La crisi di governo che si è prodotta il 22 febbraio scorso ha fatto un grande rumore e ha scosso molto gli animi della politica italiana, con significative risonanze anche a livello internazionale. Ma cosa è veramente successo e perché è successo. Ed ancora, a chi torna utile questa crisi?
Prima di rispondere a questi quesiti, torniamo un attimo a caratterizzare la situazione che si era creata con l’elezione di questo parlamento e la nomina del governo Prodi. Nel n° 146 del nostro giornale ricordavamo allora come esistesse una difficoltà da parte della borghesia a “orientare il voto delle politiche del 2006 in maniera netta verso una maggioranza di centro-sinistra (…) Ciò si è tradotto in un tragico risultato di quasi parità tra centro-destra e centro-sinistra, che ha consentito, solo grazie al premio di maggioranza alla camera e il “responsabile” voto dei senatori a vita, di formare un governo con un minimo di margini di manovra. Ma questa situazione, come tutti gli osservatori di politica nazionale e internazionale hanno fatto subito notare, taglia le gambe al governo Prodi e lo rende molto più debole nei confronti di centomila ricatti da parte della disunita e variegata compagine partitica di centro sinistra di cui ogni singola componente risulta ugualmente indispensabile alla maggioranza” (1). Rispetto alla politica estera abbiamo poi ricordato come “lo schieramento imperialista dell’Italia per i prossimi anni sarà, rispetto al governo Berlusconi, meno accentuato e appariscente, ma non per questo meno imperialista e guerrafondaio. Basti solo tenere presente che al ministero degli esteri del nuovo esecutivo si trova un D’Alema che ha fatto, come capo di uno scorso governo, direttamente la guerra alla Serbia mandando i propri soldati a bombardare la povera gente di Belgrado” (1). Ed infine aggiungevamo che: “Tutto questo ha un solo grande difetto: nella misura in cui la borghesia ha dovuto impegnare anche Rifondazione Comunista – classico partito di opposizione – all’interno della maggioranza e del governo, significa che nel momento in cui il governo comincerà ad attaccare, non ci sarà uno straccio di forza di sinistra che possa fingere di fare l’opposizione parlamentare e cercare di convogliare lo scontento dei lavoratori su dei falsi obiettivi. Questa è una debolezza molto importante che potrà mettere in difficoltà la borghesia, cosa di cui questa sembra essere cosciente, tanto che ha anche cercato di porvi rimedio” (1).
Date queste premesse, qualunque congettura si possa fare sulla caduta del governo Prodi, che si tratti del colpo gobbo (pardon!) di Andreotti, indispettito - in quanto uomo del Vaticano - per i DICO; che si tratti di Pininfarina indispettito per una politica estera troppo distante dagli USA, che si tratti di una crisi voluta dalle componenti “responsabili” in seno al governo per ricattare la “sinistra radicale” e invogliare la venuta di elementi moderati, quello che è sicuro è che i numeri sono così risicati che anche se avessero votato i due contestatori Turigliatto e Rossi, il risultato della votazione non avrebbe sortito un risultato diverso e il governo sarebbe stato comunque bocciato. Per cui, a monte di qualunque analisi politica sugli orientamenti di questo o di quello, occorre prendere atto che quello che è successo è legato alla fragilità della situazione e poteva succedere in qualunque momento. Ma questa banale realtà è stata completamente sommersa da una campagna di denigrazione contro i due “mostri contestatori” che ha provocato una valanga di mail sul sito di Rifondazione contro i “traditori” e finanche dei messaggi minatori contro la famiglia, per telefono, mail, ecc., che sono culminate con l’aggressione fisica contro lo stesso Rossi in treno attraverso un solenne cazzotto da parte del segretario regionale del PdCI della Toscana Frosini. C’era da pensare che a questo punto un minimo di solidarietà Diliberto gliel’avrebbe potuta dare all’ex senatore fuoriuscito. E invece no: “L’esasperazione alimentata dal comportamento di Rossi e dal tradimento del mandato elettorale se non giustifica aiuta a comprendere l'arrabbiatura dei nostri compagni” Corrieredellasera.it del 23/02/2007. Insomma, dice Diliberto, Rossi si tenga il cazzotto (e le minacce alla famiglia?!) perché se lo merita!!
C’è da chiedersi a questo punto perché tanta drammatizzazione per delle dissidenze annunciate da giorni (Rossi addirittura non faceva più parte del PdCI da tempo). La risposta è che, a cose fatte, si cerca di trarre il massimo profitto possibile e, nel caso specifico, trarre il massimo profitto per le forze parlamentari di centro-sinistra significa colpevolizzare qualcuno per le sue posizioni di “estrema sinistra” e mostrare come proprio un atteggiamento troppo disinvolto a sinistra possa condurre a perdere tutto quanto faticosamente costruito finora con l’alleanza di centro-sinistra e il governo Prodi. Questo segnale di messa in guardia non è neanche tanto e soltanto indirizzato ai due capri espiatori del momento, Rossi e Turigliatto, quanto all’insieme della “popolazione di sinistra”, ai lavoratori, ai compagni, suggerendo in vario modo questa sequenza logica: la manifestazione di Vicenza ha prodotto il voto contrario al senato, questo ha prodotto la caduta del governo Prodi e la caduta del governo Prodi ha messo a rischio tutto quello che “faticosamente si stava facendo”. Il messaggio è dunque chiaro: di fronte allo spettro del ritorno di Berlusconi, teniamoci caro il governo Prodi, nonostante il fatto che abbia fatto una finanziaria bella tosta, che in seguito al decreto Bersani e le riduzioni di spesa da questo imposte migliaia di lavoratori di ditte in appalto abbiano perso il loro posto di lavoro o abbiano visto ridursi il già precario orario di lavoro, che la politica estera, nonostante il ritiro dall’Iraq, continui a somigliare paurosamente a quella precedente, con una presenza di guerra in Afghanistan, in Libano, ecc. ecc.
Non è un caso che, in seguito a questa crisi, Prodi abbia sfoderato i famosi 12 punti che, se da una parte confermano del tutto la politica imperialista del governo Prodi (con la scusa di impegni presi già in precedenza da precedenti governi italiani o con l’idea che l’Italia non può esimersi da compiti che le provengono dall’essere parte dell’Europa o dell’ONU), e specificamente la presenza in Afghanistan, dall’altra non citano più i cosiddetti PACS o DICO che, se erano stati dati in pasto alla cosiddetta sinistra radicale per addomesticarla rispetto a scelte più ardite di politica internazionale, adesso che questa risulta bastonata dalla canea mediatica, si può offrire l’osso succulento del loro oscuramento a personaggi di centro come Follini e altri per attirare qualche voto supplementare al Senato.
Noi non sappiamo quale sarà l’evoluzione di questo governo Prodi e delle sue eventuali espansioni verso il centro. Quello che possiamo dire di sicuro, anche sulla base di quanto viene documentato all’interno del giornale sul piano economico e sul piano della politica imperialista dell’Italia, è che i proletari non hanno veramente nulla da aspettarsi da un “governo amico”, come quello Prodi. La borghesia, oggi come oggi, non ha due alternative da proporci, una di sfruttamento e di oppressione e una di solidarietà e di democrazia, ma un’unica politica di sottomissione ideologica ed economica. I proletari devono rompere le catene di questa oppressione e liberarsi di tutti gli sfruttatori e soprattutto di tutti i falsi amici.
Ezechiele, 27 febbraio 2007
1. “Dopo Berlusconi, che ci riserva il governo Prodi?”, in Rivoluzione Internazionale n. 146.
Sono passati pochi mesi dalla vittoria del centrosinistra e già si sente mormorare che qualcosa non va, che tutta questa differenza con Berlusconi non si vede proprio. Anzi, che va anche peggio. È proprio vero che un nuovo dittatore, presidente del consiglio, governo, padrone, capo, ecc. è sempre peggio di chi lo ha preceduto. Con questo non vogliamo certo richiedere un ritorno del Berlusconi, ma vogliamo far vedere gli effetti reali delle leggi e leggine che, all’interno del quadro della finanziaria, il governo Prodi–D’Alema–Bertinotti sta sfornando e che vengono abilmente nascosti da TV e stampa che portano viceversa in prima pagina argomenti del tutto diversi o che toccano settori particolari di persone e non la massa dei lavoratori. Un esempio vale per tutti: nelle settimane precedenti il varo della finanziaria l’attenzione dei media era sulla questione dell’eutanasia e la sua approvazione è passata quasi sotto silenzio grazie al grande clamore giornalistico che si è creato intorno alla morte di Welby.
Cosa conteneva questa finanziaria da Robin Hood che doveva togliere ai ricchi per dare ai poveri? Per quanto riguarda la parte relativa alla modifica delle aliquote sulle tasse, se sfogliamo i giornali del periodo precedente la finanziaria vediamo che fanno riferimento a soggetti particolari, presi ad esempio, come il capoufficio “single”, gli operai con 3 figli e moglie a carico, etc. Tutto un modo di spezzettare la classe operaia per mettere uno contro l’altro, far dire all’uno che le nuove aliquote sono favorevoli e all’altro che ci si rimette. Il vero bilancio di questa finanziaria (1) lo potremo fare solo l’anno prossimo quando verranno confrontati tutti i salari, le variazioni nell’ambito lavorativo, le ore di lavoro in più, l’aumento della precarizzazione, il peggioramento dei servizi sociali, scolastici, sanitari. La diminuzione delle spese sanitarie significa che i medici ridurranno i tempi di visita, aumenteranno le spese per le visite specialistiche (che sono richieste sempre di più, visto il continuo peggioramento delle condizioni di vita), la sola visita al pronto soccorso ci costerà minimo 25 euro e gli infermieri ti tratteranno peggio di un manufatto in una catena di montaggio, ma non per cattiveria ma per i ritmi a cui sono costretti. I ragazzi a scuola saranno più liberi di picchiarsi o non avere una istruzione adeguata perché diminuirà il personale sia docente sia non docente, diminuiranno le classi perché aumenta il numero degli alunni per classe e aumenteranno le incombenze per i lavoratori. Molti ragazzi portatori di handicap non saranno più riconosciuti come tali e quindi non avranno il sostegno. Le conseguenze di questa politica saranno pagate in seguito da tutta la società perché questi ragazzi non saranno mai più recuperati. La (promessa di) stabilizzazione di 150.000 precari servirà a rimpiazzare l’andata in pensione di altrettanti lavoratori e la riduzione del precariato sarà fatta con la riduzione delle supplenze e delle ore di lezione per gli alunni (istituti professionali). In compenso i giovani potranno sempre arruolarsi per le missioni di “pace” all’estero che sono in costante aumento e con un congruo aumento di spesa, almeno per la strumentazione bellica: navi, aerei, carri armati e missili a volontà per la riaffermazione dell’imperialismo italico.
Comunque già oggi possiamo fare una sorvolata su ciò che ci aspetta.
In genere, per i salari più bassi, c’è stato, nella busta paga di gennaio, un aumento di una decina di euro che, in verità a prima vista, sembra più alto del reale perché nel mese di gennaio non viene applicata l’addizionale regionale IRPEF. Addizionale che, insieme a quella comunale dove è in vigore, potrà essere aumentata dall’attuale 0,5% fino ad un massimo dello 0,8%. Già questo aumento - prevedibile perché il governo ha diminuito i trasferimenti alle regioni - sarà sufficiente a far scomparire gli spiccioli avuti con le nuove aliquote. È stata inoltre introdotta la “tassa di scopo” sotto forma di addizionale ICI per finanziare i lavori locali. C’è poi il rincaro del bollo auto eccetto per chi ha l’auto nuova (euro 4 o 5) o può acquistarsela. Un modo come un altro per spingere in su i conti della Fiat. Non dobbiamo dimenticare di elencare gli aumenti indotti da questa politica di attacco ai lavoratori nell’elettricità, gas, trasporti locali e nazionali, alimenti, etc…
È previsto inoltre il trasferimento, per le aziende private con più di 50 dipendenti, del TFR, Trattamento di Fine Rapporto, ai fondi pensione o all’INPS per il finanziamento delle grandi opere. E con il fallimento di qualche azienda o dei continui crolli di borsa scompariranno, per magia, anche questi soldi. Dopo la stangata della finanziaria, Prodi dice che “Tutti gli indici stanno migliorando, la disoccupazione sta calando, l'inflazione sta calando, i conti pubblici stanno tornando nei parametri europei; solo la popolarità del mio governo sta calando. Ma questo - ha osservato il premier - è il prezzo che si deve pagare” a fronte di “misure molto forti in termini di liberalizzazioni nel commercio e nelle professioni, con decisioni severe sul debito pubblico e sulla spesa”. (canali.libero.it/affaritaliani/politica/prodiafghanistan1002.html)
Lui paga il prezzo della popolarità e i lavoratori pagano il conto.
In attesa del prossimo grande attacco alle pensioni è necessaria una riflessione sul fatto che i governi di destra o di sinistra non sono altro che due espressioni della stessa classe al potere - la borghesia - e che è necessario che i lavoratori si difendano senza fare affidamento alle forze cosiddette di sinistra, siano essi partiti o sindacati.
Oblomov, 11 febbraio 2007
1. E del precedente decreto Bersani che prevede una riduzione delle ore di appalto esterne nei vari ministeri; ciò porterà ad un incremento dello sfruttamento sui lavoratori precari utilizzati da queste ditte appaltatrici.
Con la caduta del governo Prodi si è infuocata la discussione sulla politica estera, con il governo sottoposto ad attacchi da “destra” e da “sinistra”: dal Polo che lo attacca perché “antiamericano”, dalla sinistra della sua stessa maggioranza che, all’opposto, lo accusa di non distinguersi abbastanza dalla politica degli USA, in Afganistan, per esempio, o non negando a questi l’allargamento della base di Vicenza.
In realtà siamo di fronte all’ennesimo tentativo di mistificazione, da una parte come dall’altra: se infatti sul piano dell’economia le bugie della borghesia hanno le gambe piuttosto corte, perché per i proletari basta vedere quanto più velocemente si consuma il loro salario per capire quale è la realtà della politica economica del governo, sul piano delle avventure imperialiste la realtà è meno immediatamente percettibile e, soprattutto, è coperta da una coltre più spessa di mistificazioni sparse a piene mani dalla destra come dalla sinistra dell’apparato politico della borghesia.
Infatti non ha mistificato solo Berlusconi, quando ha presentato la missione italiana in Iraq come una missione di “pace”, la stessa cosa la fa il governo di centrosinistra che maschera con la stessa scusa tutti gli interventi di truppe italiane in giro per il mondo.
La realtà invece è che sia l’uno che l’altro difendono gli interessi dell’imperialismo italiano, dividendosi solo su quella che ognuno ritiene la maniera più efficace per farlo. Berlusconi pensa che solo l’alleanza con gli USA può far contare un poco l’Italia sullo scacchiere internazionale; il centrosinistra, invece, vuol far valere gli interessi dell’imperialismo italiano in maniera autonoma dagli USA e più inserito in un contesto di politica imperialista europea.
Ma non è certo questo che denunciano i critici dell’estrema sinistra parlamentare, quelli che in questi giorni si sono fatti i paladini del “pacifismo” perché non vogliono il raddoppio della base di Vicenza o il permanere della missione in Afganistan. Da loro non sentiremo affermare che la pretesa dei governanti di centrosinistra di mandare le truppe italiane in giro per il mondo a scopi di “pace” è altrettanto menzognera quanto quella di Berlusconi quando mandò le truppe a Nassirya. Da loro non sentiremo dire che la copertura da parte dell’ONU o di altri organismi internazionali non cambia la natura di queste missioni. Né sentiremo ricordare che la presenza di più di 10.000 militari italiani in 28 missioni nel mondo intero ben poco si concilia con l’idea che è la pace che questi militari, armati di tutto punto e pronti a sparare, come è stato in tanti casi non solo in Iraq, vogliono difendere. Ci dicono, per caso, quanto costano queste missioni? Ci dicono quanti ospedali, scuole, infrastrutture si potrebbero costruire in questi stessi paesi se le centinaia di milioni di euro spesi nelle missioni fossero invece utilizzati per aiutare questi paesi ad uscire dalla loro arretratezza?
Domande retoriche le nostre perché, da che il capitalismo è nato, gli interventi delle nazioni più sviluppate verso le aree economicamente arretrate hanno sempre avuto come primo obiettivo quello di imporre il proprio dominio su di queste: nell’ottocento e all’inizio del novecento questi interventi avevano lo scopo di conquistare mercati e di accaparrarsi le materie prime dei paesi che venivano colonizzati; con l’entrata del capitalismo nella sua fase di decadenza, cioè quella in cui il capitalismo ha esteso il suo modo di produzione in tutto il mondo, la contesa diventa in parte per i mercati, in parte, e soprattutto, per occupare militarmente zone strategicamente importanti, in modo da poter avere un vantaggio militare in vista di futuri scontri tra le grandi potenze. E la maniera in cui questa presenza si impone non è funzione delle diverse intenzioni dei paesi che la impongono, ma della loro taglia e della loro forza. Così gli USA, la prima e indiscutibile prima potenza mondiale, si possono permettere di imporre il loro controllo nel mondo con i bombardamenti e l’impiego massiccio di truppe, gli altri paesi, e soprattutto quelli di scarso calibro militare, come l’Italia, devono giocare su altri piani. Da qui la politica del governo Prodi che, a ben guardare, è anche più imperialista del governo Berlusconi nella misura in cui non si limita a seguire supinamente il brigante americano ma si lancia in una politica di presenza internazionale in cui, attraverso abili giochi diplomatici, riesce anche a sfidare dei concorrenti imperialisti attraverso una mistificatoria politica di sviluppo di missioni di pace. Qualcuno può solo immaginare l’italietta che si mette a sfidare gli USA sul piano dell’esposizione di muscoli? Meglio ricorrere alla diplomazia, alla copertura dell’ONU e soprattutto a tutte le occasioni in cui si può mettere lo sgambetto agli USA senza rischiare la sfida aperta: è quello che il governo Prodi è riuscito a fare sfruttando la tensione creata in Libano dall’invasione israeliana per proporre le sue truppe come forza di “interposizione”, cosa che gli USA non avrebbero potuto fare senza alimentare ancora di più il fuoco (e impantanandosi in un’impresa ancora più pericolosa di quella irachena).
Ma abbiamo per caso sentito gli attuali difensori di una diversa politica estera del governo, i Rossi e i Turigliatto, denunciare la presenza italiana in Libano come un’avventura imperialista allo stesso titolo di quella degli USA in Iraq o in Afganistan? No, anzi tutti i sinistri sono stati d’accordo a sostenere questo intervento e lo contrappongono a quello in Afganistan.
E, a proposito di questo paese, a guardare più da vicino si può anche spiegare la preoccupazione di questi presunti pacifisti: tutti gli esperti prevedono una accelerazione dello scontro militare per la primavera, vuoi per una prevista controffensiva dei talibani, vuoi per una preventiva azione delle truppe USA (non a caso questi ultimi hanno chiesto agli “alleati” l’invio di altri 4.000 uomini) e “se in primavera i talibani mettessero in difficoltà la prima linea della NATO, eventualità da non escludere, il comando dell’Alleanza atlantica avrebbe diritto a impiegare in battaglia qualsiasi contingente (…) non è immaginabile che gli italiani, chiamati in extremis a soccorrere un altro contingente, si sottraggano ad un dovere elementare. Il loro intervento forse verrebbe taciuto all’opinione pubblica, così come le venne taciuto che i piloti italiani partecipavano agli attacchi della NATO sulle posizioni serbe in Kosovo.” (Repubblica, 7/02/2007). Ecco spiegata la preoccupazione di Rossi e compagni: se ciò avvenisse, come spiegare ai proletari italiani che la sinistra “pacifista” appoggia una guerra vera e propria? Possono fare affidamento sul fatto che la cosa sia effettivamente tenuta nascosta (come non lo è più la partecipazione ai bombardamenti in Kosovo fatti dal governo D’Alema durante quello che cinicamente fu definito “intervento umanitario”)?
Questi signori si limitano a chiedere al governo, in alternativa o in accompagnamento alla missione militare, l’impegno per una “conferenza internazionale di pace”, facendo così una ulteriore mistificazione: chi dovrebbe partecipare a questa conferenza? Forse non quelli che stanno già laggiù con le truppe per difendere i loro interessi imperialisti? E poi, quante conferenze di pace sono state fatte sul Medio Oriente? Si ricordano degli accordi di Camp David, firmati da israeliani e palestinesi, o della Road Map disegnata dagli americani con l’accordo di israeliani e palestinesi? Noi li ricordiamo e oggi possiamo dire che la nostra denuncia di allora di questa mistificazione è stata tragicamente confermata dai fatti, dalla guerra permanente che le popolazioni palestinese e israeliana sono costrette a subire per il solo fatto che la terra in cui vivono è zona di interesse strategico di tutti gli avvoltoi imperialisti.
No, non è da Prodi e nemmeno da Rossi e Turigliatto che i proletari italiani possono sperare di non dovere pagare più con il loro sudore e il loro sangue le ambizioni imperialiste della borghesia italiana. Essi possono solo mettere in conto questa ulteriore barbarie e questa ulteriore mistificazione per riflettere sul fatto che questo sistema non ha più niente da offrire loro e vedere come prepararsi per spazzarlo via.
Helios, 25/02/07
Le borghesie di tutti i paesi più sviluppati, ognuna per la difesa dei propri interessi imperialisti, compresi gli Stati Uniti, hanno salutato il piano Baker sulla politica estera americana, elaborato da un gruppo di studio comprendente alti responsabili politici americani, conservatori e democratici. Dopo la scottante sconfitta del presidente Bush e della sua amministrazione alle ultime elezioni americane per il rinnovo delle camere dei rappresentanti, provocata essenzialmente dall'insuccesso totale della politica imperialista degli Stati Uniti in Afghanistan e ancora più in Iraq, la borghesia americana doveva tentare di reagire. L’impantanarsi crescente del suo esercito in Iraq, l’assenza totale di prospettive, ed un caos crescente sono le manifestazioni dell’indebolimento della prima potenza imperialista. In un vicolo cieco totale, la borghesia americana stava già lavorando da mesi ad un nuovo orientamento che si voleva più credibile e meglio adattato alla difesa dei propri interessi imperialisti. La costituzione della commissione di inchiesta sull’Iraq ed il suo rapporto corrispondono a questa esigenza.
L’imperialismo americano non potrà impedire il suo indebolimento sull’arena mondiale
Questo piano affronta tutta la politica imperialista degli Stati Uniti. Esso parte dalla constatazione, sotto gli occhi di tutti, dell’assenza totale di possibilità di riuscita della politica di guerra americana in Iraq. Ma ancora di più, sottolinea lo sviluppo della politica anti-americana ed anti-israeliana in tutto il Vicino e Medio Oriente. Questo rapporto sembra quindi esprimersi contro la politica portata avanti da anni dagli Stati Uniti in questa parte del mondo. Preconizza un ritiro progressivo delle truppe americane dall’Iraq ed il rafforzamento dell’esercito irakeno che dovrebbe passare sotto la direzione del primo ministro Nuri Kamal Al-Maliki. Mentre gli attentati si succedono tutti i giorni, con un governo totalmente impotente ed un esercito americano rinchiuso nei campi fortificati, una tale proposta appare immediatamente per quello che è: irrealistica ed inapplicabile. Tanto è vero che il piano Baker si guarda bene dal precisare la data limite per il ritiro delle truppe americane dall’Iraq. Ed è così per tutte le altre proposte sostenute da questo rapporto. Colpiscono inoltre, alla lettura del rapporto, le proposte di riannodare un dialogo ufficiale con la Siria e l’Iran. Il rapporto precisa: “L’Iran deve ricevere proposte incentivanti, come il ristabilirsi delle relazioni con gli Stati Uniti, e dissuasive per fermare l’afflusso di armi destinate alle milizie irachene. Il paese deve essere integrato al Gruppo di studio sull’Iraq” (Courrier International del 14 dicembre 2006). Questa proposta del rapporto è talmente irrealistica che mostra chiaramente il vicolo cieco totale degli Stati Uniti in Iraq, e peggio ancora, la loro incapacità crescente a limitare le accresciute esigenze siriane ed iraniane. L’impossibilità per l’esercito americano di risolvere la situazione in Iraq spinge la borghesia americana a considerare di associare l’Iran nel tentativo di gestire il caos iracheno. Questa alternativa politica potrebbe tradursi solo in ulteriori pretese dell’Iran riguardo allo sviluppo della sua arma nucleare, ma anche verso l’insieme del vicino e Medio Oriente. Pretese e passi in avanti dell’imperialismo iraniano che né Israele, né gli stessi Stati Uniti, sarebbero in grado di sopportare. È molto probabile che, nei mesi a venire, il tono dei discorsi americani sulla politica internazionale sia più misurato e faccia più appello ad una “collaborazione internazionale”, su quella che la borghesia chiama la lotta contro il terrorismo internazionale. Nel caso molto improbabile che questa passasse, si determinerebbe una situazione ancora più caotica. Un segnale in tal senso ci viene dalla dichiarazione del re dell’Arabia Saudita Abdallah al vice presidente americano Dick Cheney, in visita qualche settimana fa a Riyad: “L’Arabia Saudita ha fatto sapere all’amministrazione Bush che in caso di ritiro delle truppe americane il regno potrebbe portare un sostegno finanziario ai sunniti in Iraq in qualsiasi conflitto che li opporrebbe agli Sciiti”. (Courrier International del 13 dicembre 2006). Gli Stati Uniti sono totalmente impantanati in Iraq. Nessuna delle opzioni considerate sul piano militare è soddisfacente per l’imperialismo americano. L’accresciuta contestazione alla supremazia americana non solo da parte dell’Iran, ma anche da parte di potenze imperialiste come la Francia, la Germania o la Russia, non può che spingere in futuro gli Stati Uniti, con l’evolvere della loro politica in Iraq, in una fuga in avanti sul piano militare, sempre più omicida e barbara. In questo capitalismo in piena decomposizione, le distruttive ed irrazionali azioni militari sono ancora e più che mai davanti a noi.
Rossi (da Révolution Internationale n.375)
Ogni giorno i media fanno articoli e reportage sulla tragedia che sta vivendo il Libano. Non c’è alcuna preoccupazione per le vite umane. Le preoccupazioni delle borghesie di tutti i paesi sono ben altre. Il Libano è un piccolo paese di quattro milioni di abitanti e, contrariamente ad altri paesi del Medio Oriente, nel suo sottosuolo non c’è alcuna risorsa strategica ed economica particolare: non c’è petrolio, né gas, niente che, apparentemente, possa stuzzicare l’appetito dei predatori imperialisti del mondo. Eppure molti di questi, dal più piccolo al più potente, sono implicati nella peggiore crisi che abbia conosciuto questo paese. Da dove viene tutto questo interesse da parte delle potenze imperialiste? Quale futuro può avere la popolazione libanese presa nella morsa mortale dell’intensificazione delle tensioni inter-imperialiste?
La domenica del 10 dicembre a Beirut, capitale del Libano, ci sono state manifestazioni di massa, con una folla sovraeccitata e pronta a tutto. E’ la prima volta in questo paese, dalla storia già molto tormentata, che si riunisce una tale massa di gente. In un quartiere della città si ritrovano centinaia di migliaia di sciiti, partigiani di Hezbollah pro-siriano, raggiunti dai cristiani fedeli al generale Aun, che a sua volta ha sposato la causa sciita, per manifestare un odio violento verso la comunità sunnita.
Questa folla, inquadrata dalle milizie armate, ha reclamato a viva voce la dimissione del governo. Nello stesso momento a Tripoli una folla altrettanto numerosa ed altrettanto eccitata, formata essenzialmente da sunniti declama il suo sostegno a questo stesso governo. Nel mese di dicembre, Hezbollah, rafforzato politicamente e militarmente dopo l’ultimo scontro armato di agosto, apparso come una vittoria sull’esercito israeliano e indirettamente sul “grande Satana americano”, ha facilmente organizzato l’assedio del Serail, sede del primo ministro Fuad Siniora.
Dozzine di tende sono state messe nel centro di Beirut, bloccando tutti gli accessi al Serail e circondandolo da ogni parte, senza che l’esercito libanese potesse intervenire. Gruppi armati sunniti, da parte loro, minacciano di assediare il parlamento e di prendere in ostaggio il suo presidente sciita Nabih Berri. Le strade che collegano Beirut alla piana di Bekaa ed al Sud-Libano rischiano di essere bloccate.
A questo livello di tensione tra le differenti frazioni, da cui i Drusi stessi non sono esclusi, il minimo soffio provocherebbe un incendio generalizzato a tutto il paese. Durante un incontro televisivo il generale Michel Aun ha proposto: “Un piano dell’opposizione per formare un nuovo governo” e “delle riflessioni del presidente della Repubblica Emile Lahud e del presidente del Parlamento Nabih Berri sulla maniera di far cadere il governo di Fuad Siniora” (citato da Courrier International del 14 dicembre 2006).
Per Hezbollah e gli sciiti, così come per i loro alleati, si tratta di formare un governo provvisorio, chiaramente pro-siriano. E tutto ciò con la benedizione della parte sciita dell’esercito libanese.
Si accelera così il braccio di ferro in Libano tra le differenti comunità, ciascuna infeudata a degli squali imperialisti più potenti di loro.
Sarebbe sbagliato pensare che quando centinaia di migliaia di persone assediano il governo di Fuad Siniora la posta in gioco è solamente la caduta del governo. Questa è ben più alta ed implica direttamente numerosi Stati della regione, dietro i quali si nascondono i più potenti paesi imperialisti del pianeta. Quello che in realtà vogliono gli sciiti ed i sostenitori del generale Aun è un ritorno in forza della Siria in Libano.Per Damasco che, come l’Iran, sostiene politicamente e militarmente Hezbollah, si tratta di approfittare al massimo dell’indebolimento dello Stato israeliano e del suo alleato americano per far valere i propri appetiti sul Libano ed indirettamente sulla regione del Golan, occupata dallo Stato ebreo. Dal ritiro forzato delle sue truppe dal Libano nel 2005, la Siria non si è mai ritrovata in una situazione tanto favorevole. Ma l’Iran, che è ora un alleato di circostanza della Siria in Libano, non ha affatto rinunciato a rafforzare la sua presenza e la sua influenza politica in questo paese. Per lo Stato iraniano pesare sul Libano, attraverso la comunità sciita, significa rafforzare la propria influenza su questa stessa comunità in Iraq ed affermarsi sempre più come attore inevitabile in tutta la regione, di fronte ad Israele ed agli Stati Uniti.
D’altra parte, visibilmente inquieti circa un rafforzamento nella regione del ruolo dell’Iran sciita che finanzia Hezbollah, l’Egitto, l’Arabia Saudita e la Giordania, dirette dai sunniti e particolarmente influenzati dalla politica imperialista americana, hanno dato il loro sostegno al governo Siniora.
Quello che si profila, dunque, è una frattura irrimediabile all’interno del mondo mussulmano. E questa crescita delle tensioni nel mondo arabo non prospetta niente di buono per l’avvenire di questa regione.
Inoltre, questa breccia aperta è un’opportunità per delle potenze come la Germania e la Francia, quest’ultima già presente militarmente sul terreno. Il 5 dicembre questi due paesi hanno fatto sapere, con una comunicazione comune, che auspicavano non ci fosse alcuna ingerenza esterna al Libano, precisando che era necessario che la Siria “si astenga dal dare il suo sostegno a forze che cercano la destabilizzazione del Libano e della regione, e stabilisca con il Libano una relazione paritaria e rispettosa della sovranità di ciascuno” (Libération del 15 dicembre 2006). Per ogni squalo imperialista che si rispetti, il nemico del mio alleato del momento è mio nemico. In particolare la Francia non fa altro che criticare la Siria perché per ora, in Libano, può appoggiarsi solo alla maggioranza cristiana nemica appunto della Siria.
Lo sviluppo delle tensioni e degli scontri in tutta la regione, di cui la crisi libanese è una tragica espressione, si esprime direttamente ed in modo spettacolare in quello che la stampa borghese ha ipocritamente chiamato “l’autentico falso lapsus nucleare” del primo ministri israeliano Ehud Olmert. Mantenere l’ambiguità sul proprio arsenale nucleare era una regola d’oro della politica internazionale dello Stato d’Israele. Tuttavia in una intervista del 12 dicembre ad un canale televisivo tedesco, questo stesso primo ministro, criticando i tentativi di giustificazione dell’Iran in materia di ricerca e sviluppo nucleare, ha lasciato direttamente intendere che Israele possedeva l’arma nucleare, allo stesso titolo della Francia, la Russia o gli Stati Uniti. Questa affermazione acquista tutto il suo significato quando la si collega al fatto che qualche giorno prima. Robert Gates, nuovo ministro della Difesa americana, ha citato Israele, davanti al Congresso, tra quei paesi che possiedono la bomba nucleare. A questo livello non c’è alcun errore o lapsus. E’ un avvertimento chiaro e netto all’Iran che pone al giusto posto il piano Baker ed il rapporto del Gruppo di studio sull’Iraq di cui ci parla la borghesia. Secondo il quotidiano pan-arabo Al-Quds-Arabi questo sarebbe anche “una preparazione per un eventuale ricorso al nucleare, se mai Israele si decide ad attaccare i siti nucleari iraniani” (citato da Courrier International del 13 dicembre 2006). Disgraziatamente questa eventualità non è da scartare. Marx, circa centocinquanta anni fa, constatava che il capitalismo è nato nel fango e nel sangue. Oggi l’agonia di questo sistema si prepara a trascinare l’umanità in un inferno ancora peggiore.
Tino, 15 dicembre 2007, (da Révolution Intérnationale n.375)
Malgrado la spirale di odio nazionalista che paralizza normalmente la lotta di classe in Israele e in Palestina, le gravi privazioni economiche causate dallo stato di guerra permanente hanno spinto gli operai di entrambi i campi opposti a battersi per i loro propri interessi di classe. A settembre, impiegati della West Bank nella Striscia di Gaza hanno fatto scioperi e manifestazioni per esigere che il governo di Hamas pagasse parecchi mesi di salari rimasti arretrati a causa del blocco dei fondi internazionali da parte dello Stato israeliano, con il coinvolgimento negli scioperi di una buona parte dei 170.000 impiegati. Ancora, gli insegnanti si sono messi in sciopero a partire dal 4 settembre, con una percentuale di scioperanti che è andata dall’80 al 95% da Rafah (sud della Striscia di Gaza) a Jenin (nord della Cisgiordania).
Questo movimento si è propagato fino alla polizia palestinese e, soprattutto all’inizio di ottobre, nel settore della sanità dove la situazione sanitaria è drammatica, compreso nella Cisgiordania. Gli impiegati del ministero della salute hanno avuto solo tre pagamenti parziali in sette mesi e hanno deciso uno sciopero a tempo indeterminato per ottenere il pagamento di quanto dovuto loro.
Parallelamente, il 29 novembre, il sito di informazione Libcom.org dava notizia di uno sciopero generale scoppiato nel settore pubblico israeliano, comprendendo aeroporti, porti, e con gli uffici postali tutti chiusi. 12.000 impiegati comunali e i pompieri sono scesi in sciopero sulla chiamata della centrale sindacale Histradrout (la Federazione Generale del Lavoro) in risposta alla violazione degli accordi tra i sindacati e le autorità locali e religiose.
Histadrout ha così dichiarato che questi accordi riguardavano salari che dovevano essere pagati e che il denaro che doveva essere versato nei fondi pensione erano spariti.
La guerra imperialista amplifica la rovina economica e la miseria dei proletari nella regione. La borghesia dei due campi è sempre più incapace di pagare i suoi schiavi salariati.
Queste due lotte sono state oggetto di ogni sorta di manipolazione politica. Nella West Bank e a Gaza la frazione nazionalista di opposizione, Al Fatah, ha cercato di servirsi degli scioperi come di un mezzo per fare pressione sui suoi rivali di Hamas.
In Israele Histadrout ha una lunga tradizione di proclamazioni di “scioperi generali” supercontrollati per incanalare la collera degli operai sul terreno borghese e a profitto di questa o quella frazione borghese. Ma quello che è significativo è che in Israele lo sciopero di Histadrout (che è stato interrotto nel giro di 24 ore) è stato preceduto da un’ondata di scioperi molto meno controllati, tra i facchini, gli insegnanti, i professori universitari, gli impiegati di banca e quelli del pubblico impiego.
La disillusione di fronte al fiasco militare di Israele in Libano ha senza dubbio alimentato questo crescente malcontento.
Durante lo sciopero di settembre nei territori palestinesi, il governo di Hamas denunciava l’azione degli impiegati pubblici come contrario all’interesse nazionale e tentava di dissuadere gli insegnanti scioperanti: “Se voi volete manifestare, manifestate contro Israele, gli Americani e l’Europa!”.
In effetti, la lotta di classe si afferma come contraria all’interesse nazionale e per questo si oppone nei fatti alla guerra imperialista
Amos (2/12/2007)
(Tradotto da Révolution Internationale n.376)
Tuttavia, al di là della necessità per la classe operaia in Guinea, come dappertutto nel mondo, di saper opporsi a questi falsi amici che sono i sindacati ed a lottare al di fuori e contro essi, è certo che l’isolamento degli operai ed il bombardamento ideologico al quale sono sottoposti, rendono difficile lo sviluppo della lotta sul proprio terreno. Per questo è necessario che il proletariato dei paesi sviluppati del capitalismo, là dove esso è più concentrato e forte, faccia da catalizzatore della coscienza e delle espressioni autonome della lotta operaia.
Mulan, 24-2-2007 (Da Révolution Intenrationale n. 377)
Nel settembre scorso, la CCI ha presentato, davanti ad un uditorio di 170 studenti di un'università brasiliana, la propria analisi sulla situazione mondiale e sull’alternativa storica che si pone. I punti centrali della nostra relazione introduttiva1 sono stati: la guerra, la lotta di classe ed il ruolo delle elezioni. Qui di seguito facciamo un breve resoconto del dibattito sviluppatosi nella riunione2.
Prima ancora vogliamo però sottolineare il modo con cui i partecipanti si sono posti rispetto alla nostra presentazione il cui contenuto non era per loro "consueto" poiché denunciava le elezioni come strumenti della borghesia e metteva in evidenza la prospettiva dello sviluppo della lotta di classe internazionale. Malgrado ciò, lungi dal provocare ostilità o scetticismo, le nostre analisi hanno suscitato al contrario un grande interesse e spesso anche un sostegno esplicito.
La natura dei sindacati e della sinistra borghese
La presentazione non sviluppava molto l’aspetto del ruolo e della natura dei sindacati pertanto è stato accolto molto volentieri un intervento che ha messo in evidenza come i sindacati siano delle appendici dei partiti borghesi e costituiscano un trampolino per quelli che vogliono fare parte dell'alta burocrazia dello Stato.
Ci è stato chiesto se riteniamo il governo di Lula di sinistra o di destra. Abbiamo risposto, “di sinistra, senza alcun dubbio”. Il fatto che il governo di Lula si sia comportato come un nemico del proletariato non cambia in niente questa realtà, visto che la sinistra viene eletta per portare avanti lo stesso compito della destra: difendere gli interessi del capitale nazionale, cosa che può essere realizzata solo a scapito del proletariato.
Quale che sia il discorso, più o meno radicale, di Bachelet in Cile, di Kirchner in Argentina, di Chàvez in Venezuela o Morales in Bolivia, il succo è sempre lo stesso. Il più “radicale” tra loro, Chàvez, che non esita a scontrarsi con i settori della borghesia nazionale che hanno governato fino al 1988 e che non si fa scappare nessuna occasione per denunciare pubblicamente l'imperialismo degli Stati Uniti – mentre cerca di rafforzare la propria zona di influenza nei Caraibi - non esita ad organizzare, con lo stesso vigore, lo sfruttamento dei proletari venezuelani.
Se diciamo che la sinistra e la destra difendono tutte e due gli interessi del capitale nazionale contro il proletariato, non vogliamo fare una identità tra queste due forze borghesi. In effetti, in genere, i proletari non si fanno illusioni sulle intenzioni della destra, perché questa difende apertamente gli interessi della borghesia. Purtroppo però il proletariato, nel suo insieme, non giunge alla stessa chiarezza per quanto riguarda il ruolo della sinistra. Ciò significa che la sinistra, ed ancora più l'estrema sinistra, hanno una maggiore capacità di mistificare il proletariato. E’ per questo che le frazioni di sinistra dell'apparato politico della borghesia costituiscono il nemico più pericoloso per il proletariato.
Il ruolo delle elezioni
Alcuni interventi sono ritornati sulle elezioni il cui ruolo era stato sviluppato ampiamente nella presentazione. “È veramente impossibile utilizzarle in favore di una trasformazione sociale?” Su questa questione, la nostra posizione non ha niente di dogmatico, ma riflette una realtà mondiale che esiste dall'inizio del ventesimo secolo. A partire da questo momento, non solo “Il centro di gravità della vita politica lasciava definitivamente il parlamento”, come affermava l'Internazionale Comunista, ma in più il circo elettorale può essere solamente un'arma ideologica tra le mani della borghesia contro il proletariato.
Come si svilupperà la lotta di classe?
“Se le elezioni non sono uno strumento della lotta di classe, come farà il proletariato a lottare?”
Le lotte che il proletariato ha sviluppato dal 1968 non sono state “lotte elettorali”. Sebbene non siano state capaci di tracciare esplicitamente una prospettiva rivoluzionaria, esse sono state tuttavia sufficientemente forti da impedire una guerra mondiale all’epoca della Guerra fredda e -dopo – degli scontri frontali tra le grandi potenze. Il proletariato continua ad essere un freno allo scatenamento della guerra. Il proletariato, ed in generale la popolazione sfruttata, non sono mobilitati dietro le bandiere delle differenti borghesie nazionali. L'impossibilità attuale degli Stati Uniti a reclutare soldati per farne carne da cannone nei conflitti in Iraq ed in Afghanistan, ne è una dimostrazione.
Rifiutando di sottomettersi alla legge del deterioramento costante delle sue condizioni di vita determinate dall'aggravamento della crisi, il proletariato mondiale tende necessariamente ad amplificare le sue lotte. In particolare, da due anni a questa parte le lotte proletarie, che si sviluppano a livello a mondiale, presentano in modo crescente delle caratteristiche che costituiscono gli ingredienti necessari allo sviluppo futuro di un processo rivoluzionario:
- il carattere di massa della lotta, come abbiamo recentemente visto con lo sciopero di due milioni di operai in Bangladesh; - la solidarietà dimostrata dai proletari dell'aeroporto di Heathrow a Londra e dei trasporti a New York nel 2005; - la capacità di far nascere, in seno alla sua lotta, assemblee di massa aperte a tutti gli operai, come nello sciopero dei metallurgici a Vigo in Spagna durante la primavera scorsa; - la capacità della lotta degli studenti in Francia, sempre in primavera, di dotarsi di assemblee generali sovrane, capaci di preservare l'autonomia della lotta rispetto ai sindacati ed ai partiti della borghesia che tentavano di controllarla per indebolirla.
A proposito di quest’ultimo movimento è stata espressa un'insistenza affinché se ne parlasse più estesamente, cosa che abbiamo fatto brevemente sottolineando che questo movimento non ha mobilitato dei salariati, eppure quelli che erano in lotta già facevano parte del proletariato poiché la maggioranza degli studenti è costretta a lavorare per sopravvivere e un numero elevato tra loro andrà ad integrarsi, alla fine degli studi, nei ranghi del proletariato. Gli studenti si sono messi in lotta per la revoca di una legge che, poiché avrebbe aggravato la precarietà, costituiva un attacco contro tutto il proletariato. È sulla base di questa coscienza che la maggioranza del movimento ha ricercato la solidarietà dell'insieme del proletariato e ha tentato di mobilitarlo nella lotta. A varie riprese ci sono state grosse manifestazioni che hanno mobilitato 3 milioni di persone, lo stesso giorno in differenti città della Francia. Nella maggior parte delle università in sciopero, si sono tenute regolarmente assemblee generali sovrane che hanno costituito il polmone della lotta. La solidarietà è stata al centro della mobilitazione mentre, contemporaneamente, un'enorme corrente di simpatia in favore di questa lotta ha attraversato anche la popolazione, ed in particolare il proletariato. Tutto ciò ha obbligato il governo ad indietreggiare davanti alla mobilitazione per evitare che non si estendesse oltre.
Alcuni interventi hanno espresso delle preoccupazioni riguardanti le difficoltà obiettive nello sviluppo della lotta di classe: “Lo smantellamento delle grosse unità produttive non porrà un ostacolo a questo sviluppo?” In generale, assistiamo ad una diminuzione del proletariato industriale come risultato sia delle mutazioni nel processo di produzione (che comporta anche un aumento del numero di proletari nel settore terziario), sia della crisi economica e del decentramento di settori di produzione verso i paesi in cui la mano d'opera è meno cara, come in Cina che ha visto uno sviluppo importante in questi ultimi anni. Questo fenomeno costituisce una certamente difficoltà per il proletariato ma quest'ultimo ha già mostrato che è capace di superarla. In effetti, il proletariato non si limita alla classe operaia industriale. Il proletariato include tutti quelli che, in quanto sfruttati, hanno solamente la loro forza lavoro da vendere come fonte della loro sopravvivenza. Il proletariato esiste dovunque ed il luogo privilegiato per raggrupparsi ed unirsi è la strada, come ha dimostrato di nuovo il movimento degli studenti in Francia contro la precarietà.
Il decentramento di settori di attività verso i paesi come la Cina ha creato una divisione tra i proletariati cinesi, super sfruttati con condizioni di vita terribili, ed il proletariato dei paesi centrali che, a causa della scomparsa di settori importanti di produzione, soffre delle conseguenze di una disoccupazione accentuata. Ma questa non è una situazione eccezionale. Sin dall'inizio della sua esistenza il capitalismo ha messo i proletari in concorrenza gli uni contro gli altri. E, fin dall'inizio, la necessità di resistere collettivamente a questa concorrenza ha costretto gli operai a superarla attraverso la lotta collettiva. In particolare va ricordato che la fondazione della Prima Internazionale ha corrisposto alla necessità di impedire alla borghesia inglese di utilizzare operai francesi, belgi o tedeschi per sabotare gli scioperi degli operai inglesi. Oggi, malgrado le sue lotte importanti, il proletariato cinese non è in grado da solo di rompere il suo isolamento. Ciò mette in evidenza la responsabilità del proletariato dei paesi più potenti per spingere, attraverso le sue lotte, alla solidarietà internazionale.
