loro lato politico; inoltre, i lavoratori mostrano una più grande comprensione e un senso pratico per delle questioni che sono loro più vicine: riduzione del tempo di lavoro, eliminazione dei regolamenti di fabbrica ripugnanti, ecc. L'organizzazione puramente sindacale esercita una pressione durevole sulla legislazione e i governi. Di conseguenza, quest'espressione del movimento operaio è, anch'essa, politica, anche se soltanto in secondo luogo; (…) gli sforzi effettivi di organizzazione sindacale fanno maturare il pensiero della classe operaia verso la sua emancipazione, ed è per questo che queste organizzazioni naturali devono essere poste allo stesso livello dell'agitazione puramente politica e non possono essere considerate né come una formazione reazionaria, né come la coda del movimento politico”.
Dietro il desiderio di Hillmann, negli anni 70 del XIX secolo, di difendere il ruolo dei sindacati in quanto organizzazioni centrali per la lotta della classe operaia, non c'era alcuna intenzione di introdurre una linea di separazione tra la lotta economica e la lotta politica o anche di respingere la lotta politica. La “teoria dei sindacati” di Hillmann era piuttosto principalmente una reazione significativa di fronte alle tendenze emergenti all'interno della direzione della socialdemocrazia, consistente nel subordinare il ruolo dei sindacati, e in generale la lotta di classe, alle attività parlamentari.
Engels, già all'epoca di Hillmann, nel marzo del 1875, criticò quasi esattamente sulla stessa questione il progetto di programma per il congresso d'unione dei due partiti socialisti di Germania a Gotha, che egli giudicava “senza linfa né vigore”: “In quinto luogo, non è nemmeno questione dell'organizzazione della classe operaia, in quanto classe, per mezzo dei sindacati. Ed è questo un punto del tutto essenziale, perché si tratta, propriamente parlando, dell'organizzazione di classe del proletariato, all'interno della quale quest'ultimo conduce le sue lotte quotidiane contro il capitale, e si forma alla disciplina, organizzazione che oggi, anche in mezzo alla più temibile delle reazioni, non può assolutamente essere distrutta. Essendo date l'importanza assunta da questa organizzazione anche in Germania, sarebbe, a nostro parere, assolutamente necessario prenderla in considerazione nel programma e di dargli se possibile un posto nell'organizzazione del partito”[2].
Effettivamente, i sindacati, all'epoca di un capitalismo in pieno sviluppo, erano uno strumento importante per il superamento dell'isolamento dei lavoratori e per lo sviluppo della loro coscienza di sé in quanto classe: una scuola della lotta di classe. La via era ancora aperta per l'ottenimento da parte della classe operaia, della parte del capitalismo in pieno sviluppo, delle riforme durevoli in suo favore[3].
Contrariamente alla storiografia di alcuni settori dell'ambiente anarcosindacalista, non era nell'intenzione di Hillmann di fare della resistenza ai marxisti che avrebbero sempre sotto valutato i sindacati. È questa un'affermazione contro la quale si urta costantemente in modo caratteristico, ma che non corrisponde tuttavia alla realtà. Hillmann si considerava chiaramente, dal punto di vista delle sue concezioni generali, come facente parte dell'Associazione Internazionale dei Lavoratori (A.I.T.), all'interno della quale militavano anche Marx e Engels. Il fondo delle sue critiche era diretto contro coloro che, all'interno della socialdemocrazia, introducevano la soggezione alla lotta parlamentare, le stesse alle quali Marx e Engels si erano opposti nelle loro critiche al programma di Gotha. Di conseguenza, parlare dell'esistenza , già negli anni 70 del XIX secolo, di un “sindacalismo indipendente” nel movimento operaio tedesco sarebbe sicuramente falso. Come movimento effettivo all'interno della classe operaia in Germania, non si formò che gradualmente una ventina di anni più tardi.
Mentre Hillmann, con un sano istinto proletario, si accorse precocemente della lenta introduzione del cretinismo parlamentare nel movimento operaio tedesco, e reagì a questa situazione, vi è tuttavia una differenza essenziale nel suo modo di procedere in rapporto alla lotta di Marx ed Engels: Hillmann rivendicava in primo luogo l'autonomia dei sindacati e “l'importanza delle questioni di interesse immediato”. Marx, in compenso aveva da parte sua già messo in guardia, alla fine degli anni 60, contro una riduzione della lotta per i salari ad una lotta per il salario: “Sino ad oggi, i sindacati hanno affrontato troppo esclusivamente le lotte sociali e immediate contro il capitale. Essi non hanno ancora capito perfettamente la loro forza di offensiva contro il sistema di schiavitù del salariato e contro il modo di produzione attuale. È per questo che essi si sono tenuti troppo distanti dai movimenti sociali e politici generali”[4].
Come possiamo constatare già a quest'epoca, Marx ed Engels insistevano sull'unità generale della lotta economica e della lotta politica della classe operaia, anche se esse dovevano essere condotte per mezzo di organizzazioni diverse. Le idee di Hillmann nascondevano, in rapporto a questo, la grande debolezza di non impegnarsi in modo conseguente e attivo la lotta politica contro l'ala della SPD esclusivamente orientata verso il parlamento, e di ritirarsi nell'attività sindacale, cedendo così il terreno quai senza combattere al riformismo. Ciò ha fatto il gioco dei suoi avversari perché il confinamento dei lavoratori nella lotta puramente economica è esattamente ciò che ha caratterizzato lo sviluppo del riformismo nel movimento sindacale.
Il sindacalismo rivoluzionario in Germania proviene dal campo anarchico?
Durante l'estate del 1890, si costituì nella SPD una piccola opposizione, quella dei “Giovani”. Ciò che caratterizzava i suoi rappresentanti più noti Wille, Wildberger, Kapfmeyer, Werner e Baginski, era il loro appello a “più libertà” nel partito e il loro atteggiamento antiparlamentare. Essi respingevano inoltre, in una pratica molto localistica, la necessità di un organo centrale per la SPD.
“I Giovani” hanno rappresentato un'opposizione di partito molto eterogenea – che è probabilmente più appropriato designare come un assembramento di membri della SPD scontenti. Tuttavia, lo scontento dei “Giovani” era in realtà del tutto giustificato, perché la tendenza riformista nella socialdemocrazia non era affatto sparita dopo l'abolizione della legge antisocialista nel 1890. A poco a poco, il riformismo guadagnava terreno. Ma la critica dei “Giovani” non è stata in grado di identificare i veri problemi e le radici ideologiche del riformismo. Invece di una lotta politicamente fondata contro l'idea riformista della “trasformazione pacifica” del capitalismo in una società socialista senza classi, i “Giovani” hanno unicamente condotto una violenta campagna contro alcuni capi della SPD e sul terreno di attacchi molto personali. La loro spiegazione del riformismo ha trovato la sua espressione in un'argomentazione immatura e riduttrice che poneva al centro “la ricerca di un vantaggio personale e della celebrità” e la “psicologia dei dirigenti della SPD". Questo conflitto è terminato con l'uscita, e l'esclusione simultanea, dei “Giovani” dalla SPD al congresso di Erfurt del 1891. Questo apriva le porte, nel novembre 1891, alla fondazione dell'Unione Anarchica dei Socialisti Indipendenti (VUS). L'effimera VUS, raggruppamento completamente eterogeneo formato soprattutto da vecchi membri della SPD scontenti, è rapidamente caduta, dopo pesanti tensioni personali, sotto il controllo dell'anarchico Gustav Landauer e sparita tre anni dopo nel 1894.
Alla lettura dei rappresentanti anarcosindacalisti attuali e dei libri più celebri sulla nascita del sindacalismo rivoluzionario in Germania, appare chiaramente l'esistenza di un tentativo, spesso convulsivo, di allacciare un filo rosso risalente verso il passato, per collegarvi l'anarcosindacalismo della FAUD fondata nel 1919. La maggior parte del tempo, queste rappresentazioni consistono in una semplice giustapposizione di differenti movimenti di opposizione nelle organizzazioni operaie tedesche: da Hillmann passando per Johann Most, i “Giovani” e i “Localisti”, poi la FVDG, l'Unione Libera dei sindacati tedeschi e, infine, la FAUD. La semplice esistenza di un conflitto con le tendenze dirigenti rispettive all'interno della socialdemocrazia e dei sindacati è considerata come il punto comune determinante. Ma l'esistenza di un conflitto con la direzione dei sindacati o del partito non costituisce in sé una continuità politica, la quale, a ben guardare, non esiste nemmeno tra tutte queste organizzazioni! In Hillmann, Most e i “Giovani”, si può discernere un'avversione possibile e comune di fronte alle illusioni di fronte al parlamentarismo che guadagna del terreno intorno ad essi. Mentre Hillmann è tuttavia sempre rimasto parte essenziale della Prima Internazionale e della lotta vivente della classe operaia, Most di concerto con Hasselmann, si portò rapidamente, all'inizio degli anni 80 del XIX secolo, nella “propaganda attraverso i fatti” piccolo borghese, isolata e disperata – degli atti terroristi. I “Giovani”non hanno potuto, con i loro attacchi personali, eguagliare la qualità politica di Hillmann che aveva costituito un serio tentativo di dare impulso alla lotta di classe. In seguito, i “Localisti” e la FVDG che essi hanno formato, hanno in compenso rappresentato , per molti anni, un movimento vivo in seno alla classe operaia. Nell'opposizione sindacale, che diede più tardi vita al sindacalismo rivoluzionario in Germania, le idee anarchiche avevano sempre avuto, sino al 1908, una scarsa influenza. Si può tuttavia parlare di una vera “impronta anarchica” sul sindacalismo rivoluzionario tedesco, ma che non si è sviluppato, nel più remoto cerchio dei sindacati socialdemocratici, che dopo la Prima Guerra mondiale.
I “Localisti”: una reazione proletaria contro l'evirazione della classe operaia
Un'opposizione organizzata nella fila dei sindacati socialdemocratici in Germania si formò nel marzo del 1892, ad Halberstadt, durante il primo congresso sindacale dopo l'abolizione della legge antisocialista. La Commissione Generale della centrale sindacale, sotto la direzione di Karl Legien, decretò a questo congresso una separazione assoluta tra la lotta politica e la lotta economica. La classe operaia organizzata nei sindacati, secondo questo punto di vista, doveva limitarsi esclusivamente a delle lotte economiche mentre la sola socialdemocrazia – e soprattutto i suoi deputati al parlamento (!) - dovevano essere competenti per le questioni politiche.
Ma, per le condizioni imposte dai dodici anni della legge antisocialista, i lavoratori organizzati nelle unioni professionali erano abituati alla riunione, all'interno della stessa organizzazione, delle aspirazioni e delle discussioni politiche ed economiche, una riunione che si era sviluppata anche sotto la costrizione delle necessità dell'illegalità.
Le relazioni tra la lotta economica e la lotta politica divennero già, allora, oggetto di uno dei dibattiti centrali all'interno della classe operaia internazionale – ed esse lo sono restate indubbiamente sino ad oggi! In un'epoca di condizioni mature per la rivoluzione mondiale, con l'inizio dell'entrata del capitalismo nella sua fase di decadenza, si è manifestato in modo sempre più chiaro che il proletariato, in quanto classe, poteva e doveva apportare la sua risposta a delle questioni politiche come appunto quella della guerra!
Nel 1892, la direzione del movimento sindacale tedesco, malgrado la dispersione di molti anni in unioni professionali isolate a causa dell'illegalità, crea la sua confederazione centrale sindacale – ma giustamente al tragico prezzo del confinamento dei sindacati alla lotta economica. Questo, non perché, come nel corso degli anni precedenti e sotto la pressione della repressione della legge antisocialista, si doveva rinunciare alla libertà di parola e di riunione su delle questioni politiche, ma sulla base delle concezioni riformiste e delle enormi illusioni sul parlamentarismo che si sviluppavano sempre più. In quanto sana reazione proletaria a questa politica della direzione dei sindacati intorno a Legien, si formò nei sindacati l'opposizione dei “Localisti”. Gustav Kessler vi svolse un ruolo essenziale. Egli aveva lavorato durante gli anni 80 al coordinamento delle unioni professionali per mezzo di un sistema di uomini di fiducia e aveva partecipato in modo preponderante alla pubblicazione dell'organo sindacale Der Bauhandwerker.
Per apprezzare i “Localisti” nel loro giusto valore, si tratta innanzitutto di procedere alla rettificazione di un'errore diffuso: il nome di “Localisti” rinvia innanzitutto, a un'opposizione il cui scopo principale era di occuparsi esclusivamente degli affari della regione o il cui principio sarebbe di rifiutare ogni relazione organizzativa con la classe operaia di altri settori o regioni. Quest'impressione scaturisce spesso dalla lettura della letteratura di oggi, precisamente quella dell'anarcosindacalismo attuale.
È spesso difficile giudicare se una tale interpretazione risulta unicamente da una pura ignoranza della storia oppure della volontà di fare, retrospettivamente, dei “Localisti” e della FVDG, delle organizzazioni di tipo anarcosindacalista – come ne esistono attualmente – con una ideologia localista.
La stessa critica vale anche per quanto riguarda l'utilizzazione troppo schematica di descrizioni molto preziose sugli inizi del sindacalismo rivoluzionario in Germania, tratte dalle fila del marxismo, come quella di Anton Pannekoek. Quando quest'ultimo scrisse nel 1913: “(…) dalla loro pratica, essi si qualificano come “Localisti” e si esprimono così contro la centralizzazione delle grandi federazioni il loro principio più importante di agitazione”[5], si tratta qui, in realtà, di uno sviluppo all'interno del movimento operaio tedesco che non inizia che dal 1904, con l'ulteriore avvicinamento con l'idea delle Borse di lavoro della Carta di Amiens francese (1906), ma che non riguarda il periodo degli anni 90 del XIX secolo.
Non sono i principi federalisti, della lotta di classe che hanno spinto fondamentalmente i “Localisti” a formare la loro opposizione sindacale alla politica di Legien. Di fatto, le forze dirigenti nei sindacati si ammantavano di formule sonore riferendosi al concetto di una “centralizzazione stretta” della lotta della classe operaia per meglio imporre una stretta astensione politica ai lavoratori organizzati sindacalmente. Ciò che si deve constatare, è la comparsa di una dinamica oppositiva nata da questa situazione e che ha cominciato a spingere progressivamente parti dei “Localisti verso concezioni federaliste e anticentralizzatrici. La realtà è molto ben diversa.
Una centralizzazione permettendo la lotta comune della classe operaia e l'espressione della solidarietà oltre i mestieri, i settori e le nazioni era assolutamente necessaria. Tuttavia, la centralizzazione delle centrali sindacali, evocava a ragione l'idea, per alcuni lavoratori, “di organi di controllo” nelle mani dei leader sindacali riformisti. Al cuore della formazione dell'opposizione Localista, alla metà degli anni 90, si trovava di fatto chiaramente l'indignazione in rapporto all'astensione politica decretata per i lavoratori!
Ci sembra importante, a proposito della nascita del sindacalismo rivoluzionario in Germania, di fare una messa a punto riguardante la focalizzazione falsa, spesso esclusiva, sulla questione “federalismo contro centralismo” per mezzo degli stessi termini impiegati da Fritz Kater (uno dei membri più in vista durante gli anni della FVDG e della FAUD): "Lo sforzo per organizzare i sindacati in Germania in confederazioni centrali andava di pari passo con l'abbandono di ogni chiarimento nelle riunioni sugli affari pubblici e politici, e particolarmente di ogni influenza del sindacato su quest'ultime, per dedicarsi esclusivamente nella lotta quotidiana per migliori condizioni di lavoro e di salario. È quest'ultimo punto che giustamente costituiva allora la ragione principale per coloro che sono stati chiamati “Localisti” di respingere e combattere il centralismo della confederazione. Erano comunque allora, in quanto rivoluzionari socialdemocratici e membri del partito, del parere molto giusto che la lotta chiamata sindacale per il miglioramento della condizione dei lavoratori sul terreno dell'ordine costituito non può essere condotta senza toccare in modo incisivo e determinante i rapporti degli operai allo Stato attuale ed ai suoi organi di legislazione e di amministrazione...” (sottolineatura nostra)[6].
Con questa falsa rappresentazione dei “Localisti” come simbolo del federalismo assoluto, gli storici stalinisti e trotskisti oltranzisti danno stranamente la mano a certi scritti neo-sindacalisti, che incensano il federalismo come “nec plus ultra”.
Anche Rudolf Rocker, che non è vissuto in Germania tra il 1893 ed il 1919, e che all'interno della FAUD a partire dal 1920, eresse effettivamente il federalismo a principio teorico singolare, descrive onestamente ed in modo pertinente “il federalismo” dei “Localisti” del 1892 nel seguente modo: “Tuttavia questo federalismo non era assolutamente il prodotto di una nozione politica e sociale come in Pisacane in Italia, Proudhon in Francia e Pi y Margall in Spagna, che è stato ripreso più tardi dal movimento anarchico di questi paesi; è risultato soprattutto dal tentativo di aggirare le disposizioni della legge prussiana dell'epoca in materia di associazione che naturalmente accordavano ai sindacati puramente localisti il diritto di discutere di questioni politiche nelle loro riunioni, ma rifiutavano questo diritto ai membri delle confederazioni centrali”[7].
Nelle condizione della legge antisocialista, abituati a un modo di coordinamento (che si può chiamare anche chiamare centralizzazione!) da una rete di “uomini di fiducia”, era effettivamente difficile per i “Localisti” appropriarsi un'altra forma di coordinamento corrispondente alla modificazione delle condizioni a partire dal 1890. Una tendenza federalista appariva già in embrione senz'altro sin dal 1892. Ma il federalismo dei “Localisti” di questo periodo può essere descritto, indubbiamente in modo più pertinente, come tentativo di fare una virtù del sistema degli “uomini di fiducia”! I “Localisti” restarono tuttavia ancora quasi cinque anni nelle grandi confederazioni sindacali centrali con la volontà di rappresentarvi un'avanguardia combattiva all'interno dei sindacati socialdemocratici e si ritenevano chiaramente come una parte della socialdemocrazia.
La fondazione della FVDG
Nella seconda metà degli anni 90, e soprattutto durante gli scioperi, scoppiavano sempre più dei conflitti aperti tra gli aderenti delle unioni professionali “Localisti” e le confederazioni centrali. In modo latente ma anche violento tra gli operai delle costruzioni a Berlino e durante lo sciopero degli operai portuali nel nel 1896-97 ad Amburgo. Durante questi confronti, la questione centrale era generalmente quella dell'entrata in sciopero: le unioni professionali potevano prendere da se stesse questa decisione dal loro capo o quest'ultima era legata al consenso della direzione della confederazione centrale? A questo proposito, salta agli occhi che i “Localisti” reclutavano i loro aderenti nei mestieri artigianali delle costruzioni (i muratori, i piastrellisti, i carpentieri, presso i quali esisteva una grande “fierezza professionale”) e in proporzione molto meno tra gli operai industriali.
Parallelamente, la direzione della socialdemocrazia inclinava sempre di più, a partire dalla fine degli anni 90, ad accettare il modello apolitico della neutralità dei sindacati della Commissione generale intorno a Legien. Di fronte a questo problema di conflitti nei sindacati, la SPD, per diverse ragioni, aveva a lungo tergiversato e si era espressa con riserva. Anche se i “Localisti”, all'epoca del congresso di Halberstadt nel 1892, non rappresentavano che una minoranza comparativamente piccola di circa 10.000 membri (all'incirca soltanto il 3% dell'insieme dei lavoratori organizzati sindacalmente in Germania), tra di loro si trovavano numerosi vecchi sindacalisti combattivi strettamente legati alla SPD. Per timore di contrariare questi compagni prendendo partito in modo unilaterale nei dibattiti sindacali, ma soprattutto a causa della sua propria mancanza di chiarezza sulle relazioni tra la lotte economica e la lotta politica della classe operaia, la direzione della socialdemocrazia è rimasta a lungo sulla riserva. È soltanto nel 1908 che i membri della FVDG sono stati definitivamente abbandonati dalla direzione della SPD.
Nel maggio del 1897, con 6800 membri[8], nasceva il primo precursore dichiarato, e organizzato in modo indipendente, del futuro sindacalismo rivoluzionario in Germania. Detto con maggior precisione: l'organizzazione che doveva, negli anni successivi, prendere in Germania la via del sindacalismo rivoluzionario. Con questa fondazione di una unione sindacale nazionale si effettuava una scissione storica del movimento sindacale socialdemocratico. Al “primo congresso dei sindacati di Germania organizzati localmente” ad Halle, i “Localisti" proclamarono la loro indipendenza organizzativa. Il nome di “Unione Libera dei Sindacati Tedeschi” (FVDG)[9] non venne adottato che nel settembre del 1901. Il suo organo di stampa fondato di nuovo Die Einigkeit doveva uscire sino al divieto della FVDG all'inizio della guerra nel 1914.
Ancora mano nella mano con la socialdemocrazia?
La celebre risoluzione del congresso del 1897 elaborata da Gustav Kessler esprime nel modo più chiaro su quale comprensione della lotta politica della classe operaia e delle relazioni con la socialdemocrazia si basava la FVDG:
"1. Ogni separazione dal movimento sindacale della politica socialdemocratica cosciente è impossibile, a rischio di paralizzare e fi votare alla sconfitta la lotta per il miglioramento della condizione dei lavoratori sul terreno dell'ordine attuale;
2. che gli sforzi, da cui essi provengono, per distendere o spezzare la relazione con la socialdemocrazia, devono essere considerati come ostili alla classe operaia;
3. che le forme di organizzazione del movimento sindacale che la intralciano nella lotta per degli obiettivi politici devono essere considerate come erronee e condannabili. Il congresso vede nella forma di organizzazione che si è data il partito socialdemocratico di Germania al Congresso di Halle nel 1890, tenuto conto dell'esistenza della legge in materia di associazione, anche per l'organizzazione sindacale la migliore forma e la più appropriata per il perseguimento di tutti gli obiettivi del movimento sindacale”[10].
In queste righe si esprime la difesa delle esigenze politiche della classe operaia ed i potenti attacchi alla socialdemocrazia in quanto “organizzazione sorella”. La relazione alla socialdemocrazia era compresa come un ponte con la politica. La fondazione della FVDG, di conseguenza, non costituiva, a livello programmatico, un rifiuto dello spirito della lotta di classe difeso da Marx, o un rifiuto del marxismo in generale, ma al contrario un tentativo di mantenere questo spirito. Il desiderio formulato dalla FVDG di non lasciare sfuggire dalle mani dei lavoratori “la lotta per degli obiettivi politici” costituiva anche la forza essenziale dei suoi anni di fondazione.
I dibattiti al “IV Congresso della centralizzazione da parte degli uomini di fiducia” nel maggio del 1900 mostrano la fermezza dell'attaccamento politico alla socialdemocrazia. La FVDG conta allora circa 20.000 membri. Kessler difende anche la rivendicazione di una possibile fusione dei sindacati e del partito, che è stata accettata in una risoluzione: “L'organizzazione politica e sindacale devono dunque riunificarsi. Questo non può verificarsi subito, perché le circostanze, che si sono sviluppate storicamente, hanno il diritto di esistere; ma abbiamo probabilmente il dovere di preparare questa unificazione, rendendo i sindacati adatti a restare i portatori del pensiero socialista (…). Chiunque sia convinto che la lotta sindacale e politica sia la lotta di classe, che non può in fondo che essere condotta dallo stesso proletariato, questi è nostro compagno ed è con noi sulla stessa barca”[11].
Dietro questo punto di vista che rifiuta di confinarsi esclusivamente nella lotta economica da una parte e, dall'altra parte, che aspira a legarsi alla più grande organizzazione politica della classe operaia tedesca, la SPD, si trova una sana esigenza. Ma vi è anche chiaramente, in germe, la confusione ulteriore del sindacalismo rivoluzionario a proposito della “organizzazione unitaria”. Un'idea che doveva manifestarsi in Germania anni più tardi a partire dal 1919, non soltanto nel sindacalismo rivoluzionario, ma soprattutto nelle “unioni operaie”. La visione della FVDG che aspirava alla lotta comune con la socialdemocrazia presente nella risoluzione del 1900 doveva tuttavia, lo stesso anno, essere duramente messa alla prova.
Il “conflitto sindacale di Amburgo”
Quando nel 1900 ad Amburgo, la confederazione centrale dei sindacati concluse un accordo con gli i lavoratori che miravano all'abolizione del lavoro a cottimo, una parte dei muratori forfettari si oppose. Essi ripresero il lavoro, furono accusati di essere dei distruttori di sciopero ed esclusi dalla confederazione centrale dei sindacati. Successivamente i muratori forfettari aderirono alla FVDG. L'esclusione di questi lavoratori dal partito fu immediatamente richiesta dalla SPD di Amburgo, decisione tuttavia respinta da una giuria d'arbitraggio della SPD.
Non a causa di una prossimità politica con la FVDG, ma nella sua lotta contro il riformismo e, in questo quadro, soprattutto nello sforzo di chiarire le relazioni tra la lotta economica e la lotta politica per la classe operaia, Rosa Luxemburg difese la decisione della giuria d'arbitraggio di non escludere dalla SPD i muratori FVDG di Amburgo. Esigette certamente “di infliggere un severo monito ai muratori forfettari”[12] per aver spezzato lo sciopero, ma respingeva vigorosamente il punto di vista burocratico e formale di far ammettere una rottura dello sciopero come motivo di esclusione immediata dei lavoratori dal partito. La confederazione centrale dei sindacati socialdemocratici aveva essa stessa alcune volte fatto ricorso, nei confronti della FVDG, alla rottura dello sciopero! La SPD non doveva, secondo il punto di vista di Rosa Luxemburg, diventare il “terreno di scontro” dei sindacati. Il partito non si fa giudice della classe operaia.
Rosa Luxemburg aveva capito che, dietro questo violento affare sindacale dei muratori forfettari di Amburgo, si nascondevano delle questioni molto più centrali. Le stesse questioni che si trovavano al cuore dei rapporti presentati nella FVDG a proposito della “unificazione” del partito e dell'organizzazione di massa sindacale: la distinzione tra un'organizzazione politica rivoluzionaria da una parte e la forma organizzativa di cui deve dotarsi la classe operaia nei momenti aperti della lotta di classe: “In pratica ciò condurrebbe in ultima istanza all'unione tra l'organizzazione politica e l'organizzazione economica della classe operaia, confusione nella quale le due forme di lotta perderebbero. La loro separazione esterna e la loro divisione del lavoro generate e condizionate storicamente non farebbero che regredire”[13].
Se Rosa Luxemburg nel 1900, come il movimento operaio nel suo insieme, non poteva allora ancora superare l'orizzonte della forma di organizzazione sindacale tradizionale della classe operaia e considerava i sindacati come le grandi organizzazioni della lotta di classe economica, è perché è soltanto negli anni successivi che la classe operaia si troverà confrontata al compito di far sorgere lo sciopero di massa ed i consigli operai – le fucine rivoluzionarie che uniscono la lotta politica.
L'unificazione della lotta della classe operaia, che si trovava in Germania dispersa in diversi sindacati, era infatti storicamente necessaria. Ma questo scopo non poteva essere conseguito dalla strumentalizzazione formale dell'autorità di partito in vista di disciplinare i lavoratori, come volevano le confederazioni centrali. Non potevano esserlo con l'aiuto della concezione delle “organizzazioni unitarie” che sottovalutavano la necessità di un partito politico, un'idea che ha iniziato a svilupparsi nelle fila della FVDG. Il problema non poteva nemmeno essere risolto da un “grande sindacato”, ma soltanto dall'unificazione della classe operaia nella lotta di classe stessa. Il congresso di partito della SPD a Lubecca nel 1901 rifiutò, sicuramente su pressione di Rosa Luxemburg, e probabilmente in modo formale, di dover svolgere il ruolo di tribunale d'arbitraggio tra la confederazione sindacale centrale e la FVDG. Esso ha tuttavia adottato allo stesso tempo “la risoluzione Sonderbund" di Bernstein che minacciava per il futuro ogni scissione sindacale con l'esclusione dal partito. La SPD cominciava così chiaramente a prendere le distanze con la FVDG.
Negli anni 1900 e 1901, la FVDG soffriva di tensioni interne crescenti concernenti soprattutto la questione del mutuo sostegno finanziario attraverso una cassa di sciopero unitario. Si manifestarono forti tendenze particolaristiche e una mancanza di spirito di solidarietà nelle sue proprie fila. L'esempio del sindacato dei coltellinai e dei pressatori di Solingen è tipico: esso aveva ricevuto dalla Commissione amministrativa della FVDG un sostegno finanziario per un lungo periodo, ma minacciò di partire immediatamente quando fu esso stesso sollecitato finanziariamente per fornire il suo aiuto ad altri scioperi.
Dal gennaio del 1903 al marzo del 1904, di fronte all'iniziativa e alla pressione della SPD, si svolsero delle negoziazioni furtive tra la FVDG e la confederazione sindacale centrale, con l'obiettivo di reintegrare la FVDG nella confederazione centrale. Le negoziazioni fallirono. All'interno della stessa FVDG, queste negoziazioni di unificazione scatenarono violenti tensioni tra Fritz Kater, che rappresentava la tendenza chiaramente sindacalista rivoluzionaria che si svilupperà più tardi, e Hinrichsen che cedette alla pressione delle confederazioni centrali. Tra i lavoratori organizzati si verificò una enorme destabilizzazione. Circa 4400 membri della FVDG (più del 25%) passarono nel 1903/04 alla confederazione centrale! Le negoziazioni mancate di unificazione in un clima di reciprova diffidenza condussero, da una parte ad un indebolimento sensibile della FVDG e rappresentarono il primo capitolo della sua storica rottura con la SPD.
Conclusione
Sino al 1903, spetta ai “Localisti" e alla FVDG in Germania, ilò merito di aver espresso la necessità vitale dei lavoratori di non concepire le questioni politiche come un “affare riservato al partito”. Essi si sono così opposti chiaramente al riformismo e alla sua “delega della politica ai parlamentari". La FVDG era un movimento proletario politicamente molto motivato e molto combattivo, ma eterogeneo e completamente racchiuso sul terreno sindacale. In quanto assemblaggio debole di piccole unioni professionali sindacali, gli era evidentemente impossibile svolgere il ruolo di un'organizzazione politica della classe operaia. Per soddisfare la sua “spinta verso la politica” avrebbe dovuto avvicinarsi più fortemente all'ala rivoluzionaria della SPD.
Inoltre, la storia dei “Localisti” e della FVDG mostra che è inutile cercare “l'ora esatta” di nascita del sindacalismo rivoluzionario tedesco”. Quest'ultimo è risultato piuttosto da un processo, estendentisi in molti anni, di distacco di una minoranza proletaria dal girone della socialdemocrazia e dei sindacati socialdemocratici
La sfida della questione dello sciopero di massa, direttamente posto al sindacalismo rivoluzionario, doveva diventare un'altra tappa nello sviluppo di quest'ultimo in Germania. Il prossimo articolo affronterà i dibattiti intorno allo sciopero di massa e la storia della FVDG, della definitiva rottura con la SPD nel 1908, sino alla deflagrazione della prima guerra mondiale.
