Il capitalismo sprofonda nella crisi
La borghesia si rianima quando sente le prospettive positive annunciate talvolta dagli indicatori economici, in particolare dalle cifre della crescita che timidamente sembrano ripartire verso l’alto. Ma dietro queste "buone notizie", la realtà è molto diversa. Fin dal 2008, per evitare lo scenario catastrofico della crisi degli anni 30, la borghesia ha speso miliardi per sostenere le banche in difficoltà e ha messo in opera misure keynesiane. Queste misure consistono, in particolare, nel diminuire i tassi d'interesse delle banche centrali che determinano il prezzo del credito, e, per lo Stato, nell’impegnare risorse per il rilancio economico, spesso finanziate con l'indebitamento. Una tale politica è supposta avere per effetto benefico lo sviluppo di una forte crescita. Oggi, ciò che a colpo d’occhio colpisce, è l'estrema lentezza della crescita mondiale in rapporto alle astronomiche spese di rilancio ed all'aggressività delle politiche inflazionistiche. Gli Stati Uniti si trovano intanto in una situazione che gli economisti borghesi, mancando loro un'analisi marxista, non comprendono: lo Stato americano si è indebitato per parecchie centinaia di miliardi di dollari ed il tasso d'interesse della FED è vicino allo zero; tuttavia, la crescita dovrebbe innalzarsi solo del 1,6% nel 2010, contro il 3,7% sperati. Come dimostra il caso americano, se, dal 2008, la borghesia è riuscita ad evitare momentaneamente il peggio indebitandosi massicciamente, ciò non ha tuttavia prodotto una ripresa. Incapace di comprendere che il sistema capitalista è un modo di produzione transitorio, prigioniero di schemi sclerotizzati, l'economista borghese non vede l'evidenza: il keynesianismo ha dimostrato il suo insuccesso storico dagli anni 1970 perché le contraddizioni del capitalismo sono oramai insolubili, ivi compreso il barare attraverso l’indebitamento con le leggi fondamentali del capitalismo.
L'economia capitalista si mantiene faticosamente da numerosi decenni gonfiando prodigiosamente il debito di tutti i paesi del mondo per creare un mercato artificiale destinato ad assorbire una parte della sovrapproduzione cronica. Ma la relazione del capitalismo all'indebitamento somiglia all'oppiomania: più si consuma, meno la dose è sufficiente. In altri termini, la borghesia ha mantenuto la testa fuori dall'acqua aggrappandosi ad un'ancora di salvezza putrefatta, la quale alla fine del 2008 si è sgretolata. È così che alla patente inefficacia dei deficit di bilancio si aggiunge il rischio di insolvenza di numerosi paesi, come la Grecia, l'Italia, l'Irlanda o la Spagna. In questo contesto, i governi di tutti i paesi sono ridotti a procedere alla giornata, modificando le loro politiche economiche dal rilancio al rigore in funzione degli avvenimenti, senza che niente possa migliorare durevolmente la situazione. Lo Stato, ultimo ricorso contro la crisi storica che strangola il capitalismo, in definitiva, non è più in grado di nascondere la sua impotenza.
Ovunque, nel mondo, continuano ad abbattersi attacchi senza precedenti contro la classe operaia che viaggiano alla stessa velocità con cui aumentano i tassi di disoccupazione. I governi, di destra come di sinistra, impongono ai proletari delle riforme e dei tagli di bilancio di una brutalità inusuale, come in Spagna dove, tra l’altro, quest’anno i dipendenti pubblici hanno visto il loro stipendio diminuito del 5% dal governo socialista di Zapatero, il quale già oggi ne promette il blocco per il 2011. In Grecia, è proprio l'età media per andare in pensione ad aver subito un aumento di 14 anni mentre i valori delle pensioni sono congelate fino al 2012. In Irlanda, paese che la borghesia ancora recentemente vantava per il suo dinamismo, il tasso ufficiale di disoccupazione è aumentato al 14%, mentre gli stipendi dei dipendenti pubblici sono stati alleggeriti anche dal 5% al 15%, così come le indennità dei disoccupati o i sussidi familiari. Secondo l'Organizzazione Internazionale del Lavoro, il numero di disoccupati nel mondo è passato da 30 milioni nel 2007 a 210 milioni di oggi[1]. Gli esempi si potrebbero moltiplicare perché, su tutti i continenti, la borghesia fa pagare alla classe operaia il pesante prezzo della crisi. Ma dietro i piani di austerità, ipocritamente chiamati riforme, dietro i licenziamenti e le chiusure di fabbrica, intere famiglie sprofondano nella povertà. Negli Stati Uniti, secondo un rapporto del Census Bureau circa 44 milioni di persone vivono sotto la soglia di povertà, ossia un aumento di 6,3 milioni di poveri in due anni che vanno ad aggiungersi al già forte sviluppo della povertà conosciuto nei tre anni precedenti. Del resto, negli Stati Uniti il decennio è stato segnato da una forte diminuzione del valore dei bassi redditi.
Non è solo nei “paesi ricchi” che la crisi viene pagata con la miseria. Recentemente, l'organizzazione delle Nazioni Unite per l'alimentazione e l'agricoltura, meglio conosciuta sotto la sigla FAO, si rallegrava nell’osservare nel 2010 un arretramento della malnutrizione che colpisce particolarmente l'Asia con 578 milioni di persone e l'Africa con 239 milioni, per un totale di 925 milioni di persone nel mondo. Ciò che le statistiche non rivelano allo stesso tempo, è che questa cifra resta largamente superiore a quella pubblicata nel 2008, prima che gli effetti dell’inflazione speculativa dei prezzi dei prodotti alimentari si erano fatti sentire fino a provocare una serie di sommosse in numerosi paesi. La diminuzione significativa dei prezzi agricoli ha modestamente "ridotto la fame nel mondo" ma la tendenza su parecchi anni, quella cioè che resta indipendente da una congiuntura economica immediata, è innegabilmente in aumento. Del resto, le canicole estive in Russia, in Europa dell'Est e, recentemente, in America latina hanno diminuito molto sensibilmente il rendimento dei raccolti mondiali, ciò che, in un contesto di aumento dei prezzi, accrescerà inevitabilmente per il prossimo anno la malnutrizione. Non è solo a livello economico che il capitalismo si esprime: le irregolarità climatiche e la gestione borghese delle catastrofi ambientalistiche costituiscono una causa crescente di mortalità e di miseria.
Il capitalismo distrugge il pianeta
Quest’estate, violente catastrofi si sono abbattute ovunque sulle popolazioni nel mondo: le fiamme hanno arroventato la Russia, il Portogallo e numerosi altri paesi; monsoni devastatori hanno sprofondato il Pakistan, l'India, il Nepal e la Cina nel fango. In primavera, il Golfo del Messico ha conosciuto la peggiore catastrofe ecologica della storia in seguito all'esplosione di una piattaforma petrolifera. L'elenco delle catastrofi dell'anno 2010 è ancora lungo. La moltiplicazione di questi fenomeni e la loro gravità crescente non sono il frutto del caso perché dall'origine delle catastrofi fino alla loro gestione, il capitalismo ne porta una pesante responsabilità.
Recentemente, il crollo di una vasca di ritenzione di una fabbrica di produzione di alluminio ha generato una catastrofe industriale ed ecologica in Ungheria: più di un milione di metri cubi di "fango rosso" tossico si sono sparsi intorno alla fabbrica, causando parecchi morti e numerosi feriti. I danni ambientali e sanitari sono enormi. Gli industriali, per "minimizzare gli impatti" di questi rifiuti, trattano il fango rosso nel seguente modo: ne rigettano in mare migliaia di tonnellate o lo depositano in una immensa vasca di ritenzione, come quella che è crollata in Ungheria, mentre da molto tempo esistono tecnologie per riciclare tali rifiuti, in particolare nell'edilizia e nell'orticoltura.
La distruzione del pianeta da parte della borghesia non si limita tuttavia alle innumerevoli catastrofi industriali che colpiscono ogni anno numerose regioni. Secondo il parere di numerosi scienziati, il riscaldamento del pianeta ha un ruolo principale nella moltiplicazione dei fenomeni climatici estremi: "Sono avvenimenti che sono destinati a riprodursi e ad intensificarsi in un clima perturbato dall'inquinamento dei gas ad effetto serra" secondo il vicepresidente del Gruppo di esperti intergovernativi sull'evoluzione del clima (Giec). E per tale motivo dal 1997 al 2006, mentre la temperatura del pianeta non ha smesso di aumentare, il numero di catastrofi, sempre più devastatrici, è aumentato del 60% rispetto al decennio precedente, trascinando nella loro scia sempre più nuove vittime. Da ora al 2015, il numero di vittime di catastrofi meteorologiche dovrebbe aumentare più del 50%.
Gli scienziati delle compagnie petrolifere possono agitarsi come vogliono nel dichiarare che il riscaldamento planetario non è il risultato di un inquinamento massiccio dell'atmosfera, ma l'insieme delle ricerche scientifiche serie dimostra una correlazione evidente tra la liberazione dei gas ad effetto serra, il riscaldamento climatico e la moltiplicazione delle catastrofi naturali. Tuttavia, gli scienziati si sbagliano quando affermano che basterebbe un minimo di volontà politica dei governi per potere cambiare le cose. Il capitalismo è incapace di limitare il rilascio di gas ad effetto serra perché dovrebbe andare contro le sue leggi, quelle del profitto, della produzione a costi minimi e della concorrenza. È la necessaria sottomissione a queste leggi che costringe la borghesia ad inquinare con, tra altri esempi, la sua industria pesante, o che fa percorrere inutilmente alle sue merci migliaia di chilometri.
Del resto, la responsabilità del capitalismo sull'ampiezza di queste catastrofi non si limita all’inquinamento atmosferico ed all'irregolarità climatica. La distruzione metodica degli ecosistemi, attraverso, per esempio, la deforestazione massiccia, lo stoccaggio dei rifiuti nelle zone naturali di drenaggio, o l'urbanizzazione anarchica, talvolta fino nel letto dei fiumi prosciugati ed al centro di zone a forte rischio d'incendio, ha aggravato di molto l'intensità delle catastrofi.
La serie di incendi che ha colpito la Russia in piena estate, in particolare una larga regione intorno a Mosca, è significativa dell'incuria della borghesia e della sua impotenza a dominare questi fenomeni. Le fiamme hanno arroventato centinaia di migliaia di ettari causando un numero indeterminato di vittime. Per parecchi giorni, un denso fumo, le cui conseguenze sulla salute sono state catastrofiche al punto da raddoppiare il tasso quotidiano di mortalità, ha invaso la capitale. E per non essere da meno, enormi rischi nucleari e chimici minacciano ancora le popolazioni al di là delle frontiere russe a causa, soprattutto, degli incendi su delle terre contaminate dall'esplosione della centrale di Chernobyl e dei magazzini di armi e di prodotti chimici più o meno dimenticati nella natura.
Un elemento essenziale per comprendere le responsabilità della borghesia relativamente alla violenza degli incendi è lo stupefacente stato di abbandono delle foreste. La Russia è un paese immenso dotato di un parco forestale molto importante e denso, che necessita di una cura particolare per circoscrivere velocemente gli inizi di incendi allo scopo di evitare la loro estensione non più controllabile. Ora, numerosi ed estesi boschi russi non sono dotati neanche di vie d'accesso, tanto che i camion dei vigili del fuoco sono incapaci di raggiungere il cuore della maggior parte degli incendi. Del resto, la Russia conta solo 22.000 vigili del fuoco, ossia meno di un piccolo paese come la Francia, per lottare contro le fiamme, ed i governatori regionali, notevolmente corrotti, preferiscono adoperare i magri mezzi di cui dispongono per la gestione delle foreste per acquistare automobili di lusso, come hanno rivelato i numerosi scandali.
Lo stesso cinismo vale per i famosi fuochi di torbiera, zone il cui suolo è costituito da materia organica in decomposizione particolarmente infiammabile: oltre a lasciare le torbiere in abbandono, la borghesia russa ha favorito la costruzione di abitazioni su queste zone dove degli incendi già avevano imperversato con forza nel 1972. Il calcolo è molto semplice: su questi pericolosi settori, i promotori immobiliari hanno potuto acquistare dei campi, dichiarati edificabili dalla legge, ad un prezzo irrisorio.
È in tal modo che il capitalismo trasforma dei fenomeni naturali umanamente dominabili in vere catastrofi. Ma, in materia di orrore, la borghesia non si ferma davanti a niente. È così che intorno alle devastanti inondazioni che hanno colpito il Pakistan, si è giocata una delle più immonde lotte imperialiste.
Per parecchie settimane, piogge torrenziali si sono abbattute sul Pakistan, causando enormi inondazioni, smottamenti di terreni, migliaia di vittime, più di 20 milioni di sinistrati e danni materiali considerevoli. La carestia e la propagazione di malattie, come il colera, hanno peggiorato una situazione già disperata. Per più di un mese, nel mezzo di questo orribile quadro, la borghesia pakistana ed il suo esercito hanno mostrato solo un'incompetenza ed un cinismo allucinante, accusando l'implacabilità della natura, mentre, come in Russia, tra urbanizzazione anarchica e servizi di soccorsi impotenti, le leggi del capitalismo appaiono come l'elemento essenziale per comprendere l'ampiezza della catastrofe.
Ma un aspetto particolarmente nauseante di questa tragedia è il modo con cui le potenze imperialiste hanno ancora una volta tentato di trarre profitto dalla situazione, a scapito delle vittime, utilizzando le operazioni umanitarie come alibi. Infatti, gli Stati Uniti sostengono, nella cornice della guerra con il confinante Afghanistan, il governo molto contestato di Youssouf Raza Gilani, e hanno approfittato con una certa urgenza degli avvenimenti per dispiegare un importante contingente "umanitario" costituito da portaelicotteri, da navi di assalto anfibie, ecc. Col pretesto di impedire un sollevamento dei terroristi di Al-Qaida, favorito dalle inondazioni, gli Stati Uniti frenano, per quanto è possibile, l’arrivo dell' “aiuto internazionale” proveniente da altri paesi, "aiuto umanitario" anche questo costituito da militari, diplomatici ed investitori senza scrupoli.
Come per ogni catastrofe di grande portata, tutti i mezzi sono messi in opera da tutti gli Stati per fare valere i loro interessi imperialisti. Tra questi, la promessa di doni è diventata un'operazione sistematica: tutti i governi annunciano ufficialmente una sostanziosa manna finanziaria che è accordata ufficiosamente solamente se si soddisfano le ambizioni dei donatori. Per esempio, attualmente, solo il 10% dell'aiuto internazionale promesso nel gennaio 2010 dopo il terremoto ad Haiti è stato versato effettivamente alla borghesia haitiana. Ed il Pakistan non farà certamente eccezione alla regola; i milioni promessi saranno versati solamente a titolo di commissione di Stato contro servizi resi.
I fondamenti del capitalismo, la ricerca del profitto, la concorrenza, ecc., sono dunque, a tutti i livelli, al centro della problematica ambientalista. Ma le lotte intorno al Pakistan illustrano anche le tensioni imperialiste crescenti che devastano una parte del pianeta.
Il capitalismo semina il caos e la guerra
L'elezione di Barack Obama alla testa della prima potenza mondiale ha suscitato molte illusioni sulla possibilità di pacificare i rapporti internazionali. In realtà, la nuova amministrazione americana ha solamente confermato la dinamica imperialista iniziata col crollo del blocco dell'Est. L'insieme delle nostre analisi secondo cui "la disciplina rigida dei blocchi imperialisti" doveva, in seguito al crollo del blocco dell'Est, cedere il posto all'indisciplina, ad un caos strisciante ed ad una lotta generalizzata di tutti contro tutti con una moltiplicazione incontrollabile dei conflitti militari locali, è stato pienamente verificato. Il periodo aperto dalla crisi e l'aggravamento considerevole della situazione economica non hanno fatto che acuire le tensioni imperialistiche tra le nazioni. Secondo L'Istituto Internazionale Peace Research di Stoccolma non meno di 1531 miliardi di dollari sarebbero stati spesi nei bilanci militari di tutti i paesi nel 2009, ossia un aumento del 5,9% rispetto al 2008 e del 49% rispetto al 2000. Ed ancora, queste cifre non tengono conto del traffico illegale delle armi. Anche se la borghesia di certi Stati si trova costretta, obbligata dalla crisi, a ridurre le sue spese militari, fondamentalmente la militarizzazione crescente del pianeta è il riflesso del solo futuro che viene riservato all'umanità: la moltiplicazione dei conflitti imperialisti.
Gli Stati Uniti, con i loro 661 miliardi di spese militari nel 2009, beneficiano di una superiorità militare assolutamente incontestabile. Tuttavia, dal crollo del blocco dell'Est, il paese è sempre meno in grado di mobilitare altre nazioni dietro di sè, come lo ha dimostrato la guerra dell'Iraq iniziata nel 2003 dove, a dispetto del ritiro annunciato recentemente, le truppe americane contano ancora parecchie decine di migliaia di soldati. Non solo gli Stati Uniti non sono stati in grado di raggruppare altre potenze sotto la loro bandiera, in particolare la Russia, la Francia, la Germania e la Cina ma, in più, altre si sono disimpegnate poco a poco dal conflitto, come la Gran Bretagna e la Spagna. Soprattutto, la borghesia americana sembra sempre meno capace di assicurare la stabilità di un paese conquistato (il pantano afgano ed iracheno sono sintomatici di questa impotenza) o di una regione, come lo dimostra il modo con cui l'Iran sfida gli Stati Uniti senza timore di rappresaglia. L'imperialismo americano è nettamente declinante e cerca di riconquistare la sua leadership persa da parecchi anni attraverso le guerre che, alla fine, l'indeboliscono considerevolmente.
Di fronte agli Stati Uniti, la Cina tenta di fare prevalere le sue ambizioni imperialiste attraverso lo sforzo di armamento (100 miliardi di dollari di spese militari nel 2009, con aumenti annui a due cifre dagli anni 90) e sul campo. In Sudan, per esempio, come in molti altri paesi, la Cina si stabilisce economicamente e militarmente. Il regime sudanese e le sue milizie, armate dalla Cina, massacrano le popolazioni accusate di sostenere i ribelli del Darfour, armati a loro volta dalla Francia, tramite il Ciad, e dagli Stati Uniti, vecchio avversario della Francia nella regione. Tutte queste manovre nauseanti hanno determinato la morte di centinaia di migliaia di persone e l'esodo di parecchi milioni d'altre.
Tuttavia, non sono solo Gli Stati Uniti e la Cina a portare la responsabilità del caos guerriero sul pianeta. In Africa, per esempio, la Francia, direttamente o attraverso milizie interposte, tenta di salvare ciò che le è possibile della sua influenza, principalmente in Ciad, in Costa d'Avorio, in Congo ecc. Le cricche palestinesi ed israeliane, sostenute dai rispettivi padrini perseguono una guerra interminabile. La decisione israeliana di non prolungare la moratoria sulle costruzioni nei territori occupati, mentre sono in atto "negoziati di pace" organizzati dagli Stati Uniti, mostra del resto il vicolo cieco della politica di Obama che voleva distinguersi da quella di Bush attraverso una maggiore diplomazia. La Russia, con la guerra in Georgia e l'occupazione della Cecenia tenta di ricreare una sfera di influenza attorno a sé. La litania dei conflitti imperialisti è troppo lunga per poterla esporre qui in modo esauriente. Tuttavia, ciò che la moltiplicazione dei conflitti rivela, è che tutte le frazioni nazionali della borghesia, potenti o non, non hanno altra alternativa da proporre se non spargimenti di sangue in difesa dei loro interessi imperialisti.
La classe operaia riprende la strada della lotta
Di fronte alla profondità della crisi nella quale affonda il capitalismo, palesemente la combattività operaia non è all’altezza degli attacchi, le sconfitte del proletariato esercitano ancora una pesante pressione sulla coscienza della nostra classe. Ma le armi della rivoluzione si fabbricano nel cuore delle lotte che la crisi comincia a sviluppare significativamente. Da parecchi anni numerose lotte aperte sono esplose, talvolta simultaneamente a livello internazionale. La combattività operaia si esprime simultaneamente sia a livello dei paesi "ricchi" - in Germania, in Spagna, negli Stati Uniti, in Grecia, in Irlanda, in Francia, in Giappone, ecc. - che nei paesi "poveri". La borghesia dei paesi ricchi diffonde l'immonda e menzognera idea che i lavoratori dei paesi poveri si appropriano dei posti di lavoro dei paesi ricchi, ma mette molta cura ad imporre quasi un blackout sulle lotte di questi operai perché li farebbe apparire vittime degli stessi attacchi che il capitalismo in crisi impone in tutti i paesi.
In Cina, in un paese dove la parte dei salari nel PIL è passata dal 56% nel 1983 al 36% nel 2005, gli operai di parecchie fabbriche hanno cercato di liberarsi dei sindacati, malgrado con forti illusioni sulla possibilità di un sindacato libero. Soprattutto, gli operai cinesi sono riusciti a coordinare da soli la loro azione e ad al-largare la loro lotta al di là della fabbrica. A Panama, il 1 luglio, è esploso uno sciopero nelle piantagioni di banane della provincia di Bocas di Toro per richiedere il pagamento degli stipendi ed opporsi ad un riforma antisciopero. Là anche, malgrado un viva repressione poliziesca ed i molteplici sabotaggi sindacali, i lavoratori hanno cercato immediatamente, e con successo, di estendere il loro movimento. La stessa solidarietà e la stessa volontà di battersi hanno animato collettivamente un movimento di sciopero selvaggio in Bangladesh, violentemente represso dalla polizia.
Nei paesi centrali, la reazione operaia è proseguita attraverso nu-merose lotte in Grecia e in particolare in Spagna dove gli scioperi si moltiplicano contro le misure draconiane di austerità. Lo sciopero organizzato dai lavoratori della metropolitana di Madrid è significativo della volontà degli operai di estendere la loro lotta e di organizzarsi collettivamente attraverso le assemblee generali. È perciò che esso è stato il bersaglio di una campagna denigratoria orchestrata dal governo socialista di Zapatero e dai suoi media. In Francia, se i sindacati riescono ad inquadrare gli scioperi e le manifestazioni, la riforma che mira ad innalzare l'età pensionabile provoca la mobilitazione di un larga frangia della classe operaia e dà luogo ad espressioni che, per quanto minoritarie, sono anche molto significative di una volontà di organizzarsi fuori dai sindacati attraverso le assemblee generali sovrane e di estendere le lotte.
Evidentemente, la coscienza del proletariato mondiale è ancora insufficiente e queste lotte, sebbene simultanee, non sono immediatamente in grado di creare le condizioni di un’unica lotta a livello internazionale. Tuttavia, la crisi nella quale affonda il capitalismo, le cure di austerità e la miseria crescente vanno a produrre inevitabilmente ed in maniera crescente una moltiplicazione di lotte massicce attraverso cui gli operai svilupperanno poco a poco la loro identità di classe, la loro unità, la loro solidarietà, la loro volontà di battersi collettivamente. Questo campo è il concime di una politicizzazione cosciente del combattimento operaio per la sua emancipazione. La strada verso la rivoluzione è ancora lunga ma, come scrivevano Marx ed Engels nel Manifesto comunista: "La borghesia non ha forgiato solamente le armi che la metteranno a morte; ha prodotto anche gli uomini che maneggeranno queste armi, gli operai moderni, i proletari".
V. (08/10/10)
[1] Queste statistiche mettono in evidenza un aumento generale della disoccupazione che la borghesia con i suoi giochetti di pre-stigio non può più dissimulare. Bisogna essere tuttavia coscienti che queste cifre sono lungi dal riflettere l'ampiezza del fenomeno poiché, in tutti i paesi, compresi quelli in cui la borghesia si è do-vuta impegnare per mettere in opera un dispositivo di ammortiz-zatori sociali, il fatto di non ritrovare lavoro ha per conseguenza che dopo un certo tempo non si è più considerati disoccupati.
Nel precedente articolo abbiamo rievocato la grande lotta portata avanti dalla classe operaia in Italia alla fine degli anni ‘60 che è rimasta nella storia con il nome di “autunno caldo”, nome che, come abbiamo già ricordato nel suddetto articolo, è troppo angusto dal punto di vista temporale per designare una fase di lotte che ha investito i proletari in Italia per almeno tutto il biennio 1968-69 e che ha lasciato una traccia profonda negli anni successivi. Ugualmente abbiamo messo in luce come questa lotta in Italia non sia stata che uno dei tanti episodi all’interno di un processo di ripresa internazionale della lotta di classe dopo il lungo periodo di controrivoluzione che aveva attraversato il mondo intero in seguito alla sconfitta dell’ondata rivoluzionaria degli anni ’20. Concludevamo questo primo articolo ricordando che questo enorme sviluppo di combattività, accompagnato da momenti di chiarificazione importanti nella classe operaia, incontrerà però, nel periodo successivo, degli ostacoli importanti. La borghesia italiana, come quella degli altri paesi che avevano dovuto far fronte al risveglio della classe operaia, non rimane a lungo con le mani in mano e, a parte gli interventi frontali messi in atto dai corpi di polizia, cerca gradualmente di aggirare l’ostacolo con strumenti diversi. Come vedremo in questa seconda parte dell’articolo, la capacità di recupero della borghesia si basa molto sulle debolezze di un movimento proletario che, nonostante un’enorme combattività, era ancora privo di una chiara coscienza di classe e le cui stesse avanguardie non avevano la maturità e la chiarezza necessarie a svolgere il loro ruolo.
Le debolezze della classe operaia nell’autunno caldo
Le debolezze della classe operaia nell’autunno caldo sono legate principalmente alla profonda rottura organica che si era prodotta nel movimento operaio dopo la sconfitta dell’ondata rivoluzionaria degli anni ’20 e il soffocante dominio dello stalinismo. Ciò aveva giocato in maniera doppiamente negativa sulla coscienza della classe operaia. Da una parte infatti era stato cancellato tutto il patrimonio politico di classe, la prospettiva del comunismo essendo confusa con interclassistici programmi di nazionalizzazioni e la stessa lotta di classe confusa sempre più con la lotta per la “difesa della propria patria”![1] D’altra parte, l’apparente continuità con cui si era passati dall’ondata rivoluzionaria degli anni ’20 alla più atroce fase controrivoluzionaria, con le purghe staliniane e i milioni di proletari trucidati “in nome del comunismo”, ha impresso nella mente della gente comune, grazie anche alla perversa propaganda della borghesia sui comunisti come gente sempre pronta ad ogni angheria e violenza sull’uomo, l’idea che effettivamente il marxismo o il leninismo andassero respinti o per lo meno profondamente rivisti. Così, quando la classe operaia si risveglia, a livello italiano e internazionale, non ha alle spalle alcuna organizzazione rivoluzionaria con delle solide basi teoriche che possa sostenerne lo sforzo di ripresa. Infatti, quasi tutti i nuovi gruppi che si ricostituiscono sull’onda della ripresa della lotta di classe della fine degli anni ‘60, pur riprendendo in mano i classici, lo fanno con un certo aprioristico criticismo che non li aiuterà a ritrovare ciò di cui hanno bisogno. D’altra parte le stesse formazioni della sinistra comunista che erano sopravvissute ai lunghi decenni della controrivoluzione, non erano rimaste politicamente indenni. Così i consiliaristi, testimonianza quasi larvale della eroica esperienza della sinistra tedesco-olandese degli anni ’20, ancora terrorizzati dal ruolo nefasto che avrebbe potuto assumere in futuro un partito degenerato che, come quello stalinista, avesse potuto assumere il comando sullo Stato e sul proletariato, si ritagliano sempre più un ruolo di “partecipatori alle lotte” senza giocare alcun ruolo di avanguardia e mantenendo dunque per sé tutto il bagaglio di lezioni del passato. Per i bordighisti e la sinistra italiana del dopo ‘43 (Programma Comunista e Battaglia Comunista), che invece tale ruolo lo rivendicano con forza, si arriva al paradosso che, per l’incapacità di comprendere la fase in cui si trovavano e per una sorta di adulazione per lo strumento partito che si congiunge ad una certa sottovalutazione delle lotte operaie sviluppatesi in assenza dei rivoluzionari, si rifiutano tutti di riconoscere, nell’autunno caldo e nelle lotte di fine anni ’60, la ripresa storica della classe a livello internazionale finendo per avere all’epoca una presenza praticamente nulla[2].
