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Rivoluzione Internazionale n°163

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Perché tanti attacchi e così poche lotte?

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Gli attacchi piovono sulle nostre teste. Ognuno di noi ha paura, per sé o per i propri cari, che arrivi l’annuncio della chiusura di una fabbrica o di un “piano di ristrutturazione” sinonimo di un’ondata di licenziamenti. I giovani che si accingono ad entrare nel “mercato del lavoro” trovano di fronte un muro. Le imprese non assumono più. I concorsi per il pubblico impiego sono presi di mira da migliaia e migliaia di candidati, talvolta decine di migliaia, a volte anche … per un solo posto. Quello che si trova ancora, attraverso delle agenzie di lavoro, sono dei piccoli lavori precari, sottopagati e a condizioni di sfruttamento infernali. E purtroppo, noi lo sappiamo già, domani sarà ancora peggio!

Nonostante ciò noi disoccupati, precari, lavoratori del settore pubblico e di quello privato, esitiamo a entrare in lotta. La crisi economica colpisce senza distinzione tutta la classe operaia con una brutalità ed una ferocia che non si vedeva da decenni. Di fronte a questa situazione insostenibile, da qualche mese a questa parte, non c’è quasi nessuna reazione, visto che ci sono così pochi scioperi e lotte[1]. Perché?

E’ a questo quesito cruciale che risponde in gran parte la lettera pubblicata qui di seguito che ci è stata indirizzata da Al, un lettore della nostra stampa[2].

La lettera del lettore

Senza entrare nei dettagli, il capitalismo attraversa un’ennesima crisi economica […]. In tutti i paesi, le imprese e gli Stati hanno licenziato massicciamente. La disoccupazione è esplosa a livello mondiale. Le tasse e le imposte di tutti i tipi sono fortemente aumentati mentre gli aiuti sociali sono drasticamente diminuiti. Tutto ciò comporta, evidentemente, una degradazione importante ma anche molto rapida delle condizioni di vita degli operai a livello mondiale. […]

Oggi, io stesso e certamente un buon numero di operai si chiedono come mai non vi sia una risposta di massa da parte del proletariato mondiale di fronte all’importanza e alla profondità della crisi attuale e delle sue conseguenze sulla loro vita sociale. Cos’è che impedisce oggi agli operai di entrare in lotta? A parte la rivolta di dicembre 2008 e di gennaio 2009 in Grecia, la classe operaia non ha paradossalmente risposto al livello della granata di colpi ricevuti.

Bisogna dire che gli Stati, sostenuti dai giornali e dai vari analisi finanziari, ce la mettono tutta per far credere che, a partire da marzo 2009, sia ricominciata una ripresa dell’economia. In particolare all’ultimo G20 i rappresentanti di tutti i paesi si sono felicitati della riuscita dei loro reciproci piani di intervento sull’economia mondiale e sui mercati finanziari. Ma questa calma nella tempesta economica é solo temporanea, riguarda unicamente i mercati borsistici ed è prodotta dalle grandi banche, in particolare quelle americane come la Goldman Sachs, contribuendo così alla formazione di una nuova “bolla” borsistica e al suo relativo scoppio molto a breve termine. Invece l’economia reale continua a degradarsi fortemente. Questa euforia, accoppiata ad una campagna mediatica, certamente mantiene la confusione nella testa degli operai e contribuisce anche alla mancanza di prospettive. La seconda ragione rimonta ad una ventina di anni fa, cioè alla caduta del muro di Berlino, dello stalinismo, del “blocco dell’Est” e della famosa “morte del comunismo”. In effetti, semplicemente discutendo oggi con un certo numero di persone ci si rende conto che per loro il sistema che era in piedi in Russia, nei paesi dell’Est e nella Germania orientale era il comunismo, mentre invece era tutt’altra cosa. Io penso e mi rendo conto che la disinformazione e le menzogne proferite dalla classe sfruttatrice a proposito del comunismo hanno lasciato delle tracce e sono ancora purtroppo presenti nello spirito dei proletari. Oggi, molti operai pensano obiettivamente che questo sistema economico sia ormai agonizzante, ma semplicemente non sanno come rimpiazzarlo, perché sono stati martellati per anni, attraverso i mass-media, i giornali, i libri ma anche e soprattutto dalla cultura ricevuta che il comunismo é un sistema economico che non funziona e che conduce a dei regimi dittatoriali o, al meglio, che è solo un’utopia. Il che è una falsità, evidentemente, una delle più grandi menzogne dell’umanità. La terza ed ultima ragione è che la crisi non tocca tutti i salariati con la stessa intensità e allo stesso momento. Il che può spiegare come mai solo pochi operai intraprendono delle lotte disperate, perché isolate, mentre altri sono ancora nella fase di riflessione e di maturazione della loro coscienza.

Ecco dunque il mio contributo di risposta al quesito posto all’inizio, nella speranza che gli elementi apportati contribuiscano alla riflessione collettiva

La nostra risposta

Noi siamo d’accordo con ogni punto di questa lettera. Di fatto, la violenza con cui colpisce oggi la crisi economica ha, per il momento, un effetto allarmante e dunque paralizzante.

Come sottolinea il compagno Al., le ultime lotte di una certa ampiezza hanno avuto luogo in Grecia e nelle Antille tra la fine del 2008 e l’inizio del 2009. Non è un caso se la situazione sociale si è calmata precisamente in questo momento, proprio quando la crisi ha cominciato a colpire più fortemente. In generale, e questo si è verificato frequentemente nel corso degli ultimi quaranta anni, i momenti di forte aumento della disoccupazione non sono teatro delle lotte più importanti. La classe operaia è infatti sottoposta, in questi momenti, ad un ricatto odioso ma efficace: “se voi non siete contenti, tanti altri operai sono pronti a rimpiazzarvi”. Inoltre, i padroni ed i governi si fanno scudo di un argomento “decisivo”: “Non è mica colpa nostra se la disoccupazione aumenta o se voi siete licenziati: è colpa della crisi”. Si sviluppa di conseguenza un sentimento d’impotenza. Gli operai non si trovano di fronte semplicemente un padrone malvagio ma un capitalismo internazionale in disfacimento. Ogni lotta è una rimessa in causa dell’intero sistema. Ogni lotta pone, fondamentalmente, la questione di un altro mondo. Per entrare in sciopero oggi occorre non soltanto avere il coraggio di affrontare le minacce di licenziamento e il ricatto padronale, ma anche e soprattutto credere che la classe operaia sia una forza capace di proporre qualche altra cosa. Non basta alla classe percepire che il capitalismo si trovi in una impasse per volgersi verso una prospettiva rivoluzionaria. Occorre ancora che abbia la convinzione che una tale prospettiva sia possibile. Ed è giustamente su questo terreno che la borghesia è riuscita a segnare dei punti in seguito al crollo dell’URSS, pretesa “patria del socialismo”. La classe dominante é riuscita a ficcare nella testa degli operai l’idea che la rivoluzione proletaria è una chimera, che il vecchio sogno del comunismo è morto con l’URSS[3]. Gli anni ‘90 sono stati fortemente segnati dall’impatto di questa propaganda. Per un decennio, le lotte sono state in forte ripiegamento. Anche se questo effetto relativo alla “morte del comunismo” ha cominciato leggermente a smorzarsi all’inizio degli anni 2000 e la nostra classe è tornata lentamente a riprendere il cammino della lotta, ne restano tuttavia ancora numerose tracce oggi. L’assimilazione dello stalinismo al comunismo, la mancanza di fiducia della classe operaia a costruire con la propria iniziativa un altro mondo, agiscono come dei catenacci.

Siamo dunque in un’impasse? Certamente no. La prospettiva è senza alcun dubbio verso delle lotte sempre più numerose ed importanti. Momentaneamente, la nostra classe è come se avesse preso un colpo in testa, come se fosse anestetizzata. Ma la crisi resta il terreno più fertile per lo sviluppo delle lotte. Nei mesi e negli anni a venire, la classe dominante cercherà di far pagare a tutti i lavoratori gli enormi deficit budgetari che si accumulano, i piani di salvataggio delle banche e di “rilancio” dell’economia. Prossimamente, particolarmente i pubblici dipendenti, saranno a loro volta presi di mira dagli attacchi e simultaneamente. Nella misura in cui la minaccia di licenziamento incombe meno gravosamente sulle loro spalle, essi avranno la responsabilità di lanciare l’offensiva e di trascinare a fianco a loro i lavoratori del settore privato, i precari, i disoccupati, i pensionati … S’imporrà allora l’idea che solo la lotta unita, di massa e solidale di tutti i settori uniti è in grado di frenare la brutalità degli attacchi. E’ attraverso questa lotta che la classe operaia acquisterà fiducia nella sua forza e nella sua capacità di fare un giorno la rivoluzione comunista mondiale, condizione dell’abolizione di ogni sfruttamento.

Pawel, 21 novembre



[1] A livello internazionale, tuttavia, ci sono degli scioperi che passano sotto silenzio per un black-out quasi totale da parte di tutti i mass-media.

[2] Non esitate voi stessi a reagire scrivendo alla nostra casella postale ([email protected] [1]) o per lettera (R.I., Casella Postale 469, 80100 Napoli).

[3] Vedi l’articolo in questo stesso numero che, a proposito della caduta del muro di Berlino, parla appunto di questa propaganda nauseabonda che assimila lo stalinismo al comunismo.

Vita della CCI: 

  • Lettere dei lettori [2]

Patrimonio della Sinistra Comunista: 

  • Lotta proletaria [3]

Afghanistan. L’inferno capitalista è lastricato di cattive intenzioni

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Da otto anni, la Forza internazionale di assistenza alla sicurezza (ISAF), messa in piedi dagli Stati Uniti dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 per rispondere energicamente al “terrorismo internazionale”, imperversa in Afghanistan. Da otto anni, dopo la “grande vittoria” della democrazia dei primi mesi, abbiamo visto instaurarsi in questo paese e dintorni solo un inferno, ogni giorno più scottante. Sotto il titolo altisonante di Operation Enduring Freedom (Operazione Libertà Permanente), i 100.000 soldati di questa coalizione imperialista (oltre ai 200.000 e più soldati e poliziotti afgani) hanno già subito delle perdite che superano i 1200 morti, senza contare i feriti e gli invalidi a vita su cui i governi tacciono forzatamente. Tutto ciò senza contare i 2100 morti e più tra la popolazione civile, presa nella morsa tra il fuoco dei talebani, gli attentati dei membri di Al Qaeda ed i bombardamenti delle forze occidentali ed afgane (queste ultime secondo l’ONU sono responsabili di circa il 40% delle vittime civili). Così, a Kunduz, nel Nord del paese, 90 civili sono morti per i bombardamenti di cisterne di carburante da parte della coalizione all’inizio dello scorso settembre. Per non parlare delle popolazioni del Pakistan di cui si contano regolarmente morti a decine, addirittura a centinaia, e con la minaccia di morire ogni momento in un attentato terroristico. Infatti la prima “vittoria” di questa offensiva guerriera è quella di essere riuscita ad approfondire i solchi di un disordine crescente che non colpisce più solamente l’Afghanistan ma anche, con altrettanta forza, il vicino Pakistan.