Mario (27 ottobre 2008)
Tradotto da: Revue Internationale n° 137, 2° trimestre 2009 [26].
[1] Il Volkstaat era l'organo del Partito Socialista Operaio di Germania, della tendenza detta di Eisenach sotto la direzione di Wilhelm Liebknecht e di August Bebel.
[2] Lettera di Engels a August Bebel, 18/28 marzo 1875, in Marx, Engels, Critique des Programmes de Gotha et d’Erfurt, Editions Sociales, 1950, p. 47, Tr. it.: Marx-Engels, Critica del programma di Gotha, Samona e Savelli, Roma, 1972; ma anche Critica del programma di Erfurt; Critica al programma di Gotha, Edizioni del Maquis, Milano, 1976.
[3] Vedere il nostro opuscolo I sindacati contro la classe operaia.
[4] Risoluzione (redatta da Marx) del I Congresso dell'Associazione Internazionale dei Lavoratori, Ginevra, 1866, in Marx Textes 2, Editions sociales, classiques du marxisme, p. 237; Tr. it.: (a cura di Gian Maria Bravo), La prima Internazione. Storia documentaria, 2 voll., Editori Riuniti, Roma, 1978.
[5] Anton Pannekoek: Le Syndicalisme allemand [Il sindacalismo tedesco], 1913.
[6] Fritz Kater, Fünfundzwanzig Jahre Freie Arbeiter-Union Deutsclands (Synkalisten), Der Syndikalist n° 20, 1922.
[7] Rocker, Aus den Memoiren eines deutschen Anarchisten, Ed. Suhrkamp, p. 288.
[8] Vedere anche: www.syndikalismusforschung.info/museum.htm [27]
[9] La grande confederazione centrale dei sindacati di chiamava ufficialmente “Sindacati Liberi”. La prossimità linguistica con il nome di “Unione Libera” portava frequentemente a delle confusioni.
[10] Citato da W. Kulemann, Die Berufvereine, tomo 2, Jena, 1908, p. 46.
[11] Resoconto verbale della FVDG, citato da D. H. Müller, Gewerkschaftliche Versammlungsdemokratie und Arbeiterdelegierte, 1985, p. 159.
[12] Rosa Luxemburg, Der Parteitag und des hamburger Gewerkschaftsstreit, Gesammelte Werke, tome 1/2, p. 117.
[13] Ibidem, p. 116.
A proposito del libro Il comunismo primitivo non è più ciò che era
Perché scrivere oggi sul comunismo primitivo? Nel momento in cui la caduta verticale in una crisi economica catastrofica e lo sviluppo di lotte attraverso il pianeta pongono nuovi problemi ai lavoratori del mondo intero, che l’avvenire del capitalismo si fa scuro e la prospettiva di un mondo nuovo pena tanto a nascere, ci si può chiedere quale interesse possa suscitare lo studio della società della nostra specie, dalla sua apparizione (circa 200.000 anni fa), fino al periodo neolitico (che data circa 10.000 anni fa), una società nella quale ancora oggi vivono certe popolazioni umane. Tuttavia, restiamo convinti che la questione è tanto importante per i comunisti di oggi quanto lo fu per Marx ed Engels nel diciannovesimo secolo, sia per il suo interesse scientifico generale in quanto elemento di studio dell'umanità e della sua storia, e sia per la comprensione della prospettiva e della possibilità di una società comunista futura che possa sostituire la società capitalista moribonda.
È per questa ragione che non possiamo che salutare la pubblicazione nel 2009 di un libro scritto da Christophe Darmangeat e intitolato Il comunismo primitivo non è più ciò che era; siamo anche contenti che il libro sia già alla sua seconda edizione, il che indica un certo interesse per l'argomento trattato.[1] Attraverso una lettura critica di questo libro, noi cercheremo in questo articolo di riprendere i problemi riguardanti le prime società umane; approfitteremo anche dell'occasione per esplorare le tesi esposte più di 20 anni fa da Chris Knight[2] nel suo libro Blood Relations (Relazioni di sangue)[3].
Prima di entrare nel vivo dell'argomento, precisiamo una cosa: la questione della natura del comunismo primitivo e dell'umanità in quanto specie non sono questioni politiche ma scientifiche. In questo senso, per esempio, non vi può essere una “posizione” da parte di un’organizzazione politica a proposito della natura umana. Se siamo convinti che l'organizzazione comunista deve stimolare il dibattito e la sete di conoscenza per le questioni scientifiche tra i suoi militanti e più generalmente all’interno del proletariato, lo scopo è di incoraggiare lo sviluppo di una visione materialista e scientifica del mondo basato, per quanto possibile, per la maggior parte di noi che non sono degli scienziati, su una conoscenza delle teorie scientifiche moderne. Le idee presentate in questo articolo non sono dunque delle “posizioni” della CCI ed impegnano soltanto l’autore.[4]
Perché la questione delle origini è importante?
Perché dunque la questione delle origini della specie e delle prime società umane è importante per i comunisti? I termini del problema sono cambiati sensibilmente dal diciannovesimo secolo quando Marx ed Engels si entusiasmarono per i lavori dell'antropologo americano Lewis Morgan. Nel 1884, quando Engels pubblica L'origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, si era appena usciti da un'epoca in cui le stime dell'età della Terra e della società umana si basavano sui calcoli biblici del vescovo Ussher, per il quale la Creazione aveva avuto luogo nel 4004 A.C. Engels, nella sua Prefazione del 1891, scrive: “Non è possibile parlare di una storia della famiglia fino all’inizio degli anni sessanta. In questo settore la scienza storica era ancora completamente sotto l'influsso dei cinque libri di Mosé. La forma patriarcale della famiglia, descritta in essi più dettagliatamente che altrove, non solo veniva senz’altro ritenuta la più antica, ma era anche identificata - escludendo la poligamia - con l’attuale famiglia borghese, sicché in realtà la famiglia non avrebbe subito in generale alcuno sviluppo storico”.[5] Lo stesso valeva per la nozione di proprietà, per cui la borghesia poteva ancora opporre al programma comunista della classe operaia l'obiezione secondo cui la "proprietà privata" era insita nella natura stessa della società umana. L'idea dell'esistenza di uno stadio di comunismo primitivo della società era a tal punto sconosciuta nel 1847 che lo stesso Manifesto Comunista comincia il suo primo capitolo con le parole “La storia di ogni società esistita fino a questo momento è la storia di lotte di classi”. (Affermazione che Engels ha ritenuto necessario rettificare in una nota nel 1888).
Il libro di Morgan, Ancient Society (Società antica), ha largamente contribuito a smantellare la visione astorica della società umana eternamente basata sulla proprietà privata, anche se il suo apporto è stato spesso eluso o passato sotto silenzio dall'antropologia ufficiale, particolare da quella inglese. Come dice ancora Engels nella sua Prefazione, “Morgan passò la misura, criticando non solo la civiltà, la società della produzione di merci, la forma fondamentale della nostra società odierna, in un modo che fa venire in mente Fourier, ma parlando di una trasformazione a venire di questa società con parole che avrebbe potuto dire Karl Marx”.
Oggi, nel 2012, la situazione è del tutto cambiata. Le successive scoperte hanno spostato ancora più indietro nel passato le origini dell'Uomo, così che adesso sappiamo non solo che la proprietà privata non è un fondamento eterno della società ma che, al contrario, è una invenzione relativamente recente poiché l'agricoltura - e dunque la proprietà privata e la divisione della società in classi - datano solo a circa 10000 anni fa. Certamente, come mostrato da Alain Testart nel suo libro Les chasseurs-cueilleurs ou l'origine des inégalités[6], la formazione delle classi e delle ricchezze non si è fatta in una notte; è dovuto trascorrere un lungo periodo prima dell'apparizione dell'agricoltura propriamente detta dove lo sviluppo dello stoccaggio ha favorito l’emergere di una ripartizione impari delle ricchezze accumulate. Tuttavia, oggi è chiaro che la parte più lunga della storia umana non è quella della lotta delle classi, ma di una società senza classi, comunista: quello che si chiama comunismo primitivo.
L'obiezione che si sente oggi all'idea di una società comunista non è più dunque che essa violerebbe i principi eterni di proprietà privata ma, piuttosto, che essa sarebbe contraria a “la natura umana”. “Non si può cambiare la natura umana”, ci dicono, e con questo si intende riferirsi alla pretesa natura violenta, competitiva ed egocentrica dell'Uomo. Dunque l’ordine capitalista non sarebbe più eterno, ma solo il risultato logico ed inevitabile di una natura immutabile. Quest’argomentazione non è limitata agli ideologi di destra. Alcuni scienziati umanistici, pensando di seguire la stessa logica di una natura umana determinata dalla genetica, arrivano a conclusioni simili. Il New York Review of Books (giornale intellettuale piuttosto orientato a sinistra) ce ne dà un esempio in un numero di ottobre 2011: “Gli esseri umani si fanno concorrenza per le risorse, lo spazio vitale, i partner sessuali, e quasi per tutto il resto. Ogni essere umano si trova all’apice di una linea di concorrenti che hanno avuto successo e che risale fino alle origini della vita. La pulsione competitiva è presente praticamente in tutto ciò che facciamo, lo si voglia o no. Ed i migliori concorrenti sono spesso i meglio premiati. Basta considerare Wall Street per trovarne un esempio clamoroso (...). Il dilemma umano di sovrappopolazione e di super sfruttamento delle risorse è determinato fondamentalmente dagli impulsi primordiali che hanno permesso ai nostri antenati di raggiungere un successo riproduttivo al di sopra della media”.[7]
Questo argomento può sembrare a prima vista inoppugnabile: non bisogna cercare lontano per trovare esempi a non finire della cupidigia, della violenza, della crudeltà e dell'egoismo nella società umana di oggi o nella sua storia. Ma questi esempi sono forse una prova del fatto che queste tare sono il risultato di una natura determinata - si direbbe oggi - geneticamente? Per niente. Per fare un esempio, un albero che si trovi su una scogliera battuta dal vento marino rischia fortemente di crescere gracile e storto: ma ciò non avviene perché questi caratteri sono determinati integralmente dai suoi geni, tanto è vero che, in condizioni più favorevoli, l'albero crescerebbe diritto.
Possiamo dire la stessa cosa per gli esseri umani?
È un'evidenza, spesso sollevata nei nostri articoli, che la resistenza del proletariato mondiale è ben al di sotto del livello degli attacchi che subisce da parte di un capitalismo in crisi. La rivoluzione comunista forse non è mai sembrata così necessaria e, allo stesso tempo, così difficile. E - a nostro avviso - una delle ragioni risiede nel fatto che i proletari non hanno fiducia non solo nelle loro proprie forze ma nella stessa possibilità del comunismo. “Una bella idea”, ci dicono, “ma sapete, la natura umana …”.
Per prendere fiducia in sé stesso, il proletariato deve affrontare non solo i problemi immediati della lotta ma anche i problemi più vasti, storici, posti dallo scontro rivoluzionario potenziale con la classe dominante. Tra questi problemi, c'è proprio quello della natura umana; e noi dobbiamo trattare questo problema con uno spirito scientifico. Non si tratta di provare che l'uomo è “buono”, ma di arrivare ad una migliore comprensione di quale è precisamente la sua natura, in modo da potere integrare questa conoscenza nel progetto politico del comunismo. Così, non facciamo dipendere il progetto comunista dalla "bontà naturale" dell'uomo: il bisogno di comunismo oggi è inscritto nei dati della società capitalista come sola soluzione al blocco della società, che condurrà senza alcun dubbio l'umanità verso un avvenire catastrofico se il capitalismo non sarà rovesciato dalla rivoluzione comunista.
Il metodo scientifico
Prima di entrare nel vivo dell'argomento, dobbiamo effettuare alcune considerazioni sul metodo scientifico e, più particolarmente, sul metodo scientifico applicato allo studio della storia e del comportamento umano. Un passaggio, all’inizio del libro di Knight, relativo al posto dell’antropologia all’interno delle scienze, ci sembra porre in maniera molto appropriata la domanda: Più di ogni altro dominio della conoscenza, l'antropologia, presa nel suo insieme, scavalca il baratro che ha diviso tradizionalmente le scienze naturali ed umane. Potenzialmente, se non praticamente sempre, essa occupa un posto centrale tra le scienze nel loro insieme. Gli elementi cruciali che, se solo potessero essere riuniti, potrebbero collegare le scienze naturali alle scienze umane, attraversano l'antropologia più di ogni altro campo. È qui che le due estremità si congiungono; è qui che lo studio della natura si conclude, e che comincia quello della cultura. In quale momento dell'evoluzione i principi biologici hanno lasciato il posto a dei nuovi principi dominanti, più complessi? Dove, precisamente, si trova la linea di divisione tra la vita animale e la vita sociale? La differenza è di natura, o solamente di grado? E, alla luce di questa domanda, è realmente possibile studiare i fenomeni umani con la stessa obiettività disinteressata con cui un astronomo può provare le galassie, o un fisico le particelle subatomiche? Se questo campo dei rapporti tra le scienze sembra confuso per molti, è solo in parte a causa delle difficoltà reali che incontra. Da un lato, la scienza è radicata nella realtà obiettiva ma, dall'altro, è radicata nella società ed in noi stessi. In fin dei conti, è per ragioni sociali ed ideologiche che la scienza moderna, frammentata e distorta dalle immense pressioni politiche e, tuttavia, largamente non riconosciute, ha incontrato il suo più grande problema e la sua più grande sfida teorica: riunire le scienze umane e le scienze naturali in una sola scienza unificata sulla base di una comprensione dell'evoluzione dell'umanità, e del posto di quest’ultima nell'universo”. (pp. 56-57).
La questione della “linea di demarcazione” tra il mondo animale non-umano, dove il comportamento è determinato soprattutto dal patrimonio genetico, ed il mondo umano, dove il comportamento dipende molto più dall'ambiente naturale, in particolare sociale e culturale, ci sembra effettivamente la questione cruciale per comprendere la “natura umana”. Le grandi scimmie sono capaci di apprendere, di inventare e di trasmettere, fino ad un certo punto, dei comportamenti nuovi, ma ciò non vuole dire che possiedano una “cultura” nel senso umano del termine. Questi comportamenti appresi restano “periferici alla continuità sociale e strutturale del gruppo” (ibid., p. 11)[8]. Ciò che ha permesso alla cultura di prendere il sopravvento, in una “esplosione creativa” (ibid p. 12), è lo sviluppo della comunicazione tra gruppi umani, lo sviluppo di una cultura simbolica basata sul linguaggio ed il rito. Knight fa peraltro il confronto tra la cultura simbolica ed il linguaggio, che hanno permesso agli uomini di comunicare e di trasmettere le idee e dunque la cultura in modo universale, e la scienza, che è basata su un simbolismo che ha incontrato un accordo universale tra scienziati a livello planetario e, potenzialmente almeno, tra tutti gli esseri umani. La pratica della scienza è inseparabile dal dibattito, e dalla capacità di ciascuno di verificare le conclusioni alle quali essa arriva; essa è dunque nemica di ogni forma di esoterismo che vive solo di conoscenze segrete, interdette ai non-iniziati.
Poiché la scienza è una forma di conoscenza universale che, dalla Rivoluzione industriale, è anche a pieno titolo una forza produttiva che necessita del lavoro associato di scienziati nel tempo e nello spazio[9], essa supera per natura il quadro nazionale e, in questo senso, il proletariato e la scienza sono degli alleati naturali[10]. Ciò non vuol dire assolutamente che possa esistere una “scienza proletaria”. Nel suo articolo “Marxismo e scienza”, Knight cita queste parole di Engels: “più la scienza avanza in modo implacabile e disinteressata, più si trova in armonia con gli interessi degli operai”. E Knight prosegue: “La scienza in quanto unica forma di conoscenza universale, internazionale, unificatrice della specie che l'umanità possieda, deve essere in testa. Se deve radicarsi negli interessi della classe operaia, è solamente nella misura in cui deve radicarsi negli interessi dell'umanità nel suo insieme, e nella misura in cui la classe operaia dà corpo a questi interessi nell'epoca attuale”.
Ci sono altri due aspetti del pensiero scientifico che sono stati messi in evidenza nel libro di Carlo Rovelli a proposito del filosofo greco Anassimandro di Mileto[11], e che riprendiamo qui perché ci sembrano fondamentali: il rispetto per i predecessori ed il dubbio.
Rovelli mostra che l’atteggiamento di Anassimandro verso il suo maestro Talete rompe con gli atteggiamenti caratteristici della sua epoca che erano o di rigetto totale del vecchio “maestro” per porsi al suo posto come nuovo “maestro”, o una devozione totale alle sue parole per mantenerle allo stato mummificato. L’atteggiamento scientifico, invece, si basa sui lavori dei “maestri” che ci hanno preceduto, pur criticandone gli errori, per cercare di andare più lontano nella conoscenza. È questo l’atteggiamento di Knight verso Lévi-Strauss e di Darmangeat verso Morgan, atteggiamento che si deve salutare.
Il dubbio - al contrario del pensiero religioso che cerca sempre la certezza e la consolazione nell’invarianza di una verità immutabile - è fondamentale per la scienza. Come dice Rovelli[12], “La scienza offre le migliori risposte proprio perché non considera le sue risposte come sicuramente vere; è per questo che essa è sempre capace di apprendere, di ricevere nuove idee”. È in particolare il caso dell’antropologia e della paleoantropologia, i cui dati sono sparsi e spesso incerti e le cui teorie al momento più in voga possono trovarsi rimesse in questione, addirittura rovesciate dall’oggi al domani, da nuove scoperte.
Ma è possibile avere una visione scientifica della storia? Karl Popper[13], che è un riferimento presso la maggior parte degli scienziati, pensava di no, poiché considerava la storia come un “avvenimento” unico, non riproducibile, e che la verifica di un’ipotesi scientifica dipendeva dalla riproducibilità delle esperienze o delle osservazioni. Popper, per le stesse ragioni, aveva ugualmente considerato a prima vista la teoria dell’evoluzione come non scientifica mentre oggi questa è di una tale evidenza che il metodo scientifico ha potuto mettere a nudo i meccanismi fondamentali dell’evoluzione delle specie al punto da permettere all’umanità di manipolare il processo di evoluzione grazie all’ingegneria genetica. Senza seguire Popper, è chiaro che utilizzare il metodo scientifico per fare delle previsioni sulla base dello studio della storia resta un esercizio molto rischioso: da un lato perché la storia umana - come la meteorologia per esempio – incorpora un numero incalcolabile di variabili, dall'altro - e soprattutto – perché, come diceva Marx, “gli uomini fanno, loro, la propria storia”; la storia è dunque determinata non solo dalle leggi ma anche dalla capacità o non degli esseri umani di basare le loro azioni sul pensiero cosciente e sulla conoscenza di queste leggi. L’evoluzione della storia resta sempre sottomessa a dei vincoli: ad un dato momento, certe evoluzioni sono possibili, altre no. Ma il modo in cui una data situazione evolverà è anche determinato dalla capacità degli uomini di divenire coscienti di questi vincoli e di agire di conseguenza.
È dunque particolarmente ardito da parte di Knight accettare tutto il rigore richiesto dal metodo scientifico, e sottomettere la sua teoria alla prova dell’esperienza. Evidentemente, non è possibile “riprodurre” la storia in modo sperimentale. A partire dalle sue ipotesi sugli inizi della cultura umana, Knight fa dunque delle previsioni (nel 1991, data di pubblicazione di Blood Relations) relative alle scoperte paleontologiche a venire: in particolare che sarebbe stata ritrovata, tra le tracce più antiche della cultura simbolica dell’uomo, un’utilizzazione importante dell’ocra rossa. Nel 2006, 15 anni più tardi, queste previsioni sembrerebbero confermate dalle scoperte nelle caverne di Blombos (Africa del sud) delle prime tracce conosciute della cultura umana (vedere i lavori della Conferenza di Stellenbosch riunita in The cradle of language – La culla del linguaggio, OUP, 2009, o ancora l’articolo pubblicato sul sito web di La Recherche nel novembre 2011); vi si trova dell’ocra rossa ed anche delle collezioni di conchiglie utilizzate apparentemente come decorazione corporale[14], cosa che si integra nel modello evolutivo proposto da Night (vi ritorneremo più avanti). Evidentemente, questo non costituisce in sé una “prova” della sua teoria, ma ci sembra innegabile che ciò gli dà una maggiore consistenza.
Questa metodologia scientifica è molto diversa da quella seguita da Darmangeat. Quest’ultimo sembra concentrarsi su una logica induttiva che parte da una raccolta di fatti osservati per tentare di estrarre dei tratti comuni. Il metodo non è senza valore per lo studio storico e scientifico: ogni teoria deve conformarsi, dopo tutto, ai fatti osservati. Darmangeat sembra del resto molto reticente nei confronti di ogni teoria che cerchi di andare oltre. Questo ci sembra un atteggiamento empirico più che scientifico: la scienza non avanza per induzione a partire dai fatti osservati, ma per ipotesi che devono certo essere conformi alle osservazioni, ma che devono ugualmente proporre un percorso (sperimentale se possibile) da seguire per avanzare verso nuove scoperte, dunque verso nuove osservazioni. In fisica, la teoria delle stringhe ce ne offre un chiaro esempio: sebbene in accordo, per quanto si possa fare, con i fatti osservati, questa non può essere verificata in modo sperimentale poiché gli elementi di cui postula l’esistenza sono inaccessibili per la loro piccola taglia per gli apparecchi di misura di cui oggi disponiamo. La teoria delle stringhe resta dunque un’ipotesi speculativa, ma senza questo genere di speculazione ardita, non ci sarebbe neanche avanzamento scientifico.
Un altro inconveniente del metodo induttivo è che, per forza di cose, esso deve prima di tutto operare una selezione nell'immensità della realtà osservata. È ciò che fa Darmangeat quando si basa unicamente su delle osservazioni etnografiche lasciando da parte ogni considerazione evoluzionistica o genetica, cosa che ci sembra limitante in un’opera che cerca di chiarire “l’origine dell’oppressione delle donne” (sottotitolo del libro in questione).
Morgan, Engels ed il metodo scientifico
Dopo queste modeste considerazioni sulla metodologia, torniamo adesso al libro da Darmangeat che ha motivato questo articolo.
L’opera è divisa in due parti: la prima esamina il lavoro dell’antropologo Lewis Morgan, su cui Engels ha basato la sua Origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato; la seconda riprende la questione posta da Engels a proposito dell’origine dell’oppressione delle donne. In questa seconda partita, Darmangeat fa riferimento soprattutto all’idea dell’esistenza di un comunismo primitivo, oggi sparito, che si sarebbe basato sul matriarcato.
La prima parte del libro ci sembra particolarmente interessante[15] e noi non possiamo che schierarci decisamente con l’autore quando insorge contro una certa concezione pretestuosamente “marxista” che assegna ai lavori di Morgan, (e a fortiori di Engels), lo statuto di testi religiosi intoccabili. Niente potrebbe essere più estraneo allo spirito scientifico del marxismo. Se i marxisti devono avere una visione storica della nascita e dello sviluppo della teoria sociale materialista, e dunque tenere conto delle teorie precedenti, ci sembra assolutamente evidente che non possano prendere dei testi del diciannovesimo secolo come la parola finale che si possa esprimere sulla storia, ignorando l’accumulazione impressionante di conoscenze etnografiche raccolte successivamente. Certo, conviene conservare uno spirito critico sull'utilizzazione di queste conoscenze: Darmangeat, come del resto Knight, hanno ben ragione di insistere sul fatto che la lotta contro le teorie di Morgan è ben lontana dalla scienza “pura” e “disinteressata”. Quando gli avversari contemporanei e successivi di Morgan segnalavano gli errori commessi da quest’ultimo o quando mettevano in evidenza le scoperte che non quadravano con la sua teoria, lo scopo non era in generale neutro. Attaccando Morgan, si attaccava la visione evoluzionistica della società umana e si cercava di ristabilire quelle categorie “eterne” della società borghese che sono la famiglia patriarcale e la proprietà privata come fondamenti di ogni società umana passata, presente e futura. Ciò è perfettamente esplicito in Malinowski, uno dei più grandi etnografi della prima metà del ventesimo secolo, di cui Knight, in “Early Human Kinship was Matrilineal”[16] cita i propositi in un’emissione radio: “Credo che l’elemento più perturbante delle tendenze rivoluzionarie moderne sia l’idea che la funzione di genitori possa essere resa collettiva. Se mai ci sbarazzassimo della famiglia individuale come elemento essenziale della nostra società, saremmo confrontati con una catastrofe sociale rispetto alla quale gli sconvolgimenti politici della Rivoluzione francese ed i cambiamenti economici del bolscevismo sarebbero insignificanti. La questione di sapere se la maternità di gruppo sia mai esistita come istituzione, se è una sistemazione compatibile con la natura umana e l’ordine sociale, è dunque di un interesse pratico considerevole”. Quando facciamo dipendere le nostre conclusioni scientifico da un partito politico preso, si è lontano dall'obiettività scientifica...
Passiamo dunque alla critica di Morgan fatta da Darmangeat. Questa critica è secondo noi di grande interesse, se non altro per il fatto che essa comincia con un riassunto abbastanza dettagliato della sua teoria, rendendo così quest’ultima molto più accessibile per un lettore non esperto. Abbiamo particolarmente apprezzato il quadro che fa l’accostamento tra gli stadi dell’evoluzione sociale (“selvaggio”, “barbarico”, ecc.) definite dall’antropologia di Morgan con quelli utilizzati oggi (paleolitico, neolitico, ecc.), che ci permette di situarsi meglio nel tempo, ed i diagrammi esplicativi dei differenti sistemi di parentela. Il tutto è corredato da spiegazioni chiare e didattiche.
Il fondo della teoria di Morgan è di collegare tipo di famiglia, sistema di parentela e sviluppo tecnico in un’evoluzione progressiva che passa da “lo stato selvaggio” (prima tappa dell’evoluzione sociale umana, che corrisponderebbe al paleolitico), alla “barbarie” (il neolitico e l’età dei metalli) ed infine alla civiltà. Questa evoluzione sarebbe determinata dall’evoluzione della tecnica e le contraddizioni apparenti che Morgan notava presso numerosi popoli (gli Irochesi in particolare) tra il sistema di parentela ed il sistema familiare, rappresenterebbero proprio delle tappe intermedie tra un’economia ed una tecnica più primitiva e una tecnica più evoluta. Purtroppo per la teoria si trova, guardando più da vicino, che non è questo il caso. Per prendere solamente uno dei molteplici esempi che ci propone Darmangeat: il sistema “punalua” di parentela che, secondo Morgan, è supposto rappresentare una delle tappe sociali e tecniche più primitive, si trova nelle Hawaii; è una società che conosce ricchezze, disuguaglianze sociali, uno strato sociale aristocratico, e che sarebbe sul punto di passare verso una società statale. La famiglia, i sistemi di parentela sono determinati dunque dai bisogni sociali, ma non secondo una traiettoria dritta dai più primitivi fino ai più moderni.
Dobbiamo forse concludere che l’evoluzionismo sociale marxista sia da rigettare? Niente affatto, secondo l’autore. Per contro, bisogna dissociare ciò che Morgan, e poi Marx ed Engels dopo di lui, avevano cercato di associare: l’evoluzione della tecnica (ossia della produttività) ed i sistemi familiari. “I modi di produzione, sebbene differenti da un punto di vista qualitativo, possiedono tutti una quantità comune, la produttività, che permette di ordinarli in una serie crescente, che si trova per di più corrispondere globalmente alla cronologia (…) [Per la famiglia] non esiste nessuna quantità alla quale le differenti forme possano essere riportate ed a partire dalla quale si possa costituire una serie crescente” (p. 136). È evidente che - per riprendere i termini di Engels - “in ultima istanza” l’economia è determinante: se non ci fosse l’economia (vale a dire la riproduzione di tutto ciò che è necessario alla vita umana), non ci sarebbe neanche vita sociale. Ma questa “ultima istanza” lascia molto spazio alle altre influenze, geografiche, storiche, culturali, ecc. Le idee, la cultura - nel suo senso più largo - sono anche dei determinanti dell’evoluzione della società. Ed è lo stesso Engels che si è rammaricato, verso la fine della sua vita, che la necessità che avevano, lui e Marx, di stabilire il materialismo storico su delle basi sicure, e di battersi per difenderlo, li abbia talvolta portati a lasciare così poco spazio nelle loro analisi ad altri determinanti storici.[17]
Critica dell’antropologia
È nella seconda parte del suo libro che Darmangeat espone le sue proprie riflessioni. Vi troviamo, in qualche modo, due trame: da una parte, una critica storica delle teorie antropologiche sulla posizione delle donne nelle società primitive; dall’altra, l’esposizione delle sue conclusioni sull’argomento. Questa critica storica è imperniata intorno all’evoluzione di ciò che Darmangeat considera essere la visione marxista, o almeno marxisteggiante, del comunismo primitivo, dal punto di vista del posto delle donne nella società primitiva, e costituisce una denuncia in piena regola dei tentativi di sostenere una visione “femminista” che cerca di difendere l’idea di un matriarcato originario nelle prime società umane.
La scelta è ragionevole ma, a nostro avviso, non è sempre felice e conduce l’autore ad ignorare certi teorici del marxismo che avrebbero dovuto avere il loro posto, ed ad includerne altri che non vi hanno niente a che fare. Per fare solo qualche esempio, Darmangeat dedica parecchie pagine a criticare le idee di Alessandra Kollontai[18], mentre passa quasi sotto silenzio Rosa Luxemburg. Ora, qualunque sia potuto essere il ruolo della Kollontai nella Rivoluzione russa e nella resistenza alla sua degenerazione, (era una figura importante dell’Opposizione operaia dopo la rivoluzione), questa rivoluzionaria non ha mai giocato un ruolo importante nello sviluppo della teoria marxista, ed ancora meno nell'antropologia. La Luxemburg, invece, era non solo una teorica di primo piano, ma anche l’autrice dell’Introduzione all’economia politica in cui si accorda uno spazio importante alla questione del comunismo primitivo, basandosi sulle conoscenze dell’epoca. Il solo motivo che giustifica questo squilibrio è che la Kollontai è stata molto impegnata, all’interno del movimento socialista e poi nella Russia sovietica, nella lotta per i diritti delle donne, mentre la Luxemburg non si è mai interessata da vicino di femminismo. Nemmeno altri due autori marxisti che hanno scritto sul tema delle società primitive vengono evocati: Karl Kautsky (L’etica e la concezione materialista della storia), ed Anton Pannekoek (Anthropogenesi).
Per le “inclusioni” infelici, prendiamo per esempio, quella di Evelyn Reed: membro del Socialist Workers' Party americano, organizzazione trotskista che ha sostenuto in modo “critico” la partecipazione alla Seconda Guerra mondiale, la Reed trova il suo posto nell’opera per avere scritto nel 1975 un libro di successo nell’ambiente di sinistra, Femminismo ed antropologia. Ma, come dice lo stesso Darmangeat, il libro è stato ignorato quasi sistematicamente dagli antropologi, in gran parte a causa della debolezza delle sue argomentazioni, sottolineate peraltro anche da critiche benevoli.