Ciò fece sì che i nuovi gruppi politici che si erano formati durante gli anni ’60, vuoi per le diffidenze che questi nutrivano nei confronti delle precedenti esperienze politiche, vuoi per l’assenza di riferimenti politici già presenti, fossero spinti a reinventarsi delle posizioni e un programma d’azione. Il problema è però che il punto da cui partivano era l’esperienza fatta all’interno del vecchio e decrepito partito stalinista. Per cui la folta generazione di militanti che viene allo scoperto in contrapposizione a tali partiti ed ai sindacati, rompendo i ponti con i partiti di sinistra li rompe un po’ anche con la tradizione marxista, andando alla ricerca di una via rivoluzionaria nelle “novità” che pensa di incontrare per strada, sviluppando molto spontaneismo e molto volontarismo. Anche perché chi si presenta nelle vesti di ufficialità è o lo stalinismo vecchia maniera (URSS e i PC classici) o quello nuova maniera dei “cinesi”.
L’ideologia dominante dell’Autunno caldo: l’operaismo
E’ in questo contesto che si sviluppa l’operaismo, l’ideologia dominante dell’autunno caldo. La giusta reazione dei proletari che si risvegliavano alla lotta di classe contro le strutture burocratizzate e asfittiche del PCI[3] e dei sindacati li spinse a togliere a queste strutture ogni fiducia e a riporla solo nella classe operaia medesima. Questo sentimento viene bene espresso nell’intervento di un operaio della Om di Milano al Palasport di Torino in occasione di un coordinamento della nascente Lotta Continua nel gennaio 1970:
“A differenza del Partito comunista, non siamo guidati da quattro borghesi. (…) Noi non faremo come il Pci, perché saranno gli operai a guidare questa organizzazione”[4].
E’ il momento magico in cui nelle manifestazioni si grida: “Siamo tutti delegati!”.
Il giudizio sui sindacati è infatti particolarmente forte:
«Non pensiamo né che si possa cambiare il sindacato “dall’interno”, né che si debba costruirne uno nuovo più “rosso”, più “rivoluzionario”, più “operaio”, senza burocrati. Noi pensiamo che il sindacato sia una rotella del sistema dei padroni … e quindi vada combattuto come i padroni»[5].
Qui di seguito cercheremo di presentare i principali aspetti dell’operaismo, in particolare nella versione difesa da Toni Negri - che resta a tutt’oggi uno degli esponenti più accreditati di questa corrente politica – in modo da poterne valutare gli elementi di forza ma anche quelli che ne hanno sancito il successivo fallimento. Per fare questo faremo riferimento all’opera di Toni Negri Dall’operaio massa all’operaio sociale. Intervista sull’operaismo[6]. Cominciamo proprio da una definizione di operaismo:
“Il cosiddetto “operaismo” nasce e si forma come un tentativo di risposta politica alla crisi del movimento operaio degli anni Cinquanta, crisi determinata fondamentalmente dalla vicenda storica del movimento operaio attorno al XX congresso.”[7]
Come si vede già da questo passaggio, nonostante la rottura anche profonda con le forse ufficiali di sinistra, la concezione che si ha di queste – ed in particolare del PCI – è del tutto inadeguata perché basata solo su elementi empirici e non radicata su una comprensione teorica di fondo. Si parte infatti da una cosiddetta “crisi del movimento operaio degli anni cinquanta”, quando invece all’epoca quello che viene definito “movimento operaio” è solo l’internazionale della controrivoluzione stalinista nella misura in cui l’ondata rivoluzionaria era stata sconfitta già negli anni ‘20 e la gran parte dei quadri politici operai ormai annientata perché dispersa e massacrata. Questa ambiguità nei confronti del PCI si esprimerà attraverso un rapporto di odio-amore verso il partito di origine e spiegherà come mai, nel tempo, tantissimi elementi non troveranno niente di male nel tornare all’ovile![8]
L’operaismo si fonda in origine sulla quella che viene definita la figura dell’operaio massa, ovvero la nuova generazione di proletari che, proveniente in larga misura dal meridione in una fase di espansione e di modernizzazione dell’industria dalla seconda metà degli anni ‘50 ai primi anni ‘60, va a sostituire la vecchia figura dell’operaio professionalizzato, svolgendo in genere un lavoro dequalificato e ripetitivo. Il fatto che questa componente proletaria, giovane e senza storia, fosse molto meno sensibile alle sirene dello stalinismo e del sindacalismo e molto più pronta a porsi sul piano della lotta, ha indotto gli operaisti dell’epoca a lasciarsi prendere da un’analisi sociologica secondo cui il PCI sarebbe stato l’espressione politica degli strati di operai professionalizzati, di una aristocrazia operaia[9]. Vedremo più avanti dove condurrà questa sorta di purismo sociale a livello di scelte politiche.
Dalla concezione partitista allo scioglimento nel movimento
Il contesto degli anni ‘60, la grande forza e durata del movimento di classe in Italia di quel periodo, la mancanza di esperienze trasmesse per via diretta da organizzazioni proletarie preesistenti, suggerisce alla generazione di giovani militanti dell’epoca l’idea secondo cui si era ormai arrivati ad una situazione rivoluzionaria[10] e che occorreva stabilire, nei confronti della borghesia, un rapporto di conflitto permanente, una sorta di dualismo di potere. Ciò impone ai gruppi che difendono questa idea (principalmente Potere Operaio) di assumersi un ruolo dirigente nei confronti del movimento (“l’agire da partito”) e di sviluppare un’azione continua e sistematica contro lo Stato. Ecco come si esprime a proposito Tony Negri:
“L’attività politica di Potere Operaio sarà dunque tale da ricomporre sistematicamente il movimento di classe, le varie situazioni, i vari settori della classe operaia e del proletariato, e da portarli verso scadenze, verso momenti di scontro di massa che possano intaccare questa realtà dello Stato così come ci si presenta dinnanzi. L’esercizio di un contropotere, come contropotere legato alle singole esperienze, ma che si tratta di volta in volta di garantire ed esercitare contro il potere dello Stato: anche questo è un soggetto fondamentale dell’analisi e una funzione dell’organizzazione.”[11]
Purtroppo la mancata critica alle pratiche dello stalinismo ha condotto i gruppi, operaisti e non, nati negli anni ’60, a portarsi dietro logiche riconducibili a quella stalinista. Tra queste particolarmente pesante è l’idea dell’“azione esemplare”, capace di spingere le masse ad assumere un certo comportamento:
«“Non avevo posizioni pacifiste”, dice Negarville, uno dei capi del servizio d’ordine che aveva cercato e trovato lo scontro con gli agenti in corso Traiano (3 luglio 1969: 70 poliziotti feriti, 160 manifestanti fermati). “L’idea dell’azione esemplare che provoca la reazione della polizia fa parte della teoria e della prassi di LC fin dall’inizio, gli scontri di piazza sono come le battaglie operaie per il salario, funzionali alla crescita del movimento”, dice Negarville; e non c’è nulla di peggio di una manifestazione pacifica o di un buon contratto; quel che importa non è raggiungere l’obiettivo ma la lotta, la lotta continua appunto».[12]
Questa logica è la stessa che spingerà più tardi le varie formazioni terroristiche a giocare sulla pelle della classe operaia la propria sfida allo Stato, puntando sul fatto che più avanti era portato l’attacco al cuore dello Stato, più coraggio avrebbero acquistato i proletari. L’esperienza ci ha invece dimostrato che, ogni volta che delle bande terroristiche hanno rubato alla classe l’iniziativa mettendola in una situazione di obiettivo ricatto, la conseguenza è stata sistematicamente una paralisi della classe stessa.[13]
Questa ricerca dello scontro continuo produce però, alla lunga, sia un esaurimento di energie che una difficoltà, per queste formazioni operaiste, di trovare lo spazio per una seria e necessaria riflessione politica:
“Di fatto, la vita organizzativa di Potere Operaio è continuamente rotta dalla necessità di scadenze che spesso, di volta in volta, esorbitano dalla capacità di massa di sostenerle; spesso, d’altro lato, il radicamento sul livello di massa è povero ed esclude capacità di scadenza.”[14]
D’altra parte il movimento di lotta della classe, dopo aver espresso una grande spinta con lo sviluppo di importanti lotte ancora nei primi anni ’70, comincia tuttavia a declinare e ciò porta all’epilogo dell’esperienza di Potere Operaio con lo scioglimento del gruppo nel 1973:
“… appena abbiamo capito che il problema che ponevamo era, nella situazione e nel rapporto di forza dati, irrisolvibile, ci siamo sciolti. Se con le nostre forze non riuscivamo a risolvere questo problema, a questo punto era la forza del movimento di massa che doveva in qualche modo risolverlo, o per lo meno proporre una nuova impostazione al problema.”[15]
L’ipotesi da cui si era partiti secondo cui si era in presenza di un attacco operaio al capitale permanente e linearmente crescente, e quindi in presenza delle condizioni materiali per costruire un “nuovo partito rivoluzionario”, si rivela ben presto infondata e non corrispondente alla realtà negativa del “riflusso”.
Ma piuttosto che prenderne atto, gli operaisti si fanno prendere da un crescente soggettivismo, immaginando di aver messo in crisi il sistema economico con le proprie lotte e perdendo un po’ alla volta ogni supporto materialistico nelle loro analisi, raggiungendo a volte dei punti di vista decisamente interclassisti.
Dall’operaismo all’autonomia operaia
Come vedremo, i temi politici che hanno caratterizzato l’operaismo non sono sempre gli stessi e non sono portati avanti sempre con la stessa forza. In ogni caso, tutte le posizioni di Potere Operaio (e dell’operaismo in genere) sono segnate da questa esigenza di una continua contrapposizione frontale allo Stato, una contrapposizione ostentata di continuo come segnale di azione politica, come espressione di vitalità. Quello che invece cambia gradualmente è il riferimento alla classe operaia, o meglio alla figura di operaio a cui si fa riferimento che, dopo quella dell’operaio massa, con il venir meno delle lotte, sfuma progressivamente in quella di un cosiddetto “operaio sociale”. E’ questa evoluzione del riferimento sociale che spiega in qualche modo tutta l’evoluzione, o meglio l’involuzione politica, dell’operaismo.
Il tentativo di spiegare questa evoluzione di posizioni dell’operaismo si lega ad un presunto disegno del capitale tendente a vincere la combattività operaia, precedentemente concentrata in fabbrica, disperdendo la classe sul territorio:
“… la ristrutturazione capitalista cominciava a identificarsi come colossale operazione sulla composizione della classe operaia, operazione di dissoluzione della forma nella quale la classe era venuta costituendosi, determinandosi negli anni Sessanta. Questi anni avevano visto una prevalenza dell’operaio massa in quanto figura cerniera della produzione capitalistica e della produzione sociale di valore concentrata sulla fabbrica. La ristrutturazione capitalistica era costretta, da questa rigidità politica interna tra produzione e riproduzione, a giocare man mano l’isolamento dell’operaio massa nella fabbrica rispetto al processo di socializzazione della produzione e alla figura operaia che veniva distendendosi socialmente. D’altra parte, nella misura stessa in cui il processo di produzione veniva estendendosi socialmente, la legge del valore cominciava a funzionare solo formalmente, cioè funzionava non sulla relazione diretta tra lavoro individuale, determinato, e plusvalore estorto, ma sul complesso del lavoro sociale.”[16]
Così la figura operaia di riferimento diventa quella di un fantomatico “operaio sociale”, figura quanto mai fumosa nella quale, nonostante le precisazioni di Negri[17], il movimento dell’epoca ci ha messo di tutto.
In realtà, con la transizione dall’operaio massa all’operaio sociale lo stesso operaismo organizzato si scioglie (Potere Operaio) o degenera verso il parlamentarismo (Lotta Continua) e si presenta un nuovo fenomeno che è quello dell’autonomia operaia[18], che vuole essere la continuazione, in forma di movimento, dell’esperienza operaista.
L’Autonomia Operaia nasce di fatto nel 1973 al congresso di Bologna, in una fase in cui tutta una parte della gioventù si riconosce nella figura dell’operaio sociale coniata da Toni Negri. Per questo “proletariato giovanile” la liberazione non passa più attraverso la conquista del potere, ma attraverso lo sviluppo di una “area sociale capace di incarnare l’utopia di una comunità che si risveglia e che si organizza al di fuori del modello economico, del lavoro e del salario”[19] e dunque attraverso la messa in atto di un “comunismo immediato”. La politica diviene “libidine”, dettata e sottoposta al desiderio e ai bisogni. Articolato intorno a Centri sociali, dove si riuniscono i giovani dei quartieri popolari, questo “comunismo immediato” si traduce nella pratica della diffusione di azioni dirette, tra cui principalmente “espropri proletari”, immaginati come prelievo di un “salario sociale”, auto-riduzioni, occupazioni di alloggi pubblici e privati, e una diffusa esperienza di autogestione e di vita alternativa. Inoltre si rafforza l’atteggiamento volontarista che scambia i propri desideri per realtà, fino a immaginare una situazione in cui la borghesia sia sotto l’attacco da parte dell’operaio sociale:
“… oggi ormai la situazione italiana è dominata da un contropotere irriducibile, radicale, che non ha nulla più a che fare, semplicemente, con l’esistenza operaia nelle fabbriche, con la situazione registrata dallo “Statuto dei lavoratori” o da determinate articolazioni istituzionali post-sessantottesche. Ci troviamo invece in una situazione nella quale, all’interno dell’intero processo di riproduzione - é questo che va sottolineato -, l’auto-organizzazione operaia è data in termini ormai definitivi.”[20]
Ma questa analisi non è limitata alla sola situazione italiana, ma viene estesa a livello internazionale, soprattutto a paesi dall’economia più avanzata come Usa e Gran Bretagna. La convinzione che il movimento operaio sia in una posizione di forza è talmente alta da far credere a Toni Negri (e agli autonomi dell’epoca) che ormai gli Stati abbiano deciso di porre mano ai loro portafogli per cercare di arginare l’offensiva proletaria attraverso la distribuzione di maggiori quote di reddito:
“… questi sono fenomeni che conosciamo perfettamente in economie più mature delle nostre, fenomeni che tutti gli anni Sessanta hanno visto completamente in atto sia negli Stati Uniti che in Gran Bretagna, dove appunto la possibilità di blocco del movimento è stata cercata, da un lato, attraverso la distruzione delle avanguardie soggettive del movimento, dall’altro, in maniera importante, attraverso la capacità di controllo che si fondava su un’enorme disponibilità di cash, su un’enorme articolazione della distribuzione del reddito. [21]
Anzi, in una situazione in cui “tutto il processo del valore è saltato”, i padroni sarebbero stati anche disposti a non guadagnarci più niente pur di “restaurare le regole dell’accumulazione” e “socializzare in maniera completa strumenti di controllo, di comando”[22]. In altri termini ci si immagina di aver destabilizzato lo Stato, di averlo messo in crisi con la propria lotta senza neanche rendersi conto che ormai chi rimaneva in piazza era sempre più una gioventù che con il mondo delle fabbriche e del lavoro aveva sempre meno a che vedere e che di conseguenza aveva sempre meno capacità di imporre un rapporto di forza nei confronti della borghesia.
Caratteristico di questo periodo è il concetto di “autovalorizzazione operaia” che, al di là degli aspetti relativi alle conquiste materiali, si riferiva “a momenti di contropotere”, cioè “a momenti politici di autodeterminazione, di separazione della propria realtà di classe da quella che è complessivamente la realtà della produzione capitalistica.”[23] In questo contesto “la conquista proletaria di reddito” sarebbe stata capace di “distrugge[re] di volta in volta l’equazione della legge del valore”[24]. Qui si confonde la capacità della classe di strappare più alti salari e di ridurre dunque la quota di plus valore estorto dai capitalisti con una pretesa “distruzione” della legge del valore. La legge del valore invece, come ha dimostrato tutta la storia del capitalismo, è ben dura a morire ed è sopravvissuta finanche nei paesi del cosiddetto “socialismo reale” (i paesi dell’est che all’epoca venivano chiamati, subdolamente, comunisti).
Dall’insieme delle cose che abbiamo visto possiamo vedere come esistesse, all’interno dell’area dell’autonomia operaia, la forte illusione che il proletariato potesse, all’interno della società borghese, crearsi e godere di posizioni di contropotere relativamente “stabili” laddove il rapporto di doppio potere è una condizione particolarmente precaria tipica delle fasi rivoluzionarie che o evolvono nell’offensiva vincente della rivoluzione proletaria con l’affermazione del potere esclusivo della classe operaia e l’annientamento del potere borghese, o degenerano nella sconfitta della classe.
E’ questo forte disancoraggio dalla realtà materiale, dalla base economica della lotta, a produrre lo sviluppo fantasioso e goliardico delle posizioni politiche dell’autonomia.
Tra le posizioni particolarmente in voga tra i militanti dell’autonomia operaia c’era quella sul rifiuto del lavoro a cui si lega strettamente quella sulla teoria dei bisogni. Alla giusta osservazione secondo cui l’operaio deve tendere a non rimanere invischiato nella logica degli interessi padronali e a reclamare il soddisfacimento dei propri sacrosanti bisogni, i teorici dell’autonomia sovrappongono una teoria che va oltre, identificando l’autovalorizzazione operaia con il sabotaggio della macchina padronale, fino a pretendere che ci sia un gusto in questa stessa azione di sabotaggio. E’ quanto emerge dalla descrizione soddisfatta che fa Toni Negri parlando della libertà che si prendono gli operai dell’Alfa quando, per le prime volte, si mettono a fumare sulle linee senza preoccuparsi del danno prodotto alla produzione. Non c’è dubbio che, in certi momenti, si prova una soddisfazione profonda a fare qualcosa che ti viene inutilmente proibito, a fare comunque qualcosa che ti viene negato con la prepotenza della forza. C’è una soddisfazione psicologica e finanche fisica. Ma che c’entra questo con le conclusioni che ne trae Toni Negri secondo cui questa fumata sarebbe “una cosa importantissima […] importante, dal punto di vista teorico, quasi quanto la scoperta che la classe operaia determina lo sviluppo del capitale.”??? Secondo Negri, la “sfera dei bisogni” non è più quella dei bisogni materiali, oggettivi, naturali, ma qualcosa che si crea di volta in volta, “che passava attraverso, e riusciva a dominare, tutte le occasioni che la controcultura offriva”.
In qualche modo il giusto rifiuto di rimanere alienati, non solo materialmente ma anche mentalmente, sul posto di lavoro, cosa che viene espressa attraverso degli strappi alla disciplina di fabbrica, viene fatto passare come “un fatto qualitativo formidabile; un fatto che riferisce esattamente la dimensione dell’espansione dei bisogni. Che cosa significa infatti godere il rifiuto del lavoro, che cos’altro può significare se non aver costruito dentro se stessi una serie di capacità materiali di godimento che sono completamente alternative al ritmo lavoro-famiglia-bar, e funzionali alla rottura di questo mondo chiuso, scoprendo nell’esperienza di rivolta delle capacità e un potere di alternativa radicale?”[25].
In realtà, è perdendosi dietro queste chimere vuote e prive di ogni prospettiva che l’operaismo, nella sua versione di operaio sociale, degenera completamente dissolvendosi in tante iniziative separate, ognuna volta a rivendicare il soddisfacimento dei bisogni di qualche categoria, ben lontani dall’esprimere quella solidarietà di classe che si era espressa nell’autunno caldo e che ritornerà soltanto più tardi quando la parola tornerà alla classe operaia.
Reazioni dello Stato ed epilogo dell’autunno caldo
Come abbiamo anticipato nell’introduzione, la capacità di recupero della borghesia si è basata molto sulle debolezze del movimento proletario che abbiamo finora evocato. Occorre però anche dire che la borghesia, dopo un primo momento in cui è apparsa parzialmente sorpresa, è stata poi capace di sferrare un attacco senza precedenti contro il movimento operaio, sia in maniera diretta sul piano della repressione, che sul piano delle manovre di tutti i tipi.
A livello di repressione
E’ l’arma classica della borghesia contro il proprio nemico di classe, anche se non è l’arma decisiva che le permette veramente di realizzare un rapporto di forza contro il proletariato. Tra l’ottobre 1969 e il gennaio 1970 ci sono state oltre tredicimila denunce contro studenti e operai.
“Studenti e operai, oltre tredicimila tra l’ottobre 1969 e il gennaio 1970, vengono denunciati. Vengono riesumati gli articoli del codice fascista che puniscono la “propaganda sovversiva” e la “istigazione all’odio tra le classi”. Polizia e carabinieri sequestrano opere di Marx, Lenin, Che Guevara.”[26]
A livello del gioco fascismo/antifascismo
Questa è l’arma classica giocata contro il movimento studentesco, meno nei confronti della classe operaia, che consiste nel distrarre i movimenti in sterili scontri di strada tra bande rivali con il necessario appello, ad un certo punto, alle componenti cosiddette “democratiche e antifasciste” della borghesia. Insomma una maniera per ricondurre le pecore smarrite all’ovile!
A livello di strategia della tensione
Questo è stato sicuramente il capolavoro della borghesia italiana di quegli anni che è riuscita a cambiare profondamente il clima politico che si viveva. Tutti ricordano la strage della Banca dell’Agricoltura di piazza Fontana del 12 dicembre 1969, che provocò 16 morti e 88 feriti. Ma non tutti sanno o ricordano che a partire dal 25 aprile ‘69 l’Italia è stata martoriata da una serie infinita di attentati:
“Il 25 aprile due bombe esplodono a Milano, una alla stazione centrale e l’altra, che provoca il ferimento di venti persone, allo stand Fiat della Fiera. Il 12 maggio tre ordigni esplosivi, due a Roma e uno a Torino, non esplodono per puro caso. In luglio il settimanale “Panorama” riferisce voci di un colpo di stato di destra. Gruppi neofascisti lanciano un appello alla mobilitazione, il Pci mette in stato di vigilanza le sue sezioni. Il 24 luglio un ordigno simile a quelli scoperti in maggio a Roma e a Torino, viene rinvenuto inesploso nel palazzo di Giustizia di Milano. L’8 e il 9 agosto otto attentati ferroviari provocano danni ingenti e alcuni feriti. Il 4 ottobre, a Trieste, un ordigno collocato in una scuola elementare e predisposto per esplodere all’ora di uscita dei bambini, non esplode per un difetto tecnico; viene incriminato un militante di Avanguardia nazionale. A Pisa, il 27 ottobre, il bilancio di una giornata di scontri tra polizia e dimostranti, che reagiscono a una manifestazione di fascisti italiani e greci, è di un morto e centoventicinque feriti. (…) il 12 dicembre quattro ordigni esplosivi vengono fatti esplodere a Roma e Milano. I tre di Roma non fanno vittime, ma quello di Milano, a piazza Fontana di fronte alla Banca dell’Agricoltura, provoca sedici morti e ottantotto feriti. Un quinto ordigno, sempre a Milano, viene rinvenuto inesploso. Inizia così, per l’Italia, quella che è stata efficacemente definita la lunga notte della Repubblica”.[27]
E per quanto riguarda il periodo successivo il ritmo è solo leggermente calato, ma non si è mai fermato. Dal 1969 al 1980 in Italia si sono verificati 12690 attentati ed altri episodi di violenza ispirati da ragioni politiche, che hanno provocato 362 morti e 4490 feriti. Di questi, 150 e 551 sono rispettivamente i morti e i feriti da stragi, undici in tutto, la prima nel dicembre 1969 a piazza Fontana a Milano, la più grave (85 morti e 200 feriti) alla stazione di Bologna nell’agosto 1980.[28]
“… lo Stato violento si rivelò al di là di ogni aspettativa: organizzava le stragi, depistava le indagini, arrestava innocenti, ne uccideva uno, Pinelli, oltretutto con l’avallo di alcuni giornali e della tv. Il 12 dicembre rappresentò la scoperta di una dimensione imprevista della lotta politica e anche la rivelazione dell’ampiezza del fronte contro cui dovevamo batterci. […] Con piazza Fontana si scoprì dunque un nuovo nemico: lo Stato. Prima gli avversari erano il professore, il caposquadra, il padrone. E i riferimenti erano transnazionali, de territorializzati: il Vietnam, il Maggio francese, le Black Panthers, la Cina. La rivelazione dello Stato stragista spalancò un nuovo orizzonte alle lotte: quello delle trame occulte, dell’uso strumentale dei neofascisti.”[29]
L’obiettivo evidente di questa strategia era quella di spaventare e disorientare il più possibile la classe operaia, trasmettere il terrore delle bombe e dell’insicurezza, cosa che in parte riuscì. Ma ci fu anche un altro effetto, certamente più nefasto. Nella misura in cui con piazza Fontana si scoprì, almeno a livello di minoranze, che era lo Stato il vero nemico con cui fare i conti, una serie di componenti proletarie e studentesche virarono verso il terrorismo come metodo di lotta politica.
Favorendo la dinamica terrorista
La pratica del terrorismo è diventata così la maniera in cui una serie di compagni coraggiosi ma avventurosi hanno bruciato la loro esistenza e il loro impegno politico in una pratica che con la lotta di classe non ha nulla a che fare. Che anzi ha prodotto i peggiori risultati provocando un arretramento dell’intera classe operaia stretta dalla doppia minaccia della repressione dello Stato da una parte e del ricatto del mondo brigatista e terrorista dall’altra.
Recupero dei sindacati tramite i CdF
L’ultimo elemento, ma non certo per importanza, su cui ha puntato la borghesia in questo periodo è stato il sindacato. Non potendo più far conto sulla repressione per tenere a bada il proletariato, il padronato, che per tutti gli anni del dopoguerra fino alla vigilia dell’autunno caldo aveva così fortemente osteggiato il sindacato, adesso si riscopre democratico e amante delle buone relazioni aziendali. Il trucco ovviamente è che, quello che non si riesce a ottenere con le cattive, si cerca di averlo con le buone, ricercando il dialogo con i sindacati considerati gli unici interlocutori in grado di controllare le lotte e le rivendicazioni operaie. Questo maggiore spazio democratico fornito ai sindacati, che si espliciterà con la diffusione dei Consigli di fabbrica, una forma di sindacalismo sviluppato dal basso e con una partecipazione non necessariamente di tesserati, dà agli operai l’illusione di essere stati loro ad aver realizzato questa conquista e di potersi fidare di queste nuove strutture per continuare la loro lotta. Come abbiamo visto infatti la lotta degli operai, sebbene spesso fortemente critica nei confronti del sindacato, non arriva a farne una critica radicale, limitandosi a denunciarne le inconseguenze.
Per concludere …
In questi due articoli abbiamo cercato di mostrare, da una parte, la forza e le potenzialità della classe operaia, dall’altra l’importanza che la sua azione sia sorretta da una chiara consapevolezza della strada da percorrere. Il fatto che i proletari che si erano risvegliati, alla fine degli anni ’60, alla lotta di classe, in Italia e nel mondo intero, non disponessero della memoria di esperienze precedenti e che dovessero puntare solo sulle acquisizioni empiriche che di volta in volta potevano accumulare, costituì l’elemento di maggiore debolezza del movimento.
Oggi, nelle varie rievocazioni del 68 francese e dell’autunno caldo italiano, non poche persone si lasciano andare a sospiri di nostalgia pensando che siamo lontani da un’epoca come quella e che simili lotte non potranno più riprodursi. Noi pensiamo che sia vero proprio il contrario. Infatti l’Autunno caldo, il Maggio francese e l’insieme di lotte che hanno scosso la società mondiale alla fine degli anni ’60 sono stati solo l’inizio della ripresa della lotta di classe, ma gli anni successivi hanno mostrato uno sviluppo e una maturazione della situazione. Oggi in particolare esiste, a livello mondiale, una presenza più significativa di avanguardie politiche internazionaliste (benché ancora ultraminoritarie) che, contrariamente ai gruppi sclerotizzati del passato, sono capaci di interloquire tra di loro e di lavorare e di intervenire assieme, essendo le sorti della lotta di classe l’obiettivo comune di tutte queste formazioni.[30] Inoltre è presente nella classe, a livello internazionale, non più soltanto una combattività di fondo che permette lo scatenarsi di lotte un po’ in tutto il mondo[31], ma anche una sensazione diffusa che ormai questa società in cui viviamo non ha più nulla da offrire a nessuno, sul piano economico come su quello della sicurezza rispetto a catastrofi ambientali o a guerre, ecc. Questo sentimento è così diffuso che si sente talvolta parlare della necessità di una rivoluzione da parte di persone che non hanno alcuna esperienza politica alle spalle, anche se la maggior parte di queste persone considera che la rivoluzione non sia possibile, che gli sfruttati non avranno la forza di rovesciare il sistema capitalista:
“Si può riassumere questa situazione nel modo seguente: alla fine degli anni ’60, l’idea che la rivoluzione fosse possibile poteva essere relativamente diffusa, ma non quella della sua necessità. Oggi, al contrario, l’idea che la rivoluzione sia necessaria ha un impatto non trascurabile, ma non altrettanto quella della sua possibilità.
