"La guerra è un omicidio metodico, organizzato, gigantesco. Tuttavia, per ottenere un omicidio sistematico in uomini normalmente costituiti, è necessario prima produrre un'intossicazione appropriata. Questo è sempre stato il metodo abituale dei belligeranti. La bestialità dei pensieri e dei sentimenti deve corrispondere alla bestialità della pratica, deve prepararla e accompagnarla."(Rosa Luxemburg, La crisi della socialdemocrazia, 1915).
I terribili scontri che insanguinano ancora una volta il Medio Oriente stanno confermando di nuovo ciò che la grande rivoluzionaria Rosa Luxemburg scriveva in carcere nel 1915. I miliziani di Hamas che il 7 ottobre 2023 hanno commesso atroci crimini contro le popolazioni civili israeliane, donne, bambini e anziani, non avrebbero potuto comportarsi con tale barbarie se non fossero stati condizionati, con un lavaggio sistematico del cervello da parte dell'organizzazione islamista che gestisce la Striscia di Gaza.
Allo stesso modo, se oggi la stragrande maggioranza della popolazione israeliana approva i criminali bombardamenti e l'offensiva di terra contro gli abitanti di Gaza, che hanno già causato migliaia di morti tra i civili, è perché ha subito un terribile trauma con il massacro del 7 ottobre, ma anche perché anch'essa è stata vittima di decenni di condizionamento da parte delle autorità israeliane e dei differenti partiti della borghesia.
Con la guerra tra lo Stato di Israele e Hamas, assistiamo ancora una volta all'utilizzo, da parte delle varie forze politiche che difendono la perpetuazione dell'ordine capitalistico, di un metodo che la classe sfruttatrice ha utilizzato su larga scala fin dall'inizio del XX secolo per giustificare la barbarie della guerra: evidenziare le atrocità commesse dal "nemico" per giustificare... le proprie atrocità. Gli esempi non sono mancati nel corso del Novecento, il secolo in cui il sistema capitalista è entrato nel suo periodo di decadenza.
Certo, la guerra esisteva da molto prima di questo periodo, così come le giustificazioni offerte da coloro che la conducevano. Ma le guerre del passato non avevano mai assunto la forma di una guerra totale, mobilitando tutte le risorse della società e coinvolgendo l'intera popolazione, come avvenne a partire dal 1914.
Fu durante la prima guerra mondiale che i governi dei paesi belligeranti si occuparono, in modo organizzato e sistematico, della propaganda necessaria a mobilitare ampi settori della popolazione di un paese.
Le confessioni dei difensori dell'ordine capitalista
Abbiamo già dedicato un articolo della nostra stampa sulla propaganda "in vista dell'assassinio sistematico", volta a "produrre un'adeguata intossicazione negli uomini normalmente costituiti", come scrisse Rosa Luxembourg. Invitiamo i nostri lettori a leggere per intero questo articolo, "Nascita della democrazia totalitaria"[[1]], pubblicato nel 2015, di cui citeremo qui solo alcuni brevi estratti. In particolare, l'articolo cita ampiamente un'opera di Harold Lasswell, pubblicata nel 1927, intitolata Tecnica della propaganda nella guerra mondiale [1].[[2]]
Ecco alcuni passaggi:
"La resistenza psicologica alla guerra nelle nazioni moderne è così grande che ogni guerra deve apparire come una guerra di difesa contro un aggressore minaccioso e assassino. Non ci devono essere ambiguità su chi il pubblico debba odiare. La causa della guerra non deve essere un sistema mondiale di conduzione degli affari internazionali, né la stupidità o la malizia di tutte le classi dirigenti, ma la rapacità del nemico. Colpa e innocenza devono essere stabilite geograficamente, e tutta la colpa deve trovarsi dall'altra parte del confine. Se la propaganda vuole mobilitare tutto l'odio della popolazione, deve fare in modo che tutte le idee che circolano attribuiscano l'unica responsabilità al nemico. In alcune circostanze possono essere ammesse variazioni su questo tema, che cercheremo di specificare, ma deve sempre essere il modello dominante. I governi dell'Europa occidentale non possono mai essere del tutto certi che il proletariato esistente all'interno dei loro confini e sotto la loro autorità, con una coscienza di classe, si mobiliterà alla loro campana di guerra".
La propaganda "è una concessione alla razionalità del mondo moderno. Un mondo istruito preferisce svilupparsi sulla base di argomenti e informazioni [...]. Un intero apparato di erudizione diffusa rende popolare simboli e forme di richiamo pseudo-razionale: il lupo della propaganda non esita a vestirsi da pecora. Tutti gli uomini eloquenti dell'epoca (scrittori, giornalisti, redattori, predicatori, conferenzieri, professori, politici) vengono messi al servizio della propaganda e amplificano la voce del padrone. Tutto è fatto con il decoro e l'abito dell'intelligenza, perché questa è un'epoca razionale che esige che la carne cruda sia cucinata e guarnita da cuochi abili e competenti. Una nuova fiamma deve soffocare il cancro del disaccordo e rafforzare l'acciaio dell'entusiasmo bellico" (Lasswell, op. cit., p. 221).
"Per mobilitare l'odio della popolazione verso il nemico, la nazione avversaria deve essere rappresentata come un aggressore minaccioso e assassino [...]. È attraverso l'elaborazione degli obiettivi di guerra che il ruolo di ostacolo del nemico diventa particolarmente evidente. Rappresentare la nazione avversaria come satanica: viola tutti gli standard morali (le buone maniere) del gruppo ed è un insulto alla sua autostima. Il mantenimento dell'odio dipende dall'integrazione delle rappresentazioni del nemico minaccioso, ostruttivo e satanico con l'assicurazione della vittoria finale". (Lasswell, op. cit., p. 195)
La lettura di questi passaggi, che illustrano e completano in modo straordinario le linee di Rosa Luxemburg, potrebbe indurre a pensare che Lasswell fosse un militante che combatteva il capitalismo. In realtà, egli fu un eminente accademico americano che pubblicò numerose opere di scienza politica e insegnò questa disciplina dal 1946 al 1958 presso la prestigiosa Università di Yale. Nel libro del 1927, che concludeva la sua opera, si schierò a favore del controllo governativo delle tecniche di comunicazione (telegrafo, telefono, cinema e radio) e mise le sue competenze al servizio della borghesia americana per tutta la vita, in particolare durante la Seconda guerra mondiale, quando fu direttore delle ricerche sulla comunicazione e la guerra presso la Library of Congress (la principale e prestigiosa biblioteca degli Stati Uniti) e contemporaneamente lavorò nei servizi di propaganda dell'esercito.
La guerra del "campo del bene" contro il "campo del male".
Come espresso in modo eloquente dagli scritti di Lasswell, l'obiettivo di ogni Stato in guerra è quello di presentare il nemico come l'incarnazione del MALE per presentarsi come l'eminente rappresentante del BENE. Ci sono molti esempi di questo nel corso della storia, e possiamo citarne solo alcuni.
Come si legge in un nostro articolo del 2015, "la Gran Bretagna utilizzò l'occupazione tedesca del Belgio con grande effetto, non senza una sana dose di cinismo, poiché in realtà l'invasione tedesca stava semplicemente ostacolando i piani di guerra britannici. Si diffusero storie delle più raccapriccianti atrocità: le truppe tedesche uccidevano i bambini a colpi di baionetta, facevano la zuppa con i cadaveri, legavano i preti a testa in giù al batacchio della campana della loro stessa chiesa, etc.»
La borghesia francese non fu da meno: in una cartolina di propaganda, c'è una poesia in cui un soldato spiega alla sorella minore che cos'è un "boche" (termine usato in Francia per indicare i tedeschi e che significa "macellaio"): "Vuoi sapere, bambina, che cos'è questo mostro, un boche?
Un boche, mia cara, è un essere senza onore,
È un cattivo subdolo, pesante, odioso, brutto,
È uno spauracchio, un orco velenoso.
È un diavolo travestito da soldato che brucia villaggi,
spara a vecchi e donne senza rimorsi,
uccide i feriti, commette ogni tipo di saccheggio,
seppellisce i vivi e spoglia i morti.
È un codardo che sgozza bambini e ragazze,
trafigge i bambini con le baionette,
Massacra per piacere, senza motivo... senza quartiere.
Questo è l'uomo, figlia mia, che vuole uccidere tuo padre,
distruggere il tuo Paese e torturare tua madre,
È il teutone maledetto dall'intero universo.»
Questo tipo di propaganda si sviluppò soprattutto in seguito alle fraternizzazioni avvenute al fronte nel periodo natalizio del 1914 tra unità tedesche, francesi e scozzesi. Questa poesia lo dice chiaramente: non è possibile fraternizzare con i "mostri".
In seguito, l'accumulo di cadaveri da entrambe le parti servì a giustificare la demonizzazione del nemico da parte di ogni Stato belligerante. Ciascuna parte elogiava l'eroismo e il sacrificio dei propri soldati nel compito "necessario" di bloccare i "crimini" dei soldati dell'altra parte. Uccidere esseri umani non era più un crimine se indossavano un'altra uniforme, ma un "sacro dovere in difesa dell'umanità e della morale".
Questa demonizzazione dei popoli "nemici" per giustificare la barbarie della guerra è proseguita per tutto il XX secolo e all'inizio del XXI, quando la guerra è diventata una manifestazione permanente del precipitare del capitalismo nella decadenza. La Seconda guerra mondiale ci offre un esempio illuminante e atroce al tempo stesso. Per la propaganda borghese di oggi, esisteva un solo "campo del male": la Germania nazista e i suoi alleati. Il regime nazista era, infatti, l'incarnazione della controrivoluzione che si era abbattuta sul proletariato tedesco dopo i tentativi rivoluzionari del 1918-23.
Una controrivoluzione alla quale le "democrazie" del "campo del bene" avevano dato il loro pieno contributo e che fu completata dal nazismo. Inoltre, queste "democrazie" avevano a lungo creduto di poter andare d'accordo con il regime di Hitler, come dimostra l'accordo di Monaco del 1938.
Le atrocità commesse dal regime nazista furono utilizzate dalla propaganda degli Alleati per giustificare le proprie atrocità. In particolare, lo sterminio degli ebrei d'Europa da parte dei nazisti, l'espressione più concentrata della barbarie in cui la decadenza del sistema capitalista aveva fatto sprofondare la società umana, costituì un argomento massiccio, presentato come "inconfutabile", per la necessità per gli Alleati di distruggere la Germania, il che comportò in particolare l'uccisione di decine di migliaia di civili sotto le bombe del campo del bene. Dopo la guerra, quando le popolazioni dei Paesi vincitori vennero a conoscenza dei crimini commessi dai loro leader, fu spiegato loro che gli spaventosi massacri di popolazioni civili (in particolare i bombardamenti di Amburgo tra il 25 luglio e il 3 agosto 1943 e quelli di Dresda dal 13 al 15 febbraio 1945, che presero di mira soprattutto i civili e uccisero in totale oltre 100.000 persone) erano giustificati dalla barbarie del regime nazista. Gli stessi leader organizzarono una massiccia propaganda sulle atrocità commesse da questo regime, in particolare sullo sterminio della popolazione ebraica. D'altra parte, si sono guardati bene dal sottolineare che gli Alleati non hanno fatto assolutamente nulla per aiutare queste persone, alle quali la maggior parte dei Paesi schierati dalla parte del bene ha rifiutato il visto d'ingresso e che hanno persino respinto le offerte dei leader nazisti di consegnare centinaia di migliaia di ebrei.
La denuncia dell'ipocrisia delle "democrazie" da parte della Sinistra comunista
Questa disgustosa ipocrisia della borghesia "democratica" è dimostrata molto bene, con l'evocazione di fatti storici comprovati, in un articolo intitolato "Auschwitz ou le grand alibi" (Auschwitz o il grande alibi), apparso nel 1960 sulla rivista Programme Communiste n. 11 (organo del Partito Comunista Internazionale, bordighista)[[3]]. Ecco la conclusione di questo articolo, che condividiamo pienamente:
"Abbiamo visto come il capitalismo abbia condannato a morte milioni di uomini respingendoli dalla produzione. Abbiamo visto come li ha massacrati estraendo da essi tutto il plusvalore possibile. Ci resta da vedere come li sfrutti ancora dopo la loro morte, come sfrutti la loro stessa morte. Sono innanzitutto gli imperialisti del campo alleato che se ne sono serviti per giustificare la loro guerra e per giustificare dopo la vittoria il trattamento infame inflitto al popolo tedesco. Si sono precipitati sui campi e sui cadaveri diffondendone ovunque le raccapriccianti fotografie ed esclamando: guardate che porci sono questi Crucchi! Come abbiamo avuto ragione di combatterli! E come abbiamo ora ragione a fargli passare la voglia di ricominciare! Quando si pensa agli innumerevoli crimini dell’imperialismo, quando si pensa, ad esempio, che nello stesso momento (1945) in cui i nostri Thorez cantavano vittoria sul fascismo, 45.000 algerini (provocatori fascisti!) cadevano sotto i colpi della repressione;[[4]] quando si pensa che è il capitalismo mondiale il responsabile di questi massacri, l’ignobile cinismo di questa soddisfatta campagna dà veramente la nausea.
Nello stesso tempo anche tutti i nostri bravi democratici antifascisti si sono gettati sui cadaveri degli ebrei. E li agitano sotto il naso del proletariato. Per fargli sentire l’infamia del capitalismo? No, al contrario: per fargli apprezzare, per contrasto, la vera democrazia, il vero progresso, il benessere di cui esso gode nella società capitalistica. Gli orrori della morte capitalistica devono far dimenticare gli orrori della vita capitalistica e il fatto che essi sono indissolubilmente negati fra di loro. Gli esperimenti dei medici SS dovevano far dimenticare che il capitalismo compie la sua gigantesca «sperimentazione» quotidiana con i prodotti cancerogeni, gli effetti dell’alcolismo sull’ereditarietà, la radioattività delle bombe «democratiche». Se si mostrano le abat-jour di pelle umana è per far dimenticare che il capitalismo ha trasformato l’uomo vivente in abat-jour. Le montagne di capelli, i denti d’oro, i cadaveri divenuti merce, devono far dimenticare che il capitalismo ha fatto dell’uomo vivente una merce. È il lavoro, la vita stessa dell’uomo, che nel capitalismo è merce. Sta in ciò l’origine di tutti i mali. Utilizzare i cadaveri delle vittime del capitale per tentare di nascondere questa verità, servirsi di questi cadaveri per proteggere il capitale, è il modo più infame di sfruttarli fino in fondo."
Questo articolo espone quella che è una posizione fondamentale della Sinistra comunista: la denuncia dell'ideologia antifascista, di cui l'evocazione della Shoah è un pilastro, come mezzo per giustificare la difesa della "democrazia" capitalista. Già nel giugno 1945, il n°6 de L'Étincelle, la rivista della Gauche Communiste de France, antenata politica della CCI, pubblicava un articolo intitolato "Buchenwald, Maïdaneck, démagogie macabre"[[5]] che sviluppava lo stesso tema e che riproduciamo di seguito:
"Il ruolo svolto dalle SS, dai nazisti e dal loro campo di industrializzazione della morte, fu quello di sterminare in generale tutti coloro che si opponevano al regime fascista e soprattutto i militanti rivoluzionari che erano sempre stati in prima linea nella lotta contro la borghesia capitalista, qualunque forma essa assumesse: autarchica, monarchica o "democratica", chiunque fosse il suo leader: Hitler, Mussolini, Stalin, Leopoldo III, Giorgio V, Vittorio Emanuele, Churchill, Roosevelt, Daladier o de Gaulle.
La stessa borghesia internazionale che, quando scoppiò la rivoluzione d'ottobre nel 1917, cercò ogni mezzo possibile e immaginabile per schiacciarla, che schiacciò la rivoluzione tedesca nel 1919 con una repressione di inaudita ferocia, che affogò nel sangue l'insurrezione proletaria cinese; la stessa borghesia che finanziò la propaganda fascista in Italia e poi quella di Hitler in Germania; La stessa borghesia che ha messo al potere in Germania l'uomo che aveva designato come gendarme d'Europa; la stessa borghesia che oggi spende milioni per finanziare l'allestimento di una mostra sui "crimini delle SS di Hitler", le riprese e la proiezione al pubblico di film sulle "atrocità tedesche" (mentre le vittime di queste atrocità continuano a morire, spesso senza cure, e i sopravvissuti che tornano non hanno mezzi di sostentamento).
Questa è la stessa borghesia che, da un lato, ha pagato il riarmo della Germania e, dall'altro, ha disprezzato il proletariato trascinandolo in guerra con l'ideologia antifascista; questa è la stessa borghesia che, avendo favorito l'ascesa al potere di Hitler, lo ha usato fino all'ultimo per schiacciare il proletariato tedesco e trascinarlo nella più sanguinosa delle guerre, nel più turpe massacro che si possa immaginare.
È sempre la stessa borghesia che manda rappresentanti con corone di fiori a inchinarsi ipocritamente sulle tombe dei morti che essa stessa ha prodotto, perché è incapace di gestire la società e la guerra è il suo unico modo di vivere.
NOI LE DIAMO LA COLPA!
perché i milioni di morti che ha perpetrato in questa guerra sono solo l'ultima aggiunta a una lista già troppo lunga di martiri della "civiltà", della società capitalista in decomposizione.
I responsabili dei crimini di Hitler non sono i tedeschi, che sono stati i primi, nel 1934, a pagare con 450.000 vite umane la repressione borghese di Hitler e che hanno continuato a subire questa spietata repressione quando si è svolta all'estero. Non più di quanto i francesi, gli inglesi, gli americani, i russi o i cinesi siano responsabili degli orrori della guerra che non hanno voluto ma che la loro borghesia ha imposto loro.
D'altra parte, i milioni di uomini e donne che sono morti lentamente nei campi di concentramento nazisti, che sono stati selvaggiamente torturati e i cui corpi stanno marcendo da qualche parte, che sono stati colpiti durante questa guerra mentre combattevano o sono stati sorpresi da un bombardamento "liberatorio", i milioni di cadaveri mutilati, amputati, fatti a pezzi e sfigurati, sepolti nella terra o che stanno marcendo al sole, i milioni di corpi, soldati, donne, vecchi e bambini.
Questi milioni di morti gridano vendetta...
... e chiedono vendetta non al popolo tedesco, che continua a pagare, ma a questa borghesia infame e senza scrupoli, che non ha pagato, ma ha lucrato, e che continua a prendere in giro gli schiavi affamati con le sue miniere di maiali all'ingrasso.
L'unica posizione del proletariato non è quella di rispondere agli appelli demagogici per continuare e accentuare lo sciovinismo attraverso i comitati antifascisti, ma la lotta di classe diretta per la difesa dei propri interessi, del proprio diritto alla vita, una lotta di ogni giorno, di ogni momento fino alla distruzione del mostruoso regime del capitalismo"[[6]].
Ancora oggi, lo Stato di Israele (e coloro che lo sostengono) invoca la memoria della Shoah per giustificare i propri crimini. Le atrocità subite dal popolo ebraico in passato sono un modo per fingere che questo Stato appartenga al campo del bene, anche quando prende spunto dalle "democrazie" durante la Seconda guerra mondiale per massacrare deliberatamente le popolazioni civili con le bombe. Le atrocità commesse da Hamas il 7 ottobre hanno permesso di riaccendere la fiamma in modo così spettacolare che anche in Israele le voci di coloro che prima denunciavano la politica criminale dello Stato sono state messe a tacere, e addirittura spostate verso il campo della guerra a oltranza.
Allo stesso tempo, i nemici di Israele e coloro che li sostengono, che per decenni hanno fatto dell'oppressione e dell'umiliazione del popolo palestinese il loro mestiere, sia che si schierassero dietro bandiere islamiche o "antimperialiste", stanno ora scoprendo, con i massacri commessi dallo Stato ebraico a Gaza, un argomento sconvolgente per giustificare il loro sostegno a uno Stato palestinese che, come tutti gli Stati, sarà lo strumento della classe sfruttatrice per opprimere e reprimere gli sfruttati.
Per giustificare la barbarie della guerra, la propaganda borghese ha fatto un uso massiccio di menzogne, soprattutto a partire dal 1914, come abbiamo visto sopra e continuiamo a vedere. Si pensi, ad esempio, al mito delle "armi di distruzione di massa" utilizzato dal governo statunitense nel 2003 per giustificare l'invasione dell'Iraq. Ma questa propaganda è ancora più efficace quando può contare sulle reali atrocità commesse da coloro che sono indicati come il nemico. E queste atrocità non stanno per scomparire. Al contrario! Man mano che il sistema capitalista sprofonda nel degrado e nella decomposizione, esse diventeranno più frequenti e più abominevoli. Come in passato, saranno utilizzate da ogni settore della borghesia per giustificare le proprie atrocità e quelle future.
L'indignazione e la rabbia per queste atrocità sono legittime e normali in ogni essere umano. Ma è importante che gli sfruttati, i proletari, siano in grado di resistere alle sirene di chi li invita a combattere e uccidere i proletari di altri Paesi, o a essere uccisi in queste battaglie. Nessuna guerra nel capitalismo sarà mai la guerra per porre fine alle guerre, la "der des ders" (l'ultima delle ultime) come sosteneva la propaganda dei Paesi dell'Intesa nel 1914 o come sosteneva il presidente Bush junior nel 2003 quando prevedeva "un'era di pace e prosperità" dopo l'eliminazione di Saddam Hussein (in realtà, il massacro di centinaia di migliaia di iracheni). L'unico modo per porre fine alle guerre e alle atrocità che provocano è porre fine al sistema che le genera: il capitalismo. Qualsiasi altra prospettiva non farà altro che preservare la sopravvivenza di questo sistema barbaro.
Fabienne, 24 novembre 2023
[1] Nascita della democrazia totalitaria [2] Revue Internationale n°155. (in francese)
[2] L'uso da parte degli Stati Uniti della bomba atomica che cancellò le città di Hiroshima (tra i 103.000 e i 220.000 morti secondo varie stime) e Nagasaki (tra i 90.000 e i 140.000 morti) non poteva, ovviamente, essere giustificato dallo sterminio degli ebrei da parte delle autorità giapponesi, ma doveva comunque avere uno scopo "umanitario". Infatti, secondo le autorità americane, essa salvò un milione di vite da entrambe le parti, accelerando la fine della guerra. Questa è una delle bugie più odiose sulla Seconda Guerra Mondiale. In realtà, già prima dei bombardamenti, il governo giapponese era pronto a capitolare a condizione che l'imperatore Hirohito conservasse il trono. Le autorità americane rifiutarono questa condizione. Dovevano assolutamente poter utilizzare la bomba atomica per conoscere meglio le "prestazioni" di questa nuova arma e, soprattutto, per inviare un messaggio di intimidazione all'Unione Sovietica, che il governo americano prevedeva sarebbe stato il suo prossimo nemico. La capitale del Giappone, Tokyo, non ricevette la bomba atomica, perché era già stata praticamente rasa al suolo da molteplici bombardamenti "tradizionali" (con l'uso intensivo di bombe incendiarie), in particolare quelli del marzo 1945, che fecero un numero di vittime pari a quello di Hiroshima. Hirohito rimase sul trono fino alla sua morte, avvenuta il 7 gennaio 1989, senza mai essere interrogato dalle autorità americane, nonostante fosse stato chiaramente accertato il suo coinvolgimento personale nei crimini delle armate giapponesi.
[3] "Auschwitz o il grande alibi [3]". Questo articolo si basa in particolare sul libro "L'Histoire de Joël Brand" (Éditions du Seuil, 1957, traduzione dal tedesco: Die Geschichte von Joel Brand, Verlag Kiepenheuer & Witsch, Köln-Berlin, 1956) che descrive le avventure di questo ebreo ungherese che organizzò la fuga degli ebrei perseguitati dai nazisti. Nel maggio 1944, Brand fu incaricato da Adolf Eichmann di trasmettere agli Alleati la proposta di "consegnare" centinaia di migliaia di ebrei, proposta che fu rifiutata dalle autorità britanniche.
[4] Riferimento alla rivolta della popolazione di Sétif dell'8 maggio 1945, il giorno stesso della firma dell'armistizio, sedata con estrema violenza dal governo francese, alla quale partecipò il Partito "comunista" guidato da Maurice Thorez.
[6] La Tendenza Comunista Internazionalista ha pubblicato sul suo sito un articolo che tratta gli stessi temi del nostro articolo: "L'ipocrisia imperialista in Oriente e in Occidente [5]". Si tratta di un eccellente articolo che accogliamo con favore e invitiamo i nostri lettori a consultare.
Dopo due anni di conflitto in Ucraina sullo sfondo della rivalità sino-americana e con il rischio di estensione della guerra in Medio Oriente, cresce il timore di un nuovo conflitto globale. Le condizioni sono mature per un tale conflitto? Stiamo assistendo alla formazione di nuovi blocchi imperialisti? Il proletariato è pronto a lasciarsi trascinare in un conflitto mondiale su vasta scala?
Per discutere queste questioni, la CCI ha organizzato una serie di incontri pubblici sia fisici che per internet in vari paesi del mondo e nelle varie lingue. Questi incontri sono aperti a tutti coloro che desiderano incontrare e discutere con la CCI. Invitiamo caldamente tutti i nostri lettori, contatti e sostenitori a venire a discutere le questioni in gioco e a confrontare i punti di vista.
Per partecipare alla Riunione Pubblica che si terrà via internet in lingua italiana
Per tutte le altre riunioni pubbliche in lingua inglese, francese, spagnola, tedesca, ... fare riferimento alle varie pagine del nostro dito internet.
Corrente Comunista Internazionale“Basta!” “Quando è troppo è troppo!” Lo stesso sentimento di rivolta, di rabbia e di esasperazione si diffonde fra le file dei proletari, dalla Gran Bretagna agli Stati Uniti, passando per la Francia e i paesi scandinavi.
Gli attacchi alle nostre condizioni di vita e di lavoro, l’atteggiamento brutale, arrogante e cinico dei governi e dei padroni privati non hanno fatto altro che rafforzare la combattività e la determinazione a lottare.
Questo sentimento domina anche in Quebec, dove lo sciopero ha mobilitato in maniera massiccia i 565.000 dipendenti pubblici della provincia federale (ovvero il 15% della popolazione attiva), di fronte all’aumento dei prezzi e al generale deterioramento delle condizioni di sfruttamento.
Nei paesi centrali del capitalismo, come ad esempio negli Stati Uniti, una parte sempre più grande di proletari si ritrova immersa nell’impoverimento assoluto.
Gli scioperi che hanno avuto luogo per più di un mese nel settore pubblico in Canada, costituiscono la piena conferma della ripresa internazionale delle lotte della classe operaia. Questi scioperi hanno assunto una portata che non si vedeva da più di cinquant’anni, quando l’11 aprile 1972 uno sciopero con occupazione di fabbriche e miniere paralizzò il territorio del Quebec.
Ciò costituisce anche un prolungamento dell’ondata di lotte avutesi negli Stati Uniti, in particolare nel settore automobilistico, dove il sindacato UAW ha alla fine firmato lo stesso accordo in sequenza con Ford, Stellantis e GM, tra il 25 e il 30 ottobre, accordo presentato come una “vittoria” e che ha messo fine a più di un mese di conflitto sociale.
A un livello più ampio, essi confermano la rottura con trent’anni di arretramento e di disorientamento che avevamo evidenziato nel “Rapporto e risoluzione del 25° Congresso della CCI”[1], in cui sottolineavamo che la ripresa della combattività operaia in numerosi paesi, centri economici vitali del capitalismo, ha costituito un evento storico importante.
Una forte combattività
Un fortissimo sentimento di rabbia, determinazione e indignazione si è manifestato per più di un mese nell’ondata di scioperi che ha mobilitato massicciamente il settore pubblico in Quebec, mostrando la fortissima combattività dei proletari.
Ciò in risposta fronte all’atteggiamento provocatorio e arrogante del governo federale nei suoi attacchi contro gli insegnanti e il personale del settore sanitario, con l’obiettivo di inasprire e precarizzare ulteriormente le loro condizioni di lavoro che sono diventate sempre più intollerabili. Il numero di insegnanti che si sono dimessi è raddoppiato in quattro anni (più di 4.000!), mentre la carenza di insegnanti è evidente nelle scuole pubbliche del Quebec, dove le classi sono state chiuse un mese per un milione di studenti. Questa massiccia mobilitazione ha interessato tutti i livelli della professione docente (istruzione primaria, secondaria, superiore), ma anche i trasporti scolastici, gli asili nido e il personale amministrativo.
La stessa esasperazione si esprime sia nei servizi sanitari che in quelli sociali, di fronte alla minaccia di una “vasta riforma del sistema sanitario”. La borghesia si prepara anche in quel settore ad aumentare drasticamente il deterioramento delle condizioni di vita e di lavoro. Il governo federale promette di andare ancora oltre, con l’istituzione di centri di gestione sanitaria più autonomi e competitivi, puntando su una maggiore mobilità e flessibilità del personale, trasferimenti volontari in base alle esigenze dei servizi, il che implica una carenza ancora maggiore di posti di lavoro e un aumento del sovraccarico per il personale, compiti individuali già estenuanti, ore aggiuntive di lavoro non retribuito. Un tecnico di laboratorio, ad esempio, ha detto: “Lavoriamo già come cani nei fine settimana, nei giorni festivi e di notte. E ci viene detto: questo non basta”.
In questo contesto, il governo ha mostrato la sua intransigenza e il suo disprezzo con il massimo cinismo offrendo solo aumenti salariali negoziabili in “cambio” e al prezzo di una “flessibilità” ancora maggiore, più forte ed estesa, scommettendo deliberatamente su un esaurimento dello sciopero. Ciò sia attraverso le dichiarazioni di “fermezza” del primo ministro François Legault che della presidente del Consiglio incaricato delle Finanze pubbliche, Sonia Le Bel.
Ma la rabbia e la mobilitazione massiccia sono già riuscite a provocare una rottura con la tendenza al ripiego individuale e con il clima di profonda demoralizzazione che pesava prima.
Una ricerca di solidarietà
Questa situazione e questo stallo hanno innescato e stimolato allo stesso tempo un’ondata di reciproco aiuto e solidarietà. Per gli insegnanti, ad esempio, è stato creato sui social network o durante i picchetti di sciopero un gruppo di sostegno, in particolare per fornire donazioni di cibo o vestiti a sostegno agli scioperanti non retribuiti. Il movimento, anche nel settore privato, gode ancora della simpatia o del sostegno del 70% della popolazione.
Allo stesso modo, il numero, la frequenza e l’intensità delle mobilitazioni hanno dimostrato la grande determinazione degli scioperanti e la combattività del movimento.
