Decade 2000-2009
Le guerre si susseguono alle guerre. Dopo il Kosovo, Timor Est. Dopo Timor Est, la Cecenia. Tutti rivaleggiano nell’orrore e nei massacri. Il conflitto tra l’esercito russo e le milizie cecene è particolarmente sanguinario e tragico per la popolazione della Cecenia. “L’ultimo bilancio da parte cecena è di 15.000 morti; 38.000 feriti ; 22.000 rifugiati; 124 villaggi completamente distrutti; ai quali si aggiungono 280 villaggi distrutti all’80%. Dicono che 14.500 bambini sono mutilati e 20.000 orfani” (1) (The Guardian, 20/12/99).
Il paese è devastato, raso al suolo, distrutto; la popolazione affamata, esiliata, dispersa, disperata. Per misurare l’ampiezza della catastrofe “umanitaria” in proporzione alla popolazione, queste cifre, per un paese come gli Stati Uniti, equivarrebbero a 2 milioni di morti, 5 milioni di feriti, mutilati e storpiati e 28 milioni di rifugiati! E queste cifre drammatiche sono certamente ancora aumentate.
Ad esse bisogna aggiungere le perdite russe il cui numero, secondo il Comitato delle madri dei soldati russi, arriva come minimo a 1.000 morti e 3.000 feriti (Moscou Times, 24/12/99).
I sopravvissuti della popolazione civile sono o sotterrati nelle cave di Gronzy distrutte dai bombardamenti, senza acqua, senza cibo, senza riscaldamento, vivendo come dei topi terrorizzati; o rifugiati nelle città e nei villaggi devastati sotto il giogo delle varie bande mafiose cecene o della soldatesca russa a sua volta terrorizzata ed ubriaca di alcool, saccheggi e uccisioni; o ancora ammassati in veri e proprio campi di concentramento nelle repubbliche vicine, senza vettovagliamenti, senza cure, senza riscaldamento, sotto le tende dove spesso non c’è neanche il letto. La situazione in questi campi è drammatica. Come nei campi per i rifugiati kosovari dove l’aiuto internazionale arrivava col contagocce - ed era in gran parte deviato dalle mafie albanesi e l’Esercito di Liberazione del Kosovo (l’UCK) - mentre le grandi potenze della Nato (2) sganciavano bombe per miliardi di dollari sulla Serbia ed il Kosovo. Oggi, mentre altre dozzine di miliardi del FMI finanziano a fondo perduto lo Stato russo e la sua guerra, le grandi potenze lasciano crepare la popolazione cecena. “I malati ed i vecchi sono senza assistenza medica. I residenti per nutrirsi scavano nei bidoni della spazzatura sperando di trovare delle patate ormai marce per fare una zuppa. L’acqua presa da un serbatoio antincendio è marrone e piena di insetti, ed anche dopo averla fatta bollire è cattiva” (Moscou Times, 24/12/99). In questi campi i rifugiati subiscono ancora il terrore dei militari russi dopo essere stati taglieggiati, aggrediti, bombardati e mitragliati durante tutto l’esodo. Come titola un articolo di The Guardian (18/12/99), i “rifugiati della guerra in Cecenia non trovano alcun rifugio nei campi (che nessuno) può lasciare senza un’autorizzazione giornaliera che permette di oltrepassare le porte che sono sotto la sorveglianza di guardie armate”.
Da 200 a 300.000 rifugiati sono fuggiti dagli scontri ed i bombardamenti. Nei fatti , la popolazione cecena subisce un vero e proprio omicidio collettivo. I bombardamenti massicci di villaggi e città, il terrore esercitato dalle truppe russe contro la popolazione e le mitragliate dei convogli di rifugiati nei corridoi che l’esercito russo ha aperto, hanno costretto i ceceni alla fuga. Questa epurazione etnica sanguinosa viene dopo quella del 1996 operata dalle forze cecene in seguito alla loro vittoria sull’esercito di Mosca e che vide 400.000 residenti russi lasciare la regione. Così come l’epurazione etnica delle milizie serbe contro i kosovari è stata seguita dall’epurazione delle milizie dell’UCK contro i civili serbi del Kosovo.
Ecco quello che possono dirci oggi televisione e stampa. Si può essere sorpresi dall’ampiezza della campagna fatta nei paesi occidentali che denuncia l’intervento russo, quando essa aveva sostenuto, e con quale fervore, i bombardamenti contro la Serbia ed il Kosovo. Ma questa campagna è particolarmente ipocrita e tenta di mascherare la doppiezza delle grandi potenze occidentali. Perché ciò che non dicono è che le condizioni, i mezzi e le conseguenze di questa guerra, come delle altre, sono sempre più drammatiche, barbare e che queste preparano conflitti ancora più numerosi, vasti e drammatici.
OGGI LE GUERRE IMPERIALISTE SONO UN’ESPRESSIONE DELLA DECOMPOSIZIONE DEL CAPITALISMO
Da che era episodica e limitata ad alcuni paesi particolarmente arretrati, l’epurazione etnica è diventata la norma delle guerre imperialiste lungo tutti gli anni 90, sia in Africa che in Asia e in Europa. Dozzine di milioni di rifugiati nel mondo non rivedranno mai più le loro città, i loro paesi o le loro case. Sono stipati per sempre in dei campi. La situazione dei palestinesi si impone come la norma in tutti i continenti.
Episodica e limitata fino alla fine degli anni 80, si afferma oggi la moltiplicazione di nazionalismi minoritari – quello che la stampa chiama “l’esplosione dei nazionalismi” – che porta a conflitti nazionali ed alla nascita di Stati uno più mafioso e corrotto dell’altro. Il potere e le lotte delle mafie rivali sono ormai la norma. Il traffico di droga, di armi di ogni genere, il banditismo, il kidnapping (3) che sono e continueranno ad essere le principali risorse di queste “nuove nazioni”, sono anch’esse la norma. La situazione afgana – o africana, o colombiana – è generalizzata. La norma? E’ il caos che si estende e si generalizza su tutti i continenti.
Per contro, i bombardamenti massicci che terrorizzano le popolazioni civili non sono un fenomeno nuovo. Questo è caratteristico di tutti i conflitti imperialisti, locali o generalizzati, proprio del periodo di decadenza del capitalismo a partire dalla prima guerra mondiale del 1914. Lo stato di distruzione dell’Europa e del Giappone nel 1945 non aveva niente da invidiare alla Cecenia dell’anno 2000. Ma ciò che è nuovo è che dove passano la guerra e le distruzioni non c’è, e non ci sarà, ricostruzione a differenza di quanto avvenne dopo la seconda guerra mondiale. Né Pristina nel Kosovo, né Kabul in Afganistan, né Brazzaville nel Congo o Grozny dopo il 1996 sono state e saranno mai ricostruite. Le economie distrutte dalla guerra non si riprenderanno. Non ci saranno e non ci possono essere piani Marshall (4). Questa è la situazione della Bosnia, della Serbia, del Kosovo, dell’Afganistan, dell’Iraq, della maggior parte dei paesi africani, di Timor, paesi che hanno vissuto le distruzioni delle guerre degli anni 90, le guerre “moderne”.
La permanenza, l’accumulazione, la moltiplicazione, la coniugazione di tutte queste caratteristiche delle guerre imperialiste proprie al periodo di decadenza del capitalismo nel corso di questo secolo, sono l’espressione del fallimento storico di questo. Sono un’espressione della sua decomposizione.
Abbiamo parlato di ipocrisia e doppiezza per denunciare le campagne attuali sulla guerra in Cecenia. Queste campagne fingono di denunciare l’intervento russo. In realtà, governi, uomini politici, giornalisti, “filosofi” ed altri intellettuali, sono tutti complici nel giustificare la barbarie capitalista ed il terrore dello Stato. Non criticare, non levarsi contro i crimini di massa in Cecenia ha reso tutto l’apparato democratico degli Stati occidentali, in particolare i mass-media, apertamente complice non solo del terrore di Stato russo, ma anche del sostegno delle grandi potenze occidentali ai massacri.
“Che viviate in Africa, in Europa centrale o non importa dove, se qualcuno vuol commettere dei crimini di massa contro una popolazione civile innocente, sappiate che nei limiti delle nostre possibilità, noi l’impediremo” aveva proclamato Clinton alla fine della guerra del Kosovo. Non far finta di denunciare oggi ciò che era servito da pretesto all’intervento militare ieri, avrebbe ridotto a niente le campagne sui diritti d’ingerenza umanitaria e avrebbe limitato le capacità di interventi militari futuri. Fingere di denunciare, invece, permette di continuare la campagna ideologica e rinnovarla.
Qual è la posta in gioco e quali sono gli interessi nella guerra in Cecenia?
Ma c’è solo l’aspetto di propaganda in queste campagne anti-russe? Queste non manifesta delle reali contrapposizioni tra le potenze occidentali e la Russia? Non ci sono conflitti di interessi economici, politici, strategici, cioè imperialisti nel Caucaso in particolare? Gli Stati Uniti non perseguono dei progetti circa gli oleodotti che passando per la Georgia o la Turchia evitano il territorio russo? Non c’è da parte delle diverse potenze la volontà di controllare il petrolio del Caucaso? Cioè di appropriarsi dei guadagni finanziari del suo sfruttamento?
E’ vero che esistono degli interessi antagonisti tra le grandi potenze anche nel Caucaso. E questo è, insieme alla decomposizione dell’URSS e della Russia, l’altro fattore dei conflitti che toccano il Caucaso e l’insieme delle antiche repubbliche sovietiche dell’Asia. E’ questa la ragione della presenza attiva delle diverse potenze locali, soprattutto della Turchia e dell’Iran, e mondiali, europee ed americane, come la Germania e gli Stati Uniti che si contendono l’influenza sulla Turchia. Ma cosa si intende per interessi imperialisti? E’ solo la brama della “rendita petrolifera” e dei benefici che se ne possono trarre?
Per la rendita petrolifera?
Qual è la realtà del petrolio del Caucaso? “La produzione in questa regione non costituisce più un fattore maggiore (…). Questa industria, congiuntamente al mantenimento di una attività di raffineria, rappresenta senza dubbio una risorsa reale di finanziamento per i clan che ne hanno il controllo sul piano locale, ma certamente non una posta a livello federale (cioè a livello della Russia)” (Le Monde Diplomatique, novembre 1999).
Quale è l’interesse vitale direttamente economico per gli Stati Uniti di assicurarsi una produzione così piccola quando controllano senza alcuna difficoltà la gran parte della produzione mondiale di petrolio, sicuramente quella loro, ma anche quella del Medio Oriente e dell’America latina, e le produzioni messicane e venezuelane? Per gli stati Uniti non c’è nessun beneficio finanziario diretto. Allora perché questa attiva presenza americana? Forse per le vie di transito del petrolio? “Se il Caucaso resta l’oggetto di scontri geopolitici importanti è per un altro aspetto: quello delle vie di transito per gli idrocarburi del mar Caspio, anche se il volume reale sembra dover essere rivisto al ribasso. E, a questo riguardo, il vero braccio di ferro che si gioca tra i due versanti della catena (le montagne che separano le repubbliche del Caucaso del nord, appartenenti alla Federazione di Russia, dalle ex-replubbliche sovietiche del Caucaso del sud) si è nettamente inasprito da un anno. La Russia ha sempre difeso l’idea che la maggior parte del petrolio doveva passare sul suo territorio, utilizzando l’oleodotto Baku-Novorissisk (…). Ma, il 17 aprile 1999, è stato aperto ufficialmente un oleodotto che collega Baku a Supsa, un porto georgiano sulla costa del Mar Nero e che si integra praticamente nel sistema di sicurezza dell’Alleanza Atlantica (…). Ora, i presidenti dell’Azerbaijan e della Turchia hanno confermato a metà ottobre, la costruzione di un oleodotto che collega Baku al porto turco mediterraneo di Ceyhan: tutto il petrolio del sud del Mar Caspio eviterebbe così la Russia” (idem).
Si tratta allora di appropriarsi dei benefici economici di tutto il petrolio del Mar Caspio e delle sue vie? Certo i guadagni finanziari di un tale controllo non sono trascurabili per le ex-repubbliche dell’URSS della regione, per la Russia o per la Turchia stessa. E per gli Stati Uniti?
“Ma che il tracciato (del progetto di oleodotto che attraversa la Turchia) adottato la settimana scorsa – che è strategicamente vantaggioso per gli Stati Uniti ma costoso per le compagnie petrolifere – possa essere rapidamente redditizio è ancora un grosso punto interrogativo. Così come la natura e l’estensione delle ricadute politiche con la Russia, il perdente nell’affare” (International Herald Tribune, 22/11/99).
Il vero interesse, il vero obiettivo degli Stati Uniti non è economico ma strategico, ed è lo Stato americano che comanda e dirige in questo caso, malgrado il parere delle compagnie petrolifere, i grandi orientamenti strategici ed economici del capitalismo nord-americano (5). Nel periodo di decadenza del capitalismo, gli interessi ed i conflitti imperialisti sono determinati da questioni geopolitiche e gli interessi direttamente economici, che comunque continuano ad esistere, sono messi al servizio degli orientamenti strategici: “Per l’amministrazione Clinton la prima preoccupazione è strategica: garantire che ogni oleodotto aggiri la Russia e l’Iran e dunque privare queste nazioni del controllo delle nuove riserve di energia per l’Ovest” (idem).
Per interessi strategici
E qui, il vero obiettivo degli Stati Uniti non è tanto assicurarsi la rendita petrolifera, ma piuttosto privare la Russia e l’Iran del controllo delle vie di transito dell’oro nero al fine di assumerne il controllo di fronte… ai grandi rivali europei, in particolare alla Germania. E’ un po' come nel mondo del calcio dove i club più ricchi comprano i grandi giocatori non perchè ne hanno veramente bisogno, ma per toglierli alle squadre rivali. Le vere poste strategiche in questa zona oppongono, in maniera ancora sorda e nascosta ma reale e profonda, le grandi potenze occidentali. Una Russia instabile, pronta a vendersi al migliore offerente, un Iran anti-americano e pro-europeo, cioè pro-tedesco, e che controllerebbe gli oleodotti del petrolio nella regione, costituirebbero un pericolo di indebolimento strategico per gli Stati Uniti. La corte assidua fatta dagli Stati Uniti e dall’Europa alla Turchia, potenza che ha un’influenza imperialista particolarmente estesa in tutta questa regione di lingua turca, gli uni promettendo un oleodotto, gli altri l’entrata nell’Unione Europea, mostra ben la posta in gioco e le vere linee di frattura tra le grandi potenze imperialiste. Per la borghesia americana assicurarsi il petrolio di questa zona significa poter privarne gli europei se necessario e costituirebbe quindi un mezzo di pressione ulteriore e significativo nei rapporti di forza imperialisti. La padronanza sul petrolio della regione non le darebbe vantaggi finanziari - anzi potrebbe anche comportare dei costi - ma un vantaggio strategico particolarmente importante.
LE POTENZE OCCIDENTALI SOSTENGONO LA RUSSIA IN CECENIA
Ipocrite e complici, le campagne della stampa occidentale sulla guerra in Cecenia non si integrano direttamente in questo conflitto geostrategico. Tuttavia la stampa europea è molto più virulenta, rispetto a quella americana, nella denuncia del-l’intervento russo mentre è piuttosto l’avanzata americana che dovrebbe essere presa di mira. Il fatto è che la guerra in Cecenia, benchè legata a questi antagonismi, soprattutto dal punto i vista russo, non ne fa direttamente parte. O più esattamente, essa non è l’oggetto delle brame occidentali come lo è il Caucaso del sud (Georgia, Armenia, Azerbaijan) di cui le potenze imperialiste si disputano il controllo. “Accettiamo il fatto che Mosca protegga il suo territorio” ha affermato Javier Solana, il coordinatore della politica estera dell’Unione europea (Internetional Herald Tribune, 20/12/99), ma aggiungendo “non in questa maniera”, il che è molto delicato da parte dell’ex-segretario generale della Nato, quello stesso che ha dato l’ordine di radere al suolo la Serbia e di farla “ritornare indietro di 50 anni” nel marzo scorso. “Il loro obiettivo (della Russia) è di vincere i ribelli ceceni e di farla finita con il terrorismo in Russia, di porre fine all’invasione delle province vicine come il Daghestan” (Bill Clinton, International Herald Tribune,10/12/99). A queste si aggiungono le dichiarazioni dei principali dirigenti americani ed europei, quali l’ex-pacifista ecologista tedesco, oggi ministro degli affari esteri nel governo di sinistra di Schröder: “Nessuno mette in questione il diritto della Russia di combattere il terrorismo (...) ma le azioni preventive russe sono spesso in contraddizione con la legge internazionale” (J.Fischer, Internationale Herald Tribune, 18/12/99) questo detto da uno dei più ferventi partigiani dell’intervento militare occidentale in Serbia..., intervento ben più illegale dal punto di vista del diritto internazionale e degli organismi come l’ONU di cui si è dotata la borghesia per tentare di regolare le differenze internazionali.
Perchè questa unanimità? Perchè un tale sostegno alla Russia dandole carta bianca per radere al suolo la Cecenia? Non è contraddittorio con la dinamica stessa dei giochi imperialisti presenti nel Caucaso?
La contraddizione delle potenze occidentali: lottare contro il caos in Russia o difendere i loro interessi imperialisti
“Non è solo l’URSS che è in procinto di disgregarsi, ma anche la sua più grande repubblica, la Russia che è ora minacciata di esplodere senza avere i mezzi, se non quello di un bagno di sangue dagli esiti incerti, di far rispettare l’ordine” (Révue Internationale n°68, dicembre 1991). Dal 1991 questa tendenza alla decomposizione dell’ex-URSS e della Russia si è largamente verificata e realizzata. Questa tendenza all’impu-tridimento che tocca l’insieme del mondo capitalista sul piano statale - soprattutto nei paesi più fragili e della periferia -, sul piano politico, sociale, economico, ecologico, si è manifestato con particolare evidenza in Russia.
La situazione catastrofica e caotica della Russia è una fonte di inquietudine per le grandi potenze occidentali (6). Le condizioni dell’intervento militare russo in Cecenia non sono servite a rassicurarle, al contrario. “I generali hanno minacciato di dimettersi in massa ed anche una guerra civile se i politici si immischiavano nella loro campagna, una nuova nota di inquietudine nella disgregazione del potere civile russo allorché esisteva una forte tradizione dei militari a restare al di fuori della politica. La paura che la Russia ispira oggi, dopo un decennio dalla caduta dl muro di Berlino, è quello dello scompiglio e dell’irrazionalità delle sue debolezze (...) Ciò potrebbe essere la grande svolta dell’evoluzione post-comunista della Russia che vedrebbe la sconfitta della lotta per la democrazia e rilancerebbe il caos ed eventualmente un potere militare. E’ per questo che i governi esitano tanto a reagire” (Flora Lewis, “La Russia rischia l’autodistruzione in questa guerra irrazionale”, International Herald Tribune, 13/12/99).
Questa inquietudine e questa esitazione sono condivise dalle principali potenze occidentali nonostante gli antagonismi imperialisti che le dividono. E anche se gli americani stanno dietro la cricca di Eltsin mentre gli europei sostengono attualmente la cricca Primakov, tutti sono d’accordo a non gettare troppo olio sul fuoco e limitare per quanto possibile il peggioramento del caos in questo paese. Da questo punto di vista il successo elettorale del clan di Eltsin alle elezioni legislative di dicembre sono state piuttosto inquietanti per la stabilità politica del paese, con il ritorno di una equipe particolarmente screditata e incapace - se non di riempirsi le tasche - che deve il suo successo solo alle vittorie militari in Cecenia. Le dimissioni di Eltsin e la sua sostituzione con il primo ministro Putin hanno teso chiaramente a far precipitare le elezioni presidenziali ed a garantire alla famiglia corrotta di Eltsin di fruire, senza minacce giudiziarie o altro, delle molteplici sottrazioni di denaro. La ripresa in mano delle redini del potere da parte di un primo ministro, oggi presidente, che si presenta come “l’uomo di polso” può apparire come un colpo di arresto alla delinquenza dello Stato russo, almeno per il momento, e se i primi successi militari in Cecenia si confermano, il che non è detto nonostante l’enorme superiorità dei mezzi russi.
Ma l’aggravamento ineluttabile della situazione economica della Russia e l’espressione delle tendenze centrifughe della Federazione russa che spingono alla sua esplosione, sono cariche di minacce per il paese stesso e per il mondo capitalista. Benché arrugginiti i missili ed i sottomarini nucleari dell’ex-URSS sono ben pericolosi in un paese in piena anarchia ed instabilità politica. E le minacce di Eltsin che affermavano che Clinton criticando, per finta, gli eccessi dell’intervento militare russo, “avevano dimenticato per un minuto che la Russia ha un arsenale completo di armi nucleari” (International Herald Tribune, 10/12/99), non possono essere considerate semplicemente come pagliacciate di un vecchio ubriacone (7). Il semplice fatto che questo buffone corrotto, pieno di vodka, che pizzicava il culo dei suoi segretari davanti alle televisioni del mondo intero, sia potuto restare dieci anni al potere in Russia, la dice lunga sullo stato di decomposizione dell’apparato politico della borghesia russa. Le grandi potenze imperialiste si trovano in una situazione contraddittoria: da una parte, la logica implacabile della concorrenza imperialista li spinge a sfruttare tutte le occasioni per fare le scarpe ai loro rivali ed accentuare così ancora di più il caos e la decomposizione della società, specialmente di paesi come la Russia; dall’altro, esse sono relativamente coscienti di questa dinamica di caos e decomposizione, ne misurano il pericolo e cercano per il momento di porvi un freno, un colpo di arresto. Ma, siamo chiari, sarebbe illusorio credere che il mondo capitalista possa invertire la tendenza alla sua propria decomposizione, così come sarebbe illusorio credere che la logica infernale della competizione imperialista possa interrompersi e non rilanciare ancora di più il caos, le guerre e i massacri. La volontà comune di non infierire sulla Russia non è che temporanea e la logica implacabile degli interessi imperialisti rilancerà di nuovo la tendenza al caos ed alla decomposizione nel Caucaso, come nelle altre regioni del mondo.
Le potenze occidentali sostengono la Russia per limitare il caos
Di fronte alla minaccia di una Russia completamente incontrollabile, esiste tra gli Stati occidentali un accordo tacito per non disputarle il Caucaso del nord che fa parte della Federazione di Russia; ma con l’avvertimento, altrettanto tacito, di non farle riprendere piede nel Caucaso del sud conteso tra le grandi potenze. E questo accordo ha trovato la sua espressione nel sostegno concreto, nella ”autorizzazione” secondo la stampa russa, che le grandi potenze occidentali hanno dato alla Russia per intervenire ed esercitare il suo “diritto legittimo” a nuotare nel sangue della Cecenia. “Nel quadro del trattato sulle armi convenzionali, il summit (dell’OCSE) d’Istanbul (8) ci autorizza a disporre, nel settore militare del Caucaso-Nord, di molti più uomini e di materiali che nel 1995 (600 carri al posto di 350, 2200 veicoli blindati contro 290, 1000 pezzi di artiglieria invece di 640). E’ certo in Cecenia che la Russia concentrerà questa potenza militare” (Obchtchaïa Gazeta, settimanale russo)
Accordiamo alla stampa russa il merito di parlare francamente e di riprodurre fedelmente le intenzioni delle potenze occidentali: “Vi lasciamo il Caucaso-Nord e ci riserviamo il diritto a disputarci il Caucaso-Sud”. Il calvario delle popolazioni del Caucaso non è finito. Questa regione del mondo, come altre, non conoscerà più la pace e non si libererà mai dalle contraddizioni che l’hanno colpita e continueranno a colpirla.
LA DEMOCRAZIA BORGHESE E’ GUERRA E MISERIA
Ipocrite e complici, le campagne mediatiche occidentali non tendono ad attenuare ed ancor meno a lottare contro la barbarie guerriera del capitalismo. Esse si rivolgono principalmente alle popolazioni occidentali e soprattutto alla classe operaia di questi paesi, per nascondere la realtà del legame tra le guerre imperialiste ed il fallimento economico del capitalismo, per nascondere la dinamica infernale e catastrofica nella quale sta strascinando l’umanità. Denunciano la guerra in Cecenia nel nome del “diritto di ingerenza umanitaria” per meglio giustificare la guerra nel Kosovo. Criticano la passività dei governi occidentali per meglio glorificare la democrazia borghese (9) quando tutti i principali protagonisti delle recenti guerre, Kosovo, Timor e ora la Cecenia, sono degli Stati democratici con dei governi democraticamente eletti. “La democrazia non è una garanzia contro le cose disgustose” (International Herald Tribune, 22/12/99) ci dicono per farne un fine, uno scopo di lotta con la quale tutti devono identificarsi: “Abbiamo bisogno di ritrovare un fine negli affari mondiali che sia moralmente, intellettualmente e politicamente irresistibile. La visione democratica conserva una vitalità enorme. Il nostro dovere è aiutare a definire il 21° secolo come il Secolo democratico (…). La democrazia è ora, in modo evidente, un valore universale” (Max M. Kampelman, vecchio diplomatico americano, International Herald Tribune, 18/12/99).
Menzognere, le campagne mediatiche attuali tendono a far credere che è la mancanza di democrazia che provoca le guerre e la miseria. Credere che “la sfida fondamentale alla quale siamo confrontati è il riconoscimento che la lotta politica si pone sempre tra il modo di vita democratico e la negazione della libertà umana e politica” (idem), s’inscrive – come minimo – nella logica della difesa della democrazia borghese per “più democrazia”, come l’hanno ripetuto ossessivamente al momento della grande messa in scena mediatica in occasione delle manifestazioni anti-OMC a Seattle, identificarsi al proprio Stato nazionale, stringersi dietro la propria borghesia nazionale, tutto questo è un impasse ed una trappola. Lungi dal frenare o stoppare questa discesa agli inferi, ogni adesione delle popolazioni, ed in particolare della classe operaia internazionale, agli “ideali” della democrazia borghese, non farà che accelerare ancora di più il corso del mondo verso la barbarie capitalista. Non è forse questa l’esperienza vissuta dal mondo dopo la fine del blocco imperialista dell’Est e l’accesso di questi paesi alla democrazia borghese di tipo occidentale? Non è questo che cercano di nascondere le ripetute campagne mediatiche sui benefici della democrazia? Il caos in Russia e la guerra in Cecenia sono anch’esse il prodotto della democrazia capitalista.
Sostegno agli internazionalisti in Russia
Salvare l’umanità dalla barbarie capitalista passa per un’altra via. Questa via non viene mai evocata dai media della borghesia internazionale, le espressioni di questa non vengono mai menzionate. Eppure esse esistono ed è chiaro che incontrerebbero un seguito significativo se non venissero nascoste, dileguate, perse e rese appena percettibili sotto il fiume di campagne ideologiche della borghesia. La voce del rifiuto dei sacrifici e delle guerre esiste e si esprime. Fedele ai principi internazionalisti del movimento operaio, l’insieme dei gruppi della Sinistra comunista è intervenuto per denunciare la guerra imperialista in Jugoslavia. Questa voce si è espressa anche in Russia. Nel mezzo di una ostilità generalizzata, di una repressione severa, al prezzo di rischi personali particolarmente importanti, nel mezzo dell’isteria nazionalista, noi salutiamo i militanti che hanno saputo levarsi contro l’intervento imperialista russo in Cecenia, che hanno saputo difendere la sola via che possa realmente frenare prima e poi opporsi alla barbarie guerriera.
ABBASSO LA GUERRA!
Non prendeteci per imbecilli!
I vari Eltisin, Maskhadov, Putin, Bassaev….
Sono tutti della stessa risma!
Sono loro che hanno organizzato il terrore a Mosca, a Vogodonsk, nel Daghestan e in Cecenia. E’ il loro affare, la loro guerra. Ne hanno bisogno per rafforzare il loro potere. Ne hanno bisogno per difendere il loro petrolio. Perché i nostri figli dovrebbero morire per i loro interessi? Che i potenti si uccidano tra di loro!
Non date credito ai discorsi stupidi e nazionalisti: non si può accusare un popolo intero di aver commesso dei crimini che sono stati commessi non si sa da chi, ma ai quali non sono interessati che i governi ed i capi di tutte le nazioni.
Non fatevi coinvolgere in questa guerra e non fateci andare i vostri figli! Resistete il più possibile a questa guerra! Fate sciopero contro la guerra ed i suoi istigatori.
Degli internazionalisti di Mosca (10).
Opporsi alla borghesia e rigettare ogni nazionalismo, opporsi allo Stato che sia democratico o no, rifiutare la guerra del capitale e chiamare la classe operaia alla lotta, a difendere le sue condizioni di vita, a levarsi contro il capitalismo, questa è la via. Questa via è quella che deve intraprendere la classe operaia di tutti i paesi, la via della lotta contro lo sfruttamento capitalista, contro la sua miseria ed i suoi sacrifici. Questa via è quella della distruzione del capitalismo, di questo sistema che semina la morte e la miseria ogni giorno di più dappertutto nel mondo. Questa via è quella della rivoluzione comunista.
Le guerre si moltiplicano. La crisi economica provoca disastri. Le catastrofi si succedono alle catastrofi a causa della produzione capitalista sfrenata che distrugge tutto. Il pianeta diventa ogni giorno più invivibile, più irrespirabile, più infernale. A tutti questi mali tragici che porta in sé il capitalismo che non può che accrescerli ed aggravarli, solo la classe operaia internazionale può dare una risposta. Solo il proletariato mondiale può offrire una prospettiva ed una via d’uscita all’umanità.
R.L., 1/1/2000
1. Gli articoli della stampa internazionale sono tradotti da noi.
2. All’epoca abbiamo denunciato i pompieri piromani che avevano provocato deliberatamente la repressione serba e l’esodo dei kosovari (vedi Revue Internationale n.98, la stampa territoriale della CCI ed il volantino internazionale che denunciava la guerra). Le grandi potenze occidentali allora avevano potuto giustificare l’intervento militare agli occhi della propria “pub-blica opinione” utilizzando senza vergogna le centinaia di migliaia di rifugiati provocati dai bombardamenti della Nato. La provocazione, l’intransigenza e la manipolazione delle grandi potenze, particolarmente degli Stati Uniti, per spingere ad ogni costo la guerra contro la Jugoslavia, sacrificando deliberatamente le popolazioni civili kosovare e serbe, sono state confermate in seguito, a più riprese, da giornali specializzati o in articoli discreti, cioè non destinati al “grande pubblico”. Ancora ultimamente l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (OCSE) notava in un rapporto del 6 dicembre che “contrariamente a quello che affermavano parecchi paesi al momento della guerra del Kosovo (…) le esecuzioni sommarie ed arbitrarie (ad opera delle forze serbe) sono diventate un fenomeno generalizzato con l’inizio della campagna aerea della Nato contro la Repubblica federale della Jugoslavia nella notte tra il 24 ed il 25 marzo (…). Fino a quella data, l’attenzione delle forze militari e paramilitari jugoslave e serbe era generalmente portata verso delle zone del Kosovo dove transitavano le forze dell’Esercito di liberazione del Kosovo (UCK) e là dove l’UCK aveva delle basi” (ripreso da Le Monde, 7/12/99).
3. In una lettera ricevuta dalla Russia un lettore ci ha informato dell’esistenza di un vero e proprio traffico di ostaggi nel quale la complicità degli ufficiali russi con i capi delle bande cecene è un dato di fatto. Questo sembra confermato dalla stampa stessa, in particolare la vendita e la liberazione da parte di ufficiali russi a delle gang cecene di loro propri… soldati! Questi diventano poi oggetto di ricatto presso le loro famiglie, alle quali vengono consegnati dietro pagamento di un riscatto che viene diviso tra gli uni e gli altri!
4. A partire dal 1948 il piano Marshall viene messo in opera, al fine di ricostruire l’Europa dell’Ovest, sotto l’egida degli Stati Uniti. Lungi dall’essere disinteressato, questo “aiuto” americano aveva come obiettivo soprattutto quello di assicurare il dominio degli Stati Uniti sull’Europa occidentale contro le mire imperialiste dell’URSS. Il 1947 infatti segna l’inizio della guerra fredda tra i due blocchi imperialisti dell’epoca.
5. La decisione dello Stato americano di imporre la costruzione dell’oleodotto passante per la Turchia non è che uno degli esempi del ruolo mistificatore delle campagne contro il liberismo e l’impotenza degli Stati di fronte alle grandi multinazionali finanziarie ed economiche. Nei fatti, tutta la politica di liberalizzazione sviluppata a partire dagli anni 80 ha rafforzato e reso più efficace, più “flessibile”, e soprattutto ancora più totalitaria l’impresa Stato su tutti gli aspetti della vita sociale. Lungi dall’indebolirsi con il “liberismo” dei Reagan e Thatcher, il capitalismo di Stato non è mai stato tanto sviluppato come oggi. Le campagne internazionali anti OMC – come le manifestazioni alla conferenza di Seattle – che reclamano una vera “democrazia cittadina” hanno un solo scopo: presentare a livello internazionale un’alternativa democratica e di sinistra, una falsa alternativa, al fine di evitare la messa in discussione del capitalismo come tale.
6. La situazione economica, sociale e politica della Russia è una vera catastrofe. La Russia avrà enormi difficoltà ad onorare le prossime scadenze dei suoi debiti internazionali…mentre miliardi vengono inghiottiti dalla guerra. La situazione della popolazione, già in miseria sotto il capitalismo di Stato staliniano, non ha fatto che deteriorarsi dopo l’avvento della democrazia in tutto questo decennio. Le analisi recenti al riguardo sono ancora più drammatiche. Da un articolo del Washington Post ripubblicato in International Herald Tribune del 10/12/99,
“Se la demografia è il destino, il destino della Russia per i prossimi 50 anni è costernante. (…) Circa il 70% delle donne incinte in Russia hanno serie patologie, non solo di anemia (che riflette mancanza di ferro certamente dovuto a malnutrizione) ma anche di aumento di diabete, …. E di malattie che si propagano per via sessuale (a parte l’AIDS): La sterilità aumenta più del 3% all’ anno e più del 15-20% delle coppie sono oggi sterili. La nuova incidenza della sifilide si è moltiplicata per 77 dal 1990 per i due sessi, e per 50 per le ragazze tra i 10 ed i 14 anni (…). I casi di tubercolosi dovrebbero raggiungere un milione nel 2002. E la resistenza dei casi di tubercolosi – già nel numero di 30.000 - alle molteplici medicine ed i 2 milioni di malati di AIDS previsti, andranno a sommergere il sistema della sanità (…). Le cifre riguardanti il cancro ed i casi di morte per infarto cardiaco per i giovani di 15-19 anni sono il doppio rispetto alle cifre americane così come il numero di suicidi rispetto agli Stati Uniti (…). Queste sono delle questioni cruciali da affrontare per un paese che ha una lunga tradizione di espansione. Esso è oggi di fronte ad un futuro che sembra andare nella direzione opposta.” (Murray Feshbach, “Le statistiche della sanità per la Russia sono sinistre”).
E noi abbiamo già menzionato il grado di corruzione e di decomposizione dell’esercito: quando non vendono i loro soldati come schiavi, gli ufficiali vendono le loro armi al maggiore offerente, spesso anche ai ceceni. L’esercito non è che un esempio della realtà della corruzione e della delinquenza di tutta la società russa.
7. Senza dimenticare le minacce e la corsa agli armamenti nucleari tra l’India ed il Pakistan.
8. Questo summit dell’OCSE (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa) si è tenuto a Istanbul il 17 novembre 1999.
9. Vedi le Tesi sulla democrazia borghese e la dittatura proletaria pubblicate nella Revue Internationale n.100, I° trimestre 2000.
10. Questa presa di posizione è stata affissa alle fermate degli autobus e nelle metropolitane, e non diffusa sotto forma di volantino a causa della repressione e dell’isteria nazionalista che c’è in questo momento in Russia. La causa immediata di questo clima sciovinista e razzista? Gli attentati attribuiti agli islamici ceceni in Russia che sono quasi certamente l’opera, provocatoria, dei servizi segreti russi.
Questo rapporto ha come primo obiettivo quello di combattere le campagne ideologiche della borghesia sulla “fine della lotta di classe” e la “scomparsa della classe operaia”, per sostenere che, malgrado le sue attuali difficoltà, il proletariato non ha perduto il suo potenziale rivoluzionario. Nella prima parte di questo rapporto, non pubblicato qui per ragioni di spazio, abbiamo mostrato che il rigetto della borghesia di questo potenziale si basa su una impostazione immediatista che prende lo stato della lotta di classe in un determinato momento come valido per ogni momento. A questo procedimento superficiale ed empirico, noi opponiamo il metodo marxista che sostiene che “il proletariato non può esistere che in quanto forza storica e mondiale, come il comunismo, azione del proletariato, che non è concepibile se non in quanto realtà storica e mondiale.” (Marx, L’ideologia tedesca).
Qui pubblichiamo solo la parte del rapporto centrata più particolarmente sull’evoluzione del movimento dopo la ripresa della lotta di classe alla fine degli anni ’60. Anche alcuni passaggi che trattano di situazioni recenti e a corto termine sono stati tagliati o sintetizzati.
1968-1989: il risveglio del proletariato
(…) Il significato profondo degli avvenimenti di maggio-giugno 1968 in Francia risiede in questo: l’emergere di una nuova generazione di operai che non era stata schiacciata né demoralizzata dalle miserie e dalle sconfitte dei decenni precedenti, che era stata abituata a un livello di vita relativamente elevato durante gli anni del “boom” del dopoguerra e che non era disposto a sottomettersi alle esigenze di una economia nazionale di nuovo sprofondata nella crisi. Il grande sciopero generale di 10 milioni di operai in Francia – che andava di pari passo con un enorme fermento politico per cui la nozione di rivoluzione, di trasformazione del mondo, tornava ad essere un oggetto di discussioni impegnate – ha marcato il rientro della classe operaia sulla scena della storia, la fine dell’incubo della controrivoluzione che le aveva tolto il fiato per tanto tempo. L’importanza del “maggio strisciante” in Italia e dell’ ”autunno caldo” l’anno successivo sta nel fatto che essi hanno portato la conferma di questa interpretazione, contro tutti quelli che non vedevano nel maggio ’68 in Francia che una rivolta studentesca. L’esplosione della lotta del proletariato italiano, che è il più avanzato al mondo dal punto di vista politico, con la sua potente dinamica antisindacale, ha chiaramente mostrato che il maggio ’68 non era stato un fulmine a ciel sereno, ma l’apertura di tutto un periodo di lotte di classe su scala internazionale. I successivi movimenti di massa (Argentina 1969, Polonia 1970, Spagna ed Inghilterra 1972, ecc.) costituirono una conferma supplementare.
Non tutte le organizzazioni rivoluzionarie esistenti sono state capaci di vederlo: le più vecchie, e in particolare la corrente bordighista, prese da una miopia crescente nel corso degli anni, sono state incapaci di vedere il profondo cambiamento che stava avvenendo nel rapporto di forza globale fra le classi; ma quelle che sono state capaci allo stesso tempo di capire la dinamica di questo nuovo movimento e di riappropriarsi del vecchio metodo della sinistra italiana che costituì un polo di chiarezza nella penombra della controrivoluzione, hanno dichiarato l’apertura di un nuovo corso storico, fondamentalmente diverso da quello che aveva prevalso nell’apogeo della controrivoluzione, dominata dal corso verso la guerra.
La riapertura della crisi economica mondiale avrebbe portato a una esacerbazione degli antagonismi imperialisti che, se avessero seguito la propria dinamica interna, avrebbero condotto l’umanità a una terza e forse ultima guerra mondiale. Ma nella misura in cui il proletariato aveva cominciato a rispondere alla crisi sul suo proprio terreno di classe, esso costituiva un ostacolo fondamentale a questa dinamica. In più, sviluppando le sue lotte di resistenza, il proletariato si mostrava capace di avanzare una sua dinamica verso un secondo assalto rivoluzionario contro il sistema capitalista.
La natura di massa di questa prima ondata di lotte, il fatto che essa aveva di nuovo permesso di parlare di rivoluzione, portò molti elementi sorti con questo movimento a prendere i loro desideri per realtà e a pensare che il mondo fosse sull’orlo di una crisi rivoluzionaria fin dall’inizio degli anni settanta. Questa forma di immediatismo era basata sull’incapacità di capire che:
· la crisi economica che aveva provocato lo scoppio delle lotte non era che alla sua fase iniziale e che, contrariamente agli anni ’30, questa crisi si imponeva a una borghesia armata di esperienza e fornita degli strumenti che la rendevano capace di “gestire” la discesa nell’abisso, e cioè il capitalismo di Stato, l’utilizzazione di organi costituiti a livello di blocco, la capacità di contenere gli effetti più nefasti di questa crisi attraverso il ricorso al credito e spostando il suo impatto verso la periferia del sistema;
· gli effetti politici della controrivoluzione avevano ancora un effetto considerevole sulla classe operaia, a causa della rottura quasi totale della continuità con le organizzazioni politiche del passato, il debole livello di cultura politica nel proletariato nel suo complesso e la sua inveterata diffidenza verso “la politica” risultante dall’esperienza traumatica dello stalinismo e della socialdemocrazia.
Questi fattori apportavano la certezza che il periodo di lotta aperto nel 1968 non poteva che essere lungo. In contrasto con la prima ondata rivoluzionaria che era nata in risposta ad una guerra, e che per questo si era portata subito su un piano politico - troppo in fretta probabilmente, come nota Rosa Luxemburg rispetto alla rivoluzione del novembre 1918 in Germania - , le battaglie rivoluzionarie del futuro non potevano essere che preparate da tutta una serie di lotte di difesa economica che sono forzate a seguire un processo, difficile e diseguale, fatto di avanzate e di riflussi.
La risposta della borghesia francese al Maggio ’68 è stato il segnale della controffensiva della borghesia mondiale: per disperdere la lotta di classe si è fatto ricorso alla trappola elettorale (dopo che i sindacati avevano operato il sabotaggio delle lotte); agli operai è stata agitata la promessa di un governo di sinistra e l’illusione che questo avrebbe risolto tutti i problemi che avevano provocato le lotte, che avrebbe istituito un regno di prosperità e di giustizia, e anche un po’ di “controllo operaio”. Gli anni ’70 possono quindi essere caratterizzati come gli anni delle “illusioni”, nel senso che la borghesia, grazie a uno sviluppo ancora limitato della crisi economica, poteva ancora vendere queste illusioni al proletariato. Fu questa controffensiva a spezzare lo slancio della prima ondata internazionale di lotte.
Ma l’incapacità della borghesia a mantenere le sue promesse significava che la ripresa delle lotte era solo una questione di tempo. Tra il 1978 e il 1980 ci furono lotte importanti: Longwy-Denain in Francia, con una tendenza all’estensione al di là del settore siderurgico e al confronto con l’autorità sindacale; lo sciopero dei portuali di Rotterdam, dove nacque un comitato di sciopero autonomo; in Gran Bretagna, “l’inverno dello scontento” che vide l’esplosione simultanea di lotte in numerosi settori e lo sciopero della siderurgia nel 1980; infine, la Polonia 1980, punto culminante di questa ondata e in qualche modo di tutto il periodo di ripresa.
Alla fine di questo vivace decennio, la CCI aveva annunciato che gli anni ’80 sarebbero stati “gli anni della verità”, non nel senso, come è stato spesso mal interpretato, che esso sarebbe stato il decennio della rivoluzione, ma nel senso che le illusioni degli anni ’70 sarebbero state spazzate via dalla brutale accelerazione della crisi e dai conseguenti drastici attacchi alle condizioni di vita della classe operaia; un decennio nel corso del quale la stessa borghesia avrebbe parlato un linguaggio crudo, quello che promette “lacrime e sangue” o come quello della Tatcher che affermava “non c’è alternativa”. Questo cambiamento di linguaggio corrispondeva anche a un cambiamento nella linea politica della classe dominante, con la messa al potere di una destra dura a condurre gli attacchi contro la classe operaia, e una sinistra falsamente radicalizzata all’opposi-zione, incaricata di sabotare e deviare dall’interno la risposta degli operai. Infine, gli anni ’80 sarebbero stati quelli della verità perché l’alternativa storica che si pone all’umanità – guerra mondiale o rivoluzione mondiale – non solo sarebbe diventata più chiara, ma sarebbe stata in un certo senso determinata dagli avvenimenti che si sarebbero avuti nel decennio che si apriva.
Ed effettivamente gli avvenimenti che inaugurarono il decennio lo mostravano chiaramente: da un lato l’invasione russa dell’Afga-nistan metteva crudelmente in luce la “risposta” della borghesia alla crisi e apriva un periodo di acutizzazione delle tensioni tra i blocchi (illustrata dagli avvertimenti di Reagan contro l’Impero del Male e dalle enormi spese militari legate a programmi tipo “guerre stellari”), dall’altro lo sciopero di massa in Polonia faceva chiaramente intravedere la risposta proletaria.
La CCI ha sempre sostenuto l’importanza cruciale di questo movimento: “ Questa lotta ha dato una risposta a tutta una serie di questioni che le lotte precedenti avevano posto senza trovare una risposta o senza trovarne una chiara:
· la necessità dell’estensione della lotta (sciopero dei portuali di Rotterdam);
· la necessità della sua autorganizzazione (siderurgia in Gran Bretagna);
· l’atteggiamento di fronte alla repressione (lotta dei siderurgici di Longwy-Denain).
Su tutti questi punti, le lotte in Polonia rappresentano un gran passo in avanti della lotta mondiale del proletariato ed è per questo che queste lotte sono le più importanti da mezzo secolo a questa parte.” (“Risoluzione sulla lotta di classe”, 4° congresso della CCI, 1981, su Révue Internationale n. 26).
In pratica il movimento polacco aveva mostrato come il proletariato potesse ergersi a forza sociale unificata capace non solo di resistere agli attacchi del capitale, ma anche di far intravedere la prospettiva del potere operaio, un pericolo ben individuato dalla borghesia che mise da parte le sue rivalità imperialiste per soffocare il movimento, in particolare con la messa in piedi del sindacato Solidarnosc.
Rispondendo alla questione di come estendere e organizzare la lotta al fine di unificarla, lo sciopero di massa in Polonia ha posto un’altra questione: quella della generalizzazione dello sciopero di massa al di là delle frontiere nazionali, come condizione indispensabile per l’apertura di una situazione rivoluzionaria. Ma, come dicemmo anche allora, questa non poteva essere una prospettiva immediata. La questione della generalizzazione era stata posta in Polonia ma toccava al proletariato mondiale, e in particolare a quello dell’Europa occidentale trovare la risposta.
(…) la prospettiva rivoluzionaria richiede un proletariato concentrato e soprattutto sperimentato e “istruito”. Il proletariato dei paesi dell’est ha un passato rivoluzionario glorioso, ma esso è stato completamente annullato dagli orrori dello stalinismo, il che spiega l’enorme fossato tra l’alto livello di auto-organizzazione e di estensione del movimento in Polonia e la sua bassa coscienza politica (predominanza della religione e soprattutto dell’ideologia democratica e sindacale). Il livello politico del proletariato dell’Europa dell’ovest, che per decenni ha fatto l’esperienza delle “delizie” della democrazia, è notevolmente più elevato (cosa dimostrata, tra l’altro, dalla presenza in Europa della maggioranza delle organizzazioni rivoluzionarie internazionali). E’ innanzitutto e soprattutto nell’Europa occidentale che noi dobbiamo cercare la maturazione delle condizioni per il prossimo movimento rivoluzionario della classe operaia.
La profonda controrivoluzione che si è scatenata sulla classe operaia durante gli anni venti ha disarmato il proletariato nel suo insieme. Tuttavia si può dire che il proletariato di oggi ha un vantaggio sulla generazione rivoluzionaria del 1917: oggi non ci sono grandi organizzazioni rivoluzionarie che sono appena passate nel campo della borghesia e che per questo siano capaci di suscitare ancora una fiducia in una classe operaia che non ha avuto il tempo di assimilare le conseguenze storiche del loro tradimento. Questo fatto aveva costituito, con la socialdemocrazia, una causa importante nel fallimento della rivoluzione tedesca nel 1918-19. La distruzione sistematica delle tradizioni rivoluzionarie del proletariato, la sfiducia che la classe ne ha tirato verso ogni organizzazione politica, la sua amnesia verso la sua propria storia (fattore che si è notevolmente accelerato nel corso dell’ultimo decennio) costituiscono una grave debolezza per la classe operaia di tutto il pianeta.
Il proletariato dell’Europa occidentale non era pronto a cogliere la sfida posta dallo sciopero di massa in Polonia. La seconda ondata di lotta era stata smussata con la strategia della sinistra all’opposi-zione; gli operai polacchi si sono trovati isolati nel momento in cui avevano più bisogno che la lotta si allargasse in altri paesi. Questo isolamento (coscientemente imposto dalla borghesia internazionale) ha aperto le porte ai carri armati di Jaruzelski. La repressione del 1981 in Polonia segnò la fine della seconda ondata di lotte.
Avvenimenti storici di tale ampiezza hanno conseguenze a lungo termine. Lo sciopero di massa in Polonia ha provato definitivamente che solo la lotta di classe può costringere la borghesia a mettere da parte le sue rivalità imperialiste. In particolare esso ha mostrato che il blocco russo -– storicamente condannato, a causa della sua debolezza, ad essere “l’aggressore” in ogni guerra – era incapace di rispondere alla crisi economica con una politica di espansione militare. Si era chiarito che gli operai del blocco dell’est (e, molto probabilmente, della stessa Russia) non potevano assolutamente essere arruolati come carne da cannone in una qualunque futura guerra per la gloria del “socialismo”. Così lo sciopero di massa in Polonia è stato un fattore importante della successiva implosione del blocco imperialista russo.
Benché incapace di porre la questione della generalizzazione, la classe operaia occidentale non ha battuto in ritirata per lungo tempo. Con una prima serie di scioperi nel settore pubblico in Belgio nel 1983 essa si è lanciata in una “terza ondata” di lotte molto lunga che anche se non è sfociata nello sciopero di massa, ha mostrato una dinamica globale verso questo sbocco.
Nella nostra risoluzione del 1980 citata prima, facevamo un paragone tra la situazione della classe attuale con quella del 1917. La realtà della guerra faceva sì che ogni resistenza della classe finiva direttamente con il confrontarsi con lo Stato e per questo a porre la questione della rivoluzione. Allo stesso tempo la guerra implicava numerosi inconvenienti (la capacità della borghesia a seminare divisione tra gli operai dei paesi “vincitori” e quelli dei paesi “vinti”; a tagliare l’erba sotto i piedi della rivoluzione ponendo fine alla guerra, e così via). Una crisi economica lunga e internazionale tende viceversa non solo a uniformare le condizioni d’insieme della classe, ma dà anche al proletariato più tempo per sviluppare le sue forze, per sviluppare la sua coscienza attraverso tutta una serie di lotte parziali contro gli attacchi del capitale. L’ondata rivoluzionaria degli anni ’80 aveva chiaramente questa caratteristica: se nessuna lotta aveva il carattere spettacolare del maggio 1968 in Francia o del 1980 in Polonia, ognuna ha però contribuito ad apportare alcune importanti chiarificazioni sul perché e come lottare. Per esempio, il richiamo alla solidarietà per superare i limiti settoriali contenuto nelle lotte in Belgio del 1983 e del 1986 o in Danimarca nel 1985, ha mostrato concretamente come poteva essere risolto il problema dell’estensione; lo sforzo dei lavoratori di prendere in mano le loro lotte (assemblee dei ferrovieri in Francia nel 1986, o dei lavoratori della scuola in Italia nel 1987) hanno mostrato come organizzarsi al di fuori dei sindacati. Ci sono anche stati tentativi maldestri di tirare le lezioni delle sconfitte come in Gran Bretagna per esempio, dopo le lunghe, combattive ma massacranti lotte condotte dai minatori e dai tipografici a metà degli anni ’80; lotte, alla fine del decennio, che hanno mostrato che gli operai non volevano essere trascinati nelle stesse trappole (gli operai di British Telecom che sono scesi in sciopero per poi riprendere il lavoro prima di essere demoralizzati; le lotte simultanee in diversi settori durante l’estate 1988). Allo stesso tempo l’apparizione di comitati di lotta in diversi paesi apportava un inizio di risposta su come gli operai più combattivi possono agire di fronte alla lotta nel suo insieme.
Tutti questi fatti, apparentemente senza legame l’uno con l’altro, convergevano verso un unico punto che, se fosse stato raggiunto, avrebbe rappresentato un approfondimento qualitativo della lotta di classe internazionale.
Tuttavia, a un certo livello, il fattore tempo ha cominciato a giocare di meno in favore del proletariato. Confrontata all’approfondirsi di una crisi di tutto un modo di produzione, di una forma storica di civilizzazione, la lotta di classe, pur continuando ad andare avanti, non è riuscita a tenere il ritmo dell’accelerazione della situazione, non arrivando al livello richiesto perché il proletariato si affermi in quanto forza rivoluzionaria positiva. Malgrado ciò, la lotta della classe continuava a bloccare la marcia verso una guerra mondiale. Così, per la maggior parte dell’umanità e del proletariato stesso, la realtà della terza ondata è rimasta piuttosto dissimulata, a causa certo del black out della borghesia, ma anche per la sua progressione lenta e non spettacolare. La terza ondata era anche “nascosta” per la maggioranza delle organizzazioni politiche del proletariato che tendevano a non vedere che le sue espressioni più aperte, e in più a non vederle che come dei fenomeni separati, senza connessioni.
Questa situazione, in cui nonostante una crisi senza tregua la classe dominante non riusciva neanche essa a imporre la sua “soluzione”, ha dato origine al fenomeno della decomposizione, che è diventato sempre più identificabile, nel corso degli anni ’80, a diversi livelli: a livello sociale (atomizzazione crescente, delinquenza, diffusione dell’uso di droghe, ecc.) , ideologico (sviluppo di ideologie irrazionali e fondamentaliste), ecologico, ecc. Essendo il prodotto di un blocco della situazione, un blocco dovuto al fatto che nessuna delle due classi fondamentali della società arriva a imporre la sua “soluzione”, la decomposizione agisce a sua volta nel senso di minare la capacità del proletariato di ergersi a forza unita; alla fine del decennio, la decomposizione è sempre più al centro della scena, culminando nei giganteschi avvenimenti del 1989 che hanno marcato l’apertura definitiva di una nuova fase nella lunga caduta del capitalismo in fallimento, una fase durante la quale tutto l’edificio sociale ha cominciato a scricchiolare, tremare e crollare.
1989-99: la lotta di classe di fronte alla decomposizione della società borghese
Il crollo del blocco dell’est si è dunque imposto a un proletariato che, per quanto combattivo e sulla strada di sviluppare la sua coscienza di classe, non aveva ancora raggiunto il livello necessario per essere capace di reagire sul suo terreno di classe ad un avvenimento storico di una tale importanza.
Il crollo del blocco dell’est e l’enorme, mistificatoria campagna ideologica sulla “morte del comunismo” che la borghesia ha sviluppato in questa occasione ha bloccato la terza ondata e (ad eccezione di una debole minoranza politicizzata della classe operaia) ha avuto un impatto profondamente negativo sulla coscienza di classe, elemento fondamentale per la capacità della classe di sviluppare una prospettiva, di mettere avanti uno scopo globale alla lotta, in un periodo tra l’altro in cui è sempre più difficile separare le lotte difensive dalla battaglia offensiva e rivoluzionaria del proletariato.
Il crollo del blocco dell’est ha portato un colpo alla classe in due maniere:
· ha permesso alla borghesia di sviluppare tutta una serie di campagne sul tema della “morte del comunismo” e della “fine della lotta di classe” che ha profondamente intaccato la capacità della classe di situare le sue lotte nella prospettiva della costruzione di una nuova società, ergendosi a forza autonoma e antagonista al capitale. La classe operaia, non avendo giocato alcun ruolo specifico negli avvenimenti del 1989-91, è stata toccata profondamente a livello della fiducia in se stessa. Sia la combattività che la coscienza della classe hanno subito un riflusso considerevole, certamente il più profondo dopo la ripresa storica del 1968. I sindacati hanno ricavato il più grande profitto da questa perdita di fiducia, facendo un ritorno trionfale come “solo e vero mezzo che hanno gli operai” per difendersi;
· allo stesso tempo, il crollo del blocco dell’est ha aperto le porte a tutte le forze della decomposizione che stavano alla sua origine, sottoponendo sempre più la classe alla putrida atmosfera del “ciascuno per sé”, alle influenze nefaste del gangsterismo, del fondamentalismo, ecc. In più la borghesia si è mostrata capace di rivolgere contro la classe operaia le manifestazioni della decomposizione del suo sistema. Un esempio tipico di questo è stato l’affare Doutroux in Belgio, dove le sporche pratiche delle cricche borghesi sono state utilizzate come pretesto per trascinare la classe operaia in una vasta campagna democratica per un “governo pulito”. L’utilizzazione della mistificazione democratica è diventata sempre più sistematica, perché essa è allo stesso tempo la “logica conclusione da tirare dalla fine del comunismo” (secondo la borghesia) e costituisce lo strumento ideale oggi per accrescere l’atomizzazione della classe e incatenarla allo Stato capitalista. Le guerre provocate dalla decomposizione – il massacro del Golfo nel 1991, l’ex-Yugoslavia, ecc. – hanno certamente permesso a una minoranza di vedere più chiaramente la natura militarista e barbara del capitalismo, ma hanno anche l’effetto più generale di aumentare il senso di impotenza nel proletariato, il sentimento di vivere in un mondo crudele e irrazionale nel quale non c’è altra soluzione che quella di nascondere la testa sotto la sabbia.
La situazione dei disoccupati mostra con chiarezza i problemi che si pongono oggi alla classe. Fino all’inizio degli anni ottanta la CCI aveva considerato i disoccupati come una fonte potenziale di radicalizzazione per l’insieme del movimento di classe. Ma sotto il peso della decomposizione si è visto che è risultato sempre più difficile per i disoccupati sviluppare le loro proprie forme collettive di lotta e organizzazione, essendo essi particolarmente vulnerabili agli effetti più distruttivi della decomposizione (atomizzazione, delinquenza, ecc.). E questo è vero in particolare per i disoccupati giovani, che non hanno mai fatto l’esperienza della disciplina collettiva e della solidarietà del lavoro. Allo stesso tempo questa influenza negativa è stata aggravata dalla tendenza del capitale a “disindustrializzare” i suoi settori “tradizionali” – miniere, cantieri navali, siderurgia, ecc. – dove gli operai hanno una lunga esperienza di solidarietà di classe. Invece di portare la loro forza collettiva alla loro classe, questi proletari hanno avuto tendenza a diluirsi in una massa inerte, finendo con il togliere all’insieme della classe una sorgente importante di identità e di esperienza.
I pericoli contenuti nel nuovo periodo per la classe operaia e l’avvenire delle sue lotte non possono essere sottostimati. Se la lotta della classe operaia ha chiaramente sbarrato la strada alla tendenza alla guerra mondiale negli anni settanta e ottanta, essa non può né fermare né rallentare il processo di decomposizione. Per scatenare una guerra mondiale, la borghesia avrebbe dovuto infliggere una serie di sconfitte importanti ai battaglioni centrali della classe operaia. Oggi, il proletariato è confrontato a una minaccia, dai tempi lunghi ma non meno pericolosa, di una cottura “a fuoco lento” in cui la classe operaia viene sempre più schiacciata da questo processo di decomposizione, fino a poter perdere la sua capacità di affermarsi in quanto classe, mentre il capitalismo passa di catastrofe in catastrofe (guerre locali, catastrofi ecologiche, carestie, epidemie, ecc.). Tutto questo può arrivare fino al punto che le premesse stesse per una società comunista possono essere distrutte per intere generazioni, per non parlare della possibilità stessa della distruzione totale dell’umanità.
Secondo noi, malgrado i problemi posti dalla decomposizione, malgrado il riflusso della lotta di classe avutosi in questi ultimi anni, la capacità del proletariato di lottare, di reagire al declino del sistema capitalista, non è sparita, e il corso verso scontri di massa resta aperto. Per mostrare questo è necessario esaminare di nuovo la dinamica generale della lotta di classe dall’inizio della fase di decomposizione.
L’evoluzione della lotta di classe dopo il 1989
Come la CCI aveva previsto all’epoca, nel corso dei due o tre anni che hanno seguito il crollo del blocco dell’est il riflusso della classe operaia è stato molto marcato sia a livello della sua coscienza che della combattività La classe operaia subiva in pieno la campagna sulla “morte del comunismo”.
Nel corso del 1992 gli effetti di questa campagna hanno cominciato a diminuire e si sono potuti vedere dei primi segni di una ripresa della combattività, in particolare attraverso la mobilitazione degli operai italiani contro le misure di austerità del governo Amato nel mese di settembre. Queste mobilitazioni sono state seguite in ottobre dalle manifestazioni dei minatori contro la chiusura delle miniere in Inghilterra. Alla fine del 1993 ci sono stati nuovi movimenti di lotta in Italia, in Belgio, in Spagna e soprattutto in Germania con scioperi e manifestazioni in numerosi settori, in particolare nell’edilizia e in quello automobilistico.
Nell’editoriale della nostra Révue Internationale n. 76, opportunamente intitolato “la difficile ripresa della lotta di classe”, dicevamo: “la calma sociale che regnava da quasi quattro anni è definitivamente interrotta”. Pur salutando questa ripresa della combattività nella classe, la CCI sottolineava le difficoltà e gli ostacoli con cui questa ripresa si sarebbe confrontata: la forza ritrovata dei sindacati; la capacità della borghesia di manovrare contro di essa, in particolare la sua capacità di scegliere il momento e i temi su cui provocare movimenti importanti; la capacità della classe dominante di utilizzare a pieno il fenomeno della decomposizione per rafforzare l’ato-mizzazione della classe (all’epoca c’era un grande utilizzo degli scandali, di cui un esempio importante fu la campagna su “mani pulite” in Italia).
Nel dicembre del 1995 tutto l’ambiente politico rivoluzionario ha subito una prova importante. Sull’onda di un conflitto nelle ferrovie e a seguito di una attacco molto provocatorio alla protezione sociale di tutti i lavoratori, tutto concorreva a far sembrare la Francia sull’orlo di un movimento molto importante, con scioperi e assemblee generali, con slogan lanciati dai sindacati e gridati dai lavoratori che mettevano in evidenza come la sola maniera per vincere era quella di “lottare tutti assieme”. Un certo numero di gruppi rivoluzionari, normalmente scettici sulla lotta di classe in generale, si sono particolarmente entusiasmati per questo movimento. La CCI, al contrario, ha messo in guardia gli operai sul fatto che questo “movimento” era innanzitutto il prodotto di una gigantesca manovra della classe dominante che, cosciente del malcontento crescente in seno alla classe operaia, cercava di fare un’opera preventiva prima che la collera sfociasse in una vera lotta spontanea. In particolare, presentando i sindacati come i campioni della lotta, come i migliori difensori dei metodi operai di lotta (assemblee, delegazioni di massa verso gli altri settori, ecc.) la borghesia cercava di rafforzare la credibilità del proprio apparato sindacale, in preparazione di futuri scontri importanti. Benché la CCI sia stata molto criticata per la sua “visione cospiratrice” della lotta di classe, questa analisi è stata confermata in seguito. Le borghesie belga e tedesca, con i loro sindacati, hanno in effetti effettuato delle copie conformi del “movi-mento francese”, mentre in Gran Bretagna (campagna sui portuali di Liverpool) e negli Stati Uniti (sciopero alla UPS) avevano luogo diversi tentativi di rinnovamento dell’immagine dei sindacati.
L’ampiezza di queste manovre non ha rimesso in discussione la tendenza strisciante alla ripresa della lotta di classe. In effetti si potrebbe dire che queste manovre, destinate a provocare lotte in condizioni sfavorevoli e spesso su parole d’ordine sbagliate, costituiscono una misura del pericolo costituito dalla classe operaia.
Il grande sciopero in Danimarca all’inizio dell’estate del 1998 ha portato una importante conferma delle nostre analisi. A prima vista questo movimento sembrerebbe avere molte somiglianze con gli avvenimenti del dicembre 1995 in Francia. Ma, come scrivemmo nel nostro editoriale della Révue Internationale n. 94, non era così: “Nonostante la sconfitta dello sciopero e le manovre della borghesia, questo movimento non ha lo stesso significato di quello del dicembre 1995 in Francia. In particolare, mentre in Francia il ritorno al lavoro si era fatto sotto un sentimento di euforia,con una sensazione di aver vinto che non lasciava spazio a una rimessa in discussione del sindacalismo, la fine dello sciopero in Danimarca era accompagnata da un sentimento di sconfitta e da poche illusioni sui sindacati. Questa volta l’obiettivo della borghesia non è stato quello di lanciare una vasta campagna internazionale di credibilizzazione dei sindacati, ma di bagnare le polveri, di giocare d’anticipo su un malcontento e una combattività crescente che si faceva spazio poco a poco sia in Danimarca che in altri paesi d’Europa e non.”
Questo editoriale mostra anche altri aspetti importanti dello sciopero: il suo essere di massa (un quarto del proletariato danese in sciopero per due settimane) a testimonianza reale del livello montante della collera e della combattività nella classe e l’utilizzo intensivo del sindacalismo di base per assorbire la combattività ed il malcontento operaio verso i sindacati ufficiali.
Al di là di tutto, è il contesto internazionale ad essere mutato: un’atmosfera di combattività crescente che si esprimeva in numerosi paesi ed in maniera continua:
· negli Stati Uniti, durante l’estate 1998, con gli scioperi di quasi 10.000 operai alla General Motors, quello di 70.000 operai della compagnia telefonica Bell Atlantic, quella degli operai del settore sanità a New York, senza parlare dei violenti scontri con la polizia durante una manifestazione di 40.000 edili a New York;
· in Gran Bretagna, con gli scioperi non ufficiali della sanità in Scozia, dei postali a Londra, così come i due scioperi degli elettrici nella capitale che hanno mostrato una chiara volontà di battersi malgrado l’opposizione della direzione sindacale;
· in Grecia, durante l’estate, dove degli scioperi tra gli insegnanti sono arrivati allo scontro con la polizia;
· in Norvegia dove in autunno vi è stato uno sciopero paragonabile in ampiezza a quello della Danimarca;
· in Francia, dove si sono sviluppate tutta una serie di lotte in vari settori, nella scuola, nella sanità, nelle poste e nei trasporti, in particolare lo sciopero degli autista dei bus a Parigi in autunno dove i lavoratori hanno risposto sul loro terreno di classe ad una conseguenza della decomposizione – il numero crescente di aggressioni che subiscono – rivendicando dei posti di lavoro in più piuttosto che la presenza della polizia sugli autobus;
· in Belgio, dove una lenta ma chiara ascesa della combattività, manifestata negli scioperi nell’industria automobilistica, nei trasporti, nelle comunicazioni, è stata contrastata con una gigantesca campagna sul tema del “sindacalismo di lotta”. Ciò si è manifestato esplicitamente con la promozione di un “movimento per il rinnovamento sindacale” che utilizza un linguaggio estremamente radicale e “unitario” e il cui leader, D’Orazio, si è visto dotare di un’aureola di radicalismo, perché perseguito in giudizio per “violenza”;
· nel terzo mondo, con gli scioperi in Corea, delle voci su di un malcontento massiccio e crescente in Cina e, più di recente, in Zimbawe dove uno sciopero generale è stato indetto per canalizzare la collera degli operai non solo contro le misure di austerità del governo ma anche contro i sacrifici imposti dalla guerra nella repubblica democratica del Congo; questo sciopero ha coinciso con diserzioni e proteste in seno alle truppe.
Si potrebbero fare altri esempi, benché sia difficile ottenere informazioni per il fatto che – contrariamente alle grandi manovre sindacali largamente amplificate dai mezzi di informazione nel 1995 e 1996 – la borghesia ha risposto alla maggior parte di questi movimenti con la politica del black-out, della censura, del silenzio, a riprova del fatto che questi movimenti sono l’espressione di una vera e crescente combattività che la borghesia non vuole incoraggiare.
Le risposte della borghesia e le prospettive della lotta di classe
Di fronte alla crescita della combattività, la borghesia non può restare inerte. Essa ha già lanciato o intensificato tutta una serie di campagne sia sul terreno della lotta che sul piano politico più in generale, e ciò per intaccare la combattività della classe ed impedire lo sviluppo della sua coscienza. Si assiste oggi ad un rifiorire dei sindacati “di lotta” (come in Belgio, Grecia o nello sciopero degli elettrici inglesi), e nello stesso tempo si sviluppa la propaganda sulla “democrazia” (la vittoria dei governi di sinistra, l’affare Pinochet, ecc.), le mistificazioni sulla crisi (la “critica” della mondializzazione, gli appelli ad una sedicente “terza via” che utilizzerebbe lo Stato per tenere le redini di una “economia di mercato” ribelle) e che continuano con le calunnie contro la rivoluzione d’Ottobre, il bolscevismo e la Sinistra comunista, ecc.
Oltre a queste campagne, vediamo che la classe dominante si appresta ad utilizzare al massimo tutte le manifestazioni della decomposizione sociale per aggravare le difficoltà alle quali la classe operaia deve far fronte: resta ancora un cammino molto lungo da percorrere tra il genere di movimento che abbiamo visto in Danimarca e lo sviluppo di scontri massicci di classe nei paesi del cuore del capitale, scontri che offriranno di nuovo la prospettiva della rivoluzione a tutti gli sfruttati e oppressi della terra.
Tuttavia, lo sviluppo della lotta durante il recente periodo ha mostrato che, malgrado tutte le difficoltà che ha dovuto affrontare nell’ultimo decennio, la classe operaia non ne esce sconfitta e conserva anche un enorme potenziale per combattere questo sistema moribondo. In effetti, esistono molti fattori importanti che possono permettere la radicalizzazione degli attuali movimenti della classe e portarli ad un livello superiore:
· Lo sviluppo sempre più aperto della crisi economica mondiale. A dispetto di tutti i tentativi della borghesia per minimizzare il suo significato e mistificarne le cause, la crisi resta “l’alleata del proletariato” nel senso che essa tende a mettere a nudo i reali limiti del modo di produzione capitalistico. L’anno scorso, abbiamo già assistito ad un approfondimento maggiore della crisi economica e sappiamo che il peggio deve ancora venire; sono i grandi centri capitalistici a risentire prima di tutti di questo ultimo tonfo;
· L’accelerazione della crisi corrisponde all’accelerazione degli attacchi capitalistici contro la classe operaia. Ma essa significa anche che la borghesia è sempre meno in grado di diluire nel tempo questi attacchi, di riportarli o di concentrarli su alcuni settori. Sarà sempre più tutta la classe operaia ad essere colpita e tutti gli aspetti della sue condizioni di vita ad essere minacciati. Così la necessità degli attacchi massicci della borghesia metterà sempre più in chiaro la necessità di una risposta di massa della classe operaia;
· Nello stesso tempo, la borghesia dei principali centri capitalistici sarà anche costretta ad impegnarsi sempre più in avventure militari; la società sarà sempre più impregnata da un’atmosfera di guerra. Abbiamo detto che in alcune circostanze (come immediatamente dopo il crollo del blocco dell’Est), lo sviluppo del militarismo può far aumentare il sentimento di impotenza del proletariato. Nello stesso tempo abbiamo notato, come durante la guerra del Golfo, che alcuni eventi possono anche avere un effetto positivo sulla coscienza di classe, in particolare all’interno di una minoranza più politicizzata o più combattiva. Resta vero che la borghesia è incapace di mobilitare in massa il proletariato per le sue avventure militari. Uno dei fattori che spiega la vasta “opposizione” in seno alla classe dominante ai recenti raids sull’Irak è la difficoltà a “vendere” questa politica di guerra alla popolazione in generale e alla classe operaia in particolare. Queste difficoltà vanno crescendo per la classe dominante, perché a livello militare essa sarà sempre più costretta a mostrare i denti.
* * * * *
Il Manifesto Comunista descrive la lotta di classe coma una “guerra civile più o meno velata”. La borghesia, pur tentando di creare l’illusione di un ordine sociale in seno al quale i conflitti di classe apparterrebbero al passato, è tuttavia costretta ad accelerare le condizioni stesse che polarizzano la società intorno a due campi opposti da antagonismi inconciliabili. Più la società borghese sprofonda nella sua mortale agonia, più il velo che nasconde questa “guerra civile” sparirà. Di fronte a contraddizioni economiche, sociali e militari sempre più forti, la borghesia è costretta a rinserrare tutto il suo stato politico totalitario sulla società, per impedire ogni attentato al suo ordine e domandare sempre più sacrifici e dare sempre meno in cambio. Come nel secolo scorso, quando il Manifesto fu scritto, la lotta degli operai tende a ridivenire la lotta di una classe “fuori legge”, una classe che non ha alcun interesse da difendere nell’attuale sistema e le cui ribellioni e proteste sono effettivamente interdette dalla legge. In ciò risiede l’importanza di tre aspetti essenziali della lotta di classe oggi:
· la lotta per costruire un rapporto di forze in favore degli operai, è la chiave perché la classe sia capace di riaffermare la sua identità di classe contro tutte le divisioni imposte dall’ideologia borghese in generale ed i sindacati in particolare e contro l’atomizzazione aggravata dalla decomposizione del capitalismo. E’ soprattutto una chiave nella pratica perché essa si rivela una necessità immediata in ogni lotta: gli operai non possono difendersi che allargando il fronte della loro lotta in maniera più ampia possibile;
· la lotta per uscire dalla prigione sindacale; sono nei fatti i sindacati che mettono avanti dappertutto la “legalità” capitalista e le divisioni corporative nella lotta, che cercano di impedire agli operai di costruire un rapporto di forza a loro favore. La capacità degli operai di affrontare i sindacati e di sviluppare le proprie forme di organizzazione sarà dunque un criterio cruciale della reale maturazione della lotta nel periodo futuro, quali che siano le difficoltà di questo processo;
· lo scontro con i sindacati è nello stesso tempo scontro con lo Stato capitalista; e lo scontro con lo Stato capitalista è la chiave della politicizzazione della lotta di classe. In molti casi è la borghesia che prende l’iniziativa di fare di “ogni lotta di classe una lotta politica” (Il Manifesto) perché essa non può, in fin dei conti, integrare la lotta di classe nel suo sistema. L’inizio del “confronto” è stato e sarà sempre più intrapreso dalla classe dominante. Ma la classe operaia dovrà rispondere, non semplicemente sul terreno della difesa immediata, ma prima di tutto sviluppando una prospettiva generale per le sue lotte, ponendo ogni lotta parziale nel contesto più vasto della lotta contro tutto il sistema. Questa coscienza sarà per ancora molto tempo necessariamente limitata ad una minoranza. Ma questa minoranza aumenterà e questa crescita si manifesterà nell’aumento dell’influenza delle organizzazioni politiche rivoluzionarie su un numero sempre maggiore di operai radicalizzati. Da ciò deriva la necessità vitale per queste organizzazioni di seguire molto da vicino lo sviluppo del movimento della classe e di essere capaci di intervenire al suo interno.
La borghesia può cercare di venderci la menzogna secondo la quale la lotta di classe è morta. Ma essa è già sul punto di prepararsi alla “guerra civile aperta” che è sicuramente contenuta nel futuro di un ordine sociale che è con le spalle al muro. La classe operaia e le sue minoranze rivoluzionarie devono, anche loro, prepararvisi.
28/12/98
TESTO DI ORIENTAMENTO
1) Dei 15 paesi che compongono l'Unione Europea, 13 hanno oggi dei governi diretti da partiti socialdemocratici o a partecipazione socialdemocratica (solo la Spagna e l'Irlanda fanno eccezione). Questa realtà evidentemente è stata oggetto di analisi e di commenti da parte dei giornalisti borghesi così come dei gruppi rivoluzionari. Così, per uno "specialista" di politica internazionale come Alexandre Adler: "le sinistre europee hanno almeno un obiettivo unico: la conservazione dello stato provvidenza, la difesa di una sicurezza comune degli europei" (Courrier International, n°417). Allo stesso modo, Le Proletaire dell'autunno 1998 consacra un articolo a questa questione in cui afferma con ragione che l'attuale predominio della socialdemocrazia alla testa della maggior parte dei paesi europei corrisponde ad un politica deliberata e coordinata a scala internazionale della borghesia contro la classe operaia. Tuttavia, tanto nei commenti borghesi che nell'articolo di Le Proletaire non si capisce la specificità di questa politica rispetto a quella portata avanti dalla classe dominante nei periodi passati a partire dalla fine degli anni '60. Dobbiamo dunque capire le cause del fenomeno politico al quale assistiamo attualmente a livello europeo ed anche a livello mondiale (con la presenza dei democratici alla testa dell'esecutivo degli Stati Uniti). Ciò detto, prima di ricercare queste cause, occorre rispondere ad una domanda: Possiamo interpretare il dato di fatto indiscutibile della presenza quasi egemonica dei partiti socialdemocratici alla guida dei paesi dell'Europa occidentale come l’espressione di un fenomeno generale con delle cause comuni per tutti i paesi oppure dobbiamo pensare che si tratti di una coincidenza casuale di una serie di situazioni particolari e specifiche a ogni paese?
2) Il marxismo si distingue dall’atteggiamento empirico per il fatto che non trae le sue conclusioni a partire dai soli fatti osservati in un dato momento, ma interpreta e integra questi fatti in una visione storica e globale della realtà sociale. Essendo un metodo vivente, esso si preoccupa di esaminare in permanenza questa realtà senza mai esitare a mettere in discussione le analisi elaborate in precedenza:
In ogni caso, il metodo marxista non deve essere considerato come un dogma intangibile di fronte al quale la realtà non avrebbe altra alternativa che piegarsi. Una tale concezione del marxismo è quella dei bordighisti (o del defunto FOR che negava la realtà della crisi perché non corrispondeva ai suoi schemi). Ma non è quella che la CCI ha ereditato da Bilan e dall'insieme della Sinistra Comunista. Se il metodo marxista si guarda bene dal basarsi sui soli fatti immediati e rifiuta di sottomettersi alle "evidenze" celebrate dagli ideologi della borghesia, esso è obbligato tuttavia a tenere conto in permanenza di questi fatti. Di fronte al fenomeno della massiccia presenza della sinistra alla guida dei paesi europei, si può evidentemente cercare di trovare per ogni paese delle ragioni specifiche che spieghino i motivi di una tale disposizione delle forze politiche. Per esempio, noi abbiamo attribuito all'estrema debolezza politica e alle divisioni della destra in Francia il ritorno della sinistra al governo nel 1997. Ugualmente abbiamo visto che hanno giocato un ruolo importante nella costituzione del governo di sinistra delle considerazioni di politica estera, in Italia contro il "polo" di Berlusconi favorevole all'alleanza con gli Stati Uniti, o in Gran Bretagna, dove i conservatori erano profondamente divisi in rapporto all'Unione Europea e agli Stati Uniti. Tuttavia, voler fare scaturire la situazione politica attuale in Europa dalla semplice somma delle situazioni particolari dei singoli paesi che la compongono sarebbe un esercizio vano e contrario allo spirito marxista. Infatti, secondo il metodo marxista, la quantità diviene, in alcune circostanze, una qualità nuova. Quando si constata che mai, da quando hanno raggiunto il campo borghese, tanti partiti socialisti sono stati simultaneamente al governo (anche se tutti lo erano stati in un momento o un altro), quando si vede che anche in paesi importanti come la Gran Bretagna e la Germania (dove la borghesia abitualmente padroneggia molto bene il suo gioco politico) la sinistra è stata installata al governo in modo deliberato dalla borghesia, è necessario considerare che si tratta di una "qualità" nuova che non può ridursi alla semplice sovrapposizione di "casi particolari". (1)
D’altra parte è proprio questa l’impostazione che noi abbiamo seguito quando abbiamo messo in evidenza il fenomeno della "sinistra all'opposizione", alla fine degli anni '70. Così il testo adottato dal 3° congresso della CCI, che dava il quadro della nostra analisi sulla sinistra all'opposizione, cominciava con il tenere conto del fatto che nella maggior parte dei paesi europei, la sinistra era stata estromessa dal potere:
“Basta dare uno sguardo per constatare che .. l'arrivo della sinistra al potere non si è verificato; anzi, la sinistra in questo ultimo anno è stata sistematicamente estromessa dal potere nella maggior parte dei paesi d'Europa. Basti citare il Portogallo, l'Italia, la Spagna, i paesi scandinavi, la Francia, il Belgio, la Gran Bretagna così come Israele per constatarlo. Restano praticamente solo due paesi in Europa dove la sinistra è al potere: la Germania e l'Austria." (“All'opposizione come al governo, la 'sinistra' contro la classe operaia”, Revue Internationale n° 18).
3) Nell'analisi delle cause che motivano la venuta della sinistra al governo in questo o quel paese europeo, occorrerà tenere conto dei fattori specifici (per esempio, nel caso della Francia, l'estrema debolezza della "destra la più stupida al mondo"). Tuttavia, è fondamentale che i rivoluzionari siano capaci di dare all'insieme del fenomeno una risposta globale e la più completa possibile. È’ ciò che la CCI aveva fatto nel 1979, durante il suo 3° congresso, a proposito della sinistra all'opposizione, e il miglior modo di riprendere questo lavoro è ricordare con quale metodo abbiamo analizzato questo fenomeno all'epoca:
“In seguito all'apparizione della crisi e alle prime manifestazioni della lotta operaia, la sinistra al governo era la risposta più adeguata del capitalismo nei primi anni (…), la sinistra, ponendo la sua candidatura al governo, assolveva efficacemente alla sua funzione di inquadramento del proletariato, smobilitandolo e paralizzandolo con le sue mistificazioni sul "cambiamento" e sull'elettoralismo.
La sinistra doveva restare ed è restata in questa posizione finché questa le permetteva di assolvere alla sua funzione. Non si tratta dunque di un errore che avremmo commesso in passato ma di qualcosa di differente e di più sostanziale, d'un cambiamento che è intervenuto nell'allineamento delle forze della borghesia. Sarebbe un grave errore non riconoscere in tempo questo cambiamento e continuare a ripetere nel vuoto frasi sul 'pericolo della sinistra al potere'. Prima di proseguire l'esame del perché di questo cambiamento e del suo significato, occorre insistere in modo particolare sul fatto che non si tratta di un fenomeno circostanziale e limitato a questo o quel paese, ma di un fenomeno generale, valido a breve termine e forse a medio termine, per l'insieme dei paesi occidentali. (…)
Dopo aver efficacemente realizzato il suo compito d'immobilizzazione della classe operaia negli ultimi anni, la sinistra al potere o in marcia verso il potere oggi non può più assumere questa funzione che ponendosi all'opposizione. Le ragioni di questo cambiamento sono molteplici: esse dipendono certamente dalle condizioni particolari specifiche ai diversi paesi, ma questi sono motivi secondari; le principali ragioni risiedono nell'usura subita dalla sinistra e il lento sganciamento rispetto alle mistificazioni della sinistra da parte delle masse operaie. La recente ripresa delle lotte operaie e la loro radicalizzazione ne sono la testimonianza evidente.
Ricordiamo i tre criteri emersi durante le analisi e le discussioni anteriori sulla sinistra al potere:
· migliore integrazione nel blocco occidentale sotto il dominio del capitale degli Stati Uniti;
La sinistra riuniva meglio e con più efficacia queste tre condizioni, e gli Stati Uniti, leader del blocco, appoggiavano volentieri il suo arrivo al potere con delle riserve tuttavia nei confronti dei PC. (…) Ma se gli Stati Uniti restavano quantomeno diffidenti per ciò che concerne i PC, il loro sostegno al permanere o all'arrivo dei socialisti al potere, dovunque fosse possibile, era totale. (…)
Ritorniamo ai criteri per la sinistra al potere. Esaminandoli da vicino vediamo che anche se la sinistra li rappresenta meglio, questi non sono tutti patrimonio esclusivo della sinistra. I primi due, le misure di capitalismo di stato e l'integrazione nel blocco, possono perfettamente essere portati a termine, se la situazione lo esige, da altre forze politiche della borghesia, come i partiti di centro o della destra. (2) (…) Al contrario, il terzo criterio, l'inquadramento della classe operaia, è appannaggio proprio ed esclusivo della sinistra. È’ la sua funzione specifica, la sua ragione d'essere.
Questa funzione, la sinistra non la compie unicamente, e neanche generalmente al potere. (...) In genere, la partecipazione della sinistra al potere è assolutamente necessaria in due situazioni precise:
1) nella Sacra Unione in vista della guerra per trascinare gli operai alla difesa nazionale;
2) in una situazione rivoluzionaria per ostacolare la marcia della rivoluzione.
Al di fuori di queste due situazioni estreme, nelle quali la sinistra non può non esporsi apertamente come difensore incondizionato del regime borghese affrontando apertamente e violentemente la classe operaia, la sinistra deve sempre vegliare a non svelare troppo la sua vera identità e la sua funzione capitalista e a mantenere la mistificazione che la sua politica porta alla difesa degli interessi della classe operaia. (…). Pertanto, anche se la sinistra come ogni partito borghese aspira 'legittimamente' ad accedere al potere statale, si deve tuttavia notare una differenza che distingue questi partiti degli altri partiti della borghesia per ciò che concerne la loro presenza al potere. Questi partiti della sinistra pretendono essere dei partiti 'operai' e come tali sono obbligati a presentarsi davanti agli operai con una maschera, una fraseologia 'anticapitalista ' di lupi con addosso la pelle di montone. Il loro soggiorno al potere li mette in una situazione ambivalente più difficile di ogni altro partito chiaramente borghese. Un partito apertamente borghese esegue al potere ciò che diceva di fare, la difesa del capitale, e non si trova affatto discreditato facendo una politica antioperaia. È esattamente lo stesso sia all'opposizione che al governo. È tutto il contrario per ciò che riguarda i partiti cosiddetti 'operai'. Essi devono avere una fraseologia operaia e una pratica capitalista, un linguaggio nell'opposizione e una pratica assolutamente opposta nel governo. (…) Dopo una prima esplosione di malcontento e di convulsioni sociali che aveva sorpreso la borghesia, neutralizzata solo dalla 'sinistra al potere' , con il continuo aggravamento della crisi, le illusioni della sinistra al potere che si dissipano, la ripresa della lotta che s'annuncia, diviene urgente che la sinistra ritrovi il suo posto nell'opposizione e radicalizzi la sua fraseologia per poter controllare questa ripresa delle lotte che s'avvicina. Evidentemente, questo non può essere un fatto definitivo, ma è attualmente e per il prossimo futuro un fatto generale. (3)” (ibid.)
4) Il testo del 1979, come si vede, ricordava la necessità di esaminare il fenomeno dello spiegamento delle forze politiche alla testa degli Stati borghesi sotto tre angoli differenti:
Esso affermava inoltre che questo ultimo aspetto è, in ultima istanza, il più importante nel periodo storico aperto con la ripresa proletaria alla fine degli anni 1960.
Nella comprensione della presente situazione è un fattore che la CCI ha già preso in conto sin dal gennaio 1990 durante il crollo del blocco dell'est e l'arretramento della coscienza ch'esso aveva provocato nella classe operaia: "È per questa ragione, in particolare, che conviene aggiornare l'analisi sviluppata dalla CCI sulla 'sinistra all'opposizione'. Questa carta era necessaria alla borghesia dalla fine degli anni '70 e per tutti gli anni '80 a causa della dinamica generale della classe operaia verso scontri sempre più determinati e coscienti, per il crescente rigetto delle mistificazioni democratiche, elettorali e sindacali. (…) Invece, il riflusso attuale della classe operaia non impone più alla borghesia, per un certo tempo, l'utilizzazione prioritaria di questa strategia." (Revue Internationale n° 61)
Tuttavia, ciò che all'epoca era concepito come una possibilità s'impone oggi come una regola quasi generale (più generale ancora di quella della sinistra all'opposizione nel corso degli anni '80). Dopo aver visto la possibilità del fenomeno è importante dunque capire le cause della sua apparizione prendendo in conto i tre fattori enunciati sopra.
5) La ricerca delle cause del fenomeno dell'egemonia della sinistra alla testa dei paesi europei deve basarsi sulla presa in conto delle caratteristiche specifiche del periodo attuale. Questo lavoro è presente nei tre rapporti sulla situazione internazionale presentati al congresso e non c'è motivo di ritornarci qui in modo dettagliato. È’ tuttavia importante paragonare la situazione attuale con quella degli anni '70 quando la borghesia giocò la carta della sinistra al governo o in marcia verso il governo.
Sul piano economico, gli anni '70 sono i primi anni della crisi aperta del capitalismo. Infatti, è soprattutto a partire dalla recessione del 1974 che la borghesia prende coscienza della gravità della situazione. Tuttavia, malgrado la violenza delle convulsioni di questo periodo, la classe dominante s'aggrappa alle illusioni che queste potranno essere superate. Attribuendo le sue difficoltà all'aumento dei prezzi del petrolio in seguito alla guerra del Kippur del 1973, essa spera di superarle con una stabilizzazione dei prezzi petroliferi e l'utilizzazione di altre risorse energetiche. Scommette inoltre su di un rilancio basato sui crediti di grande entità (attinti dai "petrodollari") che sono prestati ai paesi del terzo mondo. Infine, essa s'immagina che nuove misure di capitalismo di Stato di tipo neo-keynesiano permetteranno di stabilizzare i meccanismi dell'economia in ogni paese.
Sul piano dei conflitti imperialisti, si assiste al loro aggravamento principalmente per lo sviluppo della crisi economica anche se questo aggravamento è ancora ben al di qua di quello degli inizi degli anni '80. La necessità di una maggiore disciplina all'interno di ciascuno dei due blocchi costituisce un dato importante delle politiche borghesi (è così che in un paese come la Francia, l'arrivo di Giscard d'Estaing nel 1974 mette fine alle velleità "d'indipendenza" che caratterizzano il periodo gaullista).
Sul piano della lotta di classe, questo periodo è caratterizzato dalla forte combattività che si è sviluppata in tutti i paesi del mondo sulla scia del maggio 1968 in Francia e del "maggio rampante" italiano del 1969; una combattività che in un primo tempo sorprese la borghesia.
Su questi tre aspetti, la situazione attuale si distingue in modo notevole da quella degli anni '70.
Sul piano economico, è da molto tempo che la borghesia ha perduto le sue illusioni su di una "uscita" dalla crisi. Malgrado le campagne del periodo passato sui benefici della "mondializzazione", essa non dà per scontato di ritornare ai bei tempi gloriosi anche se spera ancora di limitare i danni. Ma anche questa ultima speranza è stata gravemente intaccata dall'estate 1997 con il crollo dei "draghi" e delle "tigri" seguito dalla quello della Russia e del Brasile nel 1998.
Sul piano dei conflitti imperialisti la situazione si è modificata radicalmente: oggi non esistono più i blocchi imperialisti. Ma gli scontri militari non sono cessati. Si sono invece aggravati, moltiplicati e avvicinati ai paesi centrali, soprattutto alle metropoli dell'Europa occidentale. Essi sono in più caratterizzati dalla tendenza ad una partecipazione sempre più diretta delle grandi potenze, particolarmente della prima tra di esse, allorché gli anni ‘70 conoscevano un certo disimpegno di queste, particolarmente degli Stati Uniti che lasciavano il Vietnam.
Sul piano delle lotte operaie, il periodo attuale è ancora segnato dall'arretramento della combattività e della coscienza provocato dagli avvenimenti della fine degli anni '80 (crollo del blocco dell'est e dei regimi "socialisti"), inizio anni '90 (guerra del Golfo, guerra in Yugoslavia, ecc.) anche se delle tendenze ad una ripresa della combattività si fanno sentire e si constata una fermento politico in profondità ancora molto minoritario.
Infine, è importante sottolineare il nuovo fattore che tocca la vita della società d'oggi e che non esisteva nel corso degli anni '70: l'entrata nella fase di decomposizione del periodo di decadenza del capitalismo.
6) Quest'ultimo fattore è da prendere in considerazione per capire il fenomeno attuale dell'arrivo della sinistra al governo. La decomposizione tocca tutta la società e in primo luogo la sua classe dominante: la borghesia. Questo fenomeno è particolarmente spettacolare nei paesi della periferia e costituisce un fattore d'instabilità crescente che spesso alimenta gli scontri imperialisti. Abbiamo messo in evidenza che nei paesi più sviluppati, la classe dominante è molto più capace di controllare gli effetti della decomposizione ma nello stesso tempo si può costatare che non li può prevenire totalmente. Uno degli esempi più spettacolari è certamente la buffonata del "Monicagate" all’interno della prima borghesia mondiale che, se può mirare ad un riorientamento della politica imperialista di questa, provoca nello stesso tempo un danno sensibile alla sua autorità.
Nel ventaglio dei vari partiti borghesi, non tutti i settori sono toccati nello stesso modo dal fenomeno della decomposizione. Tutti i partiti borghesi hanno evidentemente per vocazione la conservazione a breve e lungo termine degli interessi globali del capitale nazionale. Tuttavia, in questo ventaglio, i partiti che hanno una maggiore coscienza della loro responsabilità sono in genere i partiti di sinistra perché questi sono meno legati agli interessi a breve termine di questo o quel settore capitalista e anche perché la borghesia ha già attribuito loro un ruolo di primo piano nei momenti decisivi della vita della società (guerre mondiali e soprattutto periodi rivoluzionari). Evidentemente, i partiti di sinistra sono lo stesso toccati dagli effetti della decomposizione la corruzione, gli scandali, le tendenze alle scissioni, ecc. Tuttavia gli esempi di paesi come l'Italia o la Francia mettono in evidenza ch'essi sono, per le loro caratteristiche, più risparmiati rispetto alla destra da questi effetti. In questo senso, uno degli elementi che permette di spiegare l'arrivo di partiti di sinistra al governo in molti paesi consiste nella maggiore resistenza di questi partiti alla decomposizione, e soprattutto la loro maggiore coesione (il che è valido anche per un paese come la Gran Bretagna dove i conservatori erano molto più divisi che i laburisti). (4)
Un altro fattore legato alla decomposizione che permette di spiegare i "successi" attuali della sinistra è la necessità di ridare tono alla mistificazione democratica ed elettorale. L'affossamento dei regimi stalinisti ha costituito un fattore molto importante di rilancio di queste mistificazioni, e particolarmente presso gli operai che, fintanto che esisteva un sistema presentato come diverso dal capitalismo, poteva nutrire la speranza di un’alternativa al capitalismo (anche se si facevano poche illusioni sulla realtà dei paesi "socialisti"). Tuttavia la guerra del Golfo del 1991 ha dato un colpo alle illusioni democratiche. In più, la disillusione generale verso i valori tradizionali della società che caratterizza la decomposizione, e che si esprime principalmente attraverso l'atomizzazione e il "ciascuno per sé", non poteva non aver effetti sull'impatto ideologico delle istituzioni classiche degli Stati capitalisti, e particolarmente sulla base di questi, i meccanismi democratici ed elettorali. E giustamente, la vittoria elettorale della sinistra nei paesi dove, conformemente alle necessità della borghesia, la destra aveva governato per un lungo periodo (soprattutto in due paesi molto importanti come la Germania e la Gran Bretagna) ha potuto costituire un fattore importante di rianimazione delle mistificazioni elettorali.
7) L'aspetto conflitti imperialisti (che occorre d'altronde collegare alla questione della decomposizione: crollo del blocco dell'Est, "ciascuno per sé" nell'arena internazionale) costituisce un fattore importante dell’arrivo della sinistra al governo in molti paesi. Abbiamo già visto che il necessario riorientamento della diplomazia dell'Italia a scapito dell'alleanza americana aveva costituito un fattore di primo piano della disgregazione e scomparsa della Democrazia Cristiana in questo paese e anche della caduta del "polo" di Berlusconi (più favorevole agli Stati Uniti). Abbiamo visto ugualmente che la maggior omogeneità dei laburisti in Gran Bretagna a favore di una politica più aperta verso l'Unione Europea era uno dei motivi della scelta di Blair per la borghesia britannica. Infine l'arrivo al governo in Germania dei settori politici più lontani dall’hitlerismo che si erano anche confezionati un vestito "pacifista" (socialdemocratici e soprattutto "verdi"), costituisce un miglior paravento all'affermazione delle mire imperialiste di questo paese, principale rivale, sul lungo periodo, degli Stati Uniti. Tuttavia c'è un altro elemento da prendere in considerazione e che si applica anche ai paesi dove (come in Francia) non c'è differenza tra la destra e la sinistra nella politica internazionale. Si tratta della necessità per ogni borghesia dei paesi centrali di una crescente partecipazione ai conflitti militari che sconvolgono il mondo e della natura stessa di questi conflitti. In effetti, questi si presentano come orribili massacri di popolazioni civili di fronte ai quali la "comunità internazionale" deve far valere "il diritto" e organizzare delle missioni "umanitarie". Dal 1990, la quasi totalità degli interventi militari delle grandi potenze (e particolarmente quello in Yugoslavia) si è nascosta dietro questa maschera e non ha addotto il motivo della difesa degli "interessi nazionali". E per condurre le guerre "umanitarie" è chiaro che la sinistra è meglio piazzata della destra (anche se quest'ultima può farlo), perché una delle sue carte più giocate è proprio quella della "difesa dei diritti dell'uomo". (5)
8) Anche sul piano della gestione della crisi economica esistono degli elementi che vanno a favore dell'arrivo della sinistra al governo nella maggioranza dei paesi. È’ evidente lo scacco delle politiche ultra liberali di cui Reagan e Thatcher erano i rappresentanti più in vista. Naturalmente la borghesia non può fare altro che continuare i suoi attacchi economici contro la classe operaia così come certamente non ritornerà sulle privatizzazioni che le hanno permesso:
Detto ciò, il fallimento delle politiche ultra-liberali (che si è espresso particolarmente con la crisi asiatica) porta acqua ai difensori della politica di un maggior intervento dello Stato. Ciò è valido a livello di discorsi ideologici: è necessario che la borghesia faccia finta di correggere ciò che può presentare come derivante da suoi errori, l'aggravamento della crisi, al fine di evitare che questa favorisca la presa di coscienza del proletariato. Ma è lo stesso valido a livello di politiche reali: la borghesia prende coscienza degli "eccessi" della politica "ultra-liberale". Nella misura in cui la destra era fortemente segnata da questa politica del "meno Stato", la sinistra è per il momento la più indicata per mettere in opera un tale cambiamento (anche se è noto che anche la destra può prendere questo tipo di misure, come lo ha fatto negli anni '70 con Giscard d'Estaing in Francia e, anche se oggi è un uomo di destra, Aznar, che in Spagna si richiama alla politica del laburista Blair). La sinistra non può ristabilire il “welfare state” ma fa finta di non tradire completamente il suo programma ristabilendo un maggiore intervento dello Stato nell'economia.
Inoltre, lo scacco della "globalizzazione senza briglie" che si è soprattutto concretizzato nella crisi asiatica costituisce un fattore supplementare che porta acqua al mulino della sinistra. Quando la crisi aperta si è sviluppata, a partire dagli anni '70, la borghesia ha capito che non doveva rifare gli errori che avevano contribuito ad aggravare la crisi degli anni '30. In particolare, malgrado tutte le tendenze che venivano alla luce in questo senso occorreva combattere la tentazione di un ripiegamento su se stessi, del protezionismo e dell’autarchia che rischiavano di portare un colpo fatale al commercio internazionale. Per questo la Comunità Economica Europea ha potuto proseguire il suo cammino fino ad arrivare all'Unione Europea e all'attuazione dell’Euro. Sempre per questo, è stata messa in piazza l'Organizzazione Mondiale del Commercio, per limitare i diritti doganali e favorire gli scambi internazionali. Tuttavia, questa politica di apertura dei mercati ha costituito un fattore importante d'esplosione della speculazione finanziaria (che costituisce lo "sport" favorito dei capitalisti in periodo di crisi quando si spostano dall'investimento nella produzione, che ha scarse prospettive redditizie) Speculazione finanziaria i cui pericoli sono stati messi alla luce dal crollo dei paesi asiatici. Anche se la sinistra non rimetterà, fondamentalmente, in causa la politica della destra in questo campo, essa è più favorevole ad una maggiore regolamentazione dei flussi finanziari internazionali. (regolamentazione di cui la "tassa Tobin" è una delle formule) che permette di limitare gli eccessi della "globalizzazione". Facendo ciò, la sua politica mira a creare una specie di cordone sanitario attorno ai paesi più sviluppati permettendo di limitare l'impatto delle convulsioni che toccano i paesi della periferia.
9) La necessità di far fronte allo sviluppo della lotta di classe costituisce un fattore essenziale dell'arrivo della sinistra al governo nel periodo attuale. Ma prima di determinarne le ragioni occorre notare le differenze tra la situazione attuale e quella del periodo precedente. Negli anni '70, l'arrivo della sinistra al governo veniva presentata alle masse operaie con argomenti del tipo:
In parole povere, si può dire che "l'alternativa di sinistra" aveva la funzione di canalizzare il malcontento e la combattività degli operai nelle urne elettorali.
Oggi i diversi partiti di sinistra che sono andati al governo vincendo le elezioni sono ben lontani dall'usare il linguaggio "operaio" che utilizzavano all'inizio degli anni '70. Gli esempi che colpiscono di più sono quelli di Blair che si fa l'apostolo d'una terza via e di Schröder difensore d'un "nuovo centro". Infatti non si tratta di canalizzare verso le urne una combattività ancora molto debole, ma di darsi i mezzi affinché una volta al governo la sinistra non abbia un linguaggio molto diverso da quello usato durante la campagna elettorale, e ciò al fine di evitare un rapido discredito come era successo negli anni '70 (per esempio, i laburisti inglesi arrivati al governo agli inizi del 1974 sullo slancio dello sciopero dei minatori dovettero uscirne nel 1979 di fronte ad una combattività che raggiunse livelli eccezionali nel corso dello stesso anno). Il fatto che la sinistra oggi abbia un aspetto molto più "borghese" rispetto agli anni '70, è dovuto alla debolezza attuale della combattività operaia. Questo permette alla sinistra di rimpiazzare la destra al governo senza troppi contraccolpi. Tuttavia la presenza generalizzata della sinistra nei governi dei paesi più avanzati non è solo un fenomeno "per difetto", legato alla debolezza della classe operaia. Essa gioca anche un ruolo "positivo" per la borghesia di fronte al suo nemico mortale. E ciò sia a medio che a breve termine.
A medio termine, l'alternanza ha due effetti: da una parte ha dato nuovo credito al processo elettorale; dall’altra permette ai partiti di destra di rinforzarsi all'opposizione (7) al fine di poter meglio giocare il loro ruolo quando riapparirà una situazione che renderà necessaria la sinistra all'opposizione con una destra "dura" al potere. (8)
Nell'immediato, il linguaggio "moderato" della sinistra per far passare i suoi attacchi permette d'evitare le esplosioni di combattività favorite dalle provocazioni del linguaggio duro della destra modello Thatcher. Ed è questo uno degli obiettivi importanti della borghesia. Nella misura in cui, come già messo in evidenza, una delle condizioni essenziali che permette alla classe operaia di riguadagnare il terreno perso con il crollo del blocco dell'est e di riprendere il suo processo di presa di coscienza, è costituito dallo sviluppo delle sue lotte, la borghesia cerca oggi di guadagnare più tempo possibile, anche se sa che non potrà sempre giocare questa carta.
10) Appare così chiaro che, tra i differenti fattori che motivano attualmente l'utilizzazione da parte della borghesia della carta della sinistra al governo, la gestione della crisi, i conflitti imperialisti e la politica di fronte alla minaccia proletaria, è quest'ultimo fattore che assume l’importanza maggiore. Quest’importanza è tanto più grande per il fatto che nel fattore gestione della crisi, uno degli aspetti essenziali della politica della sinistra non è tanto nelle misure concrete che essa è portata a prendere (e che anche la destra può adottare) quanto nella sua capacità di tenere un discorso diverso da quello della destra che si trovava al governo fino a poco tempo prima. In questo senso, è per la sua funzione ideologica che la sinistra è particolarmente preziosa in rapporto alla gestione della crisi, una funzione ideologica che s'indirizza all'insieme della società ma particolarmente alla classe che si contrappone alla borghesia, il proletariato. Lo stesso vale per la questione concernente i conflitti imperialisti Il contributo essenziale che la sinistra può apportare alla politica di guerra della borghesia, è darle una copertura "umanitaria" adeguata, il che è proprio del dominio ideologico e della mistificazione che, anche qui, si rivolge all'insieme della popolazione ma principalmente alla classe operaia, unica forza che può essere di ostacolo alla guerra imperialista.
In fin dei conti, il ruolo essenziale che gioca il fattore difesa contro la classe operaia nella politica attuale della sinistra al governo, costituisce un'ulteriore illustrazione dell'analisi sviluppata dalla CCI da più di 30 anni: il rapporto di forza generale tra le classi, il corso storico, non è a favore della borghesia (controrivoluzione, corso alla guerra mondiale) ma a favore del proletariato (uscita dalla controrivoluzione, corso verso scontri di classe). L'arretramento subito da quest'ultimo con il crollo dei regimi stalinisti e le campagne sulla "morte del comunismo", fondamentalmente, non ha rimesso in causa questo corso storico.
11) La presenza massiccia dei partiti di sinistra nei governi europei costituisce un elemento significativo e molto importante della situazione attuale. Le differenti borghesie nazionali non la giocano questa carta ciascuna nel proprio cantuccio. Già nel corso degli anni '70, quando la carta della sinistra al governo o in marcia verso il governo fu giocata in alcuni paesi europei, la borghesia ebbe il sostegno del presidente democratico degli Stati Uniti Carter. Negli anni 80 la carta della sinistra all'opposizione e di una destra "dura" al potere trovò in Ronald Reagan (come in Margaret Thatcher) il suo più eminente rappresentante. A quest'epoca, la borghesia elaborava la sua politica a livello dell'insieme del blocco occidentale. Oggi i blocchi sono scomparsi e le tensioni imperialiste continuano ad aggravarsi tra gli Stati Uniti e numerosi paesi europei. Tuttavia, di fronte alla crisi e alla lotta di classe, le principali borghesie del mondo hanno a cuore continuare a coordinare la loro politica. Il 21 settembre 1998 si è tenuto a New York un incontro al vertice per un’internazionale di "centrosinistra" dove Tony Blair ha celebrato il "centro radicale" e Romano Prodi "l'Ulivo mondiale", mentre Bill Clinton, si compiaceva nel vedere "la terza via estendersi nel mondo" (9). Ma queste manifestazioni entusiaste dei principali dirigenti della borghesia non devono nascondere la gravità della situazione che costituisce la tela di fondo e la ragione essenziale della strategia attuale della borghesia.
E’ probabile che la borghesia manterrà ancora per un po' questa strategia. In particolare è indispensabile che i partiti di destra recuperino le forze e la coesione che permetterà loro di riprendere il loro posto alla guida dello Stato. D'altronde, il fatto che l’andata della sinistra al governo in un gran numero di paesi (e particolarmente in Gran Bretagna e in Germania) sia stata fatta a "freddo", in un clima di debole combattività operaia (contrariamente, per esempio, a ciò che è successo in Gran Bretagna nel 1974), con un programma elettorale molto vicino a quello che è poi stato effettivamente applicato, significa che la borghesia ha l'intenzione di giocare questa carta ancora per un certo tempo. Infatti, uno degli elementi decisivi che determinerà il momento del ritorno della destra sarà il riemergere sulla scena delle lotte di massa del proletariato. Nell'attesa di questo momento, mentre il malcontento operaio arriva ancora ad esprimersi solo in modo limitato e spesso isolato, tocca "alla sinistra della sinistra" canalizzare questo malcontento. Come abbiamo già visto, la borghesia non può lasciare sguarnito il terreno sociale. Per questo si assiste oggi ad una certa risalita delle forze di estrema sinistra del capitale (soprattutto in Francia) e, in certi paesi, i partiti socialisti al governo hanno cercato di prendere le distanze dalle organizzazioni sindacali, le quali possono così permettersi di avere un linguaggio "un po' contestatario". Tuttavia, il fatto che in Italia un settore di Rifondazione Comunista abbia deciso di continuare a sostenere il governo e che in Francia la CGT abbia deciso durante il suo ultimo congresso di condurre una politica più "moderata" mette in evidenza che non c'è ancora urgenza per la classe dominante.
1. Bisogna notare che in Svezia dove, durante le ultime elezioni la socialdemocrazia ha ottenuto la più bassa percentuale dal 1928, la borghesia ha ugualmente fatto appello a questo partito (con il sostegno del partito stalinista) per dirigere gli affari di Stato.
2. Questa è un’idea che la CCI aveva già sviluppato più volte in precedenza: "così risulta che i partiti di sinistra non sono i rappresentanti esclusivi della tendenza generale verso il capitalismo di Stato, che in periodi di crisi, questa si manifesta con una tale forza, che qualunque sia la tendenza politica al potere, questa non può far altro che prendere misure di statalizzazione, dato che la sola differenza che può sussistere tra destra e sinistra sul metodo per far tacere il proletariato è carota o bastone." (Révolution Internationale n° 9, maggio-giugno 74). Come si vede, l'analisi che abbiamo sviluppato al 3° congresso non cadeva dal cielo ma scaturiva da un quadro che avevamo elaborato cinque anni prima.
3. La possibilità per un partito di sinistra di giocare meglio il suo ruolo restando nell'opposizione piuttosto che andando al potere non era una idea nuova nella CCI. Cinque anni prima scrivevamo a proposito della Spagna: "[il PCE] è sempre di più sopraffatto nelle lotte attuali e ... rischia, oltre che eventuali posti governativi, di non poter controllare la classe come è sua compito; in questo caso, la sua efficacia antioperaia sarebbe ben più grande restando all'opposizione" (Révolution Internationale n° 11, settembre 1974)
4. Tuttavia è importante sottolineare ciò che è detto sopra: la decomposizione tocca in modo molto differente la borghesia secondo che si tratti di paesi sviluppati o di paesi arretrati. Nei paesi con una borghesia vecchia, l'apparato politico di questa, compreso i suoi settori di destra tra i più vulnerabili, è generalmente capace di padroneggiare la situazione e di evitare le convulsioni che invece toccano i paesi del terzo mondo o certi paesi dell'antico impero sovietico.
5. Dopo che questo testo è stato redatto, la guerra in Yugoslavia ha apportato una sorprendente illustrazione di questa idea. Gli attacchi della NATO sono stati presentati unicamente come "umanitari" con l'obiettivo di proteggere le popolazioni albanesi del Kossovo contro i soprusi di Milosevic. Tutti i giorni lo spettacolo televisivo della tragedia dei rifugiati albanesi è venuto a rafforzate la tesi nauseante della "guerra umanitaria". In questa campagna ideologica bellicista, la “sinistra della sinistra” rappresentata dai "verdi" si è particolarmente distinta. E’ stato il leader dei verdi tedeschi, Joshka Fischer a portare avanti l’azione di diplomazia militare tedesca in nome degli ideali "pacifisti" e "umanitari" nei quali si era distinto in passato. Lo stesso, in Francia, dove allorché il partito socialista è esitante sulla questione dell'intervento terrestre, sono i verdi che in nome "dell'urgenza umanitaria" richiedono un intervento. La sinistra di oggi ritrova gli accenti dei suoi antenati degli anni '30 che reclamavano "armi per la Spagna" e non volevano lasciare a nessuno il primo posto nella propaganda bellica in nome dell'antifascismo.
6. Era l'epoca in cui Mitterrand (sì Mitterrand e non un qualsiasi gauchiste!) parlava con fervore nei suoi discorsi elettorali di "rottura con il capitalismo".
7. Di regola "le cure d'opposizione" costituiscono una buona terapia per le forze borghesi logorate da una lunga presenza al potere. Tuttavia questa non è efficace dappertutto. Il ritorno all'opposizione della destra francese, in seguito alla sconfitta elettorale della primavera 1997, ha significato per essa una nuova catastrofe. Questo settore dell'apparato politico borghese non smette di mostrare le sue incoerenze e divisioni, cosa che non avrebbe potuto fare se fosse rimasto al potere. Ma è vero che abbiamo a che fare con "la destra più stupida del mondo". A questo proposito, è difficile considerare come lascia intendere Le Prolétaire nel suo articolo, che deliberatamente Chirac, per permettere al partito socialista di prendere la direzione del governo, ha provocato le elezioni anticipate nel 1997. Si sa che la borghesia è machiavellica ma ci sono dei limiti. E Chirac, che ha già dei "limiti", non ha certamente desiderato la sconfitta del suo partito che ricopre attualmente un ruolo di secondo piano.
8. Nota posteriore al Congresso della CCI. Le elezioni europee del giugno 1999, che hanno visto nella maggioranza dei paesi (e particolarmente in Germania e Gran Bretagna) una sensibile risalita della destra sono la prova che la cura all'opposizione comincia a dare i suoi effetti a questo settore dell'apparato politico della borghesia. La controprova notevole è evidentemente quella della Francia dove queste elezioni hanno rappresentato per la destra una nuova catastrofe, non tanto sul numero dei voti ma su quello delle sue divisioni che toccano proporzioni grottesche.
9. Bisogna notare che la carta della sinistra al governo giocata oggi dalla borghesia dei paesi più avanzati trova (al di là delle particolarità locali) una certa eco in certi paesi della periferia. La recente elezione in Venezuela – avvenuta con il sostegno della "Sinistra rivoluzionaria" (MIR) e degli stalinisti - dell'ex colonnello golpista Chavez a scapito della destra (COPEI) e di un partito socialdemocratico (Accion Democratica) particolarmente screditato, s'avvicina alla formula della sinistra al governo. Anche in Messico si assiste alla risalita della sinistra PRD di Cardenas (figlio di un vecchio presidente), che ha già tolto la direzione della capitale al PRI (al potere da otto decenni) e che ha beneficiato recentemente del sostegno discreto dello stesso Bill Clinton.
Dopo qualche segno di riconoscimento e di dibattito tra i gruppi della Sinistra Comunista nel corso di questi ultimi anni, compresa una riunione pubblica in comune sulla Rivoluzione russa tra il Bureau Internazionale per il Partito Rivoluzionario (BIPR) e la CCI in Gran Bretagna, la guerra nei Balcani ingaggiata dalla Nato, rappresentava un test per valutare la capacità di questi gruppi ad assumere una difesa comune dell’internazionalismo proletario quanto più larga e più forte possibile. Malauguratamente i gruppi hanno rifiutato un appello della CCI per una dichiarazione comune contro la carneficine imperialista nella ex-Jugoslavia. Abbiamo già fatto un primo bilancio delle reazioni seguite a questo appello nella nostra Revue Internationale n. 97.
In questo articolo risponderemo brevemente all’idea avanzata dal BIPR secondo la quale il metodo politico della CCI, supposto essere “idealista”, giustificava un tale rifiuto.
“Quando scrivete nel vostro volantino che “é perché, dallo sciopero massivo del Maggio 68 in Francia, la classe operaia mondiale ha sviluppato le sue lotte rifiutando di sottomettersi alla logica del capitalismo in crisi che essa ha potuto impedire lo scatenamento di una terza guerra mondiale”, dimostrate di rimanere prigionieri dei vostri schemi da noi già caratterizzati come idealisti e che sono oggi particolarmente inadatti ai bisogni di chiarezza e di solidarietà teorico-politica necessari per l’intervento nella classe.” (Lettera del BIPR, 8/4/99, tradotta da noi dall’inglese).
E’ vero che l’idealismo sarebbe una tara profonda per un’organizzazione rivoluzionaria. L’idealismo è un pilastro filosofico dell’ideologia borghese. Cercando la forza motrice ultima della storia nelle idee, le morali e le verità che sono prodotte dalla coscienza umana, l’idealismo è una delle basi fondamentali delle differenti ideologie della classe dominante che cerca di nascondere il suo sfruttamento della classe operaia e di negarle ogni reale capacità per la sua liberazione. La divisione del mondo in classi, così come la possibilità e la necessità della rivoluzione comunista per rovesciare questo mondo, non possono essere comprese che dalla concezione materialista della storia. La storia del pensiero si spiega con la storia dell’essere e non il contrario.
L’idealismo e il corso storico
Ma perché la concezione del “corso storico”, che prende posizione sul rapporto di forza tra le classi in un periodo storico dato e che trae la conclusione che la prospettiva attualmente non è aperta ad una guerra imperialista generalizzata, ma è sempre aperta ad immensi scontri di classe... è “idealista”? La lettera della Communist Workers Organisation (il BIPR in Gran Bretagna) alla CCI, che rifiuta una riunione pubblica comune in Gran Bretagna sulla guerra, tenta di spiegarcelo:
“A voi questo può sembrare un dettaglio, ma per noi evidenzia fino a che punto vi siete allontanati dalla realtà. Noi siamo assolutamente sconvolti da una così scarsa risposta proletaria alla piega presa dagli avvenimenti. ‘Socialismo o barbarie’ è una parola d’ordine che ha un significato assoluto in questa crisi. Ma come potete sostenere che la classe operaia impedisce la guerra quando l’evidenza di tutto quello che è accaduto in Jugoslavia mostra fino a che punto gli imperialisti (grandi e piccoli) hanno le mani libere? (...) La guerra si svolge attualmente a 800 miglia da Londra (in linea d’aria). Deve arrivare fino a Brighton perché voi correggiate la vostra prospettiva? La guerra è un passo serio verso la barbarie generale. Noi non possiamo lottare insieme per un’alternativa comunista se suggerite che la classe operaia è una forza sulla quale bisogna contare nel periodo presente.” (Lettera della CWO, 26/4/99, tradotto da noi dall’inglese).
L’idealismo, il nostro idealismo, non sarebbe dunque “legato alla realtà”, alla “evidenza”, alla realtà come è compresa dal BIPR. Innanzitutto, l’accusa di idealismo, che è un’accusa grave, è difficilmente accettabile per come viene formulata dal BIPR poiché essa riduce una questione storica ad un problema di “buon senso comune”.
Questa rapida esposizione della versione del BIPR della realtà manca seriamente di materialismo storico e dipende troppo da un ragionamento di “buon senso” sommerso da fatti contingenti e locali. Il BIPR ci assicura che “Socialismo o barbarie” s’applica in maniera assoluta alla situazione: che, fondamentalmente, nei Balcani sono in gioco le prospettive storiche alternative delle due principali classi nemiche nella società. E poi si contraddice quando, qualche riga più avanti, afferma che il proletariato e la sua prospettiva storica, il socialismo, non contano più nella situazione attuale. Non resta che il BIPR, solo al mondo, a sventolare la bandiera dell’alternativa comunista. Quest’analisi contraddittoria della realtà, della realtà “immediata”, “evidente”, non è “dialettica”, come pensa il BIPR, perché fallisce proprio nel vedere come le tendenze storiche fondamentali si manifestano in una data situazione.
Mentre la CCI ha perlomeno tentato di comprendere il peso storico del proletariato nella guerra dei Balcani senza minimizzare affatto la serietà della situazione, il BIPR, esprimendosi sul terreno dell’empirismo, valuta piuttosto gli avvenimenti a secondo della loro vicinanza geografica a Londra o Brighton. A quanto pare il proletariato non è “una forza su cui bisogna contare nella situazione presente” perché non ci sono fatti tangibili per provare il contrario, perché ciò non è confermato empiricamente, nella realtà immediata. Il BIPR non arriva a vedere il proletariato nella situazione storica presente, non lo avverte, non lo assapora, non lo sente. Dunque il proletariato non è presente. E chiunque afferma che esso è una forza, per quanto limitata possa essere, che esso è sempre presente, per quanto debole sia questa presenza, è un idealista.
Le contro-tendenze all’assenza apparente del proletariato - in particolare la mancata adesione alla guerra della classe operaia dell’Europa occidentale e del Nord America - sono conseguentemente ignorate come fattori. Le tendenze latenti negli avvenimenti che possono essere solamente prese come un segno in negativo nella situazione, come impronte sulla sabbia, devono tuttavia essere prese in conto allo scopo di essere considerate con la più larga realtà storica.
Il metodo che vede gli avvenimenti solo come semplici fatti senza tutte le loro inter relazioni storiche, è materialista solo in senso metafisico:
“E quando, grazie a Bacon e a Locke, questo modo di vedere passa dalla scienza della natura alla filosofia, esso produce la ristrettezza di spirito specifica degli ultimi secoli, il modo di pensare metafisico. Per il metafisico le cose ed i loro riflessi nel pensiero, i concetti, sono degli oggetti di studio isolati, da considerare l’uno dopo l’altro e l’uno senza l’altro, fissi, rigidi, dati una volta per tutte. Egli non pensa che per antitesi, senza mezzi termini: egli dice si, si, no, no; ciò che va al di là non vale niente. Per lui, una cosa esiste o non esiste; una cosa non può essere nello stesso tempo se stessa ed un’altra. Il positivo ed il negativo si escludono in assoluto; la causa e l’effetto si oppongono con altrettanta rigidità. Se questo modo di pensare ci sembra inizialmente completamente plausibile, questo è quello che viene chiamato buon senso. Ma per quanto rispettabile possa essere questo compagno di strada quando resta confinato nel campo prosaico delle sue quattro mura, il buon senso conosce avventure sorprendenti quando si avventura nel vasto mondo della ricerca, ed il modo di vedere metafisico, per quanto giustificato e necessario in vasti campi la cui ampiezza varia a seconda della natura dell’oggetto, si scontra sempre, prima o poi, con una barriera al di là della quale esso diventa stretto, limitato, astratto e si perde in contraddizioni insolubili: la ragione sta nel fatto che davanti agli oggetti singoli, esso dimentica il loro concatenarsi; davanti al loro essere esso dimentica il loro divenire ed il loro perire; davanti al loro riposo esso dimentica il loro movimento; gli alberi gli impediscono di vedere la foresta” (F. Engels, Socialismo utopico e socialismo scientifico).
L’empirismo - il buon senso comune - assimila il materialismo storico ed il suo metodo dialettico all’idealismo, non comprendendo che il marxismo rifiuta di considerare i fatti sulla base del loro semplice apparire.
Il BIPR si contrappone alla storia del movimento rivoluzionario quando taccia d’idealista lo “schema” del corso storico. Il gruppo della frazione di sinistra del PCd’Italia che pubblicava la rivista Bilan negli anni 30, era colpevole d’idealismo quando sviluppava questo concetto per determinare se la storia andava verso la guerra o la rivoluzione? (1). E’ una domanda alla quale il BIPR dovrebbe rispondere dato che Bilan è parte integrante della storia della Sinistra Italiana alla quale esso si richiama.
Ma se il BIPR pensa di poter utilizzare il materialismo storico in maniera unilaterale mettendo avanti una supposta verità evidente dei fatti, esso è anche colpevole di usare degli schemi meccanici per inventare dei fatti inesistenti. Nel suo volantino internazionalista contro la guerra nella ex-Jugoslavia, difende il fatto che l’obiettivo principale dell’intervento della Nato era quello di “assicurarsi il controllo del petrolio del Caucaso”. Come ha potuto il BIPR arrivare ad una tale fantasia? Applicando lo schema secondo il quale la principale forza motrice oggi dietro l’imperialismo è la ricerca del profitto economico “per assicurarsi il controllo e la gestione del petrolio, della rendita petrolifera e dei mercati finanziari o commerciali”.
Forse e questo uno schema materialista, ma è un materialismo meccanico. In effetti, anche se il fattore principale dell’im-perialismo moderno resta legato alle contraddizioni economiche fondamentali del capitalismo, questo schema ignora i fattori politici e strategici, i quali che divenuti preponderanti nei conflitti tra gli Stati nazione.
Il metodo marxista e l’intervento rivoluzionario sulla guerraSe il BIPR adotta un approccio empirico quando si confronta con la questione del ruolo della classe operaia in tutti gli avvenimenti su scala storica, dimostra che sulle questioni più generali e decisive è invece perfettamente capace di vedere in modo marxista, cosa che il buon senso comune è incapace di fare. Il suo volantino contro la guerra – come i volantini di altri gruppi della Sinistra comunista – ha messo in evidenza che dietro i pretesi scopi umanitari delle grandi potenze unite nel Kosovo, era in atto uno scontro inevitabile e ben più vasto. Ha mostrato che i pacifisti e la sinistra del capitale, malgrado le altisonanti dichiarazioni contro la violenza, alimentano in realtà i fuochi della guerra. Infine, anche se non poteva parlare del proletariato come una forza nella situazione presente, affermava tuttavia che la lotta della classe operaia che porta alla rivoluzione comunista è l’unica via per sfuggire alla crescente barbarie capitalista.
La posizione proletaria internazionalista sulla guerra imperialista, comune ai differenti gruppi della Sinistra comunista e condivisa dalla CCI e dal BIPR, è pienamente marxista e dunque fedele al metodo del materialismo storico.
Quindi, almeno su questo punto, l’accusa di idealismo fatta alla CCI crolla completamente.
Il problema dell’unità nella storia del movimento operaioNella sua lettera a Wilhem Bracke nel 1875, che introduce la Critica al Programma di Gotha del Partito operaio social-democratico di Germania, K. Marx dice che “ogni passo fatto in avanti, ogni progresso reale vale più di una dozzina di programmi” (Marx). E questa frase celebre costituisce un punto di riferimento per l’azione unita dei rivoluzionari. E’ una perfetta applicazione di ciò che mettevano in evidenza celebri Tesi su Feuerbach del 1845 che dimostravano che il materialismo storico non è una nuova filosofia contemplativa, ma un’arma dell’azione proletaria.
“La coincidenza della modifica delle circostanze e dell’attività umana o dell’autotrasformazione non può essere colta o compresa se non come pratica rivoluzionaria” e “i filosofi non fanno altro che interpretare diversamente il mondo, quello che importa è trasformarlo” (Marx, Tesi su Feuerback).
Nella sua lettera introduttiva e nel suo testo, Marx critica severamente il programma di unità del partito social-democratico tedesco per le concessioni fatte ai Lassalliani (2). Egli reputa che un “accordo per l’azione contro il nemico comune” è estremamente importante e suggerisce che sarebbe stato meglio rinviare la redazione del programma fino al “momento in cui tali programmi siano stati preparati da una più lunga attività comune” (Lettera a W. Bracke). Divergenze estreme non erano dunque degli ostacoli all’azione unita, ma la contrario dovevano essere confrontate in questo contesto.
Come abbiamo messo in evidenza nel nostro appello, Lenin e gli altri rappresentati della sinistra marxista applicarono lo stesso metodo alla conferenza di Zimmerwald, nel settembre del 1915, nel corso della quale firmarono il manifesto contro la prima guerra imperialista mondiale. Eppure espressero delle critiche e dei disaccordi circa le lacune gravi di questo testo ed sottomisero a votazione la propria posizione (3) che fu respinta dalla maggioranza della conferenza.
Il BIPR si è già cimentato nel sapiente lavoro di dimostrazione che un tale esempio storico d’unità dei rivoluzionari del passato ebbe luogo in circostanze differenti e quindi non può essere applicato nel periodo presente. In altri termini, il BIPR non vuol vedere i fili che legano il passato di Zimmerwald al presente. Questo è visto solo come un episodio del passato ormai concluso, utile solo alla riflessione degli storici.
La diversità delle circostanze in cui l’unità dei rivoluzionari ha avuto luogo nel passato, lungi dal provare che questa non è applicabile al movimento rivoluzionario attuale, sottolinea invece tutta la sua validità. Il fatto più sorprendente, a proposito della difesa di Marx e di Lenin del lavoro comune tra i rivoluzionari nei due esempi dati, è che le differenze tra Eisenachiani e Lassalliani in un caso, e tra la sinistra marxista (in primo luogo i bolscevichi) ed i socialisti a Zimmerwald nell’altro caso, erano molto più importanti delle differenze tra i gruppi della Sinistra comunista di oggi.
Marx preconizzava il lavoro comune, in uno stesso partito, con una tendenza che difendeva lo “Stato libero”, i “diritti eguali”, la “giusta distribuzione del prodotto del lavoro” e che parlava della “legge ferrea dei salari”, ed altri pregiudizi borghesi. Il Manifesto di Zimmerwald era una opposizione comune alla I Guerra mondiale tra, da una parte, gli internazionalisti intransigenti che chiamavano alla guerra civile contro la guerra imperialista ed alla costituzione di una nuova Internazionale, e dall’altra, i pacifisti, i centristi ed altri esitanti che miravano alla riconciliazione con i social-patrioti e contestavano le parole d’ordine rivoluzionarie della sinistra. Nel campo comunista attuale non ci sono concessioni ad illusioni democratiche ed umaniste. C’è una denuncia comune della natura imperialista della guerra, una denuncia comune del pacifismo e dello sciovinismo della sinistra borghese ed un appello comune per la “guerra civile”, vale a dire opporre alla guerra imperialista la prospettiva e la necessità della rivoluzione proletaria.
Lenin firma il Manifesto di Zimmerwald, con tutte le sue insufficienze, al fine di far avanzare il movimento reale. In un articolo scritto direttamente dopo la prima conferenza di Zimmerwald, egli dice:
“E’ un fatto che quest’ultimo (il Manifesto della conferenza di Zimmerwald) costituisce un passo in avanti verso la lotta effettiva contro l’opportunismo, verso la rottura e la scissione da questo. Sarebbe del settarismo rinunciare a questo passo in avanti con la minoranza dei tedeschi, dei francesi, degli svedesi, dei norvegesi e degli svizzeri, quando noi conserviamo l’intera libertà e l’intera possibilità di criticare l’inconseguenza e di cercare di ottenere di più. Sarebbe una cattiva tattica di guerra quella di rifiutare di marciare con il movimento internazionale in cui cresce la protesta contro il social-sciovinismo, sotto il pretesto che questo movimento è troppo lento, che esso fa “solamente” un passo in avanti, che è pronto e disposto domani a fare un passo indietro ed a ricercare una conciliazione con il vecchio Bureau socialista internazionale” (Lenin, “un primo passo”, ottobre 1915).
Karl Radek arrivò alla stessa conclusione in un altro articolo su questa conferenza:
“…la sinistra ha deciso di votare il manifesto per le seguenti ragioni. Sarebbe dottrinario e settario separarci da forze che hanno cominciato, in una certa misura, a lottare contro il social-patriottismo nel loro proprio paese nel momento in cui devono far fronte a furiosi attacchi da parte dei social-patrioti” (La sinistra di Zimmerwald, tradotto da noi dall’inglese).
Non c’è alcun dubbio che i rivoluzionari attuali devono agire contro lo sviluppo delle guerre imperialiste con lo stesso metodo usato da Lenin e dalla sinistra di Zimmerwald contro la I guerra mondiale. L’avanzata del movimento rivoluzionario come un tutto è la priorità centrale. La differenza principale tra le circostanze di allora e quelle di oggi giorno mette in evidenza la maggiore convergenza tra i gruppi internazionalisti attuali rispetto a quella tra la sinistra ed il centro di Zimmerwald (4), e di conseguenza la maggiore necessità e giustificazione per un’azione comune.
Una dichiarazione internazionalista comune ed altre espressioni di una azione comune contro la guerra della Nato avrebbero, sicuramente, aumentato enormemente la presenza politica della Sinistra comunista rispetto all’impatto dei differenti gruppi presi singolarmente. Ciò sarebbe stato un antidoto materiale, reale, contro le divisioni nazionaliste imposte dalla borghesia. L’intenzione comune di far avanzare il movimento reale avrebbe creato un polo di attrazione più forte per gli elementi alla ricerca di posizioni comuniste che attualmente sono disorientati dalla dispersione sconcertante dei differenti gruppi. E l’unione delle forze avrebbe avuto un impatto più ampio sull’insieme della classe operaia. Oltretutto, ciò avrebbe segnato un punto di riferimento storico per i rivoluzionari nel futuro, come lo fu sicuramente il Manifesto di Zimmerwald che lanciò un messaggio di speranza per i futuri rivoluzionari fin dentro le trincee. Come si può caratterizzare un metodo politico che consiste nel rifiutare una tale azione comune? La risposta ci viene data da Lenin e da Radek: dottrinaria e settaria (5).
Se ci siamo limitati a due esempi storici è per ragioni di spazio, non per mancanza di altri esempi di azione comune tra i rivoluzionari del passato. La I, la II e la III Internazionale sono tutte state formate con la partecipazione di elementi che non accettavano nemmeno le premesse essenziali del marxismo, come gli anarchici nella I, o gli anarco-sindacalisti francesi e spagnoli che difendevano l’internazionalismo e la Rivoluzione Russa e che furono dunque i benvenuti nella IC.
Non dobbiamo dimenticare che lo spartachista Karl Liebknecht, riconosciuto da tutta la sinistra marxista come il più eroico difensore del proletariato nella prima guerra mondiale, era proprio lui un idealista nel vero senso del termine poiché rigettava il metodo del materialismo dialettico in favore del kantismo.
Il metodo di confronto delle posizioni nel movimento rivoluzionarioLa maggior parte dei gruppi di oggi immaginano che unendosi anche per un’attività minima vanno ad ingarbugliare o a diluire le divergenze importanti che essi hanno con gli altri gruppi. Niente di più falso. Dopo la formazione del partito social-democratico tedesco e dopo Zimmerwald, non c’è alcuna diluizione opportunista delle differenze che esistevano tra i differenti partecipanti ma, al contrario, un acuirsi di queste ed, in fin dei conti, una conferma nella pratica delle posizioni più chiare. I marxisti finirono per dominare completamente nel partito tedesco e, dal 1875, sui Lassalliani nella II Internazionale. Dopo Zimmerwald le posizioni intransigenti della sinistra, che era in minoranza, hanno preso completamente il sopravvento, soprattutto quando l’ondata rivoluzionaria, che era cominciata in Russia nel 1917, confermò la loro politica nel corso stesso degli avvenimenti, mentre i centristi ricadevano nelle braccia dei social-patrioti. Se essi non avessero messo le loro posizioni alla prova nel quadro di un’azione comune, se pur limitata, i loro successi futuri non sarebbero stati possibili. L’Internazionale Comunista è in effetti debitrice alla Sinistra di Zimmerwald (6).
Questi esempi della storia del movimento rivoluzionario confermano anche un’altra ben nota tesi su Feuerbach:
“La questione dell’attribuzione al pensiero umano di una verità obiettiva non è un problema di teoria, ma una questione pratica. E’ nella pratica che l’uomo va a fare la prova della verità, vale a dire della realtà e della potenza del suo pensiero, la prova che esso è di questo mondo. Il dibattito sulla realtà o l’irrealtà del pensiero isolato dalla pratica è una questione puramente scolastica”.
I gruppi della Sinistra comunista che rigettano un quadro politico per il loro movimento comune all’interno del quale le loro divergenze potrebbero essere confrontare, tendono a ridurre le loro differenze sulla teoria marxista ad un livello scolastico. Anche se questi gruppi hanno la volontà di provare la validità delle loro posizioni nella pratica all’interno della più ampia lotta di classe, questo obiettivo resterà una speranza vana se non possono “mettere la propria casa in ordine” e verificare le loro posizioni nella pratica con le altre tendenze internazionaliste.
Il riconoscere un minimo di attività comune è la base su cui le divergenze possono essere poste chiaramente, essere confrontate, testate e chiarite per quegli elementi che emergono dalle fila proletarie, in particolare nei paesi in cui la Sinistra comunista non ha ancora una presenza organizzata. Sfortunatamente è questo che i gruppi comunisti di oggi giorno si rifiutano di comprendere. I gruppi della corrente bordighista difendono il settarismo come un principio. Senza arrivare a questo, il BIPR tende a rigettare ogni confronto serio delle posizioni politiche: “Noi critichiamo la CCI (…) perché essa si aspetta che quello che chiama campo politico proletario riprenda e discuta delle sue preoccupazioni politiche sempre più bizzarre” (7) dicono in Internationalist Communist n°17, la rivista del BIPR, che in parte è consacrata alle divergenze con la CCI, in risposta a degli elementi in ricerca in Russia ed altrove; elementi che si interrogano su questa questione della responsabilità degli internazionalisti e della loro azione comune di fronte alla guerra imperialista. E’ particolarmente desolante constatare che il campo internazionalista respinge ogni dibattito serio per paura del confronto di posizioni divergenti. Il movimento rivoluzionario di oggi ha bisogno di ritrovare la fiducia che i marxisti del passato avevano nelle loro idee e nelle loro posizioni politiche.
L’accusa secondo la quale la CCI è idealista non sta in piedi. Siamo in attesa di critiche più solide e sviluppate per sostenere queste affermazioni.
Di fronte alla situazione internazionale dominante e di fronte alle esigenze crescenti davanti alle quali si trova la classe operaia, dovrebbe essere chiaro che il metodo materialista del movimento rivoluzionario marxista esige una risposta comune. La Sinistra comunista non è stata all’altezza di tutte le sue responsabilità al momento della guerra nel Kosovo. Ma gli avvenimenti futuri la costringeranno a metterle al centro delle sue preoccupazioni.
Como
1. In un articolo dal titolo molto esplicito, La corsa verso la guerra, ecco come Bilan nel suo numero 29 del marzo 1936 pone il problema del corso storico: “I sostenitori dei governi attuali (…) hanno diritto alla riconoscenza eterna da parte del regime capitalista per aver condotto fino in fondo l’opera di schiacciamento del proletariato mondiale. Soltanto arrivando a soffocare la sola forza capace di creare una nuova società, hanno aperto la porta all’inevitabilità della guerra, termine estremo delle contraddizioni interne del regime capitalista. (…) A quanto la guerra? Nessuno può dirlo. Ciò che è certo è che tutto è pronto”. Ed in un altro articolo dello stesso numero, ritornando sulla questione e precisando le condizioni del corso alla guerra imperialista, si afferma: “Siamo assolutamente convinti che con la politica di tradimento social-centrista, che ha condotto il proletariato alla sua impotenza di classe nei paesi “democratici”; che con il fascismo, arrivato attraverso il terrore agli stessi risultati, si sono gettate le premesse indispensabili per lo scatenamento di una nuova carneficina mondiale. La traiettoria della degenerazione dell’URSS e dell’IC rappresenta uno dei sintomi più allarmanti del corso verso il precipizio della guerra.” E’ interessante ricordare al BIPR ed ai gruppi bordighisti quale è la prospettiva d’azione che propone Bilan alle differenti forze che sono rimaste comuniste: “La sola risposta che questi comunisti potrebbero opporre agli avvenimenti che andremo a vivere, la sola manifestazione politica che potrebbe rappresentare un punto di riferimento sulla via della vittoria di domani, sarebbe una Conferenza Internazionale che riunisca le povere membrane che restano oggi del cervello della classe operaia mondiale”. La nostra preoccupazione di determinare quale è il corso storico, ed il nostro appello ad una difesa comune dell’internazionalismo, si pongono nella traiettoria della tradizione della Sinistra italiana, e non se ne dispiacciano i nostri ignoranti.
2. Il Partito Social Democratico tedesco si è costituito a partire dall’unificazione di due grandi correnti, una piccolo-borghese, i Lassalliani dal nome del loro dirigente Lassalle, l’altra marxista, gli Eisenachiani dal nome della città in cui si costituirà questa tendenza in Partito Operaio Social Democratico tedesco nel 1869.
3. Abbiamo sottolineato la validità della politica unitaria della Sinistra di Zimmerwald per il campo internazionalista di oggi nella Revue Internationale n. 44 nel 1986.
4. In effetti, si può anche affermare che le differenze all’interno stesso della sinistra di Zimmerwald erano più grandi di quelle che riguardano l’attuale campo internazionalista. In particolare allora c’erano delle importanti divisioni sul fatto se la liberazione nazionale era ancora possibile e, quindi, se la parola d’ordine del “diritto delle nazioni all’autodeterminazione” facesse sempre parte della politica marxista. Le posizioni definite ed opposte tra Lenin da una parte e Trotsky e Radek dall’altra, sul sollevamento di Pasqua 1916 a Dublino, rivelano con chiarezza ed in maniera acuta le divisioni all’interno della sinistra di Zimmerwald. All’interno dello stesso Partito Bolscevico, esistevano differenze significative, in questo periodo, sull’autodeterminazione nazionale con Boukharin e Piatakov che difendevano la sua obsolescenza e sulla parola d’ordine di “disfattismo rivoluzionario” e di “Stati uniti d’Europa”.
5. La politica di Lenin di unità internazionalista non era limitata al movimento di Zimmerwald. Egli l’applicò anche all’interno della social-democrazia russa incoraggiando un lavoro in comune con un gruppo non bolscevico come quello di Trotsky, Naché Slovo. Se questi sforzi non furono coronati da successo – fino alla rivoluzione russa – fu a causa delle esitazioni ed al settarismo di Trotsky in quel tempo.
6. “Le Conferenze di Zimmerwald e di Kienthal ebbero la loro importanza in un’epoca in cui era necessario unire tutti gli elementi proletari disposti sotto una forma o un’altra a protestare contro la carneficina imperialista (…). Il raggruppamento di Zimmerwald autenticamente rivoluzionario passa ed aderisce all’Internazionale Comunista” (Dichiarazione fatta dai partecipanti alla Conferenza di Zimmerwald al congresso dell’IC). Questa dichiarazione è firmata da Rakovsky, Lenin, Zinoviev, Trotsky, Platten.
7. “We criticise the ICC (…) for expecting what they call the “proletarian political milieu” to take up and debate their increasingly outlandish political concerns”.
Pubblichiamo qui di seguito la seconda parte di un articolo apparso sulla versione trimestrale (disponibile in lingua inglese, francese e spagnola) della nostra Révue Internationale nn. 96 e 97. Nella prima parte abbiamo risposto all’accusa che ci è stata rivolta di essere diventati “leninisti” e di aver cambiato posizione sulla questione organizzativa. Dopo aver chiarito la differenza fondamentale che esiste tra Lenin e le sue posizioni politiche da una parte e, dall’altra, il cosiddetto “leninismo”, cioè la deformazione che è stata fatta di queste posizioni, abbiamo dimostrato che il “leninismo” non solo si oppone ai nostri principi e posizioni politiche, ma che esso mira anche alla distruzione dell’unità storica del movimento operaio. In particolare, esso rigetta la lotta delle sinistre marxiste all’interno - e poi al di fuori - della II e III Internazionale, spingendo Lenin contro Rosa Luxemburg, Pannekoek, etc.. Il “leninismo” è la negazione del militante comunista Lenin. Esso è l’espressione della controrivoluzione staliniana all’inizio degli anni 1920.
Abbiamo anche affermato di aver sempre rivendicato la lotta di Lenin per la costruzione del partito contro l’opposizione dell’economicismo e dei menscevichi. Abbiamo anche ricordato che manteniamo il nostro rigetto nei confronti dei suoi errori in materia di organizzazione, particolarmente sul carattere gerarchico e “militare” dell’organizzazione, come a livello teorico sulla questione della coscienza di classe che dovrebbe essere apportata al proletariato dall’esterno, ricollocando questi errori nel loro quadro storico per comprenderne la dimensione ed il loro significato reale.
In questa seconda parte risponderemo invece alle seguenti questioni: qual è la posizione della CCI sul “Che fare?” e su “Un passo avanti, due passi indietro?” Perché affermiamo che queste due opere di Lenin rappresentano delle acquisizioni teoriche, politiche ed organizzative insostituibili? Le nostre critiche, rivolte a dei punti tutt’altro che secondari - come è in particolare la questione della coscienza sviluppata nel “Che fare?”, rimettono per caso in dubbio il nostro accordo fondamentale con Lenin?
LA POSIZIONE DELLA CCI SUL CHE FARE?
“Sarebbe pertanto falso e caricaturale opporre un “Che fare?” sostituzionista di Lenin ad una visione sana e chiara di Rosa Luxemburg e di Trotsky (quest’ultimo d’altra parte si farà, negli anni 1920, l’inflessibile difensore della militarizzazione del lavoro e della dittatura del partito!)” (1)
Come si vede, la nostra posizione sul “Che fare?” parte dal nostro metodo di concepire la storia del movimento operaio, metodo che si basa sull’unità e la continuità di quest’ultimo. Questo metodo non è nuovo ma risale alla fondazione della stessa CCI.
Il “Che fare?”, del 1902, è costituito da due grandi parti. La prima dedicata alla questione della coscienza di classe e del ruolo dei rivoluzionari. La seconda legata direttamente ai problemi organizzativi. L’insieme è una critica implacabile degli “economicisti” secondo i quali non sarebbe possibile uno sviluppo della coscienza nella classe operaia se non a partire dalle sue lotte immediate. Questi tendono infatti a sottovalutare o a negare ogni ruolo politico attivo delle organizzazioni rivoluzionarie il cui compito si limiterebbe ad “aiutare” le lotte economiche. Come conseguenza naturale di questa sottovalutazione del ruolo dei rivoluzionari, l’economicismo si oppone alla costituzione di una organizzazione centralizzata ed unita capace di intervenire largamente e con una sola voce su tutte le questioni, economiche e politiche.
Il testo di Lenin “Un passo avanti, due passi indietro”, del 1903, è un complemento al “Che fare?” sul piano storico e rende conto della rottura tra bolscevichi e menscevichi al II congresso del POSDR.
Come abbiamo detto, la debolezza principale del “Che fare?” è sulla coscienza di classe. Ma qual è la tendenza degli altri rivoluzionari su questa questione? Fino al II congresso, solo “l’economicista” Martinov vi si oppone. E’ solo dopo il congresso che Plekanov e Trotsky criticano la concezione sbagliata di Lenin sulla coscienza apportata alla classe operaia dall’esterno. Essi sono i soli a rigettare esplicitamente la posizione di Kautsky ripresa da Lenin secondo la quale “socialismo e lotta di classe nascono uno accanto all’altra e non uno dall’altra (…). Il detentore della scienza non è il proletario, ma sono gli intellettuali borghesi”. (2)
La risposta di Trotsky su questo punto della coscienza è molto giusta, benché essa resti molto limitata. Non dimentichiamo che ci troviamo nel 1903 e la risposta di Trotsky, “I nostri compiti politici”, è datata 1904. Il dibattito sullo sciopero di massa è appena iniziato in Germania ma è soltanto con l’esperienza del 1905 in Russia che esso va realmente a svilupparsi. Trotsky respinge chiaramente la posizione di Kautsky e sottolinea il pericolo di sostituzionismo che essa comporta. Ma, nonostante ciò, mentre si mostra molto virulento contro Lenin sulle questioni organizzative, di fatto non se ne stacca completamente su questo aspetto particolare. Egli concepisce e spiega le ragioni di una tale presa di posizione in questi termini:
“Quando Lenin riprese da Kautsky l’assurda idea del rapporto tra l’elemento «spontaneo» e l’elemento «cosciente» nel movimento rivoluzionario del proletariato, non faceva che definire nelle sue grandi linee i compiti della sua epoca”. (3)
A parte la clemenza di Trotsky su questo piano, è opportuno rilevare che nessuno di quelli che si opponevano a Lenin si era scagliato contro la posizione di Kautsky sulla coscienza prima del II congresso del POSDR, quando essi erano uniti nella lotta contro l’economicismo. Anzi al congresso, Martov, leader dei menscevichi, riprende esattamente la stessa posizione di Kautsky e di Lenin: ”Noi siamo l’espressione cosciente di un processo incosciente.” (4) Dopo il congresso questa questione viene giudicata così poco importante che i menscevichi negano ancora ogni divergenza programmatica e attribuiscono la divisione alle “elucubrazioni” di Lenin sull’organizzazione:
“Con la mia debole intelligenza, non sono capace di comprendere ciò che può essere «l’opportunismo sui problemi organizzativi» posto in campo come qualcosa di autonomo, al di fuori di un legame organico con le idee programmatiche e tattiche.” (5)
La critica di Plékhanov, se è giusta, resta ancora molto generale e si limita a ristabilire la posizione marxista sul problema. L’argomento principale è che non è vero che “gli intellettuali (hanno) «elaborato» le loro proprie teorie socialiste «in maniera totalmente indipendente dalla crescita spontanea del movimento operaio», cosa che non è mai accaduta e che mai potrà accadere.” (6)
Plékhanov si limita, a livello teorico, al problema della coscienza. Non affronta i dibattiti del II congresso. Non risponde alla questione centrale di quale partito e quale ruolo per questo partito? Solo Lenin vi risponde.
La questione centrale del Che fare?: elevare la coscienza
Nella sua polemica sul piano teorico contro l’economicismo Lenin ha una preoccupazione centrale, la questione della coscienza di classe e del suo sviluppo nella classe operaia. Si sa che Lenin è ritornato rapidamente sulla posizione di Kautsky, particolarmente in seguito all’esperienza dello sciopero di massa in Russia del 1905 e la comparsa dei primi soviet. Nel gennaio del 1917, cioè prima dell’inizio della rivoluzione in Russia, quando la guerra imperialista infuriava, Lenin ritorna sullo sciopero di massa del 1905. Passaggi interi sullo “intreccio degli scioperi economici e di quelli politici” potrebbero apparire come redatti da Rosa Luxemburg o da Trotsky (7). E sono un’espressione del rigetto di Lenin del suo errore iniziale in gran parte provocato dalle sue “forzature” (8).
“La vera educazione delle masse non può mai essere separata dalla lotta politica indipendente e soprattutto dalla lotta rivoluzionaria delle masse stesse. Soltanto la lotta educa la classe sfruttata; soltanto la lotta le fa scoprire l’entità della sua forza, allarga il suo orizzonte, eleva le sue capacità, illumina la sua intelligenza e tempra la sua volontà.” (9) Si è ben lontano da ciò che dice Kautsky.
Ma già nel Che fare?, ciò che viene detto sulla coscienza è contraddittorio. Accanto alla posizione sbagliata presa da Kautsky Lenin afferma, per esempio: “Questo ci mostra che l’«elemento spontaneo» non è in fondo che la forma embrionale del cosciente”. (10)
Queste contraddizioni sono la manifestazione del fatto che Lenin, come il resto del movimento operaio nel 1902, non ha una posizione molto precisa e chiara sulla questione della coscienza di classe (11). Le contraddizioni del Che fare? e le prese di posizione ulteriori mostrano che egli non è particolarmente legato alla posizione di Kautsky. D’altra parte non vi sono che tre passaggi ben definiti del Che fare? in cui egli scrive che “la coscienza deve essere apportata dall’esterno”. E fra i tre ve n’è uno che non ha niente a che vedere con Kautsky.
Rigettando l’idea che si possa “sviluppare la coscienza politica della classe degli operai dall’interno della loro lotta economica, ovvero partendo unicamente (o almeno principalmente ) da questa lotta, basandosi unicamente (o almeno principalmente) su questa lotta… [Lenin risponde che] …la coscienza politica di classe non può essere apportata all’operaio che dall’esterno, vale a dire dall’esterno della lotta economica, dall’esterno della sfera dei rapporti tra operai e padroni” (10). La formula è confusa, ma l’idea è giusta. E non corrisponde a ciò che egli difende nelle altre due utilizzazioni del termine “esterno” quando parla della coscienza. Il suo pensiero è ancora più preciso in un altro passaggio: “La lotta politica della socialdemocrazia è molto più larga e complessa della lotta economica degli operai contro il padronato ed il governo”. (10)
Lenin rigetta con chiarezza la posizione sviluppata dagli economisti sulla coscienza di classe intesa come prodotto immediato, diretto, meccanico ed esclusivo delle lotte economiche.
Noi siamo dalla parte del Che fare? nella lotta contro l’economicismo. Noi siamo anche d’accordo con gli argomenti critici utilizzati contro l’economicismo e riteniamo che essi siano ancora oggi d’attualità per quanto riguarda il loro contenuto teorico e politico.
“L’idea secondo la quale la coscienza di classe non sorge in maniera meccanica dalle lotte economiche è del tutto corretta. Ma l’errore di Lenin consiste nel credere che non si può sviluppare la coscienza di classe a partire dalle lotte economiche e che quest’ultima deve essere introdotta dall’esterno da un partito.” (1)
E’ forse questa una nuova posizione della CCI? Ecco alcune citazioni del Che fare? che noi riprendiamo come nostre riportate in un articolo di polemica (12) del 1989 con il BIPR per sostenere, già da allora, ciò che affermiamo oggi:
“La coscienza socialista delle masse operaie è la sola base che ci può garantire il trionfo (…). Il partito deve avere sempre la possibilità di rivelare alla classe operaia l’antagonismo ostile tra i suoi interessi e quelli della borghesia”. [La coscienza di classe raggiunta dal partito] “deve essere diffusa tra le masse operaie con uno zelo crescente. (…) bisogna sforzarsi il più possibile per elevare il livello di coscienza degli operai in generale”. [Il compito del partito è di] tirare profitto dalle scintille di coscienza politica che la lotta economica ha fatto penetrare nello spirito degli operai per elevare questi al livello della coscienza socialdemocratica” (13).
Per i detrattori di Lenin, le concezioni presentate nel Che fare? annunciano lo stalinismo. Un legame unirebbe dunque Lenin a Stalin anche in materia di organizzazione (14). Noi abbiamo respinto questa menzogna nella prima parte di questo articolo sul piano storico. E noi la respingiamo anche sul piano politico, ivi compresa la questione della coscienza di classe e dell’organizzazione politica.
Vi è un’unità ed una continuità del Che fare? con la rivoluzione russa, ma sicuramente non con la controrivoluzione staliniana. Questa unità e questa continuità esistono in tutto quel processo rivoluzionario che collega gli scioperi di massa del 1905 a quelli del 1917, che va dal febbraio del 1917 all’insurrezione di ottobre 1917. Per noi il Che fare? annuncia Le tesi di aprile del 1917: ”Data l’innegabile buona fede di vasti strati delle masse, che sono per il difensivismo rivoluzionario e accettano la guerra come una necessità e non per spirito di conquista, dato che essi sono ingannati dalla borghesia, bisogna innanzi tutto mettere in luce i loro errori minutamente, ostinatamente, pazientemente, mostrando il legame indissolubile fra il capitale e la guerra imperialista (…). Spiegare alle masse che i Soviet dei deputati operai sono la sola forma possibile di governo operaio.” (15). Per noi, il Che fare? annuncia l’insurrezione di ottobre ed il potere dei soviet.
I nostri detrattori attuali “anti-leninisti” passano completamente sotto silenzio questa preoccupazione centrale del Che fare? sulla coscienza, riprendendo così uno degli elementi del metodo stalinista che abbiamo denunciato nella prima parte di questo articolo. Se Stalin faceva cancellare i vecchi militanti bolscevichi dalle foto, essi cancellano l’essenziale di ciò che dice Lenin e ci accusano di essere diventati “leninisti“, ovvero stalinisti.
Per gli adoratori senza critica di Lenin, come la corrente bordighista, noi saremmo degli incorreggibili idealisti per la nostra insistenza sul ruolo e l’importanza de “la coscienza di classe nella classe operaia“ nella lotta storica e rivoluzionaria del proletariato. Per chi va a leggere bene ciò che ha scritto Lenin e per chi vuole ben calarsi nel processo reale delle discussioni e dei confronti politici dell’epoca, entrambe le accuse sono false.
La distinzione del Che fare? tra organizzazione politica e organizzazione unitaria
A livello politico ed organizzativo ci sono altri apporti fondamentali nel Che fare?. Si tratta principalmente della distinzione chiara e precisa che Lenin fa tra le organizzazioni di cui la classe operaia si dota nelle sue lotte quotidiane, le organizzazioni unitarie, e le organizzazioni politiche. Vediamo per prima l’acquisizione sul piano politico.
“Questi circoli, associazioni professionali degli operai e organizzazioni sono necessari dappertutto; bisogna che essi siano quanto più numerosi è possibile e che le loro funzioni siano le più varie; ma è assurdo e nocivo confonderle con l’organizzazione dei rivoluzionari, annullare la linea di demarcazione che esiste tra loro (…) L’organizzazione di un partito socialdemocratico rivoluzionario deve necessariamente essere di un altro genere rispetto all’organizzazione degli operai per la lotta economica” (10).
A tale livello, questa distinzione non è una scoperta per il movimento operaio. La socialdemocrazia internazionale, in particolare quella tedesca, è chiara sulla questione. Ma il Che fare?, nella sua lotta contro la variante russa dell’opportunismo in quest’epoca, l’economicismo, e tenendo conto delle condizioni particolari, concrete, della lotta di classe nella Russia zarista, è portato ad andare più lontano ed ad avanzare una idea nuova.
“L’organizzazione dei rivoluzionari deve inglobare anzitutto e principalmente degli uomini la cui professione è l’azione rivoluzionaria. Di fronte a questa caratteristica comune ai membri di una tale organizzazione, deve essere abolita ogni distinzione tra operai ed intellettuali e, a maggior ragione, tra le diverse professioni degli uni e degli altri. Necessariamente questa organizzazione non deve essere molto estesa, ed è necessario che essa sia quanto più clandestina possibile” (10).
Fermiamoci un momento su questo passaggio: sarebbe sbagliato vedere in esso delle considerazioni legate unicamente alle condizioni storiche in cui i rivoluzionari russi dovevano agire, in particolari condizioni d’illegalità, di clandestinità e di repressione. Lenin avanza tre punti che hanno un valore universale e storico e la cui validità non ha fatto che confermarsi fino ai giorni nostri. Il primo è che la militanza comunista è un atto volontario e serio (egli utilizza il termine “professionale” che è anche ripreso dai menscevichi nei dibattiti al congresso) che coinvolge il militante e determina la sua vita. Noi siamo sempre stati d’accordo con questa concezione della militanza che combatte e rigetta ogni visione o atteggiamento dilettantesco.
In secondo luogo Lenin difende una visione dei rapporti tra militanti comunisti che supera la divisione operaio-intellettuale (16), dirigente-diretto diremmo noi oggi, che supera ogni visione gerarchica o di superiorità individuale, in una comunità che lotta unita all’interno del partito, all’interno dell’organizzazione rivoluzionaria. Ed egli si oppone ad ogni divisione per mestiere o per corporazione tra i militanti. Egli rigetta, in anticipo, le cellule di fabbrica che saranno create durante la bolscevizzazione in nome del leninismo (8).
Infine, egli definisce un’organizzazione che “non deve essere estesa”. E’ il primo a percepire che il periodo dei partiti operai di massa si è concluso (17). Certamente, le condizioni della Russia favorirono sicuramente questa chiarezza. Ma sono le nuove condizioni di vita e di lotta del proletariato, che si manifestano in particolare attraverso “lo sciopero di massa”, che determinano anche le nuove condizioni d’attività dei rivoluzionari, in particolare il carattere "meno esteso", minoritario, delle organizzazioni rivoluzionarie nel periodo di decadenza del capitalismo che si apre all’inizio del secolo.
“Ma sarebbe (…) del “codismo” pensare che sotto il capitalismo quasi tutta la classe o la classe tutta intera sarà un giorno capace di elevarsi al punto di acquisire il grado di coscienza e d’attività del suo distaccamento d’avanguardia, del suo partito socialdemocratico” (18).
Se Rosa Luxemburg, Pannekoek o Trotsky sono tra i primi a tirare le lezioni sul manifestarsi degli scioperi di massa e dei consigli operai nella stessa epoca, essi restano tuttavia prigionieri di una visione del partito come organizzazione politica di massa. Rosa Luxemburg ad esempio critica Lenin dal punto di vista del partito di massa (19), finendo per deragliare essa stessa come quando scrive che “in verità la socialdemocrazia non è legata all’organizzazione della classe operaia, essa è invece proprio il movimento della classe operaia” (20). Vittima, anche lei, del “cambiamento di rotta” nella polemica, vittima del suo posizionarsi al fianco dei menscevichi sulla questione sollevata al 2° congresso del POSDR, essa scivola sfortunatamente a sua volta sul terreno dei menscevichi e degli economisti annegando l’organizzazione dei rivoluzionari nella classe (21). Rosa saprà più tardi riprendersi, e con quale brio! Ma sulla distinzione tra organizzazione dell’insieme della classe operaia ed organizzazione dei rivoluzionari, le formule di Lenin restano le più chiare. Sono queste che vanno più lontano. Chi è membro del partito? Il «Che fare?» e «Un passo avanti, due passi indietro» rappresentano dunque delle conquiste politiche essenziali nella storia del movimento operaio. Le due opere rappresentano più esattamente delle acquisizioni politiche «pratiche» sul piano organizzativo. Come Lenin, la CCI ha sempre considerato la questione organizzativa come una questione politica a pieno titolo. L’organizzazione politica della classe si distingue dalla sua organizzazione unitaria e ciò ha, a suo livello, delle implicazioni pratiche. Tra queste è essenziale la stretta definizione di adesione e di appartenenza al partito, vale a dire la definizione di militante, dei suoi compiti, dei suoi doveri, dei suoi diritti, in breve dei suoi rapporti con l’organizzazione. E’ ben nota la battaglia del II congresso del POSDR intorno all’articolo 1 degli statuti: è il primo scontro, all’interno dello stesso congresso, tra bolsceviche e menscevichi. La differenza tra le formulazioni proposte da Lenin e da Martov può sembrare del tutto insignificante; per Lenin:“è membro del Partito colui che ne riconosce il programma e sostiene il Partito sia con dei mezzi materiali che con la sua partecipazione personale in una delle organizzazioni del Partito.”
Per Martov, “è considerato come appartenente al Partito operaio socialdemocratico di Russia colui che, riconoscendo il suo programma, lavora attivamente per mettere in opera i suoi compiti sotto il controllo e la direzione degli organismi del Partito”.
La divergenza consiste nel riconoscere la qualità di membro o ai soli militanti che appartengono al Partito e che sono riconosciuti come tali da quest’ultimo - ed è la posizione di Lenin - o ai militanti che non appartengono formalmente al Partito e che in questo o quel momento e su una specifica attività offrono un sostegno al Partito, oppure che si dichiarano essi stessi socialdemocratici. La posizione di Martov e dei mensceviche è dunque molto più larga, più “flessibile”, meno restrittiva e meno precisa di quella di Lenin. Dietro questa differenza si nasconde una questione di fondo che è presto comparsa durante il congresso e su cui le organizzazioni rivoluzionarie si scontrano ancora tutt’oggi: chi è membro del partito e chi non lo è?Per Martov è chiaro: “Più sarà generalizzata la definizione di membro del partito, meglio sarà. Noi non possiamo che rallegrarci se ogni scioperante, ogni manifestante, assumendosi la responsabilità delle proprie azioni, può dichiararsi membro del Partito” (22).
La posizione di Martov tende a diluire, a dissolvere l’organizzazione dei rivoluzionari, il partito nella classe. Egli raggiunge così l’economicismo che precedentemente aveva combattuto assieme a Lenin. L’argomentazione che egli fornisce alla sua proposta di Statuto finisce per liquidare l’idea stessa di partito d’avanguardia, unito, centralizzato e disciplinato intorno ad un Programma politico ben definito, ben preciso e con una volontà d’azione militante e collettiva ancora più definita, precisa e rigorosa. Esso apre anche la porta alla politica opportunista di “reclutamento” senza principio di militanti, cosa che pone un’ipoteca sullo sviluppo del partito sul lungo periodo a profitto di risultati immediati. E’ Lenin che ha ragione:
“Al contrario, più forti saranno le nostre organizzazioni di Partito che inglobano dei veri socialdemocratici, meno ci sarà esitazione e instabilità all’interno del partito, e più larga, più varia, più ricca e più feconda sarà l’influenza del partito sugli elementi della massa operaia che l’avvicinano e sono diretti da esso. Non è permesso in effetti confondere il Partito, avanguardia della classe operaia, con tutta la classe” (18).
La grande pericolosità della posizione opportunista di Martov in materia di organizzazione, di reclutamento, di adesione e di appartenenza al partito appariva prontamente durante lo stesso congresso con l’intervento di Axelrod: “Si può essere un membro sincero e devoto del partito socialdemocratico, ma essere completamente inadatto all’organizzazione di lotta rigorosamente centralizzata” (4).
Come si può essere membro del partito, militante comunista, “ed essere inadatto all’organizzazione di lotta centralizzata?” Accettare una tale idea è così assurdo come pensare che un operaio combattivo e rivoluzionario sarebbe “inadatto” ad una qualunque azione collettiva di classe. Ogni organizzazione comunista non può accettare al suo interno che militanti adatti alla sua disciplina ed alla centralizzazione della sua lotta. Come potrebbe essere altrimenti? Il contrario significherebbe accettare che i militanti non siano necessariamente rispettosi dei rapporti d’organizzazione e delle decisioni adottate da quest’ultima e della necessità della lotta, significherebbe ancora ridicolizzare la nozione stessa di organizzazione comunista che deve essere “la frazione più risoluta dei partiti operai di tutti i paesi, la frazione che trascina tutte le altre.” (23) La lotta storica del proletariato è una lotta di classe unita sul piano storico e sul piano internazionale, collettiva e centralizzata. E, all’immagine della loro classe, i comunisti conducono una lotta storica, internazionale, permanente, unitaria, collettiva e centralizzata che si oppone ad ogni visione individualista. “Se la coscienza critica e l’iniziativa volontaria non hanno che un valore molto limitato per gli individui, esse si trovano pienamente realizzate nella collettività del partito” (24) Chi è incapace di iscriversi in questa lotta centralizzata non è adatto all’attività militante e non può essere riconosciuto membro del partito. “Che il partito non ammetta che degli elementi suscettibili almeno di un minimo di organizzazione” (18).
Questa “attitudine” è frutto della convinzione politica e militante dei comunisti. Essa si acquisisce e si sviluppa con la partecipazione alla lotta storica del proletariato, particolarmente all’interno delle sue minoranze politiche organizzate. Per ogni organizzazione comunista conseguente, la convinzione e l’attitudine “pratica”, non platonica, per “l’organizzazione di lotta rigorosamente centralizzata” di ogni nuovo militante sono allo stesso tempo condizioni indispensabili per la sua adesione e manifestazioni concrete del suo accordo politico con il programma comunista.
La definizione del militante, della qualità di membro di un’organizzazione comunista, è ancora oggi una questione essenziale. Il Che fare? e Un passo avanti, due passi indietro forniscono le fondamenta e le risposte a molteplici questioni in materia di organizzazione. E’ per questo che la CCI si è sempre basata sulla lotta dei bolscevichi al 2° congresso per distinguere, con chiarezza, rigore e fermezza un militante, ovvero colui “che partecipa personalmente ad una delle organizzazioni del partito”, come sostiene Lenin, da un simpatizzante, un compagno di strada che “adotta il programma, sostiene il partito attraverso dei mezzi materiali e gli dedica un impegno personale regolare [o irregolare, aggiungeremmo noi] sotto la direzione di una delle sue organizzazioni”, come viene espresso dalla definizione del militante Martov. Allo stesso modo noi abbiamo sempre difeso il fatto che “fin dal momento in cui vuoi essere membro del partito, devi riconoscere anche i rapporti organizzativi e non solo in maniera platonica”. (25)
Tutto ciò non è nuovo per la CCI. E’ la base stessa della sua costituzione come lo prova l’adozione dei suoi statuti fin dal suo primo congresso internazionale nel gennaio 1976.
Sarebbe sbagliato credere che oggi questa questione non pone più alcun problema. Innanzitutto, la corrente consiliarista, anche se le sue ultime espressioni politiche sono silenziose, se non sul punto di sparire (26), resta attualmente in qualche modo l’erede politico dell’economicismo e del menscevismo in materia di organizzazione. In un periodo di maggiore attività della classe operaia non c’è dubbio che le pressioni di ordine consiliarista per “lusingarsi, chiudere gli occhi sull’immensità dei compiti, ridurre questi compiti [dimenticando] la differenza tra il reparto d’avanguardia e le masse che gravitano attorno ad esso” (18) prenderanno un nuovo vigore. Inoltre, anche nell’ambiente che si rivendica esclusivamente alla sinistra Italiana e a Lenin, vale a dire la corrente bordighista e il BIPR, la messa in pratica del metodo di Lenin e del suo pensiero politico in materia d’organizzazione è lontano dal costituire un’acquisizione. Basta ricordarsi delle politiche di reclutamento senza principio del PCI bordighista negli anni 1970. Questa politica di tipo attivista ed immediatista d’altra parte fu l’elemento che provocò l’esplosione di questo gruppo nel 1982. Basta osservare ancora la mancanza di rigore del BIRP (che raggruppa Battaglia Comunista in Italia e la CWO in Gran Bretagna) che talvolta fa fatica a distinguere chi è militante dell’organizzazione e chi è solo un simpatizzante, un contatto vicino; e ciò malgrado tutti i rischi che una tale leggerezza organizzativa comporta (27). L’opportunismo in materia organizzativa è oggi uno dei veleni più pericolosi per il campo politico proletario. E malauguratamente, gli incantesimi nei riguardi di Lenin e la necessità del “Partito compatto e potente” non possono servire da antidoto.
Che dice Rosa Luxemburg, nella sua polemica con Lenin, sulla questione del militante e della sua appartenenza al partito?
“La concezione che viene espressa in questo libro [Un passo avanti, due passi indietro] in maniera penetrante ed esauriente, è quella di un centralismo impietoso; il suo principio vitale esige, da un lato, che le falangi organizzate di rivoluzionari riconosciuti e attivi nascano e si separino risolutamente dall’ambiente che li circonda e che, qualunque individuo non organizzato, non può considerarsi un rivoluzionario; vi si difende, d’altra parte, una rigida disciplina” (20).
Senza pronunciarsi esplicitamente contro la definizione precisa di militante data da Lenin, il tono ironico che lei usa quando parla de “le falangi organizzate che sorgono e si separano dall’ambiente che le circonda” e … il suo silenzio completo sulla battaglia politica combattuta al congresso sull’articolo 1 degli statuti, indicano la visione errata di Rosa Luxemburg in quel momento e il suo collocarsi a fianco dei menscevichi. Lei resta prigioniera della visione del partito di massa esemplificato dalla socialdemocrazia tedesca del tempo. Non riesce a vedere il problema o lo evita, sbagliando il tipo di lotta da combattere. Il fatto che lei non dica niente sul dibattito sull’articolo 1 degli statuti in occasione del congresso dà ragione a Lenin quando questi afferma che la Luxemburg “si limita a rimestare delle frasi vuote senza cercare di dar loro un senso. Agita degli spauracchi senza andare a fondo del dibattito. Lei mi fa dire luoghi comuni, delle idee generali, delle verità assolute e si sforza di rimanere muta su delle verità relative che si basano su dei fatti precisi” (28).Come nel caso di Plékhanov e di molti altri, le considerazioni generali avanzate da Rosa Luxemburg -anche quando queste risultano giuste in sé– non rispondono ai veri problemi politici posti da Lenin. “E’ così che una preoccupazione corretta: l’insistenza sul carattere collettivo del movimento operaio, sul fatto che «l’emancipazione dei lavoratori sarà opera dei lavoratori stessi», porta a delle false conclusioni pratiche” dicevamo già a tale riguardo nel 1979 (1). Di fatto, la Luxemburg non coglie le acquisizioni politiche della lotta dei bolscevichi.
Ora, senza il dibattito sull’articolo 1, la questione del partito chiaramente definito e chiaramente distinto, organizzativamente e politicamente, dall’insieme della classe operaia, non sarebbe stato definitivamente risolto. Senza la lotta portata da Lenin sull’articolo 1, la questione non sarebbe diventata quella conquista politica di prima importanza in materia di organizzazione su cui i comunisti di oggi devono imperativamente basarsi per costituire la loro organizzazione, non soltanto rispetto all’adesione di nuovi militanti, ma anche e soprattutto per stabilire con chiarezza, precisione e rigore i rapporti dei militanti nei confronti dell’organizzazione rivoluzionaria.
E’ forse nuova questa nostra difesa della posizione di Lenin sull’articolo 1 degli statuti? Abbiamo per caso cambiato posizione? “Per essere membro della CCI, occorre […] integrarsi nell’organizzazione, partecipare attivamente al suo lavoro e adempiere ai compiti richiesti” afferma l’articolo dei nostri statuti che tratta della questione dell’appartenenza militante alla CCI. E’ chiaro che noi riprendiamo, senza alcuna ambiguità, la concezione, lo spirito e finanche le parole dello statuto proposto da Lenin al 2° congresso del POSDR e certamente non quella di Martov e Trotsky. Peccato che gli ex membri della CCI che ci accusano oggi di essere divenuti “leninisti” abbiano dimenticato ciò che essi stessi avevano adottato all’epoca. Senza dubbio essi l’avevano fatto con una colpevole leggerezza ed una grande superficialità nell’entusiasmo studentesco post-sessantottino. In ogni caso, essi sono oggi particolarmente disonesti quando accusano la CCI d’aver cambiato posizione per fare intendere che sarebbero loro i fedeli alla vera CCI, quella delle origini.
LA CCI AL FIANCO DI LENIN SUGLI STATUTI
Abbiamo rapidamente presentato la nostra concezione del militante rivoluzionario e mostrato in che modo essa è l’erede, in gran parte, della lotta e degli apporti di Lenin nel Che fare? e Un passo avanti, due passi indietro. Abbiamo sottolineato l’importanza di tradurre il più fedelmente e rigorosamente possibile nella pratica militante quotidiana, attraverso gli statuti dell’organizzazione, questa definizione di militante. E là ancora noi siamo fedeli da sempre al metodo ed agli insegnamenti di Lenin in materia di organizzazione. La lotta politica per l’instaurazione di regole precise che regolano i rapporti organizzativi, vale a dire gli statuti, è fondamentale analogamente a quella per il loro rispetto. Senza quest’ultima, le grandi dichiarazioni tuonanti sul Partito non restano che delle spacconate.
Nel quadro di questo articolo non possiamo, per mancanza di spazio, presentare la nostra concezione dell’unità della organizzazione politica e mostrare in che modo la lotta di Lenin contro il mantenimento dei circoli, al 2° congresso del POSDR, costituisce un apporto teorico e politico considerevole. Ma vogliamo insistere sull’importanza pratica che c’è a tradurre la necessità di questa unità negli statuti dell’organizzazione: “Il carattere unitario della CCI si esprime ugualmente nei presenti statuti” (statuti della CCI). Lenin ne esprime molto bene la ragione e la necessità.
“L’anarchia da gran signore non capisce che lo statuto formale è necessario proprio per sostituire ai ristretti vincoli di circolo un ampio vincolo di Partito. Il vincolo esistente in seno a un circolo o tra i diversi circoli non doveva né poteva avere una forma ben definita, giacché poggiava sull’amicizia o su una «fiducia» istintiva, immotivata. Il vincolo di Partito non può e non deve reggersi né sull’una né sull’altra, deve basarsi precisamente su uno statuto formale, «burocraticamente» (29) (dal punto di vista dell’intellettuale non soggetto a disciplina) redatto, e soltanto la sua rigida applicazione ci garantisce contro l’arbitrio dei circoli, contro i capricci dei circoli, contro i metodi, propri dei circoli, di quella baruffa che viene chiamata libero «processo» della lotta ideologica.” (18)
E’ lo stesso per quanto riguarda la centralizzazione della organizzazione contro ogni visione federalista, localista, o visione dell’organizzazione come somma delle sue parti, o ancora di individui rivoluzionari, autonomi. “Il congresso internazionale è l’organo sovrano della CCI” (statuti della CCI). Anche su questo piano, noi ci rivendichiamo alla lotta di Lenin e alla sua necessaria traduzione pratica negli statuti dell’organizzazione, tanto per il POSDR all’epoca, che per le organizzazioni attuali.
“Nell’epoca di ricostruzione della vera unità del partito e della dissoluzione, in questa unità, dei circoli che hanno fatto il loro tempo, questo vertice è necessariamente il congresso del Partito, organismo supremo di quest’ultimo.” (18)
E’ la stessa cosa per quanto concerne la vita politica interna: l’apporto di Lenin riguarda anche e particolarmente i dibattiti interni, il dovere - e non solo il diritto- di espressione di ogni divergenza nel quadro organizzativo di fronte all’insieme dell’organizzazione; e una volta portati a termini i dibattiti e prese le decisioni da parte del congresso (che è l’organo sovrano, la vera assemblea generale dell’organizzazione), la subordinazioni delle parti e dei militanti al TUTTO. Contrariamente all’idea, ampiamente propagandata, di un Lenin dittatoriale, che cerca di affossare i dibattiti e la vita politica nell’organizzazione, quest’ultimo in realtà non ha mai cessato di opporsi alla visione menscevica che vede il congresso come “un registratore, un controllore, ma non un creatore.” (30)
Per Lenin e per la CCI, il congresso è “creatore”. In particolare, noi rigettiamo radicalmente ogni idea di mandati imperativi dei delegati da parte dei loro mandanti al congresso, che sarebbe in contraddizione con la possibilità di avere dei dibattiti quanto più ampi, dinamici e fruttuosi possibile e che ridurrebbe i congressi ad essere dei “registratori”, come lo voleva Trotsky nel 1903. Un congresso “registratore” consacrerebbe la supremazia delle parti sul TUTTO, il regno dell’ “ognuno padrone a casa sua”, del localismo e del federalismo. Un congresso “registratore e controllore” è la negazione del carattere sovrano del congresso. Come Lenin, noi siamo per congressi “organi-smo supremo” del partito che hanno potere decisionale e di “creazione”. Il congresso “creatore” implica dei delegati che non siano “imperativamente” limitati, con le mani legate, prigionieri del mandato che gli è conferito dai loro mandanti (31).
Il congresso “organo supremo” implica anche la sua supremazia, in termini programmatici, politici ed organizzativi, su tutte le differenti parti dell’organizzazione comunista.
“‘Il congresso è l’istanza suprema del partito’. Dunque chi, in un modo o in un altro, impedisce ad un delegato di rivolgersi direttamente al congresso su qualunque questione della vita di Partito, trasgredisce alla disciplina del partito ed al regolamento del congresso, senza riserve né eccezioni. La controversia si riconduce di conseguenza al dilemma: spirito di circolo o spirito di partito? Limitazioni dei diritti dei delegati al congresso, in nome di diritti o regolamenti immaginari di ogni tipo di collegio o circolo, o dissoluzione completa, non soltanto verbale, ma effettiva, di fronte al congresso, di tutte le istanze inferiori, dei vecchi piccoli gruppi.” (18)
Ed anche su questi punti non solo ci rivendichiamo alla lotta di Lenin, ma traduciamo in regole organizzative – vale a dire in statuti della nostra organizzazione - queste concezioni di cui noi ci consideriamo come i veri continuatori.
Gli statuti non sono misure eccezionali
Abbiamo visto che Rosa Luxemburg e Trotsky, per non citare altri, non rispondono a Lenin sull’articolo 1 degli statuti. Essi trascurano completamente questa questione come quella degli statuti in generale. Preferiscono rimanere anche su questo su delle generalità astratte. E quando si degnano di evocare la questione degli statuti, è solo per sottovalutarli completamente. Nella migliore delle ipotesi, essi considerano gli statuti delle organizzazioni politiche semplicemente come dei paletti, degli argini che delimitano i lati della strada che non bisogna superare. Nella peggiore, questi non sono che degli strumenti di repressione, misure eccezionali da utilizzare solo con estrema precauzione.
Per Trotsky, la formula di Lenin nell’articolo 1 avrebbe lasciato “la soddisfazione platonica [di avere] scoperto il più sicuro rimedio statutario contro l’opportunismo […]. Nessun dubbio: si tratta di un modo semplicistico, tipicamente amministrativo di risolvere una seria questione pratica.” (30)
E’ la stessa Rosa Luxemburg che, senza saperlo, risponde a Trotsky quando afferma che nel caso di un partito già costituito (come è il caso del partito socialdemocratico di massa in Germania), “un’applicazione più severa dell’idea centralista nello statuto dell’organizzazione ed una formulazione più stretta dei paragrafi della disciplina di partito sono molto appropriati come diga contro le correnti opportuniste.” (20) Lei è dunque d’accordo con Lenin per quanto riguarda la Germania, e cioè in generale. Per il caso russo invece comincia col dire delle “verità astratte” (“Gli smarrimenti opportunisti non possono essere previsti a priori, essi devono essere superati dallo stesso movimento”) che non vogliono dire niente e che, nella realtà, finiscono per giustificare “a priori” ogni rinuncia alla lotta contro l’opportunismo in materia di organizzazione. Cosa che in seguito non mancherà di fare, sempre a proposito del partito russo, deridendo gli statuti come “paragrafi cartacei”, delle “scartoffie scartabellate” e considerandoli come delle misure eccezionali:
“Lo statuto del Partito non dovrebbe essere un’arma contro l’opportunismo, ma solamente un mezzo estremo d’autorità per esercitare l’influenza preponderante della maggioranza rivoluzionaria proletaria realmente esistente nel Partito.” (20)
Noi non siamo mai stati d’accordo con Rosa Luxemburg su questo punto: “Rosa continua a ripetere che spetta allo stesso movimento di massa superare l’opportunismo; i rivoluzionari non devono fare altro che accelerare artificialmente questo movimento. […] Quello che Rosa Luxemburg non riesce a comprendere è che il carattere collettivo dell’azione rivoluzionaria è qualche cosa che si forgia.” (1). Sulla questione degli statuti, è con Lenin che siamo stati d’accordo da sempre.
Gli statuti come regola di vita e come arma di lotta
Per Lenin, gli statuti sono molto più che delle semplici regole formali di funzionamento, regole alle quali si ricorrerebbe solo in caso di situazioni eccezionali. Al contrario di Rosa Luxemburg o dei menscevichi, Lenin definisce gli statuti come delle linee di condotta, come lo spirito che deve animare l’organizzazione ed i suoi militanti quotidianamente.
All’opposto di una interpretazione degli statuti come dei mezzi di repressione o di coercizione, Lenin li intende come armi che impongono le responsabilità alle diverse parti della organizzazione e ai militanti di fronte all’insieme dell’organizzazione politica; armi che costringono al dovere d’espressione aperta, pubblica, davanti a tutta la organizzazione, su tutte le divergenze e difficoltà politiche incontrate.
Lenin non considera le espressioni dei punti di vista, delle sfumature, delle discussioni, delle divergenze come un diritto dei militanti, un diritto dell’individuo di fronte all’organizzazione ma come un dovere ed una responsabilità di fronte all’insieme del partito e dei suoi membri. Il militante comunista è responsabile, di fronte ai suoi compagni di lotta, dell’unità politica ed organizzativa del partito. Gli statuti sono degli strumenti al servizio dell’unità e della centralizzazione dell’organizzazione, dunque delle armi contro il federalismo, contro lo spirito di circolo, contro il cameratismo, contro ogni vita e discussione parallela a quella di organizzazione. Più che dei limiti esterni, più che delle regole, gli statuti –per Lenin- sono un modo di vita politica, organizzativa e militante.
“Le questioni controverse in seno ai circoli venivano decise non secondo lo statuto, «ma con la lotta e la minaccia di andarsene” […]. Quando ero solo membro di un circolo […], avevo il diritto di giustificare, per esempio, il mio rifiuto di lavorare con X, richiamandomi unicamente a una sfiducia istintiva e immotivata. Una volta diventato membro del Partito, non ho più il diritto di richiamarmi unicamente a una vaga sfiducia, perché questo spalancherebbe le porte ad ogni sorta di capricci e arbitri del vecchio sistema dei circoli; ho l’obbligo di motivare la mia «fiducia» o la mia «sfiducia» con un argomento formale, richiamandomi cioè a questa o a quella tesi, formalmente stabilita, del nostro programma, della nostra tattica, del nostro statuto; ho l’obbligo di non limitarmi ad un semplice «ho fiducia» o «non ho fiducia» istintivo, ma di riconoscere che di tutte le decisioni mie e, in generale, di tutte le decisioni di ogni settore del partito si deve rendere conto davanti a tutto il partito; ho l’obbligo, per esprimere la mia «sfiducia», per far accettare le vedute e i desideri che scaturiscono da questa sfiducia, di seguire la via formalmente prescritta. Noi ci siamo già elevati dalla «fiducia» istintiva, propria dei circoli, al partito, che esige l’applicazione di metodi controllabili e formalmente prescritti per esprimere e verificare la fiducia.” (18)
Gli statuti dell’organizzazione rivoluzionaria non sono semplici misure eccezionali, degli argini. Essi sono la concretizzazione dei principi organizzativi propri delle avanguardie politiche del proletariato. Prodotti di questi principi, essi sono allo stesso tempo un’arma di lotta contro l’opportunismo in materia di organizzazione ed i fondamenti sui quali l’organizzazione rivoluzionaria deve elevarsi e costruirsi. Sono l’espressione della sua unità, della sua centralizzazione, della sua vita politica ed organizzativa e del suo carattere di classe. Sono la regola e lo spirito che devono guidare quotidianamente i militanti nel loro rapporto con l’organizzazione, nelle loro relazioni con gli altri militanti, nei compiti che vengono loro affidati, nei loro diritti e doveri, nella loro vita quotidiana personale che non può essere in contraddizione né con l’attività militante né con i principi comunisti.
Per noi, come per Lenin, la questione organizzativa è una questione politica a pieno titolo. Non solo, è anche una questione politica fondamentale. L’adozione degli statuti e la lotta permanente per il loro rispetto e la loro messa in pratica è al centro della comprensione e della battaglia per la costruzione della organizzazione politica. Gli statuti sono, essi stessi, una questione teorica e politica a tutti gli effetti. E’ forse questa una scoperta per la nostra organizzazione? Un cambiamento di posizione?
“Il carattere unitario della CCI si esprime ugualmente nei presenti statuti che sono validi per tutta l’organizzazione [...]. Questi statuti costituiscono un'applicazione concreta della concezione della CCI in materia di organizzazione. Come tali, essi fanno parte integrante della piattaforma della CCI.” (Statuti della CCI)
IL PARTITO COMUNISTA SI COSTRUIRA’ SULLE ACQUISIZIONI POLITICHE ORGANIZZATIVE APPORTATE DA LENIN
Nella lotta del proletariato, questa battaglia di Lenin rappresenta uno dei momenti essenziali per la costituzione del suo organo politico che si è poi concretizzato con la fondazione della Internazionale Comunista (IC) nel marzo del 1919. Prima di Lenin, la Prima Internazionale (AIT) aveva rappresentato un momento altrettanto importante. Dopo Lenin, è la lotta della frazione italiana della Sinistra comunista per la sua propria sopravvivenza organica a segnare un altro momento importante.
Tra queste differenti esperienze, vi è un filo rosso, una continuità di principio, teorica, politica in materia di organizzazione. Gli attuali rivoluzionari non possono agganciare la loro azione se non in questa continuità ed in questa unità storica.
Abbiamo già ampiamente citato i nostri testi che ricordano chiaramente e senza ambiguità la nostra filiazione e la nostra eredità in materia di organizzazione. Il nostro «metodo» di riappropriazione delle acquisizioni politiche e teoriche del movimento operaio non è un’invenzione della CCI. Noi l’abbiamo ereditato dalla frazione italiana della Sinistra comunista e dalla sua pubblicazione Bilan negli anni 1930, come pure dalla Sinistra comunista di Francia e dalla sua rivista Internationalisme degli anni 1940. Questo è il metodo che noi abbiamo sempre rivendicato e senza il quale la CCI non esisterebbe, almeno nella sua forma attuale.
“L’espressione più compiuta della soluzione al problema del ruolo che l’elemento cosciente, il partito, è chiamato a giocare per la vittoria del socialismo, è stata data dal gruppo di marxisti russi della vecchia Iskra, ed in particolare da Lenin che, fin dal 1902, ha dato una definizione di principio al problema del partito nella sua rimarchevole opera Che fare?. La nozione di partito di Lenin servirà da colonna vertebrale al partito bolscevico e sarà uno dei più grandi apporti di questo partito nella lotta internazionale del proletariato.” (32)
Effettivamente, e senza dubbio, il Partito comunista mondiale di domani non potrà costituirsi al di fuori delle principali acquisizioni teoriche, politiche ed organizzative forniteci da Lenin. La riappropriazione reale e non declamatoria di queste acquisizioni e la loro messa in pratica rigorosa e sistematica alle condizioni attuali costituiscono uno dei più importanti compiti che i piccoli gruppi comunisti di oggi devono assumere se vogliono contribuire al processo della costruzione di questo Partito.
RL
1. Brochure della CCI su “Organizzazioni comuniste e coscienza di classe”, 1979, disponibile solo in inglese e francese.
2. Kautsky, citato da Lenin nel “Che fare?”, cap. II.
3. Trotsky, I nostri compiti politici, cap. I, par. In nome del marxismo, La Nuova sinistra Samonà e Savelli, 1972.
4. Processo verbale del 2° congresso del POSDR, edizioni Era, 1977, tradotto da noi dallo spagnolo.
5. P. Axelrod, Sull’origine ed il significato delle nostre divergenze organizzative, lettera a Kautsky, 1904
6. G. Plékhanov, La classe operaia e gli intellettuali socialdemocratici, 1904,
7. Vedi Sciopero di massa, partito e sindacati (Rosa Luxemburg, 1906) e 1905, (Trotsky, 1908-1909).
8. Vedere la prima parte di questo articolo nel n° 96 della Revue Internationale.
9. Lenin, Rapporto sul 1905, gennaio 1917.
10. Lenin, Che fare?.
11. K. Marx è molto più chiaro sulla questione nei suoi lavori. Ma questi sono per la maggior parte sconosciuti ai rivoluzionari dell’epoca perché non disponibili o poco pubblicati. Opera fondamentale sulla questione della coscienza è, per esempio, L’ideologia tedesca, che sarà pubblicata per la prima volta soltanto nel…1932!
12. Questo articolo non è della CCI, ma dei compagni del Grupo Proletario Internacionalista che successivamente hanno costituito la sezione della CCI in Messico. L’obiettivo del-l’articolo: «prima di criticare Lenin [è di] difenderlo, tentare di restituire il suo pensiero, di esprimere chiaramente quali erano le sue preoccupazioni e le sue intenzioni nella lotta contro la corrente «economicista», contro la comprensione particolare e parziale del Che fare? da parte del BIPR. Esso oppone i passaggi citati, «la preoccupazione, le intenzioni» di Lenin alla posizione del BIPR che considera che «ammettere che l’insieme o anche la maggioranza della classe operaia, tenuto conto della dominazione del capitale, possa acquistare una coscienza comunista prima della presa del potere e dell’instaurazione della dittatura del proletariato, sia puro e semplice idealismo» (La coscienza della classe nella prospettiva comunista, Révue Communiste n° 2, pubblicata dal BIPR).
13. «Coscienza di classe e partito», Revue Internationale n° 57, 1989.
14. Nell’insieme delle menzogne della borghesia, è opportuno rilevare il piccolo contributo di RV, ex militante della CCI, che dichiara che «vi è una vera continuità e coerenza tra le concezioni del 1903 ed azioni come l’interdizione delle frazioni all’interno del partito bolscevico o lo schiacciamento degli operai insorti a Kronstadt» (RV, «Presa di posizione sull’evoluzione recente della CCI», pubblicata da noi stessi nella nostra brochure su La pretesa paranoia della CCI).
15. Lenin, «Tesi di Aprile», 1917.
16. Non è necessario ricordare qui la debolezza del livello «scolastico» e l’analfabetismo che dominava tra gli operai russi. Ciò non impedisce a Lenin di considerare che essi possono e devono integrarsi nell’attività del partito allo stesso titolo degli «intellettuali».
17. «Lenin opererà una rottura anche con la visione socialdemocratica del partito di massa. Per Lenin, le nuove condizioni della lotta impongono la necessità di un partito minoritario d’avanguardia che deve operare per la trasformazione delle lotte economiche in lotte politiche» (Organizzazioni comuniste e coscienza di classe, CCI 1979).
18. Lenin, Un passo avanti, due passi indietro.
19. «Questa militante che è passata attraverso le scuole del partito socialdemocratico, sviluppa un attaccamento incondizionato al carattere di massa del movimento rivoluzionario» (Organizzazioni comuniste e coscienza di classe, CCI 1979).
20. Rosa Luxemburg, Questioni di organizzazioni nella socialdemocrazia russa.
21. Il lettore potrà notare che questa visione lascia la porta aperta ad una interpretazione sostituzionista del partito - il partito che si sostituisce all’azione della classe operaia … fino ad esercitare il potere statale in suo nome oppure a realizzare delle azioni «putchistes», come faranno gli stalinisti negli anni 1920.
22. Martov, citato da Lenin in «Un passo avanti, due passi indietro».
23. K. Marx, Il Manifesto del partito Comunista.
24. Tesi sulla tattica del Partito Comunista d’Italia, Tesi di Roma, 1922.
25. Il bolscevico Pavlovitch citato da Lenin in Un passo avanti, due passi indietro.
26. Vedi su Rivoluzione Internazionale n. 110 l’articolo sull’arresto delle pubblicazioni di Daad en Gedachte, la rivista del gruppo consiliarista olandese dallo stesso nome.
27. Noi abbiamo già criticato la superficialità e l’opportunismo di BC in Italia su questa questione a proposito dei militanti dei GPL (cfr. I «Gruppi di lotta proletaria» un tentativo incompiuto di raggiungere una coerenza rivoluzionaria, in Rivoluzione Internazionale n° 106, giugno 1998). Questo caso non è isolato: è apparso sul sito Internet del BIPR un articolo intitolato “I rivoluzionari devono lavorare nei sindacati reazionari?”. In questo articolo, non firmato, e dove l’autore può apparire come membro della CWO, c’è la risposta alla domanda posta nel titolo: “i materialisti, non gli idealisti, devono rispondere affermativamente” con due argomenti principali: “Molti lavoratori combattivi si trovano nei sindacati” e “i comunisti non devono disprezzare queste organizzazioni che raggruppano i lavoratori in massa” (sic). Questa posizione è in completa contraddizione con la posizione di BC –e dunque del BIPR noi supponiamo- riaffermata in occasione del suo ultimo congresso che difende la posizione secondo cui: «non vi può essere una reale difesa degli interessi operai, anche i più immediati, se non al di fuori è contro la linea sindacale». Ma soprattutto il problema consiste nel fatto che non si sa chi ha scritto l’articolo: un militante o un simpatizzante del BIPR? E, in qualunque caso, perché non c’è stata nessuna presa di posizione, nessuna critica? Per dimenticanza? Per opportunismo, allo scopo di reclutare un nuovo militante chiaramente male sganciato dal gauscisme? Oppure per semplice sottostima della questione organizzativa? Ancora una volta per i gruppi del BIPR si sente odore di Martov … Per quanto ci risulta, il testo è stato successivamente ritirato, senza alcuna menzione, dal sito Internet.
28. Lenin, risposta a R. Luxemburg, pubblicata in Nos tâches politiques, Trotsky, Edizioni Belfond.
29. Ancora un esempio del metodo polemico di Lenin che riprende le accuse dei suoi avversari per rivolgerle contro di loro (vedi la prima parte di questo articolo).
30. Trotsky, Rapporto della delegazione siberiana.
31. Il delegato del partito comunista tedesco, Eberlein, a quella che all’inizio non era che una conferenza internazionale nel marzo 1919, aveva il mandato di opporsi alla costituzione della III Internazionale, dell’Internazionale Comunista (IC). Era chiaro per tutti i partecipanti, in particolare per Lenin, Trotskij, Zinoviev, i dirigenti bolscevichi, che la fondazione dell’IC non poteva effettuarsi senza l’adesione del PC tedesco. Se Eberlein fosse rimasto “prigioniero” di un mandato imperativo, sordo ai dibattiti ed alla stessa dinamica della conferenza, l’Internazionale come Partito mondiale del proletariato non sarebbe stata fondata. 32. Internationalisme n. 4, 1945.Il periodo 1918-20, fase “eroica” dell’ondata rivoluzionaria iniziata con l’insurrezione di Ottobre in Russia, è anche stato il periodo durante il quale i partiti comunisti dell’epoca hanno formulato il loro programma di rovesciamento del capitalismo e di transizione verso il comunismo.
Nella Revue Internationale n° 93, noi abbiamo esaminato il programma del KPD – il partito comunista tedesco – appena costituitosi. Abbiamo visto che esso consisteva essenzialmente in una serie di misure pratiche destinate a guidare la lotta del proletariato in Germania dallo stadio della rivolta spontanea alla conquista cosciente del potere politico. Nella Revue Internationale n° 94, abbiamo pubblicato la piattaforma dell’Internazionale Comunista – adottata al congresso di fondazione come base del raggruppamento internazionale delle forze comuniste e come primo abbozzo dei compiti rivoluzionari ai quali erano confrontati gli operai di tutti i paesi.
Quasi contemporaneamente, il Partito Comunista di Russia (PCR) – il partito bolscevico – pubblicava il suo nuovo programma. Esso era strettamente legato a quello dell’IC e aveva infatti lo stesso redattore, Nicolas Boukharin. Malgrado ciò, questa separazione tra la piattaforma dell’IC ed i programmi dei partiti nazionali (almeno per quelli che lo avevano) rifletteva il persistere di concezioni federaliste ereditate dall’epoca della socialdemocrazia; e come Bordiga sottolineò più tardi, l’incapacità del “partito mondiale” a sottomettere le sue sezioni nazionali alle priorità della rivoluzione internazionale avrebbe avuto delle serie implicazioni di fronte al riflusso della ondata rivoluzionaria e all’isolamento e degenerazione della rivoluzione in Russia.
E’ istruttivo fare uno studio specifico del programma del PCR e confrontarlo con quelli che si è esaminati prima. Il programma del KPD era il prodotto di un partito confrontato con il compito di condurre le masse alla presa del potere; la piattaforma dell’IC era piuttosto considerata come un punto di riferimento per i partiti che si volevano raggruppare nell’Internazionale che come un dettagliato programma d’azione. E’ nei fatti una delle piccole ironie della storia che l’IC non abbia adottato un programma formale ed unificato che al suo sesto Congresso, nel 1928. Boukharin ne era ancora una volta l’autore, ma , questa volta, il programma era anche il segno del suicidio dell’Internazionale poiché faceva propria l’infame teoria del socialismo in un solo paese e cessava dunque di esistere come organo del proletariato internazionalista.
Il programma del PCR invece è stato redatto dopo il rovesciamento del regime borghese in Russia e costituiva innanzitutto una presentazione dettagliata e puntuale degli scopi e dei metodi del nuovo potere dei soviet. Era dunque un programma per la dittatura del proletariato ed, in questo senso, esso costituisce una indicazione unica del livello di chiarezza programmatica raggiunto dal movimento comunista in quel momento. Se noi non esiteremo ad indicare le parti del programma che l’esperienza pratica doveva mettere in discussione o rigettare in modo definitivo, mostreremo anche che, nella maggior parte delle sue linee essenziali, questo documento resta un punto di riferimento profondamente valido per la rivoluzione proletaria del futuro.