Ancora una volta, come abbiamo già visto in Medio Oriente, in Iraq, nella ex Iugoslavia e in tanti altri posti del mondo, è necessario riaffermare che le velleità imperialiste, quali che siano le loro scuse “pacifiste”, “democratiche” o “anti-terroristiche” con le quali si portano avanti, non fanno che suonare la carica di un aggravamento delle tensioni guerriere con il loro seguito di morti e di popolazioni spinte nel terrore ed in una miseria indicibile. Per dare un’idea del reale interesse portato - facciamo il caso della Francia - nei riguardi della popolazione civile afgana che avrebbe dovuto contribuire a “liberare” dal terrorismo, bisogna sapere che sono assegnati 200 milioni di euro all’esercito contro soltanto 11 milioni per l’aiuto alla popolazione civile. Globalmente questo “salvataggio” del popolo afgano, che muore lentamente, costa militarmente 3,6 miliardi di dollari al mese. A Kabul, per esempio, mentre i signori della droga sfrecciano su auto 4x4 al fianco dei degni rappresentanti della democrazia occidentale, circa 50.000 bambini lavorano per le strade a lavare automobili, lucidare scarpe, raccogliere carte, bambini che soffrono per fame, malattie, maltrattamenti, violenze e schiavismo.

Le condizioni di vita si aggravano in tutto il paese. Nel Nord-est del paese, nel Badakhshan, una delle regioni al centro del traffico dell’oppio, uno studio dell’OMS considera che vi sono 6.500 decessi materni ogni 100.000 nascite, che è la percentuale più alta registrata a livello mondiale. Il 75% dei neonati superstiti muore a sua volta per mancanza di alimentazione, di assistenza e per il freddo. In più, mediamente, una donna incinta ha una probabilità su otto di morire ed è verosimile che più della metà di queste ultime non raggiungano l’età di sedici anni. Di tutto questo la borghesia ci parla poco, contrariamente a tutto il battage sulle elezioni presidenziali afgane. Il presidente Karzai, pupillo della coalizione, eletto a forza di grossolani intrallazzi e criticato a labbra socchiuse dagli stessi dirigenti occidentali, padrino notorio della droga, è il simbolo del cinismo di questi ultimi: come ha detto Kouchner[1], Karzai è effettivamente completamente corrotto, ma è il nostro uomo!

Il fiasco afgano

Malgrado il fallimento totale della missione militare degli Stati Uniti e dei loro alleati in Afghanistan, questi non cambiano politica. Il Pentagono del resto chiede altri 40.000 uomini, proprio per “avvicinarsi alla popolazione civile e dimostrarle che le forze straniere sono venute per lei, per darle un avvenire sicuro”. In attesa di realizzare questa illusoria prospettiva che appare sempre più lontana, Obama persegue la stessa politica guerriera del suo predecessore, proprio con la stessa giustificazione: ridimensionare Al Qaeda. Ora, secondo la confessione del consigliere per la sicurezza nazionale di Obama al Congresso, James Jones, “La presenza di Al Qaeda è molto ridotta. La valutazione di massima è inferiore a 100 attivi nel paese, nessuna base, nessuna capacità di lanciare attacchi contro di noi o i nostri alleati”. Anche nel vicino Pakistan, i resti di Al Qaeda non sono quasi più visibili. Il Wall Street Journal segnala: “Cacciati dai droni[2] statunitensi, in preda a problemi di denaro e con crescenti difficoltà ad attirare i giovani arabi sulle montagne scure del Pakistan, Al Qaeda vede il suo ruolo rimpicciolire laggiù ed in Afghanistan, secondo i rapporti dell’Informazione e dei responsabili pakistani e statunitensi”.

Allora perché un tale accanimento visto che la minaccia che giustifica questa guerra non è più una realtà? Intanto perché gli alleati dell’America cominciano a scalciare sempre di più (lo stesso Sarkozy, benché non sia un pacifista, non vuole mandare un soldato di più) ed alcuni dichiarano apertamente che è una guerra persa in partenza. Il Primo ministro canadese, Stephen Harper, ha recentemente dichiarato alla CNN: “Noi non vinceremo questa guerra rimanendo semplicemente là. Non batteremo mai gli insorti”. La ragione principale per continuare quest’offensiva è in realtà il controllo strategico di questa regione che è vicina alla Cina, all’Iran e alla Russia, e ancora delle zone di importante traffico di materie prime, di una regione che guarda anche direttamente verso l’Africa. È dunque un obiettivo di primaria importanza per la prima potenza mondiale, i suoi alleati ed i suoi rivali. A tutti questi della sorte della popolazione e del suo benessere non importa proprio nulla, ma da tutti questi ci si può aspettare che progettino di restare ancora molto tempo, seminando sempre più desolazione e massacri.

Wilma, 21 novembre



[1] Ministro degli Affari esteri ed europei del governo francese.

[2] Piccoli aerei da ricognizione telecomandati.

Geografiche: 

  • Afganistan [4]

Questioni teoriche: 

  • Imperialismo [5]

Negli Stati Uniti esplode la povertà

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Martedì 6 ottobre, al Cobo Center[1], nella città di Detroit, alcuni volontari aspettavano l’arrivo dei più poveri per distribuire loro 5000 formulari di domanda d’aiuto finanziario temporaneo (per il pagamento delle pigioni e fatture di servizi pubblici) e di aiuto per l’alloggio (per i senzatetto o quelli che lo diventano in assenza di questi aiuti)[2]. Già alla vigilia, erano stati ritirati circa 25000 di questi documenti presso i diversi servizi municipali. Ma, aprendo le porte, quel giorno i volontari non credevano ai loro occhi: ad aspettare fin dalle prime luci dell’alba non c’erano alcune centinaia di persone, tra le più povere dei quartieri, ma parecchie migliaia! Tra le 15000 e le 50000, secondo le varie stime! In effetti, all’annuncio di questa nuova distribuzione, dei senzatetto, disoccupati di lunga data, ma anche operai recentemente licenziati, lavoratori precari o minacciati da eventuali nuovi attacchi e membri della “classe media” (per esempio professori o impiegati) che stanno per cadere a loro volta nella povertà … in breve, la gran parte della classe operaia della regione si è ammassata nel freddo di prima mattina nella speranza di ottenere qualche briciola d’aiuto per non perdere il proprio alloggio, per mangiare o semplicemente per “reggere” ancora un poco. Lunghe code, dunque, serpeggiavano davanti all’entrata dell’edificio prolungandosi fin nella strada. Nessuno si aspettava una tale folla. I volontari, sbalorditi, sono stati presi letteralmente d’assalto. Le persone che hanno avuto la fortuna di ottenere un formulario si sono affrettate a compilarlo sul luogo a rischio di farselo rubare. Fotocopie (non riconosciute e dunque non valide) sono circolate per 20 dollari ognuna. Per limitare questa truffa ed evitare disordini, gli stessi volontari si sono messi infine a distribuire delle fotocopie, senza avere tuttavia la garanzia che sarebbero state considerate valide dall’amministrazione.

Negli Stati Uniti, la crisi economica colpisce con una brutalità estrema e nessun settore della classe operaia viene risparmiato. Come viene espresso dal vigile del fuoco Dan McNamara, l’assalto di questa folla disperata “è completamente rappresentativo delle difficoltà della classe media in America”[3]. Tony Johnson, disoccupato da tre anni, presente fin dalle 5 di mattina, esprime così la sua collera: “non c'è tranquillità perché non c’è lavoro. Tutti sono alla ricerca di un extra, di un colpo di mano. Non mi contano tra i disoccupati perché non ho sussidio. E’ come se non esistessi proprio. Ma invece esisto. Guardate intorno a voi. Ci sono migliaia... milioni in queste condizioni”[4].

Malgrado tutte le falsificazioni ed i vari “artifici statistici”, la borghesia americana non può più mascherare l’impoverimento palese di tutta la popolazione. Il tasso di disoccupazione è passato dal 4,7% di settembre 2007 al 9,8% di settembre scorso, cifra record dal 1983. E’ dunque raddoppiato in soli due anni![5]

In Europa, siamo soliti dire che gli Stati Uniti sono sempre in anticipo di alcuni anni, che mostrano in qualche modo la strada e che indicano l’avvenire. La classe operaia del mondo intero sa dunque che cosa l’aspetta!

Detto ciò, c’è da credere che la crisi e la miseria attraversano le frontiere più velocemente della moda. In Spagna, il tasso di disoccupazione si è innalzato al 13,9% nel quarto trimestre del 2008, con più di 3,3 milioni di disoccupati. È record nell’Unione Europea e la maggior parte degli analisti ritengono che questa cifra potrebbe raggiungere il 19% nel 2010 (con oltre 4 milioni di disoccupati)[6]! In quanto all’Irlanda, soprannominata la “Tigre celtica” in seguito ai suoi “exploit economici” dell’inizio degli anni 2000 (ancora due anni fa, questa isola batteva dei record con il 5,1% di crescita e “soltanto” il 4,4% di disoccupati), prossimamente il suo tasso di disoccupazione dovrebbe raggiungere il 15 %![7]

La borghesia può anche servirci in tutte le salse le sue grossolane menzogne sulla “ripresa”, “la fine della crisi”, la “fine del tunnel” … Ma la realtà è quella che provano sulla loro pelle i lavoratori, i precari ed i disoccupati del mondo intero: la degradazione terribile delle condizioni di vita. Il capitalismo non può che generare sempre più miseria, esso è diventato un sistema definitivamente decadente che bisogna abbattere

Lisa, 22 ottobre


[1] Centro di esposizione e di conferenze della città.

[2] La città di Detroit ha difatti ripartito l’aiuto federale percepito in funzione dei programmi di Prevenzione dei senzatetto e di Rialloggiamento Rapido, (circa 15,2 milioni di dollari).

[3] Per classe media, bisogna intendere quella parte della classe operaia che aveva un impiego stabile.

[4] Le citazioni e gli elementi di questo articolo sono stati estratti dal sito www.contreinfo.info [6] dove è disponibile anche un video.

[5] Fonte: www.romandie.com/infos/news/200910221854040AWP.asp [7].

[6] www.lejdd.fr/International/UE/Depeches/Espagne-Hausse-sans-precedent-du-... [8]

[7] www.la-croix.com/Irlande-les-precedents-scrutins-et-la-donne-economique/... [9]

Perché i mass-media hanno tanto parlato della caduta del muro di Berlino?

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In queste ultime settimane tutti i mezzi di comunicazione hanno trattato a lungo e in largo e soprattutto di traverso del ventennale della caduta del muro di Berlino. Trasmissioni speciali e documentari storici, dibattiti televisivi, serie di articoli nei giornali e nei settimanali, nessuno di noi ha potuto evitare questo enorme battage. Perché?

La più grande menzogna della storia

Lo scopo era quello di fare entrare nella testa di ogni operaio e dei suoi figli, con le buone o le cattive, la più grande menzogna della storia. A voler credere tutti questi scribacchini e giornalisti prezzolati, il 9 novembre 1989 sarebbe caduto un regime … comunista.