Perché la coscienza della possibilità della rivoluzione comunista possa guadagnare un terreno significativo in seno alla classe operaia è necessario che questa possa riacquistare fiducia nelle proprie forze e questo passa attraverso lo sviluppo di lotte di massa. L’enorme attacco che essa subisce attualmente a scala internazionale dovrebbe costituire la base oggettiva per tali lotte. Tuttavia, la forma principale che prende oggi questo attacco, quella dei licenziamenti di massa, non favorisce, in un primo momento, l’emergenza di tali movimenti. In generale, (…) i momenti di forte aumento della disoccupazione non sono quelli in cui si sviluppano lotte importanti. La disoccupazione, i licenziamenti di massa, tendono a provocare una certa paralisi momentanea della classe. (…) Perciò anche se, nel prossimo periodo, non si assisterà a una risposta poderosa della classe operaia di fronte agli attacchi, non bisognerà considerare questo fatto come una rinuncia a lottare in difesa dei propri interessi. Sarà in un secondo momento, quando essa sarà capace di resistere ai ricatti della borghesia, quando si imporrà l’idea che sono la lotta unita e solidale può frenare la brutalità degli attacchi della classe dominante, in particolare quando questa cercherà di far pagare a tutti i lavoratori gli enormi deficit statali che si accumulano oggi con i piani di salvataggio delle banche e di “rilancio” dell’economia, che lotte operaie di grande ampiezza potranno svilupparsi molto di più.” (XVIII Congresso della CCI. Risoluzione sulla situazione internazionale [1], ICConline 2009)
Questa empasse ha pesato e pesa ancora sull’attuale generazione di proletari e talvolta spiega le esitazioni, i ritardi, le mancate reazioni agli attacchi della borghesia. Ma noi dobbiamo guardare alla nostra classe con la fiducia che ci proviene dalla conoscenza della sua storia e delle sue lotte passate; dobbiamo lavorare per riannodare le esperienze del passato con le lotte del presente; dobbiamo essere partecipi alle lotte e al loro interno infondere coraggio e fiducia nel futuro, accompagnando e stimolando nel proletariato il recupero della coscienza che il futuro dell’umanità riposa sulle sue spalle e che esso ha la capacità si svolgere questo compito immenso.
Ezechiele (23/08/2010)
[1] Vedi in particolare il ruolo nefasto della “resistenza al fascismo” che, in nome di una presunta lotta per la libertà, porterà i proletari a farsi massacrare per una frazione della borghesia contro un’altra prima nella guerra di Spagna (1936-39) e poi nella Secondo Guerra mondiale.
[3] Sul PCI vedi i due articoli Breve Storia del P.C.I. (1921-1936) ad uso dei proletari che non vogliono credere più a niente ad occhi chiusi [3] e BREVE STORIA DEL PCI (1936-1947) ad uso dei proletari che non vogliono più credere a niente ad occhi chiusi [4] (Rivoluzione Internazionale n°63 e 64). E’ particolarmente interessante, per comprendere la pesantezza dei rapporti all’interno del PCI di quegli anni, la lettura del romanzo storico di Ermanno Rea, Mistero napoletano, Einaudi.
[4] Aldo Cazzullo, I ragazzi che volevano fare la rivoluzione. 1968-1978 Storia critica di Lotta continua. Sperling e Kupfer Editori, pag. 82.
[5] “Tra servi e padroni”, in Lotta Continua del 6 dicembre 1969, riportato anche in Aldo Cazzullo, op. cit., pag. 89.
[6] Antonio Negri, Dall’operaio massa all’operaio sociale. Intervista sull’operaismo, Ombre corte.
[7] Antonio Negri, op. cit., pag. 36-37.
[8] E’ a dir poco impressionante la quantità di elementi che nel mondo di oggi sono figure pubbliche di politici, giornalistici o scrittori, con posizioni politiche di centro-sinistra o addirittura di destra, che ieri sono passati per dei gruppi della sinistra extraparlamentare ed in particolare per l’operaismo. Ne citiamo giusto qualcuno: Massimo Cacciari, deputato PD (già Margherita) e due volte sindaco di Venezia; Alberto Asor Rosa, scrittore e critico letterario; Adriano Sofri, opinionista moderato de La Repubblica e de Il Foglio; Mario Tronti, tornato nel PCI a livello di Comitato Centrale ed eletto senatore; Paolo Liguori, giornalista con responsabilità direttive nei vari TG e testate editoriali di Berlusconi … e l’elenco potrebbe continuare con decine e decine di altri nomi.
[9] Noi non condividiamo l’analisi di Lenin sull’esistenza di una aristocrazia operaia all’interno della classe operaia. Leggi a tale proposito la nostra brochure L’aristocrazia operaia: una teoria sociologica per dividere la classe operaia.
[10] Idea questa diffusa parecchio anche a livello internazionale.
[11] Antonio Negri, op. cit., pag. 105.
[12] Aldo Cazzullo, op. cit., pag. XII.
[14] Antonio Negri, op. cit., pag. 105.
[15] Antonio Negri, op. cit., pag. 108.
[16] Antonio Negri, op. cit., pag. 113.
[17] “Quando si dice “operaio sociale” si dice fino in fondo, con estrema precisione, che da questo soggetto si estrae plusvalore. Quando parliamo di “operaio sociale” parliamo di un soggetto che è produttivo; e quando diciamo che è produttivo diciamo che è produttivo di plusvalore, mediatamente o immediatamente.” Antonio Negri, op. cit., pag. 18.
[18] Sull’argomento vedi pure i nostri articoli: L'Area della Autonomia: la confusione contro la classe operaia (I) [8] (Rivoluzione Internazionale n°8) e L'Area dell'Autonomia: la confusione contro la classe operaia (II) [9] (Rivoluzione Internazionale n°10).
[19] N. Balestrini, P. Moroni, L’orda d’oro, Milano, SugarCo Edizioni, 1988, pag.334.
[20] Antonio Negri, op. cit., pag. 138.
[21] Antonio Negri, op. cit., pag. 116-117.
[22] Antonio Negri, op. cit., pag. 118.
[23] Antonio Negri, op. cit., pag. 142.
[24] Idem.
[25] Antonio Negri, op. cit., pag. 130-132.
[26] Alessandro Silj, Malpaese, Criminalità, corruzione e politica nell’Italia della prima Repubblica 1943-1994, Donzelle Editore, pagg. 100-101.
[27] Alessandro Silj, op. cit., pag. 95-96.
[28] Alessandro Silj, op. cit., pag. 113.
[29] Testimonianza di Marco Revelli, all’epoca militante di Lotta Continua, in Aldo Cazzullo, op. cit., pag. 91.
[30] Non essendo possibile riportare qui l’elenco dei vari articoli relativi a questa nuova generazione di internazionalisti, invitiamo i lettori a consultare il nostro sito web www.internationalism.org [10] dove potranno trovare abbondanza di informazioni.
[31] Anche sullo sviluppo attuale della lotta di classe rimandiamo al nostro sito web, suggerendo in particolare la lettura degli articoli su Vigo (Spagna), Grecia, sulla Tekel (Turchia), …
Ma altri economisti dell'epoca, che non si erano ancora completamente allontanati dal movimento operaio, cercarono di fondare la loro strategia riformista su un passaggio "marxista". Ricordiamo Il Russo Tugan-Baranowsky che pubblicò, nel 1901, un libro intitolato Studies in the Theory and History of Commercial Crises in England. Sulla scia dei lavori di Struve e di Bulgakov di alcuni anni prima, Tugan-Baranowski faceva parte di coloro che si chiamavano "i marxisti legali" ed il suo studio si inseriva nella risposta di questi ultimi alla corrente dei populisti russi che volevano dimostrare che il capitalismo si sarebbe dovuto scontrare con difficoltà insormontabili per stabilirsi in Russia; una di queste difficoltà consisteva nell'insufficienza di mercati per smerciare la sua produzione. Come Bulgakov, Tugan tentò di utilizzare gli schemi della riproduzione allargata di Marx, nel Volume II del Capitale, per provare che non esisteva un problema fondamentale per la realizzazione del plusvalore nel sistema capitalista; a quest’ultimo, come "sistema chiuso", era possibile accumulare indefinitamente ed in modo armonioso. Rosa Luxemburg riassunse così questo tentativo: "Sicuramente, i marxisti russi "legali" hanno superato i loro avversari, i "populisti", ma hanno strafatto. Tutti e tre, Struve, Bulgakov, Tugan-Baranowsky hanno, nell'ardore della lotta, provato più di quanto occorresse. Si trattava di sapere se il capitalismo in generale ed il capitalismo russo in particolare erano suscettibili di sviluppo ed i tre marxisti citati hanno dimostrato così bene questa capacità che hanno provato anche attraverso le loro teorie la possibilità della durata eterna del capitalismo"[1].
La tesi di Tugan provocò una risposta immediata da parte di coloro che continuavano a difendere la teoria marxista delle crisi, in particolare del portavoce de "l'ortodossia marxista", Karl Kautsky che, riprendendo le conclusioni di Marx, sostenne che non potendo né i capitalisti né gli operai consumare l'insieme del plusvalore prodotto dal sistema, quest’ultimo era allora continuamente spinto a conquistare nuovi mercati all'infuori di sé:
"I capitalisti e gli operai da loro sfruttati costituiscono un mercato per i mezzi di consumo prodotti dall'industria, mercato che si ingrandisce con l'incremento della ricchezza dei primi ed il numero dei secondi, meno velocemente tuttavia dell'accumulazione del capitale e della produttività del lavoro, e che non basta da solo ad assorbire i mezzi di consumo prodotti dalla grande industria capitalista. L'industria deve cercare sbocchi supplementari all'esterno della sua sfera nelle professioni e nelle nazioni che non producono ancora secondo il modo capitalista. Li trova e li allarga continuamente, ma troppo lentamente. Perché questi sbocchi supplementari non posseggono, e di molto, l'elasticità e la capacità d'estensione della produzione capitalista.
Dal momento in cui la produzione capitalista si è sviluppata in grande industria, come già accadeva in Inghilterra nel diciannovesimo secolo, essa ha avuto la facoltà di avanzare a grandi salti, così da superare l'estensione del mercato in poco tempo. Così ogni periodo di prosperità che segue un'estensione brusca del mercato è condannato ad una vita breve, la crisi pone un termine inevitabile. Tale è in poche parole la teoria delle crisi adottate generalmente, per quanto si conosce, dai "marxisti ortodossi" e fondata da Marx". Kautsky (Neue Zeit n°5, 1902) citato da RL nella Critica delle critiche[2].
Pressappoco nella stessa epoca, pubblicando The Theoretical System of Karl Marx[3], un membro dell'ala sinistra dell'American Socialist Party, Luis Budin, partecipava al dibattito con un'analisi simile ed anche più avanzata, e la pubblicava.
Mentre Kautsky, come viene sottolineato da Rosa Luxemburg ne L'accumulazione del capitale e nella Critica delle critiche (1915), aveva posto il problema della crisi in termini di "sottoconsumo", e nel quadro piuttosto impreciso della velocità relativa all'accumulazione ed all'espansione del mercato[4], Budin in modo più esatto la situava nel carattere unico del modo di produzione capitalista e nelle sue contraddizioni che lo portavano al fenomeno di sovrapproduzione:
"Nei vecchi sistemi schiavista e feudale, un problema come la sovrapproduzione non è mai esistito avendo la produzione per scopo il solo consumo familiare, il solo problema che semmai poteva presentarsi era: quale parte della produzione sarà attribuita allo schiavo o al servo della gleba e quanto andrà al proprietario di schiavi o al signore feudale. Una volta che le rispettive parti delle due classi erano definite, ciascuna procedeva al consumo da parte sua senza incontrare un nuovo problema. In altri termini, la questione cadeva sempre sul modo di dividere i prodotti ed il problema della sovrapproduzione non si poneva perché i prodotti non dovevano essere venduti sul mercato ma consumati dalle persone direttamente coinvolte dalla loro produzione, o da padrone o da schiavo.... per la nostra industria capitalista moderna le cose funzionano in maniera diversa. Sicuramente tutta la produzione, ad eccezione della parte che va agli operai, va come in passato al padrone, oggi al capitalista. Ma il problema non si risolve, per il fatto che il capitalista non produce per sé ma per il mercato. Non vuole accaparrarsi i beni che producono gli operai ma vuole venderli e, se non li vende, per lui questi non hanno assolutamente alcun valore. Nelle mani del capitalista, le merci vendibili sono la sua fortuna, il suo capitale, ma quando diventano invendibili, tutta la fortuna contenuta nei suoi depositi di merci si liquefa appena queste non sono monetizzate.
Allora chi va ad acquistare le merci dai nostri capitalisti che hanno introdotto nuove macchine nella loro produzione per cui la loro produzione aumenta notevolmente? Evidentemente altri capitalisti possono volere questi prodotti ma, quando si considera la produzione della società nel suo insieme, che cosa ne fa la classe capitalista della produzione aumentata che gli operai non possono consumare? I capitalisti non possono utilizzarla conservando ciascuno la propria produzione, né scambiandosela tra loro. E ciò per una ragione molto semplice, perché la classe capitalista non può da sola utilizzare tutto il sovraprodotto che gli operai producono e di cui essa si appropria in quanto profitti di produzione. Ciò è già escluso dalle stesse premesse della produzione capitalista a grande scala e dall'accumulazione del capitale. La produzione capitalista a grande scala implica l'esistenza di vaste quantità di lavoro cristallizzato sotto forma di ferrovie, di battelli a vapore, di fabbriche, di macchine e di altri prodotti manifatturieri che non sono stati consumati dai capitalisti e che rappresentano la loro parte o profitto della produzione degli anni precedenti. Come è stato stabilito già precedentemente, tutte le grandi fortune dei nostri re, principi e baroni capitalisti moderni ed altri grandi dignitari dell'industria, con o senza titoli, consistono in attrezzi sotto una forma o un'altra, e cioè sotto una forma non consumabile. È questa parte dei profitti capitalisti che i capitalisti "hanno economizzato" e dunque non consumata. Se i capitalisti consumassero tutto il loro profitto, non ci sarebbero capitalisti nel senso moderno della parola, non ci sarebbe accumulazione di capitale. Affinché il capitale possa accumularsi, i capitalisti non devono in nessuna circostanza consumare tutto il loro profitto. Il capitalista che lo fa, smette di essere un capitalista e perisce nella concorrenza con i suoi pari capitalisti. In altri termini, il capitalismo moderno presuppone l'abitudine di economizzare dei capitalisti, vale a dire che questa parte dei profitti dei capitalisti individuali non deve essere consumata ma posta da parte per aumentare il capitale esistente.... non può dunque consumare tutta la sua parte del prodotto manifatturiero. È evidente dunque che né l'operaio, né il capitalista possono consumare l'insieme del prodotto aumentato della manifattura. Chi l’acquisterà allora?" (tradotto dall’inglese da noi).
Budin tenta poi di spiegare il modo con cui il capitalismo tratta questo problema. Luxemburg ne cita un lungo passaggio in una nota de L'accumulazione del capitale e lo presenta come "una brillante critica" al libro di Tugan[5]:
"Il sovrapprodotto" creato nei paesi capitalisti non ha ostacolato - tranne alcune eccezioni che menzioneremo dopo - il corso della produzione perché la produzione è stata ripartita in modo più razionale nelle differenti sfere o perché la produzione di cotonato ha ceduto il posto ad una produzione di macchine, ma perché, essendosi alcuni paesi trasformati più velocemente che altri in paesi capitalisti, e che ancora oggi alcuni paesi restano sottosviluppati dal punto di vista capitalista, i paesi capitalisti hanno a loro disposizione un reale mondo esterno in cui hanno potuto esportare quei prodotti che loro stessi non possono consumare, indipendentemente dalla natura di questi prodotti: siano essi cotonati o siderurgici. Ciò non significa affatto che la sostituzione dei cotonati con i prodotti dell'industria siderurgica, in quanto prodotti essenziali dei paesi capitalisti più importanti, sarebbe priva di significato. Al contrario, essa riveste un ruolo importante, ma il suo significato è tutt’altro che quello attribuitogli da Tugan-Baranowsky. Essa annuncia l'inizio della fine del capitalismo. Fino a che i paesi capitalisti hanno esportato merci per il consumo, c'era ancora speranza per il capitalismo di questi paesi. Non si trattava ancora di sapere qual’era la capacità di assorbimento del mondo esterno non capitalista per le merci prodotte nei paesi capitalisti e quanto tempo avrebbe potuto persistere ancora. L'incremento della fabbricazione di macchine nell'esportazione dei principali paesi capitalisti a spese dei beni di consumo indica che i territori che, un tempo, si trovavano lontano dal capitalismo e, per questa ragione, servivano da luogo di smercio per i suoi sovrapprodotti, sono oggi trascinati nell'ingranaggio del capitalismo e mostra ancora che il loro capitalismo si sviluppa e che loro stessi producono i loro beni di consumo. Oggi, allo stadio iniziale del loro sviluppo capitalista, hanno ancora bisogno di macchine prodotte secondo il modo capitalista. Ma più presto di quanto si pensi, non ne avranno più bisogno. Produrranno da sé i loro prodotti siderurgici, come producono da ora i loro cotonati ed i loro principali beni di consumo. Smetteranno allora non solo di essere un luogo di assorbimento per il sovrapprodotto dei paesi capitalisti propriamente detti, ma loro stessi avranno un sovrapprodoto che solo difficilmente potranno smerciare". (Die Neue Zeit, 25 anno, 1 vol, Mathematische Formeln gegen Karl Marx, citato da Luxemburg in una nota del capitolo 23 de L'accumulazione del capitale)[6].
Budin va dunque più lontano di Kautsky ed insiste sul fatto che il vicino completamento della conquista del globo da parte del capitalismo significa anche "l'inizio della fine del capitalismo".
Rosa Luxemburg esamina il problema dell’accumulazione
Nel tempo in cui questo dibattito ebbe luogo, Rosa Luxemburg insegnava alla scuola del Partito a Berlino. Esponendo a grandi linee l'evoluzione storica del capitalismo come sistema mondiale, fu portata a ritornare in maniera più approfondita ai lavori di Marx, e ciò sia per la sua integrità come professore e come militante (aborriva ripetere continuamente idee note presentandole soltanto sotto una nuova forma, e considerava che era dovere di ogni marxista sviluppare ed arricchire la teoria marxista), che per la necessità urgente di comprendere le prospettive che il capitalismo mondiale doveva affrontare. Riesaminando Marx, aveva scoperto molti elementi su cui basare il suo punto di vista secondo cui il problema di sovrapproduzione in relazione al mercato costituisce una chiave per comprendere la natura transitoria del modo di produzione capitalista (vedere "Le contraddizioni mortali della società borghese" nel n.139 della Révue Internationale). Rosa era perfettamente consapevole che gli schemi della riproduzione allargata di Marx nel Volume II del Capitale erano concepiti dal loro autore come un modello teorico puramente astratto, utilizzato per studiare la questione dell'accumulazione che, per chiarezza dell’argomento, prendeva per ipotesi una società composta solo da capitalisti e da operai. A lei, tuttavia, sembrava che da ciò conseguiva l'idea che il capitalismo potesse accumulare in modo armonioso in un sistema chiuso, disponendo della totalità del plusvalore prodotto attraverso l'interazione reciproca dei due rami principali della produzione (il settore dei beni di produzione e quello dei beni di consumo). Ciò apparve a Rosa Luxemburg in contraddizione con altri passi di Marx (nel Volume III del Capitale per esempio) che insistono sulla necessità di un'espansione continua del mercato e, nello stesso tempo, stabiliscono un limite inerente a questa espansione. Se il capitalismo fosse capace di autoregolarsi, potrebbe avere squilibri provvisori tra i rami della produzione ma non avrebbe avuto la tendenza a produrre una massa di beni non assorbibili, da crisi di sovrapproduzione insolubile; se la tendenza del capitalismo all'accumulazione semplicemente per se stessa generasse costantemente l'aumento della domanda necessaria per realizzare l'insieme del plusvalore, allora come avrebbero argomentato i marxisti, contro i revisionisti, che il capitalismo era destinato ad entrare in una fase di crisi catastrofica che avrebbe offerto le basi obiettive della rivoluzione socialista?
A questa domanda, la Luxemburg rispose che era necessario riporre l'ascesa del capitalismo nel suo vero contesto storico. Non si poteva cogliere l’insieme della storia dell'accumulazione capitalistica se non come un processo costante di interazione con le economie non capitaliste che le erano intorno. Le più primitive comunità che vivevano di caccia e di raccolta, e che non avevano ancora prodotto un'eccedenza sociale e commerciabile, per il capitalismo non avevano utilità e dovevano essere spazzate via attraverso politiche di distruzione diretta e genocidio (anche le risorse umane di queste comunità avevano la tendenza ad essere inutilizzabili per il lavoro di schiavo). Ma le economie che avevano sviluppato un'eccedenza commercializzabile e dove la produzione di merci in particolare era già sviluppata nel loro seno (come nelle grandi civiltà di India e Cina), fornivano non solo materie prime ma enormi sbocchi per la produzione delle metropoli capitalistiche, permettendo al capitalismo dei paesi centrali di superare l’ingorgo periodico delle merci (questo processo è descritto in modo eloquente ne Il Manifesto Comunista). Ma come sottolinea anche Il Manifesto, anche quando le potenze capitaliste costituite tentarono di restringere lo sviluppo capitalista delle loro colonie, queste regioni del mondo diventarono ineluttabilmente parti integranti del mondo borghese, rovinando le economie precapitaliste e convertendole alle delizie del lavoro salariato - spostando così il problema della domanda addizionale richiesta per l'accumulazione ad un altro livello. Così, come lo stesso Marx l'aveva annunciato, più il capitalismo tendeva a diventare universale, più era destinato a crollare: "L'universalità verso cui tende senza tregua il capitale incontra dei limiti immanenti alla sua natura che, ad un certo stadio del suo sviluppo, lo fanno apparire come il più grande ostacolo a questa tendenza e lo spingono alla sua autodistruzione". (Grundrisse)[7].
Questo passo permise a Rosa Luxemburg di comprendere il problema dell'imperialismo. Il Capitale aveva solo iniziato a trattare la questione dell'imperialismo e dei suoi fondamenti economici, questione che, all'epoca in cui il libro fu scritto, non era diventata ancora il centro delle preoccupazioni dei marxisti. Al momento, quest’ultimi erano confrontati non solo all'imperialismo come una spinta per la conquista del mondo non capitalista ma, anche, come un acuirsi delle rivalità imperialiste tra le principali nazioni capitaliste per il dominio del mercato mondiale. L'imperialismo era una scelta, una comodità per il capitale mondiale, come lo intendevano molti dei suoi critici liberali e riformisti, o era una necessità inerente all'accumulazione capitalista ad un certo stadio della sua maturità? Là ancora, le implicazioni erano vaste perché se l'imperialismo era solamente un'opzione supplementare per il capitale, si poteva argomentare allora in favore di politiche più ragionevoli e pacifiche. Luxemburg concluse tuttavia che l'imperialismo era una necessità per il capitale - un mezzo per prolungare il suo regno che in tal modo lo trascinava inesorabilmente verso la sua rovina.
"L'imperialismo è l'espressione politica del processo d'accumulazione capitalista che si manifesta attraverso la concorrenza tra i capitalismi nazionali intorno agli ultimi territori non capitalisti ancora liberi del mondo. Geograficamente, questo campo ancora oggi rappresenta grande parte del globo. Tuttavia, il campo di espansione offerto all'imperialismo appare come molto piccolo comparato all'alto livello raggiunto dallo sviluppo delle forze produttive capitaliste; bisogna tenere conto in effetti della enorme massa di capitale già accumulata nei vecchi paesi capitalisti e che lotta per smerciare il suo sovrapprodotto e per capitalizzare il suo plusvalore, e, inoltre, della rapidità con cui i paesi precapitalisti si trasformano in paesi capitalisti. Sulla scena internazionale, dunque, il capitale deve procedere attraverso metodi appropriati. Con l'elevato grado di evoluzione raggiunto dai paesi capitalisti e l'esasperazione della concorrenza dei paesi capitalisti per la conquista dei territori non capitalisti, la spinta imperialistica, sia nella sua aggressione contro il mondo non capitalista che nei conflitti più acuti tra i paesi capitalisti concorrenti, aumenta di energia e di violenza. Ma più aumentano la violenza e l'energia con cui il capitale procede alla distruzione delle civiltà non capitaliste, più restringe la sua base di accumulazione. L'imperialismo è al tempo stesso un metodo storico per prolungare i giorni del capitale ed il mezzo il più sicuro e più veloce di mettervi obiettivamente un termine. Ciò non significa che il punto finale abbia bisogno di essere raggiunto alla lettera. La sola tendenza verso questo scopo dell'evoluzione capitalista si manifesta già attraverso dei fenomeni che fanno della fase finale del capitalismo un periodo di catastrofi"[8].
La conclusione essenziale de L'accumulazione del capitale era dunque che il capitalismo entrava in "un periodo di catastrofi". È importante notare che essa non considerava - come spesso viene riportato in modo erroneo - che il capitalismo era sul punto di perire. Stabilisce molto chiaramente che il campo non capitalista "rappresenta [geograficamente] ancora oggi grande parte del globo" e che le economie non capitaliste esistevano non solo nelle colonie ma in grandi parti della stessa Europa[9]. E' certo che la scala di queste zone economiche in termine di valore andava diminuendo relativamente alla capacità crescente del capitale a generare nuovi valori. Ma il mondo aveva ancora molta strada da percorrere prima di diventare un sistema di capitalismo puro come immaginato negli schemi della riproduzione di Marx:
"Se lo si comprende bene, lo schema marxista dell'accumulazione è per la sua insolubilità anche il pronostico esatto del crollo economico inevitabile del capitalismo, risultato finale del processo di espansione imperialistica, l'espansione che si dà per scopo particolare di realizzare ciò che era l'ipotesi di partenza di Marx: il dominio esclusivo e generale del capitale.
Questo termine finale può essere mai raggiunto nella realtà? Si tratta a dire il vero di una finzione teorica, per la ragione precisa che l'accumulazione del capitale non è solamente un processo economico ma un processo politico"[10].
Per Rosa Luxemburg, un mondo unicamente costituito da capitalisti e da operai era “una finzione teorica” ma più ci si avvicinerebbe a questo punto, più il processo di accumulazione diventerebbe difficile e disastroso, scatenando delle calamità che non sarebbero “semplicemente” economiche, ma anche militari e politiche. La guerra mondiale che esplose dopo poco tempo la pubblicazione de L'accumulazione, costituiva una chiara conferma di questo pronostico. Per Rosa Luxemburg, non c'è un crollo puramente economico del capitalismo ed ancora meno un legame automatico, garantito, tra il crollo capitalista e la rivoluzione socialista. Ciò che annunciava nel suo lavoro teorico era precisamente ciò che avrebbe confermato la storia catastrofica del secolo seguente: la manifestazione crescente del declino del capitalismo come modo di produzione, mettendo l'umanità di fronte all'alternativa socialismo o barbarie, e chiamando specificamente la classe operaia a sviluppare l’organizzazione e la coscienza necessaria al capovolgimento del sistema ed alla sua sostituzione attraverso un ordine sociale superiore.
Una tempesta di critiche
Rosa Luxemburg pensava che la sua tesi non sarebbe stata soggetta a controversia, precisamente perché l'aveva basata fermamente sugli scritti di Marx e dei sostenitori del suo metodo. Tuttavia, fu accolta da un diluvio di critiche - non solo da parte dei revisionisti e dei riformisti ma, anche, da parte di rivoluzionari come Pannekoek e Lenin che, in questo dibattito, si trovò non solo affianco ai marxisti legali della Russia ma anche agli austro-marxisti che facevano parte del campo semi-riformistico nella socialdemocrazia:
"Ho letto il nuovo libro di Rosa L'accumulazione del capitale. Si ingarbuglia in modo sconveniente. Ha distorto Marx. Sono molto contento che Pannekoek, Eckstein e O. Bauer l’abbiano condannata tutti di comune accordo ed espresso contro di lei ciò che avevo detto nel 1899 contro i Narodinikis"[11].
