20 anni fa si è verificato uno degli avvenimenti più importanti della seconda parte del ventesimo secolo: il crollo del blocco imperialista dell’Est e dei regimi stalinisti d’Europa, tra cui il principale era quello dell’URSS.
Questo avvenimento è stato utilizzato dalla classe dominante per scatenare una delle campagne ideologiche più massicce e pericolose che si siano mai viste contro la classe operaia. Identificando falsamente, ancora una volta, lo stalinismo che stava affondando con il comunismo, e facendo del fallimento economico e della barbarie dei regimi stalinisti la conseguenza inevitabile della rivoluzione proletaria, la borghesia mirava a deviare i proletari da ogni prospettiva rivoluzionaria e ad assestare un colpo decisivo alle lotte della classe operaia.
Avvantaggiata dall’avvenimento, la borghesia ha anche approfittato per far passare una seconda grossa menzogna: con la scomparsa dello stalinismo, il capitalismo sarebbe entrato in un’era di pace e prosperità dove alla fine avrebbe potuto veramente espandersi. L’avvenire, come veniva promesso, si annunciava radioso.
Il 6 marzo 1991, George Bush padre, presidente degli Stati Uniti d’America, forte della sua recente vittoria sull’esercito iracheno di Saddam Hussein, annunciava l’inizio di un “nuovo ordine mondiale” e l’avvento di un “mondo in cui le Nazioni unite, liberate dal vicolo cieco della guerra fredda, sono in grado di realizzare la visione storica dei loro fondatori. Un mondo in cui la libertà e i diritti dell’uomo sono rispettati da tutte le nazioni”.
Vent’anni dopo, avremmo potuto quasi riderci sopra se il disordine mondiale e la proliferazione dei conflitti ai quattro angoli del pianeta, che hanno caratterizzato il mondo dopo questo celebre discorso, non avessero sparso tanta morte e miseria. E su questo piano il bilancio diventa anno dopo anno più sempre più pesante.
Quanto alla prosperità, è del tutto fuori luogo parlarne. In effetti, dall’estate 2007 e soprattutto da quella del 2008, “al centro dei discorsi della borghesia le parole “prosperità”, “crescita” e “trionfo del liberalismo” si sono discretamente eclissate. Al tavolo del grande banchetto dell’economia capitalista si è istallato un convitato che si credeva di aver espulso per sempre. La crisi, lo spettro di una “nuova grande depressione”, simile a quella degli anni ‘30”[1]. Ieri il crollo dello stalinismo significava il trionfo del capitalismo liberale. Oggi lo stesso liberalismo viene accusato di tutti i mali dall’insieme degli specialisti e politici, compresi coloro che ne erano stati i più accaniti difensori, come il presidente francese Sarkozy!
Le date degli anniversari evidentemente non si possono scegliere e il minimo che si possa dire è che questo cade male per la borghesia. Se in questa occasione la borghesia si è astenuta deliberatamente dal tornare su “la morte del comunismo” e “la fine della lotta di classe”, non è certo perché non ne avesse la voglia, ma perché, con la situazione disastrata dell’economia capitalista che ci ritroviamo, avrebbe rischiato di svelare ancora di più e completamente l’imbroglio di questi temi ideologici.
Per questo la borghesia ci ha risparmiato dalle grandi celebrazioni del crollo dell’ “ultima tirannide mondiale”, della grande vittoria della “libertà”. Al contrario, tranne qualche evocazione storica di rigore, non c’è stata né euforia né esaltazione.
Se la storia ha fatto chiarezza riguardo alla realtà della pace e della prosperità che il capitalismo avrebbe dovuto offrirci, non è però automatico che la barbarie e la miseria attuale appaiono chiaramente agli occhi di tutti gli sfruttati come la conseguenza ineluttabile delle contraddizioni insormontabili del capitalismo. In effetti la propaganda della borghesia, orientata oggi piuttosto sulla necessità di “umanizzare” e “riformare” il capitalismo, ha per scopo di differire il più possibile la presa di coscienza di questa realtà da parte degli sfruttati. In più, la realtà ha svelato solo una parte della menzogna; l’altra parte, l’identificazione dello stalinismo con il comunismo continua ancora oggi a pesare sulla mente delle persone, anche se in modo meno massiccio e frastornante rispetto agli anni ‘90. Per questo è necessario ricordare alcuni fatti storici.
Il crollo dello stalinismo e dell’attuale recessione hanno la stessa origine: la crisi del capitalismo
“La crisi mondiale del capitalismo si ripercuote con una brutalità tutta particolare sulla loro economia [quella dei paesi dell’Est] che è, non solo arretrata, ma anche incapace di adattarsi in qualche modo all’esacerbazione della concorrenza tra capitali. Il tentativo di introdurre delle norme “classiche” di gestione capitalista, per migliorare la competitività, riesce solamente a provocare una confusione ancora più grande, come lo dimostra in URSS l’insuccesso completo e scottante della “Perestrojka”. (...) La prospettiva per l’insieme dei regimi stalinisti non è affatto una “democratizzazione pacifica” né un aggiustamento dell’economia. Con l’aggravamento della crisi mondiale del capitalismo, questi paesi sono entrati in un periodo di convulsioni di un’ampiezza sconosciuta nel loro passato pur già “ricco” di sussulti violenti”[2].
Questa situazione catastrofica dei paesi dell’Est non impedirà alla borghesia di presentarli come serbatoi dei nuovi immensi mercati da sfruttare, dal momento che vanno ad essere liberati completamente del giogo del “comunismo”. A tale scopo bisognava sviluppare un’economia moderna che, in più, avesse la virtù di riempire per decenni i taccuini delle commesse delle imprese occidentali. La realtà è stata tutt’altra: c’era sicuramente molto da costruire, ma nessuno per pagare.
L’atteso boom dell’Est, dunque, non ci sarà. Anzi, le difficoltà economiche che appaiono all’Ovest vengono messe in conto, senza alcuno scrupolo, alla necessaria assimilazione dei paesi arretrati del vecchio blocco dell’Est. E’ così anche per l’inflazione che diventava difficilmente governabile in Europa. La situazione non tarda a sfociare, dal 1993, in recessione aperta sul vecchio continente[3]. La nuova configurazione del mercato mondiale, con l’integrazione completa dei paesi dell’Est, non cambia assolutamente niente alle leggi fondamentali che reggono il capitalismo. In particolare, l’indebitamento ha continuato ad occupare sempre di più un posto importante nel finanziamento dell’economia, rendendola sempre più fragile di fronte alla minima destabilizzazione. Le illusioni della borghesia ancora persistenti svaniscono velocemente di fronte alla dura realtà economica del suo sistema. Nel dicembre 1994 il Messico scricchiola di fronte all’afflusso degli speculatori che l’Europa in crisi aveva messo in fuga: il Peso crolla e rischia di trascinarsi dietro una gran parte delle economie del continente americano. La minaccia è reale e ben compresa. Una settimana dopo l’inizio della crisi, gli Stati Uniti mobilitano 50 miliardi di dollari per soccorrere la moneta messicana. All’epoca la somma sembrava strabiliante ... Vent’anni più tardi gli Stati Uniti mobiliteranno quattordici volte in più questa somma solo per la loro economia!
Dal 1997 capitombolo in Asia. Questa volta sono le monete dei paesi del Sud-est asiatico a crollare bruscamente. Queste famose Tigri e Dragoni, paesi esemplari dello sviluppo economico, vetrina di questo “nuovo ordine mondiale” dove la prosperità è accessibile anche ai più piccoli paesi, subiscono anch’essi la dura legge capitalista.
L’attrattiva per queste economie aveva nutrito una bolla speculativa che esploderà all’inizio del 1997. In meno di un anno saranno colpiti tutti i paesi della regione. 24 milioni di persone si ritrovano disoccupati nel giro di un anno. Sommosse e saccheggi si moltiplicarono causando la morte di 1200 persone. Esplose il numero dei suicidi. Dall’anno seguente si può constatare il rischio di contagio internazionale con l’apparizione di gravi difficoltà in Russia.
Il modello asiatico, la famosa “terza via”, veniva sepolto affianco al modello “comunista”. Bisognare trovare dell’altro per provare che il capitalismo è il solo creatore di ricchezza sulla terra. Questo “altro” è il miracolo economico di Internet. Poiché tutto crolla nel mondo reale, investiamo nel virtuale! Poiché prestare ai ricchi non basta più, prestiamo a quelli che ci promettono di diventare ricchi! Il capitalismo ha orrore del vuoto, soprattutto nel suo portafoglio, e quando l’economia mondiale sembra seriamente incapace di offrire profitti sempre maggiori per rispondere ai bisogni insaziabili del capitale, quando non esiste più niente di redditizio, si inventa di sana pianta un nuovo mercato. Per un po’ di tempo il sistema funziona, si moltiplicano le scommesse sul corso di azioni che non hanno più nessun legame ragionevole con la realtà. Società con milioni di perdite valgono sul mercato parecchi miliardi di dollari. La bolla si è formata, e si gonfia. La follia si impossessa di una borghesia che si illude completamente sulla durata a lungo termine della “nuova economia”, al punto da mollare la “vecchia”. Anche settori tradizionali dell’economia vi aderiscono, sperando di trovarvi la persa redditività nella loro attività storica. La “nuova economia” invade la vecchia[4], e questa la trascinerà nella sua caduta.
La caduta fa male. Il crollo di un tale dispositivo fondato su nient’altro che la fiducia reciproca tra gli attori affinché nessuno ceda, non può essere che brutale. Lo scoppio della bolla provoca perdite per 148 miliardi di dollari nelle società di settore. I fallimenti si moltiplicano, i superstiti deprezzano i loro attivi a colpi di centinaia di miliardi di dollari. Nel settore delle telecomunicazioni vengono persi almeno 500.000 posti di lavoro. La “New economy” in fin dei conti ha mostrato di non essere più fruttuosa della vecchia ed i fondi che fanno in tempo a sfuggire al marasma dovranno trovare un altro settore in cui piazzarsi.
E lo fanno nel settore immobiliare. Alla fine, dopo aver fatto prestiti a paesi che vivono al di sopra dei loro mezzi, dopo aver fatto prestiti a società costruite sul vento, a chi si può ancora prestare? La sete di profitto della borghesia non ha limiti. Oramai il vecchio adagio “non si presta che ai ricchi” è riposto definitivamente negli armadi poiché di ricchi non c’è ne sono più abbastanza. La borghesia va ad attaccarsi quindi ad un nuovo mercato... quello dei poveri. Al di là dell’evidente atteggiamento cinico, c’è anche il disprezzo totale per la vita delle persone che diventeranno prede di questi avvoltoi. I prestiti concessi sono garantiti dal valore del bene acquistato attraverso la sua intermediazione. Inoltre quando questo bene acquista valore col rialzo del mercato, si dà l’opportunità di aumentare ulteriormente i debiti delle famiglie, ponendo queste in una situazione potenzialmente disastrosa. Quando il modello crolla, come è accaduto nel 2008, la borghesia piange i propri morti, le banche d’affari ed altre società di rifinanziamento, ma dimentica i milioni di famiglie a cui è stato tolto tutto ciò che possedevano, sebbene ciò non valesse più niente, gettandole in strada o in bidonville improvvisate.
Il seguito è sufficientemente conosciuto da non doverci soffermare, se non per riassumere con una frase: una recessione aperta mondiale, la più grave dalla Seconda Guerra mondiale, che ha gettato per strada milioni di operai in tutti i paesi, e che ha determinato un aumento considerevole della miseria.
Le guerre, prima e dopo il 1990, sono il prodotto delle stesse contraddizioni del capitalismo
Naturalmente il crollo del blocco dell’Est sconvolge la configurazione imperialista. Prima di questo avvenimento il mondo era diviso in due blocchi avversi costituiti ciascuno intorno ad una potenza dirigente. Tutto il periodo seguito alla Seconda Guerra mondiale, fino al crollo del blocco dell’Est, è segnato da fortissime tensioni tra i blocchi che si celano dietro conflitti aperti tra i paesi del terzo mondo. Per citarne solamente alcuni: guerra della Corea all’inizio degli anni ‘50, guerra del Vietnam durante gli anni ‘60 e fino alla metà degli anni ‘70, guerra in Afghanistan a partire dal 1979, ecc. Il crollo dell’edificio stalinista nel 1989 è in effetti il prodotto della sua inferiorità economica e militare di fronte al blocco avversario.
Tuttavia, la scomparsa de “l’impero del male”, (il blocco russo ritenuto dalla campagna occidentale l’unico responsabile delle tensioni militari), non poteva mettere fine alle guerre. Nel gennaio 1990 la CCI sosteneva questa analisi: “La scomparsa del gendarme imperialista russo, e ciò che ne conseguirà per il gendarme americano nei confronti dei suoi principali ‘partner’ di ieri, aprono la porta allo scatenamento di tutta una serie di rivalità più locali. Queste rivalità e scontri non possono, al momento, degenerare in un conflitto mondiale (…). In compenso, a causa della scomparsa della disciplina imposta dalla presenza dei blocchi, questi conflitti rischiano di essere più violenti e più numerosi, in particolare, nelle zone dove evidentemente il proletariato è più debole”[5].
La scena mondiale non tarderà a confermare questa analisi, particolarmente con la prima Guerra del Golfo del gennaio 1991 e con la guerra nell’ex Iugoslavia a partire dall’autunno dello stesso anno. Da allora in poi, scontri sanguinosi e barbari non avranno più termine. Non potendo elencarli tutti sottolineiamo principalmente: il proseguimento della guerra nell’ex Iugoslavia che ha visto un impegno diretto, sotto l’egida della NATO, degli Stati Uniti e delle principali potenze europee nel 1999; le due guerre in Cecenia; le numerose guerre che hanno devastato il continente africano (Ruanda, Somalia, Congo, Sudan, ecc.); le operazioni militari di Israele contro il Libano e, più recentemente, contro la striscia di Gaza; la guerra in Afghanistan del 2001 tuttora in corso; la guerra in Iraq del 2003 le cui conseguenze continuano a pesare in modo drammatico su questo paese, ma anche su chi ha iniziato questa guerra, la potenza americana.
Lo stalinismo, una forma particolarmente brutale di capitalismo di Stato
Tutta la parte che segue, relativa alla denuncia dello stalinismo, fa parte di un supplemento diffuso massicciamente nel gennaio 1990 (il supplemento in questione è pubblicato integralmente nell’articolo “1989-1999: Il proletariato mondiale di fronte al crollo del blocco dell’Est e al fallimento dello stalinismo”[6]). Considerando che, 20 anni dopo, questa denuncia resta perfettamente valida, la riproduciamo senza nessuna modifica.
“E’ sulle rovine della rivoluzione d’ottobre 1917 che lo stalinismo ha consolidato il suo dominio. È grazie a questa negazione del comunismo costituito dalla teoria del “socialismo in un solo paese” che l’URSS è ridivenuta a pieno titolo uno Stato capitalista. Uno Stato in cui il proletariato sarà sottomesso, con un fucile dietro la schiena, agli interessi del capitale nazionale in nome della difesa della “patria socialista”.
Così, come l’ottobre proletario, grazie al potere dei consigli operai, aveva dato il colpo d’arresto alla Prima Guerra mondiale, così la controrivoluzione stalinista, distruggendo ogni pensiero rivoluzionario, imbavagliando ogni velleità di lotta di classe, instaurando il terrore e la militarizzazione di tutta la vita sociale, annunciava la partecipazione dell’URSS alla seconda carneficina mondiale.
Tutta l’evoluzione dello stalinismo sulla scena internazionale negli anni ‘30, di fatto, è stata marcata dai suoi mercanteggiamenti imperialistici con le principali potenze capitaliste che si preparavano, ancora una volta, a mettere a ferro e fuoco l’Europa. Dopo aver puntato su un’alleanza con l’imperialismo tedesco per contrastare ogni tentativo di espansione della Germania verso l’Est, Stalin farà un voltafaccia a metà degli anni ‘30 alleandosi con il blocco “democratico” (adesione dell’URSS nel 1934 a quella “tana di briganti” qual’era la Società delle Nazioni (SdN), patto Laval-Stalin nel 1935, partecipazione dei PC ai “fronti popolari” ed alla guerra di Spagna durante la quale gli stalinisti non esiteranno ad usare gli stessi metodi sanguinari massacrando gli operai ed i rivoluzionari che contestavano la loro politica). Alla vigilia della guerra, Stalin farà un nuovo voltafaccia barattando con Hitler la neutralità dell’URSS in cambio di un certo numero di territori, prima di raggiungere infine il campo degli “Alleati” partecipando a pieno titolo alla carneficina imperialista dove lo Stato stalinista sacrificherà, da solo, 20 milioni di vite umane. Fu questo il risultato dei sordidi maneggi dello stalinismo con i differenti squali imperialisti dell’Europa occidentale. E’ su questi mucchi di cadaveri che l’URSS stalinista ha potuto costituire il suo impero ed imporre il terrore a tutti gli Stati che cadranno, con il trattato di Yalta, sotto il suo esclusivo dominio. È grazie alla sua partecipazione all’olocausto generalizzato a fianco alle potenze imperialiste vittoriose che, col prezzo del sangue dei suoi 20 milioni di vittime, l’URSS ha potuto accedere al rango di superpotenza mondiale.
Ma se Stalin fu “l’uomo provvidenziale” grazie al quale il capitalismo mondiale ha potuto averla vinta sul bolscevismo, non è stata la tirannide di un solo individuo, per quanto paranoico fosse, ad aver messo in opera questa spaventosa controrivoluzione. Lo Stato stalinista, come ogni Stato capitalista, è diretto come dovunque dalla stessa classe dominante, la borghesia nazionale. Una borghesia che si è ricostituita, con la degenerazione interna della rivoluzione, non a partire dalla vecchia borghesia zarista eliminata dal proletariato nel 1917, ma a partire dalla burocrazia parassitaria dell’apparato di Stato con cui si è confuso sempre più, sotto la direzione di Stalin, il Partito bolscevico. È questa burocrazia del Partito-Stato che, eliminando alla fine degli anni ‘20 tutti i settori suscettibili di ricostituire una borghesia privata, ed a cui si era alleata per assicurare la gestione dell’economia nazionale (proprietari terrieri e speculatori della NEP), ha preso il controllo di questa economia. Sono queste le condizioni storiche che spiegano come, contrariamente ad altri paesi, il capitalismo di Stato in URSS abbia preso questa forma totalitaria e caricaturale. Il capitalismo di Stato è il modo in cui si esercita il dominio universale del capitalismo nel suo periodo di decadenza, dove lo Stato assicura il suo dominio su tutta la vita sociale generando dovunque strati parassitari. Ma in altri paesi del mondo capitalista, questo controllo statale sull’insieme della società non è antagonista con l’esistenza di settori privati e concorrenziali che impediscono un’egemonia totale di questi settori parassitari. In URSS, invece, la forma particolare assunta dal capitalismo di Stato si distingue per lo sviluppo estremo di questi strati parassitari generati dalla burocrazia statale e la cui sola preoccupazione non era di fare fruttare il capitale tenendo conto delle leggi del mercato, ma di riempirsi individualmente le tasche a scapito degli interessi dell'economia nazionale. Dal punto di vista del funzionamento del capitalismo, questa forma di capitalismo di Stato era dunque un’aberrazione che doveva necessariamente crollare con l’accelerazione della crisi economica mondiale. Ed è proprio questo crollo del capitalismo di Stato russo generato della controrivoluzione che ha segnato il fallimento irrimediabile di tutta l’ideologia bestiale che, per più di mezzo secolo, ha cementato il regime stalinista e fatto pesare la sua cappa di piombo su milioni di esseri umani.
Nonostante quello che dice la borghesia ed i suoi media, le mostruosità dello stalinismo non hanno nulla a che fare, né per il contenuto né per la forma, con la rivoluzione d’ottobre ‘17. Occorreva che questa crollasse perché lo stalinismo potesse imporsi. Di questa rottura radicale, di questa antinomia tra l’Ottobre e lo stalinismo, il proletariato deve prendere piena coscienza”.
Distruzione del capitalismo o distruzione dell’umanità
Il mondo somiglia sempre più ad un deserto cosparso di cadaveri, mentre miliardi di esseri umani sono in situazione di sopravvivenza. Ogni giorno, circa a 20.000 bambini muoiono di fame nel mondo, parecchie migliaia di posti di lavoro sono soppressi, lasciando altrettante famiglie nella miseria e nella disperazione; intanto quelli che hanno il “privilegio” di conservare il proprio lavoro vedono il proprio salario ridursi progressivamente.
Ecco il “nuovo ordine mondiale” promesso quasi vent’anni fa da George Bush senior. Somiglia piuttosto ad un disordine assoluto! Questo terrificante spettacolo invalida totalmente l’idea secondo la quale il crollo del blocco dell’Est avrebbe segnato “la fine della storia” (sottinteso, l’inizio della storia eterna del capitalismo), come proclamato all’epoca dal “filosofo” Francis Fukuyama. Segna piuttosto una tappa importante nella decadenza del capitalismo: scontrandosi più duramente con i suoi limiti storici, il sistema vede le sue parti più fragili crollare definitivamente. Pertanto, la scomparsa del blocco dell’Est non ha per niente sanato il sistema. I limiti sono sempre là e minacciano sempre più il cuore stesso del capitalismo. Ogni nuova crisi è più grave della precedente.
E’ per questo che la sola lezione che valga rispetto agli ultimi venti anni è proprio che non c’è alcuna speranza di pace e di prosperità nel capitalismo. La posta in gioco è, e resterà, distruzione del capitalismo o distruzione dell'umanità.
Se le campagne sulla “morte del comunismo” hanno effettivamente assestato un colpo importante alla coscienza della classe operaia, quest’ultima tuttavia non è stata sconfitta ed esiste la possibilità di recuperare il terreno perduto e di impegnarsi di nuovo in un processo di sviluppo della lotta di classe a livello internazionale. Ed infatti, dall’inizio degli anni 2000, di fronte all’usura delle campagne sulla morte del comunismo e della lotta di classe, scontrandosi con i considerevoli attacchi alle sue condizioni di vita, la classe operaia ha ripreso la strada della lotta. Questa ripresa, che mostra già da ora lo sviluppo a livello di minoranze di un processo di politicizzazione a scala internazionale, costituisce la preparazione di lotte massicce che, nel futuro, riproporranno l’unica prospettiva per il proletariato e l’umanità intera, il capovolgimento del capitalismo e l’instaurazione del comunismo.
GDS
[1] Da XVIII Congresso della CCI. Risoluzione sulla situazione internazionale [1] pubblicata su ICConline 2009.
[2] Convulsioni capitaliste e lotte operaie, 7/09/89 in Rivista Internazionale n.59, edizione trimestrale in inglese, francese e spagnolo.
[3] Vedi, tra l’altro, “La recessione del 1993 riesaminata”, Persée, rivista dell’OCSE, 1994, volume 49, n°1.
[4] Essa arriva finanche ad acquistarla: l’operazione di acquisto del società Time Warner da parte di AOL, fornitore Internet, resta un simbolo dell’irrazionalità che in questo momento si impossessa della borghesia.
[5] Dopo il crollo del blocco dell’est, stabilizzazione e caos, in Rivista Internazionale n°61.
[6] In Rivista Internazionale n°99, edizione trimestrale.
Nel primo articolo [5] di questa serie sulla questione ambientale, pubblicato sulla Rivista Internazionale n°30, abbiamo sviluppato una denuncia dello stato attuale delle cose cercando di mostrare l’entità del rischio di fronte al quale si trova l’umanità intera ed in particolare i fenomeni più laceranti che esistono a livello planetario come:
Proseguiamo adesso con questo secondo articolo in cui cercheremo di mostrare come i problemi ambientali non possano essere attribuiti a singole persone o a singole aziende che non rispetterebbero la legge - benché esistano anche chiare responsabilità personali o aziendali - ma che è il capitalismo il vero responsabile con la sua logica del massimo profitto.
Cercheremo anche di mostrare, attraverso una serie di esempi, in che modo gli stessi meccanismi specifici del capitalismo generano i problemi sul piano ecologico, indipendentemente dalla volontà del singolo capitalista. D’altra parte, l’idea correntemente diffusa secondo la quale lo sviluppo scientifico raggiunto oggi ci metterebbe sempre più al riparo dalle catastrofi naturali e concorrerebbe in maniera decisiva ad evitare problemi di natura ambientale va decisamente smentita. Mostreremo in questo stesso articolo, riportando ampie citazioni di Bordiga, come le tecnologie capitaliste moderne non siano affatto sinonimo di sicurezza e come lo stesso sviluppo della scienza e della ricerca scientifica, non essendo determinato dal soddisfacimento dei bisogni dell’umanità, ma subordinato all’imperativo capitalista della realizzazione del massimo profitto, venga prostituito alle esigenze del capitalismo e della concorrenza sul mercato e, quando necessario, della guerra. Sarà poi compito di un terzo ed ultimo articolo analizzare le risposte date dai vari movimenti di Verdi, ecologisti, ecc. per mostrare la loro totale inefficacia - malgrado tutta la buona volontà della maggior parte di chi vi milita all’interno o di chi fa semplicemente riferimento alle loro posizioni – e per affermare al contrario che l’unica soluzione possibile, dal nostro punto di vista, è la rivoluzione comunista internazionale.
Identificazione del problema e delle sue cause
Chi o cosa è responsabile dei vari disastri ambientali? La risposta a questa domanda è della più grande importanza, non solo dal punto di vista etico e morale, ma anche e soprattutto perché l’individuazione corretta o sbagliata dell’origine del problema può condurre alternativamente o alla sua corretta soluzione oppure in un vicolo cieco. Noi proveremo anzitutto a rispondere ad una serie di luoghi comuni, di false risposte, o di risposte solo parzialmente veritiere per mostrare come ognuna di esse non riesca a individuare veramente quale sia l’origine e il responsabile della crescente degradazione ambientale a cui siamo costretti ad assistere giorno dopo giorno e per mostrare invece come tale dinamica di degradazione sia essa stessa il prodotto, non volontario e cosciente, ma oggettivamente conseguente, del sistema di produzione capitalista.