Lo sviluppo della lotta di classe sarà caratterizzato dalla capacità crescente del proletariato a controllare le proprie lotte ed a farsi carico in prima persona della loro organizzazione. Ecco perché tenderà a diffondersi la pratica delle assemblee generali sovrane, che eleggono dei delegati revocabili da loro stesse. Questa pratica precede l'apparizione dei consigli operai, futuri organi dell'esercizio del potere proletario. Questo tipo di organizzazione è il solo che permette ai proletari di assumere collettivamente un controllo crescente sulla società, sulla loro esistenza e sul futuro.
Un tale obiettivo non può essere raggiunto attraverso forme organizzative che non rompono con il quadro dell'organizzazione della società borghese, come, per esempio, la “democrazia partecipativa” che, secondo i suoi sostenitori, correggerebbe i difetti della democrazia rappresentativa classica.
Un intervento ci ha chiesto di spiegare meglio la nostra posizione su questo argomento. Per noi, la democrazia partecipativa non è niente di più che uno strumento attraverso il quale gli stessi sfruttati e gli esclusi sono chiamati ad auto-gestire la propria miseria, e che mira ad ingannarli sui poteri che così sarebbero realmente loro conferiti in seno alla società. In fin dei conti, la democrazia partecipativa non è niente di più di una pura mistificazione.
La prospettiva rivoluzionaria
È necessario basare le prospettive dello sviluppo della lotta di classe sull'esperienza storica del proletariato. A questo proposito ci sono state poste le seguenti questioni: “Perché la Comune di Parigi e la Rivoluzione russa sono state sconfitte? E perché la Rivoluzione russa è degenerata?”
La Comune di Parigi non era ancora una “vera rivoluzione”, era un'insurrezione vittoriosa del proletariato limitata ad una città. I suoi limiti sono stati essenzialmente il risultato dell'immaturità delle condizioni oggettive. A quell'epoca, da un lato, il proletariato non era ancora sufficientemente sviluppato da potersi scontrare, nei principali paesi industrializzati, con il capitalismo per rovesciarlo. Dall’altro, il capitalismo era ancora un sistema progressivo, capace di sviluppare le forze produttive senza che le sue contraddizioni si manifestassero in un modo cronico e ancora più brutale. Questa situazione è cambiata all’inizio del ventesimo secolo con l’apparizione in Russia nel 1905 dei primi consigli operai, organi di potere della classe rivoluzionaria. Poco dopo, lo scoppio della Prima Guerra mondiale avrebbe costituito la prima manifestazione brutale dell'entrata del sistema nella sua fase di decadenza, nella sua “fase di guerra e di rivoluzioni”, come la caratterizzava l’Internazionale Comunista. In reazione allo scoppio della barbarie ad un livello sconosciuto fino ad allora, un’ondata rivoluzionaria si sviluppò a livello mondiale nella quale i consigli operai fecero di nuovo la loro apparizione. Il proletariato riuscì a prendere il potere politico in Russia, ma un tentativo rivoluzionario in Germania nel 1919 fu sconfitto grazie alla capacità della socialdemocrazia di ingannare i proletari. Questo insuccesso indebolì considerevolmente la dinamica rivoluzionaria mondiale che, nel 1923, era già quasi spenta. Isolato, il potere del proletariato in Russia non poteva che degenerare. La controrivoluzione si manifestò attraverso l’affermazione dello stalinismo e la formazione di una nuova classe borghese personificata con la burocrazia statale. Ma, contrariamente alla Comune di Parigi che non si era potuta estendere a causa dell’immaturità delle condizioni materiali, l’ondata rivoluzionaria mondiale fu sconfitta a causa della insufficiente coscienza, in seno alla classe operaia, della posta in gioco storica e della natura di classe della socialdemocrazia che aveva tradito definitivamente l’internazionalismo proletario ed il proletariato al momento della Guerra Mondiale. Le illusioni persistenti nei ranghi proletari nei confronti di questo nemico di classe non gli hanno permesso di smascherare le sue manovre che miravano a sconfiggere la rivoluzione.
A meno di un anno dall’altra nostra riunione pubblica, all’università di Vitòria da Conquista, davanti a più di 250 studenti, sul tema “La Sinistra comunista e la continuità del marxismo”, questa riunione ci ha permesso di verificare con molta soddisfazione che, insieme ad un rigetto crescente della miseria materiale, morale ed intellettuale di questo mondo in decomposizione, esiste un interesse crescente da parte delle nuove generazioni per il divenire della lotta di classe. Invitiamo tutti quelli che erano presenti a questa riunione o che hanno l’opportunità di leggere questo articolo a continuare il dibattito cominciato ed intervenire per iscritto sulle questioni che sono state presentate.
CCI, 12 ottobre 2006
1. Questa presentazione dal titolo, “La situazione mondiale e le elezioni”, è disponibile sulle pagine in portoghese del nostro sito internet.
2. Il resoconto completo si trova sul nostro sito sulle stesse pagine della presentazione in portoghese.
Nello scorso mese di gennaio la nostra organizzazione ha tenuto in Italia delle riunioni pubbliche sulle lotte operaie di Oaxaca, intitolate significativamente: “Rivolte a Oaxaca: esiste una situazione rivoluzionaria in Messico?”
Come abbiamo precisato nella nostra lettera di invito a compagni e lettori, il quesito si poneva con tanta più forza nella misura in cui intorno alla questione Oaxaca è fiorita una vasta propaganda di ambienti di una certa sinistra, particolarmente trotskista, che ha teso a presentare la situazione messicana come una situazione pre-insurrezionale. Noi invece riteniamo che, nonostante il carattere inizialmente spontaneo della lotta dei lavoratori messicani e una certa solidarietà che questa ha ricevuto in una prima fase, non sia questa la caratterizzazione che le si può attribuire per il semplice fatto che le rivendicazioni degli insegnanti e degli altri lavoratori della zona sono state strumentalizzate e svendute dalla cosiddetta APPO (Assemblea Popolare del Popolo di Oaxaca), organizzazione che ha utilizzato la lotta di questi lavoratori per esigere la destituzione di Ulises Ruiz e appoggiare la frazione politica che aspira a prendere il suo posto (1).
A partire da questo primo elemento una compagna, presente alla nostra riunione di Napoli, ha posto la questione se lo stesso si potesse dire per il movimento zapatista del Chiapas. Al che abbiamo risposto che in questo caso non si trattava neanche più di una lotta proletaria e che la controprova stava nel fatto che, nonostante la vicinanza geografica tra i due stati messicani di Oaxaca e del Chiapas, il cosiddetto movimento guerrigliero zapatista non aveva mosso un dito in solidarietà dei lavoratori di Oaxaca.
Al che la compagna ha ribattuto che non si poteva fare il confronto tra Oaxaca e il Chiapas, che non era possibile attendersi chissà che dal movimento zapatista visto che si trattava di un movimento di indigeni e di contadini.
A partire da questa affermazione il dibattito – di cui questo articolo vuole essere una testimonianza e un contributo - si è quindi sviluppato su quale sia il soggetto sociale capace di dare risposta ai problemi del momento, ovvero di operare i cambiamenti sociali e strutturali di cui tutti indistintamente avvertono la necessità. E naturalmente quale sia oggi la posta in gioco.
In realtà, in un mondo che vive la contraddizione storica più ridicola e assurda di tutti i tempi - ovvero una povertà assoluta di una fetta consistente dell’umanità (circa un quarto della popolazione mondiale che vive al di sotto dei livelli di povertà, con meno di 1 dollaro al giorno per vivere) a fronte di una sovrapproduzione di merci in tutti i campi che costringe i capitalisti a chiudere le fabbriche in tutto il mondo e a portare alla fame sempre più gente, riducendo ulteriormente la possibilità di vendere le merci che quegli operai hanno prodotto - è evidente che c’è da fare un’unica cosa: liberarsi di questo meccanismo perverso che vuole che un bene, per essere goduto, deve essere acquistato e per essere distribuito deve essere venduto.
Di fronte a questa contraddizione, che è al cuore delle contraddizioni del sistema capitalista, solo una classe come il proletariato, che è essa stessa nel cuore della società capitalista perché ne costituisce il motore economico e produttivo pur essendo la classe sfruttata di questa epoca, può diventare l’elemento di impulso di un cambiamento radicale.
Questa aspirazione ad essere la classe generatrice di una nuova società senza classi, il proletariato la deriva non da fantasticherie di qualche ciarlatano ma dal fatto di essere, oltre alla borghesia, l’unica altra classe storica del momento, la classe che ha, attraverso la sua lotta contro la borghesia e i suoi tentativi insurrezionali, particolarmente attraverso l’ondata rivoluzionaria degli anni ’20, dimostrato materialmente di essere la classe rivoluzionaria della nostra epoca storica. E il fatto di non essere essa stessa una classe sfruttatrice, di non avere alcun interesse specifico di classe da preservare all’interno di questa società, fa sì che il proletariato sia l’ultima classe rivoluzionaria della storia, la classe capace di instaurare una società comunista, una società senza classi.
Certamente, oltre al proletariato, esistono altri strati sociali che soffrono e che vanno in miseria, esistono tante altre contraddizioni e sofferenze. Come abbiamo già affermato nella discussione sviluppata nella nostra riunione pubblica e parafrasando Marx, possiamo dire che non c’è problema che non riguardi la classe operaia, che il proletariato è sensibile alle sofferenze di tutta l’umanità. Il problema però non è riconoscere o negare l’esistenza di queste contraddizioni, quanto comprendere da quale punto di vista collocarsi per rispondere a queste contraddizioni. Tornando alla questione del Chiapas e della lotta degli indios del Messico, qualunque persona dotata di un minimo di onestà è pronto a riconoscere che le popolazioni indigene precolombiane sono state massacrate e sfruttate in seguito alla conquista coloniale fatta dai paesi europei e che tuttora tali popolazioni sono sottoposte ad una discriminazione e a uno sfruttamento indicibili. Ma la risposta che dà lo zapatismo è una risposta che non porta da nessuna parte perché lo zapatismo, come ha ricordato la stessa compagna intervenuta nella discussione a Napoli, è un movimento che fa appello al popolo e non a una classe, il che significa che fa appello a dei sentimenti di nazione piuttosto che a degli interessi di classe per promuovere la lotta. Questa differenza è cruciale per capire come caratterizzare una lotta. Infatti quella degli zapatisti, ammesso che si voglia riconoscere tutta la buona fede ai suoi promotori, è una lotta che presenta le seguenti caratteristiche:
- nasce e rimane ancorata al quadro nazionale, il che spiega giustamente il fatto che non c’è stato alcun sostegno materiale da parte degli zapatisti verso il movimento di Oaxaca perché mancano i presupposti materiali per proiettarsi al di fuori del loro contesto, per esprimere un’azione solidale con altre lotte;
- si pone su un terreno di diritti di minoranze etniche che non pone in discussione il sistema di sfruttamento e di oppressione del capitalismo nei confronti dell’intera umanità;
- anche il riconoscimento di una autonomia politica fino alla costituzione di un nuovo stato, come nel caso del popolo palestinese, non fa che garantire ad una nuova borghesia dei privilegi che prima erano di un’altra borghesia (la creazione di uno stato in Palestina ad esempio garantirebbe alla borghesia palestinese un pezzo di potere ceduto dalla borghesia israeliana) senza nulla cambiare nelle condizioni materiali di sfruttamento dei proletari che passano da uno sfruttatore (israeliano) a un altro (palestinese);
- peraltro la costituzione di questo nuovo Stato non servirebbe neanche più, come una volta, a garantire un più veloce sviluppo delle forze produttive nella misura in cui il declino storico del sistema capitalista non permette più, e da tempo, che questo avvenga (2).
A questo punto ci si è posti il problema di come si può riconoscere una lotta proletaria, una lotta che vada nel senso della difesa degli interessi della classe. A tale proposito si è preso ad esempio la “battaglia contro la privatizzazione dell’acqua”, su cui si è sviluppato tutto un movimento di raccolta di firme e di sensibilizzazione, portato avanti da associazioni varie, preti e partiti di sinistra. Ancora una volta – e di proposito – non vogliamo mettere in discussione la buona o cattiva fede dei vari leader di questi movimenti, ma cercare di mostrare come il problema in sé, con i migliori e più onesti leader che si vogliano scegliere, non potrà che portare a una sconfitta se condotto dal punto di vista di un “movimento popolare” piuttosto che dal punto di vista della classe operaia.
Che significa limitarsi a vedere il problema dal punto di vista di un “movimento popolare”? Significa che, al di là del riconoscimento di questo o quell’abuso, si accetta di partire dai valori che l’attuale sistema sociale ci trasmette: ad esempio è proprio il modo di pensare corrente - che è quello della società borghese - che ci suggerisce che una azienda pubblica, proprio perché tale, dovrebbe fare di più gli interessi della popolazione mentre invece il privato per definizione dovrebbe essere l’incarnazione del profitto. Ma questi stereotipi sono completamente sbagliati. L’economia dei paesi dell’Europa dell’est per decenni è stata amministrata da regimi “comunisti” a parole, ma in realtà a capitalismo di Stato, dove in apparenza la proprietà era collettiva ma dove di fatto vigeva una situazione di schiavitù salariale completa e dove la qualità della vita era pessima. Ugualmente, se guardiamo le aziende “pubbliche” nostrane, anche qui possiamo scoprire come spesso, proprio per il fatto di avere la copertura dello Stato, i dirigenti di queste aziende profittano, a livello economico e di gestione della stessa azienda, molto più di quanto potrebbe fare un dirigente della stessa azienda privatizzata. Per esempio è noto che, mentre le aziende private sono, almeno nominalmente, sottoposte ai vari controlli, quelle pubbliche spesso usufruiscono di un occhio di riguardo da parte degli stessi organi di controllo nella misura in cui si tratta di… strutture pubbliche. Ma da dove viene e su che cosa poggia questa idea che “pubblico” è meglio che “privato”? In realtà una base materiale questa idea ce l’ha, e corrisponde al fatto che, soprattutto nel secondo dopoguerra, per fare ripartire l’economia dei vari paesi e dell’Italia tra questi, lo Stato è dovuto intervenire pesantemente per garantire questo rilancio e assumendo spesso in prima persona la gestione di settori produttivi e di servizi. All’interno di questa logica il capitale statale, proprio in quanto tale, ha potuto in più occasioni garantire condizioni di favore e tariffe particolarmente basse all’utenza pur di garantire dei servizi utili all’economia complessiva. Ad esempio per tutto un periodo l’iscrizione a scuola, l’assistenza sanitaria, i mezzi pubblici sono costati alla popolazione molto poco perché era necessario garantire un minimo di istruzione alla classe lavoratrice, un suo stato di salute decente per poterla sfruttare e una sua capacità di raggiungere i luoghi di lavoro senza problemi. E’ naturale che al confronto delle tariffe statali e comunali, quelle di qualche azienda privata risultava subito abnorme. Ma ormai con la crisi attuale anche questo è finito, e ce ne accorgiamo dai ticket ospedalieri, dalle tasse universitarie, dai biglietti del metrò, che sono tutti ormai prezzi di mercato. Più in generale possiamo dire che non esiste nessuna differenza di qualità tra pubblico e privato, che esiste anzi spesso una forte connivenza tra le due gestioni che è spesso funzionale a illudere “il popolo” e particolarmente la classe operaia della bontà di una certa soluzione adottata.
Qual è invece il punto di vista proletario sull’acqua? Quello di rivendicare un’erogazione sufficiente di acqua per tutti, e che sia pulita, pagandola il meno possibile. Questo è quanto importa ai lavoratori, indipendentemente che l’azienda sia pubblica o privata. Viceversa la “battaglia contro la privatizzazione dell’acqua” comporta tutta una serie di elementi che vanno contro gli interessi proletari che sono i seguenti: a) anzitutto si alimenta l’illusione sul fatto che possiamo essere noi a decidere sulla gestione di questa società; b) ci si pone una falsa alternativa: essere sfruttati da un ente pubblico o da un ente privato; c) inoltre una lotta condotta su questo piano ci porta a mescolare i proletari con tutti gli altri strati sociali “del popolo” i cui interessi materiali non sono omogenei ai nostri (ad esempio un albergatore o un proprietario di azienda agricola, se sono interessati anch’essi ad avere acqua a buon prezzo e pulita, possono risolvere il loro problema anche in maniera alternativa, poniamo attraverso la concessione a scavare un pozzo per emungere acqua di falda).
In conclusione, se è vero che esistono tantissime contraddizioni e sofferenze nella società in cui viviamo, la soluzione all’insieme di queste contraddizioni non potrà venire da una serie di lotte parcellari e specifiche e/o da una iniziativa popolare, ma dalla risposta dell’unica classe che ha in mano le sorti dell’umanità, la classe operaia. E’ per questo che è della più grande importanza saper riconoscere e distinguere le lotte che si pongono da un punto di vista genuinamente di classe da quelle che viceversa, nonostante la buona fede di chi le promuove, si pongono sul piano dell’interclassismo e partono dall’accettazione dello status quo.
Ezechiele, 25 febbraio 2007
1. Sul tema si possono leggere gli articoli pubblicati sul nostro sito web it.internationalism.org [10].
2. Vedi il nostro opuscolo sulla Decadenza del capitalismo e i nostri articoli “Nazione o classe: i comunisti e la questione nazionale” su Rivoluzione Internazionale n: 7 e 8.
Dopo 90 anni, lo scoppio della Rivoluzione russa del 1917 resta il movimento più gigantesco, più cosciente, più ricco di esperienze, di iniziative e di creatività delle masse sfruttate che la storia abbia mai conosciuto. Milioni di proletari riuscirono a rompere la loro atomizzazione, ad unificarsi consapevolmente, a darsi i mezzi per agire collettivamente, come una sola forza imponendo gli strumenti del capovolgimento dello Stato borghese per la presa del potere: i consigli operai (soviet). Al di là del rovesciamento del secolare regime zarista, questo movimento di massa cosciente, annunciava niente di meno che l'inizio della rivoluzione proletaria mondiale nel contesto internazionale di un’ondata di rivolte della classe operaia contro la guerra ed il sistema capitalista.
Gli storici borghesi continuano a sostenere una delle più ribattute leggende che consiste nel presentare la Rivoluzione del febbraio 1917 come un movimento per la “democrazia”, violata dal colpo di Stato bolscevico. Febbraio 1917 sarebbe un’autentica “festa democratica”, Ottobre 1917 un volgare “colpo di Stato”, una manipolazione delle masse arretrate della Russia zarista da parte del partito bolscevico. Questa spudorata falsificazione è il prodotto della paura e della rabbia provata dalla borghesia mondiale davanti ad un’opera collettiva e solidale, un’azione cosciente della classe sfruttata, che ha osato rialzare la testa e mettere in questione l’ordine delle cose esistente.
Nel Febbraio 1917 il sollevamento degli operai di San Pietroburgo (Pietrogrado) in Russia, non sopraggiunge come un fulmine a ciel sereno, ma in continuità degli scioperi economici duramente repressi, lanciati dagli operai russi dal 1915 in reazione alla ferocia della carneficina mondiale, contro la fame, la miseria nera, lo sfruttamento ad oltranza ed il terrore permanente dello stato di guerra. Questi scioperi e queste rivolte non sono in nessuno modo una specificità del proletariato russo, ma una parte integrante delle lotte e manifestazioni del proletariato internazionale dell’epoca. Una stessa ondata di agitazione operaia si sviluppa in Germania, in Austria, in Grande Bretagna... Al fronte, soprattutto negli eserciti russo e tedesco, si verificano degli ammutinamenti, delle diserzioni collettive, fraternizzazioni tra i soldati dei campi opposti. In realtà, dopo essersi lasciato trascinare dai veleni patriottici e gli inganni “democratici” dei governi, avallati dal tradimento della maggioranza dei partiti socialdemocratici e dei sindacati, il proletariato internazionale rialzava la testa e cominciava ad uscire dalle nebbie dell’ebbrezza sciovinista. Alla testa del movimento si trovavano gli internazionalisti - i bolscevichi, gli spartachisti, tutta la sinistra della 2a Internazionale - che, sin dall’agosto del 1914, avevano denunciato con forza la guerra come una rapina imperialista, come una manifestazione del fallimento del capitalismo mondiale, come il segnale affinché il proletariato compisse la sua missione storica: la rivoluzione socialista internazionale. Questa sfida storica fu fatta propria, a livello internazionale, dalla classe operaia a partire dal 1917 fino al 1923. All’avanguardia di questo movimento proletario che fermerà la guerra e che aprirà la possibilità della rivoluzione mondiale, si trovò il proletariato russo in questo mese di febbraio del 1917. Lo scoppio della Rivoluzione Russa non fu dunque un affare nazionale o un fenomeno isolato - e cioè una rivoluzione borghese ritardata, limitata al rovesciamento dell'assolutismo feudale - ma costituì il più alto momento della risposta del proletariato mondiale alla guerra e più profondamente all’entrata del sistema capitalista nella sua fase di decadenza.
Del 22 al 27 febbraio, gli operai di San Pietroburgo scatenano un'insurrezione in risposta al problema storico rappresentato dalla guerra mondiale, espressione della decadenza del capitalismo. A partire dagli operai tessili - superando le esitazioni delle organizzazioni rivoluzionarie - lo sciopero guadagna in 3 giorni la quasi totalità delle fabbriche della capitale. Il 25, sono più di 240.000 gli operai che hanno smesso di lavorare e che, lungi dal restare passivi nelle loro fabbriche, moltiplicano le riunioni e le manifestazioni di strada, dove le parole d'ordine delle prime ore per richiedere "pane" si trovano presto rafforzato da quelle di "abbasso la guerra", "abbasso l'autocrazia".
La sera del 27 febbraio, l'insurrezione, condotta dal proletariato in armi, regna padrona sulla capitale, mentre scioperi e manifestazioni operaie hanno inizio a Mosca, estendendosi i giorni seguenti alle altre città di provincia, Samara, Saratov, Kharkov... Isolato, incapace di utilizzare contro il movimento rivoluzionario un esercito profondamente provato dalla guerra, il regime zarista è costretto ad abdicare.
Rotte le prime catene, gli operai non vogliono più arretrare e, per non avanzare alla cieca, riprendono l'esperienza del 1905 creando i soviet che erano apparsi spontaneamente durante questo grande sciopero di massa. Questi consigli operai erano l'emanazione diretta delle migliaia di assemblee di lavoratori nelle fabbriche e nei quartieri, e rispettavano la sovranità delle assemblee e la centralizzazione con delegati eleggibili e revocabili in qualsiasi momento. Questo processo sociale oggi sembra utopico a molti operai, ma è quello della trasformazione dei lavoratori da una massa sottomessa e divisa, in una classe unita che agisce come un solo uomo e diventa capace di lanciarsi nella lotta rivoluzionaria. Trotsky aveva fin dal 1905 mostrato cosa era un consiglio: "Che cos'è il soviet? Il consiglio dei deputati operai fu formato per rispondere ad un bisogno pratico suscitato dalla congiuntura di allora: bisognava avere un'organizzazione che godesse di un'autorità indiscutibile, libera da ogni tradizione che potesse raggruppare immediatamente le moltitudini disseminate e prive di collegamento; quest' organizzazione doveva essere capace di iniziativa e controllare sé stessa automaticamente..." (Trotsky, 1905) Questa "forma infine ritrovata della dittatura del proletariato", come diceva Lenin, rendeva antiquata l'organizzazione permanente in sindacati. Nel periodo in cui la rivoluzione è storicamente all'ordine del giorno, le lotte esplodono spontaneamente e tendono a diffondersi a tutti i settori della produzione. Così il carattere spontaneo dell'apparizione dei consigli operai deriva direttamente dal carattere esplosivo e non programmato della lotta rivoluzionaria.
I consigli operai durante la rivoluzione russa non furono il semplice prodotto passivo di condizioni obiettive eccezionali, ma anche il risultato di una presa di coscienza collettiva. Il movimento dei consigli ha portato lui stesso i materiali per l'auto-educazione delle masse. I consigli operai mischiarono in modo permanente gli aspetti economici e politici della lotta contro l'ordine stabilito. Come scrive Trotsky: "Là è la sua forza. Ogni settimana portava alle masse qualche cosa di nuovo. Due mesi facevano un'epoca. A fine febbraio, insurrezione. A fine aprile, manifestazione degli operai e dei soldati armati a Pietrogrado. All'inizio di luglio, nuova manifestazione con molto più ampiezza e parole d'ordine più risolute. A fine agosto, il tentativo di colpo di stato di Kornilov, respinto dalle masse. A fine ottobre, conquista del potere da parte dei bolscevichi. Sotto questo ritmo di avvenimenti di una regolarità sorprendente si compivano profondi processi molecolari che saldavano in un tutto politico gli elementi eterogenei della classe operaia". “(...) Si tenevano riunioni nelle trincee, sulle piazze dei villaggi, nelle fabbriche... Per mesi, a Pietrogrado ed in tutta la Russia, ogni angolo di strada fu una tribuna pubblica..." (Trotsky, Storia della Rivoluzione Russa).
Se il proletariato russo si diede i mezzi della sua lotta imponendo i consigli operai, è anche vero che fin da febbraio incontrò una situazione estremamente pericolosa. Infatti, le forze della borghesia internazionale tentarono molto presto di ribaltare la situazione a loro vantaggio. Non avendo la forza di schiacciare nel sangue il movimento, tentarono di orientarlo verso obiettivi borghesi "democratici". Da una parte formarono un governo provvisorio, ufficiale il cui scopo era di proseguire la guerra. Dall'altra parte, subito, i soviet furono invasi dai menscevichi e dai socialisti rivoluzionari. Questi ultimi, la cui maggioranza era passata nel campo borghese al momento della guerra, godevano all'inizio della rivoluzione di febbraio di un'immensa fiducia tra gli operai. Furono naturalmente portati all'esecutivo del Soviet. Da questa posizione strategica, provarono con tutti i mezzi di sabotare i soviet, di distruggerli. Da una situazione di "doppio potere" in febbraio, si arrivò ad una situazione di "doppia impotenza" in maggio e giugno 1917 nella misura in cui l'esecutivo dei soviet serviva da maschera alla borghesia per realizzare i suoi obiettivi, in primo luogo ristabilire ordine nel retroterra ed al fronte per poter proseguire la carneficina imperialista. Questi demagoghi menscevichi o socialdemocratici facevano ancora e sempre promesse sulla pace,"la soluzione del problema agrario", l'applicazione della giornata di 8 ore, eccetera, senza metterle mai in atto. Anche se gli operai, almeno quelli di Pietrogrado, erano convinti che solo il potere dei soviet era in grado di rispondere alle loro aspirazioni e se vedevano bene che le loro rivendicazioni ed esigenze non erano prese in considerazione, altrove, nelle province e tra i soldati, si credeva ancora ai "conciliatori", ai sostenitori della pretesa rivoluzione borghese. Spetterà a Lenin, con le sue Tesi di aprile, due mesi dopo scatenamento del movimento, svelare la sua audace piattaforma per riarmare il partito bolscevico, che tendeva a conciliarsi con il governo provvisorio. Le sue Tesi chiarivano chiaramente in anticipo dove andava il proletariato e formularono le prospettive del partito: “Nessuna concessione, fosse anche minima, potrebbe essere tollerata nel nostro atteggiamento verso la guerra”.
“Nessuno sostegno al governo provvisorio, dimostrare il carattere interamente menzognero di tutte le sue promesse... Smascherarlo al posto di 'esigere' - ciò che è inammissibile perché significherebbe seminare delle illusioni - che questo governo, governo di capitalisti, smetti di essere imperialista”.
"Non una repubblica parlamentare - ritornarvi dopo i Soviet dei deputati operai sarebbe un passo indietro - ma una repubblica dei Soviet di deputati operai, salariati agricoli e contadini in tutto il paese, dalla base alla cima". Armato di questa solida bussola, il partito bolscevico poté fare delle proposte di marcia che corrispondevano ai bisogni ed alle possibilità di ciascuno dei momenti del processo rivoluzionario puntando sulla prospettiva della presa del potere, e ciò, attraverso un "lavoro di spiegazione paziente ed ostinata" (Lenin). Ed in questa lotta delle masse per prendere il controllo delle loro organizzazioni contro il sabotaggio borghese, dopo parecchie crisi politiche, in aprile, in giugno e soprattutto a luglio, diventò possibile rinnovare i Soviet, all'interno dei quali i bolscevichi divennero maggioritari. L'attività decisiva dei bolscevichi ha dunque avuto per asse centrale lo sviluppo della coscienza di classe, avendo fiducia nella capacità di critica e di analisi delle masse e nella loro capacità di unità e di auto-organizzazione. I bolscevichi non hanno mai preteso sottomettere le masse ad "un piano di azione" precostituito, arruolando le masse come si arruola un esercito. "La principale forza di Lenin consisteva nel fatto che lui comprendeva la logica interna del movimento e regolava su questa la sua politica. Non imponeva il suo piano alle masse. Aiutava le masse a concepire ed a realizzare i propri piani". (Trotsky, Storia del Rivoluzione Russa, capitolo "Il riarmo del partito"). E' così che fin da settembre, i bolscevichi posero con chiarezza chiaramente la questione dell'insurrezione nelle assemblee di operai e di soldati. "L'insurrezione fu decisa, per così dire, ad una data fissata: il 25 ottobre. Non fu fissata da una riunione segreta, ma apertamente e pubblicamente, e la rivoluzione trionfante ebbe luogo precisamente il 25 ottobre...." (ibid) Essa provocò un entusiasmo senza pari tra gli operai del mondo intero, diventando il "faro" che avrebbe illuminato l'avvenire di tutto gli sfruttati. Ancora oggi, la distruzione del potere politico ed economico delle classi dominanti è una necessità di sopravvivenza imperiosa. La dittatura del proletariato, organizzato in Consigli sovrani, resta l'unica via realista per gettare veramente le basi di una nuova società comunista. I proletari devono riappropriarsene alla luce dell'esperienza del 1917.
SB (da Révolution Internationale n. 376)
Giorni sempre più neri aspettano i lavoratori. Il governo di sinistra continua a lavorare per rendere le nostre condizioni ancora più precarie. Oltre ai tagli già previsti, è degli ultimi giorni la notizia che le province, le regioni ed anche i comuni potranno applicare nuove tasse per far fronte alle esigenze di gestione locale. Che significherà per i lavoratori? Ancora più soldi da togliere ad un salario che già non basta ad assicurare lo stretto necessario, tanto più quando con questo salario bisogna far vivere anche i “giovani” figli trentenni e quarantenni che non riescono a trovare uno straccio di lavoro decente. Cosa si può fare? Espatriare alla ricerca di un lavoro come facevano i nostri nonni e bisnonni? Neanche questo è più possibile perché anche in Francia, in Germania, in Inghilterra e nella stessa America milioni di proletari si trovano nelle nostre identiche condizioni, davanti alla stessa mancanza di prospettiva. La crisi economica non è un problema solo italiano, ma di tutto il capitalismo mondiale, come mostra il seguente articolo.
“Ieri Wall Street ha sofferto la sua più grande caduta dopo gli strascichi immediatamente successivi agli attacchi terroristici dell’11 settembre, con una giornata di pesanti cadute del mercato azionario mondiale culminata in una conseguente svendita a ribasso dei titoli a New York.
Le quotazioni del Down Jones relative all’industria hanno chiuso con più di 400 punti di ribasso nella paura che Stati Uniti e China – le locomotive gemelle dell’economia globale – fossero prossime ad una recessione e che la Casa Bianca si stesse preparando ad un attacco aereo contro il potenziale nucleare iracheno”. (Guardian, 28/2/07)
Le cadute del mercato azionario vanno e vengono e gli esperti economici hanno una visione molto limitata. Il giorno del crollo (27/2/07), un guru americano dell’economia avvertiva che “questa potrebbe essere la quiete prima della tempesta”. Altrove Andre Bakhos, presidente del Princeton Financial Group, ha detto “passato il pomeriggio, sembrava che ci fosse un senso di panico tra alcuni investitori di mestiere… Un’aria di insicurezza, come se non ci fosse un posto dove andare e come se le persone stessero girando in tondo come nel solo luogo sicuro”.
Due giorni dopo, “Dominic Rossi, capo degli azionisti mondiali alla Threadneedle Investment Services, ha valutato l’indifferenza della città dopo la più grande scossa dei mercati mondiali dal 9/11: ‘non è successo niente nelle ultime 48 ore che influenzasse la nostra visione del mondo e la buona prospettiva per i mercati azionari’” (Guardian, 1/3/7).
La scossa del 27/2 potrebbe non rappresentare una imminente recessione globale, ma ci dà un’idea di quello che realmente si prepara a livello di economia mondiale.
Per anni ci hanno detto che l’economia americana era solida, forte, che era una locomotiva per il mondo. Quello che non ci hanno detto è che questa “ripresa”, dopo la recessione degli anni ottanta, si è basata su una montagna sempre più grande di debiti. In altre parole, l’economia USA (e quella mondiale) è attualmente in bancarotta, sprofondata in una profonda crisi di sovrapproduzione, anche se riesce ad ogni modo a tirare avanti con la creazione di un grande mercato artificiale, con l’aiuto di una economia-casinò dove le persone sono impiegate in una serie di lavori artificiali. In Gran Bretagna, per esempio, il più grande contributo al prodotto nazionale lordo viene da… i proprietari terrieri, una categoria economica che non produce assolutamente nulla.
Per anni ci hanno anche detto che il sorprendente boom della Cina rappresentava la via da seguire. Quattro anni consecutivi di crescita al 10% e oltre, un incremento del 67% del suo surplus commerciale. Sicuramente questo prova che il su citato Dominic Rossi fa bene ad essere ottimista sulle prospettive future del mercato mondiale. Se può farlo la Cina, perché non potrebbe farlo anche il resto del mondo?
E’ semplice: la Cina può farlo proprio perché i paesi già sviluppati non possono. L’industrializzazione della Cina è basata sulla deindustrializzazione dell’America, della Gran Bretagna e della maggior parte dell’Europa. Vasti profitti possono essere fatti in Cina perché la classe operaia cinese sta pagando per questo “miracolo economico” con delle condizioni di sfruttamento mostruose – basse retribuzioni, lunghe giornate di lavoro, protezione minima da infortuni sul lavoro e dall’inquinamento. Livelli di sfruttamento che i lavoratori nei paesi capitalisti centrali non accetterebbero, troppo alti rispetto al desiderio della borghesia.
La Cina così fa volentieri da spugna per tutti quei capitali che non avrebbero più un investimento produttivo nella maggior parte dei vecchi paesi capitalisti. Ma, contrariamente a quanto si dice sulla creazione di un “nuova classe media” e di una dilagante “cultura consumista”, la maggior parte della popolazione cinese rimane disperatamente povera e la maggior parte della produzione industriale cinese è diretta all’esportazione. Il mondo è invaso da prodotti cinesi a basso prezzo e i limiti alla sua capacità di assorbirli non sono difficili da percepire. Se il “boom dei consumi” in paesi come la Gran Bretagna è basato su trilioni di sterline di debito pubblico, cosa succederebbe se i debiti (o gli interessi sui debiti) fossero ritirati e le persone e le società non potessero più spendere?
Questo è il motivo per cui il “surriscaldamento” dell’economia cinese desta timori. I recenti ribassi nelle quotazioni sono stati generati da cause banali – l’annuncio che il governo stava per usare la mano pesante sullo scambio illegale nelle quotazioni nella sua economia. Ma il vero incubo che spaventa la borghesia è che l’economia cinese, “surriscaldando” la macchina che vomita questa serie infinita di merci, sta andando verso una crisi aperta di sovrapproduzione che avrebbe conseguenze devastanti sullo stato dell’economia mondiale.
In breve, la “prosperità” dell’economia mondiale è costruita sulla sabbia e la sabbia comincia a cedere. Il capitalismo mondiale, che è stato in declino per un centinaio di anni, ha trovato numerose misure per manipolare le sue stesse leggi economiche e frenare il crollo nel baratro, ma sempre col rischio di generare nuove e sempre più pericolose convulsioni.
Un altro aspetto molto significativo della recente caduta dei prezzi dei listini è stato che ha dato luogo a una nuova serie di speculazioni su un possibile attacco americano all’Iran. La crisi dell’economia capitalistica ha sempre spinto il sistema verso la folle “soluzione” della guerra. Senza dubbio le oscillazioni del mercato azionario sono incrementate da quando l’amministrazione Bush ha tagliato corto con le sue minacce di guerra annunciando di voler aprire il dialogo con Iran e Siria per cercare di stabilizzare la situazione in Iraq. Ma gli espedienti diplomatici non contraddicono la deriva fondamentale del capitale verso la guerra e l’autodistruzione.
Se aggiungiamo che la crescita gonfiata e malata del capitalismo sta rappresentando senza dubbio una minaccia profonda per l’ambiente del pianeta, è evidente che la prospettiva che questo sistema ci serba è una catastrofe senza precedenti – economica, militare ed ecologica.
La borghesia, contrariamente alle sue ottimistiche aspettative, è ben consapevole che le cose possono solo peggiorare. Ragione per cui il ministro del tesoro inglese Gordon Brown ha appena annunciato che un milione di lavoratori del settore pubblico in Gran Bretagna avranno gli stipendi ribassati del 2%. L’economia-casinò ha “nascosto” l’inflazione degli ultimi anni con il boom immobiliare, ma le pressioni inflazionistiche continuano a svilupparsi nell’economia e i lavoratori, come al solito, sono chiamati a pagarne le spese.
Negli anni ’70, l’inflazione è stato il prezzo da pagare per evitare la recessione. Negli anni ’80, è stato giudicato che la recessione fosse la migliore delle alternative. Ma oggi siamo di fronte ad entrambe le minacce contemporaneamente. Questo ci spiega perché, ad esempio, il grande “modello” della modernizzazione e della crescita, l’Airbus, ha annunciato migliaia di licenziamenti in Francia, Germania e Gran Bretagna. Questo annuncio è stato salutato dallo sciopero spontaneo di migliaia di lavoratori tra Francia e Germania.
Di fronte all’aumento dei prezzi, ai tagli degli stipendi, alla perdita del posto di lavoro, di fronte alla prospettiva di un cataclisma futuro se si lascia perdurare la società capitalista, l’unica strada percorribile per la classe operaia mondiale è quella della lotta.
3 marzo 2007
(da World Revolution n. 302, Marzo 2007)
Il rapimento di Mastrogiacomo e gli eventi ad esso legati sono stati messi al centro dell’attenzione da parte dei media per circa due mesi. Adesso, le notizie sulle sorti del mediatore di Emergency, Rahmatullah, e lo stesso ritiro di Emergency dall’Afghanistan sono ridotte a piccole note redazionali.
Evidentemente fino a che si poteva far leva sull’istintivo senso di condanna della gente per il rapimento del giornalista italiano e per le atroci esecuzioni degli altri ostaggi, faceva comodo propagandare e contrapporre “alla barbarie dei talebani”, “l’umanità” dello Stato italiano e soprattutto del suo governo di sinistra che, pur di salvare delle vite umane, scende a patteggiamenti con i terroristi nonostante le esplicite critiche della superpotenza USA, mobilitando energie umane e finanziarie attraverso Emergency. Addirittura, nel democratico e umanitario Stato italiano, si apre un dibattito sulle scelte fatte in questa occasione rispetto ad altri rapimenti storici, come quello di Moro da parte delle Brigate Rosse, con Cossiga che difende la scelta dell’epoca di non cedere al ricatto dei terroristi, anche a costo della vita di Moro, e Fassino che afferma “salvare una vita non è una resa”. Quando poi le cose si complicano, con l’arresto di Rahmatullah e le accuse da parte del governo afgano contro Emergency in quanto fiancheggiatore dei terroristi, allora è meglio far sfumare l’attenzione perché, al di là delle chiacchiere di questi signori e dei loro mass media, il reale significato della presenza dell’Italia in Afghanistan, così come in Somalia, nel Libano, nel Sudan, nel Darfur, nei Balcani, ed altrove, e degli scontri imperialisti in atto in questi paesi, diventa sempre più chiaro agli occhi di tutti e sempre meno possibile camuffabile con discorsi umanitari. I fischi al “pacifista” Bertinotti alla manifestazione per il 25 aprile a Milano ne sono un sintomo.
La contraddizione evidente tra il miliardo di euro abbondante appena stanziato dal governo Prodi per le missioni militari all’estero e la crescente miseria che questo stesso governo impone ai proletari italiani con i licenziamenti, la precarietà del lavoro, lo smantellamento dell’assistenza sanitaria e delle pensioni, l’assenza di prospettiva per i giovani, fanno sorgere subito un dubbio: come mai questo Stato che si preoccupata tanto del popolo afgano, libanese, sudanese, condanna ad una vita di stenti la stragrande maggioranza dei lavoratori italiani e ad un futuro ancora peggiore la nuova generazione? Quale livello di ipocrisia si nasconde dietro le lacrime versate sulla morte di un povero cristo che a 74 anni è ancora costretto a lavorare a nero su di una impalcatura di dieci metri fino a lasciarci la pelle?
Un livello molto alto se aggiungiamo che la giustificazione umanitaria della presenza dell’esercito italiano in Afghanistan fa a cazzotti con la necessità di aumentare l’armamento del contingente italiano a Heart, vista l’intensificazione degli scontri in atto nella zona di controllo italo-ispanica. E fa a cazzotti con il fatto che è proprio sotto il fuoco incrociato tra frazioni locali ed eserciti europei ed USA - con i quali lo Stato italiano ha preso accordi ben più criminali dal punto di vista umanitario per assicurarsi la presenza sul posto - che decine di uomini, donne e bambini afgani muoiono ogni giorno, sotto le bombe, per la fame, le malattie causate dalla guerra.
Ma oltre all’ipocrisia senza ritegno della borghesia, tutte le vicende legate al rapimento del giornalista Mastrogiacomo ed alle modalità della sua liberazione danno altri elementi di riflessione sulla realtà guerrafondaia ed imperialista dello Stato italiano e sul modo con cui questa si concretizza. In particolare:
- quali sono i motivi degli attriti tra il governo italiano e gli USA in questa vicenda?
- come mai una operazione così delicata come la liberazione di ostaggi in una situazione di guerra viene affidata ad Emergency, un’organizzazione non governativa di medici volontari, che in quanto tale non potrebbe avere mezzi organizzativi ed economici adeguati per compiti simili?
L’imperialismo italiano alla ricerca di prestigio ed autonomia
Come ogni Stato, anche l’Italia cerca di acquisire quanto più spazio possibile sull’arena imperialista mondiale. Questa è una preoccupazione costante di ogni Stato, qualsiasi ne sia il governo di turno, perché da questo dipende la capacità di mantenere e - nella misura del possibile - accrescere un dato livello di forza concorrenziale rispetto alle altre potenze. E per ogni Stato nazionale questo è questione di vita o di morte, in particolare nell’attuale situazione di crisi profonda del sistema capitalistico.
Le mire del governo Prodi su questo piano non sono quindi diverse da quelle del governo Berlusconi o di quelli precedenti. Si differenziano però le scelte, i percorsi da seguire. Rispetto al governo Berlusconi, l’attuale governo di sinistra si differenzia per una politica estera meno legata ai dettami che vorrebbero imporre gli USA (vedi ad esempio la domanda di meno limiti alle zone di competenza dei vari eserciti, ma soprattutto il veto ad ogni trattativa con i talebani) e per una maggiore ricerca di un posto in prima fila tra le potenze europee nelle zone calde del Medio Oriente. Basta vedere le ultime mosse diplomatiche assestate dal governo:
- nel suo recente viaggio in Arabia Saudita Prodi ha reiterato la condanna della guerra in Iraq perché “Non è stata preceduta da un quadro di legittimità giuridica soddisfacente per quanto attiene le Nazioni Unite” e voluta sulla base di “argomentazioni rivelatesi infondate”, cercando al contempo di far riconoscere all’Italia un ruolo di interlocutore privilegiato, basandosi sugli apprezzamenti positivi fatti dal ministro degli esteri saudita, Saud al-Faisal, in particolare per il ruolo svolto in Libano: “Innanzitutto siamo grati all’Italia: non fosse stato per la sua ferma posizione, la missione Unifil forse non sarebbe riuscita. Spero che continui, anzi si rafforzi se necessario” (la Repubblica 24/4/07);
- nella stessa ottica il governo ha promosso una “Conferenza di pace” per l’Afghanistan (per cui sono stati stanziati 500.000 euro) ed una Conferenza a Roma sulla giustizia in Afghanistan (costo 127.800 euro);
- su di un altro fronte D’Alema lancia la proposta di moratoria contro la pena di morte a livello mondiale nell’ambito dell’UE;
- in Afghanistan, in contrasto con le indicazioni USA, l’Italia porta il governo Karzai a rilasciare dei terroristi talebani in cambio di Mastrogiacomo.
Tutta questa rinnovata spinta del governo Prodi ad imporsi come elemento autonomo importante sulla scena dei conflitti in Medio Oriente chiaramente non va molto bene agli USA che invece fanno sempre più fatica ad imporre la propria leadership nella zona ed a contrastare velleità simili anche da parte delle altre potenze europee. Da qui gli “screzi”, il conflitto diplomatico rispetto al rapimento Mastrogiacomo nei rapporti tra Italia e USA, che segue altri scontri altrettanto significativi: quello relativo all’omicidio Calipari e quello più lontano relativo al rapimento dell’egiziano Abu Omar a Milano da parte di agenti della CIA.
Nel caso attuale gli USA non potevano certo accettare la politica del patteggiamento con i “famigerati terroristi talebani” per liberare degli ostaggi, quando la loro giustificazione alle varie guerre scatenate dal 2001 ad oggi e il braccio di ferro con le altre potenze imperialiste ha come perno la “crociata contro il terrorismo” in difesa della “democrazia occidentale”. E se il richiamo all’ordine su questo piano non è servito a far abbassare le cresta all’Italia, si ricorre a pressioni più forti sul capo del governo afgano Karzai (anche per mostrare chi è il vero padrone della situazione), che a questo punto non può far altro che rifiutarsi di scarcerare altri terroristi per liberare i due francesi sequestrati dai talebani1. Ed è chiaro che l’arresto di Rahmatullah come fiancheggiatore terrorista e responsabile della morte dell’autista e dell’interprete di Mastrogiacomo, così come le accuse contro Emergency da parte del governo Karzai, hanno lo stesso significato. Aver creato le condizioni perché Emergency non potesse restare più in Afghanistan: questo non è un attacco ad Emergency, ma un colpo assestato al governo italiano. E dovendo mantenere in piedi certi equilibri, dati i rapporti di forza esistenti, il governo italiano non ha potuto che abbozzare sulla vicenda e limitarsi ad assicurare al leader di Emergency, Gino Strada, per bocca di Prodi: "Facciamo l'impossibile per scarcerare Hanefi. Non dimentico certo l'Afghanistan e Rahmatullah Hanefi, il tuo collaboratore che si trova ancora in carcere. Ti posso assicurare che continuiamo a fare il possibile e l'impossibile perché sia scarcerato. Spero che questo possa avvenire il prima possibile" (La Repubblica, 3/5/07, versione on line).