I Sindacati, coscienti di quanto montava tra i lavoratori, avevano già preso l’iniziativa di incanalare la rabbia e controllare il movimento, organizzando la mobilitazione in ordine sparso per dividerla meglio. Abbiamo visto così la Federazione Autonoma dell’Istruzione (FAE) invitare i suoi 66.000 iscritti ad uno sciopero a tempo indeterminato, a partire dal 13 novembre, mentre le quattro principali confederazioni sindacali che compongono il “Fronte Comune” del settore pubblico, che rappresentano 420.000 dipendenti, hanno indetto uno sciopero differenziato, dal 21 al 23 novembre, poi dall’8 al 14 dicembre. Da parte sua, la Federazione Interprofessionale Sanitaria ha invitato i suoi 80.000 iscritti a sospendere il lavoro il 6, 8, 9, 23 e 24 novembre, poi dall’11 al 14 dicembre.
Tutti avevano anche promesso di lanciare uno sciopero più duro se le trattative con il governo non avessero avuto successo, risparmiando tempo ma rinviando questa eventualità... a dopo le vacanze di fine anno!
La borghesia sabota la lotta e divide i lavoratori
Tuttavia, il governo ha tirato fuori un altro asso dalla manica che non ha mancato di sfruttare sino in fondo nella sua manovra volta a cercare di disinnescare questa combattività e instaurare un clima di divisione e di concorrenza: si è impegnato a negoziare sia per settore di attività che separatamente con questo o quel centro sindacale e ha potuto contare pienamente sul lavoro di indebolimento, divisione e controllo delle lotte da parte dei diversi sindacati.
Così, dal 20 dicembre, nel settore dell’istruzione, una parte del “Fronte comune” ha cominciato a dividersi, la FSE-FSQ ha manifestato il desiderio di concludere un accordo separato con il governo e il Consiglio del Tesoro. Mentre, allo stesso tempo, la frazione più “radicale” degli scioperanti, aderente alla FAE in sciopero a tempo indeterminato, moltiplicava spettacolari “azioni di commando” minoritarie, come il blocco dell’accesso ai porti di Montreal e del Quebec, prima di concludere infine un accordo anch’essa, ponendo fine allo sciopero degli insegnanti il 28 dicembre. Così, i sindacati e lo Stato del Quebec sono riusciti a trovare una via d’uscita attraverso alcune misure specifiche di rivalutazione caso per caso degli stipendi e delle pensioni e limitando il sovraccarico di personale per classe. Nessun accordo, invece, sembra essere stato ancora raggiunto nel settore infermieristico, il che mostra un tentativo di divisione, spingendo un settore particolarmente combattivo a proseguire lo sciopero in isolamento.
Ciò non esclude la possibilità che presto scoppino nuovi scioperi in altri settori, visto che il malcontento è tanto profondo.
La continua maturazione di una coscienza operaia
Nonostante i suoi limiti attuali e l’avvertimento che contiene sui pericoli mortali per lo sviluppo delle lotte future se ci si lascia imprigionare dalle manovre della borghesia e dalle trappole della gestione sindacale, lo sciopero del settore pubblico in Quebec rivela soprattutto il potenziale di questa ripresa internazionale della combattività e della determinazione dei lavoratori, in un contesto globale di crescita delle lotte e di maturazione della coscienza operaia nei paesi centrali del capitalismo.
Soprattutto, riafferma la piena capacità del proletariato di sviluppare le sue lotte di classe sotto i colpi della crisi mondiale e gli attacchi a tutto campo della borghesia e di tutti i suoi governi, sia di sinistra che di destra, manifestazioni di una società capitalista agonizzante e in piena decomposizione. Queste lotte costituiscono una tappa indispensabile e fondamentale per il proletariato nel cammino per la riappropriazione della sua identità e della sua coscienza di classe.
Di fronte a tutta la propaganda e al carico di menzogne diffuse a partire dal 1989 sul presunto fallimento o morte del comunismo, esse mostrano che il proletariato esiste e costituisce più che mai l’unica classe portatrice di una prospettiva rivoluzionaria per il rovesciamento del capitalismo e di un futuro per l’umanità, in contrapposizione all’inesorabile sprofondamento della società capitalista in un oceano di miseria, caos, guerra generalizzata e barbarie.
GD, 4 gennaio 2024
[1] Rivista Internazionale n. 37, Rivista Internazionale n.37 | Corrente Comunista Internazionale (internationalism.org) [8]
Di fronte al crescente pericolo che l’opportunismo rappresenta in seno al campo proletario, la CCI è intervenuta diverse volte nella sua stampa[1] e ha organizzato diverse discussioni con i suoi contatti e simpatizzanti stretti. Se questa lotta può sembrare, a prima vista, episodica o secondaria, la storia del movimento operaio, a partire dalla lotta determinata di Marx ed Engels (già definita “polemiche da comari” all’epoca), ha ampiamente dimostrato che non è così. Basta d’altra parte vedere come le Tendenza Comunista Internazionalista (TCI), un’organizzazione della Sinistra Comunista, può illudersi nella vana ricerca di un’influenza, costi quel che costi, nella classe operaia per convincersene: la TCI preferisce rinunciare alla difesa dei principi fondamentali del movimento operaio (in particolare la difesa seria dell’internazionalismo) e mettere in pericolo la prospettiva rivoluzionaria, nella speranza di guadagnare un po’ di militanti.
La CCI ha anche difeso tenacemente il campo rivoluzionario di fronte alla compiacenza e alla porosità di organizzazioni della Sinistra Comunista di fronte a piccole bande di spioni (come il GISC) o a gruppi e individui parassitari. Il parassitismo, come la compiacenza dei rivoluzionari nei suoi confronti, sono sempre stati un flagello nella storia del movimento operaio, come testimoniato già dalla lotta della Prima Internazionale di fronte alle manovre di Bakunin. La ragion d’essere dell’ambiente parassitario, piena di semi-sapienti dall’ego sovradimensionato, è quello di ostacolare la lotta e la chiarificazione tra le vere organizzazioni rivoluzionarie.
È perciò che noi salutiamo fortemente la corrispondenza, di uno dei nostri contatti, che riportiamo qui di seguito, in sostegno a questa lotta.
CCI
La lettera di Osvaldo
Cari compagni, in continuità con critiche e rigetti attraverso precedenti dichiarazioni contro le varie forme di parassitismo che da anni insidiano il campo politico proletario esprimo anche ora la mia più ampia condanna verso il parassitismo e la piena solidarietà alla CCI.
Accanto a questa dichiarazione voglio però lanciare un allarme alle organizzazioni facenti parte ancora del campo politico proletario: porre molta attenzione all’opportunismo, altra piaga insopprimibile del movimento operaio ed in particolare delle sue avanguardie. E ciò in quanto esso in maniera subdola apre la porta non solo a certi cedimenti riguardanti i principi proletari che caratterizzano lo stesso campo (portandolo persino al tradimento, vedi per esempio il caso della socialdemocrazia tedesca alla vigilia della prima guerra mondiale), ma anche all’avventurismo, e peggio ancora, come riportato giustamente nella relazione della CCI, allo sdoganamento del parassitismo conferendogli un riconoscimento di sinistra comunista. Ciò può determinare un vero e proprio contagio pernicioso del campo politico proletario mettendo a repentaglio la sua sopravvivenza, senza della quale non ci sarà il partito di domani, organo indispensabile per portare avanti fino alla vittoria la rivoluzione proletaria.
Ed a tale proposito voglio denunciare i parassiti e spioni del GICS, i quali in quanto bugiardi spudorati, oltre ad altre accuse infondate opportunamente smentite a ragione dalla CCI - documenti alla mano - tramite la sua stampa ed in riunioni pubbliche, si permettono di attaccare quest’ultima attribuendole inesistenti tare consiliariste proprio sulla concezione di partito, strizzando così l’occhio alle altre formazioni del campo politico proletario. Ora vi possono essere e ci sono delle divergenze sulla concezione del partito per esempio tra la CCI e la TCI o i gruppi bordighisti, e questi argomenti opportunamente possono e devono essere discussi fraternamente e pubblicamente con i diversi attori proprio in continuità con i comportamenti che la tradizione della sinistra comunista ci ha lasciato. Invece troviamo i compagni di TCI a fare comunella o addirittura accettare nelle loro fila la collaborazione di elementi indegni e pericolosi quali sono quelli del GICS. Questo significa dare un pessimo esempio del milieu, soprattutto del valore della necessità della sua esistenza agli elementi che si stanno avvicinando alle posizioni di classe (vedi Riunione del comitato NWBCW di Parigi). Purtroppo temo che l’opportunismo della TC la stia guidando verso una deriva pericolosa, che minaccia sia la sua sopravvivenza come gruppo appartenente al campo politico proletario e sia quella dell’insieme campo.
Pertanto sono pienamente d’accordo con la vostra presentazione e lotta senza tregua all’opportunismo, all’avventurismo e soprattutto al parassitismo.
Osvaldo, ottobre 2023
[1] Leggere in proposito : « Réunions publiques de la TCI : une véritable faillite politique ! [11] » et « Congrès de la Haye : comment la TCI nie les leçons du marxisme sur la lutte contre le parasitisme politique [12] ».
Dall’inizio dell’anno gli agricoltori si sono mobilitati contro il calo dei loro profitti. Partito dalla Germania in seguito alla eliminazione dei sussidi sul diesel agricolo, il movimento interessa ora Francia, Belgio, Paesi Bassi, Italia e sta iniziando a diffondersi in tutta Europa. Gli agricoltori si ribellano contro le tasse e le norme ambientali.
I produttori più piccoli, strangolati dai bassissimi prezzi di acquisto dell’industria agroalimentare e dalla politica di concentrazione delle aziende agricole, sono da tempo sprofondati in una povertà talvolta estrema. Ma con l’accelerazione della crisi e l’impennata dei costi di produzione, le conseguenze del cambiamento climatico e il conflitto in Ucraina, la situazione si è ulteriormente deteriorata in modo significativo, al punto che anche i proprietari di aziende agricole di medie dimensioni stanno sprofondando nella miseria. Migliaia di agricoltori vivono una vita quotidiana di privazioni e ansia che spinge molti di loro addirittura al suicidio.
Un movimento senza alcuna prospettiva
Se nessuno può rimanere indifferente di fronte alla miseria di una parte del mondo agricolo, alle organizzazioni rivoluzionarie spetta anche dire chiaramente: sicuramente i piccoli agricoltori soffrono enormemente la crisi! Sicuramente, la loro rabbia è immensa! Ma questo movimento non si colloca sul terreno della classe operaia e non può delineare alcuna prospettiva per la sua lotta. Quel che è peggio, la borghesia sfrutta la rabbia degli agricoltori per sferrare un vero e proprio attacco ideologico contro il proletariato!
Da quando in Gran Bretagna hanno aperto la strada nell’estate del 2022, le mobilitazioni operaie hanno continuato a moltiplicarsi di fronte ai colpi della crisi: prima in Francia, poi negli Stati Uniti, in Canada, Svezia e recentemente Finlandia. Attualmente, l’Europa sta vivendo una serie di mobilitazioni operaie: in Germania, i ferrovieri hanno intrapreso uno sciopero di massa, seguiti dai piloti della compagnia aerea Lufthansa; a gennaio è scoppiato il più grande sciopero nella storia dell'Irlanda del Nord; in Spagna e Italia continuano le mobilitazioni nei trasporti, così come nella metropolitana di Londra o nel settore metallurgico in Turchia. La maggior parte di queste lotte sono di una portata mai vista negli ultimi tre o quattro decenni. Ovunque scoppiano scioperi e manifestazioni, con qualche manifestazione solidarietà tra settori, ed anche oltre frontiera, cosa che non ha precedenti...
Come reagisce la borghesia a questi eventi storici? Con un immenso silenzio mediatico! Un vero blackout! Viceversa sono bastate, inizialmente, alcune sporadiche mobilitazioni di agricoltori perché la stampa internazionale e tutte le cricche politiche, dall’estrema destra all’estrema sinistra, si avventassero sull’evento e facessero subito pressione per cercare di oscurare meglio tutto il resto.
Dai piccoli agricoltori ai proprietari di grandi aziende agricole moderne, se pur in diretta concorrenza, tutti si ritrovano, con la benedizione dei mezzi di informazione, attorno agli stessi sacri idoli: la difesa della loro proprietà privata e della nazione!
Né i piccoli agricoltori né i piccoli padroni hanno alcun futuro di fronte alla crisi insolubile del capitalismo. Al contrario! I loro interessi sono strettamente legati a quelli del capitalismo, anche se quest'ultimo, soprattutto sotto l'effetto della crisi, tende ad eliminare le aziende agricole più fragili e a far precipitare una massa crescente di esse nella povertà. Agli occhi degli agricoltori poveri la salvezza sta nella difesa disperata del proprio sfruttamento. E, di fronte alla ferocia della concorrenza internazionale, di fronte ai costi bassissimi della produzione asiatica, africana o sudamericana, la loro sopravvivenza dipende solo dalla difesa dell’“agricoltura nazionale”. Tutte le rivendicazioni degli agricoltori, contro le “spese”, contro le “tasse”, contro le “norme di Bruxelles”, hanno tutte in comune la conservazione delle loro proprietà, piccole o grandi, e la protezione delle frontiere contro le importazioni straniere. In Romania o Polonia, ad esempio, gli agricoltori denunciano la “concorrenza sleale” dell’Ucraina, accusata di abbassare i prezzi dei cereali. Nell’Europa occidentale vengono presi di mira i trattati di libero scambio, nonché i veicoli commerciali pesanti e le merci provenienti dall’estero. E tutto questo, con la bandiera nazionale sventolata con orgoglio e con discorsi infami sul “lavoro vero”, sull’”egoismo del consumatore” e sulla “gente di città”! Ecco perché i governi e i politici di ogni genere, così pronti a denunciare il minimo incendio di spazzatura e a fare piovere colpi di manganello quando la classe operaia è in lotta, sono corsi al capezzale della “rabbia legittima”.
Un ulteriore passo nel caos sociale
La situazione è tuttavia molto preoccupante per la borghesia europea. La crisi del capitalismo non finirà. La piccola borghesia e i piccoli imprenditori sprofonderanno sempre più nella povertà. Le rivolte dei piccoli proprietari messi alle strette non potranno che moltiplicarsi in futuro e contribuire ad aumentare il caos in cui sta precipitando la società capitalista. Questa realtà può già essere vista attraverso le distruzioni indiscriminate o i tentativi di “affamare” le città.
Soprattutto, questo movimento alimenta molto chiaramente il discorso dei partiti di estrema destra in tutta Europa. Nei prossimi anni diversi paesi potrebbero scivolare nel populismo e la borghesia sa perfettamente che un trionfo dell’estrema destra alle prossime elezioni europee contribuirebbe a rafforzare ulteriormente la sua perdita di controllo sulla società, a erodere la sua capacità di mantenere l’ordine e garantire la coesione della nazione.
In Francia, dove il movimento sembra più radicale, lo Stato cerca con tutti i mezzi di contenere la rabbia degli agricoltori, mentre il clima sociale è particolarmente teso. La polizia è quindi invitata a evitare scontri e il governo moltiplica gli "annunci", compresi i più spregevoli (maggiore utilizzo di manodopera straniera sottopagata, cessazione di ogni minima politica a favore dell'ambiente…). In Germania, per non gettare benzina sul fuoco, Scholz ha dovuto fare parzialmente marcia indietro sul prezzo del gasolio agricolo, proprio come l’Unione Europea sulle norme ambientali.
Dalla rivolta, nel 2013, dei piccoli boss bretoni "berretti rossi"[1], poi il movimento interclassista dei "gilet gialli"[2] in tutta la Francia, ora è tutta l'Europa ad essere colpita da un'ondata di violenza dalla piccola borghesia senza altra prospettiva se non quella di provocare ulteriore caos. Il movimento degli agricoltori rappresenta quindi veramente un ulteriore passo avanti nella disintegrazione del mondo capitalista. Ma, come molte espressioni della crisi del suo sistema, la borghesia sta sfruttando il movimento degli agricoltori contro la classe operaia.
Può il proletariato approfittare della “breccia aperta dagli agricoltori?”
Mentre la classe operaia riprende massicciamente il cammino della lotta dappertutto nel mondo, la borghesia tenta di ostacolare la maturazione della sua coscienza, di intossicare la sua riflessione sulla sua identità, sulla sua solidarietà e sui suoi metodi di lotta, sfruttando la mobilitazione degli agricoltori. E per fare questo può contare, ancora e sempre, sui suoi sindacati e sui suoi partiti di sinistra, trotskisti e stalinisti in testa.
La CGT francese ha subito invitato i lavoratori ad aderire al movimento, mentre i trotskisti di Révolution Permanente hanno titolato coraggiosamente: “Gli agricoltori stanno terrorizzando il governo, il movimento operaio deve approfittare di questa breccia”. Andiamo! Se la borghesia teme la dinamica di caos sociale contenuta in questo movimento, chi può credere che una piccola minoranza della popolazione, attaccata alla proprietà privata, possa spaventare lo Stato e il suo enorme apparato di repressione?
Il movimento dei “berretti rossi” o quello dei “gilet gialli” mostrano la capacità della borghesia di sfruttare e stimolare una “paura” ben calcolata per dare credibilità ad una grande menzogna contro la classe operaia: le vostre manifestazioni di massa e le stronzate delle vostre assemblee generali sono inutili! Quindi vorrebbero farci credere che la borghesia non teme altro che i blocchi e le azioni di reazione delle minoranze. Nulla potrebbe essere più lontano dalla verità! E questo è un bene, perché questi metodi sono tipicamente quelli utilizzati dai sindacati per dividere e sfogare la rabbia dei lavoratori in azioni perfettamente sterili. Atti di distruzione indiscriminata non minano in alcun modo le basi del capitalismo e non contribuiscono a prepararne il rovesciamento. Sono come punture di insetti sulla pelle di un elefante e giustificano una repressione ancora maggiore.
Ma la borghesia non si accontenta di sabotare la riflessione del proletariato sui mezzi della sua lotta, cerca anche di respingere il sentimento che comincia a svilupparsi attraverso le sue mobilitazioni, quello di appartenere alla stessa classe, vittima degli stessi attacchi e costretta a lottare unita e solidale. I partiti di sinistra si affrettano quindi a tirar fuori le loro vecchie sciocchezze mistificatrici sulla “convergenza” delle lotte del “popolino” contro i “ricchi”.
Riguardo alle manifestazioni in Germania, i trotskisti italiani de La Voce delle Lotte hanno potuto scrivere che “si stanno svolgendo contemporaneamente massicce azioni contadine e scioperi dei ferrovieri. Un’alleanza tra questi due settori strategici avrebbe un impatto enorme”. Sempre le stesse sciocchezze! Questi tradizionali appelli alla “convergenza” mirano solo ad annegare la lotta della classe operaia nella rivolta “popolare”.
Nonostante tutto, la borghesia si trova di fronte ad una grande sfiducia da parte degli operai nei confronti di un movimento poco represso (a differenza delle manifestazioni operaie) e che flirta con l'estrema destra e con discorsi molto reazionari. I sindacati e la sinistra hanno dovuto quindi ricorrere a ogni sorta di distorsioni per prendere le distanze dal movimento, cercando al tempo stesso di spingere i proletari a "precipitarsi nella breccia" attraverso scioperi in ordine sparso, corporazione per corporazione.
La mobilitazione degli agricoltori non può in alcun modo essere un trampolino di lancio per la lotta della classe operaia. Al contrario, i proletari che si lasciano trascinare dietro gli slogan e i metodi degli agricoltori, diluiti in strati sociali fondamentalmente contrari a qualsiasi prospettiva rivoluzionaria, non possono che subire impotenti la pressione del nazionalismo e di tutte le ideologie reazionarie portate avanti in questo movimento.
La responsabilità dei rivoluzionari nei confronti della classe operaia si esprime instancabilmente nel mettere in luce le trappole che segnano tutta la sua lotta e che, purtroppo, la segneranno per molto tempo a venire. Con l’aggravarsi della crisi, molti strati sociali, non sfruttatori ma non rivoluzionari, saranno portati, come oggi gli agricoltori, a ribellarsi, senza avere la capacità di offrire una reale prospettiva politica alla società. Su questo terreno arido il proletariato non può che perdere. Solo la difesa della sua autonomia come classe sfruttata e rivoluzionaria può consentirle di ampliare sempre più la sua lotta e, in definitiva, di trascinare altri strati nella sua lotta contro il capitalismo.
EG, 31 gennaio 2024
[1] “I berretti rossi: un attacco ideologico contro la coscienza operaia [13]” (in francese), Révolution internationale n. 444 (2014).
[2] “Valutazione del movimento dei “gilet gialli”: un movimento interclassista, un ostacolo alla lotta di classe [14]”, (in francese) Révolution internationale n° 478 (2019), o anche https://it.internationalism.org/content/1470/bilancio-delle-riunioni-pubbliche-sul-movimento-dei-gilet-gialli [15] .
Dall’estate del 2022, l’intervento dei rivoluzionari nelle lotte della classe operaia è diventato una prospettiva sempre più concreta perché, dopo tre o quattro decenni di profondo declino della combattività e della coscienza di classe, il proletariato ha finalmente sollevato di nuovo la testa. La ripresa delle lotte, iniziata con “l’estate del malcontento” in Gran Bretagna, è stata seguita da scioperi, manifestazioni e varie proteste operaie in numerosi altri paesi, compresi gli Stati Uniti[1].
Il Partito Comunista Internazionale, una delle organizzazioni della Sinistra Comunista che pubblica Il Partito Comunista, ha segnalato il suo intervento in diversi scioperi operai negli ultimi anni negli Stati Uniti, compreso quello di circa 600 addetti municipali al trattamento delle acque iniziato il 3 febbraio 2023 a Portland, Oregon. Lo sciopero è stato accolto da espressioni di solidarietà di altri operai comunali, alcuni dei quali si sono anche uniti ai picchetti. Durante questo sciopero, Il Partito ha pubblicato un articolo e distribuito tre volantini in cui denunciava il capitalismo come sistema dittatoriale di sfruttamento, e traeva la lezione che: “solo unendo le sue forze al di là dei settori e delle frontiere, la classe operaia può veramente lottare per porre fine alla sua condizione di sfruttamento nel capitalismo”[2].
Nelle attuali condizioni di rinascita internazionale e storicamente significativa delle lotte, dopo decenni di disorientamento e isolamento, lanciarsi in una lotta è già di per sé una vittoria. Per questo motivo è certamente importante denunciare, come ha fatto Il Partito, il fatto che i lavoratori municipali di Portland siano stati in grado di sviluppare unità e solidarietà in risposta alle intimidazioni, alla criminalizzazione e alle minacce della borghesia[3].
Ma i rivoluzionari non possono fermarsi qui. Intervenendo con la stampa, volantini o altro, devono proporre prospettive concrete, come ad esempio invitare i lavoratori ad estendere la lotta oltre il proprio settore, inviando delegazioni in altri luoghi di lavoro e uffici. Come sottolinea uno dei nostri articoli recenti, oggi i lavoratori devono “lottare tutti insieme, reagendo in maniera unitaria ed evitando di rimanere bloccati nelle lotte locali, all’interno della singola azienda o del proprio settore”[4].
Ma per questo, per rafforzare la lotta, la questione centrale che i rivoluzionari devono porre chiaramente ai lavoratori è: chi è dalla parte della lotta e chi è contro? E a questo proposito il Pci non fa altro che diffondere una nebbia mistificatrice.
L'opportunismo sulla questione sindacale…
Per la Sinistra comunista il sindacalismo in quanto tale, e cioè non solo le direzioni sindacali ma anche le strutture di base dei sindacati, è diventato un'arma della borghesia contro la classe operaia. Il sindacalismo, per definizione un'ideologia che vincola la lotta entro i limiti delle leggi economiche del capitalismo, è diventato anacronistico nel secolo di guerre e rivoluzioni, come i rivoluzionari della Prima Guerra mondiale e dell'ondata rivoluzionaria iniziata nel 1917 hanno chiaramente mostrato. Le nuove condizioni dell’era attuale richiedono che le lotte vadano oltre le particolarità del posto di lavoro, della regione e della nazione, e assumano un carattere di massa e politico. È proprio perché i sindacati non hanno più alcuna utilità per la lotta operaia che la borghesia ha potuto impadronirsene e usarli contro la tendenza delle lotte verso l'autorganizzazione e l'estensione. In un tale periodo, difendere i metodi di lotta dei sindacati come autentico mezzo per sviluppare la combattività nella classe operaia non è altro che una concessione all'ideologia borghese, una forma di opportunismo.
Confrontato al problema delle forme di organizzazione necessarie a difendere le condizioni di vita della classe operaia, che lui chiama sindacati di classe, reti o coordinamenti, Il Partito difende una posizione opportunista che così giustifica: “dalla fine del 19° secolo, la progressiva sottomissione dei sindacati all’ideologia borghese, alla nazione e agli Stati capitalisti”[5] è una tendenza reale. Ma non spiega come sia possibile che tutti i sindacati siano stati integrati nello Stato capitalista fin dai primi decenni del 20° secolo. Per Il Partito tutto ciò sembra essere una pura coincidenza, poiché non spiega che da allora le condizioni oggettive sono sostanzialmente cambiate. Al contrario, sostiene che gli attacchi economici ai lavoratori “porteranno a una rinascita dei vecchi sindacati liberati dall'ideologia borghese” e “guidati dal Partito comunista”. Questi sindacati saranno addirittura “uno strumento potente e indispensabile per il superamento rivoluzionario del potere borghese”[6].
In altre parole: dopo il tradimento dei vecchi sindacati, emergeranno nuovi sindacati di classe e, nella buona tradizione bordighista, è chiaro che, se saranno guidati da un vero partito rivoluzionario, svolgeranno un ruolo rivoluzionario. Ma qui è necessario portare Il Partito fuori dal suo sogno, dato che le condizioni della lotta rivoluzionaria sono radicalmente cambiate dall’inizio del 20° secolo. Ciò significa che la lotta non può più “essere preparata in anticipo a livello organizzativo, perché la lotta proletaria tende ad andare oltre la lotta strettamente economica per diventare una lotta sociale, di confronto diretto con lo Stato, che si politicizza ed esige la partecipazione delle masse della classe. […] Il successo di uno sciopero non dipende più dai fondi finanziari raccolti dagli operai, ma fondamentalmente dalla loro capacità di estendere la lotta”[7].
E a causa di queste nuove condizioni, i sindacati non corrispondono più ai bisogni della lotta proletaria, e anche il fatto di essere guidati da un partito autenticamente rivoluzionario non cambierebbe nulla. Il tentativo de Il Partito di difendere l'esistenza di organi permanenti di lotta, sia durante le manifestazioni aperte di lotta sia durante i periodi di loro assenza, è in ogni caso destinato al fallimento. Un rilancio dei sindacati come autentiche organizzazioni della classe operaia esiste solo nell'immaginario de Il Partito, per il quale il ruolo del Partito nella lotta non solo è decisivo, ma sembra addirittura capace di invocare il potere soprannaturale di adeguare i sindacati ai bisogni reali della lotta operaia.
…conduce i lavoratori sulla strada sbagliata
Il primo volantino distribuito durante una manifestazione di domenica 28 gennaio aveva come titolo “Lavoratori municipali della città di Portland: lottate per la libertà di sciopero”, una “libertà” attaccata dalla proclamazione dello stato di emergenza da parte dalla municipalità.
Con la rivendicazione della “libertà di sciopero”, questo volantino ha immediatamente messo i lavoratori sulla strada sbagliata. Nel 19° secolo, quando i sindacati erano ancora organizzazioni utili della classe operaia, il cui ruolo era quello di migliorare le condizioni di vita e di lavoro all’interno del capitalismo, tale affermazione era senza dubbio corretta. Ma oggi, poiché i sindacati sono diventati parte dello Stato capitalista, gli operai non hanno nulla da guadagnare nel sostenere il diritto di sciopero. Tale richiesta in realtà non è altro che una lotta affinché i sindacati abbiano il controllo delle lotte operaie. La classe operaia non ha alcuno bisogno di lottare per la legalizzazione dei propri scioperi, perché nelle condizioni del capitalismo di Stato totalitario qualsiasi sciopero capace di creare un vero rapporto di forza con la borghesia è per definizione illegale. Lo scopo di questa campagna per il diritto di sciopero è principalmente quello di garantire che la lotta rimanga confinata negli stretti limiti legali imposti dalla politica borghese e dal controllo sindacale. Se la borghesia garantisce il diritto di sciopero, l’obiettivo è innanzitutto quello di ridurre le lotte operaie a proteste inoffensive, e per fare pressione su uno dei “partner della negoziazione”.
Dopo lo sciopero dei lavoratori municipali di Portland, i compagni de Il Partito, nella primavera di quest'anno, hanno “promosso, insieme ad altri militanti sindacali, un coordinamento che hanno chiamato Class Struggle Action Network (CSAN), Rete per la Lotta di Classe, volto a unire le lotte operaie”[8]. Questo CSAN è intervenuto, ad esempio, nello sciopero degli infermieri lo scorso giugno. Ma quale è realmente la natura di questo CSAN? Quale potrebbe essere la prospettiva di una tale rete “volto a unire le lotte operaie”?
Questo CSAN non è apparso in reazione ad un bisogno particolare degli operai di prendere nelle loro mani la lotta, di inviare delegazioni massicce ad altri lavoratori, di organizzare assemblee generali aperte a tutti i lavoratori o trarre lezioni per preparare nuove lotte. Niente di tutto ciò: la Rete è stata creata completamente al di fuori delle dinamiche concrete della lotta dai compagni de Il Partito, “ispirandosi agli stessi principi e metodi che hanno permesso la nascita del Coordinamento Lavoratori e Lavoratrici Autoconvocati in Italia”[9] negli anni '80. E sul sito di questa Rete[10] possiamo leggere, e non è un caso, un articolo de Il Partito in cui viene espresso chiaramente che l'obiettivo è lavorare “per la rinascita dei sindacati di classe”.
Come abbiamo sottolineato prima, i sindacati sono oggi strumenti dello Stato borghese e ogni rinascita sotto forma di un'organizzazione veramente proletaria è impossibile. Pertanto, la politica de Il Partito non può che intrappolare i lavoratori combattivi in una lotta vana e scoraggiante. In questo contesto, il CSAN subirà la stessa sorte di qualsiasi organismo creato artificialmente: o rimarrà un’appendice de Il Partito[11], oppure diventerà un’espressione radicale del sindacalismo borghese. Ma sicuramente scomparirà dopo i tentativi de Il Partito di mantenerlo artificialmente in vita. Potrà così seppellire in silenzio questo bambino nato morto, senza che sia necessario imparare ulteriori lezioni da questa esperienza.
Nello sciopero dei lavoratori della municipalità “i compagni hanno partecipato ai picchetti e hanno aiutato gli operai a rafforzarli”[12]. Nell'articolo sull'intervento nella lotta degli infermieri si parla solo dell'intervento dei “partecipanti ai picchetti di solidarietà” del CSAN. Ciò dà l'impressione che di fatto non vi sia stato alcun intervento de Il Partito distinto e separato dalla Rete. Così i compagni de Il Partito hanno partecipato individualmente ai picchetti di febbraio e di giugno. Ma perché? Perché gli operai non possono assumere nelle proprie mani questo compito? Oppure i compagni che hanno partecipato lo hanno fatto in qualità di delegati di altri luoghi di lavoro? Le risposte a queste domande non si trovano negli articoli de Il Partito. Fondamentalmente, dietro l'intervento de Il Partito, bisogna evidenziare una grande ambiguità sul ruolo dell'avanguardia rivoluzionaria della classe.