Ancora ci sono assenze tra gli antropologi: Claude Lévi-Strauss, una delle figure più importanti del ventesimo secolo in questo campo, e che ha basato la sua teoria del passaggio dalla natura alla cultura sulla nozione dello scambio di donne tra gli uomini[19], è menzionato solo di sfuggita, e Bronislaw Malinowski non figura per niente.
L’assenza più sorprendente é forse quella di Knight. Il libro di Darmangeat è imperniato in modo particolare sulla condizione delle donne nelle società comuniste primitive e sulla critica delle teorie che si trovano in una certa tradizione marxista, o almeno marxisteggiante, sull'argomento. Ora, Blood Relations di Chris Knight, che si rivendica esplicitamente alla tradizione marxista, tratta precisamente del problema che preoccupa Darmangeat. Si sarebbe potuto immaginare che quest’ultimo gli avrebbe prestato la più grande attenzione, tanto più che lui stesso riconosce la “grande erudizione” di Knight. E invece niente, tutto al contrario: Darmangeat non dedica che una pagina (p. 321), dove ci dice, tra l’altro, che la tesi di Knight “reitera i più gravi errori di metodo presenti in Reed e Briffault, (Knight osserva il silenzio sulla prima, ma cita abbondantemente il secondo)”, cosa che può far credere al lettore che non ha letto il libro che Knight non fa che seguire delle persone di cui Darmangeat avrebbe già dimostrato la scarsa serietà[20]. Ma un semplice sguardo alla bibliografia di Blood Relations basta a dimostrare che se Knight cita nei fatti Briffault, dà molto più posto a Marx, Engels, Lévi-Strauss, Marshall Sahlins... e ci fermiamo qui. E che se andiamo appena a consultare i riferimenti a Briffault, constatiamo immediatamente che Knight considera che il libro di questo ultimo[21] (pubblicato nel 1927) “è datato nelle sue fonti e nella sua metodologia” p. 328.
Tutto sommato, la nostra sensazione è che la scelta di Darmangeat sia quella di chi non si sbilancia: si finisce con una narrazione critica che non è né una vera critica delle posizioni difese dai marxisti, né una vera critica delle teorie antropologiche, e ciò talvolta ci da l’impressione di essere i testimoni di una tenzone contro dei mulini a vento. In più la nostra impressione è che questa scelta di partenza tenda ad oscurare un’argomentazione peraltro molto interessante.
Segue
Jens - agosto 2012
[1] Edizioni Smolny, Tolosa 2009. Abbiamo preso conoscenza dell'uscita della 2a edizione del libro di Darmangeat (Smolny, Tolosa 2012) mentre ci preparavamo a pubblicare questo articolo. Ci siamo chiesti evidentemente se non bisognava riprendere interamente la nostra critica. Dopo avere preso visione della nuova edizione, c'è sembrato di poter lasciare legittimamente l'essenziale di questo articolo così come è. Lo stesso autore ci segnala nella nuova prefazione di non avere “modificato le tesi essenziali del testo e gli argomenti su cui esse poggiano”, ciò che, alla lettura, si conferma. Ci siamo dunque limitati ad elaborare certi argomenti sulla base della 2a edizione. Salvo indicazione contraria, le citazioni ed i riferimenti ai numeri di pagina sono della prima edizione.
[2] Chris Knight è un antropologo inglese, membro del “Radical Anthropology Group”. Ha partecipato ai dibattiti sulla scienza al 19o Congresso della CCI e noi abbiamo pubblicato sul nostro sito i suoi testi “Marxisme et Science Première partie [32] e “La solidarietà umana ed il gene egoista [33]”.
[3] Yale University Press, New Haven and London, 1991. Il libro è disponibile purtroppo solamente in lingua inglese.
[4] Ciò detto, sarebbe stato impossibile sviluppare queste idee senza lo stimolo delle discussioni con i compagni all’interno dell’organizzazione.
[5] Engels, L’origine della famiglia, della proprietà private e dello Stato. Prefazione alla IV edizione del 1891. Newton Compton Editori.
[6] I cacciatori-raccoglitori o l’origine delle disuguaglianze, edito in lingua francese dalla Societé d’Ethnographie, 1982.
[8] Si può fare qui un’analogia con la produzione mercantile e la società capitalista. Se la produzione mercantile e il commercio esistono dall’inizio della civiltà, e forse anche prima, è solo con il capitalismo che diventano determinanti.
[9] Vedi a questo proposito il nostro articolo "Reading notes on science and marxism", https://en.internationalism.org/icconline/201203/4739/reading-notes-science-and-marxism [35]
[10] Va così per la scienza come per le altre forze produttive sotto il capitalismo: “Durante il suo dominio di classe appena secolare la borghesia ha creato forze produttive in massa molto maggiore e più colossali che non avessero mai fatto tutte insieme le altre generazioni del passato. Il soggiogamento delle forze naturali, le macchine, l’applicazione della chimica all'industria e all’agricoltura, la navigazione a vapore, le ferrovie, i telegrafi elettrici, il dissodamento d’interi continenti, la navigabilità dei fiumi, popolazioni intere sorte quasi per incanto dal suolo - quale dei secoli antecedenti immaginava che nel grembo del lavoro sociale stessero sopite tali forze produttive? […] Le forze produttive che sono a sua disposizione non servono più a promuovere la civiltà borghese e i rapporti borghesi di proprietà; anzi, sono divenute troppo potenti per quei rapporti e ne vengono ostacolate, e appena superano questo ostacolo mettono in disordine tutta la società borghese, mettono in pericolo l’esistenza della proprietà borghese”. Karl Marx e Friedrich Engels, Il Manifesto comunista, “Borghesi e proletari”, Edizione Einaudi, pp. 106 e 108.
[11]Carlo Rovelli, Che cos'è la scienza. La rivoluzione di Anassimandro, Mondadori Università (collana Scienza e filosofia), 2011. Di Carlo Rovelli esiste anche un’interessante lezione magistrale su youtube dal titolo: "Cos'è la scienza? Da Anassimandro alla gravità quantistica” [36] tenuta il 30 ottobre 2012 al Festival della Scienza 2011, Palazzo Ducale, Genova.
[12] Questo passaggio viene citato anche nel nostro articolo La place de la science dans l'histoire humaine (à propos du livre "Anaximandre de Milet") [37], in Révolution internationale n° 422.
[13] Karl Popper (1902-1994) è uno dei più influenti filosofi della scienza del ventesimo secolo ed un riferimento inevitabile per ogni scienziato che si interessi di questioni di metodologiche. Egli insiste particolarmente sulla nozione di “rifiutabilità”, l'idea secondo cui ogni ipotesi, per essere scientifica, dovrebbe permettere l’elaborazione di esperienze o di osservazioni che potrebbero permettere di confutarla; in assenza della possibilità di tali esperienze od osservazioni, un’ipotesi non potrebbe essere qualificata come scientifica. È su questa base che Popper considerava che il marxismo, la psicanalisi e - in un primo tempo - il darwinismo, non potevano pretendere uno statuto di scienza.
[14] L’articolo de La Recherche segnala anche la scoperta di un “nécessaire per il trucco” vecchio di 100 000 anni (vedi www.larecherche.fr/content/recherche/article?id=30891 [38]).
[15] È probabilmente per una forma di ironia che Darmangeat, nella 2a edizione del suo libro, ha preferito spostare tutta la parte su Morgan in appendice, apparentemente per timore di scoraggiare il lettore non esperto a causa della sua “aridità”, secondo il termine dell’autore.
[16] “La prima Parentela Umana era Matriarcale [39]”, pubblicato in Early Human Kinship: From Sex to Social Reproduction, (Prima Parentela Umana: Dal Sesso alla Riproduzione Sociale), 2008, Blackwell Publishing Ltd.
[17] “Del fatto che da parte dei più giovani si attribuisca talvolta al lato economico più rilevanza di quanta convenga siamo in parte responsabili anche Marx ed io. Di fronte agli avversari dovevamo accentuare il principio fondamentale, che essi negavano, e non sempre c’era il tempo, il luogo e l’occasione di riconoscere quel che spettava agli altri fattori che entrano nell’azione reciproca. Ma appena si arrivava alla descrizione di un periodo storico, e perciò a un'applicazione pratica, le cose cambiavano, e nessun errore era qui possibile. Ma purtroppo è fin troppo frequente che si creda di aver capito a fondo una nuova teoria e di poterne senz’altro fare uso non appena ci si sia impadroniti dei suoi principi fondamentali, e anche questo non sempre in modo corretto. E questo rimprovero non posso risparmiarlo neanche a qualcuno dei recenti "marxisti", e ne è venuta fuori anche della robaccia incredibile”. (Lettera di Engels a J. Bloch, 21-22 settembre, in Marx, Engels. Opere Complete. Vol. XLVIII, pag. 494. Editori Riuniti).
[18] Nella 2a edizione, si trova anche un sottocapitolo interamente dedicato alla Kollontai.
[19] La critica della teoria di Lévi-Strauss è trattata in modo approfondita in Blood Relations.
[20] La critica di Knight nella seconda edizione non è più corposa rispetto alla prima, tranne che per la citazione di una rivista critica del libro da parte di Joan M. Gero, antropologa femminista ed autrice di Engendering archaeology: Women and Prehistory. Questa critica ci sembra molto superficiale ed include un preconcetto molto ideologico. Eccone un esempio: “Ciò che Knight mette avanti come prospettiva, da un punto di vista del sesso, delle origini della cultura, è una visione paranoica e distorta della “solidarietà femminile”, presentando (tutte) le donne come se sfruttassero sessualmente e manipolassero (tutti) gli uomini. Le relazioni uomo-donna sono caratterizzate da sempre ed ovunque come relazioni tra vittime e manipolatrici: si sono sempre supposte donne sfruttatrici con tendenza a intrappolare, in un modo o in un altro, gli uomini, e la loro cospirazione finalizzata a questo sarebbe proprio la base fondamentale dello sviluppo della nostra specie. I lettori possono anche sentirsi offesi dall’idea che gli uomini sono sempre stati volubili e che solo una piacevole attività sessuale, distribuita con parsimonia e con civetteria dalle donne calcolatrici, può trattenerli a casa e mantenere il loro interesse per la loro prole. Questo scenario è non solo improbabile e non dimostrato, ripugnante per le femministe così come per chiunque altro, ma il ragionamento sociobiologico spazza via tutte le versioni sfumate della costruzione sociale delle relazioni tra generi, delle ideologie e delle attività che sono diventate così centrali ed affascinanti per gli studi di genere oggi”. (tradotto da noi). Tutto sommato, non solo Gero non ha visibilmente compreso granché dell’argomentazione che pretende di criticare ma, peggio ancora, c’invita a rigettare una tesi scientifica non perché sia falsa – cosa che Gero non si dà neanche la pena di cercare di dimostrare - ma perché sarebbe “ripugnante” per - tra gli altri - le femministe.
[21] The Mothers: A Study of the Origins of Sentiments and Institutions, 1927.
Pubblichiamo un testo dell’antropologo Chris Knight, “La solidarietà umana ed il gene egoista”[1]. Questo testo, che si basa sulla teoria neo-darwiniana del gene egoista[2] di cui sintetizza le fondamenta, cerca di fare piazza pulita delle affermazioni secondo cui l’uomo sarebbe essenzialmente “un lupo per l’uomo”; da questo punto di vista può costituire un contributo contro l’idea che il comunismo sarebbe incompatibile con la natura umana, in quanto arriva a concludere che la solidarietà sarebbe, contrariamente a ciò che si pensa, proprio inerente alla nostra natura. Comprendere il ruolo della solidarietà nell’evoluzione dell’umanità costituisce un aspetto importante nella prospettiva della costruzione di una società comunista e nella sua possibilità di realizzazione. Questa comprensione non può prescindere da un approccio scientifico e dalla conoscenza degli apporti che la scienza ha dato finora. Per questo, al di là dell’ampiezza degli accordi o dei disaccordi che possono esistere su questa teoria, riteniamo che il testo di C.K. costituisca un contributo importante alla riflessione ed al dibattito che la CCI sta sviluppando su queste tematiche[3] e ai quali invitiamo a partecipare i nostri lettori.
Nel 1844, dopo aver effettuato un viaggio di quattro anni intorno al mondo, Charles Darwin confidò ad un amico intimo di essere giunto ad una conclusione pericolosa. Per sette anni, scrisse, si “era impegnato in un lavoro molto presuntuoso”, addirittura “molto stupido”. Aveva notato che, su ciascuna delle Isole Galapagos, i fringuelli locali mangiavano un cibo leggermente differente, ed i loro stessi becchi presentavano corrispondenti modifiche. In Sud America, aveva esaminato un gran numero di fossili straordinari di animali estinti. Riflettendo sul significato di tutto ciò, si sentì obbligato a cambiare parere sull'origine delle specie. Al suo amico, Darwin scrisse: “Sono quasi convinto, al contrario della mia opinione di partenza, che le specie non sono immutabili, e ciò è come confessare un omicidio”.
In quei tempi, la convinzione della trasmutazione - l'idea che le specie potevano evolversi in altre - era politicamente pericolosa. Nello stesso momento in cui Darwin scriveva al suo amico, degli atei e dei rivoluzionari diffondevano dei giornali economici nelle strade di Londra in cui si facevano portatori delle idee evoluzioniste in opposizione alle dottrine professate dalla Chiesa e dallo Stato.
All’epoca il teorico evoluzionista più conosciuto era Jean Baptiste Lamarck, che era responsabile delle esposizioni di insetti e vermi del Museo di Storia Naturale di Parigi.
Assimilato strettamente all'ateismo, al movimento cartista ed ad altre forme di sovversione ritenute emanazioni della Francia rivoluzionaria, l'evoluzionismo in Gran Bretagna era indicato con il termine di “lamarckismo”. Ogni “lamarckiano” - in altri termini, ogni scienziato che metteva in questione l'immutabilità di origine divina delle specie - rischiava di essere assimilato ai comunisti, ai rivoltosi e rivoluzionari. Preso tra le sue prudenti opinioni politiche liberali e le sue scienze, Darwin fu colto da una tale ansia da rendersi malato, dissimulando e soffocando le sue conclusioni proprio come se avesse segretamente commesso un omicidio.
Il periodo di sollevamenti rivoluzionari culminò con gli avvenimenti del 1848, quando gli operai organizzarono delle insurrezioni e scesero per strada in Gran Bretagna ed in tutta Europa. Con la sconfitta di questi sollevamenti, si instaurò la controrivoluzione. Durante il seguente decennio, la minaccia proveniente dalla sinistra si vanificò. Nel 1858, un altro scienziato - Alfred Wallace – in maniera del tutto indipendente scoprì il principio di evoluzione per selezione naturale; se Darwin non l’avesse pubblicato, Wallace si sarebbe guadagnato tutta la gloria scientifica. Senza il pericolo immediato di rivoluzione, il coraggio di Darwin crebbe ed infine nel 1859 pubblicò L’Origine delle specie.
Nella sua notevole opera, Darwin espose a grandi linee un concetto di evoluzione abbastanza differente da quello di Lamarck. Lamarck aveva spiegato l'evoluzione come la conseguenza degli sforzi costanti di tutti gli animali per l'auto-miglioramento durante la loro esistenza. L’idea più sinistra e più crudele di Darwin fu presa in prestito al reverendo Thomas Malthus, un economista al soldo della Compagnia delle Indie orientali. Malthus non si interessava all'origine delle specie; la sua idea era politica. Le popolazioni umane, affermava, cresceranno sempre più rapidamente dell'offerta di cibo. Lotta e carestia ne risultano inevitabili.
La carità pubblica, diceva Malthus, non può che aggravare il problema: gli aiuti fanno sentire i poveri al sicuro, e ciò li incoraggia a riprodursi. Nutrire più bocche comporta una maggiore povertà e dunque ulteriori richieste - insaziabili - di aiuto sociale. La migliore politica è lasciare i poveri morire.
La genialità di Darwin fu di legare botanica e geologia alla difesa, politicamente motivata, della libera competizione e della "lotta per la sopravvivenza". Darwin vide la moralità del "lasciare-fare" di Malthus operante ovunque in natura. La crescita di popolazione nel mondo animale precedeva sempre l'offerta locale di cibo; da qui l'ineluttabilità della competizione che si conclude con la fame e la morte dei più deboli. Mentre i moralisti ed i sentimentalisti avrebbero cercato di addolcire questa immagine di una Natura crudele e senza cuore, Darwin seguì Malthus nel celebrarla. Come il capitalismo puniva brutalmente i poveri ed i bisognosi, la "selezione naturale" eliminava queste creature meno capaci di cavarsela. Poiché i meno capaci di ogni generazione morivano, la prole dei superstiti era sproporzionatamente più numerosa, trasmettendo dunque a tutte le future generazioni le loro benefiche caratteristiche ereditarie. Carestia e morte, di conseguenza, erano dei fattori positivi, in una dinamica evolutiva che puniva inesorabilmente l'insuccesso ricompensando il successo.
In tal modo, Darwin riuscì a conferire alla teoria evoluzionistica delle implicazioni politiche. Lungi dal servire a giustificare la resistenza allo sfruttamento capitalista o alla disuguaglianza sociale, questa versione maltusiana dell'evoluzionismo fu fatta per servire una funzione politica opposta. Darwin descrisse la natura come un mondo senza morale. Di conseguenza, questo dava una certa giustificazione ad un sistema economico basato su una competizione sfrenata, libero da ogni ingerenza “morale” fuorviante proveniente dalla religione o dallo Stato. Vivente Darwin, le controversie pubbliche maggiori intorno alla sua teoria opposero gli evoluzionisti contro quei filosofi, ecclesiastici ed altri, che temevano che una tale visione potesse condurre al crollo di ogni morale nella società.
Dopo la morte di Darwin nel 1881, molti pensatori influenti tentarono di attenuare la forza del ragionamento apparentemente duro ed amorale di Darwin, cercando dei modi di riconciliare la teoria evoluzionistica con i valori religiosi o umanistici. In Russia, il pensatore anarchico Pierre Kropotkin scrisse L’aiuto reciproco, in cui affermava che la cooperazione, non la competizione, era la legge fondamentale della natura. Una maniera assai diffusa di salvare una dimensione “morale” del ragionamento di Darwin era di suggerire che il motore competitivo del cambiamento evolutivo non opponeva gli individui tra loro ma gruppi. L’espressione “sopravvivenza del più capace” - come si diceva allora - significava la sopravvivenza dei gruppi o delle specie più capaci, gli uni e le altre considerate nella loro totalità, e che implicava una stretta cooperazione in seno ad ogni specie. Secondo questo ragionamento, gli individui erano creati per favorire gli interessi della specie. I membri di qualsiasi specie dovevano cooperare gli uni con gli altri, essendo la loro sopravvivenza individuale dipendente dalla sorte di tutto l’insieme.
Questa idea fu accettata con molta stima perché era completamente in accordo con le tendenze della filosofia morale, inclusa la tendenza, “piccolo borghese” del socialismo e del nazionalismo, all’inizio del secolo. Le nazioni erano associate alle "razze" e comparate alle specie animali. Ogni specie, razza o nazione erano supposte essere impegnate in una competitiva lotta a morte contro le proprie rivali. Quelle i cui membri cooperavano per bisogno collettivo sopravvivevano; quelli i cui membri agivano "egoisticamente" finivano per estinguersi. Quando certi animali o uomini mostravano un comportamento cooperativo, esso era spiegato in termini “morali” in riferimento ai bisogni del gruppo.
In Gran Bretagna, Winston Churchill affermò che gli elementi più poveri della società non dovrebbero essere autorizzati a riprodursi, poiché, nel farlo, non potevano che indebolire la “scorta nazionale”. L'eugenetica si guadagnò un’ampia stima, anche presso un gran numero di persone di sinistra; in Germania, giocò un ruolo chiave nella formazione dell'ideologia nazista. Negli anni 1940, l'etologo pioniere Konrad Lorenz incantò gli ideologi del nazismo affermando che la guerra era naturale e preziosa. La paragonava a un modello generale in cui i maschi dei mammiferi, durante la stagione degli amori, s’impegnano in un feroce combattimento, e alla fine le femmine si accoppiano solamente con i vincitori. Questo, affermò Lorenz, è un sano meccanismo di eliminazione dei deboli che, di conseguenza, preserva e migliora la purezza e il vigore della razza.
La teoria evoluzionistica della “selezione di gruppo” - come è chiamata ora – si guadagnò la sua formulazione più sofisticata ed esplicita nel 1962, quando il naturalista scozzese V. C. Wynne-Edwards pubblicò un libro intitolato Animal Dispersion in Relation to Social Behaviour. Per Wynne-Edwards, che in ciò seguiva Malthus, il problema fondamentale incontrato da ogni gruppo o specie era quello della riproduzione sfrenata. La sovrappopolazione alla fine conduceva alla penuria, inducendo la carestia ad una scala che potrebbe minacciare l’intera popolazione locale. Quale era la soluzione? Secondo Wynne-Edwards, era la specie nel suo insieme che doveva agire. Meccanismi speciali si erano dovuti evolvere per evitare la riproduzione al di là della capacità di carico del suo ambiente naturale. Si aspettava perciò che gli individui frenassero la loro fecondità nell'interesse del gruppo.
Sulla base di questa teoria, Wynne-Edwards cercò di spiegare un certo numero di curiose caratteristiche della vita sociale animale ed umana. In particolare, pretese di spiegare dei comportamenti apparentemente ripugnanti come il cannibalismo, l'infanticidio ed il combattimento o la guerra tra gruppi. In apparenza negative, ad un livello più generale tali pratiche costituirebbero una serie di adattamenti benefici con cui ogni specie si sforzerebbe di limitare la sua popolazione. Molti naturalisti erano rimasti impressionati osservando dei casi di uccelli in grandi colonie distruggere la loro reciproca prole, o di leoni che mordono mortalmente dei leoncini alla loro nascita. Tutto questo, dice Wynne-Edwards, ora poteva essere compreso. Quelli che presentano un tale comportamento non agiscono in modo egoista o antisociale; avvantaggiano la specie contenendo la popolazione. Nell’uomo, le attività violente come la guerra hanno una funzione simile. In un modo o in un altro, i livelli di popolazioni umane devono essere limitati; la guerra, associata ad altre forme di violenza, aiutava a raggiungere l’obiettivo.
Questo genere di pensiero “selezionista di gruppo” restò influente in seno al darwinismo fino agli anni 1960. Ma, esponendo la sua formulazione in termini tanto veementi ed espliciti, Wynne-Edwards involontariamente espose il ragionamento del "vantaggio per la specie" ad un attacco più finemente mirato, che minava l'insieme dell'edificio teorico. Appena gli scienziati cominciarono a riflettere sui pretesi “meccanismi di riduzione di popolazione”, le ragioni per cui non potevano funzionare diventarono chiare su un piano puramente teorico. In che modo un’intera specie poteva mobilitare i suoi membri per un'azione collettiva, reagendo in previsione delle future penurie di cibo? Supponiamo, come esempio, l'esistenza di un gene che susciterebbe o faciliterebbe un comportamento che presenta le due seguenti caratteristiche: (a) porterebbe beneficio alla specie ad una data postuma, ed allo stesso tempo (b) ostacolerebbe al momento il successo riproduttivo del suo possessore. Come un tale gene potrebbe essere trasmesso in un futuro, dove si realizzerebbero i suoi supposti benefici? Parlare di un gene di minor successo riproduttore è semplicemente una contraddizione. Esso non sarebbe trasmesso. I suoi futuri supposti benefici non potrebbero mai realizzarsi. La teoria della "selezione di gruppo" nella sua totalità era semplicemente illogica. Questa comprensione inaugurò una rivoluzione scientifica - uno dei più monumentali sconvolgimenti della storia scientifica recente, con un gran numero di implicazioni per le scienze umane e sociali. Gli stessi Marx ed Engels, se oggi vivessero, si metterebbero alla testa di tali sviluppi.
Quasi tutti gli scienziati evoluzionisti oggi sono d’accordo che la teoria della “selezione di gruppo” di Wynne-Edwards era sbagliata. L'idea che il sesso, la violenza o qualsiasi altra forma di comportamento animale si sia potuto evolvere "per il bene della specie" attualmente è completamente screditata. Gli animali non praticano il sesso "per perpetuare la specie"; lo fanno per una ragione più terra-terra - per perpetuare i propri geni particolari. Nessun gene può essere concepito per minimizzare la propria auto-replica - in un mondo competitivo, sarebbe eliminato velocemente e sarebbe sostituito. Supponiamo che un leone uccida i suoi cuccioli per aiutare a ridurre il livello di popolazione totale. Rispetto agli altri leoni, questo individuo avrebbe un debole successo riproduttore. Indipendentemente da ciò che alla fine capiterebbe al gruppo intero, tutti gli individui di qualsiasi popolazione futura sarebbero esclusivamente i discendenti dei riproduttori più “egoisti” - questi leoni programmati per massimizzare la trasmissione dei loro geni (a spese dei geni rivali) alle generazioni future.
Una volta compreso ciò, gli scienziati furono in grado di mostrare che i leoni che uccidevano i cuccioli non uccidevano in realtà quelli propri, ma quelli generati dai maschi rivali. La stessa cosa si applicava agli altri casi di sedicente "regolazione di popolazione". In ogni caso, poteva essere mostrato che gli animali responsabili agivano "egoisticamente" da un punto di vista genetico, i loro geni servivano a trasmettere quante più copie possibili di loro stessi alle generazioni future, senza preoccuparsi troppo di alcuna conseguenza sul livello della popolazione a lungo termine. Il "valore selettivo" significava la capacità a fare introdurre i suoi geni nel futuro; non poteva essere definito diversamente. Una conseguenza era che le idee eugenetiche come quelle di Winston Churchill non avevano nessun significato darwiniano. Churchill riteneva che i poveri si riproducevano troppo velocemente; essendo “meno capaci”, la loro fertilità avrebbe dovuta essere frenata. Come esempio, supponiamo che i poveri all'epoca di Churchill si riproducevano realmente molto più dei ricchi. Secondo gli standard darwiniani moderni, questo avrebbe reso i poveri “più adatti”, non meno. La stessa cosa quando delle minoranze etniche si riproducono ad un ritmo più elevato di quelle che le stanno intorno. Il “valore selettivo”, come questo termine è compreso dai darwiniani moderni, può essere misurato riferendosi unicamente ai geni - non alle razze o alle specie. Di conseguenza, in avvenire, i politici reazionari, razzisti o altri, dovranno diffondere le loro teorie senza l'aiuto del darwinismo.
Il nuovo darwinismo rende oramai impossibile l'elevazione dell'interesse personale di un individuo a livello di quello della specie. I pensatori “selezionisti di gruppo” con ostinazione avevano vestito di “morale” l'infanticidio, la violenza o l'aggressione, tenuto conto degli interessi superiori “della nazione” o “del gruppo”. I militaristi e gli sterminatori erano stati riconsiderati come custodi di interessi superiori, con le loro idee circa l’uccisione della popolazione eccedentaria o l’eliminazione dei deboli per un benessere superiore. Il darwinismo “gene egoista” mise bruscamente fine a tutto questo. I gruppi o specie animali non potevano ormai più essere paragonati agli Stati-nazione, descritti come insiemi coesi e moralmente regolati. Al posto di ciò, ci si aspettava che gli animali cerchino di ottimizzare il loro valore selettivo, agendo consapevolmente o inconsapevolmente per propagare i loro geni. Ci si aspettava perciò anche che le unità sociali non mostrino solo la cooperazione ma anche il conflitto, opponendo in modo ricorrente le femmine e i maschi, i giovani ed i vecchi, ed anche i bambini ed i loro genitori.
Questa insistenza sulla lotta ed il conflitto fecero convergere il darwinismo ed il marxismo che non ammettono l'armonia o la fraternità ma vedono invece un mondo sociale umano lacerato dai conflitti di classi, di sessi e di altre forme. Là dove l'armonia esiste o è stabilita con successo, questo deve essere spiegato, non ammesso.
Una volta rovesciato il “selezionismo di gruppo”, gli scienziati furono costretti a riosservare la vita, affrontando, chiarendo e spesso risolvendo una serie di enigmi scientifici in esame. Come apparve la vita sulla Terra? Quando e perché il sesso si evolse? Come diventarono così cooperativi gli insetti sociali? Perché, come tutti gli organismi viventi, cadiamo malati ed alla fine moriamo? Da allora, ogni teoria ha dovuto dimostrare la sua coerenza con l’implacabile “egoismo” senza compiacenza dei geni. Il risultato è stato una spettacolare serie di aperture intellettuali, che rappresentano una vera rivoluzione, ancora in corso, nelle scienze della vita. Il libro di Richard Dawkins, il Gene egoista, ha riassunto numerose di queste nuove scoperte quando è stato pubblicato con acclamazioni generali – e con una veemenza equivalente di denunce dalla “sinistra classe media” - nel 1976.
Proprio come Karl Marx e Friedrich Engels si opponevano alle teorie “utopiche” del socialismo, i darwinisti moderni si oppongono vigorosamente a tutte le teorie evoluzionistiche lacrimose ed astratte. Il socialismo “utopico” fallì perché non si confrontò mai con il capitalismo. Non spiegò mai come passare da “A” a “B” - dalla logica competitiva del capitalismo alla sua antitesi socialista o comunista. Al posto di ciò, i sognatori "utopici" non fecero che opporre le loro visioni idealistiche alla dura realtà della vita contemporanea, senza preoccuparsi mai di comprendere il funzionamento del capitalismo. Allo stesso modo, prima della rivoluzione “gene egoista” nelle scienze della vita, i biologi si erano appellati alla “cooperazione” nel mondo animale in quanto principio esplicativo senza avere spiegato mai da dove veniva questo principio. Il grande merito del nuovo darwinismo è stato di non essere “utopico”. Quando si è constatato che gli animali si aiutano o anche rischiano la loro vita uno per l'altro – spesso ciò capita - un tale altruismo piuttosto che essere solo ammesso doveva essere spiegato. Soprattutto, ogni altruismo a livello del comportamento sociale doveva conciliarsi con l’“egoismo” replicativo dei geni di questi animali.
Da questo punto di vista, il nuovo darwinismo potrebbe quasi essere chiamato la “scienza della solidarietà”. L’egoismo è facile da spiegare. La vera sfida è spiegare perché gli animali, spesso, non sono egoisti. È una sfida particolare nel caso degli uomini che - forse più che qualsiasi altro animale - possono lanciarsi in atti di coraggio e di sacrificio personale per il beneficio degli altri. Esistono delle storie, dall'autenticità verificata, che raccontano come dei soldati durante la Prima Guerra mondiale si gettavano su una granata che stava per esplodere, salvando così i loro compagni. Un tale coraggio era stato laboriosamente appreso o inculcato negli uomini, o era stato prodotto da potenti istinti? Così, seguendo la maggior parte dei darwinisti, se supponiamo che le persone hanno in se stessi la capacità di essere naturalmente cooperativi ed anche eroici, nasce allora un paradosso intellettuale. Perché i geni che permettono o rendono possibile l'eroismo - questi coraggiosi istinti che, in tempo di crisi, possono superare le nostre vili ed egoiste pulsioni - non sono stati eliminati durante il tempo evolutivo? L'uomo che muore in combattimento non avrà più bambini. Per contrasto, il vigliacco può lasciare numerosi discendenti. Su questa base, non dovremmo aspettarci che ogni generazione sia meno eroica - più egoista - della precedente?