Questo accordo si fece sull'idea che Luxemburg aveva semplicemente letto male Marx ed inventato un problema che non esisteva: gli schemi della riproduzione allargata mostrano che il capitalismo in effetti può accumulare senza nessuno limite interno in un mondo puramente composto di operai e di capitalisti. I calcoli di Marx sono giusti dopo tutto, ciò deve dunque essere vero. Bauer era un poco più sfumato: riconosceva che l'accumulazione non poteva avere luogo solo se fosse alimentata da una domanda effettiva crescente, ma dava una risposta semplice: la popolazione aumenta, ci sono dunque più operai, e dunque un aumento della domanda - soluzione che ritornava al punto di partenza del problema poiché questi nuovi operai non potevano che consumare solo il capitale variabile che era dato loro dai capitalisti. La questione essenziale - che quasi tutti i critici di Luxemburg sostengono fino ai nostri giorni - è che gli schemi della riproduzione mostrano in effetti che non esiste problema insolubile di realizzazione per il capitalismo.
Luxemburg era molto cosciente che gli argomenti sviluppati da Kautsky (o da Budin, ma quest'ultimo era evidentemente una figura ben meno conosciuta del movimento operaio) per difendere in fondo la stessa tesi non avevano provocato la stessa indignazione:
"Rimane il fatto che Kautsky ha confutato nel 1902, nel lavoro di Tugan-Baranowsky, esattamente gli stessi argomenti che gli "esperti" di oggi oppongono alla mia teoria dell'accumulazione, e che gli "esperti" ufficiali del marxismo attaccano nel mio libro come una deviazione della fede ortodossa ciò che è solamente lo sviluppo esatto, applicato al problema dell'accumulazione, delle tesi sostenute da Kautsky quattordici anni fa contro il revisionista Tugan-Baranowsky e che chiama "la teoria delle crisi generalmente adottate dai marxisti ortodossi"[12].
Perché una tale indignazione? È facile da comprendere venendo dai riformisti e dai revisionisti che si preoccupavano innanzitutto di rigettare la possibilità di un crollo del sistema capitalista. Da parte dei rivoluzionari, è più difficile da capire. Possiamo segnalare certamente il fatto - ed è molto significativo del carattere isterico delle reazioni - che Kautsky non aveva cercato il legame tra i suoi argomenti e gli schemi della riproduzione[13] e non era apparso, per questo, come un "critico" di Marx. Forse questo conservatorismo è al cuore di molte critiche portate a Rosa Luxemburg: la visione secondo la quale Il Capitale è una specie di bibbia che fornisce tutte le risposte per comprendere l'ascendenza ed il declino del modo di produzione capitalista - un sistema chiuso, in effetti! Luxemburg difendeva al contrario con vigore il fatto che i marxisti dovevano considerare Il Capitale per ciò che era - un'opera geniale ma incompiuta, in particolare i suoi Volumi II ed III; e che, ad ogni modo, non poteva includere tutti gli sviluppi ulteriori dell'evoluzione del sistema capitalista.
Nel mezzo di tutte queste risposte scandalizzate, ci fu tuttavia almeno una difesa molto chiara della Luxemburg, scritta al momento dei sollevamenti della guerra e della rivoluzione: “Rosa Luxemburg, marxista”, da parte dell’ungherese Georg Lukàcs che era, in quel momento, un rappresentante dell’ala sinistra del movimento comunista. L’articolo di Lukàcs, pubblicato nella libro Storia e coscienza di classe (1922), comincia col sottolineare la principale considerazione metodologica nella discussione della teoria di Luxemburg. Difende l'idea che ciò che distingue fondamentalmente la visione proletaria dalla visione borghese del mondo è il fatto che, mentre la borghesia è condannata dalla sua posizione sociale ad esaminare la società dal punto di vista di un'unità atomizzata, in concorrenza, il proletariato soltanto può sviluppare una visione della realtà come totalità: " Quello che distingue in modo decisivo il marxismo dalla scienza borghese non è la predominanza dei motivi economici nella spiegazione della storia, ma il punto di vista della totalità. Il dominio, determinante ed in tutti i campi, del tutto sulle parti, costituisce l'essenza del metodo che Marx ha chiesto in prestito a Hegel e che ha trasformato in modo originale per farne il fondamento di una scienza interamente nuova. La separazione capitalista tra il produttore ed i processi di insieme della produzione, il frazionamento del processo del lavoro in parti che lasciano da parte il carattere umano del lavoratore, l'atomizzazione della società in individui che producono diritto davanti ad essi senza piano, senza concertarsi, ecc., tutto ciò doveva avere necessariamente anche un'influenza profonda sul pensiero, la scienza e la filosofia del capitalismo. E ciò che c'è di fondamentalmente rivoluzionario nella scienza proletaria, non è solamente che essa oppone alla società borghese dei contenuti rivoluzionari, ma è, innanzitutto, l'essenza rivoluzionaria del metodo stesso. Il regno della categoria della totalità è il portatore del principio rivoluzionario nella scienza".
Prosegue dimostrando che l'assenza di questo metodo proletario aveva impedito ai critici della Luxemburg di afferrare il problema che essa aveva sollevato ne L'Accumulazione del capitale:
"I dibattiti condotti da Bauer, Eckstein, ecc., non si aggiravano intorno alla questione se la soluzione del problema dell’accumulazione del capitale proposta da Rosa Luxemburg fosse materialmente corretta o falsa. Si discuteva invece se vi fosse qui, in generale, un problema. Ciò che veniva contestato con estrema violenza era proprio la presenza di un effettivo problema. Dal punto di vista metodologico dell’economia volgare ciò è del tutto comprensibile, anzi necessario. Infatti, se da un lato la questione dell’accumulazione viene trattata come questione particolare dell’economia politica, e se dall’altro la si considera dal punto di vista del capitalista singolo, non sussiste allora di fatto alcun problema.
Questo rifiuto del problema nella sua interezza è strettamente dipendente dal fatto che i critici di Rosa Luxemburg non si sono soffermati sul capitolo decisivo di tutto il libro ("Le condizioni storiche dell'accumulazione") e, coerentemente con loro stessi, hanno posto la questione sotto la seguente forma: le formule di Marx che derivano dall’aver assunto, in un isolamento determinato da ragioni metodologiche, una società composta unicamente da capitalisti e proletari, sono giuste? E come possono essere interpretate in maniera migliore? Che questa assunzione sia in Marx stesso soltanto di natura metodologica, servendo ad afferrare più chiaramente il problema prima di passare ad una impostazione più comprensiva, alla posizione del problema della totalità della società, tutto ciò è stato del tutto trascurato da questi critici. Essi hanno trascurato che Marx ha compiuto questo passo del primo volume del Capitale e, a proposito della cosiddetta accumulazione originaria; essi hanno - coscientemente o no – taciuto il fatto che l’intero Capitale, proprio su questo problema, è un frammento che si interrompe nello stesso punto in cui esso deve essere messo sul tappeto; che quindi Rosa Luxemburg non ha fatto altro che portare sino alle sue ultime conseguenze ed integrare il frammento di Marx nel suo senso e nel suo spirito.
Eppure essi si sono comportati in modo del tutto coerente. Infatti, dal punto di vista del capitalista singolo, dal punto di vista dell’economia volgare questo problema non deve di fatto essere posto. Dal punto di vista del capitalista singolo, la realtà appare come un mondo dominato dalle leggi eterne della natura alle quali egli deve adattare la propria attività. La realizzazione del plusvalore, l’accumulazione si compie per lui (naturalmente non sempre, ma molto spesso) nella forma di uno scambio con altri capitalisti singoli. E l’intero problema dell’accumulazione è dunque soltanto quello di una forma delle molteplici trasformazioni subite dalle formule D-M-D e M-D-M nel corso della produzione, della circolazione, ecc. Così, esso diventa per l’economia volgare , un problema scientifico-particolare di dettaglio, che non ha quasi nessun legame con il destino del capitalismo nel suo complesso, un problema la cui soluzione è sufficientemente garantita dalla giustezza delle “formule” di Marx, che dovranno al massimo – secondo Otto Bauer – essere perfezionate in modo da renderle “aggiornate”. Come a suo tempo gli allievi di Ricardo non compresero la problematica marxista, così Bauer e soci non hanno capito che per principio con queste formule non si coglierà mai la realtà economica, dal momento che il loro presupposto è una astrazione da questa realtà complessiva (considerazione della società come se consistesse soltanto di capitalisti e di proletari); le formule perciò possono servire solo per chiarire il problema, come punto di avvio verso una sua corretta impostazione[14].
Un passaggio dei Grundrisse, che Lukàcs non conosceva ancora, conferma questo passo: l'idea che la classe operaia costituisce un mercato sufficiente per i capitalisti è un'illusione tipica della visione ristretta della borghesia:
"Qui noi non abbiamo ancora da considerare il rapporto di un capitalista dato con gli operai degli altri capitalisti. Questo rapporto fa rivelare solamente l'illusione di ogni capitalista, ma non cambia niente al rapporto fondamentale capitale-lavoro. Sapendo che non si trova nei confronti del suo operaio nella situazione del produttore di fronte al consumatore, ogni capitalista cerca di limitarne al massimo il consumo, diversamente detto capacità di scambio, il salario . Si augura, naturalmente, che gli operai degli altri capitalisti consumino al massimo la sua merce; ma il rapporto di ogni capitalista con i suoi operai è il rapporto generale del capitale con il lavoro. È precisamente di là che nasce l'illusione che, ad eccezione dei propri operai, tutta la classe operaia costituisce per lui i consumatori e clienti, non operai, ma dispensatori di denaro. Si dimentica che, secondo Malthus, "l'esistenza stessa di un profitto su qualsiasi merce presuppone una domanda esterna a quella dell'operaio che l'ha prodotta", e che di conseguenza "la domanda dell'operaio stesso non può essere mai una domanda adeguata". Dato che una produzione mette in movimento un'altra e che essa si crea così dei consumatori presso gli operai di un terzo capitale, ogni capitale ha l'impressione che la domanda della classe operaia, come è posta dalla stessa produzione, è una "domanda adeguata". Questa domanda posta dalla stessa produzione l'incita e deve incitarla a superare i limiti proporzionali in cui essa dovrebbe produrre rispetto agli operai; d'altra parte, se la "domanda esterna a quella dei loro stessi operai" sparisce o si assottigli, la crisi esplode"[15].
Mettendo in discussione la lettera di Marx, Luxemburg ha mostrato più di ogni altro che era fedele al suo spirito; ma ci sono bene altri scritti di Marx che potrebbero essere citati per difendere l'importanza centrale del problema che essa sollevò.
[1] L’accumulazione del capitale, capitolo 24.
[3] Apparso per la prima volta sotto forma di libro pubblicato da Charles Kerr (Chicago) nel 1915, questo studio si basa su una serie di articoli pubblicati, da maggio 1905 all'ottobre 1906, nella rivista Internazionale Socialist Review.
[4] Citazione di Rosa Luxemburg: "Non teniamo conto dell'ambiguità dei termini di Kautsky, che chiama questa teoria una spiegazione delle crisi "per sottoconsumo"; ora una tale spiegazione è oggetto degli scherni di Marx nel secondo libro del Capitale. Facciamo anche astrazione per il fatto che Kautsky si interessa solamente al problema delle crisi senza vedere, sembra, che l'accumulazione capitalista, al di fuori anche delle variazioni della congiuntura, costituisce di per sé un problema. Infine non insistiamo sul carattere vago delle affermazioni di Kautsky - il consumo dei capitalisti e degli operai non cresce abbastanza rapidamente" per l'accumulo, quest'ultimo ha bisogno di un "mercato supplementare" dunque - che non cerca di afferrare con più precisione il meccanismo dell'accumulo". (Critica delle critiche).
È interessante notare che tanti critici di Rosa Luxemburg - ivi compreso quelli che erano "marxisti" - l'accusano di sotto-consomismo, mentre essa rigetta esplicitamente questa nozione! È evidentemente completamente esatto che Marx argomenta in più occasioni che "la ragione estrema di tutte le crisi reali è sempre la povertà ed il consumo restretto delle masse" (Il Capitale, Volume III, capitolo 30), ma Marx si prende cura di precisare che non si riferisce "al potere di consumo assoluto", ma al "potere di consumo che ha per base delle condizioni di ripartizione antagoniste che riducono il consumo della grande massa della società ad un minimo variabile in limiti più o meno stretti. È, inoltre, limitato dal desiderio di accumulare, la tendenza ad aumentare il capitale ed a produrre del plusvalore su una scala più estesa." (Il Capitale, Volume III, capitolo 15). In altri termini, le crisi non risultano dalla reticenza della società a consumare fintanto che è fisicamente possibile, né per il fatto che i salari sarebbero troppo "bassi" - cosa che bisogna precisare a causa delle numerose mistificazioni su questo argomento emanato in particolare dall'ala sinistra del capitale. Se fosse vero, si potrebbero eliminare allora le crisi aumentando i salari e ed è precisamente questo che Marx ridicolizza nel Volume II del Capitale. Il problema risiede piuttosto nell'esistenza di "condizioni di ripartizione antagoniste", vale a dire nel rapporto dello stesso lavoro salariato che deve sempre permettere un "plusvalore" in più di ciò che il capitalista paga agli operai.
[5] La principale critica di Luxemburg a Budin portava sull'idea apparentemente visionaria secondo la quale le spese di armamento costituivano una forma di spreco o di spese sconsiderate; questo punto di vista andava contro quello di Luxemburg su "il militarismo, campo di azione del capitale", elaborato in un capitolo dallo stesso nome ne L'accumulazione del capitale. Ma il militarismo non poteva essere campo di accumulazione del capitale che in un'epoca in cui esistevano delle possibilità reali che la guerra - le conquiste coloniali per essere precisi - aprivano nuovi mercati sostanziali per l'espansione capitalista. Col restringimento di questi sbocchi, il militarismo diventa veramente un puro spreco per il capitalismo globale: anche se l'economia di guerra sembra fornire una "soluzione" alla crisi di sovrapproduzione facendo girare l'apparato economico (in modo più evidente nella Germania di Hitler per esempio e durante la Seconda Guerra mondiale), essa costituisce in realtà un'immensa distruzione di valore.
[7] Pubblicati in italiano dalla Nuova Italia, Firenze, nel 1974, con il titolo “Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica” parte II: "Il capitale", "Mercato mondiale e sistema di bisogni.”
[8] L’Accumulazione del capitale, III, 31: “Il protezionismo e l’accumulazione”.
[9] “In realtà in tutti i paesi capitalisti, ed anche in quelli in cui la grande industria è molto sviluppata, esistono, accanto alle imprese capitaliste, numerose imprese industriali ed agricole di carattere artigianale e contadino, dove regna un'economia commerciale semplice. Accanto ai vecchi paesi capitalisti esistono, nella stessa Europa, dei paesi in cui la produzione contadina ed artigianale domina ancora oggi l'economia, per esempio la Russia, i paesi balcanici, la Scandinavia, la Spagna. Infine, accanto all'Europa capitalista ed al Nordamerica, esistono immensi continenti dove la produzione capitalista si è installata solamente in certi punti poco numerosi ed isolati, mentre peraltro i territori di questi continenti presentano tutte le strutture economiche possibili, dal comunismo primitivo fino alla società feudale, contadina ed artigianale.” (Critica delle critiche, I).
Vedere l'articolo “La sovrapproduzione cronica, un ostacolo insuperabile dell'accumulazione capitalista” per un contributo alla comprensione del ruolo giocato dai mercati extra-capitalisti nel periodo di decadenza capitalista (in francese, ICC on line).
[10] Critica delle critiche, [16] II, V [16].
[11] Nella Genesi del Capitale di Marx, (The making of Marx's Capital, Pluto Press, 1977), Roman Rosdolsky diventa un'eccellente critico dell'errore commesso da Lenin schierandosi con i legalisti russi e con i riformisti austriaci contro Luxemburg (p. 472 edizione in inglese). Benché lui stesso abbia delle critiche da portare a Luxemburg, insiste sul fatto che il marxismo è necessariamente una teoria "del crollo" e sottolinea la tendenza alla sovrapproduzione identificata da Marx come la questione chiave per comprenderla. In effetti, le sue critiche a Luxemburg sono abbastanza difficili da decifrare. Insiste sul fatto che il principale errore di Luxemburg risiedeva nel fatto che non comprendeva che gli schemi della riproduzione erano semplicemente una "esercitazione metodologica" e, pertanto, tutta l'argomentazione di Luxemburg contro la sua critica porta precisamente sul fatto che questo schema può essere utilizzato solamente come una esercitazione e non come una descrizione reale dell'evoluzione storica del capitale, né come una prova matematica della possibilità di un accumulazione illimitata. (p.490, edizione inglese).
[12] Critica delle critiche, I.
[13] Più tardi, Kautsky si allineò lui stesso sulla posizione degli austro-marxisti: "Nella sua opera maggiore, critica molto "l'ipotesi" di Luxemburg secondo la quale il capitalismo deve crollare per ragioni economiche; afferma che Luxemburg "è in contraddizione con Marx che ha dimostrato il contrario nel secondo Volume del Capitale, e cioè negli schemi della riproduzione". (Rosdolsky, op cit., citando Kautsky ne La concezione materialista della storia, tradotto da noi dall'inglese).
[14] In Storia e coscienza di classe, Sugarco Edizioni, 1974, pagine 40-41.
[15] Grundrisse o Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, Ed. La Nuova Italia, Tomo II, "II. Il Capitale". Marx spiega anche in altri punti che l'idea secondo la quale gli stessi capitalisti possono costituire il mercato per la riproduzione allargata, è basata su un'incomprensione della natura del capitalismo: "Il capitale insegue, in effetti, non la soddisfazione dei bisogni, ma l'ottenimento di un profitto, ed il suo metodo consiste nel regolare la massa dei prodotti secondo la scala della produzione e non quest'ultima secondo i prodotti che dovrebbero essere ottenuti; c'è dunque conflitto continuo tra il consumo compresso e la produzione per riuscire a raggiungere il limite assegnato a quest'ultima, e siccome il capitale consiste in merci, la sua sovrapproduzione si riduce ad una sovrapproduzione di merci. Un fenomeno bizzarro è che gli stessi economisti che negano la possibilità di una sovrapproduzione di merci ammettono che il capitale possa esistere in eccesso. Tuttavia quando dicono che non c'è sovrapproduzione universale, ma semplicemente una sproporzione tra i diversi rami di produzione, affermano che in regime capitalista la proporzionalità dei diversi rami di produzione risulta continuamente dalla loro sproporzione; perché per essi la coesione della produzione tutta intera si impone ai produttori come una legge cieca, che essi non possono volere, né controllare. Questo ragionamento implica, inoltre, che i paesi dove il regime capitalista non è sviluppato consumano e producono nella stessa misura delle nazioni capitaliste. Dire che la sovrapproduzione è solamente relativa è perfettamente esatto. Ma tutto il sistema capitalista di produzione è solamente un sistema relativo i cui limiti sono assoluti solamente quanto si considera il sistema in sé. Come è possibile che talvolta degli oggetti che indubbiamente mancano alla massa del popolo non facciano l'oggetto di nessuna domanda del mercato, e come è che bisogna cercare allo stesso tempo degli ordini lontano, rivolgersi ai mercati stranieri per potere pagare agli operai del paese la media dei mezzi di esistenza indispensabili? Unicamente perché in regime capitalista il prodotto in eccesso riveste una forma tale che colui che la possiede non può metterlo a disposizione del consumatore se non quando si riconverte per lui in capitale. Infine, quando si dice che i capitalisti non hanno che da scambiare tra loro e consumare loro stessi le loro merci, si perde di vista il carattere essenziale della produzione capitalista, il cui scopo è la messa in valore del capitale e non il consumo. Riassumendo tutte le obiezioni che vengono opposte ai fenomeni così evidenti della sovrapproduzione (fenomeni che si svolgono malgrado queste obiezioni), si torna a dire che i limiti che si attribuiscono alla produzione capitalista non essendo dei limiti inerenti alla produzione in generale, non sono neanche dei limiti di questa produzione specifica che si chiama capitalista. Ragionando così si dimentica che la contraddizione che caratterizza il modo capitalista di produzione, risiede soprattutto nella sua tendenza a sviluppare in maniera assoluta le forze produttive, senza preoccuparsi delle condizioni di produzione al centro delle quali si muove e può muoversi il capitale."
Il Capitale, Volume III, capitolo 15: "lo sviluppo delle contraddizioni immanenti della legge", 3 parte. – evidenziato da noi.
Nel precedente articolo di questa serie abbiamo visto che Rosa Luxemburg, attraverso la sua analisi dei processi fondamentali alla base della espansione imperialista, aveva previsto che le calamità che le regioni precapitaliste del globo subivano sarebbero ritornate nel cuore stesso del sistema, nella borghese Europa. E come sottolineava ne La crisi della socialdemocrazia tedesca (Juniusbroshure), scritta in prigione nel 1915, lo scoppio della guerra mondiale nel 1914 non era solo una catastrofe per la distruzione e la miseria che faceva cadere sulla classe operaia dei due campi in guerra, ma anche che essa era stata resa possibile dal più grande atto di tradimento della storia del movimento operaio: la decisione della maggioranza dei partiti socialdemocratici, fino ad allora fari dell’internazionalismo, educati alla visione marxista del mondo, di sostenere lo sforzo di guerra delle classi dominanti dei loro rispettivi paesi, di ratificare il massacro reciproco del proletariato europeo, a dispetto delle sonanti dichiarazioni di opposizione alla guerra che essi avevao adottato nelle numerose riunioni della Seconda Internazionale e dei suoi partiti costituenti nel corso degli anni precedenti.
Questo costituì la morte dell’Internazionale, scoppiata in diversi partiti nazionali le cui maggior parti, spesso i loro organi dirigenti, agirono come agenti reclutatori nell’interesse della loro borghesia: perciò furono designati come i «socialsciovinisti» o i «socialpatrioti»; essi trascinarono con sè la maggioranza dei sindacati. In questa terribile sconfitta un’altra parte importante della socialdemocrazia, i «centristi», si impantanò in ogni sorta di confusioni, incapace di rompere definitivamente con i socialpatrioti, attaccandosi ad assurde illusioni sulla possibilità di accordi di pace e, come nel caso di Kautsky, l’antico «papa del marxismo», voltando molto spesso le spalle alla lotta di classe in nome del fatto che l’Internazionale non poteva essere che uno strumento di pace, non di guerra. Durante questa epoca traumatizzante solo una minoranza mantenne con fermezza i principi che tutta l’Internazionale aveva sottoscritto alla vigilia della guerra – innanzitutto il rifiuto di fermare la lotta di classe per il fatto che essa metteva in pericolo lo sforzo di guerra della propria borghesia e, per estensione, la volontà di usare la crisi sociale causata dalla guerra come mezzo per affrettare la caduta del sistema capitalista. Ma di fronte allo stato di spirito da isteria nazionalista che dominava all’inizio della guerra, la «atmosfera da progrom» di cui parla Luxemburg nel suo opuscolo, anche i miglior militanti della sinistra rivoluzionaria si trovarono in preda ai dubbi e alle difficoltà. Quando Lenin prese conoscenza della edizione del Vorwarts, giornale della SPD, che annunciava che il partito aveva votato i crediti di guerra al Reichstag, pensò che si trattava di un falso architettato dalla polizia politica. Al parlamento tedesco l’antimilitarista Liebknecht votò all’inizio i crediti di guerra per disciplina di partito. Il seguente estratto di una lettera di Rosa Luxemburg mostra a qual punto lei sentiva che l’opposizione di sinistra nella socialdemocrazia fosse ridotta a una piccola raccolta di individui:
«Vorrei agire con la massima energia contro quello che succede al gruppo parlamentare. Disgraziatamente non trovo molta gente disposta ad aiutarmi. (…) Non si può mai raggiungere Karl (Liebknecht) perchè corre da tutti i lati come una nuvola nel cielo; Franz (Mehring) mostra poca attenzione per ogni azione diversa dalla letteratura, la reazione di tua madre (Clara Zetkin) è isterica e assolutamente disperata. Ma a dispetto di tutto questo, ho intenzione di cercare di vedere cosa si può fare.» (Lettera a Konstantin Zetkin, fine 1914)[1].
Tra gli anarchici c’era altrettanta confusione o il tradimento aperto. Il venerabile anarchico Kropotkin chiamò alla difesa della civilizzazione francese contro il militarismo tedesco (quelli che seguirono il suo esempio furono chiamati ‘gli anarchici delle trincee’), e il richiamo del patriottismo si rivelò particolarmente forte nella CGT in Francia. Ma la corrente anarchica, proprio a causa del suo carattere eterogeneo, non fu sconvolta fino alle sue fondamenta come avvenne per il “partito marxista”. Numerosi gruppi e militanti anarchici continuarono a difendere le stesse posizioni internazionaliste di prima[2].
L’imperialismo: il capitalismo in declino
Naturalmente i gruppi della vecchia sinistra della socialdemocrazia dovettero dedicarsi al compito di riorganizzazione e di raggruppamento per portare avanti il fondamentale lavoro di propaganda e di agitazione a dispetto della frenesia nazionalista e della repressione statale. Ma quello che occorreva soprattutto era una revisione teorica, uno sforzo rigoroso per capire come la guerra aveva potuto spazzare via dei principi difesi da tanto tempo dal movimento. Tanto più che era necessario strappare il velo «socialista» dietro cui i traditori nascondevano il loro patriottismo, utilizzando le parole di Marx ed Engels, selezionandole con cura e, soprattutto, estraendole dal loro contesto storico, per giustificare la loro posizione di difesa nazionale – soprattutto in Germania dove c’era stata una lunga tradizione della corrente marxista che sosteneva i movimenti nazionali contro la minaccia reazionaria costituita dallo zarismo russo.
La necessità di una rivisitazione teorica completa è stata simboleggiata da Lenin che all’inizio della guerra passava ‘calmamente’ il suo tempo a leggere Hegel in biblioteca. In un articolo pubblicato recentemente in The Commune, Kevin Anderson del Marxist Humanist Committee (Comitato marxista umanista) americano sostiene che lo studio di Hegel portò Lenin alla conclusione che la maggioranza della Seconda Internazionale, compreso il suo mentore Plekanov (e per estensione lui stesso) non avevano rotto con il materialismo volgare, e che la loro ignoranza di Hegel li aveva portati ad avere poca padronanza della vera dialettic della storia[3]. Ed uno dei principi dialettici impliciti di Hegel è che ciò che era razionale in un’epoca, diventa irrazionale in un’altra. Ed è certo questo il metodo che Lenin utilizzò per rispondere ai socialsciovinisti – Plekanov in particolare – che cercavano di giustificare la guerra riferendosi agli scritti di Marx ed Engels:
“I socialsciovinisti russi, con Plekanov alla testa, si richiamano alla tattica di Marx nella guerra del 1870; i tedeschi sul tipo di Lensch, di David e soci, si richiamano alla dichiarazione di Engels del 1891 sull'obbligo per i socialisti tedeschi di difendere la patria in caso di guerra contro la Russia e la Francia unite; infine, i socialsciovinisti tipo Kautsky, che desiderano conciliare e legalizzare lo sciovinismo internazionale, si richiamano al fatto che Marx ed Engels, pur condannando le guerre, si posero nondimeno, continuamente dal 1854-1855 fino al 1870-1871 e 1876-1877, dalla parte di un determinato Stato belligerante, una volta che la guerra era scoppiata.
Tutte queste citazioni rappresentano di per sé una ripugnante deformazione a profitto della borghesia e degli opportunisti, delle teorie di Marx ed Engels, precisamente come gli scritti degli anarchici Guillaume e soci rappresentano una deformazione delle teorie di Marx ed Engels, fatta per giustificare l'anarchismo. La guerra del 1870-1871, finché Napoleone III non fu vinto, era storicamente progressiva per la Germania; perché Napoleone, insieme allo zar, oppresse per lunghi anni la Germania, mantenendovi il frazionamento feudale. Ma non appena la guerra finì con la rapina a danno della Francia (annessione dell'Alsazia-Lorena), Marx ed Engels condannarono decisamente i tedeschi. Inoltre, al’inizio di quella guerra, Marx ed Engels avevano approvato il rifiuto di Bebel e di Liebknecht di votare per i crediti di guerra, e avevano consigliato i socialdemocratici a non fondersi con la borghesia e a difendere gli interessi di classe indipendenti del proletariato. Trasferire il giudizio dato su quella guerra, borghese-progressista e di liberazione nazionale, alla attuale guerra imperialista, è farsi beffa della verità. Lo stesso si deve dire, ed a maggior ragione, della guerra del 1854-1855 e di tutte le guerre del XIX secolo, quando non c'erano né l'imperialismo attuale né le condizioni obiettive già mature del socialismo, né partiti socialisti di massa in tutti i paesi belligeranti, quando cioè mancavano precisamente quelle condizioni dalle quali il manifesto di Basilea aveva dedotto la tattica della " rivoluzione proletaria" in rapporto alla guerra fra le grandi potenze.