La responsabilità dei rivoluzionari
In primo luogo, il compito dell’organizzazione politica di classe non è quello di aiutare la classe a rafforzare un picchetto, di raccogliere fondi per sostenere finanziariamente uno sciopero, né di assumere altri compiti pratici per i lavoratori in sciopero. Gli operai sono perfettamente in grado di fare tutto questo da soli, senza che nessuno lo faccia per loro. Un'organizzazione comunista ha altro da fare, e non è né tecnico né materiale, ma essenzialmente politico. La lotta della classe operaia deve essere rafforzata dall'intervento politico organizzato dell'organizzazione rivoluzionaria.
In connessione con questo orientamento di essere un fattore politico attivo nello sviluppo della coscienza e dell'azione autonoma della classe operaia, le organizzazioni comuniste devono proporre un'analisi delle condizioni della lotta di classe, lucida e dotata di un metodo chiaro, per poter denunciare e combattere questi nemici della classe operaia che sono i sindacati. Il Partito, che giustifica irresponsabilmente la possibilità di riabilitare il sindacalismo o la lotta attraverso i sindacati, nonostante decenni di sabotaggio e ingabbiamento delle lotte da parte di questi organi, in questo quadro non può che indebolire la lotta di classe dei lavoratori. Questa forma di opportunismo oltre a seminare confusione può solo spingere gli operai in un vicolo cieco.
Dennis, 15 novembre 2023
[1] Leggi il nostro volantino: Scioperi e manifestazioni negli Stati Uniti, Spagna, Grecia, Francia... Come possiamo sviluppare e unire le nostre lotte? [16]
[2] "ICP intervention in the Portland City Workers’ Strike [17]", The Communist Party Issue 51.
[3] Ibidem
[5] "Questions from the Usa on the SI Cobas and the Trade Unions [19]", The Communist Party Issue 4.
[6] Ibidem
[7] The proletarian struggle under decadence [20], International Review n.23, 1980, anche in spagnolo e francese
[8] "A Portland, in Oregon: Una Rete per la Lotta di Classe [21]", Il Partito Comunista N. 422.
[9] Ibidem
[11] Il primo bollettino “sindacalista di classe” del CSAN di ottobre annunciava già “l'incontro mensile organizzato collettivamente del CSAN [che] funzionerà esso stesso sul modello del centralismo democratico”
[12] "ICP intervention in the Portland City Workers’ Strike [17]", The Communist Party Issue 51.
La borghesia ha sempre avuto la massima cura nel distorcere la storia del movimento operaio e nel dipingere coloro che in esso si sono distinti con tratti innocui o ripugnanti.
La borghesia lo sa quanto noi, e per questo si sforza ancora con tutti i mezzi possibili di distorcere o mascherare la trasmissione delle lotte dei grandi rivoluzionari del passato e dei contributi al movimento operaio per cancellarli dalla memoria storica del proletariato, dal momento che una delle sue armi fondamentali nella continuità del suo scontro con il capitalismo risiede nella sua coscienza di classe, che inevitabilmente è nutrita dalla teoria rivoluzionaria, dalla teoria marxista, così come dalle lezioni e dalle esperienze delle sue lotte. Oggi, a un secolo dalla morte di Lenin, dobbiamo aspettarci ancora una volta attacchi ideologici contro il grande rivoluzionario che fu, contro tutti i suoi contributi alle lotte del proletariato: teorici, organizzativi, strategici...
La falsificazione di Lenin da parte della borghesia
Se Marx viene presentato come un filosofo audace e anche un po’ sovversivo, i cui contributi apparentemente obsoleti avrebbero tuttavia consentito al capitalismo di evitare i suoi peggiori fallimenti, lo stesso non si può dire di Lenin. Lenin ha partecipato ed ha avuto un grande ruolo nella più grande esperienza rivoluzionaria del proletariato, ha partecipato ad un evento che ha scosso le fondamenta del capitalismo. Di questa esperienza fondamentale, ricchissima di insegnamenti per le future lotte del proletariato, Lenin ha lasciato grandi tracce attraverso i suoi numerosi scritti. Ma molto prima della Rivoluzione d’Ottobre, Lenin aveva dato un contributo decisivo nel definire i contorni dell’organizzazione del proletariato sia politicamente che strategicamente. Ha implementato un metodo di dibattito, la riflessione e la costruzione teorica che sono armi essenziali per i rivoluzionari di oggi.
Anche questo sa la borghesia. Lenin non era un “uomo di Stato” come la borghesia afferma continuamente, ma piuttosto un militante rivoluzionario impegnato all’interno della sua classe. È ciò che la borghesia cerca maggiormente di nascondere, presentando Lenin come un uomo autoritario, che decide da solo, che rigetta i suoi oppositori, che apprezza la repressione ed il terrore a vantaggio solo dei suoi interessi personali. In questo modo la classe dominante può tracciare una linea diretta continua, una linea di uguaglianza tra Lenin e Stalin che avrebbe completato l’opera del primo instaurando nell’URSS un sistema di terrore che sarebbe l’esatto esito dei disegni personali di Lenin.
Per giungere a questa conclusione, oltre ad un flusso permanente di spudorate menzogne, la borghesia si sofferma sugli errori di Lenin isolandoli da tutto il resto, e soprattutto dal processo di dibattito e di chiarificazione all'interno del quale questi errori sono sorti e dove potevano essere naturalmente superati. Li isola anche dal contesto internazionale di sconfitta del movimento rivoluzionario mondiale che non ha permesso alla rivoluzione russa di continuare la sua opera e l’ha costretta a ripiegare verso un singolare capitalismo di Stato posto sotto il pugno di Stalin.
I gauchisti, trotskisti in testa, non sono gli ultimi a capitalizzare le loro mistificazioni ideologiche sugli errori di Lenin, in particolare quando questi si sbagliava gravemente e si illudeva sulle lotte di liberazione nazionale e sulle potenzialità del proletariato dei paesi della periferia del capitalismo (teoria dell’anello debole). Questa estrema sinistra del capitale ha sfruttato e sfrutta ancora oggi questi errori per scatenare la sua propaganda borghese guerrafondaia e spingere i proletari a diventare carne da cannone nei conflitti imperialisti attraverso i suoi slogan nazionalisti e il sostegno di un campo imperialista contro un altro, totalmente opposto alla prospettiva rivoluzionaria e internazionalista che Lenin difese con determinazione.
Lo stesso vale per l’errata concezione di Lenin dei trust e delle grandi banche, secondo la quale la concentrazione dei capitali faciliterebbe la transizione al comunismo. I gauchisti se ne sono approfittati per sostenere la nazionalizzazione delle banche e delle grandi industrie e promuovere così il capitalismo di Stato come trampolino di lancio verso il comunismo ed anche per giustificare la loro falsa argomentazione secondo cui l’economia “sovietica” e la brutalità dello sfruttamento nell’URSS non erano capitalismo.
Ma Lenin non può assolutamente essere riassunto riducendolo agli errori che ha commesso. Non si tratta però di ignorarli. In primo luogo perché forniscono lezioni importanti al movimento operaio attraverso un esame critico. Ma anche perché, di fronte al ritratto ripugnante che la borghesia ne fa, non bisogna contrapporre un Lenin come un leader perfetto e onnisciente.
Lenin era, infatti, un combattente della classe operaia la cui tenacia, acume organizzativo, convinzione e metodo incutevano rispetto. La sua influenza sul corso rivoluzionario dell'inizio del secolo scorso è indiscutibile. Ma tutto ciò avviene in un contesto, un movimento, una lotta, un dibattito internazionale senza il quale Lenin non avrebbe potuto fare nulla, non avrebbe potuto contribuire al movimento rivoluzionario della classe operaia, così come Marx non avrebbe potuto agire e realizzare la sua immensa opera al servizio del proletariato né portare il proprio impegno e la propria energia militante alla costruzione di un’organizzazione proletaria internazionale senza un contesto storico di nascita politica della classe operaia.
È solo in tali condizioni che gli individui rivoluzionari si esprimono e danno il meglio di sé. Fu in particolari condizioni storiche che, nel corso della sua breve vita, Lenin costruì e lasciò in eredità un contributo fondamentale per l'intero proletariato, sul piano organizzativo, politico, teorico e strategico.
Il militante, il combattente
Lungi dall’essere un intellettuale accademico, Lenin era soprattutto un militante rivoluzionario. L'esempio della conferenza di Zimmerwald[1] è lampante a questo livello. Lenin era sempre stato un accanito difensore dell’internazionalismo proletario, per cui posizionandosi in prima linea nella lotta contro il fallimento della Seconda Internazionale che avrebbe trascinato il proletariato in guerra nel 1914, si ritroverà in prima linea nella lotta per mantenere in vita la fiamma internazionalista mentre i cannoni si scatenavano in Europa.
Ma la conferenza di Zimmerwald non riunì soltanto degli internazionalisti convinti, vi furono anche molti difensori delle illusioni pacifiste che indebolirono il progetto di Lenin di combattere la follia nazionalista che teneva il proletariato sotto una coltre di piombo. Lenin, però, all’interno della delegazione bolscevica, riuscì a capire che l’unico modo per lanciare un appello di speranza al proletariato, in quel momento, richiedeva importanti compromessi con le altre tendenze della conferenza.
Ma continuerà la lotta, anche dopo il Convegno, per chiarire la posta in gioco, criticando con decisione il pacifismo e le pericolose illusioni che esso veicolava. Questa costanza, questa determinazione nel difendere le proprie posizioni rafforzandole attraverso l'approfondimento teorico e il confronto di argomenti è al centro di un metodo che deve ispirare ogni militante rivoluzionario oggi.
Il difensore dello spirito di partito
Sul piano organizzativo, Lenin diede un immenso contributo militante durante i dibattiti che agitarono il secondo congresso del partito russo nel 1903[2]. Aveva già delineato i contorni della sua posizione nel 1902 nel Che fare? un opuscolo pubblicato come contributo al dibattito interno al partito in cui si opponeva alle visioni economistiche che si andavano sviluppando, e promuoveva invece una visione di partito rivoluzionario, vale a dire un'arma per il proletariato nel suo assalto al capitalismo.
Ma fu proprio durante questo secondo congresso che seppe condurre una lotta decisa e determinata per far sì che la sua visione del partito rivoluzionario fosse accolta all'interno del POSDR: un partito di militanti, animati da uno spirito combattivo, consapevoli del proprio impegno e delle proprie responsabilità nella classe di fronte ad una concezione lassista dell’organizzazione rivoluzionaria vista come una somma, un aggregato di “simpatizzanti” e di contributori occasionali, come difendevano i menscevichi. Questa lotta sarà quindi anche un momento di chiarificazione di ciò che è un militante in un partito rivoluzionario: non il membro di un gruppo di amici che privilegiano la lealtà personale ma il membro di un'organizzazione i cui interessi comuni, espressione di una classe unita e solidale, prendono precedenza su tutto il resto. È questa lotta che ha permesso al movimento operaio di cominciare ad andare oltre lo “spirito di circolo” verso lo “spirito di partito”.
Questi principi permisero al partito bolscevico di svolgere un ruolo di primo piano nello sviluppo delle lotte in Russia fino alla insurrezione d’Ottobre, organizzandosi come partito d’avanguardia, difendendo gli interessi della classe operaia e combattendo ogni intrusione di ideologie estranee al suo interno. Noi continuiamo a difendere questi principi e a rivendicarli come unico mezzo per costruire il partito di domani.
Nella sua opera Un passo avanti, due passi indietro, Lenin ritorna su questa lotta del Secondo Congresso e dimostra in ogni pagina il metodo che ha usato per chiarire queste questioni: pazienza, tenacia, argomentazione, convinzione. E non, come vorrebbe farci credere la borghesia: autoritarismo, minaccia, esclusione. L’impressionante quantità di scritti che Lenin ha lasciato è già sufficiente per comprendere fino a che punto egli difese e fece vivere il principio dell’argomentazione paziente e determinata come unico modo per portare avanti le idee rivoluzionarie: convincere piuttosto che imporre.
Il difensore della prospettiva rivoluzionaria
Quattordici anni dopo il congresso del 1903, nell’aprile 1917, Lenin tornò dall’esilio e applicò lo stesso metodo per portare il suo partito a chiarire le questioni del periodo. Le famose Tesi di aprile[3] elencheranno in poche righe argomenti forti, chiari e convincenti per impedire al partito bolscevico di chiudersi nella difesa del governo provvisorio di carattere borghese e, di contro, impegnarsi nella lotta per una seconda fase rivoluzionaria.
Non si trattò di un testo scritto da Lenin in nome del partito che lo avrebbe subito accettato così com'era, ma di un contributo ad un dibattito che si svolgeva nel partito e con il quale Lenin cercava di convincere la maggioranza. In questo testo Lenin definisce una strategia basata sul carattere minoritario del partito tra le masse, che richiede discussione e propaganda paziente: “spiegare pazientemente, sistematicamente, ostinatamente”. Questo è ciò che in realtà era Lenin, che la borghesia continua a dipingere come “autocratico e sanguinario”.
Lenin non cercò mai di imporre ma sempre di convincere. Per questo dovette sviluppare argomenti solidi e per questo dovette sviluppare la padronanza della teoria: non per sua cultura personale ma per trasmetterla meglio a tutto il partito e alla classe operaia come arma per le sue lotte future. Un approccio che lui stesso sintetizza: “non c'è movimento rivoluzionario senza teoria rivoluzionaria” e che un'opera particolarmente importante ci permette di comprendere in modo concreto: Lo Stato e la Rivoluzione[4]. Mentre nelle Tesi di aprile Lenin mette in guardia contro lo Stato risultante dall’insurrezione di febbraio e sottolinea la necessità di costruire una dinamica rivoluzionaria con decisione contro questo Stato, in settembre sente che il tema diventa sempre più cruciale e si impegna a scrivere questo testo per sviluppare un argomento basato sulle conquiste del marxismo sulla questione dello Stato. Lavoro che non sarà mai terminato poiché verrà interrotto dall'insurrezione d’Ottobre.
Anche qui viene illustrato il metodo di Lenin. Alla borghesia piace proporre uomini presentati come leader naturali la cui autorità deriva solo dal loro “genio”, dal loro “estro”. Lenin, al contrario, deve la sua capacità di convincere a un profondo impegno per la causa che difende. Invece di cercare di imporre il suo punto di vista approfittando della sua autorità all’interno del partito o macchinando dietro le quinte, si è immerso nel lavoro del movimento operaio sulla questione dello Stato per approfondire l’argomento e difendere meglio l’idea della rottura con l’idea socialdemocratica di impossessarsi semplicemente dell’apparato statale esistente e per evidenziare la necessità imperativa di distruggerlo.
Un rivoluzionario non può “scoprire” la giusta strategia solo attraverso la sua genialità, ma attraverso una profonda comprensione delle poste in gioco della situazione e del rapporto di forze tra le classi. Ciò venne illustrato in modo esemplare nel luglio 1917[5]. Mentre in aprile il partito bolscevico lanciava la parola d’ordine “tutto il potere ai soviet” per orientare la classe operaia contro lo Stato borghese nato dalla rivoluzione di febbraio, a luglio a Pietrogrado, il proletariato cominciò ad opporsi in maniera massiccia al potere democratico. La borghesia fece allora quello che sapeva fare meglio: tese una trappola al proletariato cercando di provocare un’insurrezione prematura che le avrebbe permesso di scatenare una repressione senza limiti, in particolare contro i bolscevichi.
Il successo di un’impresa del genere avrebbe senza dubbio compromesso in modo decisivo la dinamica rivoluzionaria in Russia, e la Rivoluzione d’Ottobre sicuramente non avrebbe potuto avere luogo. In quel momento, il ruolo del partito bolscevico fu fondamentale per spiegare alla classe operaia che non era giunto il momento di condurre l’assalto e che altrove, tranne che a Pietrogrado, il proletariato non era pronto e sarebbe stato decimato.
Per fare chiarezza sulle parole d’ordine da lanciare in un determinato momento, era necessario poter capire in profondità quali fossero i rapporti di forza tra le due classi determinanti della società, ma era necessario anche avere la fiducia del proletariato visto che quest’ultimo, a Pietrogrado, puntava soltanto sul rovesciamento del governo. Questa fiducia non è stata acquisita con la forza, la minaccia o qualsiasi artificio “democratico”, ma con la capacità di guidare la classe in modo chiaro, profondo, ragionato. Il ruolo di Lenin in questi avvenimenti fu senza dubbio cruciale, ma furono gli anni della sua lotta incessante e paziente, dalla fondazione del partito moderno del proletariato nel 1903 a quelle giornate di luglio, attraverso Zimmerwald, attraverso le Tesi dell'aprile 1917, che permisero al Partito bolscevico di assumere il ruolo che sarebbe stato il suo in ogni periodo ed essere così riconosciuto da tutto il proletariato come il vero faro della rivoluzione comunista.
La borghesia potrà sempre rappresentare Lenin come uno stratega assetato di potere, un uomo orgoglioso che non tollera né la protesta né il riconoscimento dei suoi errori; potrà sempre riscrivere la storia del proletariato russo e della sua rivoluzione sotto questa luce, ma la vita e l'opera di Lenin sono una continua negazione di queste rozze manovre ideologiche. Per tutti i rivoluzionari di oggi e di domani, la profondità del suo impegno, il rigore nell’applicazione della teoria e del metodo marxista, l’inalterabile fiducia che ripone nella capacità della sua classe di condurre l’umanità verso il comunismo fanno di Lenin, un secolo dopo la sua morte, un esempio infinitamente ricco di ciò che dovrebbe essere un militante comunista.
GD, gennaio 2024
[1] . Vedi “Zimmerwald (1915-1917): dalla guerra alla rivoluzione”, (in francese) Revue Internationale n° 44 (1986), https://fr.internationalism.org/rinte44/zimmer.htm [23].
[2] Lo scopo di questo articolo non è quello di entrare nei dettagli di questa lotta; rimandiamo i nostri lettori all'articolo che abbiamo scritto su questo argomento: “Storia del movimento operaio. 1903-1904: La nascita del bolscevismo” Parte 1, Parte 2 e Parte 3, Revue Internationale 116, 117 e 118.
[3] Vedi: “Le Tesi di aprile”, faro della rivoluzione proletaria”, https://it.internationalism.org/content/384/le-tesi-di-aprile-faro-della-rivoluzione-proletaria [24]
[4] Vedi “Lo Stato e la Rivoluzione”, una sorprendente verifica del marxismo”, https://it.internationalism.org/rint/21_Lenin [25]
[5] Vedi: “Le giornate di luglio, il partito contrasta una provocazione della borghesia”, https://it.internationalism.org/content/385/le-giornate-di-luglio-il-partito-sventa-una-provocazione-della-borghesia [26]
La Corrente Comunista Internazionale organizza un incontro online
Mercoledì 24 aprile 2024, alle 18
Questi incontri sono aperti a tutti coloro che desiderano incontrare e discutere con la CCI. Invitiamo caldamente tutti i nostri lettori e sostenitori a venire a discutere le questioni in gioco e a confrontare i punti di vista. Vi invitiamo a farci sapere se avete domande da porre.
I lettori che desiderano partecipare alle sessioni online possono inviare un messaggio al nostro indirizzo e-mail ([email protected]) [27] o alla sezione "contatti [28] " del nostro sito web, indicando le questioni che desiderano sollevare per permetterci di organizzare i dibattiti nel modo più efficace possibile.
I dettagli tecnici sulle modalità di connessione all'evento saranno comunicati in seguito.
CCI
I titoli dei giornali non lasciano dubbi: dal luglio 2022 qualcosa sta accadendo nella classe operaia. I lavoratori hanno trovato la via della lotta proletaria a livello internazionale. E questo è davvero un evento “storico”.
La CCI ha qualificato questo cambiamento come una “rottura”. Riteniamo che si tratti di una promettente nuova dinamica per il futuro.
Perché?
Quale approccio dobbiamo adottare per comprendere il significato dell’attuale ripresa della lotta?
Nel gennaio 2022, anche se la crisi sanitaria da Covid era ancora in atto, scrivevamo in un volantino internazionale[1]: “In tutti i paesi, in tutti i settori, la classe operaia vive una degradazione insopportabile delle condizioni di vita e di lavoro. Tutti i governi, di destra o di sinistra, tradizionali o populisti, attaccano senza sosta. Gli attacchi piovono sotto il peso dell'aggravarsi della crisi economica globale.
Nonostante la paura di una crisi sanitaria opprimente, la classe operaia comincia a rispondere. Negli ultimi mesi ci sono state lotte negli Stati Uniti, in Iran, Italia, Corea, Spagna e Francia. Certo, non si tratta di movimenti di massa: gli scioperi e le manifestazioni sono ancora troppo esili, troppo dispersi. Tuttavia la borghesia li sorveglia come il latte sul fuoco, consapevole della portata della rabbia che ribolle.
Come affrontare gli attacchi della borghesia? Rimanere isolati e divisi, ognuno nella “propria” impresa, nel proprio” settore di attività? Questo sicuramente ci rende impotenti! Allora come possiamo sviluppare una lotta unita e di massa?”
Se dal primo mese del 2022 abbiamo scelto di fare e distribuire questo volantino è perché conoscevamo le potenzialità attuali della nostra classe. A giugno, appena 5 mesi dopo, nel Regno Unito è scoppiata "L'estate della collera" (The Summer of Anger), la più grande ondata di scioperi nel paese dal 1979 e del suo "Inverno della collera" (Winter of Anger)[2], un movimento che annunciava tutta una serie di lotte "storiche” in tutto il mondo. Mentre scriviamo queste righe, è in Quebec che lo sciopero si sta estendendo.
Per comprendere la profondità del processo in corso, e le sue sfide, dobbiamo adottare un approccio storico, lo stesso che ci ha permesso di rilevare nell’agosto 2022 questa famosa “rottura”.
1910-1920
Nell’agosto del 1914, il capitalismo annunciò il suo ingresso nella decadenza attraverso la più barbara e sconvolgente maniera possibile, scoppiava la Prima Guerra Mondiale. Durante quattro anni terribili e spaventosi, in nome della Patria, milioni di proletari dovettero massacrarsi nelle trincee, mentre quelli rimasti nelle retrovie – uomini, donne e bambini – furono costretti a faticare notte e giorno per “sostenere lo sforzo bellico”. Le armi sputavano proiettili, le fabbriche sputavano armi. Ovunque, il capitalismo ingoiava metallo e anime.
Di fronte a queste condizioni insopportabili, i lavoratori si ribellarono. Fraternizzazione al fronte, scioperi nelle retrovie. In Russia la dinamica diventò rivoluzionaria, fu l'insurrezione di ottobre. Questa presa del potere da parte del proletariato fu un grido di speranza sentito dagli sfruttati di tutto il mondo. L'ondata rivoluzionaria raggiunse la Germania. Fu questa diffusione che mise fine alla guerra: le borghesie, terrorizzate da questa epidemia rossa, preferirono porre fine alla carneficina e unirsi di fronte al loro nemico comune: la classe operaia. Il proletariato mostrò qui la sua forza, la sua capacità di organizzarsi in modo massiccio, di prendere in mano le redini della società e di offrire a tutta l’umanità una prospettiva diversa da quella promessa dal capitalismo. Da una parte sfruttamento e guerra, dall’altra solidarietà internazionale e pace. Da una parte la morte, dall’altra la vita. Se questa vittoria fu possibile, fu perché la classe e le sue organizzazioni rivoluzionarie avevano accumulato una lunga esperienza nel corso di decenni di lotte politiche a partire dai primi scioperi operai degli anni Trenta dell’Ottocento.
In Germania, nel 1919, 1921 e 1923, i tentativi di insurrezione furono repressi nel sangue (dalla socialdemocrazia allora al potere). Sconfitta in Germania, l’ondata rivoluzionaria fu spezzata, in Russia il proletariato si trovò isolato. Questa sconfitta rappresentò ovviamente una tragedia ma anche e soprattutto una fonte inesauribile di lezioni per il futuro (come comportarsi di fronte ad una borghesia forte e organizzata, con la sua democrazia, con la sua sinistra; come organizzarsi in assemblee generali permanenti; che ruolo ha il partito e che rapporto ha con la classe, con le assemblee e i consigli operai...).
1930-1940-1950
Poiché il comunismo è possibile solo su scala mondiale, l'isolamento della rivoluzione in Russia significò implacabilmente la sua degenerazione. Fu così, “dall’interno”, che la situazione degenerò fino al trionfo della controrivoluzione. La tragedia fu che quella sconfitta rese possibile anche l’identificazione fraudolenta della rivoluzione con lo stalinismo, che falsamente si presentò come suo erede quando in realtà l’assassinava. Solo pochi vedranno lo stalinismo come una controrivoluzione. Gli altri lo difenderanno o lo rifiuteranno, ma tutti sosterranno la menzogna della continuità Marx-Lenin-Stalin, distruggendo così le inestimabili lezioni della rivoluzione.
Il proletariato risultò sconfitto su scala internazionale. Divenne incapace di reagire alle nuove devastazioni della crisi economica: l’inflazione galoppante in Germania negli anni ’20, il crollo del 1929 negli Stati Uniti, ovunque disoccupazione di massa. La borghesia potette così scatenare i suoi mostri e marciare verso una nuova guerra mondiale. Nazismo, franchismo, fascismo, antifascismo… da una parte e dall’altra delle frontiere, i governi si mobilitarono accusando il “nemico” di essere un barbaro. Durante quei decenni bui, i rivoluzionari internazionalisti furono perseguitati, deportati e assassinati. I sopravvissuti si arresero, terrorizzati o moralmente schiacciati. Altri ancora, disorientati e vittime della menzogna “stalinismo = bolscevismo”, rigettarono tutte le lezioni dell’ondata rivoluzionaria e, per alcuni, perfino la teoria della classe operaia come classe rivoluzionaria. Era la “Mezzanotte del secolo”[3]. Solo pochi mantennero la rotta, aggrappandosi a una profonda comprensione di cosa sia la classe operaia, che cosa è la sua lotta per la rivoluzione, quale è il ruolo delle organizzazioni proletarie – incarnare la dimensione storica, la continuità, la memoria e lo sforzo teorico permanente della classe rivoluzionaria. Questa corrente si chiamò e si chiama ancora Sinistra Comunista.
Alla fine della Seconda Guerra Mondiale, i grandi scioperi nel Nord Italia, e in misura minore in Francia, indussero a credere in un risveglio della classe operaia. Anche Churchill e Roosevelt ci credettero; traendo insegnamento dalla fine della Prima Guerra Mondiale e dall’ondata rivoluzionaria, bombardarono “preventivamente” tutti i quartieri operai della Germania sconfitta per proteggersi da ogni rischio di rivolta: Dresda, Amburgo, Colonia… tutte queste città vennero rase al suolo con bombe incendiarie, uccidendo centinaia di migliaia di persone. In realtà, questa generazione era stata troppo segnata dalla controrivoluzione e dalla sua repressione ideologica partita dagli anni 20. E la borghesia potette continuare a chiedere agli sfruttati di sacrificarsi senza rischiare una reazione: bisogna ricostruire, aumentare la produttività. Il Partito Comunista Francese ordinò di “rimboccarsi le maniche”.
1968
Fu in questo contesto che scoppiò il più grande sciopero della storia: quello del Maggio 68 in Francia. Quasi tutta la Sinistra comunista non coglierà il significato di questo evento, non riuscendo a comprendere il profondo cambiamento della situazione storica. Un piccolissimo gruppo della Sinistra comunista, apparentemente emarginato in Venezuela, avrà un approccio completamente diverso. Fin dal 1967 Internacionalismo capì che qualcosa stava cambiando. Da un lato, i suoi membri notarono una leggera ripresa degli scioperi e trovarono elementi in tutto il mondo interessati a discutere della rivoluzione. Ci furono anche reazioni alla guerra del Vietnam che, pur dirottate sul terreno del pacifismo, mostravano che la passività e l’accettazione dei decenni precedenti cominciavano a svanire. Capirono inoltre che la crisi economica stava ritornando, annunciata dalla svalutazione della sterlina e dal riemergere della disoccupazione di massa. Tanto che nel gennaio 1968 scrissero: “Noi non siamo profeti e non pretendiamo di indovinare quando e come si svolgeranno gli eventi futuri. Ma ciò di cui siamo effettivamente sicuri e consapevoli riguardo al processo in cui è attualmente immerso il capitalismo è che non è possibile fermarlo (...) e che porta direttamente alla crisi. E siamo anche sicuri che il processo inverso di sviluppo della combattività della classe, che attualmente stiamo vivendo in generale, condurrà la classe operaia in una lotta sanguinosa e diretta per la distruzione dello Stato borghese” (Internacionalismo n°8). Cinque mesi dopo, lo sciopero generalizzato del Maggio 68 in Francia confermava sorprendentemente queste previsioni. Evidentemente non era ancora il momento di “una lotta diretta per la distruzione dello Stato borghese”, ma piuttosto quello di una ripresa storica del proletariato mondiale, alimentata dalle prime manifestazioni della crisi aperta del capitalismo, dopo la più profonda controrivoluzione della storia. Quelle previsioni non furono chiaroveggenza, ma semplicemente la straordinaria padronanza del marxismo da parte d'Internacionalismo e della fiducia che, anche nei momenti peggiori della controrivoluzione, questo gruppo aveva conservato verso le capacità rivoluzionarie della classe. Quattro elementi sono al centro dell'approccio d’Internacionalismo, quattro elementi che gli permetteranno di anticipare il maggio 68 e poi di comprendere, nel vivo degli eventi, la rottura storica che quello sciopero aveva generato, cioè la fine della controrivoluzione e il ritorno sulla scena internazionale del proletariato in lotta. Questi quattro elementi costituiscono una comprensione profonda:
1) il ruolo storico del proletariato come classe rivoluzionaria;
2) la gravità della crisi economica e il suo impatto sulla classe, come stimolo alla combattività;
3) lo sviluppo continuo della coscienza all'interno della classe, una riflessione visibile attraverso le domande che animano le discussioni delle minoranze in cerca di posizioni rivoluzionarie;
4) la dimensione internazionale di questa dinamica generale, crisi economica e lotta di classe.