Il problema c’è, ma non è così grave come si vuole far credere!
Oggi che i governi pretendono di fare a gara a chi è più “verde”, questo discorso – che è stato dominante per decenni – non è più in genere quello che si sente dalla bocca degli uomini politici. Resta tuttavia una posizione classica nel mondo dell’imprenditoria che, di fronte a qualunque pericolo derivante dall’esercizio di una certa attività e che gravi sui lavoratori, sulla popolazione o sull’ambiente, tende a minimizzare la gravità del problema semplicemente perché lavorare in condizioni di sicurezza comporta spendere di più ed estorcere meno profitto ai lavoratori. E’ quello che si vive giorno per giorno con le centinaia di morti sul lavoro che si hanno in giro per il mondo, semplice colpa della fatalità secondo gli imprenditori, mentre invece si tratta di un prodotto autentico dello sfruttamento capitalista della forza lavoro.
Il problema esiste, ma la responsabilità è sempre di qualcun altro
La grande quantità di rifiuti prodotta dalla società attuale sarebbe, secondo alcuni, il frutto del “nostro” consumismo, piuttosto che essere più correttamente interpretata come il risultato di una politica economica che, per favorire una più competitiva commercializzazione delle merci, punta da qualche decennio a questa parte a minimizzarne i costi attraverso un uso massiccio di imballaggi[1].
O ancora l’idea che, se c’è chi inquina la terra, è perché gli manca senso civico (da cui la necessità di promuovere delle campagne di pulizia delle spiagge, dei parchi, ecc. ecc., per dare l’esempio alla popolazione intera). Da cui anche un inveire contro una parte dei governanti che non sarebbero capaci di fare rispettare le leggi sui trasporti marittimi o altro, ecc. Fino naturalmente ad approdare alla classica chicca finale secondo cui è tutta colpa della mafia con i suoi traffici di rifiuti pericolosi, come se i rifiuti pericolosi li producesse la mafia e non il mondo dell’industria che, per ridurre i costi di produzione, ricorre alla mafia come semplice esecutore dei propri affari sporchi.
La responsabilità è anche degli industriali, ma solo di quelli cattivi e avidi …
Quando infine si arriva ad un episodio come quello dell’incendio alla Thyssen Krupp di Torino del dicembre 2007, che costa la vita di 7 operai in conseguenza della totale inosservanza delle norme di sicurezza e di prevenzione antincendio, allora sembra levarsi un coro di solidarietà finanche dal mondo dell’industria, ma solo per avanzare la subdola idea secondo cui, se si producono delle catastrofi, è solo perché esistono settori dell’imprenditoria senza scrupoli che si arricchiscono a spese di altri.
Ma è proprio così? Esistono capitalisti avidi ed altri capitalisti responsabili e corretti gestori delle loro imprese?
Il sistema di produzione capitalista, unico responsabile della catastrofe ambientale
Tutte le società di sfruttamento che hanno preceduto il capitalismo hanno dato il loro contributo all’inquinamento del pianeta generato in particolare dal processo produttivo. D’altra parte alcune società che si erano spinte allo sfruttamento eccessivo delle risorse a loro disposizione, come fu probabilmente il caso degli abitanti dell’isola di Pasqua[2], sono scomparse in seguito al loro esaurimento. Tuttavia, gli elementi di degrado ambientale o sociale così prodotti non costituivano, in queste società, un pericolo significativo, suscettibile di mettere in gioco la stessa sopravvivenza del pianeta, come è il caso oggi per il capitalismo. Una ragione sta nel fatto che, avendo fatto conoscere un salto prodigioso alle forze produttive, il capitalismo ha ugualmente provocato un salto di pari livello sui fattori di degrado ambientale che ne risultano e che gravano oggi sull’insieme del globo terrestre, avendo il capitale conquistato quest’ultimo nella sua totalità. Ma non è ancora questa la spiegazione più importante poiché lo sviluppo delle forze produttive non è in sé necessariamente significativo dell’assenza di controllo su queste. Ciò che è essenzialmente in discussione è la maniera in cui queste forze produttive vengono utilizzate e gestite dalla società. Ora giustamente il capitalismo si presenta come lo stadio conclusivo di un processo storico che consacra il regno della merce, un sistema di produzione universale delle merci dove tutto è in vendita. Se la società è immersa nel caos dal dominio dei rapporti mercantili, che non implica soltanto lo stretto fenomeno dell’inquinamento ma anche l’impoverimento accelerato delle risorse del pianeta, la crescente vulnerabilità alle cosiddette calamità “naturali”, ecc., è per un insieme di ragioni che possono essere così riassunte:
E’ questa necessità che, al di là della buona o cattiva coscienza dei singoli capitalisti, costringe questi ultimi ad adeguare la loro impresa alla logica del massimo sfruttamento della classe operaia.
Ciò conduce ad uno sperpero e ad una spoliazione enormi della forza lavoro umana e delle risorse del pianeta, come lo metteva in evidenza già Marx nel Capitale: “Come nell’industria urbana, così nell’agricoltura moderna, l’aumento della forza produttiva e la maggiore quantità di lavoro resa liquida vengono pagate con la devastazione e l’infermità della stessa forza-lavoro. E ogni progresso dell’agricoltura capitalistica costituisce un progresso non solo nell’arte di rapinare l’operaio, ma anche nell’arte di rapinare il suolo; ogni progresso nell’accrescimento della sua fertilità per un dato periodo di tempo, costituisce insieme un progresso nella rovina delle fonti durevoli di questa fertilità. (…) La produzione capitalistica sviluppa quindi la tecnica e la combinazione del processo di produzione sociale solo minando al contempo le fonti da cui sgorga ogni ricchezza: la terra e l’operaio.” (Marx, Il Capitale, Libro primo, cap. 13, Macchine e grande industria, par. 10 Grande industria e agricoltura, Editori Riuniti, pag. 218-219).
Il colmo dell’irrazionalità e dell’assurdità della produzione capitalista sta nel fatto che non è raro trovare delle aziende che producono preparati chimici altamente inquinanti e – contemporaneamente – dei sistemi di bonifica dei terreni e delle acque dagli stessi contaminanti; case che producono sigarette e dissuasori dall’uso del fumo, altre ancora che controllano settori della produzione di armi ma che si occupano anche di prodotti farmaceutici o attrezzature mediche.
Si raggiungono qui delle punte che non si sfioravano neanche nelle società precedenti, in quanto le merci erano essenzialmente prodotte per il loro valore di uso (esse o erano utili ai loro produttori, gli sfruttati, o erano usate per la pomposità della classe dominante).
La reale natura della produzione di merci impedisce al capitalista di potersi interessare alla utilità, al tipo o alla composizione delle merci prodotte. L’unica questione che gli interessa è sapere come fare soldi con un prodotto. Questo meccanismo spiega perché molte delle merci prodotte hanno un’utilità piuttosto limitata quando non sono del tutto inutili.
Nella misura in cui la società capitalista è essenzialmente basata sulla concorrenza, anche quando i capitalisti trovano delle intese occasionali, restano sempre fondamentalmente e ferocemente concorrenti: la logica del mercato vuole infatti che la fortuna dell’uno sia favorita dalla disgrazia di altri. Ciò significa che ogni capitalista produce per sé stesso, che ognuno di loro è rivale di tutti gli altri e che non ci può essere alcuna pianificazione reale concordata tra tutti i capitalisti, a livello locale o a livello internazionale, ma solo una competizione permanente con dei vincitori e dei vinti. E in questa battaglia, uno dei perdenti è appunto la natura.
Infatti, nella scelta di quale sia il luogo dove costruire un nuovo impianto o di cosa coltivare e come in un certo appezzamento di terreno, il singolo imprenditore deve rendere conto solo ai suoi interessi immediati e non c’è spazio alcuno per considerazioni di tipo ecologico. Non vi è alcun organo centralizzato a livello internazionale che abbia l’autorità di dare un indirizzo o anche di imporre dei limiti o dei criteri da rispettare. Nel capitalismo, le decisioni sono prese solo in funzione della realizzazione del massimo profitto in modo che ogni singolo capitalista possa produrre e vendere nella maniera più vantaggiosa o nella più grande quantità o che lo Stato possa imporre al meglio ciò che fa gli interessi del capitale nazionale e dunque, globalmente, dei capitalisti del proprio paese.
Tuttavia esistono delle leggi più o meno restrittive a livello dei singoli paesi. Ma quando le misure imposte dalla legislazione sono troppo vincolanti, non è raro vedere delle imprese dislocare all’estero parte della loro produzione, in particolare in paesi dove le norme sono meno severe, per aumentare i loro ricavi. Così Union Carbide, multinazionale chimica americana, aveva impiantato una delle sue fabbriche a Bhopal, in India, senza dotarla di un sistema di refrigerazione. Nel 1984 da questa fabbrica è sfuggita una nuvola tossica di 40 tonnellate di pesticida che ha ucciso, immediatamente e negli anni seguenti, almeno 16.000 persone, provocando dei danni irrimediabili all’organismo di un milione di persone[3]. Gli stessi territori e i mari dei paesi del terzo mondo costituiscono spesso una discarica a buon mercato dove, legalmente o illegalmente, compagnie che si trovano nei paesi sviluppati inviano i loro rifiuti pericolosi o tossici, nella misura in cui costerebbe loro molto più caro sbarazzarsene nei loro paesi di origine.
Finché non vi sarà una pianificazione agricola e industriale coordinata e centralizzata a livello internazionale, che prenda in considerazione la necessaria armonizzazione delle esigenze di oggi e la salvaguardia dell’ambiente di domani, i meccanismi del capitalismo continueranno a distruggere la natura con tutte le drammatiche conseguenze che abbiamo visto.
E’ ricorrente l’abitudine di attribuire la responsabilità di ciò alle multinazionali o a un settore particolare dell’industria, in quanto le origini del problema si trovano negli “anonimi” meccanismi del mercato che spingono ogni singolo capitalista ad agire nella stessa maniera.
Ma lo Stato può porre fine a questa follia attraverso un maggiore intervento? In realtà no, perché lo Stato è capace solo di “regolare” questa anarchia. Anzi, attraverso la difesa degli interessi nazionali, lo Stato contribuisce a rafforzare questa competizione. Contrariamente alle richieste delle ONG (organizzazioni non governative) e del movimento altermondialista, non è un maggiore intervento da parte dello Stato – che d’altra parte non è mai venuto meno, malgrado certe apparenze di “liberalismo”, come confermato in maniera evidente dall’interventismo statale di fronte all’attuale accelerazione della crisi economica - che può risolvere i problemi dell’anarchia capitalista.
Quantità contro qualità
L’unica preoccupazione dei capitalisti è, come abbiamo visto, vendere le loro merci con il più alto profitto possibile. Ma è bene chiarire che non si tratta di egoismo perché questa è una regola del sistema a cui nessuna compagnia, piccola o grande che sia, può sottrarsi. Il peso crescente del costo dei macchinari nella produzione industriale implica che i grossi investimenti necessari possano essere recuperati solo dopo un gran numero di vendite. Per esempio la ditta Airbus costruttrice di aerei deve vendere almeno 600 dei suoi aerei giganti A380 prima che possa realizzare dei profitti. Analogamente le ditte costruttrici di automobili devono vendere centinaia di migliaia di automobili prima che possano saldare le spese sostenute per la costruzione dell’impianto adatto a costruirle. In breve, ogni capitalista deve vendere quanto più gli è possibile ed essere alla costante ricerca di nuovi mercati. Ma per fare questo in un mercato già saturo, deve imporsi nei confronti dei suoi concorrenti, cosa che realizza attraverso un’orgia di mezzi pubblicitari che sono l’origine di uno spreco enorme di lavoro umano e di risorse naturali come, per esempio, tutta la carta inghiottita nella produzione di migliaia di tonnellate di manifesti pubblicitari.
Queste leggi dell’economia (che spingono alla riduzione dei costi, con una conseguente riduzione della qualità della produzione e la fabbricazione in serie) implicano che il capitalista è ben lungi dal preoccuparsi della composizione dei suoi prodotti e dal chiedersi se le componenti utilizzate per produrlo possano essere pericolose. Così, benché i rischi prodotti dall’uso di combustibili fossili per la salute (causa il cancro) siano conosciuti da lungo tempo, l’industria non prende alcuna misura adeguata. I rischi per la salute relativi all’amianto erano noti da anni. Ma solo l’agonia e la morte di migliaia di operai hanno costretto l’industria a reagire negli anni successivi. Grandi quantità di alimenti sono arricchite di zucchero e sale, da glutammato monosodico, per aumentare la loro vendita indipendentemente dalle conseguenze per la salute. Una quantità incredibile di additivi alimentari viene aggiunta negli alimenti senza che siano veramente noti i rischi a cui la popolazione è sottoposta. Tuttavia è noto che molte tipologie di cancro sono dovute alla nutrizione.
Aspetti irrazionali della produzione e della vendita
Uno degli aspetti più irrazionali nel sistema attuale di produzione è il fatto che le merci viaggiano in giro per il mondo prima di arrivare sul mercato nella loro forma di prodotti finiti. Ciò non è legato alla natura delle merci o ad esigenze di produzione ma esclusivamente al fatto che la lavorazione del semilavorato è più vantaggiosa in questo o quel paese. Un esempio famoso è quello della produzione di yogurt: il latte viene trasportato attraverso le Alpi, dalla Germania verso l’Italia, dove viene trasformato in yogurt per essere poi riportato - in questa forma - dall’Italia alla Germania. Un altro esempio è quello delle automobili le cui componenti arrivano dai più diversi paesi del mondo prima di essere assemblate in una catena di montaggio. In generale, prima che un bene sia disponibile sui mercati, le sue componenti hanno già percorso migliaia di chilometri con i mezzi più diversi. Così, per esempio, gli apparecchi elettronici o quelli per uso domestico sono prodotti in Cina per i ridottissimi salari praticati in questo paese e per l’assenza pressoché totale di misure di protezione dell’ambiente, anche se, dal punto di vista tecnologico, essi potrebbero tranquillamente essere prodotti nei paesi acquirenti. Spesso i loro progetti o gli impianti per produrre questi beni sono stati inizialmente sviluppati o installati da una compagnia in un paese acquirente che ha poi chiuso i battenti per riaprirli in un altro paese dove i costi di produzione e soprattutto i salari sono più bassi.
Abbiamo ancora l’esempio dei vini, prodotti in Cile, Australia o in California e venduti sui mercati europei mentre l’uva prodotta in Europa viene portata al macero a causa della sovrapproduzione, o ancora quello delle mele che arrivano in Europa dall’Africa sebbene i coltivatori europei non sanno che fare dell’eccedenza di mele.
Così, seguendo la logica del massimo profitto e non quella della razionalità e del minimo ricorso a spese umane, energetiche e naturali, le merci vengono prodotte da qualche parte del pianeta per essere poi inviate in altre parti del mondo per essere vendute. Non c’è poi da meravigliarsi che delle merci di pari valore tecnologico, come le automobili, prodotte da diverse case nel mondo, vengano costruite in Europa per poi essere esportate in Giappone o negli Usa e che, contemporaneamente, altre automobili costruite in Giappone o in Corea, siano vendute sul mercato europeo. Questa rete di trasporti di merci - talvolta molto simili tra di loro - che si scambiano di paese solo in obbedienza alla logica del profitto e della concorrenza e dei conseguenti giochi del mercato, è qualcosa di totalmente aberrante e che ha delle conseguenze disastrose sull’ambiente. E pensare che, con una razionale pianificazione della produzione e della distribuzione, questi beni potrebbero essere disponibili senza subire questi trasporti del tutto irrazionali, che esprimono solo la follia del sistema di produzione capitalista.
L’antagonismo di fondo fra città e campagna
La distruzione dell’ambiente dovuto all’inquinamento da traffico non è un semplice fenomeno contingente poiché esso affonda le sue radici più profonde nell’antagonismo fra città e campagna. All’origine, la divisione del lavoro all’interno delle nazioni ha separato l’industria e il commercio dal lavoro agricolo. Di lì è nata l’opposizione tra città e campagna con gli antagonismi di interessi che ne risultano. Ma è sotto il capitalismo che questa opposizione raggiunge il parossismo delle sue aberrazioni[4].
Ai tempi dello sfruttamento agricolo del Medio Evo, orientato verso la produzione del necessario per il sostentamento della popolazione, vi era difficilmente la necessità di trasportare merci. All’inizio del 19° secolo, quando gli operai vivevano spesso vicino alle fabbriche o alle miniere, essi ci potevano andare a piedi. Da allora però la distanza tra il luogo del lavoro e la casa degli operai è aumentata. In aggiunta, la concentrazione di capitali in certe località (come nel caso di compagnie che aprono in certi “parchi industriali” o in altre aree sperdute per godere delle agevolazioni fiscali o di prezzi particolarmente bassi del suolo), la deindustrializzazione e la relativa esplosione della disoccupazione dovuta alla perdita di tanti posti di lavoro, ha profondamente modificato la fisionomia dei trasporti.
Così, ogni giorno, centinaia di milioni di lavoratori devono spostarsi coprendo in molti casi distanze lunghissime per raggiungere il loro posto di lavoro. Molti di loro devono utilizzare un’automobile perché spesso il trasporto pubblico non permette loro di raggiungere il posto di lavoro.
Ma c’è di più. La concentrazione di grandi masse di persone nello stesso luogo comporta una serie di ulteriori problemi che incidono ancora una volta sulla salute ambientale del territorio. La fisiologia di un aggregato di persone che arriva fino a 10-20 milioni di persone comporta l’accumulo dei relativi rifiuti (deiezioni, rifiuti, gas di scarico degli autoveicoli, delle industriale e da riscaldamento, …) in un’area che, per quanto vasta possa essere, è comunque troppo ristretta per poter diluire e smaltire questo carico ricevuto.
L’incubo della penuria alimentare e della scarsità d’acqua
Con lo sviluppo del capitalismo, l’agricoltura ha subito i più profondi cambiamenti della sua storia da più di 10.000 anni a questa parte. Ciò è avvenuto perché nel capitalismo, contrariamente ai modi di produzione precedenti in cui l’agricoltura rispondeva a dei bisogni diretti dei consumatori, gli agricoltori devono sottomettersi alle leggi del mercato mondiale, il che significa produrre col minimo di spese. Ma la necessità di aumentare la resa delle coltivazioni ha avuto delle conseguenze catastrofiche sulla qualità dei suoli.
Queste conseguenze, che sono inseparabilmente legate all’apparire di un forte antagonismo fra città e campagna, sono state già denunciate dal movimento operaio nel 19° secolo. Nelle citazioni che seguono si vede come Marx abbia tracciato il legame inseparabile tra lo sfruttamento della classe operaia e il saccheggio del suolo:
“… la grande proprietà fondiaria riduce la popolazione agricola ad un minimo continuamente decrescente e le contrappone una popolazione industriale continuamente crescente e concentrata nelle grandi città; essa genera così le condizioni che provocano una incolmabile frattura nel nesso del ricambio organico sociale prescritto dalle leggi naturali della vita, in seguito alla quale la forza della terra viene sperperata e questo sperpero viene esportato mediante il commercio molto al di là dei confini del proprio paese (Liebig)”. (Marx, Il Capitale, Libro terzo, cap. 47, Genesi della rendita fondiaria capitalistica, Editori Riuniti, pag. 224).
“Il modo di produzione capitalistico porta a compimento la rottura dell’originario vincolo di parentela che stringeva agricoltura e manifattura nella loro forma infantile e non sviluppata: Ma esso crea allo stesso tempo le premesse materiali di una sintesi nuova, superiore, cioè dell’unione fra agricoltura e industria, sulla base delle loro forme antagonisticamente elaborate. Con la preponderanza sempre crescente della popolazione urbana che la produzione capitalistica accumula in grandi centri, essa accumula da un lato la forza motrice storica della società, dall’altro turba il ricambio organico fra uomo e terra, ossia il ritorno alla terra degli elementi costitutivi della terra consumati dall’uomo sotto forma di mezzi alimentari e di vestiario, turba dunque l’eterna condizione naturale di una durevole fertilità del suolo. Così distrugge insieme la salute fisica degli operai urbani e la vita intellettuale dell’operaio rurale. Ma insieme essa costringe mediante la distruzione delle circostanze di quel ricambio organico, sorte per semplice spontaneità naturale, a produrre tale ricambio in via sistematica, come legge regolatrice della produzione sociale, in una forma adeguata al pieno sviluppo dell’uomo. (…) Come nell’industria urbana, così nell’agricoltura moderna, l’aumento della forza produttiva e la maggiore quantità di lavoro resa liquida vengono pagate con la devastazione e l’infermità della stessa forza-lavoro. E ogni progresso dell’agricoltura capitalistica costituisce un progresso non solo nell’arte di rapinare l’operaio, ma anche nell’arte di rapinare il suolo; ogni progresso nell’accrescimento della sua fertilità per un dato periodo di tempo, costituisce insieme un progresso nella rovina delle fonti durevoli di questa fertilità. (…) La produzione capitalistica sviluppa quindi la tecnica e la combinazione del processo di produzione sociale solo minando al contempo le fonti da cui sgorga ogni ricchezza: la terra e l’operaio.” (Marx, Il Capitale, Libro primo, cap. 13, Macchine e grande industria, par. 10 Grande industria e agricoltura, Editori Riuniti, pag. 218-219).
L’agricoltura ha dovuto costantemente accrescere l’uso di prodotti chimici per intensificare lo sfruttamento del suolo ed estendere le aree di coltivazione. Così, nella maggior parte del pianeta, i contadini portano avanti delle colture che sarebbero impossibili senza l’apporto di grandi quantità di antiparassitari, fungicidi e fertilizzanti e senza irrigazione mentre, se piantate in altre zone, potrebbero svilupparsi senza questi mezzi o con un loro uso molto ridotto.
Piantare dell’erba medica in California, degli agrumi in Israele, del cotone intorno al lago d’Aral nell’ex Unione Sovietica, del frumento in Arabia Saudita o nello Yemen, cioè piantare delle colture in aree che non offrono le condizioni naturali per la loro crescita, si traduce in uno spreco enorme di acqua. La lista degli esempi è veramente senza fine: attualmente circa il 40% dei prodotti agricoli dipende dall’irrigazione, con la conseguenza che il 75% dell’acqua potabile disponibile sulla terra viene utilizzata in agricoltura.
Per esempio, l’Arabia Saudita ha speso una fortuna per pompare l’acqua da una falda sotterranea e rifornire un milione di ettari di terra nel deserto per coltivare frumento. Per ogni tonnellata di frumento coltivata, il governo fornisce 3000 metri cubi d’acqua - ovvero più di tre volte quanto richiesto per la coltura del frumento. E quest’acqua viene tutta da pozzi che non vengono rigenerati dalla pioggia. Un terzo di tutti gli impianti di irrigazione del mondo usano acqua di falda. E mentre queste fonti esauribili vengono prosciugate, i coltivatori nella regione indiana di Gujarat, assetati di pioggia, insistono nell’allevamento di vacche da latte, utilizzando 2.000 litri di acqua per produrre un solo litro di latte! In certe regioni della terra, la produzione di un chilogrammo di riso richiede fino a 3000 litri di acqua. Le conseguenze dell’irrigazione e dell’uso diffuso di prodotti chimici sono disastrose: salinizzazione, overdose di fertilizzanti, desertificazione, erosione dei suoli, forte riduzione dei livelli d’acqua delle falde e dunque svuotamento delle riserve di acqua potabile.
Lo spreco, l’urbanizzazione, la siccità e l’inquinamento acutizzano la crisi idrica mondiale. Milioni e milioni di litri d’acqua evaporano scorrendo in canali di irrigazione aperti. Soprattutto le aree intorno alle megalopoli, ma anche intere distese di terra, vedono i loro acquiferi scendere velocemente ed irreversibilmente di livello.
In passato la Cina era il paese dell’idrologia, la cui economia e la cui civilizzazione si erano sviluppate grazie alla sua capacità di irrigare le terre asciutte e di costruire degli argini per proteggere il paese dalle inondazioni. Ma, nella Cina di oggi, le acque del poderoso Fiume Giallo, la grande arteria del Nord, per diversi mesi l’anno non raggiungono il mare. 400 delle 660 città della Cina mancano d’acqua. Un terzo dei pozzi della Cina sono a secco. In India, il 30% delle terre coltivabili è minacciato di salinizzazione. Nel mondo intero circa il 25% delle aree agricole è minacciato di salinizzazione.
Ma la coltura di prodotti agricoli in regioni che, a causa del loro clima o per la natura del suolo, non lo permetterebbero, non è l’unica assurdità dell’agricoltura moderna. In particolare, a causa della penuria d’acqua, il controllo dei fiumi e delle dighe è diventato una questione strategica fondamentale rispetto alla quale gli Stati nazionali intervengono sconsideratamente a scapito della natura.
Più di 80 paesi già hanno segnalato una scarsità d’acqua sul loro territorio. Secondo una previsione dell’ONU, il numero di persone che dovranno vivere in condizioni di penuria d’acqua raggiungerà i 5.4 miliardi durante i prossimi 25 anni. Nonostante la disponibilità di tanta terra coltivabile, le terre realmente utilizzabili del mondo diminuiscono costantemente a causa della salinizzazione e di altri fattori. Nelle antiche società, le tribù nomadi dovevano spostarsi in altre zone quando l’acqua diventava scarsa. Nel capitalismo, nonostante la tendenza innata di questo sistema alla sovrapproduzione, mancano sia le derrate alimentari che l’acqua. Così, a causa delle molteplici devastazioni causate all’agricoltura, la penuria alimentare è un fenomeno inevitabile. A partire dal 1984, per esempio, la produzione mondiale di grano non è riuscita a stare al passo con la crescita della popolazione mondiale. Nell’arco di 20 anni infatti questa è crollata da 343kg all’anno per persona a 303kg.
Così, il fantasma che ha sempre accompagnato lo sviluppo dell’umanità dalle sue origini, l’incubo della penuria alimentare, sembra tornare alla ribalta, ma non per mancanza di terra coltivabile o per mancanza di mezzi e strumenti da usare in agricoltura, ma per l’assoluta irrazionalità nell’uso delle risorse della Terra.
