Annata 2010
Questo articolo, pubblicato nell’autunno 1979 nel n°19 della nostra Rivista Internazionale trimestrale nelle tre lingue francese, inglese e spagnolo, appare oggi anche in lingua italiana. Si tratta di un testo per noi di grande importanza perché dà un quadro a nostro avviso ampio e profondo della questione dell’imperialismo. Il tempo intercorso dal momento in cui questo articolo è stato scritto ci impone tuttavia di fare alcune precisazioni per guidare il lettore nella comprensione del testo.
Anzitutto si vedrà che lo scenario storico al quale l’articolo fa riferimento è quello definito dall’immediato dopoguerra, con la divisione del mondo in due blocchi imperialisti contrapposti che, come ormai tutti sappiamo, non è più lo scenario attuale nella misura in cui tali blocchi sono venuti meno in seguito al crollo del muro di Berlino. Ma, tenuto conto di ciò, l’analisi resta del tutto valida.
In secondo luogo nell’articolo, a proposito della “spiegazione del modo con cui il capitalismo decadente ha prolungato la sua esistenza in assenza di fatto di questa sfera non capitalista”, si invita con la nota 7 il lettore a leggere il nostro opuscolo La decadenza del capitalismo. Il lettore deve però sapere che, nel frattempo, la nostra organizzazione ha sviluppato una discussione proprio su questo punto relativo alla “ricostruzione” dell’economia dando luogo ad un dibattito interno molto serrato da cui é scaturita una serie di articoli che noi riportiamo nella stessa nota 7 citata prima. Per il resto pensiamo che l’articolo conservi per intero la sua forza e la sua coerenza. Buona lettura.
Marxismo e imperialismo
Con tutta la proliferazione di lotte di “liberazione nazionale” per tutto il pianeta; con il numero crescente di guerre locali tra Stati capitalisti; con l’accelerazione dei preparativi dei due grandi blocchi imperialisti in vista di uno scontro finale - tutti fenomeni che esprimono la decomposizione irreversibile dell’economia capitalista mondiale - diventa sempre più importante per i rivoluzionari sviluppare una comprensione chiara del significato dell’imperialismo. Da settanta anni a questa parte, i marxisti hanno riconosciuto che viviamo nell’epoca della decadenza imperialista, e hanno tentato di trarne tutte le conseguenze per la lotta di classe del proletariato.
Ma, particolarmente con la controrivoluzione che si è abbattuta sul proletariato negli anni 20, il compito storico di definire e comprendere l’imperialismo è stato duramente ostacolato dal trionfo pressoché totale dell’ideologia borghese sotto tutte le sue forme. Così, il vero significato della parola imperialismo è stato deformato e svuotato del suo contenuto. Il lavoro di mistificazione è stato condotto su diversi fronti: dagli ideologi borghesi tradizionali che proclamano che l’imperialismo si è concluso con la trasformazione de “l’Impero” britannico in “Commonwealth” o con l’abbandono delle loro colonie da parte delle grandi potenze; dalle legioni di sociologi, economisti ed altri accademici che rivaleggiano a colpi di tonnellate di letteratura illeggibile sul “terzo Mondo”, di “studi sullo sviluppo” o il “risveglio nazionalista nelle colonie”, ecc.; e soprattutto dagli pseudo-marxisti della sinistra del capitale che danno addosso ai crimini dell’imperialismo americano pretendendo al tempo stesso che la Russia o la Cina siano delle potenze antimperialiste ed anche anticapitaliste. Questa distinzione avvilente non ha risparmiato neanche il movimento rivoluzionario. Alcuni rivoluzionari, colpiti dalle “scoperte” degli accademici borghesi, hanno abbandonato ogni riferimento agli intrighi imperialisti del capitalismo e considerano l’imperialismo come un fenomeno antiquato, superato nella storia del capitalismo. Altri, nei loro sforzi di resistenza alle trappole dell’ideologia borghese, non hanno fatto che trasformare gli scritti dei marxisti antecedenti in sacra scrittura. È il caso dei bordighisti per esempio che applicano meccanicamente “le cinque caratteristiche fondamentali dell’imperialismo” di Lenin al mondo moderno ignorando tutta l’evoluzione che si è prodotta in questi ultimi sessanta anni.
Ma i marxisti non possono né ignorare la tradizione teorica a partire della quale si sono formati, né trasformarla in dogma. La questione è assimilare in maniera critica i classici del marxismo e applicarne i contributi più importanti ad un’analisi della realtà attuale. Lo scopo di questo testo è mettere in luce il significato reale e contemporaneo della formulazione elementare: l’imperialismo domina l’intero pianeta nella nostra epoca; di spiegare il contenuto dell’affermazione espressa nella piattaforma della CCI: “l’imperialismo, politica alla quale è costretta ogni nazione per sopravvivere, quale che sia la sua grandezza”; di mostrare che, nel capitalismo moderno, tutte le guerre hanno una natura imperialista, tranne una: la guerra civile del proletariato contro la borghesia. Ma per questo, è innanzitutto necessario ritornare ai primi dibattiti sull’imperialismo all’interno del movimento operaio.
Marxismo contro revisionismo
Nel periodo che ha condotto alla prima guerra mondiale, la questione “teorica” dell’imperialismo ha costituito una frontiera che ha separato l’ala rivoluzionaria, internazionalista della socialdemocrazia, da tutti gli elementi riformisti e revisionisti del movimento operaio. Una volta aperta la guerra, la posizione sull’imperialismo determinava da che lato della barricata ci si trovava. Era una questione eminentemente pratica poiché è da essa che dipendeva tutto l’atteggiamento verso la guerra imperialista e verso le convulsioni rivoluzionarie che la guerra aveva provocato.
Esistevano dei punti nodali su questa questione su cui tutti i marxisti rivoluzionari erano d’accordo. Questi punti restano la base di ogni definizione marxista dell’imperialismo oggi.
1) I marxisti, secondo i quali l’imperialismo era definito come un prodotto specifico della società capitalista, attaccavano vigorosamente le ideologie borghesi più apertamente reazionarie che parlavano dell’imperialismo come di un bisogno biologico, un’espressione del desiderio dell’uomo di territori e di conquiste (questa sorta di teoria che rifiorisce oggigiorno nella nozione di “imperativo territoriale” è sostenuta dagli zoologi sociali del genere di Robert Ardrey e Desmond Monis). I marxisti si battevano con altrettanta fermezza contro i temi razzisti relativi al “compito civilizzatore dell’Uomo Bianco” e contro tutti gli amalgami confusi di tutte le politiche di conquista e di annessione di ogni tipo di formazione sociale. Come diceva Bucharin, questa:
“(…) ultima “teoria” largamente diffusa dell’imperialismo definisce questo come una politica di conquista in generale. Da questo punto di vista, si può dire altrettanto dell’imperialismo di Alessandro di Macedonia e dei conquistatori spagnoli, di Cartagine e di re Giovanni III, dell’antica Roma e dell’America moderna, di Napoleone e di Hindenburg.
Per quanto semplice possa essere questa teoria, ciò non toglie che essa sia assolutamente falsa. È falsa perché “spiega” tutto, e cioè proprio niente.
(…) È evidente che si può dire altrettanto della guerra. La guerra è un mezzo di riproduzione di certi rapporti di produzione. La guerra di conquista è un mezzo di riproduzione allargata di questi rapporti. Ora, dare alla guerra la semplice definizione di guerra di conquista, è del tutto insufficiente per la buona ragione che non è indicato l’essenziale, e cioè, quali sono i rapporti di produzione che questa guerra consolida ed estende e quale è la base che una “politica di rapina” data è chiamata ad allargare”. (N. Bucharin, L’economia mondiale e l’imperialismo).
Anche se Lenin diceva che “politica coloniale e imperialismo esistevano anche prima del più recente stadio del capitalismo, anzi prima del capitalismo stesso. Roma fondata sulla schiavitù, condusse una politica coloniale ed attuò l’imperialismo”, egli concordava con Bucharin quando aggiungeva:
“Ma le considerazioni “generali” sull’imperialismo, che dimentichino le fondamentali differenze tra le formazioni economico-sociali o le releghino nel retroscena, degenerano in vuote banalità o in rodomontate …”. (Lenin, L’imperialismo, fase suprema del capitalismo, in Opere Scelte, Editori Riuniti, pag. 633).
2) In secondo luogo i marxisti definivano l’imperialismo come una necessità per il capitalismo, come il risultato diretto del processo di accumulazione, delle leggi inerenti al capitale. Ad un certo stadio dello sviluppo del capitale, era il solo mezzo che permetteva al sistema di prolungare la sua esistenza. Era dunque irreversibile. Benché la spiegazione dell’imperialismo come espressione dell’accumulazione del capitale sia più chiara in certi marxisti che in altri (punto sul quale torneremo), tutti i marxisti rigettavano le tesi di Hobson, Kautsky e di altri che consideravano l'imperialismo come una semplice “politica” scelta dal capitalismo o piuttosto da frazioni particolari del capitalismo. Queste tesi si accompagnavano logicamente all’idea secondo la quale si poteva provare che l’imperialismo era una politica cattiva, costosa e miope, e che si potevano almeno convincere i settori più illuminati della borghesia del fatto che potevano trarre vantaggio da una politica generosa, non imperialista. Tutto ciò apriva chiaramente la via ad ogni tipo di ricette riformiste, pacifiste, miranti a rendere il capitalismo meno brutale e meno aggressivo. Kautsky arrivò a sviluppare l’idea che il capitalismo evolvesse gradatamente e pacificamente verso una fase di “ultra-imperialismo”, sfociando in un solo grande trust senza antagonismi, in cui le guerre sarebbero state solo un ricordo del passato. Contro questa visione utopistica (che trovò eco durante il boom seguito alla II guerra mondiale presso Paul Cardan ed altri) i marxisti insistevano sul fatto che, lungi dal rappresentare un superamento degli antagonismi capitalisti, l’imperialismo esprimeva l’esasperazione degli antagonismi al loro massimo livello. L’epoca imperialista era inevitabilmente un’epoca di crisi mondiale, di dispotismo politico e di guerra mondiale; confrontato a questa prospettiva catastrofica, il proletariato non poteva che rispondere con la distruzione rivoluzionaria del capitalismo.
3) L’imperialismo era quindi considerato come una fase specifica dell’esistenza del capitale. La sua fase ultima e finale. Sebbene si possa parlare di imperialismo britannico e francese nella prima metà del diciannovesimo secolo, la fase imperialista del capitale in quanto sistema mondiale non comincia veramente che a partire dagli anni 1870, momento in cui diversi capitali nazionali altamente centralizzati e concentrati cominciano ad entrare in concorrenza per i possedimenti coloniali, le sfere di influenza ed il dominio del mercato mondiale. Come ha detto Lenin:
“Uno dei tratti essenziali dell'imperialismo è la rivalità tra diverse grandi potenze all’inseguimento dell’egemonia” (Imperialismo, cap. 7). L’imperialismo è dunque essenzialmente un rapporto di concorrenza tra gli Stati capitalisti ad un certo stadio dell’evoluzione del capitale mondiale. Per andare più lontano, l’evoluzione di questo rapporto può essa stessa essere divisa in due fasi distinte che sono direttamente legate ai cambiamenti della situazione globale nella quale ha luogo la competizione imperialista.
“Il primo periodo dell’imperialismo si situa nell’ultimo quarto del diciannovesimo secolo e fa seguito all’epoca delle guerre nazionali attraverso le quali si era cementata la costituzione dei grandi Stati nazionali e di cui la guerra franco-tedesca segna pressappoco il termine estremo. Se il lungo periodo di depressione economica che seguì la crisi del 1873 portava già in germe la decadenza del capitalismo, questo poté ancora utilizzare le corte riprese che caratterizzavano questa depressione per, in qualche modo, completare lo sfruttamento dei territori e dei popoli ritardatari. Il capitalismo, alla ricerca arida e febbrile di materie prime e di acquirenti che non fossero né capitalisti, né salariati, rubò, decimò ed assassinò le popolazioni coloniali. Questa fu l’epoca della penetrazione e dell’estensione dell'Inghilterra in Egitto ed in Africa del Sud, della Francia in Marocco, a Tunisi e nel Tonchino, dell’Italia nell’Africa orientale, sulle frontiere dell’Abissinia, della Russia zarista in Asia Centrale ed in Manciuria, della Germania in Africa ed in Asia, degli USA nelle Filippine ed a Cuba, infine del Giappone sul continente asiatico.
Ma una volta finita la spartizione tra questi grandi raggruppamenti capitalisti di tutte le buone terre, di tutte le ricchezze sfruttabili, di tutte le zone di influenza, in breve di tutti gli angoli del mondo dove può essere rubato del lavoro che, trasformato in oro, andava ad accumularsi nelle banche nazionali delle metropoli, allora termina anche la missione progressiva del capitalismo... è certo che allora si sarebbe aperta la crisi generale del capitalismo” (Il problema della guerra, 1935, JEHAN, un militante della sinistra comunista in Belgio).
La fase iniziale dell’imperialismo, pure dando un assaggio della decadenza del capitalismo apportando miseria e massacri alle popolazioni delle regioni coloniali, aveva ancora un aspetto progressivo perché stabiliva il dominio del capitale a livello mondiale, condizione necessaria alla rivoluzione comunista. Ma una volta conclusasi questa spartizione del mondo, il capitalismo smette di essere un sistema progressivo, ed i flagelli che aveva fatto subire ai popoli coloniali rimbalzano allora nel cuore del sistema, come viene confermato dallo scoppio della prima guerra mondiale.
“L’attuale imperialismo non è, come nello schema di Bauer, il primo atto dell’espansione del capitale, ma solo l’ultimo capitolo del suo processo storico di espansione; è il periodo della lotta generale e acutizzata di concorrenza fra gli stati capitalistici per gli ultimi resti di ambiente non-capitalistico sopravvissuti nel mondo. La catastrofe economica e politica è, in questa fase conclusiva, elemento di vita, forma normale di esistenza del capitale come lo fu nell’“accumulazione primitiva” della sua fase iniziale. Come la scoperta dell’America e della via d’acqua per l’India fu non soltanto un’opera prometeica del genio umano e della civiltà quale appare nella leggenda liberale, ma, inseparabilmente, una serie di massacri perpetuati sui popoli primitivi del Nuovo Mondo e di grandiosi commerci di schiavi coi popoli d’Africa e d’Asia, così nella fase finale imperialistica l’espansione economica del capitale è inseparabile dalla serie di conquiste coloniali e di guerre mondiali, che oggi viviamo. Il segno caratteristico dell’imperialismo come estrema lotta di concorrenza per la dominazione mondiale capitalistica non è soltanto la particolare energia e multilateralità dell’espansione, ma – sintomo specifico che il cerchio dell’evoluzione comincia a chiudersi! - il rifluire della lotta decisiva per l’espansione dai territori che ne formano l’oggetto sui luoghi di origine. L’imperialismo riconduce così la catastrofe, come forma specifica della sua esistenza, dalla periferia dello sviluppo capitalistico al suo punto di partenza. Dopo di aver gettato per quattro secoli in preda a ininterrotte convulsioni e distruzioni in massa l’esistenza e la civiltà di tutti i popoli non-capitalistici in Asia, Africa, America e Australia, l’espansione del capitale precipita oggi gli stessi popoli civili d’Europa in una serie di catastrofi, il cui risultato finale non può essere che il crollo della stessa civiltà o il trapasso al modo di produzione socialistico”. (Rosa Luxemburg, “Ciò che gli epigoni hanno fatto della teoria marxista. Una anticritica”, in “L'accumulazione del capitale”, pagg.585-586, Einaudi Editore).
Il capitalismo nella sua fase imperialista finale entra nell’“era di guerre e di rivoluzioni”, come affermò l’Internazionale Comunista, un’era in cui l’umanità è confrontata con l’alternativa: socialismo o barbarie. Per la classe operaia quest’epoca significa l’erosione di tutte le riforme conquistate nel diciannovesimo secolo ed un attacco crescente al suo livello di vita attraverso le politiche di austerità e la guerra. Politicamente, significa la distruzione, o il recupero da parte della borghesia, delle sue organizzazioni precedenti e l’oppressione spietata da parte dello Stato-Leviatano imperialista, Stato costretto dalla logica della concorrenza imperialista e dalla decomposizione dell’edificio sociale a farsi carico di tutti gli aspetti della vita sociale, economica e politica. E’ perciò che, confrontata al disastro della I guerra mondiale, la sinistra rivoluzionaria trae la conclusione che il capitalismo aveva concluso definitivamente il suo ruolo storico e che il compito immediato della classe operaia internazionale era trasformare la guerra imperialista in guerra civile, di rovesciare il capitalismo attaccando la radice del male: il sistema capitalista mondiale. Naturalmente ciò significava una rottura totale con i traditori della Socialdemocrazia che, come Scheideman, Millerand ed altri, erano diventati apertamente difensori sciovinisti della guerra imperialista, o con i “Socialpacifisti” come Kautsky che continuavano a spargere l’illusione che il capitalismo poteva esistere senza imperialismo, senza dittatura, terrore o guerra.
Fin qui non potevano esserci disaccordi tra i marxisti, ed in effetti questi punti di base erano sufficienti per il raggruppamento dell’avanguardia rivoluzionaria nell’Internazionale Comunista. Ma i disaccordi che esistevano allora e che esistono ancora oggi nel movimento rivoluzionario emersero quando i marxisti tentarono di fare un’analisi più precisa delle forze motrici dell’imperialismo e delle sue manifestazioni concrete e quando tirarono le conseguenze politiche di questa analisi. Questi disaccordi tendevano a corrispondere alle differenti teorie della crisi del capitalismo e del declino storico del sistema, dato che l’imperialismo era un tentativo del capitale di superare le sue contraddizioni mortali, ciò su cui tutti erano d’accordo. Così Bucharin e Luxemburg, per esempio, che insistevano su delle contraddizioni differenti nelle loro teorie delle crisi, spiegavano in maniera differente la forza motrice dell’espansione imperialista. Questo dibattito fu complicato ulteriormente dal fatto che gran parte del lavoro di Marx sulle questioni economiche era stato scritto prima che l’imperialismo si fosse veramente impiantato, e questo buco nel suo lavoro diede adito a differenti interpretazioni sul modo con cui gli scritti di Marx potevano essere applicati all’analisi dell’imperialismo. Non è possibile in questo testo ritornare su tutti questi dibattiti sulla crisi e l’imperialismo la maggior parte dei quali oggi non è stata ancora risolta; ciò che vogliamo fare è esaminare brevemente le due grandi definizioni dell’imperialismo sviluppate all’epoca, la tesi di Lenin/Bucharin e quella della Luxemburg, e vedere come si adattano le due definizioni sia all’epoca in cui furono formulate che oggi. Così facendo, tenteremo di precisare la nostra stessa concezione dell’imperialismo oggi.
La concezione dell’imperialismo di Lenin
Per Lenin, i tratti caratteristici dell’imperialismo sono:
1) La concentrazione della produzione e del capitale, che ha raggiunto un grado talmente alto di sviluppo da creare i monopoli con funzione decisiva nella vita economica;
2) la fusione del capitale bancario col capitale industriale e il formarsi, sulla base di questo “capitale finanziario”, di un'oligarchia finanziaria;
3) la grande importanza acquistata dall’esportazione di capitale in confronto con l’esportazione di merci;
4) il sorgere di associazioni monopolistiche internazionali di capitalisti, che si ripartiscono il mondo;
5) la compiuta ripartizione della terra tra le più grandi potenze capitalistiche.”
(da Lenin, L’imperialismo, fase suprema del capitalismo, in Lenin, Opere Scelte, pagg. 638-639, Editori Riuniti).
Sebbene la definizione dell’imperialismo di Lenin contenga un numero di indicazioni importanti, la sua principale debolezza è di essere più una descrizione di certi effetti dell’imperialismo che un’analisi delle radici dell’imperialismo nel processo di accumulazione. L’evoluzione organica o intensiva del capitale verso delle unità sempre più concentrate e lo sviluppo geografico o estensivo del campo di attività del capitale (la ricerca di colonie, la divisione territoriale del globo) sono fondamentalmente delle espressioni del suo processo interno di accumulazione. È la composizione organica crescente del capitale, con l’abbassamento tendenziale del tasso di profitto ed il restringimento del mercato interno che costringono il capitale a cercare nuovi sbocchi redditizi per l’investimento di capitale e ad estendere continuamente il mercato per le sue merci.
Ma benché la dinamica profonda dell’imperialismo non cambi, le manifestazioni esteriori di questa dinamica subiscono delle modifiche tali che numerosi aspetti della definizione di Lenin dell’imperialismo risultano inadeguati oggi, ed anche al tempo in cui li aveva elaborati. Così, il periodo in cui il capitale sembrava essere dominato da un’oligarchia del “capitale finanziario” e da alcuni “raggruppamenti di monopoli internazionali” apriva già la via ad una nuova fase durante la I guerra mondiale; l’era del capitalismo di Stato, dell’economia di guerra permanente. In un’epoca di rivalità interimperialiste permanenti sul mercato mondiale, il capitale intero tende a concentrarsi intorno all’apparato dello Stato che subordina e disciplina tutte le frazioni particolari del capitale ai bisogni di sopravvivenza militare/economica. Il riconoscimento del fatto che il capitalismo era entrato in una fase di lotte violente tra i “trust capitalisti di Stato” nazionali era molto più chiaro in Bucharin che in Lenin (vedi “L’economia mondiale e l’imperialismo”), sebbene Bucharin sia ancora prigioniero del rapporto imperialismo-capitale finanziario, il che fa sì che il suo “trust capitalista di Stato” sia in gran parte presentato come uno strumento dell’oligarchia finanziaria, mentre lo Stato è in realtà l’organo dirigente supremo nella nostra epoca. Inoltre, come sottolineava Bilan:
“Definire l’imperialismo come “prodotto del capitale finanziario”, come fa Bucharin, significa stabilire una falsa filiazione e soprattutto significa perdere di vista l’origine comune di questi due aspetti del processo capitalista: la produzione di plusvalore”, (Bilan, n°11, pag. 387).
L’incapacità di Lenin di comprendere il significato del capitalismo di Stato avrà delle gravi conseguenze politiche in un certo numero di campi: le illusioni sulla natura progressiva di certi aspetti del capitalismo di Stato che sono stati applicati, con conseguenze disastrose, dai bolscevichi nella rivoluzione russa; l’incapacità di vedere l’integrazione delle vecchie organizzazioni operaie nello Stato, e la confusa teoria della “aristocrazia operaia”, dei “partiti operaio-borghesi” e dei “sindacati reazionari” ma distinti dalla macchina statale (il problema con queste organizzazioni essendo limitato a qualche dirigente traditore che era stato corrotto dai “superprofitti imperialisti” piuttosto che riconoscere che tutto l’apparato era ormai diventato un apparato dello Stato). Le conclusioni tattiche tirate da queste teorie erronee sono ben note: fronte unito, lavoro sindacale, etc. Allo stesso modo, l’insistenza di Lenin sul fatto che i possedimenti coloniali erano un tratto distintivo ed anche indispensabile dell’imperialismo non ha retto alla prova del tempo. Malgrado la previsione che la perdita delle colonie, provocata dalle rivolte nazionali in queste regioni, avrebbe scosso il sistema imperialista fin nelle sue fondamenta, l’imperialismo si è adattato completamente e facilmente alla “decolonizzazione”. La decolonizzazione non ha fatto che esprimere il declino delle vecchie potenze imperialiste ed il trionfo dei giganti imperialisti che non erano ostacolati da un gran numero di colonie al momento della I guerra mondiale. E’ per tale motivo che gli Stati Uniti e l’URSS poterono sviluppare una cinica politica “anticoloniale” per perseguire i loro obiettivi imperialisti, appoggiandosi sui movimenti nazionali e trasformarli immediatamente in guerre interimperialiste per “popoli” interposti.
La teoria dell'imperialismo di Lenin diventò la posizione ufficiale dei bolscevichi e dell’Internazionale Comunista, in particolare in connessione con la questione nazionale e coloniale, ed è qui che le carenze teoriche avranno le conseguenze più serie. Se l’imperialismo è definito essenzialmente da caratteristiche sovrastrutturali, diventa facile dividere il mondo in nazioni imperialiste, che opprimono, e nazioni non imperialiste, oppresse, ed anche per certe potenze imperialiste di “smettere” improvvisamente di essere imperialiste, quando esse perdono una o più di queste caratteristiche. Nello stesso tempo, si è sviluppata una tendenza ad annegare le differenze di classe nelle “nazioni oppresse” ed a sostenere che il proletariato - come campione nazionale di tutti gli oppressi - doveva radunare le nazioni oppresse sotto la sua bandiera rivoluzionaria. Questa posizione si applicava principalmente alle colonie, ma Lenin, nella sua critica a la “Juniusbrochure”, difende l’idea che anche i paesi capitalisti sviluppati dell’Europa moderna potrebbero, in certe circostanze, combattere una guerra legittima per l’indipendenza nazionale. Durante la prima guerra mondiale questa idea ambigua non ebbe conseguenze grazie alla valutazione corretta di Lenin secondo la quale il contesto imperialista globale della guerra non permetteva al proletariato di sostenere una politica di indipendenza nazionale di qualsivoglia belligerante. Ma le debolezze di questa teoria furono dimostrate in maniera eclatante dopo la guerra: innanzitutto, con il declino dell’ondata rivoluzionaria e l’isolamento dello Stato russo. L’idea di un carattere “antimperialista” delle “nazioni oppresse” fu smentita dai fatti in Finlandia, in Europa dell’est, in Persia, in Turchia ed in Cina, dove i tentativi di condurre politiche di “autodeterminazione nazionale” e di “fronti unici antimperialisti” non furono in grado di impedire alle borghesie locali di allearsi con le potenze imperialiste e di schiacciare ogni iniziativa in favore della rivoluzione comunista.[1] La più grottesca applicazione delle idee avanzate da Lenin nel suo “A proposito della Juniusbrochure” fu forse l’esperienza “nazional bolscevica” in Germania nel 1923: secondo questo concetto senza fondamento, la Germania avrebbe improvvisamente smesso di essere una potenza imperialista con la perdita delle sue colonie ed il saccheggio che l’Intesa le aveva fatto subire. Un’alleanza antimperialista con certi settori della borghesia tedesca era dunque all’ordine del giorno. Certo, non c’è un legame diretto tra le debolezze teoriche di Lenin e questi veri tradimenti. Tra l’uno e l’altro c’è tutto un processo di degenerazione. Tuttavia è importante che i comunisti siano capaci di mostrare come sono proprio gli errori dei rivoluzionari del passato che possono servire ai partiti in degenerazione o controrivoluzionari per giustificare il loro tradimento. Non è un caso che la controrivoluzione, sotto le sue forme stalinista, maoista o trotskysta, abbia fatto ripetutamente riferimento alle teorie di Lenin sull’imperialismo e sulla liberazione nazionale, per “provare” che la Russia o la Cina non sono imperialiste (vedi il trucco tipico dei gauchisti: “dove sono i monopoli e le oligarchie finanziarie in URSS?”); o anche per “provare” che numerose cricche borghesi dei paesi sottosviluppati devono essere sostenute nella loro lotta “antimperialista”. È vero che questi deformano e corrompono numerosi aspetti della teoria di Lenin, ma i comunisti non devono avere paura di ammettere che vi sono numerosi elementi nella concezione di Lenin che possono essere ripresi più o meno “tal quali” da queste forze borghesi. Sono precisamente questi elementi che dobbiamo essere capaci di criticare e di superare.
L’imperialismo e la caduta tendenziale del tasso di profitto
In Lenin è praticamente implicito che l’espansione imperialista trova le sue radici nel processo di accumulazione, nella necessità di superare la caduta tendenziale del tasso di profitto cercando della mano d’opera a buon mercato e delle materie prime nelle regioni coloniali. Questo elemento è più esplicitamente messo in evidenza da Bucharin, e forse non è un caso se l’analisi più rigorosa dell’imperialismo da parte di Bukarin era, almeno all’inizio, accompagnata da una posizione più chiara sulla questione nazionale (durante la prima guerra mondiale ed i primi anni della rivoluzione russa, Bucharin ha combattuto la posizione di Lenin sull’autodeterminazione nazionale. Più tardi cambiò posizione e fu la posizione della Luxemburg sulla questione nazionale, intimamente legata alla sua teoria dell’imperialismo,[2] - che mostrò una maggiore coerenza). Sicuramente, la necessità di far fronte alla caduta tendenziale del tasso di profitto fu un elemento primordiale dell’imperialismo, poiché l’imperialismo comincia precisamente nello stadio in cui un gran numero di capitali nazionali ad alta composizione organica arriva sul mercato mondiale. Non possiamo qui trattare per esteso la questione[3], ma consideriamo che le spiegazioni dell’imperialismo che fanno riferimento quasi esclusivamente alla caduta tendenziale del tasso di profitto soffrono di due debolezze importanti.
1) Tali spiegazioni cercano di descrivere l’imperialismo come prerogativa dei soli paesi altamente sviluppati, paesi a forte composizione organica del capitale, obbligati ad esportare capitale per superare la caduta tendenziale del tasso di profitto.
Questa idea ha raggiunto un livello caricaturale con la CWO[4] che assimila l’imperialismo all’indipendenza economica e politica, concludendo che oggi nel mondo ci sono solo due potenze imperialiste, gli USA e l’URSS, poiché sono i soli paesi ad essere veramente “indipendenti”, mentre gli altri paesi hanno solamente delle tendenze imperialiste che non possono essere mai realizzate. Questa è la conseguenza logica del vedere il problema dal punto di vista dei capitali individuali piuttosto che del capitale globale. Come sottolineava Rosa Luxemburg:
“La politica imperialista non è l’opera di uno o più stati, é il prodotto di un determinato grado di maturità dello sviluppo mondiale del capitale, un fenomeno naturalmente internazionale, una totalità indivisibile, che è intelligibile solo nell’insieme dei suoi nessi e alla quale nessuno Stato può singolarmente sottrarsi”. (La crisi della Socialdemocrazia, “Juniusbroschure”, www.marxists.org/italiano/luxembur/1915/4/junius.htm [1]).
Questo non vuole dire che la conclusione della CWO sia la conseguenza inevitabile della spiegazione dell’imperialismo basata unicamente sulla caduta tendenziale del tasso di profitto. Se si parte dal punto di vista del capitale globale, diventa chiaro che se è il tasso di profitto dei paesi più evoluti a determinare il tasso di profitto globale, le condotte imperialiste dei paesi avanzati che ne conseguono hanno anche un’eco nei capitali più deboli. Ma dal momento in cui si considera realmente il problema dal punto di vista del capitale globale, appare evidente un’altra contraddizione del ciclo dell’accumulazione: l’incapacità del capitale globale a realizzare tutto il plusvalore all’interno dei propri rapporti di produzione. Questo problema, posto dalla Luxemburg ne “L'accumulazione del Capitale”, fu negato da Lenin, da Bucharin e dai loro successori, considerandolo come un abbandono del marxismo. Non è tuttavia difficile mostrare che Marx era preoccupato dallo stesso problema[5]:
“Più la produzione capitalista si sviluppa, più è costretta a produrre ad un livello che non ha niente a che vedere con la domanda immediata, ma che dipende da un’espansione costante del mercato mondiale. Ricardo ricorre all’affermazione ripresa da Say secondo la quale i capitalisti non producono per ottenere profitto, plusvalore, ma producono dei valori d’uso direttamente per il consumo - per il loro proprio consumo. Non tiene conto del fatto che la merce deve essere convertita in denaro. Il consumo degli operai non è sufficiente, poiché il profitto proviene precisamente dal fatto che il consumo degli operai è inferiore al valore del loro prodotto e che (il profitto) è tanto più grande quanto il consumo è relativamente piccolo. Lo stesso consumo dei capitalisti è insufficiente”. (Teorie sul plusvalore, II parte, cap. XVI “La teoria di Ricardo sul profitto” - tradotto dall’inglese da noi)
Pertanto, ogni analisi seria dell’imperialismo deve prendere in conto questa necessità di una “espansione costante del mercato mondiale”. Una teoria che ignori questo problema è incapace di spiegare perché è proprio dal momento in cui il mercato mondiale diventa incapace di continuare la sua espansione - con l’integrazione dei settori più importanti dell’economia precapitalista nell’economia capitalista mondiale agli inizi del ventesimo secolo – che il capitalismo è gettato nella crisi permanente del suo periodo imperialista finale. Può la simultaneità storica di questi due fenomeni essere rigettata come una semplice coincidenza? Mentre tutte le analisi marxiste dell’imperialismo hanno visto che la caccia alle materie prime ed alla forza lavoro, tutte e due a buon mercato, sono state un aspetto centrale della conquista coloniale, solo quella di Rosa Luxemburg comprende l’importanza decisiva dei mercati precapitalisti delle colonie e delle semicolonie, poiché forniscono il terreno per una “espansione costante del mercato mondiale” fino ai primi anni del XX secolo. Ed è precisamente questo elemento che è la “variabile” nell’analisi. Il capitale può sempre trovare forza lavoro non cara e materie prime a buon mercato nelle regioni sottosviluppate: ciò è vero sia prima che dopo l’inglobamento delle colonie e delle semicolonie nell’economia capitalista mondiale, sia nelle fase ascendente del capitalismo che in quella decadente.
Ma, da una parte la domanda globale di queste regioni smette di essere “extracapitalista” e dall’altra il grosso di questa domanda viene integrato nei rapporti di produzione capitalista; il capitale globale non ha dei nuovi sbocchi per la realizzazione di questa frazione del plusvalore destinato all’accumulazione, ha perso la sua capacità di estendere continuamente il mercato mondiale. Adesso le stesse “regioni coloniali” sono produttrici di plusvalore, concorrenti delle metropoli. La forza lavoro e le materie prime in queste regioni possono restare ancora a buon mercato, possono sopravvivere delle aree di investimento proficuo, ma queste non possono più aiutare il capitale mondiale a risolvere i problemi di realizzazione: sono diventate parti integranti del problema. Questa incapacità ad estendere, in una certa misura, il mercato mondiale, come richiesto dalla produttività del capitale, priva inoltre la borghesia di una delle principali controtendenze alla caduta del tasso di profitto: l’incremento della massa di profitto attraverso la produzione e la vendita di una massa crescente di merci. Così vengono confermate le previsioni del Manifesto Comunista:
“I rapporti borghesi sono divenuti troppo angusti per poter contenere la ricchezza da essi stessi prodotta. – Con quale mezzo la borghesia supera la crisi? Da un lato, con la distruzione coatta di una massa di forze produttive; dall’altro, con la conquista di nuovi mercati e con lo sfruttamento più intenso dei vecchi. Dunque, con quali mezzi? Mediante la preparazione di crisi più generali e più violente e la diminuzione dei mezzi per prevenire le crisi stesse”. (Marx, Il Manifesto del Partito Comunista, edizione Einaudi, pag. 108).
È la teoria dell'imperialismo di Rosa Luxemburg che è la migliore continuazione del pensiero di Marx su questa questione.
La concezione della Luxemburg sull’imperialismo e le sue critiche
“L’imperialismo è l’espressione politica del processo di accumulazione del capitale nella sua lotta di concorrenza intorno ai residui di ambienti non-capitalistici non ancora posti sotto sequestro. Dal punto di vista geografico, questo ambiente abbraccia ancora oggi i più vasti territori del mondo. Ma, in confronto all’enorme massa del capitale già accumulato degli antichi paesi capitalistici, che lotta per trovare uno sbocco al suo sovraprodotto e possibilità di capitalizzazione al suo plusvalore; in confronto alla rapidità con cui civiltà precapitalistiche vengono trasformate in capitalistiche; insomma, in confronto all’alto grado raggiunto dall’espansione delle forze produttive del capitale, il campo che ancora resta al suo allargamento sembra ormai ristretto. Di qui il procedere internazionale del capitalismo sull’arena del mondo. Dati l’alto sviluppo e la sempre più accesa concorrenza dei paesi capitalistici per la conquista di zone non-capitalistiche, l’imperialismo cresce in energia e forza d’urto, sia nella sua aggressività contro il mondo non-capitalistico, sia nell’inasprimento dei contrasti fra i paesi capitalistici concorrenti. Ma con quanta maggiore energia, potenza d’urto e sistematicità l’imperialismo opera all’erosione delle civiltà non-capitalistiche, tanto più rapidamente toglie il terreno sotto i piedi all’accumulazione del capitale. L’imperialismo è tanto un metodo storico per prolungare l’esistenza del capitale, quanto il più sicuro mezzo per affrettarne obiettivamente la fine. Ciò non significa che questo punto terminale debba essere pedantescamente raggiunto. Le forme che danno alla fase terminale del capitalismo il volto di un’era di catastrofi esprimono già di per sé la tendenza dell’evoluzione capitalistica verso questo sbocco finale”. (R. Luxemburg, L’accumulazione del capitale. Capitolo 31, Einaudi Editore, pag. 447).
Come possiamo vedere in questo passaggio, la definizione luxemburghiana dell’imperialismo si concentra sulle basi del problema, cioè del processo di accumulazione, ed in particolare sulla fase del processo che riguarda la realizzazione, più che sugli sviluppi sovrastrutturali dell'imperialismo. D’altra parte essa mostra che il corollario politico dell’espansione imperialista è la militarizzazione della società ed il rafforzamento dello Stato: la democrazia borghese in affanno e lo sviluppo di forme apertamente dispotiche del dominio capitalista, la brutale degradazione del livello di vita degli operai per mantenere ipertrofico il settore militare dell’economia. Sebbene l'Accumulazione del Capitale contenga idee contraddittorie sul militarismo visto come un “settore dell’accumulazione”, la Luxemburg aveva fondamentalmente ragione nel vedere l’economia di guerra come una caratteristica indispensabile del capitalismo imperialista decadente. Ma l’analisi fondamentale della forza motrice dell’imperialismo della Luxemburg è stata oggetto di numerose critiche. La più importante fu scritta da Bucharin nel suo testo L'imperialismo e l’Accumulazione del Capitale (1924). Il grosso dei suoi argomenti contro la teoria della Luxemburg ha trovato recentemente un’eco nella Communist Workers’ Organisation (vedere la loro rivista Revolutionary Perspective n°6: l'Accumulazione delle contraddizioni). Risponderemo qui alle due critiche più importanti fatte da Bucharin:
1) per Bucharin, la teoria della Luxemburg secondo la quale il motore dell’imperialismo risiede nella ricerca di nuovi mercati, rende l’epoca imperialista indifferenziata dagli altri periodi del capitale:
“Il capitalismo commerciale ed il mercantilismo, il capitalismo industriale ed il liberismo, il capitalismo finanziario e l’imperialismo - tutte queste fasi dello sviluppo capitalista spariscono e si fondono nel capitalismo in quanto tale”.(Nicolai Bucharin, Imperialismo e accumulazione del capitale).
E per la CWO:
“(...) e la sua analisi dell’imperialismo basata sulla “saturazione dei mercati” è estremamente debole ed inadeguata. Se, come ammetteva la Luxemburg, ... le metropoli capitaliste contenevano ancora delle enclave precapitaliste (artigiani, contadini), perché il capitalismo avrebbe avuto bisogno di estendersi all’esterno, lontano dalle metropoli capitaliste fin dall’inizio della sua esistenza? Se cercava unicamente dei nuovi mercati, perché non ha prima integrato questi strati nel rapporto capitale-lavoro salariato? In realtà la spiegazione non è il bisogno di nuovi mercati, ma la ricerca di materie prime e del massimo profitto. In secondo luogo, la teoria della Luxemburg implica che l’imperialismo è una caratteristica permanente del capitalismo. Poiché il capitalismo, per la Luxemburg, ha sempre cercato di estendere il mercato per accumulare, la sua teoria non può fare la distinzione tra l’espansione originaria delle economie di commercio e di denaro all’alba del capitalismo in Europa e la sua espansione imperialista ulteriore... il capitale mercantile era necessario all’accumulazione originaria, ma è un fenomeno qualitativamente differente nel modo con cui il capitalismo accumula una volta che si è stabilito come modo di produzione dominante” (Revolutionary Perspective n°6, pag. 18-19).
In questo passaggio, la virulenza della CWO contro il “luxemburghismo” supera anche l’aspra polemica di Bucharin. Prima di proseguire, bisogna stabilire alcuni punti. Innanzitutto, la Luxemburg non ha mai detto che l’espansione imperialista fosse dovuta unicamente alla ricerca di nuovi mercati: ha descritto chiaramente la ricerca planetaria di mano d’opera e di materie prime a buon mercato, come la stessa CWO nota alla stessa pagina del n°6 di Revolutionary Perspective. In secondo luogo, è stupefacente che si presenti il bisogno del capitalismo “di estendere i suoi mercati per accumulare” come una scoperta della Luxemburg, quando questa è una posizione fondamentale difesa da Marx contro Say e Ricardo, come abbiamo già visto. Lo stesso Bucharin non ha mai negato che l’imperialismo fosse alla ricerca di nuovi mercati, anzi egli considera questo fatto come una delle tre forze motrici dell’espansione imperialista:
“Abbiamo messo a nudo tre moventi fondamentali della politica di conquista degli Stati capitalisti moderni. Un’aumentata competizione sul mercato della vendita, sul mercato delle materie prime e per la sfera di investimento del capitale... Queste tre radici della politica del capitale finanziario, tuttavia, rappresentano in sostanza soltanto tre aspetti di un stesso fenomeno, che non é altro che il conflitto tra l’incremento delle forze produttive ed i limiti “nazionali” dell’organizzazione della produzione” (Nicolai Bucharin, L’economia mondiale e l’imperialismo)
Tuttavia, l’opposizione rimane: per Lenin, Bucharin ed altri, sono le “esportazioni di capitali” e non quelle di “merci” che distinguono la fase imperialista del capitale da quella precedente. E’ forse vero che la teoria della Luxemburg ignora questa distinzione implicando che l’imperialismo sia stato una caratteristica del capitale fin dall’inizio?
Se ci riferiamo ai passaggi della Luxemburg citati nel testo, particolarmente alla lunga citazione dell’Anticritica, vediamo che la stessa Luxemburg faceva chiaramente una distinzione tra la fase di accumulazione primitiva e quella imperialista, che viene presentata senza dubbio come una fase determinata dello sviluppo del capitale. Sono queste delle parole vuote o corrispondono alla sostanza della teoria della Luxemburg?
Nei fatti non c’è contraddizione nell’analisi della Luxemburg. L’imperialismo comincia per l’esattezza dopo gli anni 1870, quando il capitalismo mondiale arriva ad una nuova significativa configurazione: il periodo in cui la costituzione degli Stati nazionali d’Europa e del Nord America è conclusa e dove, al posto di una Gran Bretagna “officina del mondo”, abbiamo diverse “officine” capitaliste nazionali sviluppate in concorrenza per il dominio del mercato mondiale - in concorrenza non solo per l’ottenimento dei mercati interni degli altri, ma anche per il mercato coloniale. È questa situazione che provoca la depressione degli anni 1870 – “embrione della decadenza capitalista” proprio perché il declino del sistema è sinonimo della divisione del mercato mondiale tra capitali concorrenti - con la trasformazione del capitalismo in un “sistema chiuso” in cui il problema della realizzazione diventa insolubile. Ma, certamente, negli anni 70 esisteva ancora la possibilità di rompere il cerchio chiuso e ciò spiega in grande parte la corsa disperata dell’espansione imperialista in questa epoca.
E’ vero, come ha sottolineato la CWO, che il capitale ha sempre cercato dei mercati coloniali, ma questo non è un mistero: i capitalisti cercheranno sempre delle zone di sfruttamento redditizie e delle buone vendite, anche se i mercati disponibili “in casa propria” non sono totalmente saturi. Sarebbe assurdo aspettarsi che il capitalismo segua un corso di sviluppo regolare, come se i capitalisti si fossero incontrati per dire insieme: “innanzitutto esauriamo tutti i settori precapitalisti in Europa, poi ci estenderemo all’Asia, poi all’Africa, ecc..."
Tuttavia, dietro lo sviluppo caotico del capitalismo, si può vedere una caratteristica ben determinata: il saccheggio delle colonie da parte del capitalismo nascente; l’utilizzazione di questo saccheggio per accelerare la rivoluzione industriale nella metropoli; poi, sulla base del capitalismo industriale, una nuova spinta nelle regioni coloniali. Certamente il primo periodo di espansione coloniale non era una risposta ad una sovrapproduzione interna, ma corrispondeva alle necessità dell’accumulazione primitiva. Possiamo cominciare a parlare di imperialismo solo quando l’espansione coloniale non diventa una risposta alle contraddizioni di una produzione capitalista pienamente sviluppata. In questo senso, possiamo collocare gli inizi dell’imperialismo nell’epoca in cui le crisi commerciali della metà del diciannovesimo secolo agiscono come stimolo dell’espansione del capitale britannico verso le colonie e semi-colonie. Ma, come abbiamo detto, l’imperialismo nel pieno senso del termine implica una relazione di concorrenza tra Stati capitalisti; ed è quando il mercato delle metropoli viene diviso in modo decisivo tra diversi giganti capitalisti che l’espansione imperialista diventa una necessità inevitabile per il capitale. È questo che spiega la rapida trasformazione della politica coloniale britannica nell’ultima parte del diciannovesimo secolo. Prima della depressione degli anni 1870, prima della crescita della concorrenza degli USA e della Germania, i capitalisti britannici si chiedevano se le colonie esistenti valessero le spese che comportavano ed erano esitanti ad impossessarsi di nuove colonie; in questa epoca invece si convinsero della necessità per la Gran Bretagna di mantenere ed estendere la sua politica coloniale. La corsa alle colonie della fine del XIX secolo non fu il risultato di un’improvvisa ondata di follia da parte della borghesia o di una ricerca orgogliosa di prestigio nazionale, ma una risposta ad una contraddizione fondamentale del ciclo di accumulazione: la concentrazione crescente del capitale e la spartizione del mercato nelle metropoli, che aggravavano simultaneamente la caduta tendenziale del tasso di profitto ed il fossato tra la produttività ed i mercati solvibili, vale a dire il problema della realizzazione.
L’idea che l’orientamento verso l’apertura di nuovi mercati fosse un elemento dell’espansione imperialista non è, contrariamente a ciò che proclama la CWO (RP n°6 pag.19), contraddetto dal fatto che il grosso del commercio mondiale in questa epoca era costituito dal commercio delle metropoli capitaliste tra di loro. Il fenomeno era stato sottolineato dalla stessa Luxemburg:
“E se lo sviluppo internazionale del capitalismo rende sempre più urgente e precaria la capitalizzazione del plusvalore, la larga base del capitale costante e variabile diventa, come massa, sempre più vasta in assoluto e in rapporto al plusvalore. Di qui il fenomeno contraddittorio per cui gli antichi paesi capitalistici rappresentano gli uni per gli altri dei mercati di sbocco sempre più grandi, sono sempre più reciprocamente indispensabili, e tuttavia si combattono sempre più fra di loro come concorrenti nei rapporti con paesi non-capitalistici”. (Rosa Luxemburg, L’accumulazione del Capitale, Einaudi Editore, Cap. 26, pag. 362).
I mercati “esterni” erano per il capitale globale uno spazio di aria fresca in una prigione stretta e sovrappopolata. Più lo spazio di aria fresca si restringe rispetto alla sovrappopolazione della prigione e più i prigionieri vi si gettano disperatamente sopra.
Il fatto che durante questo periodo ci fu un netto incremento di esportazioni di capitale non significa neanche che l’espansione imperialista non abbia niente a che vedere con un problema di mercati. L’esportazione di capitale verso le regioni coloniali era non solo necessaria perché permetteva al capitalismo di produrre nelle zone dove la forza lavoro era a buon mercato e dunque di aumentare il tasso di profitto, ma anche perché estendeva il mercato mondiale:
a) perché l’esportazione di capitali include l’esportazione di beni di produzione che rappresentano anch’essi merci che devono essere vendute;
b) perché l’esportazione di capitale - sia sotto forma di capitale monetario per l’investimento che di beni di produzione - serviva ad estendere l’insieme del mercato per la produzione capitalista impiantandola nelle nuove regioni e portando sempre più acquirenti solvibili nella sua orbita. L’esempio più evidente è la costruzione di ferrovie che sono servite ad estendere la vendita delle merci capitaliste a milioni e milioni di nuovi acquirenti.
Il problema del “mercato” può aiutare a spiegare una delle caratteristiche più nette del modo con cui l’imperialismo ha esteso la produzione capitalista attraverso il mondo: la “creazione” del sottosviluppo. Perché gli imperialisti volevano un mercato sottomesso - un mercato di acquirenti che non dovevano diventare dei concorrenti delle metropoli diventando essi stessi produttori capitalisti. Ne consegue il fenomeno contraddittorio per il quale l’imperialismo ha esportato il modo di produzione capitalista ed ha distrutto sistematicamente le formazioni economiche precapitaliste, pur frenando simultaneamente lo sviluppo del capitale indigeno, saccheggiando spietatamente le economie coloniali, subordinando il loro sviluppo industriale ai bisogni specifici dell’economia delle metropoli ed appoggiando gli elementi più reazionari e più sottomessi delle classi dominanti indigene. E’ per tale motivo che, contrariamente alle previsioni di Marx, il capitalismo non ha creato un’immagine riflessa di sé nelle regioni coloniali. Nelle colonie e nelle semi colonie, non dovevano nascere capitali nazionali indipendenti - pienamente formati, con la loro rivoluzione borghese e la loro base industriale sana - ma piuttosto delle caricature grossolane dei capitali delle metropoli, indebolite dal peso delle vestigia in decomposizione dei modi di produzione anteriori, scarsamente industrializzati per servire al tempo stesso gli interessi stranieri, con borghesie deboli, nate vecchie, sia a livello economico che politico. L’imperialismo aveva così creato il sottosviluppo e non sarebbe stato mai più capace di abolirlo; allo stesso tempo, si assicurava che non si sarebbero avute rivoluzioni borghesi nelle zone arretrate. In grande parte, le ripercussioni profonde dello sviluppo imperialista, ripercussioni fin troppo evidenti oggi nel “Terzo Mondo” che affonda nella barbarie, hanno le loro origini nel tentativo imperialista di utilizzare le colonie e le semi-colonie per risolvere i problemi dei mercati.
2) Secondo Bucharin, la definizione dell’imperialismo della Luxemburg significa che l’imperialismo smette di esistere quando non vi è più traccia di ambiente non capitalista da disputarsi:
“(...) Da questa definizione consegue che la lotta per i territori GIA’ capitalisti non è imperialismo, il che è assurdo... dalla stessa definizione consegue che nemmeno la lotta per dei territori che sono già “occupati” è imperialismo. La falsità di questo aspetto della definizione salta agli occhi da sola... Citiamo un esempio tipico che permetterà di illustrare il carattere insostenibile della concezione luxemburghiana dell’imperialismo. Pensiamo all’occupazione della Ruhr da parte dei francesi (1923). Dal punto di vista della definizione di Rosa Luxemburg, qui non c’è nessun imperialismo perché:
1) qui mancano gli “ultimi territori”
2) non esiste alcun “territorio non capitalista”
3) il territorio della Ruhr possedeva già prima dell’occupazione un proprietario imperialista”.
(Da Nicolai Bucharin, Imperialismo e Accumulazione del capitale).
Quest’argomento è stato ripreso nella ingenua questione posta dalla CWO alla II Conferenza Internazionale a Parigi[6]: “Dove sono i mercati precapitalisti o di altra natura nella guerra tra Etiopia e Somalia per il deserto dell’Ogaden?” Una tale questione tradisce una comprensione piuttosto debole di ciò che dice la Luxemburg, nonché una pericolosa tendenza a vedere l’imperialismo non come “un fenomeno internazionale per natura, un tutto inseparabile” ma come “l'opera di un paese o di un gruppo di paesi”; in altri termini, una tendenza a vedere il problema dal punto di vista parziale ed individuale dei capitali nazionali.
Se Bucharin si fosse preoccupato di citare di più della sola prima frase del passaggio de “L’accumulazione del capitale” della Luxemburg, che noi abbiamo citato per intero, avrebbe mostrato che per la Luxemburg, l’esaurimento crescente della sfera non capitalista non significava la fine dell’imperialismo, ma l’intensificazione degli antagonismi imperialisti tra gli stessi Stati capitalisti. È questo che voleva dire la Luxemburg quando scriveva che: “l'imperialismo riconduce così la catastrofe, come forma specifica della sua esistenza, dalla periferia dello sviluppo capitalistico al suo punto di partenza.” (“Anticritica”). Nella fase finale dell’imperialismo, il capitale è immerso in un’orribile serie di guerre dove ogni capitale o blocco di capitali, incapace di estendersi “pacificamente” in delle zone nuove, è costretto ad impossessarsi dei mercati e dei territori dei suoi rivali. La guerra diventa il modo di sopravvivenza di tutto il sistema.
Certamente la Luxemburg pensava che la rivoluzione avrebbe messo fine al capitalismo molto prima che la sfera non capitalista fosse ridotto all’insignificante fattore qual è oggi. La spiegazione del modo con cui il capitalismo decadente ha prolungato la sua esistenza in assenza di fatto di questa sfera non capitalista non è argomento di questo testo[7]. Ma finché si considera l’imperialismo come un “prodotto dell’evoluzione mondiale del capitalismo ad un dato momento della sua maturazione”, “un fenomeno internazionale per natura, un tutt’uno inseparabile”, possiamo vedere la validità della definizione della Luxemburg. Essa necessita solamente di essere modificata nella misura in cui oggi le politiche imperialiste di conquista e di dominio sono determinate dalla quasi completa scomparsa di un mercato esterno, al posto di essere una lotta diretta per le vestigia precapitaliste. È importante sottolineare un cambiamento globale nell’evoluzione del capitalismo mondiale, l’esaurimento dei mercati esterni, che spinge ogni frazione particolare del capitale a comportarsi in modo imperialista.
Ritorniamo alle obiezioni di Bucharin: non è necessario cercare dei “territori non capitalisti” in ogni conflitto imperialista, perché è il capitale come un tutto, il capitale globale che necessita di un mercato esterno per la sua espansione. Per il capitalista individuale, i capitalisti e gli operai offrono un mercato perfettamente valido per le sue merci: allo stesso modo, per un capitale nazionale, una nazione capitalista rivale può essere utilizzata per assorbire il suo plusvalore. Tutti i mercati che si disputano gli Stati imperialisti non sono sempre stati precapitalisti, e lo sono sempre meno man mano che questi mercati si integrano nel capitale mondiale. Ogni lotta interimperialista non è una lotta diretta per i mercati, lungi da lì. Nella situazione attuale, la rivalità globale tra gli USA e l’URSS è condizionata dall’impossibilità di estendere progressivamente il mercato mondiale. Ma molto, e forse la maggior parte degli aspetti specifici delle politiche estere degli USA e dell'URSS, sono dirette verso il consolidamento di vantaggi strategico-militari sull’altro blocco. Per esempio, Israele non è un mercato per gli USA come non lo è Cuba per l'URSS. Queste posizioni sono mantenute principalmente per il loro valore strategico-politico, al prezzo di considerevoli spese da parte dei loro sostenitori. A scala più piccola, il saccheggio da parte del Vietnam dei campi di riso cambogiani non è che, appunto, un saccheggio. La Cambogia non costituisce pertanto un “mercato” per l’industria vietnamita. Ma il Vietnam è costretto a saccheggiare i campi di riso cambogiani perché la stagnazione industriale del suo settore agricolo non gli permette di produrre sufficientemente per nutrire la popolazione vietnamita. E la sua stagnazione industriale è determinata dal fatto che il mercato mondiale non può estendersi, è già diviso, e non ammetterebbe dei nuovi arrivati. Una volta ancora, queste domande trovano un senso solo partendo dal punto di vista globale.
Conclusioni politiche: l’imperialismo e l’impossibilità delle guerre nazionali
Le implicazioni politiche del dibattito teorico sull’imperialismo sono sempre state centrate su una domanda: l’epoca dell’imperialismo ha reso più probabile le guerre nazionali rivoluzionarie come affermava Lenin, o le ha rese impossibili, come affermava la Luxemburg? Per noi la storia ha in modo inconfutabile confermato l’affermazione della Luxemburg secondo la quale:
“La tendenza generale della politica capitalista attuale domina la politica degli Stati particolari come una legge cieca e potente, proprio come le leggi della concorrenza economica determinano rigorosamente le condizioni di produzione per ogni singolo imprenditore”, (Juniusbrochure, pag. 178).
E di conseguenza:
“Nell’epoca di questo imperialismo scatenato, non possiamo più avere guerre nazionali. Gli interessi nazionali sono solamente una mistificazione che ha lo scopo di mettere le masse popolari lavoratrici al servizio del loro mortale nemico: l'imperialismo” (Idem).
La prima citazione, in questa epoca, ha le seguenti applicazioni concrete - che costituiscono entrambe una verifica della seconda citazione:
a) Ogni nazione, ogni borghesia, è costretta ad allinearsi dietro uno dei blocchi imperialisti dominanti, e dunque a conformarsi e a piegarsi agli imperativi del capitalismo mondiale. Ancora una volta, secondo le parole della Luxemburg:
“le piccole nazioni, le cui classi dirigenti sono burattini e complici dei loro compagni di classe dei grandi Stati, sono solamente delle pedine nel gioco imperialista delle grandi potenze e proprio come le masse operaie delle grandi potenze, sono utilizzate come strumenti durante la guerra per essere sacrificate dopo la guerra agli interessi capitalisti”. (La crisi della Socialdemocrazia, JuniusBrochure, pag. 221).
Contrariamente alla speranza di Lenin secondo cui le rivolte delle “nazioni oppresse” avrebbero indebolito l’imperialismo, tutte le lotte nazionali della nostra epoca sono state trasformate in guerre imperialiste per l’irreversibile dominio delle grandi potenze; come riconosceva lo stesso Lenin, l’imperialismo significa che il mondo intero è diviso tra grandi Stati capitalisti: “in modo tale che nell’avvenire solo una spartizione è possibile, e cioè che i territori possono passare solamente da un “proprietario” ad un altro, al posto di passare dallo stadio di territorio libero a quello di “proprietario”. (L’imperialismo, fase suprema del capitalismo).
L’esperienza dei ultimi 60 anni ha mostrato che ciò che Lenin applicava ai “territori” può essere applicato anche a tutte le nazioni. Nessuna può scappare alla morsa imperialista. E ciò è particolarmente evidente oggi dove il mondo è stato diviso, dal 1945, in 2 blocchi imperialisti. Mentre la crisi si approfondisce ed i blocchi si rinforzano, diventa chiaro che anche i giganti capitalisti come il Giappone e la Cina devono sottoporsi umilmente ai diktat del loro padrone, gli USA. In una tale situazione, come possono ancora esserci illusioni sulla possibilità di “indipendenza nazionale" dei paesi cronicamente deboli quali sono le vecchie colonie?
b) Ogni nazione[8] è costretta a seguire una politica imperialista nei confronti dei suoi concorrenti. Anche quando sia subordinata ad un blocco dominante, ogni nazione è obbligata a tentare di sottometterne altre più piccole alla sua egemonia. La Luxemburg ha notato questo fenomeno durante la prima guerra mondiale, rispetto alla Serbia:
“Senza alcun dubbio, formalmente la Serbia conduce una guerra di difesa nazionale. Ma la sua monarchia e le sue classi dominanti sono piene di velleità espansioniste come lo sono le classi dominanti di tutti gli Stati moderni... Così la Serbia avanza oggi verso le coste adriatiche dove conduce un vero conflitto imperialista con l’Italia a spese degli albanesi". (“Juniusbrochure).