Sullo sfondo di tutto questo approccio, c'era in Internacionalismo l'idea che stava emergendo una nuova generazione, una generazione che non aveva vissuto la controrivoluzione, una generazione che si confrontava con il ritorno della crisi economica avendo conservato tutto il suo potenziale di riflessione e di lotta, una generazione capace di portare in primo piano il ritorno del proletariato in lotta. Fu proprio questo il Maggio 68, che avrebbe aperto la strada a tutta una serie di lotte a livello internazionale. Ancor di più, stava cambiando l’intero clima sociale: dopo gli anni bui, i lavoratori avevano sete di discutere, elaborare, “rifare il mondo”, soprattutto i giovani. La parola “rivoluzione” si sentiva ovunque. I testi di Marx, Lenin, Luxemburg, così come quelli della Sinistra Comunista circolavano e provocavano dibattiti incessanti. La classe operaia stava cercando di riappropriarsi del suo passato e delle sue esperienze. Contro questo sforzo, tutta una serie di correnti – stalinismo, maoismo, trotskismo, castrismo, modernismo ... – si frapposero per pervertire le lezioni del 1917. La grande menzogna stalinismo = comunismo venne sfruttata in tutte le sue forme.
1970-1980
La prima ondata di lotte fu senza dubbio la più spettacolare: l'autunno caldo italiano del 1969, la violenta rivolta a Cordoba in Argentina nello stesso anno e il grande sciopero in Polonia nel 1970, movimenti importanti in Spagna e Gran Bretagna nel 1972... In Spagna, in particolare, i lavoratori cominciarono ad organizzarsi attraverso assemblee di massa, un processo che raggiunse il suo culmine a Vitoria nel 1976. La dimensione internazionale dell’ondata arrivò fino in Israele (1969) e in Egitto (1972) e, più tardi, rivolte nelle township (borgate) del Sud Africa guidate da comitati di lotta (i "Civics"). Durante questo periodo, Internacionalismo lavorò per raggruppare le forze rivoluzionarie. Un piccolo gruppo con sede a Tolosa e che pubblicava un giornale chiamato Révolution Internationale si unì a questo processo. Insieme, nel 1975, formarono quella che ancora oggi è la Corrente Comunista Internazionale, la nostra organizzazione. I nostri articoli lanciarono “Un saluto alla crisi!” perché, per usare le parole di Marx, non bisogna “vedere nella miseria solo la miseria” ma al contrario “il lato rivoluzionario, sovversivo, che rovescerà la vecchia società” (Miseria della filosofia, 1847). Dopo una breve interruzione a metà degli anni '70, si propagò una seconda ondata: scioperi dei lavoratori petroliferi iraniani, delle acciaierie in Francia nel 1978, "L'inverno della rabbia" in Gran Bretagna, dei lavoratori portuali a Rotterdam (guidati da un comitato di sciopero indipendente), metalmeccanici in Brasile nel 1979 (che contestavano anche il controllo sindacale). Questa ondata di lotte culminò con lo sciopero di massa in Polonia nel 1980, diretto da un comitato di sciopero interaziendale indipendente (il MKS), sicuramente l’episodio più importante della lotta di classe dal 1968. E anche se la dura repressione degli operai polacchi pose fine a quest’ondata, non passò molto tempo prima che prendesse forma un nuovo movimento con le lotte in Belgio nel 1983 e 1986, lo sciopero generale in Danimarca nel 1985, lo sciopero dei minatori in Inghilterra nel 1984-85, le lotte dei ferrovieri e degli operatori sanitari in Francia nel 1986 e 1988, così come il movimento dei dipendenti della scuola in Italia nel 1987. Le lotte in Francia e in Italia, in particolare – come lo sciopero di massa in Polonia – mostrarono una reale capacità di autorganizzazione con assemblee generali e comitati di sciopero.
Questo non è un semplice elenco di scioperi. Questo movimento di ondate di lotte non gira a vuoto, ma determina un reale progresso nella coscienza di classe. Come scrivevamo nell'aprile 1988, in un articolo intitolato “20 anni dopo il maggio 1968”: “Il semplice confronto tra le caratteristiche delle lotte di 20 anni fa con quelle di oggi ci permette di percepire rapidamente la portata dell'evoluzione che si è lentamente fatto spazio nella classe operaia. La sua stessa esperienza, sommata all'evoluzione catastrofica del sistema capitalista, le ha permesso di acquisire una visione molto più lucida della realtà della sua lotta. Ciò ha comportato:
Ma l’esperienza di questi 20 anni di lotta non ha fornito solo lezioni “negative” alla classe operaia (ciò che non dovrebbe essere fatto). Essa ha anche trasmesso lezioni su come agire:
D'altra parte, fu proprio quella forza della classe operaia che impedì, durante tutti questi anni, alla Guerra Fredda di trasformarsi in Terza Guerra Mondiale. Se le borghesie assestate in due blocchi erano pronte a sbranarsi, gli operai mostravano di non voler sacrificare le loro vite, a milioni, in nome della Patria. Questo lo si vide anche con la guerra del Vietnam: di fronte alle perdite dell’esercito americano (58.281 soldati), la protesta negli Stati Uniti crebbe costringendo la borghesia americana a ritirarsi dal conflitto nel 1973. La classe dominante non poté mobilitare gli sfruttati dei diversi paesi per uno scontro aperto e generalizzato. A differenza degli anni ’30, il proletariato non era sconfitto.
1990…
In realtà, gli anni ’80 cominciarono già a rivelare le difficoltà della classe operaia nello sviluppare ulteriormente la sua lotta, nel realizzare il suo progetto rivoluzionario:
La repressione in Polonia e lo sciopero represso negli Stati Uniti agiranno da vera mazzata disorientando il proletariato internazionale per quasi due anni.
Nel 1984, il Primo ministro britannico Margareth Thatcher andò ben oltre. La classe operaia della Gran Bretagna era allora considerata la più combattiva del mondo e, anno dopo anno, raggiunse il record di giorni di sciopero. La Lady di Ferro provocò i minatori; a braccetto con i sindacati, li isolò dal resto dei loro fratelli di classe; per un anno combatteranno da soli, fino allo sfinimento (la Thatcher e il suo governo avevano preparato il loro colpo, accumulando segretamente scorte di carbone); le manifestazioni furono represse nel sangue (tre morti, 20.000 feriti, 11.300 arresti). Il proletariato britannico impiegherà 40 anni per riprendersi da questo colpo, atonico e sottomesso fino all’estate del… 2022 (torneremo su questo). Questa sconfitta dimostrò soprattutto che il proletariato non era riuscito a comprendere la trappola, a spezzare il sabotaggio e la divisione sindacale. La politicizzazione delle lotte rimase in gran parte insufficiente, il che rappresenta un handicap crescente.
Una breve frase del nostro articolo del 1988 che abbiamo già citato riassume da sola il problema cruciale del proletariato di allora: “Si parla forse meno facilmente di rivoluzione nel 1988 che nel 1968”. Noi stessi allora non avevamo compreso sufficientemente tutta la portata di questa osservazione, ne stavamo solo percependo il senso. In effetti, la generazione che aveva compiuto il suo compito ponendo fine alla controrivoluzione nel maggio 1968 non era riuscita a sviluppare anche il progetto rivoluzionario del proletariato.
Questa mancanza di prospettiva cominciò a segnare tutta la società: la droga si diffuse insieme al nichilismo. Non fu un caso che proprio in questo periodo sui muri di Londra furono scritte con lo spray due piccole parole contenute in una canzone del gruppo punk The Sex Pistols: No future.
Fu in questo contesto che cominciarono ad emergere i limiti della generazione del 68 e che arriverà un colpo terribile alla nostra classe: il crollo del blocco dell’Est nel 1989-91 innescò una campagna assordante sulla “morte del comunismo". La grande menzogna “Stalinismo = comunismo” verrà ancora una volta sfruttata al massimo; tutti i crimini abominevoli di questo regime in realtà capitalista saranno attribuiti alla classe operaia e al “suo” sistema. Quel che è peggio, verrà gridato giorno e notte: “Ecco dove porta la lotta operaia: alla barbarie e al fallimento! Ecco dove porta questo sogno di rivoluzione: verso un incubo!” Il risultato si rivelò terribile: gli operai cominciarono a vergognarsi della loro lotta, della loro classe, della loro storia. Privati di prospettiva, negarono sé stessi, perdendo anche la memoria. Tutte le conquiste dei grandi movimenti sociali del passato caddero nel limbo dell'oblio. Questo cambiamento storico della situazione mondiale finì per far precipitare l’umanità in una nuova fase di declino capitalista: la fase di decomposizione.
La decomposizione non è un momento fugace e superficiale, è una dinamica profonda che struttura la società. La decomposizione è l’ultima fase del capitalismo decadente, una fase di agonia che finirà con la morte dell’umanità o con la rivoluzione. È il frutto del fatto che negli anni ’70-’80 né la borghesia né il proletariato riuscirono a imporre la propria prospettiva: guerra per l’uno, rivoluzione per l’altro. La decomposizione esprime questa sorta di blocco storico tra le classi:
1. La borghesia non ha inflitto alla classe operaia una sconfitta storica decisiva che le avrebbe lasciato la strada libera per lanciarsi in una nuova guerra mondiale.
2. La classe operaia, nonostante i 20 anni di lotta che impedirono la marcia verso la guerra e che videro sviluppi significativi nella coscienza di classe, non fu in grado di sviluppare la prospettiva della rivoluzione, di proporre la propria alternativa politica alla crisi del sistema.
Risultato: privato di ogni via d’uscita ma sprofondato ulteriormente nella crisi economica, il capitalismo decadente comincia a marcire. Questa putrefazione colpisce la società a tutti i livelli, l’assenza di prospettiva, di futuro, agisce come un vero veleno: aumento dell’individualismo, dell’irrazionalità, della violenza, dell’autodistruzione, ecc. La paura e l’odio prevalgono gradualmente. In Sudamerica si sviluppano i cartelli della droga, ovunque il razzismo... Il pensiero è segnato dall'impossibilità di proiettarsi oltre una visione breve e ristretta; la politica della borghesia si trova sempre più limitata. Questa atmosfera nauseabonda permea forzatamente i proletari, soprattutto perché non credono più nel futuro della rivoluzione, si vergognano del loro passato e non si sentono più una classe. Atomizzati, ridotti a semplici cittadini, subiscono il peso della putrefazione della società. La cosa più grave è sicuramente quella sorta di amnesia rispetto alle conquiste e ai progressi del periodo 1968-1989.
Per affondare ancora di più il colpo, le politiche economiche della classe dominante attaccano deliberatamente qualsiasi sentimento di identità di classe, sia frantumando i vecchi centri industriali di resistenza della classe operaia, sia introducendo forme di lavoro molto più atomizzate, come i cosiddetti “gig economy” (piccoli lavori saltuari) dove gli operai sono regolarmente trattati come “lavoratori autonomi”.
Per un’intera fascia della gioventù proletaria, la conseguenza è catastrofica: la tendenza a formare bande nei centri urbani, che esprimono la mancanza di qualsiasi prospettiva economica e la disperata ricerca di una comunità alternativa, che si traduce nella creazione di divisioni mortali tra i giovani, basata sulla rivalità tra quartieri e condizioni diverse, sulla concorrenza per il controllo dell’economia locale della droga, o sulle differenze razziali o religiose.
Se la generazione del ‘68 ha subito questo riflusso, la generazione che entrava nel mondo degli adulti nel 1990 – con la menzogna della “morte del comunismo” unita a questa dinamica di decomposizione della società – sembrava persa per la lotta di classe.
2000-2010
Nel 1999, a Seattle, durante una conferenza dell'OMC (Organizzazione Mondiale del Commercio), un nuovo movimento politico apparve sulla scena mediatica: quello anti-globalizzazione. 40.000 manifestanti, la stragrande maggioranza dei quali giovani, si opponevano all'evoluzione della società capitalista che mercifica l'intero pianeta. Al vertice del G8 di Genova nel 2001 erano 300mila.
Cosa rivela l’apparizione di questa corrente?
Contrariamente a quello che nel 1990 il presidente americano George Bush padre aveva promesso, “un nuovo ordine mondiale” fatto di “pace e prosperità”, la realtà del decennio fu ben diversa: guerra del Golfo nel 1991, in Jugoslavia nel 1993, genocidio in Ruanda nel 1994, crisi e fallimento delle “Tigri asiatiche” nel 1997… e ovunque aumento della disoccupazione, della precarietà, della “flessibilità”. In breve, il capitalismo ha continuato a sprofondare nella sua decadenza. Il che, inevitabilmente, ha spinto la classe operaia e tutti gli strati della società a preoccuparsi, a interrogarsi, a riflettere. Ognuno nel proprio angolo. L’emergere del movimento no-global è il risultato di questa dinamica: una protesta “cittadina”, che si oppone alla “globalizzazione” e richiede un capitalismo globale “giusto”. È un’aspirazione a un altro mondo, ma su un terreno non operaio, non rivoluzionario, sul terreno borghese della fede nella democrazia.
Gli anni 2000-2010 saranno un susseguirsi di tentativi di lotta che si dovranno confrontare tutti con l’importante debolezza legata alla perdita dell'identità di classe.
Il 15 febbraio 2003 ebbe luogo la più grande manifestazione globale mai registrata (fino ad oggi). 3 milioni di persone a Roma, 1 milione a Barcellona, 2 milioni a Londra, ecc. Si trattò di una protesta contro l'imminente guerra in Iraq – che scoppierà infatti a marzo, con il pretesto della lotta al terrorismo, durerà 8 anni e causerà 1,2 milioni di morti. In quel movimento c'era il rifiuto della guerra, laddove le guerre degli anni '90 non avevano suscitato alcuna resistenza. Ma era soprattutto un movimento di “cittadini” e pacifista; non era la classe operaia che lottava contro le velleità guerriere dei propri Stati, ma un insieme di cittadini che chiedevano una politica di pace ai propri governi.
Nel maggio-giugno 2003, in Francia si svolsero numerose manifestazioni contro la riforma del sistema pensionistico. Lo sciopero scoppiò nel settore dell’Istruzione Nazionale, ci fu la minaccia di uno “sciopero generale”, che alla fine non ebbe luogo e gli insegnanti rimasero isolati. Questo confinamento settoriale era stato il frutto, evidentemente, di una deliberata politica di divisione da parte dei sindacati, ma questo sabotaggio riuscì perché si basava su una grandissima debolezza della classe: gli insegnanti si consideravano persone diverse, non si sentivano lavoratori, membri della classe operaia. In quel momento, la nozione stessa di classe operaia era ancora persa nel limbo, rifiutata, vergognosa, obsoleta.
Nel 2006, gli studenti francesi si mobilitarono in maniera massiccia contro un contratto precario riservato ai giovani: il CPE (contratto di primo impiego). Questo movimento dimostrerà un paradosso: la riflessione continuava nella classe ma la classe non lo sapeva. Gli studenti stavano infatti riscoprendo una forma di lotta autenticamente operaia: le Assemblee Generali. In queste AG avevano luogo vere e proprie discussioni; esse erano aperte agli operai, ai disoccupati, ai pensionati; applauditi gli interventi dei più anziani. Lo slogan faro dei cortei era: “giovane pancetta, vecchi crostini, tutta la stessa insalata”. C’era l’emergere della solidarietà operaia tra le generazioni e la consapevolezza che tutti erano coinvolti, che tutti dovevano unirsi come una cosa sola. Questo movimento, che andava oltre il quadro sindacale, conteneva il “rischio” (per la borghesia) di attirare dipendenti e operai in un percorso altrettanto “incontrollato”. Il capo del governo fu costretto a ritirare il disegno di legge. Quella vittoria segnò un progresso negli sforzi compiuti dalla classe operaia dall’inizio degli anni 2000 per uscire dalla crisi degli anni 90. Nel fuoco della lotta, pubblicammo e distribuimmo un supplemento dal titolo: “Salute alle nuove generazioni della classe operaia!". E in effetti, quel movimento mostrò l'emergere di una nuova generazione che non aveva sperimentato né il fiato corto delle lotte degli anni '80 e talvolta la loro repressione, né direttamente la grande menzogna "stalinismo = comunismo", "rivoluzione = barbarie", una nuova generazione colpita dallo sviluppo della crisi e della precarietà, una nuova generazione pronta a rifiutare i sacrifici imposti e a lottare. Tuttavia, quella generazione era cresciuta anche negli anni ’90, ciò che la segnò di più fu l’apparente assenza della classe operaia, la scomparsa del suo progetto e della sua esperienza. Quella nuova generazione dovette quindi “reinventarsi”; di conseguenza, essa riprese i metodi di lotta del proletariato ma – e il “ma” è significativo – in modo inconscio, per istinto, diluendosi nella massa dei “cittadini”. È un po’ come nella commedia di Molière in cui Monsieur Jourdain scrive in prosa senza saperlo. Ciò spiega il perché, una volta scomparso, questo movimento non lasciò alcuna traccia apparente: nessun gruppo, nessun giornale, nessun libro... Gli stessi protagonisti sembrarono dimenticare molto presto ciò che avevano vissuto.
Il “movimento delle piazze” che scuoterà il pianeta qualche anno dopo sarà una palese dimostrazione di queste forze contraddittorie, di questo slancio e di queste profonde e storiche debolezze. La combattività si sviluppava, come la riflessione, ma senza riferimento alla classe operaia e alla sua storia, senza avere la sensazione di appartenenza al proletariato, senza identità di classe.
Il 15 settembre 2008, il più grande fallimento della storia, quello della banca d’investimento Lehman Brothers, scatenò un’ondata di panico internazionale; era la cosiddetta crisi dei “subprime”. Milioni di lavoratori persero i loro magri investimenti e le pensioni di anzianità; i piani di austerità gettarono intere popolazioni nella povertà. Immediatamente si mise in moto il rullo compressore della propaganda: non era il sistema capitalista a mostrare ancora una volta i suoi limiti ma erano i disonesti ed avidi banchieri a essere la causa di ogni male. La prova era che alcuni paesi stavano andando bene, in particolare i BRICS, la Cina. La forma stessa che assunse questa crisi, una "stretta creditizia" che comportò una massiccia perdita di risparmi per milioni di lavoratori, rese ancora più difficile una risposta su base di classe, poiché l'impatto sembrava colpire più le singole famiglie che una classe associata. Cioè proprio quello che era il tallone d’Achille del proletariato dal 1990, la perdita della coscienza della sua esistenza come classe e che addirittura era e rimane la forza principale della società.
Nel 2010, la borghesia francese colse questo contesto di grande confusione della classe per orchestrare con i suoi sindacati una serie di quattordici giorni di azione che avrebbero portato alla vittoria del governo (l’adozione di un’altra riforma delle pensioni), allo sfinimento e alla demoralizzazione. Limitando la lotta ai cortei sindacali, senza vita né discussione nei cortei, la borghesia riuscì a sfruttare le grandi debolezze politiche dei lavoratori per cancellare ulteriormente la principale lezione positiva del movimento anti-CPE del 2006: le assemblee generali come polmoni della lotta.
Il 17 dicembre 2010, in Tunisia, un giovane venditore ambulante di frutta e verdura subì la requisizione della sua misera merce dalla polizia, che lo picchiò pure. Disperato, si diede fuoco. Quello che ne seguì fu un vero e proprio grido di rabbia e indignazione che scosse l’intero Paese e ne varcò i confini. La spaventosa povertà e la repressione in tutto il Maghreb spinsero le popolazioni alla rivolta. Le masse si riunirono, prima in piazza Tahrir, in Egitto. I lavoratori che lottavano si ritrovarono diluiti nella folla, in mezzo a tutti gli altri strati della società non sfruttatori; lo slogan in ogni paese era “Vattene!”: “Mubarak vattene”, “Kadafi vattene”, ecc. Era un appello alle dimissioni dei leader e alla loro sostituzione; i protagonisti chiedevano democrazia e condivisione delle ricchezze. La rabbia si tradusse quindi in questi slogan illusori e borghesi.
Nel 2011, in Spagna, un’intera generazione precaria, costretta a restare con i propri genitori, si ispirò a quella che oggi viene chiamata “La Primavera Araba” e invase a sua volta la piazza di Madrid. Lo slogan fu: “Da Piazza Tahrir a Puerta del Sol”. Nacque il movimento degli “Indignados”, che si diffuse in tutto il Paese. Anche se si trattò di un raggruppamento di tutti gli strati della società come nel Maghreb, qui la componente operaia fu largamente maggioritaria. Pertanto, le riunioni assunsero la forma di assemblee per discutere e organizzarsi. Durante il nostro intervento potemmo notare una sorta di slancio internazionalista attraverso i tanti saluti alle espressioni di solidarietà provenienti da tutti gli angoli del mondo, lo slogan "rivoluzione mondiale" venne preso sul serio, accompagnato dal riconoscimento che "il sistema è obsoleto" e da un forte desiderio di discutere della possibilità di una nuova forma di organizzazione sociale, si sollevavano molte domande sulla moralità, sulla scienza, sulla cultura, …
Negli Stati Uniti, in Israele, nel Regno Unito… questo “movimento delle piazze” prenderò poi il nome di “Occupy”. Venne quindi messo al centro il fatto di “occupare”; i partecipanti testimoniavano la loro sofferenza legata alla precarietà e alla flessibilità che rendono quasi impossibile semplicemente avere colleghi veri e stabili, o un minimo di vita sociale. Questa destrutturazione e sfruttamento forsennato individuale, isola, atomizza. I protagonisti di Occupy manifestarono così la loro gioia di riunirsi per formare una comunità, di poter discutere e anche vivere in collettivo. C'era quindi già una sorta di regressione rispetto agli Indignados, perché non si trattava tanto di combattere quanto di stare insieme. Ma soprattutto, Occupy è nato negli Stati Uniti, paese della repressione operaia sotto Reagan, paese simbolo della vittoria del capitalismo sul “comunismo”, paese campione della sostituzione della classe operaia con lavoratori “autonomi” e “liberi professionisti”. Questo movimento era quindi estremamente segnato dalla perdita dell'identità di classe, dalla cancellazione di tutta l'esperienza operaia accumulata ma repressa. Occupy si concentrerà sulla teoria dell’1% (la minoranza che detiene la ricchezza… di fatto la borghesia) per chiedere più democrazia e una migliore distribuzione dei beni. In altre parole, un pio e pericoloso desiderio di un capitalismo migliore, più giusto e più umano. D'altronde, la roccaforte del movimento fu Wall Street, la Borsa di New York (Occupy Wall Street), a simboleggiare che il nemico era la finanza disonesta.
Ma in fondo, questa debolezza caratterizzava anche gli Indignados: la tendenza a considerarsi “cittadini” piuttosto che proletari rende l’intero movimento vulnerabile all’ideologia democratica, che finì per permettere a partiti borghesi come Syriza in Grecia e Podemos in Spagna di presentarsi come i veri eredi di queste rivolte. “Democrazia Real Ya!” "Democrazia ora" diventò la parola d'ordine del movimento.
Infine, il riflusso di questo “movimento delle piazze” aggravò ulteriormente il riflusso generale della coscienza di classe. In Egitto, le illusioni sulla democrazia aprirono la strada al ripristino dello stesso tipo di governo autoritario che era stato il catalizzatore iniziale della “Primavera araba”; in Israele, dove le manifestazioni di massa un tempo lanciavano lo slogan internazionalista: “Netanyahu, Mubarak, Assad, lo stesso nemico”, in quel momento stavano prendendo il sopravvento le brutali politiche militariste del governo Netanyahu; in Spagna, molti giovani che avevano aderito al movimento si ritrovarono bloccati nell’impasse assoluta del nazionalismo catalano o spagnolo. Negli Stati Uniti, l’attenzione all’1% alimentò il sentimento populista contro “le élite”, “l’establishment”, …
Il periodo 2003-2011 rappresentò quindi tutta una serie di sforzi della nostra classe per lottare contro il continuo deterioramento delle condizioni di vita e di lavoro in questo capitalismo in crisi ma, privato dell’identità di classe, si tradusse (temporaneamente) in un marasma maggiore. E l’aggravarsi della decomposizione negli anni 2010 rafforzerà ulteriormente queste difficoltà: sviluppo del populismo, con tutta l’irrazionalità e l’odio che questa corrente politica borghese contiene, proliferazione internazionale di attacchi terroristici, presa di intere regioni da parte dei trafficanti di droga in Sud America, da parte dei signori della guerra in Medio Oriente, Africa e Caucaso, immense ondate di migranti in fuga dall’orrore della fame, della guerra, della barbarie, della desertificazione legata al riscaldamento globale… il Mediterraneo stava diventando un cimitero acquatico.
Questa dinamica marcia e mortale tese a rafforzare il nazionalismo e a fare affidamento sulla “protezione” dello Stato, a lasciarsi influenzare dalle false critiche al sistema offerte dal populismo (e, per una minoranza, dal jihadismo), ad aderire alla “politica identitaria” … La mancanza di identità di classe veniva aggravata dalla tendenza alla frammentazione in identità razziali, sessuali e di altro tipo, che a loro volta rafforzavano l’esclusione e la divisione, dal momento che solo il proletariato che lotta per i propri interessi può essere veramente inclusivo.
In una parola, la società capitalista stava e sta putrefacendosi.
2020…
Tuttavia nella situazione attuale non dobbiamo vedere solo la decomposizione. Altre forze sono all’opera: con lo sprofondamento nella decadenza, la crisi economica si aggrava e spinge alla necessità di lottare; l'orrore della vita quotidiana pone costantemente questioni che non possono non provocare riflessioni nella mente degli operai; le lotte degli ultimi anni hanno cominciato a portare qualche risposta e queste esperienze stanno arando il loro solco senza che ce ne rendiamo conto. Per riprendere le parole di Marx: “Riconosciamo la nostra vecchia amica, la nostra vecchia talpa che sapendo ben scavare nel sottosuolo non può che apparire all’improvviso”.
Nel 2019, in Francia si sviluppò un movimento sociale contro una nuova riforma delle pensioni (sic). Ancor più della combattività, che era elevata, ciò che attirò la nostra attenzione fu la tendenza alla solidarietà tra generazioni che veniva espressa nei cortei: molti operai prossimi ai sessant’anni – e quindi non direttamente interessati dalla riforma – scioperavano e manifestavano affinché i giovani salariati non subissero questo attacco del governo. La solidarietà intergenerazionale molto presente nel 2006 sembrò riemergere. Sentimmo i manifestanti cantare “La classe operaia esiste!”, “Siamo qui, siamo qui per l’onore dei lavoratori e per un mondo migliore” e difendere l’idea della “guerra di classe”. Anche se si tratta di una minoranza, l'idea fluttuava nuovamente nell'aria, una novità dopo 30 anni!
Nel 2020 e nel 2021, durante la pandemia da Covid e i suoi molteplici confinamenti, sottolineammo l’esistenza di scioperi negli Stati Uniti, in Iran, in Italia, in Corea, in Spagna o in Francia che, anche se sparsi, testimoniavano la profondità della rabbia, in quanto in quei tempi di cappe di piombo statali era particolarmente difficile lottare in nome della “salute per tutti”.
Ecco perché, quando nel gennaio 2022 ritornò con forza, dopo quasi 30 anni di calma. sul fronte economico l’inflazione, decidemmo di scrivere un volantino internazionale:
“I prezzi si stanno impennando, soprattutto per i beni di prima necessità: cibo, energia e trasporti. L'inflazione nel 2021 ha già superato quella registrata dopo la crisi finanziaria del 2008. Negli Stati Uniti è stata del 6,8%, il livello più alto degli ultimi 40 anni. In Europa il costo dell'energia è salito del 26% negli ultimi mesi! Dietro queste cifre c’è la realtà di un numero crescente di persone che hanno difficoltà a nutrirsi, avere una casa, riscaldarsi e spostarsi”
Ed è in questo volantino che annunciammo:
“In tutti i paesi, in tutti i settori, la classe operaia vive una degradazione insopportabile delle condizioni di vita e di lavoro. (…) Gli attacchi piovono sotto il peso dell'aggravarsi della crisi economica globale.
Nonostante la paura di una crisi sanitaria opprimente, la classe operaia comincia a rispondere. (…). Certo, non si tratta di movimenti di massa: gli scioperi e le manifestazioni sono ancora troppo esili, troppo dispersi. Tuttavia la borghesia li sorveglia come il latte sul fuoco, consapevole della portata della rabbia che ribolle. (…)
Allora come possiamo sviluppare una lotta unita e di massa?”
Lo scoppio della guerra in Ucraina, un mese dopo, suscitò sconforto; nella classe si temeva che il conflitto si allargasse e che degenerasse. Ma, allo stesso tempo, la guerra peggiorava notevolmente l’inflazione; ad essere duramente colpito sarà il Regno Unito, già in difficoltà per gli effetti disastrosi della Brexit
Di fronte a questo insopportabile deterioramento delle condizioni di vita e di lavoro, nel Regno Unito scoppiarono scioperi in molteplici settori (sanità, istruzione, trasporti, ecc.): è stata quella che i media hanno chiamato “L'estate della collera” “The Summer of Anger”, in riferimento a “L'inverno della collera” del 1979 (che rimane il movimento più massiccio in tutti i paesi dopo quello del maggio 1968 in Francia)!
Nel tracciare questo parallelo tra questi due grandi movimenti separati da 43 anni, i giornalisti dicevano molto più di quanto pensavano. Perché dietro questa espressione di “rabbia” si nasconde un movimento estremamente profondo. Due espressioni correranno di picchetto in picchetto: “Adesso basta” e “Siamo lavoratori”. In altre parole, se i lavoratori britannici si sollevano contro l’inflazione, non è solo perché è insostenibile. La crisi è necessaria ma non sufficiente. È anche perché è maturata la coscienza nelle teste dei lavoratori, che la talpa ha scavato per decenni e ora mostra un pezzettino di muso. Riprendendo il metodo dei nostri antenati di Internacionalismo che aveva permesso loro di anticipare l'avvento del maggio 68 e poi di comprendere il suo significato storico, noi siamo stati in grado, dall’agosto 2022, di evidenziare nel nostro volantino internazionale che il risveglio del proletariato britannico ha un significato globale e storico; è per tale motivo che il nostro volantino si conclude così: “Gli scioperi di massa nel Regno Unito sono un appello alla lotta per i proletari di tutti i paesi”. Il fatto che il proletariato che fondò la Prima Internazionale con il proletariato francese nel 1864 a Londra, che è stato il più combattivo dei decenni 1970-80, che ha subito una grave sconfitta contro la Thatcher nel 1984-85 e che da allora non è stato più capace di reagire, e che oggi annuncia “ troppo è troppo” rivela ciò che sta maturando nel profondo delle viscere della nostra classe: il proletariato comincia a recuperare la propria identità di classe, a sentirsi più fiducioso, a sentirsi una forza sociale e collettiva.