Nel capitalismo, maggiore tecnologia non significa maggiore sicurezza
Se è vero che lo sviluppo scientifico e tecnologico offrono all’umanità strumenti di cui non era neanche possibile in passato immaginare l’esistenza e che permettono di prevenire incidenti e catastrofi naturali, è altrettanto vero che l’impiego di tali tecnologie costa e viene messo in opera solo se c’è un ritorno economico. Ancora una volta vogliamo sottolineare che non si tratta qui, come in altri casi, dell’atteggiamento egoista e ingordo di qualche imprenditore, ma della necessità che si pone a qualunque imprenditore o a qualunque paese di ridurre al minimo le spese di produzione di una merce o di un servizio per poter reggere alla concorrenza mondiale.
Nella nostra stampa abbiamo ripetutamente affrontato questo problema mostrando come le cosiddette catastrofi naturali non siano affatto il prodotto del caso o della fatalità, ma il risultato logico della riduzione di misure di prevenzione e di sicurezza per fare economia. Ecco, ad esempio, quello che scrivevamo a proposito della catastrofe prodotta dall’uragano Katrina nel 2005 a New Orleans:
“Anche l’argomento secondo cui questa catastrofe non era prevista è un nonsenso. Da quasi 100 anni, scienziati, ingegneri e politici hanno discusso di come far fronte alla vulnerabilità di New Orleans nei confronti dei cicloni e delle inondazioni. A metà degli anni 1990, sono stati sviluppati parecchi progetti da diversi gruppi di scienziati e di ingegneri, che infine hanno portato ad una proposta nel 1998 (sotto l'amministrazione Clinton), chiamata Coast 2050. Questo progetto comprendeva il rafforzamento e la ripianificazione delle dighe esistenti, la costruzione di un sistema di chiuse e la creazione di nuovi canali che avrebbero portato delle acque piene di sedimenti per restaurare le zone paludose tampone del delta; questo progetto richiedeva un investimento di 14 miliardi di dollari per un periodo di 10 anni. Non ebbe l'approvazione di Washington, non sotto Bush ma sotto Clinton. L'anno scorso, l'esercito ha chiesto 105 milioni di dollari per i programmi di lotta contro i cicloni e le inondazioni a New Orleans, ma il governo gli ha accordato solamente 42 milioni. Nello stesso momento, il Congresso approvava un bilancio di 231 milioni di dollari per la costruzione di un ponte verso una piccola isola disabitata dell'Alaska.” [5]
Abbiamo ugualmente denunciato il cinismo e le responsabilità della borghesia nei confronti del massacro di 160.000 persone avvenuto in seguito allo tsunami prodottosi il 26 dicembre del 2004.
In effetti, oggi è riconosciuto chiaramente, in modo ufficiale, che l'allerta non è stata lanciata per timore di … danneggiare il settore turistico! Altrimenti detto, oltre centocinquantamila esseri umani sono stati sacrificati per difendere dei sordidi interessi economici e finanziari.
Questa irresponsabilità dei governi è una nuova dimostrazione dello stile di vita di questa classe di squali che gestisce la vita e l'attività produttiva della società. Gli Stati borghesi sono pronti a sacrificare altrettante vite umane, se ciò è necessario, per preservare lo sfruttamento ed i profitti capitalisti.
Sono sempre gli interessi capitalisti che dettano la politica della classe dominante e - nel capitalismo – la prevenzione non è un’attività che rende, come viene riconosciuto oggi da tutti i media: “Dei paesi della regione avrebbero fino a quel momento fatto orecchio da mercante rispetto al mettere in piedi un sistema di allerta a causa degli enormi costi finanziari. Secondo gli esperti, un dispositivo di allerta costerebbe decine di milioni di dollari, ma permetterebbe di salvare decine di migliaia di vite umane” (Les Échos, 30/12).[6]
Ancora possiamo fare l’esempio del petrolio che ogni anno viene sversato a mare (sversamenti intenzionali e accidentali, fonti endogene, apporto dai fiumi, ecc.): si parla di 3-4 milioni di tonnellate di petrolio all’anno. Secondo un rapporto di Legambiente: “Analizzando le cause di questi incidenti, è possibile riscontrare che per il 64% dei casi esse sono imputabili ad errore umano, il 16% a guasti meccanici ed il 10% a problemi strutturali della nave, mentre il restante 10% non è attribuibile a cause certe.”[7]
Ma è facile capire che, quando si parla di errore umano - come ad esempio nei casi di incidenti ferroviari attribuiti ai macchinisti - si tratta di errori in cui incorre l’operatore perché lavora in condizioni di sfinimento estremo e di forte stress. D’altra parte, è abitudine delle compagnie petrolifere sfruttare petroliere anche vecchie e decrepite per il trasporto dell’oro nero perché, in caso di naufragio, perdono al massimo il valore di un carico di greggio, mentre acquistare una nuova imbarcazione viene a costare molto di più. Ecco perché lo spettacolo di petroliere che si spaccano a metà in vicinanza delle coste sversando tutto il loro carico nero è diventato così frequente. Mettendo tutto assieme possiamo affermare che almeno il 90% delle cause di dispersione a mare del petrolio è dovuta alla mancanza assoluta di attenzione delle compagnie petrolifere legata ancora una volta all’interesse di ridurre al minimo i costi e amplificare al massimo i margini di profitto.
Una denuncia sistematica, incisiva, profonda e articolata dei disastri prodotti dal capitalismo fu svolta da Amadeo Bordiga[8] negli anni dell’immediato dopoguerra. Nella prefazione al libro Drammi gialli e sinistri della moderna decadenza sociale, che è una raccolta di articoli di Amadeo Bordiga, si può leggere:
“Man mano che il capitalismo si sviluppa, poi cade in putrefazione, asservisce sempre più alle sue esigenze di sfruttamento, di dominio e di saccheggio imperialista una tecnica che potrebb’essere liberatrice, al punto da trasmetterle la sua stessa putredine e da rivolgerla contro la specie. (…) E’ in tutti i campi della vita quotidiana delle fasi “pacifiche” a noi generosamente concesse tra due massacri imperialistici o due grandi operazioni repressive, che il capitale, pungolato senza tregua dalla ricerca di un miglior saggio di profitto ammucchia, avvelena, asfissia, mutila, massacra gli individui utilizzando a tal fine una tecnica prostituita (...) Il capitalismo non è innocente neppure delle catastrofi dette “naturali”. Senza ignorare l’esistenza di forze della natura che sfuggono all’azione umana, il marxismo mostra che un buon numero di cataclismi é indirettamente provocato, o aggravato, da cause sociali (...) Non solo la civiltà borghese può essere causa diretta di queste catastrofi per la sua sete di profitto e per l’influenza predominante dell’affarismo sulla macchina amministrativa (...), ma si rivela impotente ad organizzare una protezione efficace nella misura in cui la prevenzione non è un'attività redditizia”.[9]
Bordiga sfata la leggenda secondo la quale “la contemporanea società capitalistica, con il correlativo sviluppo della scienza, della tecnica e della produzione, mette[rebbe] la specie umana nelle condizioni migliori per lottare contro le difficoltà dell’ambiente naturale.”[10] Infatti, aggiunge Bordiga: “se è vero che il potenziale industriale ed economico del mondo capitalistico è in aumento e non in deflessione, è altrettanto vero che maggiore è la sua virulenza, peggiori sono le condizioni di vita della massa umana di fronte ai cataclismi naturali e storici.”[11] Per dimostrare ciò, Bordiga analizza tutta una serie di disastri avvenuti in giro per il mondo dimostrando di volta in volta che alla loro base non c’è il caso o la fatalità ma la tendenza innata del capitalismo a trarre il massimo profitto investendo il meno possibile, come ad esempio nel caso del naufragio della Flying Enterprise.
“La nuovissima e lussuosa nave che Carlsen faceva tenere forbita come uno specchio, e doveva fare una traversata arcisicura, era a chiglia piatta. (…) Perché mai il modernissimo cantiere della Flying ha adottato la chiglia piatta, propria del battello lacustre? Un giornale lo diceva in tutte le lettere: per ridurre il costo unitario di produzione. (…) Abbiamo qui la chiave di tutta la moderna scienza applicata. I suoi studi, le sue ricerche, i suoi calcoli, le sue innovazioni, mirano a questo: ridurre i costi, alzare i noli. Sfarzo quindi di saloni specchi ed orpelli per attirare i clienti ad alto prezzo, lesina pidocchiosa nelle strutture spinte all’estremo del cimento meccanico e della esiguità di dimensioni e di peso. Questa tendenza caratterizza tutta la moderna ingegneria, dall’edilizia alla meccanica, ossia presentare con ricchezza, per «épater le bourgeois», i complementi e le finiture che qualunque fesso sta all’altezza di ammirare (avendo anzi una apposita cultura da paccottiglia formata nei cinema e sugli illustrati in rotocalco) e scarseggiare in modo indecente nella solidità della struttura portante, invisibile e incomprensibile al profano.”[12]
Che i disastri analizzati da Bordiga non abbiano delle conseguenze sul piano ecologico non cambia nulla al problema. Di fatto, attraverso questi episodi denunciati da Bordiga così come quelli esposti nella prefazione ai suoi articoli raccolti in Drammi gialli e sinistri della decadenza sociale di cui citiamo qualche esempio, si può immaginare senza difficoltà gli effetti prodotti dalla stessa logica capitalista quando questa si applichi nei settori aventi un impatto diretto e decisivo sull’ambiente, come per esempio la concezione e la gestione delle centrali nucleari:
“Negli anni ’60, diversi aerei inglesi del tipo “Comet”, ultimo grido della tecnica più sofisticata, esplodono in pieno volo, causando la morte di tutti i passeggeri: la lunga inchiesta rivela infine che le esplosioni erano dovute allo sforzo al quale era sottoposto il metallo della cellula, troppo sottili – perché si doveva risparmiare sul metallo, sulla potenza dei reattori, sull’insieme dei costi di produzione, per accrescere il profitto. Nel 1974 l’esplosione di un “DC10” nel cielo di Ermenonville causa oltre 300 morti: si sapeva che il sistema di chiusura del bagagliaio era difettoso, ma rifarlo sarebbe costato quattrini … Ma il caso più allucinante è riferito dall’inglese “The Economist” (24-9-1977), dopo la scoperta di incrinature nel metallo di dieci aerei “Trident” e l’inspiegabile schianto al suolo di un “Boeing”: in base alla “nuova concezione” che presiede alla costruzione degli aerei da trasporto, questi non sono più sottoposti a revisione completa dopo un certo numero di ore di volo, ma si considerano “sicuri” … fino alla comparsa delle prime incrinature dovute alla “stanchezza” del metallo: li si può quindi usare “al massimo” delle loro potenzialità evitando alle compagnie aeree la perdita di quattrini, se i voli cessassero troppo presto!”[13]
Abbiamo già evocato, nel precedente articolo di questa serie, il caso della centrale nucleare di Chernobyl nel 1986. In fondo, all’origine del disastro, è presente la stessa logica, così come nel 1979 in occasione della fusione di un reattore nucleare sull’isola di Three Mile, in Pennsylvania, negli Stati Uniti.
La scienza al servizio dello sviluppo della società capitalista
Di fatto, la comprensione del ruolo della tecnica e della scienza all’interno della società capitalista è della più grande importanza rispetto alla questione di sapere se queste possono costituire oppure no un punto di appoggio per prevenire l’avanzata di un disastro ecologico in atto e per lottare in maniera efficace da oggi contro alcune delle sue manifestazioni.
Se la tecnica è, come abbiamo visto, prostituita alle esigenze del mercato, lo saranno anche lo sviluppo della scienza e della ricerca scientifica, oppure è possibile che queste restino al di fuori di qualunque interesse di parte?
Per rispondere a questo interrogativo dobbiamo partire dal riconoscere che la scienza è una forza produttiva, che il suo sviluppo permette ad una società di crescere più rapidamente, di aumentare le sue risorse. Di conseguenza, il controllo dello sviluppo scientifico non è - e non potrebbe essere - indifferente ai gestori dell’economia, a livello statale come a livello imprenditoriale. Questo è il motivo per cui alla ricerca scientifica, e ad alcuni suoi settori in particolare, vengono forniti lauti finanziamenti. La scienza non è dunque – e non potrebbe esserlo all’interno di una società di classe come il capitalismo - un settore neutro dove esisterebbe una libertà di ricerca scientifica e che sarebbe risparmiato da interessi economici, per il semplice motivo che la classe dominante ha tutto l’interesse ad asservire la scienza e il mondo scientifico ai propri interessi. Ma possiamo addirittura affermare che lo stesso sviluppo della scienza e della conoscenza – nell’epoca capitalista - non segue una propria dinamica autonoma e indipendente ma è essa stessa subordinata all’obiettivo della realizzazione del massimo profitto.
Questo fatto ha delle notevolissime conseguenze di cui ci accorgiamo solo raramente. Guardiamo ad esempio allo sviluppo della medicina moderna. Lo studio e la cura dell’uomo è frazionata in diecine di specializzazioni diverse, all’interno delle quali alla fine viene a mancare la visione d’insieme del funzionamento dell’organismo umano. Se questo avviene è perché l’obiettivo primo della medicina, nel mondo capitalista, non è quello di far vivere bene le singole persone, ma “riparare” la “macchina uomo” quando questa si guasta e rimetterla in piedi il più rapidamente possibile per farla tornare a lavorare. Non sono casuali, all’interno di questo discorso, il ricorso massiccio agli antibiotici per ogni accidente e le diagnosi che ricercano la causa dei mali sempre in qualche fattore specifico piuttosto che nelle condizioni generali di vita che gli uomini vivono in questa società.
Un’altra conseguenza della dipendenza dello sviluppo scientifico dalla logica del mondo capitalista è che la ricerca è stata sempre indirizzata verso la produzione di nuovi materiali (più resistenti, meno cari) la cui sicurezza dal punto di vista tossicologico non ha mai costituito un grosso problema … nell’immediato, mentre poco o niente viene speso nella ricerca scientifica finalizzata a rimuovere o rendere innocue le sostanze tossiche presenti in questi prodotti. Ma decenni più tardi tocca pagare il conto, generalmente in termini di intossicazioni croniche e morti di persone che erano state a contatto con detti materiali.
Ma il rapporto più forte è quello che esiste tra la ricerca scientifica e le esigenze del settore militare e la guerra in particolare. A questo livello possiamo esaminare alcuni esempi concreti che riguardano i vari rami della scienza, a partire da quella che sembrerebbe “la più pura” delle scienze, la matematica!
Nelle citazioni che seguono si può vedere fino a che punto lo sviluppo scientifico è sottoposto al controllo dello Stato e alle esigenze militari, tanto che nel II dopoguerra fioriscono un po’ dovunque “commissioni” di scienziati che lavorano segretamente per il potere militare e che, in maniera occulta, passano parte del loro lavoro ad altri scienziati ignari dello scopo ultimo delle ricerche che svolgono:
“L’importanza della matematica per gli ufficiali di marina militare e di artiglieria richiedeva un’educazione matematica specifica; così, nel Settecento, il gruppo più importante che vantasse un sapere matematico almeno di base era quello degli ufficiali militari. (…) [Nella Grande Guerra] tante nuove armi venivano create o perfezionate durante la guerra – aerei, sottomarini, il sonar per combattere questi, armi chimiche. Dopo qualche esitazione da parte degli apparati militari, tanti scienziati venivano impiegati nel tentativo di fornire uno sviluppo militare, anche se non per fare scienza ma come ingegneri creativi di più alto livello. (…) Nel 1944, troppo tardi per diventare efficiente durante la Seconda Guerra, fu creato in Germania il «Matematisches Forschungsinstitut Oberwolfach». Ai matematici tedeschi non piace tanto saperlo, ma esso era una struttura molto ben pensata, che mirava a fare di tutta l’impresa matematica tedesca un’impresa «utile»: il nucleo era costituito da un piccolo gruppo di matematici che fossero ben a conoscenza dei problemi che si presentavano ai militari, e dunque in grado di localizzare problemi matematicamente risolvibili. Intorno al nucleo, altri matematici, ancora competenti e che conoscevano bene tutto l’ambiente matematico, dovevano tradurre questi problemi in problemi matematici e distribuirli in questa forma a matematici adatti (che non avevano bisogno di capire il problema militare che stava alla base, forse neanche di conoscerlo). Dopo, a risultato ottenuto, la stessa catena doveva funzionare all’incontrario.
Negli Stati Uniti, una struttura simile, anche se un po’ improvvisata, funzionava già intorno a Marston Morse durante la guerra. Nel dopoguerra, una struttura non improvvisata e del tutto analoga si trova nel «Wisconsin Army Mathematics Research Center» (…).
Il vantaggio della struttura è che permette alla macchina militare di sfruttare le competenze di molti matematici senza avere bisogno di «portarseli a letto», con tutto ciò che questo comporta – contratto, necessità di consenso e subordinazione, ecc.”[14]
Nel 1943 sono stati istituti negli Stati Uniti dei gruppi di ricerca operativa espressamente impiegati per la guerra antisommergibile, il dimensionamento dei convogli navali, la scelta dei bersagli nelle incursioni aeree e l’avvistamento e intercettazione degli aerei nemici. Nel corso della seconda guerra mondiale verranno complessivamente impiegati nel Regno Unito, in Canada e in USA, oltre 700 scienziati.
“Rispetto alla ricerca britannica, quella americana è caratterizzata fin dall’inizio da un uso più sofisticato della matematica e in particolare del calcolo delle probabilità e da un ricorso più frequente alla modellizazione. (…) La ricerca operativa (che diventerà negli anni cinquanta una branca autonoma della matematica applicata) muove dunque i suoi primi passi tra difficoltà strategiche e di ottimizzazione delle risorse belliche. Qual è la miglior tattica di combattimento aereo? Qual è il migliore dispiegamento di un certo numero di soldati in certi punti di attacco? Come si possono distribuire le razioni ai soldati sprecandone il meno possibile e sfamandoli adeguatamente?”[15]
“ (…) Il Progetto Manhattan segnò un profondo punto di svolta, non solo perché concentrò migliaia di scienziati e tecnici di molteplici campi a lavorare su un unico progetto diretto e controllato dai militari, ma perché segnò un enorme salto anche per la ricerca fondamentale, inaugurando quella che è poi stata chiamata la Big Science (…) L’arruolamento della comunità scientifica per lavorare su un unico progetto finalizzato sotto il controllo diretto dei militari fu una misura di emergenza, ma non poteva durare a lungo, per molte ragioni (non ultima la conclamata “libertà della ricerca” da parte degli scienziati). D’altra parte, però, il Pentagono non poteva permettersi di perdere la preziosa e insostituibile cooperazione della corporazione scientifica, e qualche forma di controllo sulla sua attività: era necessario, per forza di cose, mettere a punto una strategia diversa e cambiare i termini del problema. (…) Nel 1959 venne creata, per iniziativa di un insieme di autorevoli scienziati e consulenti del governo degli Stati Uniti, un gruppo semi-permanente di esperti, che teneva riunioni periodiche di studio: esso fu chiamato “Divisione Jason”, dal nome del mitico eroe greco Giasone all’avventurosa caccia del vello d’oro con gli Argonauti. Si tratta di un gruppo elitario di una cinquantina di scienziati eminenti, tra i quali vari Premi Nobel, che si incontra ad ogni estate per alcune settimane per esaminare liberamente problemi legati alla sicurezza, alla difesa e al controllo degli armamenti posti dal Pentagono, dal Dipartimento dell’Energia o da altre agenzie federali, e forniscono rapporti dettagliati che rimangono in gran parte “classified” e spesso influenzano direttamente la politica nazionale. La Divisione Jason assunse un ruolo di primo piano con il Segretario alla Difesa Robert McNamara durante la guerra del Vietnam, quando completò tre studi particolarmente importanti, che influenzarono le concezioni e la strategia statunitensi: sull’efficacia dei bombardamenti strategici per tagliare le vie di rifornimento dei Vietcong, sulla costruzione di una barriera elettronica attraverso il Vietnam, e sulle armi nucleari tattiche. ”[16].
Gli elementi di queste lunghe citazioni ci fanno capire che la scienza è oggi una delle pietre angolari per la conservazione dello statu quo del sistema capitalista e per la definizione dei rapporti di forza al suo interno. Questo ruolo, manifestatosi pesantemente durante e dopo la II guerra mondiale, come documentato in precedenza, naturalmente non può che accrescersi con il tempo, anche se la borghesia tende sistematicamente a mascherarlo.
In conclusione, ciò che abbiamo cercato di dimostrare è come le catastrofi ecologiche ed ambientali, anche quando possono essere scatenate da fenomeni naturali, si abbattono con tanta più ferocia sulle popolazioni, ed in particolare su quelle meno agiate, in conseguenza di una scelta ben consapevole da parte delle classi dirigenti su come destinare le risorse e la stessa ricerca scientifica. L’idea che la modernizzazione, lo sviluppo scientifico e tecnologico, possano essere associati automaticamente a degrado dell’ambiente e ad un maggiore sfruttamento dell’uomo, è dunque da rigettare categoricamente. Esiste invece una grande potenzialità di sviluppo delle risorse umane non solo sul piano della produzione di beni ma, quello che più conta, sul piano della possibilità di produrre in maniera diversa, in piena armonia con l’ambiente e il benessere dell’ecosistema, di cui l’uomo stesso fa parte. Per cui la prospettiva non è quella di tornare indietro nel tempo, invocando un futile ed impossibile ritorno alle origini, in cui l’ambiente sarebbe stato maggiormente rispettato, ma quello di andare avanti su una strada diversa, quella di uno sviluppo che sia veramente in armonia con il pianeta Terra.
5 aprile 2009 Ezechiele
[1] Vedi la prima parte di questo articolo “Disastri ambientali, inquinamento, variazioni climatiche. Il mondo sulla soglia di un collasso ambientale”, pubblicata sul n°30 della Rivista Internazionale.
[2] Idem.
[3] Idem.
[4] Il XX secolo ha visto una vera esplosione di megalopoli. All’inizio del XX secolo c’erano solo 6 città con più di 1 milione di abitanti; negli anni ’50 vi erano solo 4 città con una popolazione superiore a 5 milioni. Prima della II Guerra mondiale le megalopoli erano un fenomeno dei paesi industrializzati. Oggi il maggior numero di tali città è concentrata nei cosiddetti paesi in via di sviluppo. In alcuni di questi la popolazione è aumentata di 10 volte in poche decine d’anni. Attualmente metà della popolazione mondiale vive in città, ma per l’anno 2020 saranno due terzi. Ma nessuna delle grandi città che stanno ricevendo flussi di immigrati che superano il numero di 5000 persone al giorno può realmente fare fronte a questo innaturale incremento demografico, con la conseguenza che tutti questi immigrati, non potendo essere integrati nel tessuto sociale della città, vanno a gonfiare i bassifondi delle loro cinture periferiche dove, quasi sempre, c’è mancanza totale di servizi e di infrastrutture adeguate.
[5] Uragano Katrina, il capitalismo è il responsabile della catastrofe sociale, in Rivoluzione Internazionale n°152.
[6] Citato in: Maremoto: la vera catastrofe sociale è il capitalismo, in Rivoluzione Internazionale n°139.
[8] Bordiga, leader della corrente di sinistra del PCdI (Partito Comunista d’Italia) alla cui fondazione nel 1921 aveva dato un grandissimo contributo ed espulso da questo stesso partito nel 1930 dopo il processo di stalinizzazione, partecipa nel dopoguerra alla fondazione del PCInt in Italia nel 1943.
[9] Prefazione (anonima) a Drammi gialli e sinistri della moderna decadenza sociale di Amadeo Bordiga, edizioni Iskra, pagg. 6, 7, 8 e 9.
[10] A. Bordiga, Piena e rotta della civiltà borghese, pubblicato in Battaglia Comunista n°23 del 1951 e poi in Drammi gialli e sinistri della decadenza sociale, edizioni iskra, pag. 19.
[11] Idem.
[12] A. Bordiga, Politica e “costruzione”, pubblicato in Prometeo, serie II, n°3-4, 1952 e poi in Drammi gialli e sinistri della decadenza sociale, edizioni iskra, pagg. 62-63.
[13] Prefazione a Drammi gialli e sinistri della moderna decadenza sociale, op. cit., pagg. 7, 8 e 9.
[14] Jens Høyrup, Università di Roskilde, Danimarca, Matematica e guerra, Conferenza, Palermo, 15 maggio 2003, “Quaderni di Ricerca in Didattica”, n°13, 2003. G.R.I.M. (Department of Mathematics, University of Palermo, Italy), math.unipa.it/~grim/Hoyrup_mat_guerra_quad13.pdf.
[15] S. Annaratone, www.scienzaesperienza.it/news/new.php?id=0057 [7]
[16] Angelo Baracca, Fisica fondamentale, ricerca e realizzazione di nuove armi nucleari, people.na.infn.it/~scud/documenti/2005Baracca_armiscienza.pdf
Stabilire la morte con certezza è in generale un problema per gli esseri umani - l'umanità è la sola specie del regno animale a portare il peso della coscienza dell'inevitabilità della morte, e questo fardello si manifesta, tra l’altro, in tutte le epoche della storia ed in tutte le formazioni sociali, con l'onnipresenza dei miti della vita dopo la morte.
Così, le classi dominanti, sfruttatrici, e gli individui che la rappresentano sono felici di sfuggire alla morte consolandosi attraverso i sogni sul carattere eterno dei fondamenti e del destino del loro regno. Il regime dei faraoni e degli imperatori divini è giustificato così da storie sacre che vanno dalle origini primordiali fino al lontano futuro.
Sebbene si inorgoglisca della sua visione razionale e scientifica, la borghesia non è meno attratta da proiezioni mitologiche. Come Marx l’ha osservato, lo si può vedere facilmente nell'atteggiamento di questa classe verso la storia dove cerca di presentare la proprietà privata come fondamento dell'esistenza umana. Ed essa non è più incline dei vecchi despoti nel considerare la possibilità di una fine del suo sistema di sfruttamento. Anche nella sua epoca rivoluzionaria, nello stesso pensiero del massimo filosofo del movimento dialettico, Hegel, si trova questa tendenza a proclamare che il dominio della società borghese costituisce “la fine della storia”. Marx osservò che per Hegel, l'avanzamento permanente dello spirito del Mondo alla fine aveva trovato pace e riposo nella forma dello Stato burocratico prussiano (che, del resto, rimaneva sempre ben impantanato nel passato feudale).