La teoria utopica della “selezione di gruppo” aveva oscurato questo problema proponendo una risposta fin troppo facile. L'eroismo operava per il bene del gruppo. Il problema era che questo non riusciva a spiegare come un tale coraggio poteva fare parte della natura umana, trasmesso di generazione in generazione. È precisamente questa difficoltà che spinse i nuovi darwinisti a trovare una risposta migliore. Quando la soluzione fu trovata, diventò la pietra angolare della scienza evoluzionistica.
La soluzione all'enigma risiedeva nell'idea di “valore selettivo inclusivo”. Il coraggio in combattimento si basa su degli istinti non radicalmente differenti da quelli che spingono una madre a rischiare difendendo i suoi bambini. È proprio per questo che i suoi geni sono “egoisti” - e malgrado questo “egoismo” - il coraggio di una madre può fare appello a profonde risorse istintive. Infatti, la madre che prende istintivamente dei rischi per i suoi bambini concepisce questi bambini come parte di “sé” potenzialmente immortale. In termini genetici, ciò è realistico perché i suoi bambini condividono i suoi geni. Possiamo capire facilmente perché i geni “egoisti” di una madre possono spingerla a comportarsi in modo disinteressato: questo avviene nell’ interesse proprio dei geni. Una logica simile potrebbe spingere fratelli e sorelle a comportarsi in modo disinteressato gli uni verso gli altri.
Nel lontano passato evolutivo, gli uomini si evolvevano in gruppi di relativa piccola scala basata sulla parentela. Ogni persona con cui lavoravi, o con cui ti eri legato strettamente, aveva una buona probabilità statistica di condividere i tuoi geni. Di fatto, i geni avrebbero detto: “Replicaci assumendo dei rischi per difendere i tuoi fratelli e sorelle”. Noi, umani, siamo concepiti per aiutarci gli uni gli altri - e anche morire gli uni per gli altri - a patto di avere avuto prima una opportunità di formare dei legami. Oggi, anche nelle condizioni in cui abbiamo molto meno probabilità di essere imparentati, questi istinti continuano a spingerci con la stessa forza di una volta. La nozione di “solidarietà fraterna” non è totalmente dipendente da fattori esterni e sociali, come l'educazione o la propaganda. Non ha bisogno di essere inculcata nelle persone contro la loro natura profonda. La solidarietà fa parte di una vecchia tradizione - una strategia evolutiva - che, molto tempo fa, diventò centrale alla stessa natura umana. È un'espressione senza prezzo dell’“egoismo” dei nostri geni.
Chris Knight
[1] "Human Solidarity and The Selfish Gene [42]". Abbiamo già pubblicato un altro testo di Chris Knight nella nostra stampa: Marxismo e scienza, https://fr.internationalism.org/node/4850 [32].
[2] La teoria del gene egoista, sebbene combattuta da una minoranza di teorici dell'evoluzione, particolarmente dal defunto Stephen Jay Gould nella Struttura della teoria dell'evoluzione, è difesa dalla maggioranza di essi, principalmente da Richard Dawkins nel Gene egoista e Il fenotipo esteso ed. Oscar Mondadori. Descrivendo i geni come “egoisti”, Dawkins non intende per questo affermare che siano muniti di una volontà o di un'intenzione propria, ma che i loro effetti possono essere descritti come se lo fossero. La sua tesi è che i geni che si sono imposti nelle popolazioni sono quelli che provocano degli effetti che servono ai loro interessi, e cioè continuare a riprodursi, e non necessariamente agli interessi dell'individuo in sé. Questa visione delle cose spiega, come andiamo a scoprirlo più in là in questo articolo di Chris Knight, l'altruismo a livello degli individui nella natura, in particolare nel cerchio familiare: quando un individuo si sacrifica per proteggere la vita di un membro della sua famiglia, agisce nell'interesse dei suoi propri geni.
[3] Testo di orientamento, 2001: La fiducia e la solidarietà nella lotta del proletariato, https://it.internationalism.org/node/1131 [43]; Dibattito interno alla CCI: Marxismo ed etica, https://it.internationalism.org/rint29/etica [44]; Darwin ed il Movimento Operaio, https://it.internationalism.org/node/765 [45]; Darwinismo e marxismo (Anton Pannekoek), https://it.internationalism.org/node/919 [46]
Come abbiamo scritto nell’invito a questa riunione, l’apparato politico italiano della borghesia si sta preparando alla fine della legislatura del governo Monti e alle elezioni per formare un nuovo governo. E’ importante che ci prepariamo anche noi che saremo sempre più tartassati dalla campagna politica dei diversi contendenti, ma soprattutto dal richiamo a esercitare il nostro presunto “diritto-dovere” di “decidere” sulla nostra sorte futura e su quella della “nostra nazione”.
In questa introduzione non vogliamo ritornare sul significato generale che hanno le elezioni in questa società. Potremo comunque farlo nella discussione. Piuttosto pensiamo sia importante cercare di riflettere e capire insieme in che contesto si situano queste elezioni, esaminando sia quali sono le capacità dell’apparato politico della borghesia di far fronte al disastro economico in atto ed alle sue conseguenze, che la maniera in cui la gente - e più in particolare i proletari, i giovani - vivono questa nuova chiamata alle urne.
Abbiamo preparato questo tema prima delle manifestazioni del 14 novembre e forse dovremmo aggiungere al titolo “dopo il voto in Sicilia e l’aumento della repressione poliziesca, cosa accadrà nei prossimi mesi?”, perché quello che è accaduto il 14, o ancora prima con i pestaggi agli operai della Sulcis, è un elemento importante del quadro d’insieme.
Qual è il quadro della situazione?
Ma vediamo sinteticamente i diversi aspetti che ci sembra necessario tener presente per comprendere il contesto in cui si svolgeranno le prossime elezioni.
Il dato da cui partire naturalmente è la crisi economica. Al di là delle rassicurazioni che ogni tanto Monti ci propina sulla “tenuta dell’Italia”, ormai anche un giornale come La Repubblica dice chiaramente che se si aumentano le tasse, si licenzia, si riducono i salari la gente non può più comprare e questo blocca il mercato con la conseguente chiusura di altre fabbriche, mancanza di investimenti ecc. E se questo è vero, come è vero, la prospettiva non può che essere di un peggioramento complessivo della crisi e delle sue conseguenze.
Già nel 2011 si calcolava che “Le persone a rischio di povertà o di esclusione sociale sono in Italia 15 milioni, una persona su quattro (il 24,7 per cento)[1]. E considerando anche soltanto i licenziamenti che intanto ci sono stati per chiusura di fabbrica, ricorso alla cassa integrazione e aumento del numero di giovani che nel frattempo si sono affacciati sul mondo del lavoro, è chiaro che già ora queste cifre andrebbero riviste al rialzo.
Dunque, non solo non si vede un benché minimo barlume di ripresa, ma si affievolisce anche la possibilità di frenare la caduta.
Il governo Monti si è reso necessario un anno fa per cercare di recuperare il controllo su di una situazione economica e politica altamente a rischio.
Dal punto di vista economico, le misure prese da Monti, se nulla hanno risolto al fondo, sono servite comunque a dare un po’ di fiato scaricando sui proletari e sui ceti medi tagli e miseria e dando così nuovo credito all’Italia a livello internazionale.
Ma questa “pausa tecnica” doveva servire anche a ricompattare l’apparato politico, a permettere ai partiti ed alle coalizioni di trovare un nuovo assetto per riprendere le redini del governo una volta scaduto il mandato di Monti. E su questo piano il quadro che si presenta dopo un anno è decisamente fallimentare per la borghesia.
Scontri tra i partiti nelle diverse coalizioni, scontri all’interno degli stessi partiti, primarie che sembrano bracci di ferro tra aspiranti capo, alleanze che si delineano e si sfaldano nel giro di poche ore, un’assoluta incapacità a mettersi d’accordo sulla nuova legge elettorale perché ognuno teme di rimetterci le penne, il tutto condito da notizie di scandali e arresti in tutte le aree politiche …un quadro desolante!
Per quanto riguarda la destra, il ritiro forzato di Berlusconi dalla scena politica per qualche tempo ha tolto al PDL la sua quasi unica attrattiva, cioè il populismo berlusconiano. La batosta ricevuta con le elezioni amministrative del maggio scorso ha fatto ridiscendere in campo Berlusconi, ma le sue uscite populiste (“usciamo dall’euro”, “costruisco un nuovo partito”, ecc.) non hanno più la stessa presa, così come non ce l’ha più il Berlusconi imprenditore nei settori forti dell’Italia che conta (Confindustria, chiesa,…).
Il Pdl attualmente non ha carte vincenti per poter aspirare agli exploit elettorali di una volta e la carta del “rinnovamento” attraverso le primarie è significativa dello sfaldamento: si fanno, non si fanno, e i candidati pare che siano circa una diecina!
Inoltre la scissione di Fini e il tracollo della Lega che, travolta dagli scandali, ha perso molta della sua capacità di ramazzare voti, rendono difficile una coalizione di destra che abbia la forza politica di porsi, sul piano della credibilità, come continuatrice di Monti.
La sinistra non è meglio piazzata. La sua vittoria alle amministrative di maggio e alle regionali del mese scorso in Sicilia è più il frutto del crollo della destra che non un suo consolidamento.
Il PD continua a mostrare la sua inesistenza politica se non nell’appoggiare le misure contro i proletari prese da Monti, come prima (se non a parole, certamente nei fatti) aveva fatto con Berlusconi, e quello che dovrebbe rappresentare il “nuovo”, cioè Renzi, si mostra sempre più come un giovane politicante arrivista che al vuoto di Bersani contrappone il suo proprio vuoto.
E anche qui, la possibilità di una coalizione solida con Sel e Idv sembra un miraggio visti i continui distinguo di ogni parte in gioco rispetto agli altri.
Il centro, rappresentato finora da un Casini ballerino tra destra e sinistra, cerca adesso di costruire qualcosa di più consistente con il nuovo partito Fini-Casini-Montezemolo. E, con l’invito a Monti a scendere in campo al proprio fianco, cerca di proporsi come soluzione per il futuro governo.
Un governo che, mantenendo grosso modo l’attuale staff cosiddetto tecnico, si presenterebbe come garante di una certa efficienza e potrebbe trovare quindi consensi nei settori chiave dell’economia. Resta però il problema, che non è da poco, dell’inevitabile fragilità di un partito costruito all’ultimo momento. e soprattutto il problema che questo non avrebbe i voti per governare da solo, ma con chi si allea?
Una conseguenza di questo stato di decomposizione, che caratterizza i partiti politici nella fase attuale, è lo sviluppo del populismo cioè di una politica orientata a far presa sugli istinti più viscerali della popolazione per raccogliere consensi elettorali e illudere i cittadini che ci possa essere una politica “diversa” in modo da tenerli legati al sistema.
E questa diventa sempre più la maniera di fare politica. L’abbiamo visto a destra con Berlusconi e con Bossi e adesso lo vediamo a sinistra con Di Pietro, che continua ad attaccare il governo Monti che colpisce i più deboli, ma cosa propone in alternativa? Parole.
E lo vediamo soprattutto con Grillo ed il suo partito che a parole è antipartito e antipolitico, ma che però esulta alla conquista di nuove poltrone dalle quali amministrare pezzi di paese insieme agli odiati politici. Grillo con il suo “movimento” dove tutti gli onesti cittadini possono democraticamente partecipare e decidere con la propria testa, tranne poi ricevere, se dici qualcosa che non va bene al grande capo, una lettera del suo avvocato che ti comunica “la decisione del sig. Grillo di revocare l’autorizzazione all’utilizzo da parte sua del nome e del marchio del Movimento 5 Stelle di cui egli è esclusivo titolare, invitandola a volersi astenere, per il futuro, dal qualificare la sua azione politica come riferibile al Movimento stesso o, più in generale, come ispirata dalla persona del mio cliente” (al consigliere regionale piemontese Biolé espulso da Grillo dall’M5S, e non è certo l’unico).
Per l’insieme di questi motivi le prossime elezioni costituiscono una forte preoccupazione per la borghesia, come dimostrano i continui richiami di Napolitano al senso di responsabilità delle forze politiche ed i commenti da più parti sulla vittoria del M5S in Sicilia.
Infatti, se da una parte una forza politica come quella di Grillo riesce nell’immediato a far ritornare nella sfera della mistificazione democratica, quali sono appunto le elezioni, chi se ne stava allontanando per lo sdegno, la disillusione, la rabbia verso le istituzioni o chi era in dubbio se avesse ancora un senso andare a votare, dall’altra contribuisce allo sfaldamento delle stesse forze politiche della borghesia senza costituire peraltro una forza adeguata a sostenere, con la compattezza e competenza necessarie, le tempeste economiche, politiche e sociali alle quali la borghesia italiana deve far fronte sul piano interno ed internazionale.
Quale sarà quindi l’esito delle prossime elezioni? Difficile dirlo con precisione. Ma è certo che qualsiasi partito o coalizione vincerà, qualsiasi governo ne verrà fuori, con o senza Monti, non potrà che continuare sulla strada di Monti perché la crisi mondiale non permetterà altro che aggravare ulteriormente il carico sulle spalle dei proletari.
Così come ricadono sulle spalle dei proletari francesi la decisione del governo Hollande di salvare l’economia nazionale con 20 miliardi di euro in nuove tasse e 10 miliardi di tagli alla spesa pubblica e quella di rendere il lavoro più “flessibile” (e sappiamo bene cosa significa!). In una situazione segnata da un tasso di disoccupazione superiore al 10% e da una lunga serie di annunci di imminenti tagli di posti di lavoro da parte delle maggiori compagnie francesi, a cominciare da Air France e PSA Peugeot Citroën[2].
E la rielezione di Obama non significherà forse la continuazione di quella politica che ha portato in questi anni all’aumento della povertà delle famiglie americane?
Come ci arriva il proletariato a questa nuova chiamate alle urne?
Gli attacchi che a tutti i livelli stiamo subendo, la mancanza assoluta di una prospettiva credibile di venire fuori dalla crisi e lo spettacolo desolante e per molti versi indegno che mostrano i partiti, stanno facendo crescere non solo lo sdegno e la rabbia, ma erodono in maniera tangibile anche la credibilità verso gli apparati di questo sistema.
Un sistema che ormai, a chi scende in piazza per difendere la possibilità di vivere, per chiedere una prospettiva decente, o non dà risposte o risponde con la violenza fisica.
Le cariche e le manganellate ai giovani, agli studenti che chiedono di poter avere un futuro, le manganellate agli operai dell’Alcoa a Carbonia ed a Roma, a quelli dell’Ikea di Piacenza, a quelli della Fincantieri di Castellamare a Napoli, a quelli della Fiat di Pomigliano di febbraio scorso - e la lista non finisce qui - non sono casuali.
Quando le chiacchiere o le promesse vengono sgretolate dalla realtà e non fanno più tanta presa, allora l’unica possibilità è cercare di intimidire per farti rimanere a casa. Ma anche questo può essere un’arma a doppio taglio perché può iniziare a far riflettere su cosa veramente è e può darti un governo, che dovresti pure andare a votare.
Tuttavia, questa comprensione non arriva subito e in maniera lineare, anzi nell’immediato la mancanza di una chiara alternativa a tutto questo genera anche disorientamento e confusione. L’astensione del 53% nelle elezioni in Sicilia e comunque la sua crescita nell’ultimo periodo sono certo una manifestazione di questa disaffezione verso lo strumento elettorale percepito sempre più come qualcosa che non serve a cambiare la situazione, ma è anche il segno di questo disorientamento, del fatto che non sai a chi dare il tuo voto anche se magari continui a pensare che le elezioni, come strumento per far sentire la tua voce, potrebbero funzionare se solo ci fossero delle forze politiche serie in campo.
Per questo, mentre in passato c’era una sorta di “fedeltà” nel voto verso questo o quel partito, oggi l’elettorato è oscillante, si sposta da destra a sinistra da un turno elettorale all’altro perché nei fatti non vedere più una differenza sostanziale tra l’una e l’altra e questo spiega anche le cadute vertiginose di alcuni (chi si ricorda più di Rifondazione Comunista?) e gli exploit inaspettati di altri (vedi Grillo) nell’arco di poco tempo.
Da questo punto di vista, soprattutto nelle prossime elezioni, la vittoria della sinistra invece che della destra, del centro invece che della sinistra non sarà un indice dell’avanzamento del proletariato o di un suo arretramento. Del resto non lo è mai stato, perché la forza o la debolezza del proletariato non si esprime nel voto, ma nella sua combattività e nel maturare della sua comprensione di cosa è questa società e di come combatterla.
[1] “Rapporto sull’Italia”, https://it.internationalism.org/node/1243 [49]
[2] https://www.altrenotizie.org/esteri/5057-hollande-tasse-e-austerity.html [50], 10 settembre
Si avvicinano le elezioni e come di consueto si scatena la campagna elettorale. Ma questa volta il caos tra le forze politiche è veramente grande: scontri tra i partiti delle diverse coalizioni, scontri all’interno degli stessi partiti, primarie che sembrano bracci di ferro tra aspiranti capo, alleanze che si delineano e si sfaldano nel giro di poche ore, un’assoluta incapacità a mettersi d’accordo sulla nuova legge elettorale perché ognuno teme di rimetterci le penne, il tutto condito da notizie di scandali e arresti in tutte le aree politiche …
Intanto il governo Monti mostra la sua incapacità a “risollevare le sorti dell’economia italiana”, mentre continua a scaricare sulle spalle degli strati più deboli della popolazione tutto il peso della crisi. Lo stesso signor Monti gioca a fare la grande star che non vorrebbe restare al governo ma che, se proprio necessario, è disposto a “sacrificarsi” ancora una volta per il bene di tutti.
In questo scenario il partito-non partito “5 Stelle” vince le elezioni nel feudo berlusconiano in un contesto di astensione dal voto del 52%.
Cosa mostra il risultato delle votazioni in Sicilia? Qual è lo scenario che si profila per le prossime elezioni?
Ma soprattutto, le prossime elezioni ed il loro esito cambieranno qualcosa per le centinaia di migliaia di giovani senza lavoro, di precari, di lavoratori in cassa integrazione o gettati direttamente sulla strada, per i pensionati, per gli esodati, insomma per noi proletari?
Cosa è cambiato per i proletari in Francia con la cacciata dell’odiato Sarkozy e la nuova gestione di Hollande? La rielezione di Obama potrà frenare il dilagare della miseria per le famiglie americane?
La borghesia italiana si sta preparando alle elezioni e cercherà in tutti i modi di convincerci che possiamo essere noi a decidere del nostro futuro attraverso la scheda elettorale.
Prepariamoci anche noi discutendo insieme di tutto questo, cercando di capire la situazione che viviamo e quale strada percorrere per venirne fuori.
Riunioni pubbliche a:
Milano, sabato 15 dicembre ore 16.30-20.00, alla libreria Calusca, Via Conchetta 18.
Napoli, sabato 24 novembre ore 16.30-20.00, alla libreria Jamm, via San Giovanni Maggiore Pignatelli 32.
1.1 Quadro internazionale della crisi e situazione economica dell’Italia
La fase attuale della crisi economica si è ormai installata nel cuore del capitalismo e sta minando alle basi quella che era stata la culla dello stesso capitalismo, l’Europa. In questo quadro l’Italia si trova in una posizione particolarmente fragile e, nonostante le misure draconiane che sono state finora prese, si registra un debito consolidato di quasi 2000 miliardi di euro, con una tendenza continua a crescere![1] D’altra parte la politica imposta all’Italia (come alla Spagna, alla Grecia, ed in genere alle popolazione europee) di tagliare su spese e salari, porta necessariamente a una riduzione della domanda e ben difficilmente, ammesso che ce ne possano essere i margini, la situazione che ne consegue può portare ad una ripresa dell’economia. Questo anche per la perdita di competitività avutasi negli anni, legata a un minore aumento di produttività[2]. L’andamento impazzito dei mercati finanziari strozza sempre più la cosiddetta economia reale[3] e gli impianti che chiudono in giro per l’Italia non si contano, con incremento di disoccupazione, povertà, precarietà, …. Certo, le difficoltà non sono solo dell’Italia. Sappiamo ad esempio che da dicembre 2007 a giugno 2009 sono stati persi negli Usa 8,4 milioni di posti di lavoro.[4] Nella stessa Europa, “a maggio sono circa 48 milioni i disoccupati nell'area dell'Ocse: quasi 15 milioni in più rispetto all'inizio della crisi finanziaria iniziata alla fine del 2007.”[5] Ma la cosa non è certo consolante visto che: “La disoccupazione in Italia dovrebbe salire dall'8,4% del 2010 e del 2011 al 9,4% nel 2012 e al 9,9% nel 2013. (…) Tra il 2010 e il 2011 è cresciuta in Italia la disoccupazione di lunga durata. L'anno scorso il 51,9% dei disoccupati lo era da più di 12 mesi contro 48,5% nel 2010.”[6] O ancora che: “Con il tasso record del 35,9% segnato a marzo, l'Italia è al quarto posto tra i 33 Paesi aderenti all'Ocse nella poco invidiabile classifica della disoccupazione giovanile ed è nella stessa, difficile posizione per i 'Neet', i giovani totalmente inattivi cioè “né a scuola, né al lavoro”. Nella Penisola la disoccupazione nella fascia d'età tra 15-16 e 24 anni è aumentata durante la crisi di 16,5 punti percentuali rispetto al 19,4% del maggio 2007.”[7]
1.2 Attacchi economici e processo di pauperizzazione della popolazione
Come evidenziato in precedenza, il punto su cui si scarica tutto il peso della crisi è, sistematicamente, la classe dei lavoratori che, essendo l’unica a produrre ricchezza, è anche quella più tartassata della società. Anche se può risultare scontato, vale la pena ricordare che gli attacchi più brutali e devastanti sono stati portati avanti proprio dall’ultimo governo in carica, che si è distinto per cinismo e ferocia delle manovre. Anzi va ribadito che si è puntato proprio sulla figura del serio professionista Monti per far passare delle misure assolutamente antipopolari che avrebbero potuto far saltare in poco tempo governi non ben ancorati da un rapporto di fiducia con la popolazione, come il precedente governo Berlusconi. Ecco l’elenco degli attacchi economici più importanti:
Adusbef e Federconsumatori hanno calcolato che, con questa manovra, le ricadute saranno, nel 2014, pari a 1.129 euro per ogni famiglia. Tali ricadute, sommate alle misure per il 2011 volute dal governo Berlusconi, raggiungono la cifra di 3.160 €. L’impatto sulla capacità di consumo è pari al 7,6% all’anno.
Tra le varie storie di ordinaria follia con cui procede ormai questo governo nella sua azione di bonifica delle pubbliche finanze, (si intende, solo a carico dei lavoratori!), la storia degli esodati è una storia tutta italiana con 390 mila lavoratori che, in un primo momento, erano stati incoraggiati a lasciare, prima dei tempi, il proprio posto di lavoro per permettere all’azienda di appartenenza una ristrutturazione o l’uscita dalla crisi, e lo avevano fatto sulla base di accordi con lo Stato che aveva promesso un accompagnamento economico fino a raggiungere l’età della pensione. Sennonché, con l’ultima riforma sulle pensioni dell’autunno scorso (l’ennesima!) che ha innalzato l’età pensionabile a 66 anni, l’insieme di queste persone si è trovata con le “regole del gioco” cambiate dopo aver fatto l’accordo e concretamente con degli anni in più di attesa per raggiungere la pensione, senza alcuna garanzia di ricevere né uno stipendio o pensione né alcun sussidio dallo Stato. Questa situazione ignobile, che ha mostrato l’incapacità di questo governo di “professori” di fare le giuste proiezioni sull’effetto di una legge, ha avuto in più l’aggravante dello stupido gioco dello stesso governo (e del ministro Fornero in particolare) a minimizzare il problema, emanando un decreto che recupera la situazione solo per 65 mila esodati per riconoscere solo a distanza di tempo che il problema è più ampio, affermando che per gli altri … «si vedrà».”[9]
C’è ora da chiedersi: cosa ha prodotto questa serie di attacchi nella popolazione? Siamo più poveri di prima, questo è ovvio, ma di quanto siamo tornati indietro? A tale scopo facciamo un piccolo passo indietro cercando di confrontare la situazione attuale con quella degli anni del dopoguerra.
1.2.1 Dal dopoguerra agli anni ‘60
La situazione che si presenta in Italia nel secondo dopoguerra è qualcosa di assolutamente drammatico. Dopo tutte le distruzioni del conflitto, che aveva provocato nella sola Italia quasi mezzo milione di morti, si sviluppa un’inflazione galoppante che fa aumentare i prezzi delle merci di 20 volte! Tra l’altro, nei negozi non era possibile trovare molto e bisognava ricorrere al mercato nero, sempre fornitissimo di ogni tipo di merce (un po’ come succedeva nell’ex regime stalinista in Russia). Ma poteva comprare al mercato nero solo chi aveva soldi per farlo, mentre per la parte più povera della popolazione la situazione era decisamente nera.
«In Italia nel 1951 c’erano 869 mila famiglie (3 milioni e mezzo) in cui non si mangiava ne’ carne ne zucchero. Anche nelle famiglie più adagiate lo zucchero e la carne non comparivano molto spesso e quelle poche volte che comparivano erano l’unica portata. (…). Anche i cereali come la pasta e il pane che era solitamente il cibo dei poveri in Italia non si faceva largo uso. (…) Gli appartamenti degli italiani (avevano): per il 76% avevano la cucina; il 52% l’acqua corrente; e solo il 27% l’energia elettrica. (…). C’era quasi in tutti gli appartamenti la radio: era un oggetto di uso comune e quasi tutti potevano permettersela, era servita a portare nelle famiglie la voce del duce e dei suoi discorsi e verso la fine della guerra (solo nelle case dei più coraggiosi) la voce di Radio Londra. La radio a quei tempi trasmetteva i giornali radio e anche le canzoni, era nato infatti nel 1951 il festival di San Remo.»[10]
E’ interessante notare, come sopra riportato, che nell’immediato dopoguerra praticamente tutte le famiglie possedevano la radio. Anzi, come viene precisato, la radio era diffusa anche prima della guerra con il preciso motivo che era servita a portare nelle famiglie la voce del duce e dei suoi discorsi. Un po’ come si è prodotto successivamente con la televisione che, oltre ad essere uno strumento ludico, è anzitutto uno strumento di indottrinamento e quindi di controllo politico di tutta la popolazione.
«Negli anni ’50 e ’60, in Italia, l’industria divenne l’attività principale, quella con il maggior numero di addetti. (…) Nel Nord il livello di vita salì molto rapidamente e si ebbe una forte richiesta di manodopera. Nel Sud agricolo vi fu una riduzione di posti di lavoro e la povertà rimase diffusissima. Negli anni ’50 meno del 10% della popolazione dell’Italia settentrionale aveva un’alimentazione scarsa, mentre nell’Italia meridionale più del 50% si trovava in questa situazione. (…) Fino all’inizio degli anni ’60, i salari degli operai rimasero molto bassi e molti si trovarono a lavorare in ambienti nocivi o a svolgere lavori pericolosi. Si verificarono perciò moltissimi incidenti mortali e casi di danni permanenti. Alcune industrie chimiche divennero vere e proprie fabbriche della morte: fu il caso dell’IPCA di Torino, una fabbrica di coloranti, dove 140 operai morirono per carcinoma alla vescica.»[11]
1.2.2 La situazione degli anni 2000
Sulla base degli elementi riportati ci si può chiedere quale delle due epoche, quella del dopoguerra e quella attuale, offre di più alla popolazione. Naturalmente, nel fare il confronto, dobbiamo tener conto del fatto che la situazione del dopoguerra risentiva di tutte le distruzioni della guerra e delle difficoltà a ripartire con un’economia a pezzi. Inoltre parliamo di 70 anni fa, quando anche la tecnologia non era ancora quella dei nostri tempi. Il che significa che non avere la luce elettrica o l’acqua corrente o i servizi igienici all’epoca era come non avere oggi, poniamo, un sistema di riscaldamento in casa, il che può essere duro, ma non drammatico. Per quanto riguarda le morti bianche per lavoro, nonostante tutto il grande can can che fa la politica su questo piano e le misure prese (più per non dover pagare gli indennizzi e le cure agli operai che per convinzione), si lamentano in Italia in media 3 vittime al giorno per incidenti, oltre all’incremento dell’incidenza di malattie tumorali per la crescente dispersione di rifiuti tossici sul territorio. Ma soprattutto il problema è di prospettiva. Negli anni ’50 la gente soffriva tanto ed ha affrontato dei sacrifici inenarrabili. Ma quella generazione ha affrontato tutto questo perché vedeva davanti a sé una prospettiva, vedeva che, anche se lentamente, si spostavano degli equilibri. I genitori tutti di quel periodo hanno fatto di tutto per mandare avanti i propri figli e far conquistare loro un posto nella vita, e in generale ci sono riusciti. Oggi la situazione è totalmente rovesciata. A partire da tutto questo, che futuro ci possiamo immaginare? Certo, di difficoltà ne hanno affrontate e superate anche le generazioni precedenti, particolarmente quelle che sono venute immediatamente dopo la guerra e che hanno sofferto i patimenti di un periodo di povertà e di ristrettezze. Ma quella generazione, anche se ha avuto un cammino tutto in salita per un lungo periodo, è poi riuscita a ottenere delle condizioni di vita complessivamente migliori. Il tenore di vita è globalmente migliorato. Molti dei figli di quella generazione hanno fatto un salto sociale, diventando dottori, professionisti, vivendo una vita più agiata e meno di stenti. Oggi la prospettiva è del tutto invertita. Se prima l’operaio voleva ed otteneva di fare il figlio dottore, adesso il professionista fa il figlio operaio, e l’operaio fa il figlio … disoccupato. In altri termini le generazioni precedenti hanno sofferto anche per qualche decennio, ma poi hanno conosciuto nuove prospettive; attualmente invece quello che spaventa di più è proprio che non si vede nessuna prospettiva, anzi che all’orizzonte si vede solo un peggioramento di quello che già viviamo adesso (si pensi in primo luogo alla crisi economica di cui nessuno, nemmeno fra i difensori del sistema capitalista, riesce ad immaginare un superamento vero e duraturo).
