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Questa seconda parte affronta il ruolo che hanno giocato il carbone, il petrolio e poi il nucleare nel capitalismo e si interroga sul posto dell’energia nella società futura.
La rivoluzione industriale é stata anche una rivoluzione dell’energia, nell’uso delle sue fonti che hanno permesso alla società di andare al di là delle frontiere imposte da “l’economia organica” che la limitava alla crescita stagionale delle risorse energetiche naturali per soddisfare la gran parte dei bisogni. Tuttavia, nel corso della rivoluzione industriale predominava l’uso del carbone che è andato di pari passo con i cambiamenti del modo di produzione e l’emergere della borghesia come classe che ha spinto verso lo sviluppo della tecnologia per estrarre e utilizzare i giacimenti di carbone.[1]
Come i primi giorni del capitalismo hanno visto un uso estensivo e più sistematico dei mezzi di produzione esistenti, così si è visto un uso delle risorse energetiche esistenti spinto fino ai loro limiti.
Nell’economia organica, che ha predominato dalla rivoluzione neolitica fino all’adozione diffusa del carbone durante la rivoluzione industriale, la potenza dell’uomo e degli animali, insieme a quella ottenuta dal legname, sono state le principali fonti di energia. Negli anni 1561-70, esse rappresentavano rispettivamente il 22,8%, 32,4% e 33% dell’energia consumata in Inghilterra e nel Galles. L’energia del vento e quella idrica erano insieme poco più dell’1%, mentre il carbone contava per il 10,6%.[2]
L’abbondanza di legno dà all’Europa un vantaggio sulle società in cui questo materiale era raro, ma lo sviluppo della produzione esaurisce queste risorse e frena la crescita. Nel 1717, un altoforno del Galles fu acceso solo quattro anni dopo la sua costruzione perché occorreva accumulare il legno e il carbone necessari e poteva garantire regolarmente la produzione solo per 15 settimane all’anno per la stessa ragione.[3]
E’ stato calcolato che, prima del 18° secolo, un altoforno standard che lavorasse per due anni senza interruzione richiedeva il taglio di 2000 ettari di foresta.[4]
Nel Galles del Sud, ben noto per le sue miniere di carbone, le prime fasi della rivoluzione industriale hanno portato allo sviluppo di acciaierie e, contemporaneamente, alla deforestazione di intere valli un tempo fittamente boscose. La crescita della domanda di legname porta ad aumenti dei prezzi e alla carestia che colpirà la maggior parte dei poveri. In alcune parti della Francia, non c’era abbastanza legna per i forni del pane e viene riportato che in altre “i poveri vivevano senza fuoco”.[5]
I limiti alla produzione imposti dall’economia organica possono essere considerati solo calcolando il numero di tronchi che sarebbero stati necessari per realizzare un consumo conforme di energia a partire dal carbone. La legna non è una fonte di energia efficace come il carbone, poiché due tonnellate di legna sono necessarie per produrre la stessa energia di una tonnellata di carbone e trenta tonnellate per produrre una tonnellata di acciaio. Un acro di bosco (0,4 ettari) può produrre all’incirca l’equivalente energetico di una tonnellata di carbone in un anno. Nel 1750, in Inghilterra e nel Galles sono state estratte 4.515.000 tonnellate di carbone. Produrre la quantità equivalente di energia utilizzando legna avrebbe richiesto 13.045.000 tonnellate, vale a dire il 35% della superficie forestale (11,2 milioni di acri). Mezzo secolo dopo, la produzione aveva raggiunto 65.05 milioni di tonnellate, che equivale a non meno del 150% della stessa area (48,1 milioni di acri).[6]
Una delle chiavi di lettura del dominio britannico sul mondo sono le riserve di carbone accessibili con la tecnologia allora esistente. Ciò ha permesso di creare la spinta per sviluppare i mezzi di produzione per consentire l’estrazione di carbone a livelli più profondi.