Quasi ad ogni frase o ad ogni rigo, in mezzo alle descrizioni dell'orrore ben reale dei regimi staliniani (l'assenza totale di libertà, la violenza del potere e gli assassinii della sua polizia politica – come la Stasi - la povertà, la ferocità dello sfruttamento …), è stata ripetuta, martellata, la parola “comunismo”. In un articolo del 2 novembre dal titolo inequivocabile “Comunismo: le ferite dietro il muro”, il giornale Le Monde scriveva così: “Uomini e donne trasportati dall’emozione, chi ride e chi piange; colpi di pala e di martello, mani che afferrano qualche frammento. La caduta del muro di Berlino, il 9 novembre 1989, appare fra le più importanti date della storia europea. Due anni prima della scomparsa dell’URSS, un primo colpo fatale era stato dato all’impero comunista”. Potremmo citare ancora centinaia di passaggi dello stesso tono in tutti i grandi giornali. Per esempio, Le Figaro datato 9 novembre mostrava questo titolo in prima pagina: “La morte del comunismo”. Ed ecco un ultimo esempio: “gli eventi della fine del 1989 erano il segnale della fine del periodo aperto dalla rivoluzione russa e dalla grande ondata rivoluzionaria che aveva scosso il mondo capitalista dopo la Prima Guerra mondiale”. E questa volta non è Le Monde, Liberation o Le Figaro ma l’NPA di Besancenot che apporta così il suo piccolo contributo a questa grande menzogna[1].

Ciò detto, i più attenti avranno notato una sfumatura, una piccola voce apparentemente divergente in mezzo a tutta questa propaganda. I mass media, sempre attenti a mettere in mostra la vetrina democratica, hanno concesso diritto di parola “agli ostalgici”, cioè quelle persone dell’Est (ost in tedesco) che sono nostalgici, che rimpiangono i tempi della RDT (Germania dell’est). Ma, a ben guardare da vicino, quello che ci viene propinata qui è sempre la stessa paccottiglia adulterata. Certamente, c’è un’opinione diversa su come gli operai vivevano sotto il stalinismo, ma la cosa più importante è che questo regime è sempre e ancora assimilato al comunismo!

Bisogna essere chiari: lo stalinismo è stato senza alcun dubbio un regime disumano e sanguinario, ma non ha nulla a che vedere con il comunismo. Ne é addirittura l’antitesi! Lo stalinismo è stato infatti il becchino della Rivoluzione russa. Negli anni 1920 e 1930, esso ha schiacciato fisicamente ed ideologicamente il proletariato. L’arrivo dello stalinismo segna il trionfo della controrivoluzione e della borghesia. In URSS e dunque nella RDT, non vi è stata ombra di comunismo. Ciò che è dunque crollato il 9 novembre 1989 non è la società senza classi sognata da sempre dagli oppressi ma al contrario una forma particolarmente brutale di capitalismo di Stato[2].

La borghesia è stata tuttavia capace finora di convincere il proletariato mondiale del contrario. Come? Utilizzando quel metodo di propaganda descritto da Joseph Goebbels (il ministro della propaganda sotto Hitler): “Una menzogna ripetuta mille volte resta una menzogna, una menzogna ripetuta un milione di volte diventa una verità”. È dunque un milione di volte che la borghesia ha ripetuto e ripetuto ancora che lo stalinismo era uguale al comunismo, che questo regime barbaro era il regime della classe operaia e che infine la caduta del muro di Berlino ed il crollo dell'URSS erano la conclusione inesorabile della rivoluzione operaia del 1917.

Così facendo, la classe dominante è riuscita realmente ad avvelenare la coscienza operaia. Negli anni 1990, e nel mondo intero, la combattività della nostra classe si è fortemente ridotta. Perché lottare, infatti, se nessun altro mondo è possibile oltre il capitalismo? Perché lottare se la lotta operaia conduce inevitabilmente all’orrore dello stalinismo? Quest’assenza di prospettiva ha fortemente pesato sulla classe operaia durante gli anni 1990 e continua ad essere un freno importante alle lotte di oggi. Con la sua propaganda intensa per celebrare i venti anni della caduta del muro di Berlino, la borghesia batte dove fa male; agita con sadico piacere il coltello nella piaga.

Non è il comunismo, ma il capitalismo che non ha futuro

Tuttavia, la propaganda attuale non è la copia esatta di quella degli anni 1990. L’assimilazione fraudolenta dello stalinismo al comunismo è identica, lo abbiamo visto. Ma venti anni fa, questo messaggio era accompagnato da un altro: “Il comunismo è morto. Viva il capitalismo!”. Due anni dopo la caduta del muro, il 6 marzo 1991, George Bush padre, presidente degli Stati Uniti d’America, osava anche annunciare l’arrivo “di un mondo dove le Nazioni Unite, liberate dal’impasse della guerra fredda, sono in grado di realizzare la visione storica dei loro fondatori. Un mondo nel quale la libertà ed i diritti dell'uomo sono rispettati da tutte le nazioni”. Una nuova era di pace e di prosperità doveva aprirsi.

Oggi, ovviamente, il discorso ufficiale ha dovuto, per lo meno, adattarsi. La guerra decima popolazioni intere. Il pianeta viene lentamente distrutto. La crisi economica spinge nella miseria più totale e nella carestia centinaia di milioni di persone … Dove sta dunque la famosa vittoria storica del capitalismo? Tutte le belle promesse di un futuro radioso vanno nella pattumiera! Ciò che resta, è la vittoria della “libertà d’espressione” o, per riprendere una espressione di Coluche[3], il “chiudi la bocca” della dittatura è stato trionfalmente sostituito da il “parla pure, tanto è lo stesso” della democrazia.

Venti anni fa, un pezzo intero di capitalismo completamente sfiancato è crollato con il muro di Berlino. Oggi, il resto del mondo segue la stessa scia perdendo un po’ alla volta un pezzo dietro l’altro. Che agisca sotto la maschera di un regime totalitario o di uno Stato democratico, il capitalismo continuerà ad infliggere all’umanità sempre più miseria e guerre. Ma il proletariato è capace di costruire con le sue mani un altro mondo, una società senza classi e senza sfruttamento, una società basata non sul profitto ma sullo sviluppo del benessere per tutti. Per questo occorre respingere l’assimilazione del comunismo con lo stalinismo; occorre che la nostra classe riprenda fiducia in sé stessa ed in questo mondo che solo lei è capace di costruire!

Tibo, 13 novembre


[1] Fonte: “Chute du mur : le début d’une nouvelle période…”.

[2] Non potendo, nel quadro di questo articolo, sviluppare le ragioni della vittoria della controrivoluzione staliniana, rinviamo ai numerosi articoli della nostra stampa su questo tema, e particolarmente a quello più recente: “Il y a 20 ans : la chute du mur de Berlin [10]”.

[3] Coluche, attore e comico francese divenuto celebre per le sue battute e il suo atteggiamento irriverente verso la politica e il governo e morto nel 1986.

Patrimonio della Sinistra Comunista: 

  • Stalinismo, il blocco dell'Est [11]

Eventi storici: 

  • Collasso del blocco dell'est [12]

Poste, settore pubblico, trasporti in Gran Bretagna. Evitare la trappola dell’isolamento

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Pubblichiamo qui di seguito il volantino diffuso dai nostri compagni di World Revolution, sezione della CCI in Gran Bretagna, in occasione dei recenti scioperi in questo paese.

Nonostante i discorsi incessanti sulla “fine della recessione”, tutti gli indici economici ci dicono che il capitalismo è nella sua crisi più profonda e che non c’è in vista nessuna via d’uscita dal tunnel. Dinanzi a profitti in ribasso e ad una concorrenza selvaggia nei mercati, la classe dominante ha una sola risposta: far pagare questa crisi agli sfruttati, ai reali produttori di ricchezza, con licenziamenti, congelamento dei salari, condizioni di lavoro “modernizzate” (cioè farci lavorare di più per guadagnare di meno) e delle riduzioni massicce del salario sociale con tagli nei servizi pubblici. Conservatori, laburisti, liberal-democratici e gli altri sono tutti d’accordo sulla necessità di fare tagli nel settore pubblico - la loro sola preoccupazione riguarda come farli e come farli passare.

Per la stragrande maggioranza di noi ci può essere una sola risposta: resistere a questi attacchi alle nostre condizioni di vita che non ci portano verso un prospero futuro, ma ancora più impoverimento e miseria. E il segnale è che gli operai iniziano a resistere in tutto il mondo, dagli scioperi in massa in Egitto, a Dubaï e nel Bangladesh, alle lotte degli operai, dei disoccupati e degli studenti che si organizzando in assemblee generali in Francia, in Spagna ed in Grecia, passando per lo spiegamento di scioperi e sommosse degli agricoltori in Sudafrica. E anche in Gran Bretagna ci sono gli stessi segnali: con gli scioperi selvaggi nelle raffinerie di petrolio dello scorso inverno, dove gli operai hanno esteso la lotta sfidando le leggi anti-sciopero ed hanno iniziato a librarsi delle idee nazionalistiche che all’inizio avevano distorto il senso dello sciopero; con le occupazioni a Visteon e Vestas, che hanno avuto un ampio sostegno all’interno della classe operaia. E proprio adesso ci sono lotte che covano o che scoppiano in numerosi settori. Gli spazzini di Leeds, gli autisti d’autobus dell’Essex del Yorkshire e del Nord-est, tutti confrontati a riduzioni dei salari, i vigili del fuoco che manifestano contro le nuove turnazioni, gli operai della metropolitana e della British Airways che votano per lo sciopero, e naturalmente, gli operai delle poste.

L’attacco agli operai delle poste

Fra tutti gli scioperi recenti, la lotta alla Royal Mail ha polarizzato l’attenzione di politici e mass media. Al governo, il segretario all’economia, Peter Mandelson, ha espresso la sua “grande rabbia” verso questi scioperi, mentre Cameron, capo del partito conservatore, accusava il governo di Brown di essere troppo tenero con gli impiegati della posta. Il padronato della Royal Mail ha fatto la provocazione di assumere migliaia di lavoratori occasionali durante gli scioperi. La stampa e la televisione hanno organizzato tutta una campagna intorno alla presunta natura suicida degli scioperi ed ai danni che questi causavano all’economia nazionale, arrivando a dire che questi scioperi mettevano in pericolo delle vite umane nella misura in cui i vaccini contro l’influenza A dovevano essere spediti per posta.

Questa focalizzazione non è un caso. La borghesia è perfettamente cosciente che esiste un’enorme spinta di malcontento nella classe operaia. Sa che, quando inizierà ad accelerare la nuova serie di tagli netti imposti dalla crisi economica, questo malcontento potrà soltanto crescere, soprattutto nel settore pubblico che è il più grande datore di lavoro del paese. E sa che gli operai delle poste hanno una reputazione di combattività ed auto-organizzazione. In particolare sono fedeli alla consolidata tradizione di ignorare le leggi anti-sciopero e di decidere di fare sciopero in assemblee generali, senza aspettare che i sindacati organizzino le votazioni. E’ per questo che adesso lo Stato ed i padroni prendono gli impiegati delle poste come capri-espiatori. Vogliono indebolirli prima di doversi occupare di altri settori - isolarli, schiacciarli, ed poi sottometterli, per tentare di dimostrare al resto della classe operaia che battersi per la difesa delle proprie condizioni di vita può portare solo alla sconfitta.

I sindacati rafforzano l’isolamento

Ora c’è il pericolo che i lavoratori delle poste siano isolati – specialmente perché i sindacati stanno rafforzano quest’isolamento. Quando il capo del sindacato CWU, Bill Hayes, ha detto che lui si trovava in una posizione migliore rispetto a Scargill1 nel 1984, ha rafforzato di fatto un’illusione che portò direttamente alla sconfitta dei minatori all’epoca: l’idea secondo la quale se ci si batte abbastanza a lungo e duramente in un solo settore, si può respingere un attacco concertato contro l’insieme della classe operaia.