Dobbiamo, dunque, considerare come un assioma di base della visione del mondo della borghesia, distorta dalla sua ideologia, la sua non tolleranza verso qualsiasi teoria che sostenga la natura puramente transitoria del suo dominio di classe. Il marxismo invece, esprimendo il punto di vista teorico della prima classe sfruttata della storia che contiene i germi di un nuovo ordine sociale, non è interessato da alcun vincolo che possa bloccare la sua visione.
Così, Il Manifesto comunista del 1848 comincia col celebre passo sulla storia come storia della lotta di classe che, in tutti i modi di produzione fino a quel momento conosciuti, aveva fatto esplodere il tessuto sociale dall'interno, terminando “o con una trasformazione rivoluzionaria di tutta la società, o con la distruzione delle due classi in lotta” (capitolo “Borghesi e proletari”). La società borghese ha semplificato gli antagonismi di classe al punto di averle socialmente ridotte a due grandi campi - capitalista da una parte, proletario dall'altra. Ed il proletariato è destinato ad essere il becchino dell'ordinamento borghese.
Ma Il Manifesto non si aspettava che il confronto decisivo tra le classi sarebbe risultato solo dalla semplificazione delle differenze nel capitalismo, né dall'ingiustizia evidente rappresentata dal monopolio dei privilegi e dalla ricchezza da parte della borghesia. Innanzitutto era necessario che il sistema borghese non fosse stato più capace di funzionare “normalmente”, raggiungendo il punto in cui “... la borghesia non è più in grado di rimanere ancora per molto classe dirigente ed imporre alla società, come legge regolatrice, le condizioni di vita della sua classe. Non può più regnare, perché è incapace di assicurare l'esistenza del suo schiavo nel quadro della sua schiavitù, perché è costretta a lasciarlo sprofondare in una situazione in cui al posto di farsi nutrire da lui è costretta, lei, a nutrirlo. La società non può più vivere sotto il suo dominio, e ciò significa che l'esistenza della borghesia non è più compatibile con quella della società” (Ibid.). Insomma, il capovolgimento della società borghese diventa una necessità vitale per la stessa sopravvivenza della classe sfruttata e della vita sociale nel suo insieme.
Il Manifesto vedeva nelle crisi economiche che devastavano periodicamente la società capitalista all’epoca i segni precursori di questo momento che si avvicinava.
“Un’epidemia che, in tutt’altra epoca, sarebbe sembrata un'assurdità, si abbatte sulla società, - l'epidemia della sovrapproduzione. La società si trova spinta improvvisamente ad un stato di barbarie momentaneo; si direbbe che una carestia, una guerra di sterminio le abbia tagliato tutti i suoi mezzi di sussistenza; l'industria ed il commercio sembrano annientati. E perché? Perché la società ha troppa civiltà, troppi mezzi di sussistenza, troppa industria, troppo commercio. Le forze produttive di cui dispone non favoriscono più il regime della proprietà borghese; al contrario, sono diventate troppo potenti per questo regime che a questo punto diventa per loro un ostacolo; e tutte le volte che le forze produttive sociali superano questo ostacolo, gettano nel disordine l’intera società borghese e minacciano l'esistenza della proprietà borghese. Il sistema borghese è diventato troppo stretto per contenere le ricchezze create nel suo seno - Come supera la borghesia queste crisi? Da un lato, distruggendo con violenza una massa di forze produttive; dall'altro, conquistando nuovi mercati e sfruttando più a fondo i vecchi. A che cosa porta tutto ciò? A preparare delle crisi più generali e più formidabili ed a ridurre i mezzi per prevenirle”. (Ibid.)
Ci sono parecchi punti da sottolineare a proposito di questo passo citato frequentemente:
Il Manifesto è stato scritto alla vigilia della grande ondata di sollevamenti che ha scosso l’Europa durante il 1848. Benché questi sollevamenti avessero avuto delle radici materiali - lo scoppio di carestie in tutta una serie di paesi - le prime manifestazioni massicce dell'autonomia politica del proletariato, il movimento chartista in Gran Bretagna, il sollevamento di giugno della classe operaia parigina, essi costituivano essenzialmente gli ultimi fuochi della rivoluzione borghese contro l'assolutismo feudale. Nel suo sforzo di comprendere l'insuccesso di questi sollevamenti dal punto di vista proletario - gli stessi scopi borghesi che la rivoluzione si era data raramente sono stati raggiunti e la borghesia francese non esitò a schiacciare gli operai insorti di Parigi - Marx riconobbe che la prospettiva di una rivoluzione proletaria imminente era prematura. Non solo la classe operaia aveva ricevuto un colpo ed era arretrato politicamente con la sconfitta dei sollevamenti del 1848, ma il capitalismo era ancora assai lontano dalla fine del compimento della sua missione storica; si estendeva attraverso il pianeta e continuava a “creare un mondo a sua immagine” come viene riportato dal Manifesto. Il dinamismo della borghesia, come riconosceva Il Manifesto, era ancora una forte realtà. Contro i militanti impazienti del suo “partito” che pensavano che le masse potevano essere spinte all'azione attraverso la semplice volontà, Marx sosteneva che probabilmente il proletariato avrebbe dovuto, ancora per decenni, condurre delle lotte prima di raggiungere lo scontro decisivo col suo nemico di classe. Difese anche con forza l'idea che “Una nuova rivoluzione sarà possibile solamente in seguito ad una nuova crisi, ma l’una è certa quanto l'altra”. (Le lotte di classe in Francia, capitolo: “L’abolizione del suffragio universale nel 1850”)
Marx risponde agli apologeti
Fu questa convinzione che indusse Marx a dedicarsi allo studio - o, piuttosto, alla critica - dell'economia politica; una ricerca profonda e vasta che prenderà la forma scritta dei Grundrisse e dei quattro volumi del Capitale. Per comprendere le condizioni materiali della rivoluzione proletaria, era necessario comprendere più in profondità le contraddizioni inerenti al modo di produzione capitalista, le debolezze fatali che avrebbero finito nel condannarlo a morte.
In questi lavori, Marx riconosce il suo debito verso gli economisti borghesi come Adam Smith e Ricardo, i quali avevano contribuito largamente alla comprensione del sistema economico borghese, in particolare perché, nelle loro polemiche contro gli apologeti delle forme di produzione semi-feudale superate, avevano difeso il punto di vista secondo cui il "valore" delle merci non era qualche cosa che riguardava la qualità del suolo, né una cifra determinata dai capricci dell'offerta e della domanda, ma che essa si basava sul lavoro reale degli uomini. Ma Marx mostrò anche che questi polemisti della borghesia erano anche i suoi apologeti nella misura in cui nei loro scritti:
Ciò che è fondamentale in tutte le teorie economiche borghesi, è la negazione del fatto che le crisi del capitalismo provano l’esistenza delle contraddizioni fondamentali ed insormontabili nel modo di produzione capitalista - uccelli di male augurio, corvi annunciatori di catastrofi i cui gracchiamenti crescenti profetizzano il Ragnarök[1] della società borghese.
“Le frasi apologetiche per negare le crisi intanto sono importanti in quanto esse dimostrano sempre il contrario di ciò che vogliono dimostrare. Esse - per negare la crisi-, affermano l'unità là dove esiste antitesi e contraddizione. Dunque, intanto sono importanti in quanto si può dire: esse dimostrano che se di fatto le contraddizioni da esse eliminate con la fantasia non esistessero, non esisterebbe neanche la crisi. Ma in realtà la crisi esiste, perché queste contraddizioni esistono. Ogni ragione che essi sostengono contro la crisi è una contraddizione eliminata con la fantasia, quindi una contraddizione reale, quindi un motivo della crisi. Questo desiderio fantasioso di negare le contraddizioni non fa che confermare le contraddizioni reali di cui ci si augura proprio l'inesistenza”. (Teorie del plusvalore)[2].
Primo uccello del male augurio: "la sovrapproduzione, contraddizione fondamentale del capitale sviluppato..."
L’apologia del capitale per gli economisti si basa in larga misura sulla negazione del fatto che le crisi di sovrapproduzione, che fanno la loro apparizione durante il secondo o il terzo decennio del diciannovesimo secolo, siano un indicatore dell'esistenza di barriere insormontabili per il modo di produzione borghese.
Di fronte alla realtà concreta della crisi, il diniego degli apologeti prende diverse forme che gli esperti economici hanno in gran parte ripreso durante gli ultimi decenni. Marx sottolinea, per esempio, che Ricardo cercava di spiegare le prime crisi del mercato mondiale attraverso differenti fattori contingenti, come i cattivi raccolti, la svalutazione della carta moneta, la caduta dei prezzi o le difficoltà del passaggio da periodi di pace ai periodi di guerra, o di guerra alle fasi di pace nei primi anni del diciannovesimo secolo. Questi fattori, sicuramente, hanno avuto un loro ruolo nell'esacerbazione delle crisi, o anche a provocarne lo scoppio, ma non stavano alla base del problema. Queste scappatoie ci ricordano le recenti prese di posizione degli "esperti" economici che hanno individuato la “causa” della crisi negli anni ’70 nell'aumento del prezzo del petrolio o, oggi, nell'avidità dei banchieri. Quando verso la metà del diciannovesimo secolo diventò più difficile ignorare il ciclo delle crisi commerciali, gli economisti furono costretti a sviluppare degli argomenti più sofisticati, per esempio ad accettare l'idea che c'era troppo capitale, pur negando che ciò significava anche troppe merci invendibili.
Tuttavia, una volta ammesso il problema della sovrapproduzione, questo venne relativizzato. Per gli apologeti, alla base, “non si vende mai se non per acquistare qualche altro prodotto che possa essere di un’utilità immediata o che possa contribuire alla produzione futura” (Ibidem). In altri termini, esisteva una profonda armonia tra la produzione e la vendita e, nel migliore dei mondi almeno, ogni merce doveva trovare un acquirente. Se esistono delle crisi, non sono niente altro che possibilità contenute nella metamorfosi delle merci in denaro, come difendeva John Stuart Mill, o esse risultano da una semplice sproporzionalità tra un settore della produzione ed un altro.
Marx non nega assolutamente che possano esistere delle sproporzioni tra i differenti rami della produzione - insiste anche sul fatto che vi è sempre questa tendenza in un’economia non pianificata nella quale è impossibile produrre le merci in funzione della domanda immediata. Ciò a cui si oppone è il tentativo di utilizzare la questione della “sproporzionalità” come pretesto per sbarazzarsi delle contraddizioni più fondamentali che esistono nei rapporti sociali capitalisti:
“Dire che non c'è sovrapproduzione generale, ma sproporzione in seno alle differenti industrie, è dire semplicemente che, nella produzione capitalista, la proporzionalità delle diverse industrie è un processo permanente della sproporzionalità, nel senso che la coerenza della produzione totale si impone qui agli agenti della produzione come una legge cieca, e non come una legge compresa e dominata dalla loro ragione di individui associati che sottopongono il processo di produzione al loro comune controllo”. (Il Capitale, Libro III).
Allo stesso modo, Marx rigetta l’argomento secondo cui possa esistere una sovrapproduzione parziale e non una sovrapproduzione generale:
“E’ per tale motivo che Ricardo ammette per certe merci l’ingombro del mercato. È l’ingombro generale e simultaneo del mercato che sarebbe impossibile. La possibilità di sovrapproduzione in una sfera particolare della produzione non viene negata; ma non potendo esistere al tempo stesso il fenomeno in tutte le sfere, non si potrebbe avere né sovrapproduzione, né ingombro generale del mercato”. (Teorie sul plusvalore)[3].
La specificità storica del capitalismo
Ciò che hanno in comune tutti questi argomenti, è negare la specificità storica del modo di produzione capitalista. Il capitalismo è la prima forma economica ad avere generalizzato la produzione di merci, la produzione per la vendita ed il profitto, all'insieme del processo di produzione e di distribuzione; ed è in questa specificità che si doveva trovare la tendenza alla sovrapproduzione. E non, come Marx si prende cura di sottolineare, la sovrapproduzione rispetto ai bisogni:
"La stessa parola "sovrapproduzione" può indurci in errore. Finché i più urgenti bisogni di una grande parte della società non sono soddisfatti o lo sono solo i bisogni più immediati, naturalmente non possiamo parlare di sovrapproduzione di prodotti – nel senso che la massa dei prodotti sarebbe sovrabbondante in rapporto ai bisogni di essi. Si deve dire per converso che in base alla produzione capitalistica si sottoproduce, in questo senso continuamente. Il limite della produzione è il profitto dei capitalisti, in nessun modo il bisogno dei produttori. Ma sovrapproduzione di prodotti e sovrapproduzione di merci sono due cose assolutamente differenti. Se Ricardo crede che la forma della merce sia indifferente per il prodotto, inoltre che la circolazione di merci sia solo formalmente diversa dal commercio di scambio, che il valore di scambio sia qui soltanto una forma passeggera degli scambi materiali, dunque che il denaro è solamente un mezzo formale di circolazione – questo risulta di fatto dal suo presupposto che il modo di produzione borghese sia quello assoluto, quindi che sia anche un modo di produzione senza una precisa determinazione specifica, e che di conseguenza ciò che in esso è determinato sia solo formale. Non può dunque neanche essere ammesso da lui che il modo di produzione borghese implichi un limite per il libero sviluppo delle forze produttive, un limite che viene alla luce nelle crisi e fra l’altro nella sovrapproduzione, il fenomeno fondamentale delle crisi.” (Ibidem).
Successivamente Marx dimostra la differenza tra il modo di produzione capitalista ed i modi di produzione precedenti che non cercavano di accumulare delle ricchezze ma di consumarle e che furono confrontati al problema della sottoproduzione piuttosto che della sovrapproduzione:
"... gli Antichi non pensavano neppure per sogno a trasformare il plusprodotto in capitale. Per lo meno solo in scarsa misura. (L’estesa presenza presso di loro della tesaurizzazione vera e propria mostra quanto plusprodotto restasse del tutto infruttifero.) Essi trasformavano una gran parte del plusprodotto in spese improduttive per opere d’arte, opere religiose, lavori pubblici. Ancor meno la loro produzione era indirizzata ad uno scatenamento e ad uno spiegamento delle forze produttive materiali – divisione del lavoro, macchinario, applicazione di forze naturali e scienza alla produzione privata. In complesso essi non oltrepassavano mai di fatto il lavoro artigianale. Perciò la ricchezza che essi creavano per consumo privato era relativamente piccola e appare grande solo perché ammucchiata in poche mani, che del resto non sapevano che farsene. Se perciò non c’era sovrapproduzione, c’era presso gli antichi sovraconsumo per i ricchi, che negli ultimi tempi di Roma e della Grecia esplose in spreco pazzesco. I pochi popoli mercantili in mezzo a loro vivevamo in parte a spese di tutte queste nazioni essenzialmente povere. E’ l’incondizionato sviluppo delle forze produttive e perciò la produzione in massa sulla base della massa di produttori chiusa nella sfera degli oggetti di prima necessità da un lato, il limite costituito dal profitto dei capitalisti dall’altro che[formano] il fondamento della moderna sovrapproduzione.”. (Ibidem).
Il problema posto dagli economisti, è che considerano il capitalismo come un sistema sociale già armonioso - una specie di socialismo in cui la produzione è determinata fondamentalmente dai bisogni:
“Tutte le difficoltà sollevate da Ricardo e da altri sulla questione della sovrapproduzione poggiano sul fatto che essi considerano la produzione borghese come un modo di produzione in cui o non esiste differenza fra compra e vendita – commercio di scambio immediato – o come produzione sociale così che la società, come secondo un piano, ripartisca i suoi mezzi di produzione e le sue forze produttive nel grado e nella misura in cui sono necessari al soddisfacimento dei loro diversi bisogni, così che ad ogni sfera di produzione tocchi il quanto del capitale sociale richiesto al soddisfacimento del bisogno al quale essa corrisponde. Questa finzione ha la sua origine nell'incapacità di comprendere la forma specifica della produzione borghese, e quest’ultima a sua volta dall’essere sprofondati nella produzione borghese intesa come la produzione semplicemente. Proprio come il credente che considera la sua come vera religione e non vede altrove che 'false' religioni”. (Ibidem).
Alla radice, la sovrapproduzione risiede nei rapporti sociali capitalisti
Contrariamente a queste distorsioni, Marx pone le crisi di sovrapproduzione negli stessi rapporti sociali che definiscono il capitale come modo di produzione specifico: il rapporto del lavoro salariato
“... se il rapporto si riduce semplicemente a quello fra consumatori e produttori, si dimentica che l’operaio salariato che produce e il capitalista che produce sono due produttori di genere del tutto diverso, prescindendo dai consumatori che n genere non producono. L’antitesi viene di nuovo negata per il fatto che si fa astrazione da una antitesi realmente esistente nella produzione. Il semplice rapporto fra operaio salariato e capitalista include:
Evidentemente, il capitalismo non ha cominciato ogni fase del processo di accumulazione con un problema immediato di sovrapproduzione: è nato e si è sviluppato come un sistema dinamico in espansione costante verso nuovi campi di scambio produttivo, sia nell'economia interna che a scala mondiale. Ma a causa della natura inevitabile della contraddizione che Marx ha appena descritto, questa espansione costante è una necessità per il capitale se vuole respingere o superare la crisi di sovrapproduzione e qui, di nuovo, Marx ha dovuto sostenere questo punto di vista contro gli apologeti che consideravano l'estensione del mercato più come qualche cosa di comodo che come una questione di vita o di morte, a causa della loro tendenza a considerare il capitale come un sistema indipendente ed armonioso:
“Tuttavia, con la semplice ammissione che il mercato si deve allargare con la produzione, sarebbe già data d’altro canto anche la possibilità di una sovrapproduzione, essendo il mercato geograficamente circoscritto esternamente, il mercato interno appare come limitato ad un mercato che è interno ed esterno e quest’ultimo a sua volta è limitato rispetto al mercato mondiale il quale - benché suscettibile di estensione - è anch’esso limitato nel tempo. Ammettendo dunque che il mercato debba estendersi per evitare la sovrapproduzione, si ammette la possibilità della sovrapproduzione”. (Ibidem)
Nello stesso passo, Marx prosegue dimostrando che, mentre l'estensione del mercato mondiale permette al capitalismo di superare le sue crisi e di proseguire lo sviluppo delle forze produttive, l'estensione precedente del mercato diventa velocemente inabile ad assorbire il nuovo sviluppo della produzione. Non vedeva in questo un processo eterno: esistono dei limiti inerenti alla capacità del capitale di diventare un sistema veramente universale ed una volta che saranno stati raggiunti, questi limiti trascineranno il capitalismo verso l'abisso:
“Tuttavia, anche se il capitale concepisce ogni limite come un ostacolo da superare, non significa che in realtà li supera tutti. Poiché ogni barriera è contraria alla sua vocazione, la produzione capitalista si sviluppa nelle contraddizioni che sono superate costantemente, ma anche continuamente poste. Inoltre: l'universalità verso cui tende senza tregua il capitale incontra dei limiti immanenti alla sua natura che, ad un certo stadio del suo sviluppo, lo fanno apparire come il più grande ostacolo a questa tendenza e lo spingono alla sua autodistruzione”. (Grundrisse)[4].
E così arriviamo alla conclusione che la sovrapproduzione è il primo uccello di male augurio che annuncia il fallimento del capitalismo, l'illustrazione concreta, nel capitalismo, della formula fondamentale di Marx che spiega l’ascesa ed il declino di tutti i modi di produzione esistiti fino ad oggi: ieri forma di sviluppo, l'estensione generale della produzione di merci diventa oggi un ostacolo per far progredire lo sviluppo delle forze produttive dell’umanità:
"Per meglio delineare la questione: in primo luogo, esiste un limite inerente non alla produzione in generale, ma alla produzione fondata sul capitale. Questo limite è doppio - o meglio unico, ma si presenta sotto due angolazioni. Per rivelare il fondamento della sovrapproduzione - contraddizione fondamentale del capitale sviluppato, basta dimostrare che il capitale contiene un limite particolare della produzione che contrasta con la sua tendenza generale a superarne tutte le barriere; basta dimostrare che, contrariamente all'opinione degli economisti, il capitale non è la forma assoluta dello sviluppo delle forze produttive e che non coincide assolutamente con la ricchezza. Dal punto di vista del capitale, le tappe della produzione che lo precedono appaiono come altrettanti ostacoli alle forze produttive. Correttamente compreso lo stesso capitale appare come condizione dello sviluppo delle forze produttive finché queste richiedono un stimolo esterno che ne è il frena allo stesso tempo. Il capitale disciplina le sue forze, ma ad un certo livello del loro incremento - proprio come una volta le corporazioni, ecc. - questa disciplina si rivela superflua ed inadeguata". (Ibidem).
Secondo uccello del male augurio: la caduta tendenziale del tasso di profitto
Un'altra critica che Marx fa agli economisti politici cade sulla loro incoerenza nel fatto che negano la sovrapproduzione di merci pure ammettendo la sovrapproduzione di capitale:
"Nella cornice delle sue premesse, Ricardo resta coerente con sé stesso: affermare l'impossibilità di una sovrapproduzione di merci, per lui, è affermare che non ci può essere pletora o sovrabbondanza di capitale.
Che cosa avrebbe detto allora Ricardo davanti alla stupidità dei suoi successori che, negando la sovrapproduzione sotto una delle sue forme (ingorgo generale del mercato) l'accettano sotto quella della pletora, della sovrabbondanza del capitale e ne fanno anche un punto essenziale delle loro dottrine?" (Teorie del plus-valore)2 .
Tuttavia Marx, in particolare nel terzo volume del Capitale, mostra che il fatto che il capitale tenda a diventare "sovrabbondante", soprattutto sotto la sua forma di mezzi di produzione, non ha niente di consolante. Perché questa sovrabbondanza fa sviluppare solamente un'altra contraddizione mortale, la tendenza all'abbassamento del tasso di profitto che Marx qualifica nel seguente modo: "E’, di tutte le leggi dell'economia politica moderna, la più importante". (Grundrisse)3. Questa contraddizione è altrettanto contenuta nei rapporti sociali fondamentali del capitalismo: poiché solo il lavoro vivo può aggiungere del valore - ed è questo il “segreto” del profitto capitalista - e allo stesso tempo, i capitalisti sono costretti sotto la sferzata della concorrenza a “rivoluzionare costantemente i mezzi di produzione”, in altri termini costretti ad aumentare la proporzione tra il lavoro morto delle macchine ed il lavoro vivo degli uomini, si devono confrontare con la tendenza intrinseca al fatto che la proporzione di nuovo valore contenuto in ogni merce si assottiglia e dunque al fatto che il tasso di profitto si abbassa.
Di nuovo, gli apologeti borghesi rifuggono con terrore alle implicazioni di ciò poiché la legge della caduta del tasso di profitto mostra così il carattere transitorio del capitale:
“Inoltre, nella misura in cui il tasso di espansione del capitale totale, il tasso di profitto, è il motore della produzione capitalista (come la messa in valore del capitale ne è il solo scopo), la sua caduta rallenta la formazione di nuovi capitali indipendenti ed appare così come una minaccia per lo sviluppo del processo di produzione capitalista. Favorisce la sovrapproduzione, la speculazione, le crisi, il capitale eccedentario accanto alla popolazione eccedentaria. Gli economisti che, sull'esempio di Ricardo, considerano il modo di produzione capitalista come un assoluto, hanno allora la sensazione che questo modo di produzione si crea da solo una barriera, ed essi ne rendono responsabile non la produzione, ma la natura (nella loro teoria della rendita). L'importante, nell'orrore che provano davanti al tasso di profitto decrescente, è che si accorgono che il modo di produzione capitalista incontra, nello sviluppo delle forze produttive, un limite che non ha niente a che vedere con la produzione della ricchezza come tale. E questo limite particolare dimostra il carattere stretto, storico e transitorio semplicemente, del modo di produzione capitalista; dimostra che non è un modo di produzione assoluto per la produzione della ricchezza, ma che ad un certo stadio entra in conflitto col suo sviluppo ulteriore”. (Il Capitale, Libro III).
E qui, nei Grundrisse, le riflessioni di Marx sulla caduta del tasso di profitto fanno emergere ciò che è forse il suo annuncio più esplicito della prospettiva del capitalismo che, come le forme precedenti di schiavitù, non può evitare di entrare in una fase di obsolescenza o di senilità nella quale una tendenza crescente all'autodistruzione porrà all'umanità la necessità di sviluppare una forma superiore di vita sociale:
“Dato ciò: la forza produttiva materiale già esistente ed acquistata sotto forma di capitale fisso, le conquiste della scienza, lo sviluppo delle popolazioni, ecc., in breve, le immense ricchezze e le condizioni della loro riproduzione da cui dipende il più alto sviluppo dell'individuo sociale e che il capitale ha creato nel corso della sua evoluzione storica – dato ciò, si vede che a partire da un certo punto della sua espansione il capitale sopprime da sé le proprie possibilità. Al di là di un certo punto, lo sviluppo delle forze produttive diventa un ostacolo per l'espansione delle forze produttive del lavoro. Arrivato a questo punto, il capitale, o più esattamente il lavoro salariato, entra nello stesso rapporto con lo sviluppo della ricchezza sociale e delle forze produttive come è stato per il sistema delle corporazioni, la servitù, la schiavitù, ed esso è necessariamente rigettato come un ostacolo. L'ultima forma della schiavitù che prende l'attività umana - lavoro salariato da un lato e capitale dall'altro - è allora eliminata, e questa stessa eliminazione è il risultato del modo di produzione che corrisponde al capitale. Essi stessi negazione delle forme anteriori della produzione sociale asservita, il lavoro salariato ed il capitale sono a loro volta negati dalle condizioni materiali e spirituali generate dal loro stesso processo di produzione. E’ attraverso i conflitti acuti, delle crisi, delle convulsioni che si traduce l'incompatibilità crescente tra gli sviluppi creativi della società ed i rapporti di produzione stabilita. L'annientamento violento del capitale dalle forze nate non dall'esterno, ma dal di dentro, dalla sua volontà di autoconservazione, ecco con quale modo sorprendente sarà avvisato a sloggiare, a sgomberare il campo per l’istaurarsi di una fase superiore della produzione sociale”[5].