Tanto più che questi scioperi stanno scoppiando contemporaneamente alla guerra in Ucraina e nel momento in cui infuriano tutti i suoi discorsi patriottici. Come dicevamo nel nostro volantino di fine agosto 2002: “L'importanza di questo movimento non sta solo nel fatto che sta ponendo fine a un lungo periodo di passività. Queste lotte si sviluppano in un momento in cui il mondo si trova ad affrontare una guerra imperialista su larga scala, una guerra che contrappone sul terreno la Russia all'Ucraina, ma che ha un impatto globale con, in particolare, una mobilitazione dei Paesi membri della NATO. Un impegno in armi ma anche a livello economico, diplomatico e ideologico. Nei paesi occidentali, i governi chiedono sacrifici per “difendere la libertà e la democrazia”. In concreto, ciò significa che i proletari di questi paesi devono stringere ancora di più la cinghia per “dimostrare la loro solidarietà con l'Ucraina – in realtà con la borghesia ucraina e la classe dirigente dei paesi occidentali(…) I governi chiedono “sacrifici per combattere l’inflazione”. È una farsa infame, nel momento in cui non fanno altro che peggiorare la situazione aumentando le spese per la guerra. Questo è il futuro che stanno promettendo il capitalismo e le sue borghesie nazionali in concorrenza: più guerre, più sfruttamento, più distruzione, più miseria.
E, anche se i lavoratori non ne sono sempre pienamente consapevoli, gli scioperi dei lavoratori in Gran Bretagna ci stanno indicando proprio questo: il rifiuto di sacrificarsi sempre di più per gli interessi della classe dominante, il rifiuto di sacrificarsi per l'economia nazionale e per lo sforzo bellico, il rifiuto di accettare la logica di questo sistema che porta l'umanità verso la catastrofe e, in ultima analisi, alla sua distruzione.”
Mentre nel Regno Unito gli scioperi continuano e colpiscono sempre più settori, in Francia sta emergendo un grande movimento sociale contro… la riforma delle pensioni. Le stesse caratteristiche compaiono al di qua della Manica, anche in Francia i manifestanti sottolineano la loro appartenenza al campo operaio e il “Quando è troppo è troppo” viene ripreso nella forma “Ora basta!”. Ovviamente, il proletariato francese apporta a questa dinamica internazionale la sua abitudine a scendere in piazza in massa, ciò che contrasta con la dispersione dei picchetti imposti dai sindacati nel Regno Unito. Ancora più significativo del contributo di questo episodio di lotta al processo internazionale globale è lo slogan che fiorisce ovunque nei cortei: “tu ci metti 64, noi ti rimettiamo il 68” (il governo vuole spostare l'età pensionabile legale a 64 anni, i manifestanti si oppongono con il desiderio di ripetere il Maggio 68). Al di là dell'ottimo gioco di parole (l'inventiva della classe operaia in lotta), questo slogan immediatamente popolare indica che il proletariato, cominciando a riconoscersi come classe, cominciando a recuperare la sua identità di classe, comincia anche a ricordarsi, a riattivare la tua memoria dormiente. Anche noi, partecipando ai cortei, siamo rimasti sorpresi nel vedere apparire riferimenti al movimento del 2006 contro il CPE. Mentre questo episodio sembrava cancellato, ignorato da tutti, ora i giovani manifestanti tornano a parlarne, chiedendosi cosa sia successo ... Pubblichiamo e distribuiamo quindi subito un nuovo volantino, per ritornare alla cronologia del movimento e ai suoi insegnamenti (l'importanza delle assemblee generali aperte e sovrane, cioè realmente organizzate e dirette dall'assemblea e non dai sindacati). Vedendo il titolo, i manifestanti ci chiedono il volantino e alcuni, dopo averlo letto, quando ci incontrano nuovamente in strada ci ringraziano. Non è quindi solo il fattore ‘rottura’ che spiega la capacità dell’attuale nuova generazione a trascinare l’intero proletariato nella lotta. Al contrario, la nozione di continuità è forse ancora più importante. Avevamo quindi ragione a scrivere nel 2020: “le acquisizioni delle lotte del periodo 1968-1989 non sono perse, anche se sembra che molti operai (e certi rivoluzionari) possano averle dimenticate: lotta per l'auto-organizzazione e l'estensione delle lotte; inizio della comprensione del ruolo anti-operaio dei sindacati e dei partiti capitalisti di sinistra; resistenza all’arruolamento nelle guerre; sfiducia nei confronti del gioco elettorale e parlamentare, ecc. Le lotte future dovranno fare affidamento sull'assimilazione critica di questi risultati andando molto oltre e certamente non sulla loro negazione o sulla loro dimenticanza” (articolo bilancio del 23° congresso, Rivista Internazionale n. 35, 2020)[4].
L'esperienza accumulata dalle generazioni precedenti, a partire dal 68, e anche dall'inizio del movimento operaio, non è stata cancellata ma immersa in una memoria sopita; la riconquista dell'identità di classe permette di riattivarla, e alla classe operaia di mettersi alla riconquista della propria storia.
Concretamente, le generazioni che hanno vissuto il 68 e il confronto con i sindacati negli anni '70/'80 sono ancora vive oggi, possono raccontare storie, trasmetterle. Anche la generazione “perduta” degli anni ’90 potrà dare il suo contributo. I giovani delle assemblee del 2006 e del 2011 potranno finalmente comprendere quello che hanno fatto, il senso della loro autorganizzazione, e raccontarlo ai nuovi. Da un lato, questa nuova generazione degli anni 2020 non ha subito le sconfitte degli anni ‘80 (sotto Thatcher e Reagan), né la menzogna del 1990 sulla morte del comunismo e la fine della lotta di classe, né gli anni scuri che seguirono; dall’altro, è cresciuta in una crisi economica permanente e in un mondo in difficoltà; per questo porta dentro di sé una combattività intatta. Questa nuova generazione può portare dietro di sé tutte le altre, mentre deve ascoltarle, imparare dalle loro esperienze, dalle loro vittorie e dalle loro sconfitte. Passato, presente e futuro possono nuovamente incontrarsi. È tutto questo potenziale che porta con sé il movimento attuale e futuro, è tutto ciò che sta dietro la nozione di “rottura”: una nuova dinamica che rompe con l’atonia e l’amnesia che dominano dal 1990, una nuova dinamica che si riappropria della storia del movimento operaio in modo critico per portarlo ben più lontano. Gli scioperi che si sviluppano oggi sono il frutto della maturazione sotterranea dei decenni precedenti e possono a loro volta consentire una maturazione molto più grande.
E ovviamente coloro che rappresentano questa continuità storica e questa memoria, le organizzazioni rivoluzionarie, hanno un ruolo immenso da svolgere in questo processo.
Di fronte agli effetti devastanti della decomposizione, il proletariato dovrà politicizzare le sue lotte
Dal 2020 e dalla pandemia da Covid, la decomposizione del capitalismo si è accelerata su tutto il pianeta. Tutte le crisi di questo sistema decadente – sanitaria, economica, climatica, sociale, bellica – si uniscono e formano un vortice devastante[5]. Questa dinamica rischia di trascinare tutta l’umanità verso la morte.
La classe operaia si trova quindi di fronte ad una grande sfida, quella di riuscire a sviluppare il suo progetto rivoluzionario e proporre così la sua prospettiva, quella del comunismo, in questo contesto putrescente. Per farlo essa stessa deve già riuscire a resistere a tutte le forze centrifughe che vengono esercitate senza tregua su di lei, deve essere capace di non lasciarsi prendere dalla frammentazione sociale che spinge al razzismo, allo scontro tra bande rivali, al ripiego, alla paura, deve essere capace di non cedere alle sirene del nazionalismo e della guerra (quelle presunte umanitarie, antiterroristiche, di "resistenza", ecc... le borghesie accusano sempre di barbarie il nemico per giustificare la loro). Resistere a tutta questa gangrena che corrompe gradualmente l'intera società e riuscire a sviluppare la sua lotta e la sua prospettiva implica necessariamente che tutta la classe operaia elevi il suo livello di coscienza e di organizzazione, riesca a politicizzare le sue lotte, crei luoghi di dibattito, d'elaborazione e gestione degli scioperi da parte degli stessi operai.
Allora, cosa ci dicono tutti questi scioperi, descritti dai media come “storici”, sulle dinamiche attuali e sulla capacità della nostra classe di continuare i suoi sforzi, nonostante sia circondata da un mondo in rovina?
Frammentazione sociale contro solidarietà operaia
La solidarietà espressa in tutti gli scioperi e in tutti i movimenti sociali dal 2022 dimostra che la classe operaia, quando lotta, riesce non solo a resistere a questo marciume sociale, ma anche a dare il via a un antidoto, la promessa di un'altra possibilità: la solidarietà proletaria. La sua lotta è l’antitesi alla guerra di tutti contro tutti verso la quale spinge la decomposizione.
Nei picchetti di sciopero e nei cortei dei manifestanti, in Canada, in Francia e in Islanda, le espressioni più ricorrenti sono “Siamo tutti sulla stessa barca!” e “Dobbiamo lottare tutti insieme!”.
Anche negli Stati Uniti, un paese incancrenito dalla violenza, dalla droga, dal ripiego e dalla divisione razziale, la classe operaia è stata in grado di proporre la questione della solidarietà operaia tra settori e tra generazioni. Le testimonianze emerse dallo sciopero “storico” di quest’estate, di cui i lavoratori dell’industria automobilistica erano al centro, mostrano addirittura che il processo continua a progredire e ad approfondirsi:
Questa solidarietà si basa esplicitamente sull’idea che “siamo tutti lavoratori”!
Che contrasto con i tentativi di pogrom anti-immigrazione avvenuti a Dublino (Irlanda) e a Romans-sur-Isère (Francia)! In questi due casi, a seguito di un'aggressione mortale con coltello, una parte della popolazione ha attribuito la causa di questi omicidi all'immigrazione e ha chiesto vendetta, scendendo in piazza per linciare. Questi non sono fatti isolati e insignificanti, anzi sono forieri della deriva generale della società. Le risse tra bande di giovani, gli attentati, gli omicidi commessi da persone squilibrate, le rivolte nichiliste stanno aumentando e non potranno che aumentare ancora e ancora.
Le forze della decomposizione spingono gradualmente verso la frammentazione sociale; la classe operaia si troverà nel mezzo di un odio crescente. Per resistere a questi venti fetidi, dovrà continuare i suoi sforzi per sviluppare la sua lotta e la sua coscienza. L’istinto di solidarietà non basterà; bisognerà anche lavorare alla sua unità, cioè alla presa in carico cosciente dei suoi legami e della sua organizzazione nella lotta. Ciò implicherà inevitabilmente lo scontro con i sindacati e il loro sabotaggio permanente di divisione. Torniamo quindi qui alla necessaria riappropriazione delle lezioni delle lotte degli anni '70 e '80.
Guerra contro internazionalismo
La traversata dell’Atlantico del grido “Adesso basta” rivela la natura profondamente internazionale della nostra classe e della sua lotta. Gli scioperi negli Stati Uniti sono il risultato dell'influenza diretta degli scioperi nel Regno Unito. Abbiamo avuto quindi ragione anche quando abbiamo scritto nella primavera del 2023: “Essendo l'inglese, d'altronde, la lingua della comunicazione globale, l'influenza di questi movimenti supera necessariamente quella che potrebbero avere le lotte in Francia o in Germania, per esempio. In questo senso, il proletariato britannico indica la strada non solo ai lavoratori europei, che dovranno essere in prima linea nella crescita della lotta di classe, ma anche al proletariato mondiale, e in particolare a quello americano.” (Rapporto sulla lotta di classe, 25° congresso, Rivista Internazionale n° 37, 2023).[6]
Durante lo sciopero del settore auto delle Tre Grandi (Ford, Chrysler, General Motors) negli Stati Uniti, la sensazione di essere una classe internazionale comincia ad emergere. Oltre a questo riferimento esplicito agli scioperi nel Regno Unito, gli operai tentano di unificare la lotta oltre il confine tra Stati Uniti e Canada. La borghesia non si è d'altra parte sbagliata, ha compreso il pericolo di una tale dinamica e il governo canadese ha immediatamente firmato un accordo con i sindacati per fermare prematuramente questa voglia di lotta comune e impedire così ogni possibilità di unificazione.
Anche durante il movimento in Francia ci sono state manifestazioni di solidarietà internazionale. Come abbiamo scritto nel nostro volantino dell’aprile 2023[7]: “I proletari cominciano a tendere la mano al di là delle frontiere, come abbiamo visto con lo sciopero degli operai di una raffineria belga in solidarietà con i lavoratori in Francia, o con lo sciopero in Francia degli addetti ai servizi della Reggia di Versailles, prima dell’arrivo (rinviato) di Carlo III, in solidarietà con “gli operai inglesi che da settimane sono in sciopero per gli aumenti salariali”. Attraverso queste espressioni di solidarietà ancora embrionali, gli operai cominciano a riconoscersi come classe internazionale: siamo tutti sulla stessa barca!”.
In effetti, il ritorno della combattività della classe operaia a partire dall’estate del 2022 porta con sé una dimensione internazionale forse ancora più forte che negli anni ’60/70/80.
Perché?
In Cina la “crescita” continua a rallentare e la disoccupazione continua ad esplodere. I dati ufficiali dello Stato cinese riconoscono che un quarto dei giovani sono disoccupati! In risposta si sviluppano le lotte: “Colpite dal calo degli ordinativi, le fabbriche che impiegano una grande quantità di manodopera stanno esternalizzando e licenziando. Aumentano gli scioperi contro i salari non pagati e le manifestazioni contro i licenziamenti senza indennità”. Tali scioperi in un paese in cui la classe operaia è sotto la cappa ideologica e repressiva del “comunismo” sono particolarmente indicativi della portata della rabbia che sta covando. In vista del probabile prossimo collasso del settore edile, dovremo monitorare le possibili reazioni dei lavoratori.
Per il momento, nel resto dell'Asia, è soprattutto nella Corea del Sud che il proletariato è tornato sulla via dello sciopero, con un grande movimento generale lo scorso luglio.
Questa dimensione profondamente internazionale della lotta di classe, questo cominciare a comprendere che i lavoratori in sciopero lottano tutti per gli stessi interessi indipendentemente da quale parte del confine stanno, rappresenta l’esatto opposto della natura intrinsecamente imperialista del capitalismo. Sotto i nostri occhi si sviluppa l’opposizione tra due poli: uno fatto dalla solidarietà internazionale, l’altro fatto da guerre sempre più barbare e assassine.
Detto ciò, la classe operaia è ancora molto lontana dall’essere abbastanza forte (cosciente e organizzata) per opporsi esplicitamente alla guerra, o anche agli effetti dell’economia di guerra:
- Per l'Europa occidentale e il Nord America, per il momento, le due grandi guerre attuali non sembrano influenzare sostanzialmente la combattività operaia. Gli scioperi nel Regno Unito sono iniziati subito dopo l’inizio della guerra in Ucraina, lo sciopero nel settore automobilistico negli Stati Uniti è continuato nonostante lo scoppio del conflitto a Gaza e da allora altri scioperi si sono sviluppati in Canada, Islanda, Svezia… Ma resta il fatto che i lavoratori non sono ancora riusciti a integrare nella loro lotta – nei loro slogan e nei loro dibattiti – il legame tra l’inflazione, i colpi inferti dalla borghesia e la guerra. Questa difficoltà è dovuta alla mancanza di fiducia che gli operai hanno in sé stessi, alla mancanza di coscienza della forza che rappresentano come classe; opporsi alla guerra e alle sue conseguenze appare una sfida troppo grande, travolgente, irraggiungibile e fuori portata. La realizzazione di questa connessione dipende da un livello di coscienza più elevato. Il proletariato internazionale ha impiegato 3 anni per stabilire questo collegamento di fronte alla Prima Guerra Mondiale. Nel periodo 1968-1989, il proletariato non è stato in grado di stabilire questo collegamento, cosa che è stato uno dei fattori che ha inibito la sua capacità a sviluppare la propria politicizzazione. Quindi, dopo 30 anni di riflusso, non dobbiamo aspettarci che il proletariato faccia immediatamente questo passo fondamentale. È un passo profondamente politico, che segnerà una rottura cruciale con l’ideologia borghese. Un passo che richiede di comprendere che il capitalismo è una barbarie militare, che la guerra permanente non è qualcosa di accidentale ma una caratteristica del capitalismo decadente.
- Nell'Europa dell'Est, invece, la guerra ha un impatto assolutamente disastroso; non c'è stata alcuna opposizione – nemmeno manifestazioni pacifiste – contro la guerra. Sebbene questo conflitto abbia già causato 500.000 morti (250.000 per parte), e in Russia come in Ucraina i giovani fuggono dalla mobilitazione per salvarsi la pelle, non esiste una protesta collettiva. La sola via d'uscita possibile resta quella individuale: disertare e nascondersi. Questa mancanza di reazione di classe conferma che se il 1989 fu un duro colpo per l’intero proletariato a livello globale, i lavoratori dei paesi stalinisti ne furono colpiti ancora più duramente. L’estrema debolezza della classe operaia dell’Europa dell'Est è la punta dell’iceberg della debolezza della classe operaia nei paesi dell’ex Unione Sovietica. La minaccia di guerra che incombe sui paesi dell'ex Jugoslavia è in parte possibile a causa di questa profonda debolezza del proletariato che lì vive.
- Per quanto riguarda la Cina, è difficile valutare con precisione a che punto sta la classe operaia di questo paese rispetto alla guerra. Dobbiamo monitorare da vicino la situazione e il suo sviluppo. La portata della prossima crisi economica giocherà un ruolo importante nella dinamica del proletariato. Detto ciò, come all'Est, lo stalinismo (vivo o morto) continua a svolgere il suo ruolo contro la nostra classe. Quando si devono studiare le idee (deformate) di Karl Marx a scuola, si resta disgustati dal marxismo.
In effetti, ogni guerra – che sicuramente scoppierà – porrà problemi diversi al proletariato mondiale. La guerra in Ucraina non pone gli stessi problemi della guerra a Gaza, che non pone gli stessi problemi di quella che minaccia Taiwan. Ad esempio, il conflitto israelo-palestinese genera nei paesi centrali una situazione putrida di odio tra le comunità ebraica e musulmana, che consente alla borghesia di creare un’immensa campagna di divisione.
Tuttavia, in Occidente come in Oriente, nel Nord come nel Sud, possiamo riconoscere che, in generale, il processo di sviluppo della coscienza sulla questione della guerra sarà molto difficile, e non vi sono garanzie che il proletariato riesca a realizzarlo. Come abbiamo sottolineato 33 anni fa: “contrariamente al passato, lo sviluppo di una prossima ondata rivoluzionaria non verrà fuori dalla guerra, ma dall'aggravamento della crisi economica. (…) le mobilitazioni operaie, i punti di partenza dei grandi scontri di classe, proverranno dagli attacchi economici. Nello stesso modo, sul piano della presa di coscienza, 1'aggravamento della crisi sarà un fattore fondamentale rivelando il fallimento storico del modo di produzione capitalista. Ma, proprio su questo piano della presa di coscienza, la questione della guerra è chiamata, ancora una volta, a giocare un ruolo di prim'ordine:
Anche in questo caso vediamo fino a che punto la capacità del proletariato di politicizzare le proprie lotte sarà la chiave per il futuro.
Irrazionalità populista contro coscienza rivoluzionaria
Il peggioramento della decomposizione porrà tutta una serie di ostacoli sul cammino della classe operaia verso la rivoluzione. Alla frammentazione sociale, alla guerra e al caos possiamo aggiungere anche l'espansione del populismo.
In Argentina, Javier Milei è appena stato eletto presidente. La 23a potenza mondiale si ritrova a capo del suo Stato un uomo che difende il piattismo della terra! Si presenta ai suoi meeting, agitando una motosega in mano. Insomma, fa sembrare Trump un uomo di scienza. Al di là dell’aneddoto, ciò mostra fino a che punto la decomposizione stia avanzando e travolgendo nella sua irrazionalità e marciume parti sempre più ampie della classe dominante:
Finora tutta questa putrefazione non ha impedito alla classe operaia di sviluppare le sue lotte e la sua coscienza. Ma dobbiamo tenere la mente e gli occhi ben aperti per seguire gli sviluppi e riuscire a valutare il peso del populismo sul pensiero razionale che il proletariato deve sviluppare per realizzare il suo progetto rivoluzionario.
Questo passo decisivo della politicizzazione delle lotte è mancato negli anni 80. Oggi è nel contesto terribilmente più difficile della decomposizione che il proletariato deve riuscire a realizzarlo, altrimenti il capitalismo porterà tutta l’umanità nella barbarie, nel caos e, infine, alla morte.
L’esito vittorioso di una rivoluzione è possibile. Ad avanzare non è solo la decomposizione, ma anche le condizioni oggettive che permettono la rivoluzione: una crisi economica mondiale sempre più devastante che spinge alla lotta; una classe operaia sempre più numerosa, concentrata e collegata a livello internazionale; un’esperienza operaia storica che si accumula.
Lo sprofondamento nella decadenza rivela sempre più la necessità di una rivoluzione mondiale!
Per raggiungere questo obiettivo, gli attuali sforzi della nostra classe dovranno continuare, in particolare la riappropriazione delle lezioni del passato (le ondate di lotte degli anni ’70-’80, l’ondata rivoluzionaria degli anni ’10-’20). L'attuale generazione che avanza appartiene a tutta una catena che ci collega alle prime lotte, ai primi combattimenti della nostra classe dagli anni Trenta dell'Ottocento!
Sarà anche necessario, in futuro, rompere la grande menzogna che pesa così tanto dai tempi della controrivoluzione secondo la quale stalinismo = comunismo.
In tutto questo processo è in gioco la questione della fiducia nella forza organizzata del proletariato, nella prospettiva e quindi nella possibilità della rivoluzione... È nel fuoco delle lotte future, nella lotta politica contro il sabotaggio sindacale, contro le trappole sofisticate delle grandi democrazie, riuscendo a riunirsi in assemblee, in comitati, in circoli per discutere e decidere, che la nostra classe farà tutto questo apprendimento necessario. Perché, come scriveva Rosa Luxemburg in una lettera a Mehring: “Il socialismo non è, appunto, un problema di coltello e forchetta, ma un movimento culturale, una grande e potente concezione del mondo” (Rosa Luxemburg, lettera a Franz Mehring).
Sì, questo percorso sarà difficile, accidentato e incerto, ma non ce n'è altro.
Gracchus
[1] Contro gli attacchi della borghesia, abbiamo bisogno di una lotta unita e massiccia! (volantino internazionale), Contro gli attacchi della borghesia, abbiamo bisogno di una lotta unita e di massa! [30]
[2] Secondo la formula di Shakespeare nel Riccardo III.
[3] Titolo di un libro del giornalista e rivoluzionario Victor Serge.
[4] 23° Congresso della CCI: I diversi aspetti dell'attività di Frazione | Corrente Comunista Internazionale (internationalism.org) [31]
[5] Vedere “L’accelerazione della decomposizione capitalista pone apertamente la questione della distruzione dell’umanità”, L’accelerazione della decomposizione capitalista pone apertamente la questione della distruzione dell’umanità | Corrente Comunista Internazionale (internationalism.org) [32].
[7] Dall’“estate della rottura del 2022”, abbiamo scritto 7 volantini diversi, distribuiti in più di 130.000 copie solo in Francia.
La violenza organizzata che scuote il Medio Oriente ha suscitato profonda indignazione in tutto il mondo. In primo luogo a causa dell’attacco terroristico di Hamas del 7 ottobre, che ha provocato 1.200 morti e 2.700 feriti tra i cittadini israeliani e, in secondo luogo, a causa dell’incessante e massiccio massacro della popolazione residente nella Striscia di Gaza, perpetrato dalle Forze di Difesa Israeliane (IDF). Le organizzazioni rivoluzionarie hanno il dovere di denunciare questa barbarie imperialista, come hanno fatto in tutta la storia del movimento operaio e questo a partire dal manifesto “ai lavoratori di ogni nazione” diffuso dai membri parigini dell’Internazionale: “La guerra scatenata per una questioni di predominio o dinastia non può essere, per gli operai, che una follia criminale”[1].
Pertanto, in considerazione di questa responsabilità, gruppi come Tendenza Comunista Internazionalista (TCI), Internationalist Voice o Internationalist Communist Perspective (Corea) hanno risposto a questo dovere fondamentale difendendo nei loro articoli una chiara posizione internazionalista sulla guerra in Medio Oriente.
– “La classe operaia deve rifiutarsi di essere arruolata nelle guerre della classe dominante e lottare contro gli sfruttatori di entrambi i paesi. C’è solo una strada per la classe operaia israeliana e palestinese […]: la lotta al di là delle nazioni e delle frontiere per gli interessi comuni della classe operaia. Solo una lotta di classe internazionale per rovesciare il sistema capitalista può porre fine alle carneficine e alle guerre”[2].
– “Solo la lotta di classe dei lavoratori può offrire un’alternativa alla barbarie del capitalismo, perché il proletariato non ha una patria da difendere, la sua lotta deve superare i confini nazionali e svilupparsi su scala internazionale”[3].
– “Tutte le borghesie sono ugualmente nemiche mortali del proletariato, che non deve spargere la minima goccia di sangue per i suoi sfruttatori e per i suoi obiettivi nazional-imperialisti. […] L’indicazione fondamentale dell’unità di classe di tutti i settori del proletariato (contro la borghesia, i suoi Stati, i suoi schieramenti imperialisti) indipendentemente dall’origine “nazionale”, avrà ancora più valore, se mai fosse possibile”[4].
Nel caso dei diversi gruppi bordighisti la situazione è più sfumata. Come componenti dell’ambiente rivoluzionario, la loro posizione è fondamentalmente internazionalista nella misura in cui denunciano il massacro imperialista e rifiutano qualsiasi sostegno all'uno o all'altro dei due campi opposti. Tuttavia, nonostante i grandiosi discorsi sul loro impegno internazionalista, la loro difesa concreta dell’internazionalismo non è senza equivoci. Sostenendo per alcuni la lotta contro l’«oppressione nazionale» dei proletari e delle masse palestinesi, per altri l’idea che questi massacri genereranno uno sviluppo delle lotte operaie nella regione e nel mondo, questi gruppi rivelano pericolose ambiguità su come promuovere e difendere l’internazionalismo proletario nell’attuale periodo di decomposizione del capitalismo.
Ambiguità che lasciano la porta aperta a derive opportuniste
Il Partito Comunista Internazionale (PCI – Le Prolétaire), dietro la sua dichiarazione di solidarietà ai proletari palestinesi, invoca infatti la lotta contro l’oppressione nazionale dei palestinesi: “Palestina: un proletariato e un popolo condannati al massacro. Israele: uno Stato nato dall’oppressione del popolo palestinese e di un proletariato ebraico prigioniero dei vantaggi immediati e complice di questa oppressione”[5]. Così, mentre i rivoluzionari internazionalisti dovrebbero denunciare la spirale di scontri imperialisti tra borghesie in cui sono trascinate le diverse frazioni del proletariato del Medio Oriente e promuovere tra i lavoratori il rifiuto di ogni movimento di “liberazione nazionale” perché “i proletari non hanno una patria”, Le Prolétaire chiede innanzitutto una lotta per porre fine “all’oppressione israeliana dei palestinesi a Gaza e in Cisgiordania”, escludendo quindi ogni solidarietà con la classe operaia israeliana che è «prigioniera di immediata vantaggi e complice di questa oppressione».
Un altro gruppo, il PCI (Il Partito Comunista), sembra difendere convincenti posizioni internazionaliste quando scrive: «Dobbiamo invitare i proletari palestinesi e israeliani a non lasciarsi ingannare dalla loro borghesia […], a non immolarsi come carne da cannone in guerre contrarie ai loro interessi». Ma nella frase successiva aggiunge: “Dobbiamo invitare i proletari ebrei israeliani a sabotare lo sforzo bellico della loro borghesia imperialista e genocida e a combattere contro la loro borghesia e contro l’oppressione nazionale dei loro fratelli di classe palestinesi»[6]. Esso non chiede quindi qui la solidarietà internazionale di tutti i proletari contro la guerra imperialista, ma esorta i proletari israeliani a sostenere la lotta dei lavoratori palestinesi contro questa oppressione nazionale.
Infine, il PCI (Il Programma Comunista) constata l’esaurimento dei movimenti «rivoluzionari nazionali» anticoloniali e avanza così la prospettiva che «in questa terribile situazione, il proletariato mediorientale potrà trovare la forza per sfuggire alle insidie dell’opportunismo che lo imprigionano. Ci auguriamo che, come nelle grandi battaglie del passato, sappia schierare i migliori combattenti per la sua causa, che sappia fare della purtroppo inevitabile sconfitta di oggi il punto di partenza per un futuro ricco di vittorie»[7]. In altre parole, essi diffondono la prospettiva fallace secondo la quale solo il proletariato del Medio Oriente, mobilitato com’è dietro mistificazioni religiose e nazionaliste e schiacciato dai massacri imperialisti, potrà imparare la lezione di queste sconfitte ed essere alla base della ripresa di lotte che si ricollegano «alle grandi battaglie del passato» (ci si chiede quali… forse i cosiddetti «movimenti nazional-rivoluzionari» degli anni 1960 e 1970 in cui la classe operaia del Medio Oriente era mobilitata dietro varie frazioni borghesi nazionali?).
Anche se queste organizzazioni non sostengono apertamente un campo imperialista (né la borghesia palestinese della Cisgiordania, né quella della Striscia di Gaza), lasciano la porta aperta per sostenere la lotta delle «masse» e del «popolo» palestinese contro la loro «oppressione nazionale», che non può che esacerbare il divario tra la classe operaia di Israele e quella dei paesi arabi… Queste derive verso prospettive cosiddette «nazionaliste-rivoluzionarie» costituiscono una minaccia alla posizione internazionalista di queste organizzazioni.
L’internazionalismo proletario è un confine di classe che, di fronte alla guerra imperialista, separa la classe operaia dalla borghesia. È un principio che dobbiamo difendere con le unghie e con i denti in ogni momento: nei nostri interventi nelle lotte operaie, nei nostri incontri pubblici, nei nostri resoconti e sulla nostra stampa. In questo senso, condividiamo le parole di Lenin secondo cui «C’è uno solo, ed uno solo, vero internazionalismo: consiste nel lavorare disinteressatamente per lo sviluppo del movimento rivoluzionario e della lotta rivoluzionaria nel proprio paese, nel sostenere (attraverso la propaganda, l'accordo, l’aiuto materiale) questa stessa lotta, questa stessa linea e solo questo, in tutti i paesi senza eccezione. Tutto il resto sono bugie e beato ottimismo»[8]. I bolscevichi spesso criticavano da soli le posizioni opportuniste sulla questione della guerra, ma questa era una parte indispensabile del loro lavoro di costruzione del partito mondiale. Questa lotta teorica era e rimane essenziale per approfondire tutte le conseguenze di una posizione internazionalista e per distinguere i rivoluzionari dai nemici della classe operaia, in particolare dai socialsciovinisti.