D’altra parte è in atto, come ragionevolmente ognuno di noi può constatare, un processo di impoverimento collettivo. E la situazione di degrado è tale che lo Stato si vede costretto a truccare le carte per nascondere il disastro:
«Non è vero che siamo meno poveri, come gli ultimi dati ufficiali sulla povertà (luglio 2010) farebbero pensare. Secondo l’Istat lo scorso anno l’incidenza della povertà relativa (cioè la percentuale di famiglie con un reddito al di sotto di una cosiddetta linea di povertà relativa, ndr) è stata pari al 10,8% (era 11,3% nel 2008), mentre quella della povertà assoluta risulta del 4,7%. Secondo l’Istat si tratta di dati “stabili” rispetto al 2008. In realtà, si tratta di un’illusione «ottica»: succede che, visto che tutti stanno peggio, la linea della povertà relativa si è abbassata, passando da 999,67 euro del 2008 a 983,01 euro del 2009 per un nucleo di due persone. Se però aggiornassimo la linea di povertà del 2008 sulla base della variazione dei prezzi tra il 2008 e il 2009, il valore di riferimento non calerebbe, ma al contrario salirebbe a 1.007,67 euro. Con questa operazione di ricalcolo, alzando la linea di povertà relativa di soli 25 euro mensili, circa 223 mila famiglie ridiventano povere relative: sono circa 560 mila persone da sommare a quelle già considerate dall’Istat (cioè 7 milioni e 810 mila poveri) con un risultato ben più amaro rispetto ai dati ufficiali: sarebbero 8 milioni e 370 mila i poveri nel 2009 (+3,7%).»[12]
Fig.1: La povertà assoluta: percentuale di persone povere in Italia, 1861-2011, (Fonte: Amendola, Salsano e Vecchi (2011), p. 297.)
Solo di recente, una ricerca condotta nell’ambito del 150° anniversario dell’Unità di Italia ha prodotto una prima stima dell’incidenza nazionale della povertà assoluta in Italia dal 1861 al 2008. Come si vede dal grafico di fig.1, lungo i 150 anni di storia unitaria l’incidenza della povertà passa dal 45 per cento di fine Ottocento all’attuale 4,4 per cento, ma è anche vero che il “miracolo” della sconfitta della povertà si osserva soprattutto negli anni Settanta del Novecento: in poco più di un decennio (1970-1981) l’incidenza passa dal 20 per cento a meno del 5 per cento. I decenni più recenti registrano invece un sostanziale ristagno dell’indicatore.[13]
La borghesia italiana usa meno gli indicatori che, a differenza della povertà relativa (come visto visibilmente ingannevole), danno indicazioni più precise sul presente e, soprattutto, sul futuro, come la vulnerabilità alla povertà che non misura la povertà di oggi, ma quella di domani.
«Sono infatti vulnerabili le famiglie che hanno una probabilità superiore alla media nazionale di sperimentare, nel futuro (tipicamente nei dodici mesi successivi all’intervista), un episodio di povertà. Si tratta tanto di famiglie povere oggi, e che hanno bassa probabilità di uscire domani da questa condizione (si parla in tal caso di povertà cronica), quanto di famiglie non ancora povere, ma che non hanno strumenti idonei per fronteggiare eventuali shock negativi di reddito. Alcune stime preliminari hanno prodotto risultati molto netti che, se confermati, suggeriscono dimensioni insospettate del fenomeno. Dal 1985 al 2001 si stima che circa la metà della popolazione abbia un rischio elevato di cadere in povertà (Tab.1). Sorprendentemente, il gruppo dei vulnerabili, è composto non solo da famiglie povere, ma soprattutto da famiglie non povere. Il 40 per cento circa delle famiglie non povere è vulnerabile. Accanto a una povertà assoluta stabile, se non in leggera flessione, emerge dunque una latente fragilità delle famiglie italiane.»[14]
Tab.1: La vulnerabilità alla povertà in Italia, 1985-2011 (Fonte: Rossi e Vecchi,2011).[15]
D’altra parte l’impoverimento non procede in maniera uniforme su tutta la popolazione e su tutto il territorio, ma aggredisce soprattutto le aree storicamente più deboli, e particolarmente il sud:
«Il Rapporto annuale dell’Istat descrive un paese in cui coesistono regioni (nel Nord) con livelli di benessere o inclusione sociale analoghi a quelli della Svezia e regioni (nel Sud) con rischi di povertà o esclusione prossimi a quelli della Romania. (…) Le persone a rischio di povertà o di esclusione sociale sono in Italia 15 milioni, una persona su quattro (il 24,7 per cento): una percentuale più elevata non solo della media dei 17 paesi dell'area euro (21,2 per cento) ma anche della media dei 27 paesi dell'Unione Europea (23,1 per cento).»[16]
1.3 Prospettive a breve e medio termine
Come si vede la situazione che si profila davanti a noi in Italia - ma è l’identica situazione in altri paesi con una sfasatura temporale in avanti o un po’ all’indietro - è di una catastrofe crescente e di una pauperizzazione generalizzata di tutta la classe lavoratrice. La miseria degli anni del II dopoguerra non sta dietro di noi, ma è la situazione verso la quale stiamo andando. Con l’aggravante che adesso non c’è nessun piano Marshall che ci possa venir a tirare fuori, non c’è nessuna capacità di recupero del capitalismo che ha ormai, e da tempo, esaurito tutte le sue risorse.
2.1 Perdita di credibilità dei partiti ed accentuazione del populismo di sinistra (e di destra): quali prospettive per le politiche del 2013?
Come abbiamo ricordato più volte, la formazione del governo Monti a metà novembre dello scorso anno, se è stato un atto indispensabile da parte della borghesia per recuperare una situazione economica e politica che rischiava di andare sempre più fuori controllo, ha comportato per i vari partiti politici rappresentati in parlamento un sacrificio importante ma soprattutto ha creato per loro una situazione molto difficile per il futuro. Se si parte dalla constatazione che l’insieme della “rappresentanza politica” della borghesia ha perso da parecchio lo smalto di una volta e che la gente ripone sempre meno speranze e quindi fiducia in questo o quel partito, accettare la formazione del governo Monti come unica possibile soluzione per poter uscire dai guai, significa in qualche modo riconoscere la propria incompetenza a fare altrettanto. D’altra parte questa unione coatta all’interno dell’attuale governo di forze destinate a combattersi già da oggi in vista delle elezioni di aprile prossimo crea necessariamente fibrillazioni continue nella maggioranza e porta alla erosione dei due principali partiti che vi appartengono, PDL e PD.
Il primo, dopo la recente sconfitta elettorale alle amministrative[1], è alla ricerca di una identità perduta. Infatti, il ritiro forzato di Berlusconi dalla scena politica per qualche tempo ha tolto al PDL la sua quasi unica attrattiva, cioè il populismo berlusconiano, rendendolo un partito arido e privo di ogni attrattiva. Non è un caso che, dopo le amministrative, assorbita un po’ la botta della sconfitta, sia tornato in grande stile la figura di Berlusconi che ha ricominciato a buttare giù una serie di gragnole politiche per destare l’attenzione: vedi la proposta di abbandonare l’euro e di tornare alla lira, o quella di tornare a candidarsi come segretario del partito e premier per la prossima legislazione, o ancora quella di cambiare di nuovo nome al partito e tornare a quello di Forza Italia, salvo che fare marcia indietro dopo la minaccia degli ex AN di non aderire al nuovo partito, ecc. ecc. Ma è chiaro che, per quanto cerchi di creare attenzione intorno a sé, gli argomenti dell’ultimo Berlusconi sono ormai triti e ritriti e non attecchiscono più come una volta; inoltre, il consenso che il Berlusconi imprenditore poteva avere in tutta una serie di settori forti dell’Italia che conta (confindustria, chiesa, …) è stato irrimediabilmente bruciato. La prospettiva del PDL è dunque quella di sopravvivere a sé stesso, con o senza Berlusconi, con un credito elettorale che difficilmente potrà anche solo accostarsi agli exploit di una volta.
Per quanto riguarda il PD, si fa veramente fatica a capire cosa sia questo oggetto politico statico e inerme per antonomasia, espressione di una sinistra borghese ormai praticamente inesistente in Italia. Il PD ha permesso a Berlusconi di governare indisturbato per 8 dei 10 lunghi anni dal giugno 2001 al novembre 2011, consentendogli di portare avanti, tra le altre cose e senza la benché minima opposizione: la macelleria del G-8 a Genova, le più spregiudicate leggi ad personam, la completa lottizzazione della RAI, oltre naturalmente che avallare tutte le manovre economiche e gli interventi militari in varie parti del mondo. Il PD in realtà si caratterizza più per quello che non ha fatto che per il quasi niente che ha fatto. Per cui esso stesso, se in qualche modo risulta ufficialmente vincitore delle amministrative di quest’anno e candidato a vincere le prossime politiche, è in preda ad una perdita di credibilità che trova un limite giusto nella mancanza di alternative.
La deriva dei due principali partiti trova una spiegazione nella fase di crisi profonda che affronta l’economia mondiale e quella italiana in particolare, e nell’obbligatorietà di prendere, da parte di qualunque sia il partito al governo, le misure le più impopolari. La destra di Berlusconi, il centro di Casini e la “sinistra” di Bersani si sono inchinati alle criminali misure economiche che ha preso e che continua a prendere Monti, e questo non è certo un elemento di vanto per un partito, particolarmente per il PD che dovrebbe esprimere gli interessi delle classi più umili. In più, il carattere del tutto inedito della situazione, l’incomprensione di quali possano essere le vie di uscita dalla crisi, l’assenza di un qualunque programma che caratterizzi una componente politica per i valori storici difesi, non fa che accentuare quel fenomeno di decomposizione politica che caratterizza i partiti politici nella fase attuale.
La conseguenza è lo sviluppo del populismo, ovvero di politiche orientate a far presa sugli istinti più viscerali della popolazione per raccogliere consensi elettorali e illudere i cittadini che ci possa essere una politica diversa in modo da tenerli legati al sistema. Ma il populismo, non essendo un programma politico ma solo un atteggiamento propagandistico, è in generale legato alla figura carismatica di un leader e alla sua capacità di reggere il gioco sul teatro della politica. Questo è il motivo delle difficoltà del PDL la cui grande risorsa è stata la sfrontatezza della politica di Berlusconi ma che adesso non trova carte di riserva. Lo stesso si può dire per la Lega Nord, che dopo lo scandalo che ha praticamente bruciato la figura di Bossi, ha le più grandi difficoltà a ritrovare una propria identità. Ma il fatto che i vecchi partiti populisti entrino in crisi non significa che sia il populismo a entrare in crisi. Viceversa questo diventa sempre più la maniera di fare politica, a destra e a sinistra, come mostrato non solo dal partito 5 stelle di Grillo, ma anche da una deriva sempre più estremista portata avanti da Di Pietro con i suoi attacchi continui al governo Monti e soprattutto al presidente della Repubblica.
La prospettiva delle prossime elezioni politiche dell’aprile 2013 costituisce dunque un elemento di grande angoscia per la borghesia italiana nella misura in cui questa è consapevole che il suo apparato politico è visibilmente impreparato e inadeguato a sostenere, con la compattezza e determinazione necessarie in questi frangenti, le tempeste economiche e politiche mondiali. Il ruolo di supplenza svolto da Monti e dalla sua banda nei confronti dei partiti esistenti aveva peraltro la funzione di permettere a tali partiti di riacquistare una credibilità che finora, a 8 mesi dalle prossime elezioni, non è stata recuperata. Non a caso ogni tanto torna in campo l’ipotesi che Monti possa continuare a reggere un futuro governo con una maggioranza non dissimile a quella attuale. Ma questo, per i partiti della borghesia italiana, sarebbe un suicidio. Più funzionale per i giochi politici borghesi potrebbe essere invece l’alleanza di uno dei due grandi partiti, PDL o PD, con un neo partito formato da Monti o al quale Monti aderisse. Lo scenario dell’alleanza elettorale tra PD e Casini da una parte e il recente e insolito attacco di Monti a Berlusconi (“con lui lo spread arriverebbe a 1500”), potrebbe suggerire una soluzione di questo tipo con un governo di centro sinistra a guida Monti, cioè con un’azione non meno devastante per le nostre tasche ma con la giustificazione che lo facciamo tutti per la nostra Patria!
2.2 Politica imperialista ai tempi della crisi economica
Terminata la guerra in Libia che ci è costatata ufficialmente 202 milioni di euro, l’Italia ha deciso di rimanere sul posto con una missione di addestramento a Tripoli dal costo di 10 milioni. In Libano, a distanza ormai di qualche decennio, rimane un contingente di 1.115 unità. Ed ancora circa 600 militari assegnati stabilmente alle forze Nato in Kosovo. In Afghanistan c’è il grosso delle truppe italiane con 4 mila uomini. Queste sono solo alcune delle 20 missioni di peace-keeping cui partecipa l’Italia e con cui questo paese cerca di condurre la sua tradizionale politica di stare dentro le cose per poter, al momento opportuno, cogliere le opportunità del momento.
Nonostante la crisi, non viene meno l’impegno militare ed imperialistico dell’Italia nel mondo, particolarmente nei punti caldi come l’Afghanistan di oggi o l’Iraq di ieri. “Stando al sito ufficiale dell'Esercito Italiano, “la media di personale costantemente schierato all'estero si aggira sulle settemila unità”, ma ciò ovviamente non toglie che il numero possa variare, a seconda delle situazioni che si vengono a creare; attualmente si può parlare di circa ottomila.”[2] Come dice giustamente (dal punto di vista degli interessi della borghesia), il ministro della Difesa ammiraglio Giampaolo Di Paola, “La crisi non fa venire meno funzioni fondamentali come la Difesa”.[3]
Ma questa necessità, soprattutto in tempi di crisi, di mantenere sempre aggiornato il proprio arsenale di armi per poter esibire la propria arroganza imperialista nei confronti delle altre iene capitaliste non elimina, al tempo stesso, la necessità di eludere nei confronti della popolazione il continuo trend all’ammodernamento del proprio armamentario. Così abbiamo assistito all’esibizione, da parte del governo Monti dopo i suoi primi 100 giorni di governo, della bufala secondo cui “la spesa per la Difesa in Italia, in rapporto al PIL, è la più bassa d’Europa. (…) nel documento si afferma (…) che le spese militari in Italia sarebbero solo lo 0,90 per cento del PIL contro una media Ue del 1,61 per cento. (…) Peccato che sia proprio la NATO (e non Anonymous) a smentire quel numero. (…) (Dai dati NATO risulta che) la spesa militare in Italia in rapporto al PIL (a prezzi correnti) non è la più bassa dell’Unione Europea, come scritto nel documento ufficiale della Presidenza del Consiglio, (…). Non solo è maggiore del “magico” 0,9%, ma è superiore al dato di Germania e Spagna (per restare ai paesi territorialmente comparabili al nostro). (…) Nella sua pubblicazione “The World Factbook”, c’è l’elenco della spesa militare di ciascun paese (non solo NATO) in rapporto al proprio PIL. L’Italia - secondo la CIA - spende l’1,8% del proprio PIL. (…) Dello stesso parere è il SIPRI (Stockholm International Peace Research Institute [58]) - il prestigioso istituto svedese indipendente - che nel monitorare le spese militari nel mondo, secondo una metodologia corretta, che stabilisce di includere ed escludere le stesse cose nei dati di ciascun paese, certifica che l’Italia spende in media nel periodo 2005-2009 l‘1,8% del PIL. E’ solo lo 0,2% in più dei dati NATO ma un valore doppio rispetto a quello dichiarato dal Governo italiano. Com’è possibile un divario così ampio? La ragione è semplice. Lo 0,9% è il risultato di una manipolazione contabile che sottrae dal calcolo delle spese militari, le voci del bilancio del Ministero della Difesa destinate alle pensioni e accantonamenti obbligatori, alle funzioni esterne (es. l’impiego dei militari in interventi di protezione civile) e all’Arma dei Carabinieri (in totale più di un terzo del budget). Nello stesso tempo non computa né il fondo per le missioni internazionali (1,640 miliardi di euro nel 2011), ascritte in bilancio al Ministero dell’Economia e Finanze, né i fondi ascritti al Ministero dello Sviluppo Economico per finanziare programmi di nuovi sistemi d’arma (2,248 miliardi di euro nel 2011). Lo 0,9% corrisponde, quindi, solo alle spese di personale, esercizio e investimento a bilancio del Ministero della Difesa, mentre le spese - pur espressamente militari - sostenute da altri dicasteri non sono calcolate.”[4]
Il grafico riportato in fig.2[5] mostra le spese militari, sostenute nell’arco dell’ultima ventina d’anni, da alcuni dei principali paesi europei sottoforma di percentuale del PIL del rispettivo paese. Come si vede, le spese militari stanno calando di continuo dopo il crollo del blocco dell’est, ma questa è una tendenza mondiale (tranne che per gli USA che hanno ripreso alla grande alla svolta del millennio) già messa in evidenza dalla nostra organizzazione e che corrisponde più ad una razionalizzazione che ad una riduzione dell’interesse per il settore militare. In più, osservando il grafico di fig.2, si possono notare due cose interessanti: anzitutto che l’Italia impegna una percentuale di PIL più alta di Germania e Spagna per il settore militare, il che è quanto dire. Ma ancora che, fra i vari paesi considerati, l’Italia è uno dei paesi europei che meno hanno ridotto il peso delle spese militari in rapporto al PIL nell’arco di venti anni: in Francia questo rapporto si è ridotto del 30%, in Germania del 38%, in Grecia del 28%, nel Regno Unito del 32%, in Spagna del 25%, mentre in Italia solo del 20%.[6]
Quello che fa rabbia naturalmente è il fatto che, mentre si portano le famiglie sull’orlo della fame, si programma la spesa di 131 caccia bombardieri F35 nell'ambito del programma Joint Strike Fighter che costeranno all'Italia almeno 15 miliardi di euro[7]. E non è neanche vero, come sostenuto ancora di recente dal Ministro della Difesa Giampaolo Di Paola, che il prezzo delle penali, in caso di mancato acquisto, sarebbe maggiore della fattura di acquisto, come dimostrato nello stesso articolo già citato del sito www.disarmo.org [59].
[1] Per un commento sulle amministrative del 2012 vedi Dopo sei mesi di governo Monti, quale futuro ci prepara la borghesia italiana? [60], su Rivoluzione Internazionale n°176.
[2] Missioni di pace: l’esercito italiano nel mondo , (18 Gennaio 2010 su www.levanteonline.net/ [61]).
[3] "Caccia a tutti i costi", (1/01/2012 su www.disarmo.org/ [62]).
[4] Gianni Alioti, Sulle spese militari, il Ministro dà i numeri [63], (27 febbraio 2012 su www.disarmo.org/ [62]).
[5] Questo grafico, o altri relativi ad altri indicatori nazionali rilevanti, si possono facilmente ottenere utilizzando il link www.google.it/publicdata/explore?ds=d5bncppjof8f9_&met_y=ms_mil_xpnd_gd_zs&idim=country:ITA&dl=it&hl=it&q=spese+militari [64].
[6] Gianni Alioti, Sulle spese militari, il Ministro dà i numeri [63], (27 febbraio 2012 su www.disarmo.org/ [62]).
[7] Francesco Vignarca, "Caccia a tutti i costi", (01 gennaio 2012 su www.disarmo.org/ [62]).
La dinamica della lotta di classe è una dinamica internazionale, per cui gli elementi che caratterizzano la situazione italiana non devono essere visti in sé, ma come articolazione del processo di scontro di classe in corso a livello internazionale che vede, in questo momento, la Spagna e il movimento degli indignati come l’espressione la più elevata della lotta di classe. Ciò detto, la nostra attenzione si soffermerà non solo sugli aspetti che confermano l’appartenenza dell’Italia a questa dinamica internazionale, ma anche su quelli che ne caratterizzano le differenze. In particolare occorre rispondere ad un quesito: perché in Italia, nonostante degli attacchi economici giunti ormai ad un livello decisamente sostenuto, la risposta resta ancora così debole e dispersa?
Le risposte, anch’esse non esclusive per la situazione italiana, possono essere varie e cercheremo di analizzarle nei paragrafi che seguono cercando alla fine di tirare delle conclusioni.
3.1 Livelli espressi dalle lotte e azione della borghesia
Dall’autunno 2010 ad oggi l’Italia è stata attraversata da una serie di lotte che hanno investito un po’ tutte le categorie e tutti i settori:
“(…) i precari della scuola, di fronte ad un vero e proprio licenziamento di massa che non ha dato luogo a nessuna protesta sindacale, a nessun intervento di quelle forze politiche che si dicono progressiste e di sinistra, si sono organizzati da soli, promuovendo la loro lotta con i mezzi che potevano utilizzare visto che a loro, senza posto di lavoro, non è concesso nemmeno scioperare. Sono state le manifestazioni di piazza che questi lavoratori hanno scelto per portare avanti la lotta: presidii davanti agli uffici scolastici provinciali o davanti al ministero, occupazione di questi uffici, manifestazioni di strada. Collegati fra loro tramite internet e le assemblee cittadine, i precari hanno cercato innanzitutto di far conoscere la loro situazione e le loro rivendicazioni, con manifestazioni anche clamorose, come lo sciopero della fame, effettuato in diverse città, o il blocco dello stretto di Messina, che ha visto la partecipazione di migliaia di lavoratori sulle due sponde dello stretto. Accanto a questo, i precari hanno cercato la solidarietà degli altri lavoratori della scuola, e quella dei genitori degli alunni, chiamati a manifestare con i precari in difesa di una scuola dove i loro figli possano vivere in condizioni più decenti e non stipati in 35 in aule che non li possono contenere.”[1]
“Le lotte degli studenti universitari, con un’interessante eco nel mondo dei ricercatori e dei precari nonché delle scuole superiori, sono tornate ancora una volta, fragorose e vivissime come sempre, a riempire le cronache delle ultime settimane, innescate dalla discussione in parlamento sul cosiddetto decreto Gelmini, ma alimentate nel profondo dalla ricerca di un futuro che è stato negato a tutta l’attuale generazione di giovani.”[2]
Ed ancora la miriade di lotte nelle singole fabbriche e aziende, come quella di Pioltello, Milano, le Ceramiche Ricchetti di Mordano/Bologna, la ditta di trasporti CEVA di Cortemaggiore/Piacenza, le Cooperative di trasporto di Bergamo, la Elnagh di Trivolzio, Pavia, l’ex-ILA di Porto Vesme, Carbonia Iglesias, le Ferrovie dello Stato, l’Iribus di Valle Ufita, Avellino, la FIAT di Termini Imerese, l’Innova Service, la Jabil, ex Siemens Nokia, Cassina de’ Pecchi, Milano, i precari della ricerca dell’Ospedale Gaslini di Genova, la petroliera Marettimo Mednav, a Trapani, le 29 operaie in cassa integrazione della Tacconi, Latina, i Magazzini del “Gigante” di Basiano ecc. ecc.
Come si vede esiste un potenziale di lotta incredibile, con lotte a volte commoventi e sempre di grande valore. Ci sono decine di migliaia di proletari che sono riscaldati al colore rosso vivo sul piano della lotta, ma che esprimono la loro combattività nel chiuso del loro posto di lavoro. Infatti il minimo comune denominatore di tutte le lotte citate, e di tante altre non citate ma che esistono sul territorio, è la presenza di:
Anche se tutto questo esprime certamente un grande potenziale di lotta, il fatto che tutto ciò non vada oltre la dimensione della propria fabbrica - cosa favorita particolarmente dalla logica sindacale - diventa a lungo andare una trappola. Non è un caso se in tanti casi i lavoratori, intenti a fare settimane e mesi di lotte estenuanti ai cancelli delle proprie fabbriche o sui tetti o le ciminiere di una fabbrica, lamentino il fatto di rimanere inascoltati da altri proletari. Per evitare questo occorre ribaltare la logica della lotta, bisogna uscire dalla propria fabbrica mandando delle delegazioni in altre fabbriche, in altri posti di lavoro. La solidarietà è un’arma essenziale della lotta di classe, ma non è qualcosa che funziona a senso unico. La solidarietà significa un mutuo sostegno tra diversi settori della classe in lotta e tra gli stessi proletari.
Per spiegare perché la risposta proletaria resta ancora così debole e dispersa, come prima cosa possiamo ricordare la forza e la profondità degli attacchi contro le condizioni di vita dei lavoratori. Come è stato ricordato poco prima, l’attuale governo è quello che sta portando avanti l’attacco più profondo contro le condizioni di vita della gran parte della popolazione in Italia. Questo attacco sta già portando centinaia di migliaia di famiglie sul baratro della povertà assoluta (vedi storia degli esodati, dei licenziati, la crescente precarietà del lavoro, ecc. ecc.). Un elemento già ricordato in passato e che continua ad avere un’influenza oggi è probabilmente l’ambiguità con cui l’attuale governo Monti è entrato in scena. In realtà questo governo è stato presentato come quello che rompeva con il berlusconismo, quello che toglieva dalle leve del potere gli irresponsabili che avevano fatto arrivare lo spread ad oltre 400 e che nel frattempo si davano alla pazza gioia nei festini notturni. Bisogna anche dire che al cambio della guardia c’è stato chi ha festeggiato, tra i proletari, al nuovo governo, segno di quanto male abbia fatto non solo Berlusconi, ma soprattutto l’antiberlusconismo come campagna mediatica tendente ad attribuire ad un solo uomo, ad un solo partito o ad una sola parte politica, tutte le responsabilità della situazione attuale!
Un altro aspetto da tenere in conto è la politica condotta dalla borghesia nei confronti delle aziende in crisi o destinate a fallire. Per evitare di doversi confrontare con l’insieme dei dipendenti di quell’azienda si è adottata, tutte le volte che era possibile e che tornava utile al capitale, la politica dello “spezzatino, cioè lo smembramento in più aziende diverse tra cui una viene caricata di tutti i debiti e di tutti gli esuberi di manodopera, mentre le altre, alleggerite da questi problemi, vengono rilanciate sul mercato. E’ questo ad esempio il caso dell’Agile srl ex Eutelia dove, come viene giustamente denunciato dagli stessi lavoratori implicati, si è trovata la maniera di «licenziare 9000 persone senza che nessuno se ne accorga!!!»”[3]
All’interno di questo discorso un’annotazione particolare va fatta sul caso FIAT, la più grossa industria italiana ormai anch’essa di molto alleggerita in Italia in seguito alla politica dal pugno di ferro adottata dall’a.d. Marchionne. La FIAT sta infatti spostando gli interessi economici e produttivi dell’azienda sempre più al di fuori dell’Italia liberandosi dei pesi morti, come la fabbrica di Termini Imerese in Sicilia, la FIAT CNH di Imola e la Irisbus di Avellino. Il caso Fiat è emblematico perché questa industria, in Italia, è un simbolo sia per la borghesia che per le lotte proletarie e vincere o perdere su questo piano ha delle ripercussioni importanti per il resto dello scontro di classe. E’ perciò che le vicende che sono accadute in questa grossa azienda che dava lavoro in Italia a quasi 120.000 persone contro le 24.000[4] di oggi, sono così importanti. L’attacco di Marchionne ha teso essenzialmente a far passare, con le buone o con le cattive, le esigenze dell’azienda, imponendo una serie di aut aut ai lavoratori senza precedenti, come nel caso di Arese, dove ha imposto con la forza del ricatto un contratto di fame ai lavoratori, pena lo smantellamento dello stabilimento, o la sua decisione di uscire da Confindustria per avere le mani più libere per fare quello che più gli piaceva. In questo, va detto, ha avuto una buona sponda da parte del sindacato che ha portato i lavoratori a scontrarsi contro le manovre padronali con uno strumento del tutto inadeguato per la lotta di classe come il referendum. In più con la solita divisione delle parti con CISL; UIL e CGIL nazionale a favore della firma dell’accordo e la FIOM con tutti i sindacatini “alternativi” a votare contro. L’epilogo della sconfitta non poteva essere più bruciante![5]
A parte gli elementi sopra riportati, esistono ancora due elementi usati dalla borghesia in Italia per controllare la lotta di classe che sono piuttosto specifici di questo paese. Questi elementi sono l’uso della violenza e del terrorismo come surrogato della lotta di classe e quello del sindacalismo di base.
3.2 L’uso della violenza come surrogato della lotta di classe
Questo primo elemento ha radici molto lontane che affondano nella storia di quello che fu il partito stalinista più forte di tutto l’occidente, il cosiddetto Partito “Comunista” (sic) Italiano. Questo partito, fondato nel 1921 a Livorno con Bordiga alla guida, subì, come tutti gli altri partiti dell’epoca, un’involuzione che lo portò a tradire completamente gli interessi della classe operaia e a passare dalla parte della borghesia. Così il partito ormai stalinizzato del secondo dopoguerra non aveva nulla a che fare con quello rivoluzionario fondato da Bordiga. Ma l’intermezzo della guerra ed il periodo controrivoluzionario non permisero al proletariato di riconoscere il tradimento in questo partito che mantenne ancora a lungo l’illusione su una sua natura rivoluzionaria anche grazie all’ambiguità con cui mostrava un’immagine democratica da una parte e, dall’altra, l’immagine di una organizzazione comunque pronta alla rivoluzione. Il ruolo del democratico e del responsabile fu assunto da Togliatti, reduce dalla Mosca di Stalin, mentre quella del rivoluzionario che nascondeva le armi per l’ora X era Pietro Secchia di cui ricordiamo queste parole:
“Un partito comunista, un partito rivoluzionario deve avere due organizzazioni, una larga articolata di massa visibile a tutti, ed una ristretta segreta. Questo anche in tempi della più ampia democrazia e legalità perché non si può mai fare affidamento sui piani del nemico...” Secchia (in A.P.S., p. 587)[6]
Secchia non era un personaggio qualunque, ma uno che all’epoca competeva con Togliatti per la leadership del partito. Chiamato dallo stesso Togliatti a dirigere la commissione d'organizzazione, segnò subito un cambiamento. “Alla fine del 1945, quando si celebra a Roma il V Congresso del Pci, gli iscritti al partito sono già più che triplicati rispetto all'aprile. Sono 1.800.000, organizzati in 7000 sezioni e 30.000cellule; al VI Congresso nel 1948, gli iscritti sono 2.250.000 e le cellule sono diventate 50.000.”[7]
Queste due anime convivono nel partito senza che la seconda, quella lottarmatista, si esprima in maniera esplicita. E’ solo quando nel partito ci si rende conto che la politica di Togliatti, ormai inserito nelle istituzioni in qualità di ministro della giustizia, si muove esclusivamente sul piano della democrazia, una parte degli ex partigiani che non avevano consegnato le loro armi dopo il 25 aprile ripresero ad usarle in modo solitario e irregolare.