Ma perché prendersela con Emergency significa lanciare un monito al governo italiano? Qual è il ruolo di Emergency in Afghanistan e nelle altre zone di guerra?
Emergency, strumento dell’imperialismo italiano
Le velleità imperialiste dello Stato italiano devono fare i conti con la reale forza economica e militare del capitalismo italiano. Forza storicamente abbastanza limitata che ha costretto da sempre l’Italia a cercare di farsi spazio, più che su di un piano strettamente militare, attraverso vie diplomatiche, tessendo legami bilaterali, ponendosi come interlocutore e mediatore affidabile nelle diverse aree di conflitto, per acquisire una certa presenza e forza politica nelle zone di interesse. In questa politica le organizzazioni non governative (ong) come Emergency (al di là dell’onesta e della buona fede di chi ci lavora o collabora con esse) svolgono un ruolo fondamentale di penetrazione e di impianto sul posto. E’ indubbio che l’opera di Emergency è preziosa, ad esempio in Afghanistan, non solo per le vittime della guerra che almeno hanno la speranza di poter essere curate e di trovare un minimo di assistenza, ma anche per lo stesso governo afgano che senza queste strutture ospedaliere e di assistenza avrebbe ancora più difficoltà a gestire il disastro del paese. Al tempo stesso, proprio per l’importanza che, in queste aree dilaniate da scontri interni ed internazionali, assume l’opera di una struttura come Emergency ufficialmente indipendente, neutrale e apartitica, il radicamento, il consenso e la rispettabilità che questa acquisisce tra la popolazione, ma soprattutto tra le varie forze politiche e combattenti locali, costituiscono una forza politica considerevole. E dietro ad Emergency è lo Stato italiano ad acquisire questa forza; si capisce dunque tutto l’interesse di questo a sostenerla ed a rafforzarne la presenza in queste zone. Questo acquisito riconoscimento risulta utile infatti su due piani: da un lato per mantenere la propria immagine di “italiani brava gente” contrapposto agli “oppressori americani”, che sparano sui civili senza pietà; dall’altro per avere più libertà di movimento nelle situazioni critiche, nelle quali bisogna difendere i propri interessi. Come appunto con il rapimento Mastrogiacomo, dove è grazie alla capacità di impianto nella zona, alla capacità di allacciare legami diplomatici con le diverse frazioni locali che il governo Prodi è riuscito da una parte a premere su Karzai per la liberazione dei talebani, dall’altra, attraverso Emergency, ad arrivare a chi poteva trattare per la liberazione degli ostaggi e procedere in tal senso. E spesso questa via è più efficace e preferibile all’azione dei servizi segreti. Il fatto quindi che Emergency sia stata costretta ad abbandonare il terreno afgano è un problema per il governo italiano, non tanto per le accuse alquanto ridicole di appoggio al terrorismo nei confronti di Emergency, ma piuttosto perché così viene a mancare un tassello importante per la presenza dell’Italia in un’importante zona dove si gioca un braccio di ferro tra le varie potenze imperialiste (USA e Italia, ma anche Francia, Spagna, Inghilterra, ecc.).
Del resto, come viene ricordato nell’articolo seguente, scritto dopo lo Tsumani che colpì l’Asia nel 2005, l’utilizzo delle ong da parte degli Stati non è una novità, né è una esclusiva “italiana”.
Ed in effetti c’è da chiedersi da dove provengano gli ingenti fondi di un’organizzazione come Emergency necessari per impiantare strutture sanitarie, pagare i medici e tutto il personale necessario a mantenere in piedi la sua stessa struttura. Dalla raccolta di soldi per le strade e qualche filantropo di turno o non piuttosto dalle sovvenzioni di enti e strutture in maniera più o meno esplicita legati allo Stato?
Lo sdegno in tutta questa vicenda non è tanto per le falsità che ci racconta la borghesia, né per la sua ipocrisia, né per le vie che utilizza per raggiungere i suoi fini. Lo Stato italiano, ed il suo governo, è capitalista come qualsiasi altro Stato e dunque la menzogna, l’ipocrisia, i giochi sporchi fanno parte della sua natura. Lo sdegno è soprattutto per il fatto che a pagare tutto questo sono sempre i proletari con la morte e la disperazione in Afghanistan, con un degrado crescente su tutti i piani e con una montagne di mistificazioni in Italia.
Eva, 3/5/2007
1. Le ultime notizie sull’attacco dell’esercito USA nella regione di Herat, zona assegnata al controllo di Italia e Spagna, senza alcun accordo o preavviso a questi da parte degli USA, e le reazioni di D’Alema e Prodi, confermano la maggiore pressione che l’amministrazione Bush intende esercitare in Afghanistan per imporre la propria politica e le tensioni che questo provoca tra le potenze imperialiste che occupano questo paese.
A quattro mesi dallo tsunami sulle coste dell’Asia del sud e nonostante lo slancio di generosità che ha riversato nelle casse delle ONG somme ingenti di denaro, la situazione sul posto resta sempre drammatica. Mentre il 28 marzo (2005) nell’isola di Nias, al largo di Sumatra, una nuova scossa sismica provoca una carneficina, le ONG stanno ancora a chiedersi come utilizzare le somme raccolte, che intanto sono depositate su dei fondi monetari SICAV al 2,5% di interesse annuo. Allora a cosa servono le ONG, a parte che versare salari astronomici ai loro dirigenti ed offrire loro alloggio negli hotel a quattro stelle di Bora Bora (Capital, aprile 2005)? Certo, se la sottrazione di fondi e gli atteggiamenti da truffatori sono consoni alla natura della borghesia, non sono l’essenza ed il fondamento dell’azione umanitaria.
Prima di ogni cosa le ONG sono uno strumento, oggi divenuto fondamentale, della difesa degli interessi imperialisti di ogni nazione.
Queste ONG, che di “non governativo” hanno solo il nome, offrono da più di 30 anni le motivazioni ideologiche per giustificare le azioni armate delle grandi potenze.
Negli anni ’70 la Francia, per sbarazzarsi di Jean Bedel Bokassa che essa stessa aveva portato al potere nella Repubblica Centroafricana, si appoggia su Amnesty International per scatenare una grossa campagna di denuncia del regime sanguinario dell’“auto-proclamato” imperatore. Sarà questa campagna a giustificare l’intervento della Francia e l’invio dei suoi paracadutisti che non dimenticheranno di portare con loro un nuovo presidente.
Ma il ruolo delle ONG non si limita a fornire alibi umanitari per colpire ed accompagnare i raid omicidi del “diritto di ingerenza” delle grandi potenze nei conflitti armati. Spesso la loro presenza ed il loro lavoro sul posto vanno ben oltre.
Non è un caso se l’India ha rifiutato l’aiuto internazionale dopo i disastri causati dallo tsumani del 26 dicembre. Non è un caso se l’Indonesia, poco dopo, reclama la fuoriuscita delle ONG dal proprio territorio entro due mesi. Il motivo è che questi paesi sanno bene che le ONG agiscono, anche senza scorta militare, come testa di ponte imperialista delle rispettive nazioni. Questa realtà è illustrata molto bene dalla serie di “rivoluzioni democratiche” avutesi nelle repubbliche del sud della Russia, ultima in data quella nel Kirghizistan.
“Possiamo essere fieri di aver sostenuto la rivoluzione”, ha proclamato l’ambasciatore americano Stephen Young. Benché gli USA dispongano da quattro anni di una base militare forte di 2000 soldati sull’aeroporto di Manas, non è di questo tipo di sostegno che parla Mr. Young. Per aiutare il rovesciamento del regime di Akaïev, gli Stati Uniti si sono serviti di un’arma micidiale: una potente rete di ONG, 7000 in totale, che hanno diviso a scacchiera l’intero territorio. In ogni villaggio si contano da tre a quattro ONG locali, finanziate in gran parte da organizzazioni statali made in America, quali la Freedom House, diretta dall’ex capo della CIA, James Woosley, o ancora il National Democratic Institute (NDI), presieduto dall’ex segretario di Stato di Clinton, Madaleine Albright. La “rivoluzione gialla” non ha avuto dunque nulla di spontaneo. Al contrario, è stata saggiamente e pazientemente preparata da questa rete di ONG pro-americane, come dalla tipografia di Bichkek foraggiata da Freedom House ed incaricata di pubblicare non meno di una cinquantina di giornali “di opposizione”. E quando il potere kirghiso decide, cinque giorni prima le elezioni legislative, di tagliare l’elettricità alla tipografia, ad accorrere in aiuto è l’ambasciata americana con la fornitura di gruppi elettrogeni in modo da permettere che il lavoro di agitazione possa continuare. Ed è attraverso una coalizione di 170 ONG del Kirghizistan, animate da Edil Baisalov, a sua volta finanziato dall’NDI, che si è potuto inviare un migliaio di osservatori nei seggi elettorali per testimoniare la frode e scatenare la “fronda popolare”. Possiamo ritrovare lo stesso schema in Georgia nel 2003 o in Ucraina nel 2004 dove la “rivoluzione arancione” è stata anch’essa lanciata dal lavoro delle 280 ONG abbeverate dallo stesso NDI con 65 milioni di dollari per rovesciare il duo pro-russo Kutchma/Ianukovitch tramite l’agitazione popolare.
Le ONG sono utili? Per la borghesia senza alcun dubbio. Dagli anni ’70 costituiscono chiaramente un jolly organicamente legato ai dispositivi militari della classe dominante. Per riprendere l’espressione del celebre dottore francese Bernard Kouchner, fondatore dell’emblematica organizzazione “Medici Senza Frontiere”: “la grande avventura del XXI secolo (…) si chiamerà movimento umanitario”. Ma questa avventura non può che essere quella della guerra al servizio dell’imperialismo.
Azel, 15 aprile 2005 (da Revolution Internazionale n° 357)
Si sarebbe potuto credere all’orrore riservato al Medio Oriente, all’Iraq o alla Palestina, senza dimenticare i genocidi quotidiani dell’Africa nera o del sud del Caucaso. Ma no! La realtà del capitalismo è sempre peggio di quanto si possa immaginare. Il Maghreb è venuto a ricordarci che non bisognava dimenticarsi di lui. Anche lì, la barbarie imperversa quotidianamente. Spesso passato volontariamente sotto silenzio dai mezzi di comunicazione, la «guerra civile» in Algeria ha fatto all’incirca più di 150 mila morti durante gli anni ’90. Ma in questa primavera soleggiata, la barbara realtà del capitalismo è tornata drammaticamente in primo piano.
Mercoledì 11 aprile, due attentati kamikaze preparati con auto imbottite di esplosivo sono stati perpetrati ad Algeri. Ci sarebbero ufficialmente 33 persone uccise e più di 220 feriti. L’indomani, la rete televisiva Al-Jezira annunciava di aver ricevuto una telefonata con la quale un porta parola del movimento Al-Qaida nel Maghreb rivendicava questi attentati.
In Algeria, i gruppi terroristi, minati dalle guerre tra frazioni rivali e braccati da una parte dell’esercito e dal governo sanguinario del presidente Bouteflika, erano da alcuni anni sulla difensiva. Quelli che non si erano rifugiati nelle regioni montagnose avevano ufficialmente deposto le armi. La resa dell’AIS (Armée Islamique du Salut, ala militare del Front Islamique du Salut) e degli ultimi elementi sopravvissuti del GIA ( Groupe Islamiste Armé) sembrava promettere una calma sul fronte degli attentati e dei massacri terroristici. Ma tutto ciò non era che pura illusione.
Ecco dunque risorgere da capo, armi alla mano, i gruppi salafisti. Questi sono ormai pronti a utilizzare i mezzi militari i più tradizionali ma anche ad applicare i metodi e la logistica propri alla nebulosa di Al-Qaida. Questo ritorno alla grande del terrorismo non riguarda solo l’Algeria ma anche il Marocco e la Tunisia. Il suo terreno di crescita, condito anzitutto dalla miseria, dalla disoccupazione e dalla disperazione di massa, è costituito da questi giovani ammassati nelle bidonville di Tunisi o di Algeri. In Algeria, il tasso di disoccupazione dei giovani supera largamente il 50%. Al-Qaida può dunque attingere senza vergogna nei ranghi di questa gioventù totalmente disorientata e senza avvenire.
«Le relazioni tra la Francia e l’Algeria possono essere buone o cattive, ma in nessun caso possono essere banali». Questa dichiarazione pronunciata dal vecchio presidente algerino Houari Boumediene nel 1974 traduce perfettamente come dopo la fine della colonizzazione dell’Algeria da parte della Francia avvenuta nel 1962, gli imperialismi algerino e francese non hanno mai cessato di avere delle relazioni politiche estremamente strette. In questo paese, a partire dalla sua indipendenza, l’esercito è stato sempre la punta avanzata del potere attraverso la successione dei vari capi di stato. La storia interna dell’Algeria, da 40 anni a questa parte, è fatta di colpi di stato e di putsch militari, esprimendo così la debolezza e la divisione storica della borghesia algerina. Anche l’FLN (Front de Libération Nationale), sorto dalla guerra coloniale, e la sua ala armata, l’ALN, non sono sfuggiti a questa instabilità crescente. Durante tutti questi decenni, all’interno di questo marasma, la Francia ha difeso con le unghie e con i denti i suoi interessi in un paese che essa considera come facente parte della sua riserva di caccia.
Ma all’inizio degli anni ’90, la borghesia francese, malgrado tutti i suoi sforzi, comincia lentamente a perdere terreno di fronte all’offensiva del suo più grande nemico, la borghesia americana. In effetti, questo decennio è marcato da un aggravamento micidiale delle tensioni interimperialiste tra la Francia e gli Stati Uniti. Da allora, gli Stati Uniti non hanno mai ridotto i loro sforzi in Algeria nel tentativo di rafforzare la loro influenza a detrimento dell’imperialismo francese. Il loro sostegno attivo alle brigate armate islamiche si impone così pubblicamente.
Nel 1992, il governo algerino, in reazione a questa situazione, decreterà allora lo stato d’emergenza. Di fronte ai massacri ciechi dei terroristi, strumentalizzati dagli Stati Uniti, le forze de «l’ordine» algerine faranno scomparire, dal 1992 al 1998, più di 7000 persone. Facendo così versare il sangue, la Francia riprenderà più o meno la mano, con l’inizio del nuovo millennio marcato dall’apparire della pace e della stabilità.
Se dunque in tutti questi ultimi anni l’imperialismo americano sembrava potersi implicare meno in Algeria, appare oggi chiaramente che questa situazione sta per conoscere di nuovo una drammatica evoluzione. In effetti, all’inizio di marzo, il generale d’armata Raymond Hénault, presidente del Comitato militare dell’Alleanza Atlantica, effettua una visita ufficiale in Algeria. “Lo scopo di questa visita viene rivelato immediatamente dalla reazione del governo algerino. L’Algeria dichiara allora attraverso la voce del suo ministro degli Affari esteri che il suo territorio non sarà disponibile come base all’esercito americano. Si capisce dunque facilmente l’obiettivo di questa visita ufficiale e la posizione del governo algerino, temendo di affrontare un vero problema di sovranità nazionale. Almeno sul piano militare” (Ahmed Saifi Benziane, citato dal Courrier international del 19 aprile 2007)
A sua volta interrogata a proposito di eventuali basi americane nel Maghreb, Condoleeza Rice (segretario di Stato del governo americano) aveva dichiarato : «Noi cerchiamo solo di stabilire una piattaforma di cooperazione con questi paesi attraverso lo scambio di informazioni e l’organizzazione di esercitazioni militari con i governi per lottare efficacemente contro il terrorismo.» (ibid.) Le intenzioni americane non possono essere enunciate in maniera più chiara. L’indebolimento accelerato della prima potenza mondiale, il suo sprofondamento nel pantano iracheno non riducono per niente i suoi appetiti imperialisti e la sua fuga in avanti sul piano militare. Malgrado l’ampiezza delle sue difficoltà, dall’Algeria al nord del continente africano fino alle porte del Golfo Persico e al Medio Oriente, niente è fuori dell’interesse degli USA.
Il cavallo di battaglia della politica imperialista americana nel mondo è la lotta contro il terrorismo. E’ sotto questo pretesto fallace che gli Stati Uniti difendono in Algeria e dovunque nel mondo i loro sordidi interessi.
Tuttavia è evidente che gli ultimi attentati che hanno avuto luogo ad Algeri vanno pienamente a vantaggio dell’America. In maniera cinica e ipocrita, il 6 febbraio scorso, gli Stati Uniti hanno fatto sapere la loro intenzione di creare un comando al Pentagono incaricato dell’Africa per mettere falsamente un termine all’installazione di gruppi terroristi nel Maghreb. Il 14 aprile, cioè tre giorni dopo gli attentati di Algeri, l’ambasciata americana in questo paese dichiarava ufficialmente: “Secondo delle informazioni non confermate, degli attentati potrebbero essere pianificati ad Algeri il 14 aprile nella zona che potrebbe includere tra l’altro la Posta Centrale e la sede dell’ENTV (la televisione pubblica), nel boulevard dei Martiri”. Queste dichiarazioni dell’ambasciata americana sono state immediatamente comprese per quelle che sono dalla stampa algerina: “Che gli Americani si vogliano sostituire ai servizi di informazione algerini, è un po’ un peccato di gola. A meno che gli Americani non abbiano altre idee in testa e non vogliano instaurare un clima da psicosi” (Le Jour d’Algérie, citato da Le Monde del 15 aprile 2007). Che gli Americani abbiano altre idee nella testa, è evidente. E sono anche perfettamente chiare potendosi enunciare così: “Quello che non si può controllare, occorre destabilizzarlo o anche distruggerlo”. La borghesia algerina, il suo governo così come i movimenti terroristi, tutti strumentalizzati ciascuno per proprio conto da un imperialismo o da un altro, se ne fregano totalmente delle sofferenze inflitte alla popolazione in Algeria. Il nuovo sviluppo nel Maghreb di tensioni imperialiste, di barbarie e di caos va così a creare una continuità geografica dal Medio Oriente fino alle regioni più lontane dell’Africa centrale e dell’est.
Tino (26 aprile
Licenziamenti, riduzione di posti, chiusura di fabbriche, precarizzazione, decentramento …, sempre più i lavoratori salariati subiscono la terribile realtà dell’accelerazione della crisi capitalista. Gli attacchi sono gli stessi dappertutto; in Europa per il gruppo EADS-Airbus, all’Alcatel-Lucent, Volkswagen, Deutsche Telekom, Bayer, Nestlé, Thyssen Krupp, IBM, Delfi… e sul continente americano alla Boeing, Ford, General Motors, Chrysler… In Francia, nel solo settore privato ci sono stati ufficialmente 10.000 posti soppressi nel 2006 ed altri 30.000 sono previsti da qui al 2008. Questi piani ormai su scala mondiale sono sempre più massicci e non toccano più solo settori in decelerazione o arcaici, ma settori di punta come l’aeronautica, l’informatica, l’elettronica. Non riguardano più solo le piccole e medie imprese, ma si estendono a tutti i grandi gruppi leader dell’industria ed il loro indotto; non si limitano più agli operai della catena di montaggio ma toccano anche gli ingegneri, i quadri commerciali, i settori della ricerca.
Ogni Stato, ogni dirigente di impresa sa bene che questa situazione spinge tutti i salariati, del settore privato come del pubblico dove i proletari subiscono esattamente la stessa sorte, a porsi sempre più domande angoscianti sull’avvenire che è riservato loro e ancor più sull’avvenire dei loro figli. E’ sempre più evidente che i proletari di tutti i paesi sono sulla stessa barca, una barca che fa acqua da tutte le parti. In questo contesto inedito, la preoccupazione principale della borghesia non è solo quella di cercare di colmare la enormi falle che si aprono nel suo sistema, ma anche di guadagnare tempo, di impedire ai proletari di prendere coscienza di questa realtà.
Per questo che dappertutto i sindacati, la cui specifica funzione nell’apparato dello Stato è inquadrare e controllare la classe operaia, giocano d’anticipo e occupano il terreno sociale, proprio per tagliare l’erba sotto i piedi ad ogni tentativo di mobilitazione unitaria degli operai di fronte ad attacchi così grossi e frontali. Oggi il loro compito essenziale è prendere l’iniziativa della lotta in modo da far passare gli attacchi mantenendo gli operai divisi per fabbriche, imprese, settori, paesi.
Il “modello Airbus” del sabotaggio sindacale
I sindacati, il governo, la direzione, tutta la classe politica e i mezzi di informazione hanno polarizzato l’attenzione sui 10.000 posti eliminati all’Airbus (fino ad oggi presentata come un fiore all’occhiello), dove si è abbondato in manovre per dividere degli operai, disperderne la collera e imbrigliarne la combattività. I sindacati hanno iniziato col far credere di non essere al corrente di quanto si stava preparando e che avrebbero difeso i posti di lavoro e gli interessi degli operai, quando per mesi hanno partecipato in pieno al piano Power 8 (accordo tra Francia e Germania sui tagli all’Airbus). Per elaborare questo piano la direzione aveva creato un “comitato di pilotaggio” costituito dalla Direzione delle Risorse Umane e dai sindacati, allo scopo, per l’appunto, di “prepararsi ad ogni impatto sociale che le sue misure potrebbero avere” (da una nota della direzione all’interno della fabbrica di Toulouse-Blagnac). Nella fase preparatoria tutti i sindacati hanno teso a minimizzare l’attacco, associandosi perfettamente alle menzogne della direzione e dei diversi Stati coinvolti. In seguito hanno fatto riprendere il lavoro agli operai di Meaulte che erano scesi in sciopero spontaneamente 48 ore prima dell’annuncio ufficiale del piano Power 8, con la pretesa che la fabbrica non sarebbe stata rivenduta, mentre la direzione avrebbe fatto sapere in seguito che in proposito non era stata esclusa nessuna decisione.
A seconda delle fabbriche e adattandosi ad ogni situazione specifica, i sindacati hanno organizzato la divisione tra i settori toccati dal piano e quelli risparmiati, e per mesi hanno martellato sull’idea che se Airbus era in questa situazione era “per colpa dei tedeschi”. In Germania il discorso dei sindacati era parallelo: “è colpa dei francesi”. In un volantino del 7 marzo co-firmato da Force Ouvrière-Métaux (sindacato largamente maggioritario a Tolosa), CFE-CGC (sindacato dei quadri) e CFTC si legge: “Quello che è in gioco è l’interesse di tutta l’economia francese, locale e regionale (…) Restiamo mobilitati (…) per difendere Airbus, i nostri posti di lavoro, il nostro strumento di lavoro, le nostre competenze e la nostra professionalità a beneficio di tutta l’economia locale, regionale e nazionale.” Questa ripugnante propaganda che spinge gli operai a far propria la logica capitalista della concorrenza, era già presente in una mobilitazione dei sindacati di diversi paesi europei in cui ci sono officine dell’Airbus: “Difendiamo il nostro strumento di lavoro insieme, salariati di Airbus e dell’indotto di Airbus d’Europa” (volantino comune di tutti i sindacati del 5 febbraio 2007).
Dopo le manifestazioni del 6 marzo, i sindacati hanno prospettato una risposta a livello europea per il 16 annunciando una manifestazione a Bruxelles, per poi annullarla tre giorni prima e sostituirla con manifestazioni, comunque presentate come “una giornata di mobilitazione europea”, ma limitate ai salariati di Airbus e disperse nei differenti distretti locali. Il colmo è stato vedere i sindacati che a Tolosa raccogliere gli operai all’uscita della fabbrica, ammassarli negli autobus, condurli in un luogo assolutamente decentrato e farli poi marciare fino alla sede di Blagnac, dove li attendeva una massa di telecamere per pubblicizzare a fondo “l’avvenimento”. Una volta arrivati li hanno fatti rimontare sugli autobus per ritornare alla fabbrica e riprendere il lavoro1.
I sindacati, e l’insieme della borghesia, non ci tenevano affatto a vedere una larga mobilitazione operaia a scala europea, dove gli operai potevano unirsi, incontrarsi, discutere e scambiare le proprie esperienze. Tanto più in un contesto di attacchi a 360 gradi: soppressione di oltre 6.000 posti alla Bayer, allungamento dei pagamenti dei contributi pensionistici fino a 67 anni in Germania, messa in atto di un nuovo attacco al settore della Sanità in Gran Bretagna, 3.000 licenziamenti a Volkswagen-Forest in Belgio.
I sindacati fanno dappertutto lo stesso sporco lavoro
Certamente i sindacati non volevano che ci fosse allo stesso momento la manifestazione a Parigi dei lavoratori di Alcatel-Lucent contro il piano di ristrutturazione del gruppo che prevede la soppressione, di qui al 2008, di 12.500 posti (di cui almeno 3.200 in Europa). Per questo l’hanno spostata al giorno prima, il 15 marzo. Presentata come unitaria ed europea, questa ha raccolto solo 4.000 persone, venute dalle zone francesi implicate direttamente, in particolare dalla Bretagna. Dai paesi vicini sono arrivate solo simboliche delegazioni esclusivamente sindacali, provenienti dalla Spagna, Germania, Olanda, Belgio e Italia. In più la manifestazione è stata soffocata da una foresta di bandiere bretoni e cadenzata al suono delle cornamuse!
Sempre in Francia, in una serie di scioperi più piccoli come quello alla Peugeot-Aulnay, i sindacati hanno trascinato gli operai in lotte lunghe ed estenuanti per aumenti salariali. Allo stesso tempo, alla fabbrica Renault del Mans, 150 operai sono stati trascinati dietro la CGT in uno sciopero molto minoritario contro un nuovo contratto di flessibilità firmato dagli altri sindacati. Quando si sa che alla PSA come alla Renault si sta preparando un piano di licenziamenti, ci si rende conto che queste azioni lanciate dai sindacati hanno come unico scopo quello di sfiancare preventivamente la combattività operaia per far passare gli attacchi. Lo stesso obiettivo lo si vuole raggiungere con gli insegnanti chiamati ad una ennesima giornata d’azione il 20 marzo.
Gli operai non hanno nessun interesse comune con la borghesia, al contrario la situazione li spinge a riconoscere gli interessi che loro hanno in comune di fronte agli attacchi, uguali in ogni paese. Questa situazione favorisce lo sviluppo di domande, di riflessioni, che pongono sempre più chiaramente i bisogni di estensione della lotta, di unità e di solidarietà in seno al proletariato, che saranno le chiavi delle lotte future. Anche se i sindacati riescono oggi ad imporre, apparentemente con facilità, le loro manovre di sabotaggio, di divisione e di isolamento, essi sono destinati a discreditarsi sempre più apertamente agli occhi della classe operaia. E’ oggi che maturano le condizioni che permetteranno domani agli operai, nelle loro lotte, di discutere assieme, di radunarsi, di confrontare le loro esperienze, di organizzarsi da soli al di fuori dei sindacati e al di là delle frontiere nazionali.
Wim, 24 marzo 2007 (da Révolution Internationale n° 378)
1. Il giorno dopo Libération titolava il suo articolo “Radicalizzazione mai vista contro la direzione dell’Airbus: i salariati di tutti i paesi si sono uniti”
Dopo i molteplici forum sociali organizzati dagli altermondialisti in questi ultimi anni per affermare contro l’ideologia neoliberista “che un altro mondo è possibile”, l’associazione leader ATTAC ha prodotto un manifesto in vista delle elezioni in Francia. All’immagine dei sette peccati capitali della religione cattolica, ATTAC ha identificato “i sette pilastri del neo-liberismo che bisogna abbattere per costruire un mondo democratico, solidale ed ecologico”. Questo manifesto, forte di un centinaio di proposte, vuole essere uno “stimolo al dibattito pubblico”, un aiuto tra gli altri, “alle scelte che devono fare i cittadini”.
Il manifesto comincia col ricordare che “fin dalla sua fondazione nel 1998, ATTAC ha identificato le politiche neoliberiste condotte ovunque nel mondo, particolarmente in Europa ed in Francia (qualunque siano i governi) come la causa principale dell’aumento delle disuguaglianze, dello smembramento delle società a causa della disoccupazione e la precarietà, dell’insicurezza sociale, della proliferazione dei conflitti militari, ecc.”. Questo neo-liberismo che data dall'inizio degli anni 1980 sarebbe la causa essenziale di tutte le calamità vissute dall’umanità perché “i suoi metodi sono ben noti: mercificazione generalizzata, libertà d’azione dei padronati e degli investitori, estensione all'insieme del pianeta del terreno di caccia delle imprese transnazionali”. In altre parole, se si arriva a cacciare i predatori, quelli che detengono il capitale, si potrebbe arrivare “ad una mondializzazione solidale contro il libero scambio e la libera circolazione dei capitali”. Per attuare questo ATTAC propone una moltitudine di misure per regolare il commercio mondiale. Mettere l’OMC (Organizzazione Mondiale del Commercio) sotto il controllo dell'ONU, riformare il FMI, la banca mondiale, creare un’organizzazione mondiale dell’ambiente, controllare i cambi, tassare la circolazione dei capitali, controllare gli scambi di merci in modo equo, riabilitare le imposte dirette, ridurre le disuguaglianze con una misura “rivoluzionaria” che sarebbe “fissare un limite massimo di scarto tra la differenza dei redditi dei gestori delle imprese e quelli dei salariati meno rimunerati”. Contro la logica del profitto ed il regno della concorrenza, contro le politiche governative al servizio dei proprietari del capitale, il manifesto di ATTAC difende la necessità di preservare “beni pubblici mondiali e servizi pubblici” ed “oppone un principio fondatore di un nuovo mondo: i diritti degli esseri umani ed i diritti dei popoli, i diritti sociali, ecologici, economici, culturali, politici”. In altre parole, per il manifesto degli altermondialisti, non c'è crisi economica, ma semplicemente una cattiva politica che sta dalla parte dei profitti e che pensa solamente al potere del denaro. Se ci fosse un controllo da parte dei cittadini, che regola, riforma, tassa e se gli Stati conducessero buone politiche pubbliche e mettessero in atto i principi fondamentali della democrazia, allora tutto dovrebbe andare per il meglio.
Il profitto è il motore dello sfruttamento capitalista
Contrariamente ai deliri dei nostri cavalieri altermondialisti, accaniti oppositori del neo-liberismo, lo sfruttamento capitalista ed il processo di mercificazione per estrarre sempre più profitto non sono cominciati con il 1980. Il marxismo da oltre centocinquanta anni ha affermato che la corsa al profitto costituisce l’essenza stessa di questo sistema. Rosa Luxemburg sottolineava all’inizio dell’ultimo secolo e in continuità con il lavoro di Marx sul capitale: “Il modo di produzione capitalistico è dominato dall’interesse al profitto. Per ogni capitalista la produzione ha senso e scopo solo se gli permette, anno per anno, di riempirsi le tasche di un ‘utile netto’, del profitto… Ma la legge fondamentale della produzione capitalistica, che la distingue da ogni altra forma economica basata sullo sfruttamento, è non soltanto il profitto in moneta sonante, ma un profitto sempre crescente" (Un’Anticritica). Non c'è dunque niente di nuovo sotto il sole capitalista, contrariamente a ciò che vorrebbe fare credere ATTAC per meglio fare passare la sua putrida merce ideologica secondo la quale il capitalismo sarebbe riformabile. Bisogna essere chiari ed affermare che nessun cambiamento di politica economica potrà mai rimettere in causa lo sfruttamento capitalista e le malefatte crescenti che questo provoca su tutto il pianeta.
Ancora Rosa Luxemburg: “Il sistema di produzione capitalistico ha la particolarità che per esso il consumo umano, che nelle precedenti forme economiche era lo scopo, diventa solo mezzo, ai servizi del fine vero e proprio: l'accumulo di profitto capitalistico. L’autosviluppo del capitale appare principio e fine, scopo assoluto e senso di tutta la produzione…Lo scopo fondamentale di ogni forma sociale di produzione: il sostentamento della società attraverso il lavoro, la soddisfazione dei suoi bisogni, appare qui soltanto completamente posta a testa in giù, in quanto diventano legge su tutta la superficie della terra la produzione non per amore degli uomini ma del profitto, e regola il sottoconsumo, la costante incertezza del consumo e, periodicamente, il diretto non-consumo dell'enorme maggioranza degli uomini”. (Rosa Luxemburg, Introduzione all'economia politica).
È questa legge ferrea, questa logica immutabile che determina la natura del capitalismo. Di conseguenza chiedere ai capitalisti ed ai loro rispettivi Stati di ridistribuire equamente i profitti significa semplicemente chieder loro di suicidarsi!
Lo Stato esiste solo per difendere il capitalismo
Constatando l’aggravamento delle condizioni di vita e di lavoro è diventato la regola generale, ATTAC non manca né di proposte, né di soluzioni. Solo che nell’enumerazione di questi numerosi mezzi di cui bisognerebbe dotarsi per “cambiare il mondo”, in realtà non si trova che un elenco di misure a sostegno dello Stato. Misure, certo rivestite di sproloqui egualitari alla moda altermondialista, ma che, a parte un pio desiderio e le pacche amichevoli per il proletariato, non sono che una richiesta di più Stato. ATTAC vuole farci dimenticare che è lo Stato a reggere l’economia capitalista e ad essere il garante della macchina capitalista per realizzare profitto. ATTAC difende lo Stato come il non plus ultra per la lotta contro il profitto e per migliorare le sorti della popolazione e degli operai, mentre è proprio questo il principale artefice ed il direttore d'orchestra dei principali attacchi agli operai. Lo Stato non è un organo neutro al di sopra delle classi, o il garante della giustizia sociale. Al contrario, come scriveva già nel 19° secolo Engels “da sempre, lo scopo essenziale di quest'organismo è stato mantenere e garantire, attraverso la violenza armata, l’assoggettamento economico della maggioranza lavoratrice da parte della minoranza fortunata” (Lettera a Ph. Von Patten 18 aprile 1883, Editions 10/18).
ATTAC fustiga con lo stesso vigore le transnazionali (l’equivalente moderno di quelle multinazionali tanto screditate dalla “sinistra” negli anni 70 ed 80) ed il settore privato che si approprierebbero a proprio esclusivo beneficio della produzione a scapito del benessere della popolazione. Ostentando questi spaventapasseri ATTAC cerca di farci credere che il ruolo dello Stato sarebbe solo quello di ripartire equamente le ricchezze della nazione. Lo Stato sarebbe in qualche modo il garante del comunismo! Ma queste transnazionali non rappresentano esclusivamente gli interessi di capitali e di borghesi privati, non sono “senza nazionalità”. Il più delle volte si tratta di grandi imprese affiliate agli Stati più potenti, quando non sono veri e propri strumenti al servizio degli interessi commerciali, politici e militari di questi stessi Stati. Possono anche esserci delle divergenze tra gli Stati ed alcune di queste grandi imprese, ma questo non mette in discussione il fatto che esse devono agire in coerenza e nel senso della difesa dell’interesse nazionale e dello Stato dei paesi da cui dipendono. È lo Stato che regolamenta i prezzi, le convenzioni collettive, i tassi di esportazione, di produzione, ecc. E' lui che, attraverso la politica fiscale, monetaria, di credito, ecc., detta le condizioni del “libero mercato”, sia ai settori finanziari che produttivi. E’ ancora lo Stato e le sue più “rispettabili” istituzioni che per gestire l’agonia del sistema capitalista si trasformano in veri croupier di un’economia da casinò. Fin dalla fine degli anni 60, con la riapparizione della crisi economica, è lo Stato il responsabile dei grandi piani di licenziamenti nella siderurgia, nelle miniere, nei cantieri navali, nel settore dell’auto, operati in nome della ristrutturazione industriale, e l'emorragia continua oggi nell’aeronautica, l’automobile, le telecomunicazioni, ecc. E’ lo Stato che ha soppresso migliaia di impieghi nelle poste, nei trasporti negli ospedali, e continua nella funzione pubblica, nella scuola, ecc. E’ lui che riduce continuamente le pensioni sociali, favorisce la crescita della povertà, della precarietà, opera tagli nei bilanci sociali (alloggi, pensioni, salute, educazione). È lo Stato il principale responsabile dell’indigenza di migliaia di operai che si ritrovano senza una casa, a sopravvivere nelle strade. Volere opporre, come fa ATTAC, la gestione in salsa “liberale” che bisognerebbe “superare”, all’autoritarismo degli anni 70 ed al suo Stato “assistenziale”, significa inventare di sana pianta una realtà menzognera e volere cancellare la relazione indissolubile che esiste tra lo Stato ed il settore privato.
Le proposte “alternative” di questo manifesto altermondialista non rappresentano alcun pericolo per la classe dominante, perché esse non escono dal contesto della società capitalista. Costituiscono invece una cortina di fumo che nasconde l’unica prospettiva capace di mettere fine alla barbarie ed alla miseria: il capovolgimento del capitalismo moribondo attraverso la rivoluzione proletaria.
“Un altro mondo è possibile”, ripete ATTAC, ma quale mondo? Un mondo di “cittadini” e di “democrazia”, un mondo di “diritti degli esseri umani”, dei “popoli”, dei “lavoratori”, ecc. La storia dell’inferno capitalista è lastricata di buone intenzioni di questo tipo che hanno la funzione mascherare la realtà di questo mondo e far sperare che lo si potrebbe “cambiare”... ma senza toccare il sistema capitalista né distruggerlo. Come le nostre evolute borghesie che, tramite l’ONU e l’UNICEF, con una mano pubblicano una tonnellate di carte per i diritti dei bambini, delle donne nel mondo, ecc., e con l'altra bombardano, decimano, schiacciano, inquinano questo stesso mondo, ATTAC getta polvere negli occhi. È per questo ed unicamente per questo che esiste. A suo tempo, negli anni 80, Bernard Tapie decretò “il diritto al lavoro e l’interdizione della disoccupazione”. Il saltimbanco aveva fatto ridere davanti all’inanità del suo proposito. ATTAC di rivalsa, con un programma al fondo altrettanto sterile e senza prospettiva, si prende e pretende di essere presa più sul serio. I suoi ripetuti appelli alla “democrazia” sono la prova più tangibile di questa volontà di essere messa nel contesto delle organizzazioni “responsabili” agli occhi della borghesia. Tuttavia, poiché vuole arraffare un ampio consenso ed dare prova di questi suoi presunti valori “rivoluzionari”, ATTAC non esita ad impossessarsi di Marx per sabotare meglio il pensiero marxista. Così, ciliegia sulla torta avariata dell’altermondialismo, abbiamo questa frase del manifesto di ATTAC che dice: “si tratta di esplorare delle vie molteplici, dei campi disparati per rimettere fondamentalmente in causa il modello neoliberale attraverso un movimento reale che abolisce lo Stato di cose presenti” (sottolineato da noi). Questo è solamente un cattivo plagio, un’impostura che distorce quanto detto da Marx ne L’ideologia tedesca: “il comunismo non è un stato di cose che debba essere instaurato, un ideale al quale la realtà dovrà conformarsi. Chiamiamo comunismo il movimento reale che abolisce lo stato di cose presenti" (sottolineato da noi).
Ecco ciò che ben riassume cosa è ATTAC e la finalità del suo manifesto: falsificare la realtà del capitalismo moribondo ed illudere i giovani e gli operai che si pongono delle questioni su questa società, trascinandoli in un vicolo cieco e confondendo al massimo la loro coscienza sulla reale posta in gioco della situazione attuale.
Donald, 21 marzo 2007
(da Rèvolution Internationale n. 378)
Il trionfo strepitoso di Chavez che, alle elezioni del 3 dicembre 2006, ha ottenuto il 63% dei suffragi convalidati, contro il 37% per il candidato dell’opposizione, non solo consolida e legittima il potere della frazione chavista della borghesia per un periodo di 6 anni, ma rappresenta anche un trionfo per l’insieme della borghesia venezuelana. Infatti, ancora una volta, lo scontro politico tra le frazioni della borghesia che ha dominato la scena politica dopo l’arrivo di Chavez al potere nel 1999, è riuscito a polarizzare la popolazione ed a portarla a partecipare massicciamente alla battaglia elettorale: secondo le cifre del Consiglio Nazionale Elettorale (CNE), il tasso di astensione del 25% è stato il più basso dei livelli storici che erano dell’ordine del 40%.
La borghesia, con il ritorno sulla scena elettorale dei settori dell’opposizione (che si sono astenuti dal partecipare alle elezioni parlamentari del 2005) è riuscita a rianimare la mistificazione elettorale e democratica. Ma il migliore sostegno a questo obiettivo è stato dato dallo chavismo che ha polarizzato lo scontro sostenendo che il candidato dell’opposizione era il candidato del “diavolo Bush” e che se questo avesse vinto sarebbero state messe in pericolo le missioni (attraverso cui il governo applica la sua politica di “giustizia sociale”) e le conquiste della “rivoluzione”. In questo modo, il proletariato e le masse socialmente emarginate continuano ad essere prese nella trappola della polarizzazione inter-borghese ponendo le loro speranze in una frazione della borghesia che ha saputo sfruttare a suo favore una politica populista di sinistra orientata verso gli strati più poveri della società, e che è sostenuta dagli alti redditi petroliferi; questa non fa altro che gestire la precarietà, blaterando di un egualitarismo che serve a livellare verso il basso l’insieme della società, impoverisce i settori degli strati medi e rende ancora più poveri i lavoratori e gli strati emarginati. Questa è la ricetta del “socialismo del ventunesimo secolo” che lo chavismo esporta in Bolivia, in Ecuador ed in Nicaragua e che gli serve da cavallo di battaglia per rafforzarsi nella geopolitica della regione.
L’anti-americanismo “radicale” di Chavez, tanto applaudito dal movimento anti-globalizzazione, il sostegno ad altri governi di tendenza di sinistra come quelli in Bolivia, in Ecuador e in Nicaragua, l’aiuto a vari paesi della regione diminuendo il costo delle fatture petrolifere, sono l’espressione dell’uso del petrolio come arma di dominio nella regione, a scapito degli interessi della borghesia americana che considerava storicamente l’America latina come il suo orticello.
Che cosa c’è dietro il “sostegno di massa del popolo” a Chavez?
La frazione chavista della borghesia, diretta dai settori militari e civili di sinistra e di estrema sinistra, ha come base sociale il sostegno delle masse sfruttate, e principalmente quelle emarginate; masse alle quali si è dato l’illusione di poter superare la situazione di povertà… nel 2021!!
La grande intelligenza di questa frazione della borghesia sta nel presentarsi con origini popolari, dalla parte dei poveri. Questa condizione di “povera” le serve a presentarsi come vittima dei “tiri mancini della borghesia”, ma soprattutto dell’imperialismo americano, usato come minaccia esterna che impedirebbe alla “rivoluzione” di portare a termine i suoi piani per “uscire dalla povertà”.
Il governo di Chavez, a metà anno 2003, ha riorientato la spesa sociale creando le cosiddette “missioni”, piani sociali attraverso cui lo Stato distribuisce briciole alla popolazione con due obiettivi principali: mantenere la pace sociale e rafforzare il controllo sulle masse depauperate al fine di contrastare l’azione dei settori borghesi che cercano di destituire Chavez dal potere. Questa “spesa sociale” è stata accompagnata da una manipolazione ideologica senza precedenti, consistente nel presentare la politica di capitalismo di Stato dello chavismo come quella di uno Stato benefattore che distribuisce la ricchezza in modo “equo”, creando l’illusione nelle masse diseredate che le risorse dello Stato sono inesauribili, che si tratta solo di aprire il rubinetto dei petrodollari, e che settori della borghesia hanno un reale interesse ad occuparsi e risolvere i loro problemi.
In vista di vincere le elezioni presidenziali (in cui ha ottenuto 7 milioni di voti, mentre mirava ai 10 su di un totale di 16 milioni di elettori) Chavez ha concentrato il grosso della spesa pubblica sull’anno 2006: aumentando l’importazione di derrate alimentari durante i primi mesi dell’anno per venderle a prezzi sovvenzionati; inaugurando numerosi lavori pubblici di cui alcuni mai terminati decretando due aumenti del salario minimo per i lavoratori regolari (uno a maggio e l’altro a settembre); accelerando il processo di attribuzione delle pensioni di anzianità; pagando vecchi debiti ai lavoratori e aprendo le trattative sui contratti collettivi in scadenza, ecc. In fine, pochi giorni prima delle elezioni, sono stati pagati dei premi straordinari agli impiegati pubblici, ai pensionati ed ai membri delle “missioni”. Il governo ha concesso questo “grande festino”, grazie alla manna petrolifera, per creare un miraggio di prosperità nella popolazione. Queste spese, più di quelle provocate dall’aumento delle importazioni, l’acquisto di armamenti, gli “aiuti” ad altre nazioni, ecc., hanno provocato un incremento della spesa pubblica nel 2006 del 58% rispetto al 2005, ciò che equivale al 35% del PIL; una bomba a scoppio ritardato che si ripercuoterà prima o poi a livello di crisi economica.
Le “conquiste sociali” dello chavismo accentuano il depauperamento
Secondo la propaganda diffusa dallo chavismo a livello interno ed a scala internazionale (con il sostegno ed i consigli di dirigenti ed intellettuali di sinistra, e di eminenti dirigenti del movimento altermondialista) il Venezuela si starebbe orientando verso il superamento della povertà da qui al 2021.
Ma la realtà è ben altra. Basta andare nei quartieri poveri ad est (Tetare) ed a ovest (Catia) di Caracas, o nel centro stesso della città, per percepire la miseria reale che si nasconde dietro questa cortina di fumo: innumerevoli bisognosi, in maggioranza giovani, che vivono e dormono nelle strade, sotto i ponti e sulle rive del fiume Guaire (grande cloaca dove vanno a scaricarsi le acque reflue della città); vie e viali pieni di immondizie che hanno portato alla proliferazione di topi e malattie; giovani che si prostituiscono per sopravvivere; bambini abbandonati che vivono per strada; decine di migliaia di commercianti ambulanti (chiamati “buhoneros”) che vendono alcune derrate di sussistenza, ingrossano le fila della cosiddetta economia sommersa; una grande criminalità che ha fatto di Caracas una delle città più pericolose della regione e ha fatto del Venezuela il paese a più alto tasso di criminalità, superando quello della Colombia che per anni era stato il primo in quest’orribile classifica. A livello nazionale si registra un aumento di casi di malattie come la malaria e la dengue, della mortalità dei bambini e delle madri, ecc. Questo quadro non si limita a Caracas, la capitale, ma tocca anche le altri grandi città estendendosi progressivamente alle medie e piccole città. Sebbene il governo abbia preso delle misure per tentare di nascondere questa miseria, o l’abbia addebitata ai tiri mancini dell’opposizione o dell’imperialismo americano, le manifestazioni del depauperamento non possono essere occultate.