Carbone e petrolio: le basi del capitalismo industriale
Prima dell’uso generalizzato del carbone, l’energia utilizzabile era essenzialmente determinata dalla quantità di energia solare che veniva convertita in crescita delle piante attraverso la fotosintesi. Ciò comportava la produzione di alimenti per gli uomini e gli animali e quella della legna. Questo ciclo naturale sembrava porre un limite invalicabile all’accumulo di energia muscolare e termica che poteva essere utilizzata e quindi al livello della produzione e della prosperità della società. La povertà e la miseria generalizzate sembravano eterne, immutabili, dei fattori della vita. L’estrazione diffusa di carbone e petrolio ha infranto questa barriera, permettendo l’accesso alle fonti energetiche della terra, al prodotto della fotosintesi avvenuta nei millenni passati.[7]
Il 19° secolo e la prima parte del 20° sono stati dominati dall’uso del carbone. L’avanzata della rivoluzione industriale è spesso misurata in tonnellate di carbon fossile utilizzato, in tonnellate di acciaio prodotto e in chilometri di binari ferroviari impiantati. Ne abbiamo dato qualche dato prima, ma questa avanzata può essere misurata anche attraverso il diverso modo di utilizzare l’energia e l’aumento del consumo procapite di questa. Abbiamo visto che nel 1560 il carbone rappresentava poco più del 10,6% dell’energia consumata in Inghilterra e nel Galles. Nel 1850, rappresentava invece il 92%. In origine, il carbone è stato usato per sostituire il legno nelle industrie della ceramica e in genere nelle produzioni che richiedevano grandi quantità di calore e influiva relativamente poco nell’organizzazione dell’epoca sulla produzione e sull’aumento diretto della produttività. Le macchine a vapore statiche erano utilizzate per pompare l’acqua dalle miniere che, anche quando si esaurivano, permettevano che il carbone ed altre risorse, come lo stagno in Cornovaglia, fossero prelevati da profondità fino allora inaccessibili. Le macchine sono state poi adattate per gestire le attrezzature, come nell’industria del cotone, e come mezzo di trasporto. Il consumo totale di energia aumenta gradualmente nella rivoluzione industriale. Nel 1850, in Inghilterra e nel Galles, c’è stato un consumo totale 28 volte superiore a quello del 1560. Ciò era dovuto in parte alla crescita consistente della popolazione che si è avuta in questo periodo, ma la scala reale di questo incremento è mostrato dal fatto che il consumo pro capite si è quintuplicato.[8]
L’industria petrolifera si è sviluppata gradualmente nel corso del 20° secolo, con significativi sviluppi nelle tecniche di produzione e nel livello di produzione negli anni tra le due guerre mondiali. Nel 1929, il commercio del petrolio era aumentato di 1,170 milioni di dollari, essendo Stati Uniti, Venezuela e Antille olandesi i più grandi esportatori, mentre altre raffinerie venivano installate nel Bahrein e in Arabia Saudita dagli Stati Uniti e in Iraq e in Libano da parte di imprese britanniche ed europee.[9]
Tuttavia, è stato solo dopo la II Guerra Mondiale che il petrolio è diventato la fonte principale di energia, arrivando al 46,1% della produzione mondiale di energia nel 1973, anche se é poi sceso al 33,2% nel 2008.
L’utilizzo crescente di energia è stato il tratto distintivo dell’industrializzazione nel mondo intero. Esso esprime non solo la spinta del livello di produzione e l’impatto della crescita della popolazione, ma anche lo sviluppo della produttività con la crescita in quantità dei mezzi di produzione, compresa l’energia, che ogni lavoratore è capace di mettere in opera. Questa tendenza è continuata fino ai giorni nostri: tra il 1973 e il 2008, il consumo totale di energia è aumentato dell’80%.[10]
La rivoluzione nella forma e nella quantità di energia disponibile per l’umanità ha dato impulso alla rivoluzione industriale ed ha aperto la porta alla possibilità di passare dal regno della volontà a quello dell’abbondanza. Ma questa rivoluzione è stata trainata dallo sviluppo del capitalismo, il cui obiettivo non è la soddisfazione dei bisogni umani, ma la crescita del capitale sulla base dell’espropriazione del plusvalore prodotto da una classe operaia sfruttata.