E’ vero esattamente il contrario: più si lotta nel proprio angolo, più si è votati ad essere sconfitti e demoliti. Più i nostri dirigenti sentono il pericolo di lotte che si estendono all’interno della classe operaia, più sono pronti ad arretrare e fare concessioni.

In ogni settore, i sindacati fanno come se ogni lotta fosse confrontata ad un problema diverso, i cui interessi sarebbero separati del resto, riservati solo a chi ne fa parte. Nelle poste, la CWU - che si era dichiarata d’accordo con l’essenziale del progetto di “modernizzazione” dei servizi postali alla fine dello sciopero del 2007 - presenta le cose come se il problema fosse quello della “consultazione” e dei piani particolarmente “diabolici” della direzione della Royal Mail. In realtà, la direzione della Royal Mail, come tutte le direzioni, fa soltanto il suo lavoro per la classe capitalista e lo Stato che la protegge. Altrove, i sindacati dei trasporti, dei vigili del fuoco ed altri fanno votare i loro membri sulle proprie dispute particolari con la direzione e preparano scioperi da tenere strettamente inquadrati nella cornice sindacale e che non abbiano legami con le altre lotte, anche quando queste hanno luogo nello stesso momento.

Come superare l’isolamento sindacale?

Il problema non è scegliere tra lottare o non lottare. Il problema è come lottare. Abbiamo bisogno della massima unità di fronte all’attacco unito della classe dominante. Ma proprio per questo, non possiamo metterci nelle mani dei sindacati che sono i poliziotti incaricati di far rispettare le leggi dei padroni e che dividono la classe operaia in mille settori e categorie.

Al contrario, abbiamo bisogno di seguire l’esempio degli operai delle poste e delle loro lotte passate, di quelle degli operai delle raffinerie di petrolio dello scorso inverno, ignorando le leggi anti-sciopero e facendo delle assemblee generali dei luoghi dove vengono prese le reali decisioni (come continuare lo sciopero o tornare al lavoro), e dove le delegazioni o i comitati sono eletti e responsabili dinanzi all’assemblea generale. Abbiamo bisogno di assemblee generali come centri di dibattito e discussioni, dove operai di altri settori possano venire, non soltanto per portare il loro sostegno, ma anche per discutere di come estendere lo sciopero.

Lo stesso è per i picchetti e le manifestazioni: devono essere aperti a tutti i lavoratori – occupati, disoccupati, a tempo pieno o ad orario ridotto, ed indipendentemente dal fatto se sono iscritti o no ad un sindacato - e provare ad attirare molti settori diversi verso un fronte comune.

Anche se all’inizio sono soltanto piccoli gruppi di lavoratori che vedono questa necessità di auto-organizzazione e di unità di classe, questi gruppi possono fare il legame gli uni con gli altri e provare a diffondere le loro idee quanto più estesamente possibile.

Il futuro è nelle nostre mani!

World Revolution, sezione in Gran Bretagna della CCI (26 ottobre 2009)

1. Scargill era il capo del sindacato dei minatori che, insieme a Margareth Thatcher, fu l’artefice della sconfitta di questo settore molto combattivo. Sconfitta che servì “da esempio” per tutta la classe operaia in Gran Bretagna ma anche a livello internazionale (vedi i vari articoli che trattano quest’argomento nel nostro sito Internet in inglese ed altre lingue).

Geografiche: 

  • Gran Bretagna [13]

Patrimonio della Sinistra Comunista: 

  • Lotta proletaria [3]

E in Italia, a che sta la lotta di classe?

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Nell’articolo “Perché tanti attacchi e così poche lotte?”, pubblicato in questo stesso numero del giornale, affermiamo che “la violenza con cui colpisce oggi la crisi economica ha, per il momento, un effetto allarmante e dunque paralizzante” sulla classe operaia. Ma questo non significa che non ci siano lotte. Anzi negli ultimi mesi sembrerebbe di assistere ad una certa ripresa della lotta di classe in Italia. Si sente di manifestazioni, occupazioni e di lotte operaie anche ai telegiornali locali e qualche volta nazionali. Oltre ai precari della scuola, di cui abbiamo parlato in un articolo sul web[1] e alla “lotta simbolo” della INNSE, rispetto alla quale abbiamo messo in evidenza la capacità dei padroni di utilizzare le debolezze dei lavoratori per creare delle false piste su cui lottare[2], nuove lotte (ma a volte portate avanti da mesi) hanno avuto la gloria dei mezzi di comunicazione. Tra queste principalmente tre: Alcoa, ex-Eutelia e Termini Imerese.

Come mai i mass-media si danno tanta pena a parlare delle lotte operaie? Il motivo è fin troppo ovvio: contrariamente alle asinate della borghesia sulla fine della lotta di classe e finanche sulla scomparsa della classe operaia, oggi come oggi la classe operaia, ovvero l’insieme di persone che, al lavoro o disoccupate, vedono la loro sopravvivenza legata al rapporto di vendita delle proprie prestazioni lavorative nei confronti di un datore di lavoro, sta passando dei bruttissimi quarti d’ora e non sa più come sbarcare il lunario. Se dunque la borghesia parla di certe lotte è per metterne avanti gli aspetti di fragilità che, nella propaganda borghese, diventano invece elementi di forza, in modo da trasmettere delle false lezioni a tutta la classe operaia. In questo sporco gioco, come vedremo, un ruolo centrale viene svolto proprio da quelle forze che si presentano come i difensori degli interessi proletari, i sindacati e i “partiti di sinistra”.

Anzitutto non si fa che ripetere dappertutto che la INNSE ha vinto e che perciò bisogna diffondere ovunque il suo metodo. E non è un caso che occupazioni di fabbriche, minacce di suicidio di operai appostati su tetti e torri industriali si ripetano in tutta Italia, favorendo un isolamento delle lotte che certamente non aiuta a risolvere le cose. Ma alla INNSE nuove “lotte simbolo” mediatizzate dalla borghesia si aggiungono a quest’opera di dirottamento della lotta di classe, nonostante ancora una volta il coraggio, la combattività e la determinazione degli operai che si stanno battendo a volte da mesi e mesi senza stipendio.

L’Alcoa di Portovesme

All’Alcoa di Portovesme in Sardegna, fabbrica di alluminio che copre insieme all’altro stabilimento di proprietà di Fusina di Venezia il 18% della produzione nazionale, più di 2000 operai rischiano il posto di lavoro. Il motivo è che “i padroni americani dell’Alcoa Italia di fronte alla decisione dell’UE di fargli pagare una penale per aver usufruito di tariffe agevolate dell’Enel nella fornitura di energia elettrica e quindi di aiuti pubblici indebiti, hanno minacciato semplicemente di chiudere tutti gli stabilimenti”[3]. Qual è stata la politica dei sindacati in questa situazione? Prendersela con l’Alcoa e con le forze governative? Certo, ma solo a parole, perché poi, in occasione della manifestazione del 26 novembre a Roma il corteo si apriva con uno striscione su cui era scritto “energia e basta”, cioè risolvere ancora una volta le cose ai padroni sulle spalle della collettività. Quale è stata la conclusione della lotta? Che alla fine la minaccia della cassa integrazione è stata ritirata in cambio di tariffe elettriche agevolate, ma a “norma europea”! Insomma i poveri operai sono stati letteralmente usati in uno sporco gioco delle parti in cui chi ci ha guadagnato è il padrone da una parte e i vari sindacalisti dall’altra. Quest’ultimi in particolare hanno avuto modo di occupare il terreno mostrandosi “radicali”, qualcuno facendosi pure picchiare dalla polizia, mentre finanche un Cappellacci, governatore di centrodestra della Sardegna, assieme ad una sfilza di sindaci multicolori, si è potuto concedere il lusso di fare da sponsor della manifestazione di lotta.

Le lotte degli operai ex Eutelia

Per quanto riguarda le lotte dei dipendenti della ex-Eutelia, sembra esserci sotto qualcosa di addirittura più grosso: “A giugno di quest’anno Eutelia ha ceduto le sue attività industriali in ambito informatico ad Omega Spa che, per la cifra di 96mila euro ha acquisito un volume d’affari di 120 milioni di euro, ordini per 130 milioni e circa 2mila dipendenti, oltre a una rete in fibra ottica di circa 13mila km che naturalmente fa gola a molti, a Berlusconi in primis nell’ottica degli affari collegati al mercato televisivo e delle comunicazioni in generale”[4]. Che l’operazione abbia tutto il sapore di una semplice speculazione lo si vede dal fatto che, dopo solo quattro mesi, Omega licenzia 1200 lavoratori. Da qui è partita la protesta che ha portato prima alla occupazione della sede di Roma, il 28 ottobre, e poi tutte le altre “Pregnana Milanese, Ivrea, Bari, con i lavoratori di Napoli che, non avendo fisicamente una sede da occupare, rinforzano i presìdi delle altre città, particolarmente quello di Roma”[5].

Ma proprio queste occupazioni hanno creato un casus belli su cui si sta ancora a discutere e che è servito alla borghesia per creare divisioni all’interno della classe operaia. Infatti i locali dell’Omega di Roma che sono stati occupati sono in parte in comune con quelli della Eutelia che mantiene una propria attività, motivo per cui i lavoratori di quest’ultima azienda, pur solidarizzando con i primi, non riescono ad andare a lavorare perché anche la loro sede risulta occupata. L’altro fatto di una certa rilevanza è il tentativo da parte proprio dei vertici Eutelia di sgombrare i locali tramite l’inganno e la forza, ovvero tramite l’uso di una squadra di guardie giurate che si sono però presentate come uomini della polizia. Al di là della beffa subita da questi ultimi, fermati nella loro ribalderia proprio dall’intervento - mai così sollecito - della vera polizia, è sintomatico che i mass media abbiano ancora una volta dato risalto a questo episodio. Infatti l’attenzione si è presto spostata sull’inettitudine degli imprenditori e sulla loro responsabilità personale nello sviluppo della crisi, come testimoniano questi interventi in due diversi blog: “Se lo Stato controllasse che le regole vengano rispettate e impedisse le truffe di questi imprenditori spericolati e privi di scrupoli nessun lavoratore si sognerebbe mai di occupare e protestare in questo modo”.[6] “Non c'è un modo per togliere questa azienda ai Landi a darla a dei veri imprenditori???”[7]

E a Termini Imerese

Per quanto riguarda la Fiat di Termini Imerese, dopo tutti gli incentivi alla rottamazione di vecchie auto e tutte le condizioni di favore estremo concesse alla Fiat per creare lo stesso impianto siciliano, l’a.d. Marchionne ha comunicato che il piano aziendale prevede di fermare dal 2011 la produzione automobilistica nell’impianto siciliano. La Lancia Y, di cui l’impianto siciliano aveva finora sfornato 4 milioni di esemplari, sarà infatti prodotta in una versione aggiornata in Polonia, dove la forza lavoro costa meno della metà. Di fronte a questa posizione aziendale, che resta tuttora irremovibile, il leader dei metalmeccanici della Cgil a Termini Imerese, Roberto Mastrosimone, propone lo sciopero generale in Sicilia affermando: “Non possiamo caricare tutto il peso di questa situazione sulle spalle degli operai. Serve una mobilitazione generale, col coinvolgimento di sindacati, industriali, commercianti, amministrazioni locali, studenti e la Chiesa”[8]. Mettendo assieme questa accozzaglia di ceti sociali, il sindacato cerca così di disperdere completamente qualunque velleità della classe di fare riferimento ai suoi fratelli di classe di altri settori. Ma, rimanendo sul piano della difesa dello specifico impianto è chiaro che lo sbocco più probabile è che si arrivi ad una guerra tra poveri: chiudere Pomigliano o Termini Imerese? E’ chiaro ad esempio che la promessa della regione Sicilia di mettere a disposizione della FIAT un finanziamento di 250 milioni di euro costituisce una pressione su Marchionne rispetto alla decisione di quale impianto chiudere, con la conseguente diffusione dell’illusione tra gli operai che basti affidarsi al santo buono per ricevere la grazia di turno. D’altra parte non è difficile capire questo amore per la classe operaia da parte di una serie di personaggi istituzionali di destra, tra cui lo stesso presidente della Regione Sicilia Lombardo: uno stabilimento FIAT con il suo indotto fa un’enorme differenza in territori caratterizzati da una arretratezza economica storica.