Il circolo vizioso delle contraddizioni capitaliste
È certo che Marx discerneva il futuro in passaggi come questo: riconosceva che esistevano delle contro-tendenze che facevano della caduta del tasso di profitto un ostacolo alla produzione capitalista a lungo termine e non nell'immediato. Queste comprendono: l’aumento dell'intensità dello sfruttamento; l'abbassamento di salari al disotto del valore della forza lavoro; l’abbassamento del prezzo di elementi del capitale costante ed il commercio esterno. Il modo con cui Marx tratta in particolare di quest’ultimo mostra come le due contraddizioni al centro del sistema sono legate strettamente. Il commercio estero implica in parte l’investimento (come lo vediamo oggi nel fenomeno dell’outsourcing) in fonti di forza lavoro più conveniente e nella vendita dei prodotti del mercato interiore “al di sotto del loro valore, a miglior mercato dei che nei paesi concorrenti” (Il Capitale, Libro III). Ma la stessa sezione parla anche delle “necessità che gli sono inerenti, in particolare del bisogno di un mercato sempre più esteso” (Ibid.). Ciò è anche legato al tentativo di compensare la caduta del tasso di profitto poiché, anche se ogni merce comprende meno profitto, finché il capitalismo può vendere più merci, può realizzare una maggiore massa di profitto. Ma di nuovo il capitalismo cozza qui contro i suoi limiti inerenti:
“Lo stesso commercio estero sviluppa all'interno il modo di produzione capitalista, con la diminuzione del capitale variabile rispetto al capitale costante, e genera, d’altra parte, la sovrapproduzione rispetto ai mercati esterni; produce dunque, di nuovo, a lungo termine, un effetto contrario”. (Ibid.)
o ancora
“La compensazione della caduta del tasso di profitto attraverso la massa di profitto aumentato vale solamente per il capitale totale della società e per i grossi capitalisti già affermati. Il nuovo capitale addizionale, operante in completa indipendenza, non incontra queste condizioni compensatrici; è obbligato a conquistarli con la lotta, ed è così che la caduta del tasso di profitto provoca la concorrenza tra capitalisti, e non al contrario quest’ultima la prima. Certamente questa concorrenza si accompagna ad un rialzo temporaneo del salario ed ad un abbassamento corrispondente temporaneo del tasso di profitto, lo stesso fenomeno si manifesta nella sovrapproduzione di merci, l'ingombro dei mercati. Lo scopo del capitale non è soddisfare dei bisogni, ma produrre del profitto; questo scopo, non può raggiungerlo che attraverso metodi che mirano a regolare la quantità dei prodotti in funzione della scala della produzione, e non inversamente. Da allora, non può mancare di stabilirsi una discordanza tra le dimensioni ristrette del consumo su una base capitalista ed una produzione che tende sempre a superare questo limite immanente. Del resto il capitale si costituisce di merci; dunque, la sovrapproduzione di capitale implica quella di merci”. (Il Capitale, Libro III).
Cercando di sfuggire ad una delle sue contraddizioni, il capitalismo non ha fatto che scontrarsi ai limiti dell'altro. Così Marx vedeva l'inevitabilità “dei conflitti acuti, delle crisi, delle convulsioni...” di cui aveva parlato già ne Il Manifesto. L’approfondimento dei suoi studi dell'economia politica capitalista aveva confermato il suo punto di vista secondo cui il capitalismo avrebbe raggiunto un punto in cui avrebbe esaurito la sua missione progressiva e cominciato a minacciare la capacità stessa della società umana a riprodursi. Marx non ha speculato sulla forma precisa che prenderà questa caduta. Non aveva conosciuto le guerre imperialiste mondiali che, pure cercando di "risolvere" la crisi economica per capitali particolari, tendono a diventare sempre più rovinose per il capitale nel suo insieme ed a costituire una minaccia crescente per la sopravvivenza dell'umanità. Allo stesso modo, aveva solo accennato alla propensione del capitalismo a distruggere l'ambiente naturale su cui, in ultima istanza, si basa ogni riproduzione sociale. D’altro lato, ha posto la questione della fine dell'epoca ascendente del capitalismo in termini molto concreti: come l'abbiamo notato in un precedente articolo di questa serie, fin dal 1858 Marx ha ritenuto che l'apertura di vaste regioni come la Cina, l’Australia e la California indicavano che il compito del capitalismo di creare un mercato mondiale ed una produzione mondiale basata su questi mercati stava terminando; nel 1881, parlava del capitalismo nei paesi avanzati che stava diventando un sistema "regressivo", sebbene nei due casi, abbia pensato che il capitalismo aveva ancora strada a fare, soprattutto nei paesi periferici, prima di smettere di essere un sistema ascendente a livello globale.
Inizialmente, Marx ha concepito i suoi studi del capitale come una parte di un lavoro più vasto che avrebbe abbracciato altri campi di ricerca come lo Stato e la storia del pensiero socialista. In realtà, la sua vita è stata troppo breve per dargli la possibilità di terminare anche la parte "economica", e ciò che fa de Il Capitale un'opera incompiuta. Allo stesso tempo, pretendere d’elaborare una teoria finale decisiva dell'evoluzione capitalista sarebbe stato estraneo alle premesse fondamentali del metodo di Marx che considerava la storia come un movimento senza fine e la dialettica della "Astuzia della Ragione" come necessariamente piena di sorprese. Di conseguenza, nella sfera dell'economia, Marx non ha dato una risposta definitiva su quell’ "uccello di male augurio" (il problema del mercato o della caduta del tasso di profitto) che andava a sostenere il ruolo più decisivo nell'apertura delle crisi che finirebbero per portare il proletariato a rivoltarsi contro il sistema. Ma una cosa è chiara: la sovrapproduzione di merci come la sovrapproduzione di capitale è la prova che l'umanità ha raggiunto infine la tappa in cui è diventato possibile provvedere ai bisogni della vita di tutti e dunque di creare la base materiale per l'eliminazione di tutte le divisioni di classe. Che le popolazioni muoiono di fame mentre le merci invendute si accumulano nei magazzini o le fabbriche che producono i beni necessari al vita chiudono perché la loro produzione non porta profitto, il fossato tra le immense potenzialità contenute nelle forze produttive e la loro compressione nella morsa del valore, tutto ciò fornisce i fondamenti dello sviluppo di una coscienza comunista presso coloro che si scontrano direttamente con le conseguenze delle assurdità del capitalismo.
Gerrard[1] Nella mitologia nordica, il Ragnarök (vecchio modo di dire significante Consumo del Destino delle Potenze) designa una profetica fine del mondo dove gli elementi naturali si scateneranno ed avrà luogo una grande battaglia che condurrà alla morte la maggior parte delle divinità, giganti ed uomini, prima di una rinascita. (fonte Wikipédia).
[2] Editori Riuniti, 1973, volume 2, parte IV “Le crisi”
[3] Ibidem.
[4] Edizione La Nuova Italia, 1974, pubblicate con il nome Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, parte III: “Il Capitale”.
[5] Ibidem.
Quello che viene comunemente ricordato come l’Autunno caldo italiano[1] è un insieme di lotte che scuotono l’Italia dal Piemonte alla Sicilia giusto 40 anni fa e che cambieranno in maniera durevole il quadro sociale e politico del paese. Ma queste lotte non sono una peculiarità italiana. Infatti, alla fine degli anni ’60, si può assistere, particolarmente in Europa ma non solo, allo sviluppo di una serie di lotte e di momenti di presa di coscienza da parte del proletariato che mostrano, nel loro insieme, che qualcosa è cambiato: la classe operaia era tornata finalmente sulla scena sociale. Essa riprendeva la sua lotta storica contro la borghesia, dopo la lunga notte degli anni della controrivoluzione in cui l’avevano cacciata la sconfitta degli anni ’20, la Seconda Guerra mondiale e l’azione controrivoluzionaria dello stalinismo. Il “Maggio francese”[2] del 1968, gli scioperi in Polonia[3] del 1970 e le lotte in Argentina[4] del 69-73 costituiscono, assieme all’Autunno caldo in Italia, i momenti più importanti di questa dinamica nuova che investe tutti i paesi del mondo e che aprirà la nuova epoca di scontri sociali che, tra alti e bassi, è arrivata fino a noi oggi.
Come si arriva all’Autunno caldo?
Istruita dall’esperienza del Maggio 68, la borghesia italiana non si lascia sorprendere dall’esplosione delle lotte nel 1969, come era invece capitato alla borghesia francese l’anno precedente. Ciò non le eviterà tuttavia di trovarsi talvolta smarcata di fronte agli avvenimenti. Il tutto non si é prodotto dalla sera alla mattina. In realtà ci sono molteplici elementi, sia a livello nazionale che a livello internazionale, che concorrono a creare un’atmosfera nuova nella classe operaia italiana, e particolarmente nella sua componente giovane.
Il clima internazionale
A livello internazionale, una frangia importante della gioventù viene sensibilizzata da un insieme di situazioni, tra cui principalmente:
Nessuno di questi fatti è legato, da vicino o da lontano, alla lotta di classe del proletariato in vista del rovesciamento del capitalismo: gli orrori subiti dalla popolazione vietnamita durante la guerra sono il prodotto degli antagonismi imperialisti tra i due blocchi rivali che si dividevano all’epoca il mondo; la resistenza incarnata dai guerriglieri, fossero questi palestinesi o ghevaristi, è solo un altro momento della lotta a morte tra questi due blocchi per la dominazione su altre regioni del mondo; per quanto riguarda il “comunismo” in Cina, questo regime è capitalista così come quello che esisteva in URSS e la cosiddetta “rivoluzione culturale” è stata niente altro che una lotta per il potere tra la frazione di Mao e quella di Deng Xiao Ping e Liu Shaoshi.
Tuttavia tutti questi avvenimenti testimoniavano una profonda sofferenza dell’umanità che hanno ispirato in molti elementi un disgusto profondo per le violenze della guerra e un sentimento di solidarietà verso i popoli che ne sono vittima. Quanto al maoismo, se questo non rappresenta alcuna soluzione ai mali dell’umanità ma solo una mistificazione e un intralcio ulteriore sul cammino della sua emancipazione, esso alimenta tuttavia una contestazione internazionale della natura reale del “comunismo” in Russia.
All’interno di questo scenario, l’esplosione delle lotte studentesche ed operaie del Maggio francese ha una risonanza internazionale tale da costituire un elemento di riferimento e di incoraggiamento per i giovani e i proletari in tutto il mondo. Il Maggio 68 era stato infatti la dimostrazione non solo che lottare si può, ma che si può anche vincere. Ma lo stesso Maggio, almeno nella sua componente di lotte studentesche, era stato preparato da altre lotte, da altri movimenti, come quelle che si erano prodotte in Germania con l’esperienza della Kritische Universität[10] e la formazione degli SDS (Sozialistischer Deutscher Studentenbund), o in Olanda con quella dei Provos o ancora negli USA con il Black Panther Party. In qualche modo siamo in un’epoca in cui ogni episodio che accade nel mondo ha una grande risonanza in tutti gli altri paesi per la forte recettività che esiste soprattutto nella giovane generazione di proletari e di studenti che saranno, in larga misura, i grandi protagonisti dell’autunno caldo.
L’angoscia e la riflessione sui problemi del periodo ispireranno delle figure carismatiche del mondo dello spettacolo, come Bob Dylan, Joan Baez, Jimmy Hendrix ed altri le cui melodie evocavano talvolta le rivendicazioni di popoli e di strati sociali storicamente repressi e sfruttati, come i neri d’America, talaltra le atrocità della guerra, come nel Vietnam, esaltando la volontà di emancipazione.
Sul piano nazionale invece …
Anche in Italia, come prima in Francia, l’indebolimento della cappa di piombo che aveva costituito lo stalinismo durante tutti gli anni della controrivoluzione permette lo sviluppo di un fenomeno di maturazione politica che costituisce il terreno più favorevole all’emergere di diverse minoranze che riprenderanno un lavoro di ricerca e di chiarificazione. D’altra parte, l’arrivo di una nuova generazione di proletari si traduce in una maggiore combattività che porta a delle caratteristiche nuove della lotta e ad alcune esperienze di scontri di piazza che lasceranno il segno nella classe operaia.
L’esperienza dei Quaderni Rossi (QR)
Ancora bisogna considerare che, per quanto nei primi anni ’60 ci si trovi ancora in piena controrivoluzione, non mancano esperienze di piccoli gruppi di elementi - critici nei confronti dello stalinismo - che cercano, per quanto è loro possibile, di ripartire da zero. In quegli anni infatti il PCI (Partito Comunista Italiano), passato alla controrivoluzione e stalinizzato esso stesso come gli altri PC nel mondo, aveva una importante base di iscritti e simpatizzanti dovuta ancora in parte al fascino ereditato dal vecchio partito rivoluzionario fondato da Bordiga nel 1921. D’altra parte il lungo ventennio fascista e la scomparsa dei partiti “democratici” dall’Italia aveva evitato al PCI, più che agli altri PC, di essere identificato come un vero nemico di classe da parte della gran parte degli operai. Tuttavia, già dagli anni ’50 e ancor più nei ’60 cominciano a formarsi delle minoranze, all’inizio all’interno dello stesso PCI, che cercano di risalire alle vere posizioni di classe. Si torna soprattutto a Marx, mentre Lenin è meno letto in questa fase. E si scopre anche Rosa Luxemburg.
Una delle esperienze di riferimento in questa fase è quella dei Quaderni Rossi, gruppo interno al PCI nato intorno alla figura di Raniero Panzieri e che, nell’arco della sua vita (1961-1966), pubblicò solo sei numeri di una rivista che però avrà un peso enorme nella storia della riflessione teorica della sinistra in Italia. E’ ad essa infatti che si può fare risalire la corrente che prenderà il nome di “operaismo” di cui parleremo diffusamente in seguito. E dalla stessa matrice verranno fuori i due principali gruppi dell’operaismo italiano: Potere Operaio e Lotta Continua. Il lavoro del gruppo si divide tra la rilettura del Capitale, la “scoperta” dei Grundisse di Marx e le ricerche sulla nuova composizione della classe operaia. “(…) Quaderni Rossi, la rivista di Raniero Panzieri, Vittorio Foa, Mario Tronti e Alberto Asor Rosa, che tra il ’61 e il ’66 ha anticipato l’intuizione che sarà al centro della linea politica di Lotta Continua: la rivoluzione non arriverà dalle urne o dai partiti (…); si tratta di liberare la carica antagonista degli operai, che non va incanalata nei contratti e nelle riforme, bensì sottratta alla tutela dei sindacalisti e degli ingegneri e indirizzata alla prospettiva del controllo della produzione e di un cambiamento globale del sistema”[11].
L’operazione tentata da Panzieri con i QR aveva la pretesa di fondere assieme tendenze e punti di vista che erano piuttosto diversi e lontani e la fase ancora fortemente segnata dalla controrivoluzione non permise il miracolo. Così, “all’inizio del 1962, appena apertosi il dibattito sul primo numero della rivista, da questa si ritira il gruppo dei sindacalisti; nel luglio dello stesso anno, dopo i fatti di Piazza Statuto, vi è una prima uscita di interventisti (che danno vita al foglio “Gatto Selvaggio”)”.[12]
Parallelamente all’esperienza dei QR, anche se con uno spessore politico minore, si produce nel Veneto l’esperienza di Progresso Veneto. Il collegamento tra le due testate lo farà un personaggio che sarà successivamente molto famoso e che parte, nella sua carriera politica, facendo il consigliere comunale al comune di Padova: si tratta di Toni Negri. Il Progresso Veneto, attivo tra il dicembre 1961 e il marzo del 1962, costituisce la fucina in cui si comincia a sviluppare l’operaismo veneto, con particolare riferimento all’area industriale di Porto Marghera. QR e Progresso Veneto lavorano per un certo tempo in simbiosi fino a che il gruppo veneto non subisce, nel giugno del 1963, una scissione tra operaisti e socialisti più fedeli al partito di appartenenza.
Ma la scissione più importante è quella che si produce nel 1964 all’interno di QR. Dal gruppo originario uscirono Mario Tronti, Alberto Asor Rosa, Massimo Cacciari, Rita Di Leo ed altri per fondare Classe Operaia. Mentre QR con Panzieri resta fermo in una dimensione di ricerca di tipo sociologico, senza un impatto significativo sulla realtà, Classe Operaia si propone di avere una presenza ed un’influenza immediate nella classe operaia, giudicando che i tempi siano maturi per poterlo fare: “Ai nostri occhi il loro lavoro appariva una sofisticheria intellettuale, rispetto a quella che consideravamo una esigenza pressante, ossia far capire al sindacato come si dovesse fare il mestiere di sindacalista ed al partito come si dovesse fare la rivoluzione[13].’”
Classe Operaia, a cui si aggregherà una parte degli operaisti di Progresso Veneto, sarà diretta da Mario Tronti. Vi partecipano, almeno inizialmente, anche Negri, Cacciari e Ferrari Bravo. Ma la nuova rivista ha essa stessa vita difficile: la redazione veneta di Classe Operaia inizia un lento distacco da quella romana. Infatti, mentre i romani si riavvicinano a mamma-PCI, i veneti danno vita a Potere Operaio, che esce all’inizio come supplemento a Classe Operaia sotto forma di una rivista-volantino. Classe Operaia entra in agonia nel 1965 ma l’ultimo fascicolo è del marzo 1967. Nello stesso mese nasce Potere Operaio, giornale politico degli operai di Porto Marghera[14].
Oltre ai Quaderni Rossi e ai suoi vari epigoni, è presente in Italia una fitta rete di altre iniziative editoriali, alcune volte nate in campi culturali specifici come il cinema o la letteratura, e che acquistano progressivamente sempre più spessore politico e un certo carattere militante. Pubblicazioni come Giovane Critica, Quaderni Piacentini, Nuovo Impegno, Quindici, Lavoro Politico, parteciperanno a pieno titolo a preparare il terreno del biennio 68-69.
Come si vede esiste un lungo e articolato travaglio politico all’alba dell’autunno caldo che fa sì che si abbia, almeno a livello di minoranze, lo sviluppo di un pensiero politico di un certo spessore e il recupero, purtroppo questo piuttosto parziale, di riferimenti ai classici del marxismo. E’ ancora da sottolineare che quelle che saranno le formazioni operaiste più significative degli anni ’70 affondano profondamente le loro radici nella cultura politica del vecchio PCI e si sviluppano in epoca ben precedente alla grossa esplosione delle lotte del ‘69 e di quelle studentesche del ‘68. Avere il partito stalinista come punto di partenza e di riferimento, anche se in negativo perché fortemente criticato, costituisce, come vedremo, il limite più forte per l’esperienza dei gruppi operaisti e per lo stesso movimento dell’epoca.
La “nuova” classe operaia
A livello sociale, il fattore probabilmente determinante dello sviluppo della situazione fu la forte crescita della classe operaia negli anni del miracolo economico a spese soprattutto delle popolazioni delle campagne e delle periferie del sud. “In sintesi, ci troviamo davanti ad una élite di operai professionali a cui si affianca una grande maggioranza di operai comuni dequalificati che svolgono lavorazioni con cicli brevissimi, a volte di pochi secondi, sottoposti ad un rigido controllo dei tempi attraverso il cottimo e senza alcuna prospettiva di carriera professionale”[15]. Questa nuova generazione di proletari che arrivava dal sud non conosceva ancora il regime di fabbrica e non vi si era stata ancora sottomessa; d’altra parte, essendo giovani e spesso al primo lavoro, non conoscevano il sindacato e soprattutto non si portavano sulle spalle le sconfitte degli anni addietro, della guerra, del fascismo, della repressione, ma solo l’esuberanza di chi scopre un mondo nuovo e vuole modellarlo a suo piacimento. Questa “nuova” classe operaia, giovane, non politicizzata né sindacalizzata, senza storia alle spalle, farà, in larga misura, la storia dell’autunno caldo.
I moti del luglio ’60 e gli scontri di piazza Statuto del luglio ’62
Le lotte operaie dell’autunno caldo hanno un significativo preludio all’inizio degli anni ’60 in due importanti episodi di lotta: i moti di piazza del luglio ’60 e gli scontri di piazza Statuto del luglio ’62 a Torino.
Questi due episodi, per quanto distanti dal biennio 68-69, ne costituiscono in qualche modo una premessa importante. Infatti la classe operaia ha la possibilità di “saggiare” fino in fondo le attenzioni dello Stato nei suoi confronti.
I moti del luglio ’60 presero l’avvio dalla contestazione del congresso del partito neofascista a Genova, e questa fu l’occasione per fare uscire allo scoperto una serie di manifestazioni in tutta Italia che furono ferocemente represse: «A San Ferdinando di Puglia i braccianti erano in sciopero per il contratto, come in tutt’Italia? La polizia li attacca con le armi in pugno: tre braccianti sono gravemente feriti. A Licata, nell’Agrigentino, il 5, è in corso uno sciopero generale per il lavoro? Polizia e carabinieri caricano e sparano contro il corteo guidato dal sindaco dc Castelli: il commerciante Vincenzo Napoli, venticinque anni, viene ucciso da un colpo di moschetto. (…) il giorno appresso, un corteo diretto al sacrario di Porta San Paolo – l’ultimo bastione della difesa di Roma dai nazisti – viene caricato e pestato con violenza. (…) Scatta un nuovo sciopero generale. E scatta una nuova, furiosa reazione del governo che ordina di sparare a vista: cinque morti e ventidue feriti da armi da fuoco a Reggio Emilia il 7. (…) Il primo a cadere è Lauro Ferioli, operaio di ventidue anni. Accanto a lui, cade un istante dopo anche Mario Serri, quarant’anni, ex partigiano: ad ucciderli sono stati due agenti, appostati tra gli alberi. (…) Una raffica di mitra falcerà più tardi Emilio Reverberi, trent’anni anni. Infine, mentre un registratore fissa la voce furiosa di un commissario che grida: “Sparate nel mucchio!”, cade Afro Tondelli, trentacinque anni. Come documenterà una foto, è stato assassinato freddamente da un poliziotto che si è inginocchiato per prendere meglio la mira…»[16].
Come si vede le forze dell’ordine non hanno avuto mai riguardi per la povera gente, per i proletari che rivendicano i loro diritti. E lo stesso succede due anni dopo, con gli scontri di piazza Statuto a Torino che presero spunto invece da una questione squisitamente operaia, un contratto di lavoro del tutto sfavorevole ai lavoratori che però la UIL e la SIDA, due sindacati che avevano già all’epoca manifestato da che parte stavano, si erano affrettati a siglare separatamente con la direzione FIAT: “in seguito a ciò 6-7.000 operai, esasperati da questa notizia, si riunirono nel pomeriggio in piazza Statuto di fronte alla sede della Uil. Per due giorni la piazza fu teatro di una straordinaria serie di scontri tra dimostranti e polizia: i primi, armati di fionde, bastoni, e catene, ruppero vetrine e finestre, eressero rudimentali barricate, caricarono più volte i cordoni della polizia; la seconda rispose caricando le folle con le jeep, soffocando la piazza con i gas lacrimogeni, e picchiando i dimostranti con i calci dei fucili. Gli scontri si protrassero fino a tarda sera, sia sabato 7 che lunedì 9 luglio 1962. Dirigenti del Pci e della Cgil, tra i quali Pajetta e Garavini, cercarono di convincere i manifestanti a disperdersi, ma senza successo. Mille dimostranti furono arrestati e parecchi denunciati. La maggior parte erano giovani operai, per lo più meridionali»[17].
Un lucido resoconto di quelle giornate è stato fatto da Dario Lanzardo[18], con le testimonianze ufficiali riportate a proposito di tutti i pestaggi gratuiti prodotti da polizia e carabinieri non solo nei confronti dei dimostranti, ma anche di qualunque altra persona circolasse per caso nei paraggi di piazza Statuto. Se si considerano tutti i massacri prodotti dalle forze dell’ordine dal dopoguerra fino all’autunno caldo in occasione di manifestazioni di proletari in lotta, si capisce fino in fondo qual è la differenza tra il periodo buio della controrivoluzione - in cui la borghesia ha completa mano libera per fare quello che vuole contro la classe operaia- e la fase di ripresa delle lotte durante la quale la borghesia si affida più saggiamente all’arma della mistificazione ideologica e al lavoro di sabotaggio dei sindacati. In realtà quello che cambierà con l’autunno caldo, visto come manifestazione della più ampia ripresa della lotta di classe a livello mondiale, è proprio il rapporto di forza tra le classi, a livello nazionale e internazionale. E’ questa la chiave di lettura della nuova fase storica che si apre alla fine degli anni ’60 e non una presunta democratizzazione delle istituzioni. Da questo punto di vista, la posizione assunta dal PCI sugli scontri illustra perfettamente la collocazione politica borghese che lo caratterizzava da ormai 40 anni: “… l’Unità del 9 luglio definirà la rivolta “tentativi teppistici e provocatori”, ed i manifestanti “elementi incontrollati ed esasperati”, “piccoli gruppi di irresponsabili”, “giovani scalmanati”, “anarchici, internazionalisti”[19].
Dal ’68 studentesco all’autunno caldo
Parlare di autunno caldo è piuttosto limitativo nei confronti di un episodio storico che, come abbiamo potuto vedere, affonda le radici in una dinamica a livello locale e internazionale che risale indietro per diversi anni. E che, peraltro, non dura una singola stagione, come avviene invece per il maggio francese, ma si stempera – nella sua fase alta – per almeno due anni, nel biennio 68-69 con un riverbero che dura almeno fino al ‘73.