Lo stato di asfissia del mercato mondiale fa della decadenza l’epoca della guerra di ognuno contro tutti. Lungi dal potere sfuggire a questa realtà, le piccole nazioni sono costrette ad adattarsi completamente. Il militarismo estremo dei capitali più arretrati, le frequenti guerre locali tra gli Stati delle regioni sottosviluppate, sono le manifestazioni croniche del fatto che oggi “nessuna nazione può fare a meno” di una politica imperialista.
Secondo la CWO, “l’idea che tutti i paesi sono imperialisti contraddice l’idea dei blocchi imperialisti”. (Revolutionary Perspectives n°12.). Ma ciò è vero solo se si limita la discussione a priori affermando che le uniche potenze “indipendenti” sono imperialiste. E’ vero che ogni nazione deve inserirsi in uno o l’altro blocco imperialista, ma lo fa solamente perché è il solo modo di difendere i propri interessi imperialisti. I conflitti e le conflagrazioni all’interno di ogni blocco non sono pertanto eliminati (e possono anche prendere la forma di guerre aperte, come tra la Grecia e la Turchia nel 1974): questi sono subordinati solo a un conflitto superiore. I blocchi imperialisti, come tutte le alleanze borghesi, non possono essere realmente uniti o armoniosi. Vederli così, o almeno considerare le nazioni deboli di un blocco solamente come pedine nelle mani delle potenze dominanti, rende impossibile comprendere le contraddizioni reali ed i conflitti che sorgono in seno al blocco, e non solo tra le stesse nazioni deboli, ma tra i bisogni delle nazioni più deboli e quelli della potenza dominante. Il fatto che questi conflitti si regolano quasi sempre a favore dello Stato dominante, non li rende meno reali. Parimenti, ignorare le condotte imperialiste delle piccole nazioni rende praticamente impossibile spiegare le guerre tra questi Stati. Il fatto che queste azioni siano utilizzate invariabilmente per gli interessi dei blocchi non significa che siano prodotte puramente dalle decisioni segrete di Mosca o di Washington. Esse provengono da tensioni e difficoltà reali a livello locale, difficoltà che danno inevitabilmente luogo a una risposta imperialista da parte degli Stati locali. Non regge, per esempio, dire che le nazioni più piccole hanno solo delle tendenze imperialiste quando si vede il Vietnam invadere la Cambogia, rovesciare il suo governo, installare un regime che gli è sottomesso, saccheggiare la sua economia e fare appelli per la formazione di una “Federazione Indocinese” sotto l’egemonia vietnamita. Il Vietnam non ha solamente degli appetiti imperialisti, perché li soddisfa concretamente ingoiando i suoi vicini.
Se rigettiamo l’idea che questa politica sia l’espressione di uno Stato operaio che porta avanti una guerra rivoluzionaria, se non consideriamo il clan dominante in Vietnam come il protagonista di una lotta borghese storicamente progressiva per l’indipendenza nazionale, non vi è che una sola parola per una politica e degli atti di questo tipo: imperialismo.
Se tutte le “lotte nazionali” servono gli interessi di Stati imperialisti grandi o piccoli, allora è impossibile parlare di guerra di difesa nazionale, di liberazione nazionale o di movimenti rivoluzionari nazionali in questa epoca. È necessario rigettare ogni tentativo di reintrodurre la posizione dell’Internazionale Comunista sulla questione nazionale e coloniale. Così per esempio, il Nucleo Comunista Internazionalista[9] suggerisce che sarebbe possibile applicare le tesi dell’IC alle regioni sottosviluppate se esistesse un vero partito comunista:
“(...) nelle zone extrametropolitane, la missione di un partito comunista passa, obbligatoriamente, per il compimento di compiti che non sono “i suoi” (in termini immediati), anche “democratico-borghesi” (costituzione di uno Stato nazionale indipendente, unificazione territoriale ed economica, riforma agraria, nazionalizzazione”. (Note per un orientamento sulla questione nazionale e coloniale. Testi preparatori, vol.1, II Conferenza Internazionale, Parigi Nov.78).
La preoccupazione del NCI è che il proletariato e la sua avanguardia non possono essere indifferenti ai movimenti sociali delle masse oppresse in queste regioni, devono prendere la testa delle loro rivolte, congiungerle con la rivoluzione comunista mondiale: questo è perfettamente corretto. Ma per fare ciò, il proletariato deve anche riconoscere che l’elemento “nazionale” non viene dalle masse oppresse e sfruttate, ma dai loro oppressori e sfruttatori. Fin dall’istante in cui queste rivolte sono trascinate in una lotta per scopi “nazionali”, esse sono deviate nel campo della borghesia. Nel contesto attuale, il termine nazionale implica imperialismo:
“Da tempo l’imperialismo ha completamente sepolto il vecchio programma borghese democratico: l’espansione al di là delle frontiere nazionali, quel che siano le condizioni nazionali dei paesi annessi, è diventata la piattaforma della borghesia di tutti i paesi. Certo la parola nazione è rimasta, ma il suo contenuto reale e la sua funzione si sono tramutati nel loro contrario. Essa serve solo a mascherare, bene o male, le aspirazioni imperialiste, a meno che non sia utilizzata come grido di guerra, nei conflitti imperialisti, solo ed estremo mezzo ideologico per captare l’adesione delle masse popolari e far loro sostenere il ruolo di carne da cannone nelle guerre imperialistiche”. (Juniusbrochure)
Questa verità è stata confermata da tutti i sedicenti movimenti di “liberazione nazionale”, dal Vietnam all’Angola, dal Libano al Nicaragua. Prima e dopo il loro accesso al potere, le forze borghesi di liberazione nazionale agiscono invariabilmente come agenti dell’una o dell’altra delle grandi potenze imperialiste. Dal momento in cui si impossessano dello Stato, cominciano ad perseguire i loro scopi imperialisti. Dunque, la questione non è dirigere la rivolta delle masse “oppresse” in un “momento” della lotta nazionale democratica borghese, ma di condurle fuori dal campo nazionale borghese, sul campo proletario della guerra di classe. “Trasformare la guerra imperialista in guerra civile” è oggi la parola d’ordine del proletariato in tutte le parti del mondo.
Il carattere imperialista attuale di tutte le frazioni della borghesia e di tutti i loro progetti politici non può essere invertito, neanche momentaneamente, neanche dal migliore partito comunista del mondo. È una realtà storica profonda, basata su un’evoluzione sociale obiettivamente determinata.
“L’era delle guerre imperialiste e delle rivoluzioni proletarie non oppone più Stati reazionari e Stati progressisti in guerre in cui si forgi, con il concorso delle masse popolari, l’unità nazionale della Borghesia, in cui si edifichi la base geografica e politica che serve da trampolino alle forze produttive.
Non oppone più la Borghesia alle classi dominanti delle colonie nelle guerre coloniali fornendo aria e spazio alle forze capitaliste di produzione, già potentemente sviluppate.
Ma questa epoca oppone Stati imperialisti, entità economiche che si dividono e si ridividono il mondo, incapaci tuttavia di comprimere diversamente i contrasti di classe e le contraddizioni economiche se non operando, attraverso la guerra, una gigantesca distruzione di forze produttive inattive e di innumerevoli proletari rigettati dalla produzione.
Dal punto di vista dell’esperienza storica, si può affermare che il carattere delle guerre che scuotono periodicamente la società capitalista, così come la politica proletaria corrispondente, devono essere determinati non dall’aspetto particolare e spesso equivoco, sotto il quale queste guerre possono apparire, ma attraverso il loro ambito storico generato dallo sviluppo economico e dal grado di maturità degli antagonismi di classe”. (Il problema della guerra, 1935, Jehan. Sottolineato da noi).
Quando concludiamo che nel contesto storico attuale tutte le guerre, tutte le politiche di conquista, tutte le relazioni concorrenti tra Stati capitalisti hanno una natura imperialista, non siamo in contraddizione con ciò che affermava a ragione Bucharin, e cioè che per giudicare il carattere di una politica di guerra e di conquista bisogna partire dalla questione: “Quali rapporti di produzione sono rafforzati o estesi dalla guerra”. Noi non indeboliamo la precisione del termine “imperialismo” allargando il suo impiego. Perché, se i marxisti identificavano le guerre nazionali a delle guerre al servizio di una funzione progressiva per l’estensione dei rapporti di produzione in un’epoca in cui questi servivano ancora da base per lo sviluppo delle forze produttive, essi opponevano le guerre di questo tipo alle guerre imperialiste - guerre storicamente reazionarie in quanto servono a mantenere i rapporti capitalisti quando questi sono diventati un ostacolo ad ogni sviluppo ulteriore. Oggi, tutte le guerre della borghesia e tutte le politiche estere mirano a preservare un modo di produzione decadente, putrido: si possono dunque qualificare tutte a giusta ragione come imperialiste. In effetti, uno dei tratti più caratteristici della decadenza del capitalismo è che, mentre nella sua fase ascendente, “la guerra ha per funzione di assicurare un allargamento del mercato, in vista di una più grande produzione di mezzi di consumo, nella fase (decadente) la produzione è essenzialmente imperniata sulla produzione di mezzi di distruzione, cioè orientata verso la guerra. La decadenza della società capitalista trova la sua eclatante espressione nel fatto che da guerre promotrici di sviluppo economico (periodo ascendente), si passa al fatto che l’attività economica è limitata essenzialmente alla guerra”. (Gauche Communiste de France, Rapporto sulla situazione internazionale, 1945).
Sebbene lo scopo della produzione capitalista resti la produzione di plusvalore, la subordinazione crescente di tutta l’attività economica alle necessità della guerra rappresenta una tendenza del capitale a negarsi. La guerra imperialista nata dalla corsa ai profitti della borghesia assume una dinamica durante la quale le leggi della redditività e dello scambio sono scalzate sempre più. I calcoli dei profitti e delle perdite, i rapporti normali di vendita e di acquisto sono lasciati ai margini della folle corsa del capitale verso la sua autodistruzione. Oggi, la “soluzione” che offre il capitale all’umanità, logica del suo auto-cannibalismo, è un olocausto nucleare che potrebbe distruggere tutta la specie umana. Questa tendenza all’auto-negazione del capitale nella guerra è corredata da una militarizzazione universale della società: un processo che appare in tutta la sua ampiezza nel Terzo Mondo e nei regimi stalinisti ma che, se la borghesia ha la via libera, diventerà presto anche una realtà per gli operai delle “democrazie” occidentali. La subordinazione totale della vita economica, politica e sociale ai bisogni della guerra: questa è oggigiorno la terribile realtà dell’imperialismo in tutti i paesi. Più che mai, la classe operaia mondiale si trova davanti all’alternativa posta da Rosa Luxemburg nel 1915:
“O il trionfo dell’imperialismo e la distruzione di ogni cultura come nell’antica Roma, lo spopolamento, la desolazione, la degenerazione, un immenso cimitero, o la vittoria del socialismo, cioè la lotta cosciente del proletariato internazionale contro l’imperialismo”. (Junius brochure)
C.D.Ward
[1] Per un’argomentazione più dettagliata vedi gli articoli Nazione o Classe, i comunisti e la questione nazionale in Rivoluzione Internazionale n°7 e 8.
[2] Qui dobbiamo correggere una cattiva comprensione della CWO quando rigetta l’idea che “la visione della Luxemburg sulla questione nazionale ha per base la sua visione economica: la prima precede la seconda di più di 10 anni”.(Revolutionary Perspective n°12). In tutta evidenza, la CWO non è informata di questo passaggio scritto dalla Luxemburg nel 1898 e pubblicato nella prima edizione di “Riforma o Rivoluzione”:
“Quando esaminiamo la situazione economica attuale, dobbiamo ammettere certamente che non siamo entrati ancora nella fase di piena maturità capitalista che è prevista dalla teoria di Marx delle crisi periodiche. Il mercato mondiale è ancora in una fase di espansione. Dunque, benché non siamo più allo stadio di queste improvvise apparizioni di nuove zone di apertura all’economia che avevano luogo di tanto in tanto fino agli anni 1870, e con esse, delle prime crisi per così dire di “giovinezza” del capitalismo, non siamo ancora a questo grado di sviluppo, di piena espansione del mercato mondiale, che produrrà delle collisioni periodiche tra le forze produttive ed i limiti del mercato o, in altri termini, le crisi reali di un capitalismo pienamente sviluppato... Una volta che il mercato mondiale è più o meno pienamente esteso, in modo tale che non possano più esserci aperture brutali di mercati, la crescita incessante della produttività del lavoro prima o poi produce queste collisioni periodiche tra le forze produttive ed i limiti del mercato che diventano sempre più violente ed acute nel loro susseguirsi”, (citato da Sternberg in Capitalismo e Socialismo, tradotto dall’inglese da noi).
[3] Vedi “Teorie economiche e lotta per il socialismo” Revue internationale n°16.
[4] Communist Workers’ Organisation che pubblica Revolutionary Perspectives: c/o 21 Durham St. Pelaw, Gateshead, Tyne and Wear, NE10 OXS, GB.
[5] Vedi Marxismo e teorie delle crisi, in Revue Internationale n°13.
[6] Conferenza dei Gruppi della Sinistra Comunista
[8] Quando diciamo “ogni nazione è imperialista”, è chiaro che facciamo una generalizzazione e che, come in ogni generalizzazione, delle eccezioni possono essere trovate, degli esempi di questo o quello Stato che non ha manifestamente commesso dei crimini imperialisti; ma, tali eccezioni non smentiscono l’insieme. Né tanto meno si può schivare il problema con domande stupide del tipo “Dov’è l’imperialismo delle Seychelles, di Monaco, di Andorra”? Ciò che c’interessa, non sono i paradisi della finanza o altri scherzi della storia, ma dei capitali nazionali che, sebbene non siano indipendenti, hanno un’esistenza palpabile ed un’attività sul mercato mondiale!
[9] Che pubblica Partito e Classe: c/o P.Turco Stretta Matteoti 6, 33043 Cividale, Italie.
Nove mesi dopo il terremoto che ha devastato Haiti, l’incuria della borghesia non poteva evidentemente limitarsi agli appetiti imperialisti che la catastrofe non ha mancato di sviluppare, alle false promesse di aiuto finanziario, alle centinaia di migliaia di morti e al sovraffollamento spaventoso di milioni di vittime nei campi sovraffollati[1]. Dopo la vera e propria ondata di quasi 10.000 organizzazioni non governative[2] piombate dopo il terremoto e di questi innumerevoli ricercatori di scoop della stampa e del mondo politico, dopo tutto l’ipocrita e putrido battage strappalacrime dei dirigenti del mondo intero, non è stato fatto nulla di serio. Per mancanza di mezzi a disposizione che dipende dalla mancanza del benché minimo interesse per questa popolazione abbandonata alla povertà e al banditismo più spietati. Mentre tutti gli esperti del mondo annunciavano già in aprile che il peggio doveva ancora venire con la stagione delle piogge con una situazione sanitaria che sarebbe divenuta catastrofica, con l’improvvisa comparsa di epidemie, la borghesia internazionale ha … aspettato la pioggia!
Questa epidemia annunciata di colera avrà delle conseguenze drammatiche. Ormai da diverse settimane la malattia si diffonde con una rapidità e un tasso di mortalità estremamente elevati. Al momento della stesura di questo articolo, il governo locale ha denunciato più di 330 vittime e migliaia di infetti, ma in questo disgraziato paese le stime sono impossibili da stabilire e molti indici fanno sospettare un contagio in realtà molto più vasto[3].
Le continue e ipocrite lamentazioni della “comunità internazionale” sono attualmente piuttosto rarefatte, in netto contrasto con il nauseante show mediatico organizzato subito dopo il terremoto. E per una buona ragione! C’è il rischio che venga fuori tutta l’inconseguenza della borghesia di fronte alle catastrofi e al dolore umano. E’ perciò che occorre denunciare come, a tutti i livelli e senza alcuna ambiguità, la borghesia sia direttamente responsabile di questo nuovo disastro.
Il colera è una malattia connessa alle condizioni di vita malsane di cui sono vittime gli Haitiani. Si sviluppa attraverso un batterio presente soprattutto in acque contaminate da feci infette. In un paese dove meno del 3% delle macerie provocate da un terremoto di nove mesi prima è stato evacuato, si può facilmente immaginare la qualità e l’igiene delle acque che la popolazione è costretta a consumare. Il problema è che la ricostruzione di un paese significa risorse materiali e finanziarie che, anche se promesse da una borghesia alla ricerca di influenza e dei mercati, non sono state mai devolute: più del 70% delle sovvenzioni annunciate non sono state mai versate.
Peggio ancora, la diffusione dei batteri è favorita dai flussi migratori caotici a causa delle migliaia di sfratti da parte di proprietari impazienti di recuperare i loro terreni occupati. La legge del profitto farà sempre della borghesia una classe di assassini senza scrupoli.
V. (30 ottobre)
[1] Cfr. l’articolo “Ad Haiti, l’alibi dell’umanitarismo” in World Revolution n. 409.
[2] Come diceva un funzionario dell’ONU, “Haiti è diventata una Parigi-Dakar dell’umanitarismo.
[3] “Secondo i dati del ministero della Sanità, sono oltre 1000 i morti mentre i contagiati sono più di 15mila. Nell'isola devastata a gennaio dal terremoto e soprattutto nella capitale, dove un milione e mezzo di sfollati vivono in accampamenti di fortuna, si teme che l’epidemia possa colpire fino a 200mila persone.” (www.tgcom.mediaset.it/mondo/articoli/articolo495874.shtml [10], 15 /11/2010).
Ripubblichiamo qui di seguito un articolo scritto nel 2008 dalla nostra sezione in Francia ma che rimane oggi pienamente attuale, sia rispetto alle recenti lotte in Francia che per il resto del mondo. Esso tratta infatti un argomento scottante e cruciale, quello dei blocchi e delle occupazioni. L’attuale movimento in Francia (ma non è il solo) è attraversato da una questione centrale: Come lottare? Quali metodi di lotta possono permettere di stabilire un rapporto di forza a nostro favore? Il blocco e l’occupazione di posti strategici (come le stazioni o le raffinerie) sembra presentarsi attualmente tra numerosi scioperanti in Francia come la risposta più adeguata. Ma lo è veramente?
L’autunno scorso, nel momento più alto del movimento contro la legge LRU[1], 36 università sono state “perturbate” (per riprendere la terminologia della stampa) da sbarramenti selettivi, blocchi e occupazioni. Questi metodi hanno spesso suscitato lunghi e appassionati dibattiti nelle assemblee generali (AG). Lasciamo da parte tutti quei collettivi contrari ai blocchi che, in nome della sacro-santa “libertà individuale” e del “diritto di studiare”, sostenevano in realtà le “riforme necessarie” del governo. Molto più interessanti sono state le discussioni tra quegli studenti che, rifiutandosi di subire degli attacchi senza reagire, si sono chiesti collettivamente come lottare. Bloccando le facoltà? Completamente? Con degli sbarramenti selettivi? Occupando anche i locali?
Tutte queste questioni non riguardano soltanto i giovani e gli studenti. Nel corso dello sviluppo delle lotte questioni simili si porranno poco a poco a tutta la classe operaia: come portare avanti lo sciopero? Bisogna fare un picchetto? In che modo? Bisogna occupare la fabbrica?
Quest’articolo non ha la pretesa di rispondere a tutte queste domande con una ricetta magica pronta per l’uso e valida sempre poiché ad ogni nuova lotta corrispondono condizioni particolari e quindi scelte diverse! Semplicemente, basandosi su alcune esperienze di blocchi ed occupazioni, è possibile comprendere fino a che punto la volontà di estendere lo sciopero è assolutamente vitale e, al contrario, come l’isolamento è sempre una trappola mortale.
L’unità e la solidarietà al centro delle preoccupazione degli studenti
In occasione del movimento contro il CPE[2], nella primavera del 2006, la questione del blocco era già onnipresente. In realtà, questo tipo di movimento non può esistere realmente senza “perturbare” almeno un poco il regolare funzionamento delle università. Altrimenti chi noterebbe l’assenza - anche numerosa - degli studenti ad un corso? Chi si preoccuperebbe nel vedere le aule vuote? Forse neppure i docenti!
Ma al di là di questa semplice necessità, nel 2006 e nel 2007, bloccando le facoltà, alcuni studenti esprimevano soprattutto un profondo senso di solidarietà ed un bisogno di unità. “Non blocchiamo l’università per piacere o per disinteresse per i corsi! Lo sciopero è il migliore strumento per farci ascoltare. Con lo sciopero si rompe la logica abitudinaria del lavoro e si recupera tempo per organizzarsi democraticamente tutti insieme. Ma perché lo sciopero non resti un atto isolato e minoritario, è importante anche bloccare. E’ questo che permette a ognuno di non andare a lezione e di recuperare quindi del tempo libero per iniziare a portare avanti un’attività per la mobilitazione. Inoltre il blocco permette agli studenti che lo desiderano di liberarsi dalla pressione dei corsi o dagli esami per poter partecipare attivamente al movimento senza venirne penalizzati. Il blocco è lo strumento democratico che permette a tutti di mobilitarsi!” (Dal blog: antilru.canalblog.com/archives/le_blocage/index.html). Fermare i corsi ha permesso, ad esempio, ai borsisti di andare alle AG ed alle manifestazioni senza temere di perdere la loro risorsa economica per “assenza”, come esprime coscientemente ancora uno studente ai giornalisti di Libération il 12 novembre 2007: “Se non ci sono i blocchi, non c’è movimento. Altrimenti gli studenti borsisti non andranno a manifestare.”
Noi siamo a chilometri di distanza dalle accuse odiose lanciate da questi rispettabili presidi d’università, e diffuse da tutti i mass media, che qualificano gli studenti in lotta come “ Khmer rossi” e “delinquenti”. La borghesia può anche sputare tutto il suo veleno, ma dietro le azioni di blocco non c’era alcuna volontà d’imporre con la forza la posizione minoritaria di alcuni elementi esuberanti (la forza fisica era d’altronde piuttosto dal lato dei presidi, come documentato dal numero di feriti in seguito agli interventi delle CRS) e di chiudere gli studenti nelle “loro” facoltà. Al contrario, queste traducevano una volontà d’azione cosciente e collettiva verso l’allargamento della lotta che si esprimeva nella volontà di un dibattito il più ampio e vivente possibile. Così, molto più dei blocchi in sé, é questo stato di spirito che li animava che ha conferito al movimento contro il CPE in particolare tutta la sua vitalità e la sua forza. Come scrivevamo già nel maggio 2006 nelle nostre Tesi sul movimento studenti: “Lo sciopero delle università è cominciato con i blocchi. Il blocco era un mezzo che si sono dati gli studenti più coscienti e combattivi per manifestare la loro determinazione e soprattutto per far in modo che alle assemblee generali partecipasse il più alto numero di colleghi, ed effettivamente una proporzione considerevole di quelli che non avevano compreso il significato degli attacchi del governo o la necessità di combatterli è stata convinta dal dibattito e dagli argomenti sviluppati.”
La volontà di estendere la lotta è un elemento vitale per la classe operaia
La forza della classe operaia si rivela in piena luce quando sviluppa un profondo sentimento di unità e di solidarietà. E’ per questo che ogni metodo di lotta deve essere animato da una chiara volontà di estendere lo sciopero. Seguendo questa via, gli operai del grande complesso di tessitura e filatura Mahalla al-Kubra’s Misr, situato a nord del Cairo in Egitto, sono riusciti a condurre, negli anni 2006-2007, una lunga lotta finalmente vittoriosa. Un episodio di questo movimento illumina particolarmente il modo in cui questi operai hanno occupato la loro fabbrica per proteggersi della repressione selvaggia dello Stato egiziano.
Il 7 dicembre 2006, per protestare contro il mancato pagamento dei premi promessi, 3000 operaie lasciano il loro posto di lavoro e si dirigono verso le sezioni dove i loro colleghi maschi non avevano ancora fermato le macchine. Le operaie allora dicono cantando: “Dove sono gli uomini? Ecco le donne!” Così, un po’ alla volta, 10.000 operai si trovano raccolti sulla piazza di Mahalla’s Tal’at Harb, proprio di fronte all’entrata della fabbrica. La risposta della borghesia egiziana non si fa attendere: la polizia antisommossa si spiega rapidamente attorno alla fabbrica e nella città. Di fronte a questa minaccia di repressione, alcune decine di operai scelgono allora di occupare la fabbrica. Ecco dunque 70 operai apparentemente presi in trappola. Sicura del fatto suo, la sera stessa la polizia antisommossa si precipita alle porte della fabbrica. Con 70 operai contro tutta uno schieramento di polizia il combattimento era ovviamente perso in partenza. Ma questi operai sanno in realtà di non essere soli. Così cominciano a colpire fortemente sulle sbarre di acciaio. “Svegliammo tutti nel complesso e nella città. I nostri cellulari uscirono dalle tasche per chiamare le nostre famiglie ed i nostri amici all’esterno, chiedendo loro di aprire le finestre e di fare sapere alla polizia che stavano osservando. Chiamammo tutti gli operai che conoscevamo per dire loro di precipitarsi verso la fabbrica [...]. Più di 20.000 operai arrivarono”[3]. I bambini delle scuole elementari e gli studenti delle scuole superiori vicine scendono anche loro per la strada in sostegno agli scioperanti. I servizi di sicurezza sono paralizzati. Finalmente al quarto giorno di occupazione della fabbrica, gli ufficiali del governo, impauriti, offrono un premio di 45 giorni di salario e danno l’assicurazione che la società non sarà privatizzata[4].
Scegliendo di occupare la loro fabbrica, questi 70 operai avrebbero potuto trovarsi incastrati in una vera trappola, alla mercé delle forze dell’ordine. Ma questo pugno di operai che si sono chiusi nella fabbrica non hanno tentato di resistere ad un assedio, soli contro tutti e “fino alla fine”. Al contrario essi hanno utilizzato questa occupazione come un punto di convergenza, chiamando i loro fratelli di classe a raggiungere la lotta. Molte settimane di lotta avevano mostrato loro che una solidarietà di classe si forgia poco a poco, che dei legami si stavano tessendo e che essi potevano dunque contare sul sostegno “di 20.000 operai”. E’ questa fiducia gradualmente sviluppata che ha permesso loro di osare chiamare tutti gli operai che conoscevano “per dire loro di precipitarsi verso la fabbrica”. L’occupazione della fabbrica non fu che un mezzo fra gli altri per condurre questa lotta, la dinamica generale di estensione del movimento essendo l’elemento determinante.
L’isolamento è sempre una trappola mortale
Nessun metodo di lotta costituisce in sé una panacea. I blocchi e le occupazioni possono essere, secondo le circostanze, completamente inadatti. Peggio ancora, nelle mani dei sindacati sono sempre utilizzati per dividere gli operai e condurli alla sconfitta. Lo sciopero dei minatori del 1984, in Gran Bretagna, ne è un tragico esempio. All’epoca il proletariato inglese, il più vecchio del mondo, è anche uno dei più combattivi. Detiene ogni anno l’incontrastato record del numero di giorni di sciopero! Per due volte, lo Stato è anche costretto a ritirare i suoi attacchi. Nel 1969 e nel 1972, i minatori riescono infatti a creare un rapporto di forza a favore della classe operaia imprimendo allo sciopero una dinamica d’estensione che lo fa uscire dalla logica settoriale o corporativa. A gruppi di decine o anche di centinaia, si recano in autobus nei porti, nelle acciaierie, nei depositi di carbone, nelle centrali, per bloccarle e convincere gli operai del posto a raggiungerli nella lotta. Questo metodo diverrà celebre sotto il nome di flying pickets (“picchetti volanti”) e simboleggerà la forza della solidarietà e dell’unità operaie. I minatori paralizzano così tutta l’economia interrompendo quasi completamente la produzione, la distribuzione e la combustione del carbone, fonte di energia allora indispensabile alle fabbriche.
Arrivando al potere nel 1979, la Thatcher pensa bene di rompere le reni a questa classe operaia non abbastanza docile per i suoi gusti. Per fare ciò, il suo piano è semplice: isolare gli elementi più combattivi, i minatori, in uno sciopero lungo e duro. Per mesi la borghesia inglese si prepara al braccio di ferro, accumulando degli stock di carbone per fare fronte al rischio di penuria. Nelle sue memorie, la Thatcher riporta: “Spettò soprattutto a Nigel Lawson, che era diventato ministro dell’Energia nel settembre 1981, di ammassare - regolarmente e senza provocazione - gli stock di carbone che avrebbero permesso al paese di resistere. Si sarebbe dovuto ascoltare spesso la parola “resistere” nel corso dei mesi seguenti.” Quando tutto è pronto, nel marzo 1984, vengono brutalmente annunciati 20.000 licenziamenti nel settore delle miniere di carbone. Come atteso, la reazione dei minatori è fulminea: fin dal primo giorno di sciopero, 100 pozzi su 184 sono chiusi. Ma il sindacato impone subito una morsa di ferro intorno agli scioperanti facendo di tutto per evitare ogni “rischio” di “contaminazione”. I sindacati dei ferrovieri e dei marittimi sostengono platonicamente il movimento, in altre parole, lasciano i minatori a sbrigarsela da soli. Il potente sindacato dei portuali si accontenta di due appelli allo sciopero tardivi, uno a luglio quando numerosi pozzi sono chiusi per le vacanze e l’altro in autunno, che però viene revocato alcuni giorni più tardi! La TUC (la centrale sindacale nazionale) rifiuta di sostenere lo sciopero. I sindacati degli elettricisti e dei siderurgici addirittura vi si oppongono. In breve, i sindacati sabotano attivamente ogni possibilità di lotta comune. Ma soprattutto, il sindacato dei minatori, la NUM (Unione Nazionale dei Minatori) completa questo sporco lavoro chiudendo i minatori in occupazioni sterili ed interminabili (più di un anno!) dei pozzi di carbone. Tenuto conto degli stock ammassati, la paralisi della produzione di carbone questa volta non fa paura alla borghesia, che teme solo la possibilità di un’estensione della lotta ai vari settori della classe operaia. Occorre dunque a tutti i costi evitare che i minatori inviino dei picchetti volanti dappertutto per discutere e convincere gli operai di altri settori a raggiungerli nella lotta. La NUM dispiega tutta la sua energia per contenere lo sciopero nella sola industria mineraria. Per evitare che dei picchetti volanti siano inviati alle porte delle fabbriche vicine, tutta l’attenzione degli operai viene focalizzata sulla necessità di occupare i pozzi, tutti i pozzi, null’altro oltre ai pozzi, a tutti i costi. Ma al tempo stesso la NUM si è ben guardata dal chiamare allo sciopero nazionale, lasciando ad ogni regione decidere se entrare o no in lotta. Così alcuni pozzi continuano a funzionare, il che permette alla stessa NUM di chiamare questi pozzi ancora in attività “covi di crumiri”. Da marzo 1984 a marzo 1985, per un anno intero, la vita di migliaia di operai e delle loro famiglie saranno polarizzate su questa sola questione di occupare le miniere e di bloccare i pochi pozzi ancora in attività. Bloccare la produzione del carbone diventa, sotto il bastone sindacale, l’obiettivo centrale ed unico, una questione in sé. I picchetti volanti hanno del piombo nelle ali; anziché “volare” di fabbrica in fabbrica, restano fermi nello stesso posto, dinanzi agli stessi pozzi, giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, quindi mese dopo mese. Il solo risultato è l’esacerbazione delle tensioni tra chi sciopera e chi no, che porta a volte finanche a degli scontri tra minatori. A questo punto isolati dalla loro classe, divisi al loro interno, i minatori diventano una preda facile. Grazie a questo sabotaggio sindacale, a queste occupazioni sterili ed interminabili, a questi picchetti volanti che di volante conservano solo il nome, la repressione poliziesca può infine abbattersi con tutta la sua violenza. Il bilancio dello sciopero dei minatori del 1984 sarà di 7000 feriti, 11.291 arresti e 8392 persone portate in giudizio. Ma peggio ancora, questa sconfitta sarà la sconfitta di tutta la classe operaia in quanto il governo Thatcher potrà procedere ad attaccare in grande stile tutti gli atri settori.
Certamente nella lotta di classe non esistono ricette. Qualsiasi metodo di lotta (blocco, picchetto, occupazione …) può a volte essere utile allo sviluppo del movimento, altre essere un elemento di divisione. Una sola cosa è certa: la forza della classe operaia risiede nella sua unità, nella sua capacità di sviluppare la sua solidarietà e dunque di estendere la lotta a tutti i settori. E’ questa dinamica di estensione che fa realmente paura alla borghesia e che permette di individuare, nelle grandi linee, alcune lezioni essenziali dalle esperienze di lotta del proletariato:
Qualunque sia il ruolo che può svolgere un'occupazione di fabbrica o un picchetto a un certo momento d’uno sciopero, è comunque nella strada che gli operai possono raccogliersi in massa! Non è un caso se nel maggio 2006, i metallurgici di Vigo, in Spagna, che occupavano la loro fabbrica e facevano fronte ad una repressione poliziesca violenta, hanno deciso di organizzare le loro assemblee generali e le manifestazioni nelle vie del centro città. Qui, nella strada, gli operai di tutti i settori, i pensionati, i disoccupati, le famiglie operaie … tutti hanno potuto raggiungere gli scioperanti e manifestare attivamente, attraverso la lotta e l’unità nella lotta, la loro solidarietà di classe!
Pawel (24 gennaio 2008)
[1] La legge LRU (Libertà e Responsabilità delle Università) aveva lo scopo di ridurre i costi statali per l’insegnamento superiore concentrando “gli sforzi finanziari” su qualche facoltà di elite e trasformando così tutte le altre università in facoltà spazzatura.
[2] CPE: Contratto di Primo Impiego.
[3] Testimonianza di due operai della fabbrica, Muhammed Attar e Sayyid Habib, raccolti da Joel Beinin e Hossam el-Hamalawy e pubblicati sotto il titolo “Gli operai del tessile egiziano si confrontano con il nuovo ordine economico”, sui siti “Middle East report Online” e libcom.org.
[4] Per ulteriori informazioni su questa lotta, che durò molti mesi, leggere il nostro articolo “Scioperi in Egitto: la solidarietà di classe, punta di diamante della lotta”, sul nostro sito web www.internationalism.org [11].
Siamo di Opposizione Operaia, un’organizzazione di lavoratori in Brasile, e vogliamo esprimere attraverso questa presa di posizione la nostra solidarietà alla lotta della popolazione lavoratrice in Francia. Questa è una lotta dei salariati francesi, degli studenti, dei disoccupati, del giovane che arriva sul mercato del lavoro, dei pensionati, ecc. Ben più che una lotta contro la riforma delle pensioni, si tratta di una dimostrazione della resistenza dei lavoratori del mondo intero contro la soppressione dei nostri diritti, è una dimostrazione di forza e di coraggio per mostrare ai governi ed ai padroni che non possiamo accettare che si degradino le nostre condizioni di vita.
Oggi produciamo molto di più rispetto al passato, siamo all’origine della creazione di una ricchezza molto più importante che prima e non possiamo lasciarci abbindolare dal discorso che dobbiamo lavorare più a lungo perché non ci sarebbero i soldi per pagarci. Più anni di lavoro significa meno posti disponibili per i giovani che arrivano sul mercato del lavoro, dunque più disoccupati oggi e domani. L’importanza di questa lotta sta nel fatto essenziale che noi non possiamo tollerare questo.
E’ con molta gioia che in Brasile vediamo che, nonostante tutta la violenza con la quale lo Stato francese ha represso il movimento fino ad oggi, nonostante tutte le manovre dell’Intersindacale e dei suoi sindacati collaborazionisti, il movimento continua con forza mentre l’agitazione si sviluppa. E’ ancora con gioia che vediamo come, nonostante le manipolazioni dei mass media in Francia e nel mondo, questo nuovo movimento di lotta dei lavoratori in Francia continua a ricevere il sostegno della popolazione di questo paese.
Sì, è importante politicizzare questo movimento. Come sono importanti le riunioni e le discussioni delle Assemblee Generali che possono aver luogo dopo le manifestazioni di massa. È importante rivolgersi al movimento, favorire la solidarietà tra i vari settori, tra le varie generazioni, lottare contro la miseria che opprime tutti i lavoratori del mondo, contro la precarietà che ci perseguita in tutti gli angoli del pianeta, contro lo sfruttamento al quale siamo sottoposti in modo crescente.
È importante soprattutto essere coscienti che gli attacchi massicci che subiscono i lavoratori del mondo intero fanno parte della politica del capitale per salvare il suo Stato, le sue imprese ed il suo sistema capitalista. E’ la crisi del capitalismo e l’indebitamento crescente degli Stati a richiedere le misure draconiane delle quali noi siamo oggetto. L’aumento della disoccupazione, la diminuzione dei salari, la precarietà crescente del lavoro dei giovani ne sono l’espressione. Aumentare il numero degli anni necessari per andare in pensione non fa che aggravare tutte queste condizioni.
L’acuirsi delle contraddizioni tra borghesia e proletariato (sia dei genitori che dei figli di questa popolazione sfruttata) evidenzia che scontri come questo potranno in futuro solo intensificarsi. Noi, lavoratori di tutto il mondo, dobbiamo prendere esempio dai compagni francesi che si preparano a “prendere in mano la lotta”. Reagire agli attacchi ci rende la nostra dignità. Cercare di dare una direzione al movimento significa anche rifiutare di lasciarsi trasformare in massa di manovra nelle mani dei sindacati e dei politici di professione.
Non inganniamoci, arriveranno altri attacchi. La forza della nostra resistenza può ora ispirarsi a quella del proletariato francese. E’ necessario reagire e dobbiamo assolutamente farlo. Dobbiamo saper sviluppare e portare avanti la lotta. Dobbiamo rispondere agli attacchi contro le nostre vite, non soltanto per impedire un’offensiva, quella del momento, ma per mostrare chiaramente che non potremo tollerare la soppressione delle nostre conquiste storiche, del nostro lavoro, dei nostri salari, delle nostre pensioni.
È ovvio che molti dei nostri problemi non saranno risolti nel quadro della società capitalista e la nostra prospettiva deve sempre essere quella del suo superamento. Finché questo non sarà realizzato, faremo in modo di difendere le nostre vite, i nostri figli, il nostro futuro e quello delle nuove generazioni. Per questo salutiamo ancora una volta la lotta della classe operaia francese che è la lotta del proletariato mondiale.
Oposição Operária (Brasile) - 26 ottobre 2010
LC e la Sinistra Comunista
In realtà Lotta Comunista è il nome del giornale che pubblica, ma il vero nome di questo raggruppamento è Gruppi leninisti della Sinistra Comunista. LC non ha mai spiegato in che cosa consiste il suo richiamo politico e teorico alla Sinistra Comunista. Nella sua stampa non abbiamo mai ritrovato richiami alle esperienze di quelle minoranze che in vari paesi, come l’Italia, la Germania, l’Olanda, il Belgio, la Russia, il Messico, la Francia, scontrandosi con le forze della repressione capitalista, hanno cercato di mantenere il filo rosso della continuità marxista.
Se LC evita accuratamente ogni riferimento alle posizioni della sinistra comunista pur continuando a fregiarsi del suo nome è perché le origini di questa organizzazione sono agli antipodi politici della Sinistra Comunista. Sono infatti radicate nella cosiddetta “Resistenza” all’occupazione dell’Italia da parte delle truppe tedesche durante la II guerra mondiale. Alcuni partigiani, fra cui Cervetto, Masini e Parodi, aderiscono in seguito al movimento anarchico costituendo i Gruppi Anarchici di Azione Proletaria (GAAP) nel febbraio 1951 aventi come organo di stampa “L’Impulso”. Il Convegno di formazione dei GAAP, tenuto a Genova-Pontedecimo il 28 febbraio 1951, è considerato dalla stessa LC il punto di partenza per tutta l’organizzazione quale la conosciamo oggi, tanto che il 28 febbraio 1976 ha luogo in Genova-Rivarolo una manifestazione commemorativa del 25° anniversario. In quei giorni la città di Genova è tappezzata da manifesti con l’indicazione del luogo e dell’ora della manifestazione e con la scritta in caratteri cubitali “Lotta Comunista – 25 anni”; nient’altro.
E’ più che evidente dunque che il richiamo alla Sinistra Comunista da parte di LC è un puro falso storico.
LC e il marxismo
Per LC il marxismo è qualcosa di metafisico, sospeso al di sopra della società, delle classi e della lotta fra di esse e non, invece, l’espressione del movimento reale di emancipazione del proletariato, ma una rivelazione, una religione – fatta passare come scienza da applicare – distaccata dalla realtà e dalla materialità del proletariato nel suo rapporto contraddittorio col capitale. Il “marxismo” di LC non è che il prodotto del pensiero di ideologi fondato su delle speculazioni filosofiche. Per darsi una certa credibilità, Lotta Comunista appiccica alle proprie elucubrazioni l’aggettivo “scientifico” e crede così di salvarsi l’anima: abbiamo allora il partito come luogo dove nasce e vive la scienza della rivoluzione, abbiamo il programma rivoluzionario “scientifico”, la “scienza proletaria”. Lo sviluppo della pretesa scienza marxista avverrebbe dunque nel cervello dei pensatori, sia pure armati di “scienza rivoluzionaria” e non come teoria espressa dal proletariato nel suo movimento antagonista alla società capitalista. Oggi questo corpus immutabile della “scienza marxista” sarebbe in dote a Lotta Comunista che se ne serve per sviluppare se stessa al di fuori delle oscillazioni del movimento reale e al di fuori dei flussi e riflussi della lotta di classe.
LC e l’analisi della società
Per LC, la crisi economica non esiste, anzi sarebbe una storiella inventata dai padroni per attaccare la classe operaia. Nel 1974 LC aveva addirittura stampato un opuscolo dal titolo significativo “Ma quale crisi?”.
Il capitalismo sarebbe in continua espansione grazie ad intere aree e interi mercati che il capitalismo dovrebbe ancora conquistare.
LC si attiene alle statistiche dell’OCSE o della rivista Fortune o del Financial Time senza alcuna interpretazione marxista. Il giornale, anziché essere un giornale di studio ma anche di propaganda e di lotta è, dopo la prima pagina che si potrebbe definire filologica, una rassegna asettica, di volta in volta, della concentrazione delle case automobilistiche, delle ditte farmaceutiche, dei mass-media, senza che da nessuna parte emerga la preoccupazione per la prospettiva rivoluzionaria. I riferimenti alla classe operaia nella rubrica sulle lotte operaie nel mondo sono solo una statistica fotografica delle ore di sciopero senza alcun riferimento al livello della coscienza, al grado di combattività per non parlare di organizzazione autonoma. In fondo non è strano: LC vede nel proletariato solo un produttore di plusvalore, del capitale variabile, esattamente come il capitale. Non esiste nessuna analisi, nessuna visione dinamica del divenire della lotta di classe e delle sue prospettive, ma solo una visione statica, in cui il proletariato è concepito come una sommatoria statistica di individui, atomizzati, da condurre, domani, alla rivoluzione – o a ciò che tale è ritenuto.
LC, la lotta di classe e i sindacati
Per comprendere la posizione di LC sulla classe operaia e la lotta di classe, dobbiamo fare riferimento a tre diversi elementi che concorrono a determinare la concezione che LC ha del problema: la concezione “leninista” del partito, il ruolo del sindacato ed infine la fase economica attuale che imporrebbe una “ritirata ordinata” da parte della classe. Cerchiamo di analizzare con ordine questi tre elementi.
LC ha una concezione della coscienza e del partito secondo cui il proletariato non sarebbe capace di far maturare una presa di coscienza comunista che invece gli dovrebbe essere trasmessa esclusivamente dal partito, formato da intellettuali borghesi dediti alla causa rivoluzionaria.
A partire da questa visione LC non tiene in alcun conto le lotte reali del proletariato, ma punta la propria attenzione soprattutto al livello di sindacalizzazione della classe operaia e alla propria influenza all’interno del sindacato di adozione, la CGIL “rossa”. Il discorso di LC è semplice: essendo il partito rivoluzionario, dobbiamo organizzare e dirigere la classe operaia e, per arrivare a questo, dobbiamo prendere la direzione del sindacato, con qualunque mezzo.
La conseguenza di ciò è che i suoi interventi nella classe operaia non sono mai volti ad innalzare la coscienza del proletariato, ma solo a conquistare nuovi spazi politici da controllare e qualche quadro in più.
Infine, nella misura in cui LC ritiene che la fase economica del capitalismo sia di continua crescita e che alla classe operaia tocchi essenzialmente attendere la maturazione degli eventi, ovvero che sull’intero pianeta sia stato impiantato il capitalismo in tutto il suo rigoglio, nel 1980 questo gruppo lancia la parola d’ordine della “ritirata ordinata”:
“… abbiamo da tempo ripreso la coraggiosa parola d’ordine leninista di raccogliere attorno al partito rivoluzionario le forze coscienti e sane della classe operaia disposte a battersi in una ritirata ordinata, senza sbandamenti, delusioni, confusioni, demagogia”[1]
il cui evidente contenuto è quello di lavorare addirittura per smorzare l’aggressività delle lotte per evitare, a quanto pare, di dover subire una “rotta disordinata”. In tal senso LC arriva addirittura a “rimproverare” al vecchio partito stalinista italiano, il PCI, di aver ecceduto su questo piano per meri interessi di partito:
“Come non è un caso che il PCI sia invece giunto a concepire "spallate" sindacali, aggravando la rotta disordinata delle lotte operaie pur di difendere il proprio peso parlamentare nell’esclusivo interesse delle frazioni borghesi”.[2]
Stessa critica al “grande sindacato”, ovvero la CGIL, sindacato di cui LC sogna di potersi mettere alla testa:
“Avendo il grande sindacato, invece, disatteso il compito da noi indicato all’inizio della crisi di ristrutturazione di organizzare una ritirata ordinata per essere poi in grado di riorganizzare la ripresa, ha finito per far piangere imprenditori e governanti non per la sua forza ma per la sua crisi di autorità e di fiducia”.[3]
Ecco le mosche cocchiere che consigliano – inascoltate - il sindacato sul da farsi. Ma questo non le ascolta ed entra in crisi, facendo piangere - qui viene il bello - imprenditori e governanti. E perché mai imprenditori e governanti piangerebbero per la crisi del sindacato? La risposta è una sola: perché viene a mancare chi, con la sua autorità morale e materiale, mantiene incatenati i lavoratori dietro il carro del capitale. Così, invece, nascono i comitati di base[4]; se, viceversa, il sindacato avesse ascoltato i consigli di LC, non si troverebbe a fare i conti con i Comitati di base, ovvero con la tendenza degli operai a sganciarsi dalla prigione sindacale e a iniziare ad organizzarsi autonomamente, costringendo il sindacalismo a radicalizzarsi per cercare di inquadrare meglio gli operai.
Tutto questo produce una pratica politica il cui obiettivo non è quello di favorire la maturazione nella classe operaia, ma solo il rafforzamento delle posizioni del “partito” sulla pelle della classe stessa. Ecco un esempio di questa politica dalle conseguenze profondamente negative. Nella prima metà del 1987, quando i lavoratori della scuola si organizzarono in comitati di base, LC fece capolino in qualche assemblea per proclamare che il problema non era quello di costituire una nuova organizzazione sindacale, ma di prendere la direzione politica di quelli esistenti. Il che voleva dire non abbandonare la CGIL e lasciare la direzione del movimento a LC stessa, e tutto sarebbe andato per il meglio. Ma il movimento dei lavoratori della scuola nel 1987 era un movimento che iniziava ad organizzarsi su basi classiste, sia pure con tutte le sue debolezze. Ebbene, visto che fu mandata a quel paese, LC preferì successivamente denigrarlo pubblicamente definendolo movimento “sudista” (per il fatto che era maggiormente sviluppato nel sud Italia quasi fosse un movimento regionalista), “brodo di coltura per futuri dirigenti dei partiti parlamentari”, invocando invece un congresso straordinario della CGIL. In parole povere, la CGIL doveva svegliarsi e non lasciarsi sfuggire i lavoratori della scuola in lotta. Ecco i “rivoluzionari” all’opera!
LC e le istituzioni borghesi
L.C. si dichiara “contro tutti i partiti parlamentari” e “contro lo stato e la democrazia”, ma poi firma un comunicato stampa assieme a PCI, DC, PR, DP, PSI in cui si ribadisce concordemente “la ferma condanna al terrorismo ed a tutte quelle forze ad esso collegate” e si invitano “tutti i lavoratori a respingere il grave attacco portato avanti da quelle forze economiche e politiche che tendono a destabilizzare la democrazia del nostro paese” (sottolineatura nostra, n.d.r.).
Per quanto concerne le elezioni, LC dichiara di non crederci e di essere astensionista, tranne però quando l’astensionismo diventa troppo impopolare per essere mantenuto, come nel 1974 in occasione del referendum sull’abrogazione del divorzio voluto dalla DC di Fanfani. LC fece allora uscire un numero del suo giornale costituito da un solo foglio, a metà prezzo, su cui “contro il capitalismo di stato a base di massa piccolo-borghese” si indicava di votare per il ‘no’. Naturalmente il tutto era condito da frasi del tipo “il voto non basta, bisogna proseguire la lotta”. Di fatto LC si schierò come gli extra-parlamentari di quegli anni per una frazione borghese contro un’altra.
LC e la resistenza
La questione della partecipazione alla guerra imperialista è una questione particolarmente carica di conseguenze perché fa da spartiacque tra il campo proletario e quello della borghesia. Benché LC si dichiari internazionalista, essa appare particolarmente compromessa su questo piano.
In un opuscolo dell’aprile 1975 ci viene spiegato che dopo l’8 settembre 1943 “di fronte allo sfacelo della borghesia i primi nuclei operai spontaneamente si organizzano: dagli scioperi si passa alla lotta armata. E’ L’INIZIO DELLA RESISTENZA! Gli operai salgono sulle montagne, si organizzano clandestinamente nelle città e nelle fabbriche. Alla costruzione della nuova società si frappone come primo ostacolo, come primo nemico la presenza dei fascisti e dei nazisti. E’ contro questi servi del capitale che i partigiani devono cominciare a combattere. Ma gli operai sanno bene che questo non può essere 1’obiettivo ma solo un passo obbligatorio per arrivare al socialismo”[5].
Questo discorso si situa completamente su un terreno borghese. Infatti le bande partigiane sono raggruppamenti interclassisti al servizio dell’imperialismo “democratico” e anche le organizzazioni che agivano in città e nelle fabbriche, i GAP e le SAP[6], pur formate da operai, erano guidate totalmente dal PCI e dagli altri partiti borghesi. I rivoluzionari invece dovevano denunciare il fatto che degli operai si fossero fatti imbrigliare in una “guerra di popolo” al servizio dell’imperialismo in cui essi non difendevano i loro propri interessi ma quelli del loro nemico di classe. E’ vero che nel marzo 1943 gli operai scesero in sciopero con rivendicazioni classiste e non antifasciste, ma è altrettanto vero che questi scioperi e quelli successivi vennero snaturati e deviati in funzione antifascista. I proletari in uniforme dell’esercito tedesco - vuoi per istinto di classe, vuoi per ricordi di lotte operaie tramandati loro dai loro genitori - in taluni casi cercarono contatto con gli operai in sciopero o manifestavano la loro simpatia lanciando loro sigarette[7], ma si trovavano di fronte le carogne staliniste del PCI che gli sparavano addosso per impedire una fraternizzazione fra proletari al di là della nazionalità e della lingua. Operai italiani e proletari in divisa tedeschi[8] iniziavano a mettere spontaneamente in pratica l’internazionalismo proletario. LC vede invece in questi proletari - definiti tout-court nazisti, il primo nemico da abbattere.
Sempre nello stesso opuscolo leggiamo che gli operai capiranno che bisogna togliere il potere alla borghesia “ed è quello che cercheranno di fare là dove riusciranno a prendere il potere anche se per poco tempo: formazione di nuove strutture politiche in cui viene unificato il potere di fare leggi e di farle eseguire, nominando direttamente sindaci e funzionari; gestione delle fabbriche; esercizio diretto del potere giudiziario e liquidazione dei fascisti”[9]. Qui la sfrontatezza di LC non ha limiti. Si vorrebbe far credere che i Comitati di Liberazione Nazionale (CNL), cui si fa riferimento nel passaggio precedente, fossero degli organismi proletari, quando è noto che nei CLN c’erano solo i partiti della borghesia che sottomettevano gli operai alle esigenze della guerra imperialista.
Il dramma della resistenza è che i proletari si sono fatti intruppare in una “guerra di popolo” al servizio dell’imperialismo per obiettivi non suoi e, sciagura ulteriore, gruppi come LC, facendosi passare come eredi della Sinistra Comunista e di Lenin, arrivano ad esaltare la resistenza presentandocela come una rivoluzione mancata. Per i comunisti rivoluzionari la resistenza è invece il culmine della controrivoluzione, il periodo più nero di ristagno controrivoluzionario, dove gli internazionalisti veri hanno dovuto guardarsi tanto dalla Gestapo quanto dagli stalinisti, rimanendo spesso uccisi da questi ultimi.
Negli anni ’70, quando è uscito l’opuscolo di LC sulla resistenza, andava di moda l’antifascismo - democratico o militante - e LC, pur di conquistare militanti, si adeguava ai tempi. Così, mentre altri gruppi raccoglievano firme per mettere fuori legge il MSI[10], Lotta Comunista, come la nascente “autonomia operaia”, preferiva la spranga. Gli uni erano per l’antifascismo democratico, gli altri per l’antifascismo militante. Il risultato non cambia: entrambe le pratiche vanno contro gli interessi della classe.
In altri casi, contro il fascismo, LC preferiva la denuncia: in un opuscolo del 1976 si lagnava che al MSI andassero 4,5 miliardi di finanziamento pubblico. LC ha proprio lo stomaco delicato: finanzino pure la DC, il PCI e tutti gli altri partiti, ma il MSI no, non le va proprio giù. Naturalmente si tratterebbe di antifascismo di classe, proletario, come se il proletariato avesse come compito storico quello di battersi contro una forma specifica di dominio borghese e non contro tutta la borghesia come classe e contro il suo stato.
LC e l’internazionalismo
Per finire, c’è da chiedersi: su che cosa basa il suo internazionalismo un gruppo come LC che, provenendo dalla resistenza, non ha neanche fatto il tentativo di separarsi da questa esperienza con un minimo di critica al proprio passato? Su niente visto che, sempre in omaggio all’idea di completare la rivoluzione borghese prima di poter mettere mano a quella proletaria, LC si è data come compito quello di appoggiare tutte le lotte nazionali rispetto ai cosiddetti imperialismi; non riuscendo a recepire la lezione di Rosa Luxemburg che mostra come nell’epoca di decadenza del capitalismo tutti gli stati, piccoli o grandi, forti o deboli che siano, sono costretti a portare avanti una politica imperialista.
E’ così che LC mette avanti l’idea che:
“intervenire attivamente contro ogni manifestazione della forza imperialista predominante nel proprio paese significa porsi in prima fila sul fronte della lotta di classe internazionale. Partecipare ad ogni lotta che direttamente o indirettamente colpisce uno o tutti i settori dell’imperialismo, partecipare distinguendosi ideologicamente e politicamente con proprie tesi, parole d’ordine, risoluzioni e denunciando la dialettica unitaria dell’imperialismo”. E si fissa come compito “nelle colonie e nelle semicolonie lottare con ogni mezzo contro l’imperialismo appoggiando tutte quelle azioni ed iniziative delle borghesie nazionali che effettivamente concretamente vanno contro le forze imperialiste, straniere o locali”.[11]
LC ha anche ripubblicato tutti gli articoli del suo fondatore storico Cervetto[12] dove si difende, tra l’altro, sia la politica di sostegno alla Corea:
“… riteniamo compito delle masse lavoratrici di lottare perché le truppe americane e cinesi abbandonino la Corea e il popolo coreano sia lasciato libero di condurre la propria emancipazione nazionale e sociale per la sola via rivoluzionaria, senza interferenze sovietiche o cinesi o dell’ONU”[13]
che quella a favore dell’indipendenza africana:
“La rivolta antimperialista dei popoli africani non prelude affatto alla formazione della società socialista nel continente. Essa è una tappa necessaria per la rottura del dominio imperialista, per la disgregazione della stratificazione feudale, per la liberazione di forze ed energie economiche necessarie alla costituzione di un mercato nazionale e di una struttura capitalistica industriale, (…). Solo per questo noi appoggiamo la lotta d’indipendenza africana”[14]
con la logica conseguenza di sentirsi in dovere di rendere omaggio alle personalità della borghesia, cadute nella lotta combattuta contro altre borghesie:
“Lumumba è un combattente della rivoluzione coloniale sulla cui tomba il proletariato, un giorno, deporrà il fiore rosso. Noi che, marxisticamente, abbiamo criticato e critichiamo il suo confuso operato politico, lo difendiamo dagli insulti (…). Lumumba ha saputo morire combattendo per rendere indipendente il suo paese. Noi internazionalisti difendiamo il suo nazionalismo contro chi fa del suo nazionalismo (bianco!) una professione.”[15]
LC ha inoltre parole lusinghiere per il castrismo:
“Il castrismo diventa rivoluzionario malgrado la sua origine, cioè è costretto a rompere decisamente con il passato;”[16]
e, naturalmente, per il Vietnam:
“Per chi, come noi, da sempre ha sostenuto la lotta di unificazione statale come processo della rivoluzione democratico-borghese vietnamita la portata storica della vittoria politica e militare di Hanoi trascende il fatto contingente.”[17]
Per concludere …
Ci sono molti altri punti critici nel passato remoto e meno remoto di LC che andrebbero vagliati, come la convivenza per circa 10 anni con la corrente di stampo maoista di Raimondi (che nel 1966 confluirà nella Federazione m-l d’Italia)[18] o con un personaggio come Seniga, che se ne era uscito dal PCI di Togliatti e Secchia portandosi dietro la cassa del partito[19], o ancora la politica di potenza sul territorio basato spesso su episodi di violenza fisica contro personaggi non graditi o contro ex-militanti o altro ancora[20].
Ma concretamente quello che emerge da quello che abbiamo visto è che, di fronte alla lotta di classe e ai problemi di internazionalismo, fondamentalmente LC non prende mai la posizione giusta nello scontro di classe e perciò, al di là di tutta la buona volontà e finanche della buona fede che possono mettere i militanti di LC nel loro lavoro, questo è destinato a produrre degli effetti esattamente opposti a quelli necessari per il trionfo della lotta di classe.
Ezechiele, 6 aprile 2010
[1] Lotta comunista n°123, nov. 1980.
[2] Idem.