Per concludere …

Qual è il minimo comune denominatore della strategia della borghesia nel presentare e nel cercare di orientare queste lotte? Quello di suggerire che, nella misura in cui non è possibile altra soluzione se non nell’ambito di questo sistema, occorre cercare tale soluzione in quello che offre la situazione nell’immediato, senza pensare a costruire per il futuro e fantasticare a vuoto … Questo alimenta naturalmente l’isolamento delle lotte perché si ritiene, a torto, che sia più facile spuntarla in una singola situazione portando avanti una lotta ad oltranza con occupazioni, atti eroici, ecc. piuttosto che raccogliendo un fronte di lotta ampio e unito di fronte al padrone. Ciò giustifica anche il fatto che gli operai in questo momento sembrano dare una certa fiducia ai sindacati e perfino a personaggi istituzionali di destra (Cappellacci, Lombardo, …) oltre che di sinistra, quando si fanno vedere. Ma dagli elementi riportati si vede pure come i capitalisti in questo momento stanno portando avanti una politica che mostra fino in fondo come, in questa fase storica, non ci possa essere alcuna mediazione tra lavoro e capitale. Quando Marchionne decide di traslocare la produzione della lancia Y in Polonia fa un puro calcolo di convenienza economica che è ineccepibile e rispetto al quale nessun governo del mondo gli potrà mai dare torto. Quando l’Alcoa Italia bussa a soldi per le tariffe elettriche o quando l’Eutelia vende i rami secchi per lucrare sulla parte sana dell’azienda e non avere lei il fastidio di licenziare 2000 operai, anche questo rientra nel “normale” comportamento del capitalismo che, di fronte alla necessità di realizzare profitti, non guarda in faccia a nessuno. Allora a che servono tutti questi politici verso cui ci spingono i sindacati se non ad annacquare le lotte?

Ma se tutto questo è vero, questo è solo quello che i media ci vogliono mostrare. Quello che resta coperto è tutto il resto, che è un formicolio di iniziative, di discussioni, di lente ma inesorabili prese di coscienza. Se non ci fosse questa situazione, la borghesia neanche si sognerebbe di alimentare tanta caciara sulle lotte. E invece no. Anche perché le difficoltà economiche ormai coinvolgono oggi anche quelle famiglie di lavoratori che una volta, con un paio di stipendi, vivevano leggermente al di sopra dello strettamente necessario o anche figure qualificate e laureate di lavoratori. Non è un caso che molti lavoratori ex Eutelia siano ingegneri o informatici, che ci sia tra gli altri una ricercatrice chimica che fa anche lei il turno sulla torre del petrolchimico[9], che ci sia una lotta anche dei ricercatori dell’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale[10] oltre ai precari della scuola di cui abbiamo parlato in un precedente articolo.

Un altro aspetto interessante sta nel fatto che, sebbene oggi venga a mancare il luogo della fabbrica come punto di incontro e di discussione dei lavoratori, questi abbiano trovato nella rete internet una parziale alternativa. E’ veramente sorprendente addentrarsi in uno di questi blog e leggere di prima mano tutte le sofferenze dei lavoratori, tutte le loro paure e debolezze, ma anche tutta la vivacità e la forza del confronto, del dibattito. Tra l’altro, se i lavoratori hanno perso la fabbrica, internet ha dato loro la possibilità di aprirsi a tutti gli altri lavoratori e proletari del mondo. E’ questo lato ancora buio e nascosto della classe operaia che deve emergere allo scoperto e fare esplicitamente i conti con l’incapacità del capitalismo di dare una risposta seria ai problemi non solo della classe operaia ma di tutta l’umanità. E’ di fronte a questa constatazione, per quanto si sia fatto affidamento in passato su Bossi o Berlusconi, su Bersani o su Ferrero, che la coscienza di classe sarà chiamata a fare un salto di qualità e a cercare una prospettiva sociale vera.

Ezechiele 8 dicembre 2009


[1] Vedi Solidarietà con la lotta dei precari della scuola [14] in ICConline del 2009.

[2] Di cui pure abbiamo parlato nell’articolo: Solo una lotta unita e solidale consente di resistere agli attacchi [15] in Rivoluzione Internazionale n°162.

[3] Vedi www.cpogramigna.org/?p=520 [16]

[4] Vedi www.marxismo.net/content/view/3565/190 [17]. Uno sviluppo più articolato lo si può avere scaricando i seguenti video: www.youtube.com/watch?v=qeIw76fhs58 [18], www.youtube.com/watch?v=SrYe-pYewJ0 [19], www.youtube.com/watch?v=69GBNWa6gWI&feature=player_embedded [20].

[5] www.marxismo.net/content/view/3565/190 [17].

[6] www.ilmessaggero.it/articolo.php?id=79817&sez=HOME_ROMA [21]

[7] www.pasteris.it/blog/2009/11/10/il-capitano-uncino-di-eutelia/ [22]

[8] Da www.clandestinoweb.com/?option=com_content&task=view&id=27687#jc_writeComment

[9] Anna, una ricercatrice sulla torre di Marghera [23]

[10] ISPRA, https://precariispra.blogspot.com/ [24].

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A che serve il "No Berlusconi day"?

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"Il 5 dicembre sarà un giorno speciale per l'Italia, si terrà probabilmente la più grande manifestazione della storia italiana nata completamente dal basso tramite internet.” Così scriveva qualcuno sul proprio blog su internet a proposito del “No Berlusconi Day”.

Ma come é nato il No Berlusconi Day [27]?

“È nato su Facebook il 9 ottobre 2009 per iniziativa di alcuni blogger (San Precario [28], Franca Corradini, Giuseppe Grisorio [29], Freek, Tony Troja) con l'apertura di una pagina, chiamata "Una manifestazione nazionale per chiedere le dimissioni di Berlusconi [30]. In particolare San Precario ci ha chiamati a raccolta e ha ricevuto immediatamente la nostra adesione entusiasta e convinta. Il numero di fan é aumentato rapidamente da quando i media hanno iniziato ad occuparsi di noi e da quando sono arrivate le prime firme eccellenti, tra cui quelle di Ferdinando Imposimato, Antonio Di Pietro, Paolo Ferrero e Beppe Grillo.”

L’obiettivo principale, ed unico si direbbe, di questo movimento nato dal basso e alimentato dall’alto (dalle firme eccellenti come si dice sopra e da testate come la Repubblica [31] e il Fatto Quotidiano [32]) è fare in modo che Berlusconi si dimetta dall’incarico di Presidente del Consiglio. Da molti mesi i giornali e le televisioni di mezzo mondo non fanno che riportare notizie sulla vita di questo personaggio, sulle sue prodezze a letto con donne reclutate da suoi amici, sui suoi processi di corruzione, sui suoi rapporti con la mafia (ultimo in ordine di tempo). Tutti mettono in risalto l’inadeguatezza di questo personaggio politico per la carica che ricopre, per le sue affermazioni, per i suoi comportamenti. D’altra parte questa campagna, di cui abbiamo parlato nello scorso numero del giornale, ha fatto lievitare una grande voglia di mandare Berlusconi a casa.

Si è vista infatti nei manifestanti, nella gran massa di partecipanti, una grande voglia di cambiare le cose, una rabbia verso tutte le ingiustizie che questa società produce e una profonda indignazione per gli abusi di potere che diventano sempre più ordinaria amministrazione. Ma, se non si arriva a comprendere l’origine di tutto ciò, il rischio è che il malcontento venga diligentemente dirottato dai grandi manovratori della borghesia e del suo Stato verso una sterile lotta contro un singolo personaggio - il più ricco della nazione! - che racchiude in sé tutte le miserie della società borghese. Ma c’è da chiedersi, combattere Berlusconi per proporre cosa in alternativa? Forse che un governo di centro-destra Fini, sebbene più composto nei toni, può darci maggiori rassicurazioni sul piano del posto di lavoro, dei TFR, della sicurezza sociale, di un futuro migliore o nella sostanza non cambia niente? E quand’anche fosse possibile, un governo un po’ più spostato verso il centro potrebbe cambiare qualche cosa? Noi pensiamo di no e per un motivo preciso. In realtà, se oggi al governo c’è Berlusconi, non è certo un caso. Berlusconi non è un uomo uscito dal cilindro, un uomo qualunque, ma qualcuno che è ormai presente sulla scena economica e politica da anni e anni. La classe sociale che prima gli ha dato paglia e fieno nella sua scalata al mondo dei media e del potere economico e poi gli ha aperto le porte del potere politico non lo sapeva? Certo che lo sapeva! Ma lo ha scelto perché non aveva alternative. Anni fa la borghesia è riuscita con l’operazione “Mani Pulite”, portata avanti dalla magistratura, Antonio Di Pietro come primo attore, a smantellare la Democrazia Cristiana e il Partito Socialista Italiano, non più utili allo stato italiano dopo la caduta del muro di Berlino e dello stalinismo. Tutta l’operazione venne contrabbandata come un soffio d’aria nuova che doveva ridare nuova vita alla democrazia italiana, doveva eliminare la corruzione! Non molti anni dopo ci ritroviamo con un processo con accuse al primo ministro per collusione o qualcosa di simile con la mafia! Povera borghesia!

Non sappiamo come continuerà questo movimento del “No Berlusconi Day”, alcuni lo vogliono già trasformare in Partito Viola, altri lo utilizzeranno come massa di manovra per fini più o meno discutibili, ma una cosa è sicura: sarà utilizzato per dare una vernice di bianco alla fatiscente, decomposta società borghese illudendo chi vi partecipa della possibilità di poterla rinnovarla. Si darà credito alla possibilità di avere una stampa e dei partiti che lotteranno per avere giustizia, meno miseria e povertà. Di sicuro servirà a prolungare l’oscuramento delle coscienze dei lavoratori, dei giovani, dei disoccupati, di tutti quelli che non hanno nulla da guadagnare da questo sistema, sia esso governato da Berlusconi sia da tutti gli altri politici della borghesia, di destra e di sinistra. I lavoratori non hanno nulla da guadagnare dallo schierarsi dietro questo o quel movimento borghese, perché solo lottando in modo autonomo e per i propri scopi possono dare vita ad una nuova società!