Chi si richiama adesso all'atteggiamento di Marx verso le guerre del periodo progressivo della borghesia e dimentica le parole di Marx: "gli operai non hanno patria" - parole che si riferiscono precisamente all'epoca della borghesia reazionaria, superata, all'epoca della rivoluzione socialista - deforma spudoratamente Marx e sostituisce al punto di vista socialista il punto di vista borghese”. (Il socialismo e la guerra, 1915)[4].
E’ qui sta la questione chiave: il capitalismo era diventato un sistema reazionario come Marx aveva previsto. La guerra ne era una prova e questo implicava una rivalutazione completa di tutte le antiche tattiche del movimento, una comprensione chiara delle caratteristiche del capitalismo nella sua crisi di senilità e quindi delle nuove condizioni a cui la lotta di classe era confrontata. Per le frazioni di sinistra questa analisi fondamentale della evoluzione del capitalismo era universale. Rosa Luxemburg, nella Brochure di Junius, sulla base di una rivisitazione approfondita del fenomeno dell’imperialismo nel corso del periodo che aveva portato alla guerra, riprese quanto era stato annunciato da Engels: l’umanità era confrontata alla scelta socialismo o barbarie; e lei dichiarava che questa non era più una prospettiva, ma una realtà immediata: «questa guerra è la barbarie». Nello stesso documento Luxemburg sosteneva che nell’epoca dell’imperialismo sviluppato la vecchia tattica di sostegno a certi movimenti di liberazione nazionale aveva perso ogni contenuto progressista: «Nell’epoca in cui l’imperialismo si è scatenato non ci possono più essere delle guerre nazionali. Gli interessi nazionali non sono che una mistificazione che ha per scopo di mettere le masse lavoratrici al servizio del loro nemico mortale: l’imperialismo.»[5]
Trotsky, che scriveva sul Nashe Slovo, evolveva in una direzione parallela, difendendo che la guerra era il segno che lo Stato nazionale era diventato lui stesso un ostacolo ad ogni ulteriore progresso umano: «Lo Stato nazionale è superato come quadro per lo sviluppo delle forze produttive, come base per la lotta di classe e, in particolare, come forma statale della dittatura del proletariato. (Nashe Slovo, 4 febbraio 1916, tradotto dall’inglese da noi).
In un’opera più conosciuta, L’imperialismo fase suprema del capitalismo, Lenin – come Luxemburg – riconosceva che il sanguinoso conflito tra le grandi potenze mondiali esprimeva il fatto che queste potenze si erano ormai divise tutto il pianeta e che, di conseguenza, la torta imperialista non poteva che essere ridivisa attraverso dei violenti regolamenti di conti tra gli orchi capitalisti: «… il tratto caratteristico del periodo considerato è la divisione definitiva del globo, definitiva non nel senso che una nuova divisione sia impossibile, - nuove divisioni essendo invece possibili ed inevitabili - , ma nel senso che la politica coloniale dei paesi capitalisti è finita con la conquista dei territori non occupati del nostro pianeta. Per la prima volta il mondo si trova interamente ripartito, al punto che in futuro non potrà che aversi una nuova ripartizione, cioè il passaggio da un possessre all’altro, e non l’impossessamento di territori senza padrone[6].»
Nello stesso libro Lenin caratterizza lo «stadio supremo» del capitalismo come quello del «parassitismo e del declino» o del «capitalismo moribondo». Parassitario perchè – in particolare nel caso della gran Bretagna - egli vedeva una tendenza al fatto che il contributo delle nazioni industrializzate alla produzione della ricchezza globale fosse rimpiazzato da una dipendenza crescente dal capitale finanziario e dai superprofitti estratti dalle colonie (un punto di vista che si può sicuramente criticare ma che conteneva un elemento di intuizione, come testimonia oggi lo sviluppo della speculazione finanziaria e l’avanzamento della disindustrializzazione in certe nazioni fra le più potenti). Il declino (che non significava, per Lenin, una stagnazione assoluta della crescita) per il fatto che la tendenza del capitalismo ad abolire la libera concorrenza a profitto del monopolio significava il bisogno crescente che la società borghese cedesse il posto a un modo di produzione superiore.
L’imperialismo di Lenin soffre di un certo numero di debolezze. La sua definizione dell’imperialismo è più una descrizione di certe sue manifestazioni più evidenti (‘le cinque caratteristiche’ tanto spesso citate dai gauchiste per provare che questa o quella nazione, o blocco di nazioni, non sono imperialiste) che una analisi delle radici del fenomeno nel processo di accumulazione come aveva fatto Rosa Luxemburg. La sua visione di un centro capitalista vivente in maniera parassitaria dei superprofitti estratti dalle colonie (con cui si corrompeva anche una parte della classe operaia, la «aristocrazia operaia», condotta così a sostenere i progetti imperialisti della borghesia) apriva una breccia per la penetrazione dell’ideologia nazionalista sotto forma di sostegno ai movimenti di «liberazione nazionale» nelle colonie. In più, la fase monopolistica (nel senso di giganteschi cartelli privati) aveva già nel corso della guerra ceduto il posto ad una espressione «superiore» del declino capitalista: l’enorme crescita del capitalismo di Stato.
Su quest’ultima questione il contributo più importante fu certamente quello di Bukarin, che fu uno dei primi a dimostrare che all’epoca dello “Stato imperialista”, la totalità della vita politica, economica e sociale è stata assorbita dall’apparato statale, soprattutto allo scopo di gestire la guerra con gli imperialismi rivali:
"Contrariamente a quello che era nel periodo del capitalismo industriale, lo Stato imperialista si caratterizza per uno straordinario accrescimento della complessità delle sue funzioni e per una brusca incursione nella vita economica della società. Esso rivela una tendenza a prendere in carico l’insieme della sfera produttiva e l’insieme della sfera della circolazione delle merci. I tipi intermedi di imprese miste saranno costituiti da una pura regolamentazione da parte dello Stato poichè è in questa maniera che si può sviluppare la centralizzazione. Tutti i membri delle classi dominanti (o più esattamente della classe dominante giacchè il capitalismo finanziario elimina gradualmente i differenti sottogruppi delle classi dominanti, unendoli nella sola banda del capitalismo finanziario) diventano azionari o partner di una gigantesca impresa di Stato. Assicurando innanzitutto la preservazione e la difesa dello sfruttamento, lo stato si trasforma una una organizzazione sfruttatrice unica centralizzata che si confronta direttamente con il proletariato, oggetto di questo sfruttamento. Poichè i prezzi del mercato cono determinati dallo Stato, questo assicura agli operai una razione sufficiente alla preservazione della loro forza lavoro. Una burocrazia gerarchizzata assolve alla funzione di organizzazione in pieno accordo con le autorità militari il cui ruolo e potenza crescono senza interruzione. L’economia nazionale è assorbita dallo Stato che è organizzato in maniera militare e dispone di un esercito e di una marina immensi e disciplinati. Nella loro lotta gli operai devono confrontarsi con tutta la potenza di questo mostruoso apparato, perchè ogni loro iniziativa di scontrerà direttamente con lo Stato: la lotta economica e la lotta politica smetteranno di essere due categorie separate e la rivolta contro lo sfruttamento significherà una rivolta diretta contro l’organizzazione statale della borghesia.» (‘Verso una teoria dello Stato imperialista’, 1915, tradotto dall’inglese da noi).
Il capitalismo di Stato totalitario e l’economia di guerra si sarebbero rivelate le caratteristiche fondamentale del secolo entrante. Data l’onnipresenza di questo mostro capitalista Bukarin concludeva a giusta ragione che, ormai, ogni lotta operaia significativa non aveva altra scelta che confrontarsi con lo Stato e che la sola via per il proletariato di andare avanti era «far esplodere» l’insieme dell’apparato, cioè distruggere lo stato borghese e rimpiazzarlo con i suoi propri organi di potere. Questo significava il rigetto definitivo di ogni potesi sulla possibilità di conquistare pacificamente lo Stato esistente, cosa che Marx ed Engels non avevano interamente escluso, anche dopo l’esperienza della Comune, e che era diventata progressivamente la posizione ortodossa della Seconda Internazionale. Pannekoek aveva sviluppato questa posizione già nel 1912 e quando Bukarin la riprese, Lenin all’inizio lo accusò con forza di cadere nell’anarchismo. Ma mentre preparava la sua risposta, e stimolato dalla necessità di capire la rivoluzione che stava avvenendo in Russia, Lenin fu ancora una volta vinto dalla dialettica e arrivò alla conclusione che Pannekoek e Bukarin avevano avuto ragione – una conclusione espressa in Stato e rivoluzione, scritto alla viglia dell’insurrezione d’Ottobre.
Nel libro di Bukarin, L’imperialismo e l’economia mondiale (1917), c’è anche un tentativo per situare il corso verso l’espansione imperialista nelle contraddizioni economiche identificate da Marx; egli sottolinea la pressione esercitata dalla caduta del tasso di profitto ma riconosce ugualmente la necessità di una estensione costante del mercato. Come Luxemburg e Lenin, lo scopo di Bukarin è di dimostrare che proprio per il fatto che il processo di ‘mondializzazione’ imperialista aveva creato un’economia mondiale unificata, il capitalismo aveva compiuto la sua missione storica e non poteva ormai che entrare in declino. Cosa del tutto coerente con la prospettiva sottolineata da Marx quando scriveva che “il compito proprio della società borghese è la costruzione del mercato mondiale, almeno nelle sue grandi linee, e di una produzione fondata su questa base” (Lettera di Marx ad Engels, 9 ottobre 1858).
Così, contro i socialsciovinisti e i centristi che volevano tornare allo statu quo di prima della guerra, che snaturavano il marxismo per giustificare il loro sostegno all’uno o all’altro dei campi in guerra, i marxisti autentici affermarono unanimemente che non c’era più un capitalismo progressista e che il suo rovesciamento rivoluzionario era ormai storicamente all’ordine del giorno.
L’epoca della rivoluzione proletaria
La fondamentale questione del periodo storico si pose di nuovo in Russia nel 1917, punto culminante di un’ondata internazionale crescente di resistenza del proletariato alla guerra. Dal momento che la classe operaia russa, organizzata in soviet, si rendeva progressivamente conto del fatto che essersi sbarazzata dello zarismo non aveva risolto nessuno dei suoi problemi fondamentali, le frazioni di destra e i centristi della socialdemocrazia svilupparono una grossa campagna contro l’appello dei Bolscevichi alla rivoluzione proletaria e a che i soviet regolassero i loro conti non solo con i vecchi elementi zaristi, ma anche con tutta la borghesia russa, che considerava la rivoluzione di febbraio come la propria rivoluzione. In questo la borghesia russa era sostenuta dai Menscevichi che riprendevano gli scritti di Marx per dimostrare che il socialismo non poteva essere costruito che sulla base di un sistema capitalista pienamente sviluppato: siccome la Russia era troppo arretrata essa non poteva andare oltre la fase di una rivoluzione borghese democratica e i Bolscevichi erano degli avventurieri che cercavano di giocare alla cavallina con la storia. La risposta data da Lenin nelle Tesi di aprile era ancora una volta coerente con la sua lettura di Hegel che aveva già sottolineato la necessità di considerare il movimento della storia come un tutto. Essa rifletteva anche il suo profondo impegno internazionalista. E’ certamente giusto dire che le condizioni di una rivoluzione devono maturare storicamente, ma l’avvento di una nuova epoca storica non si giudica guardando questo o quel paese preso separatamente. Il capitalismo, come la teoria dell’imperialismo dimostrava, era un sistema globale e quindi il suo declino e la necessità del suo rovesciamento maturavano anch’essi su una scala globale: lo scoppio della guerra imperialista mondiale lo provava ampiamente. Non c’era una rivoluzione russa isolata : l’insurrezione proletaria in Russia non poteva essere che il primo passo verso una rivoluzione internazionale o, come si espresse Lenin nel suo discorso, che fece l’effetto di una bomba, indirizzato agli operai e ai soldati che era accorsi ad accoglierlo al suo ritorno dall’esilio alla Stazione Finlandia di S. Pietroburgo: «Cari compagni, soldati, marinai e operai, sono felice di salutare in voi la rivoluzione russa vittoriosa, di salutarvi come l’avanguardia dell’esercito proletario mondiale… Non è lontana l’ora in cui, secondo l’appello del nostro compagno Karl Liebknecht, i popoli rivolgeranno e loro armi contro i capitalisti sfruttatori…La rivoluzione russa compiuta da voi ha aperto una nuov epoca. Viva la rivoluzione socialsita mondiale!...»
Questa comprensione che il capitalismo avva allo stesso tempo realizzato le condizioni necessarie all’avvento del socialismo ed era entrato nella sua crisi storica di senilità – due facce della stessa medaglia – è contenuta anche in una nota frase della Piattaforma dell’Internazionale scritta al momento del suo PrimoCongresso nel 1919: «Una nuova epoca è nata. L’epoca della disgregazione del capitalismo e del suo crollo. L’epoca della rivoluzione comunista del proletariato.»
Quando la sinistra rivoluzionaria internazionalista si riunì nel Primo Congresso dell’IC, il movimento rivoluzionaria scatenato dalla rivoluzione d’Ottobre era al suo punto più alto. Benchè il sollevamento ‘spartachista’ di gennaio a Berlino fosse stato sconfitto e Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht fossero stati selvaggiamente assassinati, si era appena formata la repubblica dei soviet in Ungheria, e scioperi di massa scuotevano l’Europa e parti degli Stati Uniti e dell’America del sud. L’entusiasmo rivoluzionario dell’epoca si ritrova nei testi fondamentali adottati dal Congresso. In accordo con il discorso di Rosa Luxemburg al Congresso di fondazione del KPD, l’alba di una nuova epoca significava che la vecchia distinzione fra il programma minimo e il programma massimo non era più valido, e di conseguenza il compito di organizzarsi in seno al capitalismo attraverso l’attività sindacale e con la partecipazione al parlamento al fine di guadagnare delle riforme significative aveva perso storicamente la sua ragion d’essere. La crisi storica del sistema capitalista mondiale, espressa non solo dalla guerra imperialista mondiale, ma anche dal caos economico e sociale che essa aveva lascito nella sua scia, significava che la lotta diretta per il potere organizzato in soviet era ora all’ordine del giorno in maniera realista ed urgente, e qusto programma era valido per tutti i paesi, compresi quelli coloniali e semicoloniali. In più, l’adozione di questo nuovo programma massimo non poteva essere messo in pratica se con con una rottura completa con le organizzazioni che avevano rappresentato la classe operaia nel corso dell’epoca precedente e che avevano tradito i suoi interessi quando avevano dovuto passare il test della storia – il test della guerra e della rivoluzione, nel 1914 e nel 1917. I riformisti della socialdemocrazia e la burocrazia sindacale erano ormai definiti come i lacchè del capitale e non più come l’ala destra del movimento operaio. Il dibattito al primo Congresso mostra che la giovane Internazionale era aperta alle conclusioni più audaci tirate dall’esperienza diretta della lotta rivoluzionaria. Benchè l’esperienza russa avesse seguito un cammino un po’ differente, i Bolscevichi ascoltavano con serietà la testimonianza dei delegati della Germania, della Svizzera, della Finlandia, degli Stati Uniti, della Gran Bretagna e di altri paesi, che sostenevano che i sindacati non erano più semplicemente inutili, ma erano diventati un ostacolo controrivoluzionario diretto – degli ingranaggi dell’apparato statale – e che gli operai si organizzavano sempre più spesso al di fuori e contro di essi attraverso la forma organizzativa dei consigli nelle fabbriche e nelle strade. E poichè la lotta di classe si basava appunto sui luoghi di lavoro e nelle strade, questi centri viventi della lotta e della coscienza di classe apparivano, nei documenti ufficiali dell’IC, in flagrante contrasto con il guscio vuoto del parlamento, strumento anch’esso che era non solo inutile per la lotta per la rivoluzione proletaria ma anche uno strumento diretto della classe dominante, utilizzato per sabotare i consigli operai, come si era dimostrato sia nella Russia del 1917 che nella Germania nel 1918. Infine il Manifesto dell’IC era molto vicino alla posizione, sviluppata dalla Luxemburg, secondo cui le lotte nazionali erano superate e le nuove nazioni nascenti erano diventate delle semplici pedine degli interessi imperialisti rivali. In quel momento queste conclusioni rivoluzionarie ‘estreme’ sembravano alla maggioranza discendere logicamente dall’apertura del nuovo periodo[7].
I dibattiti al Terzo Congresso
Quando la storia si accelera, come avvenne a partire dal 1914, ci possono essere i cambiamenti più drammatici nel corso di un anno o due. Nel momento in cui l’IC si riuniva per il suo terzo Congresso, nel giugno-luglio del 1921, la speranza di una estensione immediata della rivoluzione, tanto forte al momento del Primo Congresso, aveva subito dei duri colpi. La Russia aveva attraversato tre anni di estenuante guerra civile e, anche se i Rossi avevano vinto militarmente i Bianchi, il prezzo pagato fu politicamente mortale : un gran numero degli operai più avanzati erano morti, lo Stato ‘rivoluzionario’ si era burocratizzato al punto che i soviet ne avevano perso il controllo. I rigori del ‘Comunismo di guerra’ e gli eccessi distruttori del terrore rosso avevano finito per suscitare una rivolta aperta nella classe operaia: a marzo scioperi di massa scoppiarono a S. Pietroburgo, seguiti dal sollevamento armato dei marinai e degli operai di Kronstadt, che facevano appello per la rinascita dei soviet e per la fine della militarizzazione del lavoro e delle azioni repressive della Ceca. Ma la direzione bolscevica, impastoiata nello Stato, non vide in questo movimento che un’espressione della controrivoluzione bianca e la represse in maniera impietosa e sanguinosa. Tutto questo era l’espressione dell’isolamento crescente del bastione russo. La sconfitta faceva seguito a quella delle repubbliche sovietiche di Ungheria e Baviera, alla sconfitta degli scioperi generali di Winnipeg, Seattle, Red Clydeside, a quella delle occupazioni delle fabbriche in Italia, del sollevamento della Ruhr in Germania e di molti altri movimenti di massa.
Sempre più consapevoli del loro isolamento, il partito aggrappato al potere in Russia e altri partiti comunisti in altri paesi cominciarono a fare ricorso a misure disperate per estendere la rivoluzione, come la marcia dell’Armata Rossa sulla Polonia e l’Azione di marzo in Germania nel 1921 – due tentativi falliti di forzare il corso della rivoluzione senza sviluppo massiccio della coscienza di classe e dell’organizzazione necessarie per una vera presa del potere da parte della classe operaia. Nel frattempo il sistema capitalista, benché dissanguato dalla guerra e in preda ad ulteriori sintomi di una profonda crisi economica, riuscì a trovare un equilibrio sul piano economico e sociale, in parte grazie al nuovo ruolo giocato dagli Stati Uniti come forza motrice industriale e bancaria del mondo.
All’interno dell’Internazionale Comunissta il Secondo Congresso del 1920 aveva già sentito l’impatto delle precedenti sconfitte. Ne fu simbolo la publicazione da parte di Lenin dell’opuscolo L’estremismo, malattia infantile del comunismo, che fu distribuito al Congresso[8]. Invece di aprirsi all’esperienza viva del proletarato mondiale, l’esperienza bolscevica – o una versione particolare di questa – veniva ora presentata come un modelllo universale. I Bolscevichi avevano avuto un certo successo alla Duma dopo il 1905, per cui la tattica del ‘parlamentarismo rivoluzionario’ veniva presentato come una tattica valida universalmente; i sindacati si erano formati di recente in Russia e non avevano perduto ogni segno di vita proletaria…, per cui i comunisti di tutti i paesi dovevano fare tutto il possibile per restare nei sindacati rivoluzionari e cercare di conquistarli eliminando i burocrati corrotti. A fianco di questa codificazione delle tattiche sindacale e parlamentare, in totale opposizione alle correnti comuniste di sinistra che le rigettavano, venne l’appello a costruire dei partiti comunisti di massa, incorporando in gran parte organizzazioni come l’USPD in Germania e il Partito Socialista in Italia.
L’anno 1921 mostrò altre manifestazion di scivolamento verso l’opportunismo, del sacrificio dei principi e degli obiettivi a lungo termine a profitto di successi a breve termine e della crescita numerica. Al posto di una chiara denuncia dei partiti socialdemocratici come agenti della borghesia, si usava ora il sofisma della ‘lettera aperta’ a questi partiti, con lo scopo di ‘forzare i dirigenti a battersi’ o, se non lo facevano, a smascherarsi di fronte ai loro membri operai. In breve l’adozione di una politica di manovre in cui le masse devono in qualche maniera essere ingannate per sviluppare la loro coscienza. Queste tattiche furono rapidamente seguite dalla proclamazione di quella del «fronte unico» e dallo slogan ancor più privo di principi del «governo operaio», una sorta di coalizione parlamentare tra i socialdemocratici e i comunisti. Dietro tutta questa corsa all’influenza ad ogni costo si trovava il bisogno dello Stato ‘sovietico’ di far fronte ad un mondo capitalista ostile, di trovare un modus vivendi con il capitalismo mondiale, al prezzo di un ritorno alla pratica della diplomazia segreta che era stata chiaramente condannata dal potere sovietico nel 1917 (nel 1922 lo Stato ‘sovietico’ firmava un accordo segreto con la Germania, fornendole anche delle armi che sarebbero servite ad uccidere gli operai comunisti un anno dopo). Tutto questo indicava l’accelerazione di una traiettoria che si allontanava dalla lotta per la rivoluzione e si orientava verso la incorporazione nello statu quo capitalista – non ancora definitiva, ma che indicava il cammino della degenerazione che sarebbe culminata con la vittoria della controrivoluzione stalinista.
Ciò non voleva dire che ogni chiarezza o ogni dibattito serio sul periodo storico fossero spariti. Al contrario, i ‘comunisti di sinistra’, reagendo a questo corso opportunista, andavano rafforzando ancora più solidamente i loro argomenti sul punto di vista che il capitalismo era entrato in un nuovo periodo: il programma del KAPD del 1920 cominciava con la proclamazione che il capitalismo era nella sua crisi storica e che ciò metteva il proletariato di fronte alla scelta ‘socialismo o barbarie’[9]; lo stesso anno gli argomenti della sinistra italiana contro il parlamentarismo partono dalle premesse secondo cui le campagne per le elezioni parlamentari avevano avuto la loro validità nel passato, ma l’avvento una nuova epoca rendeva non più valida questa antica pratica. Ma anche tra le voci ‘ufficiali’ dell’Internazionale c’era sempre un tentativo autentico di capire le caratteristiche e le conseguenze del nuovo periodo.
Il Rapporto e le Tesi sulla situazione mondiale presentati da Trotsky al terzo Congresso nel 1921 offrivano un’analisi molto lucida dei meccanismi a cui aveva fatto ricorso un malandato capitalismo per assicurare la sua sopravvivenza nel nuovo periodo – innanzitutto la fuga nel credito e nel capitale fittizio. Analizzando i primi segni di una ripresa nel dopo guerra, il rapporto di Trotsky sulla crisi economica mondiale e i nuovi compiti dell’Internazionale Comunista pone le questioni in questa maniera: “Come è avvenuta la ripresa, e come può essere spiegata? In primo luogo con delle cause economiche: le relazioni internazionali sono state riannodate, anche se in proporzioni ristrette, e dovunque vediamo una richiesta di merci le più varie; poi si spiega con delle cause politiche e finanziarie: i governi europei avevano avuto paura della crisi che si poteva produrre dopo la guerra e avevano preso le loro misure per far durare questa ripresa artificiale che era stata provocata dalla guerra. I governi hanno continuato a mettere in circolazione della moneta in gran quantità, hanno lanciato nuovi prestiti, tassatole rendite, i salari e il prezzo del pane; riuscivano così a coprire una parte dei salari degli operai smobilitati attingendo a fondi nazionali, e creavano una attività economica artificiale nel paese. In questa maniera, per tutto questo tempo, il capitale fittizio continuava crescere, soprattutto nei paesi in cui l’industria diminuiva.”
Tutta la vita del capitalismo a partire da questa epoca non fa che confermare questa diagnosi di un sistema che non poteva mantenersi a galla se non violando le proprie leggi economiche. Questi testi cercavano anche di approfondire l’idea che senza una rivoluzione proletaria il capitalismo avrebbe certamente scatenato nuove guerre ancora più distruttive (anche se le previsioni di un imminente confronto tra l’antica potenza britannica e la nascente potenza americana erano lungi dall’essere giuste, anche se non senza fondamento). Ma la chiarificazione più importante contenuta in questo documento e in altri era la conclusione che l’avvento del nuovo periodo non significava che il declino, la crisi economica aperta e la rivoluzione sarebbero state simultanee – una ambiguità che si può trovare nella formulazione di orgine dell’IC nel 1919, ‘Una nuova epoca è nata’, che poteva essere interpretata nel senso che il capitalismo era entrato simultaneamente in una crisi economica ‘fnale’ e in una fase ininterrotta di conflitti rivoluzionari. Questo avanzamento nella comprensione è forse espresso più chiaramente nel testo di Trotsky “Gli insegnamenti del Terzo Congresso dell’IC”, scritto nel luglio 1921. Il testo cominciava così: “Le classi hanno le loro origini nel processo di produzione. Esse sono capaci di vivere fin quando esse giocano il ruolo necessario nell’organizzazione comune del lavoro. Le classi perdono senso se le loro condizioni di esistenza sono in contradizione con lo svluppo della produzione, cioè con lo sviluppo dell’economia. E’ in questa situazione che la borghesia si trova attualmente. Questo non significa che la classe che ha perduto le sue radici e che è diventata parassitaria deve morire immediatamente. Benchè le fondamenta della dominazione di classe posino sull’economia, le classi si mantengono grazie agli apparati e agli organi dello Stato politico: esercito, polizia, partiti, tribunali, stampa, ecc. Con l’aiuto di questi organismi la classe dominante può trascinare nella sua caduta il paese e la nazione che essa domina…La rappresentazione puramente meccanica della rivoluzione proletaria avente come punto di partenza la rovina costante della società capitalista spingeva qualche gruppo di compagni alla falsa teoria dell’iniziativa delle minoranze capace di far crollare con la propria arditezza “i muri della passività comune del proletariato” e degli attacchi incessanti dell’avanguardia del proletariato come nuovo metodo di combattimento nelle lotte e dell’uso dei metodi delle rivolte armate. Inutile dire che questa sorta di teoria della tattica non ha niente a che fare con il marxismo.”
Così, l’apertura del declino non escludeva delle riprese a livello economico, nè degli arretramenti del proletariato. Evidentemente nessuno poteva vedere a qual punto le sconfitte del 1919-21 fossero già state decisive, ma esisteva un bisogno bruciante di chiarificare cosa fare ora, in una nuova epoca ma non in un momento immediato di rivoluzione. Un testo a parte, le Tesi sulla tattica, adottato dal Congresso, metteva giustamente avanti la necessità che i partiti comunisti prendessero parte alle lotte difensive al fine di sviluppare la fiducia e la coscienza della classe operaia e questo, insieme al riconoscimento che declino e rivoluzione non erano sinonimi, costituiva un rigetto necessario della “teoria dell’offensiva” che aveva ispirato la conduzione semi-golpista dell’Azione di marzo. Questa teoria – secondo cui le condizioni oggettive erano mature, il partito comunista doveva condurre un’offensiva insurrezionale più o meno permanente per spingere le masse all’azione – era difesa principalmente dalla sinistra del partito comunista tedesco, da Bela Kun e altri e non, come è spesso detto in maniera errata, dalla Sinistra comunista in senso stretto, anche se il KAPD e degli elementi a lui vicino non erano sempre chiari su questa questione[10].