“Regolamenti di conti, duri e feroci, liquidazione fisica di fascisti e repubblichini avvennero, e numerosi ben dopo il 25 aprile del 1945. A Milano, lo abbiamo già raccontato, ancora alla fine di maggio venivano raccolti, ogni mattina all'alba, alla periferia, cadaveri di sconosciuti fucilati durante la notte. In Emilia, nelle province dove la lotta partigiana aveva avuto un forte connotato di classe, vennero eliminati nel corso dell'estate del 1945, signorotti fascisti e proprietari terrieri. (…) Ma nessun tribunale riuscì mai a dimostrare, nonostante tutti i tentativi fatti, una qualche responsabilità di dirigenti o organizzazioni del Pci. (…) Ma c'è senza dubbio anche un'altra storia del Pci, più segreta, fatta di appoggio e simpatia per questi piccoli gruppi armati. Non altrimenti si spiega l'avvio clandestino, verso i paesi dell'Est, della maggior parte degli imputati di quei processi quando condannati in contumacia. (…) La vicenda della Volante Rossa è da questo punto di vista esemplare, anche per la struttura che si dà, negli anni tra il 1945 e il 1949, in un singolare intreccio di attività legale e illegale, di normali attività sportive e ricreative e di operazioni terroristiche. Può accadere così che alcuni che fanno parte della Volante in quanto circolo ricreativo non sappiano nulla delle attività illegali del suo nucleo più ristretto cui involontariamente offrono copertura. E se è certo che molti dirigenti Pci di Milano conoscono questa attività segreta della Volante Rossa, è altrettanto certo che la maggior parte degli iscritti al Pci a Milano e in Italia ne sono totalmente all'oscuro (…). Quante sono le esecuzioni da addebitare alla Volante Rossa? E impossibile darne una cifra anche approssimativa: alcune furono azioni clamorose e in qualche modo "firmate", di altre sparizioni non fu possibile indicare la responsabilità. "Andavamo a prendere l'individuo" racconta un testimone che resta anonimo "lo portavamo dalle parti del campo Giuriati, perché allora lì era tutto prato e la mattina passava l'obitorio a ritirarlo." Alcuni fascisti vennero eliminati con una gita in barca sul Lago Maggiore; i cadaveri vennero poi ritrovati con una pietra al collo assicurata con un cavo di ferro.”[8]
In realtà questa componente del PCI fu successivamente lentamente emarginata perché di fatto il PCI, agendo in un paese che era stato assegnato dalla Conferenza di Yalta[9] al blocco occidentale e dunque alla tutela degli USA, non poteva permettersi di lanciarsi in avventure particolari. Tutt’al più poteva seguire di farsi uno spazio attraverso le elezioni, ma con il vincolo di rimanere comunque minoranza parlamentare! Ma la cosa importante è che è rimasta in questo partito, soprattutto nella tradizione orale, questa idea che il partito conservava le armi da qualche parte e il disappunto che non fossero utilizzate in questa o quella occasione. Come si vede la genesi del terrorismo è tutta interna alle istituzioni borghesi e in particolare a quel PCI che ci ha regalato oggi personaggi come Giorgio Napolitano, attuale presidente della repubblica, e tanti altri padri della repubblica democratica fondata sul lavoro … e soprattutto su tanto sangue!
Di conseguenza, quando nei primi anni ’70, con il riflusso del poderoso movimento dell’autunno caldo, una serie di elementi proletari vengono presi dallo sconforto e si chiedono cosa fare per contrastare il declino del movimento, ritenendo che la violenza abbia intrinsecamente un contenuto di classe, non trovano nulla di meglio che riprendere il cammino abbandonato dal vecchio PCI di cui tutto il brigatismo si sente orfano. Come si vede le debolezze che si manifestano nella classe operaia hanno sempre delle radici ed è importante risalire a queste radici per poterle estirpare una volta per tutte.
Come è noto la nostra posizione sul lottarmatismo o brigatismo, comunque lo si voglia chiamare, è del tutto negativo. Naturalmente proviamo tristezza per tutti quei proletari che, pur con grande coraggio e spirito altruistico, nel corso del tempo sono caduti in questa trappola infilandosi in situazioni del tutto controproducenti. Ma la questione è che il terrorismo ha un ruolo nefasto sull’azione della classe operaia nella misura in cui i proletari, di fronte ad atti di terrore, si vedono strappare l’iniziativa e restano paralizzati dal clima di terrore e di caccia alle streghe che immediatamente si instaura.
Bisogna poi dire che la borghesia italiana è riuscita addirittura a trarre profitto dalla presenza e dall’azione dei gruppi armati a vari livelli:
“Ma è stato proprio il timore di questa collera crescente all’interno del proletariato che ha suggerito alla borghesia di provvedere in anticipo a bagnare le cartucce al proprio nemico di classe. Così, da una parte, c’è stata la discesa in campo di tutte le forze della sinistra borghese, dal PD ai vendoliani di SEL, da CGIL e FIOM fino ai vari sindacati di base e alle varie associazioni tipo ARCI e quant’altro è presente nella galassia della sinistra borghese. (…). Su un altro e diverso fronte ha lavorato lo Stato per creare, già alla vigilia della manifestazione, un’atmosfera di tensione. L’episodio di Bologna di tre giorni prima era servito perfettamente ad aizzare gli spiriti più bollenti del movimento e a portarli a Roma con un atteggiamento di sfida. Così, una volta scesi in piazza, i vari settori di proletari, disoccupati, cassaintegrati, studenti, precari, ecc. ecc. si sono sentiti stretti tra due fuochi: da una parte dalla sinistra borghese che cercava di realizzare l’ennesima sterile sfilata, dall’altra dalla tentazione di lasciare almeno un segno tangibile della manifestazione, di fare almeno un poco male a questo sistema di padroni che vuole scaricare tutto il peso della crisi solo su chi lavora e sugli strati più deboli.”[10]
Come è ormai storia, gli scontri che ne sono seguiti hanno completamente disgregato e disperso una manifestazione di ben 200.000 manifestanti impedendo ogni sviluppo ulteriore del movimento[11]. Concretamente questo ha di fatto impedito che attecchisse realmente tra la gioventù in Italia un movimento tipo indignati e che potessero diffondersi quelle pratiche di assemblee, di incontri e discussioni che hanno fatto così bene al proletariato nel mondo intero.
3.3 Il ruolo del sindacato e del sindacalismo di base
Ma forse il principale elemento di freno dell’azione del proletariato in Italia è stato e resta l’azione del sindacalismo, ed in particolare quello di base. Nel 2011 c’è stato un record di ore si sciopero[12], a conferma dell’attivismo sindacale per evitare movimenti più ampi e/o tendenti all’autonomia. E mentre si fa sempre più strada tra i proletari l’idea che i sindacati tradizionali servono solo gli interessi dei padroni si sviluppa, ai margini delle strutture confederali, tutta una pletora di sindacatini divisi per aree geografiche, per settore lavorativo, ma soprattutto divisi tra di loro dall’ambizione di avere ognuno diritto di prelazione su quanto sfugge al controllo dei sindacati maggiori. Per capire questo fenomeno che è tipicamente italiano (a nostra conoscenza non esistono altri paesi con una tale quantità e variegazione di strutture sindacali) occorre fare un po’ la storia di queste formazioni.
Tra i primi a comparire abbiamo le Rappresentanze Sindacali di Base (RdB), che costituiscono la prima struttura ufficiale nell’ambito dell’INPS, nell’ottobre 1979:
“Nel 1977 alcuni rappresentanti dei lavoratori della sede centrale dell’Inps di Roma, componenti del Consiglio dei Delegati, regolarmente eletti, tentano di ridisegnare un modello di democrazia partecipativa in forte contrasto con la segreteria provinciale Flep/Cgil e con il resto del CdD (Cgil - Cisl - Uil) dando vita ad un Comitato di Lotta contro il rifiuto costante del CdD di tener conto delle volontà dell’assemblea”[13].
Successiva è “la nascita dei COBAS (acronimo di Comitati di Base della Scuola = Co.Ba.S, poi generalizzato in Co.Bas) (1986, assemblea al Liceo Virgilio di Roma; costituzione formale, 1987), sulla scia di un grande sciopero nazionale proclamato contro l’atteggiamento dilatorio del governo nelle trattative per il rinnovo contrattuale della scuola per il triennio 1985-88. (…) Si costituisce, agli inizi degli anni ‘90 il Cobas Coordinamento Nazionale, in cui confluiscono il Collettivo Politico Enel, i Collettivi della Sanità, delle Telecomunicazioni, degli Enti Locali, dell’Industria, del Trasporto e dei Servizi. Nel ‘99, il Cobas, Coordinamento Nazionale e il Cobas Scuola daranno vita alla “Confederazione dei Comitati di Base” (…) Quasi subito i Cobas diventano una bandiera. Nel giro di pochi anni arrivano ad avere i numeri per essere sindacato nazionale. (…) In poco più di un lustro i Cobas diventano all’Alfa di Arese il primo sindacato. Nel maggio del 1994 lo Slai Cobas vince le elezioni Rsu all’Alfa di Arese e tra gli operai dell’Alfasud e ottiene successi in numerose aziende. (…)”[14]
Le due diverse strutture sindacali RdB e COBAS, così come tutte quelle che verranno dopo, partono dall’idea che sia possibile praticare il sindacalismo, ovvero portare avanti una contrattazione permanente della forza lavoro con il padronato, in un’epoca in cui tale contrattazione è ormai impedita dell’assenza di ogni margine di manovra per la stessa borghesia che è esclusivamente interessata a togliere tutto quello che può dalle tasche dei lavoratori. Di fatto tutte le iniziative di costituzione di sindacati, come mostra in maniera emblematica proprio il citato sciopero dei lavoratori della scuole del 1986, non è stato mai ad iniziativa dei lavoratori ma sempre di un certo “ceto politico (…) in larga parte ereditato dal rottame parastalinista gravitante nell'orbita del Partito Comunista Italiano prima e di Democrazia Proletaria poi.”[15]
Nella primavera del 1992 nasce la CUB, Confederazione Unitaria di Base, che “organizza oltre 706.802 tra lavoratori dell’industria, dei servizi, del pubblico impiego, gli inquilini e i pensionati, ed è composta dai seguenti sindacati di base: FLMUniti (metalmeccanici, telefonici, energia); FLAICA (commercio, industria alimentare, igiene urbana, pulizie, servizi), ALLCA (chimici, energia, farmaceutici, plastica, gomma), CUB-Edili, CUB-Scuola, CUB-Informazione, CUB-Pensionati, CUB-Sanità, CUB-Tessili, CUB-Trasporti Aereoportuali, Cobas_pt-CUB, Fiap, FLTUniti (trasporto); CUB pubblico-impiego (pubblico impiego); SALLCA-CUB (Credito e Assicurazioni), Unione Inquilini (casa e territorio).”[16]
Ma tutto il percorso del sindacalismo di base, dalla sua nascita fino ai giorni nostri, come detto all’inizio, è all’insegna della competizione. E questa competizione si è periodicamente tradotta in scissioni traumatiche, tentativi di appropriarsi delle casse del sindacato, e tutto il ben di dio che si può immaginare in una struttura che differisce dalle grandi centrali sindacali solo per … una questione di taglia. Non è un caso che, con tutta la determinazione a lottare di ampi settori proletari, le lotte “controllate” dai vari sindacati di base siano rimaste sempre intrappolate nel loro ambito, come abbiamo anche recentemente cercato di mostrare.[17] Ecco alcuni passaggi significativi dell’opera di unificazione condotta da questi sindacati … “alternativi”:
Il 14 ottobre 1996 nasce, all'Alfa di Arese, il SinCobas (sindacato intercategoriale dei comitati di base), a partire da una scissione del comitato di base Slai Cobas e da successive separazioni di lavoratori e delegati da Cgil-Cisl-Uil.
Nel 2006 si forma l’Associazione Lavoratori Cobas, A.L.Cobas, (aderente alla CUB) “dopo che con un atto d’imperio, il coordinatore nazionale dello Slai-cobas aveva espulso i compagni dell’ATM. Il coordinatore nazionale dello Slai aveva, inoltre, addirittura notificato alla controparte (direzione atm) la decadenza dalle rsu dei compagni, la richiesta di estromettere dalla sede interna i delegati eletti dai lavoratori e il cambiamento del conto corrente delle tessere. (…) Il coordinamento nazionale dello Slai, dopo l’espulsione dei compagni dell’ATM Milano ha espulso quelli di Varese e Como, bloccando il conto corrente dove venivano accreditate le tessere. Da quel momento chiunque ha osato dissentire con la direzione dello Slai, ha subito ogni possibile accusa personale: traditore, venduto alla Cub per un posto da funzionario, ladro dei soldi delle tessere, venduto alla Fiat e sempre alla ricerca del compromesso legale per fare soldi ecc. ecc..”[18]
Il 14 gennaio 2007 nasce il Sindacato dei Lavoratori Intercategoriale dalla fusione tra i sindacati SinCobas, SALC e SULT.
Il 17 maggio 2008, 2.000 delegati tengono un’assemblea nazionale a Milano in cui “il processo di lento avvicinamento delle posizioni delle più rappresentative organizzazioni sindacali di base, Cub – Confederazione Cobas – SdL intercategoriale, in atto da tempo, ha subito una positiva accelerazione. (…) Il bilancio che facciamo, a sei mesi dall'Assemblea di Milano, è solo parzialmente positivo. (…) Il permanere di organizzazioni sindacali oggettivamente ancora in concorrenza tra loro, tuttavia, riduce l’impatto della nostra azione e amplifica la consapevolezza di quanto uno strumento realmente unitario potrebbe giovare alla causa che ci siamo prefissati.”[19]
Il 12 settembre 2008 CUB, Confederazione Cobas e SdL intercategoriale sottoscrivono un Patto di Consultazione Permanente nazionale, allo scopo di coordinare l'azione e le iniziative sindacali delle tre organizzazioni di base. “Il Patto di Consultazione Permanente prevede:
· riunioni periodiche a livello nazionale nel corso delle quali si confrontino le varie proposte di lotta, con l'obbiettivo di giungere a iniziative comuni, o ad iniziative di singola organizzazione ma non in competizione tra di loro;
· la realizzazione di iniziative unitarie di dibattito, convegni, seminari e l'elaborazione di documenti, prese di posizione comuni sui principali temi di conflitto con il padronato, il governo, i sindacati concertativi;
· la costituzione di un Forum permanente sulla rappresentanza, sui diritti sindacali, il diritto di sciopero e contro il monopolio concesso ai sindacati concertativi”.[20]
Sabato 7 febbraio 2009, la Confederazione Unitaria di Base (CUB), la Confederazione Cobas e SdL Intercategoriale, in continuità con il Patto di Consultazione Permanente stretto fra le tre organizzazioni, adottano il Patto di Base, con cui si intende perseguire obiettivi comuni e utilizzare strumenti organizzativi e di coordinamento sempre più incisivi. Questi i punti caratterizzanti il nuovo patto contenuti nella relazione introduttiva:
· “Il Patto di Base ha l’obiettivo di intensificare e facilitare l’unità d’azione tra le tre organizzazioni sindacali, portando a un più stretto e organico rapporto generale.
· Il Patto di Base rappresenta lo sviluppo naturale del Patto di Consultazione e ne assorbe contenuti e finalità e si prevede, per gestire efficacemente mobilitazioni e iniziative di lotta comuni, la realizzazione di sedi unitarie di dibattito, convegni, seminari ed elaborazioni di documenti.
· Inizialmente avrà organicità a livello nazionale e regionale, per procedere, nei tempi concordemente definiti, sul piano categoriale, territoriale e di posti di lavoro. Prevede quindi riunioni periodiche a livello nazionale e territoriale nel corso delle quali si cercherà di giungere in ogni occasione ad iniziative unitarie.”[21]
In un articolo di Umanità Nova del 19 aprile 2009 si legge: “In altri termini, le tensioni interne alla CUB, la più consistente organizzazione di quest'area (…) stanno (…) significativamente bloccando l'iniziativa del sindacalismo di base. Gran parte delle energie vengono assorbite dagli scontri interni e dal posizionamento in previsioni di scomposizioni e ricomposizioni mentre urgerebbe ben altro.”[22]
Tra il 21 ed il 23 maggio 2010 si è svolta un’assemblea nazionale in cui si è deciso lo scioglimento del SdL, che unitamente all'RdB ed a parte della CUB ha dato vita all'Unione Sindacale di Base.”[23]
In un altro articolo di Umanità Nova del 27 marzo 2011 si legge ancora, con un tono evidentemente ironico: “Evitiamo quindi di fare considerazioni sullo scontro attualmente in atto riguardo alla gestione ed al controllo del CAF di base e sulla lotta all’ultimo sangue, tra strutture ormai nemiche, attuata allo scopo di strapparsi reciprocamente i clienti. Evitiamo di ricondurre ogni cosa ad un’interpretazione banale e non molto fantasiosa: la scissione come risultato di uno scontro senza quartiere per cercare di conquistare un’egemonia intraorganizzativa ed il controllo completo di risorse scarse.”[24]
Il 22 giugno 2012 si tiene, subito dopo la manifestazione di Milano in occasione dello Sciopero nazionale dei sindacati di Base, un’assemblea autoconvocata dei delegati e degli attivisti di USB Lombardia. “Alla riunione erano presenti delegati e attivisti delle province di Milano, Pavia, Brescia Como e Varese. Per i partecipanti è venuta meno, o si è notevolmente affievolita, l’idea di un sindacato “includente ed aperto a processi unitari”, a tal punto da vedere “questo obiettivo strategico sacrificato a logiche che rischiano di farci fare enormi passi indietro e di farci tornare alla frammentazione tanto criticata”. (…) Per ora non c’è l’abbandono del sindacato ma la costituzione di una componente interna: Unità di Base. (…) “Vogliamo- conclude il documento – continuare a costruire un modello di sindacato completamente nuovo, (…) un modello sindacale che rompa con la tradizione burocratica ed accentratrice della storia delle organizzazioni del movimento operaio del secolo scorso, che sono alla base delle degenerazioni, delle involuzioni e quindi delle sconfitte che ci hanno portato alla situazione attuale, a questa “Caporetto” dei diritti di lavoratori e lavoratrici e a questa deriva autoritaria in cui a comandare sono le banche e i poteri economici”. A buon intenditore poche parole.”[25]
3.3 Prospettive della lotta di classe in Italia
Per trarre delle prospettive da tutto quanto abbiamo esposto dobbiamo stare attenti a non cadere in due stati d’animo (e in due atteggiamenti politici) opposti e simmetrici: da una parte quello di entusiasmarci per ogni azione della classe pensando che le cose si sviluppino da sole fino alla rivoluzione, dall’altra demoralizzarci per le difficoltà incontrate sul campo e pensare che non ce la faremo mai a superarle. La lotta del proletariato è di quelle che vincono una sola volta nella propria storia dopo aver accumulato una serie di sconfitte. E questa serie di sconfitte sono, per il proletariato, la scuola di guerra di classe attraverso cui, giorno dopo giorno, attraverso avanzamenti ed arretramenti sul piano della coscienza di classe, i proletari temprano le proprie armi.
In questo inizio di autunno stiamo assistendo all’acutizzarsi di una serie di lotte di lavoratori – ILVA di Taranto, Carbon-Sulcis, Alcoa, ecc., che stanno cercando in tutti i modi di difendere il loro lavoro e il futuro dei propri figli. Il problema è che la difesa delle proprie condizioni di vita e di lavoro in quanto proletari viene portata avanti come se ci potesse essere una compatibilità tra gli interessi proletari e quelli della borghesia.
Così gli operai delle acciaierie dell’ILVA, che si ritrovano un impianto chiuso dalla magistratura dopo aver scoperto che la “loro” produzione aveva procurato malattie respiratorie, cancro e morte a tanti altri proletari tarantini, si ritrovano stretti nel ricatto di dover scegliere tra la difesa del posto di lavoro e il fregarsene delle condizioni di salubrità della fabbrica e reclamare in alternativa il rispetto dell’ambiente e della salute di lavoratori e cittadini, cauzionando in questo modo, se non il licenziamento, un lungo periodo di cassa integrazione e di precarietà.
I minatori della Carbon-Sulcis, per protestare contro la chiusura della miniera, hanno iniziato una protesta scendendo a 400 metri di profondità e minacciando di usare il materiale esplosivo che utilizzano per svolgere quotidianamente il proprio lavoro. I minatori hanno anche stilato un piano per la riconversione della miniera e nello specifico per la produzione di energia pulita, ma è stato bocciato dal sottosegretario allo Sviluppo Economico De Vincenti per insostenibilità economica.
All’Alcoa, fabbrica di produzione dell’alluminio, la situazione è ancora bloccata in attesa che si faccia avanti un compratore disposto a investire. E dove, in seguito alle dichiarazioni del ministro Passera sulla non risolvibilità del problema, sono scoppiati degli scontri molto duri con le forze dell’ordine dopo il tentativo degli operai dell’Alcoa di spezzare il cordone delle forze dell’ordine in difesa del Ministero dello Sviluppo.
Tutte e tre queste lotte si urtano contro il problema delle compatibilità. Quella dell’ILVA con la questione ambientale, quella della Carbon-Sulcis con la produttività dell’impianto e quella dell’Alcoa con la possibilità di trovare un nuovo acquirente dell’impianto. Peraltro c’è spesso l’idea, veicolata dai vari sindacalismi, che la lotta è tanto più legittima quanto più si spinge a difendere la produttività e l’efficienza della fabbrica o dell’impianto in cui si lavora. Se si rivolge lo sguardo al panorama delle lotte in Italia si assiste ad una costellazione di lotte tutte del tipo visto sopra. Cos’è dunque che manca ai proletari per sviluppare una lotta veramente efficace?
Non manca la combattività. Non manca la determinazione. Ma resta ancora debole la percezione che per vincere occorre lottare su un piano esclusivamente proletario. Manca ancora il sentimento che, non solo in maniera ideale, ma anzitutto sul piano concreto e materiale, la lotta non può essere condotta per singole fabbriche o anche per singoli settori produttivi, né ancora che la lotta si possa svolgere con atti di forza, con singole manifestazioni o singoli scioperi generali. C’è ancora un cammino da fare per raggiungere una dimensione in cui il proletariato ritrovi la sua identità di classe, una dimensione nella quale lottare assieme a proletari di un’altra fabbrica o settore o città non è più una questione di alleanza tattica per essere momentaneamente più forti ma come l’unica chance per arrivare a costituire un fronte di lotta ampio e saldo con cui fronteggiare la borghesia e combattere per una società futura che restituisca la dignità a tutta l’umanità.
CCI 12 settembre 2012
[1] Italia: la maturazione della lotta di classe [65], (30/09/2010 su Rivoluzione Internazionale n°167).
[2] La lotta degli studenti: una generazione alla ricerca di un futuro negato [66], (08/12/2010 su Rivoluzione Internazionale n°168).
[3] Italia: la maturazione della lotta di classe [65], (30/09/2010 su Rivoluzione Internazionale n°167).
[5] Vedi l’articolo: Che cosa ha significato il Referendum alla Fiat Mirafiori di Torino [68], su Rivoluzione Internazionale n°169.
[6] Riportato in: Miriam Mafai, L’uomo che sognava la lotta armata. La storia di Pietro Secchia. 1984. Rizzoli
[7] Miriam Mafai, L’uomo che sognava la lotta armata. La storia di Pietro Secchia. 1984. Rizzoli.
[8] Miriam Mafai, L’uomo che sognava la lotta armata. La storia di Pietro Secchia. 1984. Rizzoli.
[9] La Conferenza, tenutasi nella città di Jalta in Crimea l’11 febbraio 1945 a guerra ancora in corso e tenutasi tra i capi delle tre principali potenze belligeranti, Churchill (GB), Roosevelt (USA) e Stalin (URSS), sancì di fatto la spartizione del mondo in due diverse zone di influenza, che poi costituirono i due diversi blocchi imperialisti, quello americano e quello sovietico.
[10] Manifestazione del 15 ottobre a Roma: cos’è che determina un rapporto di forza tra sfruttati e sfruttatori? [69], (25/10/2011), ICConline.
[11] Per una nostra posizione sulla violenza vedi Dibattito sulla violenza. E’ necessario superare il falso dilemma tra pacifismo socialdemocratico e violenza minoritaria [70] pubblicato su www.internationalism.org [71] e Manifestazione del 15 ottobre a Roma: cos’è che determina un rapporto di forza tra sfruttati e sfruttatori? [69]
[12] Nel solo 2011 6mila ore di sciopero, con un aumento del 55% rispetto a cinque anni prima. www.dirittiglobali.it [72]
[13] Fabio Sebastiani, Sindacalismo di base e democrazia sindacale: dall’autunno caldo quale modello di sindacato, www.proteo.rdbcub.it/article.php3?id_article=186 [73]
[14] Idem. Vogliamo precisare che noi non identifichiamo i Comitati di base della scuola che nascono alla fine del 1986, e che sono l’espressione di un movimento spontaneo che stava nascendo e che ha dato luogo a un momento importante di lotta almeno per tutto il 1987, con i Cobas-sindacato che nascono con il riflusso del movimento in effetti nel 1988.
[15] idem
[16] Chi siamo e cosa vogliamo. Una sintetica presentazione della CUB (03-10-2005), cub.it/article/?c=chi-siamo&id=3.
[17] Lotta di classe in Italia: perché le lotte non riescono ad unirsi in un unico fronte contro il capitale? [74] su Rivoluzione Internazionale n°173.
[18] A.L.Cobas, Chi siamo, 17/11/2005, cub.it/article/?c=organizzazioni&id=517.
[19] Fabrizio Tomaselli, Coordinatore nazionale SdL intercategoriale, Il tempo stringe: occorre accelerare il processo unitario dei sindacati di base! [75] (29 Novembre 2008 in www.pane-rose.it [76]).
[20] Tra CUB, Confederazione Cobas e SdL Intercategoriale firmato un Patto di Consultazione Permanente [77], (12 Settembre 2008 in www.pane-rose.it [76]).
[21] Seconda Assemblea nazionale Cub - Confederazione Cobas - SdL intercategoriale [78] (9 Febbraio 2009 in www.pane-rose.it [76]).
[22] Un due tre, stella... La marcia del gambero del sindacalismo di base, Umanità Nova, n. 15 del 19 aprile 2009.
[24] Dove va il Sindacalismo di base?, Umanità Nova, n. 10 del 27 marzo 2011.
[25] Mishima, C’è fermento nell’USB. A Milano, una assemblea sancisce la nascita di una componente interna. E’ l’inizio di una rottura? (4 luglio 2012)
- La chiusura delle fabbriche, la perdita di posti di lavoro, sono la conseguenza di cattiva gestione e menefreghismo dei padroni o la conseguenza di una crisi economica profonda e senza via di uscita che investe non solo l’Italia ma il mondo intero?
- Difendendo la propria azienda, rivendicandone la produttività e l’efficienza, non ci si pone in una posizione concorrenziale con altri settori proletari che caso mai vivono una situazione del tutto simile ma in un’azienda meno (o più) efficiente?
- Il diritto a una vita degna di questo nome può essere invocata subordinatamente all’efficienza della propria fabbrica o cedendo, come nel caso dell’Ilva, al ricatto di lavorare rischiando la salute propria e di un’intera popolazione pena la perdita del lavoro?
- Come possiamo difenderci? Quali armi abbiamo per costruire un rapporto di forza a favore dei lavoratori?
Discutiamone insieme alle prossime Riunioni Pubbliche della CCI che si terrànno a
Napoli, sabato 29 settembre dalle 16.30 alle 20.00, presso la libreria Jamm, via San Giovanni Maggiore Pignatelli, 32
Milano, sabato 6 ottobre dalle ore 16.30 alle 20.00, presso la libreria Calusca, via Conchetta 18.
Il “dibattito” sul “diritto” dei gay o delle lesbiche a sposarsi legalmente e a beneficiare, grazie a questo riconoscimento giuridico, dei vantaggi finanziari concessi alle coppie eterosessuali sposate, è da tempo una di quelle questioni che la classe dominante tira fuori periodicamente dal suo cappello per farne un tema a sensazione, soprattutto in tempo di elezioni. In questo articolo, vogliamo mettere in evidenza l’ipocrisia della classe dominante, di sinistra, di centro e di destra, che tratta il problema o dal punto di vista “umanitario” - la sinistra ed il centro – o con un approccio moralista-religioso, la destra. L’amministrazione Obama ama presentarsi come “liberale” e “progressista”, da cui i suoi appelli a ritornare sulle leggi contro il matrimonio gay passate in alcuni Stati (e più recentemente con un referendum nella Carolina del nord), senza tuttavia cercare di rendere il matrimonio gay un “diritto” costituzionale”. La destra ha bisogno di rispondere alle paure e all’esagerazione dell’insicurezza della sua base elettorale particolarmente conservatrice, da cui i discorsi contro il matrimonio gay del candidato del Partito repubblicano, Mitt Romney. Tutto il “dibattito” è in realtà uno stratagemma dell’amministrazione Obama per attirare i giovani e gli “indipendenti di spirito”, oltre all’elettorato gay e spingere Romney a screditarsi nei confronti degli Evangelisti se non risponde chiaramente e con forza contro il matrimonio gay. L’ulteriore spostamento a destra di Romney rischia di alienargli il settore indeciso e indipendente dell’elettorato. Chiaramente, questo atteggiamento legalista è del tutto ipocrito. Essa si propone di utilizzare una situazione che è certamente vissuta come drammatica e umiliante da gay e lesbiche, per alimentare le divisioni, l’animosità e altre incomprensioni per profitto politico. Inoltre, l’opposizione veemente che a volte la destra esprime nei confronti del matrimonio gay non deve farci credere che la legalizzazione di un aspetto della vita personale possa ostacolare in qualche modo il sistema stabilito dello sfruttamento capitalistico.
Oggi, se si accende il televisore e ci si sposta con il telecomando su un qualunque nuovo canale borghese importante, ci sono buone probabilità di sentire un “dibattito sui diritti dei gay”. E’ interessante notare come i media borghesi amino mettere il dito sulle differenze di vedute tra esseri umani, insistendo proprio sui punti su cui c’è meno accordo tra le persone. Ma la borghesia ed i suoi portavoce sulla stampa sono estremamente ipocriti. Soprattutto quando dei punti di vista “parziali” sono così malvisti nel clima politico attuale. Adesso, alcune frazioni della classe dominante affermano di sostenere il matrimonio gay. Inoltre, essi sostengono di farlo con un sentimento umanitario più profondo, riferendosi spesso alla lotta per i diritti dei gay, come ad una lotta per l’“uguaglianza” o i “diritti civili”.
Allora noi dobbiamo chiederci: “uguaglianza” in nome di che cosa? E per quali persone nella società? “L’eguaglianza nei confronti del matrimonio” è questa una rivendicazione adeguata della classe operaia? La libertà sessuale è di per sé possibile nel capitalismo? Come lavoratori, dobbiamo rispondere negativamente a tutte queste domande. Costruire un mondo libero dall’omofobia e dell’etero sessismo, nel quale ogni individuo sia visto e trattato come un essere umano piuttosto che come una categoria, è impossibile nel capitalismo.
Da qualche tempo, elementi della classe politica borghese sostengono il riconoscimento del matrimonio tra persone dello stesso sesso. I loro argomenti sono spesso assonanti con quelli usati per i lavoratori. Dicono che la legalizzazione del matrimonio omosessuale potrebbe migliorare la qualità della vita dei lavoratori gay poiché questi avrebbero accesso ai benefici per l’assicurazione, il divorzio, i diritti di proprietà, ecc. Ma nel capitalismo, le relazioni umane sono ridotte ad un rapporto di scambio. Le emozioni diventano dei semplici prodotti di consumo e di finanze per la borghesia. Possiamo così vedere la necessità di legalizzare il matrimonio tra persone dello stesso sesso, ma chiediamoci pure qual è il concetto di matrimonio in generale nel capitalismo.