Il programma del PCR è stato adottato all’8° Congresso del partito nel marzo 1919: la necessità di una sostanziale revisione del vecchio programma del 1908 si era manifestata perlomeno dal 1917, quando i bolscevichi avevano abbandonato la prospettiva della “dittatura democratica” per adottare quella della conquista proletaria del potere e della rivoluzione socialista mondiale. All’epoca dell’8° Congresso, vi erano molti disaccordi in seno al partito circa il potere dei soviet ed il suo sviluppo. Così il programma esprime, in un certo senso, un compromesso tra le differenti correnti in seno al partito, da quelle che ritenevano che il processo rivoluzionario non andava troppo veloce in Russia a quelle che si rendevano conto della messa in discussione di alcuni principi fondamentali.
All’adozione del programma subito seguì la pubblicazione di L’ABC del comunismo redatto da Bukarin e Préobrajensky, considerevole opera di spiegazione e divulgazione dello stesso. Questo libro è costruito intorno ai punti di programma ma costituisce più di un suo semplice commento. Nei fatti, è diventato esso stesso un classico, una sintesi della teoria marxista e del suo sviluppo dopo Il manifesto comunista fino alla rivoluzione russa, redatto in uno stile accessibile e vivace che ne ha fatto un manuale di educazione politica sia per i membri del partito che per le larghe masse degli operai che sostenevano e facevano vivere la rivoluzione. Se questo articolo si concentra sul programma del PCR piuttosto che su L’ABC del comunismo, è perché un esame dettagliato di questo ultimo non può essere fatto in un solo articolo e non per minimizzarne l’importanza che resta ancora oggi.
Ciò vale, e forse ancor più, per i numerosi decreti emanati dal potere dei soviet durante le prime fasi della rivoluzione e fino alla costituzione del 1918 che definisce la struttura ed il funzionamento del nuovo potere. Anche questi documenti meritano di essere studiati come parte integrante del “programma della dittatura del proletariato”, tanto più perché, come scrive Trotsky nella sua autobiografia, “durante questa fase, i decreti erano nei fatti più propaganda che vere misure amministrative. Lenin era assillato dal dire al popolo che cosa era il nuovo potere, quello che sarebbe stato dopo e come bisognava procedere per raggiungere i suoi scopi” (La mia vita). Questi decreti non trattavano solo di questioni economiche e politiche cruciali – quali la struttura dello Stato e dell’esercito, la lotta contro la controrivoluzione, l’espropriazione della borghesia ed il controllo operaio sull’industria, la conclusione di una pace separata con la Germania, ecc. -, ma anche di numerose questioni sociali come il matrimonio ed il divorzio, l’educazione, la religione, ecc. Sempre secondo i termini di Trotsky, questi decreti “saranno conservati per sempre nella storia quali proclami di un nuovo mondo. Non solo i sociologi e gli storici, ma i futuri legislatori si ispireranno ad essi molte volte.”
Ma proprio a causa del loro gigantesco obiettivo, noi non possiamo analizzarli in questo articolo che si concentrerà sul programma bolscevico del 1919 per il fatto che esso ci fornisce la posizione più sintetica e più concisa degli scopi generali perseguiti dal nuovo potere e dal partito che li ha fatti propri.
L’epoca della rivoluzione proletariaCome la piattaforma della IC, il programma comincia situandosi nella nuova “era della rivoluzione comunista proletaria mondiale”, caratterizzata da un lato dallo sviluppo dell’imperialismo, la lotta feroce tra le grandi potenze capitaliste per il dominio mondiale e dunque per lo scoppio della guerra imperialista mondiale (espressione concreta del crollo del capitalismo) e dall’altro dal sollevamento internazionale della classe operaia contro gli orrori del capitalismo in declino, un sollevamento che ha preso una forma tangibile nella rivoluzione di Ottobre in Russia e nello sviluppo della rivoluzione in tutti i paesi centrali del capitalismo, in particolare in Germania e nell’ Austria-Ungheria. Il programma stesso non si sofferma sulle contraddizioni economiche del capitalismo che avevano portato al suo crollo; esse sono esaminate in L’ABC del comunismo, anche se questo ultimo non formula una teoria coerente e definitiva sulle origini della decadenza del capitalismo. Inoltre ed in contrasto sorprendente con la piattaforma dell’IC, il programma non utilizza il concetto di capitalismo di Stato per descrivere l’organizzazione interna del regime borghese nel nuovo periodo. Ma anche questo concetto è elaborato in L’ABC del comunismo ed in altri contributi teorici di Boukharin. Per finire, come la piattaforma dell’IC, il programma del PCR è assolutamente chiaro quando insiste sull’impossibilità per la classe operaia di realizzare la rivoluzione “senza ispirarsi al principio della rottura delle relazioni e dello sviluppo di una lotta impietosa contro questa perversione borghese del socialismo che è dominante nei partiti socialdemocratici e socialisti ufficiali.”
Affermando la sua appartenenza alla nuova Internazionale comunista, il programma tratta poi dei compiti pratici della dittatura del proletariato “quali sono applicati in Russia, paese la cui particolarità più notevole è il predominare numerico di strati piccolo borghesi della popolazione.”
I sottotitoli che seguono in questo articolo corrispondono all’ordine ed ai titoli delle parti del programma del PCR.
Politica generaleIl primo compito di ogni rivoluzione proletaria (rivoluzione di una classe che non ha alcun impianto economico nella vecchia società) è di consolidare il suo potere politico; in quest’ottica, la Piattaforma dell’Internazionale comunista e le Tesi sulla democrazia borghese e la dittatura del proletariato che l’accompagnano, così come le parti “pratiche” del programma del PCR cominciano con l’affermare la superiorità del sistema dei soviet sulla democrazia borghese. Contrariamente all’ipocrisia di quest’ultima sulla sedicente partecipazione di tutti alla democrazia, il sistema dei soviet la cui base si colloca soprattutto nei posti di lavoro piuttosto che nelle unità territoriali, afferma apertamente il suo carattere di classe. Contrariamente ai parlamenti borghesi, i soviet, con il loro principio di mobilitazione permanente attraverso delle assemblee di massa e quello della revocabilità immediata di tutti i delegati, forniscono anche i mezzi all’immensa maggioranza della popolazione sfruttata ed oppressa di esercitare un controllo reale sugli organi di potere dello Stato, di partecipare direttamente alla trasformazione economica e sociale, indipendentemente dalla razza, dalla religione e dal sesso. Nello stesso tempo, poiché la gran parte della popolazione russa era composta da contadini – ed il marxismo non riconosceva che una sola classe rivoluzionaria nella società capitalista – il programma afferma anche il ruolo dirigente del “proletariato industriale urbano” e sottolinea che “la nostra costituzione in soviet riflette ciò, assegnando alcuni diritti preferenziali al proletariato industriale, invece che alle masse piccolo-borghesi, disunite al confronto, nelle campagne.” In particolare come spiega Victor Serge nel suo libro L’anno I della rivoluzione russa: “Il congresso panrusso dei soviet consiste nei rappresentanti dei soviet locali: le città sono rappresentate da un deputato ogni 25.000 abitanti e le campagne da un deputato ogni 125.000. Questo articolo formalizza il dominio del proletariato sui contadini.”
Bisogna ricordarsi che il programma è quello di un partito e che un vero partito comunista non può mai essere soddisfatto di una situazione finché lo scopo ultimo del comunismo non sia stato raggiunto, momento nel quale non ci sarà più bisogno che esista un partito come organo politico distinto. E’ perciò che questa parte del programma insiste notevolmente sulla necessità per il partito di lottare per una partecipazione crescente delle masse alla vita dei soviet, per sviluppare il loro livello culturale e politico, per combattere il nazional-sciovinismo ed i pregiudizi contro le donne che ancora esistono nel proletariato e nelle classi oppresse. Vale la pena di notare che, in questo programma, non esiste teorizzazione della dittatura del partito (ciò verrà dopo), anche se la questione di sapere se è il partito che deve o no detenere il potere è sempre restata ambigua per i bolscevichi come per l’insieme del movimento rivoluzionario dell’epoca. Mentre invece il programma esprime una reale coscienza delle condizioni difficili nelle quali si trovava il bastione russo all’epoca (arretratezza culturale, guerra civile) e che avevano già creato un reale pericolo di burocratizzazione nel potere sovietico, per cui vengono messe in atto una serie di misure per combattere questo pericolo:
Poco a poco, l’insieme della popolazione lavoratrice dovrà essere spinta ad entrare nel giro dei compiti amministrativi.”
Nei fatti queste misure erano largamente insufficienti visto che il programma sottovalutava le vere difficoltà poste dall’accerchiamento imperialista e dalla guerra civile: lo stato d’assedio, la fame, la triste realtà della guerra civile condotta con la più estrema ferocia, la dispersione degli strati più avanzati del proletariato sul fronte, i complotti della controrivoluzione e il corrispondente terrore rosso; tutto ciò erodeva la vita dei soviet e degli altri organi della democrazia proletaria che erano sempre più schiacciati sotto il peso crescente di un apparato burocratico. All’epoca in cui il programma è stato scritto, il coinvolgimento degli operai, anche i più avanzati, nei compiti d’amministrazione dello Stato aveva per risultato di allontanarli dalla vita della classe e di trasformarli in burocrati. Al posto della tendenza al deperimento dello Stato difeso da Lenin nello “Stato e rivoluzione”, sono i soviet che cominciavano a deperire, il che isolava il partito alla testa di un apparto di Stato e lo tagliava sempre più dall’autoattività delle masse. In tali circostanze, il partito, lungi dall’agire rigettando radicalmente le situazioni di statu quo, tendeva a fondersi con lo Stato e a diventare così un organo di conservazione sociale. (Per un ulteriore approfondimeto sulle condizioni con le quali si confrontava il bastione proletario, leggere “L’isolamento suona la campana a morte della rivoluzione” in Revue Internationale n° 75)
Questa negazione rapida e tragica della visione radicale che Lenin aveva difeso nel 1917 – una situazione che era già in stadio avanzato al momento in cui fu adottato il programma del PCR – è spesso utilizzata dai nemici della rivoluzione per provare che una tale visione era quantomeno utopica, se non una semplice soperchieria con lo scopo di guadagnare il sostegno delle masse e di spingere i bolscevichi al potere. Per i comunisti, tuttavia, è solo una prova che se il socialismo in un solo paese è impossibile, ciò è altrettanto vero per la democrazia proletaria che costituisce la precondizione politica alla creazione del socialismo. E se esistono delle importanti debolezze in questa parte del programma ed in altre, queste si trovano nei passaggi che sottintendono che sarebbe sufficiente applicare i principi della Comune, della democrazia proletaria, al caso della Russia per arrivare alla scomparsa dello Stato, senza che sia stabilito chiaramente e senza ambiguità che ciò non può essere che il risultato di una rivoluzione internazionale vittoriosa.
Il problema delle nazionalitàMentre su molte questioni, non meno importanti della democrazia proletaria, il programma del PCR era innanzitutto confrontato con le difficoltà di attuazione nelle condizioni di guerra civile, sul problema della nazionalità esso era sbagliato in partenza. Corretto nel suo primo punto “l’importanza primordiale della (…) politica di unire i proletari ed i semiproletari delle diverse nazionalità in una lotta rivoluzionaria comune per il rovesciamento della borghesia” e nel suo riconoscimento della necessità di superare i sentimenti di diffidenza generati da lunghi anni di oppressione nazionale, il programma adotta lo slogan che Lenin aveva difeso fin dall’epoca della II Internazionale: il “diritto delle nazioni a disporre di sé stesse” come il miglior metodo per dissipare questa diffidenza e applicabile anche (ed in particolare) dal potere dei soviet. Su questo punto, l’autore del programma, Boukharin, ha fatto un passo indietro significativo rispetto alla posizione che lui stesso insieme a Piatakov ed altri avevano difeso durante la guerra imperialista: lo slogan di autodeterminazione nazionale è “prima di tutto utopico (non può essere realizzato nei limiti del capitalismo) e nocivo in quanto slogan che diffonde delle illusioni.“ (Lettera al comitato centrale del partito bolscevico, novembre 1915). E come lo ha dimostrato Rosa Luxemburg nel suo opuscolo La rivoluzione russa, la politica dei bolscevichi di permettere alle “nazioni soggette” di separarsi dal potere sovietico non ha fatto che rendere i proletari di queste nuove nazioni borghesi “autodeterminate” sudditi della rapacità delle proprie classi dominanti e tutto ciò in linea con i piani e le manovre delle grandi potenze imperialiste. Gli stessi risultati disastrosi sono stati ottenuti nei paesi “coloniali” come la Turchia, l’Iran o la Cina dove il potere sovietico pensava di poter allearsi con la borghesia “rivoluzionaria”. Nel 19° secolo, Marx ed Engels avevano effettivamente sostenuto alcune lotte per l’indipendenza nazionale, ma solo perché, in quel periodo, il capitalismo aveva un ruolo progressivo da giocare rispetto alle vecchie vestigia feudali o dispotiche del periodo precedente. Mai nella storia, l’”autodeterminazione nazionale” ha significato una cosa diversa dall’autodeterminazione della borghesia. Nell’epoca della rivoluzione proletaria, quando l’insieme della borghesia costituisce un ostacolo reazionario al progredire dell’umanità, l’adottare questa politica doveva rilevarsi estremamente nocivo alle necessità della rivoluzione proletaria (vedere il nostro opuscolo Nazione o classe e l’articolo sulla questione nazionale nella Revue internationale n° 67). Il solo ed unico mezzo di lottare contro le divisioni nazionali che esistevano in seno alla classe operaia, era di lavorare allo sviluppo della lotta di classe internazionale.
Gli affari militariE’ senza dubbio un fattore importante nel programma il fatto che esso è stato scritto in pieno infuriare della guerra civile. Il programma afferma alcuni principi di base: la necessità della distruzione del vecchio esercito borghese e che la nuova Armata rossa sia uno strumento di difesa della dittatura del proletariato. Sono messe in atto alcune misure per assicurarsi che il nuovo esercito serva veramente i bisogni del proletariato: esso deve essere “esclusivamente composto da proletari e da strati semiproletari come i contadini”; l’arruolamento e l’istruzione dell’esercito devono essere “effettuati su una base di solidarietà di classe e di una istruzione socialista”; a tale scopo “vi devono essere dei commissari politici accreditati scelti fra i comunisti di fiducia e totalmente disinteressati per cooperare con lo stato maggiore militare”; nel frattempo una nuova categoria di ufficiali, composta da operai e da contadini con una coscienza di classe, deve essere preparata a giocare un ruolo dirigente nell’esercito; al fine di impedire la separazione tra l’esercito ed il proletariato, bisogna che vi sia “l’associazione più stretta possibile tra le unità militari e le fabbriche, le officine, i sindacati e le organizzazioni dei contadini poveri”, mentre il periodo di leva deve essere ridotto al minimo. L’utilizzo di esperti militari provenienti dal vecchio regime deve essere accettato a condizioni che tali elementi siano strettamente sorvegliati dagli organi della classe operaia. Le prescrizioni di questo tipo esprimono una coscienza più o meno intuitiva del fatto che l’Armata rossa era particolarmente vulnerabile e poteva sfuggire facilmente al controllo politico della classe operaia; ma poiché era la prima Armata rossa ed il primo Stato sovietico della storia, questa coscienza era inevitabilmente limitata sia a livello teorico sia a livello pratico.
L’ultimo paragrafo di questa parte pone alcuni problemi, in particolare quando si dice che “la rivendicazione dell’elezione degli ufficiali che aveva una grande importanza come questione di principio rispetto all’esercito borghese … cessa di avere un significato come questione di principio per l’esercito di classe degli operai e dei contadini. Una combinazione possibile di elezione e di nomina dall’alto può costituire un espediente pratico per l’esercito di classe rivoluzionario.”
Se è vero che l’elezione ed il prendere collettivamente le decisioni possono incontrare dei limiti in ambito militare – in particolare sul campo di battaglia – il paragrafo sembra sottovalutare il livello al quale il nuovo esercito rifletteva esso stesso la burocratizzazione dello Stato riattivando molte delle vecchie norme di subordinazione. Nei fatti, era già sorta nel partito una “Opposizione militare” legata al gruppo Centralismo democratico, ed era stata particolarmente virulenta all’8° Congresso nella sua critica della tendenza a deviare dai “principi della Comune” nell’organizzazione dell’esercito. Questi principi sono importanti non solo sul terreno “pratico” ma soprattutto perché essi creano le migliori condizioni perché la vita politica del proletariato sia infusa nell’esercito. Ma durante il periodo di guerra civile, era proprio l’opposto che tendeva a crearsi: l’imposizione di metodi militari “normali” aiutava a creare un clima favorevole alla militarizzazione dell’insieme del potere sovietico. Il capo dell’Armata rossa, Trotsky, si trovò sempre più associato ad un tale modo di fare nel periodo 1920-21.
Il problema centrale di cui ci occupiamo qui è quello dello Stato nel periodo di transizione. L’Armata rossa – come la forza speciale di sicurezza, la Ceca, che non è affatto menzionata nel programma – è un organo di Stato per eccellenza; così, benché potesse essere utilizzata per salvaguardare le acquisizioni della rivoluzione, tuttavia essa non può essere considerata come un organismo proletario e comunista. Anche se fosse stata quasi esclusivamente composta da proletari, non avrebbe potuto che costituire una retroguardia rispetto alla vita collettiva della classe. Era dunque particolarmente preoccupante che l’Armata rossa come altre istituzioni statali sfuggisse sempre più al controllo politico globale dei consigli operai; mentre nello stesso tempo, la dispersione delle Guardie rosse create nelle fabbriche privava la classe dei mezzi di una autodifesa diretta contro il pericolo della degenerazione interna. Ma sono queste delle lezioni che non potevano essere comprese che alla scuola spesso impietosa dell’esperienza rivoluzionaria.
La giustizia proletariaQuesta parte del programma completa quella sulla politica generale. La distruzione del vecchio Stato borghese implica anche il rimpiazzo dei vecchi tribunali borghesi con un nuovo apparato giudiziario nel quale i giudici siano eletti tra gli operai ed i giurati presi nella massa della popolazione lavoratrice; il nuovo sistema giudiziario doveva essere semplificato e reso più accessibile alla popolazione rispetto al vecchio labirinto delle Corti alte e basse. I metodi penali dovevano essere liberati da ogni atteggiamento di rivalsa e diventare costruttivi ed educativi. Lo scopo a lungo termine era che “il sistema penale dovrà in ultima istanza essere trasformato in un sistema di misure a carattere educativo” in una società senza classe e senza Stato. L’ABC del comunismo sottolinea tuttavia che i bisogni urgenti della guerra civile richiedevano che i nuovi tribunali popolari fossero completati dai tribunali rivoluzionari per trattare non solo dei crimini sociali “ordinari” ma delle attività della controrivoluzione. La giustizia sommaria pronunciata da questi ultimi tribunali era il prodotto di una necessità urgente, benché fossero stati commessi degli abusi e vi era certamente il pericolo che l’introduzione di metodi più umani fosse rimandata indefinitamente. Così la pena di morte, abolita in uno dei primi decreti del potere sovietico nel 1917, fu immediatamente ripristinata nella battaglia contro il terrore bianco.
L’educazioneCome per le proposte di riforma penale, gli sforzi del potere sovietico per riformare il sistema educativo furono molto assoggettati ai bisogni della guerra civile. Inoltre, data l’estrema arretratezza delle condizioni sociali in Russia dove l’analfabetismo era largamente diffuso, molti cambiamenti proposti non andavano più in là dal permettere alla popolazione russa di raggiungere un livello di educazione già raggiunto in alcune delle democrazie borghesi più avanzate. E’ così per l’appello alla scolarizzazione obbligatoria mista e libera per tutti i ragazzi fino ai 17 anni; per la creazione di circoli e giardini di infanzia per liberare le donne dal peso dei compiti domestici; per la soppressione dell’influenza religiosa nelle scuole; per la creazione di vantaggi extrascolastici quali l’educazione per adulti, le biblioteche, i cinema, ecc..
Tuttavia, lo scopo a lungo termine era “la trasformazione della scuola in modo che da organo di mantenimento del dominio di classe della borghesia essa diventi un organo dell’abolizione completa della divisione della società in classi, un organo di rigenerazione comunista della società.”
In questo senso “la scuola unica del lavoro” costituiva un concetto che è più completamente elaborato in L’ABC del comunismo. La sua funzione era vista come l’inizio del superamento della divisione tra le scuole elementari, medie e superiori, tra i sessi, tra le scuole pubbliche e quelle private. Anche qui era riconosciuto che tali scuole erano un ideale per ogni educatore avanzato, ma come scuola unica del lavoro essa era vista come un fattore cruciale dell’abolizione comunista della vecchia divisione del lavoro. Si sperava che fin dai primi momenti della vita di un fanciullo non vi sarebbe stata separazione rigida tra l’educazione mentale ed il lavoro produttivo in modo che “nella società comunista non ci siano corporazioni chiuse, gruppi di specialisti ossificati. Il più brillante uomo di scienza deve essere qualificato anche nel lavoro manuale. (…) Le prime attività di un fanciullo prendono la forma del gioco; il gioco deve gradualmente trasformarsi in lavoro, attraverso passaggi impercettibili, in maniera che il bambino apprenda fin dalla più giovane età a considerare il lavoro non come una necessità sgradevole o una punizione ma come un’espressione naturale e spontanea delle sue facoltà. Il lavoro deve essere un bisogno, come quello di mangiare e bere.”
Questi principi fondamentali resteranno certamente validi in una rivoluzione futura. Contrariamente ad alcune tendenze del pensiero anarchico, la scuola non può essere abolita in una notte, ma la sua caratteristica di strumento di imposizione della disciplina e della ideologia borghese, dovrà certamente essere duramente attaccato, non solo nel contenuto di ciò che viene insegnato (L’ABC insiste molto sulla necessità di instillare nella scuola una visione proletaria in tutti i campi dell’educazione), ma anche nel metodo dell’insegnamento (il principio della democrazia diretta dovrà, finché possibile, rimpiazzare le antiche gerarchie in seno alla scuola). Ugualmente, il divario tra il lavoro manuale ed intellettuale, il lavoro ed il gioco dovranno essere trattati fin dall’inizio. Nella rivoluzione russa vi sono state innumerevoli esperienze in questa direzione; benché oscurate dalla guerra civile, alcune di esse sono continuate per tutti gli anni ‘20. Nei fatti uno dei segni della vittoria della controrivoluzione è stato che le scuole sono divenute nuovamente degli strumenti di imposizione della ideologia e della gerarchia borghesi, anche se questo era dissimulato sotto la copertura del “marxismo” staliniano.
La religioneL’inclusione di un punto particolare sulla religione nel programma del partito era, in un certo senso, l’espressione della arretratezza delle condizioni materiali e culturali della Russia, che obbligava il nuovo potere a “completare” alcuni compiti non realizzati dal vecchio regime, in particolare la separazione tra Chiesa e Stato e la fine delle sovvenzioni statali alle istituzioni religiose. Tuttavia, questa parte spiega ugualmente che il partito non può esser soddisfatto di misure “che la democrazia borghese includeva nel suo programma, ma non ha realizzato per le molteplici alleanze che in realtà esistono tra capitale e propaganda religiosa”. Vi erano dei fini a più lungo termine ispirati dal riconoscimento che solo la realizzazione degli scopi e la piena coscienza in tutte le attività economiche e sociali delle masse possono condurre alla scomparsa completa delle illusioni religiose. In altri termini l’alienazione religiosa non può essere eliminata senza la cancellazione dell’alienazione sociale e ciò non è possibile che in una società completamente comunista. Ciò non voleva dire che i comunisti dovevano adottare un atteggiamento passivo verso le illusioni religiose esistenti nelle masse; essi dovevano combatterle attivamente sulla base di una concezione scientifica del mondo. Ma era prima di tutto un lavoro di propaganda; l’idea di cercare una soppressione con la forza della religione era estranea ai bolscevichi - un’altra caratteristica del regime staliniano che ha potuto osare, nella sua arroganza controrivoluzionaria, di pretendere di aver realizzato il socialismo e di aver dunque estirpato le radici sociali della religione. Al contrario, pur conducendo una propaganda militante ateista, era necessario che i comunisti ed il nuovo potere rivoluzionario “evitino tutto ciò che poteva ferire i sentimenti dei credenti, perché un tale metodo avrebbe solo portato al rafforzamento del fanatismo religioso.” E’ questo un modo di fare ben lontano da quello degli anarchici basato sulla provocazione diretta e gli insulti.
Queste prescrizioni fondamentali non hanno perso il loro valore oggi. La speranza, talvolta espressa dallo stesso Marx nei suoi primi scritti, che la religione sia già morta per il proletariato, non si è ancora concretizzata. Non solo il persistere della arretratezza economica e sociale in molte parti del mondo, ma anche la decadenza e la decomposizione della società borghese, la sua tendenza a regredire verso delle forme estremamente reazionarie di pensiero e di credo, hanno permesso che la religione e le sue diverse espressioni restino una potente forza di controllo sociale. Di conseguenza i comunisti sono sempre confrontati con la necessità di lottare contro i “pregiudizi religiosi delle masse”.
Gli affari economiciLa rivoluzione proletaria comincia necessariamente come una rivoluzione politica perché non avendo dei mezzi di produzione o di proprietà sociale propri, la classe operaia ha bisogno della leva del potere politico per iniziare la trasformazione economica e sociale che condurrà ad una società comunista. I bolscevichi erano estremamente chiari sul fatto che questa trasformazione non poteva essere conclusa se non a livello globale, benché, come l’abbiamo notato, il programma del PCR, compresa questa parte, contenga un certo numero di formulazioni ambigue che parlano della realizzazione del comunismo completo come di una sorta di sviluppo progressivo all’interno del “potere dei soviet”, senza dire chiaramente se ciò si riferisce al potere sovietico esistente in Russia o alla repubblica mondiale dei consigli. Nell’insieme, tuttavia, le misure economiche difese nel programma sono relativamente modeste e realiste. Un potere rivoluzionario non poteva certamente evitare di porsi il problema “economico” fin dall’inizio, perché è proprio il caos economico provocato dalla caduta del capitalismo che costringe il proletariato ad intervenire per assicurare una società con un minimo di sopravvivenza. Era il caso della Russia dove la rivendicazione del “pane” ha costituito uno dei principali fattori di mobilitazione rivoluzionaria. Tuttavia, ogni idea secondo la quale la classe operaia, assumendo il potere, potrebbe riorganizzare con calma e pacificamente la vita economica è stata immediatamente battuta sul nascere dalla velocità e brutalità dell’accerchiamento imperialista e dalla controrivoluzione bianca che, subito dopo la prima guerra mondiale, hanno “lasciato in eredità una situazione completamente caotica” al proletariato vittorioso. In queste condizioni, i primi fini del potere sovietico nella sfera economica erano così definiti:
Queste linee generali restano fondamentalmente valide sia come prime tappe del potere proletario che cerca di produrre ciò che è necessario alla sopravvivenza in una data regione sia come inizi reali di una costruzione socialista attraverso la repubblica mondiale dei consigli. Il problema principale ancora una volta si situa nel conflitto acuto tra gli scopi generali e le condizioni immediate. Il progetto di elevare il potere di consumo delle masse fu immediatamente controbilanciato dai bisogni della guerra civile che trasformò la Russia in una caricatura di economia di guerra. Il caos creato dalla guerra civile era tale che “lo sviluppo delle forze produttive nel paese” non si realizzò. Al contrario, le forze produttive della Russia, notevolmente ridotte dalla guerra mondiale, furono ulteriormente ridotte a causa della guerra civile e dalla necessità di nutrire e vestire l’Armata rossa nella sua lotta contro la controrivoluzione. Il fatto che questa economia di guerra fosse altamente centralizzata e, in condizioni di caos finanziario, avesse nei fatto perso ogni forma monetaria, ha portato a ciò che si definisce “comunismo di guerra” ma in nulla cambia il fatto che le necessità militari avevano il sopravvento sugli scopi ed i metodi reali della rivoluzione proletaria. Al fine di mantenere il suo dominio politico collettivo, la classe operaia ha bisogno di assicurare almeno i bisogni materiali fondamentali della vita ed, in particolare, avere il tempo e l’energia di impegnarsi nella vita politica. Ma, noi l’abbiamo già visto, invece, durante la guerra civile la classe operaia era stata ridotta nella miseria assoluta, i suoi migliori elementi erano stati dispersi sul fronte o ingoiati dalla crescente burocrazia del “soviet”, soggetti ad un vero processo di “declassamento”, mentre altri fuggivano nelle campagne o tentavano di sopravvivere con piccoli traffici o furti; quelli che restavano nelle fabbriche ancora in produzione erano costretti a delle giornate di lavoro sempre più lunghe, spesso sotto l’occhio vigile di truppe dell’Armata rossa. E’ volontariamente che il proletariato russo ha fatto questi sacrifici, ma poiché essi non erano compensati dall’estendersi della rivoluzione dovevano avere degli effetti a lungo termine profondamente deleteri, prima di tutto indebolendo la capacità del proletariato a difendere e mantenere la sua dittatura sulla società.
Il programma del PCR, come abbiamo visto, riconosceva il pericolo della burocratizzazione crescente durante questo periodo e difendeva una serie di misure per combatterla. Ma mentre la parte “politica” del programma è sempre stata legata alla difesa dei soviet come mezzo migliore per mantenere la democrazia proletaria, la parte sui problemi economici insiste sul ruolo dei sindacati, sia nell’organizzazione dell’economia sia nella difesa dei lavoratori contro gli eccessi della burocratizzazione: “La partecipazione dei sindacati alla conduzione della vita economica e il coinvolgimento attraverso loro delle grandi masse della popolazione in questo lavoro sembrano contemporaneamente essere il nostro principale apporto alla campagna contro la burocratizzazione del potere sovietico. Ciò faciliterà anche il realizzarsi di un controllo effettivo sui risultati della produzione.”
Che il proletariato, come classe politica dominate, abbia anche bisogno di esercitare un controllo sul processo di produzione, è un assioma e – senza dimenticare che i compiti politici non possono essere subordinati ai compiti economici, anche nel periodo della guerra civile – ciò resta vero in tutte le fasi del periodo di transizione. Degli operai che non possono “dirigere” le fabbriche, saranno probabilmente incapaci di prendere il controllo politico della società tutta intera. Ma ciò che è falso qui, è l’idea che i sindacati possano essere lo strumento di questo compito. Al contrario, per loro stessa natura i sindacati erano molto più suscettibili al virus della burocratizzazione, e non è per caso che l’apparato sindacale è divenuto l’organo di uno Stato sempre più burocratico in seno alle fabbriche, abolendo o assorbendo i comitati di fabbrica che si erano costituiti durante il grande slancio rivoluzionario del 1917 e che erano dunque un’espressione molto più diretta della vita della classe e una migliore base per resistere alla burocrazia e ridare linfa al sistema sovietico nel suo insieme. Ma i comitati di fabbrica non sono affatto menzionati nel programma. E’ certamente vero che questi comitati hanno spesso sofferto di false concezioni localiste e sindacaliste, secondo le quali ogni fabbrica era vista come la proprietà privata degli operai che vi lavoravano: durante i giorni disperati della guerra civile, tali idee avevano raggiunto il loro apice nella pratica dei lavoratori di scambiare i loro “propri” prodotti con del cibo del carbone. Ma la risposta a questi errori non era l’assorbimento di questi comitati nei sindacati e nello Stato; era assicurare che essi funzionassero come organi della centralizzazione proletaria, legandosi molto più strettamente ai soviet operai – una possibilità evidente dato che la stessa assemblea di fabbrica eleggeva i delegati ai soviet della città e anche il proprio comitato di fabbrica. A queste osservazioni bisogna aggiungere ciò: le difficoltà che avevano i bolscevichi a comprendere che i sindacati erano obsoleti come organi della classe (un fatto confermato dallo stesse emergere della forma sovietica) dovevano anche avere delle gravi conseguenze nell’Internazionale, in particolare dopo il 1920 quando l’influenza dei comunisti russi fu decisiva nell’impedire che l’IC adottasse una posizione chiara e senza ambiguità sui sindacati.
L’agricoltura
L’impostazione fondamentale sulla questione contadina nel programma era già stata sottolineata da Engels per la Germania. Mentre le proprietà terriere capitaliste di grossa estensione potevano essere normalmente socializzate molto rapidamente da parte del potere proletario, non sarebbe stato possibile costringere i piccoli agricoltori ad allacciarsi a questo settore. Era quindi necessario convincerli gradualmente, prima di tutto grazie alla capacità del proletariato a dimostrare nella pratica la superiorità dei metodi socialisti.
In un paese come la Russia dove i rapporti precapitalisti erano ancora dominanti nella maggior parte delle campagne e dove l’espropriazione dei grandi poderi durante la rivoluzione aveva avuto per risultato la loro parcellizzazione da parte dei contadini, ciò è ancora più vero. La politica del partito non poteva dunque essere che, da un lato, incoraggiare la lotta di classe tra i contadini poveri semi-proletari ed i contadini ricchi ed i capitalisti rurali, favorendo la creazione di organismi speciali per i contadini poveri e gli operai agricoli che potevano costituire il principale supporto all’estensione e all’approfondimento della rivoluzione nelle campagne; e, dall’altro lato, stabilire un modus vivendi con i contadini piccoli proprietari, aiutandoli materialmente con semi, fertilizzanti, tecnologia, ecc., in modo da accrescere il loro rendimento e contemporaneamente favorire delle cooperative e delle comuni come tappe transitorie verso la collettivizzazione reale. “Il partito ha il compito di staccare i contadini medi da quelli ricchi, riportarli al fianco della classe operaia avendo un’attenzione particolare ai loro bisogni. Cerca di superare la loro arretratezza culturale con misure di carattere ideologico, evitando accuratamente ogni atteggiamento coercitivo. In tutte le occasioni in cui gli interessi vitali dei contadini sono toccati, il partito cerca di arrivare ad un accordo pratico con loro, facendo delle concessioni che favoriscano la costruzione socialista.” Vista la terribile penuria in Russia subito dopo l’insurrezione, il proletariato non era in grado di offrire gran cosa a questi strati al livello del miglioramento materiale e nei fatti, sotto il comunismo di guerra, furono fatti molti abusi contro i contadini con la requisizione del grano per nutrire l’esercito e le città affamate. Ma si era ancora molto lontani dalla collettivizzazione staliniana forzata degli anni 30 che era basata sull’affermazione mostruosa che l’espropriazione violenta della piccola borghesia significasse la realizzazione del socialismo (mentre rispondeva ai bisogni dell’economia di guerra capitalista).
La distribuzione“Nella sfera della distribuzione il compito del potere sovietico oggi è continuare a rimpiazzare il commercio con una distribuzione orientata dei beni, con un sistema di distribuzione organizzato dallo Stato su scala nazionale. L’obiettivo è realizzare l’organizzazione dell’insieme della popolazione in una rete integrale di comuni di consumatori che saranno capaci, con la più grande rapidità, determinazione, economia e un minimo di lavoro di distribuire tutti i beni necessari, pur centralizzando strettamente l’insieme dell’apparato di distribuzione.” Le associazioni cooperative esistenti, definite come “piccolo borghesi”, dovevano essere il più possibile trasformate in “comuni di consumatori dirette da proletari e da semi-proletari”.
Questo passaggio traduce tutta la grandezza ma anche i limiti della rivoluzione russa. La socializzazione della distribuzione è una parte integrante del programma rivoluzionario e questa parte mostra a che punto essa era presa sul serio dai bolscevichi. Ma il vero progresso che essi avevano compiuto in questo senso è stato ampiamente esagerato durante il – e nei fatti a causa del – periodo di comunismo di guerra. Il comunismo di guerra non era in realtà niente altro che la collettivizzazione della miseria ed è stato ampiamente imposto dall’apparato di Stato che già sfuggiva dalle mani degli operai. La fragilità del suo fondamento doveva essere provata sin dalla fine della guerra civile interna, quando si ebbe un ritorno rapido e generale all’impresa privata ed al commercio (che erano comunque stati floridi sotto la forma di mercato nero durante il comunismo di guerra). E’ certo vero che, appena il proletariato andrà a collettivizzare dei larghi settori dell’apparato produttivo dopo l’insurrezione in una regione del mondo, esso dovrà anche farlo per molti aspetti della distribuzione. Ma mentre queste misure possono avere una certa continuità con le politiche costruttive di una rivoluzione mondiale vittoriosa, esse tuttavia non devono essere identificate con queste ultime. La collettivizzazione reale della distribuzione dipende dalla capacità del nuovo ordine sociale di “produrre dei beni” in modo più efficace del capitalismo (anche se gli stessi beni si differenziano sostanzialmente). La penuria materiale e la povertà fanno da sfondo a nuovi rapporti di tipo mercantile; l’abbondanza materiale è la sola base solida per lo sviluppo della distribuzione collettivizzata e per una società che “scrive sulla sua bandiera: da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni.” (Marx, Critica del Programma di Gotha, 1875)
La moneta e le banchePer il danaro non è diverso che per la distribuzione di cui costituisce il veicolo “normale” sotto il capitalismo: data l’impossibilità di installare immediatamente il comunismo integrale, ancor meno nei limiti di un solo paese, il proletariato non può che prendere una serie di misure che tendono verso una società senza denaro. Tuttavia, le illusioni del comunismo di guerra – durante il quale il crollo dell’economia era confuso con la ricostruzione comunista – diedero un tono troppo ottimista a questa parte ed ad altre che vi sono legate. Ugualmente troppo ottimista è la nozione che la semplice nazionalizzazione delle banche e la loro fusione in una banca di Stato unica avrebbero costituito la prima tappa verso la sparizione delle banche e la loro conversione in organo centrale di contabilità della società comunista. E’ dubbio che degli organi così centrali tra quelli con cui opera il capitale possano essere presi in questo modo, anche se la presa fisica delle banche sarà certamente necessaria come uno dei primi colpi rivoluzionari per paralizzare il braccio del capitale.
Le finanze“Durante l’epoca in cui la socializzazione dei mezzi di produzione confiscati ai capitalisti è cominciata, il potere dello Stato cessa di essere un apparato parassitario rispetto al processo produttivo. Comincia allora la sua trasformazione in un’organizzazione avente la funzione di amministrare la vita economica del paese. In questa misura il bilancio dello Stato sarà un bilancio dell’insieme dell’economia nazionale.”
Di nuovo le intenzioni sono lodevoli, ma l’amara esperienza doveva mostrare che nelle condizioni della rivoluzione isolata o stagnante, anche il nuovo Stato-comune diventa sempre più parassitario e si nutre a spese della rivoluzione e della classe operaia; ed anche nelle migliori condizioni non si può più supporre che il semplice fatto di centralizzare le finanze nelle mani dello Stato porti “naturalmente” un’economia che, per il passato, ha funzionato sulla base del profitto, ad diventare un’economia che funzioni sulla base dei bisogni.
La questione degli alloggiQuesta parte sul programma è più radicata alle necessità e possibilità immediate. Un potere proletario vittorioso non può evitare di prendere delle misure rapide per alleviare la mancanza di alloggi e la sovrappopolazione, come ha fatto il potere dei soviet nel 1917, quando ha “completamente espropriato tutte le case appartenenti ai proprietari capitalisti e le ha affidate ai soviet cittadini. Esso ha effettuato dei trasferimenti massicci di operai dalle periferie alle residenze borghesi. Ha affidato le migliori tra queste residenze alle organizzazioni proletarie, occupandosi della manutenzione di queste case pagate dallo Stato; ha dato mobili a famiglie proletarie, ecc.” Ma anche qui, gli scopi più costruttivi del programma – la soppressione delle baracche e la fornitura di alloggi decenti per tutti – sono stati in gran parte non realizzati in un paese devastato dalla guerra. E quando il regime staliniano lanciò più tardi dei piani massicci per l’alloggio, il risultato da incubo di questi piani (gli infami immobili-caserme operaie dell’ex blocco dell’Est) non portò certo una soluzione del “problema degli alloggi”.
Evidentemente la soluzione a lungo termine della questione delle abitazioni risiede in una trasformazione totale del circondario rurale ed urbano – nell’abolizione dell’opposizione tra la città e la campagna, la riduzione del gigantismo urbano e la distribuzione razionale della popolazione mondiale sulla terra. E’ chiaro che tali trasformazioni grandiose non possono essere condotte a termine prima della sconfitta definitiva della borghesia.
La protezione del lavoro e l’assicurazione socialeLe misure immediate realizzate qui, date le condizioni estreme dello sfruttamento che prevalgono in Russia, sono semplicemente l’applicazione delle rivendicazioni minime per le quali il movimento operaio ha lottato da molto tempo: giornata di 8 ore, sussidi di invalidità e di disoccupazione, congedi pagati e congedi maternità, ecc. E come dice lo stesso programma, molte delle conquiste dovettero essere sospese o modificate a causa dei bisogni della guerra civile. Tuttavia, il documento impegna il partito a lottare non solo per queste “rivendicazioni immediate”, ma anche per altre più radicali – in particolare la riduzione della giornata di lavoro a 6 ore in modo che potesse essere dedicato più tempo a corsi di formazione, non solo su tempi legati al lavoro, ma anche e soprattutto nell’amministrazione dello Stato. Ciò era cruciale perché, come abbiamo visto prima, una classe operaia esaurita dal lavoro quotidiano non avrà il tempo o l’energia per l’attività politica ed il funzionamento dello Stato.
L’igiene pubblicaAnche qui si trattava di lottare per delle “riforme” che erano reclamate da molto tempo, date le terribili condizioni di esistenza che conosceva il proletariato russo (malattie legate al fatto di abitare in tuguri, igiene non controllata e mancanza di sicurezza sul lavoro, ecc.). Così, “il Partito comunista considera i seguenti punti come dei compiti immediati:
Molti di questi punti, apparentemente elementari, devono ancora essere realizzati in molte delle regioni della terra. Se si può dire qualcosa, è che la vastità del problema si è considerevolmente sviluppata. Per cominciare, la borghesia, di fronte allo sviluppo della crisi, elimina dappertutto le prestazioni mediche che avevano cominciato ad essere considerate “normali” nei paesi capitalisti avanzati. In secondo luogo, l’aggravarsi della decadenza del capitalismo ha largamente amplificato alcuni problemi, soprattutto con la distruzione “progressiva” dell’ambiente. Mentre il programma del PCR non fa che menzionare brevemente la necessità di “protezione della terra, dell’acqua e dell’aria”, ogni programma futuro dovrà riconoscere quale enorme compito questo rappresenti dopo decenni di sistematico avvelenamento della “terra, dell’acqua e dell’aria”.
CDW
Pro o contro la “mondializzazione”, rassicuranti o allarmistici, i discorsi sulla situazione internazionale e le sue prospettive sono unanimi su di un concetto: la democrazia sarebbe il solo sistema che permetterà alla società di progredire, di prosperare ed il capitalismo sarebbe la forma al fine trovata dell’organizzazione economica, politica e sociale dell’umanità. “Il 2000 non è stato veramente il primo anno del 21° secolo. In termini sostanziali, il 21° secolo è cominciato nel 1991 con la caduta del comunismo sovietico, il crollo dell’ordine bipolare e l’affermazione del capitalismo globale come ideologia incontrastata della nostra era.” (1)
Ma come si spiega il moltiplicarsi delle guerre locali e dei massacri? Perché la crescita e la generalizzazione della miseria nel mondo? Perché l’aumento della disoccupazione ed il degrado delle condizioni di esistenza del proletariato? Come spiegare le carestie, la recrudescenza delle epidemie, la corruzione e l’insicurezza crescenti? Da dove vengono le cosiddette catastrofi naturali e le minacce all’ambiente del pianeta? Se non dalla sussistenza del capitalismo, di quelle relazioni sociali, di quei rapporti di produzione, che non hanno nulla a che fare con i bisogni umani e rispondono al conseguimento di un solo obiettivo: il profitto; e “non semplicemente un profitto tangibile, ma un profitto sempre crescente.” (2)
Di fronte a questa obiezione vengono avanzate differenti risposte.
Tutto queste cose non sarebbero che delle esagerazioni di quelli che si rifiutano di vedere i benefici del sistema attuale. Questa risposta è in generale quella degli adulatori del capitalismo liberale. Per questi ultimi, le conseguenze disastrose della sopravvivenza del capitalismo sono il prezzo normale da pagare in questo sistema sociale, il risultato inevitabile di una legge della natura che implica l’eliminazione dei più deboli ed il benessere solo per i più forti.
Tutte queste calamità del mondo moderno all’alba del 21° secolo sono reali ma sono considerate prima di tutto come degli eccessi o delle imperfezioni, come le conseguenze di errori commessi da responsabili troppo presi dal guadagno e non abbastanza preoccupati del bene di tutti. Sarebbe il risultato del capitalismo “selvaggio”. Ci vorrebbe dunque, secondo queste concezioni, un controllo, una regolamentazione accurata, organizzata da parte dei governi, dagli Stati, da organismi locali, nazionali ed internazionali appositi (per esempio sulla falsariga delle famose ONG, le cosiddette organizzazioni non governative). Ciò potrebbe cancellare gli effetti devastatori di questo sistema, trasformandolo in una vera organizzazione di “cittadini”, facendone un autentico porto di pace e di prosperità per tutti. Questa risposta è in generale, con delle varianti, quella della sinistra dell’apparato politico della borghesia, della socialdemocrazia e degli ex partiti stalinisti, degli ecologisti. E’ la concezione della corrente di pensiero “antimondializzazione”. E si trovano anche le correnti di estrema sinistra che mettono da parte la loro fraseologia rivoluzionaria tradizionale per apportare un contributo radicale al concerto di difesa della democrazia. E’ il caso di tutte le specie di cappelle trotskiste o ex maoiste, anarchiche o libertarie, tutte le varie correnti più o meno fuoriuscite dal gauchisme socialista, comunista, libertario degli anni 1970-80. Al di là delle differenze, tutto il mondo si richiama dunque oggi alla democrazia, dalla estrema destra alla estrema sinistra.
I contestatari che, nel passato, criticavano il circo parlamentare si sono tolti la maschera e hanno mostrato la loro vera natura di ferventi difensori della democrazia borghese, in altri tempi disprezzata. Molti di loro sono d’altronde oggi, praticamente in tutti i paesi, ai vertici dello Stato, occupano dei posti di responsabilità in onorabili istituzioni, organismi ed imprese, ben integrate al sistema. Altri, che si sono mantenuti in un’opposizione più o meno radicale ai governi e a queste stesse istituzioni (3), denunciano gli eccessi e gli errori del sistema, ma in fondo non pongono mai la vera questione della natura di questo sistema.
Uno dei migliori esempi di questa ideologia ci è regolarmente fornito dal mensile francese Le Monde diplomatique. Così, nel numero di gennaio 2001 di questo giornale, si trova che “Il nuovo secolo comincia a Porto Alegre (in Brasile dove si è tenuto il 1° Forum sociale mondiale a fine gennaio 2001). Tutti coloro che, in un modo o in un altro, contestano o criticano la mondializzazione neoliberale stanno per riunirsi … (…) Non per protestare come a Seattle, a Washington, a Praga ed altrove, contro le ingiustizie, le diseguaglianze ed i disastri che provocano, un po’ dappertutto nel mondo, gli eccessi del neoliberalismo. Ma per tentare in uno spirito positivo e costruttivo questa volta, di proporre un quadro teorico e pratico che permetta di prospettare una mondializzazione di tipo nuovo ed affermare che un mondo diverso, meno disumano e più solidale, è possibile.” (4)
E nello stesso numero, si trova un articolo di Toni Negri, figura emblematica di Potere Operaio (5), che sviluppa l’idea che oggi non vi è imperialismo ma un “Impero” capitalista!? Il proposito sembra restare fedele alla “lotta di classe” e alla “battaglia degli sfruttati contro il potere del capitale”. Ma non è che un’apparenza. L’articolo pretende soprattutto di inventare una sorta di nuova prospettiva per la lotta di classe. Il che lo porta dritto dritto su di un vecchio terreno sfruttato: la necessità della difesa della democrazia al posto di quella della “rivoluzione”; l’identificazione di cittadini al posto dell’identità della classe proletaria. “Queste lotte esigono, oltre al salario garantito, una nuova espressione della democrazia nel controllo delle condizioni politiche di riproduzione della vita (…) la maggior parte di queste idee sono nate all’epoca delle manifestazioni di Parigi nell’inverno del 1995, questa “Comune di Parigi sotto la neve” (!) che esaltava (…) l’autoriconoscimento sovversivo dei cittadini delle grandi città.”
Quali che siano le intenzioni soggettive di questi protagonisti della contestazione del sistema capitalista, di questi difensori della prospettiva della democrazia, tutto ciò serve innanzitutto oggettivamente a mantenere in vita delle illusioni sulla possibilità di riformare questo sistema o di trasformarlo gradualmente.
Ciò che la classe operaia ha bisogno di comprendere, contro queste vecchie idee riformiste rimesse in piazza, è che l’imperialismo, questo “stadio supremo del capitalismo” come diceva Lenin, la fa sempre da padrone. Che esso tocca “tutti gli Stati, dal più piccolo al più grande” come diceva Rosa Luxemburg. Che esso è alla base del moltiplicarsi delle guerre locali e della proliferazione dei massacri in tutte le zone del mondo. Di fronte a queste numerose questioni ed inquietudini sull’inutilità ed assurdità del mondo attuale, di fronte all’assenza crescente di prospettiva che pervade tutta la società, di fronte a questa atmosfera pesante di vita al giorno per giorno, di fronte al ciascuno per sé, alla decomposizione del tessuto sociale, allo scomparire della solidarietà collettiva, la classe operaia ha bisogno di comprendere che la prospettiva del capitalismo non è certo un mondo di cittadini che una buona democrazia potrà far vivere nella pace, nell’abbondanza e nella prosperità. Ciò che la classe operaia ha bisogno di comprendere è che la società attuale è e resta una società di classe, un sistema di sfruttamento dell’uomo sull’uomo, il cui motore è il profitto ed il funzionamento dettato dall’accumulazione del capitale. Che la democrazia è una democrazia borghese, la forma più elaborata della dittatura della classe capitalista.
Ciò che è cambiato dal 1991 non è che il capitalismo avrebbe trionfato sul comunismo e si sarebbe dunque imposto come il solo sistema sociale vivibile. Ciò che è cambiato è che il regime capitalista ed imperialista del blocco sovietico è crollato sotto i colpi della crisi economica e di fronte alla pressione militare del suo nemico, il blocco occidentale. Ciò che è cambiato è la configurazione imperialista del pianeta che reggeva il mondo dopo la seconda guerra mondiale. Non è il comunismo o un sistema in transizione verso il comunismo che è crollato all’Est. Il vero comunismo, che non è ancora mai esistito, resta all’ordine del giorno. Non potrà essere instaurato che con il rovesciamento rivoluzionario del dominio capitalista da parte della classe operaia internazionale. Esso è l’unica alternativa a ciò che promette la sopravvivenza della società capitalista: l’affossamento in un caos indescrivibile che potrebbe significare a breve la distruzione definitiva dell’umanità.
Mentre i festeggiamenti per l’anno 2000 si erano svolti sotto gli auspici dell’euforia della “nuova economia”, l’anno 2001 è cominciato con un’inquietudine chiaramente rivolta alla salute economica del capitalismo mondiale. I nuovi guadagni prodigiosi promessi non sono arrivati. Al contrario, dopo un anno di amarezze e disillusioni, i campioni della e-business e della net-economy (gli affari e l’economia via internet) hanno moltiplicato i fallimenti e licenziato a tutto spiano. Alcuni esempi: “Con il raffreddamento della new economy, si è avuta una raffica di annunzi di licenziamenti. Più di 36.000 impieghi di ‘pointcom’ sono stati soppressi nella seconda metà dell’anno scorso, 10.000 solo il mese corso.” (6)
Nelle colonne della Révue Internationale abbiamo analizzato a più riprese la situazione della crisi economica (7). Non torneremo in dettaglio su queste analisi, le cui conclusioni sono nuovamente confermate oggi. Nello scorso dicembre, i maggiori giornali della stampa internazionale titolavano “Caos” (8) e “Un atterraggio brutale?” (9). Al di là della grandi frasi rassicuranti e vuote, la borghesia ha bisogno di sapere che ne è veramente dei profitti che essa può sperare dai suoi investimenti. E bisogna arrendersi all’evidenza. La “new economy” non è altro che una metamorfosi della “vecchia economia”, cioè molto semplicemente un prodotto non della crescita ma della crisi dell’economia capitalista. Lo sviluppo delle comunicazioni via Internet non è la “rivoluzione” promessa. L’utilizzo su grande scala di Internet, sia a livello degli scambi commerciali, delle transazioni finanziarie e bancarie, che all’interno delle imprese e delle amministrazioni, non cambia le leggi ineluttabili dell’accumulazione del capitale che esigono il beneficio netto, la redditività e la competitività sul mercato.
Così come qualsiasi altra innovazione tecnica, il vantaggio in competizione procurato dall’utilizzo di Internet scompare molto rapidamente a partire dal momento in cui tale utilizzo diventa generalizzato. Ed, inoltre, nel campo della comunicazione e delle transazioni, perché la tecnica funzioni e sia efficace, deve supporsi che tutte le imprese siano connesse.
All’inizio, la grande “rivoluzione tecnologica” di Internet doveva consentire uno sviluppo colossale del “modello” B2C, un acronimo che significa “business to consumer”, cioè procurare un rapporto diretto tra produttore e consumatore. Nei fatti si tratta molto semplicemente di poter consultare dei cataloghi e passare degli ordini per corrispondenza elettronica via Internet piuttosto che per corriere. Bella innovazione! Molto rapidamente il B2C è stato abbandonato a favore del B2B, il “business to business”, il mettere in rapporto diretto le imprese tra loro. Il primo “modello” puntava sui guadagni procurati da una vendita per corrispondenza attraverso corriere elettronico, somma molto poco redditizia perché dedicata essenzialmente al consumo familiare. Il secondo era decantato in quanto metteva in contatto diretto le imprese. I guadagni dovevano allora provenire da due “sbocchi”. Da un lato le imprese potevano guadagnare danaro o piuttosto ridurre delle spese a causa della riduzione degli intermediari nei loro rapporti. Ciò non è un vero sbocco ma una semplice riduzione delle spese! Dall’altro lato si doveva assistere all’apertura di un favoloso “mercato”, quello costituito dalla necessità di fornire su Internet i servizi adeguati (annuari, liste, cataloghi, applicazioni informatiche, mezzi di pagamento, ecc.); nei fatti il ritorno dalla finestra degli … intermediari che si era appena cacciati dalla porta. Grazie Internet! Anche qui è stato necessario arrendersi all’evidenza, il profitto non era arrivato. Questi “modelli” economici sono ben presto stati abbandonati. Il 98% delle start ups di questi tre ultimi anni, queste imprese della “nuova economia” supposte costituire l’esempio dell’avvenire radioso dello sviluppo capitalista, sono scomparse. In quelle sopravvissute, i dipendenti, un tempo euforici di fronte al loro arricchimento (virtuale!) per i dividendi di stock di azioni generosamente distribuite e che non contavano più le loro ore di lavoro, si sono disincantati. E’ significativo che i sindacati, che trascuravano questa manodopera finora, arrivano in forza sul settore. Non che il sindacalismo sia divenuto improvvisamente un difensore dei lavoratori (10), ma piuttosto perché sarebbe pericoloso lasciar sviluppare liberamente la riflessione tra i lavoratori brutalmente disillusi.
Questa ideologia della net-economy è un chiaro esempio dello stallo dell’economia borghese, del declino storico dei rapporti di produzione capitalisti. In questa ideologia il profitto sembrava che dovesse essere estratto dallo sviluppo del commercio e non più direttamente dalla produzione. Il mercante doveva in qualche modo prendere il posto del produttore. Ma cos’è questa ideologia se non l’aspirazione al ritorno ad un capitalismo di mercanti come esisteva alla fine del … Medio Evo? A quell’epoca il capitalismo cominciava a svilupparsi attraverso il progredire del commercio, che spezzava gli ostacoli dei rapporti di produzione feudali che frenavano lo sviluppo delle forze produttive nel vincolo della servitù. Oggi, e dopo più di un secolo da allora, il mercato mondiale è interamente conquistato dal capitalismo ed il commercio mondiale è soffocato da un sovrapproduzione generalizzata che non riesce a trovare degli sbocchi sufficienti. La salute del capitalismo non si avvarrà di un nuovo progresso del commercio che è del tutto impossibile nelle condizioni storiche dell’epoca attuale.
Noi non abbiamo considerato in questo articolo che la net-economy, perché il suo crollo nel corso dell’anno 2000 è stato l’aspetto più pubblicizzato della crisi economica capitalista. Ma come prosegue il giornale citato prima “le riduzioni di posti di lavoro sono andate ben al di là del pianeta ‘pointcom’. Vi sono stati più di 480.000 licenziamenti in novembre. La General Motors licenzia 15.000 operai con la chiusura d’Oldsmobile. Whirpool riduce i suoi organici di 6.330 operai. Aetna ne licenzia 5.000.” (11) In effetti l’anno 2001 si apre con un’accelerazione considerevole della crisi. Negli Stati Uniti sono state prese delle misure urgenti da A. Greenspan, il capo della Banca centrale, per tentare di scongiurare lo spettro della recessione. La “nuova economia” è bruciata rapidamente e la crisi della “vecchia economia” prosegue inesorabile. Indebitamento colossale a tutti i livelli, attacchi sempre più forti alle condizioni di vita del proletariato a livello internazionale, incapacità di integrare nei rapporti di produzione capitalisti delle masse crescenti di senza lavoro, ecc., queste sono le conseguenze fondamentali dell’ economia capitalista. Gli Stati, le banche centrali, le Borse, il FMI, in generale tutte le istituzioni finanziarie e bancarie e tutti gli “attori” della politica mondiale si sforzano di regolare il funzionamento caotico di questa “economia da casinò” (12), ma i fatti sono duri e le leggi del capitalismo finiscono sempre per imporsi.
Come nel campo economico dove i vari discorsi servono soprattutto a mascherare il declino storico del capitalismo e la profondità della crisi, così nel campo dell’imperialismo i discorsi sulla pace servono a nascondere il caos crescente e gli antagonismi moltiplicati a tutti i livelli. La situazione attuale in Medio Oriente ne è una chiara dimostrazione.
I protagonisti di questo cosiddetto “processo di pace” non sanno veramente loro stessi cosa fare di fronte alla situazione. Ognuno tenta di difendere al meglio le sue posizioni senza che nessuna delle parti sia capace di proporre una via d’uscita stabile e percorribile all’imbroglio che costituisce la situazione di guerra endemica che perdura in questa regione del mondo. Lo stato di Israele è ben deciso ad abbandonare il meno possibile delle sue prerogative e l’Autorità palestinese sotto la guida di Arafat non può accettare che ciò avvenga, perché apparirebbe come una capitolazione delle sue ambizioni.
Lo Stato di Israele difende una posizione di forza acquisita dalla sua fondazione nel 1947, attraverso molte guerre contro gli Stati arabi vicini (Giordania, Siria, Libano ed Egitto), con il sostegno indefesso degli Stati Uniti. Bastione della resistenza del blocco imperialista occidentale nell’offensiva condotta a partire dagli anni 1950 dal blocco imperialista russo, per il tramite degli Stati arabi infeudatisi all’URSS, lo Stato di Israele si è costruito un posto da gendarme in questa regione del mondo che non è disposto a lasciarsi contestare.
Ma dopo il crollo del blocco imperialista russo, ormai dieci anni fa, la situazione è evoluta. Gli Stati Uniti hanno riorientato la loro politica in Medio Oriente. La guerra del Golfo nel 1991 aveva per obiettivo di imporre il riconoscimento dello stato di superpotenza mondiale degli Stati Uniti di fronte alle velleità degli alleati del blocco occidentale come la Gran Bretagna, la Francia e, soprattutto, la Germania, di prendere le distanze dal loro padrino divenuto ingombrante. La disciplina di blocco non era ormai più attuale poiché la minaccia del blocco avversario era scomparsa. Ma la guerra del Golfo aveva anche un secondo obiettivo, quello di imporre il dominio totale degli Stati Uniti sul Medio Oriente.
Nel periodo della divisione del mondo in due grandi blocchi imperialisti, l’amministrazione americana poteva tollerare che i suoi alleati tenessero delle posizioni influenti sulla scena imperialista in alcune regioni del mondo. Essa poteva anche delegare ad alcuni tra loro il compito di condurre una politica estera, che pur manifestando talvolta dei contrasti con gli interessi americani, pur tuttavia era costretta ad iscriversi nell’orbita del blocco occidentale. In Medio Oriente, la Gran Bretagna poteva così avere un’influenza preponderante in Kuwait, la Francia nel Libano ed in Siria, la Germania e la Francia in Iraq, ecc. Nel 1991, la guerra del Golfo diede il segnale della volontà degli Stati Uniti di riprendere in carico totalmente su si sé la “pax americana”. La conferenza di Madrid nell’ottobre 1991,poi i negoziati di Oslo all’inizio del 1993 portarono alla firma della dichiarazione di principio israelo-palestinese a Washington nel settembre 1993, sotto la solo autorità degli Stati Uniti, senza i vecchi alleati. Nel maggio 1994, Arafat e Rabin firmarono al Cairo l’accordo d’autonomia Gaza-Gerico e l’esercito israeliano effettuò una ritirata per permettere l’arrivo trionfale di Yasser Arafat a Gaza nel luglio 1994.
Ma questa evoluzione provocò da parte di una frazione significativa della borghesia israeliana una vera rottura con la politica degli Stati Uniti per la prima volta nella breve storia di questo paese. Nel novembre 1995 Rabin veniva assassinato da “un estremista”. L’ascesa al potere del Likoud di Netanyahou doveva seriamente intralciare i piani della democrazia americana. Gli Stati Uniti riprendevano le redini nel maggio 1999 con il ritorno al potere del Partito laburista e Ehoud Barak come primo ministro, il che doveva portare all’accordo di Sharm el-Sheik tra Arafat e Barak nel settembre 1999. Tuttavia, il summit di Camp David del luglio 2000, che si ipotizzava costituisse il coronamento della capacità degli Stati Uniti di imporre la loro pace nel Medio Oriente, fallisce e si chiude senza alcun accordo. In questo episodio, la politica di uno dei vecchi alleati, la Francia, costituisce apertamente un tentativo di sabotaggio della politica degli Stati Uniti che questi ultimi denunciano d’altronde apertamente come tale. E, in Israele stessa, è il ritorno in forza della resistenza al “processo di pace” all’americana, con la famosa visita di Ariel Sharon, vecchio falco del Likoud, nella valle delle Moschee nel settembre 2000, che lancia il segnale di nuovi scontri violenti che guadagnano rapidamente la Cisgiordania e la Striscia di Gaza. Nell’ottobre 2000, un nuovo summit di Sharm el-Sheik, che prevedeva il blocco delle violenze, la creazione di una commissione di inchiesta e la ripresa dei negoziati, non porta a niente sul terreno dove l’Intifada e la repressione continuano.
Oggi, la situazione non è più dunque la stessa di quella delle guerre aperte come la Guerra dei sei giorni nel 1967 o la Guerra del Kippur del 1973, quando l’esercito israeliano affrontava direttamente gli eserciti degli Stati arabi, all’interno dei quali partecipavano i vari Fronti di liberazione della Palestina. Essa non è più la stessa di quella della guerra del 1982 dove Israele aveva invaso il Libano ed aveva incoraggiato i massacri in massa dei rifugiati dei campi palestinesi di Sabra e Shatila con le milizie cristiane, suoi alleati (più di 20.000 vittime in pochi giorni). Si trattava ancora allora di una situazione dove dominava innanzitutto la separazione fondamentale tra i grandi blocchi imperialisti, al di là delle opposizioni circostanziali che potevano esistere all’interno delle forze dello stesso blocco. E anche se Yasser Arafat, dopo la sua prima partecipazione alle Nazioni Unite nel 1976, tentava di attirarsi le simpatie della diplomazia americana, restava ancora e sempre, agli occhi di quest’ultima, sospetto di connivenza con “l’Impero del male”, espressione del presidente americano dell’epoca, Reagan, per qualificare l’URSS.
Oggi, vi sono divisioni dappertutto. La borghesia israeliana non si considera più indissolubilmente legata alla tutela degli Stati Uniti. Già dalla guerra del Golfo nel 1991, una frazione significativa di questa, nell’esercito precisamente, si era schierata contro l’interdizione che era stata fatta ad Israele di rispondere militarmente agli attacchi dei missili irakeni sul suo territorio. Poiché l’esercito israeliano era (ed è ancora) il più efficace ed il più organizzato della regione, l’umiliazione di essere costretto alla passività e di affidarsi per la sua difesa allo Stato maggiore americano era stato un boccone troppo amaro. Poi, il “processo di pace” che mette quasi su di un piede di eguaglianza israeliani e palestinese, che impone il ritiro dell’esercito israeliano dal sud del Libano, che prevede la cessione dell’altopiano del Golan, ecc., non è del tutto gradito dalla frazione più “radicale” della borghesia israeliana. E questo “processo di pace” non è più facilmente accettabile anche dal partito laburista di Barak. Anche se questo partito è più vicino agli Stati Uniti del Likud ed ha una visione soprattutto a lungo termine più realista della situazione del Medio Oriente, esso è il partito della guerra, quello che ha condotto l’esercito e le principali campagne militari. E’ d’altronde quello sotto la cui autorità si sono maggiormente sviluppati i famosi insediamenti dei coloni in territorio palestinesi! Contrariamente alle idee sostenute ed alle mistificazioni, la sinistra, il partito laburista non è orientato alla “pace” più della destra, il Likud. Se esistono delle sfumature, non si tratta di divergenza fondamentale tra le due frazioni della borghesia israeliana. Si è sempre avuta unità nazionale nella guerra come nella “pace” (gli accordi di pace con l’Egitto erano stati condotti dalla destra alla fine degli anni 1970). Ma non è solo lo Stato di Israele che è suscettibile di avere delle velleità di giocare il proprio ruolo e di tentare di affrancarsi dalla tutela degli Stati Uniti. La Siria ha potuto mettere le mani sul Libano, mercanteggiando la propria posizione “neutrale” durante la guerra del Golfo. Pertanto è escluso, dal suo punto vista, dall’accettare l’annessione dell’altopiano del Golan conquistato da Israele nel 1967. Anche qui vi è materia di attrito. E in seno stesso alla borghesia palestinese, l’organizzazione Al Fatah di Arafat e le organizzazioni più radicali sono lungi dall’essere d’accordo tra di loro. Tutta la regione, ad immagine della situazione mondiale, è in preda al crescere del ciascuno per sé. L’influenza largamente preponderante della diplomazia americana è nei fatti molto superficiale e ricopre una grande polveriera sempre pronta ad esplodere nel contesto di superarmamento di tutti i protagonisti della regione.
Quanto alle altre grandi potenze imperialiste, se esse non possono apertamente sabotare le iniziative degli Stati Uniti a rischio di vedersi mettere fuori dal gioco, come è il caso attualmente della diplomazia francese, se tutte sono ufficialmente rientrate nei ranghi per sostenere il “processo di pace”, ciò non esclude che sotto sotto esse intraprendano delle iniziative volte a far fallire il piano Clinton, o ogni altro piano della diplomazia americana. Arafat stesso fa appelli al coinvolgimento dell’Unione europea nei negoziati perché ben gradirebbe non dipendere solamente dagli Stati Uniti per la sua sopravvivenza politica. Detto ciò, non è con l’UE che va a discutere, ma con l’Amministrazione americana.
In questo ciascuno per sé che domina oggi, a parte gli Stati Uniti che fanno di tutto per mantenere il loro status di sola superpotenza militare del pianeta ed eccetto la Germania che prosegue dietro le quinte una politica imperialista discreta e mascherata per accrescere la propria influenza che era stata completamente imbrigliata dopo la II guerra mondiale durante la “guerra fredda”, nessuna altra grande potenza può avere visione a lungo termine. E ancor meno gli Stati meno potenti. Ognuno si sforza di difendere i suoi interessi nazionali, di difendersi là dove è attaccato, in particolare spandendo e seminando il disordine nelle posizioni dell’avversario. Nessuno di essi è capace oggi di mettere in atto una politica costruttiva e duratura. In Medio Oriente, il momento non è quello della stabilizzazione della situazione. Anche una “pace armata” come quella che ha potuto durare in Europa dell’Est durante la “guerra fredda” non è più possibile oggi.
Quanto alla possibilità della creazione dello Stato palestinese, l’incommensurabile assurdità della configurazione del progetto stesso lo fa apparire come una chimera! Vi sono i Territori sotto controllo esclusivo dell’Autorità palestinese: sulla carta alcuni pezzi della Cisgiordania con la striscia di Gaza, ma non tutta intera. Vi sono i Territori sotto controllo misto, dove Israele è responsabile della sicurezza: altri pezzi in Cisgiordania soltanto. Ed il tutto si situa nel circondario dei Territori di Cisgiordania sotto il controllo esclusivo di Israele, con delle strade riservate per proteggere le colonizzazioni israeliane… Come si può far credere che una tale aberrazione contenga un’oncia di progresso, una goccia di soddisfazione dei bisogni delle popolazioni, qualcosa a che vedere con un preteso “diritto dei popoli a disporre di sé stessi”?
Tutta la storia della decadenza del capitalismo ha già dimostrato come tutti gli Stati nazionali che non hanno potuto raggiungere la loro maturità nel corso della fase ascendente del modo di produzione capitalista non hanno potuto costituire un quadro economico e politico solido e forte a lungo termine, come la Yugoslavia e l’URSS hanno dimostrato frammentandosi. Gli Stati ereditati dalla decolonizzazione si riducono in brandelli in Africa. La guerra domina in Indonesia,e a Timor est. Il terrorismo spadroneggia nel sud dell’India, nel Sri Lanka. La tensione è estrema alla frontiera indo-pakistana, tra la Thailandia e la Birmania. In America del sud, la Colombia è in preda ad una destabilizzazione permanente. La guerra è endemica tra Perù ed Ecuador. Dappertutto le frontiere sono contestate perché esse non esprimono una reale solidità veramente accettata e riconosciuta dopo il 19° secolo.
In questo contesto, non solo “la patria palestinese non sarà altro che uno Stato borghese al servizio della classe sfruttatrice e oppressore di quelle stesse masse, con polizia e prigioni” (13), ma non potrà che essere un’aberrazione, uno mini Stato simbolo non della formazione di una nazione ma della decomposizione di cui è portatrice la sopravvivenza del capitalismo nel periodo storico attuale. La divisione delle sovranità in un intreccio indescrivibile di zone, di città e di villaggi, di strade, attribuite agli uni o agli altri, non è un “processo di pace”, è un campo minato per oggi e per domani, dove tutto può generare un conflitto in ogni istante. E’ una si-tuazione dove l’irrazionalità del mondo attuale è spinta agli estremi.
Il 21° secolo comincia con una nuova accelerazione delle conseguenze drammatiche per l’umanità della sopravvivenza del modo di produzione capitalista. La prosperità promessa dalla “nuova economia” così come la pace promessa in Medio Oriente non sono giunte all’appuntamento. Esse non possono esserlo, perché il capitalismo è un sistema decadente, un corpo malato sotto trasfusione, che non può condurre nella sua attuale decomposizione che verso il caos, la miseria e la barbarie.
MG
1. “Ideas: No, Economics Isn’t King”, F. Zacaria, Newsweek, Gennaio 2001.
2. Rosa Luxembourg, L’accumulazione del capitale, Ed. Einaudi
3. In realtà, essi hanno per la maggior parte dei posti “ufficiali”
4. Le Monde diplomatique, gennaio 2001, “Porto Alegre”, I. Ramonet.
5. Gruppo di estrema sinistra extraparlamentare italiano degli anni 1960-70.
6. Time, 10 gennaio 2001, “This time is different”.
7. Vedere gli articoli di questi ultimi anni: “La nuova economia: una nuova giustificazione del capitalismo”, Révue Int. n.102, “La falsa buona salute del capitalismo”, Révue Int. n. 100, “Il vuoto che si nasconde dietro la ‘crescita ininterrotta’”, Révue Int. n. 99, e la serie di articoli “Trenta anni di crisi aperta del capitalismo”, Révue Int. nn. 96, 97 e 98
8. Newsweek, 18 dicembre 2000
9. The Economist, 9-15 dicembre 2000
10. Vedere il nostro opuscolo I sindacati contro la classe operaia
11. Time, ibid.
12. Vedere “Una economia da casinò”, in italiano su Rivoluzione Internazionale n. 102
13. “Né Israele, né Palestina, i proletari non hanno patria”, Presa di posizione pubblicata in tutta la stampa territoriale della CCI, in italiano su Rivoluzione Int. n.119
La borghesia ha celebrato il 2000 a modo suo: con grandi feste e decantando le meraviglie che ha apportato all’umanità il secolo che si è chiuso. Essa non ha mancato di sottolineare i formidabili progressi compiuti dalla scienza e dalla tecnica nel corso di questo secolo e di affermare che il mondo oggi si è dato i mezzi per dividerne i frutti tra tutti gli altri esseri umani. A fianco a questi grandi discorsi euforici abbiamo sentito, ma con minore forza, coloro che sottolineavano le tragedie che hanno colpito il ventesimo secolo o che si preoccupavano delle prospettive future, sottolineando che queste ultime non sembrano particolarmente rosee, che ci sono ancora crisi economiche, fame, guerre, problemi ecologici. Tutti questi discorsi, però, convergono su un punto: non c’è altra società possibile che questa, anche se, per gli uni, bisogna avere fiducia nelle “leggi del mercato”, mentre per gli altri è necessario ammorbidirle e mettere in opera una “vera cooperazione internazionale”.
Tocca ai rivoluzionari, ai comunisti, opporre alle menzogne ed ai discorsi consolatori dei difensori del sistema capitalista il bilancio lucido del secolo che si è chiuso e, a partire da ciò, delineare le prospettive di quello che nel prossimo futuro tocca all’umanità. Questa lucidità non è il frutto di un’intelligenza particolare. Essa risulta dal semplice fatto che il proletariato, di cui i comunisti sono espressione e avanguardia, è la sola classe che non ha bisogno di consolazione, né di mascherare all’insieme della società la realtà dei fatti e le prospettive del mondo attuale, per la semplice ragione che esso è la sola forza capace di cambiare questa prospettiva, non a suo solo beneficio ma a beneficio dell’insieme dell’umanità.
Il carattere mitigato dei giudizi espressi sul 20° secolo da parte dei differenti difensori dell’ordine borghese contrasta con l’unanime entusiasmo che fu la regola quando fu celebrato il 1900. In quest’epoca la classe dominante era talmente sicura della solidità del proprio sistema, sicura che il modo di produzione capitalista fosse capace di apportare dei benefici sempre maggiori alla specie umana che questa illusione aveva cominciato a produrre dei danni importanti all’interno dello stesso movimento operaio. Era l’epoca in cui rivoluzionari come Rosa Luxemburg combattevano nel proprio partito, la Socialdemocrazia tedesca, le idee di Bernstein e compagni che rimettevano in causa il “catastrofismo” della teoria marxista. Queste concezioni “revisioniste” ritenevano che il capitalismo fosse capace di superare definitivamente le sue contraddizioni, in particolare quelle economiche; che esso si incamminasse verso un’armonia ed una prosperità crescenti e che, di conseguenza, l’obiettivo del movimento operaio non potesse consistere nel rovesciamento di questo sistema, ma nel fare pressione dall’interno per trasformarlo a favore della classe operaia. E se, all’interno del movimento operaio organizzato, le illusioni sui progressi illimitati del capitalismo avevano un certo peso, era proprio perché questo sistema aveva dato durante tutto l’ultimo terzo del 19° secolo l’immagine di un vigore e di una prosperità senza precedenti, mentre le guerre che avevano lacerato l’Europa ed altre parti del mondo fino al 1871 sembravano ormai riposte nel museo dell’antichità.
La barbarie del 20° secolo
Evidentemente, il trionfalismo e la buona coscienza che si esprimevano nel 1900 da parte della borghesia oggi non sono più di moda. Infatti, gli stessi apologeti più accaniti del modo di produzione capitalista sono obbligati a riconoscere che il secolo che si è concluso è stato uno dei più sinistri della storia umana. Ed è proprio vero che il carattere eminentemente tragico del 20° secolo è difficile da mascherare. Basti ricordare che questo secolo ha conosciuto due guerre mondiali, avvenimenti che non si erano mai prodotti prima. Così, il dibattito che si era prodotto all’interno del movimento operaio un centinaio di anni fa si è concluso definitivamente nel 1914:
“Le contraddizioni del regime capitalista si sono trasformate per l’umanità, in seguito alla guerra, in sofferenze sovrumane: fame, freddo, epidemie, barbarie morale. La vecchia disputa accademica dei socialisti sulla teoria dell’impoverimento ed il passaggio progressivo dal capitalismo al socialismo è stata così definitivamente risolta. Gli studiosi di statistica ed i pedanti della teoria della risoluzione delle contraddizioni si sono sforzati per anni a cercare in ogni angolo del mondo, fatti reali o immaginari che permettessero di provare il miglioramento di alcuni gruppi o categorie della classe operaia. La teoria dell’impoverimento era insabbiata sotto i sibili sprezzanti degli eunuchi che occupano le care università borghesi e dai bonzi dell’opportunismo socialista. Oggi, non è solo l’impoverimento sociale, ma anche quello fisiologico, biologico nella sua realtà orrenda che ci si presenta.” (Manifesto dell’Internazionale comunista, 6 marzo 1919).
Ma qualunque sia il vigore con cui i rivoluzionari nel 1919 denunciavano la barbarie generata dal capitalismo con la prima guerra mondiale, essi erano lontani dall’immaginare ciò che sarebbe successivamente accaduto: una crisi economica mondiale senza paragone con quelle che Marx ed i marxisti avevano analizzato fino ad allora e soprattutto una seconda guerra mondiale che avrebbe provocato un numero di vittime cinque volte superiore a quello della prima guerra. Una guerra mondiale che ha superato per barbarie qualsiasi immaginazione umana.
La storia dell’umanità non è certo avara di episodi di crudeltà di ogni tipo, di torture, di massacri, di deportazioni o stermini di popolazioni intere sulla base di differenze di religione, di lingua, di cultura, di razza. Cartagine cancellata dalla carta geografica dalle legioni romane, le invasioni di Attila a metà del 5° secolo, l’esecuzione per ordine di Carlo Magno di 4500 ostaggi sassoni in un solo giorno del 782, le camere di tortura ed i roghi dell’Inquisizione, lo sterminio degli indiani d’America, la tratta di milioni di negri africani tra il 16° ed il 19° secolo; questi non sono che degli esempi che ogni studente può trovare sui propri libri di testo. Ancora possiamo aggiungere che la storia ha conosciuto lunghi periodi particolarmente tragici: la decadenza dell’Impero romano, la guerra dei cent’anni durante il Medio Evo tra la Francia e l’Inghilterra, la guerra dei trent’anni che devastò la Germania nel 17° secolo. Tuttavia, anche se passassimo in rivista tutte le altre calamità di questo tipo che si sono abbattute sugli uomini, saremmo ancora lontani dal trovare l’equivalente di quelle che si sono scatenate nel corso del 20° secolo.
Molte riviste che hanno tentato di fare un bilancio del 20° secolo hanno stabilito una lista di tali calamità. Citiamo qui solo i principali esempi:
Questo è solo il bilancio umano dei due conflitti mondiali, ma bisognerebbe aggiungervi, durante il periodo che li separa, la terribile guerra civile che la borghesia ha scatenato contro la rivoluzione russa tra il 1918 ed il 1921 (6 milioni di morti), le guerre che annunciavano la seconda carneficina mondiale come quella tra Cina e Giappone, o quella di Spagna (in totale, altrettanti morti) ed i “gulag” stalinisti le cui vittime superano i 10 milioni.
L’assuefazione alla barbarie
Paradossalmente, gli orrori della prima guerra mondiale hanno lasciato un’impressione più profonda di quelli della seconda. Tuttavia, il bilancio umano di quest’ultima è terribilmente più spaventoso di quello della “Grande Guerra”.
“Molto stranamente, eccetto in URSS per ragioni comprensibili, il numero molto inferiore di vittime della Prima Guerra mondiale ha lasciato delle tracce più profonde rispetto ai numerosi morti della Seconda, come lo confermano i molteplici memoriali ed i monumenti eretti alla fine della Grande Guerra. La Seconda Guerra mondiale non ha prodotto nessun equivalente di monumenti al “milite ignoto” e, dopo il 1945, la celebrazione del “l’armistizio” (l’anniversario dell’11 novembre 1918) ha perduto poco a poco la sua solennità tra le due guerre. I dieci milioni di morti (…) della Prima Guerra sono stati, per quelli che non avevano mai immaginato un simile sacrificio, uno shock più brutale rispetto ai 54 milioni della Seconda per coloro che avevano già fatto l’esperienza di una guerra-massacro.” (L’epoca degli estremi, Eric J. Hobsbawm)
Di questo fenomeno, questo bravo storico, per altro fortemente accreditato, ci dà una spiegazione: “Il carattere totale degli sforzi di guerra e la determinazione dei due campi a condurre una guerra senza limiti ed a qualsiasi prezzo hanno certamente lasciato il loro segno. Senza di ciò, la brutalità e la disumanità crescenti del 20° secolo non si spiegherebbero. Su questo aumento della barbarie dopo il 1914, non c’è disgraziatamente nessun dubbio. All’alba del 20° secolo, la tortura era stata ufficialmente abolita in tutta l’Europa occidentale. Dal 1945, ci siamo di nuovo abituati, senza meravigliarci, a vederla praticare in almeno un terzo degli Stati membri delle Nazioni Unite, comprese alcune tra le più antiche e civilizzate.” (Ibidem)
Effettivamente, non escludendo i paesi più avanzati, la ripetizione dei massacri e di tutti gli atti di barbarie, di cui il 20° secolo è stato così prolifico, ha provocato una specie di fenomeno di assuefazione. Ed è proprio per questo che gli ideologi borghesi possono presentare come una “era di pace” il periodo che inizia dopo il 1945 e che non ha conosciuto in realtà un solo istante di pace con le sue 150‑200 guerre locali che, in totale, hanno prodotto più morti della seconda guerra mondiale.
Eppure questa realtà non è tenuta nascosta dagli organi di informazione borghesi. Anche oggi, che accadano in Africa, in Medio-Oriente o nella stessa “culla della civiltà”, la vecchia Europa, gli stermini di massa di popolazioni accompagnati dalle più inimmaginabili crudeltà occupano frequentemente la prima pagina dei giornali.
Allo stesso modo, altre calamità che colpiscono l’umanità in questo fine secolo sono regolarmente riportate ed anche denunciate dalla stampa: “Mentre la produzione mondiale dei prodotti alimentari di base rappresenta più del 110% dei bisogni, 30 milioni di persone continuano a morire di fame ogni anno, e più di 800 milioni sono sottoalimentati. Nel 1960, il 20% della popolazione mondiale comprendente la parte più ricca disponeva di un reddito medio 30 volte più elevato di quello del 20% comprendente la parte più povera. Oggi, il reddito dei ricchi è 82 volte più elevato! Sui 6 miliardi di abitanti del pianeta, appena 500 milioni vivono nell’agiatezza, mentre 5,5 miliardi vivono nel bisogno. Il mondo marcia a testa in giù. Le strutture statali come quelle sociali tradizionali sono spazzate via in maniera disastrosa. Un po’ dappertutto, nei pesi del Sud, lo Stato si disgrega. Zone di non diritto, entità caotiche ingovernabili si sviluppano, sfuggono ad ogni legalità, recedono in uno stato di barbarie dove solo dei gruppi di predatori sono in grado di imporre la loro legge taglieggiando le popolazioni. Appaiono pericoli di nuovo tipo: crimini organizzati, circoli mafiosi, speculazioni finanziarie, grande corruzione, estensione di nuove epidemie (Aids, virus Ebola, Creutzfeldt–Jakob, etc), inquinamenti di forte intensità, fanatismi religiosi o etnici, effetto serra, desertificazione, proliferazione nucleare, ecc.” (L’anno 2000, Le Monde diplomatique, dicembre 1999).
Tuttavia, ancora una volta, questo tipo di realtà di cui ciascuno può essere informato - quando non lo si subisce direttamente in prima persona - non provoca più né indignazione né una reazione significativa.
In realtà, l’assuefazione alla barbarie, in particolare nei paesi più avanzati, costituisce uno dei mezzi con cui la classe borghese riesce a mantenere il suo dominio sulla società. Essa ha ottenuto questa assuefazione accumulando le immagini degli orrori che hanno colpito la specie umana, accompagnando però queste immagini con commenti menzogneri destinati ad annullare, sterilizzare o canalizzare l’indignazione che esse dovevano suscitare, menzogne che evidentemente vengono rivolte in primo luogo alla sola parte di popolazione che costituisce una minaccia per essa, la classe operaia.
E’ all’indomani della seconda guerra mondiale che la borghesia ha messo in opera, su grande scala, questo mezzo per perpetuare il suo dominio. Per esempio le insopportabili immagini filmate, come le testimonianze scritte, riportate sui campi nazisti al momento della loro “liberazione” sono servite a giustificare la guerra spietata condotta dagli alleati. Auschwitz è servito a giustificare Hiroshima e tutti i sacrifici subiti dalle popolazioni e dai soldati dei paesi alleati.
Oggi, oltre alle informazioni e alle immagini che continuano a giungerci sui massacri, i commentatori si prodigano nel precisare che questa barbarie è dovuta ai “dittatori” senza morale e senza scrupoli, pronti a tutto per soddisfare le loro passioni più mostruose. Se il massacro ha luogo in un paese africano, si insiste parecchio sull’idea che esso dipende dalle rivalità “tribali” messe a profitto da questo o quel despota locale. Se le popolazioni curde sono asfissiate a migliaia con terribili gas, ciò può essere attribuito solo alla crudeltà del “macellaio di Bagdad” che attualmente viene presentato come il diavolo in persona (mentre durante la guerra che condusse contro l’Iran, tra il 1980 ed il 1988, veniva presentato come una sorta di difensore della civiltà). Se le popolazioni dell’ex Yugoslavia sono sterminate in nome della “pulizia etnica” è perché Milosevic è l’emulo di Saddam Hussein. Insomma, come la barbarie che si era scatenata nel corso della seconda guerra mondiale aveva un responsabile ben identificato, Adolf Hitler con la sua follia omicida, la barbarie che si sviluppa oggigiorno risulta dallo stesso fenomeno: la sete di sangue di questo o quel capo di Stato o di cricca.
Nella Rivista Internazionale, abbiamo più volte denunciato la menzogna secondo cui la barbarie estrema di cui il 20° secolo è stato il testimone sarebbe il privilegio esclusivo dei regimi “dittatoriali” o “autoritari”(1). Non ritorniamo qui in maniera dettagliata su questo problema ma ci contenteremo di evocare alcuni esempi significativi del livello di barbarie di cui sono stati capaci i regimi “democratici”.
Per cominciare, bisogna ricordare che la prima guerra mondiale, che all’epoca fu sentita come un limite massimo insuperabile di barbarie, è stata condotta in entrambi i campi da “democratici” (ivi compresa, a partire dal febbraio del 1917, dalla nuova democrazia russa). Ma questa carneficina è ora considerata quasi come “normale” dai discorsi borghesi: dopo tutto, le “leggi di guerra sono state rispettate” poiché ad essersi massacrati a milioni sono stati dei soldati. Nell’insieme, le popolazioni civili sono state risparmiate. Così, non si sono avuti dei “crimini di guerra” durante la prima carneficina imperialista. Al contrario, la seconda si è evidenziata in questo campo ad un punto tale che è stato creato, dal momento dalla sua conclusione, un tribunale speciale, a Norimberga, per giudicare questo genere di crimini. Tuttavia, la caratteristica principale delle accuse di questo tribunale non era relativa al fatto di essere rivolte a degli spietati criminali ma solo al fatto di appartenere al campo dei vinti. Altrimenti, tra i criminali di guerra doveva essere incluso anche il democraticissimo presidente americano Truman che ordinò il lancio delle bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki nell’agosto del 1945. Quest’ultimo avrebbe dovuto essere accompagnato ancora da Churchill e dai suoi colleghi alleati che ordinarono la distruzione di Dresda, il 13 ed il 14 febbraio del 1945, provocando 250.000 morti, cioè tre volte di più dei morti di Hiroshima.
Dopo la seconda guerra mondiale, in particolare nelle guerre coloniali, i regimi democratici hanno continuato a mettersi in mostra: 20.000 morti durante i bombardamenti di Sétif in Algeria ad opera dell’esercito francese, l’8 maggio del 1945 (lo stesso giorno della capitolazione della Germania). Nel 1947 sono 80.000 malgasci che vengono massacrati dall’aviazione, dai blindati e dall’artiglieria dello stesso esercito. E questi sono solo due esempi.
Più vicino nel tempo, la sola guerra del Vietnam ha provocato tra il 1963 ed il 1975 più di 5 milioni di morti, da attribuire, nella loro maggioranza, alla democrazia americana.
Ben inteso, questi massacri erano giustificati dalla necessità di “contenere l’Impero del Male”, il blocco russo (2). Ma questa giustificazione già non esisteva più al momento della guerra del Golfo, nel 1991. Saddam Hussein aveva asfissiato con i gas molte migliaia di Curdi durante gli anni ‘80 senza che ciò sollevasse la benché minima indignazione da parte dei dirigenti del “mondo libero”: questo crimine è stato evocato e denunciato da questi stessi dirigenti solo nel 1990, dopo l’invasione del Kuwait, e per fargliela pagare i generali americani ed alleati, difensori della civiltà, hanno fatto massacrare dozzine di migliaia di civili a colpi di “bombardamenti chirurgici”, sotterrando vivi migliaia di soldati irakeni, contadini e proletari in divisa, ed asfissiandone altre migliaia con bombe ben più sofisticate di quelle di Saddam. Anche oggi, quelli che riescono a sottrarsi dallo stato di ipnosi collettiva suscitata dalla propaganda dei tempi di guerra, sono capaci di vedere che i bombardamenti della NATO al momento della guerra del Kosovo, all’inizio del 1999, hanno provocato un “disastro umanitario” ben peggiore di quello per cui si era stati portati ad intervenire per combatterlo. Sono capaci di comprendere che questo risultato era già conosciuto prima dai governi che hanno lanciato la “crociata umanitaria” e che le loro giustificazioni sono pura ipocrisia. Essi sono ugualmente in grado di capire che i “malvagi” di oggi non sempre sono stati tali e che il “demone Saddam” era presentato come un vero San Giorgio quando combatteva il drago Khomeini, nel corso degli anni ‘80, o meglio ancora che tutti i “dittatori sanguinari” sono stati armati fino ai denti dai virtuosi “democratici”.
E giustamente, per questi elementi che non si lasciano incantare dalle diverse menzogne dei governi, vi sono degli “specialisti” per designare i “veri colpevoli” dell’attuale barbarie, tanto sul piano dei massacri e dei genocidi che su quello della situazione economica mondiale: in particolare, gli USA, la “mondializzazione” e le “multinazionali”.
E’ così che la constatazione del tutto veritiera sullo stato del mondo attuale espressa da Le Monde Diplomatique precisa:
“La Terra conosce così una nuova era di conquista, come durante l’epoca delle colonizzazioni. Ma, mentre gli attori principali delle precedenti espansioni conquistatrici erano gli Stati, questa volta sono imprese e conglomerati, gruppi industriali e finanziari privati che intendono dominare il mondo. Mai i signori della Terra sono stati così poco numerosi e così tanto potenti. Questi gruppi si trovano nella Triade USA-Europa-Giappone ma la metà di loro risiede negli USA. E’ un fenomeno fondamentalmente americano…
La mondializzazione non mira tanto a conquistare dei paesi quanto a conquistare dei mercati. La preoccupazione di questo potere moderno non è la conquista dei territori, come per le grandi invasioni o durante il colonialismo, ma la presa di possesso delle ricchezze.
Questa conquista si accompagna a delle distruzioni impressionanti. Industrie intere sono completamente distrutte, in tutte le regioni. Con le sofferenze sociali che ne conseguono: disoccupazione di massa, sottoccupazione, precarietà, esclusione. 50 milioni di disoccupati in Europa, un miliardo di disoccupati e di sottoccupati nel mondo… Supersfruttamento degli uomini, delle donne e – cosa ancora più scandalosa – dei bambini: 300 milioni di essi sono sfruttati in condizioni di grande brutalità.
La mondializzazione è anche saccheggio delle risorse del pianeta. I grandi gruppi saccheggiano l’ambiente con mezzi smisurati; essi traggono profitto dalle ricchezze della natura che sono i beni comuni dell’umanità; e lo fanno senza scrupoli e senza freni. Ciò si accompagna ugualmente ad una criminalità finanziaria legata al campo degli affari ed alle grandi banche che riciclano delle somme che superano i 1000 miliardi di dollari per anno, cioè più del Prodotto Nazionale Lordo di un terzo dell’umanità.”
Una volta identificati i nemici della specie umana, è necessario indicare come combatterli: “E’ perciò che i cittadini moltiplicano le mobilitazioni contro i nuovi poteri, come abbiamo visto recentemente in occasione del vertice dell’Organizzazione mondiale del commercio (OMC) a Seattle. Essi restano convinti che, in fondo, lo scopo della mondializzazione, in questo inizio del millennio, è la distruzione del collettivo, l’appropriazione da parte del mercato e del privato della sfera pubblica e sociale. E sono decisi ad opporvisi.”
Tocca dunque ai “cittadini” mobilitarsi e realizzare “due, tre Seattle” per cominciare ad apportare una soluzione ai mali che affliggono il mondo. Ed è questa una prospettiva che mettono avanti anche organizzazioni politiche (come i trotskisti) che pretendono di essere “comuniste”. Insomma, è necessario che i cittadini reinventino una “nuova democrazia” destinata a combattere gli eccessi del sistema attuale e che si oppongano all’egemonia della potenza americana. Insomma una posizione più insulsa di quella dei riformisti della Seconda Internazionale di inizio secolo, di quelli che furono all’avanguardia nell’imbrigliamento del proletariato nella prima guerra mondiale e nel massacro degli operai rivoluzionari alla fine di quest’ultima.
Così, tra gli adoratori della “mondializzazione e quelli che la combattono, il terreno è ben controllato: ciò che importa prima di tutto, è portare ognuno una pietra all’accettazione del mondo attuale, è soprattutto allontanare gli operai dalla sola prospettiva che possa mettere fine alla barbarie del capitalismo, la rivoluzione comunista.
Rivoluzione comunista o distruzione dell’umanità
Qualunque sia il vigore della denuncia della barbarie del mondo attuale, i discorsi che si ascoltano attualmente - e che sono ampiamente divulgati dai mezzi di informazione - nascondono l’essenziale. Cioè che il responsabile delle calamità che affliggono il mondo non è questa o quella forma di capitalismo, ma il capitalismo intero come sistema, qualunque sia la sua forma politica.
Infatti, uno degli aspetti maggiori della barbarie attuale non consiste solo nella somma di disperazioni umane che essa genera, ma anche nella differenza enorme che esiste tra ciò che potrebbe essere la società attuale, con le ricchezze che essa ha creato nella sua storia, e ciò che di fatto è. Queste ricchezze, in particolare la padronanza della scienza e l’aumento formidabile della produttività del lavoro, si sono sviluppati proprio grazie allo sviluppo del sistema capitalista. Grazie evidentemente ad uno sfruttamento feroce della classe operaia, esso ha creato le condizioni materiali del suo superamento e della sua sostituzione con una società non più rivolta verso il profitto o la soddisfazione dei bisogni di una minoranza, ma rivolta verso la soddisfazione della totalità degli esseri umani. Queste condizioni materiali esistono dall’inizio del secolo, da quando cioè il capitalismo - costituendo un mercato mondiale - ha sottomesso alla sua legge il mondo intero. Avendo compiuto il suo compito storico di uno sviluppo senza precedenti delle forze produttive, e della prima tra esse - la classe operaia - il capitalismo avrebbe dovuto abbandonare la scena come è successo per le società del passato, in particolare la società schiavista e la società feudale. Ma esso non poteva evidentemente sparire da solo: è al proletariato che tocca il compito, come veniva riportato già dal Manifesto comunista del 1848, di eseguire la sentenza di morte che la storia ha pronunciato contro la società borghese.
Avendo raggiunto il suo apogeo, il capitalismo è entrato in un periodo d’agonia scatenando sulla società una barbarie sempre maggiore. La prima guerra mondiale fu la prima grande manifestazione di questa agonia e giustamente fu nel corso ed in seguito a questa guerra che la classe operaia si lanciò all’assalto del capitalismo per eseguire la sentenza e prendere la direzione della società in vista dell’instaurazione del comunismo. Il proletariato, nell’ottobre del 1917, ha compiuto il primo passo di questo immenso compito storico, ma esso non ha potuto compiere i successivi essendo stato sconfitto nelle principali concentrazioni industriali del mondo, ed in particolare in Germania (3). Dopo essersi ripresa dallo spavento, la classe borghese ha allora scatenato la più terribile controrivoluzione della storia. Una controrivoluzione condotta dalla borghesia democratica ma che ha permesso l’instaurazione di regimi mostruosi come il nazismo e lo stalinismo. Uno degli aspetti che sottolinea di più la profondità e l’orrore di questa controrivoluzione è che lo stalinismo abbia potuto presentarsi per decenni - con la complicità di tutti i regimi democratici - come la testa d’ariete della rivoluzione comunista mentre esso ne era al contrario il principale nemico. Sta in questo una delle caratteristiche maggiori dell’immensa tragedia vissuta dall’umanità nel corso del 20° secolo, una caratteristica che tutti i commentatori borghesi, anche i più “umanitari” e benpensanti, assolutamente tengono nascosta.
E’ proprio perché il proletariato ha subito questa terribile contro-rivoluzione che è stato legato mani e piedi e condotto verso la seconda carneficina mondiale senza che esso abbia potuto sollevarsi contro di essa, come aveva fatto in Russia nel 1917 ed in Germania nel 1918. Ed è in parte questa impotenza che permette di spiegare perché la seconda guerra mondiale fu ben più terribile della prima.
Un’altra delle cause di questa differenza tra le due guerre mondiali è evidentemente l’immensità dei progressi scientifici compiuti dal capitalismo nel corso di questo secolo. Questi progressi scientifici sbalorditivi sono evidentemente salutati rumorosamente oggi da tutti gli apologeti del capitalismo. Malgrado le sue calamità, il capitalismo del 20° secolo avrebbe apportato alla società umana delle ricchezze scientifiche e tecniche senza precedenti. Ciò che si tende a nascondere, invece, è che i principali beneficiari di questa tecnologia, quelli che assimilano in ogni istante i più moderni e sofisticati mezzi, sono gli eserciti, allo scopo di condurre le guerre le più sanguinose possibili. In altri termini, il progresso dalle scienze del 20° secolo è servito principalmente al malessere degli uomini e non al loro benessere, al loro sviluppo. Possiamo immaginare ciò che sarebbe potuta diventare la vita dell’umanità se la classe operaia avesse vinto nella rivoluzione, mettendo a disposizione dei bisogni umani i prodigi tecnologici che sono fioriti nel corso del 20° secolo.
Infine, una delle cause essenziali della maggiore barbarie della seconda guerra mondiale rispetto alla prima, è che tra le due, il capitalismo ha continuato a sprofondare nella sua decadenza.
Durante tutto il periodo della “guerra fredda”, abbiamo avuto davanti agli occhi ciò che avrebbe potuto rappresentare una terza guerra mondiale: la distruzione pura e semplice dell’umanità. La terza guerra mondiale non ha avuto luogo, non grazie al capitalismo, ma grazie alla classe operaia. In effetti, alla fine degli anni ’60, il proletariato esce dalla contro-rivoluzione e comincia a rispondere su un piano di massa sul suo terreno di classe ai primi attacchi di una nuova crisi aperta del capitalismo, impedendo obiettivamente a quest’ultimo di attuare la propria risposta a tale crisi - una nuova guerra mondiale - come invece era successo con la crisi degli anni trenta che aveva avuto come sbocco la seconda guerra mondiale.
Ma se la risposta della classe operaia alla crisi capitalista ha sbarrato il cammino ad un nuovo olocausto, essa non è stata sufficiente a rovesciare il capitalismo o ad incamminarsi direttamente sul cammino della rivoluzione. Questo stallo della situazione storica in un momento in cui la crisi del capitalismo si aggrava sempre di più, ha aperto una nuova fase della decadenza del capitalismo, quella della decomposizione generale della società. Una decomposizione la cui manifestazione maggiore, fino ad oggi, è stato il crollo dei regimi stalinisti e dell’insieme del blocco dell’Est che ha condotto allo sfaldamento dello stesso blocco occidentale. Una decomposizione che si esprime attraverso un caos senza precedenti sull’arena internazionale e di cui la guerra del Kosovo, all’inizio del 1999, i massacri di Timor alla fine dell’estate e oggi ancora la guerra in Cecenia sono solo alcune delle manifestazioni. Una decomposizione che costituisce la causa e la premessa dell’insieme delle tragedie che si scatenano sul mondo attuale, sia che si tratti di disastri ecologici, di catastrofi “naturali” o tecnologiche, di epidemie e di avvelenamenti, sia di ascese irresistibili di mafie, o della droga e della criminalità.
“La decadenza del capitalismo, quale il mondo l’ha conosciuta dall’inizio del secolo, si rivela già come il periodo più tragico della storia dell’umanità. (…) Ma sembra che l’umanità non avesse ancora toccato il fondo. La decadenza del sistema capitalistico significa l’agonia di questo sistema; ma questa agonia ha essa stessa una storia: oggi abbiamo raggiunto la fase terminale, quella della decomposizione generale della società, quella della putrescenza.
Perché è proprio di putrefazione della società che si tratta oggi. Dalla fine della seconda guerra mondiale, il capitalismo era riuscito ad allontanare verso i paesi sottosviluppati le manifestazioni più barbare e sordide della sua decadenza. Oggi, è nel cuore stesso dei paesi più avanzati che si hanno queste manifestazioni di barbarie. Conflitti etnici assurdi in cui le popolazioni si massacrano perché non hanno la stessa religione o la stessa lingua, perché perpetuano tradizioni popolari differenti, sembravano riservati, da decenni, ai soli paesi del terzo mondo, l’Africa, l’India o il Medio Oriente. Ora è in Yugoslavia, a poche centinaia di chilometri dalle metropoli industriali dell’Italia del Nord e dell’Austria, che si scatenano simili assurdità. (…) Quanto alle popolazioni di queste regioni, la loro sorte non sarà migliore di prima ma peggio ancora: disordine economico accresciuto, sottomissione a demagoghi sciovinisti e xenofobi, regolamenti di conti e scontri tra comunità che avevano coabitato fino a quel momento e, soprattutto, divisione tragica tra i differenti settori della classe operaia. Ancora più miseria, oppressione, terrore, distruzione della solidarietà di classe tra i proletari di fronte ai loro sfruttatori: ecco quello che significa il nazionalismo oggi. E l’esplosione di quest’ultimo in questo momento è proprio la prova che il capitalismo decadente ha fatto un nuovo passo in avanti nella barbarie e nella putrefazione.
Ma lo scatenamento dell’isteria nazionalista in certe parti dell’Europa non è la sola manifestazione di questa decomposizione che vede guadagnare i paesi avanzati alla barbarie che il capitalismo fino ad ora aveva riservato alla sua periferia.
Ieri, per fare credere agli operai dei paesi più sviluppati che non avevano ragione di ribellarsi, i mezzi di informazione andavano nelle bidonvilles di Bogotà o sui marciapiedi di Manila per fare dei servizi sulla criminalità e la prostituzione di bambini. Oggi, è nei più ricchi paesi del mondo, a New York, Los Angeles, Washington, che ragazzini di dodici anni vendono il loro corpo o ammazzano per qualche grammo di crack. In questi stessi paesi, è ora che si contano a centinaia di migliaia i senza tetto: a due passi da Wall Street, tempio della finanza mondiale, masse di esseri umani dormono nei cartoni sui marciapiedi, come a Calcutta. Ieri, la concussione e la prevaricazione elevata allo stato di legge sembravano specialità di dirigenti del Terzo Mondo. Oggi, non passa mese senza che scoppi uno scandalo di malcostume del personale politico dei paesi “avanzati”: dimissioni a ripetizione dei membri del governo in Giappone dove trovare un politico “presentabile” per affidargli un ministero diventa una “missione impossibile”; partecipazione alla grande della CIA al traffico di droga; penetrazione della Mafia nelle più alte sfere dello Stato in Italia; auto-amnistia dei deputati francesi per evitarsi la prigione che meriterebbero per le loro turpitudini… Anche in Svizzera, leggendario paese della pulizia, è stato trovato un ministro della polizia e della giustizia compromesso in un affare di riciclaggio di denaro proveniente dal traffico di droga. La corruzione ha sempre fatto parte delle pratiche della società borghese, ma essa non ha mai raggiunto un tale livello come ai nostri giorni; ed è appunto questa grande generalizzazione che suggerisce l’ulteriore passo in avanti che la decadenza di questa società ha fatto verso la propria putrefazione.
Infatti, è l’insieme della vita sociale che sembra essersi completamente guastato, che si infogna nell’assurdo, nel fango e nella disperazione. E’ tutta la società umana, su tutti i continenti che, in maniera crescente, trasuda barbarie da tutti i suoi pori. Le carestie si sviluppano nei paesi del Terzo Mondo, e presto raggiungeranno i paesi che si pretendevano “socialisti”, mentre in Europa occidentale ed in America del Nord si distruggono stock di prodotti agricoli, si pagano gli agricoltori perché coltivino meno terre e si penalizzano quelli che producono più della quota prefissata. In America latina, le epidemie, come quella del colera, uccidono migliaia di persone, laddove già da lungo tempo questo flagello sembrava sconfitto. Dappertutto nel mondo, le inondazioni o i terremoti continuano ad uccidere decine di migliaia di esseri umani in poche ore mentre la società è perfettamente in grado di costruire delle dighe e delle case che potrebbero evitare tali ecatombe. Nello stesso momento, non si può invocare la “fatalità” o i “capricci della natura”, quando, a Tchernobyl, nel 1986, l’esplosione di una centrale atomica uccise centinaia (se non migliaia) di persone e contaminò più province, quando nei paesi più sviluppati, si assistono a delle catastrofi mortali nel cuore stesso delle grandi città: 60 morti in una stazione parigina, più di cento morti in un incendio della metropolitana a Londra, non molto tempo fa. Ugualmente, questo sistema si rivela incapace di far fronte al degrado dell’ambiente, alle piogge acide, all’avvelenamento di ogni tipo e principalmente nucleare, all’effetto serra, alla desertificazione che mette in gioco la stessa sopravvivenza della specie umana.
Nello stesso tempo, assistiamo ad un degrado irreversibile della vita sociale: oltre alla criminalità ed alla violenza urbana che non cessa di crescere dappertutto, la droga provoca dei danni sempre più spaventosi, particolarmente tra le nuove generazioni, testimonianza della disperazione, dell’isolamento, dell’atomizzazione che invade tutta la società.” (Manifesto del IX Congresso della CCI, settembre 1991).
Ecco come si esprimeva la nostra organizzazione all’inizio del decennio. I due esempi che vengono dati nel nostro documento del 1991 sono quelli di cui noi disponevamo all’epoca. Da quel momento, ed in nessun campo la situazione è migliorata, al contrario, e gli avvenimenti di questi ultimi anni sono altrettanto se non addirittura più tragici, e manifestano la barbarie crescente in cui si è infognato il capitalismo. La droga, la violenza urbana, la prostituzione giovanile, etc. hanno fatto un nuovo progresso. Gli scandali della corruzione politica non sono terminati, colpendo, per esempio in Francia, il presidente della più alta carica giuridica, il Consiglio costituzionale, ed in Germania quel paragone di virtù che era il cancelliere Kohl. Infine, i massacri e le nefandezze delle isterie nazionaliste si sono perpetuate nella ex Jugoslavia, mentre si scatenavano in molteplici altri luoghi, e tutt’oggi ancora in Cecenia.
Per ora, una nuova guerra mondiale non è ancora all’ordine del giorno per la scomparsa dei blocchi militari e per il fatto che il proletariato dei paesi centrali non è imbrigliato dietro le bandiere della borghesia. Ma la sua minaccia continuerà a pesare sulla società fin tanto che esisterà il capitalismo. Detto ciò, la società può essere ugualmente distrutta senza una guerra mondiale, ma attraverso un caos crescente, con una moltitudine di guerre locali, di catastrofi ecologiche, da carestie ed epidemie.
Così si chiude il 20° secolo, il più barbaro della storia umana: nella decomposizione della società. Se la borghesia ha potuto celebrare con fasto l’anno 2000, è poco probabile che essa possa fare lo stesso nell’anno 2100. O perché essa sarà stata rovesciata dal proletariato, o perché la società sarà stata distrutta o sarà ritornata all’età della pietra.
FM
1. Vedere per esempio il nostro articolo “I massacri ed i crimini delle ‘grandi democrazie’” (Rivista Internazionale n° 16).
2. La giustificazione era tanto più efficace che i regimi stalinisti hanno perpetrato molti massacri, dai “gulag” fino alla guerra in Afghanistan, passando per la repressione sanguinosa in Germania nel 1953, in Ungheria nel 1956, in Cecoslovacchia nel 1968, in Polonia nel 1970, etc.
3. Sulla rivoluzione tedesca, vedere la nostra serie di articoli nella Revue Internationale.
L’antifascismo ha la pelle dura. L’ingresso nel governo austriaco del FPÖ di Georg Haider ha scatenato una nuova campagna contro il pericolo “fascista, xenofobo e antidemocratico” Quali che siano state le ragioni particolari per cui la borghesia austriaca ha fatto entrare i “neri” nel suo governo(1), questo avvenimento ha costituito un’eccellente occasione per le sue consorelle europee ed anche per quelle dell’America del Nord per rilanciare un tipo di mistificazione di cui la storia ha dimostrato l’efficacia contro la classe operaia. Fino ad ora, nel corso di questi ultimi anni, le campagne contro il “pericolo fascista” sono scaturite da avvenimenti tipo il successo elettorale del Fronte nazionale in Francia o per i soprusi di piccoli gruppi di “skinheads” contro gli immigrati. Anche la sceneggiata Pinochet non arrivava a mobilitare le folle poiché il vecchio dittatore era ora in pensione. E’ chiaro che l’arrivo al governo di un paese europeo di un partito presentato come “fascista” è stato un ingrediente di prima scelta per alimentare questo tipo di campagne.
Quando i nostri compagni di Bilan (pubblicazione in francese della Frazione di sinistra del Partito Comunista d’Italia) hanno redatto il documento che ripubblichiamo in qui di seguito, il fascismo era una realtà in molti paesi europei, Hitler era al potere in Germania dal 1933. Ciò non li ha condotti a perdere la testa ed a lasciarsi trascinare nella frenesia de “l’antifascismo” che ha preso non solo i partiti socialisti e stalinisti, ma anche correnti che si erano opposte alla degenerazione dell’Internazionale comunista nel corso degli anni 20, a cominciare dalle correnti trotskiste. Essi sono stati in grado di produrre una messa in guardia estremamente ferma e chiara contro il pericolo dell’antifascismo e che, poco prima della guerra di Spagna, aveva un carattere incontestabilmente profetico. In effetti, in questa guerra, la borghesia “fascista” non fu capace di scatenare la repressione ed i massacri contro la classe operaia fin tanto che quest’ultima, benché si sia armata spontaneamente contro il putsch di Franco del 18 luglio 1936, si fece deviare dal suo terreno di classe, la lotta intransigente contro la repubblica borghese, in nome della priorità della lotta contro il fascismo e della necessità di costituire un fronte di tutte le forze che lo combattevano.
Oggi la situazione storica non è come quella degli anni 1930 quando la classe operaia subiva la più terribile sconfitta della sua storia. Sconfitta che non fu dovuta al fascismo, ma ai settori “democratici” della borghesia e che permise a questi di fare appello, in alcuni paesi, ai partiti fascisti per dirigere lo Stato. Per questo possiamo affermare che il fascismo non corrisponde attualmente ad una necessità politica per il capitalismo. Tra l’altro, è proprio passando totalmente al di sopra alle differenze tra il periodo attuale e gli anni 1930, che alcune correnti, che apparentemente si richiamano alla classe operaia ed alla stessa rivoluzione, come i trotskisti, possono giustificare la loro partecipazione alla battaglia sul “pericolo del fascismo”. In questo senso, Bilan aveva completamente ragione ad insistere sulla necessità per dei rivoluzionari di saper ricollocare gli avvenimenti, nel loro contesto storico considerando, in particolare, i rapporti di forza tra le classi. Negli anni 1930 Bilan sviluppa i suoi argomenti soprattutto contro quelli della corrente trotskista (i “bolscevichi leninisti”). All’epoca questa corrente apparteneva ancora alla classe operaia, ma il suo opportunismo la conduceva verso il tradimento ed al passaggio nel campo borghese al momento dello scoppio della seconda guerra mondiale. Ed è proprio nel nome dell’antifascismo che il trotskismo ha partecipato a questa guerra come forza d’appoggio degli imperialismi alleati, mettendosi sotto i piedi uno dei principi fondamentali del movimento operaio, l’internazionalismo. Gli argomenti che sono dati da Bilan per combattere le campagne antifasciste e denunciare i pericoli che esse rappresentavano per la classe operaia restano assolutamente validi oggigiorno: la situazione storica è cambiata ma le menzogne impiegate contro la classe operaia per farle abbandonare il proprio terreno di classe e porla sotto l’ala della democrazia borghese restano fondamentalmente le stesse. Il lettore potrà facilmente riconoscere negli “argomenti” combattuti da Bilan quelli che si sentono attualmente da parte degli antifascisti di tutti i poli ed in particolare quelli che si richiamano alla rivoluzione. Per dare qualche esempio citiamo due passaggi del testo di Bilan:
“…la posizione della controparte che chiede al proletariato di intervenire per scegliere, tra le forme di organizzazione dello Stato capitalista, la meno cattiva non ripropone la stessa posizione difesa da Bernstein che chiamava il proletariato a realizzare la migliore forma dello Stato capitalista?”
“…se realmente il proletariato è in condizione di imporre una soluzione di governo alla borghesia, perché dovrebbe limitarsi ad un tale obbiettivo invece di porre le proprie rivendicazioni centrali per la distruzione dello Stato capitalista? D’altra parte, se la sua forza non gli consente ancora di scatenare la sua insurrezione, orientarlo verso un governo democratico, non significa spingerlo su di una strada che permette la vittoria al nemico?”
Infine, contro coloro che affermano che l’antifascismo è un mezzo per “riunire gli operai”, Bilan risponde che il solo terreno su cui può raccogliersi il proletariato è quello della difesa dei suoi interessi di classe, ciò che è valido qualunque sia il rapporto di forza con il suo nemico: “il proletariato non potendo darsi come scopo immediato la conquista del potere, si unisce su degli obbiettivi più limitati, ma sempre di classe: le lotte parziali”.
“Invece di procedere a modifiche sostanziali delle rivendicazioni della classe operaia, il dovere imperioso dei comunisti consiste nel determinare il raggruppamento della classe operaia intorno a rivendicazioni di classe ed all’interno dei suoi organismi di classe: i sindacati”.
A quest’epoca, contrariamente alla corrente della sinistra comunista tedesco-olandese, la sinistra comunista italiana non aveva ancora chiarito la questione sindacale. I sindacati erano diventati dalla prima guerra mondiale, e senza possibilità di ritorno, organi dello Stato capitalista. Solo alla fine della seconda guerra mondiale settori della sinistra italiana acquisiscono una tale chiarezza. Ma ciò non toglie nulla alla validità della posizione difesa da Bilan e che chiama gli operai a riunirsi intorno alle loro rivendicazioni di classe, posizione che resta perfettamente valida oggi quando dappertutto la borghesia chiama la classe operaia all’interclassismo ed alla difesa della democrazia; sia contro il “fascismo”, sia contro ogni tentativo di fare una nuova rivoluzione che condurrebbe inevitabilmente ad un nuovo ritorno di “totalitarismo” come quello che è sprofondato dieci anni fa nei paesi detti “socialisti”.
C.C.I.
L’antifascismo : formula di confusione
Molto probabilmente la situazione attuale supera, per l’ampiezza della confusione, tutte le situazioni precedenti di riflusso rivoluzionario. Ciò deriva da una parte, dall’evoluzione controrivoluzionaria, nel dopo guerra, di quelle che erano state le maggiori conquiste della lotta proletaria: lo Stato russo, la III Internazionale, e, d’altra parte, dall’incapacità degli operai ad opporre a questa evoluzione un fronte di resistenza ideologico e rivoluzionario. L’intersecarsi di questo fenomeno e dell’offensiva brutale del capitalismo, che si orienta verso la formazione di blocchi in vista della guerra, determina delle reazioni di lotta da parte degli operai e talvolta anche delle battaglie grandiose (Austria) (1). Ma queste non arrivano a sconfiggere la potenza del centrismo (2), sola organizzazione politica di massa ed ormai acquisita alle forze della controrivoluzione mondiale.
La confusione, in un simile momento di sconfitte, è dunque un risultato ottenuto dal capitalismo, che incorpora lo Stato operaio, il centrismo, ai bisogni della sua conservazione orientandoli là dove agiscono, fin dal 1914, le forze insidiose della socialdemocrazia, agente principale della disgregazione della coscienza delle masse e porta parola qualificato delle parole d’ordine delle sconfitte proletarie e delle vittorie capitaliste.
In quest’articolo esamineremo una tipica formula di confusione, quella che viene anche chiamata, negli ambienti operai che si dicono di sinistra: “l’antifascismo”. (…) Per chiarezza d’esposizione ci limitiamo a trattare un solo problema: l’antifascismo ed il fronte di lotte che si pretende di poter realizzare intorno a tale formula.
E’ elementare -o piuttosto lo era fino ad ora- affermare che prima di intraprendere una battaglia è necessario stabilire gli obbiettivi che ci si dà, i mezzi da impiegare, le forze di classe che possono intervenire favorevolmente. Non c’è niente di “teorico” in queste considerazioni, e con ciò intendiamo dire che esse non si espongono alla facile critica di tutti quegli elementi disillusi di “teorie”, la cui regola consiste, al di là di ogni chiarezza teorica, a ingaggiarsi in movimenti con chiunque, sulla base di un programma qualsiasi, a condizione che sussista “l’azione”.
Noi siamo, evidentemente, quelli che pensano che l’azione non deriva da quanto si strilla o dalla buona volontà degli individui, ma dalle situazioni stesse. Inoltre, per l’azione, il lavoro teorico è indispensabile per evitare alla classe operaia nuove sconfitte. E si deve ben capire il significato del disprezzo per il lavoro teorico che ha colpito tanti militanti perché, in realtà, ciò è servito sempre ad introdurre di soppiatto, al posto di posizioni proletarie, le concezioni principali del nemico: della socialdemocrazia all’interno degli ambienti rivoluzionari, proclamando l’azione ad ogni costo in una “gara di velocità” con il fascismo.
Così, per quanto riguarda il problema dell’antifascismo, non è solo il disprezzo per il lavoro teorico che guida i suoi numerosi partigiani, ma la stupida mania di creare e divulgare la confusione indispensabile per costituire un largo fronte di resistenza. Alcun limite pregiudiziale per non perdere nessun alleato, nessuna possibilità di lotta: ecco la parola d’ordine dell’antifascismo. E si vede qui che, per quest’ultimo, la confusione è idealizzata e considerata come un elemento di vittoria. Ricordiamo che oltre mezzo secolo fa Marx diceva a Weitling che l’ignoranza non è mai servita al movimento operaio.
Attualmente, invece di stabilire gli obiettivi della lotta, i mezzi per metterla in atto, i programmi necessari, la quintessenza suprema della strategia marxista (Marx direbbe dell’ignoranza) è rappresentata così: accollarsi degli aggettivi, il più frequente dei quali sarà evidentemente “leninista”, e rievocare in ogni momento, ed a sproposito, la situazione del 1917 in Russia, l’attacco di settembre di Korlinov. C’è stato, ahinoi!, un tempo in cui i militanti proletari avevano ancora la testa sulle spalle ed analizzavano le esperienze storiche. Allora, prima di stabilire delle analogie tra le situazioni della loro epoca e queste esperienze, essi ricercavano innanzitutto se fosse possibile stabilire un parallelo politico tra il passato ed il presente; ma questo tempo sembra ormai passato, soprattutto se ci si attiene alla fraseologia corrente dei gruppi proletari.
Si sente dire che è inutile stabilire un paragone tra il quadro della lotte di classe nel 1917 in Russia, e la situazione attuale nei differenti paesi; come, è inutile vedere se il rapporto di forza tra le classi di allora presenta delle analogie con quelle di oggi. La vittoria d’Ottobre del 1917 è un fatto storico, basta quindi copiare la tattica dei bolscevichi russi e soprattutto farne una pessima copia, che cambierà a secondo degli ambienti politici che interpretano questi avvenimenti sulla base di concezioni di principio opposte.
Ma che in Russia il capitalismo era, nel 1917, alle sue prime esperienze al potere statale, quando al contrario il fascismo nasceva da un capitalismo che deteneva il potere da più decenni, che, d’altra parte, la situazione vulcanica e rivoluzionaria del 1917 in Russia era l’esatto contrario della situazione reazionaria attuale, ciò non preoccupa affatto coloro che attualmente si definiscono “leninisti”. Al contrario, la loro ammirevole serenità non sarà turbata dall’inquietudine di confrontare gli avvenimenti del 1917 con la situazione attuale, basandosi seriamente sull’esperienza italiana e tedesca. Korlinov basta per tutto. E la vittoria di Mussolini e di Hitler sarà unicamente dovuta a pretese deviazioni, effettuate dai partiti comunisti, in rapporto alla tattica classica dei bolscevichi nel 1917, mentre, attraverso un gioco di acrobazie politiche, saranno assimilate le due situazioni opposte: la rivoluzionaria e la reazionaria.
***
Per quanto riguarda l’antifascismo, le considerazioni politiche non entrano in gioco. Il suo obiettivo è raggruppare tutti quelli che sono minacciati dall’attacco del fascismo costituendo un “sindacato dei minacciati”.
La socialdemocrazia dirà ai radicali socialisti di vegliare sulla propria sicurezza e di prendere immediatamente delle misure di difesa contro le minacce del fascismo: Herriot e Deladier potrebbero, essi stessi, essere vittime della vittoria di quest’ultimo. L. Blum andrà anche più lontano: avvertirà solennemente Doumergue che se non prende provvedimenti contro il fascismo, l’attende la stessa sorte di Brüning. Il centrismo, da parte sua, si rivolgerà “alla base socialista” o al contrario la S.F.I.O. si rivolgerà al centrismo, al fine di realizzare il fronte unico: socialisti e comunisti minacciati dall’attacco del fascismo. Restano ancora i bolscevichi-leninisti (3) che, dritti sui loro speroni, proclameranno con magniloquenza di essere pronti a costituire un fronte di lotta al di fuori di ogni considerazione politica, sulla base di una solidarietà permanente tra tutte le formazioni “operaie”(?) contro le minacce fasciste.
La considerazione che anima tutte queste speculazioni è certamente molto semplice -troppo semplice per essere vera-: riunire tutti “i minacciati” animati da un desiderio analogo di sfuggire alla morte, in un fronte comune antifascista. Tuttavia, la più superficiale delle analisi prova che la semplicità idilliaca di questa proposizione nasconde in realtà l'abbandono totale delle posizioni fondamentali del marxismo, la negazione delle esperienze del passato e del significato degli avvenimenti attuali. (…).
Tutte queste considerazioni su ciò che radicali, socialisti, centristi faranno per salvaguardare le loro persone e le loro istituzioni, tutti i sermoni pronunciati “ex cathedra” a tale riguardo, non possono in nessun modo cambiare il corso delle situazioni, perché il problema si riduce a questo: trasformare radicali, socialisti e centristi in dei comunisti, in quanto la lotta contro il fascismo può farsi solo sul fronte della lotta per la rivoluzione proletaria. E malgrado i sermoni la socialdemocrazia belga non rinuncerà a lanciare i suoi piani di salvataggio del capitalismo, non esiterà a silurare ogni conflitto di classe, metterà, senza esitare, i sindacati nelle mani del capitalismo. Doumergue, d’altra parte, non farà che ricalcare Brüning, Blum seguirà le tracce di Bauer e Cachin quelle di Thaelmann.
Ancora una volta, e lo ripetiamo, non vogliamo analizzare, in questo articolo, se il perno della situazione in Belgio, in Francia, può essere paragonato alle circostanze che determinarono l’avanzamento e la vittoria del fascismo in Italia ed in Germania. La nostra analogia porta soprattutto sul fatto che Doumergue ricalca Brüning, dal punto di vista della funzione che essi possono avere in due paesi capitalisti intrinsecamente differenti, funzione che consiste, come per Blum e per Cachin, ad immobilizzare il proletariato, a disgregare la sua coscienza di classe ed a permettere l’adattamento del loro apparato statale alle nuove circostanze della lotta interimperialista. Ci sono buone ragioni per credere che in Francia, in particolare, l’esperienza di Thiers, Clemenceau, Poincaré si ripete sotto la forma di Doumergue, che assisteremo alla concentrazione del capitalismo intorno a formazioni di destra, senza che ciò comporti il soffocamento di formazioni radicali-socialiste e socialiste della borghesia. D’altra parte, è profondamente sbagliato basare la tattica proletaria su posizioni politiche che si fanno derivare da una semplice prospettiva.
Il problema non è affermare: il fascismo è minaccioso, eleviamo un fronte unico di antifascismo e di antifascisti, ma è necessario, al contrario, determinare le posizioni intorno alle quali il proletariato si raggruppa per la sua lotta contro il capitalismo. Porre il problema in tal modo significa escludere dal fronte di lotta contro il capitalismo forze antifasciste ed anche arrivare a questa conclusione (che potrebbe sembrare paradossale) che se si verificasse un orientamento definitivo del capitalismo verso il fascismo, la condizione del successo risiederebbe nell’inalterabilità del programma e delle rivendicazioni di classe degli operai, nel momento in cui la condizione della sconfitta certa consisterebbe nella dissoluzione del proletariato nel marasma antifascista.
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L’azione degli individui e delle forze sociali non è diretta dalle leggi di conservazione degli individui o delle forze al di fuori delle considerazioni di classi: Brüning o Matteotti non potevano agire in considerazione dei loro interessi personali o delle idee che essi sostenevano, cioè al di fuori del cammino della rivoluzione proletaria che, sola, li avrebbe preservati dallo strangolamento fascista. Individuo e forza agiscono in funzione delle classi da cui essi dipendono. Ciò spiega perché i personaggi attuali della politica francese non fanno che seguire le tracce lasciate dai loro predecessori degli altri paesi, e ciò anche nell’ipotesi di una evoluzione del capitalismo francese verso il fascismo.
La base della formula dell’antifascismo (il sindacato di tutti i minacciati) si rivela dunque di una inconsistenza assoluta. Se, d’altra parte, esaminiamo da dove proviene -almeno nelle sue affermazioni programmatiche- l’idea dell’antifascismo, constateremo che essa deriva da una dissociazione tra fascismo e capitalismo. E’ vero che se si interroga su tale argomento un socialista, un centrista o un boscevico-leninista, tutti affermeranno che effettivamente il fascismo è capitalismo. Ma, il socialista dirà: ”noi abbiamo interesse a difendere la Costituzione e la Repubblica al fine di preparare il socialismo”; il centrismo affermerà che si realizza più facilmente l’unità della lotta della classe operaia intorno all’antifascismo piuttosto che con la lotta al capitalismo; il bolscevico-leninista affermerà che non esiste migliore base per il raggruppamento e per la lotta, della difesa delle istituzioni democratiche che il capitalismo non è più in grado di assicurare alla classe operaia. Si ha, dunque, che l’affermazione generale “il fascismo è il capitalismo” può condurre a delle conclusioni politiche che possono solo risultare dalla dissociazione tra capitalismo e fascismo.
L’esperienza dimostra, e ciò annulla la possibilità di distinzione tra fascismo e capitalismo, che la conversione del capitalismo in fascismo non dipende dalla volontà di alcuni gruppi della classe borghese, ma risponde a delle necessità che si ricollegano a tutto un periodo storico ed alla particolare situazione di certi Stati che si trovano in una condizione di minore resistenza di fronte ai fenomeni della crisi e dell’agonia del regime borghese. La socialdemocrazia, che agisce nello stesso solco delle forze liberali e democratiche, chiama ugualmente il proletariato a porre come rivendicazione centrale il ricorso allo Stato per obbligare le formazioni fasciste a rispettare la legalità per disarmarle o anche per scioglierle. Queste tre correnti politiche agiscono su una linea perfettamente solidale: la loro origine si ritrova nella necessità per il capitalismo di arrivare al trionfo del fascismo, là dove lo Stato capitalista ha per scopo elevare il fascismo fino a farne la forma nuova d’organizzazione della società capitalista.
Poiché il fascismo risponde a delle esigenze fondamentali del capitalismo, è su di un altro fronte, opposto, che noi potremmo trovare una possibilità di lotta reale contro di esso. E’ vero che oggigiorno siamo spesso esposti alla falsificazione di posizioni che i nostri critici non vogliono combattere politicamente. Basta, per esempio, opporsi alla formula dell’antifascismo (che non ha alcuna base politica), perché le esperienze provano che per la vittoria del fascismo le forze antifasciste del capitalismo sono state necessarie tanto quanto le stesse forze fasciste, per sentirsi rispondere: “poco importa analizzare la sostanza programmatica e politica dell’antifascismo, ciò che ci interessa è che Daladier è preferibile a Doumergue, che quest’ultimo è preferibile a Maurras, e quindi noi abbiamo interesse a difendere Daladier contro Doumergue o Doumergue contro Maurras”. O, secondo le circostanze, Daladier o Doumergue, poiché essi rappresentano un ostacolo alla vittoria di Maurras e che il nostro dovere è di “utilizzare la minima incrinatura allo scopo di guadagnare una posizione di vantaggio per il proletariato”. Evidentemente, gli avvenimenti in Germania, dove le “incrinature” che potevano presentare prima il governo di Prussia, poi Hindenburg-von Scleicher, non sono state in definitiva che tante tappe che hanno permesso l’ascesa del fascismo, sono delle semplici bagattelle di cui non bisogna tener conto. E’ chiaro che le nostre obiezioni saranno tacciate di antileninissmo o antimarxismo; ci si dirà che per noi è indifferente che si abbia un governo di destra, di sinistra o fascista. Ma rispetto a quest’ultimo argomento noi vorremmo una volta per tutte porre il seguente problema: tenendo conto delle modifiche sopraggiunte nelle situazioni del dopo guerra, la posizione dei nostri critici che chiedono al proletariato di intervenire per scegliere tra le forme di organizzazione dello Stato capitalista, quella meno cattiva, non produce essa stessa la stessa posizione difesa da Bernstein che chiamava il proletariato a realizzare la migliore forma di Stato capitalista? Forse ci si risponderà che non si chiede al proletariato di sposare la causa del governo che può essere considerata come la migliore forma di dominio… dal punto di vista proletario, ma che si propone semplicemente di rafforzare le posizioni proletarie, a tal punto da imporre al capitalismo una forma di governo democratico. In questo caso non si farà che modificare le frasi ed il contenuto resterebbe lo stesso. In effetti, se realmente il proletariato è nella condizione d’imporre una soluzione di governo alla borghesia, perché dovrebbe limitarsi ad un tale obbiettivo invece di porre le sue rivendicazioni centrali per la distruzione dello Stato capitalista! D’altra parte, se la sua forza non gli permette ancora di scatenare l’insurrezione, orientarlo verso un governo democratico non significa deviarlo su una via che permette la vittoria del nemico?
Il problema non è certamente come pretendono i partigiani della “scelta migliore”: il proletariato ha la sua soluzione del problema dello Stato, ed egli non ha alcun potere, alcuna iniziativa per quanto riguarda le soluzioni che darà il capitalismo al problema del suo potere. E’ evidente sarebbe vantaggioso trovare dei governi borghesi molto deboli che permettono l’evoluzione della lotta rivoluzionaria del proletariato; ma è altrettanto evidente che il capitalismo non costituirà dei governi di sinistra o di estrema sinistra, se non a condizione che questi ultimi rappresentino la migliore forma della sua difesa in una data situazione. Nel 1917-21 la socialdemocrazia che entrò nel governo realizzò la difesa del regime borghese e fu la sola forma che permise lo schiacciamento della rivoluzione proletaria. Considerando che un governo di destra avrebbe potuto direttamente orientare le masse verso l’insurrezione, i marxisti dovevano preconizzare un governo reazionario? Formuliamo una tale ipotesi per dimostrare che non esiste un concetto generale di forma migliore o peggiore di governo per il proletariato. Questi concetti esistono solo per il capitalismo e secondo le circostanze. La classe operaia ha, per contro, il dovere assoluto di raggrupparsi sulle sue posizioni di classe per combattere il capitalismo sotto la forma che riveste concretamente: fascista, democratica o socialdemocratica che sia.
La prima considerazione essenziale da fare rispetto alle attuali situazioni, è dire apertamente che per la classe operaia il problema del potere non si pone all’ordine del giorno in maniera immediata, e che una delle più crudeli manifestazioni di questa caratteristica della situazione è lo scatenamento dell’attacco fascista, o l’evoluzione della democrazia verso i pieni poteri. Si tratta quindi di determinare su quali basi potrà effettuarsi il raggruppamento della classe operaia. E qui una concezione veramente curiosa va a separare i marxisti da tutti gli agenti del nemico e dai confusionisti che agiscono in seno alla classe operaia. Per noi, il raggruppamento degli operai è un problema di quantità: il proletariato non può darsi per scopo immediato la conquista del potere, esso si riunisce per obbiettivi più limitati, ma sempre di classe: le lotte parziali. Gli altri, che ostentano un estremismo di facciata, alterano la sostanza di classe del proletariato e affermano che esso può lottare per il potere in qualsiasi epoca. Non potendo porre questo problema su delle basi di classe, cioè sulla base proletaria, essi lo evirano nella sostanza ponendo il problema del governo antifascista. Aggiungeremo ancora che i partigiani della diluizione del proletariato nel marasma antifascista, sono evidentemente quegli stessi che impediscono la costituzione di un fronte di classe del proletariato per le sue battaglie rivendicative.
Gli ultimi mesi, in Francia, hanno visto un fiorire straordinario di programmi, di piani, di organismi antifascisti, ma ciò non ha impedito affatto a Doumergue di ridurre massicciamente gli stipendi e le pensioni, segnali per le diminuzioni dei salari che il capitalismo francese ha intenzione di generalizzare. Se la centesima parte dell’attività sviluppata intorno all’antifascismo fosse stata diretta verso la costituzione di un solido fronte della classe operaia per lo scatenamento di uno sciopero generale per la difesa delle rivendicazioni immediate, avremmo avuto con assoluta certezza che, da una parte, le minacce repressive non avrebbero avuto il loro corso, dall’altra, il proletariato, una volta raggruppato per i suoi interessi di classe, avrebbe ripreso fiducia in se stesso, operando così una modificazione della situazione da dove sarebbe sorto nuovamente il problema del potere, nella sola forma in cui può essere posto per la classe operaia: la dittatura del proletariato.
Da tutte queste considerazioni elementari deriva che l’antifascismo, per essere giustificato, dovrebbe basarsi sull’esistenza di una classe antifascista: la politica antifascista dovrebbe derivare da un programma inerente a questa classe. Che non sia possibile arrivare a tali conclusioni risulta non solo dalle più semplici formulazioni del marxismo, ma anche da elementi tratti dalla situazione attuale in Francia. In effetti, il problema pone immediatamente dei limiti da assegnare all’antifascismo. A chi dovrebbe limitarsi alla sua destra? A Doumergue che è là per difendere la Repubblica, a Herriot che partecipa alla “tregua” per proteggere la Francia dal fascismo, a Marquet che pretende di rappresentare “l’occhio del socialismo” nell’Unione Nazionale, ai Giovani Turchi del partito radicale, semplicemente ai socialisti, o infine, perché no anche al diavolo, purché l’inferno sia lastricato di antifascismo? Una posizione concreta del problema prova che la formula dell’antifascismo serve solo gli interessi della confusione e prepara la disfatta certa della classe operaia.
Al posto di procedere con delle modifiche sostanziali delle rivendicazioni della classe operaia, il dovere imperioso dei comunisti consiste nel determinare il raggruppamento della classe operaia intorno alle sue rivendicazioni di classe ed all’interno dei suoi organismi di classe: i sindacati. (…) In effetti, noi non ci basiamo sulla nozione formale del sindacato, ma sulla considerazione fondamentale che -come abbiamo già detto- non ponendosi il problema del potere, bisogna scegliere degli obiettivi più limitati, ma sempre di classe per la lotta contro il capitalismo. E l’antifascismo determina delle condizioni in cui la classe operaia non solo va ad essere confusa per quanto riguarda le sue minime rivendicazioni economiche e politiche, ma vedrà compromessa ogni sua possibilità di lotta rivoluzionaria e si troverà esposta a diventare preda del precipizio dei contrasti del capitalismo, cioè della guerra, prima di ritrovare la possibilità di iniziare la battaglia rivoluzionaria per l’instaurazione della società di domani.
Bilan n° 7, maggio 1934.
1. Movimento insurrezionale del febbraio 1934.
2. Bilan designa così i partiti stalinisti. Questo termine proviene dal fatto che nel mezzo degli anni 1920 Stalin aveva adottato una posizione “centrista” tra la sinistra, rappresentata principalmente da Trotsky, e la destra il cui porta-parola era Bukarin e che preconizzava una politica favorevole ai kulaki (contadini ricchi) ed ai piccoli capitalisti.
3. Nome che si danno i trotskysti negli anni 1930.
In quest'articolo faremo una presentazione critica del libro Expectativas fallidas - Espaòa 1934-39 (Aspettative Fallite - Spagna 1934-39), apparso in Spagna nell'autunno '99. Il libro riunisce diverse prese di posizione della corrente comunista dei consigli sulla guerra di Spagna; si tratta di testi di Mattick, Korsch e Wagner, assieme ad un'introduzione di Cajo Brendel, uno dei membri ancora viventi di quella corrente. In questa sede non analizzeremo la storia di questa corrente politica proletaria, che -in continuità con la battaglia negli anni '20 del KAPD, di Pannekoek e di altri, contro la degenerazione ed il passaggio nel campo del capitale dei partiti comunisti- ha proseguito la sua lotta negli anni '30, nel cuore della controrivoluzione, difendendo le posizioni proletarie ed arricchendole in modo considerevole (1).
Per quanto ci riguarda, in quanto militanti della Sinistra Comunista, è con grande interesse che accogliamo la pubblicazione dei documenti di questa corrente. Purtroppo Aspettative fallite presenta una scelta "molto selettiva" dei documenti del comunismo dei consigli sulla guerra del '36. Mette insieme i testi più confusi di questa corrente, quelli che fanno più concessioni alla mistificazione antifascista e più inclini ad adottare idee anarchiche. Mentre esistono dei documenti del comunismo dei consigli che denunciano l'arruolamento ed il massacro del proletariato in un conflitto imperialista che opponeva due frazioni borghesi rivali, i testi pubblicati nel libro trasformano questo massacro imperialista in un "tentativo di rivoluzione proletaria". Mentre ci sono documenti del GIK (2) che denunciano la trappola dell'antifascismo, i testi del libro sono estremamente ambigui rispetto a questa posizione. Mentre esistono prese di posizione del comunismo dei consigli che denunciano chiaramente la CNT come una forza sindacale che ha tradito gli operai, i testi del libro la presentano come un'organizzazione rivoluzionaria.
Uno dei responsabili della redazione, Sergio Rosés, sottolinea che "il consiliarismo, o meglio i consiliaristi, sono, a grandi linee, un insieme eterogeneo di individui e di organizzazioni, situati ai margini e di fronte al leninismo e che si richiamano al marxismo rivoluzionario". Tuttavia, guarda caso, di tutto quello che è stato scritto da questo "insieme eterogeneo", si è scelto di pubblicare, omogeneamente, solo il peggio.
Non ci interessa qui dare un giudizio morale sulle intenzioni dei compilatori della raccolta. Ma è chiaro che un lettore che non conosca già a fondo le posizioni del comunismo dei consigli, attraverso questa raccolta se ne farà un'idea abbastanza ridotta e deformata, immaginandole vicine a quelle della CNT e sostenitrici critiche della sua pretesa "rivoluzione sociale antifascista". Da questo punto di vista, al di là delle intenzioni individuali, questo libro obiettivamente porta il suo piccolo contributo alla campagna di propaganda anticomunista della borghesia. Questa campagna può prendere un aspetto grossolano e brutale (alla "Libro Nero del Comunismo", per intenderci); ma un simile approccio risulta controproducente verso gli elementi proletari che sono alla ricerca delle posizioni rivoluzionarie, per i quali è necessaria una versione più raffinata, un abbellimento dell'anticomunismo con un pò di facciata rivoluzionaria, come, per esempio, l'esaltazione dell'anarchia come alternativa al "fallimento" del marxismo o la contrapposizione del "modello" della "rivoluzione spagnola del '36" al "colpo di stato di bolscevico" dell'Ottobre '17. In questo orientamento politico, le debolezze e simpatie di una parte della corrente consiliarista per l'anarchia vengono proprio a fagiolo, come puntualizza Sergio Rosés: "Infine -ed è una caratteristica che la differenzia dalle altre correnti della sinistra marxista rivoluzionaria- abbiamo una presa in considerazione del fatto che, nel corso di questa rivoluzione, l'anarchismo spagnolo ha dimostrato il suo carattere rivoluzionario, "sforzandosi di convertire le frasi rivoluzionarie in realtà", per usare le sue stesse parole".
Malgrado gli sforzi sistematici di denigrazione del marxismo, gli elementi che cercano una coerenza rivoluzionaria finiscono per trovare insufficiente e confusa l'alternativa anarchica e si sentono attirati dalle posizioni marxiste. E' per questo che uno degli aspetti più insidiosi della campagna anticomunista è quello di presentare il comunismo dei consigli come una specie di "ponte" verso l'anarchia, come "un'accettazione dei punti positivi della dottrina libertaria" e, soprattutto, come un nemico mortale del "leninismo" (3).
Il contenuto di "Aspettative fallite" porta sicuramente acqua a questo mulino. Anche se Cajo Brendel nell'introduzione al libro insiste sulla differenza netta esistente fra comunismo dei consigli ed anarchia, aggiunge tuttavia: "I comunisti dei consigli (...) segnalarono che gli anarchici spagnoli erano il gruppo sociale più radicale, e che avevano ragione nel mantenere la posizione per cui la radicalizzazione della rivoluzione era la condizione per sconfiggere il franchismo, mentre "democratici" e "comunisti" cercavano di ritardare la rivoluzione a dopo che il franchismo fosse stato sconfitto. Questa divergenza politica e sociale ha marcato la differenza fra il punto di vista democratico e quello dei comunisti dei consigli". (4)
Con quest'articolo vogliamo combattere questo tentativo di confondere anarchia e comunismo dei consigli, che costituisce una specie di aggressiva "Offerta Pubblica di Acquisto", una specie di tentativo di scalata -per riprendere il linguaggio degli speculatori di Borsa- nei confronti di una corrente proletaria: si fabbrica una versione deformata ed edulcorata della storia di questa corrente, sfruttando i suoi errori e le sue debolezze per fabbricare un surrogato di marxismo con cui seminare la confusione e l'incertezza fra gli elementi alla ricerca di una coerenza rivoluzionaria. Il nostro obiettivo è la difesa del comunismo dei consigli. Per questo, riguardo alle lezioni della Spagna '36, pur criticando le debolezze che appaiono nei testi pubblicati nel libro, ricorderemo le corrette posizioni che all'epoca i gruppi più chiari di questa corrente hanno saputo difendere.
Una rivoluzione antifeudale?
Per mantenere il proletariato legato mani e piedi alla difesa dell'ordine capitalista, i socialisti e gli stalinisti hanno messo l'accento sul fatto che la Spagna era un paese estremamente arretrato, con forti residui di feudalesimo, e che, per questa ragione, i lavoratori dovevano lasciare da parte ogni aspirazione ad una rivoluzione socialista ed accontentarsi di una "rivoluzione democratica". Una parte della corrente del comunismo dei consigli condivideva questa posizione, anche se ne rigettava le conseguenze politiche. Bisogna dire che questa non era la posizione del GIK che affermava con chiarezza che "l'epoca in cui una rivoluzione borghese era possibile è superata. Nel 1848, si poteva ancora applicare questo schema, ma oggi la situazione è completamente cambiata (...) Noi non siamo di fronte ad una lotta fra la borghesia emergente ed il feudalesimo che predomina ovunque, ma, al contrario, ad una lotta fra il proletariato ed il capitale monopolista". (marzo 1937)
E' comunque certo che la corrente comunista dei consigli provava una grande difficoltà nel chiarire questo problema dato che, nel 1934, lo stesso GIK aveva adottato le famose "Tesi sul bolscevismo" che si erano basate sull'arretratezza della Russia e sul peso enorme del contadiname per giustificare l'identificazione della rivoluzione russa con una rivoluzione borghese e del partito bolscevico come un partito borghese giacobino. Nell'adottare una simile posizione, il comunismo dei consigli si era ispirato a quella espressa da Gorter nel 1920, quando, nella sua "Risposta al compagno Lenin", aveva differenziato due gruppi di paesi: da una parte quelli arretrati, in cui sarebbero valide le tattiche difese da Lenin del parlamentarismo rivoluzionario, della partecipazione nei sindacati, etc., dall'altra quelli a capitalismo pienamente sviluppato, in cui la sola tattica possibile era la lotta diretta per il comunismo (vedi La Sinistra Comunista Olandese). Tuttavia, di fronte agli avvenimenti del '36, il GIK fu capace di rimettere in questione quest'analisi erronea (anche se, purtroppo, solo in maniera implicita), mentre altre correnti consiliariste, e cioè quelle raggruppate nel libro Aspettative fallite, hanno continuato a difenderla.
La Spagna del 1931 aveva certamente reso più facile cadere in quest'errore: la monarchia appena rovesciata si era caratterizzata per una corruzione ed un parassitismo cronico; la situazione contadina era sconvolta; esisteva una concentrazione della proprietà terriera in poche mani, fra cui quelle dei famosi 16 Grandi di Spagna oltre che dei piccoli signori andalusi, mentre in regioni come la Galizia o l'Estremadura sopravvivevano perfino costumi feudali.
Il fatto è che l'analisi in sé della situazione di un paese può portare ad una distorsione della realtà. E' a livello storico e mondiale che è necessario considerarla. La storia ci ha insegnato che il capitalismo è perfettamente capace di allearsi con le frazioni feudali, anche in modo durevole, a seconda delle diverse fasi del suo sviluppo. In paesi simbolo della rivoluzione borghese, come l'Inghilterra, sopravvivono istituzioni feudali come la monarchia, con il suo contorno di titoli nobiliari graziosamente concessi. Lo sviluppo del capitalismo in Germania è avvenuto sotto la sferza di Bismarck, il rappresentante dei proprietari terrieri, gli junkers. In Giappone è stata la monarchia feudale che ha portato all'avvio dello sviluppo capitalistico, con "l'era Meiji", cominciata nel 1869; ancora oggi la società giapponese è condizionata dalle sopravvivenze feudali. Il capitalismo è capacissimo di svilupparsi in presenza di altri modi di produzione; anzi, come ha dimostrato Rosa Luxembourg, questa "coabitazione" gli ha fornito un terreno privilegiato di sviluppo. (6)
Ma la questione essenziale è: a che punto è lo sviluppo del capitalismo a livello mondiale? Questo è stato il criterio decisivo per i marxisti agli inizi del XX secolo, quando ci si è dovuti chiedere se all'ordine del giorno c'era ancora la rivoluzione borghese o la rivoluzione proletaria. E' la posizione che ha ispirato Lenin nelle sue Tesi di Aprile, per caratterizzare la rivoluzione in corso in Russia come proletaria e socialista, di fronte alla posizione menscevica che gli attribuiva un carattere democratico e borghese sulla base dell'arretratezza della Russia, del peso del contadiname e della sopravvivenza dell'apparato feudale zarista. Lenin, senza negare la realtà di queste specificità nazionali, metteva l'accento sulla realtà a livello mondiale, caratterizzata dalla "necessità obiettiva del capitalismo che, sviluppandosi, si è trasformato in imperialismo ed ha dato luogo alla guerra imperialista. Questa guerra ha portato tutta l'umanità ad un passo dalla fine, alla quasi rovina di ogni forma di cultura, all'abbrutimento ed alla morte di milioni e milioni di uomini. Non ci sono altre vie di uscita se non la rivoluzione del proletariato". ("I compiti del proletariato nella nostra rivoluzione")
La rivoluzione del 1917 con tutta l'ondata rivoluzionaria che vi ha fatto seguito, la situazione in Cina nel 1923-27 (7), oltre che la situazione in Spagna nel 1931 mostrano chiaramente che il capitalismo ha cessato di essere un modo di produzione progressivo, che è entrato nella sua fase di decadenza, di contraddizioni irreversibili con lo sviluppo delle forze produttive. In ogni paese, quali che siano l’arretratezza e le vestigia feudali, è la rivoluzione comunista ad essere all'ordine del giorno. Su questo punto c'è un accordo netto fra Bilan ed il GIK. Per contro, la loro posizione si differenzia rispetto alle correnti consilairiste rappresentate in Aspettative fallite.
Le ambiguità di fronte alla mistificazione antifascistaI testi contenuti in questo libro mostrano come i suoi autori si siano lasciati impressionare dall'intensa propaganda borghese dell'epoca, che presentava il fascismo come il male assoluto, il concentrato dell'autoritarismo, della repressione, del totalitarismo, dell'arroganza burocratica (8), di fronte al quale la democrazia, malgrado i suoi "innegabili difetti", costituirebbe non solo una barriera, ma anche "il male minore". Mattick ci dice che "gli operai, da pare loro, sono obbligati dall'istinto di conservazione, a dispetto di tutte le differenze organizzative ed ideologiche, ad un fronte unificato contro il fascismo, in quanto nemico più immediato e diretto (...). Gli operai, senza stare a preoccuparsi se i loro obiettivi sono democratico-borghesi, capitalisti di Stato, anarco-sindacalisti o comunisti, sono obbligati a lottare contro il fascismo se vogliono non solamente evitare l'aggravarsi della loro situazione, ma puramente e semplicemente restare in vita". E' certamente vero che gli operai sentono il bisogno di "restare in vita” ma il "nemico più immediato e diretto" non è in realtà il fascismo, ma lo Stato repubblicano ed i suoi rappresentanti più "radicali": la CNT ed il POUM. Sono loro che gli impediscono di restare in vita, inviandoli al massacro sui fronti militari contro Franco. Sono loro che "puramente e semplicemente" gli impediscono di sopravvivere, facendogli accettare il razionamento e rinunciare ai miglioramenti salariali strappati nelle giornate del Luglio '36.
L'argomento per cui le circostanze non permettono di parlare di rivoluzione né tanto meno di rivendicazioni, ma "puramente e semplicemente di restare in vita" è sviluppato da Helmuth Wagner: "I lavoratori spagnoli non possono lottare sul serio contro le direzioni sindacali perché questo provocherebbe il crollo totale dei fronti militari(!). Debbono lottare contro i fascisti per salvare la pelle, debbono accettare qualsiasi aiuto da dovunque provenga. Non si pongono la questione di sapere se il risultato di tutto questo sarà il capitalismo o il socialismo: sanno solo che debbono lottare fino alla fine". Ironicamente, lo stesso testo che denuncia che "la guerra di Spagna (va acquisendo) il carattere di un conflitto internazionale tra le grandi potenze" si oppone al fatto che i lavoratori provochino il crollo dei fronti militari! La confusione antifascista porta a dimenticare la posizione internazionalista del proletariato, quella che fu difesa da Pannekoek ed altri precursori del comunismo dei consigli, fianco a fianco con Lenin, Rosa Luxembourg, etc. e cioè puntare, attraverso lo sviluppo della lotta di classe, al "crollo dei fronti militari".
Forse che la Repubblica non aveva costituito per i lavoratori spagnoli una minaccia altrettanto evidente di quella fascista? I suoi 5 anni di vita a partire dal 1931 sono scanditi da una serie di massacri: Alto Llobregat nel 1932, Casas Viejas nel 1933, le Asturie nel 1934. Il Fronte Popolare stesso, in seguito alla sua vittoria elettorale nel febbraio1936, si è presto incaricato di riempire le carceri di militanti operai... E' comodo dimenticare tutto questo in nome di un'astrazione intellettuale che presenta il fascismo come "la minaccia assoluta per la vita umana". In nome di questa astrazione H.Wagner critica una parte degli anarchici olandesi che denunciano "ogni azione che comporti un aiuto agli operai spagnoli, come l'invio di armi" pur riconoscendo allo stesso tempo che "le armi moderne inviate dall'estero contribuiscono allo scontro militare e, perciò stesso, il proletariato spagnolo si sottomette agli interessi imperialisti"! Nel modo di ragionare di Wagner "sottomettersi agli interessi imperialisti" sarebbe qualcosa di "politico", "morale", che non ha niente a che vedere con la lotta "materiale", "per la sopravvivenza". Purtroppo è proprio la sottomissione del proletariato agli interessi imperialisti a farne carne di cannone nelle trincee.
Mattick si rifugia in un fatalismo più terra terra: "Non si può fare altro che spingere tutte le forze antifasciste alla lotta contro il fascismo, indipendentemente dal fatto che i loro desideri vadano in tutt'altra direzione. Questa situazione non è stata cercata, ma è inevitabile e ciò corrisponde perfettamente al fatto che la storia è determinata dalla lotta di classe e non da organizzazioni particolari, da interessi specifici, da questo dirigente o da quell'idea". Mattick dimentica solo che il proletariato è una classe storica; e questo significa concretamente che, in situazioni in cui il suo programma non può determinare l'evoluzione a breve o a medio termine degli eventi, non può far altro che mantenere le sue posizioni e continuare ad approfondirle, anche se per tutto un periodo questo si riduce all'attività di una ristretta minoranza. Di conseguenza, ciò che quella situazione rendeva "inevitabile" dal punto di vista degli interessi immediati e storici del proletariato, era la denuncia dell'antifascismo, ed è esattamente quello che fu fatto non solo da Bilan, ma anche dal GIK che denunciava: "La lotta in Spagna riveste il carattere di un conflitto internazionale fra le grandi potenze imperialiste. Le armi moderne inviate dall'estero hanno spostato il conflitto sul piano militare e, di conseguenza, il proletariato spagnolo è stato sottomesso agli interessi imperialisti". (aprile 1937)
Mattick si abbassa al livello dei lacché "operai" della borghesia che ci ripetono che bisogna sbarazzarsi delle "teorie" e degli "ideali" e che bisogna "badare al sodo". Questo "sodo" sarebbe la lotta sul terreno dell'antifascismo, che ci viene presentata come qualcosa di "pratico" e "più immediato". L'esperienza storica ha più volte dimostrato che mettendosi su questa via il proletariato finisce per prendere mazzate sia dai suoi nemici fascisti che dai suoi "amici" antifascisti.
Mattick sostiene che "la lotta contro il fascismo rimanda la lotta decisiva fra borghesia e proletariato e non permette ai due campi che delle mezze misure che consentono lo sviluppo tanto della rivoluzione che delle forze controrivoluzionarie; ed entrambe le cose sono allo stesso tempo un ostacolo per la lotta antifascista". E' tutto, totalmente, falso. La "lotta contro il fascismo" non è una specie di tregua fra borghesia e proletariato, che permetta di concentrarsi "contro il nemico comune", mentre ciascuna classe rafforza le sue posizioni in vista della lotta decisiva. Questa non è altro che politica-spettacolo per ingannare i proletari. Gli anni '30 hanno dimostrato che la sottomissione del proletariato al "fronte antifascista" ha significato che la "lotta decisiva" era stata vinta dalla borghesia, che aveva quindi le mani libere per massacrare gli operai, portarli alla guerra ed imporgli uno sfruttamento feroce. L'orgia antifascista in Spagna, il successo del Fronte Popolare francese nell'opera di inquadramento degli operai dietro la bandiera dell'antifascismo, hanno completato le condizioni politiche ed ideologiche per lo scatenamento della II guerra mondiale.
La sola lotta possibile contro il fascismo è la lotta del proletariato contro tutte le frazioni della borghesia, sia quella fascista che quella antifascista, dato che, come ricorda Bilan"le esperienze provano che per la vittoria del fascismo le forze antifasciste del capitalismo sono altrettanto necessarie delle forze fasciste stesse" (9). Senza voler stabilire paralleli abusivi fra situazioni storicamente molto diverse, gli operai russi si mobilitarono rapidamente contro il golpe di Kornilov nel settembre 1917 e la stessa cosa si è verificata nei primi momenti del colpo di Stato franchista del '36. In entrambi i casi la prima risposta è la lotta sul terreno di classe contro una frazione della borghesia senza fare il gioco della frazione rivale. C'è tuttavia una differenza sostanziale tra la Russia 1917 e la Spagna 1936. Il primo esempio si situa in un corso storico verso la rivoluzione, di cui fu il primo episodio, mentre il secondo esempio si iscrive in un periodo di controrivoluzione trionfante a livello mondiale. Mentre nel primo caso la risposta operaia porta ad un rafforzamento del potere dei Soviet ed apre la strada all'abbattimento del potere borghese, nel secondo caso non c'è il minimo segno di organizzazione autonoma degli operai, che vengono rapidamente incanalati verso il rafforzamento del potere borghese, grazie alla trappola antifascista.
Sotto lo shock del massacro del maggio '37 effettuato dalle forze repubblicane, Mattick riconosce tardivamente che "il Fronte Popolare non è per i lavoratori il male minore, ma semplicemente un'altra forma della dittatura capitalista che si aggiunge al fascismo. La lotta deve essere rivolta contro il capitalismo". (da "Via le barricate! Il fascismo di Mosca in Spagna). E, criticando un testo dell'anarchico tedesco Rudolph Rocker, afferma che "democrazia e fascismo servono gli interessi dello stesso sistema. Per questa ragione, i lavoratori devono fare la guerra ad entrambi. Devono combattere il capitalismo dappertutto, indipendentemente dagli abiti che indossa o dal nome che si da".
Rivoluzione sociale o inquadramento del proletariato per la guerra imperialista?Una delle confusioni che ha pesato sulla generazione di operai nel XX secolo consiste nel considerare gli avvenimenti della Spagna '36 come una "rivoluzione sociale". Con l'eccezione di Bilan, del GIK e del Gruppo Lavoratori Marxisti del Messico (10), la maggior parte dei rari gruppi proletari dell'epoca hanno contribuito a questa confusione: Trotsky ed i trotskisti, l’Union Communiste, la LCI (Ligue Communiste Internationaliste de Belgique, animata da Hainaut), una buona parte dei gruppi del comunismo dei consigli, la Frazione bolscevico-leninista di Spagna animata da Munis ed infine la minoranza che ruppe con Bilan proprio su questa posizione (11).
Il ritornello della "rivoluzione sociale spagnola" è stato cantato su tutti i toni dalla borghesia, anche dai suoi settori più conservatori, allo scopo evidente di far ingoiare agli operai le loro più grandi sconfitte come se fossero delle grandi vittorie. Il ritornello della rivoluzione spagnola "più profonda e più sociale della rivoluzione russa" è particolarmente assordante. La borghesia oppone la seducente "rivoluzione economico-sociale spagnola" alla rivoluzione russa, il cui aspetto politico è considerato "piatto" ed "impersonale". La borghesia canta con gorgheggi romantici la "partecipazione dei lavoratori alla gestione dei loro affari", opponendola all'immagine agghiacciante e tenebrosa che viene fornita delle macchinazioni politiche dei bolscevichi.
Anche nel libro è possibile trovare qualche testo (12) che denuncia dettagliatamente questa impostura, che dal canto suo la borghesia non smette di alimentare, allo scopo evidente di denigrare le autentiche esperienze rivoluzionarie del proletariato ( in Russia '17 e durante l'ondata rivoluzionaria mondiale che vi ha fatto seguito). Gli altri testi riprodotti, per contro, contribuiscono ad infiorarla. Mattick ad esempio dice che "l'iniziativa autonoma dei lavoratori ha rapidamente creato una situazione molto differente e trasformato la lotta politica difensiva contro il fascismo nell'inizio di una reale rivoluzione sociale". Questa affermazione è una lamentevole dimostrazione di miopia localista, in quanto non prende assolutamente in considerazione le condizioni obiettive dominanti a livello mondiale, che sono peraltro decisive per la lotta di classe: la successione di disfatte storiche che il proletariato aveva appena subito, conclusesi con l'ascesa al potere di Hitler in Germania, il tradimento dei partiti comunisti trasformatisi in agenti dell'Union Sacrée al servizio del capitale, in nome dei famigerati Fronti Popolari. Come chiarito all'epoca dalle analisi di Bilan e del GIK, il corso storico non era più orientato verso la rivoluzione, ma verso la guerra generalizzata.
Al modo di ragionare di Mattick si contrappone infatti il metodo utilizzato dal GIK, che affermava: "Senza la rivoluzione mondiale, siamo perduti, diceva Lenin parlando della Russia. Questo è particolarmente vero per la Spagna... Lo sviluppo della lotta di classe in Spagna dipende dal suo sviluppo nel mondo intero. Ma il contrario è ugualmente vero. La rivoluzione proletaria è internazionale, così come la reazione. Ogni azione del proletariato spagnolo troverà un’eco nel resto del mondo e, lì, ogni esplosione della lotta di classe è un sostegno ai combattenti proletari in Spagna". Il metodo di ragionamento di Mattick si avvicina a quello degli anarchici a mano a mano che si allontana dal marxismo. Come gli anarchici, non si prende la pena di analizzare né il rapporto delle forze tra le classi a livello internazionale, né la maturazione della coscienza del proletariato, la sua capacità di dotarsi di un partito di classe o di formare dei consigli operai. Così come non prende in considerazione la sua capacità di scontrarsi con il capitale nei paesi chiave né l'evoluzione della sua autonomia politica... Tutto questo è ignorato, per inginocchiarsi di fronte al Santo Graal della "iniziativa autonoma dei lavoratori" . Un'iniziativa che, imbrigliata nei limiti dell'unità di produzione o del municipio, perde ogni sua potenziale forza e si trova recuperata negli ingranaggi del capitale ed utilizzata a suo profitto. (13)
E' giusto affermare che, nel capitalismo decadente, ogni volta che gli operai arrivano ad affermarsi sul proprio terreno di classe, si intravede quella che Lenin chiama "l'idra della rivoluzione". Questo terreno di classe può tanto rafforzarsi attraverso l'estensione e l'unificazione delle lotte, tanto essere recuperato attraverso le "occupazioni" e le "esperienze di autogestione" tanto care agli anarchici ed ai consiliaristi. Ogni volta che questo terreno di classe arriva ad affermarsi, lo fa comunque in modo molto limitato e soggetto a passi indietro. Il capitalismo di Stato contro questi sforzi spontanei della classe operaia tiene pronta tutta una batteria di apparati di mistificazione e controllo politico (sindacati, partiti di "sinistra", falsi coordinamenti di base, etc.), e per buona misura tutto il suo perfezionato apparato repressivo. In oltre, come il proletariato ha potuto imparare sulla propria pelle dalla Comune di Parigi in poi, le diverse nazioni capitaliste sono capaci, all'occorrenza, di unirsi contro di lui. Per questo, il movimento verso una prospettiva rivoluzionaria richiede uno sforzo straordinario da parte della classe operaia e non può realizzarsi che nel contesto di una dinamica internazionale che veda la costituzione del partito mondiale, quella dei consigli operai ed il loro scontro con lo Stato capitalista, e questo almeno nei principali paesi industrializzati.
Gli errori di alcuni comunisti dei consigli a proposito della "autonomia" raggiungono il culmine nei due testi di Korsch sulle collettivizzazioni: "Economia e politica nella Spagna rivoluzionaria" e "La collettivizzazione in Spagna". Per Korsch, la sostanza della "rivoluzione spagnola" si trova nelle collettivizzazioni nell'industria e nell'agricoltura. Gli operai si sarebbero creati al loro interno "uno spazio di autonomia", avrebbero deciso "liberamente" e lasciato briglia sciolta alla loro "iniziativa e creatività"; e tutte queste cose costituirebbero una "rivoluzione"...Strana rivoluzione quella che si sviluppa senza infastidire lo Stato borghese, lasciando che il suo esercito, la sua polizia, i suoi apparati di propaganda, le sue prigioni e camere di tortura continuino a funzionare a pieno ritmo!
Come abbiamo spiegato in dettaglio nel nostro testo "Il mito delle collettività anarchiche", la "libera decisione" degli operai poteva esprimersi solo nel decidere di fabbricare proiettili e cannoni, nel riorientare industrie come quelle dell'auto verso la produzione di guerra. "L'iniziativa e la creatività" degli operai e dei contadini si è concretizzata in giornate di lavoro lunghe 12 ed anche 14 ore, in un clima di repressione feroce e di sospensione del diritto di sciopero, sotto la minaccia di essere accusati di sabotaggio della lotta antifascista.
Basandosi su un opuscolo di propaganda della CNT, Korsch afferma "che una volta eliminata la resistenza dei vecchi dirigenti politici ed economici, gli operai in armi poterono direttamente assumere sia i compiti militari, quanto quelli, in positivo, della prosecuzione della produzione in nuove forme". Ed in cosa consisterebbero queste "nuove forme"? Korsch ce lo chiarisce subito: "Noi comprendiamo il processo per cui certe branche dell'industria, che sono prive delle materie prime acquistabili solo all'estero o che non rispondono alle esigenze immediate della popolazione, si adattano rapidamente per fornire il materiale bellico più urgente" (Questo opuscolo) "ci racconta la commovente storia degli strati più poveri della classe operaia, che sacrificano i miglioramenti delle condizioni di vita appena ottenuti per collaborare alla produzione di guerra ed aiutare le vittime ed i rifugiati che arrivano dai territori occupati da Franco". "L'azione rivoluzionaria" propostaci da Korsch consiste dunque nel trasformare operai e contadini in schiavi dell'economia di guerra. Ma è proprio quello che vogliono i padroni: che i lavoratori si sacrifichino volontariamente per la produzione! Che, oltre a lavorare come dannati, dedichino ogni loro pensiero, ogni loro iniziativa, tutta la loro creatività, a migliorare la produzione! Come non ricordare a questo proposito i "rivoluzionarissimi" "circoli di qualità", di recente introdotti dalle Direzioni Aziendali in fabbriche come la FIAT?
Korsch prosegue constatando che "nella sua prima, eroica fase, il movimento spagnolo ha tralasciato la difesa politica e giuridica delle nuove condizioni economiche e sociali ottenute". Il movimento, in effetti, ha tralasciato giusto l'essenziale: la distruzione dell'apparato statale borghese, che era l'unico modo di "salvaguardare" una qualsiasi conquista sociale o economica dei lavoratori. In oltre, "le conquiste rivoluzionarie dei primi giorni furono perfino volontariamente sacrificate dai lavoratori stessi, nel vano tentativo di appoggiare l'obiettivo centrale della lotta comune contro il fascismo". Basta questa affermazione di Korsch per smentire tutte le speculazioni sulla sedicente "rivoluzione" spagnola, mettendo in evidenza quello che in realtà è successo: l'arruolamento degli operai nella guerra imperialista, sotto la maschera dell’antifascismo.
Queste elucubrazioni di Korsch vanno nella direzione opposta alle prese di posizione del GIK, che, da parte sua, affermava chiaramente che "le fabbriche collettivizzate sono messe sotto il controllo sindacale e lavorano per le esigenze militari...Non hanno niente a che vedere con una gestione autonoma da parte degli operai!... La difesa della rivoluzione è possibile solo attraverso la dittatura del proletariato, basata sui Consigli Operai e non sulla base di una coalizione di partiti antifascisti. La distruzione dello Stato e l'esercizio delle funzioni centrali del potere da parte dei lavoratori stessi sono l'asse della rivoluzione proletaria" (Ottobre 1936).
Le concessioni alla CNT ed all'anarchia
Il comunismo dei consigli si trova in difficoltà quando si tratta di abbordare correttamente la questione del partito del proletariato, la natura essenzialmente politica della rivoluzione proletaria, il bilancio della rivoluzione russa, che scambia per "borghese", etc (14). Sono queste debolezze che lo rendono permeabile dall'anarchia e dall’anarco-sindacalismo.
Così si spiega il fatto che Mattick nutra grandi speranze sulla CNT: "Guardando alla situazione interna spagnola, un capitalismo di Stato controllato dai social-stalinisti non appare probabile per il semplice motivo che il movimento operaio anarco-sindacalista prenderebbe probabilmente il potere prima di sottomettersi ad una dittatura social-democratica".
Queste speranze erano fondate in aria: la CNT era padrona della situazione, ma non utilizzò questo rapporto di forze per prendere il potere e costruire il comunismo libertario. Al contrario, assunse il ruolo di estremo bastione dello Stato capitalista, rinunciando tranquillamente a "distruggere lo Stato", inviando dei ministri anarchici a partecipare tanto al governo locale catalano, quanto al governo nazionale, ed utilizzò tutto il suo credito per mettere in riga i lavoratori nelle fabbriche ed inviarli al fronte. Una tale contraddizione totale con i principi proclamati e straproclamati per decenni non si può spiegare con il tradimento di qualche capo o dell'intero Comitato Nazionale della CNT, ma come un risultato, da una parte della natura antioperaia dei sindacati nella decadenza del capitalismo, dall'altra delle deficienze di fondo della dottrina anarchica. (15)
Mattick fa mille acrobazie verbali per ignorare la realtà: "In quest'organizzazione (si tratta della CNT) è fortemente presente l'idea che la rivoluzione si possa fare solo dal basso, attraverso l'azione spontanea e l'iniziativa autonoma dei lavoratori, anche se queste sono state spesso tradite. Il parlamentarismo e l'economia diretta dai lavoratori sono considerate come delle falsificazioni operaie ed il capitalismo di Stato è messo sullo stesso piano di qualsiasi altra classe della società sfruttatrice. Nel corso della guerra civile, l'anarco-sindacalismo è stato l'elemento rivoluzionario più audace, che si è sforzato di trasformare le frasi rivoluzionarie in realtà concreta”.
In effetti la CNT non ha trasformato le sue frasi rivoluzionarie in realtà, ma le ha smentite parola per parola. Le sue sparate antiparlamentari si sono trasformate in uno sfrontato sostegno al Fronte Popolare in occasione delle elezioni del Febbraio '36. Le sue frasi antistataliste si sono trasformate nella difesa dello Stato borghese "antifascista". La sua opposizione al "dirigismo economico" si è concretizzata nella centralizzazione estrema dell'industria e nella sottomissione dell'agricoltura alle esigenze dell'economia di guerra e dell'approvvigionamento delle truppe, a discapito delle popolazioni civili. Sotto la copertura delle collettività, la CNT ha collaborato alla costruzione di un capitalismo di Stato al servizio dell'economia di guerra, come il GIK sottolineava già nel 1931: "La CNT è un sindacato che aspira a prendere il potere in tanto che CNT. Questo deve necessariamente portare ad una dittatura sul proletariato esercitata dalla direzione della CNT (capitalismo di Stato)".
Nei brani precedentemente citati, Mattick abbandona il terreno del marxismo per la fraseologia tipica dell'anarchismo, tipo "rivoluzione dal basso", "iniziativa autonoma", etc. La demagogia sulla "rivoluzione dal basso" è servita ad incastrare i lavoratori in ogni sorta di fronti interclassisti, abilmente manipolati dalla borghesia. Quest'ultima è una maestra nel dissimulare i suoi interessi sotto i discorsi su "quelli che stanno in basso", la cosiddetta "gente", questa massa interclassista che, in fin dei conti, comprende un pò tutti, ad eccezione di quel pugno di guastafeste che non ci sta e contro cui si concentrano tutti gli attacchi. La retorica sulle lotte di "quelli che stanno in basso" fu utilizzata dalla CNT, fino alla nausea, per allineare gli operai con i "compagni" padroni antifascisti, i "compagni" politici antifascisti, i "compagni" militari antifascisti, etc.
Per quanto riguarda poi "l'iniziativa autonoma" si tratta di un'espressione (corretta in sé) che gli anarchici usano per indicare che un'azione non è diretta da militanti "politici" e non ha lo scopo "di arrivare al potere". Ma né la CNT né i libertari della Federazione Anarchica Iberica si preoccuparono minimamente che gli operai fossero subordinati ai dirigenti "politici" repubblicani, tanto di destra che di sinistra, o che la loro pretesa "iniziativa autonoma" consistesse nella difesa delle Stato borghese antifascista.
Mattick sprofonda sempre più nella palude anarchica affermando che "in una simile situazione, le tradizioni federaliste sarebbero di enorme importanza, fornendo il contrappeso necessario ai pericoli del centralismo". La centralizzazione è una forza essenziale della lotta proletaria. L'idea che essa incarni il male assoluto è tipica dell'anarchismo, come espressione della paura dei piccolo-borghesi di perdere il piccolo campicello di "autonomia" in cui possono illudersi di essere i padroni assoluti. Per il proletariato, la centralizzazione è l'espressione pratica dell'unità che esiste al suo interno. Esso ha gli stessi interessi indipendentemente dal settore della produzione o dal paese in cui è sfruttato ed ha lo stesso interesse storico: l'abolizione di questo sfruttamento e l'instaurazione di una società senza classi.
Il problema non è la centralizzazione, ma la divisione della società in classi. La borghesia ha bisogno di uno Stato centralizzato ed il proletariato vi contrappone la centralizzazione dei suoi strumenti di organizzazione e di lotta. Il "federalismo" nei ranghi proletari significa la polverizzazione delle sue forze e delle sue energie, la divisione a seconda degli interessi corporativi, regionali, dovuti alla pressione ambientale dalla società di classe, dei suoi conflitti di interesse, della sua stessa natura. Il federalismo è il veleno che divide i ranghi operai e li disarma di fronte alla centralizzazione dello Stato borghese.
Secondo i dogmi anarchici, la"federazione" è il toccasana contro la burocrazia, la gerarchia e lo Stato. Ma la realtà contraddice questi dogmi. Il dominio delle cricche "federali" ed "autonome" esprime piccoli burocrati altrettanto arroganti e manipolatori dei grandi funzionari dell'apparato di Stato. La gerarchia nazionale è semplicemente rimpiazzata da un insieme di gerarchie, che si muovono a livello di località o di categoria, ma pesano lo stesso sulle spalle dei lavoratori. La struttura statale centralizzata, conquista storica delle borghesia rispetto al feudalesimo, cede il passo a strutture altrettanto statali, ma a livello di dipartimenti o cantoni, ed oppressive come la struttura nazionale, se non più.
La pratica concreta del "federalismo" da parte della CNT-FAI, nel 1936-39, è significativa a questo riguardo. Come riconosciuto dagli stessi anarchici, i quadri dirigenti della CNT occuparono avidamente i posti chiave nelle collettività agrarie, nei comitati di fabbrica o nei reparti militari, comportandosi frequentemente come dei veri e propri tiranni. E quando la disfatta repubblicana apparve inevitabile, una parte dei capetti "libertari" non esitarono a negoziare con i franchisti la conferma delle loro prebende.
L’entusiasmo di Mattick per la CNT comincia a raffreddarsi solo quando prende in considerazione il massacro perpetrato dagli stalinisti nel Maggio '37, con l'evidente complicità della CNT: "I lavoratori debbono anche riconoscere che i capi anarchici, i funzionari dell'apparato della CNT e della FAI si oppongono agli interessi dei lavoratori e che appartengono al campo nemico"; e, più in là “Le frasi radicali degli anarchici non erano pronunciate per essere messe in pratica, ma per garantire all'apparato della CNT il controllo dei lavoratori; 'Senza la CNT, la Spagna antifascista sarebbe ingovernabile’ questa era la loro orgogliosa vanteria".
Tentando di comprendere le ragioni del tradimento, Mattick rivela la profonda penetrazione nelle sue concezioni del virus libertario: "La CNT non si era posta il problema della rivoluzione dal punto di vista della classe operaia, il suo accento si poneva sull'organizzazione stessa. Interveniva a favore dei lavoratori e contava sul loro aiuto, ma non era interessata all'iniziativa autonoma ed all'azione dei lavoratori indipendenti dagli interessi di organizzazione"; "allo scopo di dirigere, o di partecipare alla direzione, (la CNT) finì con l'opporsi ad ogni iniziativa autonoma dei lavoratori e finì quindi per sostenere la legalità, l'ordine ed il governo".
Mattick considera le cose da un punto di vista anarchico: "l'organizzazione" in generale, "il potere" in generale; cioè l'organizzazione ed il potere in quanto categorie assolute, intrinsecamente oppressive delle tendenze naturali alla"libertà" ed alla "iniziativa" dei singoli lavoratori.
Sfortunatamente tutto ciò non ha niente a che vedere con l'esperienza storica e con il metodo marxista. Le organizzazioni sono o borghesi o proletarie. Un'organizzazione borghese è per necessità nemica dei lavoratori e deve dunque essere "burocratica" e soffocante. Un'organizzazione proletaria che fa sempre maggiori concessioni alla borghesia, si allontana sempre di più dai lavoratori, si estranea da loro e finisce per opporsi ai loro interessi; nel corso di questo stesso processo, tende a "burocratizzarsi" ed a diventare repressiva nei confronti delle iniziative della classe. Ma questo non significa affatto che la classe operaia non deve organizzarsi, sia a livello della classe nel suo insieme (assemblee generali e consigli operai), sia a livello della sua avanguardia (partiti ed organizzazioni politiche). L'organizzazione resta per la classe l'arma per eccellenza, lo strumento della sua iniziativa e della sua autonomia politica.
La questione del potere si pone negli stessi termini. Sarebbe stata la "sete di potere" a spingere la CNT ad opporsi ai lavoratori. La grande idea sarebbe che "il potere corrompe" di per sé, quando nella realtà quello che corrompe un'organizzazione, fino a trasformarla in un nemico della classe operaia, non è altro che la sua progressiva subordinazione al programma ed agli obbiettivi del capitalismo. Per quello che riguarda la CNT, una ragione di fondo supplementare si trovava nel fatto che come sindacato non poteva mantenersi come organizzazione di masse permanente nel periodo decadente del capitalismo, senza integrarsi in un modo o nell'altro nello Stato capitalista. Ma questo non impedisce a Mattick di lanciare il fuoco d’artificio finale: "La CNT parlava da anarco-sindacalista, ma agiva da bolscevica, cioè capitalista". Questa formulazione mostra fino a che punto i peggiori errori del comunismo dei consigli forniscano farina di prima qualità per i mulini ideologici anticomunisti della borghesia. Non é il caso di dimostrare l'ignominia di questo paragone, ricordiamo semplicemente che i bolscevichi lottarono con tutte le loro forze, con gli atti non meno che con le parole, contro la prima guerra mondiale, questo massacro che costò la vita a 20 milioni di persone, mentre la CNT, che faceva discorsi retorici contro la guerra in generale, si è dedicata ad inquadrare operai e contadini per inviarli sui fronti della guerra di Spagna, che servì da prova generale per la seconda guerra mondiale ed i suoi 60 milioni di morti. I bolscevichi parlavano ed agivano per la rivoluzione proletaria nell'Ottobre '17; e continuarono a parlare ed agire in favore dell'estensione mondiale della rivoluzione, senza la quale era chiaro, per loro, che la rivoluzione d'Ottobre non poteva che degenerare, che è quello che è effettivamente successo. La CNT, per contro, parlava molto di "comunismo integrale", ma nella pratica concreta si è consacrata al sostegno dello Stato e del sistema di sfruttamento capitalista.
Adalen
1. Questa corrente proletaria ha nondimeno avuto delle debolezze importanti. Per un esame più approfondito della sua traiettoria e della sua evoluzione, si può fare riferimento al nostro libro "La Sinistra Comunista Olandese", che copre il periodo dal 1920 al 1970 ed include un'importante apparato bibliografico. Il libro é apparso in francese ed in italiano e sta per essere pubblicato in inglese.
2. GIK: Groepen van Internationale Komunisten (Gruppo dei Comunisti Internazionalisti), gruppo olandese esistito negli anni '30. All'interno del comunismo dei consigli ha espresso le posizioni più chiare sulla guerra di Spagna, vicine a quelle di Bilan. Noi utilizzeremo i suoi documenti come punto di riferimento, il che non significa che non presentino confusioni importanti (cfr “La Sinistra Comunista Olandese”). Un testo del GIK sulla guerra di Spagna è stato tradotto in spagnolo nel libro “Revoluciòn y contrarevoluciòn en Espana”.
3. Quest'orientamento ad associare comunismo dei consigli ed anarchia è particolarmente presente in Belgio ed Olanda, spingendo le nostre sezioni in questi due paesi ad una lotta energica contro quest'amalgama. Vedi "Le communisme des conseils n'est pas un socialisme libertaire" in Internationalisme n.256, e, più in particolare, "Le communisme des conseils n'est pas un pont entre le marxisme et l'anarchisme. Debat public a Amsterdam", in Internationalisme n. 259.
4. Non tutti i gruppi del comunismo dei consigli condividono questa posizione di Cajo Brendel. Il GIK, che era il gruppo più importante negli anni '30, e due altri gruppi (vedi "La Sinistra Comunista Olandese") rigettano apertamente questa posizione. Non solamente condannavano la CNT come nemica degli operai, ma rifiutavano di farsi trascinare nel vicolo cieco della "radicalizzazione" del fronte antifascista, sostenendo che "se gli operai vogliono veramente difendersi dai Bianchi (i franchisti), non possono farlo che a condizione di prendere il potere politico loro stessi nelle proprie mani, invece di lasciarlo in quelle del governo di Fronte Popolare" . (Ottobre 1936)
5. Una critica dettagliata di questa posizione può essere trovata nel nostro opuscolo "Ottobre 1917, inizio della rivoluzione mondiale"
6. Vedi "L'accumulazione del capitale"
7. La situazione in Cina negli anni '20 e la scelta dell'Internazionale Comunista di allearsi con la borghesia "rivoluzionaria" locale furono oggetto di violente polemiche. La Sinistra Comunista, così come Trotsky, combatté questa posizione come un tradimento nei confronti dell'internazionalismo. Vedi il nostro articolo nella Révue Internationale n. 96.
8. Ancora oggi la borghesia lancia delle enormi campagne antifasciste, come si è visto a proposito dell'entrata nel governo austriaco di Georg Haider. Ma il loro impatto è minore, perché il fascismo non ha oggi l'impatto che aveva negli anni '30, quando dominava paesi chiave come la Germania e l'Italia.
9. Bilan n.7 "L'antifascismo, formula di confusione" ripubblicato in questo stesso numero.
10. Vedi i suoi testi nella Rivista Internazionale n.3 e nel libro stesso
11. Per meglio conoscere la reazione dei diversi gruppi dell'epoca, consultare il capitolo V del nostro libro "La Sinistra Comunista Italiana".
12. Si tratta degli articoli "Il mito delle collettività anarchiche", Nella Rivista Internazionale n. 4, "Russia 17 e Spagna '36", pubblicato nella Rèvue Internationale n. 25 e la "Critica del libro di Munis : tappe di sconfitta, promesse di vittoria".
13. A questo proposito è utile leggere l'analisi classica di Engels sulle conseguenze catastrofiche della lotta "autonoma" tanto cara agli anarchici; si tratta dell'articolo "I bakuninisti all'opera" che analizza come l'anarchismo abbia spinto gli operai combattivi spagnoli a servire da carne da cannone a vantaggio dei repubblicani e regionalisti nel 1873. Si può anche fare riferimento alla deplorevole esperienza dei consigli di fabbrica di Torino nel 1920, quando l'isolamento degli operai nelle fabbriche in nome delle "occupazioni" e della "autogestione" portò ad una severa sconfitta che segnò la fine delle immediate prospettive rivoluzionarie in Italia. Si legga a questo proposito, nel libro "Dibattito sui consigli di fabbrica", la polemica di Bordiga contro la posizione "autonomista" di Gramsci.
14. Fra gli scopi di quest'articolo non rientra l'analisi approfondita di questi problemi. Si rimanda al nostro libro sulla Sinistra Olandese ed agli articoli pubblicati nella Rèvue Internationale nn.2, 12, 13, dal 27 al 30, 40; 41 e 48.
15. Si rinvia a tale proposito ad uno dei testi pubblicati nel libro: “Le nozze dell'anarchia con lo Stato borghese”. Sulla questione sindacale, vedi il nostro opuscolo “I sindacati contro la classe operaia”.
A dispetto della presunta morte del comunismo, che avrebbe fatto seguito al crollo dell’URSS, diversi elementi e parecchi piccoli gruppi sono emersi in Russia dopo il 1990 per rimettere in discussione l’equazione menzognera della borghesia mondiale: stalinismo = comunismo.
Nella Revue internationale n° 92, abbiamo reso conto di due conferenze, convocate da alcuni di questi elementi, che si sono svolte a Mosca sul problema dell’eredità politica di Léon Trotsky. Durante lo svolgimento di queste conferenze, alcuni partecipanti si sono orientati su altre analisi, più radicali, sostenute da alcuni membri dell’opposizione di sinistra durante gli anni 1920 e 1930, relative alla degenerazione della rivoluzione di Ottobre. Essi hanno voluto conoscere anche il contributo della Sinistra comunista su questo problema e su questo la partecipazione della CCI a queste conferenze ha contribuito a chiarire le questioni poste.
Oltre questo resoconto, abbiamo pubblicato una critica profonda del libro di Trotsky La rivoluzione tradita redatto da uno degli animatori della conferenza.
Dopo di allora, la CCI ha mantenuto una corrispondenza con differenti elementi in Russia. Pubblichiamo qui alcuni estratti di queste lettere al fine di contribuire ad arricchire il dibattito internazionale sulla natura dell’organizzazione e delle posizioni comuniste per la futura rivoluzione proletaria mondiale.
Come i nostri lettori vedranno, l’orientamento del nostro corrispondente, - F. del sud della Russia (1) – è vicino alle posizioni ed alla tradizione della Sinistra comunista. Da una parte, egli difende il partito bolscevico e, dall’altra, riconosce la natura capitalista ed imperialista del regime stalinista. In particolare, adotta una posizione internazionalista sulla seconda guerra imperialista mondiale, contrariamente ai trotskisti che hanno giustificato la loro partecipazione a tale guerra sotto il pretesto di difendere l’URSS e le sue pretese conquiste proletarie.
Tuttavia, l’approccio del nostro corrispondente su due quesiti essenziali – il primo sulla possibilità della rivoluzione mondiale nel 1917 – 1923, il secondo sulla possibilità di liberazioni nazionali dopo il 1914 e di conseguenza sulla possibilità di un qualsiasi sviluppo capitalista durante questo secolo – mostra un disaccordo sul quadro ed il metodo per poter comprendere queste posizioni rivoluzionarie internazionaliste.
Ci siamo presi la libertà di scegliere degli estratti dalle differenti lettere del compagno per guadagnare spazio e dedicarci al nocciolo della questione. Altre volte ci siamo presi la libertà di correggere il testo (scritto in inglese) dal compagno, non per amore grammaticale ma per facilitare la traduzione nelle differenti lingue in cui è pubblicata questa Rivista Internazionale.
“… I bolscevichi si sbagliavano teoricamente sulle possibilità di una rivoluzione socialista mondiale all’inizio del XX secolo. Una tale possibilità è apparsa solo oggi, alla fine del secolo. . Ma nella loro azione, essi avevano assolutamente ragione, e se noi potessimo, per miracolo, trasportarci nell’anno 1917, ci schiereremmo con i bolscevichi e contro i loro avversari, compresi quelli di sinistra. Sappiamo che questa è una posizione non usuale e contraddittoria, però si tratta di una contraddizione dialettica. Gli attori della storia non sono gli alunni di una classe, che rispondono più o meno bene alle domande del maestro. L’esempio più banale é quello di Cristoforo Colombo che pensava di aver scoperto la strada per l’India che, invece, era quella dell’America. Molti dotti saggi non hanno commesso un tale errore ma nemmeno hanno scoperto l’America!
Gli eroi delle guerre contadine e dei primi sollevamenti borghesi avevano ragione – Wat Tyler, John Baal, Thomas Munzer, Arnold di Brescia, Cola di Rienzo, etc.- a battersi contro il feudalesimo, quando le condizioni per la vittoria del capitalismo non erano ancora mature? Certo che avevano ragione: la lotta di classe degli oppressi, anche quando essi sono sconfitti, accelera lo sviluppo dell’ordine di sfruttamento esistente (e) attraverso ciò affretta la caduta di quest’ordine. Dopo delle sconfitte, gli oppressi possono essere in grado di vincere. Rosa Luxemburg ha eccellentemente scritto su questa questione nella sua polemica con Bernstein in Riforma sociale o rivoluzione.
Se esisteva la necessità della rivoluzione, i rivoluzionari dovevano agire anche se i loro successori avrebbero compreso, poi, che quella non era la rivoluzione socialista. Le condizioni per la rivoluzione socialista non erano ancora mature. Le illusioni bolsceviche sulla possibilità della rivoluzione socialista mondiale nel 1917 – 23, erano necessarie, inevitabili come quelle di John Baal o di Gracchus Babeuf…Lenin, Trotsky ed i loro compagni con le loro illusioni hanno fatto un enorme lavoro progressivo e ci hanno lasciato un’esperienza preziosa del proletariato , una rivoluzione, benché sconfitta. I Menscevichi, con le loro teorie, non sono stati capaci nemmeno di condurre una rivoluzione borghese, finendo così nell’ala sinistra della controrivoluzione dei borghesi e dei proprietari terrieri…
Se vogliamo essere marxisti, dobbiamo comprendere le cause obiettive delle sconfitte delle rivoluzioni proletarie del XX secolo? Quelle cause obiettive renderanno la rivoluzione socialista mondiale possibile nel XXI secolo? Le spiegazioni soggettive, come << il tradimento dei social-democratici e dello stalinismo>> di Trotsky, o la vostra <<debolezza sulla coscienza di classe ad un livello internazionale>> non sono sufficienti. Si, il livello della coscienza di classe del proletariato era ed è basso, ma quali sono le cause obiettive di ciò? Si, i social-democratici e gli stalinisti erano e sono dei traditori, ma che cosa rende questi traditori vincenti rispetto ai rivoluzionari? Perché Ebert e Noske vincono contro Liebknecht e Luxemburg, Stalin contro Trotsky, Togliatti contro Bordiga? Perché l’Internazionale Comunista, creata come rottura definitiva con l’opportunismo degenerato della II Internazionale, degenera essa stessa, tre volte più presto della II, nell’opportunismo? Noi dobbiamo comprendere tutto ciò”
Sulla decadenza del capitalismo: “La vostra interpretazione di questo tipo di capitalismo solo come tappa decadente del sistema capitalista, solo come una qualche mostruosità (per esempio, in un articolo d’Internationalisme sul crollo dello stalinismo) non risponde al quesito: perché c’era progresso, anche se di tipo capitalista, nell’URSS stalinista e negli alti paesi che inalberavano la bandiera rossa?”
Sulla questione nazionale: “Sul vostro opuscolo Nazione o classe, siamo d’accordo con le vostre conclusioni ma non con la parte riguardante i motivi e l’analisi storica. Siamo d’accordo che attualmente, alla fine del XX secolo, la parola d’ordine del diritto all’autodeterminazione delle nazioni ha perduto ogni carattere rivoluzionario. Essa è una parola d’ordine borghese democratica. Nel momento in cui l’epoca delle rivoluzioni borghesi si è conclusa, anche per i rivoluzionari proletari questo slogan non è più valido. Ma noi pensiamo che l’epoca delle rivoluzioni borghesi si è conclusa alla fine del XX secolo, non all’inizio. Nel 1915, Lenin aveva in generale ragione nei confronti di Rosa Luxemburg, nel 1952 Bordiga aveva in generale ragione su questa questione rispetto a Damen, ma attualmente la situazione è diversa. E noi consideriamo completamente errata la vostra posizione secondo la quale i differenti movimenti rivoluzionari non proletari del terzo mondo, che non contenevano un grammo di socialismo, ma obbiettivamente erano dei movimenti rivoluzionari, non erano che degli strumenti di Mosca - come voi avete scritto sul Vietnam, per esempio – e non sono obbiettivamente dei movimenti borghesi progressisti.
Sembra che voi facciate lo stesso errore di Trotsky, che concepiva la crisi del capitalismo come un arresto assoluto e non come un lungo e tortuoso processo di degenerazione e di degrado quando gli elementi negativi e reazionari del capitalismo peseranno, sempre di più, sugli elementi progressivi. Si è avuto un progresso in Unione Sovietica? Si, certamente. Si è trattato di un progresso socialista? Certo che no. Era una transizione di un paese agricolo semifeudale ad un paese a capitalismo industriale, cioè un progresso borghese, nel fango e col sangue, come ogni progresso borghese. E le rivoluzioni in Cina, Cuba, Yugoslavia, etc.? Erano esse progressive? Sicuramente, [come] vi erano delle trasformazioni contraddittoriamente progressiste in molti altri paesi. Possiamo e dobbiamo parlare di questo carattere a metà contraddittorio di tutte queste rivoluzioni borghesi, ma esse erano delle rivoluzioni borghesi. Le condizioni obiettive per la rivoluzione proletaria in Cina, attualmente, sono più mature di quelle degli anni 1920 grazie alla rivoluzione borghese degli anni 1940.”
Se c’è un filo conduttore che attraversa questi estratti, è l’idea che le “condizioni obiettive” per la rivoluzione proletaria non si sono avute su scala mondiale per la maggior parte del XX secolo, contrariamente a ciò che la CCI, in continuità con il I Congresso dell’Internazionale comunista, sostiene. Così, secondo questa idea, la rivoluzione d’Ottobre era prematura e, di conseguenza, almeno fino alla fine di questo secolo, alcune forme di sviluppo capitalista progressista erano possibili nei paesi della periferia del capitalismo mondiale e la liberazione nazionale era dunque possibile.
Una comprensione chiara delle condizioni obiettive nelle società, cioè lo sviluppo economico della società in un periodo storico dato, è un bisogno fondamentale per i marxisti, poiché essi riconoscono, contrariamente agli anarchici, che il socialismo, al posto di essere un semplice desiderio, è un nuovo modo di produzione la cui possibilità e necessità sono condizionate dallo sviluppo economico della società capitalista. Questa è la pietra angolare del materialismo storico con cui, noi siamo sicuri, il compagno è d’accordo.
Allo stesso modo, non si può molto discutere il fatto che Marx vedeva le condizioni obiettive per il socialismo essenzialmente nel numero di due: “Una formazione sociale non perisce finchè non si siano sviluppate tutte le forze produttive a cui può dare corso; nuovi e superiori rapporti di produzione non subentrano mai, prima che siano maturate in seno alla vecchia società le condizioni materiali della loro esistenza.” (Prefazione alla Critica dell’economia politica, 1859, Editori Riuniti)
Considerando che il capitalismo mondiale non era affatto economicamente pronto a morire nel 1917, il compagno tira la conclusione che l’immenso sollevamento in Russia non poteva condurre che ad una rivoluzione borghese a livello economico. A livello politico, questa era una rivoluzione proletaria che era destinata alla sconfitta per il fatto che i suoi obiettivi comunisti non corrispondevano ai reali bisogni materiali della società in quell’epoca. Dunque il partito bolscevico e l’Internazionale Comunista non potevano essere che dei perdenti eroici che si sono sbagliati sulle condizioni obiettive come John Baal, Thomas Munzer e Graccus Babeuf, i quali pensavano che una nuova società egualitaria era possibile nel momento in cui, invece, le condizioni per quest’ultima non erano presenti.
Il compagno dice che questa posizione sulla natura di Ottobre è contraddittoria in senso dialettico. Ma ciò contraddice uno dei concetti base della storia e dunque del materialismo dialettico secondo il quale “(…) l’umanità non si propone se non quei problemi che essa può risolvere, perché, a considerare le cose dappresso, si trova sempre che il problema sorge solo quando le condizioni materiali della sua soluzione esistono già o almeno sono in formazione.” (ibidem)
La coscienza delle classi sociali, i loro scopi ed i loro problemi, tendono a corrispondere ai loro interessi materiali ed alle loro posizioni nei rapporti di produzione e di scambio. E’ unicamente su questa base che evolve la lotta di classe. Per una classe sfruttata come il proletariato, la coscienza di se può svilupparsi solo dopo una lunghissima lotta al fine di liberarsi essa stessa dal dominio della coscienza della borghesia. In questo sforzo, le difficoltà, le incomprensioni, gli errori, le confusioni riflettono il ritardo della coscienza in rapporto allo sviluppo delle condizioni materiali – un altro aspetto del materialismo storico che vede la vita sociale essenzialmente pratica, preoccupata dal nutrimento, dall’abbigliamento, l’alloggio – e, dunque, precedono i tentativi dell’uomo di spiegare il mondo. Ma per il compagno, la coscienza rivoluzionaria del proletariato è maturata su scala mondiale per un compito che non esisteva ancora. Egli mette il marxismo sulla testa e immagina che milioni di proletari possono mobilitarsi per errore, in una lotta a morte, per una rivoluzione borghese. E per questo egli li immagina diretti da figure astoriche – i rivoluzionari – i quali sarebbero motivati non dalla classe per la quale essi lottano ma da un desiderio di rivoluzione in generale.
La coscienza rivoluzionaria matura forse in una classe per errore?
Esiste forse una tendenza storica per la coscienza rivoluzionaria di maturare prima della sua ora? Se rivediamo un poco più da vicino, per esempio, le circostanze storiche della rivolta del 1381 dei contadini in Inghilterra (John Baal) o quelle della guerra dei contadini in Germania nel 1525 (Thomas Munzer), possiamo renderci conto del contrario: la coscienza di questi movimenti tende a riflettere gli interessi dei protagonisti e le circostanze materiali della loro epoca.