Le frazioni dell’opposizione, ipocritamente, criticano il governo per questa povertà, per presentarsi come la migliore possibilità di “difesa dei poveri”, mentre il loro vero interesse è riprendere il controllo dell’apparato di Stato. Intanto i mezzi di comunicazione del governo tacciono o minimizzano questa situazione che non è specifica delle città venezuelane, ma è il denominatore comune in altre città dei paesi della periferia del capitalismo.
Accanto a queste visibili espressioni di povertà, ve ne sono altre meno visibili che accentuano l’impoverimento delle masse proletarie: attraverso il cooperativismo stimolato dallo Stato, è stato formalizzato l’impiego precario poiché i lavoratori delle cooperative hanno meno redditi dei lavoratori regolari e, secondo le dichiarazioni dei sindacati e degli membri delle cooperative, non arrivano neanche al salario minimo ufficiale. La contrattazione sui contratti collettivi, soprattutto nel settore pubblico, ha subito ritardi enormi; gli aumenti salariali vengono accordati attraverso decreti specifici e nella loro grande maggioranza attraverso premi che non vanno ad incidere sui benefici sociali e se vengono pagati, lo sono con ritardi enormi. Attraverso le “missioni” ed altri piani del governo sono stati creati degli organi di servizi paralleli a quelli che esistono formalmente nei settori della salute e dell’educazione, e che sono stati utilizzati anche per mettere sotto pressione i lavoratori regolari e deteriorare le loro condizioni di lavoro. Come vediamo, la precarietà, la flessibilità del lavoro e gli attacchi ai salari dei lavoratori, propri del capitalismo selvaggio, sono inevitabili per ogni borghesia, anche la più “anti-neoliberista”, come pretende di essere la borghesia chavista.
I salariati e le masse emarginate pagano il prezzo dell’incessante spesa pubblica che la “nuova” borghesia chavista vuole consolidare attraverso un tasso di inflazione elevata che, in questi ultimi tre mesi, è stata la più importante dell’America latina (2004: il 19,2%; 2005: il 14,4%; 2006: il 17%, secondo le cifre ufficiali). Quest’aumento, provocato fondamentalmente dalla politica economica dello Stato, ha deteriorato le condizioni di vita dell’insieme della popolazione, soprattutto delle masse povere che impiegano il 70% o più dei loro redditi per l’acquisto di cibo, settore in cui l’inflazione cumulata nel periodo segnalato è stata del 152% (il 26% nel 2006) secondo le cifre della banca Centrale del Venezuela. Le stime per il 2007 non sono certo più allegre, poiché ci si aspetta un’inflazione superiore al 20%; quella di gennaio 2007 è stata del 2%, tasso più importante della regione.
Con il trionfo elettorale, lo chavismo ha il via libera per portare avanti i suoi attacchi contro i lavoratori
Alcuni giorni dopo le elezioni, il governo ha accelerato un insieme di misure per rafforzare il suo progetto di “socialismo del 21° secolo”, spiegando che con le elezioni il “popolo” aveva dato il suo sostegno a questo progetto.
La prima cosa che ha fatto è stata mostrare i sui muscoli ai settori borghesi avversari tanto nell’ambito nazionale che a livello internazionale, annunciando una serie di misure di nazionalizzazione in differenti settori dell’economia (telecomunicazioni, mezzi audiovisivi, energia, ecc.), un controllo maggioritario dello sfruttamento petrolifero, finora nelle mani delle multinazionali, ed un aumento del carico fiscale. Queste misure mostrano l’obiettivo principale della borghesia chavista: avere un migliore controllo dell’apparato economico nazionale attraverso misure radicali di capitalismo di Stato.
La borghesia sa che prima o poi la crisi si farà sentire, anche a causa dell’eccessiva spesa pubblica necessaria ad un modello politico come lo chavismo. Perciò, i pretesi “motori della rivoluzione bolivariana” annunciano in generale misure di maggiore controllo politico e sociale contro i lavoratori e la popolazione attraverso il preteso “Potere Popolare” ed i Consigli della Comunità.
Mentre annunciava il rafforzamento di questi organi di controllo sociale, il governo metteva avanti le misure contro le condizioni di vita dei lavoratori e della popolazione:
• misure di controllo e di repressione contro i venditori ambulanti della capitale, e che vanno ad estendersi al resto del paese;
• aumento del prezzo della benzina;
• una tendenza ad abbandonare delle “missioni” (come quella della distribuzione di alimenti e delle cure mediche) che ha provocato la chiusura di parecchie installazioni ed una riduzione dei prodotti di prima necessità con i prezzi fissati dallo Stato. Il governo furbamente ha accusato i settori del capitale privato di essere responsabili di questa situazione, mentre questa è il risultato delle misure del governo;
• è stata proclamata una lotta contro la burocrazia e la corruzione. In questo senso, Chavez ha chiesto di ridurre i grossi stipendi degli alti burocrati dello Stato (che, in certi casi, sono fino a 50 volte superiori al salario minimo ufficiale). Si tratta di una misura diversiva, poiché lo stesso chavismo ha conquistato la fedeltà degli alti burocrati dello Stato e dell’esercito concedendo loro stipendi plurimilionari e permettendo loro una gestione “discreta” delle risorse dello Stato. Il vero obiettivo di questa misura è attaccare solamente i piccoli burocrati, e cioè gli impiegati pubblici precarizzandoli (per esempio obbligandoli a formare delle cooperative) ed anche licenziandoli.
Il governo, dall’alto della sua grande popolarità, sta mostrando il suo vero volto di governo borghese: dopo avere utilizzato i lavoratori e gli strati emarginati nelle elezioni, adesso annuncia misure di austerità e di repressione.
Di fronte a questa situazione, i lavoratori in Venezuela, come nel resto del mondo, possono solo sviluppare la propria lotta contro gli attacchi incessanti del capitale. Sappiamo che questa lotta non sarà facile, in parte anche per le confusioni introdotte dall’ideologia chavista che ha indebolito e manipolato l’idea stessa di socialismo, che resta invece quella del superamento del regno della precarietà attraverso la lotta rivoluzionaria del proletariato.
CCI, 18 febbraio 2007
Esattamente 80 anni fa, nel marzo 1927, gli operai di Shanghai si sollevarono in un'insurrezione trionfante e presero il controllo della città mentre l’insieme della Cina era in fermento. In aprile, quest'insurrezione fu totalmente sbaragliata dalle forze del Kuomintang, partito nazionalista diretto da Tchang Kai-Chek, che il Partito comunista cinese (PCC) aveva elevato al rango di eroe della “rivoluzione nazionale” cinese.
Ultimi soprassalti della grande ondata rivoluzionaria che era iniziata nel 1917 in Russia, la sconfitta delle lotte proletarie in Cina dal 1925 al 1927, come quelle del proletariato tedesco nel 1921 e 1923, ha accentuato l'isolamento internazionale della Russia rivoluzionaria ed accelerato così il movimento verso un lungo periodo di controrivoluzione.
Dopo il 1924, la frazione stalinista, impadronitasi progressivamente della Russia, contribuì notevolmente allo schiacciamento dell’insurrezione cinese. Ma anche prima di questa data, la politica dei bolscevichi in Cina aveva già prodotto i semi delle future sconfitte. Nel 1922, il rappresentante del Comintern in Cina, H. Maring (alias Sneevliet) aveva posto, dopo discussioni amichevoli con Sun-Yat-Sen, le basi di un’alleanza tra il PCC ed il Kuomintang. Lo scopo era di fare una sorta di “fronte unito anti-imperialista” per la liberazione nazionale della Cina nel quale il primo problema era lottare contro i signori della guerra che controllavano grandi parti della Cina, specialmente al Nord. L’alleanza prevedeva che i militanti del PCC avrebbero dovuto aderire individualmente al Kuomintang, pur mantenendo un’autonomia politica nominale in quanto partito. In pratica, ciò significava la totale sottomissione del PCC agli obiettivi del Kuomintang.
Il periodo rivoluzionario (1925-1927)
Il 30 maggio 1925, gli operai e gli studenti manifestarono a Shangai in solidarietà con lo sciopero in una fabbrica di cotone che apparteneva al Giappone. La polizia municipale, diretta dalla Gran Bretagna, sparò sui manifestanti, facendo 12 vittime. La risposta operaia fu immediata. In due settimane, Shanghai, Canton e Hong Kong furono paralizzate da uno sciopero generale. A Shangai, lo sciopero era condotto dall’Unione Generale del Lavoro dominata dal PC. Ma a Canton ed Hong Kong, l’organizzazione dello sciopero fu assunta da un soviet embrionale, la “Conferenza dei delegati degli scioperanti”. Sostenuta da 250.000 operai che elessero un delegato per ogni 50 operai, la Conferenza mise in piedi 2000 picchetti di scioperanti controllando gli ospedali, le scuole e l’amministrazione della giustizia.
La risposta delle potenze imperialiste fu, come ci si poteva aspettare, isterica.
Ma questa forte conferma della mobilitazione del proletariato ebbe anche un effetto significativo sulla “borghesia nazionalista” organizzata in seno al Kuomintang. Questo partito era sempre stato un’alleanza torbida di industriali, di militari, di studenti ed idealisti piccolo-borghesi. In effetti tutti gli strati della borghesia vi erano rappresentati, salvo quelli più legati ai proprietari terrieri ed ai signori della guerra, (la maggior parte di questi ultimi avrebbero d’altra parte raggiunto in seguito il Kuomintang quando il vento si sarebbe girato a loro sfavore)... Sotto la guida di Sun-Yat-Sen, il Kuomintang inizialmente pensò di servirsi di un’alleanza con il PCC, perché quest’ultimo aveva la forza di mobilitare il proletariato urbano, in favore della “rivoluzione nazionale”. Finché le lotte operaie furono dirette contro le compagnie straniere ed il dominio imperialista dello straniero, la borghesia del paese fu pronta a sostenerle. Ma quando gli scioperi cominciarono ad estendersi alle fabbriche nazionali, questa stessa borghesia cinese scoprì che gli operai si davano ad “eccessi stupidi” e che “una cosa era utilizzare gli operai… ma un’altra completamente diversa era lasciarli mordere più di quanto potessero masticare” (dalla Rivista cinese settimanale, marzo ed aprile 1926, nel libro di H. Isaacs, La Tragedia della Rivoluzione cinese). Velocemente, i capitalisti cinesi appresero che avevano molte più cose in comune con gli “imperialisti stranieri” che non con i “loro” operai.
Questi avvenimenti provocarono una rottura in seno al Kuomintang, tra un’ala sinistra ed un’ala destra. La destra rappresentava gli interessi dell’alta borghesia che voleva mettere fine alla lotta operaia, sbarazzarsi dei comunisti ed arrivare ad un compromesso con gli imperialismi maggiori. La sinistra, principalmente animata da intellettuali e ranghi subalterni dell’esercito, voleva mantenere l’alleanza con la Russia ed il PCC. Non fu per caso se il principale macellaio del proletariato cinese, il generale Tchang Kai-Chek, si propose come rappresentante della sinistra. In effetti, Tchang, sebbene abbia sempre agito per soddisfare la sua insaziabile ambizione personale, simboleggiava l’insieme del gioco condotto dalla borghesia cinese in questo periodo. Da un lato, adulava il regime sovietico e faceva dei discorsi infiammati in favore della rivoluzione mondiale. Dall’altro, moltiplicava segretamente gli accordi con le forze reazionarie. Come i nuovi dirigenti della Russia, si preparava ad utilizzare la classe operaia cinese come una forza di sfondamento contro i suoi nemici immediati, mentre invece si preparava a sopprimere sistematicamente ogni “eccesso” (cioè ogni segno di lotta autonoma della classe operaia).
Nel marzo 1926, Tchang scatenò la sua prima offensiva vigorosa contro il proletariato di Canton. I comunisti ed altri militanti della classe operaia furono arrestati ed i quartieri generali dei comitati di sciopero di Canton-Hong Kong attaccati. Lo sciopero, che durava da mesi, fu velocemente spezzato dalla forza improvvisa della repressione. La risposta dell’IC a questo cambiamento brutale nella posizione di Tchang fu il silenzio, o piuttosto la negazione di ogni repressione contro la classe operaia cinese.
Tchang aveva organizzato il suo colpo militare a Canton come preliminare ad una spedizione chiave contro i signori della guerra del Nord, ma anche come prima tappa verso gli avvenimenti sanguinosi di Shangai. Le truppe di Tchang effettuarono spettacolari avanzate contro i militari nordisti, grazie soprattutto alle ondate di scioperi operai e rivolte contadine che contribuirono nelle retrovie a disperdere le forze del Nord. Il proletariato ed i contadini poveri si battevano contro le loro orribili condizioni di vita con l’illusione che un Kuomintang vittorioso avrebbe migliorato materialmente la loro sorte. Il partito comunista, lungi dal lottare contro queste illusioni, le rafforzava al massimo, non solo per chiamare gli operai a battersi per la vittoria del Kuomintang, ma anche per frenare gli scioperi operai e le requisizioni di terra da parte dei contadini quando minacciavano di andare troppo oltre.
Mentre il PCC e l’IC lavoravano per impedire gli “eccessi” della lotta di classe, Tchang si sforzava di piegare le stesse forze proletarie e contadine che avevano permesso le sue vittorie. Dopo aver vietato ogni rivendicazione operaia per tutto il tempo che durò la campagna del Nord, represse i movimenti operai di Canton, Kiangsi, e di altre città via via che avanzava. Nella provincia di Kwantung, il movimento contadino contro i signori della guerra fu schiacciato violentemente. La tragedia di Shanghai fu solamente il punto culminante di questo processo.
Lo schiacciamento dell'insurrezione di Shangai e la politica criminale del Comintern
Shangai, con i suoi porti e le sue industrie, conteneva il fior fiore del proletariato cinese. Allora era sotto il controllo dei signori della guerra. Mentre l’esercito del Kuomintang avanzava verso la città, l’Unione Generale del Lavoro (GLU-Sindacato Generale del Lavoro) diretto dal PCC, pubblicò un appello allo sciopero generale per rovesciare la cricca dirigente e “sostenere l’esercito della spedizione del Nord” e “salutare Tchang Kaï-Chek”. Questo primo tentativo fu brutalmente battuto dopo duri combattimenti di strada. Le autorità della città stabilirono un regno di terrore contro la popolazione operaia, ma lo stato d’animo combattivo di questa restava intatto. Il 21 marzo, gli operai si sollevarono di nuovo, questa volta meglio organizzati, con una milizia forte di 5000 operai, mentre tra i 500.000 e gli 800.000 operai parteciparono attivamente allo sciopero generale ed all’insurrezione. Gli uffici di polizia e le guarnigioni furono presi d’assalto e le armi distribuite agli operai. Il mattino seguente, tutta la città era nelle mani del proletariato.
Seguì un periodo minaccioso. Tchang arrivò alle porte di Shangai e, avendo di fronte una classe operaia armata e in pieno sollevamento, si mise immediatamente in contatto con i capitalisti locali, gli imperialisti e le gang criminali per preparare la repressione, proprio come aveva fatto in tutte le altre città “liberate”. E di nuovo, mentre le intenzioni di Tchang erano più che chiare, l’IC ed il PCC continuavano a consigliare agli operai di fidarsi dell’esercito nazionale ed augurare il benvenuto a Tchang in quanto “liberatore”. Tuttavia, il ricordo della repressione esercitata da questo aveva allertato una minoranza di rivoluzionari sulla necessità per la classe operaia di prepararsi a combatterlo alla stessa stregua dei signori della guerra. In Russia, Trotsky esigeva la formazione di soviet di operai, di contadini e di soldati come base per una lotta armata contro Tchang e per stabilire la dittatura del proletariato. In Cina, un gruppo dissidente di rappresentanti dell’IC, Albrecht, Nassonov e Fokkin, presero una posizione identica. In seno allo stesso PCC, la pressione saliva per una rottura con il Kuomintang. Ma la direzione del partito restava fedele alla linea dell’IC stalinizzata. Piuttosto che spingere alla formazione di soviet, il PCC organizzò un “governo municipale provvisorio” in cui si installò in minoranza a fianco della borghesia locale. Piuttosto che mettere sull’avviso gli operai sulle intenzioni di Tchang, il PCC accolse a braccia aperte le sue forze nella città. Piuttosto che accentuare la lotta di classe, solo mezzo valido di difesa e di attacco per il proletariato, il GLU si oppose alle azioni di scioperi spontanei e si adoperò per restringere il potere dei picchetti operai armati che avevano il controllo effettivo delle strade. Tchang poté così preparare accuratamente il suo contrattacco. Il 12 aprile, quando lanciò i suoi mercenari e le sue bande criminali (la maggior parte dei quali vestiti da “operai”, come rappresentanti dei sindacati “moderati” formati di recente, l’Alleanza Sindacale degli Operai) gli operai furono presi di sorpresa. Malgrado la coraggiosa resistenza degli operai, Tchang ristabilì vigorosamente “l’ordine” con un bagno di sangue in cui si vedevano operai venire decapiti in piena strada. La colonna vertebrale della classe operaia cinese era stata spezzata.
Qualche tempo dopo questa tragedia, Stalin ed i suoi uomini ammisero che la rivoluzione era fallita davanti “all’ostacolo”, pur insistendo sul fatto che la politica perseguita dal PCC e l’IC era stata corretta!
Le sconfitte del 1927 hanno lastricato la strada di un nuovo massacro della classe operaia che, dopo la sconfitta del tentativo rivoluzionario a livello mondiale, aprono la via verso un’altra carneficina imperialista mondiale. In tutti questi conflitti, il PCC si è mostrato come un servitore fedele del capitale nazionale, mobilitando le masse per la guerra contro il Giappone negli anni 1930 e poi nella guerra mondiale del 1939-45. Guadagnava così la sua legittimità a diventare il padrone dello Stato capitalista dopo il 1949 ed il capo becchino della classe operaia cinese.
Il proletariato cinese, come l’insieme del proletariato mondiale, pagava la sua immaturità e le sue illusioni a caro prezzo. La politica criminale e disastrosa del PCC fu in parte il riflesso del fatto che la classe operaia cinese nel suo insieme non aveva potuto guadagnare l’esperienza necessaria per rompere con lo strangolamento ideologico del Kuomintang e del nazionalismo. Non si è potuta affermare neanche come classe autonoma chiamata a giocare un ruolo storico particolare e determinante con i suoi scopi rivoluzionari, né dotarsi degli organi politici ed unitari necessari per compiere questo compito: i consigli operai ed un’avanguardia rivoluzionaria. Ma, in ultima analisi, la sorte della Rivoluzione cinese era stata già decisa nelle vie di Pietrogrado, di Berlino, di Budapest e di Torino. L’insuccesso della rivoluzione mondiale non poteva che lasciare gli operai cinesi nell’isolamento e nella confusione.
Le loro lotte massicce e spontanee, estremi sussulti del proletariato mondiale, poterono così essere deviate su un campo borghese ed alla fine schiacciate.
CDW
(da Revolution Internazionale n° 377)
Frederick Engels ha predetto più di un secolo fa che il capitalismo, se lasciato libero di agire, avrebbe trascinato la società umana nella barbarie. Lo sviluppo della guerra imperialista durante gli ultimi cento anni ha dimostrato che questa orrenda previsione può realizzarsi. Oggi, il mondo capitalista offre un’altra via per l’apocalisse: il collasso ecologico, che potrebbe rendere la terra inospitale alla vita umana come lo è Marte. Malgrado i difensori dell’ordine capitalista riconoscano che questa è la prospettiva, non c’è nulla di efficace che possano fare per cambiare le cose, perché sia la guerra imperialista che lo scombussolamento del clima sono stati determinati dalla perpetuazione del loro morente modo di produzione.
Guerra imperialista = barbarie
Il fallimento della sanguinosa invasione dell’Iraq nel 2003 da parte della “coalizione” capeggiata dagli Stati Uniti segna un momento decisivo dello sviluppo della guerra imperialista verso la distruzione stessa della società. Dopo quattro anni l’Iraq, invece di essere liberata, è stata trasformata in quello che i giornalisti borghesi chiamano una “società spezzata”. E la situazione in Iraq, così come quella in Libano, in Palestina non sono che parti di un processo di disgregazione che minaccia di inghiottire nuove zone del globo, non escluso le metropoli centrali del capitalismo. Lungi dal creare un “nuovo ordine” in Medio Oriente, la presenza militare degli Stati Uniti ha generato solo più caos.
In un certo senso questa carneficina di massa non è nuova. La Prima Guerra Mondiale del 1914-18 è stata la prima micidiale tappa verso un futuro di barbarie. Con la sconfitta della Rivoluzione dell’ottobre 1917 e delle insurrezioni operaie che ha ispirato nel resto del mondo negli anni 20, si apre la via alla catastrofe del conflitto generalizzato con la Seconda Guerra Mondiale del 1939-45. I civili indifesi delle maggiori città diventano l’obiettivo principale dello sterminio di massa sistematico dei bombardamenti e il genocidio di migliaia e migliaia di esseri umani si attesta nel cuore della civile Europa.
Poi la “Guerra fredda” dal 1947all’89 produce una serie di carneficine altrettanto distruttive in Corea, nel Vietnam, in Cambogia e da un capo all’altro dell’Africa, mentre c’è la minaccia continua di un olocausto nucleare globale fra gli USA e l’URSS.
Quello che c’è di nuovo nella guerra imperialista oggi è che la possibilità della fine dell’insieme della società umana a causa di tale guerra appare ora più chiaramente. Con tutta la loro brutalità e le loro lacerazioni, le guerre mondiali del secolo scorso potevano ancora aprire dei periodi di relativa stabilità. Al contrario, tutti i focolai di guerra della situazione attuale non offrono alcuna prospettiva se non un ulteriore aumento della frammentazione sociale a tutti i livelli, del caos senza fine.
Il deterioramento della biosfera
Mentre rafforza la tendenza imperialista verso una barbarie sempre più evidente, il capitalismo in decomposizione accelera i suoi attacchi contro la biosfera con una ferocia tale da determinare un olocausto climatico che potrebbe anche spazzar via la civiltà umana e la stessa vita sulla terra. Dal rapporto della Commissione Intergovernativa sul Cambiamento Climatico del febbraio 2007 e dallo stesso recente G8, risulta chiaro che la teoria sul surriscaldamento del pianeta dovuto all’accumulazione di elevati livelli di anidride carbonica nell’atmosfera prodotti dalla combustione su larga scala di combustibili fossili, non è più solo un’ipotesi ma una teoria “molto probabile”. Le conseguenze di questo riscaldamento del pianeta prodotto dall’attività umana stanno già iniziando a manifestarsi in maniera allarmante: il cambiamento del tempo ha portato sia alla siccità che a ripetute inondazioni su larga scala, a ondate di caldo mortali nel Nord Europa ed a condizioni climatiche estreme letali per l’agricoltura, il che aumenta rapidamente la carestia, le malattie e gli esodi nel terzo mondo. Naturalmente il capitalismo non può essere incolpato per aver iniziato a bruciare combustibili fossili o per l’azione sull’ambiente di altri modi di produzione con conseguenze impreviste e dannose. Ciò sta accendendo dall'alba della civilizzazione umana.
Il capitalismo è tuttavia responsabile dell’enorme accelerazione del processo di distruzione ambientale. Questo è il risultato della ricerca forsennata di profitto del capitalismo e la conseguente negligenza per i bisogni umani e dell’ambiente, tranne laddove questi coincidano con l’obiettivo di accumulare ricchezza. L’intrinseca competitività fra i capitalisti, in particolare fra gli Stati nazionali, impedisce ogni cooperazione reale a livello mondiale.
Da parte della borghesia solo chiacchiere
I partiti politici della borghesia in tutti i paesi stano virando nelle varie tonalità di verde. Ma le eco-politiche di questi partiti, per quanto radicali possano apparire, nascondono deliberatamente la serietà del problema perché l’unica soluzione ad esso minaccia il sistema stesso di cui questi sono espressione. Il massimo che sanno dire i governi è che “la salvaguardia del pianeta è responsabilità di ognuno di noi”, quando in realtà la stragrande maggioranza degli uomini è privata di ogni potere politico e economico, di ogni controllo sulla produzione ed il consumo, su cosa e come si produce. E la borghesia, che invece ha pieno potere in queste decisioni, riesce sempre meno a soddisfare i bisogni umani e dell’ambiente per salvaguardare il profitto.
Basta guardare i risultati delle precedenti politiche dei governi per ridurre le emissioni dell’anidride carbonica per constatare la completa inefficacia degli Stati capitalisti. Anziché una stabilizzazione delle emissioni di gas serra ai livelli degli anni 90 entro il 2000, sulla quale si erano modestamente impegnati i firmatari del Protocollo di Kyoto nel 1995, alla fine del secolo c’è stato un aumento del 10,1% nei maggiori paesi industrializzati ed è previsto che ci sarà un aumentato del 25,3% entro il 2010.
C’è chi, riconoscendo che il profitto è un potente disincentivo ad un’efficace limitazione dell’inquinamento, crede che il problema possa essere risolto sostituendo le politiche liberali con soluzioni statali ben organizzate. Ma è chiaro, soprattutto a livello internazionale, che gli Stati capitalisti sono incapaci di cooperare su questo problema, perché ciascuno di loro dovrebbe farsi carico dei conseguenti costi economici. Il capitalismo è concorrenza ed oggi più che mai è dominato dalla regola del “tutti contro tutti”.
Per i proletari non tutto è perso, hanno ancora un mondo da conquistare
Sarebbe tuttavia sbagliato rassegnarsi e pensare che la società umana deve necessariamente cadere nell’oblio a causa di queste forti tendenze - di imperialismo e distruzione ambientale - verso una barbarie crescente. Il fatalismo di fronte all’inconsistenza di tutte le mezze misure capitaliste proposte per portare la pace e l’armonia con la natura è sbagliato quanto il credere in queste cure cosmetiche.
La società capitalista, così come ha sacrificato tutto all’ottenimento del profitto ed alla concorrenza, ha anche involontariamente prodotto gli elementi per la propria distruzione come sistema di sfruttamento. Ha generato i potenziali mezzi tecnologici e culturali per un sistema di produzione mondiale unificato e pianificato adattato ai bisogni degli esseri umani e della natura. Ha prodotto una classe, il proletariato, che non ha bisogno di pregiudizi nazionali o competitivi, ma ha tutto l’interesse a sviluppare la solidarietà internazionale. La classe operaia non ha interesse nel rapace desiderio di profitto. In altre parole il capitalismo ha posto le basi per un più elevato ordine sociale, per la sua sostituzione con il socialismo. Il capitalismo sta mostrandosi capace di distruggere la società umana, ma al tempo stesso ha generato il proprio affossatore, la classe operaia, che può preservare la società umana e elevarla a nuovi livelli.
Il capitalismo ha prodotto conoscenze scientifiche tali da identificare e misurare i gas invisibili come l’anidride carbonica sia nell’atmosfera attuale che nell’atmosfera di 10.000 anni fa. Gli scienziati possono identificare gli isotopi specifici dell’anidride carbonica che risultano dalla combustione dei combustibili fossili. La Comunità scientifica ha potuto testare e verificare l’ipotesi dell’effetto della serra. Tuttavia è finita da tempo l’epoca in cui il capitalismo, in quanto sistema sociale, poteva usare il metodo scientifico ed i suoi risultati a favore dell'’evoluzione dell’essere umano. L’insieme della ricerca e delle scoperte scientifiche sono oggi rivolte alla distruzione; all’elaborazione di sempre più sofisticati metodi di sterminio di massa. Soltanto un nuovo ordine sociale, una società comunista, può mettere la scienza al servizio di umanità.
Malgrado i 100 anni di declino del capitalismo e le severe sconfitte per la classe operaia, queste basi per la costruzione di una società nuova sono ancora intatte.
La ripresa del proletariato mondiale dal 1968 lo dimostra. Lo sviluppo della lotta di classe contro la pressione costante sulle condizioni di vita dei proletari nelle decadi successive ha impedito la barbara soluzione prospettata dalla “guerra fredda”: una terza guerra mondiale. Dal 1989 tuttavia e con la scomparsa dei blocchi imperialisti, la posizione difensiva della classe operaia non ha potuto impedire la successione di orribili guerre locali che minacciano di svilupparsi in una spirale senza controllo, estendendosi in un numero crescente di parti del pianeta. Nella fase attuale, di decomposizione del capitalismo, il tempo non gioca a favore del proletariato, specialmente perché c’è la pressione di una catastrofe ecologica che va aggiunta nell’equazione storica.
Dal 2003 la classe operaia ha ripreso la via della lotta con rinnovato vigore dopo il crollo del Blocco dell’Est che determinò un provvisorio arresto della ripresa iniziata nel 1968.
In queste condizioni di sviluppo della fiducia della classe in se stessa, l’incremento dei pericoli derivanti dalla guerra imperialista e dalla catastrofe ambientale, invece di indurre un sentimento di impotenza e di fatalismo, possono condurre ad una riflessione politica maggiore sulla posta in gioco nella situazione mondiale e sulla necessità di un rovesciamento rivoluzionario della società capitalista.
Como 5/5/7
(da World Revolution n°304)
La tragedia si è consumata veloce e profonda nel giro di pochi giorni. I motivi di tensione esistenti tra le due diverse frazioni della dirigenza palestinese facenti capo ad Hamas e ad Al Fatah rispettivamente erano diversi. Entrambi espressione del riscatto di una nazione palestinese contro l’eterno nemico israeliano, hanno espresso nel tempo questa ambizione di rivalsa con modalità diverse e concretamente opposte. Al Fatah esprimendo il versante ragionevole e collaborativo, Hamas esprimendo viceversa il versante oltranzista, carico anche di un forte fanatismo religioso. Le elezioni parlamentari dello scorso anno e la vittoria schiacciante di Hamas, che ha preso il pieno controllo del parlamento, con un presidente dell’Autorità Palestinese, Abu Mazen, che resta un moderato, hanno solo finito per produrre gli ingredienti per l’atto finale. Dopo una serie di scontri interni tra le due fazioni, alla fine si è arrivati ad una vera e propria resa dei conti, con uno scontro armato che ha portato alla presa del potere da parte di Hamas della striscia di Gaza mentre, per contromisura, il presidente Abu Mazen ha sciolto il precedente governo di coalizione e, dopo aver dichiarato lo stato di emergenza, ha messo su un nuovo governo “di emergenza” senza neanche l’avallo del parlamento (che non glielo darebbe data la sua composizione), profittando appunto dello stato di emergenza. Ma come si è arrivati a tanto?
La Palestina, cassa di risonanza di tutte le tensioni imperialiste
E’ dai tempi della guerra fredda che gli Usa utilizzano Israele come avamposto militare per controllare e tenere a bada i paesi arabi e tutta l’area mediorientale. E’ ugualmente dalla stessa epoca che la questione palestinese è stata invocata e propugnata da tutti i sedicenti liberatori di popoli, dagli ex paesi stalinisti fino ai vari partiti e movimenti di sinistra che hanno portato avanti l’illusione che per risolvere - o per lo meno lenire - le sofferenze di quel popolo occorresse arrivare all’edificazione di un suo stato. Di fatto gli uni come gli altri si sono serviti delle sofferenze di questi due popoli, entrambi particolarmente provati dalle traversie della storia, per metterli gli uni contro gli altri e per portare avanti la loro politica. Così lo sfascio che oggi possiamo osservare in Palestina è solo in minima parte attribuibile ai rancori antichi esistenti tra le diverse comunità sciite e sunnite e molto più il risultato dei giochi imperialisti che le varie potenze, grandi e meno grandi, hanno svolto e stanno svolgendo tuttora in quest’area. Giusto per ricordare qualche elemento che ha sicuramente concorso a caricare lo scontro tra le due frazioni, possiamo citare come Israele abbia in tutta una fase favorito lo sviluppo di Hamas ai danni di Al Fatah sperando così di ottenere proprio quello a cui siamo arrivati oggi, la perdita di credibilità dell’autorità palestinese e lo scontro tra le due frazioni:
“Quanto ad Hamas, chi conosce le vicende della Palestina occupata sa bene quanta parte abbiano avuto gli israeliani nell’insediamento degli islamisti a Gaza e in Cisgiordania. Come nella seconda metà degli Ottanta fossero visti, da Ariel Sharon in particolare, quali utili contendenti dell’Olp di Arafat. Come ne vennero favorite la crescita e le attività, così da produrre due risultati: uno certo, l’indebolimento dell’Olp, e un altro auspicabile, lo scontro interno tra le due fazioni” (La Repubblica, 14/06/07).
Nello stesso senso possiamo ricordare come l’assedio posto da Israele al quartiere generale del capo dell’Olp Arafat a Ramallah e durato un anno e mezzo e, più recentemente, la sospensione degli aiuti e dei finanziamenti all’autorità palestinese da parte di Usa e UE dopo la formazione del primo governo di Hamas, abbiano giocato entrambi a discreditare la componente moderata della borghesia palestinese, dando vigore alla sua ala estremista di Hamas.
Solo che oggi la situazione di frattura che si è creata in Palestina rischia di sfuggire di mano anche a coloro che in tempi lontani l’hanno innescata e può produrre una instabilità in tutta l’area di cui possono profittare soprattutto quelle potenze emergenti, Iran, Siria tra le principali, che partendo da una situazione di debolezza non possono che guadagnare da qualunque situazione in movimento. E’ per questo che la situazione palestinese costituisce un elemento di grande preoccupazione per le borghesie dei paesi dominanti, Usa in testa, e non è un caso che in seguito alla situazione che si è creata siano stati ripristinati con urgenza i finanziamenti all’autorità palestinese, proprio per dare forza a credibilità all’unica forza politica che in questo momento ha, almeno sulla carta, qualche vaga speranza di recuperare la situazione.
La Palestina, inferno dell’umanità
In tutto questo c’è da chiedersi come stanno e che dicono le popolazioni che vivono nei territori palestinesi. Purtroppo, se prima stavano male, adesso non possono che stare ancora peggio. Infatti la popolazione palestinese, già sottoposta alla doppia autorità dello stato palestinese e di quello israeliano, oggi addirittura si vede contesa tra due diversi governi che si reclamano entrambi il suo legittimo rappresentante, con atti di reciproche vendette e controvendette per i “traditori”, ovvero per quelli che incappano nelle maglie degli uni o degli altri carnefici, come è stato il caso di un miliziano di Al Fatah che è stato gettato da un palazzo di 18 piani dai guerriglieri di Hamas. Naturalmente poco dopo è stato reso lo stesso sporco servizio dai “moderati” di Al Fatah che non hanno esitato a sottoporre allo stesso tipo di supplizio un combattente di Hamas. Questo tipo di esecuzioni sono del tutto consuete nei ranghi delle milizie e del popolo palestinesi, oggi “giustificate” dallo scontro tra fazioni, ieri semplicemente alimentate dal sospetto di non essere del tutto fedeli alla causa palestinese e di avere delle simpatie per Israele. In altri termini lo stesso pacifismo, in Palestina, può essere visto come elemento di tradimento e giudicato passibile di esecuzione capitale. E’ questa la cultura di libertà che porta dentro il popolo palestinese? E’ la guerra civile il risultato degli sforzi di un popolo che da decenni si batte per uno stato proprio? In realtà, se siamo arrivati a questo, non è perché “il popolo” palestinese abbia delle cattive qualità, non abbia la capacità di esprimere una cultura della libertà, ecc., ma perché oggi come oggi, in una fase di crisi storica del capitalismo, non è più ai popoli che può essere demandato il compito di fare sviluppare questo o quel paese. In un’epoca di declino storico e di crisi irreversibile di tutta la società, solo la classe operaia e la sua lotta per il socialismo può mettere fine alle sofferenze dell’umanità. La frattura del ministato palestinese in due sub-unità in lotta fra di loro è la dimostrazione storica della mistificazione che ha sempre accompagnato la parola d’ordine della lotta per lo stato palestinese. La guerra che si combattono due diversi eserciti agli ordini di due diversi e contrapposti governi palestinesi, le sofferenze del popolo palestinese, preso in una trappola dai cannoni di Israele e dalle mitragliatrici di Hamas e di Al Fatah, l’incubo di migliaia di persone che cercano di scappare dalla trappola di Gaza per andare in Cisgiordania dovendo attraversare oltre 40 chilometri di territorio israeliano, esprimono fino in fondo quanto sia falsa la prospettiva di uno stato palestinese come soluzione delle sofferenze del suo popolo. Hamas come Al Fatah, Hezbollah come al Qaida, sono tutte bande criminali al pari di tutte le altre borghesie del mondo, alla ricerca di uno spazio imperialista in un mondo in disfacimento. E’ solo la classe operaia che, polarizzando intorno a sé gli strati popolari non sfruttatori, può dare una risposta in positivo alla tragedia dell’epoca che viviamo.
Ezechiele, 22 giugno 2007
1. Ma solo di nome, perché stalinisti di fatto.
Più di un anno fa, in Francia, mentre il movimento dei giovani faceva ritirare al governo un progetto di legge che aumentava la precarietà dei lavoratori1, la classe dominante ha lanciato una campagna elettorale assordante in vista delle elezioni presidenziali … della primavera del 2007! Come in Italia nel 2005-2006 la campagna ha imperversato per un anno, con tutto l’aiuto della “suspense” sul possibile esito, e di attori ed altri artisti che si sono battuti per convincere tutti che bisognava votare, che la “vera” vittoria era nelle urne. In particolare cantanti e sportivi hanno fatto tutta una pressione verso i giovani, soprattutto delle periferie, per farli iscrivere alle liste elettorali e andare a votare per non perdere l’occasione di decidere “loro stessi” del proprio destino! Quest’anno le elezioni in Francia sono al centro di tutte le preoccupazioni, onnipresenti alla televisione, alla radio e sulla stampa (i lavoratori italiani possono smettere di illudersi di essere stati i soli ad avere questo privilegio!). Votare, questo “atto civico” è oggi sentito dalla grande maggioranza della popolazione come un vero dovere. In questo clima, chi osa confessare ai propri colleghi o a quelli che conosce che lui non vota, si attira immediatamente i fulmini e la disapprovazione generale. L’interesse suscitato da tutto questo lavorio sembra ben reale visto l’elevato tasso di partecipazione alle presidenziali. Dopo il primo turno tutta la classe dirigente si è felicitata di questa alta partecipazione, come “vittoria della democrazia, che non si è smentita al secondo turno.
Ufficialmente la posta in gioco di queste elezioni era molto importante: tutti i candidati parlavano di “rottura” radicale, di cambiamenti che avrebbero fatto uscire la Francia dal marasma economico. Per la classe operaia, inquietarsi per il futuro, voler mettere fine al degrado continuo delle proprie condizioni di vita è certamente legittimo. O, per dire meglio, è una necessità. Ma veramente è mobilitandosi massicciamente sul terreno elettorale che i lavoratori potevano far fronte insieme a tutti questi attacchi? Per la borghesia il diritto al voto è un bene prezioso. Grazie ad esso ogni cittadino ha il potere di decidere la politica che si deve fare nel suo comune, nella sua provincia, nella sua regione, nella sua nazione. Questo è il fondamento della democrazia. Ma questo “potere” non è in realtà una farsa? Ad ogni elezione formalmente si scontrano progetti differenti per l’avvenire della società. Ma in realtà in Francia i due grandi partiti in lizza si sono alternati al potere in questi ultimi anni ed hanno, in tutta evidenza, condotto la stessa politica di attacchi contro le condizioni di vita della classe operaia, con il risultato di una disoccupazione crescente, condizioni sempre più precarie per tutti i lavoratori, espulsioni di immigrati, e così via.
Nell’attuale campagna c’è stata una drammatizzazione degli obiettivi: la destra ha messo avanti l’insicurezza che avrebbe regnato in Francia se lei avesse perso, la sinistra ha polarizzato l’attenzione sull’ultra-liberalismo, l’autoritarismo, e addirittura il fascismo del candidato di destra. Però è stata la sinistra che indicando di votare Chirac nel 2002 per “sbarrare la strada all’estrema destra” ha favorito la promozione di Sarkosy. Oggi essa avanza lo stesso scenario con il suo “tutto, meno che Sarkosy”! La realtà è che gli attacchi antioperai non sono affatto legati alle personalità. E’ la logica stessa del capitalismo che spinge i suoi politici ad adottare questa o quella misura. Tanto è vero che tutti gli attacchi annunciati dal nuovo governo Fillon facevano parte anche del “piano d’azione” di Ségolène Royal: riforma delle pensioni e dei regimi speciali, smantellamento progressivo della copertura sanitaria, aumento dei carichi di lavoro…
E non poteva essere altrimenti. Tutte queste misure sono necessarie per la competitività dell’economia nazionale e quindi ogni frazione al potere deve metterle in atto. Ancora una volta l’esperienza ci mostra che destra e sinistra agiscono in perfetta continuità. E’ sempre la borghesia che vince le elezioni e i proletari non hanno niente da aspettarsi da questa mascherata. Se la borghesia si da tanto da fare per spingere i cittadini a votare, è per deviare l'attenzione della classe operaia su un falso terreno, ed in particolare le giovani generazioni che hanno mostrato la loro preoccupazione per il futuro della società nelle lotte della primavera 2006. Nella democrazia borghese, una volta ogni cinque anni, la società fa finta di mettere su un grande dibattito collettivo in cui tutti sono coinvolti. Nella lotta, al contrario questa implicazione di tutti è reale. Nelle assemblee generali autenticamente proletarie, la parola è data a tutti, i dibattiti sono aperti e fraterni, e, soprattutto, i delegati sono revocabili. Il terreno elettorale è IL terreno della borghesia. Su questo terreno tutte le armi sono nelle mani della classe dominante. E’ essa che ne esce ogni volta vittoriosa e il proletariato ogni volta vinto. Invece nelle manifestazioni, nelle fabbriche, nelle assemblee generali, gli operai possono unirsi, organizzarsi e battersi collettivamente. La solidarietà della classe operaia è una delle chiavi dell’avvenire, contrariamente a questi piccoli pezzi di carta chiamati schede elettorali! Il risultato delle elezioni rappresenta un successo per la borghesia francese, ma essa non potrà impedire che si continui a sviluppare tutta una preoccupazione sul proprio avvenire nella classe operaia, perché le manifestazioni del fallimento del capitalismo si amplificano e spingono sempre più gli operai del mondo intero a lottare per un’altra prospettiva.
E
1. Vedi le “Tesi sul movimento degli studenti in Francia”, su Rivista Internazionale n. 28
La storia della Repubblica italiana è stata certamente costellata da una miriade di colpi di scena parlamentari e politici, con crisi governative e relative cadute degli esecutivi. Ma oggi assistiamo a qualcosa di nuovo: gli ultimi governi non arrivano neanche a formarsi che già devono far fronte a una serie di turbolenze interne che li rendono fragili e deboli, turbolenze spesso causate non tanto dall’opposizione o “dalla piazza”, quanto dalle stesse componenti della maggioranza. E’ stato così per il primo governo Berlusconi che è addirittura caduto per mano dell’alleato leghista che tirava sul prezzo dell’alleanza. Lo stesso è stato per il primo governo Prodi, anch’esso caduto di fronte al voto contrario di Rifondazione Comunista e ripiegando sul governo D’Alema. Il secondo governo Berlusconi è certo rimasto più a lungo, ma a costo di quale logoramento interno e con l’uscita dell’UDC dall’alleanza della CDL a fine legislatura. Oggi abbiamo un secondo governo Prodi che non smentisce questo andamento avendo già subito, con la sua risicata maggioranza, una prima crisi parlamentare per il voto contrario di alcuni elementi interni alla maggioranza sul caso Afghanistan e continuamente traballante per le infinite liti che sorgono al suo interno. Cos’è dunque che sta succedendo?
La decomposizione dell’apparato politico della borghesia
Quello che avviene in Italia è l’espressione di un fenomeno di dimensione più generale che la nostra organizzazione ha denominato fase di decomposizione e che ha generato, tra le sue conseguenze più importanti, il crollo dei due blocchi imperialisti. A partire da questa situazione, diversamente da quanto accadeva ancora una ventina di anni fa, quando i singoli paesi del mondo tendevano ad allinearsi dietro una delle due grandi superpotenze, oggi come oggi, in mancanza di questa polarizzazione a livello imperialista, i singoli paesi tendono a giocare ognuno le proprie carte sullo scacchiere internazionale. Ciò ha profondamente alterato la vita politica della borghesia in paesi come l’Italia dove, finita l’epoca del controllo ferreo da parte degli USA sul nostro paese attraverso un partito come la Democrazia Cristiana, le componenti politiche (di nuova generazione o riciclate dalla prima Repubblica) hanno potuto giocare più liberamente un loro ruolo. Ma sta proprio qui il problema. Di fronte ad uno scenario in cui mancano degli elementi di riferimento forti, anche se mistificati, come potevano essere all’epoca il modello sovietico (scambiato erroneamente per patria del socialismo) e il modello americano (scambiato a sua volta per patria della democrazia), in mancanza di un dovere categorico a rimanere allineati su una certa politica, questi partiti tendono a perdere tanto la loro identità quanto ogni senso di coerenza politica, tendendo sempre più ad andare ognuno per proprio conto, seguendo la logica del vantaggio immediato e perdendo ogni visione di prospettiva. Questa perdita di coerenza comporta altresì la pletora di partiti e partitini che, particolarmente nella maggioranza dell’attuale governo Prodi, ha raggiunto una dimensione farsesca, producendo una fragilizzazione di quella che, sulla carta, dovrebbe essere la componente più seria e solida della borghesia. D’altra parte, confrontato ad una situazione di difficoltà economica che impone misure sempre più antipopolari che il governo Prodi non ha mancato di portare avanti con la sua finanziaria, il decreto Bersani e tutta la politica finora condotta, l’attuale maggioranza, come già quella di Berlusconi a fine legislatura, soffre di una forte perdita di credibilità finendo per subire uno scacco matto alle recenti elezioni amministrative.