[3] Parodi, Critica del sindacato subalterno, edizioni Lotta Comunista.
[4] Parodi, op. cit., pag. 30.
[5] Viva la Resistenza operaia, opuscolo di Lotta Comunista, aprile 1975, pag. 5.
[6] Gruppi di Azione Patriottica e Squadre di Azione Patriottica.
[7] cfr. Roberto Battaglia, Storia della Resistenza italiana, Einaudi.
[8] Stiamo naturalmente parlando dell’esercito tedesco, formato in massima parte da proletari come tutti gli eserciti, non della Gestapo o delle SS.
[9] Viva la Resistenza operaia, opuscolo di Lotta Comunista, aprile 1975, pag. 5.
[10] Movimento Sociale Italiano (MSI), all’epoca partito neofascista poi convertitosi alla “democrazia” sotto la direzione dell’attuale presidente della Camera Fini con il nome di Alleanza Nazionale per poi confluire nel Partito delle Libertà di Berlusconi per poi …
[11] Da L’Impulso, 15 dicembre 1954, oggi pubblicato su L’imperialismo unitario, pag. 133, edizioni Lotta Comunista (sottolineatura nostra).
[12] Arrigo Cervetto (1927-1995) nasce a Buenos Aires da genitori emigrati italiani. Da giovane operaio a Savona partecipa alla liberazione con i partigiani contro il fascismo e milita in organizzazioni sindacali libertarie. Collabora alla redazione di Prometeo e Azione Comunista fino al 1964, creando intorno a sé il gruppo LC e lavorando alla costruzione del nuovo “partito operaio rivoluzionario”, fondato su un “lavoro quotidiano d’organizzazione e di educazione del proletariato”.
[13] Da Il Libertario, 13 dicembre 1950, oggi pubblicato su L’imperialismo unitario, pag. 70, edizioni Lotta Comunista.
[14] Da Azione Comunista n°44, 10 aprile 1959, oggi pubblicato su L’imperialismo unitario, pag. 258, edizioni Lotta Comunista.
[15] Da Azione Comunista n°59, 25 marzo 1961, oggi pubblicato su L’imperialismo unitario, pag. 326, edizioni Lotta Comunista.
[16] Da Azione Comunista n°54, 10 ottobre 1960, oggi pubblicato su L’imperialismo unitario, pag. 329, edizioni Lotta Comunista.
[17] Da Lotta Comunista n°57, maggio 1975, oggi pubblicato su L’imperialismo unitario, pag. 1175, edizioni Lotta Comunista.
[18] La visione del partito nella concezione di Cervetto e di Lotta Comunista (II) [14] in Rivoluzione Internazionale n°144.
[19] Idem.
[20] Idem.
Pubblichiamo qui di seguito una breve cronologia degli avvenimenti e delle tappe del movimento di lotta contro la riforma delle pensioni che si sviluppa in Francia da mesi.
Completeremo questo quadro man mano secondo le notizie.
Questo movimento è già ricco di insegnamenti per il proletariato mondiale. Di fronte alle falsità propagate dallo Stato, dai mass media francesi e dalla stampa internazionale, è molto importante che le testimonianze e le varie informazioni sulla lotta siano fatte circolare e siano diffuse quanto più possibile in Francia ed in tutti i paesi.
Incoraggiamo quindi tutti i nostri lettori a completare la cronologia che segue (necessariamente molto parcellare ed incompleta) scrivendoci o utilizzando i nostri forum di discussione alle pagine in lingua inglese, francese o spagnolo. Cercheremo, nella misura delle nostre forze, di tradurre questi testi nelle principali lingue.
23 marzo
L’intersindacale (che raccoglie quasi la totalità dei sindacati francesi, dai più apertamente “collaborazionisti” con il governo ai presunti “radicali”) chiama ad una prima Giornata d’Azione.
800.000[1] dimostranti scendono in piazza. L’atmosfera è piuttosto atona, la rassegnazione domina. Bisogna dire che la riforma delle pensioni viene preparata da molti mesi, ed anche da molti anni. Infatti politici, mass media, “specialisti” di ogni genere hanno ripetuto senza tregua che questa riforma era indispensabile, inevitabile, che ne andava della sopravvivenza stessa del “regime di ripartizione” e de “l’equilibrio del budget nazionale”. Del resto la parola d’ordine dei sindacati non è il “ritiro dell’attacco sulle pensioni” ma la “modifica della riforma”. Questi chiamano a battersi per “più negoziazioni” Stato-Sindacato e per una riforma “più giusta, più umana”.
In breve, tutti, Stato, Padronato, Sindacati affermano che questo sacrificio è “una salutare necessità”. Di fronte a questo rullo compressore l’insoddisfazione è grande, ma le teste basse.
26 maggio
Replay. Si ricomincia. L’intersindacale chiama ad una seconda Giornata d’Azione secondo le stesse modalità e le stesse parole d’ordine. C’è un leggero aumento dei partecipanti (1 milione) ma l’atmosfera è sempre segnata dalla mancanza di speranza.
24 giugno
I sindacati pensano di dare la stoccata, il colpo di grazia… al movimento. Viene programmata una terza Giornata d’Azione. Tenuto conto dell’ambiente relativamente stagnante delle due precedenti, questa giornata alla vigilia delle vacanze deve essere una specie di “marcia funebre”. La macchina è ben lubrificata: una Giornata d’Azione della stessa entità delle precedenti significherebbe che “l’affare è chiuso”. Con due mesi di vacanze estive che seguono, lo scopo è far perdere ogni briciola di speranza su di un possibile sviluppo della lotta. I sindacati avevano sicuramente già pronti i loro discorsi: “Noi ci abbiamo provato, ma la combattività non è sufficientemente presente nei ranghi operai”. Scoraggiamento garantito!
Questa tecnica è già stata provata tante volte in passato, spesso con successo. Ma… patatrac… il 24 giugno, 2 milioni di lavoratori, di disoccupati, di precari scendono in piazza!
Al di là della massa, cambia anche l’atmosfera: la rabbia aumenta, la gente ne ha piene le scatole. Con l’accelerazione della crisi dal 2008, crescono la povertà e l’ingiustizia. La riforma delle pensioni diventa il simbolo di questo deterioramento brutale delle condizioni di vita.
Luglio-agosto
La giornata d’Azione del 24 giugno ha alzato il morale del proletariato. L’idea che una lotta ampia è possibile guadagna terreno. Ovviamente anche i sindacati sentono che il vento cambia, sanno che la questione “come lottare?” gira nelle teste. Decidono quindi di occupare immediatamente il terreno e gli spiriti, per loro è fuori discussione che i proletari si mettano a pensare ed agire da soli, al di fuori del loro controllo. Perciò all’indomani del 24 giugno annunciano una nuova Giornata d’Azione per il rientro, il 7 settembre.
Per essere ben sicuri di arginare ogni riflessione autonoma, arrivano a far passare sulle spiagge aerei con striscioni pubblicitari che chiamano alla manifestazione del 7 settembre!
Ma durante l’estate un altro avvenimento, un fatto di cronaca, alimenta la rabbia operaia: “l’affare Woerth„ (si tratta di una connivenza tra uomini politici attualmente al potere e una delle più ricche ereditiere del capitale francese, Madame Betancourt, proprietaria dell’Oréal, con allo sfondo frodi fiscali ed accordi illegali di ogni genere). Ma Eric Woerth altri non è che il ministro incaricato della riforma delle pensioni. La sensazione di ingiustizia è totale: la classe operaia deve stringersi la cinghia mentre i ricchi ed i potenti portano avanti i propri “affari”.
7 settembre
Questa Giornata d’Azione si annuncia immediatamente molto seguita. Tuttavia è la prima volta che una manifestazione viene organizzata subito dopo le vacanze. Prima ancora del 7 settembre, dinanzi all’ampiezza del malcontento nelle file dei proletari, i sindacati promettono di organizzare subito una nuova manifestazione per un sabato in modo che “tutti possano parteciparvi”.
Il 7 settembre: 2,7 milioni di manifestanti. L’interruzione estiva non ha fatto effetto, il rientro si annuncia caldo e parte da dove si era arrivati prima. Iniziano a fiorire appelli allo “sciopero rinnovabile”[2].
Di fronte al malcontento crescente ed all’ampiezza della mobilizzazione, l’intersindacale reagisce immediatamente: infatti… annulla la manifestazione del sabato, scarta la possibilità dello “sciopero rinnovabile” e nella foga lancia una nuova Giornata d’Azione per… 15 giorni dopo (il 23 settembre)! E’ necessario rompere la dinamica, temporeggiare. Questo “senso di responsabilità” dell’intersindacale sarà del resto salutato dai più alti rappresentanti dello Stato francese.
23 settembre
3 milioni di dimostranti in piazza! Il movimento dunque cresce ancora. Per la prima volta i cortei esitano a disperdersi. Più esattamente, in numerose città, alcune decine di persone qui, alcune centinaia là, restano a discutere alla fine della manifestazione. Volantini intercategoriali iniziano a far appello alla presa in mano delle lotte da parte degli operai[3]. In alcune città la CNT-AIT organizza Assemblee Popolari per “liberare la parola” (la CCI aderirà in seguito a questa eccellente iniziativa). A partire da ora queste assemblee di strada avranno successo riuscendo a raggruppare ogni settimana varie decine di partecipanti, in particolare a Toulouse[4].
Questa volontà di auto-organizzarsi espresso da minoranze rivela che l’insieme della classe inizia a porsi delle questioni sulla strategia sindacale, senza osare trarre ancora tutte le conseguenze dei loro dubbi ed interrogazioni.
2 ottobre
Prima manifestazione organizzata di sabato. Non c’è una significativa evoluzione nel numero di partecipanti. Solo che in questi 3 milioni di manifestanti si ritrovano fianco a fianco anche delle famiglie e dei lavoratori del settore privato che di solito non possono mettersi in sciopero.
Molti tentativi di organizzare assemblee di strada alla fine della manifestazione falliscono:
• A Parigi viene distribuito un volantino da un raggruppamento intercategoriale, Turbin (dal nome della sua mail, [email protected] [16]), che chiama a riunirsi sotto i suoi striscioni (“La migliore pensione, è l’attacco” e “Prendiamo in mano le nostre lotte”), sotto un chiosco, al punto di arrivo del corteo. La prova che quest’informazione è ben circolata, viene dal fatto che al punto di incontro saranno effettivamente presenti decine di… poliziotti (con tanto di macchina fotografica!). In mancanza di un posto adeguato per condurre una discussione, l’assemblea non può tenersi. Il corteo intercategoriale decide allora di continuare la manifestazione. Una cinquantina di persone ripartono ed aggregano sotto i loro striscioni, in un’ora, quasi 300 persone.
• A Tours il comitato “Per l’Estensione delle lotte” chiama nel suo volantino a “mantenere la strada”.
• A Lione alcune decine di dimostranti esprimono il desiderio non di lasciarsi immediatamente, di restare lì a discutere, in assemblea, e riflettere collettivamente su come proseguire e sviluppare il movimento. Gli impianti stereo della CGT (principale sindacato francese) saranno fatali per l’iniziativa, il rumore assordante impedisce ogni reale dibattito.
Questi tentativi mancati rivelano sia lo sforzo della nostra classe a prendere le SUE lotte in mano, sia le difficoltà ancora presenti nel periodo attuale (soprattutto la mancanza di fiducia in sé stessi che inibisce gli sfruttati).
Invece a Toulouse continuano a tenersi Assemblee Popolari. L’iniziativa anzi assume dimensioni più ampie poiché la CNT-AIT e la CCI, alla fine della manifestazione, piantano uno striscione al punto di arrivo, sul quale si può leggere “SALARIATI, DISOCCUPATI, STUDENTI, PENSIONATI, PRENDIAMO NELLE NOSTRE MANI LE LOTTE!”, ed organizzano un’assemblea di strada. Questo dibattito raggruppa alcune decine di persone.
12 ottobre
Questa nuova Giornata d’Azione raccoglie 3,5 milioni di persone in lotta! Record battuto! Più importante ancora, l’atmosfera è alquanto effervescente. Le Assemblee Generali intercategoriali iniziano a moltiplicarsi, se ne possono contare diverse decine in tutta la Francia. Raggruppano ogni volta tra 100 e 200 partecipanti. In queste viene sempre più criticata apertamente la politica dell’intersindacale, numerosi volantini affermano anche questa politica ci porta volontariamente alla sconfitta[5]. Una prova di questa dinamica è che a Toulouse, oltre alle Assemblee Popolari organizzate dalla CNT-AIT (e, in una misura minore, dalla CCI), viene lanciato un appello per organizzare un’assemblea in piazza tutti i giorni davanti la Borsa del lavoro alle 18.00 (e continua a riunirsi ancora oggi, 20 ottobre) ed a lanciare appelli attraverso volantini.
La maggioranza dei sindacati decide alla fine per lo sciopero “rinnovabile”. Tenuto conto di questa maratona (il movimento è cominciato 7 mesi fa!) e dei molti giorni di sciopero fatti dai lavoratori per le Giornate d’Azione a ripetizione, questo sciopero rinnovabile arriva ben tardi. I salari degli operai sono già ampiamente decurtati. In ogni caso questo è il calcolo che fanno i sindacati. Eppure anche questo sarà abbastanza seguito.
Tra i ferrovieri e gli insegnanti della regione parigina vengono organizzate numerose Assemblee Generali sindacali. La divisione ed il sabotaggio raggiungono qui il ridicolo. Alla SNCF (ferrovie francesi), le AG sindacali sono organizzate per categorie (il personale viaggiante da un lato, i controllori dall’altro, gli amministrativi in un altro ancora); in alcuni ospedali, ogni piano ha la propria AG! In più queste non sono affatto sovrane. Ad esempio, a Gare dell’Est, a Parigi, mentre il rinnovo dello sciopero deve essere votato giovedì 14 mattina, i funzionari sindacali lo votano tra di loro prima, il mercoledì. Questa strategia ha un doppio effetto:
• svuota di interesse l’AG, il personale quindi non ci va poiché tutto è già deciso;
• permette ai mass media di presentare i voti del rinnovo dello sciopero come il frutto di una stretta minoranza, questo allo scopo di rendere il movimento impopolare.
Del resto i sindacati si giocano qui la carta più grossa: paralizzare i trasporti (dal 12 ottobre molti treni non circolano più ed il blocco delle raffinerie fa aleggiare la minaccia della penuria di benzina) per creare tensioni all’interno della classe operaia ed mettere contro gli scioperanti quelli che vogliono (devono) andare a lavorare.
16 ottobre
Secondo sabato di manifestazione. Di nuovo quasi 3 milioni di persone si ritrovano in piazza.
Il fatto nuovo viene dai giovani: i liceali, scesi a loro volta in lotta alcuni giorni prima, partecipano ai cortei.
Il lunedì seguente vengono bloccate quasi 1.000 scuole e si hanno numerose manifestazioni spontanee di liceali. L’UNL, principale sindacato liceale (e non universitario), che ha lanciato questo movimento, riconosce di essere stato sorpreso dall’ampiezza della mobilitazione. Lo Stato sfrutta la presenza di alcuni giovani casseurs[6] tra le file dei liceali per reprimere con estrema violenza alcuni che portano avanti il blocco e giovani dimostranti (un ragazzo di 17 anni ha rischiato di perdere un occhio per una Flash-Ball[7] a Montreuil, un sobborgo parigino). Le forze dell’ordine del resto attizzano la rabbia con vere e proprie “provocazioni poliziesche”. Lo scopo è chiaro: far degenerare il movimento facendolo cadere nella violenza cieca e lo scontro sterile con i poliziotti. Anche qui lo Stato cerca a tutti i costi di rendere la lotta impopolare, di intimorire i giovani, i loro genitori e tutta la classe operaia.
18 ottobre
Gli studenti universitari, che erano stati al centro del movimento vittorioso contro il Contratto Primo Impiego (CPE) nel 2006, sembrano iniziare a entrare nella danza. Alcune facoltà (a Parigi, Toulouse e Rennes in particolare) annunciano il blocco, ma ciò rimane per il momento abbastanza minoritario.
19 ottobre
La minaccia del blocco delle raffinerie, che incombeva dal 12 ottobre, viene effettivamente messa in atto. Senza alcuna decisione in AG, le truppe della CGT paralizzano i siti sotto l’ordine del loro sindacato. Rapidamente la benzina viene a mancare in moltissime stazioni (tra 1.000 e 2.000 secondo le stime).
La mobilitazione cresce anche alla SNCF, sempre più treni vengono annullati.
Nonostante questa paralisi dei trasporti il movimento non diventa impopolare. Anche i mass media, di solito così bravi a mettere in rete dei micro-blocchi ferroviari bidoni dove gli “utenti” gridano tutto il loro odio per essere incastrati senza treno in una stazione, devono riconoscere questa volta che questi stessi “utenti” sono solidali al movimento, che sopportano il disagio con pazienza e che sostengono interamente gli scioperanti perché “si battono per tutti”. Certe AG sindacali ed alcune intercategoriali decidono anche di sostenere quelli che bloccano le raffinerie (i quali subiscono molti attacchi, a volte brutali, da parte della polizia con il pretesto di “liberare le raffinerie” , “ristabilire l’ordine” e “fermare i mascalzoni” (dixit il Presidente della Repubblica, Nicolas Sarkozy) andando fisicamente a spalleggiare i picchetti.
Risultato, nonostante la penuria di benzina e la mancanza di treni, nonostante le intimidazioni e la repressione, 3,5 milioni di dimostranti sono ancora e sempre in piazza il 19 ottobre. Ciò dimostra la profondità della rabbia nelle file operaie!
Di fronte all’ampiezza di questa nuova mobilitazione lo Stato utilizza ancor più l’arma del manganello e della Flash-Ball. In particolare, a Lione uno spiegamento massiccio di poliziotti attende l’arrivo del corteo dei manifestanti. E’ una vera e propria sfida, questi agenti attizzano volontariamente l’odio nei giovani. Un pungo di questi cede alla provocazione. La repressione si abbatte allora in uno scatenarsi di violenza. I poliziotti picchiano su tutto ciò che si muove: giovani “dall’aspetto da teppisti” o comunque giovani, ma anche su teste grigie (il corteo di Sud farà le spese di questo pestaggio in piena regola). Lo Stato ha certamente avuto sentore di essersi spinto troppo avanti visto che alcuni ministri lanciano “appelli alla calma” (diretti in realtà alle proprie truppe). La seguente manifestazione parigina si svolge “senza scontri”, come ha fortemente sottolineato la stampa.
Per riassumere, il movimento si sviluppa da 7 mesi. La rabbia è immensa. Le rivendicazioni contro la riforma delle pensioni tendono a passare in secondo piano: i mass media riconoscono che il movimento si “politicizza”. E’ tutta la miseria, la precarietà, lo sfruttamento, ecc. ad essere apertamente respinti. Si accresce anche la solidarietà tra i vari settori. Ma, per il momento, la classe operaia non riesce a prendere realmente in mano le SUE lotte. Lo desidera sempre più, ci prova qui e là attraverso dei tentativi di minoranze, diffida in modo crescente dell’intersindacale, ma non riesce ancora realmente ad organizzarsi collettivamente attraverso Assemblee Generali autonome e sovrane, e dunque al di fuori dei sindacati. E’ tuttavia sono tali AG ad aver costituito il cuore del movimento contro il CPE nel 2006 ed a dargli forza. La classe operaia sembra mancare ancora di fiducia in sé stessa. Lo sviluppo futuro della lotta ci dirà se riuscirà a superare questa volta questa difficoltà. Altrimenti sarà per la prossima volta! Il presente è ricco di promesse per il futuro delle lotte.
A seguire…
CCI, 22 ottobre 2010
[1] tutte le cifre di partecipazione sono quelle date dall’intersindacale. Tra le cifre sindacali e quelle della polizia c’è a volte una differenza da 1 a 10! Del resto i mass media parlano di “guerra delle cifre”. Questa pseudo guerra vuol far credere che ci sia un’opposizione radicale tra i sindacati e lo Stato (mentre nei fatti suonano solo uno strumento diverso nell’ambito della stessa orchestra ed al servizio della stessa partitura) e rimescola le carte. Nessuno sa realmente quante persone partecipano alle manifestazioni. Abbiamo preso in considerazione le cifre dell’intersindacale che sono certamente più vicine alla realtà e ci permettono di individuare la tendenza, sapere se la partecipazione diminuisce o aumenta.
[2] Cioè sciopero a ripetizione, che riprende ogni settimana.
[3] Alcuni esempi di questi volantini sono pubblicati sul nostro forum in lingua francese, nella discussione “Prenons nos luttes en main”.
[4] Come esempio ecco uno di questi appelli a fare un’Assemblea Popolare:“Questo rientro è segnato dalle massicce manifestazioni attizzate dalla riforma delle pensioni. Partecipiamo in centinaia di migliaia a questi assembramenti organizzati dai sindacati. Quanti ci vanno senza fatalismo? Quanti tornano a casa frustrati? Le esperienze passate hanno ampiamente dimostrato che queste giornate d’azione a ripetizione non sono altro che sterili passeggiate. Se non reagiamo, se non prendiamo la parola per decidere insieme come condurre e sviluppare la nostra lotta, tutti gli attacchi contro le nostre condizioni di vita – tra cui quello sulle pensioni - ci verranno imposti, e altri ne seguiranno. Per questo invitiamo a venire a discutere per rompere l’atomizzazione alla quale siamo costretti. Cosa succede quando quelli costretti al silenzio ed all’isolamento si riuniscono e si mettono a parlare? Bisogna ancora aspettare “il momento buono” o il permesso per farlo? Troviamoci lunedì 11 ottobre alle 13.00 ai mercati esterni dell’Arche per discutere, insieme ed ora, dei mezzi per portare avanti e sviluppare una risposta. Fermiamo la dispersione! Approfittiamo di questo momento per creare un reale luogo di discussione fraterno, aperto a tutti!”
[5] leggi in particolare il volantino “A TUTTI I LAVORATORI” firmato “Lavoratori e precari dell’Assemblea Generale intercategoriale della Gare dell’Est” (disponibile sul nostro forum alla pagina in lingua francese).
Questo volantino afferma ad esempio: “Lasciare che Chérèque (CFDT), Thibault (CGT) e Co. decidano al nostro posto, significa prepararsi a nuove sconfitte” e “La forma che il movimento assumerà dipende da noi. Spetta a noi tutti costruirlo nei nostri posti di lavoro con comitati di sciopero, nei nostri quartieri attraverso Assemblee Generali sovrane. Queste devono riunire quanto più possibile la popolazione lavoratrice, essere coordinate a livello nazionale con delegati eletti e revocabili. Sta a noi decidere gli strumenti d’azione, le rivendicazioni… Ed a nessun altro”.
[6] Letteralmente chi spacca. Termine usato in Francia per indicare elementi che nelle manifestazioni, con atti di violenza, danneggiano i beni pubblici creando un clima di tensione.
[7] Arma a proiettili di gomma.
Un gruppo di operai della TEKEL ha lavorato alla creazione di un comitato con lo scopo di tirare le lezioni della lotta a cui hanno partecipato e la Piattaforma degli operai in lotta è una tappa importante in questo sforzo di creare legami con altri lavoratori, in particolare quelli che lottano contro i termini e le norme che il 4-C[1] ha introdotto di recente, che costituisce essenzialmente un attacco generalizzato contro tutti i lavoratori del settore pubblico, con la riduzione di salari, trasferimento di lavoratori, obbligo di fare straordinari non pagati, facoltà per la direzione di sospendere temporaneamente dei lavoratori e libertà di licenziamenti arbitrari.
Gli operai di questa piattaforma lanciano un appello per la sottoscrizione a sostegno di questa lotta. Ci teniamo a sottolineare che essi non chiedono soldi per nutrirsi durante gli scioperi.
Anche se questo tipo di solidarietà può essere importante, molto spesso esso non arriva agli operai che stanno scioperando in quel momento, e anche quando questo avviene, esso riesce ad alleviare ben poco le sofferenze di decine di migliaia di famiglie implicate in uno sciopero importante. Quello che chiedono è denaro che permetta loro di organizzare le attività necessarie alla lotta. La Turchia è un paese molto grande (viaggiare attraverso la Turchia è come viaggiare da Londra a Varsavia), e la TEKEL, per esempio, è un’impresa con lavoratori in tutto il paese. Viaggiare per partecipare a delle riunioni costa, così come organizzare la distribuzione di volantini, l’attacchinaggio di manifesti e le riunioni pubbliche. Il denaro è qualcosa che manca agli operai dopo una lunga lotta in uno dei paesi più poveri d’Europa.
Non preoccupatevi se non potete dare molto. Ricordate che la Turchia è uno dei paesi più poveri d’Europa e che anche pochi soldi possono fare molto; per fare un esempio, il prezzo di un pacchetto di sigarette e di una birra in Europa può essere sufficiente a inviare un operaio a una riunione in un’altra città.
[1] Nome amministrativo dell’ultima riforma del regime degli impiegati pubblici.
In seguito all’annuncio dell’aumento del prezzo della carne, gli operai reagiscono in parecchie fabbriche con scioperi spontanei. Il primo luglio, gli operai della Tczew vicino Danzica e dell’Ursus nella periferia di Varsavia entrano in sciopero. Alla Ursus si tengono assemblee generali, viene eletto un comitato di sciopero e sono stabilite rivendicazioni comuni. Nei giorni seguenti gli scioperi continuano ad estendersi: Varsavia, Lodz, Danzica, ecc. Il governo cerca di impedire una estensione maggiore del movimento facendo rapide concessioni, tra cui aumenti salariali. A metà luglio gli operai di Lublino, un importante crocevia ferroviario, entrano in sciopero. Lublino è situata sulla linea ferroviaria che collega la Russia alla Germania dell’est. Nel 1980 costituiva una linea vitale per il vettovagliamento delle truppe russe nella Germania dell’est. Le rivendicazioni degli operai sono le seguenti: nessuna repressione contro gli operai in sciopero, ritirata della polizia dalle fabbriche, aumenti salariali e libere elezioni dei sindacati.
Gli operai avevano tirato le lezioni delle lotte del 1970 e del 1976[1]. Essi capivano chiaramente che l’apparato sindacale ufficiale era a fianco dello Stato stalinista e del governo ogni volta che essi avanzavano delle rivendicazioni. Perciò, in questa estate del 1980 essi prendono direttamente l’iniziativa della lotta. Senza aspettare nessuna istruzione proveniente dall’alto, essi procedono uniti e tengono assemblee per decidere da soli modi e tempi delle loro lotte.
Nelle assemblee di massa sono concordate rivendicazioni comuni. Si crea un comitato di sciopero. All’inizio le rivendicazioni economiche sono in primo piano.
Gli operai sono determinati. Vogliono evitare una ripetizione del bagno di sangue che aveva schiacciato le lotte del 1970 e 1976. Nel polo industriale di Danzica-Gdynie-Sopot viene costituito un comitato di sciopero inter-fabbriche (MKS), formato da 400 membri (due delegati per ogni fabbrica). Nella seconda metà di agosto si riunirono da 800 a mille delegati. Ai cantieri navali Lenin si tengono assemblee ogni giorno. Attraverso degli altoparlanti si permette a tutti gli operai di seguire le discussioni dei comitati di sciopero e i negoziati con i rappresentanti del governo. In seguito si istallano anche dei microfoni fuori dalla sala riunione dell’MKS, per consentire agli operai presenti alle assemblee generali di intervenire direttamente nelle discussioni dell’MKS. La sera i delegati – normalmente provvisti di cassette con la registrazione dei dibattiti – rientrano sui propri posti di lavoro e presentano le discussioni e la situazione nella “loro” assemblea generale di fabbrica, rendendo il loro mandato a questa.
Sono questi gli strumenti attraverso cui un gran numero di operai ha potuto partecipare attivamente alla lotta. I delegati devono rendere il loro mandato, sono revocabili in ogni momento e le assemblee generali sono sempre sovrane. Tutte pratiche che sono all’opposto della pratica sindacale.
Allo stesso tempo, dopo che gli operai di Danzica-Gdynia-Sopot si sono uniti, il movimento si estende ad altre città. Il 16 agosto il governo interrompe le linee telefoniche per sabotare le comunicazioni tra gli operai. Immediatamente gli operai minacciano di estendere ancora di più il movimento se il governo non riallaccia le linee. Il governo è costretto a tornare sui suoi passi.
L’assemblea decide allora di creare una milizia operaia. Poiché il consumo di alcool è molto esteso, si decide collettivamente di proibirne l’uso. Gli operai sanno che hanno bisogno di avere la testa lucida nel loro confronto con il governo.
Quando il governo minaccia di scatenare la repressione a Danzica, i ferrovieri di Lublino dichiarano: “Se gli operai di Danzica saranno attaccati fisicamente e se uno solo di essi viene toccato, noi paralizzeremo la linea ferroviaria strategicamente più importante fra la Russia e la Germania dell’est.”
Gli operai sono mobilitati in quasi tutte le principali città. Più di mezzo milione fra loro comprendono che essi costituiscono la sola forza decisiva nel paese capace di opporsi al governo. Essi sanno cosa dà loro questa forza:
- l’estensione rapida del movimento invece del suo schiacciamento in scontri violenti come nel 1970 e nel 1976;
- la loro autorganizzazione, cioè la loro capacità di prendere l’iniziativa da sé stessi senza contare sui sindacati;
- la tenuta di assemblee generali in cui essi possono unire le loro forze, esercitare un controllo sul movimento, permettere la massima partecipazione di massa possibile e negoziare con il governo davanti a tutti.
E, in effetti, l’estensione del movimento fu la migliore arma della solidarietà; gli operai non si sono contentati di fare delle dichiarazioni, ma hanno preso essi stessi l’iniziativa delle lotte. Questa dinamica ha reso possibile lo sviluppo di un diverso rapporto di forze. Finché gli operai avrebbero lottato in maniera così di massa e unita, il governo non poteva scatenare nessuna repressione. Durante gli scioperi dell’estate, quando gli operai affrontavano il governo in maniera unita, nemmeno uno di loro fu ucciso o colpito. La borghesia polacca aveva capito che essa non poteva permettersi un tale errore, ma che doveva indebolire la classe operaia dall’interno.
Le lotte in Polonia costituivano un pericolo per l’esempio che costituivano per i paesi vicini.
Le frontiere tra la Polonia e la Germania dell’est, la Cecoslovacchia e l’Unione Sovietica sono immediatamente chiuse. La borghesia ha le sue buone ragioni per prendere una tale misura! Perché nella vicina regione carbonifera di Ostrawa in Cecoslovacchia i minatori, seguendo l’esempio polacco, sono scesi anche essi in sciopero. Nella regione mineraria romena, a Togliattigrad in Russia, gli operai seguono la stessa strada. Nei paesi occidentali, anche se non ci sono scioperi di solidarietà diretta con le lotte degli operai polacchi, gli operai di numerosi paesi riprendono le parole d’ordine del loro fratelli di classe in Polonia. A Torino, nel settembre del 1980 si sentono gli operai gridare: “Danzica ci mostra il cammino.”
Mentre all’inizio non c’era influenza sindacale, i membri dei “sindacati liberi”[2] si misero ad ostacolare la lotta.
Mentre all’inizio i negoziati erano condotti in maniera pubblica, si avanzò, dopo un certo tempo, la pretesa che necessitavano degli “esperti” per mettere a punto i dettagli dei negoziati con il governo. Progressivamente gli operai non potettero più seguire i negoziati, e ancor meno parteciparvi, perché gli altoparlanti che dovevano trasmetterli “non funzionavano più a causa di problemi tecnici”. Lech Walesa, membro dei “sindacati liberi”, fu incoronato leader del movimento grazie alla misura di licenziamento con cui l’aveva colpito la direzione dei cantieri navali di Danzica. Il nuovo nemico della classe operaia, il “sindacato libero”, aveva lavorato per infiltrare il movimento e cominciò il suo lavoro di sabotaggio. Cominciò con il distorcere completamente le rivendicazioni operaie. Mentre all’inizio le rivendicazioni economiche e politiche erano in testa alla lista, il “sindacato libero” di Walesa comincia a spingere per il riconoscimento dei sindacati “indipendenti”, mettendo solo in secondo piano le rivendicazioni economiche e politiche. Essi seguivano al vecchia tattica “democratica”: difesa dei sindacati al posto degli interessi operai.
La firma degli accordi di Danzica il 31 agosto segna l’esaurimento del movimento, anche se degli scioperi proseguono per qualche giorno in altre città. Il primo punto di questi accordi autorizza la creazione di un sindacato “libero e autogestito”, che prenderà il nome di Solidarnosc. I quindici membri del presidium dell’MKS costituirono la direzione del nuovo sindacato.
Poiché gli operai erano stati chiari sul fatto che i sindacati ufficiali camminavano con lo Stato, la maggior parte di essi pensava ora che il sindacato Solidarnosc, forte di dieci milioni di operai, non era corrotto e avrebbe difeso i loro interessi. Non erano ancora passati per l’esperienza degli operai occidentali che si sono confrontati per decenni con i sindacati “liberi”.
Walesa si preoccupò di promettere: “Vogliamo creare un secondo Giappone e stabilire la prosperità per tutti”, e molti operai, a causa della loro inesperienza della realtà del capitalismo occidentale, si fecero grandi illusioni. Solidarnosc e Walesa alla sua testa assunsero il ruolo di pompieri del capitalismo per spegnere la combattività operaia. Queste illusioni della classe operaia in Polonia non erano niente altro che il peso e l’impatto dell’ideologia democratica su questa parte del proletariato mondiale. Il veleno democratico, già molto potente nei paesi occidentali, non poteva che avere una forza ancora più grande in Polonia, dopo cinquanta anni di stalinismo. E’ quello che la borghesia polacca e mondiale avevano capito molto bene, Sono state queste illusioni democratiche a costituire il terreno su cui la borghesia e il suo sindacato Solidarnosc hanno potuto condurre la loro politica antioperaia e scatenare poi la repressione.
Nell’autunno del 1980, quando gli operai ripartono in sciopero per protestare contro gli accordi di Danzica, avendo constatato che anche con un sindacato “libero” al loro fianco la loro situazione materiale era peggiorata, Solidarnosc comincia a mostrare il suo vero volto. Già alla fine dello sciopero di massa, Walesa gira di qua e di là con un elicottero dell’esercito per fare appello agli operai perché terminassero gli scioperi con urgenza. “Non abbiamo bisogno di altri scioperi perché questi ci spingono verso l’abisso, bisogna calmarsi”.
Fin dall’inizio Solidarnosc comincia a sabotare il movimento. Ogni volta che si presenta l’occasione, Solidarnosc si impadronisce dell’iniziativa degli operai, impedendo loro di lanciare nuovi scioperi.
Nel dicembre 1981 la borghesia polacca può infine scatenare la repressione contro gli operai. Solidarnosc fa di tutto per disarmare politicamente gli operai. Mentre durante l’estate del 1980 nessun operaio era stato ferito o ucciso grazie all’autorganizzazione e all’estensione delle lotte, e perché non c’era un sindacato per inquadrare gli operai, nel dicembre 1981 più di 1200 operai sono assassinati, e decine di migliaia messi in prigione o condotti verso l’esilio.
Se, in seguito, l’ex leader di Solidarnosc Lech Walesa è stato eletto alla testa del governo polacco,è giustamente perché egli aveva già mostrato di essere un eccellente difensore degli interessi dello Stato polacco nella sua funzione di capo sindacale.
Anche se sono passati trenta anni e nonostante che molti operai che presero parte al movimento di sciopero all’epoca sono diventati disoccupati o sono stati forzati all’emigrazione, la loro esperienza è di un valore inestimabile per tutta la classe operaia. Come avevamo già scritto nel 1980 “Su tutti questi punti le lotte in Polonia rappresentano un grande passo in avanti nella lotta del proletariato su scala mondiale, ed è perciò che queste lotte sono le più importanti da mezzo secolo”. (Risoluzione sulla lotta di classe, 4° Congresso della CCI, 1980, Révue Internationale n° 26). Esse furono il punto più alto di una ondata internazionale di lotte. Come dicevamo nel nostro rapporto sulla lotta di classe nel 1999, al nostro 13°Congresso: “Gli avvenimenti storici di questo livello hanno delle conseguenze a lungo termine. Lo sciopero di massa in Polonia ha fornito la prova definitiva che la lotta di classe è la sola forza che può costringere la borghesia a mettere da parte le sue rivalità imperialiste. In particolare, esso ha mostrato che il blocco russo – storicamente condannato per la sua posizione di debolezza ad essere “l’aggressore” in ogni guerra - era incapace di rispondere alla sua crisi economica crescente con una politica di espansione militare. In maniera chiara, gli operai dei paesi del blocco dell’est (e della Russia stessa) non potevano totalmente servire da carne da cannone in una qualche guerra futura per la gloria del “socialismo”. Così, lo sciopero di massa in Polonia fu un potente fattore nell’implosione del blocco russo” (Révue Internationale n°99, 1999).
CCI
[1] Durante l’inverno 1970-71 gli operai dei cantieri del Baltico erano entrati in sciopero contro l’aumento dei prezzi dei generi di prima necessità. In un primo tempo il regime stalinista aveva reagito con una repressione feroce delle manifestazioni, facendo parecchie centinaia di morti, in particolare a Danzica. Gli scioperi però non finirono. Alla fine il capo del partito, Gomulka, fu giubilato e sostituito da un personaggio più “simpatico”, Gierek Questo aveva dovuto discutere per 8 ore con gli operai dei cantieri navali di Szczecin prima di convincerli a riprendere il lavoro. Evidentemente, ben presto egli tradì le promesse che aveva fatto in quel momento. Così, nel 1976, nuovi brutali attacchi economici provocarono scioperi in diverse città, in particolare alle fabbriche Radom e Ursus. La repressione fece diverse decine di morti.
[2] Non si trattava, in senso stretto, di un sindacato, ma di un piccolo gruppo di operai che, in legame con il KOR (comitato di difesa degli operai) costituito da intellettuali dell’opposizione democratica dopo la repressione del 1976, si battevano per la legalizzazione di un sindacalismo indipendente.
Dopo i tagli e la riduzione dello stato sociale imposti per decreto dallo Stato ai lavoratori del pubblico impiego, segue a ruota naturalmente l’attacco del padronato privato, nelle vesti dell’amministratore delegato della FIAT Marchionne che farà da battistrada, ne siamo certi, a tutti gli altri capi e capetti delle medie e piccole imprese. Di che si tratta? Del piano strategico 2010-2014 di riconversione dell’automobile imposto di fatto da Marchionne alle maestranze FIAT che prevede 20 miliardi di euro di investimenti in Italia di cui 700 milioni per produrre dal secondo semestre 2011 la nuova Panda nell’impianto di Pomigliano d’Arco (mentre quello di Termini Imerese verrà chiuso). Ma Marchionne è molto chiaro su questa transizione: “Per Pomigliano bisogna chiudere l'accordo. Se non si chiude, sono disposto a non far partire l'investimento.”[1]
Come mai Marchionne è così preoccupato quando deve semplicemente fare degli investimenti per migliorare la produzione dell’impianto? Perché in realtà sa bene che si tratta di un piano ferocemente antioperaio, che prevede lacrime e sangue per i lavoratori e investire i “suoi” soldi senza la garanzia che ci sia la pace sociale non se la sente. Perciò è alla ricerca di un patto di ferro con i sindacati per applicare delle misure che prevedono, tra l’altro: 18 turni settimanali su sei giorni, sanzioni in caso di sciopero il sabato, pause ridotte da 40 a 30 minuti, 80 ore di straordinario obbligatorio all’anno, messa in ferie d’ufficio nel caso di chiusura della fabbrica per causa di forza maggiore, punibilità dei lavoratori nel caso in cui le assenze superino l’andamento medio di assenteismo.
D’altra parte segnali di scontentezza nello stabilimento, storicamente piuttosto vivace, ce ne sono stati a ripetizione, come la lettera di un’operaia che denuncia la falsa propaganda televisiva dell’azienda che pubblichiamo in allegato a questo articolo[2].
Questo patto scellerato, che viene accompagnato da tutta una propaganda per far passare l’idea che, se non si accetta il piano, l’impianto sarà chiuso e i posti di lavoro si perderanno, ha registrato letteralmente un tripudio nel mondo della borghesia nostrana, che non si aspettava di poter assestare un colpo così profondo alle condizioni di vita dei lavoratori, con la Marcegaglia, capo di Confindustria, che si lascia andare a dire che è incredibile che ci sia chi si oppone a questo piano e ancora che non è possibile continuare a “difendere i disonesti”, facendo riferimento a fenomeni di assenteismo registrati in passato.
E i sindacati? Beh! Quelli li conosciamo. Il piano é stato prima accettato separatamente da Fim-Cisl, Uilm e Fismic e un poco dopo dall’Ugl in modo da lasciare sola la CGIL con la Fiom. Poi successivamente finanche la CGIL, che aveva fatto finta di esprimere dei segni di combattività, ha deposto le armi e ha invitato i lavoratori dell’impianto a firmare il si di accettazione del nuovo piano al referendum consultivo del 22 giugno prossimo[3]. Così si lascia la Fiom svolgere per intero il ruolo dell’eroe che o resiste fino in fondo o che è costretto a cedere all’ultimo minuto, ma che resta tuttavia l’ultimo baluardo della difesa degli interessi operai.
Ma non è che hanno veramente ragione i padroni, visto che gli stessi sindacati ci stanno dietro? Non è che facendo opposizione al piano FIAT finiamo per andare contro i nostri stessi interessi? Si dice che, rifiutando l'accordo, si rischia di perdere 15.000 posti di lavoro nel mezzogiorno. Ma non si dice che così facendo si cancellano 15.000 posti di lavoro in Polonia, nel resto d'Europa, in Asia o in America. E sì perché, come è detto chiaramente nella lettera dei circa 200 accademici di economia del nostro paese[4], "questa crisi vede tra le sue principali spiegazioni un allargamento del divario mondiale tra una crescente produttività del lavoro e una stagnante o addirittura declinante capacità di consumo degli stessi lavoratori". Come dire che gli operai producono già adesso troppo, tanto che non si riesce a vendere tutto quello che essi producono. E questo non perché manchi chi ne abbia bisogno, ma perché manca chi possa pagare con denaro queste merci prodotte. Insomma siamo ormai alla radice di tutti i problemi, ovvero alla messa a nudo delle contraddizioni fondamentali del capitalismo legate alla sua tendenza intrinseca alla sovrapproduzione e all’incapacità di realizzare il profitto contenuto in queste merci sul mercato se non distruggendo i concorrenti.
Motivo per cui peggiorare le condizioni di lavoro degli operai significa, dal punto di vista dei padroni, appropriarsi di un’ulteriore quota di lavoro proletario senza pagarlo in modo da poter vendere meglio sul mercato, a prezzi più competitivi, le proprie merci. Ma questo non lo fa solo la FIAT, lo fanno tutti i padroni, pubblici e privati, a livello internazionale. E lo devono fare necessariamente, lo vogliano o no, pena la propria scomparsa dal mercato internazionale. Ecco perché accettare i sacrifici dei padroni, per i proletari, è una scelta perdente perché ci si ritrova, dopo un po’ di tempo che si sono patite le pene dell’inferno, punto e a capo perché analoghi sacrifici sono stati imposti ai proletari di altre aziende e di altri paesi, e il ciclo al massacro riprende da capo. D’altra parte, vista la questione da parte operaia, resistere agli attacchi del capitale costituisce oggi la maniera migliore per difendere non solo i propri interessi ma anche quelli dei proletari di altre aziende e di altri paesi perché significa spezzare questa dinamica infernale degli attacchi.
E’ quello che ci mostra in maniera particolarmente lucida una lettera inviata da un gruppo di operai della fabbrica FIAT di Tychy, in Polonia, ai colleghi di Pomigliano che stanno per votare se accettare o meno le condizioni della FIAT per riportare la produzione della Panda in Italia. Questa lettera, pubblicata in allegato a questo articolo, é importante perché, con parole molto semplici, riesce a spiegare come i padroni giochino la carta della difesa della produzione nazionale per schiavizzare il proletariato di tutte le nazioni.
Noi non sappiamo oggi quale sarà l’epilogo di questa vicenda alla Fiat di Pomigliano. Sappiamo però che la dinamica della lotta di classe, in Italia e nel mondo, si sta sviluppando nel senso giusto e che fenomeni di solidarietà come questo o come quello degli operai tedeschi a sostegno delle lotte in Turchia e tanti altri che si stanno manifestando in questo periodo costituiscono un opportuno alimento della lotta di classe del prossimo periodo.
Ezechiele 20 giugno 2010
[1] Fiat, Marchionne: ''Intesa su Pomigliano'' Epifani: ''Piano di ...
[3] “Cgil Campania e Napoli invitano i lavoratori Fiat a votare Si all’accordo raggiunto ieri per lo stabilimento di Pomigliano, «per mantenere aperto un dialogo unitario, per far sì che l’investimento si realizzi, per continuare a lavorare, nei tempi che ci dividono dall’avvio dell’impianto, a correggere gli aspetti che consideriamo negativi, a partire dai diritti, capitolo sul quale, comunque, la Cgil esprimerà il suo massimo impegno»”. (da www.ilmattino.it/articolo.php?id=106773&sez=ECONOMIA [21]).
"Questa è l’ennesima lettera di una persona che soffre, di una lavoratrice che grida il proprio dolore per non poter svolgere il suo ruolo naturale di madre passando del tempo a giocare con i propri figli perché il lavoro sfiancante della fabbrica glielo impedisce. Non lasciamola sola. Manifestiamo la nostra solidarietà, ma soprattutto cominciamo a pensare e ad agire tenendo conto che non dobbiamo sostenere questo e poi quello e poi quell'altro lavoratore in difficoltà. Cominciamo a renderci conto che solo la lotta unita di tutti quanti può sostenere la lotta e dare sollievo alle difficoltà di ognuno di noi.” Eduardo (dal forum https://napolioltre.forumfree.it/ [24]).
“E’ sempre un grande dolore leggere parole amare di persone come questa donna che, senza il dominio del capitale, sarebbero libere di donare alla società, a noi tutti, il loro valore.
Vedere persone così a fare lavori così, è come uno sfregio in faccia; è tra i tanti conti che il capitale dovrà pagarci, speriamo molto presto.
Rispedire ogni questione politica in ottica classista; è l'unica arma in grado di uccidere il dominio del capitale.
Un abbraccio ad Anna, con la speranza che possa quanto prima migliorare la propria condizione economica e di vita. Certamente tuo figlio non dimenticherà il valore di sua madre, né la meschinità di chi la schiavizza.” polrpk (dal forum https://napolioltre.forumfree.it/ [24]).
«Quando mi chiederai di portarti al parco a giocare, al mare o semplicemente a fare una passeggiata o a mangiare un gelato, dovrò dirti di no, perché il mio lavoro non me lo permetterà»: Anna Solimeno, mamma di tre bambini, e operaia dello stabilimento Fiat di Pomigliano d’Arco (Napoli), si rivolge al più piccolo dei suoi tre bambini, in una lettera aperta di risposta allo spot “Fabbrica Italia”, realizzato dall’azienda e in onda sulle reti nazionali. L’operaia contesta lo spot e le condizioni di lavoro chieste dall’azienda per la produzione della Panda nello stabilimento locale. «Caro figlio mio - scrive Anna - siccome non riesco a dormire per i mille problemi che mi affollano la mente, voglio raccontarti la verità di questo piano industriale che la Fiat sta attuando per incrementare i propri profitti economici, “predicendo” il futuro sul raddoppiamento della produzione e dell’esportazione di auto all’estero. Le sole cose che raddoppieranno saranno gli utili nei conti Fiat e il carico di lavoro di noi poveri operai, e per me raddoppieranno le possibilità di ammalarmi per colpa di turni massacranti e postazioni di lavoro sempre più pesanti. E sarò assente da casa per tutti i giorni della settimana e in quelle poche ore che sarò presente, sarò così stanca e stressata che non avrò nemmeno la forza di abbracciarti». «Bimbo mio - conclude Anna - quando mi chiederai chi sono, potrò solo dirti che sono una “schiava” della Fiat, moderna, ma pur sempre schiava di un sistema che ci massacra per i propri interessi pagandoci sempre meno e togliendoci spazio per la nostra vita sociale e familiare oltre ad averci tolto tutti i diritti. La verità non è, quindi, quella trasmessa sulle reti nazionali da “Fabbrica Italia”».
fonte: www.controlacrisi.org [25].
Pubblichiamo qui di seguito la lettera degli operai polacchi della Tychy ai loro compagni di classe di Pomigliano. La chiarezza e la lucidità espresse in questa lettera sono esemplari, in particolare sul gioco dei padroni nel dividere i proletari dei vari paesi sulla base di promesse che poi non manterranno. Questa lettera è tanto più importante nella misura in cui è noto che la FIAT ha intenzione di spostare in Italia la produzione della nuova panda che attualmente si produce in Polonia, per cui la mancata resistenza degli operai italiani si rifletterà a breve sulle condizioni di vita di migliaia di famiglie polacche. Mai come oggi da decenni a questa parte risulta così chiaro che la dimensione della lotta di classe è necessariamente una dimensione internazionale. A complemento della lettera abbiamo ritenuto interessante pubblicare alcuni commenti a questa lettera apparsi sul forum https://napolioltre.forumfree.it/ [24]. Condividiamo complessivamente gli elementi sviluppati in questi contributi. Vogliamo solo mettere in guardia dal considerare una vittoria dei si come catastrofica tenendo conto che si tratta di un referendum di fabbrica, dove i lavoratori si ritrovano da soli uno per uno a fare i conti con la propria vita e peraltro organizzato in condizioni di ricatto così vili. CCI
“La FIAT gioca molto sporco coi lavoratori. Quando trasferirono la produzione qui in Polonia ci dissero che se avessimo lavorato durissimo e superato tutti i limiti di produzione avremmo mantenuto il nostro posto di lavoro e ne avrebbero creati degli alti. E a Tychy lo abbiamo fatto. La fabbrica oggi è la più grande e produttiva d'Europa e non sono ammesse rimostranze all'amministrazione (fatta eccezione per quando i sindacati chiedono qualche bonus per i lavoratori più produttivi, o contrattano i turni del weekend)
A un certo punto verso la fine dell'anno scorso è iniziata a girare la voce che la FIAT aveva intenzione di spostare la produzione di nuovo in Italia. Da quel momento su Tychy è calato il terrore. Fiat Polonia pensa di poter fare di noi quello che vuole. L'anno scorso per esempio ha pagato solo il 40% dei bonus, benché noi avessimo superato ogni record di produzione.
Loro pensano che la gente non lotterà per la paura di perdere il lavoro. Ma noi siamo davvero arrabbiati. Il terzo "Giorno di Protesta" dei lavoratori di Tychy in programma per il 17 giugno non sarà educato come l'anno scorso.
Che cosa abbiamo ormai da perdere?
Adesso stanno chiedendo ai lavoratori italiani di accettare condizioni peggiori, come fanno ogni volta. A chi lavora per loro fanno capire che se non accettano di lavorare come schiavi qualcun altro è disposto a farlo al posto loro. Danno per scontate le schiene spezzate dei nostri colleghi italiani, proprio come facevano con le nostre.
In questi giorni noi abbiamo sperato che i sindacati in Italia lottassero. Non per mantenere noi il nostro lavoro a Tychy, ma per mostrare alla FIAT che ci sono lavoratori disposti a resistere alle loro condizioni. I nostri sindacati, i nostri lavoratori, sono stati deboli. Avevamo la sensazione di non essere in condizione di lottare, di essere troppo poveri. Abbiamo implorato per ogni posto di lavoro. Abbiamo lasciato soli i lavoratori italiani prendendoci i loro posti di lavoro, e adesso ci troviamo nella loro stessa situazione.
E' chiaro però che tutto questo non può durare a lungo. Non possiamo continuare a contenderci tra di noi i posti di lavoro. Dobbiamo unirci e lottare per i nostri interessi internazionalmente.
Per noi non c'è altro da fare a Tychy che smettere di inginocchiarci e iniziare a combattere. Noi chiediamo ai nostri colleghi di resistere e sabotare l'azienda che ci ha dissanguati per anni e ora ci sputa addosso.
Lavoratori, è ora di cambiare
Tychy, June 13, 2010”
fonte:
https://www.dirittidistorti.it/articoli/12-...pomigliano.html [26]
https://libcom.org/article/letter-fiat-workers-tychy [27]
I commenti
La lettera degli operai polacchi dimostra che qualunque sacrificio da parte dei lavoratori non serve a salvaguardare il lavoro e la vita ma solo permette al capitale di estendere quei sacrifici ai lavoratori di tutto il mondo e ad imporne di nuovi con la scusa di dover reggere la concorrenza.
I politici prezzolati dal capitale che parlano della necessità dell'europa e di coordinarne le politiche finanziarie e di bilancio consigliano oggi ai lavoratori di pomigliano l'accettazione di condizioni brutali, ma la verità è che si fermano di fronte alla possibilità di un analogo coordinamento del lavoro in europa a salvaguardia della vita. La lettera degli operai polacchi dimostra che la solidarietà di classe a livello mondiale è una esigenza concreta e quindi comincia a fare capolino nella crisi.
Marchionne fa passare gli operai per dei privilegiati che scioperano solo per vedere le partite della nazionale, ma a questi si chiede di rendersi obbligatoriamente disponibili ad 80 ore di straordinario a testa esigibili in base alle esigenze dell''azienda, di far funzionare gli impianti 24 ore su 24 con tre turni di 8 ore effettive, la pausa per i pasti viene ridotta di 10 minuti ed abolita se ci sono da recuperare i ritardi nelle forniture molto frequenti per la distanza dei fornitori globalizzati.
Non basta lo sfruttamento fordista e poi toyotista, si deve passare al WCM (world class manifacturing) che richiede posizioni del corpo innaturali e la rinuncia a potersi spostare rimanendo così fermi su un punto fisso per tutto il tempo, con degli appositi carrellini che portano i materiali occorrenti, tutto ciò è verificato con le procedure ErgoUas per individuare ed eliminare le posizioni particolarmente dannose alla salute ma la perdita di produttività che da ciò deriva viene recuperata con un ulteriore aumento dei ritmi.
Si chiede ai sindacati l'impegno ad impedire gli scioperi operai, ed i sindacati pur indeboliti non potendo più blandire i lavoratori gestendo gli straordinari, arriverebbero a dispiegarsi fino in fondo come strumento di controllo ed oppressione.
In un sol colpo la Fiat chiude Termini Imerese dove si produce la lanciay, ma si legittima rispetto agli aiuti di stato italiani del passato e del futuro spostando la produzione della panda dalla polonia a pomigliano, consentendosi di ricattare sulle condizioni di lavoro gli operai di pomigliano e quelli polacchi che potrebbero produrre la lanciay.
Il potere economico ed i politici suoi funzionari di centrodestra vogliono sfondare e poi applicare in maniera generalizzata la nuova organizzazione del lavoro, i funzionari di centrosinistra ci spiegano che bisogna ringraziare la Fiat che riporta in patria una produzione de localizzata.
In italia come in europa negli stati uniti o in cina un moloch chiamato capitale é costretto a risucchiare ossessivamente ogni particella di lavoro vivo riducendo gli uomini a dei polli in batteria, solo così esso si anima e procede dispensando disoccupazione miseria ed avvelenamento della natura, di fronte a questa mortifera oppressione che affascia tutta l'umanità é oggi più che mai una necessità vitale la solidarietà di classe a livello mondiale.
Schwalbe, 20/06/2010
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Qualche media borghese sta dando risalto agli operai di Pomigliano che parteggiano per il sì.
Al di là dell'esito di qualsiasi pseudo-referendum sindacale, penso sia importante stabilire realmente quanti sono questi personaggi, di che quota di Pomigliano stiamo parlando.
Penso sia rilevante la questione, proprio perché assistiamo ad uno splendido esempio di solidarietà di classe (lettera dei nostri fratelli polacchi) ed è importante capire se ci possiamo aspettare prossimamente un importante episodio di lotta di classe internazionale, oppure il solito sfacelo. E di chi sarà la colpa.
Questa vicenda è molto significativa, può essere un indice di quanto grande e omogenea (oppure piccola e frammentata) sia la coscienza di classe; se salta fuori che l'80% di Pomigliano è per il sì, possiamo già andare dai nostri compagni polacchi e dire di cestinare la loro lettera perché qui a Pomigliano "siamo ancora al medioevo". Al contrario, se si tratta di una fisiologica retroguardia, Pomigliano continua a vivere; io sono convinto e fiducioso di questa seconda situazione.
Dal momento che non possiamo fidarci degli infimi media borghesi, sarebbe grandioso se qualche compagno di zona potesse fornire informazioni veritiere a riguardo.
Grazie e, ancora una volta, massima solidarietà ai nostri compagni italiani, polacchi e di tutto il mondo.
Daniele, 20/06/2010
Compagni!
Oggi l’umanità fa fronte alla stessa alternativa posta dalla vigilia della Prima Guerra mondiale, secondo le parole di Rosa Luxemburg e di Friedrich Engels prima di lei: socialismo o barbarie!
Il sistema capitalista mondiale conosce la sua peggiore crisi economica dalla Grande depressione degli anni 1930 ad oggi, la classe operaia è colpita in pieno, ognuno deve fare i conti con il blocco dei salari, i licenziamenti, peggiori condizioni di lavoro. La minaccia di una catastrofe ambientale globale sembra più che mai possibile. Conflitti sanguinosi e brutali imperversano sul pianeta, dall’Iraq all’Afghanistan, dalla Somalia al Sudan, dalla Colombia al Messico.
In contrapposizione a queste emanazioni di una società moribonda, vediamo anche nella lotta della classe operaia internazionale i germi di un nuovo mondo - senza sfruttamento né oppressione, senza povertà né miseria, senza guerre e senza frontiere nazionali.
La Sinistra comunista è nata dalle correnti di sinistra dell’Internazionale Comunista sorte in risposta alle scivolate opportuniste di questa nel momento del riflusso dell’ondata rivoluzionaria internazionale degli anni 1920. Espressioni della Sinistra comunista erano presenti in numerosi paesi, ma i suoi rappresentanti più eminenti si ebbero in Germania, nei Paesi Bassi, in Italia ed in Russia. Nel periodo di controrivoluzione, apertosi alla fine degli anni 1920, la Sinistra comunista dà prova di essere il difensore più intransigente dell’internazionalismo proletario e il più rigoroso nel bilancio tratto dall’ondata rivoluzionaria.
Dei simpatizzanti della Sinistra comunista esistono finanche in Australia, fino ad ora lo sono solamente in quanto individui e soffrono notevolmente dell’isolamento politico. Al fine di poter intervenire effettivamente nella lotta di classe, è necessario che i rivoluzionari si organizzino in un’organizzazione politica sulla base di posizioni e di principi condivisi.
Tuttavia, nell’immediato, la formazione di un tale gruppo in Australia non è all’ordine del giorno. Ciò che è necessario per ora è il raggruppamento degli internazionalisti per la discussione, condotta allo scopo di iniziare e mantenere il contatto tra compagni (in particolare quelli che sono isolati geograficamente) ed di avere un chiarimento politico collettivo delle posizioni che definiscono il programma comunista oggi.