Oblomov 11 dicembre ‘09

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A proposito degli appelli di Saviano. Se “la malavita avvelena la società”, la risposta non è più democrazia!

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Con la pubblicazione di Gomorra[1] e la sua diffusione a livello internazionale, Roberto Saviano è divenuto il simbolo della lotta alla Camorra ed alla mafia più in generale, riscuotendo calorosi consensi non solo da parte di un’importante fetta dei media nostrani ed internazionali, ma anche di tanta gente che, già disgustata da una classe politica sempre più palesemente imbrogliona ed ipocrita, ha trovato in Saviano chi fa una denuncia della criminalità organizzata e, soprattutto, dei suoi molteplici legami con il mondo politico ed imprenditoriale. Saviano non è più solo un “caso letterario”, ma è diventato un punto di riferimento soprattutto per molti giovani che avvertono la necessità di reagire a tutto questo marciume, in particolare per quelli che vivono direttamente il crescente degrado economico e sociale delle regioni meridionali dell’Italia.

Più recentemente Saviano è intervenuto anche su tematiche più generali, raccontando di soprusi commessi da regimi come quello iraniano, che uccide chi protesta in piazza, quello castrista, che elimina uno scrittore scomodo ed omosessuale, quello stalinista per i suoi gulag, ed altri ancora[2] fino a farsi promotore dell’Appello[3] al presidente del Consiglio perché venga ritirata la legge sul “processo breve” che ha raccolto, fino ad oggi, più di 500 mila firme.

I fatti che denuncia Saviano nei suoi scritti e nei suoi interventi sono senz’altro veri, così come è vero il quadro di corruzione, di malaffare e di oppressione che ne viene fuori. Ed è certo che queste denunce, in particolare con Gomorra, gli sono costate assai care dal punto di vista personale, costringendolo ad una vita nei fatti peggiore che da recluso. Per questo motivo noi rispettiamo la persona di Saviano perché lo riteniamo onesto, anche se pensiamo che la terapia da lui suggerita per combattere il malaffare sia sbagliata.

La visione di Saviano

Per Saviano la mafia è essenzialmente un parassita virulento che, dal sud Italia, invade e occupa lo Stato democratico attraverso la corruzione di politici e uomini d’affari, riuscendo così a ramificarsi e ad assumere un potere tale da condizionare le sorti di intere regioni e le scelte politiche nazionali. Questo sarebbe stato possibile da una parte per sottovalutazione, da parte della classe politica e dello Stato, della pericolosità di questo agente patogeno: “Mentre la politica si disinteressava della mafia, la mafia si è interessata alla politica cooptandola sistematicamente”[4]; dall’altra per la complice omertà delle popolazioni meridionali che assumerebbero un ruolo da spettatori passivi per “paura” o “autoconservazione”, “senza credere o richiedere che sia dallo stesso territorio che possa venire una richiesta di cambiamento. (…) Omertà non è più soltanto tacere. Ormai è chiaro che omertà è soprattutto non voler sapere. Non sapere, non conoscere, non capire, non prendere posizione, non prendere parte. Questa è la nuova omertà”[5].

A partire da una tale visione è normale che la risposta conseguente per sconfiggere questo male, e ridare dignità alla nazione e alle popolazioni meridionali, sia la denuncia, la mobilitazione della popolazione nella collaborazione con lo Stato e le forze dell’ordine per segnalare, denunciare i mafiosi e i loro sporchi affari: “La denuncia del killer potrebbe essere l’unico modo di riscattare un’umanità ormai sempre più a suo agio nella disumanità cui è costretta e in cui sembra comodamente vivere”[6]. Secondo Saviano infatti “… dovremmo tutti renderci conto che né media né magistratura saranno mai in grado di produrre da soli alcun cambiamento, fino a quando questo non sia richiesto e sostenuto da una larga parte dei cittadini”[7].

La mafia è veramente un corpo estraneo allo Stato democratico?

Sicuramente molti hanno scoperto con Gomorra vicende impensabili e raccapriccianti, ma la stragrande maggioranza non sa (perché certo non si trova sui libri di storia) che gli Stati, tra cui quello italiano, hanno spesso e volentieri utilizzato la mafia sia sul piano interno che internazionale per quei lavori sporchi che non potevano fare in prima persona ma che erano determinanti per indirizzare nel senso voluto scelte politiche e strategiche di estrema importanza per la borghesia. Giusto qualche esempio:

  • Con l’entrata in guerra degli Stati Uniti nel 1941 viene riconosciuta l’importanza strategica della Mafia. Sul piano interno bisognava evitare la creazione di un fronte interno nel seno dell’immigrazione di origine italiana, e la Mafia, che controllava tra l’altro i sindacati dei portuali e dei camionisti, settore chiave per l’approvvigionamento di armi, diventa un interlocutore insostituibile dello Stato americano. La Marina americana chiede a Washington l’autorizzazione a negoziare con la Mafia ed il suo capo Luciano che sta in prigione; autorizzazione che Roosevelt si affretta ad accordare[8]. Inoltre la Mafia impegnerà i suoi sindacati nello sforzo bellico tenendo a bada gli operai.
  • Nel 1943 lo sbarco delle truppe americane in Sicilia viene realizzato grazie ad un’intesa con la Mafia locale che spiana il terreno dietro indicazioni precise del capo mafia italo americano Lucky Luciano. Quest’ultimo, condannato a 50 anni di carcere, grazie a questo servizio sarà presto liberato e si trasferirà a Napoli dove organizzerà il contrabbando di sigarette e droga. A beneficiare di questo “aiuto” sarà anche il boss siciliano locale Don Calogero Vizzini - che sarà “eletto” sindaco di Villalba - e Vito Genovese, braccio destro di Lucky Luciano, che diventerà prima uomo di fiducia di C. Poletti, governatore militare americano di tutta l’Italia occupata e poi, una volta rientrato negli USA, il principale boss mafioso del dopo guerra.
  • Il 1° Maggio del 1947 la banda di Salvatore Giuliano spara su una folle inerme di operai, contadini, donne e bambini a Portella della Ginestra, vicino Palermo, per porre fine alle lotte contro il latifondo e frenare l’avanzata del PCI sul posto non gradita al governo ed al suo alleato USA. Giuliano verrà assassinato nel 1950 dal suo luogotenente Pisciotta che, a sua volta, verrà avvelenato in carcere dopo aver fatto delle prime dichiarazioni sui legami tra Giuliano, mafia e l’allora ministro degli interni Scelba della nuova e democratica Repubblica italiana.
  • Nel 1948 gli USA vogliono che sia la Democrazia Cristiana (DC), sua fedele alleata, a vincere le elezioni per mantenere il controllo di un bastione strategico fondamentale come l’Italia contro il blocco russo. Mentre gli Usa finanziano con 227 milioni di dollari il governo italiano, la Mafia, in particolare Cosa nostra, si impegna attivamente nella campagna elettorale finanziando la DC e “dando consigli sul voto”.
  • Negli anni seguenti Gladio e la Loggia P2, strutture parallele messe su dalla Nato e dalla CIA con la complicità dei servizi segreti nostrani, mantengono un legame con la Mafia a diversi livelli, da cui nascono numerosi attentati che dagli anni 60 fino agli anni 90 hanno scandito le fasi più delicate della politica italiana e dello scontro sia sociale[9] che tra le diverse opzioni all’interno della borghesia italiana rispetto alle alleanze imperialiste.

Già questi pochi elementi[10] ci fanno capire che la mafia non è un prodotto tipico italiano, e tanto meno meridionale, né un corpo estraneo al sistema democratico, ma al contrario ne è parte integrante e funzionale, in Italia, come negli USA, in Cina, in Giappone, in Russia e in massima misura in tutti i paesi dell’Europa dell’est. Inoltre ci fanno capire che il potere che la mafia è riuscita a sviluppare, in Italia ad esempio, non è dovuto solo alla potenza economica prodotta dagli affari illeciti o al numero considerevole di politici e imprenditori facilmente corruttibili del nostro paese, ma è soprattutto il risultato di precise scelte imperialiste e della sostanziale immunità di cui questa gode (tranne qualche arresto ogni tanto giusto per salvare la facciata democratica e legalitaria) per i preziosi servizi che ha offerto e potrà ancora offrire alla classe dominante.

Perché la visione di Saviano è sbagliata

Tornando a Saviano, possiamo ricondurre la sua visione a quella secondo cui ci sono i “buoni” e i “cattivi”, gli onesti ed i disonesti e dove c’è uno Stato che, per quanto funzioni male, assicura comunque un vivere civile e democratico; c’è dunque una parte marcia della società che si può eliminare solo appoggiandosi e sostenendo questo Stato democratico ed una massa amorfa ed abbrutita che si pone solo l’obiettivo di non avere più problemi di quelli che già ha.

La stessa impostazione la ritroviamo nell’intervento di Saviano a Che tempo che fa dell’11 novembre scorso dove, a proposito degli episodi di oppressione avvenuti in Iran, Cile, URSS, ecc., si evidenziava tacitamente una distinzione tra questi Stati totalitari ed oppressori e quelli democratici dove non si muore o non si viene segregati per le idee che si esprimono.

Saviano ci ha raccontato, con giusto sdegno, delle due ragazze uccise dallo Stato iraniano solo perché erano scese in piazza a manifestare la loro voglia di vivere in una società più libera. Ma qual è la differenza tra questo omicidio e quello di Carlo Giuliani al G8 di Genova del 2001 o con i numerosi massacri di operai compiuti dal democratico Stato italiano - nato dalla Resistenza e la cui costituzione recita che l’Italia è una Repubblica basata sul lavoro - in occasione di manifestazioni di sciopero?[11] Qual è la differenza tra le atrocità dell’ex Stato sovietico (stalinista e non certo comunista come lo ha definito Saviano) e lo sterminio di 250.000 vite umane effettuato con il bombardamento di Dresda nel febbraio del 1945 o il genocidio di 200.000 persone e l’agonia inflitta ad altre centinaia di migliaia durata anni e conseguenti allo sganciamento di bombe nucleari su Hiroshima e Nagasaki il 6 e il 9 agosto 1945? Tanto più che queste operazioni, studiate a tavolino tra i democratici USA e Inghilterra, avevano il solo scopo di dare l’ultima stangata ad un nemico ormai sconfitto perché non potesse diventare un domani un forte concorrente? E perché il nostro democratico Stato manda i suoi soldati a combattere in Afghanistan, in Iran ed ovunque si scontrino gli interessi delle grandi potenze anche se questo significa morte e miseria per migliaia e migliaia di persone, come in Serbia e nel Kosovo dove gli aerei italiani erano in prima fila a bombardare?

L’errore di fondo dell’impostazione di Saviano sta nel considerare le cose partendo dall’individuo o da una somma di individui al di fuori del contesto economico, sociale e politico in cui vivono in una data epoca storica. Il contesto che noi viviamo è quello della società capitalista che si fonda sullo sfruttamento ed il dominio di una classe dominante sulla stragrande maggioranza dell’umanità. Il cui motore economico è il profitto e la concorrenza spietata al suo interno tra singoli capitalisti e soprattutto tra le nazioni. Lo Stato, le sue leggi e le sue forze dell’ordine sono lo strumento che ogni borghesia nazionale si dà per mantenere il suo dominio sulla società e fare gli interessi economici, politici, e militari della propria nazione nella concorrenza internazionale. In una tale società non può essere al centro la vita degli uomini, né può esserci spazio per i bisogni dell’umanità, dove per bisogni non intendiamo solo quelli economici ma come dice giustamente Saviano anche di “libertà, … giustizia, … dignità dell’uomo e io aggiungo anche il diritto alla felicità”[12].