Il movimento proletario durante questi due anni e anche dopo sarà profondamente marcato dall’esplosione delle lotte studentesche, il ’68 italiano. E’ perciò importante ripercorrere i singoli episodi per ritrovarvi lo sviluppo, progressivo e impressionante, della maturazione della lotta di classe nel suo ritorno sulla scena storica in Italia.
Il ‘68 studentesco
Le scuole e soprattutto le università avvertono fortemente i segni di cambiamento della fase storica. Il boom economico che si era prodotto, in Italia come nel resto del mondo, dopo la fine della guerra, aveva permesso alle famiglie proletarie di raggiungere un tenore di vita meno miserabile e alle aziende di puntare su un incremento massiccio della propria mano d’opera. Ciò permette alle giovani generazioni delle classi sociali più deboli di accedere agli studi universitari dove acquisire una professione e una cultura più ampia attraverso le quali raggiungere una posizione sociale più soddisfacente rispetto a quella dei propri genitori. Ma l’ingresso di questi folti strati sociali nell’università porta non solo ad un significativo cambiamento della composizione sociale della popolazione studentesca, ma anche a una diversa destinazione della figura di laureato che non viene più preparato per assumere un ruolo dirigente ma per essere integrato nell’organizzazione della produzione – industriale o commerciale che sia – dove l’iniziativa dell’individuo è sempre più ridotta. E’ questo back-ground socio-culturale che spiega, almeno in parte, i motivi della protesta giovanile di questi anni, protesta contro il sapere dogmatico impartito da una casta di baroni universitari dalla gestione feudale, contro la meritocrazia, contro il settorialismo, contro una società che viene avvertita vecchia e ripiegata su sé stessa. Le proteste cominciano già dal febbraio ’67 con l’occupazione di palazzo Campana a Torino e, via via, in tutti gli altri atenei, alla Normale di Pisa, alla facoltà di Sociologia di Trento, alla Cattolica di Milano, e così via verso il sud e per mesi e mesi fino all’esplosione totale del ’68. In questa fase non esistono ancora i gruppi politici con il loro largo seguito che conosceremo negli anni ’70, ma è il periodo durante il quale si produrranno le diverse culture politiche che saranno alla base di tali gruppi. Tra le esperienze che segneranno più profondamente la storia successiva c’è sicuramente quella di Pisa, dove era presente un nutrito gruppo di elementi che avevano già un giornale, il Potere Operaio (detto “pisano” per non confonderlo con l’altro derivato da Classe Operaia). Il Potere Operaio in realtà è già un giornale operaio nel senso che viene pubblicato come giornale di fabbrica della Olivetti di Ivrea. Infatti il gruppo pisano, tra cui ritroviamo i nomi dei più noti leader di quegli anni, aveva fin dall’inizio fatto del fattore operaio e del contatto con la classe un elemento distintivo. Più in generale la tendenza ad andare verso la classe operaia e a fare di questa il riferimento principale e il partner ideale delle proprie lotte è presente, anche se in maniera diversamente accentuata, all’interno di tutto il movimento studentesco dell’epoca. Un po’ in tutte le città della contestazione studentesca si assiste al fatto che delegazioni di studenti si portano con assiduità ai cancelli delle fabbriche per fare volantinaggio, ma più in generale per stringere un’alleanza con un mondo, quello operaio, che si sente sempre più come quello di appartenenza. Questa identificazione dello studente come parte della classe operaia sarà addirittura teorizzato da alcune componenti del movimento di matrice più operaista.
Lo sviluppo delle lotte operaie
Ma, come abbiamo detto, in Italia il ‘68 segna anche l’inizio di importanti lotte operaie: “Nella primavera del 1968 si accendono in tutta Italia una serie di lotte aziendali che hanno come obiettivo un aumento salariale uguale per tutti in grado di recuperare il “magro” contratto del 1966. Tra le prime aziende a mobilitarsi c’è la Fiat, i cui operai effettuano la prima massiccia vertenza aziendale dopo oltre 14 anni e a Milano partono la Borletti, la Ercole Marelli, la Magneti Marelli, la Philips, la Sit Siemens, l’Innocenti, l’Autelco, la Triplex, la Brollo, la Raimondi, la Mezzera, la Rhodex, la Siae Microelettronica, la Seci, la Ferrotubi, l’Elettrocondutture, l’Autobianchi, l’Amf, la Fachini, la Tagliaferri, la Termokimik, la Minerva, l’Amsco e un’altra ventina di piccole aziende. (…) La lotta dapprima viene gestita da vecchi attivisti e dal sindacato esterno, risultando quindi piuttosto autoritaria, ma dopo un mese si impongono alcuni giovani operai che “criticano vivacemente i sindacalisti e i membri di C.I.[20] sui modi e sulle tappe della lotta” modificando qualitativamente le forme di mobilitazione, attraverso picchetti duri e cortei interni per costringere gli impiegati a scioperare. In un’occasione questi operai prolungano spontaneamente di un paio d’ore uno sciopero, costringendo i sindacati ad appoggiarli. Questa ventata di gioventù provoca una partecipazione massiccia alla lotta, aumentano le ore di sciopero, vengono effettuate manifestazioni per le vie di Sesto San Giovanni, si arriva a sfondare il portone del palazzo che ospita la direzione aziendale. Gli scioperi continuano, nonostante l’Assolombarda ponga come pregiudiziale per l’inizio delle trattative proprio la loro interruzione: la partecipazione operaia è totale, pressoché nulla invece tra gli impiegati.”[21]
Da allora in poi è tutto un crescendo. “Il bilancio del ’69 alla Fiat è un bollettino di guerra: 20 milioni di ore di sciopero, 277.000 veicoli perduti, boom (+37%) delle vendite di auto straniere.”[22]
Quello che cambia profondamente con le lotte dell’autunno caldo sono proprio i rapporti di forza in fabbrica. L’operaio sfruttato e umiliato dai ritmi di lavoro, dai controlli, dalle punizioni continue, sviluppa una conflittualità quotidiana contro il padrone. L’iniziativa operaia non si muove più soltanto su quante ore di sciopero fare, ma anche su come scioperare. Si sviluppa presto una logica di rifiuto del lavoro che corrisponde ad un atteggiamento di rifiuto di collaborare con le sorti dell’azienda, rimanendo fermamente attestati sulla difesa delle condizioni operaie. Questo produce una nuova logica di come condurre uno sciopero che punta a produrre, con il minimo sforzo da parte operaia, il massimo di danni al padrone. E’ lo sciopero a gatto selvaggio secondo il quale sciopera solo un ristretto gruppo di operai dalla cui attività dipende però l’intero ciclo di produzione. Cambiando di volta in volta il gruppo che entra in sciopero, si riesce a bloccare più e più volte tutta la fabbrica con il minimo di “spesa”.
Un’altra espressione dei mutati rapporti di forza tra classe operaia e padronato è l’esperienza dei cortei interni alla fabbrica. Inizialmente questi cortei si sono prodotti nei lunghi corridoi e viali degli stabilimenti Fiat e di altre importanti industrie come espressione di protesta. Poi sono diventate la pratica adottata dagli operai per convincere gli esitanti, particolarmente gli impiegati, ad aderire allo sciopero:
“I cortei interni partivano sempre dalle Carrozzerie, spesso dalla Verniciatura. Arrivava la voce che qualche officina aveva ripreso il lavoro, oppure che avevano concentrato i crumiri all’officina 16, quella delle donne. Allora passavamo noi con le corde e ramazzavamo tutto. Facevamo pesca a strascico. Mirafiori è tutta a corridoi, e negli spazi stretti non ci sfuggiva nessuno. Dopo un po’ non ce n’era più bisogno: appena ci vedeva, la gente mollava la linea e ci seguiva”[23].
Dal punto di vista della rappresentatività operaia é caratteristico di questa fase lo slogan “siamo tutti delegati”, che significa rifiuto di qualunque mediazione sindacale e imposizione al padronato di un rapporto diretto con le lotte degli operai. E’ importante tornare su questa parola d’ordine, che permeerà a lungo le lotte della classe in quegli anni, soprattutto di fronte ai dubbi che si pongono a volte oggi le minoranze proletarie che vorrebbero ingaggiare una lotta al di fuori dei sindacati ma che non vedono come poterlo fare non avendo loro un riconoscimento da parte dello Stato.
Gli operai dell’Autunno caldo non se ne fanno un gran problema: quando occorre lottano, scioperano, al di fuori e nonostante i divieti sindacali; ma non seguono sempre uno scopo immediato da realizzare: in questa fase la lotta degli operai esprime una grandissima combattività, una voglia a lungo repressa di rispondere alle angherie del padronato che non ha bisogno necessariamente di motivazioni e di obiettivi immediati per esprimersi e che fa da deterrente, crea un rapporto di forza, cambia poco per volta lo stato d’animo della classe operaia. In tutto questo il sindacato ha una presenza effimera. In realtà il sindacato, come la borghesia, rimane completamente smarcato dalla capacità e dalla forza della lotta della classe operaia di questi anni, e fa l’unica cosa che gli riesce di fare, cerca di stare a galla e di seguire il movimento, di non farsi scavalcare troppo. D’altra parte una reazione così forte manifestatasi all’interno della classe era anche l’espressione della mancanza di un significativo radicamento dei sindacati nel proletariato e dunque di una loro capacità di bloccare in anticipo o di deviare la combattività, come invece succede oggi. Ma questo non significa che ci fosse una profonda coscienza antisindacale nella classe operaia. Più che altro gli operai si muovono nonostante i sindacati, non contro i sindacati, anche se non mancano significative punte di coscienza, come nel caso dei Comitati Unitari di Base (CUB) nel milanese:
“… i sindacati sono dei “professionisti della contrattazione” che hanno scelto “insieme ai cosiddetti partiti dei lavoratori la strada delle riforme, cioè la strada dell’accordo complessivo e definitivo con i padroni”[24].
Il biennio 68-69 è un rullo compressore di scioperi e manifestazioni, con episodi di grande tensione come le lotte nel siracusano, che si conclusero con gli scontri di Avola[25], o quelle di Battipaglia, che pure dettero luogo a scontri molto forti[26]. Ma una tappa storica all’interno di questa dinamica è certamente costituita dagli scontri di corso Traiano a Torino del luglio 1969. In questa occasione il movimento di classe in Italia matura una tappa importante: il congiungimento tra il movimento operaio e quello delle avanguardie studentesche. Gli studenti, con la loro maggiore disponibilità di tempo e la loro mobilità riescono a dare un significativo contributo alla classe operaia in lotta, che a sua volta riscopre attraverso la gioventù che le si era avvicinata tutta la propria alienazione e tutta la voglia di farla finita con la schiavitù della fabbrica. La saldatura tra questi due mondi darà una forte enfasi alle lotte che si produrranno nel 69, e particolarmente a quella di corso Traiano. Riportiamo qui di seguito lunghe citazioni da un volantino della Assemblea operaia di Torino redatto il 5 luglio, dopo i fatti di corso Traiano, perché costituisce non solo un ottimo resoconto dei fatti ma anche un documento di grandissimo valore politico:
“La giornata del 3 luglio non è un episodio isolato o un’esplosione incontrollata di rivolta. Essa viene dopo cinquanta giorni di lotta che ha coinvolto un numero enorme di operai, ha bloccato completamente il ciclo produttivo, ha segnato il punto più alto di autonomia politica e organizzativa finora raggiunto dalle lotte operaie distruggendo ogni capacità di controllo sindacale.
Espulsi totalmente dalla lotta operaia, i sindacati hanno tentato di deviarla dalla fabbrica verso l’esterno, e di riconquistarne il controllo, proclamando uno sciopero generale di 24 ore per il blocco degli affitti. Ma ancora una volta l'iniziativa operaia ha avuto il sopravvento. Gli scioperi simbolici che si tramutano in una vacanza, con qualche comizio qua e là, servono solo ai burocrati. Nelle mani degli operai, lo sciopero generale diventa l'occasione per unirsi, per generalizzare la lotta condotta all’interno. La stampa di ogni colore si rifiuta di parlare di quello che succede alla Fiat, o ne parla mentendo. E’ ora di spezzare questa congiura del silenzio, di uscire dall’isolamento, di comunicare a tutti, con la forza dei fatti l’esperienza della Mirafiori.
Centinaia di operai e studenti decidono in assemblea di convocare per il giorno dello sciopero un grande corteo che da Mirafiori raggiunga i quartieri popolari, unisca gli operai delle diverse fabbriche. (…)
E’ troppo per i padroni. Prima ancora che il corteo si formi, un esercito di baschi neri e poliziotti si scaglia senza alcun preavviso sulla folla, pestando, arrestando, lanciando lacrimogeni. (…) In poco tempo, non sono solo le avanguardie operaie e studentesche a sostenere gli scontri, ma tutta la popolazione proletaria del quartiere. Si formano le barricate, si risponde con le cariche alle cariche della polizia. Per ore e ore la battaglia continua e la polizia è costretta a ritirarsi. (…)
In questo processo, il controllo e la mediazione del sindacato sono stati spazzati via: al di là degli obiettivi parziali, la lotta ha significato:
Gli scioperi, i cortei, le assemblee interne, hanno fatto saltare le divisioni tra gli operai e hanno maturato l'organizzazione autonoma di classe indicando gli obiettivi:
(…) La lotta degli operai Fiat infatti ha rilanciato a livello di massa gli obiettivi già espressi nel corso del 68-69 dalle lotte delle maggiori concentrazioni operaie italiane, da Milano a Porto Marghera, da Ivrea a Valdagno. Questi obiettivi sono:
Come già detto, dal testo del volantino si percepiscono tutta una serie di punti di forza dell’autunno caldo. Anzitutto l’idea dell’egualitarismo, cioè che gli aumenti dovevano essere uguali per tutti, indipendentemente dalla categoria di partenza, e comunque sganciati dalla redditività del proprio lavoro. Inoltre il recupero del tempo libero per gli operai, per poter vivere la propria vita, per poter fare politica, ecc. Da cui la richiesta di riduzione degli orari di lavoro e il rifiuto deciso del lavoro a cottimo.
Come riporta lo stesso volantino, sulla base di questi elementi gli operai torinesi riuniti in assemblea dopo gli scontri del 3 luglio propongono a tutti gli operai italiani di aprire una nuova e più radicale fase della lotta di classe che faccia avanzare, sugli obiettivi avanzati dagli stessi operai, l’unificazione politica di tutte le esperienze autonome di lotta fin qui realizzate.
Per questo verrà indetto a Torino un convegno nazionale dei comitati e delle avanguardie operaie:
Quello che si terrà il 26/27 luglio al Palasport di Torino sarà un “convegno nazionale delle avanguardie operaie”. Parlano operai di tutta Italia che raccontano di scioperi e cortei ed avanzano rivendicazioni come l’abolizione delle categorie, la riduzione dell’orario di lavoro a 40 ore, aumenti salariali uguali per tutti in assoluto e non in percentuale e la parità normativa con gli impiegati. “E’ rappresentata tutta l’industria italiana: in ordine di intervento, dopo Mirafiori, il Petrolchimico di Marghera, la Dalmine e il Nuovo Pignone di Massa, la Solvay di Rosignano, la Muggiano di La Spezia, la Piaggio di Pontedera, l’Italsider di Piombino, la Saint-Gobain di Pisa, la Fatme, l’Autovox, la Sacet e la Voxon di Roma, la Snam, la Farmitalia, la Sit Siemens, l’Alfa Romeo e l’Ercole Marelli di Milano, la Ducati e la Weber di Bologna, la Fiat di Marina di Pisa, la Montedison di Ferrara, l’Ignis di Varese, la Necchi di Pavia, la Sir di Porto Torres, i tecnici della Rai di Milano, la Galileo Oti di Firenze, i Comitati unitari di base della Pirelli, l’Arsenale di La Spezia”[28]. Una cosa così non si era mai vista, un’assemblea nazionale delle avanguardie operaie di tutta Italia, un momento di protagonismo della classe operaia a cui è possibile assistere solo in un momento di forte ascesa della combattività operaia, come fu appunto l’Autunno caldo.
I mesi successivi, quelli che sono rimasti nella memoria storica come l’Autunno Caldo, continuarono sulla stessa falsariga. I numerosi episodi di lotta, di cui troviamo un’interessante documentazione fotografica sul sito de La Repubblica[29], si snocciolano di giorno in giorno con una cadenza infernale:
2/09 Sciopero di operai e impiegati alla Pirelli per il premio di produzione e i diritti sindacali. Alla Fiat gli operai delle officine 32 e 33 di Mirafiori scendono in lotta, contravvenendo le direttive dei dirigenti sindacali, contro la discriminazione aziendale sui passaggi di categoria.
4/09 Agnelli sospende 30.000 lavoratori.
5/09 Fallisce il tentativo dei vertici sindacali di isolare gli operai di avanguardia alla Fiat e Agnelli è costretto a ritirare le sospensioni.
6/09 Più di due milioni di metalmeccanici, edili e chimici scendono in lotta per il rinnovo del contratto.
11/09 Dopo la rottura dell’8 settembre della trattativa per il rinnovo contrattuale dei metalmeccanici, un milione di metallurgici sciopera in tutta Italia. A Torino, 100.000 operai bloccano la Fiat.
12/09 Sciopero nazionale degli edili con cantieri chiusi in tutto il paese. Manifestazioni di metalmeccanici a Torino, Milano e Taranto.
16-17/09 Sciopero nazionale di 48 ore dei lavoratori chimici, sciopero nazionale dei cementieri e nuova giornata di lotta degli edili.
22/09 Manifestazione di 6.000 operai dell’Alfa Romeo a Milano. Giornata di lotta dei metalmeccanici anche a Torino, Venezia, Modena e Cagliari.
23-24/09 Altro sciopero generale di 48 ore dei cementieri.
25/09 Serrata alla Pirelli con la sospensione a tempo indeterminato di 12.000 operai. Immediata reazione operaia con il blocco di tutti gli stabilimenti del gruppo.
26/09 Manifestazione di metalmeccanici a Torino, dalla Fiat parte un corteo di 50.000 operai. Sciopero generale a Milano e manifestazione di centinaia di migliaia di lavoratori, così, alla Pirelli, viene imposta la revoca della serrata. Decine di migliaia di lavoratori in corteo a Firenze e Bari.
29/09 Manifestazioni di metalmeccanici, chimici e edili a Porto Marghera, Brescia e Genova.
30/09 Sciopero dei lavoratori edili a Roma. Manifestazioni di 15.000 metalmeccanici a Livorno.
7/10 Sciopero provinciale dei metallurgici a Milano. Da nove cortei, 100.000 operai confluiscono in Piazza Duomo.
8/10 Sciopero generale nazionale dei chimici. Sciopero provinciale a Terni. Manifestazioni di metalmeccanici a Roma, Sestri, Piombino, Marina di Pisa e L’Aquila.
9/10 60.000 metalmeccanici scioperano a Genova. Sciopero generale in Friuli-Venezia Giulia.
10/10 Per la prima volta si svolge un comizio all’interno dei reparti di Fiat Mirafiori. Assemblee e cortei interni nelle altre fabbriche del gruppo. La polizia carica all’esterno degli stabilimenti. Sciopero all’Italsider di Bagnoli contro la sospensione di cinque operai.
16/10 Ospedalieri, autoferrotranvieri, postelegrafonici, lavoratori degli Enti locali e braccianti scendono in lotta per il rinnovo dei loro contratti. Scioperi generali provinciali a Palermo e Matera.
22/10 A Milano, 40 fabbriche conquistano il diritto all’Assemblea.
8/11 Viene firmato il contratto degli edili: prevede l’aumento del 13% sui minimi retributivi, la riduzione graduale del lavoro a 40 ore, il diritto di Assemblea nei cantieri.
13/11 Durissimi scontri a Torino fra operai e polizia.
25/11 Sciopero generale nazionale dei chimici.
28/11 Centinaia di migliaia di metalmeccanici danno vita a Roma ad una tra le più grandi e combattive manifestazioni operaie mai avvenute in Italia, a sostegno della loro vertenza.
3/12 Sciopero totale degli operai delle carrozzerie Fiat. Manifestazione dei dipendenti degli Enti locali.
7/12 Raggiunto l’accordo per il contratto dei chimici: prevede aumenti salariali di 19.000 lire mensili, orario settimanale di 40 ore su 5 giorni, tre settimane di ferie.
8/12 Accordo sul contratto delle aziende metalmeccaniche a partecipazione statale: prevede l’aumento di 65 lire orarie uguali per tutti, la parità normativa tra operai e impiegati, diritto di Assemblea in azienda durante l’orario di lavoro per dieci ore annue retribuito, 40 ore di lavoro settimanali.
10/12 Sciopero generale dei braccianti per il patto nazionale, in centinaia di migliaia manifestano in tutta Italia. Inizia lo sciopero di 4 giorni dei dipendenti delle società petrolifere private per il rinnovo del contratto.
19/12 Sciopero nazionale dei lavoratori dell'industria in appoggio alla vertenza dei metalmeccanici. Nuovo sciopero nazionale dei braccianti.
23/12 Firma dell’accordo per il rinnovo del contratto dei metalmeccanici: prevede aumenti salariali di 65 lire l’ora per gli operai e di 13.500 lire mensili per gli impiegati, la 13a mensilità, il diritto di Assemblea in fabbrica, il riconoscimento dei rappresentanti sindacali aziendali e la riduzione dell’orario di lavoro a 40 ore settimanali.
24/12 Dopo 4 mesi di lotta viene rinnovato il patto nazionale dei braccianti che prevede la progressiva riduzione dell’orario di lavoro a 42 ore e 20 giorni di ferie[30].
Questo impressionante concatenamento di lotte non è solo il prodotto della forte spinta operaia, ma porta anche il segno delle manovre dei sindacati che disperdono le lotte in altrettanti focolai accesi in occasione del rinnovo dei contratti collettivi di lavoro in scadenza in diverse categorie di lavoratori. E’ il modo in cui la borghesia riesce a fare in modo che il profondo malcontento sociale che è presente non porti ad un incendio generalizzato.
Questo enorme sviluppo di combattività, accompagnato da momenti di chiarificazione importanti nella classe operaia, incontrerà però, nel periodo successivo, altri ostacoli importanti. La borghesia italiana, come quella degli altri paesi che avevano dovuto far fronte al risveglio della classe operaia, non rimane a lungo con le mani in mano e, a parte gli interventi frontali messi in atto dai corpi di polizia, cerca gradualmente di aggirare l’ostacolo con strumenti diversi. Come vedremo nella seconda parte di questo articolo, la capacità di recupero che ha la borghesia si basa principalmente sulle debolezze di un movimento proletario che, nonostante un’enorme combattività, era ancora privo di una chiara coscienza di classe e le cui stesse avanguardie non avevano la maturità e la chiarezza necessarie a svolgere il loro ruolo.
1 novembre 2009 Ezechiele
[1] Dal mese di luglio 1969 e per diversi mesi.
[2] Vedi Revue internationale n°133 [10] et 134 [11], Mai 68 et la perspective révolutionnaire (I et II), 2008.
[3] Vedi Lutte de classe en Europe de l'est (1970-1980) [12] Revue Internationale n°100.
[4] Nel 1969-73, il Cordobazo, lo sciopero di Mendoza, l’ondata di lotte che ha inondato il paese, hanno costituito la chiave dell’evoluzione sociale. Pur senza avere un carattere insurrezionale, queste lotte hanno segnato il risveglio del proletariato nel sud America. Vedi Révoltes populaires en Argentine: seule l’affirmation du prolétariat sur son terrain peut faire reculer la bourgeoisie [13], Revue internationale n°109, 2002.
[5] Vedi Notes sur l'histoire de la politique impérialiste des Etats-Unis depuis la seconde guerre mondiale, 2e partie [14] Revue Internationale n° 114.
[6] «Nasce così lo slogan: “l’Università è il nostro Vietnam”; i guerriglieri vietnamiti combattono contro l’imperialismo americano, gli studenti fanno la loro rivoluzione contro il potere e l’autoritarismo accademici». Alessandro Silj, Malpaese, Criminalità, corruzione e politica nell’Italia della prima Repubblica 1943-1994, Donzelli editore, Roma 1994, p. 92.
[7] Vedi Che Guevara : mythe et réalité (à propos de courriers d'un lecteur) [15] in Révolution Internationale n° 384 ; Quelques commentaires sur une apologie d'Ernesto "Che" Guevara (à propos d'un livre de Besancenot) [16] in Révolution Internationale n° 388.
[8] Vedi Le conflit Juifs / Arabes : La position des internationalistes dans les années trente: Bilan n° 30 et 31 [17] in Revue Internationale n° 110; Notes sur l'histoire des conflits impérialistes au Moyen-Orient, I, II e III parte in Revue Internationale n° 115 [18], 117 [19] e 118 [20]; Affrontements Hamas/Fatah : la bourgeoisie palestinienne est aussi sanguinaire que les autres [21] in Révolution Internationale n° 381.
[9] Vedi Le maoïsme, un pur produit de la contre-révolution [22] in Révolution Internationale n° 371 ; Chine 1928-1949: maillon de la guerre impérialiste, I e II parte, in Revue Internationale n°81 [23] e 84 [24]; Cina: il capitalismo di stato, dalle origini alla Rivoluzione Culturale (I e II parte) in Rivoluzione Internazionale n°5 e 6.
[10] Vedi Silvia Casillo, Controcultura e politica nel Sessantotto italiano
[11] Aldo Cazzullo, I ragazzi che volevano fare la rivoluzione. 1968-1978 Storia critica di Lotta continua, p. 13. Sperling e Kupfer Editori.
[12] Luca Barbieri, Il Caso 7 Aprile, cap. III, www.indicius.it [25].
[13] Intervista a Rita Di Leo in L’operaismo degli anni Sessanta. Dai “Quaderni rossi” a “classe operaia” di Giuseppe Trotta e Fabio Milana, edizione DeriveApprodi, www.deriveapprodi.com [26].
[14] Vedi: Luca Barbieri, Il Caso 7 Aprile, cap. III, www.indicius.it [25]
[15] Emilio Mentasti, La guardia rossa racconta. Storia del Comitato operaio della Magneti Marelli, p.25. Edizioni Colibrì.