Per questo noi facciamo un appello all’apertura di discussioni organizzate tra tutti i simpatizzanti della Sinistra comunista in Australia. Proponiamo che le discussioni siano condotte sotto il nome di “Rete comunista internazionalista associata”.
Proponiamo che il criterio per parteciparvi sia un accordo con le posizioni più elementari della Sinistra comunista oggi, e cioè:
• La guerra imperialista ed i movimenti nazionali di ogni tipo non hanno niente da offrire alla classe operaia se non morte e distruzione. La classe operaia deve opporsi a tutti i campi borghesi. Inducendoli a schierarsi con una frazione o un’altra, la borghesia divide gli operai e li conduce al massacro delle loro sorelle e dei loro fratelli di classe.
• Il parlamento e le elezioni borghesi sono una mascherata. La “democrazia” capitalista fondamentalmente non differisce da qualsiasi altra forma di dittatura capitalista. Ogni appello a partecipare al circo parlamentare può solamente rafforzare la menzogna secondo la quale le elezioni offrirebbero una vera scelta agli sfruttati.
• Tutti i sindacati sono organi del sistema capitalista ed agiscono al suo servizio. Il ruolo fondamentale dei sindacati è fare da polizia nella classe operaia e sabotare le sue lotte. Per difendere i suoi interessi immediati, ed in ultima istanza per riuscire a fare la rivoluzione, la classe operaia deve battersi al di fuori e contro i sindacati.
Tutti quelli che possono essere interessati a prendervi parte sono invitati a scrivere ad [email protected] [28]
E’ benvenuto anche ogni commento, domanda e critica.
Con i nostri saluti comunisti fraterni, F., J., M., N., Th.
L'opuscolo di Pannekoek mostra che il libro di Darwin, La filiazione dell'uomo, costituisce una netta smentita all'ideologia reazionaria del "darwinismo sociale" sostenuto particolarmente da Herbert Spencer, che si basava sul meccanismo della selezione naturale, descritto ne L'origine delle specie, per dare una cauzione pseudo scientifica alla logica del capitalismo basato sulla concorrenza, la legge del più forte e l'eliminazione dei meno "adattati". A tutti i "darwinisti sociali" di ieri e di oggi (da lui designati col nome di "darwinisti borghesi"), Pannekoek risponde con molta chiarezza, basandosi su Darwin: "Quest’ultimo getta una luce nuova sul punto di vista dei darwinisti borghesi. Questi proclamano che solo l'eliminazione dei deboli è naturale e che è necessaria per impedire la corruzione della razza. D’altra parte, la protezione portata ai deboli è contro natura e contribuisce al decadimento della razza. Ma cosa vediamo? Nella stessa natura, nel mondo animale, constatiamo che i deboli sono protetti, che non si mantengono grazie alla loro propria forza personale, e che non sono scartati a causa della loro debolezza individuale. Queste disposizioni non indeboliscono il gruppo, ma gli conferiscono una forza nuova. Il gruppo animale nel quale l'aiuto reciproco è meglio sviluppato, è il meglio adatto per preservarsi nei conflitti. Ciò che, secondo la concezione stretta di questi darwinisti, appariva come fattore di debolezza, diventa esattamente l'inverso, un fattore di forza rispetto a cui gli individui forti che conducono la lotta individualmente non reggono il paragone".
In questa seconda parte del suo opuscolo, Pannekoek esamina anche, con grande rigore dialettico, come l'evoluzione dell'uomo ha permesso a quest’ultimo di liberarsi della sua animalità e da certe contingenze della natura, grazie allo sviluppo congiunto del linguaggio, del pensiero e degli attrezzi. Tuttavia, riprendendo l'analisi sviluppata da Engels nel suo articolo incompiuto "Il ruolo del lavoro nella trasformazione della scimmia in uomo" (pubblicato ne La dialettica della natura), tende a sottovalutare il ruolo fondamentale del linguaggio nello sviluppo della vita sociale della nostra specie.
Quest’articolo di Pannekoek è stato redatto un secolo fa e non poteva dunque integrare le ultime scoperte scientifiche, in particolare in primatologia. Gli studi recenti sul comportamento sociale delle scimmie antropoidi ci permettono di affermare che il linguaggio umano non è stato selezionato in primo luogo per la fabbricazione degli attrezzi (come sembrava pensare Pannekoek, al seguito di Engels), ma fin dall’inizio per il consolidamento dei legami sociali (senza i quali i primi uomini non avrebbero potuto comunicare per costruire dei ripari, proteggersi dai predatori e dalle forze ostili della natura, e trasmettere soprattutto le loro conoscenze da una generazione all'altra).
Sebbene il testo di Pannekoek abbia dato un quadro molto argomentato sul processo dello sviluppo delle forze produttive derivante dalla fabbricazione dei primi utensili, esso, tuttavia, tende a ridurre queste ultime alla sola soddisfazione dei bisogni biologici dell'uomo, in particolare la soddisfazione della fame, ed a perdere così di vista che la nascita dell'arte che è apparsa presto nella storia dell'umanità, ha costituito anche una tappa fondamentale nella differenziazione della specie umana dal regno animale.
D’altra parte se, come già visto, Pannekoek spiega, in modo molto sintetico ma con chiarezza e notevole semplicità, la teoria darwinista dell'evoluzione dell'uomo, non va sufficientemente lontano, a nostro avviso, nella comprensione dell'antropologia di Darwin. In particolare, non mette in evidenza che con la selezione naturale degli istinti sociali, la lotta per l'esistenza ha selezionato dei comportamenti anti-eliminatori che hanno dato nascita alla morale[1]. Operando una rottura tra morale naturale e morale sociale, tra natura e cultura, Pannekoek non aveva sufficientemente compreso la continuità evolutiva che esiste tra la selezione degli istinti sociali, la protezione dei deboli attraverso l’aiuto reciproco, e ciò che ha permesso all'uomo di immettersi sulla strada della civiltà. È proprio questo allargamento della solidarietà e della coscienza di appartenere alla stessa specie che ha permesso all'umanità, ad un certo stadio del suo sviluppo, di enunciare, sotto l'impero romano, come del resto sottolinea lo stesso testo di Pannekoek, questa formula del cristianesimo:"Tutti gli uomini sono fratelli".
Opuscolo di Anton Pannekoek (seguito)
VI - Legge naturale e teoria sociale
Le false conclusioni tratte da Haeckel e Spencer sul socialismo non sono per niente sorprendenti. Il darwinismo ed il marxismo sono due teorie distinte, una che si applica al mondo animale, l'altra alla società. Si completano nel senso in cui il mondo animale si sviluppa secondo le leggi della teoria darwiniana fino alla tappa dell'uomo e, a partire dal momento in cui quest’ultimo si è staccato dal mondo animale, è il marxismo che rende conto della legge dello sviluppo. Quando si vuole fare passare una teoria da un campo all'altro, all’interno dei quali si applicano leggi differenti, si possono solo trarre deduzioni erronee.
E’ questo il caso quando vogliamo scoprire, a partire dalle leggi della natura, quale forma sociale è naturale ed è la più conforme con la natura; ed è esattamente questo che i darwinisti borghesi hanno fatto. Hanno dedotto dalle leggi che governano il mondo animale, dove viene applicata la teoria darwiniana, che l'ordine sociale capitalista è in conformità con questa teoria, ed è questo l’ordine naturale che deve sempre durare. D’altra parte, ci sono anche stati dei socialisti che volevano provare allo stesso modo che il sistema socialista è il sistema naturale. Questi socialisti dicevano:
“Sotto il capitalismo, gli uomini non conducono la lotta per l'esistenza ad armi pari, ma con armi artificialmente impari. La superiorità naturale di coloro che sono più sani, più forti, più intelligenti o moralmente migliori, non può predominare in nessun modo finché sono la nascita, la classe sociale o soprattutto il possesso del denaro a determinare questa lotta. Il socialismo, sopprimendo tutte queste disuguaglianze artificiali, rende le condizioni favorevoli per tutti, ed è allora solamente che la vera lotta per l'esistenza prevarrà ed in cui l'eccellenza personale costituirà il fattore decisivo. Secondo i principi darwinisti, il modo di produzione socialista costituirebbe dunque quello che sarebbe veramente naturale e logico”.
In quel momento, in quanto critica alle concezioni dei darwinisti borghesi, quest’argomentazione non è male, tuttavia è sbagliata quanto queste ultime. Le due opposte dimostrazioni sono false perché tutte e due partono dalla premessa, da tempo superata, secondo la quale esisterebbe un solo sistema sociale naturale o logico.
Il marxismo ci ha insegnato che non esiste il sistema sociale naturale e che non potrebbe essere possibile o, detto in un altro modo, che ogni sistema sociale è naturale, perché ogni sistema sociale è necessario e naturale nelle condizioni date. Non c'è un solo sistema sociale definito che possa definirsi naturale; i differenti sistemi sociali si succedono l’uno all’altro a causa dello sviluppo delle forze produttive. Ogni sistema dunque è il sistema naturale per la sua particolare epoca, come il successivo lo sarà per un'epoca ulteriore. Il capitalismo non è il solo ordine naturale, come crede la borghesia, e nemmeno il sistema socialista mondiale è l’unico ordine naturale, come certi socialisti hanno tentato di provare. Il capitalismo è stato naturale nelle condizioni del diciannovesimo secolo, proprio come il feudalismo lo era nel Medio evo, e come lo sarà il socialismo allo stadio di sviluppo futuro delle forze produttive. Il tentativo di promuovere un sistema dato come il solo sistema naturale è proprio tanto futile come il volere designare un animale e dire che esso è il più perfetto di tutti gli animali. Il darwinismo ci insegna che ogni animale è egualmente adatto ed anche perfetto nella sua forma per adattarsi al suo particolare ambiente naturale. Allo stesso modo, il marxismo ci insegna che ogni sistema sociale è adatto particolarmente alle sue condizioni e che, in questo senso, può essere qualificato buono e perfetto.
E’ questa la ragione principale per cui i tentativi dei darwinisti borghesi per difendere il sistema capitalista decadente sono destinato all'insuccesso. Gli argomenti basati sulla scienza della natura, quando sono applicati alle questioni sociali, conducono quasi sempre a conclusioni erronee. Infatti, mentre la natura non cambia nelle sue grandi linee durante la storia dell'umanità, la società umana, al contrario, subisce dei cambiamenti rapidi e continui. Per comprendere la forza motrice e la causa dello sviluppo sociale, dobbiamo studiare la società come tale. Il marxismo ed il darwinismo devono ciascuno restare nel loro proprio campo; sono indipendenti l’uno dall'altro e non esiste nessuno legame diretto tra loro.
Qui nasce una domanda molto importante. Possiamo fermarci alla conclusione secondo cui il marxismo si applica unicamente alla società ed il darwinismo unicamente al mondo organico, e che né l’una né l'altra di queste teorie è applicabile all'altro campo? Da un punto di vista pratico, è molto comodo avere un principio per il mondo umano ed un altro per il mondo animale. Tuttavia, adottando questo punto di vista, dimentichiamo che l'uomo è anche un animale. L'uomo si è sviluppato a partire dall'animale, e le leggi che si applicano al mondo animale non possono, improvvisamente, perdere la loro applicabilità all'essere umano. È vero che l'uomo è un animale molto particolare, ma proprio per questo è necessario scoprire, a partire da queste stesse particolarità, perché i principi applicabili a tutti gli animali non si applicano agli uomini, o perché prendono una forma differente.
Qui, tocchiamo un altro problema. I darwinisti borghesi non hanno questo problema; dichiarano semplicemente che l'uomo è un animale e si lanciano senza riserva nell'applicazione dei principi darwiniani agli uomini. Abbiamo visto a quali conclusioni erronee arrivano. Per noi, questa domanda non è così semplice; per prima cosa abbiamo il dovere di avere una visione chiara delle differenze che esistono tra gli uomini e gli animali, poi, a partire da queste differenze, deve conseguire la ragione per la quale, nel mondo umano, i principi darwiniani si trasformano in principi totalmente differenti, e cioè in quelli del marxismo.
VII - Il carattere sociale dell’uomo
La prima particolarità che osserviamo nell'uomo è che esso è un essere sociale. In ciò, non differisce da tutti gli animali perchè anche tra questi ultimi ci sono molte specie che vivono in modo sociale. Ma l'uomo differisce da tutti gli animali che abbiamo osservato fino qui parlando della teoria darwiniana, da quelli che vivono separatamente, ciascuno per sé e che lottano contro tutti gli altri per provvedere ai loro bisogni. Non è ai predatori che vivono in modo separato, e che sono gli animali modello dei Darwinisti borghesi, che l'uomo deve essere paragonato, ma a quelli che vivono socialmente. La socievolezza è una forza nuova di cui fino ad ora non abbiamo tenuto ancora conto; una forza che richiede nuovi rapporti e nuove qualità agli animali.
È un errore considerare la lotta per l'esistenza come la sola onnipotente forza che dà forma al mondo organico. La lotta per l'esistenza è la principale forza che è all'origine delle nuove specie, ma lo stesso Darwin sapeva bene che altre forze cooperano e determinano le forme, le abitudini e le particolarità del mondo organico. Nel suo libro pubblicato più tardi, La Filiazione dell'uomo, Darwin ha trattato minuziosamente la selezione sessuale e ha mostrato che la concorrenza dei maschi per le femmine ha dato nascita ai vari colori variopinti degli uccelli e delle farfalle e, anche, ai melodiosi canti degli uccelli. Ha anche dedicato tutto un capitolo alla vita sociale. Si possono trovare così molti esempi su questa questione nel libro di Kropotkin, L’aiuto reciproco, un fattore di evoluzione. La migliore esposizione degli effetti della socialità si trova ne L'etica e la concezione materialista della storia di Kautsky.
Quando un certo numero di animali vive in gruppo, in mandria o in branco, questi conducono in comune la lotta per l'esistenza contro il mondo esterno; all’interno di un tale gruppo la lotta per l'esistenza cessa. Gli animali che vivono socialmente non si impegnano più gli uni contro gli altri in combattimenti dove i deboli soccombono; è esattamente l'inverso, i deboli godono degli stessi vantaggi dei forti. Quando alcuni animali hanno il vantaggio di un odorato più fine, una maggiore forza, o l'esperienza che permette loro di trovare il pascolo migliore o evitare il nemico, questo vantaggio non beneficia solamente loro stessi, ma anche l’intero gruppo, compresi gli individui meno abili. Il fatto che gli individui meno abili sono uniti ai più abili permette ai primi di superare, fino ad un certo punto, le conseguenze delle loro proprietà meno favorevoli.
L’uso in comune delle differenti forze favorisce l'insieme dei membri. Esso conferisce al gruppo un nuovo potere che è molto più importante di quello di un solo individuo, anche se più forte. È grazie a questa forza unita che gli erbivori senza difesa possono tener testa ai predatori. È solamente per mezzo di questa unità che certi animali sono capaci di proteggere i loro piccoli. La vita sociale favorisce dunque enormemente l'insieme dei membri del gruppo.
Un secondo vantaggio della socialità viene dal fatto che, quando gli animali vivono socialmente, c'è una possibilità di divisione del lavoro. Questi animali utilizzano dei giovani esploratori o pongono delle sentinelle il cui compito è assicurare la sicurezza di tutti, mentre gli altri tranquillamente mangiano o raccolgono, contando sulle loro guardie per essere avvertiti del pericolo.
Una tale società animale diventa, sotto certi punti di vista, un'unità, un solo organismo. I rapporti restano naturalmente, molto più larghi rispetto a quelli che regnano tra le cellule di un solo corpo animale; infatti i membri restano uguali tra loro – è solamente nelle formiche, nelle api ed in altri insetti che si sviluppa una distinzione organica - ed essi sono capaci, in condizioni certo più sfavorevoli, di vivere isolatamente. Tuttavia, il gruppo diventa un corpo coerente, e deve esserci una certa forza che lega tra loro i differenti membri.
Questa forza non è altro che la motivazione sociale, l'istinto che mantiene gli animali riuniti e che permette così la sopravvivenza del gruppo. Ogni animale deve porre i suoi interessi al di sotto dell'interesse dell'insieme del gruppo; deve sempre agire istintivamente per il beneficio del gruppo senza considerazione per sé. Se ciascuno dei deboli erbivori pensa solamente a sé e fugge quando è attaccato da una fiera, il gregge riunito si sparpaglia di nuovo. E’ solamente quando il motivo forte dell'istinto di conservazione è contrastato da un motivo ancora più forte di unione, e che ogni animale rischia la sua vita per la protezione di tutti, è solamente allora che il gruppo si mantiene ed approfitta dei vantaggi di rimanere raggruppato. Il sacrificio di sé, il coraggio, la devozione, la disciplina e la fedeltà devono sorgere in questo modo, perché là dove queste qualità non esistono, la coesione si dissolve; la società può esistere solamente là dove esistono tali qualità.
Questi istinti, pure avendo la loro origine nell'abitudine e nella necessità, sono rafforzati dalla lotta per l'esistenza. Ogni gruppo animale si trova sempre in una lotta di concorrenza con gli stessi animali di un gruppo differente; i gruppi che sono più abili a resistere al nemico sopravvivranno, mentre quelli che sono meno attrezzati spariranno. I gruppi in cui l'istinto sociale è più sviluppato potranno meglio sostenersi, mentre il gruppo in cui l'istinto sociale è poco sviluppato, o diventa una facile preda per i suoi nemici, o non sarà in grado di trovare i pascoli più favorevoli alla sua esistenza. Questi istinti sociali diventano dunque i fattori più importanti e più decisivi nel determinare chi sopravvivrà nella lotta per l'esistenza. È a causa di ciò che gli istinti sociali sono stati elevati alla posizione di fattori predominanti nella lotta per la sopravvivenza.
Tutto ciò getta una luce interamente nuova sul punto di vista dei darwinisti borghesi. Questi ultimi proclamano che solo l'eliminazione dei deboli è naturale e che è necessaria per impedire la corruzione della razza. D’altronde (dicono) la protezione portata ai deboli è contro natura e contribuisce al decadimento della razza. Ma che cosa vediamo? Nella stessa natura, nel mondo animale, constatiamo che i deboli sono protetti, che non si mantengono grazie alla loro forza personale, e che non sono esclusi a causa della loro debolezza individuale. Queste disposizioni non indeboliscono il gruppo, ma gli conferiscono una forza nuova. Il gruppo animale in cui l'aiuto reciproco è meglio sviluppato, è meglio adattato per preservarsi nei conflitti. Quello che, secondo la concezione stretta di questi darwinisti, appariva come fattore di debolezza, diventa esattamente l'inverso, un fattore di forza contro cui gli individui forti che conducono individualmente la lotta non contano. La razza, che si pretende degenerata e corrotta, ottiene la vittoria e si rivela nella pratica la più abile e la migliore.
Vediamo qui subito fino a che punto le affermazioni dei darwinisti borghesi sono così limitate, rivelano una grettezza mentale ed un'assenza di spirito scientifico. Fanno derivare le loro leggi naturali e le loro concezioni da ciò che in natura riguarda una parte del mondo animale alla quale l'uomo somiglia di meno, gli animali solitari, mentre lasciano da parte l'osservazione degli animali che vivono praticamente nelle stesse circostanze dell'uomo. Se ne può trovare la ragione nelle loro condizioni di vita; appartengono ad una classe dove ciascuno è in concorrenza individuale con l'altro. Di conseguenza, non vedono negli animali che la forma della lotta per l'esistenza che corrisponde alla lotta della concorrenza borghese. È per questa ragione che trascurano le forme di lotta che sono importantissime per gli uomini.
È vero che i darwinisti borghesi sono coscienti del fatto che tutto, nel mondo animale come nell'umano, non si riduce al puro egoismo. Gli scienziati borghesi dicono frequentemente che ogni uomo è caratterizzato da due sentimenti: il sentimento egoista o amore di sé, ed il sentimento altruistico, o amore degli altri. Ma poiché non conoscono l'origine sociale di questo altruismo, non possono comprendere i suoi limiti né le sue condizioni. L'altruismo, per loro, diventa un'idea molto vaga che non sanno maneggiare.
Tutto ciò che si applica agli animali sociali si applica anche all'uomo. I nostri antenati che somigliavano alle scimmie e agli uomini primitivi e che si sono sviluppati a partire da essi erano tutti animali deboli, senza difesa che, come quasi tutte le scimmie, vivevano in tribù. In essi, sono probabilmente apparsi gli stessi motivi e gli stessi istinti sociali che, più tardi, nell'uomo, si sono sviluppati sotto forma di sentimenti morali. Il fatto che i nostri costumi e le nostre morali non siano niente altro che sentimenti sociali, sentimenti che incontriamo negli animali, è noto a tutti; Darwin ha anche già parlato delle "abitudini degli animali in rapporto coi loro atteggiamenti sociali che negli uomini si chiamerebbero morale". La differenza risiede solamente nel grado di coscienza; appena questi sentimenti sociali diventano chiaramente coscienti per gli uomini, prendono il carattere di sentimenti morali. Qui vediamo che la concezione morale - che gli autori borghesi consideravano come la differenza principale tra gli uomini e gli animali - non è propria agli uomini, ma è un prodotto diretto delle condizioni esistenti nel mondo animale.
Il fatto che i sentimenti morali non si estendono al di là del gruppo sociale al quale l'animale o l'uomo appartengono, risiede nella natura della loro origine. Questi sentimenti servono allo scopo pratico di preservare la coesione del gruppo; al di fuori, sono inutili. Nel mondo animale, l’estensione e la natura del gruppo sociale sono determinate dalle circostanze della vita, e dunque il gruppo rimane quasi sempre lo stesso. Negli uomini, i gruppi, queste unità sociali, sono, al contrario, sempre mutevoli in funzione dello sviluppo economico, e questo cambia anche il campo di validità degli istinti sociali.
I vecchi gruppi, all'origine tribù selvagge e barbare, erano molto più uniti dei gruppi animali non solo perché erano in concorrenza ma anche perché si facevano direttamente la guerra. I rapporti familiari ed un linguaggio comune hanno rafforzato più tardi questa unità. Ogni individuo dipendeva interamente dal sostegno della sua tribù. In queste condizioni, gli istinti sociali, i sentimenti morali, la subordinazione dell'individuo al tutto, si sono potuti sviluppare al massimo. Con lo sviluppo ulteriore della società, le tribù si sono disciolte in entità economiche più larghe e così si sono riunite nelle città e nei popoli.
Nuove società prendono il posto delle vecchie, ed i membri di queste entità proseguono la lotta per l'esistenza in comune contro altri popoli. In una proporzione uguale allo sviluppo economico, la dimensione di queste entità aumenta, all’interno di esse la lotta di ciascuno contro gli altri si indebolisce ed i sentimenti sociali si diffondono. Alla fine dell'antichità, constatiamo che tutti i popoli conosciuti intorno al Mediterraneo formano allora un'unità, l'impero romano. In quest’epoca, nasce anche la dottrina che estende i sentimenti morali all'umanità intera e formula il dogma secondo il quale tutti gli uomini sono fratelli.
Quando consideriamo la nostra epoca, vediamo che economicamente tutti i popoli formano sempre più una unità, anche se è un'unità debole. Perciò, regna un sentimento - sebbene relativamente astratto - di una fraternità che ingloba l'insieme dei popoli civilizzati. Ben più forte è il sentimento nazionale, soprattutto presso la borghesia, perché le nazioni costituiscono le entità in lotta costante della borghesia. I sentimenti sociali sono più forti verso i membri della stessa classe, perché le classi costituiscono le unità sociali essenziali, incarnando gli interessi convergenti dei propri membri. Così vediamo che le entità sociali ed i sentimenti sociali cambiano nella società umana, secondo il progresso dello sviluppo economico[2].
VIII - Utensili, pensiero e linguaggio
La socialità, con le sue conseguenze, gli istinti morali, costituisce una particolarità che distingue l'uomo da certi animali, ma non del tutto. Esistono, tuttavia, delle particolarità che appartengono solamente all'uomo e che lo differenziano dall'insieme del mondo animale. Queste sono, in primo luogo, il linguaggio, poi la ragione. L'uomo è anche il solo animale che si serve di utensili da lui fabbricati.
Gli animali presentano queste proprietà in germe, mentre negli uomini si sono sviluppate attraverso nuove caratteristiche specifiche. Molti animali hanno un tipo di voce e possono, per mezzo di suoni, comunicare le loro intenzioni, ma solo l'uomo emette suoni come dei nomi che gli servono per indicare delle cose e delle azioni. Gli animali hanno anche un cervello con cui pensano, ma l'intelligenza umana rivela, come lo vedremo più tardi, un orientamento interamente nuovo, che designiamo come un pensiero razionale o astratto. Anche gli animali si servono di oggetti inanimati che utilizzano in certi scopi; per esempio, la costruzione dei nidi. Le scimmie talvolta utilizzano dei bastoni o delle pietre, ma solo l'uomo utilizza gli attrezzi che si costruisce deliberatamente per scopi particolari. Queste tendenze primitive degli animali ci convincono che le particolarità che l'uomo possiede gli sono venute, non grazie al miracolo della creazione, ma attraverso un lento sviluppo. Comprendere come queste prime tracce di linguaggio, di pensiero e di utilizzazione di utensili si siano sviluppate in tali nuove proprietà di primaria importanza nell'uomo, implica la problematica dell'umanizzazione dell'animale.
Solo l'essere umano in quanto animale sociale è stato capace di questa evoluzione. Gli animali che vivono solitari non possono giungere ad un tale livello di sviluppo. All'infuori della società, il linguaggio è inutile tanto quanto l’occhio nell'oscurità, ed è destinato a spegnersi. Il linguaggio è possibile solamente nella società, ed è solamente là che è necessario come mezzo di deliberazione tra i suoi membri. Tutti gli animali sociali possiedono certi mezzi per esprimere le loro intenzioni, diversamente non potrebbero agire secondo un piano collettivo. I suoni che erano necessari come mezzo per comprendersi durante il lavoro collettivo per l'uomo primitivo, si sono dovuti sviluppare lentamente fino ai nomi di attività e poi di cose.
L'utilizzazione degli attrezzi presuppone anche una società, perché è solamente attraverso la società che le esperienze possono essere preservate. In uno stato di vita solitaria, ciascuno avrebbe dovuto scoprire questo impiego per lui solo e, con la morte dell'inventore, la scoperta sarebbe così sparita, e ciascuno avrebbe dovuto ricominciare tutto dall'inizio. È solamente con la società che l'esperienza e la conoscenza delle vecchie generazioni possono essere preservate, perpetuate ed evolute. In un gruppo o una tribù, alcuni possono morire, ma il gruppo in qualche modo è immortale. Sopravvive. La conoscenza dell'utilizzazione degli attrezzi non è innata, è acquistata più tardi. E’per tale motivo che una tradizione intellettuale è indispensabile, ed essa non è possibile che nella società.
Se queste caratteristiche specifiche all'uomo sono inseparabili dalla sua vita sociale, esse sono anche fortemente collegate tra loro. Queste caratteristiche non si sono sviluppate separatamente, ma hanno progredito tutte in comune. Che il pensiero ed il linguaggio potevano esistere e svilupparsi solamente in comune è conosciuto da tutti coloro che hanno tentato di immaginarsi la natura del loro pensiero. Quando pensiamo o riflettiamo, in realtà, parliamo a noi stessi ed allora noi osserviamo che è impossibile pensare chiaramente senza adoperare delle parole. Quando non pensiamo con le parole, i nostri pensieri restano imprecisi e non arriviamo a cogliere i pensieri specifici. Ciascuno di noi può comprendere ciò sperimentandolo da sé. Ciò capita perché il ragionamento detto astratto è un pensiero percettivo e non può avere luogo che attraverso concetti. E non possiamo designare e padroneggiare questi concetti che attraverso delle parole. Ogni tentativo per allargare il nostro pensiero, ogni tentativo per fare avanzare la nostra conoscenza deve cominciare dalla distinzione e dalla classificazione per mezzo di nomi o dando alle vecchie denominazioni un significato più preciso. Il linguaggio è il corpo del pensiero, il solo materiale con cui è costruita ogni scienza umana.
La differenza tra la mente umana e quella animale è stata mostrata con pertinenza da Schopenhauer in una citazione che è stata ripresa anche da Kautsky ne L'etica e la Concezione Materialista della storia (pagine 139-40 della traduzione in inglese). Gli atti dell'animale dipendono da motivi visuali, da ciò che vede, intende, sente od osserva. Quasi sempre possiamo vedere e dire ciò che spinge un animale a fare questo o quello perché, anche noi, possiamo vederlo se facciamo attenzione. Tuttavia, con l'uomo è totalmente differente. Non possiamo prevedere ciò che farà, perché non conosciamo i motivi che lo spingono ad agire: i pensieri nella sua testa. L'uomo riflette e, facendo ciò, fa entrare in gioco tutta la sua conoscenza, risultato delle sue vecchie esperienze, ed è in quel momento che decide come agire. Gli atti di un animale dipendono da un'impressione immediata, mentre quelli dell'uomo dipendono da concezioni astratte, da pensieri e da concetti. L'uomo è in qualche modo "mosso da fili invisibili e sottili. Così tutti i suoi movimenti danno l'impressione di essere guidati dai principi e dalle intenzioni che danno loro l'aspetto dell'indipendenza e li distinguono evidentemente da quelli degli animali".
Poiché hanno esigenze corporali, gli uomini e gli animali sono costretti a soddisfarle nella natura circostante. La percezione sensoriale costituisce l'impulso ed il motivo immediato; la soddisfazione dei bisogni è l'obiettivo e lo scopo dell'azione appropriata. Nell'animale, l'azione interviene immediatamente dopo l'impressione. Vede la sua preda o il suo cibo e, immediatamente, salta, afferra, mangia, oppure fa ciò che è necessario per afferrarla, e questo è l'eredità del suo istinto. L'animale sente un rumore ostile e, immediatamente, fugge se le sue zampe sono sviluppate sufficientemente per correre velocemente, o si stende e fa il morto per non essere visto se il suo colore gli serve da protezione. Nell'uomo, invece, tra le sue percezioni ed i suoi atti, passa nella sua testa una lunga catena di pensieri e di riflessioni. I suoi atti dipenderanno dal risultato di queste riflessioni.
Da dove viene questo differenza? Non è difficile vedere che è associata strettamente all'utilizzazione degli attrezzi. Come il pensiero si inserisce tra le percezioni dell'uomo ed i suoi atti, l'attrezzo si inserisce tra l'uomo e gli oggetti che cerca di afferrare. Inoltre, poiché l'attrezzo si inserisce tra l'uomo e gli oggetti esterni, anche il pensiero deve sorgere tra la percezione e le esecuzioni. L'uomo non si getta a mani nude sul suo obiettivo, sia esso il suo nemico o il frutto da raccogliere, ma procede in modo indiretto; prende un attrezzo, un'arma (anche le armi sono degli attrezzi) che utilizza verso il frutto o contro l'animale ostile. E’ per tale motivo che, nella sua testa, la percezione sensoriale non può essere seguita immediatamente dall'atto, ma la mente deve prendere una svolta: ha il dovere di pensare prima agli attrezzi e poi perseguire il suo obiettivo. La svolta materiale crea lo svolta mentale; il pensiero supplementare è il risultato dell'attrezzo supplementare.
Qui abbiamo considerato un caso estremamente semplice di attrezzi primitivi e le prime fasi dello sviluppo mentale. Quando la tecnica si complica, quando la svolta materiale è più grande, la mente deve, di conseguenza, compiere svolte più grandi. Quando ciascuno fabbricava i propri attrezzi, il ricordo della fame e della lotta doveva orientare la mente umana verso l'attrezzo e verso la sua fabbricazione affinché fosse pronto ad essere utilizzato. Qui abbiamo una catena di pensieri più lunghi tra le percezioni e le soddisfazioni finali dei bisogni umani. Quando arriviamo alla nostra epoca, constatiamo che questa catena è molto più lunga e complessa. L'operaio che è licenziato prevede la fame che l'attende; acquista un giornale per vedere se ci sono offerte di lavoro; va alla ricerca di offerte, si presenta e solo più tardi gli toccherà un salario con cui potrà acquistare del cibo e proteggersi contro la carestia. Tutto ciò sarà innanzitutto deliberato nella sua testa prima di essere messo in pratica. Quale lunga e tortuosa strada la mente deve seguire prima di raggiungere il suo scopo! Ma ciò è conforme alla complessità della nostra attuale società in seno alla quale l'uomo non può soddisfare i suoi bisogni che attraverso una tecnica altamente evoluta.
E’ a questo punto che Schopenhauer attirava la nostra attenzione, lo svolgimento nel cervello del filo della riflessione che anticipa l'azione e che deve essere compreso come il prodotto necessario dell'impiego di attrezzi. Ma non sempre abbiamo accesso all'essenziale. L'uomo non è il padrone di un solo attrezzo, ne ha numerosi, che utilizza per obiettivi differenti e tra i quali può scegliere. L'uomo, a causa di questi attrezzi, non è come l'animale. L'animale non va mai al di là degli attrezzi e delle armi che la natura gli ha offerto, mentre l'uomo può cambiare attrezzi artificiali. È qui che si trova la differenza fondamentale tra l'uomo e gli animali. L'uomo è in qualche modo un animale dagli organi modificabili e per tale motivo deve avere la capacità di scegliere tra i suoi attrezzi. Nella sua testa vanno e vengono diversi pensieri, la sua mente esamina tutti gli attrezzi e le conseguenze della loro applicazione, ed i suoi atti dipendono da questa riflessione. Combina anche un pensiero con un'altro, e fa propria velocemente l'idea che conviene al suo scopo. Questa deliberazione, questo libero paragone di una serie di sequenze di riflessioni individualmente scelte, questa proprietà che differenzia fondamentalmente il pensiero umano dal pensiero animale deve essere connessa direttamente alla volontà di utilizzazione di attrezzi scelti.
Gli animali non hanno questa capacità; questa sarebbe loro inutile perché non saprebbero che cosa farsene. A causa della loro forma corporale, le loro azioni sono strettamente limitate. Il leone può solo balzare sulla sua preda, ma non può pensare di catturarla solo rincorrendola. La lepre è costituita in una maniera che può fuggire; non ha nessuno altro mezzo di difesa, anche se desidererebbe averlo. Questi animali non hanno niente da prendere in considerazione, eccetto il momento in cui bisogna saltare o correre, il momento in cui le impressioni raggiungono una forza sufficiente per lo scatenarsi dell'azione. Ogni animale è costituito in modo tale da adattarsi ad uno stile di vita definito. Le loro azioni diventano e sono trasmesse come abitudini, istinti. Queste abitudini certamente non sono immutabili. Gli animali non sono delle macchine, quando sono sottomessi a differenti circostanze, possono acquisire delle abitudini differenti. Fisiologicamente ed in ciò che riguarda le attitudini, il funzionamento del loro cervello non è differente dal nostro. È solo a livello pratico del risultato. Non è nella qualità del loro cervello, ma nella formazione del loro corpo che risiedono le restrizioni animali. L'atto dell'animale è limitato dalla sua forma corporale e dal suo campo, ciò che gli lascia poco spazio per riflettere. La ragione umana sarebbe dunque per l'animale una facoltà totalmente inutile e senza oggetto, che non potrebbe applicare e che gli farebbe più male che bene.
D’altro lato, l'uomo deve possedere questa capacità perché esercita il suo discernimento nell'utilizzazione degli attrezzi e delle armi, che sceglie in funzione di condizioni particolari. Se vuole uccidere il cervo agile, prende l'arco e le frecce; se incontra l'orso, utilizza l'ascia, e se vuole aprire un certo frutto rompendolo, prende un martello. Quando il pericolo lo minaccia, l'uomo deve decidere se deve fuggire o difendersi combattendo con le armi. Questa capacità di pensare e di riflettere gli è indispensabile nella sua utilizzazione di attrezzi artificiali, proprio come il risveglio della mente appartiene in generale alla libera mobilità del mondo animale.
Questa potente connessione tra i pensieri, il linguaggio e gli attrezzi, ciascuno impossibile senza gli altri due, mostra che questi ultimi si sono dovuti sviluppare allo stesso tempo. Come questo sviluppo abbia avuto luogo, possiamo solamente supporlo. Fu, probabilmente, un cambiamento nelle circostanze della vita che ha fatto di un animale scimmiesco l'antenato dell'uomo. Dopo essere emigrato dai boschi, habitat originale delle scimmie, verso le pianure, l'uomo ha dovuto subire un totale cambiamento di vita. La differenza tra le mani per afferrare ed i piedi per correre si devono essere sviluppati allora. Questo essere ha portato dalle sue origini le due condizioni fondamentali per uno sviluppo verso un livello superiore: la socialità e la mano scimmiesca, proprio adattati per afferrare oggetti. I primi oggetti grezzi, come le pietre o i bastoni, utilizzati sporadicamente nel lavoro collettivo, capitavano involontariamente nelle mani ed erano poi gettati. Ciò si è dovuto ripetere istintivamente ed inconsapevolmente così spesso da lasciare un'impronta nella mente di questi uomini primitivi.
Per l'animale, la natura circostante è un tutto indifferenziato di cui non è cosciente dei dettagli. Non può fare la distinzione tra diversi oggetti perché gli manca il nome delle parti distinte e degli oggetti che permettono la differenziazione. Sicuramente, quest’ambiente naturale non è immutabile. Ai cambiamenti che significano ‘cibo’ o ‘pericolo’, l'animale reagisce in modo appropriato, con azioni specifiche. Globalmente, tuttavia, la natura resta indifferenziata ed il nostro uomo primitivo, al suo livello più basso, ha dovuto essere allo stesso livello di coscienza. A partire da questa globalità, si impongono progressivamente per il lavoro stesso - il contenuto principale dell'esistenza umana - quelle cose che sono utilizzate per il lavoro. L'attrezzo che talvolta è un qualsiasi elemento inanimato del mondo esterno e che talvolta agisce come un organo del nostro corpo, ispirato dalla nostra volontà, si trova al tempo stesso fuori dal mondo esterno e fuori dal nostro corpo, queste dimensioni evidenti per l'uomo primitivo che egli non nota. Questi attrezzi che sono aiuti importanti, si sono visti attribuire una certa designazione, sono stati designati da un suono che allo stesso tempo richiamava l'attività particolare. Con questa designazione, l'attrezzo si libera come cosa particolare dal resto dell'ambiente naturale. L'uomo comincia così ad analizzare il mondo per mezzo di concetti e di nomi, la consapevolezza di sé fa la sua apparizione, degli oggetti artificiali sono ricercati di proposito ed utilizzati in conoscenza di causa per lavorare.
Questo processo - poiché è un processo molto lento - segna il principio della nostra trasformazione in uomini. Quando gli uomini hanno cercato deliberatamente e hanno utilizzato certi attrezzi, questi ultimi, possiamo dire, sono stati ‘prodotti’; da questa tappa a quella della fabbricazione di attrezzi, non c’è che un passo. Col primo nome ed il primo pensiero astratto, l'uomo è fondamentalmente nato. Una lunga strada resta allora da compiere: i primi attrezzi grezzi differiscono già secondo la loro utilizzazione; a partire dalla pietra appuntita otteniamo il coltello, il cuneo, la punta, la lancia; a partire dal bastone otteniamo la scure. Così, l'uomo primitivo è pronto ad affrontare la belva e la foresta e si presenta già come il futuro re della terra. Con una maggiore differenziazione degli attrezzi che più tardi andranno a servire alla divisione del lavoro, il linguaggio ed il pensiero prendono delle forme più ricche e nuove e, reciprocamente, il pensiero conduce l'uomo ad utilizzare meglio gli attrezzi, a migliorare i vecchi e ad inventarne di nuovi.
Così vediamo che una cosa ne comporta un'altra. La pratica delle relazioni sociali e del lavoro è la sorgente dove la tecnica, il pensiero, gli attrezzi e la scienza prendono la loro origine e si sviluppano continuamente. Attraverso il suo lavoro, l'uomo primitivo scimmiesco si è elevato alla vera umanità. L'utilizzazione degli attrezzi segna la grande rottura che va ad ingrandirsi in modo crescente tra gli uomini e gli animali.
IX - Organi animali ed attrezzi umani
È su questo punto che abbiamo la differenza principale tra gli uomini e gli animali. L'animale ottiene il suo cibo e vince i suoi nemici con i propri organi corporei; l'uomo fa la stessa cosa con l'aiuto di attrezzi artificiali. Organo (organon) è una parola greca che significa proprio attrezzo. Gli organi sono gli attrezzi naturali dell'animale, annesso al suo corpo. Gli attrezzi sono gli organi artificiali degli uomini. Meglio ancora: ciò che l'organo è per l'animale, la mano e l'attrezzo lo sono per l'uomo. Le mani e gli attrezzi compiono le funzioni che l'organo animale deve compiere da solo. Per la sua struttura, la mano, specializzata per tenere e manovrare diversi attrezzi, diventa un organo generale adattato ad ogni tipo di lavoro; gli attrezzi sono cose inanimate che sono prese a turno in mano e che fanno della mano un organo variabile che può compiere una diversità di funzioni.
Con la divisione di queste funzioni, si apre agli uomini un largo campo di sviluppo che gli animali non conoscono. Poiché la mano umana può utilizzare diversi attrezzi, può combinare le funzioni di tutti gli organi possibili che gli animali possiedono. Ogni animale è costruito ed è adattato ad un ambiente e ad uno stile di vita definito. L'uomo, con i suoi attrezzi, si adatta a tutte le circostanze ed è attrezzato per tutti gli ambienti naturali. Il cavallo è fatto per la prateria, e la scimmia per la foresta. Nella foresta, il cavallo si smarrirebbe come accadrebbe alla scimmia nella prateria. L'uomo, da parte sua, utilizza l'ascia nella foresta e la vanga nella prateria. Con i suoi attrezzi, l'uomo può aprirsi una strada in tutte le regioni del mondo e può stabilirsi ovunque. Mentre tutti gli animali possono vivere quasi solamente in regioni particolari, là dove possono provvedere ai loro bisogni, e non possono vivere altrove, l'uomo ha conquistato il mondo intero. Come ha espresso una volta uno zoologo, ogni animale possiede i suoi punti forti grazie ai quali si mantiene nella lotta per l'esistenza, e delle debolezze proprie che fanno di lui una preda per altri e gli impediscono di moltiplicarsi. In questo senso, l'uomo ha solo forza e non debolezza. Grazie ai suoi attrezzi, l'uomo è l’equivalente di tutti gli animali. Poiché i suoi attrezzi migliorano continuamente, l'uomo si sviluppa al di sopra di tutti gli animali. Con i suoi attrezzi, diventa il padrone di tutta la creazione, il Re della terra.
Anche nel mondo animale, esistono uno sviluppo ed un perfezionamento continuo degli organi. Ma questo sviluppo è legato ai cambiamenti del corpo dell'animale che rende lo sviluppo degli organi infinitamente lento, dettato dalle leggi biologiche. Nello sviluppo del mondo organico, migliaia di anni contano poco. L'uomo, al contrario, trasferendo il suo sviluppo organico su degli oggetti esterni, si è potuto liberare dall'asservimento alla legge biologica. Gli attrezzi possono essere trasformati velocemente, e la tecnica fa degli avanzamenti così veloci rispetto allo sviluppo degli organi animali, che può solo suscitare meraviglia. Grazie a questa nuova via, l'uomo ha potuto, durante il breve periodo di alcune migliaia di anni, elevarsi al di sopra dei più evoluti degli animali nel mentre che questi ultimi superavano i meno evoluti. Con l'invenzione degli attrezzi artificiali, in qualche modo, è stata messa la fine all'evoluzione animale. Il piccolo della scimmia si è sviluppato ad una velocità fenomenale fino ad un potere divino, ed egli ha preso possesso della terra sottomettendola alla sua autorità esclusiva. L'evoluzione, fin qui tranquilla e senza ingombro, del mondo organico, smette di svilupparsi secondo le leggi della teoria darwinista. È l'uomo che agisce nel mondo delle piante e degli animali in quanto selezionatore, domatore, coltivatore; ed è l'uomo che dissoda. Trasforma tutto l'ambiente naturale, creando nuove forme di piante e di animali adattate corrispondenti ai suoi obiettivi ed alla sua volontà.
Questo spiega anche perché, con l'apparizione degli attrezzi, il corpo umano non cambia più. Gli organi umani rimangono ciò che erano, all'eccezione notoria del cervello. Il cervello umano si è dovuto sviluppare parallelamente agli attrezzi; e, in effetti, vediamo che la differenza tra le razze più evolute dell'umanità e quelle meno evolute risiede principalmente nel contenuto del loro cervello. Ma anche lo sviluppo di questo organo si è dovuto fermare ad una certa tappa. Dall'inizio della civiltà, certe funzioni sono risparmiate continuamente al cervello attraverso mezzi artificiali; la scienza è conservata preziosamente in questi granai che sono i libri. La nostra facoltà di ragionamento di oggi non è talmente superiore a quella che avevano i greci, i Romani o anche i germanici, ma la nostra conoscenza si è sviluppata immensamente, e questo è dovuto, in grande parte, al fatto che il cervello è stato scaricato sui suoi sostituti, i libri.
Adesso che abbiamo stabilito la differenza tra gli uomini e gli animali, voltiamo di nuovo lo sguardo sul modo con cui i due gruppi sono implicati nella lotta per l'esistenza. Che questa lotta sia all'origine della perfezione nella misura in cui ciò che è imperfetto è eliminato, non può essere negato. In questo combattimento, gli animali si avvicinano sempre più alla perfezione. È tuttavia necessario essere più precisi nell'espressione e nell'osservazione di che cosa consiste questa perfezione. Facendo ciò, non possiamo più dire che sono gli animali nella loro totalità che lottano e si perfezionano. Gli animali lottano e si fanno concorrenza attraverso organi particolari, quelli che sono determinanti nella lotta per la sopravvivenza. I leoni non combattono con la loro coda; le lepri non si fidano della loro vista; ed il successo dei falchi non viene dal loro becco. I leoni lottano con l'aiuto dei loro muscoli, per balzare, e dei loro denti; le lepri contano sulle loro zampe e i loro orecchi, ed i falchi riescono grazie ai loro occhi ed alle loro ali. Se adesso ci chiediamo cosa è ciò che lotta ed entra in competizione, la risposta è: lottano gli organi e facendo questo, diventano sempre più perfetti. I muscoli ed i denti per il leone, le zampe e gli orecchi per la lepre, gli occhi e le ali per il falco conducono la lotta. È in questa lotta che gli organi si perfezionano. L'animale nel suo insieme dipende da questi organi e condivide la loro sorte, quello dei forti che saranno vittoriosi o dei deboli che saranno vinti.
Adesso, poniamoci la stessa domanda a proposito del mondo umano. Gli uomini non lottano per mezzo dei loro organi naturali, ma per mezzo di organi artificiali, con l'aiuto degli attrezzi, e delle armi che dobbiamo considerare come attrezzi. Anche qui, il principio della perfezione e dell'eliminazione attraverso la lotta di ciò che è imperfetto, si rivela reale. Gli attrezzi entrano in lotta, e ciò conduce sempre più al perfezionamento importante di questi ultimi. Le comunità tribali che utilizzano migliori attrezzi e migliori armi possono meglio assicurare la loro sussistenza e, quando entrano in lotta diretta con un'altra razza, la razza che è meglio dotata di attrezzi artificiali vincerà e sterminerà i più deboli. I grandi miglioramenti della tecnica e dei metodi di lavoro alle origini dell'umanità, come l'introduzione dell'agricoltura e dell'allevamento, fanno fisicamente dell'uomo una razza più solida che soffre meno della durezza degli elementi naturali. Le razze il cui materiale tecnico è meglio evoluto, possono cacciare o sottomettere quelle il cui materiale artificiale non è sviluppato, possono assicurarsi migliori terre e sviluppare la loro civiltà. Il dominio della razza[3] europea è basato sulla sua supremazia tecnica.
Qui vediamo che il principio della lotta per l'esistenza, formulato da Darwin e sottolineato da Spencer, esercita un effetto differente sugli uomini e sugli animali. Il principio secondo cui la lotta porta al perfezionamento delle armi utilizzate nei conflitti, conduce a risultati differenti negli uomini e negli animali. Nell'animale, conduce ad un sviluppo continuo degli organi naturali; è la base della teoria della filiazione, l’essenza del darwinismo. Negli uomini, conduce ad uno sviluppo continuo degli attrezzi, delle tecniche dei mezzi di produzione. E questo è il fondamento del marxismo.
Appare qui, dunque, che il marxismo ed il darwinismo non sono due teorie indipendenti che si applicherebbero ciascuna al loro campo specifico, senza nessuno punto comune tra esse. In realtà, lo stesso principio sottende le due teorie. Formano un'unità. La nuova direzione presa all'epoca dell'apparizione dell'uomo, la sostituzione degli attrezzi agli organi naturali, rende manifesto questo principio fondamentale in maniera differente nei due campi; quello del mondo animale si sviluppa secondo il principio darwinista mentre, per l'umanità, è il marxismo che individua la legge dello sviluppo. Quando gli uomini si sono staccati dal mondo animale, lo sviluppo degli attrezzi, dei modi produttivi, della divisione del lavoro e della conoscenza sono diventati la forza propulsiva dello sviluppo sociale. È questa forza che ha fatto nascere i differenti sistemi economici, come il comunismo primitivo, il sistema rurale, gli inizi della produzione commerciale, il feudalesimo e, ora, il capitalismo moderno. Ci resta ora da caratterizzare il modo di produzione attuale ed il suo superamento con coerenza ed applicare su di essi in modo corretto la posizione di base del darwinismo.
X - Capitalismo e socialismo
La forma particolare che prende la lotta darwinista per l'esistenza come forza motrice per lo sviluppo nel mondo umano, è determinata dalla socialità degli uomini e dalla loro utilizzazione degli attrezzi. Gli uomini conducono collettivamente la lotta, in gruppi. La lotta per l'esistenza, mentre prosegue ancora tra i membri di gruppi differenti, cessa tuttavia presso i membri dello stesso gruppo, ed essa è sostituita dalla solidarietà e dai sentimenti sociali. Nella lotta tra i gruppi, l'attrezzatura tecnica decide chi sarà il vincitore; ciò ha come conseguenza il progresso della tecnica. Queste due circostanze conducono ad effetti differenti sotto sistemi sociali differenti. Vediamo in che modo si manifestano sotto il capitalismo.
Quando la borghesia prese il potere politico e fece del modo di produzione capitalista il modo dominante, cominciò col rompere le barriere feudali e rendere le persone libere. Per il capitalismo, era essenziale che ogni produttore potesse partecipare liberamente alla lotta concorrenziale, senza che nessun legame ostacolasse la propria libertà di movimento, che nessuna attività venisse frenata o paralizzata dai doveri di corporazione o da statuti giuridici, perché era solamente a questa condizione che la produzione avrebbe potuto sviluppare la sua piena capacità. Gli operai devono essere liberi e non essere sottomessi alle costrizioni feudali o di corporazione, perché è solamente in quanto operai liberi che possono vendere la loro forza di lavoro come merce ai capitalisti, ed è solamente se sono dei lavoratori liberi che i capitalisti possono adoperarli pienamente. È per questa ragione che la borghesia ha eliminato tutti i legami e i doveri del passato. Ha liberato completamente le genti ma, allo stesso tempo, quest’ultime si sono trovate totalmente isolate e senza protezione. Una volta le persone non erano isolate; appartenevano ad una corporazione; erano sotto la protezione di un signore o di un comune dove trovavano la forza. Facevano parte di un gruppo sociale verso il quale avevano dei doveri e da cui ricevevano protezione. Questi doveri, la borghesia li ha soppressi; ha distrutto le corporazioni ed abolito i rapporti feudali. La liberazione del lavoro voleva dire anche che l'uomo non poteva trovare più rifugio da nessuna parte e non poteva contare più sugli altri. Ciascuno poteva contare solamente su sé stesso. Solo contro tutti, doveva lottare, libero da ogni legame ma anche da ogni protezione.
È per questa ragione che, sotto il capitalismo, il mondo umano somiglia più al mondo dei predatori ed è per questa stessa ragione che i darwinisti borghesi hanno ricercato il prototipo della società umana negli animali solitari. È la loro esperienza che li guidava. Tuttavia, il loro errore consisteva nel fatto che consideravano le condizioni capitaliste come le condizioni umane eterne. Il rapporto che esiste tra i nostri sistemi capitalisti concorrenziali e gli animali solitari sono stati espressi da Engels nel suo libro, L'Anti-Dühring (Capitolo II : Nozioni teoriche) come segue:
"La grande industria, infine, e la creazione del mercato mondiale hanno universalizzato la lotta ed al contempo le hanno dato una violenza inaudita. Tra capitalisti isolati, come tra industrie intere e paesi interi, sono le condizioni naturali o artificiali della produzione che, a seconda se sono più o meno favorevoli, decidono dell'esistenza. Il vinto è eliminato senza riguardo. È la lotta darwinista per l'esistenza dell'individuo trasposto dalla natura nella società con un rabbia decuplicata. La condizione dell'animale nella natura appare come l'apogeo dello sviluppo umano".
Che cosa è in lotta nella concorrenza capitalista, quale è la cosa la cui perfezione deciderà la vittoria?
Innanzitutto gli attrezzi tecnici, le macchine. Qui si applica di nuovo la legge secondo la quale la lotta conduce alla perfezione. La macchina maggiormente perfezionata supera quella che lo è meno, le macchine di cattiva qualità e la piccola attrezzatura sono eliminate, e la tecnica industriale effettua degli avanzamenti colossali verso una produttività sempre più grande. È la vera applicazione del darwinismo alla società umana. La cosa che gli è particolare, è che, sotto il capitalismo, c’è la proprietà privata e che, dietro ogni macchina, c'è un uomo. Dietro la macchina gigantesca, c'è un grande capitalista e dietro la piccola macchina, c'è un piccolo borghese. Con la sconfitta della piccola macchina, il piccolo borghese perisce, con tutte le sue illusioni e speranze. Al contempo la lotta è una corsa tra capitali. Il grande capitale è il meglio armato; il grande capitale vince il piccolo e, così, si ingrandisce ancora. Questa concentrazione di capitale sabota lo stesso capitale, perché riduce la borghesia il cui interesse è di mantenere il capitalismo, mentre aumenta la massa che cerca di sopprimerlo. In questo sviluppo, una delle caratteristiche del capitalismo è gradatamente soppressa. In questo mondo in cui ciascuno lotta contro tutti e tutti contro ciascuno, la classe operaia sviluppa una nuova associazione, l'organizzazione di classe. Le organizzazioni della classe operaia cominciano a farla finita con la concorrenza che esiste tra gli operai ed uniscono le loro forze separate in una grande forza per la loro lotta contro il mondo esterno. Tutto ciò che si applica ai gruppi sociali si applica anche a questa nuova organizzazione di classe, nata da circostanze esterne. Nelle file di questa organizzazione di classe, si sviluppano in modo notevole le motivazioni sociali, i sentimenti morali, il sacrificio di sé e la devozione all'insieme del gruppo. Questa organizzazione solida dà alla classe operaia la grande forza di cui quest’ultima ha bisogno per vincere la classe capitalista. La lotta di classe che non è una lotta con gli attrezzi ma per il possesso degli attrezzi, una lotta per il possesso dell'attrezzatura tecnica dell'umanità, sarà determinata dalla forza dell'azione organizzata, dalla forza nascente della nuova organizzazione di classe che sorge. Attraverso la classe operaia organizzata emerge già un elemento della società socialista.
Consideriamo adesso il sistema di produzione futura, come esisterà nel socialismo. La lotta per il perfezionamento degli attrezzi che ha segnato tutta la storia dell'umanità, non si fermerà. Come precedentemente sotto il capitalismo, le macchine a tecnologia minore saranno superate e soppiantate da macchine superiori. Come già è successo, questo processo condurrà ad una maggiore produttività del lavoro. Ma, essendo stata abolita la proprietà privata dei mezzi di produzione, non si troverà più un uomo dietro ogni macchina della quale rivendica la proprietà condividendone la sorte. La loro concorrenza non sarà più di un processo innocente, condotto consapevolmente a buon fine dall'uomo, che dopo concertazione razionale, sostituirà semplicemente le vecchie macchine con delle migliori. È in senso metaforico che questo progresso si chiamerà lotta. Al contempo, la lotta reciproca degli uomini contro gli uomini cessa. Con l'abolizione delle classi, l'insieme del mondo civilizzato diventerà una grande comunità produttiva. Per lei vale ciò che vale per ogni comunità collettiva. In seno a questa comunità, la lotta che opponeva i propri membri cessa e si farà unicamente in direzione del mondo esterno. Ma al posto delle piccole comunità, ora avremo una comunità mondiale. Ciò significa che la lotta per l'esistenza nel mondo umano si ferma. Il combattimento verso l'esterno non sarà più una lotta contro la propria specie, ma una lotta per la sussistenza, una lotta contro la natura[4]. Ma, grazie allo sviluppo della tecnica e della scienza, questa non si potrà chiamare una lotta. La natura è subordinata all'uomo e, con pochi sforzi da parte di quest’ultimo, essa provvederà a lui con abbondanza. Qui, una nuova vita si apre all’Umanità: l’uscita dal mondo animale e la lotta per l'esistenza per mezzo di attrezzi raggiunge il suo termine. La forma umana della lotta per l'esistenza prende fine ed inizia un nuovo capitolo della storia dell'umanità.
Anton Pannekoek
[1] Questa idea è presente, invece, nel lavoro di Kautsky, rievocato e salutato da Pannekoek, L’etica e la concezione materialista della storia, come l'illustra la citazione seguente: "La legge morale è un impulso animale e nient’altro. Di là viene il suo carattere misterioso, questa voce interiore che non ha legame con nessun impulso esterno, né alcun interesse apparente; (…) La legge morale è un istinto universale, tanto potente come l'istinto di conservazione e di riproduzione; di là viene la sua forza, il suo potere al quale ubbidiamo senza riflettere; di là la nostra capacità di decidere velocemente, in certi casi, se un'azione è buona o cattiva, virtuosa o nociva; di là anche la forza di decisione del nostro giudizio morale e la difficoltà di dimostrarne il fondamento razionale quando si prova ad analizzarlo". L'antropologia di Darwin è spiegata, peraltro molto chiaramente, nella teoria "l'effetto reversivo dell'evoluzione" che sviluppa Patrick Tort, nel suo libro L’effetto Darwin: selezione naturale e nascita della civiltà (Edizioni du Seuil). I nostri lettori potranno trovare una presentazione di questo lavoro nell'articolo “A proposito del libro di Patrick Tort, L'effetto Darwin: Una concezione materialista delle origini della morale e della civiltà”, presente su questo sito.
