Questo popolo è scontento di ciò che la società ha da offrirgli e che ci sia una crescente volontà di lottare è molto chiaro, non solo da questi eventi, ma anche dalle recenti lotte in Grecia, così come dagli ultimi anni di lotte in posti quali l’Egitto e la Francia. Basta appena sfogliare le pagine dei giornali per rendersi conto che la classe lavoratrice sta recuperando la volontà di lottare malgrado i timori causati dal ritorno della crisi aperta.
Tuttavia, per i comunisti non basta limitarsi ad incoraggiare delle lotte da lontano. È altresì necessario analizzare e spiegare e proporre una prospettiva. Al momento, questo movimento è di una natura molto diversa da quello del 1979. Nelle lotte che portarono alla “rivoluzione islamica”, la classe operaia svolse un ruolo enorme. Per la gente che discuteva per le strade a quei tempi, quello che era chiaro nel 1979 era che gli scioperi degli operai iraniani costituivano il principale elemento politico che condusse al rovesciamento del regime dello Scià. Malgrado le mobilitazioni di massa, quando il movimento “popolare” – che raggruppava quasi tutti gli strati oppressi dell’Iran - cominciò ad esaurirsi, l’entrata in lotta del proletariato iraniano all’inizio di ottobre 1978, particolarmente nel settore petrolifero, non solo restituì vigore all’agitazione, ma pose un problema virtualmente irrisolvibile per il capitale nazionale, in un momento in cui non era possibile trovare un rimpiazzo per la vecchia equipe governativa. La repressione era sufficiente per indurre alla ritirata piccoli commercianti, studenti e disoccupati, ma si dimostrò uno strumento impotente della borghesia quando si misurò con la paralisi economica provocata dagli scioperi degli operai.
Ciò non vuol dire che l’attuale movimento non può sviluppare e non può trascinare la classe operaia come classe nella lotta. La lotta della classe operaia in Iran è stata particolarmente militante negli ultimi anni, particolarmente con il forte sciopero spontaneo dei 100.000 insegnanti avvenuto nel marzo 2007, con migliaia di operai di fabbrica che si unirono allo sciopero per solidarietà. 1.000 persone sono state arrestate durante questo sciopero. Questa è stata la più grande lotta di lavoratori in Iran, di cui si abbia notizia, dal 1979. Lo sciopero fu seguito nei mesi successivi da lotte che coinvolsero migliaia di operai nelle industrie della canna da zucchero, dei pneumatici, automobilistiche e tessili. Per quanto riguarda la situazione attuale, naturalmente ci sono anche gli operai per le strade, ma per il momento questi sono coinvolti nella lotta a livello individuale e non come forza collettiva. È importante sottolineare il fatto che il movimento non può progredire senza questa forza collettiva dei lavoratori. Uno sciopero nazionale di un giorno è stato proclamato per martedì. Ciò può dare un’indicazione del livello di sostegno all’interno della classe operaia.
Di recente i mezzi di comunicazione borghesi ci hanno riempito la testa con le varie cosiddette rivoluzioni di vari colori e di vari fiori. Così abbiamo potuto sentire di rivoluzioni “arancio”, rosa, dei tulipani e dei cedri e per tutto il tempo la stampa ha belato come pecore sulla “lotta” per la democrazia.
Questo movimento è partito come protesta contro gli imbrogli elettorali ed i dimostranti in origine erano mobilitati a sostegno di Mousavi. Tuttavia, gli slogan si sono rapidamente radicalizzati. Vi è un’enorme differenza fra le deboli proteste di Mousavi al capo supremo a proposito dell’irregolarità delle elezioni e gli slogan delle masse di manifestanti di “morte al dittatore e al regime”. Naturalmente la stessa cricca di Mousavi è stata presa dal panico ed ha revocato una dimostrazione fissata per lunedì. Resta da vedere se la gente rispetterà questa decisione. D’altra parte i richiami alla calma di Mousavi hanno anche incontrato degli slogan contro di lui.
Contrariamente a questi tipi di rivoluzioni di “vari colori”, il comunismo offre la possibilità di un tipo di rivoluzione e di un sistema sociale in cui vivere che sono completamente differenti. Quello che difendiamo non è semplicemente un cambiamento dell’amministrazione della società con nuovi capi “democratici” che poi svolgono esattamente lo stesso ruolo dei vecchi capi “dittatoriali”, ma una società di produttori liberi ed uguali generata dalla stessa classe lavoratrice e basata sui bisogni dell’umanità e non sui bisogni del profitto, in cui le classi, lo sfruttamento e l’oppressione politica saranno eliminati.
Sabri 15/6/09
(…) Questo non voto si localizza massicciamente nelle regioni del Sud e, significativamente, a macchia di leopardo in alcuni insediamenti del nord ad alta composizione sociale proletaria. E, significativamente, le frattaglie della sinistra radicale di governo raccolgono percentuali da fallimento, minori proprio in quegli insediamenti proletari che hanno ricusato l’uso del voto. Non sono bastate le loro autocritiche televisive a recuperare un minimo di credibilità tra i proletari. Raccolgono un voto urbano, nei centri delle città, ma nulla o quasi nei quartieri periferici dove abitano le famiglie proletarie.
D’altra parte i maggiori partiti (PdL, PD, UDC) e movimenti qualunquisti (Idv) sembrano non dare certezze alla borghesia, ed il voto si limita a riaggiustamenti al ribasso della distribuzione dei partiti più grossi.
Lo stesso risultato generale in Europa dice che il distacco dei proletari dalla sinistra borghese si va consumando con l’approfondirsi della crisi e su tutto, si leva il grido d’allarme della Signora Marcegaglia che, singolarmente, spinge il governo a dare più aiuto ai proletari per il rischio di un “rottura della coesione sociale”. Non molto tempo fa la stessa presidente della Confindustria aveva allarmato paventando “il progressivo spostamento della conflittualità dalla fabbrica alla società.”
Questo è il clima reale in cui si sono svolte le elezioni e che inutilmente si è tentato di modificare mentendo sulla crisi o proponendo agli elettori le squallide performances erotiche del Presidente del Consiglio.
Se si guarda storicamente il dato del non voto si noterà che la defezione è avvenuta proprio in zone in cui esisteva una tradizione di voto massivo per la sinistra borghese. Nelle regioni meridionali, in alcuni collegi e più in generale, si è arrivati a punte di astensione dal voto tali che i votanti sono stati addirittura intorno al 20% ed anche meno. Il voto in questi collegi si è concentrato solo nei centri cittadini, periferie e piccoli paesi invece hanno disertato in massa.
Chi sono gli assenti? E’ questa la vera domanda inevasa della vicenda elettorale, la sola che può fornire elementi certi di valutazione e di giudizio.
Ma ancora perché questi assenti sembrano essere in consonanza con gli altri assenti degli altri paesi d’Europa? Il collasso generale della sinistra borghese, attenzione, non avviene per il fatto che la destra l’abbia superato in bravura ed in capacità di governo, tutt’altro: emblematicamente la destra e la sinistra borghesi perdono insieme in Germania. In Inghilterra i lavoratori liquidano d’un colpo il partito laburista al governo, dal 52 al 17%. In Francia il PS è ridotto al di sotto del suo minimo storico, nonostante meno di due anni fa avessero quasi conquistato l’Eliseo.
Questi dati non sono solo numeri, dietro i numeri ci sono le persone, i proletari, le loro famiglie che oggi dicono di non credere e non fidarsi più della sinistra borghese. Dietro di essi c’è in incubazione la paura della miseria, del licenziamento, dell’impossibilità a sopportare i sacrifici disumani che la crisi del capitalismo impone. Ma c’è anche una riflessione che porta al rifiuto di un voto che, quale che sia, non può portare soluzione e sollievo al disagio dei proletari. Ed allora essi si liberano innanzitutto di coloro che, fingendo di sostenerli, li hanno condotti in uno stato di sottomissione e di debilitazione politica da cui essi vogliono e devono uscire per difendersi. Si è sentito più volte nelle discussioni di strada in queste elezioni che “E’ altra la sinistra di cui abbiamo bisogno”, “Qui non c’è una sinistra”, “Nessuno ci rappresenta”, ecc.
La Signora Marcegaglia comprende che l’espressione di un nuovo conflitto sociale non potrà essere contenuto, mediato e gestito nei cancelli delle fabbriche; la politica razzista ed antiproletaria della Lega ha il fiato corto perché non sarà possibile dirigere la rabbia operaia contro i proletari extracomunitari e contro i proletari del Sud. La crisi non dà spazi di mediazione sociale, non dà respiro, al di là dei proclami pre-elettorali, la sinistra borghese non serve alla borghesia perché non può più svolgere il suo vecchio compito di demagoga. Ed il proletariato ha già cominciato a cercare da sé le risposte.
Stranamente questo fatto centrale, ma ancora agli inizi, è visto solo dalla Presidente dei capitalisti industriali. Molto più dei loro servitori, i capitalisti comprendono a cosa può portare un ripresa del protagonismo del proletariato.
P. (9/06/2009)
Questo mito nasce dal fatto che l’Italia ha uno scarso passato coloniale, limitato a qualche fallito tentativo di fine secolo diciannovesimo e alle avventure del fascismo in Africa e in Albania.
Ma questo non è il frutto di una scarsa propensione all’espansionismo, giacché nell’epoca dell’imperialismo tutti i paesi sono imperialisti, perché chi non lo fosse si autoescluderebbe dal novero delle nazioni che contano. L’impossibilità di crearsi un proprio impero coloniale prima e una zona di influenza con la decolonizzazione dopo, deriva dal ritardo con cui è stata realizzata in Italia l’unità nazionale, e di conseguenza la formazione di un capitale di dimensioni tali da competere sul piano imperialista, in una situazione peraltro in cui gli spazi liberi da conquistare erano ormai pochi.
Ma, come dicevamo, anche se l’impresa era disperata, l’imperialismo italiano non poteva rinunciare a provarci e questo non solo nel diciannovesimo secolo o sotto il fascismo, ma ha continuato a giocare il proprio ruolo imperialista fino ai nostri giorni.
Durante il periodo della guerra fredda, lo scontro imperialista era regolato dalle rigide regole dei blocchi che si erano formati all’uscita della seconda guerra mondiale. In particolare l’Italia, nella divisione decisa a Yalta dai vincitori della guerra, era rimasta legata al blocco occidentale, capitanato dagli Stati Uniti. Ed è alla difesa di questo blocco che l’imperialismo italiano si è dedicato per più di quaranta anni, ritagliandosi solo un po’ di libertà nei rapporti con i paesi arabi, per poter avere qualche vantaggio personale anche all’interno delle rigide regole degli interessi di blocco. Già in questi anni l’Italia partecipa a diverse missioni militari, in particolare in Medio oriente e in Africa.