Un quadro teorico obsoleto favorisce le derive opportunistiche
Nel periodo di decadenza del capitalismo, periodo in cui i rapporti di produzione stabiliti dal modo di produzione capitalistico si sono trasformati in un ostacolo sempre maggiore allo sviluppo delle forze produttive, la borghesia non ha più un ruolo progressista da svolgere nel sviluppo della società. Oggi, la creazione di una nuova nazione, la costituzione giuridica di un nuovo paese, non consente alcun progresso reale in un contesto di sviluppo che i paesi più antichi e potenti sono essi stessi incapaci di assumere. In un mondo dominato dagli scontri imperialisti, qualsiasi lotta di «liberazione nazionale», lungi dal costituire una dinamica progressista, costituisce in realtà solo occasioni di scontri imperialisti a cui i proletari e i contadini arruolati, volontariamente o con la forza, partecipano solo come carne da cannone. I movimenti di «liberazione nazionale», che hanno segnato in particolare gli anni 1960 e 1970, hanno dimostrato chiaramente che la sostituzione dei colonizzatori con una borghesia nazionale non ha rappresentato in alcun modo un progresso per il proletariato, ma al contrario lo ha condotto a innumerevoli conflitti di interessi imperialisti, nei quali sono stati massacrati operai e contadini. Ma il quadro teorico obsoleto dei gruppi bordighisti impedisce loro di comprendere le questioni reali con cui il proletariato internazionale e i suoi elementi in Israele/Palestina, si confrontano nell’inferno imperialista di Gaza.
Le Prolétaire continua ad analizzare la questione palestinese nel quadro dello «spirito e della spinta indipendentista “nazional-rivoluzionaria” che hanno caratterizzato le lotte contro l’oppressione nazionale in Algeria, in Congo e, più tardi, in Angola e Mozambico e che hanno caratterizzato a lungo la rivolta spontanea del proletariato palestinese»[9]. Il dramma e la sfida del «movimento di liberazione» palestinese è, per Le Prolétaire «il gigantesco potenziale di classe rappresentato dal proletariato e dalle masse proletarizzate palestinesi, mentre si manifesta attraverso la loro lotta armata e indomabile in Palestina, Libano, Siria e Giordania, non esprimeva un programma politico autonomo e di classe, capace di guidare il movimento nazionale». Pertanto questo gruppo invoca sempre un «movimento di liberazione» palestinese, mentre i rivoluzionari devono al contrario difendere la posizione secondo cui oggi tutti gli Stati, tutte le borghesie sono imperialiste e che i proletari non devono in nessun caso sostenere i movimenti contro l’oppressione nazionale.
Il Partito Comunista condivide fondamentalmente lo stesso quadro, poiché formula la critica secondo cui questa guerra non è una vera «lotta di liberazione nazionale» condotta dai Palestinesi, perché tale lotta «non avrebbe esposto con un tale cinismo la popolazione di Gaza all’inevitabile vendetta di Israele»[10]. Mentre i rivoluzionari devono chiedere il rifiuto di qualsiasi sostegno agli obiettivi nazionalisti, questo gruppo insiste per ottenere il sostegno della classe operaia israeliana nella lotta contro l’oppressione nazionale e si rammarica cinicamente che il massacro compiuto da Hamas lo abbia reso impossibile: «Inoltre, la lotta contro l’odiosa oppressione nazionale imposta ai palestinesi avrebbe potuto ottenere il sostegno anche degli israeliani, soprattutto della classe operaia, se non fosse stata collocata sul piano del massacro dei civili, in conformità con il deliberato programma di uccisione degli ebrei ovunque si trovino, attuati dall’oscurantista Hamas».
Da parte sua, Il Programma Comunista constata l’esaurimento dei movimenti anticoloniali a partire dalla metà degli anni 1970 e sottolinea che «le “questioni nazionali” irrisolte a metà degli anni ’70, vale a dire nel momento in cui le potenzialità dei movimenti anticoloniali si sono trasformate in cancrena controrivoluzionaria”[11]. Tuttavia, a causa dell’impossibilità di movimenti rivoluzionari nazionali contemporanei, questo gruppo afferma che questo contesto di totale distruzione imperialista e di caos barbarico costituisce un terreno fertile per lo sviluppo di un vasto movimento proletario: «Il che allarmerà maggiormente i governi, se il bagno di sangue continua, saranno le massicce testimonianze di solidarietà che arriveranno dalle capitali arabe […] e dalle numerose metropoli capitaliste (dove risiede da anni il proletariato arabo immigrato, soprattutto palestinese)».
Certamente la borghesia locale, in alleanza con vari leader religiosi e nazionalisti, sfrutterà le divisioni religiose e nazionaliste «per evitare il contagio di classe. I governi borghesi faranno di tutto per spezzare il legame istintivo con i proletari lontani massacrati da forze così potenti: questo legame ha anche un ruolo materiale da svolgere nella lotta, mentre la tempesta di “piombo fuso” si abbatte sulle case e sui corpi». In breve, come suggerisce già il titolo del loro articolo, la loro prospettiva è che la reazione proletaria partirà dal bagno di sangue degli scontri imperialisti e proprio da quelle parti del proletariato mondiale che sono intrappolate nella «cancrena controrivoluzionaria» della liberazione nazionale e massacrati dai vari imperialismi in Medio Oriente. Ma a differenza di quanto accaduto durante la Prima Guerra Mondiale, nell’attuale periodo di decomposizione del capitalismo è l’estensione della lotta del proletariato mondiale contro gli attacchi provocati dalla crisi economica e dall’espansione del militarismo che offrirà una prospettiva al proletariato del Medio Oriente.
In nessun caso, a partire dalla prima guerra mondiale, la lotta «nazionale-rivoluzionaria» ha costituito una prospettiva di lotta rivoluzionaria del proletariato capace di costituire il punto di partenza di una vera reazione proletaria. Il quadro obsoleto di questi gruppi bordighisti impedisce loro di comprendere le questioni attuali in Medio Oriente e li porta a sviluppare posizioni ambigue, aprendo la porta a derive opportunistiche.
Questo quadro obsoleto porta anche alla banalizzazione della guerra
La guerra di Gaza non è, come sostiene Il Programma Comunista, «l’ennesima ondata di massacri», seguita presumibilmente da un nuovo periodo di stabilità e pace. Al contrario, questa guerra rappresenta una nuova tappa significativa nell’accelerazione del caos nella regione e anche oltre. «La portata degli omicidi di per sé indica che la barbarie ha raggiunto una nuova tappa. […] Entrambi i campi sguazzano nella furia omicida più spaventosa e irrazionale!»[12]. Siamo di fronte all’espressione più compiuta della barbarie, una lotta sanguinosa affinché non rimangano che rovine in una regione divenuta completamente inabitabile. La guerra in Ucraina rappresentava già una nuova tappa nell’aggravarsi degli scontri imperialisti. La guerra a Gaza fa un ulteriore passo in avanti.
Anche se ciò non dovesse portare allo scoppio di una guerra mondiale, l’accumulo e gli effetti combinati di tutte queste guerre possono avere conseguenze simili, o addirittura peggiori, per la vita sul pianeta. Ma i gruppi bordighisti esprimono una forte tendenza a sottovalutare le sfide della situazione attuale, il che porta a conclusioni e direzioni errate. La loro incapacità di comprendere i reali pericoli della situazione attuale è chiaramente dimostrata dal fatto che queste organizzazioni banalizzano la gravità storica e l’impatto della guerra a Gaza[13]. Da un lato, le posizioni di Le Prolétarie sostengono che le condizioni attuali consentono ancora al proletariato palestinese di lottare per i propri interessi contro la borghesia israeliana e palestinese. D’altro canto, Il Partito Comunista propende per la guerra mondiale, che è «una necessità economica inevitabile», perché il capitalismo «può sopravvivere solo distruggendo. Ecco perché ha bisogno della guerra globale»[14].
Ciò a cui abbiamo assistito negli ultimi tre anni non è una preparazione verso una guerra mondiale, ma una situazione che ha subito un’accelerazione a livello globale attraverso un accumulo di crisi: pandemia, crisi ecologica, crisi alimentare, crisi dei rifugiati e crisi economica. Anche se alcuni di questi gruppi hanno identificato questo accumulo di crisi, nessuno di loro capisce che queste crisi non sono isolate le une dalle altre, ma che fanno parte dello stesso processo di decomposizione del mondo capitalista, rafforzando ciascuna di esse gli effetti delle altre. In questo processo di decomposizione, la guerra è diventata il fattore centrale, il vero catalizzatore, quello che aggrava tutte le altre crisi. Aggrava la crisi economica globale, fa sprofondare interi settori della popolazione mondiale nella barbarie; porta alla disoccupazione e alla miseria sociale nei paesi capitalisti più potenti e aumenta gli effetti distruttivi del pericolo ecologico. È quindi sbagliato considerare l’attuale guerra a Gaza come l’ennesimo massacro in Medio Oriente al quale potrebbe far seguito un periodo di calma o di ricostruzione, di qualsiasi forma.
Di fronte a questa guerra, i diversi gruppi bordighisti mostrano la loro totale incapacità di comprendere le questioni degli attuali confronti imperialisti[15]. L’assenza di un quadro adeguato, quello della decadenza e decomposizione del capitalismo, porta tutte le organizzazioni bordighiste ad aggrapparsi a un concetto superato, incapace di spiegare tutte le dinamiche della situazione attuale e di aprire la porta alle gravi derive opportunistiche.
D&R, 22 Febbraio 2024
[1] Il Risveglio del 12 luglio 1870 (citato da Marx in La Guerra civile in Francia [35]).
[2] «Contro la carneficina in Medio Oriente, oltre il nazionalismo, la guerra di classe contro la classe dominante!» Internationalist Communist Perspective (Corea, 2023).
[3] «La propaganda di guerra, la guerra di propaganda [36]», Internationalist Voice (2023), in inglese.
[4] «L'ultimo massacro in Medio Oriente è parte del cammino verso la guerra generalizzata [37]», Tendenza Comunista internazionalista (2023)
[5] «Non saranno gli atti terroristici, oggi di Hamas, come ieri di Al-Fath o di altre organizzazioni guerrigliere palestinesi, a far cessare l’oppressione israeliana sui palestinesi di Gaza e Cisgiordania», Il Comunista n°180 (dicembre 2023).
[6] «Guerra a Gaza [38]», PCI-Il Partito comunista n°425 (nov-dic 2023).
[7] «Israele e Palestina: terrorismo di Stato e disfattismo proletario [39]», il Programma Comunista (19 novembre 2023).
[8] Lenin, I compiti del proletariato nella nostra rivoluzione [40] (1917).
[9] «Non saranno gli atti terroristici, oggi di Hamas, come quelli di ieri di Al-Fath o di oltre organizzazioni guerrigliere palestinesi, a far cessare l’oppressione israeliana sui palestinesi di Gaza e in Cisgiordania. Il futuro del proletariato palestinese, come quello dei proletari di tutto il Medio Oriente, d’Europa e del mondo, è nella lotta indipendente di classe e nella solidarietà di classe proletaria di tutti i paesi!», pubblicato sul sito del PCI-Il Comunista nella rubrica «Prese di posizione [41]» (4 gennaio 2024).
[10] «Il proletariato di Gaza stritolato nella guerra fra gli imperialismi mondiali [42]», il Partito Comunista n.426 (gennaio-febbraio 2024).
[11] «Israele e Palestina: terrorismo di Stato e disfattismo proletario [39]», Il Programma Comunista (05-06 novembre-dicembre 2023).
[12] «Né Israele, né Palestina! I lavoratori non hanno patria! [43]», Rivoluzione Internazionale ICConline (11 ottobre 2023).
[13] Il Programma Comunista ha ripubblicato un articolo sulla guerra a Gaza nel 2009, scelta giustificata dal gruppo affermando che «non è cambiato nulla se non l'aumento esponenziale della potenza di fuoco scatenata nella Striscia di Gaza [dallo Stato di Israele].
[14] «https://www.international-communist-party.org/OtherLanguages/All_Lang/2022/1_May_2022.htm#It [44], volantino de Il Partito Comunista.
[15] Questa sottovalutazione è espressa, ad esempio, anche dalle poche attività pubbliche di questi gruppi all'inizio della guerra: Le Prolétaire ha pubblicato solo due articoli, Il Partito Comunista due articoli e ha organizzato una riunione pubblica, Il Programma Comunista due articoli e una riunione pubblica.
Il 27 gennaio, la CCI ha tenuto una Riunione pubblica a Madrid, in presenza e online, sul contributo di Bilan alla lotta per il partito mondiale del proletariato. Non si è trattato di un appello ad una vuota discussione, perché abbiamo potuto constatare che nell'ambiente politico c'è un interesse per Bilan già precedentemente espresso per due volte a Madrid.
Perché organizziamo una riunione pubblica su “Bilan”?
Le organizzazioni comuniste di oggi non sono nulla senza la loro piena iscrizione nella continuità storica critica delle organizzazioni comuniste del passato. Noi rivendichiamo due legami in questa continuità: Bilan e Internationalisme[1]. Come abbiamo annunciato nella riunione pubblica: “il proletariato ha bisogno del suo partito mondiale e per formarlo, quando le sue lotte raggiungeranno una massiccia forza internazionale, la sua base sarà la Sinistra Comunista alla quale ci rivendichiamo [..] L’incontro pubblico che proponiamo mira a provocare un dibattito per elaborare una valutazione critica del contributo di Bilan, per apprezzare dove Bilan è pienamente valido, dove deve essere criticato, dove è necessario andare oltre. Le sue forze, i suoi errori, la sua esperienza organizzativa e teorica sono materiali essenziali per la lotta dei rivoluzionari di oggi”.
Invitiamo i lettori a proseguire il dibattito attraverso contributi o partecipando a incontri pubblici e permanenze della CCI.
La continuità storica critica del marxismo
Un partecipante ha aperto il dibattito dichiarando che il marxismo è qualcosa di dogmatico, d'immutabile. Per lui il marxismo non deve tener conto dell'evoluzione della situazione storica ma deve rimanere fisso e bloccato su posizioni affermate fin dalle sue origini. A questo proposito lui stesso si è definito “sclerotico” e addirittura “trapezoide” arrivando a dire che solo i morti cambiano. I partecipanti in presenza e quelli che hanno partecipato tramite Internet hanno messo avanti i seguenti argomenti contro questo punto di vista:
– Nel marxismo ci sono posizioni e principi fondamentali che non cambiano e non cambieranno: che la lotta di classe è il motore della storia, che la lotta di classe del proletariato è la sola che può portare al comunismo, che ogni modo di produzione, e quindi anche il capitalismo, vive un’epoca di ascesa e un’epoca di decadenza, che la distruzione del capitalismo è necessaria per costruire il comunismo, che la costituzione di un partito mondiale è essenziale per il proletariato, che il marxismo svolge un ruolo motore nello sviluppo della coscienza di classe, ecc.
– Tuttavia, a partire da questi fondamenti che ne costituiscono il solco, il marxismo si sviluppa rispondendo ai nuovi problemi posti dall’evoluzione del capitalismo e dalla lotta di classe, ma anche correggendo eventuali errori, insufficienze o limiti legati a ciascuna epoca storica. Questo approccio è fondamentale nella scienza, ma è ancora più vitale per il proletariato che deve, come classe sfruttata e rivoluzionaria, sviluppare la sua lotta per il comunismo facendosi strada tra innumerevoli errori e debolezze, imparando dalle sue lotte e dalle sue sconfitte, criticando spietatamente i suoi errori. Egli deve tanto più sviluppare la sua lotta contando sulla piena coscienza, che non ha altro che la sua forza lavoro e che non può, a differenza delle classi storiche del passato, sviluppare il suo progetto senza distruggere il capitalismo da cima a fondo estirpando con esso le radici di tutte le società di sfruttamento.
– Ciò vale anche per le sue organizzazioni rivoluzionarie, che devono essere in grado di analizzare criticamente le posizioni precedenti e le proprie posizioni. Così Marx ed Engels nel 1872 hanno corretto, alla luce dell'esperienza della Comune di Parigi, l'idea che lo Stato dovesse essere preso alla classe dominante così com'era, per proporre rispetto alla nuova lezione storica appena acquisita a caro prezzo da parte del proletariato l’assoluta necessità di distruggere lo Stato borghese. Lenin, nelle Tesi di aprile, ha posto la necessità di modificare il programma del partito, integrandovi la posizione del carattere globale e socialista della rivoluzione e della presa del potere da parte dei soviet.
È una grave irresponsabilità restare dogmaticamente aggrappati a posizioni che non sono più valide. I partiti socialdemocratici non volevano comprendere né la decadenza del capitalismo, né le conseguenze che ne derivavano: la fine della possibilità di strappare miglioramenti e riforme duraturi a questo sistema di sfruttamento attraverso la lotta, né la natura della guerra imperialista, né lo sciopero di massa, ecc. Ciò li ha portati al tradimento. L'Opposizione di Sinistra di Trotzkij aggrappandosi dogmaticamente alla difesa incondizionata del programma dei primi quattro congressi dell'IC, è stata spinta nell'opportunismo, e non ha mai adottato un approccio critico nei confronti dell'ondata rivoluzionaria del 1917-1924. Alla fine, dopo la morte di Trotzkij, il trotzkismo ha tradito l’internazionalismo proletario sostenendo uno dei campi imperialisti presenti al tempo della Seconda Guerra Mondiale passando così al campo borghese.
Un’organizzazione proletaria che non è capace di una valutazione critica spietata del proprio percorso e di quello delle precedenti organizzazioni del movimento operaio è destinata a perire o a tradire. Bilan ci fornisce il metodo di tale valutazione critica nell'articolo “Verso un'Internazionale due e tre quarti?” (Bilan n°1, novembre 1933) in risposta all'Opposizione di Sinistra di Trotzkij: “In ogni periodo storico della formazione del proletariato come classe, la crescita degli obiettivi del Partito diventa evidente. La Lega dei Comunisti ha marciato con una frazione della borghesia. La prima Internazionale delineerà le prime organizzazioni di classe del proletariato. La Seconda Internazionale fonderà i partiti politici e i sindacati di massa dei lavoratori. La Terza Internazionale realizzerà la vittoria del proletariato in Russia.
In ogni periodo storico vedremo che la possibilità di formare un partito è determinata sulla base delle esperienze precedenti e dei nuovi problemi che si sono presentati al proletariato. La Prima Internazionale non avrebbe mai potuto essere fondata in collaborazione con la borghesia radicale. La Seconda Internazionale non avrebbe potuto essere fondata senza l’idea della necessità di raggruppare le forze proletarie in organizzazioni di classe. La Terza Internazionale non avrebbe potuto essere fondata in collaborazione con le forze che agiscono all’interno del proletariato per condurlo non all’insurrezione e alla presa del potere, ma alla riforma graduale dello Stato capitalista. In ogni epoca il proletariato può organizzarsi come classe e il partito può fondarsi sui seguenti due elementi:
1. La coscienza della più avanzata posizione che il proletariato deve occupare, l’intelligenza delle nuove strade da percorrere.
2. La delimitazione crescente delle forze che possono agire a favore della rivoluzione proletaria”.
Questo lavoro non si fa partendo da zero, prendendo come riferimento i nuovi sviluppi isolati, o esaminando possibili errori senza confrontarli con le posizioni precedenti. Viene fatto sulla base di un rigoroso esame critico delle posizioni precedenti, vedendo ciò che è valido, ciò che è insufficiente o obsoleto e ciò che è errato, richiedendo lo sviluppo di una nuova posizione. Un partecipante, attratto dallo specchietto per le allodole della teorizzazione sull’“invarianza del programma comunista”, ha proposto di adattare il marxismo alle moderne teorie del comportamento umano e della psicologia, combinandolo con le nuove scoperte scientifiche. Tuttavia, il metodo marxista non opera un “cambiamento di posizione”, né si adatta a idee apparentemente nuove, ma procede ad uno sviluppo e ad un confronto rigoroso della realtà con il proprio quadro iniziale, arricchendolo e portandolo ben più avanti.
Sulla repressione della rivolta di Kronstadt
Il partecipante, che si è dichiarato un “invariante”, ha definito la repressione di Kronstadt una “vittoria del proletariato” e l'ha giustificata affermando che il partito deve imporre la sua dittatura alla classe. Questa posizione ci è sembrata una mostruosità e l'abbiamo sostenuta con la partecipazione attiva di numerosi altri partecipanti nel modo seguente:
la classe operaia non è una massa informe che ha bisogno di essere presa a calci o bastonata per farla avanzare e “liberarla”. È evidente che dietro questa cieca difesa della repressione di Kronstadt si cela una visione del tutto errata del partito del proletariato e dei suoi rapporti con la classe. Il partito proletario non è, come i partiti borghesi, un candidato al potere statale, un partito statale. La sua funzione non può essere quella di amministrare lo Stato, cosa che inevitabilmente cambierebbe il suo rapporto con la classe in un rapporto di forza, il suo contributo consiste invece nel guidarla politicamente. Diventando amministratore statale, il partito cambierà impercettibilmente il suo ruolo per diventare un partito di funzionari, e tutto ciò implica una indiscutibile tendenza alla burocratizzazione. Il caso dei bolscevichi è a tale riguardo del tutto esemplare.
Secondo un certo "buon senso" logico che sopravvive in alcune parti dell'ambiente proletario: "essendo il partito la parte più cosciente della classe, la classe deve fidarsi di lui, in modo che naturalmente e automaticamente sia il partito a prendere il potere e ad esercitarlo”. Tuttavia, "il partito comunista è una parte della classe, un organismo che, nel suo movimento, la classe genera e si dà per lo sviluppo della sua lotta storica fino alla vittoria, cioè fino alla trasformazione radicale dell'organizzazione e dei rapporti sociali per fondare una società che realizzi l’unità della comunità umana globale”[2]. Se il partito si identifica con lo Stato, non solo nega il ruolo storico del proletariato nel suo insieme a favore di una concezione borghese della direzione della società, ma nega anche il suo ruolo specifico e indispensabile all'interno del proletariato per promuovere metodicamente, con le unghie e con i denti, lo sviluppo della coscienza del proletariato, non in senso conservatore, ma nella prospettiva della rivoluzione e del passaggio al comunismo.
Inoltre, Bilan, pur agendo con maggiore cautela e circospezione su altre questioni, ha avuto una posizione molto chiara nella sua difesa dei principi proletari per opporsi fermamente all’uso della violenza nella risoluzione dei problemi e delle controversie che possono sorgere all’interno della nostra stessa classe: “Può darsi che una parte del proletariato – e ammettiamo che essa possa anche essere stata prigioniera involontaria delle manovre del nemico – venga spinta a combattere lo Stato proletario. Come affrontare questa situazione partendo dalla questione di principio secondo cui il socialismo non può essere imposto al proletariato con la forza o con la violenza? Era meglio perdere Kronstadt che preservarla dal punto di vista geografico, perché, in fondo, una simile vittoria poteva avere più di un risultato: alterare le basi stesse, la sostanza dell'azione portata avanti dal proletariato”[3].
La rivoluzione mondiale conoscerà molti episodi complicati, ma per difendere la sua direzione e il suo sviluppo dovrà difendere con fermezza i principi fondamentali nell'azioni del proletariato. Uno di questi è immutabile e invariabile: non potranno e non dovranno mai esserci rapporti di violenza all'interno della classe operaia, tanto più quando si agisce in suo nome per esercitare e giustificare la repressione contro una sua parte ed a maggiore ragione se essa rappresenta un tentativo di difesa della rivoluzione. La repressione di Kronstadt ha accelerato il cammino verso la degenerazione e la sconfitta della rivoluzione in Russia e verso la distruzione della sostanza proletaria deteriorata del partito bolscevico.
Trarre conclusioni militanti dalle riunioni pubbliche
Si sono svolte altre discussioni molto interessanti e controverse, e non solo su posizioni apparentemente “invarianti”. Abbiamo insistito sulla differenza sostanziale tra il metodo organizzativo, teorico e storico di Bilan rispetto a quello dell'Opposizione di Sinistra di Trotzkij[4]:
- Bilan è rimasto fedele al principio della lotta contro la deformazione dei principi da parte dell'ideologia borghese. Mentre l'Opposizione di Sinistra si rivendicava ai Congressi dell'IC che teorizzavano l'opportunismo e aprivano la strada allo stalinismo, le frazioni di Sinistra si adoperarono per criticare tutte le teorizzazioni opportuniste apparse e sviluppatesi a partire dal Secondo Congresso. Esse hanno condotto una paziente lotta polemica per cercare di convincere quante più forze militanti possibili racchiuse nel quadro opportunistico delle “tattiche” dell’Opposizione di Sinistra.
- Bilan ha saputo fare una critica profonda e rigorosa, che gli ha permesso di trarre insegnamenti dalle posizioni errate della IC che hanno poi portato quest'ultima al tradimento, come la tattica del Fronte Unico, la difesa delle lotte di liberazione nazionale, la lotta democratica, le milizie partigiane... permettendogli di preservare per il futuro la difesa delle posizioni rivoluzionarie di classe, in linea con le posizioni difese dalla Sinistra Comunista.
– La sua analisi del rapporto di forza tra le classi è stata vitale nel determinare la funzione delle organizzazioni rivoluzionarie durante questo periodo, in contrasto con “l’influenza permanente sulle masse” che l’opposizione cercava di ottenere a tutti i costi.
Ci sono anche differenze sostanziali tra la concezione di Bilan e quella del KAPD tedesco, sebbene entrambe rientrino nel quadro di posizioni difese dalla Sinistra Comunista. Il KAPD, e questa è stata la sua più grande debolezza, non si basava su un'analisi storica, rifiutò addirittura la continuità del legame rivoluzionario delle sue posizioni con la Rivoluzione d'Ottobre e trascurò completamente la questione organizzativa. In altre parole, è stato Bilan a lasciarci la sua visione del lavoro politico e organizzativo COME FRAZIONE: “La frazione è l'organo che permette la continuità dell'intervento comunista nella classe, anche nei periodi più bui o quando tale intervento non ha un'eco immediata. Tutta la storia delle frazioni della Sinistra comunista lo dimostra ampiamente. Accanto alla rivista teorica “Bilan”, la frazione italiana pubblicava un periodico in italiano, “Prometeo”, la cui diffusione in Francia era superiore a quella dei trotzkisti francesi, anche se molto impegnati nell’attivismo”[5]. Allo stesso modo, la Frazione ha il ruolo essenziale di gettare le basi per la costruzione del futuro partito proletario mondiale e di saper analizzare le misure concrete da adottare e il momento in cui è necessario iniziare a lottare per la sua formazione diretta.
Nell’ambito del lavoro concepito come quello di frazione, come l'ha difeso Bilan, la discussione delle riunioni pubbliche deve avere un orientamento MILITANTE e non restare un incontro in cui ognuno esprime la propria “opinione”, senza raggiungere alcun risultato. Ciò è stato interpretato dal partecipante autoproclamato "sclerotico" come una manifestazione di settarismo della CCI, una modalità di discussione e reclutamento su base settaria e, con questo pretesto, si è opposto alle conclusioni tratte e ha abbandonato in fretta la riunione prima di ascoltarle, trascinando dietro di sé il compagno con cui era arrivato[6].
Una riunione proletaria deve essere in grado di trarre conclusioni che comprendano il richiamo dei punti di accordo e di disaccordo nella discussione, delineando così coscientemente dove si è arrivati o le questioni affrontate su cui si è registrato un progresso nel chiarimento, e costruendo un ponte verso altre discussioni a venire. In questo senso abbiamo insistito affinché i due fuggitivi restassero per esporre i loro eventuali disaccordi rispetto alle conclusioni. Purtroppo non siamo riusciti a convincerli perché, a quanto pare, anche il loro gusto per l'eclettismo informale è un principio immobile!
CCI, febbraio 2024
[1] Abbiamo particolarmente accolto con favore la pubblicazione in spagnolo di undici numeri di Bilan: “La continuidad histórica, una lucha indispensabili y permanent para las organizaciones revolucionarias” (La continuità storica una lotta indispensabile e permanente per le organizzazioni rivoluzionarie), pubblicata sul sito web della CCI in spagnolo (2023).
[2] “El partido desfigurado: la conception bordiguista” (Il partito sfigurato: la concezione bordighista) Revista internacional nº 23 (1980) e “Il Partito e i suoi rapporti con la classe”, Rivista Internazionale nº 8, https://it.internationalism.org/content/il-partito-e-il-suo-rapporto-con-la-classe [47].
[3] “La questione dello Stato”, Octobre n°2 (1938)
[4] "¿Cuáles son las diferencias entre la Izquierda Comunista y la IVª Internacional?” (Quali sono le differenze tra la Sinistra Comunista e la IVª Internazionale?), pubblicato sul sito della CCI (2007) https://es.internationalism.org/cci-online/200706/1935/cuales-son-las-diferencias-entre-la-izquierda-comunista-y-la-iv-internacional [48].
[5] “La relación entre Fracción y Partido en la tradición marxista II" (La relazione tra Frazione e Partito nella tradizione marxista II) – La Izquierda comunista international (La Sinistra Comunista Internazionale), 1937-1952” Revista international nº 61 - Frazione e Partito nel dibattito della Sinistra Comunista [49], https://it.internationalism.org/rint/3_dibattito [49]
[6] È chiaro che hanno anche dimenticato il principio della Sinistra Comunista di lottare fino in fondo nell'ambiente proletario per trarne quanta più chiarezza e insegnamenti possibili. Troviamo molto strano che essi rivendichino la continuità con Bilan, quando sarebbe stato molto più coerente e produttivo per la lotta della nostra classe se avessero espresso apertamente il loro evidente disaccordo con Bilan. Invece hanno preferito evitare il confronto delle argomentazioni.
I governi fanno piovere tagli al bilancio e attacchi ai lavoratori, ai disoccupati, alle prestazioni sociali minime, ai pensionati, ecc. I licenziamenti di massa sono in aumento. Sia nel settore pubblico che in quello privato, le risorse mancano ovunque. I servizi pubblici stanno fallendo completamente. Le carenze di medicinali e persino di generi alimentari sono diventate comuni. Milioni di famiglie, anche tra quelle abbastanza "fortunate" da avere un lavoro stabile, non riescono più ad arrivare a fine mese. I prezzi degli alimenti, del riscaldamento, degli affitti e della benzina sono in aumento. Le bollette del gas e dell’elettricità sono alle stelle. Le code alle mense caritatevoli si allungano drammaticamente. I più poveri sono addirittura ridotti a saltare i pasti... Quale immagine è più terrificante e più esplicita di quella dei bambini che muoiono di freddo nelle strade delle principali capitali europee, nel cuore delle economie più potenti del pianeta? In quattro anni eventi drammatici si sono susseguiti a ritmo vertiginoso: covid, guerra in Ucraina, massacro a Gaza, disastri climatici... Questo vortice di disastri non ha fatto altro che peggiorare la crisi e alimentare ulteriormente il caos globale.[1] Il futuro che il capitalismo ci riserva non potrebbe essere più chiaro: lo sviluppo della crisi economica accelera notevolmente le minacce che gravano sull'umanità e che potrebbero portare alla sua distruzione. Ma la crisi è anche il crogiolo della lotta della classe operaia!