[2] Bisogna notare che questa scala crescente di sentimenti di solidarietà in seno alla specie umana non sfugge a Darwin quando scrive: "nella misura in cui l'uomo avanza in civiltà, e le piccole tribù si riuniscono in comunità più larghe, la più semplice ragione dovrebbe indurre ogni individuo ad estendere i suoi istinti sociali e le sue simpatie a tutti i membri di una stessa nazione, anche se gli sono personalmente sconosciuti. Una volta raggiunto questo punto, non c'è più alcuna barriera artificiale per impedire alle sue simpatie di estendersi agli uomini di tutte le nazioni e di tutte le razze. È vero che se questi uomini si sono separati da lui per le grandi differenze di apparenze esterne o di abitudini, l'esperienza purtroppo ci mostra quanto lungo tempo sia necessario prima di guardarli come nostri simili". (La Filiazione dell'uomo, capitolo IV) (Nota della CCI)
[3] Scientificamente parlando, non esiste razza europea. Dicendo ciò, il fatto che Pannekoek utilizzi il termine razza per distinguere un tale sottoinsieme di esseri umani dall’altro non costituisce per niente una concessione ad un qualsiasi razzismo da parte sua. Su questo piano si inserisce anche, nella continuità di Darwin, che si è smarcato chiaramente dalle teorie razziste di scienziati del suo tempo come Eugenio Dally. Peraltro, bisogna ricordare che, alla fine del diciannovesimo secolo ed all'inizio del XX, il termine razza non era connotato come lo è oggi, come lo dimostra il fatto che certi iscritti al movimento operaio parlano anche, seppure impropriamente, della razza degli operai. (Nota della CCI)
[4] L'espressione "lotta contro la natura" è inadatta, si tratta di lotta per la padronanza della natura, la creazione della comunità umana mondiale che suppone che questa sia capace di vivere in totale armonia con la natura. (Nota della CCI)
Il marxismo si è sempre interessato all’evoluzione delle scienze come parte integrante dello sviluppo delle forze produttive della società ed anche perché ha considerato che la prospettiva del comunismo non può basarsi semplicemente su un’esigenza morale di giustizia, come ritenevano “i socialisti utopici” del passato, ma su una conoscenza scientifica della società umana e della natura alla quale essa appartiene. È per questo che, ben prima della pubblicazione dell’opuscolo di Pannekoek, lo stesso Marx regalò, nel giugno 1873, una copia della sua opera principale, Il Capitale, a Charles Darwin con una dedica. In effetti, Marx ed Engels avevano riconosciuto nella sua teoria dell’evoluzione nel campo dello studio degli organismi viventi, un passo analogo a quella del materialismo storico, come dimostrano questi due brani della loro corrispondenza: “Questo Darwin, che sto studiando, è veramente sensazionale. Sinora non è mai stato fatto un tentativo di un tale spessore per dimostrare l’esistenza di uno sviluppo storico nella natura”. (Engels a Marx, 11 dicembre 1859). “Ecco il libro che contiene la base, nella storia naturale, per le nostre idee”. (Marx ad Engels, 19 dicembre 1860)[1].
Il testo di Pannekoek, scritto in maniera molto semplice, ci fornisce un eccellente riassunto della teoria dell’evoluzione delle specie. Ma Pannekoek non era solamente un uomo di scienza erudito (era, infatti, un rinomato astronomo). Era innanzitutto un marxista ed un militante del movimento operaio. Per questo nel suo opuscolo “Darwinismo e Marxismo” si sforza di criticare ogni tentativo di applicare schematicamente e meccanicamente la teoria di Darwin della selezione naturale alla specie umana. Pannekoek mette in evidenza con chiarezza le analogie tra marxismo e darwinismo e spiega l’utilizzazione della teoria della selezione naturale, da parte dei settori più progressisti della borghesia, contro le vestigia reazionarie del feudalesimo. Inoltre critica anche la strumentalizzazione fraudolenta da parte della borghesia della teoria di Darwin contro il marxismo, in particolare le derive del “darwinismo sociale”, ideologia sviluppata in particolare dal filosofo britannico Herbert Spencer (oggi ripresa dagli ideologi del liberismo per giustificare la concorrenza capitalista, la legge della giungla, il ciascuno per sé e l’eliminazione dei più deboli).
Di fronte alla ricomparsa di credenze oscurantiste generate nella notte dei tempi, in particolare del “creazionismo” con la sua reincarnazione del “disegno intelligente” secondo cui l’evoluzione degli organismi viventi, e la stessa apparizione dell’uomo, corrisponderebbero ad un “piano” prestabilito da una “intelligenza superiore” di natura divina, tocca ai marxisti riaffermare il carattere scientifico e materialista della teoria di Darwin e sottolineare il salto considerevole che ha fatto compiere alle scienze naturali.
E’ evidente che l’opuscolo di Pannekoek deve essere situato nel contesto delle conoscenze scientifiche della sua epoca ed alcuni suoi punti di vista, sviluppati nella seconda parte, sono oggi superate da un secolo di ricerche e di scoperte scientifiche (in particolare quelle della paleoantropologia e della genetica). Ma nella sostanza il suo contributo (redatto in olandese, e finora a nostra conoscenza mai stato tradotto in italiano)[2] resta un apporto inestimabile alla storia del movimento operaio.
CCI (19 aprile 2009)
L’opuscolo di Anton Pannekoek
I. Il Darwinismo
Pochi scienziati hanno segnato così tanto il pensiero della seconda metà del 19° secolo quanto Darwin e Marx. I loro apporti hanno rivoluzionato la concezione che le masse si erano fatte del mondo. Per decenni i loro nomi sono stati sulla bocca di tutti ed i loro lavori sono oggi al centro di intellettuali che corredano le lotte sociali. La ragione risiede nel contenuto altamente scientifico di tali lavori.
L’importanza scientifica del darwinismo e del marxismo risiede nella loro fedeltà rigorosa alla teoria dell’evoluzione, vertente, il primo, sul campo del mondo organico, quello degli oggetti animati, l’altro sul campo sociale. Tuttavia, tale teoria dell’evoluzione non era per niente nuova: aveva avuto i suoi sostenitori prima di Darwin e di Marx; anche il filosofo Hegel ne aveva fatto il punto centrale della sua filosofia. Pertanto è necessario esaminare da vicino gli apporti di Darwin e di Marx in questo campo.
La teoria secondo la quale le piante e gli animali si sono sviluppati gli uni a partire dagli altri si incontra per la prima volta nel 19° secolo. Fino ad allora, alla domanda: “Da dove vengono le migliaia e le centinaia di migliaia di differenti tipi di piante e di animali che noi conosciamo?”, si rispondeva: “Dai tempi della creazione, li ha creati tutti Dio, ciascuno secondo la sua specie”. Questa primitiva teoria era conforme all’esperienza acquisita e alle migliaia di dati disponibili sul passato. Secondo questi dati, tutte le piante e tutti gli animali conosciuti erano sempre stati identici. Sul piano scientifico l’esperienza era espressa nel seguente modo: “Tutte le specie sono invariabili perché i genitori trasmettono le loro caratteristiche ai loro figli”.
Tuttavia, a causa di certe particolarità tra le piante e gli animali, divenne necessario ipotizzare un’altra concezione. Così queste particolarità sono state organizzate in modo accurato secondo un sistema che fu iniziato dallo scienziato svedese Linneo. Secondo questo sistema, gli animali sono divisi in regni (phylum), essi stessi divisi in classi, le classi in ordini, gli ordini in famiglie, le famiglie in generi, ogni genere contiene delle specie. Più le caratteristiche degli esseri viventi sono simili, più, in questo sistema, sono vicini gli uni agli altri, e più il gruppo al quale appartengono è piccolo. Tutti gli animali classificati come mammiferi presentano le stesse caratteristiche generali nella loro forma corporale. Gli animali erbivori, i carnivori e le scimmie che appartengono ad ordini differenti, sono ulteriormente differenziati. Gli orsi, i cani ed i gatti che sono degli animali carnivori, hanno molto più punti in comune nella loro forma corporale quanto non ne abbiano con i cavalli o le scimmie. Questa similitudine aumenta in modo evidente quando si esaminano delle varietà della stessa specie; il gatto, la tigre ed il leone si somigliano sotto ogni aspetto e differiscono dai cani e dagli orsi. Se lasciamo la classe dei mammiferi e ci orientiamo verso altre classi, come quelle degli uccelli o dei pesci, troviamo maggiori differenze tra le classi che all’interno di una stessa classe. Persiste, tuttavia, sempre una somiglianza nella formazione del corpo, dello scheletro e del sistema nervoso. Queste caratteristiche spariscono quando lasciamo questa divisione principale che abbraccia tutti i vertebrati, per osservare i molluschi (animali a corpo molle) o i polpi.
L’insieme del mondo animale può essere dunque organizzato in divisioni e suddivisioni. Se ogni specie differente di animale fosse stata creata totalmente indipendentemente dalle altre, non ci sarebbe stata alcuna ragione per l’esistenza di tali categorie. Non ci sarebbe stata alcuna ragione per non esistere mammiferi a sei zampe. Bisognerebbe quindi supporre che, al momento della creazione, Dio abbia seguito il piano del sistema di Linneo e creato tutto secondo questo piano. Fortunatamente, disponiamo di un’altra spiegazione. La similitudine nella costruzione del corpo può essere dovuta ad un vero rapporto di parentela. Secondo questa concezione, la similitudine delle particolarità indica in quale misura il rapporto è vicino o lontano, proprio come la somiglianza tra fratelli e sorelle sono maggiori che tra parenti più lontani. Pertanto le specie animali non sono state create in maniera individuale, ma sono discese le une dalle altre. Formano un tronco che è cominciato su delle basi semplici e che si è sviluppato continuamente; gli ultimi rami, più magri, sono costituiti dalle specie che esistono attualmente. Tutte le specie di gatti discendono da un gatto primitivo che, come il cane primitivo e l’orso primitivo, è il discendente di un certo tipo primitivo di animale carnivoro. L’animale carnivoro primitivo, l’animale con gli zoccoli primitivo e la scimmia primitiva sono discesi da un mammifero primitivo, ecc.
Questa teoria della filiazione è stata difesa da Lamarck e da Geoffroy St Hilaire. Tuttavia, non ha avuto l’approvazione generale. Questi naturalisti non hanno potuto provare la precisione di questa teoria e, di conseguenza, essa è restata allo stato di ipotesi, di semplice supposizione. Ma quando è arrivato Darwin, con la sua opera principale, L’origine delle Specie, ha aperto le menti d’incanto; la sua teoria evoluzionista è stata accettata immediatamente come una verità altamente dimostrata. Da allora, la teoria evoluzionista è diventata inseparabile dal nome di Darwin. Perché?
Ciò è dovuto in parte al fatto che con l’esperienza è stato accumulato sempre più materiale a sostegno di questa teoria. Sono stati trovati degli animali che non potevano essere collocati chiaramente nella classificazione, come i mammiferi ovipari, pesci provvisti di polmoni, ed animali vertebrati senza vertebre. La teoria della filiazione affermava che questi erano semplicemente delle vestigia della transizione tra i principali gruppi. Gli scavi hanno rivelato dei resti fossilizzati che sembravano differenti dagli animali che vivono oggigiorno. Questi resti hanno in parte rivelato di essere forme primitive degli animali della nostra epoca e hanno mostrato che gli animali primitivi si sono evoluti gradualmente per diventare gli animali di oggi. Poi si è sviluppata la teoria cellulare; ogni pianta, ogni animale è costituita da milioni di cellule e si è sviluppato attraverso divisioni e differenziazioni continue a partire da cellule uniche. Una volta arrivati così lontano, pensare che gli organismi più evoluti siano discesi da esseri primitivi costituiti da una sola cellula, non è sembrato più una cosa assurda.
Tutte queste nuove esperienze tuttavia non potevano elevare la teoria ad un livello di verità dimostrata. La migliore prova dell’esattezza di questa teoria sarebbe stata poter osservare con i propri occhi una vera trasformazione di una specie animale in un’altra. Ma è impossibile. Come dunque dimostrare che una specie animale si trasforma in un altra? Lo si può fare mostrando la causa, la forza che determina un tale sviluppo. Darwin ha fatto questo. Darwin ha scoperto il meccanismo dello sviluppo animale e, con esso, ha provato che in certe condizioni certe specie animali si trasformavano necessariamente in altre specie animali. Illustriamo questo meccanismo.
Il suo principale fondamento è la natura della trasmissione: i genitori trasmettono le loro particolarità ai loro figli, ma allo stesso tempo, i figli divergono dai loro genitori in certi aspetti e differiscono anche tra loro. È per questa ragione che gli animali della stessa specie non sono del tutto simili, ma differiscono in tutte le direzioni a partire da un tipo medio. Senza questa variazione sarebbe impossibile che una specie animale si trasformi in un’altra. Ciò che è necessario alla formazione di una nuova specie è che la divergenza a partire dal tipo centrale cresca e che vada avanti nella stessa direzione fino a diventare così importante che il nuovo animale non somiglia più a quello da cui è disceso. Ma quale è questa forza che provocherebbe sempre una variazione crescente nella stessa direzione?
Lamarck ha dichiarato che il cambiamento era dovuto all’uso intenso di certi organi; a causa dell’esercizio continuo di certi organi, questi si perfezionavano sempre più. Proprio come i muscoli delle gambe degli uomini si rinforzano correndo molto, allo stesso modo il leone ha acquistato delle zampe potenti e la lepre delle zampe veloci. Allo stesso modo le giraffe hanno sviluppato il lungo collo per raggiungere e mangiare le foglie degli alberi; a forza di estendere il collo, certi animali a collo corto hanno sviluppato un lungo collo da giraffa. Per molto tempo questa spiegazione non è stata credibile e non spiegava perché la rana dovesse essere verde per proteggersi.
Per risolvere questa questione Darwin si è orientato verso un altro campo di esperienza. L’allevatore e l’orticoltore sono capaci di sviluppare in modo artificiale nuove razze e nuove varietà. Quando un orticoltore vuole sviluppare, a partire da una certa pianta, una varietà che ha dei grandi fiori, tutto ciò che deve fare è sopprimere, prima della maturità, tutte le piante che hanno fiori piccoli e preservare quelle che li hanno grandi. Se ripete questo per alcuni anni di seguito, i fiori saranno sempre più grandi, perché ogni nuova generazione somiglia alla precedente, ed il nostro orticoltore, avendo sempre selezionato i fiori più grandi, al fine della propagazione, riesce a sviluppare una pianta che ha dei fiori molto grandi. Attraverso una tale azione, a volte deliberata e a volte accidentale, gli uomini hanno sviluppato un gran numero di razze dei nostri animali domestici che differiscono dalla loro forma di origine molto più di quanto differiscono tra loro altre specie selvagge.
Se chiedevamo ad un allevatore di sviluppare un animale a collo lungo a partire da un animale a collo corto, questo non gli sembrerebbe impossibile. Tutto ciò che dovrebbe fare, sarebbe selezionare quelli con colli relativamente più lunghi, di incrociarli, di sopprimere i giovani dai colli corti e di incrociare di nuovo quelli che hanno un collo lungo. Ripetendo ciò ad ogni nuova generazione, il risultato sarebbe che il collo diventerebbe sempre più lungo ottenendo così un animale somigliante alla giraffa.
Un tale risultato è raggiunto perché c'è una volontà definita, con un obiettivo definito che, allo scopo di allevare una certa varietà, seleziona alcuni animali. In natura, non esiste una tale volontà e tutte le variazioni vengono attenuate dall’incrocio; è impossibile dunque che un animale continui ad allontanarsi dal tronco comune originario e prosegua nella stessa direzione fino a diventare una specie completamente diversa. Quale è dunque la forza che in natura seleziona gli animali come fa un allevatore?
Darwin ha meditato molto tempo su questo problema prima di trovarne la soluzione nella “lotta per l’esistenza”. In questa teoria abbiamo un riflesso del sistema produttivo dell’epoca in cui ha vissuto Darwin, perché la lotta della concorrenza capitalista gli è servita da modello per la lotta per l’esistenza che prevaleva in natura. Questa soluzione non gli si è presentata grazie alle proprie osservazioni. Gli sono venute dalla lettura dei lavori dell’economista Malthus. Questi ha tentato di spiegare che tanta miseria, carestia e privazioni nel mondo borghese sono dovute al fatto che la popolazione aumenta più velocemente dei mezzi di sussistenza esistenti. Non c'è abbastanza cibo per tutti: dunque gli individui devono lottare gli uni contro gli altri per la loro esistenza, e in questa lotta molti soccombono. Con questa teoria la concorrenza capitalista così come la miseria esistente venivano dichiarate inevitabili leggi naturali. Nella sua autobiografia Darwin dichiara che è il libro di Malthus che l’ha spinto a pensare alla lotta per l’esistenza.
“Nell’ottobre 1838, quindici mesi dopo che ebbi cominciato la mia inchiesta sistematica, mi capitò di leggere, per distrarmi, il saggio di Malthus sulla Popolazione; e siccome ero ben preparato, a causa delle mie lunghe osservazioni sulle abitudini degli animali e delle piante, ad apprezzare la presenza universale della lotta per l’esistenza, fui subito colpito dall’idea che, in queste circostanze, le variazioni favorevoli tenderebbero ad essere preservate, e le sfavorevoli ad essere annientate. Il risultato di ciò sarebbe la formazione di nuove specie. Avevo, dunque, finalmente trovato in ciò una teoria su cui lavorare”.
È un dato di fatto che l’aumento delle nascite degli animali supera quello della quantità di cibo necessario alla loro sussistenza. Non c’è nessuna eccezione alla regola secondo la quale il numero degli esseri organici tende a crescere ad una certa velocità tale che la terra verrebbe velocemente invasa completamente dalla discendenza di una sola coppia se una parte di questa non fosse distrutta. È per tale ragione che deve intervenire una lotta per la sopravvivenza. Ogni animale tenta di vivere, fa del suo meglio per nutrirsi e cerca di evitare di essere mangiato da altri. Con le sue particolarità e le sue armi specifiche lotta contro tutti gli elementi antagonisti, contro gli animali, contro il freddo, il caldo, la siccità, le inondazioni, ed altre circostanze naturali che possono minacciare di distruggerlo. Soprattutto lotta contro gli animali della sua stessa specie che vivono allo stesso modo, possiedono le stesse caratteristiche, utilizzano le stesse armi e vivono della stesso cibo. Questa lotta non è diretta; la lepre non lotta direttamente contro la lepre, né il leone contro il leone a meno che sia una lotta per la femmina - ma è una lotta per l’esistenza, una corsa, una lotta competitiva. Non tutti possono raggiungere l’età adulta; la maggior parte vengono distrutti e solo quelli che vincono la corsa sopravvivono. Ma chi sono quelli che la vincono? Quelli che, per le loro caratteristiche, per la loro struttura corporea, sono più adatti a trovare del cibo o sfuggire al nemico; in altri termini, sopravvivranno quelli che riescono meglio ad adattarsi alle condizioni esistenti. “Poiché il numero degli individui che nascono è sempre maggiore rispetto a quello di coloro che sopravvivono, la lotta per la sopravvivenza deve ricominciare senza tregua e la creatura che possiede un certo vantaggio rispetto agli altri sopravvivrà ma, poiché le sue caratteristiche particolari sono trasmesse alle nuove generazioni, è la stessa natura che sceglie, e la nuova generazione nascerà con caratteristiche differenti rispetto alla precedente”.
Qui abbiamo un altro schema per comprendere l’origine della giraffa. Quando l’erba non cresce in certi luoghi, gli animali devono nutrirsi di foglie d’alberi e tutti quelli il cui collo è troppo corto per raggiungere queste foglie periranno. È la stessa natura che seleziona e la natura seleziona solamente quelli che hanno colli lunghi. In riferimento alla selezione realizzata dall’allevatore, Darwin ha chiamato questo processo “la selezione naturale”.
Questo processo produce necessariamente nuove specie. Poiché nascono troppi individui di una stessa specie, più di quanto le riserve di cibo ne permettono la sussistenza, essi tentano continuamente di estendersi su una superficie più vasta. Per procurarsi il cibo quelli che vivono nei boschi vanno verso le praterie, quelli che vivono sul suolo vanno nell’acqua, e quelli che vivono sulla terra si arrampicano sugli alberi. In queste nuove condizioni, un’attitudine o una variazione sono spesso adeguate mentre non lo erano precedentemente, ed esse si sviluppano. Gli organi cambiano con il modo di vita. Si adattano alle nuove condizioni e, a partire dalla vecchia specie, una nuova si sviluppa. Questo movimento continuo delle specie esistenti che si ramificano in nuovi rami porta all’esistenza di queste migliaia di animali differenti che vanno a differenziarsi sempre più.
La teoria di Darwin non solo spiega così la filiazione generale degli animali, la loro trasmutazione e la loro formazione a partire dagli esseri primitivi, ma anche l’adattamento meraviglioso che esiste in tutta la natura. Questo meraviglioso adattamento poteva spiegarsi prima solo attraverso il saggio intervento di Dio. Adesso questa filiazione naturale è compresa chiaramente. Perché questo adattamento non è nient’altro che l’adattamento ai mezzi di esistenza. Ogni animale ed ogni pianta sono esattamente adattati alle circostanze esistenti, perché tutti quelli che sono meno conformi, sono meno adattati e sono sterminati nella lotta per l’esistenza. Le rane verdi, che provengono dalle rane brune, devono preservare il loro colore protettivo perché tutte quelle che deviano da questo colore vengono più rapidamente scoperte dai nemici e vengono distrutte oppure trovano maggiori difficoltà a nutrirsi e muoiono.
È in questo modo che Darwin ci ha mostrato, per la prima volta, che le nuove specie si sono sempre formate a partire dalle vecchie. La teoria trasformista, che fino a quel momento non era che una semplice presunzione indotta a partire da numerosi fenomeni che non potevano essere spiegati in nessuno altro modo, ha guadagnato così la certezza di un funzionamento necessario di forze specifiche e che poteva essere provato. È una delle ragioni principali per la quale questa teoria si è imposta tanto velocemente nelle discussioni scientifiche ed ha attirato l’attenzione del pubblico.
II. Il marxismo
Quando si rivolge l’attenzione al marxismo, notiamo immediatamente una grande somiglianza col darwinismo. Come per Darwin, l’importanza scientifica del lavoro di Marx consiste nell’aver scoperto la forza motrice, la causa dello sviluppo sociale. Egli non ha dovuto dimostrare che un tale sviluppo esisteva; tutti sapevano che, dai tempi più primitivi, nuove forme sociali avevano continuamente soppiantato le vecchie; ma le cause e gli scopi di questo sviluppo restavano sconosciuti.
Nella sua teoria Marx è partito dalle conoscenze di cui disponeva alla sua epoca. La grande rivoluzione politica che ha conferito all’Europa l’aspetto che ha, la rivoluzione francese, era nota a tutti per essere stata una lotta per la supremazia, condotta dalla borghesia contro la nobiltà e la monarchia. Dopo questa lotta nuove lotte di classe hanno avuto luogo. La lotta fatta in Inghilterra dai capitalisti industriali contro i proprietari fondiari dominava la politica; allo stesso tempo, la classe operaia si rivoltava contro la borghesia. Quali erano questi classi? In cosa differivano le une dalle altre? Marx ha mostrato che queste distinzioni di classe erano dovute alle differenti funzioni che ciascuna giocava nel processo produttivo. È nel processo di produzione che le classi hanno la loro origine, ed è questo processo che determina a quale classe si appartiene. La produzione non è nient’altro che il processo di lavoro sociale attraverso il quale gli uomini ottengono i loro mezzi di sussistenza a partire dalla natura. È questa produzione dei beni materiali necessari alla vita che costituisce il fondamento della società e che determina le relazioni politiche, le lotte sociali e le forme della vita intellettuale.
I modi di produzione sono continuamente cambiati nel tempo. Da dove sono venuti questi cambiamenti? Il modo di lavorare ed i rapporti di produzione dipendono dagli attrezzi con cui le persone lavorano, dallo sviluppo della tecnica e dai mezzi di produzione in generale. E’ perché nel Medioevo si lavorava con attrezzi rudimentali, mentre oggi si lavora con macchine gigantesche, che in quell’epoca si aveva il piccolo commercio ed il feudalismo, mentre adesso si ha il capitalismo. È anche per questa ragione che nel Medioevo la nobiltà feudale e la piccola borghesia erano le classi più importanti, mentre adesso la borghesia ed il proletariato costituiscono le classi principali.
È lo sviluppo degli strumenti, di questo materiale tecnico che gli uomini mettono in opera, che è la causa principale, la forza motrice di tutto lo sviluppo sociale. Va da sé che gli uomini tentano sempre di migliorare questi strumenti così che il loro lavoro sia più facile e più produttivo, e la pratica che acquistano utilizzando questi strumenti, li porta a sua volta a sviluppare e perfezionare il loro pensiero. In ragione di questo sviluppo ha luogo un progresso, lento o veloce, della tecnica che allo stesso tempo trasforma le forme sociali del lavoro. Questo conduce a nuovi rapporti di classe, a nuove istituzioni sociali ed a nuove classi. Allo stesso tempo sorgono lotte sociali, cioè politiche. Le classi che dominavano nel vecchio processo di produzione tentano di conservare artificialmente le loro istituzioni, mentre le classi ascendenti cercano di promuovere il nuovo processo di produzione; e conducendo delle lotte di classe contro la classe dirigente e conquistando il potere, preparano il campo per un nuovo sviluppo senza ostacoli della tecnica.
Così la teoria di Marx ha rivelato la forza motrice ed il meccanismo dello sviluppo sociale. Con ciò ha dimostrato che la storia non è qualche cosa di erratico e che i diversi sistemi sociali non sono il risultato del caso o di avvenimenti aleatori, ma che esiste uno sviluppo regolare in una direzione definita. Egli ha anche provato che lo sviluppo sociale non cessa col nostro sistema, perché la tecnica si sviluppa continuamente.
Pertanto i due insegnamenti, quello di Darwin e quello di Marx, uno nel campo del mondo organico e l’altro nel campo della società umana, hanno elevato la teoria dell’evoluzione al livello di una scienza positiva.
In tal modo hanno reso la teoria dell’evoluzione accettabile per le masse in quanto concezione di base dello sviluppo sociale e biologico.
III. Il marxismo e la lotta di classe
Benché sia vero che, affinché una teoria abbia un’influenza duratura sullo spirito umano, è necessario che abbia un valore altamente scientifico, ciò non è tuttavia sufficiente. È capitato spesso che una teoria scientifica di grande importanza per la scienza non abbia suscitato nessuno interesse, se non per alcuni uomini istruiti. Possiamo citare, per esempio, la teoria dell’attrazione universale di Newton.
Questa teoria è la base dell’astronomia ed è grazie a questa teoria che conosciamo gli astri e possiamo prevedere la traiettoria di certi pianeti e le eclissi. Tuttavia, quando la teoria di Newton sull’attrazione universale è apparsa, solo alcuni scienziati inglesi vi hanno aderito. Le grandi masse non hanno dimostrato nessuna attenzione per tale teoria. E’ stata conosciuta dalle masse attraverso un libro popolare di Voltaire scritto solo mezzo secolo più tardi.
Non c’è niente di strano in questo. La scienza è diventata una specialità per un certo gruppo di uomini istruiti ed i suoi progressi riguardano solo loro, proprio come la fonderia è la specialità del fabbro ed ogni miglioramento nella fusione del ferro riguarda solamente lui. Solo una conoscenza di cui tutti possono servirsi e che si rivela come una necessità vitale per tutti può suscitare l’adesione delle grandi masse. Pertanto quando vediamo che una teoria scientifica suscita entusiasmo e passione nelle grandi masse, ciò può essere attribuito al fatto che questa teoria serve loro come arma nella lotta di classe. Perché è la lotta di classe che mobilita la grande maggioranza della società.
Si può constatare ciò in modo più chiaro col marxismo. Se gli insegnamenti economici di Marx fossero stati senza importanza per la lotta di classe moderna, solo alcuni economisti professionisti gli avrebbero dedicato del tempo. Ma per il fatto che il marxismo serve da arma ai proletari nella loro lotta contro il capitalismo, le lotte scientifiche si concentrano su questa teoria. È grazie al favore che quest’ultima ha reso loro che milioni di persone onorano il nome di Marx pur conoscendo poco i suoi lavori e che questo nome è disprezzato da altre migliaia che non comprendono niente della sua teoria. È grazie al grande ruolo che la teoria marxista gioca nella lotta di classe che questa è studiata assiduamente dalle grandi masse e che domina lo stato d’animo umano.
La lotta di classe proletaria è esistita prima di Marx, perché essa è il frutto dello sfruttamento capitalista. Era del tutto naturale che gli operai, essendo sfruttati, pensassero ad un altro sistema sociale dove lo sfruttamento fosse abolito e lo rivendicavano. Ma tutto ciò che potevano fare era sperarlo e sognarlo. Non erano certi che sarebbe stato possibile realizzarlo. Marx ha dato al movimento operaio ed al socialismo una base teorica. La sua teoria sociale ha mostrato che i sistemi sociali si sono sviluppati in un movimento continuo all’interno del quale il capitalismo costituisce solamente una forma temporanea. Il suo studio del capitalismo ha mostrato che, a causa del perfezionamento costante della tecnica, il capitalismo deve cedere necessariamente il posto al socialismo. Questo nuovo sistema di produzione può essere edificato solo dai proletari attraverso la loro lotta contro i capitalisti il cui interesse è di mantenere il vecchio sistema di produzione. Il socialismo è dunque il prodotto e lo scopo della lotta di classe proletaria.
Grazie a Marx la lotta di classe proletaria ha preso una forma completamente diversa. Il marxismo è diventato un’arma nelle mani dei proletari; al posto di vaghe speranze, ha dato loro uno scopo positivo e, evidenziando con chiarezza lo sviluppo sociale, ha dato forza al proletariato e allo stesso tempo ha creato la base per l’adozione di una tattica corretta. È a partire dal marxismo che gli operai possono provare il carattere transitorio del capitalismo così come la necessità e la certezza della loro vittoria. Allo stesso tempo il marxismo ha spazzato via le vecchie visioni utopiche secondo cui il socialismo sarebbe stato instaurato grazie all’intelligenza ed alla buona volontà dell’insieme degli uomini saggi che consideravano il socialismo come una rivendicazione di giustizia e di moralità; come se l’obiettivo fosse l’edificazione di una società infallibile e perfetta. La giustizia e la morale cambiano col sistema di produzione ed ogni classe se ne fa una concezione diversa. Il socialismo non può essere ottenuto che dalla classe che ha interesse al socialismo e non si tratta di stabilire un sistema sociale perfetto, ma di un cambiamento nei modi di produzione che conduce ad una tappa superiore e cioè alla produzione sociale.
Poiché la teoria marxista dello sviluppo sociale è indispensabile ai proletari nelle loro lotte, i proletari cercano di integrarla nel loro essere; domina il loro pensiero, i loro sentimenti, tutta la loro concezione del mondo. Poiché il marxismo è la teoria dello sviluppo sociale, all’interno del quale ci troviamo, il marxismo si pone dunque all’epicentro dei grandi scontri intellettuali che accompagnano la nostra rivoluzione economica.
IV. Il darwinismo e la lotta di classe
Che il marxismo abbia acquistato la sua importanza e la sua posizione grazie unicamente al ruolo che occupa nella lotta di classe proletaria è noto a tutti. Col darwinismo, invece, le cose sembrano differenti ad un osservatore superficiale, perché esso tratta di una nuova verità scientifica che deve far fronte all’ignoranza ed ai pregiudizi religiosi. Tuttavia non è difficile vedere che in realtà il darwinismo ha dovuto subire le stesse vicissitudini del marxismo. Il darwinismo non è una semplice teoria astratta adottata dal mondo scientifico dopo essere stata discussa e messa alla prova in maniera puramente obiettiva. No, immediatamente dopo la sua apparizione, il darwinismo ha avuto i suoi sostenitori entusiasti ed i suoi avversari accaniti; anche il nome di Darwin è stato onorato dalle persone che avevano compreso qualche cosa della sua teoria e screditato da altri che non conoscevano niente della sua teoria se non che “l’uomo discende dalla scimmia” e che erano incontestabilmente incompetenti per giudicare con scientifica esattezza la teoria di Darwin o la sua falsità. Anche il darwinismo ha sostenuto un ruolo nella lotta di classe ed è a causa di questo ruolo che si è diffuso tanto velocemente e che ha avuto dei sostenitori entusiasti e degli avversari accaniti.
Il darwinismo è servito da strumento alla borghesia nella sua lotta contro la classe feudale, contro la nobiltà, i diritti del clero e dei signori feudali. Era una lotta completamente diversa dalla lotta che conducono oggi i proletari. La borghesia non era una classe sfruttata che lottava per sopprimere lo sfruttamento. Oh no! Ciò che la borghesia voleva era sbarazzarsi dei vecchi poteri dominanti che intralciavano la sua strada. La borghesia voleva governare da sola e basava le sue esigenze sul fatto che era la classe più importante che dirigeva l’industria. Quali argomenti poteva opporle la vecchia classe, la classe che era diventata solamente un parassita inutile? Questa si appoggiava sulla tradizione, sui suoi vecchi diritti “divini”. Erano quelli i suoi pilastri. Grazie alla religione i preti mantenevano la grande massa nella sottomissione e la preparavano ad opporsi alle esigenze della borghesia.
E’ stato proprio per difendere i suoi interessi che la borghesia si è trovava costretta a scalzare il diritto “divino” dei governanti. Le scienze naturali sono diventate un’arma da opporre alla credenza ed alla tradizione; sono state messe avanti la scienza e le leggi della natura di recente scoperta; è con queste armi che la borghesia ha condotto la sua lotta. Se le nuove scoperte potevano dimostrare che ciò che i preti insegnavano era falso, l’autorità “divina” di questi preti si sarebbe sgretolata ed i “diritti divini” sui quali la classe feudale basava i propri privilegi sarebbero stati distrutti. E’ pur vero che la classe feudale non è stata vinta solo in questo modo; il potere materiale può essere rovesciato solamente dal potere materiale; ma le armi intellettuali diventano delle armi materiali. È per questa ragione che la borghesia ascendente ha accordato una tale importanza alla scienza della natura.
Il darwinismo è arrivato al momento giusto. La teoria di Darwin secondo la quale l’uomo è il discendente di un animale inferiore, distruggeva tutto il fondamento del dogma cristiano. È per questa ragione che, appena il darwinismo ha fatto la sua apparizione, la borghesia se n’è impossessata con molto zelo.
Ciò non avvenne in Inghilterra. Qui vediamo ancora una volta fino a che punto la lotta di classe fosse importante per la propagazione della teoria di Darwin. In Inghilterra la borghesia dominava già da parecchi secoli e, nell’insieme, non aveva nessun interesse ad attaccare o a distruggere la religione. È per questa ragione che, sebbene questa teoria sia stata largamente letta in Inghilterra, essa ha appassionato poche persone; è stata considerata semplicemente come una teoria scientifica senza grande importanza pratica. Lo stesso Darwin la considerava tale e, per paura che la sua teoria urtasse i pregiudizi religiosi regnanti, ha evitato volontariamente di applicarla immediatamente agli uomini. Solamente dopo numerosi aggiustamenti e dopo che altri lo fecero prima di lui, decise di andare avanti. In una lettera a Haeckel deplorava il fatto che la sua teoria andasse ad urtare tanti pregiudizi ed incontrava tanta indifferenza, per cui non si aspettava di vivere abbastanza per vederla superare questi ostacoli.
Ma in Germania le cose erano totalmente differenti; e Haeckel ha risposto con ragione a Darwin che in Germania la sua teoria aveva incontrato un’accoglienza entusiasta. In effetti, quando apparve la teoria di Darwin, la borghesia si stava preparando ad un nuovo attacco contro l’assolutismo ed gli junker[3]. La borghesia liberale era diretta dagli intellettuali. Ernesto Haeckel, un grande scienziato e tra i più audaci, nel suo libro Natürliche Schöpfungsgeschichte, trasse immediatamente le più audaci conclusioni contro la religione. Il darwinismo, mentre incontrava l’entusiasta accoglienza da parte della borghesia progressista, veniva combattuto aspramente dai reazionari.
La stessa lotta ebbe luogo anche in altri paesi europei. Dovunque la borghesia liberale progressista doveva lottare contro le forze reazionarie. I reazionari detenevano o tentavano di ottenere, con l’aiuto dei loro sostegni religiosi, il potere disputato. In queste circostanze, anche le discussioni scientifiche si conducevano con l’ardore e la passione di una lotta di classe. Gli scritti che apparivano pro o contro Darwin avevano un carattere di polemica sociale, nonostante portassero il nome di autori scientifici. Se molti scritti popolari di Haeckel, considerati da un punto di vista scientifico, sono molto superficiali, di contro gli argomenti e le proteste dei suoi avversari danno prova di un’incredibile stupidità di cui non si può trovare equivalente che negli argomenti utilizzati contro Marx.
La lotta condotta dalla borghesia liberale contro il feudalismo non l’obiettivo di andare fino in fondo. Ciò in parte era dovuto al fatto che dovunque apparivano proletari socialisti che minacciavano tutti i poteri dominanti, ivi compreso quello della borghesia. La borghesia liberale si calmò e le tendenze reazionarie presero il sopravvento. Il vecchio ardore per combattere la religione si spense completamente e, anche se i liberali ed i reazionari continuavano a combattersi, in realtà essi si avvicinavano. L’interesse per la scienza come arma rivoluzionaria nella lotta di classe manifestata prima era sparito interamente, mentre la tendenza reazionaria cristiana che voleva che il popolo conservasse la sua religione si imponeva sempre più in modo potente e brutale.
Anche la stima per la scienza subiva un cambiamento di pari passo col bisogno di quest’ultima. Prima la borghesia istruita aveva fondato sulla scienza una concezione materialista dell’universo nella quale vedeva la soluzione all’enigma di questo. Adesso il misticismo prendeva il sopravvento; tutto ciò che era stato risolto dalla scienza appariva molto insignificante, mentre tutto ciò che non lo era stato assumeva una grande importanza, abbracciando le più importanti domande della vita. Uno stato d’animo di scetticismo, di critica e di dubbio si imponeva sul precedente spirito entusiasta in favore della scienza.
Questo si percepì anche nella posizione presa contro Darwin. “Che cosa dimostra la sua teoria? Lascia l’enigma dell’universo senza soluzione! Da dove viene questa natura meravigliosa della trasmissione, da dove viene questa capacità degli esseri animati a cambiare in modo così appropriato?” È là che risiede l’enigma misterioso della vita che non può essere risolto con principi meccanici. Che cosa resta dunque del darwinismo alla luce di quest’ultima critica?
Naturalmente gli avanzamenti della scienza hanno permesso un rapido progresso. La soluzione ad un problema fa apparire sempre nuovi problemi da risolvere che erano nascosti sotto la teoria della trasmissione. Questa teoria, che Darwin aveva dovuto accettare come base di ricerca, continuava ad essere studiata ed ebbe luogo un’aspra discussione a proposito dei fattori individuali dello sviluppo e della lotta per l’esistenza. Mentre alcuni scienziati rivolgevano la loro attenzione alla variazione, che consideravano il prodotto dell’esercizio e dell’adattamento alla vita (secondo il principio stabilito da Lamarck), altri scienziati come Weissman rigettavano espressamente questa idea. Mentre Darwin ammetteva solo dei cambiamenti progressivi e lenti, de Vries scopriva dei casi di variazioni veloci e dei salti che avevano portato all’apparizione improvvisa di nuove specie. Tutto questo, mentre si rinforzava e si sviluppava la teoria della filiazione, dava in certi casi l’impressione che le notizie scoperte smantellavano la teoria di Darwin e ogni nuova scoperta veniva di conseguenza salutata dai reazionari come prova del fallimento del darwinismo. Allo stesso tempo, la concezione sociale sulla scienza rifluiva. Gli scienziati reazionari proclamavano che era necessario un elemento spirituale. Il soprannaturale ed il misterioso che il darwinismo aveva spazzato via dovevano essere reintrodotti dalla finestra. Era l’espressione di una tendenza reazionaria crescente in seno a questa classe che all’inizio si era fatta portabandiera del darwinismo.
V. Il darwinismo contro il socialismo
Il darwinismo è stato di un’utilità inestimabile alla borghesia nella sua lotta contro i poteri del passato. Era del tutto naturale dunque che la borghesia lo utilizzasse contro il suo nuovo nemico, il proletariato; non perché i proletari si opponevano al darwinismo, ma per la ragione inversa. Quando il darwinismo fece la sua apparizione l’avanguardia proletaria, i socialisti, salutarono la teoria darwiniana perché vedeva nel darwinismo una conferma ed un compimento della propria teoria; non, come alcuni superficiali avversari credevano, perché si voleva fondare il socialismo sul darwinismo, ma nel senso che la scoperta darwiniana - che dimostrava che anche nel mondo organico, apparentemente stazionario, esisteva uno sviluppo continuo - costituisce una conferma ed un magnifico compimento della teoria marxista dello sviluppo sociale.
Era tuttavia normale che la borghesia si servisse del darwinismo contro i proletari. La borghesia doveva far fronte a due eserciti e le classi reazionarie lo sapevano bene. Quando la borghesia attaccava la loro autorità, queste additavano i proletari e mettevano in guardia la borghesia contro ogni frazionamento dell’autorità. Agendo così, i reazionari cercavano di spaventare la borghesia affinché rinunciasse ad ogni attività rivoluzionaria. Naturalmente i rappresentanti borghesi rispondevano che non c’era niente da temere; che la loro scienza confutava solamente l’autorità senza fondamento della nobiltà e li sosteneva nella loro lotta contro i nemici dell’ordine.
Durante un congresso di naturalisti il politico e scienziato reazionario Virchow accusò la teoria darwinista di sostenere il socialismo. “Fate attenzione a questa teoria, dice ai Darwinisti, perché questa teoria è legata strettamente a quella che ha causato tanto terrore nel paese vicino”. Questa allusione alla Comune di Parigi, fatta durante l’anno celebre per la caccia ai socialisti, dovette avere molto effetto. Che dire, tuttavia, della scienza di un professore che attacca il darwinismo argomentando che (una teoria) non è corretta perché è pericolosa! Questo rimprovero, di essere alleato ai rivoluzionari rossi, contrariò molto Haeckel, difensore di questa teoria. Questi non poté sopportarlo. Immediatamente dopo tentò di dimostrare che era precisamente la teoria darwiniana che dimostrava il carattere indifendibile delle rivendicazioni socialiste, e che darwinismo e socialismo “si sostengono reciprocamente come il fuoco e l’acqua”.
Seguiamo le controversie di Haeckel dove si ritrovano le idee principali della maggior parte degli autori che basano sul darwinismo i loro argomenti contro il socialismo.
Il socialismo è una teoria che presuppone l’uguaglianza naturale tra le persone e che si sforza di promuovere l’uguaglianza sociale; uguaglianza dei diritti, dei doveri, uguaglianza di proprietà e del suo godimento. Il darwinismo, al contrario, è la prova scientifica della disuguaglianza. La teoria della filiazione stabilisce che lo sviluppo animale va nel senso di una differenziazione o di una divisione del lavoro sempre più grande; più l’animale è superiore e si avvicina alla perfezione, più la disuguaglianza è importante. E ciò vale anche per la società. Anche qui vediamo la grande divisione del lavoro tra i mestieri, tra le classi, ecc., e più la società è sviluppata più aumentano le disuguaglianze nella forza, l’abilità, il talento. Bisogna dunque raccomandare la teoria della filiazione come “il migliore antidoto alla rivendicazione socialista di egualitarismo totale”.
Ciò si applica anche, ma in misura ancora maggiore, alla teoria darwiniana della sopravvivenza. Il socialismo vuole abolire la concorrenza e la lotta per l’esistenza. Ma il darwinismo ci insegna che questa lotta è inevitabile e che è una legge naturale per l’insieme del mondo organico. Non solo questa lotta è naturale, ma è anche utile e salutare. Questa lotta determina una perfezione crescente e questa perfezione consiste sempre più nell’eliminazione crescente di ciò che è inadatto. Solo la minoranza selezionata, coloro che sono qualificati per resistere alla concorrenza, può sopravvivere; la grande maggioranza deve sparire. Ci sono molti chiamati, ma pochi eletti. Allo stesso tempo la lotta per l’esistenza ha come risultato la vittoria dei migliori, mentre i meno buoni ed i disadattati devono essere eliminati. Ci si può lamentare, proprio come ci si lamenta che tutti dobbiamo morire, ma il fatto non può essere né negato né cambiato.
Vogliamo sottolineare come un piccolo cambiamento di parole quasi simili serva alla difesa del capitalismo. Darwin ha parlato, a proposito della sopravvivenza dei più adatti, di coloro che meglio si adattano alle condizioni. Vedendo che in questa lotta quelli che sono meglio organizzati prevalgono sugli altri, i vincitori furono chiamati i vigilanti e, in seguito, i “migliori”. Questa espressione è stata introdotta da Herbert Spencer. Essendo i vincitori nel loro campo, i vincitori della lotta sociale, i grandi capitalisti, si sono proclamati i migliori.
Haeckel ha mantenuto questa concezione e l’ha sempre confermata. Nel 1892 dice: “Il darwinismo, o la teoria della selezione, è interamente aristocratica; è basata sulla sopravvivenza del migliore. La divisione del lavoro apportata dallo sviluppo è responsabile di una variazione sempre più grande nel carattere, di una disuguaglianza sempre più grande tra gli individui, nella loro attività, la loro educazione e la loro condizione. Più la cultura umana è avanzata, maggiori sono la differenza ed il fossato tra le differenti classi esistenti. Il comunismo e le rivendicazioni di uguaglianza di condizione e di attività sostenute dai socialisti sono sinonimi di ritorno agli stadi primitivi della barbarie”.
Il filosofo inglese Herbert Spencer aveva già, prima di Darwin, una teoria sullo sviluppo sociale. Era la teoria borghese dell’individualismo basata sulla lotta per l’esistenza. Più tardi ha messo questa teoria in relazione stretta col darwinismo. “Nel mondo animale, diceva, i vecchi, i deboli ed i malati sono sempre annientati e solo gli elementi forti ed in buona salute sopravvivono. La lotta per l’esistenza serve dunque alla purificazione della razza, proteggendola dalla degenerazione. Essa è l’effetto benefattore di questa lotta perché, se questa lotta cessasse e ciascuno fosse certo di provvedere alla sua esistenza senza la minima lotta, la razza degenererebbe necessariamente. Il sostegno portato ai malati, ai deboli ed ai disadattati porta una degenerazione generale della razza. Se la simpatia, che trova la sua espressione nella carità, superasse dei limiti ragionevoli, mancherebbe il suo obiettivo; al posto di diminuire aumenterebbe la sofferenza per le nuove generazioni. L’effetto benefico della lotta per l’esistenza si percepisce meglio presso gli animali selvaggi. Essi sono tutti forti ed in buona salute perché hanno dovuto patire migliaia di pericoli i quali hanno eliminato necessariamente tutti quelli che non erano adattati. Negli uomini e negli animali domestici, la debolezza e la malattia sono generalizzate perché i malati ed i deboli sono preservati. Il socialismo, avendo per obiettivo la soppressione della lotta per l’esistenza nel mondo umano, porterà necessariamente una degenerazione mentale e fisica sempre crescenti”.
Sono questi i principali argomenti di coloro che utilizzano il darwinismo per difendere il sistema borghese. Per quanto potenti potessero sembrare a prima vista questi argomenti, non fu difficile per i socialisti demolirli. In sostanza questi non sono che i vecchi argomenti utilizzati contro il socialismo, rivestiti a nuovo con la terminologia darwiniana, ed essi mostrano un’ignoranza totale del socialismo e del capitalismo.
Quelli che paragonano l’organizzazione sociale al corpo dell’animale trascurano il fatto che gli uomini non differiscono tra loro come differiscono le cellule o gli organi, ma solamente per il livello delle loro capacità. Nella società la divisione del lavoro non può arrivare fino a far scomparire tutte le capacità a profitto di una sola. Inoltre, chiunque comprenda qualche cosa di socialismo sa che la divisione efficace del lavoro non termina con il socialismo, ma che, per la prima volta, con il socialismo sarà possibile una vera divisione. La differenza tra gli operai, tra le loro capacità, i loro impieghi non sparirà; ciò che cesserà sarà la differenza tra gli operai e gli sfruttatori.
Se è vero che nella lotta per l’esistenza gli animali fisicamente più forti, sani e bene adattati sopravvivono, ciò non si verifica con la concorrenza capitalista. Qui la vittoria non dipende dalla perfezione di quelli che sono impegnati nella lotta. Mentre il talento per gli affari e la forza possono giocare un ruolo nel mondo piccolo borghese, con l’ulteriore sviluppo della società, il successo dipende sempre più dal possesso del capitale. Il grande capitale vince sul più piccolo, anche se quest’ultimo si trova in mani più qualificate. Non sono le qualità personali, ma il possesso del denaro che decide chi sarà il vincitore nella lotta per la sopravvivenza. Quando i proprietari di piccoli capitali spariscono non periscono in quanto uomini ma in quanto capitalisti; non sono eliminati dalla vita, ma dalla borghesia. Dunque, la concorrenza che esiste nel sistema capitalista è qualche cosa di diverso, nelle sue esigenze ed i suoi risultati, dalla lotta animale per l’esistenza.
Le persone che periscono in quanto persone sono membri di una classe completamente differente, una classe che non partecipa alla lotta della concorrenza. Gli operai non fanno concorrenza ai capitalisti, vendono loro solamente la propria forza di lavoro. Poiché non hanno nessuna proprietà, non hanno neanche l’opportunità di misurare le loro grandi qualità, né di entrare in corsa con i capitalisti. La loro povertà e la loro miseria non possono essere attribuite al fatto che perdono in una lotta concorrenziale a causa della loro debolezza; è perché sono pagati molto male per la loro forza lavoro che i loro figli, anche se nascono forti ed in buona salute, muoiono in tanti; mentre i bambini nati da genitori ricchi, anche se sono nati malati, sopravvivono grazie all’alimentazione ed alle numerose cure che sono portate loro. I bambini dei poveri non muoiono perché sono malati o deboli, ma per ragioni esterne. È il capitalismo che crea tutte queste condizioni sfavorevoli con lo sfruttamento, la riduzione dei salari, le crisi di disoccupazione, alloggi malsani e le lunghe ore di lavoro. È il sistema capitalista che fa perire tanti esseri forti e sani.
Così i socialisti mostrano che, a differenza del mondo animale, la lotta concorrenziale che esiste tra gli uomini non favorisce i migliori ed i più qualificati, ma annienta molti individui forti e sani a causa della loro povertà, mentre i ricchi, sebbene deboli e malati, sopravvivono. I socialisti mostrano che la forza personale non è il fattore determinante, ma che quest’ultimo è qualche cosa di esterno all’uomo; è il possesso del denaro che determina chi sopravvivrà e chi morirà.
Anton Pannekoek
[1] Bisogna rilevare che, qualche tempo dopo, in un’altra lettera ad Engels, datata 18 giugno 1862, Marx ritornerà sul suo giudizio facendo questa critica a Darwin: “E’ notevole vedere come Darwin riconosce negli animali e nelle piante la sua società inglese, con la sua divisione del lavoro, la sua concorrenza, le sue aperture di nuovi mercati, le sue ‘invenzioni’ e la sua ‘malthusiana’ ‘lotta per la vita’. È il bellum omnium contra omnes (la guerra di tutti contro tutti) di Hobbes, e ciò ricorda Hegel nella Fenomenologia, dove la società civile interviene in quanto ‘regno animale’ dello spirito, mentre in Darwin è il regno animale che interviene in quanto società civile”. (Marx-Engels, Corrispondenza). In seguito, Engels riprenderà, in parte, questa critica di Marx ne L’Anti-Dühring (dove farà allusione alla “cantonata malthusiana” di Darwin) e nella Dialettica della natura. Più avanti ritorneremo su ciò che va considerato come un’interpretazione erronea dell’opera di Darwin da parte di Marx ed Engels.
[2] La traduzione è stata effettuata dalla versione inglese (1912, Nathan Weiser) e migliorata poi sulla base dell’originale in olandese.
[3] Gli junker costituivano l’aristocrazia terriera (ndr).
Il 14 dicembre 2009, migliaia di operai delle imprese Tekel[1], di dozzine di città della Turchia, hanno lasciato le loro case e le loro famiglie per raggiungere Ankara. Questi operai hanno affrontato un simile viaggio per lottare contro le orribili condizioni alle quali li costringe l'ordine capitalista. Questa lotta esemplare, che dura da circa due mesi, attualmente è guidata dall'idea di uno sciopero che permetta a tutti gli operai di parteciparvi. Facendo ciò, gli operai di Tekel hanno iniziato, ed allo stesso tempo si sono fatti parte attiva di un movimento per l'insieme della classe operaia in tutto il paese. Quella che esponiamo, è la storia di ciò che è accaduto in questa lotta. Non dobbiamo dimenticare che tale resoconto non riguarda solo gli operai della Tekel ma gli operai di tutto il mondo. Ringraziamo calorosamente gli operai di Tekel per avere reso possibile la scrittura di questo articolo spingendo avanti le lotte della nostra classe e spiegandoci ciò che è accaduto.
Per prima cosa va detto che gli operai della Tekel sono entrati in lotta contro la "politica del 4-C" dello Stato turco. Quest’ultimo ha posto migliaia di operai insieme a quelli della Tekel sotto le condizioni di lavoro del "4-C". Queste condizioni a breve riguarderanno centinaia di migliaia d’operai, e le prossime vittime saranno quelli del settore dello zucchero. Intanto, numerosi settori della classe operaia hanno già sperimentato attacchi simili anche se denominati diversamente, e sicuramente questi ultimi colpiranno anche coloro che ancora non sono stati toccati. Che cosa è dunque questo "4-C"? Si tratta in pratica di un programma di "protezione" emanato dallo Stato turco quando è aumentato il numero di operai che hanno perso il loro lavoro a causa delle privatizzazioni. Ciò ha implicato innanzitutto, un cospicuo abbassamento di salario, ed il trasferimento degli operai del settore pubblico in altri luoghi e settori dello Stato ma a condizioni peggiori. La peggiore di queste introdotta dal "4-C" è quella che ha conferito allo Stato-padrone un potere assoluto sugli operai. Così, il salario fissato dallo Stato e che è già massicciamente ridotto, è semplicemente un valore massimo e può essere ridotto arbitrariamente dai dirigenti delle imprese di Stato. Inoltre, le ore di lavoro sono completamente deregolamentate ed i direttori di fabbrica hanno il diritto di fare lavorare gli operai tutto il tempo che essi (dirigenti) vogliono, fino alla "fine del compito loro assegnato". Di contro, agli operai non spetta niente per questo lavoro supplementare. Con tale politica, i padroni hanno il potere di sfruttare arbitrariamente gli operai, senza che ci sia un qualsiasi compenso salariale. Il periodo in cui gli operai possono lavorare varia da tre a dieci mesi per anno, niente, se essi non vengono pagati durante i mesi in cui non lavorano, e se la durata di lavoro ancora una volta è decisa arbitrariamente dai padroni. Malgrado ciò, è vietato ai salariati trovarsi un secondo lavoro durante i periodi in cui non lavorano o durante le vacanze. I rimborsi di previdenza sociale per loro non esistono più ed ogni assicurazione medica è stata soppressa. Le privatizzazioni, come la politica del "4-C", sono già state introdotte da molto tempo. Nelle imprese della Tekel, solo i dipartimenti dell'alcol e dei tabacchi erano già stati privatizzati, e questo processo ha implicato la chiusura delle fabbriche di tabacco. Pensiamo che sia chiaro che il problema non sia solamente quello delle privatizzazioni. È evidente che sia il capitale privato, che acquisisce il lavoro degli operai, che il capitale di Stato vogliono sfruttare all'eccesso gli operai sottomettendoli alle peggiori condizioni di sfruttamento, unendo in questo attacco le loro forze. In questo senso, possiamo dire che la lotta degli operai della Tekel è nata dagli interessi di classe di tutti ed è l'espressione della lotta contro tutto l'ordine capitalista.
E’ necessario ancora spiegare la situazione del movimento della classe operaia in Turchia nel periodo in cui gli operai di Tekel hanno scatenato la loro lotta. Il 25 novembre 2009, è stata organizzata una giornata di sciopero dal KESK, dal DISK e dal Kamu-Sen[2]. La settimana in cui gli operai di Tekel hanno raggiunto Ankara, due altre lotte operaie erano in corso. La prima era una manifestazione di vigili del fuoco che all’inizio del 2010 avrebbero perso il loro impiego, la seconda era una giornata di sciopero dei ferrovieri contro il licenziamento di certi colleghi per la loro partecipazione allo sciopero del 25 novembre. La polizia antisommossa, davanti al montare delle lotte, ha attaccato brutalmente i vigili del fuoco ed i ferrovieri. E gli operai della Tekel non sono stati trattati in modo differente. 50 ferrovieri hanno perso il loro impiego per avere partecipato allo sciopero. Parecchi operai sono stati fermati ed arrestati. I vigili del fuoco hanno impiegato un poco di tempo prima di riprendersi da tali attacchi, e purtroppo i ferrovieri non hanno avuto la capacità di ritornare sul terreno della lotta di classe. Ciò che ha spinto quelli della Tekel all’avanguardia della lotta a dicembre è stata la loro volontà ad organizzarsi per difendersi contro le misure repressive dello Stato, riuscendo a mantenere attiva e viva la loro lotta.
Come è cominciata la lotta di Tekel? Fin dal 5 dicembre, all'epoca di una cerimonia presieduta da Tayyip Erdogan[3] c'era già una forte minoranza che voleva battersi. Gli operai della Tekel, con le loro famiglie, hanno apostrofato inaspettatamente Erdogan per chiedergli quale sorte per loro fosse riservata. Hanno interrotto il suo discorso dicendo: “Gli operai di Tekel aspettano che diate loro delle buone notizie rispetto alle loro rivendicazioni". Erdogan ha risposto: "purtroppo in Turchia si sta diffondendo un certo tipo di individuo. Sono i fannulloni che vogliono guadagnare del denaro senza fare nessun lavoro, riposandosi. L'era in cui si guadagnava del denaro lasciandosi cullare dolcemente è finita (…) questi pensano che lo Stato sia una mucca da latte inesauribile, ma chiunque ne approfitta è solamente un maiale. Ecco come essi pongono i problemi. Non tollereremo più questa mentalità e questo genere di situazione. Se non siete d’accordo ad accettare le regole del 4-C, siete liberi di creare imprese vostre. Abbiamo fatto un accordo con i vostri sindacati. Ho parlato a loro e ho detto:‘Voi avete tempo. Ma fate ciò che è necessario per fare adottare il nostro punto di vista'. Appena abbiamo avuto il loro accordo, in quel momento, il negoziato si è concluso ed abbiamo lasciato passare ancora uno o due anni. Ma certi sono ancora qui per dire cose tipo vogliamo conservare il nostro lavoro e continuare come prima, vogliamo conservare gli stessi diritti. No, già abbiamo trattato su queste cose. 10˙000 operai della Tekel ci costano quaranta miliardi al mese”[4]. Erdogan non aveva idea dei guai che si stava tirando addosso. Gli operai, la cui maggioranza aveva precedentemente sostenuto il governo, in quel momento si sono arrabbiati. La questione di come iniziare la lotta è stata discussa sui posti di lavoro. Un operaio di Adiyaman[5] ne spiega la dinamica con un articolo che ha scritto e che è stato pubblicato da un giornale gauchista: “Questo processo ha stimolato i colleghi operai (…) hanno cominciato a vedere il vero volto del Partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP) a causa degli insulti pronunziati dal Primo ministro. La prima cosa che hanno fatto è stata quella di smettere di essere membri del partito. Nelle discussioni che cominciavano ad aver luogo sui posti di lavoro, abbiamo deciso di proteggere il nostro lavoro tutti insieme”[6]. Il sindacato[7] con cui Erdogan ha detto di essere d’accordo, e che precedentemente non ha fatto nessuna seria azione per difenderli, ha indetto un concentramento ad Ankara. Perciò, gli operai si sono diretti sulla capitale.