Il capitalismo non ha altro criterio nella scelta dell’energia da utilizzare che quello del costo di produzione, finendo per distruggere delle risorse limitate. L’aumento della produttività spinge verso una maggiore richiesta di energia, così i capitalisti (oltre a quelli direttamente implicati nel settore petrolifero) sono incoraggiati a cercare di ridurre il costo di questa energia. Da un lato, ciò conduce ad un uso diffuso di questa energia per dei fini irrazionali, come il trasporto delle stesse merci in tutte le direzioni nel mondo, e alla moltiplicazione all’infinito di merci che non rispondono ad alcun bisogno umano se non per estrarre e realizzare profitto. Dall’altro, questa situazione fa sì che milioni di esseri umani non possano accedere a questa risorsa e a questi prodotti perché non sono oggetto di un interesse finanziario sufficiente per i capitalisti. Questo è quanto avviene, per esempio, nel Niger, dove la Shell pompa miliardi di dollari di petrolio mentre la popolazione locale ne è priva e rischia la vita per rubarne un poco dagli oleodotti. Un caro prezzo viene anche pagato da chi lavora nel settore energetico, il cui corpo viene minato o avvelenato dall’ambiente in cui vive, e in genere da tutta la popolazione umana che è passata dalle acque inquinate del Tamigi che hanno caratterizzato il 19° secolo a Londra al riscaldamento del pianeta che minaccia il futuro dell’umanità.
L’energia nucleare
La possibilità di utilizzare la fissione nucleare o la fusione per produrre energia è conosciuta da circa un secolo, ma solo dopo la seconda guerra mondiale è stata portata a termine. Inoltre, benché il contesto generale sia lo stesso di prima, la situazione specifica del dopoguerra è dominata dalla rivalità tra USA e URSS, con la corsa agli armamenti che ne è seguito. Lo sviluppo dell’energia nucleare non solo è indissolubilmente legato a quello delle armi nucleari, ma è stato probabilmente la cortina di fumo di quest’ultimo.
All’inizio degli anni ‘50, il governo americano era preoccupato per la reazione della popolazione rispetto al pericolo dell’arsenale nucleare che aveva allestito e alla strategia del “primo colpo” che era stata proposta. La sua risposta fu di organizzare una campagna nota come Operazione Candor fatta per convincere l’opinione pubblica attraverso dei messaggi sui media (compresi i fumetti) e una serie di interventi del Presidente Eisenhower, che culminò con l’annuncio all’assemblea generale dell’ONU del programma “Atomi per la Pace” per “incoraggiare l’indagine a livello mondiale dell’uso più efficace in tempo di pace dei materiali fissili”[11]. Il piano prevedeva uno scambio di informazioni e di risorse, con la creazione congiunta tra Stati Uniti ed Unione Sovietica di uno stock di materiale fissile (materiale in grado di sviluppare una reazione a catena di fissione nucleare). Negli anni successivi, alla corsa agli armamenti nucleari si sono unite altre potenze, spesso con il pretesto di sviluppare un programma nucleare civile, come per Israele e India. I primi reattori producevano grandi quantità di materiale per le armi nucleari e una piccola quantità per dell’energia elettrica molto costosa. La condivisione della conoscenza del nucleare allora faceva parte delle lotte imperialiste nel mondo; così, alla fine degli anni ‘50, la Gran Bretagna sostenne segretamente Israele con dell’acqua pesante per il reattore che aveva costruito grazie all’assistenza francese[12]. Nonostante tutti i discorsi sul fatto che questa energia sarebbe meno cara, il nucleare non ha mai corrisposto a tale promessa ed ha avuto bisogno del sostegno dello Stato per coprire i suoi costi reali. Quando delle compagnie private costruiscono e gestiscono delle industrie, vi sono abitualmente dei sussidi, alla luce del sole o nascosti. Per esempio, la privatizzazione dell’industria nucleare in Gran Bretagna è abortita quando la Thatcher, negli anni ’80, l’ha attaccata perché il capitale privato riconosceva che vi erano dei rischi e dei costi non quantificabili.
E’ solo nel 1996, quando i vecchi reattori Magnox, che avevano già bisogno di essere rottamati, furono esclusi dall’accordo, che gli investitori privati prepararono un contratto per acquistare la British Energy a un prezzo scontato di 2 miliardi di sterline. Sei anni dopo, la società doveva essere salvata con un prestito governativo di 10 miliardi di sterline[13].
Mentre i sostenitori del nucleare affermano oggi che esso è più economico di altre fonti energetiche, in realtà questa resta un’affermazione discutibile. Nel 2005, la World Nuclear Association ha stabilito che: “Oggi, nella maggior parte dei paesi industrializzati, delle nuove centrali nucleari offrono la maniera più economica per produrre elettricità a basso costo, senza considerare i vantaggi geopolitici e ambientali conferiti dall’energia nucleare” ed ha pubblicato una serie di statistiche per sostenere la tesi secondo cui la costruzione, il finanziamento, la messa in opera ed i costi relativi alla gestione delle scorie sono stati tutti ridotti[14]. Tra il 1973 e il 2008, la percentuale di energia proveniente dai reattori nucleari è aumentata dallo 0,9% per un totale complessivo del 5,8%[15].