I difficili tentativi della borghesia di far fronte alla propria perdita di identità e di unità
Naturalmente la borghesia, benché colpita da questa perdita di prospettiva, è dotata al suo interno di componenti più serie e lungimiranti - come ad esempio la compagine di Prodi - che si rendono conto che la gente ha sempre meno fiducia nelle istituzioni e che si affaccia l’idea che “destra o sinistra sono ormai la stessa cosa”. Questo è un problema per la borghesia che punta sulla mistificazione democratica delle elezioni per avere un controllo sulla popolazione e, se dal punto di vista economico, non ci può fare niente, la cosa su cui può puntare è dare un’immagine per lo meno più seria di chi sta al governo. E’ in questa chiave che vanno letti i tentativi che si stanno portando avanti per compattare i partiti della borghesia per avere delle maggioranze più salde. Questo fenomeno è presente sia a destra che a sinistra, con Berlusconi da un lato che spinge verso un’alleanza più vincolante se non un vero e proprio partito unico, e la sinistra che, con maggiore determinazione che per il passato, porta avanti il progetto del partito democratico. Ma, come già detto, l’impresa non è facile perché finanche questo tentativo di vincere la frammentazione è visto da altri come opportunità per acquisire migliori posti, scavalcare dei rivali-alleati, ecc. Tutto questo alimenta la turbolenza politica a cui stiamo assistendo da un anno a questa parte:
“Come si fa a dare un’immagine di buon governo, quando i ministri e gli alleati della tua maggioranza sono i primi a smontare i provvedimenti che prendi? Ormai il dissenso precede addirittura il provvedimento da cui si dissente. Basta che lo annunci, e c’è subito qualcuno che si ritiene titolato a criticare, per aumentare la visibilità sua e quella del suo partito. (…) Il “panino” dei tg è il simbolo di questo pessimo andazzo: se dissenti ci sei dentro, se no sei fuori”. (La Repubblica 30/5/07).
Queste parole di Prodi sono particolarmente significative ed esprimono bene la dinamica impazzita a cui assistiamo tutti i giorni. In pratica, in assenza di un qualunque connotato ideale e/o politico che caratterizzi concretamente questo o quel partito, quello che dà vigore alle varie parrocchiette politiche è la loro visibilità, la loro capacità di farsi sentire. Perciò, come giustamente arguisce Prodi, “se dissenti ci sei dentro, se no sei fuori”, cioè se punti i piedi e contesti la tua stessa maggioranza, sei dentro cioè sei visibile in tv e quindi in qualche modo acquisti popolarità rispetto ai tuoi stessi alleati; se non lo fai, sei scavalcato dagli altri.
La dinamica di decomposizione dello Stato
Ma il fenomeno della decomposizione non riguarda soltanto i partiti della borghesia, ma più in generale l’insieme della società borghese, ivi comprese le stesse strutture dello Stato. Per comprendere ciò è importante prendere in considerazione quanto sta succedendo da qualche anno in Italia a proposito di intrighi e scandali intorno a Telekom Serbia e commissione Mitrokin, di dossier raccolti indebitamente dai servizi segreti dello Stato, di una tendenza della Guardia di Finanza a muoversi “come un corpo separato”, fino ad arrivare ai recentissimi dossier sulle intercettazioni telefoniche che riguardano gli stessi DS, da Fassino a D’Alema. Tutto questo ha portato un giornale come la Repubblica a parlare dell’insorgere di una nuova P2:
“Si può dire che quel che fa capolino con l’offensiva del generale (Speciale, ndr) è una varietà modernizzata della loggia P2. La si può definire così, una P2, soltanto per semplificazione evocativa anche se il segno caratteristico di questa consorteria non è l’affiliazione alla massoneria (anche se massoni vi abitano), ma la pervasività – sotterranea, irresponsabile, incontrollata, trasversale – del suo potere di pressione, di condizionamento, di ricatto.” (La Repubblica 4/6/07).
Ma cosa sarebbe questa “consorteria”?
“Di quel network di potere occulto e trasversale, ormai si sa o si dovrebbe sapere. E’ un “apparato” legale/clandestino deforme, scandaloso, ma del tutto “visibile”. Nasce con la connessione abusiva dello spionaggio militare con diverse branche dell’investigazione, soprattutto l’intelligence business, della Guardia di Finanza; con agenzie di investigazione che lavorano in outsourcing; con la Security privata di grandi aziende come Telecom, dove esiste una “control room” e una “struttura S2OC” «capace di fare qualsiasi cosa, anche intercettazioni vocali: può entrare in tutti i sistemi, gestirli, eventualmente dirottare le conversazioni su utenze in uso, con la possibilità di cancellarne la traccia senza essere specificamente autorizzato.»” (La Repubblica 4/6/07).
A sentire queste parole sembra quasi di tornare ai tempi bui dei tentativi di golpe in Italia, preparati e mai portati a termine dal generale De Lorenzo nel 1964 o dal principe Borghese nel dicembre 1970 o delle trame piduiste di Gelli durate fino a tutti gli anni ’70. Ma è questo lo scenario che si profila davanti a noi? Certamente no, anzitutto per il fatto che, oggi ancora più che allora, una soluzione forte non è proprio all’ordine del giorno perché la borghesia ha a che fare con il risveglio lento ma deciso di una coscienza di classe contro il quale non sono adatte misure autoritarie quanto piuttosto le mistificazioni della democrazia. Ma anche perché assistiamo oggi a qualche cosa di inedito, ovvero a una tendenza di questo coacervo di forze a non stare né con la destra né con la sinistra, ma di compattarsi semplicemente in maniera autonoma per fare i propri interessi, attraverso una politica di veleni, pressioni e ricatti:
“Prima della campagna elettorale del 2006, l’apparato legale/clandestino programma e realizza una campagna di discredito contro Romano Prodi. Sarebbe un errore, però, considerare il network “al servizio” del centrodestra. Quell’apparato legale/clandestino, a cavallo tra due legislature, si è “autonomizzato”, si è “privatizzato”, è autoreferenziale. Raccoglie e gestisce informazioni in proprio. (…) Con accorta disciplina, il network spionistico sa essere il virus e il terapeuta della malattia del sistema politico italiano che impedisce, all’uno come all’altro schieramento, di riconoscersi la legittimità (morale prima che politica) di governare. Alimenta così la sindrome di Berlusconi consegnandogli dossier sul complotto mediatico-giudiziario. La cura con una pianificazione di annientamento dei presunti complottardi. Eccita il “complesso berlusconiano” della sinistra e lenisce quello stato psicoemotivo, prima che politico, con informazioni sulle mosse vere o presunte del temuto spauracchio. Quanto più il conflitto pubblico precipita oscurandosi in un sottosuolo, dove poteri frantumati, deboli, nevrotici tentano di rafforzarsi o difendersi; tanto più il network è in grado di essere custode dell’opaca natura del potere italiano o il giocatore in più che può favorire la vittoria nella contesa.” (La Repubblica 4/6/07).
Ancora una volta dobbiamo dire che non ci meravigliamo dell’esistenza di questa dinamica subdolamente infedele ed eversiva che anima settori dello Stato e che in altre circostanze avrebbe fatto gridare al pericolo di golpe. Ma, contrariamente al passato, oggi questo agglomerato di realtà, questo network, come viene chiamato nell’articolo citato, non risponde neanche più alla logica del partito golpista di una volta. Non potendo trovare nel mondo politico reale degli sponsor che siano in grado di raccogliere questa offerta di aiuto, “quell’apparato legale/clandestino (…) si è “autonomizzato”, si è “privatizzato”, è autoreferenziale.” Così questo network spionistico si mette in proprio ed agisce per conto proprio, “sa essere il virus e il terapeuta della malattia del sistema politico italiano che impedisce, all’uno come all’altro schieramento, di riconoscersi la legittimità (morale prima che politica) di governare.”
Se abbiamo dedicato tutto un articolo a delle questioni “interne” alla borghesia è perché questa cerca e cercherà sempre più di utilizzare le sue stesse contraddizioni e beghe interne contro i proletari, per farli schierare, per farli compattare intorno ad una vacua democrazia contro un presunto pericolo di golpe, di trame oscure, ecc. ecc. La realtà è invece che questa società, in mancanza di una qualunque prospettiva, fosse pure quella di un’entrata in guerra nell’illusione folle di guadagnare sul campo di battaglia un maggiore spazio imperialista, si accartoccia su se stessa, si sfalda ogni giorno di più, facendoci capire che, in Italia come negli Usa o in Russia o in Cina, non c’è alcuna prospettiva per l’umanità. L’unica possibilità per arrestare il processo di sfaldamento, di perdita di coerenza, di decomposizione che sta vivendo la società borghese in questa fase è che il proletariato imponga la sola soluzione storica che esiste oggi, la rivoluzione proletaria per abbattere questa società e instaurare la società comunista.
Ezechiele, 11 giugno 2007
All’inizio dell’anno un’ondata di scioperi ha toccato numerosi settori in Egitto: le fabbriche di cemento, gli allevamenti di pollame, le miniere, i trasporti urbani e le ferrovie. Nel settore sanitario, e soprattutto nell’industria tessile, gli operai hanno scatenato una serie di scioperi illegali contro il forte abbassamento degli stipendi reali e le riduzioni dei premi di incentivazione. Il carattere combattivo e spontaneo di queste lotte può essere colto dalla descrizione che segue che riporta come, nello scorso dicembre, sia scoppiata la lotta nel grande complesso di tessitura e filatura nel nord del Cairo, Mahalla al-Kubra’s Misr, epicentro del movimento. Le citazioni sono tratte dal testo di Gioele Beinin e Hossam el-Hamalawy dal titolo: “Gli operai del tessile egiziano si scontrano con il nuovo ordine economico”, pubblicato sui siti “Middle East Report Ondine” e libcom.org, e basato su interviste a due operai della fabbrica, Muhammed’Attar e Sayyid Habib.
“I 24.000 operai del complesso di tessitura e filatura Mahalla al-Kubra’s Misr erano in attesa di notizie sulle promesse fatte il 3 marzo 2006, secondo le quali il Primo ministro, Ahmad Nazif, avrebbe decretato un aumento del premio annuo per tutti gli operai del settore pubblico industrializzato di 100 lire egiziane (17$) corrispondenti ad un premio di due mesi di salari. Gli ultimi aumenti di premi annui, da 75 a 100 lire, risalivano al 1984.
«Abbiamo letto il decreto ed abbiamo cominciato a parlarne in fabbrica» dice Attar. «Anche le autorità del sindacato pro-governativo pubblicavano la notizia come un loro successo». Continua poi: «Arrivò dunque dicembre (periodo in cui sono pagati i premi annui) e ognuno era ansioso. Ci accorgemmo allora che eravamo stati presi in giro. Ci venivano offerte le stesse vecchie 100 lire. In realtà 89 lire, per essere più precisi, a causa delle detrazioni (per le tasse)»”.
Uno spirito di lotta era nell’aria. Nei due giorni seguenti, gruppi di operai rifiutarono di accettare il salario in segno di protesta. Poi, il 7 dicembre, migliaia di operai della squadra della mattina cominciarono a riunirsi nel Mahalla’s Tal’at Harb Square, davanti all’entrata della fabbrica. Il ritmo del lavoro in fabbrica era già rallentato ma la produzione si bloccò quando 3000 operaie dell’abbigliamento lasciarono il posto di lavoro e si diressero verso le sezioni del tessile e della filatura dove i loro colleghi maschi non avevano fermato ancora le macchine. Le operaie gridarono cantando: “Dove sono gli uomini? Ecco le donne!” Con vergogna, gli uomini si unirono allo sciopero.
Circa 10.000 operai si radunarono sulla piazza, gridando “Due mesi! Due mesi!” per affermare la loro rivendicazione sui premi promessi. La polizia antisommossa si era dispiegata velocemente intorno alla fabbrica e nella città, ma non impegnò alcuna azione per reprimere la manifestazione. “Erano impressionati dal nostro numero” dice Attar. “Speravano che sarebbe rientrata con la notte o all’indomani”. Incoraggiata dalla polizia di Stato, la direzione offrì un premio di stipendio di 21 giorni. Ma, come ricorda ridendo Attar, “le operaie massacrarono quasi tutti i rappresentanti della direzione che venivano a negoziare”.
“Come calò la notte, dice Sayyid Habib, gli operai fecero fatica a convincere le donne a fare ritorno alle loro case. Volevano restare e dormire sul posto. Ci vollero ore per convincerle a rientrare presso le loro famiglie per ritornare l’indomani”. Sorridendo Attar aggiunge: “Le donne erano più combattive degli uomini. Erano sotto la pressione dell’intimidazione della polizia antisommossa e delle loro minacce, ma tenevano duro”.
Prima delle preghiere della sera, la polizia antisommossa si precipitò sulle porte della fabbrica. Settanta operai, tra cui Attar e Habib, erano dentro a dormire. “Gli ufficiali della polizia di Stato ci dissero che eravamo poco numerosi e che era meglio uscire” dice Attar. “Ma non sapevano quanti di noi erano rimasti all’interno. Mentimmo dicendo loro che eravamo migliaia”. Attar e Habib svegliarono velocemente i loro compagni e gli operai, tutti insieme, cominciarono a colpire rumorosamente sulle sbarre di acciaio. “Svegliammo tutti nel complesso e nella città. I nostri cellulari impazzirono perché chiamavamo le nostre famiglie e gli amici all’esterno, chiedendo loro di aprire le finestre e di fare sapere alla polizia che ci guardavano. Chiamammo tutti gli operai che conoscevamo per dir loro di precipitarsi verso la fabbrica”.
In quel momento la polizia aveva tagliato l’acqua e l’elettricità alla fabbrica. Gli agenti dello Stato si precipitarono verso le stazioni per dire agli operai che venivano dall’esterno della città che la fabbrica era stata chiusa a causa di una disfunzione elettrica. L’astuzia mancò il suo obiettivo.
“Arrivarono più di 20.000 operai”, racconta Attar. “Abbiamo organizzato una manifestazione massiccia e dei falsi funerali ai nostri padroni. Le donne ci portarono del cibo e delle sigarette e si unirono alla marcia.
I servizi di sicurezza erano paralizzati. I bambini delle scuole elementari e gli studenti delle scuole superiori vicine si riversarono in strada in sostegno agli scioperanti. Il quarto giorno dell’occupazione della fabbrica, gli ufficiali del governo, terrorizzati, offrirono un premio di 45 giorni di stipendio e diedero l’assicurazione che la compagnia non sarebbe stata privatizzata. Lo sciopero fu sospeso, con l’umiliazione di una federazione sindacale controllata dal governo grazie al successo dell’azione non autorizzata degli operai della filatura e del tessile di Misr”.
La vittoria di Mahalla aveva incoraggiato un certo numero di altri settori ad entrare in lotta, ed il movimento non era affatto finito. In aprile, il conflitto tra gli operai di Mahalla e lo Stato riemerse. Gli operai decisero di mandare un’importante delegazione al Cairo per negoziare (!) - con la Federazione generale dei sindacati - degli aumenti di stipendio e mettere sotto accusa il comitato sindacale di una fabbrica di Mahalla per aver sostenuto i padroni durante lo sciopero di dicembre. La risposta delle forze di polizia del governo fu di mettere la fabbrica in stato d’assedio. Gli operai si misero allora in sciopero e due altre grandi fabbriche tessili, Ghazl Shebeen e Kafr el-Dawwar, dichiararono la loro solidarietà con Mahalla. La presa di posizione di quest’ultima fu particolarmente lucida:
“Noi, operai del tessile di Kafr el-Dawwar, dichiariamo la nostra piena solidarietà con voi, per realizzare le vostre giuste rivendicazioni che sono uguali alle nostre. Denunciamo con forza l’assalto dei servizi di sicurezza che impediscono alla delegazione di operai (di Mahalla) di andare al quartier generale della Federazione generale dei sindacati al Cairo. Condanniamo anche la presa di posizione di Said el-Gohary (1) a Al-Masry Al-Youm della scorsa domenica, nella quale descrive il vostro movimento come un ‘non-senso’. Vi seguiamo con attenzione e dichiariamo la nostra solidarietà con lo sciopero degli operai delle confezioni dell’altro ieri, e con lo sciopero parziale nella fabbrica di seta.
Vogliamo farvi sapere che noi operai di Kafr el-Dawwar e voi di Mahalla marciamo nella stessa direzione, e che abbiamo un nemico. Sosteniamo il vostro movimento perché abbiamo le stesse rivendicazioni. Dalla fine del nostro sciopero della prima settimana di febbraio, il nostro Comitato sindacale di fabbrica non ha fatto niente per realizzare le rivendicazioni che erano all’origine del nostro sciopero. Il nostro Comitato sindacale di fabbrica ha colpito i nostri interessi... Esprimiamo il nostro sostegno alla vostra rivendicazione di riformare i salari. Noi, come voi, aspettiamo la fine di aprile per vedere se il ministro del lavoro accederà o no alle nostre rivendicazioni. Non mettiamo molta speranza nel ministro, non abbiamo visto alcun movimento da parte sua o di quella del Comitato sindacale di fabbrica. Possiamo contare solamente su noi stessi per realizzare le nostre rivendicazioni.
Pertanto insistiamo sul fatto che:
1. Siamo nella stessa barca, e ci imbarcheremo insieme nello stesso viaggio.
2. Dichiariamo la nostra piena solidarietà con le vostre rivendicazioni ed affermiamo che siamo pronti per un’azione di solidarietà, se decidete un’azione nell’industria.
3. Informeremo gli operai della seta artificiale, El-Beida Dyes e Misr Chemicals, della vostra lotta, e creeremo dei collegamenti per allargare il fronte di solidarietà. Tutti gli operai sono fratelli in tempi di lotta.
4. Dobbiamo creare un largo fronte per consolidare la nostra lotta contro i sindacati governativi. Dobbiamo rovesciare questi sindacati adesso, non domani” (Tradotto dal sito internet Arabawy).
Questa è una presa di posizione esemplare perché mostra la base fondamentale di tutta l’autentica solidarietà di classe attraverso le divisioni create dai sindacati e le imprese - la coscienza di appartenere alla stessa classe e di combattere uno stesso nemico. È anche estremamente chiara sul bisogno di lottare contro i sindacati.
Alcune lotte sono sorte anche altrove durante questo periodo: i netturbini di Giza hanno saccheggiato gli uffici della compagnia per protestare contro il mancato pagamento dei loro stipendi; 2700 operai del tessile a Monofiya hanno occupato una fabbrica; 4000 operai del tessile ad Alessandria si sono messi in sciopero per una seconda volta dopo che la direzione aveva tentato di decurtare la paga per lo sciopero precedente. Anche questi sono stati scioperi illegali, non-ufficiali.
Ci sono stati anche altri tentativi di rompere il movimento con la forza. La polizia chiuse o minacciò di chiudere il “Centro di servizi per i sindacati e gli operai” di Nagas Hammadi, Helwan and Mahalla. Questi centri erano accusati di fomentare “una cultura dello sciopero”.
L’esistenza di questi centri indica che esistono chiaramente dei tentativi di costruire dei sindacati nuovi. Inevitabilmente, in un paese come l’Egitto, dove gli operai hanno fatto solo l’esperienza di sindacati che agiscono apertamente come polizia di fabbrica, gli elementi più combattivi sono sensibili all’idea che la risposta al loro problema stia nella creazione di sindacati veramente “indipendenti”, come fu il caso degli operai polacchi nel 1980-81. Ma ciò che emerge molto chiaramente dal modo con cui lo sciopero è stato organizzato a Mahalla, attraverso le manifestazioni spontanee, le delegazioni massicce e le assemblee generali alle porte della fabbrica, è che gli operai sono più forti quando prendono direttamente le cose nelle loro proprie mani piuttosto che rimettere il loro potere ad un nuovo apparato sindacale.
In Egitto possono già vedersi i germi dello sciopero di massa - non solamente nella capacità degli operai nell’azione di massa spontanea, ma anche per l’alto livello di coscienza espressa nella presa di posizione di Kafr el-Dawwar.
Non c’è legame cosciente tra questi avvenimenti ed altre lotte in differenti parti del Medio Oriente che subiscono le divisioni imperialistiche: in Israele presso i portuali, gli impiegati del servizio pubblico e, più recentemente, le maestre di scuola in sciopero per aumenti salariali, e gli studenti che si sono scontrati con la polizia contro gli aumenti dei prezzi dell’insegnamento; in Iran dove il Primo Maggio migliaia di operai hanno scombussolato la manifestazione governativa ufficiale gridando slogan anti-governativi o hanno partecipato alle manifestazioni non autorizzate e si sono scontrati con una severa repressione poliziesca. Ma la simultaneità di questi movimenti ha la stessa origine: la via presa dal capitale a ridurre in povertà la classe operaia dovunque nel mondo. In questo senso, questi movimenti contengono i germi della futura unità internazionale del proletariato al di là del nazionalismo, della religione e della guerra imperialistica.
Amos 1/5/07
Da Révolution Internationale n° 380, giugno, 2007
1. Leader del sindacato della filatura e del tessile, Said El-Gohary, accusava tra l’altro gli operai “di essere terroristi che vogliono sabotare la compagnia”.
Da qualche tempo la CCI è in contatto con dei compagni nelle Filippine per sostenere lo sviluppo delle idee e dei principi della Sinistra comunista e per promuovere i legami fra i comunisti presenti nelle Filippine ed il resto del movimento internazionalista mondiale (vedi la nostra critica di “Ka Popoy” Lagman pubblicata sul nostro sito in lingua inglese). Le discussioni fra la CCI ed i compagni nelle Filippine ha inoltre portato alla creazione del gruppo “Internasyonalismo”, che pubblica i documenti di discussione, in filippino ed in inglese, su varie questioni teoriche, così come sulla situazione politica nelle Filippine ed a livello internazionale. Incoraggiamo i compagni a visitare il sito web di Internasyonalismo.
Il testo che pubblichiamo qui di seguito è una presa di posizione di Internasyonalismo sul significato del 1° Maggio. Noi condividiamo nel complesso il contenuto di questa presa di posizione, ma soprattutto salutiamo il risoluto spirito internazionalista in essa presente.
Diamo il benvenuto a questa nuova voce internazionalista che si sta facendo largo in un’importante frazione del proletariato dell’Estremo-Oriente.
Celebriamo il 1° Maggio sulla base dell’internazionalismo
Quest’anno, nel mondo intero, vediamo varie organizzazioni, partiti e Stati osservare la festa del 1° Maggio, il giorno della classe operaia internazionale. Possiamo leggere e sentire le loro diverse dichiarazioni e abbiamo visto le manifestazioni di queste organizzazioni al servizio dei becchini del capitalismo.
La destra della borghesia - esplicitamente pro-capitalista e pro-“globalizzazione” - la maggior parte della quale controlla governi e Stati di molti paesi, come nel passato, continua a dire agli operai che non c’è altro sistema che può salvarli dalla miseria se non il capitalismo e la globalizzazione; che il nemico della “pace” e del progresso è il terrorismo (nelle Filippine, il maoista CPP-NPA-NDF, il Moro secessionista MILF e i fanatici islamici di Abu Sayyaf e simili). La base del loro appello è difendere e sviluppare l’economia nazionale mentre si rafforza la competitività nel mercato mondiale. Stanno costringendo gli operai a sempre maggiori sacrifici per la loro borghese madrepatria!
Ancora una volta, questi squali senza scrupoli affamati di profitto promettono agli operai colpiti dalla miseria, come hanno già fatto in passato, che “se la nostra nazione si sviluppa, voi potrete trarne beneficio, dunque uniamoci ed aiutiamoci l’un l’altro per il nostro paese!”
Ma nelle Filippine, come ovunque nel mondo, la disillusione della classe alle promesse della classe dominante e sfruttatrice si sta sviluppando sempre di più. Gli operai filippini sono sempre più disgustati da quello che sta accadendo alle loro condizioni di vita, mentre le diverse fazioni dei politici capitalisti li prendono in giro alternativamente con il “potere rivoluzionario del popolo” e le “le elezioni”.
I partiti di sinistra del capitale - i maoisti CPP e l’MLPP, il “leninista” PMP, le diverse sfumature di trotskysti, anarchici, radicali democratici e sindacalisti, anti-imperialisti nazionalisti e simili – pur usando parole diverse contro il “capitalismo” e contro la globalizzazione, sono al fondo uniti per rinchiudere gli operai nel quadro dello sviluppo nazionale (cioè del capitalismo nazionale), con parole che sono “musica” all’orecchio del proletariato filippino - democrazia e nazionalismo. Gridano slogan rivoluzionari e radicali per il “rovesciamento” del marcio sistema, ma in realtà è soltanto la fazione della borghesia al potere che vogliono rovesciare mentre aiutano l’altra fazione a sostituire la precedente. Mobilitano per la democrazia, che essenzialmente significa dare agli operai l’illusione che il sistema del capitalismo funziona finché il potere è nelle mani del “popolo”! Mentendo, spiegano al proletariato che la “dominazione straniera” è la causa di fondo della povertà e che sradicando questa causa, liberando il paese dall’“imperialismo”, il capitalismo si svilupperà. Quindi, come dicono i maoisti, la “democrazia popolare” o la “democrazia diretta” potrà diventare una realtà!
Benché il “leninista” PMP e i troschisti dichiarino formalmente il rovesciamento dello Stato capitalista ed il socialismo, essi non sono diversi dai democratici nel seminare l’illusione nella classe che “la democrazia è una strada necessaria per raggiungere il socialismo”. Mentre gli anarchici, che aborriscono ogni tipo di “autorità”, usano la “democrazia diretta” come slogan per ingannare la classe sfruttata fino al punto di formare “modelli comunitari” a livello locale.
Non c’è alcuna differenza sostanziale fra l’ala destra e quella di sinistra del capitale rispetto alla visione che portano avanti - difesa dell’economia nazionale e della democrazia - se non nell’uso di slogan conservatori o radicali; apertamente contro il socialismo ed il comunismo o difendendoli a parole. Entrambi si aiutano reciprocamente per in incatenare gli operai filippini in particolare, ed il proletariato mondiale in generale, alla mistificazione della democrazia e del nazionalismo.
La natura del proletariato e delle sue lotte
Il 1° Maggio è il giorno internazionale della classe operaia. In questo giorno, ancora una volta, dobbiamo mettere avanti la natura internazionale del proletariato come classe, che da decenni l’ala destra e di sinistra della borghesia stanno provando a nascondere ed alterare con le loro mistificazioni. E queste mistificazioni, grazie alla sinistra, hanno dominato la coscienza degli operai filippini per quasi un secolo. Gli operai non hanno patria; nessuna madrepatria da difendere e sviluppare. Il proletariato è una classe internazionale. Gli operai nel mondo, dovunque vivano e lavorino, hanno gli stessi interessi. Hanno un unico nemico - l’insieme della classe capitalista. I loro interessi non dipendono dagli interessi di questo o quel paese. Al contrario, i loro interessi si trasformeranno in realtà se tutte le frontiere nazionali saranno distrutte. Il socialismo ed il comunismo saranno realizzati a livello mondiale, non in un paese o in un gruppo di paesi.
L’internazionalismo è una delle due pietre miliari del vero movimento proletario. L’altra è il suo movimento indipendente, indipendente da altre classi ed in particolare da tutte le fazioni della classe capitalista. Queste sono le differenze basilari fra l’autentico movimento proletario e l’ala di sinistra del capitale nel capitalismo decadente.
Poiché il proletariato è una classe internazionale, per essere vittoriose, anche le sue lotte devono avere un carattere internazionale. E’ nel quadro della marcia verso la rivoluzione proletaria mondiale che deve essere basata la lotta di ogni frazione proletaria, in qualsiasi parte del pianeta. In questo contesto si può capire come “la lotta per il nazionalismo e la democrazia”, nell’attuale epoca storica di decadenza del capitalismo, sia anti-proletaria e faccia deviare le lotte della classe. Nella decadenza del capitalismo, le tattiche che appoggiano la “liberazione e la democrazia nazionale”, la lotta per le riforme, il “sindacalismo ed il parlamentarismo rivoluzionario” e il “frante unito”, sono tutte contro-rivoluzionarie.
Il 1° Maggio 2007 nelle Filippine
Fondamentalmente non c’è alcuna distinzione sull’essenza della “celebrazione” fatta nelle Filippine con il resto del mondo – tutte dominate e controllate dalla destra e dalla sinistra del capitale. La sinistra filippina usa il 1° Maggio come veicolo di propaganda per il proprio opportunismo elettorale. Presunta sostenitrice degli interessi della classe, la costringe a partecipare al brutale e ingannevole circo elettorale delle diverse fazioni della classe capitalista. Ma con il lento emergere di rivoluzionari nelle Filippine che stanno iniziando a rivalutare la loro pratica sulle basi dell’internazionalismo e dell’autonomia del movimento operaio; che si avviano in un processo di chiarificazione teorica, possiamo dire che effettivamente quest’anno c’è qualcosa da celebrare il 1° Maggio!
La messa in discussione da parte di una manciata di comunisti nelle Filippine della propria pratica è un elemento della dinamica di sviluppo della coscienza comunista internazionalista in molte parti del mondo a partire dagli anni 60. La conferenza internazionale di marxisti rivoluzionari in Corea nello scorso 2006 è stata una chiara manifestazione del fatto che anche in paesi in cui gli scritti della Sinistra comunista non sono stati ancora letti e studiati, dopo circa 100 anni, ora ci sono rivoluzionari ed operai che, sulla base delle proprie esperienze nella decadenza del capitalismo e del fallimento delle vecchie concezioni e tattiche ereditate dalle varie organizzazioni di “sinistra”, stanno riflettendo sulle loro vecchie teorie che i 50 anni di contro-rivoluzione gli avevano fatto credere “invarianti”.
Anche se la classe operaia filippina, sempre più disillusa contro questo marcio sistema, è ancora mistificata dai fallimentari dogmi della “sinistra”, siamo fortemente fiduciosi che essa al più presto, come parte di una classe internazionale e sulla base della propria esperienza, eleverà la propria coscienza collettiva e costruirà le proprie organizzazioni, come parte dello sforzo complessivo in tutto il mondo per costruire il futuro partito comunista internazionale.
GLI OPERAI NON HANNO PATRIA!
OPERAI DEL MONDO, UNITEVI!
INTERNASYONALISMO, 1 maggio, 2007
La CCI on line in filippino
Grazie agli sforzi dei compagni del gruppo Internasyonalismo siamo in grado di aprire un nuovo sito web in lingua filippina, dove abbiamo pubblicato alcuni dei testi di base della CCI: speriamo di poter pubblicare più testi in filippino nei prossimi mesi.
Il 14 aprile scorso si è tenuto a Milano un “convegno contro l’aggressione imperialista nel Medio Oriente” organizzato dal “Comitato di lotta internazionalista (…) nato agli inizi del 2005 come sforzo unitario di alcuni compagni e gruppi politici di Milano, Torino, Genova, La Spezia, Pavia, Roma, con lo scopo di agire nel movimento reale, nelle lotte sociali e di classe su un terreno conseguentemente anticapitalista che, necessariamente, per esserlo, deve esercitare la sua politica in un fronte internazionale e con posizioni internazionaliste”. (1)
Pur sapendo che avrebbe attirato un insieme eterogeneo e frastagliato di componenti politiche, noi abbiamo aderito con convinzione a questa iniziativa riconoscendo in essa un momento di una dinamica ben più ampia, di dimensione internazionale, che vede sorgere una nuova generazione di elementi politicizzati alla ricerca di una strada da percorrere per uscire dall’inferno di questa società. In particolare abbiamo colto, nella lettera di invito al convegno, diversi spunti interessanti. Tra gli altri ce ne sono due che vogliamo riprendere. Il primo, in cui si afferma che:
“La necessità di confrontarsi nel reale scontro politico e di classe, ci spinge ad accelerare ogni iniziativa per andare ad un lavoro comune con forze ed individui che hanno, come noi, l’obiettivo di sviluppare un movimento politico internazionalista partendo altresì dall’approfondimento delle questioni teoriche alla luce del "laboratorio politico” espresso dal movimento dei lavoratori, senza settarismi, ma su alcune discriminanti e coordinate del marxismo.” (2),
costituisce un ottimo biglietto da visita nella misura in cui, come si evince dai passaggi da noi sottolineati, si parla della necessità di unificare le forze che si pongono su un piano internazionalista ma sulla base di un approfondimento delle questioni teoriche che sia fatto senza settarismi ma a partire dal marxismo.
Nel secondo passaggio si dice invece che:
“Molto tempo è passato dai tempi della funzione progressista e rivoluzionaria della borghesia lodata da Marx dalle pagine del Manifesto del 1848: oggi, le borghesie di questi Paesi dominati e/o controllati dall'imperialismo non giocano più un ruolo contro di esso per uno sviluppo unificante del mercato. La rivoluzione democratica d'Area può fondarsi solo sul ruolo autonomo del proletariato e le masse dei contadini poveri contro gli imperialismi e le varie borghesie che sono al governo nei Paesi del Medio Oriente o, come altri compagni sostengono, all’ordine del giorno vi può essere solo la rivoluzione socialista tout court. Queste due opzioni presenti nel nostro movimento, sono strategicamente diverse e come tali è di estrema importanza la loro soluzione politica per l'azione rivoluzionaria.” (3)
Nella nostra lettera di adesione al convegno, a cui abbiamo allegato un contributo sulla questione mediorientale (4), abbiamo dichiarato che eravamo “interessati ad avere una presenza e a partecipare alla discussione da voi promossa. In particolare saremo interessati a ricevere il materiale dei vari aderenti all’iniziativa e vi chiediamo se avete previsto uno spazio dove sia possibile esprimere dei commenti ai singoli contributi anche prima della data del 14 aprile, (o anche dopo) e in che forma. Vi chiediamo questo perché la questione della comprensione della natura e del ruolo dell’imperialismo nell’epoca attuale è di fondamentale importanza per comprendere il ruolo dei comunisti oggi e, se è vero, come appare dalla vostra stessa lettera di invito, che su questo ci sono diverse vedute nella vostra stessa associazione, tanto più c’è da attendersi, e non ce ne meravigliamo, una eterogeneità di vedute tra i partecipanti al convegno.”
La finalità di questo convegno poteva e doveva essere dunque l’analisi delle due opzioni, tanto più necessaria in quanto, come diceva la stessa lettera di invito, portavano a due strategie opposte. E in effetti nella mattinata gli interventi di vari partecipanti - tra cui il nostro - oltre ad esprimere le diverse analisi, hanno fatto presente la necessità di chiarimento su molte questioni. La funzione di un convegno dovrebbe essere questa, l’approfondimento delle analisi sulle questioni in oggetto, la richiesta reciproca di spiegazioni perché non sempre tutto è chiaro, la dimostrazione di un certo percorso. Non può essere invece la pura e semplice propaganda delle proprie posizioni, perché questo porterebbe non alla discussione ma all’ascolto fideistico, al mancato approfondimento, alla conoscenza superficiale delle questioni, all’attivismo puro e semplice. Il proletariato a livello mondiale, oggi più che mai, si trova in una fase cruciale, una fase di ripresa della lotta di classe e di crescita delle sue organizzazioni. È necessario quindi che i comunisti non improvvisino il percorso da scegliere o ricadano nelle trappole ideologiche della borghesia, è necessario rifarsi alle analisi politiche delle sue minoranze storiche e questo richiede una attenta riflessione, un confronto, un vaglio delle differenti prospettive.
Tutto questo è stato sottovalutato da molti partecipanti al convegno nella seconda parte della discussione, quella del pomeriggio. Ma più che una sottovalutazione si è trattato di una vera battaglia di tutto un settore politico che era presente al convegno e che era convinto che “agire subito” fosse l’essenziale, che credeva di perdere il treno della rivoluzione se non “si faceva qualcosa”, senza pensare che salire sul primo treno in partenza senza guardare in che direzione va fa correre addirittura il rischio di allontanarsi ancora di più dalla meta. Tutte le preoccupazioni di questi compagni sul fatto che il 1° di maggio si dovesse creare il cosiddetto spezzone rivoluzionario partiva dal principio implicito che gli altri 100.000 lavoratori, precari o disoccupati, presenti al corteo non avessero nulla da dire. La fissazione di fare a tutti i costi un volantino con le firme delle varie organizzazioni e sigle, che nelle intenzioni di questa componente del convegno avrebbe dovuto dare una impressione di unità e forza alla classe, prescinde completamente dal fatto che l’unità della classe operaia si compie attraverso un processo di presa di coscienza collettiva dei proletari sui problemi che gli stanno di fronte. Di conseguenza un volantino frutto di una serie di compromessi politici “per fare numero” e che non sia l’espressione di una reale convergenza politica basata su un confronto serio, non può che disorientare e demoralizzare ancora di più la classe operaia.
Passato il 1° di maggio questo cosiddetto spezzone di partito, eludendo la richiesta di approfondimento politico che proveniva dalla richiesta iniziale del convegno, ha cercato altri “appuntamenti” dove manifestare la sua forza, quali la manifestazione a Novara contro la costruzione di un nuovo aereo militare da parte della borghesia italiana, la manifestazione a Roma contro l’arrivo di Bush, ecc.
Le basi di questo “movimento”, che va alla ricerca di appuntamenti “per fare qualcosa”, a parte la correttezza o meno delle sue analisi politiche, poggiano sulla sabbia. E non è un caso che, leggendo le lettere della mail-list proletari_nowar nata dopo il convegno di Milano, si noti la sorpresa più che legittima di un iscritto sull’utilità di queste manifestazioni e sulla loro inconsistenza. “Di fronte al miserando esito della manifestazione del 19 maggio, invito i compagni del coordinamento proletario no war a non prendere lucciole per lanterne, mettendosi al rimorchio di iniziative promosse da organismi, molto bravi a suonare la gran cassa per mascherare la propria inconsistenza politica e sociale. La forza di questi organismi risiede solo nel loro rapporto con settori della borghesia, un rapporto mal celato dai cosiddetti sinistri «radicali», pronti a quei compromessi deteriori che aprono la via a pericolose derive moderate”.
Interventi come questi devono sempre più farsi avanti, prendere coraggio, proprio per aiutare quegli elementi che, spesso in tutta buona fede, vanno in direzione opposta, alla ricerca della chimera della occasione buona per dare la spallata decisiva, come quel compagno che, rispetto alla manifestazione del 9 giugno a Roma contro la visita di Bush, diceva: “Mi sembra che al corteo Campo Antimperialista e Carc siano stati gli unici a sottolineare il ruolo di Hamas ed Hezbollah nella resistenza all’imperialismo e al sionismo.” Quando non si discute fino in fondo, quando si evita il confronto e si cerca l’aggregazione per l’aggregazione, si finisce, in nome dell’iniziativa da portare avanti ad occhi chiusi, per lasciar passare come antimperialisti proprio i massacratori di proletari: dobbiamo ricordare noi quanto sta facendo in questi giorni Hamas in Cisgiordania contro altri palestinesi? Ritornando al convegno, alle due opzioni espresse, ricordiamoci che esse “sono strategicamente diverse e come tali è di estrema importanza la loro soluzione politica per l’azione rivoluzionaria.” Riprendere la discussione è necessario non per rincorrere il presidente americano di turno per le strade di Roma, ma per gettare le basi di un forte movimento proletario contro tutti i presidenti di tutte le borghesie di tutto il mondo.
Oblomov
1. Dalla lettera di invito di questo comitato, che si può contattare attraverso la mail: redazione@lottainternazionalista.org [28].
2. idem, sottolineature nostre.
3. idem, sottolineature nostre.
3. “Guerra in Libano, in Medio Oriente, in Iraq. Esiste un’alternativa alla barbarie capitalista?”, estratto dalla Rivista Internazionale n° 28 e pubblicato anche sulla pagina italiana del nostro sito it.internationalism.org [10].
Come ogni anno, in autunno il governo celebra il rito della finanziaria, cioè settimane di annunci e smentite su come il governo intende mantenere il deficit di bilancio nei limiti previsti. Ma, sorpresa, quest’anno il governo afferma che i dieci miliardi di euro che servono per raggiungere l’obiettivo non saranno trovati con nuove tasse, ma semplicemente riducendo la spesa corrente della Pubblica Amministrazione. E che, si possono risparmiare dieci miliardi semplicemente riducendo fotocopie, telefonate e qualche viaggetto? E’ evidente che no. E’ evidente che anche se i soldi saranno cercati non mettendo nuove tasse, una cifra di questo genere può essere rispettata solo con tagli pesanti del personale, alla spesa sociale e ai servizi che si offrono ai cittadini, che sono il grosso della spesa statale. Bisogna quindi aspettarsi che anche quest’anno il risultato sarà lo stesso di tutte le finanziarie da almeno venti anni a questa parte: un peggioramento delle condizioni di vita dei lavoratori. E questo a prescindere dal colore con cui il governo in carica si presenta ai cittadini. Se c’è una differenza è che mentre i governi di destra non si preoccupano di mascherare le misure con cui tengono in piedi l’economia nazionale, quelli di sinistra hanno bisogno di presentare le stesse cose o con la scusa di una “emergenza” (crisi finanziaria, debiti pregressi, e così via) o mascherando i tagli con “misure di razionalizzazione”, interventi a favore dei “più deboli” e così via.
Quello che resta quindi da chiedersi è perché cambiano i governi, cambiano i paesi, ma per i lavoratori il risultato è sempre lo stesso?
In altra parte del giornale diamo una risposta più argomentata a questa domanda, risposta che si può riassumere così: se dappertutto nel mondo e nel tempo i lavoratori si impoveriscono sempre più è perché in tutto il mondo vige un sistema economico che è ormai in crisi permanente, che riesce a sopravvivere solo continuando a spremere a più non posso i lavoratori e accumulando una montagna di debiti (su cui sono basate le cosiddette riprese).
Ed in questa situazione, che significa che il mondo va verso una catastrofe le cui conseguenze non si possono nemmeno immaginare, ci sono paesi che hanno un po’ di respiro in più, e altri che invece arrancano di più. L’Italia è uno di questi ultimi.
Se si esaminano i principali indicatori economici l’Italia mostra di essere il fanalino di coda, da diversi anni a questa parte, non solo rispetto ai paesi emergenti, ma anche rispetto ai suoi concorrenti occidentali (che poi sono ancora i maggiori concorrenti):
il principale indice che misura la crescita della ricchezza di un paese, il Prodotto Interno Lordo, dice che mentre il PIL degli USA è cresciuto, tra il 1995 e il 2003, del 3,1%, e quello dell’area euro del 2,2%, quello dell’Italia è cresciuto dell’1,5% (il valore più basso tra i paesi europei, esclusa la Germania, cresciuta dell’1,2%); ed anche gli ultimi valori, in questi due anni di “ripresa”, vedono i valori della crescita del PIL italiano inferiori a quelli dei suoi concorrenti europei ed americano (per il 2007 la previsione è di un +1,9% per l’Italia, contro un +2,9% di media europea). E se andiamo a vedere la variazione del PIL per occupato, che è una misura più indicativa della crescita e soprattutto della produttività, si ha una ulteriore conferma: mentre il PIL per occupato, nel settore privato, è cresciuto, tra il 2001 e il 2004, negli USA del 2,9%, nell’area euro del 0,6%, in Italia c’è stata una diminuzione dello 0,2%, cioè un peggioramento in senso stretto della produttività per lavoratore (1).
E questo nonostante il salasso a cui, negli stessi anni sono stati sottoposti i lavoratori, i cui salari sono cresciuti poco, certamente molto meno della produttività, mentre sono andati peggiorando i servizi e i prezzi reali (quelli che si pagano al mercato, e non quelli che registra l’ISTAT) sono aumentati a dismisura: tutti i lavoratori hanno potuto constatare che, almeno per i generi di prima necessità, quelli che costituiscono il grosso della spesa di una famiglia proletaria, nei fatti i prezzi sono cresciuti, in maniera mascherata, fino ad assumere valori corrispondenti ad un cambio di 1 euro per mille lire, cioè l’equivalente di una inflazione di quasi il 100%! Contemporaneamente negli ultimi quindici anni, c’è stato un aumento inverosimile della precarizzazione del lavoro (contratti a termine, giornalieri, a progetto, ecc., ecc.) che hanno reso l’utilizzazione della mano d’opera estremamente flessibile (2), così da spazzare via un’altra vecchia scusa della borghesia italiana, che sosteneva che la bassa produttività dell’industria italiana era dovuta all’estrema rigidità della forza lavoro (che impediva alle aziende di adeguare la propria produzione alle esigenze del mercato).
La verità è che la diminuzione della crescita e della produttività, oltre ad essere il naturale risultato della crisi mondiale, è anche il frutto di una mancanza di investimenti, la sola che può aumentare la produttività; infatti in Italia gli investimenti fissi lordi sono diminuiti nel 2003 e 2005, rispettivamente dell’1,7% e dello 0,5%, aumentando dell’1,6% nel 2004. E questa scarsa propensione agli investimenti è legata un po’ alla storia dello sviluppo capitalistico in Italia, almeno del dopoguerra, in cui l’industria italiana è cresciuta protetta dallo Stato in maniera maggiore rispetto a quella degli altri paesi (dappertutto è infatti l’aiuto dello Stato che tiene su l’economia), e quindi è stata poco stimolata a crescere in funzione della competizione (non c’è settore di punta in cui l’industria italiana sia capace di mostrare livelli di eccellenza, tranne forse l’aerospaziale).
E’ in definitiva l’aiuto che lo Stato ha dato all’economia italiana, che è la vera ragione dell’enorme indebitamento statale (intorno al 106%) che è un’altra caratteristica che contraddistingue l’Italia rispetto ai suoi concorrenti (che pure sono indebitati, dato che il ricorso al debito, come abbiamo detto, è stato uno degli strumenti con cui il capitalismo mondiale è riuscito ad evitare un crollo verticale), e non, come sempre cerca di sostenere la borghesia per giustificare i suoi tagli al Welfare, le alte prestazioni dei servizi sociali.
E questo enorme indebitamento costituisce un ulteriore intralcio alla crescita sia per il peso degli interessi sul debito (che si mangiano gran parte dell’attivo di bilancio producendo comunque un deficit, 2,5% del PIL quello previsto per il 2007, nonostante questo attivo, 2,3% la previsione per il 2007) che per la difficoltà a ricorrere ulteriormente al credito per continuare a sostenere l’economia.