[16] Giorgio Frasca Polara, Tambroni e il luglio “caldo” del ‘60, www.libertaegiustizia.it/primopiano/pp_leggi_articolo.php?id=2803&id_tit... [27]
[17] La rivolta operaia di piazza Statuto del 1962 lotteoperaie.splinder.com/post/5219182/La+rivolta+operaia+di+piazza+S.
[18] Dario Lanzardo, La rivolta di piazza Statuto, Torino, luglio 1962, Feltrinelli.
[19] La rivolta operaia di piazza Statuto del 1962 lotteoperaie.splinder.com/post/5219182/La+rivolta+operaia+di+piazza+S.
[20] C.I., è l’acronimo delle commissioni interne, ufficialmente strutture di rappresentanza dei lavoratori nei confronti dell’azienda, di fatto espressione del controllo del sindacato sui lavoratori. Esse sono state in vita fino all’autunno caldo per poi essere rimpiazzate dai consigli di fabbrica (CdF).
[21] Emilio Mentasti, La guardia rossa racconta. Storia del Comitato operaio della Magneti Marelli, p.37. Edizioni Colibrì.
[22] Aldo Cazzullo, I ragazzi che volevano fare la rivoluzione. 1968-1978 Storia critica di Lotta continua, p. 75‑76. Sperling e Kupfer Editori.
[23] Aldo Cazzullo, I ragazzi che volevano fare la rivoluzione. 1968-1978 Storia critica di Lotta continua, p. 60. Sperling e Kupfer Editori.
[24] Documento del CUB della Pirelli (Bicocca), Ibm e Sit-Siemens riportato in Alessandro Silj, Mai più senza fucile, Vallecchi, Firenze 1977, pp. 82-84
[25] “La lotta intrapresa dai lavoratori agricoli della provincia di Siracusa il 24 novembre 1968, a cui partecipano i braccianti di Avola, rivendicava l’aumento della paga giornaliera, l’eliminazione delle differenze salariali e di orario fra le due zone nelle quali era divisa la provincia, l’introduzione di una normativa atta a garantire il rispetto dei contratti, l’avvio delle commissioni paritetiche di controllo, strappate con la lotta nel 1966 ma mai messe in funzione. (…)I braccianti effettuarono blocchi stradali caricati dalla polizia. Il 2 dicembre Avola partecipò in massa allo sciopero generale. I braccianti iniziarono dalla notte i blocchi stradali sulla statale per Noto, gli operai furono al loro fianco. Nella mattinata arrivarono donne e bambini. Intorno alle 14 il vicequestore di Siracusa, Samperisi, ordinò al reparto Celere giunto da Catania di attaccare. (…) Quel giorno la celere suonò per tre volte la carica, sparando sulla folla che pensava si trattasse di colpi a salve. I braccianti cercarono riparo; alcuni lanciarono sassi. Questo scenario di guerra durò circa mezz’ora. Alla fine, Piscitello, deputato comunista, raccolse sull’asfalto più di due chili di bossoli. Il bilancio fu di due braccianti morti, Angelo Sigona e Giuseppe Scibilia, e 48 feriti, di cui 5 gravi”.
(www.attac-italia.org [28]).
[26] “Scendemmo in piazza con la solita generosità dei giovani a fianco dei lavoratori e delle lavoratrici, che scioperarono contro la chiusura del Tabacchificio e dello Zuccherificio. La chiusura di quelle Aziende, anche considerandone l’indotto, metteva in crisi l’intera città, tenuto conto che circa la metà della popolazione ne traeva la loro unica fonte di guadagno. Lo Sciopero Generale fu l’unica conseguenza possibile e fu sentito e partecipato da tutta la città, anche da noi studenti, e molti di noi benché non fossimo di Battipaglia avvertimmo la necessità di partecipare in quanto riconoscevamo l’importanza per l’economia cittadina di quei due opifici. Lo Sciopero Generale era sentito anche per un’altra ragione, era l’occasione per dare la solidarietà alle tabacchine che da ben una decina di giorni occupavano lo stabilimento di S. Lucia. Sulla Città aleggiava lo spettro di una crisi, che aveva già toccato con la chiusura alcune industrie di trasformazione conserviere e che si preannunciava drammatico per migliaia di lavoratori che inevitabilmente avrebbero perso il loro posto di lavoro. (…) ma ben presto vi furono momenti di tensione e, come spesso accade, successivamente sfociarono in veri e propri moti. Battipaglia divenne un teatro di violenti scontri, si alzarono le barricate e si bloccarono tutte le vie di uscita e di accesso, si occupò la Stazione ferroviaria. La Polizia caricò, e quella che doveva essere una grande giornata di solidarietà verso chi voleva mantenere il proprio posto di lavoro si trasformò in una insurrezione popolare. Il bilancio: due morti, centinaia di feriti, decine di automezzi bruciati (della Polizia e di privati) e danni incalcolabili. (…) Per avere ragione di una Città ferita e inferocita ci vollero, per le forze dell’ordine, all’incirca una ventina di ore”. (testimonianza riportata nel blog massimo.delmese.net/2189/9-aprile-1969-9-aprile-2009-a-40-anni-dai-moti-di-battipaglia/ [29]).
[28] Aldo Cazzullo, I ragazzi che volevano fare la rivoluzione. 1968-1978 Storia critica di Lotta continua, p. 67. Sperling e Kupfer Editori.
[30] Dal sito: www.pmli.it/storiaautunnocaldo.htm [32].
E’ con lo stesso metodo di Bilan che la Sinistra Comunista di Francia analizza il fondo della politica del trotzkismo, che non è tanto la “difesa dell’URSS”, anche se questa questione manifesta più nettamente le sue deviazioni, quanto l’atteggiamento da assumere di fronte alla guerra imperialista. In effetti, come è messo in evidenza nel primo articolo, La funzione del trotzkismo, l’impegno di questa corrente nella guerra non è determinato in prima istanza dalla difesa dell’URSS, come dimostrato dal fatto che alcune delle sue tendenze, che non condividevano la tesi dell’URSS come Stato operaio degenerato, hanno anche esse partecipato all’avventura imperialista. Nei fatti la scelta è fatta sulla teoria del “male minore”, la scelta della lotta contro “l’occupazione straniera”, dell’”antifascismo”, ecc. Questa caratteristica del trotzkismo è messa in evidenza in particolare nel secondo articolo che pubblichiamo, “Bravo Abd-El-Krim”, piccola storia del trotzkismo, che constata come “tutta la storia del trotzkismo ruota intorno alla ‘difesa’ di qualche cosa”, in nome del male minore; questo qualche cosa è tutto tranne che proletario. Questo marchio di fabbrica del trotzkismo non è stato alterato dal tempo come testimoniano le diverse manifestazioni dell’attivismo trotzkista contemporaneo, come la sua abitudine a scegliere un campo contro l’altro nei molteplici conflitti che insanguinano il pianeta, anche dopo la sparizione dell’URSS.
Alla radice di questa deviazione del trotzkismo si trova, come è detto nel primo articolo, l’attribuzione di un ruolo progressista “a certe frazioni del capitalismo, a certi paesi capitalisti (e come è detto espressamente nel programma di transizione, alla maggioranza dei paesi)”. In questa concezione, secondo la caratterizzazione fatta nell’articolo, “l’emancipazione del proletariato non è il risultato della lotta del proletariato che si pone come classe di fronte all’insieme del capitalismo, ma sarà il risultato di una serie di lotte politiche, nel senso stretto del termine e nelle quali, alleato di volta in volta alle diverse frazioni politiche della borghesia, il proletariato eliminerà certe altre frazioni e giungerà così, per gradi, per tappe, gradualmente, a indebolire la borghesia, a trionfare su di essa, dividendola e battendola a pezzetti.” In tutto questo non c’è più niente di marxista.
La funzione del trotzkismo (Internationalisme n°26 – settembre 1947)Un errore molto diffuso è quello di considerare che quello che distingue i rivoluzionari dal trotzkismo sia la questione della “difesa dell’URSS”.
E’ ovvio che i gruppi rivoluzionari, quelli che i trotzkisti si compiacciono di chiamare, con un certo disprezzo, “ultrasinistra” (termine di accezione peggiorativa, dello stesso genere di quello riservato ai trotzkisti dagli stalinisti: “hitlero-trotzkisti”), rigettano ogni tipo di difesa dello Stato capitalista russo (capitalismo di Stato). Ma la non difesa dello Stato russo non costituisce per niente il fondamento teorico e programmatico dei gruppi rivoluzionari, mentre esso è una conseguenza che discende dalle loro concezioni generali, dalla loro piattaforma rivoluzionaria di classe. Dall’altro lato, la “difesa dell’URSS” non costituisce una esclusiva del trotzkismo.
Se la “difesa dell’URSS”, tra le posizioni politiche che costituiscono il suo programma, è quella che manifesta meglio, nella maniera più netta la sua deviazione e il suo accecamento, si commetterebbe tuttavia un grave errore a voler vedere il trotzkismo unicamente attraverso questa manifestazione. Tutt’al più in questa difesa si deve vedere l’espressione più completa, più tipica, il colmo della fissazione del trotzkismo. Questo ascesso è così mostruosamente apparente che la sua vista scoraggia un numero ogni giorno più grande di aderenti di questa quarta internazionale e, molto probabilmente, è una delle cause, e non delle minori, che fa esitare un certo numero di simpatizzanti ad entrare nei ranghi di questa organizzazione. Tuttavia l’ascesso non è la malattia, ma solo la sua localizzazione e la sua esteriorizzazione.
Se insistiamo tanto su questo punto è perché troppa gente che si turba alla vista dei segni esteriori della malattia, ha troppo tendenza a tranquillizzarsi facilmente quando questi segni apparentemente spariscono. Dimenticano che una malattia “ripulita” non è una malattia guarita. Questo tipo di persone è certamente altrettanto pericolosa, altrettanto propagatrice di germi della corruzione delle altre, e forse ancora di più, perché crede di essere guarita.
Il “Workers’ Party”negli Stati Uniti (organizzazione trotzkista dissidente, conosciuta con il nome del suo leader, Schachtman), la tendenza di G. Munis in Messico[4], le minoranze di Gallien e di Chaulieu, in Francia, tutte le tendenze minoritarie della “IV Internazionale” poiché rigettano la posizione tradizionale della difesa della Russia, credono di essere guarite dall’opportunismo (come lo definiscono loro) del movimento trotzkista. In realtà esse non sono altro che “ripulite” restando, al fondo, impregnate e totalmente prigioniere di questa ideologia.
Ciò è talmente vero che basta prendere come prova la questione più bruciante, quella che offre meno scappatoie, che oppone irriducibilmente le posizioni di classe del proletariato alla borghesia, la questione dell’atteggiamento da assumere di fronte alla guerra imperialista. E cosa vediamo?
Gli uni e gli altri, maggioritari e minoritari, anche se con slogan differenti, tutti partecipano alla guerra imperialista.
E’ inutile venirci a citare, per smentirci, le dichiarazioni verbali dei trotzkisti contro la guerra, le conosciamo bene. Ma quello che importa non sono le declamazioni ma la pratica politica reale che deriva da tutte le posizioni teoriche e che si è concretizzata nel sostegno ideologico e pratico delle forze in guerra. Poco importa qui di sapere con quali argomenti viene giustificata questa partecipazione. La difesa dell’URSS è certo uno dei nodi più importanti, che lega e trascina il proletariato nella guerra imperialista. Tuttavia non è il solo nodo. Le minoranze trotzkiste che rigettavano la difesa dell’URSS hanno trovato, come i socialisti di sinistra e gli anarchici, altre ragioni, non meno “valide” e non meno ispirate da una ideologia borghese, per giustificare la loro partecipazione alla guerra imperialista. Per gli uni fu la difesa della “democrazia”, per gli altri la “lotta contro il fascismo” o la “liberazione nazionale” o ancora “il diritto all’autodeterminazione dei popoli”.
Per tutti fu la scelta del “male minore” a farli partecipare alla guerra o alla Resistenza a fianco di un blocco imperialista contro l’altro.
Il partito di Shachtman ha perfettamente ragione a rimproverare ai trotzkisti ufficiali di sostenere l’imperialismo russo che, secondo lui, non è più uno “Stato Operaio”, ma questo non fa di Shachtman un rivoluzionario, perché questo rilievo lui non lo fa sulla base di una posizione di classe del proletariato contro la guerra imperialista, ma sulla base del fatto che la Russia è un paese totalitario e dove c’è meno “democrazia” di qualsiasi altro paese, per cui, di conseguenza, secondo lui bisognava sostenere la Finlandia, che era meno “totalitaria” e più democratica, contro l’aggressione russa[5].
Per rivelare la natura della sua ideologia, in particolare sulla cruciale questione della guerra imperialista, il trotzkismo non ha per niente bisogno, come abbiamo appena visto, della posizione di difesa dell’URSS. Evidentemente questa difesa dell’URSS facilita enormemente la sua posizione di partecipazione alla guerra, permettendogli di nasconderla sotto una fraseologia pseudo - rivoluzionaria, ma per ciò stesso essa oscura la sua natura profonda e impedisce di porre la questione della natura dell’ideologia trotzkista nella sua piena luce.
Facciamo allora, per maggiore chiarezza, astrazione per il momento dell’esistenza della Russia, o, se si preferisce, di tutta questa sofistica sulla natura socialista dello Stato russo, attraverso cui i trotzkisti arrivano ad oscurare il problema centrale della guerra imperialista e dell’atteggiamento del proletariato. Poniamo direttamente la questione dell’atteggiamento dei trotzkisti nella guerra. I trotzkisti risponderanno, sicuramente, con una dichiarazione generale contro la guerra.
Ma dopo aver recitato la litania sul “disfattismo rivoluzionario”, cominceranno poi, arrivando al concreto, a stabilire delle restrizioni, con sapienti “distinzioni”, con dei “ma …” o e i “se …”, che li porteranno, nella pratica, a schierarsi per una delle parti in conflitto e ad invitare gli operai a partecipare alla carneficina imperialista.
Chiunque abbia avuto a che fare con gli ambienti trotzkisti in Francia negli anni 1939-1945, può testimoniare che i sentimenti predominanti in questi ambienti non erano tanto dettati dalla posizione della difesa della Russia, quanto dalla scelta del “male minore”, la scelta della lotta contro “l’occupazione straniera” e dell’antifascismo.
E’ questo che spiega la loro partecipazione alla “resistenza”[6], agli F.F.I.[7] e alla “liberazione”. E quando il PCI[8] di Francia si vede felicitato dalle sezioni di altri paesi per la parte che ha avuto in quello che esse chiamano “il sollevamento popolare” della Liberazione, noi lasciamo loro la soddisfazione che può loro dare il bluff sull’importanza di questa parte (capirete l’importanza di qualche decina di trotzkisti nel “GRANDE sollevamento popolare”!). Ci basta per testimonianza soprattutto il contenuto politico di una tale felicitazione.
Qual è il criterio che deve guidare l’atteggiamento dei rivoluzionari nella guerra imperialista?
Il rivoluzionario parte dalla constatazione dello stadio imperialista raggiunto dall’economia mondiale. L’imperialismo non è un fenomeno nazionale. La violenza della contraddizione fra il grado di sviluppo delle forze produttive – del capitale sociale totale – e lo sviluppo del mercato determina la violenza delle contraddizioni interimperialiste. In questo stadio non ci possono essere guerre nazionali. La struttura imperialista mondiale determina la struttura di ogni guerra; in questa epoca imperialista non ci sono guerre “progressive”. L’unico progresso sta nella rivoluzione sociale. L’alternativa storica che posta all’umanità è la rivoluzione socialista, oppure la decadenza, la caduta nella barbarie attraverso l’annientamento delle ricchezze accumulate dall’umanità, la distruzione delle forze produttive e il massacro continuo del proletariato in una serie interminabile di guerre locali e generalizzate. Dunque il criterio che il rivoluzionario pone è un criterio di classe in rapporto all’analisi dell’evoluzione storica della società.
Vediamo in che maniera lo pone teoricamente il trotzkismo:
“… Ma non tutti i paesi del mondo sono imperialisti. Al contrario, la maggioranza dei paesi sono vittime dell’imperialismo. Certi paesi coloniali o semi-coloniali cercheranno, senza alcun dubbio, di utilizzare la guerra per respingere il giogo della schiavitù. Dalla loro parte la guerra non sarà imperialista, ma di emancipazione. Il dovere del proletariato internazionale sarà quello di aiutare i paesi oppressi in guerra contro gli oppressori …” (Il programma di transizione, capitolo: La lotta contro l’imperialismo e la guerra).
Così il criterio trotzkista non parte dal periodo storico che viviamo, ma crea e si riferisce a una nozione astratta e quindi falsa dell’imperialismo. E’ imperialista unicamente la borghesia di un paese dominante. L’imperialismo non è uno stadio politico-economico del capitalismo mondiale ma strettamente del capitalismo di certi paesi, mentre gli altri paesi capitalisti che sono la “maggioranza” non sono imperialisti. A meno di ricorrere a una distinzione formale, priva di senso, tutti i paesi del mondo sono attualmente di fatto dominati economicamente da due paesi: Stati Uniti e Russia. Bisogna allora concludere che solo la borghesia di questi due paesi è imperialista e che l’ostilità del proletariato alla guerra non deve esercitarsi che unicamente verso questi due paesi?
E ancora meglio, se si continua a seguire il ragionamento trotzkista si trova che la Russia è, per definizione, “non imperialista”, per cui si arriva all’assurdità mostruosa che non c’è che un solo paese imperialista al mondo: gli Stati Uniti. Il che ci porta alla sconfortante conclusione che tutti gli altri paesi del mondo – dal momento che sono tutti “non imperialisti” ed “oppressi” – il proletariato deve aiutarli.
Vediamo concretamente come questa distinzione trotzkista si traduce nella pratica.
Nel 1939 la Francia è un paese imperialista: disfattismo rivoluzionario.
Nel 1940-45 la Francia è occupata: da paese imperialista essa diventa un paese oppresso; la sua guerra è “emancipatrice”, “il dovere del proletariato è di sostenere la sua lotta”. Perfetto. Ma, all’improvviso, è la Germania che diventa, nel 1945, un paese “occupato” e “oppresso”: il dovere del proletariato diventa quello di sostenere una eventuale emancipazione della Germania contro la Francia. E quello che è vero per la Francia e la Germania lo è ugualmente per qualsiasi altro paese: il Giappone, l’Italia, il Belgio, ecc. Non ci si venga a parlare dei paesi coloniali o semi-coloniali: ogni paese, nell’epoca imperialista, che nella competizione feroce tra gli imperialismi non ha la fortuna ola forza di essere un vincitore diventa, nei fatti, un paese “oppresso”.
Il proletariato dovrà allora passare il suo tempo a danzare da un piatto della bilancia imperialista all’altro, seguendo i comandamenti trotzkisti, e a farsi massacrare per quello che i trotzkisti chiamano “Aiutare una guerra giusta e progressista” (Vedi il Programma di transizione, stesso capitolo).
Il carattere fondamentale del trotzkismo, in tutte le situazioni e secondo tutte le sue posizioni correnti, è di offrire al proletariato una alternativa non di opposizione e di soluzione di classe contro la borghesia, ma la SCELTA tra due formazioni, due forze ugualmente capitaliste “oppresse …”: tra la borghesia fascista e quella antifascista, tra “reazione” e “democrazia”, tra monarchia e repubblica, tra guerra imperialista e guerre “giuste e progressiste”.
E’ partendo da questa eterna scelta del”male minore” che i trotzkisti hanno partecipato alla guerra imperialista, e non solo in funzione della necessità di difendere l’URSS. Prima di difendere questa essi avevano partecipato alla guerra di Spagna (1936-38), per la difesa della Spagna repubblicana contro Franco. Seguita poi dalla difesa della Cina di Chang Kai-Sheck contro il Giappone.
La difesa dell’URSS appare dunque non come il punto di partenza delle loro posizioni, ma come un punto di arrivo, manifestazione tra altre della loro piattaforma fondamentale, piattaforma per cui il proletariato non ha una propria posizione di classe in una guerra imperialista ma che esso può e deve fare una distinzione tra le diverse formazioni capitaliste nazionali, momentaneamente antagoniste, che esso deve proclamare “progressiste” e accordare il suo aiuto, in regola generale a quella delle formazioni più debole, più ritardataria, la borghesia “oppressa”.
Questa posizione, sulla questione così cruciale (e centrale) della guerra, piazza immediatamente il trotzkismo in quanto corrente politica al di fuori del campo del proletariato e giustifica da sola la necessità di rottura totale con esso da parte di ogni elemento rivoluzionario proletario.
I trotzkisti mettono il proletariato a rimorchio della borghesia proclamata “progressista”
Comunque noi abbiamo messo in evidenza solo una delle radici del trotzkismo. In una maniera più generale, la concezione trotzkista è basata sull’idea che l’emancipazione del proletariato non è il risultato della lotta globale, che pone il proletariato in quanto classe di fronte all’insieme del capitalismo, ma sarà il risultato di una serie di lotte politiche, nel senso stretto del termine e in cui, alleato successivamente a diverse frazioni politiche della borghesia, eliminerà alcune altre frazioni e giungerà, così, per gradi, per tappe, gradualmente, a indebolire la borghesia, a trionfare su di lei dividendola e battendola a pezzetti.
Che questa non sia solo una visione strategica, molto sottile e maliziosa, che ha trovato la sua formulazione nello slogan “avanzare separatamente e colpire insieme …”, ma anche una delle basi della concezione trotzkista, trova conferma nella teoria della “rivoluzione permanente” (nuova maniera), che sostiene che la permanenza della rivoluzione consideri la rivoluzione stessa come uno sviluppo permanente di avvenimenti politici che si succedono,e in cui la presa del potere da parte del proletariato è uno fra tanti altri avvenimenti intermedi, ma che non pensa che la rivoluzione sia un processo di liquidazione economica e politica di una società divisa in classi e, infine e soprattutto, che l’edificazione socialista sia possibile solo dopo la presa del potere da parte del proletariato.
E’ vero che questa concezione della rivoluzione resta, in parte, “fedele” allo schema di Marx. Ma è solo una fedeltà formale. Marx ha concepito questo schema nel 1848, all’epoca in cui la borghesia costituiva ancora una classe storicamente rivoluzionaria, e nel fuoco delle rivoluzioni borghesi che scoppiavano in tutta una serie di paesi d’Europa, che Marx sperava che non si arrestassero allo stadio borghese, ma scavalcate dal proletariato per proseguire il cammino fino alla rivoluzione socialista.
Se la realtà ha confutato la speranza di Marx, essa costituiva per lui una visione rivoluzionaria spinta, in anticipo sulle possibilità storiche. Altra cosa è la rivoluzione permanente trotzkista. Fedele alla lettera, ma infedele nello spirito, il trotzkismo attribuisce, UN secolo dopo la fine delle rivoluzioni borghesi, nell’epoca dell’imperialismo mondiale, mentre la società capitalista è entrata nel suo insieme nella fase decadente, esso attribuisce a certe frazioni del capitalismo, a certi paesi capitalisti (e, come dice espressamente il Programma di Transizione, alla maggioranza dei paesi) un ruolo progressista.
Marx, già nel 1848, intendeva mettere il proletariato davanti, alla testa della società; i trotskysti, da parte loro, mettono, un secolo dopo, il proletariato a rimorchio della borghesia proclamata “progressista”. Difficilmente si potrebbe immaginare una caricatura più grottesca, una deformazione più forte di quella data dai trotskysti dello schema della rivoluzione permanente di Marx.
Nella forma in cui Trotskij l’aveva ripresa e riformulata nel 1905, la teoria della rivoluzione permanente conservava ancora tutto il suo significato rivoluzionario. Nel 1905, all’inizio dell’era imperialista, quando il capitalismo sembrava avere avanti a sé begli anni di prosperità, in un paese fra i più arretrati dell’Europa, dove permaneva ancora tutta una superstruttura politica feudale, in cui il movimento operaio faceva i suoi primi passi, di fronte a tutte le frazioni della socialdemocrazia russa che annunciavano l’avvento della rivoluzione borghese, di fronte a Lenin che, molto condizionato, non osava andare più lontano dell’assegnare alla futura rivoluzione il compito di riforme borghesi sotto una direzione rivoluzionaria democratica degli operai e dei contadini, Trotskij aveva il merito incontestabile di proclamare che la rivoluzione sarebbe stata o socialista – la dittatura del proletariato – o non sarebbe stata affatto.
La teoria della rivoluzione permanente insisteva sul ruolo del proletariato, ormai unica classe rivoluzionaria. Essa era una proclamazione rivoluzionaria audace, interamente diretta contro i teorici socialisti piccolo-borghesi, spaventati e scettici, e contro i rivoluzionari esitanti, che mancavano di fiducia nel proletariato.
Oggi, quando l’esperienza dei quaranta anni ha pienamente confermato questi dati teorici, in un mondo interamente capitalista e già decadente, la teoria della rivoluzione permanente “nuova maniera” è unicamente diretta contro le “illusioni” rivoluzionarie di questi irriducibili dell’ultrasinistra, la bestia nera del trotzkismo.
Oggi, l’accento è messo sulle illusioni ritardatarie del proletariato, sull’inevitabilità delle tappe intermedie, sulla necessità di una politica realista e positiva, su governi operai e contadini, su guerre giuste e rivoluzioni di emancipazione nazionale progressiste.
Questa è ormai la sorte della teoria della rivoluzione permanente tra le mani dei discepoli che non hanno saputo riprendere e assimilare che le debolezze, e niente di quella che fu la grandezza, la forza e il valore rivoluzionario del maestro.
Sostenere le tendenze e le frazioni “progressiste” della borghesia e rafforzare il cammino rivoluzionario del proletariato basandosi sullo sfruttamento della divisione e dell’antagonismo intercapitalisti, sono le due mammelle della teoria trotzkista. Abbiamo visto cosa implica la prima, vediamo ora il contenuto della seconda.
In cosa consistono le divergenze nel campo capitalista?
Innanzitutto nel come assicurare meglio l’ordine capitalista. Cioè come meglio assicurare lo sfruttamento del proletariato.