Ma è a partire dal crollo del blocco sovietico, nel 1989, che si aprono nuove prospettive e possibilità per l’imperialismo italiano. Questo crollo, come abbiamo più volte ricordato, ha avuto come corollario il disfacimento del blocco avversario, che ora non era costretto a permanere, venuto a mancare il suo nemico principale. Questo dissolvimento dei blocchi, lungi dal significare l’apertura di un periodo di “pace e prosperità”, come aveva annunciato all’epoca Bush padre, ha dato la stura a nuovi appetiti imperialisti in quanto tutti gli ex alleati degli USA si sono messi a giocare in proprio, compresa l’Italia.
Ed infatti da allora l’impegno militare dell’Italia è aumentato, invece che diminuire: prima in Bosnia e poi in Kossovo, per proseguire in Afganistan e in Iraq, ed infine in Libano, per non citare che le situazioni maggiori; non c’è una guerra o una situazione di tensione importante che non abbia visto la partecipazione di truppe italiane.
Questo attivismo ha fatto sì che oggi l’Italia sia il terzo paese al mondo per presenza di truppe in altri paesi. Attualmente si contano 33 missioni militari italiane in 21 paesi, con un totale di 9.108 soldati impegnati (fonte Ministero della Difesa). E naturalmente le missioni costano. Ed infatti nel 2009 si sono spesi 1 miliardo e 350 milioni di euro (1), con un aumento di circa il 30% rispetto al 2007 (2), il che, in tempo di crisi, costituisce un aumento notevole, visto che per curare il bilancio statale si licenziano 47.000 lavoratori nella scuola, si tagliano le spese per l’Università, per la sanità, ecc.
Ma, ci dirà il solito mistificatore di turno, le missioni militari italiane all’estero sono tutte missioni fatte per difendere la legalità e la pace, che è la solfa di tutti gli imperialismi del mondo e della storia. Solo che poi a guardare da vicino si scopre che anche le truppe italiane uccidono, torturano e opprimono anche le popolazioni civili, oltre ai militari. Che pericolo per la pace costituivano le popolazioni della Serbia e del Kossovo massacrate durante i bombardamenti della NATO che vedevano gli aerei italiani in prima linea? Che pericolo per la pace costituiva la bambina afgana uccisa dai proiettili di una pattuglia italiana lo scorso 3 maggio? (3)
Solo la spudoratezza e il cinismo della borghesia può cercare di sostenere che questi interventi militari siano fatti per difendere un qualche interesse delle popolazioni locali e non quelli dell’imperialismo che li compie. E solo un atto di fede può far credere che quello che è vero per gli USA, la Gran Bretagna o la Russia non sia vero anche per l’Italia.
Nonostante tutti i posti persi nelle classifiche della competitività, del PIL pro capite e di altri dati economici, l’imperialismo italiano resta in prima fila in quella competizione internazionale che si è acuita dopo il crollo del blocco dell’est.
E questa difesa degli interessi del capitale nazionale ha visto accomunati tutti i governi che si sono succeduti dal 1989 ad oggi, senza differenza fra destra e sinistra, perché quando sono in gioco gli interessi del capitale nazionale nessuna forza politica borghese può tirarsi indietro.
Se c’è stata una divisione fra queste forze non è stato certo sul fatto se bisognava imbarcarsi in avventure militari, ma solo su come si potevano meglio difendere questi interessi, con la destra (in particolare Berlusconi) convinta che solo un’alleanza stretta con gli USA può essere utile all’Italia, mentre la sinistra è per una maggiore autonomia di scelta. E’ solo questo che spiega la famosa polemica sulla partecipazione alla guerra in Iraq, con Berlusconi convinto sostenitore dell’intervento, e la sinistra che pensava che fosse un errore, per cui, arrivata al potere nel 2006 ha provveduto al ritiro delle truppe, ma solo per poterle poi dispiegare in Libano meno di un anno dopo. In questo la sinistra ha solo avuto più lungimiranza della destra di Berlusconi: la guerra in Iraq era un’avventura senza prospettive, tant’è vero che anche il nuovo governo Berlusconi non si è nemmeno sognato di offrire agli USA un ritorno in Iraq. Mentre la sinistra non ha avuto nessun ritegno a volere i bombardamenti sulla Serbia ai tempi della guerra del Kossovo, o a continuare a sostenere l’avventura in Afganistan, che dura ormai da 8 anni e non solo non ha portato a nessuna “pace”, ma è riuscita solo a destabilizzare anche il Pakistan, paese in possesso dell’arma nucleare.
Se è vero che i sacrifici che vengono imposti ai proletari sono il frutto del fallimento storico di questo sistema, è vero anche che questo fallimento significa in aggiunta una accresciuta corsa alla competizione imperialista internazionale, con la doppia conseguenza di morte e miseria per un numero sempre maggiore di persone nel mondo e di ulteriori sacrifici imposti ai proletari dei principali paesi capitalisti per sostenere la crescita degli impegni guerrieri.
La presa di coscienza di questa realtà non potrà che rafforzare la presa di distanza dei proletari dalla propria borghesia.
Helios
1. Il decreto del consiglio dei ministri del 18 dicembre 2008 stanziava 675 milioni di euro per il primo semestre; non abbiamo il dato successivo, ma poiché non è stato richiamato in patria un solo soldato, non è difficile concludere che la spesa per il secondo semestre sia rimasta al minimo uguale a quella del primo semestre, per un totale annuo quindi di almeno 1 miliardo e 350 milioni.
2. Secondo il SIPRI, Istituto Internazionale per le ricerche sulla Pace, le missioni italiane all’estero costavano, nel 2007, 1 miliardo di euro.
3. Naturalmente l’esercito ha parlato di un errore, causato dal mancato arresto dell’auto all’alt proclamato dalla pattuglia. Si dà però il caso che l’auto su cui viaggiava la bambina con la propria famiglia avesse il lunotto posteriore rotto, segno che i colpi sono stati sparati dopo che l’auto aveva superato il posto di blocco, cioè quando non poteva più costituire un pericolo per i militari impegnati nel posto di blocco. Gli stessi giornali hanno espresso dei dubbi (vedi Repubblica del 4 maggio scorso) sulla dinamica raccontata dai soldati, peccato però che questa vicenda sia in seguito scomparsa dagli stessi giornali.
La prima crisi globale dell'umanità" (OMC, aprile 2009) (1). La recessione "più profonda e la più sincrona a memoria d’uomo" (OCSE, marzo 2009) (2)! Dalla stesse ammissioni delle grandi istituzioni internazionali, la crisi economica attuale è di una gravità senza precedente. Per farvi fronte, tutte le forze della borghesia sono mobilitate da mesi.
Il G20 è indubbiamente il più forte simbolo di questa reazione internazionale. Ad inizio aprile, tutte le speranze capitaliste sono state dunque rivolte verso Londra, città dove si è tenuto il vertice salvatore che doveva "rilanciare l'economia e moralizzare il capitalismo". E a credere nelle dichiarazioni dei differenti dirigenti del pianeta, questo G20 è stato un vero successo. "È il giorno in cui il mondo si è riunito per combattere la recessione" ha esclamato il Primo ministro britannico, Gordon Brown. "È stato al di là di ogni aspettativa immaginata", ha dichiarato commosso il presidente francese Nicolas Sarkozy. "Si tratta di un compromesso storico", così lo ha commentato la cancelliera tedesca Angela Merkel. Per Barack Obama, questo vertice ha rappresentato una "svolta".
La verità invece è tutt’altra.
L’unica cosa riuscita del G20: è che si è fatto!
In questi ultimi mesi, la crisi economica ha molto acuito le tensioni internazionali. Innanzitutto, si è sviluppata la tentazione del protezionismo. Ogni Stato tenta sempre più di salvare una parte della sua economia sovvenzionandola e concedendole dei privilegi nazionali contro la concorrenza straniera. Come è capitato col piano di sostegno all'industria automobilistica deciso da Nicolas Sarkozy, piano, per esempio, aspramente criticato dai suoi "amici" europei. Poi, si tende in maniera crescente a promuovere piani di rilancio in ordine sparso, in particolare quelli riguardanti il salvataggio del settore finanziario. Infine, numerosi concorrenti, approfittando del fatto che gli Stati Uniti, epicentro del sisma finanziario, sono stati colpiti in pieno dalla forte burrasca economica, tentano di indebolire ancora più la leadership economica americana. Ed è questo il senso degli appelli al "multilateralismo" della Francia, della Germania, della Cina, dei paesi latino-americani…
Questo G20 di Londra si annunciava dunque teso e, nei retroscena, i dibattiti effettivamente saranno stati burrascosi. Importante è che le apparenze siano salve. Per la borghesia la catastrofe di un G20 caotico è stata evitata. La borghesia non ha dimenticato come l'assenza di coordinamento internazionale contribuì al disastro nel 1929. All'epoca, il capitalismo si dovette scontrare con la prima grande crisi del suo periodo di decadenza e la classe dominante non sapeva ancora affrontarla. In un primo tempo, gli Stati rimasero inermi. Dal 1929 al 1933, quasi nessuna misura fu presa, mentre le banche fallivano a migliaia, una dopo l’altra. Il commercio mondiale crollò letteralmente. Nel 1933, si cominciò a vedere una prima reazione: si trattava del primo New Deal (3) di Roosevelt. Questo piano di rilancio si basava su una politica di grandi lavori e di indebitamento statale ma anche su una legge protezionistica, il Buy American Act ("Comprate americano"). Da allora, tutti i paesi si lanciarono nella corsa al protezionismo; e ciò, alla fine, non fece che aggravare di più la crisi mondiale. Infatti, oggi, tutte le borghesie vogliono evitare la ripetizione di un tale circolo vizioso crisi-protezionismo-crisi… devono fare del tutto per non ripetere gli errori del passato. Occorreva dunque imperativamente che questo G20 sancisse l'unità delle grandi potenze contro la crisi, in particolare per sostenere il sistema finanziario internazionale. Nel concreto, i paesi si sono impegnati a non alzare barriere, compresi i flussi finanziari, e hanno incaricato l'OMC di effettuare scrupolose verifiche affinché un tale impegno venga rispettato.
Ed è questo il solo successo del G20. Ma un successo certamente temporaneo fintanto che il pungolo della crisi continuerà a fomentare inesorabilmente la disunione internazionale.