Questa debolezza organica dell’economia italiana, che ha le sue radici profonde nel ritardo con cui il capitalismo italiano è riuscito a realizzare l’unità del paese, unitamente al fatto che è l’intero sistema capitalista mondiale che è in crisi profonda, spiega come i margini di manovra per la borghesia italiana siano molto pochi e si riducano, in sostanza, alla sola capacità di aumentare lo sfruttamento dei lavoratori. Ecco perché da diversi decenni, e in maniera ancora più accelerata negli ultimi 15 anni (dalla finanziaria di Amato, 1992, 48 miliardi di euro, a quella di Prodi del 2006 sono 306 i miliardi di euro strappati agli italiani) la sola cosa che la borghesia italiana ha fatto è stato attaccare sempre più a fondo la classe operaia, e non possiamo dubitare che continuerà a fare così, visto che la competizione internazionale resta accanita.
E’ perciò che c’è poco da credere alle promesse di questo governo su una finanziaria “leggera”. Questo governo si sta specializzando nel “dare” con una mano, e solo in parte, quello che si è preso con l’altra: l’anno scorso, per esempio, la riduzione della tassazione dei redditi più bassi è stata fatta con un aumento di quella dei redditi medi (insomma di una buona parte dei lavoratori dipendenti). Quest’anno si vuole fare la stessa cosa: vedi l’esempio della “incentivazione” agli statali ad andare in pensione , così da poter reintegrare solo un nuovo lavoratore contro tre che se ne vanno (insomma una riduzione di posti del 66%!), o l’altra ipotesi di finanziare la riduzione dell’ICI sulla prima casa con un taglio di 1,3 miliardi di euro sulle spese sociali.
Il risultato di tutto ciò è sotto gli occhi di tutti (tranne che di Rifondazione Comunista): una riduzione drastica del livello di vita e del potere di acquisto; si fa sempre più fatica ad arrivare alla fine del mese, mentre cresce sempre di più l’indebitamento anche delle famiglie (passato dai circa 350 miliardi di euro di fine 2003 ai circa 490 miliardi di fine 2006, con un aumento cioè del 40%).
In questi stessi anni la sinistra dell’apparato politico della borghesia è riuscita a tenere a freno il malcontento dei lavoratori soprattutto con tutta una serie di ricatti (oltre che con il normale lavoro di sabotaggio delle lotte che operano i sindacati), tra cui quello più efficace è stato forse la paura che se non ci si tiene l'austerità dei governi di centrosinistra si rischia di far tornare Berlusconi al governo. E’ arrivata l’ora di sottrarsi a questo ricatto, di prendere coscienza che di destra o di sinistra tutti i partiti sono i difensori del capitalismo nazionale, e che solo la lotta unita di tutti i lavoratori può mettere un freno a questo stillicidio di attacchi alle nostre condizioni di vita.
Helios, 24/09/07
1. Dati presi dai rapporti dell’OCSE e dai quotidiani di queste settimane per i dati più recenti.
2. Nonché di alterare i dati dell’occupazione: è chiaro infatti che anche un lavoratore precario e a tempo ridotto viene conteggiato come occupato, così che il tasso di disoccupazione ufficiale risulta inferiore a quello reale (che invece dovrebbe tener conto anche dei giorni di occupazione e dell’orario di lavoro, perché è chiaro che due lavoratori a part time, per esempio, risultano sì due occupati, ma su un solo posto di lavoro!
A sentire la borghesia tutto andava per il meglio: valori record nelle borse, crescita sostenuta, prezzi sotto controllo. E poi, all’inizio di luglio... patatrac, si scatena una vera e propria tempesta in borsa che smaschera tutta la falsità di questi bei discorsi! In poche settimane, sulla scia del Dow Jones, l’indice newyorchese che ha ripiegato di oltre il 10%, le principali borse del mondo subiscono una caduta brutale.
Per arginare momentaneamente questa crisi, la FED e la BCE1 hanno scaricato più di 330 miliardi di dollari sui mercati! Queste somme colossali iniettate dalle differenti banche centrali bastano a testimoniare l’ampiezza del sisma ed i reali timori di tutte le borghesie. Oggi gli “esperti” ed altri imbonitori tentano nuovamente di illuderci presentandoci dei “conti” che non stanno né in cielo né in terra: questa convulsione estiva sarebbe solamente passeggera o, meglio ancora, una “correzione salutare” degli eccessi speculativi di questi ultimi anni! In realtà queste scosse sono il segno di una nuova fase di accelerazione della crisi, la più grave e più profonda dalla fine degli anni 60. E, come sempre, sarà la classe operaia a subirne le conseguenze.
Il mostro dell’indebitamento rivela il fallimento storico del capitalismoNelle colonne della stampa o nei programmi televisivi di questa estate, quando milioni di dollari sono andati ogni giorno in fumo, cosa hanno detto gli economisti borghesi? “Imprevedibile”. La crisi sarebbe esplosa senza un segno premonitore, come un fulmine a cielo sereno. Menzogne! I record borsistici, la fiammata immobiliare, ed anche la crescita, tutto questo era costruito sulla sabbia e tutti lo sapevano. La nostra organizzazione già nella scorsa primavera affermava che la pretesa buona salute dell’economia mondiale, che si basava sull’indebitamento, stava preparando un oscuro avvenire: “In realtà, si tratta di una vera fuga che lungi dal permettere una soluzione definitiva alle contraddizioni del capitalismo non fa che preparargli giorni futuri più dolorosi ed in particolare dei rallentamenti brutali della sua crescita” 2. Non si trattava di una premonizione ma di un’analisi fondata sulla storia del capitalismo. La crisi finanziaria attuale è una crisi dell’indebitamento e del credito. E questo indebitamento mostruoso non cade del cielo. È il prodotto di quarant’anni di sviluppo lento e contrastato della crisi mondiale.
Dalla fine degli anni 60 il capitalismo sopravvive attraverso il ricorso crescente all’indebitamento. Nel 1967 l’economia mondiale ha cominciato a rallentare. E da allora, decennio dopo decennio, la crescita è sempre stata più debole. La sola risposta della borghesia è stata mantenere il suo sistema sotto perfusione, iniettando somme di denaro sempre più folli sotto forma di credito e di debito. La storia economica di questi quaranta ultimi anni è rappresentata da una spirale infernale: crisi... indebitamento... più crisi... più indebitamento... Dopo gli shock petroliferi del 1973 e del 1979, c’è stata la recessione aperta del 1991-1993, la crisi asiatica del 1997-98 e lo scoppio della bolla Internet del 2000-2002. Ogni volta queste convulsioni sono state più violente e le conseguenze più drammatiche.
Oggi la crisi esplode di nuovo mentre l’indebitamento ha raggiunto livelli inimmaginabili. Il debito totale degli Stati Uniti, prima potenza militare ed economica del mondo, è passato da 630 miliardi di dollari nel 1970 a 36.850 miliardi nel 2003. E da allora la macchina si è totalmente imbizzarrita. Il debito cresce di 1,64 miliardi di dollari al giorno! Queste cifre vertiginose mostrano chiaramente che la crisi finanziaria attuale è ben più profonda di tutte quelle che l’hanno preceduta.
La crisi immobiliare ha scatenato una crisi finanziaria ancora più grandeDa un decennio, la follia speculativa ha invaso tutti i settori di attività. Come mai prima, la schiacciante maggioranza dei capitali non riesce più ad essere investita nell’economia reale (le imprese che producono dei beni e delle merci) per realizzare sufficienti profitti. Pertanto questi vengono orientati verso la pura e semplice speculazione. Banche, istituti di credito, società di speculazione più o meno specializzate negli investimenti a rischio (le famose hedge funds 3), dovunque si è assistito alla corsa verso questo supposto nuovo Eldorado. Il denaro, i crediti si sono messi allora a colare a fiotti. La borghesia sembrava avere un’unica ossessione, indebitarsi ed indebitarsi ancora.
È in questo contesto totalmente folle che le famiglie negli Stati Uniti ma anche, in misura minore, in Gran Bretagna ed in Spagna, sono state fortemente incoraggiate ad acquistare immobili e case senza averne realmente i mezzi. Le imprese finanziarie si sono messe a prestare denaro alle famiglie operaie a redditi estremamente modesti sull’unica garanzia del loro bene immobiliare. Il principio di base di questi mutui ipotecari (chiamati subprime) è questo: quando il Sig. X vuole acquistare una casa a 100.000 $, un organismo di credito, una banca per esempio, gli presta i fondi senza riserva e senza altra garanzia che l’ipoteca su questa casa. Se il Sig. X. è super indebitato e non riesce più a rimborsare il prestito, l’organismo di credito si riprende la casa, la rivende e recupera i suoi fondi, ossia i 100.000 $. Questa è l’unica garanzia per la banca. E' per tale motivo che sono principalmente gli hedge-funds (specialisti negli investimenti a rischio) a partecipare a questi subprime. I lavoratori salariati, potendo in tal modo ottenere più facilmente dei prestiti, sono stati quelli che più ne hanno usufruito per poter avere una casa propria. Come conseguenza i prezzi degli immobili hanno iniziato a lievitare, in media del 10% l’anno. I lavoratori, dai salari estremamente bassi, per poter acquistare della merce non hanno potuto far altro che ricorrere al debito; hanno dunque continuato ad indebitarsi al di là di ogni ragionevolezza, ipotecando la propria casa che nel frattempo valeva di più. Per esempio, il nostro Sig. X, vedendo aumentare fino a 120.000 $ il valore della sua casa, può nuovamente ricorrere al credito per 20.000 $ corrispondenti al maggior valore ipotecario. Poi il valore arriva a 150.000$. Il Sig. X può ancora ipotecare i nuovi 30.000$! E così via. Ma questa spirale ha un limite. Da un lato, la classe operaia si depaupera (licenziamenti, congelamento dei salari...); dall’altro, essendo i prestiti negli Stati Uniti a tassi variabili, questi crescono e le scadenze sono, mese dopo mese, di un importo sempre più elevato. Il risultato è tanto inesorabile quanto fatidico. Nel momento in cui un numero consistente di lavoratori non riesce più a rimborsare le rate ormai astronomiche, le banche procedono alle requisizioni dei beni ipotecati, la crisi esplode e la bolla immobiliare crolla, come appunto accade attualmente. Il numero delle case in vendita si moltiplica e dunque i prezzi cadono (potrebbero cadere dal 15 al 30%). Effetto perverso, il potere d’acquisto di milioni di famiglie che si basa proprio sul prezzo della loro casa e dunque della loro capacità di indebitarsi, con questa caduta dell’immobiliare crolla e li porta alla bancarotta. Se il valore della casa del Sig. X diminuisce (mettiamo a 110.000$), le banche non recuperano più i loro fondi, il Sig. X, non solo non ha più casa, non solo ha rimborsato gli interessi per parecchi anni, ma deve ancora la differenza alla finanziaria, ossia 40.000$ più gli interessi! Il risultato di tutto ciò non si è fatto attendere: più di tre milioni di famiglie si ritroveranno in mezzo alla strada questo autunno.
Nello stesso tempo, gli hedge-funds, oltre a prestare denaro sotto forma di subprime, si sono a loro volta super indebitate presso le banche ed altri organismi di credito per avere i mezzi necessari per speculare sui beni immobiliari. Il principio è semplice: acquistare un bene e rivenderlo successivamente puntando al rialzo del mercato immobiliare. Così, lo scoppio della bolla immobiliare significa anche il fallimento di tutti questi fondi. Infatti, proprio recuperando i beni ipotecati e gettando milioni di persone sul lastrico, questi organismi ereditano case che non valgono più niente. Per effetto domino anche le banche ed altri organismi di credito vengono coinvolte. Immaginate! Queste istituzioni chiedevano prestiti le une alle altre al punto di non sapere più chi doveva del denaro ed a chi! Ogni giorno che passa apprendiamo che una banca o un istituto di credito è sull’orlo del fallimento o sono già fallite come, ad esempio la banca Countrywide negli Stati Uniti o la Sachen LB e la IKB in Germania. I loro debiti, che corrispondono all’investimento nei settori a rischio, ammontano a più di 10.200 miliardi di dollari! Adesso è tutto il settore speculativo e del credito ad entrare in crisi aperta.
La classe operaia ancora una volta paga i cocci rotti: nel mese di agosto i piccoli risparmiatori negli Stati Uniti ed in Germania sono corsi nelle banche per cercare di salvare i loro risparmi. Sarà certamente la stessa cosa domani in Gran Bretagna, in Spagna, in Giappone o in Cina.
Dietro la crisi finanziaria, la crisi dell'economia “reale”Una crisi finanziaria di tale portata diventa sempre una crisi dell’economia reale. La sola questione da porsi oggi è relativa alla sua ampiezza. Ancora prima della crisi finanziaria di questa estate, gli specialisti della borghesia avevano già iniziato a rivedere al ribasso le previsioni della crescita mondiale. Nel gennaio 2007 le Nazioni Unite annunciavano che questa sarebbe arretrato al 3,2% quest’anno, dopo avere ostentato il 3,8% nel 2006 e 4,5% nel 2005. Ma con lo scoppio della crisi borsistica, tutte queste cifre vanno di nuovo riviste al ribasso.
In effetti, la profonda crisi del credito significa inesorabilmente un abbassamento brutale di attività per tutte le imprese. Più nessuno vuole o può prestare del denaro alle imprese per investire. Ora, i benefici record che queste talvolta ostentano sono in realtà basati in grandissima parte su un indebitamento massiccio. Chiuso il rubinetto del credito, la maggior parte di queste imprese si ritrovano in una brutta posizione. L’esempio più sorprendente è indubbiamente il settore edile. Essendo la bolla immobiliare basata unicamente sui prestiti a rischio, il numero di costruzioni va a cadere; questa attività si riduce molto negli Stati Uniti, ma anche in Gran Bretagna, in Germania, in Spagna ed in altri paesi sviluppati, pertanto viene ad essere colpita l’insieme della crescita. E le ripercussioni vanno ben oltre: “dato che negli Stati Uniti un prestito immobiliare finanzia almeno l’80% dei consumi, è tutta la domanda delle famiglie che è colpita. Il consumo americano va dunque a piegarsi e perde da un punto ad un punto e mezzo, la crescita dell’anno prossimo invece di raggiungere il 3,5%, potrebbe non superare il 2%” (Patrick Artuis La Tribune de l’Economie, del 27/08/07). E siamo ancora in uno scenario ottimista. Certi specialisti sono d’accordo nel dire che la crescita americana dovrà attestarsi al di sotto dell’1%! Questa recessione americana ha naturalmente un’importanza mondiale. L’Europa ha un’economia profondamente legata all’attività d’oltre Atlantico. Inoltre il rallentamento attuale di queste due economie avrà necessariamente forti ripercussioni in Cina e nell’insieme dell’Asia. L’Europa e gli Stati Uniti rappresentano il 40% delle esportazioni cinesi! È dunque tutta la crescita mondiale che rallenterà brutalmente.
Ma manca ancora un fattore aggravante per comprendere bene ciò che sta per accadere: il ritorno dell’inflazione. In Cina, questo paese benedetto dai capitalisti per i suoi tassi di crescita a due cifre, ha un tasso di inflazione del 5,6% annuo (il più alto livello da dieci anni) e che continua ad aumentare di mese in mese. Questo paese è il simbolo di una tendenza che adesso si sviluppa internazionalmente in particolare nel settore delle materie prime e dell’alimentazione. I prezzi degli alimenti di base dovrebbero arrivare vicino al 10%. Effetto palla di neve: il consumo della classe operaia e della grande maggioranza della popolazione subisce un colpo d’arresto, il che aggrava ancora di più la situazione delle imprese.
Dalla fine degli anni 60 si sono avute ripetute cadute della borsa e recessioni. Ogni volta queste sono state più brutali e profonde. Questo nuovo episodio non sfuggirà alla regola, rappresenta un passo qualitativo supplementare, un aggravamento senza precedenti della crisi storica del capitalismo. È la prima volta che tutti gli indicatori economici virano al rosso simultaneamente: crisi del credito e dei consumai, indebitamento faraonico, recessione ed inflazione! Eccoci di fronte alla peggiore recessione da più di quarant'anni. I colpi cadranno sulle spalle della classe operaia; solo la lotta unita e solidale ci permetterà di farvi fronte!
Tino (30 agosto)
(da Revolution Internazionale, settembre 2007)
1. FED = Banca Centrale Americana; BCE = Banca Centrale Europea.
2. Risoluzione sulla situazione internazionale adottata al nostro ultimo congresso e pubblicata nella nostra Revue internationale n°130 e sul nostro sito internet.
3. Gli hedges funds gestiscono ufficialmente circa 1.300 miliardi di dollari.
L’estate del 2007 è stata ancora una volta marcata dal crescente caos militare e dall’orrore nella maggior parte del mondo. Mentre in Libano la situazione si è momentaneamente calmata (con l’eccezione della carneficina nel campo profughi di Nahr el-Bared dopo una lunga tregua tra l’esercito e gli islamici), in Afghanistan si è avuta una netta ascesa nello scontro e negli attacchi terroristici da parte dei Talebani. Nel frattempo il massacro in Iraq è continuato senza tregua. A dozzine muoiono ogni giorno, sia nei conflitti armati che negli attentati suicidi, la maggior parte dei quali diretti sulla popolazione inerme. Questa insana violenza si è diffusa in tutto il paese in modo crescente ed incontrollato. Cinquecento persone della comunità Yazidi¹ sono state uccise con quattro attacchi successivi esplosi in agosto, mentre Curdi, Sunniti e Sciiti erano contemporaneamente sotto attacco. Nel solo mese di luglio 1650 civili iracheni sono morti e i dati di agosto sono probabilmente peggiori.
Dal 2003, centinaia di migliaia di iracheni hanno perso la vita come diretta conseguenza della guerra. La popolazione è affamata, privata di assistenza medica, l’elettricità e l’acqua sono un lusso. Bagdad è trasformata in una serie di ghetti murati, con famiglie divise a metà, e gestiti da ogni tipo di bande rivali tra loro.
Più di due milioni di persone sono fuggite attraverso il paese cercando di sfuggire al massacro, lo stesso numero ha invece lasciato il paese per la stessa ragione.
L’esercito americano ha avuto ufficialmente più di 3.000 perdite; alcune fonti dicono 10.000, senza contare il numero crescente di suicidi (100 solo nel 2006) e tra i ranghi ci sono rumori di rivolta.
Questa è l’immediata eredità della grande guerra al terrorismo dell’amministrazione Bush. Secondo i recenti sondaggi il 58% degli americani adesso pensa che la guerra è stato un errore.
La crociata anti-terrorismo degli Stati Uniti è stata un fallimento totale ed ha lasciato Washington in una vera impasse. Le varie opzioni che può prendere in considerazione oggi le sono tutte sfavorevoli. Bush è stato incapace di insediare un governo iracheno che avesse un minimo di credibilità e che non rappresentasse la semplice espressione del dissenso tra sciiti e sunniti. Le rappresentanze di questo governo si sono spartite le armi concesse alle autorità irachene dal Pentagono negli ultimi tre anni, formando quindi gli arsenali per le rispettive cricche. Per non parlare delle forze di polizia che frequentemente permettono l’accesso dei terroristi-kamikaze nei campi militari americani. Ciò per quanto riguarda l’affidabilità delle istanze e degli uomini messi in piazza dagli Stati Uniti. La loro permanenza in Iraq non cambia la situazione se non aggravarla ancora di più sul posto ed aumentare l’opposizione alla guerra negli Stati Uniti.
D’altra parte abbandonare l’Iraq (operazione che richiede parecchi mesi trattandosi 150.000 uomini) potrebbe essere molto costoso in termini di sicurezza per l’esercito statunitense ed aprire la strada ad esplosioni di violenza ulteriori, con l’Iran che attende ai cancelli. Questo non può essere certo controbilanciato dai 90 uomini che l’ONU ha intenzione di mandare in Iraq, al posto dei 65 già presenti sul posto.
Tuttavia, la prospettiva di un ritiro quanto meno parziale è ormai prevista dall’amministrazione Bush. In questa ottica e per controbilanciare le ambizioni egemoniche di Teheran, gli Stati Uniti stanno cercando di costruire un blocco di paesi arabi pro-americani tra gli stati Arabi offrendosi di rinforzare i loro apparati militari: 20 miliardi di dollari spesi negli ultimi dieci anni in armamenti ultra sofisticati per l’Arabia Saudita, Qatar, Bahrain, Kuwait e Emirati Arabi, e tredici miliardi per l’Egitto nello stesso periodo. Naturalmente Israele ha reclamato la propria parte dato che non ha intenzione di veder sminuire la propria superiorità militare nella regione. La cifra ammonta a 30 miliardi di dollari in armi, vale a dire un aumento del 25% dei rifornimenti militari Usa al governo Israeliano. In altre parole gli Stati Uniti stanno concentrando scorte di armi in una regione già altamente instabile. Nel caso dell’Arabia Saudita è come rimpinzare un paese da sempre sospettato di appoggiare i terroristi sunniti in Iraq, incluso Al Qaeda.
In un mondo dove la regola è “ognuno per sé”, la risposta della potenza alla guida del mondo è esasperare ancora di più il caos.
Dalla fine del 2006 assistiamo ad una febbrile crescita nella corsa agli armamenti. Ottenere armi nucleari è diventato il principale obbiettivo per molti Stati. Questo non può sorprenderci. I test nucleari della Corea del Nord sono iniziati nel 2006, i ripetuti acquisti di tecnologia nucleare e missili russi da parte dell’Iran nell’ultimo anno, le ambizioni di paesi come il Brasile di riattivare i propri programmi nucleari, … questi sono tutti segnali di come tutti i paesi non si accontentano più di stare sotto “ombrello nucleare” di questa o quella grande potenza, ma vogliono avere le proprie armi.
Gli stessi Stati Uniti hanno giocato un ruolo importante in questa corsa. A seguito della collisione tra il satellite meteorologico americano ed il missile cinese avvenuta nel gennaio del 2007 – un evento che ha evidenziato la potenziale debolezza degli USA nel controllare le proprie forze terrestri, aeree e navali a grande distanza – la risposta è stata di rafforzare il proprio scudo anti-missili alle porte della Russia. Quest’ultima ha risposto con la vaga minaccia di puntare verso le città europee e con quella più concreta di installare missili a Kaliningrad sul Baltico, proprio tra Polonia e Lituania, in prossimità dello scudo americano.
Ma la corsa all’armamento nucleare non è una prerogativa delle grandi potenze. Stiamo infatti assistendo allo sviluppo di una cintura nucleare che corre dal medio all’estremo Oriente, da Israele alla Corea del Nord, passando per India, Cina e Pakistan, il tutto sovrastato dall’arsenale russo. In breve, una polveriera atomica, localizzata in regioni che già sono teatro di ogni sorta di tensioni e conflitti aperti. Una spada di Damocle sulle nostre teste che non sarà sollevata dai trattati di non proliferazione che non valgono neanche la carta su cui sono scritti. Solo il massiccio sviluppo della lotta di classe e l’abbattimento del capitalismo porrà fine della minaccia della guerra e darà un futuro all’umanità.
Mulan
(basato su un articolo apparso in Revolution Internationale 382, Settembre 2007).
1. Gli Yazidi sono una comunità religiosa vista come eretica dall’islam sunnita ortodosso. Molti di loro sono Curdi.
Gli articoli che seguono sono solo qualche esempio della risposta che la classe a livello internazionale sta dando contro effetti della crisi mondiale. Dall’inizio dell’anno le lotte si sono susseguite in molti paesi del mondo, dall’Europa all’America Latina, al Sud-Africa, dagli USA alla Cina. Lotte certo ancora sparpagliate e circoscritte, ma significative della tendenza ad uno sviluppo importante dello scontro di classe.
In Gran Bretagna questa estate i lavoratori delle poste, della metropolitana di Londra e del settore pubblico sono scesi in lotta contro gli irrisori aumenti salariali e la perdita di posti di lavoro (solo nelle poste negli ultimi anni si sono persi 50.000 posti di lavoro e se ne prevede l’eliminazione di altri 40.000).
In Spagna, ad aprile, 40.000 operai provenienti da tutte le fabbriche della Baia di Cadice sono scesi in piazza per manifestare la loro solidarietà nella lotta con gli operai licenziati a Delfi ed un movimento ancora più ampio si è esteso, in maggio, nelle altre province dell’Andalusia.
In Germania, per sei settimane hanno avuto luogo tutta una serie di scioperi coinvolgendo 50.000 operai della Telecom ed anche i ferrovieri sono scesi in lotta per difendere il salario.
In Belgio, all’inizio di luglio a Oostakker, è scoppiato uno sciopero selvaggio alla Volvo durante il rinnovo contrattuale, con gli operai che manifestavano in piazza mentre i sindacati continuavano le trattative, allo stesso tempo alla Opel di Anversa con una serie di scioperi e proteste (molte non “ufficiali”) i lavoratori lottavano contro la perdita di numerosi posti di lavoro.
E mentre nel Sud-Africa in luglio ed agosto sono continuate le lotte nelle miniere, ma anche nel settore auto ed in una serie di industrie manifatturiere, in America latina alle numerose lotte che da mesi scoppiano in Perù ed in Messico (3715 fabbriche colpite da scioperi nei primi sei mesi dell’anno), si aggiungono quelle dei lavoratori del metrò di Buenos Aires, in Argentina, che nelle assemblee generali hanno organizzato un sciopero contro l’accordo salariale firmato dai propri sindacati. Ed in Brasile, dopo la lotta dei controllori di volo dello scorso marzo, contro il pessimo stato del servizio aereo e soprattutto contro l’arresto di 16 loro compagni di lavoro perché avevano scioperato, in giugno per più settimane, un diffuso movimento di sciopero ha interessato il settore dell’acciaio, il settore pubblico e le università - il più importante movimento di classe in questo paese dal 1986.
Per maggiori informazioni vedi il nostro sito internet: www.internationalism.org [30]Nello scorso giugno, in Sud Africa ha avuto luogo uno sciopero di quattro settimane¹. Tra 600.000 ed un milione di lavoratori hanno interrotto il lavoro provocando la chiusura della maggior parte delle scuole e di numerosi uffici, il blocco di alcuni trasporti pubblici e la sostituzione del personale degli ospedali con personale militare. Questo movimento della classe operaia è il più importante dalla fine dell’apartheid nel 1994. Durante questi scioperi il sindacato COSATU ed il SACP (Partito Comunista del Sud Africa), che fanno parte della coalizione governativa al potere con l’ANC, si sono dati da fare per demolire la forza dello sciopero e fare passare gli attacchi al potere d’acquisto dei salari.
La fine dell’apartheid non ha cambiato niente
Le condizioni di vita e di lavoro in Sud Africa si sono deteriorate terribilmente per la maggioranza della popolazione. La speranza di vita, il grado di alfabetizzazione, l’assistenza sanitaria sono tramontati. Adesso 5,5 milioni di pazienti sono colpiti dall’AIDS, la cifra più alta al mondo.
I sindacati, i commentatori di sinistra e di ultra sinistra accusano regolarmente la politica “pro-business” e particolarmente avida del presidente Thabo Mbeki. Ma non è a causa della cupidigia o di politiche economiche particolari che il governo ANC/SACP/COSATU attacca le condizioni di vita degli operai e degli altri strati non sfruttatori in Sud Africa. Un governo capitalista non può essere altro che “pro-business” e dunque contro la classe operaia. La sola “liberazione” che sia sopraggiunta nel 1994 è stata quella di un piccolo numero di attivisti politici neri per occupare una posizione più importante nell’apparato politico della classe dominante e ingannare meglio la classe operaia. Le elezioni che ci sono state dopo sono servite a rafforzare l’idea che, con l’arrivo di una maggiore democrazia, qualche cosa di fondamentale era cambiato nella società sud-africana. Il Socialist Worker (9 maggio 2007) ha riportato le riflessioni di un operaio in una manifestazione a Pretoria: “pensavamo che il governo ci avrebbe sostenuto come operai perché noi li abbiamo messi al potere, ma è come se ci avesse dimenticato”. Questo tipo di illusioni è sostenuto costantemente dai sindacati e dalle frange più “radicali” della sinistra borghese che sono ben contenti di blaterare sulle concessioni dell’ANC al neo liberismo ma non l’etichettano mai apertamente come parte a pieno titolo della borghesia.
Prospettive per le lotte future
Alcuni commentatori hanno visto il recente sciopero come un segno del ruolo più indipendente che i sindacati stavano giocando e che ciò avrebbe potuto incoraggiare gli operai ad intraprendere azioni future. In realtà, è proprio perché cresce il malcontento tra la classe operaia che i sindacati cercano di prendere le distanze dal governo. In Socialist Workers (23 giugno 2007), un membro dell’organizzazione gauschista South Africa’s Keep avanzava l’idea che il clima in corso “apre la porta ad una rinascita dell’azione autonoma durante gli scioperi”. Ciò che è certo è che tutti i pretesi difensori della classe operaia (sindacati ed altri) si sarebbero opposti con tutte le forze all’emergere di una reale azione autonoma degli operai. Una reale lotta autonoma avrebbe potuto permettere ai lavoratori di prendere in mano le proprie lotte, al di fuori dei sindacati. E ciò non è avvenuto.
Questa lotta, sebbene più significativa, non è affatto un episodio inedito nell’ultimo decennio. Nell’agosto 2005, 100.000 operai delle miniere d’oro hanno scioperato per rivendicazioni salariali. Nel settembre 2004, si è vista la più importante giornata di sciopero come numero di partecipanti della storia del Sud Africa: 800.000 secondo le cifre fornite dai sindacati, 250.000 secondo quelle del governo. Particolarmente inferociti erano gli insegnanti che non ricevevano aumenti salariali dal 1996. Nel luglio 2001, c’era stata un’ondata di scioperi nel settore minerario ed in quello energetico; nell’agosto 2001, uno sciopero di tre settimane che ha coinvolto 20.000 operai del settore automobilistico. Nel maggio 2000, gli scioperi nell’industria delle miniere si sono estesi al settore pubblico. Durante l’estate 1999, ci sono state ondate di scioperi che hanno incluso i lavoratori delle poste, delle miniere e del settore pubblico (insegnanti, ospedalieri, ed altri).
Implicitamente tutte queste lotte hanno portato oggi gli operai ad insorgere contro l’ANC ed il governo sud-africano. Ma l’ultima ondata di scioperi ha mostrato anche la necessità per la classe operaia di sviluppare una presa di coscienza sulla natura borghese di questi falsi amici (partiti di sinistra e sindacati) e del significato globale delle sue lotte.
Da World Revolution, sezione della CCI in Gran Bretagna
1. Una versione più dettagliata di questo articolo è disponibile sul nostro sito: www.internationalism.org [30]
Un compagno di Lima, che è in corrispondenza e discute regolarmente con la nostra organizzazione, ci ha inviato recentemente un articolo sullo sciopero dei minato in Perù dell’aprile scorso (vedere Acción Proletaria n° 195) e degli elementi su un movimento di insegnanti che si stava sviluppando quando i focolai della prima lotta non erano ancora spenti. Salutiamo calorosamente questo sforzo del compagno perché è di primaria importanza che circolino velocemente le esperienze, le lezioni, le notizie sulle lotte operaie che sorgono nel mondo. Il contributo del compagno è un esempio che incoraggiamo a seguire. L’articolo che segue è ripreso interamente dai testi e dagli elementi informativi che il compagno ci ha inviato.
La situazione sociale nel Sud America è sempre più contrassegnata dallo sviluppo di lotte operaie. In Cile, dall’anno scorso, hanno luogo scioperi a ripetizione nelle miniere di rame il cui sfruttamento rappresenta il 40% della produzione mondiale. Il che evidenzia l’importanza del settore minerario in questo paese dove la classe operaia conosce una brutale degradazione delle condizioni di vita e di lavoro. È difficile ottenere notizie precise su questi movimenti. I media organizzano il blackout. Sappiamo solamente che i sindacati hanno organizzato una forte divisione tra gli operai dell’impresa statale CODELCO e quelli delle imprese subappaltate, dando a questi ultimi un terzo di stipendio in meno per lo stesso lavoro, come pure tra gli scioperanti e gli operai al lavoro. Lo sciopero è durato trentotto giorni, fino a luglio, concludendosi con promesse di miglioramenti contrattuali per gli operai in subappalto, senza per questo modificarne lo statuto che era invece la loro principale rivendicazione.
Sciopero nelle miniere in Perù
In aprile, lo sciopero partito dall’impresa cinese Shougang si è esteso in tutti i centri minerari del paese. I sindacati hanno giocato pienamente il loro ruolo reazionario, in particolare nella più importante miniera del paese, Yanacocha (miniera di oro che si trova a Cajamarca, nel nord del paese, e fattura tra gli ottocento ed i mille milioni di dollari annui) dove hanno intavolato trattative private con la direzione e non si sono uniti allo sciopero. Addirittura, i sindacalisti del bacino di Oroya sono stati fustigati dalla stampa perché continuavano a lavorare.
A Chimbote, dove c’è stata anche una forte lotta dei contadini e dei disoccupati, l’impresa Sider Perù è stata totalmente paralizzata. Le donne dei minatori e gran parte della popolazione di questa città hanno manifestato al fianco degli operai. Ad Ilo, così come a Cerro di Pasco, le strade sono state bloccate e 15 minatori sono stati arrestati con l’imputazione di avere lanciato delle pietre contro la sede del Governo regionale. La stampa si è affrettata a proclamare che lo sciopero era stato un insuccesso parlando di 5.700 minatori in sciopero mentre erano 120.000.
Nelle montagne di Lima i minatori di Casapalca hanno sequestrato gli ingegneri della miniera che minacciavano di licenziarli se avessero abbandonato il posto di lavoro. Il ministro del settore, Pinella, ha dichiarato che lo sciopero era illegale perché il preavviso era stato solamente di quattro giorni invece dei cinque richiesti dalla legge. Il padronato ha assunto del personale con contratto a tempo determinato ed il ministro ha minacciato di licenziamento i minatori che continuavano lo sciopero.
Alcuni studenti dell’università di San Marcos di Lima hanno solidarizzato con i minatori e hanno portato loro del cibo per la “mensa comune”, pratica corrente in tutti gli scioperi in Perù, sia che si tratti degli insegnanti, degli infermieri o degli operai delle miniere, che serve anche a scambiare esperienze ed ad analizzare collettivamente la lotta giorno dopo giorno.
È significativo che questo sciopero nazionale illimitato abbia avuto luogo dopo 20 anni di calma sociale in questo settore.
Lotte degli insegnanti in Perù
Il 19 giugno, il dirigente sindacalista degli insegnati, Huaynalaya, ha proclamato uno sciopero nazionale, ed il suo appello ha trovato un’eco in tutto il paese. Huaynalaya è considerato dalla stampa un oppositore alla maggioranza del sindacato degli insegnanti (SUTEP), e uno che assume un orientamento pro-cinese all’interno del partito Patria rossa.
Il sindacato si è alla fine unito allo sciopero il 5 luglio. Nei giorni precedenti i giornalisti, i cui programmi politici hanno un alto indice di ascolto, hanno dedicato ampi spazi alla denigrazione del movimento.
La posizione della stampa è stata chiarissima: gli insegnanti sono responsabili della propria incapacità intellettuale e si fanno portatori di una “cultura dello sciopero” che priva i bambini e gli adolescenti della nazione di preziose ore di lezione. Argomentazione alquanto contraddittoria: come possono essere preziose delle ore di lezione tenute da incapaci?
In realtà quello che si teme è che gli studenti scendano in piazza per sostenere gli insegnanti come accadde nel 1977, esperienza che fece nascere all’epoca una nuova generazione di militanti di diversi partiti che si orientarono verso la lotta armata.
Lo stesso ministro dell’Educazione ha affermato che gli scioperanti erano solo 5.000 su 250.000 insegnanti impiegati nel suo ministero. Ha dovuto poi riconoscere il suo “errore”. La mobilitazione si è estesa in tutto il paese: a Juliaca, Puno, Ucayali, Ayacucho e Huanuco. In più gli insegnanti sono stati sostenuti da tutta la popolazione, come era capitato due mesi prima quando gli scioperi dei minatori mobilitavano quasi tutto il paese. Un lavoro di coordinamento e presenza di settori più combattivi capaci di fare un bilancio di questa esperienza restano ancora molto limitati. I sindacati sono ancora in primo piano e diventano un freno al movimento di rivendicazioni operaie.
Riflessioni sulle lotte attuali
Le lotte attuali in Perù e che coprono tutto il territorio sono il frutto di una confluenza di avvenimenti che trovano le loro origini in due focolai di malcontento. Da una parte, le rivendicazioni a carattere regionale, in particolare a Pucallpa dove la città è stata presa ed isolata per più di 15 giorni e, dall’altra, lo sciopero del sindacato degli insegnanti SUTEP, cominciato il 19 giugno nella provincia dagli insegnanti che si opponevano agli orientamenti del partito Patria rossa (partito di sinistra della borghesia) e raggiunto in seguito dall’insieme del sindacato, con l’adesione della maggioranza dei 320.000 insegnati in Perù a partire dal 5 luglio.
Questa mobilitazione unita alle rivendicazioni regionali (eteroclite e necessariamente molto localiste) ha suscitato una gigantesca reazione di massa in tutto il paese. Il numero di feriti e di arresti resta sconosciuto, e le occupazioni di locali, incendiati e distrutti durante gli scontri con la polizia, si sono estese in tutti i dipartimenti in lotta. Il ministero ha confessato, il 9 luglio, che rimanevano 75 conflitti non risolti, il che indica che in realtà il loro numero è ben più alto.
Le lotte attuali, nonostante la violenza che scatenano, non contengono una prospettiva di autonomia del proletariato che gli permetta di lottare per i propri obiettivi ed il proprio programma. Il proletariato in questo momento è sottomesso agli interessi della borghesia locale ed ai suoi alleati piccoli borghesi di ogni risma (intellettuali, giornalisti…), ma i proletari che intervengono in questi movimenti devono costituire i nuclei che permettano di trarne le lezioni e favorire l’autonomia della lotta, unico percorso dell’unica classe capace di farla finita con la disperazione del sistema capitalista ed il suo corteo di miseria, di morte e di distruzione, la classe operaia.
Lima, 9 luglio 2007.
Da Révolution Internationale, organo della CCI in Francia
L’articolo di Programma comincia con una serie di falsità inventate di sana pianta. “Gli organizzatori e i convenuti facevano parte di un’area composita che intendeva valutare la possibilità di organizzare un lavoro comune “di lungo respiro” nei prossimi appuntamenti contro la guerra. Tra i partecipanti, anche Battaglia comunista (BC) la Corrente Comunista Internazionale (CCI) (…) i quali evidentemente pensano che a questi convegni vada dato un apporto programmatico (scritto o verbale) per giungere così a un minimo di omogeneità politica, in vista di un intervento comune”.
La CCI, che ha partecipato al convegno, si è battuta contro l’idea che il tutto si riducesse a organizzare l’ennesima manifestazione assieme e mettendo al centro la questione della chiarificazione e del confronto su cosa significasse realmente essere internazionalisti. Programma avrebbe per lo meno dovuto documentarsi prima di dire tali eresie. Per il resto l’articolo di Programma fa tutta una serie di critiche a posizioni presenti al convegno che noi condividiamo perfettamente. E’ vero che diverse formazioni presenti al convegno difendevano posizioni decisamente borghesi, ma altre erano piuttosto l’espressione di una ricerca di una prospettiva proletaria, anche se contaminata dall’influenza di visioni borghesi, come era chiaro dallo stesso documento di convocazione del convegno.
Che fare dunque? Stare alla larga da tale “contaminazione” o intervenire, come ha fatto la CCI?
Programma è per la prima ipotesi, non impelagarsi in alcun modo in discussioni con altre forze politiche. La posizione di Programma è cioè ancora una volta quella che espresse nel lontano 1976 a proposito della prima delle tre Conferenze della Sinistra Comunista, tenute dal 1976 al 1980, quando parlò di “fottenti e fottuti”, ritenendo cioè che qualunque discussione tra gruppi - ed allora si trattava di gruppi rivoluzionari - avesse dietro un inganno degli uni contro gli altri3. Chi sa mai poi perché, negli stessi anni ’70, Programma è andata rincorrendo, a destra e a manca, i vari gruppetti di “autonomi”, di stalinisti e altro ancora per riempire i comitati contro questo e quello, che facevano all’epoca tanto “azione di partito” e su cui è poi naufragata miseramente4.
Programma considera ancora che un ulteriore segno dell’opportunismo del convegno sia stato quello di non aver parlato “mai della necessità del partito comunista su scala internazionale (è l’ultima delle loro preoccupazioni)”. Ma ci chiediamo a questo punto cosa intenda Programma per partito, qual è il ruolo che gli attribuisce? Noi pensiamo che sia quello di portare avanti un’analisi e un programma tra i proletari, di cercare gli argomenti per permettere loro di arrivare ad una chiarezza politica, di dare loro la forza per superare le loro esitazioni, per lottare, per aggregarsi, per osare pensare che un mondo diverso, comunista, si possa realmente realizzare. Ma per fare questo un partito (o un gruppo che voglia mettersi sulla strada per costruire il partito di domani) deve lottare sin da oggi, deve svolgere il suo intervento di chiarezza soprattutto in circostanze come quelle del suddetto “convegno internazionalista”, dove la circolazione di posizioni chiaramente borghesi ammantate da sinistrismo possono avere qualche attrattiva su dei proletari ed in genere sugli elementi che ricercano questa chiarezza. Da questo punto di vista non ci sembra che l’atteggiamento di chiusura su sé stesso di Programma, al di là delle grandi proclamazioni sulla necessità del partito, risponda alle necessità del caso.
Notiamo piuttosto in Programma un accumulo di contraddizioni da cui questo gruppo fa, in tutta evidenza, fatica a liberarsi. Per dimostrarlo torniamo un attimo alle critiche che Programma muove ad alcune delle posizioni emerse al convegno. Del tutto correttamente Programma critica: il “richiamo a un «supplemento di rivoluzione borghese»”, il fatto che “l’autodeterminazione palestinese è al centro della scena, leva necessaria e insostituibile per un cambiamento rivoluzionario con fine immediato la «distruzione dello Stato sionista»”, o ancora contro l’idea dell’“islamismo «bandiera degli oppressi», etc. etc.”.
Come già detto le critiche, ammesso che rispondano sempre alle posizioni realmente difese dai singoli gruppi, esprimono una posizione corretta contro delle posizioni sbagliate. Ma come si fa a vantarsi di avere le vere posizioni marxiste e non provare a difenderle là dove ce n’è il bisogno, là dove si produce la battaglia teorica e politica tra le visioni borghesi e piccolo-borghesi e quelle rivoluzionarie?
Ma vorremmo anche sottoporre a Programma “di oggi” queste altre posizioni e capire se si sente di criticarle con lo stesso fervore. E’ criticabile si o no:
· dire che: “… si tratterà dunque di integrare nel movimento rivoluzionario delle masse operaie e proletarizzate del Medio Oriente contro tutto l’ordine borghese, la loro storica battaglia per l’autodeterminazione nazionale rivoluzionaria, il che implica la distruzione dello Stato di Israele fondato sul privilegio ebraico e la fondazione in Palestina di uno Stato laico basato sul riconoscimento di una completa uguaglianza giuridica, razziale e religiosa…” (Programma Comunista n. 17, 1982);
· o ancora sviluppare, come fa Le Proletaire (all’epoca organo di Programma in Francia) nel suo n°363 dedicato in gran parte alla guerra del Libano degli anni XXX, un’analisi e un atteggiamento degni del più abbietto nazionalismo, del tipo: “a ciascuno il suo israeliano”, chiamando i proletari “arabi” a partecipare alla guerra “fino all’ultima goccia di sangue”, contro lo “Stato colonialista di Israele” ed offrendo il suo appoggio, appena appena critico, ai capi militari dell’OLP.
Come si vede Programma si fa del tutto impropriamente maestro di marxismo, quando proprio su queste tematiche ha preso tanti scivoloni da rompersi letteralmente il collo. La disgregazione del vecchio gruppo Programma, avvenuta negli anni 80-82, fu proprio l’espressione delle forti tare nazionaliste che portava con sé questo gruppo a causa dell’incomprensione profonda della fase storica in cui si trovava a lavorare (vedi Revue Internazionale n° 32). Incomprensione che continua tuttora visto che nel n° 4 di quest’anno, nell’articolo “Esiste ancora una ‘questione nazionale palestinese’?” si dice:
“La rivendicazione dell’“autodeterminazione palestinese” si può porre ancora utilmente (cioè dal punto di vista dello sviluppo della lotta di classe nell’area) solo ed esclusivamente per ciò che riguarda il proletariato israeliano (che deve così dimostrare, nei fatti, ai proletari palestinesi, di voler lottare contro la propria borghesia anche su questo terreno): non certo per dare così “nuovo slancio” e “vigore” al movimento nazionale del proletariato palestinese, ma solo come atteggiamento tattico disfattista contro la propria borghesia, per accrescere la fiducia del proletariato palestinese nei confronti di quello israeliano, considerato altrimenti complice dei misfatti della propria borghesia. Solo così si potrà cominciare a uscire dal drammatico vicolo cieco dei massacri anti-proletari, di marca israeliana o arabo-palestinese.”
Cosa propone in sostanza Programma ai proletari israeliani? Di lottare contro i licenziamenti, contro l’aumento dei prezzi, ma portando in giro le bandiere palestinesi per attirare i proletari che vengono massacrati sotto queste stesse bandiere! Non esiste più il vecchio motto “Proletari di tutti i paesi, unitevi!”? È solo la lotta contro i rispettivi sfruttatori, la lotta per la difesa dei propri interessi di classe che porta i proletari all’unificazione. I proletari israeliani non hanno nulla da farsi perdonare da chicchessia, così come i proletari occidentali che vengono accusati di collaborazionismo con le proprie borghesie dai vari gruppi gauchiste. Seguendo questa logica i proletari americani, per poter lottare, dovrebbero rivendicare l’autodeterminazione di quasi tutti i popoli oppressi del mondo!
Tutto questo dovrebbe far capire quanto sia forte il peso dell’ideologia borghese - da cui non sono immuni neanche le stesse organizzazioni rivoluzionarie - e soprattutto quanto sia necessario combatterla là dove questa cerca di imporsi di fronte a dei tentativi, parziali, confusi ed errati quanto si vuole, di riappropriarsi delle posizioni di classe.
Dall’insieme degli elementi sviluppati si può vedere come Programma sia ben lontana non solo dall’aver superato le confusioni del passato, ma anche dall’aver assimilato l’insegnamento del marxismo che ci ricorda come:
“La dottrina materialistica, secondo la quale gli uomini sono prodotti delle circostanze e dell’educazione, dimentica che sono proprio gli uomini che modificano le circostanze e che l’educatore stesso deve essere educato. Essa è perciò costretta a separare la società in due parti, una delle quali sta al di sopra dell’altra. La coincidenza nel variare delle circostanze dell’attività umana, o autotrasformazione, può essere concepita o compresa razionalmente solo come prassi rivoluzionaria”. (K. Marx, Tesi su Feuerbach).