A questo proposito gli interventi delle delegazioni del KAPD al Terzo Congresso sono molto istruttivi. Contraddicendo l’etichetta di ‘settario’ che gli era affibbiata nelle tesi sulla tattica, l’atteggiamento del KAPD al Congresso fu un modello della maniera responsabile con cui una minoranza deve comportarsi in una organizzazione proletaria. Benchè disponesse di un tempo estremamente ristretto per i suoi interventi e avesse dovuto sopportare le interruzioni e i sarcasmi dei sostenitori della linea ufficiale, il KAPD si considerava come partecipante a pieno titolo allo svolgimento del Congresso e i suoi delegati erano estremamente disposti a sottolineare i punti d’accordo quando ne avevano; essi non erano interessati a mettere avanti le loro divergenze per esaltarle, come è caratteristica dell’atteggiamento settario[11]. Per esempio, nella discussione sulla situazione mondiale, un certo numero di delegati del KAPD condividevano molti punti dell’analisi di Trotsky, in particolare l’idea secondo sui il capitalismo era sul punto di ricostruirsi sul piano economico e di riprendere il controllo sul piano sociale: così Seeman sottolineò la capacità della borghesia internazionale di mettere temporaneamente da parte le sue rivalità interimperialiste al fine di far fronte al pericolo proletario, in particolare in Germania.
L’implicazione di questo – in particolare del fatto che il rapporto di Trotsky e le Tesi sulla situazione mondiale erano in gran parte orientati per rigettare la “teoria dell’offensiva” e i suoi partigiani – è che il KAPD non difendeva che non ci sarebbe potuta essere stabilizzazione del capitale né che la lotta dovesse essere offensiva in qualsiasi momento. Ed espresse questo punto di vista in numerosi interventi.
Sachs, nella sua risposta alla presentazione di Trotsky sulla situazione economica mondiale, si espresse così: «Abbiamo visto eri in dettaglio come il compagno Trotsky – e tuti quelli che sono qui saranno, penso, d’accordo con lui – si rappresenti i rapporti tra, da un lato, le piccole crisi e i piccoli periodi di ripresa ciclici e momentanei e, dall’altro lato, il problema dello sviluppo e del declino del capitalismo, visto su grandi periodi storici. Saremo tutti d’accordo che la grande curva che andava verso l’alto ora va irresistibilmente verso il basso, e che all’interno di questa grande curva, sia nel suo tratto scendente che in quello discendente, ci siano delle oscillazioni.» (La sinistra tedesca)[12].
Insomma, quale che siano le ambiguità che siano esistite nella visione del KAPD sulla « crisi mortale », esso non considerava che l’apertura della decadenza significava uno sprofondamento improvviso e definitivo della vita economica del capitalismo.
Analogamente, l’intervento di Hempel sulla tattica dell’Internazionale mostra chiaramente che l’accusa di « settario » portata al KAPD, per il suo supposto rifiuto di lotte difensive e il suo preteso appello all’offensiva in qualsiasi momento, era falsa : « Ora la questione delle azioni parziali. Noi diciamo che non respingamo nessuna azione parziale. Noi diciamo : ogni azione, ogni lotta, perchè questa è un’azione, deve essere prevista, spinta in avanti. Non si può dire : respingiamo questa o quella lotta. La lotta che nasce dalle necessità economiche della classe operaia, questa lotta deve essere spinta avanti con ogni mezzo. Proprio in un paese come la Germania, l’Inghilterra e tutti gli altri paesi di democrazia borghese che hanno subito per quaranta o cinquanta anni una democrazia borghese e i suoi effetti, la classe operaia deve essere innanzitutto abituata alle lotte. Le parole d’ordine devono corrispondere alle azioni parziali. Facciamo un esempio: in una impresa, in diverse imprese scoppia uno sciopero che comprende una certa zona. Là la parola d’ordine non potrebbe essere ‘lottare per la dittatura del proletariato’. Sarebbe un’assurdità. Le parole d’ordine devono essere adattate ai rapporti di forza e a quello che ci si può attendere in una data situazione.» (Ibidem)
Ma dietro molti di questi interventi c’era l’insistenza del KAPD sul fatto che l’IC non andava abbastanza lontano nella sua comprensione che un nuovo periodo nella vita del capitalismo e quindi della lotta di classe si era aperto. Sachs, per esempio, dopo aver espresso il suo accordo con Trotsky sulla possibilità di riprese temporanee, sostenne che : « quello che non è stato espresso in queste Tesi,… è giustamente il carattere fondamentalmente differente di questa epoca di declino rispetto alla precedente epoca di ascesa del capitalismo considerato nella sua totalità » (ibidem) e che questo aveva delle implicazioni nella maniera in cui ormai il capitalismo sopravviveva : « il capitale ricostruisce il suo potere distruggendo l’economia » (ibidem), un punto di vista visionario sulla maniera con cui il capitalismo sarebbe continuato come sistema nel secolo che si era aperto. Hempel, nella discussione sulla tattica, espone le implicazioni del nuovo periodo per quello che riguardava le posizioi politiche che i comunisti devono difendere, in particolare sulla questione sindacale e parlamentare. Contrariamente agli anarchici, a cui il KAPD è spesso assimilato, Hempel insiste sul fatto che l’utilizzazione del parlamento e dei sindacati era stato giusto nel periodo precedente: «…se si va con la memoria ai compiti che aveva il vecchio movimento operaio o, per meglio dire, il movimento operaio prima dell’epoca di questa irruzione della rivoluzione diretta, vediamo che esso aveva, da un lato, grazie alle organizzazioni politiche della classe operaia,i partiti,il compito di inviare dei delegati al parlamentoe nelle istituzioni che la borghesia e la burocrazia avevano lasciato aperte alla rappresentanza della classe operaia.Questo era uno dei compiti. Così fu fatto e all’epoca era giusto. Dal loro canto le organizzazioni economiche della classe operaia dovevano preoccuparsi di migliorare la situazione del proletariato all’interno del capitalismo, di spingere alla lotta e di negoziare quando la lotta difermava… questi erano i compiti delle organizzazioni operaie prima della guerra. Ma la rivoluzione arrivò ed altri compiti divennero attuali. Le organzzazioni operaie non potevano adattarsi alla lotta per degli aumenti salariali e sentirsi soddisfatte ; e nemmeno potettero più porsi – come loro compito principale – quello di essere rappresentati in parlamento e strappare dei miglioramenti per la classe operaia.» (ibidem), e ancora «continamente sperimentiamo il fatto che tutte le organizzazioni di lavoratori che prendono questa strada, a dispetto di tutti i loro discorsi rivoluzionari,vengono meno nelle lotte decisive» (ibidem), è per questo che la classe operaia aveva bisogno di creare delle nuove organizzazioni capaci di esprimere la necessità dell’autorganizzazione del proletariato e il confronto diretto con lo Stato e il capitale ; questo era valido tanto per le piccole lotte difensive che le lotte di massa più ampie.
In un altro momento Bergmann definisce i sindacati come degli ingranaggi dello Stato e mostra che è quindi illusorio volerli riconquistare : « Noi siamo profondamente convinti che bisogna sbarazzarsi dei vecchi sindacati. Non perchè abbiamo sete di distruzione, ma perchè noi vediamo che queste organizzazioni sono diventate, nel senso peggiore del termine, degli organi dello Stato capitalista per reprimere la rivoluzione. » (ibidem). Con la stessa vena Sachs criticò la regressione verso la nozione di partito di massa e la tattica della lettera aperta ai partiti socialdemocratici – queste erano delle regressioni verso delle pratiche socialdemocratiche e forme di organizzazione superate o, peggio, verso gli stessi partiti socialdemocratici passati al nemico.
* * *
In generale, la storia è scritta dai vincitori, o almeno da quelli che sembrano tali. Negli anni che seguirono il Terzo Congresso i partiti comunisti ufficiali rimasero delle organizzazioni capaci di attirare la lealtà di milioni di operai, mentre il KAPD esplose rapidamente in molte componenti, di cui poche mantennero la chiarezza espressa dai suoi rappresentanti a Mosca nel 1921. Allora dei veri tratti settari emersero in primo piano, in particolare nella decisione affrettata della tendenza di Essen del KAPD, organizzata intorno a Gorter, di fondare una ‘quarta internazionale’ (La KAI, Internazionale Comunista Operaia) mentre ciò che era necessario in una fase di arretramento della rivoluzione era lo sviluppo di na frazione internazionale che combattesse la degenerazione della Terza Internazionale. Questo abbandono prematuro dell’Internazionale comunista si accompagnò logicamente con una svolta nell’analisi della rivoluzione d’Ottobre, sempre più considerata come una rivoluzione borghese. Il punto di vista della tendenza Schroder nella KAI, che considerava che all’epoca della ‘crisi mortale’ le lotte per i salari fossero opportuniste, era ugualmente settario ; altre correnti cominciarono a mettere in questione la possibilità stessadi un partito politico del proletariato, dando nascita a quello che è diventato noto con il nome di « consiliarismo ». Ma queste manifestazioni di un indebolimento e di una frammentazione più generale dell’avanguardia rivoluzionaria erano il prodotto della sconfitta e della controrivoluzione che si aggravavano ; allo stesso tempo il mantenimento, durante questo periodo, dei partiti comunisti come organizzazioni di massa influenti era anch’esso il prodotto della controrivoluzione borghese, ma con questa terribile particolarità che questi partiti si erano messi alla testa di questa controrivoluzione, a fianco dei boia fascisti e democratici. Dall’altro lato, le posizioni più chiare del KAPD e della sinistra italiana, prodotto dei momenti più alti della rivoluzione e solidamente ancorati alla teoria della decadenza del capitalismo, non sparirono, in gran parte grazie al lavoro paziente di piccoli gruppi rivoluzionari, spesso estremamente isolati ; quando le nebbie della controrivoluzione cominciarono a dissiparsi, queste posizioni trovarono una nuova via con l’emergere di una nuova generazione di rivoluzionari e rimasero delle acquisizioni fondamentali su cui il futuro partito della rivoluzione dovrà basarsi.
Gerrard
[1] Citato in J.P. Nettl, “La vie et l'œuvre de Rosa Luxemburg”, Ed. Maspero, Francia, Tomo II, p.593.
[2] Sarebbe interessante fare ulteriori ricerche sui tentativi attuali all’interno del movimento anarchico di analizzare il significato della guerra.
[5] Capitolo annesso: Tesi sui compiti della socialdemocrazia.
[7] Per ulteriori elementi sulla discussione durante il primo Condere l’articolo della Révue internationale n°123 "La théorie de la décadence au cœur du matérialisme historique – De Marx à la Gauche communiste (2) [22]"
[8] Segnaliamo che questa lettera non restò senza risposta o critiche, in particolare quella di Gorter.
[9] "La crisi economica mondiale, con i suoi effetti economici e sociali mostruosi, e la cui visione d’insieme dà l’impressione di un unico campo di rovine, non significa che una cosa: il crepuscolo degli dei dell’ordine borghese-capitalista è cominciato. Oggi non abbiamo di fronte una delle crisi economiche cicliche, proprie del modo di produzione capitalista; si tratta della crisi del capitalismo in quanto tale; convulsioni dell’insieme dell’organismo sociale, scoppio for-midabile di antagonismi di classe di un’acutezza mai vista, miseria generale per vaste masse popolari, tutto ciò è un fatidico avvertimento alla società borghese. Appare sempre più chiaramente che l’opposizione tra sfruttati e sfruttatori cresce sempre di più, che la contraddizione fra capitale e lavoro, di cui prendono sempre più coscienza anche gli strati di lavoratori finora piùpassivi, non può essere risolta. Il capitalismo ha fatto l’esperienza del suo falllimento definitivo; si è da solo ridotto al niente nella guerra di brigantaggio imperialista, ha creato un caos, il cui insopportabile prosieguo pone il proletariato davanti all’alternativa storica : caduta nella barbarie o costruzione di un mondo socialista."
[10] Per esempio, il paragrafo introduttivo del programma del KAPD, citato sopra, può facilmente essere letto come la descrizione della crisi finale del capitalismo e, rispetto al pericolo di golpismo, certe attività del KAPD durante l’Azione di Marzo sono certamente cadute in questa tendenza, come per esempio l’alleanza con il VKPD nell’utilizzazione dei suoi membi dsoccupati per cercare di trascinare letteralmente con la forza gli operai allo sciopero generale, e nei suoi rapporti ambigui con le forza armate ‘indipendenti’ create da Max Hoelz e altri. Si può anche vedere l’intervento di Hempel al Terzo Congresso che riconosce che l’Azione di Marzo non avrebbe potuto rovesciare il capitalismo, ma insiste comunque sulla necessità di lanciare slogan di rovesciamento del governo – una posizione che sembra mancare di coerenza, visto che per il KAPD non era possibile difendere nessun tipo di governo ‘operaio’ senza la dittatura del proletariato.
[11] L’atteggiamento di Hempel verso gli anarchici e i sindacalisti rivoluzionari era anch’esso privo di spirito settario, e sottolineava la necessità di lavorare con tutte le espressioni autenticamente rivoluzionarie di questa corrente.
[12] Edito da Invariance, La vecchia talpa, 1973.
Nostra presentazione
Anche in Russia, fin dal 1918, comparvero in seno al partito bolscevico alcune frazioni di sinistra[3] espressioni dei differenti disaccordi con la politica di quest’ultimo[4]. Ciò era una prova del carattere proletario del bolscevismo. Proprio perché era un’espressione vivente della classe operaia, unica classe che può fare una critica radicale e continua della sua pratica, il partito bolscevico generò continuamente delle frazioni rivoluzionarie. Ad ogni tappa di degenerazione, si sollevavano al suo interno voci che protestavano, si formavano gruppi dentro al partito o se ne separavano per denunciarne l’abbandono del programma iniziale del bolscevismo. Solo quando il partito venne definitivamente seppellito dai suoi becchini stalinisti non si produssero più frazioni. I comunisti di sinistra russi erano tutti dei bolscevichi. Erano loro a difendere la continuità col bolscevismo degli anni eroici della rivoluzione, mentre quelli che li hanno calunniati, perseguitati ed assassinati, per quanto celebri siano stati, avevano rotto con l’essenza del bolscevismo.
Il ritiro di Lenin dalla vita politica fu uno dei fattori che provocò lo scoppio di una crisi aperta nel partito bolscevico.
Da un lato, la frazione burocratica, un blocco instabile costituito inizialmente dal “triumvirato” Stalin, Zinoviev, Kamenev il cui principale collante era la volontà di isolare Trotsky, andava consolidando il suo ascendente sul partito. In questo periodo Trotsky, nonostante molte esitazioni, fu costretto ad evolvere apertamente verso una posizione di opposizione in seno al partito.
Allo stesso tempo, il regime bolscevico era confrontato a nuove difficoltà sul piano economico e sociale. Durante l’estate 1923, la prima crisi de “l’economia di mercato” instaurata dalla NEP minacciava l’equilibrio di tutta l’economia. Se la NEP era stata introdotta per bloccare l’eccessiva centralizzazione da parte dello Stato del Comunismo di guerra risultato nella crisi del 1921, diventava evidente che la liberalizzazione dell’economia esponeva la Russia ad alcune delle più classiche difficoltà della produzione capitalista. Queste difficoltà economiche e soprattutto la risposta che dava il governo - una politica di tagli rispetto all’impiego e sui salari come in qualsiasi Stato capitalista “normale” - aggravavano a loro volta la condizione di una classe operaia già al limite della miseria. Nell’agosto-settembre 1923, scioperi spontanei cominciarono ad estendersi ai principali centri industriali.
Il triumvirato, interessato innanzitutto al mantenimento dello status quo, aveva cominciato a considerare la NEP come la via reale al socialismo in Russia; questo punto di vista era teorizzato principalmente da Bukharin che era passato dall’estrema sinistra del partito all’estrema destra e che aveva preceduto Stalin nella teoria del socialismo in un solo paese, sebbene a “passo di lumaca” a causa dello sviluppo di un’economia di mercato “socialista”. Trotsky, da parte sua, aveva cominciato già a chiedere più centralizzazione e pianificazione statale per rispondere alle difficoltà economiche del paese. Ma la prima presa di posizione chiara dell’opposizione emanata dall’interno dei circoli dirigenti del partito fu la Piattaforma dei 46, sottoposta all’Ufficio politico nell’ottobre 1923. I 46 erano composti sia da compagni vicino a Trotsky come Piatakov e Préobrajensky, che da elementi del gruppo Centralismo democratico come Sapranov, V. Smirnov ed Ossinski. E’ significativo che il documento non portò la firma di Trotsky: il timore di essere considerato come facente parte di una frazione (dal momento che le frazioni erano state vietate nel 1921) certamente influenzò il suo atteggiamento. Tuttavia, la sua lettera aperta al Comitato centrale, pubblicata nella Pravda del dicembre 1923 ed il suo opuscolo Corso nuovo esprimevano delle preoccupazioni molto simili a quelle dell’Opposizione e lo ponevano definitivamente nelle fila di quest’ultima.
Originariamente la Piattaforma dei 46 era una risposta ai problemi economici in cui si trovava il regime. Sosteneva una maggiore pianificazione statale contro il pragmatismo dell’apparato dominante e la sua tendenza ad elevare la NEP al rango di principio immutabile. Questo sarà un tema costante dell’opposizione di sinistra intorno a Trotsky e, come vedremo, non uno dei suoi punti di forza. Più importante era l’allerta lanciata riguardante il soffocamento della vita interna del partito[5].
Allo stesso tempo la Piattaforma prendeva le distanze da quelli che chiamava gruppi di opposizione “malsana”, anche se li considerava come espressione della crisi del partito facendo sicuramente riferimento alle correnti come Il Gruppo operaio intorno a Miasnikov e La Verità operaia intorno a Bogdanov che erano sorti nello stesso periodo. Poco dopo Trotsky adotterà un punto di vista simile: il rigetto delle loro analisi perché troppo estreme, pur considerandole come manifestazioni della cattiva salute del partito. Tantomeno Trotsky voleva collaborare con i metodi di repressione che avevano per scopo l’eliminazione di questi gruppi.
Nei fatti, questi gruppi non possono assolutamente essere scartati come fenomeni “malsani”. È vero che La Verità operaia esprimeva una certa tendenza al disfattismo ed anche al menscevismo; come la maggior parte delle correnti della Sinistra tedesca ed olandese, la sua analisi dello sviluppo del capitalismo di Stato in Russia era indebolita dalla tendenza a mettere in discussione la stessa rivoluzione d’Ottobre ed a considerarla come una rivoluzione borghese più o meno progressista[6].
Questa non era affatto la posizione del Gruppo operaio del Partito comunista russo (bolscevico), diretto da operai bolscevichi di lunga data come Miasnikov, Kuznetsov e Moiseev. Il gruppo si fece subito conoscere nell’aprile-maggio 1923 con la distribuzione del suo Manifesto, giusto dopo il 13° Congresso del partito bolscevico. L’esame di questo testo conferma la serietà del gruppo, la sua profondità e la sua perspicacia politica.
Il testo non è privo di debolezze. In particolare, esso si lascia prendere dalla “teoria dell’offensiva”, la quale non vedeva il riflusso della rivoluzione internazionale e la conseguente necessità di lotte difensive della classe operaia. Questa era l’altra faccia della medaglia rispetto all’analisi dell'Internazionale Comunista che vedeva il riflusso dal 1921 ma ne traeva conclusioni largamente opportuniste. Allo stesso modo, il Manifesto adotta un punto di vista erroneo sul fatto che nell’epoca della rivoluzione proletaria le lotte per aumenti salariali non avrebbero più un ruolo positivo.
Malgrado ciò, i punti di forza di questo documento pesano ben più che le debolezze:
- il suo internazionalismo risoluto. Contrariamente al gruppo de L’Opposizione operaia della Kollontaï, non c’è traccia di localismo russo nella sua analisi. Tutta la parte introduttiva del Manifesto tratta della situazione internazionale, individuando chiaramente le difficoltà della rivoluzione russa nel ritardo della rivoluzione mondiale, ed insistendo sul fatto che la salvezza della prima risiedeva sull’avvento della seconda: “Il lavoratore russo (…) ha imparato a considerarsi come soldato dell’esercito mondiale del proletariato internazionale ed a vedere nelle sue organizzazioni di classe le truppe di questo esercito. Ogni volta dunque che è sollevata la domanda inquietante del destino delle conquiste della rivoluzione d’Ottobre, rivolge il suo sguardo laggiù, al di là delle frontiere dove sono riunite le condizioni per una rivoluzione, ma dove, tuttavia, la rivoluzione non viene”
- la sua critica acuta della politica opportunista del Fronte unico e dello slogan del Governo operaio; la precedenza accordata a questa questione costituisce una conferma supplementare dell’internazionalismo del gruppo poiché si trattava innanzitutto di una critica della politica dell’Internazionale Comunista. La sua posizione non era neanche macchiata di settarismo: affermava la necessità dell’unità rivoluzionaria tra le differenti organizzazioni comuniste (come il KPD ed il KAPD in Germania) ma rigettava completamente l’appello dell’Internazionale a fare blocco con i traditori della socialdemocrazia ed il suo ultimo falso argomento secondo il quale la rivoluzione russa aveva avuto un esito vittorioso proprio perché i bolscevichi avevano utilizzato in modo intelligente la tattica del fronte unico: “... la tattica che doveva condurre il proletariato insorto alla vittoria non poteva essere quella del fronte unico socialista ma quella della lotta mortale, senza riguardo, contro le frazioni borghesi dalla terminologia socialista confusa. Solo questa lotta poteva portare la vittoria e fu così. Il proletariato russo ha vinto non alleandosi ai socialisti-rivoluzionari, ai populisti ed ai menscevichi, ma lottando contro di essi. (…) È necessario abbandonare la tattica della “Fronte unico socialista” ed avvertire il proletariato che “le frazioni borghesi dalla fraseologia socialista ambigua” - attualmente tutti i partiti della Seconda internazionale - marceranno al momento decisivo armi alla mano per la difesa del sistema capitalista”.
- la sua interpretazione dei pericoli che affrontava lo Stato sovietico - la minaccia della “sostituzione della dittatura del proletariato da parte di un’oligarchia capitalista”. Il Manifesto descrive l’ascesa di una élite burocratica e la perdita dei diritti politici della classe operaia e reclama la restaurazione dei comitati di fabbrica e soprattutto che i soviet prendano la direzione dell’economia e dello Stato[7]. Per il Gruppo operaio rinnovare la democrazia operaia costituiva il solo mezzo per bloccare l’ascesa della burocrazia ed esso rigettava esplicitamente l’idea di Lenin secondo la quale un mezzo per andare avanti consisteva nello stabilire una Ispezione operaia, mentre questa avrebbe solo rappresentato un tentativo di controllare la burocrazia attraverso dei mezzi burocratici.
- il suo profondo senso di responsabilità. Contrariamente alle note critiche aggiunte dal KAPD quando pubblicò il Manifesto in Germania (Berlino 1924) che esprimevano da parte della la Sinistra tedesca la sentenza prematura di morte della rivoluzione russa e dell’Internazionale comunista, il Gruppo operaio fu molto prudente prima di proclamare il trionfo definitivo della controrivoluzione in Russia o la morte dell’Internazionale. Durante la “crisi di Curzon” del 1923, nel momento in cui sembrava che la Gran Bretagna stesse per dichiarare guerra alla Russia, i membri del Gruppo operaio si impegnarono a difendere la repubblica sovietica in caso di guerra e, soprattutto, in essi non c’era la minima traccia di ripudio della rivoluzione d’Ottobre e dell’esperienza bolscevica. In effetti, l’attitudine adottata dal gruppo sul proprio ruolo corrisponde precisamente alla nozione di frazione di sinistra come sarà elaborata più tardi dalla Sinistra italiana in esilio. Riconosceva la necessità di organizzarsi indipendentemente ed anche clandestinamente, ma il nome del gruppo (Gruppo operaio del Partito comunista russo - bolscevico) come anche il contenuto del suo Manifesto dimostrano che esso si considerava in totale continuità con il programma e gli statuti del partito bolscevico. Chiamava dunque tutti gli elementi sani in seno al partito, della direzione e dei differenti raggruppamenti di opposizione come La Verità operaia, l’Opposizione operaia ed il Centralismo democratico a raggrupparsi ed a condurre una lotta decisa per rigenerare il partito e la rivoluzione. E sotto certi aspetti, era una politica ben più realistica rispetto alla speranza che avevano i “46” di far abolire il regime di fazioni nel partito “in primo luogo” da parte della stessa fazione dominante.
Insomma, non c’era niente di malsano nel progetto del Gruppo operaio ed esso non era una semplice setta senza influenza nella classe. Alcune stime valutano a circa 200 il numero dei suoi membri a Mosca, ed era totalmente coerente quando diceva di trovarsi affianco al proletariato nella sua lotta contro la burocrazia. Cercò dunque di condurre un intervento politico attivo negli scioperi selvaggi dell’estate e dell’autunno 1923. Nei fatti, è proprio per questa ragione ed anche a causa dell’influenza crescente del gruppo all’interno del partito che l’apparato gli scatenò contro la sua repressione. Come lui stesso aveva previsto, Miasnikov subì anche un tentativo di assassinio “durante un tentativo di evasione”. Miasnikov sopravvisse e sebbene incarcerato e forzato all’esilio, dopo essere scappato, proseguì la sua attività rivoluzionaria all’estero per due decenni. Il gruppo in Russia fu alquanto destabilizzato dagli arresti di massa, sebbene emerga con chiarezza da L’enigma russo, il prezioso rapporto di A. Ciliga sui gruppi di opposizione in prigione alla fine degli anni 1920, che non sparì completamente e continuò ad influenzare “l’estrema sinistra” del movimento di opposizione. Tuttavia questa prima repressione non presagiva proprio niente di buono: era la prima volta che un gruppo apertamente comunista subiva direttamente la violenza dello Stato sotto il regime bolscevico.
Manifesto del Gruppo Operaio del Partito Comunista Russo (bolscevico)
In luogo di prefazione
Ogni operaio cosciente, al quale non siano estranei i dolori, le sofferenze e la titanica, straordinaria lotta della propria classe, ha assai spesso meditato sulla sorte della nostra rivoluzione in tutti i suoi successivi sviluppi. Ognuno sa che il suo destino è legato strettamente a quello del movimento proletario mondiale.
Ancora si legge nel vecchio programma socialdemocratico che “lo sviluppo degli scambi crea una stretta unione fra tutti i paesi del mondo civile” e che “il movimento proletario deve diventare ed è già divenuto internazionale”. Da allora anche l’operaio russo ha imparato a considerarsi un soldato nell’esercito mondiale del proletariato internazionale, a considerare le sue organizzazioni di classe come reparti di quell’esercito. Ogni volta, quindi, che viene posta l’inquietante questione sul destino delle conquiste dalla Rivoluzione d’Ottobre, egli volge lo sguardo ancora là, oltre le frontiere, dove sono le condizioni obiettive per una rivoluzione, che, tuttavia, tarda, tarda ancora a venire.
Ma, anche se la rivoluzione non è ancora avvenuta, il proletario non deve lamentarsi, non deve piegare il capo; invece, deve porsi in tal caso la domanda: che bisogna fare perché la rivoluzione si realizzi?
Se egli volge lo sguardo alla sua terra, vede che la classe operaia russa, che ha guidato la rivoluzione socialista e ha affrontato le difficilissime prove della NEP (Nuova Politica Economica), osservando i sempre più grassi eroi di quest’ultima e raffrontando le condizioni di costoro con le proprie, chiede inquieta: dove stiamo veramente andando?
Gli vengono così amari pensieri. Il lavoratore, che ha sopportato tutto il peso delle guerre borghesi e imperialiste, che da tutti i giornali russi è stato esaltato come un eroe, che nella lotta proletaria ha versato il proprio sangue, conduce ora una vita miserabile, a pane e acqua; invece, coloro che sfruttano la timorosa soggezione e la miseria dei lavoratori che hanno deposto le armi con cui combatterono, conducono ora una vita magnifica e lussuosa. Dove stiamo andando? Che accadrà in seguito? Invero, è possibile che la NEP, da Nuova Politica Economica” si converta in nuovo sfruttamento del proletariato? Che occorre fare per stornare da noi questo pericolo?
Quando d’improvviso queste domande si presentano alla mente dell’operaio, questi si volge spontaneamente indietro per stabilire un legame tra il presente e il passato, per capire come egli sia potuto arrivare a tal punto. Ma per quanto amare ed istruttive siano le sue esperienze, l’operaio non sempre riesce ad orientarsi nella complessa rete degli avvenimenti storici che si presentano ai suoi occhi.
Perciò noi vogliamo aiutarlo, secondo le nostre forze, a capire gli eventi e, se possibile, indicargli la via per la vittoria del proletariato. Non pretendiamo affatto di essere dei maghi o profeti dalla parola sacra ed infallibile; al contrario, vogliamo che tutto quanto diremo sia sottoposto alla critica più severa e alle necessarie correzioni.