L’indebitamento di oggi prepara le crisi di domani
Dall'estate 2007 e dalla famosa crisi dei subprimes, i piani di rilancio si succedono ad un ritmo sfrenato. Ai primi annunci di iniezioni massicce di miliardi di dollari, un vento di ottimismo momentaneo soffiò. Ma oggi, continuando la crisi ad aggravarsi inesorabilmente, ogni nuovo piano è accolto con sempre maggiore scetticismo. Paul Jorion, sociologo specializzato in economia, e che è stato uno dei primi ad avere annunciato la catastrofe economica, schernisce con tali parole il ripetersi di questi insuccessi: "Siamo passati insensibilmente dai piccoli aiuti del 2007 ad un importo di miliardi di euro o di dollari per i grossi aiuti dell'inizio 2008, poi agli enormi aiuti della fine dell'anno oramai in centinaia di miliardi. In quanto al 2009, è l'anno dei "kolossal" aiuti, i cui montanti questa volta si esprimono in "trilioni" di euro o di dollari. E malgrado l'ambizione sempre più faraonica, non si riesce a vedere un minimo chiarore d’uscita dalla galleria!" (4).
E che propone il G20? Un nuovo rilancio del tutto inefficace! 5000 miliardi di dollari stanno per essere iniettati nell'economia mondiale da ora alla fine 2010 (5). La borghesia non ha nessuna altra "soluzione" da proporre e rivela attraverso ciò la sua impotenza (6). La stampa internazionale non si è del resto sbagliata: "La crisi è lungi, in realtà, dall’essere finita e bisognerebbe essere ingenui per credere che le decisioni del G20 possano cambiare tutto" (la Libre Belgique) "Hanno fallito nel momento in cui l'economia mondiale sta implodendo" (New York Time) "Il rilancio li ha lasciati di marmo al vertice del G20" (Los Angeles Time).
Del resto, le stime dell'OCSE per il 2009, abitualmente ottimiste, non lasciano molti dubbi a proposito di ciò che colpirà l'umanità nei mesi a venire, con o senza G20. Secondo questa, gli Stati Uniti dovrebbero essere interessati da una recessione del 4 %, la Zona euro del 4,1 % ed il Giappone del 6,6 %! Dunque la situazione sicuramente si aggraverà ancora nei mesi a venire mentre la crisi attuale è già peggio di quella del 1929. Gli economisti Barry Eichengreen e Kevin O'Rourke hanno calcolato che la caduta della produzione industriale mondiale è stata, per nove mesi, violenta come quella del 1929, che la caduta della Borsa è stata due volte più veloce, così come la recessione del commercio mondiale (7).
Tutte queste cifre, in concreto, per i milioni di operai di ogni parte del mondo significano una realtà molto drammatica. Negli Stati Uniti, prima potenza mondiale, altri 663.000 posti di lavoro sono andati distrutti nel mese di marzo, e ciò porta il totale di posti di lavoro distrutti in 2 anni a 5,1 milioni. Tutti i paesi sono colpiti duramente. Nel 2009, in Spagna, la disoccupazione dovrebbe superare il 17 %!
Ma questa politica non solo è inefficace oggi, ma prepara anche per l'avvenire delle crisi più violente. Infatti, tutti questi miliardi sono stati creati ricorrendo massicciamente all'indebitamento. Ora, questi debiti, un giorno, e non tanto lontano, occorrerà rimborsarli. Infatti, accumulando i debiti, è sull'avvenire economico che il capitalismo alla fine mette l’ipoteca.
E che dire di tutti questi giornalisti che si sono felicitati della ritrovata importanza del FMI? I suoi mezzi finanziari sono stati triplicati dal G20, essendo stati portati a 750 miliardi di dollari con, in più, l'autorizzazione di emissione di Diritti di titoli speciali (DTS) (8) per 250 miliardi di dollari. Gli è stata affidata il compito "di aiutare i più deboli", in particolare quei paesi dell'Est sull’orlo del fallimento. Ma il FMI è una strana ancora di salvezza. La reputazione – giustificata - di questa organizzazione è imporre un'austerità draconiana in cambio del suo "aiuto". Ristrutturazioni, licenziamenti, disoccupazione, soppressione dei sussidi per la salute, per la pensione… tale è "l'effetto FMI". Questa organizzazione è stata, per esempio, al capezzale dell'Argentina negli anni 1990 fino a… al crollo di questa economia nel 2001!
In conclusione, questo G20 non solo, non ha schiarito il cielo capitalista ma ha addirittura lasciato intravedere indomani ancora più scuri!
Il grande bluff della moralizzazione del capitalismo
Tra gli operai esiste un profondo disgusto per questo capitalismo agonizzante ed una riflessione crescente sull'avvenire. Infatti, durante questo G20, la classe dominante si è affrettata a rispondere, a modo suo, a questa questione. Con trombe e tamburi, questo vertice ha promesso un nuovo capitalismo, meglio regolato, più morale, più ecologico…
La manovra è così enorme quanto ridicola. Per la moralizzazione del capitalismo, il G20 ha preso di mira alcuni "paradisi fiscali". In particolare, sono stati additati quattro territori che costituiscono l’oramai celebre "elenco nero": il Costa Rica, la Malaysia, le Filippine e l'Uruguay. Altre nazioni sono state richiamate e classificate in un "elenco grigio". Per esempio, il Cile, il Lussemburgo, Singapore e la Svizzera.
In altre parole, mancano all’appello i principali "paradisi fiscali"! Le isole Caiman ed i suoi hedge funds, i territori dipendenti della corona britannica (Guernesey, Jersey, isola di Man), la City di Londra, Stati federati americani come il Delaware, il Nevada o il Wyoming… tutti questi sono ufficialmente bianchi come la neve, e vanno di conseguenza a costituire l'elenco bianco. Con questa classifica di paradisi fiscali da parte del G20, è un poco come se l'ospedale se ne infischiasse della carità.
Colmo dell'ipocrisia, solamente alcuni giorni dopo il vertice di Londra, l'OCSE -responsabile di questa classificazione - ha annunciato il ritiro di quattro paesi dall'elenco nero, in cambio di promesse di sforzo di trasparenza!
Tutto ciò chiaramente non ci sorprende. In che modo tutti questi grandi responsabili capitalisti, veri gangster senza fede né legge, "potrebbero moralizzare" chi? E in che modo un sistema basato sullo sfruttamento e la ricerca del profitto per il profitto potrebbe essere "più morale"? In verità, nessuno si aspettava vedere venir fuori da questo G20 un "capitalismo più umano". Questo non può esistere ed i dirigenti politici ne parlano come i genitori parlano di Babbo Natale ai loro bambini. Questi tempi di crisi rivelano al contrario, ancora più crudamente, il viso disumano di questo sistema. Quando la crisi economica colpisce, i lavoratori sono licenziati e gettati in mezzo ad una strada come gli oggetti diventati inutili. Il capitalismo è e sarà sempre un sistema di sfruttamento brutale e barbaro. Le probabilità di vedere nascere un "capitalismo ecologico" o "un capitalismo morale" sono le stesse di vedere l’alchimista trasformare il piombo in oro.
Proprio questo G20 mostra l’impossibilità di un altro mondo capitalista. È probabile che la crisi potrà ancora conoscere alti e bassi, con, in alcuni momenti un "ritorno alla crescita". Fondamentalmente, però, il capitalismo continuerà ad affondare economicamente, seminando miseria e generando guerre.
Non c’è niente da aspettarsi da questo sistema. La borghesia, con i suoi vertici internazionali ed i suoi piani di rilancio, non costituisce la soluzione ma il problema. A poter cambiare il mondo è solo la classe operaia, ma, per farlo, questa deve riprendere fiducia nella società che essa può fare nascere: il comunismo!
Mehdi (16 aprile 2009)
1) Dichiarazione di Pascal Lamy, direttore generale dell'Organizzazione mondiale del commercio.
2) Rapporto intermediario dell'Organizzazione di Cooperazione e di Sviluppo economico.
3) Un mito largamente diffuso oggi è quello secondo cui il New Deal del 1933 avrebbe permesso all'economia mondiale di uscire del marasma economico. E, la conclusione logica, sarebbe quella di fare oggi un New New Deal. In realtà, l'economia americana, dal 1933 a 1938, rimase particolarmente debole; fu il secondo New Deal, quello del 1938, che permise veramente di rilanciare la macchina. Ora, questo secondo New Deal non fu niente altro che l'inizio di quella economia di guerra che preparò la Seconda Guerra mondiale. Si comprende perché questo fatto sia passato largamente sotto silenzio!
4) L'era dei "Kolossal" aiuti, pubblicati il 7 aprile.
5) In realtà, per 4000 miliardi, si tratta dei dollari dei piani di rilancio già annunciati in questi ultimi mesi.
6) In Giappone, un nuovo piano di rilancio di 15.400 miliardi di yen (116 miliardi di euro) è stato appena deciso. È il quarto programma di rilancio elaborato da Tokio nello spazio di un anno!
7) Fonte: voxeu.org [10].
8) I DTS formano un paniere monetario costituito da dollari, euro, yen e sterlina.
È la Cina che, in particolare, ha insistito per costituire questi DTS. Queste ultime settimane, l'impero del male ha moltiplicato con dichiarazioni ufficiali appelli alla creazione di una moneta internazionale che possa sostituire il dollaro. E numerosi economisti sparsi nel mondo hanno rilanciato quest’appello, avvertendo della caduta inesorabile della moneta americana e delle scosse economiche che ne seguiranno.
Realmente l'indebolimento del dollaro, nella misura in cui l'economia americana affonda nella recessione, rappresenta un vero pericolo per l'economia mondiale. In quanto riferimento internazionale, è uno dei pilastri della stabilità capitalista dal dopoguerra. Tuttavia, la creazione di una nuova moneta di riferimento che sia l'Euro, lo Yen, la sterlina o i DTS del FMI, è totalmente illusoria. Nessuno potenza potrà sostituire gli Stati Uniti, nessuna potrà sostenere il suo ruolo di stabilizzatore economico internazionale. L'indebolimento dell'economia americana e della sua moneta significano, dunque, un disordine monetario crescente.
“Un terzo della popolazione dei paesi poveri vive in bidonville o tuguri, cosa che rappresenta in totale più di 800 milioni di persone (…) Si tratta della popolazione urbana che vive nelle condizioni più disastrose, dalle bidonville alle capanne insalubri, in particolare senza acqua corrente”.
Nei prossimi mesi, “46 milioni di individui in più nel mondo potrebbero arrivare a vivere con meno di 1,25 dollari al giorno, cioè sotto la soglia di estrema povertà fissata dalla Banca mondiale (…) Quest’aumento del numero di poveri potrebbe condurre ad una conseguente recrudescenza del tasso di mortalità infantile: se la crisi persiste, tra 1,4 e 2,8 milioni di bambini potrebbero morire a causa di malattie dovute alle loro cattive condizioni di vita”.