Il proletariato non si rassegna ad accettare la povertà
Di fronte a tali sfide e all’inesorabile e terrificante declino della società borghese, la classe operaia non si è rassegnata ad accettare la povertà. Da quasi due anni, nonostante le guerre e la propaganda bellica, la classe operaia lotta ovunque e in massa. In molti Paesi, le lotte sono spesso descritte come "storiche" in termini di numero di scioperanti e manifestanti, ma anche per la determinazione dei lavoratori a lottare per la propria dignità e le proprie condizioni di vita. È una vera rottura dopo decenni di rassegnazione.[2]
Dall’estate del 2022 il proletariato britannico si è opposto alla crisi. Mese dopo mese i lavoratori hanno scioperato e manifestato nelle strade, chiedendo salari migliori e condizioni di lavoro più dignitose. Mai sentito in tre decenni! All’inizio del 2023, mentre gli scioperi si moltiplicavano in tutto il mondo, il proletariato francese a sua volta si mobilitava in massa contro la riforma delle pensioni. Milioni di persone entusiaste hanno manifestato nelle strade con il fermo desiderio di lottare insieme, tutti i settori e tutte le generazioni uniti. Poi, in autunno, i lavoratori degli Stati Uniti si sono impegnati in uno dei più massicci scioperi della storia di questo paese, in particolare nel settore automobilistico, seguito da un movimento del settore pubblico, anche questo descritto come storico, in Quebec.
Proprio di recente, in un paese presentato come un "modello sociale", i lavoratori delle fabbriche Tesla in Svezia sono entrati in sciopero, seguiti dalle manifestazioni di solidarietà degli impiegati delle poste che hanno bloccato tutta la posta diretta ai laboratori dell'azienda del buffone miliardario Elon Musk. I portuali a loro volta hanno bloccato quattro porti e gli elettricisti si sono rifiutati di effettuare lavori di manutenzione sulle stazioni di ricarica dei veicoli elettrici.
Anche nell'Irlanda del Nord, a gennaio, il più grande sciopero operaio della storia di questa regione ha riunito centinaia di migliaia di lavoratori, soprattutto del settore pubblico, che hanno chiesto il pagamento dei loro stipendi.
Una combattività intatta
Ancora oggi, mentre la guerra infuria ancora in Ucraina e a Gaza, gli scioperi e le manifestazioni operaie aumentano in tutto il mondo, soprattutto in Europa.
In Germania, la più grande economia d’Europa, i lavoratori delle ferrovie hanno lanciato uno sciopero “record” di una settimana alla fine di gennaio. È l'ultimo di una lunga serie di scioperi contro l'aumento dell'orario di lavoro e per l'aumento dei salari. Nei prossimi mesi la rete ferroviaria potrebbe essere interessata da scioperi illimitati. Nel paese del “dialogo sociale” gli scioperi aumentano da mesi in molti settori: nell’industria siderurgica, nella pubblica amministrazione, nei trasporti, nella sanità, nella raccolta dei rifiuti… Il 30 gennaio si è svolto un raduno nazionale di 5.000 medici ad Hannover. Il 1° febbraio undici aeroporti del Paese sono stati colpiti da uno sciopero del personale di sicurezza, mentre 90.000 autisti di autobus, tram e metropolitane hanno smesso di lavorare. A metà febbraio hanno scioperato anche 10.000 addetti alla grande distribuzione. Il personale di terra della Lufthansa è stato chiamato a scioperare il 20 febbraio.
Questa ondata di scioperi, per la sua portata, la sua imponenza e la sua durata, non ha precedenti in un paese noto per gli enormi ostacoli amministrativi eretti davanti a ogni movimento sociale e per la camicia di forza del sindacato che ha permesso a lungo alla borghesia di accumulare piani di rigore e di “riforme” senza che la classe operaia reagisse realmente. Nonostante le difficoltà nel rompere la camicia di forza corporativa e nel mobilitarsi “tutti insieme”, le lotte in Germania sono di immensa importanza e di forte significato simbolico. Esse si esprimono infatti nel cuore di un grande polo industriale, nel paese che fu epicentro dell'ondata rivoluzionaria degli anni '20 e tragico attore di un lungo periodo di controrivoluzione. L’attuale movimento è chiaramente parte della ripresa internazionale della lotta di classe.
Ma la combattività dei lavoratori non si limita alla Germania. In Finlandia, in un paese non abituato alle mobilitazioni, all’inizio di febbraio ha avuto luogo uno “sciopero storico” durato 48 ore. Anche di recente i portuali hanno paralizzato l’attività portuale di questo paese per quattro giorni tra il 18 e il 21 febbraio. Ha riunito fino a 300.000 scioperanti contro la riforma del diritto del lavoro. In Turchia decine di migliaia di lavoratori del settore metalmeccanico si sono mobilitati per mesi per chiedere aumenti salariali, mentre i prezzi salivano e si impennavano. In Belgio è il settore no-profit a scioperare e a manifestare a Bruxelles il 31 gennaio. In Spagna, Regno Unito, Francia, Grecia... gli scioperi si moltiplicano in molti settori. La borghesia mantiene un assordante blackout mediatico attorno a queste lotte, perché è ben consapevole del crescente malcontento dei lavoratori e del pericolo che tali mobilitazioni rappresentano.
La vecchia talpa sa ancora come lavorare bene
La rottura a cui assistiamo però non è legata solo alla imponenza e alla simultaneità delle mobilitazioni di massa.
Il proletariato sta infatti ricominciando, in modo ancora approssimativo ed esitante, a riconoscersi come forza sociale, a riscoprire la propria identità. Nonostante tutte le illusioni e le confusioni, il fatto che "siamo lavoratori" e "siamo tutti sulla stessa barca" è stato espresso ovunque, sui cartelli e nelle discussioni. Queste non sono affatto parole vuote! Perché dietro queste parole c’è una solidarietà molto reale: solidarietà tra generazioni, innanzitutto, come abbiamo potuto vedere molto chiaramente in Francia quando i pensionati sono scesi in massa in piazza per sostenere “i giovani”; tra settori, poi, come negli Stati Uniti con i concerti di clacson davanti alle fabbriche in sciopero o in Scandinavia in difesa dei lavoratori Tesla.
Sono emerse anche embrionali espressioni di solidarietà internazionale. Il Mobilier National francese ha così scioperato solidale con gli operatori culturali in lotta in Gran Bretagna. Le raffinerie del Belgio hanno scioperato per sostenere la mobilitazione in Francia, mentre piccole manifestazioni si sono moltiplicate in tutto il mondo per denunciare la feroce repressione dello Stato francese. In Italia, mentre molti settori si mobilitano da diversi mesi, i conducenti di autobus, tram e metropolitana hanno scioperato il 24 gennaio: sulla scia del movimento contro la riforma delle pensioni in Francia, i lavoratori hanno affermato di voler condurre le mobilitazioni “come in Francia”, testimoniando così i legami che i lavoratori stanno cominciando a riconoscere oltre i confini e il desiderio di trarre insegnamento dai movimenti precedenti.
Il proletariato comincia anche ad appropriarsi di nuovo della sua esperienza di lotta. In Gran Bretagna la cosiddetta “estate della rabbia” faceva esplicito riferimento ai grandi scioperi dell’“inverno del malcontento” del 1978-1979. Nelle manifestazioni in Francia i riferimenti al Maggio 68 e alla lotta contro il CPE del 2006 sono apparsi sui cartelli contemporaneamente all’inizio della riflessione su questi movimenti. E tutto questo mentre lo Stato impone restrizioni e continua con un gran battage a giustificare la guerra.
Naturalmente siamo ancora lontani da un ritorno massiccio e profondo della coscienza di classe. Naturalmente tutte queste espressioni di solidarietà e riflessione sono piene di confusioni e illusioni, facilmente deviate da tutte le strutture di inquadramento della borghesia, i sindacati e i partiti di sinistra. Ma i rivoluzionari che guardano tutto questo dal balcone tappandosi il naso[3] sono consapevoli del cambiamento in atto rispetto ai decenni precedenti, decenni di silenzio, di rassegnazione, di rifiuto dell'idea stessa di classe operaia e dell’oblio della sua esperienza?
La borghesia approfitta delle debolezze ancora enormi della classe operaia
Se queste lotte dimostrano chiaramente che la classe operaia non è sconfitta e che rimane l’unica forza sociale in grado di affrontare la borghesia, la sua lotta è lungi dall’essere consolidata. È ancora gravata da enormi debolezze e da illusioni che i movimenti attuali mostrano crudamente. Finora i sindacati sono riusciti a controllare tutte le lotte, a mantenerle in un quadro molto corporativista, come possiamo vedere oggi in Francia o in Germania, favorendo, quando necessario, una parvenza di unità e radicalismo come nel caso del “Front Commun” dei sindacati canadesi o del movimento finlandese.
Durante il movimento contro la riforma delle pensioni in Francia, molti lavoratori, diffidando delle interminabili giornate di mobilitazione sindacale, hanno iniziato a porsi domande su come lottare, come unirsi, come far retrocedere il governo... ma da nessuna parte la classe è stata in grado di sfidare i sindacati per la conduzione delle lotte attraverso assemblee generali sovrane, così come non è stata in grado di rompere con la logica corporativa imposta dai sindacati.
La borghesia impiega d'altronde tutto il suo arsenale ideologico per sviare la coscienza che comincia a maturare nelle teste dei lavoratori. Mentre rimane in silenzio sugli scioperi di massa della classe operaia, ha ovviamente fatto un rumore assordante attorno al movimento dei contadini. In Germania, Paesi Bassi, Francia, Belgio, Polonia, Spagna… la borghesia ha potuto contare ancora una volta sui suoi partiti di sinistra per esaltare i meriti di metodi di lotta agli antipodi con quelli del proletariato e per spiegare che “il movimento operaio deve approfittare della breccia”. “Mentre la classe operaia riprende massicciamente il cammino della lotta dappertutto nel mondo, la borghesia tenta di ostacolare la maturazione della sua coscienza, di intossicare la sua riflessione sulla sua identità, sulla sua solidarietà e sui suoi metodi di lotta, sfruttando la mobilitazione degli agricoltori. E per fare questo può contare, ancora e sempre, sui suoi sindacati e sui suoi partiti di sinistra, trotskisti e stalinisti in testa.”[4]
Inoltre, non risparmia alcuno sforzo per legare la classe operaia al carro della democrazia borghese. In Europa come in America, mentre il marciume del suo sistema genera aberrazioni politiche come Trump negli Stati Uniti, Milei in Argentina, Rassemblement National in Francia, Alternative für Deutschland, Fratelli d'Italia e altri loro sodali, la borghesia, o almeno i settori di essa meno colpiti dalla decomposizione della società, pur cercando di limitare l'influenza dei partiti di estrema destra, si è affrettata a sfruttare la loro ascesa contro la classe operaia. In particolare in Germania, dove più di un milione di persone sono scese nelle strade di diverse città, su appello dei partiti di sinistra e di destra, per protestare contro l’estrema destra. Anche in questo caso si tratta di mantenere le illusioni democratiche e di impedire al proletariato di difendere la sua lotta storica contro lo Stato borghese.
È certo, tuttavia, che è nel fuoco delle lotte attuali e future che la classe operaia troverà a poco a poco le armi politiche per difendersi dalle trappole tese dalla borghesia e troverà infine la strada verso la rivoluzione comunista.
EG, 20 febbraio 2024
[1] “Rivoluzione comunista o distruzione dell'umanità [51]: la responsabilità cruciale delle organizzazioni rivoluzionarie [51]”, Rivista Internazionale n. 37, https://it.internationalism.org/files/it/rint37completa.pdf [52]
[2] “Dopo la rottura della lotta di classe, la necessità della politicizzazione delle lotte”, https://it.internationalism.org/content/1797/dopo-la-rottura-della-lotta-di-classe-nasce-la-necessita-di-politicizzare-le-lotte [53]
[3] “Le ambiguità del TCI sul significato storico dell'ondata di scioperi nel Regno Unito [54]”, Révolution Internationale n° 497 (2023), in francese.
[4] La rabbia degli agricoltori [55]: un grido di disperazione strumentalizzato contro la coscienza dei lavoratori! https://it.internationalism.org/content/1789/la-rabbia-degli-agricoltori-un-grido-di-disperazione-sfruttato-contro-la-coscienza [56].
Dopo il barbaro scatenamento del conflitto in Ucraina e il suo degrado in una terribile guerra di posizione, i massacri in Israele e Gaza e le minacce di conflagrazione in Medio Oriente attraverso un conflitto diretto tra Israele e Iran, le tensioni intorno a Taiwan, gli appetiti incontrollabili delle nazioni portano i politici borghesi a fingere di "scoprire" che il vecchio mondo capitalista è un sinistro campo in cui regna il tutti contro tutti.
All'inizio del conflitto in Ucraina, i discorsi hanno subito cercato di convincerci che bisognava smetterla con il "buonismo" e accettare di prepararsi alla "guerra ad alta intensità": fare sacrifici per alimentare nuovi omicidi di massa e pianificare la distruzione! Certo, in nome della "pace" e della "difesa della democrazia"...
In un contesto di tensioni imperialiste sempre più forti, in cui l’ognuno per sé è la regola, le borghesie occidentali, in Europa come negli Stati Uniti, stanno raddoppiando i loro sforzi per diffondere le peggiori campagne guerrafondaie nei mezzi di informazione. Così, in maniera del tutto disinvolta, il presidente francese Macron si è trovato in prima linea, sostenuto dai capi di Stato di sette Paesi europei, ad affermare che non si deve escludere l'invio di soldati occidentali in Ucraina. In Gran Bretagna, il generale Patrick Sanders ha sostenuto il "raddoppio delle dimensioni dell'esercito britannico" e ha chiesto di preparare i cittadini comuni alla "mobilitazione civile". A lui si è unito il capo del comitato militare della NATO, l'ammiraglio Rob Bauer, che ha detto in un discorso: "La responsabilità per la libertà non ricade solo sulle spalle di coloro che indossano l'uniforme. […] Abbiamo bisogno che gli attori pubblici e privati cambino la loro mentalità da un tempo in cui tutto era pianificabile, prevedibile, controllabile, orientato all'efficienza... in un momento in cui tutto può succedere in qualsiasi momento". In altre parole, vogliono essere in grado di mobilitare la popolazione per lo "sforzo bellico" e preparare le truppe al combattimento.
Se tali affermazioni si moltiplicano e allo stesso tempo suscitano polemiche, è a causa delle divisioni e delle tensioni tra le diverse fazioni borghesi. Ma su una cosa sono tutti d'accordo: spingerci a sostenere una parte tra i belligeranti in guerra, in questo caso quella dell'Ucraina. Tutti gli interventi affermano all'unanimità che "l'Ucraina sta combattendo per noi" e che "in caso di sconfitta l'esercito russo sarà alle nostre porte".
È in questo contesto che assume un significato particolare il settantacinquesimo anniversario della NATO, celebrato in pompa magna pur sottolineando che le difficoltà di Putin non lo ha reso meno pericoloso. E mentre il segretario generale Jens Stoltenberg ha chiarito che "non ci sono piani per inviare truppe della NATO in Ucraina", ha chiarito che "gli alleati della NATO stanno fornendo un sostegno senza precedenti all'Ucraina". Si tratta infatti di preparare le menti ad accettare il principio della guerra e dei suoi sacrifici. Ciò è tanto più importante in quanto, come sottolineava Rosa Luxemburg all'epoca della prima guerra mondiale, "la guerra è un omicidio metodico, organizzato, gigantesco. Ai fini dell'omicidio sistematico, negli uomini di costituzione normale, è necessario produrre un'ubriachezza appropriata. Questo è sempre stato il metodo abituale dei belligeranti. La bestialità dei pensieri e dei sentimenti deve corrispondere alla bestialità della pratica, deve prepararla e accompagnarla"[1].
Naturalmente, da questo punto di vista, tutti i discorsi guerrafondai di oggi hanno l'obiettivo primario di giustificare ovunque l'aumento vertiginoso dei bilanci militari. L'impressionante aumento della spesa per gli armamenti nei paesi scandinavi (ad esempio del 20% in Norvegia) e negli Stati baltici è altamente simbolico di questa nuova frenetica corsa agli armamenti. In effetti, tutti i paesi europei stanno compiendo grandi sforzi. Lo vediamo, ad esempio, con la Polonia, che punta a una quota record del 4% del suo PIL (il tasso più alto all'interno della NATO), con la Germania, che con il bilancio di quest'anno (68 miliardi di euro) raggiungerà il 2,1% del suo PIL per la prima volta in più di trent'anni, o con la Francia, che prevede di spendere la bella cifra di 413,3 miliardi di euro in sette anni. L’Italia non è da meno, con l’obiettivo di raggiungere il 2% del PIL per le spese militari, e con la proposta del ministro della difesa Crosetto di aumentare di 10.000 uomini gli effettivi dell’esercito.
Oggi, l'impegno e gli sforzi da compiere in termini di spesa per gli armamenti stanno assumendo una nuova qualità. Tuttavia, dalla fine della Prima Guerra Mondiale, la "pace" non è stata in realtà altro che una mistificazione mentre i cadaveri si accumulavano. Dopo il crollo del blocco sovietico, il nuovo "mondo multipolare" non ha fatto altro che creare il caos, coinvolgendo sempre più gli eserciti delle maggiori potenze imperialiste in costosi conflitti, con in prima fila gli Stati Uniti. Ma le somme gigantesche programmate oggi sono programmate questa volta in un contesto di accelerazione della decomposizione e di drammatico aggravamento della crisi economica che ha fatto seguito al brutale shock causato dall'epidemia di Covid.
La necessità della lotta di classe
La situazione attuale è caratterizzata da una crescita industriale stagnante, persino da segni di recessione, mentre i debiti non fanno che aumentare e l'inflazione continua a erodere i salari. E' in questo contesto altamente degradato che la borghesia deve attaccare ancora di più gli operai per rafforzare coerentemente i suoi mezzi militari. Chiaramente, la borghesia non ha altra scelta, a causa della spirale in cui è trascinata dal fallimento del suo sistema, il capitalismo, che pianificare freddamente gli attacchi per preparare la guerra, imporre l'austerità per trascinarci ancora di più nella sua logica di distruzione. Questa follia e i nuovi attacchi economici che essa induce non possono che favorire le condizioni per una continuazione della lotta di classe. In realtà, le campagne ideologiche sulla guerra rivelano paradossalmente che la borghesia sta camminando sui gusci d'uovo nel tentativo di imporre l'austerità. Tutte le sue preoccupazioni sono confermate dalla ripresa delle lotte operaie a livello internazionale, in particolare nell'Europa occidentale e nell'America del Nord. Tali resistenze, nonostante le loro grandi debolezze, testimoniano il fatto che la classe operaia in questi paesi non è pronta a "morire per la patria".
WH, 10 Aprile 2024
[1] Rosa Luxemburg: “La Crisi della socialdemocrazia” (Juniusbroshure), 1915
Negli ultimi decenni è diventato chiaro che il capitalismo rappresenta una grave minaccia per le condizioni naturali che costituiscono la base dell’esistenza umana. Le principali frazioni della classe dominante sono ora costrette a riconoscere la gravità della crisi ambientale e anche il suo legame con altre espressioni di una società capitalista in declino, in particolare la corsa sfrenata al militarismo e alla guerra[1]. Questa “comprensione” recentemente acquisita non impedisce in alcun modo ad altre parti della classe dominante di trincerarsi in una negazione apertamente irrazionale e suicida del pericolo rappresentato dal cambiamento climatico e dall’inquinamento dell’aria, del suolo e dell’acqua. Ma né il riconoscimento né la negazione possono mascherare il fatto che la borghesia è incapace di rallentare, e ancor meno di fermare, il rullo compressore della distruzione ambientale. Possiamo citare in particolare l’evidente e ripetuto fallimento delle Conferenze sui Cambiamenti Climatici (COP).
La messa in luce dell'impotenza della borghesia ha suscitato la necessità di vere e proprie campagne ideologiche, soprattutto da parte dell'ala sinistra della borghesia. Da qui l’ascesa di una sorta di “keynesismo verde” e l’idea di un “New Deal verde” in cui lo Stato, penalizzando i peggiori inquinatori e investendo in tecnologie “sostenibili”, non solo sarebbe in grado di impedire al cambiamento climatico di sfuggire ad ogni controllo, ma anche di creare posti di lavoro verdi e una crescita verde. In breve, un capitalismo verde e in buona salute.
Ma ci sono anche voci più radicali che non esitano a sottolineare i difetti del cosiddetto capitalismo verde. In prima linea tra queste voci ci sono i sostenitori della “decrescita”. Autori come Jason Hickel[2] dimostrano facilmente che il capitalismo è guidato dal costante bisogno di espandersi, di accumulare valore e che può trattare la natura solo come un “dono gratuito” da sfruttare al massimo e cercando di assoggettare ogni regione del pianeta alle leggi di mercato. Hickel parla quindi della necessità di una transizione verso un'economia postcapitalista[3]. Altri, come John Bellamy Foster, vanno oltre e si riferiscono più esplicitamente al crescente interesse di Karl Marx per le questioni ecologiche alla fine della sua vita, a quello che chiamano l'«eco-socialismo» di Marx[4]. Ma più recentemente, i libri dello scrittore giapponese Kohei Saito, che conosce molto bene gli ultimi scritti di Marx grazie al suo coinvolgimento nella nuova edizione dell'opera completa di Marx ed Engels (il MEGA project), hanno suscitato un enorme interesse e vendite considerevoli, in particolare il suo lavoro più recente intitolato Slow Down: How Degrowth Communism Can Save the Earth (2024) (Rallentare: come il comunismo della decrescita può salvare la Terra). Mentre i libri precedenti di Saito erano scritti in uno stile piuttosto accademico, questo è un lavoro popolare che non solo presenta la sua tesi chiave secondo cui Marx stesso divenne un "comunista della decrescita", ma che descrive anche le tappe che oggi potrebbero portare all'adozione del comunismo della decrescita. E in effetti, a prima vista, sembra che si riferisca al comunismo così come lo intende il movimento comunista storico: una società di produttori liberamente associati, dove il lavoro salariato non esiste più. Il fatto che cerchi di andare oltre il termine “ecosocialismo” (il che implica che possono esserci e ci sono state forme di socialismo che non erano ecologiche, che non erano, ecologicamente, meno distruttive del capitalismo) e che ora parli di comunismo, è una risposta alla crescente ricerca di soluzioni che vadano alle radici stesse della crisi odierna. Ma un esame più approfondito e critico dell'argomentazione di Saito mostra che si tratta di una risposta mistificatrice che può solo portare a false soluzioni.
Marx non ha mai rigettato la concezione materialistica della storia
Come abbiamo detto, Saito non è il primo a sottolineare che il “Marx maturo” sviluppò un forte interesse sia per le questioni ecologiche sia per le forme sociali comunitarie che precedettero l’emergere delle società di classe e che continuarono a lasciare tracce anche dopo l’ascesa di capitale. Ciò che è specifico di Saito è l'idea che lo studio di queste questioni abbia portato Marx a una “rottura epistemologica”[5], con quella che egli chiama la “visione lineare e progressiva” della storia, segnata dal “produttivismo” e dall' “euro- centrismo”, e verso una nuova visione del comunismo. In breve, Marx avrebbe abbandonato il materialismo storico a favore di un “comunismo di decrescita”.
In realtà Marx non ha mai aderito ad una “visione lineare e progressiva” della storia. La sua concezione era piuttosto dialettica: i diversi modi di produzione hanno conosciuto periodi di ascesa in cui i loro rispettivi rapporti sociali consentivano un reale sviluppo della produzione e della cultura, ma anche periodi di stagnazione, di declino, perfino di regressione, che potevano portare o alla loro pura e semplice scomparsa, o ad un periodo di rivoluzione sociale capace di inaugurare un modo di produzione superiore. Per estensione, se possiamo discernere un movimento generalmente progressista in questo processo storico, ogni progresso fino ad oggi ha avuto un costo: da qui, ad esempio, l’idea espressa da Marx ed Engels secondo cui la sostituzione del comunismo primitivo con la società di classe e lo Stato era sia una caduta che un progresso, e che il comunismo del futuro sarebbe una sorta di “ritorno a un livello superiore” alla forma sociale arcaica.
Per quanto riguarda il capitalismo, Marx ed Engels nel Manifesto dei comunisti hanno sottolineato l'enorme sviluppo delle forze produttive reso possibile dall'ascesa della società borghese. Anche in questo caso questo progresso è avvenuto a prezzo dello sfruttamento spietato del proletariato, ma la lotta di quest'ultimo contro questo sfruttamento ha gettato le basi di una rivoluzione comunista che potrebbe mettere le nuove forze produttive al servizio dell'intera società umana.
E anche in questa fase iniziale della vita del capitale, Marx è stato impaziente nel vedere una tale rivoluzione, identificando le crisi di sovrapproduzione come segni che i rapporti di produzione capitalistici erano già diventati troppo angusti per le forze produttive che avevano scatenato. La sconfitta dell’ondata rivoluzionaria del 1848 lo portò a rivedere questa visione e a riconoscere che il capitalismo aveva ancora una lunga carriera davanti a sé prima che una rivoluzione proletaria diventasse possibile.
Ma ciò non significava che tutti i paesi e le regioni del mondo avrebbero dovuto sperimentare esattamente lo stesso processo di sviluppo. Così, quando nel 1881 la populista russa Vera Zasoulitch gli scrisse per chiedergli il suo parere sulla possibilità che il mir russo o la comune agricola potessero svolgere un ruolo nella transizione al comunismo, Marx pose il problema in questi termini: mentre il capitalismo è ancora nella sua infanzia in gran parte del mondo, “il sistema capitalista ha superato la sua età dell’oro in Occidente, si sta avvicinando al momento in cui non sarà altro che un regime sociale regressivo”. Ciò significa che le condizioni oggettive per una rivoluzione proletaria stanno rapidamente maturando nei centri del sistema capitalista e che, se dovesse verificarsi una rivoluzione, “l’attuale proprietà fondiaria comunitaria russa può servire come punto di partenza per lo sviluppo comunista”[6].
Questa ipotesi non implicava l’abbandono del materialismo storico. Al contrario, si è trattato di un tentativo di applicare questo metodo in un periodo contraddittorio in cui il capitalismo mostrava allo stesso tempo segni di declino storico e disponeva di una “periferia” molto significativa il cui sviluppo poteva temporaneamente mitigare le sue crescenti contraddizioni interne. E, lungi dal propugnare o sostenere questo sviluppo, che già si esprimeva nella spinta imperialista delle grandi potenze, Marx riteneva che quanto prima fosse scoppiata la rivoluzione proletaria nei centri industrializzati, tanto meno dolore e miseria sarebbero stati inflitti alle periferie del sistema. Marx non visse abbastanza a lungo per vedere tutte le conseguenze della conquista del pianeta da parte dell’imperialismo, ma altri che adottarono il suo metodo, come Lenin e Luxemburg, furono in grado di riconoscere, nei primi anni del XX secolo, che il capitalismo nel suo complesso stava entrando in un’era di declino, ponendo così la possibilità e la necessità di una rivoluzione proletaria su scala globale.
È questa stessa preoccupazione che ha alimentato l’interesse nascente in un Marx “maturo” per la questione ecologica. Stimolato dalle sue letture di scienziati come Liebig e Fraas, che erano diventati consapevoli dell'aspetto distruttivo dell’agricoltura capitalista (Liebig la chiamava “agricoltura di rapina”), che, nella sua sete di profitto immediato, impoveriva la fertilità del suolo e distruggeva foreste senza ragione (ciò che, come Marx aveva già notato, aveva un effetto deleterio sul clima), il Marx “maturo” era sempre più interessato alla questione ecologica. Se lo sviluppo del capitalismo stava già minando le basi naturali per la produzione dei beni necessari alla vita umana, la sua “missione progressista” forse stava giungendo al termine. Ma ciò non inficiava il metodo che aveva riconosciuto il ruolo positivo svolto dalla borghesia nel superare le barriere del feudalesimo. Inoltre (e Saito lo sa bene avendolo dimostrato nei suoi lavori precedenti), la preoccupazione di Marx per l'impatto del capitalismo sul rapporto tra uomo e natura non viene dal nulla: trova le sue radici nella nozione di alienazione dell'uomo rispetto al suo “corpo inorganico” nei Manoscritti economici e filosofici del 1844, nozione approfondita nei Grundrisse e nel Capitale, in particolare nell’idea di “difetto metabolico” in quest’ultima opera. Allo stesso modo, il riconoscimento che la società comunista deve superare la rigida separazione tra città e campagna si ritrova sia nei primi scritti di Marx ed Engels, sia nel periodo in cui Marx affrontava la scienza agraria, quando questa era considerata un prerequisito per il ripristino della fertilità naturale del suolo. Elaborazione, sviluppo, critica di idee superate, ma nessuna “rottura epistemologica”.
Solo la lotta di classe porta al comunismo
Potremmo dire molto di più sulla visione del comunismo di Saito. In particolare, esso si basa fortemente sulla nozione di “beni comuni”, il che implica che le forme comunitarie precapitaliste hanno ancora un’esistenza sostanziale nel capitalismo attuale e potrebbero persino servire da nucleo per la trasformazione comunista. In effetti, era già evidente ai tempi di Lenin che il capitale imperialista stava rapidamente completando il lavoro svolto durante il periodo dell'“accumulazione primitiva”, vale a dire la distruzione dei legami comunitari e la separazione tra produttore e terra. Un secolo dopo questo è ancora più evidente. Le vaste baraccopoli che circondano le megalopoli alla periferia del sistema testimoniano sia la devastazione delle vecchie forme comunitarie sia l’incapacità del capitalismo decadente di integrare un gran numero di diseredati nella rete “moderna” di produzione.
Quest'idea che la nuova società possa essere costruita nel guscio della vecchia rivela quella che forse è la distorsione più fondamentale del marxismo nel libro di Saito. Saito critica il “Green New Deal” sia perché si basa su misure “dall’alto” imposte dallo Stato, sia perché non affronta il problema della necessità di crescita infinita del capitalismo, che è incompatibile con il mantenimento di un ambiente naturale sano. Ma Saito insiste anche sul fatto che la nuova società può nascere solo da un movimento sociale “dal basso”. Per Marx il comunismo era il movimento reale della classe operaia, che partiva dalla difesa dei suoi interessi di classe e portava al rovesciamento dell’ordine esistente. Per Saito, il movimento sociale è un conglomerato di forze diverse: oltre ai tentativi di stabilire “spazi comuni” nei quartieri delle città di oggi, come Detroit, egli fa riferimento a proteste interclassiste come i gilet gialli in Francia, a gruppi di protesta che fin dall'inizio sono su un terreno borghese, come Extinction Rebellion, a una spolverata di scioperi operai, ad "assemblee cittadine" organizzate sotto l'egida di Macron in risposta alle proteste dei gilet gialli... Insomma, non la lotta di classe, non la lotta degli sfruttati per liberarsi dagli organi capitalisti che li tengono sotto controllo (come i sindacati e i partiti di sinistra), non l'emergere di una coscienza comunista che si esprime nella formazione di minoranze rivoluzionarie.