Un rapporto pubblicato nel 2009, commissionato dal governo federale tedesco[16], fa una valutazione molto più critica dell’economia del nucleare e mette in discussione l’idea di una rinascita del nucleare. Questo rapporto mostra che il numero di reattori è diminuito negli ultimi anni, in contraddizione con i progetti di aumento sia del numero di reattori che di energia prodotta. L’aumento della potenza generata, che si è avuta in questo periodo, è il risultato della redditività dei reattori esistenti e dell’estensione della loro vita operativa. Il rapporto continua sostenendo che vi è incertezza a proposito dei reattori comunemente descritti come “in costruzione”, un certo numero dei quali si trova in questa situazione da più di 20 anni. Il numero di quelli in costruzione è crollato da un picco di 200 nel 1980 a meno di 50 nel 2006.
A proposito dell'economia del nucleare, il rapporto mostra l’alto livello di incertezza in tutti i campi, compreso il finanziamento, la costruzione e la manutenzione.
Ciò dimostra che lo Stato ha un ruolo centrale per tutti i progetti nucleari, indipendentemente da coloro ai quali questi progetti appartengono o da chi li gestisce. Un aspetto sta nelle varie forme di sussidi forniti dallo Stato per sostenere i costi del capitale investito nella manutenzione e nello smantellamento delle fabbriche, e di sostegno dei prezzi. Un altro è la necessità per lo Stato di limitare la responsabilità dell’industria in modo che il settore privato ne accetti i rischi. Nel 1957, il governo americano ha segnato il passo quando le compagnie di assicurazione si rifiutarono di coprire l’assicurazione per l’impossibilità di quantificare i rischi[17]. Oggi si stima che “in generale, i limiti nazionali sono dell’ordine di qualche centinaio di milioni di euro, meno del 10% del costo di costruzione di una fabbrica e molto inferiore al costo dell’incidente di Chernobyl”[18].
Non solo i costi ma anche i pericoli del nucleare sono oggetto di dibattito e le evidenze scientifiche appaiono piuttosto variabili. E’ in particolare il caso del disastro di Chernobyl, le cui stime relative alle morti provocate variano notevolmente. Un rapporto dell’Organizzazione Mondiale della Sanità considera che 47 dei 134 operai irradiati durante l’intervento di emergenza siano morti a causa della contaminazione nel 2004[19] e stima che ci siano poco meno di 9.000 morti per cancro in più causate dal disastro[20]. Un rapporto di scienziati russi, pubblicato negli Annali dell’Accademia delle Scienze di New York, valuta che, dalla data dell’incidente fino al 2006, bisogna contare 985.000 morti in più, per cancro e tutta una serie di altre malattie[21].
Per chi non ha conoscenze scientifiche e mediche da specialisti, è difficile districarsi, ma quello che è certo è il livello enorme di segretezza e di falsificazione in atto: dalla decisione del governo britannico di sospendere la pubblicazione del rapporto su uno dei primi incidenti alla centrale di Windscale nel 1957 fino a Fukushima oggi dove la vera entità del disastro emerge solo lentamente. Per tornare a Chernobyl, il governo russo per diversi giorni non ha detto niente sull’incidente, lasciando che la popolazione locale continuasse a vivere e lavorare in mezzo alle radiazioni. Ma questo non solo in Russia. Il governo francese ha minimizzato i livelli di radiazione che raggiunsero il paese[22], dicendo al pubblico che la nube radioattiva, che si stava estendendo su tutta l’Europa, non era passata sulla Francia[23]. A sua volta il governo inglese rassicurava il paese che non c’era alcun rischio per la salute, riportando dei livelli di radiazione 40 volte inferiori a quelli effettivi[24], per poi però mettere centinaia di fattorie in quarantena. Fino al 2007, 374 aziende agricole erano ancora sotto controllo speciale[25].