Nessun angolo della terra viene risparmiato da quest’esplosione di miseria: “L’associazione americana dei sindaci, che svolge annualmente un’indagine nazionale sui senza tetto, ha constatato a fine 2008 un aggravamento dei problemi delle famiglie. (…) Louisville ad esempio, segnala un aumento del 58% in un anno delle famiglie senza tetto. Da dati più recenti risulta un aumento del 40%, tra 2007 ed il 2008, del numero di famiglie che entrano nei centri di accoglienza new-yorkesi. (…) Quest’aumento importante potrebbe continuare con la progressione della disoccupazione. Le previsioni fatte dalla Goldman Sachs[2] sono di un tasso di disoccupazione al 9% a fine 2009 (contro il 5% a fine 2007 e quasi 7% nel 2008). Gli esperti del Center on Budget and Policy Priorities, basandosi sulle ultime tre recessioni americane, contano in questo contesto su una forbice da 8 a 10 milioni di poveri supplementari. Sempre in quest’ipotesi, il numero di persone in grande povertà (con un reddito inferiore alla metà della soglia di povertà) potrebbe aumentare da 5 a 6 milioni. In totale, circa un milione di nuove famiglie con figli potrebbero conoscere la grande povertà e trovarsi di fronte all’alto rischio di diventare dei senza-tetto”.
Solo la classe operaia, sviluppando le sue lotte a livello internazionale, riacquistando fiducia in se stessa e nella sua forza, è in grado di dare la sola alternativa reale a questo immondo sistema di sfruttamento: la società comunista.
Gli studenti sono sempre più preoccupati per la propria situazione e sempre più sconcertati ed indignati per l’avvenire che la classe dominante riserva loro. Il che non è sorprendente: questo sentimento aumenta giorno per giorno e dappertutto1, soprattutto tra i proletari e negli strati più poveri della società. Molti di questi proletari sono genitori o comunque parenti di questi stessi studenti, tutti colpiti dall’avanzata implacabile della crisi che li condanna con sempre più durezza a condizioni di vita veramente insopportabili. Ma questa crisi li spinge anche alla riflessione, a chiedersi se c’è una via d’uscita, se il capitalismo è capace di assicurare qualcosa di diverso dalla miseria, dal caos e la barbarie.
Ogni giorno che passa, questi studenti sono sempre più “surriscaldati”, anche se per il momento mantengono la testa fredda e ciò significa che riflettono. Aumenta la loro diffidenza nei confronti delle “soluzioni” che vengono proposte e, soprattutto, non sembrano disposti ad accettare qualsiasi cosa: un futuro incerto in quanto alla possibilità di trovare un lavoro, dei crediti per poter studiare che li “ipotecherebbero” incatenandoli a vita...
C’è anche questa enorme indignazione contro la brutale repressione commessa dai Mossos d’Escuadra de la Généralidad2 della Catalogna diretta dalla “coalizione tripartitica”3 alla quale partecipa la versione catalana della “radicale” e “amica degli operai” Izquierda unida (Sinistra unita). La ferocia della repressione contro i giovani (pestaggi, arresti violenti, espulsioni …) mostra chiaramente ciò che ci si può aspettare da qualsiasi governo, che sia di destra o che si presenti come “progressista” e “sociale”. (…)
In seguito all’espulsione forzata dall’università occupata ed alle cariche violente della polizia nella serata del 18 marzo che si è chiusa con numerosi arresti ed una sessantina di feriti tra i circa cinquemila manifestanti presenti, gli studenti hanno reagito organizzando rapidamente una manifestazione di solidarietà. Il Governo catalano è stato obbligato a presentare delle scuse ed a costringere alle dimissioni alcuni esponenti del suo ministero dell’Interno. Da allora, gli studenti stanno continuando ad andare avanti: fanno assemblee, scioperi ed occupazioni, riunioni con i gruppi sociali che li sostengono; dibattono, scambiando notizie con altre università alcune delle quali hanno risposto manifestando in solidarietà con loro (Madrid, Valencia, Gérone...).
Gli studenti, che hanno affermato alto e chiaro “che non sono delinquenti, non sono dei ribelli senza prospettiva e neanche carne da cannone per i burocrati ed i mossos”, sono sempre determinati a riuscire, “grazie ad un largo movimento studentesco, perché l’unione fa la forza”, a fare “non solo arretrare gli attacchi del capitale - Piano Bologna o Tartempio” ma anche “una società giusta, tollerante, solidale e libera”, perché “ci sentiamo capaci di cambiare la realtà nella quale viviamo” (estratti da Quali riflessioni... sugli avvenimenti del 18 marzo a Barcellona, un volantino distribuito nella manifestazione del 26).
Gli studenti hanno quindi convocato una manifestazione per il 26 marzo. Contavano sulla solidarietà di quelli che, come loro, affrontano la realtà del “è peggio ogni giorno che passa” e senza la minima prospettiva di miglioramento: dei loro stessi compagni, degli insegnanti, di tutti quelli che condividono le loro preoccupazioni ed i loro sforzi, di tutti quelli che stanno affianco a loro e che sanno che, domani, saranno affianco di tutta la classe operaia. Di fronte a loro c’erano parecchie decine di mossos (poliziotti) che li aspettavano arma in pugno, pronti a fronteggiare “ogni eventualità”. Il tutto preparato da un’intensa propaganda lanciata dalla Generalidad attraverso tutti i media secondo la quale “tali azioni” erano illegali per cui andavano prese misure adeguate per farvi fronte “come si deve”.
A Piazza dell’Università aspettavamo inquieti, ma determinati; abbiamo visto che gli studenti erano sicuri di loro, che controllavano la situazione. I mossos ci hanno chiuso l’accesso dell’itinerario previsto e gli organizzatori hanno avuto il coraggio di decidere un itinerario alternativo verso un luogo più tranquillo.
Questa manifestazione è stata ben diversa dalle processioni folcloristiche dei sindacati: non fischietti assordanti, non urla dagli altoparlanti né slogan collerici: i manifestanti potevano parlare, scegliere slogan, risposte appropriate ed invettive contro il governo ed i suoi esecutori d’ordini del ministero dell’Interno, e cioè contro i mossos che nei giorni precedenti si erano sfogati a colpi di manganello su tutto ciò che si muoveva. Applausi ed incoraggiamenti di solidarietà coi manifestanti sono stati lanciati dai balconi. I locali dei partiti di governo sono stati coperti di graffiti che denunciavano le loro responsabilità.
A poco a poco altre persone si sono unite alla manifestazione, così che alla fine c’erano più di 10.000 persone insieme e, come in Grecia, di tutte le generazioni: studenti, genitori, lavoratori di differenti età...
(…) Questa manifestazione ha rappresentato un vittoria importante: tutti sono ripartiti con la netta impressione che la lotta proseguirà e che il dibattito deve continuare, anche per scambiare esperienze e soprattutto per continuare una lotta che non considerano esaurita. Gli studenti mobilitati insistono sul fatto devono continuare ad incontrarsi fino alle vacanze in qualche “Campus-assemblea”, nei quartieri.
Questa lotta si inserisce in una prospettiva di lotte massicce in altri settori (insegnanti, industrie, statali, servizi, attivi e disoccupati …)? Sì, ne siamo convinti. Molti di quelli che erano alla manifestazione ne erano altrettanto convinti, anche se non abbiamo sentito appelli e slogan espliciti in questo senso. Le condizioni perché ciò avvenga si consolidano, tutta la dinamica del movimento va in questo senso. L’intervento della classe operaia, la sua esperienza, la sua solidarietà, è molto importante per alimentare questo processo.
Gli studenti devono contare su questo. In fin dei conti, sanno che faranno parte della classe operaia. Molti di loro, sanno che ne fanno già parte.
Da Acción proletaria, pubblicazione della CCI in Spagna (28 marzo)
2. Polizia regionale del governo catalano.
3. Questo governo è diretto da una coalizione di sinistra: socialisti, catalanisti repubblicani e vecchi stalinisti (inclusi i “Verdi”) ai quali del resto appartiene il ministro dell’Interno, Joan Saura, che dirige la polizia e che oggi (01/04) dichiara, di fronte all’indignazione provocata dalla repressione, che la “risposta dei poliziotti è stata sproporzionata”... [ndt].
Questo incontro, il cui progetto è stato formulato un anno fa, è stato reso possibile innanzitutto dalla nascita di questi gruppi, i quali ancora 3 anni fa (a parte OPOP e la CCI) non esistevano, ma ancora di più dalla loro volontà comune a rompere l’isolamento e sviluppare un lavoro politico insieme (3).
La base di un tale lavoro è stata l’individuazione e l’accettazione da parte dei partecipanti di criteri che delimitano il campo proletariato rispetto a quello della borghesia e che sono esposti nella Presa di posizione qui pubblicata.
La prima attività di questo incontro era necessariamente una discussione politica che permettesse di fare chiarezza sulle convergenze e le divergenze esistenti tra i partecipanti, in modo da rendere possibile l’elaborazione di un quadro di discussione in vista di una chiarificazione sui disaccordi.
Salutiamo calorosamente il fatto che questo incontro abbia potuto aver luogo e che sia stato capace di assumere discussioni importanti come quelle sull’attuale situazione della lotta di classe internazionale e sulla natura della crisi che oggi scuote il capitalismo. Abbiamo pienamente fiducia in un prosieguo fruttuoso di questo dibattito (4).
Siamo ben coscienti che questo incontro ha costituito solo un piccolo passo sulla strada che conduce alla costituzione di un polo di riferimento internazionale la cui esistenza, dibattito pubblico ed intervento siano in grado di orientare gli elementi, i collettivi ed i gruppi che sorgono in tutto il mondo alla ricerca di una risposta proletaria internazionalista alla situazione sempre più grave nella quale il capitalismo sta trascinando l’umanità.
Tuttavia, se lo si paragona alle esperienze passate - per esempio alle Conferenze internazionali della Sinistra comunista che si sono tenute trent’anni fa(5)- questo incontro è riuscito a superare alcune delle debolezze manifestatesi all’epoca. Mentre le Conferenze non riuscirono ad adottare una dichiarazione comune di fronte alla guerra in Afghanistan che allora rappresentava una grave minaccia, oggi la Presa di posizione adottata all’unanimità dai partecipanti difende in modo molto chiaro delle posizioni proletarie di fronte alla crisi del capitalismo.