Il sopruso, l’oppressione, la violenza fisica e morale, la corruzione, la mancanza di etica e moralità, il malaffare non sono propri di questo o quell’individuo e gruppo di potere, ma fanno parte della natura di questo sistema capitalista.

Se il territorio campano si ritrova oggi avvelenato da tonnellate di rifiuti tossici delle imprese del nord sotterrate dalla camorra non è per una particolare dose di immoralità dei responsabili di queste imprese, ma perché queste, dovendo rispondere alla legge del profitto, hanno utilizzato la via a minor costo per smaltire i loro rifiuti tossici. Se l’apparato politico italiano si è servito per decenni della mafia, delle bombe e della menzogna non è perché i politici dell’epoca fossero particolarmente dei farabutti, ma perché questo corrispondeva agli interessi dello Stato, che sarà pronto a farlo ancora, se necessario.

Regime totalitario o democratico, la sostanza resta la stessa. La democrazia è solo lo strumento più adatto a far accettare questo stato di cose, attraverso l’illusione che se i cittadini chiedono a chi governa una società migliore, saranno ascoltati.

Per questo gli appelli a denunciare i killer, a chiedere con più forza allo Stato di eliminare la mafia ed il malcostume, gli appelli ai capi di Stato per “la difesa del diritto” non funzionano, anzi diventano un mezzo per alimentare l’illusione che sia possibile vivere meglio in questo sistema. Mentre l’unico modo per liberarci di tutto questo marciume è liberarci del capitalismo e questo non lo può fare la massa indistinta dei cittadini, la classe storicamente antagonista a quella dominante e che non ha veramente nulla da perdere.

Eva, 10 dicembre 2009



[1] Roberto Saviano, Gomorra, Mondadori.

[2] Trasmissione Che tempo che fa dell’11 novembre.

[3] https://www.repubblica.it/speciale/2009/firma-lappello-di-saviano/index.html [33]

[4] “La camorra alla conquista dei partiti in Campania”, la Repubblica, 24 ottobre.

[5] “Il filmato-shock sconvolge il mondo, i vicoli restano indifferenti”, la Repubblica, 1 novembre, in riferimento al filmato dell’uccisione di un camorrista a Napoli circolato su internet.

[6] “In cinque minuti la banalità dell'inferno, ora sogno la ribellione del quartiere”, la Repubblica, 30 ottobre.

[7] “Siamo tutti casalesi”, L’Espresso, 7 ottobre, scritto in occasione dell’uccisione di immigrati da parte della camorra a Castel Volturno, Napoli.

[8] Per maggiori elementi su questo argomento vedi il nostro articolo Comment est organisée la bourgeoisie: Le mensonge de l’Etat “démocratique”, II partie. L’exemple des rouages secrets de l’Etat italien, Rivista Internazionale n.77 (in francese, inglese e spagnolo).

[9] Vedi le bombe di piazza Fontana del 1989.

[10] Altro materiale è scaricabile dalla rete, come ad esempio: la storia dell'eroina [34], In Sicilia si gioca la Storia d'Italia (Mafia C... [35], …

[11] Oltre al già citato massacro di Portella delle Ginestre, si può fare riferimento all’articolo sull’autunno caldo pubblicato sul n°31.

[12] “Ecco perché non possiamo tacere” risposta al ministro Bondi, la Repubblica, 23 novembre.

Geografiche: 

  • Italia [25]

Autunno caldo 1969: tappa della ripresa storica della lotta di classe. Estratti presentazione alla Riunione Pubblica di novembre

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Quello che viene comunemente ricordato come l’Autunno caldo italiano è un insieme di lotte che scuotono l’Italia dal Piemonte alla Sicilia e che cambieranno permanentemente il quadro sociale e politico del paese. Ma queste lotte non sono una peculiarità italiana. Infatti alla fine degli anni ’60 si può assistere, particolarmente in Europa ma non solo, allo sviluppo di una serie di lotte e di momenti di presa di coscienza da parte del proletariato che mostrano, nel loro insieme, che qualcosa è cambiato: la classe operaia, risvegliatasi dal lungo torpore degli anni della controrivoluzione in cui l’avevano cacciata la sconfitta degli anni ’20, la guerra e l’azione nefasta dello stalinismo, torna finalmente sulla scena sociale per riprendere la sua lotta storica contro la borghesia. Il maggio francese del 1968, gli scioperi in Polonia del 1970 e le lotte in Argentina del 69-73, assieme all’Autunno caldo in Italia sono soltanto gli eventi maggiori di questa dinamica nuova che investe tutti i paesi del mondo e che aprirà la nuova epoca di scontri sociali che, tra alti e bassi, è arrivata fino a noi oggi.

Come si arriva all’Autunno caldo?

Il clima internazionale

Benché il 69 sia stata una vera esplosione di lotte tanto da sorprendere completamente la borghesia italiana, non bisogna credere che il tutto si sia prodotto dalla sera alla mattina. In realtà ci sono molteplici elementi, sia a livello nazionale che a livello internazionale, che concorrono a creare un’atmosfera nuova nella classe operaia italiana, e particolarmente nella sua componente giovane.

Anzitutto c’è, a livello internazionale, una serie di scenari politici che cominciano a colpire la sensibilità di una serie di elementi, tra cui principalmente:

  • la Guerra del Vietnam,
  • l’epopea del Che Guevara,
  • le imprese dei guerriglieri palestinesi,
  • il riflesso internazionale dello sviluppo del cosiddetto comunismo cinese.

Anche se ognuna di queste vicende internazionali si produceva su un piano esterno ed ostile a quello proletario, essenzialmente quello della guerra, nondimeno esse testimoniavano una profonda sofferenza dell’umanità proprio per queste guerre, ed è questo l’incipit che fa scoccare in molti elementi il disgusto per le violenze prodotte all’epoca e lo sviluppo di un sentimento di solidarietà verso i popoli che soffrono.

All’interno di questo scenario, l’esplosione delle lotte studentesche ed operaie del Maggio francese ha una risonanza internazionale tale da costituire un elemento di riferimento e di incoraggiamento per i giovani e i proletari in tutto il mondo. Il Maggio era stato infatti la dimostrazione non solo che lottare si può, ma che si può anche vincere.

Sul piano nazionale invece …

Sul piano nazionale invece ci sono molteplici componenti che concorrono a preparare il terreno: l’attività di una serie di minoranze politiche che riprendono un lavoro di ricerca e di chiarificazione politica; l’arrivo di una nuova generazione di classe operaia con delle caratteristiche nuove e – non per ultimo – alcune esperienze di scontri di piazza che avevano lasciato il segno nella classe operaia. (…)

Dal ’68 studentesco all’autunno caldo

Parlare di autunno caldo è piuttosto limitativo nei confronti di un episodio storico che, come abbiamo potuto vedere, affonda le radici in una dinamica a livello locale e internazionale che risale indietro per diversi anni. E che, peraltro, non dura una singola stagione, come avviene invece per il maggio francese, ma si stempera – nella sua fase alta – per almeno due anni, nel biennio 68-69 con un riverbero che dura almeno fino al ‘73. Per giunta in questo biennio vi è anche l’esplosione delle lotte studentesche, il ’68 italiano, che tanta parte avrà nella storia degli anni successivi e nella stessa dinamica proletaria, come vedremo in seguito. E’ perciò importante ripercorrere i singoli episodi per ritrovarvi lo sviluppo, progressivo e imponente, della maturazione della lotta di classe nel suo ritorno sulla scena storica in Italia.

Il ‘68 studentesco

Le scuole e soprattutto le università avvertono fortemente i segni di cambiamento della fase storica. Il boom economico che si era prodotto, in Italia come nel resto del mondo, dopo la fine della guerra, aveva permesso alle famiglie proletarie di raggiungere un tenore di vita meno miserabile e alle aziende di puntare su un incremento massiccio della propria mano d’opera. Ciò permette alle giovani generazioni delle classi sociali più deboli di accedere agli studi universitari dove acquisire una professione e una cultura più ampia attraverso le quali raggiungere una posizione sociale più soddisfacente rispetto a quella dei propri genitori. Ma l’ingresso di questi folti strati sociali nell’università porta non solo ad un significativo cambiamento della composizione sociale della popolazione studentesca, ma anche a una diversa destinazione della figura di laureato che non viene più preparato per assumere un ruolo dirigente ma per essere inserito in una rete di produzione – industriale o commerciale che sia – dove l’iniziativa dell’individuo è sempre più ridotta. E’ questo back-ground socio-culturale che spiega, almeno in parte, i motivi della protesta giovanile di questi anni, protesta contro il sapere dogmatico impartito da una casta di baroni universitari dalla gestione feudale, contro la meritocrazia, contro il settorialismo, contro una società che viene avvertita vecchia e ripiegata su sé stessa.

Lo sviluppo delle lotte operaie

Nella primavera del 1968 si accendono in tutta Italia una serie di lotte in una cinquantina di aziende diverse che hanno come obiettivo un aumento salariale uguale per tutti. Nella lotta, dapprima gestita da vecchi attivisti e dal sindacato, si impongono alcuni giovani operai che “criticano vivacemente i sindacalisti e i membri di C.I. sui modi e sulle tappe della lotta” modificando qualitativamente le forme di mobilitazione, attraverso picchetti duri e cortei interni per costringere gli impiegati a scioperare. Questa ventata di gioventù provoca una partecipazione massiccia alla lotta, aumentano le ore di sciopero, vengono effettuate manifestazioni per le vie di Sesto San Giovanni, si arriva a sfondare il portone del palazzo che ospita la direzione aziendale.

Da allora in poi è tutto un crescendo. “Il bilancio del ’69 alla Fiat è un bollettino di guerra: 20 milioni di ore di sciopero, 277.000 veicoli perduti, boom (+37%) delle vendite di auto straniere.”

L’iniziativa operaia non si muove più soltanto su quante ore di sciopero fare, ma anche su come scioperare. Si sviluppa presto una logica del rifiuto del lavoro che corrisponde ad assumere un atteggiamento di rifiuto di collaborare con le sorti dell’azienda rimanendo fermamente attestati sulla difesa delle condizioni operaie. Questo produce una nuova logica di come condurre uno sciopero che punta al minimo sforzo da parte operaia con il massimo di danni prodotti contro il padrone. E’ lo sciopero a gatto selvaggio secondo il quale sciopera solo un ristretto gruppo di operai dalla cui attività dipende però l’intero ciclo di produzione. Cambiando di volta in volta il gruppo che entra in sciopero, si riesce a bloccare più e più volte tutta la fabbrica con il minimo di “spesa”.

Dal punto di vista della rappresentatività operaia é caratteristico di questa fase lo slogan “siamo tutti delegati”, che significa rifiuto di qualunque mediazione sindacale e imposizione al padronato di un rapporto diretto con le lotte degli operai.