In secondo luogo nell’antagonismo degli interessi economici dei diversi gruppi componenti della classe capitalista. Trotskij, che si è spesso lasciato prendere dal suo stile immaginifico e dalle sue metafore, al punto di perdere il loro contenuto sociale reale, ha molto insistito su questo secondo aspetto. “E’ sbagliato considerare il capitalismo come un tutto unificato”, ci insegnava. “Anche la musica è un tutto, ma sarebbe un ben misero musicista quello che non sapesse distinguere una nota dalle altre.” E questa metafora egli l’applicava ai movimenti e alle lotte sociali. A nessuno può venire l’idea di non riconoscere l’esistenza di opposizione di interessi in seno alla classe capitalista e delle lotte che ne risultano. La questione è sapere il posto che occupano, nella società, le diverse lotte. Sarebbe un ben mediocre marxista rivoluzionario quello che mettesse sullo stesso piano la lotta fra le classi e la lotta tra gruppi in seno alla stessa classe.
“La storia di ogni società finora esistita è storia di lotta di classe” Questa tesi fondamentale del Manifesto Comunista non nega evidentemente l’esistenza di lotte secondarie dei diversi gruppi e individualità economiche all’interno delle classi, e la loro importanza relativa. Ma il motore della storia non sta in questi fattori secondari, quanto piuttosto nella lotta tra la classe dominante e la classe dominata. Quando una nuova classe è chiamata dalla storia a sostituirsi a quella vecchia, diventata inadatta ad assicurare la direzione della società, cioè in un periodo storico di trasformazione e di rivoluzione sociale, la lotta fra queste due classi determina e domina, in maniera assoluta, categorica, ogni avvenimento sociale e ogni conflitto secondario. In tali periodi storici, come il nostro, insistere sui conflitti secondari, attraverso i quali si vuole determinare e condizionare il cammino del movimento della lotta di classe, la sua direzione e la sua ampiezza, mostra con estrema chiarezza che non si è capito niente delle questioni più elementari della sociologia marxista. Non si fa che giocare con delle astrazioni su delle note di musica, e si subordina, nei fatti, la lotta sociale storica del proletariato alle contingenze dei conflitti politici intercapitalisti.
Fondamentalmente questa politica poggia su una singolare mancanza di fiducia nelle forze del proletariato. Certamente gli ultimi tre decenni di sconfitte continue hanno tragicamente illustrato l’immaturità e la debolezza del proletariato. Ma si sbaglierebbe a cercare la fonte di questa debolezza nell’auto isolamento del proletariato, nell’assenza di una linea di condotta sufficientemente flessibile verso le altre classi, strati e formazioni politiche antiproletarie. E’ tutto il contrario. Dopo la fondazione dell’internazionale Comunista non si è fatto altro che gridare alla malattia infantile della sinistra, si è elaborata la strategia irrealista della conquista di larghe masse, della conquista dei sindacati, l’utilizzazione rivoluzionaria della tribuna parlamentare, del fronte unico politico con “il diavolo e sua madre” (Trotskij), della partecipazione al governo operaio della Sassonia …
Con quali risultati?
Disastrosi. Ad ogni nuova conquista della strategia di flessibilità seguiva una sconfitta più grande, più profonda. Per ovviare a questa debolezza del proletariato, per “rafforzarlo”, ci si appoggiava non solo su forze politiche extraproletarie (socialdemocrazia), ma anche su forze sociali ultrareazionarie. Partiti contadini “rivoluzionari”; Conferenza internazionale dei contadini; Conferenza internazionale dei popoli coloniali. Più le catastrofi si accumulavano sulla testa del proletariato, più la malattia delle alleanze e la politica speculativa trionfava nell’I.C. Certamente si deve cercare l’origine di tutta questa politica nell’esistenza dello Stato russo, che trova la sua ragion d’essere in se stesso, non avendo per natura niente in comune con la rivoluzione socialista, opposto ed estraneo come [lo Stato] è e resta al proletariato e al suo fine di classe.
Lo Stato, per la sua conservazione e il suo rafforzamento, deve cercare e può trovare delle alleanze nelle borghesie “oppresse”, nei “popoli” e paesi coloniali e “progressisti”, perché queste categorie sociali sono per natura chiamate a costruire esse stesse lo Stato. Esso può speculare sulla divisione e i conflitti fra altri Stati e gruppi capitalisti, perché condivide con essi la stessa natura sociale e di classe.
In questi conflitti l’indebolimento di uno degli antagonisti può diventare la condizione per il suo proprio rafforzamento. Per il proletariato e la rivoluzione non è la stessa cosa. Esso non può contare su nessuno di questi alleati, non può appoggiarsi su nessuna di queste forze. Esso è solo e, cosa ancora più importante, è sempre in opposizione, in opposizione storica e irriducibile con l’insieme di queste forze ed elementi che, di fronte a lui si presentano come una unità indivisibile.
Rendere cosciente il proletariato della sua posizione della sua missione storica, non nascondergli niente sulle estreme difficoltà della sua lotta, e allo stesso tempo insegnargli che non ha scelta, che, a prezzo della sua esistenza umana e fisica, esso deve e può vincere malgrado le difficoltà, è l'unica maniera per armare il proletariato per la vittoria.
Ma cercare di sminuire le difficoltà, cercando per il proletariato dei possibili (anche temporaneamente) alleati, presentando altre classi come forze “progressiste”, su cui poter appoggiare la propria lotta, significa ingannarlo per consolarlo, disarmarlo, fuorviarlo.
Ed è effettivamente questa la funzione del movimento trotzkista all’ora attuale.
Marc
“Bravo Abd-El-Krim” ovvero la piccola storia del trotzkismo (Internationalisme n°24 – luglio 1947)Certe persone soffrono di un sentimento di inferiorità, altre di un sentimento di colpa, altre ancora di mania di persecuzione. Il trotzkismo, da parte sua, è afflitto da una malattia che si potrebbe chiamare il “difensismo”. Tutta la storia del trotzkismo gira intorno alla “difesa” di qualche cosa. E quando disgraziatamente succede che passano delle settimane vuote in cui i trotzkisti non trovano niente o nessuna persona da difendere, diventano letteralmente malati. Li si vede allora con l’espressione triste, abbattuta, con gli occhi stralunati, che guardano dappertutto come i tossicomani che cercano la loro dose quotidiana: una causa o una vittima di cui poter prendere la difesa.
Grazie a Dio esiste una Russia che un giorno ha conosciuto la rivoluzione. Così potrà servire ai trotzkisti per alimentare fino alla fine dei giorni il loro bisogno di difesa. Qualunque cosa diventi la Russia, i trotzkisti resteranno assolutamente per la “difesa dell’URSS” perché essi hanno trovato nella Russia una fonte inesauribile per soddisfare il loro vizio “difensista”.
Ma non ci sono solo le grandi cause che contano. Per riempire la vita del trotzkismo, gli ci vuole, in aggiunta alla grande, immortale, incondizionata “difesa dell’URSS” – che resta il fondamento e la ragion d’essere del trotzkismo – la piccola “difesa giornaliera”
Il capitalismo, nella sua fase di decadenza, scatena una distruzione generalizzata, tale che oltre che sul proletariato, vittima di sempre del regime, la repressione e il massacro si ripercuotono, moltiplicandosi, in seno alla stessa classe capitalista. Hitler massacra i borghesi repubblicani, Churchill e Truman impiccano e fucilano i Goering e compagni, Stalin mette tutti d’accordo massacrando gli uni e gli altri. Il caos sanguinoso generalizzato, lo scatenamento di una bestialità perfezionata e di un sadismo raffinato, sconosciuto prima, sono la conseguenza inevitabile dell’impossibilità del capitalismo di superare le sue contraddizioni, e dell’assenza di una volontà cosciente del proletariato per farlo morire. Che Dio sia lodato! Che fortuna per i nostri ricercatori di cause da difendere! I nostri trotzkisti sono a loro agio. Ogni giorno si presentano nuove occasioni per i nostri moderni cavalieri, che permettono loro di manifestare apertamente la loro generosa natura di raddrizzatori di torti e di vendicatori degli offesi.
Gettiamo un colpo d’occhio sulla storia del trotzkismo
Nell’autunno del 1935 l’Italia comincia una campagna militare contro l’Etiopia. Si tratta indubbiamente di una guerra imperialista di conquista coloniale che oppone un paese capitalista avanzato, l’Italia, ad un paese arretrato, l’Etiopia, economicamente e politicamente ancora semi-feudale. L’Italia, è il regime di Mussolini, l’Etiopia è il regime del Negus, il “re dei re”. Ma la guerra italo - etiopica è qualcosa di più di una semplice guerra coloniale di tipo classico. E’ la preparazione, il preludio alla guerra mondiale che si annuncia. Ma i trotzkisti non hanno bisogno di guardare così lontano. A loro basta sapere che Mussolini è il “cattivo aggressore” con il “povero regno” del Negus per prendere immediatamente la difesa “incondizionata” dell’indipendenza nazionale dell’Etiopia. E in che modo! Essi si uniscono al coro generale (soprattutto il coro del blocco “democratico” anglosassone che è in formazione e che si cerca) per reclamare sanzioni internazionali contro “l’aggressione fascista”. Più difensori di chiunque altro, senza aver bisogno di lezioni da nessuno, essi rimproverano e denunciano la difesa insufficiente, a loro avviso, da parte della Società delle Nazioni[9], e chiameranno gli operai del mondo ad assicurare la difesa dell’Etiopia e del Negus. E’ vero che la difesa trotzkista non ha portato granché al Negus, che nonostante questa difesa è stato battuto. Ma, per essere giusti, non si può imputare questa sconfitta ai trotzkisti, perché quando si tratta di difesa, anche quella di un Negus, essi non si risparmiano, sono sempre e convintamente là!
Nel 1936 la guerra si scatena in Spagna. Sotto forma di “guerra civile” interna, dividendo la borghesia spagnola in clan franchista e clan repubblicano, si ha la ripetizione generale in vista della guerra mondiale imminente con la vita e il sangue degli operai. Il governo repubblicano-stalinista-anarchico è in una posizione di inferiorità militare manifesta. I trotskysti naturalmente volano in soccorso della repubblica “in pericolo contro il fascismo”. Una guerra non può evidentemente proseguire con l’assenza di combattenti e senza materiali. Rischia di fermarsi. Turbati da una tale prospettiva, che avrebbe eliminato la possibilità di una difesa, i trotzkisti impiegano tutte le loro forze per reclutare dei combattenti per le brigate internazionali e si impegnano a fondo per l’invio “dei cannoni in Spagna”. Ma il governo repubblicano significa gli Azana, i Negrin, gli amici di ieri e di domani di Franco contro la classe operaia. I trotzkisti non fanno tanta attenzione! Essi non mercanteggiano il loro aiuto. Si è o a favore o contro la Difesa. Noi trotzkisti siamo neo—difensori. Un punto vale per tutto.
Nel 1938 la guerra si scatena in Estremo Oriente. Il Giappone attacca la Cina di Chang Kai-Sheck. Ah! Allora non ci sono esitazioni possibili: “Tutti come un sol uomo per la difesa della Cina”. Trotskij stesso spiegherà che non è il momento di ricordarsi il sanguinoso massacro di migliaia e migliaia di operai di Shangai e di Canton da parte degli eserciti di questo stesso Chang Kai-Sheck durante la rivoluzione del 1927. Non fa niente che il governo di Chang Kai-Sheck è un governo capitalista al soldo dell’imperialismo americano e che, nello sfruttamento e la repressione degli operai, non ha niente da invidiare al regime giapponese, questo non importa davanti al superiore principio dell’indipendenza nazionale. Il proletariato internazionale mobilitato per l’indipendenza del capitalismo cinese resta pur sempre dipendente … dall’imperialismo yankee, ma il Giappone ha effettivamente perso la Cina ed è stato battuto. I trotzkisti possono essere contenti. Hanno realizzato almeno la metà dei loro obiettivi. È vero che questa vittoria antigiapponese[10] è costata qualche decina di milioni di operai massacrati per 7 anni su tutti i fronti del mondo durante l’ultima guerra mondiale. E’ vero che gli operai in Cina come dappertutto continuano ad essere sfruttati e massacrati ogni giorno. Ma questo conta di fronte all’indipendenza (tutta relativa) assicurata alla Cina?
1939 – la Germania di Hitler attacca la Polonia. Avanti nella difesa della Polonia! Ma ecco che lo Stato “operaio” russo attacca anch’esso la Polonia, in più fa la guerra alla Finlandia e strappa con la forza dei territori alla Romania. Questo inceppa un po’ i cervelli trotskysti che, come gli stalinisti, non ritrovano completamente i loro sensi che dopo l’apertura delle ostilità tra la Russia e la Germania. Allora tutto diventa semplice, troppo semplice, tragicamente semplice. Per 5 anni i trotzkisti chiameranno i proletari di tutti i paesi a farsi massacrare per la “difesa dell’URSS”. Essi combatteranno il governo di Vichy che vuole mettere al servizio della Germania l’impero coloniale francese e rischia così “la sua unità”. Combatteranno Petain e gli altri Quisling[11]. Negli Stati Uniti essi reclameranno il controllo dell’esercito da parte dei sindacati al fine di meglio assicurare la difesa degli Stati Uniti contro la minaccia del fascismo tedesco. Parteciperanno a tutti i gruppi della Resistenza, in tutti i paesi. Questo sarà il periodo dell’apogeo della “difesa”.
La guerra può anche finire, mentre il profondo bisogno della “difesa” per i trotzkisti è infinito. I diversi movimenti di nazionalismo esasperato, i sollevamenti nazionalisti borghesi nelle colonie, tutte espressioni del caos mondiale che ha seguito la cessazione ufficiale della guerra e che sono utilizzati e fomentati un po’ dappertutto dalle grandi potenze per i loro interessi imperialisti, continueranno a fornire a sufficienza materia da difendere per i trotzkisti. Sono soprattutto i movimenti borghesi coloniali, in cui, sotto le bandiere della “liberazione nazionale” e della “lotta contro l’imperialismo” (tutta verbale), si continua a massacrare decine di migliaia di lavoratori, che segneranno il culmine dell’esaltazione della difesa da parte dei trotzkisti.
In Grecia i due blocchi russo e angloamericano si affrontano per il dominio dei Balcani, sotto il colore locale di una guerra partigiana contro il governo ufficiale: i trotzkisti partecipano alla danza. “Giù il cappello davanti alla Grecia! ” urlavano, e annunciano la buona notizia ai proletari della costituzione delle brigate internazionali sul territorio jugoslavo del “liberatore” Tito[12] in cui essi invitano gli operai a irreggimentarsi per liberare la Grecia.
Con non meno entusiasmo, essi rinnovano i loro eroici fatti d’armi in Cina, nei ranghi dell’esercito cosiddetto comunista e che di comunista ha lo stesso del governo russo di Stalin di cui è l’emanazione.
L’Indocina, in cui i massacri sono ugualmente ben organizzati, sarà un’altra terra di elezione per la difesa trotzkista della “indipendenza nazionale del Vietnam”. Con lo stesso slancio generoso, i trotzkisti sosterranno e difenderanno il partito nazionale borghese del Destur, in Tunisia, dal partito nazionale borghese, PPA, algerino. Essi scopriranno le virtù liberatrici del MDRM, movimento borghese nazionalista del Madagascar. L’arresto, da parte dei loro compari del governo capitalista francese, dei consiglieri della Repubblica e dei deputati del Madagascar, suscita l’indignazione dei trotskysti. Ogni settimana La Verité sarà riempita dagli appelli per la difesa dei “poveri” deputati malgasci, “Liberate Ravoahanguy, liberate Raharivelo, liberate Roseta! “ Le colonne del giornale saranno insufficienti per contenere tutte le “difese” che i trotzkisti devono sostenere. Difesa del partito stalinista minacciato negli Stati Uniti! Difesa del movimento pan-arabo contro il sionismo colonizzatore ebreo in Palestina, e difesa degli oltranzisti della colonizzazione nazionalista ebrea, i leader terroristi dell’Irgun, contro l’Inghilterra! Difesa della Gioventù Socialista contro il Comitato Dirigente della SFIO.
Difesa della SFIO contro il neo-socialista Ramadier.
Difesa della CGT contro i suoi capi.
Difesa delle “libertà …” contro le minacce “fasciste” di De Gaulle.
Difesa della Costituzione contro la Reazione.
Difesa del governo PS-PC-CGT contro il MRP.
E, sopra tutto, difesa della “povera” Russia di Stalin, MINACCIATA DI ACCERCHIAMENTO (!) dagli Stati Uniti.
Poveri, poveri trotzkisti, sulle cui deboli spalle pesa il pesante carico di tante “difese” !
Il 31 maggio scorso si è prodotto un avvenimento alquanto sensazionale: Abd-El-Krim, il vecchio capo del Rif[13], bruciava la gentilezza del governo francese, evadendo nel corso del suo trasferimento in Francia. Questa evasione fu preparata ed eseguita con la complicità di re Faruk d’Egitto, che gli ha dato un asilo, lo si può dire, regale e anche con l’indifferenza benevolente degli Stati Uniti. La stampa e il governo francese sono costernati. La situazione della Francia nelle sue colonie è poco sicura, per potervi aggiungere dei motivi di turbamento. Ma più che un pericolo reale, l’evasione di Abd-El-Krim è soprattutto un avvenimento che ridicolizza un po’ di più la Francia il cui prestigio nel mondo è già sufficientemente indebolito. Da qui le recriminazioni di tutta la stampa che si dispiaceva dell’eccesso di fiducia verso Abd-El-Krim del governo democratico francese, con una evasione a dispetto della parola d’onore data.
Avvenimento “formidabile” per i nostri trotskysti, trepidanti di gioia e di entusiasmo. La Verité del 6 giugno, con il titolo “Bravo Abd-El-Krim” si intrattiene su quello che “… conduceva l’eroica lotta del popolo marocchino …” e per spiegare la grandezza rivoluzionaria del suo gesto. “Se voi avete, scrive La Verité, ingannato questi signori dello Stato Maggiore e del Ministero delle Colonie, voi avete fatto bene. Bisogna saper ingannare la borghesia, mentirle, giocare d’astuzia con essa, insegnava Lenin ….” Ecco Abd-El-Krim trasformato in allievo di Lenin, nell’attesa di diventare un membro d’onore del Comitato Esecutivo della IV Internazionale!
I trotzkisti assicurano al “vecchio combattente del Rif, che come per il passato vuole l’indipendenza del suo paese” che “finchè Abd-El-Krim si batterà, tutti i comunisti del mondo gli presteranno aiuto ed assistenza”. E concludono: “Quello che ieri dicevano gli stalinisti, noi trotzkisti lo ripetiamo oggi”.
In effetti, in effetti non lo si poteva dire meglio!
Noi non rimproveriamo ai trotzkisti di “ripetere oggi quello che gli stalinisti dicevano ieri” e fare quello che gli stalinisti hanno sempre fatto. Non vogliamo contestare ai trotskysti di “difendere” quelli che vogliono. Questo è senz’altro il loro ruolo.
Ma che ci sia permesso di esprimere un auspicio, uno solo. Dio mio! Che il bisogno di difesa dei trotzkisti non si rivolga mai al proletariato. Perché con questo tipo di difesa, il proletariato non si risolleverebbe mai più.
L’esperienza dello stalinismo gli basta ampiamente!
Marc
[1] Leggere la nostra brochure La Gauche Communiste de France.
[2] Leggere il nostro articolo, La Gauche Communiste et la continuité du marxisme.
[3] Leggere in proposito il primo capitolo de La Gauche Communiste de France: I tentativi abortiti di creazione di una Sinistra Comunista di Francia.
[4] [Nota della redazione] Un riferimento particolare deve essere fatto a Munis che romperà con il trotskysmo sulla base della difesa dell’internazionalismo proletario. Vedere in proposito il nostro articolo della Révue internationale n° 58, A la mémoire de Munis, un militant de la classe ouvrière.
[5] [Nota della redazione] Si tratta dell’offensiva russa del 1939 che, oltre alla Finlandia, ha riguardato anche la Polonia (già invasa da Hitler), i paesi Baltici e la Romania.
[6] E’ del tutto caratteristico che il gruppo Johnson-Forest, che si è appena scisso dal partito di Schachtman e che si considera “molto a sinistra” per il fatto che rigetta sia la difesa dell’URSS che le posizioni antirusse di Schachtman, poi critichi severamente i trotzkisti francesi che non avrebbero partecipato abbastanza attivamente alla “Resistenza”. Ecco un esempio della coerenza del trotzkismo.
[7] [Nota della redazione] Forze Francesi dell’Interno, insieme di raggruppamenti militari della Resistenza interna francese che si erano costituite nella Francia occupata e poste, nel marzo del 1944, sotto il comando del generale Koenig e l’autorità politica del generale De Gaulle.
[8] [Nota della redazione] Partito Comunista Internazionalista, risultato del raggruppamento, nel 1944, fra il Partito Operaio internazionalista e Comitato Comunista Internazionalista.
[9] [Nota della Redazione] Società delle nazioni, precursore nell’anteguerra delle Nazioni Unite.
[10] Leggere, per esempio, ne La Verité del 20/06/1947, in “La lotta eroica dei trotzkisti cinesi”: “Nella provincia del Cantung, i nostri compagni divennero i migliori combattenti della guerriglia … Nella provincia del Kiang-Si,… i trotzkisti sono salutati dagli stalinisti come ‘i più leali’ combattenti antigiapponesi …”.
[11] [Nota della Redazione] Vidkun Quisling fu il dirigente del Nasjonal Samling (partito nazista) norvegese e dirigente del governo fantoccio messo su dai Tedeschi dopo l’invasione della Norvegia.
[12] [Nota della Redazione] Josip Broz Tito, fu uno dei principali responsabili della resistenza jugoslava, e prese il potere in Jugoslavia alla fine della guerra.
[13] [Nota della Redazione] Abd-el-Krim El Khattabi, (nato verso il 1882 a Ajdir in Marocco, morto il 6 febbraio 1963 al Cairo in Egitto) condusse una lunga resistenza contro l’occupazione coloniale del Rif – regione montagnosa del nord del Marocco – prima degli spagnoli, poi dei francesi e riuscì a costituire una “Repubblica confederata delle tribù del Rif” nel 1922. La guerra per schiacciare questa nuova repubblica fu condotta da un esercito di 450.000 uomini messo su dai governi francese e spagnolo. Vedendo la sua causa persa, Abd-El-Krim si consegnò prigioniero di guerra per risparmiare le vite dei civili, cosa che non impedì ai francesi di bombardare i villaggi con gas tossico provocando così 150.000 morti civili. Abd-El-Krim è esiliato alla Réunion a partire dal 1926 in cui visse in una residenza sorvegliata, ma riceve il permesso di venire a vivere in Francia nel 1947. Quando la sua nave fece scalo in Egitto, riuscì a sfuggire alla sorveglianza dei suoi guardiani, e finì la sua vita al Cairo.
Collegamenti
[1] https://it.internationalism.org/content/xviii-congresso-della-cci-risoluzione-sulla-situazione-internazionale
[2] https://it.internationalism.org/tag/2/28/stalinismo-il-blocco-dellest
[3] https://it.internationalism.org/tag/5/99/collasso-del-blocco-dellest
[4] https://it.internationalism.org/tag/3/46/decomposizione
[5] https://it.internationalism.org/rint/30/disastri-ambientali
[6] http://www.legambientearcipelagotoscano.it/globalmente/petrolio/incidenti.htm
[7] http://www.scienzaesperienza.it/news/new.php?id=0057
[8] https://it.internationalism.org/tag/3/42/ambiente
[9] https://it.internationalism.org/tag/2/25/decadenza-del-capitalismo
[10] https://fr.internationalism.org/rint133/mai_68_et_la_perspective_revolutionnaire_le_mouvement_etudiant_dans_le_monde_dans_les_annees_1960.html
[11] https://fr.internationalism.org/node/3483
[12] https://fr.internationalism.org/rinte28/est.htm
[13] https://fr.internationalism.org/french/rint/109_argentina.html
[14] https://fr.internationalism.org/french/rint/114_pol_imp_US.html
[15] https://fr.internationalism.org/ri384/che_guevara_mythe_et_realite.html
[16] https://fr.internationalism.org/ri388/quelques_commentaires_sur_une_apologie_d_ernesto_che_guevara_a_propos_d_un_livre_de_besancenot.html
[17] https://fr.internationalism.org/rinte110/conflits.htm
[18] https://fr.internationalism.org/rinte115/mo.htm
[19] https://fr.internationalism.org/french/rint/117_conflits.htm
[20] https://fr.internationalism.org/french/rint/118_notes_MO.htm
[21] https://fr.internationalism.org/ri381/affrontements_hamas_fatah_la_bourgeoisie_palestinienne_est_aussi_sanguinaire_que_les_autres.html
[22] https://fr.internationalism.org/ri371/maoisme.htm
[23] https://fr.internationalism.org/rinte81/chine.htm
[24] https://fr.internationalism.org/rinte84/chine.htm
[25] https://indicius.it/
[26] https://deriveapprodi.com/
[27] http://www.libertaegiustizia.it/primopiano/pp_leggi_articolo.php?id=2803&id_titoli_primo_piano=1
[28] https://attac-italia.org/
[29] https://www.massimo.delmese.net/2189/9-aprile-1969-9-aprile-2009-a-40-anni-dai-moti-di-battipaglia/
[30] http://www.nelvento.net/archivio/68/operai/traiano02.htm
[31] https://static.repubblica.it/milano/autunnocaldo/
[32] https://www.pmli.it/storiaautunnocaldo.htm
[33] https://it.internationalism.org/tag/4/75/italia
[34] https://it.internationalism.org/tag/situazione-italiana/lotte-italia
[35] https://it.internationalism.org/tag/2/29/lotta-proletaria
[36] https://it.internationalism.org/tag/correnti-politiche-e-riferimenti/operaismo
[37] https://it.internationalism.org/tag/7/109/sinistra-comunista
[38] https://it.internationalism.org/tag/correnti-politiche-e-riferimenti/trotzkismo