Oblomov, 30 settembre 2007
1. Vedi l’articolo: “Sul Convegno internazionalista di Milano del 14 aprile 2007. La discussione non è un lusso ma un’arma di lotta per la classe operaia” Rivoluzione Internazionale n°151.
2. Programma Comunista n° 3, maggio-giugno 2007.
3. Vedi “La II Conferenza Internazionale dei gruppi della Sinistra Comunista” su Rivoluzione Internazionale 15/16 e 17.
4. Vedi, ad esempio, l’articolo “A proposito del … Comitato di difesa proletaria” su Rivoluzione Internazionale n° 24.Abbiamo già ricordato come la nostra apertura sia determinata dalla convinzione dell’esistenza di una nuova generazione di proletari alla ricerca di una chiarificazione politica. Ma se noi siamo del tutto aperti alla discussione, non per questo facciamo concessioni sulle nostre posizioni politiche che difendiamo con determinazione. E lo percepiscono bene proprio quelle forze come Red Link che, per spingere sulle proprie posizioni borghesi la discussione del convegno, ci hanno continuamente “marcato ad uomo”, continuando la loro opera di maldicenze sul blog “no-war” che, come detto, ha mantenuto la discussione tra alcuni dei partecipanti al convegno. Da un messaggio mail di un militante di questo gruppo leggiamo quanto segue in risposta al su citato articolo di Programma: “Dobbiamo spezzare una lancia a favore della Corrente Comunista Internazionale. L’articolista di “Programma” sospetta che anche essa si sia arruolata alla lotta armata resistenziale. E’ vero invece che essa ha fatto un intervento altrettanto pacifista e bertinottiano, del tutto simile a quello di “Programma”. E’ arrivata a dire che sparare contro i soldati (cioè i mercenari pagati profumatamente) di Nassirya significa sparare contro i fratelli di classe. Doveva forse anche aggiungere che un giorno gli operai italiani che dovessero sparare contro la nostrana polizia sparerebbero contro altri fratelli di classe, per non essere sospettata di “nazionalismo”?”
La prima cosa che ci viene da chiederci è perché mai, in una corrispondenza mail in cui si discute dell’articolo di Programma, a Red Link salti in testa di attaccare la CCI? Evidentemente perché per Red Link la discussione sull’articolo di Programma è solo l’espediente per procedere ad un attacco più generalizzato contro la Sinistra Comunista, per discreditarla il più possibile presentandola come una setta capace solo di pontificare standosene al sicuro a casa propria, e contrapponendo una cosiddetta “azione concreta” come l’unica valida azione rivoluzionaria.
In secondo luogo Red Link si sbaglia di indirizzo: la CCI non è una setta e non ha nulla da nascondere a proposito delle proprie posizioni o della propria attività. Veniamo dunque ai fatti. Quale sarebbe il nostro pacifismo, il rifiuto di riconoscerci nella parola d’ordine di “10, 100, 1000 Nassirya”? E’ vero, non lo condividiamo affatto. Ma qual è la questione? Dovremmo noi aizzare i proletari a combattere anche militarmente quelli che tra di loro fanno delle scelte suicide, come quella di andare a “servire la patria”, piuttosto che cercare di comprendere i motivi che sono alla base di certe scelte? E’ ovvio che l’azione dei rivoluzionari mira ad una trasformazione rivoluzionaria della società, trasformazione necessariamente violenta, portata avanti da un proletariato armato contro l’esercito borghese. Ma il raggiungimento delle condizioni adeguate a produrre un processo rivoluzionario di questo tipo richiede tutta una fase di maturazione da parte del proletariato in cui, poco per volta, i primi nuclei coscienti conquistano alla causa rivoluzionaria strati sempre più estesi della classe. L’azione del partito (e delle formazioni che, oggi come oggi, agendo sul piano di classe, operano in vista della costruzione del partito) è proprio quella di favorire, lavorando all’interno delle situazioni di lotta e tra le formazioni emergenti, il più possibile la comprensione della realtà in cui si vive e della prospettiva che ci sta davanti. I rivoluzionari non sono dei pacifisti, ma non sono neanche degli assetati di sangue. La rivoluzione di ottobre, di cui ricorre adesso il 90° anniversario, è stato uno degli eventi che ha inciso più profondamente nella storia dell’umanità pur avendo comportato una perdita di vite veramente irrisorio.
Ma torniamo a Red Link. Questo gruppo, come l’OCI da cui deriva e da cui si è amichevolmente separato, ci accusa di pacifismo perché sono loro che si sono fatti i sostenitori delle varie borghesie mediorientali, da quella di Saddam a quella di Bin Laden. Red Link accusa la CCI di pacifismo per spingere i proletari ad attribuire la responsabilità dei vari morti operai sotto le macerie o sotto le bombe del terrorismo islamico agli stessi operai perché non avrebbero reagito a tempo contro le ingiustizie della società. Non si tratta dunque solo dei soldati di Nassirya: gli stessi proletari morti sotto le Torri Gemelle a New York sarebbero morti giustamente perché corresponsabili con la borghesia mondiale per non aver sostenuto il proletariato arabo. Che limpida posizione di classe. Ma di classe borghese contro la classe operaia, naturalmente1.
Come si vede tra le posizioni di Red Link ed altre posizioni presenti al Convegno quali la nostra esiste un baratro, una frontiera di classe. Non è un caso che i difensori delle posizioni borghesi si identificassero quasi sempre tra quelli che sollecitavano il momento dell’azione, che fremevano per l’eccessivo indugiare sulla discussione. Posizioni come quelle di Red Link hanno bisogno, per affermarsi, di poggiare solo sull’emotività e poco sulla riflessione. Ma la prospettiva rivoluzionaria è un mix di cuore e di cervello e solo se si coniugano l’uno e l’altro assieme si riesce ad andare lontano. Noi non siamo pantofolai e lo dimostriamo tutti i giorni con la nostra presenza ai quattro angoli del mondo. Ma siamo consapevoli che l’azione non sorretta da una profonda riflessione può portare solo verso cocenti delusioni. E i gruppi alla Red Link sono sempre pronti ad aiutarci in questo senso.
Ezechiele, 30 settembre 2007
1. Vedi “Il disprezzo dell’OCI per la classe operaia”, pubblicato su Rivoluzione Internazionale n° 12
Come da copione, dopo varie contestazioni, disaccordi, prese di distanza, dopo tanto blaterare tra le differenti forze borghesi, la legge finanziaria è stata varata.
Ogni lavoratore, ogni proletario è ben cosciente che questa nuova finanziaria non gli porta niente di buono, anzi non fa che consolidare e per molti versi aumentare l’impoverimento delle famiglie proletarie, la precarietà del lavoro, rafforzando una prospettiva da incubo per i giovani che, dopo una vita spesa alla ricerca di uno straccio di lavoro per sopravvivere, non avranno diritto neanche ad un minimo di pensione. Le “agevolazioni” per “le fasce più deboli” previste dalla finanziaria sono veramente ridicole. La riduzione di qualche punto dell’Ici può forse risolvere il problema di come arrivare alla fine del mese quando, con un salario di 1.000-1.200 euro, ci deve vivere un’intera famiglia? Può far dormire sonni tranquilli chi rischia di perdere la casa perché non riesce a pagare un mutuo che è diventato il doppio del valore iniziale? Ancora più ridicola è l’agevolazione sugli affitti per i “redditi bassi” e per i giovani. Veramente pensano di poterci farci credere che questo possa risolvere il problema di chi guadagna dai 400 agli 800 euro al mese, anzi un mese si e l’altro non si sa, visto che ormai tutti i contratti sono a progetto e, quando va bene, durano 6 o 12 mesi? La sfacciataggine di questa gente non ha veramente limiti quando ci vengono a raccontare, come ha fatto Padoa Schioppa alla trasmissione di Fazio “Che tempo fa”, che “la disoccupazione sta diminuendo grazie al lavoro precario” e che il problema è che i giovani di oggi sono dei “bamboccioni” che non vogliono lasciare “le comodità della casa di mamma e papà”.
Per riuscire a recuperare 33 euro su di un salario il cui valore reale diminuisce sempre di più, i metalmeccanici devono aspettare mesi e mesi di trattative tra i sindacati ed il padronato, perdendoci giornate di lavoro in scioperi farsa organizzate da questi presunti “difensori dei lavoratori”. L’assistenza sanitaria è diventata ormai un lusso riservato solo a chi o conosce la persona giusta nel posto giusto o ha i soldi per farsi curare privatamente (magari dagli stessi medici che operano negli ospedali); per gli altri attese di mesi o anni per fare analisi, controlli o interventi, anche quando l’attesa può significare peggiorare irrimediabilmente. Intanto i prezzi dei generi di prima necessità continuano ad aumentare (a Roma un chilo di pane lo paghi 3 euro) e già ci annunciano che nei prossimi mesi aumenteranno luce e gas. Anche il costo dei treni aumenterà mentre nel frattempo tagliano sulle spese eliminando i treni a breve percorrenza, cioè quelli che migliaia di pendolari sono costretti a prendere ogni giorno per arrivare al lavoro.
Bisogna dire che Prodi ci aveva avvertito che “la situazione del paese è grave” e bisogna “collaborare tutti” per risanare l’economia, e che responsabilmente il governo di sinistra avrebbe preso delle misure forse impopolari ma necessarie. In più, ancora “il nostro” Padoa Schioppa, riconoscendo che questa finanziaria non porta dei miglioramenti per i lavoratori, ci ha detto che l’accettare i sacrifici è “una forma di solidarietà”, perché la collettività intera si fa carico dei problemi delle fasce più deboli. In realtà, la “solidarietà” che la borghesia impone ai lavoratori non è altro che l’accettazione e la subordinazione alle esigenze economiche ed imperialiste della classe dominante. Mentre si blatera tanto di riduzione dell’ICI e di “agevolazioni” sugli affitti, si passa sotto silenzio, ad esempio, che la finanziaria per il 2008 prevede che lo Stato spenderà più di un miliardo e 200 milioni di euro nel prossimo anno e che ne spenderà almeno altri cinque nei prossimi tre anni, solo per aerei caccia e navi da guerra; prevede inoltre un aumento di oltre l’11% rispetto allo scorso anno per la Difesa - quando già c’era stato un incremento dell’11,3% rispetto al 2006 - raggiungendo così la cifra di 23 miliardi e 352 milioni di euro di spesa militare (di cui 20.928 milioni dal bilancio preventivo della Difesa e 2.424 aggiunti dalla Finanziaria). Come farebbe altrimenti lo Stato italiano a perseguire la sua politica imperialista in Afghanistan, Libano, Iraq, Kosovo, e mantenere così il suo posto di potenza, anche se di secondo ordine, sulla scena internazionale?
Il peggioramento delle nostre condizioni di vita non è solo economico. L’uccisione della ragazza inglese a Perugia, l’omicidio dei due anziani a cui sono state sottratte solo poche centinaia di euro, le ragazzine che riducono in fin di vita una loro coetanea per gelosia, la morte del giovane che stava andando a vedere una partita di calcio per mano di un poliziotto, sono le più recenti manifestazioni del marciume di questo sistema sociale che spinge alla perdita di ogni etica, che ci sta facendo perdere il senso della vita e della natura umana.
Come ci mostrano gli scioperi in Francia, in Egitto, in Turchia, in Germania, in Gran Bretagna, e altrove (1), questa è la condizione che subiscono i proletari di tutto il mondo, nei paesi “ricchi” ed in quelli “poveri”. Una condizione che da una parte accresce la sfiducia dei proletari nelle istituzioni, e soprattutto in quelle forze del capitale che pretendono di rappresentare e difendere gli interressi dei lavoratori, (partiti di sinistra e sindacati), dall’altra li spinge a reagire agli attacchi, a scendere in piazza, a scioperare. E come ci mostrano queste lotte, i proletari sono confrontati ovunque alle stesse mistificazioni ed alle stesse manovre di sabotaggio.
Per far varare rapidamente la finanziaria dalle diverse forze politiche, Prodi ha detto che non si poteva bocciare una finanziaria che aveva avuto il sostegno dei lavoratori con il voto al referendum. Ma, a parte l’esplicito no dei metalmeccanici ed una gestione “privata” delle votazioni tutta in mano ai sindacati, tutti sanno che la stragrande maggioranza dei lavoratori non è proprio andata a votare. Evidentemente le esperienze passate sui vari referendum organizzati dai sindacati e dalle forze di sinistra hanno portato a riflettere sull’efficacia di queste “democratiche consultazioni”. Del resto i proletari sanno bene che, nonostante i distinguo e le prese di distanza di Rifondazione Comunista, del Pdci, dei Verdi e compagnia, tutti questi “difensori dei lavoratori e dei giovani”, questi fautori della “lotta alla guerra”, hanno non solo appoggiato questa finanziaria, ma tutte le misure che lo Stato, sia esso governato da Prodi o da Berlusconi, ha preso contro i lavoratori in difesa dell’economia e della politica imperialista italiana da vari anni a questa parte (chi ha permesso la riforma delle pensioni, la flessibilità del lavoro, i contratti interinali, ecc.?). E quelli più “radicali” di un Bertinotti? Stessa politica, come per il senatore Turigliatto (esponente di Sinistra Critica) che, dopo essersi fatto promotore, insieme ad altri suoi simili, di un ennesimo referendum “contro la precarietà”, al momento di votare la finanziaria non trova di meglio per portare avanti la sua battaglia di difesa dei lavoratori che… “non partecipazione al voto”.
Se i sindacati si sono dati tanto da fare ad organizzare scioperi e manifestazioni contro la finanziaria e per i contratti nazionali di categorie importanti quali i metalmeccanici e i ferrotranvieri è perché c’è una grossa spinta da parte dei lavoratori il cui malcontento e la cui rabbia deve trovare una valvola di sfogo, altrimenti rischia di esplodere apertamente e catalizzare il malcontento degli altri, dei precari, dei disoccupati, degli studenti senza futuro. Il rischio può essere anche che dei settori forti come questi facciano da coagulo ed unione a tutta una serie di lotte locali come ad esempio quella alla Fiat di Torino e all’Alfa di Pomigliano d’Arco, dei lavoratori call-center della Vodafone. Lotte, come probabilmente molte altre, di cui nessuno sa niente perché non compaiono sulle pagine dei giornali o nei TG (che invece ci informano minuziosamente sull’ultimo capello trovato sul luogo del delitto), ma che esistono e sono una manifestazione di una volontà di lotta che si fa strada.
La manovra è quella messa in atto negli scioperi dei ferrotranvieri in Francia delle ultime settimane: oggi uno sciopero dei metalmeccanici, domani quello dei ferrotranvieri, domani ancora degli ospedalieri. Uno sciopero generale di tanto in tanto, naturalmente con manifestazioni divise per città, ma quando si sa di poter aver la gestione del tutto. Naturalmente non manca la divisione per tipo di sindacato: oggi i confederali, domani i Cobas.
La borghesia è ben cosciente che esiste oggi una potenzialità di lotta nella classe lavoratrice e sa anche che non può farci niente perché la crisi economica mondiale non le lascia altra possibilità che attaccare ulteriormente i lavoratori, i disoccupati, i giovani senza poter dare alcuna prospettiva reale per il futuro. Le cose su cui può agire sono due:
- mistificare il più possibile sulle cause della crisi economica attribuendola alla cattiva gestione dei governi precedenti, al prezzo del petrolio, alla Cina che invade i mercati, agli immigrati che tolgono il lavoro…, e prospettare un futuro migliore, lontano ma possibile, se i lavoratori saranno “solidali” con il “loro” Stato democratico. Bisogna evitare che i proletari riflettano, che mettano assieme i vari aspetti economici, politici, sociali di questo sistema, perché questo li porterebbe alla coscienza che l’unica alternativa è distruggerlo e costruire una società diversa;
- alimentare il senso di scoraggiamento e di smarrimento che le difficoltà di questa società in sfacelo alimentano, puntando, da una parte, sulle sue manifestazioni più barbare e deleterie per far credere che questa è la “natura umana” e dunque il “mondo così deve andare”; dall’altra sul fatto che ci vuole chi rappresenta i proletari, chi li difende, chi li organizza (senza sindacati in piazza e senza partiti al parlamento come si fa a farsi sentire?). Bisogna evitare in ogni modo che i proletari prendano coscienza della possibilità di unirsi, della propria forza come classe sociale, che acquistino fiducia nella loro capacità di contrapporsi agli attacchi e di far retrocedere la borghesia. Bisogna evitare che si riapproprino della storia della propria classe e che prendano coscienza del fatto che, come ha dimostrato la Rivoluzione russa (2), rovesciare il capitalismo è non solo necessario, ma possibile.
Questo è quello che vuole la borghesia, ma le lotte che da più di un anno stanno scoppiano un po’ dappertutto nel mondo ci mostrano che questa riflessione, lentamente, avanza e che i proletari sono sempre meno disposti a subire tutto questo.
Eva, 2 dicembre ’07
1. Vedi gli articoli pubblicati in questo stesso numero e gli articoli pubblicati sul nostro sito web anche in altre lingue
2. Vedi articolo in questo stesso numero.
Con le elezioni primarie del 14 ottobre scorso è nato un nuovo partito nel panorama politico italiano, il Partito Democratico. Il fatto nuovo è che questo, piuttosto che essere l’espressione dell’ennesima scissione, è il prodotto di uno sforzo di controtendenza, riuscendo ad aggregare alcune delle forze di centro sinistra. Per capire l’importanza dell’evento e la sua reale portata, dobbiamo fare un passo indietro di una ventina di anni. Tutto parte dall’ormai lontano 1989 quando la caduta del muro di Berlino, segnando il crollo economico e quindi politico dell’impero sovietico e dunque del blocco da questo dominato, quello dei cosiddetti “paesi dell’est”, comportò di conseguenza uno sfaldamento reciproco del blocco avversario, il blocco “americano”, la cui coesione era determinata essenzialmente dal timore per il comune nemico sovietico e dalla convenienza di ricevere protezione dalla superpotenza americana. In questo quadro l’Italia veniva a trovarsi in una situazione alquanto singolare: essendo rimasta per gli oltre 40 anni di guerra fredda USA-URSS sotto il controllo diretto degli USA attraverso una serie di strumenti imposti dall’imperialismo maggiore (governi ad esclusiva guida DC, controllo del territorio da parte della mafia, servizi segreti e logge massoniche, ecc.), la possibilità di recuperare una certa “indipendenza” nei confronti degli USA apre in Italia una vera faida contro i partiti che avevano rappresentato gli interessi americani in Italia, DC e PSI, portando ad una vera devastazione dei relativi partiti. Ma al tempo stesso la necessità di soppiantare i vecchi partiti di governo impone anche al vecchio “partito comunista” di riciclarsi velocemente, dando luogo a una serie di riconversioni maturate e realizzate soprattutto sotto la sferza degli eventi. Ciò produce una situazione di forte instabilità perché, nel giro di pochi anni, il quadro politico cambia profondamente con, da una parte, formazioni politiche nate dal niente e con al proprio attivo solo un accentuato populismo (come Forza Italia e la Lega Nord) e dall’altra una pletora di partiti prodotti dalla diaspora del PCI (ds, PdCI, RC) e dalle ceneri fumanti del vecchio centro (Margherita, vari socialisti e liberal democratici…) con in più l’aggregazione di dubbia collocazione politica dei Verdi. E’ proprio per combattere le continue fibrillazioni esistenti all’interno degli schieramenti politici, di sinistra come di destra, che le forze più responsabili della borghesia italiana, quelle che appunto si sono riunite nell’attuale PD, hanno dato luogo a questa operazione. E non è un caso che delle operazioni simili siano in corso di programmazione a sinistra (la “cosa rossa”) come a destra (il partito unico di Berlusconi), anche se la probabilità di riuscita non sono le stesse nei vari casi.
Se dunque ci siamo spiegati il perché di questo partito, possiamo adesso chiederci: ma è proprio riuscita questa operazione? Per rispondere dobbiamo tenere presente che il problema più grosso che si presenta oggi per la stabilità politica del paese è avere un esecutivo stabile e che sia credibile nei confronti del paese. A parte la necessità di produrre una nuova legge elettorale che permetta al nuovo esecutivo di governare per tutta la legislatura e portare avanti uno straccio di programma, il problema è vedere se gli eventi ultimi hanno prodotto una maggiore coesione all’interno dei due diversi schieramenti politici, di destra e di sinistra, oppure no. Ora, stendendo un velo pietoso sull’esplosione della “casa delle libertà” e il tiro incrociato tra Berlusconi, Fini e Casini, con la figura inedita di Bossi che fa da paciere, le cose a sinistra non sono di gran lunga migliori. Certamente sul piano mediatico la creazione del PD ha dato dei punti all’apparato di Veltroni. Mobilitare 3 milioni e mezzo di persone e portarle a votare, coinvolgendole in una operazione non ancora sperimentata in Italia (e nella stessa Europa), la “scelta da parte del popolo del leader di un partito”, ha costituito certamente un’azione di forte mistificazione che ha avuto certamente un impatto sulla gente presentando le primarie come la democrazia finalmente realizzata. D’altra parte il tema di creare una forza nuova capace di rinnovare le speranze della popolazione nella possibilità di una politica diversa è stato fortemente presente sia nella propaganda di Veltroni che dei suoi “antagonisti” Letta e Bindi. Ma ci sono delle considerazioni da fare che tendono a ridurre fortemente questo apparente successo. Intanto il PD non è riuscito, come era nelle intenzioni, a coagulare l’intero schieramento di centro-sinistra ed in particolare non è riuscito a prosciugare quell’area frastagliata e frammentata che esiste, vedi l’Italia dei Valori di Di Pietro, l’UDEUR di Mastella, i socialisti raccolti intorno a Boselli, i Radicali Italiani di Pannella, né a recuperare per intero gli stessi partiti che hanno dato vita al PD, staccandosi dalla Margherita la componente liberaldemocratica di Dini e l’Unione Democratica di Willer Bordon e dai DS la componente di Sinistra Democratica di Mussi. Ma c’è di più perché le stesse componenti che hanno aderito lo hanno fatto in maniera conflittuale. Già prima delle elezioni del 14 ottobre ci sono una serie di interventi di Parisi, che parla del futuro PD già lottizzato, la Bindi che si scontra con Franceschini e che critica Veltroni ..., tanto da costringere Prodi ad intervenire più volte per ribadire “siete concorrenti, non nemici” e “basta polemiche nel PD”. Ma anche il post elezioni è stato alquanto movimentato sia per le accuse di brogli che ci sarebbero stati in alcune circoscrizioni come Napoli sia per le proteste ancora di Parisi, Bindi, ma anche di Letta, per la mancanza di rispetto delle regole e per una gestione non democratica del PD. Insomma non sembra proprio che i personalismi che hanno caratterizzato la politica italiana in questi ultimi anni abbiano avuto termine con la costituzione del nuovo partito. Anzi, proprio perché si è sviluppata la tendenza al leaderismo che ha prodotto decine di sigle partitiche ognuna con il suo capo, il fatto che il PD ne abbia azzerato diversi comporta che i relativi ex leader si ritrovano oggi a fare da gregari dell’unico capo che è Veltroni. C’è da immaginarsi quanto sia contento di fare il gregario di Veltroni il suo rivale di sempre Massimo D’Alema, o Rutelli e Fassino che lasciano la direzione dei relativi partiti, o Prodi che deve lasciare il testimone non solo del governo ma anche della leadership politica dell’Ulivo.
Nonostante tutto ciò, non possiamo certo dire che la politica italiana sarà uguale a quella di sempre perché la nascita del PD, se non è riuscita a produrre una grande aggregazione nel campo del centro-sinistra, ha certamente prodotto un cataclisma a destra inducendo la coalizione diretta da Berlusconi a perdere completamente di coerenza e a sfaldarsi definitivamente. Lo scioglimento della casa delle libertà e di Forza Italia ed il contemporaneo annuncio da parte di Berlusconi della creazione di un nuovo partito sono l’espressione del più profondo smarrimento delle forze politiche di centro-destra a cui ben difficilmente riusciranno a porre rimedio le forze più lungimiranti come l’UDC di Casini.
Ma allora, quale sarà la politica che ci dobbiamo aspettare per i prossimi tempi? In realtà, al di là del processo di decomposizione dell’apparato politico della borghesia che costituisce un alea sempre presente e che pone dubbi su qualunque previsione si voglia fare, qualche scenario di quale possa essere la dinamica di domani si può cominciare ad immaginare. Anzitutto è evidente che lo sforzo da parte del neonato PD sarà quello di rafforzarsi in una posizione di centro-sinistra moderato, puntando a possibili compagini governative in cui possa avvalersi non più dell’ingombrante sinistra “radicale”, sempre pronta a ricattare e a mettere in moto la piazza, ma su un rinvigorito centro costruito intorno all’UDC di Casini, possibilmente con l’adesione di figure come il baldanzoso leader della Confindustria Luca Cordero di Montezemolo e l’ex capo sindacalista della CISL Savino Pezzotta, attualmente leader del movimento Officina 2007 – In movimento per una buona politica. Questo sganciamento del PD dai gruppi troppo fortemente ideologizzati di sinistra porterà a sua volta dei notevoli benefici alla politica della borghesia. Da una parte permetterà a questi ultimi di tornare a svolgere una politica di opposizione e di battaglia sul piano sociale e politico, svolgendo compiutamente quell’azione di illusione e di mistificazione dei lavoratori che è così utile alla borghesia per rinchiudere i proletari nelle trappole della “politica democratica delle compatibilità”. Dall’altra permetterà al PD e ai suoi alleati di centro anche una politica più audace sul piano imperialista e delle relative alleanze, perseguendo gli obiettivi che tutti i governi italiani hanno finora perseguito con maggiore determinazione e senza sotterfugi. Peraltro tutto ciò potrà essere giocato anche con l’atout costituito dal fatto che al centro, come forza agente, c’è il partito nuovo, il partito senza passato, il partito che non ha nessun passato da farsi perdonare. E scusate se è poco.
Ezechiele, 1 dicembre 2007
In Pakistan è stata proclamata la legge marziale, punto culminante di tutti i conflitti che si sono succeduti all’interno dello Stato dall’estate scorsa. Questa misura sembra sia stata resa urgente dal timore che l’Alta Corte, il mese scorso, potesse dichiarare Musharraf ineleggibile come presidente, tanto che costui ha finito per sostituire il Capo della Giustizia con uno dei suoi uomini, cosa che aveva già tentato di fare in agosto, ma senza successo, quando fece marcia indietro sulla dichiarazione dello stato d’emergenza. Questa sospensione della Costituzione contrasta con tutta la propaganda portata avanti a proposito del “muoversi verso la democrazia e delle regole civili” e porrà Benazir Bhutto in una situazione difficile al suo ritorno da Dubai. In origine lei era tornata dall’esilio dopo aver barattato l’amnistia con l’accordo che i suoi sostenitori non avrebbero bloccato l’elezione di Musharraf. La legge marziale porrà inoltre un bastone tra le ruote nella tattica americana di sostegno ad una coalizione di “moderati”, quelli che sembrano essere più ragionevolmente capaci e disponibili a sostenere gli USA contro Al Qaida.
Per capire quello che sta avvenendo oggi nel Pakistan non dobbiamo tanto guardare come il presidente si sta occupando dei suoi interessi personali, ma capire perché la classe dominante nel suo insieme non può essere coerente e perché una sua frazione ha messo un dittatore militare al comando. Per fare ciò dobbiamo vedere dove si colloca il Pakistan nello scacchiere geo-strategico del mondo e le tensioni imperialiste a cui questo è sottoposto. Esso ha una estesa frontiera con l’Afghanistan ed è confinante con l’Iran, la Cina e l’India. Ospita oltre un milione di rifugiati afgani. La lotta che dura da sei decenni con l’India a proposito del Kashmir non è l’unica preoccupazione del Pakistan. I conflitti interni, come la battaglia fra l’esercito e gli islamisti nella regione del nord-ovest, completano l’immagine di un paese lacerato da pressioni provenienti dall’interno e dall’esterno.
Gli effetti dei conflitti tra le grandi potenze
Negli anni ’80, quando i maggiori conflitti imperialisti erano tra gli USA e i suoi alleati e vassalli da una parte e il blocco imperialista russo dall’altra, il Pakistan è stato strategicamente importante per il sostegno occidentale ai Mujahidin, che combattevano i Russi in Afghanistan. All’epoca, questi islamici non avevano dalla loro parte soltanto Dio, ma anche la CIA ed i missili americani Stinger, e la Russia è stata conseguentemente fatta fuori. Il Pakistan ha anche degli interessi in Afghanistan, utile retroterra per l’addestramento e l’affondo strategico nei suoi scontri con l’India nel Kashmir.
Più recentemente, nel 2001, gli USA hanno portato avanti l’invasione dell’Afghanistan utilizzando la distruzione delle Torri gemelle e la necessità di una “guerra al terrorismo” come giustificazione. Ancora una volta è stato necessario il supporto del Pakistan. L’America promise che avrebbe sostenuto quelle tribù ostili all’Alleanza del Nord, tradizionale nemico del Pakistan e barriera alla sua influenza in Afghanistan, ma questa promessa fu rotta quando l’Alleanza del Nord guadagnò influenza nell’accordo post-Talebani. In ogni caso, il supporto del Pakistan fu ottenuto attraverso altri mezzi di persuasione quando gli Stati Uniti minacciarono di raderla al suolo se non avesse dato il suo sostegno. Questa minaccia è stata più o meno ripetuta da Barack Obama nell’attuale campagna presidenziale, suggerendo l’idea che gli Stati Uniti potrebbero bombardare le roccaforti di Al Qaida in Pakistan senza permesso. Allo stesso tempo ci sono milioni di rifugiati afgani nel Pakistan che si aggiungono all’instabilità del paese, ed anche se ne sono stati rimpatriati 2.3 milioni nel 2005, ne restano più di milione.
Gli interessi imperialisti regionali
Il Pakistan ha i suoi propri interessi imperialisti e perseguirli ne ha fatto il maggiore destinatario dei trasferimenti di armi nel terzo mondo nel 2006, con l’India che segue a ruota. Il conflitto con il suo maggiore rivale indiano sul Kashmir e la loro corsa al riarmo nucleare hanno portato alla guerra nel 2002, alimentando le dichiarazioni da parte del potere statale più debole di non esitare ad utilizzare le armi nucleari contro un nemico superiore. Il pericolo della guerra è stato evitato sotto la pressione dagli Stati Uniti, che non volevano che questo conflitto intralciasse le proprie avventure militari, ma nessun problema è stato risolto. Il processo di pace pakistano ha avuto un solo significato: l’imperialismo pakistano non ha potuto approfittare dei propri guadagni sul campo. Il conflitto è stato portato avanti in maniera meno appariscente attraverso attacchi terroristici in entrambi i paesi, e nel Kashmir lo stesso Pakistan ammette di dare supporto “morale e diplomatico” ai soli islamici, ma in effetti fa molto più, mentre l’India reprime questi fondamentalisti “combattenti per la libertà”. Entrambi i lati puntano sul nazionalismo virulento e né l’uno né l’altro mostrano la minima preoccupazione per le sue incalcolabili vittime.
Vista da un’ottica più ampia la situazione strategica non è a vantaggio del Pakistan. Forzato sotto la minaccia di armi a sostenere gli USA nella sua “guerra al terrorismo”, non può però guadagnarci niente dalla sua lealtà agli USA. La Cina si sta sviluppando economicamente e quindi sta aumentando i propri appetiti imperialisti, il che la pone in conflitto non solo con l’India ma anche con l’America. Il Pakistan si trova di conseguenza confrontato ad una convergenza di interessi fra il suo nemico storico, l’India, e il suo boss dei boss, la super-potenza USA. E per rendere la situazione ancora più difficile si aggiunge il fatto che il Pakistan si trova in mezzo i suoi due più forti “alleati” e partner commerciali, gli USA e la Cina, che sono in conflitto tra loro.
Il fallimento della “guerra al terrorismo”
La “guerra al terrorismo” non è stata un gran successo per gli USA. L’impantanamento in Iraq e la situazione senza via d’uscita in Afghanistan limitano le sue mire a nuove avventure militari. Per il Pakistan questo è un disastro ulteriore. L’evidente debolezza degli USA spinge alla sfida i sostenitori di Al Qaida, molti dei quali hanno posto le loro basi nel nord- ovest del Pakistan. I soldati vengono impunemente rapiti e uccisi. Durante l’estate scorsa ne sono stati uccisi 200 in 10 settimane ed alla fine di agosto 250 sono stati rapiti nel Waziristan del sud senza sparare un solo colpo, il che ha lasciato supporre che l’esercito fosse infiltrato. Né le 90.000 truppe dislocate alla frontiera, né il sussidio di 10 miliardi di dollari da parte degli USA sono riusciti a tenere la situazione sotto controllo. L’accordo di pace tra il governo ed i capi tribali in Waziristan, mal visto dagli USA, è fallito e lo scontro si è inasprito in seguito all’assalto alla Moschea Rossa. Musharraf non può soddisfare tutti. Alcuni alti funzionari lo accusano di essere distratto dalla crisi politica.
In Pakistan lo Stato è in guerra con sé stesso. I capi dell’opposizione sono stati vittime di una retata a settembre, il precedente primo ministro Nawaz Sharif è stato espulso appena tornato nel suo paese. I raduni politici sono la scena di omicidi terroristi. I giudici dell’Alta Corte hanno protestato contro l’amministrazione dopo che uno di loro è stato saccheggiato e quindi hanno sospesero un capo della polizia dopo la violenza impiegata ad una dimostrazione di protesta degli avvocati. Queste sono le istituzioni che sono al cuore dello Stato ed i loro conflitti riflettono il modo in cui il paese viene lacerato dai conflitti imperialisti che vanno sotto la voce di “guerra al terrorismo”. E adesso tutto ciò è culminato nella dichiarazione dello stato di emergenza.
Che le elezioni si tengano o no a gennaio, non ci sarà nessun movimento verso la democrazia ed un governo civile, il Pakistan sta lottando per evitare di essere lacerato. Anche senza essere direttamente attaccato, esso mostra il caos e la miseria che sono capaci di causare oggi i conflitti imperialisti.
Alex, 3/11/07
Da World Revolution, n.310
La “comunità internazionale” si è indignata notevolmente contro questo “grave attentato alla democrazia”. L’Unione europea ha annunciato “sanzioni economiche” come il congelamento degli averi all’estero dei responsabili birmani o un embargo sulle importazioni di legno e metalli. L’ONU, per bocca del suo emissario Ibrahim Gambari, ha “deplorato la repressione” e, dopo avere incontrato il 2 ottobre i capi militari birmani senza alcun risultato, ha proposto di andare in Birmania... “la terza settimana di novembre”. Bush, dal canto suo, ha fatto un appello per “una pressione internazionale enorme”al fine di costringere la giunta ad accettare una “transizione verso la democrazia”, dispiacendosi amaramente di non essere seguito dal resto del mondo nella sua iniziativa. La palla è ritornata al presidente francese Sarkozy ed al suo ministro degli Affari esteri Bernard Kouchner. Il primo, in un grande slancio umanitario, “ha pensato” di chiedere alla Total, che sostiene finanziariamente il potere birmano e ne trae sugosi benefici per lo Stato francese, di ritirare i suoi investimenti in Birmania o anche di congelarli; il secondo, autore di un rapporto di inchiesta menzognera del 2003 che scagionava la stessa impresa dall’accusa di utilizzare il lavoro coatto della popolazione in Birmania, ha raccomandato piuttosto di intervenire presso i vicini asiatici della Birmania, tra cui la Cina, affinché questi facciano pressione. Il che è sicuramente più comodo, anche se inutile, perché preserva gli interessi francesi (1). Della repressione, la povertà, la miseria, lo sfruttamento brutale, la classe borghese se ne infischia. Allora perché tutta questa pubblicità, perché queste dichiarazioni “di disgusto”? Perché dietro questa reazione della borghesia occidentale, si doveva necessariamente far passare queste manifestazioni e questa lotta della popolazione contro la miseria per un movimento per la democrazia, sottinteso che, nei paesi democratici, si vive sicuramente meglio. Per tale motivo è solo a partire dal momento in cui i monaci buddisti sono apparsi nelle manifestazioni, come nel 1988, che la stampa ha cominciato a parlarne. Per questo l’opposizione al potere, incarnata da Aung San Su Kyi è stata presentata come la sola ancora di salvezza. Non si trattava tanto di mistificare la debole classe operaia birmana quanto piuttosto quella dei paesi occidentali. Questo grande circo mediatico ancora una volta è stato usato per far loro ingoiare la pozione democratica come rimedio a tutti i loro mali.
Questi lamenti ipocriti erano anche e soprattutto diretti verso la Cina che ha un’influenza crescente sul paese. La più grande frontiera della Birmania è quella con la Cina, il suo partner economico più importante e fornitore del governo militare del generale Than Chew. La Cina sta ricostruendo per lo Stato birmano la vecchia strada verso l’India. Ha mandato lì 40.000 operai. Intere zone della Birmania sono dominate completamente dal suo potente vicino, la lingua e la moneta cinese sono di casa, proprio come se Pechino le governasse. La Birmania fa parte della strategia di avanzamento della Cina verso l’Oceano indiano, con delle postazioni d’ascolto e naturalmente una base navale. Essa è un posto della “collana di perle” cinese, cioè dei satelliti-chiave di Pechino. Con un dominio sul Boutan (Tibet), la Cina estende sempre più la sua influenza sul Nepal, la Birmania, la Cambogia ed il Laos, con l’obiettivo di estenderla verso il Vietnam e l’Indonesia. Le sue ambizioni vanno verso l’ovest dell’Asia centrale ed il sud dell’Oceano indiano. Questa ascesa della Cina si manifesta anche attraverso la sua particolare aggressività verso il Giappone e Taiwan. L’interesse e la sollecitudine dei paesi occidentali come la Russia, l’India, la Francia, gli Stati Uniti o ancora l’Australia, hanno avuto dunque fondamentalmente come obiettivo contrastare l’avanzata imperialista di Pechino e difendere i propri interessi. Ecco la vera ragione di tutti queste ipocrite manovre “diplomatiche”. Ecco quali sordidi interessi si nascondono dietro tutte le dichiarazioni “umanitarie” dei Sarkozy, Bush e consorti!
Wilma, 26 ottobre
Da Révolution Internationale octobre 2007
1. Le altisonanti dichiarazioni di sdegno del governo italiano e soprattutto della “sinistra” per la mancanza di democrazia del governo birmano non sono state da meno.
Al Gore, candidato democratico alla presidenza Usa e sconfitto nel 2000 da George W. Bush, quello che ha girato il film-documentario Una scomoda verità (1) sul riscaldamento terrestre, sarebbe dunque l’eroe del momento, colui che starebbe rivoluzionando la concezione del mondo sulle questioni ambientali.
Ma vediamo un po’ di quale rivoluzione si tratta. Siamo forse all’inizio della fondazione di un capitalismo pulito e ossequioso dell’ambiente, dove si troveranno finalmente i mezzi per ridurre gli inquinamenti, le deforestazioni, i rifiuti industriali e nucleari? Saranno trovati i mezzi per produrre dei veicoli meno inquinanti e per sostituire i vecchi macinini fumosi del secolo scorso? La borghesia ha forse preso coscienza del fatto che il suo sistema mette in pericolo l’umanità e che bisogna porvi rimedio anche se il rimedio costerà caro al capitalismo e andrà contro la sua stessa logica?
Sveglia ragazzi… Certo, la borghesia non ignora che la corsa folle del suo sistema infognato nella crisi è sul punto di distruggere tutto l’ambiente, fino a porre la prospettiva di una distruzione del pianeta. Ma essa sa ugualmente che non ha i mezzi per rimediarvi in maniera radicale, o di andare contro la propria logica di profitto. Certamente è vero che alcune industrie vedono nel disinquinamento un terreno nuovo per lo sviluppo della loro attività, ma questa stessa attività non offre la minima garanzia di rispetto per l’ambiente. La borghesia sa infatti che l’efficacia della quasi totalità delle misure proposte è messa in discussione da specialisti e scienziati di fama.
Allora? Allora la borghesia fa quello che sa fare meglio: mentire. Essa tende a manipolare la nostra coscienza, colpevolizzandoci. Tutta la campagna intorno a queste tavole rotonde “democratiche”, a cui lo scandaloso premio Nobel per la pace attribuito ad Al Gore (2) aggiunge ancora qualche lustrino, spinge sempre verso la stessa conclusione: l’avvenire del pianeta appartiene a ciascuno di noi, e la rivoluzione starebbe nel cambiamento dei nostri comportamenti individuali. La fine delle lampade ad incandescenza, il ritorno ai tram, le case riscaldate a 19° piuttosto che a 20°C, e così via. E perché non promuovere delle vetture a pedali, visto che ci troviamo? Ci stanno prendendo letteralmente in giro. Di fronte alla propria incuria, all’incapacità di far fronte alla follia distruttrice del proprio sistema, la borghesia ci esorta a chiudere il rubinetto mentre ci insaponiamo le mani. E sarebbe questo ciò che dovrebbe salvare la Terra, compensare tutte le ferite inflitte all’ambiente dalla misure belliche della borghesia e dallo sfruttamento industriale irragionevole, motivato dalla ricerca di un profitto messo in crisi dalla concorrenza sempre più dura in un mercato sempre più ristretto?
“Più parlano di pace e più preparano la guerra”, diceva Lenin. Oggi, più parlano di ambiente e più distruggono il pianeta. Si tratta quindi di una “pura e semplice arroganza”, di una grande operazione ideologica destinata a nascondere, dietro una presunta responsabilità comune, le vere responsabilità del capitalismo nella degradazione accelerata del nostro ambiente naturale. Tutti i “vertici mondiali” e gli Al Gore predicanti del mondo non cambieranno niente a questa situazione. L’avvenire del pianeta è nelle mani della classe operaia.
G. (19 ottobre)
1. Vedi il nostro articolo Sul film “Una scomoda verità”. Sconvolgimento del clima: il capitalismo è responsabile del riscaldamento del pianeta su Rivoluzione Internazionale n°148.
2. Questo personaggio è un presuntuoso ma soprattutto un opportunista: nella propaganda che accompagna il suo premio Nobel ci viene ricordata la sua posizione contro la guerra in Iraq, ma si omette di dire che proprio lui fu a favore della prima guerra del Golfo nel 1990 e che non ha mai criticato - se ne guardò bene - le avventure guerriere di Clinton in Africa o in Jugoslavia quando era alla vicepresidenza degli USA. Dal momento del suo arruolamento, da giovane, nell’esercito per partire come giornalista in Vietnam, la pace non è mai stata la sua passione. La guerra è effettivamente molto nota per le sue virtù ecologiche: distruzione e inquinamento massiccio!
È in nome de “l’equità sociale” che Sarkozy ed i suoi amici miliardari hanno la sfrontatezza di chiederci di accettare la soppressione o la pianificazione dei regimi speciali di pensione allineandoli su 40 anni per tutti.
Ciò che rivendicano i ferrovieri, gli impiegati della RATP, del gas, dell’elettricità, lo hanno proclamato chiaramente nelle loro assemblee generali: il loro trattamento non è da “privilegiati”, vogliamo 37 anni e mezzo per tutti!
Se gli operai lasciano passare questo attacco ai regimi speciali, sanno bene che lo Stato ci chiederà già da domani di raggiungere i 41 e poi i 42 anni di contributi per avere una pensione completa ed anche oltre, come in Italia (dove si passerà presto ad un regime di pensione a 65 anni) o ancora fino a 67 anni come già succede in Germania o in Danimarca.
Nelle facoltà, questo stesso governo ha introdotto dolcemente, durante l’estate, con la complicità dell’UNEF (1) e del Partito Socialista, una legge che prepara un’università a due velocità: da un lato dei “poli di eccellenza” riservati agli studenti più danarosi, dall’altro “facoltà pattumiere” che preparano la maggioranza delle giovani generazioni, i ragazzi provenienti dagli ambienti più poveri, alla loro condizione di futuri disoccupati o di lavoratori precari.
Nella funzione pubblica, il governo si prepara a sopprimere 300.000 impieghi da ora al 2012, mentre da oggi abbiamo gli insegnanti che si devono confrontare con classi sovraccariche e i vari impiegati a cui vengono imposti sempre più compiti e ore supplementari.
Nelle imprese private, le soppressioni d’impieghi e le ondate di licenziamenti continuano a colpire ad ampio raggio mentre il governo Sarkozy si prepara ad imporci una riforma del Codice del lavoro dove la parola dominante è la “sicurezza flessibile” che permette ai datori di lavoro di gettarci ancora più facilmente sulla strada dall’oggi al domani.
Dal 1 gennaio 2008 dovremo poi pagare dei nuovi ticket sui medicinali che vanno a cumularsi con la riduzione dei rimborsi dei farmaci, con l’aumento del prezzo forfettario delle degenze ospedaliere (istituito dall’ex-ministro del PCF Ralite), con il ticket sulle prestazioni mediche che superano i 90 euro, con un nuovo rialzo del CSG (2)…
Sarkozy ci chiede di “lavorare di più per guadagnare di più”. In realtà, è chiaro che si tratta di lavorare di più per guadagnare di meno. La caduta vertiginosa del potere d’acquisto si accompagna oggi ad un aumento esorbitante di tutti i prodotti alimentari di base: prodotti derivati del latte, pane, patate, frutta e verdura, pesce, carne …
Nello stesso tempo, i prezzi di affitto di una casa salgono: sempre più proletari vivono oggi in condizioni di alloggio precario o insalubre.
Sempre più di frequente si ha il caso di proletari che, pur avendo un lavoro, vivono in miseria, essendo incapaci di nutrirsi, di trovare un alloggio, di curarsi decentemente. E ci dicono che: “non è ancora finita”. L’avvenire che ci riservano, gli attacchi che ci promettono saranno domani ancora peggiori. Tutto questo perché la borghesia francese ha cominciato a colmare il suo ritardo rispetto alle borghesie concorrenti degli altri paesi. Con l’aggravarsi della crisi del capitalismo, con l’acuirsi della concorrenza sul mercato mondiale, bisogna “essere competitivi”. E ciò significa attaccare sempre più le condizioni di vita e di lavoro della classe operaia.