In particolare vogliamo sottolineare la ferma denuncia che fa la Presa di posizione delle alternative capitaliste di “sinistra” in voga attualmente su tutto il continente americano e che suscitano nel mondo intero delle illusioni niente affatto trascurabili. Dagli Stati Uniti, col fenomeno Obama, fino alla Patagonia argentina, il continente è pervaso da governi che pretendono di difendere i poveri, i lavoratori, gli emarginati e che si presentano come i portatori di un capitalismo “sociale”, “umano”, o che ancora, in versioni più “radicali” (come Chavez in Venezuela, Morales in Bolivia e Correa in Ecuador), pretendono di incarnare addirittura “il socialismo del XXI secolo”.
Riteniamo molto importante che di fronte a queste mistificazioni sorga un polo unitario, fraterno e collettivo di minoranze internazionaliste che apra la via alla discussione ed alla formulazione di posizioni di solidarietà internazionale, di lotta di classe intransigente, di una lotta per la rivoluzione mondiale, di fronte al capitalismo di Stato, al nazionalismo, allo sfruttamento di cui questi “nuovi” profeti cercano di assicurare la perpetuazione.
CCI (26-04-09)
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Presa di posizione comune
La lotta per il comunismo autentico, cioè per una società senza classi, senza miseria e senza guerre, sta nuovamente suscitando nel mondo intero un interesse crescente da parte di minoranze. Nel marzo 2009, per iniziativa della Corrente Comunista Internazionale (CCI) e di Oposição Operaria (OPOP), si è tenuta in America latina un Incontro di discussione internazionalista a cui hanno partecipato differenti gruppi, circoli e singoli compagni di questo continente che si trovano chiaramente su posizioni internazionaliste e proletarie.
Oltre alla CCI ed OPOP, erano presenti i seguenti gruppi:
- Grupo de Lucha Proletaria (Perù)
- Anarres (Brasile)
- Liga por l'Emancipación de la Clase Obrer (Costa Rica e Nicaragua)
- Núcleo de Discusión Internacionalista de la República Dominicana
- Grupo de Discusión Internacionalista de Ecuador.
Ai lavori di questo incontro hanno inoltre partecipato alcuni compagni del Perù e del Brasile. Compagni di altri paesi pur avendo manifestato la loro intenzione di partecipare non hanno avuto la possibilità di essere presenti per ragioni materiali o amministrative.
L’insieme dei partecipanti si è riconosciuto nei principi espressi dai criteri che seguono, gli stessi che globalmente sono serviti alla tenuta delle Conferenze dei gruppi della Sinistra comunista alla fine degli anni ‘70 e nel 1980:
1. Richiamarsi al carattere proletario della rivoluzione di Ottobre 1917 e dell’IC, pur sottoponendo quest’esperienze ad un bilancio critico che permetta di orientare i nuovi tentativi rivoluzionari del proletariato;
2. Rigettare senza riserva ogni idea secondo la quale esistono nel mondo paesi a regime socialista o con governi operai, sebbene qualificati “degenerati”; parimenti, rigettare ogni forma di governo capitalista di Stato, come quelli basati sull’ideologia del “socialismo del XXI secolo”;
3. Denunciare i partiti socialisti e comunisti, così come i loro accoliti, come partiti del capitale;
4. Rigettare categoricamente la democrazia borghese, il parlamentarismo e le elezioni, armi attraverso le quali la borghesia è riuscita numerose volte ad inquadrare e deviare le lotte operaie mettendo la classe operaia davanti a false scelte: democrazia o dittatura, fascismo o antifascismo;
5. Difendere la necessità che i rivoluzionari internazionalisti lavorino alla costituzione di un’organizzazione internazionale dell’avanguardia proletaria, arma indispensabile della rivoluzione proletaria;
6. Difendere il ruolo dei consigli operai come organi del potere proletario, così come l’autonomia della classe operaia rispetto alle altre classi e strati della società.
L’ordine del giorno delle discussioni è stato il seguente:
1. Il ruolo del proletariato e la sua situazione attuale, il rapporto di forze tra le classi;
2. La situazione del capitalismo (in seno alla quale si svolgono le attuali lotte) e, come riflessione più globale, il concetto di decadenza e/o di crisi strutturale del capitalismo;
3. La crisi ecologica crescente in cui ci spinge il sistema. Poiché per mancanza di tempo non si è potuto affrontare questo punto, è stato deciso di portare avanti la discussione attraverso Internet.
Sul punto 1 sono stati utilizzati degli esempi relativi all’America latina per illustrare le analisi sullo stato attuale della lotta di classe, ma la preoccupazione della maggior parte degli interventi è stata di concepire questi come una parte della situazione generale della lotta proletaria a livello internazionale. L’incontro ha deciso di insistere particolarmente sulla denuncia dei differenti governi di sinistra (che in questo momento dirigono la maggior parte dei paesi dell’America latina) come nemici mortali del proletariato e della sua lotta; sono stati anche denunciati quelli che sostengono, anche se in modo critico, questi governi. L’incontro ha inoltre denunciato la criminalizzazione delle lotte operaie da parte di questi governi insistendo sul fatto che la classe operaia non può farsi illusioni sui metodi “legali e democratici”, ma può contare solamente sulla propria lotta autonoma. Questa denuncia si applica particolarmente ai seguenti governi:
- Kirchner in Argentina
- Morales in Bolivia
- Lula in Brasile
- Correa in Ecuador
- E, in modo particolare, quello diretto da Chavez in Venezuela il cui preteso “Socialismo del ventunesimo secolo” non è altro che una vasta menzogna destinata a prevenire e reprimere le lotte del proletariato in questo paese ed a ingannare gli operai negli altri paesi.
Sul punto 2 i partecipanti si sono trovati d’accordo sulla gravità della crisi attuale del capitalismo e sulla necessità di approfondirne la comprensione a partire da una prospettiva teorica e storica.
Alla conclusione delle discussioni, i partecipanti si sono accordati sui seguenti punti:
- la tenuta dell’incontro costituisce una manifestazione dell’attuale tendenza allo sviluppo della lotta e della presa di coscienza del proletariato a livello internazionale;
- l’aggravamento considerevole della crisi del capitalismo oggi non può, alla fine, che rafforzare questa tendenza allo sviluppo delle lotte operaie, rendendo sempre più necessaria la difesa delle posizioni rivoluzionarie in seno al proletariato;
- in questo senso, l’insieme dei partecipanti considera necessario proseguire lo sforzo che è stato iniziato con questo incontro al fine di essere parte pregnante della lotta del proletario internazionale.
Più concretamente, come primo passo di questo sforzo, è stato deciso di:
1. aprire un sito Internet in lingua spagnola (eventualmente portoghese) sotto la responsabilità collettiva dei gruppi che hanno partecipato all’incontro. Inoltre, è stata prospettata la possibilità di pubblicare un bollettino in lingua spagnola basato sul contenuto del Sito internet;
2. pubblicare su questo sito:
- la presente presa di posizione (che sarà pubblicata anche sui siti dei gruppi partecipanti);
- i contributi che sono stati preparati per l’incontro;
- la sintesi del processo verbale delle differenti discussioni che si sono tenute in questo;
- ogni altro contributo dei gruppi ed elementi presenti così come di ogni altro gruppo o compagno che si riconosce nei principi e le preoccupazioni che hanno animato l’incontro.
All’interno di queste preoccupazioni, l’incontro sottolinea in modo particolare la necessità di un dibattito aperto e fraterno tra rivoluzionari ed il rigetto di ogni settarismo e spirito di cappella.
Note:
1. Messico, Repubblica Dominicana, Costa Rica, Nicaragua, Ecuador, Perù, Venezuela, Brasile.
2. I cui partecipanti sono stati: OPOP (Opposizione Operaia) - Brasile, CCI, LECO (Lega per l’Emancipazione della Classe Operaia) - Costa Rica e Nicaragua, Anarres - Brasile, GLP (Gruppo di Lotta Proletaria) - Perù, GDI (Gruppo di Discussione Internazionalista dell’Ecuador), NDI Nucleo di Discussione Internazionalista della Repubblica Dominicana), e diversi compagni di questi paesi che hanno partecipato a titolo individuale.
3. Abbiamo reso conto di questa effervescenza in America latina nel nostro articolo “Due nuove sezioni della CCI” in Rivoluzione Internazionale n. 159.
4. Una delle decisioni dell’'incontro ha riguardato la creazione di un sito Internet dove saranno pubblicati la presa di posizione comune ed i dibatti: www.encuentro.internationalist-forum.org [14].
5. Leggi, ad esempio, nella Revue internationale n.16, l’articolo “2a Conferenza internazionale dei gruppi della Sinistra comunista”.
Il 25 aprile scorso la CCI ha organizzato a Napoli una “giornata di incontro e discussione” sul tema della crisi economica e su come reagire. Come abbiamo già fatto in un’analoga riunione tenuta sempre a Napoli nell’aprile dello scorso anno[1] e come facciamo ormai in tanti altri paesi del mondo in cui siamo presenti, questa riunione è stata quasi interamente gestita dai compagni intervenuti, che hanno provveduto a scegliere il tema di discussione, a preparare su di esso una loro presentazione, a preparare una sintesi della discussione a metà giornata per permettere il suo rilancio nel pomeriggio. Il nostro lavoro come organizzazione è consistito essenzialmente nel tenere il presidium – in modo da permettere ai compagni intervenuti di seguire e partecipare con tutta l’attenzione necessaria - e a prendere delle note, utili per lasciare una traccia della discussione su cui tutti i compagni partecipanti possono tornare a riflettere.
Sul nostro sito web pubblicheremo vari materiali relativi alla riunione oltre che dei bilanci politici sulla riunione stessa formulati da singoli compagni. Quello che però è importante mostrare con questo articolo è la dinamica che si è aperta con questa iniziativa che possiamo sintetizzare dicendo che, alla fine della riunione del 25/4, tutti i compagni partecipanti si sono trovati d’accordo:
Il volantino è stato presto fatto[3] ed è stato diffuso massicciamente alle manifestazioni del 1° maggio a Napoli, per le strade e inviato fittamente via mail ad “amici, colleghi e parenti”. Subito dopo i compagni si sono rivisti per ufficializzare la costituzione del gruppo di discussione, cominciando a sviluppare uno scambio su come lavorare assieme, questione di primaria importanza per un gruppo di persone eterogenee e, per diversi di loro, alla prima esperienza politica.
In conclusione abbiamo potuto vedere come l’organizzazione di un incontro tra compagni abbia prodotto un risultato che va ben oltre gli obiettivi immediati che la riunione si era data, motivo per cui è importante capirne i motivi, cercando di tornare su alcuni degli elementi che hanno caratterizzato la giornata del 25 aprile in modo da fare tesoro di questa esperienza.