Ai compagni comunisti di tutti i paesi!
Lo stato attuale delle forze di produzione nei paesi progrediti, e particolarmente in quelli a più alto sviluppo capitalistico, dà al movimento proletario di questi paesi l’aspetto di una lotta per la rivoluzione comunista, per il potere delle mani callose, per la dittatura del proletariato. O l’umanità, attraverso inaudite guerre borghesi nazionali, sarà immersa nel proprio sangue e scivolerà nella barbarie, oppure il proletariato compirà la sua storica missione: conquistare il potere e una volta per sempre porre fine allo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, alle guerre borghesi e di classe fra popoli e nazioni, e alzare il vessillo della pace, del lavoro e della fratellanza.
Il precipitoso potenziamento delle flotte aeree inglese, francese, statunitense, giapponese, ecc., minaccia una nuova guerra, una guerra mai vista, nella quale periranno milioni di uomini e saranno distrutte le ricchezze accumulate nel mondo in tanto tempo, le fabbriche, le imprese, le attività, tutto ciò che operai e contadini hanno costruito nei secoli con faticoso lavoro.
In ciascun paese questo è il compito del proletariato: abbattere la propria borghesia nazionale. Quanto più presto il proletariato rovescerà la borghesia del proprio paese, tanto più presto il proletariato mondiale attuerà il suo compito storico.
Per porre fine allo sfruttamento, all’oppressione, alle guerre, il proletariato non deve lottare per più alti salari, per la diminuzione del tempo di lavoro: ciò è stato necessario in una prima fase, oggi occorre lottare per il potere.
La borghesia e gli altri oppressori di tutte le razze e sfumature sono particolarmente soddisfatti dei socialtraditori di tutti i paesi, perché essi distolgono l’attenzione del proletariato dai principali obiettivi della lotta contro il potere e lo sfruttamento della borghesia perseguendo spicciole e meschine rivendicazioni, senza poter offrire alcuna resistenza all’assoggettamento e alla violenza. I socialisti di tutti i paesi sono a un certo momento i veri salvatori della borghesia di fronte alla rivoluzione proletaria: poiché la massa innumerevole degli operai accoglie abitualmente con diffidenza ciò che le viene detto dai suoi sfruttatori, ma quando le stesse cose le sono presentate come ispirate al suo interesse ed abbellite con frasi socialistiche, allora essa, confusa da queste frasi, crede ai traditori ed impegna le sue forze in una lotta inutile. La borghesia ha e avrà nei socialisti i suoi migliori avvocati.
Le avanguardie comuniste del proletariato devono innanzitutto eliminare il sudiciume borghese dalle menti dei loro compagni di classe, dei quali devono conquistare le coscienze per condurli alla lotta vittoriosa.
Ma per bruciare questo ciarpame borghese bisogna essere uno dei loro, dei proletari, condividere tutti i loro mali e le pene. Quando questi proletari che hanno finora seguito gli ordini della borghesia iniziano a lottare, a fare scioperi non bisogna respingerli rimproverandoli con disprezzo - bisogna, al contrario, restare con loro nella loro lotta spiegando senza sosta che questa lotta serve soltanto alla borghesia. Inoltre per dire loro una parola di verità, si è talvolta costretti a salire sulla merda (presentarsi alle elezioni) sporcandosi le oneste scarpe rivoluzionarie.
Certo, tutto dipende dal rapporto di forze in ogni paese. E potrebbe darsi che non sia necessario né presentarsi alle elezioni, né partecipare agli scioperi, ma impegnarsi direttamente in una battaglia. Non si possono mettere tutti i paesi in uno stesso sacco.
Si deve naturalmente cercare di conquistare la simpatia del proletariato con ogni mezzo e maniera, ma non col cedimento, la negligenza, la rinuncia dei fondamentali principi. Bisogna combattere chi, per desiderio di successi immediati, abbandona questi principi, non guida e non cerca di guidare le masse ma piuttosto le imita, non le conquista ma si mette al loro rimorchio.
Non si può stare sempre a guardare, ad attendere che -la rivoluzione proletaria scoppi contemporaneamente in tutti i paesi; non si può giustificare la propria esitazione con l’immaturità del movimento proletario mondiale, e neanche si può parlare in questo modo: “Noi siamo pronti per la rivoluzione e anche abbastanza forti, ma gli altri non sono maturi, e se noi rovesciamo la nostra borghesia e gli altri no, che cosa allora accadrà?”
Poniamo che il proletariato tedesco rovesci la borghesia del suo paese e quanti socialmente si schierano con essa. Che accadrà allora? Accadrà che la borghesia e i socialtraditori di tutti i paesi tedeschi fuggiranno lontano dalla collera proletaria, verso la Francia e il Belgio e, supplicando Poincaré e compagni di regolare i conti col proletariato tedesco, prometteranno ai Francesi di rispettare il Trattato di Versailles, magari offrendo in aggiunta i territori del Reno e della Ruhr: cioè si comporteranno come si comportarono e si comportano la borghesia russa e i suoi alleati socialtraditori. Naturalmente Poincaré sarà molto lieto di interessarsi a questo buon affare, di salvare la Germania dal suo proletariato, così come fanno i delinquenti di tutto il mondo con la Russia sovietica. Ma la sfortuna di Poincaré e compagni sta nel fatto che il loro esercito, composto di operai e contadini, appena capirà di dover aiutare la borghesia tedesca e i suoi alleati contro il proletariato tedesco, contro i Consigli operai della Germania, rivolgerà le armi contro la propria borghesia, contro Poincaré. Questi, per salvare la propria pelle e quella dei borghesi francesi, richiamerà le truppe e abbandonerà al loro destino la povera borghesia tedesca e i suoi alleati socialisti. Questo avverrà anche se il proletariato tedesco romperà il trattato di Versailles, scaccerà Poincaré dal Reno e dalla Ruhr e proclamerà la pace senza annessioni ed indennità, sulla base della autodeterminazione dei popoli. Non sarà difficile per Poincaré accordarsi con Cuno e i fascisti, ma la Germania dei Consigli gli spezzerà le ossa. Quando si dispone della forza, bisogna servirsene e non girare in tondo.
Un altro pericolo minaccia la rivoluzione tedesca: lo sparpagliamento delle sue forze. Nell’interesse della rivoluzione proletaria mondiale, l’intero proletariato rivoluzionario deve unire i suoi sforzi. Se la vittoria del proletariato è impensabile senza una decisiva rottura e una lotta implacabile contro i nemici della classe operaia - i socialtraditori della Seconda Internazionale che a mano armata schiacciano il movimento rivoluzionario proletario nei loro cosiddetti liberi paesi - questa vittoria del proletariato è impensabile anche senza l’unione di tutte le forze che mirano alla rivoluzione comunista e alla dittatura del proletariato. E perciò noi, Gruppo Operaio del Partito Comunista Russo (bolscevico), organizzativamente e idealmente annoverato tra i partiti aderenti alla III Internazionale, ci rivolgiamo a tutti i proletari comunisti rivoluzionari con l’appello a unire le loro forze per l’ultima e decisiva battaglia. Noi chiamiamo a costituire un fronte unito tutti i partiti della III Internazionale, i partiti aderenti alla IV Internazionale comunista operaia[8] e anche quelle singole organizzazioni che non appartengono ad alcuna Internazionale, ma che perseguono il nostro stesso scopo. Un fronte unito per la lotta e la vittoria.
La fase iniziale si è compiuta. Il proletariato russo, attenendosi alle regole dell’arte rivoluzionaria proletaria e comunista, ha abbattuto la borghesia e i suoi alfieri di ogni specie e sfumatura (socialrivoluzionari, menscevichi, ecc.) che la difendevano con tanto vigore. E come vedete, esso, benché più debole del proletariato tedesco, ha respinto l’intera borghesia mondiale negli attacchi che questa ha condotto sull’incitamento della borghesia, dei proprietari fondiari e dei rinnegati socialisti della Russia.
Ora tocca al proletariato occidentale agire, riunire le proprie forze e cominciare la lotta per il potere. Com’è ovvio, sarebbe grave chiudere gli occhi dinanzi ai pericoli che minacciano nel cuore della Russia sovietica la Rivoluzione d’Ottobre e la stessa rivoluzione mondiale. La Russia sovietica sta passando attualmente uno dei suoi momenti più difficili: vi sono tali e tante deficienze che potrebbero riuscire fatali al proletariato russo e a quello del mondo intero. Queste deficienze derivano dalla debolezza della classe operaia russa e del movimento operaio mondiale. Il proletariato russo non è ancora in grado di opporsi alle tendenze che da un lato portano alla degenerazione burocratica della Nuova Politica Economica e dall’altro mettono in gran pericolo sia all’interno che all’estero le conquiste della rivoluzione proletaria russa.
Il proletariato di tutto il mondo è direttamente e immediatamente interessato a che le conquiste della Rivoluzione d’Ottobre siano difese contro ogni pericolo. L’esistenza di un paese come la Russia quale base della rivoluzione comunista mondiale significa già una garanzia di vittoria: quindi l’avanguardia dell’esercito proletario internazionale - i comunisti di tutti i paesi - deve dar voce all’inespressa convinzione del proletariato sulle deficienze e sui mali di cui soffrono la Russia sovietica e il suo esercito di proletari comunisti, il PCR(bolscevico). Il Gruppo Operaio del PCR, che è il meglio informato sulla situazione russa, intende avviare l’azione. Non condividiamo l’opinione secondo la quale noi, proletari comunisti, non potremmo parlare dei nostri difetti, perché vi sono nel mondo social traditori e delinquenti che - così si sostiene - potrebbero utilizzare le nostre parole contro la Russia sovietica e il comunismo. Tutti questi timori sono infondati. Che i nostri nemici siano palesi o nascosti è del tutto indifferente: essi restano dei disgraziati che non potrebbero comunque vivere senza nuocere a noi, proletari e comunisti, che vogliamo liberarci dal giogo del capitalismo. Che cosa ne consegue? Dobbiamo noi nascondere allora i nostri mali e le nostre deficienze, non discuterne e non prendere le misure per eliminarli? Che cosa avverrà se noi ci lasciamo mettere nel sacco dai social traditori e ce ne stiamo zitti? In volizione d’Ottobre rimanga solo il ricordo. Ciò sarà molto utile per i socialtraditori, ma per il movimento internazionale proletario comunista sarà il colpo di grazia. E’ proprio nell’interesse della rivoluzione proletaria mondiale e della classe operaia russa se noi, Gruppo operaio del PCR (bolscevico), senza temere l’opinione dei social traditori, affrontiamo le questioni decisive del movimento proletario internazionale e di quello russo considerandone tutta la portata. Noi abbiamo già osservato al riguardo che l manchevolezze possono essere chiarite considerando le debolezze sia del proletariato internazionale sia di quello russo, e che il miglio aiuto che il proletariato degli altri paesi può dare a quello russo è la rivoluzione nei propri paesi, anche soltanto in uno o due paesi a capitalismo avanzato. Anche se al presente le forze non fossero sufficienti a questo scopo, esse sarebbero in ogni caso tali da essere in grado di aiutare la classe operaia russa a conservare le posizioni conquistate con la Rivoluzione d’Ottobre fino a che gli operai degli altri paesi non insorgano e vincano il nemico. Invero, la classe operaia russa, fiaccata dalla guerra mondiale imperialista, dalla guerra civile e dalla fame, non è forte, ma di fronte ai pericoli che attualmente incombono, essa può prepararsi proprio perché ha già conosciuto questi pericoli e farà ogni sforzo possibile per superarli, e ci riuscirà con l’aiuto dei proletari degli altri paesi. Il Gruppo operaio del PCR (bolscevico) ha dato l’allarme ed il suo appello trova larga eco un tutta la Russia sovietica. Quanti nel PCR hanno una sincera coscienza proletaria vanno raccogliendosi e iniziano la lotta. Riusciremo sicuramente a destare nella mente di tutti i proletari russi coscienti la preoccupazione per la sorte delle conquiste della Rivoluzione d’Ottobre. La lotta è difficile, essendo costretti ad una attività clandestina: noi operiamo nell’illegalità. Il nostro Manifesto non può essere pubblicato in Russia: noi lo abbiamo scritto e lo diffondiamo illegalmente. I compagni sospettati di aderire al nostro Gruppo sono esclusi dal partito e dai sindacati, arrestati e confinati, in base al semplice sospetto.
Al 12° Congresso del PCR, il compagno Zinoviev, in seguito alle intese intercorse tra il partito ed i burocrati sovietici, ha dettato una nuova formula per reprimere ogni critica da parte della classe operaia, dicendo: “Ogni critica al Comitato Centrale del PCR, non importa se da destra o da sinistra, è menscevismo” (suo ultimo discorso al 12° Congresso”. Che significa ciò? Significa che se a un qualsiasi operaio comunista la linea del Comitato Centrale non sembrerà giusta, ed egli nella sua proletaria semplicità, esprimerà le sue critiche, verrà escluso dal partito e dal sindacato, verrà semplicemente dichiarato un menscevico e consegnato alla Ghepeù. Il Comitato Centrale del partito non tollera alcuna critica, poiché si ritiene infallibile come il papa romano. La nostra preoccupazione, la preoccupazione dell’operaio russo, per il destino delle conquiste della Rivoluzione d’Ottobre, viene dichiarata controrivoluzionaria. Noi, Gruppo operaio del PCR (bolscevico), di fronte al proletariato i tutto il mondo, affermiamo che la Russia sovietica è una delle più grandi conquiste del movimento
Proletario internazionale. E proprio per questo noi lanciamo il grido d’allarme, perché il potere sovietico, il potere del proletariato, la vittoria d’Ottobre della classe operaia russa minacciano di trasformarsi in un’oligarchia capitalista. Noi dichiariamo che impediremo con tutte le nostre forze il tentativo di rovesciare il potere dei soviet. Noi faremo questo anche se sappiamo che, in nome del potere dei soviet, potremo essere imprigionati ed uccisi. Se il gruppo dirigente del PCR dichiara che la nostra preoccupazione per le sorti della Rivoluzione d’Ottobre è illegale e controrivoluzionaria, voi potete, proletari rivoluzionari di tutti i paesi, e prima i tutti voi che aderite alla III Internazionale, esprimere il vostro decisivo giudizio in base alla conoscenza del nostro Manifesto. Su di voi, compagni, è rivolto lo sguardo di tutti i proletari russi, inquieti per i pericoli che minacciano il grande Ottobre. Noi non vi avanziamo grosse pretese, o compagni. Chiediamo solo che nelle vostre riunioni discutiate sosteniate il nostro Manifesto e che i delegati dei vostri paesi al V Congresso della III Internazionale sollevino la questione delle frazioni all’interno del Partito e della politica del PCR verso i soviet. Discutete, compagni, il nostro Manifesto e votate le vostre risoluzioni. Sappiate, compagni, che in questo modo voi avrete aiutato la indebolita e martoriata classe operaia russa a salvare le conquiste della Rivoluzione d’Ottobre, la quale è una parte della rivoluzione mondiale!
Al lavoro, compagni!
Viva le conquiste della Rivoluzione d’Ottobre del proletariato russo!
Viva la Rivoluzione mondiale!
Segue …
Il seguito del Manifesto, che sarà pubblicato sul nostro sito web, comprende i seguenti argomenti:
- I principali compiti di oggi
- I Saul e Paolo nella rivoluzione russa
- Il fronte unico socialista
- La questione del fronte unico nel paese in cui il proletariato è al potere (democrazia operaia)
- La questione nazionale
- La Nuova politica economica (NEP)
- La NEP e la campagna
- La NEP e la politica semplicemente
- La NEP e la gestione dell'industria.
[1] Gavril Ilyich Myasnikov, operaio degli Urali, si era distinto nel partito bolscevico nel 1921 quando, subito dopo il cruciale X Congresso, aveva reclamato “la libertà di stampa, dai monarchici agli anarchici inclusi”, (citato da Carr, L’interregno). Malgrado gli sforzi di Lenin per dissuaderlo dal condurre un dibattito su questa questione, non indietreggiò e fu espulso dal partito all’inizio del 1922. A marzo del 1923 si raggruppò con altri militanti per fondare il “Gruppo Operaio del Partito comunista russo (bolscevico)” e quest’ultimo pubblicò e distribuì il suo Manifesto al XII Congresso del PCR. Il gruppo cominciò a fare del lavoro illegale tra gli operai, che appartenessero o no al partito, e sembra essere stato presente in modo significativo nell’ondata di scioperi dell’estate 1923, chiamando alle manifestazioni di massa e provando a politicizzare un movimento di classe essenzialmente difensivo. La sua attività in questi scioperi fu sufficiente a convincere la Ghepeù che rappresentava una vera e propria minaccia ed un’ondata di arresti di dirigenti assestò un colpo severo al gruppo. Tuttavia proseguì il suo lavoro clandestino fino all’inizio degli anni 1930 sebbene a livello ridotto. La storia ulteriore di Myasnikov è la seguente: dal 1923 al 1927, passò gran parte del tempo in esilio o in prigione a causa delle sue attività clandestine; evaso dalla Russia nel 1927 fuggì in Persia ed in Turchia, dove conoscerà anche qui la prigione; nel 1930 si istallerà definitivamente in Francia. Durante questo periodo provò sempre ad organizzare il suo gruppo in Russia. A fine guerra chiese a Stalin il permesso di tornare in URSS. Stalin mandò un aereo a prelevarlo. A partire dal giorno in cui tornò nel suo paese non si hanno più sue notizie. Ed è normale! Dopo un giudizio segreto emesso da un tribunale militare, fu fucilato in una prigione di Mosca il 16 novembre 1945.
[2] Leggi il nostro articolo La sinistra comunista e la continuità del marxismo, https://fr.internationalism.org/icconline/1998/gauche-communiste [23]
[3] La CCI ha da tempo pubblicato in inglese ed in russo l’opuscolo La sinistra comunista russa dedicato allo studio delle differenti espressioni della Sinistra comunista in Russia. La versione inglese includeva il Manifesto del Gruppo operaio ma quella che qui riproduciamo ne è una nuova versione più completa recuperata solo recentemente in Russia. Il testo che riproduciamo è quello pubblicato nel libro “Mjasnokov e la rivoluzione russa”, R. Sinigaglia, edizione Jaca Book rivisto alla luce della traduzione dal francese del Manifesto nella versione integrale.
[4] Leggi il nostro articolo La Sinistra comunista in Russia nella Rivista Internazionale n°2, https://it.internationalism.org/rint/2_sinistrarussa [24].
[5] “I membri del partito che non sono soddisfatti di questa o quella decisione del comitato centrale, che hanno in mente questo o quel dubbio, che rilevano in privato questo o quell’errore, questa o quella irregolarità o questa o quella confusione, hanno paura di parlarne nelle riunioni del partito ed hanno anche paura di parlarne in una conversazione. (...) Oggi, non è il partito, non le sue larghe masse che promuovono e scelgono i membri dei comitati provinciali e del comitato centrale del Partito comunista della Russia. Al contrario, è sempre più la gerarchia della segreteria del partito che recluta i membri delle conferenze e dei congressi che diventano sempre più a loro volta le assemblee esecutive di questa gerarchia. (...) La posizione che si è creata si spiega per il fatto che il regime è la dittatura di una fazione in seno al partito. (...) Il regime di fazione deve essere abolito e questo deve essere fatto, in primo luogo, da quelli che l’hanno creato; deve essere sostituito da un regime di unità fraterna e di democrazia interna del partito”.
[6] Vedi nota 3.
[7] Tuttavia, il Manifesto sembra anche difendere che i sindacati debbano diventare degli organi della centralizzazione della direzione economica - vecchia posizione dell’Opposizione operaia che Miasnikov aveva criticato nel 1921.
[8] Si tratta del KAI (Internazionale degli operai comunisti, 1921-22) fondata per iniziativa del KAPD, da non confondere con la IV Internazionale trotzkista.
La CCI ha pubblicato recentemente, in occasione del bicentenario della nascita di Charles Darwin, numerosi articoli su questo grande scienziato e sulla sua teoria sull’evoluzione delle specie[1]. Questi articoli si inseriscono in ciò che è sempre stato presente nel movimento operaio, l’interesse per le questioni scientifiche, e che si esprime al massimo livello nella teoria rivoluzionaria del proletariato, il marxismo. Quest’ultimo ha sviluppato una critica delle visioni religiose ed idealiste della società umana e della storia che si sono sviluppate nel corso delle società feudali e capitalista ma che hanno impregnato anche le teorie socialiste influenzando i primi passi del movimento operaio, all’inizio del diciannovesimo secolo. Contrariamente a queste, il marxismo si è posto come uno dei suoi obiettivi quello di fondare la prospettiva della futura società che libererà l’essere umano dallo sfruttamento, dall’oppressione e dall’insieme dei mali che l’opprimono da millenni, non sulla base di una “realizzazione dei principi di uguaglianza e di giustizia” ma su di una necessità materiale che deriva dalla stessa evoluzione della storia umana, dalla natura di cui fa parte, essa stessa trasformata, in ultima istanza, da forze materiali e non spirituali. È per tale motivo che il movimento operaio, a cominciare dagli stessi Marx ed Engels, ha sempre prestato una particolare attenzione alla scienza.
La scienza ha preceduto di molto l’apparizione del movimento operaio e della stessa classe operaia. Si può dire anche che quest’ultima si è potuta sviluppare su larga scala solo col progresso delle scienze che hanno costituito una delle condizioni dello sviluppo del capitalismo, modo di produzione basato sullo sfruttamento del proletariato. In questo senso, la borghesia è la prima classe della storia ad avere avuto bisogno in modo ineluttabile della scienza per il proprio sviluppo e per l’affermazione del suo dominio sulla società. Ed è proprio appellandosi alla scienza che essa ha combattuto l’influenza della religione che costituiva lo strumento ideologico fondamentale di difesa e di giustificazione della società feudale. Ma ancor più, la scienza ha costituito le fondamenta per la padronanza delle tecnologie della produzione e dei trasporti, condizione essenziale dello sviluppo del capitalismo. Quando quest’ultimo ha raggiunto il suo apogeo, permettendo in tal modo l’apparizione sulla scena sociale di ciò che il Manifesto Comunista ha definito il suo “becchino”, il proletariato moderno, la borghesia si è affrettata a riconsiderare la religione e le visioni mistiche della società che hanno il grande merito di giustificare il mantenimento di un ordine sociale basato sullo sfruttamento e l’oppressione. Così facendo, pur continuando a promuovere e finanziare tutte le ricerche che le erano indispensabili per garantire i suoi profitti, per aumentare la produttività della forza lavoro e l’efficacia delle sue forze militari, si è allontanata dall’approccio scientifico per ciò che riguarda la conoscenza della società umana.
Spetta al proletariato, nella sua lotta contro il capitalismo e per il suo rovesciamento, riprendere la fiaccola nei campi della conoscenza scientifica abbandonati dalla borghesia. Ed è proprio questo che ha fatto dalla metà del diciannovesimo secolo, opponendo all’apologetica nella quale si era convertito lo studio dell’economia, cioè della “ossatura della società”, una visione critica e rivoluzionaria di questo studio, una visione necessariamente scientifica quale è espressa, ad esempio, ne Il Capitale di Karl Marx. È per tale motivo che le organizzazioni rivoluzionarie del proletariato hanno la responsabilità di incoraggiare l’interesse per le conoscenze e le ricerche scientifiche, in particolare nei domini riguardanti la società umana, l’essere umano e la sua psiche, domini dove la classe dominante ha tutto l’interesse a coltivare l’oscurantismo. Questo non significa che per far parte di un’organizzazione comunista, sia necessario aver fatto degli studi scientifici, essere in grado di difendere la teoria di Darwin o risolvere un’equazione di secondo grado. Le basi di adesione alla nostra organizzazione sono le posizioni espresse nella nostra piattaforma con la quale ogni militante deve essere d’accordo e che ha la responsabilità di difendere. Allo stesso modo, su tutta una serie di questioni, come per esempio l’analisi su questo o quell’aspetto della situazione internazionale, l’organizzazione ha il dovere di avere una posizione che viene espressa in genere nelle risoluzioni adottate ad ogni congresso o alle riunioni plenarie del nostro organo centrale. In questi casi non è obbligatorio che ogni militante condivida tale presa di posizione. Il semplice fatto che queste risoluzioni siano adottate in seguito ad una discussione ed un voto indica che possono perfettamente esistere dei punti di vista differenti che, se permangono e quando sono elaborati sufficientemente, vengono espressi pubblicamente nella nostra stampa, come è possibile constatarlo nel dibattito sulla dinamica del boom economico che è seguito alla Seconda Guerra mondiale.
Per quanto riguarda gli articoli che affrontano questioni culturali (critica di libri o di film, per esempio) o scientifici, non solo questi non hanno lo scopo di raccogliere l’adesione di ogni militante, come è per la piattaforma, ma in generale non devono essere considerati come precisa espressione della posizione dell’organizzazione, come lo sono invece le risoluzioni adottate dai congressi. Pertanto, proprio come per gli articoli che abbiamo pubblicato su Darwin, quello che segue, scritto in occasione dei 70 anni della scomparsa di Sigmund Freud, non impegna la CCI in questo senso. Piuttosto deve essere considerato come un contributo ad una discussione aperta non solo ai militanti della CCI che non ne condividono il contenuto, ma anche all’esterno della nostra organizzazione. Esso si inscrive in una rubrica della Rivista Internazionale, che la CCI ci tiene a rendere la più vivente possibile e che ha per scopo di render conto delle riflessioni e delle discussioni che toccano questioni culturali e scientifiche. In questo senso costituisce un appello ai contributi che difendono un punto di vista differente da quello che vi è espresso.
CCI
L'eredità di Freud
Il 23 settembre 1939, Sigmund Freud moriva a Hampstead House, quello che oggi è il Museo Freud a Londra. Alcune settimane prima era scoppiata la Seconda Guerra mondiale. Secondo un aneddoto si dice che Freud, ascoltando la radio o parlando a suo nipote (le versioni variano) e rispondendo alla domanda scottante: “sarà l'ultima guerra?”, avrebbe laconicamente risposto: “In ogni caso, sarà la mia ultima guerra”.
Freud si era allontanato dalla sua casa e dal suo studio di Vienna poco dopo che scagnozzi nazisti penetrati nel suo appartamento arrestarono sua figlia, Anna Freud, rilasciata poco dopo. Freud avrebbe dovuto affrontare la persecuzione del potere nazista adottata dopo l'Anschluss tra la Germania e l’Austria, non solo perché era ebreo, ma anche perché era il fondatore della psicoanalisi, disciplina condannata dal regime come un esempio del "pensiero ebraico degenerato": i lavori di Freud, come quelli di Marx, di Einstein, di Kafka, di Thomas Mann e di altri, hanno avuto l'onore di essere stati tra i primi consegnati alle fiamme degli autodafé nel 1933.
Ma i nazisti non erano i soli ad odiare Freud. Anche i loro omologhi stalinisti avevano stabilito che le teorie di Freud dovevano essere denunciate dalle cattedre dello Stato. Così come mise un termine ad ogni sperimentazione nell'arte, l'educazione ed in altre sfere della vita sociale, lo stalinismo trionfante condusse una caccia alle streghe contro i sostenitori della psicoanalisi in Unione Sovietica ed, in particolare, contro quelli che ritenevano che i lavori di Freud erano compatibili col marxismo. Il potere dei soviet aveva avuto, all’inizio, un tutt’altro atteggiamento. Sebbene i bolscevichi non abbiano adottato per niente un atteggiamento omogeneo nei confronti di questa questione, alcuni noti bolscevichi, come Lunacharsky, Bukarin e lo stesso Trotsky, nutrivano delle simpatie per gli scopi ed i metodi della psicoanalisi; per tale motivo, la branca russa dell'associazione internazionale di Psicoanalisi fu la prima al mondo ad ottenere il sostegno, compreso quello finanziario, di uno Stato. All'epoca, uno degli scopi fondamentali di questa branca era di creare una "scuola per gli orfani" che doveva sollevare e curare i bambini traumatizzati dalla perdita dei loro genitori durante la guerra civile. Lo stesso Freud nutriva un grande interesse per queste esperienze: era particolarmente curioso di sapere fino a che punto i differenti sforzi per allevare i bambini in modo collettivo, e non sulla base ristretta e tirannica del nucleo familiare, avrebbero influito sul complesso di Edipo che lui aveva identificato come un problema centrale nella storia psicologica dell'individuo. Allo stesso tempo, altri bolscevichi come Lev Vygotskij, Alexander Lurija, Tatiana Rosenthal e M.A Reisner diedero dei contributi alla teoria psicanalitica esplorando anche le sue relazioni col materialismo storico[2].