Diversi governi mettono avanti l’energia nucleare come la soluzione “verde” ai problemi legati ai combustibili fossili. Si tratta per lo più di una cortina di fumo che nasconde le vere ragioni che ruotano intorno al possibile esaurimento del petrolio, all’aumento del prezzo del petrolio e ai rischi associati alla dipendenza da fonti energetiche al di fuori dal controllo dei rispettivi Stati. Questa facciata “verde” si sbiadisce man mano che la crisi economica porta gli Stati a ritornare al carbone[26] e ridurre i costi delle nuove fonti di combustibile in sfruttamento, la maggior parte delle quali sono difficili da raggiungere fisicamente oppure richiedono dei processi che sporcano ed inquinano l’ambiente, come ad esempio la produzione di fuliggine.
I prodotti energetici sono anche stati un fattore importante negli scontri imperialisti degli ultimi anni e lo saranno ancor più in futuro. L’energia nucleare ritorna là dove ha iniziato come fonte di materiale fissile e come copertura per i programmi d’armamento.
Il comunismo e le fonti di energia
I regimi stalinisti, che si sono appropriati ed hanno infangato il nome del comunismo, hanno condiviso pienamente il comportamento del capitalismo nell’uso del nucleare e hanno agito con totale disprezzo per la salute della popolazione e dell’ambiente. Questo era vero per l’ex URSS e lo è anche per la Cina di oggi e alimenta la confusione largamente diffusa sul fatto che il comunismo spinge ad un’industrializzazione forzata che non tiene conto della natura.
Contrariamente a queste false idee, Marx sentiva molto le problematiche inerenti alla natura, a livello teorico del rapporto tra uomo e natura, come abbiamo già visto, e a livello pratico quando scrive sul pericolo di impoverimento dei suoli con l’agricoltura capitalistica e sull’impatto dell’industrializzazione sulla salute della classe operaia: “Inoltre, ogni progresso dell’agricoltura capitalistica costituisce un progresso non solo nell’arte di sfruttare il lavoratore, ma anche nell’arte di spogliare la terra; ad ogni progresso nell’arte di aumentare la sua fertilità per un certo tempo, corrisponde un progresso nella rovina delle sue fonti sostenibili di fertilità. Quanto più un paese, ad esempio gli Stati Uniti del Nord America, si sviluppa sulla base della grande industria, più questo processo di distruzione avviene rapidamente. La produzione capitalistica, quindi, sviluppa la tecnica e la combinazione del processo di produzione sociale esaurendo allo stesso tempo le due fonti dalle quali deriva ogni ricchezza: la terra e il lavoratore”[27].
Non possiamo prevedere quale sarà la “politica energetica” nel comunismo, ma partendo dal fatto fondamentale che la produzione sarà per i bisogni umani e non per il profitto, possiamo dire sin da ora che il modello di utilizzazione di energia cambierà in modo significativo e possiamo evidenziarne alcuni aspetti:
- possiamo prevedere una forte riduzione della produzione di cose non necessarie, nel trasporto di queste e di altre cose il cui unico scopo è quello di aumentare i profitti dei capitalisti[28];
- ci sarà anche una riduzione degli spostamenti verso o di ritorno dai posti di lavoro, non più necessari nel momento in cui le comunità assumeranno proporzioni più umane, ad esempio la separazione tra attività lavorative e quelle non-lavorative, o la divisione netta tra città e campagna, che verranno superate;
- la creatività e l’intelligenza saranno dirette verso i bisogni umani e si possono quindi prevedere degli sviluppi significativi nelle risorse energetiche[29], soprattutto quelle rinnovabili, così come nella progettazione di mezzi di produzione, di trasporto e di altre attrezzature e macchinari per renderli più efficaci, e ciò sul lungo periodo.
Poiché una società comunista avrà la preoccupazione del lungo termine, una delle implicazioni sarà una forte riduzione nell’utilizzo di fonti di energia non rinnovabili in modo che esse possano servire alle generazioni future. Va notato che anche l’uranio usato nel nucleare è una fonte di energia non rinnovabile e quindi non elimina la dipendenza da risorse limitate. Ciò implica che l’energia rinnovabile sarà fondamentale per la società comunista, ma poiché la creatività e l’intelligenza dell’umanità sarà libera dalle catene attuali, questo non ci trascinerà verso un ritorno alle privazioni delle vecchie economie organiche.
Il comunismo e l’energia nucleare
Non sta a noi dettare al futuro le decisioni che saranno prese su questa questione. Ma già quello che abbiamo detto comporta una riduzione significativa nel consumo di energia e dei cambiamenti nelle forme di energia alla luce di una vigile intelligenza scientifica. I potenziali pericoli del nucleare e il fatto che disperdere combustibili e contaminare il suolo comporta un rischio per centinaia di migliaia di anni, suggerisce che l’energia nucleare non ha posto in una società orientata verso il bene comune della sua generazione, delle generazioni future e del pianeta da cui dipendiamo.