Questi movimenti erano fondamentalmente una risposta disperata alle condizioni, sempre più penose, imposte dalla decadente classe feudale ai contadini. In queste rivolte, come in tutti i movimenti degli sfruttati della storia, si sviluppava contro gli sfruttatori il desiderio di una nuova società senza sfruttamento e senza miseria. Ma i contadini non sono mai stati, e non potrebbero mai essere, una classe rivoluzionaria nel senso vero del termine. Infatti essi, essendo essenzialmente uno strato di piccoli proprietari, non sono i portatori di nuovi rapporti di produzione, cioè di una nuova società. I contadini in rivolta non erano destinati ad essere il veicolo per il nuovo modo borghese di produzione, che emergeva nelle città europee durante la decadenza del feudalesimo. Come evidenziava Engels, i contadini erano destinati ad essere rovinati dalle rivoluzioni capitaliste vittoriose. Nelle stesse rivoluzioni borghesi (in Germania, in Gran Bretagna ed in Francia tra il XVI ed il XVIII secolo) i contadini e gli artigiani hanno giocato un ruolo attivo ma ausiliare, non per i loro interessi. Nella misura in cui gli interessi dei proletari emergevano in maniera distinta in questa epoca, essi entrano violentemente in conflitto con la stessa ala più radicale della borghesia, come lo testimonia la lotta tra i Livellatori e Cromwell durante la rivoluzione inglese del 1649 o la Cospirazione dei Eguali di Babeuf contro i Montagnardi nel 1793. (2)
I contadini non avevano la coesione o gli scopi coscienti di una classe rivoluzionaria. Essi non potevano sviluppare una propria visione del mondo né elaborare una reale strategia per rovesciare la classe dominante. Essi dovevano prendere in prestito la teoria rivoluzionaria dai propri sfruttatori poiché la loro visione del futuro era sempre chiusa in una religione, cioè in una forma conservatrice. Se questi scopi e queste battaglie eroiche ci inspirano oggigiorno e ci appaiono fuori dal loro tempo è perché l’ultimo secolo (ed i quattro precedenti) ha avuto un’importante caratteristica: lo sfruttamento di una parte della società sull’altra; è per questo che i nomi dei dirigenti di queste battaglie sono rimasti incisi, attraverso i secoli, nella memoria degli sfruttati.
E’ solamente alla fine del XVIII secolo e all’inizio del XIX che l’idea socialista appare per la prima volta come una forza reale. E questo periodo coincide, certo non accidentalmente, con lo sviluppo embrionale del proletariato.
La maturazione della coscienza comunista riflette gli interessi materiali della classe operaia
I proletari sono i discendenti dei contadini e degli artigiani spogliati delle loro terre e dei loro mezzi di produzione dalla borghesia. Essi non hanno conservato niente che possa legarli all’antica società e non sono portatori di una nuova forma di sfruttamento. Avendo unicamente la loro forza lavoro da vendere e lavorando in maniera associata, essi non hanno bisogno di divisioni interne. Essi sono una classe sfruttata ma, contrariamente ai contadini, hanno un interesse materiale non solo a mettere fine ad ogni forma di proprietà ma anche a creare una società mondiale in cui i mezzi di produzione e di scambio saranno tenuti in comune: il comunismo.
La classe operaia, crescendo con lo sviluppo su vasta scala della produzione capitalista, ha un potenziale potere economico enorme nelle sue mani. Inoltre, essendo concentrata a milioni nelle ed intorno alle più grandi città del mondo, legata dai moderni mezzi di trasporto e di comunicazione, ha il modo di mobilitarsi per un assalto vittorioso contro i bastioni del potere politico capitalista. La coscienza di classe del proletariato, al contrario di quella dei contadini, non è legata al passato, ma è costretta a guardare verso il futuro senza illusione utopiche o avventuristiche. Essa deve sobriamente tirare tutte le conseguenze, sebbene gigantesche, del rovesciamento della società esistente e della costruzione di una nuova società.
Il marxismo, la più alta espressione di questa coscienza, può dare al proletariato un’immagine reale delle sue condizioni e dei suoi obiettivi ad ogni tappa della sua lotta e del suo scopo finale, perché esso è capace di mettere in evidenza le leggi del cambiamento storico. Questa teoria rivoluzionaria è emersa negli anni 1840 e, durante alcuni decenni seguenti, ha eliminato le vestigia dell’utopismo veicolato nella classe operaia dalle idee socialiste. Fin dal 1914, il marxismo era già trionfante in un movimento di classe operaia che aveva 70 anni di lotta per i suoi interessi al suo attivo. Un periodo che includeva La Comune di Parigi del 1871, la rivoluzione russa del 1905 e l’esperienza delle I e II Internazionali. Ed a questo punto, il marxismo si è mostrato capace di criticare i suoi errori, di rivedere le sue analisi politiche e posizioni divenute obsolete con lo svolgersi degli avvenimenti. La sinistra marxista, con cui il compagno si identifica, in tutti i principali partiti della II Internazionale, ha riconosciuto il nuovo periodo aperto dalla prima guerra mondiale e la fine dell’espansione “tranquilla” del capitalismo. La stessa sinistra marxista condusse le insurrezioni che sorsero alla fine della guerra. Ma è proprio a questo punto che il compagno, che avrebbe fatto ciò che i bolscevichi fecero in ottobre 1917 come trampolino per la rivoluzione mondiale, ripete gli stessi argomenti pseudo-marxisti circa l’immaturità delle condizioni obiettive che tutti gli opportunisti e centristi della social-democrazia – Karl Kautsky in particolare – utilizzarono per giustificare l’isolamento e lo strangolamento della rivoluzione russa.
La sconfitta dell’ondata rivoluzionaria non è stata il riflesso soggettivo, inevitabile, dell’insufficienza delle condizioni obiettive, ma un risultato del fatto che la maturazione della coscienza non è stata sufficientemente profonda e rapida per impadronirsi del proletariato mondiale nella “finestra d’opportunità”, relativamente corta, che si apriva dopo la guerra e le sue difficoltà contingenti, senza parlare delle difficoltà specifiche della rivoluzione proletaria in paragone alle rivoluzioni delle classi rivoluzionarie antecedenti.
Per il materialismo storico, l’epoca di rivoluzione sociale, che risulta dalla maturazione degli elementi della nuova società, è annunciata dallo sviluppo delle “forme ideologiche in cui gli uomini prendono coscienza di questo conflitto e lo spingono fino alle estreme conseguenze.” (Marx. Prefazione alla Critica dell’economia politica)
L’Internazionale Comunista non era, come sembra dire il compagno, un’aberrazione precoce. In realtà, essa ha semplicemente raggiunto gli avvenimenti. Essa era l’espressione della ricerca di una soluzione al capitalismo di fronte alla maturazione delle condizioni obiettive. Dire che la sua sconfitta era inevitabile, è fare del materialismo storico una ricetta fatalista e meccanica piuttosto che una teoria secondo la quale sono “gli uomini che fanno la storia”.
1917 – 1923: il capitalismo mondiale merita di perire
Nel 1914 gli elementi della nuova società erano maturati nella vecchia. Ma tutte le forze produttive che la vecchia società poteva contenere si erano sviluppate? Il socialismo era divenuto una necessità storica? Il compagno risponde negativamente e l’evidenza di ciò gli sembra posta dallo sviluppo progressivo del capitalismo nella Russia stalinista, in Cina, in Vietnam ed in altri paesi. Secondo lui, i bolscevichi pensavano di fare la rivoluzione mondiale, mentre al contrario conducevano una rivoluzione borghese.
Per il compagno, la prova è l’industrializzazione della Russia e la sua transizione dal feudalesimo al capitalismo dopo il 1917, così come l’esistenza di “elementi di progresso” in un periodo di declino crescente.
Ma per il materialismo storico, ogni modo di produzione ha dei periodi distinti di ascesa e di declino. Il capitalismo essendo un sistema mondiale, al contrario dei modi di produzione feudale, schiavistico ed, ancor prima, asiatico, deve essere giudicato maturo per la rivoluzione sulle basi della sua condizione internazionale e non sulla base di questo o quel paese, che preso da solo, potrebbe dare l’illusione della possibilità di uno sviluppo progressista.
Se si isolano alcuni periodi o alcuni paesi nel periodo della decadenza del capitalismo dal 1914, è possibile essere accecati dall’apparente crescita di un sistema; in particolare quando questa si produce in qualche paese sottosviluppato in seguito al risultato della venuta al potere di una cricca capitalista statale.
Il capitalismo in declino, ancora una volta al contrario delle società che lo hanno preceduto, si caratterizza per la sovrapproduzione. Mentre il declino di Roma o la decadenza del sistema feudale in Europa significavano una stagnazione ed anche una regressione ed un declino nella produzione, il capitalismo decadente continua ad estendere la produzione (anche se ciò avviene ad un tasso medio più basso: circa il 50% meno del periodo ascendente) nello stesso tempo che esso affonda e distrugge le forze produttive della società. Noi non vediamo dunque un arresto assoluto della crescita della produzione capitalista nella sua fase decadente, come pensava Trotsky.
Il capitalismo non può estendere le forze produttive se non è capace di realizzare il plus-valore contenuto in una massa di merci sempre crescenti che esso lancia sul mercato mondiale.
“…Più la produzione capitalista si sviluppa, più è obbligata a produrre su una scala che non ha niente a che vedere con la domanda immediata, ma dipende da un’estensione costante del mercato mondiale…Ricardo non vedeva che la merce deve necessariamente essere trasformata in denaro. La domanda degli operai non può essere sufficiente per questo, poiché il profitto viene precisamente dal fatto che la domanda degli operai è minore del valore di ciò che essi producono, e che questo profitto è tanto maggiore quanto più questa domanda è piccola. Nemmeno la domanda dei capitalisti per la merce degli uni e degli altri è sufficiente… dire che alla fine i capitalisti possono solo scambiare e consumare delle merci tra loro, è dimenticare la natura della produzione capitalista, e che il problema è di trasformare il capitale in valore.” (Marx, Il Capitale, Libro IV Sezione 2 e Libro III Sezione 1)
Nel momento in cui il capitalismo estende enormemente le forze produttive - forza lavoro, mezzi di produzione e di consumo - questi ultimi esistono solo per essere acquistati e venduti perché essi hanno una doppia natura come valore d’uso e di scambio. Il capitalismo deve trasformare in danaro il frutto della sua produzione. Il beneficio dunque dello sviluppo delle forze produttive nel capitalismo resta, per la massa della popolazione, un grosso potenziale, una promessa luminosa che sembra sempre fuori portata, a causa del loro potere d’acquisto limitato. Questa contraddizione, che spiega la tendenza del capitalismo alla sovrapproduzione, porta solo a delle crisi periodiche nel periodo d’ascesa del capitalismo e conduce ad una serie di catastrofi una volta che il capitalismo non può più compensarle con la conquista continua di mercati pre-capitalisti.
L’inizio dell’epoca imperialista, ed in particolare la guerra imperialista generalizzata del 1914 – 1918, ha mostrato che il capitalismo aveva raggiunto i suoi limiti, prima che esso avesse eliminato completamente tutte le vestigia delle società precedenti in ogni paese; ben prima che esso abbia trasformato ogni produttore in lavoratore salariato ed introdotta la produzione a larga scala ad ogni settore industriale. In Russia, l’agricoltura era sempre basata su delle norme pre-capitaliste, la maggioranza della popolazione era costituita da contadini e la forma politica del regime non aveva ancora preso una forma democratica borghese che sostituisse l’assolutismo feudale. Tuttavia, il mercato mondiale dominava già l’economia russa e, a San Pietroburgo, a Mosca come nelle altre grandi città, un numero enorme di proletari era concentrato in alcune delle più grandi unità industriali di tutta l’Europa.
L’arretratezza del regime e dell’economia agraria non hanno impedito alla Russia di essere completamente integrata nella tela delle potenze imperialiste con i suoi propri interessi ed i suoi obiettivi predatori. La venuta al potere politico della borghesia nel governo provvisorio dopo febbraio del 1917 non ha portato ad alcuna deviazione dalla politica imperialista.
Così, l’obiettivo bolscevico, per il quale la rivoluzione russa era un trampolino per la rivoluzione mondiale, era completamente realista. Il capitalismo aveva raggiunto i limiti dello sviluppo nazionale. Non è l’arretramento relativo della Russia la causa della sconfitta di questa transizione ma proprio la sconfitta della rivoluzione in Germania.
L’incapacità a prendere misure economiche socialiste da parte del regime sovietico, al suo inizio, non è stato il prodotto dell’arretramento russo. La transizione verso il modo di produzione socialista può seriamente cominciare solo quando il mercato mondiale capitalista è stato distrutto dalla rivoluzione mondiale.
Se siamo d’accordo che il socialismo in un solo paese è impossibile e che il nazionalismo non è un passo in avanti verso il socialismo, resta tuttavia l’illusione che, dopo la vittoria dello stalinismo, l’industrializzazione abbia rappresentato un passo capitalista progressista.
Il compagno dimentica che questa industrializzazione è servita fondamentalmente per l’economia di guerra e per i preparativi imperialisti della II guerra mondiale? Che l’eliminazione dei contadini ha condotto ai gulag milioni di persone? In una parola che i fantastici tassi di crescita dell’industria russa non hanno potuto realizzarsi se non attraverso il barare con la legge del valore, affrancandosi temporaneamente dalle sanzioni del mercato mondiale e sviluppando una politica dei prezzi artificiali?
Lo sviluppo del capitalismo di Stato, del quale la Russia costituisce l’esempio più aberrante, ha rappresentato il modo caratteristico nella decadenza del capitalismo, per ogni borghesia nazionale, di far fronte ai propri rivali imperialisti, attuali e futuri. Nel periodo di decadenza, la parte media delle spese dello Stato nell’economia nazionale è di circa il 50% a confronto del poco più del 10% nel periodo di ascesa del capitalismo.
Nella decadenza del capitalismo non c’è recupero dei paesi avanzati da parte di quelli meno sviluppati, e dunque l’accesso all’indipendenza politica rispetto alle grandi potenze da parte di supposte rivoluzioni nazionali resta largamente una finzione. Se alla fine del XIX secolo la crescita del Prodotto nazionale lordo dei paesi meno sviluppati era di un sesto rispetto a quello dei paesi a capitalismo avanzato, durante la decadenza questa differenza raggiunge un sedicesimo. Di conseguenza, l’integrazione della popolazione nel lavoro salariato in maniera più rapida rispetto alla crescita della stessa popolazione, che è una delle caratteristiche delle vere rivoluzioni borghesi del passato, non si è giustamente prodotta nei paesi meno sviluppati nel corso della decadenza del capitalismo. Al contrario, masse di popolazioni sono sempre più completamente escluse dai processi di produzione. (3)
Nel XX secolo, il mondo capitalista come un tutto passa per fluttuazioni periodiche della sua crescita che oscurano completamente le crisi del XIX secolo. Le guerre mondiali di questo periodo, al posto di essere dei mezzi per rilanciare la crescita, come si verificava con quelle del secolo precedente (che a confronto sembravano scaramucce), sono così distruttrici che conducono alla rovina economica contemporaneamente sia i vinti che i vincitori.
Il nostro rigetto della possibilità di uno sviluppo progressista del capitalismo durante tutto il XX secolo non ha dunque niente a che vedere con un qualunque pudore da parte nostra di fronte al “sangue” ed al “fango” delle rivoluzioni borghesi, ma si basa sull’esaurimento economico obiettivo del modo di produzione capitalista.
Nella formula di Lenin il periodo de “l’orrore senza fine” è sostituito dopo il 1914 da “la fine nell’orrore”.
I cicli di crisi, guerra, ricostruzione, nuova crisi del capitalismo, nel corso di questo secolo, confermano che tutte le forze produttive che questo modo di produzione ha contenuto sono state sviluppate e che quest’ultimo merita di perire. E’ certamente vero che alla fine del XX secolo, la decadenza del capitalismo è molto più avanzata rispetto all’inizio: infatti, essa è entrata in una fase di decomposizione. Ma i compagni non ci danno nessuna prova per mostrare che la decadenza del capitalismo è cominciata alla fine del secolo, alcun argomento per porre un cambiamento qualitativo di tale importanza alla fine, piuttosto che all’inizio di più di due cicli della crisi permanente del capitalismo.
Conseguenze
Se si nega che il declino del capitalismo corrisponde a tutto un periodo che comincia con la prima guerra mondiale e si estende dunque al modo di produzione come un tutt’uno, allora per la lotta rivoluzionaria della classe operaia si ragiona su un sentimento più che su di una necessità storica.
Negare la necessità obiettiva della rivoluzione mondiale nel 1917-23 e considerare la sua sconfitta inevitabile è, in effetti, una posizione bizzarra. Ma essa ha delle conseguenze pericolose poiché esclude la necessità imperiosa di tirare le lezioni dalla sconfitta dell’ondata rivoluzionaria a livello politico e teorico. Anche se il compagno si identifica con la sinistra comunista, egli non si serve di tutto il lavoro di quest’ultima che è consistito nel sottomettere l’esperienza rivoluzionaria ad una critica di fondo, in particolare per quanto riguarda la questione nazionale. Anche se il compagno nega per oggi ogni possibilità di liberazione nazionale, è solo per una base contingente e non storica. Se si possono ancora vedere sviluppi progressisti in movimenti imperialisti controrivoluzionari come il maoismo cinese, lo stalinismo del Vietnam o cubano, allora il pericolo di un abbandono delle posizioni internazionaliste coerenti sussiste.
Como
1. Questa stessa domanda si ritrova quasi in maniera identica presso altri corrispondenti.
2. Così la storia, contrariamente a ciò che dice il compagno, non ha mai dimostrato che una classe poteva essere portatrice del destino storico di un’altra classe, precisamente perché le rivoluzione non sopraggiungono se non quando tutte le possibilità del vecchio sistema e della sua classe dominante sono state esaurite e quando la classe rivoluzionaria, portatrice dei germi della nuova società, è passata attraverso un lungo periodo di gestazione nella vecchia società. Vedere la nostra brochure Russia 1917, l’inizio della rivoluzione mondiale, in particolare il rifiuto della teoria della rivoluzione doppia. La vita è in generale già troppo difficile perché si faccia la rivoluzione per altri. Ed inoltre, in un’epoca in cui essa non è possibile.
3. Vedere la nostra brochure La decadenza del capitalismo e la Revue Internationale n° 54.
Negli ultimi mesi sono apparsi sulla stampa del BIPR ([1]) articoli riguardanti la necessità del raggruppamento tra forze rivoluzionarie in vista della costruzione del partito comunista mondiale del futuro. Uno di questi, I rivoluzionari, gli internazionalisti di fronte alle prospettive di guerra e alla condizione del proletariato ([2]), è un documento maturato in seguito alla guerra in Kosovo dell’anno scorso:
“Le recenti vicende belliche nei Balcani, per il fatto stesso di essersi svolte in Europa (…) hanno segnato un rilevante passo avanti del processo che conduce alla guerra imperialista generalizzata (…).
La guerra stessa e il tipo di opposizione che ad essa viene fatta sono il terreno su cui sta già avvenendo la decantazione e selezione delle forze rivoluzionarie capaci di concorrere alla costruzione del partito.
Queste saranno interne all’area delimitata da alcuni punti fermi che segniamo quale base irrinunciabile di qualunque iniziativa politica tendente al rafforzamento del fronte rivoluzionario di fronte al capitale e alle sue guerre”.
A questo brano seguono i “21 punti fermi” ([3]) indicati dal BIPR come punti critici.
Erano state proprio queste “vicende belliche nei Balcani” a spingere la nostra organizzazione a promuovere, durante la stessa guerra, un appello alle varie organizzazioni rivoluzionarie presenti a livello mondiale e rispetto al quale avevamo precisato che:
“Esistono naturalmente anche delle differenze, che riguardano un diverso approccio all’analisi dell’imperialismo nella fase attuale e del rapporto tra le classi. Ma, senza sottovalutare queste differenze, riteniamo che gli aspetti che ci uniscono sono di gran lunga più importanti e significativi di quelli che ci distinguono rispetto ai compiti del momento ed è su questa base che, il 29 marzo 1999, abbiamo lanciato un appello all’insieme di questi gruppi per prendere una iniziativa comune contro la guerra”([4]).
Poiché questo appello, fatto oltre un anno fa, è caduto completamente nel vuoto ([5]), c’è da chiedersi come mai il BIPR arrivi solo adesso con le sue “21 condizioni” - su cui, al di là di qualche riserva su due punti soltanto ([6]), il nostro accordo è per il resto totale - e non abbia aderito all’epoca al nostro appello. La risposta sta verso la fine del documento BIPR dove si trova una parte che si rivolge, in tutta evidenza, alla CCI, (naturalmente senza mai citarla), affermando che “a 23 anni di distanza dalla I Conferenza Internazionale, convocata da Battaglia Comunista ([7]) per avviare un primo confronto fra i gruppi politici che si rifacevano alle linee generali classiste e internazionaliste difese dalla sinistra comunista a partire dalla seconda metà degli anni ’20, è possibile –e dunque ormai doveroso- trarre un bilancio di quel confronto”.
Un bilancio? Dopo 23 anni? E perché solo adesso? Il BIPR lo spiega in questo modo: in oltre due decenni si è “accelerato il processo di decantazione del “campo politico proletario”, escludendo tutte quelle organizzazioni che, per un verso o per un altro, sono cadute sul terreno della guerra venendo meno all’irrinunciabile principio del disfattismo rivoluzionario”.
Ma il pezzo dove ce l’hanno con noi (e con le formazioni bordighiste) viene subito dopo:
“Altre componenti di quell’area, pur senza cadere nel tragico errore di attestarsi su di un fronte di guerra, (…) si sono egualmente estraniate dal metodo e dalle prospettive di lavoro che condurranno alla aggregazione del futuro partito rivoluzionario. Vittime irrecuperabili di impostazioni idealistiche o meccanicistiche (…).” (sottolineatura nostra).
Poiché noi riteniamo che le accuse che il BIPR ci attribuisce siano infondate - e per di più temiamo che esse servano a mascherare una sua pratica politica opportunista - cercheremo di sviluppare qui di seguito una risposta alle suddette accuse mostrando qual è stato l’atteggiamento della corrente marxista del Movimento Operaio rispetto al “metodo e alle prospettive di lavoro che condurranno alla aggregazione del futuro partito rivoluzionario” per verificare concretamente se, e in che misura, il BIPR e i gruppi che lo hanno generato sono stati coerenti con questa linea. Per fare ciò prenderemo in considerazione due questioni che esprimono, nella loro unità, i due livelli a cui si pone il problema dell’organizzazione dei rivoluzionari oggi:
1. Come concepire la futura Internazionale? Partito Comunista Internazionale oppure Internazionale dei Partiti Comunisti?
Come sarà la futura Internazionale? Un’organizzazione concepita in maniera unitaria fin dall’inizio, cioè un partito comunista internazionale, oppure una Internazionale dei partiti comunisti dei vari paesi? Su questo problema il pensiero e la battaglia di Amadeo Bordiga e della Sinistra Italiana costituiscono un punto di riferimento irrinunciabile. Nella concezione di Bordiga l’Internazionale Comunista doveva già essere, e così lui la chiamava, il partito mondiale, e in obbedienza a questa concezione Bordiga è arrivato finanche a rinunciare ad alcuni punti “tattici” da lui difesi (astensionismo, raggruppamento senza il centro) pur di affermare e far vivere la preminenza dell’Internazionale sui singoli partiti nazionali, per affermare che l’IC era un’unica organizzazione e non una federazione di partiti, con un’unica politica dappertutto e non con delle specificità paese per paese.
“Ed allora noi affermiamo che il supremo consesso internazionale ha non solo il diritto di stabilire queste formule che vigono e devono vigere senza eccezione per tutti i paesi, ma ha anche il diritto d’occuparsi della situazione di un solo paese e potere dire quindi che l’Internazionale pensa che – ad esempio – in Inghilterra si debba fare, agire in quel dato modo” (Amadeo Bordiga, discorso al Congresso di Livorno 1921, in La Sinistra Comunista nel cammino della rivoluzione, Edizioni Sociali 1976).
Questa concezione Bordiga, a nome della sinistra italiana, l’ha difesa a maggior ragione contro la degenerazione della stessa Internazionale, quando la politica di questa si confondeva sempre più con la politica e gli interessi dello Stato russo:
“Occorre che il partito russo sia assistito nella risoluzione dei suoi problemi dai partiti fratelli, i quali non posseggono, è vero, una esperienza diretta dei problemi di governo, ma ciò malgrado contribuiranno alla risoluzione di essi apportandovi un coefficiente classista e rivoluzionario derivato direttamente dalla realtà della lotta di classe in atto nei loro paesi” (Tesi della sinistra per il III Congresso del PCd’I, Lione gennaio 1926, pubblicate in In difesa della continuità del programma comunista, edizioni “Il programma comunista”, Milano 1970).
Ed è infine nella risposta di Bordiga alla lettera di Karl Korsch che emerge con ancora più chiarezza cosa l’Internazionale doveva essere e cosa non era riuscita ad essere:
“Credo che uno dei difetti dell’Internazionale attuale sia stato di essere “un blocco di opposizioni” locali e nazionali. Bisogna riflettere su questo, si capisce senza arrivare ad esagerazioni, ma per fare tesoro di questi insegnamenti. Lenin arrestò molto lavoro di elaborazione “spontaneo” contando di raggruppare materialmente e poi dopo soltanto fondere omogeneamente i vari gruppi al calore della rivoluzione russa. In gran parte non è riuscito” (dalla lettera di Amadeo Bordiga a Korsch, pubblicata in Danilo Montaldi, Korsch e i comunisti italiani, Savelli).
In altre parole Bordiga si rammarica che l’Internazionale si sia formata a partire da un insieme di “opposizioni” ai vecchi partiti socialdemocratici ancora politicamente incoerenti tra di loro e che il proposito di Lenin di omogeneizzare tra di loro queste diverse componenti nella sostanza non abbia avuto successo.
E’ a partire da questa impostazione che le organizzazioni rivoluzionarie degli anni della controrivoluzione, nonostante la fase politica avversa, si sono sempre concepite come organizzazioni non solo internazionaliste ma anche internazionali. E non è un caso che uno dei trucchi utilizzati per attaccare la Frazione Italiana all’interno dell’Opposizione Internazionale di Trotskij fu proprio quello di accusarla di seguire una politica “nazionale” ([8]).
Vediamo invece qual è la concezione che ha il BIPR su questo problema:
“Il BIPR si è costituito come l’unica possibile forma organizzativa e di coordinamento, intermedia fra l’isolato operare di avanguardie in diversi paesi e la presenza di un vero Partito Internazionale (…). Nuove avanguardie – svincolate da vecchi schemi rivelatisi inefficaci a spiegare il presente e da qui progettare il futuro – si accingono al compito di costruzione del partito (…). Queste avanguardie hanno il dovere, che stanno assumendo, di attestarsi e crescere sulla base di un corpo di tesi, una piattaforma e un quadro organizzativo coerenti fra loro e con il Bureau che, in questo senso, si pone come punto di riferimento della necessaria omogeneizzazione delle forze nel futuro partito" ([9]).
Fin qui il discorso del BIPR, a parte qualche presunzione di troppo, non sembra, in linea di massima, in contraddizione con l’impostazione suddetta. Ma il passaggio successivo pone più di un problema:
“Punto di riferimento non significa struttura impositiva. Il BIPR non intende accelerare i tempi della aggregazione internazionale delle forze rivoluzionarie oltre i tempi “naturali” della crescita politica delle avanguardie comuniste nei diversi paesi” (9).
Questo significa che il BIPR, ovvero le due organizzazioni che ne fanno parte, non ritengono possibile costituire un’unica organizzazione internazionale prima della costituzione del partito mondiale. Per di più si fa riferimento a strani “tempi naturali della crescita politica delle avanguardie politiche nei diversi paesi” il cui significato è più chiaro se si va a vedere da quale visione il BIPR tende a demarcarsi, quella della CCI e della sinistra comunista italiana:
“Rifiutiamo in linea di principio, e sulla base di diverse risoluzioni congressuali, l’ipotesi di creazione di sezioni nazionali per gemmazione di un’organizzazione preesistente, foss’anche la nostra. Non si costruisce una sezione nazionale del partito internazionale del proletariato creando in modo più o meno artificiale in un paese un centro redazionale di pubblicazioni redatte altrove e comunque al di fuori delle reali battaglie politiche e sociali del paese stesso” (sottolineature nostre) (9).
Questo passaggio merita evidentemente un’attenta risposta perché qui è contenuta la differenza strategica nella politica di raggruppamento internazionale operata dal BIPR rispetto a quella della CCI. Naturalmente la nostra strategia di raggruppamento internazionale viene volutamente ridicolizzata parlando di “gemmazione di un’organizzazione preesistente”, di creazione “in modo più o meno artificiale in un paese di un centro redazionale di pubblicazioni redatte altrove” … in modo da indurre automaticamente nel lettore un istinto di rifiuto per la strategia della CCI.
Ma andiamo al concreto e cerchiamo di confrontarci con un ipotetico caso reale. Secondo il BIPR, se sorge un nuovo gruppo di compagni, poniamo in Canada, che tende verso le posizioni internazionaliste, questo gruppo può usufruire del contributo critico fraterno, anche della polemica, ma deve crescere e svilupparsi a partire dal contesto politico del proprio paese, “all’interno delle reali battaglie politiche e sociali del paese stesso”. Questo significa che per il BIPR è più importante il contesto attuale e locale di un certo paese che il quadro internazionale e storico fornito dall’esperienza del movimento operaio. Qual è viceversa la nostra strategia di costruzione della organizzazione a livello internazionale che il BIPR cerca volutamente di porre in cattiva luce parlando di “creazione di sezioni nazionali per gemmazione di un’organizzazione preesistente”? Che siano 1 o 100 gli aspiranti militanti in un paese nuovo, la nostra strategia non è quella della creazione di un gruppo locale da far evolvere sul posto, attraverso le “reali battaglie politiche e sociali del paese stesso”, ma di integrare subito questi nuovi militanti nel lavoro internazionale di organizzazione tra cui, centralmente, c’è l’intervento nel paese in cui tali compagni si trovano. E’ per questo che, anche con deboli forze, la nostra organizzazione si sforza di essere subito presente con una pubblicazione locale sotto la responsabilità del nuovo gruppo di compagni perché questa, riteniamo, è la maniera più diretta e più efficace per, da una parte, allargare la nostra influenza e, dall’altra, procedere direttamente alla costruzione della organizzazione rivoluzionaria. Cosa ci sia di artificiale in questo, che senso abbia parlare di gemmazione di organizzazioni precedenti, è tutto da spiegare ancora.
In realtà, queste deformazioni di BC e della CWO sul piano organizzativo affondano le loro radici in una più profonda e generale incomprensione da parte di queste formazioni di qual è la differenza che esiste tra la II e la III Internazionale in conseguenza del cambiamento di periodo storico:
I resti di federalismo che sussistono nella IC sono le vestigia del periodo precedente (come la questione parlamentare, per esempio) che pesano ancora sulla nuova internazionale ("il peso delle generazioni morte pesa sul cervello dei viventi" - Marx, Il 18 Brumaio).
In più si può aggiungere che lungo tutta la sua storia (anche quando era normale che l’Internazionale avesse una struttura più federalista) la Sinistra marxista ha sempre lottato contro il federalismo. Ricordiamo gli episodi più significativi:
Si potrebbe ancora aggiungere che il processo di formazione di un partito a livello mondiale prima che si siano consolidate o addirittura create le sue componenti nei singoli paesi è proprio il processo di formazione dell’IC ([11]). E’ noto che su questa questione esisteva un disaccordo tra Lenin e Rosa Luxemburg. Quest’ultima era contro la fondazione immediata dell’IC -e aveva dato di conseguenza mandato al delegato tedesco Eberlein di votare contro la sua fondazione- perché lei riteneva che i tempi non fossero maturi per il fatto che la maggior parte dei partiti comunisti non si erano ancora formati e che per questo fatto il partito russo avrebbe avuto un peso troppo grande all’interno dell’IC. I suoi timori sul peso eccessivo che avrebbe avuto il partito russo si sono rivelati purtroppo giusti con il rinculo della fase rivoluzionaria e la degenerazione dell’IC, ma noi pensiamo tuttavia che Lenin avesse ragione a non attendere ulteriormente per fondare l’IC: in effetti, era già troppo tardi rispetto alle esigenze della classe, anche se i comunisti non potevano fare di meglio con la guerra che era terminata qualche mese prima.
Sarebbe interessante sapere dal BIPR il suo parere su questa disputa storica: pensa forse che avesse ragione Rosa contro Lenin a sostenere l’immaturità dei tempi nella fondazione dell’IC?
Questa impostazione federalista sul piano teorico si riflette naturalmente nella sua pratica quotidiana. Le due organizzazioni che formano il BIPR hanno avuto per 13 anni, a partire dalla sua costituzione e fino al 1997, due piattaforme politiche distinte, non hanno momenti assembleari di organizzazione (se non delle singole componenti a cui partecipa una delegazione dell’altra, il che è tutt’altra cosa), non hanno un dibattito visibile tra di loro né sembra che se ne avverta l’esigenza, anche se nei lunghi 16 anni trascorsi dalla costituzione del BIPR si sono spesso avvertite stridenti differenze nella analisi della attualità, nell’impostazione del lavoro internazionale, ecc. La verità è che questo modello di organizzazione, che il BIPR osa elevare al rango di “unica possibile forma organizzativa e di coordinamento” in questo momento, è di fatto la forma di organizzazione opportunista per eccellenza. E’ l’organizzazione che permette di attirare nell’orbita del BIPR nuove organizzazioni conferendo loro l’etichetta di "sinistra comunista” senza forzare eccessivamente la loro natura di origine. Quando il BIPR dice che occorre attendere la maturazione dei tempi naturali della crescita politica delle avanguardie politiche nei diversi paesi, di fatto non fa che esprimere la sua teoria opportunista di non spingere troppo la critica dei gruppi con cui è in contatto per evitare di perderne la fiducia ([12]).
Tutto questo non ce lo siamo inventati, è il semplice bilancio di 16 anni di BIPR che, nonostante tutto il trionfalismo che emerge dalla stampa di questa formazione politica, non ha portato finora a significativi risultati: 2 erano i gruppi che hanno formato il BIPR nel 1984, 2 sono i gruppi che ne fanno parte ancora oggi. E allora forse potrebbe essere di qualche utilità per BC e la CWO passare in rassegna i vari gruppi che si sono avvicinati o che ne hanno fatto parte solo transitoriamente e valutare dove sono andati a finire o perché non sono rimasti agganciati al BIPR. Ad esempio che fine hanno fatto gli iraniani del SUCM-Komala? E i compagni indiani di Al Pataka? E ancora i compagni francesi che hanno costituito addirittura per un breve periodo una terza componente del BIPR?
Come si vede una politica di raggruppamento opportunista è non solo politicamente sbagliata, ma anche una politica perdente.
2. La politica di raggruppamento e di costruzione dell’organizzazione
Su questo secondo punto, naturalmente, non si può che cominciare da Lenin, grande forgiatore di partito e promotore primo della creazione della Internazionale Comunista. Probabilmente uno dei contributi più importanti forniti da Lenin è stata la battaglia che egli ha combattuto e vinto al II Congresso del POSDR nel 1903 sull’articolo 1 dello statuto, per affermare dei criteri stretti di appartenenza al partito:
“Dimenticare la differenza che esiste tra il reparto d’avanguardia e tutte le masse che gravitano verso di esso, dimenticare il costante dovere del reparto d’avanguardia di elevare strati sempre più vasti sino al livello dell’avanguardia, vorrebbe solo dire ingannare se stessi, chiudere gli occhi di fronte all’immensità dei nostri compiti, restringere questi compiti. E si fa precisamente questo quando si cancella ogni differenza fra coloro che aderiscono e coloro che entrano nel partito, fra gli elementi coscienti e attivi e coloro che danno un aiuto” (Lenin, Un passo avanti e due indietro, 1904, in Opere Scelte, Editori Riuniti).
Questa battaglia di Lenin, che portò alla separazione del partito socialdemocratico russo tra bolscevichi (maggioritari) e menscevichi (minoritari) ha un valore storico particolare perché anticipa di diversi anni il nuovo modello di partito, il partito di quadri, più stretto, più adeguato alla nuova fase storica di “guerre o rivoluzioni”, rispetto al vecchio modello di partito di massa, più ampio e meno rigoroso sui criteri di militanza, valido nella fase storica di espansione del capitalismo.
In secondo luogo si pone il problema di come si deve atteggiare questo partito (o frazione o gruppo politico che sia) nei confronti di altre organizzazioni proletarie esistenti. In altri termini come rispondere alla giusta esigenza del raggruppamento delle forze rivoluzionarie nella maniera più efficace possibile? Anche qui possiamo fare riferimento a quella che è stata l’esperienza storica del Movimento Operaio, a partire dal dibattito nell’Internazionale con la Sinistra Italiana sulla questione della integrazione dei centristi nella formazione dei partiti comunisti. La posizione di Bordiga è chiarissima e il suo apporto è fondamentale per l’accettazione da parte della Internazionale di una 21a condizione che indicava che:
“I membri del partito che rifiutino in via di principio le condizioni e le tesi elaborate dall’Internazionale Comunista debbono essere espulsi dal partito. Lo stesso vale specialmente per i delegati ai congressi straordinari” ([13]).
Bordiga, nel 1920, era preoccupato che alcune componenti centriste, che nel ’14 non si erano particolarmente sporcate le mani, potessero trovare conveniente lavorare nei nuovi partiti comunisti piuttosto che nei vecchi partiti socialdemocratici notevolmente screditati:
“Oggi, è molto facile dire che in una nuova guerra non si cadrà più nei vecchi errori, cioè negli errori dell’unione sacra e della difesa nazionale. La rivoluzione è ancora lontana, diranno i centristi, non è un problema immediato. E accetteranno le tesi dell’Internazionale Comunista: il potere dei soviet, la dittatura del proletariato, il terrore rosso (…). Gli elementi di destra accettano le nostre tesi ma in modo insufficiente, con alcune riserve. Noi comunisti dobbiamo esigere che questa accettazione sia totale e senza limiti sia nel campo della teoria che nel campo dell’azione (…). Contro i riformisti dobbiamo erigere barriere insormontabili (…). Di fronte al programma non v’è disciplina: o lo si accetta o non lo si accetta; e in quest’ultimo caso si esce dal partito” (dal discorso di Amadeo Bordiga sulle “Condizioni di ammissione all’IC”, 1920, pubblicato in La Sinistra Comunista nel cammino della rivoluzione, Edizioni sociali, 1976).
Tra gli apporti di Bordiga e della Sinistra Italiana questa è una delle questioni chiave. E’ a partire da questa posizione che Bordiga si scontrerà successivamente con una Internazionale in piena involuzione, battendosi contro la politica della integrazione dei centristi all’interno dei partiti comunisti come corollario della messa al centro della difesa dello Stato russo rispetto a qualunque altro problema ([14]). E’ noto in particolare che l’Internazionale cercò di forzare il PCd’I a integrare nei suoi ranghi l’ala massimalista (di sinistra) del PSI, i cosiddetti “terzinternazionalisti” o “terzini” di Serrati, da cui il PCd’I si era separato nel ’21 all’atto della sua costituzione.
Questo rigore nei rapporti con le correnti moderate, centriste, non ha però mai voluto dire chiusura settaria, rifiuto di dialogo, di discussione, tutt’altro! Anzi, dalle sue origini come frazione astensionista del PSI, la sinistra italiana ha sempre lavorato al recupero delle energie rivoluzionarie rimaste su posizioni centriste, sia per rafforzare i propri ranghi sia per sottrarre queste stesse forze al nemico di classe:
“Benché organizzata in frazione autonoma all’interno del PSI, con un suo organo di stampa, la frazione astensionista cercava prima di tutto di conquistare la maggioranza del partito al suo programma. Gli astensionisti pensavano ancora che ciò fosse possibile, malgrado la schiacciante vittoria della tendenza parlamentarista rappresentata dall’alleanza tra Lazzari e Serrati. La frazione non poteva diventare partito che operando con tutte le sue forze per la conquista di almeno una minoranza significativa. Non abbandonare il terreno prima di aver condotto la lotta fino in fondo sarà sempre la preoccupazione del movimento “bordighista”; e in questo non fu mai una setta, come gli rimproverarono i suoi avversari” ([15]).
Possiamo dunque riassumere dicendo che esistono due aspetti fondamentali che caratterizzano la politica della Sinistra italiana (nella tradizione dei bolscevichi):
E’ opportuno mettere in evidenza che esiste un legame tra il rigore programmatico e organizzativo della Sinistra italiana e la sua apertura alla discussione: conformemente alla tradizione della Sinistra, essa sviluppa una politica a lungo termine basata sulla chiarezza e la solidità politiche e rigetta i "successi" immediati basati sulle ambiguità che sono la premessa di sconfitte future aprendo la porta all’opportunismo (“L’impazienza è la madre dell’opportunismo”, Trotsky); essa non ha paura di discutere con altre correnti perché ha fiducia nella solidità delle sue posizioni.
Analogamente esiste un legame tra la confusione e l’ambiguità degli opportunisti e il loro “settarismo” che, in genere, è orientato verso la sinistra e non la destra.
Quando si è consapevoli della scarsa solidità delle proprie posizioni, evidentemente si ha timore a confrontarsi con quelle della Sinistra (vedi ad esempio la politica dell’IC dopo il II Congresso che si apre al centro ma che diventa “settaria” nei confronti della Sinistra con, ad esempio, l’esclusione del KAPD; la politica di Trotsky che esclude in maniera burocratica la Sinistra italiana dall’Opposizione internazionale per poter praticare l’entrismo nella socialdemocrazia; la politica del PCInt nel 1945 e dopo che esclude la Sinistra Comunista Francese per poter tranquillamente raggrupparsi con ogni sorta di elementi più che opportunisti e che rifiutano di fare la critica dei loro errori passati).
“Fra le opposizioni, la Frazione italiana ci dà una magnifica lezione di metodo e di responsabilità rivoluzionaria battendosi per il raggruppamento dei rivoluzionari, ma soprattutto per la chiarezza delle posizioni politiche. La sinistra italiana ha sempre messo in evidenza la necessità di un documento di programma contro le politiche manovriere che hanno, d’altronde, rovinato l‘opposizione di sinistra. Così, se doveva esserci una rottura, essa avrebbe potuto compiersi sulla base di testi.
Questo metodo, la sinistra italiana l’aveva fatto suo fin dalla nascita durante la prima guerra mondiale all’interno della II Internazionale; l’aveva poi seguito di nuovo nell’IC in degenerazione dal 1924 fino al I928, data della sua costituzione in frazione a Pantin.
Lo stesso Trotskij ha reso omaggio a questa onestà politica nella sua ultima lettera alla frazione nel dicembre 1932. “La separazione con un onesto gruppo rivoluzionario (sottolineatura nostra) come il vostro non deve essere necessariamente accompagnato da animosità, da attacchi personali o da critiche velenose”.
Al contrario il metodo di Trotskij in seno all’opposizione non ha niente e che vedere con quello del movimento operaio. L’esclusione della sinistra italiana è stata portata avanti con gli stessi procedimenti usati nell’IC stalinizzata, senza un chiaro dibattito che motivasse la rottura. Questo atteggiamento non è stato né il primo, né l’ultimo: Trotskij ha spesso sostenuto degli “avventurieri” che hanno saputo ispirargli fiducia. Per contro tutti i gruppi come la sinistra belga, tedesca, spagnola e tutti i militanti rivoluzionari e di valore come Rosmer, Nin, Landau e Hennaut sono stati scartati o espulsi gli uni dopo gli altri fino a fare dell’Opposizione Internazionale di Sinistra una corrente puramente “trotskista”” ([16]).
E’ attraverso questo calvario di lotta per difendere il patrimonio dell’esperienza del marxismo e con esso la sua stessa identità politica che la Sinistra Italiana finisce per essere, a livello internazionale, la corrente politica che ha meglio espresso la necessità di un partito coerente, escludendo gli incerti ed i centristi ma che al tempo stesso ha sviluppato le migliori capacità per impostare una politica di aggregazione tra forze rivoluzionarie perché si è basata sempre sulla chiarezza delle posizioni e del modo di lavorare.
Il Bipr (e prima di esso il PCInt dal ‘43 in poi) -che reclama di essere l’unico vero erede politico della sinistra italiana- è veramente all’altezza dei nostri progenitori politici? I suoi criteri di adesione al partito sono stretti come Lenin giustamente pretendeva che fossero? Onestamente non ci pare: tutta la storia di questo gruppo è costellata di episodi di “opportunismo nelle questioni organizzative” e, più che applicare gli orientamenti ai quali dice di aderire, il BIPR conduce di fatto una pratica politica che è molto più vicina a quella della IC nella sua fase di degenerazione e dei trotskisti. Ci soffermeremo solo su alcuni esempi storici emblematici per dimostrare quanto diciamo.
1943-46
Nel 1943 si costituisce nel nord Italia il Partito Comunista Internazionale (PCInt). La notizia crea molte aspettative e la direzione del nuovo partito indulge abbondantemente ad una pratica opportunista. A partire dall’ingresso in massa nel PCInt dei vari elementi provenienti dalla lotta partigiana ([17]), o dei vari gruppi del sud alcuni dei quali provenienti dal PSI e dal PCI, altri ancora dal trotskismo, oltre ad una serie di militanti che avevano apertamente rotto con il quadro programmatico e organizzativo cui aderivano per lanciarsi in avventure esplicitamente controrivoluzionarie, come la minoranza della Frazione del PCI all’estero che va a “partecipare” alla guerra di Spagna ’36, Vercesi che partecipa alla “Coalizione Antifascista” di Bruxelles nel 1943 ([18]). Naturalmente da nessuno di questi militanti che andavano ad ingrossare le fila del nuovo partito si è preteso mai una reale resa di conto della precedente attività politica. E, in tema di adesione allo spirito e alla lettera di Lenin, che dire dello stesso Bordiga, che partecipa alle attività del partito fino al ’52 ([19]), contribuendo attivamente a ispirarne la linea politica e scrivendo anche una piattaforma politica approvata dal partito … senza neanche esserne militante?
In questa fase è la Frazione Francese della Gauche Communiste (FFGC, Internationalisme) che prende il testimone della linea di sinistra, recuperando e rafforzando l’eredità politica della Frazione italiana all’estero (Bilan). Ed è appunto la FFGC che pone al PCInt il problema delle integrazioni di Vercesi e della minoranza di Bilan fatte senza chiedere loro alcun conto politico degli errori del passato e ancora della stessa costituzione del partito in Italia fatta ignorando completamente il lavoro di “bilancio” svolto per 10 anni dalla Frazione all’estero.
Nel ‘45 viene costituito un Bureau internazionale tra il PCInt, la Frazione belga e una Frazione francese “doppione” rispetto alla FFGC. Di fatto questa FFGC-bis era stata costituita a partire da una scissione di due elementi appartenenti alla Commissione Esecutiva (CE) della FFGC che avevano preso contatto con Vercesi a Bruxelles e probabilmente si erano fatti convincere dalle sue argomentazioni, dopo essere stati sostenitori della tesi della sua esclusione immediata, senza discussione” ([20]).- Di questi due una era molto giovane ed inesperta (Suzanne), mentre l’altro veniva dal POUM spagnolo (e finisce successivamente in Socialisme ou Barbarie). La FFGC-bis si è poi “rafforzata” con l’entrata di elementi della minoranza di Bilan e della vecchia Union Comuniste (Chazé, etc.) che la Frazione aveva severamente criticato per le loro concessioni all’antifascismo durante la guerra di Spagna.
Di fatto la creazione di questa Frazione doppione risponde all’esigenza di togliere credibilità a Internationalisme. Come si vede la storia si ripete, nella misura in cui Il PCInt non fa che ripetere la stessa manovra portata avanti nel 1930 all’interno della Opposizione contro la Frazione Italiana attraverso la costituzione della Nuova Opposizione Italiana (NOI), gruppo formato da ex stalinisti che solo due mesi prima si erano sporcati le mani espellendo Bordiga dal PCI e la cui funzione politica non poteva che essere quella di fare una provocatoria concorrenza politica alla Frazione.
La GCF scrive il 28 novembre 1946 al PCInt una lettera con un’appendice in cui si fa l’elenco di tutte le questioni da dibattere e che riguardavano una serie di mancanze di cui si erano resi responsabili varie componenti della Sinistra Comunista Italiana durante il periodo bellico (Internationalisme n. 16). A questa lettera di 10 pagine il PCInt risponde in maniera lapidaria con le seguenti parole:
Riunione del Bureau Internazionale – Parigi:
“Poiché la vostra lettera dimostra, ancora una volta, la costante deformazione dei fatti e delle posizioni politiche prese, sia dal PCI d’Italia, sia dalle Frazioni belga e francese; che voi non costituite una organizzazione politica rivoluzionaria e che la vostra attività si limita a seminare confusione e a buttare fango sui nostri compagni, noi abbiamo escluso all’unanimità la possibilità di accettare la vostra domanda di partecipazione alla riunione internazionale delle organizzazioni della GCI”.
E’ proprio vero che la storia su ripete, una volta come tragedia, la seconda volta come farsa: la GCI viene esclusa in maniera burocratica dall’IC dopo il 1926, viene poi ugualmente esclusa dall’Opposizione di sinistra nel 1933 (vedi il nostro opuscolo sulla Sinistra Comunista Italiana), adesso tocca alla GCI di escludere burocraticamente la Frazione francese dai suoi ranghi per evitare il confronto politico.
Anni ‘50
L’eclettismo delle posizioni politiche fa sì che, successivamente, ognuno vada per conto proprio. Con la scissione del 1952, la componente bordighista gioca il ruolo dell’“intransigente” della sinistra italiana, ma spinta alla caricatura: non si discute con nessuno, ecc. L’altra componente, il PCInt/Battaglia Comunista, gioca invece il ruolo dell’“apertura” e, nell’autunno del 1956, assieme ai GAAP ([21]), ai troskisti dei Gruppi Comunisti Rivoluzionari (GCR) e ad Azione Comunista ([22]) costituisce un Movimento per la Sinistra Comunista il cui carattere più saliente è l’eterogeneità e la confusione. Questi quattro gruppi saranno chiamati ironicamente da Bordiga il “quadrifoglio”.
Anni ‘70
Nei primi mesi del 1976 Battaglia Comunista lancia “una proposta per cominciare”, indirizzata “ai gruppi internazionali della Sinistra Comunista” in cui invita:
La CCI aderisce in maniera convinta alla conferenza, chiedendo però la definizione di criteri politici minimi per partecipare. BC, abituata a ben altre conferenze (vedi sopra), è riluttante a tracciare delle linee più strette: ha evidentemente timore di chiudere la porta a qualcuno.
La prima Conferenza si svolge a Milano nel maggio 1977 con soli due partecipanti, BC e CCI, ma BC si oppone a qualunque pronunciamento esterno, ivi compresa una critica dei gruppi invitati e che non avevano aderito alla Conferenza.
Alla fine del 1978 si tiene la II Conferenza a Parigi dove finalmente diversi gruppi partecipano ai lavori. Alla fine della conferenza si torna sulla questione dei criteri di adesione e stavolta è BC che suggerisce dei criteri più stretti:
“I criteri devono permettere di escludere i consiliaristi da queste Conferenze, e noi dobbiamo dunque insistere sul riconoscimento della necessità storica del Partito come criterio essenziale”, a cui noi rispondevamo ricordando la “nostra insistenza in occasione della prima Conferenza perché ci fossero dei criteri. Oggi, noi pensiamo che l’adozione di criteri supplementari non sia opportuna. Questo non è per mancanza di chiarezza, sia sulla questione dei criteri in sé che sulla questione nazionale o sindacale, ma perché è prematuro. Vi è ancora una grande confusione nell’insieme del movimento rivoluzionario su questi temi; e il NCI ha ragione ad insistere sulla visione dinamica dei gruppi politici ai quali noi chiuderemmo prematuramente la porta” ([23]).
Nella prima metà del 1980 si tiene la III e ultima Conferenza Internazionale la cui atmosfera esprime dall’inizio l’epilogo che questa avrebbe avuto. Al di là del merito delle discussioni, si manifesta in questa Conferenza la volontà precisa da parte di BC di escludere la CCI da eventuali ulteriori conferenze. Come nella Favola di Fedro, dove il lupo, non riuscendo ad accusare l’agnel-lo di avergli sporcato l’acqua del fiume in cui beveva, finisce per attribuire la responsabilità al padre dell’agnello e trovare così una giustificazione per sbranarlo. Allo stesso modo BC, vedendo sempre più nella CCI non un gruppo dello stesso fronte con cui arrivare eventualmente verso una chiarificazione a vantaggio di tutti i compagni e i nuovi gruppi in via di formazione, ma un pericoloso concorrente nell’accaparramento di tali compagni e di tali nuovi gruppi, alla fine ha trovato l’espediente di fare approvare dalla conferenza un criterio politico di ammissione ancora più stretto e selettivo per escludere definitivamente la CCI ([24]).
In conclusione si passa dalla I Conferenza, dove non solo non viene posto, ma viene addirittura osteggiato, ogni criterio politico di adesione, alla III Conferenza alla fine della quale vengono imposti dei criteri creati ad hoc per eliminare la CCI, cioè la componente di sinistra all’interno delle conferenze. La 3a Conferenza è un remake dell’esclusione della GCF del ’45 e dunque l’infausto prolungamento dei precedenti episodi di esclusione della SCI dall’IC (1926) e dall’Opposizione (1933).
La responsabilità politica assunta da BC (e dalla CWO) in questa circostanza è enorme: solo qualche mese dopo (agosto ’80) scoppia lo sciopero di massa in Polonia e il proletariato mondiale perde un’occasione d’oro di ricevere un intervento coordinato da parte dell’insieme dei gruppi della sinistra comunista.
Ma non finisce qui. Dopo qualche tempo BC e CWO, per dimostrare che non avevano distrutto un ciclo di tre conferenze e quattro anni di lavoro internazionale per niente, si inventano una quarta conferenza cui, oltre a loro, partecipa un sedicente gruppo rivoluzionario iraniano, contro il quale noi avevamo peraltro messo in guardia la stessa BC. E’ solo a distanza di qualche anno che il BIPR finalmente fa il mea culpa riconoscendo che questo gruppo di iraniani certamente rivoluzionario non era.
Anni ‘90
Arriviamo così alla fase recente degli ultimissimi anni trascorsi, rispetto ai quali noi avevamo segnalato una debole ma incoraggiante apertura al dialogo e al confronto all’interno del campo politico proletario ([25]). L’aspetto per certi versi più interessante era l’inizio di integrazione nell’attività di intervento che si stava realizzando tra la CCI e il BIPR (attraverso la sua componente inglese della CWO). Intervento concertato assieme quando non fatto addirittura in comune nei confronti, ad esempio, delle conferenze su Trotskij tenute in Russia, una riunione pubblica sulla Rivoluzione del ’17 organizzata e tenuta assieme a Londra, una comune difesa contro l’attacco di certe formazioni parassitarie, ecc. ecc. Noi abbiamo sempre condotto questi interventi con il chiaro proposito di non fagocitare chicchessia, di non creare dei cunei all’interno del BIPR tra BC e la CWO. Certo è che la maggiore apertura della CWO e la sorda assenza di BC ci ha sempre preoccupato. E alla fine, quando BC ha ritenuto che la misura fosse colma, ha fatto quadrato intorno a sé e ha chiamato i propri partner all’obbedienza di partito, pardon, di BIPR. Da quel momento in poi tutto quello che prima era stato considerato ragionevole e normale per la CWO ha cominciato a cambiare. Niente più coordinamento del lavoro in Russia, niente più riunioni pubbliche in comune, e così via. E ancora una volta una grave responsabilità grava sulle spalle del BIPR che ha consentito che per opportunismo di bottega il proletariato mondiale dovesse affrontare uno degli episodi più difficili dell’attuale fase storica, la guerra nel Kosovo, senza che la sua avanguardia riuscisse a esprimere una presa di posizione comune.
Per avere tutta la misura dell’opportunismo del BIPR a proposito del suo rifiuto al nostro appello sulla guerra è istruttivo andare a rileggere un articolo comparso su BC del novembre ‘95, “Equi-voci sulla guerra nei Balcani”. BC racconta di aver ricevuto dall’OCI ([26]) una lettera/invito a una Assemblea nazionale contro la guerra da tenersi a Milano e di aver considerato “il contenuto della lettera interessante e fortemente correttivo rispetto alle posizioni assunte dall’OCI a proposito della guerra del Golfo, di sostegno al “popolo iracheno attaccato dall’imperialismo” e fortemente polemiche nei confronti di un nostro preteso indifferentismo. (…) Manca il riferimento alla crisi del ciclo di accumulazione (…) e l’essenziale esame delle sue conseguenze sulla Federazione Yugoslavia (…). Ma non ci sembrava precludere una possibilità di iniziativa congiunta di chi si oppone alla guerra sul piano di classe” (sottolineato da noi). Come si vede, soltanto 4 anni fa, in una situazione anche meno grave di quella che abbiamo vissuto con la guerra nel Kosovo, BC sarebbe stata pronta a promuovere una iniziativa comune con un gruppo ormai chiaramente controrivoluzionario ([27]) pur di soddisfare le sue mene attivistiche, mentre alla CCI ha avuto il coraggio di dire di no perché… ha posizioni troppo distanti. Questo sì che è opportunismo.
3. Conclusioni
In questo articolo ci siamo dedicati a rispondere alla tesi del BIPR secondo cui organizzazioni come la nostra si sarebbero estraniate dal metodo e dalle prospettive di lavoro che condurranno alla aggregazione del futuro partito rivoluzionario. Per fare questo abbiamo preso in considerazione i due livelli a cui si pone il problema dell’organizzazione, e su entrambi abbiamo dimostrato che è il BIPR, e non la CCI, ad uscire fuori dalla tradizione della sinistra comunista italiana e internazionale. Di fatto l’eclettismo che guida il BIPR nella sua politica di raggruppamento somiglia tanto a quella di un Trotskij alle prese con l’edificazione della sua IV Internazionale; la visione della CCI è invece quella della Frazione italiana, che ha sempre combattuto per un raggruppamento fatto nella chiarezza e sulla base del quale recuperare gli elementi del centro, gli esitanti.
A dispetto dei vari eredi presunti, la reale continuità della Frazione italiana è rappresentata oggi dalla CCI, organizzazione che si richiama e fa proprie tutte le battaglie degli anni ‘20, degli anni ‘30 e degli anni ‘40.
31 agosto 2000 Ezechiele
[1] BIPR sta per Bureau Internazionale per il Partito Rivoluzionario ed è una organizzazione internazionale che collega le due organizzazioni Communist Workers Organisation di Gran Bretagna e il Partito Comunista Internazionalista d’Italia.
[2] Pubblicato su Battaglia Comunista n. 1, gennaio 2000 e su Internationalist Communist n. 18, inverno 2000.
[3] 21 erano anche le condizioni di adesione all’IC!
[4] A proposito dell’appello lanciato dalla CCI sulla guerra in Serbia. L’offensiva guerriera della borghesia esige una risposta unita da parte dei rivoluzionari. Revue Internationale n. 98, luglio 1999.
[5] Vedi anche Il metodo marxista e l’appello della CCI sulla guerra nella ex-Jugoslavia, Rivista Internazionale n. 23, marzo 2000.
[6] Si tratta dei punti 13 e 16 dove sussistono divergenze non di fondo ma relative all’analisi dell’attualità.
[7] Dei resoconti e delle valutazioni critiche di queste conferenze possono essere ritrovati in vari articoli della nostra Rivista Internazionale e in appositi opuscoli richiedibili al nostro indirizzo.
[8] “Durante tutto questo periodo (1930), Trotskij è informato attraverso le lettere di Rosmer. Quest’ultimo, sfavorevole alla sinistra italiana, “blocca tutte le discussioni”. Critica Prometeo che vorrebbe creare, inizialmente, delle sezioni nazionali, prima della Internazionale, e dà l’esempio di Marx e di Engels che “hanno cominciato nel 1847 il movimento comunista con un documento internazionale e con la creazione della 1a Internazionale.” Questa argomentazione merita di essere sottolineata poiché essa sarà spesso ripresa, a torto, contro la Frazione italiana” (CCI, Rapporti tra la Frazione di sinistra del PCd’I d’Italia e l’Opposizione di Sinistra Internazionale. 1923-1933).
[9] BIPR, Verso la Nuova Internazionale, Prometeo n. 1, serie VI, giugno 2000.
[10] Per una impostazione generale sul problema vedi l'articolo “Sul partito e i suoi rapporti con la classe”, testo approvato al V Congresso della CCI e pubblicato nella Revue Internationale n. 35.
[11] “I delegati (al Congresso di fondazione dell’IC) … sono per la maggior parte bolscevichi ed anche coloro che, in un modo o nell’altro, si proclamano rappresentanti del PC di Polonia e di quelli della Lettonia, dell’Ucraina, della Lituania, della Bielorussia, dell’Armenia, del gruppo unificato dei popoli della Russia orientale possono senza dubbio essere considerati rappresentanti di sezioni distaccate del partito bolscevico. (…). I soli che vengono dall’estero sono i due delegati svizzeri, Fritz Platten e Katscher, il tedesco Eberlein …, il norvegese Stange e lo svedese Grimlund, il francese Guilbeaux. Ma anche in questo caso, la loro rappresentatività può essere discussa. (…) Non restano dunque che due delegati ad avere un mandato incontestabile, lo svedese Grimlund ed Eberlein…” (da Pierre Broué, Le origini dell’Internazionale Comunista, EDI, Paris 1974, p. 35-36).
[12] E’ questa la critica che abbiamo fatto a BC a proposito della sua gestione opportunista dei rapporti con gli elementi del GLP, formazione politica i cui componenti, in rottura con l’autonomia, hanno raggiunto una mezza chiarezza, portando però con sé anche una buona dose delle confusioni di partenza: “Un intervento che, lungi dal favorire la chiarificazione di questi (elementi, ndr) e il loro definitivo approdo verso una coerenza rivoluzionaria, ne ha invece bloccato la possibile evoluzione” (da “I Gruppi di Lotta Proletaria”: un tentativo incompiuto di raggiungere una coerenza rivoluzionaria, su Rivoluzione Internazionale n. 106).
[13] Testo della 21° delle Condizioni di ammissione all’Internazionale Comunista approvate dal secondo congresso del Comintern, 6 agosto 1920, riportate in Jane Degras (a cura di), Storia dell’Internazionale Comunista, Feltrinelli, 1975).
[14] Questa politica portò come conseguenza alla emarginazione delle energie rivoluzionarie all’interno di partiti e ad esporle più facilmente alla repressione e al massacro, come nel caso della Cina.
[15] CCI, La Sinistra Comunista Italiana 1927-1952.
[16] Dall’opuscolo della CCI: Rapporti tra la Frazione di sinistra del PCd’I d’Italia e l’Opposizione di Sinistra Internazionale. 1923-1933.
[17]Vedi: Le ambiguità sulla natura di classe della “resistenza” nella fondazione del Partito Comunista Internazionalista (1943). Lettera di Battaglia Comunista e Risposta della CCI. In Rivoluzione Internazionale n. 7. Vedi anche: CCI, Storia della Sinistra comunista italiana, pag. 200.
[18] Vedi i due articoli All’origine della CCI e del BIPR, I e II parte, in Rivista Internazionale n. 22 e l’articolo A proposito dell’opuscolo “Tra le ombre del bordighismo e dei suoi epigoni, in Rivoluzione Internazionale n. 108.
[19] Anno della scissione tra l’attuale Battaglia Comunista e la componente “bordighista” del PCInt.
[20] CCI, La Sinistra Comunista Italiana 1927-1952, pag. 191-193.
[21] Alcuni ex partigiani fra cui Cervetto, Masini e Parodi aderiscono al movimento anarchico cercando di coagularsi come tendenza classista in seno ad esso con la costituzione dei Gruppi Anarchici di Azione Proletaria (GAAP) nel febbraio 1951 aventi come organo di stampa “L’Impulso”.
[22] AC nasce nel 1954 come tendenza del PCI formata da Seniga, Raimondi, ex partigiano, e Fortichiari, uno dei fondatori del PCd’I nel 1921 e rientrato nel PCI dopo esserne stato espulso. Seniga era un collaboratore di Pietro Secchia, colui che durante la resistenza definiva i gruppi alla sinistra del PCI “maschera della Gestapo” e invitava ad eliminare fisicamente i militanti di “Prometeo”. Sarà la fusione di una componente di AC con i GAAP a formare nel ’65 il gruppo Lotta Comunista.
[23] Il processo verbale della Conferenza è riprodotto in Textes preparatoires (suite), compte-rendu, correspondance de la 2e Conference des Groupes de la Gauche Communiste, Parigi, novembre ’78.
[24] Vedi Terza Conferenza internazionale dei gruppi della Sinistra comunista (Parigi, maggio 1980): Il settarismo, un’eredità da superare della controrivoluzione, in Revue Internationale n. 22, 3° trimestre 1980. Vedi pure i verbali della III Conferenza pubblicati in francese dalla CCI sottoforma di brochure ed in italiano da BC (come numero speciale di Prometeo). Nell’edizione francese è inoltre presente una nostra presa di posizione sulla conclusione delle conferenze.
[25] 6° Congresso del Partito Comunista Internazionalista. Un passo avanti per la Sinistra Comunista, in Revue Internationale n. 92; Dibattito tra i gruppi “bordighisti”. Una evoluzione significativa del campo politico proletario, in Revue Internationale n. 93; A proposito dell’opuscolo “Tra le ombre del bordighismo e dei suoi epigoni, in Rivoluzione Internazionale n. 108.
[26] OCI, Organizzazione Comunista Internazionalista.
[27] Occorre veramente tutto l’opportunismo di BC per cercare, nell’autunno ’95, dei collegamenti con un’organizzazione che, almeno da 5 anni, dalla guerra del Golfo Persico, non faceva che appoggiare un fronte imperialista contro un altro partecipando così all’intruppamento del proletariato nella carneficina imperialista. Vedi a tale proposito gli articoli pubblicati su Rivoluzione Internazionale: L’OCI: la calunnia è un venticello, n. 76, giugno ‘92; Le farneticazioni dell’OCI, n. 69, aprile ‘91; I pescecani del golfo, n. 67, dicembre ’90.
La "Sinistra Comunista" è in gran parte il prodotto di quelle sezioni del proletariato mondiale che hanno rappresentato la minaccia più grande per il capitalismo durante l'ondata rivoluzionaria internazionale che ha seguito la guerra del 1914-18: il proletariato russo, quello tedesco e l'italiano. Sono queste sezioni "nazionali" che hanno dato il contributo più significativo all'arricchimento del marxismo nel contesto della nuova epoca di decadenza del capitalismo inaugurata dalla guerra. Ma coloro che si sono elevati più in alto sono anche quelli che sono caduti più in basso.
Abbiamo visto negli articoli precedenti di questa serie come le correnti di sinistra del partito bolscevico, dopo i loro primi tentativi eroici di capire e resistere all'inizio della controrivoluzione stalinista, furono quasi completamente eliminate da quest'ultimo, lasciando ai gruppi di sinistra al di fuori della Russia il compito di analizzare che cosa era andato male con la rivoluzione in Russia e di definire la natura del regime che aveva usurpato il suo nome. Qui ancora, le frazioni tedesche ed italiane della Sinistra Comunista hanno svolto un ruolo assolutamente chiave, anche se non sono state le uniche (il precedente articolo di questa serie, per esempio, ha descritto l'emergere d'una corrente comunista di sinistra in Francia negli 1920-30 ed il suo contributo alla comprensione della questione russa) (1). Ma se le sconfitte subite dal proletariato furono pesanti sia in Italia che in Germania, è certamente il proletariato tedesco, che aveva tenuto effettivamente tra le sue mani la sorte della rivoluzione mondiale nel 1918-19, quello che è stato schiacciato più brutalmente e sanguinariamente dagli sforzi congiunti della socialdemocrazia, dello stalinismo e del nazismo. Questo fatto tragico, insieme a determinate debolezze teoriche ed organizzative risalenti all'inizio dell'ondata rivoluzionaria e perfino prima, ha contribuito ad un processo di dissoluzione non meno devastatore di quello che è capitato al movimento comunista in Russia.
Senza entrare nel merito del perchè è stata la Sinistra italiana che è meglio sopravvissuta al naufragio della controrivoluzione, desideriamo confutare una leggenda mantenuta da coloro che sostengono non soltanto di essere gli eredi esclusivi della Sinistra italiana storica, ma riducono la Sinistra comunista, che fu soprattutto un'espressione internazionale della classe operaia, al solo ramo italiano. I gruppi bordighisti, che esprimono più chiaramente questo atteggiamento, naturalmente riconoscono che c'era una importante componente "russa" del movimento marxista durante l'ondata rivoluzionaria ed gli avvenimenti che ne seguirono, ma escludono molte delle correnti di sinistra più significative all'interno del partito bolscevico (Ossinski, Miasnikov, Sapranov, ecc.) e tendono a riferirsi in modo positivo soltanto ai leader "ufficiali" come Lenin e Trotsky. E per quanto riguarda la sinistra tedesca, i bordighisti non fanno che ripetere tutte le deformazioni accumulate su di essa dall'Internazionale Comunista (IC): che era anarchica, sindacalista, settaria, ecc., e ciò precisamente nel momento in cui l'IC cominciava ad aprire le sue porte all'opportunismo. Per questi gruppi è logico concludere che non ci può essere motivo per discutere con le correnti che provengono da questa tradizione o che hanno tentato di fare una sintesi dei contributi delle differenti Sinistre.
Questo non fu in alcun modo il metodo adottato da Bordiga, sia nei primi anni dell'ondata rivoluzionaria, quando il giornale Il Soviet apriva le sue colonne agli articoli scritti da coloro che facevano parte della Sinistra tedesca o si trovavano nella sua orbita, quali Gorter, Pannekoek e Pankhurst; o nel periodo di riflusso, come nel 1926, quando Bordiga rispondeva molto fraternamente alla corrispondenza ricevuta dal gruppo di Korsch (1).
La Frazione italiana ha mantenuto questo atteggiamento negli anni '30. Bilan fu molto critico rispetto alle facili denigrazioni portate dall'IC nei confronti della Sinistra tedesca ed olandese ed apriva molto volentieri le sue colonne ai contributi di questa corrente, come fece per le questioni sul periodo di transizione. Anche se ha avuto disaccordi molto profondi con "gli internazionalisti olandesi", li ha rispettati come espressione genuina del proletariato rivoluzionario. Possiamo dire, con il beneficio del giudizio retrospettivo, che su molte questioni cruciali la Sinistra tedesca ed olandese è arrivata più rapidamente della Sinistra italiana a delle corrette conclusioni: per esempio, sulla natura borghese dei sindacati, sul rapporto fra il partito e i consigli operai e sulla questione trattata in questo articolo: la natura dell'URSS e la tendenza generale verso il capitalismo di stato.
Nel nostro libro sulla Sinistra olandese, per esempio, ricordiamo che Otto Rühle, una delle figure principali della Sinistra tedesca, aveva raggiunto conclusioni molto avanzate sul capitalismo di stato dal 1931.
"Uno dei primi teorici del comunismo dei consigli ad esaminare in profondità il fenomeno del capitalismo di stato fu Otto Rühle. In un libro notevole e pionieristico, pubblicato nel 1931 a Berlino sotto lo pseudonimo di Carl Steuermann, Rühle ha mostrato che la tendenza verso il capitalismo di stato era irreversibile e che nessun paese avrebbe potuto evitarlo a causa della natura mondiale della crisi. Il percorso preso dal capitalismo non era un cambiamento di natura, ma di forma, nel fine di assicurare la sua sopravvivenza come sistema: «la formula di salvezza per il mondo capitalista oggi è: un cambiamento di forma, trasformazione dei quadri, rinnovamento di facciata, senza rinunciare al fine che è il profitto. Si tratta di cercare una via che permetta al capitalismo di continuare ad un altro livello, in un altro campo dell'evoluzione».
Rühle ha previsto approssimativamente tre forme di capitalismo di stato, corrispondenti a differenti livelli di sviluppo. A causa della sua arretratezza economica, la Russia rappresentava la forma estrema del capitalismo di ato: «l'economia pianificata è stata introdotta in Russia prima che l'economia capitalista liberale avesse raggiunto il suo zenit, prima che il suo processo vitale la conducesse alla senilità». Nel caso russo, il settore privato fu completamente controllato ed assorbito dalla stato. All'altro estremo, in un'economia capitalista sviluppata come la Germania, è l'opposto che è accaduto: il capitale privato ha preso il controllo dello stato. Ma il risultato fu identico: il rafforzamento del capitalismo di stato. «c'è una terza via per arrivare al capitalismo di stato. Non attraverso l'espropriazione del capitale da parte dello stato, ma nel modo contrario: il capitale privato s'impadronisce dello stato».
Il secondo "metodo", che potrebbe essere considerato un " misto" dei due, corrisponde all'appropriazione graduale da parte dello stato di settori del capitale privato: «[lo stato] conquista un'influenza crescente sull'industria intera: poco a poco si trasforma in padrone dell'economia».
Tuttavia, il capitalismo di stato non può essere in alcun caso una "soluzione" per il capitalismo. Esso non rappresenta che un palliativo per la crisi del sistema: «il capitalismo di stato è ancora capitalismo(...) anche sotto la forma di capitalismo di stato, il capitalismo non può sperare di prolungare la sua esistenza per molto tempo. Le stesse difficoltà e gli stessi conflitti che lo obbligano ad andare dalla forma privata alla forma statale riappaiono ad un livello più elevato.». Nessuna "internazionalizzazione" del capitalismo di stato potrebbe risolvere il problema del mercato: «la soppressione della crisi non è un problema di razionalizzazione, di organizzazione o di produzione di credito, è puramente e semplicemente un problema di riuscire a vendere». (La Sinistra tedesco-olandese- edizione inglese, pag 276-7).
Anche se, come il nostro libro aggiunge, la posizione di Rühle conteneva una contraddizione nel fatto che egli vedeva nel capitalismo di stato una specie di forma "superiore" del capitalismo che stava preparando la via per il socialismo, il suo libro rimane "un contributo al marxismo di prim’ordine". In particolare, proponendo il capitalismo di stato come una tendenza universale nella nuova epoca, gettava le basi per distruggere l'illusione che il regime stalinista in Russia rappresentasse una totale eccezione in rapporto al resto del sistema mondiale.
Ma Rühle incarna le debolezze della sinistra tedesca così come le sue innegabili forze.
Primo delegato del KAPD al secondo congresso dell'IC nel 1920, Rühle vide per primo la terribile burocratizzazione che già aveva afferrato lo stato sovietico. Ma, senza prendere il tempo necessario per individuare le origini di questo processo nel tragico isolamento della rivoluzione, Rühle abbandonò la Russia senza nemmeno tentare di difendere i punti di vista del suo partito al congresso e rapidamente rigettò ogni forma di solidarietà verso il bastione russo assediato. Espulso dal KAPD per questa trasgressione, cominciò a sviluppare le basi del "consiliarismo": la rivoluzione russa non era altro che una rivoluzione borghese, la forma partito era adatta soltanto a tali rivoluzioni; tutti i partiti politici erano borghesi per natura, ora era necessario fondere gli organi economici e politici della classe in una sola organizzazione "unificata". All’interno della Sinistra tedesca in molti hanno certamente resistito a queste idee negli anni '20 e perfino negli anni '30, esse non erano in alcun modo accettate universalmente all'interno del movimento del comunismo dei consigli, come si può vedere nel testo estratto da Räte Korrespondenz che abbiamo pubblicato nella Révue Internationale n.105. Ma esse hanno certamente causato importanti guasti nella Sinistra tedesco-olandese ed enormemente accelerato il suo crollo organizzativo; allo stesso tempo, negando ogni carattere proletario alla rivoluzione russa e al partito bolscevico, esse hanno bloccato ogni possibilità di comprensione del processo di degenerazione a cui entrambi soccomberanno. Questi punti di vista riflettevano il peso reale dell'anarchismo sul movimento operaio tedesco e hanno reso più facile l'amalgama tra la tradizione della Sinistra comunista tedesca e l'anarchismo.
La Sinistra Italiana: lentamente ma con fermezza
Nel precedente articolo di questa serie, abbiamo visto che all'interno dell'ambiente politico attorno all'Opposizione di sinistra di Trotsky, compreso molti gruppi che stavano muovendosi verso le posizioni della Sinistra comunista, c'era, alla fine degli anni '20 e nel corso degli anni '30, una enorme confusione sulla questione dell'URSS; una confusione particolarmente importante era l'idea che la burocrazia fosse una specie di nuova classe non prevista dal marxismo. Data la profonda debolezza teorica che predominava anche nella Sinistra tedesca ed olandese su questo problema, non era sorprendente che la Sinistra italiana abbia abbordato questo problema con molta prudenza. Rispetto a molti altri gruppi proletari fu molto lentamente che essa arrivò a riconoscere la vera natura della Russia stalinista. Ma poiché era solidamente ancorata al metodo marxista, le sue ultime conclusioni furono più coerenti e più approfondite.
La Frazione ha abbordato "l'enigma russo" nello stesso modo con cui abbordò gli altri aspetti del "bilancio" che doveva essere tirato dai titanici scontri rivoluzionari del periodo successivo alla prima guerra mondiale, e soprattutto dalle sconfitte tragiche che il proletariato aveva sofferto: con pazienza e rigore, evitando qualsiasi giudizio affrettato, basandosi sulle conclusioni che la classe aveva tirato una volta per tutte prima di rimettere in questione delle posizioni acquisite. Riguardo alla natura dell'URSS, la Frazione era in continuità diretta con la risposta di Bordiga a Korsch che noi abbiamo esaminato nel precedente articolo di questa serie: per essa era chiaramente stabilito il carattere proletario della rivoluzione di ottobre e del partito di bolscevico che l'aveva diretta. Effettivamente possiamo dire che la comprensione crescente, da parte della Frazione, dell'epoca inaugurata dalla guerra - l'epoca della decadenza capitalista - le ha permesso di vedere, più chiaramente di Bordiga, che solo la rivoluzione proletaria era all'ordine del giorno della storia in tutti i paesi. Essa dunque non perdeva tempo in speculazioni sul carattere "borghese" o "doppio" della rivoluzione russa. Una idea che, come abbiamo visto, aveva una grande presa sulla sinistra tedesca ed olandese. Per Bilan, rigettare il carattere proletario della rivoluzione di ottobre poteva risultare solo da una specie di "nichilismo proletario", una reale perdita di fiducia nella capacità della classe operaia di portare a termine la sua propria rivoluzione (la frase proviene dall'articolo di Vercesi: "lo stato sovietico" della serie "Partito, Internazionale, Stato" in Bilan n. 21).
Niente di questo fa pensare che la Frazione avesse sposato la nozione di "invarianza del marxismo" dal 1848, che doveva divenire un credo per i bordighisti d'oggi. Al contrario: fin dall'inizio - vedi l'editoriale del n. 1 di Bilan - essa si è impegnata ad esaminare le lezioni delle recenti battaglie della classe "senza dogmatismo od ostracismo"; e questo l'ha condotta ad esigere una revisione fondamentale di alcune delle tesi di base dell'Internazionale Comunista, per esempio sulla questione nazionale. Riguardo all'URSS, insistendo sulla natura proletaria d'Ottobre, essa ha riconosciuto che durante gli anni era avvenuta una profonda trasformazione, al punto che al posto d'essere un fattore di difesa e di estensione della rivoluzione mondiale, lo "Stato proletario" aveva giocato un ruolo controrivoluzionario a scala mondiale.
Un punto di partenza ugualmente cruciale per la Frazione era che i bisogni del proletariato a scala internazionale avevano sempre la priorità su ogni espressione locale o nazionale e che in nessuna circostanza si poteva transigere sul principio dell'internazionalismo proletario. Ecco perchè il Partito comunista d'Italia aveva sempre sostenuto sempre che l'Internazionale doveva considerarsi come un unico partito mondiale le cui decisioni legavano tutte le sue sezioni, persino quelle, come in Russia., che detenevano il potere statale; è anche per questo motivo che la sinistra italiana ha subito parteggiato per l'Opposizione di Trotsky nella sua lotta contro la teoria di Stalin del socialismo in un solo paese.
Effettivamente, per la Frazione, "è non soltanto impossibile costruire il socialismo in un solo paese, ma anche stabilirne le basi. Nei paesi dove il proletariato è stato vittorioso, non si trattava di realizzazione una condizione di socialismo (attraverso l'amministrazione libera dell'economia da parte del proletariato), ma solo di salvaguardare la rivoluzione, che richiede il mantenimento di tutte le istituzioni di classe del proletariato." ("Natura ed evoluzione della rivoluzione russa - risposta al compagno Hennaut", Bilan n. 35, settembre 1936, p 1171). Qui la Frazione è andata più avanti di Trotsky, che con la sua teoria "dell'accumulazione socialista primitiva" considerava che la Russia effettivamente aveva cominciato a porre le fondamenta di una società socialista, anche se rigettava ciò che pretendeva Stalin: che una tal società già era arrivata. Per la Sinistra italiana, il proletariato non poteva realmente che stabilire la sua dominazione politica in un paese, ed anche questo sarebbe stato inevitabilmente insidiato dall'isolamento della rivoluzione.
Internazionalismo o difesa dell'URSS?
Ma malgrado questa chiarezza fondamentale, la posizione di maggioranza all'interno della Frazione era, almeno all’apparenza, simile a quella di Trotsky: l'URSS rimaneva uno stato proletario, anche se profondamente degenerato, sulla base del fatto che la borghesia era stata espropriata e che la proprietà restava nelle mani della stato che era sorto dalla rivoluzione di ottobre. La burocrazia stalinista era definita come uno strato parassita, ma non era vista come classe - come una classe capitalista o una nuova classe imprevista dal marxismo: "la burocrazia russa non è una classe, ancora meno una classe dominante, dato che non ci sono diritti particolari sulla produzione al di fuori della proprietà privata dei mezzi di produzione e che in Russia l'essenziale della collettivizzazione sussiste ancora. È certamente vero che la burocrazia russa consuma una grande parte del lavoro sociale, ma questo riguarda tutto il parassitismo sociale, che non dovrebbe essere confuso con lo sfruttamento di classe" (" I problemi del periodo di transizione, parte IV", Bilan n. 37, nov.-dic. 1936).
Durante i primi anni della vita della Frazione, la questione di sapere se era necessario difendere questo regime non fu mai completamente risolta e resterà ambigua nel primo numero di Bilan nel 1933, dove il tono è quello di avvisare il proletariato d'un possibile tradimento: "Le frazioni di sinistra hanno il dovere di mettere in guardia il proletariato sul ruolo che ha giocato l'URSS nel movimento operaio e di indicare fin d'ora l'evoluzione che avrà lo stato proletario sotto la direzione del centrismo. Fin da ora bisogna che sia chiara e lampante la dissociazione della politica imposta dal centrismo allo stato operaio. Deve essere gettato l'allarme tra la classe operaia contro la posizione che il centrismo imporrà allo Stato russo non nei suoi interessi, ma contro i suoi interessi. Domani, e bisogna dirlo da oggi, il centrismo tradirà gli interessi del proletariato.
Un tale atteggiamento energico è capace di risvegliare l'attenzione dei proletari, di strappare i membri del partito alla presa del centrismo, di difendere realmente lo Stato operaio. Solo un tale atteggiamento, può mobilitare delle energie per la lotta che conserverà al proletariato l'Ottobre 1917." ("Verso l'Internazionale due e tre quarti" Bilan, n. 1, nov. 1933, p.26 - Rivista Internazionale n° 3, pag. 13)
Nello stesso tempo, la Frazione è sempre stata vivamente cosciente della necessità di seguire l'evoluzione della situazione mondiale e giudicare su un criterio semplice ma chiaro la questione della difesa dell'URSS: essa svolgeva o no un ruolo completamente controrivoluzionario a livello internazionale? Una politica di difesa minava la possibilità di mantenere un ruolo strettamente internazionalista in tutti i paesi? In caso affermativo questo avrebbe avuto molta più importanza che sapere se sussisteva qualche "guadagno" concreto della rivoluzione d'ottobre all'interno della Russia. E qui il suo punto di partenza era radicalmente differente da quello di Trotsky, per il quale il carattere "proletario" del regime era in sé una giustificazione sufficiente per una politica di difesa, qualunque fosse il suo ruolo nell'arena mondiale.
Il metodo seguito da Bilan nei confronti di questo problema era intimamente legato alla sua concezione del corso storico: dal 1933 in poi la Frazione dichiara con una certezza crescente che il proletariato aveva subito una profonda sconfitta e che il corso ora era aperto ad una seconda guerra mondiale. Il trionfo del nazismo in Germania ne fu una prova, l'arruolamento
del proletariato nei paesi "democratici" dietro la bandiera dell'antifascismo ne fu un'altra; ma una conferma ulteriore fu precisamente "la vittoria del centrismo" - termine che Bilan usava ancora per descrivere lo stalinismo- all'interno dell'URSS e dei partiti comunisti e, nello stesso tempo, l'incorporazione crescente dell'Unione Sovietica nella marcia verso una nuova suddivisione imperialista del globo. Ciò era evidente per Bilan nel 1933, quando l'URSS fu riconosciuta dagli Stati Uniti (un evento descritto come "vittoria per la controrivoluzione mondiale" nel titolo di un articolo in Bilan n. 2, dicembre del 1933). Alcuni mesi più tardi, alla Russia fu accordato il diritto d'entrare alla Società delle Nazioni (antenata dell'ONU): "l'entrata della Russia nella Società delle Nazioni pone immediatamente il problema della partecipazione della Russia ad uno dei blocchi imperialisti per la prossima guerra." ("La Russia sovietica entra nel concerto dei briganti imperialisti, Bilan n. 8, giugno 1934, p. 263). Il brutale ruolo giocato dallo stalinismo contro la classe operaia fu confermato in seguito dal suo ruolo nel massacro degli operai in Spagna e dai processi di Mosca, attraverso i quali un'intera generazione dei rivoluzionari fu eliminata.
Questi sviluppi condussero la Frazione a rigettare definitivamente ogni politica di difesa dell'URSS. Ciò a sua volta ha contrassegnato una fase ulteriore nella rottura fra la Frazione ed il trotzkismo. Per quest'ultimo esisteva una contraddizione fondamentale fra "lo Stato proletario" e il capitale mondiale. Quest'ultimo aveva un interesse oggettivo ad unirsi contro l'URSS ed era dunque dovere dei rivoluzionari difenderla contro gli attacchi imperialisti. Per Bilan, al contrario era chiaro che il mondo capitalista poteva adattarsi abbastanza facilmente all'esistenza dello stato sovietico e della sua economia nazionalizzata, sia a livello economico che, soprattutto, a livello militare. Ha predetto con terribile esattezza che l'URSS sarebbe stata completamente integrata in uno o nell'altro dei due blocchi imperialisti che si sarebbero confrontati nella futura guerra, anche se la questione di sapere in quale blocco in particolare non era stata ancora decisa. La Frazione dimostrò in modo molto esplicito che la posizione trotzkista di difesa non poteva condurre che all'abbandono dell'internazionalismo di fronte alla guerra imperialista:
"Inoltre, secondo i bolscevico-leninisti, in caso di «alleanza dell'URSS con uno stato imperialista o con un raggruppamento imperialista contro un altro raggruppamento», il proletariato dovrà quanto meno difendere l'URSS. Il proletariato di un paese alleato manterrebbe la sua ostilità implacabile verso il suo governo imperialista, ma praticamente non potrebbe comunque agire come il proletariato di un paese avversario della Russia. Così, «sarebbe, per esempio, assurdo e criminale, in caso di guerra tra l'URSS e il Giappone che il proletariato americano sabotasse l'invio di armi americane all'URSS»
Noi non abbiamo naturalmente niente in comune con queste posizioni. Una volta che avesse preso parte ad una guerra imperialista, la Russia deve essere considerata, non come oggetto in sé, ma come strumento della guerra imperialista; deve essere giudicata rispetto alla lotta per la rivoluzione mondiale, cioè in funzione della lotta per l'insurrezione proletaria in tutti i paesi.
D'altronde, la posizione dei bolscevico-leninisti non si distingue da quella dei centristi e dei socialisti di sinistra. Bisogna difendere la Russia, anche se si alleasse con uno stato imperialista, pur continuando una lotta senza pietà contro «l'alleato». Ma tuttavia questa «lotta senza pietà» commette già il tradimento di classe, non appena si vieta di scioperare contro la borghesia «alleata». L'arma specifica della lotta proletaria è precisamente lo sciopero e proibirlo contro una borghesia significa rinforzare soltanto le sue posizioni ed impedire ogni reale lotta.
Come possono gli operai d'una borghesia alleata alla Russia lottare senza pietà contro quest'ultima, se non possono scatenare movimenti di sciopero?
Noi pensiamo che, in caso di guerra, il proletariato di tutti i paesi, compreso la Russia, avrebbe il dovere di concentrarsi in vista della trasformazione della guerra imperialista in guerra civile. La partecipazione dell'URSS ad una guerra di rapina non cambierebbe il carattere essenziale della guerra e lo Stato proletario non potrebbe che affondare sotto i colpi delle contraddizioni sociali che una tale partecipazione porterebbe" ("Dall'Internazionale due e tre quarti alla seconda Internazionale", Bilan n.10, agosto 1934, p 345-6). Questo passaggio è particolarmente profetico: per i trotzkisti la difesa dell'URSS, nella seconda guerra mondiale, diventa un semplice pretesto per la difesa degli interessi nazionali dei loro propri paesi.
Lungi dall'essere una forza intrinsecamente ostile al capitale mondiale, la burocrazia stalinista era vista come suo agente - come una forza attraverso la quale la classe operaia russa subiva lo sfruttamento capitalista. In numerosi articoli, Bilan ha ben mostrato con forza che questo sfruttamento era precisamente questo, una forma di sfruttamento capitalista:
"... in Russia, come in altri paesi, la corsa sfrenata all'industrializzazione conduce inesorabilmente a fare dell'uomo un pezzo dell'ingranaggio meccanico della produzione industriale. Il livello vertiginoso raggiunto dallo sviluppo della tecnica impone una organizzazione socialista della società. Il progresso incessante dell'industrializzazione dovrebbe armonizzarsi con gli interessi degli operai, altrimenti questi ultimi diverrebbero i prigionieri ed infine gli schiavi delle forze dell'economia. Il regime capitalista è l'espressione di questa schiavitù perché, attraverso i cataclismi economici e sociali, trova in essa la fonte della sua dominazione sulla classe operaia. In Russia, è sotto la legge dell'accumulazione capitalista che si realizzano le gigantesche costruzioni di officine, e i lavoratori sono alla mercé della logica di questa industrializzazione: qui incidenti ferroviari, là esplosioni nelle miniere, altrove catastrofi nelle officine." ("I processi di Mosca", Bilan n.39, gen.- feb. 1937, p.1271). Ancora, Bilan ha riconosciuto che la natura assolutamente feroce di questo sfruttamento è determinata dal fatto che la "costruzione del socialismo" fatto dall'URSS, l'industrializzazione accelerata degli anni '30, era in effetti la costruzione d'una economia di guerra in preparazione del prossimo olocausto mondiale: "L'Unione Sovietica, come gli stati capitalisti a cui è collegata, deve agire in vista di una guerra che si avvicina sempre di più: l'industria essenziale dell'economia deve quindi essere l'industria degli armamenti, che richiede un continuo rifornimento di capitale" ("L'assassinio di Kirov, la soppressione dei buoni per il pane in URSS", Bilan n.14, gennaio 1935, p. 467).
O ancora: "La burocrazia centrista russa sta estraendo il plusvalore dai suoi operai e contadini in vista della preparazione della guerra imperialista. La Rivoluzione d'Ottobre, uscita dalla lotta contro la guerra imperialista del 1914, è sfruttata dai suoi epigoni degenerati per spingere le nuove generazioni nella futura guerra imperialista" ("Il massacro di Mosca", Bilan n. 34, ago.-set. 1936, p. 1117).
Qui il contrasto con il metodo di Trotsky è evidente: mentre Trotsky non poteva astenersi ne "La Rivoluzione tradita" dal cantare i successi delle enormi "realizzazioni" economiche dell'URSS, che supponevano determinare "la superiorità del socialismo", Bilan replicava che in nessun caso il progresso verso il socialismo è misurato tramite la crescita del capitale costante, ma soltanto tramite i reali miglioramenti delle condizioni di vita e di lavoro delle masse. "Se la borghesia stabilisce la sua bibbia sulla necessità di una crescita continua del plusvalore per convertirlo in capitale, nell'interesse comune di tutte le classi (sic), il proletariato al contrario deve andare nel senso d'una diminuzione costante del lavoro non pagato, che ha inevitabilmente come conseguenza un ritmo molto più lento di accumulazione in rapporto all'economia capitalista " ("Lo Stato sovietico" Bilan n. 21, luglio-agosto 1935, p720). Questa visione, inoltre, trovava le sue radici nella comprensione di Bilan della decadenza capitalista: il rifiuto di riconoscere che l'industrializzazione stalinista era un fenomeno "progressista" non era basato soltanto sul riconoscimento che esso s'appoggiava sulla miseria assoluta delle masse, ma anche sulla comprensione della sua funzione storica come partecipante alla preparazione della guerra imperialista, essa stessa l'espressione più evidente della natura regressiva del sistema capitalista.
Se inoltre ricordiamo che Bilan era perfettamente al corrente di quel passaggio dell'Anti-Duhring dove Engels rigetta l'idea che la statizzazione in sé abbia un carattere socialista, e nei fatti più di una volta ha usato questo argomento per confutare le pretese dei difensori dello stalinismo, (cf. "Lo Stato sovietico", op. citata, e "Problemi del periodo di transizione" in Bilan n. 37), possiamo renderci conto quanto Bilan sia stato molto vicino nel vedere l'URSS di Stalin come un regime capitalista ed imperialista. Infine, fu costretto a riconoscere che dappertutto il capitalismo si appoggiava sempre di più sull'intervento dello stato per sfuggire agli effetti del crollo economico mondiale e per prepararsi per la guerra a venire. L'esempio migliore di questa analisi è contenuto negli articoli sul programma di De Man nel Belgio nei numeri 4 e 5 di Bilan. Non poteva ignorare le somiglianze fra quello che stava accadendo nella Germania nazista, nei paesi democratici e nell'URSS.
Tuttavia Bilan esitava ancora a sbarazzarsi dell'idea che l'URSS fosse uno stato proletario. Era perfettamente cosciente che il proletariato russo veniva sfruttato, ma tendeva ad esprimere questo come un rapporto che gli era direttamente imposto dal capitale mondiale senza la mediazione d'una borghesia nazionale: la burocrazia stalinista era vista come "agente del capitale mondiale" piuttosto che come espressione del capitale nazionale russo con la sua propria dinamica imperialista. Questa enfasi sul ruolo primario del capitale mondiale era completamente in conformità con la sua visione internazionalista e la sua profonda comprensione che il capitalismo è in primo luogo un sistema globale di dominazione. Ma il capitale globale, l'economia mondiale, non è una astrazione esistente al di fuori dello scontro dei capitali nazionali in competizione. Era questo ultimo pezzo del puzzle che la Frazione non è riuscita a mettere al suo posto.
Allo stesso tempo, questi ultimi scritti sembrano esprimere un'intuizione crescente che le sue posizioni sono contraddittorie, e i suoi argomenti a favore della tesi dello "Stato proletario" stavano diventando sempre più difensivi e poco sostenuti:
"Malgrado la rivoluzione di ottobre, tutto, dalla prima all'ultima pietra dell'edificio costruito sul martirio degli operai russi, dovrà essere messo da parte perché questa è l'unica posizione che permette di affermare una posizione di classe nell'URSS. Negare la «costruzione del socialismo» per arrivare alla rivoluzione proletaria, ecco dove l'involuzione di questi ultimi anni ha condotto il proletariato russo. Se obiettate che l'idea d'una rivoluzione proletaria contro uno stato proletario è un'assurdità e che si tratta di armonizzare i fenomeni denominando questo Stato uno Stato borghese, rispondiamo che coloro che ragionano in questo modo stanno esprimendo semplicemente una confusione sul problema già trattato dai nostri maestri: i rapporti tra il proletariato e lo Stato, confusione che li condurrà all'altro estremo: partecipazione all'Unione Sacra dietro allo stato capitalista della Catalogna. Questo dimostra che tanto dalla parte di Trotsky, dove sotto il pretesto di difendere le conquiste d'Ottobre si difende lo Stato russo, che dall'altra parte dove si parla di uno stato capitalista in Russia c'è un'alterazione del marxismo che conduce questa gente a difendere lo stato capitalista minacciato in Spagna." (" Quando parla il boia", Bilan n. 41, maggio-giugno 1937, p 1339). Questa argomentazione era fortemente contrassegnata dalla polemica con dei gruppi come l'Unione Comunista e la Lega dei Comunisti Internazionalisti sulla guerra di Spagna; ma essa non riesce a mostrare il collegamento logico fra la difesa della guerra imperialista in Spagna e la conclusione che la Russia si era trasformata in uno stato capitalista.
In effetti un certo numero di compagni all'interno stesso della Frazione cominciarono a mettere in dubbio la tesi dello Stato proletario e non erano gli stessi della minoranza caduta sotto l'influenza di gruppi come l'Unione o la LCI sulla questione della Spagna. Ma qualunque sia stata la discussione nel seno della Frazione nella seconda metà degli anni '30, essa fu eclissata da un altro dibattito provocato dallo sviluppo dell'economia di guerra a scala internazionale: il dibattito con Vercesi, che aveva cominciato a sostenere che il ricorso all'economia di guerra da parte del capitalismo aveva assorbito la crisi ed aveva eliminato la necessità di un'altra guerra mondiale. La Frazione è stata consumata letteralmente da questo dibattito e con le idee di Vercesi che influenzavano la maggioranza, la Frazione fu gettata nel totale smarrimento dallo scoppio della guerra (vedi il nostro libro "La Sinistra Comunista Italiana" per un resoconto più sviluppato di questo dibattito).
Era stato posto come un assioma che la guerra infine avrebbe chiarito il problema dell'URSS e se ne ebbe la prova. Non è un caso che coloro che si erano opposti al revisionismo di Vercesi sono anche quelli che hanno attivamente chiamato alla ricostituzione della Frazione italiana e alla formazione del Nucleo francese della sinistra comunista. Sono gli stessi compagni che hanno condotto il dibattito sulla questione dell'URSS. Nella sua dichiarazione di principio iniziale nel 1942, il Nucleo francese definiva ancora l'URSS come uno "strumento dell'imperialismo mondiale". Ma nel 1944 la posizione della maggioranza era perfettamente chiara: "l'avanguardia comunista potrà effettuare il suo compito di guida del proletariato verso la rivoluzione nella misura in cui sarà capace di liberarsi dalla grande menzogna «della natura proletaria» dello stato russo e di mostrarlo per quel che è, di svelare la sua natura e la sua funzione capitalista controrivoluzionaria.
È sufficiente notare che l'obiettivo della produzione rimane l'estrazione di plusvalore, per affermare il carattere capitalista dell'economia. Lo stato russo ha partecipato al corso verso la guerra, non soltanto a causa della sua funzione controrivoluzionaria nello schiacciare il proletariato, ma a causa della sua propria natura capitalista, attraverso la necessità di difendere le sue fonti di materie prime, di assicurarsi un suo posto sul mercato mondiale dove realizza il suo plusvalore, attraverso il desiderio, la necessità, di ingrandire le sue sfere di influenza economica e di aprirsi delle vie d'accesso" ("La natura non proletaria dello stato russo e la sua funzione controrivoluzionaria", Bollettino internazionale di discussione, n° 6, giugno 1944). L'URSS aveva la sua propria dinamica imperialista che trovava la sua origine nel processo di accumulazione; essa era spinta all'espansione perché l'accumulazione non può avvenire in un cerchio chiuso; la burocrazia era così una classe dirigente in tutti i sensi. Queste previsioni furono ampiamente confermate dalla brutale espansione dell'URSS in Europa Orientale alla fine della guerra.
Il processo di chiarificazione continua dopo la guerra, ancora principalmente con il gruppo francese che ha preso il nome di Gauche Communiste de France (GCF - Sinistra Comunista di Francia). Le discussioni inoltre continuarono all'interno del Partito Comunista Internazionalista (PCInt) appena formatosi, ma purtroppo non sono ben conosciute. Sembrerebbe che ci fosse moltissima eterogeneità. Alcuni compagni del PCInt svilupparono posizioni molto vicine a quelle della GCF, mentre altri sprofondarono nella confusione. L'articolo della GCF: "Proprietà privata e proprietà collettiva", Internationalisme n.10, 1946 (ripubblicato nella nostra Révue Internationale n° 61) critica Vercesi, che aveva raggiunto il PCInt, perché manteneva l'illusione che, anche dopo la guerra, l'URSS poteva ancora essere definita come uno Stato proletario; Bordiga, da parte sua, faceva ricorso in quel periodo al termine insignificante di "industrialismo di stato"; e anche se più tardi accettò di considerare l'URSS come capitalista, non ha accettato mai il termine di capitalismo di Stato e il suo significato come espressione della decadenza capitalista. In questo articolo del n. 10 di Internationalisme, al contrario, si trovano riuniti tutti i dati essenziali del problema.
Nei suoi studi teorici verso la fine degli anni '40, inizio anni '50, la GCF li mise in un insieme omogeneo. Il capitalismo di Stato era analizzato come "la forma che corrisponde alla fase decadente del capitalismo, come lo fu il capitalismo di monopolio nella sua fase di pieno sviluppo"; inoltre, non era qualcosa limitata alla Russia: "Il capitalismo di Stato non è l'appannaggio d'una frazione della borghesia o di una scuola ideologica particolare. Lo abbiamo visto installarsi tanto nell'America democratica che nella Germania di Hitler, nella Gran Bretagna 'laburista' come nella Russia 'sovietica'" . Andando oltre la mistificazione secondo la quale l'abolizione 'della proprietà privata' individuale permetteva di sbarazzarsi del capitalismo, la GCF fu capace di situare la sua analisi sulle radici materiali della produzione capitalista:
"l'esperienza russa ci insegna e ci ricorda che non sono i capitalisti che fanno il capitalismo, ma l'inverso; è il capitalismo che genera dei capitalisti… I principi capitalisti della produzione possono esistere dopo la scomparsa giuridica e anche effettiva dei capitalisti beneficiari del plusvalore. In questo caso, il plusvalore, come nel capitalismo privato, sarà reinvestito nel processo della produzione per estrarre una massa più grande di plusvalore.
In poco tempo, l'esistenza del plusvalore darà vita a degli uomini che formeranno la classe che si approprierà del plusvalore. La funzione genera l'organo. Che si tratti di parassiti, burocrati o tecnici che partecipano alla produzione, che il plusvalore sia ridistribuito in un modo diretto o indirettamente con l'intervento dello Stato, sotto forma di alti salari o di vari tipi di privilegi (come nel caso della Russia), questo non cambia niente circa il fatto fondamentale che ci troviamo in presenza di una nuova classe capitalista."
La GCF, in continuità con gli studi di Bilan sul Periodo di Transizione, ne tirò tutte le implicazioni necessarie per ciò che concerne la politica economica del proletariato dopo la presa del potere politico: da una parte, il rifiuto di confondere statizzazione con socialismo e il riconoscimento che, dopo la scomparsa dei capitalisti privati, "il pericolo reale d'un ritorno al capitalismo verrà essenzialmente dal settore dello Stato. Tanto più perché qui il capitalismo raggiunge una forma impersonale e quasi eterea. La statizzazione può servire a camuffare, per un periodo considerevole, un processo opposto al socialismo" (idem). D'altra parte, la necessità di una politica economica proletaria che attacchi radicalmente il processo di base dell'accumulazione del capitale: "al principio capitalista del lavoro accumulato che comanda il lavoro vivo in vista della produzione di plusvalore, deve essere sostituito il principio del lavoro vivo che comanda il lavoro accumulato in vista della produzione di prodotti di consumo per soddisfare i bisogni dei membri della società" (idem). Ciò non voleva dire che era possibile abolire il lavoro in eccedenza come tale, in particolare subito dopo la rivoluzione quando un intero processo di ricostruzione sociale sarebbe necessario. Tuttavia, la tendenza a capovolgere il rapporto capitalista tra ciò che il proletariato produce e ciò che consuma "dovrebbe servire da indicazione dell'evoluzione dell'economia, come barometro della natura di classe della produzione".
Non era per caso che la GCF non ha avuto timore di includere le visioni migliori della Sinistra tedesco-olandese nelle sue basi programmatiche. Nel periodo del dopoguerra, la GCF ha dedicato considerevole sforzi per riaprire la discussione con questo ramo della Sinistra comunista (vedi il nostro opuscolo 'La Gauche Communiste de France'). La sua chiarezza su alcune questioni, come il ruolo dei sindacati e il rapporto fra il partito ed i consigli operai furono certamente il frutto di questo lavoro di sintesi. Ma si può dire la stessa cosa sulla sua comprensione della questione del capitalismo di Stato: le previsioni che la Sinistra tedesca aveva sviluppato qualche decennio prima, erano ora integrate nella coerenza teorica generale della Frazione italiana. Ciò non significa che il problema del capitalismo di Stato era stato chiuso una volta per tutte: in particolare, il crollo dei regimi stalinisti alla fine degli anni '80 doveva richiedere una ulteriore riflessione e la chiarificazione sul modo in cui la crisi economica capitalista ha toccato questi regimi e determinato il loro affondamento.
Ma è la questione russa che determinerà in modo netto e definitivo, alla fine del secondo olocausto imperialista, la frontiera di classe: da allora in poi, soltanto coloro che riconoscevano la natura capitalista ed imperialista dei regimi stalinisti potevano rimanere nel campo proletario e difendere i principi internazionalisti di fronte alla guerra imperialista. La prova in negativo di ciò è fornita dalla traiettoria del trotzkismo, la cui difesa dell'URSS l'aveva condotto a tradire l'internazionalismo durante la guerra, e la cui adesione continua alla tesi dello "Stato operaio degenerato" l'ha condotto a fare l'apologia del blocco imperialista russo durante la guerra fredda. La prova in positivo è fornita dai gruppi della Sinistra comunista, la cui capacità di difendere e sviluppare il marxismo nel periodo di decadenza del capitalismo ha permesso loro infine di risolvere "l'enigma" russo e mantenere la bandiera del comunismo autentico privo dalle macchie della propaganda borghese.
CDW
* La serie completa di questi articoli è disponibile nella versione trimestrale della Rivista Internazionale, in francese, inglese e spagnolo.
Vedi Révue Internationale n. 105.
La risoluzione sulla situazione internazionale del 14° Congresso, adottata nel maggio 2001, era centrata sulla questione del corso storico nella fase di decomposizione del capitalismo (Revue Internazionale n. 106). Questa metteva molto correttamente in evidenza l’accelerazione, sia sul piano della crisi che su quello dello sprofondamento nella guerra e nella barbarie su tutto il pianeta, ed esaminava i problemi e le potenzialità di una risposta proletaria. La risoluzione che segue, proposta per la Conferenza straordinaria della CCI a Pasqua 2002, vuole essere un supplemento della prima, alla luce degli avvenimenti dell’11 settembre e della “guerra contro il terrorismo” che ne è seguito, che hanno largamente confermato le analisi generali del Congresso del 2001.
L’offensiva imperialista americana
1. I rivoluzionari marxisti possono trovarsi d’accordo con il presidente americano Bush quando questi descrive l’attacco dell’11 settembre come “un atto di guerra”. Ma con l’aggiunta che è stato un atto della guerra capitalista, un momento della guerra imperialista permanente che caratterizza l’epoca della decadenza del capitalismo. Attraverso il massacro deliberato di migliaia di civili – lavoratori per la maggior parte – la distruzione delle Twin Towers ha costituito un crimine barbaro supplementare contro l’umanità da aggiungere ad una lunga lista che include Guernica, Londra, Dresda, Hiroshima… Il fatto che il probabile esecutore del crimine sia stato un gruppo terrorista legato ad uno Stato molto povero non cambia nulla al suo carattere imperialista, perché nel periodo attuale tutti gli Stati, anche quelli che reclamano una legittimità e i signori della guerra, sono imperialisti.
La natura criminale dell’11 settembre risiede non soltanto nell’atto stesso, ma anche nella sua cinica manipolazione da parte dello Stato americano – una manipolazione che è del tutto comparabile alla cospirazione che ha circondato Pearl Harbor, quando Washington ha permesso, in maniera cosciente, che avesse luogo l’attacco del Giappone allo scopo di avere un pretesto perché gli Stati Uniti potessero entrare in guerra e mobilitare la popolazione dietro di loro. Resta ancora da precisare fino a che punto i servizi segreti dello Stato americano hanno attivamente partecipato … lasciando fare gli attacchi dell’11 settembre, benché si disponga già di una massa di elementi nel senso di un intrigo machiavellico senza scrupoli. Ma quello che è certo è il modo in cui gli Stati Uniti hanno tratto profitto dal crimine, utilizzando lo choc e la collera reali provocati nella popolazione per mobilitarla nel sostegno ad un’offensiva imperialista di ampiezza senza precedenti.
2. Sotto la bandiera dell’antiterrorismo, l’imperialismo americano ha diffuso l’ombra della guerra sull’intero pianeta. La “guerra contro il terrorismo” condotta dagli Stati Uniti ha devastato l’Afghanistan e la minaccia che la guerra si estenda all’Iraq diviene sempre più esplicita. Ma la presenza armata dell’America ha già toccato altre regioni del globo, che queste appartengano o no a “l’asse del male” (Iran, Iraq, Corea del nord). Truppe americane sono state stanziate nelle Filippine per portare aiuto alla lotta militare “Insurrezione islamica” mentre delle operazioni spettacolari sono state già lanciate nello Yemen ed in Somalia. E’ previsto quest’anno un aumento del budget americano della difesa del 14% e nel 2007 questo budget sarà dell’11% più elevato del livello medio raggiunto durante la guerra fredda. Questi dati forniscono un’indicazione sull’enorme squilibrio delle spese militari globali: la parte degli Stati Uniti ammonta attualmente al 40% del totale mondiale; il budget attuale è ben superiore a quelli cumulati da Gran Bretagna, Francia e da altri dodici paesi della NATO. In una recente “fuga di notizie”, gli Stati Uniti hanno fatto capire chiaramente che essi sono perfettamente preparati a utilizzare questo arsenale terrificante – ivi incluse le sue componenti nucleari – contro una serie di rivali. Allo stesso tempo, la guerra in Afghanistan ha riacceso le tensioni tra l’India e il Pakistan, mentre il medio oriente la carneficina aumenta di giorno in giorno, con – sempre in nome dell’antiterrorismo – il sostegno apparente degli Stati Uniti all’obiettivo espresso da Sharon di sbarazzarsi di Arafat, dell’Autorità Palestinese e di ogni possibilità di regolamentazione negoziata.
Nel periodo che ha seguito immediatamente l’11 settembre, vi è stata una quantità di discussioni sulla possibilità di una terza guerra mondiale. Questo termine è stato utilizzato in lungo e in largo dai mass media ed era in generale associato all’idea di un “crollo della civilizzazione”, di un conflitto tra “l’Occidente” moderno e l’Islam fanatico (riflesso nell’appello di Bin Laden alla Jihad contro i “cristiani e gli ebrei”). Vi è stata un’eco di questa idea finanche in certe componenti del campo politico proletario, come per esempio nel Partito Comunista Internazionale (che pubblica Il Partito) che ha scritto nel volantino diffuso dopo l’11 settembre: “Se la prima guerra imperialista basava la sua propaganda sulla demagogia irredentista della difesa nazionale, se la seconda era antifascista e democratica, la terza, pur rimanendo imperialista, prende il costume di una crociata tra opposte religioni, contro dei personaggi così donchisciotteschi, incredibili e dubbi come dei Saladini barbuti”.
Altre componenti di questo campo, come il BIPR, più capaci di riconoscere che quello che si nasconde dietro la campagna americana contro l’Islam risiede nel conflitto interimperialista tra gli Stati Uniti e i loro principali rivali, in particolare le grandi potenze europee, non sono tuttavia in grado di rifiutare in maniera netta il bombardamento mediatico sulla terza guerra mondiale perché manca loro la comprensione delle specificità storiche del periodo aperto con la disintegrazione dei due grandi blocchi imperialisti alla fine degli anni ’80. In particolare essi hanno tendenza a pensare che la formazione dei blocchi imperialisti che dovrebbero portare ad una terza guerra mondiale sia oggi ad un livello molto avanzato.
Malgrado l’aggravarsi delle contraddizioni del capitalismo, la guerra mondiale non è all’ordine del giorno
3. Per comprendere quello che questo periodo contiene di nuovo e tirare fuori così la reale prospettiva che si apre all’umanità oggi, è necessario ricordarci quello che rappresenta realmente una guerra mondiale. La guerra mondiale è l’espressione della decadenza, del carattere obsoleto del modo di produzione capitalista. E’ il prodotto dell’impasse storico nella quale è entrato il sistema quando si è stabilito come economia mondiale all’inizio del 20° secolo. Le sue radici materiali si trovano dunque in una crisi insolubile in quanto sistema economico, benché non vi sia un legame meccanico tra gli indicatori economici immediati e lo scoppio di una tale guerra. Su questa base, l’esperienza delle due guerre mondiali e i lunghi preparativi della terza tra il blocco russo e quello americano, hanno dimostrato che la guerra mondiale vuol dire un conflitto diretto per il controllo del pianeta tra blocchi militari costituiti dalle potenze imperialiste dominanti. In quanto guerra tra gli Stati capitalisti più potenti, essa richiede anche la mobilitazione e il sostegno attivo dei lavoratori di questi Stati; e ciò, a sua volta, non può realizzarsi che dopo la sconfitta di questi principali battaglioni proletari da parte della classe dominante. Un esame della situazione mondiale mostra che le condizioni richieste per una terza guerra mondiale non esistono nel prossimo futuro.
4. Non è evidentemente il caso a livello della crisi economica mondiale. L’economia capitalista si confronta sempre di più con le sue proprie contraddizioni che superano largamente quelle degli anni ’30. In questi anni, la borghesia era stata capace di reagire al grande tuffo nella depressione grazie ai nuovi strumenti del capitalismo di Stato; oggi sono proprio questi strumenti che, pur continuando a gestire la crisi e ad impedire la paralisi totale, acuiscono profondamente al tempo stesso le contraddizioni che devastano il sistema. Negli anni ’30, anche se quello che restava del mercato precapitalista non era più in grado di permettere un’espansione “pacifica” del sistema, restavano ancora grandi zone mature per uno sviluppo capitalista (in Russia, in Africa, in Asia, ecc.). Alla fine, durante questo periodo di declino del capitalismo, la guerra mondiale, malgrado il prezzo di milioni di esseri umani morti e della distruzione di secoli di lavoro umano, ha ancora potuto produrre un beneficio apparente (anche se ciò non è mai stato lo scopo della guerra da parte dei belligeranti): un lungo periodo di ricostruzione che, in legame con la politica capitalista di Stato di indebitamento, è sembrato dare un nuovo slancio di vita al sistema. Una terza guerra mondiale significherebbe la distruzione dell’umanità, né più né meno.
Quello che colpisce nel corso della crisi economica dalla fine del periodo di ricostruzione è che qualunque “soluzione”, qualunque “medicina miracolosa” sia stata provata per l’economia capitalista, si è dimostrata essere niente altro che rimedio da ciarlatani in tempi sempre più brevi.
La risposta iniziale della borghesia al riapparire della crisi alla fine degli anni ’60 è stata quella di utilizzare la maggior parte delle politiche keynesiane che le erano state di così grande aiuto durante il periodo di ricostruzione.
La reazione “monetaria” degli anni ’80, presentata come un ritorno alla realtà (illustrata dai discorsi della Thatcher secondo la quale un paese non può distribuire più di quello che guadagna), ha completamente fallito l’obiettivo di ridurre il peso delle spese dovute al debito o al costo di funzionamento dello Stato (boom dei consumi alimentato dalla speculazione immobiliare in Gran Bretagna, programma di “guerre stellari” di Reagan negli Stati Uniti).
Il boom fittizio degli anni ’80 basato sull’indebitamento e la speculazione, e accompagnato dallo smantellamento di settori interi dell’apparato produttivo e industriale, fu bruscamente arrestato con il crack del 1987. La crisi che seguì a questo crack ha fatto posto a sua volta alla “crescita” alimentata dall’indebitamento che caratterizza gli anni ’90.
Quando, con il crollo delle economie del sud-est asiatico alla fine di questo decennio, si è verificato che questa crescita era stata di fatto all’origine dell’aggravarsi della situazione economica, abbiamo dovuto assistere all’esibizione di nuove panacee, tra cui quelle della “rivoluzione tecnologica” e della “nuova economia”. Gli effetti di queste ricette miracolose sono stati i meno duraturi di tutti: proprio mentre la propaganda su “l’economia tirata da Internet” veniva lanciata, questa medicina si rivelava una grossa frode speculativa.
Oggi, i “dieci gloriosi anni” di crescita americana sono ufficialmente terminati; gli Stati Uniti hanno ammesso di essere in recessione così come hanno fatto altre potenze come la Germania; inoltre lo stato dell’economia giapponese desta una preoccupazione crescente alla borghesia mondiale che parla anche del pericolo che il Giappone prenda lo stesso cammino della Russia. Nelle regioni periferiche, il crollo catastrofico dell’economia argentina non è che la punta dell’iceberg; tutta una serie di altri paesi si trovano esattamente nella stessa situazione.
E’ vero che, contrariamente agli anni ’30, l’attacco della crisi non ha avuto come risultato immediato una politica del “ciascuno per sé” a livello economico, con i singoli paesi che si ritirano dietro barriere protezioniste. Questa reazione ha senza alcun dubbio accelerato il corso alla guerra in quegli anni. Anche l’esplosione dei blocchi, attraverso i quali il capitalismo era anche riuscito a regolare i suoi affari economici nel periodo 1945-1989, ha avuto un impatto essenzialmente al livello imperialista-militare. A livello economico, le vecchie strutture di blocco sono state adattate alla nuova situazione e la politica globale è stata quella di impedire ogni serio crollo delle economie centrali (e di permettere un crollo “controllato” delle economie periferiche messe peggio) grazie al largo ricorso a prestiti amministrati da istituzioni quali la Banca Mondiale e il FMI. La cosiddetta “mondializzazione” rappresenta, ad un certo livello, l’accordo tra le economie più potenti per limitare la concorrenza tra di loro in modo da rimanere a galla e continuare a depredare il resto del mondo. D’altra parte la borghesia proclama spesso di aver tirato le lezioni degli anni ’30 e che non permetterà più ad una guerra commerciale di degenerare direttamente in guerra mondiale tra le più grandi potenze; e vi è una briciola di verità in questa affermazione, nella misura in cui la strategia della “gestione” internazionale dell’economia è stata mantenuta nonostante tutte le rivalità nazional-imperialiste tra le grandi potenze.
Tuttavia, la determinazione della borghesia a frenare le tendenze più distruttrici dell’economia mondiale (iperinflazione e depressione simultanee, concorrenza sfrenata tra unità nazionali) si trova sempre più a fare i conti con le contraddizioni inerenti gli stessi processi. E’ chiaramente il caso della politica centrale di indebitamento che minaccia sempre più di esplodere. Nonostante le voci ottimiste sulla futura ripresa, l’orizzonte si oscura e il futuro dell’economia mondiale diviene ogni giorno più incerto. Ciò non può che acuire le rivalità imperialiste. La posizione estremamente aggressiva che gli Stati Uniti hanno adottato attualmente è certamente legata alle loro difficoltà economiche. Gli Stati Uniti con la loro economia in difficoltà saranno sempre più obbligati a ricorrere alla forza militare per mantenere il loro dominio sul mercato mondiale. Allo stesso tempo, la formazione di Euroland contiene le premesse di una guerra commerciale molto più aspra in avvenire, poiché le altre grandi economie sono costrette a rispondere all’aggressività commerciale degli Stati Uniti. La gestione borghese “globale” della crisi economica è dunque estremamente fragile e sarà minata in maniera crescente dalle rivalità sia economiche che strategico-militari.
5. A livello della sola crisi economica, il capitalismo sarebbe potuto andare alla guerra durante gli anni ’80. Durante il periodo di guerra fredda, quando i blocchi militari necessari per condurre un tale conflitto erano in piedi, il principale ostacolo alla guerra mondiale è stato il fatto che la classe operaia non era sconfitta. Oggi, questo fattore sussiste, nonostante tutte le difficoltà che la classe operaia ha incontrato nel periodo successivo al 1989 – la fase che noi caratterizziamo come quella della decomposizione del capitalismo. Ma prima di riesaminare questo punto, dobbiamo considerare un secondo fattore storico che costituisce oggi un ostacolo allo scoppio di una terza guerra mondiale: l’assenza di blocchi militari.
In passato, la sconfitta di un blocco nella guerra ha rapidamente condotto alla formazione di nuovi blocchi: il blocco della Germania che aveva combattuto nella prima guerra mondiale ha cominciato a ricostituirsi all’inizio degli anni ’30, mentre il blocco russo si è formato immediatamente dopo la seconda guerra mondiale. In seguito al crollo del blocco russo (più a causa della crisi economica che direttamente della guerra), la tendenza, inerente al capitalismo decadente, alla divisione del mondo in blocchi concorrenti si è riaffermata, con una Germania di nuovo riunificata che era il solo possibile pretendente a dirigere un nuovo blocco capace di sfidare l’egemonia degli Stati Uniti. Questa sfida si è espressa in particolare con l’interferenza della Germania nello smantellamento della Jugoslavia che ha precipitato i Balcani in uno stato di guerra da circa un decennio. Tuttavia, la tendenza alla formazione di un nuovo blocco è stata frenata in maniera significativa da altre tendenze:
- la tendenza di ogni nazione a condurre la sua propria politica imperialista “indipendente” a partire dalla fine del sistema dei blocchi della guerra fredda. Questo fattore si è principalmente affermato a causa del bisogno imperativo per le grandi potenze del vecchio blocco occidentale di liberarsi del dominio americano; ma ha anche giocato contro la possibilità che si formasse un nuovo blocco con una certa coesione contro gli USA. Così, benché il solo candidato possibile alla formazione di un tale blocco sia in effetti un’Europa dominata dalla Germania, sarebbe un errore pensare che l’Unione europea attuale (Euroland) costituisca già un tale blocco. L’unione europea è anzitutto una istituzione economica, anche se essa ha delle pretese di giocare un ruolo più importante a livello politico e militare. Un blocco imperialista è anzitutto un’alleanza militare. L’“Unione” europea è ben lontana dall’essere unita a questo livello. I due attori chiave di qualunque futuro blocco imperialista basato in Europa, la Francia e la Germania, sono costantemente ai ferri corti per delle ragioni che risalgono ben lontano nella storia; e la cosa vale anche per l’Inghilterra, il cui orientamento indipendente è principalmente basato sui suoi sforzi di giocare la Germania contro la Francia, la Francia contro la Germania, gli Stati Uniti contro l’Europa e l’Europa contro gli Stati Uniti. La forza della tendenza al “ciascuno per sé” è stata confermata in questi ultimi anni dalla volontà crescente di potenze di terzo e quarto ordine di giocare la loro propria carta, sfidando spesso la stessa politica americana (Israele in Medio Oriente, l’India e il Pakistan in Asia, ecc.). Una nuova conferma viene dall’emergere dei “signori della guerra imperialisti” come Bin Laden, che cercano di giocare un ruolo mondiale e non più un semplice ruolo locale, anche quando non controllano uno Stato in particolare.
- la superiorità militare schiacciante degli Stati Uniti che è diventata sempre più evidente in questi dieci ultimi anni e che questi ultimi hanno cercato di rafforzare nei più grandi interventi che hanno condotto durante questo periodo: il Golfo, il Kosovo e adesso l’Afghanistan. In più, attraverso ognuna di queste azioni, gli Stati Uniti hanno via via rinunciato alla pretesa di agire come parte di una “comunità internazionale”: così, se la guerra del Golfo è stata condotta “legalmente” nel quadro dell’ONU, la guerra del Kosovo è stata condotta “illegalmente” nel quadro della NATO e la campagna in Afghanistan è stata condotta sotto la bandiera dell’“azione unilaterale”. Il recente budget americano della difesa non fa che sottolineare il fatto che gli Europei sono, secondo i termini del segretario generale della NATO, il generale Lord Robertson, dei “pigmei militari”, cosa che ha suscitato molti articoli nei giornali europei sui temi: “gli Stati Uniti sono forse troppo forti per il nostro benessere?” e delle inquietudini esplicite sul fatto che “l’alleanza transatlantica” faccia ormai parte del passato. Così, mentre “la guerra contro il terrorismo” è una risposta alle tensioni crescenti tra gli Stati Uniti e i loro principali rivali (tensioni che si sono espresse per esempio nella disputa sugli accordi di Kyoto e nella ripresa del progetto americano di “guerre stellari”) ed esaspera ancor più queste tensioni, il risultato dell’azione americana è di mettere ancor più in evidenza a che punto gli europei sono lontani dal poter sfidare la leadership mondiale degli Stati Uniti. D’altra parete, lo squilibrio è così grande che, come dice il nostro testo di orientamento “Militarismo e decomposizione”, scritto nel 1991, “la ricostituzione di una nuova coppia di blocchi imperialisti non soltanto non è possibile prima di lunghi anni ma potrebbe addirittura non essere più possibile in avvenire, arrivando prima di un tale evento la rivoluzione o la distruzione dell’umanità.” (Revue Internationale n. 64). Un decennio più tardi, la formazione di un vero blocco antiamericano si scontra ancora con gli stessi formidabili ostacoli.
- la formazione dei blocchi imperialisti richiede anche una giustificazione ideologica, soprattutto allo scopo di fare marciare la classe operaia. Una tale ideologia non esiste oggi. L’islam ha provato che esso poteva essere una forza potente per mobilitare gli sfruttati in certe parti del mondo, ma non ha un impatto significativo sugli operai dei paesi del cuore del capitalismo; per la stessa ragione, l’anti-islam non è sufficiente per mobilitare gli operai americani in una lotta contro i loro fratelli europei. Il problema per l’America e i suoi principali rivali, è che essi condividono la stessa ideologia “democratica” così come l’idea collegata secondo cui essi sono di fatto alleati piuttosto che dei rivali. E’ vero che una forte propaganda contro l’America viene agitata dalla classe dominante europea, ma questa non è neanche lontanamente paragonabile ai temi dell’antifascismo o dell’anticomunismo che sono serviti in passato per ottenere il sostegno alla guerra imperialista. Dietro queste difficoltà ideologiche c’è, per la classe dominante, il problema più grande: il fatto che la classe operaia non è sconfitta, e che di conseguenza non è pronta a sottomettersi alle esigenze richieste per i bisogni della guerra dal suo nemico di classe.
Il mantenimento di un corso verso scontri di classe
6. L’enorme dimostrazione di patriottismo negli Stati Uniti dopo l’attacco dell’11 settembre rende necessario il riesame di questo fondamento centrale della nostra comprensione della situazione mondiale. Negli Stati Uniti, l’atmosfera di sciovinismo ha sommerso tutte le classi sociali ed è stata scaltramente utilizzata dalla classe dominante non soltanto per scatenare a breve termine la sua “guerra contro il terrorismo”, ma anche per sviluppare una politica a più lungo termine in vista di eliminare la cosiddetta “sindrome del Vietnam”, cioè la reticenza della classe operaia americana a sacrificarsi direttamente per le avventure imperialiste degli Stati Uniti. E’ sicuro che il capitalismo americano ha fatto dei progressi ideologici importanti a questo riguardo, così come ha utilizzato gli avvenimenti per rafforzare tutto il suo apparato di sorveglianza e di repressione (un successo che ha trovato un’eco anche in Europa). Tuttavia, questi non rappresentano una sconfitta storica mondiale per la classe operaia per le ragioni seguenti:
- il rapporto di forze tra le classi non può essere determinato che a livello internazionale e fondamentalmente si gioca nel cuore dei paesi europei, là dove la sorte della rivoluzione si è decisa e si deciderà. A questo livello, mentre l’11 settembre ha dato alla borghesia europea l’occasione di presentare la sua propria versione della campagna anti-terrorista, non vi è stato uno straripamento di patriottismo paragonabile a quello che ha avuto luogo negli Stati Uniti. Al contrario, la guerra americana in Afghanistan ha suscitato un’inquietudine considerevole nella popolazione europea, cosa che si è riflessa parzialmente nell’ampiezza del movimento “contro la guerra” in questo continente. E’ certo che questo movimento è stato lanciato dalla borghesia, in parte come espressione della sua propria reticenza ad allinearsi sulla campagna di guerra americana, ma anche come mezzo per impedire ogni opposizione di classe alla guerra capitalista.
- anche negli Stati Uniti si può vedere che la marea patriottica non ha ricoperto tutto. Nel corso delle settimane durante le quali hanno avuto luogo gli attacchi, vi sono stati degli scioperi in diversi settori della classe operaia americana, anche quando questi sono stati denunciati come anti-patriottici in quanto difendevano i loro interessi di classe.
Così, i diversi fattori identificati come elementi caratterizzanti di un corso storico verso degli scontri di classe nella risoluzione del 14° Congresso restano validi:
- il lento sviluppo della combattività della classe, in particolare nelle concentrazioni centrali del proletariato. Ciò è stato confermato più recentemente dallo sciopero dei ferrovieri in Gran Bretagna e dal movimento più esteso, anche se disperso, di scioperi in Francia;
- la maturazione sotterranea della coscienza, che si esprime nello sviluppo di minoranze politicizzate in numerosi paesi. Questo processo continua e si è anche sviluppato dopo la guerra in Afghanistan (per esempio, i gruppi che difendono delle posizioni di classe e che sono usciti dalla “palude” in Gran Bretagna, Germania, ecc.)
- il peso “in negativo” del proletariato sulla preparazione e la condotta dei conflitti. Ciò si è espresso in particolare nel modo in cui la classe dominante presenta le sue grandi operazioni militari. Che sia nel Golfo, in Kosovo o in Afghanistan, la funzione reale di queste guerre viene sistematicamente nascosta al proletariato – non solo a livello degli obiettivi reali della guerra (a tale riguardo il capitalismo nasconde sempre i suoi obiettivi dietro delle belle frasi) ma anche a livello di sapere chi è realmente il nemico. Allo stesso tempo la borghesia è ancora più prudente a non mobilitare un gran numero di proletari in queste guerre. Benché la borghesia americana abbia riportato senza alcun dubbio alcuni successi ideologici significativi a questo riguardo, essa è stata tuttavia molto attenta a minimizzare le perdite americane in Afghanistan; in Europa, non è stato fatto alcun tentativo per modificare la politica consistente a inviare solo dei soldati di professione in guerra.
La guerra nella decomposizione del capitalismo
7. Per tutte queste ragioni, una terza guerra mondiale non è all’ordine del giorno nel prossimo futuro. Ma questo non è un motivo di consolazione. Gli avvenimenti dell’11 settembre hanno generato un forte sentimento che un’apocalisse sia imminente; resta l’idea che la “fine del mondo” si avvicini, se noi intendiamo per “mondo” il mondo del capitalismo, un sistema condannato che ha esaurito ogni possibilità di essere rigenerato. La prospettiva annunciata dal marxismo dal XIX secolo resta sempre socialismo o barbarie, ma la forma concreta che prende la minaccia della barbarie è differente da quella che pensavano i rivoluzionari i rivoluzionari del XX secolo, quella della distruzione della civilizzazione attraverso una sola guerra imperialista. L’entrata del capitalismo nella fase finale del suo declino, la fase di decomposizione, è condizionata dall’incapacità della classe dominante a “risolvere” la sua crisi storica attraverso un’altra guerra mondiale, ma porta con sé dei nuovi pericoli ancora più insidiosi, quelli di una discesa continua nel caos e l’autodistruzione. In un tale scenario la guerra imperialista, o piuttosto una spirale di guerre imperialiste, sarebbe sempre il principale cavaliere dell’apocalisse, ma accompagnato da fame, malattie, disastri ecologici a livello planetario e la dissoluzione di ogni legame sociale. A differenza della guerra imperialista mondiale, perché un tale scenario possa giungere alla sua conclusione non è necessario per il capitale inquadrare e sconfiggere i battaglioni centrali della classe operaia; noi siamo già confrontati con il pericolo che la classe operaia possa essere sommersa progressivamente da tutto il processo di decomposizione, e perdere poco a poco la capacità di agire come una forza cosciente antagonista al capitale e all’incubo che questo infligge all’umanità.
8. “La guerra contro il terrorismo” è dunque veramente una guerra della decomposizione capitalista. Mentre le contraddizioni economiche del sistema spingono inesorabilmente verso uno scontro tra i principali centri del capitalismo mondiale, il cammino verso un tale scontro è bloccato e prende inevitabilmente un’altra forma, come nel Golfo, in Kosovo e in Afghanistan – quella di guerre in cui il conflitto latente tra le grandi potenze viene “deviato” verso azioni militari contro delle potenze capitaliste più deboli. Nei tre casi, il principale protagonista sono stati gli Stati Uniti, lo stato più potente del mondo, che è obbligato a passare all’offensiva per impedire che emerga un rivale abbastanza forte da opporsi apertamente alla sua leader-ship, contrariamente al processo che aveva condotto alle due guerre mondiali.
9. Allo stesso tempo, la “guerra contro il terrorismo” significa molto più del semplice remake degli interventi precedenti degli Stati Uniti nel Golfo e nei Balcani. Essa rappresenta una accelerazione qualitativa della decomposizione e della barbarie in quanto:
- non si presenta più come una campagna di breve durata con degli obiettivi precisi in una regione particolare, ma come un’operazione illimitata, un conflitto quasi permanente che ha il mondo intero come scenario;
- ha degli obiettivi strategici molto più globali e più vasti, che includono una presenza decisiva degli Stati Uniti nell’Asia centrale, con lo scopo di assumere il controllo non solo in questa regione ma in Medio Oriente e nel subcontinente indiano, bloccando così ogni possibilità di espansione europea (e della Germania in particolare) in questa regione. Ciò corrisponde effettivamente ad accerchiare l’Europa. Questo spiega perché, contrariamente al 1991, gli Stati Uniti possono accollarsi adesso il rovesciamento di Saddam nella misura in cui non hanno più bisogno della sua presenza in quanto gendarme locale data la loro intenzione di imporre la loro presenza in maniera diretta. E’ in questo contesto che occorre riportare le ambizioni americane di controllare il petrolio e le altre fonti d’energia del Medio Oriente e dell’Asia Centrale. Non è, come dicono i gauchiste, una politica di profitto a breve termine condotta in nome delle compagnie petrolifere da parte del governo americano, ma una politica strategica che mira ad assumere un controllo incontestabile sulle principali vie di circolazione delle risorse di energia nel caso di futuri conflitti imperialisti. Parallelamente, l’insistenza sul fatto che la Corea del nord farebbe parte de “l’asse del male” rappresenta un avvertimento sul fatto che gli Stati Uniti si riservano anche il diritto di montare una grande operazione nell’Asia orientale – che costituisce una sfida alle ambizioni cinesi e giapponesi nella regione.
10. Tuttavia, se la “guerra contro il terrorismo” rivela il bisogno imperativo per gli Stati Uniti di creare un ordine mondiale interamente e per sempre allineato sui loro interessi militari ed economici, questa non può sfuggire al destino di tutte le altre guerre del periodo attuale: essere un fattore supplementare nell’aggravarsi del caos mondiale, ad un livello molto più elevato questa volta delle guerre precedenti:
- in Afghanistan, la vittoria degli Stati Uniti non ha contribuito in niente a stabilizzare il paese sul piano interno. Delle lotte sono già scoppiate tra le innumerevoli fazioni che hanno preso il controllo dopo la caduta dei talebani; i bombardamenti americani sono già stati utilizzati per “servire da mediazione” in queste dispute mentre altre potenze non hanno esitato a gettare olio sul fuoco, l’Iran in particolare che controlla direttamente alcune fazioni dissidenti;
- il “successo” della campagna americana contro il terrorismo islamico ha ugualmente condotto gli Stati Uniti a rivedere la loro politica nei confronti dei paesi arabi; essi sembrano molto meno inclini ad ammansirli. Il loro sostegno all’atteggiamento ultra aggressivo nei confronti dell’Autorità palestinese ha contribuito alla fine a seppellire il “processo di pace” di Oslo, portando gli scontri militari ad un livello superiore. Allo stesso tempo, i disaccordi sulla presenza di truppe americane sul suolo saudita hanno condotto a dei battibecchi con il loro cliente una volta così docile;
- la sconfitta dei talebani ha messo il Pakistan in una situazione molto difficile e la borghesia indiana ha provato ad approfittarne. Le crescenti tensioni di guerra tra queste due potenze nucleari ha delle implicazioni molto gravi per l’avvenire di questa regione, soprattutto sapendo che la Cina e la Russia sono esse stesse direttamente implicate in questo labirinto di rivalità e di alleanze.
11. Questa situazione racchiude il pericolo di una dinamica a spirale che finisce per uscire fuori da ogni controllo, che forza gli Stati Uniti a intervenire sempre più per imporre la loro autorità, moltiplicando però ogni volta le forze che sono pronte a battersi per i loro propri interessi e a contestare la loro autorità. Questo è altrettanto vero quando si tratta dei principali rivali degli Stati Uniti. La “guerra contro il terrorismo”, dopo la commedia iniziale di “gomito a gomito con gli americani”, ha già avuto per risultato un terribile aggravarsi delle tensioni tra gli Stati Uniti e i loro alleati europei. Le preoccupazioni sull’alto livello del nuovo budget della difesa americana si sono combinate a delle critiche aperte ai discorsi di Bush su “l’asse del male”. La Germania, la Francia ed anche la Gran Bretagna hanno espresso la loro reticenza ad essere prese nelle spire dei piani americani di attacco contro l’Iraq sono state particolarmente esasperate per l’integrazione dell’Iran in questo “asse” nella misura in cui la Germania e la Gran Bretagna avevano profittato della crisi afgana per accrescere la loro influenza su Teheran. Esse ben capiscono che gli Stati Uniti, pur essendo in collera con l’Iran a causa dei tentativi di quest’ultimo di colmare il vuoto in Afghanistan, utilizzano lo stesso Iran come bastone contro i loro rivali europei. La prossima fase della “guerra contro il terrorismo” che implica probabilmente un attacco importante contro l’Iraq, amplierà ancora queste differenze. Noi possiamo vedere in tutto ciò una nuova manifestazione della tendenza alla formazione dei blocchi imperialisti intorno all’America e all’Europa. Per le ragioni fornite più sopra, le controtendenze sono in progressione ma ciò non renderà il mondo più pacifico. Frustrate dalla loro inferiorità militare e da fattori sociali e politici che rendono impossibile uno scontro diretto con gli Stati Uniti, le altre grandi potenze moltiplicheranno i loro sforzi di contestazione dell’autorità degli Stati Uniti con i mezzi che sono a loro portata: le guerre per paesi interposti, gli intrighi diplomatici, ecc. L’ideale americano di un mondo unito sotto la bandiera a stelle e strisce è un sogno impossibile quanto quello di Hitler di un Reich di mille anni.
12. Nel prossimo periodo, la classe operaia e, in particolare, i lavoratori dei principali paesi capitalisti, dovranno far fronte ad una accelerazione della situazione mondiale a tutti i livelli. In particolare, apparirà nella pratica il legame profondo che esiste tra la crisi economica e la crescita della barbarie capitalista. L’intensificazione della crisi e degli attacchi contro le condizioni di vita della classe operaia non coincidono meccanicamente con lo sviluppo delle guerre e delle tensioni imperialiste. Ma si rafforzano reciprocamente: l’impasse mortale nella quale si trova l’economia mondiale fa crescere la pressione verso delle soluzioni militari; la crescita vertiginosa dei budget militari richiede dei nuovi sacrifici da parte della classe operaia; la devastazione dovuta alla guerra, senza compensazioni per delle reali “ricostruzioni” comporta come conseguenza lo sfascio ulteriore della macchina economica. Allo stesso tempo, la necessità di giustificare questi attacchi avrà per risultato dei nuovi attacchi ideologici contro la coscienza della classe operaia. I lavoratori non hanno dunque altra scelta, per difendere le loro condizioni di vita, che fare il legame tra crisi e guerra e tirare le implicazioni storiche e politiche per la loro lotta.
I pericoli che la decomposizione del capitalismo
13. I rivoluzionari possono avere fiducia nel fatto che il corso storico verso scontri di classe resti aperto, e che essi avranno un ruolo vitale da giocare nella futura polarizzazione della lotta di classe. Ma il loro ruolo non è quello di consolare la classe operaia. Il più grande pericolo per il proletariato nel prossimo periodo è l’erosione della sua identità di classe in seguito al regredire della sua coscienza che ha fatto seguito al crollo del blocco nel 1989 e aggravato dall’insidiosa avanzata della decomposizione a tutti i livelli. Se questo processo prosegue ulteriormente, la classe operaia sarà incapace di avere un’influenza decisiva sui rovesciamenti sociali e politici che si preparano inesorabilmente con l’approfondimento della crisi economica mondiale e la deriva verso il militarismo. Gli ultimi avvenimenti in Argentina ci danno una visione chiara di questo pericolo: di fronte ad una paralisi seria non solo dell’economia ma anche dell’apparato della classe dominante, la classe operaia è stata incapace di affermarsi come forza autonoma. Al contrario, i suoi movimenti embrionari (scioperi, comitati di disoccupati, ecc.) sono stati annegati all’interno di una “protesta interclassista” che non poteva offrire nessuna prospettiva e che ha permesso alla borghesia di avere tutte le possibilità di manipolare la situazione a suo favore. E’ della massima importanza per i rivoluzionari essere chiari su ciò perché le litanie gauchiste sullo sviluppo di uno sviluppo rivoluzionario in Argentina hanno avuto degli sviluppi simili all’interno di settori del campo politico proletario (ed anche della CCI) che sono l’espressione di fughe immediatiste e opportuniste. La nostra posizione sulla situazione in Argentina non è frutto di una sorta di “indifferenza” nei confronti delle lotte del proletariato dei paesi periferici. Abbiamo insistito più volte sulla capacità del proletariato di queste regioni, quando agisce sul suo proprio terreno, di offrire una direzione a tutti gli oppressi. Ad esempio il movimento di lotte operaie di massa di Cordoba nel 1969 offriva chiaramente una prospettiva agli altri strati sfruttati in Argentina e rappresentava una lotta esemplare per la classe operaia mondiale. Al contrario, gli avvenimenti recenti che alcuni hanno preso per un movimento insurrezionale molto avanzato del proletariato hanno mostrato che le poche espressioni embrionarie del proletariato sono state completamente incapaci di offrire in punto di ancoraggio e una direzione a una rivolta che è stata rapidamente agguantata dalle forze della borghesia. Il proletariato argentino ha sempre un ruolo enorme da giocare nello sviluppo delle lotte di classe in America latina; ma ciò che ha vissuto recentemente non deve essere confuso con le potenzialità future che sono più che mai determinate dallo sviluppo delle lotte della classe operaia dei paesi centrali sul suo terreno di classe.
Le responsabilità dei rivoluzionari
14. La società nel suo insieme è colpita dalla decomposizione del capitalismo, e al suo interno la borghesia in particolare. Il proletariato non ne viene risparmiato e la sua coscienza di classe, la sua fiducia nell’avvenire, la sua solidarietà di classe vengono attaccate continuamente dall’ideologia e dalle pratiche sociali prodotte da questa decomposizione: il nichilismo, la fuga in avanti nell’irrazionale e nel misticismo, l’atomizzazione e la dissoluzione della solidarietà umana rimpiazzate dalla falsa collettività delle bande, delle gang o dei clan. La stessa minoranza rivoluzionaria non è al di fuori degli effetti negativi della decomposizione attraverso in particolare la recrudescenza del parassitismo politico (1), fenomeno che, se non è specifico alla fase di decomposizione, risulta tuttavia fortemente stimolato da questa. La grande difficoltà da parte degli altri gruppi del campo politico proletario a prendere coscienza di questo pericolo, ma anche la mancanza di vigilanza che si è espressa nella stessa CCI (1), costituiscono una debolezza di primo piano. A questo bisogna aggiungere il ritorno di una tendenza alla frammentazione e allo spirito di chiusura da parte degli altri gruppi, giustificati da nuove teorie settarie espressione esse stesse del periodo. Se all’interno del campo politico proletario non si esprimono con forza sufficiente la coscienza e la volontà politica di combattere queste debolezze, allora tutto il potenziale politico rappresentato dall’emergere, nel mondo intero, di una nuova generazione di elementi alla ricerca di posizioni rivoluzionarie rischia di essere disperso. La formazione del futuro partito dipende dalla capacità dei rivoluzionari di elevarsi all’altezza di queste responsabilità.
Lungi dal costituire una distrazione rispetto alle questioni politiche reali, la comprensione da parte della CCI del fenomeno della decomposizione del capitalismo costituisce la chiave per affrontare le difficoltà politiche alle quali sono confrontate la classe operaia e le sue minoranze rivoluzionarie. Alle organizzazioni rivoluzionarie è sempre toccato il compito permanente di elaborazione teorica allo scopo di chiarificare al loro interno e all’interno della classe operaia le questioni poste dai bisogni della sua lotta. Questa è oggi una necessità ancora più imperativa per permettere alla classe operaia – la sola forza che, attraverso la sua coscienza, la sua fiducia e la sua solidarietà ha i mezzi per resistere alla decomposizione – di assumere la responsabilità storica di rovesciare il capitalismo.
1 aprile 2002
1. Vedi l’articolo sulla conferenza straordinaria della CCI pubblicato su Rivoluzione Internazionale n. 126.
Dopo gli attentati dell'11 settembre, la guerra in Afghanistan e la recrudescenza dei massacri nel Medio Oriente, altri due inquietanti avvenimenti sono stati spinti alla ribalta dell'attualità internazionale: da una parte la minaccia di guerra tra l'India e il Pakistan, due stati dotati di armi nucleari che si disputano in modo congenito e ricorrente la regione del Cachemire: dall'altra la progressione dei partiti di estrema destra in Europa occidentale che ha dato l'occasione alla borghesia d'agitare lo spauracchio del fascismo e di sviluppare gigantesche campagne democratiche. Niente sembrerebbe avvicinare i due avvenimenti, geograficamente molto lontani e su piani geopolitici completamente differenti. Per capire le radici comuni di questi due avvenimenti, occorre liberarsi da un approccio fotografico del mondo, frammentario e frazionato, consistente nell'analizzare ogni fenomeno a sé, separatamente. Solo il metodo marxista che procede con un approccio storico globale, dialettico, dinamico, collegando tra loro le differenti manifestazioni del meccanismo del capitalismo per dargli una unità e coerenza, è in grado d'integrare questi due avvenimenti in un quadro comune.
La minaccia d'una guerra nucleare tra l'India e il Pakistan da una parte e la risalita dell'estrema destra dall'altra, rinviano alla stessa realtà, sono legati ad uno stesso mondo. Sono entrambe manifestazioni della stessa impasse del modo di produzione capitalista. Mettono chiaramente in evidenza che il capitalismo non ha alcun avvenire da offrire all'umanità. Illustrano, sotto forme differenti, la realtà della fase presente di decomposizione del capitalismo caratterizzato da un imputridimento della società che ne minaccia l’esistenza stessa. La decomposizione è il risultato di un processo storico dove nessuna delle due classi antagoniste della società, il proletariato e la borghesia, è stata finora capace d'imporre la propria risposta alla crisi insolubile del capitalismo. La borghesia non ha potuto trascinare l'umanità in una terza guerra mondiale perché il proletariato dei paesi centrali del capitalismo non era disposto a sacrificare i suoi interessi sull'altare della difesa del capitale nazionale. Ma, d'altronde, questo stesso proletariato, non è stato all'altezza di affermare la propria prospettiva rivoluzionaria e d'imporsi come sola forza della società capace di offrire un’alternativa al vicolo cieco dell'economia capitalista. Per questo le lotte della classe benché abbiano potuto impedire lo scatenamento di una terza guerra mondiale, non sono state all'altezza di fermare la follia mortale del capitalismo. Ne è testimone il caos sanguinario che, con ritmo sempre più serrato, si spande giorno dopo giorno alla periferia del sistema dopo il crollo del blocco dell'est. L'intensificazione della guerra senza fine in Medio Oriente e oggi la minaccia d'un conflitto nucleare tra l'India e il Pakistan rivelano, se ce n'era ancora bisogno, questo "no future" apocalittico della decomposizione del capitalismo.
D'altra parte, il proletariato dei grandi paesi "democratici" ha subito in pieno gli effetti della manifestazione più spettacolare di questa decomposizione, il crollo del blocco dell'est. Il peso delle campagne borghesi sul preteso "fallimento del comunismo", che hanno profondamente attaccato la sua identità di classe, la fiducia in se stesso e nella prospettiva rivoluzionaria, è stato il principale fattore delle difficoltà a sviluppare le lotte e ad affermarsi come sola forza portatrice d'un avvenire per l'umanità. In assenza di lotte operaie di massa in Europa occidentale capaci di offrire una prospettiva alla società il fenomeno dell'imputridimento del capitalismo si è manifestato con lo sviluppo, nel seno del tessuto sociale, delle ideologie più reazionarie favorendo la rimonta dei partiti di estrema destra. Mentre negli anni 30 l'ascesa del fascismo e del nazismo s'inscriveva nel quadro della marcia del capitalismo verso la guerra mondiale, oggi il programma dei partiti di estrema destra, totalmente aberrante anche dal punto di vista degli interessi della classe dominante, costituisce una nuova illustrazione del "no future" del capitalismo (1). Di fronte alla gravità della situazione storica presente, è compito dei rivoluzionari contribuire alla presa di coscienza da parte del proletariato delle responsabilità che incombono su di lui. Solo lo sviluppo della lotta di classe nei paesi più industrializzati può aprire una prospettiva rivoluzionaria verso il rovesciamento del capitalismo. Solo la rivoluzione proletaria mondiale può mettere definitivamente un termine al cieco scatenamento della barbarie guerriera, della xenofobia e degli odi razziali.
Minaccia di guerra nucleare tra l'India e il Pakistan: La follia omicida del capitalismo
Dal mese di maggio le nubi minacciose di una guerra nucleare si sono addensate tra l'India e il Pakistan. Dopo l'attentato del 13 dicembre 2001 contro il parlamento indiano, le relazioni indo-pakistane si erano fortemente degradate. Con quello dell'inizio maggio 2002 a Jammu, nello stato indiano dello Jammu e Cachemire, attribuito a dei terroristi islamici, questa degradazione ha portato ai recenti scontri nel Cachemire. L'attuale conflitto tra questi due paesi, che si limita fino ad ora a quelli che i media chiamano dei "duelli d'artiglieria" che sovrasta una popolazione terrorizzata, non è il primo, in particolare per il Cachemire che ha già conosciuto centinaia di migliaia di morti, ma la minaccia del ricorso all'arma nucleare non era mai stata così seria. Il Pakistan, in posizione d'inferiorità dato che dispone di 700.000 uomini di truppa contro il 1.200.000 dell'India e di 25 missili nucleari, a corta gittata, contro 60 dell'India, aveva "annunciato chiaramente che di fronte ad un nemico superiore, era pronto a lanciare un attacco nucleare" (The Guardian, 23 maggio 2002). Da parte sua, l'India cerca deliberatamente di spingere allo scontro militare aperto. In effetti, poiché gli obiettivi del Pakistan sono di destabilizzare e far cadere il Cachemire nel suo campo attraverso le azioni di guerriglia dei suoi gruppi infiltrati, l'India ha tutto l'interesse ad interrompere questo processo con uno scontro diretto.
Le borghesie dei paesi sviluppati, americani e britannici in testa (2), si sono quindi realmente inquietate alla possibilità di uno scenario catastrofico che potrebbe causare milioni di morti. E c'è stato bisogno, in seguito all'insuccesso della conferenza dei paesi dell'Asia centrale in Kazakistan sotto la guida di Putin e teleguidata dalla Casa Bianca, che gli Stati Uniti facessero sentire il loro peso inviando il segretario di Stato alla difesa, Donald Rumsfeld, a Karachi e attraverso l'intervento diretto di Bush presso i dirigenti indiani e pakistani per far cadere la tensione. Tuttavia, come riconoscono gli stessi responsabili occidentali, i rischi di sbandamento sono solo momentaneamente schivati, ma niente è risolto.
India, Pakistan: una rivalità insormontabile
Con la spartizione dell'antico impero britannico delle Indie nel 1947, che darà vita (oltre allo Sri Lanka e alla Birmania) agli Stati indipendenti dell'India e del Pakistan occidentale ed orientale, la borghesia inglese e con essa la sua alleata americana, sapevano che creavano delle nazioni congenitamente rivali. Secondo l'adagio "dividere per meglio regnare", il fine di un tale taglio artificiale era di indebolire sulle frontiere occidentali e orientali questo paese gigantesco il cui dirigente Nehru aveva dichiarato la sua volontà di "neutralità" di fronte alle grandi potenze e di fare dell'India una potenza regionale. Nel periodo del dopoguerra in cui si disegnavano già i blocchi dell'Est e dell'Ovest, l'ascesa all'indipendenza di questo paese conteneva in effetti, per una Gran Bretagna ferocemente antirussa e per una America che cercava già di imporre la sua egemonia nel mondo, il rischio reale di vederlo passare al nemico sovietico.
Durante la formazione "democratica" della "nazione" indiana sotto la guida del Pandit Nehru, tre regioni, tra cui il futuro Stato di Jammu e Cachemire, che dovevano far parte del Pakistan, venivano annesse d'autorità dall'India, prima manifestazione di un pomo della discordia permanente che si è cristallizzato su delle rivendicazioni territoriali. Tutta la storia di questi due paesi è così delimitata da scontri militari ripetuti dove si vede New Delhi, in generale all'offensiva, cercare di guadagnare le zone che essa considera come "naturali". E’ stato così nella guerra del 1965 nel Cachemire, in quella del 1971 nel Pakistan Orientale (da dove verrà fuori l'attuale Bangladesh) e nel Cachemire, fino al conflitto di questo anno.
Ma l'interesse della borghesia indiana non sta solo nel bisogno d'espansione, proprio di ogni imperialismo. C'è la necessità da parte dello Stato indiano di farsi riconoscere come una superpotenza con la quale fare i conti, e non solo agli occhi della "comunità internazionale" dei Grandi, ma anche di fronte alla sua principale rivale, la Cina. Perché dietro l'aggressività permanente dell'India verso il Pakistan c’è la rivalità di fondo con la Cina per il posto di gendarme nel sud est asiatico.
Nel 1962 l’andamento della guerra sino-indiana e la vittoria di Pechino hanno mostrato alla borghesia indiana che la Cina era il suo peggior nemico e l’inadeguatezza del proprio armamento. Lo Stato indiano cerca quindi la rivincita contro la Cina. La guerra nel Pakistan orientale nel 1971 faceva già parte di questo quadro di ostilità imperialista al quale si consacrano le due borghesie ed è evidente che oggi un conflitto di grande portata tra l'India e il Pakistan, che lascerebbe il Pakistan esangue se non cancellato dalla carta geografica, non potrebbe che sfavorire uno Stato cinese che sostiene con tutte le sue forze d'Islamabad. Non è un caso se è stata la Cina, con la benedizione americana, a procurare al Pakistan l’arma nucleare quando questa venne "offerta" all'India dall'URSS come garanzia del "patto di cooperazione" tra i due paesi.
L'ipocrisia della grandi potenze
Oggi le grandi potenze, Stati Uniti in testa, sono certamente molto inquiete rispetto alla possibilità di una guerra nucleare tra l'India e il Pakistan, ma certo non per ragioni umanitarie. La loro preoccupazione è innanzitutto impedire che si sviluppi una nuova tappa, che sarebbe senza precedenti, nel peggioramento del "ciascuno per sé" che regna sul pianeta dopo il crollo del blocco dell'est e la scomparsa del blocco occidentale. Durante il periodo della Guerra Fredda che ha seguito la Seconda Guerra Mondiale, le rivalità tra Stati erano sotto il controllo della necessaria disciplina dei blocchi e regolati da questa disciplina. Anche un paese come l'India che cercava di fare il cavaliere solitario e trarre benefici simultaneamente dal potenziale militare dell'Est e dalla tecnologia dell'Ovest, non aveva libertà d'azione per imporsi come gendarme della regione del Sud-Est asiatico. Oggi gli Stati hanno sciolto le briglie alle loro ambizioni. Già nel 1990, appena un anno dopo la caduta del blocco russo, la minaccia di una guerra nucleare tra l'India e il Pakistan è stata bloccata sotto la pressione americana.
Ci si può rendere conto dell'intensità dell'antagonismo tra queste due potenze nucleari di secondo ordine dalle difficoltà che trovano gli Stati Uniti nell'imporre la loro volontà in questa situazione. Appena qualche mese dopo aver messo in atto un’importante manifestazione di forza in Afghanistan, allo scopo di obbligare gli altri Stati ad allinearsi dietro di essi, due dei loro alleati in questa guerra s'azzuffano. Ecco un’altra regione, dove gli Stati Uniti volevano imporre il loro ordine attraverso mezzi militari, che rischia il disastro.
Dalla fine della Guerra Fredda gli Stati Uniti hanno lanciato una serie di operazioni militari di grande portata per affermare il loro dominio sul mondo come unica superpotenza mondiale. Dopo la guerra del Golfo del 1991, al posto di un nuovo ordine mondiale, abbiamo visto l'esplosione della regione dei Balcani accompagnata dagli orrori della guerra e da una indicibile miseria permanente. Nel 1999, dopo la dimostrazione di forza americana contro la Serbia, le potenze imperialiste europee hanno continuato ad opporsi apertamente alla politica americana, in particolare a proposito dello "scudo antimissile" il cui programma viene accelerato da Bush a grande velocità. Ed è ancora per dimostrare questa volontà che gli Stati Uniti hanno devastato l'Afghanistan, con il pretesto dell'attentato dell'11 settembre. Che si tratti di grandi potenze come la Germania, la Francia o la Gran Bretagna, o delle potenze regionali come la Russia, la Cina, l'India o il Pakistan, tutti sono spinti a sbranarsi in lotte sempre più distruttrici. L'attuale conflitto tra l'India e il Pakistan che si trova, con il dopoguerra in Afghanistan, nel cuore della tormenta ne è una illustrazione flagrante.
In una tale generale situazione di caos e di "ciascuno per sé", provocata in primo luogo dall’aumentare delle tensioni le grandi potenze, l'ipocrisia di queste ultime è emersa ancora una volta. Manifestando l'inquietudine delle borghesie "civilizzate" nel vedere esplodere un conflitto nucleare, i loro media indicano il presidente pakistano, Musharraf, e il premier indiano, Vajpayee, come dei veri irresponsabili, che sembrano non "rendersi conto dell'intensità del disastro che risulterebbe dall'utilizzo delle armi atomiche, e non essere capaci di vedere che il risultato porterebbe alla completa distruzione dei loro paesi" (The Times, 1° giugno 2002).
Il bue dice all'asino cornuto! Perché, le grandi potenze, loro, sarebbero “responsabili? Responsabili, in effetti, dei bombardamenti atomici d'Hiroshima e Nagasaki alla fine della Seconda Guerra Mondiale, responsabili della proliferazione allucinante delle armi nucleari per tutta la durata della Guerra Fredda, responsabili di questa accumulazione sotto il pretesto che la "dissuasione nucleare", "l'equilibrio del terrore"(!), sarebbe stato il miglior garante della pace mondiale. E oggi, sono i paesi sviluppati che continuano ad avere le scorte più importanti di armi di distruzione di massa, comprese le armi nucleari!
La lotta contro il terrorismo, un pretesto ed una menzogna
Per la maggior parte dei media questa situazione è la conseguenza del "fondamentalismo religioso". Per la classe dominante indiana i responsabili degli attentati terroristici nel Cachemire e contro il Parlamento indiano sono i fondamentalisti islamici sostenuti dal Pakistan. Dall'altra parte, la classe dominante pakistana denuncia gli eccessi nazionalistici dei fondamentalisti indù del BJP (il partito al potere in India), in particolare la sua repressione contro i "combattenti della libertà" nel Cachemire.
In India il BJP utilizza gli attentati terroristici nel Cachemire e nel resto dell'India per giustificare le sue minacce militari contro il Pakistan. Nello stesso tempo questo partito era implicato nei massacri interetnici nello Stato del Gujarat, nel corso dei quali centinaia di fondamentalisti indù sono stati bruciati vivi in un treno da militanti islamici, e dove, in rappresaglia, migliaia di mussulmani sono stati massacrati. Parallelamente, la borghesia pakistana ha cercato di destabilizzare l'India non solo apportando il suo sostegno alla lotta condotta nel Cachemire contro il dominio indiano, ma anche denunciando il fatto, indubbio, che l'India appoggia dei gruppi terroristici in Pakistan. È iniettando in continuo il nazionalismo più virulento che, nei due campi, gli sfruttatori trascinano larghe frazioni della popolazione nel sostegno delle loro ambizioni imperialiste. L'uso dei nazionalismi, degli odi razziali e religiosi non è qualcosa di nuovo o che sarebbe riservato ai paesi della periferia. La borghesia dei principali paesi capitalisti ne ha fatto un'arte. Nel corso della Prima Guerra Mondiale entrambe le parti hanno accusato l'altra di rappresentare "il male" e di costituire una "minaccia per la civilizzazione". Negli anni '30, i nazisti e gli stalinisti hanno usato l'antisemitismo e il nazionalismo per mobilitare le loro popolazioni. Gli Alleati "civilizzati" hanno fatto di tutto per attizzare l'isteria antitedesca e antigiapponese, con l'utilizzazione cinica dell'Olocausto per giustificare i bombardamenti sulla popolazione tedesca e, come punto culminante, sganciare a due riprese l'orrore nucleare nel Giappone. Durante la Guerra Fredda i due blocchi hanno coltivato degli odi simili per regolare i loro conti. E dopo il 1989, in nome dell' "aiuto umanitario", i dirigenti delle grandi potenze hanno permesso che si moltiplicassero le "pulizie etniche" e hanno attizzato gli odi religiosi e razziali che continuano a trascinare tante regioni del pianeta in una successione di guerre e massacri.
Una minaccia maggiore per la classe operaia e il resto dell'umanità
Se il capitalismo ha bisogno di utilizzare tutte le menzogne di cui dispone per nascondere la vera natura imperialista delle sue guerre e distogliere la classe operaia dal cammino della lotta, è perché questa rappresenta una minaccia. A livello locale, in Asia del sud, la classe operaia non mostra una combattività capace di fermare una guerra. A livello internazionale, la classe operaia è attualmente impotente davanti al capitalismo che si squarcia, con il pericolo di vedere milioni di morti ricoprire in qualche minuto il suolo di una regione del pianeta.
Ma la sola forza storica che sia capace di fermare il carro incontrollabile e distruttore del capitalismo in piena decomposizione resta il proletariato internazionale, e principalmente quello dei paesi centrali del capitalismo. Sviluppando le sue lotte per la difesa dei propri interessi potrà mostrare agli operai del sub continente e delle altre regioni del mondo che esiste un’alternativa di classe al nazionalismo, all'odio religioso e razziale e alla guerra. Sul proletariato dei paesi del cuore del capitalismo incombe dunque una pesante responsabilità. E non deve quindi perdere di vista il fatto che difendendo i suoi interessi di classe, egli ha anche l'avvenire dell'umanità nelle proprie mani.
Confrontato alla follia del capitalismo in decadenza, il proletariato internazionale deve riprendere la parola d'ordine: "Proletari di tutto il mondo, unitevi". Il capitalismo non può che trascinarci nella guerra, la barbarie e la distruzione totale dell'umanità. La lotta della classe operaia è la chiave della sola alternativa possibile: la rivoluzione comunista mondiale.
ZG (18 giugno 2002)
1. Per una argomentazione più approfondita su questo argomento vedi l’articolo “Rimonta dell’estrema-destra in Europa: esiste oggi un pericolo fascista?”, pubblicato sulla Rivista Internazionale n.110 (disponibile in inglese, francese e spagnolo) 2. Bisogna notare che le borghesie americana e britannica hanno volutamente esagerato il rischio immediato, benché reale, di guerra nucleare tra India e Pakistan per giustificare la loro pressione su questi ultimi facendosi passare, al tempo stesso, per le nazioni più contrarie alla guerra ed essere certi di scavalcare altre borghesie, come la Francia, nel “regolamento” del conflitto.
Gli articoli che seguono sono stati pubblicati nel 1936 nei numeri 30 e 31 della rivista Bilan, organo della Frazione italiana della Sinistra comunista. Era fondamentale che la Frazione esprimesse la posizione marxista di fronte al conflitto arabo-israeliano in Palestina, a seguito dello sciopero generale arabo contro l’immigrazione giudea che era degenerato in una serie di pogrom sanguinari. Benché da allora un certo numero di aspetti specifici della situazione siano mutati, ciò che colpisce in questi articoli è a qual punto, ancora oggi, essi siano applicabili alla situazione di questa regione. In particolare, essi dimostrano con molta precisione come i movimenti “nazionali”, sia quelli degli ebrei che quelli degli arabi, pur essendo sorti a seguito dell’oppressione e della persecuzione, sono strettamente legati al conflitto tra gli imperialismi contrapposti; ed inoltre, questi articoli dimostrano come questi movimenti sono entrambi utilizzati per offuscare gli interessi di classe comuni dei proletari arabi ed israeliani, portandoli a massacrarsi reciprocamente per difendere gli interessi dei loro sfruttatori. Gli articoli dimostrano dunque che:
Il movimento sionista è divenuto un progetto reale solo dopo aver ricevuto il sostegno dell’imperialismo britannico che cercava di creare ciò che chiamava “una piccola Irlanda” in Medio Oriente, zona d’importanza strategica crescente con lo sviluppo dell’industria petrolifera;
la Gran Bretagna, pur sostenendo il progetto sionista, faceva anche un doppio gioco: doveva tener conto della notevole componente arabo-musulmana nel suo impero coloniale; aveva cinicamente sfruttato le aspirazioni nazionali arabe durante la prima guerra mondiale, quando la sua principale preoccupazione era chiudere i conti con l’Impero ottomano in disfacimento. Essa aveva fatto quindi tutta una serie di promesse alla popolazione araba della Palestina e del resto della regione. Questa politica classica, ligia alla regola “dividere per regnare”, aveva un doppio scopo: mantenere l’equilibrio tra le differenti aspirazioni imperialiste nazionali in conflitto nelle zone che erano sotto la sua dominazione, pur impedendo allo stesso tempo alle masse sfruttate della regioni di individuare i propri interessi materiali comuni;
il movimento di “liberazione araba”, pur opponendosi al sostegno della Gran Bretagna al sionismo, non era affatto antimperialista – così come non lo erano gli elementi in seno al sionismo che erano pronti a prendere le armi contro la Gran Bretagna. I due movimenti nazionalisti si collocavano interamente nel quadro del gioco imperialista globale. Se una frazione nazionalista si ribellava contro il suo vecchio sostenitore imperialista, non lo poteva fare se non cercando il sostegno di un altro imperialismo. Al momento della guerra di indipendenza di Israele nel 1948, praticamente tutto il movimento sionista era apertamente divenuto anti-inglese ma, ciò facendo, era già diventato uno strumento del nuovo imperialismo trionfante, gli USA, che era pronta ad utilizzare tutto quanto aveva sotto le mani per far fuori i vecchi imperi coloniali. Ugualmente, Bilan dimostra che quando il nazionalismo arabo entrò in conflitto aperto con la Gran Bretagna, ciò non fece che aprire la porta alle ambizioni dell’imperialismo italiano (ed anche tedesco); in seguito abbiamo potuto vedere la borghesia palestinese rivolgersi verso il blocco russo, poi verso la Francia ed altre potenze europee durante il suo conflitto con gli Stati Uniti.
I principali cambiamenti che hanno avuto luogo dopo che questi articoli sono stati scritti consistono evidentemente nel fatto che il sionismo è riuscito a costituire uno Stato che ha fondamentalmente mutato il rapporto di forze nella regione e che l’imperialismo dominante in questa zona non è più la Gran Bretagna ma gli Stati Uniti. Ma l’essenza del problema, anche in questo caso, resta la stessa: la creazione dello Stato di Israele, che ha avuto come conseguenza l’espulsione di decine di migliaia di palestinesi, non ha fatto che acuire al massimo la tendenza all’espropriazione dei contadini palestinesi che, come nota Bilan, era una componente del progetto sionista; e gli Stati Uniti sono, a loro volta, costretti a mantenere un equilibrio contraddittorio tra il sostegno che apportano allo Stato sionista da un lato e, dall’altro, la necessità di mantenere, finché possono, il “mondo arabo” sotto la loro influenza. Nel frattempo, i rivali degli Stati Uniti continuano a fare di tutto per utilizzare a loro vantaggio gli antagonismi tra questi ultimi ed i paesi della regione.
Ciò che è estremamente pertinente è la chiara denuncia da parte di Bilan del modo in cui i due sciovinismi, arabo ed israeliano, sono stati utilizzati per mantenere il conflitto tra gli operai; malgrado ciò, la Frazione italiana rifiutò di fare il benché minimo compromesso nella difesa dell’internazionalismo autentico: “Per il vero rivoluzionario, ovviamente, non c’è una questione “palestinese”, ma unicamente la lotta di tutti gli sfruttati del Medio Oriente, arabi ed ebrei compresi, che fanno parte della lotta più generale di tutti gli sfruttati del mondo intero per la rivolta comunista.”. Essa rigettò quindi totalmente la politica staliniana del sostegno al nazionalismo arabo con il pretesto di combattere l’imperialismo. La politica dei partiti stalinisti dell’epoca è ripresa oggi dai partiti trotskisti ed altri gruppi della estrema sinistra borghese che si fanno portavoce della “Resistenza palestinese”. Queste posizioni sono controrivoluzionarie oggi così come lo erano nel 1936.
Oggi, quando le masse di entrambe le parti sono più che mai spinte in una frenesia di odio reciproco, quando il prezzo dei massacri è tanto più alto di quello pagato negli anni 1930, l’internazionalismo intransigente resta il solo antidoto contro il veleno nazionalista.
C.C.I., giugno 2002
BILAN n° 30 (maggio-giugno 1936)
L’aggravarsi del conflitto arabo-israeliano in Palestina, l’accentuarsi dell’orientamento antibritannico del mondo arabo che durante la guerra mondiale fu una pedina dell’imperialismo inglese, ci ha indotto ad affrontare il problema ebraico e quello del nazionalismo panarabo. Tenteremo in questo articolo di trattare la prima di queste due questioni.
Si sa che dopo la distruzione di Gerusalemme da parte dei Romani e la dispersione degli ebrei, i vari paesi nei quali questi emigrarono fino a che non furono espulsi dai loro territori (non certo per le ragioni religiose invocate dalle autorità cattoliche quanto per motivazioni economiche, leggasi la confisca dei loro beni e l’annullamento del loro credito), ne regolarono le condizioni di vita secondo la bolla papale della metà del 16° secolo che divenne regola in tutti i paesi, obbligandoli a vivere rinchiusi in quartieri recintati (ghetti) e costringendoli a portare un marchio infamante. Espulsi nel 1290 dall’Inghilterra, nel 1394 dalla Francia, emigrarono in Germania, in Italia, in Polonia; espulsi dalla Spagna nel 1492 e dal Portogallo nel 1498, essi si rifugiarono in Olanda, in Italia e soprattutto nell’Impero Ottomano che occupava allora l’Africa del nord e la maggior parte dell’Europa del sud-est; là formarono e formano ancor oggi questa comunità che parla un dialetto giudeo-spagnolo, mentre quelli emigrati in Polonia, in Russia, in Ungheria, ecc., parlano il dialetto giudeo-tedesco (Yddisch). La lingua ebraica che resta in questo periodo la lingua dei rabbini fu tirata fuori dal regno delle lingue morte per divenire la lingua degli ebrei di Palestina con il movimento nazionalista giudeo attuale.
Mentre gli ebrei di Occidente, i meno numerosi, ed in parte quelli degli Stati Uniti, hanno acquisito una influenza economica e politica attraverso la loro influenza borsistica ed un’influenza intellettuale per l’elevato numero di quelli tra loro occupati in professioni liberali, le grandi masse si concentrarono nell’Europa orientale e già, alla fine del 18° secolo, costituivano l’80% degli ebrei dell’Europa. Con la prima spartizione della Polonia e l’annessione della Bessarabia, essi passarono sotto il dominio degli zar che, all’inizio del 19° secolo, avevano sui loro territori i due terzi degli ebrei. Il governo russo adottò fin dall’inizio, a partire da Caterina II, una politica repressiva, che trovò la sua espressione più feroce sotto Alessandro III che ipotizzava come soluzione del problema giudeo la seguente: un terzo deve essere convertito, un terzo deve emigrare ed un terzo deve essere sterminato. Essi erano rinchiusi in un certo numero di distretti di province del nord-ovest (Russia Bianca), del sud-est (Ucraina e Bessarabia) ed in Polonia. Erano queste le loro zone di residenza. Non potevano abitare al di fuori delle città e soprattutto non potevano risiedere nelle regioni industrializzate (bacini minerari e regioni metallurgiche). Ma è soprattutto tra questi ebrei che penetrò il capitalismo nel 19° secolo e che si determinò una differenziazione in classi.
Fu la pressione del terrorismo del governo russo che diede il primo impulso alla colonizzazione palestinese. Tuttavia i primi ebrei ritornarono in Palestina già dopo la loro espulsione dalla Spagna alla fine del 15° secolo e la prima colonia agricola fu costituita presso Jaffa nel 1870. Ma la prima emigrazione seria cominciò solo dopo il 1880, quando la persecuzione poliziesca ed i primi pogrom determinarono una emigrazione verso l’America e la Palestina. Questa prima “Alya” (immigrazione ebrea) del 1882, detta dei “Biluimes”, era in maggioranza composta da studenti russi che possono essere considerati come le pedine della colonizzazione giudea in Palestina. La seconda”Alya” si verificò nel 1904-05, a seguito dello schiacciamento della prima rivoluzione in Russia. Il numero degli ebrei stabilitisi in Palestina, che era di 12.000 nel 1850, salì a 35.000 nel 1882 ed a 90.000 nel 1914. Erano tutti ebrei russi o rumeni, intellettuali e proletari, perché i capitalisti ebrei dell’Occidente si limitarono, come i Rothschild e gli Hirsch, ad un sostegno finanziario che dava loro anche un benevole alone di filantropia, senza dover mettere a disposizione la loro preziosa persona.
Tra i “Biluimes” del 1882, i socialisti erano ancora poco numerosi, e ciò perché nel dilemma dell’epoca, cioè se l’emigrazione degli ebrei dovesse essere diretta verso la Palestina o l’America, loro parteggiavano per quest’ultima. Nella prima emigrazione giudea verso gli Stati Uniti, i socialisti furono dunque molto numerosi e vi costituirono subito delle organizzazioni, dei giornali e praticamente anche dei tentativi di colonizzazione comunista. La seconda volta che si pose la questione di decidere verso dove dirigere l’emigrazione ebrea, fu, come abbiamo detto, dopo la sconfitta della prima rivoluzione russa ed in seguito all’aggravarsi dei pogrom come quello di Kitchinew.
Il sionismo che tentava di assicurare al popolo ebreo un territorio in Palestina e che aveva costituito un Fondo Nazionale per acquistare le terre si divise, all’epoca del 7° Congresso sionista di Baie, in una corrente tradizionalista che restava fedele alla costituzione dello Stato ebreo in Palestina e in corrente territorialista che era per la colonizzazione anche altrove, e nello specifico nell’Uganda, offerta dall’Inghilterra. Solo una minoranza di socialisti ebrei, i Poales sionisti di Ber Borochov, restarono fedeli ai tradizionalisti, tutti gli altri partiti socialisti ebrei dell’epoca, come il partito dei socialisti sionisti (S.S.) ed i Serpisti – una specie di riproduzione negli ambienti ebrei degli Socialisti Rivoluzionari russi – si dichiararono per il territorialismo. La più antica e la più potente organizzazione ebrea del mondo dell’epoca, il Bund, era, come si sa, tutt’altro che contraria alla questione nazionale, per lo meno a quell’epoca.
Un momento decisivo per il movimento di rinascita nazionale fu aperto dalla guerra mondiale del 1914, e dopo l’occupazione da parte delle truppe inglesi della Palestina, alle quali era collegata la Legione ebrea di Jabotinsky, fu promulgata la dichiarazione di Balfour del 1917 che prometteva la costituzione in Palestina del Nucleo nazionale Ebreo. Questa promessa fu sancita alla Conferenza di San Remo del 1920 che pose la Palestina sotto mandato inglese. La dichiarazione di Balfour provocò una terza “Alya”, ma fu soprattutto la quarta, la più numerosa, che coincise con la rimessa del mandato palestinese all’Inghilterra. Questa “Alya” ebbe al suo interno numerosi strati di piccolo borghesi. Si sa che l’ultima immigrazione in Palestina, che seguì l’avvento al potere di Hitler e che è certamente la più importante, era composta già da una forte percentuale di capitalisti.
Se il primo censimento, effettuato nel 1922 in Palestina, considerate le devastazioni della guerra mondiale, non aveva registrato che 84.000 ebrei, l’11 per cento della popolazione totale, quello del 1931 ne censì già 175.000. Nel 1934, le statistiche dicono 307.000 su di una popolazione totale di un milione 171.000. Attualmente la cifra è 400.000 ebrei. L’80 per cento degli ebrei sono stabiliti nelle città il cui sviluppo è ben illustrato dalla comparsa rapida della città fungo di Tel Aviv; lo sviluppo dell’industria giudea è molto rapido: nel 1928 contava 3.505 fabbriche di cui 782 con più di 4 operai, cioè un totale di 18.000 operai con un capitale investito di 3,5 milioni di lire sterline. Gli ebrei stabiliti nelle campagne rappresentano solo il 20% rispetto agli arabi che costituiscono il 65% della popolazione agricola. Ma i fellahs lavorano le loro terre con dei mezzi primitivi, mentre gli ebrei nelle loro colonie e piantagioni lavorano secondo i metodi intensivi del capitalismo, con della manodopera araba pagata molto poco.
Le cifre che abbiamo fornito spiegano già un aspetto dell’attuale conflitto. A partire dal 20° secolo i giudei hanno abbandonato la Palestina ed altre popolazioni si sono stabilite sulla riva del Giordano. Benché le dichiarazioni di Balfour e le decisioni della Società delle Nazioni pretendano di assicurare il rispetto del diritto degli occupanti della Palestina, in realtà l’aumento della immigrazione giudea significa cacciare gli arabi dalle loro terre anche se esse sono state comprate a basso prezzo tramite il Fondo nazionale giudeo. Non è per umanità verso “il popolo perseguitato e senza patria” che la Gran Bretagna ha scelto una politico filo-ebraica. Sono gli interessi dell’alta finanza inglese dove gli ebrei hanno un’influenza predominante che hanno determinato questa politica. D’altra parte, dall’inizio della colonizzazione ebrea si evidenzia un contrasto tra i proletari arabi ed ebrei. Inizialmente i coloni ebrei avevano utilizzato degli operai ebrei perché sfruttavano il loro fervore nazionale per difendersi contro le incursioni arabe. Dopo, con il consolidarsi della situazione, gli industriali ed i proprietari fondiari ebrei preferirono alla mano d’opera ebrea più esigente, quella araba. Gli operai ebrei, costituendo i loro sindacati, più che alla lotta di classe, si dedicarono alla concorrenza contro i bassi salari arabi. Questo spiega il carattere sciovinista del movimento operaio ebreo che viene sfruttato del nazionalismo ebreo e dall’imperialismo britannico.
Vi sono naturalmente anche delle ragioni di natura politica che sono alla base del conflitto attuale. L’imperialismo inglese, a dispetto dell’ostilità tra le due razze, vorrebbe far coabitare sullo stesso territorio due Stati differenti e creare anche un bi parlamentarismo che prevede un parlamento distino per ebrei ed arabi. Nel campo ebreo, oltre alla direttiva temporizzatrice di Weissman, vi sono i revisionisti di Jabotinsky che combattono il sionismo ufficiale, accusano la Gran Bretagna di assenteismo, o addirittura di venir meno agli impegni assunti, e che vorrebbe indirizzare l’emigrazione ebrea verso la Transgiordania, la Siria e la penisola del Sinai. I primi conflitti, che si manifestarono nell’agosto 1929 e che si svolsero intono al Muro del pianto, provocarono, secondo le statistiche ufficiali, la morte di duecento arabi e centotrenta ebrei, cifre certamente inferiori alla realtà, perché se negli insediamenti moderni gli ebrei riuscirono a respingere gli attacchi, a Hebron, a Safi e nei pochi sobborghi di Gerusalemme, gli arabi effettuarono dei veri pogrom. Questi eventi segnarono la fine della politica filoebrea dell’Inghilterra, perché l’impero coloniale britannico aveva sul suo territorio troppi musulmani, compresa l’India, per avere sufficienti ragioni per essere prudenti.
In seguito a questo comportamento del governo britannico verso il Nucleo Nazionale Ebreo, la maggior parte dei partiti giudei: i sionisti ortodossi, i sionisti generali ed i revisionisti passarono alla opposizione, mentre l’appoggio più sicuro alla politica inglese, diretta in questa epoca dal Labour Pary, fu rappresentato dal movimento laburista ebreo che era l’espressione politica della Confederazione Generale del lavoro e che raggruppava quasi la totalità degli operai giudei in Palestina. Di recente si era manifestata, in superficie soltanto, una lotta comune del movimento ebreo ed arabo contro la potenza mandataria. Ma il fuoco covava sotto le ceneri e l’esplosione si ebbe con gli eventi del maggio scorso.
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La stampa fascista italiana è insorta contro l’accusa fatta dalla stampa “sanzionista” che fossero stati degli agenti fascisti a fomentare i moti in Palestina, accusa già avanzata a proposito dei recenti eventi egiziani. Nessuno può negare che il fascismo ha tutto l’interesse a soffiare su questo fuoco. L’imperialismo italiano non ha mai nascosto le sue mire verso il Medio Oriente, cioè il suo desiderio di sostituirsi alle potenze mandatarie in Palestina ed in Siria. Esso possiede, d’altronde, nel Mediterraneo una potente base navale e militare rappresentata da Rodi e le altre isole del Dodecanneso . L’imperialismo inglese, da parte sua, se si trova avvantaggiato dal conflitto tra arabi ed ebrei, perché secondo la vecchia formula romana divide et impera, bisogna dividere per regnare, deve tuttavia tener conto della potenza finanziaria degli ebrei e della minaccia del movimento nazionalista arabo. Quest’ultimo movimento, di cui parleremo più diffusamente un’altra volta, è una conseguenza della guerra mondiale che ha determinato una industrializzazione nelle Indie, in Palestina ed in Siria e rafforzato la borghesia indigena che pose la sua candidatura a governare, cioè a sfruttare le masse indigene.
Gli arabi accusano la Gran Bretagna di voler fare della Palestina il Nucleo Nazionale Giudeo, che significherebbe rubare la terra alle popolazioni indigene. Essi hanno inviato nuovamente degli emissari in Egitto, in Siria ed in Marocco per proclamare un’agitazione del mondo mussulmano a sostegno degli arabi di Palestina, al fine di cercare di intensificare il movimento, in vista dell’unione nazionale panislamica. Essi sono incoraggiati dai recenti avvenimenti della Siria dove la potenza mandataria, la Francia, è stata obbligata a capitolare davanti allo sciopero generale, ed anche dagli eventi di Egitto, dove l’agitazione e la costituzione di un Fronte unico nazionale hanno obbligato Londra a trattare da pari a pari con il governo del Cairo. Noi non sappiamo se lo sciopero generale degli arabi di Palestina otterrà parecchio successo. Esamineremo questo movimento insieme al problema arabo in un prossimo articolo.
Gatto MAMMONE
BILAN n° 31 (giugno-luglio 1936)
Come abbiamo visto nella precedente parte di questo articolo, quando, dopo cento anni di esilio, i “Biluimes” acquistarono un pezzo di territorio sabbioso a Sud di Jaffa, essi trovarono altre tribù, gli Arabi, che si erano sostituiti a loro in Palestina. Questi ultimi non erano che poche centinaia di migliaia, o Arabi fellah (contadini) o beduini (nomadi); i contadini lavoravano con dei mezzi molto primitivi, il suolo apparteneva ai proprietari fondiari (effendis). L’imperialismo inglese, come si è visto, spingendo questi latifondisti e la borghesia araba ad entrare in lotta al suo fianco durante la guerra mondiale, ha loro promesso la costituzione di uno Stato nazionale arabo. La rivolta araba fu nei fatti di un’importanza decisiva per il crollo del fronte turco-tedesco nel Medio Oriente, perché essa vanificò l’appello alla Guerra Santa lanciato dal Califfo ottomano e tenne in scacco numerose truppe turche in Siria, senza parlare della distruzione delle armate turche in Mesopotamia.
Ma se l’imperialismo britannico aveva determinato questa rivolta araba contro la Turchia, grazie alla promessa della creazione di uno Stato arabo composto da tutte le province dell’antico impero ottomano (ivi compresa la Palestina), non esitò, per la difesa dei suoi propri interessi a sollecitare come contropartita l’appoggio dei sionisti giudei, dicendo loro che la Palestina sarebbe stata loro restituita tanto dal punto di vista dell’amministrazione quanto della colonizzazione. Nello stesso tempo si metteva d’accordo con l’imperialismo francese per cedergli un mandato sulla Siria, dividendo così questa regione, che forma, con la Palestina, un’unità storica ed economica indissolubile.
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Nella lettera che Lord Balfour scrisse il 2 novembre 1917 a Rothschild. presidente della Federazione sionista d’Inghilterra, e nella quale egli comunicava che il governo inglese guardava con simpatia alla costituzione in Palestina di un insediamento nazionale per il popolo ebreo e che avrebbe impiegato tutti i suoi sforzi per la realizzazione di questo obiettivo, Lord Balfour aggiungeva che: niente si sarebbe fatto che potesse portare pregiudizio sia ai diritti civili e religiosi delle collettività non ebree esistenti in Palestina, sia ai diritti e allo statuto politico di cui gli ebrei godevano negli altri paesi. Malgrado i termini ambigui di questa dichiarazione, che permetteva ad un nuovo popolo di insediarsi sul loro territorio, l’insieme della popolazione araba restò indifferente all’inizio ed anche favorevole alla creazione di un insediamento nazionale ebreo. I proprietari arabi, per il timore che venisse varata una legge agraria, si mostrarono disposti a vendere alcuni terreni. I capi sionisti, unicamente per delle preoccupazioni di ordine politico non approfittarono di queste offerte e giunsero fino ad approvare la difesa del governo Albany a proposito della vendita dei terreni. Ben presto, la borghesia manifestò delle tendenze ad occupare totalmente dal punto di vista territoriale e politico la Palestina, spodestando la popolazione autoctona e respingendola verso il deserto. Questa tendenza si manifesta oggi presso i sionisti revisionisti, cioè nella corrente filofascista del movimento nazionalista giudeo.
La superficie delle terre arabe della Palestina è di circa 12 milioni di “dounnams” metrici (1 dounnams = 1 decimo di ettaro) di cui tra 5 e 6 milioni sono attualmente coltivati.
Ecco come viene stabilita la superficie delle terre coltivate dai Giudei in Palestina, dopo il 1899:
1899: 22 colonie, 5.000 abitanti, 300.000 dounnams;
1914: 43 colonie, 12.000 abitanti, 400.010 dounnams;
1922: 73 colonie, 15.000 abitanti, 600.000 dounnams;
1931: 160 colonie, 70.000 abitanti, 1.120.000 dounnams.
Per giudicare il valore reale di questa progressione e dell’influenza che ne deriva, non bisogna dimenticare che gli Arabi coltivano ancora oggi la terra in un modo primitivo, mentre i coloni ebrei impiegano i metodi più moderni di cultura. I capitali ebrei investiti nelle imprese agricole sono stimati in molti milioni di dollari, di cui il 65% nelle piantagioni. Benché gli ebrei non possiedano che il 14% delle terre coltivate, il valore dei loro prodotti raggiunge il quarto della produzione totale. Per quel che riguarda le piantagioni di arance, gli ebrei arrivano al 55% della raccolta totale.
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E’ nell’aprile del 1920, a Gerusalemme, e nel maggio 1921, a Jaffa, che si ebbero, sotto forma di pogrom, i primi sintomi della reazione araba. Sir Herbert Samuel, alto commissario in Palestina fino al 1925 tentò di tranquillizzare gli arabi fermando l’immigrazione ebrea, promettendo agli Arabi un governo rappresentativo ed attribuendo loro le migliori terre del patrimonio statale. Dopo la grande ondata di colonizzazione del 1925, che raggiunse il suo massimo con 33.000 immigrati, la situazione peggiorò e finì per determinare i movimenti di agosto 1929. Fu allora che si ricongiunsero alle popolazioni arabe della Palestina le tribù beduine della Transgiordania, chiamate dagli agitatori mussulmani.
In seguito a questi eventi la Commissione di Inchiesta parlamentare inviata in Palestina, e che è conosciuta con il nome di Commissione Shaw, concluse che i fatti erano dovuti all’immigrazione operai ebrea e alla “penuria” di terra e propose al governo l’acquisto di terre per risarcire i fellah sradicati dalle loro terre. Quando, successivamente, nel maggio 1930, il governo britannico accettò nel loro insieme le conclusioni della Commissione Shaw, e sospese nuovamente l’immigrazione operai giudea in Palestina, il movimento operaio ebreo – che la Commissione Shaw non aveva voluto ascoltare – rispose con uno sciopero di protesta di 24 ore, mentre in altri paesi si ebbero numerose manifestazioni di ebrei contro questa decisione. Nell’ottobre 1930 vi fu una nuova dichiarazione riguardante la politica britannica in Palestina, conosciuta con il nome di Libro Bianco.
Essa era ugualmente troppo poco favorevole alla tesi sionista. Ma, di fronte alle proteste sempre più crescenti degli ebrei, il governo laburista rispose, nel febbraio 1931 con una lettera di Mac Donald, che riaffermava il diritto al lavoro, all’immigrazione ed alla colonizzazione ebrea e che autorizzava i datori di lavoro giudei ad impiegare la mano d’opera ebrea – se preferivano questa piuttosto che gli arabi – senza tener conto dell’eventuale aumento di disoccupazione tra questi ultimi. Il movimento operaio palestinese si affrettò a dare fiducia al governo laburista inglese, mentre tutti gli altri partiti sionisti restavano in un’opposizione diffidente. Noi abbiamo mostrato, nell’articolo precedente, le ragioni del carattere sciovinista del movimento operaio in Palestina.
L’Histadrath – la principale Centrale sindacale palestinese non comprende che degli ebrei (l’80% degli operai ebrei sono organizzati). E’ solo la necessità di elevare lo standard di vita delle masse arabe, per proteggere gli alti salari della mano d’opera ebrea, che ha determinato, in questi ultimi tempi, i suoi sforzi di organizzare gli arabi. Ma gli embrioni di sindacai raggruppati nella “Alliance” restano organicamente separati dall’Histadrath, eccezion fatta per il sindacato dei ferrovieri che raggruppa i rappresentanti di tutte le due razze.
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Lo sciopero generale degli Arabi in Palestina entra ora nel suo quarto mese. La guerriglia continua, malgrado il recente decreto che infligge la pena di morte agli autori di attentati: ogni giorno si fanno delle imboscate e si assalgono treni ed automobili, senza contare le distruzioni e gli incendi di proprietà ebree. Questi eventi sono costati alla potenza mandataria già quasi mezzo milione di lire sterline per il mantenimento delle forze armate e per la diminuzione delle entrate, conseguenza della resistenza passiva e del boicottaggio delle masse arabe. Ultimamente, ai Comuni, il ministro delle colonie ha fornito come cifre delle vittime: 400 Mussulmani, 200 ebrei e 100 poliziotti; finora 1.800 arabi ed ebrei sono stati giudicati e 1.200 sono stati condannati di cui 300 ebrei. Secondo il ministro, un centinaio di nazionalisti arabi sono stati deportati nei campi di concentramento. Quattro capi comunisti (2 ebrei e 2 armeni) sono detenuti e 60 comunisti sono sorvegliati dalla polizia. Ecco le cifre ufficiali.
E’ evidente che la politica dell’imperialismo britannico in Palestina si ispira naturalmente ad una politica colonia le caratteristica di ogni imperialismo. Questa consiste nel fare affidamento soprattutto su certi strati della popolazione coloniale (opponendo le razze tra loro, o delle confessioni religiose differenti, o meglio ancora risvegliando delle gelosie tra clan o capi), il che permette all’imperialismo di stabilire solidamente la sua super oppressione sulle stesse masse coloniali, senza distinzione di razza o confessione. Ma, se questa manovra è potuta riuscire in Marocco e in Africa centrale, in Palestina ed in Siria il movimento nazionalista arabo presenta una resistenza molto compatta. Si appoggia sui paesi più o meno indipendenti che lo circondano: Turchia, Persia, Egitto, Irak, Stati arabi ed, inoltre, si lega all’insieme del mondo mussulmano che conta parecchi milioni di individui.
A dispetto dei contrasti esistenti tra differenti Stati mussulmani e malgrado la politica anglofila di alcuni tra loro, il grande pericolo per l’imperialismo sarebbe la costituzione di un blocco orientale capace di imporsi – il che sarebbe possibile se il risveglio e il rafforzamento del sentimento nazionalista delle borghesie indigene potesse impedire il risveglio della rivolta di classe degli sfruttati coloniali che hanno da rompere tanto con i loro sfruttatori che con l’imperialismo europeo- e che potrebbe trovare un punto di legame con la Turchia che viene da poco ad affermare i suoi diritti sui Dardanelli e che potrebbe riprendere la sua politica panislamica. Ora la Palestina è di un’importanza vitale per l’imperialismo inglese. Se i sionisti si sono illusi di ottenere una Palestina “ebrea”, in realtà essi non otterranno altro che una Palestina “britannica”, via dei transiti terrestri che lega l’Europa all’India. Essa potrebbe rimpiazzare la via marittima del Suez, la cui sicurezza viene ad essere indebolita dallo stabilirsi dell’imperialismo italiano in Etiopia. Non bisogna dimenticare inoltre che l’oleodotto di Mossoul (zona petrolifera) giunge al porto palestinese di Haifa.
Infine, la politica inglese dovrà sempre tener conto del fatto che 100 milioni di mussulmani popolano l’impero britannico. Finora l’imperialismo britannico è riuscito, in Palestina, a contenere la minaccia rappresentata dal movimento arabo di indipendenza nazionale, opponendogli il sionismo che, spingendo le masse ebree ad emigrare in Palestina, dislocava il movimento di classe del loro paese d’origine dove questo avrebbe trovato il loro posto ed, infine, si assicurava un appoggio solido alla sua politica in Medio Oriente. L’espropriazione delle terre, a dei prezzi irrisori, ha spinto i proletari arabi nella miseria più nera e li ha buttati nelle braccia dei nazionalisti arabi e dei grandi proprietari fondiari e della borghesia nascente. Quest’ultima ne ha approfittato, evidentemente, per estendere le sue mira di sfruttamento delle masse e dirige il malcontento dei fellah e proletari contro gli operai ebrei nello stesso modo in cui i capitalisti sionisti hanno diretto il malcontento degli operai ebrei contro gli arabi. Da questo contrasto tra sfruttati ebrei ed arabi, l’imperialismo britannico e le classi dirigenti arabe non possono che uscire rafforzate. Il comunismo ufficiale aiuta gli arabi nella loro lotta contro il sionismo qualificato come strumento dell’imperialismo inglese. Già nel 1929 la stampa nazionalista ebrea pubblicò una lista nera della polizia dove gli agitatori comunisti figuravano al fianco del gran Mufti e dei capi nazionalisti arabi. Attualmente numerosi militanti comunisti sono stati arrestati. Dopo aver lanciato la parola d’ordine di “arabizzazione” del partito, i centristi hanno lanciato oggi la parola d’ordine “l’Arabia agli arabi”, che non è altro che una copia della parola d’ordine “Federazione di tutti i popoli arabi” propria dei nazionalisti arabi, cioè dei latifondisti (gli effendi) e degli intellettuali che, con l’appoggio del clero mussulmano, dirigono il congresso arabo e canalizzano, in nome dei loro interessi, le reazioni degli sfruttati arabi.
Per il vero rivoluzionario, ovviamente, non c’è una questione “palestinese”, ma unicamente la lotta di tutti gli sfruttati del Medio Oriente, arabi ed ebrei compresi, che fanno parte della lotta più generale di tutti gli sfruttati del mondo intero per la rivolta comunista.
Gatto Mammone
Gli avvenimenti che si sono svolti in Argentina da dicembre 2001 a febbraio 2002 hanno suscitato un grande interesse tra gli elementi politicizzati del mondo intero. Discussioni e riflessioni hanno avuto luogo un po’ dovunque tra gli operai combattivi sul posto di lavoro. Certi gruppi trotzkisti hanno parlato finanche di “inizio della rivoluzione”.
Nel campo della Sinistra comunista, il BIPR ha dedicato numerosi articoli a questi avvenimenti e ha affermato, in una dichiarazione che: “In Argentina, i danni dovuti alla crisi economica hanno messo in moto un proletariato forte e determinato sul terreno della lotta e dell'auto-organizzazione, proprio ad esprimere una rottura di classe” (1)
L'interesse che ha suscitato la situazione di effervescenza sociale in Argentina è completamente legittimo e comprensibile. Difatti, dal crollo del blocco dell'Est nel 1989, la situazione internazionale non è stata segnata da grandi movimenti proletari di massa come invece era accaduto precedentemente, per esempio, con lo sciopero in Polonia nel 1980 o con le lotte come quelle di Cordoba in Argentina nel 1969. Lo scenario successivo è stato invece dominato dalla barbarie guerriera (la guerra del Golfo nel 1991, in Iugoslavia, in Afghanistan, nel Medio Oriente...), dagli effetti quotidiani sempre più profondi dell’avanzamento della crisi economica mondiale (licenziamenti massicci, disoccupazione, abbassamento degli stipendi e delle pensioni), e dalle differenti manifestazioni della decomposizione del capitalismo (distruzione dell’ambiente naturale, moltiplicazione delle catastrofi “naturali” e “accidentali”, sviluppo del fanatismo religioso, razziale, della criminalità, ecc.).
Questa situazione, di cui abbiamo analizzato le cause dettagliatamente (2), rappresenta il motivo per cui gli elementi politicizzati prestano un’attenzione particolare agli avvenimenti che si sono svolti in Argentina e che sembrano rompere con questo ambiente dominante “di cattive notizie”: in Argentina, le proteste di strada hanno provocato un cambio senza precedenti di presidenti (5 in 15 giorni), hanno preso la forma di numerose assemblee “auto-convocate” ed espresso rumorosamente il loro rigetto verso “tutti i politici”.