Tutto ciò ebbe fine dal momento in cui la burocrazia stalinista si assicurò il suo dominio sullo Stato. Le idee di Freud furono denunciate sempre più come piccolo-borghesi, decadenti ed innanzitutto idealistiche, mentre le esperienze più meccanicistiche di Pavlov e la sua teoria del "riflesso condizionato" venivano promosse ad esempio della psicologia materialista. Alla fine degli anni '20, ci fu una formidabile inflazione di testi redatti dai portavoce del regime che si opponevano a Freud in modo capzioso, una serie di "defezioni" di suoi vecchi adepti come Aron Zalkind, ed anche attacchi isterici contro una "morale degradata" associata con infamia alle idee di Freud in quello che fu più generalmente il "Termidoro della famiglia", secondo l'espressione di Trotsky.
La vittoria finale dello stalinismo contro il “Freudismo” fu sancita al Congresso sul Comportamento umano del 1930, in particolare attraverso il discorso di Zalkind che ridicolizzò l'insieme del lavoro freudiano e sostenne che il suo punto di vista sul comportamento umano era totalmente incompatibile con “la costruzione del socialismo”: “Come possiamo utilizzare la concezione freudiana dell'uomo nella costruzione socialista? Abbiamo bisogno di un uomo socialmente "aperto" che sia facile da collettivizzare, da trasformare velocemente ed in profondità nel suo comportamento - un uomo che sappia mostrarsi solido, cosciente ed indipendente, ben formato politicamente ed ideologicamente …” (citato in Miller Freud and the Bolcheviks, Yale, 1998, p.102, tradotto da noi). Sappiamo bene che significato avrebbero avuto realmente questa “formazione” e questa “trasformazione”: rompere la personalità umana e la resistenza dei lavoratori al servizio del capitalismo di Stato e del suo spietato Piano quinquennale. In questa visione, evidentemente, non c’era posto per le finezze e la complessità della psicoanalisi che poteva essere utilizzata per dimostrare che il “socialismo” stalinista non aveva guarito nessuno dalle malattie dell'umanità. E, beninteso, il fatto che la psicoanalisi aveva goduto di un certo grado di sostegno da parte di Trotsky, ora esiliato, veniva esagerato nell'offensiva ideologica contro le teorie di Freud.
E nel mondo "democratico"?
Ma qual è l’atteggiamento dei rappresentanti del campo democratico del capitalismo? L'America di Roosevelt non faceva pressione affinché Freud e la sua famiglia potessero lasciare Vienna? E la Gran Bretagna non ha donato una comoda casa all'eminente Professore e Dottore Freud? La psicoanalisi non è diventata in Occidente, particolarmente negli Stati Uniti, un nuovo tipo di chiesa ortodossa di psicologia, certamente redditizia per molti suoi praticanti?
In effetti, la reazione degli intellettuali e degli scienziati alle teorie di Freud nelle democrazie è sempre stata molto variegata, fatta di venerazione, di fascino e di rispetto, combinata all'indignazione, alla resistenza ed al disprezzo.
Durante gli anni che hanno seguito la morte di Freud, si sono viste due tendenze maggiori nel campo d’accoglienza della teoria psicoanalitica: da un lato, una, tra i suoi portavoce e praticanti, che cercava di attenuare alcune delle sue implicazioni più sovversive, come l'idea che la civiltà attuale sia fondata necessariamente sulla repressione degli istinti umani più profondi, a favore di una visione più pragmatica e revisionista, più adatta a farsi accettare socialmente e politicamente da questa stessa civilizzazione; e dall’altro, presso un certo numero di filosofi, di psicologi che appartenevano a scuole rivali, autori che avevano più o meno un certo successo commerciale, una tendenza a rigettare sempre più l’insieme del corpus freudiano perché sarebbe soggettivo, non verificabile e fondamentalmente non scientifico. Le tendenze dominanti della psicologia moderna (vi sono delle eccezioni, come nella "neuro-psicoanalisi" che riesamina il modello freudiano della psiche in funzione di ciò che conosciamo oggi sulla struttura del cervello) hanno abbandonato il viaggio di Freud sulla "strada maestra verso l'inconscio", il suo sforzo per esplorare il significato dei sogni, sulle battute di spirito, sui lapsus ed altre manifestazioni immateriali, a favore dello studio di fenomeni più osservabili e misurabili: le manifestazioni fisiologiche, esterne degli stati mentali, e le forme concrete di comportamento dagli esseri umani, dei topi e di altri animali osservati nelle condizioni di laboratorio. In materia di psicoterapia, il welfare state, molto interessato a ridurre potenzialmente i costi enormi indotti dal trattamento dell'epidemia crescente di stress, di nevrosi e di malattie mentali classiche, generate dal sistema sociale attuale, favorisce le soluzioni veloci come le "terapie cognitive e comportamentali" piuttosto che gli sforzi della psicoanalisi per penetrare alle radici profonde delle nevrosi[3]. Soprattutto, ed è particolarmente vero per gli ultimi due decenni, abbiamo visto un vero torrente di libri e di articoli tentare di fare passare Freud per un ciarlatano, un frodatore che si è, da solo, fabbricato le sue prove, un tiranno nei confronti dei suoi discepoli, un ipocrita e, (perché no?) un perverso. Questa offensiva ha molti tratti in comune con la campagna anti Marx lanciata all'indomani del crollo del preteso "comunismo" alla fine degli anni ‘80 e, proprio come quest’ultima campagna aveva dato nascita al Libro nero del comunismo, ci hanno servito un Libro nero della psicoanalisi[4] che ha dedicato non meno di 830 pagine per trascinare Freud e tutto il movimento psicanalitico nel fango.
Il marxismo e l’inconscio
L'ostilità alla psicoanalisi non ha sorpreso Freud: ha confermato che aveva visto giusto. Dopo tutto, come avrebbe potuto essere popolare sviluppando l'idea che la civiltà, almeno la civiltà attuale, è antitetica agli istinti umani, infliggendo una ferita, e portando un nuovo colpo all’"ingenuo amor proprio" dell'uomo - secondo la sua espressione?
“Attribuendo un'importanza simile all'inconscio nella vita psichica noi abbiamo issato contro la psicoanalisi i peggiori spiriti della critica. Non stupitevi e non crediate che la resistenza che ci si oppone regge alla difficoltà di concepire l'inconscio o all'inaccessibilità delle esperienze che si riportano. Nel corso dei secoli, la scienza ha inflitto all'egoismo ingenuo dell'umanità due gravi smentite. La prima volta, è stata quando ha mostrato che la terra, lungi da essere il centro dell'universo, non è che una briciola insignificante del sistema cosmico di cui a malapena riusciamo ad immaginare la grandezza. Questa prima dimostrazione per noi si ricollega al nome di Copernico, sebbene la scienza alessandrina abbia annunciato già qualche cosa di simile. La seconda smentita è stata inflitta all'umanità dalla ricerca biologica, quando ha ridotto a niente le pretese dell'uomo di occupare un posto privilegiato nell'ordine della creazione, stabilendo la sua discendenza dal regno animale e mostrando l'indistruttibilità della sua natura animale. Quest’ultima rivoluzione si è avverata oggigiorno, in seguito ai lavori di Charles Darwin, di Wallace e dei loro predecessori, lavori che hanno provocato la più accanita resistenza dei contemporanei. Una terza smentita sarà inflitta alla megalomania umana dalla ricerca psicologica dei nostri giorni che si propone di mostrare all'io che non è padrone nemmeno nella sua casa, che è ridotto ad accontentarsi di informazioni rare e frammentarie su ciò che accade, all'infuori della sua coscienza, nella sua vita psichica”. (Introduzione alla psicoanalisi, Terza parte, Conferenza 18, “Ricongiungimento ad un'azione traumatica – l’inconscio”, 1917[5]).
Per i marxisti, tuttavia, non c'è niente di sconvolgente nell'idea che la vita cosciente dell'uomo sia - o sia stata fin qui - dominata da motivi incoscienti. Il concetto marxista di ideologia che ingloba tutte le forme di coscienza sociale prima della nascita della coscienza di classe del proletariato, è ancorato esattamente su questa nozione.
"Ogni ideologia, una volta costituita, si sviluppa sulla base degli elementi di rappresentazione data e continua ad elaborarli; altrimenti non sarebbe un'ideologia, e cioè il fatto di occuparsi di idee prese come entità autonome, sviluppandosi in una maniera indipendente ed unicamente sottomesse alle proprie leggi. Che le condizioni di esistenza materiale degli uomini, nella mente dei quali prosegue questo processo mentale, ne determinano in fin dei conti il corso, ciò resta presso di loro necessariamente incosciente, altrimenti sarebbe la fine di ogni ideologia". (Friedrich Engels, Ludwig Feuerbach e la fine della filosofia tedesca classica, 1888, IV "Il materialismo dialettico")[6].
Il marxismo riconosce dunque che, fino ad oggi, la consapevolezza che l'uomo ha della sua posizione reale nel mondo è stata inibita e deformata da fattori di cui non è cosciente, che la vita sociale come è stata costituita fino ad ora ha creato dei blocchi fondamentali nei processi mentali dell'uomo. Un chiaro esempio è l'incapacità storica della borghesia di considerare una forma di società superiore, qualcosa di altro che il capitalismo, per il fatto che ciò implicherebbe la sua scomparsa. È ciò che Lukács chiamava un "inconscio condizionato di classe" (Storia e coscienza di classe). E si può considerare anche la questione dal punto di vista della teoria di Marx sull'alienazione: l'uomo alienato si è separato dal suo simile, dalla natura e da se stesso, mentre il comunismo supererà questa dicotomia e l'uomo sarà pienamente cosciente di sé.
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Trotsky difende la psicoanalisi
Tra tutti i marxisti del ventesimo secolo, è probabilmente Trotsky quello che ha più contribuito all'apertura di un dialogo con le teorie di Freud, che lui aveva incontrato durante il suo soggiorno a Vienna nel 1908. Sempre implicato nello Stato sovietico ma sempre più emarginato, Trotsky insisteva sul fatto che il lavoro di Freud verso la psicologia fondamentalmente era materialista. Non era d’accordo che una particolare scuola di psicologia diventasse la linea "ufficiale" dello Stato o del partito, ma di contro esortava ad un dibattito largo ed aperto. In Cultura e socialismo, scritti del 1925/26, Trotsky valuta i differenti lavori delle scuole freudiana e pavloviana, e fa uno schizzo di quello che secondo lui dovrebbe essere l'atteggiamento del partito nei confronti di questi argomenti:
“La critica marxista della scienza deve essere non solo vigile ma anche prudente, altrimenti potrebbe degenerare in un vero sicofantismo, in famusovismo. (Famusov è un personaggio di Griboedov, che raffigura un funzionario di grado elevato che ha orrore di tutto quello che possa offendere l’autorità e turbare osì la sua condizione confortevole, ndr). Prendiamo la psicologia per esempio. Lo studio dei riflessi di Pavlov si trova interamente sulla via del materialismo dialettico. Abbatte definitivamente il muro che esisteva tra la fisiologia e la psicologia. Il più semplice riflesso è fisiologico, ma il sistema dei riflessi darà la "coscienza". L'accumulo della quantità fisiologica dà una nuova qualità, la qualità “psicologica”. Il metodo della scuola di Pavlov è sperimentale e scrupoloso. La generalizzazione si conquista passo dopo passo dalla bava del cane fino alla poesia (in altri termini fino al meccanismo mentale di quest’ultima e non al suo contenuto sociale), sebbene le vie verso la poesia non siano ancora apparse.
È in un modo differente che la scuola dello psicanalista viennese Freud affronta la questione. Parte, innanzitutto, dalla considerazione che le forze motrici dei più complessi e delicati processi psichici si rivelano essere delle necessità fisiologiche. In questo senso generale, questa scuola è materialista, lasciando da parte la questione se non attribuisca un peso eccessivo al fattore sessuale a scapito di altri (questa è già una discussione entro i confini del materialismo). Pertanto, lo psicanalista non affronta in modo sperimentale il problema della coscienza, dai fenomeni primari fino ai fenomeni più elevati, dal semplice riflesso fino al riflesso più complesso; si sforza di superare con un solo salto tutti gli scalini intermedi, dall'alto in basso, dal mito religioso, dalla poesia lirica o dal sogno, direttamente alle basi fisiologiche della psiche.
Gli idealisti insegnano che la psiche è autonoma, che il 'pensiero' è un pozzo senza fondo. Pavlov e Freud, invece, considerano che il fondo del 'pensiero' è costituito dalla fisiologia. Ma mentre Pavlov, come un palombaro, scende fino al fondo ed esplora minuziosamente il pozzo, dal basso in alto, Freud si tiene al di sopra del pozzo e con sguardo acuto cerca di penetrarne le acque sempre mosse e torbide, di intravedere o di indovinare la configurazione del fondo. Il metodo di Pavlov, è la sperimentazione. Il metodo di Freud, la congettura, talvolta fantastica. Il tentativo di dichiarare la psicoanalisi 'incompatibile' con il marxismo e girare la schiena senza cerimonia al freudismo è troppo semplicistico, o piuttosto troppo 'sempliciotto'. Ma comunque non siamo tenuti ad adottare il freudismo. È un'ipotesi di lavoro che può dare - e che incontestabilmente dà - delle ipotesi e delle conclusioni che si inseriscono nella linea della psicologia materialista. Il procedimento sperimentale fornirà al momento debito la prova. Ma noi non abbiamo né motivo né diritto di alzare un veto ad un'altra via, benché meno sicura, che si sforza di anticipare conclusioni alle quali la via sperimentale conduce solamente più lentamente”[7].
Trotsky ha messo, in effetti, troppo velocemente in questione il percorso un poco ‘meccanicistico’ di Pavlov che tendeva a ridurre l'attività cosciente al famoso "riflesso condizionato". In un discorso pronunciato poco dopo la pubblicazione del testo sopra citato, Trotsky si chiedeva se si sarebbe potuto giungere veramente ad una conoscenza delle sorgenti della poesia umana attraverso lo studio della salivazione canina (vedere di Trotsky Notebooks 1933/35, Writings on Lenin, Dialectics and Evolutionism, tradotti in inglese ed introdotti da Philip Pomper, New York, 1998, p. 49). E nelle ulteriori riflessioni sulla psicoanalisi contenuta in questi "appunti filosofici", composti in esilio, insiste più sulla necessità di comprendere che il riconoscere una certa autonomia della vita psichica, se è conflittuale con una versione meccanicistica del materialismo, è in realtà perfettamente compatibile con una visione più dialettica del materialismo: "È noto che esiste tutta una scuola di psichiatria (la psicoanalisi di Freud), che in pratica non tiene nessun conto della fisiologia, basandosi sul determinismo interno dei fenomeni psichici come sono. Certi critici accusano dunque la scuola freudiana di idealismo. […] Ma in se stesso il metodo della psicoanalisi che prende come punto di partenza 'l'autonomia' dei fenomeni psicologici, non contraddice per niente il materialismo. È vero proprio il contrario, è precisamente il materialismo dialettico che ci porta all'idea che la psiche non potrebbe formarsi se non giocasse, è vero entro certi limiti, un ruolo autonomo ed indipendente nella vita dell'individuo e della specie.
Comunque qui ci confrontiamo in qualche modo con una questione cruciale, una rottura nel gradualismo, una transizione della quantità in qualità: la psiche che emerge dalla materia, è ‘liberata’ dal determinismo della materia e può in modo indipendente, attraverso le proprie leggi, influenzare la materia".
(Notebooks di Trotsky, op.cit., p. 106, nostra traduzione).
Trotsky afferma qui che esiste una vera convergenza tra il marxismo e la psicoanalisi. Per i due, la coscienza, o piuttosto l'insieme della vita psichica, è un prodotto materiale del movimento reale della natura e non una forza che esiste all'esterno del mondo; è il prodotto di processi incoscienti che la precedono e la determinano. Ma diventa a sua volta un fattore attivo che, in una certa misura, sviluppa una propria dinamica e che, più importante, è capace di agire e trasformare l'inconscio. È là l'unica base di un percorso che fa dell'uomo un qualcosa di più di una creatura di circostanze obiettive, e che lo rende capace di cambiare il mondo intorno a lui.
Forse, qui arriviamo a quella che è la più importante conclusione che trae Trotsky dalla sua investigazione sulle teorie di Freud. Freud, ricordiamolo, aveva affermato che la principale ferita inflitta dalla psicoanalisi al "narcisismo ingenuo" dell'uomo, era la conferma che l'ego non è padrone nella sua casa, che in larga misura la sua visione ed il suo approccio del mondo sono condizionati da forze istintive che sono state respinte nell'inconscio. Lo stesso Freud, in una o più occasioni, è riuscito quasi a considerare una società che avrebbe superato la lotta senza fine contro le privazioni materiali e così non avrebbe più da imporre questa repressione ai suoi membri[8]. Ma nell'insieme, il suo punto di vista restava prudentemente pessimista per il fatto che non vedeva una via che potesse condurre ad una tale società. Trotsky, in quanto rivoluzionario, era tenuto a sollevare la possibilità di un'umanità pienamente cosciente che diventerebbe così padrona nella propria casa. In effetti, per Trotsky, la liberazione dell'umanità dal dominio dell'inconscio diventa il progetto centrale della società comunista: “Infine, l'uomo comincerà seriamente ad armonizzare il suo proprio essere. Mirerà ad ottenere una precisione, un discernimento, un'economia più grande, e di conseguenza, bellezza nei movimenti del suo corpo, al lavoro, nella marcia, al gioco. Vorrà dominare i processi semicoscienti ed incoscienti del proprio organismo: la respirazione, la circolazione del sangue, la digestione, la riproduzione. E, nei limiti inevitabili, cercherà di subordinarli al controllo della ragione e della volontà. L'homo sapiens, adesso congelato, tratterà se stesso come oggetto dei metodi più complessi della selezione artificiale e degli esercizi psicofisici.
Queste prospettive derivano da tutta l'evoluzione dell'uomo. Ha cominciato a cacciare le tenebre della produzione e dell'ideologia, per rompere, per mezzo della tecnologia, la routine barbara del suo lavoro, e per superare la religione per mezzo della scienza. Ha espulso l'inconscio della politica rovesciando le monarchie alle quali ha sostituito le democrazie e parlamentarismi razionalistici, poi la dittatura senza ambiguità dei soviet. Per mezzo dell'organizzazione socialista, elimina la spontaneità cieca, elementare dei rapporti economici. Ciò permette di ricostruire su tutte altri basi la tradizionale vita di famiglia. Alla fine, se la natura dell'uomo si trova rannicchiata nei recessi più oscuri dell'inconscio, va da sé che in questo senso devono essere diretti i più grandi sforzi del pensiero che cerca e che crea?” (Letteratura e rivoluzione, 1924).
Evidentemente, in questo passo, Trotsky guarda verso un futuro comunista molto lontano. La priorità dell'umanità nelle prime fasi del comunismo cadrà sicuramente sugli strati dell'inconscio dove le origini delle nevrosi e delle sofferenze mentali possono essere rintracciate, mentre la prospettiva di controllare dei processi fisiologici ancora più fondamentali solleva altre domande che vanno al di là di questo articolo e che, ad ogni modo, saranno poste probabilmente solamente in una cultura comunista di un livello più avanzato.
I comunisti oggi possono essere d’accordo o non con molte idee di Freud. Ma sicuramente dobbiamo esprimere la più grande diffidenza nei confronti delle campagne attuali contro Freud e conservare un atteggiamento il più aperto possibile, come Trotsky sosteneva. Come minimo, dobbiamo ammettere che finché vivremo in un mondo dove le "cattive passioni" dell'umanità possono esplodere con una forza terribile, dove le relazioni sessuali tra gli esseri umani, che siano incarcerate nelle ideologie medievali o svalutate e prostituite sul mercato, continuano ad essere una sorgente di miseria umana indicibile, dove, per la grande maggioranza degli uomini, le forze creatrici dello spirito restano largamente soffocate ed inaccessibili, i problemi affrontati da Sigmund Freud restano non solo tanto pertinenti oggi come quando furono sollevati per la prima volta, ma anche che la loro risoluzione sarà certamente un elemento insostituibile nella costruzione di una società realmente umana.
Amos
[1] Vedi “Darwinismo e marxismo” di Anton Pannekoek (prima e seconda parte) sul nostro sito web e l'articolo “Darwin e il movimento operaio” anche su Rivoluzione Internazionale n°160, “A proposito del libro: L’effetto Darwin: una concezione materialista delle origini della morale e della civiltà” e “il ‘darwinismo sociale’, una ideologia reazionaria del capitalismo”, rispettivamente nei numeri 399, 400 e 404 di Révolution Internationale.
[2] Le seguenti parole di Lenin, riportate da Clara Zetkin, mostrano che i bolscevichi non avevano un comportamento unilaterale verso le teorie di Freud - anche se è da ritenere che le critiche di Lenin cadevano più sui difensori di queste teorie che sulle stesse teorie: “La stessa situazione in Germania esige l’estrema concentrazione di tutte le forze rivoluzionarie, proletarie, per la lotta contro la reazione sempre più insolente! Ma i militanti discutono della questione sessuale, e delle forme di matrimonio nel passato, presente e futuro. Considerano che il loro compito più importante è illuminare le lavoratrici su questo punto. Lo scritto più diffuso in questo momento è l'opuscolo di una giovane compagna di Vienna sulla questione sessuale. Ciò è una sciocchezza! Ciò che c'è dentro, gli operai l'hanno letto da molto in Bebel. Esso non è espresso in modo così noioso, come in questo opuscolo, ma con un carattere d’agitazione, d’attacco contro la società borghese. La discussione sulle ipotesi di Freud vi dà un’aria 'colta' ed anche scientifica, ma in fondo esso non è che un volgare lavoro di scolaro. La stessa teoria di Freud è una 'follia' alla moda. Diffido delle teorie sessuali e di tutta questa letteratura speciale che crescono abbondantemente sul letame della società borghese. Diffido di coloro che vedono solamente la questione sessuale, alla stessa stregua del prete indù che vede solo la sua nuvola. Considero questa sovrabbondanza di teorie sessuali che sono per la maggior parte delle ipotesi, e spesso ipotesi arbitrarie, proveniente da un bisogno personale di giustificare davanti alla morale borghese la propria vita anormale o ipertrofica, o almeno trovarle una giustificazione. Questo rispetto mascherato della morale borghese mi è tanto antipatico quanto questa importanza concessa alle questioni sessuali. Quest’ultima può sembrare rivoluzionaria quanto si vuole, ma essa, in fondo, è profondamente borghese. È soprattutto una moda di intellettuali. Non c'è posto per ciò nel partito, nel proletariato cosciente”. (“Ricordi su Lenin”, Clara Zetkin, gennaio 1924).
[3] Vogliamo precisare, tuttavia, che quest’articolo non ha per scopo giudicare l'efficacia terapeutica del lavoro di Freud. Non siamo qualificati per farlo e, ad ogni modo, non c'è legame meccanico tra le applicazioni pratiche della teoria freudiana e la teoria della mente che la sottende - ancora più per il fatto che "curare" le nevrosi in una società che le generano continuamente, è un problema che si pone in fin dei conti su un piano sociale e non individuale. Sono i fondamenti della teoria della mente di Freud che consideriamo qui, e sono innanzitutto questi fondamenti che consideriamo come una vera eredità per il movimento operaio.
[4] Il libro nero della psicoanalisi, Catherine Meyer, Mikkel Borch-Jacobsen, Jean Cottraux, Didier Pleux e Giacomo Vaglio Rillaer, L’Arena, Parigi, Francia, 2005.
[8] Contrariamente al cliché così spesso ripetuto secondo cui Freud "ridurrebbe tutto al sesso", quest’ultimo ha affermato chiaramente che "la base sulla quale rimette la società umana è, in ultima analisi, di natura economica: non possedendo abbastanza mezzi di sussistenza per permettere ai suoi membri di vivere senza lavorare, la società è obbligata a limitare il numero dei suoi membri e a deviare la loro energia dall'attività sessuale verso il lavoro. Siamo là in presenza dell'eterno bisogno vitale che, nato nello stesso momento in cui è nato l'uomo, persiste fino ai nostri giorni". (Introduzione alla psicoanalisi [26], Conferenza 20, La vita sessuale dell'uomo).
In altri termini: la repressione è il prodotto di organizzazioni sociali degli uomini dominati dalla penuria materiale. In un altro passo, ne L'avvenire di un'illusione (1927), Freud ha mostrato una comprensione della natura di classe della società "civilizzata" e si è spinto, anche se di passaggio, a considerarne lo stadio ulteriore: "Ma quando una cultura non è riuscita a superare lo stato in cui la soddisfazione di un certo numero di partecipanti presuppone l'oppressione di certi altri, forse della maggioranza - ed è il caso di tutte le culture attuali - è allora comprensibile che questi oppressi sviluppano un'ostilità intensa contro la stessa cultura anche se essi la rendono possibile attraverso il loro lavoro, ma dei cui benefici hanno solamente una minima parte. […] L'ostilità alla cultura manifestata da queste classi è così evidente che a causa sua non abbiamo visto l'ostilità piuttosto latente degli strati sociali meglio suddivisi. Va da sé che una cultura che lascia insoddisfatti un così grande numero di partecipanti e li spinge alla rivolta non ha nessuna possibilità di mantenersi durevolmente e tantomeno meritarlo". (L'avvenire di un'illusione, capitolo 2 p. 12, Quadrige/PUF, 1995). Così l'ordine attuale non solo non ha "alcuna prospettiva di esistenza duratura", ma potrebbe forse esserci una cultura che potrebbe “superato lo stato "a partire dal quale ogni divisione di classe (e, di conseguenza, i meccanismi di repressione mentale che esistono fin qui) diventerebbe superflua.
Collegamenti
[1] https://it.internationalism.org/content/xviii-congresso-della-cci-risoluzione-sulla-situazione-internazionale
[2] https://fr.internationalism.org/rint/123_30ans
[3] https://it.internationalism.org/node/607
[4] https://it.internationalism.org/node/602
[5] https://fr.internationalism.org/french/rint/14-terrorisme
[6] https://fr.internationalism.org/icconline/2008/sabotages_sncf_des_actes_steriles_instrumentalises_par_la_bourgeoisie_contre_la_classe_ouvriere.html
[7] https://fr.internationalism.org/icconline/2009/debat_sur_la_violence_2.html
[8] https://it.internationalism.org/cci/200711/517/larea-della-autonomia-la-confusione-contro-la-classe-operaia-i
[9] https://it.internationalism.org/cci/200711/518/larea-dellautonomia-la-confusione-contro-la-classe-operaia-ii
[10] https://world.internationalism.org
[11] https://it.internationalism.org/tag/4/75/italia
[12] https://it.internationalism.org/tag/2/29/lotta-proletaria
[13] https://it.internationalism.org/tag/correnti-politiche-e-riferimenti/operaismo
[14] https://www.marxists.org/francais/luxembur/works/1913/00/rl_19130000a_a.htm
[15] https://www.marxists.org/francais/luxembur/works/1913/rl_accu_k_23.htm
[16] https://www.marxists.org/francais/luxembur/works/1913/00/rl_19130000a_f.htm
[17] https://it.internationalism.org/tag/2/25/decadenza-del-capitalismo
[18] https://it.internationalism.org/tag/3/47/economia
[19] https://thecommune.wordpress.com/lenins-encounter-with-hegel-after-eighty-years-a-critical-assessment/
[20] https://www.marxists.org/italiano/lenin/1915/soc-guer/cap1.htm#p9
[21] https://www.marxists.org/italiano/lenin/1916/imperialismo/capitolo6.htm
[22] https://fr.internationalism.org/rint/123_decad
[23] https://fr.internationalism.org/icconline/1998/gauche-communiste
[24] https://it.internationalism.org/rint/2_sinistrarussa
[25] https://it.internationalism.org/tag/storia-del-movimento-operaio/1917-rivoluzione-russa
[26] https://classiques.uqam.ca/classiques/freud_sigmund/intro_a_la_psychanalyse/intro_psychanalyse_2.rtf
[27] https://www.marxists.org/francais/engels/works/1888/02/fe_18880221_4.htm
[28] https://www.marxists.org/francais/trotsky/livres/litterature/culture.htm