Il capitalismo ha oggi la pretesa di essere “verde”. L’energia verde attualmente viene utilizzata in minima parte, nonostante si senta dire dappertutto che sarebbe economico metterla in pratica. Detto questo, la maniera in cui il capitalismo utilizza le diverse fonti di energia espone l’umanità ad ogni pericolo, perché la minaccia che esso rappresenta non viene da una particolare politica o elemento di produzione, ma dalle leggi che governano il capitalismo e dall’eredità storica delle società basate sullo sfruttamento.
North (19 giugno 2011)
[1] Ciò vale anche per la Cina: “Il carbone veniva estratto e bruciato in quantitativi notevoli in alcune parti della Cina già dal IV secolo e può aver raggiunto un picco durante l’XI secolo, ma ciò non ha mai portato ad una trasformazione dell’economia.” E. A. Wrigley, Energy and the English Industrial Revolution, p. 174, Cambridge University Press, 2010.
[2] Wrigley, op.cit., p.92.
[3] Fernand Braudel, Civilisation and Capitalism 15th 18th Century, Vol. 1, p.366-7. William Collins Sons and Co. Ltd, London.
[4] Ibidem.
[5] Ibid.
[6] Wrigley, op. cit, p.37 e p.99.
[7] Energy and the English Industrial Revolution. E. A. Wrigley.
[8] Ibid., p.94.
[9] Kenwood et Lougheed, The growth of the international economy (1820-1990). Routledge, 1992 (3a edizione).
[10] International Energy Agency, Key world energy statistics 2010, p.28.
[11] Citato in S. Cooke, In mortal hands: A cautionary history of the nuclear age, Bloomsbury New York, 2010 (Paperback edition), p.110.
[12] Ibid., p.148-9.
[13] Ibid., p. 357-8.
[14] World Nuclear Association, The new economics of nuclear power, p.6.
[15] International Energy Agency, Key world energy statistics 2010, p.6.
[16] The World Nuclear Industry Status Report 2009 With Particular Emphasis on Economic Issues. Commissionato dal Ministro Federale Tedesco dell’Ambiente, Nature Conservation and Reactor Safety. Parigi 2009.
[17] Cooke, op. cit., p.120-5. Il governo accetterà arbitrariamente un limite massimo che pone la sua responsabilità a 500 milioni di dollari nonostante il parere dei suoi esperti per i quali “la misura del rischio incorso non può essere esattamente valutata ” (ibid, p. 124).
[18] Ministro Federale Tedesco dell’Ambiente, Nature Conservation and Reactor Safety, op.cit., p.44.
[19] Organizzazione Mondiale della Sanità, 2006, Health effects of the Chernobyl accident and special health care programmes, p.106
[20] Ibidem, p.108.
[21] Yablokov, Nesterenko and Nesterenko, “Chernobyl: Consequences of the catastrophe for people and the environment.” Annals of the New York Academy of Sciences, Vol. 1181, 2009, p.210. Questo studio ha suscitato un certo numero di controversie, in particolare delle critiche secondo le quali esso mescolerebbe dati incompatibili tra loro, non terrebbe in alcun conto gli studi che non sostengono le sue argomentazioni e non seguirebbe metodi scientifici riconosciuti. Vedi ad esempio la rivista delle pubblicazioni in Environmental Health Perspectives, Vol. 118, 11 Novembre 2010
[22] Cooke, op. cit., p.320.
[23] Yablokov et al, op. cit., p.10.
[24] Ibidem, p.14
[25] Cooke, op. cit., p.321.
[26] Il carbone é passato dal 24,5% delle fonti energetiche totali nel 1973 al 27% nel 2008. Fonte: International Energy Agency, Key world energy statistics 2010, p.6.
[27] Marx, Il Capitale , Vol. I, Capitolo XV, “Macchinismo e grande industria”, sezione 10, “Grande industria e agricoltura”.
[28] Vedi “Il mondo sulla soglia di un collasso ambientale”, I e II parte https://it.internationalism.org/rint/30/disastri-ambientali
[29] Per un inventario delle possibili risorse di energia alternative vedi Makhijani, A. 2007, Carbon-Free and Nuclear-Free: A Roadmap for U.S. Energy Policy