I rivoluzionari hanno il dovere di seguire attentamente i movimenti sociali per prendere posizione ed intervenire dovunque la classe operaia si manifesti. Certamente gli operai hanno partecipato alle mobilitazioni che si sono avute in Argentina e, in alcune lotte isolate, hanno anche formulato chiare rivendicazioni di classe scontrandosi con il sindacalismo ufficiale. Evidentemente noi siamo solidali con queste lotte, ma il nostro contributo più importante, in quanto gruppo rivoluzionario, è prima di tutto fare la più grande chiarezza nell’analisi di questi avvenimenti. È da questa chiarezza che dipende la capacità delle organizzazioni rivoluzionarie di condurre un intervento adeguato, facendo riferimento al quadro storico ed internazionale definito dal metodo marxista. In effetti, il peggiore errore che le avanguardie del proletariato mondiale possano fare è alimentare le illusioni all’interno della classe operaia, incoraggiandola nelle sue debolezze e facendole scambiare sconfitte per vittorie. Un tale errore, piuttosto che contribuire ad aiutare il proletariato a riprendere l’iniziativa, a sviluppare le lotte sul suo terreno di classe, ad affermarsi come sola forza sociale contro il capitale, può solo rendere il suo compito ancora più difficile.
Da questo punto di vista, la domanda che poniamo è: qual è stata la natura di classe degli avvenimenti in Argentina? È proprio vero che in questo movimento, come pensa il BIPR, il proletariato ha sviluppato la sua “auto-organizzazione” e la sua “rottura” con il capitalismo? La nostra risposta è chiara e netta: no! Il proletariato in Argentina si è trovato immerso e diluito in un movimento di rivolta interclassista. Questo movimento di protesta popolare, in cui la classe operaia è stata sommersa, non ha espresso la forza del proletariato ma la sua debolezza. Perciò la classe non è stata in grado di affermare né la sua autonomia politica, né la propria auto-organizzazione.
Il proletariato non ha bisogno di consolarsi né di aggrapparsi a illusorie chimere. Quello di cui ha bisogno è ritrovare la strada della propria prospettiva rivoluzionaria, di affermarsi sulla scena sociale come unica classe capace di offrire un avvenire all’umanità e, sulla base di questa posizione, trascinare con sé gli altri strati sociali non sfruttatori. Per tale motivo il proletariato ha bisogno di guardare la realtà in faccia, senza avere paura della verità. Per sviluppare la sua coscienza ed elevare le sue lotte all’altezza della posta in gioco della attuale situazione storica, non può risparmiare critiche alle sue debolezze, facendo una riflessione di fondo sugli errori commessi e le difficoltà incontrate. Gli avvenimenti d’Argentina serviranno al proletariato mondiale - ed a quello argentino in particolare se le sue capacità di lotta non si sono esaurite nel frattempo - a trarre una chiara lezione: cioè che la rivolta interclassista non indebolisce il potere della borghesia, ma principalmente lo stesso proletariato.
Il collasso dell'economia argentina manifestazione eclatante dell'aggravamento della crisi.
Non entreremo qui in un’analisi dettagliata della crisi economica in Argentina. Rinviamo per questo alla nostra stampa territoriale (3).
Particolarmente significative della situazione sono comunque la crescita brutale della disoccupazione, che è passata del 7% nel 1992 al 17% nell’ottobre 2001 e che ha raggiunto il 30% in tre mesi (dicembre 2001), e la comparsa, per la prima volta dall’epoca della colonizzazione spagnola, del fenomeno della fame in un paese considerato, appena recentemente, di “livello europeo” e la cui produzione principale è, precisamente, la carne ed il grano.
Lungi dal costituire un fenomeno locale, provocato da cause come la corruzione o la volontà di “vivere come gli europei”, la crisi argentina costituisce un nuovo episodio dell’aggravamento della crisi economica del capitalismo. Questa crisi è mondiale e riguarda tutti i paesi. Ma ciò non significa che li colpisce tutti allo stesso modo ed allo stesso livello. “Se non risparmia nessun paese, la crisi mondiale esercita i suoi effetti più devastanti non tanto nei paesi più evoluti, più potenti, ma in quelli che sono arrivati troppo tardi nell’arena economica mondiale e la cui strada verso lo sviluppo è sbarrata definitivamente dalle potenze più vecchie”. (“Il proletariato dell'Europa occidentale al centro della generalizzazione della lotta di classe” Revue Internationale n° 31).
Inoltre, di fronte all’aggravarsi ulteriore della crisi, i paesi più forti prendono delle misure per difendersi contro i suoi colpi e riversare questi sui paesi più deboli (“liberalizzazione” del commercio mondiale, “mondializzazione” delle transazioni finanziarie, investimenti nei settori chiave dei paesi più deboli che utilizzano le privatizzazioni, le politiche del FMI, ecc.), quello che in una sola parola si chiama “mondializzazione”. Si tratta di un insieme di misure di capitalismo di stato applicate all’economia mondiale dai grandi paesi per proteggersi dalla crisi e rovesciare i suoi effetti peggiori sulle economie più deboli (4). I dati forniti dalla Banca mondiale (5) sono eloquenti: nei venti anni tra il 1980 e il 2000, i creditori privati ricevono dall’insieme dei paesi dell’America latina 192 miliardi di dollari in più dell’importo che avevano prestato, ma in soli due anni tra il 1999 e il 2000, questa differenza ammonta, niente di meno, a 86 miliardi di dollari, praticamente la metà della differenza prodotta in 20 anni. Da parte sua, il FMI, tra il 1980 e il 2000, ha concesso ai paesi sudamericani dei crediti di un importo di 71,3 miliardi di dollari nello stesso momento in cui questi ultimi gli rimborsavano 86,7 miliardi!
Ciononostante, la situazione in Argentina è solo la punta dell’iceberg: dietro questo paese ce ne sono altri, di grande importanza come fornitori di petrolio o per la loro posizione strategica (Venezuela, la Turchia, il Messico, il Brasile, l'Arabia saudita...), che sono candidati potenziali a subire lo stesso crollo economico e politico.
Movimento autonomo di classe o rivolta interclassista cieca e caotica?
Come afferma in modo lapidario il BIPR nella sua pubblicazione italiana, il capitalismo risponde alla fame con ancora più fame. Il BIPR mostra così chiaramente l’assenza di alternative presente nelle molteplici misure di “politica economica” proclamate dai governi, dalle opposizioni o dai “movimenti alternativi” come il Social Forum di Puerto Alegre. I rimedi ingegnosi che prescrivono questi demagoghi sono stati squalificati gli uni dopo gli altri dagli stessi fatti, in 30 anni di crisi (6). Il BIPR conclude a giusta ragione: “non bisogna farsi illusioni: a questo punto, il capitalismo non ha niente altro da offrire se non la generalizzazione della miseria e della guerra. Solo il proletariato può fermare questa tragica deriva”. (7)
Tuttavia, i movimenti di protesta in Argentina sono valutati dal BIPR nel seguente modo: “[il proletariato] è sceso spontaneamente nella strada, trascinandosi i giovani, gli studenti, e parti importanti della piccola borghesia proletarizzata e depauperata come lui. Tutti insieme, hanno esercitato la loro rabbia contro i santuari del capitalismo, le banche, gli uffici e soprattutto i supermercati ed altri negozi che sono stati presi di assalto come i forni del pane nel Medioevo. Nonostante il governo che, nella speranza di intimidire i ribelli, non ha trovato niente di meglio che scatenare una repressione selvaggia, facendo numerosi morti e feriti, la rivolta non ha cessato di estendersi a tutto il paese, assumendo sempre più delle caratteristiche classiste”.
Nelle mobilitazioni sociali che hanno avuto luogo in Argentina, possiamo distinguere tre componenti:
Anzitutto, gli assalti contro i supermercati condotti essenzialmente dagli emarginati, dalla popolazione sottoproletarizzata e dai giovani disoccupati.
Questi movimenti sono stati repressi ferocemente dalla polizia, dalle guardie private e dagli stessi commercianti. In numerosi casi sono degenerati con il saccheggio di abitazioni nei quartieri poveri o di uffici, negozi (8), ecc. La principale conseguenza di questa “prima componente” del movimento sociale è che esso ha condotto a tragici scontri tra gli stessi lavoratori, come illustrato dal sanguinoso scontro tra i piqueteros che volevano impadronirsi di alimenti e gli impiegati del Mercato centrale di Buenos Aires l’11 gennaio (9).
Per la CCI, le manifestazioni di violenza all’interno della classe operaia (che sono in questo caso un’illustrazione dei metodi propri degli strati sottoproletarizzati), non sono per niente un'espressione della sua forza, ma al contrario della sua debolezza. Questi scontri violenti tra differenti parti della classe operaia costituiscono un ostacolo alla sua unità ed alla sua solidarietà e possono servire solo gli interessi della classe dominante.
La seconda componente è stata “il movimento delle cacerolas (casseruole)”
Questa è stata incarnata essenzialmente dalle “classi medie”, esasperate dal cattivo colpo ricevuto dal sequestro e dalla svalutazione dei loro risparmi, quello che si chiama corralito. La situazione di questi strati è disperata: “Da noi, la povertà si allea ad una disoccupazione elevata; a questa povertà si aggiungono i “nuovi poveri”, vecchi membri della classe media che hanno raggiunto questa posizione a causa di una mobilità sociale declinante, al contrario dell'emigrazione argentina fiorente degli inizi del ventesimo secolo”. (10) Gli impiegati del settore pubblico, i pensionati, certi settori del proletariato industriale ricevono, allo stesso modo della piccola borghesia, la pugnalata del corralito: le loro magre economie, acquisite grazie allo sforzo di tutta una vita, si trovano praticamente ridotte a nulla; questi supplementi alle pensioni di miseria si sono volatilizzati. Tuttavia, nessuna di queste caratteristiche conferisce un carattere di classe al movimento dei cacerolas, che resta una rivolta popolare interclassista, dominata da prese di posizione nazionaliste e “ultrademocratiche”.
La terza componente è formata da tutta una serie di lotte operaie
Si tratta in particolare degli scioperi di insegnanti nella grande maggioranza delle 23 province argentine, del movimento combattivo di ferrovieri a livello nazionale, dello sciopero dell’ospedale Ramos Mejias a Buenos Aires o della lotta della fabbrica Bruckmann nella Grande Buenos Aires (durante la quale hanno avuto scontri sia con la polizia in uniforme che con la polizia sindacale), della lotta degli impiegati di banca, di numerose mobilitazioni di disoccupati che, da due anni, fanno marce attraverso l’intero paese (i famosi piqueteros).
I rivoluzionari non possono evidentemente che salutare l’enorme combattività di cui ha dato prova la classe operaia in Argentina. Ma, come abbiamo sempre affermato, la combattività, per tanto forte sia, non è il solo e principale criterio che permette di avere una visione chiara del rapporto di forze tra le due classi fondamentali della società: la borghesia ed il proletariato. La prima domanda cui dobbiamo rispondere è la seguente: queste lotte operaie che sono esplose ai quattro angoli del paese ed in numerosi settori, si sono inserite in una dinamica che può sfociare in un movimento unito di tutta la classe operaia, un movimento massiccio capace di rompere il controfuoco messo in campo dalla borghesia (particolarmente le sue forze di opposizione democratica ed i suoi sindacati)? A questa domanda, la realtà dei fatti ci obbliga a rispondere chiaramente: no! Proprio perché questi scioperi operai sono rimasti sparpagliati e non hanno potuto sfociare in un gigantesco movimento unificato di tutta la classe operaia, in Argentina il proletariato non è stato in grado di stare alla testa del movimento di protesta sociale e di trascinare nella sua scia, dietro i suoi metodi di lotta, l’insieme degli strati non sfruttatori. Al contrario, a causa della sua incapacità a stare alla testa del movimento, le sue lotte sono state immerse, diluite ed inquinate dalla rivolta senza prospettiva degli altri strati sociali che, benché siano loro stessi vittime del crollo dell’economia argentina, non hanno nessuno avvenire storico. Per i marxisti, il solo modo che permette di non perdere la bussola e potersi orientare in una tale situazione si riassume nella domanda: chi dirige il movimento? Qual è la classe sociale che ha l’iniziativa e segna la dinamica del movimento? Solo se saranno capaci di dare una risposta corretta a questa domanda i rivoluzionari potranno contribuire all’avanzamento del proletariato verso la prospettiva della sua emancipazione e, di conseguenza, a quello dell’umanità tutta intera, liberandola della deriva tragica in cui porta il capitalismo.
A tale riguardo il BIPR commette un grave errore di metodo. Contrariamente alla sua visione fotografica ed empirista, non è il proletariato che ha trascinato gli studenti, i giovani e parti importanti della piccola borghesia, ma è precisamente l’inverso che è accaduto. È la rivolta disperata, confusa e caotica di un insieme di strati popolari che ha sommerso e diluito la classe operaia. Un esame sommario delle prese di posizione, delle rivendicazioni e del tipo di mobilitazione delle assemblee popolari di quartiere che hanno proliferato a Buenos Aires e si sono estese a tutto il paese, lo dimostra in tutta la sua crudezza. Cosa chiede l’appello a manifestare del cacerolazo mondiale del 2 e 3 febbraio 2002, appello che ha trovato un’eco in vasti settori politicizzati, in più di venti città di quattro continenti? Questo: “Cacerolazo globale, noi siamo tutta l’Argentina, tutti nella strada, a New York, Puerto Alegre, Barcellona, Toronto, Montreal, (aggiungi la tua città ed il tuo paese). Che tutti vadano via! FMI, Banca mondiale, Alca, multinazionali ladre, governanti e politici corrotti! Che non ne resti uno! Viva l'assemblea popolare! In piedi popolo argentino”! Questo “programma”, nonostante tutta la collera che esprime contro “i politici”, è ciò che questi ultimi difendono tutti i giorni, dall’estrema sinistra all’estrema destra, perché i governi “ultra-liberali” sanno portare essi stessi dei colpi “critici” all’ultra-liberismo, alle multinazionali, alla corruzione, ecc.
D’altra parte, questo movimento di protesta “popolare” è stato particolarmente segnato dal più estremo e reazionario nazionalismo. In tutte le assemblee di quartiere è stato ripetuto fino alla nausea che l’obiettivo è “creare un’altra Argentina”, “ricostruire il nostro paese sulle sue proprie basi”. Sui siti Internet delle differenti assemblee di quartiere si trovano dibattiti di tipo riformistico e nazionalista, come: dobbiamo pagare il debito estero? Qual è la migliore soluzione, imporre il peso o il dollaro? Su un sito Internet viene proposto, in modo lodevole, di lavorare alla “formazione ed alla presa di coscienza” delle persone e, a questo scopo, di aprire un dibattito su Il contratto sociale di Jean-Jacques Rousseau (11) ed viene anche chiesto un ritorno ai classici argentini del diciannovesimo secolo come San Martin o Sarmiento.
Bisogna essere particolarmente miopi (o avere voglia di rassicurarsi raccontandosi delle favole) per non vedere che questo nazionalismo esagerato ha contaminato anche le lotte operaie: i lavoratori della TELAM hanno messo alla testa delle loro manifestazioni delle bandiere argentine; in un quartiere operaio della Grande Buenos Aires, l’assemblea, tenuta contro il pagamento di una nuova tassa municipale, ha intonato all’inizio ed alla fine l’inno nazionale.
Per il suo carattere interclassista, questo movimento popolare e senza prospettiva non poteva fare niente altro che raccomandare le stesse soluzioni reazionarie che hanno condotto alla situazione tragica in cui è caduta la popolazione, e i cui partiti politici, i sindacati, la chiesa, ecc. - e cioè le forze capitaliste contro cui questo movimento voleva lottare - hanno la bocca piena. Ma quest’aspirazione al ritorno alla situazione precedente, questa ricerca della poesia del passato, è una conferma molto eloquente del carattere impotente e senza avvenire di questa rivolta sociale. Come viene espresso, con grande sincerità, da un partecipante alle assemblee: “Molti dicono che non abbiamo proposte da fare, che tutto quello che sappiamo fare è opporci. E noi possiamo dire con orgoglio che sì, noi ci opponiamo al sistema stabilito dal neoliberismo. Come un arco teso dall'oppressione, siamo le frecce lanciate contro il pensiero unico. La nostra azione sarà difesa, passo su passo, dai nostri abitanti per esercitare il diritto più vecchio dei popoli, la resistenza popolare” (12).
Nella stessa Argentina, nel 1969-73, il Cordobazo, lo sciopero di Mendoza, l’ondata di lotte che ha inondato il paese, hanno costituito la chiave dell’evoluzione sociale. Pur senza avere un carattere insurrezionale, queste lotte hanno segnato il risveglio del proletariato che, a sua volta, ha condizionato tutte le richieste politiche e sociali del paese. Ma la situazione in Argentina nel dicembre 2001 non è la stessa a causa dell’aggravamento della decomposizione della società capitalista. Il proletariato deve far fronte a nuove difficoltà, a ostacoli che ancora deve superare per potersi affermare, per poter sviluppare la sua identità e la sua autonomia di classe. Contrariamente al periodo dell’inizio degli anni ‘70, la situazione sociale in Argentina è stata caratterizzata da un movimento interclassista che ha diluito il proletariato e non ha segnato la scena politica se non in modo effimero ed impotente. Certo, il movimento dei cacerolas ha realizzato una prodezza degna del Guiness dei primati, col cambiamento consecutivo di 5 presidenti in 15 giorni. Ma tutto questo non è altro che fuoco di paglia. Attualmente, i siti web delle Assemblee popolari constatano amaramente che il movimento è svanito come per incanto, così che l’astuto Duhalde è riuscito a ristabilire l’ordine senza avere ridotto in nessun modo la miseria galoppante, né fatto in modo che il suo piano economico porti ad una qualsivoglia soluzione.
La lezione degli avvenimenti dell'Argentina
Nel periodo storico attuale che abbiamo definito come fase di decomposizione del capitalismo (13), il proletariato corre un rischio molto grave: quello di perdere la sua identità di classe, la fiducia in sé stesso, nella sua capacità rivoluzionaria ad ergersi come forza sociale autonoma e determinante nell’evoluzione della società. Questo pericolo è il prodotto di tutta una serie di fattori legati tra loro:
- il colpo portato alla coscienza del proletariato dal crollo del blocco dell’Est, che la borghesia ha potuto presentare facilmente come “il crollo del comunismo” e “l’insuccesso storico del marxismo e della lotta di classe”;
- il peso della decomposizione del sistema capitalista che erode i legami sociali e favorisce un’atmosfera di competizione irrazionale, anche negli stessi settori proletari;
- la paura nei confronti della politica e della politicizzazione che è una conseguenza della forma che ha preso la controrivoluzione (attraverso lo stalinismo, vale a dire dall’interno dello stesso bastione proletario e dei partiti dell’Internazionale Comunista) e dell’enorme colpo che ha rappresentato storicamente per la classe operaia la degenerazione, in maniera consecutiva e in meno di una generazione, delle due migliori creazioni della sua capacità politica e di presa di coscienza: prima dei partiti socialisti ed appena dieci anni dopo, dei partiti comunisti.
Questo pericolo può finire per impedirgli di prendere 1'iniziativa di fronte alla disgregazione profonda di tutta la società, conseguenza della crisi storica del capitalismo. L'Argentina mostra con chiarezza questo potenziale pericolo: la paralisi generale dell'economia e le convulsioni importanti dell'apparato politico borghese non sono state utilizzate dal proletariato per elevarsi come forza sociale autonoma, per lottare per i suoi obiettivi e guadagnare attraverso ciò gli altri strati della società. Sommerso da un movimento interclassista, tipico della decomposizione della società borghese, il proletariato si è trovato trascinato in una rivolta sterile e senza avvenire. Per questa ragione, le speculazioni che hanno attizzato gli ambienti trotskisti, anarchici, autonomi, ed in generale, il campo "anti-mondializzazione" a proposito degli avvenimenti in Argentina, presentandoli come "l'inizio di una rivoluzione", un "nuovo movimento", la "dimostrazione pratica che un'altra società è possibile", sono estremamente pericolose.
Più preoccupante ancora è che il BIPR si è fatto eco di queste confusioni, portando il suo contributo alle illusioni su "la forza del proletariato in Argentina". (14)
Queste speculazioni disarmano le minoranze che il proletariato secerne e che oggi sono alla ricerca di un'alternativa rivoluzionaria di fronte a questo mondo che crolla. Ed è anche per questo che ci sembrava importante chiarire le ragioni del perché il BIPR crede vedere dei giganteschi "movimenti di classe" in quelli che non sono niente di più che mulini a vento di rivolte interclassiste.
In primo luogo, il BIPR ha sempre rigettato il concetto di corso storico con cui noi cerchiamo di comprendere l'evoluzione dei rapporti di forza tra il proletariato e la borghesia nella situazione storica presente che si è aperta con la ripresa storica del proletariato sulla scena sociale nel 1968. Tutto ciò appare al BIPR come puro idealismo che fa “cadere nelle predizioni e nei pronostici” (15). Il suo rigetto di questo metodo storico lo porta ad avere un visione immediatista ed empirica, tanto di fronte ai fatti di guerra che nei confronti della lotta di classe. E’ utile, a questo proposito ricordare l'analisi che ha fatto il BIPR sulla guerra del Golfo, presentata come "inizio della 3a guerra mondiale”. Sulla base di questo stesso metodo fotografico la rivolta di palazzo che mise fine al regime di Ceaucescu è stata presentata quasi come una "rivoluzione": “La Romania è il primo paese nelle regioni industrializzate in cui la crisi economica mondiale ha dato nascita ad una reale ed autentica insurrezione popolare il cui risultato è stato il capovolgimento del governo... in Romania, tutte le condizioni obiettive e quasi tutte le condizioni soggettive erano riunite per trasformare l'insurrezione in una reale ed autentica rivoluzione sociale" ("Ceaucescu è morto, ma il capitalismo vive ancora”, Battaglia Comunista di gennaio 1990)
E’ chiaro che il rigetto di ogni analisi del corso storico può condurre solamente a lasciarsi sballottare dagli avvenimenti immediati. L’assenza di metodo di analisi della situazione storica mondiale e del rapporto di forze reali tra le classi porta il BIPR a considerare che siamo ora alle soglie di una terza guerra mondiale, ora alle soglie della rivoluzione proletaria. Resta per noi un mistero come, secondo il "metodo" di analisi del BIPR, il proletariato passa dalla situazione di reclutamento dietro le bandiere nazionali che preparano una terza guerra mondiale alla situazione dove è pronto all'assalto rivoluzionario, e siamo sempre in attesa che il BIPR ci dia una spiegazione coerente di queste oscillazioni.
Per parte nostra, di fronte a tale andirivieni demoralizzante, riteniamo che solo l’orientamento derivante da una visione globale e storica può permettere ai rivoluzionari di non essere in balia degli avvenimenti ed evitare di ingannare la loro classe facendole prendere lucciole per lanterne.
In secondo luogo, il BIPR continua ad ironizzare sulla nostra analisi della decomposizione del capitalismo affermando che essa ci serve "a spiegare" tutto. Tuttavia, il concetto di decomposizione è molto importante per fare la distinzione tra rivolta e lotta di classe del proletariato. Questa distinzione è cruciale nella nostra epoca. La situazione attuale del capitalismo si evolve infatti verso la protesta, il tumulto, gli scossoni tra le classi, gli strati ed i settori della società. La rivolta è il frutto cieco ed impotente delle convulsioni della società agonizzante. Non contribuisce al superamento di queste contraddizioni ma al loro deterioramento ed aggravamento. È l’espressione di una delle conclusioni della prospettiva generale della lotta delle classi nel corso della storia che delinea il Manifesto comunista, secondo il quale "si finisce sempre o con la trasformazione rivoluzionaria della società o con il crollo delle classi presenti". Questo ultimo termine dell'alternativa è quello che fornisce la base del concetto stesso di decomposizione. Di fronte a ciò, c'è la lotta di classe del proletariato che, se è capace di esprimersi sul proprio terreno di classe, mantenendo la sua autonomia ed avanzando verso la sua estensione e la sua auto-organizzazione, può convertirsi in "un movimento dell'immensa maggioranza in favore dell'immensa maggioranza" (ibid.). Tutto lo sforzo degli elementi più coscienti del proletariato e, in modo più generale, degli operai in lotta, è di non confondere la rivolta con la lotta autonoma della classe, di combattere affinché il peso della decomposizione generale della società non trascini la lotta del proletariato nello stallo della rivolta cieca. Mentre il terreno di quest’ultima porta alla progressiva usura delle capacità del proletariato, il terreno della lotta di classe lo conduce verso la distruzione rivoluzionaria dello Stato capitalista in tutti i paesi.
La prospettiva del proletariato
Se in Argentina, i fatti mostrano chiaramente il pericolo che corre il proletariato se si lascia trascinare sul campo viziato della rivolta "popolare" interclassista, l’esito dell'evoluzione della società verso la barbarie o verso la rivoluzione non si gioca là ma nell'epicentro delle grandi concentrazioni operaie del mondo e, più in particolare, in Europa occidentale.
“Una rivoluzione sociale non consiste semplicemente nella rottura di una catena, nello scoppio della vecchia società. È ancora e simultaneamente un'azione per l'edificazione di una nuova società. Non è un fatto meccanico, ma un fatto sociale indissolubilmente legato agli antagonismi di interessi umani, alla volontà ed alle aspirazioni delle classi sociali e della loro lotta". (Revue internationale n° 31 op. cit) Le visioni meccanicistiche e materialiste volgari vedono nella rivoluzione proletaria solo l'aspetto esplosione del capitalismo, ma sono incapaci di cogliere l'aspetto più importante e decisivo: la sua distruzione rivoluzionaria attraverso l'azione cosciente del proletariato, ciò che Lenin e Trotzkij chiamavano "il fattore soggettivo". Queste visioni materialiste volgari costituiscono un ostacolo ad una presa di coscienza della gravità della situazione storica caratterizzata dall'entrata del capitalismo nella fase estrema della sua decadenza: quella della sua decomposizione, del suo deterioramento dalle fondamenta. Di più, un tale materialismo meccanico e contemplativo si accontenta di "soddisfarsi" "dell'aspetto obiettivamente rivoluzionario": l'aggravamento inesorabile della crisi economica, le convulsioni della società, il deterioramento della classe dominante. I pericoli che rappresentano le manifestazioni della decomposizione del capitalismo (e l’uso ideologico che ne fa la classe dominante) per la coscienza del proletariato, per lo sviluppo della sua unità e della fiducia in sé, sono spazzati via con un gesto di mano dal materialismo volgare! (16)
Ma la chiave di una prospettiva rivoluzionaria nella nostra epoca risiede precisamente nella capacità del proletariato a sviluppare nelle sue lotte quest’insieme di elementi "soggettivi", la sua coscienza, la fiducia nel suo diventare rivoluzionario, la sua unità e la solidarietà di classe) che gli permetteranno di contrastare progressivamente e poi mettere fine, superandolo, al peso della decomposizione ideologica e sociale del capitalismo. Le condizioni più favorevoli per questo sviluppo, si trovano proprio nelle grandi concentrazioni operaie dell'Europa occidentale, dove "le rivoluzioni sociali non si producono dove la vecchia classe dominante è più debole e dove la sua struttura è meno evoluta, ma al contrario là dove la sua struttura ha raggiunto il suo più grande completamento compatibile con le forze produttive e dove la classe portatrice dei nuovi rapporti di produzione, chiamata a sostituirsi ai vecchi diventati caduchi, è più forte... Marx ed Engels hanno cercato e puntato là dove il proletariato è più forte, più concentrato e più adatto ad operare la trasformazione sociale. Perché, se la crisi colpisce in primo luogo e più brutalmente i paesi sottosviluppati in ragione stessa della loro debolezza economica e della loro mancanza di margine di manovre, non bisogna perdere mai di vista che la crisi ha la sua sorgente nella sovrapproduzione e dunque nei grandi centri di sviluppo del capitalismo. Questa è un'altra ragione per la quale le condizioni per una risposta a questa crisi ed al suo superamento risiedono fondamentalmente in questi grandi centri." (ibid.)
In effetti, la visione deformata del BIPR sul contenuto di classe degli avvenimenti in Argentina è da mettere in relazione con la sua analisi delle potenzialità del proletariato dei paesi della periferia che si esprime particolarmente nelle sue "Tesi sulla tattica comunista nei paesi della periferia capitalista" adottata dal 6° congresso di Battaglia comunista (pubblicata in italiano in Prometeo n° 13, serie V, giugno 1997). Secondo queste tesi le condizioni che prevalgono nei paesi della periferia determinano in questi ultimi "un potenziale di radicalizzazione delle coscienze più elevate piuttosto che nelle formazioni sociali delle grandi metropoli" ciò implica che "resta la possibilità che la circolazione del programma comunista tra le masse sia più facile ed il “livello di attenzione” ottenuto dai comunisti rivoluzionari più elevati, rispetto alle formazioni sociali del capitalismo avanzato". Nella Revue internationale n° 100 ("La lotta della classe operaia nei paesi della periferia del capitalismo") confutiamo nei dettagli una tale analisi per cui non è necessario ritornarci qui. Ciò che dobbiamo segnalare è che la visione falsata del BIPR del significato delle recenti rivolte in Argentina costituisce non solo un'illustrazione della sua incapacità di integrare la nozione di corso storico e di decomposizione del capitalismo, ma anche del carattere erroneo di queste tesi.
La nostra analisi non significa affatto che disprezziamo o sottovalutiamo le lotte del proletariato in Argentina o in altre zone dove il capitalismo è più debole. Significa semplicemente che i rivoluzionari, come avanguardia del proletariato, avendo una visione chiara della marcia generale del movimento proletario nel suo insieme, hanno la responsabilità di contribuire a fare in modo che il proletariato e le sue minoranze rivoluzionarie abbiano, in tutti i paesi, una visione più chiara e più esatta delle proprie forze e limiti, di chi sono i suoi alleati e di come orientare le lotte.
Contribuire a questa prospettiva è il compito dei rivoluzionari. Per compierlo, essi devono resistere con tutte le forze alla tentazione opportunista di vedere, per impazienza, per immediatismo e mancanza di fiducia storica nel proletariato, un movimento di classe là dove -come in Argentina- non c’è stata che un rivolta interclassista.
Adalen (10 marzo 2002)
1. Si può trovare questa Dichiarazione sul sito Internet del BIPR (https://www.internationalist.net [25]) e si intitola: “Dall’Argentina, una lezione: o il partito rivoluzionario ed il socialismo, o la miseria generalizzata e la guerra”. Se dedichiamo una buona parte di questo articolo a confutare le analisi del BIPR, non è a causa di un’ostilità particolare da parte nostra verso questa organizzazione, ma perché questa rappresenta, insieme alla nostra, la principale componente del campo politico proletario, ciò che ci dà la responsabilità di combattere quelle concezioni che noi consideriamo sbagliate e quindi fattori di confusione nei confronti di elementi che si avvicinano alle posizioni della Sinistra comunista.
2. Vedi i seguenti articoli della Rivista Internazionale (disponibile in inglese, francese e spagnolo): “Crollo del blocco dell’Est, difficoltà aumentate per il proletariato” n° 60; “Perché il proletariato non ha rovesciato ancora il capitalismo?” n° 103 e 104; “Rapporto sulla lotta di classe” n°107.
3. Vedi in particolare i nn. 319 e 320 del nostro giornale in lingua francese Revolution Internationale.
4. Vedi il “Rapporto sulla crisi economica” pubblicato nella Rivista Internazionale n°106 (disponibile in inglese, francese e spagnolo).
5. Fonte: Banca mondiale, World Development indicator 2001.
6. Vedi il “Rapporto sulla crisi economica” nella Rivista Internazionale n°106 e l’articolo “30 anni di crisi del capitalismo” nella Rivista Internazionale da n° 96 a 98 (disponibile in inglese, francese e spagnolo).
7. Presa di posizione del BIPR sull’Argentina.
8. Il giornale Pagina del 12 gennaio 2000 riportava: “il fatto, senza precedenti, che in certi quartieri di Buenos Aires, i saccheggi sono passati dai centri commerciali alle case”.
9. Vedi Revolution Internationale n° 320, organo della CCI in Francia.
10. Ripreso da un Sito Web che presenta delle sintesi della stampa argentina.
11. Studiare opere di pensatori anteriori al movimento operaio non è negativo in sé, poiché il proletariato integra e supera nella sua coscienza rivoluzionaria tutta l'eredità storica dell'umanità. Tuttavia partire da Rousseau non è precisamente un punto di partenza adeguato per affrontare i gravi problemi attuali.
12. Estratto dal forum Internet, www.cacerolazo.org [26]
13. Leggi le “Tesi sulla decomposizione” sulla Rivista Internazionale n° 14 (edizione italiana)
14. In compenso, il PCI nel n° 460 del suo giornale, Le Proletaire, adotta una presa di posizione chiara fin dal titolo del suo articolo (“I cacelorazos hanno potuto rovesciare i presidenti. Per combattere il capitalismo, occorre la lotta operaia!”), e denuncia il carattere interclassista del movimento difendendo che: “esiste solamente una via per opporsi a questa politica: la lotta contro il capitalismo, la lotta operaia che unisce tutti i proletari su degli obiettivi non popolari ma di classe, la lotta non nazionale ma internazionale, la lotta che si fissa lo scopo finale non della riforma ma della rivoluzione”.
15. Per conoscere la nostra concezione del corso storico, si possono leggere i nostri articoli nella Rivista Internazionale n° 15, 17 e 107 (disponibili in inglese, francese e spagnolo). Abbiamo fatto delle polemiche col BIPR su questo argomento nella Rivista Internationale n° 11 (edizione italiana)
16. “i diversi elementi che costituiscono la forza del proletariato cozzano direttamente contro le differenti facce di questa decomposizione ideologica:
l'azione collettiva, la solidarietà trovano di fronte ad esse l'atomizzazione, il “ciascuno per sé”, la soluzione individuale;
il bisogno di organizzazione si confronta alla decomposizione sociale, alla disarticolazione dei rapporti alla base di ogni vita sociale;
la fiducia nell'avvenire e nelle proprie forze è scalzata continuamente dalla disperazione generale che invade la società attraverso il nichilismo, il “no future”;
la coscienza, la lucidità, la coerenza del pensiero, il gusto per la teoria, devono aprirsi una strada difficile nel mezzo della fuga nelle chimere, la droga, le sette, il misticismo, il rigetto della riflessione, la distruzione del pensiero che caratterizza la nostra epoca”. (“La decomposizione, fase ultima della decadenza del capitalismo”, Rivista Internazionale n° 107, (disponibile in inglese, francese e spagnolo) e Rivista Internazionale n° 14 (in italiano).
Anche se meno pubblicizzati, nello stesso periodo ci sono stati altri due “forum europei”: uno di deputati, l’altro per i sindacalisti europei. E come se non bastasse, gli anarchici hanno organizzato un “forum sociale libertario”nella periferia parigina, in simultanea con l’FSE e “in alternativa” a questo.
“Un altro mondo è possibile”, questo uno degli slogan del FSE. E’ indubbio che per un gran numero dei manifestanti del 15 novembre, e in particolare per i giovani che cominciano a politicizzarsi, esiste un reale e pressante bisogno di lottare contro il capitalismo e per un mondo diverso da quello in cui viviamo, con la sua miseria senza fine e le sue guerre tanto orribili quanto interminabili. Il problema è sapere non solo che “un altro mondo è possibile” – e necessario – ma anche e soprattutto di quale mondo si tratta, e di come lo si può costruire.
E’ difficile pensare come poteva essere l’FSE a dare una risposta a questa domanda. Visto il numero e la varietà delle organizzazioni partecipanti (i sindacati dei quadri e dei “giovani dirigenti”, le organizzazioni cristiane, i trotskysti di Lutte Ouvrière e del Socialist Workers Party, gli stalinisti del PCF, fino agli anarchici di Alternativa libertaria), si immagina a fatica come poteva venirne fuori una risposta coerente, o semplicemente una qualche risposta. Tutti avevano qualcosa da dire, per cui c’era una massa di volantini, dibattiti, slogan. Ma quando si guarda più da vicino le idee uscite dal FSE, si constata che queste non hanno niente di nuovo, e soprattutto esse non hanno niente di “anticapitalista”.
La forte mobilitazione intorno a questa manifestazione ha spinto la CCI a fare un intervento al FSE commisurato alle sue forze, ma determinato. Sapendo che i presunti “dibattiti” del FSE erano chiaramente preclusi in partenza (cosa che ci è stata confermata da molti partecipanti), i nostri militanti venuti da diversi paesi d’Europa hanno privilegiato la vendita della stampa (nella maggior parte delle lingue europee), la partecipazione a discussioni informali tenutesi durante il FSE, e alla manifestazione finale. L’obiettivo di questa nostra partecipazione è stato quella di mettere avanti, nelle discussioni, la prospettiva comunista contro quella dell’anarchismo.
Un mondo liberato dai traffici e dal commercio?
“Il mondo non è in vendita”, questo è uno slogan di moda, recitato in diverse versioni, quando si vuole concretizzare: “la cultura non è in vendita”, per gli artisti e i precari dello spettacolo, “la salute non è in vendita” nel caso degli infermieri e dei lavoratori della Sanità pubblica, o anche “la scuola non è in vendita”, quando si tratta degli insegnanti.
Chi non si sentirebbe coinvolto in simili parole d’ordine? Chi sarebbe disponibile a vendere la sua salute, o l’educazione dei propri figli?
Tuttavia, quando si cerca di osservare cosa si trova dietro questi slogan, si comincia a sentire puzza di bruciato. Per esempio, la proposta non è di mettere fine alla vendita del mondo, ma solamente di “limitarla”: “sottrarre i servizi sociali alla logica del mercato”, che significa? Tutti sappiamo che finchè esisterà il capitalismo, tutto deve essere pagato, anche i servizi come la sanità e la scuola. Questi aspetti della vita sociale che gli altermondialisti vorrebbero “sottrarre alla logica del mercato” sono nei fatti una parte del salario globale dei lavoratori, gestita in generale dallo Stato. Lungi dall’essere “sottratto alla logica del mercato”, il livello del salario operaio, la proporzione della produzione che viene restituita al lavoratore, è al centro stesso del problema del mercato e dello sfruttamento capitalista. Il capitale paga sempre la sua mano d’opera il meno possibile: cioè paga quello che è necessario per la riproduzione della forza lavoro e della prossima generazione di operai. Oggi, mentre il mondo affonda in una crisi sempre più profonda, ogni capitale nazionale ha bisogno di sempre meno braccia, e le braccia di cui ha bisogno deve pagarle sempre meno per non farsi eliminare dai suoi concorrenti sul mercato mondiale. In questa situazione la classe operaia mondiale non può resistere, se non con la propria lotta, alle diminuzioni di salario – compreso quello “sociale” e non certo facendo appello allo Stato capitalista chiedendogli di “sottrarre” i salari alle leggi del mercato, cosa che esso non potrebbe assolutamente fare anche se ne avesse voglia.
Nella società capitalista il proletariato può, nella migliore delle ipotesi, imporre con la forza della sua lotta una ripartizione più favorevole del prodotto sociale: ridurre il plusvalore estorto dalla classe capitalista a favore del capitale variabile - il salario. Ma fare questo nel contesto attuale esige innanzitutto un livello elevato delle lotte (come si è potuto constatare con la sconfitta delle lotte di maggio 2003 in Francia con gli attacchi che piovevano sul salario sociale) e, in secondo luogo, questi guadagni non potrebbero essere che temporanei (come si è visto dopo il movimento del 1968 in Francia).
No, questa idea che “il mondo” non sarebbe in vendita è una miserabile truffa. La caratteristica del capitale è proprio che tutto è in vendita, e questo il movimento operaio lo sa dal 1848: “(la borghesia) ha fatto della dignità personale un semplice valore di scambio; e in luogo delle numerose franchigie faticosamente acquisite e patentate, ha posto la sola libertà di commercio senza scrupoli (...) La borghesia ha spogliato della loro aureola tutte quelle attività che per l’innanzi erano considerate degne di venerazione e di rispetto. Ha trasformato il medico, il giurista, il prete, il poeta, lo scienziato in suoi operai salariati.”
E’ così che Marx ed Engels si esprimevano nel Manifesto Comunista: si vede a qual punto le loro analisi di allora restano attuali ancora oggi!
Un commercio equo?
“Commercio equo, non libero mercato!”” ecco un altro grande tema del FSE, a supporto dei piccoli contadini francesi e dei loro prodotti “biologici”. E, in effetti, chi non potrebbe essere toccato da questa speranza di vedere i contadini e i piccoli artigiani del terzo Mondo vivere decentemente del frutto del loro lavoro? Chi non vorrebbe arrestare il rullo compressore delle fattorie industrializzate che caccia i contadini dalle loro terre per intasarli a milioni nelle bidonville da Città del Messico a Calcutta?
Ma anche qui, come per la questione del mercato, i buoni sentimenti sono una cattiva guida.
Innanzitutto il movimento per un “commercio equo” non è nuovo. Le imprese delle opere cosiddette caritatevoli (come l’inglese Oxfam, ovviamente anch’essa presente al FSE) praticano il “commercio equo”dell’artigianato venduto nei loro magazzini di beneficenza da più di quaranta anni, il che non ha per niente impedito a milioni e milioni di esseri umani di sprofondare nella miseria in Africa, Asia, America Latina...
In più questa parola d’ordine sulla bocca degli altermondialisti costituisce una doppia ipocrisia. Così José Bové, presidente della Confederazione Contadina francese, ha voglia di pestare contro il business agricolo e il cattivo McDonald’s: questo non impedisce ai militanti della Confederazione Agricola di manifestare per chiedere il mantenimento delle sovvenzioni della PAC europea (1). Quest’ultima, abbassando artificialmente i prezzi dei prodotti francesi provoca proprio il mantenimento della iniquità del commercio a favore degli uni e detrimento degli altri. Analogamente, per i sindacalisti della siderurgia americana che nel 1998 manifestarono a Seattle durante il vertice dell’Organizzazione Mondiale per il Commercio (OMC) con grande clamore, il “commercio equo” significa imporre tariffe sull’’acciaio “straniero” prodotto a prezzi più bassi da operai di altri paesi. Alla fine dei conti quando si comincia a fare del commercio equo, si finisce sempre nella guerra commerciale.
Nel capitalismo la nozione di “equità” è, comunque, una bestemmia. Come diceva già Engels nel 1881 (2), in un articolo in cui criticava la nozione di “salario equo”: “l’equità dell’economia politica, del fatto che è l’economia politica che detta le leggi che reggono l’attuale società, questa equità si trova sempre dallo stesso lato: quello del capitale”.
Il colmo della soperchieria in questa storia del “commercio equo” è l’idea che la presenza dei manifestanti “altermondialisti” a Seattle o a Cancun al momento del vertice dell’OMC avrebbe dato coraggio ai negoziatori dei paesi del Terzo Mondo per farli resistere alle esigenze del “paesi ricchi”. Non possiamo dilungarci qui sul fatto che il vertice di Cancun si è concluso con un bruciante scacco per i paesi deboli, dal momento che i paesi europei non smantelleranno il loro PAC, e gli americani continueranno a sovvenzionare la loro agricoltura contro la penetrazione nei loro mercati dei prodotti meno cari dei paesi poveri. No, quello che è veramente incredibile è far credere che i dirigenti e i burocrati senza vergogna dei paesi del Terzo Mondo sarebbero presenti in questi negoziati per difendere i contadini e i poveri. Per non fare che un solo esempio, quando un Lula brasiliano denuncia le tariffe imposte dagli Stati Uniti per proteggere l’industria americana del succo d’arancia, non è ai contadini poveri che pensa, ma alle enormi piantagioni di aranci del Brasile, dove ci sono operai che soffrono esattamente come in Florida.
No al sostegno allo Stato borghese!Il filo comune che unisce tutte queste teorie è questo: contro i “neo-liberisiti” delle grandi imprese “transnazionali” (le cattive “multinazionali” che venivano denunciate negli anni ‘70), ci viene proposto di affidarsi allo Stato, meglio ancora di rafforzare lo Stato.
Se le imprese hanno “confiscato”il potere di uno Stato “democratico” al fine di imporre la loro legge di mercato al mondo intero, il fine della resistenza dei “cittadini” deve essere quello di recuperare il potere dello Stato e dei “servizi pubblici”.
Che sequenza di mistificazioni! Lo Stato non è mai stato così presente come oggi nell’economia, perfino negli USA. E’ lui che regolamenta gli scambi mondiali fissando i tassi di interesse, le barriere doganali e via di seguito. Ed è anche l’attore principale nella economia nazionale, con una spesa pubblica che oscilla tra il 30 e il 50% a seconda dei paesi, e con i suoi deficit di bilancio sempre più importanti. Ed ancora, quando gli operai si mettono in testa di difendere le loro condizioni di vita contro gli attacchi capitalisti, chi trovano in prima fila sulla loro strada, se non le forze di repressione dello Stato? Chiedere, come fanno gli altermondialisti il rafforzamento dello Stato per proteggerci dai capitalisti è veramente una mistificazione colossale: lo Stato borghese esiste per difendere la borghesia contro gli operai e non l’inverso (3).
Non è un caso che dal FSE venga questo appello allo Stato, e in particolare alle sue frazioni di sinistra, presentate come i migliori difensori della “società civile”, contro il “neoliberismo”. Come dice una espressione inglese. “he who pays the piper calls the tune” (chi paga il musicista decide la musica). In effetti è molto istruttivo andare a vedere chi ha finanziato il FSE con ben 3,7 milioni di euro:
- innanzitutto, i Consigli generali del Dipartimento de Seine-Saint Denis, della Val de Marne e dell’Essonne hanno contribuito per più di 600.000 euro, mentre il comune di Saint Denis da solo ha versato 570.000 euro (4). E’ il Partito “Comunista” Francese, questo ammasso di vecchi arnesi stalinisti, che tenta di rifarsi una verginità politica dopo essere stato complice dei peggiori crimini commessi dallo Stato stalinista in Russia, nonché il sabotatore delle lotte operaie per decenni.
- E il partito socialista francese, che si è largamente discreditato con i suoi attacchi antioperai al momento del suo ultimo passaggio al governo, avrebbe dovuto essere visto di cattivo occhio al FSE- Per niente! Il comune di Parigi, controllato dal PS, ha contribuito con 1 milione di euro alle spese del FSE!
- E il governo ? Un governo di destra, neo liberale, denunciato con abbondanza di manifesti e articoli da tutte le sinistre unite, dagli anarchici agli stalinisti, si è forse turbato nel vedere che questo Forum attirava tanta gente? Al contrario: è su ordine personale del presidente, Jaques Chirac, che il Ministero degli esteri ha sborsato 500.000 euro per finanziare il Forum.
E’ chi paga che ne trae profitto! E’ tutta la borghesia francese, di destra come di sinistra, che ha finanziato liberalmente il FSE e che ha fornito i locali. Ed è tutta la borghesia che vuole tirare vantaggi dal successo del FSE, in particolare su due piani:
- in primo luogo il FSE serve alla sinistra dell’apparato politico per rifarsi la faccia (dopo essere stata discreditata dagli anni passati al governo a portare attacchi alle condizioni di vita della classe operaia e ad assumersi la responsabilità della politica imperialista del capitalismo francese). Dal momento che i partiti politici non sono più di moda, vista la grande diffidenza che provocano, essi s truccano da “associazioni”, per darsi un’aria più “vicina” ai cittadini, più “democratica”, più “aperta”. E bisogna dire che non è solo la sinistra che ha interesse a far dimenticare i suoi misfatti di ieri, ma è tutta la borghesia che ha interesse a che il fronte sociale non sia sguarnito, a che le lotte operaie, o anche più in generale il disgusto e i dubbi ispirati dalla società capitalista, siano deviate verso le vecchie ricette riformiste, sbarrando loro il cammino verso la presa di coscienza della necessità di rovesciare l’ordine capitalista e mettere fine ai suoi disastri.
- In secondo luogo, la borghesia francese nel suo insieme ha interesse all’espandersi e al rafforzamento dell’atmosfera nettamente antiamericana del FSE. Le enormi distruzioni delle due guerre mondiali, le terribili perdite di vite umane e poi , soprattutto, la ripresa delle lotte operai alla fine del periodo di controrivoluzione dopo il 1968, hanno contribuito a discreditare il nazionalismo che la borghesia ha utilizzato per lanciare le popolazioni nelle due carneficine mondiali. Per cui, anche se non esiste un “blocco europeo” e ancor meno una “nazione europea”, a cui legare un patriottismo “europeo” guerriero, le borghesie dei differenti paesi europei e in particolare le borghesie francese e tedesca hanno tutto l’interesse a incoraggiare la crescita di un sentimento antiamericano e più vagamente “filoeuropeo”, allo scopo di presentare la difesa dei loro propri interessi imperialisti contro l’imperialismo americano come la difesa di una visione del mondo “diversa”, “altermondialista”.
Analogamente, il sostegno altermondialista al divieto di importazione degli OGM americani, presentato come misura “ecologica” e di “difesa della salute pubblica”, non è nei fatti che un episodio della guerra economica, destinata a lasciare il tempo alla ricerca francese di recuperare il ritardo rispetto agli Stati Uniti in questo campo (5).
Gli esperti del marketing moderno non cercano più di venderci direttamente i prodotti, essi utilizzano un metodo più sottile e più efficace: vendono una “visone” del mondo a cui accostano i prodotti che si presume la incarnino. Gli organizzatori del FSE procedono alla stessa maniera: ci propongono una “visione del mondo” irreale, dove il capitalismo non è più capitalista,, dove le nazioni non sono più imperialiste e dove si può fare un “altro mondo” senza fare una rivoluzione internazionale comunista. E in nome di questa ”visione” propongono di affidarci alla zuppa decotta dei partiti di sinistra, sedicenti “socialisti” e “comunisti”, mascherati per l’occasione in “associazioni di cittadini”.
Dal momento che in questa occasione è stata la borghesia francese che si è data da fare, è normale che siano i suoi partiti politici che profittino in prima istanza del FSE. Non bisogna tuttavia credere che l’operazione sia frutto della sola borghesia francese. Nei fatti questo sforzo di ricredibilizzazione della sua ala sinistra, portato avanti nei “forum sociali” mondiali ed europei, torna utile per tutta la classe borghese mondiale.
Un altro mondo libertario?In contemporanea al più ufficiale Forum Sociale Europeo si è tenuto sempre a Parigi un “Forum Sociale Libertario”, come alternativo al primo appoggiato dai grandi partiti borghesi. Ci si chiede giustamente fino a che punto l’opposizione tra i due fosse reale: almeno uno dei gruppi organizzatori del FSL ha preso parte attiva anche nel FSE, e la manifestazione organizzata dal FSL ha raggiunto, dopo un piccolo percorso “indipendente”, quella del FSE.
Non è obiettivo di questo articolo occuparsi estesamente di quello che si è detto nel FSE. Vogliamo soffermarci solo su alcuni dei suoi temi principali.
Prendiamo innanzitutto il “dibattito” sugli spazi “autogestiti” (occupanti di case, comuni, reti di scambio di servizi, caffè”alternativi”, ecc.). Se usiamo “dibattito” tra virgolette è perché gli animatori hanno fatto di tutto per limitarlo a dei resoconti descrittivi dei loro “spazi”, evitando ogni valutazione critica anche dall’interno dello stesso campo anarchico. Ci si è presto resi conto che la “autogestione” è molto relativa: un intervento, relativo ad una esperienza inglese, spiegava che essi avevano dovuto acquistare il loro spazio da autogestire per la “misera” somma di 350.000 sterline (circa 500.000 euro); un altro raccontava della creazione di uno “spazio” su internet, creato, come si sa, dal DARPA americano (6).
Ma più rivelatore ancora è il programma di azione dei diversi “spazi” descritti: farmacia gratuita ed “alternativa” (erboristeria), servizi di consulenza giuridica, caffè, scambi di servizi. In altri termini, il piccolo commercio associato ai servizi sociali lasciati andare da uno Stato che taglia le spese. Insomma il massimo della radicalità anarchica consiste nel supplire lo Stato, facendo il suo lavoro gratis.
Un altro dibattito sulla gratuità dei servizi pubblici mostra la vuotezza dell’anarchismo ufficiale. La pretesa è che i servizi pubblici possano essere una opposizione alla società mercantile in quanto rispondono gratuitamente ai bisogni della popolazione (in maniera “autogestita”, ovviamente, con tanto di comitati di consumatori, di collettività locali e di collettività di produttori). Qualcosa di estremamente simile ai comitati di quartiere creati di recente dallo Stato francese per gli abitanti della periferia parigina. In pratica si avanza l’idea che si possa introdurre una opposizione istituzionale alla società capitalista, all’interno della società capitalista stessa.
Un’altra caratteristica dell’anarchismo apparsa fortemente in tutti i dibattiti del FSL è la sua visione profondamente elitaria e educazionista. L’anarchismo non pensa affatto ad un “altro mondo” che potrebbe sorgere dal cuore stesso delle contraddizioni del mondo attuale. Il passaggio dal mondo attuale al mondo futuro e “diverso” non potrebbe farsi quindi che sulla base dell’”esempio” dato dagli spazi “autogestiti”, attraverso una azione educatrice sui misfatti del “produttivismo” moderno. Ma, come diceva già Marx un secolo e mezzo fa, se una nuova società deve apparire grazie all’educazione del popolo, chi educherà gli educatori? Perché quegli stessi che vogliono educare sono a loro volta formati dalla società in cui viviamo, e le loro idee di un “altro mondo” restano in realtà solidamente legate al mondo attuale.
In effetti i due forum “sociali” non ci hanno proposto, sotto forma di idee nuove e rivoluzionarie, niente altro che vecchie idee che hanno rivelato già da lungo tempo la loro inadeguatezza, se non la loro natura controrivoluzionaria.
Per esempio gli spazi “autogestiti” ricordano le imprese cooperative del 19° secolo, o anche le cosiddette “collettività operaie” più recenti, tipo la LIP in Francia o la Triumph in Gran Bretagna, che o sono fallite, o sono restate delle semplici imprese capitaliste, non foss’altro perchè esse dovevano produrre e vendere all’interno dell’economia mercantile capitalista. O anche tutte le imprese comunitarie degli anni ’70 (squatters, comitati di quartieri, scuole “libere”), che si sono perfettamente integrate nello Stato borghese come servizi sociali o educativi.
Tutte le idee di una trasformazione radicale introdotta attraverso una “gratuità” dei servizi pubblici ricordano il riformismo gradualista che era già una mistificazione nel movimento operaio del 1900 e che ha fatto definitivamente bancarotta al momento della carneficina del 1914 piazzandosi al fianco del proprio Stato per difendere le loro “conquiste” contro l’imperialismo “invasore”. Queste idee ricordano lo Stato “Provvidenza”, messo in piedi dalla borghesia dopo la seconda guerra mondiale al fine di razionalizzare la gestione della forza lavoro e per mistificare questa stessa forza lavoro (in particolare volendo intendere che i milioni di morti della guerra erano serviti a qualche cosa).
La nostra risposta: un mondo nuovo dalle fondamentaE’ assolutamente inevitabile che in una società divisa in classe le idee dominanti siano quelle della classe dominante. Se nonostante questo è possibile comprendere la necessità, e la possibilità materiale, di una rivoluzione comunista, è solo perché esiste nella società capitalista una classe sociale che incarna questo divenire rivoluzionario, la classe operaia. Viceversa, se noi cerchiamo semplicemente di “immaginare” quale potrebbe essere una società “migliore”, basandoci sui nostri desideri e sulla nostra immaginazione, che sono influenzati dalla società capitalista, noi non possiamo che cercare di “reinventare” il mondo capitalista attuale, cadendo o nel sogno reazionario del piccolo produttore che non vede più lontano del suo piccolo spazio “autogestito”, o nel delirio mostruoso di uno Stato mondiale e benefattore espresso da un altro guru dell’altermondialismo, George Monbiot. (7)
Per il marxismo, invece, si tratta di scoprire in seno stesso al mondo capitalista di oggi le premesse di un mondo nuovo che la rivoluzione comunista deve far sorgere, se non vogliamo che l’umanità vada alla rovina. Come Marx diceva nel Manifesto del 1848: “le idee dei comunisti non poggiano per niente su delle idee, su dei principi inventati o scoperti da questo o quel riformatore del mondo. Esse non sono altro che l’espressione generale di una lotta di classe esistente, di un movimento storico che si opera sotto i nostri occhi.” (8)
Si possono distinguere tre elementi maggiori, strettamente legati, di “questo movimento storico che si opera sotto i nostri occhi”.
Il primo è la trasformazione già operata dal capitalismo del processo produttivo di tutta la specie umana. Il più piccolo oggetto di uso quotidiano è l’opera non più di un piccolo artigiano autosufficiente, o di una piccola produzione locale, ma del lavoro comune di migliaia, se non di decine di migliaia di uomini e donne che fanno parte di una rete che ricopre l’insieme del pianeta. Liberata dagli intralci che le sono imposti dai rapporti mercantili di produzione e dall’appropriazione privata dei suoi frutti, questa distruzione di ogni particolarismo locale, regionale o nazionale sarà la base per la costituzione di una sola comunità umana su scala planetaria. Man mano che la trasformazione sociale e l’affermazione di tutti gli aspetti della vita sociale di questa comunità umana avanzeranno, scompariranno anche le distinzioni oggi sapientemente mantenute dalla borghesia come mezzo di divisione della classe operaia, come tra etnie, popoli, nazioni. Si può immaginare che le popolazioni e le lingue saranno mescolati fino a che non esisteranno più europei, africani, asiatici (e ancor meno bretoni, baschi o…padani), ma una sola specie umana la cui produzione intellettuale ed artistica si esprimerà in una sola lingua comprensibile da tutti e infinitamente più ricca, più precisa e più armoniosa di tutte le lingue nelle quali si esprime la cultura limitata e sempre più decadente di oggi (9).
Il secondo elemento fondamentale, indissociabile dal primo, è l’esistenza, all’interno stesso della società capitalista, di una classe che incarna e che esprime al suo punto più alto questa realtà del processo produttivo unificato e internazionale, il proletariato internazionale. Che l’operaio sia un siderurgico americano, un disoccupato inglese, un bancario francese, un meccanico tedesco, un programmatore indiano, o un metalmeccanico italiano, tutti questi hanno in comune il fatto di essere sfruttati sempre più duramente dalla classe capitalista mondiale, e di non potersi liberare di questo sfruttamento se non rovesciando l’ordine capitalista stesso.
Due aspetti della natura stessa della classe operaia meritano di essere sottolineati:
- innanzitutto, contrariamente ai contadini e ai piccoli artigiani, il proletariato è creato dal capitalismo che non può disfarsi di lui. Il capitalismo distrugge il contadino e l’artigiano, riducendoli a lavoratori salariati, se non a disoccupati. Ma il capitalismo non può esistere senza proletariato. Finchè esiste il capitalismo esisterà il proletariato. E finchè il proletariato esisterà porterà in sé il progetto rivoluzionario comunista del rovesciamento dell’ordine capitalista e della costruzione di un altro mondo.
- Un’altra caratteristica fondamentale della classe operaia risiede nel mescolamento e nel movimento delle popolazioni per rispondere ai bisogni della produzione capitalista. “Gli operai non hanno patria”, come diceva il Manifesto, non solo perché essi non possiedono la proprietà, ma perché essi sono sempre alla mercè del capitale e della sua necessità di mano d’opera. La classe operaia è per sua natura una classe di immigrati. Per convincersene basta guardare la popolazione di una qualunque metropoli dei paesi industrializzati, si vedranno uomini e donne provenienti dal mondo intero. Ma è così anche nei paesi sottosviluppati: in Costa d’Avorio molti operai agricoli sono del Burkina Faso; nell’Africa del Sud i minatori vengono dallo Zimbabwe o dal Botswana; nel Golfo Persico gli operai sono palestinesi,, indiani, pakistani, filippini; in Indonesia ci sono milioni di operai stranieri nelle fabbriche. Questa esistenza reale della classe operaia, che prefigura l’unificazione della popolazione planetaria che abbiamo evocato prima, mostra anche tutta la vuotezza dell’ideale caro agli anarchici e ai democratici della difesa di una “comunità” locale o regionale. Per fare un esempio: il nazionalismo scozzese può offrire una prospettive alla classe operaia di Scozia, fatta in buona parte di immigrati asiatici? E’ evidente che no. La sola comunità reale che possono sperare di trovare gli operai che sono stati o saranno strappati dalle loro radici, è quella planetaria che essi potranno costruire dopo la rivoluzione.
Il terzo elemento fondamentale che vogliamo sollevare viene da una statistica: in tutte le società di classe che hanno preceduto il capitalismo il 95% della popolazione (grosso modo) lavorava la terra, e il surplus che essa produceva serviva a far vivere il restante 5 % (signori e religiosi, ma anche artigiani, mercanti, ecc.) Oggi questa proporzione è rovesciata, e nei paesi più sviluppati è una parte sempre più piccola della popolazione che è direttamente implicata nella produzione di beni materiali. Il che vuol dire che potenzialmente, a livello della capacità fisica del processo produttivo, l’umanità è arrivata a uno stato di abbondanza quasi senza limiti.
Già nel capitalismo, le capacità produttive della specie umana hanno creato una situazione qualitativamente nuova rispetto a tutta la storia precedente: mentre prima la penuria assediava la maggior parte della popolazione, e gli stessi periodi di carestia erano il frutto dei limiti naturali della produzione (basso livello di produttività dei suoli, cattivi raccolti, e così via), sotto il capitalismo il solo ed unico motivo della penuria sono i rapporti di produzione capitalisti stessi. La crisi che butta gli operai in mezzo a una strada non ha per causa una insufficienza della produzione, ma al contrario essa è il risultato diretto del fatto che questa produzione non può essere venduta (10). E, più ancora, nei paesi cosiddetti avanzati una parte sempre più grande della attività economica non ha in senso stretto alcuna utilità al di fuori del sistema capitalista stesso: la speculazione finanziaria e borsistica, le astronomiche spese militari, gli oggetti di moda, i prodotti ad “obsolescenza incorporata” al semplice scopo di obbligare il loro riacquisto, la pubblicità, ecc. Se si guarda ancora più lontano è evidente che l’utilizzazione delle risorse della terra è sempre più dominato da un funzionamento irrazionale – salvo che per la redditività capitalista - dell’economia: viaggi di ore per milioni di esseri umani per andare al lavoro, trasporti privilegiati per terra invece che per strade ferrate, collettivi e più veloci. Insomma si ha un rovesciamento totale del rapporto tra la quantità di tempo occorrente a produrre lo stretto necessario (per mangiare, per vestirsi, per alloggiare) e il tempo passato al “di là del necessario”, per così dire (11).
Nascita di una comunità planetariaNel nostro intervento, alle manifestazioni, sui luoghi di lavoro, siamo spesso confrontati alla questione “allora, voi dite che il comunismo non è ancora esistito?” Al che, per cercare di dare una definizione al tempo stesso complessiva e rapida, noi rispondiamo “il comunismo è un mondo senza classi, senza nazione e senza denaro”. Anche se molto sommaria (non foss’altro che per l’uso del negativo, “senza”), questa definizione ingloba le caratteristiche fondamentali della società comunista:
- essa sarà senza classi, perché il proletariato non potrà liberarsi diventando a sua volta una classe sfruttatrice; la riapparizione di una classe sfruttatrice dopo la rivoluzione significherebbe in realtà la sconfitta della rivoluzione e il mantenimento dello sfruttamento (12). La sparizione delle classi deriva naturalmente dall’interesse della classe operaia vittoriosa ad emancipare se stessa. Uno dei suoi primi obiettivi sarà quello di ridurre il tempo di lavoro, integrando nel processo produttivo i disoccupati, le masse senza lavoro del Terzo Mondo, ma anche la piccola borghesia e i contadini, oltre che i membri della borghesia sconfitta.
- Essa sarà senza nazioni, perché il processo produttivo ha già largamente superato il quadro nazionale, e dunque ha reso obsoleta la nazione come quadro organizzativo della società umana. Il capitalismo, creando la prima società umana su scala planetaria, ha già superato il quadro nazionale in cui esso stesso è nato. Come la rivoluzione borghese ha distrutto tutti i particolarismi e frontiere feudali, così la rivoluzione proletaria metterà fine all’ultima divisione della società umana in nazioni
- Essa sarà senza denaro, perché il concetto di scambio (e quindi di un equivalente universale per facilitare questo scambio) non ha più senso nel comunismo in quanto l’abbondanza permette che i bisogni di tutti i membri della società siano soddisfatti. Se il capitalismo ha creato la prima società umana in cui lo scambio di merci è diventato del tutto generalizzato ad ogni produzione (contrariamente alle società precedenti, in cui lo scambio era limitato ad alcuni prodotti di lusso, o a quegli articoli che non potevano essere prodotti sul posto, come il sale, per esempio), esso è oggi strangolato dal fatto che è impossibile vendere sul mercato tutto quello che esso è capace di produrre. Il fatto stesso di dover acquistare e vendere è diventato un ostacolo alla produzione. Lo scambio dunque sparirà, e con lui scomparirà il concetto stesso di merce, ivi compresa la prima merce fra tutte: la forza lavoro salariata.
Questi tre principi si scontrano direttamente con tutti i luoghi comuni sparsi dall’ideologia borghese, secondo cui ci sarebbe una “natura umana” avida e violenta che determinerebbe per sempre la divisione tra sfruttatori e sfruttati, o tra nazioni. Una tale idea di “natura umana” conviene alla perfezione alla classe dominante, perché essa dà una giustificazione al suo dominio di classe ed impedisce alla classe operaia di identificare con chiarezza il vero responsabile della miseria e dei massacri che affliggono oggi l’umanità. Essa non ha però niente a che vedere con la realtà: contrariamente alle altre specie animali, la cui “natura” (cioè il comportamento) è determinato dal loro ambiente naturale (e quindi dai suoi limiti), la “natura umana” è sempre più determinata, man mano che avanza il suo dominio sulla natura, non dal suo ambiente naturale ma dal sua ambiente sociale.
I rapporti trasformati tra l’uomo e la naturaI tre punti menzionati prima, non costituiscono che uno schizzo sommario. Ciononostante essi hanno profonde implicazioni riguardo ciò che sarà la società comunista del futuro.
I marxisti hanno sempre resistito alla tentazione di elaborare delle “ricette per il futuro”, in primo luogo perché sarà l’azione delle grandi masse che determinerà il futuro, in secondo luogo perché noi non possiamo immaginare quello che sarà una società comunista, esattamente come un contadino dell’11° secolo non avrebbe potuto immaginare il mondo capitalista. Ciò non ci impedisce tuttavia di tracciare qualche linea di quanto deriva da quello che abbiamo appena detto.
Il cambiamento più radicale verrà probabilmente dalla scomparsa della contraddizione tra l’essere umano e il lavoro. La società capitalista ha elevato al più alto grado la contraddizione – sempre esistita nelle società divise in classi – tra il lavoro, cioè l’attività che si intraprende solo se si è costretti e forzati, e il tempo libero, cioè quello in cui si è liberi di scegliere il tipo di attività da svolgere. La costrizione viene da una parte dalla penuria imposta dai limiti della produttività del lavoro e, d’altra parte, dal fatto che una parte del frutto del proprio lavoro è arraffata dalla classe sfruttatrice. Nel comunismo, queste costrizioni non esisteranno più: per la prima volta nella storia l’essere umano potrà produrre in tutta libertà, e la produzione sarà tutta finalizzata al soddisfacimento dei bisogni umani. Si può anche immaginare che i termini “lavoro” e “tempo libero” spariranno del tutto dal linguaggio, perché nessuna attività sarà svolta per costrizione. La decisione di produrre o di non produrre dipenderà non solamente dall’utilità della cosa in se stessa, ma anche dal grado di piacere o di interesse che la sua produzione porta in sé.
L’idea stessa di “soddisfazione dei bisogni” cambierà di natura. I bisogni di base (nutrirsi, vestirsi, avere un tetto) occuperanno una parte progressivamente meno importante, mentre si affermeranno sempre più i bisogni determinati dall’evoluzione sociale della specie. Così si metterà fine alla distinzione tra lavoro artistico e quello che non lo è, che il capitalismo ha esacerbato al massimo. L’immensa maggioranza degli artisti della storia è rimasta anonima, e non è che con l’avvento del capitalismo che l’artista comincia a firmare il suo lavoro, che l’arte comincia ad essere una attività specifica separata dalla produzione quotidiana. Oggi questa tendenza è al parossismo, con una separazione quasi totale tra le “belle arti” da un lato (incomprensibile per la grande maggioranza della popolazione e riservata a una piccola minoranza di intellettuali) e la produzione artistica industrializzata nella pubblicità e nella “cultura pop”. Tutto ciò non è che il risultato della contraddizione nel capitalismo tra l’essere umano e il suo lavoro. Con la sparizione di questa contraddizione sparirà anche la contrapposizione tra produzione “utile” e produzione “artistica”. La bellezza, la soddisfazione dei sensi e dello spirito, saranno dei bisogni altrettanto fondamentali per l’essere umano che il processo produttivo dovrà soddisfare (13).
Anche l’educazione cambierà completamente la sua natura. In ogni società il fine dell’educazione dei giovani è quello di permettere loro di prendere il loro posto nella società adulta. Nel capitalismo “prendere il proprio posto nella società adulta” vuol dire prendere posto in un sistema di sfruttamento brutale, dove quello che non rende non ha, giustamente, alcun posto. Il fine dell’educazione è dunque soprattutto quello di fornire alle nuove generazioni delle capacità che possono essere vendute sul mercato, e più in generale, in questa epoca di capitalismo di Stato, di fare in modo che la nuova generazione sia capace di rafforzare il capitale nazionale di fronte ai suoi concorrenti sul mercato mondiale. E’ quindi evidente che il capitale non ha alcun interesse a promuovere uno spirito critico verso la sua organizzazione sociale. L’educazione insomma, non ha altro fine che di uccidere i giovani spiriti e di buttarli nel brodo della società capitalista e dei suoi bisogni produttivi; nessuna meraviglia dunque se le scuole somigliano sempre più a delle fabbriche e i professori a degli operai alla catena di montaggio.
Nel comunismo, al contrario, integrare un giovane nel mondo adulto non potrà farsi senza un risveglio ampio di tutti i sensi, fisici e intellettuali. In un sistema sociale completamente liberato dalle esigenze della redditività il mondo adulto si aprirà al fanciullo man mano che egli svilupperà le sue capacità, e il giovane adulto non sarà più esposto all’angoscia dell’abbando-no della scuola e l’immersione nella concorrenza sfrenata del mercato del lavoro. Come non ci sarà più contraddizione tra “lavoro” e “tempo libero”, tra “produzione” ed “arte”, così non ci sarà più contrapposizione tra scuola e “mondo del lavoro”. Le parole scuola, fabbrica, ufficio, galleria d’arte, museo (14), spariranno o cambieranno completamente di senso, perché tutta l’attività umana si fonderà in uno sforzo armonioso di soddisfazione e di sviluppo dei bisogni e delle capacità fisiche, intellettuali e sensoriali della specie.
La responsabilità del proletariatoI comunisti non sono degli utopisti. Noi abbiamo cercato di fare uno schizzo molto breve e necessariamente limitato di quello che dovrà essere la nuova società umana che nascerà dalla società capitalista attuale; in questo senso lo slogan dei no-global “un altro mondo è possibile” (ovvero “altri mondi sono possibili”) non è che un mistificazione.. Non c’è che un solo altro mondo possibile: il comunismo.
Ma la nascita di un nuovo mondo non ha niente di inevitabile, In questo il capitalismo non è diverso dalle società che lo hanno preceduto, in cui “uomo libero e schiavo, patrizio e plebeo, barone e servo, in una parola, oppressori ed oppressi, in opposizione costante, hanno condotto una guerra ininterrotta, a volte aperta, altre nascosta, una guerra che finiva sempre o con una trasformazione rivoluzionaria dell’intera società, o con la distruzione delle due classi in lotta” (Manifesto)
Questo vuol dire che la rivoluzione comunista, per quanto sia necessaria, non ha niente di inevitabile. Il passaggio dal capitalismo al mondo nuovo non potrà risparmiarsi la violenza della rivoluzione proletaria per potersi realizzare (15). Ma l’alternativa, nella situazione attuale di decomposizione del capitalismo in cui viviamo non è più distruzione delle due classi in lotta, ma dell’intera umanità. Da qui deriva l’immensa responsabilità che pesa sulle spalle della classe rivoluzionaria mondiale.
Vista oggi, la capacità rivoluzionaria del proletariato può sembrare un sogno talmente lontano che grande è la tentazione di fare qualcosa ora, anche a costo di trovarsi a fianco dei vecchi politicanti socialisti e stalinisti, cioè dell’ala sinistra dell’apparato statale della borghesia. Ma per le minoranze rivoluzionarie il riformismo non è il male minore, è il compromesso mortale con il nemico di classe. Il cammino verso la rivoluzione che potrà creare un “altro mondo” sarà lungo e difficile, ma è il solo cammino che esiste.
Jens
1. Politica Agricola Comune (PAC) un enorme e costoso sistema per il mantenimento dei prezzi pagati ai produttori agricoli europei, a danno dei loro concorrenti negli altri paesi esportatori.
2. Vedere il sito:
https://www.marxists.org/archive/marx/works/1881/05/07.htm [28], articolo scritto nel Labour Standard
3. E’ particolarmente interessante leggere nelle pagine di Alternative Libertaire, un gruppo anarchico francese, “che noi vogliamo la manifestazione più importante possibile per far capire loro ancora una volta che noi non vogliamo una Europa capitalista e poliziesca” (Alternative Libertaire n. 123, novembre 2003), mentre tutto il FSE è finanziato dallo Stato e gira intorno alla mistificazione del rafforzamento degli Stati europei per la presunta difesa dei “cittadini” contro la grande industria. Insomma, non c’è nessuna incompatibilità nei fatti tra l’anarchismo e la difesa dello Stato!
4. Molte tra le città coinvolte sono governate dal Partito Comunista Francese.
5. Come diceva Bismark : “Io ho sempre incontrato la parola Europa nella bocca di quei politici che esigevano qualcosa dalle altre potenze senza osare chiederle apertamente”
6. Defence Advanced Research Projects Agency
7. Grande esponente del movimento altermondialista, autore di un Manifeste for a new world.
8. Non si riuscirà mai a sottolineare abbastanza la straordinaria forza e capacità di previsione del Manifesto Comunista che ha gettato le fondamenta per la comprensione scientifica del movimento verso il comunismo. Il Manifesto stesso fa parte dello sforzo del movimento operaio fin dai suoi inizi, continuato dopo il Manifesto, per percepire in maniera più profonda la natura della rivoluzione verso cui esso tendeva con tutte le sue forze. La cronaca di questo sforzo è stata fatta da noi nella serie di articoli “Il comunismo non è un bel ideale, ma una necessità materiale”, pubblicata nella Révue Internationale.
9. “In luogo dell’antico isolamento locale e nazionale, per cui ogni paese bastava a se stesso, subentra un traffico universale, una universale dipendenza delle nazioni l’una dall’altra. E come nella produzione materiale, così in quella spirituale. I prodotti spirituali delle singole nazioni diventano patrimonio comune. L’unilateralità e la ristrettezza nazionale diventano sempre più impossibili, e dalle molte letterature nazionali e locali esce una letteratura mondiale.” (Manifesto)
10. Nella crisi scoppia una epidemia sociale che in ogni altra epoca sarebbe apparsa un controsenso: l’epidemia della sovrappodruzione. La società si trova improvvisamente ricacciata in uno stato di momentanea barbarie; una carestia, una guerra generale di sterminio sembrano averle tolto tutti i mezzi di sussistenza; l’industria, il commercio sembrano annientati, e perché? Perché la società possiede troppa civiltà, troppi mezzi di sussistenza, troppa industria, troppo commercio. Le forze produttive di cui essa dispone non giovano più a favorire lo sviluppo della civiltà borghese e dei rapporti della proprietà borghese, al contrario, esse sono diventate troppo potenti per tali rapporti, sicchè ne vengono inceppate.” (idem)
11. Non possiamo entrare nei dettagli qui, ma segnaliamo solo che questa è una nozione da utilizzare con precauzione, perché anche i bisogni di base sono determinati “socialmente”: i bisogni di alloggiamento o di nutrimento non sono gli stessi per l’uomo del Cro Magnon e l’uomo moderno, per esempio, e nemmeno vengono soddisfatti alla stessa maniera o con gli stessi strumenti.
12. E’ quello che è successo con la sconfitta della rivoluzione russa dell’Ottobre 1917: il fatto che molti dirigenti dell’URSS (Breznev, per esempio) fossero stato operai o figli di operai ha potuto accreditare l’idea che una rivoluzione comunista che portasse la classe operaia al potere non farebbe che creare una nuova classe dirigente, “proletaria”. Questa è una idea trattenuta ad arte da tutte le frazioni della borghesia, di destra come di sinistra, far credere che l’URSS fosse comunista e che i suoi capi non fossero altro che l’espressione di questa nuova classe dirigente. Ma la realtà è che la controrivoluzione staliniana ha messo di nuovo al potere una classe borghese; il fatto che una buona parte dei membri di questa classe provenisse dal proletariato o dal contadiname, non cambia assolutamente la loro natura, esattamente come accade quando un figlio di operaio diventa proprietario di una fabbrica.
13. Al FSL un anarchico ha voluto, in maniera dotta, farci una lezione sulla differenza tra i marxisti che privilegerebbero l’ homo “faber” (l’uomo che fabbrica) e gli anarchici che privilegerebbero l’homo “ludens” (l’uomo che gioca). Ma non è perché viene espressa in latino che una asineria si trasforma in qualcosa di meno.
14. E, necessariamente, “prigione”, “galera”, “bagno penale” o “campo di concentramento”
15. Per una visione molto più sviluppata, vedi la nostra serie sul comunismo citata prima, e in particolare la parte pubblicata sulla Révue Internazionale n. 70
Pubblichiamo una lettera ricevuta dal gruppo russo UCI (Unione Comunista Internazionalista) (1). Questa lettera è essa stessa una risposta ad una lettera che avevamo mandato precedentemente a questo gruppo; essa contiene infatti numerose citazioni della nostra lettera che appaiono in corsivo.
Cari compagni,
ci scusiamo di non avere potuto rispondere prima. Siamo un piccolo gruppo ed abbiamo moltissimo lavoro, in particolare molta corrispondenza, ed inoltre gli stranieri non ci scrivono in russo.
“Riguardo alla piattaforma, sembra che vi siano molti punti di accordo su delle posizioni chiavi: la prospettiva socialismo o barbarie, la natura capitalista dei regimi stalinisti, il riconoscimento del carattere proletario della Rivoluzione russa del 1917”.
Non è tutto così semplice. In Russia, nel 1917, erano in atto due crisi intrecciate tra di loro: una crisi interna, che poteva condurre ad una rivoluzione democratico-borghese, ed una crisi a livello internazionale che aveva messo all’ordine del giorno un tentativo di rivoluzione socialista mondiale. Secondo Lenin, il compito del proletariato russo era di prendere l’iniziativa in queste due rivoluzioni: prendere la testa della rivoluzione borghese in Russia e, simultaneamente, appoggiandosi su questa rivoluzione, estendere la rivoluzione socialista all’Europa e agli altri paesi. E’ per tale motivo che consideriamo non corretto porre la questione della natura della rivoluzione russa senza specificare di quale delle due si parla: se di quella interna o di quella internazionale. Ma è certo che in Russia, il proletariato era alla testa di entrambe.
“Ciò di cui siamo meno sicuri è se siete d’accordo con la CCI sul quadro storico che dà sostanza e coerenza a molte di queste posizioni: il concetto di decadenza e di declino del capitalismo come sistema sociale dal 1914”.
E’ certo che su questo punto non siamo d’accordo. La transizione di un sistema economico verso un altro di più alto livello è il risultato di uno sviluppo del primo e non della sua distruzione. Se il vecchio sistema ha esaurito le sue risorse, si trascina in una crisi costante dovuta alle forze sociali che aspirano ad un nuovo sistema. E non è stato così. Inoltre, da decenni, il capitalismo è in una situazione relativamente stabile, di sviluppo, cosa che non ha determinato lo sviluppo di forze rivoluzionarie, ma al contrario il loro collasso. Il capitalismo si sviluppa ad un punto tale che non si contenta più di creare qualitativamente nuove forze produttive, ma anche nuove forme di capitalismo. Lo studio di questo sviluppo e di queste nuove forme permette di determinare quando sopraggiungerà una nuova crisi, come quella del 1914-1945, e sotto quale forma si effettuerà la transizione verso il socialismo. La teoria della decadenza nega lo sviluppo del capitalismo e rende dunque impossibile il suo studio, lasciandoci come dei sognatori obnubilati dall’avvenire radioso dell’umanità.
Quanto alle distruzioni, alla guerra e alla violenza, queste non sono solo parti integranti del capitalismo, ma una necessità della sua esistenza, sia all’epoca di Marx che nel ventesimo secolo.
“Per dare un’illustrazione precisa del problema che vogliamo porre: nella vostra dichiarazione, prendete posizione contro i “fronti comuni” con la borghesia, sulla base del fatto che tutte le frazioni della borghesia sono reazionarie. Cosa su cui siamo d'accordo. Ma questa posizione non è stata sempre valida per i marxisti. Se oggi il capitalismo è un sistema decadente, vale a dire che i rapporti sociali sono diventati un ostacolo allo sviluppo delle forze produttive e dunque al progresso dell’umanità, esso ha conosciuto, come gli altri sistemi di sfruttamento di classi, una fase ascendente, in cui rappresentava un progresso rispetto al modo di produzione precedente. E’ per questo che Marx sosteneva certe frazioni della borghesia, come i capitalisti del Nord contro gli schiavisti del Sud durante la Guerra di Secessione o il movimento del Risorgimento in Italia, per l’unità nazionale contro le vecchie classi feudali, ecc. Questo sostegno era basato sulla comprensione che il capitalismo non aveva compiuto ancora la sua missione storica e che le condizioni per la rivoluzione comunista mondiale non erano ancora sufficientemente mature”.
Storicamente parlando, rispetto alla lotta tra proletariato e borghesia, il partito proletario ha considerato tutte le frazioni della borghesia come reazionarie. Ma non è solo quando il capitalismo aveva ancora possibilità di sviluppo che era possibile parlare del carattere progressivo di questa o quella frazione della borghesia. Occorreva ancora che essa fosse capace di compiere il suo compito storico. E’ per tale motivo, per esempio, che la borghesia russa, incapace di condurre la rivoluzione borghese, può essere considerata come reazionaria nel 1917, sebbene le trasformazioni democratico-borghesi della rivoluzione russa fossero senz’altro progressiste. Oggi confermiamo che nessuna frazione della borghesia è capace di effettuare la necessaria modernizzazione borghese senza una guerra mondiale che coinvolgerebbe l’umanità intera. Per questa ragione, sostenere una tale frazione non ha nessuno senso. Ma ciò non significa che la borghesia non ha più nessun compito da compiere. La soppressione delle frontiere e la creazione di un mercato mondiale sono dei compiti borghesi, ma non possiamo fare affidamento sulla borghesia perché li realizzi. Toccherà al proletariato realizzarli, utilizzando la crisi futura e servendosene per costruire il socialismo. Per essere chiari, una questione è sapere se il capitalismo può ancora compiere dei compiti storici e un’altra è capire se le frazioni della borghesia sono reazionarie. E’ per questo che il proletariato dovrebbe sempre prendere l’iniziativa rivoluzionaria. E se si tratta di compiti borghesi, esso può, attraverso un’estensione del movimento (rivoluzionario), trasformarli in compiti socialisti. Noi consideriamo questo un approccio marxista.
“Secondo voi, le lotte nazionali sono state una fonte considerevole di progresso, e la richiesta di autodeterminazione è sempre valida, almeno per gli operai dei paesi capitalisti più potenti, rispetto ai paesi oppressi dal proprio imperialismo. Sembra allora che per voi le lotte nazionali abbiano perduto il loro carattere progressista dall’avvenuta “globalizzazione”. Queste affermazioni richiedono un certo numero di commenti da parte nostra.
La nozione di decadenza, che è la nostra posizione, non è stata inventata da noi. Basata sui fondamenti del metodo materialista storico (in particolare quando Marx parla “delle epoche di rivoluzione sociale” nella sua “Prefazione alla Critica dell’economia politica”), essa si è concretizzata, per la maggioranza dei rivoluzionari marxisti, attraverso lo scoppio della I guerra mondiale che ha mostrato che il capitalismo era già “globalizzato”, al punto che non poteva più superare le sue contraddizioni interne se non con la guerra imperialista e l’auto-cannibalismo. Questa fu la posizione dell'Internazionale Comunista al suo congresso di fondazione, sebbene questa non sia stata capace di trarne tutte le conseguenze, per ciò che riguardava la questione nazionale: le tesi del secondo congresso conferivano sempre un ruolo rivoluzionario a certe borghesie di paesi sottomessi ad un regime coloniale. Ma le frazioni di sinistra dell’IC, più tardi, sono state capaci di trarre le conclusioni da questa analisi, in particolare dopo i risultati disastrosi della politica dell’IC durante l’ondata rivoluzionaria 1917-1927. Per la Sinistra Italiana negli anni ‘30, per esempio, l’esperienza della Cina del 1927 è stata decisiva. Essa ha mostrato che tutte le frazioni della borghesia, anche quando si proclamavano antimperialiste, sono state condotte a massacrare il proletariato quando questo combatteva per i suoi interessi, come all’epoca del sollevamento di Shanghai nel 1927. Per la Sinistra Italiana, questa esperienza ha provato che le tesi del secondo congresso dovevano essere rigettate. Di più, questa fu una conferma del giusto punto di vista di Rosa Luxemburg sulla questione nazionale rispetto a quello di Lenin: per la Luxemburg era diventato chiaro, durante la I guerra mondiale, che tutti gli Stati facessero ormai inevitabilmente parte del sistema imperialista mondiale”.
È tutto un insieme di questioni differenti che qui sono mescolate. Innanzitutto, la politica del Komintern di Stalin e di Bukharin durante la rivoluzione cinese del 1925-27 è completamente differente da quella di Lenin e dei Bolscevichi, che è stata determinante durante i primi anni del Kominterm. Per voi, se ci sono compiti borghesi da compiere, si è portati a sostenere questa o quella frazione. E’ così che parlavano Stalin ed i Menscevichi. Il metodo di Marx e di Lenin non consiste nel rifiutare questi compiti del momento, quando tutte le frazioni della borghesia sono reazionarie, ma di compierli per mezzo della rivoluzione proletaria, cercando di realizzare al massimo questi compiti borghesi e di continuare con i compiti socialisti.
La rivoluzione cinese ha provato che questo era l’approccio corretto, e non quello della Sinistra comunista.
La rivoluzione borghese ha trionfato in Cina, facendo innumerevoli vittime. Questa rivoluzione ha permesso di creare il proletariato più numeroso al mondo e di sviluppare velocemente delle potenti forze produttive. Questo stesso risultato è stato raggiunto dalle decine di altre rivoluzioni nei paesi d’Oriente. Non ha alcun senso negare il loro ruolo storicamente progressivo: in questo modo la nostra rivoluzione ha potuto disporre di basi solide in numerosi paesi del mondo che, nel 1914, erano ancora essenzialmente agricoli.
Che cosa é cambiato dall’epoca di questo inizio di “globalizzazione”? Le rivoluzioni nazionali non sono più all’ordine del giorno. Secondo voi, è da molto tempo che il capitalismo ha un carattere globale. Sì, possiamo dire che ha un tale carattere dalle sue origini, dall’epoca delle grandi scoperte. Ma il livello di questa “globalizzazione” era qualitativamente differente. Fino all’incirca gli anni ‘80, le rivoluzioni nazionali potevano assicurare una crescita delle forze produttive, ed è per questo che bisognava sostenerle e provare, per quanto possibile, di trasferire la loro direzione nelle mani del proletariato rivoluzionario. Ciò perché esisteva una possibilità obiettiva di sviluppo sotto l’impulso dello Stato nazionale. Adesso, questo stadio di sviluppo nazionale è superato... E questo è valido per tutti gli Stati, anche per i più avanzati. E’ per tale motivo che le riforme intraprese da Reagan o la Thatcher, che negli anni ‘50-60 avrebbero potuto condurre a terribili crisi, hanno dato, relativamente e temporaneamente, dei risultati positivi. Perché queste riforme hanno condotto l’economia del loro paese verso più di “globalizzazione” (nel senso moderno del termine).
Adesso, la lotta nazionale ha perso il suo carattere progressivo perché ha esaurito il suo compito storico: lo Stato nazionale, anche se la rivoluzione trionfa sotto la direzione del proletariato, non offre più un quadro ad uno sviluppo futuro. Ciò non significa tuttavia che sono spariti i compiti borghesi dappertutto. Vi sono ancora dei paesi con regimi feudali, vi sono ancora nazioni oppresse. Ma non è una rivoluzione nazionale che può mettervi fine. Per il proletariato dei paesi arretrati, il capitolo delle rivoluzioni nazionali è chiuso, esse non possono dare risultati se non conducono, direttamente o indirettamente, alla rivoluzione internazionale proletaria. È per questa ragione che diciamo che con l’inizio della globalizzazione, le rivoluzioni nazionali hanno perduto ogni significato progressivo.
Allo stesso modo, il sostegno ad un movimento di liberazione nazionale non ha senso, sia ieri che oggi, se non si strappa la lotta contro l’oppressione nazionale dalle mani della borghesia e trasferendola al proletariato. Vale a dire trasformando un movimento di indipendenza nazionale in un momento della rivoluzione socialista mondiale. Questo non può farsi se non si riconosce il diritto delle nazioni all’autodeterminazione, non riconoscendo dunque la necessità di condurre al loro termine i compiti storici dalla borghesia. Se no, noi lasceremo il proletariato sotto il dominio della sua borghesia nazionale.
L’approccio leninista di questo problema ha determinato un vasto interesse per il marxismo tra un gran numero di abitanti dei paesi arretrati, per il modo corretto con cui la questione nazionale è stata posta. E non è per errore dei Bolscevichi se la burocrazia stalinista si è impossessata della direzione del Komintern. Solo la rivoluzione nei paesi occidentali avrebbe potuto impedire ciò, ma essa non ha avuto luogo perché il capitalismo non aveva esaurito le sue possibilità storiche. Le due guerre mondiali gli hanno permesso di soffocare le sue contraddizioni.
Adesso che le sue contraddizioni sono cresciute, per comprendere bene come esse conducano a nuove crisi, è necessario studiare lo sviluppo del capitalismo piuttosto che contentarsi di ripetere che esso è in declino ed in decomposizione. In Russia, questa tesi scatena brutti sarcasmi, dopo decenni durante i quali la burocrazia stalinista ci ha riempito le orecchie col capitalismo “che marcisce”.
“Sostenere una nazione contro un’altra ha sempre significato sostenere un blocco imperialista contro un altro, e tutte le guerre di liberazione nazionale del XX secolo l’hanno provato. Ciò che la Sinistra italiana ha chiaramente espresso, è che questo si applicava anche alle borghesie coloniali, alle frazioni capitaliste che cercavano di creare un nuovo stato “indipendente”: queste non potevano sperare di raggiungere il loro scopo se non subordinandosi ad una delle potenze imperialiste che si erano già divise il pianeta. Come dite nella vostra piattaforma, il XX secolo è stato solamente un susseguirsi incessante di guerre imperialiste per il dominio del pianeta: per noi, ciò costituisce al tempo stesso la conferma più sicura che il capitalismo è un sistema mondiale senile e reazionario, ed anche che tutte le forme di lotte “nazionali” sono integrate interamente nel gioco imperialista globale”.
Qui ancora: l) “le guerre continue” hanno accompagnato il capitalismo in tutti gli stadi del suo sviluppo e non sono una prova del suo progresso o del suo declino; 2) la crescita delle forze produttive e del numero di proletari nei paesi del Terzo Mondo ha mostrato senza equivoci il carattere progressista delle rivoluzioni nazionali borghesi fin verso la metà degli anni ‘70; 3) lo scopo del sostegno a questi movimenti non era di “sostenere una nazione contro un’altra” ma di attirare verso il partito della rivoluzione gli operai ed in primo luogo, di favorire lo sviluppo del proletariato in questi paesi.
Rosa Luxemburg ha fatto una critica senza concessioni della parola d’ordine sull’“autodeterminazione nazionale” anche prima della I guerra mondiale, avanzando come argomento che essa era un’illusione della democrazia borghese: in ogni Stato capitalista, non è né il “popolo” che “si autodetermina”, né la “nazione”, ma solamente la classe capitalista. Per Marx ed Engels non era un segreto il fatto che, quando chiamavano all’indipendenza nazionale, era per sostenere solamente lo sviluppo del modo di produzione capitalista in un periodo in cui il capitalismo aveva ancora un ruolo progressista da giocare.
Come Marx, noi non nascondiamo il fatto che le rivoluzioni nazionali hanno un carattere progressista solo dal punto di vista dello sviluppo del capitalismo.
Congratulazioni fraterne
ICU
La nostra risposta
In una serie di articoli che abbiamo scritto alla fine degli anni ‘80 ed inizio ‘90 per difendere l’idea che il capitalismo è un sistema sociale in declino, notavamo che “più il capitalismo affonda nella decadenza, più mostra la sua decomposizione avanzata, più la borghesia ha bisogno di negare la realtà e di promettere al mondo un futuro brillante sotto il sole del capitale. E’ l’essenza delle campagne attuali in risposta al crollo ben visibile dello stalinismo: la sola speranza, il solo futuro, è il capitalismo”. (“Il dominio reale del capitale e le confusioni reali del campo politico proletario”, Rivista Internazionale - edizione in lingua inglese, francese o spagnola - n° 60, inverno 90).
Non c’é niente di sorprendente che la borghesia neghi il fallimento inevitabile del suo sistema sociale; più vicina è la sua morte, più essa si allontana evidentemente dalla verità e si ripiega su dei fantasmi. Dopo tutto, è una classe sfruttatrice e nessuna altra classe sfruttatrice nella storia è stata capace di confrontarsi con il fatto di essere tale, ancor meno quando i suoi giorni sono storicamente contati. Se qualcuno dei suoi rappresentanti finisse per ammettere la sua prossima fine, non riuscirebbe a concepire un mondo successivo al dominio del capitale senza cadere nelle visioni di un passato mitico o di un futuro messianico.
Certamente, ci si aspetta qualcosa di più da coloro che dicono di parlare in nome del proletariato sfruttato e di aspettare una rivoluzione comunista. Tuttavia, non dobbiamo mai sottovalutare il potere ideologico del sistema dominante, la sua capacità di deviare e sabotare ogni sforzo teso verso una comprensione chiara e lucida della situazione reale e delle prospettive per il sistema mondiale attuale. Ci sono veramente troppi esempi di quelli che hanno perso di vista le premesse teoriche fondamentali del movimento comunista come Marx ed Engels le hanno per la prima volte messe in un quadro in termini scientifici, di quelli che hanno perso fiducia nell’affermazione che il capitalismo, come gli altri sistemi che l’hanno preceduto, è solamente una fase transitoria nell’evoluzione storica dell’umanità, destinata a sparire a causa delle sue proprie contraddizioni intrinseche. È un fenomeno che abbiamo osservato negli anni ‘80 e - come l’abbiamo sottolineato nella prima parte di questo articolo nella Revue Internationale n° 111 - vediamo ancora più esplicitamente oggi. Più il capitalismo marcisce, più passa dal semplice declino ad una disintegrazione completa, più vediamo delle voci che, all’interno o ai margini del movimento rivoluzionario, vanno in tutti i sensi, cercando disperatamente qualche “nuova” scoperta che nasconderebbe l’orribile verità. Il capitalismo in decomposizione? No, no, si ristruttura! Il capitalismo in un vicolo cieco? Ma allora Internet, la globalizzazione, i dragoni dell’Asia...?
Questa è l’atmosfera generale di confusione nella quale nascono le nuove correnti proletarie in Russia e nell’ex-URSS. Come abbiamo sottolineato nell’articolo precedente, malgrado le loro differenze, tutte queste correnti sembrano avere una difficoltà ad accettare la conclusione sulla quale era stata fondata l’Internazionale Comunista e che costituiva il solco di lavoro della sinistra comunista, la conclusione secondo la quale il capitalismo mondiale è entrato in declino storico o in decadenza dalla prima guerra mondiale.
Come abbiamo detto nell’ultimo articolo, in questa discussione andiamo a considerare gli argomenti dei compagni dell’Unione Comunista Internazionale. Ecco come essi presentano i loro argomenti contro la nozione di decadenza:
“La transizione verso una forma economica superiore è il risultato dello sviluppo della forma anteriore, non della sua distruzione. Se la vecchia formazione fosse esaurita, verrebbero fuori costantemente crisi sociali e forze sociali che aspirerebbero a mettere in atto la nuova forma. Ciò non si verifica. Inoltre, per parecchi decenni, il capitalismo ha conosciuto una stabilità relativa del suo sviluppo durante la quale le forze rivoluzionarie non solo non sono cresciute, ma al contrario, si sono sbriciolate. (...) E (il capitalismo) si sviluppa realmente, non solo creando qualitativamente delle nuove forze produttrici, ma anche delle nuove forme di capitalismo. Lo studio di questo sviluppo può dare la risposta su quando verrà una nuova crisi, come la crisi di 1914-45, e attraverso di essa, quale potrebbero essere le forme di transizione al socialismo. La teoria della decadenza nega lo sviluppo del capitalismo e rende impossibile il suo studio, lasciandoci come semplici sognatori con una fede nel brillante futuro dell’umanità” (Lettera alla CCI, 20/2/02).
I compagni sicuramente si rifanno agli argomenti di Marx nella sua famosa Prefazione alla critica dell’economia politica nella quale tratta delle condizioni materiali della transizione di un modo di produzione ad un altro, dicendo che “una formazione sociale non scompare mai finché non si siano sviluppate tutte le forze produttive che essa è capace di creare, così come non si arriva mai a nuovi e più evoluti rapporti di produzione prima che le loro condizioni materiali di esistenza si siano schiuse nel grembo stesso della vecchia società”.
Naturalmente siamo qui d’accordo con gli argomenti di Marx, ma non pensiamo che egli volesse dire che una nuova società non potesse sorgere dalla vecchia finché le ultime innovazioni tecniche o economiche non sarebbero state sviluppate. Una tale visione potrebbe sembrare compatibile con i modi di produzione precedenti in cui le scoperte tecniche avvenivano con un ritmo molto lento; ciò sarebbe difficilmente possibile nel capitalismo che non può vivere senza sviluppare costantemente, se non quotidianamente, la sua infrastruttura tecnologica. Il problema che qui si pone è che l'UCI sembra riferirsi a questo passaggio senza avere assimilato la parte precedente del testo nella quale Marx sottolinea le pre-condizioni dell’apertura di un periodo di rivoluzione sociale, che è la chiave della nostra comprensione della decadenza del capitalismo, della sua epoca di guerra e di rivoluzione, come è stato formulato dall’I.C. Ci riferiamo al passaggio in cui Marx dice che “ad un certo grado del loro sviluppo le forze produttive materiali della società entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti o, per usare un termine giuridico, con i rapporti di proprietà nel cui ambito si erano mosse fino a quel momento. Da che erano forme di sviluppo delle forze produttive questi rapporti si tramutano in vincoli che frenano tali forze. Si arriva quindi ad un’epoca di rivoluzione sociale”.
Le forme di sviluppo diventano degli ostacoli; nella visione dinamica che è propria del marxismo, ciò non significa che la società arriva ad un arresto completo ma che il proseguimento del suo sviluppo diventa sempre più irrazionale e catastrofico per l’umanità. Abbiamo del resto rigettato in numerose occasioni la visione secondo cui la decadenza rappresenterebbe un arresto totale dello sviluppo delle forze produttive. La prima volta è stata nel nostro opuscolo La decadenza del capitalismo, scritto all’inizio degli anni ’70, di cui un intero capitolo è dedicato precisamente a questa questione. Confutando l’affermazione di Trotski degli anni ‘30 secondo la quale “le forze produttive avevano smesso di crescere”, affermavamo che: “Nella visione marxiana il periodo di decadenza di una società non può essere dunque caratterizzato dall’arresto totale e permanente della crescita delle forze produttive, ma dal RALLENTAMENTO DEFINITIVO DI QUESTA CRESCITA.
Gli arresti assoluti della crescita delle forze produttive appaiono nel corso delle fasi di decadenza. Ma, - nel sistema capitalista, la vita economica non può esistere senza accumulazione crescente e permanente del capitale – essi non sorgono che momentaneamente. Essi sono le convulsioni violente che regolarmente segnano lo svolgersi della decadenza. ...
... Ciò che caratterizza la decadenza di una forma sociale data dal punto di vista economico è dunque:
Ø Un rallentamento effettivo della crescita delle forze produttive tenuto conto del ritmo che sarebbe stato tecnicamente ed oggettivamente possibile nell’assenza del freno esercitato dalla permanenza degli antichi rapporti di produzione. Questo freno deve avere un carattere inevitabile, irreversibile. Deve essere provocato specificamente dal perpetuarsi dei rapporti di produzione che sostengono la società. Lo scarto di velocità che ne consegue al livello dello sviluppo delle forze produttive può solo aumentare e dunque manifestarsi sempre più alle classi sociali.
Ø L'apparizione di crisi sempre più importanti per profondità ed estensione. Queste crisi, questi blocchi momentanei forniscono d’altronde le condizioni soggettive necessarie al compiersi di un tentativo di rivolgimento sociale. E’ nel corso di queste crisi, che il potere della classe dominante subisce i più profondi indebolimenti e che, attraverso l’intensificazione oggettiva della necessità del proprio intervento, la classe rivoluzionaria trova i primi fondamenti della sua unità e della sua forza”.
Altrove, (“Lo studio del capitale e dei fondamenti del comunismo”, Revue Internationale n°75) abbiamo sottolineato che la nostra concezione non era differente da quella di Marx nei Grundrisse, quando scrive: “Da un punto di vista ideale, la dissoluzione di una forma di coscienza data basterebbe ad uccidere un’epoca intera. Da un punto di vista reale, questo limite della coscienza corrisponde ad un grado determinato di sviluppo delle forze produttive materiali e dunque della ricchezza. A dire il vero, lo sviluppo non si è prodotto sulla vecchia base ma è questa base stessa che si è sviluppata. Lo sviluppo di questa stessa base (la fioritura in cui essa si trasforma; ma è sempre questa base, questa stessa pianta in quanto fiorisce; è per questo che appassisce dopo la fioritura ed in seguito alla fioritura) è il punto in cui essa stessa è stata elaborata fino a prendere la forma nella quale è compatibile con lo sviluppo massimo delle forze produttive e dunque anche con lo sviluppo più ricco degli individui. Appena questo punto è raggiunto, il seguito dello sviluppo appare come un declino ed il nuovo sviluppo comincia su una nuova base”.
Più di qualunque altro sistema sociale precedente, il capitalismo è sinonimo di “crescita economica”, ma contrariamente a ciò che raccontano i ciarlatani della borghesia, crescita e progresso non sono la stessa cosa: la crescita del capitalismo nel suo periodo di decadenza è più simile a quella di un tumore maligno che a quella di un corpo sano che passa progressivamente dall’infanzia all'età adulta.
Le condizioni materiali di uno sviluppo “sano” del capitalismo sono sparite all’inizio del ventesimo secolo quando il capitalismo ha effettivamente stabilito un’economia mondiale e posto così le fondamenta della transizione al comunismo. Ciò non significa che il capitalismo si sia sbarazzato di tutti i resti dei modi di produzione e delle classi precapitaliste e che abbia esaurito l’ultimo mercato precapitalista, né che abbia effettuato la transizione finale dal dominio formale al dominio reale della forza lavoro in ogni angolo del pianeta. Il vero significato di ciò è che, a partire da questo momento, il capitalismo globale poteva invadere sempre meno ciò che Marx chiamava “i domini periferici” di espansione, ed era obbligato a crescere mediante un auto-cannibalismo crescente e barando con le sue proprie leggi. Abbiamo già dedicato uno spazio considerevole a queste forme di “sviluppo in fase di decadenza” e le riassumeremo semplicemente qui di seguito:
Ø L’organizzazione di “trust capitalisti di Stato” giganteschi a livello nazionale, ed anche a livello internazionale attraverso la formazione di blocchi imperialistici, aventi per funzione quella di regolare e di controllare il mercato, e dunque di impedire che le operazioni “normali” della concorrenza capitalista non raggiungano il loro livello reale e non esplodano nelle gigantesche crisi aperte di sovrapproduzione come quella del ‘29;
Ø Il ricorso (in grande parte attraverso l’intervento dei grandi capitalismi di Stato) al credito ed alle spese deficitarie, che non agiscono più come uno stimolo per lo sviluppo dei nuovi mercati ma sempre più come una sostituzione del mercato reale; di qui, una crescita economica su una base sempre più speculativa ed artificiale che apre la via a degli “adeguamenti” devastanti come il crollo delle tigri e dei dragoni asiatici, o d’altra parte ciò che accade ora negli USA dopo la crescita “delirante” ma drogata degli anni ‘90;
Ø Il militarismo e la guerra come stile di vita per il sistema - non solamente come nuovo mercato artificiale che diventa un fardello opprimente per l'economia mondiale - ma come solo mezzo per gli Stati di difendere la loro economia nazionale a spese dei loro rivali. I compagni dell’UCI potranno rispondere che il capitalismo è sempre stato un sistema guerriero, ma come abbiamo spiegato anche in un articolo della nostra serie “comprendere la decadenza del capitalismo” (vedere in particolare la parte V nella Revue Internationale n°54), c’è una differenza qualitativa tra le guerre dell’ascendenza del capitalismo - che erano generalmente di corta durata, a scala locale, che coinvolgevano soprattutto degli eserciti di professionisti aprendo naturalmente delle nuove possibilità d’espansione - e le guerre del suo declino, che hanno assunto un carattere quasi permanente, si sono orientate in modo crescente verso il massacro senza discriminazione di milioni di richiamati e di civili, e che hanno gettato la ricchezza prodotta da secoli di lavoro in un abisso senza fondo. Le guerre del capitalismo hanno un tempo fornito la base per stabilire un’economia mondiale e dunque per la transizione al comunismo; ma a partire da là, lungi dal porre le basi del progresso sociale futuro, hanno minacciato sempre di più la stessa sopravvivenza dell’umanità;
Ø Lo spreco gigantesco di forza lavoro umana rappresentato dalla guerra e dalla produzione di guerra illustra anche un altro aspetto del capitalismo nella sua fase di senilità: il peso enorme delle spese e delle attività non produttive, non solamente nella sfera militare, ma anche per la necessità di mantenere in piedi i grande apparati della burocrazia, del marketing ed altro ancora. Nel libro ufficiale dei record del capitalismo, tutte le sfere sono definite come espressioni di “crescita”, ma in realtà, esse manifestano a che livello è giunto il capitalismo in quanto ostacolo allo sviluppo qualitativo delle forze di produzione umana, sviluppo che diventa al tempo stesso necessario e possibile in questa epoca;
Ø Un’altra dimensione di “sviluppo nel senso di un declino” che non poteva essere intravista ai tempi di Marx, è costituita dalla minaccia ecologica che la corsa cieca all’accumulazione fa pesare sul sistema, minando la base stessa della vita del pianeta. Sebbene questo problema sia diventato sempre più evidente in questi ultimi dieci anni, esso resta legato intimamente al problema della decadenza. È il restringimento storico del mercato mondiale che ha sempre più costretto ogni Stato a saccheggiare o ad ipotecare le sue risorse naturali; questo processo si è svolto per tutto il XX secolo, anche se solo oggi raggiunge il suo culmine; all’epoca, una rivoluzione proletaria trionfante nel 1917-23 non avrebbe dovuto fare fronte ad un problema tanto immenso come quello posto oggi dai danni all’ambiente naturale provocati dalla crescita malsana del capitalismo. A questo livello, è immediatamente evidente che è il capitalismo il cancro del pianeta.
Quando si è conclusa l'epoca delle rivoluzioni borghesi?
In accordo con gli scritti di Marx sulla Comune di Parigi, Lenin considerava che il 1871 segnava la fine del periodo delle rivoluzioni borghesi nei principali centri del capitalismo mondiale. Datava in questa stessa epoca l’inizio della fase di espansione imperialistica a partire da questi centri.
Durante l’ultimo terzo del XIX secolo, il movimento marxista considerava che le rivoluzioni borghesi fossero ancora all’ordine del giorno nelle regioni dominate dalle potenze coloniali. Era una visione perfettamente valida all’epoca; tuttavia, alla fine del secolo, diventava sempre più chiaro che la dinamica stessa dell’espansione imperialistica, che prevedeva uno sviluppo delle colonie solo a livello di mercati passivi e di fonti di materie prime, inibiva l’apparizione di nuovi capitalismi nazionali indipendenti, e dunque di una borghesia rivoluzionaria. Questa questione era l’argomento di dibattiti particolarmente ardui in seno al movimento rivoluzionario in Russia; nei suoi scritti sulle comuni contadine russe, Marx aveva già espresso la speranza che una rivoluzione mondiale trionfante potesse risparmiare alla Russia la necessità di passare attraverso il purgatorio dello sviluppo capitalista. Più tardi, quando divenne evidente che il capitale imperialistico non era intenzionato ad abbandonare la Russia al suo proprio destino, il centro della questione si spostò sul problema delle debolezze riguardanti la nascente borghesia russa. I menscevichi, interpretando il metodo marxista in un modo molto rigido e molto meccanicistico, affermavano che il proletariato doveva prepararsi a sostenere l’inevitabile rivoluzione borghese in Russia; i bolscevichi, d’altra parte, riconoscevano che alla borghesia russa mancavano forti ali per condurre la sua rivoluzione e concludevano che questo compito doveva essere preso in carico dal proletariato e dalla classe contadina (la formula della “dittatura democratica”). Nei fatti, la posizione più legata alla realtà fu quella di Trotsky, perché essa non era posta immediatamente in termini “russi” ma in un quadro globale e storico, e perché aveva come punto di partenza il riconoscimento che il capitalismo come sistema stava entrando nell’epoca della rivoluzione socialista mondiale. La classe operaia al potere non avrebbe potuto limitarsi ai compiti borghesi della rivoluzione ma sarebbe stata obbligata a fare “la rivoluzione permanente”, estendere cioè la rivoluzione sulla scena mondiale dove non avrebbe potuto che prendere un carattere socialista.
Nelle Tesi di aprile del 1917, Lenin raggiunge effettivamente questa posizione, spazzando via le obiezioni dei bolscevichi conservatori (che in effetti avevano flirtato col menscevismo e la borghesia) secondo le quali egli abbandonava la prospettiva della “dittatura democratica”. Nel 1919, l’Internazionale Comunista si è formata sulla base del fatto che il capitalismo era proprio entrato nel suo periodo di declino, nell’epoca della rivoluzione proletaria mondiale. Tuttavia, mentre proclamava che l’emancipazione delle masse colonizzate dipendeva ora dal successo della rivoluzione mondiale, l’IC non era stata capace di spingere questa questione fino alla sua logica conclusione: cioè che l’epoca delle lotte di liberazione nazionale era finita - benché Rosa Luxemburg ed altri l’avessero già formulato. Furono soprattutto i tentativi disastrosi dei bolscevichi di stringere delle alleanze con borghesie sedicenti “antimperialiste” di regioni come la Turchia, il vecchio impero zarista, e soprattutto la Cina, che condussero la sinistra comunista, (la Frazione italiana in particolare), a rimettere in questione le tesi dell’IC sulla questione nazionale, che contenevano la possibilità di alleanze temporanee tra la classe operaia e le borghesia coloniale. Le frazioni di sinistra avevano visto bene che ciascuna di queste “alleanze” si concludeva con un massacro della classe operaia e dei comunisti perpetrata dalla borghesia coloniale che, nel farlo, non esitava a mettersi al servizio di questa o quella gang imperialista.
L’UCI, nella sua piattaforma, afferma che la sua esistenza trae origine dal lavoro delle frazioni di sinistra comunista che hanno rotto con l’IC in degenerazione (vedi World Revolution n° 254). Tuttavia, su questa questione, l’UCI mantiene la visione “ufficiale” dell’IC contro quella della sinistra: “La politica del Komintern di Stalin e di Bukharin durante la rivoluzione cinese del 1925-27 differisce completamente da quella di Lenin e dei Bolscevichi che prevaleva durante i primi anni del Komintern. Voi argomentate ancora che se esistono dei compiti borghesi, dovremmo sostenere questa o quella frazione borghese. I Menscevichi e gli stalinisti dicevano la stessa cosa. ... Il metodo di Marx e di Lenin non consiste nel rifiutare i compiti dell’ora quando tutte le frazioni della borghesia sono ugualmente reazionarie, ma nel compiere questi compiti col metodo della rivoluzione proletaria, cercando di eseguire i compiti borghesi con la maggiore profondità e di portare a termine i compiti socialisti. La rivoluzione cinese ha mostrato la correttezza di questo approccio contrariamente a quello della sinistra. In ogni modo la rivoluzione in Cina ha vinto, sebbene abbia lasciato un numero enorme di vittime. Questa rivoluzione ha reso possibile la creazione del proletariato più numeroso del mondo e potente, che ha velocemente sviluppato le forze produttive. Lo stesso risultato è stato raggiunto da decine di altre rivoluzioni nei paesi dell’Est. Non vediamo la ragione per negare il loro ruolo storicamente progressivo: grazie ad esse, la nostra rivoluzione ha una solida base di classe in molti paesi del mondo che nel 1914 erano ancora completamente agricoli”.
Siamo naturalmente d’accordo sul fatto che la posizione di Lenin, posizione che si trova nelle “Tesi sulla questione nazionale e coloniale” del II Congresso dell’IC del 1920, non era in nessuno modo la stessa di quella di Stalin nel 1927. In particolare, le Tesi del 1920 insistevano sulla necessità per il proletariato di rimanere rigorosamente indipendente anche dalle forze “nazionaliste rivoluzionarie”; Stalin invece ha chiamato gli operai insorti di Shanghai a rendere le loro armi ai macellai del Kuomintang. Ma come abbiamo mostrato nella nostra serie di articoli sulle origini del Maoismo, (Rivista Internazionale - edizione in lingua inglese, francese o spagnola - n° 81, 84, 94), questa esperienza non confermava solamente che la cricca di Stalin aveva abbandonato la rivoluzione proletaria a profitto degli interessi dello Stato nazionale russo, ma aveva anche annientato ogni speranza di trovare un settore della borghesia coloniale che non si gettasse ai piedi dell’imperialismo e che non massacrasse il proletariato alla prima opportunità. I settori “nazionalisti rivoluzionari” o “antimperialisti” della borghesia coloniale semplicemente non esistevano. Non potrebbe essere diversamente in un’epoca storica - la decadenza del mondo capitalista - nella quale non c’é più la minima coincidenza tra gli interessi delle due principali classi.
L’UCI e la “rivoluzione borghese” in Cina
La posizione dell’UCI sulla Cina ci sembra contenere una profonda ambiguità. Da un lato, l’UCI dice che in Russia nel 1917, la borghesia era già reazionaria, ciò che costituisce il motivo per cui il proletariato doveva prendere in carico i compiti della rivoluzione borghese; dall’altro lato, secondo la loro visione, in Cina e in “decine di altri” paesi dell’Est non specificati, sembra che la rivoluzione borghese si sia potuta svolgere. Ciò significa forse che la borghesia di questi paesi era ancora progressista dopo il 1917? O ciò vuole dire - nel caso della Cina in particolare - che la frazione che ha compiuto la “rivoluzione borghese” - il Maoismo - aveva qualche cosa di proletario, come dicono i Trotskisti? L’UCI ha bisogno di fare una netta chiarezza su questo punto.
In ogni caso, prendiamo in considerazione se ciò che accadde in Cina corrisponde alla comprensione marxista di una rivoluzione borghese. Dal punto di vista marxista, le rivoluzioni borghesi erano un fattore di progresso storico perché eliminavano i resti del vecchio modo di produzione feudale e gettavano le basi della futura rivoluzione del proletariato. Questo processo aveva due dimensioni fondamentali:
Ø a livello più materiale, la rivoluzione borghese ha gettato giù le barriere feudali che bloccavano lo sviluppo delle forze produttive e l’espansione del mercato mondiale. La formazione di nuovi Stati nazionali era un’espressione del progresso in questo senso: vale a dire che ha fatto esplodere i limiti del localismo feudale e ha creato le fondamenta di un’economia mondiale;
Ø lo sviluppo delle forze produttive è anche, naturalmente, lo sviluppo materiale del proletariato, ma un’altra chiave di lettura della rivoluzione borghese è che essa ha creato il quadro politico per lo sviluppo “ideologico” della classe operaia, la sua capacità di identificarsi ed organizzarsi in quanto classe distinta in seno alla società capitalista e alla fine contro di essa.
La sedicente rivoluzione cinese del 1949 non corrisponde a nessuno di questi aspetti. Per cominciare, essa non era un prodotto di un’economia mondiale in espansione ma quello di un’economia che era arrivata ad un impasse storico. Ciò si può vedere chiaramente quando si comprende che era nata non da una lotta contro il feudalismo o il dispotismo asiatico, ma da una lotta sanguinosa tra gang della borghesia, tutte legate all’una o all’altra delle grandi potenze imperialiste che dominavano il mondo. La “rivoluzione cinese” è stata il frutto di conflitti imperialisti che hanno devastato la Cina negli anni ‘30 e soprattutto del loro punto culminante - la seconda guerra imperialista mondiale. Ciò non viene messo in discussione dal fatto che, a differenti momenti, le fazioni cinesi in lotta abbiano avuto differenti sostegni imperialistici (per esempio il maoismo era sostenuto dagli USA durante la seconda guerra mondiale e poi dalla Russia all’inizio della “guerra fredda”). D’altra parte il fatto che la Cina abbia preso un orientamento imperialistico “indipendente” durante un breve periodo negli anni ‘60 non prova affatto l’esistenza di “giovani” borghesie che potrebbero sfuggire alla presa dell’imperialismo in questa epoca. È piuttosto il contrario: il fatto che anche la Cina, con i suoi immensi territori e le sue risorse, sia stata capace di fare un percorso indipendente per un periodo così breve, conferma ampiamente le argomentazioni di Rosa Luxemburg nell’Opuscolo di Junius secondo cui nell’epoca aperta dalla prima guerra mondiale, nessuna nazione “può tenersi al riparo” dall’imperialismo perché viviamo in un periodo nel quale il dominio dell’imperialismo sull’intero pianeta può essere superato solamente dalla rivoluzione comunista mondiale.
Lo sviluppo economico della Cina comprende anche tutte le caratteristiche dello “sviluppo in fase di decadenza”: non si manifesta dunque come parte di un mercato mondiale in espansione, ma come un tentativo di sviluppo autarchico in un’economia mondiale che ha già raggiunto i suoi limiti fondamentali nella sua capacità ad estendersi. Da ciò, come nella Russia stalinista, l’enorme preponderanza del settore militare, dell’industria pesante a spese della produzione di beni di consumo, di una burocrazia statale orrendamente gonfiata. Da ciò anche le convulsioni periodiche come “il grande balzo in avanti” e la “rivoluzione culturale” nelle quali la classe dominante mirava a mobilitare la popolazione dietro delle campagne per intensificare il suo sfruttamento e la sua sottomissione ideologica allo Stato. Queste campagne erano una risposta disperata alla stagnazione ed all’arretramento cronico dell’economia: ne è testimone l’esigenza dello Stato durante il “grande balzo in avanti” di installare un altoforno in ogni villaggio per utilizzare ogni pezzo di metallo fosse capitata tra le mani.
Naturalmente, la classe operaia cinese è più numerosa oggi che nel 1914. Ma per giudicare se ciò è in sé un fattore di progresso per l’umanità, dobbiamo considerare la situazione del proletariato a livello mondiale e non nazionale. Ciò che vediamo a questo livello, è che il capitalismo si è rivelato incapace di integrare la maggioranza della popolazione del mondo nella classe operaia. In percentuale della popolazione mondiale, la classe operaia resta una minoranza.
Il progresso per il proletariato cinese nel secolo passato sarebbe stato il successo della rivoluzione mondiale 1917-27, ciò che avrebbe permesso uno sviluppo equilibrato ed armonioso dell’industria e dell’agricoltura a scala mondiale, e non queste lotte frenetiche e non necessarie storicamente di ogni economia nazionale per sopravvivere in un mercato mondiale saturo. Al posto di ciò, la classe operaia cinese ha trascorso la maggior parte del secolo sotto lo stivale odioso dello stalinismo. Lungi dall’essere il prodotto di una rivoluzione borghese tardiva, lo stalinismo è l’espressione classica della controrivoluzione borghese, l’orribile rivincita del capitale dopo che il proletariato aveva provato e mancato di rovesciare il suo dominio. Il fatto che esso sia fondato su una menzogna completa - la sua pretesa di rappresentare la rivoluzione comunista - è in sé un’espressione tipica di un modo di produzione decadente: nella sua ascendenza, nella sua fase di fiducia in sé, il capitalismo non aveva alcun bisogno di vestire i panni del suo nemico mortale. Di più, questa menzogna ha avuto l’effetto più negativo sulla capacità della classe operaia - a livello mondiale ed in particolare nei paesi dominati dallo stalinismo - di comprendere la reale prospettiva comunista. Quando consideriamo il prezzo terribile di repressione e di massacro che lo stalinismo ha fatto pagare alla classe operaia - il numero di morti nelle prigioni maoiste e nei campi di concentramento è ancora sconosciuto, ma si aggira probabilmente sui milioni - diventa evidente che la sedicente “rivoluzione borghese” in Cina è fallita completamente nel compiere ciò che le autentiche rivoluzioni borghesi erano riuscite a produrre nel XVIII e nel XIX secolo: un quadro politico che permetteva al proletariato di sviluppare la fiducia in sé e la coscienza di essere una classe. Lo stalinismo è stato invece un disastro completo per il proletariato mondiale ed anche dopo la sua morte continua ad avvelenare la coscienza proletaria grazie alle campagne della borghesia che identifica il fallimento dello stalinismo con la fine del comunismo. Come tutte le sedicenti “rivoluzioni nazionali” del XX secolo, è la testimonianza del fatto che il capitalismo non pone più oramai le fondamenta per il comunismo ma le sabota sempre più.
I Comunisti e la questione nazionale: non c’è posto per l'ambiguità
Secondo l’UCI, i comunisti potevano in un certo senso sostenere le rivoluzioni nazionali fino agli anni ‘80; adesso con l'avvento della globalizzazione, non sarebbe più possibile:
“Che cosa é cambiato a partire dall’inizio della “globalizzazione?” La possibilità di avere una rivoluzione nazionale è sparita. Fino agli anni ‘80, le rivoluzioni nazionali potevano garantire ancora la crescita delle forze produttive, dovevano dunque ancora essere sostenute, tentando se possibile di trasferire la loro gestione nelle mani del proletariato rivoluzionario... Adesso, questa tappa storica per lo sviluppo nazionale è arrivata al suo termine”.
La prima questione da porre su questa posizione è che se la Sinistra comunista avesse difeso le “rivoluzioni nazionali” fino agli anni ‘80, oggi non ci sarebbe più una sinistra comunista. Fino alla morte dell’Internazionale Comunista alla fine degli anni ‘20, la Sinistra Comunista è stata la sola corrente politica che si è opposta in modo coerente alla mobilitazione del proletariato nella guerra imperialistica, soprattutto quando queste guerre erano fatte in nome di una qualsiasi rivoluzione borghese tardiva o della “lotta contro l’imperialismo”. A partire dalla Spagna e dalla Cina negli anni ‘30, passando per la seconda guerra mondiale, ed in tutti i conflitti locali che hanno caratterizzato la guerra fredda (Corea, Vietnam, Medio Oriente, ecc.), la Sinistra comunista, da sola, ha sostenuto l’internazionalismo proletario, rigettando ogni sostegno ad un qualsiasi Stato o frazione nazionale, chiamando la classe operaia a difendere i propri interessi di classe contro gli appelli a sciogliersi nei fronti guerrieri del capitale. La conseguenza terribile di scostarsi da questa via è stata illustrata in modo molto vivente dall’implosione della corrente bordighista all’inizio degli anni ‘80: le sue ambiguità sulla questione nazionale hanno aperto la porta alla penetrazione di frazioni nazionaliste che hanno cercato di trascinare la principale organizzazione bordighista verso il sostegno dell’OLP e di Stati come la Siria nella guerra in Medio Oriente. Ci sono state delle resistenze da parte di elementi proletari nell’organizzazione, ma essa ha pagato un prezzo terribile con la perdita di energie militanti e lo scoppio conseguente di tutta l’intera corrente. Se i nazionalisti fossero riusciti nell’impresa, avrebbero finito per annettere questa corrente storica della sinistra italiana all’ala sinistra del capitale a fianco dei trotskisti e degli stalinisti. Se gli antenati politici di altri gruppi come la CCI ed il BIPR avessero seguito una politica di sostegno alle sedicenti “rivoluzioni nazionali”, questi gruppi avrebbero subito una sorte analoga e non ci sarebbero più correnti della sinistra comunista con cui i nuovi gruppi che nascono in Russia possano mettersi in contatto.
In secondo luogo ci sembra che, nonostante la conclusione dell’UCI secondo cui questo sarebbe il momento per una posizione proletaria veramente indipendente sui movimenti nazionali, i compagni restino attaccati a formulazioni che, nel migliore dei casi, si possono considerare ambigue, ma che possono anche condurre ad un tradimento aperto dei principi di classe. Ad esempio, essi parlano ancora della possibilità di trasferire la lotta nazionale della borghesia al proletariato, aderiscono ancora alla parola d'ordine della “autodeterminazione nazionale”:
“in ciò che riguarda il sostegno ai movimenti di indipendenza nazionale, il solo orientamento da seguire, sia ieri che oggi, è quello di strappare la lotta all’oppressione nazionale dalle mani della borghesia e di rimetterla nelle mani del proletariato. Ciò non può essere fatto se non si riconosce il diritto delle nazioni all’autodeterminazione, e cioè se non si riconosce la necessità di condurre fino alla fine i compiti storici della borghesia. Diversamente, lasceremo il proletariato nazionale sotto la direzione della borghesia nazionale”.
Ma la classe operaia non può prendere in carico la lotta nazionale; anche per difendere i suoi interessi di classe, si trova in opposizione con la borghesia nazionale e tutte le sue ambizioni. La guerra di classe e la guerra nazionale sono opposte diametralmente tanto nella loro forma quanto nel loro contenuto. In ciò che riguarda l’autodeterminazione, gli stessi compagni riconoscono che essa è impossibile nelle condizioni attuali del capitalismo, anche se considerano ciò a partire dagli anni 80. Essi argomentano dunque in favore della parola d’ordine con termini simili a quelli di Lenin - come un mezzo di evitare di “creare degli antagonismi” o di offendere i proletari dei paesi arretrati e di sottrarli all'influenza borghese. Compagni, il comunismo non può trattenersi dall’essere offensivo rispetto ai sentimenti nazionalisti mal posti che esistono in seno alla classe operaia. A questo proposito, i comunisti dovrebbero evitare di criticare la religione perché molti operai sono influenzati dall’ideologia religiosa. Certamente, non provochiamo o non insultiamo gli operai perché hanno delle idee confuse. Ma come è detto nel Manifesto Comunista, i comunisti si rifiutano di nascondere le loro idee. Se la liberazione nazionale e l’autodeterminazione nazionale sono impossibili, allora dobbiamo dirlo nei termini più chiari possibili.
L’apparizione di gruppi come l’UCI è un apporto importante per il proletariato mondiale. Ma le sue ambiguità sulla questione nazionale sono molto gravi e mettono in discussione la sua capacità di sopravvivenza in quanto espressione del proletariato. La storia ha mostrato che, poiché si ricollegano al profondo antagonismo tra il proletariato e le guerre imperialistiche, le ambiguità sulla questione nazionale possono soprattutto portare facilmente a tradire gli interessi internazionalisti della classe operaia. Noi spingiamo dunque i compagni a riflettere in profondità su tutti i testi e tutti i contributi che la sinistra comunista ha prodotto su questa questione vitale.
CDW
1. Per la presentazione di questo gruppo, rinviamo i nostri lettori alla Rivista Internazionale (edizione in lingua inglese, francese o spagnola) n° 111, “Presentazione dell’edizione russa dell’opuscolo sulla decadenza: la decadenza, un concetto fondamentale del marxismo”.
2. I compagni di un altro gruppo russo, il Gruppo dei Collettivisti Proletari Rivoluzionari, sembrano avere la stessa posizione quando dicono che la rivoluzione comunista è diventata possibile solamente da quando il capitalismo ha sviluppato i microprocessori. Ritorneremo più tardi su questo argomento.
3. Abbiamo sviluppato questo punto dopo nella serie di articoli “Comprendere la decadenza del capitalismo”; vedere in particolare la Rivista Internazionale (edizione in lingua inglese, francese o spagnola) n° 55 e 56.
Pubblichiamo qui di seguito il rapporto sulla lotta di classe presentato e ratificato durante la riunione, nell'autunno 2003, dell'organo centrale della CCI (1). Confermando le analisi dell'organizzazione sulla persistenza del corso agli scontri di classe (aperto dalla ripresa internazionale della lotta di classe nel 1968) malgrado la gravità del riflusso subito dal proletariato a livello della sua coscienza dal crollo del blocco dell'Est, questo rapporto aveva come compito particolare di valutare l'impatto attuale ed a lungo termine dell'aggravamento della crisi economica e degli attacchi capitalisti sulla classe operaia. L’analisi è che "Le mobilitazioni a grande scala della primavera 2003 in Francia ed in Austria rappresentano una svolta nella lotta di classe dal 1989. Esse sono un primo passo significativo nel recupero della combattività operaia dopo il periodo più lungo di riflusso avuto dal 1968".
Siamo ancora lontano dal doverci confrontare ad un'ondata internazionale di lotte massicce poiché, a scala internazionale, la combattività è ancora allo stato embrionale e molto eterogenea. Tuttavia, va sottolineato che l'aggravamento considerevole della situazione insito in maniera evidente nelle prospettive di evoluzione del capitalismo, sia per quanto riguarda lo smantellamento dello Stato assistenziale sia per l'accentuazione dello sfruttamento sotto tutte le sue forme o lo sviluppo della disoccupazione, costituisce una leva certa della presa di coscienza in seno alla classe operaia. Il rapporto insiste in particolare sulla profondità ma anche la lentezza di questo processo di ripresa della lotta di classe.
L'evoluzione della situazione successiva ha confermato le caratteristiche, messe in evidenza dal rapporto, del cambiamento di dinamica intervenuto all'interno della classe operaia. Questa ha anche illustrato una tendenza, già segnalata dal rapporto, di alcune manifestazioni ancora isolate della lotta di classe ad oltrepassare il quadro fissato dai sindacati. La stampa territoriale della CCI ha reso conto di tali lotte che hanno avuto luogo alla fine dell'anno 2003, in Italia nei trasporti ed in Gran Bretagna nelle Poste, costringendo il sindacalismo di base ad entrare in azione per sabotare le mobilitazioni operaie. Allo stesso tempo, permane la tendenza, già messa in evidenza dalla CCI prima di questo rapporto, alla proliferazione di minoranze alla ricerca di coerenza rivoluzionaria.
La strada che la classe operaia dovrà percorrere è molto lunga. Tuttavia le lotte che dovrà fare saranno il crogiolo di una riflessione che, stimolata dall'aggravamento della crisi e fecondata dall'intervento dei rivoluzionari, serve a permetterle di riappropriarsi della sua identità di classe e della fiducia in sé stessa, di riallacciarsi alla sua esperienza storica e sviluppare la sua solidarietà di classe.
Il rapporto sulla lotta di classe del 15° Congresso della CCI (2) sottolineava il carattere quasi inevitabile di una risposta della classe operaia allo sviluppo qualitativo della crisi ed agli attacchi che colpiscono una nuova generazione non sconfitta di proletari, con al fondo un lento ma significativo recupero della combattività. Identificava un allargamento ed un approfondimento, ancora embrionale ma percettibile, della maturazione sotterranea della sua coscienza. Insisteva sull'importanza della tendenza a lotte più massicce per il recupero da parte della classe operaia della propria identità di classe e della fiducia in sé stessa,. Metteva in esergo il fatto che con l'evoluzione obiettiva delle contraddizioni del sistema, la cristallizzazione di una coscienza di classe sufficiente - in particolare, per ciò che riguarda la riconquista della prospettiva comunista - diventa la questione sempre più decisiva per l'avvenire dell'umanità. Metteva l'accento sull'importanza storica dell'emergere di una nuova generazione di rivoluzionari, riaffermando che un tale processo è già in marcia dal 1989, a dispetto del riflusso della combattività e della coscienza della classe nel suo insieme. Il rapporto mostrava quindi i limiti di questo riflusso, affermando che il corso storico agli scontri di classe massicci si era mantenuto e che la classe operaia era capace di superare il riflusso che aveva subito. Allo stesso tempo, esso affrontava la capacità della classe dominante a cogliere tutte le implicazioni di questa evoluzione della situazione ed a farvi fronte; e ricollocava questa evoluzione nel contesto degli effetti negativi dell'aggravamento della decomposizione del capitalismo. Infine concludeva sull'enorme responsabilità delle organizzazioni rivoluzionarie di fronte agli sforzi della classe operaia per andare avanti, di fronte ad una nuova generazione di lavoratori in lotta e di rivoluzionari che si producevano in questa situazione.
Quasi subito dopo il 15° Congresso e nel periodo successivo alla guerra in Iraq, la mobilitazione degli operai in Francia (tra le più importanti in questo paese dalla Seconda Guerra mondiale) ha rapidamente confermato queste prospettive. Traendo un primo bilancio di questo movimento, la Revue internationale n°114 fa notare che queste lotte hanno smentito categoricamente la tesi della pretesa scomparsa della classe operaia. L'articolo afferma che gli attacchi attuali "costituiscono il fermento di una lenta maturazione delle condizioni per lo sviluppo di lotte massicce che sono necessarie alla riconquista dell'identità della classe proletaria e per fare cadere a poco a poco le illusioni, particolarmente sulla possibilità di riformare il sistema. Sono le stesse azioni di massa che permetteranno il riemergere della coscienza di essere una classe sfruttata portatrice di un'altra prospettiva storica per la società. Perciò, la crisi è l'alleata del proletariato. Tuttavia, la strada che deve aprirsi la classe operaia per affermare la propria prospettiva rivoluzionaria non è affatto lineare, essa sarà terribilmente lunga, tortuosa, difficile, seminata di insidie, di trappole che il suo nemico non mancherà di ergerle contro". Le prospettive tracciate dal rapporto sulla lotta di classe del 15° Congresso della CCI si sono così trovate confermate, non solo per lo sviluppo a scala internazionale di una nuova generazione di elementi in ricerca, ma anche per le lotte operaie.
Perciò, il presente rapporto sulla lotta di classe si limita ad un aggiornamento ed ad un esame più preciso del significato a lungo termine di certi aspetti delle ultime lotte proletarie.
Le mobilitazioni a grande scala della primavera 2003 in Francia ed in Austria rappresentano una svolta nelle lotte di classe dal 1989. Esse sono un primo passo significativo nel recupero della combattività operaia dopo il periodo più lungo di riflusso dal 1968. Già negli anni ‘90 si erano viste delle manifestazioni sporadiche ma importanti di questa combattività. Tuttavia la simultaneità dei movimenti in Francia ed in Austria ed il fatto che, subito dopo, i sindacati tedeschi abbiano organizzato la sconfitta degli operai metallurgici all'Est (3) per contrastare in modo preventivo la resistenza proletaria, mostrano l'evoluzione della situazione dell'inizio del nuovo millenario. In realtà questi avvenimenti hanno messo in evidenza che la classe operaia è sempre più costretta a lottare di fronte all'aggravamento drammatico della crisi ed al carattere sempre più massiccio e generalizzato degli attacchi, e ciò a dispetto della persistente mancanza di fiducia in sé stessa.
Questo cambiamento tocca non solo la combattività della classe operaia ma anche il suo stato d'animo, la prospettiva nella quale si iscrive la sua attività. Esistono attualmente dei segni di una perdita di illusioni che riguardano non solo le mistificazioni tipiche degli anni '90 ("la rivoluzione delle nuove tecnologie", "l'arricchimento individuale attraverso la Borsa", ecc.), ma anche di quelle che la ricostruzione del dopo guerra (Seconda Guerra mondiale) aveva suscitato, e cioè la speranza di una vita migliore per la nuova generazione e di una pensione decente per quelli che riusciranno a sopravvivere alla prigione del lavoro salariato.
Come ricorda l'articolo della Révue Internationale n°114, il ritorno massiccio del proletariato sullo scenario storico nel 1968 ed il riemergere di un prospettiva rivoluzionaria costituivano non solo una risposta agli attacchi su di un piano immediato, ma soprattutto una risposta al crollo delle illusioni in un avvenire migliore che il capitalismo del dopo guerra sembrava offrire. Contrariamente a quello che una deformazione volgare e meccanicista del materialismo storico potrebbe farci credere, tali svolte nella lotta di classe, anche se scatenate da un aggravamento immediato delle condizioni materiali, sono sempre il risultato di cambiamenti soggiacenti nella visione dell'avvenire. La rivoluzione borghese in Francia non è esplosa con l'apparizione della crisi del feudalesimo (che era già ben avanzata), ma quando è diventato chiaro che il sistema del potere assoluto non poteva più far fronte a questa crisi. Allo stesso modo, il movimento che doveva sfociare nella prima ondata rivoluzionaria mondiale non è cominciato nell'agosto 1914, ma quando si sono dissipate le illusioni su di una soluzione militare rapida alla guerra mondiale. Pertanto il compito principale che le lotte recenti ci impongono è la comprensione del loro significato storico, a lungo termine.
Ogni svolta nella lotta di classe non ha lo stesso significato e la stessa portata del 1917 o del 1968. Queste date rappresentano dei cambiamenti del corso storico; il 2003 segna semplicemente l'inizio della fine di un fase di riflusso all’interno di un corso generale a degli scontri di classe massicci. Dal 1968, e prima del 1989, il corso della lotta di classe era già stato segnato da uno certo numero di riflussi e di riprese. In particolare, la dinamica iniziata alla fine degli anni ‘70 culminò rapidamente negli scioperi di massa dell'estate 1980 in Polonia. L'importanza del cambiamento della situazione costrinse allora la borghesia a cambiare rapidamente il orientamento politico ed a mandare la sinistra all'opposizione per poter meglio sabotare le lotte dall'interno (4). Inoltre è necessario distinguere tra il cambiamento attuale nel recupero sul piano della combattività da parte della classe operaia e le riprese negli anni 1970 e '80.
Più in generale, è necessario saper distinguere tra quelle situazioni in cui, per così dire, il mondo si sveglia una mattina e non è più lo stesso mondo, e dei cambiamenti che avvengono in modo quasi impercettibile attraverso il mondo, come il cambiamento quasi invisibile che si produce tra l’alta e la bassa marea. L'evoluzione attuale è sicuramente del secondo tipo. In tal senso, le mobilitazioni recenti contro gli attacchi sulle pensioni non significano affatto un cambiamento immediato e spettacolare della situazione tale da richiedere uno spiegamento rapido e importante delle forze politiche della borghesia.
Siamo ancora lontani dal doverci confrontare con un'ondata internazionale di lotte massicce. In Francia il carattere massiccio della mobilitazione nella primavera 2003 è restato circoscritto essenzialmente ad un settore, quello dell'educazione. In Austria la mobilitazione è stata più larga, ma fondamentalmente limitata nel tempo ad alcune giornate di azione, principalmente nel settore pubblico. Lo sciopero degli operai metallurgici in Germania dell'Est non è stato affatto espressione di una combattività operaia immediata, ma una trappola tesa ad una delle parti meno combattive della classe (ancora traumatizzata dalla disoccupazione massiccia apparsa quasi dall'oggi al domani dopo la "riunificazione" della Germania) per far passare l’idea che la lotta non paga. In più, le notizie sui movimenti in Francia ed in Austria hanno subito parzialmente un blackout in Germania, eccetto alla fine del movimento, quando sono state utilizzate per veicolare un messaggio che scoraggiava alla lotta. In altri paesi centrali per la lotta di classe come l'Italia, la Gran Bretagna, la Spagna o i paesi del Benelux, non ci sono state recentemente mobilitazioni massicce. Espressioni di combattività, che possono sfuggire al controllo delle grandi centrali sindacali, come lo sciopero selvaggio del personale di British Airways a Heathrow, di Alcatel a Tolosa o a Puertollano in Spagna l'estate scorsa (cf.Révolution internationale n°339) restano circoscritte ed isolate.
Nella stessa Francia lo sviluppo insufficiente e soprattutto l'assenza di una combattività più diffusa hanno fatto sì che l'estensione del movimento al di là del settore dell'educazione non fosse immediatamente all'ordine del giorno.
Tanto a scala internazionale che in ciascun paese, la combattività è dunque ancora allo stato embrionale e molto eterogenea. La sua attuale manifestazione più importante, la lotta degli insegnanti in Francia della scorsa primavera, è in prima istanza il risultato di una provocazione della borghesia consistente nell'attaccare più pesantemente questo settore in modo che la risposta contro la riforma delle pensioni, che riguardava tutta la classe operaia, si polarizzasse solo su questo settore (5).
Di fronte alle manovre su grande scala della borghesia, bisogna notare la grande ingenuità, addirittura la cecità della classe operaia nel suo insieme, includendovi gruppi in ricerca, parti del campo politico proletario (fondamentalmente i gruppi della Sinistra comunista) ed anche molti nostri simpatizzanti. La classe dominante, per il momento, è non solo capace di contenere ed isolare le prime manifestazioni dell'agitazione operaia, ma può, con più o meno successo (più in Germania che in Francia), rivolgere questa volontà di lotta, ancora relativamente debole, contro lo sviluppo della combattività generale a lungo termine.
Ancora più significativo di tutto ciò che precede è il fatto che la borghesia non sia ancora obbligata a ricorrere alla strategia della sinistra all'opposizione. In Germania, il paese in cui la borghesia ha ampia libertà di scelta tra un'amministrazione di sinistra ed un'amministrazione di destra, in occasione dell'offensiva "agenda 2010" contro gli operai, il 95% dei delegati, tanto del SPD che dei verdi, si sono pronunciati in favore di un mantenimento della sinistra al governo. La Gran Bretagna che, con la Germania, negli anni ‘70 ed '80 è stata "all’avanguardia" della borghesia mondiale nell'applicazione di politiche di sinistra nell'opposizione tra le più adattate a fare fronte alla lotta di classe, è anch’essa capace di gestire il fronte sociale con un governo di sinistra.
A differenza della situazione che prevaleva alla fine degli anni ‘90, oggi non possiamo più parlare della messa in campo di governi di sinistra come orientamento dominante della borghesia europea. Mentre cinque anni fa l'ondata di vittorie elettorali della sinistra era legata ancora alle illusioni sulla situazione economica, di fronte alla gravità attuale della crisi, la borghesia deve preoccuparsi di mantenere una certa alternanza governativa e giocarsi così la carta della democrazia elettorale (6). Dobbiamo ricordare, in questo contesto che già l'anno scorso la borghesia tedesca, pur salutando la rielezione di Schroeder, ha mostrato che si sarebbe anche soddisfatta di un governo conservatore con Stoiber.
Il fatto che le prime scaramucce della lotta di classe, in un processo lungo e difficile verso lotte più massicce, abbiano avuto luogo in Francia ed in Austria non è forse tanto fortuito come potrebbe sembrare. Se il proletariato francese è conosciuto per il suo carattere esplosivo, il che spiega in parte come nel 1968 si sia trovato alla testa della ripresa internazionale delle lotte di classe, si può dire difficilmente altrettanto della classe operaia austriaca del dopoguerra. Ciò che questi due paesi hanno in comune, tuttavia, è il fatto che gli attacchi massicci riguardavano in modo centrale il problema delle pensioni. È anche da notare come il governo tedesco, che attualmente è quello che nell’Europa occidentale sta scatenando l'attacco più generale, proceda ancora in modo estremamente prudente sul problema delle pensioni. Mentre la Francia e l'Austria sono tra i paesi dove, in grande parte a causa della debolezza politica della borghesia, della destra in particolare, le pensioni sono state fino ad ora attaccate meno che altrove. Per questo qui l'aumento del numero di anni lavorativi necessari per andare in pensione e la diminuzione dalle pensioni sono stati avvertiti con maggior amarezza.
Il peggioramento della crisi costringe la borghesia, con l’aumento dell’età pensionabile, a sacrificare un ammortizzatore sociale che gli permetteva di fare accettare alla classe operaia i livelli insopportabili di sfruttamento imposti negli ultimi decenni e di mascherare la reale entità della disoccupazione.
Di fronte al ritorno massiccio di questo flagello a partire dagli anni 1970, la borghesia aveva risposto con misure di capitalismo di Stato assistenziale, misure che sono un non senso dal punto di vista economico e che oggi costituiscono una delle principali cause dell'incommensurabile debito pubblico. Lo smantellamento del Welfare State attualmente in opera porta a porsi degli interrogativi di fondo sulle reali prospettive che il capitalismo offre per il futuro della società.
I diversi attacchi capitalisti non suscitano identiche reazioni di difesa da parte della classe operaia. In genere è più facile scendere in lotta contro le diminuzioni di salario o l'allungamento della giornata di lavoro che contro la diminuzione del salario relativo, il quale è il risultato dell'incremento della produttività del lavoro, a causa dello sviluppo della tecnologia, e dunque dello stesso processo di accumulazione del capitale. Questa realtà veniva descritta da Rosa Luxemburg in questi termini: "Una diminuzione di salario, che comporti una compressione del tenore di vita reale degli operai, è un attentato visibile dei capitalisti contro i lavoratori, e di regola […] ne riceve una immediata risposta, nei casi più favorevoli è anche respinta. Per contro, la diminuzione del salario relativo si effettua ostentatamente senza la minima responsabilità personale del capitalista, e contro di essa, gli operai,all’interno del sistema salariale, cioè sul terreno della produzione mercantile. non hanno alcuna possibilità di lotta e di difesa ".
L'aumento della disoccupazione pone lo stesso tipo di difficoltà alla classe operaia dell'intensificazione dello sfruttamento (attacco sullo stipendio relativo). In effetti, l'attacco capitalista costituito dalla disoccupazione, quando colpisce i giovani che non hanno lavorato ancora, non comporta la dimensione esplosiva dei licenziamenti, per il fatto che non è necessario licenziare nessuno. L'esistenza di una disoccupazione massiccia costituisce anche un fattore di inibizione delle lotte immediate della classe operaia, perché rappresenta una minaccia permanente per un numero crescente di operai al lavoro, ma anche perché questo fenomeno sociale pone delle domande la cui risposta non può evitare di affrontare la necessità del cambiamento di società. Sempre per quanto riguarda la lotta contro l'abbassamento del salario relativo, Rosa Luxemburg aggiunge: "La lotta contro la caduta del salario relativo significa perciò anche lotta contro il carattere di merce della forza di lavoro, cioè contro la produzione capitalista nel suo complesso. La lotta contro la caduta del salario relativo non è dunque più una lotta sul terreno dell'economia mercantile, bensì un assalto rivoluzionario, sovvertitore, contro il sussistere di questa economia, è il movimento socialista del proletariato".
Gli anni 1930 rivelano come, con la disoccupazione di massa, esplode il depauperamento assoluto. Senza la sconfitta che fu precedentemente inflitta al proletariato, la legge "generale, assoluta dell'accumulazione del capitale" rischiava di trasformarsi nel suo contrario, la legge della rivoluzione. La classe operaia ha una memoria storica e, con l'approfondirsi della crisi, questa memoria comincia lentamente ad attivarsi. Attualmente la disoccupazione massiccia ed i tagli ai salari fanno sorgere il ricordo degli anni '30, e visioni di insicurezza e di depauperamento generalizzate. Lo smantellamento del Welfare State confermerà le previsioni marxiste.
Quando Rosa Luxemburg scrive che gli operai, sul terreno della produzione dei beni di consumo, non hanno la minima possibilità di resistere all'abbassamento del salario relativo, ciò non è né rassegnazione fatalista, né pseudo-radicalismo dell'ultima tendenza di Essen del KAPD, "la rivoluzione o niente", ma la consapevolezza che la loro lotta non può restare nei limiti delle lotte di difesa immediata e deve essere intrapresa con la più larga visione politica possibile. Negli anni ‘80, le questioni della disoccupazione e dell'intensificazione dello sfruttamento erano già poste, ma spesso in modo ristretto e locale, ristrette per esempio alla salvaguardia dei propri posti di lavoro dai minatori inglesi. Oggi l'avanzata qualitativa della crisi può permettere che problemi come la disoccupazione, la povertà, lo sfruttamento siano posti in modo più globale e politico, come quelli delle pensioni, della salute, del mantenimento dei disoccupati, delle condizioni di vita, della lunghezza della vita lavorativa, dell'avvenire delle generazioni future. Sotto una forma molto embrionale, è questo il potenziale che è stato rivelato negli ultimi movimenti in risposta agli attacchi contro le pensioni. Questa lezione di lungo termine è di gran lunga la più importante. È di una portata ben più grande di quella del ritmo con cui la combattività immediata della classe va a ripristinarsi. In effetti, come Rosa Luxemburg spiega, essere direttamente confrontati agli effetti devastanti dei meccanismi obiettivi del capitalismo (disoccupazione massiccia, intensificazione dello sfruttamento relativo), rende sempre più difficile entrare in lotta. E' per tale motivo che, anche se ne risulta un ritmo rallentato ed un avanzamento più tortuoso delle lotte, quest’ultime diventano tanto più significative sul piano della politicizzazione.
A causa dell'approfondirsi della crisi, il capitale non può più basarsi sulla sua capacità di fare delle concessioni materiali importanti in modo da ridare credito all'immagine dei sindacati, come è stato fatto nel 1995 in Francia (8). A dispetto delle attuali illusioni degli operai, esistono dei limiti sulla capacità della borghesia ad utilizzare la combattività nascente attraverso manovre su vasta scala. Questi limiti sono rivelati dal fatto che i sindacati sono obbligati a ritornare gradualmente al ruolo di sabotatori delle lotte: "si adotta oggi uno schema molto più classico nella storia della lotta di classi: il governo attacca, i sindacati in un primo tempo si oppongono ed esaltano l'unione sindacale per reclutare massicciamente gli operai dietro essi e sotto il loro controllo. Poi il governo apre dei negoziati ed i sindacati si disuniscono per meglio dividere e disorientare le file operaie. Questo metodo che gioca sulla divisione sindacale di fronte all'avanzamento della lotta di classe, è quello più sperimentato dalla borghesia per preservare globalmente l'inquadramento sindacale, concentrando per quanto possibile il discredito e la perdita di alcune penne su uno o l'altro apparato designato in anticipo. Questo significa anche che i sindacati sono di nuovo sottomessi alla prova del fuoco e che lo sviluppo inevitabile delle lotte a venire porrà alla classe operaia di nuovo il problema dello scontro con i suoi nemici per potere affermare i propri interessi di classe ed i bisogni della sua lotta". (9)
Se a fino ad ora la borghesia non si è posta tanti problemi nel mettere in atto le sue manovre contro la classe operaia, il deterioramento della situazione economica tenderà a provocare con maggior frequenza scontri spontanei, parziali, isolati tra gli operai ed i sindacati. La ripetizione di uno schema classico di scontro con il sabotaggio sindacale, ormai all'ordine del giorno, favorisce la possibilità per gli operai di rifarsi alle lezioni del passato. Ma questo non deve condurre ad un atteggiamento schematico basato sul quadro ed i criteri degli anni '80 per capire le lotte future ed intervenire al loro interno. Le lotte attuali sono quelle di una classe che deve ancora riconquistare, anche in modo elementare, la sua identità di classe. La difficoltà a riconoscere di appartenere ad una classe sociale ed il fatto di non realizzare che si ha di fronte un nemico di classe, sono le due facce dello stessa medaglia. Sebbene gli operai abbiano ancora un senso elementare del bisogno di solidarietà (perché ciò è inscritto nei fondamenti della condizione proletaria), hanno però ancora da riconquistare una visione di ciò che è veramente la solidarietà di classe.
Per far passare la sua riforma delle pensioni, la borghesia francese non ha avuto bisogno di ricorrere al sabotaggio dell'estensione del movimento attraverso i sindacati. Il centro della sua strategia è consistita nel fare in modo che gli insegnanti adottassero come obiettivi primari delle rivendicazioni specifiche. A tal fine, questo settore già pesantemente colpito dagli attacchi precedenti, ha dovuto subire non solo l'attacco generale sulle pensioni ma anche un altro supplementare, specifico: il progetto di decentramento del personale non insegnante, contro il quale ha polarizzato effettivamente la sua mobilitazione. Far proprie delle rivendicazioni che condannano di fatto una lotta alla sconfitta è sempre un segno di una debolezza importante della classe operaia, che essa deve superare per potere avanzare significativamente. Un esempio che illustra al contrario una tale necessità è dato dalle lotte in Polonia nel 1980, dove sono state le illusioni sulla democrazia occidentale a permettere che la rivendicazione di "sindacati liberi" arrivasse al primo posto nell'elenco di rivendicazioni presentate al governo, aprendo così la porta alla sconfitta ed alla repressione del movimento.
Nelle lotte della primavera 2003 in Francia, è stata la perdita dell'identità di classe e la perdita di vista della nozione di solidarietà operaia a portare gli insegnanti ad accettare che le loro rivendicazioni specifiche passassero sopra al problema generale degli attacchi contro le pensioni. I rivoluzionari non devono temere di riconoscere questa debolezza della classe e di adattare di conseguenza il loro intervento. Il rapporto sulla lotta di classe del 15° Congresso insiste molto sull'importanza del riemergere della combattività per permettere al proletariato di avanzare. Ma ciò non ha niente in comune con un culto operaista della combattività. Negli anni '30 la borghesia è stata capace di deviare la combattività operaia sulla strada della guerra imperialista. L'importanza delle lotte attuali è che esse possono costituire il crogiolo dello sviluppo della coscienza della classe operaia. Se la posta in gioco oggi della lotta di classe, la riconquista dell'identità di classe da parte del proletariato, è di per sé molto modesta, essa costituisce tuttavia la chiave per la riattivazione della memoria collettiva e storica del proletariato e per lo sviluppo della sua solidarietà di classe. Questa è l'unica alternativa alla pazza logica borghese di competizione, del ciascuno per sé.
La borghesia, da parte sua, non si permette di farsi illusioni sul carattere secondario di questa questione. Fino ad adesso ha fatto ciò che ha potuto per evitare l’esplosione di un movimento che potrebbe ricordare agli operai la loro appartenenza ad una stessa classe. La lezione del 2003 è che, con l'accelerazione della crisi, la lotta operaia può solo svilupparsi. Non è tanto questa combattività di per sé che inquieta la classe dominante, ma proprio il rischio che i conflitti vanno ad alimentare la coscienza della classe operaia. La borghesia oggi è ancora più preoccupata da questa questione che in passato, proprio perché la crisi è più grave e più globale. Quando le lotte non possono essere evitate, la sua principale preoccupazione è limitarne gli effetti positivi sulla fiducia in sé, sulla solidarietà e la riflessione nella classe operaia, e fare in modo che la lotta sia fonte di false lezioni. Durante gli anni ‘80, di fronte alle lotte operaie, la CCI ha imparato ad identificare, per ciascun caso concreto, quale era l'ostacolo all'avanzamento del movimento ed intorno al quale dovevano essere polarizzati lo scontro con i sindacati e la sinistra del capitale. Spesso era la questione dell'estensione. Delle mozioni concrete presentate nelle assemblee generali, che chiamavano ad andare verso gli altri operai, costituivano la dinamite con la quale tentavamo di sgombrare il campo per favorire l'avanzamento generale del movimento. Le questioni centrali poste oggi - che cosa è la lotta di classe, i suoi scopi, i suoi metodi, chi sono i suoi avversari, quali sono gli ostacoli che dobbiamo superare - sembrano costituire l'antitesi di quelle degli anni '80. Sembrano più "astratte" perché meno immediatamente realizzabili, addirittura costituiscono un ritorno al punto di partenza delle origini del movimento operaio. Metterle in avanti esige più pazienza, un visione a più lungo termine, capacità politiche e teoriche più profonde per l'intervento. Ma in realtà, le questioni centrali attuali non sono più astratte, sono più globali. Non c'è niente di astratto o di arretrato nel fatto d'intervenire, in un'assemblea operaia, sulla questione delle rivendicazioni del movimento o per denunciare il modo in cui i sindacati impediscono ogni prospettiva reale di estensione. Il carattere globale di queste questioni mostra la via da seguire. Prima del 1989 il proletariato si è arenato proprio perché poneva le questioni della lotta di classe in modo troppo limitato. Proprio perché nella seconda metà degli anni ‘90, il proletariato ha cominciato a sentire il bisogno, attraverso delle minoranze al suo interno, di una visione più globale, la borghesia, cosciente del pericolo che ciò poteva rappresentare, ha sviluppato il movimento alter-mondialista in modo da fornire una falsa risposta ad a questo bisogno.
Inoltre, la sinistra del capitale, specialmente la più "raicale", è diventata maestra nell'arte di utilizzare gli effetti della decomposizione della società contro le lotte operaie. Se la crisi economica favorisce una problematica che tende ad essere globale, la decomposizione ha l'effetto contrario. Durante il movimento della primavera 2003 in Francia e lo sciopero dei metallurgici in Germania, abbiamo visto come gli attivisti sindacali, in nome de "l'estensione" o della "solidarietà" hanno alimentato una certa mentalità presente in una minoranza di lavoratori tendente a voler imporre la lotta ad altri lavoratori, allo scopo di gettare su questi ultimi la responsabilità di una sconfitta del movimento quando questi si rifiutavano di essere trascinati nell'azione.
Nel 1921, durante l'Azione di marzo in Germania, le scene tragiche dei disoccupati che cercavano di impedire agli operai di rientrare nelle fabbriche, erano un'espressione di disperazione di fronte al riflusso dell'ondata rivoluzionaria. I recenti appelli delle forze della sinistra borghese francese agli studenti di non sostenere i loro esami, lo spettacolo dei sindacalisti tedeschi dell'Ovest che volevano impedire ai metallurgici dell’Est – che non volevano più fare un lungo sciopero per le 35 ore - di riprendere il lavoro, sono degli attacchi pericolosi contro l'idea stessa di classe operaia e di solidarietà. Attacchi pericolosi anche perché alimentano l'impazienza, l'immediatismo e l'attivismo insensato prodotti dalla decomposizione. Siamo avvertiti: se le lotte a venire sono potenzialmente un crogiolo per la coscienza, la borghesia fa di tutto per trasformarle in sepolcro della riflessione proletaria.
Qui vediamo dei compiti che sono degni dell'intervento comunista: "spiegare pazientemente" (Lenin) perché la solidarietà non può essere imposta ma richiede una fiducia reciproca tra le differenti parti della classe; spiegare perché la sinistra borghese, in nome dell'unità operaia, fa di tutto per distruggere proprio questa unità.
Tutte le componenti del campo politico proletario riconoscono l'importanza della crisi nello sviluppo della combattività operaia. Ma la CCI è la sola corrente esistente attualmente a considerare che la crisi stimola la coscienza di classe delle grandi masse. Gli altri gruppi riducono il ruolo della crisi al fatto che questa semplicemente spinge fisicamente alla lotta. Per i consiliaristi, la crisi costringe in modo più o meno meccanico la classe operaia a fare la rivoluzione. Per i bordighisti, il risveglio de"l'istinto" di classe porta al potere il detentore della coscienza di classe che è il partito. Per il BIPR, la coscienza rivoluzionaria viene dall'esterno, dal partito. All’interno dei gruppi in ricerca, gli autonomi (che si rifanno al marxismo per quanto riguarda la necessità dell'autonomia del proletariato rispetto alle altre classi) e gli operaisti credono che la rivoluzione è il prodotto della rivolta operaia e di un desiderio individuale di una vita migliore. Queste impostazioni erronee sono state rafforzate dall'incapacità di queste correnti a comprendere che l'insuccesso del proletariato a rispondere alla crisi del '29 fu il risultato della sconfitta precedente dell'ondata rivoluzionaria mondiale. Una delle conseguenze di questa debolezza è la teorizzazione, ancora presente, secondo la quale la guerra imperialista produce delle condizioni più favorevoli alla rivoluzione rispetto alla crisi (Cf. il nostro articolo "Perché l'alternativa guerra o rivoluzione" della Revue internationale n°30).
All'opposto di queste visioni, il marxismo pone la questione come segue: "Il fondamento scientifico del socialismo poggia infatti notoriamente su tre risultati dello sviluppo del capitalistico: innanzitutto sull'anarchia crescente dell'economia capitalista che rende la sua scomparsa risultato inevitabile, in secondo luogo sulla progressiva socializzazione del processo produttivo, che crea le condizioni positive dell'ordinamento sociale futuro, e in terzo luogo sull’organizzazione e lla coscienza di classe crescenti del proletariato, che costituisce il fattore attivo del rivolgimento imminente" (10).
Sottolineando il legame tra questi tre aspetti ed il ruolo della crisi, Rosa Luxemburg scrive: "la socialdemocrazia non fa discendere il suo scopo finale dalla forza vittoriosa della minoranza né dal sopravvento numerico della maggioranza, ma dalla necessità economica e dalla comprensione di questa necessità, che porta al superamento del capitalismo per mezzo delle masse popolari e che si esprime innanzitutto nell'anarchia capitalista"(11).
Mentre il riformismo (ed oggigiorno la sinistra del capitale) promette dei miglioramenti grazie all'intervento dello Stato, a leggi che proteggerebbero i lavoratori, la crisi mette in luce che "il sistema salariale non è un rapporto legale, ma un rapporto puramente economico".
E' attraverso gli attacchi che subisce che la classe, come insieme, comincia a comprendere la natura reale del capitalismo. Questo punto di vista marxista non nega affatto l'importanza del ruolo dei rivoluzionari e della teoria in questo processo. Nella teoria marxista gli operai troveranno la conferma e la spiegazione di ciò di cui essi stessi fanno esperienza.
Ottobre 2003
1. Questo testo, redatto in vista della discussione interna all'organizzazione, può contenere alcune formulazioni poco esplicite per il lettore. Pensiamo tuttavia che queste carenze non impediscono di afferrare l'essenza dell'analisi contenuta in questo rapporto.
2. Per mancanza di spazio non abbiamo pubblicato questo rapporto nella nostra stampa. In compenso abbiamo pubblicato, nella Revue internationale n°113, la risoluzione adottata da questo congresso che riprende la maggior parte delle insistenze del rapporto.
3. Il sindacato IG Metal aveva spinto gli operai metallurgici dei Lander dell'Est a mettersi in sciopero per l'applicazione immediata delle 35 ore mentre la loro attuazione era pianificata per il 2009. La manovra della borghesia risiede nel fatto che non solo le 35 ore costituiscono un attacco contro la classe operaia a causa della flessibilità che introducono, ma la mobilitazione da parte dei sindacati per il loro ottenimento era destinata, in quel momento, a deviare dalla risposta necessaria contro le misure di austerità del piano "Agenda 2010".
4. La carta della sinistra all'opposizione è stata giocata dalla borghesia alla fine degli anni ‘70 ed all'inizio degli anni ‘80. Consiste in una divisione sistematica dei compiti tra i differenti settori della borghesia. Spetta alla destra, al governo, "parlar chiaro" e applicare senza sotterfugi gli attacchi richiesti contro la classe operaia. Spetta alla sinistra, e cioè alle sue frazioni borghesi, per il loro linguaggio e la loro storia, il compito specifico di mistificare ed inquadrare gli operai, di deviare, sterilizzare e soffocare, grazie alla loro posizione nell'opposizione, le lotte e la presa di coscienza provocata da questi attacchi in seno al proletariato. Per altri elementi riguardanti l'attuazione di una tale politica da parte della borghesia leggere la risoluzione pubblicata nella Revue internationale n°26.
5. Per un'analisi più dettagliata di questo movimento vedi il nostro articolo "Di fronte agli attacchi massicci del capitale, il bisogno di una risposta massiccia della classe operaia" nella Revue internationale n°114.
6. Esiste un'altra ragione della presenza della destra al potere, e cioè che questa disposizione era la più adatta a contrastare l'avanzata del populismo politico, legato allo sviluppo della decomposizione i cui partiti che l'incarnano sono in genere inabili alla gestione del capitale nazionale.
7. Rosa Luxemburg, Introduzione all'economia politica (il lavoro salariato).
8. Nel dicembre 1995 i sindacati avevano costituito l'avanguardia di un manovra dell'insieme della borghesia contro la classe operaia. Di fronte ad un attacco massiccio contro la sicurezza sociale, il piano Juppé, ed un altro attacco più specifico sulle pensioni dei ferrovieri che per la sua violenza costituiva una vera provocazione, i sindacati non avevano avuto difficoltà a fare partire massicciamente la lotta operaia sotto il loro controllo. La situazione economica non era allora sufficientemente grave da imporre alla borghesia di mantenere nell’immediato l’attacco contro le pensioni dei ferrovieri, così il ritiro di questa misura è stata presentata come una vittoria della classe operaia mobilitata dietro i sindacati. Nella realtà, il piano Juppé passò integralmente ma la sconfitta più grossa stava nel fatto che la borghesia riuscì a ridare credito ai sindacati ed a far passare la sconfitta per una vittoria. Per altri dettagli leggi gli articoli dedicati alla denuncia di questa manovra nei n° 84 e 85 della Revue internationale.
9. Vedi il nostro articolo dedicato ai movimenti sociali in Francia,"Di fronte agli attacchi massicci del capitale, il bisogno di una risposta massiccia della classe operaia" nella Revue internationale n°114.
10. Rosa Luxemburg, Riforma o rivoluzione?
11. Rosa Luxemburg, idem.
Da più di due anni e mezzo la borghesia annuncia la ripresa ed è poi obbligata ad ogni trimestre a rinviarne la scadenza. Da più di due anni e mezzo le stime economiche sono sistematicamente al di sotto delle previsioni costringendo la classe dominante a rivederle sempre al ribasso. Cominciata nel secondo semestre del 2000, la recessione attuale è tra le più lunghe dalla fine degli anni '60 e, se dei segni di ripresa si annunciano oltre l'atlantico, questi sono ancora lontani dall'Europa e dal Giappone. Inoltre bisogna ricordare che, se gli Stati Uniti risalgono la china, ciò è dovuto essenzialmente ad un interventismo statale tra i più vigorosi di questi ultimi quaranta anni e ad una fuga in avanti nell’indebitamento che fa temere lo scoppio di una nuova bolla speculativa, questa volta immobiliare. Per quanto riguarda l'interventismo statale che mira a sostenere l'attività economica, bisogna notare come il governo americano abbia lasciato correre senza freni il deficit di bilancio. Da attivo che era nel 2001, circa 130 miliardi di dollari, il saldo di bilancio è arrivato ad un deficit stimato a 300 miliardi nel 2003 (il 3,6% del PNL). Oggi l'ampiezza di questo deficit, come anche le sue previsioni di aumento tenuto conto del conflitto iracheno e della diminuzione delle riscossioni fiscali relative all'abbassamento delle tasse, inquietano sempre di più la classe politica e l'ambiente affaristico degli Stati Uniti.
Per quanto riguarda l'indebitamento, l'abbassamento drastico dei tassi di interesse da parte della Riserva Federale ha avuto non solo per obiettivo quello di sostenere l'attività, ma ha mirato soprattutto al mantenimento della domanda di alloggi grazie alla rinegoziazione dei mutui ipotecari. L'alleggerimento del peso dei rimborsi dei prestiti immobiliari ha permesso così un sovrappiù di indebitamento concesso dalle banche. Il debito ipotecario delle case americane è così aumentato di 700 miliardi di dollari (più di due volte il deficit pubblico!). L'aumento triplicato del debito americano, dello Stato, degli alloggi ed estero spiega in che modo gli Stati Uniti hanno potuto effettuare questo salto economico più velocemente degli altri paesi. Tuttavia, tale salto potrà mantenersi solo se l’attività economica resta sostenuta nel medio termine, con il rischio di ritrovarsi come il Giappone poco più di una decina di anni, con lo scoppio di una bolla speculativa immobiliare e con un blocco dei pagamenti di fronte a tutta una serie di crediti non recuperabili.
L'Europa non può pagarsi un tale lusso poiché i suoi deficit erano già imponenti al momento dello scoppio della recessione e le conseguenze di questa ultima li hanno solo peggiorati ancora di più. La Germania e la Francia, che rappresentano il cuore economico dell'Europa, sono oggi gli ultimi della classe, con i deficit pubblici che si vanno al 3,8% per la prima ed il 4% per la seconda. Questi livelli sono già al di sopra del tetto fissato dal trattato di Maastricht (il 3%) e sottopongono questi paesi ai rimproveri della Commissione europea e alle multe previste per i contravventori. Ciò restringe alquanto le capacità dell'Europa a condurre una politica conseguente di rilancio all'altezza della posta in gioco. Inoltre, determinando l'abbassamento del Dollaro di fronte all'Euro per ridurre il loro deficit commerciale, gli Stati-Uniti vanno a pesare sul rilancio in una Europa che fa sempre più fatica a liberarsi delle eccedenze con l'esportazione. Non stupisce il fatto che i paesi dell'asse centrale europeo come la Germania, la Francia, l'Olanda e l'Italia siano in recessione e che gli altri non ne siano lontano.
Quelli che, all'epoca della caduta del muro di Berlino, hanno creduto ai discorsi della borghesia sull'avvento di una nuova era di prosperità e di apertura del "mercato dei paesi dell'Est" ne hanno solo pagato le spese. La riunificazione della Germania, lungi dal rappresentare un trampolino per il "dominio tedesco", ha costituito e costituisce ancora un pesante fardello per questo paese. La Germania che era la locomotiva dell'Europa è diventata il vagone di coda che fatica a seguire il ritmo del treno. L'inflazione è bassa e sfiora la deflazione, gli elevati tassi di interessi reali deprimono ancora di più l'attività e l'esistenza dell'Euro ormai impedisce delle politiche di svalutazione competitiva della moneta nazionale. La disoccupazione, la moderazione salariale e la recessione hanno per effetto una stagnazione del mercato interno mai vista durante i precedenti periodi di congiuntura in questo paese. Allo stesso modo, la futura integrazione dei paesi dell'Est in Europa peserà ancora più sulla congiuntura economica.
Tutto ciò ha per ineluttabile conseguenza un incremento drastico degli attacchi contro le condizioni di lavoro ed il livello di vita della classe operaia. Misure di austerità, licenziamenti massicci ed aggravamento senza precedenti dello sfruttamento sono all’ordine del giorno di tutte le borghesie nel mondo. Secondo le statistiche ufficiali, largamente sottostimate, la disoccupazione avrebbe raggiunto i 5 milioni in Germania, il 6,1% negli Stati Uniti ed i 10% in Francia alla fine del 2003. In Europa l'asse franco-tedesco, col piano Raffarin e l'agenda 2010 di Schröder, da il tono della politica che è condotta un po' dovunque: erosione del deficit di bilancio, riduzione delle tasse per gli alti redditi, facilità del diritto di licenziamento, riduzione delle indennità di disoccupazione e sussidi vari, diminuzione del rimborso delle cure sanitarie ed innalzamento dell'età pensionabile. Oggi in particolare i pensionati pagano i costi dell'austerità che distrugge definitivamente l'idea della possibile esistenza di un "ben meritato riposo" dopo una vita di duro lavoro. Negli Stati Uniti, ad esempio, col fallimento o la perdita di numerosi fondi di pensione in seguito al crac borsista, si assiste all’entrata massiccia di pensionati sul mercato del lavoro, costretti a rimettersi a lavorare per sopravvivere. La classe operaia deve far fronte ad una vasta offensiva di austerità fino all’osso, che del resto sul piano economico avrà come conseguenza il prolungamento ulteriore della recessione e quindi nuovi attacchi.
Il declino ininterrotto del tasso di crescita dalla fine degli anni '60 (Cf. Il nostro articolo "Gli orpelli della 'prosperità economica' apportati dalla crisi" nella Revue internationale n°114 ed il grafico che segue) smaschera bene l'immenso bluff saggiamente effettuato dalla borghesia durante tutti gli anni '90 sulla pretesa prosperità economica ritrovata dal capitalismo grazie alla "nuova economia", la mondializzazione e le ricette neo-liberali. Ed a ragione, la crisi non è per niente un affare di politica economica: se le ricette keynesiane degli anni '50-'60 poi neo-keynesiane degli anni '70 sono arrivate ad esaurirsi e se le ricette neo-liberali degli anni '80 e '90 non hanno potuto risolvere niente è proprio perché la crisi mondiale non è frutto di una "cattiva gestione dell'economia" ma dell'approfondirsi delle contraddizioni di fondo che caratterizzano la dinamica del capitalismo. Se la crisi non è un affare di politica economica, è ancora meno un affare di squadra governativa. Di sinistra o di destra, i governi hanno utilizzato uno dopo l'altro tutte le ricette disponibili. Gli attuali governi americano ed inglese, identificati come i più neo-liberali e pro-mondializzatori sul piano economico, sono di colori politici differenti ed utilizzano vigorosamente oggi le ricette neo-keynesiane lasciando correre i loro deficit pubblici. Allo stesso modo, a guardare più da vicino i programmi di austerità del governo Schröder (socialdemocratico-ecologista) e Raffarin (destra liberale), è facile constatare che si assomigliano come due gocce d'acqua e mettono in atto le stesse misure.
Di fronte a questa spirale di crisi e di austerità ininterrotta da più di 35 anni, una delle responsabilità maggiori dei rivoluzionari è dimostrare che essa trova le sue radici nel vicolo cieco storico del capitalismo, nell'obsolescenza di ciò che è al centro del suo rapporto di produzione fondamentale, il lavoro salariato (1). In effetti, quest'ultimo concentra contemporaneamente su di sé tutti i limiti sociali, economici e politici alla produzione del profitto capitalista e, per il modo con cui esso funziona, pone anche gli ostacoli alla realizzazione piena ed intera di questo ultimo (2). La generalizzazione del salariato fu alla base dell'espansione del capitalismo nel 19o secolo e, a partire dalla prima guerra mondiale, dell'insufficienza dei mercati solvibili rispetto alle necessità dell'accumulazione.
Contro ogni falsa spiegazione mistificatrice della crisi, è responsabilità dei rivoluzionari indicare questo vicolo cieco, mostrare come il capitalismo, anche se è stato un modo di produzione necessario e progressivo, è oggi storicamente superato e conduce l'umanità alla sua scomparsa. Come per tutte le fasi di decadenza dei modi di produzione precedenti (antico, feudale ecc.) questo vicolo cieco sta nel fatto che il rapporto sociale di produzione fondamentale è diventato troppo stretto e non è più da impulso come prima allo sviluppo delle forze produttive (3). Per la società di oggi, il salariato costituisce ormai un freno al pieno sviluppo dei bisogni dell'umanità. Solo l’abolizione di questo rapporto sociale e l'instaurazione del comunismo permetteranno all'umanità di liberarsi dalle contraddizioni che l'assalgono.
Ora, dalla caduta del muro di Berlino, la borghesia non si è fermata un solo istante nel condurre delle campagne su "l'inanità del comunismo", "l'utopia della rivoluzione" e la "diluizione della classe operaia" in una massa di cittadini la cui sola forma di azione legittima sarebbe la riforma "democratica" di un capitalismo presentato oramai come il solo orizzonte, insuperabile, dell'umanità. In questa vasta truffa ideologica, agli alter-mondialisti è stato devoluto il monopolio della contestazione. La borghesia dà loro un ruolo di primo piano come interlocutori critici privilegiati: un largo spazio è lasciato dai media alle analisi ed alle azioni di questa corrente, i loro più eminenti rappresentanti sono invitati in occasione di vertici ed altri incontri ufficiali, ecc. Ed a ragione, le tesi degli altermondialisti sono il complemento alla campagna ideologica della borghesia su "l'utopia del comunismo" dato che partono dagli stessi postulati: il capitalismo sarebbe il solo sistema possibile e la sua riforma l'unica alternativa. Per questo movimento, con l'organizzazione ATTAC in testa ed il suo consiglio "di esperti economici", il capitalismo potrebbe essere umanizzato a condizione che il "buon capitalismo regolarizzato" cacci via il "cattivo capitalismo finanziario". La crisi sarebbe la conseguenza della dérégulation neo-liberale e del dominio del capitalismo finanziario che impone la sua dittatura del 15% come rendimento obbligatorio al capitalismo industriale... tutto questo deciso in un'oscura riunione tenuta nel 1979 chiamata "il consenso di Washington". L'austerità, l'instabilità finanziaria, le recessioni, ecc. sarebbero solamente le conseguenze di questo nuovo rapporto di forze che si sarebbe stabilito in seno alla borghesia a profitto del capitale usurario. Da cui le idee di "regolamentare la finanza", "ridimensionarla" e di "indirizzare nuovamente gli investimenti verso la sfera produttiva", ecc.
In questa confusione generale sulle origini e le cause della crisi, è compito dei rivoluzionari ristabilire una comprensione chiara delle basi di questa e, soprattutto, mostrare che essa è il prodotto del fallimento storico del capitalismo. In altri termini, si tratta per essi di riaffermare in questo campo la validità del marxismo. Purtroppo, a guardare le analisi della crisi proposta dai gruppi del campo politico proletario come il PCInt. Programma Comunista o il BIPR, è facile constatare che sono lontani da una tale riaffermazione e particolarmente di non essere capaci di demarcarsi dall'ideologia corrente e sostenuta dall'alter-mondialismo. Chiaramente questi due gruppi appartengono indiscutibilmente al campo proletario e si distinguono fondamentalmente dall'area alter-mondialista per le loro denunce sulle illusioni riformistiche e per la difesa della prospettiva della rivoluzione comunista. Tuttavia la loro analisi della crisi è largamente presa in prestito dall'estremismo smesso di questa corrente.
Pezzi scelti: "I guadagni prodotti dalla speculazione sono così importanti che attraggono solo le imprese "classiche" ma anche molte altre, citiamo tra le altre, le compagnie di assicurazione o i fondi pensione di cui Enron è un eccellente esempio (…) La speculazione rappresenta il mezzo complementare, per non dire principale, per la borghesia, di appropriarsi di plusvalore (…) Una regola si è imposta, che fissa al 15% l'obiettivo minimo di rendimento per i capitali investiti nelle imprese. Per raggiungere o superare questo tasso di crescita delle azioni, la borghesia ha dovuto aumentare le condizioni di sfruttamento della classe operaia: i ritmi di lavoro sono stati intensificati, i salari reali abbassati. I licenziamenti collettivi hanno colpito centinaia di migliaia di lavoratori". (BIPR in Bilan e Perspective n°4, p.6). Possiamo già rilevare che questo è un curioso modo di porre i problemi per un gruppo che si proclama "materialista" e che considera la CCI "idealista". "Una regola si è imposta" ci dice il BIPR. Si è imposta da sola? Non faremo il torto al BIPR di attribuirgli una tale idea. È una classe, un governo o un'organizzazione umana data che ha imposto questa nuova regola; ma perché? Perché alcuni potenti di questo mondo sono improvvisamente diventati più rapaci e cattivi del solito? Perché i "cattivi" l'hanno imposto ai "buoni" (o ai "meno cattivi")?. O semplicemente perché, come considera il marxismo, le condizioni obiettive dell'economia mondiale hanno obbligato la classe dominante ad intensificare lo sfruttamento dei proletari?. Purtroppo il problema non è posto così in questo passaggio.
In più, ed è ancora più grave, questo è un discorso che potremmo leggere in qualsiasi opuscolo alter-mondialista: è la speculazione finanziaria che è diventata la principale sorgente del profitto capitalista (!), è la speculazione finanziaria che impone la sua regola del 15% alle imprese, è la speculazione finanziaria che è responsabile dell'aggravamento dello sfruttamento, dei licenziamenti massicci e dell'abbassamento degli stipendi ed è anche la speculazione finanziaria che è all'origine di un processo di deindustrializzazione e della miseria sull'insieme del pianeta "L'accumulazione dei profitti finanziari e speculativi alimenta un processo di deindustrializzazione che produce disoccupazione e miseria sull'insieme del pianeta"(idem p. 7).
In quanto al PCInt - Programma Comunista, le sue analisi non sono migliori anche se dette in termini più generali e ricoprendosi dell'autorità di Lenin: "Il capitale finanziario, le banche diventano in virtù dello sviluppo capitalista i veri attori della centralizzazione del capitale, aumentando il potere dei giganteschi monopoli. Allo stadio imperialistico del capitalismo, è il capitale finanziario che domina i mercati, le imprese, tutta la società, e questo dominio conduce esso stesso alla concentrazione finanziaria fino al punto in cui"il capitale finanziario, concentrato in poche mani ed esercitando un monopolio di fatto, preleva benefici enormi sempre crescenti sulla costituzione di ditte, le emissioni di valori, i prestiti di Stato, ecc., affermando il dominio delle oligarchie finanziarie e colpendo la società tutta intera di un tributo al profitto dei monopolisti" (Lenin, in L'imperialismo stadio supremo del capitalismo). Il capitalismo che nacque dal minuscolo capitale usurario, termina la sua evoluzione sotto forma di un gigantesco capitale usurario" (Programma Comunista n°98, p.l). Ecco di nuovo una denuncia senza appello del capitale finanziario parassitario che potrebbe piacere al più radicale degli alter mondialisti (4).
Si cercherebbe invano in questi brani una qualsiasi dimostrazione che è proprio il capitalismo come modo di produzione che ha fatto il suo tempo, che è il capitalismo come un tutto che è responsabile delle crisi, delle guerre e della miseria del mondo. Si cercherebbe invano la denuncia dell'idea centrale degli alter-mondialisti secondo la quale sarebbe il capitale finanziario il responsabile delle crisi mentre è il capitalismo come sistema che è al centro del problema. Riprendendo interi pezzi dell'argomentazione alter-mondialista, questi due gruppi del Sinistra Comunista lasciano la porta spalancata all'opportunismo teorico verso le analisi estremiste. Queste presentano la crisi come la conseguenza dell'instaurazione di un nuovo rapporto di forze che si sarebbe instaurato in seno alla borghesia tra l'oligarchia finanziaria ed i capitali industriali. Gli oligopoli finanziari avrebbero preso il sopravvento sul capitale delle imprese al momento della decisione presa a Washington di rialzare bruscamente i tassi di interesse.
In realtà, non c'è stato molto "trionfo dei banchieri sugli industriali", è la borghesia come un tutto che è passata ad una velocità superiore nella sua offensiva contro la classe operaia.
I "profitti finanziari" come base di un capitalismo usurario?
La denuncia della finanziarizzazione è oggi un tema comune a tutti gli economisti detti "critici". La spiegazione in voga tra questi "critici del capitalismo" è pretendere che il tasso di profitto è aumentato effettivamente ma che è stato confiscato dall'oligarchia finanziaria così che il tasso di profitto industriale non si è ristabilito significativamente, spiegando con ciò l'assenza di ripresa della crescita (cf. grafico sotto). È esatto che dall'inizio degli anni 80, in seguito alla decisione presa nel 1979 di aumentare i tassi di interesse, una parte importante del plusvalore estratto non è più accumulato attraverso l'autofinanziamento delle imprese ma è distribuito sotto forma di redditi finanziari. La risposta dominante a questa constatazione è presentare questa crescita della finanziarizzazione come un salasso sul profitto globale tale da impedire il suo investimento in maniera produttiva. La debolezza della crescita economica si spiegherebbe, dunque, attraverso il parassitismo della sfera finanziaria, con l'ipertrofia del "capitale usurario". Da ciò le "spiegazioni" pseudo marxiste che si appoggiano sulla debolezza di Lenin "il capitale finanziario, concentrato in poche mani ed esercitando un monopolio di fatto, preleva benefici enormi sempre crescenti sulla costituzione di ditte, le emissioni di valori, i prestiti di Stato, ecc., affermando il dominio delle oligarchie finanziarie e colpendo la società tutta intera di un tributo al profitto dei monopolisti", secondo le quali i profitti finanziari eserciterebbero un vero "salasso" sulle imprese (il famoso 15%).
Questa analisi è un ritorno all'economia volgare dove il capitale potrebbe scegliere tra l'investimento produttivo e gli spostamenti finanziari in funzione del livello del tasso di profitto dell'impresa e del tasso di interesse. Su un piano più teorico, questi approcci della finanza come elemento parassitario rinviano a due teorie del valore e del profitto.
Una, marxista, dice che il valore esiste prima ancora della sua ripartizione ed è esclusivamente prodotto nel processo di produzione attraverso lo sfruttamento della forza lavoro. Nel Libro III del Capitale, Marx precisa che il tasso di interesse è "... una parte del profitto che il capitalista attivo deve pagare al proprietario del capitale, invece di mettersela in tasca". In ciò Marx si distingue radicalmente dell'economia borghese che presenta il profitto come somma dei redditi relativi ai vari fattori (redditi del fattore lavoro, redditi del fattore capitale, redditi del fattore fondiario, ecc.). Lo sfruttamento sparisce poiché ciascuno dei fattori è remunerato secondo il suo contributo alla produzione: "per gli economisti volgari che tentano di presentare il capitale come fonte indipendente dal valore e dalla creazione di valore, questa forma è evidentemente una fortuna, poiché maschera l'origine del profitto" (Marx). Il feticismo della finanza consiste nell'illusione che la detenzione di una parte di capitale (un'azione, un Buono del Tesoro, un obbligo, ecc.) va, in senso proprio del termine, a "produrre" degli interessi. Detenere un titolo è comprarsi un diritto a ricevere una frazione del valore creato, ma ciò non crea in sé nessuno valore. È solo ed esclusivamente il lavoro che conferisce del valore a ciò che è prodotto. Il capitale, la proprietà, un'azione, un libretto di risparmio, una scorta di macchine non producono alcunché per essi stessi. Sono gli uomini che producono (5). Il capitale "riporta", come un cane da caccia riporta la selvaggina. Non crea niente, ma dà al suo proprietario il diritto ad una parte di ciò che ha creato colui che se ne è servito. In questo senso il capitale designa più un rapporto sociale che un oggetto: una parte del frutto del lavoro di alcuni finisce nelle mani di chi possiede il capitale. L'ideologia alter-mondialista inverte l'ordine delle cose confondendo l'estrazione del plusvalore con la sua ripartizione. Il profitto capitalista trae esclusivamente la sua origine dallo sfruttamento del lavoro, non esistono profitti speculativi per l'insieme della borghesia (anche se questo o quel settore particolare può guadagnarci nella speculazione); la Borsa non crea valore.
L'altra teoria, che flirta con l'economia volgare, concepisce il profitto globale come la somma di un profitto industriale da un lato e di un profitto finanziario dall’altro. Il tasso di accumulazione sarebbe debole perché il profitto finanziario sarebbe superiore al profitto industriale. È una visione ereditata dai defunti partiti stalinisti che hanno propagandato una critica "popolare" del capitalismo visto come la confisca di un profitto "legittimo" da parte di un'oligarchia parassitaria (le 200 famiglie, ecc.). L'idea è la stessa: essa si basa su un vero e proprio feticismo della finanza secondo il quale la Borsa sarebbe un mezzo per creare del valore allo stesso titolo dello sfruttamento del lavoro. In ciò risiede tutta la mistificazione sulla tassa Tobin, la regolamentazione e l'umanizzazione del capitalismo propagandato dagli alter-mondialisti. Tutto ciò che trasforma una contraddizione susseguente (la finanziarizzazione) nella contraddizione principale porta in sé il pericolo di uno scivolamento tipicamente gauchista che consiste nel separare il grano buono dal loglio: da un lato il capitalismo che investe, dall'altro quello che specula. Ciò conduce a vedere la finanziarizzazione come una specie di parassita su un corpo capitalista sano. La crisi non sparirà, anche dopo l'abolizione del "gigantesco capitale usurario" così caro a Programma Comunista. In un certo modo, insistere sulla finanziarizzazione del capitalismo conduce a sottovalutare la profondità della crisi lasciando intendere che essa prenderebbe origine dal ruolo parassita della finanza che esigerebbe tassi di profitto troppo elevati alle imprese impedendo loro di realizzare investimenti produttivi. Se fosse proprio questa la natura della crisi, allora una "eutanasia dei beneficiari delle rendite" (Keynes) basterebbe a risolverla.
Questi slittamenti gauchisti a livello di analisi portano a presentare un certo numero di dati economici che, citando delle cifre da capogiro, cercano di dimostrare questo dominio assoluto della finanza e l'enormità dei salassi che opera: "… le grandi imprese tendono ad orientare i loro investimenti verso i mercati finanziari, supposti essere più "redditizi" (...) Questo mercato fenomenale si sviluppa ad una velocità molto superiore a quella della produzione (...) Per quanto riguarda la speculazione monetaria su 1300 miliardi di dollari che si spostavano nel 1996, ogni giorno tra le differenti monete, dal 5 all’ 8% al massimo corrispondevano al pagamento di merci o di servizi venduti da un paese all'altro (è conveniente aggiungervi le operazioni di cambio non speculative). L'85% di questi 1300 miliardi corrispondevano alle operazioni quotidiane puramente speculative dunque! Le cifre vanno riviste, scommettiamo che l'85% è attualmente superato" (BIPR, Bilan e Perspective n°4, p.6). Si, esse sono state superate e l’ammontare ha raggiunto i 1500 miliardi di dollari, cioè quasi la totalità del debito del Terzo Mondo... ma queste cifre non fanno paura che agli ignoranti perché non hanno nessuno senso! In realtà questo denaro non fa che girare e le somme annunciate sono tanto più importanti quanto più la giostra va veloce. Basta immaginare una persona che converte 100 ogni mezz'ora per speculare tra le monete; alla fine delle 24 ore le transazioni totali si saranno elevate a 4800, e se specula ogni quarto d'ora le transazioni totali avranno raddoppiato... ma questa somma è puramente virtuale perché la persona possiede sempre 100, più 5 o meno 10 a secondo del suo talento nell'arte della speculazione. Purtroppo questa presentazione mediatica dei fatti, ripresa dal BIPR, rende credibili le interpretazioni della crisi come un prodotto dell'azione parassitaria della finanza.
In realtà è l'aumento della sfera finanziaria che si spiega attraverso l’aumento del plusvalore non accumulato. È la crisi di sovrapproduzione e dunque la rarefazione dei luoghi di accumulazione redditizi che genera la retribuzione di plusvalore sotto forma di redditi finanziari, e non la finanza che si oppone o si sostituisce all'investimento produttivo. La finanziarizzazione corrisponde all'aumento di una frazione del plusvalore che non riesce più ad essere reinvestita con profitto (6). La distribuzione di redditi finanziari non è automaticamente incompatibile con l'accumulazione basata sull'autofinanziamento delle imprese. Quando i profitti estratti dall'attività economica "attraggono capitale", i redditi finanziari sono reinvestiti e partecipano in modo esterno all'accumulazione delle imprese. Ciò che bisogna spiegare, non è il fatto che i profitti escono dalla porta sotto forma di distribuzione di redditi finanziari, ma che questi ultimi non ritornano per la finestra per essere reinvesti produttivamente nel circuito economico. Se una parte significativa di queste somme fosse reinvestita, ciò dovrebbe manifestarsi con un aumento del tasso di accumulazione. Se ciò non si produce è perché c'è crisi da sovrapproduzione e dunque rarefazione dei luoghi di accumulazione redditizio.
Il parassitismo finanziario è un sintomo, una conseguenza delle difficoltà del capitalismo e non la causa alla radice di queste difficoltà. La sfera finanziaria è la vetrina della crisi perché è là che nascono le bolle borsiste, i crolli monetari e le turbolenze bancarie. Ma questi sconvolgimenti sono la conseguenza di contraddizioni che hanno la loro origine nella sfera produttiva.
Che cosa è successo da una ventina anni? L'austerità e l'abbassamento degli stipendi (7) hanno permesso di ristabilire il tasso di profitto delle imprese ma questo aumento dei profitti non ha portato ad un rialzo del tasso di accumulazione (l'investimento) e dunque della produttività del lavoro. La crescita è restata così in depressione (Cf. grafico sotto). In breve, la frenata del costo salariale ha ristretto i mercati, nutrito i redditi finanziari e non il re-investimento dei profitti. Ma perché oggi c'è un così debole re-investimento mentre i profitti delle imprese sono stati ristabiliti? Perché non riparte l'accumulazione in seguito alla risalita del tasso di profitto da più di vent'anni? Marx, ed in continuità con lui Rosa Luxemburg, ci hanno insegnato che le condizioni della produzione (l'estrazione del plusvalore) sono una cosa e che le condizioni per la realizzazione di questo pluslavoro cristallizzato nelle merci prodotte ne sono un'altra. Il pluslavoro cristallizzato nella produzione diventa del plusvalore sonante e traboccante, del plusvalore accumulabile, solo se le merci prodotte vengono vendute sul mercato. È questa differenza fondamentale tra le condizioni della produzione e quelle della realizzazione che ci permette di comprendere perché non c'è legame automatico tra i tassi di profitto e la crescita.
Medie ponderate secondo il PIL per i <<G6>> (Stati Uniti, Giappone, Germania, Francia, Regno Unito, Italia) Fonte: OCDE, Prospettive economiche, 2003
Il grafico sopra riassume bene l'evoluzione del capitalismo dalla Seconda Guerra mondiale. L'eccezionale fase di prosperità dopo la ricostruzione vede tutte le variabili fondamentali del profitto, dell'accumulazione, della crescita e della produttività del lavoro aumentare o fluttuare a dei livelli elevati fino alla riapparizione della crisi aperta a cavallo degli anni 1960-70. L'esaurimento dei guadagni di produttività che comincia fin dagli anni '60 trascina le altre variabili in una caduta d’insieme fino all'inizio degli anni '80. Da allora il capitalismo è in una situazione completamente inedita sul piano economico contrassegnata da una configurazione che associa un tasso di profitto elevato con una produttività del lavoro, un tasso di accumulazione e dunque un tasso di crescita mediocre. Questa divergenza tra le evoluzioni del tasso di profitto e le altre variabili da più di 20 anni non può comprendersi se non nel contesto della decadenza del capitalismo. Non è così per il BIPR che reputa oggi che il concetto di decadenza è da relegare nella pattumiera della storia: "Quale ruolo gioca dunque il concetto di decadenza sul terreno della critica dell'economia politica militante, e cioè dell'analisi approfondita dei fenomeni e delle dinamiche del capitalismo nel periodo che viviamo? Nessuno. (...) Non è col concetto di decadenza che si possono spiegare i meccanismi della crisi, né denunciare il rapporto tra la crisi e le finanziarizzazioni, il rapporto tra questa e le politiche delle superpotenze per il controllo della rendita finanziaria e delle sue fonti" (BIPR, "Elementi di riflessione sulle crisi della CCI"). Il BIPR preferisce abbandonare il concetto chiave di decadenza su cui fondava le proprie posizioni (8) per sostituirlo con i concetti in voga nel campo alter-mondialista di "finanziarizzazione" e di "rendita finanziaria" per "comprendere la crisi e le politiche delle supepotenze". Arriva anche ad affermare che "...questi concetti [in particolare quello di decadenza] sono estranei al metodo ed all'arsenale della critica dell'economia politica", idem.
Perché il quadro della decadenza è indispensabile per comprendere la crisi oggi? Perché il declino ininterrotto dei tassi di crescita dalla fine degli anni '60 in seno ai paesi dell'OCSE, con rispettivamente il 5,2%, il 3,5%, il 2,8%, 2,6% e 2,2% per i decenni '60, '70, '80, '90 e 2000-02, confermano il ritorno progressivo del capitalismo alla sua tendenza storica aperta dalla Prima Guerra mondiale. La parentesi dell'eccezionale fase di crescita (1950-75) si è definitivamente chiusa (9). Come una molla rotta che, dopo un estremo sussulto, ritrova la sua posizione di origine, il capitalismo ritorna inesorabilmente ai ritmi di crescita che prevalevano nel 1914-50. Contrariamente a ciò che gridano ai quattroventi i nostri censori, la teoria della decadenza del capitalismo non è per niente un prodotto specifico della stagnazione degli anni trenta (10). Costituisce l’essenza stessa del materialismo storico, il segreto infine trovato della successione dei modi di produzione nella storia e, a questo titolo, dà il quadro di comprensione per analizzare l'evoluzione del capitalismo e, in particolare, del periodo che si è aperto al momento della Prima Guerra mondiale. Essa ha una portata generale; è valida per tutta un'era storica e non dipende affatto da un periodo particolare o da una congiuntura economica momentanea. Del resto, anche integrando l'eccezionale fase di crescita tra il 1950 ed il 1975, due guerre mondiali, la depressione degli anni '30 e più di trentacinque anni di crisi e di austerità presentano un bilancio senza appello della decadenza del capitalismo: appena 30 - 35 anni, contando largo, di "prosperità" per 55 - 60 anni di guerra e/o di crisi economica, ed il peggio deve ancora venire. La tendenza storica al freno della crescita delle forze produttive, per dei rapporti capitalisti di produzione divenuti obsoleti costituisce la regola, il quadro che permette di comprendere l'evoluzione del capitalismo, ivi compresa l'eccezione della fase di prosperità che ha fatto seguito alla seconda guerra mondiale (vi ritorneremo in prossimi articoli). Invece, come per la corrente riformistica che si è lasciata imbambolare dalle performance del capitalismo della Belle Époque, è l'abbandono della teoria della decadenza che è un puro prodotto degli anni di prosperità.