Il solo modo di opporsi a tutti questi attacchi è sviluppare le lotte
La collera ed il malcontento che oggi vengono espressi nella strada e nelle fabbriche non possono che diffondersi ovunque perché i lavoratori sono costretti a battersi dappertutto di fronte agli stessi attacchi.
A partire dal 2003 la classe operaia (che a detta della borghesia sarebbe una “nozione superata”) ha iniziato a mostrare la sua combattività, e precisamente di fronte agli attacchi sulle pensioni nel 2003 in Francia ed in Austria, contro le riforme del sistema sanitario, di fronte ai licenziamenti nei cantieri navali della Galizia in Spagna nel 2006 o dell’industria automobilistica in Andalusia nella scorsa primavera. Oggi, i loro fratelli di classe ferrovieri in Germania sono in lotta per gli aumenti degli stipendi. In questi ultimi mesi, in tutte le lotte, dal Cile al Perù, in Egitto come tra i lavoratori immigrati del settore edile a Dubai ancora recentemente, emerge un profondo sentimento di solidarietà di classe che spinge verso l’estensione della lotta di fronte allo stesso supersfruttamento. Ed è questa solidarietà di classe che si è manifestata nella lotta degli studenti contro il CPE nella primavera 2006 e che è al centro della posta in gioco. E’ soprattutto questo che teme la borghesia.
Attaccare anzitutto i regimi speciali di pensione di particolari settori di lavoratori, come quelli dei trasporti pubblici (SNCF, RATP) e dell’energia (EDF, GDF), non può che apportare un risparmio irrisorio allo Stato. Ma corrisponde ad una scelta puramente strategica della borghesia francese per tentare di dividere la classe operaia.
La sinistra ed i sindacati sono completamente d’accordo sul fondo con il governo; questi hanno infatti sempre sostenuto la necessità delle “riforme”, quella delle pensioni e dei regimi speciali in particolare. Del resto è proprio il vecchio Primo ministro socialista Rocard che aveva, all’inizio degli anni ‘80, redatto il “libro bianco” delle pensioni che è servito da canovaccio a tutti gli attacchi messi in atto su questo piano dai governi successivi, di sinistra come di destra. Le critiche attuali della sinistra e dei sindacati insistono unicamente sulla forma: non sono decise “democraticamente”, non ci sarebbe abbastanza “concertazione”. Essendo la sinistra momentaneamente fuori gioco, in particolare con i “licenziamenti” praticati da Sarkozy, il ruolo essenziale di inquadramento della classe operaia spetta ai sindacati. Questi ultimi si sono divisi il lavoro col governo (e tra loro stessi) a tutti i livelli per sabotare e dividere la risposta operaia. È necessario alla borghesia isolare gli operai del settore dei trasporti pubblici, di tagliarli dalla reazione dell’insieme della classe operaia.
A tale scopo, la classe dominante ha mobilitato tutti i suoi media per tentare di screditare lo sciopero ripetendo in maniera martellante l’idea che gli altri lavoratori erano ostaggi di una minoranza egoista di privilegiati che profittavano del fatto che il principale settore toccato sulla questione dei regimi speciali era costituito dalle imprese di trasporto pubblico. Essa ha puntato sull’impopolarità di un lungo sciopero dei trasporti ed in particolare su quello della SNCF, settore tradizionalmente più combattivo all’epoca degli scioperi dell’inverno 1986/87 e del 1995, per aizzare gli “utenti” contro gli scioperanti.
Ogni sindacato si è preso la sua parte nella divisione e l’isolamento delle lotte:
· La FGAAC (sindacato dei conduttori di treno molto minoritario rappresentante il 3% del personale SNCF ma ben il 30% di questa corporazione) dopo aver fatto appello per il 18 ottobre ad uno “sciopero rinnovabile” a fianco a Sud (3) e a FO (4), si affrettava la sera stessa della manifestazione a negoziare con il governo la promessa di un “compromesso” e di uno statuto particolare per il personale “viaggiante”, chiamando alla ripresa del lavoro dall’indomani mattina, assumendo così la parte di “traditore” di turno;
· La CFDT (5) in quello stesso giorno ha chiamato solo i ferrovieri a scioperare ed a manifestare, per “non confondere tutti i problemi e tutte le rivendicazioni”, secondo le dichiarazioni del suo segretario generale Chérèque; in seguito, questa centrale, fedele alla stessa tattica, si affrettava a chiamare alla “sospensione dello sciopero” alla SNCF ed alla ripresa del lavoro negli altri settori appena il governo ha manifestato la sua intenzione di aprire dei negoziati impresa per impresa;
· La CGT, sindacato maggioritario, ha giocato un ruolo decisivo nella manovra portata avanti alle spalle della classe operaia. Si è limitata ad una giornata di sciopero “deciso” di 24 ore il 18 ottobre (pur lasciando i sindacati dipartimentali prendere delle “iniziative” per prolungare lo sciopero). Poi, ha preso l’iniziativa di lanciare una nuovo appello allo sciopero per i ferrovieri, questa volta rinnovabile a partire dal 13 novembre di sera che avrebbe radunato gli altri settori e gli altri sindacati dietro questa proposta. Il 10 novembre, il segretario generale della CGT Thibault chiedeva al governo l’apertura di un negoziato globale tripartito sui regimi speciali (che è solamente una spacconata perché è il governo che detta direttamente la sua politica alle direzioni delle imprese pubbliche) e due giorni dopo, il 12, proprio alla vigilia dell’inizio dello sciopero, lanciava una nuova iniziativa proponendo ancora dei negoziati tripartiti, ma questa volta con le singole imprese una per volta. Ciò significa prendere gli operai per imbecilli perché è precisamente in questo quadro che il governo aveva, fin dall’inizio, previsto di far passare la riforma “parcellizzando” i negoziati, impresa per impresa, caso per caso. Questo voltafaccia e questo “tiro mancino” hanno provocato delle reazioni burrascose nelle assemblee generali costringendo la “base” di questo sindacato a preconizzare il proseguimento del movimento di sciopero;
· FO e soprattutto Sud (sindacato pilotato dalla LCR di Olivier Besancenot) che avevano cercato di prolungare minoritariamente lo sciopero per parecchi giorni all’indomani del 18 ottobre, continuano a farsi concorrenza giocando a chi si presenta come il più radicale, spingendo gli operai a mantenersi in sciopero rinnovabile fino allo sciopero intersindacale della funzione pubblica del 20 novembre, pure spingendo gli operai ad occupare le strade con operazioni di commando piuttosto che cercare di estendere la lotta ad altri settori;
· Un leader dell’UNSA, anch’esso parte attiva di uno sciopero rinnovabile, dichiarava a sua volta che i cortei dovevano essere distinti e che i ferrovieri non dovevano sfilare con i funzionari perché “non hanno affatto le stesse rivendicazioni”.
Malgrado la volontà del governo di rompere la resistenza degli operai, malgrado la moltiplicazione delle ingiunzioni perentorie del governo alla ripresa del lavoro, malgrado la complicità e tutto il lavoro di trincea e di sabotaggio delle lotte svolto dai sindacati, non solo rimangono la collera e la combattività operaia ma comincia ad emergere la volontà di unificare i differenti focolai di lotta. A Rouen per esempio, il 17 novembre, degli studenti della facoltà di Mont-Saint-Aignan sono andati a trovare i ferrovieri in sciopero, hanno condiviso il loro pasto ed hanno partecipato alla loro assemblea generale così come ad un’operazione di “pedaggio gratuito” sull’autostrada. Un poco alla volta germoglia così l’idea della necessità di una lotta massiccia ed unita di tutta la classe operaia per potere fare fronte all’inevitabile perpetuarsi degli attacchi del governo. Per ciò, i lavoratori in lotta devono tirare le lezioni dal sabotaggio sindacale. Per potersi battere efficacemente, per opporre una risposta unita e solidale ricercando sempre più l’estensione della loro lotta, possono contare soltanto sulle loro forze. Non avranno altra scelta che prendere le loro lotte nelle proprie mani, sventando tutte le trappole, tutte le manovre di divisione e di sabotaggio messe in piedi dai sindacati.
Più che mai, l’avvenire sta nello sviluppo della lotta di classe. Wim (18 novembre) 1. Unione Nazionale Studenti di Francia 2. CSG (contributo sociale generalizzato): imposta destinata a finanziare la cassa malattie, le prestazioni familiari e i fondi di solidarietà per la vecchiaia. 3. SUD, sigla sindacale che corrisponde a “Solidali, Unitari, Democratici”. 4. FO, altro sindacato, Force Ouvriere (Forza Operaia). 5. CFDT, Confederazione Francese Democratica del Lavoro.Scioperi che durano da parecchi mesi, nel corso dei quali vengono espresse la solidarietà tra gli operai, una collera immensa contro il degrado delle proprie condizioni di vita ed una combattività esemplare, ecco cosa vuole nasconderci borghesia. Appena qualche articoletto sulla stampa o su Internet. Quanti sono gli operai che in Italia o altrove sanno quello che fanno i loro fratelli di classe in Egitto?
Già il massiccio sciopero del dicembre 2006 alla fabbrica tessile Ghazl Al-Mahalla aveva dato la stura ad un’ondata di protesta senza precedenti in tutto il paese. L’articolo “La solidarietà di classe, punta di lancia della lotta”, nel numero 151 del nostro giornale, descriveva la determinazione mostrata dagli operai in questa lotta ma anche la forza di coinvolgimento che si è manifestata a partire da questa lotta nell’intero settore tessile.
Di fatto da allora le lotte non si sono mai fermate. Da dicembre 2006 a maggio 2007 ci sono stati scioperi che hanno coinvolto migliaia di operai di altre fabbriche tessili, in particolare a Kafr el Dawwa (11.700 lavoratori), a Zelfia Textile Co. ad Alessandria (6.000 scioperanti) ed alla fabbrica tessile d’Abul Mukaren. Anche numerosi altri settori sono entrati in lotta: 3.000 operai in sciopero per due giorni alla industria di allevamento di pollami Cairo Poultry Co.; 9.000 in un’industria molitoria (mulino industriale) a Gizeh ed i netturbini di questa stessa città; occupazione della Mansoura Spanish Garment Factory da parte di 300 operaie e sciopero dei trasporti del Cairo con blocco della linea Il Cairo-Alessandria, sostenuto dai conducenti della metropolitana. Ed altre azioni di protesta come un sit alla sede centrale delle poste, scioperi dei panettieri, nelle fabbriche di laterizi, degli impiegati del Canale di Suez, dei portuali, degli impiegati municipali, del personale ospedaliero... “Alla fine giugno un comunicato di un sindacato americano annunciava che 200 scioperi erano finiti, ma non diceva niente su quelli che potevano ancora essere in corso” (Mondialism.org). Nel 2006 in Egitto ci sono stati 220 scioperi spontanei, cifra che viene superata largamente nel 2007.
Dal 23 settembre i 27.000 operai ed operaie dell’industria tessile pubblica di Ghazl Al-Mahalla, ad un centinaio di chilometri dal Cairo, hanno ripreso la mobilitazione a distanza di pochi mesi dalla precedente ondata di lotte di cui erano il centro propulsore. La promessa del governo di versare a ciascuno l’equivalente di un mese e mezzo di stipendio all’epoca pose fine allo sciopero. Ma il governo non ha mantenuto il suo impegno perché troppo oneroso ed ha versato solo parzialmente tale somma e con il conta gocce. Quale cinismo! Salari di miseria da 200 a 250 libre egiziane (ovvero da 25 a 30 euro), pigioni di circa 300 libre egiziane e generi di prima necessità aumentati del 48% dall'anno scorso, ecco la realtà degli operai che non sanno più come alloggiare, nutrirsi, curare sé stessi e le loro famiglie.
A luglio, mentre lo sciopero minacciava di nuovo di estendersi, il governo ha promesso immediatamente di pagare l’equivalente di 150 giorni di stipendio come parte sugli attuali utili dell’impresa. Somma che tardava di nuovo a pagare. Questo ha rilanciato la collera degli operai la cui combattività è rimasta sempre intatta. “ …‘Hanno promesso 150 giorni di indennità, vogliamo solo far rispettare i nostri diritti’ spiega Mohamed el-Attar che è stato arrestato per qualche ora dalla polizia martedì scorso. ‘Siamo determinati ad andare fino in fondo’…”. (Le Figaro, 1/10/07). Al cancello d’ingresso alla fabbrica, un manifesto proclama: “entrate in territorio libero”. Alcuni bambini hanno raggiunto le loro madri perché sono stati mandati indietro dalle scuole per non aver pagato le tasse scolastiche o per impossibilità di comparare i libri. Per tentare ancora una volta di rompere il movimento, la direzione ha decretato una settimana di ferie in modo da far risultare illegale l’occupazione e paventare la minaccia di un intervento militare.
In questa lotta, di fronte agli operai, il governo non è solo. E’ spalleggiato dai suoi fedeli cani da guardia, esperti maestri nel sabotaggio: i sindacati. Ma anche in questo caso gli operai non sembrano volersi lasciare manipolare tanto facilmente: “Il rappresentante del sindacato ufficiale, controllato dallo Stato, venuto a chiedere ai suoi colleghi di interrompere lo sciopero, è all’ospedale, dopo essere stato pestato dagli operai in collera. 'Il sindacato è agli ordini (dello Stato), vogliamo eleggere noi i nostri veri rappresentanti' spiegano gli operai” (Libération, 1/10/07).
Poco a poco la classe operaia prende coscienza che la sua forza risiede nella solidarietà e nell’unità al suo interno, al di là dei settori e delle corporazioni. Nel dicembre scorso, gli operai delle fabbriche tessili di Kafr Al-Dawar, dichiaravano: “stiamo nella vostra stessa barca e ci imbarcheremo insieme per lo stesso viaggio” e facevano proprie le rivendicazioni degli operai di Mahalla. In questo contesto non stupisce che abbiano manifestato di nuovo la loro solidarietà fin dalla fine settembre e siano scesi in sciopero. E così anche altri lavoratori, come ad esempio quelli dell’industria molitoria al Cairo che hanno fatto un breve sit-in e hanno mandato un comunicato di sostegno alle rivendicazioni degli operai qualificate come legittime, in particolare quelle che chiedevano al governo un salario minimo indicizzato sui prezzi correnti. Gli operai delle fabbriche di Tanta Linseed and Oil hanno seguito l’esempio di Mahalla avanzando anche le proprie rivendicazioni.Se il governo sembra oggi esitante è perché teme in primo luogo che la lotta continui a svilupparsi. Agita il bastone o la carota a seconda delle situazioni. Negli ultimi mesi se l’è presa con i giudici o con i giornalisti che gli si opponevano minacciandoli o mettendoli in galera. Ma di fronte alle migliaia di operai lotta deve essere più prudente (anche se il ricorso ad una repressione non è da escludere).
Di fronte alla forza montante del movimento il governo è obbligato, per ora, a proporre agli operai tessili di Mahalla 120 giorni di indennità e delle sanzioni contro la direzione. Ma gli operai non riescono più a credere alle promesse del governo, promesse che, del resto, sono inferiori alle loro rivendicazioni. No, questi scioperi non sono organizzati dai Fratelli musulmani (1) come lo Stato vorrebbe fare credere, è una vera ondata operaia a scuotere l’Egitto e quindi ha ben ragione ad averne paura. La classe operaia egiziana è la più importante del Medio Oriente e le sue lotte possono realmente ispirare gli operai della regione e del resto del mondo.
Map, 22 ottobre
1. “Fratelli Musulmani” è un’organizzazione pan islamista fondata nel 1928 in Egitto che si richiama al dovere di fedeltà ai valori islamici tradizionali e uno dei temi maggiormente dibattuto al suo interno è quello del jihād. La sua opposizione fondamentalista e talvolta violenta agli Stati laici arabi ha portato alla sua interdizione o alla limitazione della sua attività in alcuni paesi, tra i quali l’Egitto.
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Questo sviluppo della combattività e della coscienza, questo rifiuto della miseria e la diffidenza verso i sindacati ... tutto questo è espresso con chiarezza dalle stesse rivendicazioni degli operai di Ghazi Al- Mahalla:
▪ Ricevere l’equivalente di 150 lire egiziane del salario di base in profitti annui.
▪ Togliere la fiducia al comitato sindacale e al PDG (Partito democratico Gabonese) dell’impresa.
▪ Includere le indennità nel salario di base come percentuale fissa non legata alla produzione.
▪ Aumentare le indennità per il cibo.
▪ Assegnare una indennità per l’alloggio.
▪ Fissare un salario minimo conforme ai prezzi attuali.
▪ Fornire un mezzo di trasporto per gli operai che abitano lontano dal luogo i lavoro.
▪ Migliorare i servizi sanitari.
Abbiamo ricevuto il seguente articolo dai compagni di Enternasyonalist Komünist Sol (EKS)[1], che da un resoconto di un importante sciopero alla Telecom in Turchia. Oltre all’importanza dello sciopero in sé ed alle lezioni da trarne, i compagni dell’EKS mettono giustamente in risalto l’importanza dello sciopero all’interno del contesto dell’attuale atmosfera di sfrenato nazionalismo guerrafondaio ed alla chiara linea di classe che separa il patriottismo del presidente del sindacato Haber–İş e la determinazione dei lavoratori a difendere le proprie condizioni di vita. La difesa nazionale e gli interessi degli operai non sono compatibili!
Il massiccio sciopero di oltre 26.000 operai della Turk Telekom è finito. Dopo 44 giorni gli scioperanti hanno ripreso il lavoro. 1.100 giornate lavorative perse nel più grande sciopero nella storia della Turchia dopo quello del 1991 dei minatori. È tempo di tirare un bilancio degli eventi.
La prima e più importante lezione da comprendere è che i lavoratori possono proteggere le proprie condizioni di vita lottando. L’offerta iniziale della Turk Telekom di un aumento salariale del 4% era ben al di sotto della percentuale d’inflazione previsto per la fine dell’anno che è di 7.7%. In effetti la Turk Telekom stava offrendo ai lavoratori un taglio sui salari.
L’aver ottenuto il 10% per questo anno ed il 6.5% per il prossimo anno per l’aumento dell’inflazione è certamente una grande vittoria. Seguito subito dopo alla vittoria dei lavoratori della THY (compagnia aerea turca) che hanno ottenuto un aumento del 10% solo minacciando uno sciopero, questo lancia un chiaro messaggio a tutti gli operai in Turchia: l’unico strumento per difendere i salari dall’inflazione è l’azione collettiva ed unita. Esso mostra chiaramente la via da seguire a tutti gli altri lavoratori ed in particolare a quelli del pubblico impiego ai quali il governo ha offerto un misero 2%+2%. Ogni aumento salariale al di sotto dell’inflazione è una decurtazione del salario. Per molti aspetti il settore pubblico è il settore più importante in Turchia. Molte famiglie proletarie hanno almeno un membro che lavora per lo Stato. Una vittoria in questo settore sarebbe una vittoria per ogni lavoratore del paese.
La seconda lezione concerne coloro che sono stati accusati di atti di sabotaggio. È positivo che tutti gli impiegati che erano stati licenziati durante lo sciopero siano stati reintegrati. Tuttavia, gli operai che sono accusati di sabotaggio possono ritornare al loro posto di lavoro solo se saranno ritenuti innocenti. Diversamente dai dirigenti, dai boss dei media e dei sindacati, noi ci rifiutiamo di condannare gli operai che lottano per difendere le loro condizioni di vita. È importante che questi operai non vengano dimenticati. Come reagire se dei lavoratori vengono condannati per sabotaggio e vengono licenziati è una questione chiave che tutti gli operai della Telekom devono discutere.
La lezione successiva riguarda le illazioni di tradimento. Il presidente del sindacato Haber–İş, Ali Akcan è stato pronto a dichiarare che i lavoratori che scioperavano non erano dei “traditori”, e che se il paese ne avesse avuto bisogno in caso di guerra, gli scioperanti “avrebbero fatto il loro dovere”. Per noi è più che evidente che la classe operaia in questo paese ha messo per troppo tempo gli interessi della nazione prima dei loro propri interessi. La classe operaia ha pagato la situazione di guerra nel Sud-Est non solo con anni di inflazione e austerità, ma anche con il sangue dei propri figli. È tempo di mettere i nostri interessi di lavoratori al primo posto.
L’ultima lezione interessa l’intera classe operaia. I lavoratori della Telekom hanno lottato da soli. Mentre si facevano picchetti sul posto di lavoro, gli impiegati nelle PTT (servizio postale turco) continuavano a lavorare. Eppure la rivendicazione per la quale i lavoratori della Telekom stavano lottando, la difesa degli stipendi dall’inflazione, interessa l’intera classe operaia. I sindacati bloccano i lavoratori nei loro differenti settori. Se i lavoratori della Telekom da soli riescono ad ottenere il 10%, che cosa avrebbero potuto ottenere se si fossero uniti ai lavoratori delle PTT? Che cosa avrebbero potuto ottenere se si fossero uniti ai lavoratori del settore pubblico? E’ necessario che i lavoratori non restino isolati ciascuno nel proprio settore, ma si uniscano con altri settori. Se gli scioperanti fossero andati direttamente dai lavoratori delle PTT ed li avessero chiamati ad unirsi allo sciopero, la vittoria sarebbe potuta essere per entrambi maggiore e più rapida.
L’inflazione non sta andando via, la banca centrale ha rivisto ancora una volta le previsioni di inflazione. Non saranno solo i lavoratori del settore pubblico a dover lottare per difendere i loro stipendi dai tagli in busta paga, ma gli stessi lavoratori della Telekom dovranno lottare ancora, in un futuro più o meno vicino, per difendere quanto ottenuto con questo sciopero. E lottare insieme è il modo migliore per farlo.
EKS
Da World Revolution, on-line
Il Giappone fa parte delle più grandi potenze economiche del mondo. La classe operaia viene sfruttata da decenni in modo estremamente feroce e brutale. In una società completamente disumanizzata, i lavoratori sono messi perennemente in concorrenza; passano giorni interminabili in ufficio o alla catena di montaggio e, non avendo il tempo materiale di ritornare ogni sera a casa, spesso passano la notte in una specie di camere-letto sarcofago messe accanto ai luoghi di lavoro. Tuttavia finora, tutto ciò teneva, con la promessa di un lavoro a vita, stabile e non troppo mal pagato. Ma da una decina di anni si è impiantata la recessione. L’impoverimento e la precarietà sono venuti a fustigare questa classe operaia sotto pressione, in particolare gli ultimi arrivati sul “mercato del lavoro”: i giovani. Questa frangia della popolazione che si fa definire “precariato”, parlante sintesi di “precarietà” e “proletariato”, è costretta a condizioni di vita veramente insopportabili.
“Precariato”, ovvero miseria crescente dei giovani proletariIn Giappone, come dappertutto, la quotidianità dei giovani è fatta di lavori ad interim, di un susseguirsi di piccoli lavori precari e mal pagati. Nel migliore dei casi, quando riescono a coprire tutto un mese con contratti saltuari, possono “sperare” di guadagnare 600 euro al prezzo di ritmi infernali di lavoro: fanno a 3 il lavoro di 10. Per una frangia intera della classe operaia avere un tetto dove vivere o anche nutrirsi diventa un compito ogni giorno più difficile. In queste condizioni, i caffè manga (1) sono diventati una sorta di rifugio surrealista contro la stanchezza ed il freddo. I giovani vi si ammucchiano giusto per dormire, senza poter né mangiare né bere: “Nel gennaio 2007 un ragazzo di 20 anni è stato arrestato non per avere pagato le consumazioni in un caffè manga (...), dove aveva passato tre giorni. Aveva in tutto 15 yen (10 centesimi di euro) in tasca. Era entrato nello stabile per proteggersi dal freddo e in tre giorni aveva mangiato solo un “piatto del giorno” e un piatto di patatine fritte. Il dipendente di un altro caffè manga mi ha raccontato che una volta un cliente era restato una settimana e che, durante questo tempo, non aveva consumato nulla tranne qualche bibita” (2).
La cosa più ignobile è pressione di colpevolizzazione della classe dominante. Anche qui i disoccupati ed i precari sono accusati dalla borghesia di essere pigri, buoni a nulla, degli approfittatori del sistema. Sottoposta alla nauseabonda propaganda che “ciascuno è responsabile della sua sorte”, questa nuova generazione di proletari “usa e getta” è corrosa dal senso di colpa di non arrivare a nulla. Questa pressione è tale da tradursi in ondate di suicidi ed automutilazioni. In Giappone il suicidio è diventato la prima causa di decesso dei giovani dai 20 ai 39 anni!
Una gioventù operaia che cerca ma non sa ancora come far fronte agli attacchi
Nonostante tutto questo, dal 2002 i giovani giapponesi iniziano ad alzare gradualmente la testa e ad esprimere la loro rabbia. Manifestazioni di rivolta scoppiano regolarmente contro questa società. Nel 2006 una cospicua parte si è mobilitata per avere alloggi gratuiti. Nel corteo dei dimostranti si potevano leggere slogan come “abitiamo in costruzioni vetuste”, “viviamo in posti di 4 tatami e mezzo (circa 7,4 m2)”, “non riusciamo più a pagare l’affitto!”, “alloggi gratuiti!”.... Capire che la propria situazione non è dovuta alla pigrizia ma ad una crisi profonda di questa società è una necessità vitale ed è questo inizio di riflessione che si sta sviluppando nelle file dei giovani proletari: “E’ evidente che se la vita dei giovani è diventata oggi tanto precaria, ciò non ha nulla a che vedere con un problema psicologico personale o con la propria volontà, ma è dovuto al malsano desiderio delle imprese, che vogliono continuare ad approfittare di una manodopera monouso che gli permette di restare competitivi a livello internazionale”.
Tuttavia, per potere aprire realmente prospettive di lotta manca ancora una tappa decisiva: la capacità di riconoscersi come parte di un insieme molto più ampio, la classe operaia. È solo allora che le lotte potranno superare lo stadio della reazione immediata ed impotente. Per il momento, sentendosi isolati e tagliati fuori dal resto della classe operaia, la rabbia di tutti questi giovani precari sfocia in un vicolo cieco e nella disperazione. E’ significativo che la canzone più sentita dagli altoparlanti e dai giovani durante le manifestazioni è quella del gruppo del Sex Pistols, No future.
I giovani giapponesi non sono un’eccezione. In Germania i giovani sono costretti ad accettare lavori nell’amministrazione statale ad un euro all’ora. In Australia “un quarto degli australiani tra i 20 ed i 25 anni non sono impegnati né in un lavoro a tempo pieno né negli studi, cioè il 15% in più di 10 anni fa e non cambierà molto quando avranno 35 anni” (3). In Francia, nel 2006, la borghesia ha tentato di imporre un nuovo tipo di contratto d’assunzione che facilita i licenziamenti senza preavviso né indennità, il famoso CPE (contratto di primo impiego) (4)). Ma quella volta i giovani proletari seppero sviluppare una estesa mobilitazione. La lotta fu vincente ed entusiasmante, la borghesia fu costretta a ritirare il suo attacco. Il che dimostra che per le giovani generazioni la prospettiva di collegarsi alla lotta collettiva della loro classe è reale.
Map
Da Révolution Internationale, n.383
1. Caffè aperti ventiquattrore su ventiquattro dove i clienti leggono fumetti e navigano su Internet.
2. Courrier international, 5 luglio 2007
3. La Tribune, 10/08/07
4. Vedi i diversi articoli sul movimento in Francia contro il CPE nel 2006 sul nostro sito www.internationalism.org [38].
Nelle nostre discussioni, soprattutto con giovani elementi, sentiamo frequentemente "E’ vero che tutto va male, che vi sono sempre più miseria e guerra, che le nostre condizioni di vita degradano, che l'avvenire del pianeta è minacciato. Bisogna fare qualche cosa, ma che cosa? Una rivoluzione? Ma questa è un’utopia, è impossibile"!
Sta qua la grande differenza tra maggio 1968 ed oggi. Nel 1968, in un momento in cui la crisi aveva appena cominciato nuovamente a fare sentire i suoi colpi, l'idea di rivoluzione era dovunque presente. Oggi, la constatazione del fallimento del capitalismo è diventata generale ma esiste invece un grande scetticismo in quanto alla possibilità di cambiare il mondo. I termini di comunismo, di lotta di classe, risuonano come un sogno di un altro tempo. Anche parlare di classe operaia e di borghesia parrebbe anacronistico.
Ora, la storia, nei fatti, già ha dato una risposta a questi dubbi. 90 anni fa, il proletariato ha portato la prova, attraverso le sue azioni, che il mondo poteva essere cambiato. La rivoluzione d’ottobre 1917 in Russia, la più grandiosa azione delle masse sfruttate fino ad ora, ha mostrato concretamente che la rivoluzione non è solamente necessaria ma che è anche possibile! (1)
La classe dominante scarica una massa continua di menzogne su questo episodio. Opere come la Fine di un'illusione o Il Libro nero sul comunismo non fanno che riprendere una propaganda che già circolava all'epoca: la rivoluzione sarebbe stata solamente un "golpe" dei bolscevichi, Lenin sarebbe stato un agente dell'imperialismo tedesco, ecc. I borghesi concepiscono le rivoluzioni operaie come un atto di pazzia collettiva, un caos spaventoso che finisce orribilmente (2). L'ideologia borghese non può ammettere che gli sfruttati possano agire per proprio conto. L'azione collettiva, solidale e cosciente della maggioranza lavoratrice, è una nozione che il pensiero borghese considera come un'utopia contro natura.
Tuttavia, non se ne dispiacciano i nostri sfruttatori, la realtà è proprio che nel 1917 la classe operaia ha saputo sollevarsi collettivamente e consapevolmente contro questo sistema disumano. Ha dimostrato che gli operai non erano delle bestie da soma, buone solo ad ubbidire ed a lavorare. Al contrario, questi avvenimenti rivoluzionari hanno rivelato le capacità grandiose e spesso anche insospettate del proletariato liberando un torrente di energia creatrice ed una prodigiosa dinamica di sconvolgimento collettivo delle coscienze. John Reed riassume così questa vita ribollente ed intensa dei proletari durante l’anno 1917:
"La Russia tutta intera imparava a leggere; leggeva di politica, d’economia, di storia, perché il popolo aveva bisogno di sapere. (...) La sete di istruzione per così molto tempo frenata diventò con la rivoluzione un vero delirio. Dal solo Istituto Smolny vennero estratte ogni giorno, per i primi sei mesi, tonnellate di letteratura che attraverso carri e vagoni andarono a saturare il paese. (...) E quale ruolo giocava la parola! Si tenevano riunioni nelle trincee, sulle piazze dei villaggi, nelle fabbriche. Quale ammirevole spettacolo offrirono i 40. 000 operai della Putilov nell’ascoltare oratori socialdemocratici, socialisti-rivoluzionari, anarchici ed altri, così attenti a tutti ed indifferenti alla lunghezza dei discorsi per mesi; a Pietrogrado ed in tutta la Russia, ogni angolo di strada fu una tribuna pubblica. Nei treni, nei tram, nasceva dovunque inaspettatamente la discussione. (...) In tutte le riunioni, la proposta di limitare il tempo di parola era regolarmente respinta; ciascuno poteva esprimere liberamente il proprio pensiero" (3). La "democrazia" borghese parla molto di "libertà di espressione" quando l’esperienza ci dice che essa è manipolazione, spettacolo e lavaggio del cervello. L'autentica libertà d’espressione è quella che conquistano le masse operaie nella loro azione rivoluzionaria:
"In ogni fabbrica, in ogni laboratorio, in ogni compagnia, in ogni caffè, in ogni cantone, nelle stesse borgate deserte, il pensiero rivoluzionario realizzava un lavoro silenzioso e molecolare. Sorgevano dovunque interpreti degli avvenimenti, operai a cui si poteva chiedere la verità su ciò che era accaduto e da cui si potevano ascoltare le necessarie parole d’ordine. (...) Questi elementi di esperienza, di critica, di iniziativa, di abnegazione, si sviluppavano nelle masse e costituivano la meccanica interna inaccessibile allo sguardo superficiale, tuttavia decisiva, del movimento rivoluzionario come processo cosciente." (4).
Questa capacità della classe operaia a ritornare collettivamente e consapevolmente in lotta non è un miracolo improvviso, è il frutto di numerose lotte e di una lunga riflessione sotterranea. Marx paragonava spesso la classe operaia ad una vecchia talpa che scava lentamente la sua strada per spuntare più lontano all'aria libera in modo improvviso e non previsto. Attraverso l'insurrezione di ottobre 1917, riappare il segno delle esperienze della Comune di Parigi del 1871 e della rivoluzione del 1905, delle battaglie politiche della Lega dei comunisti, della Prima e Seconda Internazionale, della sinistra di Zimmerwald, degli Spartachisti in Germania e del Partito bolscevico in Russia. La Rivoluzione russa è certamente una risposta alla guerra, alla fame ed alla barbarie dello zarismo moribondo, ma è anche e soprattutto una risposta cosciente, guidata dalla continuità storica e mondiale del movimento proletario. Concretamente, gli operai russi hanno vissuto prima dell’insurrezione vittoriosa le grandi lotte del 1898, 1902, la Rivoluzione del 1905 e le battaglie del 1912-14.
“Fu necessario contare non con una qualsiasi massa, ma con la massa degli operai di Pietrogrado e degli operai russi in generale che avevano vissuto l'esperienza della Rivoluzione del 1905, l'insurrezione di Mosca del mese di dicembre dello stesso anno, e fu necessario che nel seno di questa massa, ci fossero operai che avevano riflettuto sull'esperienza del 1905, che avevano assimilato la prospettiva della rivoluzione che si erano interrogati una dozzina di volta sulla questione dell'esercito.” (5).
E’ così che ottobre ‘17 fu il punto culminante di un lungo processo di presa di coscienza delle masse operaie finendo, alla vigilia dell'insurrezione, in un’atmosfera profondamente fraterna nelle file operaie. Questo ambiente è percettibile, quasi palpabile in queste righe di Trotsky:
“Le masse provavano il bisogno di tenersi strette, ciascuno voleva controllare sé stesso attraverso gli altri, e tutti, con uno spirito attento e teso, cercavano di vedere come un solo e stesso pensiero si sviluppava nella loro coscienza con le sue diverse sfumature e caratteristiche. (...) Mesi di vita politica febbrile (...) avevano educato centinaia e migliaia di autodidatti. (...) La massa non tollerava già più nel suo campo gli esitanti, quelli che dubitavano, i neutrali. Si sforzava di impossessarsi di tutti, di attirarli, di convincerli, di conquistarli. Le fabbriche congiuntamente ai reggimenti mandavano dei delegati al fronte. Le trincee si legavano con gli operai ed i contadini del più vicino retroterra al fronte. Nelle città di questa zona avevano luogo innumerevoli riunioni, comizi, conferenze in cui i soldati ed i marinai univano la loro azione con quella degli operai e dei contadini" (6).
Grazie a questa effervescenza di dibattiti, gli operai poterono così, nei fatti, guadagnare alla loro causa i soldati ed i contadini. La rivoluzione del 1917 corrisponde all'essere proprio del proletariato, classe allo tempo stesso sfruttata e rivoluzionaria che può liberarsi solo a condizione d’agire in modo collettivo e cosciente. La lotta rivoluzionaria del proletariato costituisce l'unica speranza di liberazione per tutte le masse sfruttate. La politica borghese è sempre a profitto di una minoranza della società. All'inverso, la politica del proletariato non insegue un beneficio particolare ma quello di tutta l'umanità. "La classe sfruttata ed oppressa, il proletariato, non può liberarsi della classe che la sfrutta e l'opprime, la borghesia, senza liberare allo stesso tempo e per sempre, la società intera dallo sfruttamento, dall'oppressione e dalle stesse lotte di classe." (7).
Questa effervescenza di discussione, questa sete di azione e di riflessione collettiva si è materializzata molto concretamente attraverso i soviet, o consigli operai, permettendo agli operai di organizzarsi e lottare come una classe unita e solidale.
L’appello della giornata del 22 ottobre, fatto dal Soviet di Pietrogrado, sigillò definitivamente l'insurrezione: riunioni ed assemblee si tennero in tutti i quartieri, in tutte le fabbriche ed esse verificarono un profondo accordo: “Abbasso Kerenski!” (8), “Tutto il potere ai Soviet!” Non furono solo i bolscevichi, ma tutto il proletariato di Pietrogrado che decise ed eseguì l'insurrezione. Fu un atto gigantesco in cui gli operai, gli impiegati, i soldati, numerosi cosacchi, donne, bambini, diedero apertamente il loro impegno.
“L'insurrezione fu decisa, per così dire, per una data fissata: il 25 ottobre. Non fu fissata da una riunione segreta, ma apertamente e pubblicamente, e la rivoluzione trionfante ebbe luogo precisamente il 25 ottobre (6 novembre nel calendario russo) come era già stato stabilito. La storia universale ha conosciuto un gran numero di rivolte e di rivoluzioni: ma cercheremmo invano un'altra insurrezione di una classe oppressa che sia stata fissata in anticipo e pubblicamente, attraverso una data annunciata, e che sia stata compiuta vittoriosamente, il giorno annunciato. In questo senso ed in numerosi altri, la rivoluzione di novembre è unica ed incomparabile.” (9).
In tutta la Russia, ben al di là di Pietrogrado, un’infinità di soviet locali lanciavano l’appello alla presa del potere o effettivamente lo prendevano, facendo trionfare dovunque l’insurrezione. Il partito bolscevico sapeva perfettamente che la rivoluzione non era l’impresa né del solo partito né dei soli operai di Pietrogrado ma del proletariato tutto intero. Gli avvenimenti hanno provato che Lenin e Trotsky avevano ragione nel sostenere che i soviet, fin dalla loro apparizione spontanea negli scioperi di massa del 1905, rappresentavano la "forma infine trovata della dittatura del proletariato". Nel 1917, questa organizzazione unitaria dell’insieme della classe in lotta giocò, attraverso la generalizzazione di assemblee sovrane e la sua centralizzazione con delegati eleggibili e revocabili in ogni momento, un ruolo politico essenziale e determinante nella presa di potere, mentre i sindacati non vi giocarono alcun ruolo.
Affianco ai soviet, un’altra forma di organizzazione della classe operaia sostenne un ruolo fondamentale ed anche vitale per la vittoria dell’insurrezione: il partito bolscevico. Se i soviet permisero a tutta la classe operaia di lottare collettivamente, il partito, rappresentando la frazione più cosciente e determinata, ebbe per ruolo di partecipare attivamente al combattimento, di favorire il più largo e profondo sviluppo della coscienza e di orientare in modo decisivo, con le sue parole d’ordine, l’attività della classe. Sono le masse che prendono il potere, sono i soviet che assicurano l’organizzazione, ma il partito di classe è un’arma indispensabile alla lotta. Nel luglio 1917, è il partito che risparmiò alla classe una disfatta decisiva (10). Nell’ottobre 1917, è ancora lui che mette la classe sulla strada del potere. Tuttavia, la rivoluzione di ottobre ha mostrato in modo vivente che il partito non può e non deve sostituire i soviet: se è indispensabile che il partito assuma la direzione politica tanto nella lotta per il potere che nella dittatura del proletariato, non è suo compito prendere il potere. Questo deve restare non nelle mani di una minoranza, per quanto cosciente e devota, ma di tutta la classe operaia attraverso il solo organismo che la rappresenta come un tutto: i soviet. Su questo punto, la rivoluzione russa fu una dolorosa esperienza poiché il partito soffocò poco a poco la vita e l’effervescenza dei consigli operai. Ma, nel 1917, di questa questione né Lenin e gli altri bolscevichi, né gli Spartachisti in Germania avevano una chiara comprensione e non potevano averla. Non bisogna dimenticare come l’ottobre 1917 sia stata la prima esperienza per la classe operaia di un’insurrezione vittoriosa a livello di tutto un paese!
“La Rivoluzione russa non è che l’avanguardia dell’esercito socialista mondiale, ed il successo ed il trionfo della rivoluzione che abbiamo compiuto dipendono dall’azione di questo esercito. È un fatto che nessuno tra noi dimentica (…). Il proletariato russo ha consapevolezza del suo isolamento rivoluzionario, ed egli vede chiaramente che la sua vittoria ha per condizione indispensabile e premessa fondamentale, l'intervento unito degli operai del mondo intero” (Lenin, 23 luglio 1918).
Per i bolscevichi, era chiaro che la Rivoluzione russa era solamente il primo atto della rivoluzione internazionale. L’insurrezione di ottobre 1917 costituiva di fatto l’avamposto di un’ondata rivoluzionaria mondiale, il proletariato che si lanciava verso combattimenti titanici che realmente hanno rischiato di determinare la fine del capitalismo. Nel 1917, il proletariato rovescia il potere borghese in Russia. Tra il 1918 e 1923, effettua molteplici assalti nel principale paese europeo, la Germania. Velocemente, quest’ondata rivoluzionaria si ripercuote in tutte le parti del mondo. Dovunque esista una classe operaia evoluta, i proletari si sollevano e si battono contro i loro sfruttatori: dall’Italia al Canada, dall’Ungheria alla Cina.
Quest’unità e questo slancio della classe operaia a scala internazionale non sono apparsi per caso. Questo sentimento comune di appartenere ovunque alla stessa classe ed alla stessa lotta corrisponde all’essere proprio del proletariato. Qualunque sia il paese, la classe operaia è sotto lo stesso giogo dello sfruttamento, ha di fronte la stessa classe dominante e lo stesso sistema di sfruttamento. Questa classe sfruttata forma una rete che attraversa i continenti, ogni vittoria o sconfitta di una delle sue parti condiziona inesorabilmente l’insieme. E’ per tale motivo che, fin dalle sue origini, la teoria comunista ha posto alla testa dei suoi principi l’internazionalismo proletario, la solidarietà di tutti gli operai del mondo. “Proletari di tutti i paesi, unitevi”, tale era la parola d’ordine del Manifesto comunista redatto da Marx ed Engels. Questo stesso manifesto affermava chiaramente che “i proletari non hanno patria”. La rivoluzione del proletariato, la sola che può mettere fine allo sfruttamento capitalista ed ad ogni forma di sfruttamento dell’uomo sull’uomo, non può avere luogo che a scala internazionale. E’ proprio questa realtà che era espressa con forza fin dal 1847: “La rivoluzione comunista (...) non sarà una rivoluzione puramente nazionale; si produrrà in tutti i paesi civilizzati allo stesso tempo (…) Eserciterà anche su tutti gli altri paesi del globo una ripercussione considerevole e trasformerà completamente ed accelererà il corso del loro sviluppo. È una rivoluzione universale; avrà, di conseguenza, un campo universale.” (11). La dimensione internazionale dell’ondata rivoluzionaria degli anni 1910-1920 provò che l’internazionalismo proletario non è un bel e grande principio astratto, ma che è al contrario una realtà reale e tangibile. Di fronte al nazionalismo sanguinario e viscerale delle borghesie che si sprofondano nella barbarie della Prima Guerra mondiale, la classe operaia ha opposto la sua lotta e la sua solidarietà internazionale. “Non c’è socialismo all’infuori della solidarietà internazionale del proletariato”, tale era il messaggio forte e chiaro dei volantini che circolavano nelle fabbriche in Germania (12). La vittoria dell’insurrezione di ottobre 1917 poi la minaccia di estensione della rivoluzione in Germania ha costretto le borghesie a mettere un termine alla prima carneficina mondiale, a questo ignobile bagno di sangue. In effetti, la classe dominante ha dovuto fare tacere i suoi antagonismi imperialisti che la laceravano da quattro anni per opporre un fronte unito ed arginare l’ondata rivoluzionaria.
L’ondata rivoluzionaria dell’ultimo secolo è stata il punto più alto raggiunto a tutt’oggi dall’umanità. Al nazionalismo ed alla guerra, allo sfruttamento ed alla miseria del mondo capitalista, il proletariato ha saputo aprire un’altra prospettiva, la sua prospettiva: l’internazionalismo e la solidarietà di tutte le masse oppresse. L’ondata di ottobre ‘17 ha provato così la forza della classe operaia. Per la prima volta, una classe sfruttata ha avuto il coraggio e la capacità di strappare il potere dalle mani degli sfruttatori e di inaugurare la rivoluzione proletaria mondiale! Anche se la rivoluzione doveva essere sconfitta ben presto, a Berlino, a Budapest ed a Torino e benché il proletariato russo e mondiale abbia dovuto pagare questa sconfitta ad un prezzo terribile (gli orrori della controrivoluzione stalinista, una seconda guerra mondiale e tutta la barbarie che da allora non è mai più cessata), la borghesia non sempre è stata capace di cancellare completamente dalla memoria operaia questo avvenimento esaltante e le sue lezioni. L’ampiezza delle falsificazioni della borghesia su Ottobre ‘17 è a misura degli spaventi che essa ha provato. La memoria di ottobre è là per ricordare al proletariato che il destino dell’umanità è rimesso tra le sue mani e che è capace di compiere questo compito grandioso. La rivoluzione internazionale rappresenta più che mai l’avvenire!
Pascale
Da Révolution Internatinale, n.383
1. Oltre a questo articolo, vedi il nostro opuscolo sull’Ottobre 1917 pubblicato sul nostro sito web.
2. Il cartone animato di Don Bluth e Gary Goldman chiamato "Anastasia", che presenta la Rivoluzione russa come un colpo di Rasputin che avrebbe gettato una sorte malefica e demoniaca sul popolo russo, è una caricatura molto grossolana ma altrettanto rivelatrice!
3. John Reed, I Dieci giorni che sconvolsero il mondo.
4. Trotsky, Storia della rivoluzione russa, cap. "Raggruppamento nelle masse".
5. Trotsky, Storia della rivoluzione russa, cap. "Il paradosso della rivoluzione di febbraio".
6. Trotsky, Ibid., cap. "L’uscita dal pre-parlamento".
7. Engels, "Prefazione del 1883" al Manifesto comunista.
8. Capo del governo provvisorio borghese formato dopo febbraio.
9. Trotsky, La Rivoluzione di novembre, 1919.
10. Leggi il nostro articolo "Le giornate di luglio: il ruolo indispensabile del partito".
11. F. Engels, Principi del comunismo.
12. Formula di Rosa Luxemburg nella Crisi della socialdemocrazia, ripresa da numerosi manifesti spartachisti.
Collegamenti
[1] https://it.internationalism.org/tag/situazione-italiana/politica-della-borghesia-italia
[2] https://it.internationalism.org/tag/situazione-italiana/economia-italiana
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[4] https://it.internationalism.org/tag/4/85/iraq
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[8] https://it.internationalism.org/tag/vita-della-cci/riunioni-pubbliche
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