Le forze dello Stato hanno preparato fin dall'inizio un attacco subdolo contro gli operai. La polizia antisommossa ha bloccato gli autobus che trasportavano gli operai, dichiarando che non poteva lasciare passare gli operai delle città curde, dove sono concentrate le fabbriche Tekel, ma solo quelli delle regioni dell'ovest, del Mediterraneo, del Centro Anatolia e del mar Nero. Ciò serviva a fare arrabbiare gli operai curdi, contrapporre gli uni agli altri e dunque dividere il movimento su basi etniche. Queste manovre in realtà sono servite a strappare dal volto dello Stato le sue due maschere: quella dell'unità e dell'armonia e quella della riforma kurda[8]. Ma gli operai della Tekel non sono caduti in questa trappola della polizia. E con gli operai di Tokat in testa[9], quelli che provenivano dall'esterno delle città curde, hanno protestato contro questa disposizione della polizia, insistendo con determinazione che tutti dovevano entrare insieme in città e nessuno doveva rimanere fuori. La polizia, non sapendo quale posizione il governo avrebbe alla fine adottato, ha finito col permettere agli operai di entrare in città. Questo incidente ha fatto sì che operai di differenti città, differenti regioni ed etnie hanno potuto allacciare dei legami profondi su un terreno di classe. In seguito a questo avvenimento, gli operai delle regioni dell'ovest, del Mediterraneo, dell’Anatolia centrale e del mar Nero hanno trasmesso il sentimento che la forza e l'ispirazione trasmessa dalla resistenza, dalla determinazione e dalla coscienza degli operai curdi ha contribuito largamente a spingerli a partecipare alla lotta, ed hanno anche affermato che hanno imparato molto da questi operai. Gli operai della Tekel hanno ottenuto la loro prima vittoria entrando nella città.
Il 15 dicembre, gli operai della Tekel hanno iniziato la loro manifestazione di protesta di fronte al quartier generale del Partito della Giustizia e dello Sviluppo ad Ankara. Uno di essi, presente in questo giorno, spiega: "Abbiamo marciato sul quartiere generale del Partito della Giustizia e dello Sviluppo. In serata abbiamo acceso un fuoco ed abbiamo sostato di fronte al palazzo fino alle 22 h. Per il troppo freddo, siamo andati alla palestra Atatürk. Eravamo 5000. Abbiamo tirato fuori i nostri tappeti e con dei cartoni abbiamo affrontato la notte. In mattinata, la polizia ci ha respinto verso il parco Abdi Ipekçi accerchiandoci. Alcuni nostri compagni hanno di nuovo marciato verso l'edificio del partito. Noi, che stavamo nel parco, volevamo andare incontro ai nostri compagni e quelli che stavano davanti al palazzo desideravano raggiungerci: la polizia ci ha attaccato con gas lacrimogeni. Abbiamo camminato quattro ore. Abbiamo trascorso la notte nel parco, sotto la pioggia”[10]. L’attacco più brutale della polizia ha avuto luogo il 17 dicembre. Questa, agendo evidentemente su ordine e forse per nascondere il fatto che non aveva potuto impedire gli operai curdi di entrare in città, ha attaccato gli operai dentro al parco con grande odio e violenza. Lo scopo era disperdere gli operai. Anche questa volta, c’è stato qualche cosa che le forze dell'ordine non avevano previsto: la capacità degli operai ad auto-organizzarsi. Questi, dispersi dalla polizia, si sono riorganizzati senza l'aiuto di nessun burocrate sindacale e si sono riuniti dando luogo nel pomeriggio ad una manifestazione massiccia di fronte alla sede del Türk-Is[11]. Lo stesso giorno, non avendo dove soggiornare, hanno occupato due piani dell'edificio. Il giorno seguente - il 17 dicembre - , altre manifestazioni hanno avuto luogo nella stradina di fronte alla sede del sindacato Türk-Is, al centro di Ankara.
La lotta tra gli operai della Tekel ed i sindacati del Türk-Is ha segnato i giorni seguenti a questa data fino al Nuovo Anno. In effetti, fin dall'inizio dello sciopero, gli operai non avevano più fiducia nei dirigenti sindacali. Da ogni città, essi avevano inviato in ogni negoziato due operai con i sindacalisti. Lo scopo era quello di consentire che tutti fossero informati su ciò che realmente accadeva. Nello stesso tempo Tek Gida-Is e Türk-Is, così come il governo, si aspettavano che entro alcuni giorni gli scioperanti avrebbero rinunciato a lottare di fronte al freddo glaciale dell'inverno di Ankara, alla repressione poliziesca ed alle difficoltà materiali. Evidentemente, le porte del palazzo del Türk-Is sono state chiuse immediatamente per breve tempo per impedire agli operai di accedervi. Ma questi ultimi hanno chiesto ed ottenuto che le donne potessero riposarsi nel palazzo ed utilizzare i servizi. Gli operai non avevano intenzione di ripartire. Un serio sostegno è stato portato loro dalla classe operaia di Ankara e soprattutto dagli strati proletari studenteschi di fronte alle difficoltà materiali. Una parte forse ridotta ma tuttavia significativa della classe operaia di Ankara si è mobilitata per accogliere gli operai a casa sua. Invece di rinunciare e ripartire, gli operai di Tekel si sono ogni giorno radunati nella stradina di fronte al palazzo del Türk-Is, ed hanno cominciato a discutere su come portare avanti la loro lotta. Non è occorso molto tempo per realizzare che la sola soluzione per superare il loro isolamento era di estendere la loro lotta al resto della classe operaia.
In questo contesto, gli operai combattivi di tutte le città vedendo che i Tek Gida-Is ed il Türk-Is non facevano niente per loro hanno tentato di formare un comitato di sciopero con lo scopo principale di trasmettere le loro rivendicazioni ai sindacati. Tra queste rivendicazioni c’è stata anche l’allestimento di una grande tenda in cui gli scioperanti avrebbero celebrato collettivamente il Nuovo Anno, ed anche per organizzare una manifestazione davanti al palazzo del Türk-Is. L'esecutivo dei sindacati si è opposto a tale iniziativa, affermando che dopo tutto, che bisogno avevano dei sindacati se a stare in prima fila sono gli operai e che controllano essi stessi direttamente la loro lotta?! Questo atteggiamento conteneva una minaccia appena velata: gli operai che erano già soli temevano di essere ancora più isolati se i sindacati gli toglievano il sostegno. Il comitato di sciopero dunque è stato soppresso. Si poneva la questione della volontà degli operai di conservare il controllo della lotta. Velocemente, si sono sforzati per allacciare legami con gli operai delle fabbriche dello zucchero che già si scontravano con le stesse condizioni del 4-C e sono andati a prendere contatti con gli operai dei dintorni e nelle università dove erano stati invitati per spiegare la loro lotta. Allo stesso tempo, hanno continuato a lottare contro la direzione del Türk-Is che non li sosteneva per niente. Il giorno in cui si è riunito il comitato esecutivo del sindacato, gli operai hanno forzato le porte del quartiere generale sindacale e la polizia antisommossa è stata mobilitata per proteggere il presidente del sindacato Mustafa Kumlu dagli operai. Questi gridavano parole d’ordine come: "Liquideremo chi ci tradisce", "Il Türk-Is al suo dovere, verso lo sciopero generale", "Kumlu, dimissioni". Kumlu non ha osato mostrarsi fino all’annuncio di una serie di azioni, ivi compreso lanciare appelli allo sciopero ed accettare le manifestazioni settimanali di fronte all'edificio del sindacato. Ha avuto paura per la sua vita. Nonostante questa dichiarazione Kumlu non è stato sempre creduto dagli operai. Un operaio di Tekel proveniente da Diyarbakir[12] dichiarava in un intervento: “Noi non seguiremo nessuna decisione presa dalla direzione sindacale per fermare lo sciopero e farci ripartire. E se una decisione di fermare lo sciopero senza guadagnare niente è presa come l'anno scorso, saccheggeremo il palazzo del Türk-Is e lo incendieremo”[13]. Stava esprimendo il sentimento di tanti altri operai della Tekel. Il Türk-Is ritornava sul suo piano da azione quando il primo sciopero di un’ora ha conosciuto un tasso di partecipazione del 30% per tutti i sindacati. Tutti i leader sindacali si sentirono atterriti, così come lo stesso governo, all'idea di vedere la lotta estendersi. Dopo la calorosa manifestazione del Nuovo Anno davanti al palazzo del Türk-Is, un voto a bollettini segreti è stato organizzato tra gli operai per decidere se si doveva continuare o tornarsene a casa. Il 99% ha votato per proseguire lo sciopero. Nello stesso tempo, un nuovo piano d’azione, suggerito dal sindacato, cominciava ad essere messo in discussione: dopo il 15 gennaio, si doveva effettuare un sit-in di tre giorni, seguito da uno sciopero della fame di tre giorni ed un digiuno completo di tre giorni. Ci doveva essere anche una manifestazione con una partecipazione massiccia, come prometteva l'amministrazione del Türk-Is. Gli operai inizialmente hanno pensato che uno sciopero della fame era una buona idea. Essendo già isolati, non volevano essere dimenticati ed ignorati e pensavano che uno sciopero della fame avrebbe potuto evitare ciò. Pensavano di essere impantanati di fronte al Türk-Is e hanno sentito il bisogno di fare qualche cosa. Hanno anche pensato che uno sciopero della fame avrebbe potuto persino intimidire il sindacato.
Uno dei testi più significativi scritti dagli operai della Tekel è stato pubblicato in quei giorni. Si tratta di una lettera scritta da un operaio di Batman[14] agli operai delle fabbriche di zucchero: "Alle nostre sorelle e fratelli operai onorabili e lavoratori della fabbrica di zucchero. Oggi, la grande lotta che gli operai di Tekel hanno sviluppato è una opportunità storica per quelli i cui diritti sono stati ritirati. Per non buttare via questa opportunità, dovreste partecipare alla nostra lotta e ciò ci renderebbe più felici e più forti. Miei amici, desidererei particolarmente sottolineare che da molto i sindacalisti vi promettono e vi fanno sperare che essi "si occuperanno di questo problema". Tuttavia, poiché già abbiamo vissuto questa esperienza, sappiamo bene che loro sono persone privilegiate e non hanno nessuno interesse vitale da difendere. Al contrario, siete voi quelli ai quali saranno tolti i diritti ed il cui diritto al lavoro sarà ritirato. Se non prendete parte alla lotta oggi, domani sarà per voi troppo tardi. Questa lotta sarà vittoriosa solamente se siete dentro e noi non abbiamo nessuno dubbio o mancanza di fiducia per portarla avanti. Perché siamo sicuri che se gli operai sono uniti ed agiscono come un solo corpo, non c'è niente che non possano raggiungere. Con questi sentimenti, vi saluto con la mia più profonda fiducia ed il mio più profondo rispetto ed a nome di tutti gli operai di Tekel”[15]. Questa lettera non chiamava alla lotta solo gli operai dello zucchero, esprimeva anche con molta chiarezza ciò che era accaduto agli operai della Tekel. Allo stesso tempo, esprimeva la coscienza, condivisa da parecchi, che non si battevano solo per loro stessi ma per l’intera classe operaia.
Il 15 gennaio altri operai della Tekel hanno raggiunto Ankara per partecipare al sit-in precedentemente menzionato. In quel momento, erano quasi 10˙000 sulla piazza Sakarya. Alcuni erano accompagnati da famigliari. Gli operai avevano preso delle ferie, malattia e vacanze per venire ad Ankara e la maggior parte sarebbe dovuta ritornare parecchie volte per rinnovare i permessi di vacanze. Erano presenti quasi tutti gli operai della Tekel[16]. Una manifestazione con una larga partecipazione è stata organizzata per sabato 16 gennaio. Le forze dell'ordine temevano questa manifestazione perché avrebbe potuto determinare la generalizzazione e l'estensione massiccia della lotta. La possibilità che gli operai arrivassero il sabato per la manifestazione passando la notte e tutta la domenica con gli operai della Tekel avrebbe potuto determinare legami forti e massicci. Così, la polizia ha insistito affinché la manifestazione cominciasse la domenica, ed il Türk-Is, con una manovra tipica, ha indebolito la manifestazione facendo in modo che gli operai delle città curde non venissero. Avevano calcolato che trascorrere due notti nell'inverno gelato di Ankara, senza muoversi per effettuare il sit-in, avrebbe fiaccato la resistenza e la forza degli operai. Si è visto all'epoca della manifestazione del 17 gennaio quanto questo fosse stato un calcolo seriamente sbagliato.
La manifestazione è iniziata con calma. Gli operai che si erano radunati ad Ankara e parecchi gruppi politici hanno cominciato a muoversi alle ore 10 dalla stazione verso piazza Sihhiye. Nella manifestazione, sotto lo sguardo di decine di migliaia di operai, ha preso la parola su un palco prima un operaio di Tekel, poi un vigile del fuoco ed ancora un operaio dello zuccherificio. L'esplosione di collera si è verificata solo e quando Mustafa Kumlu è salito, dopo gli operai, in tribuna. Kumlu che non si era mai preoccupato della lotta né delle condizioni di vita degli operai della Tekel ha fatto un discorso completamente moderato, conciliatore e vuoto. Il Türk-Is si è sforzato in modo particolare per mantenerli distanti dal palco e mettendo anche in prima fila gli operai metallurgici che non erano assolutamente informati di quello che stava succedendo. Ma quelli della Tekel hanno chiesto loro di lasciarli passare e si sono adoperati per raggiungere la tribuna. E qui hanno fatto del loro meglio per interrompere per tutta la sua durata il discorso di Kumlu, lanciando le loro parole d’ordine. L'ultima offesa nei riguardi degli operai è stato l'annuncio che, dopo Kumlu, Alisan, un cantante pop che non aveva niente a che vedere col movimento, avrebbe dato un concerto. Gli operai hanno assalito il palco, cominciando a gridare parole d’ordine e, malgrado i capi sindacali abbiano abbassato il volume sonoro, si sono ripreso il microfono. Questa volta, il sindacato ha completamente perso il controllo. Ad averlo sono gli operai. I capi sindacali, avventandosi sul palco, hanno cominciato a fare discorsi radicali tentando allo stesso tempo di respingere gli operai. Ma la manovra non è riuscita; hanno rilanciato una provocazione cercando di mettere l’uno contro l’altro, accusando gli studenti ed altri operai che erano venuti a sostenerli. I sindacalisti hanno ancora una volta tentato di dividere gli operai che si sono trovati ad Ankara dall'inizio della lotta da quelli che sono arrivati da poco, additando quelli che sono venuti ad offrire il loro aiuto. Alla fine, i capi sindacali hanno tentato di fare scendere quelli che occupavano il palco e hanno convinto tutti a ritornare velocemente davanti al palazzo del Türk-Is. Il fatto che discorsi riguardanti gli scioperi della fame e digiuni completi sono stati avanzati per fare cadere le parole d’ordine sullo sciopero generale è, secondo noi, interessante. Tornare verso il palazzo del Türk-Is non è servito affatto a spegnere la collera degli operai. Parole d’ordine come "Sciopero generale, resistenza generale", "Türk-Is non deve abusare della nostra pazienza" e "Liquideremo chi ci tradisce" ora sono gridati davanti all'edificio. Alcune ore più tardi, un gruppo di circa 150 operai hanno forzato la barricata innalzata dai burocrati davanti alle porte dell'edificio, occupandolo. Gli operai della Tekel che hanno cominciato a cercare Mustafa Kumlu, quando hanno raggiunto la porta di quest’ultimo nel palazzo hanno iniziato a gridare "Nemico degli operai, servitore dell'AKP". Dopo la manifestazione del 17 gennaio, gli operai si sono sforzati per formare un altro comitato di sciopero. Questo comitato è stato costituito da quegli operai che ritenevano lo sciopero della fame non adatto per fare avanzare la lotta e che al contrario bisognava estendere quest’ultima. Lo sforzo per formarlo è stato riconosciuto da tutti gli operai e sostenuto da una grande maggioranza. Quelli che non lo hanno attivamente sostenuto, però non lo hanno nemmeno contrastato. Tra i compiti assegnati al comitato, piuttosto che trasmettere le loro rivendicazioni ai sindacati, c’è quello di attuare la comunicazione e l'auto organizzazione nelle fila operaie. Come il precedente comitato di sciopero, questo è stato composto interamente da operai e completamente indipendente dai sindacati. La stessa determinazione ad auto-organizzarsi ha permesso a centinaia di operai della Tekel di potersi unire alla manifestazione degli impiegati del settore della salute che era in sciopero dal 19 gennaio. Lo stesso giorno, mentre è stato permesso uno sciopero della fame di tre giorni solo ad un centinaio di operai, altri 3000 li hanno raggiunti, malgrado l'impressione generale degli operai di ritenere questo sciopero della fame non tanto appropriato per fare avanzare la lotta. La ragione che hanno apportato è stata quella di non volere lasciare i loro compagni da soli a fare questo sciopero della fame, e che, per solidarietà, volevano impegnarsi con loro condividendone la sorte.
Sebbene gli operai della Tekel si siano regolarmente riuniti tra quelli provenienti dalle stesse città, non è stata possibile un'assemblea generale con tutti gli operai partecipanti. Tuttavia, dal 17 dicembre, la strada di fronte al palazzo del Türk-Is ha preso il carattere di un'assemblea generale informale, ma regolare. La piazza Sakkarya, in questi giorni, è stata riempita da centinaia di operai delle differenti città, che hanno discusso di come sviluppare la lotta, come estenderla e che cosa fare. Un'altra caratteristica importante della lotta è stata la capacità ad unirsi degli operai delle differenti regioni etniche contro l'ordine capitalista malgrado le provocazioni del regime. La parola d’ordine "Operai curdi e turchi tutti insieme", lanciata fin dai primi giorni della lotta, l'ha espressa con molta chiarezza. Nella lotta della Tekel, numerosi operai della regione del mar Nero hanno danzato il Semame, e numerosi curdi hanno fatto la danza di Horon per la prima volta nella loro vita[17]. Un altro aspetto significativo manifestato dagli operai della Tekel è stata l'importanza che essi hanno dato all'estensione della lotta ed alla solidarietà operaia, e ciò non sulla base stretta del nazionalismo ma su quella che esprime il sostegno reciproco e la solidarietà degli operai del mondo intero. Gli operai della Tekel hanno anche evitato che le fazioni della classe dominante all'opposizione si servissero della lotta per i loro scopi perché non avevano nessuna fiducia in esse. Sono stati attenti attenti a come il Partito Repubblicano del Popolo[18] (CHP, Cumhuriyet Halk Partisi) ha attaccato gli operai di Kent AS[19] che erano stati licenziati, come il Partito del Movimento Nationalista[20] (MHP, Milliyetçi Hareket Partisi Milliyetçi) ha avuto un suo ruolo nell'aggravamento della politica statale ed anti-operaia. Un operaio ha espresso questa coscienza molto chiaramente: “Abbiamo compreso ciò che tutti noi siamo. Quelli che hanno votato per la legge di privatizzazione oggi ci dicono che comprendono la nostra situazione. Fino ad ora, ho sempre votato per il Partito del Movimento Nazionalista. È solamente in questa lotta che ho incontrato dei rivoluzionari. Sono in questa lotta perché sono un operaio. I rivoluzionari sono sempre con noi. Il Partito del Movimento Nazionalista ed il Partito Repubblicano del Popolo fanno cinque minuti di discorso e poi se ne vanno. Quando siamo venuti qui tra di noi c’erano persone che veramente erano affezionati a questi partiti. Ora, la situazione non è più la stessa”[21]. L'esempio più sorprendente di questa coscienza si è visto quando gli operai della Tekel hanno impedito ai fascisti dell’Alperen Ocaklari[22] di parlare, la stessa organizzazione che aveva attaccato gli operai di Kent As che manifestavano nel Parco Abdi Ipekçi perché erano curdi. La lotta di quelli della Tekel ha costituito anche un importante sostegno ai vigili del fuoco che erano stati attaccati brutalmente dopo la loro prima manifestazione risollevando loro il morale per riprendere la lotta. In generale, gli operai della Tekel hanno dato non solo la speranza ai vigili del fuoco ma a tutti i settori della classe operaia in Turchia che vogliono entrare in lotta. Hanno fatto in modo da permettere a tutti gli operai di partecipare allo sciopero. E’ per questo motivo che oggi, essi si considerano fieramente all'avanguardia della classe operaia in Turchia. Hanno permesso agli operai della Turchia di uscire dal sonno in cui erano da anni facendoli raggiungere le lotte operaie del mondo intero. Rappresentano i semi dello sciopero di massa, come quelli che abbiamo visto scuotere il mondo in quest’ultimi anni dall'Egitto alla Grecia, dal Bangladesh alla Spagna, dall'Inghilterra alla Cina.
Questa lotta esemplare è sempre in corso, e noi pensiamo che non è ancora tempo di tirarne tutte le lezioni. Con l'idea di uno sciopero della fame e di un digiuno totale messo in testa da un lato, e dall'altro quella di un comitato di sciopero creato dagli operai che non ritengono adatto lo sciopero della fame come metodo di lotta ed al contrario vogliono estenderla, con i burocrati del Türk-Is che fanno parte dello Stato da un lato e dall'altra gli operai che vogliono uno sciopero generale, è difficile prevedere ciò che accadrà a questa lotta, dove andrà, quali risultati otterrà. Ciò detto, dobbiamo mettere l'accento sul fatto che, qualunque ne sia la fine, l'atteggiamento rimarchevole degli operai della Tekel lascerà delle lezioni inestimabili per tutta la classe operaia.
Gerdûn (20 gennaio 2010)
[1] Tekel è la compagnia che ha avuto il monopolio di Stato di tutte le imprese di produzione di alcol e di tabacco.
[2] Rispettivamente, la Confederazione di Sinistra dei Sindacati degli Operai del Settore Pubblico, la Confederazione dei Sindacati Operai Rivoluzionari, e più importante, la Confederazione dei Sindacati degli Impiegati del Pubblico, conosciuto per le sue simpatie pro-fasciste.
[3] Primo ministro, anche dirigente del Partito della Giustizia e dello Sviluppo o AKP (AKP) (Adalet ve Kalkınma Partisi).
[5] Città del Kurdistan turco.
[7] Tek Gıda-İş, Sindacato degli Operai dell'alimentare, dell'alcol e del Tabacco, membro della centrale sindacale Türk-İş.
[8] La “riforma curda” è un tentativo dello Stato turco di trovare una soluzione al problema posto dalla guerriglia curda nell'est del paese, attenuando le leggi anti-curde (per esempio levando le interdizioni contro l'utilizzazione della lingua curda). Questa “riforma” recentemente è stata impallinata con l'interdizione nel dicembre 2009 del partito curdo DTP, vedere l’articolo sul nostro sito in inglese: https://en.internationalism.org/icconline/2009/10/turkey [34].
[9] Regione conosciuta tradizionalmente per il suo nazionalismo ed il suo sostegno al partito al potere.
[11] Confederazione dei sindacati turchi, la più vecchia e più grande confederazione di sindacati in Turchia che ha una storia completamente infame, essendo stata formata sotto l'influenza degli Stati Uniti negli anni 1950 secondo il modello dell'AFL-CIO, e sabotatore delle lotte operaie.
[12] Conosciuta per essere la capitale non ufficiale del Kurdistan, Diyarbakir è una metropoli del Kurdistan turco.
[14] Città del Kurdistan turco.
[15] https://tr.internationalism.org/ekaonline-2000s/ekaonline-2009/tekel-iscisinden-seker-iscisine-mektup [36].
[16] Circa 9.000 sui 10.000 dell’impresa.
[17] La Şemame è una danza curda molto conosciuta, e l’Horon un'altra anche molto conosciuta della regione del mar Nero della Turchia.
[18] Il partito nazionalista di sinistra, kemalista, d’ordine, membro dell’Internazionale socialista, estremamente sciovinista.
[19] Gli operai della municipalità d’İzmir, una metropoli della costa del mare Egeo. Questi operai sono stati licenziati dal Partito Repubblicano del Popolo che controllava la municipalità dove lavoravano ed attaccati poi brutalmente dalla polizia mentre manifestavano contro il dirigente del partito.
[20] Il principale partito fascista.
[22] Gang omicida legata al Grande Partito d’Union (BBP, Büyük Birlik Partisi), una scissione fascista radicale del Partito del Movimento Nazionalista.
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Grecia, Portogallo, Spagna, Irlanda, Francia, Germania, Inghilterra, Italia … ovunque la stessa crisi, ovunque gli stessi attacchi. La borghesia mostra apertamente le sue intenzioni. Il suo freddo e disumano discorso si riassume in poche parole: “Se volete evitare il peggio, la catastrofe economica ed il fallimento, bisogna che stringiate la cinghia come non avete mai fatto finora!”. Certo, nell’immediato, non tutti gli Stati capitalisti si trovano nella stessa situazione di deficit incontrollabile, ma tutti sanno che sono irrimediabilmente trascinati in questa direzione. E tutti utilizzano questa realtà per difendere i loro sordidi interessi. Dove trovare il denaro per tentare di ridurre questi mostruosi deficit? Naturalmente nelle tasche già così fortemente tartassate dei proletari.
Grecia, Irlanda, Portogallo e Spagna: un antipasto di quello che toccherà a tutta la classe operaia
Il piano di austerità greco destinato a ridurre il deficit pubblico è di una brutalità estrema e di un cinismo inaudito. Il ministro delle finanze di questo paese ha dichiarato, senza batter ciglio, che “gli impiegati devono dar prova di patriottismo … e dare l’esempio”. Dovrebbero accettare senza dire nulla, senza battersi, la riduzione dei salari, la soppressione delle indennità e ancora che le sostituzioni di coloro che vanno in pensione avvengano col contagocce, che il pensionamento venga prolungato oltre i 65 anni ed infine che ci si sia libertà di licenziare e gettare via i lavoratori come dei fazzolettini usati. Tutto ciò per difendere l’economia nazionale, quella del loro Stato sfruttatore, dei loro padroni e di altre sanguisughe. Quello che dicono ai proletari italiani, francesi, americani, ecc. è esattamente la stessa cosa, magari aggiungendo “Guardate la Grecia, i suoi abitanti sono costretti ad accettare sacrifici per salvare l’economia. Tutti voi dovrete fare lo stesso”.
Dopo le famiglie americane, le banche, e le imprese, adesso sono gli stessi Stati a subire pienamente la crisi economica e ad essere minacciati di fallimento. Come risultato occorre orchestrare attacchi spietati, eliminando posti di lavoro, licenziando, facendo tagli a più non posso, insomma riducendo al minimo il livello di vita dei lavoratori e negando ogni futuro ai giovani. Negli Stati Uniti, il paese più potente del pianeta, dopo nemmeno due anni di crisi, secondo i dati ufficiali che sono sempre al ribasso, si contano più del 17% di disoccupati, 20 milioni di nuovi poveri e 35 milioni di persone che sopravvivono grazie a buoni pasto.
Tutta colpa degli speculatori e delle banche?
Sicuramente le banche e le istituzioni finanziarie non sono che degli avvoltoi. Ma questa politica del mondo finanziario non è la causa della crisi del capitalismo, ne è invece una delle conseguenze. La crisi finanziaria scoppiata nel 2007 è stata il prodotto di decine di anni di politica di indebitamento incoraggiata dagli stessi Stati che, dovendo far fronte ad una drastica riduzione dei mercati, hanno dovuto creare dei mercati artificiali indispensabili per vendere le loro merci.
Quando le persone e le imprese, strangolati dai debiti prodotti con tanta facilità, non sono stati più capaci di pagare, le banche si sono ritrovate sull’orlo del crollo insieme a tutta l’economia capitalista. Gli Stati hanno dovuto allora addossarsi tutta una parte dei debiti del settore privato e fare piani di rilancio faraonici e costosi per tentare di limitare la recessione.
Adesso sono gli stessi Stati a ritrovarsi indebitati fino al collo, incapaci di far fronte ai loro debiti (senza peraltro che il settore privato si sia salvato) e in una potenziale situazione di fallimento.
Certo uno Stato non è un’impresa, quando si trova con l’acqua alla gola può ancora sperare di riprendere fiato salassando ulteriormente i lavoratori, stampando altra carta moneta ed indebitandosi ulteriormente. Ma arriva un momento in cui i debiti (almeno gli interessi) devono essere rimborsati anche da uno Stato. Che è appunto quello che sta accadendo per lo Stato greco, portoghese ed anche spagnolo.
Adesso che sta crollando la Grecia, altri paesi come la Germania e la Francia si apprestano a farle ulteriori crediti per evitare l’effetto devastante che avrebbe sulle proprie economie un tracollo definitivo della Grecia. Ma attenzione, queste potenze possono forse riuscire a far recuperare puntualmente le casse greche, ma saranno poi incapaci di aiutare il Portogallo, la Spagna ed ancor meno l’Inghilterra ... Non avranno mai tanta liquidità. E questa politica, in ogni caso, può condurre solo ad un loro rapido indebolimento finanziario. Anche un paese come gli Stati Uniti, che tuttavia può appoggiarsi sul dominio internazionale del dollaro, vede aumentare senza sosta il suo deficit pubblico. La metà degli Stati americani è in fallimento. In California, il governo paga i suoi funzionari non più in dollari ma con una specie di “moneta locale”, buoni validi unicamente sul territorio californiano!
Nessuna politica economica può tirare fuori gli Stati dalla loro insolvenza. Per rinviare le scadenze possono solo ridurre di molto le “spese”. Ecco il senso dei piani adottati in Grecia, in Portogallo, in Spagna e domani inevitabilmente in tutti gli altri paesi. Non si tratta più di semplici piani di austerità come quelli che abbiamo pagato sulla nostra pelle dalla fine degli anni 1960. Adesso si chiede di far pagare molto cara alla classe operaia la sopravvivenza del capitalismo.
Con quale stato di spirito i lavoratori affrontano questa nuova ondata di attacchi?
Il discorso della borghesia di “accettare di stringere la cinghia perché domani andrà meglio” ormai non fa più presa sui lavoratori. Ma questo non si è tradotto, almeno finora, in una crescita della mobilitazione. Letteralmente stordita dalla valanga di attacchi, la classe lavoratrice resta incerta, titubante, riuscendo a reagire solo con singole lotte puntuali.
I lavoratori, i disoccupati, i giovani precari sono sottoposti ad un ricatto odioso ma efficace: “se non siete contenti, ce ne sono tanti altri pronti a rimpiazzarvi”. Inoltre, i padroni ed i governi si fanno scudo di un argomento che sembra “decisivo”: “Non è mica colpa nostra se la disoccupazione aumenta o se venite licenziati: è colpa della crisi”. Si sviluppa di conseguenza un sentimento d’impotenza. I proletari non si trovano di fronte semplicemente un padrone malvagio, ma un capitalismo internazionale in disfacimento. Ogni lotta è nei fatti una rimessa in causa dell’intero sistema. Ogni lotta pone, fondamentalmente, la questione di una alternativa a questo sistema economico. Per entrare in sciopero oggi occorre non soltanto avere il coraggio di affrontare le minacce di licenziamento e il ricatto padronale, ma anche e soprattutto credere che la classe operaia sia una forza capace di proporre qualche altra cosa. Tutto questo rende difficile una risposta agli attacchi anche perché ci si rende conto che fare una giornata di sciopero, fare la manifestazione di mezza giornata come vogliono e fanno i sindacati, non serve a risolvere i problemi.
La situazione è difficile, ma ricca di potenzialità di lotta
Anche se queste difficoltà pesano ancora fortemente sulla classe operaia, la situazione non è bloccata.
Ci sono segni di un cambiamento nello stato di spirito della classe operaia:
- l’esasperazione e la collera si approfondiscono e si generalizzano tra i proletari, alimentate da una indignazione profonda per il fatto che, a fronte dell’immensa maggioranza della popolazione che subisce tutte le ingiustizie e la miseria, vi è una classe dominante che fa uno sfoggio indecente e arrogante di potenza e di ricchezza, con comportamenti che ricordano sempre più le depravazioni dei nobili romani durante la decadenza dell’impero romano;
- si diffonde l’idea che “le banche ci hanno spinto in un pantano da cui non si può uscire”. Questa idea, anche se non coglie il fondo del problema, riesce tuttavia a catalizzare la collera contro il sistema. Il cosiddetto “scandalo delle banche” ha ricoperto di fango l’insieme del sistema ispirando un crescente sentimento di rigetto da parte dei lavoratori;
- diventa man mano più evidente che il maggiore responsabile del peggioramento della propria esistenza è lo Stato in prima persona e che le sue forze politiche, di destra o di sinistra che siano, sono tutte impegnate a portare avanti le stesse politiche di tagli sulla pelle dei lavoratori.
Ci sono importanti episodi di lotta in molti paesi che hanno coinvolto un gran numero di lavoratori, disoccupati e giovani proletari, con momenti significativi di solidarietà ed estensioni fra proletari di settori, nazionalità ed etnie diverse:
- In Algeria disoccupati, senza tetto e operai del settore pubblico e privato hanno lottato per i salari, contro i licenziamenti, in difesa delle pensioni in diverse città;
- in Turchia, a dicembre e gennaio scorsi, la lotta degli operai della Tekel ha unito nella stessa lotta operai turchi e curdi, ha cercato con tenacia di estendere la lotta ad altri settori e si è opposta con determinazione al sabotaggio dei sindacati;
- in Francia dall’inizio dell’anno si susseguono fermate di lavoro, manifestazioni e scioperi sia nel settore pubblico che in quello privato: insegnamento, ospedali, raffinerie, controllori di volo, magazzini IKEA, Philips, ecc;
- in Spagna, a Vigo, i lavoratori dei cantieri navali e i disoccupati hanno manifestato assieme, raggruppando altri lavoratori fino ad ottenere il fermo di tutto il settore navale. Nella lotta gli operai spagnoli hanno solidarizzato con i lavoratori immigrati chiamati a rimpiazzare i licenziati. L’anno scorso la stessa solidarietà è stata espressa dagli operai della raffineria di Lindsey, in Gran Bretagna, verso gli immigrati italiani e polacchi che la compagnia aveva chiamato al posto loro per pagare salari più bassi e durante le manifestazioni c’era uno striscione che diceva “Lavoratori di tutto il mondo, unitevi!”.
- in Grecia, rispetto alla quale ci parlano solo di scontri tra “anarchici” e polizia, gli scioperi hanno raggiunto il 90% di adesione ed esiste una grande diffidenza verso i sindacati che fanno di tutto per tenere a bada la rabbia dei proletari e tenere separati i momenti di lotta.
L’Italia non fa alcuna eccezione in questo quadro. La difficoltà crescente della borghesia a coinvolgere la gente nella farsa elettorale, i segni di combattività diffusi nei vari posti di lavoro di cui nessun giornale o televisione parla e le lotte invece di cui sono costretti a parlare come quelle alla INNSE, alla Fiat, alla Eutelia, ecc. mostrano, nell’insieme, che anche qui la prospettiva unica che resta è lottare.
Di fronte ad una crisi di dimensioni internazionali l’unica risposta possibile è che i lavoratori trovino una dimensione di lotta la più ampia possibile, uscendo definitivamente dalla logica che sia possibile salvaguardare zone protette dalla crisi escludendo gli immigrati, ad esempio. Viceversa tutte le lotte di questa fase stanno dimostrando che queste riescono ad acquistare forza proprio quando riescono a superare i falsi steccati che pone la borghesia e a creare l’unità della lotta fra immigrati e residenti (Vigo, Spagna), tra turchi e curdi (Tekel in Turchia), ecc. La prospettiva della classe operaia è ancora una volta l’INTERNAZIONALISMO.
Corrente Comunista Internazionale 1 maggio 2010
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Supplemento a Rivoluzione Internazionale n. 165. Autorizzazione del Tribunale di Napoli n. 2656 del 13/7/76
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PRESENTAZIONE ALLE RIUNIONI PUBBLICHE DELLA CCI IN APRILE 2010
Mai il fallimento di questo sistema era stato così evidente. Mai erano stati pianificati attacchi così massicci contro la classe operaia. Quali sviluppi della lotta di classe ci si può attendere?
La gravità della crisi non permette più alla borghesia di nasconderne la realtà
La crisi dei fondi “spazzatura” nel 2008 è sfociata in una crisi aperta di dimensioni mondiali che ha causato la più grave caduta dell’attività economica dal 1929 con:
Gli strumenti messi in opera dalla borghesia per evitare che il crollo fosse ancora più brutale non hanno avuto niente di nuovo. Non sono diversi dalle politiche applicate in successione dall’inizio degli anni ’70, cioè un ricorso sempre più importante al credito. Così, ancora una volta è stata raggiunta una nuova tappa nell’indebitamento mondiale, facendo raggiungere al debito mondiale vette mai toccate. Ma oggi il livello di questo debito mondiale è tale che si sente normalmente parlare di “crisi dell’indebitamento” per caratterizzare l’attuale fase della crisi economica.
La borghesia ha certamente evitato il peggio, per il momento. Ciò detto, non solo non c’è stata una vera ripresa, ma un certo numero di paesi presentano dei rischi seri di insolvenza, con tassi di indebitamento superiori al 100% del PIL. Tra questi vi sono la Grecia, la Spagna (4a economia dell’UE), l’Islanda. La Gran Bretagna, anche se non raggiunge questi livelli di indebitamento, presenta dei segni che gli specialisti definiscono molto inquietanti. Altri paesi dell’UE, tra cui Italia e Francia, non sono molto distanti.
In questo contesto, l’insolvibilità di un paese, incapace di rimborsare i suoi debiti, può provocare una reazione a catena causando l’insolvibilità di numerosi altri agenti economici (banche, imprese, paesi). Così, per esempio, le banche francesi sarebbero messe in seria difficoltà dalla sospensione, da parte della Grecia, del rimborso dei suoi debiti.
Di fronte al livello di gravità raggiunto dalla crisi di sovrapproduzione, la borghesia non dispone che di una sola soluzione: indebitarsi ancora di più! Ma questo non solo non fa che spostare il problema più in là, ma è anche sempre più difficile da praticare e con dei rischi crescenti di un rinnovamento ancora più distruttivo della crisi dei subprime.
Così facendo, le ragioni storiche della crisi economica tendono a diventare sempre più evidenti. Contrariamente al passato, la borghesia non può più mascherare la realtà della sua crisi. Tutt’al più riesce ancora a deviare in parte l’attenzione dai veri problemi dell’economia polarizzando l’opinione sul «comportamento asociale» degli speculatori. Anche se è vero che alcuni di questi ci sembrano delle carogne ripugnanti, non è là il fondo del problema.
La finanza folle, cioè l’indebitamento senza limiti e la speculazione a tutto spiano, è stata favorita dal capitalismo come tale, come mezzo per ritardare le conseguenze della recessione, al punto che l’indebitamento e la speculazione sono oggi profondamente legati e inseparabili dalla sua esistenza. Il problema reale sta nella natura stessa del capitalismo, incapace di sopravvivere senza nuove iniezioni di crediti sempre più massicci.
Oggi, la borghesia ci presenta, come rimedi alla crisi dell’indebitamento, i piani di austerità. In Grecia la borghesia sta provando a farne passare uno. Un altro è in preparazione in Spagna. In Francia si pianificano nuovi attacchi alle pensioni, e così via.
I piani di austerità possono contribuire ad allentare la stretta della crisi?
Questi piani permetteranno una nuova ripresa? Permetteranno di ristabilire, almeno parzialmente, le condizioni di vita così attaccate negli ultimi due anni?
La borghesia mondiale non può permettersi di lasciare collassare un paese come la Grecia, senza correre il rischio di conseguenze analoghe per alcuni suoi creditori, e il solo aiuto che sa accordarle sono nuovi crediti a tassi “accettabili”. Ma, in cambio, sono richieste garanzie di rigore nel bilancio. L’assistito deve dimostrare che non costituisce un pozzo senza fondo che spreca “l’aiuto internazionale”. Perciò alla Grecia è richiesto di “ridurre il suo tenore di vita” per ridurre il ritmo di crescita dei suoi deficit e del suo indebitamento. Così, il mercato mondiale dei capitali darà di nuovo fiducia alla Grecia che potrà di nuovo attirare prestiti e investimenti stranieri solo a condizione che siano duramente attaccate le condizioni di vita della classe operaia.
Qui emerge un altro paradosso: la fiducia che si è pronti ad accordare alla Grecia non dipende dalla sua capacità di arrestare il suo debito, cosa impossibile, ma semplicemente di ridurre il suo ritmo di crescita. Questo vuol dire che la solvibilità di questo paese rispetto al mercato mondiale dei capitali è legato a un aumento del suo debito che non sia “troppo consistente”. In altri termini, un paese dichiarato insolvente a causa del suo debito può diventare solvibile anche se questo indebitamento continua a crescere. Morale della favola: nel mondo iper-indebitato attuale, la solvibilità è essenzialmente basata non su una realtà obbiettiva, ma su una fiducia … non realmente fondata.
Ma i capitalisti sono costretti a crederci, altrimenti dovrebbero anche smettere di credere alla perennità del loro sistema di sfruttamento. C’è da pensare che non è semplice fare i capitalisti di questi tempi!
Per mantenere la fiducia cieca nel sistema, in tutti i paesi deve essere applicata una riduzione drastica del costo della forza lavoro, visto che tutti, anche se a livelli diversi, sono confrontati al problema di deficit enormi.
Questa politica che, nel quadro del capitalismo, non conosce reali alternative, può evitare un’ondata di panico. Essa può, eventualmente, favorire una miniripresa fondata sulla sabbia, ma certamente non può sanare il sistema finanziario mondiale. Ma se i capitalisti sono costretti a credere che ci vogliono delle cure di austerità per uscire dalla crisi, questo non è vero per gli operai!
Con quale stato di spirito la classe operaia affronta questa nuova ondata di attacchi?
Il discorso della borghesia di “accettare di stringere la cinghia perché domani andrà meglio” ormai già da tempo non fa più presa sugli operai, sicuramente a partire dall’inizio del nuovo secolo, anche se ci sono differenze tra un paese e l’altro.
Tuttavia, si può constatare come il recente aggravamento della crisi non si sia tradotto, almeno finora, in una crescita delle mobilitazioni della classe. Da poco più di un anno la tendenza sembra piuttosto essere l’inverso. Letteralmente stordita dalla valanga di attacchi, la classe operaia resta incerta, con singole reazioni puntuali. Ma questo non vuol dire che sia rassegnata alla sorte che le riserva il capitalismo.
La natura di certi attacchi, ed in particolare i licenziamenti in massa, hanno reso la risposta più difficile. In effetti di fronte a questi:
Anche se queste difficoltà pesano ancora fortemente sulla classe operaia, la situazione non è bloccata. Ci sono segni di un cambiamento nello stato di spirito della classe operaia e un fremito della lotta di classe:
Attualmente ci troviamo in una situazione in cui, oltre ai licenziamenti nelle aziende in difficoltà, gli Stati devono portare avanti in prima persona gli attacchi contro la classe operaia per scaricare su di essa il costo del debito. Così il responsabile degli attacchi, lo Stato, è questa volta molto più facilmente identificabile che nel caso dei licenziamenti. Questo è evidentemente un fattore che favorisce lo sviluppo della lotta di classe, della sua unità e della sua politicizzazione perché è il guardiano supremo degli interessi del capitale, lo Stato, che si mostra chiaramente come il primo difensore degli interessi di tutta la classe capitalista contro l’insieme della classe operaia.
Tutti gli elementi della situazione attuale e dell’immediato futuro costituiscono gli ingredienti per l’esplosione di future lotte di massa. Ma quello che sarà l’elemento scatenante di queste lotte è sicuramente l’accumulazione dell’esasperazione, della collera e dell’indignazione. L’applicazione da parte della borghesia dei differenti piani di austerità pianificati in diversi paesi costituisce un’occasione di esperienze di lotta e una lezione per la classe operaia. Quanto al segnale dello scoppio delle lotte di massa, una volta presenti le loro condizioni, esso può venire da un qualsiasi “pretesto” che darà fuoco alle polveri.
Le lotte di massa, una tappa futura importante per lo sviluppo della lotta di classe, ... ma non l'ultimaIl crollo dello stalinismo e, soprattutto, il suo sfruttamento ideologico da parte della borghesia hanno lasciato tracce presenti ancora oggi nella classe operaia.
Di fronte alle “evidenze” avanzate dalla borghesia secondo cui “il comunismo non funziona, la prova sta nel fatto che esso è stato abbandonato a favore del capitalismo dalle popolazioni che l’avevano conosciuto”, fondate sulla più grande menzogna del secolo che ha identificato i regimi stalinisti al socialismo, gli operai non potevano che allontanarsi dal progetto di una società alternativa al capitalismo.
La situazione che ne è uscita è, da questo punto di vista, molto differente da quella conosciuta alla fine degli anni sessanta. All’epoca, il carattere di massa delle lotte operaie, in particolare l’enorme sciopero del Maggio ’68 in Francia e l’Autunno caldo in Italia del 1969, avevano messo in evidenza che la classe operaia può costituire una forza di primo piano nella vita della società. L’idea che essa avrebbe potuto un giorno rovesciare il capitalismo non apparteneva al campo dei sogni irrealizzabili, contrariamente ad oggi.
La difficoltà ad entrare in lotta in massa, manifestata dal proletariato dopo gli anni novanta, deriva da una mancanza di fiducia in se stesso, che non si è dissolto con la ripresa delle lotte che si è avuta a partire dal 2003.
E’ solo lo sviluppo delle lotte di massa che permetterà al proletariato di recuperare la fiducia nelle sue proprie forze e di mettere di nuovo in avanti la sua prospettiva.
Per importante che sia questa tappa futura della lotta di classe, essa non significherà tuttavia la fine delle esitazioni del proletariato ad ingaggiarsi risolutamente sulla strada che porta alla rivoluzione.
Già Marx metteva in evidenza (all’inizio del 1852) il corso difficile della rivoluzione proletaria. C’era, secondo lui, una differenza con le rivoluzioni borghesi che “come quelle del 18° secolo, si precipitano rapidamente di successo in successo”[2].
Questa differenza nel corso della lotta di classe tra proletariato e borghesia rivoluzionaria deriva dalle differenze che esistono tra le condizioni della rivoluzione borghese e quelle della rivoluzione proletaria.
La presa del potere politico da parte della classe capitalista aveva costituito il punto di arrivo di tutto un processo di trasformazione economica all’interno della società feudale. Nel corso di questo gli antichi rapporti di produzione feudali sono stati progressivamente soppiantati dai rapporti di produzione capitalisti. E sono stati proprio questi a costituire un punto d’appoggio essenziale per la borghesia nella sua conquista del potere politico.
Il processo della rivoluzione proletaria è completamente differente. I rapporti di produzione comunisti, che non sono rapporti mercantili, non possono svilupparsi in seno alla società capitalista dominata dai rapporti mercantili e diretta dalla borghesia. Per il fatto che essa è la classe sfruttata del modo di produzione capitalista, che essa è per definizione privata di ogni mezzo di produzione, la classe operaia non dispone, in seno al capitalismo, e non può disporre, di punti di appoggio economici per la conquista del potere politico.
Contrariamente a quando il capitalismo soppiantava il feudalesimo, il primo atto della trasformazione comunista della società deve consistere in un atto cosciente e deliberato: la presa del potere politico su scala mondiale da parte dell’insieme del proletariato organizzato in consigli operai.
L’immensità di questo compito è evidentemente tale da far esitare, da far dubitare.
Questa è una delle ragioni per cui è responsabilità dei rivoluzionari partecipare pienamente a favorire la capacità della classe operaia:
CCI, aprile 2010
[1] PCF, partito “comunista” francese, residuato dello stalinismo nei paesi occidentali.
[2] Nel 18 brumaio di Luigi Bonaparte. Rosa Luxemburg riprese la stessa idea "la rivoluzione [proletaria] è la sola forma di «guerra» (…) in cui la vittoria finale non potrà essere ottenuta che attraverso una serie di ‘sconfitte'. (...) Le rivoluzioni... non ci hanno portato finora che delle sconfitte, ma queste sconfitte inevitabili sono esattamente la cauzione ripetuta della vittoria finale."
Jerry Grevin è nato nel 1946 a Brooklyn, in una famiglia operaia della seconda generazione di immigranti ebrei. I suoi genitori avevano uno spirito critico che li spinse ad entrare nel Partito comunista degli Stati Uniti, poi a lasciarlo. Il padre di Jerry era stato colpito profondamente dalla distruzione di Hiroshima e di Nagasaki alla quale aveva assistito in quanto membro delle forze americane di occupazione alla fine della Seconda Guerra mondiale; sebbene non abbia mai parlato di questa esperienza e che suo figlio l’abbia saputo solo molto dopo, Jerry era convinto che questa aveva inasprito lo stato d’animo anti-patriottico ed anti-guerra che aveva ereditato dai suoi genitori.
Una delle grandi qualità di Jerry, mai smentita, era la sua ardente ed incrollabile indignazione verso ogni forma di ingiustizia, di oppressione e di sfruttamento. Fin da giovane ha preso parte con forza alle grandi cause sociali dell’epoca. Ha partecipato alle grandi manifestazioni contro la segregazione e la disuguaglianza razziale organizzata dal Congress of Razziale Equality (CORE nel Sud dell’America). Cosa che necessitava una buona dose di coraggio perché i militanti ed i manifestanti subivano quotidianamente maltrattamenti, bastonate e venivano anche uccisi; e Jerry essendo ebreo, non solo combatteva i pregiudizi razzisti, ma ne era lui stesso un bersaglio[1].
Per la sua generazione l’altra questione cruciale dell’epoca, in particolare negli Stati Uniti, era l’opposizione alla Guerra del Vietnam. Esiliato a Montreal in Canada, fu l’animatore di uno dei comitati che faceva parte del “Second Underground Railroad”[2] per aiutare i disertori dell’esercito americano a fuggire dagli Stati Uniti ed a cominciare una nuova vita all’estero. Si imbarcò in questa attività non come pacifista ma con la convinzione che la resistenza all’ordinamento militare poteva e doveva far parte di una lotta di classe più larga, contro il capitalismo, e per questo partecipò alla pubblicazione militante, di breve durata, di Worker and Soldier (Operaio e Soldato). Parecchi anni dopo Jerry ebbe la possibilità di consultare una parte - largamente censurata - del suo dossier FBI: il suo spessore ed i dettagli che lo riguardavano - il dossier era stato regolarmente aggiornato nel periodo in cui militava nella CCI - gli provocarono una certa soddisfazione e lo indussero a formulare alcuni commenti caustici verso coloro che pensano che oggi la polizia ed i servizi segreti “non si occupano” dei piccoli gruppi insignificanti di militanti.
Rientrando negli Stati Uniti negli anni ‘70 Jerry lavorò come tecnico dei telefoni in una delle principali compagnie telefoniche. Era un periodo di fermento della lotta di classe con la crisi che cominciava a colpire e Jerry partecipò alle lotte nel suo ambito lavorativo, alle piccole come alle grandi, e nello stesso momento collaborava ad un giornale chiamato Wildcat (Gatto selvaggio), che esaltava l’azione diretta ed era pubblicato da un piccolo gruppo dallo stesso nome. Sebbene deluso dall’immediatismo e dall’assenza di una prospettiva più larga - fu la ricerca di una tale prospettiva che lo portò a raggiungere la CCI - questa esperienza diretta di base, accoppiata alle sue grandi capacità di osservazione ed ad un atteggiamento umano verso le pecche ed i pregiudizi dei suoi colleghi di lavoro, gli conferirono una visione profonda del modo con cui si sviluppa concretamente la coscienza nella classe operaia. Come militante della CCI illustrava spesso i suoi argomenti politici con immagini viventi tratte dalla sua esperienza.
Una di queste descriveva un incidente avvenuto nel Sud America dove era stato mandato a lavorare il suo gruppo di tecnici telefonici di New York. Un operaio del gruppo, un nero, veniva perseguitato dalla direzione per un presunto piccolo sbaglio; i newyorchesi presero la sua difesa, sorprendendo notevolmente i loro colleghi del Sud: “Perché lo fate?” chiesero questi “è solo un nero”. A cui uno dei newyorchesi rispose vigorosamente dicendo che il colore della pelle non aveva nessuna importanza, che gli operai erano tutti operai insieme e dovevano difendersi reciprocamente contro i padroni. “Ma la cosa ancora più sorprendente” concludeva Jerry “è che il tipo che aveva preso con più forza la difesa dell’operaio nero, era noto allo stesso gruppo come un razzista, tanto che si era trasferito a Long Island per non abitare in un quartiere nero. E ciò mostra come la lotta e la solidarietà di classe costituiscono il solo vero antidoto al razzismo”.
Un’altra storia che amava raccontare riguardava il suo primo incontro con la CCI. E citiamo l’omaggio personale di un compagno: “Come l’ho sentito raccontare un milione di volte, è quando incontrò per la prima volta un militante della CCI all’epoca in cui era, come lui stesso si definiva,’un giovane individualista immediatista’ che scriveva e diffondeva i suoi articoli da solo, che si rese conto che la passione rivoluzionaria senza organizzazione poteva essere solo una fiamma passeggera di gioventù. Questo gli capitò quando il militante della CCI gli disse: ‘OK, scrivi e sei marxista, ma che fai tu per la rivoluzione?’. Jerry raccontava spesso questa storia in seguito alla non dormì per tutta la notte. Ma fu una notte in bianco che portò prodigiosamente i suoi frutti”. Molti si sarebbero potuti scoraggiare di fronte al commento rude della CCI, ma non Jerry. Al contrario, questa storia, che raccontava divertendosi del suo stato d’animo di allora, rivela un altro aspetto di Jerry: la sua capacità ad accettare la forza di un argomento ed a cambiare punto di vista se era convinto da altre idee - una qualità preziosa nel dibattito politico che è l’anima di una vera organizzazione proletaria.
Il contributo di Jerry alla CCI è inestimabile. La sua conoscenza del movimento operaio negli Stati Uniti era enciclopedica; la sua penna veloce e la sua scrittura colorata hanno fatto vivere questa storia per i nostri lettori nei numerosi articoli che ha scritto per la nostra stampa negli Stati Uniti (Internationalism) e per la Rivista internazionale. Aveva anche una padronanza notevole della vita politica e della lotta di classe attuale negli Stati Uniti ed i suoi articoli sull’attualità, tanto per la nostra stampa che per i nostri bollettini interni, sono stati apporti importanti per la nostra comprensione della politica della prima potenza imperialista mondiale.
Altrettanto importante è stato il suo contributo alla vita interna ed all’integrità organizzativa della CCI. Per anni è stato un pilastro della nostra sezione americana, un compagno su cui si poteva sempre contare per essere in prima fila quando si presentavano delle difficoltà. Durante i difficili anni 1990, quando il mondo intero - ma forse particolarmente gli Stati Uniti - era inondato dalla propaganda su “la vittoria del capitalismo”, Jerry non perse mai la convinzione della necessità e della possibilità di una rivoluzione comunista, non smise mai di comunicare con quelli che lo circondavano e con i rari nuovi contatti della sezione. La sua lealtà all’organizzazione ed ai suoi compagni era incrollabile, tanto più che, come lui stesso diceva, era la partecipazione alla vita internazionale della CCI che gli dava coraggio e gli permetteva di “ricaricare le batterie”.
Su un piano più personale, Jerry era molto dotato e straordinariamente divertente nel raccontare delle storie. Poteva - e ciò capitava spesso - fare ridere per ore un pubblico di amici o di compagni con storie tratte dalle sue osservazioni della vita. Anche se le sue storie lanciavano frecciate ai padroni o classe dominante, non erano mai crudeli o cattive. Al contrario, riflettevano sia il suo affetto e la sua simpatia per i suoi simili, che una capacità ben troppo rara a burlarsi delle proprie debolezze. Questa apertura agli altri è stata probabilmente ciò che ha fatto di Jerry un professore efficace ed apprezzato - professione che ha intrapreso tardi, quando era già nella quarantina.
Il nostro omaggio a Jerry sarebbe incompleto se non menzionassimo la sua passione per la musica Zydeco, uno stile di musica che ha per origine i creoli della Louisiana e che è sempre in voga. Il ballerino di Brooklyn era conosciuto nei festival di Zydeco dell’entroterra della Louisiana e Jerry era fiero di potere aiutare giovani gruppi di Zydeco sconosciuti a trovare dei luoghi ed un pubblico per suonare a New York. Jerry era tutto questo: entusiasta ed energico in tutto ciò che intraprendeva, aperto e caloroso con gli altri.
Noi risentiamo ancora più vivamente la perdita di Jerry perché i suoi ultimi anni sono stati tra più felici. Era felicissimo di diventare il nonno di un nipote che poi ha adorato. Politicamente c’era lo sviluppo di una nuova generazione di contatti intorno alla sezione americana della CCI e lui si era lanciato nel lavoro di corrispondenza e di discussione con tutta la sua abituale energia. La sua devozione aveva dato i suoi frutti nella Giornata di Discussione tenutesi a New York appena alcune settimane prima della sua morte, giornata che avevano riunito giovani compagni di differenti parti degli Stati Uniti, molti dei quali si incontravano per la prima volta. Alla fine Jerry era felice e vedeva questa riunione, e tutto l’avvenire che incarnava, come una dei coronamenti della sua attività militante. Dunque, per finire, ci sembra giusto dare la parola a due giovani compagni che hanno partecipato alla Giornata di Discussione: per JK “Jerry era un compagno di fiducia ed un amico caloroso... La sua conoscenza della storia del movimento operaio negli Stati Uniti; la profondità della sua esperienza personale nelle lotte degli anni ‘70 e ‘80 ed il suo impegno a mantenere la fiamma della sinistra comunista negli Stati Uniti durante il difficile periodo che ha seguito la pretesa ‘morte del comunismo’ erano incomparabili”. Per J “Jerry è stato una sorta di guida politica per me durante gli ultimi 18 mesi. Era anche un amico molto caro. Voleva discutere sempre ed aiutare i compagni più giovani ad imparare come intervenire ed a comprendere le lezioni storiche del movimento operaio. La sua memoria vivrà in ciascuno di noi, nella CCI ed attraverso tutta la lotta di classe”
CCI
[1] Nel 1964, ci fu un episodio tristemente celebre dove tre giovani militanti dei diritti civili (James Chaney, Andrew Goodman e Michael Schwerner) furono assassinati da ufficiali di polizia e da membri del Ku Klux Klan. Due di essi erano ebrei di New York.