Una delle prove più evidenti che Saito non parla della lotta di classe come leva del comunismo è il suo atteggiamento nei confronti del movimento degli Indignados apparso in Spagna nel 2011. Si è trattato di un movimento basato su una forma di organizzazione proletaria (assemblee di massa) anche se la maggior parte dei suoi protagonisti si consideravano “cittadini” piuttosto che proletari. All’interno delle assemblee c'era uno scontro tra organizzazioni come Democracia Real Ya, che voleva che le assemblee rivitalizzassero il sistema “democratico” già esistente, e un’ala proletaria che difendeva l’autonomia delle assemblee rispetto a tutte le espressioni dello Stato, comprese i suoi tentacoli locali e municipali. Saito elogia il “Movimento delle Piazze” ma allo stesso tempo è favorevole a incanalare le assemblee verso la formazione di un partito politico municipale, Barcelona en Comú (Barcellona in comune), e l’elezione di un sindaco radicale, Ada Colau, la cui amministrazione ha proposto una serie di misure “democratizzanti” e ambientaliste. Inoltre, l’esperienza di Barcellona ha dato vita al movimento Fearless Cities (Città senza paura), che mira ad applicare lo stesso modello in diverse altre città del mondo.
Non si tratta dell'estensione internazionale della lotta operaia (precondizione della rivoluzione comunista) ma di una struttura di recupero di un'autentica lotta di classe.
E si fonda sul rifiuto di un altro elemento fondamentale del progetto comunista: la lezione che Marx, Engels, Pannekoek e Lenin trassero dall'esperienza della Comune di Parigi del 1871: il compito del proletariato, come prima tappa della sua rivoluzione, è quello di smantellare la macchina statale esistente, non solo i suoi eserciti, la sua polizia e il suo apparato governativo centrale, ma anche i suoi consigli municipali e altre forme di controllo localizzato. Per Saito, invece, “sarebbe stupido rifiutare lo Stato come mezzo di fare avanzare le cose, come la creazione di infrastrutture o la trasformazione della produzione”.
La rivoluzione proletaria e la fine dell’accumulazione
Non è questo il luogo per discutere le immense sfide che la classe operaia dovrà affrontare una volta presa il potere e iniziata la transizione al comunismo. È chiaro che la questione ecologica sarà al centro delle sue preoccupazioni, che richiederanno una serie di misure volte a eliminare la necessità dell’accumulazione capitalistica e sostituirla con una produzione da utilizzare non solo su scala locale, ma su tutto il pianeta. Sarà inoltre necessario smantellare il gigantesco apparato di produzione di rifiuti che alimenta il disastro climatico: l’industria degli armamenti, la pubblicità, la finanza, ecc.
Come abbiamo mostrato in un articolo precedente[7], i marxisti, da Bebel a Bordiga, hanno parlato ugualmente di superare la folle corsa alimentata dal processo di accumulazione, di rallentare il ritmo frenetico della vita sotto il capitale. Ma noi non parliamo di “decrescita” per due ragioni: in primo luogo, perché il comunismo è la base di un reale “sviluppo delle forze produttive” di una qualità completamente nuova, compatibile con i reali bisogni dell’umanità e il suo legame con la natura. Poi perché parlare di decrescita nel quadro del sistema esistente (e il cosiddetto “comunismo” di Saito non fa eccezione) può facilmente servire come giustificazione per l’austerità portata avanti dallo Stato borghese, da motivo per cui la classe operaia dovrebbe fermare le sue lotte “egoiste” contro i tagli dei salari o di posti di lavoro e abituarsi anche a ridurre più drasticamente i propri consumi.
Amos, aprile 2024
[1] Vedi il nostro “Rapporto sulla decomposizione”, Rivista Internazionale n° 37 (2023), https://it.internationalism.org/files/it/rint37completa.pdf [52]
[2] Ed ancora: come la decrescita salverà il mondo (2020).
[3] Tuttavia, la critica di Hickel sul Green New Deal non va molto lontano. Per lui, il New Deal degli anni ’30 incoraggiava la crescita “al fine di migliorare i mezzi di sussistenza delle persone e raggiungere risultati sociali progressisti […] i primi governi progressisti hanno trattato la crescita come un valore d’uso”. In realtà, l’obiettivo del New Deal era salvare l’economia capitalista e prepararsi alla guerra.
[4] Ad esempio, L'ecologia di Marx: Materialismo e natura (2000).
[5] Saito riprende questo termine di Althusser, un apologeta molto sofisticato dello stalinismo, che lo ha applicato a quello che egli considerava il passaggio del Marx giovane e idealista dei Manoscritti del 1844 allo scienziato puro e dure del Capitale. Una nostra critica di questa idea si trova nell’articolo “Lo studio del capitale e i fondamenti del comunismo”, in francese sulla Révue internationale n° 75. Se rottura ci fu, questa ebbe luogo quando Marx ruppe con la democrazia radicale e si identificò con il proletariato come portatore del comunismo, verso il 1843-1844.
[6] “Marx della maturità: comunismo del passato, comunismo del futuro”, in francese su Revue internationale n°81.
[7] “Bordiga e la grande città”, Bordiga e la Grande Città | Corrente Comunista Internazionale (internationalism.org) [57]
Il sanguinoso attentato al municipio di Mosca del 22 marzo, il freddo cinismo di Putin in Ucraina, l'estremismo criminale del governo Netanyahu che massacra in massa e affama i civili ... tutto ciò conferma che il sistema capitalista è in fallimento, che la società borghese è effettivamente risucchiata in un vortice di distruzione e caos generalizzato. E questo processo non può che accelerare, come ci anticipa la spaventosa disintegrazione del Medio Oriente, dove il rischio di uno scontro catastrofico diretto tra due potenze regionali, Israele e Iran, è immenso.
La CCI ha più volte evidenziato la dinamica storica del caos che regna sulla società capitalista dopo la scomparsa dei blocchi e l’inevitabile indebolimento della leadership americana sul pianeta. D’ora in poi, la disciplina tra “alleati” tende a scomparire, i sordidi interessi imperialisti, sia delle grandi che delle piccole potenze, si scatenano. Anche un alleato degli Stati Uniti come Israele, che dipende interamente dalla protezione americana, si permette di fare ciò che vuole, di moltiplicare le provocazioni, come l’attacco alla rappresentanza iraniana a Damasco, e di scatenare un caos nella regione che Washington sta cercando di rallentare come meglio può. Per quanto riguarda l’Iran, dall’inizio della guerra a Gaza ha buttato benzina sul fuoco (attraverso Hamas, Hezbollah e gli Houthi) e ha appena compiuto un nuovo passo nello scontro lanciando un massiccio attacco aereo direttamente contro Israele. Nonostante i disperati tentativi degli Stati Uniti di contenere l’incendio, l’evoluzione della situazione in Medio Oriente conferma il continuo declino del suo potere sul mondo e rischia di trascinare la regione verso una conflagrazione generale.
La borghesia non può fare nulla di fronte alla dinamica mortale del suo sistema. La crisi economica cronica, i disastri ecologici e le guerre esprimono il volto orribile della decomposizione del capitalismo, della putrefazione della società derivante da un modo di produzione obsoleto, modellato sullo sfruttamento della forza lavoro, sulla concorrenza di tutti contro tutti e sulla guerra, e che non resta altro da offrire che terrore, sofferenza e morte. Sempre più regioni del mondo stanno diventando invivibili per le loro popolazioni, come Haiti in preda al caos, abbandonata alle bande criminali, o come molti Stati dell'Africa e dell'America Latina, esposti alla corruzione diffusa, ai signori della guerra, alle mafie e ai narcotrafficanti.
Le elezioni americane, fonte di crescente destabilizzazione
L’epicentro di questa spirale infernale si trova nel cuore stesso del capitalismo, innanzitutto a livello della prima potenza mondiale, gli Stati Uniti. Dopo aver amplificato il caos degli ultimi decenni cercando di imporre il proprio ruolo di gendarme mondiale (soprattutto in Iraq e in Afghanistan), gli Stati Uniti cercano con tutti i mezzi di contrastare il loro irreversibile declino e non esitano a calpestare senza tante cerimonie i loro “ex alleati” diventati rivali.
L'attuazione di questa politica non fa che esacerbare le tensioni all'interno della stessa borghesia americana, come testimoniano gli scontri che già caratterizzano la campagna elettorale per le elezioni presidenziali del prossimo novembre. Queste tensioni alimentano la destabilizzazione dell’apparato politico americano, sempre più frammentato e polarizzato, non solo dalle divisioni tra repubblicani e democratici, ma anche e soprattutto dalle crescenti divisioni all’interno di ciascuno dei due campi rivali. Il populista Trump si impone per il momento come il favorito nonostante tutti i tentativi di metterlo fuori pericolo da parte delle fazioni più responsabili della borghesia americana. In effetti, l’ondata populista rimane profondamente radicata nella vita politica americana, come chiaramente è evidente anche in diversi paesi europei.
Una situazione del genere getta nell'incertezza la borghesia americana, ma anche le cancellerie di tutto il mondo, nell'impossibilità di determinare in anticipo quale sarà la posizione di Washington sulle questioni scottanti che riguardano la geopolitica globale. Questi scontri tra fazioni all’interno della borghesia americana (dalle dichiarazioni incendiarie di Trump ai blocchi politici al Congresso riguardo al sostegno militare all’Ucraina) costituiscono un importante acceleratore della destabilizzazione imperialista.
Il sanguinoso sprofondamento del ciascuno per sé imperialista
Il caos interno indebolisce la credibilità e l’autorità degli stessi Stati Uniti, anch’essi sempre più minati da una caotica situazione internazionale. Questa instabilità incoraggia ulteriormente i grandi rivali e le potenze secondarie: rafforza sia Putin che Zelenskyj nella loro logica mortale, stimola l’ebbrezza bellicosa di Netanyahu, dell’Iran e dei gruppi terroristici affiliati.
E se la Cina evita di rispondere immediatamente alle provocazioni e alle pressioni di Washington, aumenta la pressione su Taiwan e le Filippine e considera più apertamente la possibilità a lungo termine di poter rafforzare il proprio status di sfidante allo Zio Sam.
La crescente aggressività degli squali imperialisti, grandi e piccoli, che tentano di sfruttare gli scontri tra cricche borghesi negli Stati Uniti, non significa affatto che questi sarebbero risparmiati da tensioni interne: Putin è bloccato tra la macelleria nel Donbass e la “guerra contro il terrorismo” dello Stato Islamico, i cui commando si infiltrano dalle ex repubbliche “sovietiche” dell’Asia centrale, una minaccia che il clan al potere e i suoi servizi segreti non sono riusciti a neutralizzare nonostante gli avvertimenti di vari servizi segreti stranieri. In Cina, Xi si trova ad affrontare la stagnazione economica, la destabilizzazione delle “Vie della seta” a causa del caos imperante e delle tensioni interne all’apparato del PCC. Quanto alla fuga in avanti di Israele, essa è il prodotto di feroci scontri tra le cricche nazionaliste estremiste al potere e altre fazioni della borghesia, nonché della lotta per la sopravvivenza politica di un Netanyahu, perseguitato dalla giustizia.
L'attuale instabilità della politica americana preoccupa anche le cancellerie europee e tende ad accentuare le divisioni all'interno della stessa UE riguardo alla politica da adottare di fronte alle pressioni della Nato e degli Stati Uniti. Così, i litigi all'interno della “coppia franco-tedesca”, già costretta al “matrimonio forzato”, si intensificano fortemente.
Il futuro dell’umanità non passa attraverso le urne
Di fronte allo sprofondamento della società nella barbarie, il proletariato non ha nulla da aspettarsi dalle future elezioni presidenziali in America, come da tutte le altre a venire. Qualunque sia l'esito delle elezioni del prossimo novembre negli Stati Uniti, queste non invertiranno in alcun modo la tendenza al caos, alla guerra e alla frammentazione del mondo e la classe operaia soffrirà più che mai le conseguenze dello sfruttamento capitalista.
La scadenza elettorale serve solo a diffondere nella classe operaia l’illusione di poter, attraverso una “scelta giusta”, influenzare il corso delle cose, mentre il circo elettorale esprime solo la lacerazione delle cricche borghesi che si scontrano sempre più brutalmente per il potere. Contrariamente alle bugie diffuse dai democratici, e in particolare dai gruppi di sinistra ed estrema sinistra, che oppongono il campo “progressista” o del “male minore” di Biden al “male assoluto” di Trump, il proletariato dovrà contrastare il discorso “democratico”, rifiutare la trappola delle urne e condurre la sua lotta di classe autonoma.
Quanto alle fazioni borghesi, esse si scontrano solo sulla strategia più efficace e meno costosa per perpetuare la supremazia americana, che concordano di voler mantenere con tutti i mezzi, qualunque siano le conseguenze per l’umanità e la società. Attaccare militarmente l’Iran o indebolirlo con un blocco economico? Aumentare la pressione sulla Russia rischiando di farla implodere o di “congelare” la guerra di posizione? Formulare un vero ricatto alla sicurezza nei confronti degli “alleati” europei? … Qualunque siano le risposte, esse rientreranno sempre nella logica della guerra e il suo finanziamento richiederà sempre nuovi “sacrifici” da parte dei lavoratori. In breve, qualunque sia la fazione che vincerà le elezioni, il risultato sarà una maggiore destabilizzazione, nuovi massacri, una politica di “terra bruciata”.
Il proletariato deve continuare la sua lotta di classe
Di fronte a questa indicibile barbarie, di fronte alle promesse di caos generalizzato, il proletariato rappresenta l’unica alternativa possibile per salvare la specie umana da una distruzione programmata dalla logica omicida di un sistema capitalista del tutto obsoleto. La classe operaia ha ripreso la sua lotta e il suo potenziale rivoluzionario rimane intatto per affermare definitivamente la sua prospettiva e il suo progetto comunista.
È attraverso questa lotta che dobbiamo batterci come classe, rifiutando ormai ogni logica pianificata di guerra e di “sacrificio”. I discorsi borghesi che presentano la guerra come una “necessità”, in nome del mantenimento della pace, sono vili menzogne! Il vero colpevole è il sistema capitalista!
EKA, 18 aprile 2024
La spaventosa offensiva israeliana sulla Striscia di Gaza ha mietuto decine di migliaia di vittime in un furioso profluvio di barbarie in pochi mesi. Civili innocenti, bambini e anziani muoiono a migliaia, schiacciati dalle bombe o colpiti a freddo dai soldati israeliani. All’orrore dei proiettili bisogna aggiungere anche le vittime della fame, della sete, delle malattie, dei traumi... La Striscia di Gaza è una fossa comune a cielo aperto, un’enorme rovina che simboleggia tutto ciò che il Capitalismo ha da offrire all’Umanità. Quello che sta accadendo a Gaza è una mostruosità!
Come non essere disgustati dal cinismo di Netanyahu e della sua cricca di fanatici religiosi, dal freddo nichilismo degli assassini dell’IDF? Come non lasciarsi coinvolgere quando la minima espressione di indignazione viene immediatamente descritta a Tel Aviv come «antisemitismo» da editorialisti e propagandisti di basso livello? Inevitabilmente, le immagini dell’orrore e le testimonianze dei sopravvissuti non possono che far gelare il sangue. Anche tra la popolazione israeliana, traumatizzata dagli spregevoli crimini del 7 ottobre e sottoposta al rullo compressore della propaganda guerrafondaia, l’indignazione è palpabile. Le manifestazioni a sostegno dei Palestinesi si moltiplicano in tutto il mondo: a Parigi, a Londra e, soprattutto, negli Stati Uniti, dove i campus universitari sono teatro di mobilitazioni particolarmente diffuse.
L’indignazione non potrebbe essere più sincera, ma i rivoluzionari hanno la responsabilità di affermare forte e chiaro: queste manifestazioni non si situano, direttamente o indirettamente, sul terreno della classe operaia. Al contrario, rappresentano una trappola mortale per il proletariato!
Il Capitalismo è guerra
«Cessate il fuoco immediato!», «Pace in Palestina!», «Accordo internazionale!», «Due nazioni in pace!» … Gli appelli alla «pace» si sono moltiplicati nelle ultime settimane nelle manifestazioni e nei forum. Alcune organizzazioni della sinistra del capitale (trotskisti, stalinisti e tutte le varianti della sinistra «radicale», come LFI in Francia) gridano una sola parola: «pace»
Questa è una pura mistificazione! Gli operai non devono farsi illusioni su una cosiddetta pace, né in Medio Oriente né altrove, né su una soluzione da parte della «comunità internazionale», dell’ONU, del Tribunale Internazionale o di qualsiasi altro covo di briganti capitalisti. Nonostante tutti gli accordi e le conferenze di pace, tutte le promesse e le risoluzioni delle Nazioni Unite, il conflitto israelo-palestinese va avanti da più di 70 anni e non sta per finire. Negli ultimi anni, come tutte le guerre imperialiste, questo conflitto non ha fatto che amplificarsi, aumentando la violenza e l’atrocità. Con i recenti soprusi di Hamas e dell’IDF, la barbarie ha assunto un volto ancora più mostruoso e delirante, in una logica di terra bruciata fino in fondo, a dimostrazione che il Capitalismo non può offrire che morte e distruzione.
Allora, alla domanda: «Può regnare la pace nella società capitalista?», rispondiamo assolutamente: NO! I rivoluzionari dell’inizio del XX secolo avevano già chiarito che, dal 1914, la guerra imperialista era diventata il modo di vivere del Capitalismo decadente, il risultato inevitabile della sua crisi storica. E poiché la borghesia non ha una soluzione alla spirale infernale della crisi, bisogna dirlo molto chiaramente: il caos e la distruzione non possono che diffondersi e amplificarsi a Gaza come a Kiev e ovunque nel mondo! La guerra a Gaza minaccia di incendiare l’intera regione.
Il pacifismo, un’impasse per preparare meglio… la guerra!
Ma al di là dell’impasse rappresentata dagli appelli alla pace sotto il giogo del capitalismo, il pacifismo rimane una pericolosa mistificazione per la classe operaia. Non solo questa ideologia non ha mai impedito una guerra, ma al contrario l’ha sempre preparata. Già nel 1914 la socialdemocrazia, impostando il problema della guerra dal punto di vista del pacifismo, aveva giustificato la sua partecipazione al conflitto in nome della lotta contro i «guerrafondai» del campo avverso e della scelta del «male minore». Fu la conseguenza di aver diffuso nella società l’idea che il Capitalismo potesse esistere senza guerra che la borghesia riuscì ad attribuire a coloro che volevano attaccare la «pace» il «militarismo tedesco» e poi l’«imperialismo russo» e che «fosse necessario combatterli». Da allora, dalla seconda guerra mondiale alla guerra in Iraq, passando per gli innumerevoli conflitti della guerra fredda, non è stato altro che un susseguirsi di complicità spudorata con questo o quell’imperialismo contro i «guerrafondai» per meglio scagionare il Capitalismo.
La guerra a Gaza non fa eccezione a questa logica. Sfruttando il legittimo disgusto suscitato dai massacri di Gaza, la sinistra «pacifista» invoca il sostegno di una parte contro l’altra, quello della «nazione palestinese» vittima del «colonialismo israeliano», affermando, con la mano sul cuore: «Noi difendiamo i diritti del popolo palestinese, non di Hamas». Questo significa dimenticare in fretta che «il diritto del popolo palestinese» è solo una formula ipocrita destinata a nascondere quello che deve essere chiamato lo Stato di Gaza, un modo subdolo di difendere una nazione contro un’altra. Una striscia di Gaza «liberata» non significherebbe altro che consolidare l’odioso regime di Hamas o di qualsiasi altra fazione della borghesia palestinese, di tutti coloro che non hanno mai esitato a reprimere sanguinosamente la minima espressione di rabbia, come nel 2019 quando Hamas, che vive come un vero e proprio parassita alle spalle della popolazione di Gaza, è intervenuta sui manifestanti esasperati dalla miseria, con una brutalità senza precedenti. Gli interessi dei proletari in Palestina, in Israele o in qualsiasi altro paese del mondo non coincidono in alcun modo con quelli della loro borghesia e con il terrore del loro Stato!
Il trotskismo nel suo ruolo tradizionale di sergente reclutatore
Le organizzazioni trotskiste, particolarmente presenti nelle Università, non si preoccupano più nemmeno della verbosità ipocrita del pacifismo per alimentare la sporca propaganda guerrafondaia della borghesia. Senza alcuna vergogna, chiedono sostegno alla «resistenza di Hamas». In nome delle «lotte di liberazione nazionale contro l'imperialismo» (presentate fraudolentemente come una posizione dei bolscevichi sulla questione nazionale), cercano di mobilitare la gioventù sul terreno marcio dell’appoggio alla borghesia palestinese, con un antisemitismo sottilmente velato, come abbiamo sentito nelle Università: «Alla Columbia University di New York, i manifestanti sono stati filmati mentre cantavano: ... "Bruciate Tel Aviv [...] Sì, Hamas, ti vogliamo bene. Sosteniamo anche i vostri razzi". Un altro grida: "Non vogliamo due Stati, vogliamo l'intero territorio". Allo stesso modo, alcuni studenti non si accontentano più di cantare "Dal fiume al mare, la Palestina sarà libera", ma espongono cartelli in arabo. Il problema è che c'è scritto: 'Di acqua in acqua, la Palestina sarà araba', cioè non ci saranno ebrei dal fiume Giordano al Mar Mediterraneo».[1]
Le organizzazioni trotskiste hanno una lunga tradizione di sostegno a una parte borghese nella guerra (Vietnam, Congo, Iraq, ecc.), in passato al servizio degli interessi del blocco sovietico durante la guerra fredda[2] e successivamente a favore di ogni espressione di antiamericanismo.
Il conflitto israelo-palestinese, tuttavia, resta un esempio dell’indignazione selettiva del trotskismo. Ieri, la «causa palestinese» è stata un pretesto per sostenere gli interessi dell’URSS nella regione contro gli Stati Uniti. Oggi, queste organizzazioni strumentalizzano la guerra a Gaza a favore dell’Iran, di Hezbollah e dei «ribelli» Houthi di fronte allo stesso «imperialismo americano» e al suo alleato israeliano. L’Internazionalismo rivendicato dal trotskismo è l’Internazionale dei farabutti!
Per porre fine alla guerra, il capitalismo deve essere rovesciato
Contrariamente a tutte le menzogne dei partiti della sinistra del capitale, le guerre sono sempre scontri tra nazioni concorrenti, tra borghesie rivali. Sempre! Mai una guerra è fatta a beneficio degli sfruttati! Al contrario, essi sono le prime vittime.
Dappertutto, gli operai devono rifiutarsi di schierarsi con un campo borghese contro l’altro. La solidarietà dei lavoratori non è per la Palestina o Israele, per l’Ucraina o per la Russia, per nessuna nazione! La loro solidarietà è per i fratelli di classe che vivono in Israele e in Palestina, in Ucraina e in Russia, per gli sfruttati di tutto il mondo! La storia ha dimostrato che l’unica vera risposta alle guerre scatenate dal Capitalismo è la rivoluzione proletaria internazionale. Nel 1918, grazie a un immenso impulso rivoluzionario in tutta Europa, iniziato in Russia un anno prima, la borghesia fu costretta a fermare una delle più grandi carneficine della storia.
Certo, oggi siamo ancora lontani da questa prospettiva. Per la classe operaia è difficile intravedere una solidarietà concreta, per non parlare di un’opposizione diretta alla guerra e ai suoi orrori. Tuttavia, attraverso la serie senza precedenti di lotte operaie che hanno colpito molti paesi negli ultimi due anni, in Gran Bretagna, in Francia, negli Stati Uniti e anche recentemente in Germania, il proletariato dimostra di non essere pronto ad accettare tutti i sacrifici. È perfettamente in grado di lottare in modo massiccio, se non diretto, contro la guerra e il militarismo, contro gli attacchi brutali richiesti dalla borghesia per alimentare il suo arsenale di morte, contro le conseguenze della guerra sulle nostre condizioni di vita, contro l’inflazione e i tagli di bilancio. Queste lotte sono il crogiolo in cui la classe operaia può ricongiungersi pienamente con le sue esperienze passate e i suoi metodi di lotta, recuperare la sua identità e sviluppare la sua solidarietà internazionale. Potrà allora politicizzare la sua lotta, tracciare una strada offrendo l’unica prospettiva e via d’uscita possibile: quella del rovesciamento del capitalismo con la rivoluzione comunista.
EG, 30 aprile 2024
[1] «Most Jews and Palestinians want peace. Extremists, narcissists and other “allies” only block the way [60]» ("La maggior parte degli ebrei e dei palestinesi vuole la pace. Estremisti, narcisisti e altri "alleati" non fanno altro che bloccare la strada"), The Guadian (26 aprile 2024).
[2] Ritenendo che le loro rispettive nazioni (Francia, Regno Unito, Italia...) avevano tutto l’interesse ad aderire al blocco guidato dalla cosiddetta «patria del socialismo degenerato.
Collegamenti
[1] https://babel.hathitrust.org/cgi/pt?id=mdp.39015000379902&view=1up&seq=23
[2] https://fr.internationalism.org/content/9242/naissance-democratie-totalitaire#sdfootnote5sym
[3] https://sinistra.net/lib/bas/progco/qima/qimaedecoi.html
[4] https://archivesautonomies.org/spip.php?article1521
[5] https://www.leftcom.org/it/articles/2023-10-31/ipocrisia-imperialista-in-oriente-e-in-occidente
[6] https://it.internationalism.org/tag/3/48/guerra
[7] mailto:[email protected]
[8] https://it.internationalism.org/content/1751/rivista-internazionale-n37
[9] https://it.internationalism.org/tag/4/89/canada
[10] https://it.internationalism.org/tag/2/29/lotta-proletaria
[11] https://fr.internationalism.org/content/11228/reunions-publiques-tci-veritable-faillite-politique
[12] https://fr.internationalism.org/content/11214/congres-haye-comment-tci-nie-lecons-du-marxisme-lutte-contre-parasitisme-politique
[13] https://fr.internationalism.org/revolution-internationale/201312/8832/bonnets-rouges-attaque-ideologique-contre-conscience-ouvriere
[14] https://fr.internationalism.org/content/9960/bilan-du-mouvement-des-gilets-jaunes-mouvement-interclassiste-entrave-a-lutte-classe
[15] https://it.internationalism.org/content/1470/bilancio-delle-riunioni-pubbliche-sul-movimento-dei-gilet-gialli
[16] https://it.internationalism.org/content/1764/scioperi-e-manifestazioni-negli-stati-uniti-spagna-grecia-francia-come-possiamo
[17] https://www.international-communist-party.org/English/TheCPart/TCP_051.htm#3
[18] https://it.internationalism.org/content/1773/bilancio-dellintervento-della-cci-nelle-lotte-operaie-tutto-il-mondo
[19] https://www.international-communist-party.org/English/TheCPart/TCP_004.htm#Questions
[20] https://en.internationalism.org/ir/023_proletariat_under_decadence.html
[21] https://www.international-communist-party.org/Partito/Parti422.htm#PortlandRete
[22] https://class-struggle-action.net
[23] https://fr.internationalism.org/rinte44/zimmer.htm
[24] https://it.internationalism.org/content/384/le-tesi-di-aprile-faro-della-rivoluzione-proletaria
[25] https://it.internationalism.org/rint/21_Lenin
[26] https://it.internationalism.org/content/385/le-giornate-di-luglio-il-partito-sventa-una-provocazione-della-borghesia
[27] mailto:[email protected]
[28] https://fr.internationalism.org/contact
[29] https://it.internationalism.org/tag/vita-della-cci/riunioni-pubbliche
[30] https://it.internationalism.org/content/1654/contro-gli-attacchi-della-borghesia-abbiamo-bisogno-di-una-lotta-unita-e-di-massa
[31] https://it.internationalism.org/content/1531/23deg-congresso-della-cci-i-diversi-aspetti-dellattivita-di-frazione
[32] https://it.internationalism.org/content/1720/laccelerazione-della-decomposizione-capitalista-pone-apertamente-la-questione-della
[33] https://it.internationalism.org/content/1768/rapporto-sulla-lotta-di-classe-il-25deg-congresso-della-cci
[34] https://it.internationalism.org/content/militarismo-e-decomposizione
[35] https://www.marxists.org/italiano/marx-engels/1871/gcf/primoindirizzo.htm
[36] https://en.internationalistvoice.org/the-propaganda-war-the-war-of-propaganda/
[37] https://www.leftcom.org/it/articles/2023-10-11/l-ultimo-massacro-in-medio-oriente-è-parte-del-cammino-verso-la-guerra
[38] https://www.international-communist-party.org/Partito/Parti425.htm#Gaza
[39] https://www.internationalcommunistparty.org/index.php/it/?view=article&id=3426:israele-e-palestina-terrorismo-di-stato-e-disfattismo-proletario&catid=413
[40] https://www.marxists.org/francais/lenin/works/1917/05/vil19170528j.htm
[41] https://www.pcint.org/01_Positions/01_02_it/240104_futuro-proletariato-palestinese.htm
[42] https://www.international-communist-party.org/Partito/Parti426.htm#Gaza
[43] https://it.internationalism.org/content/1763/i-lavoratori-non-hanno-patria
[44] https://www.international-communist-party.org/OtherLanguages/All_Lang/2022/1_May_2022.htm#It
[45] https://it.internationalism.org/tag/vita-della-cci/corrispondenza-con-altri-gruppi
[46] https://it.internationalism.org/tag/7/110/bordighismo
[47] https://it.internationalism.org/content/il-partito-e-il-suo-rapporto-con-la-classe
[48] https://es.internationalism.org/cci-online/200706/1935/cuales-son-las-diferencias-entre-la-izquierda-comunista-y-la-iv-internacional
[49] https://it.internationalism.org/rint/3_dibattito
[50] https://it.internationalism.org/tag/sviluppo-della-coscienza-e-dell-organizzazione-proletaria/sinistra-italiana
[51] https://fr.internationalism.org/content/11030/revolution-communiste-ou-destruction-lhumanite-responsabilite-cruciale-des
[52] https://it.internationalism.org/files/it/rint37completa.pdf
[53] https://it.internationalism.org/content/1797/dopo-la-rottura-della-lotta-di-classe-nasce-la-necessita-di-politicizzare-le-lotte
[54] https://fr.internationalism.org/content/10990/ambiguites-tci-signification-historique-vague-greves-au-royaume-uni
[55] https://fr.internationalism.org/content/11295/colere-des-agriculteurs-cri-desespoir-instrumentalise-contre-conscience-ouvriere
[56] https://it.internationalism.org/content/1789/la-rabbia-degli-agricoltori-un-grido-di-disperazione-sfruttato-contro-la-coscienza
[57] https://it.internationalism.org/content/1561/bordiga-e-la-grande-citta
[58] https://it.internationalism.org/tag/3/42/ambiente
[59] https://it.internationalism.org/tag/3/54/terrorismo
[60] https://www.theguardian.com/commentisfree/2024/apr/26/jews-palestinians-peace-gaza-narcissist-allies