Peraltro il grafico ci mostra chiaramente che il meccanismo che è alla base della risalita del tasso di profitto non è né un rifiorire della produttività del lavoro, né uno sgravio in capitale. Ciò ci permette di spazzare via anche le chiacchiere sulla pretesa "nuova rivoluzione tecnologica". Alcuni universitari, stupefatti dall'informatica e caduti nella rete delle campagne della borghesia sulla "nuova economia"... confondono la velocità del loro computer con la produttività del lavoro: non è perché il Pentium 4 gira più velocemente della prima generazione di questo processore che l'impiegato batterà duecento volte più rapidamente alla sua macchina e potrà quindi accrescere di altrettanto la produttività. Il grafico mostra chiaramente che la produttività del lavoro continua a diminuire dagli anni '60. Ed a ragione. Malgrado il ristabilimento dei profitti, il tasso d'accumulazione (gli investimenti alla base di possibili guadagni di produttività) non si è ripreso. La "rivoluzione tecnologica" esiste solamente nei discorsi delle campagne borghesi e nell'immaginazione di quelli che li bevono. Più seriamente, questa constatazione empirica del rallentamento della produttività (del progresso tecnico e dell'organizzazione del lavoro) ininterrotto dagli anni '60, contraddice l'immagine mediatica, ben ancorata nelle teste, di un cambiamento tecnologico crescente, di una nuova rivoluzione industriale che sarebbe portata oggi dall'informatica, le telecomunicazioni, Internet ed il multimediale. Come spiegare la forza di questa mistificazione che ribalta la realtà nelle nostre teste?
Innanzitutto, bisogna ricordare che i progressi di produttività all'indomani della Seconda Guerra mondiale erano ben più spettacolari di quelli che ci vengono presentati attualmente come "nuova economia". La diffusione dell'organizzazione del lavoro in tre squadre di 8 ore, la generalizzazione della catena mobile nell'industria, i veloci progressi nello sviluppo e la generalizzazione dei trasporti di ogni tipo (camion, treno, aereo, automobile, navi), la sostituzione del carbone per un petrolio più conveniente, l'invenzione delle materie plastiche e la sostituzione di queste a materiali più costosi, l'industrializzazione dell'agricoltura, la generalizzazione del raccordo all'elettricità, al gas naturale, all'acqua corrente, alla radio ed al telefono, la meccanizzazione della vita domestica con lo sviluppo dell'elettrodomestico, ecc. sono molto più spettacolari in termini di progresso di produttività di tutto ciò che apportano gli sviluppi nell'informatica e nelle telecomunicazioni. Da allora, i progressi di produttività del lavoro non hanno fatto che decrescere dai Golden Sixties.
In secondo luogo, perché viene mantenuta costantemente una confusione tra le apparizioni di nuovi beni di consumo ed i progressi di produttività. Il flusso di innovazioni, la moltiplicazione di novità per quanto straordinarie possano essere (DVD, GSM, Internet, ecc.) a livello di beni di consumo, non ricoprono il fenomeno del progresso della produttività. Quest'ultimo significa la capacità ad economizzare sulle risorse richieste per la produzione di un bene o di un servizio. L'espressione progresso tecnico deve sempre essere considerata nel senso di progresso delle tecniche di produzione e/o di organizzazione, dallo stretto punto di vista della capacità ad economizzare sulle risorse utilizzate nella fabbricazione di un bene o la prestazione di un servizio. Per quanto formidabili siano, i progressi numerici non si traducono in progressi significativi di produttività in seno al processo di produzione. Il bluff della "nuova economia" è tutto qui.
Infine, contrariamente alle affermazioni dei nostri censori che negano la realtà della decadenza e la validità degli apporti teorici di Rosa Luxemburg - e che fanno della caduta tendenziale del tasso del profitto l'alfa e l'omega dell'evoluzione del capitalismo -, il corso dell'economia dopo l'inizio degli anni '80 ci mostra chiaramente che non è perché questo tasso risale che la crescita riparte. C’è certamente un legame forte tra i tassi di profitto ed il tasso di accumulazione ma non è meccanico, né univoco: sono due variabili parzialmente indipendenti. Ciò contraddice formalmente le affermazioni di quelli che fanno dipendere obbligatoriamente la crisi da sovrapproduzione dalla caduta del tasso di profitto ed il ritorno della crescita alla sua risalita: "Questa contraddizione, la produzione del plusvalore e la sua realizzazione, appare come una sovrapproduzione di merci e dunque come causa della saturazione del mercato che si oppone al processo di accumulazione, ciò che, a sua volta mette il sistema nel suo insieme nell'impossibilità di controbilanciare la caduta del tasso di profitto. In realtà, il processo è inverso. (...) Sono il ciclo economico ed il processo di valorizzazione che rendono 'solvibile’ o ‘insolvibile’ il mercato. È partendo delle leggi contraddittorie che regolano il processo di accumulazione che si può arrivare a spiegare la 'crisi' del mercato" (Testo di presentazione di Battaglia Comunista alla prima conferenza dei gruppi della Sinistra comunista, maggio 1977). Oggi possiamo chiaramente constatare che il tasso di profitto risale da quasi una ventina di anni mentre la crescita resta depressa e la borghesia non ha mai parlato tanto di deflazione come in questo momento. Non è perché il capitalismo riesce a produrre sufficientemente profitto che crea automaticamente, attraverso questo stesso meccanismo, il mercato solvibile dove sarà capace di trasformare il pluslavoro cristallizzato nei suoi prodotti in plusvalore sonante e traboccante che gli permette di reinvestire i suoi profitti. L'importanza del mercato non dipende automaticamente dall'evoluzione del tasso di profitto: come gli altri parametri che condizionano l'evoluzione del capitalismo, il mercato è una variabile parzialmente indipendente. È la comprensione di questa differenza fondamentale tra le condizioni della produzione e quelle della realizzazione, già ben messa in evidenza da Marx ed approfondita magistralmente da Rosa Luxemburg, che ci permette di comprendere perché non c'è automatismo tra i tassi di profitto e la crescita.
Rigettando la decadenza come quadro di comprensione del periodo attuale e della crisi, individuando nella speculazione finanziaria la causa di tutte le disgrazie del mondo e sottovalutando lo sviluppo del capitalismo di Stato su tutti i piani, i due più importanti gruppi della Sinistra comunista all'infuori della CCI - Programma Comunista ed il BIPR - non possono offrire un orientamento chiaro e coerente alle lotte di resistenza della classe operaia. Basta leggere le analisi che fanno della politica della borghesia in materia di austerità e le conclusioni che traggono dalla loro analisi della crisi per rendersene conto: "Durante gli anni '50 le economie capitaliste si rimisero in rotta e la borghesia vide infine rifiorire in modo duraturo i suoi profitti. Questa espansione, che è proseguita per il decennio successivo, si è dunque appoggiata su uno sviluppato ricorso al credito e si è fatta con l'appoggio degli Stati. Essa si é tradotta innegabilmente in un miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori (sicurezza sociale, convenzioni collettive, innalzamento degli stipendi...). Queste concessioni fatte dalla borghesia, sotto la pressione della classe operaia, si traducono con una caduta del tasso di profitto, fenomeno in sé ineluttabile, legato alla dinamica interna del capitale. (...) Se all'inizio dello stadio dell'imperialismo, i profitti immagazzinati grazie allo sfruttamento delle colonie e dei loro popoli avevano permesso alle borghesie dominanti di garantire una certa pace sociale facendo beneficiare la classe operaia di una frazione dell'estorsione del plusvalore, oggi non è più così, dato che la logica speculativa implica una rimessa in causa di tutte le conquiste sociali strappate in decenni precedenti dai lavoratori dei 'paesi centrali' alla loro borghesia" (BIPR, in Bilan et perspectives n°4, p. da 5 a 7).
Anche qui possiamo constatare che l'abbandono del quadro della decadenza spalanca le porte alle concessioni verso le analisi gauchiste. Il BIPR preferisce ricopiare le favole dei gauchiste sulle "conquiste sociali (sicurezza sociale, convenzioni collettive, rialzo degli stipendi,...)" che sarebbero stati delle "concessioni fatte dalla borghesia sotto la pressione della classe operaia" e che "la logica speculativa" attuale rimette in causa, piuttosto che appoggiarsi sui contributi teorici tramandati dai gruppi della Sinistra comunista internazionale (Bilan, Communisme, ecc.), che analizzavano queste misure come mezzi messi in campo dalla borghesia per fare dipendere ed annettere la classe operaia allo Stato!
In effetti, nella fase ascendente del capitalismo, lo sviluppo delle forze produttive e del proletariato era insufficiente per minacciare il dominio borghese e permettere una rivoluzione vittoriosa a scala internazionale. E’ per questo motivo, anche se la borghesia ha fatto di tutto per sabotare l'organizzazione del proletariato, che quest’ultimo ha potuto, con le sue lotte accanite, costituirsi in "classe per sé" in seno al capitalismo mediante i propri organi che erano i partiti operai ed i sindacati. L'unificazione del proletariato si è realizzata mediante le lotte per strappare al capitalismo delle riforme che portassero a dei miglioramenti delle condizioni di esistenza della classe: riforme sul terreno economico e riforme nel dominio politico. Il proletariato ha acquisito, in quanto classe, il diritto di cittadinanza nella vita politica della società, o, per riprendere i termini di Marx nella Miseria della filosofia: la classe operaia ha conquistato il diritto di esistere e di affermarsi in modo permanente nella vita sociale in quanto "classe per sé", e cioè come classe organizzata con i propri luoghi di incontro quotidiano, le sue idee ed il suo programma sociale, le sue tradizioni ed anche i suoi canti.
All'epoca dell'entrata del capitalismo nella fase di decadenza nel 1914, la classe operaia ha dimostrato la sua capacità a rovesciare il dominio della borghesia costringendo questa a fermare la guerra e sviluppando un'ondata internazionale di lotte rivoluzionarie. Da questo momento, il proletariato costituisce un pericolo potenziale permanente per la borghesia. E’ per tale motivo che essa non può più tollerare che la classe nemica possa organizzarsi in modo permanente sul suo proprio terreno, possa vivere e crescere in seno alle sue proprie organizzazioni. Lo Stato estende il suo dominio totalitario su tutti gli aspetti della vita della società. Tutto è serrato dai suoi tentacoli onnipresenti. Tutto ciò che vive nella società deve sottomettersi incondizionatamente allo Stato o deve affrontarlo in una lotta mortale. Il tempo in cui il capitale poteva tollerare l'esistenza di organi proletari permanenti è superato. Lo Stato caccia dalla vita sociale il proletariato organizzato come forza permanente. "Dalla Prima Guerra mondiale, parallelamente allo sviluppo del ruolo dello Stato nell'economia, si sono moltiplicate le leggi che reggono i rapporti tra capitale e lavoro, creando un quadro ristretto di 'legalità' all’ interno del quale la lotta proletaria è circoscritta e ridotta all'impotenza" (estratto dal nostro opuscolo I sindacati contro la classe operaia). Questo capitalismo di Stato sul piano sociale significa la trasformazione di ogni vita della classe in surrogato del campo borghese. Lo Stato si è impadronito, attraverso i sindacati in certi paesi, direttamente in altri, delle diverse forme di solidarietà e di soccorso che erano state create ed adottate dalla classe operaia per tutta la seconda metà del diciannovesimo secolo (casse di sciopero, organizzazioni di soccorso in caso di malattia o di licenziamento). La borghesia ha strappato la solidarietà politica dalle mani del proletariato per trasferirla in solidarietà economica nelle mani dello Stato. Suddividendo il salario in una retribuzione diretta data dal padrone ed una retribuzione indiretta data dallo Stato, la borghesia ha consolidato potentemente la mistificazione che consiste nel presentare lo Stato come un organo al disopra delle classi, garante dell'interesse comune e della sicurezza sociale della classe operaia. La borghesia è riuscita a legare materialmente ed ideologicamente la classe operaia allo Stato. Tale era l'analisi della Sinistra italiana e della Frazione belga della Sinistra comunista internazionale a proposito delle prime casse di assicurazioni di disoccupazione e di soccorso reciproco messa in opera dallo Stato durante gli anni 30 (11).
Che cosa dice il BIPR alla classe operaia? Innanzitutto che la "logica speculativa" sarebbe responsabile della "rimessa in causa di tutte le conquiste sociali"... ed ecco di nuovo il male assoluto della 'fînanziarizzazione'! Il BIPR dimentica che la crisi e gli attacchi contro la classe operaia non hanno aspettato l'apparizione de "la logica speculativa" per abbattersi sul proletariato. Il BIPR crede veramente, come il suo scritto lascia intendere, che il futuro sorriderà alla classe operaia una volta che la "logica speculativa" sarà sradicata? Al contrario, questa mistificazione da estrema sinistra della borghesia che vuol fa credere che la lotta contro l'austerità dipenderebbe dalla lotta contro la logica speculativa è da combattere nella maniera più vigorosa possibile!
Ma c'è qualcosa di più grave! È una grossolana mistificazione fare credere al proletariato che la sicurezza sociale, le convenzioni collettive ed anche il meccanismo di rialzo dei salari attraverso l'indicizzazione o la scala mobile sarebbero delle "conquiste sociali strappate con la dura lotta". Sì, la riduzione oraria della giornata di lavoro, l'interdizione dallo sfruttamento dei bambini, l'interdizione del lavoro di notte per le donne, ecc. hanno costituito delle vere concessioni strappate dalla dura lotta della classe operaia nella fase ascendente del capitalismo. Ma le pretese "conquiste sociali", come la sicurezza sociale o le convenzioni collettive registrate nei Patti Sociali per la Ricostruzione non hanno niente da vedere con la lotta della classe operaia. Classe disfatta, esausta per la guerra, ubriaca e mistificata dal nazionalismo, drogata di euforia alla Liberazione, non è lei che, con la lotta, ha strappato queste "conquiste". È per iniziativa della stessa borghesia in seno ai governi in esilio che i Patti Sociali per la Ricostruzione sono stati elaborati mettendo in opera tutti questi meccanismi di capitalismo di Stato. È la borghesia che ha preso l'iniziativa, tra il 1943 e 1945, in piena guerra (!), di riunire tutte "le forze vive della nazione", tutti i "partner sociali", mediante riunioni tripartitiche costituite da rappresentanti del padronato, del governo e dei differenti partiti e sindacati, e cioè nella più perfetta delle concordie nazionali del movimento della Resistenza, per pianificare la ricostruzione delle economie distrutte e negoziare socialmente la difficile fase di ricostruzione. Non ci sono state "concessioni fatte dalla borghesia sotto la pressione della classe operaia" nel senso di una borghesia costretta ad accettare un compromesso di fronte ad una classe operaia mobilitata sul suo terreno e che sviluppa una strategia in rottura col capitalismo, ma dei mezzi messi in opera di concerto da tutti i componenti della borghesia (padronato, sindacato, governo) per controllare socialmente la classe operaia al fine di portare a termine la ricostruzione nazionale (12). Dobbiamo forse ricordare che è stata la borghesia, nell'immediato dopoguerra, a creare con determinazione ogni specie di sindacato, come la CFTC in Francia o la CSC in Belgio?
È evidente che i rivoluzionari denunciano ogni abuso sia sullo stipendio diretto che sullo stipendio indiretto, è evidente che i rivoluzionari denunciano gli attentati a livello di vita quando la borghesia riduce la sicurezza sociale ad un bene effimero, ma mai i rivoluzionari possono difendere il principio stesso del meccanismo messo in atto dalla borghesia per legare la classe operaia allo Stato (13)! I rivoluzionari devono denunciare al contrario le logiche ideologiche e materiali che sottendono questi meccanismi come la pretesa "neutralità dello Stato", la "solidarietà sociale organizzata dallo Stato", ecc.
Di fronte alla posta in gioco determinata dall’acuirsi generale delle contraddizioni del modo di produzione capitalista e di fronte alle difficoltà che incontra la classe operaia per far fronte a questa posta in gioco, tocca ai rivoluzionari sviluppare l'approfondimento necessario per rispondere ai nuovi problemi posti dalla storia. Ma questo approfondimento non può basarsi sulle false analisi propagandate dai settori dell’estrema sinistra dell'apparato politico della borghesia. Solo poggiandosi saldamente sul marxismo e sulle esperienze della Sinistra comunista, particolarmente sull'analisi della decadenza del capitalismo, che i rivoluzionari saranno all'altezza della loro responsabilità.
C.Mcl
1. Poiché, come scrive Marx, "Il capitale suppone dunque il lavoro salariato, il lavoro salariato suppone il capitale. Essi sono la condizione uno dell'altro; si creano reciprocamente". (Lavoro salariato e capitale).
2. Non possiamo, nel contesto di questo articolo, ritornare su ciò che Marx ed i teorici marxisti hanno scritto sulle contraddizioni che generano la generalizzazione del lavoro salariato, e cioè la trasformazione della forza lavoro in merce. Per maggiori precisioni su questi lavori dei marxisti, rinviamo il lettore particolarmente al nostro opuscolo "La decadenza del capitalismo" come ai nostri articoli della Revue Internationale.
3. "Ad un certo grado del loro sviluppo le forze produttive materiali della società entrano in contraddizione coi rapporti di produzione esistenti o, per usare un termine giuridico, con i rapporti di proprietà nel cui ambito si erano mosse fino a quel momento. Da che erano forme di sviluppo delle forze produttive questi rapporti si tramutano in vincoli che frenano tali forze." (Karl Marx, Prefazione di "Introduzione alla critica dell'economia politica")
4. Malauguratamente Lenin non è qui di grande aiuto perché il suo studio sull'imperialismo, per decisivo che sia su certi aspetti dell'evoluzione del capitalismo e della posta in gioco inter-imperialista nella svolta tra il 19° ed il 20° secolo, dà un'importanza smisurata al ruolo del capitale finanziario e sfiora dei processi ben più fondamentali all'epoca come lo sviluppo del capitalismo di Stato (cf. Revue internatiionale n°19 "Sull'imperialismo" e Revue Internationale n°3 e 4 "Capitalismo di Stato e legge del valore"). Capitalismo di Stato che, contrariamente all'analisi di Hilferding-Lenin, restringerà drasticamente il potere della finanza a partire dall'esperienza della crisi del '29 per poi riaprire progressivamente le porte ad una certa libertà a partire dagli anni '80. Ciò che qui è decisivo, è che sono gli Stati-nazione che hanno diretto le cose e non l'internazionale fantasma dell'oligarchia finanziaria che avrebbe imposto il suo diktat una sera del 1979 a Washington.
5. Per convincersene basta immaginare due situazioni limite: in una tutte le macchine sono state distrutte e solo gli uomini rimangono e nell'altra tutta l'umanità è decimata e solo le macchine restano!
6. Del resto il fatto che da un bel po’ i tassi di autofinanziamento delle imprese sono superiori al 100% riduce questa tesi a nulla poiché ciò vuole dire che le imprese non hanno bisogno della finanza per finanziare i loro investimenti.
7. La parte degli stipendi nel valore aggiunto in Europa è passata dal 76% al 68% tra il 1980 ed il 1998 e, dato che le disuguaglianze salariali sono aumentate notevolmente durante lo stesso periodo, ciò significa che la diminuzione dello stipendio medio dei lavoratori è ben più conseguente di quanto lascia intravedere questa statistica.
8. Citiamo, tra l'altro, il testo del BIPR presentato alla prima conferenza dei gruppi della Sinistra comunista; estratto dal paragrafo intitolato "Crisi e decadenza": "Quando questa ha cominciato a manifestarsi il sistema capitalista ha cessato di essere un sistema progressivo, e cioè necessario allo sviluppo delle forze produttive, per entrare in una fase di decadenza caratterizzata da tentativi di risolvere le sue contraddizioni insolubili, dandosi delle nuove forme organizzative da un punto di vista produttivo (…) In effetti, l'intervento progressivo dello Stato nell'economia deve essere considerato come il segno dell'impossibilità di risolvere le contraddizioni che si accumulano all’interno dei rapporti di produzione ed è dunque il segno della sua decadenza".
9. Rinviamo il lettore alla pubblicazione del rapporto del nostro 15° Congresso internazionale sulla crisi economica nel numero 114 della Revue Internazionale che, senza togliere niente al carattere eccezionale del periodo 1950-75, demistifica innanzitutto i tassi di crescita calcolati nel periodo di decadenza e demistifica poi quelli concernenti in particolare il periodo seguito alla Seconda Guerra mondiale che è nettamente sopravvalutato.
10. * "... la teoria della decadenza, come deriva dalle concezioni di Trotsky, di Bilan, del GCF e della CCI, oggi non è più adatta alla comprensione dello sviluppo reale del capitalismo lungo tutto il ventesimo secolo, e particolarmente a partire dal 1945 (…). Per ciò che riguarda i comunisti della prima metà del secolo, ciò può spiegarsi abbastanza facilmente: gli avvenimenti che si succedono su tre decenni, tra il 1914 e 1945, sono tali (…) che sembrano dare credito alla tesi del declino storico del capitalismo e confermare le previsioni fatte; era logico non vedere nel capitalismo che un sistema in putrefazione, all’ultimo respiro e decadente" (Circolo di Parigi in "Che non fare"?, p. 31).
* "Il concetto di decadenza del capitalismo è apparso nella 3a Internazionale, dove è stato sviluppato in particolare da Trotsky (…). Trotsky precisò la sua concezione assimilando la decadenza del capitalismo ad un arresto puro e semplice della crescita delle forze produttive della società. Questa visione sembrava corrispondere abbastanza bene alla realtà della prima metà di questo secolo (…). La visione di Trotsky fu ripresa nell’essenziale dalla Sinistra italiana raggruppata in Bilan prima della 2° guerra mondiale, poi dalla Sinistra Comunista di Francia (GCF), dopo quest’ultima". (Prospettiva Internazionalista "Verso una nuova teoria della decadenza del capitalismo").
* "L'ipotesi di un 'freno irreversibile' delle forze produttive non è che la deduzione, sul piano teorico, di un'impressione generale tramandata dal periodo che lo segna tra due guerre dove l'accumulazione capitalista ha, in modo congiunturale, difficoltà a ripartire". (Comunismo o Civiltà, "Dialettica delle forze produttive e dei rapporti di produzione nella teoria comunista").
* "Dopo la Seconda Guerra mondiale, tanto i trotskisti che i comunisti di sinistra ritornano con la convinzione rinforzata che il capitalismo era decadente e sull'orlo del crollo. Considerando il periodo che esattamente era appena trascorso, la teoria non sembrava così irrealistica, il crac del 1929 era stato seguito dalla depressione durante la maggior parte degli anni '30 ed poi da un'altra guerra catastrofica (…). Adesso, mentre possiamo dire che i comunisti di sinistra hanno difeso le verità importanti dell'esperienza del 1917-21 contro la versione leninista dei trotskisti, il loro oggettivismo economico e la teoria meccanica delle crisi e del crollo, che condividono coi leninisti, li rendono incapaci di rispondere alla nuova situazione caratterizzata da un 'boom' di lunga durata (…). Dopo la Seconda Guerra mondiale il capitalismo entra in uno dei suoi periodi di maggiore espansione, con tassi di crescita non solo più alti di quelli tra le due guerre ma anche più alti di quelli del grande 'boom' del capitalismo classico..." (Auftieben,"Sulla decadenza, teoria del declino o declino della teoria").
11. Leggi "Un'altra vittoria del capitalismo: l’assistenza disoccupazione obbligatoria" in Communisme n°15, giugno 1938; così come "I sindacati operai e lo Stato" nel n°5 della stessa rivista.
12. Delle lotte sociali ci furono durante la guerra, ma anche e soprattutto nell'immediato dopoguerra, date le catastrofiche condizioni di vita. Ma in generale, tranne alcune eccezioni notevoli come nel Nord dell'Italia o nella valle della Ruhr, queste non rappresentavano nessuna minaccia reale per il capitalismo. Queste lotte erano tutte ben inquadrate, controllate e spesso spezzettate dai partiti di sinistra e dai sindacati in nome della necessaria concordia nazionale in vista della ricostruzione.
13. Ciò che è proprio incredibile è che il BIPR pone nella categoria delle "conquiste sociali" anche le "convenzioni collettive" che sono, e non potrebbe essere più chiaro, la codificazione e l'imposizione della pace sociale della borghesia nelle imprese!
Decadenza ed orientamenti per le lotte di resistenza
Il lavoro salariato al centro della crisi da sovrapproduzione
La crisi, un'espressione dell'obsolescenza dei rapporti di produzione capitalista
Ormai da quasi mezzo secolo la classe dominante parla di costruire l’Europa. L’introduzione di una moneta comune – l’euro – è stata presentata come un primo passo fondamentale verso la costruzione degli Stati Uniti d’Europa. Questo processo è a quanto pare ben avviato se si ritiene di allargare l’Unione Europea da 15 a 25 paesi dal primo maggio 2004, mentre l’obiettivo di redigere una costituzione europea è già in atto.
Riuscirà davvero la classe dominante ad andare oltre il limite dell’idea di nazione? Sarà in grado di superare la competizione economica e i suoi antagonismi imperialisti? Saprà davvero porre fine alla guerra economica, e ai conflitti militari che hanno diviso il continente così tante volte? In altre parole, la borghesia sarà capace di offrire l’inizio di una soluzione al problema della divisione del mondo in nazioni in competizione tra loro, divisione che è stata la causa di decine di milioni di morti e che ha insanguinato l’intero pianeta, soprattutto dall’inizio del ventesimo secolo? Proprio la stessa borghesia sarà capace di abbandonare quell’ideologia nazionalista che è alla base della sua esistenza come classe, l’origine stessa di ogni sua legittimazione economica, politica, ideologica ed imperialista?
Ma se le risposte a tutte queste domande sono negative, se gli Stati Uniti d’Europa sono solo un miraggio, allora qual è il significato della costituzione e dello sviluppo dell’Unione Europea? La classe dominante è diventata così masochista da rincorrere qualcosa di impossibile? Perché dovrebbe costruire un castello di carte senza un vero scopo? E’ solo allo scopo di un’illusoria competizione con gli Stati Uniti d’America? O è semplice propaganda?
L’impossibilità di superare lo schema di nazione nella decadenza del capitalismo
Possiamo giudicare l’impossibilità di un progetto simile se prendiamo in considerazione i presupposti per la sua attuazione. Questi presupposti non solo sono del tutto assenti nel progetto attuale, sono semplicemente un’utopia nel contesto storico attuale. Dato che l’esistenza di diverse borghesie nazionali è intimamente legata alla proprietà privata e/o statale che si è storicamente sviluppata nell’ambito della struttura nazionale, qualunque reale unificazione ad un livello più alto implicherebbe togliere potere a queste nazioni. La prospettiva è del tutto irrealistica dato che la creazione di una reale Europa Unita a livello continentale potrebbe avvenire solo attraverso un processo di espropriazione delle diverse frazioni borghesi nazionali in ognuno dei paesi membri. Questo sarebbe necessariamente un processo violento, come lo furono le rivoluzioni borghesi contro l’antico regime feudale o le guerre di indipendenza delle nuove nazioni contro il potere che li teneva sotto tutela, un processo che non può essere sostituito dalla “la volontà politica dei governi” e/o “l’aspirazione popolare a costruire l’Europa”. Durante il 19° secolo, la guerra ha sempre giocato un ruolo primario nel processo di formazione di nuove nazioni, o per eliminare la resistenza interna dei settori reazionari della società, o per attestare le loro nuove frontiere a spese dei vicini. Possiamo perciò facilmente immaginare cosa costerebbe il processo dell’unificazione europea. Questo mette in evidenza quanto l’idea di una pacifica unione di diversi paesi, anche se europei, sia o utopica o ipocrita ed ingannevole. Rendere possibile questa unificazione implicherebbe la comparsa di un nuovo gruppo sociale, portatore di interessi di emancipazione soprannazionali, e capace, attraverso un reale processo rivoluzionario e con l’aiuto di propri mezzi politici (partiti, ecc.) e coercitivi (forze militari, ecc.) di espropriare gli interessi borghesi legati ai diversi capitali nazionali e di imporre loro il proprio potere.
Senza dilungarsi sulla questione nazionale, è chiaro che tutte le nazioni che si sono create dalla guerra del 1914–18 in poi – circa 100 – erano il risultato di problemi nazionali rimasti irrisolti durante il 19°sec. e fino all’inizio del 20°. Erano tutte nazioni nate morte che si dimostrarono incapaci di completare la loro rivoluzione borghese e di iniziare la loro rivoluzione industriale con sufficiente vigore, alimentando così la dinamica della miriade di conflitti che hanno avuto luogo dalla prima guerra mondiale. Solo quei paesi che si sono formati durante il 19° secolo hanno saputo raggiungere un sufficiente grado di coerenza, potere economico, stabilità politica. I sei paesi più potenti di oggi erano già tali, anche se in un ordine diverso, alla vigilia della prima guerra mondiale. Anche gli storici borghesi si accorgono di questo fenomeno, ma esso può essere spiegato davvero solo nell’ambito del materialismo storico.
Perché una nazione si formi su solide fondamenta politiche è necessario che sia fortemente radicata ad una reale centralizzazione della sua borghesia, e questa centralizzazione si forma attraverso una difficile e unificante lotta contro il feudalismo dell’antico regime. Deve avere basi economiche abbastanza solide perché la sua rivoluzione industriale trovi spazio in un mercato mondiale in via di formazione. Queste due condizioni esistevano durante il periodo dell’ascesa del capitalismo, che durò essenzialmente dall’inizio del 18° sec. fino alla prima guerra mondiale. Queste condizioni poi scomparvero e perciò non c’era più la possibilità di far emergere nuovi e fattibili progetti nazionali. Perché allora dovrebbe diventare improvvisamente possibile realizzare oggi ciò che si è dimostrato impossibile durante tutto il 20° secolo? Se nessuna delle nuove nazioni create dalla prima guerra mondiale in poi è stata in grado di raccogliere mezzi adeguati di esistenza, perché dovrebbe improvvisamente diventare possibile la comparsa di un nuovo grande potere – come sarebbero gli Stati Uniti d’Europa?
La terza conseguenza logica dell’ipotesi europea implica l’indebolimento della tendenza verso il peggioramento degli antagonismi imperialisti tra i paesi europei in competizione. Ma come fece notare Marx nella metà del 19° secolo (nel Manifesto Comunista), l’antagonismo tra ogni frazione nazionale della borghesia è una costante: “ La borghesia si trova coinvolta in una costante battaglia. All’inizio con l’aristocrazia; in seguito con quelle porzioni della stessa borghesia i cui interessi diventano antagonisti allo sviluppo dell’industria; sempre con la borghesia dei paesi stranieri”. Mentre le contraddizioni tra la borghesia e i resti del feudalismo o dei suoi settori arretrati sono stati in gran parte superate dalla rivoluzione capitalista, per lo meno nei paesi più sviluppati, al contrario gli antagonismi tra nazioni si sono solo approfonditi durante il 20° secolo. Allora perché dovremmo aspettarci di vedere rovesciarsi questo processo, quando i conflitti tra le varie frazioni della classe dominante si sono inaspriti sempre di più durante l’intero periodo di decadenza?
Invece una caratteristica inequivocabile di un sistema di produzione che entra nel suo periodo di decadenza è l’esplosione di antagonismi tra i settori della classe dominante. Quest’ultima non può più ricavare profitto sufficiente da un rapporto sociale di produzione divenuto obsoleto, e così tende a farlo depredando i suoi rivali. Ciò avvenne durante la decadenza del sistema di produzione feudale (1325-1750) quando alla Guerra dei Cent’Anni seguirono le guerre tra le grandi monarchie assolute europee. “…senza dubbio la violenza era un tratto specifico e permanente della società medioevale. Ma raggiunse una nuova dimensione tra il 13° e il 14° secolo (…) La guerra diventò un fenomeno endemico, alimentato da forti frustrazioni sociali (…) La generalizzazione della guerra era soprattutto l’espressione ultima della disfunzione di una società in preda a problemi che era incapace di padroneggiare. Che così si diede alla guerra per sfuggire dai problemi del momento”. (Guy Bois, La grande dépression médiévale). Questo periodo di decadenza del sistema di produzione medioevale contrasta fortemente con la sua ascesa (1000-1325): “Ancora più chiaramente che durante i tempi del Medioevo, il periodo tra il 1150 e il 1300 vide fasi di pace quasi completa in ampie aree geografiche, grazie alla quale l’espansione economica e demografica non poté che crescere” (P. Contamine, La guerre au Moyen Age). Lo stesso è avvenuto al termine del sistema di produzione retto sulla schiavitù, con lo smembramento dell’Impero Romano e la proliferazione di infiniti conflitti tra Roma e le sue province.
Questo fu anche il caso quando il capitalismo entrò nel suo periodo di decadenza. Per dare un’idea dell’abisso tra le condizioni di esistenza durante l’ascesa del capitalismo e la sua decadenza citiamo Il secolo breve (1994) di Eric Hobsbawm, che illustra molto bene le differenze tra ciò che lui chiama il “lungo 19°” e “breve 20°” secolo: “Come possiamo attribuire un significato al Secolo breve, cioè agli anni che vanno dall’esplosione della prima guerra mondiale fino al collasso dell’Unione Sovietica, i quali, per quanto possiamo ora considerarli retrospettivamente, formano un periodo storico coerente che è giunto al termine? (…) nel Breve 20° secolo sono stati uccisi o lasciati deliberatamente morire più essere umani che mai prima nella storia (…) è stato senza dubbio il secolo più letale di cui abbiamo traccia, sia per proporzioni, frequenza, e durata delle guerre che l’ hanno attraversato (e che a malapena hanno smesso per qualche momento dal 1920) ma anche per l’estensione delle peggiori carestie della storia, e del genocidio sistematico. A differenza del Lungo 19° secolo, che è sembrato essere, e che in effetti è stato, un periodo quasi ininterrotto di progresso materiale, intellettuale e morale, del progresso, in breve, di valori civili, dal 1914 in poi abbiamo visto una regressione notevole di quei valori che erano stati fino allora considerati normali nei paesi sviluppati (…) Tutto questo è cambiato nel 1914 (…) In breve, il 1914 ha inaugurato l’epoca dei massacri (…) in passato le guerre non-rivoluzionarie e non-ideologiche non erano condotte come lotta a oltranza fino alla morte (…) In queste condizioni, perché le potenze in campo fecero della prima guerra mondiale un gioco a somma-zero, in altre parole una guerra che si poteva o vincere totalmente o perdere totalmente? La ragione è che questa guerra, diversamente dai precedenti conflitti i cui obiettivi erano limitati e specifici, fu combattuta per fini illimitati (…) Questo fu un gioco assurdo e auto-distruttivo, che rovinò vinti e vincitori. Che trascinò i primi in una rivoluzione e i secondi nella bancarotta e nell’esaurimento fisico (…) la guerra moderna coinvolge tutti i cittadini e ne mobilita la maggior parte; è portata avanti con armi che richiedono l’impegno produttivo di tutta l’economia e che sono usate in quantità inimmaginabile; causa distruzioni colossali, ma anche domina e trasforma ogni aspetto della vita dei paesi coinvolti. Tutti questi fenomeni sono caratteristici delle guerre del 20° secolo (…) La guerra ha incoraggiato la crescita economica? In un senso, chiaramente no”.
L’entrata del capitalismo nel suo periodo di decadenza ha reso da allora in poi impossibile la comparsa di nuove nazioni capaci di un reale sviluppo. La relativa saturazione di mercati solvibili – in rapporto agli enormi bisogni di accumulazione creati dallo sviluppo delle forze produttive – che è la base della decadenza del capitalismo, impedisce ogni soluzione “pacifica” alle sue contraddizioni insormontabili. Questo è il motivo per cui le guerre commerciali tra le nazioni e lo sviluppo dell’imperialismo sono andate solo aumentando. In questo contesto, le nazioni che sono arrivate tardi sullo scenario mondiale sono incapaci di superare la loro arretratezza: anzi, il distacco con i paesi più avanzati tende inesorabilmente ad allargarsi.
L’Europa non si è formata come entità nazionale prima dell’inizio dello scorso secolo, in un’epoca pur favorevole alla comparsa di nuove nazioni, perché mancavano le pre-condizioni per questa unità; da allora è stato impossibile crearle. Per di più, nell’attuale e finale fase di decadenza, la fase della decomposizione della società capitalistica,1 non solo le condizioni per il sorgere di nuove nazioni sono ancora più sfavorevoli, ma anzi la tendenza crescente è alla lacerazione di nazioni già esistenti ma meno coese (l’Unione Sovietica, la Iugoslavia, la Cecoslovacchia, ecc.) e all’ inasprimento delle tensioni perfino all’interno dei paesi più forti e più stabili (vedi il paragrafo sull’Europa nel periodo di decomposizione).
Un parallelo storico: le monarchie assolute.
Dovremmo sorprenderci per questo processo verso l’unificazione europea nel mezzo della decadenza del capitalismo? E’ un segno che il sistema di produzione capitalistica ha riscoperto il suo antico vigore, o che sta resistendo alla sua decadenza? Più in generale, possiamo osservare fenomeni analoghi durante il declino delle società precedenti, e se così è, qual è stato il loro significato?
La decadenza del modo di produzione feudale è interessante da questo punto di vista, poiché essa fu testimone della formazione delle grandi monarchie assolute che sembrarono andare oltre i feudi sparsi così caratteristici del modo di produzione feudale. Durante il 16° secolo compare in occidente lo Stato assolutista. Le monarchie centralizzate rappresentarono una rottura decisiva con la dispersa sovranità piramidale delle formazioni sociali medioevali. Questa centralizzazione del potere monarchico fece sviluppare una forza militare e una burocrazia permanenti, una tassazione nazionale, una legislazione codificata, e l’inizio di un mercato unificato. Sebbene tutti questi elementi possano apparire come caratteristici del capitalismo, tanto più che coincisero con la scomparsa della servitù della gleba, essi rimangono ciò nonostante un’espressione del declino del feudalismo.
Infatti, l’“unificazione nazionale” portata avanti a vari livelli dalle monarchie assolute non andò oltre la struttura geo-storica del Medio Evo, mentre esprime piuttosto il fatto che quest’ultima era diventata troppo limitata per contenere il continuo sviluppo delle forze produttive. Gli stati assolutistici rappresentarono una forma di centralizzazione dell’aristocrazia feudale, rafforzando il suo potere per resistere alla decadenza del sistema di produzione feudale. Proprio la centralizzazione del potere è un’altra caratteristica della decadenza di ogni sistema di produzione – di solito attraverso un rafforzamento dello Stato che rappresenta gli interessi collettivi della classe dominante - allo scopo di offrire una più solida resistenza alle crisi rovinose del loro declino storico.
Possiamo trovare un’analogia con la formazione dell’Unione Europea, e più in generale con ogni accordo economico regionale in tutto il mondo. Sono tentativi di andare oltre la struttura troppo stretta della nazione per riuscire ad affrontare il peggioramento della competizione economica nella decadenza del capitalismo. La borghesia è perciò attanagliata da una parte dalla necessità sempre più forte di superare la struttura nazionale per difendere meglio i propri interessi economici, e dall’altra dalle fondamenta nazionali del suo potere e della sua proprietà.
L’Europa non è in nessun modo un superamento di questa contraddizione, ma un’espressione della resistenza della borghesia alle contraddizioni della decadenza del suo stesso sistema di produzione. Quando Luigi XIV invitò i grandi del regno a spostarsi presso la sua corte a Versailles, questo non fu per il loro piacere ma piuttosto per tenerli sotto sorveglianza e per impedire loro di complottare nelle loro province. In qualche modo, i calcoli strategici all’interno dell’Unione Europea non sono dissimili: la Francia preferisce tener legata la Germania all’Europa e il marco tedesco fuso nell’Euro, piuttosto che vedere la Germania libera di dare corso alle sue inclinazioni storiche a espandersi nell’Europa Centrale, dove il Deutschmark era già la valuta di riferimento; l’Inghilterra, dopo aver tentato di fondare l’EFTA in competizione con la CEE, ora preferisce unirsi al club per influenzare o perfino sabotare le politiche dell’Unione, piuttosto che trovarsi isolata nella sua isola; mentre la Germania preferisce avanzare sotto la copertura della finzione europea per sviluppare le sue reali ambizioni imperialiste di futuro leader di un blocco capitalistico capace di rivaleggiare con quello degli Stati Uniti.
L’Europa è una creazione dell’imperialismo per gli scopi della Guerra Fredda
Le radici della formazione della Comunità Europea vanno ricercate nello sviluppo della guerra fredda subito dopo la Seconda Guerra Mondiale. Destabilizzata dalla crisi economica e dalla disorganizzazione sociale, l’Europa era una preda potenziale per l’imperialismo sovietico e fu sostenuta dagli Stati Uniti allo scopo di costituire un baluardo contro l’avanzata del blocco orientale. Si ottenne questo grazie al Piano Marshall che fu proposto a tutti i paesi europei nel giugno del 1947. Allo stesso modo, la formazione della Comunità Europea per il Carbone e l’Acciaio corrispondeva al bisogno di rafforzare l’Europa nel contesto del drammatico aggravamento delle tensioni tra est e ovest con lo scoppio della guerra in Corea. La creazione della CEE nel 1957 completò questo rafforzamento del blocco occidentale sul continente. Questo sviluppo dell’Europa, essenzialmente a livello economico e militare attraverso la presenza delle truppe e delle armi della NATO, dimostra che lungi dal rappresentare la riscoperta della pace, l’Europa rimane il teatro principale del conflitto inter-imperialista, così come è sempre stata durante la storia del capitalismo.
Al contrario della propaganda della classe dominante, la pace che regna in Europa dalla fine della Seconda Guerra Mondiale non è stata la conseguenza di un processo di unificazione europea, non di una pace a cui siano alla fine giunti i rivali storici, ma la congiuntura di tre fattori economici, politici e sociali. Per cominciare, il contesto della ricostruzione economica, combinato con le misure keynesiane post-belliche, permise al capitalismo di prolungare la sua sopravvivenza senza essere costretto a ricorrere a un terzo conflitto mondiale nel breve termine, come era avvenuto tra la prima e la seconda guerra mondiale, quando dopo solo dieci anni di ricostruzione tra il 1919 ed il 1929 scoppiò nel ’29 la crisi più seria di sovrapproduzione mai avvenuta, e che continuò fino alla vigilia della seconda guerra mondiale. In seguito il nuovo contesto della Guerra Fredda vide fronteggiarsi due blocchi imperialisti continentali (la Nato e il Patto di Varsavia); gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, i rispettivi leader, furono temporaneamente in grado di spostare verso la periferia il loro confronto diretto. Questo non impedì ai conflitti locali avutisi tra il 1945 e il 1989 di provocare più vittime di quanto avessero fatto tutte le battaglie della Seconda Guerra Mondiale! Infine, il fatto che il proletariato non fosse ideologicamente preparato a combattere una guerra in seguito alla sua ricomparsa sulla scena storica nel 1968, sbarrò la strada al bellicismo dei due blocchi imperialisti proprio nel momento in cui diventava sempre più urgente per loro aprire le ostilità per la riapparizione della crisi economica.
L’Europa, un guscio vuoto e colpi bassi politici
In un contesto largamente favorevole, gli Stati europei hanno saputo raggiungere accordi essenzialmente su questioni economiche: l’Organizzazione per la cooperazione economica europea (OCEE), la Comunità europea per il carbone e l’acciaio, la Politica Agricola Comune, la creazione di una Value Added Tax europea, il Mercato Comune, e il Sistema Monetario Europeo ne sono tutti degli esempi.
Per contro, l’incomprensione politica è sempre stata una costante della politica della CEE e dell’Unione europea, a cominciare dalla questione tedesca subito dopo la sconfitta bellica della Germania. La Francia voleva una Germania debole e disarmata. Gli Stati Uniti, per le necessità della guerra fredda, imposero la ricostituzione di una Germania forte, in grado di riarmarsi, il che portò alla creazione della Repubblica Federale tedesca nel 1949. Nel 1954, la Francia si rifiutò di ratificare la Comunità di difesa europea nonostante che il trattato fosse già stato firmato nel 1952 dai suoi cinque partner sotto la pressione americana. Il Regno Unito, che non era voluto entrare nella CEE creata nel 1957, cercò di costruire una più ampia zona commerciale libera che incorporasse tutti i paesi dell’OCEE, che includesse il Mercato Comune e che così lo privasse della sua specificità. Quando la Francia rifiutò, gli inglesi si unirono agli altri paesi europei per creare l’Associazione del libero commercio europeo (EFTA) con il trattato di Stoccolma del 20 novembre 1959. In due occasioni, nel 1963 e nel 1967, la Francia rifiutò la candidatura dell’Inghilterra ad entrare nella CEE perché ne vedeva un cavallo di Troia americano. Nel 1967, la Francia ancora una volta provocò una seria crisi che durò sei mesi con la sua politica della “sedia vuota”; finì con un compromesso che permise all’Europa di sopravvivere, ma solo dopo aver stabilito la regola dell’unanimità per tutte le decisioni più importanti. Quando la Gran Bretagna alla fine entrò nella CEE nel gennaio 1973, non esitò a porre il veto ai lavori comunitari in numerose occasioni, a cominciare da una rinegoziazione del trattato di adesione un anno dopo, delle modifiche al PAC, una rinegoziazione del contributo britannico al bilancio europeo (il famoso “rivoglio indietro i miei soldi” di Margaret Thatcher) , il rifiuto di aderire alla moneta comune, ecc. Più recentemente, il disaccordo sulla data per iniziare i negoziati sull’entrata della Turchia nella UE ha rivelato le divisioni europee a livello delle politiche imperialiste: la Francia è apertamente ostile ad un paese che è sempre stato molto vicino alla Germania e agli Stati Uniti. Questi ultimi hanno esercitato pressioni fortissime perché la Turchia fosse accettata come futura candidata, sia direttamente, con telefonate presidenziali ai leader europei, sia indirettamente attraverso la pressione inglese, con la strategia sottintesa e quasi ammessa che più l’Europa si allarga, meno sarà capace di integrazione politica e soprattutto di sviluppare una politica e una strategia comuni nell’arena internazionale.
L’assenza completa di una politica estera comune o degli strumenti di questa politica (un esercito integrato), l’assenza di un bilancio europeo sostanziale (appena 1.27% del PIL europeo!) a livello dei bilanci nazionali, e la quota completamente sproporzionata di agricoltura nel budget europeo (di cui quasi metà è destinata a un settore che rappresenta non più del 4-5% del valore aggiunto annuale europeo), ecc., tutto dimostra abbastanza chiaramente che mancano gli attributi fondamentali di un reale stato europeo sopranazionale, o che laddove esistono, mancano di vero potere o autonomia. Il funzionamento politico dell’Unione Europea è una semplice caricatura tipica del sistema di funzionamento della borghesia nel periodo della decadenza: il parlamento non ha potere, il centro di gravità della vita politica è monopolizzato dal potere esecutivo, il Consiglio dei ministri, al punto che la stessa borghesia si preoccupa regolarmente della “ mancanza di legittimazione democratica”!
Questo non sorprende, in quanto la strategia politica europea era già condizionata, e inevitabilmente incappò nei limiti imposti dalla disciplina del blocco degli Stati Uniti durante la guerra fredda. Questa strategia aveva scarsa consistenza allora, ma ne ha avuta ancor meno dopo il crollo del Muro di Berlino che ha segnato la scomparsa dei due blocchi. Da allora, non c’è quasi nessun punto di politica estera su cui l’Europa sia stata capace di definire una posizione comune. E’ stata divisa tra visioni diverse e perfino opposte su Medio Oriente, Guerra del Golfo, il conflitto in Iugoslavia e in Kosovo, ecc. Lo stesso vale, forse ancora di più, per il progetto di costituire un esercito europeo. Mentre alcuni (Francia e Germania per esempio) spingono per una maggiore integrazione, compresa una maggiore indipendenza verso le restanti strutture militari della NATO, altri (l’Inghilterra e l’Olanda, per esempio) vogliono restarne all’interno.
L’Europa: un accordo essenzialmente economico
Se la formazione degli Stati Uniti d’Europa è un’illusione, se una vera integrazione europea ad ogni livello è un miraggio, se le origini della relativa unificazione europea hanno radici sulle esigenze della guerra fredda, qual è allora il significato della volontà politica di rafforzare oggi queste strutture?
Come abbiamo visto, la nascita e il potenziamento della Comunità Europea sono stati all’inizio soprattutto l’espressione del bisogno di contrastare l’espansionismo sovietico in Europa. Sebbene sia stata creata per i bisogni imperialistici del blocco americano, e perfino utile all’espansione economica di quest’ultimo (come è stato anche per il Giappone e i “nuovi paesi industrializzati”), a poco a poco è diventata un serio rivale economico per gli Stati Uniti, incluso nel settore della alta tecnologia (Airbus, Arianespace, ecc.). Questo è uno dei risultati della competizione economica durante la guerra fredda. Fino alla caduta del Muro di Berlino, l’integrazione europea è stata essenzialmente economica. Cominciando con una zona di libero commercio interno per le merci, per passare a un’unione doganale contro gli altri paesi, per diventare poi un mercato comune per i beni, i capitali e la manodopera, l’Europa alla fine ha coronato questa integrazione disponendo regolamenti politici. Lo scopo di questa integrazione economica è stato dall’inizio il rafforzamento della posizione europea nel mercato mondiale. La creazione di un mercato più vasto che permettesse economie di scala doveva offrire un trampolino per sostenere le compagnie europee di fronte alla competizione straniera, in particolare quella americana e giapponese. La stessa creazione del Single Act nel 1985-86 nacque in seguito alla valutazione completamente negativa della situazione economica europea: l’Europa aveva sofferto i dieci anni di crisi più del Giappone e degli Stati Uniti.
L’Europa di fronte al collasso e la decomposizione dei blocchi
Dall’inizio degli anni ’80, il capitalismo è stato caratterizzato da una situazione in cui le due classi fondamentali ed antagoniste nella società si confrontavano e si opponevano senza che nessuna fosse capace di imporre la sua alternativa. Comunque, per la vita sociale sotto il capitalismo sopportare un “congelamento” o una “stagnazione” è ancor meno possibile che per tutti gli altri sistemi di produzione che l’ hanno preceduto. Mentre le contraddizioni di un capitalismo in crisi vanno peggiorando costantemente, l’incapacità della borghesia di offrire la pur minima prospettiva all’insieme della società, e l’incapacità del proletariato di far prevalere la sua può solo portare al fenomeno di una decomposizione generalizzata, con la società che marcisce sui suoi piedi. Il collasso del blocco orientale nel 1989 è stato solo il più spettacolare di una serie di espressioni inequivocabili del fatto che il sistema di produzione capitalistica è entrato nella fase finale della sua esistenza.
E’ così anche per il serio aggravamento delle convulsioni politiche dei paesi periferici che sempre più impedisce alle grandi potenze di appoggiarsi su di loro per mantenere l’ordine regionale, costringendole così ad intervenire sempre più direttamente in confronti militari. Questo era già visibile negli anni ’80 nella situazione del Libano, e ancor più in Iran. Specie in Iran gli avvenimenti raggiunsero una dimensione prima sconosciuta: un paese appartenente a un blocco, anzi un membro importante di un’alleanza militare, che sfugge ampiamente dal suo controllo senza cadere sotto il dominio del blocco avversario. Questo non fu dovuto ad un indebolimento del blocco nel suo insieme, e neanche a una decisione di questo paese di migliorare la posizione del suo capitale nazionale – piuttosto il contrario, dato che questa politica lo condusse a un disastro economico e politico. Infatti, dal punto di vista degli interessi del capitale nazionale, non c’era nessuna razionalità – neanche una razionalità illusoria – nello sviluppo della situazione in Iran. Ciò che illustra meglio questo è la presa del potere da parte del clero, uno strato della società che non aveva mai avuto nessuna competenza nella gestione degli affari politici o economici del capitalismo. L’ascesa e la vittoria dell’integralismo islamico in un paese relativamente importante sono già dei primi segni di una fase di decomposizione, e da allora questo è stato solo confermato dallo sviluppo di questo fenomeno in vari paesi.
Qui vediamo la comparsa di fenomeni che attestano un cambiamento qualitativo nell’espressione delle classiche caratteristiche della decadenza capitalistica.
Storicamente le classi dominanti diventate obsolete sviluppano sempre una serie di meccanismi e di strutture per affrontare le forze che minacciano il loro potere (crescenti crisi economiche e conflitti militari, il disordine del corpo sociale, la decomposizione dell’ideologia dominante, ecc.). Per la borghesia questi meccanismi sono il capitalismo di Stato, un crescente controllo totalitario della società civile, la sottomissione dei diversi strati della borghesia a un superiore interesse nazionale, la formazione di alleanze militari per affrontare la competizione internazionale, ecc.
Finché la borghesia è in grado di controllare l’equilibrio delle forze sociali, l’espressione delle caratteristiche della decomposizione di ogni sistema di produzione può essere contenuta entro certi limiti compatibili con la sopravvivenza del sistema. Invece durante la fase di decomposizione queste caratteristiche persistono e sono peggiorate da una crescente crisi generalizzata, e l’incapacità della borghesia di imporre la sua soluzione o della classe operaia di mettere avanti la sua prospettiva lascia il campo libero a ogni genere di forze sociali e politiche disgreganti – all’esplosione dell’ognuno per sé: “Elementi di decomposizione si possono trovare in tutte le società decadenti: il disordine del corpo sociale, il disfacimento delle sue strutture politiche, economiche e ideologiche, ecc. Lo stesso è stato per il capitalismo dall’inizio del suo periodo decadente (…) in una situazione storica in cui la classe operaia non è ancora in grado di dare battaglia per la sua unica prospettiva “realistica” – la rivoluzione comunista – ma in cui neppure la classe al potere sa proporre una sua pur minima prospettiva, neanche a breve tempo, allora la precedente capacità di quest’ultima di limitare e controllare i fenomeni di decomposizione durante il periodo di declino può solo collassare sotto i colpi ripetuti della crisi” (Rivista internazionale n° 14, “Decomposizione, la fase finale della decadenza del capitalismo”). La storia mostra che quando la società è in preda alle sue contraddizioni senza essere capace di risolverle, cade in caos crescente, in lotte senza fine tra Signori della guerra. L’immagine della decomposizione è quella di un caos crescente e del ciascuno per sé. Una delle maggiori espressioni della decomposizione del capitalismo sta nell’incapacità crescente della borghesia di controllare la situazione politica su tutta una serie di livelli: la disciplina tra le diverse frazioni, la disciplina dei suoi appetiti imperialistici, ecc. L’incapacità del sistema di produzione capitalista di offrire la minima prospettiva alla società porta inevitabilmente ad una crescente tendenza ad un caos generalizzato.
La fine degli anni ’80 doveva confermare questa diagnosi nel più spettacolare dei modi. La disintegrazione del blocco orientale e dell’Unione Sovietica, la morte dello stalinismo, la minaccia di smembramento della stessa Russia, seguite subito dopo dalla Guerra del Golfo hanno manifestato in modo inequivocabile le caratteristiche di un modello di produzione in disfacimento: l’esplosione dell “ognuno per sé”, la distruzione della coesione sociale e il caos crescente.
E’ all’interno di questo contesto che dobbiamo capire la riorganizzazione della politica europea durante gli anni ’90. La direzione fino ad allora essenzialmente economica dell’integrazione europea prese una svolta più politica dopo il crollo del Muro di Berlino. Nel dicembre 1989 il Summit di Strasburgo accelerò il processo di instaurazione dell’Euro e invitò i paesi dell’est ad un tavolo negoziale. A questo punto fu chiaramente deciso che nuovi membri sarebbero stati integrati in futuro, e furono immediatamente messi in atto i mezzi materiali per raggiungere questo scopo: la creazione di una Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo (EBRD) nel maggio del 1990, investimenti in vari campi, programmi di cooperazione, ecc. Il carattere essenzialmente geo-strategico di questo allargamento dell’Europa verso i paesi dell’est fu dimostrato dal fatto che i benefici economici dell’operazione si rivelarono inesistenti o perfino negativi, come per esempio l’integrazione della Germania dell’est nella Repubblica Federale. La media del Prodotto interno lordo per abitante dei 10 paesi candidati non è neanche la metà di quella dei 15 stati europei. L’integrazione commerciale è profondamente asimmetrica. Mentre il 70% delle esportazioni dei paesi dell’Europa Orientale e Centrale è destinato all’Unione Europea, i primi assorbono solo il 4% delle esportazioni dei secondi. I paesi orientali sono perciò estremamente sensibili alla situazione economica dell’Europa occidentale, mentre non è vero il contrario. Un ulteriore motivo di vulnerabilità sta nel fatto che c’è un deficit commerciale strutturale in tutti gli stati dell’Europa centro-orientale, che li lascia molto dipendenti dall’influsso del capitale straniero. L’occupazione è diminuita del 20% nella regione dal 1990 e molti paesi sono ancora afflitti da serie difficoltà economiche.
Le ragioni reali per l’inserimento dei nuovi candidati a membri dell’UE devono essere cercate altrove. La prima è essenzialmente imperialista. Quello che è in palio è la distribuzione di ciò che rimane del defunto blocco orientale. La seconda è una conseguenza della stessa decomposizione: è stato vitale per l’Europa ristabilire una zona cuscinetto relativamente stabile nelle sue frontiere orientali per tenere lontano il contagio del caos economico e sociale risultato dalla disintegrazione del blocco orientale. Da questo punto di vista è significativo che i principali nuovi paesi membri siano i meno poveri economicamente e i più vicini geograficamente all’Europa occidentale (Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Slovenia), mentre i tre stati baltici (Estonia, Lettonia e Lituana) hanno ridotto l’accesso della Russia al Mar Baltico. In effetti, la politica europea verso l’Europa orientale è il risultato della sovrapposizione di due obiettivi imperialistici. Da una parte l’Europa, con in testa la Germania, contende il possesso di ciò che rimane del blocco orientale agli Stati Uniti. Lo scopo dell’Unione Europea è di inglobare nel suo campo quanti più paesi dell’Europa centrale e orientale possibile, inclusa alla fine la stessa Russia, che nonostante l’ancoraggio attuale con gli Stati Uniti, ha nella Germania il suo principale partner commerciale. Dall’altra parte la Francia è ugualmente interessata a che l’espansione europea verso est sia portata avanti dall’Unione Europea e non da una Germania autonoma alla riscoperta dei suoi riflessi inter-war. Da parte sua, la Germania è pronta ad accettare questa strategia poiché così può portare avanti le sue propensioni imperialistiche di nascosto, non essendo ancora apertamente pronta ad assumere il ruolo di comando di un nuovo blocco opposto agli Stati Uniti.
Il significato dell’Euro
La fase della decomposizione e del collasso dei blocchi imperialisti ci offre il contesto per capire la creazione della moneta unica. Le sue fondamenta sono quadruplici:
La prima è geo-strategica. Le borghesie della Francia e della Germania hanno un interesse nell’impedire che l’alleanza franco-tedesca ceda sotto le pressioni di interessi imperialistici divergenti. Da una parte, la Francia teme una Germania unificata che possiede un campo di espansione verso est mentre la Francia non ne ha di equivalenti. La Francia è riuscita ad assicurarsi che la valuta nei paesi dell’est non sarà il marco tedesco, il che l’avrebbe esclusa economicamente da quella zona. Dall’altra, la politica della Germania dal 1989 è stata di agire sotto la copertura europea per nascondere i suoi interessi imperialistici. Ha tutto l’interesse di associarsi alla Francia e in second’ordine agli altri paesi europei nella sua politica espansionistica. E’ diventato normale sentir dire da membri della borghesia tedesca che “la Germania è riuscita a fare con l’economia quello che Hitler voleva fare con la guerra”!
La seconda è la necessità di resistere alle forze distruttive della crisi, profondamente amplificate dai fenomeni tipici della fase di decomposizione. Creando l’Euro, l’Europa ha fatto cessare la destabilizzazione speculativa di cui ha sofferto molte volte in passato (la speculazione contro la lira, il distacco forzato della sterlina inglese dallo SME, ecc.). Già nel 1979, la creazione del Sistema Monetario Europeo (SME) fu un tentativo di creare un paniere di valute che fosse più stabile nei confronti del dollaro e dello yen, per proteggere così l’Europa dall’anarchia monetaria che attualmente danneggia essenzialmente i paesi che sono alla periferia del capitalismo. Questa è una delle principali differenze con la crisi del ’29, di cui soffrirono prima gli Stati Uniti e poi i paesi europei. Sebbene le radici della crisi di sovrapproduzione, sia negli anni ’30 sia oggi, siano dentro i paesi capitalisti avanzati, nella crisi attuale questi ultimi sono riusciti finora a spostare i suoi maggiori effetti verso la periferia. Mentre a livello di tensioni inter-imperialistiche le forze centrifughe stanno sfuggendo da ogni genere di disciplina, a livello economico la borghesia è ancora capace di un minimo di cooperazione in ciò che rappresenta la vera essenza del suo dominio come classe: l’estrazione di plusvalore. Così, al contrario degli anni ’30, in campo economico la classe dominante è stata capace di coordinare i suoi sforzi per moderare i ripetuti crolli di mercato e limitare gli effetti più devastanti della crisi e della decomposizione.
Il terzo fondamento è sia economico che imperialista. Tutte le borghesie europee vogliono un’Europa forte in grado di competere a livello internazionale, specie con America e Giappone. Questo bisogno è sentito ancora di più in quanto i paesi europei hanno l’ambizione di portare nella loro sfera di influenza i paesi dell’est, inclusa la Russia, e questo sarebbe molto più difficile se le loro economie fossero dipendenti dal dollaro.
La quarta ragione è puramente tecnica: l’eliminazione dei costi di scambio di valuta dentro l’Europa, e dell’incertezza legata alla fluttuazione dei cambi (inclusi i costi per la protezione delle valute). Dato che la maggior parte del commercio dei paesi europei avviene con altri paesi europei, la sopravvivenza di diverse monete nazionali aumentava i costi di produzione rispetto agli Stati Uniti e al Giappone. La moneta unica è da questo punto di vista il naturale prolungamento dell’integrazione economica. C’erano sempre meno ragioni economiche per conservare le diverse valute nazionali in un mercato in cui i regolamenti sulle tasse e sul commercio sono stati largamente unificati.
L’Europa è la base di un nuovo blocco imperialista?
Creata come postazione avanzata in Europa del blocco imperialista americano, la CEE è diventata progressivamente una grossa entità economica in competizione con gli Stati Uniti. E’ rimasta comunque dominata politicamente da questi ultimi lungo tutto il periodo della guerra fredda e fino al crollo del Muro di Berlino. Con la scomparsa nel 1989 dei due blocchi imperialisti, l’Europa si è trovata ancora una volta al centro di appetiti rivali. Fino ad allora, paradossalmente, le configurazioni e gli interessi geo-strategici delle potenze imperialiste avevano spinto non verso una disgregazione, ma verso una maggiore integrazione dell’Europa!
A livello economico, tutte le borghesie europee sostengono il progetto di costruire un grande mercato unificato per competere con gli americani e i giapponesi. A livello di difesa dei propri interessi imperialistici, abbiamo visto come ognuna delle tre grandi potenze europee giochi le sue carte in antagonismo con le altre due. E alla fine, gli stessi americani stanno incoraggiando l’allargamento dell’Europa, ben sapendo che più integrerà componenti eterogenee e orientamenti imperialistici, meno saprà giocare un ruolo sulla scena internazionale.
Quando allora guardiamo più da vicino, non possiamo farci ingannare dal cammino dell’integrazione europea oggi. Ogni componente del processo vi prende parte solo per i propri temporanei interessi e calcoli imperialistici. Il consenso a favore dell’allargamento dell’Unione Europea è strutturalmente fragile, perché è basato su fondamenta molto eterogenee e divergenti che potrebbero dare come risultato un cambiamento nella configurazione dell’equilibrio di forze sulla scena internazionale. Nessuna delle basi dell’esistenza dell’Europa oggi giustifica la conclusione che essa già formi un blocco imperialista rivale di quello americano. Quali sono le ragioni principali che ci portano a dire questo?
1. Diversamente da un coordinamento economico basato su un contratto tra borghesie sovrane, quale è oggi l’Europa, un blocco imperialista è una camicia di forza imposta su un gruppo di stati dalla supremazia militare di una nazione dominante, e accettata a causa di un desiderio comune di resistere a una minaccia esterna o per distruggere un’alleanza militare opposta. I blocchi della guerra fredda non erano il risultato di lunghi negoziati ed accordi come è stata l’Unione Europea: essi erano la conseguenza dell’equilibrio militare tra le potenze stabilito sul campo dopo la sconfitta della Germania. Il blocco occidentale nacque perché l’Europa occidentale e il Giappone erano occupati dagli Stati Uniti, mentre il blocco orientale nacque in seguito all’occupazione da parte dell’Armata Rossa dell’Europa orientale. Allo stesso modo, il blocco orientale non è collassato a causa di cambiamenti nei suoi interessi economici o nelle sue alleanze commerciali, ma perché il suo leader, che assicurava la coesione del blocco con la forza delle armi, non fu più capace di mantenere la sua autorità con i carri armati come aveva fatto durante la rivolta in Ungheria nel 1956, o in Cecoslovacchia nel 1968. Il blocco occidentale è morto semplicemente perché il suo nemico comune era scomparso, e con esso il cemento che l’aveva tenuto insieme. Un blocco imperialista è sempre un matrimonio d’interesse, mai d’amore. Come scrisse una volta Winston Churchill, le alleanze militari non nascono per amore, ma per paura: la paura per un nemico comune.
2. Più fondamentalmente, l’Europa storicamente non ha mai formato un blocco omogeneo ed è sempre stata divisa da appetiti in conflitto: l’Europa e il Nord America sono i due centri del capitalismo mondiale. Gli USA, quale potenza dominante nell’America del Nord, era destinata a diventare, per le sue dimensioni continentali, la sua collocazione a distanza di sicurezza da potenziali nemici in Europa e in Asia, la sua forza economica, la potenza dominante del mondo. Come scrivemmo nel 1999: La posizione economica e strategica dell’Europa, al contrario, l’ ha condannata a diventare a rimanere il centro focale delle tensioni imperialistiche nel capitalismo in declino. Campo di battaglia principale di entrambe le guerre mondiali, continente diviso dalla cortina di ferro durante la guerra fredda, l’Europa non ha mai costituito un’unità, e sotto il capitalismo non lo sarà mai. A causa del suo ruolo storico di luogo di nascita del capitalismo moderno, e della sua posizione geografica di semi-penisola tra Asia e nord dell’Africa, l’Europa è diventata nel 20°secolo l’elemento chiave nella lotta imperialistica per il controllo del mondo. Allo stesso tempo, non meno della sua situazione geografica, l’Europa è particolarmente difficile da dominare da un punto di vista militare. La Gran Bretagna, anche nei tempi in cui “dominava i mari”, doveva accontentarsi di controllare l’Europa attraverso un complicato sistema di “equilibrio di forze”. Il dominio sul continente da parte della Germania di Hitler, perfino nel 1941, era più apparente che reale, con l’Inghilterra, la Russia ed il Nord Africa in mano ai nemici. Perfino gli Stati Uniti, nel pieno della guerra fredda, non riuscirono a dominare più della metà del continente. Ironicamente, dopo la “vittoria” sull’URRS, la posizione degli Stati Uniti si è parecchio indebolita per la scomparsa dell’“impero del male”. Sebbene la maggiore potenza mondiale mantenga una considerevole presenza militare nel continente, l’Europa non è un’area sottosviluppata che si possa tenere sotto il controllo di una manciata di caserme: quattro dei paesi industriali più avanzati sono europei (…) se oggi l’Europa è il centro delle tensioni imperialistiche, è soprattutto perché le stesse principali potenze europee hanno interessi militari divergenti. Non dobbiamo dimenticare che le due guerre mondiali cominciarono come guerre tra potenze europee – così come le guerre nei Balcani degli anni ’90” (“Rapporto sui conflitti imperialisti” dal 13° Congresso della CCI”, su Révue Internazionale n. 98).
3. Il marxismo ha già mostrato che i conflitti e gli interessi imperialisti non coincidono necessariamente con gli interessi economici. Mentre le due guerre mondiali opposero in effetti due poli che potevano avanzare delle pretese nell’egemonia economica, non fu più così durante la guerra fredda quando il blocco occidentale raggruppava tutte le maggiori potenze economiche contro un blocco orientale economicamente debole, la cui intera forza era basata sulla potenza atomica dell’URRS. Eurolandia illustra perfettamente che gli interessi strategici imperialisti non sono identici agli interessi commerciali mondiali degli stati nazionali. La Francia e la Germania, le due nazioni che hanno rappresentato la forza motrice dell’Europa, si sono fatte guerra tre volte in 150 anni, mentre fin dai tempi di Napoleone la Gran Bretagna ha sempre cercato di mantenere delle divisioni nell’Europa continentale: “L’economia dei Paesi Bassi, per esempio, ha una forte dipendenza dal mercato mondiale in generale, e dall’economia tedesca in particolare. Questo è il motivo per cui questa regione è sempre stata una sostenitrice tra le più ferventi in Europa della politica tedesca in favore della moneta comune. A livello imperialista, invece, la borghesia olandese, proprio a causa della sua vicinanza geografica alla Germania, si oppone come può agli interessi del suo potente vicino, e rappresenta uno degli alleati più fedeli agli Stati Uniti nel vecchio continente. Se l’Euro diventasse la base principale di un futuro blocco tedesco, l’Aja sarebbe la prima ad opporvisi. Ma in realtà l’Olanda, la Francia ed altri paesi che temono il ritorno dell’imperialismo tedesco sostengono la moneta comune proprio perché non minaccia la loro sicurezza nazionale, per esempio la loro sovranità militare” ( ibidem).
Date le rivalità imperialistiche tra le stesse nazioni europee, e dato il fatto che oggi l’Europa è proprio il centro delle tensioni inter-imperialiste del pianeta, è difficilmente realistico supporre che l’interesse economico da solo possa saldare insieme i paesi europei. Questo è tanto più vero perché mentre l’Europa è integrata a livello economico, non lo è a livello politico e ancor meno a livello di politica militare o estera. Come sarebbe possibile supporre che Eurolandia possa già essere un blocco imperialista opposto agli Stati Uniti, se non possiede neanche due attributi essenziali di un blocco imperialista: un esercito e una strategia imperialista? I fatti dimostrano ogni giorno che un’Europa unita è un’utopia, come possiamo vedere in particolare nel dissenso tra i suoi paesi membri e l’incapacità di influenzare la risoluzione di conflitti internazionali perfino quando questi avvengono alle loro porte, come in Iugoslavia.
1 Vedi “La decomposizione, fase ultima della decadenza del capitalismo”, su Rivista Internazionale n. 14
Per parecchie settimane, il proletariato in Europa ha subito la frenesia mediatica delle consultazioni elettorali. Con il suo cinismo abituale la borghesia, che controlla l'insieme dei mezzi di informazione, ha sfruttato l'opportunità di relegare in secondo piano gli orrori della barbarie del suo sistema. Le notizie sull'Iraq che affonda in una ferocia sempre più omicida, quelle sulla carestia che minaccia circa un terzo della popolazione nigeriana e su tante altre situazioni drammatiche del pianeta, hanno ceduto il posto ai molteplici scenari ed alla messe in opera del circo elettorale.
Sia che si tratti del referendum sulla Costituzione europea, organizzato dalle borghesie francesi ed olandesi, delle elezioni legislative in Gran Bretagna o dell'elezione in Renania del Nord-Vestfalia, la regione più popolata della Germania, ogni volta, è l'insieme delle forze borghesi (partiti di sinistra, di destra, di estrema destra, estremisti, sindacati) che orchestra il battage elettorale.
Drammatizzando l'importanza del referendum europeo (in particolare con l’affermazione che l'avvenire dell'Europa passa attraverso il voto "popolare"), chiamando a votare pro o contro la politica di austerità del governo Schröder, pro o contro il governo Blair che ha "mentito" sugli obiettivi della guerra in Iraq, invariabilmente la classe dominante offre ai proletari uno sfogo al malessere sociale.
Il rifiuto di partecipare al circo elettorale non si impone in modo evidente al proletariato perché questa mistificazione è legata strettamente a ciò che costituisce il cuore dell'ideologia della classe dominante, la democrazia. Tutta la vita sociale nel capitalismo è organizzata dalla borghesia intorno al mito dello Stato "democratico" (1). Questo mito è fondato sulla falsa idea che tutti i cittadini sono "uguali" e "liberi" di "scegliere", attraverso il loro voto, i rappresentanti politici desiderati ed che il parlamento è il riflesso della "volontà popolare" (2). Questa truffa ideologica è difficile da sventare da parte della classe operaia perché la mistificazione elettorale si basa in parte su certe verità che impediscono ogni riflessione sull'utilità o meno del voto. La borghesia, ad esempio, per sviluppare la sua propaganda si basa sulla storia del movimento operaio, ricordandone le lotte eroiche per conquistare il diritto di voto. A tale scopo non esita a fare uso della menzogna ed a falsificare gli avvenimenti. I partiti di sinistra ed i sindacati ricordano continuamente le lotte passate della classe operaia per ottenere il suffragio universale. I trotskisti, pur relativizzando l'importanza delle elezioni per il proletariato, non perdono l'opportunità di partecipare a queste rivendicando le posizioni della III Internazionale sulla "tattica" del "parlamentarismo rivoluzionario" o sull'utilizzazione delle elezioni come tribuna con la pretesa di far ascoltare la voce degli interessi operai e difendere la politica di una sedicente sinistra "anti-capitalista." In quanto agli anarchici, certi partecipano mentre altri invitano all'astensione. Di fronte a tutto questo guazzabuglio ideologico, in particolare quello che pretende di basarsi sull'esperienza e le tradizioni della classe operaia, è necessario ricordare le vere posizioni difese dal movimento operaio e dalle sue organizzazioni rivoluzionarie sulla questione elettorale, considerandola non in sé, ma in funzione dei differenti periodi dell'evoluzione del capitalismo e dei bisogni della lotta rivoluzionaria del proletariato.
Con lo sviluppo del modo di produzione capitalista, la borghesia abolisce la servitù ed estende il salariato per i bisogni della sua economia. Il Parlamento è l'arena dove i differenti partiti, rappresentanti delle differenti cricche che esistono in seno alla borghesia, si affrontano per decidere della composizione e degli orientamenti del governo incaricato dell'esecutivo. Il Parlamento è il centro della vita politica borghese ma, in questo sistema democratico parlamentare, solo i notabili sono elettori. I proletari non hanno il diritto alla parola, né il diritto di organizzarsi. Sotto l'impulso della I e poi della II Internazionale, gli operai intraprendono delle vigorose lotte sociali, spesso al prezzo della vita, per ottenere dei miglioramenti delle condizioni di vita (riduzione del tempo di lavoro dalle 14 o dalle 12 alle 10 ore, interdizione del lavoro dei bambini e dei lavori faticosi per le donne). Nella misura in cui il capitalismo era ancora un sistema in piena espansione, il suo capovolgimento attraverso la rivoluzione proletaria non era ancora all'ordine del giorno. È questa la ragione per la quale la lotta rivendicativa sul campo economico, per mezzo dei sindacati e dei suoi partiti politici in campo parlamentare, permetteva al proletariato di strappare al sistema riforme a suo vantaggio. "Una tale partecipazione gli permetteva al tempo stesso di fare pressione in favore di queste riforme, di utilizzare le campagne elettorali come mezzo di propaganda e di agitazione intorno al programma proletario e di utilizzare il Parlamento come tribuna di denuncia dell'ignominia della politica borghese. È per ciò che la lotta per il suffragio universale ha costituito, per tutto il 19° secolo, in un gran numero di paesi, una delle opportunità maggiori di mobilitazione del proletariato" (3) Sono queste posizioni che Marx ed Engels difenderanno lungo tutto questo periodo di ascesa del capitalismo per spiegare il loro sostegno alla partecipazione del proletariato alle elezioni.
La corrente anarchica, invece, si è opposta a questa politica fondata su una visione storica ed una concezione materialista della storia. L'anarchismo si è sviluppato nella seconda metà del 19° secolo come prodotto della resistenza degli strati piccolo-borghesi (artigiani, commercianti, contadini) al processo di proletarizzazione che li privava della loro passata "indipendenza" sociale. La visione degli anarchici della "rivolta" contro il capitalismo era puramente idealistica ed astratta. Non è un caso se una gran parte degli anarchici, tra cui Bakunin figura leggendaria di questa corrente, non vedeva il proletariato come classe rivoluzionaria ma tendeva a sostituirgli la nozione borghese di "popolo", inglobando tutti quelli che soffrono, qualunque sia il loro posto nei rapporti di produzione, qualunque sia la loro capacità ad organizzarsi, a diventare coscienti di sé come forza sociale. In questa logica, per l'anarchismo la rivoluzione è possibile in ogni momento e per tale motivo ogni lotta per le riforme costituisce fondamentalmente un ostacolo alla prospettiva rivoluzionaria. Per il marxismo questo radicalismo di facciata non illude per molto tempo, nella misura in cui esprime "l'incapacità degli anarchici a comprendere che la rivoluzione proletaria, la lotta diretta per il comunismo, non era ancora all'ordine del giorno perché il sistema capitalista non aveva ancora esaurito la sua missione storica, e che il proletariato era di fronte alla necessità di consolidarsi come classe per strappare tutte le riforme possibili alla borghesia col fine, innanzitutto, di rafforzarsi per la futura lotta rivoluzionaria. In un periodo in cui il Parlamento era una vera arena di lotta tra frazioni della borghesia, il proletariato aveva i mezzi per entrarvi senza subordinarsi alla classe dominante; questa strategia è diventata impossibile solo con l'entrata del capitalismo nella sua fase decadente, totalitaria" (4).
Con l'entrata nel 20° secolo, il capitalismo ha conquistato il mondo e, cozzando contro i limiti della sua espansione geografica, incontra anche la limitazione obiettiva dei mercati e degli sbocchi alla sua produzione. I rapporti di produzione capitalista si trasformano in ostacoli allo sviluppo delle forze produttive. Il capitalismo, come un tutto, entra allora in un periodo di crisi e di guerre di dimensione mondiale (5).
Un tale sconvolgimento senza precedenti nella vita del capitalismo, determina una modifica profonda del modo di esistenza politica della borghesia, del funzionamento del suo apparato statale e delle condizioni e dei mezzi della lotta del proletariato. Il ruolo dello Stato diventa preponderante perché è il solo in grado di assicurare "l'ordine", il mantenimento della coesione di una società capitalista dilaniata dalle sue contraddizioni. I partiti borghesi diventano, in modo sempre più evidente, degli strumenti dello Stato incaricati di fare accettare la politica di quest'ultimo. Così, gli imperativi della Prima Guerra mondiale e l'interesse nazionale non autorizzano il dibattito democratico al Parlamento ma impongono una disciplina assoluta a tutte le frazioni della borghesia nazionale. In seguito questo stato di fatto si mantiene e si rafforza. Il potere politico tende allora a spostarsi dal legislativo verso l'esecutivo ed il Parlamento borghese diventa un guscio vuoto che non ha più nessun ruolo decisionale. Questa è la realtà che nel 1920, al suo II congresso, l'Internazionale Comunista va a caratterizzare chiaramente: "L'atteggiamento della III Internazionale verso il parlamentarismo non è determinato da una nuova dottrina, ma dalla modifica del ruolo del Parlamento stesso. Nell'epoca precedente il Parlamento in quanto strumento del capitalismo in via di sviluppo ha, in un certo senso, lavorato al progresso storico. Ma nelle condizioni attuali, all'epoca dello scatenamento imperialista, il Parlamento è diventato tutto un strumento di menzogna, di inganno, di violenza, ed un esasperante mulino a vento... Attualmente il Parlamento non può essere in nessun caso, per i comunisti, il teatro di una lotta per le riforme e per il miglioramento della sorte della classe operaia, come fu per il passato. Il centro di gravità della vita politica si è spostato fuori del Parlamento, ed in maniera definitiva" (6).
È oramai fuori questione per la borghesia accordare quale che sia il campo, economico o politico, riforme reali e durature per le condizioni di vita della classe operaia. È l'inverso che impone al proletariato: sempre più sacrifici, miseria, sfruttamento e barbarie. I rivoluzionari sono allora unanimi nel riconoscere che il capitalismo ha raggiunto dei limiti storici e che è entrato nel suo periodo di declino, di decadenza come testimonia lo scatenamento della Prima Guerra mondiale. L'alternativa era oramai: socialismo o barbarie. L'era delle riforme era chiusa definitivamente e gli operai non avevano più niente da conquistare sul campo delle elezioni.
Tuttavia si sviluppa un dibattito centrale nel corso degli anni 1920 in seno all'Internazionale Comunista sulla possibilità, difesa da Lenin e dal partito bolscevico, di utilizzare la "tattica" del "parlamentarismo rivoluzionario". Di fronte alle innumerevoli questioni suscitate dall'entrata del capitalismo nel suo periodo di decadenza, il passato continuava a pesare sulla classe operaia e le sue organizzazioni.
La guerra imperialista, la rivoluzione proletaria in Russia, poi il riflusso dell'ondata di lotte proletarie a livello mondiale a partire dal 1920 ha portato Lenin ed i suoi compagni a pensare di distruggere dall'interno il Parlamento o utilizzare la tribuna parlamentare in modo rivoluzionario, come aveva fatto Karl Liebknecht nel parlamento tedesco per denunciare la partecipazione alla Prima Guerra mondiale. In effetti questa "tattica" erronea porterà la III Internazionale sempre più verso il compromesso con l'ideologia della classe dominante. Peraltro, l'isolamento della rivoluzione russa, l'impossibilità della sua estensione verso il resto dell'Europa con lo schiacciamento della rivoluzione in Germania, trascineranno i bolscevichi e l'Internazionale, poi i partiti comunisti, verso un opportunismo sfrenato. Questo opportunismo li porterà a rimettere in discussione le posizioni rivoluzionarie del 1° e del 2° Congresso dell'Internazionale Comunista per affondare nella degenerazione nei congressi successivi, fino al tradimento e all'avvento dello stalinismo che fu la testa d'ariete della controrivoluzione trionfante (7).
E' proprio contro questa degenerazione e questo abbandono dei principi proletari che reagirono le frazioni più a sinistra nei partiti comunisti. A cominciare dalla Sinistra italiana con Bordiga alla sua testa che, già nel 1918, preconizzava il rigetto dell'azione elettorale. Conosciuta inizialmente come "Frazione comunista astensionista", questa si è costituita formalmente dopo il Congresso di Bologna nell'ottobre 1919 e, in una lettera mandata da Napoli a Mosca, affermava che un vero partito che doveva aderire all'Internazionale Comunista, non poteva crearsi che su basi antiparlamentariste (8). Le sinistre tedesche ed olandesi andranno a loro volta a sviluppare la critica del parlamentarismo ed a sistematizzarla. Anton Pannekoek denuncia chiaramente la possibilità di utilizzare il Parlamento per i rivoluzionari, perché una tale tattica poteva condurli solamente a fare dei compromessi, delle concessioni all'ideologia dominante. Essa mirava solo ad dare una parvenza di vita a queste istituzioni moribonde, ad incoraggiare la passività dei lavoratori mentre la rivoluzione necessita, per il capovolgimento del capitalismo e l'instaurazione della società comunista, della partecipazione attiva e cosciente dell'insieme del proletariato.
Negli anni 1930 la Sinistra italiana, attraverso la sua rivista Bilan, dimostrerà in modo concreto come le lotte dei proletari francesi e spagnoli erano state deviate verso un terreno elettorale. Bilan affermava a giusta ragione che era stata la "tattica" dei fronti popolari nel 1936 a permettere il reclutamento del proletariato come carne da cannone nella seconda carneficina imperialista mondiale. Alla fine di questo spaventoso olocausto, è la Sinistra comunista di Francia che pubblicava la rivista Internationalisme (da cui ha avuto origine la CCI) che farà la denuncia più chiara della "tattica" del parlamentarismo rivoluzionario: "La politica del parlamentarismo rivoluzionario ha contribuito largamente a corrompere i partiti della III Internazionale e le frazioni parlamentari sono servite a rafforzare l'opportunismo, tanto nei partiti della III come precedentemente nei partiti della II Internazionale. La verità è che il proletariato non può utilizzare per la sua lotta emancipatrice "il mezzo di lotta politica" proprio della borghesia e destinato al suo asservimento…In effetti, il parlamentarismo rivoluzionario in quanto attività reale non è mai esistito per la semplice ragione che l'azione rivoluzionaria del proletariato quando gli si presenta, suppone la sua mobilitazione di classe su un piano extra-capitalista, e non prese di posizioni all'interno della società capitalista" (9) Oramai, l'antiparlamentarismo, la non partecipazione alle elezioni, è una frontiera di classe tra organizzazioni proletarie ed organizzazioni borghesi. In queste condizioni, da più di 80 anni le elezioni sono utilizzate su scala mondiale da tutti i governi, qualunque sia il loro colore politico, per deviare il malcontento operaio su un campo sterile e dar credito al mito della "democrazia". D'altra parte non è un caso se oggi, contrariamente al 19° secolo, gli Stati "democratici" combattono così accanitamente l'astensionismo e la disaffezione verso i partiti, perché la partecipazione degli operai alle elezioni è essenziale per perpetuare l'illusione democratica. Tutto questo è stato dimostrato in modo flagrante, dalle elezioni in Europa che, su questo piano, costituiscono un “caso da manuale”.
Contrariamente alla indigesta propaganda che ci ha presentato la vittoria del "No" alla Costituzione europea, tanto in Francia che in Olanda, come una "vittoria del popolo", lasciando intendere che sono le urne che governano, bisogna riaffermare che le elezioni sono una pura mascherata. Sicuramente vi possono essere delle divergenze in seno alle differenti frazioni che compongono lo Stato borghese sul modo di difendere al meglio gli interessi del capitale nazionale ma, fondamentalmente, la borghesia organizza e controlla la carnevalata elettorale affinché il risultato sia conforme ai suoi bisogni in quanto classe dominante. A tal fine lo Stato capitalista organizza, pianifica, manipola, utilizza i suoi media. Tuttavia, si possono verificare degli "incidenti", come capita spesso in Francia (oggi con la vittoria del No al referendum, nel 2002 con il Fronte Nazionale in seconda posizione alle elezioni presidenziali, nel 1997 con la vittoria della sinistra alle legislative anticipata o nel 1981 con quella di Mitterrand alle presidenziali) che però non significano affatto la benché minima rimessa in causa dell'ordine capitalista. Una tale difficoltà da parte della borghesia francese a far uscire dalle urne quello che lei vuole, rivela una debolezza storica ed un arcaismo del suo apparato politico (10), che non esistono nei paesi come la Germania o la Gran Bretagna (11).
Ma questa debolezza non significa per niente che il proletariato può approfittarne per imporre un altro orientamento alla politica della borghesia. Ogni proletario lo può constatare sulla base della propria esperienza di partecipazione alla mascherata elettorale: dalla fine degli anni 1920 e fino ad oggi, qualunque sia il risultato delle elezioni, che sia la destra o la sinistra ad uscirne vittoriosa, alla fine è sempre la stessa politica anti-operaia ad essere attuata.
In altri termini, lo Stato "democratico" riesce sempre a difendere gli interessi della classe dominante e del capitale nazionale, indipendentemente dai risultati delle consultazioni elettorali organizzate con sempre maggior frequenza (12).
La focalizzazione orchestrata dalla borghesia europea intorno al referendum sulla Costituzione è riuscita a captare l'attenzione degli operai ed a persuaderli che la costruzione dell'Europa era un obiettivo importate per il loro avvenire e quello dei loro figli. Menzogna! Niente è più falso! Ciò che era in gioco, attraverso l'adozione di questa nuova Costituzione, era per la classe dominante degli Stati fondatori dell'Europa, in un contesto di allargamento a 25 paesi membri, la capacità di poter esercitare in seno alle istituzioni europee un'influenza equivalente a quella che avevano prima dell'arrivo dei nuovi Stati-membri, che hanno solo fatto diminuire il peso relativo di ciascuno.
La classe operaia non deve partecipare alle lotte di influenza tra le frazioni della borghesia. In effetti, questa Costituzione europea non faceva che prendere atto di una politica già operante oggi, una politica in ogni caso estranea agli interessi di classe. La classe operaia sarà sfruttata con il "No" come lo sarebbe stata con un "Sì".
La classe operaia deve rigettare tanto l'illusione di potere utilizzare il parlamento nazionale nella sua lotta contro lo sfruttamento capitalista che l'illusione di poterlo fare con il parlamento europeo (13).
In questo concerto di ipocrisia e di raggiro, la palma d’oro va, da una parte, alle forze di sinistra che si sono raggruppate per dire No alla Costituzione e che pretendono che si può costruire un' "altra Europa", “più sociale" e, dall'altra, ai populisti di ogni risma che sfruttano la paura, la disperazione, l'incertezza per l’avvenire l'avvenire esistenti nella popolazione ed in una parte della classe operaia.
Come in Francia ed in Germania, per esempio, l'Olanda vive un aggravamento della disoccupazione il cui tasso è passato dal 2% nel 2003 al 8% oggi, e nuovi attacchi rimettono in causa la protezione sociale. E’ del resto di fronte all’intensificazione di questi attacchi che anche in questo paese abbiamo potuto vedere l’inizio di un’ampia mobilitazione sociale. Il ritorno del proletariato sulla scena sociale (14) implica, inevitabilmente, che si sta sviluppando una riflessione sul significato della disoccupazione massiccia, sugli attacchi a ripetizione, sullo smantellamento dei sistemi pensionistici e di assistenza sociale. In prospettiva, la politica anti-operaia della borghesia e la risposta proletaria possono sfociare solo su una presa di coscienza crescente in seno alla classe operaia del fallimento storico del capitalismo. È proprio per sabotare questo inizio di presa di coscienza che i promotori di una Europa "più sociale" si agitano tanto, chiedendo allo Stato capitalista di arbitrare il conflitto tra classi sociali opposte ed esortando gli operai a mobilitarsi per rigettare il liberismo con il solo obiettivo di sottometterli meglio alla mistificazione dello Stato "sociale", questa nuova fantasia e paccottiglia ideologica che viene sostenuta nei salotti dell'altermondialismo (15). Tutta questa propaganda ideologica serve a recuperare il malcontento sociale per riportarlo verso il campo borghese delle urne. Il referendum è stato presentato come lo strumento per rifiutare una politica, per esprimere il malcontento, ma ha anche costituito uno sfogo al malcontento sociale che non smette di accumularsi da anni. Del resto le forze della sinistra "anticapitalista" gridano vittoria e già chiamano gli operai a restare mobilitati per le prossime scadenze elettorali dove "si tratterà di trasformare, ancora con le urne, la vittoria del No al referendum". La stessa politica incanalamento del malcontento sociale l’abbiamo vista in Germania dove gli operai sono stati portati a sancire la coalizione di Schröder nell'ultima elezione regionale nella Renania del nord.
Nella fase decadente dei modi di produzione precedenti al capitalismo, una tattica deliberata, consapevolmente ponderata da parte delle classi dominanti consisteva nel fornire agli sfruttati l'opportunità di sfogarsi nelle giornate di carnevale, dove tutto era permesso, durante i combattimenti a morte o le competizioni sportive, nelle tribune degli stadi.
Allo stesso scopo, la borghesia ha dato sistematicità all'abbrutimento attraverso le competizioni sportive ed utilizza oggi il circo elettorale come sfogo alla collera operaia. Non solo la borghesia sprofonda il proletariato nel depauperamento assoluto, ma in più l'umilia dandogli "giochi e circo elettorale". Il proletariato non deve partecipare alla fabbricazione delle proprie catene, ma a romperle!
Al rafforzamento dello stato capitalista, gli operai devono rispondere con la volontà della sua distruzione!
Oggi, come ieri e domani, il proletariato non ha la scelta. O si lascia trascinare sul campo elettorale, sul campo degli Stati borghesi che organizzano il suo sfruttamento e la sua oppressione, campo dove può essere solamente atomizzato ed indebolito nella sua resistenza agli attacchi del capitalismo in crisi, oppure sviluppa le sue lotte collettive, in modo solidale ed unito, per difendere le sue condizioni di vita. Solo potrà ritrovare ciò che fa la sua forza come classe rivoluzionaria: la sua unità e la sua capacità di lottare al di fuori e contro le istituzioni borghesi (parlamento ed elezioni), in vista del capovolgimento del capitalismo. Solo così potrà, in futuro, edificare una nuova società sbarazzata dallo sfruttamento, dalla miseria e dalle guerre.
L'alternativa che si pone oggi è dunque la stessa di quella indicata dalle sinistre marxiste negli anni 1920: elettoralismo e mistificazione della classe operaia o sviluppo della coscienza di classe ed estensione delle lotte verso la rivoluzione!
1. Vedi il nostro articolo "La menzogna dello stato democratico", nella Révue Internationale n. 76.
2. Come contributo alla difesa della democrazia borghese si può citare Le Monde diplomatique, il cantore del movimento altermondialista il cui radicalismo ha partorito una nuova parola d’ordine "rivoluzionaria". "Un'altra Europa è possibile" esulta il suo editoriale del mese di giugno, intitolato "Speranze" (per la vittoria del No al referendum e per la mobilitazione popolare). Secondo quest'ultimo questa vittoria "costituisce da sola un successo insperato per la democrazia" che permette di affermare che "Il popolo ha fatto il suo grande ritorno…".
3. Piattaforma della CCI.
4. Vedi il nostro articolo "Anarchismo o comunismo" nella Révue Internationale n. 79.
5. Vedi il nostro opuscolo La Decadenza del capitalismo.
6. Vedi "La questione parlamentare nell'Internazionale Comunista", Edizione "Programma comunista" del P.C.I (Partito comunista internazionale).
7. Vedi il nostro opuscolo "Il terrore stalinista: un crimine del capitalismo, non del comunismo".
8. Nei fatti è stato il sostegno implicito dell'IC al 2° Congresso mondiale alla tendenza intransigente di Bordiga che farà uscire la Frazione comunista astensionista dall'isolamento minoritario nel partito. Vedi il nostro libro La Sinistra comunista d'Italia.
9. Questo articolo di Internationalisme n. 36 luglio 1948, è riprodotto nella Révue Internationale n. 36.
10. Le debolezze congenite della destra in Francia hanno radici nella storia stessa del capitalismo francese, contrassegnato dal peso della piccola e media impresa, del settore agricolo e del piccolo commercio. Questi arcaismi hanno sempre pesato sull'apparato politico che non è riuscito mai a far nascere un grande partito di destra direttamente legato alla grande industria ed alla finanza, come il partito conservatore in Gran Bretagna o il partito cristiano-democratico in Germania. Al contrario, la Seconda Guerra mondiale vedrà l'irruzione del gaullismo che va a segnare profondamente la vita della borghesia francese, i cui discendenti sono rappresentati dalle scorie dell'UMP. Per ulteriori spiegazioni su questa questione leggere il nostro articolo sul referendum in Francia in Révolution Internationale n. 357.
11. La rielezione di Blair è stata fatta con l'approvazione di tutta la classe politica, sindacati compresi. Questo socialdemocratico è stato rieletto perché è stato capace di attuare tanto sul piano economico che imperialista, la politica a cui aspirava maggiormente lo Stato britannico. La controversia intorno alle "menzogne" di Blair sulle armi di distruzione di massa in Iraq ha permesso di mobilitare l'elettorato popolare al quale è stata data l'illusione di una possibile contestazione attraverso le urne che obbligherebbe il capo dei laburisti a tenere conto dell'opinione del suo popolo. In effetti, come si è visto al momento dello scoppio delle ostilità in Iraq e fino ad oggi, la "democrazia" capitalista è perfettamente capace di assorbire l'opposizione pacifista alla guerra e mantenere l'impegno militare che reputa necessario per preservare i suoi interessi. Anche per la Germania, la sconfitta di Schröder all'elezione regionale in Renania del nord Vestfalia (1/3 della popolazione tedesca) e la vittoria del CDU corrisponde ai bisogni del capitale tedesco. Questa sconfitta implica la tenuta di elezioni anticipate in autunno permettendo al nuovo governo di essere investito della "volontà popolare" per perseguire la politica di "riforme" necessaria per il capitale tedesco per non segnare il passo. Come è probabile, la CDU andrà a prevalere e ciò permetterà al SPD di rifarsi una "verginità" nell'opposizione. La coalizione rosso/verde al governo dal 1998 è difatti considerevolmente screditata nei confronti della classe operaia, a causa della disoccupazione massiccia (più di 5 milioni di persone) e per le misure di austerità draconiane prodotte dal piano "Agenda 2010".
12. I nostri compagni di Internationalisme gia nel maggio 1946 denunciavano con lungimiranza, nel loro giornale L'etincelle (La scintilla), il referendum in Francia per la Costituzione della 4a Repubblica: "Per deviare l'attenzione dalle masse affamate dalle cause della loro miseria, il capitalismo monta la scena della commedia elettorale e li distrae con i referendum. Per distrarli dai crampi dei loro ventri affamati, si dà loro schede elettorali da digerire. Al posto del pane, si getta loro una "costituzione" da rosicchiare".
13. Vedi il nostro articolo "L'allargamento dell'unione europea", Révue Internationale n. 112.
14. Vedi "Risoluzione sulla situazione internazionale del 16mo congresso della CCI" in questo stesso numero.
15. Vedi articolo "L'altermondialismo, una trappola ideologica contro il proletariato", Révue Internationale n. 116.
D. (26 giugno 2005)
Il 19° secolo è il periodo del pieno sviluppo del capitalismo durante il quale la borghesia utilizza il suffragio universale ed il Parlamento per lottare contro la nobiltà e le sue frazioni retrograde. Come sottolinea Rosa Luxemburg, nel 1904, nella suo testo Socialdemocrazia e parlamentarismo "Il parlamentarismo, lungi dall' essere un prodotto assoluto dello sviluppo democratico, del progresso dell'umanità e di altre belle cose di questo genere, è al contrario una forma storica determinata dal dominio di classe della borghesia ed è solo il risvolto di questo dominio, della sua lotta contro il feudalismo. Il parlamentarismo borghese è una forma vivente fino a che dura il conflitto tra la borghesia ed il feudalesimo".
Grazie a queste campagne di mistificazioni elettorali la classe dominante ha potuto evitare la messa sotto accusa del capitalismo mascherando il fallimento del suo modo di produzione. Di fronte all'angoscia dell'avvenire, alla paura della disoccupazione, alla notevole austerità e precarietà che sono al centro delle preoccupazioni operaie attuali, la borghesia utilizza e sfrutta le sue scadenze elettorali per confondere la riflessione degli operai su queste questioni, sfruttando le illusioni, ancora molto forti in seno al proletariato, verso la democrazia ed il gioco elettorale.
1. Nel 1916, nel capitolo introduttivo alla Juniusbroschure, Rosa Luxemburg esponeva il significato storico della prima guerra mondiale:
“ Federich Engels disse un giorno: ‘la società borghese è posta davanti a un dilemma, o passaggio al socialismo o caduta nella barbarie’. Ma cosa significa ‘caduta nella barbarie’ al livello di civilizzazione che esiste oggi in Europa? Finora noi abbiamo letto queste parole senza riflettervi sopra e le abbiamo ripetute senza comprendere a fondo la loro terribile gravità. Gettiamo un colpo d’occhio intorno a noi in questo momento e capiremo cosa significa una caduta della società borghese nella barbarie. Il trionfo dell’imperialismo significa l’annientamento della civilizzazione – sporadicamente durante la durata di una guerra moderna e definitivamente se il periodo delle guerre mondiali che inizia adesso dovesse proseguire senza ostacoli fino alle sue estreme conseguenze. E’ esattamente questo che Engels aveva predetto, quaranta anni fa, una generazione prima di noi. Oggi noi siamo posti davanti a questa scelta: o trionfo dell’imperialismo e decadenza di ogni civilizzazione, con le sue conseguenze, come per la Roma antica: lo spopolamento, la desolazione, la degenerazione, un grande cimitero; oppure vittoria del socialismo, cioè della lotta cosciente del proletariato internazionale contro l’imperialismo e contro il suo metodo di azione: la guerra. Questo è il dilemma per la storia del mondo, un dilemma la cui soluzione sta nelle mani del proletariato cosciente. Il proletariato deve gettare risolutamente nella bilancia il peso della sua lotta rivoluzionaria: l’avvenire della civilizzazione e dell’umanità dipendono da questo.”
La guerra nel capitalismo decadente
2. Quasi 90 anni dopo, il rapporto del laboratorio della storia sociale conferma la chiarezza e la precisione della diagnosi della Luxemburg. Rosa mostrava che il conflitto che era cominciato nel 1914 aveva aperto un “ periodo di guerre senza fine” che, se lasciate senza risposta, avrebbero condotto alla distruzione della civilizzazione. Solo 20 anni dopo che la sperata ribellione del proletariato aveva posto fine alla Prima Guerra Mondiale, senza mettere però fine al capitalismo, una Seconda Guerra Mondiale imperialista superava di gran lunga la prima in quanto a profondità ed estensione della barbarie, con la caratteristica non solo dello sterminio su scala industriale di uomini sul campo di battaglia, ma innanzitutto e soprattutto il genocidio di popoli interi, il massacro di civili, che sia nei campi di sterminio di Auschwitz o di Treblinka o con i bombardamenti a tappeto che non hanno lasciato che rovine a Coventry, Amburgo, Dresda, Hiroshima e Nagasaky. La storia del periodo 1914-1945 basta da sola a confermare che la società capitalista era entrata in maniera irreversibile in un’epoca di declino, che essa era diventata un ostacolo fondamentale alle esigenze dell’umanità.
3. Contrariamente a quanto afferma la propaganda borghese, i sessanta anni che hanno seguito il 1945 non hanno per niente smentito questa conclusione – come se il capitalismo potesse essere in declino storico per un decennio e raddrizzarsi miracolosamente il decennio seguente. Ancor prima che la seconda carneficina imperialista terminasse, nuovi blocchi militari cominciavano a manovrare per controllare il pianeta; gli USA hanno anche deliberatamente ritardato la fine della guerra contro il Giappone, non per risparmiare la vita dei propri soldati, ma per dare un esempio spettacolare della sua potenza militare cancellando dalle cartine geografiche Hiroshima e Nagasaky – una dimostrazione rivolta prima di tutto non al Giappone battuto, ma al nuovo nemico russo. Ma in pochissimo tempo i due nuovi blocchi si erano riforniti di armi non solo capaci di distruggere le civilizzazione, ma di far sparire ogni forma di vita dal pianeta. Durante i 50 anni che sono seguiti l’umanità ha vissuto sotto l’incubo dell’Equilibrio del Terrore (in inglese Distruzione Reciproca Assicurata – MAD).
Nelle regioni sottosviluppate del mondo, milioni di persone soffrivano la fame, ma la macchina da guerra delle grandi potenze imperialiste assorbiva tutte le risorse del lavoro umano e delle scoperte scientifiche con il suo insaziabile stomaco; altri milioni di persone sono morte nelle “guerre di liberazione nazionale” attraverso le quali le superpotenze sfogavano la loro rivalità, come in Corea, Vietnam, nel sottocontinente indiano, in Africa e nel Medio Oriente.
4. L’Equilibrio del Terrore era la principale ragione avanzata dalla borghesia per spiegare che un terzo e probabilmente ultimo olocausto mondiale era stato risparmiato al mondo: noi dovevamo dunque imparare ad amare la bomba. In realtà una terza guerra mondiale non poteva aver luogo:
- in un primo tempo perché era necessario che i blocchi imperialisti appena formati si organizzassero e condizionassero, con il mezzo di temi ideologici nuovi, le popolazioni per poterle mobilitare contro un nuovo nemico; in più, il boom economico legato alla ricostruzione (finanziata dal piano Marshall) delle economie distrutte durante le seconda guerra mondiale ha permesso un certo assopimento delle tensioni imperialiste;
- in un secondo tempo, alla fine degli anni sessanta, quando il boom legato alla ricostruzione era arrivato alla sua fine, il capitalismo non si trovava più di fronte a un proletariato battuto come era successo nel caso della crisi degli anni trenta, ma a una nuova generazione di operai pronti a difendere i loro interessi di classe contro le esigenze dei loro sfruttatori. In periodo di capitalismo decadente la guerra mondiale richiede la mobilitazione attiva e intera del proletariato: le ondate internazionali di scioperi operai che sono cominciati con lo sciopero generale in Francia nel maggio ’68 mostravano che le condizioni di una tale mobilitazione non esistevano durante gli anni settanta e ottanta.
5. L’esito finale della lunga rivalità tra il blocco russo e quello americano non è stata dunque la guerra mondiale, ma il crollo del blocco sovietico. Incapace di reggere la competizione economica con la potenza americana, molto più avanzata, incapace di riformare le sue rigide istituzioni politiche, militarmente accerchiato dal suo rivale, e – come dimostrato dallo sciopero di massa in Polonia nel 1980 – incapace di arruolare il proletariato dietro la sua marcia verso la guerra, il blocco imperialista russo implose nel 1989. Questo trionfo dell’Occidente fu subito salutato come l’alba di un nuovo periodo di pace e prosperità mondiale; quasi contemporaneamente i conflitti imperialisti mondiali presero una nuova forma giacché l’unità del blocco occidentale cedeva il posto alla feroce rivalità tra i suoi precedenti componenti, e una Germania riunificata poneva la sua candidatura ad essere la maggiore potenza mondiale nella rivalità con gli USA. In questo nuovo periodo di conflitti imperialisti, tuttavia, la guerra mondiale era ancor meno all’ordine del giorno, perché:
- la formazione di nuovi blocchi è stata ritardata dalle divisioni interne tra le potenze che avrebbero dovuto logicamente essere i membri di un nuovo blocco avversario degli USA, in particolare tra le più importanti potenze europee, Germania, Francia e Gran Bretagna. La Gran Bretagna non ha abbandonato la sua tradizionale politica finalizzata ad assicurarsi che nessuna potenza maggiore domini l’Europa, mentre la Francia continua ad avere delle ottime ragioni storiche per mettere dei limiti alla sua eventuale sottomissione alla Germania. Con la rottura della vecchia disciplina legata ai due blocchi, la tendenza che domina nei rapporti internazionali è quella del “ciascuno per sé”;
- la schiacciante superiorità militare degli USA, in particolare rispetto a quella della Germania, rende impossibile ai rivali dell’America ogni confronto diretto;
- il proletariato non è sconfitto. Anche se il periodo che si è aperto con il crollo del blocco dell’est ha provocato nel proletariato un disorientamento considerevole (in particolare con le campagne sulla “morte del comunismo” e sulla “fine della lotta di classe”), la classe operaia delle grandi potenze capitaliste non è ancora pronta a sacrificarsi per una nuova carneficina mondiale.
Di conseguenza, i principali conflitti militari del periodo successivo al 1989 hanno preso in gran parte la forma di “guerre mascherate”. La caratteristica dominante di queste guerre è che la potenza mondialmente dominante ha cercato di resistere alla sfida crescente portata alla sua autorità impegnandosi in manifestazioni di forza spettacolari contro delle potenze di quart’ordine; è questo che è successo con la prima guerra del Golfo del 1991, con i bombardamenti della Serbia nel 1999, e con le “guerre contro il terrorismo” in Afghanistan e in Iraq che hanno seguito l’attacco alle Torri Gemelle del 2001. Allo stesso tempo queste guerre hanno sempre più rivelato una strategia globale precisa da parte degli USA: arrivare a una dominazione totale del Medio Oriente e dell’Asia Centrale, accerchiando così i loro principali rivali (Europa e Russia) privandoli di sbocchi e rendendo possibile la chiusura di ogni fonte di energia per loro.
Il mondo del dopo 1989 ha anche visto una esplosione di conflitti regionali e locali – a volte legati a questo disegno più complessivo degli Stati Uniti, altre volte in contrapposizione a questo – che hanno sparso morte e distruzione su continenti interi. Questi conflitti hanno fatto milioni di morti, fatto feriti e profughi in tutta una serie di paesi africani come il Congo, il Sudan, la Somalia, la Liberia, la Sierra Leone e, ora, minacciano di far sprofondare diversi paesi del Medio Oriente e dell’Asia Centrale in guerre civili permanenti. In questo processo il fenomeno crescente del terrorismo, che è spesso il prodotto dell’azione di frazioni della borghesia che non sono più controllate da nessuno Stato in particolare, costituisce un ulteriore fattore di instabilità e ha già portato questi mortali conflitti nel cuore stesso del capitalismo (11 settembre, attentato di Madrid).
6. Così, anche se la guerra mondiale non costituisce la minaccia concreta come lo è stato per la maggior parte del 20° secolo, l’alternativa socialismo o barbarie resta comunque altrettanto urgente quanto le era allora. In una certa maniera essa è più urgente in quanto la guerra mondiale esige una mobilitazione attiva della classe operaia, mentre la situazione attuale è caratterizzata dal pericolo di essere progressivamente e insidiosamente corrosa da una sorta di barbarie strisciante:
- la proliferazione delle guerre locali e regionali potrebbe devastare intere regioni del pianeta, rendendo così impossibile al proletariato di queste regioni di contribuire alla guerra di classe. Questo può riguardare per esempio le pericolosissime rivalità esistenti tra le due potenze militari sul continente indiano. Ma anche la spirale delle avventure militari condotte dagli USA. Malgrado le intenzioni di questi ultimi di creare un nuovo ordine mondiale sotto la loro benevola sorveglianza, ognuna di queste avventure ha aggravato l’eredità di caos e di antagonismi, e allo stesso tempo ha aggravato la crisi storica della leadership americana. L’Iraq di oggi ne è una conferma eclatante. Senza nemmeno più pretendere di ricostruire l’Iraq, gli USA sono spinti ad esercitare nuove minacce contro la Siria e l’Iran. Questa prospettiva non è smentita dai recenti tentativi della diplomazia americana di stabilire dei contatti con l’Europa sulla questione della Siria, dell’Iran e dell’Iraq. Al contrario, l’attuale crisi in Libano dimostra che gli Stati Uniti non possono ritardare i loro sforzi al fine di ottenere un controllo completo del Medio Oriente, obiettivo che non può che inasprire ulteriormente le tensioni imperialiste in generale, dal momento che nessuna grande potenza rivale degli USA può permettersi di lasciar loro il terreno libero in questa regione vitale dal punto di vista strategico. Questa prospettiva è confermata ancora dagli interventi sempre più aperti contro l’influenza russa nei paesi dell’antica URSS (Georgia, Ucraina, Kirghizistan) e dagli importanti disaccordi emersi sulla questione della vendita di armi alla Cina. Nel momento stesso in cui la Cina afferma le sue crescenti ambizioni imperialiste minacciando militarmente Taiwan e attizzando le tensioni con il Giappone, la Francia e la Germania si sono caratterizzate per il tentativo di rimettere in discussione l’embargo sulle vendite di armi alla Cina, che era stato decretato dopo il massacro di Tien An Men.
- Il periodo attuale è caratterizzato dalla filosofia del “ciascuno per sé”, non solo a livello delle rivalità imperialiste, ma anche nel cuore stesso della società. L’accelerazione della atomizzazione sociale e di tutti i veleni ideologici che ne derivano (sviluppo della delinquenza, aumento dei suicidi, irrazionalità e disperazione) porta in sé la minaccia di una usura permanente della capacità della classe operaia di ritrovare la sua identità di classe e con essa la sua prospettiva di classe di un mondo diverso, fondato non sulla disgregazione sociale ma su una comunità reale e sulla solidarietà;
- Alla minaccia di una guerra imperialista, il persistere del modo di produzione capitalista ormai putrescente ha aggiunto una nuova minaccia, un rischio altrettanto capace di distruggere la possibilità di una nuova formazione sociale per l’umanità: la crescente minaccia che pesa sull’ambiente del pianeta. Benchè allertata da una serie di conferenze scientifiche la borghesia si mostra totalmente incapace di prendere la sia pur minima misura necessaria per ridurre l’effetto serra. Lo tsunami del Sud-Est asiatico ha dimostrato che la borghesia non ha nemmeno la volontà di alzare un dito per non far subire alla razza umana
- la potenza devastatrice e incontrollata della natura; le conseguenze del riscaldamento globale saranno di gran lunga più devastatrici ed estese. In più, poiché i peggiori aspetti di queste conseguenze sembrano ancora lontane, è estremamente difficile per il proletariato vedere in esse un motivo per lottare contro il sistema capitalista oggi.
7. Per tutti questi motivi i marxisti hanno ragione a non solo concludere che la prospettiva socialismo o barbarie è valida oggi come lo era nel 1916, ma anche di dire che la profondità crescente della barbarie oggi potrebbe mettere in discussione le basi future del socialismo. Essi hanno ragione di concludere non solo che il capitalismo è da molto tempo una formazione sociale storicamente superata, ma anche di concludere che il periodo di declino che è cominciato in maniera definitiva con la Prima Guerra Mondiale è entrato nella sua fase finale, la fase di decomposizione. E non si tratta della decomposizione di un organismo già morto: il capitalismo si putrefà, si decompone in piedi. Esso attraversa una lunga e dolorosa agonia, e le sue convulsioni mortali minacciano di trascinare verso la fine l’intera umanità.
La crisi8. La classe capitalista non ha un futuro da offrire all’umanità. Essa è condannata dalla storia. Ed è proprio per questo motivo che essa deve utilizzare tutte le sue risorse per nascondere e negare questo giudizio, per discreditare le previsioni marxiste secondo le quali il capitalismo, come i modi di produzione che l’hanno preceduto, era destinato ad entrare in decadenza e a sparire. Perciò la classe capitalista ha prodotto una serie di anticorpi ideologici, che hanno tutti l’obiettivo di negare questa conclusione fondamentale del metodo del materialismo storico:
- anche prima che il periodo di declino fosse definitivamente aperto, l’ala revisionista della socialdemocrazia cominciò a contestare la visione “catastrofista” di Marx e a mettere avanti che il capitalismo poteva continuare indefinitamente, e che, di conseguenza, il socialismo si poteva raggiungere, non con la violenza rivoluzionaria, ma attraverso un processo di cambiamenti pacifici e democratici;
- negli anni ’20, gli eccezionali tassi di crescita industriale degli Stati Uniti portarono un “genio” come Calvin Coolidge a proclamare il trionfo del capitalismo e questo alla vigilia del grande crac del 1929;
- durante il periodo di ricostruzione dopo la Seconda Guerra Mondiale, borghesi come Macmillan dicevano agli operai “non siete mai stati così bene”, i sociologi elaboravano teorie sulla “società dei consumi” e sull’”imborghesimento della classe operaia”, mentre radicali come Marcuse cercavano “nuove avanguardie” per rimpiazzare i proletari apatici;
- dopo il 1989 abbiamo visto una vera e propria sovrapproduzione di nuove teorie che avevano lo scopo di spiegare come tutto è differente oggi, e a qual punto le idee di Marx sono state sconfessate: “la fine della storia”, “la morte del comunismo”, la “sparizione della classe operaia”, la mondializzazione, la rivoluzione dei microprocessori, l’economia Internet, l’apparizione di nuovi giganti economici in Oriente, tra cui in ultimo l’India e la Cina…
Queste idee hanno una tale forza di persuasione che esse hanno infettato tutta una nuova generazione che si poneva delle domande su quello che l’avvenire del capitalismo riservava al pianeta e, cosa ancora più allarmante, sono stati riprese in una veste marxista da elementi della Sinistra Comunista stessa.
In sintesi, il marxismo deve condurre una battaglia permanente contro quelli che si attaccano a qualsiasi segno di vita del capitalismo per proclamare che questo ha un brillante avvenire. Ma avendo resistito ogni volta grazie a una visione storica e a lungo termine di fronte a queste capitolazioni all’immediato, il marxismo è stato aiutato dai grandi avvenimenti storici:
- “l’ottimismo” beato dei revisionisti è crollato sotto gli avvenimenti catastrofici del 1914-18 e della risposta rivoluzionaria della classe operaia che essi hanno provocato;
- Calvin Coolidge e compagnia sono stati ridotti al silenzio dalla crisi economica più profonda della storia del capitalismo che è sboccata nel disastro assoluto della Seconda Guerra Mondiale imperialista;
- Quelli che dichiaravano che la crisi economica era una cosa del passato sono stati smentiti dalla riapparizione della crisi alla fine degli anni sessanta; la ripresa internazionale delle lotte operaie in risposta a questa crisi ha reso difficile il mantenimento della finzione di una classe operaia imborghesita.
La proliferazione di teorie sul “nuovo capitalismo”, la “società postindustriale” e altre invenzioni dello stesso genere hanno subito la stessa sorte. Molti degli elementi chiave di queste teorie sono già stati smascherati dall’avanzare implacabile della crisi: le speranze poste nelle economie delle Tigri e dei Dragoni sono state spezzate dal crollo improvviso di questi paesi nel 1997; la rivoluzione informatica si è rivelata essere un miraggio: le nuove industrie costruite intorno all’informatica e alle telecomunicazioni si sono mostrate altrettanto vulnerabili alla recessione quanto le “vecchie industrie” come quella dell’acciaio e dei cantieri navali. Benchè dichiarata morta in diverse occasioni la classe operaia continua a raddrizzare la testa, come per esempio nei movimenti in Austria e Francia nel 2003 e nelle lotte in Spagna, Gran Bretagna e Germania del 2004.
9. Sarebbe tuttavia un errore sottostimare la forza di queste ideologie nel periodo attuale perché, come ogni mistificazione, esse si basano su una serie di verità parziali; per esempio.
- confrontato alla crisi di sovrapproduzione e alle leggi implacabili della concorrenza, il capitalismo ha creato, negli ultimi decenni, in seno ai principali centri del suo sistema, enormi deserti industriali e gettato milioni di operai o nella disoccupazione permanente, o in impieghi improduttivi mal pagati nel settore dei “servizi”; per lo stesso motivo esso ha delocalizzato una grande quantità di posti di lavoro industriali in regioni a basso salario del “terzo mondo”. Molti settori tradizionali della classe operaia industriale sono stati decimati in questo processo, il che ha aggravato le difficoltà del proletariato;
- lo sviluppo di nuove tecnologie ha reso possibile accrescere contemporaneamente il tasso di sfruttamento e la velocità di circolazione dei capitali e delle merci su scala mondiale;
- il riflusso della lotta di classe durante gli ultimi due decenni ha fatto sì che sia difficile per una nuova generazione concepire la classe operaia come unico attore del cambiamento sociale;
- la classe capitalista ha dimostrato una capacità notevole nel gestire la crisi del sistema manipolando le sue stesse leggi di funzionamento.
Altri esempi possono essere dati. Ma nessuno di essi rimette in questione la senilità fondamentale del sistema capitalista.
10. La decadenza del capitalismo non ha mai significato un crollo improvviso e brutale del sistema, come certi elementi della Sinistra Tedesca sostenevano negli anni ’20, né un arresto totale dello sviluppo delle forze produttive, come, a torto, pensava Trotsky negli anni ’30. Come faceva notare Marx, la borghesia diventa intelligente in tempo di crisi ed essa impara dai suoi errori. Gli anni ’20 hanno costituito l’ultimo periodo in cui la borghesia ha creduto veramente di poter tornare al liberalismo del “lascia fare” del 19° secolo; questo per la semplice ragione che la Guerra Mondiale, pur essendo, in ultima istanza, un risultato delle contraddizioni economiche del sistema, è scoppiata prima che queste contraddizioni avessero potuto manifestarsi al livello “puramente” economico. La crisi del 1929 è stata quindi la prima crisi economica mondiale del periodo di decadenza. A questo punto, fatta l’esperienza, la borghesia ha riconosciuto la necessità di un cambiamento fondamentale. Nonostante le pretese ideologiche che sostengono il contrario, nessuna frazione seria della borghesia rimetterà mai in questione la necessità per lo Stato di esercitare il controllo generale dell’economia; la necessità di abbandonare ogni nozione di “equilibrio dei conti” a profitto di spese fatte senza copertura e di imbrogli di ogni genere; la necessità di mantenere un enorme settore di armamenti al centro di tutta l’attività economica. Per la stessa ragione il capitalismo si è dato ogni mezzo per evitare l’autarchia economica degli anni ’30. Malgrado pressioni crescenti che spingono alla guerra commerciale e allo sfascio degli organismi internazionali ereditati dal periodo di esistenza dei blocchi, la maggioranza di questi sono sopravvissuti perché le principali potenze capitaliste hanno compreso la necessità di mettere certi limiti alla concorrenza economica sfrenata tra capitali nazionali.
Il capitalismo si è quindi mantenuto in vita grazie all’intervento cosciente della borghesia che non può più permettersi di affidarsi alla mano invisibile del mercato. E’ vero che le soluzioni diventano a loro volta delle parti del problema:
- il ricorso all’indebitamento accumula chiaramente dei problemi enormi per il futuro,
- la crescita abnorme dello Stato e del settore degli armamenti genera pressioni inflazioniste continue.
A partire dagli anni’70 questi problemi hanno dato origine a differenti politiche economiche, mettendo alternativamente l’accento sul “keynesianesimo” o il “neoliberalismo”, ma siccome nessuna politica può intaccare le cause reali della crisi, nessuna strada potrà portare alla vittoria finale. Quello che è notevole è la determinazione della borghesia a mantenere ad ogni prezzo la sua economia in marcia e la sua capacità a frenare la tendenza al crollo attraverso un indebitamento gigantesco. A questo proposito, nel corso degli anni ’90, l’economia americana ha mostrato la strada: e ora che questa “crescita” artificiale comincia a indebolirsi, è la volta della borghesia cinese a meravigliare il mondo: quando si considera l’incapacità dell’URSS e degli Stati stalinisti dell’Europa dell’Est ad adattarsi politicamente alla necessità di “riforme” economiche, la burocrazia cinese (autrice dell’attuale “boom”) stupisce per la sua capacità di mantenersi in vita. Alcuni critici della teoria della decadenza del capitalismo hanno anche presentato questo fenomeno come la prova che il sistema ha ancora la capacità di svilupparsi e di assicurare una crescita reale.
In realtà il “boom” cinese di oggi non rimette per niente in questione il declino generale dell’economia capitalista mondiale. Contrariamente al periodo ascendente del capitalismo:
- la crescita industriale attuale della Cina non fa parte di un processo globale di espansione; al contrario, essa ha come corollario diretto la disindustrializzazione e la stagnazione delle economie più avanzate, che hanno delocalizzato in Cina la loro produzione alla ricerca di costi del lavoro meno cari;
- la classe operaia cinese non ha in prospettiva un miglioramento regolare delle sue condizioni di vita, ma si può prevedere che essa subirà sempre più attacchi alle sue condizioni di vita e di lavoro e una pauperizzazione accresciuta di enormi settori del proletariato e del contadiname al di fuori delle principali zone di crescita;
- la crescita frenetica della Cina non contribuirà a una espansione globale del mercato mondiale, ma ad un approfondimento della crisi mondiale di sovrapproduzione: data la ristrettezza dei consumi delle masse cinesi, il grosso dei prodotti cinesi è diretto verso l’esportazione nei paesi capitalisti più sviluppati;
- l’irrazionalità fondamentale del decollo dell’economia cinese è messa in evidenza dai terribili livelli di inquinamento che essa ha generato, che è una chiara manifestazione del fatto che l’ambiente planetario non può che essere alterato dalla pressione subita da ogni paese, perché ognuno di essi sfrutta le sue risorse naturali fino al limite assoluto per essere competitivo sul mercato mondiale;
- ad immagine del sistema nel suo insieme, la totalità della crescita della Cina è basata su debiti che essa non potrà mai compensare con una reale estensione sul mercato mondiale.
D’altra parte la fragilità di tutti questi eccessi di crescita è riconosciuta dalla stessa classe dominante, che è sempre più allarmata dalla bolla cinese – non perché essa è contrariata dai livelli di sfruttamento terrificanti su cui essa è basata, lungi da ciò, questi livelli feroci sono giustamente quello che rende la Cina così attraente per gli investimenti – ma perché l’economia mondiale è diventata troppo dipendente dal mercato cinese e quindi le conseguenze di un crollo della Cina sarebbero troppo orribili da immaginare, non solo per la Cina – che ripiomberebbe nell’anarchia violenta degli anni ’30 – ma per l’economia mondiale nel suo insieme.
11. Lungi dallo smentire la realtà della decadenza, la crescita economica del capitalismo oggi la conferma. Questa crescita non ha niente a che vedere con i cicli di crescita del 19° secolo, basata su una reale espansione della produzione verso i paesi periferici, sulla conquista di mercati extracapitalisti. E’ vero che l’entrata nella decadenza si è verificata ben prima che questi mercati si fossero esauriti e che il capitalismo ha continuato a fare il miglior uso possibile di queste aree economiche restanti come sbocchi per la sua produzione: la crescita della Russia durante gli anni ’30 e l’integrazione delle economie contadine restanti che si sono verificate nel periodo di ricostruzione postbellico ne sono un esempio. Ma la tendenza dominante, e di gran lunga, nell’epoca di decadenza, è l’utilizzazione di un mercato artificiale, basato sull’indebitamento.
Oggi è apertamente ammesso che il “consumo” frenetico degli ultimi due decenni si è interamente fatto sulla base di un indebitamento delle famiglie che ha raggiunto delle proporzioni che fanno venire le vertigini: mille miliardi di sterline in Gran Bretagna, il 25 % del Prodotto Nazionale Lordo in America, con i governi che non solo incoraggiano questa pratica ma praticano la stessa politica su una scala ancora più grande.
12. C’è un altro senso ancora in cui la crescita economica del capitalismo d’oggi è quella che Marx chiamava “la crescita in declino” (Grundrisse): essa è il principale fattore della distruzione dell’ambiente globale. I livelli incontrollabili dell’inquinamento in Cina, il contributo enorme che gli USA danno alla produzione di gas serra, lo sfruttamento selvaggio delle foreste tropicali restanti…, più il capitalismo si impegna nella “crescita”, più esso deve ammettere di non avere la minima soluzione alla crisi ecologica che non può essere risolta che producendo su nuove basi, “un piano per la vita della specie umana” (Bordiga), in armonia con il suo ambiente naturale.
13. Che sia sotto forma di “boom” o di “recessione”, la realtà che c’è dietro è la stessa: il capitalismo non può più rigenerarsi spontaneamente. Non c’è più un ciclo naturale di accumulazione. Nella prima fase della decadenza, dal 1914 al 1968, il ciclo crisi-guerra-ricostruzione ha rimpiazzato il vecchio ciclo di espansione e di recessione: ma la Sinistra Comunista di Francia aveva ragione nel 1945 quando diceva che non c’era mercato automatico verso la ricostruzione dopo la rovina della guerra mondiale. In ultima analisi, quello che ha convinto la borghesia americana a far ripartire le economie europea e giapponese con il piano Marshall, era il bisogno di annettere queste zone alla sua sfera di influenza imperialista e di impedire che cadessero sotto la cappa del blocco rivale. Così il “boom” più grande del XX secolo è stato fondamentalmente il risultato della competizione interimperialista.
14. Nella decadenza, le contraddizioni economiche spingono il capitalismo alla guerra, ma la guerra non risolve queste contraddizioni. Al contrario, essa le approfondisce. In ogni caso il ciclo crisi-guerra-ricostruzione è finito e la crisi oggi, nell’impossibilità di sboccare nella guerra mondiale, è il fattore primordiale della decomposizione del sistema. Essa continua a spingere il sistema verso la sua autodistruzione.
15. L’argomento secondo cui il capitalismo è un sistema decadente è stato spesso criticato perché esso conterrebbe una visione fatalista: l’idea di un crollo automatico e di un rovesciamento spontaneo da parte della classe operaia, il che sopprimerebbe ogni bisogno di un intervento di un partito rivoluzionario. Nei fatti la borghesia ha mostrato che essa non permetterà al suo sistema di affondare economicamente. Nondimeno, lasciato alla sua propria dinamica, il capitalismo si distruggerà attraverso la guerra ed altri disastri. In questo senso, esso è “votato” a scomparire. Ma non c’è nessuna certezza che la risposta del proletariato sarà all’altezza di questa posta. Questa non è una “fatalità” iscritta da prima nella storia. Come scriveva Rosa Luxemburg nel 1916, nel capitolo introduttivo della Juniusbroschure:
“ Nella storia il socialismo è il primo movimento popolare che si fissa come scopo di dare all’azione sociale degli uomini un senso cosciente, di introdurre nella storia un pensiero metodico, e, attraverso esso, una volontà libera.
Ecco perché Friederich Engels disse che la vittoria definitiva del proletariato socialista costituisce un salto che fa passare l’umanità dal regno animale a quello della libertà. Ma questo stesso “salto” non è estraneo alle leggi bronzee della storia, esso è legato alle migliaia di scalini precedenti dell’evoluzione, una evoluzione dolorosa e ben troppo lenta. E questo salto non potrebbe essere compiuto se dall’insieme delle premesse materiali accumulate dall’evoluzione non scaturisse la scintilla della volontà cosciente della grande massa popolare. La vittoria del socialismo non cadrà dal cielo come un fato, questa vittoria non può essere riportata che grazie a una lunga serie di scontri tra le forze antiche e quelle nuove, scontro nel corso dei quali il proletariato internazionale fa il suo apprendistato sotto la direzione della socialdemocrazia e tenta di prendere in mano il proprio destino, di impadronirsi del governo della vita sociale. Lui che era il giocattolo passivo della sua storia, tenta di diventarne il lucido pilota.”
Il comunismo è dunque la prima società nella quale l’umanità avrà la padronanza cosciente della sua potenza produttiva. E come nella lotta proletaria, fini e mezzi non possono essere separati, il movimento verso il comunismo non può essere che il “movimento cosciente dell’immensa maggioranza” (Manifesto dei Comunisti): l’approfondimento e l’estensione della coscienza di classe sono la misura indispensabile del progresso verso la rivoluzione e il superamento finale del capitalismo. Questo processo è per forza di cose difficile, ineguale ed eterogeneo, perché esso è l’emanazione di una classe sfruttata che non ha nessun potere economico nella vecchia società e che è costantemente sottomessa alla dominazione e alle manipolazioni ideologiche della classe dominante. In nessuna maniera esso può essere garantito dal principio: al contrario, è del tutto possibile che il proletariato, confrontato all’immensità senza precedenti del compito da compiere, non arrivi ad elevarsi all’altezza della sua responsabilità storica, con tutte le terribili conseguenze che questo comporterebbe per l’umanità.
La lotta di classe16. Il punto più alto raggiunto finora dalla coscienza di classe è stato l’insurrezione dell’Ottobre 1917. Il fatto è stato negato con accanimento dalla storiografia della borghesia e dei suoi pallidi riflessi anarchici e di altre ideologie dello stesso tipo, per i quali l’Ottobre 1917 non è che un colpo di Stato dei bolscevichi assetati di potere; ma l’Ottobre è stato il riconoscimento fondamentale da parte del proletariato che non c’era altra soluzione per l’umanità nel suo insieme che fare la rivoluzione in tutti i paesi. Tuttavia questa convinzione non si è radicata a sufficienza in profondità e in estensione nel proletariato; l’ondata rivoluzionaria è stata sconfitta perché gli operai del mondo, principalmente quelli dell'Europa, erano incapaci di sviluppare una comprensione politica globale, che avrebbe permesso loro di rispondere in maniera adeguata ai compiti imposti dalla nuova epoca di guerre e della rivoluzione, aperta nei 1914. La conseguenza è stata, alla fine degli anni ’20, il riflusso più lungo e più profondo che la classe operaia abbia conosciuto nella sua storia: non tanto al livello della combattività, perché negli anni’30 e ’40 hanno conosciuto puntualmente delle esplosioni di combattività di classe, ma soprattutto a livello della coscienza, poiché a livello politico, la classe operaia si è attivamente legata ai programmi antifascisti della borghesia, come in Spagna nel 1936-39 e in Francia nel 1936, o alla difesa della democrazia e della “patria stalinista” durante la Seconda Guerra Mondiale. Questo profondo riflusso della coscienza si è espresso nella quasi sparizione delle minoranze rivoluzionarie negli anni ’50.
17. Il ritorno storico delle lotte nel 1968 ha di nuovo rimesso all’ordine del giorno la prospettiva a lungo termine della rivoluzione proletaria, ma questo non era esplicito e cosciente che per una piccola minoranza della classe, cosa che ha portato alla rinascita di un movimento su scala internazionale. Le ondate di lotte che si sono succedute tra il 1968 e il 1989 hanno visto degli avanzamenti importanti a livello della coscienza, ma questi tendevano a porsi sul piano della lotta immediata (questione della estensione, della organizzazione, ecc.). Il loro punto più debole era la mancanza di profondità politica, riflesso di una ostilità verso la politica che era una conseguenza della controrivoluzione staliniana. A livello politico la borghesia è stata largamente capace di imporre le proprie scadenza, in prima istanza mettendo avanti la prospettiva di un cambiamento attraverso l’arrivo della sinistra al potere (1970), poi dando alla sinistra all’opposizione il compito di sabotare le lotte dall’interno (anni ’80). Benché le ondate di lotte tra il 1968 e il 1989 siano state capaci di sbarrare la strada alla guerra mondiale, la loro incapacità prendere una dimensione storica, politica, ha determinato il passaggio alla fase di decomposizione. L’avvenimento storico che ha segnato questo passaggio – il crollo del blocco dell’Est – è stato allo stesso tempo una conseguenza della decomposizione e un fattore del suo aggravamento. Così i drammatici cambiamenti intervenuti alla fine degli anni ’80 sono allo stesso tempo un prodotto delle difficoltà politiche del proletariato e, dal momento che essi hanno dato luogo a tutta una campagna di propaganda sulla morte del comunismo e della lotta di classe, un elemento chiave che ha portato a un grave riflusso nella coscienza della classe, al punto che il proletariato ha anche perso di vista la sua identità di classe fondamentale. La borghesia è quindi stata capace di dichiarare la sua vittoria finale sulla classe operaia e questa non è stata capace di rispondere con una forza sufficiente per smentire questa affermazione.
18. A dispetto di tutte queste difficoltà, il periodo di riflusso non ha significato in nessuna maniera la “fine della lotta di classe”. Gli anni ’90 sono stati attraversati da un certo numero di movimenti che mostravano che il proletariato aveva ancora delle riserve di combattività intatte (per esempio nel 1992 e nel 1997). Tuttavia nessuno di questi movimenti rappresenta un vero cambiamento a livello della coscienza. Da cui l'importanza dei movimenti più recenti che, pur non avendo l'impatto spettacolare di quello del 1968 in Francia, rappresentano tuttavia una svolta nel rapporto di forze tra le classi. Le lotte del 2003-2005 hanno presentato le seguenti caratteristiche:
- esse hanno implicato settori significativi della classe operaia nei paesi del cuore del capitalismo mondiale (come in Francia nel 2003);
- esse manifestano una preoccupazione per questioni più esplicitamente politiche; in particolare la questione delle pensioni pone il problema del futuro che la società capitalista riserva a tutti;
- esse hanno visto la riapparizione della Germania come punto centrale per le lotte operaie per la prima volta dall’ondata rivoluzionaria degli anni venti;
- la questione della solidarietà di classe è stata posta in maniera più ampia e più esplicita di qualsiasi momento delle lotte degli anni ’80, in particolare nei recenti movimenti in Germania;
- esse sono state accompagnate dalla comparsa di una nuova generazione di elementi in ricerca di chiarezza politica. Questa nuova generazione si è manifestata da un lato con un nuovo flusso di elementi apertamente politicizzati e dall’altro con nuovi strati operai che entrano in lotta per la prima volta. Come si è potuto vedere in certe manifestazioni importanti, siamo sul punto della formazione della base per l’unità tra la nuova generazione e la “generazione del ‘68” – sia per la minoranza politica che ha ricostruito il movimento comunista negli anni ’60 e ’70 che per gli strati più larghi di operai che hanno vissuto la ricca esperienza delle lotte di classe tra il 1968 e il 1989.
19. Contrariamente alla percezione tipica dell’empirismo che non vede che la superficie della realtà e resta cieco alle sue tendenze sotterranee più profonde, la maturazione sotterranea della coscienza non è stata eliminata dal riflusso generale della coscienza dopo il 1989. Una delle caratteristiche di questo processo è che esso non si manifesta all’inizio che presso una minoranza, ma l’allargamento di questa minoranza è l’espressione dell’avanzata e dello sviluppo di un fenomeno più ampio agente all’interno della classe. Già dopo il 1989 abbiamo visto una piccola minoranza di elementi politicizzati porsi delle questioni sulle campagne della borghesia sulla “morte del comunismo” Questa minoranza è stata rafforzata oggi da una nuova generazione inquieta rispetto alla direzione presa in generale dalla società borghese. A livello più generale, essa è l’espressione del fatto che il proletariato non è battuto, del mantenimento del corso storico verso quegli scontri generali di classe che si è aperto nel 1968. Ma, a livello più specifico, la “svolta” del 2003 e la nascita di una nuova generazione di elementi in ricerca mettono in evidenza che il proletariato è all’inizio di un nuovo tentativo di lanciare un assalto contro il sistema capitalista, dopo il fallimento del tentativo del 1968-89.
Benchè, a livello quotidiano, il proletariato sia confrontato al compito apparentemente elementare di riaffermare la sua identità di classe, dietro questo problema si nasconde la prospettiva di un legame molto più stretto fra la lotta immediata e quella politica. Le questioni poste nella fase di decomposizione saranno apparentemente sempre più ”astratte” ma in effetti si tratta di questioni più globali, come la necessità della solidarietà di classe contro l’atomizzazione sociale, lo smantellamento dello Stato sociale, l’onnipresenza della guerra, la minaccia che pesa sull’ambiente del pianeta – in breve, la questione dell’avvenire che questa società ci riserva, e quindi quella di un tipo differente di società.
20. All’interno di questo processo di politicizzazione due elementi, che finora avevano avuto un effetto inibitore sulla lotta di classe, sono destinati a diventare sempre più importanti come stimolanti per i movimenti del futuro: la questione della disoccupazione di massa e la questione della guerra.
Durante le lotte degli anni ’80, quando la disoccupazione di massa diventava sempre più evidente, né la lotta dei lavoratori attivi, né la resistenza di strada dei disoccupati hanno raggiunto livelli significativi. Non ci sono stati movimenti di disoccupati che si siano avvicinati al livello raggiunto da quelli degli anni ’30 negli Stati Uniti, in una fase di sconfitta profonda della classe operaia. Nelle recessioni degli anni ’80, i disoccupati sono stati confrontati a una atomizzazione terribile, soprattutto la giovane generazione di proletari, che non aveva mai avuto una esperienza lavorativa e di lotta collettiva. Anche quando i lavoratori attivi hanno fatto lotte su grande scala contro i licenziamenti, come nel settore delle miniere in Gran Bretagna, l’esito negativo di queste lotte è stato utilizzato dalla classe dominante per rafforzare i sentimenti di passività e di disperazione. La stessa cosa si è ancora recentemente espressa attraverso la reazione al fallimento della fabbrica Rover in Gran Bretagna, nel quale la sola “scelta” presentata agli operai era tra questa o quella nuova squadra di padroni per continuare a far marciare la fabbrica. Ciononostante, dato il restringimento dei margini di manovra della borghesia e la sua incapacità crescente a fornire un minimo ai disoccupati, la questione della disoccupazione è destinata a sviluppare un aspetto più sovversivo, favorendo la solidarietà tra attivi e disoccupati, e spingendo la classe nel suo insieme a riflettere più profondamente, più attivamente sul fallimento del sistema.
La stessa dinamica può essere intravista per quello che riguarda la questione della guerra. All’inizio degli anni ’90, le prime grandi guerre della fase della decomposizione (guerra del Golfo, guerre nei Balcani) tendevano a rafforzare i sentimenti di impotenza che erano state istillate dalle campagne imbastite intorno al crollo del blocco dell’Est, quando i pretesti di “interventi umanitari” in Africa e nei Balcani poteva avere ancora una parvenza di credibilità. A partire dal 2001, e con la “guerra contro il terrorismo”, invece, la natura menzognera e ipocrita delle giustificazioni della borghesia a proposito della guerra è diventata sempre più evidente, anche se lo sviluppo di enormi movimenti pacifisti ha largamente diluito la riflessione che questo aveva provocato. In più le guerre attuali hanno un impatto sempre più diretto sulla classe operaia, anche se esso è soprattutto limitato ai paesi direttamente implicati in questi conflitti. Negli Stati Uniti questa tendenza si esprime attraverso il numero crescente di famiglie toccate dalla morte o dal ferimento dei proletari in uniforme, ma, in maniera ancora più significativa, dal costo esorbitante delle avventure militari, cresciuto in maniera proporzionale alle diminuzioni del salario sociale. E come diventa chiaro che le tendenze militariste del capitale non fanno che svilupparsi con una spirale sempre crescente e la classe dominante ha sempre meno controllo su di esse, i problemi della guerra e del suo rapporto con la crisi spingeranno a una riflessione molto più profonda, più larga, sul destino della storia.
21. In maniera paradossale l’immensità di queste questioni è una delle principali ragioni per cui l’attuale ritorno delle lotte sembra così limitato e poco spettacolare a paragone con i movimenti che hanno marcato il risorgimento del proletariato alla fine degli anni ’60. Di fronte a problemi vasti come la crisi economica mondiale, la distruzione dell’ambiente o la spirale del militarismo, le lotte quotidiane difensive possono sembrare inadatte e impotenti. In un certo senso questo riflette una reale comprensione del fatto che non c’è soluzione alle contraddizioni che assillano il capitalismo oggi. Ma mentre negli anni ’70 la borghesia aveva davanti a sé tutta una serie di mistificazioni sui differenti mezzi per assicurare una vita migliore, gli sforzi attuali della borghesia per far credere che noi viviamo in un’epoca di crescita e di prosperità senza precedenti somigliano al rifiuto disperato di un uomo in agonia incapace di ammettere la sua prossima morte. La decadenza del capitalismo è l’epoca delle rivoluzioni sociali perché le lotte degli sfruttati non possono più strappare nessun miglioramento alla loro condizione: e per quanto difficile possa essere passare dal livello difensivo al livello offensivo della lotta, la classe operaia non avrà altra scelta che fare questo salto difficile e che fa paura. Come tutti i salti qualitativi, esso è preceduto da tutta una serie di piccoli passi preparatori, dallo sciopero per il pane fino alla formazione di piccoli gruppi di discussione nel mondo intero.
22. Confrontate alla prospettiva della politicizzazione delle lotte, le organizzazioni rivoluzionarie hanno un ruolo unico e insostituibile. Tuttavia, l’unione degli effetti crescenti della decomposizione con le debolezze antiche a livello teorico e organizzativo e l’opportunismo nella maggioranza delle organizzazioni politiche proletarie hanno messo in evidenza l’incapacità della maggior parte di questi gruppi a rispondere alle esigenze della storia. Questo si è visto molto più chiaramente attraverso la dinamica negativa nella quale è entrato da qualche tempo il BIPR: non solo per la sua incapacità totale a comprendere il significato della nuova fase di decomposizione, congiunto al suo abbandono di un concetto teorico chiave come quello della decadenza del capitalismo, ma in maniera ancora più disastrosa con il fatto che esso si beffa dei principi più elementari di solidarietà e di comportamenti proletari, attraverso il suo flirt con il parassitismo e l’avventurismo. Questa regressione è tanto più grave ora che esistono le premesse per la costruzione del partito comunista mondiale. Allo stesso tempo il fatto che i gruppi del campo politico proletario si squalifichino da se stessi nel processo che porta alla formazione del partito di classe non fa che mettere l’accento sul ruolo cruciale che la CCI è portata a giocare all’interno di questo processo. E’ sempre più chiaro che il partito del futuro non sarà il prodotto di una addizione “democratica” di differenti gruppi del milieu, ma che la CCI costituisce già lo scheletro del futuro partito. Ma perché il partito diventi carne la CCI deve provare che essa è all’altezza del compito imposto dallo sviluppo della lotta di classe e dall’emergere della nuova generazione di elementi in ricerca.
Nel precedente articolo di questa serie ("Il Nucleo Comunista Internacional, uno sforzo di presa di coscienza del proletariato in Argentina", Révue Internationale n.120) abbiamo descritto la traiettoria di un piccolo nucleo di elementi rivoluzionari in Argentina raggruppati nel "Nucleo Comunista Internacional" (NCI).
Abbiamo messo in evidenza i problemi incontrati da questo piccolo gruppo, ed in particolare il fatto che uno dei suoi elementi, il cittadino B., aveva approfittato della sua padronanza dei mezzi informatici (in particolare Internet) per isolare gli altri compagni, monopolizzare la corrispondenza con i gruppi del campo politico proletario, imporre loro le sue decisioni, anche alle loro spalle, nascondendo loro deliberatamente i suoi comportamenti, una politica che essi non approvavano poiché rimetteva in causa dall'oggi al domani tutto il percorso fatto fino a quel momento. Più precisamente, dopo che aveva manifestato fino all'estate 2004 la volontà di integrarsi velocemente nella CCI (1), di cui affermava condividere completamente le posizioni programmatiche e l'analisi, nello stesso momento in cui rigettava le posizioni del BIPR e denunciava i comportamenti da teppisti e da spioni della sedicente "Frazione Interna della CCI" (FICCI), il cittadino B. cambiava bruscamente idea.
Quando era ancora presente sul posto una delegazione della CCI, che aveva condotto tutta una serie di discussioni con il NCI, questo individuo prendeva contatto con la FICCI ed il BIPR per annunciar loro la sua intenzione di sviluppare un lavoro con questi due gruppi prendendo un altro nome, "Circulo de Comunistas Internacionalistas" (tutto ciò senza dire né una parola alla nostra delegazione né agli altri membri del NCI).
In effetti, "è quando ha compreso che con la CCI non avrebbe potuto sviluppare le sue manovre di piccolo avventuriero che il Signor B. ha scoperto improvvisamente una passione per la FICCI ed il BIPR, e per le posizioni di quest'ultimo. Una tale conversione, ancora più improvvisa di quella di San Paolo sulla strada di Damasco, non ha messo in sospetto il BIPR che si è affrettato a diventare il megafono di questo Signore. Occorrerà un giorno che il BIPR si chieda perché, a più riprese, elementi che hanno dimostrato la loro incapacità ad integrarsi nella Sinistra comunista, si sono rivolti verso il BIPR dopo il loro insuccesso di "avvicinamento" alla CCI". (Ibid.)
Per nostra conoscenza, il BIPR non si è ancora posto una tale domanda (almeno non è apparsa mai pubblicamente nella sua stampa).
Uno degli scopi del presente articolo è, tra l'altro, tentare di dare elementi di risposta a questa domanda, ciò che può essere di una certa utilità per questa organizzazione, ma anche per gli elementi che si avvicinano alle posizioni della Sinistra comunista e che possono essere impressionati dall'affermazione del BIPR che si presenta come la "sola organizzazione ereditiera della Sinistra comunista d'Italia". Più generalmente, si propone di comprendere perché questa organizzazione ha conosciuto una serie permanente di insuccessi nella sua politica di raggruppamento delle forze rivoluzionarie a scala internazionale.
L'irresistibile attrattiva degli elementi confusi verso le sirene del BIPRL'atteggiamento del cittadino B., che si scopre improvvisamente in convergenza profonda sia con le posizioni del BIPR che con le accuse (totalmente calunniose) profferite dalla FICCI contro la CCI non è in realtà che la caricatura di un atteggiamento che abbiamo incontrato a più riprese da parte di elementi che, dopo avere intavolato una discussione con la nostra organizzazione, si sono resi conto che avevano sbagliato porta, o perché non erano realmente d'accordo con le nostre posizioni, o perché le esigenze legate alla militanza nella CCI sembravano loro troppo costrittive, o ancora perché avevano constatato che non avrebbero potuto condurre una loro politica personale in seno alla nostra organizzazione. Molto spesso, questi elementi si sono allora rivolti verso il BIPR nel quale essi vedevano un'organizzazione più atta a soddisfare le loro attese. Abbiamo già, a più riprese, rievocato nelle nostre pubblicazioni questo tipo di evoluzione. Tuttavia, vale la pena di ritornarci per mettere in evidenza che non si tratta di un avvenimento fortuito ed eccezionale, ma di fenomeno ripetitivo che dovrebbe spingere i militanti del BIPR a porsi delle domande.
Prima ancora della nascita del BIPR...
È nella preistoria del BIPR (ed anche in quella della CCI) che si trova una prima manifestazione di ciò che si sarebbe in seguito ripetuto numerose volte. Siamo negli anni 1973-74. In seguito ad un appello lanciato nel novembre 1972 dal gruppo americano Internationalism (che diventerà la sezione della CCI negli Stati Uniti) per favorire una rete di corrispondenza internazionale, fu organizzata una serie di incontri tra parecchi gruppi che si richiamavano alla Sinistra comunista. Tra i partecipanti più regolari di questi incontri troviamo Révolution Internationale in Francia e tre gruppi che si trovavano in Gran Bretagna, World Revolution, Revolutionary Perspective e Workers' Voice (dal nome delle loro rispettive pubblicazioni). WR e RP provengono da scissioni del gruppo Solidarity che si trova su posizioni anarco-consiliariste. In quanto a WV, questo era un piccolo gruppo di operai di Liverpool che aveva rotto poco prima con il trotskismo. In seguito a queste discussioni, i tre gruppi britannici giungono a posizioni vicine a quelle di Révolution Internationale ed Internationalism (intorno ai quali va a costituirsi la CCI l’anno seguente). Tuttavia, il processo di unificazione di questi tre gruppi è finito con un insuccesso. Da una parte, gli elementi di Workers' Voice decidono di rompere con World Revolution per il sospetto di essere stati imbrogliati da WR. In effetti, questo ultimo gruppo aveva conservato delle posizioni semi-consiliariste sulla rivoluzione del 1917 in Russia: la considerava una rivoluzione proletaria ma considerava il partito bolscevico un partito borghese, posizione di cui aveva finito per convincere i compagni di WV. E quando WR, all'epoca dell'incontro di gennaio 1974, ha rigettato i suoi ultimi resti di consiliarismo raggiungendo la posizione di Révolution Internationale, questi compagni hanno avuto la sensazione di essere stati "traditi" e hanno sviluppato una forte ostilità verso quelli di WR (accusati di aver "capitolato di fronte a RI") ciò che li ha condotti a pubblicare una "messa a punto" nel novembre 74 definendo i gruppi che andavano a costituire la CCI poco dopo come "controrivoluzionari" (2). Da parte sua, RP aveva chiesto la sua integrazione nella CCI come "tendenza" con la propria piattaforma, visto che rimanevano ancora disaccordi tra questo gruppo e la CCI. A questa richiesta rispondemmo che il nostro approccio non era di integrare delle "tendenze" come tali, ciascuna con la sua piattaforma, anche se consideriamo che possano esistere in seno all'organizzazione dei disaccordi su aspetti secondari dei suoi documenti programmatici. Non avevamo chiuso la porta alla discussione con RP ma questo gruppo ha cominciato allora ad allontanarsi dalla CCI. Ha tentato di costituire un raggruppamento internazionale "alternativo" alla CCI con WV, il gruppo francese "Per un Intervento Comunista" (PIC) ed il "Revolutionary Workers' Group" (RWG) di Chicago. Questo "blocco senza principi" (usando il termine adoperato da Lenin) non è durato a lungo. Non poteva essere diversamente nella misura in cui il solo requisito che avvicinava questi quattro gruppi era la loro ostilità crescente verso la CCI. Il "raggruppamento" si è alla fine ugualmente realizzato in Gran Bretagna (settembre 1975) tra RP e WV che hanno costituito la "Communist Workers' Organizzazione" (CWO). Questa unificazione aveva un prezzo per RP: i suoi militanti avevano dovuto accettare la posizione della WV e cioè che la CCI era "controrivoluzionaria". È una posizione che hanno conservato per un certo tempo, anche dopo l'uscita dalla CWO, un anno più tardi, dei vecchi membri di WV che rimproveravano particolarmente a quelli di RP la loro... intolleranza verso altri gruppi! (3) Questa "analisi" della CWO che considerava la CCI "controrivoluzionaria" era basata su degli "argomenti decisivi":
" - la CCI difende la Russia capitalista di Stato dopo il 1921 così come i bolscevichi;
- sostiene che una gang capitalista di Stato come l'opposizione di Sinistra trotskista era un gruppo proletario".(Revolutionary Perspective n°4)
E' solamente più tardi, quando la CWO ha cominciato a discutere con il Partito Comunista Internazionalista (Battaglia Comunista) che ha rinunciato a qualificare la CCI "controrivoluzionaria"; se avesse mantenuto i suoi precedenti criteri, avrebbe dovuto considerare anche BC un'organizzazione borghese.
Così, il punto di partenza della traiettoria della CWO è segnato dal fatto che la CCI non aveva accettato la richiesta di RP di integrarsi nella nostra organizzazione con la propria piattaforma. Questa traiettoria alla fine è finita con la formazione del BIPR nel 1984: la CWO poteva partecipare infine ad un raggruppamento internazionale dopo i suoi insuccessi precedenti.
Le delusioni col SUCMLo stesso processo che ha condotto alla formazione del BIPR è contrassegnato da questo tipo di comportamento dove i "delusi della CCI" si avvicinano al BIPR. Non ritorneremo qui sulle tre conferenze dei gruppi della Sinistra comunista che si sono tenute tra il 1977 e 1980 in seguito ad un appello lanciato da BC nell'aprile del 1976 (4). In particolare, la nostra stampa ha insistito spesso sul fatto che è in modo totalmente irresponsabile e determinate unicamente dai loro piccoli interessi di bottega che BC ed la CWO hanno sabotato deliberatamente questo sforzo facendo votare di nascosto, alla fine della 3a conferenza, un criterio supplementare sulla questione del ruolo e della funzione del partito che mira esplicitamente ad escludere la CCI dalle future conferenze. (5) Al contrario, vale la pena di rievocare la "conferenza" del 1984 che si presentava come il seguito delle tre conferenze tenute tra il '77 e l'80. Questa "conferenza" raggruppava, oltre a BC ed alla CWO, il "Supporters of the Unity of Communist Militants" (SUCM) un gruppo di studenti iraniani presenti principalmente in Gran Bretagna che la CCI conosceva bene per avere cominciato a discutere con loro prima di rendersi conto che, malgrado le dichiarazioni secondo cui si dicevano in accordo con la Sinistra comunista, rimaneva un gruppuscolo estremista (dell'area maoista). Il SUCM si era rivolto allora verso la CWO che non aveva tenuto conto della messa in guardia dei nostri compagni della sezione in Gran Bretagna contro questo gruppo. Ed è grazie a questo "acquisto" di prim'ordine che la CWO e BC avevano potuto evitarsi un semplice colloquio a quattrocchi all'epoca di questa gloriosa 4a conferenza dei gruppi della Sinistra comunista che, ora che la CCI non era più là per inquinarla con il suo "consiliarismo", poteva porsi infine i veri problemi della costruzione del futuro partito mondiale della rivoluzione (6). Infatti, tutte le altre "forze" che il tandem CWO-BC aveva "selezionato" (secondo il termine impiegato frequentemente da BC) con "serietà" e "chiarezza" per la loro lista di invitati avevano fatto defezione: o perché non erano potute venire, come il gruppo "Kommunistische Politik" d'Austria o l' Éveil Internationaliste (Il risveglio Internazionalista) o perché già sparite al momento della "Conferenza" come i due gruppi americani, "Marxist Worker" e "Wildcat"; bizzarramente, questo ultimo, malgrado il suo consiliarismo, era considerato nei "criteri" di partecipazione decretati da BC ed il CWO (7).
Va da sé che anche il flirt con il SUCM non è potuto proseguire per molto tempo, non tanto per la lucidità dei compagni di BC e della CWO ma semplicemente perché questo gruppo estremista, che non poteva mascherare eternamente la sua vera natura, è finito per integrarsi nel Partito comunista iraniano, un'organizzazione stalinista ben definita.
In quanto alle conferenze dei gruppi della Sinistra comunista, BC ed la CWO non ne hanno convocate altre: queste organizzazioni hanno preferito evitarsi il ridicolo di un nuovo fiasco (8).
Due traiettorie individualiQuesto tipo di attrattiva per il BIPR da parte dei "delusi della CCI" si è manifestato nello stesso periodo presso l'elemento che chiameremo L. e che, per un certo tempo è stato il solo rappresentante di questa organizzazione in Francia. Questo elemento che aveva fatto le sue esperienze in un organizzazione trotskista, si era avvicinato alla CCI all'inizio degli anni 80 al punto da porre la sua candidatura. Evidentemente, avevamo condotto delle discussioni molto serie con lui ma gli avevamo chiesto della pazienza prima di potere entrare nella nostra organizzazione perché constatavamo che, malgrado l'affermazione del suo pieno accordo con le nostre posizioni, conservava ancora nel suo comportamento politico delle tracce importanti del suo soggiorno nell'estremismo, in particolare un forte immediatismo. Di pazienza ne aveva molto poco: quando ha trovato che queste discussioni duravano troppo tempo per il suo gusto, le ha interrotte unilateralmente per rivolgersi verso i gruppi che andavano a formare il BIPR. Dalla sera alla mattina, le sue posizioni a geometria variabile si sono evolute per raggiungere quelle del BIPR che, da parte sua, non gli ha chiesto la stessa pazienza prima di integrarlo. Prova che le sue convinzioni non erano molto solide è che questo elemento ha lasciato poi il BIPR per navigare in differenti gruppi del campo della Sinistra comunista tra cui la corrente "bordighista" prima di ritornare... al BIPR nella metà degli anni 90. In quel momento, avevamo messo in guardia i compagni del BIPR contro la mancanza di affidabilità politica di questo elemento. Questa organizzazione non aveva tenuto conto del nostra messa in guardia e l'aveva reintegrato. Tuttavia, come ci si poteva aspettare, questo elemento non è restato molto tempo nel BIPR: all'inizio degli anni 2000, ha “scoperto" che le posizioni che aveva adottato per una seconda volta indubbiamente non gli convenivano ed è venuto a parecchie nostre riunioni pubbliche per scaricare del fango su questa organizzazione: è allora che la CCI ha ritenuto necessario rigettare le sue calunnie e difendere il BIPR.
Questa serie di flirt dei delusi della CCI con il BIPR non si limita agli esempi che abbiamo citato.
Un altro elemento che veniva egualmente dall'estremismo, che chiameremo E., ha seguito una traiettoria simile. Con lui, il processo di integrazione nella CCI era andato più avanti di quello di L. divenendo membro della nostra organizzazione dopo lunghe discussioni. Tuttavia, una cosa è affermare un accordo con le posizioni politiche, altro è integrarsi in un'organizzazione comunista. Anche se la CCI aveva spiegato a lungo a questo elemento cosa significava essere militante di un'organizzazione comunista ed anche se egli aveva approvato il nostro percorso, l'esperienza pratica della militanza che suppone, in particolare, di fare uno sforzo costante per superare l'individualismo, l'aveva condotto abbastanza velocemente a constatare che non aveva posto nella nostra organizzazione contro la quale ha cominciato a sviluppare un atteggiamento ostile. Alla fine ha lasciato la CCI senza avanzare il minimo disaccordo con la nostra piattaforma (malgrado la nostra richiesta di una discussione seria sui suoi "rimproveri"). Ciò non gli ha impedito, poco dopo, di scoprirsi in profondo accordo con le posizioni del BIPR al punto che la stampa di questa organizzazione ha pubblicato un suo articolo polemico contro la CCI.
Per ritornare ai gruppi che hanno seguito questo tipo di percorso, l'elenco non si ferma agli esempi che abbiamo su citato. Occorre rievocare ancora quelli del "Communist Bullettin Group" (CBG) in Gran Bretagna, di Kamunist Kranti in India, di Comunismo nel Messico, di "Los Angeles Workers' Voice" e di Notes Internationalistes in Canada.
Gli amori senza domani del CBG e della CWOLa nostra stampa ha pubblicato parecchi articoli a proposito del CBG (9). Non ritorneremo sull'analisi che facevamo di questo gruppuscolo parassitario costituito da vecchi membri della CCI che avevano lasciato la nostra organizzazione nel 1981 rubandole del materiale e del denaro e la cui sola ragione di esistere era coprire di fango la nostra organizzazione. Alla fine del 1983, questo gruppo aveva risposto favorevolmente ad un "Invito ai gruppi politici proletari" adottato dal 5°congresso della CCI "in vista di stabilire una cooperazione cosciente tra tutte le organizzazioni" 10): "Vogliamo esprimere la nostra solidarietà con il percorso e le preoccupazioni espresse nell'invito..". Tuttavia, non faceva la minima critica dei suoi comportamenti teppistici. Perciò noi scrivevamo: "Finché non viene compresa la questione fondamentale della difesa delle organizzazioni politiche del proletariato, rispondiamo con un rifiuto alla lettera del CBG. Hanno sbagliato indirizzo".
Probabilmente deluso dal fatto che la CCI abbia respinto i suoi approcci, e sofferente visibilmente del suo isolamento, il CBG si è rivolto alla fine alla CWO, componente britannica del BIPR. Un incontro ha avuto luogo nel dicembre del 1992 ad Edimburgo seguito da una "collaborazione pratica tra membri del CWO e del CBG". "Un gran numero di incomprensioni sono state chiarite dai due lati. È stato dunque deciso di rendere la cooperazione pratica più formale. Un accordo è stato redatto, che la CWO come un tutto dovrà ratificare in gennaio (dopo di che sarà pubblicato un rapporto completo) e che comprende i seguenti punti...". Segue un elenco dei differenti accordi di collaborazione e particolarmente: "I due gruppi devono discutere di un progetto di "piattaforma popolare" preparata da un compagno della CWO come oggetto di intervento".(Workers' Voice n° 64, gennaio-febbraio 1996)
Apparentemente, non c'è stato seguito a questo flirt perché non abbiamo mai più sentito parlare di collaborazione tra il CBG ed la CWO. Non abbiamo mai letto qualunque cosa che spieghi le ragioni per cui questa collaborazione sia andata in fumo.
Le delusioni del BIPR in IndiaUn'altra avventura sfortunata del BIPR con i "delusi della CCI" è quella che ha avuto per protagonista il raggruppamento che pubblicava Kamunist Kranti in India. Questo piccolo nucleo era nato da un gruppo di elementi con cui la CCI aveva condotto delle discussioni durante gli anni 1980 e di cui alcuni si erano avvicinati della nostra organizzazione, divenendone dei simpatizzanti stretti con anche l'integrazione di uno di questi. Tuttavia, uno di questi elementi, che chiameremo S., e che aveva avuto nelle prime discussioni con la CCI un ruolo motore, non aveva seguito questo percorso. Temendo probabilmente di perdere la sua individualità in caso di una maggiore integrazione nella CCI, aveva costituito un suo gruppo, che pubblicava Kamunist Kranti.
Da parte sua, il BIPR aveva conosciuto molte delusioni in India. Mentre, per questa organizzazione, le condizioni esistenti nei paesi della periferia "rende possibile l'esistenza di organizzazioni comuniste di massa" (Communist Review n° 3) ciò che suppone evidentemente che è più facile fondare fin da ora dei piccoli gruppi comunisti rispetto ai paesi centrali del capitalismo, il BIPR pativa per il fatto che le sue tesi non si erano concretizzate sotto forma di gruppi che condividevano la sua piattaforma. Questa sofferenza era tanto più grande che, già a quell'epoca, la CCI, malgrado le sue analisi presentate come "eurocentriste", aveva una sezione in uno di questi paesi della periferia, il Venezuela. Evidentemente, il flirt abortito con il SUCM aveva solamente potuto aggravare questa amarezza. Anche, quando il BIPR ha potuto intavolare delle discussioni con il gruppo Lal Pataka in India, ha creduto vedere il termine del suo calvario. La disgrazia è che si trattava di un gruppo di estrazione maoista che, come il SUCM, non aveva rotto realmente con le sue origini malgrado le sue simpatie manifeste per le posizioni della Sinistra comunista. Di fronte alla messa in guardia della CCI contro questo gruppo che alla fine si è ridotto ad un solo elemento, il BIPR poteva rispondere: "Alcuni spiriti cinici [si tratta degli spiriti della CCI] possono pensare che abbiamo accettato troppo velocemente questo compagno nel BIPR". Per un certo tempo, Lal Pataka era presente come la componente del BIPR in India ma, nel 1991, questo nome sparisce delle pagine della stampa del BIPR per essere sostituito da quello di Kamunist Kranti. Il BIPR sembra puntare molto su questo "deluso della CCI": "speriamo che, nell'avvenire, feconde relazioni si possano stabilire tra il Bureau international e Kamunist Kranti". Ma le sue speranze sono una nuova volta deluse perché, due anni più tardi possiamo leggere in Communist Review n° 11: "È una tragedia il fatto che, malgrado l'esistenza di elementi promettenti, non esiste ancora un nucleo solido di comunisti indiani". Effettivamente, Kamunist Kranti è sparito dalla circolazione. Esiste invece un piccolo nucleo comunista in India che pubblica Communist Internationalist, ma esso fa parte della CCI ed il BIPR "dimentica" di farvi riferimento.
Delusioni messicaneDurante lo stesso periodo in cui un certo numero di elementi in India si avvicinava alle posizioni della Sinistra comunista, la CCI aveva intavolato delle discussioni con un piccolo gruppo nel Messico, il "Colectivo Comunista Alptraum" (CCA) che ha cominciato a pubblicare Comunismo nel 1986 (11). Poco dopo, si è costituito il "Grupo Proletario Internacionalista" (GPI) che ha cominciato a pubblicare Revolucion Mundial all'inizio del 1987 e con cui si sono anche sviluppate le discussioni. (12) A partire da quel momento, il CCA ha cominciato ad allontanarsi dalla CCI: da una parte ha adottato un percorso più accademico nelle sue posizioni politiche e, dall'altro, si è avvicinato al BIPR. Questo piccolo nucleo evidentemente ha mal percepito, lo stabilirsi di relazioni tra la CCI ed il GPI.
Conoscendo il percorso della CCI che insiste sulla necessità che i gruppi della Sinistra comunista in uno stesso paese sviluppino dei legami stretti, il CCA, che contava molti meno membri del GPI, ha ritenuto probabilmente che la sua "individualità" rischiava di essere annegata in un avvicinamento con questa organizzazione. I rapporti tra il BIPR ed il CCA si sono mantenuti per un certo tempo, ma quando il GPI è diventata la sezione della CCI in Messico, anche il CCA era scomparso della circolazione.
Un "sogno americano" tormentatoCon l'avventura del "Los Angeles Workers' Voice" arriviamo quasi alla fine di questa lunga lista. Questo gruppo era composto da elementi che si erano formati politicamente nel maoismo (di tendenza filo-albanese). Abbiamo stabilito delle discussioni con questi elementi per un lungo periodo ma abbiamo constatato la loro incapacità a superare le confusioni ereditate dalla loro appartenenza ad un'organizzazione borghese. Così, quando nella metà degli anni 90, questo piccolo gruppo si è avvicinato al BIPR, abbiamo messo in guardia quest'ultimo contro le confusioni del LAWV. Il BIPR ha preso molto a male questa messa in guardia, ritenendo che non volevamo che potesse svilupparsi una presenza politica sul continente nord americano. Per anni, il LAWV è stato un gruppo simpatizzante del BIPR negli Stati Uniti e, nell'aprile 2000, ha partecipato a Montreal, nel Canada, ad una conferenza destinata a rinforzare la presenza politica del BIPR sul continente nord americano. Tuttavia, poco tempo dopo, gli elementi di Los Angeles hanno cominciato ha manifestare dei disaccordi su tutta una serie di questioni, adottando una visione più anarchica (rigetto della centralizzazione, presentazione dei bolscevichi come un partito borghese, ecc.) ma soprattutto profferendo delle sordide calunnie contro il BIPR ed in particolare contro un altro simpatizzante americano di questa organizzazione, AS, che viveva in un altro Stato. La nostra stampa negli Stati Uniti ha denunciato i comportamenti degli elementi del LAWV e ha portato la sua solidarietà ai militanti calunniati (13). È per ciò che non abbiamo giudicato in quel momento utile ricordare la messa in guardia che avevamo fatto al BIPR all'inizio del suo idillio con il LAWV.
L'altra componente nord americana della conferenza di aprile 2000, Notes Internationalistes che attualmente è "gruppo simpatizzante" del BIPR, fa egualmente parte dei "delusi della CCI". La discussione tra la CCI ed i compagni di Montreal aveva esordito verso la fine degli anni 90. Si trattava di un piccolo nucleo di cui l'elemento più formato, che chiameremo W, aveva avuto una lunga esperienza nel sindacalismo e nell'estremismo. Le discussioni sono sempre state molto fraterne, particolarmente all'epoca delle differenti visite di militanti della CCI a Montreal, e noi speravamo che sarebbero state altrettanto sincere da parte di questi compagni. In particolare, eravamo sempre stati chiari sul fatto che consideravamo che il lungo periodo di attivismo di W in un'organizzazione estremista costituiva un handicap per una piena comprensione delle posizioni e del percorso della Sinistra comunista. È per ciò che avevamo chiesto a più riprese al compagno W di redigere un bilancio della sua traiettoria politica ma, visibilmente, questo compagno aveva delle difficoltà a fare questo bilancio poiché non abbiamo ricevuto mai questo documento che tuttavia aveva promesso.
Mentre le discussioni con Notes Internationalistes proseguivano ed i compagni non ci avevano per niente informati di un eventuale avvicinamento alle posizioni del BIPR, abbiamo preso conoscenza di una dichiarazione che annunciava che NI diventava gruppo simpatizzante del BIPR in Canada. Era stata la CCI ad incoraggiare i compagni di Montreal a prendere conoscenza delle posizioni del BIPR ed a contattare questa organizzazione. Infatti, il nostro comportamento non è mai stato quello di "conservare per sé i propri contatti". Al contrario, riteniamo che i militanti che si avvicinano alle posizioni della CCI devono appunto conoscere le posizioni degli altri gruppi della Sinistra comunista affinché, se aderiscono alla nostra organizzazione, ciò deve avvenire in piena conoscenza di causa. (14) Che elementi che si avvicinano alla Sinistra comunista si trovino in accordo con le posizioni del BIPR non pone in sé problema. Ciò che ha più sorpreso è che questo avvicinamento è stato, in qualche modo, fatto "segretamente". Evidentemente, il BIPR non aveva le stesse esigenze della CCI riguardanti la rottura di W con il suo passato estremista. E noi siamo convinti che è là una delle ragioni che l'hanno condotto verso questa organizzazione senza informarci dell'evoluzione delle sue posizioni.
La specialità del BIPR: l'aborto politicoNon si può che essere affascinati dalla ripetizione del fenomeno per il quale elementi che sono stati "delusi dalla CCI" si sono poi orientati verso il BIPR. Evidentemente, si potrebbe considerare che è quello un percorso normale: dopo avere compreso che le posizioni della CCI erano erronee, questi elementi si sarebbero orientati verso la precisione e la chiarezza di quelle del BIPR. Può essere questo che i militanti di questa organizzazione si sono detti ogni volta. Il problema è che di tutti i gruppi che hanno adottato un tale comportamento, il solo che oggi è ancora presente nelle righe del Sinistra comunista è proprio quello che abbiamo menzionato per ultimo, Notes Internationalistes. TUTTI gli altri gruppi, o sono spariti, o si sono ritrovati nelle righe di organizzazioni borghesi convinte, come il SUCM. Il BIPR dovrebbe chiedersi il perché e sarebbe interessante che consegnasse alla classe operaia un bilancio di queste esperienze. Intanto, alcune riflessioni che seguono potranno forse aiutare i suoi militanti a fare un tale bilancio.
Evidentemente, ciò che animava questi gruppi non era la ricerca di una chiarezza che non avevano trovato nella CCI poiché hanno finito per abbandonare il militantismo comunista. I fatti hanno dimostrato ampiamente che il loro allontanamento dalla CCI, come avevamo constatato ogni volta, corrispondeva fondamentalmente ad un allontanamento dalla chiarezza programmatica e dal percorso della Sinistra comunista ed anche da un rifiuto delle esigenze della militanza in seno a questa corrente. In realtà, il loro flirt effimero con il BIPR era solamente una tappa prima del loro abbandono della lotta nelle file proletarie. La domanda da porsi allora: perché il BIPR attira anche coloro che sono impegnati in una tale traiettoria?
A questa domanda, esiste una risposta fondamentale: perché il BIPR difende un comportamento opportunista in materia di raggruppamento dei rivoluzionari.
È l'opportunismo del BIPR che permette agli elementi che si rifiutano di operare una rottura completa con il loro passato da estremisti di trovare un "rifugio" momentaneo nella scia di questa organizzazione pure continuando a fare credere, o a raccontarsi, che essi conservano il loro impegno nella Sinistra comunista. Il BIPR, a partire in particolare dalla 3a conferenza dei gruppi della Sinistra comunista, non ha smesso di insistere sulla necessità di una "selezione rigorosa" in seno al campo proletario. Ma, in realtà, questa selezione è a senso unico: riguarda essenzialmente la CCI che non è più "una forza valida nella prospettiva del futuro partito mondiale del proletariato" e che "non può essere considerata da noi [il BIPR] come un interlocutore valido per definire una forma di unità di azione" (risposta al nostro appello dell'11 febbraio 2003 inviato ai gruppi della Sinistra Comunista per un intervento comune di fronte alla guerra e pubblicato nella Révue Internationale 113). Di conseguenza è fuori questione per il BIPR stabilire la minima cooperazione con la CCI, anche per fare una dichiarazione comune del campo internazionalista di fronte alla guerra imperialista (15). Tuttavia, questo grande rigore non viene esercitato in altre direzioni, in particolare nei confronti di gruppi che non hanno niente a che vedere con la Sinistra Comunista, o nella migliore delle ipotesi di gruppi estremisti. Come scrivevamo nella Révue Internationale n° 103: "Per cogliere tutta la misura dell'opportunismo del BIPR a proposito del suo rifiuto all'appello sulla guerra che abbiamo fatto, è istruttivo rileggere un articolo apparso su Battaglia Comunista di novembre 1995 ed intitolato "Equivoci sulla guerra nei Balcani". BC riporta di avere ricevuto dall'OCI (Organizzazione Comunista Internazionalista) un lettera/invito ad un'assemblea nazionale contro la guerra che doveva tenersi a Milano. BC ha considerato che "il contenuto della lettera è interessante e fortemente migliorato rispetto alle posizioni dell'OCI sulla guerra del Golfo, di ‘sostegno al popolo iracheno attaccato dall'imperialismo’ e fortemente polemico nella discussione del nostro preteso indifferentismo. “L'articolo proseguiva così: "Manca il riferimento alla crisi del ciclo di accumulazione (...) e l'analisi essenziale delle sue conseguenze sulla Federazione iugoslava. (...) Ma ciò non sembrava vietare una possibilità di iniziativa in comune con quelli che si oppongono alla guerra sul campo di classe". Solo quattro anni fa, come si può vedere, in una situazione meno grave di quella che abbiamo visto con la guerra del Kosovo, BC sarebbe stata pronta a prendere un'iniziativa comune con un gruppo oramai chiaramente controrivoluzionario per soddisfare le sue mire attiviste mentre ha avuto il coraggio di dire no alla CCI... con il pretesto che le nostre posizioni sono troppo lontane. L'opportunismo è questo".
Questa selettività a senso unico del BIPR ha avuto l'opportunità di manifestarsi una nuova volta durante l'anno 2003 quando ha rifiutato la proposta della CCI di una presa di posizione comune di fronte alla guerra in Iraq. Come scrivevamo nella Révue Internationale 116: "Potremmo aspettarci da parte di un'organizzazione che dà prova di un atteggiamento tanto puntiglioso nell'esame delle sue divergenze con la CCI un atteggiamento simile nei confronti di tutti gli altri gruppi. Non è così. Facciamo riferimento qui all'atteggiamento del BIPR verso il gruppo suo simpatizzante e rappresentante politico nella regione nord americana, l'Internationalist Workers' Group (IWG) che pubblica Internationalist Notes. Infatti, questo gruppo è intervenuto con degli anarchici e ha tenuto una riunione pubblica comune con Red and Black Notes, dei consiliaristi e l'Ontario Coalition Against Poverty (OCP) che sembra essere un gruppo tipicamente estremista ed attivista". ("Il campo politico proletario di fronte alla guerra: Il flagello del settarismo in seno al campo internazionalista").
Come si può vedere, l'opportunismo del BIPR si manifesta nel suo rifiuto a prendere posizioni chiare nei riguardi di gruppi che sono molto lontani dalla Sinistra comunista, che non hanno effettuato una rottura completa con l'estremismo (dunque col campo borghese) o che sono decisamente estremisti. Questo è l'atteggiamento che già aveva manifestato al riguardo del SUCM o di Lal Pataka. Con un tale atteggiamento, non stupisce che elementi che non arrivano a fare un chiaro bilancio della loro esperienza nell'estremismo si sentono in migliore compagnia con il BIPR anziché con la CCI.
Ciò detto, sembra che con l'atteggiamento del gruppo del Canada siamo di fronte ad una manifestazione di un'altra variante dell'opportunismo del BIPR: il fatto che ciascuno dei suoi componenti è "libero di condurre la propria politica". Ciò che è assolutamente inammissibile per i gruppi europei è completamente normale per un gruppo americano, e ciò in quanto non abbiamo letto nessuna critica nelle colonne di Battaglia Comunista o di Revolutionary Perspective dell'atteggiamento dei compagni del Canada. Ciò si chiama federalismo, un federalismo che il BIPR rigetta nel suo programma, ma che adotta nella pratica. È questo federalismo vergognoso ma reale che ha incitato certi elementi che trovavano troppo costrittivo il centralismo della CCI ad orientarsi verso il BIPR.
Ciò detto, il fatto per il BIPR di reclutare elementi segnati da resti del loro passaggio nell'estremismo o che non sopportano la centralizzazione e che si augurano di potere condurre la loro politica nel loro angolo è il migliore mezzo per sabotare le basi di un'organizzazione vitale a livello internazionale.
Un altro aspetto dell'opportunismo del BIPR è l'indulgenza tutta particolare che manifesta verso gli elementi ostili alla nostra organizzazione. Come abbiamo visto all'inizio di questo articolo, una delle basi della costituzione della CWO in Gran Bretagna è non solo la volontà di mantenere la propria "individualità" (richiesta di RP di essere integrata nella CCI come "tendenza" con la propria piattaforma) ma l'opposizione alla CCI (considerata per un certo tempo "controrivoluzionaria"). Più precisamente, l'atteggiamento che era quello degli elementi di Workers' Voice in seno alla CWO, consistente, come si è visto sopra, nell' "utilizzare RP come scudo contro la CCI" si è ritrovato con molti altri elementi e gruppi la cui principale motivazione era l'ostilità verso la CCI. Come in particolare è capitato con l'elemento L. che, qualunque era il gruppo al quale apparteneva (ed essi furono numerosi) si distingueva sempre più per il suo isterismo contro la nostra organizzazione. Allo stesso modo l'elemento E. che abbiamo citato sopra aveva cominciato a manifestare una violenta ostilità verso la CCI prima di raggiungere le posizioni del BIPR. È così vero che, per quel che sappiamo, il suo solo testo che il BIPR ha pubblicato era un attacco violento contro la CCI.
Che cosa dire anche del CBG, con cui la CWO si era impegnata in un flirt senza domani, il cui livello di denigrazioni, compreso le più sordide dicerie, contro la CCI non aveva, fino a quel momento, trovato eguali? Ma giustamente, è nell'ultimo periodo che questo passo di apertura verso il BIPR sulla base dell'odio verso la CCI ha raggiunto le sue forme più estreme con due illustrazioni: gli approcci fatti al BIPR dalla pretesa "Frazione interna della CCI" (FICCI) e dal cittadino B., fondatore, caudillo e solo membro del "Circulo de Comunistas Internacionalistas" d'Argentina.
Non ritorniamo in maniera dettagliata sull'insieme dei comportamenti della FICCI esprimente il suo odio ossessivo contro la nostra organizzazione (16). Citeremo, ed in modo molto succinto, solo alcune delle sue prestazioni:
- calunnie ripugnanti contro la CCI e alcuni dei suoi militanti (di cui, si sussurra, dopo che è stata fatto circolare questa accusa nei corridoi della CCI, che uno di loro lavora per la polizia e che un altro applica la politica di Stalin consistente nell' "eliminare" i membri fondatori dell'organizzazione);
- furto del denaro e del materiale politico della CCI ( in particolare dello schedario di indirizzi degli abbonati della sua pubblicazione in Francia);
- spiate che danno agli organi di repressione dello Stato borghese l'opportunità di sorvegliare la conferenza della nostra sezione in Messico tenutasi nel dicembre 2002 e rivelare la vera identità di uno dei nostri militanti, quello che è presentato dalla FICCI come il "capo della CCI").
Nel caso del cittadino B, questo si è evidenziato particolarmente per la redazione di parecchi comunicati ignobili su "la metodologia nauseabonda della CCI", che è paragonata ai metodi dello stalinismo, e basati su un tessuto di menzogne grossolane.
Se questo sinistro personaggio ha potuto dare prova di una tale arroganza è perché, per un certo tempo, il BIPR, che lui aveva adulato redigendo dei testi che riprendono delle posizioni vicine a questa organizzazione (particolarmente sul ruolo del proletariato nei paesi della periferia), gli ha dato una parvenza di credibilità. Non solo il BIPR ha tradotto e ha pubblicato sul suo sito Internet le prese di posizione e "le analisi" di questo elemento, non solo ha salutato la costituzione del "Circulo" come "un importante e sicuro passo in avanti realizzato oggi in Argentina per l'aggregazione delle forze verso il partito internazionale del proletariato" ("Anche in Argentina qualche cosa muove", Battaglia Comunista ottobre 2004) ma ha anche pubblicato in tre lingue sul proprio sito il suo comunicato del 12 ottobre 2004 che è un'accozzaglia immonda di calunnie contro la nostra organizzazione.
Gli amori del BIPR con questo esotico avventuriero hanno cominciato a fare acqua quando abbiamo messo in evidenza in modo inconfutabile che le sue accuse contro la CCI erano delle pure menzogne e che il suo "Circulo" era solamente una sinistra impostura (17). È allora che il BIPR, in modo molto discreto, ha cominciato a ritirare dal suo sito i testi più compromettenti di questo personaggio senza mai, tuttavia, condannare i suoi metodi anche dopo che abbiamo inviato una lettera aperta ai suoi militanti (lettera del 7 dicembre 2004 pubblicata sul nostro sito Internet) chiedendo una tale presa di posizione. La sola reazione che abbiamo avuto da questa organizzazione è un comunicato sul suo sito "Ultima risposta alle accuse della CCI" che afferma che il BIPR è "oggetto di attacchi violenti e volgari da parte della CCI che si arrabbia perché è attraversata da una profonda ed irreversibile crisi interna" e che "da oggi, non risponderemo né daremo seguito a nessuno dei loro volgari attacchi".
In quanto agli amori con il "Circulo", essi oggi sono morti per forza di cose. Da quando la CCI ha smascherato l'impostura del cittadino B., il sito Internet di quest'ultimo, che per un mese aveva conosciuto un'agitazione febbrile, oramai mostra un elettroencefalogramma disperatamente piatto.
Per la FICCI, è lo stesso tipo di compiacenza che il BIPR ha manifestato al suo riguardo. Al posto di accogliere con prudenza le accuse infami portate da questo gruppuscolo contro la CCI, il BIPR ha preferito garantirle incontrando a più riprese la FICCI. La CCI, dopo il primo incontro tra FICCI e BIPR, nella primavera 2002, ha anche chiesto di incontrare questa organizzazione per darle la propria versione dei fatti. Ma essa ha declinato questa richiesta con la scusa di non volersi esporre tra i due protagonisti. Era una pura menzogna perché il resoconto fatto dalla FICCI delle discussioni con il BIPR (e mai smentito da quest'ultimo) parla di assenso del BIPR alle accuse portate contro la CCI. Ma questo non era che un aperitivo dei comportamenti inqualificabili del BIPR. In seguito, è andato ben più oltre. Da una parte chiudendo pudicamente gli occhi sui comportamenti da spione adottati dalla FICCI, un comportamento che si poteva facilmente verificare consultando semplicemente il suo sito Internet: il BIPR non aveva neanche più la scusa che non aveva le prove che la CCI diceva il vero a proposito dei comportamenti della FICCI. Il BIPR è andato poi ancora più lontano giustificando, puramente e semplicemente, il furto da parte dei membri della FICCI di materiale politico della CCI dopo che la convocazione alla riunione pubblica del BIPR a Parigi del 2 ottobre era stata mandata agli abbonati di Révolution Internationale il cui schedario di indirizzi era stato rubato da un membro della FICCI (18). Tutto sommato, allo stesso modo con cui ha provato ad attirare nel suo giro il "Circulo" d'Argentina che pubblica sul suo sito le stupidità del cittadino B., non esita a rendersi complice di una banda di spioni volontari e di ladri nella speranza di allargare la sua presenza politica in Francia e stabilire un'antenna in Messico (non nasconde la speranza di recuperare nei suoi ranghi gli elementi che costituiscono la FICCI).
Contrariamente al "Circulo", la FICCI vive sempre e continua a pubblicare regolarmente dei bollettini in buona parte dedicati alla calunnia contro la CCI. Il BIPR, da parte sua afferma che: "i legami con la FICCI esistono e persistono". È possibile che riuscirà ad integrare i membri della FICCI quando questi ultimi saranno stanchi di affermare, contro ogni evidenza, che sono i "veri continuatori della vera CCI". Ma allora, il BIPR avrà raggiunto la fine del suo comportamento opportunista, un comportamento opportunista che fin da ora getta un forte discredito sulla memoria della Sinistra comunista di cui continua a vantarsi. Ed anche se il BIPR riesce ad integrare gli elementi della FICCI, non dovrebbe rallegrarsi troppo rapidamente: la propria storia gli avrebbe dovuto insegnare che con i resti che trova nella pattumiera della CCI, non possono essere fatte grandi cose.
Menzogne, complicità con gli spioni, la calunnia ed il furto, tradimento dei principi di onestà e di rigore organizzativo che avevano fatto l'onore della Sinistra comunista dell'Italia: ecco dove conduce l'opportunismo. E la cosa più triste per il BIPR è che ciò in pratica non lo tocca. E questo perché non ha compreso ancora che con un metodo opportunista (cioè un metodo che privilegia i "successi immediati" anziché la prospettiva a lungo termine, all'occorrenza sedendosi sui principi) si costruisce su della sabbia, che il solo campo dove il BIPR ha dato prova di una certa efficacia è quello degli aborti. È per ciò che, dopo più di un mezzo secolo di esistenza, la corrente che rappresenta è ridotta allo stato di una piccola setta, con ben meno forze politiche rispetto a quelle che aveva alle sue origini.
In un prossimo articolo, ritorneremo su ciò che costituisce proprio il fondamento del metodo opportunista del BIPR che l'ha condotto alle tristi contorsioni di cui siamo stati i testimoni durante l'ultimo periodo.
Fabienne
1. Una precipitazione non approvata dagli altri compagni che non si ritenevano ancora in grado di fare un tale passo.
2. Vedere il n° 13 di Workers' Voice a cui diamo una risposta nella Révue Internationale n° 2 ed anche il nostro articolo di World Revolution n°3 "Sectarism illimited".
3. Quando la CWO si costituì, l'avevamo qualificata un "raggruppamento incompleto" (vedere World Revolution n°5). Molto rapidamente i fatti confermavano quest'analisi: in un processo verbale di una riunione della CWO che riflette sul distacco degli elementi di Liverpool, è scritto "è stato mostrato che il vecchio WV non ha accettato mai la politica di fusione salvo per utilizzare RP come scudo contro la CCI" (citato ne "la CWO, passato, presente, futuro", testo redatto dagli elementi che si sono scissi dalla CWO nel novembre 1977 per raggiungere la CCI, pubblicato nella Revue Internationale n°12).
4. Bisogna fare qui una precisione: ben spesso, alla lettura della stampa del BIPR o di altri, si ha l'impressione che il merito di queste conferenze è unicamente di BC poiché è in seguito al suo appello del 1976 che si tenne la conferenza di Milano nel maggio 1977, la prima delle tre che ebbero luogo. Ad una tale idea rispondevamo già in una lettera inviata a BC il 9 giugno 1980: "Se ci si mantiene agli aspetti formali, allora sì, è l'appello pubblicato nell'aprile 1976 da BC che ne costituisce il punto di partenza. Ma occorre ricordarvi, compagni, che già nell'agosto 1968 la proposta di convocare una conferenza vi fu fatta da tre dei nostri compagni che erano venuti a vedervi a Milano? All'epoca, la nostra organizzazione era meno che embrionale (...) In quelle condizioni, era difficile chiamare ad una conferenza i differenti gruppi che erano apparsi o che si erano sviluppati in seguito a maggio 68. Pensavamo che una tale iniziativa doveva venire più da un gruppo importante, organizzato e conosciuto, dotato di una stampa più regolare e frequente come era proprio il vostro. È per ciò che vi abbiamo dato questo suggerimento insistendo sull'importanza di tali conferenze nel momento in cui la classe operaia cominciava a scuotere la terribile gogna della controrivoluzione. Ma, in quel momento, ritenendo che non c'era niente di nuovo sotto il sole e che maggio 68 non era niente altro che una rivolta studentesca, avete rigettato una tale proposta. L' estate seguente, mentre il movimento di scioperi cominciava a toccare l'Italia (...) vi abbiamo fatto la stessa proposta e ci avete dato la stessa risposta. (...) Mentre il movimento di scioperi si sviluppava in tutta l'Europa, vi abbiamo rifatto la stessa proposta all'epoca del vostro congresso del 1971. E la vostra risposta fu la stessa di prima. Alla fine, non "vedendo accadere niente", abbiamo lanciato in novembre 1972, tramite i nostri compagni di Internationalism (che andavano a costituire la sezione americana della CCI) l'iniziativa di una "corrispondenza internazionale" basata sul bisogno, provocato dalla ripresa proletaria, di discussioni tra rivoluzionari. Questa proposta era inviata ad una ventina di gruppi tra cui il vostro, selezionati sulla base di un certo numero di criteri molto simili a quelli delle recenti conferenze e che si fissava come prospettiva la tenuta di una conferenza internazionale. In quanto a voi, avete risposto negativamente a questa iniziativa ripetendo gli argomenti che avevate già posto alle nostre proposte precedenti (...). Bisogna pensare che, per questa organizzazione [il PCInt], non esiste alcuna buona iniziativa se non quella organizzata da lei stessa? (...) Così la nostra organizzazione ha sempre spinto nel senso della tenuta di conferenze internazionali di gruppi comunisti. E si può dire che l'iniziativa del 1976 del "Partito Comunista Internazionalista" non costituiva per niente un tipo di "primizia" ma era piuttosto un risveglio tardivo ed una risposta con otto anni di ritardo alla nostra prima proposta del 1968 o con quattro anni di ritardo alla nostra proposta del 1972 (...) tutto ciò non ci ha impedito di rispondere immediatamente in modo positivo a questa iniziativa. E si può dire anche, per finire con questa questione che è grazie alla nostra adesione che l'iniziativa di Battaglia non è fallita poiché, a parte voi, eravamo i soli partecipanti effettivi alla conferenza di Milano del 1977". (lettera pubblicata nel processo verbale in lingua francese della 3a conferenza dei gruppi della Sinistra comunista sotto la responsabilità della CCI).
5. È attraverso manovre degne delle pratiche parlamentari della borghesia che BC ha realizzato il suo piccolo colpo:
- in alcun momento prima della conferenza aveva mai chiesto che venisse messa all'ordine del giorno l'adozione di un criterio supplementare sulla questione del partito;
- è alla fine di lunghe trattazioni di corridoio con la CWO che ha convinto questa organizzazione a sostenere la sua proposta (al posto di presentare pubblicamente gli argomenti che essa ha riservato alla CWO);
- quando alcuni mesi prima, all'epoca di una riunione del comitato tecnico incaricato di preparare la conferenza, avevamo chiesto a BC se contava di escludere la CCI dalle future conferenze, questo gruppo aveva risposto molto chiaramente che era favorevole al loro proseguimento con tutti i partecipanti, la CCI compresa.
D'altra parte, il voto - due voci in favore di un nuovo criterio, una voce contro (la CCI) e due rifiuti di voto - ha avuto luogo dopo la partenza dell'altro gruppo che, con la CCI, era contro l'adozione di un tale criterio.
6. "Ora, esistono le basi per iniziare il processo di chiarimento sui veri compiti del partito... Sebbene oggi abbiamo meno partecipanti che alle 2a e 3a conferenze, cominciamo su una base più chiara e più seria" (Processo verbale della conferenza).
7. Ciò che dimostra bene che non è la posizione della CCI sul ruolo del partito a dare problemi a BC ed al CWO ma proprio il fatto che la CCI era per una discussione seria e rigorosa, ciò che queste due organizzazioni non volevano.
8. Il resoconto della 4a conferenza è abbastanza surrealistico: da una parte, è pubblicato due anni dopo questo avvenimento storico; dall'altra si constata che la maggior parte delle forze serie "selezionate" da BC e la CWO sono sparite prima o poco dopo che essa si fosse tenuta. Ma si apprende anche:
- che il "Comitato tecnico" (BC-CWO) è incapace di pubblicare un minimo bollettino preparatorio, ciò che è tanto più imbarazzante in quanto la conferenza è tenuta in inglese e i testi di riferimento di BC sono pubblicati tutti in italiano;
- che il gruppo che organizza la conferenza è incapace di tradurre la metà degli interventi.
9. Vedere particolarmente "Risposta alle risposte", Revue internationale n°36
10. Vedere Révue internationale n°35.
11. Vedere Révue internationale 44: "Saluto a Comunismo n° 1"
12. Vedere "Sviluppo della vita politica e delle lotte operaie in Messico" Révue internationale n° 50.
13. Vedere il nostro articolo "Difesa del campo politico rivoluzionario" in Internationalism 122 (estate 2002).
14. È perciò che li incoraggiamo ad andare alle riunioni pubbliche di questi gruppi, e particolarmente del BIPR, come abbiamo fatto all'epoca della Riunione Pubblica di questa organizzazione che si è tenuta a Parigi il 2 ottobre 2004. Bisogna notare che il BIPR aveva apprezzato allora poco la presenza "massiccia" dei nostri simpatizzanti come appare nella sua presa di posizione su questa RP.
15. Vedere in particolare su questo argomento il nostro articolo "Il Campo politico proletario di fronte alla guerra: Il flagello del settarismo in seno al campo internazionalista" nella Révue internationale n°116.
16. Vedere su questo argomento i nostri articoli "La lotta per la difesa dei principi organizzativi" e "15° congresso della CCI: rafforzare l'organizzazione di fronte alla posta in gioco del periodo" nei numeri 110 e 114 della Révue internationale
17. Vedere sul nostro sito Internet le differenti prese di posizione della CCI a proposito del "Circulo": "Una strana apparizione"; "Una nuova strana apparizione"; "Impostura o realtà?" ed anche nella nostra stampa territoriale: "'Circulo de Comunistas Internacionalistas' (Argentina) Un impostore smascherato"
18. Vedere a questo proposito l'articolo ‘Risposta al BIPR’: "Il furto e la calunnia non sono dei metodi della classe operaia!" sul nostro sito Internet.
Perché un tale battage sulla liberazione dei campi di concentramento?
Già la commemorazione del 60° anniversario dello sbarco alleato nel mese di giugno 1944 ha avuto un'ampiezza che supera quella del suo cinquantenario (1). Cosciente dell’importanza di mantenere sempre vivo il ricordo di un tale avvenimento, la borghesia non ha lesinato sui mezzi per ravvivare l'immagine di tutte queste giovani reclute che, credendo di combattere "per la libertà dei loro simili", si sono fatte massacrare a decine di migliaia sulle spiagge dello sbarco. Per la borghesia è importantissimo far permanere nella coscienza delle nuove generazioni la mistificazione che permise il reclutamento dei loro nonni, i quali pensavano che combattere il fascismo nel campo democratico (2) significava difendere la dignità umana e la civiltà contro la barbarie. Alla classe dominante non basta avere utilizzato come carne da cannone la classe operaia americana, inglese, tedesca (3), russa o francese, ma deve anche infettare con la sua putrida propaganda soprattutto le attuali generazioni di proletari. Infatti, sebbene oggi non sia disposta a sacrificarsi per gli interessi economici ed imperialisti della borghesia, la classe operaia continua tuttavia ad essere permeabile alla mistificazione secondo la quale non è il capitalismo la causa della barbarie nel mondo, ma alcuni poteri totalitari, nemici giurati della democrazia. La tesi del carattere "unico" del genocidio ebraico (e dunque non comparabile a nessun altro genocidio) ha un ruolo centrale nella persistenza attuale della mistificazione democratica. In effetti, è grazie alla sua vittoria sul regime totalitario torturatore del popolo ebraico che il campo alleato, e la sua ideologia democratica, hanno potuto imporre la menzogna secondo la quale essi costituivano i garanti contro la barbarie suprema.
All'indomani della Seconda Guerra mondiale, ed anche nei due decenni successivi, addossare la barbarie sia agli Alleati che al campo nazista è stata una prerogativa di una piccola minoranza, principalmente ristretta al campo rivoluzionario internazionalista (4). Ciò cambierà progressivamente con la messa in discussione, in seguito alla rinascita del proletariato sulla scena internazionale nel 1968, di tutto un insieme di mistificazioni e di menzogne prodotte e sostenute per quasi un mezzo secolo di controrivoluzione (al primo posto delle quali quella della presunta natura socialista dei paesi dell'Est). Tanto più che la serie ininterrotta di guerre dalla Seconda Guerra mondiale in poi, dove i grandi paesi democratici hanno mostrato di essere i campioni della barbarie (Stati Uniti in Vietnam, Francia in Algeria, …) (5) forniva materia di riflessione critica. L'impennata della barbarie e del caos a partire dagli anni 1990, malgrado il ritorno della mistificazione democratica generata dalle campagne sul crollo dello stalinismo, ha mostrato questo secolo come il più barbaro della storia (6). Da 15 anni è evidente che le grandi potenze, spesso "democratiche", hanno una diretta responsabilità nello scoppio dei conflitti: gli Stati Uniti con al seguito la coalizione anti-Saddam nella prima guerra in Iraq che ha prodotto 500.000 morti; le grandi potenze occidentali in Iugoslavia (per due volte) con le "pulizie etniche", tra cui quella dell'enclave di Srebrenica nel 1993 fatta dalla Serbia e coperta dalla Francia e la Gran Bretagna; il genocidio del Ruanda orchestrato dalla Francia e che ha prodotto circa un milione di vittime (7); la stessa guerra in Cecenia che ha egualmente dato luogo alla sua epurazione etnica da parte della Russia; l'ultimo, sempre attuale e altrettanto barbaro, intervento americano-britannico in Iraq. In alcuni di questi conflitti abbiamo assistito anche alla replica della sceneggiatura della Seconda Guerra mondiale dove si è designato un dittatore per addossargli la responsabilità delle ostilità e delle carneficine: Saddam Hussein in Iraq, Milosevic in Iugoslavia. Importa poco se il dittatore era stato un personaggio rispettabile agli occhi di queste democrazie che intrattenevano con lui cordiali relazioni prima di trovarlo più utile come capro espiatorio.