[2] Il nome “Underground Railroad” era un riferimento ad una rete di nascondigli e di militanti anti-schiavisti, creata nel diciannovesimo secolo prima della Guerra civile, da che aiutava gli schiavi in fuga a guadagnare il Nord America ed il Canada.
Qualche mese fa i media hanno parlato molto dei suicidi di dipendenti della France Telecom (33 in 18 mesi, quasi 2 al mese) e già due anni fa, sempre in Francia, ci sono stati vari casi alla Peugeot e alla Renault. Come abbiamo riportato nell’ultimo numero del nostro giornale[1] anche in Italia negli ultimi mesi ci sono stati diversi casi di suicidio legati al lavoro, altri due suicidi ci sono stati appena 3 giorni fa a Pianura (Salvatore 58 anni, meccanico, dopo 15 anni di lavoro saltuario) ed a Nocera Inferiore (Ciro, 48 anni direttore del supermercato Iper Alvi di Nocera Superiore che sta per chiudere mettendo in mezzo alla strada 700 lavoratori).
Riflettere sul significato di questi suicidi e sulla sofferenza che li determina è molto importante non solo perché tutto ciò che riguarda le condizioni di vita della classe sfruttata ci riguarda direttamente come lavoratori e come compagni, ma anche perché lo sviluppo di questo fenomeno ci permette di comprendere lo stato nel quale si trova oggi il sistema capitalista e soprattutto la necessità e l’urgenza di distruggere questo sistema per sostituirlo con una società capace di soddisfare le necessità umane.
L’emergere del fenomeno
Il suicidio a causa del lavoro non è un fenomeno completamente nuovo. Negli anni ’60, ad esempio, ci fu un’importante ondata di suicidi tra gli agricoltori - in particolare in Francia - dove l’introduzione dell’industrializzazione nell’agricoltura provocò una destabilizzazione profonda nell’esistenza degli agricoltori. Dato che in questa professione lo spazio della vita privata e lo spazio professionale in genere coincidevano, lo sconvolgimento provocato nella sfera lavorativa di questi contadini con la loro espulsione di massa dalla campagna ebbe una ripercussione devastante sull’insieme della loro vita.
Ciò che è nuovo oggi è la contemporaneità dell’aumento dei suicidi sul posto di lavoro, o comunque legati al lavoro, sia in diversi paesi che in molti settori produttivi, dall’industria al terziario.
Quando una persona si suicida a casa sua non è facile provare che la causa principale del suo gesto risiede in una sofferenza legata al lavoro. Su questo giocano i padroni per cercare di liberarsi da ogni responsabilità quando la famiglia prova a far riconoscere il gesto della vittima come infortunio sul lavoro. Invece quando il suicidio avviene sul posto di lavoro o, come è successo nei casi più recenti, chi si ammazza lascia un biglietto ai suoi cari, diventa più difficile nascondere questo legame.
Bisogna quindi interpretare il suicidio sul posto di lavoro come un messaggio molto chiaro che vuol far passare il suo autore: “la mia morte non è dovuta ad una rottura sentimentale, ad un divorzio o alla mia ‘natura depressa', è il padrone o il sistema che incarna che è responsabile della mia morte”.
L’aumento di questi suicidi traduce dunque lo sviluppo di un fenomeno molto più vasto che è l’aumento della sofferenza al lavoro di cui questi sono soltanto la punta dell’iceberg.
Anche la sofferenza al lavoro non è certo un fenomeno nuovo: le malattie professionali esistono da tempo, nei fatti dalla rivoluzione industriale che ha trasformato il lavoro umano in un vero inferno per la maggior parte dei lavoratori dipendenti. Eppure fino alla fine del ventesimo secolo, il suicidio non ha fatto parte delle risposte date dagli sfruttati alla sofferenza che subivano.
In realtà il suicidio è frutto di una sofferenza psichica più che fisica. Ma neanche la sofferenza psichica è nuova: i soprusi e le umiliazioni da parte dei capetti esistono da tempo. In passato però questa sofferenza subita dagli sfruttati non sfociava nel suicidio, se non in casi eccezionali.
E’ chiaro quindi che siamo di fronte ad una situazione nuova del fenomeno che va compresa.
Come viene analizzato questo fenomeno dagli specialisti?
Il suicidio è stato studiato da tempo, in particolare dal sociologo Durkheim[2] alla fine del 19° secolo che ne individuò le radici sociali e non semplicemente individuali: “Se l’individuo cede al minimo choc delle circostanze, significa che lo stato in cui si trova la società ne ha fatto una preda pronta al suicido”.
Anche lo studio della sofferenza al lavoro, compreso nei suoi aspetti psichici, risale a molto lontano. Mentre molto più recenti sono gli studi sul suicidio come conseguenza della sofferenza al lavoro data la comparsa recente di questo fenomeno. Molte sono le ipotesi avanzate e le constatazioni fatte per spiegare l’emergere di questo fenomeno. In particolare si possono evocare le riflessioni di Christophe Dejours, che è uno psichiatra, ex medico del lavoro, oggi professore universitario ed autore di molti libri famosi sulla questione (come, “Sofferenza in Francia: la banalizzazione dell’ingiustizia sociale” o “Lavoro, usura mentale”).
Alcune ipotesi …
1) La “centralità del lavoro”: il lavoro (inteso non soltanto come mezzo di sussistenza ma anche come attività produttiva e creatrice a beneficio di altri) svolge un ruolo centrale nella salute mentale di ogni individuo. Pertanto una sofferenza in questa sfera della vita ha conseguenze che finiscono per essere più drammatiche di una sofferenza derivata dalla sfera privata o familiare. Concretamente, se qualcuno soffre nella sua vita familiare, ciò si riflette meno nella sua vita al lavoro che non l’opposto.
2) Il riconoscimento del lavoro e della sua qualità da parte degli altri: in una società gerarchizzata come la nostra, questo riconoscimento si manifesta ovviamente nella considerazione che si riceve da parte dei propri capi e nel salario che si riceve dal padrone (si parla, in questo caso, del “riconoscimento verticale”). Ma esiste un’altra forma di riconoscimento in fin dei conti più importante per il lavoratore nella vita quotidiana: è il riconoscimento del suo lavoro da parte dei suoi colleghi (chiamato “riconoscimento orizzontale”). Questo riconoscimento è più importante perché è il segno della sua integrazione nella comunità della “gente del mestiere” con la quale condivide la sua esperienza e la sua competenza come pure il gusto del lavoro ben fatto. Anche se il lavoratore è mal considerato dai capi o dal datore di lavoro perché si rifiuta di piegarsi alle loro esigenze, potrà tuttavia mantenere il suo equilibrio se i suoi compagni di lavoro non entrano nel gioco della gerarchia e mantengono la loro fiducia in lui. Invece, tutto barcolla se perde anche la fiducia di questi ultimi.
Alcune constatazioni …
1) La crescita del sovraccarico di lavoro: è qualcosa che sembra paradossale poiché, con lo sviluppo delle nuove tecnologie che permettono l’automazione di tutta una serie di compiti, alcuni avevano annunciato “la fine del lavoro” o almeno la possibilità di diminuire in modo significativo il carico di lavoro. Quello che si è avverato negli ultimi decenni invece è esattamente l’opposto. Il carico di lavoro continua ad aumentare a tal punto che, in un paese come il Giappone, è stata inventata una parola nuova, Karôshi, che designa una morte improvvisa (per crisi cardiaca o accidente vascolare cerebrale) di soggetti che non avevano nessuna patologia particolare ma che si sono “uccisi per il lavoro” nel senso letterale del termine.
Questo fenomeno non è tipico del Giappone, anche se qui ha un’estensione maggiore. È stato osservato anche negli Stati Uniti ed in Europa occidentale.
Un’altra manifestazione di questo sovraccarico di lavoro e che ha richiesto la creazione d’una parola nuova, è la sindrome da “burn out” che è una forma particolare di depressione legata allo stress. È un termine che parla da solo: il lavoratore si ritrova incenerito per aver bruciato troppa energia.
2) Lo sviluppo di patologie derivanti dalle molestie. Queste patologie sono oggi ben studiate: sindromi depressive, turbe della memoria, disorientamento nello spazio e nel tempo, sensazione di persecuzione, turbe psicosomatiche (che toccano in particolare la sfera uterina, mammaria, tiroidea).
Christophe Dejours analizza così questo fenomeno:
“La molestia al lavoro non è nuova. È vecchia come il lavoro. Di nuovo ci sono le patologie. È nuova perché oggi è aumentata di molto, mentre ce n’era molto meno precedentemente. Tra la molestia, da un lato, e le patologie, dall’altro, occorre invocare una fragilizzazione della gente riguardo alle manovre di molestia. Questa fragilizzazione può essere analizzata. I risultati sono abbastanza precisi. È legata alla destrutturazione delle cosiddette risorse difensive, in particolare le difese collettive e la solidarietà. Questo è l’elemento determinante dell’aumento delle patologie. In altri termini, le patologie della molestia sono soprattutto patologie della solitudine.” (Christophe Dejours, Alienazione e clinica del lavoro, Actuel Marx, n° 39)
“Trenta o quaranta anni fa, la molestia, le ingiustizie esistevano, ma non c’erano suicidi al lavoro. La loro comparsa è legata alla destrutturazione della solidarietà tra i salariati.” (Christophe Dejours, intervista pubblicata da Le Monde del 14.08.09)
Quindi, quello che permette di capire l’aumento dei suicidi è la sofferenza psichica legata all’isolamento del lavoratore.
… ed alcune interpretazioni.
Come comprendono gli specialisti questo fenomeno di isolamento dei lavoratori?
Per spiegare questo fenomeno Christophe Dejours attribuisce un’importanza molto particolare alla messa in atto, nel corso degli ultimi due decenni, della valutazione individualizzata delle prestazioni, “La valutazione individualizzata, quando è accoppiata a contratti a progetto o ad una gestione per obiettivi, quando è raccolta in un Centro dei risultati o anche in Centro dei profitti[3], porta alla concorrenza generalizzata tra agenti o tra servizi in una stessa impresa, tra filiali, tra succursali, tra uffici, ecc.
Questa concorrenza quando è associata alla minaccia di licenziamento conduce ad una trasformazione profonda delle relazioni nel lavoro. Può già deteriorare i rapporti di lavoro quando è associata a sistemi di premi più o meno perversi. Ma quando la valutazione non è accoppiata a gratificazioni ma a sanzioni o minacce di licenziamento i suoi effetti deleteri diventano palesi. L’individualizzazione porta verso il ciascuno per sé, la concorrenza va fino a condotte sleali tra colleghi, la sfiducia si installa tra gli agenti.
Il risultato finale della valutazione e dei dispositivi connessi è soprattutto la destrutturazione in profondità della fiducia, del vivere insieme e della solidarietà. E, oltre a questo, è l’erosione delle risorse difensive contro gli effetti patogeni della sofferenza e delle costrizioni del lavoro”. (Alienazione e clinica del lavoro).
Egli sottolinea quindi che uno dei fattori di successo di questi nuovi metodi di controllo risiede nella loro accettazione passiva da parte della maggioranza dei lavoratori, in particolare del clima di paura che aumenta fra loro, soprattutto la paura di perdere il posto di fronte all’aumento della disoccupazione.
Egli considera che la messa in atto di questi nuovi metodi corrisponde al trionfo dell’ideologia liberale nel corso degli ultimi 20 anni.
Dejours parla anche di “sofferenza etica”: il fatto che i lavoratori, presi in una situazione di carichi di lavoro sempre più insopportabili e dalla necessità di mostrare di aver conseguito degli obiettivi insostenibili che gli sono stati imposti, sono portati a truffare ed a fare del “lavoro sporco”, cioè a svolgere dei lavori che rifiutano moralmente, ad esempio quello nei call center, dove il lavoratore viene precedentemente addestrati a raggirare e truffare l’interlocutore per portarlo all’acquisto.
Una sofferenza etica che influisce anche su molti quadri che sono incaricati di organizzare questi nuovi metodi e ai quali si chiede di trasformarsi in torturatori. E’ significativa a questo proposito la valutazione fatta dal padre del direttore del supermercato di Nocera “ciò che più l’affliggeva erano quelle responsabilità che aveva come direttore. Gli operai si erano rivolti a lui per gli stipendi non pagati e i dirigenti dissero a Ciro di prendere duecento euro dalla cassa e pagare i dipendenti. Ma lui non se l’era sentita di dare ai suoi colleghi, che avevano mensilità arretrate, una cifra così vergognosa”.
La nostra analisi
Quelle che abbiamo visto sono le analisi degli specialisti, l’analisi che noi facciano parte naturalmente da un punto di partenza diverso. Christophe Dejours è prima di tutto un medico che ha la vocazione di occuparsi di persone malate, in questo caso di persone che sono malate del loro lavoro. Il nostro punto di partenza è quello della lotta per abbattere questo sistema e costruire una società senza sfruttamento. Ma se si riprendono i punti trattati prima, si può constatare che ognuno di essi si integra molto bene nella nostra visione.
La “centralità del lavoro”
Questa è una delle basi dell’analisi marxista della società:
- il ruolo del lavoro, cioè della trasformazione della natura, nella nascita della specie umana è stato messo avanti da Engels, in particolare nel suo lavoro “Il ruolo del lavoro nella trasformazione dalla scimmia all’uomo”;
- i rapporti di produzione, cioè l’insieme dei legami che gli uomini stabiliscono tra loro nella produzione sociale della loro esistenza, costituiscono per il marxismo l’infrastruttura della società; le altre sfere di questa, le relazioni giuridiche, il modo di pensare, ecc. dipendono in ultima istanza da queste relazioni di produzione;
- Marx considera che nella società comunista, quando il lavoro si sarà emancipato dalle costrizioni della società capitalista che lo trasformano molto spesso in una vera calamità, diventerà il primo bisogno dell’uomo.
Da questo punto di vista sono significativi i messaggi lasciati da chi si è tolto la vita o le testimonianze dei loro parenti. L’elettricista napoletano che si è impiccato nel bosco di Capodimonte, che aveva finalmente ottenuto un posto fisso ma senza il riconoscimento dei 25 anni passati da precario, ha scritto alla moglie “Sono umiliato. Mi vergognavo quando tu andavi a lavorare”. L’operaio bergamasco Sergio di 36 anni si è dato fuoco perché si sentiva inutile da quando “il lavoro lo aveva tradito”. Così come quello bolognese di 32 anni messo in mobilità ed altri ancora.
Quello che ha spinto questi proletari a togliersi la vita non è stato solo la preoccupazione di non poter sfamare la propria famiglia, ma anche il sentimento di perdere la propria dignità, la propria rispettabilità di uomo nel momento in cui, non essendoti data la possibilità di lavorare, sei ritenuto inutile, un peso morto dalla società. Un sentimento che ti annienta, soprattutto se sei disoccupato o in cassa integrazione e quindi isolato materialmente dai tuoi compagni di lavoro.
Il riconoscimento da parte degli altri
E’ una delle basi essenziali della solidarietà e del lavoro associato. La solidarietà è una delle basi della società umana, una caratteristica che assume con la lotta del proletariato la sua forma più completa, l’internazionalismo: la solidarietà non si manifesta più solo verso i membri della famiglia, della tribù o della nazione, ma verso tutta la specie umana.
Il lavoro associato presuppone che si possa contare gli uni sugli altri nel processo produttivo, che ci si riconosca reciprocamente. Esso esiste fin dall’inizio dell’umanità, ma nella società capitalista ha preso la sua massima estensione. È precisamente questa socializzazione del lavoro che rende il comunismo necessario e possibile.
Il sovraccarico di lavoro:
Noi, come l’insieme del movimento operaio, abbiamo sempre sostenuto che nel sistema capitalista il progresso tecnologico in sé non porta affatto una diminuzione del carico di lavoro. La tendenza di questo sistema è quella di estirpare sempre più plusvalore dal lavoro dei salariati. Ed anche quando c’è la riduzione della durata del tempo di lavoro (come fu il caso in alcuni paesi con l’introduzione delle 35 ore) c’è un’intensificazione dei ritmi, la soppressione dei tempi di pausa, ecc. Con il peggioramento della crisi economica e la concorrenza tra gli Stati che ne deriva questa intensificazione dello sfruttamento non può che aumentare.
La perdita di solidarietà che rende i lavoratori molto più vulnerabili di fronte alle molestie
Cosa ha determinato questa perdita di solidarietà o meglio il suo forte indebolimento? La CCI ha analizzato questo fenomeno da circa due decenni mettendo in evidenza due fattori essenziali:
- l’arretramento della coscienza e della combattività all’interno della classe operaia dopo il crollo dei regimi cosiddetti “socialisti” del 1989 e le campagne sulla pretesa “vittoria definitiva” del “capitalismo liberale”, sulla “fine della lotta di classe”;
- gli effetti deleteri della decomposizione del capitalismo che generano in particolare il “ciascuno per sé”, “l’atomizzazione”, “l’arrangiarsi da soli”, la “distruzione delle relazioni sociali che sono alla base ogni vita nella società”.
Sono questi due fattori che spiegano in gran parte il fatto che il capitalismo abbia potuto introdurre da una ventina d’anni dei nuovi metodi di servitù senza causare risposte da parte della classe operaia, di lotte di resistenza di fronte a questo aggravarsi considerevole delle sue condizioni di lavoro.
Può sembrare paradossale ma chi si suicida a causa del lavoro fa parte di chi tenta di resistere a quest’aumento della barbarie legata al lavoro. Di chi non si rassegna a subire un sovraccarico di lavoro, la molestia, il disprezzo verso la sua dignità di uomo. Ma poiché non esiste ancora una resistenza collettiva, una sufficiente solidarietà tra i lavoratori, la sua resistenza e la sua rivolta contro l’ingiustizia che subisce o che vede attorno a lui, restano individuali ed isolate. E pertanto sono condannate al fallimento. La conseguenza ultima di questo fallimento è il suicidio che non è soltanto un atto di disperazione ma anche un ultimo grido di rivolta contro questo sistema che l’ha schiacciato.
Il fatto che questa rivolta assuma la forma dell’autodistruzione è, in fin dei conti, un’altra manifestazione del nichilismo che invade l’insieme della società capitalista, portata alla sua autodistruzione.
Quando il proletariato riprenderà il cammino delle lotte di massa, quando la solidarietà di classe ritornerà nei suoi ranghi, allora, non ci saranno più suicidi per il lavoro.
(ripreso con adattamenti alla situazione italiana da Révolution Internationale n°409 - février 2010 [42]).
[1] Vedi "L’unità e la solidarietà di classe uniche armi contro gli attacchi e contro la demoralizzazione [43]", Rivoluzione Internazionale n.164.
[2] David Émile Durkheim (1858 [44]-1917 [45]) è stato un sociologo [46], antropologo [47] e storico delle religioni [48] francese [49].
[3] Sistema operativo di controllo di gestione aziendale che attraverso la misurazione di appositi indicatori rileva lo scostamento tra obiettivi pianificati e risultati conseguiti e informa di tali scostamenti gli organi responsabili, affinché possano decidere e attuare le opportune azioni.
Le Nazioni Unite stimano che 200 milioni di immigrati – circa il 3% del popolazione mondiale - vivono fuori dal loro paese di origine, il doppio del 1980. Negli Stati Uniti, 33 milioni di abitanti sono nati all'estero, circa l’11,7 % della popolazione; in Germania, 10,1 milioni, 12,3 %; in Francia, 6,4 milioni, 10,7 %; nel Regno Unito, 5,8 milioni, 9,7 %; in Spagna, 4,8 milioni, 8,5 %; in Italia, 2,5 milioni, 4,3 %; in Svizzera, 1,7 milione, il 22,9% e nei Paesi Bassi, 1,6 milioni[1]. Le fonti governative e mediatiche stimano che ci sono più di 12 milioni di immigrati clandestini negli Stati Uniti e più di 8 milioni nell’Unione Europea. In questo contesto, l'immigrazione è diventata una questione politica bruciante in tutte le metropoli capitaliste, ed anche nel Terzo Mondo, come le recenti sommosse anti-immigrati in Africa meridionale hanno mostrato.
Sebbene esistono delle variazioni secondo i paesi e loro specificità, l'atteggiamento della borghesia di fronte a questa immigrazione massiccia segue in generale lo stesso schema: 1) incoraggiare l'immigrazione per ragioni economiche e politiche; 2) contemporaneamente contenerla e tentare di controllarla; 3) orchestrare campagne ideologiche per alimentare razzismo e xenofobia contro gli immigrati dividendo così la classe operaia.
Incoraggiare l’immigrazione: La classe dominante conta sui lavoratori immigrati, legali o illegali, per occupare posti di lavoro mal pagati, poco ambiti dagli operai del paese, per sfruttarli come esercito di riserva di disoccupati e mano d’opera a basso costo, per fare abbassare i salari di tutta la classe operaia e sopperire alla diminuzione di mano d’opera risultante dall'invecchiamento della popolazione e dalla riduzione dei tassi di natalità. Negli Stati Uniti, la classe dominante è completamente cosciente che interi settori produttivi come il piccolo commercio, la costruzione, il trattamento della carne e del pollame, i servizi di pulizia, gli hotel, la ristorazione, i servizi di salute a domicilio e di guardia di bambini si basano maggiormente sul lavoro degli immigrati, legali o illegali. E’ per tale motivo che le rivendicazioni dell'estrema destra di espellere 12 milioni di immigrati illegali e ridurre l'immigrazione legale non rappresentano per niente un'alternativa politica razionale per le frazioni dominanti della borghesia americana e sono state rigettate come irrazionali, impraticabili e nocive per l'economia degli Stati Uniti.
Contenerla e controllarla: allo stesso tempo, la frazione dominante riconosce la necessità di risolvere la questione dello statuto degli immigrati senza permesso di soggiorno per mantenere un controllo su una moltitudine di problemi sociali, economici e politici, compresa l'esistenza e la concessione di servizi medici, sociali, educativi ed altri servizi pubblici, così come tutta una serie di questioni legali relative ai figli di immigrati nati negli Stati Uniti ed alle loro proprietà. Era questa la piattaforma della riforma sull'immigrazione proposta nella primavera 2007 negli Stati Uniti e sostenuta dall'amministrazione Bush e dai Repubblicani, dai Democratici (compresa la loro ala sinistra espressa dal vecchio senatore Edward Kennedy) e dalle grandi imprese. Lungi dall’essere in favore dell'immigrazione, la legge chiedeva di chiudere la frontiera e di militarizzarla, la legalizzazione degli immigrati senza documenti già presenti nel paese e misure di controllo sui futuri immigrati. La proposta agli immigrati illegali già presenti nel paese di legalizzare il loro statuto, non costituiva per niente una "amnistia" e prevedeva scadenze e multe enormi.
Le campagne ideologiche: le campagne di propaganda contro gli immigrati variano secondo i paesi, ma il centro del loro messaggio è notevolmente simile; negli Stati Uniti è rivolto in primo luogo ai "Latini" ed in Europa ai musulmani, col pretesto che questi ultimi immigrati, in particolare gli illegali, sarebbero responsabili dell'aggravamento della crisi economica e delle condizioni sociali con cui si sta scontrando la classe operaia del "paese". Ciò in quanto essi occuperebbero i suoi posti di lavoro, determinerebbero l’abbassamento dei suoi salari, affollerebbero le scuole con i loro bambini, prosciugherebbero i programmi di assistenza sociale, aumenterebbero la criminalità e tutte le altre disgrazie sociali che potremmo pensare. È un esempio classico della strategia del capitalismo di dividere per regnare, dividere gli operai tra loro così che accusandosi reciprocamente di essere responsabili dei loro problemi, si azzuffano per delle briciole, piuttosto di comprendere che è il sistema capitalista il responsabile delle loro sofferenze. Ciò serve a deviare la capacità della classe operaia di riprendere coscienza della sua identità di classe e della sua unità, ciò che la borghesia teme più di ogni altra cosa. Nella divisione del lavoro in seno alla borghesia la caratteristica tipica è l’assegnazione all'ala destra del compito di aizzare e sfruttare il sentimento anti-immigrati in tutte le grandi metropoli capitaliste, con un successo più o meno elevato e che trova una qualche eco anche in alcuni settori del proletariato; ma in nessuna parte del mondo ha raggiunto il livello di barbarie delle sommosse xenofobe contro gli immigrati come in Africa meridionale nel maggio 2008.
L’aggravarsi delle condizioni nei paesi sottosviluppati nei prossimi anni, determinato non solo dagli effetti della decomposizione e della guerra ma anche dai cambiamenti climatici, porterà il problema dell'immigrazione ad assumere nel futuro probabilmente un’importanza maggiore. È essenziale che il movimento operaio sia chiaro sul significato del fenomeno dell'immigrazione, sulla strategia della borghesia di fronte a quest’ultima, sulla sua politica e campagne ideologiche, e sulla prospettiva del proletariato su questa questione. In questo articolo esamineremo il ruolo storico dell'immigrazione di popolazioni nella storia del capitalismo, la storia della questione dell'immigrazione in seno al movimento operaio sulla politica di immigrazione della borghesia ed un orientamento per l'intervento dei rivoluzionari sull'immigrazione.
L’immigrazione e lo sviluppo capitalista
Nel suo periodo ascendente, il capitalismo ha dato un'enorme importanza alla mobilità della classe operaia come fattore di sviluppo del suo modo di produzione. Durante il feudalismo, la popolazione lavoratrice era legata alla terra, e difficilmente si spostava durante tutta la sua vita. Espropriando i produttori agricoli, il capitalismo ha costretto larghe parti di popolazioni a lasciare la campagna per la città, a vendere la loro forza lavoro, costituendo una riserva indispensabile di forza lavoro.
Come sottolineato da Révolution Internationale nel suo articolo “La classe operaia, una classe di immigrati”[2]: “All’inizio del capitalismo, durante il suo periodo di “accumulazione primitiva”, i legami dei primi lavoratori salariati con i loro signori feudali furono rotti e “[le rivoluzioni] privando grandi masse dei loro mezzi di produzione e di esistenza tradizionale, lanciarono quest’ultime inaspettatamente sul mercato del lavoro, proletari senza casa, né patria. Ma la base di tutta questa evoluzione, è l'espropriazione dei coltivatori”[3]. Come scritto da Lenin “il capitalismo implica inevitabilmente una mobilità della popolazione i cui regimi economici precedenti non ne avevano bisogno se non a scala estremamente ridotta”[4] (citato in WR n° 300). Durante la fase ascendente, la migrazione di massa ha avuto un'importanza decisiva per lo sviluppo del capitalismo nel suo periodo di industrializzazione. Il movimento e lo spostamento di masse di operai verso luoghi in cui il capitale ne aveva bisogno, erano essenziali. Dal 1848 al 1914, 50 milioni di persone lasciarono l'Europa, la grande maggioranza si installò negli Stati Uniti. Tra il 1900 ed il 1914, soltanto 20 milioni di persone emigrarono dall'Europa negli Stati Uniti. Nel 1900, la popolazione americana era approssimativamente di 75 milioni; nel 1914 era di circa 94 milioni - ciò significa che nel 1914, più di un quinto era composto da nuovi immigrati - senza contare quelli che erano arrivati prima del 1900. Se si contano i figli di immigrati nati negli Stati Uniti, l'impatto degli immigrati sulla vita sociale è ancora più significativo. Durante questo periodo, la borghesia americana ha seguito essenzialmente una politica di apertura completa all'immigrazione, eccetto restrizioni verso gli immigrati asiatici. Ciò che motivava gli operai immigrati a sradicarsi, era la promessa di migliorare il loro livello di vita, la fuga dalla povertà e dalla carestia, dall'oppressione e dalla mancanza di prospettive.
Con la sua politica che incoraggiava l'immigrazione, la borghesia non esitò a condurre, contemporaneamente, campagne xenofobe e razziste per dividere la classe operaia. Si sobillavano quelli che si chiamavano operai "nativi" ("indigeni" workers, operai "del paese", "di ceppo"), - alcuni dei quali erano, essi stessi, di seconda o terza generazione di immigrati - contro i nuovi arrivati che venivano additati per le loro differenze linguistiche, culturali e religiose. Anche tra i nuovi arrivati, gli antagonismi etnici erano utilizzati per alimentare la strategia di divisione. È importante ricordarsi che la paura e la diffidenza verso gli stranieri hanno profonde radici psicologiche in questa società, ed il capitalismo non ha mai esitato a sfruttare questo fenomeno per i suoi sordidi fini. La borghesia, americana in particolare, ha utilizzato questa tattica "dividere per regnare" per contrastare la tendenza storica all'unità della classe operaia e meglio soggiogare il proletariato. In una lettera a Hermann Schlüter, nel 1892, Engels notava: "la Vostra borghesia sa molto meglio dello stesso governo austriaco contrapporre una nazionalità all’altra: ebrei, italiani, boemi, ecc., contro tedeschi ed irlandesi, e ciascuno di essi contro gli altri". È un'arma ideologica classica del nemico di classe.
Mentre l'immigrazione nel periodo di ascesa del capitalismo è stata in gran parte favorita per soddisfare i bisogni di forza lavoro di un modo di produzione storicamente progressista, che si sviluppava e si estendeva velocemente, nella decadenza, col rallentamento dei tassi di crescita esponenziali, i motivi che favorirono l’immigrazione provenivano da fattori più negativi. La necessità di sfuggire alla persecuzione, alla carestia ed alla povertà, che hanno spinto milioni di operai durante il periodo di ascesa ad emigrare per trovare un lavoro ed una vita migliore, è aumentata inevitabilmente nel periodo di decadenza, con un livello d’urgenza maggiore. In particolare, le nuove caratteristiche della guerra nella decadenza hanno dato un nuovo impulso all'emigrazione di massa ed al flusso di profughi. Nell'ascesa, le guerre si limitavano innanzitutto al conflitto tra eserciti professionisti sui campi di battaglia. Con l'inizio della decadenza, la natura della guerra si è trasformata in modo significativo, coinvolgendo tutta la popolazione e tutto l'apparato economico del capitale nazionale. Terrorizzare e demoralizzare la popolazione civile sono diventati un obiettivo tattico principale che ha prodotto le massicce migrazioni di profughi nel 20° ed ora nel 21° secolo. Durante la guerra attuale in Iraq si stima, per esempio, a due milioni i profughi che cercano salvezza in Giordania e soprattutto in Siria. Gli emigranti che fuggono dal loro paese d’origine sono ancora perseguitati per strada da poliziotti e militari corrotti, dalla mafia e dai criminali che gli estorcono i beni, li brutalizzano e li derubano durante il viaggio disperato verso quella che sperano possa essere una vita la migliore. Molti muoiono o spariscono durante il viaggio, alcuni cadono tra le mani di trafficanti di uomini. Bisogna sottolineare che le forze di giustizia e dell’ordine capitalista sembrano incapaci o non vogliano fare niente per attenuare i mali sociali che corredano l'immigrazione massiccia del periodo attuale.
Negli Stati Uniti, la decadenza è stata caratterizzata da un cambiamento brusco: da una politica di larga apertura all'immigrazione, (eccettuo quella che riguarda le restrizioni di lunga data verso gli asiatici) a politiche governative estremamente restrittive nei confronti dell’immigrazione. Col cambiamento del periodo economico, si è avuto globalmente meno bisogno di un afflusso continuo e massiccio di forza lavoro. Ma questa non è stata la sola ragione di un'immigrazione più controllata, sono anche intervenuti fattori razzisti e "anti-comunisti". Il Nationale Origins Act, legge adottata nel 1924, limitò il numero di emigranti che venivano dall'Europa a 150.000 persone per anno e fissò la quota per ogni paese sulla base della composizione etnica della popolazione americana nel 1890 - prima dell'ondata massiccia di emigrazione proveniente dall’Europa dell’Est e del Sud. Gli operai immigrati dell'Europa dell'Est erano accettati a causa di un razzismo sfrontato che spingeva a rallentare l'aumento di elementi "indesiderabili" come gli italiani, i greci, gli europei dell'Est e gli ebrei. Durante l'isteria rossa negli Stati Uniti che fece seguito alla Rivoluzione russa, si pensava che tra gli operai immigrati dell'Europa dell'Est fossero raggruppati un numero sproporzionato di "Bolscevichi" e quelli dell'Europa del Sud, di anarchici. Per ridurre maggiormente il flusso di immigrati, la legge del 1924 creò, per la prima volta negli Stati Uniti, il concetto di operaio straniero non immigrante - che poteva venire negli Stati Uniti ma non aveva il diritto di rimanere.
Nel 1950, fu promulgato il McCarran-Walter Act. Pesantemente influenzata dal maccartismo e dall'isteria anti-comunista della Guerra fredda, questa legge imponeva nuovi limiti all'immigrazione con il pretesto della lotta contro l'imperialismo russo. Alla fine degli anni 1960, con l'inizio della crisi aperta del capitalismo mondiale, l'immigrazione americana venne liberalizzata, aumentando il flusso degli immigrati verso gli Stati Uniti provenienti non solo dall'Europa, ma anche dall’Asia e dall'America latina, riflettendo in parte il desiderio del capitalismo americano di uguagliare il successo delle potenze europee drenando dai loro vecchi paesi coloniali lavoratori intellettuali qualificati e di talento, come scienziati, medici, infermieri ed altri professionisti - quella che viene chiamata “la fuga dei cervelli” dei paesi sottosviluppati - ed anche per avere a disposizione operai agricoli a salario ancora più basso. La conseguenza inattesa delle misure di liberalizzazione fu l’aumento spettacolare dell'immigrazione, tanto legale che illegale, in particolare di provenienza dall'America latina.
Nel 1986, la politica americana anti-immigrazione fu aggiornata con la promulgazione del Simpson-Rodino Immigration and naturalization Control Reform Act che trattava dell'afflusso di immigrati illegali provenienti dall'America latina ed imponeva, per la prima volta nella storia dell'America, sanzioni, multe ed anche arresto, contro i datori di lavoro che assumevano, essendone a conoscenza, operai senza permessi. L'afflusso di immigrati illegali si è intensificato col crollo economico dei paesi del Terzo Mondo durante gli anni 1970, ed ha scatenato un'ondata di emigrazione di masse impoverite che sfuggivano alla miseria in Messico, ad Haiti e nel Salvador devastato dalla guerra. L'enormità di questa ondata fuori controllo si riflette nel numero record di 1,6 milione di arresti di immigrati clandestini nel 1986 da parte della polizia americana anti-immigrazione.
Per quanto riguarda le campagne ideologiche, l'utilizzazione della strategia "dividere per regnare" nei confronti dell’immigrazione, già utilizzata come tattica contro il proletariato durante l'ascesa del capitalismo, ha raggiunto nuove vette durante la decadenza. Gli immigrati sono accusati di invadere le metropoli, di essere causa dell’abbassamento dei salari e di deprezzarli, di epidemie, di criminalità e di “inquinamento” culturale, di affollare le scuole, di aggravare maggiormente la realizzazione di programmi sociali – in breve di tutti i problemi sociali immaginabili. Questa tattica non si limita agli Stati Uniti ma è utilizzata anche in Francia, in Germania ed in tutta l'Europa (dove gli immigrati dell'Europa dell’Est vengono utilizzati da capro espiatorio per le calamità sociali dovute alla crisi ed al capitalismo in decomposizione) in campagne ideologicamente molto simili. Dimostrando così che l'immigrazione di massa è una manifestazione della crisi economica globale e della decomposizione sociale che si aggrava nei paesi meno evoluti. Tutto ciò serve a creare ostacoli e bloccare lo sviluppo della coscienza di classe, serve a disorientare gli operai affinché non comprendano che è il capitalismo a creare le guerre, la crisi economica e tutti i problemi sociali caratteristici della sua decomposizione sociale.
L’impatto sociale dell'aggravamento della decomposizione e delle crisi, che va di pari passo con lo sviluppo della crisi ecologica, porterà sicuramente negli anni futuri milioni di profughi verso i paesi evoluti. Se questi spostamenti massicci ed improvvisi di popolazioni verranno trattati diversamente rispetto all’immigrazione solita, lo saranno sempre in una maniera tale da mostrare l'inumanità che è alla base della società capitalista. I rifugiati sono spesso ammassati in accampamenti, isolati dalla società che li circonda ed integrati lentamente, talvolta dopo numerosi anni; sono trattati più come prigionieri ed indesiderabili che come membri della comunità umana. Un tale atteggiamento è totalmente opposto alla solidarietà internazionalista che costituisce chiaramente la prospettiva proletaria.
La posizione storica del movimento operaio sull'immigrazione
Di fronte all'esistenza di differenze etniche, di razza e di lingua degli operai, da un punto di vista storico il movimento operaio è stato guidato dal principio: "gli operai non hanno patria", un principio che ha influenzato al tempo stesso la vita interna del movimento operaio rivoluzionario e l'intervento di questo movimento nella lotta di classe. Ogni compromesso verso questo principio rappresenta una capitolazione verso l'ideologia borghese.
Così, per esempio, nel 1847, i membri tedeschi della Lega dei Comunisti esiliati a Londra, benchè si preoccupassero in primo luogo della propaganda verso gli operai tedeschi, hanno aderito alla visione internazionalista e hanno “mantenuto strette relazioni con i rifugiati politici di ogni paese”[5]. A Bruxelles, la Lega ha “organizzato un banchetto internazionalista per dimostrare i sentimenti fraterni che gli operai avevano verso gli operai degli altri paesi... a questo banchetto hanno partecipato centoventi operai tra cui belgi, tedeschi, svizzeri, francesi, polacchi, italiani ed un russo”[6]. Vent'anni più tardi, la stessa preoccupazione ha spinto la Prima Internazionale ad intervenire negli scioperi con due obiettivi principali: impedire alla borghesia di far venire dei crumiri dall’estero e portare un sostegno diretto agli scioperanti come era già stato fatto a Londra per i fabbricanti di setacci, i sarti ed i cestai ed a Parigi per i fonditori di bronzo[7]. Quando la crisi economica del 1866 provocò un'ondata di scioperi in tutta l'Europa, il Consiglio Generale dell'Internazionale “ha sostenuto gli operai con i suoi consigli e la sua assistenza e si è mobilitato per ottenere la solidarietà internazionale del proletariato in loro favore. In questo modo, l'internazionale ha privato la classe capitalista di un'arma molto efficace ed i padroni non hanno più potuto frenare la combattività dei loro operai importando mano d’opera straniera a buon mercato... Là dove aveva una certa influenza, cercava di convincere gli operai che era nel loro interesse sostenere le lotte salariali dei loro compagni stranieri”[8]. Così, nel 1871, quando in Gran Bretagna si è sviluppato il movimento per la giornata di 9 ore, organizzato dalla Nine Hours League (Lega delle nove ore) e non dai sindacati, rimasti fuori dalla lotta, la Prima Internazionale le ha dato il suo sostegno inviando dei rappresentanti in Belgio e in Danimarca per “impedire agli intermediari dei padroni di reclutare crumiri in questi paesi, la qualcosa ha avuto un notevole successo”[9].
La più significativa eccezione a questa posizione internazionalista ebbe luogo negli Stati Uniti nel 1870-71 dove la sezione americana dell'Internazionale si oppose all'immigrazione degli operai cinesi negli Stati Uniti perché i capitalisti li utilizzavano per abbassare i salari degli operai bianchi. Un delegato della California si lamentò del fatto che "i cinesi hanno determinato la perdita di migliaia di posti di lavoro ad uomini, donne e bambini bianchi". Questa posizione esprimeva un'interpretazione erronea della critica fatta da Marx al dispotismo asiatico: questo come modo di produzione anacronistico dominante in Asia doveva essere rovesciato affinché il continente asiatico si integrasse nei rapporti di produzione moderni e si costituisse un proletariato moderno in Asia. Il fatto che i lavoratori asiatici non fossero ancora proletarizzati ed erano dunque suscettibili alle manipolazioni ed allo sfruttamento estremo da parte della borghesia, non ha costituito purtroppo un impulso per estendere la solidarietà a questa mano d’opera e integrarla all’insieme della classe operaia americana, ma è servita a dare una spiegazione razionale all'esclusione razzista.
Comunque sia, la lotta per l’unità della classe operaia internazionale proseguì nella Seconda Internazionale. Poco più di cento anni fa, al Congresso di Stoccarda del 1907, l'Internazionale rigettò massicciamente un tentativo opportunista che proponeva di sostenere la restrizione da parte dei governi borghesi cinese e giapponese dell’immigrazione. L’opposizione fu così forte che gli opportunisti furono costretti a ritirare la loro risoluzione. Al contrario, il Congresso adottò una posizione anti-esclusione per il movimento operaio in tutti i paesi. Nel Rapporto su questo Congresso, Lenin scriveva: “Su questa questione [dell’immigrazione] venne alla luce in commissione un tentativo di sostenere ristrette concezioni di corporazione, di vietare l'immigrazione di operai di provenienza dai paesi arretrati (quella di operai venuti della Cina, ecc.). È là il riflesso dello spirito “aristocratico” che troviamo in proletari di certi paesi “civilizzati” che traggono alcuni vantaggi dalla loro situazione privilegiata e che sono per ciò inclini a dimenticare gli imperativi della solidarietà di classe internazionale. Ma al Congresso propriamente detto, non si trovarono difensori di questa ristrettezza piccolo-borghese di corporazione, e la risoluzione risponde pienamente alle esigenze della socialdemocrazia rivoluzionaria”[10].
Negli Stati Uniti, all’epoca dei Congressi del Partito socialista, 1908, 1910 e 1912, gli opportunisti cercarono di presentare alcune risoluzioni che permettevano di aggirare la decisione del Congresso di Stoccarda ed espressero il loro sostegno all'opposizione che la AFL (American Federazione of Labor) faceva all’immigrazione. Ma furono sempre battuti dai compagni che difendevano la solidarietà internazionale di tutti gli operai. Un delegato ammonì gli opportunisti dicendo che per la classe operaia "non ci sono stranieri". Altri insistettero sul fatto che il movimento operaio non doveva unirsi ai capitalisti contro i gruppi operai. Nel 1915, in una lettera al Socialist Propaganda League, il precursore dell'ala sinistra del Partito socialista che, più tardi, avrebbe fondato il Communist Party ed il Communist Labor Party negli Stati Uniti, Lenin scriveva: “Nella nostra lotta per il vero internazionalismo e contro il "jingo-socialismo", la nostra stampa denuncia costantemente i capi opportunisti del S.P. d’America che sostengono la limitazione dell'immigrazione di operai cinesi e giapponesi, soprattutto dopo il congresso di Stoccarda del 1907, e contro le sue decisioni. Pensiamo che non si possa essere internazionalista e contemporaneamente pronunciarsi in favore di tali restrizioni”[11].
Storicamente, gli immigrati hanno sempre giocato un ruolo importante nel movimento operaio negli Stati Uniti. I primi marxisti rivoluzionari emigrarono negli Stati Uniti dopo l'insuccesso della rivoluzione del 1848 in Germania e stabilirono legami vitali con il centro della Prima Internazionale in Europa. Engels introdusse alcune concezioni problematiche nel movimento socialista negli Stati Uniti, riguardo agli immigrati; certi aspetti erano giusti, ma altri erano sbagliati ed infine ebbero un impatto negativo sulle attività organizzative del movimento rivoluzionario americano. Friedrich Engels era preoccupato della lentezza con la quale il movimento operaio cominciava a svilupparsi negli Stati Uniti. Pensava che ciò era dovuto a certe specificità della situazione in America, in particolare all'assenza di una tradizione feudale con il suo forte sistema di classi, e per l'esistenza della Frontiera che serviva da valvola di sfogo alla borghesia e permetteva agli operai scontenti di sfuggire alla loro esistenza di proletari per diventare fattori o coloni all'Ovest. Un altro aspetto era il baratro che separava gli operai nativi degli Stati Uniti e gli operai immigrati sul piano delle possibilità economiche ed anche per l'incapacità degli operai immigrati di comunicare con gli operai del paese. Per esempio, per criticare gli immigrati socialisti tedeschi che non imparavano l'inglese, Engels scriveva: “Dovranno rinunciare ad ogni vestigia del loro abito di straniero. Devono diventare degli americani completi. Non possono attendere che gli americani vadano loro incontro; sono loro, la minoranza e gli immigrati, che devono andare verso gli americani che costituiscono la vasta maggioranza della popolazione nata là. Per fare ciò, devono cominciare con l’apprendere l’inglese”[12]. Era vero che esisteva presso i rivoluzionari immigrati tedeschi negli anni 1880 una tendenza a limitarsi al lavoro teorico ed a lasciare da parte il lavoro verso le masse degli operai del paese, quelli di lingua inglese, e ciò provocò le critiche di Engels. Era altrettanto vero che il movimento rivoluzionario condotto dagli immigranti doveva aprirsi agli operai americani che parlavano in inglese, ma l'insistenza sull'americanizzazione del movimento che era implicita nelle osservazioni di Engels si rivelò disastrosa per il movimento operaio perché ebbe per conseguenza di lasciare gli operai più formati ed esperti in ruoli secondari e dare la direzione nelle mani di militanti poco formati la cui prima qualità era l’essere nati nel paese e parlare inglese. Dopo la Rivoluzione russa, l’Internazionale comunista perseguì la stessa politica e le sue conseguenze furono ancora più disastrose per il giovane Partito comunista. L'insistenza di Mosca affinché i militanti nati negli Stati Uniti fossero chiamati alla direzione catapultò gli opportunisti ed i carrieristi come William Z. Foster in posizioni chiave, spinse i rivoluzionari dell’Europa dell'Est che avevano delle inclinazioni per il comunismo di sinistra ai margini del Partito ed accelerò il trionfo dello stalinismo nel Partito negli Stati Uniti.
Allo stesso modo, un'altra osservazione di Engels è stata altrettanto problematica: “mi sembra che il grande ostacolo negli Stati Uniti risieda nella posizione eccezionale degli operai del paese … (La classe operaia del paese) ha sviluppato e si è anche, in grande misura, organizzata in sindacati. Ma conserva sempre un atteggiamento aristocratico e, quando è possibile, lascia gli impieghi ordinari e mal pagati agli immigrati di cui solamente una piccola parte aderisce ai sindacati aristocratici”[13]. Anche se descriveva in modo completamente giusto il modo di fare degli operai del paese e se gli immigrati erano effettivamente divisi tra loro, lasciava intendere in modo erroneo che erano gli operai americani e non la borghesia ad essere responsabili del baratro tra le differenti parti della classe operaia. Mentre questi commenti parlavano delle divisioni nella classe operaia immigrata bianca, i nuovi gauchisti, durante gli anni 1960, li interpretarono per dare una base alla “teoria” del “privilegio della pelle bianca”[14].
Ad ogni modo, la stessa storia della lotta di classe negli Stati Uniti ha confutato la visione di Engels secondo la quale l'americanizzazione degli immigrati avrebbe costituito una pre-condizione alla costituzione di un movimento socialista forte negli Stati Uniti. La solidarietà e l’unità di classe al di là degli aspetti etnici e linguistici sono stati una caratteristica centrale del movimento operaio nella svolta del ventesimo secolo. I partiti socialisti americani avevano una stampa in lingua straniera e pubblicavano decine di giornali, quotidiani e settimanali in parecchie lingue. Nel 1912, il Socialist Party pubblicava negli Stati Uniti 5 quotidiani in inglese e 8 in altre lingue, 262 settimanali in inglese e 36 in altre lingue, 10 mensili di attualità in inglese e 2 in altre lingue, e questo escluse le pubblicazioni del Socialist Labor Party. All’interno del Socialist Party, esistevano 31 federazioni di lingua straniera: armena, boema, bulgara, croata, ceca, danese, estone, finnica, francese, tedesca, greca, ispanica, ungherese, irlandese, italiana, giapponese, ebraica, lettone, lituana, norvegese, polacca, rumena, russa, scandinava, serba, slovacca, slovena, slava del sud, spagnola, svedese, ucraina, iugoslava. Queste federazioni costituivano la maggioranza dell'organizzazione. La maggioranza dei membri del Communist Party e del Communist Labor Party, fondati nel 1919, erano immigrati. Allo stesso modo lo sviluppo degli Industrial Workers of the World (IWW) nel periodo che ha preceduto la Prima Guerra mondiale era dovuto essenzialmente all’adesione degli immigrati, ed anche gli IWW all'ovest, che erano costituiti da molti americani “nativi”, contavano migliaia di slavi, di immigrati messicani e di scandinavi nelle loro fila.
La più famosa lotta degli IWW, lo sciopero nel tessile a Lawrence nel 1912, mostrò la capacità di solidarietà tra gli operai immigrati e non immigrati. Lawrence era una città industriale del Massachusetts dove le condizioni di lavoro erano deplorevoli. La metà degli operai era costituita da adolescenti tra i 14 e i 18 anni. Gli operai qualificati erano in genere persone che parlavano inglese di discendenza inglese, irlandese o tedesca. Gli operai non qualificati erano canadesi francesi, italiani, slavi, ungheresi, portoghesi, siriani e polacchi. Una riduzione dei salari in una delle fabbriche provocò uno sciopero delle tessitrici polacche che coinvolse subito 20.000 operai. Un comitato di sciopero organizzato con gli IWW comprendeva due rappresentanti per ogni gruppo etnico e chiedeva il 15 % di aumento di salario e nessuna rappresaglia contro gli scioperanti. Le riunioni durante lo sciopero venivano tradotte in venticinque lingue. Quando le autorità risposero con una violenta repressione, il comitato di sciopero lanciò una campagna mandando parecchie centinaia di figli di scioperanti presso i simpatizzanti della classe a New York. Quando il secondo convoglio di 100 bambini partì per raggiungere i simpatizzanti nel New Jersey, le autorità attaccarono madri e bambini, malmenandole ed arrestandole davanti allo stampa nazionale; ciò ebbe per risultato un’estensione nazionale della solidarietà. Gli IWW utilizzarono la stessa tattica, durante uno sciopero nel settore della seta a Paterson, nel New Jersey, nel 1913, mandando i figli degli operai immigrati che scioperavano dalle “madri di scioperi” in altre città; in questa occasione gli operai mostrarono ancora una volta la loro solidarietà di classe superando le barriere etniche.
Durante la guerra, il ruolo degli emigrati ed immigrati dell'ala sinistra del movimento socialista fu particolarmente importante. Per esempio, Trotsky partecipò ad una riunione, il 14 gennaio 1917 a Brooklyn, da Ludwig Lore, emigrante della Germania, per pianificare un "programma d’azione" delle forze di sinistra del movimento socialista americano; era appena arrivato il giorno prima a New York; parteciparono sia Bukarin che risiedeva già negli Stati Uniti e lavorava come editore di Novy Mir, l'organo della Federazione socialista di Russia, parecchi altri immigrati russi, S.J Rutgers, rivoluzionario olandese, compagno di lotta di Pannekoek e Sen Katayama, emigrato giapponese. Secondo i testimoni oculari, i Russi dominarono la discussione; mentre Bukarin difendeva la scissione immediata della sinistra dal Socialist Party, Trotsky voleva che la sinistra per il momento rimanesse nel Partito, ma doveva sviluppare una sua critica pubblicando ogni quindici giorni un testo indipendente; è questa fu la posizione adottata alla fine dalla riunione. Se non fosse ritornato in Russia dopo la rivoluzione di febbraio, Trotsky sarebbe stato probabilmente alla testa dell'ala sinistra del movimento americano[15]. La coesistenza di parecchie lingue non costituiva un ostacolo al movimento; al contrario, era un riflesso della sua forza. Durante una manifestazione massiccia nel 1917, Trotsky si rivolse alla folla in russo mentre altri in tedesco, finnico, inglese, lettone, yiddish e lituano[16].
La teorizzazione borghese dell’ideologia anti-immigrati
Gli ideologi borghesi difendono l'idea che le caratteristiche dell'emigrazione massiccia attuale verso l'Europa e gli Stati Uniti sono totalmente differenti da quelle dell'emigrazione nei periodi precedenti della storia. Dietro ciò c'è l'idea che, oggi, gli immigrati indeboliscono, distruggono le stesse società che li accolgono, rifiutano l’integrazione nella loro nuova società e ne rigettano le istituzioni politiche e la cultura. In Europa, il libro di Walter Laqueur, The Last Days of Europa: Epitaph for an Old Continent, (Gli Ultimi giorni dell’Europa: Epitaffio per un Vecchio Continente) pubblicato nel 2007, difende l'idea che l'immigrazione musulmana è responsabile del declino europeo.
Il borghese professore di scienze politiche, Samuel P. Huntington dell'Università di Harvard, nel suo libro pubblicato nel 2004, Who Are We: The Challenges to America’s National Identity (Chi Siamo: Le Sfide all'Identità Nazionale d’America) difende il punto di vista che gli immigrati dell'America latina, in particolare i messicani che sono arrivati negli Stati Uniti durante gli ultimi tre decenni parleranno probabilmente meno l'inglese rispetto alle precedenti generazioni di immigrati venuti dall'Europa, perché parlano tutta la stessa lingua, sono concentrati nelle stesse regioni, sono confinati in enclavi in cui si parla spagnolo, sono meno interessati ad integrarsi da un punto di vista linguistico e culturale e sono incoraggiati a non apprendere l'inglese da gauchisti che fomentano politiche di identità. Inoltre Huntington dichiara che la “biforcazione”, la divisione della società americana secondo linee di divisione razziale neri/bianchi esistita per generazioni, oggi è minacciata di essere sostituita e rimpiazzata da una “biforcazione” culturale tra gli immigrati di lingua spagnola e gli americani originari che parlano inglese, il che metterebbe in gioco l’identità e la cultura nazionale americana.
Laqueur come Huntington si inorgogliscono della loro eminente carriera di ideologi della Guerra fredda al servizio della borghesia. Laqueur è un erudito ebreo conservatore, sopravvissuto all'olocausto, accanitamente filo-sionista, anti-arabo, e consulente del Centro di studi internazionali e strategici (CSIS) di Washington e che ha servito il “gruppo di riflessione” durante la Guerra fredda in stretto legame con il Pentagono dal 1962. Il vecchio Segretario di Stato di Bush alla Difesa, Rumsfeld, ha consultato regolarmente il CSIS. Huntington, professore di scienze politiche a Harvard, è stato consigliere di Lyndon Johnson durante la guerra del Vietnam e, nel 1968, ha raccomandato una politica di bombardamento massiccio delle campagne vietnamite per sabotare il sostegno dei contadini ai VietCong e costringerli a raggiungere le città. Più tardi, negli anni 1970, lavorando con la Commissione trilaterale, è l'autore del rapporto sulla Governibility of Democracies (La crisi della democrazia: Rapporto sulla governabilità delle democrazie alla Commissione trilaterale) nel 1976. Alla fine degli anni 1970, sotto l'amministrazione Carter, ha servito come coordinatore politico il Consiglio Nazionale di Sicurezza. Nel 1993, ha scritto un articolo in Foreign Affairs (Affari Esteri) che in seguito è diventato un libro, intitolato Le choc des civilisations (The Clash of Civilizations and the Remaking of World Order) (Lo Choc delle Civiltà ed un nuovo ordine mondiale) in cui sviluppa la tesi secondo la quale, dopo il crollo dell'URSS, sarebbe la cultura e non l'ideologia a rappresentare la più importante base dei conflitti nel mondo. Ha previsto che uno shock di civiltà imminente tra islam e l'occidente avrebbe costituito il conflitto internazionale centrale nel futuro. Sebbene il punto di vista di Huntington sull'immigrazione nel 2004 sia stato in gran parte messo fuori considerazione da intellettuali specializzati nello studio delle popolazioni e di questioni dell’immigrazione e dell'assimilazione, le sue idee sono state largamente diffuse dai media e da esperti di politica vicini all’amministrazione americana.
Le proteste di Huntington sul fatto che gli immigrati di lingua straniera si rifiuterebbero di apprendere l'inglese, resisterebbero all'integrazione e contribuirebbero all'inquinamento culturale, non sono affatto nuove negli Stati Uniti. Alla fine del 1700, Benjamin Franklin aveva paura che la Pennsylvania fosse invasa dal "nugolo" di immigrati della Germania. “Perché la Pennsylvania”, chiedeva Franklin, “fondata dagli inglesi, dovrebbe diventare una colonia di stranieri che saranno presto così numerosi da germanizzarci piuttosto che essere da noi inglesizzati?”. Nel 1896, il presidente dell'Istituto di Tecnologia del Massachusetts (MIT), Francis Walker, economista influente, metteva in guardia contro il fatto che la cittadinanza americana potrebbe essere degradata da “l’accesso tumultuoso di moltitudini di contadini ignoranti e brutalizzati dei paesi dell'Europa dell'Est e del Sud”. Il presidente Teodor Roosevelt era così contrario all’afflusso di immigrati di lingua straniera da proporre: “bisogna esigere da tutti gli immigrati che vengono qui che essi apprendano l'inglese in cinque anni o lascino il paese”. Lo storico di Harvard, Artur Schlesinger Senior, ha deplorato allo stesso modo “l’inferiorità” sociale, culturale ed intellettuale degli immigrati dell'Europa del Sud e dell’Est. Tutti questo lamenti e queste paure di ieri sono molto simili a quelle attuali di Huntington.
La realtà storica non ha mai dato ragione a queste paure xenofobe. Anche se è sempre esistito, in ogni gruppo di immigrati, una certa parte che ha cercato di apprendere l’inglese ad ogni costo, di integrarsi velocemente ed avere un successo economico, abitualmente, l'assimilazione si è sviluppata in modo graduale - generalmente per un periodo di tre generazioni. Gli immigranti adulti conservavano in generale la loro lingua materna e le loro tradizioni culturali negli Stati Uniti. Vivevano nei quartieri di immigrati dove parlavano la loro lingua nella comunità, nei negozi, nelle riunioni religiose, ecc. Leggevano dei libri e dei giornali nella loro lingua natale. I loro figli, immigrati quando erano molto giovani o nati negli Stati Uniti, erano in genere bilingue. Apprendevano l'inglese a scuola e, nel ventesimo secolo, erano circondati dall'inglese nella cultura di massa, ma parlavano anche la lingua dei loro genitori a casa e si sposavano in genere all’interno della loro comunità etnica. In terza generazione, i nipoti degli immigrati perdevano in generale l'abitudine di parlare la lingua dei loro nonni e tendevano a parlare solamente l'inglese. La loro integrazione culturale era segnata da una tendenza crescente a sposarsi all'infuori della comunità etnica di origine. Malgrado l'importanza dell'immigrazione ispanica durante gli ultimi anni, le stesse tendenze all'integrazione sembrano perdurare allo stesso modo nel periodo attuale negli Stati Uniti, secondo i recenti studi del Pew Hispanic Center e dell'Università di Princeton[17].