Anzitutto ricordiamo come è stata convocata questa riunione. L’idea che la CCI cerca di concretizzare attraverso questo tipo di riunioni, che non sono delle riunioni pubbliche della nostra organizzazione, è di mettere a disposizione dei proletari in genere, qualunque sia la loro connotazione politica immediata, un luogo dove potersi incontrare e discutere con altri proletari che avvertono una insoddisfazione per la situazione attuale e che cercano di capire come stanno le cose per valutare il da farsi, il modo in cui reagire. Di conseguenza, dal primo momento, pur non nascondendoci dietro nessun paravento per far sembrare l’iniziativa come “spontanea”, abbiamo spinto affinché i compagni coinvolti prendessero nelle loro mani l’iniziativa, a partire dalla stessa pubblicizzazione della riunione. Puntando dunque sui compagni che già ci conoscevano e che sono nostri simpatizzanti, la notizia della riunione si è diffusa di voce in voce tra tante persone con il risultato che un numero significativo di partecipanti è stato portato da altre persone e non direttamente dalla CCI. Questo aspetto è già molto importante perché ha mostrato come la riunione del 25 aprile sia stata effettivamente avvertita e vissuta da tutti come una “loro” riunione. Va messo peraltro in evidenza come la dinamica che ha portato a questa riunione abbia coinvolto alcuni elementi che stavano da anni in stand-by, ovvero in uno stato di “diffidente inattività” perché scottati da precedenti esperienze politiche, perché incapaci di ritrovare situazioni ed iniziative che restituissero loro la fiducia perduta. Queste persone, inizialmente giustamente diffidenti, sono state immediatamente convinte e conquistate da qualche incontro preliminare e dall’atmosfera assolutamente proletaria di questi incontri.
Un secondo aspetto ha riguardato naturalmente le modalità secondo cui la riunione si è svolta. Non una riunione dove i compagni venivano a sentire cosa aveva da dire la CCI, ma un luogo che era stato creato dalla CCI perché i compagni lì riuniti potessero esprimere estesamente le loro idee e le loro preoccupazioni. La CCI non si è nascosta dietro una parete, ma ha partecipato pienamente, anzitutto contribuendo con l’invio di propri testi, prima della riunione, così come hanno fatto anche altri compagni, e intervenendo quando era opportuno nell’arco stesso della riunione. Ma, ancora una volta, la preoccupazione principale è stata quella di fare esprimere i compagni intervenuti e far sì che si rispondessero l’un l’altro. Il risultato di questa impostazione è stato che quando, a metà riunione, c’era da fare il lavoro di sintesi della discussione della mattina per far partire la seconda parte della discussione, mancando i compagni che si erano prenotati per questo lavoro, abbiamo temuto che non ci fossero altre persone disposte a farlo. Ma ci sbagliavamo perché siamo stati felicemente sorpresi dalla spontanea partecipazione, intorno al tavolo del presidium, di un numero esuberante di compagni, tutti volontari e, cosa ancora più importante, tra questi compagni ce n’erano diversi che partecipavano ad una riunione politica organizzata dalla CCI per la prima volta. Tutto questo, sviluppato in un clima di assoluta serenità e spirito fraterno, ha letteralmente “conquistato” i compagni tutti e noi stessi dell’organizzazione abbiamo vissuto un’esperienza veramente coinvolgente.
Un ulteriore elemento a cui non daremo mai abbastanza importanza è stato quello della socializzazione e dello sviluppo dei rapporti umani. La riunione infatti è stata pensata e vissuta prevedendo dei momenti di pausa nella discussione finalizzati non soltanto a riprendere ossigeno, ma anche per permettere ai compagni di conoscersi, di parlare della loro vita, di scambiarsi delle esperienze, ecc. Non a caso, anche stavolta, è stato organizzato uno spuntino all’ora di pranzo nel giardino del luogo che ha ospitato la riunione basato su una serie di squisitezze preparate da alcune compagne volontarie e la sera, a fine riunione, i compagni che potevano farlo, si sono trattenuti per mangiare in trattoria e continuare a stare assieme. Questo aspetto del conoscersi, del parlarsi tra compagni al di là del piano strettamente politico, è un elemento molto importante che riprende una tradizione che è sempre esistita all’interno del movimento operaio e che rompe con le ideologie staliniste che imponevano anzitutto la diffidenza tra compagni e dunque la massima riservatezza sulla propria persona.
Per quanto riguarda i contenuti del dibattito, sin dai primi interventi, insieme alla ricerca dell’origine della crisi economica, è emerso il riconoscimento che questo sistema porta non solo all’impoverimento della stragrande maggioranza dell’umanità, ma anche ad una disgregazione dei rapporti umani contro cui occorre combattere e rispetto a cui la lotta di classe costituisce un antidoto importante. I meccanismi che portano questo sistema alla sua crisi sono stati sviluppati da diversi interventi, esaminando come cause possibili sia la caduta del saggio di profitto che la saturazione dei mercati extracapitalisti. In ogni caso l’insieme dei compagni ha riconosciuto che questo sistema non ha vie di uscita e che occorre lavorare per l’individuazione di un’alternativa a questa società. Come hanno sottolineato i compagni nella sintesi che chiudeva la prima parte della discussione:
“La crisi è crisi del capitalismo, strutturale e non congiunturale, e di portata storica, perciò l’aspetto finanziario non è la causa, ma ne è un aspetto. E’ una crisi di sottoconsumo causato dall’eccessivo sviluppo delle forze produttive in relazione allo sviluppo del mercato internazionale. Lo stesso imperialismo non basta più a superare le crisi. Quindi è una crisi storica dell’accumulazione dovuta alla saturazione dei mercati … che poi comporta e porta anche alla caduta del saggio del profitto.
Sul come reagire diversi compagni hanno sottolineato due aspetti importanti.
Da una parte le difficoltà che incontra la classe a causa delle illusioni ancora presenti, ma soprattutto a causa della complessità del compito che ha davanti. Anche se è chiaro che il capitalismo è in crisi e che non ci sono margini per una ripresa, che il futuro non riserva niente di buono, i proletari non hanno ancora recuperato abbastanza fiducia in sé stessi come classe per poter intraprendere una via autonoma da partiti e sindacati: “Molte illusioni non spariscono da un giorno all’altro. Ci vuole tempo”; “Il punto difficile è sempre quello del costruire, perché anche se ci è chiaro che il capitalismo non funziona, non è chiaro invece cosa bisogna fare, qual è l’alternativa. Qual è una società che possa funzionare meglio del capitalismo”.
Dall’altra il fatto che i lavoratori stanno iniziando a rispondere alla crisi: “C’è un tentativo del proletariato di tendere ad associarsi. Il sindacato sul precariato è stato costretto a fare una grande manifestazione, bidone certo, ma quello che era importante è il fatto che la gente stava lì per vedere cosa fare. Gli operai industriali dicono si alla lotta, ma dobbiamo farla con i precari e ciò perché nelle famiglie ci sono i precari. C’è una tendenza da parte del proletariato a darsi delle forme organizzative”.
Questi sono gli elementi, anche se in forma estremamente stringata, che hanno caratterizzato questa giornata. Ma il tutto non si potrebbe capire se, ancora una volta, non ricordassimo che l’elemento propulsivo della stessa giornata del 25 aprile e di tutto quello che si è prodotto dopo è il riemergere della lotta di classe e la disseminazione sul territorio di una quantità molto importante di elementi che sono alla ricerca di una loro identità di classe. Se questa iniziativa ha avuto successo, come testimoniato dal bilancio positivo dei singoli compagni, è perché ci siamo messi nelle condizioni di poter raccogliere questo potenziale che esiste tra i proletari. Noi pensiamo che questo aspetto deve essere compreso e fatto proprio da tutti i compagni, qualunque sia la loro collocazione politica attuale, perché è un aspetto di incoraggiamento per tutti noi, perché significa che non siamo soli, che quand’anche ci riuniamo in pochi da qualche parte, ce ne sono tanti altri che sono in attesa da qualche altra e che aspettano solo di essere incoraggiati, di recuperare fiducia anzitutto in sé stessi. E in un mondo che, tra farse elettorali e politiche sindacali, ci ha narcotizzati con il mito della delega, è chiaro che riprendere in mano il proprio destino non è facile. Ma l’esperienza del 25 aprile dimostra che, una volta scoperta la possibilità di fare a modo proprio, i proletari riescono a recuperare una forza incredibile. Ed è appunto su questa forza incredibile della vecchia talpa che si risveglia che noi poniamo tutte le nostre aspettative per cambiare questo mondo che ci opprime e che non ci garantisce più alcun futuro.
15 giugno 2009 Ezechiele
[2] Per favorire la riflessione dei compagni su come lavorare assieme nel gruppo di discussione che andavano a formare, abbiamo suggerito loro la lettura del nostro articolo “Gruppo di discussione delle Midlands in Gran Bretagna: un luogo di chiarificazione della coscienza di classe”, https://it.internationalism.org [19].
[3] Il volantino è stato pubblicato sul nostro sito web [20].
Di fronte alle guerre imperialiste il solo atteggiamento per il proletariato, conforme ai suoi interessi, è quello, in primo luogo, di rigettare ogni partecipazione ad uno o all’altro dei campi contrapposti; in secondo luogo è denunciare e combattere tutte le forze borghesi che chiamano i proletari, sotto qualsivoglia pretesto, a dare la loro vita per uno di questi campi capitalisti. In questo contesto di guerra imperialista, la classe operaia deve anteporre l’unica prospettiva possibile: lo sviluppo cosciente ed intransigente della propria lotta in vista del capovolgimento del capitalismo. In questo senso l’internazionalismo costituisce e definisce il criterio decisivo dell’appartenenza di un’organizzazione o di una corrente al campo proletariato.
Esso si basa sulle condizioni universali che gli sono imposte dal capitalismo a livello mondiale e cioè il massimo sfruttamento della forza lavoro, in tutti i paesi e su tutti i continenti. Ed è in nome di questo internazionalismo che è nata, dallo stesso movimento operaio, la Prima Internazionale. L’internazionalismo si basa essenzialmente sul fatto che le condizioni di emancipazione del proletariato sono internazionali: al di là delle frontiere e dei fronti militari, delle origini e delle culture, il proletariato trova la sua unità nella lotta comune contro le sue condizioni di sfruttamento e nell’interesse comune all’abolizione del salariato e la costruzione del comunismo. È su questo che si fonda la sua natura di classe.
Per l’anarchismo, in genere, l’internazionalismo è legato a principi astratti, come l’antiautoritarismo, la libertà, il rigetto di ogni potere, l’anti-statalismo, ecc. piuttosto che alla chiara concezione che l’internazionalismo costituisce una frontiera di classe intangibile che delimita il campo proletariato da quello del capitale. E’per tale motivo, come vedremo, che la storia dell’anarchismo è attraversata da oscillazioni permanenti tra prese di posizioni decisamente internazionaliste e posizioni pacifiste umanistiche sterili o apertamente belliciste.