In queste condizioni, non deve stupire che la pillola del carattere "unico" del genocidio ebraico è sempre più difficile da ingoiare per quelli che non hanno subito lo scervellante martellamento ideologico per tutta una vita. Concepire l'Olocausto come un'ignominia particolarmente abietta in un oceano di barbarie, e non come qualche cosa di particolare, presuppone un senso critico che non ha ceduto di fronte alle ripugnante campagne di colpevolizzazione e di intimidazione della borghesia, che fa passare per indifferentisti e negazionisti (quelli che contestano la realtà dell'Olocausto), antisemiti e neonazisti quelli che rigettano e condannano tanto il campo degli Alleati che quello dei fascisti. E' per tale motivo che le nuove generazioni sono maggiormente in grado di liberarsi delle menzogne che hanno avvelenato la coscienza dei loro padri, come dimostrano alcuni commenti di professori di liceo incaricati di dispensare un corso sulla Shoah: "è difficile far loro [agli studenti] ammettere che questo è un genocidio differente dagli altri" (Le Monde del 26 gennaio,"L'atteggiamento refrattario di certi studenti obbliga gli insegnanti a riconsiderare i loro corsi sulla Shoah").
Proprio per ostacolare l'avanzamento di una presa di coscienza sulla reale natura della Seconda carneficina mondiale e sulla democrazia, la borghesia dove giocare sull'emozione che necessariamente provoca l'evocazione e la descrizione del calvario dei milioni di scomparsi nei campi di concentramento, deviando la reale responsabilità di questi orrori e di tutti quelli della guerra, su un dittatore, un regime, un paese per risparmiare un sistema, il capitalismo. E per dare piena efficacia alla messa in scena bisogna continuare ad nascondere e deformare la realtà dei crimini delle grandi democrazie durante la Seconda Guerra mondiale.
Dietro il terrore e la barbarie degli Alleati e del nazismo, la stessa ragion di StatoL'esperienza di due guerre mondiali mostra che esse hanno delle caratteristiche comuni che spiegano gli alti livelli allora raggiunti dalla barbarie e di cui sono responsabili tutti i campi in gioco:
- L'armamento incorpora il più alto livello tecnologico e, come per l’insieme dello sforzo bellico, drena tutte le risorse e le forze della società. I progressi della tecnologia raggiunti tra la Prima e la Seconda Guerra mondiale, in particolare nel campo dell'aviazione, hanno fatto si che lo scontro militare non si contendesse più essenzialmente su campi di battaglia, con gli eserciti nemici l'uno di fronte all'altro, ma tutta la società diventa il teatro delle operazioni;
- Una morsa di ferro stringe tutta la società per piegarla alle esigenze estreme del militarismo e della produzione di guerra. Il modo con cui questo è stato fatto in Germania è caricaturale. Man mano che aumentano le difficoltà militari, i bisogni di mano d'opera aumentano. Per soddisfarli, durante il 1942, i campi di concentramento diventano un immenso serbatoio di materiale umano a buon mercato, indefinitamente rinnovabile e sfruttabile a piacere. Almeno il terzo degli operai utilizzati dalle grandi società, Krupp, Heinkel, Messerschmitt o IG Farben erano deportati (8).
- Per imporsi militarmente vengono utilizzati tutti i mezzi, fino ai più estremi: i gas asfissianti della Prima Guerra mondiale, che appena prima di essere usati, erano considerati l'arma assoluta di cui non si sarebbe mai fatto uso; la bomba atomica, l'arma suprema, contro il Giappone nel 1945. Durante la Seconda Guerra mondiale meno noti, ma ancora più mortali, sono stati i bombardamenti delle città e delle popolazioni civili per terrorizzarle e decimarle. Inaugurati dalla Germania sulle città di Londra, Coventry e Rotterdam, sono stati perfezionati e utilizzati sistematicamente dalla Gran Bretagna i cui bombardieri scateneranno dei veri uragani di fuoco nei centri delle città, portando la temperatura di questi bracieri giganti a più di mille gradi.
"I crimini tedeschi o sovietici non possono far dimenticare che gli stessi Alleati sono stati presi dallo spirito del male e in certi aspetti hanno superato la Germania, in particolare con i bombardamenti di terrore. Decidendo il 25 agosto 1940 di lanciare i primi raid su Berlino, in replica ad un attacco accidentale su Londra, Churchill si assume la schiacciante responsabilità di una terribile regressione morale. Per circa cinque anni il Premier britannico, i comandanti del Bomber Command, Harris in particolare, infieriscono sulle città tedesche. (…)
Il colmo dell'orrore è raggiunto l'11 settembre 1944 a Darmstadt. Durante un attacco notevolmente concentrato, tutto il centro storico sparisce in un oceano di fiamme. In 51 minuti, la città riceve un tonnellaggio di bombe superiori a quello di tutto l'agglomerato londinese durante la durata della guerra. 14.000 persone trovano la morte. In quanto alle industrie localizzate alla periferia e che rappresentano solamente lo 0,5% del potenziale economico del Reich, sono toccate appena". (Una guerra totale 1939-1945, strategie, mezzi, controversia di Ph. Masson) (9). I bombardamenti inglesi sulle città tedesche causarono la morte di circa 1 milione di persone.
Lungi dal portare ad una certa moderazione dell'offensiva sul nemico, permettendo di ridurne il costo finanziario, la sconfitta nell'anno 1945 della Germania e del Giappone ha al contrario raddoppiato sia in intensità che in crudeltà gli attacchi aerei. Il motivo è che la vera posta in gioco non era ormai più la vittoria su questi paesi già conquistati. In effetti la questione era evitare che frazioni della classe operaia in Germania, di fronte alle sofferenze della guerra, si sollevassero contro il capitalismo, come era successo durante la Prima Guerra mondiale (10). Gli attacchi aerei inglesi miravano, quindi, a proseguire l'annientamento degli operai non periti già sui fronti militari ed a sprofondare il proletariato nell'impotenza del terrore.
A questa considerazione, se ne aggiunge un'altra. Era diventato chiaro per gli anglo-americani che la futura spartizione del mondo andava a porre i principali paesi vincitori della Seconda Guerra mondiale gli uni di fronte agli altri. Da una parte gli Stati Uniti (con al loro fianco un'Inghilterra dissanguata dalla guerra) e dall'altra l'Unione Sovietica che in quel momento era in grado di rinforzarsi considerevolmente attraverso le conquiste e l'occupazione militare permesse dalla sua vittoria sulla Germania. La consapevolezza di questa nuova minaccia viene espressa chiaramente da Churchill: "la Russia sovietica era diventata un pericolo mortale per il mondo libero, [tale] che bisognava creare senza perdere tempo un nuovo fronte per fermare la sua marcia in avanti e che in Europa questo fronte avrebbe dovuto trovarsi il più all'Est possibile" (11). Si tratta allora per gli Alleati occidentali di porre dei limiti all'appetito imperialista di Stalin in Europa ed in Asia attraverso dimostrazioni di forza dissuasiva. Questa sarà l'altra funzione dei bombardamenti inglesi del 1945 sulla Germania e l'unico obiettivo dell'impiego dell'arma atomica contro il Giappone (12).
Il carattere sempre più limitato degli obiettivi militari ed economici che diventano nettamente secondari dimostra, come a Dresda, questo nuovo scopo dei bombardamenti:
"Fino al 1943, a dispetto delle sofferenze inflitte alla popolazione, i raid possono offrire ancora una giustificazione militare o economica prendendo di mira i grandi porti del nord della Germania, il complesso della Ruhr, i centri industriali maggiori o anche la capitale del Reich. Ma, a partire dall'autunno 1944, non è più lo stesso. Con una tecnica perfettamente rodata, il Bomber Command che dispone di 1600 aerei e che si scontra con una difesa tedesca sempre più debole, intraprende l'attacco e la distruzione sistematica delle città medie ed anche delle stesse piccole agglomerazioni senza il minimo interesse militare o economico. La storia ha giustificato l'atroce distruzione di Dresda nel febbraio 1945, con la scusa strategica di neutralizzare un centro ferroviario importante per le retrovie della Wehrmacht impegnata contro l'Armata rossa. In effetti le perturbazioni portate alla circolazione non supereranno le 48 ore. Ma nessuna giustificazione riguarda la distruzione di Ulm, di Bonn, di Wurtzbourg, di Hidelsheim, di queste città medievali, di questi gioielli artistici che appartengono al patrimonio dell'Europa. Tutte queste antiche città spariscono nei tifoni di fuoco dove la temperatura raggiunge dai 1000 ai 2000 gradi provocando la morte di decine di migliaia di persone con sofferenze atroci." (Ph. Masson)
Quando la barbarie stessa diventa il principale movente della barbarie
Questa è un'altra caratteristica comune ai due conflitti mondiali: proprio come le forze produttive che la borghesia è incapace di controllare sotto il capitalismo, le forze di distruzione che mette in movimento in una guerra totale tendono a sfuggire al suo controllo. Allo stesso modo, le peggiori pulsioni che la guerra ha scatenato si automatizzano e si autostimolano, dando adito ad atti di barbarie gratuita, senza più nessun rapporto con gli scopi di guerra perseguiti, per quanto abietti possano essere quest'ultimi.
Durante la guerra i campi di concentramento nazisti erano diventati una gigantesca macchina per uccidere tutti quelli sospettati di resistenza in Germania o nei paesi occupati o vassallizzati. Il trasferimento dei detenuti in Germania costituisce, nei fatti, un mezzo per imporre l'ordine attraverso il terrore sulle zone di occupazione tedesca (13). Ma il carattere sempre più sbrigativo e radicale dei mezzi adoperati per sbarazzarsi della popolazione concentrata nei campi, in particolare degli ebrei, risponde sempre meno a considerazioni risultanti dalla necessità di imporre il terrore o il lavoro forzato. È la fuga in avanti nella barbarie con il solo movente della stessa barbarie (14). Parallelamente all'omicidio di massa, torturatori e medici nazisti procedevano alle "sperimentazioni" sui prigionieri dove il sadismo faceva a gara con l'interesse scientifico. A questi sarà poi offerta l'immunità ed una nuova identità in cambio della loro collaborazione ai progetti classificati come "segreto di difesa militare" negli Stati Uniti.
La marcia dell'imperialismo russo, attraverso l'Europa dell'Est in direzione di Berlino, s'accompagna a ritorsioni che rivelano la stessa logica:
"Colonne di profughi sono schiacciate sotto i cingoli dei carri o mitragliate sistematicamente dall'aviazione. La popolazione di intere agglomerazioni è massacrata con raffinata crudeltà. Donne nude sono crocifisse sulle porte dei fienili. Alcuni bambini sono decapitati o hanno la testa schiacciata a forza di calci, o gettati ancora vivi nei porcili. Tutti quelli che non hanno potuto fuggire o che non hanno potuti essere evacuati dal Kriegsmarine nei porti del Baltico sono puramente e semplicemente sterminati. Il numero delle vittime può essere valutato dai 3 ai 3,5 milioni (…). Senza raggiungere un tale livello, questa follia omicida si estende a tutte le minoranze tedesche del Sud-est europeo, in Iugoslavia, in Romania ed in Cecoslovacchia, alle migliaia di Sudeti. La popolazione tedesca di Praga, installata nella città sin dal Medioevo, è massacrata con raro sadismo. Dopo essere state violentate, alcune donne hanno i tendini di Achille tagliati e condannate a morire quindi di emorragia sul suolo tra atroci sofferenze. Alcuni bambini sono mitragliati all'uscita delle scuole, gettati sulla carreggiata dai piani più elevati dei palazzi o annegati nelle vasche o nelle fontane. Degli infermi sono murati vivi nelle cantine. In totale, più di 30.000 vittime. La violenza non risparmia i giovani ausiliari delle trasmissioni della Luftwaffe gettati vivi nei pagliai infiammati. Per settimane il Vltava (Moldau) trasporta migliaia di corpi, alcuni a famiglie intere sono inchiodati su delle zattere. Allo stupore dei testimoni, tutta una parte della popolazione ceca ostenta una ferocia d’altri tempi. Questi massacri derivano, in realtà, da una volontà politica, da un'intenzione di eliminazione, a favore del risveglio delle più bestiali pulsioni. A Yalta, davanti all'inquietudine di Churchill dl veder nascere delle nuove minoranze nel quadro delle future frontiere dell'URSS o della Polonia, Stalin non potrà astenersi dal dichiarare con aria beffarda che non dovevano più esserci molti tedeschi in queste regioni..." (Ph. Masson)
La "pulizia etnica" delle province tedesche dell'est non è dovuta alla responsabilità della sola armata di Stalin, ma anche al concorso delle forze armate britanniche ed americane. Sebbene all'epoca già si delineano le linee del futuro antagonismo tra l'URSS e gli Stati Uniti, questi paesi e l'Inghilterra cooperano senza riserve nel compito di eliminare il pericolo proletario, attraverso l'eliminazione in massa della popolazione (15). Inoltre, tutti hanno interesse a che il giogo della futura occupazione della Germania possa esercitarsi su una popolazione inerte per le troppe sofferenze subite, comportando il minor numero di profughi possibili. Questo obiettivo, che già in sé incarna la barbarie, sarà il punto di partenza della scalata di una bestialità incontrollata al servizio dell'omicidio in massa. I rifugiati che sfuggono ai cingoli dei carri di Stalin, sono massacrati dai bombardamenti inglesi ed americani che scatenano mezzi considerevoli per il loro puro e semplice sterminio. La crudeltà dei bombardamenti in Germania che siano inglesi, ordinati da Churchill in persona, o americani, mira ad uccidere selvaggiamente il più possibile: "Questa volontà di distruzione sistematica che prende aspetti quasi di genocidio prosegue fino all'aprile 1945, a dispetto delle incalzanti obiezioni dell'Air Marshall Portal, comandante in capo della RAF che vorrebbe che i bombardamenti fossero orientati sull'industria del petrolio o i trasporti. Da buon politico, Churchill stesso finisce per inquietarsi, in seguito alle reazioni indignate della stampa dei paesi neutrali e di una parte della stessa opinione britannica". (Ph. Masson). Sul fronte tedesco, il raid americano del 12 marzo 1945 sulla città portuaria di Swinemünde in Pomerania che totalizzerà probabilmente secondo le stime più di 20.000 vittime, prende per bersaglio i profughi che fuggono all'avanzata delle truppe di Stalin, ammassati in città o già a bordo di navi:
"La spiaggia era circondata da un larga cintura di parchi dove si era concentrata la massa dei profughi. L' ottava armata americana lo sapeva perfettamente, per questo aveva ben caricato i suoi aerei di "rompitori di alberi", bombe munite di detonatori che esplodevano nel momento in cui entravano in contatto con i rami. Un testimone racconta di aver visto i rifugiati nel parco "gettarsi al suolo esponendo tutto il loro corpo all'azione dei "rompitori di alberi". "I marcatori avevano disegnato esattamente i limiti del parco con luci traccianti, il bombardamento a tappeto cadeva dunque in una zona particolarmente stretta in modo da non lasciare alcuna via di scampo (…). Tra le grandi navi commerciali che affondarono - Jasmund, Hilde, Ravensburg, Heiligenhafen, Tolina, Cordillera - fu l'Andros che subì le perdite più pesanti. Era salpata il 5 marzo da Pillau, sulla costa del Samland, con duemila passeggeri in direzione della Danimarca" (L'incendio, la Germania sotto le bombe, 1940-45 di Jörg Friedrich).
"A questi attacchi massicci si aggiungono, nello lo stesso periodo, i raid ripetuti dell'aviazione tattica, bimotori e caccia-bombardieri. Questi raid [degli americani e degli inglesi] mirano addirittura i treni, le strade, i villaggi, le fattorie isolate, i contadini nei loro campi. I tedeschi lavorano ormai i campi solo la mattina all'alba o la sera al crepuscolo. Mitragliate vengono effettuate all'uscita delle scuole e bisogna insegnare ai bambini come proteggersi dagli attacchi aerei. All'epoca del bombardamento di Dresda, i caccia alleati sparano sulle ambulanze ed alle auto di pompieri che convergono verso la città dalle cittadine circostanti". (Ph. Masson).
Sul fronte di guerra dell'estremo oriente, l'imperialismo americano agisce con la stessa bestialità: "Ritorniamo all'estate 1945. Sessantasei delle più grandi città del Giappone sono già state distrutte dal fuoco dei bombardamenti al napalm. A Tokio un milione di civili è senza riparo e 100.000 persone hanno trovato la morte. Sono state, per riprendere l'espressione del generale di divisione Curtis Lemay responsabile di queste operazioni di bombardamento a fuoco, "tostate, bollite e cotte a morte". Il figlio del presidente Franklin Roosevelt che era anche il suo confidente, aveva dichiarato che i bombardamenti dovevano proseguire "finché non avremo distrutto circa la metà della popolazione civile giapponese". Il 18 luglio, l'imperatore del Giappone telegrafa al presidente Harry S.Truman che era successo a Roosevelt, per chiedere ancora una volta la pace. Il suo messaggio viene ignorato. (…) Alcuni giorni prima del bombardamento di Hiroshima, il viceammiraglio Arthur Radford fa il gradasso: "Va a finire che il Giappone diventerà solamente una nazione senza città - un popolo di nomadi"". ("Da Hiroshima alle Twin Towers", Le Monde diplomatique di settembre 2002).
Annebbiamento ideologico e menzogne per coprire i cinici crimini della borghesia
Esiste ancora un'altra caratteristica del comportamento della borghesia particolarmente presente nelle guerre, soprattutto quando queste sono totali: alcuni dei crimini che essa decide di non cancellare dalla storia (secondo il metodo con cui già avevano cominciato a procedere gli storici stalinisti negli anni 30) vengono trasformati nel loro contrario, in atti coraggiosi, virtuosi, che avrebbero permesso di salvare più vite umane di quelle soppresse.
I bombardamenti britannici in Germania
Con la vittoria degli Alleati, è tutto un pezzo della storia della Seconda Guerra mondiale che è sparito dalla realtà (16): "i bombardamenti di terrore sono caduti in un oblio quasi completo, come i massacri perpetrati dall'armata rossa o i terribili regolamenti di conti dell'Europa dell'est".(Ph. Masson). Questi avvenimenti evidentemente non sono evocati alle cerimonie di commemorazione degli anniversari "macabri"; sono banditi. Rimangono solo alcune testimonianze storiche che, essendo troppo radicate per essere apertamente sradicate, vengono "trattate dai media" per renderle innocue. E’ il caso del bombardamento di Dresda: "…il più bel raid di terrore di tutta la guerra fu opera degli Alleati vittoriosi. Un record assoluto fu conquistato il 13 e 14 febbraio 1945: 253.000 uccisi, tra profughi, civili, prigionieri di guerra, deportati del lavoro. Nessun obiettivo militare" (Jacques de Launay) Introduzione all'edizione francese del 1987 del libro La distruzione di Dresda (17).
È buona regola oggi per i media che commentano le cerimonie del 60° anniversario del bombardamento di Dresda, parlare di 35.000 vittime e quando viene citata la cifra di 250.000, questa stima viene immediatamente attribuita, per alcuni alla propaganda nazista, per altri alla propaganda stalinista. Quest'ultima "interpretazione" è del resto poco coerente con la preoccupazione maggiore delle autorità della Germania dell'Est per i quali, all'epoca, "neanche si parlava di lasciare spargere la vera notizia che la città era invasa da centinaia di migliaia di profughi che fuggono davanti l’Armata rossa". (Jacques de Launay). In effetti, al momento dei bombardamenti, la città contava circa 1 milione di abitanti di cui 400.000 profughi. Vista il modo di cui la città è stata devastata (18), è difficile immaginarsi come sia perito solo il 3,5% della popolazione!
Alla campagna di banalizzazione da parte della borghesia dell'orrore di Dresda, attraverso la minimizzazione del numero delle vittime, se ne sovrappone un'altra che mira a fare apparire l'indignazione legittima che suscita questo atto di barbarie come un attacco dei neo-nazisti. Tutta la pubblicità intorno alle manifestazioni di commemorazione fatte dai degenerati nostalgici del 3° Reich in Germania, non può in effetti che spingere a prendere le distanze da una critica che metta in discussione gli Alleati, per timore di essere amalgamati ai nazisti.
Il bombardamento atomico sul Giappone
Contrariamente ai bombardamenti inglesi in Germania su cui è stato fatto di tutto per ridurne l'ampiezza, l'impiego dell'arma atomica, per la prima ed unica volta nella storia, da parte della prima democrazia del mondo è un avvenimento che non è stato mai minimizzato o dissimulato. Al contrario, tutto è stato fatto affinché si sapesse e venisse messo in evidenza il potere di distruzione di questa nuova arma. Ancor prima dello stesso bombardamento di Hiroshima del 6 agosto 1945 tutte le disposizioni furono prese in tal senso: "Quattro città erano state designate [per essere bombardate]: Hiroshima (città industriale con grande porto e base militare), Kokura (principale arsenale), Nigata (porto acciaierie e raffinerie), e Kyoto (industrie) (…) A partire da questo momento, nessuna delle su citate città fu bombardata: era necessario che esse fossero toccate il meno possibile affinché la potenza distruttrice della Bomba atomica non potesse essere messa in discussione" (“Bombe lanciate su Hiroshima” su www.momes.net/dictionnaire/h/hiroshima.html [48]). In quanto allo sgancio della seconda bomba su Nagasaki (19), questo corrisponde alla volontà degli Stati Uniti di dimostrare che potevano, tutte le volte che ritenevano necessario, fare uso del fuoco nucleare (il che in realtà non era ancora vero dato che le altre bombe non erano pronte).
La giustificazione ideologica per questo massacro delle popolazioni giapponesi, era che solo così si poteva ottenere la capitolazione del Giappone salvando la vita di un milione di soldati americani. È una menzogna enorme ancora oggi diffusa: il Giappone era esangue e gli Stati Uniti, avendo intercettato e decifrato delle comunicazioni della diplomazia e dello Stato Maggiore nipponico, sapevano che era pronto a capitolare. Ma sapevano anche che esisteva, dal lato giapponese, una restrizione alla capitolazione, il rifiuto della destituzione dell'imperatore Hiro-Hito. Disponendo di un mezzo per evitare che il Giappone non accettasse la capitolazione totale, gli Stati Uniti l'utilizzarono redigendo gli ultimatum in modo tale da far intendere che esigevano la destituzione dell'imperatore. Inoltre bisogna sottolineare che l'amministrazione americana non aveva mai minacciato esplicitamente il Giappone di attaccarlo con il fuoco nucleare, fin dalla prima sperimentazione nucleare riuscita ad Alamogordo, proprio per non lasciargli un'opportunità di accettare le condizioni americane. Dopo avere sganciato due bombe atomiche dimostrando la superiorità di questa nuova arma su tutte le armi convenzionali, gli Stati Uniti avevano raggiunto il loro fine, il Giappone capitolò e... l'imperatore restò al suo posto. L'inutilità assoluta dell'uso della bomba atomica contro il Giappone per costringerlo a capitolare è stata confermata, sin da allora, dalle dichiarazioni di militari di cui alcuni di alto grado, loro stessi sconvolti da un tale cinismo e da una tale barbarie (20).
La corresponsabilità degli Alleati nell'Olocausto
"Al silenzio europeo, si aggiunge quello degli Alleati. Perfettamente informati a partire da 1942, né gli inglesi né gli americani si commuovono di tanto della sorte degli ebrei e si rifiutano di integrare la lotta contro il genocidio negli scopi di guerra. La stampa segnala molti trasferimenti e massacri, ma queste notizie sono rigettate in dodicesima o quindicesima pagina. Il fenomeno è particolarmente netto negli Stati Uniti dove regna un antisemitismo virulento dal 1919". (Una guerra totale…)
All'epoca della liberazione dei campi, gli Alleati fanno finta di essere sorpresi dell'esistenza di questi e degli stermini di massa lì perpetrati. Fino a quel momento denunciati unicamente da alcuni storici onesti e dalle minoranze rivoluzionarie, questo raggiro comincia a essere rimessa in causa, da una decina di anni, da personalità ufficiali o riconosciute dai media. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahou, il 23 aprile 1998 dichiara ad Auschwitz, in occasione de "la Marcia dei Vivi": "non era difficile fermare il tutto, bastava bombardare queste rotaie. Essi [gli Alleati] sapevano. Non hanno bombardato perché all'epoca gli ebrei non avevano uno Stato, una forza militare e politica per proteggersi"; parimenti la rivista francese Scienza e vita Junior scrive: "Nella primavera 1944, gli Alleati fotografano in dettaglio Auschwitz-Birkenau e bombardano in quattro riprese le fabbriche vicine. Mai una bomba fu lanciata contro le camere a gas, le strade ferrate o i forni crematori del campo di sterminio. Winston Churchill e Franklin Roosevelt erano stati informati, fin dal 1942, dal rappresentante del Congresso ebraico mondiale a Ginevra e poi dai resistenti polacchi di ciò che accadeva nei campi. Alcuni resistenti ebraici hanno chiesto loro di bombardare le camere a gas ed i forni crematori di Auschwitz. Non l'hanno fatto o, nel caso di Churchill, i loro ordini non sono stati eseguiti". (N°38, ottobre 1999; Dossier fuori serie: la Seconda Guerra mondiale). Il procedimento è vecchio come il mondo: si accusano dei subalterni per risparmiare i capi! Le risposte date a questa situazione, anche le più oneste, fanno bella mostra della rispettabilità del campo alleato: "Perché, mentre l'aviazione alleata ha bombardato una fabbrica di gomma a 4 chilometri più in là? La risposta è terribile: i militari avevano altre priorità. Per loro, la cosa più importante era vincere al più presto la guerra e niente doveva ritardare questo obiettivo prioritari.” (Ibid.). Si fa di tutto per evitare di porre la vera questione della corresponsabilità degli Alleati nell'Olocausto (21) quando questi rifiutarono ogni proposta tedesca di scambiare degli ebrei contro i camion, ed anche contro niente e, neanche per salvare loro la vita, vollero occuparsi di una popolazione di cui non avevano che fare.
La borghesia : una classe di gangster
Come spiegare che i segreti così ben custoditi per anni finiscono per essere svelati sulla pubblica piazza? Nell'articolo da cui è preso il brano su citato del discorso di Netanyahou del 23 aprile 1998 ad Auschwitz, si delinea un inizio di risposta: "Evidentemente, la pressione esercitata su Benjamin Netanyahou dai paesi europei e soprattutto dagli Stati Uniti, alla vigilia della sua partenza in Polonia, rispetto ai negoziati con Yasser Arafat, spiega il suo ricorso al tema delle vittime della Shoah" ("Il dibattito storiografico in Israele intorno alla Shoah: il caso della leadership ebraica" di Raya Cohen, Università di Tale-Aviv). Effettivamente è proprio per fare allentare la pressione esercitata su Israele da parte degli Stati Uniti nei negoziati coi palestinesi che Netannyahou lancia un sasso nello stagno destinato a denigrare la reputazione dello zio Sam. Mostrando esplicitamente la volontà di una maggiore indipendenza nei confronti degli Stati Uniti, per giocare la propria carta, Israele non fa che inserirsi nella dinamica di tutti i vecchi vassalli degli Stati Uniti del blocco dell'Ovest da quando questo è sparito all'inizio degli anni ‘90. Altri paesi come la Francia o la Germania si sono spinti ancora più lontano in questa direzione contestando più apertamente la leadership americana. È la ragione per quale, allo scopo di alimentare un anti-americanismo sempre più forte man mano che aumentavano gli antagonismi con la prima potenza mondiale, i nuovi rivali, e vecchi alleati degli Stati Uniti, potrebbero essere sempre più favorevoli al fatto che sia posta pubblicamente la questione del "perché gli Alleati, che sapevano dell'Olocausto in corso, non hanno bombardato i campi di concentramento?" Gli Stati Uniti, ma anche la Gran Bretagna, devono dunque aspettarsi di dover affrontare delle critiche più esplicite circa la loro corresponsabilità nell'Olocausto (22).
In particolare da parte della Germania ci sono vari tentativi di rompere il consenso ideologico favorevole al vincitore del 1945, insieme alla volontà di lasciare lo statuto di nano militare risultato dalla sconfitta. Dalla sua riunificazione all'inizio degli anni 90, la Germania si è data i mezzi per assumere sul piano internazionale responsabilità militari in operazioni dette di "mantenimento della pace", in ex-Iugoslavia in particolare e più recentemente in Afghanistan. Una tale politica della Germania, che tende ad affermarsi come principale sfidante alla leadership americana, anche se è ancora lontana da potere rivaleggiare con essa, corrisponde alla volontà di questo paese di poter sostenere di nuovo un ruolo di primo piano sulla scacchiera imperialista mondiale. Tra le condizioni richieste per tenere un tale ruolo, le occorre mettere fine alla vergogna del suo passato nazista incollatele addosso, deve "riabilitarsi" dimostrando che, all'epoca della Seconda Guerra mondiale, la barbarie era in entrambi campi. Il che non è molto difficile visto le prove che attestano questa realtà. In modo del tutto appropriato, l'offensiva ideologica della Germania è condotta da personalità che affermano di subordinare la loro lotta alla difesa della democrazia non risparmiando la denuncia dei crimini nazisti. Come riporta un articolo intitolato "Il libro di Jörg Friedrich "Der Brand" ha riaperto la polemica concernente i bombardamenti strategici" all'interno di un numero speciale dello Spiegel nel 2003, questa offensiva ideologica ha dato adito ad un vivo scambio mediatico tra la Germania e la Gran Bretagna. Lo Spiegel scrive: "dei brani di questo studio esauriente della guerra delle bombe gettate dagli Alleati contro la Germania negli anni 1940-45 erano stati appena pubblicati in Bild-Zeitung che i giornalisti britannici si sono gettati sullo storico berlinese, finendo per porre costantemente la stessa domanda: "Come siete arrivati a descrivere Winston Churchill un criminale di guerra? Friedrich ha spiegato ripetutamente che nel suo libro si era astenuto dall’esprimere un giudizio su Churchill. Non può essere inoltre un criminale di guerra in senso giuridico del termine, dice Friedrich, per il fatto che i vincitori, anche quando hanno commesso dei crimini di guerra, non vengono incolpati".
Lo Spiegel riprende: "non è stupefacente che il conservatore Daily Telegraph abbia suonato così in fretta l'allarme ed abbia stigmatizzato il libro di Friedrich come “un attacco mai visto contro la condotta della guerra da parte degli Alleati". Nel Daily Mail lo storico Corelli Barnett schiuma che il collega tedesco avrebbe raggiunto il "livello di pericoloso revisionista" e cercherebbe di stabilire "un'equivalenza morale tra il sostegno dato da Churchill ai bombardamenti a tappeto ed il crimine indicibile" dei Nazisti, "un non senso infame e pericoloso". (…). Churchill - vero uomo di guerra - era anche un politico ambivalente. E' il carismatico Primo ministro che ha richiesto gli attacchi "di annientamento" contro le città tedesche. Ma quando, in seguito, vide dei film di città in fiamme, domandò: "Siamo delle bestie? Andiamo troppo lontano?"
Allo stesso tempo, non è stato nessun altro che lui stesso - come Hitler e Stalin - a farsi carico delle decisioni militari importanti ed ha come minimo approvare la costante scalata dei bombardamenti nella guerra".
Nello stesso senso, la Germania sviluppa un'offensiva diplomatica che mira ad ottenere risarcimento morale per il danno subito con la perdita della sua influenza storica in un certo numero di paesi dell'Europa dell'Est, in seguito alla sua sconfitta nella Seconda Guerra mondiale. Infatti, "circa 15 milioni di tedeschi hanno dovuto fuggire dall'est dell'Europa dopo la sconfitta. Nazisti o non, collaboratori o resistenti, furono cacciati dalle regioni dove si erano stabiliti da secoli: i Sudeti in Boemia e Moravia, la Slesia, la Prussia orientale e la Pomerania" ("La ‘nuova Germania’ rompe i suoi vecchi tabù"; Le Temps - periodico svizzero - del 14 giugno 2002). In effetti, sotto la copertura di operare per fini umanitari, la Germania è fautrice della creazione di una "rete europea contro gli spostamenti di popolazioni" motivate da "l'idea che lo spostamento delle popolazioni tedesche fu una "ingiustizia" per motivazioni etniche coperta dagli Accordi di Potsdam" (Informationen zur Deutschen Außenpolitik del 2 febbraio 2005; https://www.germanforeignpolicy.com [49]) (23). In un discorso di sostegno a questa "rete", pronunciato nel novembre 2004 davanti ad una commissione del Consiglio dell'Europa, Markus Meckel, deputato SPD specializzato in questioni internazionali, dichiarava: "Certo, sono dei dittatori come Hitler, Stalin e, recentemente, Milosevic che hanno ordinato tali spostamenti di popolazioni ma dei democratici come Churchill e Roosevelt, hanno accettato l'omogeneizzazione etnica come un mezzo di stabilizzazione politica". La pubblicazione citata (Informationen zur.) riassume il seguito del discorso: "Meckel arriva alla provocazione aggiungendo che tutti sarebbero oggi d'accordo a qualificare come un attentato al diritto, il trapianto delle popolazioni tedesche. "La comunità internazionale condanna oggi", spiega lui, il comportamento dei vincitori della guerra che si pensa non abbiano agito in maniera diversa dalla dittatura razzista del nazional-socialismo".
Evidentemente, non bisogna aspettarsi da parte di nessuna frazione della borghesia, che la messa in evidenza dei crimini commessi da altre frazioni della borghesia, abbia una motivazione diversa dalla difesa dei suoi interessi imperialisti. Oggi, la propaganda borghese che utilizza la rivelazione dei crimini degli Alleati durante la Seconda Guerra mondiale è da combattere con la stessa determinazione della propaganda alleata e democratica che ha utilizzato i crimini del nazismo per farsi una verginità. Tutte le lacrime versate sulle vittime della Seconda Guerra mondiale, da parte di qualunque frazione della borghesia, sono solamente nauseante ipocrisia.
La più importante lezione da trarre da questi sei anni di carneficina della Seconda guerra mondiale è che i due campi in gioco ed i paesi che essi raggruppavano, quale che sia l'ideologia di cui questi si drappeggiavano, stalinista, democratico o nazista, erano tutti la legittima creazione della bestia immonda che è il capitalismo decadente.
La sola denuncia della barbarie che possa servire gli interessi dell'umanità è quella che, andando alla radice di questa barbarie, se ne serve da leva per una denuncia dell’insieme del capitalismo in vista del suo capovolgimento, prima che questo seppellisca tutta l'umanità sotto mucchi di rovine.
LC-S (16 aprile 2005)
1. "Sbarco di giugno 1944: massacri e manipolazioni capitaliste", Révue Internationale n° 118.
2. Sulle commemorazioni del 1944: "50 anni di menzogne imperialiste", Révue Internationale n° 78.
3. Per ciò che riguarda la classe operaia del campo fascista, è attraverso il terrore più bestiale che è stata irreggimentata, e decimata a milioni, nell'esercito tedesco.
4. Si tratta essenzialmente della Sinistra comunista che denunciava questa guerra come una guerra imperialista come era stata la Prima e difendeva che, di fronte a questa, il solo atteggiamento conseguente dei rivoluzionari era l'internazionalismo intransigente, col rifiuto di ogni sostegno ad uno o all'altro dei due campi. Non fu tale l'atteggiamento del trotskismo che, sostenendo l'imperialismo russo ed il campo democratico, segnò il suo passaggio nel campo della borghesia. Questo spiega perché certe frange del trotskismo (Ras l'front in Francia, ad esempio) specializzate nell'antifascismo radicale, esprimono un odio feroce verso ogni attività e posizione che denunci lo sfruttamento ideologico da parte degli Alleati dei campi della morte, come è in particolare per l'opuscolo pubblicato dal Partito comunista internazionale Auschwitz o il grande alibi.
5. "I massacri ed i crimini delle grandi democrazie", Révue Internationale n° 66.
6. "Anno 2000, il secolo più barbaro della storia", Revue Internationale n° 101.
7. Leggi il libro "La Francia in Ruanda, l'inconfessabile" di Patrick di Saint-Exupéry dove sono dettagliati tutti gli elementi che mostrano come la Francia di Mitterrand ha armato, addestrato, sostenuto e protetto i torturatori dei Tutsi, per la difesa dei suoi interessi imperialisti in Africa.
8. Questo modo sbrigativo di organizzare la produzione forzata era stato in parte inaugurato all'epoca del Primo conflitto mondiale in un altro campo, quello della disciplina degli eserciti quando, in Francia, le truppe venivano portate alla battaglia con una fila di mitragliatrici dietro di esse, portate da gendarmi che avevano l'ordine di fare fuoco su quelli che si rifiutavano di avanzare verso le linee nemiche.
9. Philippe Masson non può essere sospettato a priori di simpatie rivoluzionarie poiché è il capo della sezione storica del Servizio storico della Marina ed insegna alla scuola superiore di guerra navale.
10. Dalla fine del 1943, scioperi operai esplodevano in Germania e le diserzioni in seno all'esercito tedesco tendevano ad amplificarsi. In Italia, fine 1942 e soprattutto 1943, scoppiarono scioperi un po' dovunque nei principali centri industriali del Nord.
11. Memorie, Tomo 12, maggio 1945.
12. "50 anni dopo: Hiroshima, Nagasaki o le menzogne della borghesia", Révue Internationale n° 83.
13. Una direttiva del generale Keitel del 12 dicembre 1941, conosciuta sotto il nome di "Notte e Nebbia", spiega: "un effetto di intimidazione duratura non può essere ottenuto che attraverso condanne a morte o con misure tali da lasciare la famiglia (del colpevole) e la popolazione nell'incertezza circa la sorte del detenuto".
14. Pur non avendo dato luogo ad una politica di eliminazione così sistematica, i feroci trattamenti inflitti alla popolazione tedesca deportata (dai paesi dell'Est) ed ai prigionieri di guerra (parcheggiati negli Stati Uniti ed in Canada), e la carestia che imperversa nella Germania occupata fecero dai 9 ai 13 milioni di morti tra il 1945 e 1949. Per più informazioni, leggere il nostro articolo "1948, il ponte aereo di Berlino nasconde i crimini dell'imperialismo alleato", Révue Internationale n° 95.
15. Una tale cooperazione impegna egualmente, in certe circostanze, l'esercito tedesco a cui è toccato l'annientamento della popolazione di Varsavia che, in seguito ad una promessa di aiuto da parte degli alleati, era insorta contro l'occupazione tedesca. Mentre le SS massacravano la popolazione, le truppe di Stalin sostavano dall'altro lato della Vistola in attesa che il lavoro fosse portato a termine, mentre evidentemente l'aiuto promesso dagli inglesi non arrivava.
16. "Nel 1948 un'inchiesta alleata rivelerà che, fin dal 1944, il comando aveva deciso di commettere "un'atrocità ad un livello tale da terrorizzare i tedeschi e spingerli a cessare i combattimenti”. Lo stesso argomento servirà sei mesi più tardi ad Hiroshima e Nagasaki. L'inchiesta conclude che l'azione era "politica e non militare" e non esiterà a qualificare i bombardamenti di Dresda ed Amburgo "atti terroristici su vasta scala". Nessun responsabile politico o militare venne mai disturbato". (Estratto dalla pagina Web del 13 febbraio 2004 Réseau Voltaire: "Il terrorismo aereo" su Dresda fa 135.000 morti civili).
17. L'autore di questo libro è Davide Irving che è accusato di aver abbracciato, in un passato recente, le tesi negazioniste. Sebbene una tale sua evoluzione, se reale, non è di natura tale da permettere di avere una chiarezza sull'obiettività del suo libro La distruzione di Dresda (Edizione francese del 1987), va segnalato che il suo metodo, che a nostra conoscenza non è stato rimesso mai seriamente in causa, non porta la minima impronta di negazionismo. La prefazione a questa edizione del generale di corpo d'armata aereo, Sir Robert Saundby, che non sembra né un furioso pro-nazista né pro-negazionista, dice tra l'altro: "Questo libro racconta onestamente e senza passione la storia di un caso particolarmente tragico dell'ultima guerra, la storia della crudeltà dell'uomo sull’uomo. Auguriamo che gli orrori di Dresda e di Tokio, di Hiroshima e di Amburgo, possano convincere la razza umana tutta intera della futilità, della ferocia e dell'inutilità profonda della guerra moderna". Inoltre, nell'edizione inglese del 1995 di questo libro (intitolata Apocalisse 1945) che ne costituisce un attualizzazione si trova il seguente passaggio: "esiste un parallelo tra Dresda ed Auschwitz? A mio avviso l'uno e l'altro ci insegnano che il vero crimine della guerra, come della pace, non è il genocidio -che suppone implicitamente che la posterità accorderà le sue simpatie e condoglianze ad una razza particolare- ma la strage di innocenti. Non è perché le sue vittime erano degli ebrei che Auschwitz è stato un crimine, ma perché erano innocenti" (Sottolineato da noi). Segnaliamo infine, per dissipare eventuali dubbi sul carattere eccessivo dell'autore che l'edizione francese del 1963 che stima il numero delle vittime a 135.000, cita le stime fatte dalle autorità americane che danno 200.000 vittime e più.
18. "Una prima ondata di bombardieri passa sopra la città il 13 febbraio in serata, verso le 21.30. Sgancia 460.000 bombe a frammentazione che scendono a grappoli ed esplodono bucando i muri, i pavimenti ed i soffitti delle abitazioni. (…) Una seconda ondata di bombardieri, alle 3 della mattina, scarica per 20 minuti 280.000 bombe incendiarie al fosforo e 11.000 bombe e mine. (…) Gli incendi si propagano con più facilità perchè i palazzi sono stati precedentemente sventrati. La terza ondata sopraggiunge il 14 febbraio alle 11.30. Per 30 minuti sgancia a sua volta bombe incendiarie ed esplosive. In totale, alle quindici, sono 7.000 tonnellate di bombe incendiarie che cadono su Dresda, distruggendo più della metà delle abitazioni ed un quarto delle zone industriali. La gran parte della città è ridotta in cenere (…) Molte vittime si dissolvono in fumo sotto l'effetto di una temperatura superiore ai 1000°C" (brani dell'articolo "14 febbraio 1945: Dresda ridotta in ceneri" consultabili al seguente indirizzo su Internet:
https://www.herodote.net/histoire02141.htm [50]).
A questi elementi bisogna aggiungere il seguente “dettaglio" di cui rende conto l'articolo "Il 13 e 14 febbraio, 7.000 tonnellate di bombe" del giornale Le Monde del 13 febbraio 2005 che dà una spiegazione del numero elevato di vittime "La prima ondata di bombardamenti ha avuto luogo poco dopo le 22. Le sirene avevano echeggiato circa venti minuti prima e gli abitanti di Dresda avevano avuto il tempo di rintanarsi nelle cantine dei palazzi, essendo i ricoveri in numero insufficiente. La seconda ondata è giunta alle 1.16 della mattina. Distrutte dai primi bombardamenti, le sirene di allarme non funzionavano più. Per sfuggire al caldo torrido provocato dagli incendi - fino a 1000°C -, la popolazione si era sparsa nei giardini e sulle rive dell'Elba. È là fu raggiunta dalle bombe".
19. E’ Nagasaki, che non era prevista nel programma, a ricevere la seconda bomba atomica a causa delle condizioni meteorologiche sfavorevoli sulle città selezionate ed anche perché non era più possibile al bombardiere ritornare alla sua base dato che il carico nucleare che trasportava era stato armato.
20. Ammiraglio Leahy, capo di Stato Maggiore particolare dei presidenti Roosevelt, e poi Truman: "I giapponesi erano già vinti e pronti ad arrendersi. (...) L'utilizzazione a Hiroshima ed a Nagasaki di quest’arma barbara non ci ha aiutati a vincere la guerra. (...) Essendo il primo paese ad utilizzare la bomba atomica, abbiamo adottato (...) la regola etica dei barbari". (Memorie, scritte nel 1995).
Il Generale Eisenhower: "In questo momento preciso [agosto 1945], il Giappone cercava il mezzo di capitolare salvando un poco la faccia. (...) Non era necessario colpire con questa cosa orribile". (Memorie).
21. "La corresponsabilità degli Alleati nell'Olocausto" articolo del nostro opuscolo Fascismo e democrazia: due espressioni della dittatura del capitale.
22. Essi del resto si preparano nel solo modo coerente possibile pubblicando degli archivi che mostrano che l'esistenza dei campi era conosciuta: "nel gennaio 2004 il dipartimento degli archivi di ricognizione aerea dell'Università di Keele (Gran Bretagna) ha pubblicato per la prima volta delle foto aeree che mostrano il campo di Auschwitz-Birkenau in attività. Presi dagli aerei della Royal Air Force nell'estate 1944, questi negativi stupefacenti sui quali si vede il fumo dei forni a cielo aperto e l'organizzazione del campo di sterminio, dovranno aspettare vent' anni prima di essere resi pubblici" (Le Monde del 9 gennaio 05; “Auschwitz: la prova dimenticata"). Viene poi ingaggiato un dibattito con false risposte già preparate, del genere "questo non è il campo di Auschwitz fotografato all'epoca dagli aerei, ma un enorme complesso petrolchimico tedesco. Nella fretta, gli agenti incaricati di analizzare i negativi non avrebbero realizzato che i campi di Auschwitz e di Birkenau, vicino a questa fabbrica di petrolio sintetico, appartenevano allo stesso insieme"(Ibid.).
23. La Francia, inquietata da questa volontà di espansione imperialista del suo compare tedesco, non ha mancato di opporsi a tale progetto.
70 anni fa, nel maggio 1936, esplodeva in Francia un'immensa ondata di scioperi operai spontanei contro l'aggravamento dello sfruttamento provocato dalla crisi economica e dallo sviluppo dell'economia di guerra. Nel luglio dello stesso anno, in Spagna, di fronte al sollevamento militare di Franco la classe operaia scendeva immediatamente in sciopero generale e prendeva le armi per rispondere all'attacco. Numerosi rivoluzionari, fino ai più celebri, come Trotsky, credettero di vedere in questi avvenimenti l'inizio di una nuova ondata rivoluzionaria internazionale. In realtà, a causa di un'analisi superficiale delle forze in campo, si lasciarono indurre in errore dall'adesione entusiasta degli operai e dalla "radicalità" di certi discorsi. Sulla base di un'analisi lucida del rapporto di forze a livello internazionale, la Sinistra Comunista d'Italia, nella sua rivista Bilan, comprese che i Fronti popolari, lungi dall'essere espressione di uno sviluppo del movimento rivoluzionario, esprimevano proprio il contrario: un movimento crescente che andava ad intrappolare la classe operaia in un'ideologia nazionalista, democratica e l'abbandono della lotta contro le conseguenze della crisi storica del capitalismo: "Il Fronte popolare si è rivelato essere il processo reale della dissoluzione della coscienza di classe dei proletari, l'arma destinata a mantenere, in tutte le circostanze della loro vita sociale e politica, gli operai sul campo del sostegno della società borghese" (Bilan n°31, maggio-giugno 1936). Infatti, rapidamente, sia in Francia che in Spagna, l'apparato politico della sinistra "socialista" e "comunista" saprà mettersi alla testa di questi movimenti e, chiudendo gli operai nella falsa alternativa fascismo/anti-fascismo, riuscirà a sabotarli dall'interno, ad orientarli verso la difesa dello Stato democratico ed alla fine a reclutare la classe operaia in Francia ed in Spagna per la carneficina inter-imperialista mondiale.
Oggi, in un contesto di lenta ripresa della lotta di classe e di rinascita di nuove generazioni alla ricerca di alternative radicali di fronte al fallimento sempre più evidente del capitalismo, il movimento alter-mondialista, come ATTAC, denuncia il liberismo selvaggio e la "dittatura del mercato" che "ruba il potere politico dalle mani degli Stati, e dunque dei cittadini "e chiama alla "difesa della democrazia contro il diktat finanziario". Questo "altro mondo" proposto dagli alter-mondialisti riconduce spesso a politiche molto attive durante gli anni 1930 o dagli anni 1950 a 70, dove lo Stato aveva, secondo loro, un posto più importante di attore economico diretto. In quest'ottica, la politica dei governi di Fronte popolare, con i loro programmi di controllo dell'economia da parte dello Stato, "d'unità delle forze popolari contro i capitalisti e la minaccia fascista", ed il programma di una "rivoluzione sociale", non può che essere presa ad esempio per dare man forte all'affermazione che un "altro mondo", un'altra politica, sono possibili in seno al capitalismo.
Così rievocare in occasione di questa 70ma ricorrenza il contesto ed il significato degli avvenimenti del 1936 é più che mai indispensabile:
- per ricordare le lezioni tragiche di quest'esperienze, in particolare la trappola fatale che costituisce, per la classe operaia, l'abbandono del campo della difesa intransigente dei suoi interessi specifici per sottoporsi alle necessità della lotta di un campo borghese contro l'altro;
- per denunciare la menzogna venduta dalla "sinistra" secondo cui quest'ultima sarebbe stata durante quegli avvenimenti l'incarnazione degli interessi della classe operaia, e mostrando al contrario come ne fu il becchino.
Gli anni 1930 - segnati dalla sconfitta dell'ondata rivoluzionaria degli anni 1917-23 e dal trionfo della controrivoluzione - si distinguono in maniera fondamentale dall'attuale periodo storico caratterizzato dal riemergere delle lotte e lo sviluppo, sebbene lento, della coscienza. Tuttavia, le nuove generazioni di proletari che cercano di liberarsi dalle ideologie controrivoluzionarie cozzano sempre contro questa stessa "sinistra", le sue trappole e le sue manipolazioni ideologiche, anche se questa porta gli abiti nuovi dell'alter-mondialismo. Ed esse non potranno riuscire a liberarsi se non riappropriandosi delle lezioni, pagate così care, dell'esperienza passata del proletariato.
Il Fronte popolare, un rafforzamento della lotta contro lo sfruttamento capitalista?
I Fronti popolari, che pretendevano di "unificare le forze popolari contro l'arroganza dei capitalisti e l'ascesa del fascismo", innescarono effettivamente una dinamica di rafforzamento della lotta contro lo sfruttamento capitalista? Rappresentarono una tappa sulla via dello sviluppo della rivoluzione? Per rispondere a questa domanda, un approccio marxista non può basarsi solo sulla radicalità dei discorsi e della violenza degli scontri sociali che a quell'epoca scossero vari paesi dell'Europa occidentale, ma su un'analisi del rapporto di forza tra le classi a scala internazionale e su tutta un'epoca storica. In quale contesto generale di forza e di debolezza del proletariato e della sua nemica mortale, la borghesia, si determinarono gli avvenimenti del 1936?
Dopo la potente ondata rivoluzionaria che obbligò la borghesia a mettere fine alla guerra, che portò la classe operaia a prendere il potere in Russia e fece vacillare il potere borghese in Germania e nell'insieme dell'Europa centrale, il proletariato subì per tutti gli anni 1920 una serie di sanguinose sconfitte. Lo schiacciamento del proletariato in Germania nel 1919, poi nel 1923, ad opera dei social-democratici del SPD e dei suoi "cani assetati di sangue", aprì la strada per l'arrivo di Hitler al governo. Il tragico isolamento della rivoluzione in Russia firmava la morte dell'Internazionale Comunista, lasciando così campo libero al trionfo della controrivoluzione stalinista che aveva annientato tutta la vecchia guardia dei bolscevichi e le forze vive del proletariato. Infine, gli ultimi soprassalti proletari furono spietatamente soffocati nel 1927 in Cina. Il corso della storia era stato rovesciato. La borghesia aveva ottenuto vittorie decisive sul proletariato internazionale ed il corso verso la rivoluzione mondiale lasciava il posto ad una marcia inesorabile verso la guerra mondiale, che significava il peggiore ritorno alla barbarie capitalista.
Tuttavia, queste schiaccianti sconfitte dei battaglioni d'avanguardia del proletariato mondiale non esclusero sussulti di combattività, talvolta importanti, in seno alla classe, in particolare nei paesi dove essa non aveva subito lo schiacciamento fisico o ideologico diretto nel quadro di scontri rivoluzionari del periodo 1917-1927. Così, durante la forte crisi economica degli anni 1930, nel luglio 1932, esplose in Belgio uno sciopero selvaggio dei minatori che prese velocemente una dimensione insurrezionale. A partire da un movimento contro l'imposizione di riduzioni dei salari nelle miniere del Borinage, il licenziamento degli scioperanti provocò un'estensione della lotta in tutta la provincia e scontri violenti con la gendarmeria. In Spagna, dagli anni 1931 al 1934 la classe operaia spagnola si lanciò, in numerosi movimenti di lotte represse selvaggiamente. Nell'ottobre 1934, è l'insieme delle zone minerarie delle Asturie e la cintura industriale di Oviedo e di Gijon che si lanciò in un'insurrezione suicida che fu schiacciata dal governo repubblicano e dal suo esercito dando adito ad una selvaggia repressione. Infine, in Francia, se la classe operaia era esaurita profondamente dalla politica "gauchiste" del PC la cui propaganda pretendeva, fino al 1934, che la rivoluzione fosse sempre imminente e che fossero necessari " soviet dappertutto ", essa, tuttavia, manifestava sempre una certa combattività. Durante l'estate 1935, confrontandosi con decreti legge che imponevano importanti riduzioni salariali ai lavoratori dello Stato, imponenti manifestazioni e violenti scontri con la polizia ebbero luogo negli arsenali di Tolone, Tarbes, Lorient e Brest. In questa ultima città, dopo che un operaio era stato colpito a morte dai calci dei militari, i lavoratori esasperati scatenarono violente manifestazioni e sommosse tra il 5 ed il 10 agosto 1935, facendo 3 morti e centinaia di feriti; decine di operai furono incarcerati1.
Queste manifestazioni di residua combattività, contrassegnata spesso dalla rabbia, la disperazione e lo smarrimento politico, costituivano in realtà "dei sussulti di disperazione" che non annullavano un contesto internazionale di sconfitta e di disgregazione delle forze operaie, come ricordava la rivista Bilan a proposito della Spagna : "Se il criterio internazionalista vuole dire qualche cosa, bisogna affermare che, sotto il segno di una crescita della controrivoluzione al livello mondiale, l'orientamento della Spagna, tra il1931 e 1936, poteva andare solamente verso una direzione parallela [al corso controrivoluzionario degli avvenimenti ndlr] e non nel corso inverso di uno sviluppo rivoluzionario. La rivoluzione non può raggiungere il suo pieno sviluppo se non come prodotto di una situazione rivoluzionaria a scala internazionale". (Bilan n°35, gennaio 1937).
Tuttavia, per reclutare gli operai dei paesi che non avevano subito lo schiacciamento di movimenti rivoluzionari, occorreva che le borghesie nazionali utilizzassero una particolare mistificazione. Là dove il proletariato era già stato schiacciato al termine di uno scontro diretto tra le classi, il reclutamento ideologico bellicista - dietro il fascismo o il nazismo, o da parte dello stalinismo, dietro l'ideologia specifica della "difesa della patria del socialismo", ottenuto essenzialmente per mezzo del terrore - apparivano come le forme particolari di sviluppo della controrivoluzione. A questi particolari regimi politici corrispondeva in modo generale, nei restanti paesi "democratici", lo stesso reclutamento guerriero realizzato sotto la bandiera dell'antifascismo. Per raggiungere tale scopo, le borghesie francesi e spagnole (ma anche altre, come per esempio quella belga) si servirono del raggiungimento della sinistra al governo per mobilitare la classe operaia dietro l'antifascismo in difesa dello Stato "democratico" e per mettere in opera l'economia di guerra.
Che le politiche del Fronte popolare non si svilupparono per rafforzare la dinamica delle lotte operaie era già chiaramente messo in evidenza dall'atteggiamento della sinistra verso le lotte proletarie rievocate sopra. Ciò si manifestò anche in Belgio. Durante gli scioperi insurrezionali del 1932 in questo paese, il Partito operaio belga (POB) e la sua commissione sindacale si rifiutarono di sostenere il movimento, ciò che orientò la rabbia dei lavoratori contro la social-democrazia: la Casa del Popolo di Charleroi sarà presa d'assalto dagli insorti mentre le tessere di membro del POB e dei suoi sindacati furono strappate e bruciate. Fu proprio per canalizzare la rabbia e la disperazione operaie che il POB porterà avanti fin dalla fine del 1933 il famoso "Piano del Lavoro", la sua alternativa "popolare" alla crisi del capitalismo.
In Spagna si manifestò in modo chiaro ciò che il proletariato poteva aspettarsi da un governo "repubblicano" e di "sinistra". Fin dai primi mesi della sua esistenza, la Repubblica spagnola mostrerà che in fatti di massacri di operai, non aveva niente da invidiare ai regimi fascisti: un gran numero di lotte degli anni 1930 vennero schiacciate dai governi repubblicani a cui fino al 1933 partecipò anche il PSOE. L'insurrezione suicida delle Asturie dell'ottobre 1934, incitata da un discorso "rivoluzionario" del PSOE in quel momento all'opposizione, venne isolata completamente da questo stesso PSOE e dal suo sindacato, l'UGT, che impedì ogni estensione del movimento. Da questo momento, Bilan pone in termini estremamente chiari la questione del significato dei regimi democratici di "sinistra":
"In effetti, dalla sua fondazione, nell'aprile 1931 e fino a dicembre 1931, la 'marcia a sinistra' della Repubblica spagnola, la formazione del governo Azana-Caballero-Lerroux, l'amputazione nel dicembre 1931 della sua ala destra rappresentata da Lerroux, non determina affatto condizioni favorevoli all'avanzamento delle posizioni di classe del proletariato o alla formazione di organismi capaci di dirigerne la lotta rivoluzionaria. E non si tratta per niente di vedere qui ciò che il governo repubblicano e radicale-socialista avrebbe dovuto fare per la salvezza della… rivoluzione comunista, ma di ricercare se sì o no, questa conversione a sinistra o all'estrema sinistra del capitalismo, questo concerto unanime che andava dai socialisti fino ai sindacalisti per la difesa della Repubblica, ha creato le condizioni dello sviluppo delle conquiste operaie e della marcia rivoluzionaria del proletariato. O, meglio ancora, se questa conversione non era dettata a sinistra dalla necessità, per il capitalismo, di ubriacare gli operai sconvolti [leggere presi al posto di sconvolti ndr] da un profondo slancio rivoluzionario, affinché non si orientassero verso la lotta rivoluzionaria (…)" (Bilan n°12, novembre 1934).
Infine, fu particolarmente significativo che gli scontri violenti di Brest e Tolone dell'estate 1935 esplosero nello stesso momento in si costituiva il Fronte popolare. Poiché queste lotte si erano sviluppate spontaneamente, contro le parole d'ordine dei leader politici e sindacali della "sinistra", questi non esitarono a trattare gli insorti da "provocatori" che turbavano "l'ordine repubblicano": "né il Fronte popolare, né i comunisti che sono nelle prime fila rompono i finestrini, saccheggiano i caffè, strappano le bandiere tricolori" (Editoriale dell'Humanité, 7 agosto 1935).
L'antifascismo lega i lavoratori alla difesa dello Stato borghese
I Fronti popolari non unirono tuttavia "le forze popolari di fronte all'ascesa del fascismo"? Di fronte all'arrivo al potere di Hitler in Germania all'inizio del 1933, la sinistra andò a sfruttare la spinta di frazioni di estrema destra o fascistizzante nei diversi paesi "democratici" per portare avanti la necessità della difesa della democrazia attraverso un largo fronte antifascista.
Questa strategia fu, per la prima volta, messa in pratica fin dall'inizio del 1934 in Francia e trovò il suo punto di partenza in un'enorme manipolazione. Il pretesto fu fornito dalla manifestazione violenta di protesta e di malcontento del 6 febbraio 1934 contro gli effetti della crisi e della corruzione dei governi della Terza Repubblica, manifestazione nella quale si erano infiltrati dei gruppi di estrema destra, ma anche militanti del PC. Alcuni giorni più tardi si assisté, tuttavia ad un brusco capovolgimento dell'atteggiamento del PC, legato ad un cambiamento di strategia emanato da Stalin e dall'Internazionale Comunista. Questi raccomandavano oramai di sostituire alla tattica "classe contro classe" una politica d'avvicinamento ai partiti socialisti. Da allora, il 6 febbraio fu presentato come una "offensiva fascista" ed un "tentativo di colpo di Stato" in Francia.
La sommossa del 6 febbraio 1934 permise alla sinistra di montare l'esistenza di un pericolo fascista in Francia e conformemente lanciare una larga campagna di mobilitazione dei lavoratori in nome dell'antifascismo e per la difesa della "democrazia". Lo sciopero generale lanciato nello stesso tempo dal PC e dallo SFIO fin dal 12 istillava l'antifascismo con la parola d'ordine "Unità! Unità contro il fascismo!" Il PCF assimilò velocemente il nuovo orientamento e la conferenza nazionale di Ivry di giugno '34 ebbe per unica questione all'ordine del giorno "l'organizzazione del Fronte unito di lotta antifascista"2, ciò che determinò velocemente la firma di un patto "di unità d'azione" tra il PC e lo SFIO il 27 luglio 1934.
Identificato il fascismo come "il nemico principale", l'antifascismo diventò allora il tema che permise di raggruppare tutte le forze della borghesia "innamorata di libertà" dietro la bandiera del Fronte popolare e dunque legare gli interessi del proletariato a quelli del capitale nazionale costituendo "l'alleanza della classe operaia con i lavoratori delle classi medie" per evitare alla Francia “la vergogna e le disgrazie della dittatura fascista", come dichiarò Maurice Thorez, segretario generale del PCF. Su tale scia, il PCF sviluppò il tema delle "200 famiglie ed i loro mercenari che saccheggiano la Francia e svendono l'interesse nazionale". Tutti, all'infuori di questi "capitalisti", subivano la crisi ed erano solidali e così si dissolveva la classe operaia ed i suoi interessi di classe nel popolo e la nazione contro "un pugno di parassiti": "Raccoglimento della Francia che fatica, che lavora e che si sbarazzerà dei parassiti che la erodono" (Comitato centrale del PCF, 02/11/1934).
D'altra parte, il fascismo veniva denunciato in modo isterico e quotidianamente come il solo guerrafondaio. Il Fronte popolare mobilitò allora la classe operaia nella difesa della patria contro l'invasore fascista ed il popolo tedesco venne identificato con il nazismo. Gli slogan del PCF esortano ad "acquistare francese!" e inneggiavano alla riconciliazione nazionale: "Noi, comunisti, che abbiamo riconciliato la bandiera tricolore dei nostri padri e la bandiera rossa delle nostre speranze" (M. Thorez, Radio Parigi, 17 aprile 1936). La sinistra trascinò così i proletari dietro il carro dello Stato attraverso il più esasperato nazionalismo, le peggiori espressioni dello sciovinismo e della xenofobia.
Questa campagna intensiva trovò la sua apoteosi nella celebrazione unitaria del 14 luglio 1935, sotto il tema della difesa "delle libertà democratiche conquistate dal popolo francese". L'appello del comitato organizzativo propose il seguente giuramento: "facciamo giuramento di restare uniti per difendere la democrazia, (…), per mettere la nostre libertà fuori dall'attentato del fascismo". Le manifestazioni si aprirono sulla costituzione pubblica del Fronte popolare, il 14 luglio 1935, facendo cantare la "Marsigliese" agli operai sotto i ritratti affiancati di Marx e di Robespierre e facendo loro gridare "Viva la Repubblica francese dei Soviet"! Così, grazie allo sviluppo della campagna elettorale per il "Fronte popolare della pace e del lavoro", i partiti di "sinistra" deviarono le lotte operaie dal campo di classe verso il campo elettorale della democrazia borghese, annegando il proletariato nella massa informe del "popolo della Francia" e lo reclutarono per la difesa degli interessi nazionali. "Era quella una conseguenza delle nuove posizioni del 14 luglio che rappresentavala conclusione logica della politica detta antifascista. La Repubblica non era il capitalismo, ma il regime della libertà, della democrazia che rappresenta, come si sa, la piattaforma stessa dell'antifascismo. Gli operai giuravano solennemente di difendere questa Repubblica contro i faziosi interni ed esterni, mentre Stalin raccomandava loro di approvare gli armamenti dell'imperialismo francese in nome della difesa dell'U.R.S.S" (Bilan n° 22, agosto-settembre 1935).
La stessa strategia di mobilitazione della classe operaia sul campo elettorale in difesa della democrazia, l'integrazione nell'insieme degli strati popolari e la mobilitazione per la difesa degli interessi nazionali, si ritrovava in diversi paesi. In Belgio, la mobilitazione dei lavoratori dietro la campagna intorno al "Piano del Lavoro" fu orchestrata con mezzi di propaganda psicologica che non avevano niente da invidiare a quella nazista o stalinista, e terminerà con l'entrata del POB al governo nel 1935. La propaganda antifascista, portata avantisoprattutto dalla sinistra del POB, trovò il suo culmine nel 1937 in un duello singolare a Bruxelles tra Degrelle, il capo del partito Fascista Rex, ed il primo ministro Van Zeeland che beneficiò dell'appoggio di tutte le forze "democratiche", compreso il PCB. Lo stesso anno, Spaak, uno dei dirigenti dell'ala sinistra del POB, sottolineava il "carattere nazionale" del programma socialista belga e propose di trasformare il partito in partito popolare, poiché difendeva l'interesse comune e non più l'interesse di una sola classe!
Tuttavia, fu nella Spagna che l'esempio francese ispirerà con maggior chiarezza la politica alla sinistra. Dopo i massacri nelle Asturie, anche il PSOE andò ad imperniare la sua propaganda sull'antifascismo, il "fronte unito di tutti i democratici" e sosterrà un programma di Fronte popolare di fronte al pericolo fascista. Nel gennaio 1935, firmerà col sindacato UGT, i partiti repubblicani, il PCE, un'alleanza di "Fronte popolare", con il sostegno critico della CNT3 e del POUM4. Questo "Fronte popolare" pretendeva sostituire apertamente la lotta operaia attraverso la scheda elettorale, con una lotta sul campo della borghesia contro la frazione "fascista" di questa, a favore della sua ala "antifascista" e "democratica". La lotta contro il capitalismo fu affossata a profitto di un illusorio "programma di riforme" del sistema che dovrebbe realizzare una "rivoluzione democratica". Mistificando il proletariato per mezzo di questo fallace fronte antifascista e democratico, la sinistra lo mobilitò sul campo elettorale ed ottenne un trionfo alle elezioni di febbraio 1936 : "Il fatto che nel 1936, dopo quest'esperienza [la coalizione repubblicana-socialista 1931-33 ndlr] molto indicativa sulla funzione della democrazia come mezzo di manovra per il mantenimento del regime capitalista, si è potuto di nuovo, come nel 1931-1933, spingere il proletariato spagnolo ad allinearsi su un piano non di classe ma di difesa della 'Repubblica', del 'Socialismo' e del 'Progresso' contro le forze della Monarchia, Clerico-fasciste e della reazione, dimostra la profondità dello smarrimento degli operai su questo settore spagnolo dove i proletari recentemente hanno dato prove di combattività e di spirito di sacrificio" (Bilan n° 28, febbraio-marzo 1936).
In realtà, la politica antifascista della sinistra e la costituzione di "Fronti popolari", riusciranno effettivamente ad atomizzare i lavoratori, a dissolverli nella popolazione, a mobilitarli per un adattamento democratico del capitalismo, mentre il veleno dello sciovinismo e del nazionalismo veniva istillato loro. Bilan non si ingannava quando commentò così la costituzione ufficiale della Fronte popolare il 14 luglio 1935: "è sotto il segno di imponenti manifestazioni di massa che il proletariato francese si dissolve in seno al regime capitalista. Malgrado migliaia e migliaia di operai che sfilano nelle vie di Parigi, si può affermare che sia in Francia che in Germania non esiste più una classe proletaria che lotta per i suoi obiettivi. A tale proposito, il 14 luglio segna un momento decisivo nel processo di disgregazione del proletariato e nella ricostituzione dell'unità sacrosanta della Nazione capitalista. (…) Gli operai hanno dunque tollerato la bandiera tricolore, cantato la 'Marsigliese' ed applaudito anche i Daladier, Cot ed altri ministri capitalisti che, con Blum, Cachin5, hanno solennemente giurato 'di dare pane ai lavoratori, lavoro alla gioventù e pace al mondo' o, in altri termini, piombo, caserme e guerra imperialista per tutti" (Bilan n° 21, luglio-agosto 1935).
Le misure economiche dei Fronti popolari : Lo Stato al servizio dei lavoratori?
Ma la sinistra non aveva, almeno attraverso i suoi programmi di rafforzamento del controllo da parte dello Stato sull'economia, limitato i tormenti della libera concorrenza del capitale "monopolistico" e protetto così le condizioni di vita e di lavoro della classe operaia? Di nuovo, è importante localizzare le misure esaltate dalla sinistra nel quadro generale della situazione del capitalismo.
Marcia verso la guerra e sviluppo dell'economia di guerra
Dopo la Prima Guerra mondiale, con il trattato di Versailles, la Germania si vide privata delle sue magre colonie e con pesanti debiti di guerra. Si trovò incastrata al centro dell'Europa e, da questo momento, si pose il problema che andrà a caratterizzare l'insieme della politica di tutti i paesi dell'Europa durante i due decenni seguenti. Con la ricostruzione della sua economia, la Germania si troverà davanti alla necessità imperiosa di trovare degli sbocchi per le sue merci e la sua espansione non potrà farsi che dentro un ambito europeo. Gli avvenimenti si accelerarono con l'arrivo di Hitler al potere nel 1933. Le necessità economiche che spinsero la Germania verso la guerra troveranno nell'ideologia nazista la loro espressione politica: la rimessa in causa del Trattato di Versailles, l'esigenza di uno "spazio vitale" che può essere solamente l'Europa.
Tutto ciò convinse precipitosamente certe frazioni della borghesia francese che non si sarebbe potuto evitare la guerra e che la Russia sovietica in tal caso sarebbe stata una buona alleata per far fallire le mire del pangermanismo. Tanto più che a livello internazionale, la situazione si chirificava: nello stesso periodo in cui la Germania lasciò la Società delle Nazioni, l'URSS vi entrava. Quest'ultima, in un primo tempo, aveva giocato la carta tedesca per lottare contro il blocco continentale che le democrazie occidentali le imponevano. Ma quando i legami della Germania con gli Stati Uniti si rafforzarono, avendo quest'ultimi investito e, col piano Dawes6, riportato a galla l'economia tedesca sostenendo la ricostruzione economica del "bastione" occidentale contro il comunismo, la Russia stalinista rivide tutta la sua politica estera per tentare di rompere quest'alleanza. In effetti, fino a tardi, importanti frazioni della borghesia dei paesi occidentali credettero possibile evitare la guerra con la Germania facendo alcune concessioni e soprattutto orientando la necessaria espansione della Germania verso l'Est. Monaco nel 1938 tradurrà ancora quest'incomprensione della situazione e della guerra che verrà.
Il viaggio che il ministro francese degli affari esteri, Laval, effettuò a Mosca nel maggio 1935 andò a sottolineare spettacolarmente questa disposizione dell'imperialismo sulla scacchiera europea con l'avvicinamento franco-russo: la firma di Stalin ad un trattato di cooperazione implicava un riconoscimento implicito da parte di quest'ultimo della politica di difesa francese ed un incoraggiamento al PCF a votare i crediti militari. Alcuni mesi più tardi, nell'agosto 35, il 7mo Congresso del PCUS andava a trarre a livello politico le conseguenze dalla possibilità per la Russia di un'alleanza con i paesi occidentali per fare fronte all'imperialismo tedesco. Dimitrov, il Segretario generale dell'Internazionale Comunista, designò il nuovo nemico che occorreva combattere: il fascismo. I socialisti che prima venivano scherniti violentemente diventarono una, tra altre, forza democratica con cui bisognava allearsi per vincere il nemico fascista. I partiti stalinisti, negli altri paesi, seguirono nella sua svolta politica a 180° il loro grande fratello maggiore, il PC russo, divenendo così i migliori difensori degli interessi imperialisti della sedicente "patria del socialismo".
Una delle caratteristiche centrali delle politiche economiche della "sinistra" è proprio il rafforzamento delle misure d'intervento dello Stato per sostenere l'economia in crisi e il controllo statale su diversi settori dell'economia. Essa giustificava questo tipo di misure affermando che è "dall'economia dirigista, del Socialismo di Stato, [perché ndlr] che maturano le condizioni che devono permettere ai 'socialisti' di conquistare 'pacificamente' e progressivamente gli ingranaggi essenziali dello Stato" (Bilan n° 3, gennaio 1934). Queste misure erano sostenute con entusiasmo dall'insieme della socialdemocrazia europea. Vennero riprese nei programmi economici del Fronte popolare in Francia, conosciuti sotto il nome del piano Jouhaux. In Spagna, il programma della Fronte popolare si appoggiava su una larga politica di crediti agrari ed un vasto piano di lavori pubblici per il riassorbimento della disoccupazione, così come su delle leggi sociali che fissavano, per esempio, un salario minimo. Vediamo quale era il significato reale di tali programmi attraverso l'esame di uno dei loro grandi modelli, il "New Deal", messo in atto negli Stati Uniti dopo la crisi del 1929 dai democratici sotto Roosevelt, e l'analisi di una delle concretizzazioni teoriche più compiute di questo "Socialismo di Stato", il "Piano del Lavoro" del socialista belga Henri De Man.
Il "New Deal", messo in atto negli Stati Uniti a partire dal 1932, fu un piano di ricostruzione economica e di "pace sociale". L'intervento del governo mirava a ristabilire l'equilibrio del sistema bancario ed a rilanciare il mercato finanziario, a mettere in opera grandi lavori (dighe, programmi pubblici), e ad iniziare certi programmi sociali: attuazione di un sistema pensionistico, di un'assicurazione contro la disoccupazione, ecc.). Una nuova agenzia federale, la National Recovery Administration (NRA), aveva per missione di stabilizzare prezzi e salari cooperando con le imprese ed i sindacati. Creò la Public Works Administration (PWA) che doveva controllare l’attuazione della politica dei grandi lavori pubblici.
Il governo di Roosevelt aprì la via, foss’anche senza esserne consapevole, alla conquista degli ingranaggi essenziali dello Stato da parte del partito dei lavoratori? Per Bilan, è proprio vero il contrario: "L'intensità della crisi economica che imperversa, coniugata con la disoccupazione e la miseria di milioni di uomini, accumula le minacce di conflitti sociali temibili che il capitalismo americano deve dissipare o soffocare con tutti i mezzi in suo potere" (Bilan n° 3, gennaio 1934). Lungi dunque dall'essere misure in favore dei lavoratori, le misure di "pace sociale" furono attacchi diretti contro l'autonomia di classe del proletariato. "Roosevelt si è dato come scopo dirigere la classe operaia non verso un'opposizione di classe, ma verso la sua diluizione all'interno dello stesso regime capitalista, sotto il controllo dello Stato capitalista. Così, dei conflitti sociali non dovrebbero più sorgere dalla lotta reale - e di classe - tra gli operai ed i padronati ed essi si limiterebbero ad un'opposizione della classe operaia e della N.R.A, organismo dello Stato capitalista. Gli operai dovrebbero dunque rinunciare ad ogni iniziativa di lotta e affidare la loro sorte al proprio nemico " (Id).
Si trovano obiettivi simili nel "Piano del Lavoro" di Henri De Man? Quest'architetto principale di tali programmi di controllo Statale, grande ispiratore della maggior parte delle misure adottate tanto dai Fronti popolari che dai regimi fascisti (Mussolini era uno dei suoi grandi ammiratori) era il capo della scuola quadri del POB e, a partire da 1933, vicepresidente e grande divo del partito. Per De Man che aveva studiato profondamente gli sviluppi industriali e sociali negli Stati Uniti ed in Germania, era necessario abbandonare i "vecchi dogmi". Per lui, la base della lotta di classe è il sentimento d'inferiorità sociale dei lavoratori. Piuttosto che orientare il socialismo sulla soddisfazione dei bisogni materiali di una classe (i lavoratori), bisognava orientarlo verso i valori spirituali universali come la giustizia, il rispetto della personalità umana e la preoccupazione de "l'interesse generale". Finite dunque le contraddizioni inevitabili ed inconciliabili tra la classe operaia ed i capitalisti. Peraltro, proprio come la rivoluzione, bisognava rigettare anche il "vecchio riformismo" diventato inoperante in tempo di crisi: non serve più a niente rivendicare una parte più importante di una torta che si riduce sempre più, bisognava realizzare una nuova torta più grande. Ciò era l'obiettivo di quella che chiamava la "rivoluzione costruttiva". In quest'ottica, sviluppò per il "Congresso di Natale" 1933 del POB il suo "Piano del Lavoro" che prevedeva "riforme di struttura" del capitalismo:
- la nazionalizzazione delle banche che continuavano ad esistere ma che vendevano una parte delle loro azioni ad un'istituzione di credito dello Stato e che si sottoporranno agli orientamenti del Piano economico;
- questa stessa istituzione di credito dello Stato ricomprerà una parte delle azioni dei grandi monopoli in alcuni settori industriali di base, come l'energia, così che questi ultimi diverranno delle imprese miste, proprietà congiunte di privati e dello Stato;
- accanto a queste imprese "socie", continuava ad esistere un settore capitalista libero, stimolato e sostenuto dallo Stato;
- i sindacati saranno implicati direttamente in quest'economia mista di concertazione attraverso il "controllo operaio", orientamento che De Man propagò a partire dall'esperienze osservate nelle grandi fabbriche americane.
Queste "riforme di struttura", proposte da De Man, si orienteranno a favore della lotta della classe operaia? Per Bilan, De Man voleva "dimostrare che la lotta operaia deve limitarsi naturalmente agli obiettivi nazionali per forma e contenuto, che socializzazione significa nazionalizzazione progressiva dell'economia capitalista, o economia mista. Sotto la scusa della ‘azione immediata', De Man arriva a predicare l'adattamento nazionale degli operai nella 'nazione una ed indivisibile' e che (...) si offre come rifugio supremo degli operai repressi dalla reazione capitalista". In conclusione, "Le riforme di struttura di H.De Man hanno dunque per scopo riporre la lotta vera dei lavoratori - ed è quella la sua sola funzione - in un campo irreale, dove si esclude ogni lotta per la difesa degli interessi immediati e, attraverso di esso, storica del proletariato, in nome di una riforma di struttura che, nella sua concezione come nei suoi mezzi, può servire solamente alla borghesia per rafforzare il suo Stato di classe riducendo la classe operaia all'impotenza" (Bilan n° 4, febbraio 1934).
Ma Bilan va più lontano e situa l’attuazione del "Piano del Lavoro" rispetto al ruolo che giocava la sinistra nel quadro storico del periodo.
"L'avvento del fascismo in Germania mette fine ad un periodo decisivo della lotta operaia. (...). La socialdemocrazia che fu un elemento essenziale di queste sconfitte, è anche un elemento di ricostituzione organica della vita del capitalismo (...), essa adopera un nuovo linguaggio per continuare la sua funzione, rigetta un internazionalismo verbale non più necessario, per passare francamente alla preparazione ideologica dei proletari per la difesa della ‘ propria nazione'. (…), ed è in ciò che noi troviamo la vera origine del piano De Man. Quest'ultimo rappresenta il tentativo concreto di sancire, attraverso una mobilitazione adeguata, la sconfitta subita dall'internazionalismo rivoluzionario e la preparazione ideologica per l'incorporazione del proletariato alla lotta intorno al capitalismo per la guerra. E' per questo che il suo nazional-socialismo ha la stessa funzione del nazional-socialismo dei fascisti" (Bilan n° 4, febbraio 1934).
L'analisi del New Deal come del Piano De Man illustra con chiarezza che queste misure non miravano affatto a rafforzare la lotta proletaria contro il capitalismo ma a ridurre invece la classe operaia all'impotenza ed a sottometterla alle necessità della difesa della nazione. In questo senso, come notava Bilan, il piano De Man non si distingueva in niente dal programma di controllo dei regimi fascisti e nazisti attraverso lo Stato; o ancora dai piani quinquennali dello stalinismo applicati in URSS dal 1928 e che avevano del resto all'origine ispirato i democratici negli Stati Uniti.
Se tali misure furono generalizzate, fu perché esse corrispondevano ai bisogni del capitalismo decadente. In questo periodo, in realtà, la tendenza generale verso il capitalismo di Stato è una delle caratteristiche dominanti della vita sociale. "Ogni capitale nazionale, privato di ogni base per uno sviluppo potente, condannato ad una concorrenza imperialista acuta, è costretto ad organizzarsi nel modo più efficace per affrontare i suoi rivali, economicamente e militarmente, all'esterno, e, all'interno, fare fronte ad un'esacerbazione crescente delle contraddizioni sociali. La sola forza della società che sia capace di prendere in carico l'adempimento dei compiti che tale situazione impone è lo Stato. Effettivamente, solo lo Stato:
- può prendere in mano l'economia nazionale in modo globale e centralizzato ed attenuare la concorrenza interna che l'indebolisce per rafforzare la sua capacità ad affrontare come un tutto la concorrenza sul mercato mondiale;
- mettere in piedi la potenza militare necessaria alla difesa dei sui interessi di fronte all'esacerbazione degli antagonismi internazionali;
- infine, grazie alle forze di repressione e ad una burocrazia sempre più pesante, rafforzare la coesione interna della società minacciata dalla frammentazione per la decomposizione crescente dei suoi fondamenti economici (…)". (Piattaforma della CCI)
In realtà dunque, tutti questi programmi che miravano ad una nuova organizzazione della produzione nazionale sotto il controllo dello Stato, orientata interamente verso la guerra economica e verso la preparazione di una nuova carneficina mondiale (economia di guerra), corrispondevano e corrispondono perfettamente alle necessità di sopravvivenza degli Stati borghesi all'interno del periodo di decadenza.
Ma gli scioperi massicci di maggio-giugno 1936 in Francia e le misure sociali prese dal governo del Fronte popolare, proprio come la "rivoluzione spagnola" scatenata nel luglio 1936 fanno piazza pulita di queste analisi pessimiste, non confermano al contrario, nella pratica, la giustezza del percorso dei fronti "antifascisti" o "popolari", non rappresentano in fin dei conti l'espressione concreta di questa "rivoluzione sociale" in marcia? Esaminiamo uno dopo l'altro ciascuno dei movimenti citati.
Maggio-giugno 1936 in Francia: i lavoratori sono mobilitati dietro lo Stato democratico
La grande ondata di scioperi che seguirà fin dalla metà maggio la salita al governo del Fronte Popolare dopo la sua vittoria elettorale del 5 maggio 1936, confermavano tutti i limiti del movimento operaio, contrassegnato dall'insuccesso dell'ondata rivoluzionaria e dalla sottomissione alla cappa di piombo della controrivoluzione.
Fin dal 7 maggio, un'ondata di scioperi prese il via inizialmente nel settore aeronautico e poi nella metallurgia e l'automobile, con occupazioni spontanee di fabbriche. Queste lotte manifestavano soprattutto, malgrado tutta la loro combattività, quanto debole fosse la capacità dei lavoratori a condurre la lotta sul loro campo di classe. Infatti, fin dai primi giorni, la sinistra riuscirà a truccare in "vittoria operaia" la deviazione della combattività operaia sul campo del nazionalismo, dell'interesse nazionale. Se è vero che, per la prima volta, si assistette in Francia alle occupazioni di fabbriche, è anche la prima volta che si vedevano gli operai cantare al tempo stesso l'Internazionale e la Marsigliese, camminare dietro le pieghe della bandiera rossa mischiata a quelli della bandiera tricolore. L'apparato d'inquadramento costituito dal PC e dai sindacati fu padrone della situazione, riuscendo a chiudere nelle fabbriche gli operai che si lasciavano addormentare al suono della fisarmonica, mentre si decideva la loro sorte ai vertici, nei negoziati che termineranno con gli accordi di Matignon. Se c'era unità, non fu certamente quella della classe operaia ma sicuramente quella dell'inquadramento della borghesia sulla classe operaia. Quando alcuni irriducibili non compresero che dopo gli accordi bisognava riprendere il lavoro, l'Humanité s'incaricò di spiegare "che occorre capire quando uno sciopero deve finire ... bisogna sapere scendere anche al compromesso" (M. Thorez, discorso dell'11 giugno 1936) "che non bisogna spaventare i nostri amici radicali".
Durante il processo di Riom, intentato dal regime di Vichy contro i responsabile della "decadenza morale della Francia", lo stesso Blum si ricordò come le occupazioni di fabbrica andavano proprio nel senso della mobilitazione nazionale ricercata: "gli operai erano come i custodi, sorveglianti, ed anche, in un certo senso, come comproprietari. E constatare una comunità di diritti e di doveri nei confronti del patrimonio nazionale, non è questo che conduce ad assicurare ed a preparare la difesa comune, la difesa unanime?(...). È così questa misura che si crea poco a poco per gli operai una comproprietà della patria, che si insegna loro a difendere questa patria".
La sinistra ottenne ciò che voleva: aveva portato la combattività operaia sul campo sterile del nazionalismo, dell'interesse nazionale. "La borghesia è obbligata a ricorrere al Fronte popolare per canalizzare a suo profitto un'esplosione inevitabile della lotta di classe e non può farlo se non nella misura in cui il Fronte popolare appaia come un'emanazione della classe operaia e non come la forza capitalista che discioglie il proletariato per mobilitarlo per la guerra" (Bilan n° 32 Giugno-luglio 1936).
Per mettere fine ad ogni resistenza operaia, gli stalinisti andranno a massacrare a randellate coloro che "si lasciano indurre in un'azione sconsiderata", "quelli che non sanno finire uno sciopero" (M. Thorez, 8 giugno 1936) mentre il governo del Fronte popolare massacrava e mitragliava operai con i suoi gendarmi mobilitati a Clichy nel 1937. Brutalizzando o uccidendo le ultime minoranze di operai recalcitranti, la borghesia vinceva la sua scommessa trascinando l'insieme del proletariato francese alla difesa nazionale.
Fondamentalmente, il programma della Fronte popolare non aveva niente che potesse inquietare la borghesia. Il presidente del Partito radicale, E. Daladier, la rassicurava d'altronde fin dal 16 maggio: "Il programma del Fronte popolare non racchiude alcun articolo che possa turbare gli interessi legittimi di un qualsiasi cittadino, inquietare il risparmio, recare offesa ad alcuna forza sana del lavoro francese. Molti di quelli che l'hanno combattuto con più passione non l'avevano probabilmente letto mai" (L'oeuvre, 16 maggio 1936). Tuttavia, per poter diffondere l'ideologia anti-fascista ed essere completamente credibile nel suo ruolo di difensore della patria e dello Stato capitalista, la sinistra doveva per forza concedere qualche briciola. Gli accordi di Matignon e le pseudo conquiste del 1936 furono elementi determinanti per potere presentare l'arrivo della sinistra al potere come una "grande vittoria operaia", per spingere i proletari a fidarsi del Fronte popolare e farli aderire alla difesa dello Stato borghese fin nelle sue imprese guerriere.
Questo famoso accordo di Matignon, concluso il 7 giugno 1936, celebrato dalla CGT come una "vittoria sulla miseria", che attualmente ancora passa per un modello di "riforma sociale", è dunque la carota che si vende agli operai. Ma che cosa è esattamente?
Sotto l'apparenza di "concessioni" alla classe operaia, come gli aumenti di stipendio, le "40 ore", le "ferie pagate", la borghesia assicurava innanzitutto l'organizzazione della produzione sotto la direzione dello Stato "imparziale", come segnalava il leader della CGT Léon Jouhaux: "(...) l'inizio di un'era nuova, l'era delle relazioni dirette tra le due grandi forze economiche organizzate del paese. (…). Le decisioni sono state prese nella più completa indipendenza, sotto l'egida del governo, compiendo quest'ultimo, se necessario, un ruolo di arbitro che corrisponde alla sua funzione di rappresentante dell'interesse generale" (discorso radiodiffuso dell' 8 giugno 1936). Poi, avrebbe introdotto delle misure essenziali per fare accettare ai lavoratori un'intensificazione senza precedenti dei ritmi di produzione attraverso l'introduzione dei nuovi metodi di organizzazione del lavoro destinato a decuplicare i rendimenti orari tanto necessari per fare girare a pieno regime l'industria d'armamento. Sarà la generalizzazione del taylorismo, della lavorazione a catena e della dittatura del cronometro nella fabbrica.
Fu Léon Blum in persona che strapperà il velo "sociale" posto sulle leggi del 1936 in occasione del processo organizzato dal regime di Vichy a Riom nel 1942 cercando di fare del Fronte Popolare e delle 40 ore i responsabili della pesante sconfitta del 1940 in seguito all'assalto dell'esercito nazista:
"Il rendimento orario, di che cosa è funzione? (...) dipende dal buon coordinamento e dal buon adattamento dei movimenti dell'operaio alla sua macchina; dipende anche dalla condizione morale e fisica dell'operaio". C'é tutta una scuola in America, la scuola Taylor, la scuola degli ingegneri Bedeau, che vedete spostarsi nelle ispezioni che hanno spinto molto avanti lo studio dei metodi di organizzazione materiale che conduce al massimo rendimento orario della macchina, ciò che è precisamente il loro obiettivo. Ma c'é anche la scuola Gilbreth che ha studiato e ricercato i dati più favorevoli nelle condizioni fisiche dell'operaio affinché sia ottenuto questo rendimento. Il dato essenziale è ridurre la stanchezza dell'operaio. La giornata più corta, il tempo libero, il festivo pagato, il sentimento di una dignità, di un'uguaglianza conquistata, tutto ciò era, doveva essere, uno degli elementi che possono portare al massimo il rendimento orario estratto dalla macchina attraverso l'operaio".
Ecco come e perché le misure "sociali" del governo di Fronte popolare furono un passaggio obbligato per fare adattare i proletari ai nuovi metodi infernali di produzione che miravano all'armamento veloce della nazione prima di essere pronunciate le dichiarazioni ufficiali di guerra. Del resto, c'è da notare che le famose ferie pagate, sotto una forma o sotto un'altra, erano state concesse nella stessa epoca nella maggior parte dei paesi evoluti che s'incamminavano verso la guerra imponendo per questo ai loro operai gli stessi ritmi di produzione.
Così, nel giugno 1936, sotto l'ispirazione dei movimenti in Francia, esplose in Belgio uno sciopero degli scaricatori. Dopo avere provato a fermarlo, i sindacati riconobbero il movimento e l'orientarono verso rivendicazioni simili a quelle del Fronte popolare in Francia: aumento degli stipendi, settimana delle "40 ore" ed una settimana di ferie pagate. Il 15 giugno, il movimento si estese verso la Borinage e le regioni di Liège e Limburg, 350.000 operai entrano in sciopero in tutto il paese. Il risultato principale del movimento sarà un modo raffinato del sistema di concertazione sociale, attraverso la costituzione di una conferenza nazionale del lavoro dove padroni e sindacati si concertarono su un piano nazionale per ottimizzare il livello concorrenziale dell'industria belga.
Una volta ottenuti la fine degli scioperi e l'installazione duratura di un rendimento orario massimo dello sfruttamento della forza lavoro, non restava più al governo di Fronte Popolare che passare alla riconquista del terreno concesso. Gli aumenti salariali vennero assottigliati dall'inflazione alcuni mesi più tardi (aumento del 54% dei prezzi dei prodotti alimentari tra 1936 e 1938), le 40 ore saranno rimesse in causa dallo stesso Blum un anno dopo e dimenticate completamente quando il governo radicale di Daladier nel 1938 lanciò a pieno regime la macchina economica per la guerra, sopprimendo le maggiorazioni per le prime 250 ore di lavoro straordinario, annullando disposizioni delle convenzioni collettive che vietavano il lavoro a cottimo ed applicando delle sanzioni per ogni rifiuto di effettuare ore supplementari per la difesa nazionale: "(...) trattandosi delle fabbriche che lavorano per la difesa nazionale, le deroghe alla legge delle 40 h sono sempre state accordate. Inoltre, nel 1938, ho ottenuto dalle organizzazioni operaie un tipo di concordato, che portava a 45 h la durata del lavoro nelle fabbriche che operavano direttamente o non per la difesa nazionale". (Blum al processo di Riom). Infine, le ferie pagate, saranno divorate in un boccone poiché, su proposta del padronato, sostenuto dal governo Blum e dai sindacati, le feste di Natale e del Primo dell'anno saranno da recuperare. Una misura che si applicherà poi a tutte le feste legali e cioè 80 ore di lavoro supplementare che corrispondeva esattamente a 2 settimane di ferie pagate.
In quanto al riconoscimento dei delegati sindacali e delle convenzioni collettive, ciò non rappresentava in realtà che il rafforzamento dell'ascendente dei sindacati sugli operai attraverso il loro più largo insediamento nelle fabbriche. Per fare che cosa? Léon Jouhaux, socialista e dirigente sindacale, lo spiegò in questi termini: "le organizzazioni operaie [sindacati ndr] vogliono la pace sociale. Innanzitutto per non disturbare il governo di Fronte Popolare e, in seguito, per non frenare il riarmo". In effetti, quando la borghesia prepara la guerra, lo Stato si vede costretto a controllare l'insieme della società per orientare tutte le sue energie verso la macabra prospettiva. E, nella fabbrica è proprio il sindacato ad essere il più indicato per permettere allo Stato di sviluppare la sua presenza poliziesca.
Se si assiste ad una vittoria, è in verità quella, sinistra, del capitale che prepara la sola soluzione per risolvere la crisi: la guerra imperialista.
In Francia, fin dall'origine del Fronte popolare, dietro il suo slogan "Pace, pane, libertà" ed al di là dell'antifascismo e del pacifismo, la difesa degli interessi imperialisti della borghesia francese sarà mischiata alle illusioni democratiche. In questo quadro, la "sinistra" sfruttò abilmente la preparazione della guerra a livello internazionale per mostrare che il "pericolo fascista era alle porte del paese", organizzando per esempio una pubblicità sull'aggressione italiana in Etiopia. Più nettamente ancora, la SFIO ed il PC si divisero il lavoro rispetto alla guerra civile spagnola: mentre la SFIO rifiutava l'intervento in Spagna in nome del "pacifismo", il PC esaltava quest'intervento in nome della "lotta antifascista".
Da allora, se c'era un compito per il quale il capitale francese doveva essere debitore al governo di Fronte popolare, fu proprio quello di avere preparato la guerra. Ciò in tre maniere:
- innanzitutto, la sinistra potette utilizzare la gigantesca massa degli operai in sciopero come mezzo di pressione sulle forze più retrograde della borghesia, imponendo le misure necessarie alla salvaguardia del capitale nazionale di fronte alla crisi e facendo passare tutto ciò per una vittoria della classe operaia;
- poi, il Fronte popolare lanciò un programma di riarmo che passò dalla nazionalizzazione delle industrie di guerra e su cui Blum dichiarerà all'epoca del processo di Riom: "ho depositato un grande progetto fiscale... che mira a tendere tutte le forze della nazione verso il riarmo e che fa di questo sforzo di riarmo intensivo la condizione stessa, l'elemento stesso di un avviamento industriale ed economico definitivo. Esso esce risolutamente dall'economia liberale, si mette sul piano di un'economia di guerra".
In effetti, la sinistra era cosciente della guerra che stava per scoppiare; fu lei a spingere all'intesa franco-russo denunciando violentemente le tendenze favorevoli all’accordo di Monaco nella borghesia francese. Le "soluzioni" che essa portava alla crisi non erano differenti da quelle della Germania fascista, dell'America del New Deal o della Russia stalinista: sviluppo del settore improduttivo delle industrie d'armamento. Qualunque sia la maschera dietro cui si nascondeva il capitale, le misure economiche adottate erano le stesse. Come fece notare Bilan: "Non è per caso se questi grandi scioperi scoppiano nell'industria metallurgica iniziando nelle fabbriche di aerei […] è che si tratta di settori che lavorano oggi a pieno rendimento, a causa della politica di riarmo perseguita in tutti i paesi. Questo fatto provato dagli operai ha costretto quest'ultimi a dover scatenare il loro movimento per diminuire il ritmo frastornante della catena (…)"
- infine e soprattutto, il Fronte popolare ha portato la classe operaia sul suo peggiore terreno, quello della sua sconfitta e del suo schiacciamento: il nazionalismo.
Con l'isteria patriottarda che sviluppò la sinistra mediante l'anti-fascismo, il proletariato fu portato a difendere una frazione della borghesia contro un'altra, la democratica contro la fascista, uno Stato contro un altro, la Francia contro la Germania. Il PCF dichiarò: "E' giunta l'ora per realizzare effettivamente l'armamento generale del popolo, di realizzare le riforme profonde che assicureranno una potenza decuplicata dei mezzi militari e tecniche del paese. L'esercito del popolo, l'esercito degli operai e dei contadini ben inquadrati, molto istruiti, ben guidati dagli ufficiali fedeli alla Repubblica". E' in nome di questo "ideale" che i "comunisti" andranno a celebrare Giovanna d'arco "grande liberatrice della Francia", che il PC chiamò ad un Fronte francese e fece propria la parola d'ordine che era quella dell'estrema destra alcuni anni prima: "La Francia ai francesi!". Fu sotto il pretesto di difendere le libertà democratiche minacciate dal fascismo che furono portati i proletari ad accettare i sacrifici necessari per la salvezza del capitale francese ed alla fine ad accettare il sacrificio della loro vita nella carneficina della Seconda Guerra mondiale.
In questo compito di boia, il Fronte popolare trovò degli alleati efficaci presso i suoi critici di sinistra: il Partito Socialista Operaio e Contadino (PSOP) di Marceau Pivert, Trotskysti o Anarchici. Questi andranno a sostenere il ruolo di raccattatori degli elementi più combattivi della classe e si porranno costantemente come "più radicali", ma saranno in effetti più "radicali" nella mistificazione della classe operaia. Le Gioventù Socialiste della Senna, dove i trotskisti come Craipeau e Roux fecero dell'entrismo, furono i primi a raccomandare ed organizzare milizie anti-fasciste, gli amici di Pivert che si raggruppavano in seno al P.S.O.P saranno più virulenti nel criticare la "vigliaccheria di Monaco”. Tutti erano unanimi nel difendere la Repubblica spagnola a fianco degli antifascisti e tutti parteciperanno più tardi alla carneficina inter-imperialista in seno alla resistenza. Tutti diedero il loro obolo alla difesa del capitale nazionale, ben meritandosi la patria!
Luglio 1936 in Spagna: Il proletariato mandato al macello della guerra "civile"
Attraverso la costituzione del Fronte popolare (Frente Popular) e la sua vittoria alle elezioni di febbraio 1936, la borghesia aveva istillato in seno alla classe il veleno della "rivoluzione democratica" ed era riuscita così a legare la classe operaia alla difesa dello Stato "democratico" borghese. In effetti, quando una nuova ondata di scioperi esplose immediatamente dopo le elezioni, essa fu frenata e sabotata dalla sinistra e dagli anarchici perché "faceva il gioco dei padroni e della destra". Ciò si realizzò tragicamente all'epoca del Pronunciamiento militare del 19 luglio 1936. Di fronte al colpo di Stato, gli operai risposero immediatamente con scioperi, occupazioni di caserme ed il disarmo di soldati, contro le direttive del governo che invitava alla calma. Là dove gli appelli del governo vennero rispettati (" Il governo comanda, il Fronte popolare ubbidisce"), i militari prendono il controllo con un bagno di sangue.
Tuttavia, l'illusione della "rivoluzione spagnola" venne rafforzata dalla pseudo "scomparsa" dello Stato capitalista repubblicano, e dalla non esistenza della borghesia, il tutto nascosto dietro uno pseudo "governo operaio" ed organismi "più a sinistra" come "il Comitato centrale delle Milizie antifasciste" o il "Consiglio centrale dell'economia" che mantenevano l'illusione di un doppio potere. In nome di questo "cambiamento rivoluzionario", osì facilmente raggiunto, la borghesia chiese ed ottenne dagli operai la Sacra Unionr, intorno al solo ed unico obiettivo di battere Franco. Ora, "L'alternativa non sta tra Azaña e Franco, ma tra borghesia e proletariato; che l'uno o l'altro dei due partner sia battuto, ciò non impedisce a quello che sarà realmente vinto, il proletariato, che pagherà le spese della vittoria di Azaña o di Franco" (Bilan n° 33, luglio-agosto 1936).
Molto rapidamente, il governo repubblicano di Fronte popolare, con l'aiuto della CNT e del POUM, deviò così la reazione operaia contro il colpo di Stato franchista verso la lotta antifascista e fece manovre di reclutamento per spostare la lotta di una battaglia sociale, economica e politica contro l'insieme delle forze della borghesia, verso lo scontro militare nelle trincee unicamente contro Franco; l'armamento degli operai fu concesso solamente per mandarli a farsi massacrare sul fronte militare della "guerra civile", al di fuori dal loro campo di classe. "Si potrebbe supporre che l'armamento degli operai contenga delle virtù congenite dal punto di vista politico e che una volta materialmente armati, gli operai potranno sbarazzarsi dei capi traditori per passare alle forme superiori della loro lotta. Niente di tutto ciò. Gli operai che il Fronte Popolare è riuscito ad incorporare alla borghesia, poiché combattono sotto la direzione e per la vittoria di una frazione borghese, non hanno alcuna possibilità di evolvere su alle posizioni di classe" (Bilan n° 33, luglio-agosto 1936).
Le illusioni di una "rivoluzione sociale"
La guerra di Spagna sviluppò ancora un altro mito, un'altra menzogna. Sostituendo alla guerra di classe del proletariato contro il capitalismo la guerra tra "Democrazia" e" Fascismo", il Fronte popolare snaturava anche il contenuto della rivoluzione: l'obiettivo centrale non era più la distruzione dello Stato borghese e la presa del potere politico da parte del proletariato ma delle pretese misure di socializzazione e di gestione operaia delle fabbriche. Sono soprattutto gli anarchici e certe tendenze che si dicevano consiliariste che esaltarono in modo particolare questo mito, proclamando anche che, in quella Spagna repubblicana, antifascista e stalinista, la conquista delle posizioni socialiste erano ben più avanzate di quelle raggiunte dalla Rivoluzione d'ottobre in Russia.
Senza sviluppare qui questa questione, bisogna sottolineare tuttavia che queste misure, anche se fossero state più radicali di quanto non erano in realtà, non avrebbero potuto per niente cambiare il carattere fondamentalmente controrivoluzionario dello svolgimento degli avvenimenti in Spagna. Per la borghesia come per il proletariato, il punto centrale della rivoluzione può essere solamente quello della distruzione o della conservazione dello Stato capitalista.
Il capitalismo può adattarsi non solo momentaneamente alle misure di autogestione o delle pretese socializzazioni (realizzazioni di cooperative) degli sfruttamenti agricoli aspettando la possibilità di riportarli all'ordine alla prima occasione propizia, ma può anche perfettamente stimolarli come mezzi di mistificazione e di deviazione delle energie del proletariato verso le conquiste illusorie per distoglierlo dall'obiettivo centrale della Rivoluzione: distruzione del potere capitalista, il suo Stato.
L'esaltazione delle pretese misure sociali come il culmine della Rivoluzione è solamente una radicalità a parole che deviò il proletariato dalla sua lotta rivoluzionaria contro lo Stato e camuffò la sua mobilitazione come carne da cannone al servizio della borghesia. Avendo lasciato il suo campo di classe, il proletariato sarà arruolato non solo nelle milizie antifasciste degli anarchici e dei "poumisti" e sarà mandato al massacro come carne da cannone sui fronti, ma conoscerà inoltre un selvaggio supersfruttamento e sempre più sacrifici in nome della produzione per la guerra "di liberazione", dell'economia di guerra antifascista: riduzione degli stipendi, inflazione, razionamenti, militarizzazione del lavoro, allungamento delle giornate di lavoro. E quando il proletariato esasperato si sollevò, a Barcellona in maggio 1937, il Fronte popolare e la Generalidad di Barcellona, dove partecipavano attivamente gli anarchici, repressero apertamente e massacrarono la classe operaia di questa città, mentre i franchisti misero fine alle ostilità per permettere ai boia di sinistra di schiacciare nel sangue il sollevamento operaio.
Dai socialdemocratici agli estremisti, tutti erano daccordo, comprese certe frazioni di destra della borghesia, nel vedere nella salita della sinistra al governo in 1936 in Francia ed in Spagna (ma anche, probabilmente in modo meno spettacolare, in altri paesi come la Svezia o il Belgio) una grande vittoria della classe operaia ed un segno della sua combattività e della sua forza negli anni '30. Di fronte a queste manipolazioni ideologiche, i rivoluzionari d'oggi, come i loro predecessori nel rivista Bilan, hanno il dovere di affermare il carattere mistificatore dei Fronti popolari e delle "rivoluzioni sociali" cui questi pretendevano dare inizio. L'arrivo al potere della sinistra in quell'epoca esprimeva al contrario la profondità della sconfitta del proletariato mondiale, e permise un reclutamento diretto della classe operaia in Francia ed in Spagna nella guerra imperialista che tutta la borghesia stava preparando, per arruolarlo massicciamente dietro la mistificazione dell'ideologia anti-fascista.
" (…) Ed io pensavo soprattutto che era un immenso risultato ed un immenso servizio reso aver riportato queste masse e questa élite operaia all'amore ed al sentimento del dovere verso la patria" (dichiarazioni di Blum al processo di Riom).
Il "1936" segna per la classe operaia uno dei periodi più neri della controrivoluzione, dove le peggiori sconfitte della classe operaia le furono presentate come vittorie; dove, di fronte ad un proletariato che subiva ancora il contraccolpo dello schiacciamento dell'ondata rivoluzionaria iniziata in 1917, la borghesia poté imporre quasi senza colpo ferire la sua "soluzione" alla crisi: la guerra.
Jos
1. Leggere B. Kermoal, "Collera operaia alla vigilia del Fronte popolare", Le Monde diplomatique, giugno 2006, p.28.
2. Le citazioni riguardanti il Fronte popolare sono tratte generalmente da L. Bodin e J. Touchard, Fronte popolare 1936, Parigi: Armand Colin, 1985.
3. Confederazione nazionali del Lavoro, centrale anarco-sindacalista.
4. Partito Operaio di unificazione Marxista, piccolo partito concentrato in Catalogna che rappresentava l'estrema sinistra "radicale" della Socialdemocrazia. Faceva parte del "Bureau di Londra" che raggruppava internazionalmente le correnti socialiste di sinistra (SAPD tedesco, PSOP francese, Independent Labour Party britannico, ecc.).
5. Edouard Daladier: dirigente del Partito Radicale, numerose volte ministro a partire dal 1924 (in particolare delle Colonie e della Guerra) capo del governo nel 1933, 1934 e 1938. È a questo titolo che il 30 settembre 1938 firmò gli accordi di Monaco. Pierre Cot: cominciò la sua carriera politica come radicale e la finì come compagno di strada del PCF. Fu nominato ministro dell'Air (Aviazione) nel 1933 da Daladier. Léon Blum: capo storico dello SFIO (partito socialista) dopo la scissione del Congresso di Tours del 1920 da cui si formò il Partito comunista. Marcel Cachin: figura mitica del PCF, direttore de L'Umanité dal 1918 al 1958. I suoi stati di servizio sono eloquenti: fu interventista durante la prima guerra mondiale e, a questo titolo, fu mandato dal governo francese per dare a Mussolini, allora socialista, il denaro che gli doveva permettere di fondare Il popolo di Italia destinato a fare propaganda per l'entrata dell'Italia in guerra. Nel 1917, dopo la rivoluzione di febbraio, fu mandato in Russia per convincere il Governo provvisorio a proseguire la guerra. Nel 1918, si vantò di avere pianto quando la bandiera francese sventolava di nuovo su Strasburgo per la vittoria della Francia sulla Germania. Nel 1920, raggiunse il PCF, costituendo la destra del partito a fianco a Frossard. Tutta la sua vita si è distinta per il suo arrivismo e la sua servilità ciò che gli permise di condividere con talento tutte le svolte del PCF.
6. Piano adottato, su proposta del banchiere americano Charles Dawes, dalla Conferenza di Londra nell'agosto 1924 che raggruppava i vincitori della guerra e la Germania. Questo piano alleggerì questo paese dai "risarcimenti di guerra" che esso doveva pagare ai suoi vincitori (principalmente alla Francia), ciò che gli permise di rilanciare la sua economia e favorire gli investimenti americani…
Di fronte alla guerra che devasta in permanenza il Medio Oriente e recentemente di fronte al conflitto che insanguina il Libano ed Israele, la posizione dei rivoluzionari non deve avere la benché minima ambiguità. Per questo sosteniamo interamente le rare voci internazionaliste e rivoluzionarie che emergono in questa regione, come quella del gruppo Enternasyonalist Komunist Sol in Turchia. Nella sua presa di posizione sulla situazione in Libano ed in Palestina, che abbiamo riprodotto in vari organi della nostra stampa territoriale, questo gruppo respinge fermamente ogni sostegno alle cricche e fazioni borghesi rivali che si affrontano e le cui vittime dirette sono milioni di proletari che siano d'origine palestinese, ebrea, sciita, sunnita, kurda, drusa o altro. Esso ha giustamente affermato che "l’imperialismo è la politica naturale che pratica qualsiasi Stato nazionale o qualsiasi organizzazione che funziona come uno Stato nazionale”. Ha anche denunciato il fatto che "in Turchia, come nel resto del mondo, la maggior parte dei gauchistes ha dato il suo sostegno totale all’OLP ed ad Hamas. Nell'ultimo conflitto, questi si sono espressi unanimemente per dire ‘siamo tutti Hezbollah’. Seguendo questa logica che consiste nel dire ‘il nemico del mio nemico è mio amico’, hanno sostenuto a pieno questa violenta organizzazione che ha spinto la classe operaia in una disastrosa guerra nazionalistica. Questo sostegno dei gauchistes al nazionalismo ci mostra perché questi non hanno molto da dire di diverso da ciò che dice l’MPH (Partito del Movimento Nazionale - i Lupi grigi fascisti) (...) La guerra tra Hezbollah ed Israele e la guerra in Palestina sono entrambe guerre interimperialiste ed i diversi campi in gioco utilizzano tutti il nazionalismo per trascinare la classe operaia della regione nel proprio campo. Più gli operai saranno aspirati nel nazionalismo, più perderanno la loro capacità di agire come classe. È per questo che né Israele, né Hezbollah, né l’OLP, né Hamas devono essere sostenuti, in nessuna circostanza". Ciò dimostra che la prospettiva proletaria vive e si afferma sempre, non solo attraverso lo sviluppo delle lotte della classe operaia ovunque nel mondo: in Europa, negli Stati Uniti, in America latina, in India o nel Bangladesh, ma anche attraverso la comparsa, in vari paesi, di piccoli gruppi e di elementi politicizzati che cercano di difendere le posizioni internazionaliste che sono il segno distintivo della politica proletaria.
La guerra in Libano costituirà una nuova tappa nella messa a ferro e fuoco di tutto il Medio Oriente e nella caduta del pianeta in un caos sempre più incontrollabile, una guerra alla quale tutte le potenze imperialiste avranno contribuito, dalle più grandi alle più piccole, in seno alla pretesa “Comunità internazionale”. 7000 bombardamenti aerei sul solo territorio libanese, senza contare gli innumerevoli lanci di razzi sul Nord di Israele, più di 1200 morti in Libano ed in Israele (di cui più di 300 bambini di meno di 12 anni), circa 5000 feriti, un milione di civili che hanno dovuto fuggire dalle bombe o dalle zone di combattimento. Altri, troppo poveri per fuggire, che si rintanano come possono con la paura in corpo... Interi quartieri, interi villaggi ridotti allo stato di rovine, ospedali straripati e pieni fino a scoppiare: questo il bilancio di un mese di guerra in Libano ed in Israele in seguito all'offensiva di Tsahal per ridurre l'influenza crescente dello Hezbollah, in risposta ad uno dei tanti attacchi omicidi delle milizie islamiche al di là della frontiera israelo-libanese. Le distruzioni sono valutate a 6 miliardi di euro, senza contare il costo militare della guerra stessa.
È una vera e propria politica di terra bruciata quella che lo Stato israeliano persegue con una brutalità, una crudeltà ed un accanimento incredibili contro le popolazioni civili dei villaggi del Libano del Sud, cacciate senza riguardo dalle loro terre, dalle loro case, ridotte a crepare di fame, senza acqua potabile, esposte alle peggiori epidemie. 90 ponti e innumerevoli vie di comunicazione sistematicamente tagliati (strade, autostrade...), 3 centrali elettriche e migliaia di abitazioni distrutte, un inquinamento dilagante, bombardamenti incessanti. Il governo israeliano ed il suo esercito non hanno smesso di proclamare la loro volontà di “risparmiare i civili” e massacri come quelli di Canaa sono stati definiti “incidenti spiacevoli” (come famosi i “danni collaterali” nelle guerre del Golfo e nei Balcani). Ma guarda caso, è tra la popolazione civile che si contano il maggior numero di vittime, e di gran lunga: 90% degli uccisi!
Quanto a l’Hezbollah, benché con mezzi più limitati e dunque meno spettacolari, esso ha praticato esattamente la stessa politica omicida e sanguinaria di bombardamento a tutto spiano, con i suoi missili che si accaniscono contro la popolazione civile e le città del nord di Israele (il 75% dei morti fanno parte delle popolazioni arabe che questo pretendeva di proteggere).
Sono tutti guerrafondai
Il vicolo cieco della situazione in Medio Oriente si era già concretizzato con l'arrivo al potere di Hamas nei territori palestinesi (che l’intransigenza del governo israeliano avrà contribuito a causare, “radicalizzando” una maggioranza della popolazione palestinese) e la lacerazione aperta tra le frazioni della borghesia palestinese, soprattutto tra Fatah ed Hamas, che impedisce ormai ogni soluzione negoziata. Dinanzi a questo vicolo cieco la reazione di Israele è stata quella che, oggi nel mondo, è la favorita di tutti gli stati: la fuga in avanti. Per ribadire la sua autorità Israele ha cambiato versante allo scopo di fermare l'influenza crescente di Hezbollah nel Sud Libano, aiutato, finanziato ed armato dal regime iraniano. Il pretesto invocato da Israele per iniziare la guerra è stato la liberazione di due soldati israeliani fatti prigionieri da Hezbollah: quattro mesi dopo sono sempre prigionieri delle milizie sciite. L'altra ragione invocata era “neutralizzare” e disarmare Hezbollah i cui attacchi ed incursioni sul suolo israeliano nel Sud Libano avrebbero costituito una minaccia permanente per la sicurezza dello Stato ebreo.
Alla fine l'operazione di guerra si chiude con una sconfitta cocente, che mette brutalmente fine al mito della invincibilità, dell'invulnerabilità dell'esercito israeliano. Civili e soldati nell'ambito della borghesia israeliana si rinviano la responsabilità di una guerra mal preparata. Al contrario, Hezbollah esce rafforzato dal conflitto ed ha acquisito una legittimità nuova, attraverso la sua resistenza, agli occhi delle popolazioni arabe. Hezbollah, come Hamas, era in partenza solo una delle tante milizie islamiche che si sono costituite contro lo Stato di Israele. È nato in occasione dell'offensiva israeliana nel Libano del Sud nel 1982. Grazie alla sua componente sciita è prosperato beneficiando del copioso aiuto finanziario del regime degli ayatollah e dei mullah iraniani. Anche la Siria lo ha utilizzato fornendogli un importante sostegno logistico che le ha permesso di farne una base di retroguardia quando è stata costretta nel 2005 a ritirarsi dal Libano. Questa banda di assassini sanguinari ha saputo allo stesso tempo tessere con pazienza una potente rete di sergenti reclutatori attraverso la copertura di un aiuto medico, sanitario e sociale, alimentato dai generosi fondi tratti della manna petrolifera dello Stato iraniano. Questi fondi gli permettono anche di finanziare le riparazioni delle case distrutte o danneggiate dalle bombe ed i razzi, allo scopo di arruolare la popolazione civile nelle sue fila. Abbiamo potuto vedere dai vari reportage che questa “armata dell'ombra” è composta da numerosi bambini tra i 10 ed i 15 anni che servono da carne da cannone in questi sanguinari regolamenti di conto.
La Siria e l'Iran formano momentaneamente il blocco più omogeneo attorno ad Hamas o ad Hezbollah. l'Iran mostra chiaramente le sue ambizioni a diventare la principale potenza imperialista della regione e il possesso dell'arma atomica gli garantirebbe in effetti questo ruolo. Questa è giustamente una delle grandi preoccupazioni della potenza americana poiché, dalla sua fondazione nel 1979, la “Repubblica islamica” ha manifestato un'ostilità permanente agli Stati Uniti.
E’ dunque con il segnale di via libera da parte degli USA che si è iniziata l'offensiva israeliana contro il Libano. Sprofondati fino al collo nel pantano della guerra in Iraq e in Afghanistan, e dopo il fallimento del loro “piano di pace” per regolare la questione palestinese, gli Stati Uniti possono soltanto constatare il fallimento palese della loro strategia che mira ad instaurare la “Pax americana” nel Vicino e Medio Oriente. In particolare, la presenza americana in Iraq da tre anni si è tradotta in un caos sanguinoso, una vera guerra civile terribile tra fazioni rivali, attentati quotidiani che colpiscono ciecamente la popolazione, al ritmo di 80-100 morti al giorno.
In questo contesto era fuori questione per gli Stati Uniti intervenire in prima persona quando il loro obiettivo nella regione è prendersela con questi Stati denunciati come “terroristi” ed incarnazione “dell'asse del male”, che sarebbero appunto la Siria e soprattutto l'Iran di cui Hezbollah ha il sostegno. L'offensiva israeliana che doveva fungere da avvertimento a questi due Stati dimostra la perfetta convergenza di interessi tra la Casa Bianca e la borghesia israeliana. È per questo che il fallimento di Israele segna anche un nuovo arretramento degli Stati Uniti ed un ulteriore indebolimento della leadership americana.
Il cinismo e l’ipocrisia di tutte le grandi potenze
Il colmo del cinismo e dell’ipocrisia è raggiunto dall’ONU che, per tutto il tempo, non ha fatto che proclamare la sua “volontà di pace” pur lamentando la propria “impotenza”(1). Questa è un’odiosa menzogna. Questo "covo di briganti" (secondo il termine usato da Lenin a proposito dell'antenato dell'ONU, la Società delle Nazioni) è la palude dove si trastullano i più mostruosi coccodrilli del pianeta. I cinque Stati membri permanenti del Consiglio di Sicurezza sono i maggiori predatori della terra:
- Gli Stati Uniti, la cui egemonia si basa sulla più potente armata militare del mondo ed i cui misfatti, dalla proclamazione nel 1990 “di un’era di pace e di prosperità” da parte di Bush Senior, si commentano da soli (le due guerre del Golfo, l’intervento nei Balcani, l’occupazione dell’Iraq, la guerra in Afghanistan...).
- La Russia, responsabile delle peggiori atrocità all’epoca delle sue due guerre in Cecenia, che avendo mal digerito l’implosione dell’URSS e rimuginando un desiderio di rivincita, manifesta oggi nuove pretese imperialiste, approfittando della posizione di debolezza degli Stati Uniti. È per ciò che gioca la carta del sostegno all’Iran e più discretamente a Hezbollah.
- La Cina che, approfittando della sua crescente influenza economica, sogna di accedere alle nuove zone di influenza fuori dall’Asia del Sud-est. E in particolare fa gli occhi dolci all'Iran, partner economico privilegiato che gli dispensa la manna petrolifera ad una tariffa particolarmente vantaggiosa. Ciascuna di queste due potenze, ognuno per proprio conto, non ha fatto che cercare di sabotare le risoluzioni dell'ONU di cui erano parte pregnante.
- La Gran Bretagna che ha accompagnato fino a questo momento le principali spedizioni punitive degli Stati Uniti per la difesa dei propri interessi. Essa intende riconquistare la zona d’influenza di cui disponeva attraverso il suo vecchio protettorato in questa regione (principalmente Iran ed Iraq).
- La borghesia francese è sempre nostalgica dell’epoca in cui si spartiva le zone d'influenza in Medio Oriente con la Gran Bretagna. Per questo si è ricongiunta al piano americano sul Libano, intorno alla famosa risoluzione 1201 dell'ONU, che mette assieme anche il piano di re-impiego del FINUL. Per questo ha accettato di portare il suo impegno nel Libano del Sud da 400 a 2.000 soldati nell'ambito della FINUL.
Anche altre potenze sono in lizza, come l’Italia che, in cambio del più grosso contingente delle forze dell’ONU si vedrà affidare dopo febbraio 2006 il comando supremo del FINUL in Libano. Così, appena qualche mese dopo il ritiro delle truppe italiane dall’Iraq, Prodi dopo avere criticato aspramente l’impegno dell’equipe Berlusconi in Iraq, presenta la stessa minestra in Libano confermando le ambizioni dell’Italia ad avere un suo posto nella corte dei grandi, a rischio di lasciarci le penne. Ciò dimostra che tutte le potenze sguazzano nella guerra.
Il Medio Oriente offre oggi un concentrato del carattere irrazionale della guerra, dove ogni imperialismo vi si infila sempre più per difendere i propri interessi al prezzo di un'estensione sempre più ampia e devastante dei conflitti, i quali implicano un numero di Stati sempre grande.
L'estendersi delle zone di scontro nel mondo è una manifestazione del carattere inevitabile della barbarie di guerra del capitalismo. La guerra ed il militarismo sono realmente diventati il modo di vita permanente del capitalismo decadente in piena decomposizione. Questa è una delle caratteristiche essenziali del tragico vicolo cieco di un sistema che non ha null’altro da offrire all'umanità se non seminare miseria e morte.
La borghesia americana è in un vicolo cieco
Il gendarme garante della conservazione “dell'ordine mondiale” è oggi esso stesso un attivo e potente fattore d'accelerazione del caos.
Come è possibile che il primo esercito del mondo, dotato dei mezzi tecnologici più moderni, dei servizi di informazioni più potenti, di armi sofisticate capaci di individuare e raggiungere con precisione degli obiettivi a migliaia di chilometri di distanza, si ritrovi intrappolato in un tale pantano? Come è possibile che gli Stati Uniti, il paese più potente del mondo, sia diretto da un mezzo imbecille circondato da una banda di attivisti poco conforme all'immagine tradizionale di una “grande democrazia” borghese responsabile? È vero che Bush junior, qualificato dallo scrittore Norman Mailer “il peggior presidente della storia degli Stati Uniti: ignorante, arrogante e completamente stupido”, si è circondato di una equipe di “teste pensanti” particolarmente “calde” che gli dettano la “sua” politica: dal vicepresidente Dick Cheney al segretario di Stato alla Difesa Donald Rumsfeld, passando per il suo guru-manager Karl Rove e per il “teorico” Paul Wolfowitz. Quest'ultimo fin dall'inizio degli anni 1990 si è fatto il portavoce più conseguente di una “dottrina” che enunciava chiaramente che “la missione politica e militare essenziale dell'America per il dopo-guerra fredda consisterà nel fare in modo che nessuna superpotenza rivale possa emergere in Europa dell'Ovest, in Asia o nei territori dell'ex Unione sovietica”. Questa “dottrina” è stata resa pubblica nel marzo 1992 quando la borghesia americana si illudeva ancora sul successo della sua strategia, all’indomani del crollo dell'URSS e della riunificazione della Germania. Questa gente, qualche anno fa, dichiarava che per mobilitare la nazione, imporre al mondo intero i valori democratici dell'America ed impedire le rivalità imperialiste, “ci vorrebbe un nuovo Pearl Harbor”. Bisogna ricordare che l'attacco alla base delle forze navali americane da parte del Giappone nel dicembre 1941, che fece 4500 morti e feriti da parte americana, permise l'entrata in guerra degli Stati Uniti a fianco degli Alleati facendo oscillare un'opinione pubblica fino ad allora in gran parte reticente all’entrata in guerra, mentre le più alte autorità politiche americane erano al corrente del progetto di attacco e non intervennero. Da quando Cheney e compagni sono arrivati al potere, grazie alla vittoria di Bush junior nel 2000, non hanno fatto altro che attuare la politica prevista: gli attentati dell'11 settembre gli sono serviti da “un nuovo Pearl Harbor” ed è in nome della loro nuova crociata contro il terrorismo che hanno potuto giustificare l'invasione dell'Afghanistan, poi dell’Iraq, varare nuovi programmi militari particolarmente costosi, senza dimenticare un rafforzamento senza precedenti del controllo poliziesco sulla popolazione. Il fatto che gli Stati Uniti si danno tali dirigenti che giocano con le sorti del pianeta come tanti apprendisti stregoni obbedisce alla stessa logica del capitalismo decadente in crisi che ha portato al potere Hitler in Germania in un altro periodo. Non è questo o quell’individuo al vertice dello Stato che fa evolvere il capitalismo in un senso o nell’altro, è al contrario questo sistema in piena deliquescenza che permette a questo o quell'individuo, rappresentativo di questa evoluzione e capace di metterla in atto, di accedere al potere. Ciò esprime chiaramente l’impasse storica nella quale il capitalismo spinge l'umanità.
Il bilancio di questa politica è sconfortante: 3000 soldati morti dall'inizio della guerra in Iraq tre anni fa (di cui più di 2800 per le truppe americane), 655.000 iracheni sono periti tra marzo 2003 e luglio 2006, mentre gli attentati mortali e gli scontri tra frazioni sciite e sunnite si sono intensificati. Sono 160.000 i soldati che occupano il suolo iracheno sotto l'alto comando degli Stati Uniti e che si ritrovano incapaci di “garantire la missione di mantenimento dell'ordine” in un paese sul bordo dell’esplosione e della guerra civile. Al nord, le milizie sciite tentano di imporre la loro legge e moltiplicano le dimostrazioni di forza, al sud gli attivisti sunniti, che rivendicano con orgoglio i loro legami con i talebani ed Al Qaida, hanno appena auto-proclamato una “repubblica islamica” mentre al centro, nella regione di Bagdad, la popolazione è esposta a bande di saccheggiatori, ad autobombe e la minima uscita isolata delle truppe americane si espone ad un’imboscata.
Le guerre in Iraq ed in Afghanistan assorbono somme colossali che aumentano sempre più il deficit di bilancio e precipitano gli Stati Uniti in un indebitamento faraonico. La situazione in Afghanistan non è meno catastrofica. La caccia all’uomo interminabile contro Al Qaïda e la presenza anche qui di un esercito d'occupazione ridanno credito ai talebani cacciati dal potere nel 2002 ma che, riarmati dall'Iran e più discretamente dalla Cina, moltiplicano le imboscate e gli attentati. I “demoni terroristi” che sono Bin Laden o il regime dei talebani sono del resto, l’uno e l'altro, delle “creature” degli Stati Uniti per far fronte all’ex-URSS all'epoca dei blocchi imperialisti, dopo l'invasione delle truppe russe in Afghanistan. Il primo è una ex-spia reclutata dalla CIA nel 1979 che, dopo aver servito ad Istanbul, da intermediario finanziario in un traffico d’armi dell'Arabia Saudita e degli Stati Uniti verso la macchia afgana, è diventato “naturalmente”, fin dall'inizio dell'intervento russo, l'intermediario degli americani per distribuire il finanziamento della resistenza afgana. I secondi sono stati armati e finanziati dagli Stati Uniti ed il loro accesso al potere si è compiuto con la completa benedizione dello Zio Sam.
È anche evidente che la grande crociata contro il terrorismo lungi dal portare alla sua estirpazione ha avuto, al contrario, come solo effetto il proliferare delle azioni terroristiche e degli attentati kamikaze dove il solo obiettivo è di fare maggiori vittime possibili. Oggi, la Casa Bianca resta impotente di fronte agli sberleffi più umilianti che gli infligge lo Stato iraniano. Ciò fa ringalluzzire potenze di quarto o quinto ordine come la Corea del Nord che si è permessa di procedere l'8 ottobre ad una prova nucleare che ne fa l'8° paese detentore dell'arma atomica. Questa enorme sfida mette in pericolo l'equilibrio di tutto il Sud-est asiatico e consolida le aspirazioni di altri Stati a dotarsi dell'arma nucleare. Giustifica inoltre una nuova militarizzazione ed il rapido riarmamento del Giappone che si orienta verso la produzione di armi nucleari per far fronte al suo immediato vicino. Questo è “l'effetto domino” della fuga davanti nel militarismo ed il “ciascuno per sé”.
Bisogna anche ricordare la situazione di caos terribile che imperversa in Medio Oriente ed in particolare nella striscia di Gaza. Dopo la vittoria elettorale di Hamas a fine gennaio, è stato sospeso l'aiuto internazionale diretto ed il governo israeliano ha organizzato il blocco dei trasferimenti di fondi delle entrate fiscali e doganali all'Autorità palestinese. 165.000 funzionari non vengono pagati da 7 mesi, ma la loro rabbia e quella di tutta una popolazione, di cui il 70% vive al di sotto della soglia di povertà con un tasso di disoccupazione del 44%, viene facilmente recuperata negli scontri di strada che ancora una volta contrappongono regolarmente, dal 1 ottobre, le milizie di Hamas a quelle di Fatah. I tentativi di formare un governo di unione nazionale abortiscono l’uno dopo l’altro. Mentre si stava ritirando dal Libano del Sud, Tsahal ha assalito di nuovo le zone di confine con l'Egitto al limite della striscia di Gaza ed ha ripreso a bombardare missili sulla città di Rafah, con la scusa di dare la caccia agli attivisti di Hamas. Per quelli che possono ancora avere lavoro, i controlli sono incessanti. La popolazione vive in un clima di terrore e d'insicurezza permanenti. Dal 25 giugno sono stati registrati 300 morti in questo territorio.
Il fiasco della politica americana è dunque palese. È per questo che si assiste ad un'ampia rimessa in discussione dell'amministrazione Bush, anche nel proprio campo, quello dei repubblicani. Le cerimonie di commemorazione del 5° anniversario dell'11 settembre sono state l'occasione di critiche incendiarie contro Bush, riprese poi dai mass media americani. Cinque anni fa la CCI è stata accusata di avere una visione machiavellica della storia quando cercava di dimostrare l'ipotesi che la Casa-Bianca aveva lasciato con cognizione di causa che si perpetrassero gli attentati per giustificare le avventure militari in preparazione (2). Oggi, un numero incredibile di libri, documentari, articoli su Internet non soltanto rimettono in discussione la versione ufficiale dell'11 settembre, ma in buona parte avanzano teorie molto più “forti” e denunciano un complotto ed una manipolazione concertata dell’equipe di Bush. Nella stessa popolazione, secondo i sondaggi recenti, più di un terzo degli americani e quasi la metà della popolazione di New York pensa che c’è stata una manipolazione degli attentati, che l'11 settembre è stato un "inside job" (un “lavoro dall'interno”).
Inoltre, il 60% della popolazione americana pensa che la guerra in Iraq sia una “cattiva cosa” e tra questa la maggior parte non crede alla tesi della detenzione di potenziale nucleare né ai legami di Saddam con Al Qaida e pensa che questi sono stati solo dei pretesti per giustificare un intervento in Iraq. Una mezza dozzina di libri recenti (di cui quello del giornalista-vedetta Bob Woodward che sollevò lo scandalo del Watergate all'epoca di Nixon) elabora atti d'accusa implacabili per denunciare questa “menzogna” di Stato e richiedere il ritiro delle truppe dall’Iraq. Questo non significa affatto che la politica militariste degli Stati Uniti può essere sabotata, ma è pur vero che il governo è costretto a tener conto ed a mettere in luce le sue contraddizioni per tentare di adattarsi.
La presunta ultima "gaffe" di Bush che ammette il parallelo con la guerra in Vietnam è concomitante con le "fughe"... orchestrate dalle interviste accordate da James Baker stesso. Il piano dell'ex capo di Stato-maggiore dell'era Reagan, poi segretario di Stato all'epoca di Bush padre raccomanda l'apertura del dialogo con la Siria e l'Iran e soprattutto un ritiro parziale delle truppe di Iraq. Questo tentativo di arginare la situazione sottolinea il livello d'indebolimento della borghesia americana per la quale il ritiro puro è semplice dall’Iraq sarebbe l'affronto più scottante della sua storia, cosa che non può permettersi. Il parallelo con il Vietnam è in realtà una sottovalutazione ingannevole. All'epoca, il ritiro delle truppe dal Vietnam permise agli Stati Uniti un riorientamento strategico benefico delle sue alleanze e gli permise di attirare la Cina nel proprio campo contro l’ex-URSS. Oggi il ritiro delle truppe americane dall’Iraq sarebbe una capitolazione pura e semplice senza alcuna contropartita e comporterebbe un discredito completo della potenza americana. Comporterebbe allo stesso tempo l’esplosione del paese che porterebbe ad un aggravamento considerevole del caos in tutta la regione. Queste contraddizioni sono le manifestazioni evidenti della crisi e l'indebolimento della leadership americana e dell’acuirsi del “ciascuno per sé” testimone del caos crescente nelle relazioni internazionali. Un cambiamento della maggioranza al prossimo Congresso, in occasione delle prossime elezioni di “metà-mandato”, ed anche l’eventuale elezione di un presidente democratico, tra due anni, non potrebbe portare a nessun’altra "scelta" diversa dalla fuga in avanti nelle avventure militari. L’equipe di “eccitati” che governa a Washington ha dato prova di un livello d'incompetenza raramente raggiunto da un'amministrazione americana. Ma indipendentemente dalle equipe che si succederanno, non si potrà cambiare il dato di fondo: di fronte ad un sistema capitalista che sprofonda nella sua crisi mortale, la classe dominante non è capace di dare altra risposta che la fuga davanti nella barbarie guerriera. E la prima borghesia mondiale potrà solo mantenere il suo posto in questo dominio.
La lotta di classe è la sola alternativa alla barbarie capitalista
Negli Stati Uniti, il peso del sciovinismo dispiegato nel periodo successivo all'11 settembre è in gran parte scomparso con l'esperienza del doppio fiasco della lotta antiterrorista e della paralisi della guerra in Iraq. Le campagne di reclutamento dell'esercito penano a trovare candidati pronti ad andare a farsi ammazzare in Iraq, mentre le truppe sono prese dalla demoralizzazione. Nonostante i rischi, migliaia di diserzioni si producono sul campo. Si è constatato che più di un migliaio di disertori si sono rifugiati in Canada.
Questa situazione non riflette soltanto l’impasse della borghesia ma annuncia un'altra alternativa. Il peso sempre più insopportabile della guerra e della barbarie nella società è una dimensione indispensabile della presa di coscienza da parte dei proletari sul fallimento irrimediabile del sistema capitalista. La sola risposta che la classe operaia può opporre alla guerra imperialista, la sola solidarietà che può dare ai suoi fratelli di classe esposti ai peggiori massacri, è mobilitarsi sul suo terreno di classe contro i propri sfruttatori. È battersi e sviluppare le sue lotte sul terreno sociale contro la propria borghesia nazionale. E questo la classe operaia ha iniziato a farlo nello sciopero di solidarietà che hanno fatto i dipendenti dell'aeroporto di Heathrow nell'agosto 2005, in pena campagna antiterrorista dopo gli attentati di Londra, verso gli operai pakistani licenziati dall'impresa di ristorazione Gate Gourmet. Come lo ha fatto con la mobilitazione dei futuri proletari contro il CPE in Francia o degli operai della metallurgia a Vigo in Spagna. Come lo hanno fatto sul suolo americano i 18.000 meccanici della Boeing nel settembre 2005 che si sono opposti alla riduzione dell'importo della loro pensione pur rifiutando la discriminazione di trattamento tra i giovani e vecchi operai. Come lo hanno fatto gli operai della metropolitana e dei trasporti pubblici in uno sciopero a New York la vigilia di Natale lo scorso anno. Di fronte ad un attacco sulle pensioni che riguardava esplicitamente soltanto coloro che sarebbero stati assunti in futuro, hanno affermato la loro presa di coscienza che battersi per il futuro dei propri figli fa parte della propria lotta. Queste lotte sono ancora deboli ed il cammino che porterà ad un scontro decisivo tra il proletariato e la borghesia è ancora lungo e difficile, ma esse testimoniano una ripresa delle lotte di classe su scala internazionale. Costituiscono il solo barlume di speranza possibile di un futuro diverso, di un'alternativa per l'umanità alla barbarie capitalista.
W (21 ottobre)
1. Questo cinismo e questa ipocrisia sono venute in piena luce sul campo, attraverso un episodio degli ultimi giorni della guerra : un convoglio composto da una parte della popolazione di un villaggio libanese, tra cui molte donne e bambini che cercavano di fuggire dalla zona dei combattimenti, è andato in panne ed è stato preso di mira dalle mitragliatrici di Tsahal. I membri del convoglio hanno allora cercato rifugio presso un campo dell’ONU nelle vicinanze. Gli è stato risposto che per loro era impossibile accoglierli, che loro non avevano nessun mandato per farlo. La maggior parte (58) sono morti sotto le mitragliate dell’esercito israeliano e sotto lo sguardo passivo delle forze della FINUL (secondo la testimonianza ad un telegiornale di una madre di famiglia sopravvissuta).
2. Vedi l’articolo “Pearl Habour 1941, le ‘Torri Gemelle’ 2001, Il machiavellismo della borghesia”, Rivoluzione Internazionale n.124, febbraio-marzo 2002
Caro compagno,
Abbiamo ricevuto volentieri la tua ultima lettera e salutiamo di nuovo i tuoi contributi sulla legge del valore e sull’autogestione. Essi fanno parte dell’indispensabile discussione tra comunisti per definire con il massimo rigore il programma della rivoluzione proletaria. Ecco come tu abbordi il problema:
“Nel vostro libro, la decadenza del capitalismo, voi dite che sotto il socialismo la produzione delle merci sarà eliminata. Ma è impossibile liquidare la produzione delle merci senza abolire la legge del valore. Dalla teoria di Marx, sotto il socialismo, i prodotti del lavoro saranno scambiati secondo la quantità dei tempi di lavoro necessari (secondo il lavoro), cioè conformemente alla legge del valore.”
-“nel vostro opuscolo Piattaforma della CCI [51], il punto 11 s’intitola: “L’autogestione: autosfruttamento del proletariato” Che cosa vuol dire autosfruttamento? Lo sfruttamento è l’appropriazione dei prodotti del lavoro altrui. Se capisco bene, l’autosfruttamento è l’appropriazione dei prodotti del proprio lavoro. Così Robinson Crosué, si autosfruttava quando consumava i prodotti del suo proprio lavoro. Robinson Crosué sfruttava se stesso.”
Cercheremo di rispondere a queste due questioni, mostrando come esse siano legate.
Il carattere storico e transitorio della legge del valore.
Nella tua lettera del 26 dicembre 2004 tu citi un passaggio della Critica del programma di Gotha di Marx: “egli [il produttore individuale] riceve dalla società uno scontrino da cui risulta che egli ha prestato tanto lavoro (dopo la detrazione del suo lavoro per i fondi comuni), e con questo scontrino egli ritira dal fondo sociale tanti mezzi di consumo quanto equivale ad un lavoro corrispondente. La stessa quantità di lavoro che egli ha dato alla società in una forma, la riceve in un’altra.
Domina qui evidentemente lo stesso principio che regola lo scambio delle merci in quanto è scambio di valori uguali. (1)
L’idea essenziale difesa da Marx qui, è che dopo la rivoluzione, allorché il proletariato detiene il potere, è ancora necessario per tutto un periodo allineare i “salari” degli operai sul tempo di lavoro e, in conseguenza, di calcolare i tempi di lavoro contenuti nei prodotti, al fine di arrivare ad un “valore di scambio” dei prodotti che può essere espresso in “buoni di lavoro”. La produzione delle merci, la legge del valore, e dunque il mercato, sussistono ancora, e noi siamo d’accordo con lui. Noi comprendiamo dunque la tua sorpresa quando, nel nostro libro La decadenza del capitalismo, tu hai letto che nel socialismo la produzione delle merci sarebbe scomparsa. Nei fatti si tratta di un malinteso sui termini. In effetti nella nostra stampa noi utilizziamo sempre la parola socialismo come un sinonimo di comunismo come scopo finale del proletariato: una società senza classi e senza Stato dove i prodotti del lavoro non saranno più delle merci, dove la legge del valore sarà stata eliminata. Dall’epoca in cui scriveva Miseria della filosofia (1847), Marx era chiaro su questo: nel comunismo non ci sarà più scambio, non ci saranno più merci: “in una società futura, dove l’antagonismo di classe sarà cessato, dove non ci saranno più classi, l’uso non sarà più determinato dal minimo del tempo di produzione; ma il tempo di produzione che si consacrerà ai differenti oggetti sarà determinato dal loro grado di utilizzazione sociale.”(2) In questo stadio, il valore si scambio sarà stato abolito. La comunità umana riunificata, attraverso i suoi organi amministrativi incaricati della pianificazione centralizzata della produzione, deciderà quale quantità di lavoro dovrà essere consacrata alla produzione di questo o quel prodotto. Ma essa non avrà più bisogno del “passaggio” dello scambio come avviene nel capitalismo perché l’importante è il grado di utilizzazione sociale dei prodotti. Noi saremo allora in una società dell’abbondanza dove non solamente i bisogni più elementari dell’essere umano sono soddisfatti ma dove questi stessi bisogni conoscono un formidabile sviluppo. In questa società lo stesso lavoro avrà completamente cambiato natura: essendo il tempo consacrato alla creazione dei bisogni di sussistenza ridotto al minimo, il lavoro diverrà per la prima volta una attività veramente libera. La distribuzione, come la produzione, cambieranno ugualmente di natura. Poco importa ormai il tempo consacrato dall’individuo alla produzione sociale, regnerà solo il principio: “da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni!”
L’identificazione e la difesa di questo scopo finale della lotta proletaria – una società senza classi, senza Stato né frontiere nazionali, senza merci – attraversano tutta l’opera di Marx, Engels e dei rivoluzionari delle generazioni successive. È importante ricordarlo poiché questo scopo determina profondamente il movimento che conduce ad esso e i mezzi necessari a metterlo in opera.
Dopo l’esperienza della rivoluzione russa, poi della controrivoluzione stalinista, noi pensiamo che è preferibile per la chiarezza di parlare d’un “periodo di transizione dal capitalismo al socialismo” piuttosto che di “socialismo” o di “fase inferiore del comunismo”. È evidente che non si tratta di una semplice questione di terminologia. In effetti, la dittatura del proletariato non può essere concepita come una società stabile, né come un modo di produzione specifico. È una società in piena evoluzione, tesa verso la realizzazione di uno scopo finale, di sconvolgimenti sociali e politici, dove gli antichi rapporti di produzione sono attaccati e declinano mentre appaiono e si rafforzano i nuovi. Nella “Critica del programma di Gotha”, prima del passaggio citato all’inizio di questo articolo Marx precisa che: “quella con cui abbiamo da far qui, è una società comunista, non come si è sviluppata sulla propria base, ma viceversa [sottolineato da noi], come emerge dalla società capitalista; che porta quindi ancora sotto ogni rapporto, economico, morale, spirituale, le impronte materne della vecchia società dal cui seno essa è uscita.”(3) Qualche pagine dopo, afferma chiaramente: “tra la società capitalista e la società comunista si situa il periodo di trasformazione rivoluzionaria dell’una nell’altra. A questo periodo corrisponde ugualmente un periodo di transizione politica dove lo Stato non sarebbe essere altra cosa che la dittatura rivoluzionaria del proletariato.”
La nostra lettera precedente aveva permesso, sembra, di eliminare questo malinteso e la tua risposta esprimeva un accordo sul fondo. “dalla mia comprensione del marxismo, questo periodo di transizione si chiama socialismo. Io non parlo del comunismo del mercato, ma del socialismo di mercato. (..) Con l’aumento delle forze produttive, la distribuzione in funzione del lavoro si trasforma in distribuzione secondo i bisogni, il socialismo si trasforma passo a passo in comunismo e il mercato scomparirà nel tempo.”
Nella tua lettera del 26 dicembre 2004, tu sottolineavi che esistono tre forme di distribuzione dei prodotti basati sui tempi di lavoro socialmente necessari contenuti in essi:
- attraverso l’intermediario del denaro (D), nel qual caso lo scambio delle merci (M) si effettua sotto la forma M – D – M;
- attraverso l’intermediario di un buono di lavoro (B) di cui parlava di cui parlava Marx: M – B – M
- direttamente sotto la forma del baratto; M – M
E tu notavi che, nei tre casi, noi avevamo a che fare con uno scambio di merci, quindi con l’esistenza di un mercato, cioè con una società che utilizza un equivalente generale, la moneta, per esprimere il tempo di lavoro, anche se la moneta non è necessaria nel caso arcaico del baratto per determinare l’equivalenza. Come tu dici: “La moneta e i buoni sono quasi la stessa cosa, perché misurano la stessa cosa – il tempo di lavoro. La differenza tra i due è la stessa che c’è tra un regolo graduato in centimetri e un altro graduato in pollici.” Siamo d’accordo con te per dire che è con questa situazione economica che si confronterà il proletariato dopo la presa del potere e che ignorare ciò significa una regressione in rapporto al marxismo. Tanto più che la guerra civile tra il proletariato e la borghesia a scala mondiale provocherà numerose distruzioni che comporteranno una diminuzione della produzione. Incessantemente i comunisti devono combattere le illusioni su una estinzione rapida e senza problemi della legge del valore. La necessità per il proletariato di portare a termine la soppressione dello scambio e di creare le condizioni del deperimento dello Stato, farà del periodo di transizione un periodo di sconvolgimento rivoluzionario come l’umanità non ha mai conosciuto. Malgrado queste precisazioni, è evidente che un disaccordo sussiste. Tu scrivi, per esempio, nella stessa lettera: “sotto il socialismo i prodotti del lavoro saranno scambiati secondo la quantità di lavoro socialmente necessario. E là dove i prodotti del lavoro sono scambiati secondo la quantità di lavoro, il mercato e la produzione delle merci continuano ad esistere. In conseguenza, per abolire la produzione delle merci occorre abolire la distribuzione basata sulla quantità di lavoro. Dunque, se voi volete abolire la produzione delle merci, voi dovete abolire il socialismo. Se voi vi considerate marxisti, voi dovete riconoscere che il socialismo nella sua essenza è basato sul mercato. Altrimenti andate dagli anarchici!”
Da ciò che abbiamo visto prima, noi supponiamo che tu designi per “socialismo” il periodo di transizione dal capitalismo al comunismo. Questo periodo resta, per sua definizione, instabile: o il proletariato è vittorioso, e “l’economia di transizione” è trasformata nel senso del comunismo, cioè verso l’abolizione dell’economia mercantile; o il proletariato perde terreno, le leggi del mercato si riaffermano, e c’è il pericolo che la strada verso la controrivoluzione sia aperta.
L’ignoranza degli anarchici
Ancora nella stessa lettera, tu scrivi che si trova questa ignoranza presso gli anarchici. In effetti, per loro, l’emancipazione dell’umanità riposa unicamente su uno sforzo di volontà e, in conseguenza il comunismo potrebbe vedere l’alba in qualsiasi epoca storica. Così facendo essi rigettano ogni conoscenza scientifica dello sviluppo sociale e di conseguenza sono incapaci di comprendere quale ruolo possono giocarvi la lotta di classe e la volontà umana. Nella sua Prefazione al Capitale, Marx rispondeva, senza nominarli, agli anarchici che negano l’inevitabilità di un periodo di transizione: “Se pure una società è arrivata a scoprire la legge di natura del proprio movimento – e scopo ultimo di questa opera è rivelare la legge economica del movimento della società moderna – non può né saltare né togliere di mezzo con decreti le fasi naturali dello svolgimento. Ma può abbreviare e attutire le doglie del parto.”(4)
Secondo Marx ed Engels, la necessità della dittatura del proletariato, cioè di un periodo di transizione tra i due modi di produzione “stabili” che costituiscono il capitalismo e il comunismo, riposa su due fondamenti:
- l’impossibilità di uno sbocciare del comunismo nel seno del capitalismo (contrariamente al capitalismo che si sviluppò nel seno del feudalesimo);
- il fatto che il formidabile sviluppo delle forza produttive ottenuto dal capitalismo è ancora insufficiente per permettere il pieno soddisfacimento dei bisogni umani che caratterizza il comunismo.
Gli anarchici non solo sono evidentemente incapaci di comprendere ciò, ma in più la loro “visione del comunismo” non supera in alcun modo lo stretto orizzonte borghese. Lo si può constatare già nell’opera di Proudhon. Per quest'ultimo, l'economia politica è la scienza suprema e si ostina ad individuare in ogni categoria economica capitalista i buoni ed i cattivi lati. La parte buona dello scambio è che mette faccia a faccia due valori uguali. Il lato buono della concorrenza è l'emulazione. E troverà inevitabilmente un qualcosa di buono nella proprietà privata: "Ma è ovvio che se la disuguaglianza è uno degli attributi della proprietà, non è tutta la proprietà; poiché ciò che rende la proprietà deliziosa, come diceva non so più quale filosofo, è la facoltà di disporre a volontà non soltanto del valore del suo bene ma della sua natura specifica, sfruttarlo a proprio piacimento, di rintanarsi e di richiudersi, di farne l’ uso che l'interesse, la passione ed il capriccio vi suggeriscono.” (5)
Ci annunciavano il regno della libertà, ci buschiamo sogni limitati e meschini del piccolo produttore. Per gli anarchici, la società ideale è soltanto un capitalismo idealizzato dove regneranno da padrone lo scambio e la legge del valore, cioè le condizioni dello sfruttamento dell'uomo da parte dell'uomo. Al contrario, il marxismo si presenta come una critica radicale del capitalismo che difende la prospettiva di una vera emancipazione del proletariato e, allo stesso tempo, dell'umanità tutta intera. Marx ed Engels hanno sempre combattuto il comunismo grezzo che limitava la rivoluzione alla sfera della distribuzione e che arrivava semplicemente ad una divisione della miseria. Gli opponevano l’esplosione delle forze produttive liberate dagli ostacoli del capitalismo. Non richiedevano soltanto la soddisfazione delle necessità elementari dell'essere umano ma ancora il compimento di quest'ultimo, il superamento della separazione tra l'individuo e la comunità, lo sviluppo di tutte le facoltà dell'individuo attualmente soffocate dalla piovra della divisione del lavoro: “In una fase più elevata della società comunista, dopo che è scomparsa la subordinazione servile degli individui alla divisione del lavoro, e quindi anche il contrasto di lavoro intellettuale e corporale; dopo che il lavoro non è divenuto soltanto mezzo di vita, ma anche il primo bisogno della vita; dopo che con lo sviluppo generale degli individui sono cresciute anche le forze produttive e tutte le sorgenti delle ricchezze sociali scorrono in tutta la loro pienezza, - solo allora l'angusto orizzonte giuridico borghese può essere superato, e la società può scrivere sulle sue bandiere: ‘da ognuno secondo le sue capacità; a ognuno secondo i suoi bisogni!”(6)
Con ciò, il marxismo non cede alle frasi roboanti del radicalismo piccolo borghese e dell'utopia; sa che il solo mezzo per uscire dal capitalismo, sono l'eliminazione del lavoro salariato e dello scambio che riassumono tutte le contraddizioni del capitalismo, che sono la causa ultima delle guerre, delle crisi e della miseria che devastano la società. La politica economica messa in opera dalla dittatura del proletariato è completamente volta verso questo scopo. Secondo questa concezione, non c'è trasmutazione spontanea ma distruzione dei rapporti sociali capitalisti.
Questo richiamo ci permette di sottolineare l’estrema confusione con la quale gli anarchici pretendono di superare la separazione dell'operaio con i prodotti del suo lavoro. Nella loro visione, diventando proprietari della fabbrica dove lavorano, gli operai diventano inevitabilmente proprietari dei prodotti del loro lavoro. Li dominano infine, ne ottengono anche l'integrità del piacere. Risultato: la proprietà è diventata eterna e sacra. Siamo qui in presenza di un regime di tipo federalista ereditato dai modi di produzione precapitalisti. È lo stesso procedimento di Lassalle. Quest'ultimo ha appreso da Marx che lo sfruttamento si traduce nell'estrazione di plusvalore. Richiediamo di conseguenza per l'operaio il prodotto integrale del lavoro ed il problema è regolato. Così facendo, come dice Engels nell'Anti-Dühring: “si ritira alla società la funzione progressiva più importante della società, l’accumulazione; la si rimette nelle mani e all’arbitrio degli individui.”(7). Dopo i lavori di Marx, queste confusioni sul lavoro, la forza lavoro ed il prodotto del lavoro sono diventate propriamente inammissibili. Questo sproloquio teorico comune a Lassalle ed agli anarchici forma la base delle concezioni sull’autogestione. Qui, non ci si orienta più verso l'abolizione dello scambio ed il comunismo, si moltiplicano gli ostacoli sul proprio cammino. Ecco come Marx, sempre nella Critica del programma di Gotha, conclude la critica aspra di queste concezioni: "mi sono occupato ampiamente del ‘frutto integrale del lavoro’ da una parte, dall’altra parte dell’‘ugual diritto’ della ‘giusta ripartizione’, per mostrare quanto si vaneggia, allorché da un lato si vogliono nuovamente imporre come dogmi al nostro partito concetti, che in un certo momento avevano un senso, ma ora sono diventati frasi antiquate; e, dall’altro lato, quanto la concezione realistica, così faticosamente fatta acquisire al partito ma che ora si è radicata in esso, viene di nuovo deformata con fandonie ideologiche di carattere giuridico e simili, così comuni tra i democratici e i socialisti francesi.”(8)
Da questo punto di vista, ci sembra che tu ti fermi nel cammino del tuo ragionamento. Tu sei d’accordo con noi per dire che, durante questo periodo, non ci sarà sfruttamento della classe operaia per il fatto che sarà il proletariato ad esercitare il potere, a causa del processo di collettivizzazione dei mezzi di produzione, perché il pluslavoro non ha più la forma di un plusvalore destinato all'accumulo del capitale ma è destinato (una volta defalcato il fondo di riserva e ciò che è destinato ai membri improduttivi della società) alla soddisfazione crescente dei bisogni sociali. Dici molto giustamente: "La differenza tra il socialismo [periodo di transizione] ed il capitalismo consiste nel fatto che sotto il socialismo la mano d'opera non esiste in quanto merce" (lettera del 23 gennaio 2005). Ma affermi nella lettera successiva: "La legge del valore resterà in vigore completamente, non parzialmente". Ciò che rafforza ancora la tua espressione: "socialismo di mercato”. Vedi bene la necessità di attaccare il salariato ma non quella di attaccare lo scambio commerciale. Ora, i due sono legati profondamente.
La legge del valore scoperta da Marx non consiste solamente nel delucidare l'origine del valore delle merci, essa risolve l'enigma della riproduzione allargata del capitale. Anche se il proletario riceve dalla vendita della sua forza lavoro uno stipendio che corrisponde al suo valore reale, fornisce tuttavia un valore molto superiore nel processo di produzione. Lo sfruttamento che permette che sia estratto così un tale plusvalore dal lavoro del proletario esisteva già nella produzione commerciale semplice a partire dalla quale il capitalismo è nato e si è sviluppato. Non è dunque possibile sopprimere lo sfruttamento del proletariato senza attaccare lo scambio commerciale. È ciò che ci spiega chiaramente Engels ne L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato: "non appena i produttori non consumarono più direttamente il loro prodotto, ma lo passarono in altre mani nello scambio, perdettero il dominio su di esso. Non sapevano più che cosa ne sarebbe avvenuto; era data la possibilità che il prodotto, un giorno, venisse adoperato contro il produttore per sfruttarlo ed opprimerlo. Perciò nessuna società può mantenere durevolmente il dominio sulla propria produzione e il controllo sugli effetti sociali del suo processo di produzione a meno che non abolisca lo scambio tra individui."(9)
Se la legge del valore resta "in vigore completamente ", come tu affermi, allora il proletariato resterà una classe sfruttata. Affinché lo sfruttamento cessi durante il periodo di transizione, non basta che la borghesia sia stata espropriata. Occorre ancora che i mezzi di produzione smettano di esistere in quanto capitale. Al principio capitalista del lavoro morto, del lavoro accumulato, cui si sottomette il lavoro vivo in vista della produzione di plusvalore, bisogna sostituire il principio del lavoro vivo che domina il lavoro accumulato in vista di una produzione destinata alla soddisfazione dei bisogni dei membri della società. La dittatura del proletariato dovrà in questo senso combattere il produttivismo assurdo e catastrofico del capitalismo. Come diceva la Sinistra Comunista di Francia, " La parte di pluslavoro che il proletariato potrà prelevare sarà forse in principio grande tanto quanto sotto il capitalismo. Il principio economico socialista non potrebbe dunque essere distinto, nella grandezza immediata, dal rapporto tra il lavoro pagato e non pagato. Solo la tendenza della curva, la tendenza all'avvicinamento del rapporto potrà servire come indicazione dell'evoluzione dell'economia ed essere il barometro che indica la natura di classe della produzione.”(10)
L’autogestione, una trappola mortale per il proletariato
La seconda questione in discussione è trattata al punto 11 della nostra piattaforma: "l'autogestione, auto-sfruttamento del proletariato". Tu affermi qui un netto disaccordo con la nostra posizione. Ti sembra inconcepibile che gli operai stessi possano sfruttarsi. "ma non comprendo affatto", scrivi, "come è possibile sfruttarsi, è quasi la stessa cosa di derubarsi." Dalle grandi lotte operaie della fine degli anni 1960, la maggior parte delle nostre sezioni è stata confrontata concretamente alla questione dell'autogestione da parte degli operai della "loro" impresa nell'ambito della società capitalista. Hanno potuto dunque verificare nella pratica che sotto la maschera dell’autogestione si nasconde la trappola dell'isolamento teso dai sindacati. Gli esempi sono infatti numerosi: la fabbrica di orologi Lip in Francia nel 1973, Quaregnon e Salik in Belgio nel 1978-79, Triumph in Inghilterra nella stessa epoca e recentemente nella miniera di Tower Colliery in Galles. Ogni volta lo scenario è lo stesso: la minaccia di fallimento causa la lotta degli operai, i sindacati organizzano l'isolamento della lotta e finiscono per ottenere la sconfitta facendo balenare il riacquisto della fabbrica dagli operai ed i quadri, a costo di versare, se necessario, molti mesi di salario o il premio di licenziamento per aumentare il capitale dell'impresa. Nel 1979, la fabbrica Lip, nel frattempo diventata cooperativa operaia, è costretta a chiudere sotto la pressione della concorrenza. In occasione dell'ultima assemblea generale, un operaio esprime la sua collera e la sua disperazione di fronte ai delegati sindacali che erano diventati in realtà i veri proprietari dell'impresa: "Voi siete ignobili! Oggi siete voi che ci mettete alla porta... Ci avete mentito!"(11) Far accettare i sacrifici che la crisi economica impone, esige di soffocare all’origine le lotte operaie di resistenza, ecco l'utilità della parola d'ordine dell'autogestione.
Questa posizione di principio è interamente conforme al marxismo. Occorre inoltre osservare che non siamo i primi ad utilizzare la nozione d'auto-sfruttamento degli operai. Ecco ciò che scriveva Rosa Luxemburg in 1898:
"Ma nell'economia capitalista lo scambio domina la produzione e, in considerazione della concorrenza, fa dello sfruttamento spietato, cioè del predominio totale degli interessi del capitale sul processo produttivo, la condizione per l’esistenza dell’impresa. Ciò si manifesta in pratica nella necessità di rendere il lavoro il più possibile intensivo, di abbreviarlo o allungarlo a seconda della situazione di mercato, di ingaggiare la forza-lavoro o licenziarla e metterla sul lastrico a seconda delle richieste del mercato dello smercio, in una parola nel mettere in pratica tutti i metodi conosciuti che rendono un'impresa capitalista capace di essere concorrenziale. Nella cooperativa di produzione ne deriva la necessità contraddittoria per i lavoratori di governare se stessi con tutto l'assolutismo che si richiede, di svolgere con se stessi il ruolo dell’imprenditore capitalistico. Per questa contraddizione la cooperativa produttiva va in rovina, riconvertendosi in impresa capitalista oppure, nel caso che gli interessi dei lavoratori siano più forti, sciogliendosi.”(12).
Quando gli operai svolgono "riguardo a essi stessi il ruolo di imprenditori capitalisti", è ciò che noi chiamiamo auto-sfruttamento. La tua difesa dell'autogestione si appoggia sull'esperienza delle cooperative operaie al 19° secolo e tu citi in particolare la "Risoluzione sul lavoro cooperativo", adottata al primo congresso dell’AIT. Infatti, Marx ed Engels hanno varie volte incoraggiato il movimento cooperativo, principalmente le cooperative di produzione, non così tanto per i loro risultati pratici ma piuttosto perché consolidavano l'idea che i proletari avrebbero potuto molto bene fare a meno dei capitalisti. È per questo che si sono affrettati a sottolineare i limiti, i rischi incessanti ch’esse possano cadere più o meno direttamente sotto il controllo della borghesia. La loro preoccupazione era di evitare che le cooperative non deviassero gli operai dalla prospettiva rivoluzionaria, dalla necessità della conquista del potere su tutta la società. Questa risoluzione afferma:
"a) Riconosciamo il movimento cooperativo come una delle forze trasformatrici della società presente, fondata sull'antagonismo delle classi. Il suo grande merito è di mostrare praticamente che il sistema attuale di subordinazione del lavoro al capitale, dispotico e impoverente, può essere soppiantato dal sistema repubblicano dell'associazione dei produttori liberi ed uguali.
b) Ma il sistema cooperativo ristretto alle forme minuscole derivate dagli sforzi individuali degli schiavi salariati, è impotente a trasformare di per sé la società capitalista. Per convertire la produzione sociale in un ampio ed armonioso sistema di lavoro cooperativo, sono indispensabili dei cambiamenti generali. Questi cambiamenti non saranno mai ottenuti senza l'occupazione delle forze organizzate della società. Dunque, il potere dello Stato, strappato dalle mani dei capitalisti e dei proprietari terrieri, deve essere trattato dai produttori stessi."(13)
Tu citi del resto la prima parte di questo passaggio ma non la seconda che gli dà pertanto un'illuminazione fondamentale e che riflette molto più fedelmente il vero pensiero di Marx. Si sa che nella 1a Internazionale, Marx era obbligato a coesistere con tutta una serie di scuole socialiste confuse che sperava di far progredire. Prendendo coscienza di sé, il movimento operaio si sbarazzerà delle "ricette dottrinarie” e Marx vi contribuì attivamente. Le associazioni cooperative appartenevano a questo tipo dottrinario ed intendevano sostituirsi alla lotta di classe, alla protezione degli operai, alla lotta sindacale ed anche al rovesciamento della società capitalista. Per Marx, era indispensabile che la classe operaia si elevasse all'altezza di una comprensione teorica di ciò che essa doveva realizzare nella pratica. In questo senso, la formula: "un ampio ed armonioso sistema di lavoro cooperativo" designa innegabilmente nel suo spirito la società comunista e non una federazione di cooperative operaie.
La prima parte di questa risoluzione significa per te che la lotta per le riforme non è contraddittoria con il rovesciamento rivoluzionario del capitalismo, che ne è complementare. Ma questa complementarità era possibile soltanto all'epoca del capitalismo progressista, epoca in cui la borghesia poteva ancora svolgere un ruolo rivoluzionario rispetto alle vestigia del feudalesimo e dove gli operai dovevano partecipare alle lotte parlamentari e sindacali per il riconoscimento dei diritti democratici, per imporre grandi riforme sociali per accelerare la comparsa delle condizioni della rivoluzione comunista. Oggi, al contrario, viviamo l'epoca della decadenza del capitalismo. Con lo scoppio della prima guerra mondiale, con l'emergenza di un nuovo periodo del capitalismo, quella dell’imperialismo, della decadenza, le riforme sono diventate impossibili. Senza questo passo storico proprio del marxismo, si finisce per dimenticare l'avvertimento di Lenin in La rivoluzione proletaria ed il rinnegato Kautsky: "uno dei metodi più ipocriti dell’opportunismo consiste nel ripetere una posizione valida in passato." Affermi che, secondo Marx, "il socialismo sorge nell'ambito della società borghese vecchia e morente." Se leggiamo il Manifesto comunista, ad esempio, non troviamo da nessuna parte tale idea. Marx ed Engels spiegano che la borghesia aveva sviluppato nuove rapporti di produzione gradualmente nell'ambito del feudalesimo e che la sua rivoluzione politica viene a completare la sovranità economica acquisita prima. Mostrano in seguito che il processo è inverso per il proletariato: "Tutte le classi, che fino ad ora s’impossessarono del potere, cercarono sempre di consolidare la posizione raggiunta, con l’assoggettare la società tutta intera alle condizioni del loro particolare modo di acquisizione. I proletari, invece, solo per una via possono impossessarsi delle forze produttive sociali, ed è quella di abolire il modo con il quale essi conseguono un provento, il che importa che si abolisca tutto l’attuale sistema di appropriazione. I proletari non hanno nulla di proprio da assicurare, essi hanno solo da abolire ogni sicurezza privata, ed ogni privata garanzia.” (Manifesto del Partito Comunista, “Borghesi e Proletari”)
La rivoluzione politica del proletariato rappresenta la condizione indispensabile per la nascita di nuove relazioni di produzione. Ciò che sorge nell'ambito della società borghese, sono le condizioni del socialismo, non il socialismo stesso.
Le crudeli leggi della concorrenza
Per sostenere la tua argomentazione, sviluppi l'idea che "la decadenza significa il ristagno economico, la fioritura della delinquenza, l'aumento della miseria e della disoccupazione, un potere di Stato debole ed instabile (un esempio che colpisce sono gli imperi militari nell'antica Roma che si mantenevano solo per alcuni mesi), la lotta di classe acuta. E la cosa principale che non avete citato nel vostro libro La decadenza del capitalismo, è la comparsa di nuovi rapporti di classe al centro della vecchia società che muore. Nell'impero romano erano i coloni, gli schiavi nelle aziende agricole, dunque dei servi nella loro essenza. Nel periodo della distruzione della società borghese, sono le imprese autogestite, più precisamente le cooperative." È vero che, nel capitalismo decadente, la società borghese è segnata da una grande instabilità. La borghesia deve fare fronte ad un indebolimento economico senza precedenti, la crisi di sovrapproduzione esercita le sue devastazioni a causa dell'insufficienza dei mercati solvibili su scala internazionale, le rivalità imperialiste si inaspriscono e portano alla guerra mondiale. Precisamente, la borghesia risponde a questa situazione con un rafforzamento dello Stato come fu già il caso nella decadenza dell'impero romano e, riguardo al feudalesimo, con la monarchia assoluta. L'aggravarsi della concorrenza, la necessità di un eccessivo sfruttamento del proletariato, la comparsa di una disoccupazione massiccia, uno Stato totalitario che estende i suoi tentacoli a tutta la società civile (e non uno "Stato debole ed instabile"), ecco precisamente le ragioni che rendono ormai impossibile la sopravvivenza delle cooperative operaie.
Siamo completamente d'accordo con te per dire che sono "i comunisti di Sinistra che avevano ragione sulla questione (del capitalismo di Stato) e non Lenin." Avevano capito intuitivamente che il capitalismo si rafforzava in Russia anche in assenza di una borghesia privata e che il potere della classe operaia era in pericolo. Infatti, sotto la pressione dell'isolamento della rivoluzione, i Consigli Operai hanno perso il potere a profitto dello Stato con il quale il partito bolscevico si era completamente identificato. Ma non siamo d'accordo con i rimedi proposti dall'opposizione operaia della Kollontai. Richiedere che la gestione delle imprese e lo scambio dei prodotti passassero sotto il controllo operaio di ogni fabbrica poteva soltanto peggiorare il problema, renderlo ancora più complicato. Non soltanto gli operai avrebbero ottenuto soltanto un potere simbolico ma avrebbero in più perso la loro unità di classe che si era realizzata così magnificamente con il sorgere dei Consigli Operai e l'influenza di un reale partito d'avanguardia nel loro seno, il partito bolscevico.
Al contrario tu pensi che: "è molto più facile e comodo per gli operai controllare la produzione a livello di imprese (...) Dopo l’ottobre ’17, l'economia è stata gestita in modo centralizzato. Concludendo, il socialismo si è degradato in capitalismo di Stato, nonostante la volontà dei bolscevichi. (...) Dunque, sotto il socialismo, i consigli operai non avranno la funzione di gestire l'economia, non progetteranno la produzione né distribuiranno i prodotti. Se si attribuiscono queste funzioni ai Consigli Operai, il socialismo evolverà inevitabilmente verso il capitalismo di Stato." Per quanto ci riguarda, siamo convinti che la centralizzazione sia fondamentale per il potere operaio. Se ritiri la centralizzazione del socialismo, allora ottieni le Comunità autonome anarchiche ed una regressione delle forze produttive. Ciò che è avvenuto in Russia, è che una forza centralizzata, lo Stato, ha soppiantato un'altra forza centralizzata, i Consigli Operai. Da dove è dunque venuta la burocrazia, la nuova borghesia staliniana? Essa è venuta dallo Stato, non dai Consigli Operai che, quanto a loro, hanno subito un processo di deterioramento che li ha condotti alla morte. Non è la centralizzazione che è la causa della decomposizione della rivoluzione russa. Se i Consigli Operai sono stati indeboliti a questo punto, se gli stessi bolscevichi si sono fatti fagocitare dallo Stato, è a causa dell'isolamento della rivoluzione. Le mitragliatrici che assassinavano il proletariato tedesco raggiungevano, indirettamente, il proletariato russo che, immediatamente, diventò soltanto un gigante ferito, indebolito, esangue. Nuova conferma di questa grande lezione della rivoluzione russa: il socialismo è impossibile in un solo paese!
Per concludere, ritorniamo alla tua concezione dell'autogestione delle imprese sotto il capitalismo.(14) In queste cooperative, gli operai decidono collettivamente la ripartizione del profitto. Il lavoro salariato non esiste più, "gli operai ricevono il valore d'uso e non il valore di scambio della loro forza lavoro." Inizialmente, pensiamo che ci sia qui una confusione tra "valore di scambio" e "valore d'uso": quest'ultimo esprime l'utilità di ciò che è prodotto, l'impiego che se ne può fare. E precisamente, una delle specificità fondamentali, rispetto alle altre epoche della storia, del processo di produzione messo in atto dal proletariato moderno, è precisamente che i valori d'uso che produce possono essere adattati soltanto dalla società intera: contrariamente alle scarpe (ad esempio) prodotte dall'artigiano ciabattino, le centinaia di milioni di chip prodotti dagli operai di Intel o AMD non hanno alcun valore d'uso "in sé"; il loro valore d'uso esiste soltanto come componenti di altre macchine prodotte da altri operai in altre fabbriche e che rientrano nella catena di produzione di altre fabbriche ancora. La stessa cosa è vera anche per i "ciabattini" moderni: gli operai di Jinjiang in Cina producono 700 milioni di scarpe all'anno, si ha difficoltà ad immaginare che potrebbero portarle tutte! Inoltre immaginiamoci una tale fabbrica autogestita remunerare gli operai in mietitrebbiatrici, per definizione indivisibili e tale altra in penne a sfera.
Ma ammettiamo, come dici, che gli operai ricevano l'equivalente allo stesso tempo del capitale variabile e del plusvalore prodotto. Non possono tuttavia consumare completamente il profitto dell'impresa ma soltanto una parte relativamente debole, dovendo il rimanente essere trasformato in nuovi mezzi di produzione. Infatti, le leggi della concorrenza (poiché siamo qui in una situazione di concorrenza) fanno sì che qualsiasi impresa deve ingrandirsi ed aumentare la sua produttività se non vuole perire. Una parte del profitto è dunque accumulata e trasformata nuovamente in capitale. E necessariamente una parte importante tanto quanto quella di una fabbrica non autogestita, altrimenti l'impresa autogestita non si ingrandirà rapidamente come le altre e finirà per scomparire.
Almeno, i costi di produzione della fabbrica autogestita devono essere così bassi come quelli del resto dell'economia capitalista, altrimenti non troverà acquirenti per i suoi prodotti. Ciò vuol dire inevitabilmente che gli operai delle fabbriche autogestite dovranno allineare i loro salari ed il loro ritmo di lavoro su quelli degli operai impiegati da imprese capitaliste: in una parola, dovranno auto-sfruttarsi. In più, ci troviamo nelle stesse condizioni di sfruttamento che in qualsiasi altra impresa poiché la forza lavoro resta sottoposta, alienata al lavoro morto, al lavoro accumulato, al capitale. Al massimo possono recuperare la frazione del profitto che, nell'impresa capitalista tradizionale, va al consumo personale del proprietario o costituisce i dividendi degli azionisti. Gli operai che si erano rallegrati di avere ottenuto un supplemento al loro salario dovranno rapidamente prendere un tono più basso. I capi che avevano eletto in tutta fiducia, sapranno rapidamente convincerli a rendere questo supplemento ed anche ad acconsentire delle riduzioni salariali. "Né la trasformazione in società per azioni, né la trasformazione in proprietà di Stato, (né la trasformazione in imprese autogestite, potremmo aggiungere) elimina la qualità di capitale delle forze produttive", dice Engels nell'Anti-Dühring. La trasformazione dello statuto giuridico delle imprese non cambia nulla nella loro natura capitalista. Poiché il capitale non è una forma di proprietà, è un rapporto sociale. Solo la rivoluzione politica del proletariato, imponendo un nuovo orientamento alla produzione sociale può eliminare il capitale. Ma non può ottenerlo arretrando rispetto al livello di socializzazione internazionale raggiunto sotto il capitalismo. Deve al contrario completare questa socializzazione rompendo il quadro nazionale, il quadro dell'impresa e la divisione del lavoro. La parola d'ordine del Manifesto comunista prenderà allora tutto il suo senso: "proletari di tutti i paesi, unitevi!". Aspettando una tua risposta, ricevi i nostri saluti fraterni e comunisti.
CCI, 22 novembre 2005
1. Karl Marx, Critica del programma di Gotha, Laboratorio Politico, pag. 22
2. K. Marx, Miseria della filosofia,
3. K. Marx, Critica del programma di Gotha, idem, pag. 21
4. K. Marx, Prefazione della prima edizione del libro primo del Capitale, Newton Compton Editori, pag. 6
5. Pierre Joseph Proudhon, Che cos’è la proprietà?
6. K. Marx, Critica del programma di Gotha, idem, pag. 23
7. Friedrich Engels, Anti-Dühring
8. K.Marx, Critica del programma di Gotha, idem, pag. 24
9. F. Engels, L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, cap.V , Ed. Riuniti, pag.140.
10. “L’esperienza russa” Internationalisme n° 10, maggio 1946, ripubblicato nella Revue Internazionale n° 61, 2° trim. 1990
11. Révolution Internationale n° 67, nov. 1979
12. Rosa Luxemburg, Riforma sociale o rivoluzione? Newton Compton Editori. Parte seconda: “sindacati, cooperative e democrazia politica” pag. 51
13. K. Marx, Risoluzione del Primo congresso dell’AIT (riunito a Ginevra nel settembre 1866).
14. Per citare la tua lettera: “l’autogestione (nel pieno senso del termine), è quando gli operai gestiscono la loro impresa anche condividendosi i profitti. In realtà, l'impresa è diventata proprietà degli operai."
"Per me, le imprese cooperative hanno le caratteristiche seguenti:
1) l’assenza completa del lavoro salariato,
2) l'elezione di tutti i responsabili,
3) la distribuzione dei profitti da parte del collettivo dei lavoratori dell'impresa."
"Nelle imprese in cui il lavoro salariato non esiste, cioè quando gli operai ricevono il valore d'uso (il capitale variabile + il plusvalore) e non il valore di scambio della loro forza lavoro (il capitale variabile), la produzione è dieci volte più efficace."
"Gli operai fabbricano prodotti, li vendono sul mercato. Con ciò che hanno guadagnato, possono comperare l'equivalente della stessa quantità di lavoro da altri operai. C'è stata una distribuzione effettuata sulla base della quantità di lavoro. In seguito, una parte del valore va al rinnovo dei mezzi di produzione, mentre l'altra va al consumo individuale degli operai.”
Nel numero 122 della nostra Révue Internationale (in francese) abbiamo pubblicato un articolo sul ciclo di conferenze dei gruppi della Sinistra Comunista che si erano tenute fra il 1977 e il 1980. In esso sottolineavamo il passo in avanti che queste conferenze costituivano e deploravamo che esse fossero state deliberatamente sabotate da due dei principali gruppi partecipanti, il Partito Comunista Internazionalista PCInt-Battaglia Comunista) e la Communist Worker’s Organisation (CWO), oggi principali sezioni del Bureau Internazionale per il Partito Rivoluzionario (BIPR). L’iniziativa di questo ciclo di conferenze era stata presa dal PCInt che nel 1976 aveva lanciato un appello per la loro tenuta e, nel 1977, aveva organizzato la prima conferenza a Milano. Nei fatti se la convocazione a questa conferenza non era stato un fallimento colossale era perché, contrariamente agli altri gruppi che inizialmente avevano annunciato la loro partecipazione ma che non si presentarono, la CCI si era attrezzata per inviarvi una delegazione importante. La convocazione delle due conferenze successive non fu più iniziativa del solo PCInt, ma di un “Comitato tecnico” nel cui lavoro la CCI si impegnò con la massima serietà, in particolare organizzando le due conferenze a Parigi, dove si trova la sezione più importante della nostra organizzazione. La serietà di questo lavoro non è estranea al fatto che a queste conferenze partecipò un numero di gruppi ben più consistente e che esse siano state preparate attraverso la pubblicazione preventiva di bollettini preparatori. Introducendo di straforo, alla fine dei dibattiti della terza conferenza, un criterio supplementare di “selezione” per le future conferenze, iniziativa che aveva lo scopo esplicito di eliminare la nostra organizzazione da queste, il PCInt, con la complicità della CWO (convinta a seguito di lunghe discussioni di corridoio) si prese la responsabilità di demolire tutto il lavoro che era stato fatto. In effetti la IV conferenza, che si tenne infine nel settembre del 1982, costituì la conferma del carattere catastrofico dell’atteggiamento adottato dal PCInt e dalla CWO alla fine della III.
E’ quello che vogliamo mettere in evidenza con il seguente articolo che si basa essenzialmente sul processo verbale in inglese di questa conferenza pubblicato nel 1984 (due anni dopo la sua tenuta) come opuscolo dal BIPR (costituitosi nel 1983) (1).
Nell’indirizzo di apertura di questa conferenza, la CWO, che l’aveva organizzata a Londra, richiama le tre conferenze precedenti, e in particolare la III:
“Sei gruppi hanno partecipato alla III conferenza il cui ordine del giorno comprendeva la crisi economica e le prospettive per la lotta di classe nonché il ruolo e i compiti del partito. I dibattiti di questa conferenza hanno confermato i domini di accordo che erano già stati messi in evidenza, ma che si erano impantanati per quanto riguarda la discussione sul ruolo e i compiti del partito. Affinchè le future conferenze potessero andare al di là della semplice reiterazione del bisogno del partito con la ripetizione delle stesse argomentazioni sul suo ruolo e i suoi compiti, il PCInt ha proposto un criterio aggiuntivo di partecipazione alle conferenze e cioè l’accettazione che il partito deve giocare un ruolo dirigente nella lotta di classe. Ciò ha fatto apparire una chiara divisione tra i gruppi che comprendono che il partito ha dei compiti già oggi e che esso deve assumere un ruolo dirigente nella lotta di classe e quelli che rigettano l’idea che il partito dovrebbe essere organizzato nella classe oggi al fine di poter assumere un ruolo dirigente nella rivoluzione di domani. Solo la CWO ha sostenuto la risoluzione del PCInt e la III conferenza si è dispersa nel disordine.
A causa di ciò oggi sono presenti meno gruppi, ma ora esistono le basi per cominciare un processo di chiarificazione sui compiti reali del partito. In questo senso la dissoluzione dell’ultima conferenza non fu una separazione totalmente negativa. Come la CWO ha scritto in Revolutionary Perspectives n. 18 nella relazione sulla III conferenza: ‘ Qualunque cosa si deciderà in futuro, la III conferenza significa che il lavoro internazionale tra i comunisti procederà su delle basi differenti da quelle del passato’ (…)
Sebbene oggi abbiamo un numero di partecipanti inferiori a quelli della II e III conferenza, partiamo da basi più chiare e più serie. Noi speriamo che questa conferenza dimostri questa serietà con una volontà di dibattere e di discutere al fine di influenzare le nostre rispettive posizioni, piuttosto che imbastire delle polemiche sterili e cercare di utilizzare le conferenze come una arena pubblicitaria per il proprio gruppo.”
Il processo verbale della conferenza permette di farsi un’idea luminosa della “più grande serietà” che l’avrebbe distinta dalle precedenti.
L’organizzazione della conferenza
Innanzitutto conviene esaminare gli aspetti “tecnici” (che evidentemente hanno un significato e una incidenza politica) di preparazione e di tenuta della conferenza.
Contrariamente alle precedenti conferenze, non c’è un bollettino preparatorio. I documenti che sono circolati prima sono essenzialmente dei testi già pubblicati sulla stampa dei gruppi partecipanti. E a questo proposito una menzione speciale meritano i documenti proposti dal PCInt: si tratta di una lista impressionante di testi (compreso un libro) pubblicati dal PCInt sulle questioni all’ordine del giorno e che raccolgono diverse centinaia di pagine (vedere la lista nella circolare del PCInt del 25 agosto 1982, pag. 39). E tutto questo in italiano! Questa è certamente una lingua molto bella, e in questa lingua sono stati scritti documenti molto importanti nella storia del movimento operaio, a cominciare dagli studi di Labriola sul marxismo e soprattutto i testi fondamentali della Sinistra Comunista Italiana tra il 1920 e la seconda guerra mondiale. Purtroppo però l’italiano non è una lingua internazionale e possiamo ben immaginare le perplessità degli altri gruppi partecipanti davanti a questa montagna di documenti di cui essi non potevano conoscere il contenuto.
Bisogna tuttavia riconoscere che, nella stessa circolare, il PCInt si mostra preoccupato di questo problema di lingua: “Stiamo traducendo in inglese un altro documento relativo ai punti all’ordine del giorno, che vi sarà inviato il più presto possibile”. Disgraziatamente, in una lettera del 15 settembre ad un gruppo invitato si può leggere: ” Per ragioni tecniche, il testo promesso non sarà pronto che alla conferenza stessa” (pag. 40). Noi siamo ben coscienti delle difficoltà che i gruppi della sinistra comunista incontrano, a causa delle loro deboli forze, nel campo delle traduzioni, come in altri. Non vogliamo criticare questa debolezza del PCInt in sé. Ma qui l’incapacità di produrre in anticipo un documento comprensibile per gli altri partecipanti alla conferenza “per ragioni tecniche” non fa che rivelare la poca importanza che esso attribuiva alla questione. Se esso avesse accordato a questo tipo di attività la stessa “serietà” che gli aveva dedicato la CCI in precedenza, si sarebbe mobilitato molto di più per superare i “problemi tecnici”, a limite facendo ricorso ad un traduttore professionista.
La stessa conferenza si è scontrata con questo stesso problema di traduzioni, , come si capisce dal processo verbale:
“Il carattere relativamente breve degli interventi del PCInt è dovuto, in gran parte, alle limitazioni nelle traduzioni dall’italiano in inglese da parte del gruppo che ha organizzato la conferenza”.
Così, una buona parte delle spiegazioni e degli argomenti esposti dal PCInt sono andati persi, il che è evidentemente un peccato. La CWO sembra scusarsi della sue debole conoscenza della lingua italiana, ma a noi sembra che toccava al PCInt, se davvero avesse preso sul serio la conferenza, fare in maniera da inviare nella sua delegazione un compagno capace di esprimersi in inglese. Per una organizzazione che si vuole “partito” dovrebbe essere possibile trovare nei suoi ranghi un compagno di questo tipo. I compagni della CWO possono ritenere che quando la CCI era presente alle conferenze non faceva che “ripetere sempre gli stessi argomenti sul partito” ; possono anche lasciar capire che noi volessimo utilizzare queste conferenze come tribuna per la nostra politica di cappella. Comunque dovrebbero ben convenire che le capacità di organizzazione del tandem che essi hanno formato con il PCInt erano di gran lunga inferiori a quelle della CCI. E non è solo una questione di numero di militanti. E’ fondamentalmente la questione della comprensione dell’importanza di quelli che sono i compiti dei rivoluzionari oggi e della serietà che deve accompagnare il loro assolvimento. La CWO e il PCInt pensano che il partito (e i gruppi che lo starebbero preparando, cioè loro stessi) hanno il compito dell’organizzazione della lotta di classe. Questa non è la posizione della CCI (2). Tuttavia, nonostante le nostre debolezze, noi cerchiamo di organizzare al meglio possibile le attività che ci tocca compiere. Mentre questo non sembra il caso della CWO e del PCInt: forse pensano che se consacrano troppe energie e attenzione ai compiti di organizzazione oggi, saranno stanchi domani, quando si tratterà di “organizzare” la classe per la rivoluzione!
I gruppi partecipanti
Dal resoconto della conferenza apprendiamo che i gruppi inizialmente invitati erano i seguenti (circolare del 28 giugno 1982):
- Partito Comunista Internazionalista (Battaglia Comunista, Italia);
- Communist Worker’s Organisation (Gran Bretagna, Francia);
- L’Eveil internationaliste (Francia)
- Unity of Communist Militants (Iran)
- Wildcat (Stati Uniti)
- Kompol (Austria)
- Marxist Worker (Stati Uniti)
questi ultimi tre con lo statuto di “osservatori”.
Al momento della conferenza non c’erano che tre gruppi. Vediamo cosa era successo agli altri.
“Nel momento in cui si è tenuta la conferenza, Marxist Worker e Wildcat avevano apparentemente smesso di esistere” (p. 38). Si può qui giudicare la perspicacia della CWO e del PCInt che costituivano il Comitato tecnico incaricato di preparare la conferenza: nella loro grande preoccupazione di “selezionare” organizzazioni “veramente capaci di porre correttamente la questione del partito e di attribuirgli un ruolo dirigente nella rivoluzione di domani” si erano rivolti a dei gruppi che avevano preferito mettersi in vacanza attendendo il futuro partito (probabilmente per avere più forze così da essere capaci di giocare un “ruolo dirigente” al momento opportuno). D’altra parte si può dire che la conferenza l’ha scampata bella: se Wildcat fosse sopravvissuto e venuto alla conferenza, non avrebbe mancato di inquinarla con il suo “consiliarismo”, a confronto del quale quello che il PCInt rimprovera alla CCI è acqua di rose. Un consiliarismo che era comunque conosciuto ma che evidentemente soddisfaceva quei requisiti che viceversa consentivano di escludere la CCI.
Quanto agli altri gruppi che non sono venuti, lasciamo di nuovo la parola alla CWO:
“Sulla base degli avvenimenti che sono seguiti, sembra appropriato oggi definire il significato dell’ultima conferenza. E’ apparso che la mancata partecipazione dei due gruppi, che inizialmente erano stati d’accordo a partecipare, manifestava il loro allontanamento dal quadro delle conferenze. Kompol non ha più comunicato con noi, mentre l’Eveil internationaliste si è imbarcato in una traiettoria modernista che lo porta anche al di fuori del quadro del marxismo.” (Preambolo, pag. 1)
Ancora una volta, non si può che restare ammirati dall’intuito politico ampiamente mostrati dai gruppi organizzatori.
Veniamo ora al SUCM (Studenti sostenitori dell’UCM d’Iran), solo altro gruppo presente alla conferenza oltre i due che l’avevano convocata. Ecco cosa dice il resoconto a questo proposito:
“ Il SUCM ha cessato di esistere. I suoi membri si sono integrati in una organizzazione più ampia (l’Organizzazione dei Sostenitori del Partito Comunista d’Iran all’Estero – OSCPIA) che comprende gli ex membri del SUCM e quelli del Komala curdo. Malgrado la loro adesione iniziale ai criteri di partecipazione alle conferenza; malgrado la loro volontà di discutere e di mantenere relazioni con le organizzazioni appartenenti alla tradizione della Sinistra Comunista europea, il SUCM si è trovato bloccato dalla sua posizione di gruppo di sostegno di un gruppo più vasto in Iran, un gruppo che è diventato il Partito Comunista d’Iran nel settembre 1983. Lasciando da parte ogni polemica, sembra che questa data riveste una importanza obiettiva, confermata, per esempio, dalla traiettoria dei compagni del SUCM per quanto riguarda la questione della Repubblica democratica rivoluzionaria e le sue implicazioni. Al momento della IV conferenza il SUCM accettava chiaramente l’idea che delle vere guerre di liberazione nazionale sono impossibili nell’era dell’imperialismo, nel senso che non ci può essere un’autentica guerra di liberazione nazionale al di fuori della rivoluzione degli operai per l’instaurazione della dittatura proletaria. In seguito, tuttavia, il SUCM ha insistito sempre più sulla tesi che lotte comuniste possono emergere dalle lotte nazionali. Nei fatti la posizione teorica è stata diluita per essere conforme alle posizioni del PCd’Iran, posizioni che sono molto pericolose, come gli articoli nella stampa della CWO e del PCInt hanno dimostrato. Così, invece di approfondire il processo di chiarificazione e di spingere l’organizzazione iraniana verso posizioni più chiare e fortemente radicate nel terreno rivoluzionario, l’OSCPIA tenta di riconciliare con il Comunismo di sinistra le deformazioni del programma comunista manifestate dal SUCM e dal PCd’Iran. E’ inevitabile che ci siano deformazioni, in una forma o in un’altra, in un’area che non ha contatti con la tradizione della Sinistra Comunista o con la sua eredità di elaborazione teorica e di lotta politica. Tuttavia non è abitudine dei comunisti né nascondere queste deformazioni, né accettarle e adattarsi ad esse, ma contribuire a superarle. In questo l’OSCPIA ha perso un’occasione importante. Dato lo stato attuale delle divergenze non è possibile definire il PCd’Iran come una forza che possa reclamare il diritto di entrare di nuovo nel campo politico delimitato dalle conferenze della Sinistra Comunista.”
A voler credere alle spiegazioni date in questo passaggio, il SUCM, dopo la conferenza e preda del PCd’Iran sarebbe evoluto verso delle posizioni che non gli permetterebbe più di “ reclamare il diritto di entrare di nuovo nel campo politico delimitato dalle conferenze della Sinistra Comunista”. Insomma queste due organizzazioni si troverebbero nella stessa situazione della CCI, poiché anche la nostra organizzazione non potrebbe “reclamare un tale diritto” (3).
Nei fatti il PCd’Iran non era solo “al di fuori del campo politico delimitato dalle conferenze”, ma anche al di fuori del campo della classe operaia. Era una organizzazione pienamente borghese, di tendenza stalin-maoista. Si può restare affascinati dalla sottile diplomazia (al fine di evitare “la polemica” !) con cui il BIPR parla di questa organizzazione. Il BIPR non ama chiamare gatto un gatto. Preferisce dire che l’animale evocato non è un cane o un hamster, anche se è comunque un animale di compagnia. Questa maniera di procedere è molto conosciuta nel movimento operaio ed ha un nome: opportunismo, se le parole hanno ancora un senso. E’ vero che non è gradevole pensare che elementi con i quali qualche mese prima si è tenuta una conferenza nella prospettiva del futuro partito mondiale della rivoluzione sono diventati dei difensori patentati dell’ordine capitalista. Ed ammetterlo pubblicamente è ancora più difficile. Allora si preferisce dire che questi elementi, che vengono chiamati ancora “compagni”, “hanno perso un’occasione importante”, che si sono “trovati bloccati”, che la loro “posizione teorica è stata diluita per essere conforme alle posizioni del PCd’Iran”, posizioni che vengono qualificate “molto pericolose” per evitare di dire che sono borghesi.
Quello che il BIPR non vede, o non vuole vedere, o che semplicemente si rifiuta di riconoscere pubblicamente, è che l’evoluzione del SUCM verso un organo di difesa dell’ordine capitalista (ribattezzato “forza che non può reclamare il diritto di entrare nel campo politico delimitato dalle conferenze della Sinistra Comunista”) non è in realtà tale. Anche al momento della conferenza il SUCM era già un’organizzazione borghese di tendenza maoista. E’ questo che dimostrano, per quelli che vogliono vedere, i suoi interventi al momento della conferenza.
Gli interventi del SUCM
Riportiamo alcuni degli interventi del SUCM:
“… nelle condizioni del suo funzionamento normale e di non-crisi, il capitale, sul mercato interno dei paesi metropolitani, tollera le rivendicazioni del movimento sindacale ed è solo al momento dell’approfondimento della crisi che esso ricorre allo schiacciamento decisivo del movimento sindacale” (pag. 6)
Questa affermazione è per lo meno sorprendente da parte di un gruppo supposto di appartenere alla Sinistra Comunista. In realtà, nei paesi avanzati, non è il movimento sindacale che viene schiacciato quando la crisi si approfondisce, ma le lotte operaie con la complicità del movimento sindacale. Questo perfino i trotskysti sono capaci di riconoscerlo. Non il SUCM però che identifica senza problemi movimento sindacale e lotta di classe. Così, sulla questione del ruolo dei sindacati (che non è una questione secondaria, ma fra le più importanti) il SUCM si situa a destra del trotskysmo raggiungendo la posizione degli stalinisti o dei socialdemocratici. Ed è con un tale gruppo che la CWO e il PCInt si proponevano di cooperare in vista della formazione del partito mondiale.
Ma questo è solo l’antipasto:
“ Oggi il proletariato in Iran è alla vigilia della formazione del suo partito comunista e, con la forza di massa che c’è dietro il programma di questo partito, esso deve diventare un fattore indipendente e determinante negli sconvolgimenti attuali in Iran. La leadership incontestabile del Komala (4) sulla lotta di vasti settori di operai e di sfruttati nel Kurdistan, l’influenza che il marxismo rivoluzionario ha acquisito tra gli operai avanzati dell’Iran, l’esistenza di una vasta rete di nuclei operai che distribuiscono le pubblicazioni teoriche e operaie del marxismo rivoluzionario (…), a dispetto delle condizioni di terrore e repressione (…); la perdita di illusioni degli operai verso il populismo e il movimento verso il marxismo rivoluzionario, tutto ciò è indicativo del ruolo importante che il proletariato socialista dell’Iran giocherà nei prossimi avvenimenti. Dal punto di vista del proletariato mondiale, il significato di questa questione sta nel fatto che ora, dopo più di 50 anni, il vessillo rosso del comunismo è sul punto di diventare il vessillo della lotta degli operai di un paese dominato. L’innalzamento di questo vessillo in una parte del mondo è un appello per il proletariato mondiale per farla finita con la dispersione nelle sue fila, per unirsi come classe contro la borghesia mondiale per regolare i conti con essa.” (pagg. 10-11)
Di fronte a una tale dichiarazione si può scegliere fra tre ipotesi:
- abbiamo a che fare con elementi sinceri, ma che non hanno nessun senso della realtà;- oppure siamo di fronte a un grande bluff destinato a impressionare il pubblico ma che non si basa su nessuna realtà;
- oppure, ancora, effettivamente il PCd’Iran e il Komala hanno l’influenza che viene descritta, ma in questo caso una corrente politica che abbia una tale influenza non può che essere borghese, nelle condizioni storiche del 1982.
Se fosse buona la prima ipotesi, il primo suggerimento che bisognerebbe dare a tali elementi sarebbe quella di farsi curare.
Se invece abbiamo a che fare con un bluff, la discussione con elementi che mentono non può avere nessun interesse, anche se essi credono, in questo modo, di difendere delle posizioni comuniste. Come diceva Marx, “la verità è rivoluzionaria”, e se la menzogna è una delle armi preferite della propaganda borghese, essa non potrebbe in alcun modo far parte dell’arsenale del proletariato e della sua avanguardia comunista.
Resta la terza ipotesi: il SUCM era un gruppo non proletario, ma gauchiste, cioè borghese. Ed è questa natura borghese che traspariva chiaramente nelle discussione della conferenza sulla questione della “rivoluzione democratica” e del programma del partito. In effetti, nel mezzo di un intervento che si voleva teoricamente fondato, con tanto di citazioni in appoggio, sugli autori marxisti, Marx, e soprattutto Lenin, ecco cosa ci viene proposto:
“La crisi mondiale dell’imperialismo crea l’embrione per l’emergenza delle condizioni rivoluzionarie, ma questo embrione, proprio a causa delle differenti condizioni esistenti nei paesi dominati e nelle metropoli, è più sviluppato nei paesi dominati. Le prime scintille della rivoluzione socialista del proletariato mondiale contro il capitale e il capitalismo al suo stadio supremo illuminano il fuoco della rivoluzione democratica nei paesi dominati. Una rivoluzione che, da questo punto di vista, è una parte inseparabile della rivoluzione socialista mondiale ma che, a causa del suo isolamento, delle limitazioni nella forza degli operai e degli sfruttati nei paesi dominati, della mancanza delle condizioni oggettive in seno al proletariato di questi paesi da un lato, e dall’altro per la presenza di vaste masse di sfruttati non proletari rivoluzionari, prende inevitabilmente la forma e si sviluppa, in primo luogo, nel seno di una rivoluzione democratica. Quella attuale in Iran è una tale rivoluzione.” (pag. 7)
“ L’attuale rivoluzione è una rivoluzione democratica il cui compito è quello di eliminare gli ostacoli al libero sviluppo della lotta di classe del proletariato per il socialismo.
Il contenuto della vittoria di questa rivoluzione è l’instaurazione di un sistema politico democratico sotto la direzione del proletariato che, dal punto di vista economico, equivale alla negazione pratica della dominazione dell’imperialismo.” (pag. 8)
D’altra parte il SUCM denuncia la politica del governo di Khomeini al momento della guerra tra l’Iraq e l’Iran scoppiata nel settembre 1980, un anno dopo l’instaurazione della “Repubblica islamica”, in questi termini:
“L’attacco contro le acquisizioni democratiche dell’insurrezione (il sollevamento dell’inizio 1979 che cacciò lo Scià e permise la presa del potere da parte di Komeini) e la prevenzione contro l’esercizio dell’autorità democratica del popolo nella determinazione e nella conduzione dei suoi propri affari” (pag. 10)
Infine, il SUCM stabilisce una distinzione tra il programma minimo (che sarebbe quello della “Repubblica democratica”) e il programma massimo, il socialismo (pag. 8). Una tale distinzione veniva fatta nella socialdemocrazia ai tempi della II Internazionale, quando il capitalismo era ancora un sistema ascendente e la rivoluzione proletaria non era ancora all’ordine del giorno, però essa è stata rigettata dai rivoluzionari, compreso Trotsky e i suoi epigoni, per il periodo apertosi con la Prima Guerra Mondiale.