In tutto questo il sindacato ha una presenza effimera. In realtà il sindacato, come la borghesia, rimane completamente smarcato dalla capacità e dalla forza della lotta della classe operaia di questi anni, e fa l’unica cosa che gli riesce di fare, cerca di stare a galla e di seguire il movimento, di non farsi scavalcare troppo. D’altra parte una reazione così forte manifestatasi all’interno della classe era anche l’espressione della mancanza di un significativo radicamento dei sindacati nel proletariato e dunque di una loro capacità di bloccare in anticipo o di deviare la combattività, come invece succede oggi. Ma questo non significa che ci fosse una profonda coscienza antisindacale nella classe operaia. Più che altro gli operai si muovono nonostante i sindacati, non contro i sindacati, anche se non mancano significative punte di coscienza.

Il biennio 68-69 è un rullo compressore di scioperi e manifestazioni, con episodi di grande tensione come le lotte nel siracusano, che si conclusero con gli scontri di Avola, o quelle di Battipaglia, che pure dettero luogo a scontri molto forti. Ma una tappa storica all’interno di questa dinamica è certamente costituita dagli scontri di corso Traiano a Torino del luglio 1969. In questa occasione il movimento di classe in Italia matura una tappa importante: il congiungimento tra il movimento operaio e quello delle avanguardie studentesche. Gli studenti, con la loro maggiore disponibilità di tempo e la loro mobilità riescono a dare un significativo contributo alla classe operaia in lotta, che a sua volta riscopre attraverso la gioventù che le si era avvicinata tutta la propria alienazione e tutta la voglia di farla finita con la schiavitù della fabbrica. La saldatura tra questi due mondi darà una forte enfasi alle lotte che si produrranno nel 69, e particolarmente a quella di corso Traiano.

Dal testo del volantino della Assemblea operaia di Torino, redatto il 5 luglio dopo i fatti di corso Traiano, si percepiscono tutta una serie di punti di forza dell’autunno caldo. Anzitutto l’idea dell’egualitarismo, cioè che gli aumenti dovevano essere uguali per tutti, indipendentemente dalla categoria di partenza, e comunque sganciati dalla redditività del proprio lavoro. Inoltre il recupero del tempo libero per gli operai, per poter vivere la propria vita, per poter fare politica, ecc. Da cui la richiesta di riduzione degli orari di lavoro e il rifiuto deciso del lavoro a cottimo.

Come riporta lo stesso volantino, sulla base di questi elementi gli operai torinesi riuniti in assemblea dopo gli scontri del 3 luglio propongono a tutti gli operai italiani di aprire una nuova e più radicale fase della lotta di classe che faccia avanzare, sugli obiettivi avanzati dagli stessi operai, l’unificazione politica di tutte le esperienze autonome di lotta fin qui realizzate.

Per questo verrà indetto a Torino un convegno nazionale dei comitati e delle avanguardie operaie:

  1. per confrontare e unificare le diverse esperienze di lotta sulla base del significato della lotta Fiat
  2. per mettere a punto gli obiettivi della nuova fase dello scontro di classe che partendo dalla condizione materiale degli operai dovrà investire tutta l'organizzazione sociale capitalista.

Quello che si terrà il 26/27 luglio al Palasport di Torino sarà un “convegno nazionale delle avanguardie operaie”. Parlano operai di tutta Italia che raccontano di scioperi e cortei e ed avanzano come rivendicazioni l’abolizione delle categorie, la riduzione dell’orario di lavoro a 40 ore, aumenti salariali uguali per tutti in assoluto e non in percentuale e la parità normativa con gli impiegati. E’ rappresentata tutta l’industria italiana (…).

Una cosa così non si era mai vista, un’assemblea nazionale delle avanguardie operaie di tutta Italia, un momento di protagonismo della classe operaia a cui è possibile assistere solo in un momento di forte ascesa della combattività operaia, come fu appunto l’Autunno caldo.

I mesi successivi, quelli che sono rimasti nella memoria storica come l’Autunno Caldo, continuarono sulla stessa falsariga. I numerosi episodi di lotta si snocciolano di giorno in giorno con una cadenza infernale (per la borghesia) anche per la ricorrenza della scadenza contrattuale di molte categorie di lavoratori, che costrinsero i sindacati ad indire una serie di scioperi e manifestazioni. Questo enorme sviluppo di combattività accompagnato da momenti di chiarificazione importanti nella classe operaia incontrerà però, nel periodo successivo, degli ostacoli importanti. La borghesia italiana, come quella degli altri paesi che avevano dovuto far fronte al risveglio della classe operaia, non rimane a lungo con le mani in mano e, a parte gli interventi frontali messi in atto dai corpi di polizia, cerca gradualmente di aggirare l’ostacolo con strumenti diversi. La capacità di recupero della borghesia si basa molto sulle debolezze di un movimento proletario che, nonostante un’enorme combattività, era ancora privo di una chiara coscienza di classe e le cui stesse avanguardie non avevano la maturità e la chiarezza necessarie a svolgere il loro ruolo.

Le debolezze della classe operaia nell’autunno caldo

Le debolezze della classe operaia nell’autunno caldo sono legate principalmente alla profonda rottura organica prodotta nel MO e alla scarsa e del tutto insignificante influenza della sinistra comunista: si pensi che sia Battaglia Comunista che Programma Comunista, i principali epigoni della corrente cosiddetta della sinistra italiana, si rifiutano entrambe di riconoscere nell’autunno caldo e nelle lotte di fine anni ’60 la ripresa storica della classe a livello internazionale ed hanno all’epoca una presenza praticamente nulla. Ciò fece sì che i gruppi politici che si erano formati all’epoca fossero spinti a reinventarsi delle posizioni e un programma d’azione. Il problema è però che il punto da cui partivano era l’esperienza fatta all’interno del vecchio e decrepito partito stalinista. Per cui l’enorme generazione di militanti che vengono allo scoperto in contrapposizione a tali partiti ed ai sindacati in maniera spontanea, rompendo i ponti con i partiti di sinistra, rompe un po’ i ponti anche con la tradizione marxista e va alla ricerca di una coerenza rivoluzionaria nelle “novità” che pensa di incontrare per strada, quindi molto spontaneismo, operaismo e nuove teorie. Anche perché chi si presenta nelle vesti di ufficialità è o lo stalinismo vecchia maniera (URSS e i PC classici) o lo stalinismo nuova maniera dei “cinesi”.

Le reazioni dello Stato e l’epilogo dell’autunno caldo

A livello di:

  • repressione,
  • di gioco fascismo/antifascismo,
  • di strategia della tensione,
  • favorendo la dinamica terrorista,
  • recupero dei sindacati tramite i CdF

A livello di repressione

E’ l’arma classica della borghesia contro il proprio nemico di classe. Ma non è l’arma decisiva che le permette veramente di realizzare un rapporto di forza contro il proletariato. Tra l’ottobre 1969 e il gennaio 1970 ci sono oltre tredicimila denunce contro studenti e operai.

A livello del gioco fascismo/antifascismo

Questa è l’arma classica giocata contro il movimento studentesco, meno nei confronti della classe operaia, che consiste nel distrarre i movimenti in sterili scontri di strada tra bande rivali con il necessario appello, ad un certo punto, alle componenti cosiddette “democratiche e antifasciste” della borghesia. Insomma una maniera per ricondurre le pecore smarrite all’ovile!

A livello di strategia della tensione

Tutti ricordano la strage della Banca dell’Agricoltura di piazza Fontana, che provocò 16 morti e 88 feriti. Ma non tutti sanno o ricordano che a partire dal 25 aprile ‘69 l’Italia è stata martoriata da una serie infinita di attentati: Fino al 1980 si sono verificati 12.690 attentati ed altri episodi di violenza ispirati da ragioni politiche, che hanno provocato 362 morti e 4.490 feriti.

L’obiettivo evidente di questa strategia era quella di spaventare e disorientare il più possibile la classe operaia, trasmettere il terrore delle bombe e dell’insicurezza, cosa che in parte riuscì. Ma ci fu anche un altro effetto, certamente più nefasto. Nella misura in cui con piazza Fontana si scoprì, almeno a livello di minoranze, che era lo Stato il vero nemico con cui fare i conti, una serie di componenti proletarie e studentesche virarono verso il terrorismo come metodo di lotta politica.

Favorendo la dinamica terrorista

La pratica del terrorismo è diventata così la maniera in cui una serie di compagni coraggiosi ma avventurosi hanno bruciato la loro esistenza e il loro impegno politico in una pratica che con la lotta di classe non ha nulla a che fare. Che anzi ha prodotto i peggiori risultati provocando un arretramento dell’intera classe operaia stretta dalla doppia minaccia della repressione dello Stato da una parte e del ricatto del mondo brigatista e terrorista dall’altra.

Recupero dei sindacati tramite i CdF

L’ultimo elemento, ma non certo per importanza, su cui ha puntato la borghesia in questo periodo è stato il sindacato. Non potendo più far conto sulla repressione per tenere a bada il proletariato, il padronato, che per tutti gli anni del dopoguerra fino alla vigilia dell’autunno aveva così fortemente osteggiato il sindacato, adesso si riscopre democratico e amante delle buone relazioni aziendali. Il trucco ovviamente è che, quello che non riesce a ottenere con le cattive, cerca di averlo con le buone, ricercando il dialogo con i sindacati considerati gli unici interlocutori in grado di controllare le lotte e le rivendicazioni operaie. Questo maggiore spazio democratico fornito ai sindacati, che si espliciterà con la diffusione dei Consigli di fabbrica, una forma di sindacalismo sviluppato dal basso e con una partecipazione non necessariamente di tesserati, dà agli operai l’illusione di essere stati loro ad aver realizzato questa conquista e di potersi fidare di queste nuove strutture per continuare la loro lotta. Come abbiamo visto infatti la lotta degli operai, sebbene spesso fortemente critica nei confronti del sindacato, non arriva che raramente a farne una critica radicale limitandosi a denunciarne le inconseguenze.

Per concludere …

Per concludere possiamo dire che l’autunno caldo è stato certamente un episodio di grande rilievo nella fase di ripresa della lotta di classe a livello internazionale. Una fase in cui, come abbiamo detto, la lotta della classe ha cambiato in maniera duratura i rapporti di forza, ha cambiato completamente la stessa aria che si respirava in fabbrica, ha realizzato tutta una serie di conquiste sul piano rivendicativo sia a livello salariale che delle condizioni di lavoro.

Poi la storia ci ha mostrato come la dinamica di lotta che il proletariato internazionale ha portato avanti, tra alti e bassi, per tutti gli anni successivi abbia subito un lungo e penoso periodo di stasi, anzi di rinculo vero e proprio in seguito all’offensiva che la borghesia ha potuto portare avanti grazie alla confusione generata dalla caduta del muro di Berlino.

Oggi che finalmente assistiamo alla nuova ripresa della lotta di classe a livello internazionale c’è da chiedersi: dopo 40 anni, cosa è cambiato nella lotta di classe? Stiamo meglio o stiamo peggio di 40 anni fa? Su questo piano ci sono molte differenze che si possono fare tra le due fasi, che si possono tutte riassumere in una frase: nel ‘68 si credeva di poter fare la rivoluzione, ma non se ne vedeva veramente la necessità di farla, mentre oggi si avverte precisamente la necessità di fare la rivoluzione, ma manca ancora nella classe la fiducia che possa avere la forza per poterla portare avanti.

Geografiche: 

  • Italia [25]

Situazione italiana: 

  • lotte in Italia [26]

Patrimonio della Sinistra Comunista: 

  • Lotta proletaria [3]

Correnti politiche e riferimenti: 

  • Operaismo [36]

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