In questa serie di articoli, tenteremo di comprendere perché, nei maggiori momenti di scontro imperialista - come le due guerre mondiali - da un lato, la maggioranza del campo anarchico non è riuscita a difendere gli interessi della nostra classe lasciandosi, al contrario, coinvolgere dal nazionalismo borghese, mentre, dall’altro, una piccola minoranza è riuscita a difendere l’internazionalismo proletario.
Il tradimento dell’internazionalismo da parte della Socialdemocrazia e dell’anarchismo nel 1914
Lo scoppio della Prima Guerra mondiale vede il crollo vergognoso dell’Internazionale Socialista. La stragrande maggioranza dei suoi partiti si sottomette al capitale, dichiara la “sacra unione” con le rispettive borghesie nazionali e si impegna a mobilitare il proletariato per la guerra imperialista. Parimenti, i principali componenti del movimento anarchico si trasformano in guerrafondai a profitto dello Stato borghese. Kropotkin, Tcherkesoff e Jean Grave diventano i più accaniti difensori della Francia: “Non lasciate questi atroci conquistatori schiacciare di nuovo la civiltà latina ed il popolo francese … non lasciate imporre un secolo di militarismo all’Europa” (1). E’ in nome della difesa della democrazia contro il militarismo prussiano che questi sostengono l’“Union Sacrée”: “L’aggressione tedesca è una minaccia – effettuata - non solo contro le nostre speranze di emancipazione ma contro tutta l’evoluzione umana. E’ per tale motivo che noi, anarchici, noi, antimilitaristi, noi nemici della guerra, noi sostenitori appassionati della pace e della fratellanza tra i popoli, ci siamo posti affianco alla resistenza e non abbiamo creduto di dover separare la nostra sorte da quella del resto della popolazione” (2). In Francia, la CGT anarco-sindacalista getta alle ortiche le proprie risoluzioni che le imponevano il dovere, in caso di guerra, di far trionfare lo sciopero generale, e si trasforma in isterica procacciatrice di carne da cannone per la carneficina imperialista: “contro l’autoritarismo, contro il militarismo germanico, bisogna salvare la tradizione democratica e rivoluzionaria della Francia”.“partite senza rimpianti compagni operai, ci chiamano alle frontiere per difendere la terra francese” (3). In Italia, alcuni gruppi anarchici ed anarco-sindacalisti lanciano dei “fasci” “contro la barbarie, il militarismo tedesco e la perfida Austria cattolica e romana”.
Tuttavia questa convergenza della maggioranza della socialdemocrazia e dell’anarchismo in favore del sostegno alla guerra imperialista e allo Stato borghese deriva da dinamiche fondamentalmente diverse.
La posizione della Socialdemocrazia nel 1914 di fronte alla guerra costituisce un tradimento del marxismo, della teoria del proletariato internazionale e rivoluzionario e del suo principio fondamentale - i proletari non hanno patria. Invece l’adesione alla guerra imperialista ed alla borghesia della maggior parte dei dirigenti anarchici internazionali all’epoca della Prima Guerra mondiale non costituisce un passo falso ma la conclusione logica del loro anarchismo, in conformità alle loro posizioni politiche essenziali.
Nel 1914, è in nome dell’antiautoritarismo, perché è inammissibile “che un paese sia violentato da un altro” (4), che Kropotkin giustifica la sua posizione sciovinista in favore della Francia. Fondando il loro internazionalismo su “l’autodeterminazione” e sul “diritto assoluto di ogni individuo, ogni associazione, ogni comune, ogni provincia, ogni regione, ogni nazione a disporre di sé stessi, di associarsi o di non associarsi, di allearsi con chi si vuole o di rompere le alleanze” (5), gli anarchici sposano le divisioni che il capitalismo impone al proletariato. Al fondo, una tale posizione sciovinista ha le sue radici nel federalismo che caratterizza la base di tutta la concezione anarchica. L’anarchismo, ammettendo la nazione come un “fenomeno naturale”, il “diritto di ogni nazione all’esistenza ed al libero sviluppo” e ritenendo che il solo pericolo per “l’esistenza delle nazioni, è la loro propensione a cedere al nazionalismo” “istillato dalla classe dominante per separare i popoli gli uni dagli altri”, è portato naturalmente, in ogni guerra imperialista, ad operare una distinzione tra aggressori/aggrediti, tra oppressori/oppressi e dunque ad optare per la difesa del più debole, del diritto calpestato, ecc. Questo tentativo di basare il rifiuto della guerra su cose diverse dalle posizioni di classe del proletariato, lascia ampi spazi per giustificare il sostegno in favore di uno o dell’altro belligerante, cioè, concretamente, per scegliere un campo imperialista contro un altro.
La fedeltà ai principi internazionalisti affermati dal movimento di Zimmerwald e dallo sviluppo della lotta di classe
Tuttavia, alcuni anarchici riescono ad affermare una posizione realmente internazionalista. Una minoranza di 35 militanti libertari (tra cui A. Berkman, E. Goldmann, E. Malatesta, D. Nieuwenhuis) nel febbraio del 1915 pubblica un manifesto contro la guerra. “Perciò è ingenuo e puerile, dopo avere moltiplicato le cause e le opportunità di conflitto, cercare di stabilire le responsabilità di questo o quel governo. Non c’è distinzione possibile tra le guerre offensive e le guerre difensive. (…) Nessuno dei belligeranti ha il diritto di reclamarsi alla civiltà, come nessuno ha il diritto di dichiararsi in stato di legittima difesa. (…) Qualunque sia la forma che assume, lo Stato non è che l’oppressione organizzata a profitto di una minoranza di privilegiati. Il conflitto attuale illustra ciò in modo sorprendente: tutte le forme di Stato si trovano impegnate nella presente guerra: l’assolutismo in Russia, l’assolutismo mitigato di parlamentarismo in Germania, lo Stato che regna su popoli di razze ben differenti in Austria, il regime democratico costituzionale in Inghilterra, ed il regime democratico repubblicano in Francia. (…) Il ruolo degli anarchici, qualunque sia il luogo o la situazione in cui si trovano, nell’attuale tragedia, è continuare a proclamare che non c’è che una sola guerra di liberazione: quella che, in tutti i paesi, è condotta dagli oppressi contro gli oppressori, dagli sfruttati contro gli sfruttatori” (6). La capacità di mantenersi su delle posizioni di classe è più netta tra le organizzazioni proletarie di massa che, in reazione all’abbandono progressivo di ogni prospettiva rivoluzionaria da parte della socialdemocrazia prima della guerra, si erano orientate verso il sindacalismo rivoluzionario. In Spagna, A. Lorenzo, vecchio militante della Prima Internazionale e fondatore della CNT, denuncia immediatamente il tradimento della socialdemocrazia tedesca, della CGT francese e delle Trade Unions inglesi per “aver sacrificato i loro ideali sull’altare delle rispettive patrie, negando il carattere fondamentalmente internazionale del problema sociale”. Nel novembre 1914 un altro Manifesto firmato da gruppi anarchici, da sindacati e da società operaie di tutta la Spagna, sviluppa le stesse idee: denuncia della guerra, denuncia delle due gang rivali, necessità di una pace che “può essere garantita solo dalla rivoluzione sociale” (7). La reazione è più debole tra gli anarco-sindacalisti sui quali pesa maggiormente l’ideologia anarchica. Ma fin dal tradimento della CGT, una minoranza che si opponeva alla guerra si raggruppa attorno a La Vita Operaia di Monatte e Rosmer (8).
Dilaniata, la nebulosa anarchica si scinde tra anarco-patrioti ed internazionalisti. Dopo il 1915 la ripresa delle lotte da parte del proletariato e l’eco della parola d’ordine di trasformazione della guerra imperialista in guerra civile lanciata dalle conferenze dei socialisti contro la guerra a Zimmerwald e Kienthal (9), permetterà agli anarchici di radicare la loro opposizione alla guerra nella lotta di classe. In Ungheria dopo il 1914, sono dei militanti anarchici a prendere la testa del movimento contro la guerra imperialista. Tra questi, Ilona Duczynska e Tivadar Lukacs introducono e fanno conoscere in Ungheria il Manifesto di Zimmerwald. Sotto l’impulso della conferenza internazionalista, il Circolo Galilea, fondato nel 1908 e composto da una mescolanza di anarchici, socialisti espulsi dalla socialdemocrazia e pacifisti, si radicalizza attraverso un fenomeno di decantazione. Passa dall’antimilitarismo e anticlericalismo al socialismo, da un’attività di circolo di discussione ad un’attività di propaganda più determinata contro la guerra e di intervento attivo nelle lotte operaie in pieno fermento. I suoi volantini disfattisti sono firmati “Gruppo di Socialisti ungheresi affiliati a Zimmerwald”.
In Spagna la lotta contro la guerra, insieme al sostegno entusiasta alle lotte rivendicative che si moltiplicano dalla fine del 1915, costituisce l’attività centrale della CNT. Questa manifesta una chiara volontà di discussione ed una grande apertura rispetto alle posizioni delle Conferenze di Zimmerwald e di Kienthal che vengono salutate con entusiasmo. Discute e collabora con gruppi socialisti minoritari che, in Spagna, si oppongono alla guerra. Fa un grande sforzo di riflessione per comprendere le cause della guerra e come combatterla. Sostiene le posizioni della Sinistra di Zimmerwald ed afferma di volere, insieme a “tutti i lavoratori, che la fine della guerra sia imposta dal sollevamento del proletariato dei paesi in guerra” (10).
Ottobre 1917, faro della Rivoluzione proletaria
Lo scoppio della Rivoluzione in Russia solleva un enorme entusiasmo. Il movimento rivoluzionario della classe operaia e l’insurrezione vittoriosa dell’ottobre ‘17 spingono le correnti proletarie dell’anarchismo a porsi esplicitamente nella loro scia. L’apporto più fruttuoso degli anarchici al processo rivoluzionario si è concretizzato nella collaborazione con i bolscevichi. Anche a livello internazionale si rafforzano ulteriormente la vicinanza politica e la convergenza di vedute dei campi anarchici internazionalisti col comunismo ed i bolscevichi.
In seno alla CNT l’Ottobre ‘17 è visto come un vero trionfo del proletariato. Tierra y Libertad ritiene che “hanno trionfato le idee anarchiche”(11) e che il regime bolscevico sia “guidato dallo spirito anarchico del massimalismo”(12). Solidaridad Obrera afferma che “i Russi ci mostrano la strada da seguire”. Il Manifesto della CNT lancia l’appello: “Guardiamo la Russia, guardiamo la Germania. Imitiamo questi campioni della Rivoluzione proletaria”.