Gli interventi della CWO e del PCInt
Evidentemente, di fronte alle posizioni borghesi del SUCM, la CWO e il PCInt hanno difeso le posizioni della Sinistra Comunista.
Sulla questione sindacale, il PCInt ha fatto interventi moto chiari:
“Nessun sindacato può fare altra cosa se non restare su un terreno borghese (…) Nell’epoca imperialista, i comunisti non possono in nessuna circostanza pensare alla possibilità di raddrizzare i sindacati o di ricostruire nuovi sindacati. (…) I sindacati portano la classe alla sconfitta nella misura in cui mistificano questa con l’idea di difendere i suoi interessi attraverso il sindacalismo. E’ necessario distruggere i sindacati.” (pag. 12)
Queste sono formulazioni che la CCI potrebbe sottoscrivere a due mani. La sola cosa che bisogna rimpiangere è che lo stesso PCInt che enuncia queste posizioni in una presentazione sulle lotte in Polonia del 1980, non dice esplicitamente che esse sono totalmente opposte alle posizioni esposte dal SUCM poco prima sulla stessa questione. Forse non era stato abbastanza attento di fronte alle dichiarazioni del SUCM? Forse è un problema di lingua? Ma la CWO, essa, capisce bene l’inglese. O è forse una “tattica” per non dover ribattere immediatamente al SUCM?
Comunque, sulla questione della “rivoluzione democratica”, della “repubblica democratica” e del “programma minimo”, il PCInt e la CWO non possono fare altro che rigettare tali nozioni che non hanno niente a che vedere con il patrimonio programmatico della Sinistra Comunista:
“L’oppressione e la miseria delle masse non possono, di per sé stesso, condurre alla rivoluzione. Questa non può avvenire che quando esse sono dirette dal proletariato di queste regioni in legame con il proletariato mondiale (…) Dire che Marx le ha appoggiate [le rivendicazioni democratiche] nel passato e che, di conseguenza, dobbiamo appoggiarle anche noi oggi, in un’epoca differente, significa, come disse Lenin a proposito di un altro soggetto, citare le parole di Marx contro lo spirito di Marx. Oggi noi viviamo nell’epoca del declino del capitalismo e ciò significa che il proletariato non ha NIENTE DA GUADAGNARE nell’appoggiare questo o quel capitale nazionale, o anche questa o quella rivendicazione riformista. (…)
E’ un non senso suggerire che noi possiamo scrivere un programma che fornisca le basi obiettive per la lotta per il socialismo. O esistono le basi obiettive o non esistono. Come disse il PC d’Italia nelle sue tesi del 1922:”Noinon possiamo creare le basi obiettive con degli espedienti” (…) Solo la lotta per il socialismo stessa può distruggere l’imperialismo, non degli espedienti strutturali sulla democrazia o delle rivendicazioni minime.” (pag. 16)
Noi pensiamo che il ruolo del partito comunista nei paesi dominanti e in quelli dominati è lo stesso: Noi non includiamo nel programma comunista delle rivendicazioni minime del 19° secolo. (…) Noi vogliamo fare una rivoluzione comunista e non possiamo pervenirvi che mettendo avanti il programma comunista e mai includendo nel nostro programma rivendicazioni che possono essere recuperate dalla borghesia.” (pag. 18)
Potremmo moltiplicare le citazioni della CWO e del PCInt che difendono posizioni della Sinistra Comunista, così come quelle del SUCM che mettono in evidenza che esso non ha niente a che vedere con questa corrente, ma questo ci porterebbe a citare un buon terzo della brochure (5). Per chi sa leggere e conosce le posizioni del maoismo degli anni 70-80, è chiaro che il SUCM (che si prende la cura in parecchi suoi interventi di criticare le concezioni maoiste ufficiali) costituiva nei fatti una variante “di sinistra” e “critica” di questa corrente. D’altra parte, in due occasioni, la CWO constata le similitudini tra le posizioni del SUCM e quelle del maoismo:
“La nostra reale obiezioni concerne la teoria dell’aristocrazia operaia. Noi pensiamo che questi sono gli ultimi germi del populismo dell’UCM e che la sua origine è nel maoismo.” (pag. 18)
“Il passaggio sui contadini [nel “Programma dell’Unità dei Combattenti Comunisti” sottomesso alla conferenza] è l’ultimo residuo del populismo del SUCM. (…) La teoria sul contadiname è una reminiscenza del maoismo, qualcosa che noi rigettiamo totalmente.” (pag. 22)
Tuttavia queste osservazioni restano molto timide e “diplomatiche”. C’era, per esempio, una questione che la CWO e il PCInt avrebbero potuto porre al SUCM: è il significato del seguente passaggio che figura in uno dei testi presentati dal SUCM alla conferenza, il “Programma del Partito comunista”, adottato da UCM e Komala, e pubblicato nel maggio 1982, cioè 5 mesi prima della conferenza:
“La dominazione del revisionismo sul Partito comunista di Russia ha portato alla sconfitta e al riflusso della classe operaia mondiale in una delle sue principali piazzeforti”. Per revisionismo questo programma intendeva la revisione “kruscioviana” del “Marxismo-Leninismo”. Questa è esattamente la visione sostenuta dal maoismo e sarebbe stato interessante che il SUCM precisasse se esso considerava che prima di Krusciov il Partito comunista russo di Stalin era ancora un partito della classe operaia. Disgraziatamente questa domanda fondamentale non è stata posta né dal PCInt, né dalla CWO. Dobbiamo credere che queste due organizzazioni non avevano letto questo documento così essenziale in quanto rappresentava il programma del SUCM? Questa interpretazione va scartata perché sarebbe in totale disaccordo con la “serietà” rivendicata ad alta voce dalla CWO nel suo discorso d’apertura. D’altra parte parecchi interventi del PCInt e della CWO citano in maniera precisa dei passaggi di questo documento. Resta quindi un’altra interpretazione: queste due organizzazioni non hanno posto la questione perché avevano paura della risposta. In effetti come avrebbero potuto proseguire una conferenza con una organizzazione che avrebbe considerato come “rivoluzionario” e “comunista” Stalin, il principale capofila della controrivoluzione scatenata contro il proletariato negli anni ’30, l’assassino di migliaia di combattenti della rivoluzione d’Ottobre, il massacratore di decine di milioni di operai e di contadini russi?
Evidentemente sollevare questa questione non sarebbe stato molto “diplomatico” e rischiava di provocare un fiasco immediato della conferenza che si sarebbe ridotta ad un tete a tete tra PCInt e CWO, cioè i due gruppi che avevano adottato, alla III conferenza, il criterio supplementare destinato ad eliminare la CCI al fine di dare nuovo ossigeno alle conferenze.
Queste due organizzazioni hanno preferito sottolineare il totale accordo che esisteva tra la loro visione del ruolo del partito e quella difesa dal SUCM nella sua presentazione su questa questione in cui affermava che “il partito organizza tutti gli aspetti della lotta di classe del proletariato contro la borghesia e dirige la classe operaia nel compimento della rivoluzione sociale.” Che il partito preconizzato dal PCInt e dalla CWO abbia un programma completamente opposto a quello del SUCM (rivoluzione comunista o rivoluzione democratica), che l’uno o l’altro “organizzino” e “dirigano” le lotte in direzioni contrarie, ciò sembra avere un’importanza secondaria per la CWO e per il PCInt. L’essenziale è che il SUCM non abbia nessuna tendenza “consiliarista” come sarebbe il caso della CCI.
Epilogo
La conferenza si è conclusa con il riassunto dei punti di accordo e di disaccordo fatto dal presidium (6). La lista delle convergenze è nettamente più lunga. Per quanto riguarda le “aree di disaccordo”, è segnalata unicamente la questione della “rivoluzione democratica” su cui viene detto che:
“C’è bisogno di altre discussioni e chiarificazioni con il SUCM:
a) la rivoluzione democratica deve essere definita al momento della prossima conferenza.
b) Noi(il presidium) proponiamo che il metodo migliore sia quello di criticare attraverso un testo la visione del SUCM della rivoluzione democratica e che abbiamo una discussione più sviluppata sulle basi economiche dell’imperialismo” (pag. 37)
Della visione completamente opposta sul ruolo del sindacato che si è espressa durante la conferenza non viene detto nemmeno una parola, probabilmente perchè il SUCM ha approvato completamente la presentazione sulle lotte in Polonia in cui il PCInt aveva affrontato la questione nei termini che abbiamo visto prima (mentre il SUCM non poteva che essere in disaccordo con questa presentazione su questo punto).
Alla fine il SUCM e il PCInt si sono espressi:
SUCM: “è un anno che noi abbiamo contattato il PCInt e la CWO. Noi li ringraziamo del loro aiuto e apprezziamo il contatto con i due gruppi. Noi abbiamo cercato di trasmettere le critiche all’UCM in Iran. Siamo d’accordo con il riassunto.”
PCInt: “siamo d’accordo con il riassunto. Anche noi siamo contenti di incontrare dei compagni che vengono dall’Iran. Certamente le discussioni con essi devono essere sviluppate al fine di trovare una soluzione politica alle divergenze su cui si è focalizzata questa conferenza.”
Così, contrariamente alla III che si era “dispersa nel disordine”, come aveva ricordato al CWO nel discorso d’apertura, la “IV conferenza” si è conclusa con la volontà di tutti i partecipanti di proseguire la discussione. Cosa è avvenuto in seguito è noto.
Nei fatti ci è voluto un momento buono perché la CWO e il PCInt aprissero (un po’!) gli occhi sulla natura dei loro interlocutori e questo solamente quando questi ultimi hanno gettato la maschera. Così, parecchi mesi dopo la “IV conferenza”, la CWO, nella sua conferenza territoriale, ha preso violentemente posizione contro la CCI che si era permessa, come sua abitudine, chiamare gatto un gatto e un gruppo borghese un gruppo borghese:
“Gli interventi del SUCM sono consistiti principalmente in lusinghe verso la CWO: la loro sola obiezione è consistita nel suggerire con sottigliezza alla CWO di portare un sostegno ‘critico’ e ‘condizionato’ ai movimenti nazionali. Questo suggerimento è rimasto senza risposta da parte della CWO la cui collera è stata invece riservata alla CCI quando abbiamo cercato di sollevare la questione di fondo della presenza del SUCM; allora la CWO si è preoccupata di far tacere il compagno della CCI prima che egli avesse potuto pronunciare più di dieci parole.” (World Revolution n. 60, maggio 1983, “Quando traccerai la linea, CWO?”)
È lo stesso atteggiamento che abbiamo ritrovato durante una riunione pubblica della CCI a Leeds:
“Gli interventi più veementi della CWO erano principalmente per sostenere il SUCM contro le ‘affermazioni infondate’ della CCI sulla natura di classe dell’UCM e del Komala e dopo per salutare la demagogia del SUCM come il contributo più chiaro alla riunione. Strillare contro i comunisti perché essi mettono in guardia il movimento rivoluzionario contro l’invasione dell’ideologia borghese non era che il passo successivo dell’atteggiamento settario della CWO verso la CCI.” (ibidem)
Questo atteggiamento che riserva le sue frecce più appuntite contro le tendenze che mettono in guardia contro il pericolo rappresentato dalle organizzazioni borghesi e che prende, in questa maniera, la difesa di questi ultimi non è nuovo nel movimento operaio. E’ l’atteggiamento della direzione centrista dell’Internazionale Comunista quando preconizzò il “Fronte Unico” con i partiti socialisti, un atteggiamento che la Sinistra Comunista giustamente denunciò.
E’ per questo che la conferenza che si è tenuta a Londra nel settembre1982 non merita assolutamente il titolo di “IV conferenza dei gruppi della Sinistra Comunista”. Da una parte perché essa si è tenuta con la presenza di un gruppo che non appartiene al proletariato, e, ancor meno, alla Sinistra Comunista, il SUCM; dall’altra perché in questa conferenza era totalmente assente lo spirito e l’atteggiamento politico che caratterizzano la Sinistra Comunista, che consistono in una ricerca scrupolosa della chiarezza, in intransigenza contro tutte le manifestazioni di penetrazione di visioni borghesi in seno al proletariato e contro l’opportunismo (7).
Questo non è l’avviso del BIPR che, nella conclusione della presentazione della brochure, ci dice:
“Tuttavia la validità o meno della IV conferenza non dipende dalla partecipazione del SUCM (che, come per tutti gli altri gruppi, dipendeva alla sua accettazione dei criteri sviluppati dalla I alla III).
La IV conferenza ha confermato lo sviluppo di una tendenza politica chiara nell’ambiente politico internazionale, una tendenza che riconosce che è compito dei rivoluzionari oggi sviluppare una presenza organizzata in seno alla lotta di classe e di lavorare concretamente per la formazione del partito internazionale. Se il futuro partito non è niente di più di una organizzazione che fa propaganda, cioè se esso non è un partito organizzato nella classe operaia nel suo insieme, esso non sarà capace di condurre la lotta di classe di domani alla sua conclusione vittoriosa.
La formazione del Bureau Internazionale per il Partito Rivoluzionario (BIPR) nel dicembre del 1983 è la manifestazione concreta di questa tendenza ed è in sé la prova della validità della IV conferenza. L’omogeneità politica raggiunta dal PCInt e dalla CWO (e confermata nel corso dei dibattiti con il SUCM) ha permesso ai due gruppi di compiere dei passi in avanti politici verso la formazione del futuro partito. La corrispondenza internazionale dei due gruppi ( e di altri membri del Bureau) è ora responsabilità del Bureau. Ma il Bureau va oltre il PCInt e la CWO, è un mezzo, per le organizzazioni e gli elementi emergenti nel mondo intero, di chiarificare le loro posizioni prendendo parte a un dibattito internazionale e al lavoro del Bureau stesso. Nei fatti è quel punto di riferimento internazionale che il PCInt preconizzava nel 1977 che potrebbe svilupparsi a partire dalle conferenze. Estendendo e sviluppando il suo lavoro all’interno di un quadro politico chiaramente definito, il Bureau sarà, in seguito, in condizione di convocare una V conferenza che segnerà un passo supplementare verso la formazione del partito internazionale.”
La V conferenza non c’è stata: dopo il fallimento e la ridicolaggine della IV (che i membri del BIPR non possono nascondersi, anche se cercano di nasconderli verso l’esterno), era in effetti preferibile fermare le spese. Ancora, e in questo il BIPR ha raggiunto i bordighisti, il BIPR stima oggi di essere la sola organizzazione al mondo capace di contribuire validamente alla formazione del futuro partito della rivoluzione mondiale (8). Noi non possiamo che lasciarlo a questi suoi sogni megalomani…. E alla sua triste incapacità a rappresentare la continuità di quello che la Sinistra Comunista ha apportato di meglio al movimento storico della classe operaia.
Fabienne
1. IV International Conference of Groups of the Communist Left – Proceedings, Texts, Correspondence
2. Il che non vuole assolutamente dire che noi sottostimiamo il ruolo del partito nella preparazione e nella realizzazione della rivoluzione. Esso è indispensabile per lo sviluppo della coscienza nella classe e per dare un orientamento politico alle sue battaglie, compreso sulla questione della sua auto-organizzazione. Ma questo non vuol dire che esso “organizza” le lotte della classe o la presa del potere, compito che tocca all’organizzazione specifica della classe, i consigli operai.
3. Bisogna essere chiari per il lettore: la CCI non si è mai sognata di “reclamare” un tale “diritto”. A partire dal momento in cui, durante la III conferenza, il PCInt e la CWO hanno esplicitamente affermato che essi volevano continuare le conferenze SENZA LA CCI, non ci è mai venuta l’idea di “forzare la mano” a queste organizzazioni (come avremmo potuto fare, per esempio, se noi ci fossimo astenuti al momento del voto sul criterio supplementare, visto che l’Eveil Internationaliste, che si era astenuto, è stato invitato alla IV). Questo non ci ha impedito, in seguito, di fare a questi gruppi delle proposte di lavoro comune ogni volta che noi l’abbiamo ritenuto necessario, in particolare delle prese di posizione di fronte a scontri imperialisti, proposte che sono state quasi sempre respinte.
4. Il Komala era una organizzazione guerrigliera legata al Partito Democratico Curdo.
5. Invitiamo i lettori che leggono l’inglese a richiederla al BIPR e a prenderne conoscenza nella sua integralità.
6. Bisogna notare che il PCInt ha accettato alla “IV conferenza” quello che si era ostinatamente rifiutato di fare nelle conferenze precedenti: che ci fosse una presa di posizione che riassumesse i punti d’accordo e di disaccordo. Il motivo del suo rifiuto era che esso non voleva adottare nessun documento in comune con gli altri gruppi a causa delle divergenze che esistevano tra di loro. Bisogna credere che per il PCInt le divergenze che esistono tra i gruppi della Sinistra Comunista sono più importanti di quelle che separa noi gruppi comunisti dai gruppi borghesi.
7. In questo senso la CWO aveva ragione a dire, all’apertura della conferenza, che: “il risultato della III conferenza significa che il lavoro internazionale tra comunisti deve procedere su basi diverse da quelle del passato.” Ben diverse, effettivamente, ma non nel buon senso per quello che riguarda il BIPR.
8. Per essere precisi fino in fondo, il rifiuto del BIPR di ogni discussione o di ogni lavoro comune con la CCI a causa di “divergenze troppo importanti” non si applica con lo stesso rigore verso altri gruppi. In diversi articoli della nostra Révue abbiamo sottolineato la sua apertura maggiore verso dei gruppi chiaramente consiliaristi come Red and Black Notes in Canada, o che non appartengono alla Sinistra Comunista, e nemmeno al campo proletario, come l’OCI in Italia (vedere in particolare “La visione marxista e la visione opportunista del partito nella politica di costruzione del partito”, Révue Internationale nn. 103 e 105).
Questa apertura viene applicata anche a degli elementi che si presentano come i soli difensori delle “vere posizioni della CCI” e che hanno costituito la “Frazione Interna della CCI” (FICCI), un piccolo gruppo parassitario che si è distinto per dei comportamenti inqualificabili come il furto di materiale della nostra organizzazione, il ricatto, lo spionaggio e anche delle minacce di morte contro uno dei nostri militanti. Nel suo Bollettino comunista n. 33, la FICCI riporta le discussioni che ha da parecchi anni con il BIPR e le presenta così: “Riannodando il filo di questa discussione, la frazione e il BIPR ridanno vita al ciclo delle Conferenze dei gruppi della Sinistra comunista che si sono tenute negli anni 70 e 80. E se le conferenze hanno condotto in parte ad un vicolo cieco, oggi è importante riprendere l’opera e portarla ad un livello superiore, tirando le lezioni del passato (…) di liberarsi dei malintesi, dei blocchi legati a questioni di terminologia, ad incomprensioni reciproche. Facendo questo siamo convinti che noi stiamo riprendendo, in qualche maniera, la fiaccola che la CCI ha abbandonato chiudendosi in un settarismo sempre più delirante”
La FICCI non precisa perché le conferenze sono state interrotte quando i suoi membri erano ancora nella CCI e avevano condiviso la nostra condanna del sabotaggio operato dal PCInt e dalla CWO. E’ una menzogna in più da mettere sul conto della FICCI, ma ce ne sono tante!
Ciò detto, risulta chiaramente che il BIPR accetta di discutere con degli elementi che affermano di difendere delle posizioni (quelle della CCI) che giustamente erano alla base del suo rifiuto di discutere con la CCI. E’ vero che la FICCI rappresenta dei grandi vantaggi rispetto alla CCI:
- essa passa il suo tempo a denigrare la nostra organizzazione;
- essa non rischia di “fare ombra” al BIPR, tenuto conto della sua importanza ridicola;;
- essa non trova parole abbastanza elogiative per adulare in permanenza questa organizzazione qualificata come solo polo di raggruppamento internazionale per il futuro partito rivoluzionario.
Ancora una volta constatiamo che la più bassa adulazione costituisce un eccellente “argomento” per convincere il BIPR ad accettare la discussione. Questo metodo era stato efficace nel 1982 da parte di un gruppo borghese come il SUCM, lo è ancora oggi da parte di una piccola banda di delinquenti.
Ciò detto, non sembra che il BIPR sia molto fiero delle discussione che mantiene con la FICCI visto che queste non hanno trovato posto nella sua stampa fino ad oggi e che il link verso il sito internet della FICCI sia sparito dal sito del BIPR da un bel po’ di tempo.
Queste tesi sono state adottate dalla CCI il 3 aprile 2006 mentre il movimento degli studenti stava ancora svolgendosi. In particolare, la grande manifestazione del 4 aprile, che il governo sperava meno potente della precedente del 28 marzo, ha superato quest’ultima ampiamente con una partecipazione ancora più importante di lavoratori del settore privato. Nel suo discorso del 31 marzo, il presidente Chirac aveva tentato una manovra ridicola: aveva annunciato la promulgazione della legge delle “Pari opportunità” ed aveva chiesto che il suo articolo 8 (il Contratto di Primo Impiego, principale motivo della collera degli studenti) non venisse applicato. Invece di indebolire la mobilitazione questa pietosa contorsione l’ha al contrario rafforzata. Inoltre, il pericolo di un’esplosione spontanea di scioperi nel settore direttamente produttivo, come si era verificato nel maggio1968, è diventato sempre più concreto. Il governo si è dovuto arrendere all’evidenza che le sue meschine manovre non sarebbero riuscite a rompere il movimento, per cui è stato costretto, non senza ulteriori contorsioni, a ritirare il CPE il 10 aprile. In effetti, le tesi prendevano ancora in considerazione la possibilità che il governo non cedesse. Ciò detto, l’epilogo della crisi che ha visto un tale indietreggiamento del governo, conferma e rafforza l’idea centrale delle tesi: l’importanza e la profondità della mobilitazione delle giovani generazioni della classe operaia in questi giorni della primavera 2006. Adesso che il governo ha ceduto sul CPE, il cui ritiro era la rivendicazione faro della mobilitazione, questa ha perso tutta la sua dinamicità. Ciò significa che le cose “ritornano come prima”, come evidentemente spera la borghesia? Certamente no. Come è detto nelle tesi: “questa classe [la borghesia] non potrà sopprimere tutta l’esperienza accumulata per settimane da decine di migliaia di futuri lavoratori, il loro risveglio alla politica e la loro presa di coscienza. È questo il vero tesoro per le lotte future del proletariato, un elemento di primo piano della capacità a proseguire per la propria strada verso la rivoluzione comunista”. E’ necessario che gli attori di questa magnifica lotta facciano fruttare questo tesoro, traendo tutti gli insegnamenti dalla loro esperienza, identificando con chiarezza quali sono state le vere forze ed anche le debolezze della loro lotta. E soprattutto che riescano a delineare la prospettiva che si presenta alla società, una prospettiva che era già inscritta nella loro lotta: di fronte agli attacchi sempre più violenti che un capitalismo in crisi mortale sferra inevitabilmente contro la classe sfruttata, la sola risposta possibile di questa è intensificare la propria lotta di resistenza e prepararsi a capovolgere questo sistema. Questa riflessione, come è stato per la lotta che si è conclusa, deve essere portata avanti in modo collettivo, attraverso dibattiti, nuove assemblee, circoli di discussione aperti, come lo sono state le assemblee generali, a tutti coloro che vogliono associarsi a questa riflessione, ed in particolare alle organizzazioni politiche che sostengono la lotta della classe operaia. Questa riflessione collettiva può essere condotta solo se viene mantenuto lo stesso stato d’animo fraterno, l’unità e la solidarietà che si sono manifestate nel corso della lotta. In questo senso, nel momento in cui la grande maggioranza di quelli che hanno partecipato alla lotta si è resa conto che questa era finita, sotto la sua forma precedente, non è più tempo di lotte di retroguardia, di blocchi ultraminoritari e “ad oltranza” che sono, in ogni caso, votati alla sconfitta e rischiano di provocare divisioni e tensioni tra quelli che, per settimane, hanno condotto una lotta di classe esemplare. (18 aprile 2003)
Il carattere proletario del movimento
1) La mobilitazione attuale degli studenti in Francia si presenta, fin da ora, come uno dei maggiori episodi della lotta di classe in questo paese dagli ultimi 15 anni, un episodio di un’importanza almeno comparabile alle lotte dell’autunno 1995 sul problema della riforma dello Stato sociale e della primavera 2003 nel settore pubblico sul problema delle pensioni. Quest’affermazione può sembrare paradossale nella misura in cui non sono stati i salariati a mobilitarsi come capofila (tranne la loro partecipazione ad un certo numero di giornate d’azione e di manifestazioni: 7 febbraio, 7 marzo, 18 marzo e 28 marzo) ma un settore della società che non è entrato ancora nel mondo del lavoro, la gioventù scolarizzata. Tuttavia, questo fatto non può in alcun modo mettere in discussione il carattere profondamente proletario di questo movimento. E ciò per le seguenti ragioni:
- nel corso degli ultimi decenni l’evoluzione dell’economia capitalista ha sempre più richiesto mano d’opera più formata e qualificata, per cui una forte proporzione di studenti delle Università (ed in queste sono inclusi gli Istituti Universitari di Tecnologia incaricati di dare una formazione relativamente breve a futuri “tecnici”, in realtà agli operai qualificati) alla fine dei suoi studi, andrà a raggiungere i ranghi della classe operaia (che lungi dal limitarsi ai soli operai dell’industria in “tuta blu”, include anche gli impiegati, i quadri medi delle imprese o della funzione pubblica, gli infermieri, la grande maggioranza degli insegnanti - maestri e professori delle secondarie, ecc.);
- parallelamente a questo fenomeno, l’origine sociale degli studenti ha conosciuto un’evoluzione significativa con un incremento importante degli studenti di origine operaia (secondo i criteri sopra enunciati), il che ha determinato l’esistenza di una proporzione molto elevata (nell’ordine della metà) di studenti che sono obbligati a lavorare per proseguire i loro studi o acquisire un minimo di autonomia rispetto alle famiglie;
- la rivendicazione principale intorno alla quale si è fatta la mobilitazione è il ritiro di un attacco economico (l’instaurazione di un Contratto di Primo impiego, CPE) che riguarda l’insieme della classe operaia e non solamente i futuri lavoratori oggi studenti, ma anche i giovani salariati, poiché l’esistenza nelle fabbriche di una mano d’opera sottomessa per due anni alla spada di Damocle di un licenziamento SENZA MOTIVO non può che pesare sugli altri lavoratori. La natura proletaria del movimento si è confermata fin dall’inizio attraverso il fatto che le assemblee generali hanno a maggioranza ritirato dalla lista quelle rivendicazioni che avevano un carattere esclusivamente “studentesco” (come la richiesta di ritirare il LMD - il sistema europeo di diplomi che è stato imposto recentemente in Francia e che penalizza una parte degli studenti di questo paese). Questa decisione corrispondeva alla volontà affermata fin dall’inizio dalla grande maggioranza degli studenti di, non solo ricercare la solidarietà dell’insieme della classe operaia (il termine abitualmente impiegato nelle AG è stato quello di “salariati”), ma anche di coinvolgerla nella lotta.
Le Assemblee Generali, polmone del movimento
2) Il carattere profondamente proletario del movimento si è manifestato anche nelle forme che questo si è dato, in particolare quelle delle assemblee generali sovrane in cui si manifesta una vita reale che non ha niente a che vedere con le caricature “di assemblee generali” convocate abitualmente dai sindacati nei posti di lavoro. E’ evidente che c’è una grande eterogeneità tra le differenti università in questo campo. Certe AG somigliano ancora molto alle assemblee sindacali, mentre altre sono sede di una vita e di una riflessione intensa, manifestando un alto grado di coinvolgimento e di maturità dei partecipanti. Tuttavia, al di là di questa eterogeneità, è notevole che molte assemblee sono riuscite a superare gli scogli dei primi giorni durante i quali si girava intorno a questioni tipo “bisogna votare sul fatto di votare o no su tale questione” (per esempio, la presenza o no nell’AG di persone esterne all’università, o sulla possibilità da parte di quest’ultime di prendere la parola), che aveva come conseguenza l’allontanamento di un gran numero di studenti e il fatto che le ultime decisioni venivano prese dai membri dei sindacati studenteschi o di organizzazioni politiche. Durante le prime due settimane del movimento la tendenza dominante nelle assemblee generali è stata quella di una presenza più numerosa di studenti, di una partecipazione sempre più ampia di questi nel prendere la parola, con una corrispondente riduzione degli interventi dei membri sindacali o delle organizzazioni politiche. La presa in carico crescente da parte dell’insieme delle assemblee della propria vita si è manifestata attraverso una riduzione tendenziale della presenza di quest’ultimi alla tribuna incaricata di organizzare i dibattiti a favore di quella di elementi che non avevano affiliazioni particolari o un’esperienza particolare prima del movimento. Nelle assemblee meglio organizzate si è potuto vedere un rinnovo quotidiano delle squadre (in genere 3 membri) incaricate di organizzare ed animare la vita dell’assemblea, mentre le assemblee meno vive e meno organizzate erano quelle “dirette” tutti i giorni dalla stessa squadra, spesso molto più pletorica delle prime. E’ necessario ancora segnalare come la tendenza delle assemblee sia stata verso la sostituzione di questo secondo modo di organizzazione con il primo. Uno degli elementi importanti di questa evoluzione è stata la partecipazione di delegazioni di studenti di una università alle AG di altre università, che oltre al rafforzamento del sentimento di forza e di solidarietà tra le differenti AG, ha permesso a quelle che si stavano indebolendo di ispirarsi ai punti forti di quelle che era più avanti1. Anche questa è una delle caratteristiche importanti della dinamica delle assemblee operaie in quei movimenti di classe che hanno raggiunto un livello importante di coscienza e di organizzazione.
3) Una delle manifestazioni maggiori del carattere proletario delle assemblee che si sono tenute nelle università durante questo periodo è il fatto che, da subito, la loro apertura verso l’esterno non si è limitata ai solo studenti di altre università ma si è estesa anche alla partecipazione di persone che non erano studenti. Innanzitutto, le AG hanno invitato il personale delle università (insegnante, tecnico e amministrativo – IATOS) non solo a partecipare ma anche a lottare insieme, e sono andate ben oltre. In particolare, lavoratori e pensionati, genitori e nonni di studenti e liceali in lotta, hanno ricevuto in genere un’accoglienza molto calorosa ed attenta da parte delle assemblee dal momento che i loro interventi miravano al rafforzamento ed all’estensione del movimento, in particolare vero i salariati. L’apertura delle assemblee a persone che non appartengono all’impresa o al settore direttamente coinvolto, non solo in quanto osservatori, ma come partecipanti attivi, è una componente estremamente importante del movimento della classe operaia. È chiaro che quando è necessario esprimere un voto per poter prendere una decisione, può essere necessario instaurare delle modalità che permettono alle sole persone che appartengono all’unità produttiva o geografica sulla quale si basa l’assemblea di partecipare a questa decisione, ciò per evitare l’“invasione” dell’assemblea da parte di professionisti della politica borghese o di elementi al suo servizio. A tal fine, uno dei mezzi utilizzati da molte assemblee studentesche è di non contabilizzare le mani levate ma le tessere studentesche presentate (che sono differenti da un’università all’altra). Quella dell’apertura delle assemblee è una questione cruciale per la lotta della classe operaia. Nella misura in cui in tempi “normali”, cioè al di fuori dei periodi di lotta intensa, gli elementi che hanno più audience nelle fila operaie sono quelli che appartengono alle organizzazioni della classe capitalista (sindacati o partiti politici di “sinistra”), la chiusura delle assemblee costituisce un eccellente mezzo per queste organizzazioni di conservare il loro controllo sui lavoratori a scapito della dinamica della lotta ed al servizio, evidentemente, degli interessi della borghesia. Nella storia delle lotte della classe operaia l’apertura delle assemblee, che permette agli elementi più avanzati della classe, ed in particolare alle organizzazioni rivoluzionarie, di contribuire alla presa di coscienza dei lavoratori in lotta, ha sempre costituito una linea di demarcazione tra le correnti che difendono un orientamento proletario e quelle che difendono l’ordine capitalista. Gli esempi sono numerosi. Tra i più significativi, possiamo segnalare quello del Congresso dei Consigli operai che si tenne a metà dicembre 1918 a Berlino dopo che il sollevamento dei soldati e degli operai contro la guerra, iniziato a novembre, costrinse la borghesia tedesca, non solo a mettere fine alla guerra, ma anche a sbarazzarsi del Kaiser ed a rimettere il potere politico nelle mani del partito socialdemocratico. Per l’immaturità della coscienza nella classe operaia e per le modalità di designazione dei delegati, questo Congresso fu dominato dai Socialdemocratici che vietarono sia la partecipazione di rappresentanti dei soviet rivoluzionari della Russia che quella di Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht, le due più eminenti figure del movimento rivoluzionario, con il pretesto che non erano operai. Questo Congresso decise alla fine di rimettere tutto il suo potere al governo diretto dalla Socialdemocrazia, un governo che un mese più tardi assassinava Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht. Un altro esempio significativo è quello del Congresso del 1866 dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori (AIT- I Internazionale) dove alcuni dirigenti francesi, come Tolain, un operaio cesellatore di bronzo, tentarono di imporre il fatto che “solo gli operai potevano votare al congresso”, una disposizione questa che mirava a colpire principalmente Karl Marx ed i compagni più vicini a lui. Durante La Comune di Parigi nel 1871 Marx fu uno dei più ardenti difensori di questa mentre Tolain era a Versailles tra i ranghi di coloro che organizzarono lo schiacciamento della Comune provocando 30.000 morti nelle fila operaie. Per quanto riguarda il movimento attuale degli studenti, è significativo che le maggiori resistenze all’apertura delle assemblee siano venute dai membri del sindacato studentesco UNEF, diretto dal Partito socialista, e che queste si siano tanto più aperte quanto più si riduceva l’influenza dell’UNEF al loro interno.
Contrariamente al 1995 e al 2003, la borghesia è stata sorpresa dal movimento
4) Una delle caratteristiche più importanti dell’episodio attuale della lotta di classe in Francia, è che questa ha sorpreso quasi totalmente l’insieme dei settori della borghesia e del suo apparato politico (partiti di destra, di sinistra ed organizzazioni sindacali). Questo è uno degli elementi che permette di capire tanto la vitalità e la profondità del movimento, che la situazione estremamente delicata nella quale attualmente si trova la classe dominante in questo paese. In questo senso, bisogna fare una distinzione molto netta tra il presente movimento e le lotte di massa dell’autunno 1995 e della primavera 2003. La mobilitazione dei lavoratori del 1995 contro il “piano Juppé” di riforma dello Stato sociale fu in realtà orchestrata grazie ad una divisione di compiti molto abile tra il governo ed i sindacati. Il primo, con tutta l’arroganza di cui era capace il Primo Ministro dell’epoca Alain Juppé, aveva associò agli attacchi contro lo Stato sociale (riguardante tutti i salariati del settore pubblico e privato) quelli più specifici contro il regime pensionistico dei lavoratori della SNCF e di altre imprese pubbliche di trasporti,. I lavoratori di queste imprese costituirono così la punta di lancia della mobilitazione. Pochi giorni prima di Natale, mentre gli scioperi duravano da settimane, il governo fece qualche passo indietro sulla questione dei regimi speciali di pensionamento il che, in seguito all’appello dei sindacati, determinò la ripresa del lavoro nei settori coinvolti. Il ritorno al lavoro dei settori più all’avanguardia significò, evidentemente, la fine del movimento in tutti gli altri settori. Per quanto riguarda i sindacati, la maggior parte di essi (eccetto il CFDT) si mostrarono molto “combattivi” chiamando all’estensione del movimento ed alla tenuta di frequenti assemblee generali. Malgrado la sua ampiezza, la mobilitazione dei lavoratori non portò ad una vittoria ma, fondamentalmente, ad un insuccesso poiché la principale rivendicazione, il ritiro del “piano Juppé” di riforma dello Stato sociale, non venne soddisfatta. Tuttavia le concessioni del governo sulla questione dei regimi speciali di pensionamento, permisero ai sindacati di presentare questa sconfitta come una “vittoria”, e ciò gli permise di riverniciare il loro blasone alquanto sbiadito dai sabotaggi delle lotte operaie durante gli anni 1980. La mobilitazione del 2003 nella funzione pubblica face seguito alla decisione di prolungare la durata minima di vita lavorativa prima di potere beneficiare di una pensione a tasso pieno. Tutti i lavoratori furono colpiti da questa misura, ma quelli che manifestarono una maggiore combattività furono gli insegnanti e il personale degli istituti scolastici che, oltre che sulle pensioni, subivano un attacco supplementare con la scusa del “decentramento”. Gli insegnanti in generale non venivano presi di mira direttamente da questa misura ma essi si sentivano particolarmente coinvolti dall’attacco che colpiva dei colleghi di lavoro e dalla mobilitazione di questi. Inoltre, la decisione di portare a 40 anni e più il numero minimo di anni di lavoro per i settori della classe operaia che, a causa della durata del periodo di formazione professionale, non potevano cominciare a lavorare prima dei 23 anni (addirittura 25 anni) significava che questi avrebbero dovuto continuare a lavorare in condizioni sempre più faticose ed usuranti al di là dell’età legale della pensione 60 anni. Con uno stile differente da quello di Juppé nel 1995, il Primo Ministro Jean-Pierre Raffarin fece passare un messaggio dello stesso tipo dichiarando che “a governare non era la strada”. Alla fine, malgrado la combattività dei lavoratori dell’educazione e la loro tenacia (alcuni fecero fino a 6 settimane di sciopero), malgrado le manifestazioni tra le più grosse dopo il maggio 68, il movimento non poté far retrocedere il governo. Questo, quando la mobilitazione cominciò a ripiegare, decise di ritornare su alcune misure particolari riguardanti il personale non insegnante degli istituti scolastici al fine di distruggere l’unità che si era sviluppata tra le differenti categorie professionali e dunque la dinamica di mobilitazione. L’inevitabile ripresa del lavoro tra il personale delle scuole significò la fine del movimento che, come nel 1995, non riuscì a respingere l’attacco centrale del governo, quello contro le pensioni. Tuttavia, mentre era stato possibile presentare l’episodio del 1995 come una “vittoria” da parte dei sindacati, ciò che permise di rafforzare il loro ascendente sull’insieme dei lavoratori, quello del 2003 fu avvertito principalmente come un insuccesso (in particolare tra buona parte degli insegnanti che avevano perso quasi 6 settimane di stipendio), cosa che intaccò sensibilmente la fiducia dei lavoratori nei loro riguardi.
La debolezza politica della destra francese
5) Le caratteristiche maggiori degli attacchi della borghesia contro la classe operaia nel 1995 e nel 2003 si possono così riassumere:
- tutti e due corrispondevano alla necessità inevitabile per il capitalismo, di fronte alla crisi mondiale della sua economia ed all’erosione dei deficit pubblici, di perseguire lo smantellamento dei dispositivi dello Stato assistenziale messi in atto all’indomani della Seconda Guerra mondiale e, in particolare, lo Stato sociale e il sistema pensionistico;
- tutti e due sono stati preparati accuratamente dai differenti organi al servizio del capitalismo, in primo luogo il governo di destra e le organizzazioni sindacali, per infliggere una sconfitta alla classe operaia; una sconfitta sul piano economico, ma anche sul piano politico ed ideologico;
- tutti e due hanno utilizzato il metodo che consiste nel cumulare attacchi ad un settore particolare che viene quindi spinto all’avanguardia della mobilitazione, e ad “arretrare” poi su attacchi specifici che riguardano questo stesso settore per disarmare l’insieme del movimento;
- tuttavia pur utilizzando metodi simili, la dimensione politica dell’attacco della borghesia non è stato lo stesso nei due casi perché nel 1995 bisognava presentare il risultato della mobilitazione come una “vittoria” da mettere in conto ai sindacati, mentre nel 2003 l’evidenza della sconfitta rappresentava un elemento di demoralizzazione e di discredito dei sindacati. Per quanto riguarda la mobilitazione attuale è necessario mettere in evidenza che:
- il CPE non era affatto una misura indispensabile per l’economia francese e ciò si è manifestato in particolare col fatto che buona parte del padronato e dei deputati di destra non era favorevole, come d’altronde il resto della maggioranza dei membri del governo, in particolare i due ministri direttamente coinvolti, quello dell’impiego (Gerardo Larcher), e quello della “coesione sociale”, (Jean-Louis Borloo);
- il carattere non indispensabile dal punto di vista capitalista di questa misura si accompagna ad un’assenza quasi completa di preparazione per farla passare; mentre gli attacchi del 1995 e del 2003 erano stati preparati in anticipo attraverso “discussioni” con i sindacati (a tal punto che, nei due casi, uno dei grandi sindacati, la CFDT di colore socialdemocratico, aveva sostenuto i piani del governo), il CPE faceva parte di un lotto di misure raggruppate in una legge chiamata delle “Pari opportunità” sottoposta al Parlamento in modo precipitoso e senza discussione preliminare con i sindacati. Tra gli aspetti più odiosi della legge c’è il fatto che essa è supposta lottare contro la precarietà mentre nei fatti la istituzionalizza per i giovani lavoratori al di sotto dei 26 anni. Inoltre questa viene presentata come un “beneficio” per i giovani dei quartieri “difficili” che si erano rivoltati nell’autunno 2005, mentre contiene una serie di attacchi contro questi stessi giovani come il collocamento al lavoro degli adolescenti a partire da 14 anni, camuffato da apprendistato, ed il lavoro notturno per quelli di età maggiore a 15 anni.
6) Il carattere provocatorio del metodo del governo si è rivelato anche nel tentativo di fare passare la legge “alla selvaggia”, facendo appello a disposizioni della Costituzione che permettessero la sua adozione senza voto del Parlamento e prevedendone il passaggio davanti a questo durante il periodo delle vacanze scolastiche degli studenti e dei liceali. Tuttavia, questa “colossale finezza” del governo e del suo capo Villepin, si è ritorta contro di essi. Lungi dal superare in velocità ogni possibilità di mobilitazione, questa manovra abbastanza grossolana è riuscita solo ad aumentare ancora più la collera degli studenti e dei liceali ed a radicalizzare la loro mobilitazione. Anche nel 1995 il carattere provocatorio delle dichiarazioni e l’atteggiamento arrogante del Primo Ministro Juppé fu un elemento di radicalizzazione del movimento di sciopero. Ma all’epoca questo atteggiamento corrispondeva in pieno agli obiettivi della borghesia che aveva previsto la reazione dei lavoratori e che, in un contesto in cui la classe operaia subiva ancora con forza il peso delle campagne ideologiche seguite al crollo dei regimi sedicenti “socialisti” (che necessariamente limitava le potenzialità della lotta), aveva orchestrato una manovra destinata a ridare credibilità ai sindacati. Oggi, al contrario, è in modo involontario che il Primo Ministro è riuscito a polarizzare la collera della gioventù studentesca e quella di grande parte della classe operaia contro la sua politica. Durante l’estate 2005 Villepin era riuscito a fare passare senza difficoltà il CNE (Contratto Nuovo Impiego) che permette alle imprese con meno di 20 salariati di licenziare entro due anni dall’assunzione il lavoratore, qualunque sia la sua età, senza fornire il minimo motivo. All’inizio dell’inverno, ha creduto che poteva fare lo stesso per il CPE, estendendo a tutte le imprese, pubbliche o private, le stesse disposizioni del CNE ma per i minori di 26 anni. Il seguito gli ha dimostrato di aver fatto un grossolano errore di valutazione poiché, come tutti i media e tutte le forze politiche della borghesia ne convengono, il governo si è messo in una situazione molto delicata. Ad essere estremamente imbarazzato non è solamente il governo ma l’insieme dei partiti politici borghesi, di destra come di sinistra, e dei sindacati che, ognuno a modo suo, rimprovera a Villepin il suo “metodo”. Del resto, quest’ultimo ha riconosciuto in parte i suoi errori affermando d “essersi pentito” del metodo adoperato. È indiscutibile che ci sia stata una carenza di abilità politica da parte del governo e particolarmente da parte del suo capo. Dalla maggior parte delle formazioni di sinistra o sindacali, quest’ultimo è presentato come “autistico”2, un personaggio “arrogante” incapace di comprendere le vere aspirazioni del “popolo”. I suoi “amici” di destra (in particolare i sostenitori del suo grande rivale per le prossime elezioni presidenziali, Nicolas Sarkozy) insistono in particolare sul fatto che, non essendo mai stato eletto (contrariamente a Sarkozy che è stato deputato e sindaco di una città importante3 per lunghi anni) evidentemente fa fatica a tessere dei legami sul territorio, con la base “popolare”. Tra le righe si lascia intendere che il suo gusto per la poesia e le belle lettere rivelano che è una specie di “dilettante”, di “amatore” in politica. Ma il rimprovero che gli si fa in modo unanime (compreso il padronato) è di non aver fatto precedere la sua proposta di legge da una consultazione degli “attori sociali” o “corpi intermediari” (secondo i termini dei sociologi mediatici), in realtà dei sindacati. Questo rimprovero gli viene mosso con molta virulenza anche dal sindacato più “moderato”, il CFDT che nel 1995 e nel 2003 aveva sostenuto gli attacchi del governo. Si può dunque dire che, nelle circostanze presenti, la destra francese ha avuto il merito di guadagnarsi la sua reputazione di “destra più stupida del mondo”. Più in generale, conviene segnalare che la borghesia francese, in un certo senso, dimostra ancora una volta (e paga anche) la sua mancanza di padronanza del gioco politico che l’ha condotta agli “incidenti” elettorali come quello del 1981 e del 2002. Nel primo caso, a causa delle divisioni della destra, la sinistra arrivò al governo in contro tendenza all’orientamento che la borghesia degli altri grandi paesi avanzati si era data di fronte alla situazione sociale (in particolare in Gran Bretagna, in Germania, in Italia o negli Stati Uniti). Nel secondo caso, la sinistra (anche lei per divisioni interne) risultò assente al secondo giro elettorale presidenziale che si giocò tra Le Pen, il capo fila dell’estrema destra, e Chirac la cui rielezione avvenne grazie ai voti di sinistra concentrati su di lui, come “male minore”. In effetti, eletto con questi voti della sinistra, Chirac aveva le mani molto meno libere di come le avrebbe avute se avesse riportato la vittoria sul leader della sinistra, Lionel Jospin. Questa mancanza di legittimità di Chirac fa parte degli elementi che spiegano la debolezza del governo di destra di fronte alla classe operaia e la sua difficoltà ad attaccarlo. Ciò detto, questa debolezza politica della destra (in generale dell’apparato politico della borghesia francese) non le ha impedito di portare a termine nel 2003 un attacco massiccio contro la classe operaia sulle pensioni. Ed in particolare, non permette di spiegare l’ampiezza della lotta attuale, soprattutto la grande mobilitazione di centinaia di migliaia di giovani futuri lavoratori, la dinamica del movimento, le forme di lotta realmente proletarie.
Un’espressione della ripresa delle lotte e dello sviluppo della coscienza della classe operaia7) Anche nel 1968 la mobilitazione degli studenti e poi il formidabile sciopero dei lavoratori (9 milioni di scioperanti per parecchie settimane - più di 150 milioni di giornate di sciopero) risultarono in parte dagli errori commessi dal regime gollista alla fine del suo regno. L’atteggiamento provocatore delle autorità nei confronti degli studenti (entrata della polizia alla Sorbona il 3 maggio per la prima volta da centinaia di anni, fermo ed arresto di parecchi studenti che avevano tentato di opporsi con la forza al suo sgombro) fu un fattore di mobilitazione di massa durante la settimana dal 3 al 10 maggio. In seguito alla repressione feroce della notte tra il 10 e l’11 maggio ed all’emozione che ne era seguita in tutta l’opinione pubblica, il governo decise di fare marcia indietro sulle due rivendicazioni studentesche, la riapertura della Sorbona e la liberazione degli studenti arrestati la settimana precedente. Questo indietreggiamento del governo e l’enorme successo della manifestazione indetta dai sindacati il 13 maggio4 determinarono una serie di scioperi spontanei nelle grandi fabbriche, come alla Renault a Cléon ed alla Sud-Aviation a Nantes. Una delle motivazioni di questi scioperi, sostenuta principalmente dai giovani operai, era che se la determinazione degli studenti che avevano alcun peso nell’economia era riuscita a fare arretrare il governo, questo sarebbe stato obbligato ad indietreggiare anche di fronte a quella degli operai che dispongono di un mezzo di pressione più potente, lo sciopero. L’esempio degli operai di Nantes e di Cléon si propagò come polvere da sparo accesa prendendo di sorpresa i sindacati. Temendo di essere completamente scavalcati, questi furono obbligati a “prendere il treno in corsa” nel giro di due giorni indicendo lo sciopero che riuscì a coinvolgere 9 milioni di operai paralizzando l’economia del paese per parecchie settimane. Tuttavia, da quel momento, bisognava essere ciechi per considerare che un movimento di tale ampiezza poteva aveva solo cause contingenti o “nazionali”. Esso corrispondeva necessariamente ad una sensibile variazione su scala internazionale del rapporto di forze tra borghesia e proletariato a favore di quest’ultimo5. Il che fu confermato un anno dopo dal “Cordobazo” del 29 maggio 1969 in Argentina6, dall’autunno caldo italiano del 1969 (battezzato anche “Maggio rampante”), poi dai grandi scioperi del Baltico de “l’inverno polacco” 1970-71 e da molti altri movimenti, meno spettacolari, ma che confermavano tutti che Maggio 1968 non era stato per niente un fulmine a cielo sereno ma traduceva la ripresa storica del proletariato mondiale dopo più di quattro decenni di controrivoluzione.
8) Anche l’attuale movimento in Francia non può spiegarsi con semplici considerazioni particolari (“gli errori” del governo Villepin) o nazionali. In realtà, esso costituisce una chiara conferma di ciò che la CCI ha messo in evidenza sin dal 2003: una tendenza alla ripresa delle lotte della classe operaia internazionale ed ad uno sviluppo della coscienza al suo interno:
“Le mobilitazioni a grande scala della primavera 2003 in Francia ed in Austria rappresentano una svolta nella lotta di classe dopo il 1989. Esse sono un primo passo significativo nel recupero della combattività operaia dopo il più lungo periodo di riflusso dal 1968”. (Revue internationale n°117,”Rapporto sulla lotta di classe”)
“A dispetto di tutte queste difficoltà, il periodo di riflusso non ha significato affatto “la fine della lotta di classe”. Gli anni 1990 sono stati intervallati da un certo numero di movimenti che mostravano che il proletariato aveva ancora riserve di combattività intatta (per esempio, nel 1992 e nel 1997). Tuttavia, nessuno di questi movimenti ha rappresentato un reale cambiamento a livello di coscienza. Da qui l’importanza dei movimenti più recenti che, sebbene non abbiano avuto l’impatto spettacolare come quello del 1968 in Francia, rappresentano tuttavia una svolta nel rapporto di forza tra le classi. Le lotte del 2003-2005 hanno presentato le seguenti caratteristiche:
- hanno coinvolto settori significativi della classe operaia nei paesi del cuore del capitalismo mondiale (come in Francia nel 2003);
- hanno manifestato una preoccupazione per questioni più esplicitamente politiche; in particolare la questione delle pensioni pone il problema del futuro che la società capitalista riserva a tutti noi (…);
- la questione della solidarietà di classe è stata posta in modo più estesa e più esplicita rispetto a qualsiasi momento delle lotte degli anni 1980, in particolare nei recenti movimenti in Germania;
- esse sono state corredate dall’apparizione di una nuova generazione di elementi alla ricerca di chiarezza politica. Questa nuova generazione si è manifestata sia nel nuovo flusso di elementi apertamente politicizzati sia con nuovi strati di operai che entrano in lotta per la prima volta. Come si potuto vedere in certe manifestazioni importanti, si sta forgiando il solco per l’unità tra la nuova generazione e la “generazione del 68” -sia la minoranza politica che ha ricostruito il movimento comunista negli anni 1960 e 1970, sia gli strati più larghi di operai che hanno vissuto la ricca esperienza delle lotte di classe tra il 1968 e 1989”. (Rivista Internazionale n°27, “Risoluzione sulla situazione internazionale del 16 Congresso del CCI”)
Queste caratteristiche, evidenziate all’epoca del nostro 16°Congresso, si sono manifestate pienamente nel movimento attuale degli studenti in Francia:
Il legame tra generazioni di combattenti si è stabilito spontaneamente nelle assemblee studentesche: non solo i lavoratori più vecchi, compreso i pensionati, erano autorizzati a prendere la parola nelle AG, ma erano incoraggiati a farlo, ed i loro interventi, che esprimevano la loro esperienza di lotta, erano accolti con molta attenzione e calore dalla giovane generazione7. Da parte sua, la preoccupazione per l’avvenire (e non solo per una situazione immediata) è al centro stesso della mobilitazione che ingloba dei giovani che dovranno confrontarsi con il CPE solo fra parecchi anni (anche più di 5 anni per molti liceali). Questa preoccupazione per l’avvenire si era manifestata già nel 2003 sulla questione delle pensioni dove si sono potuti vedere numerosi giovani nelle manifestazioni, cosa che era già un indice di questa solidarietà tra generazioni della classe operaia. Attualmente la mobilitazione contro la precarietà e dunque contro la disoccupazione pone in modo implicito, ed esplicito per un numero crescente di studenti e giovani lavoratori, la domanda sull’avvenire che il capitalismo riserva alla società; preoccupazione che è condivisa anche da numerosi vecchi lavoratori chi si chiedono: “Quale società lasciamo ai nostri ragazzi?” Quella della solidarietà, in particolarmente tra generazioni ma anche tra differenti settori della classe operaia, è stata una delle domande chiave del movimento:
- solidarietà degli studenti tra loro, volontà di quelli che erano alla punta del movimento, i meglio organizzati, ad andare ad appoggiare i loro compagni confrontati a situazioni difficili (sensibilizzazione e mobilitazione degli studenti più reticenti, organizzazione e tenuta delle AG, ecc.);
- appello ai lavoratori salariati mettendo avanti il fatto che l’attacco governativo colpiva tutti i settori della classe operaia;
- sentimento di solidarietà tra i lavoratori, anche se questo sentimento non è sfociato in una estensione della lotta, a parte la partecipazione alle giornate d’azione ed alle manifestazioni;
- coscienza tra molti studenti che non sono loro i più minacciati dalla precarietà (che colpisce più pesantemente i giovani non diplomati), ma che la loro lotta riguarda ancora di più i giovani più sfavoriti, particolarmente quelli che abitano le “periferie” che erano “bruciate” l’autunno scorso. Le giovani generazioni riprendono la fiaccola della lotta
9) Una delle caratteristiche maggiori del movimento attuale è che esso è costituito dalle giovani generazioni. E ciò non è affatto un caso. Da alcuni anni la CCI aveva rilevato l’esistenza in seno alle nuove generazioni di un processo di riflessione in profondità, anche se non spettacolare, che si manifestava principalmente attraverso il risveglio ad una politica comunista di un numero molto più importante rispetto a prima di giovani elementi, alcuni dei quali hanno già raggiunto le nostre fila. Essa vi vedeva la “punta dell’iceberg” di un processo di presa di coscienza che interessava larghi settori delle nuove generazioni proletarie che, presto o tardi, sarebbero state impegnate in vaste lotte:
- “La nuova generazione di ‘elementi in ricerca’, la minoranza che si avvicina alle posizioni di classe, avrà un ruolo di un’importanza senza precedenti nelle future lotte della classe che dovranno confrontarsi alle loro implicazioni politiche molto più rapidamente e profondamente rispetto a quelle del 1968-1989. Questi elementi, che esprimono già uno sviluppo lento ma significativo della coscienza in profondità, contribuiranno ad aiutare l’estensione di massa della coscienza in tutta la classe”.(Revue internationale n°113, “Risoluzione sulla situazione internazionale del 15° Congresso della CCI”). Il movimento attuale degli studenti in Francia esprime l’emergere di questo processo sotterraneo iniziato da qualche anno. È il segno che il grosso dell’impatto delle campagne ideologiche orchestrate dal 1989 sulla “fine del comunismo”, “la scomparsa della lotta di classe” (cioè della classe operaia) è ora dietro di noi. All’indomani della ripresa storica del proletariato mondiale, a partire dal 1968, constatavamo che:
- “Il proletariato attuale è differente da quello tra le due guerre. Da una parte, come l’insieme dei pilastri dell’ideologia borghese, le mistificazioni che hanno nel passato schiacciato la coscienza proletaria si sono in parte esaurite progressivamente: il nazionalismo, le illusioni democratiche, l’anti-fascismo, utilizzate intensamente per mezzo secolo, non hanno più l’impatto di ieri. Dall’altra, le nuove generazioni operaie non hanno subito le sconfitte delle precedenti. I proletari che oggi si confrontano con la crisi, se non hanno l’esperienza dei loro genitori, non sono tuttavia prostrati nella stessa demoralizzazione. La formidabile reazione che, fin dal 1968-69, la classe operaia ha opposto alle prime manifestazioni della crisi significa che la borghesia oggi non è in grado di imporre la sola uscita che essa possa trovare per questa crisi: un nuovo olocausto mondiale. Prima deve poter vincere la classe operaia: la prospettiva attuale non è dunque la guerra imperialistica ma la guerra di classe generalizzata”(Manifesto della CCI, adottato al suo 1°Congresso nel gennaio 1976). All’epoca del nostro 8°Congresso, tredici anni più tardi, il rapporto sulla situazione internazionale completava questa analisi nei seguenti termini:
“Era necessario che le generazioni colpite dalla controrivoluzione dagli anni 30 ai 60 cedessero il posto a quelle che non l’avevano conosciuta, affinché il proletariato mondiale trovasse la forza di superarla. In modo simile (sebbene bisogna relativizzare un tale paragone sottolineando che tra le generazioni del 68 e le precedenti c’era stata una rottura storica, mentre tra le generazioni successive vi è stata continuità) la generazione che farà la rivoluzione non potrà essere quella che ha compiuto l’essenziale compito storico di aver aperto al proletariato mondiale una nuova prospettiva dopo la controrivoluzione più profonda della sua storia”. Alcuni mesi più tardi, il crollo dei regimi sedicenti “socialisti” e l’importante riflusso che questo avvenimento provocò nella classe operaia doveva concretizzare questa previsione. In realtà, fatte salve le dovute proporzioni, la ripresa attuale della lotta di classe può avere lo stesso valore della ripresa storica del 1968 dopo 40 anni di contro-rivoluzione: le generazioni che hanno subito la sconfitta e soprattutto la terribile pressione delle mistificazioni borghesi non potevano più animare un nuovo episodio di scontro tra classi. Nei fatti, a riprende oggi per prima la fiaccola della lotta è una generazione che non è stata colpita direttamente da esse perché durante queste campagne stava ancora alla scuola elementare.
La coscienza, ben più profonda di quella del 68, d’appartenere alla classe operaia
10) Il paragone tra le mobilitazioni studentesche di oggi in Francia e gli avvenimenti del maggio ‘68 permette di distinguere un certo numero di caratteristiche importanti del movimento attuale. La maggioranza degli studenti in lotta l’afferma attualmente con molta chiarezza: “la nostra lotta è differente da quella del Maggio 68”. Questo è completamente giusto, ma bisogna capire perché. La prima differenza, che è fondamentale, consiste nel fatto che il movimento del Maggio 1968 si è prodotto agli inizi della crisi aperta dell’economia capitalista mondiale, mentre questa dura ormai da quasi quattro decenni, con un forte aggravamento a partire dal 1974. Dal 1967 si assisteva ad un aumento del numero di disoccupati in parecchi paesi, particolarmente in Germania ed in Francia, il che costituiva una delle basi dell’inquietudine che cominciava ad emergere tra gli studenti ed anche del malcontento che costrinse la classe operaia ad impegnarsi nella lotta. Il numero dei disoccupati in Francia oggi è 10 volte più elevato di quello del maggio 68 e questa disoccupazione di massa (ufficialmente dell’ordine del 10% della popolazione attiva), dura già da parecchi decenni. Ne risulta tutta una serie di differenze. Anche se i primi danni della crisi hanno costituito uno degli elementi all’origine della collera studentesca nel 68, questi oggi non si presentano affatto negli stessi termini. All’epoca non c’era un pericolo maggiore di disoccupazione o di precarietà alla fine degli studi. L’inquietudine principale della gioventù studentesca di allora era di non poter oramai accedere allo stesso status sociale della generazione precedente di laureati. In effetti, la generazione del 68 fu la prima a doversi confrontare, con una certa brutalità, al fenomeno di “proletarizzazione dei quadri” studiato abbondantemente dai sociologi dell’epoca. Questo fenomeno era iniziato qualche anno prima, prima ancora che si manifestasse apertamente la crisi, in seguito al sensibile aumento del numero di studenti nelle università. Questo aumento derivava dai bisogni dell’economia, ma anche dalla volontà e dalla possibilità della generazione dei loro genitori (che aveva subito con la Seconda Guerra mondiale un periodo di privazioni considerevoli) di permettere ai propri figli di raggiungere una situazione economica e sociale superiora alla propria. Questa “massificazione” della popolazione studentesca aveva provocato da alcuni anni un malessere crescente risultante dalla permanenza in seno all’università di strutture e pratiche, in particolare un forte autoritarismo, ereditate da un tempo in cui solo un’elite poteva frequentarla,. Un’altra componente del malessere del mondo studentesco, che si fece sentire a partire dal 1964 negli Stati Uniti, fu la guerra del Vietnam che offuscava il mito del ruolo “civilizzatore” delle grandi democrazie occidentali e favoriva nei settori significativi della gioventù universitaria un’infatuazione per i temi terzomondisti - guevaristi o maoisti. Questi temi erano alimentati dalle teorie di “pensatori” “pseudo-rivoluzionari”, come Herbert Marcuse il quale annunciava “l’integrazione della classe operaia” e la nascita di nuove forze “rivoluzionarie” quali le “minoranze oppresse” (i neri, le donne, ecc.), i contadini del Terzo Mondo, e … gli studenti. Numerosi studenti di questo periodo si consideravano “rivoluzionari” proprio come consideravano “rivoluzionari” personaggi come Che Guevara, Ho Chi Min o Mao. Infine, una delle componenti della situazione dell’epoca era il divario molto importante tra le nuove generazioni e quella dei propri genitori verso cui erano rivolte molteplici critiche. In particolare, poiché questa generazione aveva lavorato duro per uscire dalla miseria e dalla fame, causate dalla Seconda Guerra mondiale, le era rimproverato di preoccuparsi solo del benessere materiale. Da qui il successo delle fantasie sulla “società di consumo” e di slogan come il “rifiuto del lavoro”. Figlia di una generazione che aveva subito con forza la controrivoluzione, la gioventù degli anni 60 le rimproverava il suo conformismo e la sua sottomissione all’esigenze del capitalismo. Reciprocamente, molti genitori non comprendevano e facevano fatica ad accettare il fatto che i loro figli trattavano con disprezzo i sacrifici che facevano per dare loro una situazione economica migliore della propria.
11) Il mondo di oggi è ben differente da quello del 68 e la situazione della gioventù studentesca attuale ha poco a che vedere con quella degli anni “sessanta”:
- Non è semplicemente l’inquietudine verso un deterioramento del loro futuro stato che assilla la maggior parte degli studenti di oggi. Proletari essi lo sono già per una buona metà che è costretta a lavorare per potersi pagare degli studi e non si fanno troppe illusioni su stupefacenti condizioni sociali che li aspetterebbero alla fine di questi. Soprattutto sanno che alla fine il diploma gli darà il “diritto” di raggiungere la condizione proletaria sotto una delle forme più drammatiche, la disoccupazione e la precarietà, l’invio di centinaia di CV senza risposta e le file di attesa alle agenzie di lavoro, e che il loro accesso ad un impiego un poco più stabile, dopo tutto un periodo di “galera” intervallato da stage non pagati e da contratti a durata determinata, si effettuerà in molti casi con posti che hanno poco a che vedere con la loro formazione e le loro aspirazioni.
- In questo senso la solidarietà che provano attualmente gli studenti verso i lavoratori rivela innanzitutto che la maggior parte di essi è cosciente di appartenere allo stesso mondo, quello degli sfruttati, in lotta contro uno stesso nemico, gli sfruttatori. Questo è molto lontano dall’atteggiamento di natura piccolo-borghese degli studenti del 68 verso la classe operaia. Atteggiamento che manifestava una certa condiscendenza nei riguardi di quest’ultima mescolata ad un fascino verso questo essere mitico, l’operaio in tuta blu, eroe delle letture male assimilate dei classici marxisti, quando non erano di autori che hanno poco a che vedere col marxismo, stalinisti o cripto-stalinisti. La moda fiorita dopo il 68 secondo tra quegli intellettuali che scelsero di andare a lavorare in fabbrica per “toccare con mano la classe operaia”, è lontana da noi.
- È anche per questo che temi come la “società dei consumi”, anche se vengono ancora agitati da qualche nostalgico anarchicheggiante, non hanno nessuna eco nella lotta degli studenti. Quanto alla formula del rifiuto del lavoro” del “non lavorare mai”, questa non è più un progetto “radicale” ma una terribile ed angosciosa minaccia.
12) Paradossalmente, è sempre per questi motivi che i temi “radicali” o “rivoluzionari” sono molto poco presenti nelle discussioni e nelle preoccupazioni degli studenti di oggi. Mentre quelli del 68 trasformarono molte facoltà in fori permanenti di dibattito sulla questione della rivoluzione, dei consigli operai, ecc., la maggioranza delle discussioni che si tengono oggi nelle università vertono intorno a questioni più “terra-terra”, come il CPE e le sue implicazioni, la precarietà, le modalità di lotta (blocchi, assemblee generali, coordinamenti, manifestazioni, ecc.). Tuttavia, la polarizzazione intorno al ritiro del CPE che manifesta apparentemente un’ambizione meno “radicale” di quella degli studenti del 68, non significa affatto una minore profondità del movimento attuale rispetto a quello di 38 anni fa. Proprio il contrario. Le preoccupazioni “rivoluzionarie” degli studenti del 68 (in realtà della minoranza che costituiva “l’avanguardia del movimento”) erano indiscutibilmente sincere ma molto segnate dal terzo-mondismo, dal guevarismo, dal maoismo, se non dall’anti-fascismo. Nella migliore delle ipotesi, se così si può dire, erano di natura anarchicheggiante (sulla scia di Cohn-Bendit) o situazioniste. Quando non si trattava di semplici appendici “radicali” dello stalinismo, quello che predominava era una visione romantica piccolo-borghese della rivoluzione. Ma qualunque fossero state le correnti che ostentavano idee “rivoluzionarie”, di natura borghese o piccola-borghese, nessuno di esse aveva la minima idea del processo reale di sviluppo del movimento della classe operaia verso la rivoluzione, ed ancor meno del significato degli scioperi operai di massa come prima manifestazione dell’uscita dal periodo di contro-rivoluzione8. Oggi, le preoccupazioni “rivoluzionarie” non sono ancora presenti in modo significativo nel movimento ma la sua natura di classe incontestabile ed il terreno su cui si fa la mobilitazione (il rifiuto di un futuro di sottomissione alle esigenze ed alle condizioni dello sfruttamento capitalista: la disoccupazione, la precarietà, l’arbitrarietà dei padroni, ecc.), sono portatori di una dinamica che, necessariamente, indurrà in tutta una frangia dei partecipanti alle lotte attuali una presa di coscienza della necessità del capovolgimento del capitalismo. E questa presa di coscienza non sarà basata su delle chimere come quelle che prevalsero nel 68 e che permisero un “riciclaggio” dei leader del movimento nell’apparato politico ufficiale della borghesia (i ministri Bernard Kouchner e Joshka Fischer, il senatore Henri Weber, il porta parola dei verdi al Parlamento europeo Daniele Cohn-Bendit, l’editore Serge July, ecc.) quando non portarono al tragico vicolo cieco del terrorismo (“Brigate rosse” in Italia, “Frazione armata rossa” in Germania, “Azione diretta” in Francia). Al contrario, questa presa di coscienza si svilupperà a partire dalla comprensione delle condizioni fondamentali che rendono la rivoluzione proletaria necessaria e possibile: la crisi economica insormontabile del capitalismo mondiale, il vicolo cieco storico di questo sistema, la necessità di concepire le lotte proletarie di resistenza contro gli attacchi crescenti della borghesia come altrettanti preparativi in vista del capovolgimento finale del capitalismo. Nel 1968 il rapido rifiorire delle preoccupazioni “rivoluzionarie” era in grande parte il segno della superficialità e della mancanza di consistenza teorico-politica corrispondente alla natura fondamentalmente piccolo-borghese del movimento studentesco. Il processo di radicalizzazione delle lotte della classe operaia, anche se può conoscere in certi momenti delle accelerazioni sorprendenti, è un fenomeno molto più lungo, proprio perché è incomparabilmente più profondo. Come diceva Marx, “essere radicale, significa andare alla radice delle cose”, e questo è un percorso che richiede necessariamente del tempo e si basa sulla capitalizzazione di tutta un’esperienza di lotte. La capacità di evitare la trappola della violenza cieca montante provocata dalla borghesia
13) In effetti, non è nella “radicalità” degli obiettivi, né nelle discussioni prodotte che si manifesta la profondità del movimento degli studenti. Tale profondità è data dalle questioni di fondo che la rivendicazione del ritiro del CPE pone implicitamente: l’avvenire di precarietà e di disoccupazione che il capitalismo in crisi riserva alle giovani generazioni e che segna il fallimento storico di questo sistema. Ma ancor più questa profondità si esprime attraverso i metodi e l’organizzazione della lotta di cui abbiamo parlato ai punti 2 e 3: le assemblee generali viventi, aperte, disciplinate, che manifestano una preoccupazione di riflessione e di presa in carico collettiva del movimento, la nomina di commissioni, comitati di sciopero, delegazioni responsabili di fronte alle AG, la volontà di estensione della lotta verso l’insieme dei settori della classe operaia. Ne “La guerra civile in Francia” Marx segnala che il carattere veramente proletario della Comune di Parigi non si esprime tanto attraverso le misure economiche che ha adottato (la soppressione del lavoro di notte dei bambini e la moratoria sulle pigioni) ma attraverso i mezzi ed il modo di organizzazione che essa si è data. Quest’analisi di Marx risponde per intero alla situazione attuale. L’aspetto più importante nelle lotte che pone la classe sul suo terreno non risiede tanto negli obiettivi contingenti che essa può darsi in questo o quel momento, e che saranno superati nelle tappe ulteriori del movimento, ma nella sua capacità a prendere pienamente in mano queste lotte e dunque nei metodi che essa si dà per appropriarsi di queste. Sono questi mezzi e metodi della sua lotta ad essere i migliori garanti della dinamica e della capacità della classe ad avanzare nel futuro. E’ questa una delle insistenze maggiori del libro di Rosa Luxemburg Scioperi di massa, partito e sindacati, che trae le lezioni dalla rivoluzione del 1905 in Russia. In realtà, precisando che il movimento attuale è ben al di qua di quello del 1905 dal punto di vista della sua posta in gioco politica, bisogna sottolineare che i mezzi che si è dato sono, in modo embrionale, quelli dello sciopero di massa, quale si è espresso in particolare nell’agosto 1980 in Polonia.
14) La profondità del movimento degli studenti si esprime anche nella sua capacità a non cadere nella trappola della violenza che la borghesia gli ha teso a più riprese utilizzando e manipolando anche i “casseurs”9: occupazione poliziesca della Sorbona, trappola alla fine della manifestazione del 16 marzo, cariche poliziesche alla fine di quella del 18 marzo, violenze dei “casseurs” contro i manifestanti del 23 marzo. Anche se una piccola minoranza di studenti, principalmente quelli influenzati da ideologie anarchicheggianti, si sono lasciati tentare a scontrarsi con le forze di polizia, la grande maggioranza di essi si è preoccupata di non lasciare frammentare e distruggere il movimento in scontri a ripetizione con le forze di repressione. In questo senso il movimento attuale degli studenti ha dato prova di una maturità ben più grande rispetto a quello del 1968. La violenza - scontri con i corpi di polizia (CRS) e barricate- aveva costituito, tra il 3 maggio ed il 10 maggio 68, una delle componenti del movimento che, in seguito alla repressione della notte tra il 10 e l’11 e alle tergiversazioni del governo, aveva aperto le porte all’immenso sciopero della classe operaia. Ciò detto, nel prosieguo del movimento, le barricate e le violenze divennero uno degli elementi che permise alle differenti forze della borghesia (governo ed sindacati) di riprendere in mano le redini della situazione, in particolare minando la grande simpatia acquisita in un primo tempo dagli studenti nell’insieme della popolazione e soprattutto nella classe operaia. Per i partiti di sinistra e per i sindacati divenne facile mettere su uno stesso piano quelli che parlavano della necessità della rivoluzione e quelli che bruciavano automobili e si scontravano continuamente con i CRS. Tanto più che spesso, in realtà, erano gli stessi. Per gli studenti, che si credevano “rivoluzionari”, il movimento del Maggio 68 era già la Rivoluzione e le barricate che si erigevano giorno dopo giorno erano presentate come le eredi di quelle del 1848 e della Comune. Oggi, anche quando ci si pone la domanda delle prospettive generali del movimento, e dunque della necessità della rivoluzione, gli studenti sono molto coscienti del fatto che non sono gli scontri con le forze di polizia che fanno la forza del movimento. In effetti, anche se è ancora molto lontano dal porsi la questione della rivoluzione e dunque dal riflettere sul problema della violenza di classe del proletariato nella sua lotta per il capovolgimento del capitalismo, il movimento è stato confrontato implicitamente a questo problema ed ha saputo dargli una risposta nel senso della lotta e della natura del proletariato. Quest’ultimo è stato confrontato fin dall’inizio con la violenza estrema della classe sfruttatrice, con la repressione quando ha provato a difendere i suoi interessi, con la guerra imperialista ed anche con la violenza quotidiana dello sfruttamento. Contrariamente alle classi sfruttatrici, la classe portatrice del comunismo non porta in sé violenza, ed anche se non può fare a meno di usarla non deve mai identificarsi con essa. In particolare, la violenza di cui dovrà dare prova per rovesciare il capitalismo e di cui dovrà servirsi con determinazione, è necessariamente una violenza cosciente ed organizzata e dunque deve essere preceduta da tutto un processo di sviluppo della sua coscienza e della sua organizzazione attraverso le differenti lotte contro lo sfruttamento. La mobilitazione attuale degli studenti, proprio per la sua capacità ad organizzarsi ed ad affrontare in modo riflessivo i problemi che le sono posti, compreso quello della violenza, è molto più vicina alla rivoluzione, al capovolgimento violento dell’ordine borghese rispetto a quello delle barricate del Maggio 1968.
15) E’ proprio la questione della violenza che costituisce uno degli elementi essenziali che permette di sottolineare la differenza fondamentale tra le sommosse delle periferie dell’autunno 2005 ed il movimento degli studenti della primavera 2006. All’origine dei due movimenti c’è evidentemente un causa comune: la crisi insormontabile del modo di produzione capitalista, l’avvenire di disoccupazione e di precarietà che questa riserva ai figli della classe operaia. Tuttavia, le sommosse delle periferie, che hanno espresso fondamentalmente una disperazione completa di fronte a questa situazione, non possono in nessuno modo essere considerate come una forma, anche approssimativa, di lotta di classe. In particolare, le componenti essenziali dei movimenti del proletariato, la solidarietà, l’organizzazione, la presa in mano collettiva e cosciente della lotta, sono state totalmente assenti in queste sommosse. Nessuna solidarietà dei giovani esasperati verso i proprietari delle automobili che bruciavano e che erano quelle dei loro vicini, loro stessi proletari, vittime della disoccupazione e della precarietà. Ben poca coscienza da parte di questi ribelli, spesso molto giovani, la cui violenza e le cui distruzioni si esercitavano in modo cieco, e spesso sotto forma di gioco. In quanto all’organizzazione ed all’azione collettiva, queste prendevano la forma di bande di quartiere dirette da un piccolo “capobanda” (che spesso traeva la sua autorità dal fatto di essere il più violento della banda) che facevano a gara a chi bruciava più automobili. In realtà, l’approccio dei giovani insorti nell’ottobre-novembre 2005 non solo si presta ad essere facile preda per ogni tipo di manipolazione poliziesca, ma ci da una prova di come gli effetti della decomposizione della società capitalista possono costituire un ostacolo allo sviluppo della lotta e della coscienza del proletariato.
La persuasione di fronte ai giovani delle periferie
16) Nel corso del movimento attuale le bande dei “duri” hanno ripetutamente approfittato delle manifestazioni per recarsi al centro dalle città dedicandosi al loro sport favorito: “dagli addosso agli sbirri” e “rompere le vetrine”, e ciò con grande soddisfazione dei media stranieri che si erano già distinti alla fine 2005 per le loro immagini shock in prima pagina dei giornali ed in televisione. È chiaro che le immagini delle violenze che, durante tutto un periodo, sono state le uniche presentate ai proletari al di fuori della Francia, hanno costituito un eccellente mezzo per rafforzare il blackout su ciò che accadeva realmente in questo paese, privando la classe operaia mondiale di elementi che potevano contribuire alla sua presa di coscienza. Ma non è solamente nei confronti del proletariato degli altri paesi che sono state sfruttate le violenze delle bande dei “duri”. Nella stessa Francia, in un primo tempo, sono state utilizzate per tentare di presentare la lotta degli studenti come una specie di “prosieguo” delle violenze dell’autunno scorso. Fatica sprecata: nessuno ha creduto ad una tale favola ed è per questo motivo che il Ministro degli Interni, Sarkozy, ha cambiato velocemente atteggiamento dichiarando di essere consapevole della chiara differenza tra gli studenti ed i “teppisti”. Le violenze sono state allora esaltate per tentare di dissuadere la maggior parete dei lavoratori, e naturalmente studenti universitari e liceali, a partecipare alle manifestazioni, specialmente a quella del 18 marzo. La partecipazione eccezionale a questa manifestazione ha dimostrato che queste manovre non funzionavano. Alla fine, il 23 marzo, è con la benedizione delle forze di polizia che i “casseur” hanno aggredito i manifestanti per rapinarli, o semplicemente per pestarli senza ragione. Molti studenti sono stati demoralizzati da questi violenze: “Quando sono i CRS che ci manganellano, ciò ci dà la grinta, ma quando sono i ragazzi delle periferie per i quali anche ci si batte, ciò costituisce un colpo al morale”. Tuttavia, anche su questo gli studenti hanno dimostrato la loro maturità e la loro coscienza. Piuttosto che provare ad organizzare delle azioni violente contro i giovani “casseurs”, come è stato fatto dai servizi d’ordine sindacale che durante la manifestazione del 28 marzo li hanno spinti verso le forze di polizia a forza di manganello, hanno deciso in parecchi luoghi di eleggere delle delegazioni con il mandato di andare a discutere con i giovani dei quartieri periferici, in particolare per spiegare loro che la lotta degli studenti era anche a favore di questi giovani immersi nella disperazione della disoccupazione di massa e dell’esclusione. È in modo intuitivo, senza conoscenza delle esperienze della storia del movimento operaio, che la maggioranza degli studenti ha messo in pratica uno degli insegnamenti essenziali che emerge da queste esperienze: nessuna violenza all’interno della classe operaia. Di fronte ai settori del proletariato che possono lasciarsi trascinare in azioni contrarie ai suoi interessi generali, la persuasione e l’appello alla coscienza costituisce il mezzo essenziale d’azione nei loro confronti, dal momento che questi settori non sono appendici dello Stato borghese (come i commando che vanno a sabotare gli scioperi).
Un’esperienza insostituibile per la politicizzazione delle giovani generazioni
17) Une delle ragioni della grande maturità del movimento attuale, particolarmente nei confronti della questione della violenza, sta nella forte partecipazione delle studentesse universitarie e delle liceali in questo movimento. È noto che a quest’età le ragazze hanno generalmente una maggiore maturità rispetto ai loro compagni di sesso maschile. Inoltre, per quanto riguarda la questione della violenza, le donne si lasciano in genere meno facilmente trascinare su questo terreno rispetto agli uomini. Anche nel 1968 le studentesse hanno partecipato al movimento, ma quando la barricata è diventata il simbolo di questo, il ruolo che è stato loro affidato è stato spesso quello di sostegno agli “eroi” che stavano sulle barricate, di infermiere per quelli che erano feriti e di portatrici di panini per farli ristorare tra uno scontro con i CRS e l’altro. Niente di tutto questo nel movimento di oggi. Nei “blocchi” alle porte delle università, le studentesse sono numerose ed il loro atteggiamento è significativo del senso che il movimento ha dato finora a questi picchetti: non il “bastone” nei confronti di coloro che vogliono seguire i corsi, ma la spiegazione, l’argomentazione e la persuasione. Nelle assemblee generali e nelle differenti commissioni, anche se spesso non sono “grandi oratrici” e sono meno impegnate nelle organizzazioni politiche rispetto ai ragazzi, le studentesse costituiscono un elemento di prim’ordine nell’organizzazione, la disciplina e l’efficacia di queste così come nella capacità di riflessione collettiva. La storia delle lotte del proletariato ha messo in evidenza che la profondità di un movimento poteva essere valutata in parte dalla proporzione delle operaie che vi venivano coinvolte. In “tempi normali” le donne proletarie, poiché subiscono un’oppressione ancora più soffocante dei proletari maschi, sono in linea di massima meno coinvolte rispetto a quest’ultimi nei conflitti sociali. È solamente al momento in cui questi conflitti raggiungono una grande profondità, che gli strati più oppressi del proletariato, particolarmente le operaie, si lanciano nella lotta e la riflessione di classe. La grande partecipazione delle studentesse universitarie e liceali nel movimento attuale, il ruolo di primo piano che giocano, costituiscono non solo un indizio supplementare della sua natura autenticamente proletaria, ma anche della sua profondità.
18) Come abbiamo visto, il movimento attuale degli studenti in Francia costituisce un’espressione di primo piano della nuova vitalità del proletariato mondiale da tre anni a questa parte, una nuova vitalità ed una maggiore capacità di presa di coscienza. La borghesia farà evidentemente tutto il possibile per limitare al massimo l’impatto di questo movimento per l’avvenire. Se ne ha i mezzi, cercherà di non cedere sulle sue rivendicazioni principali per mantenere nella classe operaia in Francia il sentimento di impotenza che è riuscita ad imporle nel 2003. Ad ogni modo, si adopererà affinché la classe operaia non tragga le ricche lezioni da questo movimento, in particolare provocando un deterioramento del lotta (che è un fattore di demoralizzazione) o un recupero attraverso i sindacati ed i partiti di sinistra. Tuttavia, qualunque siano le manovre della borghesia, questa classe non potrà sopprimere tutta l’esperienza accumulata durante le settimane dalle decine di migliaia dei futuri lavoratori, il loro risveglio alla politica e la loro presa di coscienza. È questo il vero tesoro per le lotte future del proletariato, un elemento di primo piano della loro capacità a proseguire il cammino verso la rivoluzione comunista. E’ compito dei rivoluzionari partecipare pienamente, tanto nel far fruttare l’esperienza presente che al suo utilizzo nelle lotte future.
CCI (3 aprile 2004)
1. Al fine di permettere alla lotta di avere il maggiore potere ed unità possibili, gli studenti hanno avuto la necessità di costituire un “coordinamento nazionale” di delegati delle differenti assemblee. In sé il fatto è assolutamente corretto. Tuttavia, nella misura in cui una buona parte dei delegati è costituita da elementi di organizzazioni politiche borghesi (come la “Lega comunista rivoluzionaria”, trotskista) che sono presenti nel mondo studentesco, le riunioni settimanali del coordinamento sono state spesso il teatro di manovre politiche di queste organizzazioni che hanno tentato in particolare, finora senza successo, di costituire un “Bureau del Coordinamento” che sarebbe diventato uno strumento della loro politica. Come spesso abbiamo riportato negli articoli della nostra stampa (in particolare durante gli scioperi in Italia del 1987 e durante lo sciopero degli ospedalieri in Francia del 1988) la centralizzazione, che è una necessità in una lotta di grande ampiezza, non può contribuire realmente allo sviluppo del movimento se non si basa su un alto grado di gestione di quest’ultimo e di vigilanza alla base, nelle assemblee generali. Bisogna anche notare che un’organizzazione come la LCR ha tentato di dare al movimento degli studenti dei “porta voce” presso i media. Il fatto che non sia apparso alcuno “leader” mediatico del movimento non è un segno di debolezza ma al contrario della sua grande profondità.
2. Abbiamo anche potuto ascoltare alla televisione uno “specialista” della psicologia dei politici dichiarare che questi faceva parte della categoria degli “ostinati narcisistici”.
3. Bisogna precisare che il comune in questione è Neuilly-su-Seine, il simbolo delle città a popolazione borghese. Non è certamente con i suoi elettori che Sarkozy ha imparato a “parlare al popolo”.
4. Questa era una data simbolica poiché segnava il decimo anniversario del colpo di Stato del 13 maggio 1958 che aveva visto il ritorno di De Gaulle al potere. Uno dei principali slogan della manifestazione era “Dieci anni, basta così!”
5. Così, nel gennaio 1968, la nostra pubblicazione Internacionalismo del Venezuela, la sola pubblicazione della nostra corrente esistente all’epoca, annunciava l’inizio di un nuovo periodo di scontri di classe a scala internazionale: “non siamo dei profeti, e non pretendiamo di indovinare quando ed in che modo si svolgeranno gli avvenimenti futuri. Ma quello di cui siamo effettivamente sicuri e coscienti per quanto riguarda il processo in cui è immerso il capitalismo attualmente, è che non è possibile fermarlo con le riforme, le svalutazioni, né con altri tipi di misure economiche capitaliste e che esso conduce direttamente alla crisi. E siamo anche sicuri che il processo inverso di sviluppo della combattività della classe, che attualmente viviamo in modo generale, condurrà la classe operaia ad una lotta sanguinosa e diretta per la distruzione dello Stato borghese”.
6. In quel giorno, dopo tutta una serie di mobilitazioni nelle città operaie contro i violenti attacchi economici e la repressione della giunta militare, gli operai di Cordoba riuscirono a scavalcare completamente le forze di polizia e l’esercito (pertanto equipaggiati di carri armati) e si impadronirono della città, la seconda del paese. Il governo poté “ristabilire l’ordine” solo l’indomani grazie all’invio massiccio dell’esercito.
7. Siamo ben lontano dall’atteggiamento di molti studenti del 1968 che consideravano i loro genitori come “vecchi coglioni”, mentre quest’ultimi li trattavano spesso da “piccoli coglioni”).
8. Vale la pena segnalare che questa cecità sul significato vero del Maggio 1968 non colpiva solo le correnti di estrazione stalinista o trotskista per le quali, evidentemente, non c’era stata controrivoluzione ma una progressione della “rivoluzione” con la comparsa, in seguito alla Seconda Guerra mondiale, di tutta una serie di Stati “socialisti” o “operai degenerati” e con le “lotte di liberazione nazionale” che erano iniziate nello stesso periodo e che si sono prolungate per parecchi decenni. In effetti, la maggior parte delle correnti ed elementi che si ricongiungevano alla Sinistra comunista, ed in particolare alla Sinistra italiana, non hanno compreso gran che di ciò che accadeva nel 68 poiché, ancora oggi, tanto per i bordighisti che per Battaglia comunista non siamo ancora usciti della controrivoluzione.
9. Letteralmente coloro che rompono, distruggono.
Il 4 maggio e i giorni seguenti si commemora il 70° anniversario dei tragici avvenimenti del maggio 1937 in cui il governo della Repubblica – con la complicità diretta dei dirigenti della CNT e del POUM (1) – hanno massacrato gli operai di Barcellona che si erano sollevati, esasperati da uno sfruttamento brutale accresciuto dallo “sforzo” di guerra. Noi pensiamo che un grande dibattito sia oggi indispensabile per tirare le lezioni di questi avvenimenti e per fornire dei contributi; riproduciamo qui di seguito l’articolo d’intervento che i nostri predecessori, la Sinistra Comunista d’Italia e del Belgio, avevano pubblicato in questa occasione nella rivista Bilan (1933-1938). Noi speriamo così di suscitare un dibattito sincero e aperto che vada fino al fondo delle cose, che permetta alle generazioni attuali della classe operaia di tutti i paesi che non hanno vissuto questa tragedia di rafforzarsi nella loro lotta contro un capitalismo ogni volta più barbaro e inumano.
Corrente Comunista Internazionale (1° maggio 2007)
Proletari!
Il 19 luglio 1936, i proletari di Barcellona, a mani nude, hanno annientato l’attacco dei battaglioni di Franco, armati fino ai denti.
Il 4 maggio 1937, questi stessi proletari, muniti di armi, lasciano per terra molte più vittime che a luglio, quando si trattava di respingere Franco, ed è il governo antifascista – che comprende componenti anarchiche e che gode anche di un appoggio del POUM – che scatena la feccia delle forze repressive contro gli operai.
Proletari!
Il 19 luglio 1936, i proletari di Barcellona sono una forza invincibile. La loro lotta di classe, libera da legami con lo stato borghese, si ripercuote all’interno dei reggimenti di Franco, li disgrega e risveglia nei soldati l’istinto di classe: è lo sciopero che arresta i fucili e i cannoni di Franco e che blocca la sua offensiva.
La storia non registra che intervalli fuggitivi nel corso dei quali il proletariato può acquistare la sua completa autonomia di fronte allo stato capitalista. Qualche giorno dopo il 19 luglio, il proletariato catalano arriva al crocevia: o entra nella fase superiore della sua lotta per la distruzione dello stato borghese o il capitalismo ricostituisce le maglie del suo apparato di dominio. A questo stadio della lotta in cui l’istinto di classe non è più sufficiente e quando la coscienza diventa il fattore decisivo, il proletariato non può vincere senza disporre del capitale teorico accumulato con pazienza e accanimento dalle sue frazioni di sinistra erette in partito sotto l’incalzare degli avvenimenti. Se oggi il proletariato spagnolo vive una tragedia così cupa, ciò è dovuto alla sua immaturità nel forgiare il suo partito di classe: il cervello che, solo, può dargli forza vitale.
In Catalogna, dal 19 luglio, gli operai creano spontaneamente, sul proprio terreno di classe, gli organi autonomi della loro lotta. Ma subito sorge l’angosciante dilemma: o ingaggiare a fondo la battaglia politica per la distruzione dello stato capitalista e ultimare così i successi economici e militari, o lasciare in piedi l’apparato oppressivo del nemico e permettergli allora di snaturare e di liquidare le conquiste operaie.
Le classi lottano con i mezzi che sono loro imposti dalle situazioni e dal grado di tensione sociale. Di fronte al divampare della lotta di classe, il capitalismo non può pensare di ricorrere ai metodi classici della legalità. Ciò che lo minaccia, è l’indipendenza della lotta proletaria che condiziona l’altra tappa rivoluzionaria verso l’abolizione del dominio borghese. Il capitalismo deve dunque rinnovare la trama del suo controllo sugli sfruttati. Questa trama, che prima era costituita dalla magistratura, la polizia, le prigioni, viene sostituita, nella situazione estrema di Barcellona, dai Comitati delle milizie, le industrie socializzate, i sindacati operai che gestiscono i settori fondamentali dell’economia, le pattuglie di vigilanza, ecc.
Così in Spagna, la Storia ripropone il problema che, in Italia e in Germania, si è concluso con l’annientamento del proletariato: gli operai mantengono per la propria classe gli strumenti che essi stessi creano nel fuoco della lotta finché li dirigono contro lo stato borghese. Gli operai viceversa armano i loro boia di domani se, non avendo la forza di abbattere il nemico, si lasciano ancora attirare nelle insidie del suo dominio.
La milizia operaia del 19 luglio è un organismo proletario. La “milizia proletaria” della settimana seguente è un organismo capitalista appropriato alla situazione del momento. E, per realizzare il suo piano controrivoluzionario, la borghesia può fare appello ai centristi (2), ai socialisti, alla CNT, alla FAI, al POUM che, tutti, fanno credere agli operai che lo stato cambia natura quando il personale che lo gestisce cambia colore. Dissimulato tra le pieghe della bandiera rossa, il capitalismo affila pazientemente la spada della repressione che, il 4 maggio, è preparata da tutte le forze che, il 19 luglio, avevano spezzato la spina dorsale del proletariato spagnolo.
Il figlio di Noske e della Costituzione di Weimar è Hitler; il figlio di Giolitti (3) e del “controllo della produzione” è Mussolini; il figlio del fronte antifascista spagnolo, delle “socializzazioni”, delle milizie “proletarie”, è la carneficina di Barcellona del 4 maggio 1937.
Solo il proletariato russo rispose alla ceduta dello zarismo con l'Ottobre 1917 perché solo questo giunse a costruire il suo partito di classe attraverso il lavoro delle frazioni di sinistra.
Proletari!
E’ al riparo di un governo di Fronte Popolare che Franco ha potuto preparare il suo attacco. E’ sulla via della conciliazione che Barrios ha provato, il 19 luglio, a formare un ministero unico che potesse realizzare il programma del capitalismo spagnolo, sia sotto la direzione di Franco, sia sotto la direzione mista della destra e della sinistra unite fraternamente. Ma è la rivolta operaia di Barcellona, di Madrid, delle Asturie, che obbliga il capitalismo a sdoppiare il suo ministero, a dividere le funzioni tra l’agente repubblicano e l’agente militare legati da una indissolubile solidarietà di classe.
Dove Franco non è riuscito a imporre subito la sua vittoria, il capitalismo chiama gli operai a seguirlo per “sconfiggere il fascismo”. Sanguinoso tranello che questi hanno pagato con migliaia di cadaveri per aver creduto di poter, sotto la direzione del governo repubblicano, annientare il figlio legittimo del capitalismo: il fascismo. E sono partiti per le colline d’Aragona, per le montagne di Guadarrama, delle Asturie, per la vittoria della guerra antifascista.
Ancora una volta, come nel 1914, è con l’ecatombe del proletariato che la Storia sottolinea sanguinosamente l’irriducibile opposizione tra borghesia e proletariato.
I fronti militari: una necessità imposta dalla situazione? No! Una necessità del capitalismo per accerchiare e sconfiggere gli operai! Il 4 maggio 1937 dimostra chiaramente che dopo il 19 luglio il proletariato doveva combattere tanto contro Companys e Giral quanto contro Franco. I fronti militari non potevano che scavare la fossa agli operai perché rappresentavano il fronte della guerra del capitalismo contro il proletariato. A questa guerra i proletari spagnoli – sull’esempio dei loro fratelli russi del 1917 - non potevano rispondere che sviluppando il disfattismo rivoluzionario in entrambi i campi della borghesia: tanto il repubblicano quanto il “fascista”, e trasformando la guerra capitalista in guerra civile per la totale distruzione delle stato borghese.
La frazione italiana di sinistra è stata sostenuta, nel suo tragico isolamento, solo dalla solidarietà della corrente della Ligue des communistes internationalistes de Belgique che fonda ora la Frazione Belga della sinistra comunista internazionale. Soltanto queste due correnti hanno dato l’allarme quando, dappertutto, si proclamava la necessità di salvaguardare le conquiste della rivoluzione, di battere Franco per meglio sconfiggere in seguito Caballero.
Gli ultimi avvenimenti di Barcellona confermano tragicamente la nostra tesi iniziale e mostrano che è con una crudeltà che uguaglia quella di Franco che il Fronte Popolare, appoggiato da anarchici e dal POUM, si è gettato sugli operai insorti del 4 maggio.
Le vicissitudini delle battaglie militari sono state altrettante occasioni per il Governo repubblicano per serrare ancor più il suo controllo sugli sfruttati. In assenza di una politica proletaria di disfattismo proletario, i successi così come le sconfitte militari dell’esercito repubblicano hanno finito per essere le tappe della sanguinosa sconfitta di classe degli operai: a Badajoz, Irun, San Sebastián, la Repubblica del Fronte popolare apporta il suo contributo al massacro concertato del proletariato rinsaldando i legami dell’Union Sacrée perché, per vincere la guerra antifascista, occorre un esercito disciplinato e centralizzato. La resistenza di Madrid, viceversa, facilita l’offensiva del Fronte popolare che può sbarazzarsi del suo valletto di ieri, il POUM, e preparare così l’attacco del 4 maggio. La caduta di Malaga riannoda i fili insanguinati dell’Union Sacrée mentre è la vittoria militare di Guadalajara che apre il periodo che si concluderà con le fucilate di Barcellona. In questa atmosfera di ubriacatura guerriera può così sorgere e maturare l’attacco del 4 maggio.
Parallelamente, in tutti i paesi, la guerra di sterminio del capitalismo spagnolo alimenta la repressione borghese internazionale, e i morti fascisti e “antifascisti” di Spagna accompagnano gli assassinati di Mosca, i mitragliati di Clichy; ed è così sull’altare insanguinato dell’antifascismo che i traditori raccolgono gli operai di Bruxelles attorno al capitalismo democratico in occasione delle elezioni dell’11 aprile 1937.
“Armi per la Spagna”: questa è stata la parola d’ordine centrale che è risuonata nelle orecchie dei proletari. E queste armi hanno sparato sui loro fratelli di Barcellona. Anche la Russia sovietica, cooperando all’armamento della guerra antifascista, ha rappresentato l’ossatura capitalista per la recente carneficina. Agli ordini di Stalin - che mette in mostra la sua rabbia anticomunista - il 3 marzo il PSUC (4) di Catalogna prende l’iniziativa del massacro.
Ancora una volta, come nel 1914, gli operai si servono delle armi per uccidersi fra di loro invece di usarle per la distruzione del regime di oppressione capitalista.
Proletari!
Il 4 maggio gli operai di Barcellona hanno ripreso la via che avevano preso il 19 luglio e dalla quale il capitalismo aveva potuto respingerli appoggiandosi sulle molteplici forze del Fronte Popolare. Facendo scoppiare scioperi dappertutto, anche nei settori presentati come delle conquiste della rivoluzione, essi si sono opposti al blocco repubblicano-fascista del capitalismo. Ed il governo repubblicano ha risposto con tanta ferocia quanto quella mostrata da Franco a Badajoz e Irun. Se il governo di Salamanca non ha sfruttato questo vacillare del fronte d’Aragona per sferrare un attacco è perché ha capito che il suo complice di sinistra adempiva in maniera ammirevole al suo ruolo di boia del proletariato.
Esausto da dieci mesi di guerra, di collaborazione di classe della CNT, della FAI, del POUM, il proletariato catalano finisce per subire una terribile sconfitta. Ma questa sconfitta è anche una tappa della vittoria di domani, un momento della sua emancipazione, perché essa segna la morte di tutte le ideologie che avevano permesso al capitalismo di salvaguardare il suo dominio, malgrado il gigantesco soprassalto del 19 luglio.
No! I proletari caduti il 4 maggio non possono essere rivendicati da nessuna delle correnti che, il 19 luglio, li hanno trascinati fuori del loro terreno di classe per precipitarli nel baratro dell’antifascismo.
I proletari caduti appartengono al proletariato e solamente a questo. Essi rappresentano le membrane del cervello della classe operaia mondiale, del partito di classe della rivoluzione comunista.
Gli operai di tutto il mondo si inchinano di fronte a tutti i morti e rivendicano i loro cadaveri contro tutti i traditori, quelli di ieri come quelli di oggi. Il proletariato di tutto il mondo saluta in Berneri (5) uno dei suoi, e il suo sacrificio all’ideale anarchico è ancora una protesta contro una scuola politica che è sprofondata nel corso degli avvenimenti spagnoli: è sotto la direzione di un governo a participazione anarchica che la polizia ha ripetuto sul corpo di Berneri l’impresa di Mussolini sul corpo di Matteotti! (6)
Proletari!
La carneficina di Barcellona è il segno anticipatore di repressioni ancora più sanguinose sugli operai di Spagna e del mondo intero. Ma è anche il segno anticipatore di tempeste sociali che, domani, si scateneranno sul mondo capitalista.
Il capitalismo, in solo dieci mesi, ha dovuto dar fondo alle risorse politiche che contava di consacrare per demolire il proletariato, ostacolando il lavoro che questo portava avanti per fondare il suo partito di classe, arma della sua emancipazione e della costruzione della società comunista. Centrismo e anarchismo, raggiungendo la socialdemocrazia, hanno portato a termine, in Spagna, la loro evoluzione, analogamente a quanto si produsse nel 1914 quando la guerra ridusse la Seconda Internazionale allo stato di cadavere.
In Spagna, il capitalismo ha scatenato una battaglia di una portata internazionale: la battaglia tra il fascismo e l’antifascismo che, attraverso la forma estrema delle armi, annuncia una tensione acuta dei rapporti di classe sull’arena internazionale.
Le morti di Barcellona spianano il terreno per la costruzione del partito della classe operaia. Le forze politiche che hanno chiamato gli operai a lottare per la rivoluzione ingaggiandoli in una guerra capitalista sono tutte passate dall’altra parte della barricata e davanti agli operai del mondo intero si apre l’orizzonte luminoso in cui i morti di Barcellona hanno scritto con il loro sangue di classe ciò che era stato già scritto dai morti del 1914-18: la lotta degli operai è proletaria alla sola condizione di sapersi dirigere contro il capitalismo e il suo Stato; viceversa essa serve gli interessi del nemico se non si dirige contro di esso, in tutti i momenti, in tutti i campi, in tutti gli organismi proletari che le situazioni fanno sorgere.
Il proletariato mondiale lotterà contro il capitalismo anche quando questo passerà alla repressione contro i suoi servi di ieri. E’ la classe operaia e mai il suo nemico di classe che è incaricata di liquidare il conto di quelli che hanno espresso una fase della sua evoluzione, un momento della sua lotta per l’emancipazione dalla schiavitù capitalista.
La battaglia internazionale che il capitalismo spagnolo ha ingaggiato contro il proletariato apre un nuovo capitolo internazionale della vita delle frazioni di tutti i paesi. Il proletariato mondiale che deve continuare a lottare contro i “costruttori” di Internazionali artificiali sa che esso non può fondare l’Internazionale proletaria che attraverso la scossa mondiale del rapporto di classe che apra la via della Rivoluzione comunista, e solo così. Di fronte alla Guerra di Spagna, che annuncia l’apparire di tormente rivoluzionarie in altri paesi, il proletariato mondiale sente che è venuto il momento di allacciare i primi legami internazionali delle frazioni della Sinistra Comunista.
Proletari di tutti i paesi!
La vostra classe è invincibile; essa rappresenta il motore dell’evoluzione storica: gli avvenimenti di Spagna ne sono la prova perché è la vostra classe che, sola, costituisce la posta di una lotta che mette in subbuglio il mondo intero!
Non è la disfatta che vi può scoraggiare: da questa disfatta trarrete gli insegnamenti per la vittoria di domani!
Sulle vostre basi di classe, voi ricostruirete la vostra unità di classe al di là delle frontiere, contro ogni mistificazione del nemico capitalista!
In Spagna, ai tentativi di compromesso che cercano di fondare la pace dello sfruttamento capitalista, rispondete con la fraternizzazione degli sfruttati dei due eserciti per la lotta simultanea contro il capitalismo!
In piedi per la lotta rivoluzionaria in tutti i paesi!
Viva la lotta rivoluzionaria in tutti i paesi!
Viva il proletariato di Barcellona che ha scritto una nuova pagina sanguinosa del libro della Rivoluzione mondiale!
Avanti per la costituzione dell’Ufficio Internazionale per promuovere la formazione di frazioni di sinistra in tutti i paesi!
Innalziamo la bandiera della Rivoluzione Comunista che i boia fascisti e antifascisti non possono impedire ai proletari vinti di trasmettere ai loro eredi di classe!
Siamo degni dei nostri fratelli caduti!
Viva la Rivoluzione Comunista in tutto il mondo!
Le Frazioni belga e italiana della Sinistra Comunista Internazionale
1. Il Partito Operaio di Unificazione Marxista (o POUM, in spagnolo Partido obrero de unificación marxista) era un’organizzazione spagnola prossima ai troschisti, creata nel 1935 e sciolta nel 1937, che ha partecipato attivamente alla Guerra di Spagna contro il generale Franco.
2. E’ così che la Sinistra Comunista d’Italia caratterizzava gli stalinisti.
3. Uomo politico borghese, diverse volte presidente del Consiglio in Italia, in particolare in occasione degli scioperi culminati con l’occupazione delle fabbriche nel 1920.
4. In Catalogna il PC, la federazione socialista, l’Unione Socialista ed il Partì Català Proletari si erano fusi, alla vigilia della guerra civile, in una sola organizzazione, il Partito Socialista Unificato di Catalogna, in nome delle particolarità regionali.
5. Camillo Berneri, nato a Lodi, in Italia, il 28 maggio 1897, e morto assassinato dalla GPU a Barcellona, in Spagna, il 6 maggio 1937.
6. Giacomo Matteotti fu deputato socialista italiano. Il suo assassinio da parte di un gruppo fascista porta indirettamente all’instaurazione progressiva del regime di Mussolini.
L'estate 2007 ha confermato lo sprofondamento del capitalismo in catastrofi sempre più frequenti: l’inferno imperialistico illustrato dai costanti bagni di sangue di civili in Iraq; le devastazioni causate dal cambiamento climatico provocato dalla ricerca sfrenata del profitto; un nuovo tonfo nella crisi economica che promette un maggiore impoverimento della popolazione mondiale. All'inverso, la classe operaia, la sola forza capace di salvare la società umana, è sempre più scontenta del sistema capitalista in putrefazione. Ma è sulla crisi economica che rivolgeremo la nostra attenzione in questo articolo, visto i drammatici avvenimenti iniziati nel settore immobiliare negli Stati Uniti e che hanno scosso la finanza internazionale ed il sistema economico del mondo intero.
La crisi è stata scatenata dalla caduta dei prezzi immobiliari in America alla pari con un rallentamento dell'attività nell'industria dell'edilizia e dall'incapacità di numerosi debitori di rimborsare, a causa del rialzo dei tassi di interesse, i crediti, diventati ora famosi con il nome di subprime o prestiti a rischi. Da questo epicentro, le onde d'urto si sono estese a tutto il sistema finanziario mondiale. In agosto, fondi d’investimento ed intere banche commerciali i cui interessi comprendevano miliardi di dollari di questi prestiti a rischi, sono crollate o hanno dovuto essere soccorse. Anche gli hedge funds della banca americana Bear Sterns, sono crollati costando un miliardo di dollari agli investitori. La banca tedesca ADF è stata salvata in extremis, mentre la banca francese BNP Paribas è stata brutalmente scossa. Le azioni degli organismi di prestiti immobiliari e di altre banche si sono seriamente abbassate, implicando una caduta vertiginosa di tutte le principali piazze borsiste del pianeta, annientando miliardi di dollari di "lavoro accumulato". Per frenare la perdita di fiducia e la reticenza delle banche ad accordare prestiti, le banche centrali - la Federal Reserve americana (la FED) e la Banca Europea - sono intervenute per mettere a disposizione nuovi miliardi per prestiti meno cari. Certamente, questo denaro non era destinato alle centinaia di migliaia di persone che avevano perso il loro tetto nel fiasco dei subprimes, né alle decine di migliaia di operai gettati in stato di disoccupazione dalla crisi dell'edilizia, ma agli stessi mercati del credito. Così, gli istituti finanziari che hanno dilapidato quantità enormi di liquidità, sono stati ricompensati da nuovi apporti per continuare le loro scommesse. Tuttavia, tutto ciò non ha messo fine in nessun modo alla crisi. In Gran Bretagna, quest’ultima si trasformava in farsa.
A settembre, la Banca dell'Inghilterra ha criticato le altre banche centrali per aver appoggiato gli investitori pericolosi ed imprudenti che avevano scatenato la crisi, raccomandando una politica più severa che punisse i cattivi protagonisti ed impedisse la ricomparsa degli stessi problemi di speculazione. Ma all'indomani stesso, il presidente della Banca, Mervyn King, ha effettuato una virata di 180°. La banca ha dovuto soccorrere il quinto fornitore di prestiti immobiliari del Regno Unito, il Northern Rock. La "strategia di impresa" di quest’ultima era prendere in prestito sul mercato del credito poi di riprestare il denaro, ad un tasso di interesse superiore, alle persone che acquistavano alloggi. Quando i mercati del credito hanno cominciato a crollare, anche il Northern Rock è crollato.
Appena fu annunciato il soccorso alla banca, si sono viste formare enormi code davanti alle differenti agenzie: i risparmiatori volevano ritirare il loro denaro - in 3 giorni sono stati ritirati 2 miliardi di sterline. E’ stato il primo assalto di questo tipo su una banca inglese da 140 anni (1866). Per prevenire il rischio di contagio, il governo è dovuto intervenire di nuovo e ha dovuto dare il 100% di garanzia ai clienti del Northern Rock ed ai risparmiatori di altre banche minacciate[1]. Alla fine, "la vecchia signora di Threadneedle Street" - la Banca dell'Inghilterra - è stata obbligata, come tutte le altre banche centrali appena criticate da lei stessa, di iniettare enormi somme di denaro nello scalcinato sistema bancario. Risultato: la credibilità della stessa direzione del centro finanziario di Londra - che rappresenta oggi un quarto dell'economia britannica - era in rovina.
L’atto successivo del dramma, che nel momento in cui scriviamo continua, riguarda l'effetto della crisi finanziaria sull'economia in generale. Il primo abbassamento da cinque anni dei tassi di interesse da parte della FED, al fine di rendere il credito più disponibile, non ha dato, per ora, risultati. Non ha messo fine al crollo continuo del mercato immobiliare negli Stati Uniti e non ha neanche allontanato la stessa prospettiva per gli altri 40 paesi in cui si è sviluppata la stessa bolla speculativa. Ed ancora non ha impedito lo sviluppo delle restrizioni di credito ed i loro effetti inevitabili sull'investimento e le spese delle famiglie nel loro insieme. Al posto di ciò, ha prodotto una veloce caduta del dollaro che è al suo più basso livello rispetto alle altre monete da quando il presidente Nixon lo aveva svalutato nel 1971, ed un salita record dell'Euro e delle materie prime come il petrolio e l'oro.
Questi sono dei segni annunciatori di una caduta della crescita dell'economia mondiale, addirittura di una recessione aperta, ed al tempo stesso di uno sviluppo dell'inflazione nel prossimo futuro.
In una parola, il periodo di crescita economica degli ultimi sei anni, costruita sul credito ipotecario e sul consumo e sul gigantesco debito estero e di bilancio degli Stati Uniti, è arrivato al termine.
Questi sono i dati della situazione economica attuale. La domanda è: la recessione che si profila e che tutti pensano probabile si iscrive negli inevitabili alti e bassi di un'economia capitalista fondamentalmente sana, o è un sintomo di un processo di disintegrazione, di un guasto interno del capitalismo che sarà pertanto caratterizzato da convulsioni sempre più violente?
Per rispondere a questa domanda, è innanzitutto necessario esaminare l'idea secondo cui lo sviluppo della speculazione e della crisi del credito che ne consegue sarebbe, in un certo modo, un'aberrazione o ancora una eccezione rispetto ad un sano funzionamento del sistema che potrebbero dunque essere corretti dal controllo dello Stato o attraverso una migliore regolazione. In altri termini, la crisi attuale è dovuta ai finanzieri che prendono l'economia in ostaggio?
Lo sviluppo del sistema bancario, della Borsa e di altri meccanismi di credito è parte integrante dello sviluppo del capitalismo dal diciottesimo secolo. Questi sono stati necessari per accumulare e centralizzare il capitale finanziario e permettere i livelli di investimento richiesti per una vasta espansione industriale che anche il singolo capitalista più ricco non avrebbe potuto immaginare. L'idea dell'imprenditore industriale che accumula il suo capitale economizzando e rischiando il proprio denaro è una pura finzione. La borghesia deve avere accesso alle somme di capitale che sono state concentrate già sui mercati del credito. Sulle piazze finanziarie, non sono le loro fortune personali che i rappresentanti della classe borghese mettono in gioco, ma la ricchezza sociale sotto forma monetaria.
Il credito, molto credito, ha dunque svolto un ruolo importante nell'enorme accelerazione della crescita delle forze produttive - rispetto alle epoche precedenti - e nella costituzione del mercato mondiale.
D’altro lato, viste le tendenze inerenti alla produzione capitalista, il credito ha costituito anche un potente fattore acceleratore della sovrapproduzione, della sopravvalutazione della capacità del mercato ad assorbire dei prodotti e ha dunque catalizzato le bolle speculative con le loro conseguenze sotto forma di crisi e di prosciugamento del credito. Nello stesso momento in cui facilitavano queste catastrofi sociali, la Borsa ed il sistema bancario hanno incoraggiato tutti i vizi come l'avidità e la doppiezza, caratteristiche di una classe sfruttatrice che vive del lavoro altrui; vizi che oggi vediamo prosperare sotto forma di reati e di pagamenti fittizi, di "premi" scandalosi equivalenti ad enormi fortune o di "paracaduti dorati", di frodi contabili o di furti puri e semplici, ecc.
La speculazione, i prestiti a rischio, le truffe, i tonfi in Borsa che ne conseguono e la scomparsa di enormi quantità di plusvalore sono dunque una caratteristica intrinseca dell'anarchia della produzione capitalista.
In ultima analisi, la speculazione è una conseguenza, non una causa delle crisi capitaliste. E se oggi sembra che l'attività speculativa della finanza domini l'insieme dell'economia, è perché da 40 anni, la sovrapproduzione capitalista è entrata in modo crescente in una crisi continua, dove i mercati mondiali sono saturi di prodotti e l'investimento nella produzione sempre meno lucrativo; l'inevitabile ricorso al capitale finanziario è scommettere in quella che è diventata una "economia da casinò".[2]
Un capitalismo senza eccessi finanziari non è dunque possibile; questi ultimi fanno intrinsecamente parte della tendenza del capitalismo a produrre come se il mercato non avesse limiti, da cui la stessa incapacità di un Alan Greenspan, l'ex presidente del FED, a sapere se "il mercato è sopravvalutato".
Il recente crollo del mercato immobiliare negli Stati Uniti ed in altri paesi è un'illustrazione del reale rapporto tra la sovrapproduzione e le pressioni del credito.
Le caratteristiche della crisi del mercato immobiliare ricordano le descrizioni delle crisi capitaliste nel Manifesto comunista di Karl Marx: "Un'epidemia che, in tutt’altra epoca, sarebbe potuto sembrare un'assurdità, si abbatte sulla società, - l'epidemia della sovrapproduzione... la società ha troppa civiltà, troppi mezzi di sussistenza, troppa industria, troppo commercio".
Così, non è a causa di una penuria di alloggi che ci sono masse di persone senza tetto; paradossalmente, ce n’è sono troppi, una vera sovrabbondanza di case vuote. L'industria della costruzione ha lavorato senza pausa in quest’ultimi cinque anni. Ma allo stesso tempo, il potere di acquisto degli operai americani è diminuito perché il capitalismo americano ha cercato di aumentare i suoi profitti. Un fossato si è creato tra i nuovi alloggi messi sul mercato e la capacità di pagamento di quelli che ne avevano bisogno. Da qui i prestiti a rischio - i subprimes - per sedurre i nuovi acquirenti che non avevano i mezzi. La quadratura del cerchio. Alla fine il mercato è crollato. Oggi, mentre un numero sempre maggiore di proprietari di alloggi vengono sloggiati ed i loro beni pignorati a causa di tassi di interesse dei loro prestiti oppressivi, il mercato immobiliare sarà ancora più saturo - negli Stati Uniti, si prevede che 3 milioni di persone perdano il loro tetto per incapacità a rimborsare i loro prestiti subprime. Si aspetta lo stesso fenomeno di miseria in altri paesi dove la bolla immobiliare è esplosa o sta per esplodere. Così, lo sviluppo dell'attività edile e dei mutui ipotecari durante l'ultimo decennio, lungi dal ridurre il numero di senza tetto, ha messo l'alloggio decente fuori portata della massa della popolazione o i proprietari di casa in un situazione precaria.[3]
Evidentemente, ciò che preoccupa i dirigenti del sistema capitalista - i suoi manager di hedge funds, i suoi ministri delle finanze, i suoi banchieri delle banche centrali, ecc. - nella crisi attuale, non sono le tragedie umane provocate dal crollo dei subprimes, e le piccole aspirazioni ad una vita migliore (a meno che esse non spingano a mettere in questione la stupidità di questo modo di produzione) ma l'impossibilità dei consumatori a pagare i prezzi che infiammano le case ed i tassi di interessi usurai sui prestiti.
Il fiasco dei subprimes illustra la crisi del capitalismo, la sua tendenza cronica, nella sua corsa al profitto, alla sovrapproduzione rispetto alla domanda solvibile; dunque la sua incapacità, malgrado le risorse materiali, tecnologiche ed umane fenomenali a sua disposizione, a soddisfare i più elementari bisogni umani.[4]
Tuttavia, per quanto assurdamente sprecone ed anacronistico appaia il sistema capitalista alla luce della recente crisi, la borghesia prova sempre a rassicurare sé stessa e l'insieme della popolazione: almeno questa non andrà male come nel 1929.
Il crash di Wall Street nel 1929 e la Grande Depressione continuano ad assillare la borghesia come lo dimostra la copertura dei media dei recenti avvenimenti. Editoriali, articoli di fondo, analogie storiche tentano di convincerci che la crisi finanziaria attuale non condurrà alla stessa catastrofe del 1929, avvenimento unico che si è trasformato in disastro a causa di cattive gestioni.
Gli "esperti" della borghesia incoraggiano piuttosto l'illusione secondo la quale la crisi finanziaria attuale sarebbe un tipo di ripetizione dei crashs finanziari del diciannovesimo secolo che erano relativamente limitati nel tempo e lo spazio. In realtà, la situazione attuale ha più in comune con il 1929 che con questo periodo anteriore dell'ascesa del capitalismo; condivide molto le caratteristiche comuni alle crisi economiche e finanziarie catastrofiche della sua decadenza, periodo che si è aperto con la Prima Guerra mondiale, di disintegrazione del modo di produzione capitalista, un periodo di guerre e di rivoluzioni.
Le crisi economiche dell'ascesa capitalista e l'attività speculativa che spesso le hanno accompagnate e precedute, costituivano dei battiti di cuore di un sistema sano ed aprivano la strada ad una nuova espansione capitalista attraverso interi continenti, a maggiori avanzamenti tecnologici, alla conquista di mercati coloniali, alla trasformazione degli artigiani e dei contadini in eserciti di lavoratori salariati, ecc.
Il crash della Borsa a New York nel 1929 che ha annunciato la prima grande crisi del capitalismo in declino ha gettato nell'ombra tutte le crisi speculative del diciannovesimo secolo. Durante "i folli anni" del 1920, il valore delle azioni del Borsa di New York, la più importante del mondo, era stato moltiplicato per cinque. Il capitalismo mondiale non aveva superato la catastrofe della Prima Guerra mondiale e, nel paese diventato più ricco del mondo, la borghesia cercava degli sbocchi nella speculazione borsistica.
Ma il "giovedì nero" del 24 ottobre 1929, fu un crollo brutale. Le vendite in fretta e furia proseguirono il "martedì nero" della seguente settimana. E la Borsa continuò a crollare fino al 1932; intanto, i titoli avevano perso l’ 89% del loro valore massimo dal 1929. Erano ridotti ai livelli mai conosciuti dal diciannovesimo secolo. Il livello massimo del valore delle azioni del 1929 non fu che ritrovato nel 1954!
Durante questo tempo, il sistema bancario americano che aveva prestato del denaro per acquistare i titoli, sprofondava. Questa catastrofe annunciò la Grande Depressione degli anni 1930, la crisi più profonda mai conosciuta dal capitalismo. Il PIL americano si dimezzò. 13 milioni di operai furono gettati in disoccupazione con quasi nessun sussidio. Un terzo della popolazione sprofondò nella povertà più abietta. Gli effetti risuonarono su tutto il pianeta.
Ma non ci fu rialzo economico come dopo le crisi del diciannovesimo secolo. La produzione riprese dopo essere stata orientata solamente verso la produzione di armamenti in preparazione di un nuova divisione del mercato mondiale attraverso il bagno di sangue imperialistico della Seconda Guerra mondiale; in altri termini, quando i disoccupati furono trasformati in carne da cannone.
La depressione degli anni ‘30 sembrò essere il risultato del 1929 ma, in realtà, il crash di Wall Street non fece che precipitare la crisi, crisi della sovrapproduzione cronica del capitalismo nella sua fase di decadenza e che è l’essenza dell'identità tra le crisi degli anni ‘30 e quella di oggi riemersa nel 1968.
La borghesia degli anni ‘50 e ‘60 ha proclamato con sufficienza che aveva risolto il problema delle crisi e che le avevano ridotte allo stato di curiosità storica grazie a palliativi come l'intervento dello Stato nell'economia sul piano nazionale ed internazionale, attraverso il finanziamento dei deficit e la tassazione progressiva. Con suo disappunto, la crisi mondiale di sovrapproduzione è riapparsa nel 1968.
Da 40 anni, questa crisi è andata da una depressione all’altra, da una recessione aperta ad un altra più grave, da un falso eldorado ad un altro. Dal 1968 la crisi non ha preso la forma di caduta libera del crash del 1929.
Nel 1929, gli esperti finanziari della borghesia adottarono misure che non riuscirono ad arginare la crisi finanziaria. Queste misure non furono errori ma metodi che avevano funzionato durante i precedenti crashs del sistema, come quello del 1907 e del panico che aveva generato; ma non erano più sufficienti nel nuovo periodo. Lo Stato si rifiutò di intervenire. I tassi di interesse aumentarono, si lasciarono diminuire le riserve monetarie, le restrizioni di credito rafforzarsi e la fiducia nel sistema bancario e nel credito volare in frammenti. Le leggi tariffarie Smoot-Hawley imposero delle barriere alle importazioni, il che accelerò il rallentamento del commercio mondiale e, di conseguenza, peggiorò la depressione.
Negli ultimi 40 anni, la borghesia ha imparato ad utilizzare i meccanismi statali per ridurre i tassi di interesse ed iniettare delle liquidità nel sistema bancario per fare fronte alle crisi finanziarie. È stata capace di accompagnare la crisi, ma al prezzo di un sovraccarico del sistema capitalista attraverso montagne di debiti. Il declino è stato più graduale che negli anni 1930; tuttavia, i palliativi si consumano ed il sistema finanziario è sempre più fragile.
L'aumento fenomenale del debito nell'economia mondiale durante l'ultimo decennio è illustrato dalla crescita straordinaria, sul mercato del credito, di hedge funds oggi celebri. Il capitale stimato di questi fondi è aumentato da 491 miliardi di dollari nel 2000 a 1745 miliardi nel 2007[5]. Le loro transazioni finanziarie complicate, per la maggior parte segrete e non regolate, utilizzano il debito come una sicurezza negoziabile nella ricerca di guadagni a breve termine. Gli hedge funds sono considerati come operazioni che hanno sparso cattivi debiti attraverso il sistema finanziario, accelerando ed estendendo velocemente l’attuale crisi finanziaria.
Il Keynesianesimo, sistema di finanziamento del deficit attraverso lo Stato per mantenere il pieno impiego, è evaporato con l'inflazione galoppante degli anni 1970 e le recessioni del 1975 e 1981. La Reaganomics ed il Thatcherismo, mezzi per restaurare i profitti attraverso la riduzione del salario sociale, la diminuzione delle tasse, e lasciando le imprese non redditizie fallire e provocare una disoccupazione di massa, sono spirate col crash borsista del 1987, lo scandalo della Savings and Loans (Società di credito per la casa popolare) e la recessione del 1991. I Dragoni asiatici si sono sgonfiati nel 1997, con enormi debiti. la rivoluzione Internet, la "nuova economia", si è rivelata non avere "nessuna rendita apparente" ed il boom delle sue azioni ha fatto fallimento nel 1999. Il boom dell'immobiliare e l'esplosione del credito dei consumi dei cinque ultimi anni, e l'utilizzazione del gigantesco debito estero degli Stati Uniti per fornire una domanda per l'economia mondiale e l'espansione "miracolo" dell'economia cinese – mettono anche quest’ultima in questione.
Non si può predire esattamente come l'economia mondiale proseguirà nel suo declino ma, ciò che sono inevitabile, sono sempre più le convulsioni crescenti ed un’aumentata austerità.
Nel Volume III del Capitale, Karl Marx argomenta che il sistema di credito sviluppato dal capitalismo ha rivelato in modo embrionale un nuovo modo di produzione in seno al vecchio. Allargando e socializzando la ricchezza, togliendola dalle mani dei membri individuali della borghesia, il capitalismo ha lastricato la strada per una società dove la produzione potrebbe essere centralizzata e controllata dagli stessi produttori e dove la proprietà borghese potrebbe essere abolita come un anacronismo storico: il sistema del credito "accelera di conseguenza, lo sviluppo materiale delle forze produttive e la creazione del mercato mondiale. Il sistema capitalista ha per compito storico di portare ad un certo livello queste basi materiali del nuovo tipo di produzione. Allo stesso tempo, il credito accelera le manifestazioni violente di questo antagonismo, e cioè le crisi, e, di conseguenza, gli elementi di dissoluzione del vecchio modo di produzione".[6]
E’ da oltre un secolo ormai che le condizioni sono mature affinché siano aboliti il regno della borghesia e lo sfruttamento capitalista. In assenza di una risposta radicale del proletariato che lo porti a rovesciare il capitalismo a scala mondiale, le contraddizioni di questo sistema moribondo, la crisi economica in particolare, non fanno che aggravarsi. Se oggi il credito continua a sostenere un ruolo nell'evoluzione di queste contraddizioni, ciò non può più favorire la conquista del mercato mondiale dal momento che il capitalismo ha già stabilito da molto il dominio dei suoi rapporti di produzione sull'insieme del pianeta. In compenso, ciò che l'indebitamento massiccio di tutti gli Stati ha permesso effettivamente al capitalismo, è di evitare dei tonfi brutali dell'attività economica, ma non a qualsiasi prezzo. Così, dopo avere per decenni costituito un fattore di appianamento dell'antagonismo tra gli sviluppi delle forze produttive ed i rapporti di produzione capitalista diventati antiquati, la pazza fuga in avanti nell'utilizzazione massiccia e generalizzata del credito, "le manifestazioni violente di questo antagonismo", fa conoscere accelerazioni brutali che scuoteranno come non mai l'edificio sociale. Tuttavia, prese per sé stesse, tali scosse non costituiscono una minaccia per la divisione della società in classi. Lo diventano invece dal momento che contribuiscono a mettere il proletariato in movimento.
Ora, come i rivoluzionari hanno sempre messo in evidenza, è la crisi che va ad accelerare il processo già in corso di presa coscienza del vicolo cieco del mondo attuale. E’ essa che, a breve termine, spingerà nella lotta, più massicciamente, numerosi settori della classe operaia, permettendo a quest’ultima di moltiplicare le esperienze. La posta in gioco di queste esperienze future è la capacità, per la classe operaia, di difendersi e di affermarsi di fronte a tutte i settori della borghesia, di prendere fiducia nelle proprie forze ed acquistare progressivamente la coscienza di essere la sola forza della società capace di rovesciare il capitalismo.
Como, 29/10/2007
[1] Secondo la rivista economica britannica The Economist, questa garanzia era in realtà un bluff.
[2] "Non sono i discorsi pomposi degli "altermondialisti" ed altri sostenitori della "finanziarizzazione" dell'economia che cambieranno qualche cosa. Queste correnti politiche vorrebbero un capitalismo "pulito", "equo", che in particolare girasse le spalle alla speculazione. In realtà, questa non è per niente il prodotto di un "cattivo" capitalismo che "dimentica" la sua responsabilità di investire nei settori realmente produttivi. Come ha stabilito Marx dal diciannovesimo secolo, la speculazione risulta dal fatto che, nella prospettiva di una mancanza di sbocchi sufficienti per gli investimenti produttivi, i detentori di capitali preferiscono farli fruttare a breve termine in un'immensa lotteria, una lotteria che trasforma oggi il capitalismo in un casinò planetario. Volere che il capitalismo rinunci alla speculazione nel periodo attuale è realistico tanto quanto volere che le tigri diventino vegetariane, o che i draghi smettano di sputare fuoco". (Risoluzione sulla situazione internazionale adottata dal 17° congresso della CCI).
[3] Benjamin Bernanke, presidente della FED, parla degli arretrati di pigione come atti di "delinquenza": in altri termini, delle infrazioni contro Mammone. Perciò, i "criminali" sono stati puniti... attraverso tassi di interesse ancora più alti!
[4] Non possiamo affrontare qui la questione della situazione dei senza tetto nell'insieme del mondo. Secondo la Commissione delle Nazioni Unite sui Diritti dell'uomo, un miliardo di persone sul pianeta non ha alloggio adeguato e 100 milioni non ha alcuno alloggio.
[6] Sezione 5, capitolo "Il ruolo del credito nella produzione capitalista".
Alla fine del mese di maggio, la CCI ha tenuto il suo 17° congresso internazionale. Nella misura in cui le organizzazioni rivoluzionarie non esistono per sé stesse ma sono delle espressioni del proletariato e nello stesso momento fattori attivi nella vita di questo, spetta loro rendere conto all'insieme della loro classe dei lavori di questo momento privilegiato che costituisce la riunione della loro istanza fondamentale: il congresso.
Tutti i congressi della CCI sono evidentemente dei momenti molto importanti nella vita della nostra organizzazione, delle pietre miliari che segnano il suo sviluppo. Tuttavia, la prima cosa che bisogna sottolineare, rispetto a quello che si è tenuto nella primavera scorsa, è che la sua importanza è ancora ben più grande dei precedenti, poiché segna una tappa notevolmente importante nella sua vita più che trentennale1.
La presenza dei gruppi del campo proletario
La principale dimostrazione di questo fatto è la presenza nel nostro congresso di delegazioni di tre gruppi del campo proletario internazionale: Opop del Brasile2, la SPA3 della Corea del Sud ed EKS4 della Turchia. Anche un altro gruppo era stato invitato al congresso, il gruppo Internasyonalismo delle Filippine, ma, malgrado la sua profonda volontà di mandare una delegazione, ciò non è stato possibile. Questo gruppo tuttavia ha tenuto a trasmettere al congresso della CCI un saluto ai suoi lavori e delle prese di posizione sui principali rapporti che gli erano stati forniti.
La presenza di parecchi gruppi del campo proletario ad un congresso della CCI non è una novità. Nel passato, all' inizio della sua esistenza, la CCI aveva già accolto delegazioni di altri gruppi. È così che la sua conferenza costitutiva a gennaio 1975 aveva visto la presenza del Revolutionary Worker's Group degli Stati Uniti, di Pour un Intervention Communiste di Francia e Revolutionary Perspectives della Gran Bretagna. Parimenti, all'epoca del suo 2° congresso (1977) era presente una delegazione del Partito Comunista Internazionalista, Battaglia Comunista. Al suo 3° congresso (1979) erano presenti delle delegazioni della Communist Workers' Organisation (Gran Bretagna), del Nucleo Comunista Internazionalista e de Il Leninista (Italia) e un compagno non organizzato della Scandinavia. Purtroppo, in seguito, non è stato più possibile perseguire una tale pratica, e ciò per ragioni indipendenti della volontà della nostra organizzazione: scomparsa di certi gruppi, evoluzione di altri verso posizioni gauchiste (come il NCI), comportamento settario dei gruppi (CWO e Battaglia Comunista) che si erano assunti la responsabilità di affossare le conferenze internazionali dei gruppi della Sinistra comunista tenutesi alla fine degli anni ‘705. In effetti, era più di un quarto di secolo che la CCI non aveva potuto accogliere altri gruppi proletari ad uno dei suoi congressi. In sé, la partecipazione di quattro gruppi al nostro 17° congresso6 ha costituito per la nostra organizzazione un avvenimento molto importante.
Il significato del 17° congresso
Ma questa importanza va ben al di là del fatto di avere potuto riprendere una pratica che era quella della CCI ai suoi inizi. È il significato dell'esistenza e dell'atteggiamento di questi gruppi che costituisce l'elemento più fondamentale. Essi sono una conferma di una situazione storica che avevamo identificato già all'epoca del precedente congresso: "I lavori del 16°congresso (...) hanno posto al centro delle loro preoccupazioni l'esame della ripresa delle lotte della classe operaia e delle responsabilità che questa ripresa implica per la nostra organizzazione, in particolare di fronte allo sviluppo di una nuova generazione di elementi che si orientano verso una prospettiva politica rivoluzionaria". ("16°Congresso della CCI - Prepararsi ai combattimenti di classe ed all'apparizione delle nuove forze rivoluzionarie", Révue Internationale n°122).
In realtà, all'epoca del crollo del blocco dell'Est e dei regimi stalinisti nel 1989: "Le campagne assordanti della borghesia sul 'fallimento del comunismo', la 'vittoria definitiva del capitalismo liberale e democratico', la 'fine della lotta di classe', addirittura della stessa classe operaia, hanno provocato un riflusso importante del proletariato, sia a livello della sua coscienza che della sua combattività. Questo riflusso è stato profondo ed è durato più di dieci anni. Ha segnato tutta una generazione di lavoratori, generando smarrimento ed anche demoralizzazione. (...) È solo a partire dal 2003, in particolare attraverso le grandi mobilitazioni contro gli attacchi alle pensioni in Francia ed in Austria, che il proletariato ha cominciato realmente ad uscire dal riflusso che l'aveva colpito dal 1989. Da allora, questa tendenza alla ripresa della lotta di classe e dello sviluppo della coscienza nel suo seno non è stata più smentita. Le lotte operaie hanno coinvolto la maggior parte dei paesi centrali, compresi i più importanti come gli Stati Uniti (Boeing e trasporti di New York nel 2005), la Germania (Daimler ed Opel nel 2004, medici ospedalieri nella primavera 2006, Deutsche Telekom nella primavera 2007), la Gran Bretagna (aeroporto di Londra nell'agosto 2005, settore pubblico nella primavera 2006), la Francia (movimento degli studenti universitari e liceali contro il CPE nella primavera 2006), ma anche tutta una serie di paesi della periferia come Dubai (operai edili nella primavera 2006), il Bangladesh (operai del tessile nella primavera 2006), l'Egitto (operai del tessile e dei trasporti nella primavera 2007)". (Risoluzione sulla situazione internazionale adottata dal 17°congresso)
"Oggi, come nel 1968 [all'epoca della ripresa storica delle lotte operaie che avevano messo fine a quattro decenni di controrivoluzione], la ripresa della lotta di classe si accompagna ad una riflessione in profondità di cui l'apparizione dei nuovi elementi che si avvicinano verso le posizioni del Sinistra comunista costituisce la punta dell'iceberg". (Ibid.)
È per ciò che la presenza di parecchi gruppi del campo proletario al congresso, l'atteggiamento molto aperto alla discussione di questi gruppi (che rompe con l'atteggiamento settario dei "vecchi" gruppi della Sinistra comunista) non sono per niente il prodotto del caso: sono parti della nuova tappa dello sviluppo della lotta della classe operaia mondiale contro il capitalismo.
In effetti, i lavori del congresso, in particolare attraverso le testimonianze delle differenti sezioni e dei gruppi invitati, sono venuti a confermare questa tendenza, dal Belgio fino all'India, dal Brasile alla Turchia ed alla Corea, nei paesi centrali come in quelli della periferia, tanto nella ripresa delle lotte operaie che nello sviluppo di una riflessione tra i nuovi elementi che si orientano verso le posizioni della Sinistra comunista. Una tendenza che si è manifestata anche attraverso l'integrazione di nuovi militanti in seno all'organizzazione, compresi i paesi dove non c'era stata nuova integrazione da parecchi decenni, e ancora per la costituzione di un nucleo della CCI in Brasile. Per noi ciò è un avvenimento di grande importanza che va a concretizzare lo sviluppo della presenza politica della nostra organizzazione nel primo paese dell'America latina, con le più grosse concentrazioni industriali di questa regione del mondo e che sono anche tra le più importanti a scala mondiale. La creazione del nostro nucleo è il risultato di un lavoro iniziato dalla CCI più di 15 anni fa e che si è intensificato in questi ultimi anni, particolarmente attraverso la presa di contatto con differenti gruppi ed elementi, in particolare Opop di cui una delegazione era presente al 17°congresso, ma anche, nello stato di São Paulo, con un gruppo in formazione influenzato dalle posizioni della Sinistra comunista con cui recentemente abbiamo stabilito delle relazioni politiche più regolari tra cui la tenuta di riunioni pubbliche in comune. La collaborazione con questi gruppi non è per niente contraddittoria con la nostra volontà di sviluppare specificamente la presenza organizzativa della CCI in Brasile. Proprio al contrario, la nostra presenza permanente in questo paese permetterà che venga rafforzata ancora la collaborazione tra le nostre organizzazioni, e ciò tanto più che tra il nostro nucleo ed OPOP esiste già una lunga storia comune, fatta di fiducia e di rispetto reciproco.
Le discussioni del congresso
Tenuto conto delle circostanze particolari in cui si è tenuto il congresso, è la questione delle lotte operaie che ha costituito il primo punto dell'ordine del giorno, mentre il secondo punto è stato dedicato all'esame di nuove forze rivoluzionarie che attualmente nascono o si sviluppano. Non possiamo, nel contesto di questo articolo, rendere conto in modo dettagliato delle discussioni che si sono svolte: la risoluzione sulla situazione internazionale ne costituisce una sintesi. Tuttavia vanno sottolineate fondamentalmente le caratteristiche particolari e nuove dello sviluppo attuale della lotta di classe. In particolare è stato messo in evidenza il fatto che la gravità della crisi del capitalismo, la violenza degli attacchi che vengono sferrati oggi e la posta drammatica della situazione mondiale, caratterizzata dallo sprofondamento nella barbarie guerriera e dalle minacce crescenti che il sistema fa pesare sull'ambiente naturale, costituiscono dei fattori di politicizzazione delle lotte operaie. Una situazione un po' differente da quella che era prevalsa all'indomani della ripresa storica della lotta di classe nel 1968 dove i margini di manovra di cui disponeva allora il capitalismo avevano permesso di mantenere l'illusione che "il domani sarà migliore dell'oggi". Attualmente, una tale illusione non è più possibile: le nuove generazioni di proletari, come le più vecchie, sono coscienti che "domani sarà peggio di oggi". Per questo fatto, anche se una tale prospettiva può costituire un fattore di demoralizzazione e di smobilitazione dei lavoratori, le lotte che conducono, e che condurranno necessariamente sempre più in reazione agli attacchi, li porteranno in modo crescente a prendere coscienza che queste lotte costituiscono dei preparativi per scontri ben più vasti contro un sistema moribondo. Fin da ora, le lotte alle quali abbiamo assistito dal 2003 "incorporano in modo crescente la questione della solidarietà, una questione di prim'ordine poiché costituisce “l'antidoto” per eccellenza al “ciascuno per sé” specifico alla decomposizione sociale e che è, soprattutto, non solo a cuore della capacità del proletariato mondiale di sviluppare le sue lotte attuali ma anche di rovesciare il capitalismo" (Ibid.)
Anche se il congresso si è preoccupato principalmente della questione della lotta di classe, sono stati affrontati con discussioni importanti altri aspetti della situazione internazionale. Così una parte importante dei suoi lavori è stata dedicata alla crisi economica del capitalismo e soprattutto all'attuale crescita di certi paesi "emergenti", come l'India o la Cina, che sembrano contraddire le analisi fatte dalla nostra organizzazione, e dai marxisti in generale, sul fallimento definitivo del modo di produzione capitalista. In effetti, in seguito ad un rapporto molto dettagliato ed una discussione approfondita, il congresso ha concluso che:
"I tassi di crescita eccezionale che al momento paesi come l'India e soprattutto la Cina conoscono non costituiscono in alcun modo una prova di una "nuova volata" dell'economia mondiale, anche se hanno contribuito per una parte non trascurabile alla crescita elevata di quest'ultima nel corso dell'ultimo periodo. (...) lungi dal rappresentare una "nuova volata" dell'economia capitalista, il "miracolo cinese" e di un certo numero di altre economie del Terzo Mondo non è altro che una espressione particolare della decadenza del capitalismo. (...) Proprio come il "miracolo" rappresentato dai tassi di crescita a due cifre delle "tigri" e "dragoni" asiatici aveva conosciuto una fine dolorosa nel 1997, il "miracolo" cinese di oggi, anche se non ha origini identiche e possiede carte vincenti ben più serie, sarà portato, presto o tardi, a cozzare contro la dura realtà del vicolo cieco storico del modo di produzione capitalista". (Ibid.)
Bisogna notare che sulla questione della crisi economica il congresso si è fatto portavoce del dibattito attualmente in corso nella nostra organizzazione su come analizzare i meccanismi che hanno permesso al capitalismo di conoscere la sua crescita spettacolare dopo la seconda guerra mondiale. Le differenti analisi che attualmente esistono in seno alla CCI (che comunque rigettano tutte l'idea difesa dal BIPR o dai gruppi "bordighisti" secondo cui la guerra costituirebbe una "soluzione momentanea" alle contraddizioni del capitalismo) si ripercuotono sul modo di comprendere il dinamismo attuale dell'economia di certi paesi "emergenti", in particolare la Cina. E proprio perché il congresso si è fermato a riflettere particolarmente su quest'ultimo fenomeno che le divergenze esistenti nella nostra organizzazione hanno avuto l'opportunità di esprimersi in questa sede. Evidentemente, come sempre abbiamo fatto in passato, ci accingiamo a pubblicare nella Révue Internationale dei documenti che rendono conto di questi dibattiti quando avranno raggiunto un grado di chiarezza soddisfacente.
Infine, l'impatto che provoca in seno alla borghesia il vicolo cieco in cui si trova il modo di produzione capitalista e la decomposizione della società che quest'ultimo genera sono stati oggetto di due discussioni: una sulle conseguenze di questa situazione in seno ad ogni paese, l'altro sull'evoluzione degli antagonismi imperialisti tra Stati, aspetti in parte legati tra loro, principalmente nella misura in cui i conflitti esistenti in seno alle borghesie nazionali possono portare ad approcci differenti rispetto ai conflitti imperialisti (quali alleanze tra Stati, modalità di utilizzazione delle forze militari, ecc.). Sul primo punto, il congresso ha messo in evidenza che tutti i discorsi ufficiali sul "meno Stato" non hanno fatto che mascherare un rafforzamento continuo della funzione statale nella società, particolarmente nella misura in cui quest'organo è il solo che possa garantire che questa non soccomba al "ciascuno per sé" che caratterizza la fase di decomposizione del capitalismo. In particolare è stato fortemente sottolineato il rafforzamento spettacolare del carattere poliziesco dello Stato, compreso quello dei paesi più "democratici" come la Gran Bretagna e gli Stati Uniti, un rafforzamento poliziesco che, se è motivato ufficialmente dall'ascesa del terrorismo (un altro fenomeno legato alla decomposizione ma all'origine del quale le borghesie più potenti non sono estranee) permette alla classe dominante di prepararsi ai futuri scontri di classe con il proletariato. Sugli scontri imperialisti, il congresso ha principalmente messo in evidenza il fallimento, in particolare in seguito all'avventura irachena, della politica della prima borghesia mondiale, la borghesia americana, ed il fatto che esso mostra solo il vicolo cieco generale del capitalismo:
"In effetti, l'arrivo dello squadra Cheney, Rumsfeld e compagnia alle redini dello Stato non è stato il semplice fatto di un monumentale "errore di nomine" da parte di questa classe. Se ha aggravato considerevolmente la situazione degli Stati Uniti sul piano imperialista, esso era già la manifestazione del vicolo cieco nella quale si trovava questo paese confrontato ad una perdita crescente della sua leadership, e più generalmente allo sviluppo del "ciascuno per sé" nelle relazioni internazionali che caratterizzano la fase di decomposizione".(Ibid.)
Più in generale, il congresso ha sottolineato che:
"Il caos militare che si sviluppa nel mondo, sprofondando vaste regioni in un vero inferno e desolazione, particolarmente in Medio Oriente ma anche e soprattutto in Africa, non è la sola manifestazione del vicolo cieco storico nella quale si trova il capitalismo né, a lungo andare, la più minacciosa per la specie umana. Oggi, è diventato chiaro che il mantenimento del sistema capitalista come ha funzionato finora porta con sé la prospettiva della distruzione dell'ambiente naturale che ha permesso la nascita dell'umanità". (Ibid.)
Come conclusione di questa discussione è stato affermato che:
"L'alternativa annunciata da Engels alla fine del diciannovesimo secolo, socialismo o barbarie, è diventata lungo tutto il ventesimo secolo una sinistra realtà. Ciò che il ventunesimo secolo ci offre come prospettiva, è semplicemente o socialismo o distruzione dell'umanità. Ecco la vera posta in gioco con cui quale si deve confrontare la sola forza della società in grado di rovesciare il capitalismo, la classe operaia mondiale". (Ibid.)
Questa prospettiva sottolinea ancora di più l'importanza decisiva delle lotte che attualmente la classe operaia mondiale sviluppa e su cui il congresso si è particolarmente fermato. Sottolinea egualmente il ruolo fondamentale delle organizzazioni rivoluzionarie, ed in particolare della CCI, per intervenire in queste lotte affinché venga sviluppata la coscienza della posta in gioco nel mondo attuale.
Su questo piano, il congresso ha tratto un bilancio molto positivo dell'intervento della nostra organizzazione nelle lotte della classe e di fronte alle domande cruciali che ad essa si pongono. Ha sottolineato in particolare la capacità della CCI a mobilitarsi internazionalmente (articoli nella stampa, sul nostro sito Internet, riunioni pubbliche, ecc.) per fare conoscere gli insegnamenti di uno degli episodi maggiori della lotta di classe durante l'ultimo periodo: la lotta della gioventù studentesca contro il CPE nella primavera 2006 in Francia. A questo proposito, è stato rilevato che il nostro sito Internet ha conosciuto un aumento spettacolare di frequentazione durante questo periodo, prova che i rivoluzionari hanno non solo la responsabilità ma anche la possibilità di contrastare il black-out che i media borghesi organizzano in modo sistematico intorno alle lotte proletarie.
Il congresso ha tratto anche un bilancio estremamente positivo dalla nostra politica verso gruppi ed elementi che si trovano in una prospettiva di difesa o di avvicinamento delle posizioni della Sinistra comunista. Così, durante l'ultimo periodo, come è stato detto all'inizio di questo articolo, la CCI ha visto l'arrivo di un numero significativo di nuovi militanti, arrivo che faceva seguito a discussioni approfondite con questi compagni (come ha sempre fatto la nostra organizzazione che non ha per abitudine di "reclutare" a qualsiasi prezzo, contrariamente a ciò che si usa nelle organizzazioni gauchiste). Allo stesso modo, la CCI è intervenuta attivamente in differenti forum Internet, particolarmente in lingua inglese, la più importante a livello mondiale, dove possono esprimersi delle posizioni di classe, cosa che ha permesso ad un certo numero di elementi di conoscere meglio le nostre posizioni e la nostra concezione della discussione e, pertanto, di superare una certa diffidenza alimentata dalla moltitudine di piccole cappelle parassitarie la cui vocazione non è contribuire alla presa di coscienza della classe operaia ma seminare il sospetto nei riguardi delle organizzazioni che si danno proprio questo compito. Ma l'aspetto più positivo di questa politica è stato sicuramente la capacità della nostra organizzazione di stabilire o di rafforzare dei legami con altri gruppi che si trovano su delle posizioni rivoluzionarie e la cui dimostrazione è stata la partecipazione di quattro di questi gruppi al 17° congresso. Ciò ha rappresentato uno sforzo molto importante da parte della CCI, in particolare con l'invio di numerose delegazioni in molteplici paesi (Brasile, Corea, Turchia, Filippine, e non solo).
Le responsabilità crescenti che incombono sulla CCI, tanto dal punto di vista dell'intervento in seno alle lotte operaie che della discussione con i gruppi ed elementi che si trovano su un terreno di classe, suppongono un rafforzamento del suo tessuto organizzativo. Questo era stato seriamente colpito all'inizio degli anni 2000 da una crisi esplosa in seguito al suo 14° congresso e che aveva motivato la tenuta di una conferenza straordinaria un anno dopo; allo stesso modo aveva dato adito ad una riflessione approfondita all'epoca del suo 15°congresso, nel 20037. Come aveva constatato questo congresso e come il 16° congresso aveva confermato, la CCI aveva superato largamente le debolezze organizzative che si trovavano all'origine di questa crisi. Uno degli elementi di primo piano nella capacità della CCI a superare le sue difficoltà organizzative consistito in un esame attento ed approfondito di queste stesse difficoltà. Per fare questo, la CCI si era dotata, a partire dal 2001, di una commissione speciale, distinta dal suo organo centrale, e nominata come quest'ultimo dal Congresso, incaricata di condurre tale lavoro in modo più specifico. Questa commissione ha portato a termine il suo mandato constatando che, accanto a progressi molto importanti compiuti dalla nostra organizzazione, erano persistiti postumi e "cicatrici" delle difficoltà presenti in un certo numero di sezioni. Ciò è la prova che la costruzione di un tessuto organizzativo solido non è mai finito, che necessita uno sforzo permanente da parte dell'insieme dell'organizzazione e dei militanti. È per ciò che il congresso ha deciso, sulla base di questa necessità e partendo dal ruolo fondamentale giocato da questa commissione negli anni passati, di darle un carattere permanente iscrivendo la sua esistenza negli statuti della CCI. Questa non è affatto una "innovazione" della nostra organizzazione. In effetti, essa corrisponde ad una tradizione nelle organizzazioni politiche della classe operaia. Possiamo citare ad esempio il Partito socialdemocratico tedesco che era il riferimento della 2a Internazionale e disponeva di una "Commissione di controllo" che aveva lo stesso tipo di attributi.
Uno degli elementi maggiori che hanno dato questa capacità alla nostra organizzazione di superare la sua crisi, ed anche di uscirne rafforzata, è stata la volontà di dedicarsi ad una riflessione profonda, con una dimensione storica e teorica, sull'origine e le manifestazioni delle sue debolezze organizzative, riflessione che si è condotta intorno a differenti testi di orientamento di cui la nostra Rivista ha pubblicato in particolare degli estratti significativi8. Il congresso ha perseguito in questa direzione dedicando, fin dall'inizio, una parte dei suoi lavori a discutere di un testo di orientamento sulla cultura del dibattito che era stato messo in circolazione parecchi mesi prima nella CCI (che sarà pubblicato prossimamente nella Révue Internationale). Del resto questa questione non riguarda solo la vita interna dell'organizzazione. L'intervento dei rivoluzionari implica che essi debbano essere capaci di produrre le analisi più pertinenti e profonde possibili e debbano difendere con efficacia queste ultime in seno alla classe per contribuire alla sua presa di coscienza. E ciò suppone che essi siano in grado di discutere al meglio possibile di queste analisi e di imparare a presentarle nell'insieme della classe e agli elementi in ricerca avendo la preoccupazione di tenere conto delle preoccupazioni e problematiche che questi hanno. In effetti, nella misura in cui la CCI è confrontata, tanto nelle proprie fila che nell'insieme della classe, all'emergere di una nuova generazione di militanti o di elementi che si iscrivono alla lotta per il capovolgimento del capitalismo, è suo compito fare tutti gli sforzi necessari per riappropriarsi e comunicare a questa generazione uno degli elementi più preziosi dell'esperienza del movimento operaio, indissociabile dal metodo critico del marxismo: la cultura del dibattito.
La presentazione e la discussione di questa questione hanno messo in evidenza che, in tutte le scissioni conosciute nella storia della CCI, una tendenza al monolitismo aveva giocato un ruolo fondamentale. Appena apparivano delle divergenze, certi militanti cominciavano a dire che non era più possibile lavorare insieme, che la CCI era diventata o stava diventando un'organizzazione borghese, ecc., laddove queste divergenze potevano, in gran parte, essere discusse in seno ad un'organizzazione non monolitica. Tuttavia, la CCI aveva appreso dalla Frazione italiana della Sinistra comunista che anche quando ci sono delle divergenze che riguardano principi fondamentali, è necessario prima di ogni separazione organizzativa il più profondo chiarimento collettivo. In questo senso, queste scissioni erano in gran parte alcune delle più estreme manifestazioni di una mancanza di cultura del dibattito ed anche di una visione monolitica. Tuttavia questi problemi non sono stati eliminati dall'uscita dei militanti. Essi sono l'espressione di una difficoltà più generale della CCI su questo aspetto, perché c'erano delle confusioni nelle proprie fila che possono condurre a scivolamenti verso il monolitismo, che tendono ad addormentare il dibattito piuttosto che a svilupparlo. E queste confusioni continuano ad esistere. Non vogliamo esagerare sull’entità di questi problemi. Queste confusioni, questi scivolamenti appaiono in modo puntuale. Ma la storia ci ha mostrato, la storia della CCI e del movimento operaio, che piccoli slittamenti e piccole confusioni possono divenire grandi e pericolosi slittamenti se non si comprendono le radici dei problemi.
Nella storia della Sinistra comunista, esistono delle correnti che hanno difeso e teorizzato il monolitismo. La corrente bordighista ne è una caricatura. Al contrario, la CCI è l'erede della tradizione della Frazione italiana e della Sinistra comunista di Francia (GCF) che sono state le più risolute avversarie del monolitismo e che hanno messo in pratica in modo molto determinato la cultura del dibattito. La CCI è stata fondata su questa comprensione che è ripresa nei suoi statuti. Per tale ragione, è chiaro che, se restano ancora problemi nella pratica con questa questione, in genere nessun militante della CCI si pronuncia contro lo sviluppo di una concezione di cultura del dibattito. Tuttavia è necessario segnalare la persistenza di un certo numero di debolezze. La prima di queste è una tendenza a porre ogni discussione in termini di conflitto tra il marxismo e l’ opportunismo, tra il bolscevismo ed il menscevismo o anche della lotta tra il proletariato e la borghesia. Un tale comportamento non avrebbe senso se avessimo la concezione dell'invarianza del programma comunista. E in questo almeno il bordighismo è conseguente: l'invarianza ed il monolitismo a cui questa corrente si rivendica vanno insieme. Ma se accettiamo che il marxismo non è un dogma, che la verità è relativa, che non è stereotipata ma costituisce un processo e che dunque noi non smettiamo mai di apprendere perché la stessa realtà cambia continuamente, allora è evidente che il bisogno di approfondire, ma anche le confusioni ed anche gli errori, sono delle tappe normali, addirittura necessarie, per arrivare alla coscienza di classe. Sono decisivi l'impulso collettivo, la volontà e la partecipazione attiva verso il chiarimento.
Bisogna notare che un atteggiamento che tende a vedere ovunque, in tutti i dibattiti, la presenza dell'opportunismo, in altri termini una tendenza verso posizioni borghesi, può condurre ad un tipo di banalizzazione del pericolo dell'opportunismo, a mettere tutte le discussioni sullo stesso livello. L'esperienza ci mostra proprio che, nelle rare discussioni dove i principi fondamentali sono stati rimessi in causa, abbiamo provato spesso delle difficoltà ad individuarlo: se tutto è allora opportunismo, in fin dei conti, niente è opportunismo.
Un'altra conseguenza di un tale comportamento consistente nel vedere l'opportunismo e l'ideologia borghese ovunque ed in tutti i dibattiti, è l'inibizione del dibattito. I militanti "non hanno più il diritto" di avere delle confusioni, di esprimerle o fare degli errori perché, immediatamente, verranno visti o vedranno sé stessi come potenziali traditori. Certi dibattiti hanno effettivamente un carattere di confronto tra posizioni borghesi e posizioni proletarie: è l'espressione di una crisi e di un pericolo di degenerazione. Ma nella vita del proletariato non è la regola generale. Se si mettono tutti i dibattiti su questo piano, si può finire con l'idea che lo stesso dibattito è espressone di una crisi.
Un altro problema che, ancora una volta, esiste più nella pratica che in teoria, consiste nell'adottare un comportamento nella discussione che mira a convincere gli altri il più rapidamente possibile della posizione corretta. È un atteggiamento che conduce all'impazienza, ad un tentativo di monopolizzare la discussione, a volere schiacciare in qualche modo "l'avversario" in quest'ultima. Un tale comportamento conduce ad una difficoltà ad ascoltare ciò che gli altri dicono. È anche vero che in generale nella vita, in una società segnata dall'individualismo e dalla concorrenza, è difficile imparare ad ascoltare gli altri. Ma non ascoltare conduce ad un atteggiamento di chiusura nei confronti del mondo, ciò che è completamente all'opposto di un atteggiamento rivoluzionario. In questo senso, è necessario comprendere che la cosa più importante in un dibattito, è che esso abbia luogo, che si sviluppi, che ci sia una partecipazione la più larga possibile e che possa emergere un vero chiarimento. In fin dei conti, la vita collettiva del proletariato, quando è capace di svilupparsi, determina un chiarimento. La volontà di chiarimento è una caratteristica del proletariato in quanto classe; è il suo interesse di classe. In particolare, esige la verità e non la falsificazione. È perciò che Rosa Luxemburg ha sostenuto che il primo compito dei rivoluzionari è dire ciò che è. Gli atteggiamenti di confusione non sono la regola, neanche dominanti nella CCI, ma esistono e possono essere pericolosi ed hanno bisogno di essere superati. In particolare, bisogna imparare a sdrammatizzare i dibattiti. La maggior parte delle discussioni in seno all'organizzazione, e molte che abbiamo verso l'esterno, non sono dei confronti tra posizioni borghesi e posizioni proletarie. Sono discussioni dove, sulla base di posizioni condivise e di uno scopo comune, approfondiamo in modo collettivo in una tendenza che va della confusione verso la chiarezza.
In effetti, la capacità di sviluppare una vera cultura del dibattito nelle organizzazioni rivoluzionarie è uno dei maggiori segni della loro appartenenza alla classe operaia, della loro capacità a restare viventi ed in fase coi bisogni di quest'ultima. Un tale comportamento non è solo delle organizzazioni comuniste, appartiene anche al proletariato come un tutto: è proprio attraverso le sue discussioni, in particolare nelle sue assemblee generali, che l'insieme della classe operaia è capace di trarre le lezioni dalle sue esperienze e di avanzare nella sua presa di coscienza. Il settarismo ed il rifiuto del dibattito che, oggi, caratterizzano purtroppo un certo numero di organizzazioni del campo proletario non sono per niente una prova della loro "intransigenza" di fronte all'ideologia borghese o di fronte alla confusione. Sono al contrario una manifestazione della loro paura a difendere le proprie posizioni e, in ultima istanza, la prova di una mancanza di convinzione nella validità di queste.
Questa cultura del dibattito ha attraversato l'insieme dei lavori del congresso. Ed è stata salutata come tale dalle delegazioni dei gruppi invitati che hanno allo stesso tempo espresso la loro esperienza e le loro riflessioni:
E' così che uno dei compagni della delegazione venuta dalla Corea ci ha reso partecipi della sua "sorprendente impressione di fronte allo spirito di fraternità, di dibattito, di relazioni di cameratismo verso cui la sua esperienza precedente non lo aveva abituato e che c'invidia". Un altro compagno di questa delegazione ha espresso la convinzione che "la discussione sulla cultura del dibattito sarebbe fruttuosa per lo sviluppo della loro attività e che sarebbe importante che la CCI, come il suo gruppo, non si considerassero ognuno come “il solo al mondo”.
Da parte sua, la delegazione di Opop ha tenuto ad "esprimere con la più grande fraternità un saluto a questo congresso" e la sua "soddisfazione di partecipare ad un avvenimento di una tale importanza". Per la delegazione: "Questo congresso non è soltanto un avvenimento importante per la CCI ma anche per tutta la classe operaia. Apprendiamo molto con la CCI. Abbiamo appreso molto in questi ultimi tre anni attraverso i contatti che abbiamo avuto, i dibattiti che abbiamo condotto insieme in Brasile. Abbiamo partecipato già al precedente congresso [quello della sezione in Francia, lo scorso anno] ed abbiamo potuto constatare con quale serietà la CCI tratta il dibattito, la sua volontà di essere aperta per il dibattito, di non avere paura del dibattito e di non avere paura di confrontarsi con posizioni differenti dalle sue. Al contrario, il suo comportamento è quello di suscitare il dibattito e vogliamo ringraziare la CCI per averci fatto conoscere questo approccio. Parimenti, salutiamo il modo con cui la CCI considera la questione delle nuove generazioni, attuali e future. Apprendiamo di questa eredità a cui si riferisce la CCI e che ci è stata trasmessa dal movimento operaio da quando esiste". Allo stesso tempo, la delegazione ha espresso la sua convinzione che "anche la CCI aveva appreso da Opop", in particolare quando la sua delegazione in Brasile ha partecipato affianco ad Opop ad un intervento in un'assemblea operaia dominata dai sindacati.
Anche, il delegato di EKS ha sottolineato l'importanza del dibattito nello sviluppo delle posizioni rivoluzionarie nella classe, principalmente per le nuove generazioni:
"Per cominciare desidero sottolineare l'importanza dei dibattiti per la nuova generazione. Abbiamo dei giovani elementi nel nostro gruppo e ci siamo politicizzati attraverso il dibattito. Abbiamo appreso molto proprio attraverso il dibattito, in particolare tra i giovani elementi con cui siamo in contatto... Penso che per la giovane generazione il dibattito sarà nell'avvenire un aspetto molto importante del suo sviluppo politico. Abbiamo incontrato un compagno che veniva da un quartiere operaio molto povero di Istanbul e che era più vecchio di noi. Ci ha detto che nel quartiere da dove veniva gli operai volevano sempre discutere. Ma i gauchisti che facevano lavoro politico nei quartieri operai provavano sempre a liquidare molto rapidamente il dibattito per passare alle 'cose pratiche', come ci si può aspettare. Penso che la cultura proletaria che, adesso, si discute qui e che ho sperimentato in questo congresso è una negazione del metodo gausciste di discussione visto come una competizione. Vorrei fare alcuni commenti sui dibattiti tra i gruppi internazionalisti. Innanzitutto penso che è evidente che tali dibattiti dovrebbero essere per quanto possibile costruttivi e fraterni e che dovremmo sempre ricordare che i dibattiti sono uno sforzo collettivo per arrivare ad un chiarimento politico tra i rivoluzionari. Non è assolutamente una competizione o qualche cosa che dovrebbe creare dell'ostilità o delle rivalità. Questo è la negazione totale dello sforzo collettivo per arrivare a nuove conclusioni, per avvicinarsi alla verità. È anche importante che il dibattito tra i gruppi internazionalisti sia per quanto possibile regolare perché ciò aiuta molto nel chiarimento tutti coloro che sono coinvolti internazionalmente. Penso che è anche necessario per il dibattito di essere aperti a tutti gli elementi proletari che sono interessati. Penso anche che è significativo che i dibattiti siano pubblici per gli elementi rivoluzionari che sono interessati. Il dibattito non è limitato a coloro che sono implicati direttamente. Lo stesso dibattito, ciò di cui si discute, è di grande aiuto anche per qualcuno che semplicemente legge. Per esempio mi ricordo che per un certo tempo avevo molto paura di dibattere ma ero molto interessato a leggere. Questa idea di leggere i dibattiti, i risultati, aiuta enormemente e dunque è molto importante che i dibattimenti siano pubblici per tutti gli interessati. È un modo molto efficace di svilupparsi teoricamente e politicamente".
Gli interventi molto calorosi delle delegazioni dei gruppi invitati non avevano alcun atteggiamento di adulazione verso la CCI. Infatti i compagni della Corea hanno portato un certo numero di critiche ai lavori del congresso, dispiacendosi particolarmente che non sia stato più possibile ritornare all'esperienza del nostro intervento all'epoca del movimento contro il CPE in Francia o che l'analisi della situazione economica della Cina non tenga conto di più della situazione sociale e le lotte della classe operaia in questo paese. L'insieme dei delegati della CCI ha prestato una grande attenzione a queste critiche che permetteranno sia alla nostra organizzazione di tenere meglio in conto le preoccupazioni e le attese degli altri gruppi del campo proletario che stimolare il nostro sforzo per approfondire le nostre analisi di una questione tanto importante come quella in Cina. Evidentemente, elementi ed analisi che potranno portare gli altri gruppi su questa questione, particolarmente dei gruppi dell'Estremo Oriente, saranno preziosi per il nostro lavoro.
Del resto, durante lo stesso congresso, gli interventi delle delegazioni hanno costituito un apporto importante alla nostra comprensione della situazione mondiale, particolarmente quando hanno dato degli elementi precisi concernente la situazione del loro paese. Non possiamo nel contesto di quest'articolo riprodurre integralmente gli interventi delle delegazioni i cui elementi figureranno ulteriormente negli articoli della nostra stampa. Ci accontenteremo di segnalare gli elementi più ragguardevoli. Sulla lotta di classe, il delegato di EKS ha insistito sul fatto che dopo la sconfitta delle lotte di massa del 1989, oggi c'era una ripresa delle lotte operaie, un'ondata di scioperi con occupazioni di fabbriche, a seguito di una situazione economica che è drammatica per i lavoratori. Davanti a questa situazione, i sindacati non si accontentano solo di sabotare le lotte come fanno ovunque, ma provano anche a sviluppare il nazionalismo tra gli operai conducendo una campagna sul tema della "Turchia secolare".
La delegazione di Opop ha segnalato che, a causa del legame tra i sindacati e il governo attuale (essendo stato il presidente Lula il principale dirigente sindacale del paese) esiste una tendenza alle lotte all'infuori della cornice sindacale ufficiale, una "ribellione della base", come si era autonominato il movimento nel settore delle banche, nel 2003. I nuovi attacchi economici che il governo Lula prepara vanno a spingere evidentemente la classe operaia a proseguire le sue lotte, anche se i sindacati adottano un atteggiamento molto più "critico" nei confronti di Lula.
Un altro contributo importante delle delegazioni di Opop ed EKS al congresso ha riguardato la politica imperialista della Turchia e del Brasile. Opop ha dato degli elementi che permettono di comprendere meglio il ruolo di questo paese che, si mostra da un lato un fedele alleato della politica americana in quanto "gendarme del mondo" (in particolare con una presenza militare a Timor ed Haiti, paese dove esso assicura il comando delle forze straniere) ma che, allo stesso tempo, tende a sviluppare la propria diplomazia, con accordi bilaterali, specialmente verso la Russia (da cui acquista aerei), l'India e la Cina (i cui prodotti industriali sono concorrenti della produzione brasiliana). Peraltro, il Brasile sviluppa una politica di potere imperialista regionale dove tenta di imporre le sue condizioni ai paesi come la Bolivia o il Paraguay.
Il compagno di EKS ha fatto un intervento molto interessante sui comportamenti ed i risultati della vita politica della borghesia turca (particolarmente la posta in gioco del conflitto tra il settore "islamico" ed il settore "laico") e delle sue ambizioni imperialiste. Ripetiamo che non possiamo riprodurre quest'intervento in tale articolo. Vogliamo tuttavia sottolineare l'idea essenziale che questo intervento raffigura nella sua conclusione: il rischio che, in una regione vicina ad una delle zone in cui si scatenano con più violenza i conflitti imperialisti, particolarmente in Iraq, la borghesia turca si imbarchi in una spirale militare drammatica, facendo pagare ancora di più alla sua classe operaia il prezzo delle contraddizioni del capitalismo.
Gli interventi delle delegazioni dei gruppi invitati hanno costituito, accanto a quelli delle delegazioni delle sezioni della CCI, un apporto di primo piano ai lavori dell'insieme del congresso ed alla sua riflessione su tutte le questioni, permettendogli di "sintetizzare la situazione mondiale" come è stato notato dalla delegazione del SPA della Corea. In effetti, come abbiamo segnalato all'inizio di questo articolo, una delle chiavi dell'importanza di questo congresso è stata la partecipazione dei gruppi invitati; questa partecipazione ha costituito uno degli elementi maggiori della sua riuscita e dell'entusiasmo che era condiviso da tutte le sue delegazioni al momento della sua chiusura.
Con l'intervallo di alcuni giorni si sono svolte due riunioni internazionali: il vertice del G8 ed il congresso della CCI. Evidentemente, esistono delle differenze in quanto all'ampiezza ed all'impatto immediato di questi due incontri ma vale la pena di sottolineare quanto sia sorprendente il contrasto tra loro, tanto sulle circostanze, che sugli scopi ed il modo di funzionamento. Da un lato c'era una riunione dietro i fili di ferro spinato, un dispiegamento poliziesco senza precedenti e la repressione, una riunione dove le dichiarazioni sulla "sincerità dei dibattiti", sulla "pace" e su "l'avvenire dell'umanità" erano solamente un schermo destinato a mascherare gli antagonismi tra Stati capitalisti, a preparare nuove guerre ed a preservare un sistema che non offre nessun avvenire all'umanità. Dall'altro, c'era una riunione di rivoluzionari di 15 paesi che combattono tutti gli schermi, tutte le false parvenze, che conducono dei dibattiti realmente fraterni, con un profondo spirito internazionalista, per contribuire all'unica prospettiva capace di salvare l'umanità: la lotta internazionale ed unita della classe operaia in vista del rovesciamento del capitalismo e l'instaurazione della società comunista.
Sappiamo che la strada che conduce là è ancora lunga e difficile ma la CCI è convinta che il suo 17° congresso costituisce una tappa molto importante su questa strada.
CCI
1. Vedere il nostro articolo "I trent'anni della CCI: appropriarsi del passato per costruire l'avvenire", presente sul sito internet.
2. Opop: Opposizione Operaia. Si tratta di un gruppo presente in diverse città del brasile che si è costituito all’inizio degli anni novanta, in particolare con elementi che hanno rotto con la CUT (Centrale sindacale) e il Partito dei lavoratori di Lula (attuale presidente di questo paese) per raggiungere le posizioni del proletariato, in particolare sulla questione vitale dell’internazionalismo, ma anche sulla questione sindacale (denuncia di questi organi come strumenti della classe borghese) e parlamentare (denuncia della mascherata “democratica”). È un gruppo attivo nelle lotte operaie (in particolare nel settore delle banche) con cui la CCI conduce delle discussioni fraterne da qualche anno (il nostro sito in lingua portoghese ha in particolare pubblicato un resoconto del nostro dibattito sul materialismo storico). Peraltro, le nostre due organizzazioni hanno organizzato parecchie riunioni pubbliche comuni in Brasile (vedere in proposito Quattro interventi pubblici della CCI in Brasile: Un rafforzamento delle posizioni proletarie in Brasile, in Revolution Internationale n°365) e hanno pubblicato una presa di posizione comune sulla situazione sociale di questo paese. Una delegazione di Opop era già presente all'epoca del 17° congresso della nostra sezione in Francia, nella primavera 2006 (vedere il nostro articolo: "17° congresso di Révolution Internationale: l'organizzazione rivoluzionaria alla prova della lotta di classe" in Révolution Internationale n° 370).
3. SPA: Socialist Political Alliance, Alleanza Politica Socialista. È un gruppo che si è dato come compito di fare conoscere in Corea le posizioni della Sinistra comunista, particolarmente attraverso la traduzione di alcuni dei suoi testi fondamentali, e di animare in questo paese, ed anche internazionalmente, le discussioni tra gruppi ed elementi intorno a queste posizioni. Il SPA ha organizzato nell'ottobre 2006 una conferenza internazionale a cui la CCI, che intratteneva discussioni con questa organizzazione all'incirca da un anno, ha mandato una delegazione (vedere il nostro articolo "Rapporto sulla conferenza in Corea - ottobre 2006" nella Révue Internazionale n° 129). Bisogna notare che i partecipanti a questa conferenza, che si è tenuta appena dopo le prove nucleari della Corea del Nord, hanno adottato una" Dichiarazione internazionalista dalla Corea contro la minaccia di guerra" (vedere sito internet).
4. EKS: Enternasyonalist Komünist Sol, Sinistra Comunista Internazionalista; gruppo costituito recentemente in Turchia che si trova risolutamente sulle posizioni della Sinistra comunista e di cui abbiamo pubblicato delle prese di posizione.
5. Su queste conferenze internazionali vedere il nostro articolo "Le conferenze internazionali della Sinistra Comunista (1976-1980) - Lezioni di un'esperienza per il campo proletario" nella Revue Internationale n° 122. Il sabotaggio di queste conferenze da parte dei gruppi che andavano a costituire il Bureau Internazionale per il Partito Rivoluzionario (BIPR) non aveva impedito tuttavia alla CCI di invitare questa organizzazione al suo 13° congresso, nel 1999. Infatti, avevamo pensato che la gravità del gioco imperialista al centro dell'Europa (era il momento dei bombardamenti della Serbia da parte degli eserciti della NATO) meritava che i gruppi rivoluzionari lasciassero da parte i loro risentimenti per ritrovarsi in uno stesso luogo ad esaminare insieme le implicazioni del conflitto ed, eventualmente, produrre una dichiarazione comune. Purtroppo, il BIPR aveva declinato questo invito.
6. Poiché Internasyonalismo era politicamente presente, anche se non era stato possibile alla sua delegazione di essere fisicamente presente.
7. Vedere su questo argomento i nostri articoli "Conferenza straordinaria della CCI: La lotta per la difesa dei principi organizzativi" e "15° Congresso della CCI: Rafforzare l'organizzazione di fronte alla posta in gioco del periodo" nei numeri 110 e 114 della Révue Internationale.
8. Vedere "La fiducia e la solidarietà nella lotta del proletariato" e " Marxismo ed etica" nei numeri 111, 112, 127 e 128 della Révue Internationale.
Decadenza e decomposizione del capitalismo
1. Tra gli elementi che determinano la vita della società capitalistica di oggi uno dei più importanti è il fatto che essa è entrata nella sua fase di decomposizione. Dalla fine degli anni ottanta, la CCI ha dimostrato le cause e le caratteristiche di questa fase di decomposizione. In particolare ha messo in evidenza le seguenti questioni:
a) la fase di decomposizione è parte integrante della decadenza del sistema capitalistico, iniziata con la prima Guerra mondiale (come sottolinearono la maggior parte dei rivoluzionari del tempo). Per questo essa conserva le caratteristiche principali della decadenza, con l’aggiunta di nuovi elementi;
b) essa costituisce la fase finale della decadenza, nella quale oltre a trovare accumulati tutti i segni più catastrofici delle fasi precedenti, possiamo vedere rovinare l’intero edificio sociale;
c) in pratica tutti gli aspetti della società sono affetti da decomposizione, in modo particolare quelli decisivi per la sopravvivenza dell’umanità come le guerre imperialiste e la lotta di classe. In questo senso, intendiamo usare la fase di decomposizione come punto di partenza dal quale esaminare gli aspetti più significativi dell’attuale situazione internazionale: le crisi economiche del sistema capitalistico, i conflitti all’interno della classe dominante, specialmente quelli su terreno imperialista, e infine la lotta tra le classi principali della società: borghesia e proletariato.
2. Paradossalmente, l’economia del capitalismo è l’aspetto della società meno affetto da decomposizione. Questo è fondamentale, perché è proprio la situazione economica che, in ultima istanza, determina gli altri aspetti della vita del capitalismo, incluso quelli che concernono la decomposizione. Il modo di produzione capitalistico, proprio come gli altri modi di produzione precedenti, ha avuto una sua fase ascendente giunta al suo massimo alla fine del XIX secolo, dopo di che è entrato nel suo periodo di decadenza all’inizio del XX. All’origine di questa decadenza sta, come per gli altri sistemi economici, il crescente conflitto tra le forze produttive e i rapporti di produzione. Concretamente, nel caso del capitalismo, il cui sviluppo è stato condizionato dalla conquista dei mercati extra-capitalisti, la prima Guerra mondiale costituì la prima manifestazione significativa della sua decadenza. Con la fine delle conquiste economiche e coloniali nel mondo da parte degli Stati capitalisti, questi ultimi furono portati a confrontarsi in una disputa per accaparrarsi il mercato gli uni a spese degli altri. Da allora, il capitalismo è entrato in un nuovo periodo della sua storia, definito dall’Internazionale Comunista nel 1919 come epoca di guerre e rivoluzioni. Il fallimento dell’ondata rivoluzionaria scoppiata durante la prima guerra mondiale generò le crescenti convulsioni della società capitalistica: la grande depressione degli anni ’30 e le sue conseguenze, una seconda guerra mondiale ancor più sanguinaria e barbara della prima. Il periodo che seguì, descritto da alcuni “esperti” borghesi come i “gloriosi anni trenta”, videro il capitalismo alle prese con l’illusione di sopravvivere alle sue contraddizioni mortali, una illusione ancora cullata da alcune correnti che si dicono a favore della rivoluzione comunista. In realtà, questo periodo di prosperità, permesso dalla congiunzione di elementi circostanziali e dallo sviluppo di misure per dissimulare gli effetti delle crisi economiche, finì ancora una volta nelle crisi aperte del modo di produzione capitalista della fine degli anni ’60, che crebbero vigorosamente a metà dei ’70. Queste crisi aperte del modo di produzione capitalistica aprirono ancora una volta il varco all’alternativa già annunciata dall’Internazionale Comunista: la guerra mondiale, o lo sviluppo delle lotte operaie dirette verso l’abbattimento del capitalismo. La guerra mondiale, contrariamente a quanto possano pensare alcuni gruppi della sinistra comunista, in nessun caso rappresenta una “soluzione” alle crisi del capitalismo, incapace di rigenerarsi e riavviare una crescita dinamica. Questo è il circolo vizioso del sistema: inasprimento delle tensioni tra settori nazionali del capitalismo, che danno vita ad una crescita senza freni del livello militare, che infine sfocia nella guerra mondiale. In effetti, come conseguenza dell’aggravamento delle convulsioni economiche del capitalismo, ci fu un netto acuirsi delle tensioni imperialiste agli inizi degli anni ’70, ma che comunque non era possibile culminassero in una guerra mondiale. Il motivo è la rinascita della lotta di classe dal 1968 in poi, come reazione ai primi effetti della crisi. Allo stesso tempo, la classe operaia, anche se fu capace di bloccare l’unica prospettiva possibile della borghesia (se è possibile chiamarla “prospettiva”), e nonostante un livello di combattività che non si vedeva da decenni, non fu capace di affermare la propria prospettiva, la rivoluzione comunista. Fu proprio questa situazione, in cui nessuna delle due classi decisive nella vita della società era in grado di imporre la propria prospettiva, una situazione in cui la classe dominante si è ridotta a vivere alla giornata, a segnare l’inizio dell’entrata del capitalismo nella sua fase di decomposizione.
3. Una delle manifestazioni maggiori di questa assenza di prospettiva storica è lo sviluppo dell’”ognuno per sé”, che affligge la società a tutti i livelli, dagli individui allo Stato. Comunque, a livello della vita economica del capitalismo, non possiamo riscontrare un cambiamento considerevole con l’ingresso nella fase di decomposizione. Infatti, l’“ognuno per sé” e la “guerra di tutti contro tutti” sono caratteristiche congenite del modo di produzione capitalista. Sin dall’inizio del suo periodo di decadenza, il capitalismo ha dovuto temperare queste sue caratteristiche attraverso il massiccio intervento dello Stato nell’economia, mezzo usato durante la prima Guerra mondiale e riattivato negli anni ’30, in particolare attraverso il fascismo e le politiche keynesiane. L’intervento da parte dello Stato fu completato, nel corso della seconda guerra mondiale, dalla messa a punto di organismi internazionali come il FMI, la Banca Mondiale e l’OCSE, e infine la Comunità Economica Europea (antenata dell’Unione Europea) al fine di prevenire le contraddizioni del sistema economico che lo guidavano verso il disastro generale, come fu col Giovedì Nero del 1929. Oggi, a dispetto di tutti i discorsi sul liberalismo e il libero mercato, gli Stati non hanno rinunciato ad intervenire nelle economie dei rispettivi paesi, o ad usare strutture atte a prolungare per quanto possibile le relazioni tra essi, o a crearne di nuove come il WTO (Organizzazione Mondiale del Commercio). Tuttavia, nessuna di queste politiche, o di questi organismi, pur avendo messo un freno significativo allo scivolare del capitalismo verso le crisi, è riuscita nell’intento di superare le contraddizioni, a dispetto di tutti i sermoni sul livello di crescita “storico” dell’economia mondiale e sulle performance straordinarie dei giganti asiatici, l’India e soprattutto la Cina.
Crisi economica: una lunga scivolata nel debito
4. La base del livello dei tassi di crescita del PIL globale dei recenti anni, che ha provocato l’euforia della borghesia e dei suoi insulsi intellettuali, non è proprio nuova. E’ la stessa che ha permesso di assicurare che la saturazione del mercato, alla radice della crisi aperta alla fine degli anni ’60, non soffocasse l’economia mondiale. Ma i tassi di crescita vanno sommati come debito crescente. Allo stato attuale, la “locomotiva” principale della crescita economica mondiale è costituita dalla massa di debiti dell’economia americana, sia a livello di bilancio statale che a livello commerciale. Proprio in questi giorni la minaccia del boom edilizio negli USA, che è stato propulsivo per l’economia sollevandola dal pericolo di un catastrofico fallimento bancario, ha causato un considerevole allarme tra gli economisti. Questo allarme è stato causato dalla prospettiva di un altro fallimento che ha colpito i cosiddetti "hedge funds" (fondi spazzatura) a seguito del collasso di Amaranth nell’Ottobre 2006. La minaccia è abbastanza seria perché questi organismi, la cui ragione di esistere è trarre grossi profitti a breve termine dalla variazione dei tassi di scambio e del prezzo delle materie prime, sono ormai parte integrante del sistema finanziario internazionale. Infatti, sono le più “serie” istituzioni finanziarie che hanno messo una parte del proprio assetto in questi fondi speculativi. Inoltre, le somme investite in questi organismi sono considerevoli, pari al PIL annuale di un paese come la Francia; e agiscono come una leva per ancor più considerevoli movimenti di capitale (prossimi a 700.000 miliardi di dollari nel 2002, cioè 20 volte superiore alle transazioni dei beni e dei servizi, i prodotti “reali”). E niente di tutto ciò sarà cambiato dalle lamentele degli alter-mondialisti o dai critici della finanziarizzazione dell’economia. Queste correnti politiche vorrebbero vedere un capitalismo più pulito e giusto che rinunci alla speculazione. In realtà, la speculazione non è soltanto il prodotto di un “cattivo” tipo di capitalismo che ha dimenticato le proprie responsabilità di investire in settori realmente produttivi. Come Marx già dimostrava nel XIX secolo, la speculazione è il risultato del fatto che, quando si affaccia una prospettiva di scarsità o insufficienza di sbocchi per gli investimenti produttivi, i detentori di capitale preferiscono cercare profitti a breve termine in una enorme lotteria, un casinò planetario, proprio come quello in cui oggi è stato trasformato il capitalismo. Volere che oggi il capitalismo rinunci alla speculazione è realistico come una tigre vegetariana o un dragone che non sputa fiamme.
5. Gli eccezionali tassi di crescita osservabili in paesi come India e Cina non provano assolutamente la presenza di nuova linfa nell’economia mondiale, anche se hanno contribuito considerevolmente agli alti tassi di crescita dell’ultimo periodo. Alla base dei tassi di crescita eccezionali c’è, paradossalmente, ancora una volta la crisi del capitalismo. La crescita deve la sua dinamica essenzialmente a due fattori: l’esportazione e l’investimento di capitali provenienti da paesi più sviluppati. Se le reti commerciali sono più inclini alla distribuzione dei beni made in China è perché possono venderli a prezzi molto più bassi, cosa che è diventata una assoluta necessità data la crescente saturazione dei mercati e la oltremodo esacerbata competizione commerciale; allo stesso tempo, questo processo abbassa i costi della forza lavoro nei paesi più sviluppati. La stessa logica è riscontrabile nel fenomeno della ”delocalizzazione” (outsourcing), il trasferimento delle attività industriali di grandi imprese verso i paesi del terzo mondo, dove la forza lavoro è incomparabilmente più economica che nei paesi sviluppati. Va ancora notato che l’economia cinese, beneficiaria della delocalizzazione nel proprio territorio, tende a sua volta a fare lo stesso verso i paesi dove i salari sono ancora più bassi, come in Africa.
6. Dietro la “crescita a due cifre” della Cina, specialmente per l’industria, vi è un sfruttamento forsennato della classe operaia che spesso sopravvive in condizioni analoghe a quelle della classe operaia inglese della prima metà del XIX secolo, come Engels ha denunciato nel suo notevole lavoro del 1844. In sé e per sé questo non è un segno della bancarotta del capitalismo perché era sulla base di quel barbaro sfruttamento che questo sistema si lanciava alla conquista del globo. Detto questo, ci sono differenze fondamentali tra lo sviluppo del capitalismo e le condizioni della classe operaia nei primi paesi capitalisti e nella Cina di oggi:
Quindi, lungi dal rappresentare un soffio di aria buona per l’economia capitalista, il “miracolo” in Cina e in alcuni paesi del terzo mondo è solo una rappresentazione della decadenza del capitalismo. Inoltre, la totale dipendenza dell’economia cinese verso le esportazioni è fonte di una considerevole vulnerabilità ad ogni calo della domanda degli attuali clienti. Cosa che potrebbe verificarsi duramente dato che l’economia americana è obbligata a fare fronte ai colossali debiti, che attualmente gli permettono di giocare il ruolo di locomotiva per la domanda mondiale. Quindi, proprio come il miracolo delle crescite a due cifre delle tigri e dragoni asiatici del 1997 giunse ad una spiacevole fine, l’attuale miracolo cinese, anche se non ha le stesse origini ed ha margini di gran lunga maggiori a propria disposizione, dovrà presto o tardi confrontarsi con l’impasse storica del modo di produzione capitalistico.
Aggravamento del caos e delle tensioni imperialiste
7. La vita economica della società borghese non trova scampo dalle leggi della decadenza capitalista, e per diverse ragioni: è a questo livello che la decadenza si manifesta prima e soprattutto. Tuttavia, per le stesse ragioni, le maggiori espressioni della decomposizione hanno fino ad ora risparmiato la sfera economica. La stessa cosa non si può dire per la sfera politica della società capitalistica, e in particolare per l’area degli antagonismi tra i settori della classe dominante e soprattutto l’area degli antagonismi imperialisti. Infatti, la prima grande espressione dell’ingresso del capitalismo nella fase di decomposizione concerne precisamente l’area dei conflitti imperialisti: il collasso del blocco imperialista dell’est alla fine degli anni ’80, che portò rapidamente anche alla sparizione del blocco occidentale.
E’ a livello delle relazioni politiche diplomatiche e militari degli Stati che vediamo chiaramente il fenomeno dell’”ognuno per sé”, caratteristica importante della fase di decomposizione. Il sistema dei blocchi portava con sé il pericolo di una terza Guerra mondiale, che senza dubbio avrebbe avuto luogo se il proletariato mondiale non avesse rappresentato un ostacolo sin dalla fine degli anni sessanta. Ciononostante esso rappresentava una certa “organizzazione” delle tensioni imperialiste, principalmente attraverso la disciplina imposta all’interno dei blocchi dalla potenza dominante. La situazione che si impose nel 1989 è leggermente diversa. Certamente, lo spettro di una Guerra mondiale non ha ossessionato ulteriormente il pianeta, ma allo stesso tempo, abbiamo visto il liberarsi degli antagonismi imperialisti e delle guerre locali in cui sono implicate direttamente le grandi potenze, in particolare la più potente, gli USA.
Gli USA, che per decenni sono stati i “gendarmi del mondo”, hanno dovuto tentare di proseguire e rinvigorire questo ruolo a seguito del “nuovo disordine mondiale” che è fuoriuscito dalla fine della Guerra Fredda. Ma nonostante abbiano certamente assunto questo ruolo sulla Terra, essi non l’hanno fatto per puntare a contribuire alla stabilità del pianeta, ma per conservare fondamentalmente la loro leadership mondiale, messa in questione più volte dal fatto che non esisteva più il cemento che manteneva insieme i due blocchi imperialisti – la minaccia del blocco rivale.
Con la definitiva scomparsa della “minaccia Sovietica”, il solo modo con cui la potenza americana poteva imporre la propria disciplina era di contare sulla propria forza, l’enorme superiorità a livello militare. Ma facendo ciò, la politica militare degli USA è diventata uno dei principali fattori dell’instabilità mondiale. Ne abbiamo diversi esempi dagli inizi degli anni ’90: la prima guerra del Golfo, nel 1991, con cui si tentò di riannodare i legami logori che tenevano gli ex alleati del blocco occidentale (e non per obbligare a rispettare le leggi internazionali, ritenute non rispettate dall’invasione dell’Iraq del Kuwait, che fu in effetti un pretesto). Poco tempo dopo, in Iugoslavia, l’unità tra i vecchi alleati del blocco occidentale andava in pezzi: la Germania dà fuoco alla miccia spingendo la Slovenia e la Croazia a dichiarare la loro indipendenza; la Francia e l’Inghilterra ritornavano all’Entente Cordiale degli inizi del XX secolo sostenendo gli interessi imperialisti della Serbia mentre gli stessi Usa si presentavano come guardiani dei musulmani bosniaci.
8. Il fallimento della borghesia Americana, durante gli anni ’90, nell’ imporre la propria autorità in ogni direzione, anche grazie ad una serie di operazioni militari, la condusse a cercare un nuovo nemico del “mondo libero” e della “democrazia”, così da riuscire ancora una volta ad allineare le potenze mondiali e specialmente i vecchi alleati: il terrorismo islamico. Gli attacchi dell’11 settembre, che sembra sempre di più (anche a più di un terzo della popolazione USA e a tà dei cittadini di New York) che fossero voluti se non effettivamente preparati dall’apparato statale americano, sono stati il punto di partenza per questa nuova crociata. Cinque anni dopo questa politica si è dimostrata fallimentare. Se gli attacchi dell’11 settembre permisero agli USA di trascinare nell’intervento in Afghanistan paesi come Francia e Germania, questo non gli riuscì nell’avventura irachena del 2003; provocò addirittura la nascita di una alleanza di circostanza contro l’intervento in Iraq tra questi due paesi e la Russia. Ed infine, alcuni tra i maggiori alleati della “coalizione” intervenuta in Iraq, come Spagna e Italia, hanno abbandonato la nave che affondava. La borghesia americana ha fallito ognuno degli obiettivi preposti per la guerra in Iraq: l’eliminazione delle armi di distruzione di massa, l’instaurazione di una democrazia pacifica; la stabilità e un ritorno alla pace nella regione sotto l’egida dell’America; la sconfitta del terrorismo; l’adesione della popolazione americana agli interventi militari del nuovo governo.
La questione delle armi di distruzione di massa fu subito sistemata: divenne chiaro che le uniche armi del genere in Iraq erano quelle portate dalla coalizione. Questo dimostrò rapidamente le menzogne architettate dalla amministrazione Bush per invadere l’Iraq.
Per quanto riguarda la battaglia contro il terrorismo, è chiaro che con l’invasione dell’ Iraq non si è andati nella giusta direzione ma al contrario si sono ottenuti effetti contrari, sia in Iraq che negli altri paesi, come abbiamo visto a Madrid nel marzo 2004 e a Londra nel luglio 2005.
L’instaurazione di una democrazia pacifica in Iraq prese la forma della nascita di un governo fantoccio che non avrebbe potuto mantenere il minimo controllo su paese senza il massiccio supporto delle truppe americane – un controllo in ogni caso limitato a poche “zone di sicurezza”, lasciando il resto del paese esposto al massacro tra sciiti e sunniti e agli attacchi terroristici che hanno causato decine di migliaia di vittime dalla caduta di Saddam Hussein.
Pace e stabilità nel Medio Oriente non sono mai sembrate così lontane: nei 50 anni di conflitto tra Israele e Palestina, gli ultimi 5 anni hanno visto un continuo aggravamento della situazione, fattasi ancora più drammatica con gli attriti tra Hamas e Fatah e dal discredito crescente del governo israeliano. La perdita di autorità nella regione da parte del gigante USA, a seguito della disastrosa disfatta in Iraq, chiaramente non è estranea a questa caduta e al fallimento del “processo di pace” di cui era il maggior sostenitore.
La perdita di autorità è anche responsabile delle crescenti difficoltà delle forze NATO in Afghanistan e della perdita di controllo del governo Karzai nel paese di fronte ai Talebani.
Inoltre, la crescente sfrontatezza dell’Iran nei suoi preparativi per costruire armi nucleari è una diretta conseguenza dell’impantanamento degli Stati Uniti nelle sabbie mobili dell’Iraq, che per il momento impediscono un simile massiccio uso di truppe altrove.
Infine, l’intento della borghesia americana di seppellire una volta per tutte “la sindrome del Vietnam”, cioè la reticenza della popolazione americana a supportare le proprie truppe inviate sui campi di battaglia, ha avuto l’effetto opposto. Sebbene, in un periodo iniziale l’emozione provocata dagli attacchi dell’11 settembre ha reso possibile un forte sentimento nazionalista all’interno della popolazione, promuovendo il desiderio di unità nazionale e la determinazione a dichiarare la “guerra al terrore”, negli anni recenti si è manifestata con forza la reazione alla guerra e l’opposizione all’invio di truppe USA lontano da casa.
La borghesia statunitense oggi in Iraq si trova di fronte ad un vero vicolo cieco. Da una parte, sia dal punto di vista strettamente militare che da quello economico e politico, non ha i mezzi per reclutare una forza che eventualmente potrebbe permettere di “ristabilire l’ordine”. Dall’altra, non può ritirarsi semplicemente dall’Iraq senza ammettere apertamente il totale fallimento della propria politica, aprendo così le porte alla disgregazione dell’Iraq e alla totale destabilizzazione della regione.
9. Perciò il bilancio del mandato di Bush junior è di certo uno dei più disastrosi della storia USA. L’ascesa dei Neocon alla testa dello Stato rappresenta una vera catastrofe per la borghesia americana. La questione posta è la seguente: come è possibile che la borghesia leader del mondo faccia appello a questa banda di irresponsabili e avventurieri incompetenti per prendere in carico la difesa dei propri interessi? Cosa c’è dietro questa cecità della classe dominante del paese dal capitalismo più avanzato? Nei fatti, l’arrivo del gruppo di Cheney, Rumsfeld e Co. alle redini dello stato non è stato semplicemente il risultato di un monumentale errore nel casting da parte della classe dominante. Mentre ha considerevolmente peggiorato la situazione degli Stati Uniti a livello imperialista, ha anche rappresentato l’espressione dell’impotenza degli Usa rispetto al crescente indebolimento della sua leadership e più in generale di fronte allo sviluppo dell’”ognuno per sé” nelle relazioni internazionali che caratterizza la fase di decomposizione.
La migliore prova di questo fatto è che la borghesia più intelligente e abile del mondo si è fatta trascinare in questa avventura suicida in Iraq. Un altro esempio della inclinazione per scelte imperialiste catastrofiche da parte dei borghesi più efficienti, che fino ad ora erano riusciti ad usare con maestria la propria potenza militare, è visibile a scala minore nell’avventura catastrofica di Israele in Libano nell’estate del 2006, un’offensiva condotta col lasciapassare degli “strateghi” di Washington. Questa mirava ad indebolire Hezbollah ed ha avuto come risultato il suo rafforzamento.
La distruzione accelerata dell’ambiente
10. Il caos militare che si sviluppa nel mondo, che spinge vaste regioni in una malsana desolazione, in modo notevole nel Medio Oriente ma soprattutto in Africa, non è la sola manifestazione del vicolo cieco storico raggiunto dal capitalismo, e neanche la più pericolosa per la specie umana. Oggi appare chiaro che il perdurare del capitalismo porta con sé la minaccia della distruzione dell’ambiente che rende possibile la vita umana. Le continue emissioni di gas serra al livello attuale, col risultato del surriscaldamento del pianeta, annunciano l’arrivo di catastrofi senza precedenti (ondate di caldo, uragani, desertificazione, alluvioni…) con la conseguenza di una sfilza di terrificanti disastri umani (carestie, migrazioni di centinaia di milioni di esseri umani, sovrappopolazione nelle aree meno afflitte dai cambiamenti climatici…). Rispetto ai primi effetti visibili del degrado ambientale, i governi e i circoli dirigenti della borghesia non possono a lungo nascondere alla popolazione mondiale la gravità della situazione e il futuro catastrofico che si annuncia. D’ora in avanti, le borghesie più potenti e tutti i partiti politici si vestono di bianco promettendo di prendere le misure necessarie per salvare l’umanità dal disastro incombente. Ma con la distruzione delle risorse è come col problema della guerra: tutti i settori della borghesia dichiarano di essere contro la guerra, ma da quando il sistema è entrato nella fase di decadenza questa classe è stata incapace di garantire la pace. E questo non ha niente a che vedere con le buone o le cattive intenzioni (anche se si possono trovare i più sordidi interessi dietro quei settori che spingono fortemente per la guerra). Anche i leader borghesi più “pacifisti” non possono sfuggire alla logica oggettiva che metterà a repentaglio tutte le loro pretese “umaniste” e “razionali”. Allo stesso modo, le buone intenzioni frequentemente sventolate dai leader della borghesia che hanno a cuore la protezione dell’ambiente, anche quando non sono soltanto dirette alla vittoria elettorale, contano poco contro le costrizioni dell’economia capitalistica. In effetti affrontare il problema dell’emissione di gas serra richiede un migliore struttura della produzione industriale, della produzione energetica , dei trasporti, della casa, quindi un massiccio e prioritario investimento in questi settori. Ciò significherebbe mettere nella questione maggiori interessi economici, sia a livello della grande impresa che statale. Concretamente, se uno Stato mettesse mano alle misure necessarie a contribuire effettivamente a risolvere il problema, sarebbe immediatamente punito con crudeltà dalla competizione del mercato mondiale. Quando si tratta di decidere come gli Stati dovrebbero combattere il riscaldamento globale, si ha lo stesso problema che ogni borghesia affronta rispetto agli aumenti salariali. Sono tutti per prendere le giuste disposizioni… purché siano gli altri a prenderle. Finchè il modo di produzione capitalista sopravvive, l’umanità è condannata a subire catastrofi crescenti che questo sistema in disgregazione impone, minacciando la sua stessa sopravvivenza.
Perciò, come la CCI mostra da 15 anni, la decomposizione del capitalismo porta con sè serie minacce per l’esistenza umana. L’alternativa annunciata da Engels alla fine del XIX secolo, socialismo o barbarie, è stata una sinistra verità per tutto il XX secolo. Cosa ci offre il XXI secolo come prospettiva è abbastanza semplice: socialismo o distruzione dell’umanità. Questa è la vera posta in gioco cui è confrontata l’unica forza sociale in grado di sovvertire il capitalismo, la classe operaia mondiale.