Tuttavia, anche se l'attuale ondata di immigrazione fosse qualitativamente differente delle precedenti, quale importanza potrebbe avere? Se gli operai non hanno patria, perché dovremmo preoccuparci dell'assimilazione? Engels ha difeso l'americanizzazione negli anni 1880 non come un fine in sé, come una specie di principio astratto del movimento operaio, ma come un mezzo per costruire un movimento socialista di massa. Ma, come abbiamo visto, l’idea che l'americanizzazione costituirebbe una pre-condizione necessaria per sviluppare l'unità della classe operaia è stata confutata dalla pratica dello stesso movimento operaio all'inizio del ventesimo secolo che ha dimostrato, senza equivoco possibile, che il movimento operaio può abbracciare la diversità ed il carattere internazionale del proletariato e può costruire un movimento unito contro la classe dominante.
Mentre le recenti sommosse nelle bidonville dell’Africa meridionale hanno costituito un segnale d’allerta rispetto al fatto che le campagne anti-immigrazione della borghesia conducono alla barbarie nella vita sociale, è evidente che la propaganda capitalista esagera la collera anti-immigrazione nella classe operaia delle metropoli. Negli Stati Uniti per esempio, malgrado i grandi sforzi dei media borghesi e la propaganda di estrema destra per incitare all'odio contro gli immigrati sul problema della lingua e della cultura, in genere l'atteggiamento dominante nella popolazione, operai compresi, è di considerare che gli immigrati sono dei lavoratori che cercano di guadagnarsi da vivere per sostenere le loro famiglie, che fanno un lavoro troppo faticoso e troppo mal pagato rispetto a quello degli operai “del paese” e che sarebbe insensato respingerli[18]. Nella stessa lotta di classe, ci sono sempre più manifestazioni di solidarietà tra operai immigrati ed operai “indigeni” che ricordano l'unità internazionalista a Lawrence nel 1912. Per esempio, ci sono state nel 2008 lotte come il sollevamento in Grecia dove gli operai immigrati si sono uniti alla lotta, o come lo sciopero nel 2009 della raffineria di Lindsey in Gran Bretagna dove gli immigrati hanno espresso chiaramente la loro solidarietà, o ancora, negli Stati Uniti, all’epoca dell'occupazione da parte degli operai immigrati ispanici della fabbrica Window and Door Republic davanti alla quale gli operai “nativi” si sono radunati per manifestare il loro sostegno portando in particolare anche roba da mangiare.
L’intervento dei rivoluzionari sulla questione dell’immigrazione
Da ciò che riportano i media, l’80 % dei britannici pensano che il Regno Unito fa fronte ad una crisi di popolazione a causa dell'immigrazione; più del 50 % hanno paura che la cultura britannica scompaia; il 60 % che vivere in Gran Bretagna sia più pericoloso a causa dell'immigrazione; e l’85 % vuole che venga diminuito o posto un termine all'immigrazione[19]. Il fatto che esista una ricettività alla paura irrazionale espressa nel razzismo e la xenofobia propagandata dall'ideologia borghese in certi elementi della classe operaia non ci sorprende nella misura in cui l'ideologia della classe dominante, in una società di classe, esercita un'immensa influenza sulla classe operaia finché non si sviluppa apertamente una situazione rivoluzionaria. Tuttavia, qualunque sia il successo dell’intrusione ideologica della borghesia nella classe operaia, per il movimento rivoluzionario, il principio secondo cui la classe operaia mondiale è una unità e gli operai non hanno patria, è un principio di base della solidarietà proletaria internazionale e della coscienza della classe operaia. Ogni insistenza su particolarismi nazionali, aggrava, manipola o contribuisce alla “disunione” della classe operaia ed è contraria alla natura internazionalista del proletariato come classe; essa è una manifestazione dell'ideologia borghese che i rivoluzionari devono combattere. La nostra responsabilità è difendere la verità storica: gli operai non hanno patria.
Comunque sia, come al solito, le accuse dell'ideologia borghese contro gli immigrati sono più un mito che una realtà. Ci sono più probabilità che gli immigrati siano vittime di criminali che siano loro stessi dei criminali. In generale, gli immigrati sono onesti operai che lavorano duramente, sfruttati all'eccesso al di là di ogni limite, per guadagnare qualcosa per vivere e per inviare del denaro alle loro famiglie rimaste "nel paese". Sono spesso imbrogliati da padroni poco scrupolosi che li pagano meno del salario minimo e si rifiutano di pagare ore supplementari, da proprietari così tanto poco scrupolosi da far loro pagare pigioni esorbitanti dando in cambio veri tuguri, e da ogni specie di ladri e di aggressori – che contano sulla paura degli immigrati verso le autorità che impedisce loro di sporgere querela. Le statistiche dimostrano che la criminalità tende ad aumentare dalla seconda e terza generazione nelle famiglie di immigrati; non perché provengono dall'immigrazione ma a causa della loro povertà continuamente oppressa, della discriminazione e della mancanza di prospettive in quanto poveri[20].
È essenziale essere chiari sulla differenza che oggi esiste tra le posizioni della Sinistra comunista e quella di tutti i difensori di un'ideologia anti-razzista, compresi quelli che si definiscono rivoluzionari. Malgrado la denuncia del carattere razzista dell’ideologia anti-immigrati, le azioni che sostengono restano sullo stesso campo. Al posto di sottolineare l'unità fondamentale della classe operaia, mettono avanti le sue divisioni. In una versione aggiornata della vecchia teoria del “privilegio della pelle bianca”, biasimano, con argomenti moralistici, gli operai che diffidano degli immigrati, e non il capitalismo per il suo razzismo anti-immigrati; e proseguono glorificando gli operai immigrati come eroi più puri degli operai indigeni. Gli “antirazzisti” sostengono gli immigrati contro i non-immigrati, invece di mettere avanti l’unità della classe operaia. L’ideologia multiculturale che propagano devia la coscienza di classe degli operai sul campo della “politica di identità” per la quale è “l’identità” nazionale, linguistica, etnica che è determinante, e non l’appartenenza alla stessa classe. Questa ideologia velenosa ci dice che gli operai messicani hanno più in comune con elementi messicani borghesi che con altri operai. Di fronte al malcontento degli operai immigrati per le persecuzioni che subiscono, l'anti-razzismo li incatena allo Stato. La soluzione che è proposta ai problemi degli immigrati è fare ricorso alla legalità borghese, col reclutamento degli operai nei sindacati, con la riforma della legge sull'immigrazione, arruolando gli immigrati nella politica elettorale o attraverso il riconoscimento formale di “diritti” legali. Tutto salvo la lotta di classe unita del proletariato.
Per la Sinistra comunista la denuncia della xenofobia e del razzismo contro gli immigrati si distingue radicalmente da questa ideologia anti-razzista. La nostra posizione è in continuità diretta con quella difesa dal movimento rivoluzionario dalla Lega dei comunisti, dal Manifesto comunista, la Prima Internazionale, la sinistra della Seconda Internazionale, gli IWW ed i Partiti comunisti ai loro inizi. Il nostro intervento insiste sull'unità fondamentale del proletariato, denuncia i tentativi della borghesia di dividere gli operai, si oppone al legalismo borghese, alle politiche d’identità ed all'interclassismo. Per esempio, la CCI ha difeso questa posizione internazionalista negli Stati Uniti denunciando la manipolazione capitalista secondo la quale le manifestazioni del 2006, in favore della legalizzazione degli immigrati, fossero state composte principalmente da immigrati ispanici. Come abbiamo scritto in Internationalism[21], queste manifestazioni sono state “in gran parte manipolazioni borghesi”, “totalmente su un campo della borghesia che ha provocato le manifestazioni, le ha manipolate, controllate ed apertamente dirette”, ed erano infestate di nazionalismo, “che sia stato il nazionalismo latino ad essere sorto all'inizio delle manifestazioni o la corsa nauseante per affermare il suo recente americanismo” che “aveva per scopo di cortocircuitare totalmente ogni possibilità per gli immigrati e gli operai di ceppo americano di riconoscere la loro essenziale unità”.
Soprattutto dobbiamo difendere l'unità internazionale della classe operaia. Come internazionalisti proletari, rigettiamo l'ideologia borghese e le sue costruzioni su “l'inquinamento culturale”, “l’inquinamento linguistico”, “l'identità nazionale”, “la diffidenza verso gli stranieri” o “la difesa della comunità o del quartiere”. Al contrario, il nostro intervento deve difendere le esperienze storiche del movimento operaio: gli operai non hanno patria; la difesa della cultura nazionale, della lingua o dell'identità non è un compito né una preoccupazione del proletariato; dobbiamo rigettare i tentativi di tutti quelli che cercano di utilizzare le concezioni borghesi per inasprire le differenze in seno alla classe operaia, per sabotare la sua unità. Qualunque siano le intrusioni di un'ideologia di classe estranea che storicamente abbiano potuto avere luogo, il filo rosso che attraversa tutta la storia del movimento operaio è la solidarietà e l'unità di classe internazionalista. Il proletariato viene da molti paesi, parla molte lingue ma è una sola classe mondiale la cui responsabilità storica è di affrontare il sistema di sfruttamento e di oppressione capitalista. Noi consideriamo la diversità etnica, culturale, linguistica della nostra classe innanzitutto come una forza e sosteniamo la solidarietà internazionale proletaria di fronte ai tentativi di dividerci. Dobbiamo trasformare il principio "gli operai non hanno patria" in una realtà vivente che contiene la possibilità di creare una comunità umana autentica in una società comunista. Ogni altra prospettiva costituisce un abbandono del principio rivoluzionario.
Jerry Grevin
[1] Rainer Muenz: "Europa: Popolation and Migration in 2005"
[2] 2. Révolution internationale n° 253, febbraio 1996.
[3] Marx, Il Capitale, Vol. I, capitolo 26, “L’accumulazione primitiva”
[4] Lo sviluppo del capitalismo in Russia VI, “La missione storica del capitalismo”.
[5] Franz Mehring, Karl Marx, tradotto dall’inglese da noi.
[6] ibid.
[7] GM Stekloff, History of The First International, Inghilterra 1928, tradotta dall'inglese da noi.
[8] Franz Mehring, op.cit.
[9] ibid.
[10] “Il Congresso socialista internazionale di Stoccarda”, pubblicato il 20 ottobre 1907 nel n°17 di Prolétari, Opere complete, Cap. 13, p. 79, Editions sociales. Lasciamo da parte la discussione sulla questione de “l’aristocrazia operaia”, contenuta nel testo di Lenin.
[11] Lettera al segretario del SPL, 9 novembre 1915.
[12] Lettera agli americani, tradotto dall’inglese da noi.
[13] Lettera a Schlüter, op.cit.
[14] La “White Skin Privilege Theory” o “teoria del privilegio della pelle bianca” è stata rimuginata dai nuovi gauchisti degli anni 1960 che pretendevano che la classe dominante e la classe operaia bianca avessero un accordo in base al quale era concesso agli operai bianchi un livello di vita superiore a spese degli operai neri che subivano razzismo e discriminazione.
[15] Cf. Théodore Draper, The Roots of American Communism (Le radici del comunismo americano).
[16] ibid.
[17] Vedere “2003-2004 Pew hispanic Center.the Kaiser Family Foundation Survey of Latinos: Education” e Rambaut, Reuben G., Massey, Douglas, S. and Bean, Frank D. “Linguistic Life Expectancies: Immigrant Language Retention in Southern California. Population and Development”, 32 (3): 47-460, settembre 2006.
[18] “Problems and Priorities”, PollingReport.com.
[19] Sunday Express, 6 aprile 2008.
[20] States News Service, Immigration Fact Check: Responding to Key Myths, 22 giugno 2007.
[21] Internationalism, n°139, estate 2006: Manifestazioni di immigrati: SI all’unità con la classe operaia! NO all’unità con gli sfruttatori!”
Pubblicheremo prossimamente nella nostra stampa un testo più lungo in omaggio al compagno. Vogliamo allo stesso tempo far conoscere la nostra solidarietà ai compagni di Jerry, alla sua famiglia ed ai suoi amici, e la nostra determinazione a proseguire il lavoro rivoluzionario nel quale il compagno credeva con tanta passione
Durante il mese di gennaio si sono sviluppati numerosi scioperi e manifestazioni in Algeria[1]. Coscienti del “cattivo esempio” e della riflessione che questo avrebbe potuto suscitare in una parte del proletariato, dato che gli operai immigrati non avrebbero potuto non sentirsi legati a queste esperienze, la borghesia si è guardata bene da far sapere la cosa!
Le manifestazioni di disoccupati a Annaba (Algeria dell’est) e di proletari particolarmente poveri un po’ dappertutto, gli scioperi operai ad Oran, Mostaganem, Costantine e soprattutto nella periferia industriale di Algeri che è stata teatro di un’agitazione molto importante, ecco l’oggetto del black-out. In seguito all’accelerazione brutale della crisi economica, con l’inflazione e la caduta del potere d’acquisto, sotto i colpi dei diversi attacchi, la classe operaia, che era stata indebolita in questi ultimi anni, ha di nuovo alzato la testa! Un’ondata di collera montante in molte regioni e quartieri urbani, un mugugno che si è generalizzato in particolare nel cuore del settore industriale.
È soprattutto la zona di Rouiba (sobborgo industriale ad est di Algeri) con più di 50.000 lavoratori, che è stata localmente sotto le luci della ribalta. Qui nessuno ha dimenticato che è in questo calderone in ebollizione che ha avuto inizio nel 1988 “la sommossa del semolino”[2].
Ma contrariamente a quest’ultima che era stata la ribellione di una popolazione morta di fame, quella di strati non sfruttatori, questa volta abbiamo assistito ad una mobilizzazione più specifica del proletariato, con le sue proprie rivendicazioni, quelle che appartengono da sempre al movimento operaio: la lotta per i salari, per la difesa delle pensioni, contro i licenziamenti…
I lavoratori della SNVI (società nazionale dei veicoli industriali, ex-SONACOM) sono stati i primi a lanciarsi nella battaglia. Il governo aveva deciso a fine 2009 di sopprimere la possibilità per questi salariati di andare in pensione anticipata (misura in vigore dal 1998). In risposta, lo sciopero si è rapidamente esteso toccando sia le imprese del settore pubblico che quelle del privato e arrivando a più di 10.000 scioperanti. I salariati di Mobsco, di Cameg, Hydroaménagement, ENAD, Baticim e di altre imprese si sono quindi aggiunti alla lotta per solidarietà con i loro fratelli di classe. Gli operai si sono successivamente scontrati con ingenti forze di polizia anti-sommossa nel centro della città, dove li avevano trascinati i sindacati[3].
Parallelamente a queste lotte nella capitale, sullo fondo di incessanti e tumultuose rivolte di giovani senza lavoro, 7.200 operai del complesso siderurgico di Arcelor Mittal di El Hadjar, situato a Annaba (600 km ad est di Algeri), si sono messi in sciopero contro la programmata chiusura della cokeria e la soppressione di 320 posti di lavoro. Di fronte all’inasprimento di questo sciopero “generale-illimitato” ed alla determinazione degli operai, la direzione depositava un reclamo presso il governo per sospendere questo sciopero che giudicava “illegale”. Anche in questo caso il sindacato UGTA è stato un prezioso alleato nel sabotare il movimento chiamando gli operai a riprendere il lavoro ed accettare per oro colato la promessa della direzione di investire “per riabilitare la cokeria”. La realtà é che la ristrutturazione è inevitabile e l’idea di riabilitazione semplice polvere negli occhi. Ma questo il sindacato non poteva dirlo! Tutta quest’effervescenza sociale in Algeria degli ultimi tempi mostra sia l’emergere di una crescente combattività in alcune regioni del globo, sia il potenziale del proletariato mondiale.
WH (23 gennaio)
(da Revolution Internationale, n. 409)
[1] Le nostre fonti provengano da diversi siti internet: www.prs12.com/spip.php?article11934 [52], www.mico.over-blog.org [53], www.afrik.com/greve-en-algerie-arcelormittal-contre-attaque [54] e da informazioni prese da El Watan, giornale algerino in lingua francese.
[2] Rivolta scoppiata in reazione ad un brutale aumento del prezzo delle derrate di base la cui repressione da parte dell’esercito fece più di 500 morti (Vedi Revolution Internationale, n.314)
[3] In seguito a questi avvenimenti, scatenati dal nuovo accordo tripartito (governo-patronato-sindacato) che aveva ratificato questa nuova serie di attacchi, il dirigente del UGTA è stato trattato da “venduto”!
In secondo luogo queste riunioni si distinguono per il tempo che viene lasciato alla discussione. In generale vengono abbordati due diversi soggetti, ciascuno per la durata di una mezza giornata, e del tempo viene lasciato per prolungare le discussioni nei momenti conviviali che seguono.
Infatti, ed è questo il terzo aspetto singolare, lo scopo di questi incontri è anche quello di avvicinare le persone che condividono le stesse preoccupazioni e gli stessi interrogativi, anche se non condividono le stesse posizioni. Questo è il motivo per cui organizziamo anche dei momenti di incontro più informali, in particolare per mangiare assieme, che servono a prolungare la discussione ma in un quadro diverso.
A Lille, abbiamo scelto di ripartire le due discussioni in un week-end, il sabato pomeriggio e la domenica mattina, in modo che, grazie alla ristorazione e all’alloggiamento sul posto, è stato lasciato moltissimo tempo per gli scambi tra i partecipanti. Abbiamo ugualmente cercato di rendere possibile a delle persone lontane geograficamente di poterci raggiungere con il minimo disagio possibile.
I partecipanti all’incontro sono stati una trentina e venivano da tutta la Francia (Lille naturalmente, Parigi, Rouen, Nantes, Tolosa, Marsiglia, Lione), ed anche da Belgio e Olanda.
Ci sono state due discussioni: la prima dedicata all’ecologia ed alla capacità del capitalismo di evitare le catastrofi legate al riscaldamento climatico, all’inquinamento, ecc.; la seconda a Darwin, al darwinismo, agli istinti sociali e alla natura umana Riportiamo qui di seguito l’introduzione ed il resoconto sintetico della discussione che ne è seguita, entrambi prodotti da partecipanti alla riunione[1] Una discussione molto ricca che si è protratta fino a tarda serata ed è continuata tra i partecipanti anche durante la prima colazione della domenica mattina!
Approfittiamo dell’occasione per salutare il contributo di questi compagni e il loro impegno attivo nella riuscita di questo incontro. Tranne qualche dettaglio, siamo globalmente d’accordo con questi testi e in ogni caso quello che è importante è la loro capacità a riflettere la ricchezza di una discussione che ha permesso ad ogni partecipante, che sia intervenuto o meno, di trovarvi materiale per riflettere ed approfondire la propria concezione della natura umana. Perché quello che può sembrare in un primo momento una questione scientifica lontana dai bisogni della lotta di classe, è nei fatti un elemento essenziale per fondare la necessità e la possibilità di una società comunista. E’ comprendendo meglio la natura umana, l’esistenza di istinti sociali ed il loro ruolo nello sviluppo della civilizzazione, che si può meglio definire in cosa il capitalismo costituisce intrinsecamente un ostacolo al progresso della specie umana e il comunismo il quadro indispensabile della sua emancipazione.
CCI
L’anno 2009 è stato l’anno dedicato a Darwin: anniversario della sua nascita avvenuta 200 anni fa nel 1809 e anniversario della sua opera più famosa, L’origine delle specie, scritto 150 anni fa nel 1859. Molte riviste e rotocalchi hanno dato risalto a Darwin e alla sua teoria molto nota della selezione naturale. La borghesia si è ben presto interessata a questa teoria, ma per poterla snaturare. Chi non ha seguito un corso o letto un articolo o visto una trasmissione sulla teoria della selezione naturale tendente a ridurre questa teoria al fatto che la selezione naturale sarebbe “la selezione degli individui più forti”. C’è da chiedersi perché la borghesia e i suoi scienziati si diano tanto da fare per traviare questa teoria. E’ chiaro che la risposta principale deriva dal fatto che la didattica darwiniana pone direttamente la questione della natura umana e risulta essere una questione di primaria importanza sul piano ideologico per la nascente società capitalista.
Ma allora quel è la concezione della scienza e del mondo che questa teoria apporta realmente? E come tenta la borghesia di distruggere i reali apporti di Darwin? Ed infine, come risolvere questa questione della natura umana?
· La teoria della selezione naturale
Darwin, figlio di un medico, interrompe i suoi studi di medicina per seguire una carriera da naturalista. Egli fece un viaggio di esplorazione di 5 anni attorno al mondo durante il quale osservò numerose specie animali e vegetali: in questo modo ebbe l’occasione di annotare numerose somiglianze tra diverse specie viventi o fossili. Studiò, grazie a numerose indagini svolte presso allevatori e agricoltori, le modalità per creare delle nuove specie. Da queste osservazioni dedusse che se gli allevatori e gli agricoltori riuscivano a far variare delle specie ed a utilizzare queste variazioni per creare nuove specie era perché queste specie contenevano naturalmente in sé stesse la capacità di variare: si tratta della variabilità. Dunque le specie naturali possono ugualmente variare, ma come e perché questo avviene? Come? Per selezione naturale (non esercitata dall’uomo) che seleziona gli individui più adatti a sopravvivere in un dato ambiente. Perché? E’ qua che entra in gioco la legge di Malthus: dopo aver letto i lavori di Malthus, Darwin comprende che applicati alle specie animali e vegetali, questi avrebbero permesso di colmare alcune lacune per ancorare la sua teoria alla realtà dell’evoluzione. Perché questa selezione? Semplicemente perché nascono più individui per ogni specie di quanti ne possano sopravvivere.
· La fine del “fissismo” e della teologia scientifica
Risolvere queste questioni e spiegare il meccanismo dell’evoluzione permette alla scienza di uscire dal giogo del fissismo che vuole che ogni specie sia stata creata da Dio e che esse siano sempre esistite identiche a come sono oggi. E’ ciò che mostra molto bene Pannekoek nella sua brochure Marxismo e Darwinismo: degli scienziati come Lamarck avevano già elaborato delle teorie trasformiste per spiegare la variabilità delle specie animali e vegetali, solo che non potendo provare né spiegare il meccanismo che permette che nuove specie animali e vegetali nascano a partire da specie precedenti, queste teorie erano rimaste allo stato di ipotesi e Dio restava il creatore di questa variabilità.
Uno degli apporti maggiori di Darwin è di aver dimostrato che le specie attuali sono il frutto di una lunga evoluzione che si è prodotta attraverso la selezione naturale nel quadro della lotta per l’esistenza: egli introduce dunque nelle scienze del XIX secolo, governate dalle classificazioni, il principio dell’evoluzione e distrugge, non senza contrasti, il giogo della religione.
· Darwinismo e marxismo
Cosa apporta Darwin ai marxisti e al movimento operaio? Pannekoek, rivoluzionario dell’inizio del XX secolo, mostra a che punto le due teorie e metodi siano legati: “Appare dunque che il marxismo e il darwinismo non sono due teorie indipendenti che si applicherebbero ognuna al loro specifico dominio, senza alcun punto in comune tra di loro. In realtà le due teorie sono rette dallo stesso principio”. Un secolo più tardi, Patrick Tort, direttore dell’Istituto Charles Darwin International scrive, parlando delle teorie di Marx, Darwin e Freud: “La combinazione di queste molteplici prospettive nell’elaborazione di una teoria generale del divenire della civilizzazione costituisce, in effetti, uno dei compiti scientifici del materialismo di oggi”. Del resto Engels aveva scritto a Marx: “Questo Darwin, che sto studiando in questo periodo, è proprio sensazionale. Non era mai stato fatto un tentativo così importante per dimostrare che vi è uno sviluppo storico della natura.” (Lettera di Engels a Marx, 11 dicembre 1859). L’apporto di Darwin è di fatto lo stesso di quello di Marx, è quello di un ragionamento dialettico che introduce l’evoluzione nel metodo di analisi permettendo così di comprendere il mondo sotto una luce nuova: quello di un mondo in costante evoluzione. Così come ogni specie non è eterna ma si trasforma, allo stesso modo il capitalismo non è un fine in sé.
Da questo fatto si pone allora una questione fondamentale: se la specie umana è il frutto di una evoluzione, è essa stessa sottomessa al principio della selezione naturale? Darwin impiegherà undici anni per abbordare questa questione nella sua opera misconosciuta e tuttavia maggiore: L’origine dell’uomo. Durante questo tempo, i sapienti della borghesia vittoriana, sottomessi alla potente ideologia di un capitalismo fiorente, hanno saputo vedere l’interesse che potevano trarne a colmare questo vuoto “a modo loro”.
Purtroppo questa mistificazione è ancora molto presente oggi ed ha un grosso peso all’interno della classe operaia.
· Il darwinismo snaturato
Il principale ispiratore del «darwinismo sociale» é Spencer (1823-1903) che applica tal quale la teoria della selezione naturale all’uomo, proponendone di passaggio una rilettura. Egli ha tradotto “lotta per l’esistenza” (che è d’altra parte la sola forza considerata per spiegare la nascita di nuove specie) con “concorrenza generalizzata tra individui”, secondo l’espressione di P. Tort, e “selezione naturale” con “sopravvivenza dei più adatti”. Egli sosterrà la sua teoria con esempi presi dal mondo animale che saranno molto criticati da Pannekoek: “Non è ai predatori, che vivono in maniera separata e che sono animali presi a modello dai darwinisti borghesi, che l’uomo deve essere paragonato, ma a quelli che vivono socialmente”. Così il sistema capitalista nascente è all’immagine della natura e i meno adatti devono essere eliminati senza riguardi e senza aiuti. E’ chiaro che Darwin viene letto ancora oggi con le lenti di Spencer, lenti a favore dello spirito di concorrenza che regnava presso i promotori e i sostenitori dell’industria inglese dell’epoca vittoriana. Processo molto ben dimostrato da Pannekoek che descrive molto chiaramente l’errore fatto da questi pensatori: “Essi hanno dedotto dalle leggi che governano il mondo animale, a cui la teoria darwiniana si applica, ciò che è in conformità con questa teoria, e di lì l’ordine naturale che deve durare per sempre”.
Una frangia della borghesia è andata anche oltre nello snaturamento dell’opera di Darwin con Galton, il pensatore precursore del razzismo scientifico. L’eugenica[2] era ostile alla riproduzione dei poveri, degli handicappati fisici e mentali, ritenuti essere un ostacolo all’incremento numerico degli uomini superiori. Mentre Spencer predica un liberalismo totale (nessun aiuto per soccorrere i poveri e gli sfaccendati), Galton spinge verso un intervento coercitivo e limitativo delle nascite. E’ noto come in seguito il nazismo spingerà questa teoria all’estremo servendosene come cauzione scientifica.
· La smentita di Darwin
Darwin ha risposto lui stesso a queste letture deviate della sua opera e alla sua estrapolazione sbagliata.
Darwin ha smentito Galton ben prima che questi snaturasse il suo pensiero esprimendo sin dai suoi primi testi un deciso antirazzismo: “Man mano che l’uomo avanza nella sua civilizzazione, e che le piccole tribù si riuniscono in comunità più grandi, la semplice ragione dovrebbe avvertire ogni individuo che deve estendere i suoi istinti sociali e la sua simpatia a tutti i membri della stessa nazione, anche se gli sono personalmente sconosciuti. Una volta raggiunto questo punto, solo una barriera artificiale può impedire che le sue simpatie si estendano agli uomini di tutte le nazioni e di tutte le razze. È vero che se questi uomini sono separati da lui da grandi differenze di aspetto o di abitudini, l’esperienza purtroppo ci mostra quanto tempo ci voglia perché li osserviamo come nostri simili”. Non è necessario aggiungere altro.
E contro Spencer scrive: “L’aiuto che noi ci sentiamo spinti a dare a quelli che sono privi di soccorsi è per l’essenziale una conseguenza inerente all’istinto di simpatia, che fu acquisito in origine come una parte degli istinti sociali, ma che è stato in seguito, nella maniera indicata in precedenza, reso più delicato ed esteso più ampiamente” Darwin ricorda ciò che è mancato nella lettura di Spencer: la natura seleziona ugualmente gli istinti e nell’uomo come per l’insieme degli animali sociali ha selezionato gli istinti sociali ed è proprio questo che pone problemi alla borghesia perché ciò non rientra nel suo quadro di analisi e nella sua dottrina.
· Altre letture di Darwin
Anche se certi rivoluzionari sono caduti nella trappola di voler contrastare queste teorie utilizzando lo stesso metodo dei pensatori borghesi, cioè volendo dimostrare che è il comunismo il sistema sociale naturale per l’umanità, altri hanno compreso molto bene la sua opera, come il già citato Pannekoek,. Fervente difensore degli apporti di Darwin, egli mostra l’importanza della questione della socialità dell’uomo che è molto presente nella seconda opera di Darwin, L’origine dell’uomo, che fa giustizia punto per punto delle teorie del darwinismo sociale. Pannekoek, appoggiandosi su Kautsky, scrive: “Quando un certo numero di animali vivono in gruppo, in gregge o in branco, essi conducono in comune la lotta per l’esistenza contro il mondo esterno; all’interno la lotta per l’esistenza cessa. […] E’ grazie a questa forza unita che gli erbivori senza difesa possono contrastare i predatori”. E’ per questa sfumatura molto importante che è impossibile applicare la teoria della selezione naturale in maniera schematica: essa fa riferimento più a una dialettica della natura che a una legge immutabile. Alcuni specialisti attuali, come Patrick Tort, vanno oltre e parlano di un “effetto reversibile della selezione naturale” che può riassumersi con questa semplice frase: la selezione naturale seleziona degli istinti sociali che escludono dei comportamenti eliminatori. La selezione naturale, attraverso gli istinti sociali, ha selezionato la civilizzazione che si oppone alla selezione naturale. Secondo P. Tort, Darwin riconcilia dunque la natura e la cultura. Non dettaglio ulteriormente su questo punto in quanto avremo occasione di tornarci nel dibattito.
Allora, a proposito di queste letture di Darwin, che ne è della natura umana?
A proposito delle varie opere citate finora, ci si può chiedere se vi è una natura umana, una facoltà propria all’uomo e a lui solo. O se per caso è inutile toccare questo argomento.
· Una visione borghese da combattere
Quando si pone questa questione, si pone di fatto una questione relativamente complicata. La borghesia ci ficca nella testa dalla più tenera età che l’uomo è per natura violento, guerriero, individualista, opportunista per giustificare ideologicamente i suoi fallimenti e gli orrori che il suo sistema ha generato, così come per inibire la fiducia della classe operaia nel fatto che essa sia capace di unirsi per lottare contro questo sistema di sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Ma io penso che non si debba cadere nell’eccesso opposto e voler dimostrare ad ogni costo che l’uomo è per natura solidale, altruista, buono e pacifico perché questo approccio non è scientifico ma dottrinale e non permette di comprendere l’uomo. Questo approccio sulla natura violenta dell’uomo conduce ineluttabilmente ad una cattiva comprensione del mondo e della natura nel suo insieme. E’ necessario distruggere questo pensiero nei ranghi della classe operaia perché è un ostacolo reale alle lotte proletarie erodendo la fiducia della classe operaia in sé stessa e banalizzando il pericolo del “no future”: poiché l’uomo è naturalmente malvagio, non ci sarà mai la possibilità di uscire da questo sistema che dovrà essere sopportato in eterno.
· La fine di questo concetto
Per quanto mi riguarda, io penso che non esista una natura umana. L’uomo non è niente per natura, né buono né cattivo. L’uomo si spiega attraverso il materialismo storico e la teoria dell’evoluzione delle specie. P. Tort scrive a pag. 154 del suo libro Effetto Darwin: “Tra le facoltà umane e gli abbozzi animali da cui le prime derivano per il gioco dei vantaggi selettivi,non può esserci, secondo la formula consacrata, che una differenza di grado e non di natura.» L’uomo è un animale come gli altri: differisce dalla giraffa come questa differisce dalla scimmia. A voler cercare lo specifico dell’uomo, si adotta una condotta votata al fallimento nella comprensione dell’uomo perché lo si priva delle sue origini. Non vi è rottura tra natura e cultura ma piuttosto una dialettica: la morale, il linguaggio non sono altro che il risultato della selezione naturale che ha selezionato gli istinti sociali che hanno condotto l’uomo a sviluppare il linguaggio, la morale base delle civilizzazioni. L’uomo non è per natura solidale, semplicemente nella sua lotta per l’esistenza la protezione dei più deboli e l’aiuto reciproco furono un vantaggio e furono dunque selezionati. Non si tratta di trovare in cosa l’uomo è unico ma come nella sua origine animale egli sviluppa delle differenze che lo portano a questa condizione di uomo contemporaneo.
· Le differenze umane
L’uomo si distingue per l’ampiezza delle sue facoltà che si trovano sviluppate in maniera molto più importante che negli animali sociali. A cosa corrisponde questo? E’ ciò conseguenza, come asserisce Pannekoek, del fatto che l’uomo, fortemente sguarnito sul piano delle sue facoltà fisiche, ha sviluppato degli istinti sociali molto più complessi per essere meglio armato così come ha costruito attrezzi, prolungamento degli organi animali che rispondono a questa funzione, assenti nell’uomo? Lo stesso sviluppo di un linguaggio elaborato non sorge per comunicare all’interno di gruppi che contano sempre più membri di fronte alla necessità di far fronte ad eventuali predatori e che avrebbe condotto l’uomo ad un livello di conoscenza molto elevata conducendolo ad un livello di coscienza molto elaborato di sé stesso e degli altri?
Sviluppare la questione che penso favorirà il dibattito: come conciliare il fatto che studi recenti dimostrano che la selezione naturale ha favorito nella specie umana lo sviluppo di comportamenti di aiuto reciproco e di altruismo, con il fatto che si assiste oggi ad un forte sviluppo di comportamenti individualisti? Alla selezione naturale non si sovrappone per caso una selezione sociale?
La discussione che è seguita alla presentazione ha abbordato i seguenti soggetti:
1) L’apporto della teoria di Darwin
2) Darwinismo e marxismo
3) L’interpretazione della teoria di Darwin da parte della borghesia
4) Cosa è la selezione naturale?
5) Si può parlare di una natura umana?
6) Concorrenza ed altruismo
7) Interesse della discussione
1) L’apporto della teoria di Darwin
Numerosi interventi hanno sottolineato il carattere innovatore, per la sua epoca, di questa teoria. In effetti, essa è rivoluzionaria (anche se prima di Darwin altri scienziati avevano cominciato a comprendere la questione) perché rimette totalmente in causa le credenze, i principi dati fino a quell’epoca per intangibili ed imposti all’insieme della società come verità indiscutibili.
Quali erano queste verità? Il mondo vivente, piante ed animali, è fisso, non si trasforma. Esso è il prodotto della volontà di un creatore. La teoria dell’evoluzione costituisce dunque una rottura totale e completa con le teorie fissiste, creazioniste e teologiche dominanti all’epoca. Essa mette in evidenza che esiste un meccanismo, quello della selezione naturale, che spiega come delle nuove specie possano essersi originate da altre specie. Con la teoria di Darwin viene esposta una prima spiegazione scientifica del mondo che ci circonda: il mondo evolve sotto l’azione congiunta di più fattori.
2) Darwinismo e marxismo
Dal punto di vista metodologico questa teoria è vicina al marxismo perché l’una come l’altro, avendo un atteggiamento scientifico basato su nessun apriorismo, nessun pregiudizio, impiega un metodo materialista. Se ne può concludere che Darwin è marxista e che il darwinismo è una concezione proletaria?
La teoria di Darwin non è diretta contro la borghesia. Non ha scopi politici poiché la sua intenzione non è cercare di stabilire frontiere di classe tra il proletariato e la borghesia. Quando Darwin espone la sua teoria, la borghesia applaude a piene mani perché capisce che può servirsene contro le vecchie classi. Così la classe ascendente si approprierà di questa teoria, come di altre teorie scientifiche dell’epoca, e se ne servirà per scalzare le basi ideologiche del vecchio regime. Queste basi politiche essendo poggiate sul concetto “di diritto divino” non hanno alcun fondamento, dunque il potere che ne deriva non ha alcuna legittimità.
La discussione ha d’altra parte ribadito che non c’è una scienza borghese o proletaria. C’è una classe sociale, il proletariato, che si nutre dei lavori degli scienziati al fine di arricchire la sua comprensione del mondo per poter darsi i mezzi per trasformarlo.
3) L’interpretazione della teoria di Darwin da parte della borghesia
Come tutte le classi sfruttatrici che l’hanno preceduta, la borghesia, per mantenere il proprio dominio, ha forgiato una propria ideologia. Questo è stato il secondo aspetto sviluppato nella discussione. La borghesia ha deviato l’interpretazione fatta da Darwin dell’evoluzione e l’ha ridotta a livello della sola competizione tra gli individui. Per la borghesia la competizione è legata in maniera stretta e necessaria alla natura umana. Così essa confonde le coscienze e fa dell’uomo un essere violento, guerriero, un assetato di potere, ecc,…
La concezione dell’evoluzione sarà utilizzata sul piano politico, svuotandola completamente del suo contenuto, dai difensori del “darwinismo sociale”. Secondo questa teoria, la selezione è lo stato naturale delle relazioni sociali e il motore dell’evoluzione umana. Così si giustifica la gerarchizzazione della società fino a predicare l’eliminazione dei più deboli.
Per il marxismo, non vi è nessuna causa naturale, ma delle cause materiali che si trovano all’interno dei rapporti di produzione. Sono questi rapporti che condizionano i rapporti sociali e che provocano dei rapporti di concorrenza. In questo senso queste forme non sono immutabili come vorrebbe farci credere la borghesia, esse possono essere superate solamente attraverso l’instaurazione di una società comunista.
4) Cosa è la selezione naturale?
L’evoluzione non si è operata grazie all’uso e all’utilizzazione intensa di certi organi. Ad esempio, la giraffa non ha sviluppato un lungo collo perché doveva cercare del cibo sui rami più alti. Il suo collo si è sviluppato per selezione, eliminando nella popolazione delle giraffe quelle il cui collo non era adatto, conservando ed estendendo all’insieme della popolazione delle giraffe il tratto, il carattere di un collo lungo necessario alla sopravvivenza della specie. L’evoluzione non si fonda dunque soltanto sul caso, ma si manifesta anche attraverso una selezione dei caratteri favorevoli che si estendono all’intero gruppo.
La trasmissione si fa attraverso gli individui, i genitori trasmettono ai loro figli le loro particolarità, ma allo stesso tempo i figli non sono “una copia conforme dei loro genitori”, essi divergono dai loro ascendenti. Senza questa variazione, sarebbe totalmente impossibile avere un processo evolutivo col quale, grazie a delle divergenze crescenti, appare una nuova specie.
La teoria di Darwin della discendenza modificata dalla selezione naturale fa dell’uomo non un essere a parte, ma un essere che si ricollega al mondo animale. E’ stato mostrato che molte capacità che si credevano specifiche dell’uomo sono presenti anche negli animali. La fabbricazione di strumenti, la nozione di bello, delle forme di compassione sono alcuni esempi tra altri del legame che unisce l’uomo agli animali.
5) Si può parlare dell’esistenza di una natura umana?
E’ difendibile la pertinenza di una classificazione del mondo vivente? La discussione ha mostrato delle sfumature o delle divergenze su queste questioni.
a) Il primo punto di vista ha difeso l’idea secondo cui non esiste una natura umana. Ciò non implica che non esistano differenze tra gli uomini e gli animali. Non vi è che una differenza di grado, e dire che esiste una natura umana significa cercare una facoltà che sarebbe specifica all’uomo e a lui solo. Come dice Patrick Tort nel suo libro, Effetto Darwin: “A voler cercare lo specifico dell’uomo, si adotta un approccio votato al fallimento nella comprensione dell’uomo perché lo si priva delle sue origini”.
b) Un secondo intervento ha insistito sull’idea secondo la quale le specie, le classificazioni, sono una realtà in quanto concetto ma non hanno concretezza scientifica. Vi è un carattere arbitrario nelle nozioni di razza e di specie di cui occorre sbarazzarsi. Così categorizzare diversi gruppi umani sulla base della razza, è scientificamente aberrante. I progressi della genetica oggi spingono a rigettare ogni classificazione razziale e devono servire a criticare duramente tutto il contenuto di ineguaglianza contenuto nelle teorie razziste.
c) Nel corso della discussione si è espresso un terzo punto di vista che ha difeso l’esistenza di una natura umana. L’uomo si è staccato dal mondo animale e se ne è distinto. Nel corso della sua evoluzione, egli ha sviluppato delle facoltà proprie. Egli ha avuto la capacità di sviluppare degli strumenti di altissima tecnologia, ha avuto la capacità di esprimere e di comunicare il suo pensiero attraverso delle espressioni vocali o grafiche o ancora la capacità di prendere coscienza della sua propria esistenza. Egli ha effettuato nel corso della sua evoluzione un passo qualitativo molto importante che non fa di lui l’essere supremo ma l’essere che ha una responsabilità su ciò che lo circonda.
d) Un’altra insistenza presente nella discussione era che una delle basi essenziali contenute nella teoria della trasformazione è l’idea che esiste un processo continuo che si oppone dunque a ogni idea di rottura. Così l’uomo e l’animale hanno dei caratteri comuni. Il processo è stato dunque continuo, non vi è stata rottura tra il punto di partenza costituito dall’apparizione della cellula e lo stadio attuale, quello dell’uomo.
e) La nozione di specie ha una realtà. La specie si definisce come l’insieme di individui, animali o vegetali simili per aspetto, per il loro habitat, fecondi tra di loro, ma sterili con ogni altro individuo di un’altra specie. La scienza mantiene dei principi fino al momento in cui la realtà descritta fino a quel momento viene messa in causa da nuove scoperte. Le nozioni di specie e di razza non sono evidentemente dei criteri assoluti, le loro frontiere possono essere piuttosto sfumate; esse hanno un senso pratico ed efficiente per definire uno stato, una cosa.
6) Concorrenza ed altruismo
Per cercare di comprendere la questione, bisogna porla senza dimenticare di fare il legame tra la biologia evolutiva (analisi del mondo vivente e della sua evoluzione) e studio della dimensione sociale dell’uomo (l’antropologia). In effetti la selezione naturale non si limita a selezionare delle variazioni organiche. Essa seleziona anche degli istinti individuali e collettivi che sono fondamentali per spiegare il processo che conduce alla civilizzazione.
Così l’evoluzione si caratterizza per il passaggio da uno “stato naturale” retto essenzialmente dalla legge della selezione naturale a uno stato “civilizzato” nel quale si sviluppano dei comportamenti che si oppongono alla legge della selezione naturale. La disposizione di carattere che spinge a interessarsi degli altri, a mostrarsi generosi e disinteressati è l’essenza stessa dell’uomo. Ma questa non è soltanto innata, é anche il prodotto della struttura sociale, delle regole che questa si dà e che conducono a rispettare gli altri uomini. Alla luce di tutte le esperienze scientifiche che sono state condotte (testi su bambini piccoli, studi su alcune tribù), è stato dimostrato che nell’uomo esistono alla base sentimenti di altruismo e comportamenti sociali.
7) Interesse della discussione.
Nel 19° secolo il dibattito aveva una funzione essenziale, quella di lottare contro tute le interpretazioni religiose del mondo. C’era una vera e propria guerra tra i sostenitori di una visione idealista del mondo ed i difensori di una visione materialista. Oggi, con la crisi del capitalismo, la borghesia ha bisogno di lanciare delle campagne ideologiche specialmente sulla teoria di Darwin. Marx ed i marxisti hanno all’epoca risposto a tutte queste questioni, bisogna dunque ricentrare il dibattito rispetto a questa questione.
Conclusioni: Dal dibattito è emerso con chiarezza che la teoria di Darwin è stata innovatrice. Essa si fonda su un principio, un principio dinamico, un principio di evoluzione del mondo vivente mostrando quale è il motore di questa evoluzione. La questione della natura umana (se esiste o meno) è una questione importante. Questa deve permetterci di comprendere quali saranno i fattori che determineranno i rapporti tra l’individuo e la società comunista. La discussione non ha, purtroppo, affrontato sufficientemente le questioni degli istinti sociali e della morale.
(Tratto, Journées de discussion à Lille (II) :Darwin : les instincts sociaux, la morale, la nature humaine [56], ICConline, 18 gennaio 2010).
[1] Un resoconto della prima discussione è pubblicato sulla pagina in lingua francese del nostro sito https://fr.internationalism.org/icconline/2009/compte_rendu_des_journees_de_discussion_de_lille_ecologie.html [57].
[2] eugenica (sf.) genètica, sf. Disciplina della biologia che studia il possibile miglioramento della specie umana intervenendo sul patrimonio genetico ereditario allo scopo di eliminare caratteri negativi o favorire quelli positivi. (www.dizi.it [58]).
Assassini! Il capitalismo, i suoi Stati, la sua borghesia, non sono niente altro che assassini. Decine di migliaia di persone perdono la vita per colpa di questo sistema disumano.
Martedì, alle 16.53, ora locale, un sisma di magnitudo 7 della scala Richter ha devastato Haiti. La capitale Port-au-Prince, bidonville tentacolare che conta circa due milioni d’abitanti, è stata puramente e semplicemente rasa al suolo. Il bilancio è terribile e si aggrava di ora in ora. Quattro giorni dopo la catastrofe, in questo venerdì 15 gennaio, la Croce Rossa conta già dai 40.000 ai 50.000 morti e “un’enorme quantità di feriti gravi”. Secondo questa associazione caritatevole, tre milioni di persone sono state colpite direttamente dal terremoto[1]. In pochi secondi, 200.000 famiglie hanno perso la “casa”, spesso messa su arrangiando oggetti tra i più svariati. Anche i grandi edifici sono crollati come castelli di sabbia. Le strade, già fatiscenti, l’aeroporto, le vecchie linee ferroviarie … niente ha resistito.
La ragione di questa carneficina è nauseante. Haiti è uno dei paesi più poveri del mondo, il 75% degli abitanti sopravvive con meno di 2 dollari al giorno ed il 56% con meno di 1 dollaro! Su questo lembo di isola colpita evidentemente dall’impronta della miseria, niente è stato costruito per far fronte ai terremoti. Eppure Haiti è una zona notoriamente sismica. Tutti quelli che oggi affermano che questa è stata una scossa eccezionalmente violenta ed imprevedibile, mentono. Il professore Eric Calais, in occasione di un corso di geologia tenutosi in questo paese nel 2002, ha affermato che l’isola è attraversata da “faglie capaci di generare terremoti di magnitudo tra 7.5 e 8 gradi”[2]. Anche le autorità politiche di Haiti erano ufficialmente a conoscenza di un tale rischio, come prova questo brano tratto dal sito dell’Ufficio delle Miniere e dell’Energia che dipende dal ministero dei lavori pubblici: “In ognuno dei secoli passati c’è stato almeno un sisma di dimensioni maggiori a Hispaniola (nome spagnolo di questa isola oggi divisa in due paesi, Haiti e Repubblica dominicana, NDR): distruzione di Port au Prince nel 1751 e 1771, distruzione di Capo haitiano nel 1842, sismi del 1887 e 1904 nel nord del paese con danni maggiori a Porto di Pace e Capo haitiano, sisma del 1946 nel nord-est della Repubblica dominicana accompagnato da uno tsunami nella regione di Nagua. Ci sono stati forti terremoti ad Haiti e ce ne saranno dunque anche in futuro, tra qualche decina di anni o un centinaio di anni: è un’evidenza scientifica”[3] (evidenziazione nostra). Ed allora, di fronte a questa “evidenza scientifica, quali sono state le misure prese? Nessuna! Ancora, nel marzo 2008, un gruppo di geologi ha lanciato l’allarme per il rischio di un forte sisma di grande ampiezza nell’arco dei due anni successivi ed alcuni scienziati hanno anche tenuto una serie di riunioni a maggio dello stesso anno su questo argomento con il governo haitiano[4]. Né lo Stato haitiano, né tutti gli Stati che oggi versano lacrime di coccodrillo e lanciano appelli alla “solidarietà internazionale”, Stati Uniti e Francia in testa, hanno preso la più piccola misura preventiva per evitare questo dramma prevedibile. Gli edifici costruiti in questo paese sono così fragili che non hanno neanche bisogno di un sisma per crollare: “già nel 2008, una scuola di Pétionville aveva seppellito, senza nessuna ragione geologica, circa 90 bambini”[5].
Adesso che è troppo tardi, Obama e Sarkozy possono anche annunciare una “grande conferenza internazionale” per “la ricostruzione e lo sviluppo”; gli Stati cinese, inglese, tedesco o spagnolo, possono anche inviare tutti i pacchi e le ONG che vogliono, ma non saranno meno criminali e le loro mani non saranno meno sporche di sangue.
Se Haiti è oggi così povera, se la sua popolazione è priva di tutto, se le infrastrutture sono inesistenti, è perché da più di 200 anni la borghesia locale e le grandi borghesie spagnola, francese ed americana si contendono le risorse ed il controllo di questo piccolo lembo di terra. Del resto, attraverso il suo quotidiano The Guardian, la borghesia britannica non manca di addossare una palese responsabilità ai suoi rivali imperialisti: “Questa nobile “comunità internazionale”, che oggi vediamo agitarsi per portare il suo “aiuto umanitario” ad Haiti, è in gran parte responsabile dei mali terribili che oggi tenta di attenuare. Da quando, nel 1915, gli Stati Uniti hanno invaso ed occupato il paese, ogni sforzo […] è stato violentemente e deliberatamente sabotato dal governo americano e dai suoi alleati. Il legittimo governo di Aristide […] ne è stato l’ultima vittima, rovesciato nel 2004 da un colpo di Stato che ha beneficiato di un sostegno internazionale, nel corso del quale parecchie migliaia di persone hanno perso la vita […] A dire il vero, dal golpe del 2004, è la comunità internazionale che governa Haiti. In questi ultimi cinque anni, questi paesi che adesso si precipitano al suo capezzale hanno tuttavia votato contro e sistematicamente ogni estensione del mandato della missione dell’ONU al di là della sua vocazione principalmente militare. I progetti che prevedevano di utilizzare una parte di questo “investimento” per ridurre la miseria o favorire lo sviluppo dell’agricoltura si sono trovati bloccati, conformemente alle tendenze a lungo termine che continuano a presiedere alla distribuzione di “aiuto” internazionale”[6].
E qui si tratta solo di una piccola parte di verità. Gli Stati Uniti e la Francia si battono per il controllo di quest’isola a colpi di golpe, di manovre e corruzione della borghesia locale da decenni, favorendo così lo sviluppo della miseria, della violenza e di milizie armate che terrorizzano continuamente uomini, donne e bambini!
Per questo l’attuale circolo mediatico sulla “solidarietà internazionale” è insopportabile e ripugnante, con la gara allo Stato che farà la maggior pubblicità alle “sue” ONG, ai “suoi” pacchi dono, o a quello che farà più bella figura per le vite che i “suoi” salvatori avranno tirato fuori dalle macerie. Ma c’è di peggio perché Francia e Stati Uniti continuano a farsi una guerra di influenza senza quartiere sulle rovine e sui cadaveri: in nome di un falso umanitarismo, mandano in zona la loro flotta militare cercando di prendere il controllo delle operazioni con la scusa della “necessità di un coordinamento dei soccorsi che richiede una direzione”.
Come per ogni catastrofe, tutte le dichiarazioni di aiuto a lungo termine, tutte le promesse di ricostruzione e di sviluppo, resteranno senza domani. Negli ultimi dieci anni, ci sono stati in seguito a terremoti:
- 15.000 morti in Turchia, nel 1999;
- 14.000 morti in India, in 2001;
- 26.200 morti in Iran, nel 2003;
- 210.000 morti in Indonesia nel 2004 (il sisma sottomarino aveva generato un gigantesco Tsunami provocando vittime fin sulle coste africane);
- 88.000 morti in Pakistan, nel 2005;
- 70.000 morti in Cina, nel 2008.
Ogni volta, la “comunità internazionale” si è commossa e ha inviato dei miserabili soccorsi; non sono mai stati realizzati veri investimenti per migliorare in modo durevolmente la situazione, per esempio costruendo edifici antisismici. L’aiuto umanitario, il sostegno reale alle vittime, la prevenzione non sono attività redditizie per il capitalismo. L’aiuto umanitario, quando esiste, serve solo a diffondere una cortina di fumo ideologica per far credere che questo sistema di sfruttamento può essere umano, quando non è un vero e proprio alibi per giustificare l’invio di forze militari per guadagnare influenza in una regione del mondo.
Basta questo fatto a smascherare tutta l’ipocrisia borghese dell’umanitarismo e della solidarietà internazionale degli Stati: il ministro francese dell’immigrazione, Eric Besson, ha decretato la “momentanea” sospensione del rinvio ad Haiti di tutte le persone in situazione irregolare! Non ci sono parole!
L’orrore che colpisce la popolazione che vive ad Haiti non può che suscitare un immenso sentimento di tristezza. La classe operaia, come durante ogni ecatombe, sta già reagendo rispondendo positivamente ai diversi appelli di donazione. Mostrerà ancora una volta che il suo cuore batte per l’umanità e che la sua solidarietà non conosce frontiere.
Ma soprattutto, un tale orrore deve alimentare la sua collera e la sua combattività. I veri responsabili degli oltre 50.000 morti ad Haiti non sono la natura o la fatalità ma il capitalismo ed i suoi Stati che sono altrettanti sciacalli imperialisti.
Pawel, 15 gennaio 2010
[1] Dal sito di Libération (quotidiano francese) www.liberation.fr/monde/0101613901-pres-de-50-000-morts-en-haiti-selon-l... [59].
[2] Sul blog “scienze” di Libération (sciences.blogs.liberation.fr/home/2010/01/s%C3%A9isme-en-ha%C3%AFti-les-causes.html).
[4] Vedere l’articolo in spagnolo Científicos alertaron en 2008 sobre peligro di terremoto ad Haiti sul sito Yahoomexico, Assiociated Press del 15/01/2010.
[5] Vedi il sito di Courrier International https://www.courrierinternational.com/article/2010/01/14/requiem-pour-port-au-prince [61].
[6] Vedi il sito di PressEurop, www.presseurop.eu/fr/content/article/169931-bien-plus-quune-catastrophe-... [62].
Collegamenti
[1] https://www.marxists.org/italiano/luxembur/1915/4/junius.htm
[2] https://it.internationalism.org/content/le-cause-della-prosperita-seguita-alla-seconda-guerra-mondiale-dibattito-interno-alla-cci
[3] https://fr.internationalism.org/content/3514/debat-interne-au-cci-causes-prosperite-consecutive-a-seconde-guerre-mondiale-ii
[4] https://fr.internationalism.org/content/3650/debat-interne-au-cci-causes-prosperite-consecutive-a-seconde-guerre-mondiale-iii
[5] https://fr.internationalism.org/rint138/debat_interne_au_cci_les_causes_de_la_periode_de_prosperite_consecutive_a_la%20_seconde_guerregmondiale_4.html
[6] https://fr.internationalism.org/rint141/la_surproduction_chronique_une_entrave_insurmontable_a_l_accumulation_capitaliste.html
[7] https://it.internationalism.org/tag/2/25/decadenza-del-capitalismo
[8] https://it.internationalism.org/tag/2/33/la-questione-nazionale
[9] https://it.internationalism.org/tag/3/49/imperialismo
[10] http://www.tgcom.mediaset.it/mondo/articoli/articolo495874.shtml
[11] https://world.internationalism.org
[12] https://it.internationalism.org/tag/2/29/lotta-proletaria
[13] https://it.internationalism.org/tag/4/70/francia
[14] https://it.internationalism.org/rziz/144_cervetto2
[15] https://it.internationalism.org/tag/4/75/italia
[16] mailto:[email protected]
[17] https://it.internationalism.org/tag/2/30/la-questione-sindacale
[18] https://it.internationalism.org/tag/4/77/polonia
[19] https://it.internationalism.org/tag/storia-del-movimento-operaio/1980-sciopero-di-massa-polonia
[20] http://www.controlacrisi.org/joomla/index....id=36&Itemid=68
[21] http://www.ilmattino.it/articolo.php?id=106773&sez=ECONOMIA
[22] http://www.theglobalcrisis.info/letteradeglieconomisti.it/
[23] https://it.internationalism.org/tag/situazione-italiana/lotte-italia
[24] https://napolioltre.forumfree.it/
[25] http://www.controlacrisi.org
[26] https://www.dirittidistorti.it/articoli/12-lavoro/261-dagli-operai-della-fiat-polonia-una-lettera-ai-lavoratori-di-pomigliano.html
[27] https://libcom.org/article/letter-fiat-workers-tychy
[28] mailto:[email protected]
[29] https://it.internationalism.org/tag/4/65/australasia
[30] https://it.internationalism.org/tag/3/45/cultura
[31] https://it.internationalism.org/files/it/images/2010TekelTurkey_3.articleimage.jpg
[32] http://www.cnnturk.com/2009/turkiye/12/05/erdogana.tekel.iscilerinden.protesto/554272.0
[33] http://www.evrensel.net/haber.php?haber_id=63999
[34] https://en.internationalism.org/icconline/2009/10/turkey
[35] http://www.kizilbayrak.net/sinif-hareketi/haber/arsiv/2009/12/30/select/roeportaj/artikel/136/direnisteki-tek.html
[36] https://tr.internationalism.org/ekaonline-2000s/ekaonline-2009/tekel-iscisinden-seker-iscisine-mektup
[37] https://it.internationalism.org/files/it/2010-05-01.pdf
[38] mailto:[email protected]
[39] https://it.internationalism.org
[40] https://it.internationalism.org/tag/vita-della-cci/interventi
[41] https://it.internationalism.org/tag/3/47/economia
[42] https://fr.internationalism.org/ri409
[43] https://it.internationalism.org/content/lunita-e-la-solidarieta-di-classe-uniche-armi-contro-gli-attacchi-e-contro-la
[44] https://it.wikipedia.org/wiki/1858
[45] https://it.wikipedia.org/wiki/1917
[46] https://it.wikipedia.org/wiki/Sociologia
[47] https://it.wikipedia.org/wiki/Antropologia
[48] https://it.wikipedia.org/wiki/Storia_delle_religioni
[49] https://it.wikipedia.org/wiki/Francia
[50] https://it.internationalism.org/tag/vita-della-cci/riunioni-pubbliche
[51] https://it.internationalism.org/tag/2/26/rivoluzione-proletaria
[52] http://www.prs12.com/spip.php?article11934
[53] http://www.mico.over-blog.org
[54] https://www.afrik.com/greve-en-algerie-arcelormittal-contre-attaque
[55] https://it.internationalism.org/tag/4/55/africa
[56] https://fr.internationalism.org/icconline/2010/journees_de_discussion_a_lille_ii_darwin_les_instincts_sociaux_la_morale_la_nature_humaine.html
[57] https://fr.internationalism.org/icconline/2009/compte_rendu_des_journees_de_discussion_de_lille_ecologie.html
[58] https://www.dizi.it/
[59] http://www.liberation.fr/monde/0101613901-pres-de-50-000-morts-en-haiti-selon-la-croix-rouge
[60] http://www.bme.gouv.ht/alea%20sismique/Al%E9a%20et%20risque%20sismique%20en%20Ha%EFti%20VF.pdf
[61] https://www.courrierinternational.com/article/2010/01/14/requiem-pour-port-au-prince
[62] http://www.presseurop.eu/fr/content/article/169931-bien-plus-quune-catastrophe-naturelle