Marx e Engels hanno scritto nel Manifesto del Partito Comunista [80] che: “La borghesia ha strappato il commovente velo sentimentale al rapporto familiare e lo ha ricondotto a un puro rapporto di denaro”, continuando così più avanti: “Il proletario è senza proprietà; il suo rapporto con moglie e figli non ha più nulla in comune con il rapporto familiare borghese (…) Su che cosa si basa la famiglia attuale, la famiglia borghese? Sul capitale, sul guadagno privato. Una famiglia completamente sviluppata esiste soltanto per la borghesia: ma essa ha il suo complemento nella coatta mancanza di famiglia del proletario e nella prostituzione pubblica.”
Così, secondo la definizione data da Marx ed Engels del matrimonio nel capitalismo, possiamo cominciare a capire che “pari diritti nei confronti del matrimonio” è un’espressione che si applica solo a coloro che possono permettersi i benefici del matrimonio, benefici che si applicano solo alle classi proprietarie, solo a persone che possono permettersi un matrimonio legale. Il matrimonio riguarda fondamentalmente i diritti di proprietà e di successione. Per la borghesia, il matrimonio non ha nulla a che fare con il reciproco rispetto e l’amore - è solo una questione di possesso, di appropriazione e di diritti di proprietà.
Perché abbiamo bisogno che la borghesia ci dica cos’è il matrimonio e con chi possiamo o non possiamo sposarsi? Come abbiamo già scritto in Internationalism n°130 e in altri articoli della stampa della CCI, una società comunista sarà al contrario “una società al di là della famiglia in cui i rapporti umani sono regolati dall’amore reciproco e dal rispetto e non dalla sanzione di una legge dello Stato”.
Lo Stato democratico borghese ei suoi agenti non pongono mai questioni sui diritti dei gay in termini di bisogni umani. Quali sono i bisogni dei gay e delle lesbiche? O ancora quali sono i bisogni degli esseri umani in generale? Non c’è dubbio che la repressione delle comunità gay è reale. Vediamo l’omofobia, l’etero-sessismo, il patriarcato manifestarsi dappertutto nel capitalismo. Il bullismo nei confronti di giovani gay e lesbiche, per esempio, è stato recentemente descritto come “epidemico” da parte dei media borghesi. Molti eventi traumatici in cui degli omosessuali vengono aggrediti portano alla depressione e perfino, in alcuni casi, al suicidio.
Ma la borghesia che fa per risolvere questi problemi? Che leggi adotta? Esistono delle leggi riguardanti questi problemi sociali? No! Il dibattito è quasi sempre rinchiuso nel quadro della religione o del moralismo. Nei media più seguiti in particolare, e soprattutto nella retorica della classe dominante. Perché tutti i discorsi così ostentati sui “diritti umani”, che sono approvati dallo Stato capitalista e riconosciuti sotto forma del diritto, non possono nulla per sradicare la bigotteria religiosa e moralista vecchia di secoli. Le persone religiose sono “accusate” per il loro atteggiamento arretrato, cosa che favorisce la polarizzazione su questa atmosfera di caccia alle streghe. In situazioni come questa, legalizzare il matrimonio tra persone dello stesso sesso non può che aiutare lo Stato capitalista ad apparire come un’entità “giusta” e “benefica”.
Anche se c’è un’oncia di sincerità nel sostegno della classe dominante al matrimonio tra persone dello stesso sesso, ciò viene da loro bisogno di distogliere l’attenzione dei lavoratori e di annegarli nel circo della politica elettorale e del legalismo. Naturalmente è vero che il crescente sostegno alla libertà sessuale fa parte dello sviluppo, da parte dell’umanità, di una maggiore comprensione scientifica e di un più forte senso di solidarietà umana in generale. Ma la cosa non riguarda la classe dominante, e perché dovrebbe? Se hai dei soldi, i tuoi diritti non saranno mai minacciati o messi in discussione. “L’uguaglianza di fronte al matrimonio” non è uguale ad una buona relazione o a un’eguaglianza economica: essa risale ad una dominazione di classe accresciuta da parte della borghesia.
Le lotte sociali che riguardano solo parzialmente i problemi fondamentali del capitalismo, pur essendo espressione di problemi sociali reali che esistono nella società, sviano i proletari dalle loro discussioni e dai loro compiti rivoluzionari. Abbiamo già visto come la borghesia possa fissarsi sul dibattito sui diritti degli omosessuali, quasi fino all’ossessione. Ma questa fissazione esiste anche tra quelli che pretendere di essere “rivoluzionari”.
Molte persone usano un linguaggio esclusivamente indirizzato ai lavoratori per “organizzarli” intorno ad un grande problema sociale, che attraversa le classi. L’argomento secondo il quale i diritti dei gay ci avvicinerebbero ad una “piena uguaglianza” è del tutto fuori proposito; un principio fondamentale dei comunisti è che la piena parità è impossibile sotto il capitalismo. Perché mai i rivoluzionari dovrebbero combattere per “avvicinarsi” ad una società egualitaria? Noi dobbiamo combattere contemporaneamente contro tutte le ingiustizie del capitalismo! Molti di questi stessi “rivoluzionaria” descrivono le decisioni elettorali e legali a favore del matrimonio gay come delle “vittorie” per i lavoratori. Ma queste “vittorie” non fanno altro che rafforzare il ricorso alla società civile borghese.
I politici legalisti e democratici non hanno nulla da offrire alla classe operaia. La vera emancipazione dell’umanità non può venire che dalla rivoluzione della classe operaia. I lavoratori sostengono sempre i gay e gli omosessuali, soprattutto in una società in cui sono considerati come stranieri e ridicolizzati in modo così terribile. Ma dobbiamo essere vigili nei riguardi delle campagne borghesi che accompagnano questi dibattiti. Spesso ci distraggono e ci fanno perdere di vista l’obiettivo finale che è la fine di ogni forma di repressione e sfruttamento di chiunque sulla terra.
Jam (11 giugno 2012)
Mentre irrompe sui nostri teleschermi l’intensa propaganda nazionalista dei Giochi Olimpici, pubblichiamo qui di seguito un'opera d’arte del famoso “artista di strada” Banksy e la traduzione di un articolo di World Revolution, organo della Corrente Comunista Internazionale in Gran Bretagna.
L'immagine riportata nella, realizzata con sagome forate, è stata prodotta recentemente, malgrado i divieti e le minacce di multe, da qualche parte sui muri di Londra. Disponibile sul blog dell’artista (www.banksy.co.uk [83]), essa rappresenta un lanciatore di giavellotto armato con un missile. Essa rivela potentemente la vera “anima” di questi giochi.
Per quanto riguarda l’articolo dei nostri compagni d’oltre Manica, questo torna sulla storia dei Giochi a Londra, dal momento che questa città li accoglie per la terza volta, mostrando come i giochi e lo sport che vi si pratica sono un riflesso della società che li organizza, e perciò ignobili.
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Quest’anno è la terza volta che Londra ospita le Olimpiadi. Le tre date segnano tappe successive nell'evoluzione della società capitalistica.
Olimpiadi 1908: il dominio di una potenza mondiale
I Giochi olimpici del 1908 dovevano inizialmente svolgersi a Roma, ma l’eruzione del Vesuvio nell’aprile del 1906 impose che le risorse fossero utilizzate per la ricostruzione di Napoli. In quanto potenza mondiale, con un impero che ricopriva circa un quarto della superficie terrestre e un quinto della popolazione mondiale, il Regno Unito aveva all’epoca la capacità di farsi carico dei giochi all’ultimo minuto.
In dieci mesi, fu possibile organizzare il finanziamento, trovare un sito e costruire uno stadio fatto a mestiere. Le spese ammontarono a quasi 15000 sterline, ma ne entrarono ben 21377. Le prime Olimpiadi di Londra produssero dunque un profitto e in questo senso furono un successo. Ciò che deplorava il Times (del 27 luglio 1908) era che “La perfetta armonia che ognuno desiderava sia stata rovinata da alcuni conflitti deplorevoli e da proteste ed obiezioni alle decisioni degli arbitri. In molti giornali di tutto il mondo si è scatenato il sentimento nazionale facendo circolare liberamente accuse e controaccuse.” Tenendo conto dei conflitti crescenti tra le diverse nazioni, in un momento storico in cui l’imperialismo diventava il modo di funzionare del capitalismo, dopo la guerra ispano-americana del 1889, la guerra russo-giapponese del 1905 e tutti gli antagonismi che hanno condotto fino alla Prima Guerra mondiale, ciò non è affatto sorprendente.
Nel 1908, i giudici erano tutti britannici e vi era in media una denuncia della squadra americana al giorno. Si è cominciato con il rifiuto di piegare la bandiera americana davanti al re in occasione della cerimonia di apertura e si è continuato durante tutti i giochi. In occasione della prova di tiro alla fune, gli americani si sono lamentati degli stivali pesanti indossati dalla squadra della polizia di Liverpool. Quando la loro protesta fu respinta, gli Stati Uniti si ritirarono dalla gara. Allo stesso modo, nei 400 metri, i giudici inglesi decisero che la finale si sarebbe dovuta ripetere perché un atleta americano aveva dato una gomitata ad un avversario inglese. Al che gli americani boicottarono la gara. Contro le squadre provenienti da 22 paesi, con un totale di 2000 corridori, gli atleti della Gran Bretagna hanno vinto 146 medaglie! Un record ancora ineguagliato nelle Olimpiadi moderne. Come previsto dal Times (del 13/07/1908): “Quest’anno si può sperare di poter fare ai nostri concorrenti stranieri il complimento di mostrare loro che non abbiamo perso la nostra astuzia.”
Olimpiadi 1948: i Giochi dell’austerità
Durante i quaranta anni che hanno preceduto i Giochi di Londra del 1948, l’imperialismo britannico ha conosciuto molti cambiamenti. Le potenze imperialiste alleate dell’Inghilterra, la Russia e gli Stati Uniti, vincono la Seconda Guerra mondiale. Ma gli Stati Uniti erano ormai la potenza dominante in Occidente, ben al di sopra dell’Inghilterra ormai relegata al secondo posto.
Di conseguenza l’Inghilterra fu piuttosto esitante all’idea di ospitare le Olimpiadi. Con un’economia devastata, un razionamento (di cibo, petrolio e abbigliamento) che diventava più severo anche rispetto al periodo di guerra e un elevato tasso di disoccupazione, con molti senzatetto e scioperi di lavoratori, la Gran Bretagna attendeva disperatamente i fondi americani del piano Marshall e non era affatto sicura dell’impatto che i giochi avrebbero avuto.
Appena un mese prima dell’inizio dei Giochi, vi fu uno sciopero “illegale” dei portuali di Londra durante il quale furono inviate delle nuove truppe appena arruolate contro gli scioperanti. Per la prima volta, un governo utilizzava i poteri che gli conferiva la “legislazione dei poteri di emergenza” del 1920 per far fronte allo sciopero. Non era l’unica volta in cui i lavoratori si erano sollevati contro il regime di austerità del governo laburista del dopo guerra.
C’erano stati almeno due anni di preparazione per questi giochi. Anche se nessun nuovo sito è stato costruito in questa occasione, il lavoro forzato di prigionieri tedeschi o di guerra è stato utilizzato per diversi progetti di costruzione, inclusa la strada che porta allo Stadio di Wembley. Non per niente i Giochi Olimpici del 1948 sono stati riconosciuti come i giochi dell’austerità. I visitatori provenienti da altri paesi furono invitati a portare con sé il proprio cibo, anche se fu permesso l’aumento delle razioni per gli atleti come per quelle dei minatori. Gli atleti maschi furono ospitati nei campi della RAF, mentre le donne nelle università di Londra. Gli atleti inglesi dovevano finanche comprarsi o costruire la propria attrezzatura.
Con 4.000 atleti provenienti da 59 paesi, i giochi del 1948 costarono 73.2268 sterline e produssero entrate per la somma di 761688 sterline. Il profitto fu modesto, ma in più il Regno Unito arrivò solo al 12° posto nella classifica delle medaglie, e tutti sapevano che gli USA avrebbero vinto il primo posto prima ancora che i giochi avessero inizio.
Olimpiadi del 2012: Debiti e repressione
Benché alcuni paesi abbiano affermato di aver raggiunto la parità o di aver fatto qualche profitto (vedi le discutibili dichiarazioni di Pechino nel 2008), le Olimpiadi sono state un disastro finanziario per i paesi che le hanno ospitato di recente. Il debito di Montreal era così grande che fu regolato solo una trentina d’anni dopo. Il budget originale per i giochi di Atene del 2004 era di 1,6 miliardi di dollari: la spesa pubblica finale è oggi invece stimata intorno a 16 miliardi di dollari, con la maggior parte dei siti ormai abbandonati o poco utilizzati e un bisogno in danaro per la loro manutenzione e sicurezza che è di milioni. E’ chiaro che le Olimpiadi furono un fattore aggravante della crisi dell’economia greca.
Per Londra 2012, il budget iniziale è stato stimato in 2,37 miliardi di sterline, ma in sette anni, da quando fu presa la decisione, le previsioni sulla cifra finale si sono elevate da 4 fino a 10 volte il costo di partenza. Di conseguenza gli organizzatori hanno in programma di fare di tutto per recuperare le spese. I prezzi di ingresso, del cibo, delle bevande e di tutto ciò che riguarda le Olimpiadi sono per lo più scandalosi, anche per una città cara come Londra. Gli interessi degli sponsor ufficiali sono ferocemente difesi. Vi sono regole molto rigide sulla “pubblicità nascosta”, vale a dire sull’esposizione di qualsiasi cosa (compreso l’abbigliamento personale), che includa il nome di una società che non sia uno sponsor ufficiale.
Tuttavia, l’area in cui Londra 2012 sembra essere campione in tutte le categorie è quello della repressione. Durante i giorni più intensi, ci saranno 12.000 agenti di polizia in servizio. Ci saranno ancora 13.500 soldati a disposizione, cioè più delle truppe britanniche in Afghanistan, che rappresentano 9.500 soldati. E’ anche prevista la presenza di 13.300 guardie di sicurezza private. Queste ultime trascorreranno qualche giorno ad allenarsi con le truppe. Un portavoce della compagnia di sicurezza ha detto:
“Una parte degli allenamenti sul posto aveva per scopo quello di adeguare gli effettivi dei due gruppi; così gli spettatori dei giochi avessero la stessa esperienza sia con l’esercito che con le guardie private” (Financial Times, 24 maggio).
E come se tutto ciò non bastasse, è stata fatta un’ampia pubblicità al progetto di installazione di un dispositivo ultra-veloce di missili suolo-aria posto su un edificio vicino al principale sito olimpico. Presumibilmente, questo è destinato a scoraggiare il passaggio di aerei al di sopra di una zona residenziale densamente popolata.
In collaborazione con lo Stato britannico, gli organizzatori dei Giochi di Londra sembrano aver pensato a tutto. Benché possa non essere in grado di realizzarlo, il Ministero dell’Interno ha l’intenzione di fare controlli di sicurezza su ciascuno dei 380.000 tra atleti, funzionari, dipendenti e personale dei mezzi di comunicazione legati direttamente o indirettamente ai giochi. Vi saranno delle corsie “speciale giochi” sulle strade riservate ai veicoli ufficiali. E se ci si sposta in una di queste corsie, sono 135 sterline (170 euro) di multa. Entrando nei siti, si verrà perquisiti, senza possibilità di portare dell’acqua oltre la linea dei controlli di sicurezza. Sarà illegale usare Tweeter, Facebook o condividere in qualunque altra maniera foto dell’avvenimento.
Ci saranno più di 200 paesi rappresentati a questi Giochi e gli organizzatori faranno del loro meglio per fornire tutti i mezzi necessari per la solita orgia di nazionalismo, così che una grande opportunità pubblicitaria per la Coca Cola, McDonalds, Panasonic, Samsung, Visa, General Electric, Procter and Gamble, BMW, EDF, UPS e il resto della banda.
Ecco il nuovo menu per i moderni Giochi Olimpici: nazionalismo e commercio. Nel frattempo, durante i preparativi per Londra 2012, il consiglio locale di Newham, il quartiere in cui si trova lo Stadio Olimpico, ha cercato di “delocalizzare” 500 famiglie a Stoke-on-Trent, a 150 miglia di distanza. Gli inquilini locali vengono sfrattati dopo che gli affitti vengono gonfiati massicciamente in modo che i proprietari privati possano vendere le proprietà. Le Olimpiadi dovrebbero essere fonte di ispirazione per i giovani. Newham ha la popolazione più giovane di Inghilterra e del Galles, con la più alta percentuale di bambini al di sotto un anno. Presenta anche, in media, dimensioni del nucleo familiare più grandi, i più alti tassi di beneficiari di indennità a Londra, così come alti tassi di incidenza di malattie e morti premature. Per i bambini che vivono all’ombra di questo anno olimpico, è chiaro che il loro futuro non sarà migliorato dallo spettacolo della guerra per le medaglie.
Car (5 giugno)
Queste manifestazioni, cominciate con alcune centinaia di persone in aprile per passare rapidamente ad alcune migliaia successivamente, hanno condotto ad una vera ondata di collera che si è via via intensificata. Così, all’inizio del mese di luglio, in provenienza da diversi paesi (regione di Tohoku, a nord-est; isola di Kyushu, a sud; Shikoku, a sud-est; Hokkaido, a nord; Honshu, centro-ovest), i manifestanti sono confluiti numerosi in prossimità del Parco Yoyogi a Tokyo per sfilare per la strada. Rapidamente si è formata una grande manifestazione che raggruppava circa 170.000 scontenti. Non si era mai vista una tale manifestazione contro le condizioni di vita dagli anni ‘70. L’ultima, in ordine di tempo, di una certa ampiezza era stata contro la guerra in Iraq nel 2003.
Il fattore scatenante di questo malcontento è legato al trauma di Fukushima[3], alla forte indignazione di fronte alle menzogne delle autorità giapponesi e alla loro volontà di proseguire un programma nucleare suicida. L’ultimo piano nazionale prevedeva la costruzione di 14 nuovi reattori entro il 2030! Dopo il disastro di Fukushima, il governo non ha trovato di meglio per “rassicurare” e preparare il suo piano che dire alla popolazione: “Voi non sarete interessati immediatamente. (...) Non è grave, è come prendere l’aereo o essere esposti ai raggi solari”. Che cinismo! Non c’è da meravigliarsi che la popolazione incollerita richieda lo “stop al nucleare”, a partire dalla centrale di Hamaoka, a 120 km da Nagoya, situata in una zona di subduzione altamente sismica.
Oltre alla dimensione della manifestazione, che è stata una sorpresa per gli stessi organizzatori, ritroviamo in questa situazione lo stesso ruolo dinamico svolto da Internet, Twitter e dalla nuova generazione, in particolare dagli studenti universitari e delle scuole superiori. Per molti era la loro prima mobilitazione. Tra le manifestazioni quasi settimanali che si sono succedute, alcune sono state organizzate da liceali di Nagoya attraverso i social network e la nebulosa dei gruppi antinucleari[4]. Critiche arrivano dappertutto sul Web, i video si moltiplicano e i siti alternativi si espandono. Un po’ come il blog di un ex operaio della centrale di Hamaoka, che denunciava le menzogne sulla presunta “sicurezza” degli impianti nucleari, gli spiriti si animano. Uno studente a Sendai (nord-est), Mayumi Ishida, auspica a sua volta “un movimento sociale con scioperi”[5]. Questo movimento esprime pertanto nel profondo l’accumulo delle frustrazioni sociali legate alla crisi economica e alla brutale austerità. In questo, il movimento in Giappone si ricollega alle altre espressioni di questo movimento internazionale di “indignati”.
Persone molto in collera non esitano più a prendere la parola, anche se ci è difficile rendere conto in dettaglio di ciò per mancanza di informazioni precise.
Naturalmente, come altrove, questo movimento ha carenze significative, in particolare delle illusioni democratiche e dei pregiudizi nazionalistici marcati. La rabbia viene così largamente canalizzata e inquadrata dai sindacati e soprattutto, all’occorrenza, dalle organizzazioni antinucleari ufficiali. Dei politici locali di opposizione, con la loro demagogia e le loro bugie, riescono ancora spesso a polarizzare intorno a sé dei malcontenti, isolandoli gli uni dagli altri, spingendo verso delle azioni sterili, focalizzate esclusivamente contro questo o quel progetto dell’industria nucleare e soprattutto contro il primo ministro Naoto Kan, a cui tutto l’apparato politico giapponese assieme ai media ha affibbiato il ruolo del “cattivo ragazzo”, del ministro “fusibile”, come lo chiamano lì.
Nonostante queste numerose debolezze, questo movimento in Giappone è simbolicamente molto importante. Esso dimostra non solo che il suo relativo isolamento dalle altre frazioni del proletariato (legato a fattori geografici, storici e culturali) tende in parte ad essere superato[6], ma anche che tutta la propaganda nauseante dei media borghesi sulla presunta “docilità” dei lavoratori giapponesi si basa su pregiudizi costruiti per erodere l’unità internazionale degli sfruttati.
Un po’ alla volta, i lavoratori del mondo intero cominciano a intravedere la forza sociale che essi sono potenzialmente capaci di rappresentare per il futuro. Progressivamente, essi imparano che la strada è uno spazio politico che dovranno utilizzare per una lotta solidale. Potranno allora ritrovare, in Giappone come altrove, nello slancio di una forza rivoluzionaria internazionale, i mezzi per distruggere il capitalismo e per costruire una società liberata dallo sfruttamento e dalla barbarie. Si tratta di un lungo, di un lunghissimo cammino, ma è anche e soprattutto il solo che porta al regno della libertà.
WH (21 luglio)
[1] Vedi il Volantino internazionale di bilancio sui movimenti sociali del 2011: dall’indignazione alla speranza! [86] su Rivoluzione Internazionale n°175 [87]
[2] https://blogs.mediapart.fr/edition/japon-un-seisme-mondial/article/201111/fukushima-occuper-tokyo-des-manifestations-de-ma [88]
[3] Vedi gli articoli: Fukushima: un anno dopo, I parte. Una catastrofe planetaria [89], Fukushima, un anno dopo (II): Il peggio deve ancora venire [90] e, per una riflessione più generale, vedi: Energia nucleare, capitalismo e comunismo (I parte): l’uomo e la natura [91], Energia nucleare, capitalismo e comunismo (II parte): quale prospettiva? L’energia all’alba del capitalismo [92]
Nel 1984 il governo socialista del PSOE varò la prima Riforma del Lavoro, tre mesi fa l’attuale governo conservatore del PP mette in atto la peggiore Riforma del Lavoro … fino ad oggi. Nel 1985 il governo PSOE fece la prima Riforma delle pensioni, nel 2011 c’è stata un’altra riforma, a quando la prossima? Sono più di 30 anni che le nostre condizioni di vita sono gradualmente peggiorate, ma dal 2010 il degrado ha preso un ritmo vertiginoso e con le nuove misure del governo PP raggiunge livelli che comunque rimangono piccoli di fronti ai nuovi attacchi in arrivo. Inoltre c’è un inasprimento della repressione poliziesca: la violenza verso gli studenti a Valencia lo scorso febbraio, le bastonate ai minatori, i proiettili di gomma che hanno provocato un enorme ematoma sulla schiena di una bambina, la serrata del Congresso decisa dalla polizia di fronte alle manifestazioni spontanee che si stanno sviluppando dallo scorso mercoledì.
Noi, l’IMMENSA MAGGIORANZA, sfruttata e oppressa ma anche indignata, lavoratori pubblici e privati, disoccupati, studenti, pensionati, emigranti,… , ci facciamo molte domande su quanto sta succedendo. Dobbiamo condividere queste domande collettivamente nelle strade e nelle piazze, sui posti di lavoro, per cominciare a dare delle risposte, a dare una risposta di massa, robusta e sostenuta.
Il crollo del capitalismo
Cambiano i governi ma la crisi è ogni volta peggiore e i tagli ogni volta più sanguinosi. Ad ogni vertice della UE, del G20, ecc., ci presentano la «soluzione definitiva»… che il giorno dopo risulta essere un sonoro fiasco! Dicono che i tagli faranno diminuire i rischi, ma succede PROPRIO IL CONTRARIO. Dopo tanti salassi alle nostre condizioni di vita, il FMI riconosce che bisognerà aspettare fino al 2025 (!!) per recuperare il livello economico del 2007. La crisi segue un corso implacabile e inesorabile lasciando ad ogni passo milioni di vite stroncate definitivamente.
Certo, ci sono paesi che stanno meglio di altri, ma noi dobbiamo guardare al mondo tutto insieme. Il problema non si circoscrive a Spagna, Grecia o Italia, né può ridursi alla «crisi dell’euro». La Germania è al limite della recessione e ha 7 milioni di minilavori (con salari di 400 euro); negli Stati Uniti la disoccupazione corre alla stessa velocità degli sfratti. In Cina l’economia conosce sette mesi consecutivi di decelerazione a dispetto della folle bolla immobiliare che ha fatto sì che solo a Pechino ci sono 2 milioni di appartamenti vuoti. Stiamo soffrendo sulla nostra carne viva la crisi mondiale e storica del sistema capitalista che comprende tutti gli Stati, quale che sia l’ideologia che essi professano: ‘comunista’ come in Cina o Cuba, ‘socialista del secolo XXI’ in Ecuador o Venezuela, ‘socialista’ in Francia, ‘democratico’ negli USA, liberale in Spagna o Germania. Il capitalismo, dopo aver formato il mercato mondiale, si è trasformato da quasi un secolo in un sistema reazionario che ha sprofondato l’umanità nella peggiore barbarie: due guerre mondiali, innumerevoli guerre locali, distruzione dell’ambiente … e, dopo aver ottenuto dei momenti di crescita economica artificiale, alla base della speculazione e delle bolle di ogni tipo, adesso, e fin dal 2007, si scontra con la peggiore crisi della sua storia con Stati, imprese e banche sprofondati in una insolvenza senza soluzioni. Il risultato di questo fallimento è un’enorme catastrofe umanitaria. Mentre la fame e la miseria continuano a crescere in Africa, Asia e America Latina, nei paesi ‘ricchi’ milioni di persone perdono il proprio lavoro, centinaia di migliaia vengono sfrattati, la maggioranza non riesce ad arrivare a fine mese, vede la sua esistenza resa molto precaria per i tagli ai servizi sociali e, infine, è schiacciata dal carico di tasse (dirette e indirette).
Lo Stato democratico è la dittatura della classe capitalista
Il capitalismo divide la società in due poli: il polo minoritario della classe capitalista che possiede tutto e non produce niente; e il polo maggioritario delle classi sfruttate, che produce tutto e riceve sempre di meno. La classe capitalista, questo 1% della popolazione come si dice nel movimento Occupy degli Stati Uniti, si mostra sempre più corrotta, arrogante e insultante. Accumula ricchezze con una faccia tosta indecente, si mostra insensibile di fronte alle sofferenze della maggioranza e il suo personale politico impone dovunque tagli e austerità … Perché, malgrado i grandi movimenti di indignazione sociale che si sono avuti nel 2011 (Spagna, Grecia, Stati Uniti, Egitto, Cile, ecc.), continua imperterrita a mettere in piedi politiche contro gli interessi della maggioranza? Perché la nostra lotta, malgrado le valorose esperienze vissute, è ancora molto al disotto di quello che sarebbe necessario?
Una prima risposta sta nell’inganno insito nello Stato democratico. Questo si presenta come ‘l’emanazione di tutti i cittadini’, ma in realtà è l‘organo esclusivo ed escludente della classe capitalista, è al suo servizio, e conta con due mani: la mano destra composta da polizia, carceri, tribunali, leggi, burocrazia, con cui ci reprime e schiaccia ogni tentativo di ribellione. E una mano sinistra con un ventaglio di partiti di tutte le ideologie, con sindacati apparentemente indipendenti, con servizi di coesione sociale supposti fatti per proteggerci … con i quali ci creano false illusioni per sconfiggerci ingannandoci, dividendoci e demoralizzandoci.
A cosa sono serviti i voti che abbiamo espresso ogni 4 anni? I governi usciti dalle urne hanno mantenuto qualcuna delle loro promesse? Qualunque fosse la loro ideologia, con chi si sono schierati? Con i propri elettori o con il Capitale? A che sono servite le innumerevoli riforme e cambiamenti che sono stati fatti nell’istruzione, nella sicurezza sociale, in economia, in politica? Non sono stati in realtà un “che tutto cambi perché tutto resti uguale”? Come si diceva nel movimento del 15M: «La chiamano democrazia e non lo è, è una dittatura e non si vede».
Di fronte alla miseria mondiale, rivoluzione mondiale contro la miseria!
Il capitalismo porta alla miseria generalizzata. Ma non dobbiamo vedere nella miseria solo la miseria! Nelle sue viscere si trova la principale classe sfruttata, il proletariato, che con il suo lavoro associato – lavoro che non si riduce all’industria e all’agricoltura, ma che comprende l’istruzione, la sanità, i servizi, ecc. – assicura il funzionamento di tutta la società e perciò ha la capacità di paralizzare la macchina capitalista e aprire la via per creare una società in cui la vita non sia sacrificata sull’altare del profitto capitalista, in cui l’economia della concorrenza sia sostituita dalla produzione solidale per la soddisfazione piena delle necessità umane. Insomma, una società che superi le contraddizioni in cui il capitalismo trascina l’umanità.
Questo, che non è un ideale ma scaturisce dall’esperienza storica e mondiale di più di due secoli di lotta del movimento operaio, pare oggi difficile e lontano. Un motivo lo abbiamo già evidenziato: ci ingannano con l’illusione dello Stato democratico. Ma ci sono cause più profonde: la maggioranza dei lavoratori non si riconosce come tale. Non abbiamo fiducia in noi stessi come forza sociale autonoma. E, soprattutto, il modo di vita di questa società basato sulla competizione, sulla lotta di tutti contro tutti, ci porta all’atomizzazione, all’ognuno per sé, alla divisione e allo scontro tra noi.
La coscienza di questi problemi, il dibattito aperto e fraterno su di essi, il recupero critico delle esperienze di più di due secoli di lotta, ci danno i mezzi per superare questa situazione ed essere capaci di rispondere. Il giorno stesso in cui Rajoy annunciò le sue misure cominciarono a nascere alcune risposte. Molta gente accorse a Madrid alla manifestazione di solidarietà con i minatori. Questa esperienza di unità e solidarietà si è tradotta nei giorni seguenti in manifestazioni spontanee convocate dalle reti sociali. Si è trattato di una iniziativa propria dei lavoratori pubblici, al di fuori dei sindacati. Come continuare, tenendo conto che sarà una lotta lunga e difficile? Alcune proposte:
La lotta unitaria. Disoccupati, lavoratori pubblici e privati, precari e funzionari, pensionati, studenti, emigranti, UNITI POSSIAMO. Nessun settore può restare isolato e rinchiuso in un angolo. Di fronte a una società di divisione ed atomizzazione dobbiamo far valere la forza della solidarietà.
Le assemblee generali ed aperte. Il Capitale è forte se noi deleghiamo le cose ai professionisti della politica e della rappresentazione sindacale che ci vendono da sempre. Assemblee per pensare, discutere e decidere uniti. Perché tutti si sentano responsabili di quanto concordato, per vivere e sentire l’allegria di restare uniti, per rompere la barriera della solitudine e dell’isolamento e coltivare la fiducia e l’empatia.