Tra i militanti anarchici ungheresi l’Ottobre ‘17 determina un’azione contro la guerra molto più nettamente determinata verso la rivoluzione. Per sostenere il movimento proletario in piena ebollizione viene fondata nell’ottobre 1918, a partire dal Circolo Galilea, l’Unione Socialista Rivoluzionaria composta essenzialmente da libertari e che raggruppa correnti che si rivendicano sia al marxismo che all’anarchismo.
In questa fase è esemplare la traiettoria di Tibor Szamuely rispetto al contributo dato alla rivoluzione da una buona parte del campo anarchico più legato alla causa del proletariato. Szamuely si è sempre dichiarato anarchico. Mobilitato sul fronte russo, prigioniero nel 1915, entra in contatto con i bolscevichi dopo il febbraio ‘17. Contribuisce ad organizzare un gruppo comunista di proletari prigionieri di guerra e durante l’estate 1918 partecipa ai combattimenti dell’Armata Rossa contro i Bianchi negli Urali. Di fronte allo sviluppo di una situazione pre-rivoluzionaria in Ungheria, ritorna in questo paese nel novembre 1918 e si fa ardente difensore della creazione di un partito comunista atto a dare una direzione all’azione delle masse ed a raggruppare l’insieme degli elementi rivoluzionari. Il riconoscimento dei bisogni imperiosi della lotta di classe e della rivoluzione porta i militanti anarchici a superare la loro avversione verso ogni organizzazione politica ed il loro pregiudizio concernente l’esercizio del potere politico da parte del proletariato. Il Congresso costitutivo del Partito Comunista Ungherese (PCU) ha luogo a fine novembre 1918 e gli anarchici vi partecipano, tra cui O. Korvin e K. Krausz, editore del quotidiano anarchico Tarsadalmi Forrdalom. Il Congresso adotta un programma che difende la dittatura del proletariato.
Il PCU “fin dall’inizio si prodigherà per mettere in opera il potere dei Consigli” (13). Nel movimento rivoluzionario, a partire dal marzo 1919, Szamuely occupa numerose responsabilità tra cui quella dei Commissari agli affari militari che organizzano la lotta contro le attività controrivoluzionarie. Alcuni anarchici, vecchi ribelli di Cattaro (febbraio 1918), formano la squadra d’assalto in seno all’Armata Rossa, sotto la direzione di Cserny. Questa si distinguerà nella difesa di Budapest, nel far fallire il colpo di mano franco-serbo contro la capitale e nel sostegno portato all’effimera Repubblica dei Consigli della Slovacchia nel maggio 1919. Proprio per il loro deciso impegno per la rivoluzione proletaria vengono soprannominati i “Ragazzi di Lenin”.
In Russia, in occasione dell’offensiva bianca contro Pietrogrado (ottobre 1919), gli anarchici mostrano la loro lealtà verso la rivoluzione a dispetto dei loro disaccordi con i bolscevichi. “La Federazione anarchica di Pietrogrado, povera di militanti per aver dato il meglio delle sue forze ai molteplici fronti ed al Partito comunista bolscevico, si è trovata in queste gravi ore (…) completamente accanto al Partito” (14).
La rimessa in causa dei dogmi dell’anarchismo
L’esperienza della guerra mondiale e poi della rivoluzione ha imposto a tutti i rivoluzionari una revisione completa delle idee e del modo d’azione dell’anteguerra. Ma questo adattamento non si è imposto a tutti negli stessi termini.
Di fronte alla guerra mondiale, la sinistra della Socialdemocrazia - i comunisti (bolscevichi e spartachisti in testa) - ha mantenuto un internazionalismo intransigente. La comprensione che il capovolgimento del sistema capitalista da parte del proletariato, unica via per sradicare la barbarie guerriera dalla faccia della terra, era all’ordine del giorno, le ha permesso di giocare un ruolo decisivo per sviluppare ed incarnare la volontà delle masse operaie. Ha saputo assumere i compiti dell’ora ponendosi fondamentalmente nella continuità del suo programma e ha saputo riconoscere che questa guerra inaugurava la fase di decadenza del capitalismo; la qualcosa implicava che lo scopo finale del movimento proletario, il comunismo, il “programma massimo” della socialdemocrazia, costituiva ormai l’obiettivo immediato da raggiungere.
Per gli anarchici il percorso è stato diverso. Per loro, che vedono solamente “popoli”, è stato necessario innanzitutto attestare il loro rigetto della guerra ed il loro internazionalismo su basi diverse dalla retorica idealistica dell’anarchismo e far propria la posizione di classe del proletariato per restare fedeli alla causa della rivoluzione sociale. E’ proprio aprendosi alle posizioni sviluppate dai comunisti, attraverso le conferenze internazionaliste contro la guerra, che sono riusciti a rafforzare la loro lotta contro il capitalismo ed in particolare a superare l’apoliticismo ed il rifiuto di ogni lotta politica tipica delle concezioni ispirate all’anarchismo. Così nella CNT, il testo di Lenin Stato e Rivoluzione ha suscitato uno studio molto attento che ha portato alla conclusone che questo opuscolo “tracciava un ponte che integrava marxismo ed anarchismo”.
Lasciando da parte l’ottica del disprezzo per la politica o dell’antiautoritarismo, la capacità di apprendere dalla pratica della stessa classe operaia nella sua opposizione alla guerra e nel processo rivoluzionario in Russia ed in Germania, ha permesso loro di adottare un atteggiamento internazionalista conseguente. Nel suo Congresso del 1919, la CNT esprime il proprio sostegno alla rivoluzione russa e riconosce la necessità della dittatura del proletariato. Sottolinea l’identità tra i principi e gli ideali della CNT e quelli incarnati da questa rivoluzione e discute della sua adesione all’Internazionale Comunista. Allo stesso modo, in conclusione della sua partecipazione alla Repubblica dei Consigli di Monaco (1919), l’anarchico tedesco E. Mühsam dichiara che “le tesi teoriche e pratiche di Lenin sul compimento della rivoluzione e dei compiti comunisti del proletariato hanno dato alla nostra azione una nuova base (…) Non più ostacoli insormontabili ad un’unificazione di tutto il proletariato rivoluzionario. E’ vero, gli anarchici comunisti hanno dovuto, cedere sul punto di disaccordo più importante tra le due grandi tendenze del socialismo; hanno dovuto rinunciare all’atteggiamento negativo di Bakunin davanti alla dittatura del proletariato e, su questo punto, si sono dovuti arrendere all’opinione di Marx. L’unità del proletariato rivoluzionario è necessaria e non deve essere ritardata. La sola organizzazione capace di realizzarla è il Partito comunista tedesco” (15).
In seno al campo anarchico numerosi elementi sinceramente legati alla rivoluzione sociale sono effettivamente destinati a raggiungere la lotta della classe operaia. L’esperienza storica mostra che ogni volta che elementi e settori anarchici hanno adottato posizioni rivoluzionarie valide, è stato perché si sono basati sulle posizioni proletarie generate dall’esperienza e dal movimento reale della classe operaia e si sono avvicinati ai comunisti per farle fruttare e vivere realmente.
Scott
[21]1. Lettera di Kropotkin a J. Grave, 02.09.1914.
[22]2. “Manifesto dei SEDICI” (così denominato dal numero dei firmatari), 28 febbraio 1916.
3. La Battaglia Sindacale, organo della CGT, nell’agosto 1914.
4. Lettera a J. Grave.
5. D. Guérin, L’Anarchismo.
6. “L’Internazionale Anarchica e la guerra”, febbraio 1915.
7. Vedi “La CNT di fronte alla guerra ed alla rivoluzione (1914-19)” Rivista Internationale n.129 e la nostra serie sulla storia della CNT nei numeri 128 a 133 (in inglese, francese e spagnolo sul nostro sito www.internationalism.org [23].
8. Vedi “L’anarco-sindacalismo di fronte ad un cambiamento di epoca: la CGT fino al 1914”, Rivista Internationale n.120 (idem).
9. Vedi in particolare “La Conferenza di Zimmerwald nel settembre 1915: la lotta dei rivoluzionari contro la guerra”, Rivista Internazionale n.61 - ottobre 2005 (idem).
10. “Sobre la paz dos criterios” (“Due criteri sulla pace”), Solidaridad Obrera, giugno 1917.
11. Tierra y Libertad, 7 novembre 1917.
12. Tierra y Libertad, 21 novembre 1917.
13. R. Bardy: 1919, La Comune di Budapest.
14. V. Serge, L’anno I della rivoluzione russa.
15. Lettera di E. Mühsam all’Internazionale Comunista (settembre 1919), Bollettino Comunista, 22 luglio 1920.
Collegamenti
[1] https://it.internationalism.org/tag/4/84/iran
[2] https://it.internationalism.org/tag/2/29/lotta-proletaria
[3] https://it.internationalism.org/tag/vita-della-cci/lettere-dei-lettori
[4] https://it.internationalism.org/tag/4/66/europa
[5] https://it.internationalism.org/tag/2/31/linganno-parlamentare
[6] https://it.internationalism.org/tag/4/75/italia
[7] https://it.internationalism.org/tag/situazione-italiana/imperialismo-italiano
[8] https://it.internationalism.org/tag/3/48/guerra
[9] https://it.internationalism.org/tag/3/49/imperialismo
[10] https://cepr.org/voxeu
[11] https://it.internationalism.org/tag/3/47/economia
[12] https://inegalites.fr/
[13] https://it.internationalism.org/tag/4/79/spagna
[14] http://www.encuentro.internationalist-forum.org
[15] https://it.internationalism.org/tag/vita-della-cci/corrispondenza-con-altri-gruppi
[16] https://it.internationalism.org/tag/vita-della-cci/interventi
[17] https://it.internationalism.org/tag/4/94/sud-e-centro-america
[18] https://it.internationalism.org/content/giornata-di-incontro-napoli-ritrovarsi-e-discutere-insieme
[19] https://it.internationalism.org/
[20] https://it.internationalism.org/content/volantino-di-un-gruppo-di-lavoratori-studenti-precari-disoccupati-cassintegrati-lavoratori
[21] https://fr.internationalism.org/icconline/2009/les_anarchistes_et_la_guerre_1.html#sdfootnote1anc
[22] https://fr.internationalism.org/icconline/2009/les_anarchistes_et_la_guerre_1.html#sdfootnote2anc
[23] http://www.internationalism.org
[24] https://it.internationalism.org/tag/correnti-politiche-e-riferimenti/anarchismo-internationalista