Cercare la solidarietà internazionale. Difendere la nazione fa di noi carne da cannone nelle guerre; la xenofobia, il razzismo, ci separano e ci mettono contro i lavoratori del mondo intero che sono quelli in cui possiamo avere fiducia e creare la forza per lottare contro gli attacchi del capitale.
Raggruppiamoci sui luoghi di lavoro, nei quartieri, attraverso Internet, in collettivi che riflettano su quello che sta succedendo, organizzino riunioni e dibattiti, stimolino e preparino le lotte. Non basta semplicemente lottare, bisogna lottare con la chiara coscienza di quello che sta succedendo, di quali sono le nostre armi, di chi sono i nostri amici e chi i nostri nemici!
Ogni cambiamento sociale è inseparabile da un cambiamento individuale. La nostra lotta non può limitarsi a un semplice cambiamento di strutture politiche ed economiche, è un cambiamento radicale di sistema sociale e pertanto della nostra stessa vita, del nostro modo di vedere le cose, delle nostre aspirazioni. Solo così svilupperemo la forza per resistere alle innumerevoli trappole che ci tenderanno, ai colpi fisici e morali che riceveremo. Un cambiamento di mentalità che vada verso la solidarietà, la coscienza collettiva, che non sono solo il cemento della nostra unione ma anche i pilastri di una futura società liberata dal mondo di competizione feroce e dal mercantilismo estremo che caratterizza il capitalismo.
Corrente Comunista Internazionale, 16-7-2012
La classe operaia in Spagna sta affrontando delle misure di austerità particolarmente dure in un contesto di profonda crisi economica, il che sta aumentando la tensione sociale. Le lotte che hanno avuto luogo nel 2011 in risposta alla crisi sono state, in molti casi, elemento di ispirazione per altri movimenti. Nel caso del movimento 15-M, questo è stato influenzato dalla primavera araba e, a sua volta, ha ispirato lo sviluppo delle lotte in Grecia e negli Stati Uniti, per esempio. L’anniversario del 15-M ha coinciso con l’inizio dello sciopero degli 8000 minatori nel nord della Spagna contro un importante ritiro di aiuti pubblici al settore che, oltre che portare alla chiusura dell’industria mineraria, metterebbe a rischio 40.000 posti di lavoro dell’indotto, in un paese che ha già il 24% di disoccupazione di cui la metà al di sotto di 25 anni. Questo articolo mira a contribuire al dibattito su quali lezioni possiamo trarre, dopo un anno, dal movimento del 15-M e sullo sciopero dei minatori.
La difficoltà a lottare con la spada di Damocle del licenziamento sulla testa
I minatori spagnoli, in particolare nella regione delle Asturie, hanno una lunga tradizione di lotta, con episodi importanti come l’insurrezione del 1934 o gli scioperi del 1962, per cui non è affatto una sorpresa la loro determinazione a rispondere all'attacco con lo sciopero iniziato il 31 maggio. Non si può negare il loro coraggio nella lotta, dove hanno messo molti posti di blocco ed hanno fatto uso di armi improvvisate per respingere gli attacchi della Guardia Civile tesi a rimuovere i blocchi, e le loro risposte agli arresti, alle cariche e ai pestaggi da parte delle forze di sicurezza. Tutto questo ha suscitato simpatia in molte persone, come nel caso dei partecipanti al forum libcom[1] o al web della Tendenza Comunista Internazionalista[2].
La situazione ricorda tanto quella dello sciopero dei minatori nel Regno Unito degli anni 1984-85, quando questo settore combattivo, profondamente rispettato e in gran parte portatore di speranze per tutta la classe operaia, si lanciò in uno sciopero coraggioso e duro, con numerosi scontri con la polizia per difendersi dai brutali livelli di repressione. Come adesso i minatori spagnoli, quelli inglesi dovevano far fronte ai piani di chiusura di molte miniere in un momento di forte disoccupazione. La lotta si concluse con una sconfitta che pesò enormemente sulla classe operaia in Gran Bretagna nei decenni successivi[3].
Nel dibattito sul forum libcom, “Fingers Malone” fa notare la difficoltà della situazione dei minatori spagnoli a causa della natura dell’attacco, che sostanzialmente corrisponde alla chiusura del settore: “lo sciopero di per sé non ci porterà da nessuna parte”, che spiegherebbe le altre azioni che stanno conducendo i minatori, come blocchi stradali e chiusure nelle miniere. Ma queste azioni sono in grado di far avanzare la lotta in maniera efficace? Il problema non è solo che lo sciopero in sé non basta, ma anche l’andare in sciopero da soli, isolati da altri settori della classe operaia, pone in una posizione di debolezza di fronte al potere (mediatico, economico, politico, repressivo) dello Stato e conduce con alta probabilità alla sconfitta. Lo sciopero generale dello scorso 18 giugno nelle regioni minerarie, organizzato dai sindacati (CCOO e SOMA-UGT) e sostenuto dalla sinistra, certamente non è servito a rompere l’isolamento dei minatori, confinati nelle aree ed industrie colpite dalla riduzione delle sovvenzioni. E la stessa rivendicazione di un “piano per il carbone” in Spagna, in tutto simile a quello dei minatori britannici «coal not dole» (carbone, non disoccupazione), chiaramente non fa altro che aumentare l’isolamento dello sciopero.
In questo senso, lo slogan “non siamo indignati, siamo incazzati” in realtà esprime i limiti della lotta, con l’illusione che la loro forza, come minatori, sarebbe bastata per fare fronte allo Stato. In qualche modo i minatori vedono se stessi come espressione di una posizione più radicale di quella degli “indignati”, che è stata una delle lotte più importanti dello scorso anno, non solo in Spagna, ma anche a livello internazionale. Però, nonostante la sua grande combattività e la grande tradizione di lotta della classe operaia, l’isolamento dei minatori è una debolezza cruciale che potrebbe significare una importante battuta d'arresto per la lotta di classe nel suo complesso.
Un anno dopo, che resta del movimento 15-M?
Nonostante le enormi difficoltà incontrate dalla borghesia per gestire la situazione economica, non dobbiamo mai sottovalutare l'esperienza che ha nella sua lotta contro la classe operaia, come mostrato da manovre quali l'isolamento dei minatori o l’ultimo sciopero sindacale del 29-M[4], immediatamente seguito dall’annuncio dei tagli fino a 27.000 milioni di euro.
La “celebrazione” dell’anniversario del 15-M ne è un altro esempio: una parodia degli eventi di un anno fa destinata a cancellare, o almeno ad alterare, il ricordo delle mobilitazioni del 2011, proprio quando c’era il bisogno di riflettere, discutere e digerire le lezioni di questa esperienza. Quest'anno, in occasione dell’anniversario, sono state convocate manifestazioni da ogni tipo di organizzazione di “sinistra” e di sindacati, e non da assemblee, che non esistono più, con una sottolineatura delle posizioni democratiche e riformiste “cittadine”, lontane da una visione di classe.
Le false alternative che offrono la destra del PP al governo e la sinistra sono perfettamente complementari. Il primo ha utilizzato la minaccia di repressione contro il movimento, accusandolo di essere manovrato dal PSOE. Da parte sua il PSOE, che lo scorso anno cercò di distorcere il significato del movimento qualificandolo come piccolo borghese, marginale e senza prospettive, oggi lo elogia come una grande “vittoria”, con un grande futuro e peso nella società. La borghesia denigra sempre un movimento reale, per poi tornare a glorificarlo una volta che è riuscita a trasformarlo in un guscio vuoto e in un ricordo inoffensivo.
Le manifestazioni per l'anniversario sono state affollate, ma non come nei momenti di punta del movimento dei mesi di giugno, luglio o ottobre dello scorso anno. Sono riapparse delle assemblee a Madrid, Barcellona, Siviglia, Valencia, Alicante e altre città. Tuttavia, anche se le assemblee sono state accolte con interesse e curiosità nella notte di sabato, sono state progressivamente abbandonate, non c’era forza nel movimento per resistere al controllo delle organizzazioni di sinistra; la gente ha scelto di andarsene. Tuttavia c'erano segni di carattere proletario: la partecipazione massiccia di giovani; un’atmosfera sana e allegra; alcuni contributi al dibattito interessanti. A Madrid c'è stato un interessante dibattito sul tema della salute; si sono sentiti degli interventi di carattere proletario, sebbene con una presenza minore rispetto allo scorso anno. Ma il movimento in generale non poteva spezzare le catene imposte dalla borghesia, e si è espresso come una caricatura del movimento originale del 15-M, ricordando più una gita di fine settimana che altro.
Prospettive per la classe operaia
I movimenti sociali che si sono prodotti nel 2011 sono stati un’esperienza molto interessante per la classe operaia per la loro dimensione internazionale, per l’occupazione delle strade, e per l’esistenza di assemblee come cuore del movimento[5]. In Spagna ci sono state manifestazioni di massa nel settore dell'istruzione a Madrid e Barcellona; nella sanità a Barcellona; tra gli studenti a Valencia. Lo sciopero sindacale del 29 marzo e dei minatori sono anche esperienze importanti su cui riflettere.
A valle di tutte queste esperienze c’è la sensazione come se il movimento stesse ripensando al cammino percorso, rivedendo le proprie debolezze e difficoltà nello sviluppo di una lotta in grado di far fronte alla gravità della situazione e al livello degli attacchi. Questo processo di riflessione è assolutamente essenziale per preparare il terreno per lo sviluppo di una risposta che sia un movimento più ampio e profondo, capace di mettere in discussione lo stesso sistema capitalista.
Vi è un’idea che si afferma sempre più secondo cui il capitalismo è un sistema in bancarotta che non ha futuro, che dopo cinque anni di crisi la classe dominante non ha alcuna risposta e che è necessario cambiare sistema. Per esempio, in un’assemblea a Valencia, una donna ha parlato in linea con le posizioni della CCI secondo cui il movimento 15-M conteneva al suo interno un’ala rivoluzionaria e un’ala riformista e che era necessario sostenere la prima. Ma c’è anche una ricerca di risposte o azioni immediate inutili o addirittura ridicole, come l’idea che se tutti i clienti della Banca Nazionale ritirassero i propri soldi si “farebbe un grande danno al capitalismo.”
Così, mentre fa capolino l’idea di farla finita con il capitalismo, si presenta anche la difficoltà di come arrivarci, e quindi una speranza che caso mai il fallimento del sistema possa essere reversibile. Qui la sinistra e l’estrema sinistra si sbizzarriscono a sviluppare tutta una serie di “soluzioni” per riformare il capitalismo, come l’applicazione di imposte ai ricchi, l’eliminazione della corruzione, la nazionalizzazione, ecc. Proposte che, guarda caso, sono in larga parte appoggiate anche dal centro e dalla destra!
E’ cruciale evitare di cadere nella trappola delle alternative riformiste. Ma è altrettanto importante che il disprezzo per i politici in generale e per le menzogne della sinistra in particolare, non ci portino a ritirarci in gruppi isolati locali, riluttanti a tutto ciò che supera i nostri confini. Solo se superiamo queste trappole potremo avanzare nel processo di riflessione sulla crisi del capitalismo, sulla necessità di rovesciarlo e su come la classe operaia potrà avanzare nella sua lotta, ognuno di questi elementi essendo essenziale per la preparazione delle lotte future.
Alex 30/6/12
Rapide riflessioni sulla lotta dei minatori e la situazione attuale da parte di un lettore
La lotta dei minatori non è, come alcuni settori hanno voluto trasmettere, una battaglia decisiva o esemplare per il resto del proletariato, la cui sconfitta significherebbe una grave battuta d’arresto per l’intero movimento operaio. Le caratteristiche dei minatori oggi sono molto specifiche e minoritarie: un settore con una lunga tradizione di lotta e capacità di mobilitazione, consapevole dei suoi interessi di categoria, con una forte presenza e controllo sindacale e con un’identificazione con le aree geografiche minerarie. D'altra parte, quello che succede in Spagna ed a livello internazionale è giusto il contrario: distruzione dei legami sociali sul posto di lavoro o nel quartiere, poca o nessuna memoria o tradizione di metodi di lotta proletaria (assemblee, manifestazioni di solidarietà, auto-organizzazione), vulnerabilità crescente nei confronti dei disegni del capitale e del suo Stato, stagionalità, precarietà, disoccupazione di massa.
In effetti, l’idea che la combattività di un settore (quand’anche molto combattivo, come quello dei minatori) possa far retrocedere la borghesia nello stato attuale della crisi capitalista è una trappola: solo la lotta di massa di ampi settori del proletariato può farlo.
La presentazione, da parte della sinistra e dei sindacati, dei minatori come “eroi solitari della classe operaia” è un'altra trappola che approfondisce ulteriormente l’isolamento di questi con gli altri settori. I sindacati e la sinistra (con le loro appendici “radicali” dietro) stanno facendo tutto il possibile per isolare i minatori e condurli verso azioni sterili (vedi “marcia nera”) mediatizzata e ben controllate.
La redditività di un settore e gli aiuti che questo deve ricevere dallo Stato non sono questioni che riguardino i lavoratori. L’economia capitalista ha visto sempre, più o meno, l’intervento dello Stato per qualche ragione. Quello che ci deve preoccupare invece è che siamo tutti soggetti allo stesso giogo e abbiamo tutti lo stesso nemico: il sistema capitalista. Il futuro dei minatori è lo stesso che per la gran parte del proletariato: precarietà, disoccupazione, miseria, emigrazione. Per combattere contro questo, i minatori devono smettere di farlo come minatori per farlo invece come proletari con il resto della classe operaia.
Qual è dunque il risultato prevedibile e le lezioni che possiamo trarre dal conflitto dei minatori? Un forum Internet lo riassume bene:
«Più dello stesso, le CCOO e l’UGT propongono una marcia a Madrid, dove verranno accolti come eroi, opportunamente isolati dalla lotta di classe ... però questo sì, con mille aneddoti di viaggio che verranno riportati in reportage, cronache, You Tube, ecc, ecc La dispersione sindacale e democratica, organizzata, usura ... e lo Stato mantiene la sua posizione. I minatori isolati e democraticamente canalizzati, sebbene incazzati, saranno (di nuovo) sconfitti. In particolare la rivendicazione di fondi per l'industria mineraria dà ben poche possibilità che altri lavoratori si sentano implicati e partecipino.
E non importa che questo isolamento sia pacifico o violento. (…) Il capitale e il suo Stato guadagnano forza e diventano più difficili da affrontare. Bisogna smettere di sprecare energie in giorni e giorni di mobilitazioni inefficaci, controllate e prefabbricate dai sindacati democratici ... e, infine, spettacolo a Madrid, “abbiamo fatto tutto quello che si poteva”, “siamo al limite”, “esaurimento e depressione generale tra i lavoratori” .... in autobus a casa, e CCOO e UGT eroi incompresi le cui “proposte logiche e sensate” non vengono neanche ascoltate dal Ministro e dall’amministrazione». (inter-rev.foroactivo.com/t1677-mineria-del-carbon-manifestaciones-hg-y-marchas-convocadas-por-soma-ugt-y-ccoo-aislamiento-es-derrota [101]). «Con i petardi e questo tipo di confronto non si stabilisce alcun rapporto di forze con il capitale. SOLO ESTENDENDO i conflitti con metodi e rivendicazioni di classe anti-capitalisti, INGLOBANDO il maggior numero possibile di proletari attivi o disoccupati, pensionati o no, la cosa potrà essere realizzata. Questo significa precisamente l’indipendenza organizzativa e politica della classe operaia, e non il seguire progetti democratico-borghesi. “Salvare il carbone”, “salvare la miniera”, “difendere le Asturie” e slogan di questo tipo corrispondono a salvare gli interessi padronali, che possono svilupparsi e mantenersi sfruttando i lavoratori, con o senza aiuti, con o senza bandiere asturiane, leonesi, ecc. La Guardia Civile e la polizia nazionale sono quello che sono, e hanno molti effettivi ben addestrati ed equipaggiati. Non temono questo tipo di combattimento, quello che temono è l'estensione, la generalizzazione delle lotte e che si possa uscire dagli schemi del sindacalismo e della sinistra democratica. L’attivismo di sinistra non porta a niente e serve solo a soddisfare le voglie attiviste di qualcuno. E così via …. Non sono opinioni, sono FATTI CHE SI RIPETONO.» (inter-rev.foroactivo.com/t1677-mineria-del-carbon-manifestaciones-hg-y-marchas-convocadas-por-soma-ugt-y-ccoo-aislamiento-es-derrota [101]).
In breve, l’isolamento e i metodi di protesta sindacali ci portano alla sconfitta, nel settore minerario come in qualunque altro. La prevedibile sconfitta (al di là di ogni possibile ‘intesa’ tra sindacati e governo per placare gli spiriti) può essere utilizzata, infatti, dal governo per dare un’immagine di fermezza, secondo cui neanche i minatori possono fermare le misure prese contro le condizioni di vita e di lavoro che il capitale sollecita. Comunque il corso verso lotte proletarie importanti è sempre aperto: ce lo suggerisce una economia capitalista che sta cadendo a pezzi in questo nuovo episodio di crisi dopo che per anni si è mantenuta su una domanda fittizia con un debito degli Stati, delle banche, delle imprese e dei singoli individui; l’erosione dell’apparato politico e sindacale della borghesia e il deterioramento brutale delle condizioni di vita e di lavoro di ampi settori della classe operaia, con sempre meno da perdere a fronte di un presente e un futuro di disoccupazione, precarietà, miseria e disumanizzazione.
Il cosiddetto 15-M, pur essendo un movimento reale, aveva molte debolezze e illusioni ed era molto eterogeneo e mediatizzato. Tuttavia, l’importanza non sta nel movimento 15-M in sé (chiaramente condannato fin dall’inizio a scomparire come qualcosa di interessante), ma in due fenomeni che sono apparsi con esso: in primo luogo, la realizzazione fisica nelle strade di un primo flash di stanchezza, di “indignazione” e volontà di lotta, che fino ad allora era diffusa o covata da sola, emergendo la sensazione che “era possibile lottare”; e in secondo luogo, la riapparizione storica delle assemblee di massa come strumento di unificazione, solidarietà, discussione e decisione a fronte dell’atomizzazione e della dispersione, del ciascuno per sé, della precarietà e della disoccupazione. Nelle future lotte questi elementi, migliorati e superati, saranno di grande importanza.
Breve commento della CCI
Condividiamo le riflessioni del compagno. Vogliamo solo sviluppare un punto che a nostro parere non invalida la sua analisi, ma che costituisce un fatto importante da tenere a mente per il futuro. La manifestazione dell’11 luglio a Madrid è stata pensata come una sorta di colpo mortale da dare alla lotta e come esibizione di “splendido isolamento” da parte dei minatori che avrebbero dovuto accontentarsi della “solidarietà” di alcuni personaggi della “cultura” e poco più. Tuttavia, l’inquietudine sociale esistente ha fatto sì che più persone del previsto partecipassero alla manifestazione a sostegno dei minatori. Un altro elemento importante è il seguente. Lo stesso giorno in cui i minatori erano a Madrid, Rajoy, credendo di avere tutto ben stretto nelle proprie mani, ha annunciato violente misure di attacco alle condizioni di tutti i lavoratori. Questo ha infiammato gli animi ed ha fatto sì che molti lavoratori, in particolare impiegati, partecipassero spontaneamente alla manifestazione dei minatori, tanto che alcuni autobus di questi hanno ritardato la loro partenza per poter restare con gli impiegati e con altri gruppi di lavoratori alla stazione di Atocha e in altri punti della dimostrazione. Complessivamente i sindacati sono riusciti a controllare la situazione ed i minatori sono tornati alle loro case. Ma quello che è successo è un’indicazione di quanto sia esplosiva la situazione.
Un compagno dal Perù ci ha inviato una presa di posizione in solidarietà con la lotta dei minatori in Spagna e la risposta contro gli attacchi del governo.
La classe operaia mondiale è in lotta permanente, questa volta i nostri fratelli minatori di Spagna hanno cominciato a dispiegare la loro forza per protestare contro il dispotismo del governo della destra borghese di Rajoy, né il PSOE “socialista” né alcun governo borghese potrà veramente trasformare le condizioni di vita che noi proletari di tutto il mondo sopportiamo; le manifestazioni, le barricate, le espressioni di indignazione di tutti i minatori di Spagna sono l’espressione vivente delle lotte operaie in aumento e che in questo caso sono contro il taglio del 63% di finanziamento a sostegno del settore industriale dello Stato che, come è noto, significa la perdita di 30 000 posti di lavoro, come d’altra parte avviene in gran parte dei settori dell’industria pesante in tutta Europa.
Nella misura in cui peggiora la disoccupazione - che secondo l’Organizzazione Internazionale del Lavoro dovrebbe raggiungere circa 4,5 milioni di disoccupati nei prossimi 4 anni - nella misura in cui si intensificano le riforme del lavoro e delle pensioni e la liberalizzazione di settori del capitale, il proletariato mondiale sta esprimendo la sua lotta collettiva e internazionalista forgiando organi autonomi, come le assemblee generali e i comitati di lotta, mostrando così tutto il suo scetticismo sia verso la destra che verso le frazioni di sinistra del capitale.
Compagni, abbiamo bisogno di costruire una coscienza storica proletaria; il capitalismo non dà tregua, basta con le mistificazioni della socialdemocrazia. Questa – diciamolo una buona volta, non è una crisi del debito, non è una crisi finanziaria, ma è la crisi del capitalismo che è il prodotto ultimo del rapporto di sfruttamento del lavoro salariato. L’influenza del riformismo in Europa e nei paesi “arretrati” ha significato il sostegno a posizioni contrarie agli interessi della classe operaia.
La solidarietà di classe si manifesta nell’ingresso contemporaneo dei proletari nella città di Madrid, in piazza di Puerta del Sol e in altre città della Spagna e del mondo. Compagni, esprimiamo nella stessa maniera la nostra solidarietà di classe per abolire i rapporti capitale-lavoro, la produzione mercantile, la proprietà privata, il plusvalore. Il prossimo 11 luglio[1] gridiamo:
Viva le lotte del proletariato mondiale!
Per l’autorganizzazione ed i consigli di fabbrica!
Abbasso i sindacati che negoziano la nostra forza lavoro!
Lavoratori di tutto il mondo, unitevi!
[1] Si fa qui riferimento alla marcia su Madrid organizzata dai minatori e che ha poi visto raccogliersi in piazza Puerta del Sol oltre 200.000 persone (www.infoaut.org/blog/conflitti-globali/item/5178-la-rabbia-dei-minatori-... [108]).
Collegamenti
[1] https://fr.internationalism.org/icconline/2012/la_folie_meurtriere_du_soldat_bales_en_afghanistan_reflete_la_folie_du_monde_capitaliste.html
[2] https://www.spiegel.de/politik/ausland/amoklaeufer-bales-litt-offenbar-unter-posttraumatischem-stress-a-822232.html
[3] https://www.tagesschau.de/thema/usa
[4] https://www.dailymail.co.uk/news/article-1216015/More-British-soldiers-prison-serving-Afghanistan-shock-study-finds.html
[5] https://www.democracynow.org/2012/3/16/mind_zone_new_film_tracks_therapists
[6] http://www.reuters.com/article/2011/06/29/us-usa-war-idUSTRE75S25320110629
[7] https://it.internationalism.org/tag/4/92/afganistan
[8] https://it.internationalism.org/tag/3/48/guerra
[9] https://it.internationalism.org/content/attentati-di-mafia-i-regolamenti-di-conti-tra-capitalisti
[10] https://it.internationalism.org/tag/4/75/italia
[11] https://it.internationalism.org/tag/situazione-italiana/politica-della-borghesia-italia
[12] https://it.internationalism.org/tag/3/54/terrorismo
[13] https://it.internationalism.org/membro_cci
[14] https://it.internationalism.org/rint/18_statodemocratico
[15] https://it.internationalism.org/content/rivoluzione-internazionale-ndeg163
[16] https://it.internationalism.org/tag/2/39/organizzazione-rivoluzionaria
[17] https://it.internationalism.org/tag/sviluppo-della-coscienza-e-dell-organizzazione-proletaria/corrente-comunista-internazionale
[18] https://it.internationalism.org/tag/3/51/partito-e-frazione
[19] https://www.levante-emv.com/comunitat-valenciana/2012/02/17/seis-arrestados-nueve-heridos-dia-13003388.html
[20] https://it.internationalism.org/tag/4/79/spagna
[21] https://it.internationalism.org/tag/2/29/lotta-proletaria
[22] https://it.internationalism.org/tag/3/50/internazionalismo
[23] https://www.publico.es/espana/423346/el-enemigo-de-los-manifestantes
[24] https://it.internationalism.org/files/it/images/4%20kilkis_bam_html_7867e987.articleimage.jpg
[25] https://it.internationalism.org/tag/4/73/grecia
[26] https://fr.internationalism.org/node/3771
[27] https://www.syndikalismusforschung.info/museum.htm
[28] https://it.internationalism.org/tag/4/71/germania
[29] https://it.internationalism.org/tag/2/30/la-questione-sindacale
[30] https://it.internationalism.org/tag/correnti-politiche-e-riferimenti/sindacalismo-rivoluzionario
[31] https://it.internationalism.org/files/it/images/aboriginalrockart_1.jpg
[32] https://fr.internationalism.org/node/4850
[33] https://it.internationalism.org/content/la-solidarieta-umana-ed-il-gene-egoista-articolo-dellantropologo-chris-knight
[34] https://www.nybooks.com/articles/2011/10/13/can-our-species-escape-destruction/
[35] https://en.internationalism.org/icconline/201203/4739/reading-notes-science-and-marxism
[36] https://www.youtube.com/watch?v=LNdLYi9sB4E
[37] https://fr.internationalism.org/ri422/la_pensee_scientifique_dans_l_hstoire_humaine_a_propos_du_livre_anaximandre_de_milet.html
[38] http://www.larecherche.fr/content/recherche/article?id=30891
[39] http://www.chrisknight.co.uk/wp-content/uploads/2007/09/Early-Human-Kinship-Was-Matrilineal1.pdf
[40] https://it.internationalism.org/tag/3/45/cultura
[41] https://it.internationalism.org/tag/3/53/societa-precapitaliste
[42] http://www.chrisknight.co.uk/solidarity_selfish-gene/
[43] https://it.internationalism.org/content/testo-di-orientamento-2001-la-fiducia-e-la-solidarieta-nella-lotta-del-proletariato-1a-parte
[44] https://it.internationalism.org/rint29/etica
[45] https://it.internationalism.org/content/darwin-ed-il-movimento-operaio
[46] https://it.internationalism.org/content/darwinismo-e-marxismo-anton-pannekoek-i-parte
[47] https://it.internationalism.org/tag/2/24/marxismo-la-teoria-della-rivoluzione
[48] https://it.internationalism.org/tag/3/43/comunismo
[49] https://it.internationalism.org/content/rapporto-sullitalia-2012
[50] https://www.altrenotizie.org/esteri/5057-hollande-tasse-e-austerity.html
[51] https://it.internationalism.org/tag/vita-della-cci/riunioni-pubbliche
[52] https://it.internationalism.org/tag/2/31/linganno-parlamentare
[53] https://it.internationalism.org/tag/vita-della-cci/risoluzioni-del-congresso
[54] https://it.internationalism.org/tag/situazione-italiana/lotte-italia
[55] https://it.internationalism.org/tag/situazione-italiana/imperialismo-italiano
[56] https://it.internationalism.org/tag/situazione-italiana/economia-italiana
[57] https://it.internationalism.org/tag/3/47/economia
[58] https://www.sipri.org/
[59] https://www.disarmo.org
[60] https://it.internationalism.org/content/dopo-sei-mesi-di-governo-monti-quale-futuro-ci-prepara-la-borghesia-italiana
[61] https://stoners.social/
[62] https://www.disarmo.org/
[63] https://www.disarmo.org/rete/a/35774.html
[64] https://www.google.it/publicdata/explore?ds=d5bncppjof8f9_&met_y=ms_mil_xpnd_gd_zs&idim=country:ITA&dl=it&hl=it&q=spese+militari
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[67] http://www.economiaweb.it/fiat-la-mappa-delle-fabbriche-in-italia
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[76] https://www.pane-rose.it
[77] https://www.pane-rose.it/files/index.php?c3:o12729
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[79] https://it.wikipedia.org/wiki/Sindacato_dei_Lavoratori_Intercategoriale
[80] https://www.marxists.org/italiano/marx-engels/1848/manifesto/index.htm
[81] https://it.internationalism.org/tag/2/35/lotte-parziali
[82] https://it.internationalism.org/files/it/images/jo_2.jpg
[83] https://www.banksy.co.uk/
[84] https://it.internationalism.org/tag/4/72/gran-bretagna
[85] https://it.internationalism.org/files/it/images/japan_protest.jpg
[86] https://it.internationalism.org/content/1162/volantino-internazionale-di-bilancio-sui-movimenti-sociali-del-2011-dallindignazione
[87] https://it.internationalism.org/content/rivoluzione-internazionale-ndeg175
[88] https://blogs.mediapart.fr/edition/japon-un-seisme-mondial/article/201111/fukushima-occuper-tokyo-des-manifestations-de-ma
[89] https://it.internationalism.org/content/fukushima-un-anno-dopo-i-parte-una-catastrofe-planetaria
[90] https://it.internationalism.org/content/fukushima-un-anno-dopo-ii-il-peggio-deve-ancora-venire
[91] https://it.internationalism.org/content/energia-nucleare-capitalismo-e-comunismo-i-parte-luomo-e-la-natura
[92] https://it.internationalism.org/content/energia-nucleare-capitalismo-e-comunismo-ii-parte-quale-prospettiva-lenergia-allalba-del
[93] https://www.slate.fr/story/37717/japon-antinucleaire
[94] https://www.ouest-france.fr/actu/actuDet_-Japon-manifestations-anti-nucleaires-monstres_3637-2097031_actu.Htm?xtor=RSS-4&utm_source=RSS_MVI_ouest-france
[95] https://fr.internationalism.org/node/25
[96] https://fr.internationalism.org/node/27
[97] https://fr.internationalism.org/node/28
[98] https://it.internationalism.org/tag/4/62/giappone
[99] https://it.internationalism.org/files/it/images/firemen-participate-protest-government.preview.jpg
[100] https://it.internationalism.org/tag/vita-della-cci/interventi
[101] https://inter-rev.foroactivo.com/t1677-mineria-del-carbon-manifestaciones-hg-y-marchas-convocadas-por-soma-ugt-y-ccoo-aislamiento-es-derrota
[102] https://libcom.org/article/coal-mines-ignite-asturias-updates?page=1
[103] https://www.leftcom.org/en/articles/2012-06-19/the-struggle-of-the-asturian-miners
[104] https://es.internationalism.org/rm/83_minerosbritanicos.html
[105] https://es.internationalism.org/accion-proletaria/201203/3362/huelga-general-del-29m-contra-los-recortes-la-reforma-laboral-y-todo-l
[106] https://es.internationalism.org/node/3349
[107] https://it.internationalism.org/tag/vita-della-cci/lettere-dei-lettori
[108] http://www.infoaut.org/blog/conflitti-globali/item/5178-la-rabbia-dei-minatori-invade-la-madrid-dellausterit%C3%A0