La continuazione della lotta di classe e la maturazione della coscienza
11. Il proletariato, come abbiamo visto, si è già trovato di fronte a questa posta in gioco per alcuni decenni, sin dalla storica ripresa dopo il 1968 che mise fine alla più profonda contro-rivoluzione delle storia, e che impedì al capitalismo di mettere in atto la propria risposta alla aperta crisi economica: la Guerra mondiale. Per due decenni si susseguirono le lotte dei lavoratori, con alti e bassi, con conquiste e perdite, che permisero ai lavoratori di acquisire una grande esperienza di lotta, in particolare sul ruolo di sabotaggio dei sindacati. Allo stesso tempo, la classe operaia fu soggetta sempre più al peso della decomposizione, come si nota in particolare nella reazione al sindacalismo classico che scade nel corporativismo, come è testimoniato dal peso dello spirito dell’ognuno per sè all’interno delle lotte. Fu infine la decomposizione del capitalismo a dare il colpo di grazia alla prima serie di lotte proletarie con la più spettacolare manifestazione possibile, il collasso del blocco dell’est e del regime stalinista nel 1989. Le assordanti campagne della borghesia sul “fallimento del comunismo”, la “vittoria definitiva del capitalismo liberale e democratico”, la “fine della lotta di classe” e della classe operaia stessa, portò ad un importante arretramento del proletariato, sia a livello della coscienza che della combattività. Questo arretramento fu profondo è durò più di dieci anni segnando un’intera generazione di lavoratori che si trovarono disgregati e demoralizzati. Questo disgregamento fu provocato non solo dagli eventi che avvennero alla fine degli anni ottanta, ma anche da quelli che ne conseguirono, come la guerra del Golfo nel 1991 e la guerra nella ex Jugoslavia. Questi eventi costituirono una stridente refutazione delle parole di George Bush senior, che aveva annunciato che con la fine della Guerra Fredda si entrava in un “nuovo ordine” di pace e prosperità; ma nel contesto generale di disorientamento della classe, quest’ultima non fu in grado di riacquistare la propria coscienza di classe. Al contrario, questi eventi aggravarono il senso profondo di impotenza di cui già soffriva, erodendo ulteriormente la propria fiducia in se stessa e lo spirito di lotta.
Nel corso degli anni novanta la classe operaia non ha rinunciato completamente alla lotta. I continui attacchi capitalisti obbligavano a resistere con lotte salariali, ma queste lotte non avevano né la portata, né la coscienza e neanche la capacità di confronto con i sindacati che avevano segnato le lotte del precedente periodo. Fu così fino al 2003, quando, con grandi mobilitazioni contro gli attacchi alle pensioni in Francia ed Austria, il proletariato cominciò realmente ad uscir fuori dal riflusso iniziato nel 1989. Da allora, questa tendenza al ritorno delle lotte di classe e allo sviluppo della coscienza di classe è stata ulteriormente verificata. Le lotte operaie hanno riguardato molti paesi centrali, inclusi quelli più importanti come gli Usa (Boeing e trasporti di New York nel 2005) la Germania (Daimler e Opel nel 2004, medici ospedalieri nella primavera del 2006, Deutche Telekom nella primavera del 2007), l’Inghilterra (aeroporti di Londra nell’agosto 2005), la Francia (il notevole movimento degli studenti universitari contro il CPE nella primavera 2006), in Bangldesh (i lavoratori tessili nella primavera del 2006) e l’Egitto (tessile, trasporti ed altri settori del lavoro nella primavera del 2007).
12. Engels scrisse che la classe operaia conduce le proprie lotte su tre livelli: economico, politico e teorico. Per comparare le differenze a questi tre livelli tra l’ondata di lotte iniziate nel 1968 e quelle nel 2003 bisogna tracciare la prospettiva posta da queste ultime.
L’ondata di lotte del 1968 ebbe una considerevole importanza politica: in particolare, esse rappresentano la fine del periodo di controrivoluzione. Allo stesso tempo, hanno dato impulso alla riapparizione della corrente della sinistra comunista, di cui la formazione della CCI nel 1975 fu una delle espressioni più importanti. Le lotte del Maggio francese nel 1968, l’”autunno caldo” in Italia nel 1969, per le preoccupazioni politiche espresse, diedero vita all’idea che si andava verso una politicizzazione significativa della lotta operaia internazionale durante le lotte che seguirono. Ma questo potenziale non fu realizzato. L’identità di classe sorta all’interno del proletariato nel corso di quelle lotte fu più una categoria economica che una forza politica all’interno della società. In particolare, il fatto che con le proprie lotte si impedì alla borghesia di avviarsi verso la terza guerra mondiale passò completamente inosservato dalla classe (inclusi la maggior parte dei gruppi rivoluzionari). Allo stesso tempo, l’emergere dello sciopero di massa in Polonia nel 1980, che fino ad ora rappresenta la più alta espressione (dalla fine del periodo rivoluzionario seguito alla prima guerra mondiale) delle capacità organizzative del proletariato, dimostrò una considerevole debolezza politica. L’unica “politicizzazione” che fu possibile realizzare fu l’aderenza ai temi democratici borghesi nonché al nazionalismo.
Queste situazioni trovano le proprie ragioni in una serie di fattori che la CCI ha già analizzato:
13. La situazione in cui si sviluppa oggi la nuova ondata di lotta di classe è molto differente:
Queste condizioni comportano una serie di differenze tra la presente ondata di lotte e quelle terminate nel 1989.
Così, anche se rappresentano una risposta agli attacchi economici per molti versi molto più forti e generalizzati di quelli che hanno provocato la spettacolare e massiccia insorgenza della prima ondata, le attuali lotte non hanno raggiunto, almeno nei paesi centrali del capitalismo, lo stesso carattere di massa. Alla base di questo abbiamo essenzialmente due motivi:
Comunque, quest’ultimo aspetto della situazione non è il solo fattore che frena i lavoratori dall’intraprendere lotte massicce. Questo richiede anche la possibilità di un profondo sviluppo della coscienza sulla bancarotta definitiva del capitalismo, che è un presupposto per capire che bisogna abbatterlo. In un certo senso, anche se in modo molto confuso, è la mole dell’obiettivo della lotta di classe, che non è niente di meno che la rivoluzione comunista, che frena la classe operaia a intraprendere le lotte.
Perciò, anche se le lotte economiche della classe sono per il momento meno massicce che durante la prima ondata, contengono implicitamente una dimensione politica molto più importante. E questa dimensione politica ha già assunto una sua forma esplicita, come dimostrato dal fatto che sono pervase molto di più da una dimensione di solidarietà. Questo è di vitale importanza perché costituisce per eccellenza l’antidoto all’”ognuno per sé”, atteggiamento caratteristico della decomposizione sociale, e soprattutto è al cuore della capacità del proletariato mondiale non solo di sviluppare le lotte presenti ma soprattutto di abbattere il capitalismo:
14. Questa questione della solidarietà è stata al cuore del movimento contro il CPE in Francia nella primavera del 2006 che, nonostante coinvolse principalmente gli studenti medi e universitari, si pose su un terreno di classe:
15. Questo movimento fu anche esemplare per la capacità della classe di prendersi carico delle proprie lotte attraverso assemblee e comitati di lotta responsabili di fronte a queste (capacità già vista nelle lotte dei metallurgici di Vigo in Spagna nella primavera del 2006, quando un alto numero di fabbriche si sono unite in assemblee giornaliere in strada). Questo fu possibile principalmente per il fatto che i sindacati sono molto deboli in ambiente studentesco e non poterono giocare il ruolo tradizionale di sabotare la lotta, ruolo che continueranno a giocare fino alla rivoluzione. Una controprova del ruolo antioperaio che i sindacati continuano a giocare è il fatto che le lotte di massa che abbiamo visto nascere fino ad oggi hanno colpito principalmente i paesi del terzo mondo, dove i sindacati sono molto deboli (come in Bangladesh) o totalmente identificati allo Stato (come in Egitto).
16. Il movimento contro la CPE, che ha luogo nello stesso paese dove si combatterono le prime e più spettacolari lotte della ripresa proletaria, lo sciopero generale del Maggio 1968, ci fornisce un’altra lezione sulle differenze tra la presente ondata di lotte e quella precedente:
17. Quest’ultima questione ci fa tornare al terzo aspetto della lotta proletaria citato da Engles: la lotta teorica, lo sviluppo della riflessione all’interno della classe sulle prospettive generali della lotta e sullo sviluppo di elementi e organizzazioni come prodotto e fattori attivi di questo sforzo. Oggi, come nel 1968, la ripresa della lotta di classe è accompagnato da una profonda riflessione, e l’apparizione di nuovi elementi che si avvicinano alle posizioni della sinistra comunista è solo la punta dell’iceberg. In questo senso ci sono notevoli differenze tra il presente processo di riflessione e quello sviluppato nel 1968. La riflessione avviata a quel tempo seguiva le massicce e spettacolari lotte, mentre il processo presente non ha aspettato che la classe operaia conducesse lotte di quella portata prima di innescarsi. Questa è una delle conseguenze della differenza delle condizioni poste di fronte al proletariato in confronto a quelle della fine degli anni ’60.
Una delle caratteristiche dell’ondata di lotte del 1968 è che, a causa della sua portata, ricompariva la possibilità della rivoluzione proletaria, possibilità sparita dalle menti a causa della profondità della controrivoluzione e dell’illusione nella “prosperità” del capitalismo seguita alla seconda Guerra mondiale. Oggi non è la possibilità della rivoluzione che è al centro del processo di riflessione ma, in vista della prospettiva catastrofica che il capitalismo ha in serbo per noi, la sua necessità. Nei fatti questo processo, anche se meno rapido e meno visibile che negli anni ’70, è molto più profondo e non sarà intaccato dai momenti di riflusso nella lotta di classe.
Infatti l’entusiasmo espresso per l’idea di rivoluzione nel 1968 e negli anni seguenti, date le basi che lo avevano determinato, favorì il reclutamento della maggior parte degli elementi che aderirono ai gruppi gauchistes. Solo una minoranza molto piccola di questi elementi, quelli meno segnati dalla ideologia piccolo borghese e dall’immediatismo professato dai movimenti studenteschi, si avvicinarono alle posizioni della sinistra comunista e divennero militanti delle organizzazioni proletarie. Le difficoltà a cui andò incontro il movimento della classe operaia, specialmente a seguito alle differenti controffensive della classe dominante e in un contesto in cui era forte il peso delle illusioni in una possibilità per il capitalismo di migliorare la situazione, favorì un ritorno significativo all’ideologia riformista promossa dai gruppi “radicali” a sinistra dello stalinismo ufficiale, sempre più discreditato. Oggi, a seguito del crollo storico dello stalinismo, le correnti gauchistes tendono sempre più a prendere il posto lasciato vacante da quest’ultimo. La tendenza di queste correnti a voler diventare un partecipante ufficiale delle politiche borghesi tende a provocare una reazione tra i più sinceri militanti che iniziano una ricerca di autentiche posizioni di classe. Per questo motivo, lo sforzo di riflessione all’interno della classe operaia è dimostrato non solo dall’emergere di elementi molto giovani che si rivolgono alla sinistra comunista ma anche da elementi più vecchi che hanno avuto un esperienza all’interno delle organizzazioni dell’estrema sinistra della borghesia. Il fenomeno in sé è molto positivo e porta la promessa che le energie rivoluzionarie, che sorgeranno necessariamente man mano che la classe sviluppa le proprie lotte, non saranno risucchiate e sterilizzate facilmente e allo stesso modo in cui avvenne negli anni ’70, e che si uniranno alle organizzazioni della sinistra comunista in quantità modo molto maggiore.
É responsabilità delle organizzazioni rivoluzionarie, e della CCI in particolare, essere parte attiva del processo di riflessione già avviato in seno alla classe, non solo intervenendo attivamente nelle lotte quando queste iniziano a svilupparsi, ma anche stimolando lo sviluppo di gruppi ed elementi che cercano di unirsi alla lotta.
CCI, Maggio 2007Anche il più breve esame della storia dell'Estremo Oriente è sufficiente a rivelare l'immensa importanza di questa iniziativa. L'abbiamo messo in evidenza nel nostro "Saluto alla Conferenza": "Nel 1927, il massacro degli operai di Shangai è stato l'episodio finale di una lotta rivoluzionaria che, a partire dalla Rivoluzione d'ottobre in Russia del 1917, ha scosso il mondo per circa dieci anni. Negli anni successivi la classe operaia mondiale e l'insieme dell'umanità hanno subito i peggiori orrori della più terribile delle controrivoluzioni che la storia abbia mai conosciuto. In Oriente, la popolazione ha dovuto sopportare le premesse della Seconda Guerra mondiale con l'invasione della Manciuria da parte del Giappone; poi la stessa Guerra mondiale culminata con la distruzione di Hiroshima e Nagasaki; la guerra civile in Cina e la guerra della Corea; la terribile carestia in Cina durante il preteso "Grande balzo in avanti" sotto Mao Zedong, la guerra del Vietnam...
Tutti questi terribili avvenimenti che hanno scosso il mondo, hanno sottomesso un proletariato che, in Oriente, era ancora giovane ed inesperto e poco in contatto con lo sviluppo della teoria comunista in Occidente. Per quanto sappiamo, nessuna espressione della Sinistra comunista è potuta sopravvivere, né tanto meno è apparsa tra gli operai d'Oriente.
Perciò, il fatto che oggi, in Oriente, una conferenza dei comunisti internazionalisti sia stata voluta da un'organizzazione che si identifica esplicitamente alla Sinistra comunista è un avvenimento d'importanza storica per la classe operaia. Contiene la promessa - forse per la prima volta nella storia - dell'elaborazione di una vera unità tra gli operai d'Oriente e quelli d'occidente. Non è neanche un avvenimento isolato: esso fa parte di un lento risveglio della coscienza del proletariato mondiale e delle sue minoranze politiche". La delegazione della CCI ha dunque assistito alla Conferenza con l'obiettivo, non solo di contribuire per il meglio delle sue capacità all'emergere di una voce internazionalista della Sinistra comunista in Estremo Oriente, ma anche di apprendere: quali sono le domande più importanti degli operai e dei rivoluzionari in Corea? Quali forme prendono in questo paese le questioni che toccano l'insieme degli operai? Quali lezioni l'esperienza degli operai coreani può offrire altrove agli operai, specialmente in Estremo Oriente ma anche, in modo più generale, nell'insieme del mondo? Ed infine, il proletariato coreano quali lezioni può trarre dall'esperienza dei suoi fratelli di classe del resto del mondo?
La Conferenza si proponeva fin dall'inizio di discutere dei seguenti argomenti: la decadenza del capitalismo, la situazione della lotta di classe e la strategia che devono adottare i rivoluzionari nella situazione attuale. Tuttavia, nei giorni che hanno preceduto la Conferenza, l'importanza politica a lungo termine degli obiettivi che si era fissata è stata eclissata dall'esacerbazione drammatica delle tensioni imperialiste nella regione causata dall'esplosione della prima bomba nucleare della Corea del Nord e dalle manovre che hanno seguito, in particolare da parte delle differenti potenze presenti nella regione (Stati Uniti, Cina, Giappone, Russia, Corea del Sud). In una riunione che ha preceduto la Conferenza, la delegazione della CCI ed il gruppo della SPA di Seul sono stati d'accordo nel ritenere che, per gli internazionalisti, era importantissimo prendere pubblicamente posizione su questa situazione e hanno deciso di presentare congiuntamente alla Conferenza una Dichiarazione internazionalista contro la minaccia di guerra. Come vedremo, la discussione che questa Dichiarazione ha provocato ha costituito una parte importante dei dibattiti della Conferenza.
In questo Rapporto, ci proponiamo di esaminare alcuni dei temi principali che sono stati dibattuti alla Conferenza, nella speranza non solo di dare la sua più larga espressione alla stessa discussione, ma anche di contribuire alla riflessione dei compagni coreani offrendo una prospettiva internazionale alle domande alle quali oggi essi sono confrontati.
Prima di parlare della Conferenza, è necessario porre brevemente la situazione coreana nel suo contesto storico. Durante i secoli che hanno preceduto l'espansione del capitalismo in Estremo Oriente, la Corea ha beneficiato e sofferto contemporaneamente della sua posizione geografica in quanto piccolo paese posto tra due grandi potenze storiche: la Cina ed il Giappone. Da un lato, essa è servita da ponte e da catalizzatore culturale per i due paesi: non c'è dubbio per esempio che l'arte della ceramica in Cina e specialmente in Giappone deve molto agli artigiani vasai della Corea che hanno sviluppato le tecniche, oggi scomparse, della verniciatura delle porcellane verde pallido 1. Dall'altro, il paese è stato vittima di invasioni frequenti e brutali da parte dei suoi due potenti vicini, e per gran parte della sua storia recente, l'ideologia dominante è stata sotto il controllo di una casta di eruditi confuciani che lavoravano in lingua cinese e che hanno resistito all'influenza delle idee nuove che hanno corredato l'arrivo delle potenze europee nella regione. Durante il diciannovesimo secolo, la rivalità accanita e crescente tra la Cina, il Giappone e la Russia - questa potenza coloniale estendeva la sua influenza fino alle frontiere della Cina e sull'Oceano Pacifico - ha portato ad una competizione intensa per sviluppare la loro influenza nella stessa Corea. Tuttavia, l'influenza che ricercavano queste potenze era essenzialmente di ordine strategico: dal punto di vista di un rientro sull'investimento, le possibilità che offrivano la Cina ed il Giappone erano molto più importanti di quelle di cui disponeva la Corea, soprattutto considerando l'instabilità politica causata dalle lotte intestine tra le differenti fazioni delle classi dirigenti coreane, divise sui benefici dell' "ammodernamento", e dai tentativi di ciascuna di utilizzare l'influenza dei vicini imperialisti della Corea per rafforzare il proprio potere. All'inizio del ventesimo secolo, la Russia ha intensificato i suoi tentativi per porre una base navale in Corea, ciò che fu, e non poteva essere altrimenti, percepito dal Giappone come una minaccia mortale alla sua indipendenza: questa rivalità doveva condurre nel 1905 allo scoppio della guerra russo-giapponese durante la quale il Giappone annientò la flotta russa. Nel 1910, il Giappone invase la Corea stabilendo un regime coloniale che è durato fino alla sconfitta del Giappone nel 1945.
Lo sviluppo industriale, prima dell'invasione dei giapponesi, era dunque estremamente modesto e l'industrializzazione che seguì fu largamente dipendente dai bisogni dell'economia di guerra del Giappone: verso il 1945, c'erano circa due milioni di operai dell'industria in Corea, largamente concentrata nel Nord. Il Sud del paese restava essenzialmente rurale e soffriva di una grande povertà. E, come se la popolazione operaia della Corea non avesse sofferto sufficientemente del dominio coloniale, dell'industrializzazione forzata e della guerra 2, essa si trovò sulla zona frontiera del nuovo conflitto imperialista che ha dominato il mondo fino al 1989: la divisione del pianeta tra i due grandi blocchi imperialisti: Stati Uniti e URSS. L' URSS aveva deciso di sostenere l'insurrezione scatenata dal "Partito operaio coreano", stalinista, per sondare le nuove frontiere del dominio imperialista americano, proprio come aveva fatto in Grecia dopo il 1945. Il risultato fu lo stesso, sebbene molto più importante e ad una scala più distruttrice: una guerra civile crudele tra il Nord ed il Sud della Corea in cui le autorità coreane di ogni campo - anche se si battevano per difendere i propri interessi di borghesia - non erano niente altro che pedine tra le mani di potenze ben più grandi che si affrontavano per il dominio del mondo. La guerra è durata tre anni (1950-53). In questo periodo, tutta la penisola è stata devastata da un estremo all'altro dalle avanzate e dagli indietreggiamenti dei due eserciti rivali. La guerra si è conclusa con la divisione definitiva in due paesi separati: la Corea del Nord e la Corea del Sud. Gli Stati Uniti fino ad oggi, mantengono una presenza militare in Corea del Sud, con più di 30.000 uomini stazionati nel paese.
Anche prima della fine della guerra, gli Stati Uniti erano già giunti alla conclusione che la sola occupazione militare non avrebbe stabilizzato la regione 3 e decisero di mettere in opera l'equivalente di un piano Marshall per il Sud-est asiatico e l'estremo Oriente. "Sapendo che la miseria economica e sociale è il principale fattore su cui si appoggiano le frazioni nazionaliste filo sovietiche per arrivare al potere in certi paesi dell'Asia, gli Stati Uniti incominciano a trasformare le zone che si trovano nelle vicinanze immediate della Cina (Taiwan, Hongkong, Corea del Sud e Giappone) in avamposti della "prosperità occidentale". La priorità per gli Stati Uniti sarà di stabilire un cordone sanitario rispetto all'avanzamento del blocco sovietico in Asia" 4. Questa politica ebbe delle implicazioni importanti per la Corea del Sud: "Privo di materie prime e con l'essenziale dell'apparato industriale ubicato al Nord, questo paese all'indomani della guerra si ritrovò esangue: la caduta della produzione raggiunse il 44% e quella dell'impiego il 59%, i capitali, i mezzi di produzione intermediari, le competenze tecniche e le capacità di gestione erano quasi inesistenti. (...) Dal 1945 al 1978, la Corea del Sud ha ricevuto circa 13 miliardi di dollari, 600 per abitante, e Taiwan 5,6 miliardi, 425 per abitante. Tra il 1953 ed il 1960, l'aiuto straniero contribuisce per circa il 90% alla formazione del capitale fisso della Corea del Sud. L'aiuto fornito dagli Stati Uniti raggiungeva il 14% del PNL nel 1957. (...) Ma gli Stati Uniti non si sono limitati a fornire aiuto e sostegno militari, aiuto finanziario ed assistenza tecnica; hanno in effetti preso in carico nei differenti paesi tutta la direzione dello Stato e dell'economia. Nell'assenza di vere borghesie nazionali, il solo corpo sociale che poteva stare alla testa dell'impresa di ammodernamento voluto dagli Stati Uniti era rappresentato dagli eserciti. Un capitalismo di Stato particolarmente efficace sarà instaurato in ciascuno di questi paesi. La crescita economica sarà stimolata da un sistema che unirà strettamente il settore pubblico e privato, attraverso una centralizzazione quasi militare ma sotto il controllo del mercato. Contrariamente alla variante est europea di capitalismo di Stato che genererà delle caricature di derive burocratiche, questi paesi hanno unito la centralizzazione ed il potere statale con la sanzione della legge del valore. Sono stati messi in opera numerose politiche interventiste: la formazione di conglomerati industriali, il voto di leggi di protezione del mercato interno, il controllo commerciale alle frontiere, l'adozione di una pianificazione ora imperativa, ora incitante, una gestione statale dell'attribuzione dei crediti, un orientamento dei capitali e risorse dei differenti paesi verso i settori portanti, la concessione di licenze esclusive, di monopoli di gestione, ecc. E' così che in Corea del Sud, grazie alla relazione tessuta coi "chaebols" (equivalenti dei "zaibatsus" giapponesi) grandi conglomerati industriali spesso fondati per iniziativa o con l'aiuto dello Stato, i poteri pubblici di questo paese hanno orientato lo sviluppo economico"5.
La classe operaia della Corea del Sud si doveva dunque scontrare con una politica di sfruttamento feroce e con un'industrializzazione forsennata, eseguita da una successione di regimi militari instabili, semi-democratici e semi-autoritari che mantenevano il loro potere attraverso la repressione brutale degli scioperi e delle rivolte operaie, in particolare il sollevamento massiccio di Kwangju, all'inizio degli anni 19806. In seguito agli avvenimenti di Kwangju, la classe dirigente coreana ha provato a stabilizzare la situazione sotto la presidenza del generale Chun Doo-hwan, precedentemente alla testa della CIA coreana, dando una vernice democratica a quello che essenzialmente rimaneva un regime militare autoritario. Questo tentativo fallì penosamente: l'anno 1986 ha visto l'assembramento di un'opposizione di massa a Seul, Inch'on, Kwangju, Taegu e Pusan, mentre nel 1987 "Più di 3300 conflitti mobilitarono i lavoratori dell'industria che richiedevano salari più alti, migliori trattamenti e migliori condizioni di lavoro, costringendo il governo a fare delle concessioni cedendo su alcune loro rivendicazioni" 7. L'incapacità del regime militare corrotto del generale Chun di imporre la pace sociale con la forza condusse ad un cambiamento di direzione; il regime Chun adottò il "programma di democratizzazione" proposto dal generale Roh Tae-woo, leader del Partito Democratico della Giustizia, partito governativo che vinse le elezioni presidenziali a dicembre 1987. Le elezioni presidenziali del 1992 portarono al potere un leader di lunga data dell'opposizione democratica, Kim Young-Sam, e fu portata a termine la transizione della Corea verso la democrazia. O, come hanno detto i compagni della SPA, la borghesia coreana è riuscita finalmente ad edificare una facciata democratica sufficiente per nascondere il perseguire del dominio dell'alleanza tra gli apparati militari, i "chaebols", e l'apparato di sicurezza.
Conseguenze del contesto storico
Per quello che riguarda l'esperienza recente delle sue minoranze politiche, il contesto storico della Corea presenta delle analogie con quello di altri paesi della periferia, in Asia come in America latina8. Esso ha avuto delle conseguenze importanti per l'emergere di un movimento internazionalista nella stessa Corea.
A livello di ciò che potremmo chiamare "la memoria collettiva" della classe, è chiaro che esiste una differenza importante tra le esperienze politiche ed organizzative accumulate dalla classe operaia in Europa - che cominciava già nel 1848 ad affermarsi come forza indipendente nella società (la frazione "forza fisica" del movimento cartista in Gran Bretagna) - e quelle della classe in Corea. Se ci ricordiamo che le ondate di lotta di classe in Europa negli anni 1980 hanno visto il lento sviluppo di una diffidenza generale nei riguardi dei sindacati e la tendenza degli operai ad auto-gestire le loro lotte, è particolarmente sorprendente constatare che, durante lo stesso periodo, i movimenti in Corea erano segnati da una tendenza a fondere le lotte operaie per le rivendicazioni specifiche alla loro classe con rivendicazioni del "movimento democratico", e per una riorganizzazione dell'apparato statale. Perciò, l'opposizione fondamentale tra gli interessi della classe operaia e quelli delle frazioni democratiche non era immediatamente evidente per quei militanti che cominciavano un’ attività politica in quel periodo.
Non dobbiamo neanche sottovalutare le difficoltà create dalle barriere di lingua. La "memoria collettiva" della classe operaia è più forte quando prende una forma scritta e teorica. Mentre le minoranze politiche che sono sorte in Europa negli anni 1970 hanno avuto accesso, in testo originale o nella loro traduzione, agli scritti della sinistra della Seconda Internazionale (Lenin, Luxemburg), poi della sinistra della Terza Internazionale e della Sinistra comunista che ne è emersa (Bordiga, Pannekoek, Gorter, il gruppo della Sinistra italiana intorno a Bilan e la Sinistra comunista di Francia), in Corea, il lavoro di Pannekoek (I Consigli operai) e quello di Luxemburg (L'accumulazione del Capitale) cominciano appena ad essere pubblicati grazie agli sforzi congiunti del Seul Group for Workers'Councils (SGWC) e del SPA al quale il SGWC è associato strettamente9.
Più specifico alla situazione coreana, è stato l'effetto della spartizione del paese tra il Nord ed il Sud imposto dal conflitto imperialista tra i blocchi americano e russo, la presenza militare americana in Corea del Sud ed il sostegno che hanno portato gli Stati Uniti ai regimi militari successivi spariti nel 1988. La combinazione dell'inesperienza generale della classe operaia in Corea e dell'assenza al suo interno di una voce chiaramente internazionalista, alla quale bisogna aggiungere la confusione tra il movimento operaio e le opposizioni democratiche borghesi che abbiamo citato sopra, hanno condotto ad una contaminazione che ha pervaso la società globalmente di un nazionalismo coreano insidioso, spesso travestito in "anti-imperialismo" in cui sono solo gli Stati Uniti ed i loro alleati a sembrare forza imperialista. L'opposizione al regime militare, o addirittura al capitalismo, tende ad essere identificata con l'opposizione agli Stati Uniti.
Infine, una caratteristica importante dei dibattiti in seno al campo politico coreano è la questione dei sindacati. Per la generazione attuale di militanti l'esperienza dei sindacati risale in particolare, alle lotte degli anni 1980 e all'inizio degli anni 1990, nel corso delle quali i sindacati erano in gran parte clandestina, non ancora "burocratizzati" e certamente animati e diretti da militanti profondamente devoti, includendo compagni che, oggi, fanno parte della SPA e del SGWC. A causa delle condizioni di clandestinità e di repressione, i militanti implicati in questa epoca non vedevano chiaramente che il "programma" dei sindacati non solo non era rivoluzionario, ma non poteva difendere neanche gli interessi degli operai. Durante gli anni 1980, i sindacati erano legati strettamente all'opposizione democratica al regime militare la cui ambizione non era di rovesciare il capitalismo, ma proprio l'opposto: rovesciare il regime militare ed appropriarsi dell'apparato di capitalismo di Stato. In compenso, la "democratizzazione" della società coreana, dagli anni 1990, ha messo in evidenza l'integrazione dei sindacati nell'apparato di Stato, e ciò ha provocato uno smarrimento profondo tra i militanti sul modo di reagire a questa nuova situazione: come ha dichiarato un compagno, "i sindacati si sono trasformati al punto di diventare i migliori difensori dello Stato democratico". Ne risulta un'impressione generale di "delusione" rispetto ai sindacati e la ricerca di un altro metodo per l'attività militante in seno alla classe operaia. E' stato a più riprese che abbiamo potuto ascoltare, negli interventi durante la Conferenza e nelle discussioni informali, a che punto sia urgente per i compagni coreani avere accesso alla riflessione sulla natura dei sindacati nella decadenza del capitalismo, che ha costituito una parte tanto importante della riflessione nel movimento operaio europeo dalla rivoluzione russa e, in particolare, dall'insuccesso della rivoluzione in Germania.
Il nuovo millennio è dunque testimone dello sviluppo di uno sforzo reale da parte di numerosi militanti coreani per rimettere in questione le basi della loro attività passata che è stata, come abbiamo visto, fortemente influenzata dall'ideologia stalinista e da quella della democrazia borghese. Allo scopo di preservare una certa unità e fornire uno spazio di discussione per quelli che sono impegnati in questo processo, un certo numero di gruppi ed elementi hanno preso l'iniziativa di creare una "Rete di rivoluzionari marxisti", più o meno formale 10. E' inevitabile che la rottura con il passato sia estremamente difficile e che sia presente una grande eterogeneità tra i differenti gruppi della Rete. Le condizioni storiche che abbiamo descritto brevemente sopra implicano che la differenziazione tra i principi dell'internazionalismo proletario e la prospettiva borghese, essenzialmente nazionalista, che caratterizza lo stalinismo ed il trotskismo, è solo cominciata in questi ultimi anni, sulla base dell'esperienza pratica degli anni 1990 e, per larga parte, grazie agli sforzi della SPA per introdurre le idee e le posizioni della sinistra comunista in seno alla Rete.
In questo contesto, ci sono, a nostro avviso, due aspetti assolutamente fondamentali nell'introduzione che ha fatto la SPA della Conferenza:
- Innanzitutto, la dichiarazione esplicita secondo la quale è necessario per i rivoluzionari in Corea porre l'esperienza degli operai coreani nel contesto storico e teorico più largo della classe operaia internazionale: "Lo scopo della Conferenza internazionale è di aprire largamente l'orizzonte del riconoscimento della teoria e la pratica delle prospettive della rivoluzione mondiale. Speriamo che nel corso di questa importante Conferenza, i rivoluzionari marxisti cammineranno mano nella mano, nel senso della solidarietà, dell'unità e del compimento del compito storico di cristallizzazione della rivoluzione mondiale con il proletariato mondiale".
- Secondo, ciò non può essere realizzato che sulla base dei principi della Sinistra comunista: "La Conferenza internazionale dei marxisti rivoluzionari in Corea costituisce la riunione preziosa, il campo di discussione tra i comunisti di sinistra del mondo ed i rivoluzionari marxisti della Corea, e la prima manifestazione per esporre le posizioni politiche [cioè dei comunisti di sinistra] in seno al campo rivoluzionario".
I dibattiti e la Conferenza
Non c'è spazio in quest'articolo per fare un resoconto esauriente delle discussioni della Conferenza. Cercheremo piuttosto di sottolineare quelli che ci sono sembrati i punti più importanti che sono emersi, nella speranza di contribuire al proseguimento dei dibattiti cominciati durante la Conferenza, tra gli stessi compagni coreani e, in generale, in seno al movimento internazionalista del mondo intero.
Era il primo argomento sottoposto alla discussione. Prima di esaminare il dibattito, abbiamo il dovere di affermare che sosteniamo totalmente la preoccupazione che sottende il passo della SPA: cominciare la Conferenza dando una base teorica solida alle altre questioni in dibattito, la situazione della lotta di classe e la strategia dei rivoluzionari. Inoltre, salutiamo gli sforzi eroici dei compagni della SPA per presentare una breve sintesi dei differenti punti di vista presenti su questa questione in seno alla Sinistra comunista. Considerando la complessità della questione - che è stata oggetto di dibattito in seno al movimento operaio dall'inizio del ventesimo secolo e sulla quale si sono impegnati i suoi più grandi teorici - questa iniziativa è estremamente ardita.
Col senno di poi, si può tuttavia ritenere che eravamo stati troppo audaci! Mentre era particolarmente sorprendente vedere come il concetto della decadenza del capitalismo riceveva "istintivamente" un'accoglienza favorevole (se ci si può esprimere così), è apparso altrettanto chiaramente, dalle domande poste sia nella discussione formale che all'infuori di questa visto che alla maggior parte dei partecipanti mancavano le basi teoriche per affrontare in profondità la questione 11. Questa non vuole assolutamente essere una critica: numerosi testi di base non sono disponibili in Corea, il che è da solo un'espressione, come abbiamo detto sopra, dell'inesperienza obiettiva del movimento operaio coreano. Speriamo in ogni caso che le domande sollevate, ed anche i testi introduttivi presentati in particolare dalla SPA e dalla CCI, permetteranno ai compagni di cominciare a inserirsi nel dibattito ed anche, cosa altrettanto importante, di comprendere perché questa questione teorica non si pone all'infuori della realtà e delle preoccupazioni concrete della lotta, ma che è il fattore determinante fondamentale della situazione nella quale viviamo oggi12.
Vale la pena riprendere una questione di un giovane studente che ha espresso, in poche parole, la contraddizione flagrante tra l'apparenza e le realtà nel capitalismo di oggi: "Numerose persone sentono la decadenza, noi - studenti senza diploma - siamo sottomessi all'ideologia borghese, abbiamo la sensazione che esiste una società opulenta, come possiamo esprimere la decadenza con parole più concrete?" È vero che un aspetto dell'ideologia borghese (almeno nei paesi industrializzati) è la pretesa che viviamo in un mondo di "consumismo abbondante" - ed è vero che nelle vie di Seul, i negozi strapieni di prodotti elettronici sembrano dare una parvenza di realtà a questa ideologia. Tuttavia, è di un'evidenza sorprendente che la gioventù coreana incontra oggi gli stessi problemi dei giovani proletari dappertutto nel mondo: disoccupazione, contratti di lavoro precario, difficoltà generale a trovare del lavoro, prezzo elevato dell'alloggio. Fa parte dei compiti dei comunisti mostrare chiaramente alla classe operaia di oggi il legame tra la disoccupazione di massa di cui è vittima e la guerra permanente e generalizzata che è l'altro aspetto fondamentale della decadenza del capitalismo, come abbiamo provato a mettere in evidenza nella nostra breve risposta a questa domanda.
Certamente una delle questioni tra le più importanti in discussione, non solo alla Conferenza ma nel movimento in Corea in generale, è quella della lotta di classe e dei suoi metodi. Come abbiamo capito, attraverso gli interventi durante la Conferenza ed anche nelle discussioni informali, la questione sindacale pone un reale problema ai militanti che hanno preso parte alle lotte della fine degli anni 1980. In un certo modo, la situazione in Corea è analoga a quella della Polonia, in seguito alla creazione della sindacato Solidarnosc ed essa costituisce, fino ad oggi, un'altra dimostrazione della profonda verità dei principi della Sinistra comunista: nella decadenza del capitalismo, non è più possibile creare organizzazioni di massa permanenti della classe operaia. Anche i sindacati formati nel fuoco della lotta, come in Corea, non possono che diventare strumenti dello Stato, dei mezzi non per rafforzare la lotta operaia ma il controllo dello Stato su questa. Perché è così? La ragione fondamentale è che è impossibile per la classe operaia ottenere dal capitalismo, nel suo periodo di decadenza, riforme durature. I sindacati perdono la funzione che avevano all'origine e restano addetti alla preservazione del capitalismo. Hanno acquistato un punto di vista nazionale, ristretto inoltre spesso ad un solo settore di mestiere o di industria, e non un punto di vista internazionale comune a tutti i lavoratori: sono sottomessi inevitabilmente alla logica del capitalismo e delle sue richieste come "è questo che il paese può permettersi"?, o "che cosa è meglio per l'economia nazionale"? È in effetti un rimprovero che abbiamo sentito inviare ai sindacati in Corea - questi ultimi erano arrivati anche a spingere gli operai a limitare le loro rivendicazioni a quello che i padroni erano pronti a pagare, piuttosto che basarsi sui propri bisogni13.
Di fronte a questo inevitabile tradimento dei sindacati ed alla loro integrazione all'apparato dello Stato democratico, i compagni coreani hanno cercato una risposta nelle idee della Sinistra comunista. Perciò, la nozione di "consigli operai" ha sollevato tra loro un grande interesse. Il problema è che si tende a vedere i consigli operai non come l'organo del potere operaio in una situazione rivoluzionaria, ma come un nuovo tipo di sindacato, capace di esistere continuamente in seno al capitalismo. In effetti, quest'idea è stata teorizzata anche su un piano storico in una presentazione su "La strategia del movimento dei consigli nel periodo attuale in Corea del Sud, e come metterla in pratica", da parte del Militants Group for Revolutionary Workers' Party. Dobbiamo dire che questa presentazione ribalta completamente la storia quando proclama che i consigli operai creati nel 1919, durante la rivoluzione tedesca, si sono sviluppati a partire dai sindacati! 14. Secondo noi, non si tratta qui di una semplice inesattezza storica che potrebbe essere corretta da un dibattito universitario. Più profondamente il problema deriva dal fatto che è estremamente difficile accettare che all'infuori di un periodo rivoluzionario, è semplicemente impossibile agli operai essere in lotta in modo permanente. I militanti che sono presi in questa logica, indipendentemente dalla sincerità del loro desiderio di lavorare per la classe operaia, ed anche indipendentemente dalle stesse posizioni politiche proletarie che possono difendere in modo autentico, corrono il rischio di cadere nella trappola dell'immediatismo, di correre continuamente appresso ad un'attività "pratica" che non ha niente a che vedere con ciò che è concretamente possibile nella situazione storica esistente.
Secondo la visione proletaria del mondo, porre la domanda in questo modo rende la risposta impossibile. Come ha detto un delegato della CCI: "Se gli operai non sono in lotta, è allora impossibile metter loro una pistola sulla tempia e di dire 'Voi dovete combattere!'". Non è neanche possibile per i rivoluzionari lottare "in nome della classe operaia". I rivoluzionari non possono provocare la lotta di classe: non è un principio, è un semplice fatto storico. Ciò che possono fare, è contribuire allo sviluppo della presa di coscienza della classe operaia della sua identità di classe, del suo posto nella società in quanto classe che ha i propri interessi e soprattutto obiettivi rivoluzionari che vanno al di là della lotta immediata, al di là della situazione immediata degli operai nelle fabbriche, negli uffici o nelle file di attesa per il sussidio disoccupazione. È una delle chiavi per comprendere dei sollevamenti in apparenza "spontanei", come quello del 1905 in Russia: malgrado il fatto che i rivoluzionari di quell'epoca non abbiano giocato un grande ruolo nell'esplosione improvvisa della lotta, il campo era stato preparato da anni dall'intervento sistematico della Socialdemocrazia (i rivoluzionari dell'epoca) che ha giocato un ruolo decisivo sviluppando la coscienza dell'identità di classe degli operai15. In poche parole, all'infuori dei periodi di lotte operaie aperte, uno dei compiti essenziali dei rivoluzionari è fare la propaganda per lo sviluppo delle idee che rafforzeranno la lotta a venire.
C'è un'altra questione, sollevata nella presentazione fatta da Loren Goldner e dal delegato di Perspective Internationaliste che non deve restare senza risposta: l'idea che la "ricomposizione" della classe operaia - in altri termini, da un lato, la tendenza verso la scomparsa delle gigantesche fabbriche caratteristiche della fine del 19° e del 20° secolo in unità di produzione geograficamente disperse e, dall' altro, lo sviluppo crescente delle condizioni di lavoro precario per gli operai, specialmente per i giovani lavoratori (contratti a breve termine, disoccupazione, lavoro a tempo parziale, ecc.) - ha condotto alla scoperta di "nuovi metodi di lotta" che vanno "al di là del posto di lavoro". Gli esempi più notevoli di questi "nuovi metodi di lotta" sono i "picchetti volanti", che si pretende siano stati inventati nel 2001 dal movimento dei piqueteros in Argentina e dagli insorti delle periferie francesi nel 2005. Non ci proponiamo in questo articolo di rispondere all'entusiasmo dei compagni per le sommosse francesi e per il movimento dei piqueteros che, a nostro avviso, è profondamente erroneo16. Tuttavia, pensiamo veramente che sia necessario controbattere un errore politico più generale che è espresso in queste posizioni e secondo cui la coscienza rivoluzionaria degli operai dipende dalla loro esperienza immediata, giorno per giorno, sul loro posto di lavoro.
In realtà, non solo le condizioni di lavoro precario ed i "picchetti volanti" non sono una novità storica17, ma le pretese "nuove forme di lotte" che sono offerte in generale alla nostra ammirazione non sono niente altro che l'espressione dell'impotenza degli operai in una situazione data: le sommosse dei ragazzini delle periferie francesi nel 2005 ne sono un esempio classico. La realtà è che, nel periodo di decadenza del capitalismo, ogni volta che la lotta operaia acquista una certa indipendenza, tende ad organizzarsi non nei sindacati ma nelle assemblee di massa con elezione di delegati; in altri termini, in una forma organizzata che, al tempo stesso, viene dai soviet e li prefigura. Il più sorprendente esempio storico recente è probabilmente quello delle lotte in Polonia nel 1980; un'altra esperienza, sempre negli anni 1980, è stata quella dei COBAS (comitati di base), formati durante le lotte massicce degli insegnanti in Italia nel 1987, non un settore industriale "tradizionale". Più vicino a noi nel tempo, possiamo segnalare gli scioperi a Vigo (Spagna) nel 2006 18. Qui, gli operai delle costruzioni meccaniche che hanno cominciato lo sciopero, lavoravano coi contratti precari nei piccoli laboratori industriali. Poiché non c'era una sola grande fabbrica sulla quale la lotta poteva accentrarsi, hanno tenuto delle assemblee massicce, non sui posti di lavoro, ma nelle piazze cittadine. Queste assemblee massicce si riferivano ad una forma di organizzazione che era stata utilizzata già nel 1972, in questa stessa città.
Dunque la domanda è questa: perché, alla fine del diciannovesimo secolo, lo sviluppo di una forza di lavoro massiccio e precario ha condotto alla formazione dei primi sindacati di massa di operai non specializzati, mentre nel ventunesimo secolo ciò non accade più?
Perché gli operai della Russia, nel 1905, hanno inventato i consigli operai - i soviet - che Lenin ha chiamato "La forma infine trovata della dittatura del proletariato?" Perché sono diventate le assemblee massicce la forma di organizzazione operaia tipica per la lotta, ogni volta che gli operai riescono a sviluppare la loro autonomia e la loro forza?
A nostro parere, come avevamo detto all'epoca della Conferenza, la risposta si trova non nei paragoni sociologici, ma in una comprensione politica molto più profonda del cambiamento del periodo storico che ha avuto luogo all'inizio del ventesimo secolo, cambiamento che è stato descritto dalla Terza Internazionale come l'apertura di una "epoca di guerre e di rivoluzioni".
Inoltre, la visione sociologica della classe operaia difesa da Pi e da Loren Goldner è sorprendente nel fatto che rivela una sottovalutazione totale delle capacità teoriche e politiche del proletariato: è quasi come se gli operai non fossero capaci di pensare al di là di ciò che può arrivare loro sul posto di lavoro, come se il loro cervello si spegnesse non appena lasciano il loro lavoro, come se non si sentissero coinvolti dall'avvenire dei loro figli (problemi di scuola, educazione, decomposizione della società) dalla solidarietà con quelli che sono vecchi o malati, con le generazioni future (problemi rispetto al declino dei servizi sanitari, dei regimi di pensioni), come se fossero incapaci di avere uno sguardo critico sui problemi dell'ambiente naturale o sulla barbarie senza fini della guerra e di fare il legame tra ciò che sentono su quello che accade nel mondo e la loro esperienza diretta rispetto allo sfruttamento capitalista sul posto di lavoro.
Questa comprensione politica e storica ampia del mondo non è necessaria solo per la lotta immediata. Se il proletariato mondiale riesce a rovesciare il capitalismo, dovrà costruire al suo posto una società interamente nuova, una società che non è mai esistita nella storia dell'umanità. Per compiere un tale compito, deve potere sviluppare la comprensione più profonda della storia dell'umanità, deve potere rivendicarsi come l'erede delle più grandi realizzazioni dell'umanità in materia di arte, di scienza e di filosofia. È proprio per questo motivo che esistono le organizzazioni politiche della classe operaia: sono un mezzo attraverso cui gli operai accedono ad un pensiero più generale sulla loro condizione e sulle prospettive che sono loro aperte20.
Abbiamo già pubblicato sul nostro sito Web e nella nostra stampa il testo della Dichiarazione, e non ripeteremo qui il suo contenuto20. Il dibattito intorno a questa Dichiarazione si è incentrato sulla proposta, avanzata da un membro dell'Ulsan Labour Education Committee, di attribuire la responsabilità maggiore delle tensioni crescenti nella regione alla presenza americana e, di conseguenza, presentare la Corea del Nord come una "vittima" della politica americana di "isolamento". Pensiamo che questa proposta, così come il sostegno che essa ha ricevuto da parte di alcuni membri della Conferenza più influenzati dal trotskismo, sono significative della difficoltà che incontrano numerosi compagni coreani per rompere con l'ideologia "anti-imperialista" degli anni 1980, e cioè essenzialmente anti-americana, e di un attaccamento persistente alla difesa della Corea del Nord e dunque al nazionalismo coreano, malgrado il loro rigetto senza dubbio sincero dello stalinismo.
La CCI e parecchi membri della SPA hanno argomentato vigorosamente contro il fatto di volere alterare ciò che costituiva la forza principale della Dichiarazione. Come abbiamo sottolineato nel dibattito su questa Dichiarazione, sia a Seul che ad Ulsan, l'idea che, in un conflitto imperialista, un paese è più da "condannare" rispetto ad un altro è esattamente quella stessa che ha permesso ai traditori della Socialdemocrazia di chiamare gli operai a sostenere "la loro" nazione nel 1914: gli operai tedeschi contro la "barbarie zarista", gli operai francesi contro il "militarismo prussiano", gli operai britannici in sostegno al "piccolo coraggioso Belgio" e così via. Per noi, il periodo di decadenza del capitalismo ha dimostrato tutta la profondità della comprensione di Rosa Luxemburg secondo cui l'imperialismo non è l'errore di questo o quel paese, ma che è una caratteristica fondamentale del capitalismo in sé: in questo periodo, tutti gli Stati sono imperialisti. La sola differenza tra il gigante americano ed il nano nord coreano sta nella dimensione dei loro appetiti imperialisti e nella loro capacità a soddisfarli.
Due altre obiezioni che, a nostro avviso, valgono la pena di essere menzionate, sono apparse durante la discussione. La prima è stata la proposta di un compagno del gruppo Solidarity for Workers' Liberation di includere un punto che denuncia il fatto che il governo della Corea del Sud ha preso pretesto della situazione di tensione per rafforzare le misure di repressione. Questo suggerimento pienamente giustificato è stato formulato durante la discussione a Seul, e la versione finale dibattuta ad Ulsan il giorno successivo (e dopo pubblicata) è stata di conseguenza modificata.
Nella seconda obiezione, un compagno del gruppo Sahoejueo Nodongja21 ha affermato che la situazione presente non era così grave e denunciandola adesso, accrediterebbe l'idea di una guerra spaventosa orchestrata dalla borghesia per perseguire i suoi obiettivi. A nostro parere, quest'obiezione non è irragionevole, ma è tuttavia erronea. Che sia imminente o non, questa minaccia di guerra in Estremo Oriente aleggia proprio su questa regione e non c'è alcun dubbio che le tensioni tra i principali attori sulla scena imperialista (Cina, Taiwan, Giappone, Stati Uniti, Russia) si stanno aggravando. Riteniamo che, in questa situazione, è di grande importanza che gli internazionalisti riescano a denunciare la responsabilità di tutti i campi imperialisti: agendo così, seguiamo le orme di Lenin, di Luxemburg e della Sinistra della Seconda Internazionale che si batterono affinché la risoluzione internazionalista fosse votata al Congresso di Stoccarda nel 1907. È una responsabilità primordiale delle organizzazioni rivoluzionarie prendere posizione, in seno al proletariato, sugli avvenimenti cruciali dei conflitti imperialisti o della lotta di classe22.
Per concludere su questo punto, vogliamo salutare il sostegno internazionalista fraterno portato alla Dichiarazione dalla delegazione di Pi e da altri compagni presenti alla Conferenza in forma individuale.
Alla riunione finale, prima della partenza della nostra delegazione, la CCI e la SPA si sono trovate totalmente d'accordo sulla valutazione generale della Conferenza. I punti più significativi sono stati i successivi:
1. Il fatto che questa Conferenza abbia potuto avere luogo costituisce in sé un avvenimento di importanza storica, poiché per la prima volta, le posizioni della Sinistra comunista sono difese e cominciano ad attecchire in un paese altamente industrializzato dell'Estremo Oriente.
2. La SPA ha considerato che le discussioni che hanno avuto luogo durante la Conferenza sono state di un'importanza particolare poiché hanno messo in evidenza in modo concreto la differenza fondamentale tra la Sinistra comunista ed il Trotskismo. Agendo così, la Conferenza ha rafforzato la determinazione della SPA di sviluppare la sua comprensione dei principi della Sinistra comunista e di renderli più largamente disponibili per il movimento operaio coreano.
3. La Dichiarazione sulle prove nucleari della Corea del Nord è stata l'espressione delle posizioni internazionaliste della Sinistra comunista, in particolare della SPA e della CCI. Il dibattito sulla Dichiarazione ha rivelato il problema delle tendenze nazionaliste che rimangono nel movimento operaio coreano. Nella "Rete", ci sono delle divergenze su questa questione che rimangono non risolte e la SPA è determinata ad operare per, alla fine, superarle.
4. Una delle più importanti questioni per i dibattiti futuri è quella dei sindacati. Sarà necessario per i compagni in Corea analizzare la loro storia, particolarmente dagli anni 1980, alla luce dell'esperienza storica del proletariato mondiale come la si trova concentrata nelle posizioni difese dalla Sinistra comunista.
Allo stesso tempo, pur tenendo conto dell'importanza che riveste questa Conferenza, siamo molto coscienti che questa non rappresenta che un primo passo nello sviluppo della presenza dei principi della Sinistra comunista in Estremo Oriente e di un lavoro comune tra i rivoluzionari dell'est e dell'ovest. Detto ciò, consideriamo che la stessa tenuta della Conferenza, così come i dibattiti che si sono avuti, hanno confermato due punti su cui la CCI ha sempre insistito e che saranno fondamentali per la costruzione del futuro partito comunista mondiale della classe operaia.
Il primo è il fondamento politico su cui una tale organizzazione sarà costruita. Su tutte le questioni fondamentali (la questione sindacale, la questione parlamentare, la questione del nazionalismo e delle lotte di liberazione nazionale) lo sviluppo di un movimento internazionalista nuovo non può avverarsi che a partire dalle basi stabilite dai piccoli gruppi della Sinistra comunista tra gli anni 1920 e 50 (in particolare da Bilan, il KAPD, il GIK, la GCF) da cui la CCI trae la sua filiazione23.
Per il secondo, la conferenza in Corea e l'appello esplicito della SPA a "realizzare la solidarietà del proletariato mondiale" costituiscono già una nuova conferma che il movimento internazionalista non si sviluppa sulle basi di una federazione di partiti nazionali esistenti, ma direttamente ad un livello internazionale 24. Ciò rappresenta un avanzamento storico rispetto alla situazione nella quale si è creata la Terza Internazionale, in piena rivoluzione e sulla base delle frazioni di sinistra che erano uscite dai partiti nazionali della Seconda Internazionale. Ciò è anche il riflesso della natura della classe operaia oggi: una classe che, più che mai nella storia, è unita in un processo di produzione mondiale ed in una società capitalista globale le cui contraddizioni non possono essere superate che dal suo capovolgimento a scala mondiale, per essere sostituita da una comunità umana mondiale.
John Donne / Heinrich Schiller
1. Dovremmo menzionare anche l'invenzione, nel quindicesimo secolo, dell'alfabeto hangeul (han-gûl), forse il primo tentativo di trascrizione di una lingua sulla base di uno studio scientifico della sua fonologia.
2. Questo include la prostituzione imposta alle migliaia di donne coreane nei bordelli dall'esercito giapponese e la distruzione della vecchia economia agraria, nella misura in cui la produzione coreana era sempre più dipendente dalle esigenze del Giappone.
3. "Gli Stati Uniti sono interessati alla creazione di barriere militari tra le regioni non comuniste e le regioni comuniste. Affinché questa barriera sia efficace, le regioni divise devono essere stabili (…). Gli Stati Uniti devono determinare le cause particolari dell'instabilità e devono contribuire, in modo intelligente ed audace, alla loro soppressione. La nostra esperienza in Cina ha mostrato che è inutile temporeggiare con le cause dell'instabilità, che una politica che cerca una stabilità temporanea è condannata all'insuccesso quando il desiderio generale è di un cambiamento permanente". Melvin Conant Jnr, "JCCR: an object lesson", in Far Eastern Survey, 2 Maggio 1951.
4. "I dragoni asiatici si sgonfiano", Révue Internationale n. 89 (1997).
5. "La prima e la più importante fonte di finanziamento è stata l'acquisizione dai "chaebols" dei beni assegnati, a prezzi nettamente sottovalutati. All'indomani della guerra essi rappresentavano il 30% del patrimonio sud-coreano anticamente detenuto dai giapponesi. Inizialmente posti sotto la tutela dell'Ufficio americano dei beni assegnati, sono stati distribuiti dallo stesso Ufficio ed in seguito dal governo". Ibid., Révue Internationale n. 89.
6. Non ci proponiamo, in quest'articolo, di trattare la situazione della classe operaia in Corea del Nord che ha dovuto soffrire tutti gli orrori di un regime stalinista ultra militarista.
7. Andrew Nahm, A history of the Korean people.
8. I casi delle Filippine e del Brasile sono esempi che vengono immediatamente in testa.
9. Alcuni compagni del SGWC hanno preso parte alla Conferenza in modo individuale.
10. Oltre alla SPA, i seguenti gruppi coreani appartenenti alla "Rete" hanno fatto delle presentazioni alla Conferenza: Solidarity for Workers' Liberation, Ulsan Labour Education Committee, Militants group for Revolutionary Workers' Party. Una presentazione sulla lotta di classe è stata anche fatta, a titolo individuale, da Loren Goldner.
11. Ciò è stato particolarmente vero per la discussione sulla decadenza che si è tenuta a Seul: questa parte della Conferenza era aperta al pubblico ed includeva la presenza di un certo numero di giovani studenti che avevano poca o addirittura nessuna esperienza politica.
12. In questo articolo non ci proponiamo di esaminare la posizione del gruppo Perspective Internationaliste sul "dominio formale e reale del capitale". Abbiamo già abbastanza a lungo trattato quest'argomento nella Révue Internationale n. 60, pubblicata nel 1990, un'epoca in cui Pi continuava ancora a chiamarsi la "Frazione Esterna della CCI". È tuttavia interessante menzionare che i primi sforzi di Pi per dimostrare nella pratica la superiorità della sua "nuova" comprensione teorica hanno convinto poco, poiché Pi continuava ad affermare, due anni dopo la caduta del Muro di Berlino, che gli avvenimenti dell'Europa dell'Est rappresentavano un vero rafforzamento della Russia!
13. Questo resoconto resta inevitabilmente molto schematico e suscettibile di essere corretto e precisato. Ci può dispiacere solamente che la presentazione del compagno di ULEC, Ulsan Labour Education Committee, sulla storia del movimento operaio coreano sia stata troppo lunga per essere tradotta in inglese e sia dunque inaccessibile. Speriamo che sia possibile ai compagni preparare e tradurre una versione più breve del loro testo riassumendo i punti principali.
14. In effetti, i sindacati sono stati, durante la rivoluzione tedesca, i peggiori nemici dei soviet. Per un resoconto della rivoluzione tedesca, vedere gli articoli pubblicati nella Révue Internationale nn. da 80 a 82.
15. Vedere la nostra serie sulla rivoluzione del 1905 pubblicata nei nn. 120, 122, 123, 125 della Révue Internationale.
16. Per maggiori dettagli su questi argomenti, vedere, per es., "Sommosse nelle periferie francesi: di fronte alla disperazione, solo la classe operaia è portatrice di avvenire", https://fr.internationalism.org/icconline/2005_ [55] banlieues_emeutes.htm, e "Argentina:la mistificazione dei piqueteros" pubblicati nella Révue Internationale n. 119.
Dobbiamo anche dire che il sostenere l'idea della "scomparsa" dell'industria a mano d'opera massiccia è apparsa come qualche cosa di surrealista nella città di Ulsan dove la fabbrica Hyundai impiega lei sola 20.000 operai!
17. Se prendiamo per esempio l'idea che il "lavoro precario" ha determinato l'invenzione dei "picchetti volanti" come "nuova forma di lotta", possiamo vedere che essa è semplicemente priva di fondamento storico. Il picchetto volante, ovvero una delegazione di operai in lotta che va in altri posti di lavoro per coinvolgere gli altri operai nel movimento, è qualche cosa che esiste da molto: basta considerare l'esempio della Gran Bretagna, dove il picchetto volante è stato ben utilizzato in due lotte importanti degli anni 1970: gli scioperi dei minatori nel 1972 e nel 1974, quando i minatori hanno mandato dei picchetti alle centrali elettriche, o lo sciopero degli operai edili nel 1972 in occasione del quale mandarono dei picchetti per estendere lo sciopero su differenti cantieri. La stessa esistenza di una forza di lavoro "precario" non ha niente di nuovo. È precisamente l'apparizione di una forza lavoro non qualificata e precaria (specialmente nei docks) che ha portato alla formazione della "General Labourers' Union" da parte del sindacalista rivoluzionario Tom Mann, nel 1889 (anche Engels ed Eleonor, la figlia di Marx, sono stati implicati nello sviluppo di questo sindacato).
18. Vedere l'articolo pubblicato in Révolution Internationale, "Grève de la métallurgie à Vigo en Espagne : Une avancée dans la lutte prolétarienne [56]".
19. I comunisti "non stabiliscono dei principi particolari con cui dovrebbero plasmare il movimento operaio. I comunisti si distinguono dagli altri partiti operai solo su due punti: 1. Nelle differenti lotte nazionali dei proletari, sostengono e fanno valere gli interessi indipendenti dalla nazionalità e comuni a tutto il proletariato. 2. Nelle differenti fasi che caratterizzano la lotta tra proletari e borghesi, rappresentano sempre gli interessi del movimento nella sua totalità. Praticamente, i comunisti sono dunque la frazione più risoluta dei partiti operai di tutti i paesi, la frazione che stimola tutti gli altri; teoricamente, hanno sul resto del proletariato il vantaggio di un'intelligenza chiara delle condizioni, del percorso e dei fini generali del movimento proletario". Il Manifesto comunista.
20. La Dichiarazione può essere trovata sul nostro sito Internet
21. "Operaio socialista". Malgrado il suo nome, questo gruppo non ha niente a che vedere col Socialist Workers' Party della Gran Bretagna. Presentiamo in anticipo le nostre scuse al compagno se abbiamo sbagliato sulla sua linea di pensiero. La barriera della lingua ci ha probabilmente portato ad un errore di interpretazione.
22. Il fatto che, in questa Conferenza, gli internazionalisti non siano rimasti senza voce di fronte alla minaccia di guerra costituisce, a nostro avviso, un vero passo avanti, se lo si paragona alle Conferenze della Sinistra comunista della fine degli anni 1970 dove i partecipanti - e particolarmente Battaglia Comunista e la CWO - hanno rifiutato ogni dichiarazione comune sull'invasione dell'Afghanistan da parte dell'URSS.
23. Secondo Pi, dobbiamo andare "al di là della Sinistra comunista". Nessuno dei gruppi che abbiamo citato avrebbe preteso avere l'ultima parola su queste questioni: la storia va avanti e giungiamo ad una migliore comprensione dell'esperienza storica. Ma è impossibile costruire una casa senza avere posto prima di tutto le fondamenta e, a nostro avviso, le sole fondazioni su cui è possibile costruire sono quelle poste dai nostri predecessori della Sinistra comunista. La logica della posizione di Pi è gettare via la storia da dove proveniamo - e dichiarare che "la storia comincia con noi". Per quanto detestabile questa idea possa sembrare a Pi, essa non è niente altro che una variante della posizione bordighista secondo la quale "il Partito" (o, per il BIPR, il "Bureau ") è l'unica fonte di saggezza e non ha niente da apprendere da alcun altro.
24. Quest'aspetto dello sviluppo della futura organizzazione internazionale è stato materia di polemica tra la CCI ed il BIPR negli anni 1980, con il BIPR che sosteneva che un'organizzazione internazionale non può essere costruita che sulla base di organizzazioni politiche che preesistono nei differenti paesi. La pratica reale del movimento internazionalista di oggi invalida totalmente questa teoria del BIPR.
Perché presentare oggi un testo sull'etica? Da più di due anni, la CCI porta avanti un dibattito interno sulla questione della morale e dell'etica proletaria a partire da un testo di orientamento di cui pubblichiamo larghi brani.
Se abbiamo ritenuto necessario affrontare un tale dibattito teorico, è principalmente perché la nostra organizzazione si è dovuta confrontare al suo interno, all'epoca della sua crisi del 2001, con comportamenti particolarmente distruttori e totalmente estranei alla classe portatrice del comunismo. Questi comportamenti si sono manifestati attraverso metodi da teppisti utilizzati da alcuni elementi che intanto fondavano la pretesa "frazione interna" della CCI (FICCI)1: furto, ricatto, menzogne, campagne di calunnie, delazione, molestia morale e minacce di morte contro i nostri compagni. È dunque a partire da un problema concreto di un'estrema gravità e che costituisce una minaccia per il campo politico proletario, che abbiamo preso coscienza della necessità di armare l'organizzazione di fronte ad una questione che ha sempre preoccupato ed attraversato il movimento operaio dalle sue origini, quella della morale proletaria. Abbiamo sempre affermato, in particolare nei nostri Statuti, che la questione del comportamento dei militanti è a pieno titolo una questione politica. Ma la CCI non era stata fin'ora ancora in grado di condurre una riflessione più approfondita su questa questione ricollegandola a quella della morale e dell'etica del proletariato. Per comprendere le origini, gli scopi e le caratteristiche dell'etica della classe operaia, la CCI ha dovuto volgere la sua attenzione sull'evoluzione della morale nella storia dell'umanità riappropriandosi delle esperienze teoriche del marxismo che si sono basate sui progressi della civiltà umana, in particolare nel campo della scienza e della filosofia. Questo testo d’orientamento non si è dato come obiettivo la costituzione di un'elaborazione teorica compiuta, ma tracciare alcune linee di riflessione per permettere all'insieme dell’organizzazione di approfondire un certo numero di questioni fondamentali, come l’origine e la natura della morale nella storia dell’umanità, la differenza tra morale borghese e morale proletaria, la degenerazione dei costumi e dell’etica nel periodo di decomposizione del capitalismo, ecc.). Dal momento che questo dibattito interno non è ancora compiuto, pubblichiamo solo i brani del testo d’orientamento che ci sono sembrati più accessibili al lettore non esperto. Per il fatto che si tratta di un testo interno le cui idee sono estremamente condensate e fanno talvolta ricorso a concetti teorici abbastanza complessi, siamo coscienti che certi passaggi potranno sembrare difficili al lettore. Tuttavia, essendo arrivati a maturità certi aspetti del nostro dibattito, abbiamo giudicato utile riportare i brani di questo testo d’orientamento all’esterno affinché la riflessione iniziata dalla CCI possa avviarsi e proseguire nell’insieme della classe operaia e del campo politico proletario.
Fin dall'origine, la questione del comportamento politico dei militanti, e dunque della morale proletaria, ha avuto un ruolo centrale nella vita della CCI. La concretizzazione vivente della nostra visione su questa questione si trova nei nostri statuti, adottati nel 1982.2
Abbiamo sempre insistito sul fatto che gli statuti della CCI non sono un elenco di regole che definiscono ciò che è permesso e ciò che non lo è, ma un orientamento per il nostro atteggiamento e la nostra condotta, includendo un insieme coerente di valori morali (in particolare per ciò che riguarda i rapporti tra gli stessi militanti e tra questi e l'organizzazione). E' per tale motivo che esigiamo da tutti quelli che vogliono diventare membri della nostra organizzazione un accordo profondo su questi valori. I nostri statuti sono una parte integrante della nostra piattaforma, e non servono solamente a stabilire chi può diventare membro della CCI ed in quali condizioni. Essi condizionano il quadro e lo spirito della vita militante dell'organizzazione e di ciascuno dei suoi membri. Il significato che la CCI ha sempre dato a questi principi di comportamento è dimostrato dal fatto che essa si è sempre impegnata a difenderli, anche a rischio di subire delle crisi organizzative. Per tale motivo, la CCI si è ritrovata in modo cosciente ed incrollabile nella tradizione di lotta di Marx ed Engels in seno alla Prima Internazionale, dei Bolscevichi e della Frazione italiana della Sinistra comunista. È perciò che è stata capace di superare tutta una serie di crisi e mantenere i principi fondamentali di un comportamento di classe.
Tuttavia, è in modo più implicito che esplicito che la CCI ha difeso il concetto di una morale e di un'etica proletaria; essa lo ha messo in pratica in modo empirico piuttosto che generalizzato da un punto di vista teorico. Di fronte alle grandi reticenze della nuova generazione di rivoluzionari sorta alla fine degli anni ‘60 verso ogni concetto di morale, considerato come necessariamente reazionario, l'atteggiamento sviluppato dall'organizzazione è consistito nell'accordare più importanza a che fossero accettati gli atteggiamenti ed i comportamenti della classe operaia piuttosto che a condurre questo dibattito in modo generale in un momento in cui quest'ultimo non era ancora maturo.
Le questioni di morale proletaria non sono il solo campo in cui la CCI ha proceduto in tale maniera. Nei primi anni della sua esistenza, esistevano delle riserve similari riguardanti la necessità della centralizzazione, il carattere indispensabile dell'intervento dei rivoluzionari ed il ruolo dirigente dell'organizzazione nello sviluppo della coscienza di classe, la necessità di combattere il democraticismo o il riconoscimento dell'attualità della lotta contro l'opportunismo ed il centrismo.
I grandi dibattiti che abbiamo condotto, come le crisi che abbiamo attraversato, hanno rivelato che l'organizzazione è sempre stata non solo capace di alzare il suo livello teorico ma anche di chiarire quelle questioni rimaste confuse all’inizio. Per tale motivo, sulle questioni organizzative, la CCI ha sempre saputo cogliere la sfida approfondendo ed allargando la sua comprensione teorica sui problemi posti.
La CCI ha già analizzato le sue crisi recenti così come il pericolo latente della perdita delle acquisizioni del movimento operaio, come manifestazioni dell'entrata del capitalismo in una fase nuova e terminale, quella della sua decomposizione. In questo senso, il chiarimento di una questione tanto cruciale qual'è la morale proletaria è una necessità di questo nuovo periodo storico e riguarda l'insieme della classe operaia. "La morale è il risultato dello sviluppo storico, è il prodotto dell'evoluzione. Trova le sue origini negli istinti sociali della specie umana, nella necessità materiale della vita sociale. Dato che gli ideali della socialdemocrazia sono diretti interamente verso un ordine superiore della vita sociale, essi devono necessariamente essere ideali morali".3Il problema della decomposizione e la perdita di fiducia nel proletariato e nell'umanità
Per l'incapacità delle due principali classi della società - borghesia e proletariato - ad imporre la rispettiva risposta alla crisi dell'economia capitalista, il capitalismo è entrato nella sua fase terminale di decomposizione, caratterizzata non solo dal degrado graduale dei valori sociali ma della stessa società.
Oggi, di fronte al "ciascuno per sé", alla tendenza al disfacimento del tessuto sociale e al degrado di tutti valori morali, sarà impossibile per le organizzazioni rivoluzionarie - e più in generale per la nuova generazione di militanti che sta sorgendo - rovesciare il capitalismo senza chiarire le questioni di morale e di etica. Non solo lo sviluppo cosciente delle lotte operaie ma anche una lotta teorica specifica su queste questioni, verso una riappropriazione del lavoro del movimento marxista, è diventata una questione di vita o di morte per la società umana. Questa lotta non solo è indispensabile per la resistenza proletaria alla decomposizione delle manifestazioni del capitalismo ed all'amoralismo ambientale, ma serve anche a riconquistare la fiducia del proletariato nel futuro dell'umanità attraverso il suo progetto storico.
La forma particolare che ha preso la controrivoluzione in URSS - quella dello stalinismo, che viene presentata come il compimento e non come il becchino della rivoluzione di ottobre 1917 - ha già disorientato la fiducia nel proletariato nella sua alternativa comunista. Malgrado la fine del periodo di controrivoluzione nel 1968, il crollo dei regimi stalinisti nel 1989, che ha segnato l'entrata del capitalismo nella sua fase storica di decomposizione, ha ancora una volta colpito la fiducia in sé del proletariato come soggetto della liberazione dell'insieme dell'umanità.
L'indebolimento della fiducia in sé della classe operaia, della sua identità di classe e della sua prospettiva rivoluzionaria, risultante dalle campagna della borghesia sul preteso "fallimento del comunismo", ha modificato le condizioni in cui si pone oggi la questione dell'etica. In effetti, i colpi subiti dalla classe operaia (ed in particolare il riflusso della sua coscienza) hanno danneggiato la sua fiducia, non solo in una prospettiva comunista ma nella società nel suo insieme.
Per gli operai coscienti, nel corso del periodo ascendente del capitalismo, e più ancora durante la prima ondata rivoluzionaria del 1917-23, l'affermazione secondo cui i problemi della società contemporanea si spiegherebbero attraverso il carattere fondamentalmente "cattivo" dell'essere umano suscitava solamente disdegno e disprezzo. All'inverso, l'ideologia secondo la quale, fondamentalmente, la società sarebbe incapace di migliorare e di sviluppare forme superiori di solidarietà umana, è diventata oggi un dato della situazione storica. Oggigiorno, i dubbi, profondamente radicati, sulle qualità morali della nostra specie colpiscono non solo le classi dominanti o intermedie, ma minacciano lo stesso proletariato, ivi compreso le sue minoranze rivoluzionarie. Questa mancanza di fiducia nella possibilità di una visione più collettiva e responsabile in vista della costruzione di una vera comunità umana non è unicamente il risultato della propaganda della classe dominante. E' la stessa evoluzione storica ad aver condotto a questa crisi di fiducia generalizzata nell'avvenire dell'umanità.
Viviamo un periodo segnato da:
- un pessimismo estremo nei riguardi della "natura umana";
- uno scetticismo (ed anche un cinismo) sulla necessità o anche della possibilità di valori morali;
- la sottovalutazione o anche il diniego dell'importanza delle questioni etiche.
L'opinione popolare vede confermarsi il giudizio del filosofo inglese Thomas Hobbes (1588-1679) secondo cui l'uomo sarebbe, per natura, un lupo per l'uomo. Secondo questa visione, l'uomo sarebbe un essere fondamentalmente distruttore, predatore, egoista, irrimediabilmente irrazionale ed il suo comportamento sociale sarebbe inferiore a quello della maggiore parte delle specie animali. Per l'ecologismo piccolo-borghese, ad esempio, lo sviluppo culturale è considerato come un "errore" o un "vicolo cieco". La stessa umanità è vista come un'escrescenza cancerosa della storia nei confronti della quale la natura va a - e deve anche - riprendersi i suoi "diritti".
Evidentemente, non è stata la sola decomposizione del capitalismo a fare nascere tali visioni, ma essa le ha considerevolmente accentuate e rafforzate.
Nei secoli precedenti, la generalizzazione della produzione di merci sotto il dominio del capitalismo ha sciolto progressivamente i legami di solidarietà che erano alla base della società umana, al punto che le loro stesse reminiscenze rischiano di sparire per sempre della memoria collettiva.
La fase di declino delle formazioni sociali, dal comunismo primitivo in poi, è sempre stata caratterizzata dalla dissoluzione dei valori morali stabiliti dalla società e, finché un'alternativa storica non ha cominciato ad affermarsi, da una perdita di fiducia nel futuro.
Ma la barbarie e l'inumanità della decadenza capitalista sono senza precedenti nella storia della specie umana. Per la verità non è facile dopo i massacri di Auschwitz ed Hiroshima, e di fronte ai genocidi, alla distruzione permanente e generalizzata, mantenere la propria fiducia nella possibilità di un progresso morale.
Il capitalismo ha rotto anche l'equilibrio rudimentale che esisteva fino ad ora tra l'uomo ed il resto della natura, demolendo così a lungo termine la base della società umana.
A queste caratteristiche dell'evoluzione storica del capitalismo, dobbiamo aggiungere l'accumulazione degli effetti di un fenomeno più generale dell'ascesa dell'umanità nel contesto delle società di classe: il fatto che l'evoluzione morale e sociale è in ritardo sull'evoluzione tecnologica.
"La scienza naturale è considerata giustamente come il campo in cui il pensiero umano, attraverso una serie continua di trionfi, ha sviluppato potentemente la sua forma di concezione logica... Al contrario all'altro estremo si trova il vasto campo delle azioni e dei rapporti umani in cui l'utilizzazione di attrezzi non gioca un ruolo immediato, e che agisce in una distanza lontana, in quanto fenomeno profondamente sconosciuto ed invisibile. Là, il pensiero e l'azione sono più determinati dalla passione e gli impulsi, dall'arbitrarietà e l'improvvisazione, attraverso la tradizione e le credenze; là, nessuna logica metodologica conduce alla certezza della conoscenza (...) Il contrasto che appare qui, tra la perfezione e l'imperfezione, significa che l'uomo controlla le forze della natura o ci si avvicina va sempre più, ma che egli non controlla ancora le forze di volontà e di passione che sono in lui. Là dove ha fermato il suo avanzare, forse anche regredito, è a livello della evidente mancanza di controllo sulla propria "natura" (Tilney). È chiaro che questa è la ragione per la quale la società è ancora tanto indietro rispetto alla scienza. Potenzialmente, l'uomo ha la padronanza sulla natura. Ma non possiede ancora la padronanza sulla sua propria natura".4
Le cause delle riserve verso il concetto di morale proletaria dopo il 1968
Dopo il 1968, la dinamica delle lotte operaie ha costituito un contrappeso potente allo scetticismo crescente in seno alla società capitalista. Ma nello stesso tempo, la mancanza di assimilazione in profondità del marxismo ha condotto alla visione comune all'interno della nuova generazione di rivoluzionari secondo la quale non ci sarebbe posto per questioni morali o di etica nella teoria socialista. Questo atteggiamento era prima di tutto il prodotto della rottura della continuità organica provocata dalla controrivoluzione che ha fatto seguito all'ondata rivoluzionaria del 1917-23. Fino ad allora, i valori etici del movimento operaio facevano parte di una tradizione che era sempre stata trasmessa da una generazione all'altra. L'assimilazione di questi valori era dunque favorita dal fatto che essi facevano parte di una pratica vivente, collettiva ed organizzata. La controrivoluzione ha spazzato via, in grande misura, la conoscenza di quest'esperienze, proprio come ha spazzato via quasi completamente le minoranze rivoluzionarie che l'incarnavano.
Questa perversione dell'etica del proletariato ha, a sua volta, rafforzato l'impressione che la morale, per sua stessa natura, è un affare intrinsecamente reazionario delle classi dominanti e sfruttatrici. La storia mostra, evidentemente, che in tutte la società divise in classi la morale dominante è sempre stata quella della classe dominante. E ciò a tal punto che morale e Stato, come anche morale e religione, sono diventati quasi sinonimi nell'opinione popolare. I sentimenti morali della società nel suo insieme sono sempre stati utilizzati dagli sfruttatori, dallo Stato e dalla religione, per santificare e perpetuare lo status quo affinché le classi sfruttate si sottoponessero alla loro oppressione. Il "moralismo" grazie al quale le classi dominanti si sono sempre sforzate di rompere la resistenza delle classi lavoratrici attraverso l'instillazione di un senso di colpevolezza, è uno dei grandi flagelli dell'umanità. È anche una delle più sottili ed efficaci armi delle classi dominanti per assicurare il loro dominio sull'insieme della società.
Il marxismo ha sempre combattuto la morale delle classi dominanti proprio come ha combattuto il moralismo filisteo (gretto e retrivo) della piccola borghesia. Contro l'ipocrisia degli apologeti morali del capitalismo, il marxismo ha sempre sostenuto, in particolare, che la critica dell'economia politica deve basarsi su una conoscenza scientifica e non su un giudizio etico.
Tuttavia, la perversione della morale del proletariato da parte dello stalinismo non costituisce una ragione per abbandonare la concezione della morale proletaria (come il proletariato non deve rigettare il concetto di comunismo con il pretesto che è stato recuperato e pervertito dalla controrivoluzione in URSS). Il marxismo ha mostrato che la storia morale dell'umanità non è solamente lo storia della morale della classe dominante. Ha dimostrato che le classi sfruttate hanno i loro propri valori etici e che questi valori hanno sostenuto un ruolo rivoluzionario nel progresso dell'umanità. Ha dimostrato che la morale non è neanche identica alla funzione di sfruttamento, dello Stato o della religione e che il futuro - se ci sarà un futuro - appartiene ad una morale che supera lo sfruttamento, lo Stato e la religione.
"… gli uomini si abitueranno gradatamente a rispettare le regole elementari della vita in società conosciute da secoli, ripetute per millenni in tutte le prescrizioni morali, a rispettarle senza violenza, senza costrizioni, senza sottomissione, senza quest'apparto speciale di coercizione che si chiama Stato".5
Il marxismo ha rivelato che il proletariato è l'unica classe della storia che possa, liberandosi dell'alienazione, sviluppando la sua coscienza, la sua unità e la sua solidarietà, liberare la morale, e dunque l'umanità, dal flagello della "cattiva coscienza" basata sulla colpevolezza e la sete di vendetta e punizione.
Inoltre, eliminando il moralismo piccolo-borghese dalla critica dell'economia politica, il marxismo è stato capace di dimostrare scientificamente il ruolo dei fattori morali nella lotta di classe del proletariato. Ha scoperto così per esempio che la determinazione del valore della forza lavoro - contrariamente a tutte le altre merci - contiene una dimensione morale: il coraggio, la determinazione, la solidarietà e la dignità degli sfruttati.
Le resistenze al concetto di morale proletaria esprimono anche il peso dell'ideologia della piccola borghesia fortemente segnata dal democraticismo. Rivelano l'avversione della piccola borghesia verso i principi di comportamento che, come ogni principio, costituiscono altrettanti ostacoli alla sua "libertà individuale". L'infiltrazione in seno al movimento operaio contemporaneo di quest'ideologia di una classe senza avvenire storico è una debolezza che ha rafforzato l'immaturità della generazione generata dal movimento del maggio 68.
La natura della morale
La morale è una guida indispensabile di comportamento nel mondo culturale dell'umanità. Permette di identificare i principi e le regole di vita comune dei membri della società. La solidarietà, la sensibilità, la generosità, il sostegno ai bisognosi, l'onestà, l'atteggiamento amichevole e la benevolenza, la modestia, la solidarietà tra generazioni sono dei tesori che appartengono all'eredità morale dell'umanità. Sono delle qualità senza le quali la vita in società diventa impossibile. E' per tale motivo che gli esseri umani ne hanno sempre riconosciuto il valore, proprio come l'indifferenza verso gli altri, la brutalità, l'avidità, l'invidia, l'arroganza e la vanità, la disonestà e la menzogna hanno sempre provocato la loro disapprovazione ed indignazione.
Come tale, la morale compie la funzione di favorire le pulsioni sociali in opposizione alle pulsioni antisociali dell'umanità, nell'interesse della coesione della comunità. Canalizza l'energia psichica nell'interesse di tutti. Il modo con cui quest'energia è canalizzata varia a seconda del modo di produzione, la costellazione sociale, ecc.
In seno ad ogni società, norme di comportamento e valutazione sono state edificate sulla base dell'esperienza vivente, e corrispondenti ad uno stile di vita dato. Questo processo fa parte di ciò che Marx ne Il Capitale chiama l'emancipazione relativa nei confronti dell'arbitrarietà e del semplice caso attraverso lo stabilirsi dell'ordine.
La morale ha un carattere imperativo. È un'appropriazione del mondo sociale attraverso i giudizi sul "bene" ed il "male", su ciò che è accettabile e ciò che non lo è. Questo approccio della realtà utilizza dei meccanismi psichici specifici, come la buona coscienza ed il senso delle responsabilità. Questi meccanismi influenzano la presa di decisione ed il comportamento generale e, spesso, li determinano. Le esigenze della morale contengono una presa di coscienza di ciò che è la vita sociale, una coscienza che è stata assorbita ed assimilata al livello emozionale. Come ogni mezzo d'appropriazione e di trasformazione della realtà, ha un carattere collettivo. Attraverso l'immaginazione, l'intuizione e la valutazione, permette al soggetto di entrare nel mondo mentale ed emozionale degli altri esseri umani. È dunque fonte di solidarietà umana e mezzo di arricchimento e di sviluppo spirituale reciproco. Non può evolversi senza interazione sociale, senza trasmissione delle acquisizioni e dell'esperienza tra i membri della società, tra la società e gli individui e da una generazione all'altra.
Una delle caratteristiche della morale risiede nel fatto che si appropria della realtà usando come strumento di misura ciò che dovrebbe essere. Il suo percorso è teleologico piuttosto che causale. La collusione tra ciò che è e ciò che deve essere è caratteristica dell'attività morale; essa ne fa un fattore attivo e vitale.
Il marxismo non ha mai negato la necessità né l'importanza del contributo di fattori non teorici e non scientifici nell'ascesa della specie umana. Al contrario, ha sempre compreso il loro carattere indispensabile ed anche la loro indipendenza relativa. E' per tale motivo che è stato capace di esaminare le loro connessioni nella storia e riconoscere la loro complementarità.
Nelle società primitive, ma anche nelle società di classi, la morale si sviluppa in modo spontanea. Molto prima che la capacità di codificare i valori morali (o di rifletterci sopra) si sia sviluppata, esistevano tipi di comportamento e una loro valutazione. Ogni società, ogni classe o ogni gruppo sociale ed anche ogni professione (come sottolineato da Engels) ha, in particolare attraverso l'edificazione di codici di deontologia, il suo proprio schema di comportamento morale. Come ha notato Hegel, una serie di atti di un soggetto è il soggetto stesso. La morale è ben più della somma delle regole e dei costumi di comportamento. È una parte essenziale della colorazione che i rapporti umani prendono in una data società.
È al tempo stesso il riflesso ed un fattore attivo del modo con cui l'uomo vede sé stesso e del modo con cui riesce a comprendere gli altri, a penetrare nell'universo mentale dell'altro. La morale è basata sull'empatia che si inserisce nel campo delle emozioni specifiche alla specie umana. È proprio per ciò che Marx affermava: "Niente di ciò che è umano mi è estraneo".
Le valutazioni morali sono non solo necessarie in risposta ai problemi quotidiani, ma come parte di un'attività pianificata e consapevolmente diretta verso uno scopo. Non solo guidano decisioni particolari, ma orientano tutta una vita o tutta un'epoca storica.
Sebbene l'istinto, l'intuizione e l'inconscio costituiscono degli aspetti essenziali del mondo morale dell'uomo, con l'ascesa dell'umanità il ruolo della coscienza cresce anche in questa sfera. Le questioni morali toccano le profondità stesse dell'esistenza umana. Un orientamento morale è il prodotto di bisogni sociali ma anche un modo di pensare in una società o un gruppo dato. Essa necessita di una valutazione del valore della vita umana, del rapporto dell'individuo alla società, una definizione del suo proprio posto nel mondo, delle sue proprie responsabilità verso l'insieme della comunità. Ma qui, la valutazione prende posto non in modo contemplativo ma sotto forma di comportamenti sociali. L'orientamento etico porta il suo contributo specifico - pratico, valutativo, imperativo - sul senso da dare alla vita umana.
Sebbene lo sviluppo dell'universo sia un processo che esiste al di là ed indipendentemente da ogni scopo o "significato" obiettivo, l'umanità è quella parte della natura che si dà degli scopi e lotta per la loro realizzazione.
Ne L'origine della famiglia, della proprietà e dello Stato, Engels mostra che la morale affonda le sue radici nei rapporti socio-economici e negli interessi di classe. Ma mostra anche il suo ruolo regolatore, non solo nella riproduzione delle strutture sociali esistenti, ma anche nell'emergere di nuovi rapporti sociali. La morale può ostacolare o accelerare il progresso storico. La morale riflette frequentemente, prima della filosofia e la scienza, i cambiamenti nascosti sotto la superficie della società.
Il carattere di classe di una morale data non deve farci perdere di vista il fatto che ogni sistema morale contiene degli elementi umani generali che contribuiscono alla preservazione della società ad un stadio del suo sviluppo. Come Engels mette in evidenza nell'Anti-Dühring, la morale proletaria contiene ben più elementi di valore umano generale di quella delle altre classi sociali perché rappresenta il futuro contro la morale della borghesia. Engels insiste, a giusta ragione, sull'esistenza del progresso morale nella storia. Attraverso gli sforzi, da una generazione all'altra, per dominare meglio l'esistenza umana ed attraverso le lotte delle classi storiche, la ricchezza dell'esperienza morale della società è aumentata. Sebbene lo sviluppo etico dell'uomo non sia del tutto lineare, il progresso in questo campo può misurarsi nella necessità e la possibilità di risolvere sempre più problemi umani complessi. Ciò rivela tutto il potenziale di arricchimento del mondo interiore e sociale dell'uomo che, come ha sottolineato Trotsky, è uno dei criteri più importanti del progresso.
Un'altra caratteristica fondamentale della morale risiede nel fatto che, pur esprimendo i bisogni della società nel suo insieme, la sua esistenza è inseparabile dalla vita intima dell'essere umano, dal mondo interiore della sua coscienza e dalla sua personalità. Ogni atteggiamento che sottovaluta il fattore soggettivo, resta necessariamente astratto e passivo. È l'identificazione intima e profonda dell'uomo ai valori morali che, tra l’altro, lo distingue dall'animale e gli dà la forza di trasformare la società. Qui, ciò che è socialmente necessario diventa la voce interna della "buona coscienza", permettendo di collegare le emozioni umane alla dinamica del progresso sociale. La maturazione morale dell'essere umano lo arma contro i pregiudizi ed il fanatismo ed aumenta le sue capacità a reagire consapevolmente ed in modo creativo di fronte ai conflitti morali.
È anche necessario sottolineare che, sebbene la morale trova la sua base biologica negli istinti sociali, la sua evoluzione è inseparabile dalla partecipazione alla cultura umana. La liberazione della specie umana dal regno animale non dipende solamente dallo sviluppo del pensiero, ma anche dall'educazione e dalla raffinatezza delle emozioni. Tolstoj aveva dunque ragione di sottolineare il ruolo, nel progresso umano, dell'arte - in senso lato - accanto a quello della scienza.
"Proprio come, grazie alla capacità degli uomini di comprendere i pensieri espressi in parole, ogni essere umano può conoscere tutto ciò che l'insieme dell'umanità ha realizzato per lui nel campo del pensiero... allo stesso modo, grazie alla capacità umana, attraverso l'arte di essere toccato dai sentimenti degli altri, può accedere alle emozioni dei suoi contemporanei, a quelle che altri esseri umani, di migliaia di anni prima, hanno provato e diventa possibile per lui esprimere i propri sentimenti agli altri. Se gli esseri umani non avessero avuto la possibilità, la capacità di assorbire per mezzo delle parole, tutti i pensieri di quelli che hanno vissuto prima di loro e di comunicare i loro propri pensieri ad altri, sarebbero come animali selvaggi o come un Gaspard Hauser. Se non avessero quest'altra capacità umana di essere colpiti dall'arte, gli esseri umani sarebbero certamente ad un livello ancora molto più basso dei selvaggi e più estranei ed ostili gli uni agli altri".6
L'etica precede il marxismo
L'etica è la teoria della morale, ed ha per obiettivo di comprendere meglio il suo ruolo, di migliorare e di sistematizzare il suo contenuto ed il suo campo di azione. Sebbene l'etica sia una disciplina teorica, il suo scopo è sempre stato pratico. Un'etica che non contribuisce a migliorare i comportamenti umani nella vita reale è per definizione senza valore. L'etica è apparsa e si è sviluppata in quanto scienza filosofica, non solo per ragioni storiche ma anche perché la morale non è un oggetto preciso ma un rapporto che abbraccia l'insieme della vita umana e la coscienza. Dalla filosofia greca classica fino a Spinoza e Kant, l'etica è sempre stata concepita come una sfida essenziale alla quale si sono confrontati i più grandi cervelli dell'umanità.
Malgrado la moltitudine degli orientamenti e delle risposte secondo i differenti tipi di società, uno scopo comune ha sempre caratterizzato l'etica, principalmente da Socrate in poi. È la risposta alla questione: come l'uomo può riuscire a costruire il benessere universale per l'insieme della sua specie? L'etica è sempre stata un'arma di lotta, in particolare un'arma della lotta di classe. Il confrontarsi con la malattia e con la morte, con i conflitti di interesse e con la sofferenza morale, è stato spesso un potente stimolante per lo studio dell'etica. Ma mentre la morale, per quanto rudimentali possano essere le sue manifestazioni, è una condizione molto vecchia dell'esistenza della società umana (ed esisteva già nelle prime società primitive) l'etica è un fenomeno molto più recente ed è apparsa con la società divisa in classi. Il bisogno di orientare consapevolmente il comportamento e la vita di ciascuno è il prodotto della natura della vita sociale che è diventata sempre più complessa con l'apparizione delle classi sociali. Nella società primitiva, la solidarietà tra gli uomini ed il senso della loro attività era dettata direttamente dalla più rude delle penurie. La libertà di scelta individuale non esisteva ancora. È nel contesto della contraddizione crescente tra vita privata e vita pubblica, tra i bisogni degli individui e quelli della società, che una riflessione teorica sul comportamento ed i suoi principi hanno preso corpo. Questa riflessione è inseparabile dall'apparizione di un atteggiamento critico nei confronti della società e della volontà di cambiarla in modo cosciente e ponderata. Così, se la scomparsa della comunità primitiva e l'apparizione della società di classi costituiscono una condizione per un tale percorso, l'apparizione dell'etica - come quella della filosofia in generale - è stimolata in particolare dallo sviluppo della produzione di merci, come avvenne per la Grecia antica. Non solo l'apparizione dell'etica ma la sua evoluzione dipendeva anche e fondamentalmente dallo sviluppo delle forze produttive, in particolare delle basi economiche, materiali della società.
Con la società di classi, le esigenze morali ed i costumi cambiano necessariamente poiché ogni formazione sociale fa apparire una morale che corrisponde ai suoi bisogni. Quando le morali stabilite dalle classi dominanti entrano in contraddizione con lo sviluppo storico, diventano sorgente di una sofferenza terribile, aumentano il ricorso alla violenza fisica e psichica per imporsi e conducono ad un disorientamento generalizzato, ad un'ipocrisia latente, ma anche all'auto-flagellazione, in particolare in seno alle classi sfruttate. Queste fasi di declino delle società costituiscono una sfida particolare per l'etica e quest'ultima si adopera a formulare dei nuovi principi che avranno presa sulle masse e le orienteranno solamente in una fase ulteriore.
Tuttavia, lo sviluppo dell'etica è lungi da essere un riflesso meccanico, passivo, delle basi economici della società. Possiede una propria dinamica interna, come già l'aveva illustrato l'evoluzione del primo materialismo, quello dei materialisti greci i cui contributi all'etica appartengono ancora all'eredità teorica inestimabile dell'umanità. Questa dinamica interna dell'etica si rivela nel perseguimento della sua preoccupazione centrale: l'aspirazione alla felicità per l'insieme dell'umanità. Già Eraclito poneva la domanda centrale dell'etica: il rapporto tra l'individuo e le società, tra ciò che fanno realmente gli individui e ciò che dovrebbero fare nell'interesse generale. Ma questa filosofia "della natura" era incapace di dare una spiegazione materialista delle origini della morale ed in particolare della buona coscienza. Di più, la sua insistenza unilaterale sulla causalità, a detrimento del lato "teleologico" dell'esistenza dell'uomo (attività ponderata in vista di uno scopo cosciente), gli impediva di dare risposte soddisfacenti alle domande etiche tra le più fondamentali per l'avvenire della specie umana (come il rapporto dell'uomo con la propria limitatezza, con la propria morte e con quella dei suoi simili specialmente di fronte alla guerra ed altri conflitti mortali).
E' per tale motivo che l'evoluzione sociale obiettiva, ma anche l'assenza di risposta alle domande morali poste, hanno aperto la via all'idealismo filosofico. Questo idealismo è apparso nello stesso momento in cui una nuova credenza religiosa, il monoteismo, fondata sulla fede in un unico Dio, salvatore dell'umanità ed unico in grado di aprire le porte della felicità universale in un paradiso celeste. L'apparizione della morale idealistica non era più basata sulla spiegazione della natura ma sull'esplorazione della vita spirituale. Questo comportamento non è riuscito a liberarsi totalmente del pensiero animistico e magico delle società primitive ed è culminato nella seguente visione secondo cui l'essenza umana sarebbe divisa in due parti, una spirituale, morale, e l'altra materiale, corporale. L'uomo sarebbe in qualche modo metà-angelo, metà-animale.
È solamente col materialismo rivoluzionario della borghesia ascendente dell'Europa occidentale che il trionfo dell'idealismo morale è stato messo seriamente in discussione. Questo nuovo materialismo postulava che le pulsioni naturali dell'uomo contenevano il germe di tutto ciò che è bene, rendendo il vecchio ordine sociale responsabile di tutto il male. Da questa scuola di pensiero sono generate non solo le armi teoriche della rivoluzione borghese ma anche il socialismo utopico (Fourier nei materialisti francesi, Owen ed il sistema "utilitarista" di Bentham).
Ma questo materialismo della borghesia rivoluzionaria era incapace di spiegare l'origine della morale. Le morali non possono essere spiegate "naturalmente" perché la natura umana contiene già la morale. Questa teoria rivoluzionaria non poteva spiegare neanche la propria origine. Se l'uomo, alla sua nascita, è solamente una pagina bianca, una tabula rasa, come afferma questo materialismo borghese, e se la sua natura di essere sociale è determinata solamente dalla sua impregnazione nell'ordine sociale esistente, da dove vengono le idee rivoluzionarie, quale è l'origine dell'indignazione morale - questa condizione indispensabile per una società nuova e migliore? Il fatto che il materialismo borghese abbia combattuto il pessimismo dell'idealismo (che nega ogni possibilità di un progresso morale nel mondo reale dell'uomo) costituisce il suo grande contributo. Tuttavia, malgrado il suo ottimismo apparentemente senza limiti, questo materialismo fin troppo meccanico e metafisico non offriva che una base poco solida ad una reale fiducia nell'umanità. In definitiva, in questa visione del mondo incarnato dalla filosofia dei lumi, è l'uomo "illuminato" che doveva apparire come la sola sorgente della perfezione morale della specie umana.
Il fatto che il materialismo borghese non sia riuscito a spiegare le origini della morale ha contribuito alla ricaduta di Kant nell'idealismo morale quando cerca di spiegare il fenomeno della buona coscienza. Dichiarando che "la legge morale dentro noi" era una "cosa in sé", esistente a priori, all'infuori del tempo e dello spazio, Kant dichiarava in effetti che non possiamo conoscere le origini della morale.
Così, malgrado tutti questi contributi inestimabili alla storia dell'umanità, che costituiscono i pezzi di un puzzle ancora sparpagliato, è solo il proletariato che sarà in grado, grazie alla teoria marxista, di dare una risposta coerente e soddisfacente a questa questione sulle origini della morale.Per il marxismo, l'origine della morale risiede nella natura interamente sociale, collettiva, della specie umana. Questa morale è non solo il prodotto dei profondi istinti sociali ma anche della dipendenza della specie al riguardo del lavoro collettivo, associato e pianificato, e dell'apparato produttivo sempre più complesso che questo esige. La base, il cuore della morale, è il riconoscimento della necessità della solidarietà di fronte alla fragilità biologica dell'essere umano. Questa solidarietà (che le scoperte scientifiche recenti, in particolare in antropologia e paleontologia hanno messo del resto in evidenza) costituisce il denominatore comune di tutto ciò che è stato positivo e duraturo durante la storia della morale. In quanto tale, la solidarietà è al tempo stesso la misura del progresso morale e l'espressione della continuità di questa storia malgrado tutte le rotture e regressioni.
Questa storia è caratterizzata dal riconoscimento che le probabilità di sopravvivenza sono tanto più grandi quanto la società (o la classe sociale) è più unificata, la sua coesione più solida, e più grande l'armonia tra tutte le sue parti. Ma lo sviluppo della morale attraverso i secoli non è solamente una questione di sopravvivenza per la specie umana. Condiziona sempre più l'apparizione di forme compiute e complesse di collettività umane che sono loro stesse la condizione dello sviluppo delle potenzialità dell'uomo e della società. Peraltro non è che stabilendo rapporti con gli altri che gli esseri umani possono scoprire la loro propria umanità. La ricerca pratica degli interessi collettivi è il mezzo dell'elevazione morale dei membri della società. La vita più ricca è quella che è più ancorata nella società.
La ragione per la quale solo il proletariato poteva rispondere alla domanda dell'origine e della essenza della morale, risiede nel fatto che la prospettiva di una comunità mondiale unificata, una società comunista, costituisce la chiave per apprendere la storia della morale. Il proletariato è la prima classe della storia che non abbia interessi particolari da difendere e che sia unito da una vera socializzazione della produzione, base materiale di un livello qualitativamente superiore della solidarietà umana.
L'etica materialista del marxismo, grazie alla sua capacità di integrare le scoperte scientifiche (specialmente quelle di Darwin a cui Marx voleva dedicare Il Capitale) permette dunque di comprendere che l'uomo, in quanto prodotto dell'evoluzione, non è, in effetti, un tabula rasa alla nascita. Porta con sé, "nel mondo" una serie di bisogni sociali generati delle sue origini animali (per esempio il bisogno di tenerezza e di affetto senza cui il neonato non può svilupparsi ed anche sopravvivere).
Ma i progressi della scienza hanno rivelato anche quanto l'uomo sia un combattente nato. E' proprio ciò che gli ha permesso di partire alla conquista dal mondo, di dominare le forze della natura, di trasformare la sua vita sociale sviluppandola su tutto il pianeta. La storia mostra così come egli non si rassegna in genere di fronte alle difficoltà. La lotta dell'umanità non può che basarsi su una serie di istinti che ha ereditato dal regno animale: quelli dell'auto-conservazione, della riproduzione sessuale, della protezione dei suoi piccoli, ecc. Nella cornice della società, questi istinti di conservazione della specie non hanno potuto svilupparsi che condividendo le sue emozioni con i suoi simili. Se è vero che queste qualità sono il prodotto della socializzazione, non è meno vero che sono queste qualità che, di conseguenza, rendono possibile la sua vita in società. La storia dell'umanità ha dimostrato anche che l'uomo può e deve mobilitare egualmente un potenziale di aggressività senza di cui non può difendersi contro un ambiente naturale ostile.
Ma le basi della combattività della specie umana sono molto più profonde di ciò, e sono ancorate soprattutto nella cultura. L'umanità è l'unica parte della natura che, attraverso il processo del lavoro, si trasforma. Ciò significa che, nel lungo processo di umanizzazione, trasformazione della "scimmia in uomo", la coscienza è diventata il principale strumento della lotta dell'umanità per la sua sopravvivenza. Ogni volta che l'uomo ha raggiunto uno scopo, ha modificato il suo ambiente naturale e si è dato dei nuovi obiettivi più elevati. Ciò che ha necessitato di conseguenza un nuovo sviluppo della sua natura di essere sociale.
Il metodo scientifico del marxismo ha svelato le origini biologiche, "naturali" della morale e del progresso sociale. Poiché ha scoperto le leggi del movimento della storia umana e superato il punto di vista metafisico, il marxismo ha dato risposta a delle domande che il vecchio materialismo borghese era incapace di dare. Facendo ciò, ha dimostrato la relatività, ma anche la validità relativa, dei differenti sistemi morali nella storia. Ha rivelato la loro dipendenza al riguardo dello sviluppo delle forze produttive e, a partire da un certo periodo storico, della lotta di classe. Con essa, ha posto le basi teoriche di un superamento pratico di ciò che fu uno dei più grandi flagelli dell'umanità fino ai nostri giorni: la tirannide fanatica, dogmatica di ogni sistema morale.
Mostrando che la storia ha un senso e forma un tutto coerente, il marxismo ha superato la falsa scelta tra il pessimismo morale dell'idealismo e l'ottimismo ristretto del materialismo borghese. Dimostrando l'esistenza di un progresso morale nella storia dell'umanità, ha allargato le basi della fiducia del proletariato nel futuro.
Malgrado la nobile semplicità dei principi comunitari della società primitiva, le loro virtù erano legate al compimento cieco di riti e di superstizioni che non potevano essere messi in questione, e non sono stati mai il risultato di una scelta cosciente. È solamente con l'apparizione di una società di classi (in Europa, all'apogeo della società schiavistica) che gli esseri umani hanno potuto acquistare un valore morale indipendente dalle relazioni di sangue. Quest'acquisizione è stata il prodotto della cultura, della rivolta degli schiavi e degli altri strati oppressi. È importante notare che le lotte delle classi sfruttate, anche quando non contenevano prospettive rivoluzionarie, hanno arricchito l'eredità morale dell'umanità, attraverso la cultura dello spirito di ribellione e di indignazione, della conquista di un rispetto per il lavoro umano, della difesa della dignità di ogni essere umano. La ricchezza morale della società non è mai il semplice risultato della costellazione economica, sociale, culturale del momento. È il prodotto di un accumulazione storica. Come l'esperienza e la sofferenza di una vita lunga e difficile contribuiscono alla maturazione di quelli che non sono stati abbattuti, così l'inferno della società di classi contribuisce allo sviluppo della nobiltà morale dell'umanità, purché questa società possa essere rovesciata.
Bisogna aggiungere che il materialismo storico ha sciolto la vecchia opposizione che frenava i progressi dell'etica, tra istinto e coscienza, tra causalità e teleologia. Le stesse leggi obiettive dello sviluppo storico sono manifestazioni dell'attività umana. Esse appaiono come esterne solo perché gli scopi che gli uomini si danno dipendono dalle circostanze che il passato ha tramandato al presente. Considerata in modo dinamica, nel movimento del passato verso il futuro, l'umanità è al tempo stesso il risultato e la causa del cambiamento. In questo senso, la morale e l'etica sono contemporaneamente prodotti e fattori attivi della storia.
Rivelando la vera natura della morale, il marxismo è invece capace di influire sul suo corso, affilandolo come un'arma della lotta di classe del proletariato.La morale proletaria si sviluppa combattendo i valori dominanti; essa non si tiene in disparte. Il cuore della morale della società borghese è contenuto nella generalizzazione della produzione di merci. Ciò determina il suo carattere essenzialmente democratico che ha sostenuto un ruolo altamente progressista nella dissoluzione della società feudale ma che rivela il suo lato più irrazionale col declino del sistema capitalista.
Il capitalismo ha sottomesso l'insieme della società, ivi compresa la stessa forza lavoro, alla quantificazione del valore di scambio. Il valore dell'essere umano e della sua attività produttiva non risiede più nella sua qualità umana concreta né nel suo contributo particolare alla collettività. Non può più essere misurato che in modo quantitativo rispetto agli altri ed ad una media astratta che si impone alla società come una forza indipendente e cieca. Introducendo la concorrenza tra gli uomini, obbligandoli a scontrarsi costantemente gli uni agli altri, il capitalismo erode la solidarietà umana alla base della società. Facendo astrazione delle qualità reali degli esseri umani, ivi compreso delle loro qualità morali, sabota anche la base della morale. Sostituendo la domanda "che posso portare come contributo alla comunità?" con la domanda "quale è il mio valore in seno alla comunità"? (ricchezza, potere, prestigio), mette in discussione la possibilità stessa di una comunità umana.
La tendenza della società borghese è di erodere le esperienze morali dell'umanità che si sono accumulate durante migliaia di anni, dalla semplice tradizione di ospitalità e di rispetto degli altri nella vita quotidiana fino al riflesso elementare di portare assistenza a quelli che ne hanno bisogno.
Con l'entrata del capitalismo nella sua fase terminale, quella della decomposizione, questa tendenza inerente al capitalismo prende il sopravvento. La natura irrazionale di questa tendenza, incompatibile a lungo termine con la preservazione della società, si rivela nella necessità per la stessa borghesia, nell'interesse del suo sistema, di ricorrere ai ricercatori che fanno delle investigazioni e sviluppano delle strategie contro il "mobbing", la persecuzione morale, ai pedagoghi incaricati di insegnare agli scolari come gestire i conflitti. Parimenti, la qualità sempre più rara di saper lavorare in equipe è considerata oggi come la qualifica più ricercata per l’assunzione in numerose imprese.
Ciò che è specifico al capitalismo, è lo sfruttamento sulla base della "libertà" e della "uguaglianza" giuridica degli sfruttati. Da cui il carattere essenzialmente ipocrita della morale borghese. Ma questa specificità modifica anche il ruolo che la violenza gioca in seno alla società.
Contrariamente a ciò che proclamano gli apologeti del capitalismo, quest'ultimo non fa meno uso della forza rozza rispetto agli altri modi di produzione, ma va ben oltre. Tuttavia, come lo sviluppo dello stesso processo di sfruttamento è basato ormai sui rapporti economici e non sulla costrizione fisica, il capitalismo ha operato un salto qualitativo nell'uso della violenza indiretta, morale, psichica. La calunnia, la distruzione della personalità individuale, la ricerca di capri espiatori, l'isolamento sociale, la demolizione sistematica della dignità umana e della fiducia in sé, sono diventati degli strumenti quotidiani di controllo sociale. Più ancora, questa violenza è diventata la manifestazione della libertà democratica, l'ideale morale della società borghese. Più la borghesia ricorre a questa violenza indiretta ed al dominio della sua morale contro il proletariato, più rafforza la sua dittatura.
La lotta del proletariato per il comunismo costituisce da tempo e fino ad ora, il punto di arrivo della morale dell'umanità. Ciò significa che la classe operaia ha ereditato dall'accumulazione dei frutti della civiltà, li ha sviluppati ad un livello qualitativamente superiore, salvandoli così dalla liquidazione da parte della decomposizione capitalista. Uno dei principali scopi della rivoluzione comunista, è la vittoria degli istinti sociali sulle pulsioni anti-sociali. Come Engels spiegava ne L'Anti-Dühring, una morale realmente umana, al di là delle contraddizioni di classe, diventerà possibile solamente in una società dove le stesse contraddizioni di classe ma anche la loro memoria saranno sparite nella pratica della vita quotidiana.
Il proletariato integra nel suo movimento antiche regole della comunità come le più recenti e complesse esperienze delle manifestazioni della cultura morale. Si tratta proprio di regole elementari come l'interdizione del furto e dell'omicidio che non sono solo regole d'oro della solidarietà e della fiducia reciproca per il movimento operaio, ma una barriera insostituibile contro l'influenza morale estranea della borghesia e del sottoproletariato.
Il movimento operaio si nutre egualmente dello sviluppo della vita sociale, della preoccupazione per la vita degli altri, della protezione dei bambini, dei vecchi, dei più deboli e di quelli che ne hanno bisogno. Sebbene l'amore dell'umanità non sia appannaggio del proletariato, come ha affermato Lenin, questa riappropriazione da parte della classe operaia è necessariamente un elemento critico che mira a superare l'inesperienza, la grettezza di spirito ed il provincialismo degli strati e delle classi sfruttate non proletarizzate.
L'apparizione della classe operaia come portatrice di progresso morale è una perfetta dimostrazione della natura dialettica dello sviluppo sociale. Dividendo radicalmente i produttori dai mezzi di produzione e con la loro sottomissione completa alle leggi del mercato, il capitalismo ha creato per la prima volta una classe sociale spossessata della sua umanità. La genesi della classe operaia moderna è dunque la storia della dissoluzione della vecchia comunità sociale e delle sue esperienze. Questa dislocazione della comunità umana originaria ha generato lo sradicamento, il vagabondaggio e la criminalizzazione di milioni di uomini, di donne e di bambini. Posti al di fuori della sfera della società, erano condannati ad un processo senza precedenti di abbrutimento e di degradazione morale. All'alba del capitalismo, i quartieri operai nelle regioni industrializzate erano dei campi fertili per l'ignoranza, il crimine, la prostituzione, l'alcolismo, l'indifferenza e la disperazione.
Nel suo studio sulla classe operaia in Inghilterra, Engels era già capace di notare che i proletari che avevano una coscienza di classe costituivano il settore della società più nobile, il più umano e più suscettibile ad essere rispettato. Più tardi, facendo il bilancio della Comune di Parigi, Marx ha messo in evidenza l'eroismo, lo spirito di sacrificio e la passione per il suo compito erculeo della Parigi che si batteva, lavorava e pensava, all'opposto della Parigi parassita, scettica ed egoista della borghesia.
Questa trasformazione del proletariato, dalla perdita alla conquista della propria umanità, è l'espressione della sua natura specifica di classe sfruttata e rivoluzionaria al tempo stesso. Il capitalismo ha dato nascita alla prima classe della storia che non può affermare la sua umanità ed esprimere la sua identità ed i suoi interessi di classe se non attraverso lo sviluppo della solidarietà. Come mai prima, la solidarietà è diventata l'arma della lotta di classe ed il mezzo specifico attraverso cui l'appropriazione, la difesa ed il più grande sviluppo della cultura umana diventano possibili. Come Marx dichiarava nel 1872: "Cittadini! Ricordiamoci il principio fondamentale dell'Internazionale: la solidarietà. Solo quando avremo stabilito questo principio vitale su delle basi sicure presso i lavoratori di tutti i paesi saremo capaci di compiere il grande scopo finale che ci siamo prefissato. La trasformazione deve prendere posto nella solidarietà, è ciò che ci insegna la Comune di Parigi.7
Questa solidarietà del proletariato è il prodotto della lotta di classe. Senza il combattimento costante tra i proprietari delle fabbriche ed i lavoratori, Marx ci dice che: "la classe operaia della Gran Bretagna e dell'Europa intera sarebbe una massa umile, oppressa, dal debole carattere, esausta, la cui emancipazione sulla base della sua forza sarebbe completamente impossibile come quella degli schiavi dell'antica Grecia e di Roma".8
E Marx aggiunge: "per apprezzare correttamente il valore degli scioperi e delle coalizioni, noi non dobbiamo cadere nella delusione per l'apparente inconsistenza dei risultati economici, ma conservare, sopratutto, lo spirito delle conseguenze morali e politiche".
Questa solidarietà va di pari passo con l'indignazione morale dei lavoratori confrontati al degrado delle loro condizioni di vita. Questa indignazione è una condizione, non solo della loro lotta e della difesa della loro dignità ma anche della nascita della loro coscienza. Dopo avere definito il lavoro in fabbrica come un mezzo di abbrutimento degli operai, Engels conclude che se i lavoratori sono "non solo capaci di salvare la loro salute, ma di sviluppare ed affinare anche la loro comprensione ad un livello più elevato rispetto ad altri" 9 ciò avviene solamente attraverso l'indignazione di fronte al loro destino e all'immoralità e la cupidigia della borghesia.
La liberazione del proletariato dalla carcassa paternalista del feudalismo gli ha permesso di sviluppare la dimensione globale, politica di questi "risultati morali" e dunque di prendere a cuore la sua responsabilità al riguardo della società tutta intera. Nel suo libro sulle classi lavoratrici in Inghilterra, Engels ricorda come, in Francia la politica e, in Gran Bretagna, l'economia hanno liberato i lavoratori dalla loro "apatia nei riguardi degli interessi generali dell'umanità", un'apatia che li rendeva "morti spiritualmente".
Per la classe operaia, la sua solidarietà non è uno strumento tra altri da utilizzare quando se ne sente il bisogno. È l'essenza stessa della lotta e dell'esistenza quotidiana della classe operaia. E' per tale motivo che l'organizzazione e la centralizzazione delle sue lotte sono la manifestazione vivente di questa solidarietà.
L'elevazione morale del movimento operaio è inseparabile dalla formulazione del suo scopo storico. Durante i suoi studi sui socialisti utopisti, Marx riconosceva l'influenza etica delle idee comuniste attraverso le quali "si fabbrica la nostra coscienza". Nel suo libro "Il socialismo e le Chiese", Rosa Luxemburg ricordava anche che il tasso di criminalità si era abbassato nei quartieri industriali di Varsavia appena gli operai sono diventati socialisti.
La più alta espressione, da tempo e fino ad ora, della solidarietà umana, del progresso etico della società è l'internazionalismo proletario. Questo principio è il mezzo indispensabile della liberazione della classe operaia che pone le basi della futura comunità umana. Il carattere centrale di questo principio ed il fatto che solo la classe operaia possa difenderlo, sottolinea tutta l'importanza dell'autonomia morale del proletariato nei confronti delle altre classi e strati della società. È indispensabile per gli stessi operai coscienti liberarsi da soli del modo di pensare e dei sentimenti della popolazione in senso largo, in modo da opporre la propria morale a quella della classe dominante.
La solidarietà non è solamente un mezzo indispensabile per realizzare lo scopo comunista, ma è anche l'essenza di questo scopo.
Le rivoluzioni hanno sempre generato un rinnovo morale della società. Non possono sorgere ed essere vittoriose senza che le masse non si siano impossessate, già prima, dei nuovi valori e delle nuove idee che galvanizzano il loro spirito di combattimento, il loro coraggio e la loro determinazione. La superiorità dei valori morali del proletariato costituisce uno dei principali mezzi della sua capacità a trascinarsi dietro gli altri strati non sfruttatori. Sebbene sia impossibile sviluppare completamente una morale comunista in seno alla società di classe, i principi della classe operaia stabiliti dal marxismo annunciano il futuro e contribuiscono a tracciare la sua strada. Attraverso la sua stessa lotta, la classe operaia adatta sempre più i suoi comportamenti ed i suoi valori ai propri bisogni ed ai suoi scopi, acquistando così una nuova dignità umana.
Il proletariato non ha bisogno di illusioni morali, ed egli detesta l'ipocrisia. Il suo interesse è di sbarazzare la morale da tutte le illusioni e da tutti i pregiudizi. In quanto prima classe della società che ha una comprensione scientifica di questa, il proletariato è il solo che possa fare valere quest'altra preoccupazione della morale che è la verità. E non è un caso se il giornale del partito bolscevico si chiamava proprio la "Pravda" (La "Verità").
Come per la solidarietà, questa rettitudine prende un senso nuovo e più profondo. Di fronte al capitalismo che non può esistere senza menzogna ed inganni e che mistifica la realtà sociale, facendo in modo che i rapporti tra gli uomini appaiono come i rapporti tra oggetti, lo scopo del proletariato è fare apparire la verità come il mezzo indispensabile della sua propria liberazione. È per ciò che il marxismo non ha tentato mai di minimizzare l'importanza degli ostacoli sulla via della vittoria, né rifiutato di riconoscere una sconfitta. La prova più dura della rettitudine è di essere vero nei confronti di sé stessi. E ciò che è valido per le classi lo è anche per gli individui. Certamente questa ricerca per comprendere la propria realtà può essere dolorosa e non deve essere intesa in un senso assoluto. Ma l'ideologia e l'auto-mistificazione sono in contraddizione diretta con gli interessi della classe operaia.
In effetti, mettendo la ricerca della verità al centro delle sue preoccupazioni, il marxismo è l'erede di ciò che di meglio l'etica scientifica dell'umanità ha prodotto. Per il proletariato, la lotta per la chiarezza è il valore più importante. L'atteggiamento che consiste nell'evitare e sabotare i dibatti ed il chiarimento è un insulto a questo valore, poiché un tale comportamento spalanca sempre la porta alla penetrazione di ideologie e di comportamenti estranei al proletariato.
Peraltro, la lotta per il comunismo pone al proletariato nuove domande e lo mette di fronte a nuove dimensioni dell'azione etica. La lotta per la presa del potere pone, per esempio, direttamente la questione dei rapporti tra gli interessi del proletariato e quelli dell'umanità nel suo insieme che, in questa tappa della storia, corrispondono gli uni agli altri senza essere tuttavia identici. Di fronte alla scelta tra socialismo e barbarie, la classe operaia deve assumere consapevolmente le sue responsabilità al riguardo dell'umanità come un tutto. Nel settembre-ottobre 1917, quando le condizioni dell'insurrezione erano mature e di fronte al pericolo che l'estensione della rivoluzione poteva fallire e determinare sofferenze terribili per il proletariato mondiale, Lenin sosteneva che bisognava "correre il rischio" perché era la sorte della stessa civiltà che era in gioco. Parimenti, la politica di trasformazione economica dopo la presa del potere mette la classe operaia davanti alla necessità di sviluppare in modo cosciente dei nuovi rapporti tra gli uomini ed il resto della natura nella misura in cui questi rapporti non possono essere più quelli di un "vincitore in campo conquistato" (Engels, Anti-Dühring).
CCI
1. Per un'idea dei comportamenti degli elementi della FICCI, vedere i nostri articoli " Minacce di morte contro i militanti della CCI" in particolare,"Le riunioni pubbliche della CCI vietate agli spioni", "I metodi polizieschi della FICCI", rispettivamente nei nn. 355, 338 e 330 di Révolution Internationale, così come "Conferenza straordinaria della CCI: La lotta per la difesa dei principi organizzativi" nella Révue Internationale n. 110 e "16° Congresso della CCI : prepararsi alla lotta di classe ed alla 'comparsa di nuove forze rivoluzionarie" nella Révue Internationale n. 122.
2. Questa visione è sviluppata in particolare nel testo "La questione del funzionamento dell'organizzazione nella CCI" pubblicato nella Révue Internationale n. 109.
3. Josef Dietzgen: "The Religione of Sociale Democracy - Sermons", 1870, capitolo V.
4. Anton Pannekoek, Anthropogenesis, A study in the Origin of Man, 1944.
5. Lenin: Stato e rivoluzione.
6. Tolstoj: What is art? 1897. In un contributo al Neue Zeit su questo saggio, Rosa Luxemburg ha dichiarato che formulando un tale punto di vista, Tolstoj manifestava più socialismo e materialismo storico rispetto alla maggior parte di ciò che era pubblicato nella stampa del partito.
7. Marx: "Discorso" al Congresso dell'Aia dell'Associazione Internazionale dei Lavoratori (AIT), 1872.
8. Marx: "La politica russa rispetto all'Inghilterra" - Il movimento operaio in Inghilterra, 1853.
9. Engels: La condizione delle classi lavoratrici in Inghilterra, 1845. Capitolo: "Le differenti branche di lavoro. L'operaio di fabbrica in senso stretto (Schiavitù, regole di fabbrica)".
Teleologico da teleologia:
Concezione e indirizzo che, presupposta l’esistenza di una legge di finalità che governa e regola lo sviluppo di tutte le cose, analizza e studia il manifestarsi e l’attuarsi di tale legge nel divenire dell’universo.
Deontologia:
L'insieme delle regole morali che disciplinano l'esercizio di una determinata professione o comunque di una funzione.
Utilitarismo:
concezione filosofica che pone l'utilità come motivo fondamentale dell'agire umano: la sua teorizzazione più famosa e significativa è quella fornita da J. Bentham (1748-1832), per cui l'etica, nell'esigenza di superare il limite edonistico o egoistico nella concezione dell'utile, viene impostandosi su un principio quantitativo piuttosto che qualitativo, riassumibile nella formula secondo cui ‘il bene è la maggior felicità del maggior numero’.
Edonistico: da edonismo
Concezione filosofica secondo la quale il piacere è il bene sommo dell'uomo ed il suo conseguimento il fine esclusivo della vita.
Empatia:
In psicologia, la capacità di porsi nella situazione di un'altra persona, con nessuna o scarsa partecipazione emotiva; diverso quindi da simpatia, che implica sempre nel soggetto questa partecipazione.
Animistico: da animismo
Concezione tipica dei popoli primitivi, secondo cui ogni fenomeno o cosa dell'universo sono dotati di anima e vivono di una loro vita, spesso creduta divina e degna di culto.
L’esplosione di collera e la rivolta delle giovani generazioni proletarizzate in Grecia non sono per niente un fenomeno isolato particolare. Affondano le loro radici nella crisi mondiale del capitalismo ed il loro scontro con la repressione violenta mette a nudo la vera natura della borghesia e del terrore di Stato. Esse si situano direttamente nella scia della mobilitazione su un terreno di classe delle giovani generazioni in Francia contro il CPE (Contratto di Primo Impiego) del 2006 ed la LRU (Legge sulla Riforma dell'Università) del 2007, in cui gli studenti ed i liceali si riconoscono innanzitutto come proletari in rivolta contro le loro future condizioni di sfruttamento. L’insieme delle borghesie dei principali paesi europei del resto l’ha ben compreso esternando i suoi timori di contagio delle esplosioni sociali di fronte all'aggravamento della crisi. Così, e ciò è significativo, la borghesia in Francia infine ha fatto marcia indietro sospendendo precipitosamente il suo programma di riforma dei licei. Del resto, il carattere internazionale della contestazione e della combattività studentesca, soprattutto la liceale, già si esprime fortemente.
In Italia, due mesi di mobilitazione studentesca sono stati caratterizzati da massicce manifestazioni che si sono svolte il 25 ottobre ed il 14 novembre, dietro lo slogan "La crisi, non la vogliamo pagare noi", contro il decreto Gelmini contestato a causa dei tagli di bilancio nel settore scolastico e delle sue conseguenze: particolarmente il non rinnovo dei contratti di 87 000 insegnanti precari e di 45 000 lavoratori ATA (personale amministrativo, tecnico e ausiliario) ed anche di fronte alla riduzione dei fondi pubblici per l'Università[1].
In Germania, il 12 novembre, 120 000 liceali sono scesi in strada nelle principali città del paese (con slogan tipo: “Il capitalismo è la crisi” a Berlino, o assediando il parlamento provinciale come ad Hannover).
In Spagna, il 13 novembre, centinaia di migliaia di studenti hanno manifestato in più di 70 città del paese contro le nuove direttive europee (direttive di Bologna) sulla riforma dell’insegnamento superiore ed universitario che generalizza la privatizzazione delle facoltà e moltiplica gli stage nelle imprese.
La rivolta delle giovani generazioni di proletari di fronte alla crisi ed al deterioramento del loro livello di vita si estende anche ad altri paesi: a gennaio 2009 Vilnius (Lituania), Riga (Lettonia) e Sofia (Bulgaria) hanno conosciuto movimenti di sommosse repressi duramente dalla polizia. In Senegal, a dicembre 2008, scontri violenti contro la miseria crescente, mentre i manifestanti chiedevano una quota dei fondi minerari sfruttati da Arcelor Mittal, hanno provocato due morti a Kégoudou, a 700 km nel Sud est di Dakar. In Marocco, 4000 studenti di Marrakech già si erano rivoltati all’inizio di maggio 2008 per un’intossicazione alimentare che aveva colpito 22 di loro in un ristorante universitario. In seguito alla repressione violenta del movimento con arresti, pesanti pene di prigione e torture, tali sommosse si sono moltiplicate.
Molti di loro si sono riconosciuti nella lotta degli studenti in Grecia.
L’ampiezza di questa mobilitazione di fronte alle stesse misure dello Stato non ha niente di sorprendente. La riforma del sistema educativo intrapreso a scala europea serve a condizionare le giovani generazioni operaie ad un avvenire bloccato ed a generalizzare la precarietà e la disoccupazione.
Il rifiuto e la rivolta delle nuove generazioni di studenti proletari contro questo muro di disoccupazione e questo oceano di precarietà che il sistema capitalista in crisi riserva loro suscitano ovunque la simpatia dei proletari di ogni generazione.
Violenza minoritaria o lotta massiccia contro lo sfruttamento ed il terrore di Stato?
I media agli ordini della propaganda menzognera del capitale hanno continuamente cercato di deformare la realtà sugli avvenimenti in Grecia dopo l’omicidio, il 6 dicembre, del quindicenne Alexis Andréas Grigoropoulos, colpito da un proiettile sparato dalla polizia. Essi hanno presentato gli scontri con la polizia come semplici episodi limitati ad un pugno di autonomi anarchici e di studenti estremisti di sinistra provenienti da famiglie agiate, o di vandali emarginati. Non hanno smesso di diffondere in televisione immagini di scontri violenti con la polizia e soprattutto scene di sommosse di giovani con passamontagna che danno fuoco alle automobili, che frantumano vetrine di negozi o di banche, e che saccheggiano magazzini.
Questo è proprio lo stesso metodo di falsificazione della realtà adottato in Francia all'epoca della mobilitazione anti-CPE del 2006, quando quest’ultima fu assimilata alle sommosse nelle periferie dell'anno precedente. Lo stesso grossolano metodo fu adottato contro gli studenti che lottavano contro la LRU nel 2007 in Francia paragonati a “terroristi” e anche ai “Khmer rossi”!
Pur se il centro delle agitazioni ha avuto luogo nel quartiere universitario greco, Exarchia, è difficile far credere oggi che questi movimenti di rivolta sarebbero solo opera di bande di teppisti o di attivisti anarchici visto che si sono estesi molto velocemente all'insieme delle principali città del paese e persino alle isole (Chios, Samos) ed a città turistiche come Corfù, Heraklion a Creta.
In effetti, le rivolte si sono estese a 42 prefetture della Grecia ed anche in città dove non c’erano mai state manifestazioni. Più di 700 licei ed un centinaio di università sono state occupate.
Le ragioni della collera
C’erano tutte le condizioni affinché il malcontento di una larga parte delle giovani generazioni operaie, prese dall’angoscia e private di avvenire, esplodesse in Grecia che è un concentrato del vicolo cieco riservato dal capitalismo alle giovani generazioni operaie: quando quelli che sono chiamati "la generazione 600 euro" entrano nella vita attiva, hanno l'impressione di essere truffati. La maggior parte degli studenti deve svolgere due lavori quotidiani per sopravvivere e proseguire gli studi: questi consistono in piccoli lavori non dichiarati e sottopagati; ed anche in caso di impieghi ben rimunerati, una parte del loro stipendio non è dichiarata e ciò impedisce loro di usufruire di certi diritti, in particolare si ritrovano privi di sicurezza sociale; le loro ore supplementari non sono pagate e talvolta restano in famiglia fino a 35 anni per mancanza di redditi sufficienti per potersi pagare un tetto. Il 23% dei disoccupati in Grecia è costituito da giovani: ufficialmente il tasso di disoccupazione da 15 a 24 anni è del 25,2%. Così leggiamo su un giornale in Francia[2]: "Questi studenti non si sentono più protetti da niente: la polizia gli spara addosso, la scuola li intrappola, l'impiego li abbandona, il governo mente loro". La disoccupazione dei giovani e le loro difficoltà ad entrare nel mondo del lavoro hanno creato e diffuso un clima di inquietudine, di collera e di insicurezza generalizzata. La crisi mondiale sta producendo nuove ondate di licenziamenti massicci. Nel 2009, è prevista una nuova perdita di 100 000 impieghi in Grecia e ciò corrisponde al 5% di disoccupazione in più. Nello stesso tempo, il 40% dei lavoratori guadagna meno di 1100 euro lordi e la Grecia conosce il tasso più elevato di lavoratori poveri dei 27 Stati dell'UE: il 14%.
D’altra parte, non sono stati solo i giovani a scendere nelle strade, ma anche insegnanti mal pagati e molti salariati, in preda agli stessi problemi, alla stessa miseria ed animati dallo stesso sentimento di rivolta. La brutale repressione del movimento, di cui l'omicidio di questo adolescente di 15 anni è stato l'episodio più drammatico, ha solamente amplificato questa solidarietà che si mescola al malcontento sociale generalizzato. Come viene riportato da uno studente, molti genitori di alunni sono stati profondamente impressionati e si sono anche ribellati: “i nostri genitori hanno scoperto che i loro figli possono morire così per strada, sparati da un poliziotto”[3] e hanno preso coscienza del deterioramento di una società dove i loro figli non avranno il loro stesso livello di vita. Nelle numerose manifestazioni, essi sono stati testimoni dei violenti pestaggi, degli arresti brutali, di spari ad altezza d’uomo effettuati dai poliziotti antisommossa (i MAT ) con le loro armi di servizio.
Gli occupanti del Politecnico, importante luogo della contestazione studentesca, hanno denunciato il terrore di Stato, ma questa collera contro la brutalità della repressione la si ritrova anche in tutte le manifestazioni con slogan tipo: "Proiettili per i giovani, soldi per le banche". Ancora con maggiore chiarezza, un partecipante del movimento ha dichiarato: "Non abbiamo né lavoro né denaro e lo Stato, in fallimento con la crisi, risponde a tutto ciò dando armi ai poliziotti"[4].
Questa collera non è nuova: gli studenti greci si erano già largamente mobilitati nel giugno 2006 contro la riforma universitaria la cui privatizzazione implicava l'esclusione degli studenti di famiglie modeste. Anche la popolazione aveva manifestato la sua collera contro l'incurie del governo all'epoca degli incendi dell'estate 2007 che avevano provocato 67 morti; un governo che non sempre ha indennizzato le numerose vittime che avevano perso le loro case o i loro beni. Ma sono stati soprattutto i salariati a mobilitarsi massicciamente contro la riforma delle pensioni all’inizio 2008 con due giornate di sciopero generale, molto seguite, in due mesi, con manifestazioni che ogni volta hanno riunito più di un milione di persone contro la soppressione della pensione anticipata per le professioni più usuranti e la rimessa in discussione del diritto delle operaie di pretendere la pensione fin dai 50 anni.
Di fronte alla collera dei lavoratori, lo sciopero generale del 10 dicembre inquadrato dai sindacati è servito da contromossa per cercare di deviare il movimento, con il PS e PC in testa che reclamavano le dimissioni del governo attuale ed elezioni legislative anticipate. Ciò non è servito a canalizzare la collera ed a porre fine al movimento, malgrado le molteplici manovre dei partiti di sinistra e dei sindacati per tentare di destabilizzare la dinamica d’estensione delle lotte e gli sforzi di tutta la borghesia e dei suoi media per isolare i giovani dalle altre generazioni e dall'insieme della classe operaia spingendoli in scontri sterili con la polizia. Durante queste giornate e queste notti, gli scontri sono stati incessanti: le violente cariche poliziesche a forza di manganelli e di granate lacrimogene si sono risolte in arresti e pestaggi a decine.
Sono proprio le giovani generazioni di operai ad esprimere chiaramente il sentimento di disillusione e di nausea rispetto ad un apparato politico reazionario e corrotto. Dal dopoguerra, tre famiglie si dividono il potere, e da più di trent'anni, le dinastie dei Caramanlis (a destra) e dei Papandreu (a sinistra) regnano alternativamente da soli sul paese a forza di bustarelle e scandali. I conservatori sono arrivati al potere nel 2004 dopo un periodo di super intrallazzi dei socialisti negli anni 2000. Molti rigettano l'inquadramento di un apparato politico e sindacale totalmente discreditato: "Il feticismo del denaro si è impossessato della società. Allora i giovani vogliono una rottura con questa società senza anima e cieca"[5]. Oggi, con lo sviluppo della crisi, questa generazione di proletari non solo ha preso coscienza dello sfruttamento capitalista che vive sulla sua pelle, ma esprime anche la coscienza della necessità di una lotta collettiva adottando spontaneamente i metodi e la solidarietà DI CLASSE. Al posto di affondare nella disperazione, trae fiducia da sé stessa, dalla sicurezza di essere portatrice di un altro avvenire e impiega ogni sua energia per insorgere contro la putrefazione della società che la circonda. I manifestanti rivendicano con fierezza il loro movimento: "siamo un'immagine del futuro di fronte ad un'immagine molto scura del passato".
Se la situazione ricorda maggio 68, la coscienza della posta in gioco va molto oltre.
La radicalizzazione del movimento
Il 16 dicembre, gli studenti invadono per alcuni minuti la stazione televisiva governativa Net e svolgono sotto gli schermi uno striscione che proclama: "Smettetela di guardare la televisione. Tutti in strada!" e lanciano anche quest’appello: "Lo stato uccide. Il vostro silenzio lo arma. Occupazione di tutti gli edifici pubblici"! La sede della polizia antisommossa di Atene viene attaccata ed un suo furgone è incendiato. Queste azioni sono subito denunciate dal governo come un "tentativo di capovolgimento della democrazia", ed anche condannate dal PC greco (KKE). A Salonicco, le sezioni locali del sindacato GSEE e dell'ADE-DY, la federazione dei funzionari, tentano di confinare gli scioperanti in un assembramento di fronte alla Borsa del lavoro. Tuttavia gli studenti liceali ed universitari con la loro determinazione riescono ad attirare gli scioperanti nella manifestazione. 4000 studenti e lavoratori sfilano nelle vie della città. Già l’11 dicembre alcuni militanti dell'organizzazione studentesca del Partito comunista (PKS) avevano tentato di bloccare le assemblee per impedire le occupazioni, (Università del Pantheon, Scuola di Filosofia dell'Università di Atene). I loro tentativi sono falliti mentre le occupazioni si sono sviluppate ad Atene e nel resto della Grecia. Nel quartiere di Agios Dimitrios, il municipio è occupato con un'assemblea generale alla quale hanno partecipato più di 300 persone di ogni generazione. Il 17, l’edificio sede del principale sindacato del paese, la Confederazione Generale dei Lavoratori in Grecia, GSEE, ad Atene, è occupato dai lavoratori che si proclamano insorti. Questi invitano tutti i proletari a fare di questo posto un luogo di assemblee generali aperte a tutti i salariati, agli studenti ed ai disoccupati. Uno scenario identico, con occupazioni ed assemblee generali aperte a tutti, ha avuto luogo anche all'Università di Economia di Atene ed al Politecnico.
Pubblichiamo la dichiarazione di questa lavoratori in lotta per contribuire a rompere il "cordone sanitario" dei media menzognero su queste lotte e che le presenta come violente sommosse animate da alcuni giovani teppisti anarchici che terrorizzerebbero la popolazione. Questo testo, al contrario, mostra la forza del sentimento di solidarietà operaia che anima questo movimento e che agisce anche da legame tra le differenti generazioni di proletari!
"O determineremo noi la nostra storia o lasceremo che essa venga determinata senza di noi. Noi, lavoratori manuali, impiegati, disoccupati, interinali e precari, locali o immigrati, non siamo dei telespettatori passivi. Dall'omicidio di Alexandros Grigoropoulos la sera di sabato 6, partecipiamo alle manifestazioni, agli scontri con la polizia, alle occupazioni del centro delle città come dei dintorni. Abbiamo molte volte lasciato il lavoro ed i nostri obblighi quotidiani per scendere in strada con gli studenti ed altri proletari in lotta.
ABBIAMO DECISO DI OCCUPARE L'EDIFICIO DELLA CONFEDERAZIONE GENERALE DEI LAVORATORI IN GRECIA (GSEE):
Per trasformarla in uno spazio di libera espressione ed un punto di appuntamento per i lavoratori.
Per dissipare i miti incoraggiati dai media sull'assenza dei lavoratori negli scontri, sulla rabbia di questi ultimi giorni che sarebbe opera solo di circa 500 "incappucciati", "teppisti", con altre storie strampalate, e con la presentazione da parte dei telegiornali dei lavoratori come vittime di questi scontri, mentre la crisi capitalista in Grecia e nel mondo produce innumerevoli licenziamenti che i media ed i loro dirigenti considerano "un fenomeno naturale".
Per smascherare il ruolo vergognoso della burocrazia sindacale nel lavoro di sabotaggio contro l'insurrezione, ma anche in generale. La Confederazione generale dei lavoratori in Grecia (GSEE), e tutto l'intero apparato sindacale che la sostiene da decine e decine di anni, sabota le lotte, contratta la nostra forza lavoro con delle briciole, perpetua il sistema di sfruttamento e di schiavitù salariata. L'atteggiamento del GSEE mercoledì scorso parla da solo: il GSEE ha annullato la manifestazione degli scioperanti, già programmata, ripiegando precipitosamente su un breve assembramento sulla piazza Syntagma, assicurandosi nello stesso tempo di una rapida dispersione dei partecipanti, per paura che questi possano essere infettati dal virus dell'insurrezione.
Per aprire questo spazio, per la prima volta, come continuazione dell'apertura sociale creata dalla stessa insurrezione, spazio che è stato costruito col nostro contributo ma di cui siamo stati fino ad ora esclusi. Durante tutti questi anni, abbiamo affidato il nostro destino a salvatori di ogni natura, e alla fine abbiamo perso la nostra dignità. Come lavoratori, dobbiamo cominciare ad assumerci le nostre responsabilità, e smettere di riporre le nostre speranze nei leader "saggi" o in rappresentanti "competenti". Dobbiamo cominciare a parlare con la nostra voce, incontrarci, discutere, decidere ed agire per noi stessi. Contro gli attacchi generalizzati che subiamo la sola soluzione è la creazione di collettivi di resistenza "di base".
Per propagare l'idea dell'auto organizzazione e della solidarietà sui posti di lavoro, del metodo dei comitati di lotte e dei collettivi di base, abolire le burocrazie sindacali.
Durante tutti quest’anni, abbiamo subito la miseria, la rassegnazione, la violenza al lavoro.
Ci siamo abituati a contare i nostri feriti, i nostri morti - i sedicenti "incidenti sul lavoro".
Ci siamo abituati a ignorare che gli immigrati, nostri fratelli di classe, vengono uccisi. Siamo stanchi di vivere con l'ansia di avere assicurato il salario, di essere tassati e di garantirci una pensione che adesso somiglia ad un sogno lontano.
Lottiamo anche per non abbandonare le nostre vite nelle mani dei padroni e dei rappresentanti sindacali, come non abbandoneremo gli insorti arrestati nelle mani dello Stato e dei meccanismi giuridici!
LIBERAZIONE IMMEDIATA DEI DETENUTI!
RITIRO DELLE DENUNCE CONTRO I FERMATI!
AUTO ORGANIZZAZIONE DEI LAVORATORI!
SCIOPERO GENERALE!
ASSEMBLEA GENERALE DEI LAVORATORI NEGLI EDIFICI LIBERATI DEL GSEE"[6]
La sera del 17 dicembre, una cinquantina di bonzi e membri del servizio d’ordine sindacale tentano di riprendersi i locali ma vengono messi in fuga dall’intervento di studenti (in maggioranza anarchici, dell’Università di Economia, anch’essa occupata e trasformata in luogo di riunione e di discussione aperta a tutti gli operai) che vengono a dar man forte agli occupanti gridando a squarciagola "Solidarietà"!
Inoltre, l'associazione degli immigrati albanesi diffonde, per proclamare la sua solidarietà al movimento, un testo intitolato "Questi giorni sono anche i nostri!"
In modo significativo, una piccola minoranza di questi occupanti ha diffuso il seguente messaggio: "Panagopulos, il segretario generale del GSEE, ha dichiarato che noi non siamo dei lavoratori, perché i lavoratori sono al lavoro. Questo fatto, tra l’altro, rivela proprio che cosa è in realtà il ‘mestiere’ di Panagopulos. Assicurarsi che i lavoratori stiano buoni al lavoro e fare tutto ciò che è in suo potere perché i lavoratori vadano a lavorare.
Ma da una decina di giorni, i lavoratori non solo non sono al lavoro, ma li ritroviamo nelle strade. E questa è una realtà che nessun Panagopulos al mondo può nascondere (…) Siamo lavoratori, disoccupati (che paghiamo con il licenziamento le nostre partecipazioni agli scioperi indetti dal GSEE, mentre i sindacalisti sono ricompensati con promozioni), noi lavoriamo sotto contratto precario passando da un piccolo lavoro all’altro, lavoriamo senza sicurezza in modo formale o informale nei programmi di stage o negli impieghi sovvenzionati per diminuire il tasso di disoccupazione. Siamo una parte di questo mondo e siamo qui. Siamo dei lavoratori insorti, punto e basta.
Ogni moneta della nostra paga è pagato col nostro sangue, il nostro sudore, la violenza al lavoro, con teste, ginocchia, polsi, mani, e piedi rotti per incidenti di lavoro.
Il mondo intero è fabbricato da noi, lavoratori. (...)
Proletari dell'edificio GSEE liberato".
Gli appelli ad uno sciopero generale a tempo indeterminato a partire dal 18 si moltiplicano. I sindacati per questo giorno sono costretti ad indire uno sciopero di tre ore nei servizi pubblici.
Il mattino del 18 un altro liceale di 16 anni, partecipando ad un sit-in nei pressi della sua scuola in una periferia di Atene, è ferito da un colpo di pistola. Lo stesso giorno, parecchie sedi radio o televisive vengono occupate dai manifestanti, principalmente a Tripoli, Chania e Salonicco. Il palazzo della camera di commercio è occupato a Fatras dove si ripetono nuovi scontri con la polizia. La gigantesca manifestazione ad Atene viene repressa violentemente: per la prima volta, nuovi tipi di armi sono utilizzati dalle forze antisommossa: gas paralizzanti e granate assordanti. Un volantino diretto contro il "terrore dello Stato" è firmato "dalle ragazze in rivolta" e circola a partire dall'Università di Economia.
Il movimento percepisce confusamente i suoi limiti geografici: è per tale motivo che accoglie con entusiasmo le manifestazioni di solidarietà internazionale, in particolare a Berlino, a Roma, a Mosca, a Montreal o a New York e ne fa l'eco: "questo sostegno è molto importante per noi. Gli occupanti del Politecnico chiamano a "una giornata internazionale di mobilitazione contro gli omicidi di Stato" per il 20 dicembre; ma per vincere l'isolamento di questo movimento proletario in Grecia, la sola via, la sola prospettiva è lo sviluppo della solidarietà e della lotta di classe a scala internazionale che si esprime più chiaramente di fronte alla crisi mondiale.
Una maturazione portatrice di avvenire
A partire dal 20 dicembre violenti combattimenti di strada hanno luogo e la morsa si chiude in particolare intorno al Politecnico assediato dalle forze di polizia che minacciano di dare l'assalto. L'edificio del sindacato GSEE occupato viene abbandonato il 21/12 a seguito di una decisione del comitato di occupazione votata in Assemblea Generale. Il comitato di occupazione del Politecnico di Atene il 22 dicembre pubblica un comunicato che dichiara tra l’altro: "Siamo per l'emancipazione, la dignità umana e la libertà. Non è necessario spararci addosso i vostri gas lacrimogeni, già piangiamo sufficientemente da soli".
Con molta maturità, conformemente alla decisione presa dell'assemblea generale all'Università di Scienze Economiche, gli occupanti di quest’università utilizzano l’appello per la manifestazione del 24 contro la repressione poliziesca ed in solidarietà con gli arrestati come momento propizio per evacuare il palazzo in massa ed in sicurezza: "sembra esserci un consenso sulla necessità di lasciare le università e in generale di seminare lo spirito della rivolta nella società". Questo esempio sarà seguito nelle ore successive dalle assemblee generali delle altre università occupate evitando la trappola di restare chiusi dentro e di uno scontro diretto con la polizia. Sono evitati il bagno di sangue ed una più violenta repressione. Le assemblee generali hanno anche denunciato, come un atto di provocazione poliziesca, i colpi di arma da fuoco sparati contro un mezzo della polizia e rivendicati da una sedicente “Azione popolare”.
Il comitato di occupazione del Politecnico evacua simbolicamente l'ultimo bastione di Atene a mezzanotte del 24 dicembre. "L'assemblea generale e solo essa deciderà se, e quando, lasceremo l'università (…): il punto cruciale è che spetta agli occupanti, e non alla polizia, decidere del momento in cui bisogna lasciare i luoghi".
Prima, il comitato di occupazione ha pubblicato una dichiarazione: "terminando l'occupazione del Politecnico dopo 18 giorni, mandiamo la nostra più calorosa solidarietà a tutte le persone che hanno fatto parte di queste rivolte nelle differenti maniere, non solo in Grecia ma anche nei numerosi paesi europei, americani, dell’Asia ed in Oceania. Per tutti quelli che abbiamo incontrato e con cui continuiamo insieme a combattere per la liberazione dei prigionieri di questa rivolta, ed anche fino alla liberazione sociale mondiale".
In certi quartieri gli abitanti si sono impossessati degli altoparlanti, installati dalla municipalità per trasmettere canti natalizi, per leggere al microfono comunicati che, tra l’altro, chiedono, la liberazione immediata dei detenuti, il disarmo della polizia, lo scioglimento delle squadre antisommossa e l'abolizione delle leggi antiterroristiche. A Volos, la stazione radio municipale e gli uffici del giornale locale sono stati occupati per parlare degli avvenimenti e delle loro esigenze. A Lesvos, dei manifestanti hanno installato degli altoparlanti nel centro della città e hanno trasmesso dei messaggi. A Ptolemaida o a loannina, un albero di Natale è stato decorato con le foto del giovane liceale ucciso e delle manifestazioni e con le rivendicazioni del movimento.
Il sentimento di solidarietà si è nuovamente manifestato spontaneamente e con forza il 23 dicembre, dopo l'aggressione di un'impiegata dell'impresa di pulizia Oikomet, subappalto della compagnia della metropolitana di Atene (Athens Piraeus Electric Railway - ISAP -) con dell'acido solforico sul volto mentre ritornava dal lavoro. Alcune manifestazioni di solidarietà si sono svolte ed il 27 dicembre 2008 la sede della metropolitana di Atene è stata occupata mentre a Salonicco è la sede del GSEE ad essere occupata. Le due occupazioni hanno organizzato una serie di manifestazioni, di concerti di solidarietà e di "contro-informazione", occupando, per esempio, il sistema degli altoparlanti della stazione di metropolitana per leggere dei comunicati.
L'assemblea ad Atene ha dichiarato nel suo testo:
"Quando attaccano uno di noi, attaccano tutti noi!
Oggi, occupiamo l’ufficio centrale dell’ ISAP (metropolitana di Atene) come una prima risposta all'attacco omicida con il vetriolo sul volto di Constantina Kuneva il 23 dicembre, mentre ritornava dal lavoro. Constantina è in terapia intensiva all'ospedale. La settimana scorsa, ha litigato con la compagnia rivendicando tutto il premio di Natale per lei ed i suoi colleghi, denunciando gli atti illegali dei padroni. Già precedentemente, sua madre è stata licenziata dalla stessa compagnia. Lei stessa è stata trasferita lontano dalla sua prima stazione di lavoro. Sono comportamenti molto diffusi nel settore delle compagnie di pulizia che assumono lavoratori precari. (...) Oikomet (…) ha per proprietario un membro del PASOK (il partito socialista greco). In questa azienda che adopera ufficialmente 800 lavoratori (i lavoratori parlano del doppio, dal momento che negli ultimi tre anni hanno lavorato più di 3000) il comportamento mafioso illegale dei padroni è un fenomeno quotidiano. I lavoratori sono obbligati per esempio, a firmare dei contratti bianchi (le condizioni sono scritte successivamente dai padroni) che non hanno mai l'opportunità di rivedere. Lavorano 6 ore e sono pagati solo per 4,5 (salario lordo), per non superare le 30 ore, altrimenti devono essere iscritti nella categoria dei lavoratori ad alto rischio. I padroni li terrorizzano, li spostano, li licenziano e li minacciano a dimissioni forzate. Constantina è una di noi. La lotta per la DIGNITA’ e la SOLIDARIETA’ è la NOSTRA lotta".
Nello stesso tempo, l'assemblea d’occupazione del GSEE di Salonicco pubblicava un testo di cui riproduciamo degli estratti: "Oggi occupiamo la sede dei Sindacati di Salonicco per opporci all'oppressione che si manifesta attraverso gli omicidi ed il terrorismo contro i lavoratori; (...) facciamo appello a tutti i lavoratori per unirsi a questa lotta comune. (...) L'assemblea aperta di coloro che occupano la centrale sindacale che è di campi politici differenti, sindacalisti, studenti, immigrati e compagni stranieri ha adottato questa decisione comune:
- Continuare l'occupazione;
- Organizzare un assembramento in solidarietà con Constantina Kuneva; (...)
- Organizzare delle azioni di informazioni e di presa di coscienza delle città vicine;
- Organizzare un concerto nel Centro per raccogliere del denaro per Constantina".
Peraltro, questa assemblea dichiarava:
In nessuna parte nella piattaforma [dei sindacati], viene fatto riferimento alle cause della disuguaglianza e della miseria e delle strutture gerarchiche nella società. (...) Le Confederazioni Generali ed i Centri sindacali in Grecia sono parti intrinseche del regime al potere; i loro membri di base e gli operai devono girar loro la schiena, e (…) creare un polo autonomo di lotta diretto da loro stessi (…). Se i lavoratori prendono a carico le loro lotte e rompono la logica di essere rappresentati dai complici dei padroni, ritroveranno la loro fiducia e migliaia di essi riempiranno le strade nei prossimi scioperi. Lo Stato e le sue squadracce assassinano delle persone.
Auto-organizzazione! Lotte di autodifesa sociale! Solidarietà con i lavoratori immigrati e con Constantina Kuneva!"
All’inizio di gennaio 2009, manifestazioni hanno ancora luogo in tutto il paese in solidarietà con i prigionieri. 246 persone sono fermate di cui 66 sono ancora in prigione preventiva. Ad Atene 50 immigrati sono fermati nei primi tre giorni del movimento di rivolta, con pene che vanno fino a 18 mesi di prigione emesse senza interpreti e che si ritrovano minacciati di espulsione.
Il 9 gennaio giovani e poliziotti si sono di nuovo scontrati ad Atene, al termine di un corteo nella centro della città di circa 3000 insegnanti, studenti ed alunni. I loro striscioni raffiguravano slogan come: "Denaro per la scuola e non per i banchieri", "Abbasso il governo degli assassini e della povertà". Ingenti forze antisommossa hanno caricato a più riprese per disperderli, effettuando nuove numerose interpellanze.
Come in Grecia, ovunque, con la precarietà, i licenziamenti, la disoccupazione, i salari di miseria imposti dalla sua crisi mondiale, lo Stato capitalista non può che portare più polizia e repressione. Solo lo sviluppo internazionale della lotta e della solidarietà di classe tra operai, impiegati, studenti, disoccupati, lavoratori precari, pensionati, di ogni generazione, può aprire la via ad una prospettiva futura per abolire questo sistema di sfruttamento.
W. (18 gennaio 2009)
[1] Vedere l’articolo sul nostro sito Web: Mobilitazione massiccia contro la riforma dell’insegnamento in Italia.
[2] Marianne n°608 del 13 dicembre: “Grecia: le lezioni di una sommossa”.
[3] Libération del 12/12/2008.
[4] Le Monde del 10/12/2008.
[5] Marianne del 13 dicembre.
[6] La maggior parte dei testi riprodotti o le informazioni di stampa locale sono stati tradotti da siti anarchici come: indymedia, cnt-ait.info, dndf.org, emeutes.wordpress.com in francese o su libcom.org in inglese.
La borghesia si è molto spaventata. Da agosto ad ottobre, un vero vento di panico ha soffiato sull'economia mondiale. A confermarlo ci sono le clamorose dichiarazioni di politici ed economisti: “Sull’orlo del baratro”, “Una Pearl Harbor economica”, “Uno tsunami che si avvicina”, “Un 11 Settembre della finanza”[1]... all’appello manca solo il riferimento al Titanic!
Bisogna dire che le più grandi banche del pianeta stavano per fallire l’una dopo l’altra e che le Borse affondavano perdendo 32.000 miliardi di dollari dall’inizio di gennaio 2008, vale a dire l’equivalente di due anni della produzione totale degli Stati Uniti. La Borsa islandese è crollata del 94 % e quella di Mosca del 71%!
Alla fine la borghesia, passando da un piano di “salvataggio” ad un piano di “rilancio”, è riuscita ad evitare la paralisi totale dell’economia. Questo significa forse che il peggio è dietro di noi? Certamente no! La recessione nella quale siamo appena entrati si presenta come la più devastante dalla Grande Depressione del 1929.
Gli economisti lo confessano chiaramente: l’attuale “congiuntura” è “la più difficile da parecchi decenni”, ha annunciato il 4 agosto HSBC, la “più grande banca del mondo”[2]. “Siamo di fronte ad uno dei climi economici e di politica monetaria più difficili mai visti” ha rilanciato il presidente della Banca Federale Americana (FED) il 22 agosto[3].
Del resto la stampa internazionale non si è ingannata, paragonando continuamente il periodo attuale al marasma economico degli anni 1930, come nel caso della copertina del Time che annunciava “The New Hard Times”, i nuovi tempi duri, su una foto di operai del 1929 che andavano a mangiare una zuppa calda alla mensa popolare. Ed infatti, tali scene si ripetono di nuovo: le associazioni di carità che distribuiscono pasti sono strapiene, mentre in numerosi paesi, file di attesa di parecchie centinaia di lavoratori disoccupati si formano ogni giorno davanti agli appositi uffici per cercare un lavoro.
E che dire dell’intervento teletrasmesso il 24 settembre 2008 di George W. Bush, Presidente degli Stati Uniti: “Noi siamo nel mezzo di una grave crisi finanziaria (...) tutta la nostra economia è in pericolo. (...) Settori chiave del sistema finanziario degli Stati Uniti rischiano di crollare. (...) l’America potrebbe sprofondare nel panico finanziario, e noi assisteremmo ad uno scenario desolante. Nuove banche fallirebbero. (...) Il mercato borsistico crollerebbe ancora di più, e ciò ridurrebbe il valore del vostro conto pensione. Il valore della vostra casa cadrebbe. I pignoramenti si moltiplicherebbero. (...) Numerose imprese dovrebbero chiudere i battenti, e milioni di americani perderebbero il loro impiego. (…) Alla fine, il nostro paese potrebbe affondare in una lunga e dolorosa recessione”.
Ebbene, questo “scenario desolante” di una “lunga e dolorosa recessione” si sta realizzando, toccando non solo “il popolo americano” ma gli operai del mondo intero!
Una brutale recessione …
Dall’ormai celebre “crisi dei subprimes” dell’estate 2007, le cattive notizie economiche non smettono di susseguirsi, giorno dopo giorno.
L’ecatombe del settore bancario per il solo anno 2008 è impressionante. Hanno dovuto essere ricomprati da un concorrente, recuperati da una banca centrale o semplicemente nazionalizzati: Northern Rock, l’ottava banca inglese, Bear Stearns, (la quinta banca di Wall Street), Freddie Mac e Fannie Mae (due organismi di rifinanziamento ipotecario americano che incidono per circa 850 miliardi di dollari), Merrill Lynch, (altro fiore all’occhiello americano), HBOS (seconda banca di Scozia), AIG (American International Group, uno dei più grandi istituti assicurativi mondiali) e Dexia (organismo finanziario del lussemburghese, belga e francese). Fallimenti clamorosi e storici hanno anche contrassegnato quest’anno di crisi. A luglio, Indymac, uno dei più grossi istituti ipotecari americani, è stato posto sotto tutela delle autorità federali. Era allora il più importante istituto bancario a fallire negli Stati Uniti negli ultimi ventiquattro anni! Ma questo record non è durato a lungo. Qualche giorno più tardi la quarta banca americana, Lehman Brothers, dichiara anch’essa fallimento. Il totale dei suoi debiti raggiunge i 613 miliardi di dollari. Record battuto! Il più clamoroso fallimento di una banca americana fino ad allora, quello della Continental Illinois del 1984, si era giocato una somma sedici volte più modesta (40 miliardi di dollari). Solo dopo due settimane, nuovo record! È la volta della Washington Mutual (WaMu), la più importante cassa di risparmio degli Stati Uniti.
Dopo questa specie di infarto di ciò che costituisce il cuore stesso del capitalismo - il settore bancario - oggi è la salute dell’insieme del corpo che vacilla e deperisce; “l’economia reale” è a sua volta brutalmente colpita. Secondo l’Ufficio nazionale della ricerca economica (NBER), gli Stati Uniti sono ufficialmente in recessione dal dicembre 2007. Nouriel Roubini, l’economista attualmente più rispettato a Wall Street, pensa anche che una contrazione dell’attività dell’economia americana dell’ordine del 5 % nel 2009 e ancora del 5 % nel 2010 sia probabile[4]! Noi non possiamo sapere se ciò accadrà, ma il semplice fatto che uno degli economisti più rinomati del pianeta possa considerare un tale scenario catastrofico rivela la reale inquietudine della borghesia. L’organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE) prevede che tutta l’Unione Europea entrerà in recessione nel 2009. Per la Germania, la Deutsche Bank prevede una riduzione del PIL che può arrivare fino al 4%[5]! Per avere un’idea dell’ampiezza di una tale recessione, bisogna sapere che il peggiore anno dalla seconda guerra mondiale era stato il 1975, quando il PIL tedesco era diminuito “solamente” dello 0,9%. Nessun continente viene risparmiato. Il Giappone è già in recessione e la stessa Cina, questo “Eldorado capitalista”, non sfugge a questo rallentamento brutale. Risultato: la domanda è crollata ad un punto tale che tutti i prezzi, ivi compreso il petrolio, sono in caduta. In breve, l’economia mondiale va a rotoli.
... e un’ondata di povertà senza precedenti dagli anni 1930
La prima vittima di questa crisi è evidentemente il proletariato. Negli Stati Uniti, il degrado delle condizioni di vita è particolarmente spettacolare. Dall’estate 2007, 2,8 milioni di lavoratori, non potendo rimborsare i loro crediti, si sono ritrovati in mezzo ad una strada. Secondo l’Associazione dei banchieri ipotecari, MBA, oggi, potenzialmente, quasi uno su dieci dei mutuatari immobiliari americani è minacciato di sfratto. E questo fenomeno comincia a colpire anche l’Europa, in particolare la Spagna e la Gran Bretagna.
Anche i licenziamenti si moltiplicano. In Giappone, la Sony ha annunciato un piano senza precedenti di 16.000 licenziamenti di cui 8.000 salariati a contratto a tempo indeterminato (CDI). Questo gruppo emblematico dell’industria giapponese non aveva mai licenziato impiegati con CDI. Il settore edile, con la crisi immobiliare, va a rilento. Il settore dell’edilizia e dei lavori pubblici in Spagna si aspetta di perdere 900.000 impieghi da ora al 2010! Per le banche, è un vero gioco al massacro. Citigroup, una delle più grandi banche del mondo, si appresta a sopprimere 50.000 posti di lavoro dopo che, dall’inizio del 2008, ne ha già eliminato 23.000! Nel 2008, solo in questo settore, sono stati soppressi negli Stati Uniti ed in Gran Bretagna 260000 impieghi. Ora, un impiego nella finanza genera in media quattro impieghi diretti. Il crollo degli organismi finanziari significa dunque la disoccupazione per centinaia di migliaia di famiglie operaie. Altro settore particolarmente toccato è quello dell’automobile. Quest’autunno le vendite di veicoli sono crollate dovunque per oltre il 30%. Renault, primo costruttore francese, ha praticamente fermato la sua produzione da metà novembre; dalle sue fabbriche non esce più un’automobile e i suoi impianti girano già da mesi al 54% delle loro capacità. Toyota, nelle sue officine in Giappone, sta per sopprimere 3.000 impieghi temporanei su 6.000 (il 50%!). Ma, ancora una volta, è dagli Stati Uniti che giungono le notizie più allarmanti: le famose Big Three di Detroit (Generale Motors, Ford e Chrysler) sono sull’orlo del fallimento. La copertura di 15 miliardi di dollari versati dallo Stato americano non basterà a portarle fuori dai guai in maniera durevole[6] (le Big Three del resto avevano chiesto almeno 34 miliardi). Delle ristrutturazioni massicce avranno luogo necessariamente nei mesi a venire. Sono minacciati dai 2,3 a 3 milioni di impieghi. E qui, gli operai licenziati, insieme al loro impiego, perderanno anche l’assicurazione contro le malattie e la pensione!
L’inesorabile conseguenza di questa distruzione massiccia di impieghi è evidentemente l’esplosione della disoccupazione. In Irlanda, il “modello economico dell’ultimo decennio”, il numero di disoccupati è più che raddoppiato in un anno, e ciò rappresenta il più forte rialzo mai registrato! La Spagna chiude l’anno con 3,13 milioni di disoccupati, circa 1 milione in più rispetto al 2007[7]. Negli Stati Uniti, 2,6 milioni di impieghi sono stati cancellati nel 2008, cosa mai vista dal 1945[8]. Il fine anno è stato particolarmente disastroso con più di 1,1 milioni di posti persi tra novembre e dicembre. A questo ritmo, potrebbero aversi ancora 3 o 4 milioni di disoccupati in più da qui all’inizio dell’estate 2009.
E per gli scampati, quelli che vedono licenziati i loro colleghi, l’avvenire è “lavorare molto più per guadagnare molto meno”[9]. Così, secondo l’ultimo rapporto dell’Ufficio Internazionale del Lavoro (BIT), intitolato “Rapporto mondiale sui salari 2008/09”, “Per 1,5 miliardi di salariati nel mondo, si profilano tempi difficili”, “la crisi economica mondiale dovrebbe determinare dolorosi tagli di salari”.
Inevitabilmente, il risultato atteso da tutti questi attacchi è un innalzamento considerevole della miseria. Dall’Europa agli Stati Uniti, tutte le associazioni caritatevoli hanno constatato in questi ultimi mesi un aumento di almeno il 10 % di affluenza alla mensa popolare. Quest’ondata di povertà significa che alloggiare, curarsi e nutrirsi diventa sempre più difficile. Ciò significa anche per i giovani di oggi che questo mondo capitalista non ha più avvenire da offrire loro!
Come la borghesia spiega questa crisi
I meccanismi economici che hanno generato l’attuale recessione cominciano ad essere relativamente conosciuti. La televisione ci ha propinato servizi che rivelano, secondo loro, tutte i retroscena del problema. Per semplificare, per anni, il consumo delle “famiglie americane” (detto diversamente, delle famiglie operaie) è stato sostenuto artificialmente da ogni sorta di credito, in particolare, un credito dal successo fulmineo: i mutui ipotecari a rischio o “subprimes”. Le banche, le istituzioni finanziarie, i fondi di pensione … tutti prestavano senza preoccuparsi della capacità reale di questi operai di rimborsare (da cui “a rischio”) purché avessero un bene immobiliare (da cui “ipotecario”). Nella peggiore delle ipotesi, pensavano, sarebbero stati risarciti dalla vendita delle case pignorate dei debitori che non fossero riusciti a sdebitarsi. Si è determinato allora un effetto a valanga: più gli operai chiedevano prestiti - principalmente per acquistare casa - più l’immobiliare si quotava; più l’immobiliare si quotava, più gli operai potevano chiedere prestiti. Tutti gli speculatori del pianeta sono allora entrati in ballo: anch’essi si sono messi ad acquistare case per rivenderle poi ad un prezzo maggiore e, soprattutto, si sono venduti gli uni con gli altri questi famosi subprimes attraverso le “titolarizzazione” (cioè la trasformazione dei crediti in valori mobiliari scambiabili sul mercato mondiale come le altre azioni ed obbligazioni). In un decennio, la bolla speculativa è diventata enorme; tutte le istituzioni finanziarie del pianeta hanno realizzato questo tipo di operazione a livello di migliaia di miliardi di dollari. In altre parole, famiglie che si sapevano come insolvibili sono diventate le galline dalle uova d’oro dell’economia mondiale.
Evidentemente, l’economia reale ha finito per ricordare a tutto questo bel mondo la dura realtà. Nella “vita reale”, tutti questi operai super indebitati hanno dovuto fare i conti anche con l’innalzamento del costo della vita ed il blocco dei salari, i licenziamenti, la riduzione dei sussidi di disoccupazione … In una parola, si sono impoveriti così tanto che una parte sempre più numerosa di loro effettivamente non è riuscita a fare fronte alle scadenze del loro prestito. I capitalisti hanno allora cacciato con la forza i cattivi pagatori per rivendere i beni immobiliari … ma le case messe in vendita sono state così numerose[10] che i prezzi hanno cominciato a calare e … patatrac ... sotto il sole estivo del 2007, la grossa palla di neve si è sciolta di colpo! Le banche si sono ritrovate con centinaia di migliaia di debitori insolvibili ed altrettante case che non valevano più niente. Ecco il fallimento, il crac.
Così riassunto, tutto ciò può sembrare assurdo. Prestare a persone che non hanno i mezzi per rimborsare va contro il buonsenso capitalista. E tuttavia, l’economia mondiale ha basato l’essenziale della sua crescita dell’ultimo decennio su un’azione così fumosa. La domanda è dunque perché? Perché una tale follia? La risposta data dai giornalisti, dai politici, dagli economisti è semplice ed unanime: è colpa degli speculatori! È colpa della cupidigia dei “padroni mascalzoni”! È colpa dei “banchieri irresponsabili”! Oggi, tutto riprendono in coro il ritornello tradizionale della sinistra e dell’estrema sinistra del capitale sulle malefatte della “dérégulation” e del “neo-liberismo” (una specie di liberismo senza freni) e reclamano un ritorno dello Stato… ciò che del resto rivela la vera natura dei propositi “anti-capitalisti” della sinistra e dell’estrema sinistra del capitale. Così, Sarkozy proclama che “il capitalismo deve rifondarsi su delle basi etiche”. La Signora Merkel insulta gli speculatori. Zapatero punta il dito accusatore sui “fondamentalisti del mercato”. E Chavez, l’illustre paladino del “socialismo del XXI secolo”, commenta le misure di nazionalizzazione di urgenza prese da Bush dicendo: “Il compagno Bush sta prendendo delle misure tipiche del compagno Lenin”[11]. Tutti ci dicono che oggi la speranza è riposta in un “altro capitalismo”, più umano, più morale … più statalista!
Menzogne! Tutto ciò che esce dalla bocca di questi politici è falso, a cominciare dalla loro pretesa spiegazione della recessione.
L’attuale catastrofe economica è il frutto di cento anni di decadenza
In realtà, è lo stesso Stato che, per primo, ha organizzato questo indebitamento generalizzato delle case. Per sostenere artificialmente l’economia, gli Stati hanno aperto tutte le porte del credito riducendo i tassi d’interesse delle banche centrali. Queste banche di Stato, concedendo prestiti a basso costo, talvolta a meno dell’1%, hanno permesso al denaro di scorrere a cascate. L’indebitamento mondiale è stato dunque il risultato di una scelta deliberata della borghesia e non di una qualsiasi “dérégulation”. Come comprendere altrimenti la dichiarazione di Bush all’indomani dell’11 settembre 2001 quando, di fronte ad un inizio di recessione, ha lanciato un appello agli operai: “Siate dei buoni patrioti, consumate”. Il Presidente americano lanciava in tal modo un messaggio chiaro a tutta la sfera finanziaria: moltiplicate i crediti per il consumo altrimenti l’economia nazionale crollerà![12]
In verità, sono decenni che il capitalismo sopravvive in questo modo, a credito. Il grafico della figura 1[13], che rappresenta l’evoluzione del debito totale americano dal 1920 - e cioè il debito dello Stato, delle imprese e delle famiglie - parla da solo. Per comprendere l’origine di questo fenomeno ed andare al di là della spiegazione semplicistica e fraudolenta della “follia dei banchieri, degli speculatori e dei padroni”, bisogna penetrare “nel grande segreto della società moderna”: “la produzione di plusvalore”[14], secondo i termini di Marx.
Il capitalismo porta in sé, da sempre, un tipo di malattia congenita: produce una tossina in abbondanza che il suo organismo non riesce ad eliminare, la “sovrapproduzione”. In effetti, esso produce più merci di quante il suo mercato riesca ad assimilare. Perché? Facciamo un esempio completamente teorico: un operaio che lavora su una catena di montaggio o dietro un computer e che, alla fine del mese, è pagato 800 euro. In effetti, egli ha prodotto non per l’equivalente di 800 euro - che è quello che lui riceve - ma per il valore di 1200 euro. Ha effettuato un lavoro non pagato o, detto diversamente, un plus-valore. Che fa il capitalista dei 400 euro che ha rubato all’operaio (sempre che riesca a vendere la merce)? Ne mette una parte nella sua tasca, ammettiamo 150 euro, e i 250 euro che restano li reinveste nel capitale della sua impresa, spesso sotto forma d’acquisto di macchine più moderne, ecc. Ma perché il capitalista si comporta in questo modo? Perché non ha la scelta. Il capitalismo è un sistema concorrenziale, bisogna vendere i prodotti meno cari del vicino che fabbrica lo stesso tipo di prodotti. Di conseguenza il padrone è costretto non solo ad abbassare i costi della sua produzione, e cioè i salari[15], ma anche ad utilizzare una parte crescente del lavoro non pagato per reinvestirlo prioritariamente in macchine a prestazioni migliori[16] per aumentare la produttività. Se non lo facesse, non potrebbe modernizzarsi e, prima o dopo, i suoi concorrenti - che invece lo avessero fatto - venderebbero a minor prezzo imponendosi sul mercato. Il sistema capitalista è dunque minato da un fenomeno contraddittorio: non retribuendo gli operai con l’equivalente di ciò che hanno effettivamente fornito come lavoro e costringendo i padroni a rinunciare al consumo di una gran parte del profitto così estorto, il sistema produce più valore di quanto ne possa distribuire. Mai, dunque, né gli operai né i capitalisti insieme potranno da soli assorbire tutte le merci prodotte. Chi potrà consumare questo surplus di merci? Questo sistema deve trovare necessariamente nuovi sbocchi all’infuori del contesto della produzione capitalista, ossia quelli che si chiamano mercati extra-capitalisti (ovvero in quei settori sociali che non funzionano in modo capitalista).
È perciò che, nel 18° secolo e soprattutto nel 19°, il capitalismo è partito alla conquista del mondo: doveva trovare continuamente dei nuovi mercati, dei nuovi sbocchi, in Asia, in Africa, in Sud America, per realizzare profitto vendendo le sue merci in esubero, per evitare di assistere alla paralisi della sua economia. E, d’altra parte, è sistematicamente questo che avveniva quando non riusciva abbastanza rapidamente ad ottenere nuove conquiste. Il Manifesto comunista del 1848 di Marx-Engels fa una descrizione magistrale di questo tipo di crisi: “Nelle crisi scoppia una epidemia sociale che in tutte le epoche anteriori sarebbe apparsa un assurdo: l’epidemia della sovrapproduzione. La società si trova all’improvviso ricondotta ad uno stato di momentanea barbarie; sembra che una carestia, una guerra generale di sterminio le abbiano tagliato tutti i mezzi di sussistenza; l’industria, il commercio sembrano distrutti. E perché? Perché la società possiede troppa civiltà, troppi mezzi di sussistenza, troppa industria, troppo commercio”. In quest’epoca, tuttavia, poiché il capitalismo era in piena crescita, poteva giustamente conquistare nuovi territori, ogni crisi lasciava in seguito il posto ad un nuovo periodo di prosperità. “Il bisogno di uno smercio sempre più esteso per i suoi prodotti sospinge la borghesia a percorrere tutto il globo terrestre. Dappertutto deve annidarsi, dappertutto deve costruire le sue basi, dappertutto deve creare relazioni (...) I bassi prezzi delle sue merci sono l’artiglieria pesante con la quale essa spiana tutte le muraglie cinesi, con la quale costringe alla capitolazione la più tenace xenofobia dei barbari. Costringe tutte le nazioni ad adottare il sistema di produzione della borghesia, se non vogliono andare in rovina, le costringe ad introdurre in casa loro la cosiddetta civiltà, cioè a diventare borghesi. In una parola, essa si crea un mondo a propria immagine e somiglianza.” (Il Manifesto). Ma già in quel momento, Marx percepiva in queste crisi periodiche qualche cosa di più di un semplice ciclo eterno che finirebbe sempre in prosperità. Lui ci vedeva l’espressione delle contraddizioni profonde che minano il capitalismo. “Con quale mezzo la borghesia supera la crisi? Da un lato, con la distruzione coatta di una massa di forze produttive; dall’altro, con la conquista di nuovi mercati e con lo sfruttamento più intenso dei vecchi. Dunque, con quali mezzi? Mediante la preparazione di crisi più generali e più violente e la diminuzione dei mezzi per prevenire le crisi stesse.” (idem). Ancora, in Lavoro Salariato e Capitale Marx aggiunge: “nella misura in cui la massa della produzione, cioè il bisogno di estesi mercati, diventa più grande, il mercato mondiale sempre più si contrae, i nuovi mercati da sfruttare si fanno sempre più rari, poiché ogni crisi precedente ha già conquistato al commercio mondiale un mercato fino ad allora non conquistato o sfruttato dal commercio soltanto in modo superficiale”.
Durante tutto il 18° ed il 19° secolo, le principali potenze capitaliste si lanciano in una vera corsa alla conquista del mondo; si dividono progressivamente il pianeta in colonie e formano veri imperi. Ogni tanto, si ritrovano faccia a faccia a mettere gli occhi sullo stesso territorio, e allora scoppia una breve guerra, e lo sconfitto parte rapidamente per trovare un altro angolo della terra da conquistare. Ma all’inizio del 20° secolo, le grandi potenze si sono ormai diviso il dominio di tutto il mondo, per loro quindi non è più il tempo di correre in Africa, in Asia o in America, ma di impegnarsi in una guerra spietata per difendere le loro aree di influenza ed impossessarsi, a forza di cannoni, di quelle dei loro concorrenti imperialisti. A questo punto si tratta di una vera questione di sopravvivenza per le nazioni capitaliste che devono scaricare imperativamente la loro sovrapproduzione sui mercati non capitalisti (ormai esauriti). Non è un caso che sia proprio la Germania che, avendo pochissime colonie, si mostra la più aggressiva e che, nel 1914, scatena la Prima Guerra mondiale. Questa carneficina provocò più di 11 milioni di morti, orribili sofferenze e causò un trauma morale e psicologico ad intere generazioni. Questo orrore annuncia l’entrata in una nuova epoca, l’epoca più barbara della storia. Da allora, il capitalismo, avendo raggiunto il suo apogeo, entra nel suo periodo di decadenza. Il crac del 1929 ne sarà una chiara conferma.
E tuttavia, dopo più di cent’anni di lenta agonia, questo sistema è sempre in piedi, barcollante, malmesso, ma in piedi. Come fa a sopravvivere? Come mai il suo organismo non è ancora totalmente paralizzato dalla tossina della sovrapproduzione? È qui che il ricorso all’indebitamento entra in gioco. L’economia mondiale è riuscita ad evitare un crollo clamoroso ricorrendovi sempre più massicciamente.
Come mostra la figura 1, fin dall’inizio del 20° secolo, il debito totale americano è fuori controllo per esplodere letteralmente negli anni ‘20. Le famiglie, le imprese e le banche crollano sotto i debiti. E la caduta brutale della curva dell’indebitamento negli anni ‘30 e ‘40 è in realtà ingannevole. Infatti, la grande Depressione degli anni 1930 rappresenta la prima grande crisi economica della decadenza. La borghesia non era ancora preparata ad un tale shock. Innanzitutto non reagisce, se non male. Chiudendo le sue frontiere (protezionismo) accentuò la sovrapproduzione, la tossina provocò delle devastazioni. Tra il 1929 ed il 1933, la produzione industriale americana crollò della metà[17]; la disoccupazione colpì 13 milioni di operai e si sviluppò una miseria senza precedenti, due milioni di americani si ritrovarono senza riparo[18]. In un primo tempo, il governo non intervenne a favore del settore finanziario: delle 29.000 banche censite nel 1921, non resteranno più di 12.000 alla fine del mese di marzo 1933, e questa ecatombe proseguirà ancora fino al 1939[19]. Tutti questi fallimenti sono sinonimi della scomparsa pura e semplice di montagne di debiti[20]. Per contro, ciò che non appare su questo grafico, è la crescita dell’indebitamento pubblico. Dopo quattro anni di attendismo, alla fine lo Stato americano prese delle misure: il New Deal di Roosevelt. E in che cosa consisté questo piano di cui si parla tanto oggigiorno? Si trattò di una politica di grande lavori basati su … un ricorso massiccio ed inedito all’indebitamento statale (da 17 miliardi nel 1929, il debito pubblico passò a 40 miliardi nel 1939[21]).
In seguito, la borghesia ha tratto le lezioni da questa disavventura. Alla fine della Seconda Guerra mondiale, organizzò a livello internazionale delle istituzioni monetarie e finanziarie (attraverso la conferenza di Bretton Woods) e, soprattutto, regolò il ricorso al credito. Così, dopo avere raggiunto un livello minimo nel 1953-1954 e malgrado la breve tregua degli anni 1950 e 1960[22], il debito totale americano ricominciò lentamente ma inesorabilmente ad aumentare fin dalla metà degli anni 1950. E quando la crisi fece il suo grande ritorno nel 1967, la classe dominante non aspettò questa volta quattro anni per reagire. Immediatamente, ricorse ai crediti. Infatti, questi ultimi quaranta anni possono in effetti riassumersi in una successione di crisi ed in un innalzamento esponenziale del debito mondiale. Negli Stati Uniti, ufficialmente si sono avute recessioni nel 1969, 1973, 1980, 1981, 1990 e 2001[23]. La soluzione utilizzata dalla borghesia americana per fare fronte ogni volta a queste difficoltà è nettamente visibile sul grafico: la pendenza dell’indebitamento si accentua notevolmente a partire dal 1973 e smisuratamente a partire dagli anni 1990. Tutte le borghesie del mondo hanno agito allo stesso modo.
Ma l’indebitamento non è una soluzione magica. La figura 2[24] mostra che, dal 1966, l’indebitamento è sempre meno efficace per generare crescita[25]. Si tratta di un circolo vizioso: i capitalisti producono più merci rispetto alle possibilità del mercato di assorbirle normalmente; poi, il credito crea un mercato artificiale; i capitalisti vendono dunque le loro merci e reinvestono così il loro profitto nella produzione e dunque … punto e da capo, occorrono nuovi crediti per vendere nuove merci. Qui non solo i debiti si accumulano ma, ad ogni nuovo ciclo, i nuovi debiti devono essere sempre più importanti per mantenere un tasso di crescita identico (poiché la produzione si è allargata). Inoltre, una parte sempre più grande dei crediti non è iniettata mai nel circuito della produzione ma sparisce subito, inghiottita dal baratro dei deficit. In effetti, le famiglie super indebitate contraggono spesso un nuovo prestito per rimborsare i loro debiti più vecchi. Gli Stati, le imprese e le banche funzionano allo stesso modo. Infine, in questi ultimi 20 anni, essendo “l’economia reale” continuamente in crisi, una parte crescente del denaro creato è andato ad alimentare le bolle speculative (la bolla Internet, Telecom, dell’immobiliare …)[26]. Infatti, è stato più redditizio ed alla fine meno rischioso speculare in Borsa che investire nella produzione di merci che trovano notevoli difficoltà ad essere vendute. Oggigiorno il denaro che circola in Borsa è cinquanta volte superiore a quello che circola nella produzione[27].
Ma questa fuga in avanti nell’indebitamento non è solo meno efficace, ma soprattutto sfocia inesorabilmente e sistematicamente in una crisi economica devastante. Il capitale non può indefinitamente tirare fuori denaro dal suo cappello. È l’abc del commercio: ogni debito deve un giorno essere rimborsato, pena il rischio per il prestatore di serie difficoltà che vanno fino al fallimento. Torniamo dunque, in qualche modo, al caso di partenza, il capitale ha guadagnato solo del tempo di fronte alla sua crisi storica. Ma peggio! Rinviando gli effetti della sua crisi nel futuro, ha preparato in realtà ogni volta convulsioni economiche ancora più violente. Ed è proprio questo quello che capita oggi al capitalismo!
Lo Stato può salvare l’economia capitalista?
Quando un individuo fallisce, perde tutto ed è gettato per strada. L’impresa chiude i battenti. Ma uno Stato? Uno Stato può fallire? Dopo tutto, non abbiamo mai visto uno Stato “chiudere bottega”. Non esattamente, infatti. Ma essere insolvente, si!
Nel 1982, quattordici paesi africani super indebitati sono stati costretti a dichiararsi ufficialmente insolventi. Negli anni 1990, dei paesi del Sud America e la Russia sono crollati. Recentemente, nel 2001, anche l’Argentina è crollata. In realtà, questi Stati non hanno smesso di esistere, e neanche l’economia nazionale si è fermata. Invece, ogni volta, c’è stato una specie di sisma economico: il valore della moneta nazionale è crollato, i prestatori (in generale altri Stati) hanno perso tutto o parte del loro investimento e, soprattutto, lo Stato ha ridotto drasticamente le sue spese licenziando una buona parte di lavoratori statali e non pagando per un certo tempo quelli che rimanevano in servizio.
Oggi, numerosi paesi sono sull’orlo di un tale baratro: l’Equador, l’Islanda, l’Ucraina, la Serbia, l’Estonia... Ma che ne è delle grandi potenze? Il governatore della California, Arnold Schwarzenegger, ha dichiarato a fine dicembre che il suo Stato si trova in “una condizione di emergenza fiscale”. Il più ricco degli Stati americani, il “Golden State”, si prepara a licenziare una buona parte dei suoi 235.000 impiegati (i rimanenti dovranno prendere due giorni di ferie non pagate ogni mese a partire dal 1 febbraio 2009)! Presentando questo nuovo bilancio, l’ex star di Hollywood ha avvertito che “ciascuno dovrà fare dei sacrifici”. Sta qua un simbolo forte delle difficoltà economiche profonde della prima potenza mondiale. Siamo ancora lontani da una cessazione dei pagamenti da parte dello Stato americano, ma questo esempio mostra chiaramente che i margini di manovra finanziari sono attualmente molto limitati per l’insieme delle grandi potenze. L’indebitamento mondiale sembra arrivare a saturazione (nel 2007 era di 60.000 miliardi di dollari e successivamente si è ancora gonfiato di parecchie migliaia di miliardi); costretta a proseguire per questa strada, la borghesia va dunque a provocare delle scosse economiche devastanti. La FED ha abbassato i suoi tassi di interesse per l’anno 2009 allo 0,25% per la prima volta dalla sua creazione nel 1913! Lo Stato americano presta dunque denaro quasi gratuitamente (e se si tiene in conto l’inflazione ci perde pure). Tutti gli economisti del pianeta richiedono un “nuovo New Deal”, sognando di vedere in Obama il nuovo Roosevelt, capace di rilanciare l’economia, come nel 1933, attraverso un immenso piano di grande lavori pubblici finanziati … a credito[28]. Piani di indebitamento statale tipo New Deal la borghesia ne lancia regolarmente dal 1967, senza un reale successo. Ed il problema sta nel fatto che una tale politica di fuga in avanti può provocare il crollo del dollaro. Oggi, infatti, sono numerosi i paesi a dubitare della capacità degli Stati Uniti di far fronte un giorno ai loro debiti e ad essere tentati di ritirare tutti i loro investimenti. Per esempio la Cina, a fine 2008, ha minacciato, in linguaggio diplomatico, lo Zio Sam di smettere di sostenere l’economia americana attraverso l’acquisto dei suoi Buoni del Tesoro: “Ogni errore sulla gravità della crisi causerebbe delle difficoltà ai mutuatari come ai creditori. L’appetito apparentemente crescente del paese per i buoni del Tesoro americano non implica che essi resteranno un investimento redditizio a lungo termine o che il governo americano continuerà a dipendere dai capitali stranieri”. Ed ecco come, in una frase, la Cina minaccia lo Stato americano di tagliare la pompa ai dollari cinesi che alimenta l’economia statunitense da parecchi anni! Se La Cina mettesse in pratica la sua minaccia[29], il disordine monetario internazionale che ne seguirebbe sarebbe allora apocalittico e le devastazioni sulle condizioni di vita della classe operaia sarebbero gigantesche. Ma non è solo l’Impero di Mezzo che comincia a dubitare: mercoledì 10 dicembre, per la prima volta della sua storia, lo Stato americano ha dovuto penare parecchio per trovare acquirenti per un prestito di 28 miliardi di dollari. E poiché tutte le grandi potenze hanno le casse vuote, conti aperti con debiti interminabili ed una economia in misera salute, lo stesso giorno, la stessa disavventura ha colpito lo Stato tedesco: anche questo, per la prima volta dagli anni 1920, ha avuto le peggiori difficoltà a trovare degli acquirenti per un prestito di 7 miliardi di euro.
Indubbiamente l’indebitamento, che riguardi le famiglie, le imprese o gli Stati, è soltanto un palliativo; non guarisce il capitalismo della malattia di sovrapproduzione; permette tutto al più di fare uscire momentaneamente l’economia da un momento difficile ma prepara sempre delle crisi successive più violente. Tuttavia, la borghesia non può che perseguire questa politica disperata perché non ha altra scelta, come dimostra, un’ennesima volta, la dichiarazione dell’8 novembre 2008 di Angela Merkel alla Conferenza Internazionale di Parigi: “Non esiste nessuna altra possibilità di lottare contro la crisi che accumulare montagne di debiti” o ancora l’ultimo intervento del capo economista del FMI, Olivier Blanchard: “Siamo in presenza di una crisi di un’ampiezza eccezionale la cui principale componente è un crollo della domanda […] È imperativo rilanciare […] la domanda privata, se si vuole evitare che la recessione si trasformi in Grande Depressione”. Come? “attraverso l’aumento delle spese pubbliche”.
Ma, se non attraverso i suoi piani di rilancio, lo Stato può essere comunque IL salvatore nazionalizzando grande parte dell’economia, in particolare le banche ed il settore automobilistico? Ebbene no, ancora cilecca! Innanzitutto, e contrariamente alle menzogne tradizionali della sinistra e dell’estrema sinistra del capitale, le nazionalizzazioni non sono mai state una buona notizia per la classe operaia. All’indomani della Seconda Guerra mondiale, l’importante ondata di nazionalizzazioni aveva per obiettivo di rimettere in piedi l’apparato produttivo distrutto aumentando i ritmi di lavoro. Non bisogna dimenticare le parole di Thorez, Segretario generale del Partito Comunista francese ed allora vice presidente del governo diretto da De Grulle, lanciate alla classe operaia in Francia ed in particolare agli operai delle imprese pubbliche: “Se dei minatori devono morire sul lavoro, le loro donne li sostituiranno”, o “Rimboccatevi le maniche per la ricostruzione nazionale!” o ancora “lo sciopero è l’arma dei trust”. Benvenuti nel mondo meraviglioso delle imprese nazionalizzate! Non c’è qui niente di stupefacente. I comunisti rivoluzionari hanno sempre messo in evidenza, dall’esperienza della Comune di Parigi del 1871, il ruolo visceralmente anti-proletario dello Stato: “Lo stato moderno, qualunque ne sia la forma, è una macchina essenzialmente capitalista: lo Stato dei capitalisti, il capitalista collettivo ideale. Più fa passare nella sua proprietà forze produttive, più diventa in effetti capitalista collettivo, più sfrutta dei cittadini. Gli operai restano dei salariati, dei proletari. Il rapporto capitalista non è soppresso, è spinto al contrario al suo colmo”. (F. Engels en 1878)[30].
La nuova ondata di nazionalizzazioni non porterà dunque niente di buono alla classe operaia. E non permetterà neanche alla borghesia di riprendere una vera crescita duratura. Al contrario! Queste nazionalizzazioni annunciano delle future burrasche economiche ancora più violente. Infatti, nel 1929, le banche americane fallite sono sprofondate insieme ai depositi di gran parte della popolazione americana, spingendo nella miseria milioni di operai. Da allora, per evitare che un tale crollo possa riprodursi, il sistema bancario è stato diviso in due: da un lato le banche di affari che finanziano le imprese e che lavorano sulle operazioni finanziarie di ogni tipo, dall’altro le banche di deposito che ricevono il denaro dei depositanti e che se ne servono relativamente per gli investimenti sicuri. Ora, rese nervose dall’ondata di fallimenti del 2008, queste banche di affari americane non esistono più. Il sistema finanziario americano si è ricomposto come prima del 24 ottobre 1929! Alla prossima burrasca, tutte le banche “scampate” grazie alle nazionalizzazioni parziali o totali, rischiano a loro volta di sparire e questa volta insieme alle magre economie ed ai salari delle famiglie operaie. Oggi, se la borghesia nazionalizza, non è dunque per effettuare un qualsivoglia nuovo piano di rilancio economico ma per evitare l’insolvenza immediata dei colossi della finanza o dell’industria. Si tratta di evitare il peggio, di salvare il salvabile[31].
La montagna di debiti accumulati durante quattro decenni si è trasformata in un vero Everest ed oggi niente può impedire al capitale di precipitare giù precipitosamente. Lo Stato dell’economia è realmente disastroso. Tuttavia, non bisogna credere che il capitalismo affonderà di colpo. La borghesia non lascerà il SUO mondo sparire senza reagire; tenterà disperatamente e con tutti i mezzi di prolungare l’agonia del suo sistema, senza preoccuparsi dei mali inflitti all’umanità. La sua folle fuga in avanti verso un indebitamento sempre più elevato proseguirà e probabilmente ci saranno anche in futuro, qua e là, dei brevi momenti di ritorno alla crescita. Ma ciò che è certo, è che la crisi storica del capitalismo ha cambiato ritmo. Dopo quaranta anni di lenta discesa agli inferi, l’avvenire si preannuncia con dei soprassalti violenti, spasmi economici ricorrenti che spazzano via non solo i paesi del Terzo Mondo ma anche gli Stati Uniti, l’Europa, l’Asia …[32].
Il motto dell'Internazionale comunista del 1919 “Perché l’umanità possa sopravvivere, il capitalismo deve morire!” è più che mai attuale.
Mehdi (10 gennaio 2009)
[1] Rispettivamente: Paul Krugman (ultimo premio Nobel per l’economia), Warren Buffet (investitore americano, soprannominato “l’oracolo di Omaha” tanto l’opinione del miliardario della piccola cittadina americana del Nebraska è rispettata dal mondo finanziario), Jaques Attali (economista e consigliere dei presidenti francesi Mitterrand e Sarkozy) e Laurence Parisot (presidentessa dell'associazione dei padroni francesi).
[2] Libération del 4.08.08.
[3] Le Monde del 22.08.08.
[4] Fonte: www.contreinfo.info [59].
[5] Les Echos del 05.12.08.
[6] Questo denaro è stato trovato nelle casse del piano Paulson, tuttavia già insufficiente per il settore bancario. La borghesia americana è obbligata a “svestire Paul per vestire Jack”, ciò che rivela anche lì lo stato disastroso delle finanze della prima potenza mondiale.
[7] Les Echos dell’08.01.09.
[8] Secondo il rapporto pubblicato il 9 gennaio dal Dipartimento del Lavoro americano, (Les Echos del 09.01.09).
[9] In Francia, il presidente Nicolas Sarkozy aveva condotto la campagna nel 2007 usando come principale slogan “Lavorare di più per guadagnare di più” (sic!).
[10] Nel 2007, circa tre milioni di famiglie americane sono in condizioni di non poter pagare (in Subprime Mortgage Foreclosures by the Numbers - www.americanprogress.org/issues/economy/news/2007/03/26/2744/subprime-mortgage-foreclosures-by-the-numbers [60]).
[11] Per una volta, siamo d’accordo con Chavez. Bush è effettivamente un suo compagno. Anche se sono contrapposti nella lotta accanita delle loro rispettive nazioni imperialiste, non per questo sono meno compagni nella difesa del capitalismo e dei privilegi della loro classe … la borghesia.
[12] Oggi, Alan Greenspan, l'ex-presidente della FED e capofila di questa economia a credito, è attaccato violentemente da tutti gli economisti e da altri esperti di questa materia. Tutto questo bel mondo ha la memoria molto corta e dimentica rapidamente che solo poco tempo fa lo portava alle stelle, soprannominandolo anche il “guru della finanza”!
[13] Fonte: eco.rue89.com/explicateur/2008/10/09/lendettement-peut-il-financer-leconomie-americaine.
[14] Il Capitale, Libro 1, p.725, La Pléiade.
[15] O, detto diversamente, il capitale variabile.
[16] Il capitale fisso.
[17] A. Kaspi, Franklin Roosevelt, Parigi, Fayard, 1988, p.20.
[18] Queste cifre sono tanto più importanti in quanto la popolazione americana all’epoca non era che di 120 milioni. Fonte: Lester V. Chandler, America’s Greatest Depression 1929-1941, New York, Harper and Row, 1970, p.24 e successive.
[19] Da Frédéric Valloire, in Valori Attuali del 15.02.2008.
[20] Per completezza, questa caduta del debito totale si spiega anche attraverso un meccanismo economico complesso: la creazione monetaria. In effetti, il New Deal non è stato finanziato integralmente dal debito ma anche dalla pura creazione monetaria. Così il 12 maggio 1933, si autorizza il Presidente a fare aumentare i crediti delle banche federali di 3 miliardi di dollari e anche la creazione di biglietti senza contropartita in oro di 3 miliardi di $. Il 22 ottobre dello stesso anno, c’è una svalutazione del 50% dello stesso dollaro rispetto all’oro. Tutto questo spiega la relativa moderazione dei rapporti di indebitamento.
[22] Dal 1950 al 1967, il capitalismo conosce una fase di crescita importante, chiamata “i 30 Gloriosi” o “Epoca d’oro” o “Anni del boom economico”. Lo scopo di questo articolo non è di analizzare le cause di questo tipo di parentesi nel marasma economico del ventesimo secolo. Un dibattito si svolge attualmente nella CCI per comprendere meglio le motivazioni di questo periodo fausto, dibattito che abbiamo cominciato a pubblicare nella nostra stampa (leggere “Dibattito interno alla CCI: Le cause del periodo di prosperità consecutiva alla Seconda Guerra mondiale” in Revue internationale n° 133, 2° trimestre 2008). Incoraggiamo vivamente tutti i nostri lettori a partecipare a questa discussione in occasione delle nostre riunioni (permanenze, riunioni pubbliche), per posta o per mail.
[23] Fonte: www.nber.org/research/business-cycle-dating [62].
[24] Fonte: eco.rue89.com/explicateur/2008/10/09/lendettement-peut-il-financer-leconomie-americaine.
[25] Nel 1966, un dollaro di indebitamento supplementare produceva 0,80 dollari di produzione di ricchezza in più mentre nel 2007, questo stesso dollaro non genera più di 0,20 dollari di PIL in più.
[26] Gli attivi e l’immobiliare non sono contabilizzati nel PIL.
[27] Così, contrariamente a tutto ciò che ci dicono gli economisti, giornalisti ed altri bugiardi, questa “follia speculativa” è dunque il prodotto della crisi e non l’inverso!
[28] Nel momento in cui la scrittura di quest’articolo sta per finire, Obama ha annunciato il suo piano di rilancio tanto atteso che è, a dire degli stessi economisti, “molto deludente”: vengono sbloccati 775 miliardi per permettere un “regalo fiscale” di 1000 dollari alle famiglie americane (il 95% di queste famiglie sono coinvolte) in modo che si “rimettano a spendere” e a lanciare un programma di grandi lavori nel campo dell’energia, delle infrastrutture e della scuola. Questo piano dovrebbe, promette Obama, creare tre milioni di impieghi “durante i prossimi anni”. Poiché in questo momento l’economia americana distrugge più di 500.000 impieghi al mese, questo nuovo New Deal (anche se funzionasse al meglio delle previsioni, ciò che è poco probabile) è ancora una volta veramente lontano dal cogliere l’obiettivo.
[29] Questa minaccia rivela, da sola, il vicolo cieco e le contraddizioni in cui si trova l’economia mondiale. Infatti, vendere massicciamente i suoi dollari significherebbe per la Cina segare il ramo sul quale è seduta poiché gli Stati Uniti costituiscono il principale sbocco delle sue merci. E’ per tale motivo che finora ha continuato a sostenere in grande parte l’economia americana. Tuttavia, la Cina si rende conto che questo ramo è debole, totalmente tarlato, e non ha nessuna voglia di starvi seduta fino a quando si spezzerà.
[30] Ne “L’Anti-Duhring”, Ed Sociales 1963, p.318.
[31] Così facendo, crea un terreno più propizio allo sviluppo delle lotte. Infatti, diventando il loro padrone ufficiale, gli operai avranno di fronte nella loro lotta direttamente lo Stato. Negli anni 1980, l’ondata importante di privatizzazione delle grandi imprese (con la Thatcher in Inghilterra, per esempio) aveva costituito una difficoltà supplementare per deviare la lotta di classe. Non solo gli operai erano chiamati dai sindacati a battersi per salvare le imprese pubbliche o, detto diversamente, per essere sfruttati da un padrone (lo Stato) piuttosto che da un altro (privato), ma in più essi si trovavano a scontrarsi non più con lo stesso padrone (lo Stato) ma con una serie di padroni privati differenti. Le loro lotte erano spesso sparpagliate e dunque impotenti. In avvenire, al contrario, il terreno sarà più fertile per le lotte degli operai uniti contro lo Stato.
[32] Il terreno economico è particolarmente minato, è dunque difficile sapere quale sarà la prossima bomba che esploderà. Ma nelle pagine delle riviste economiche, un nome ritorna spesso sotto la penna angosciata degli specialisti ed altri esperti in materia: i CDS. Un CDS (credit default swap) è una sorta di assicurazione attraverso la quale una istituzione finanziaria si protegge dal rischio di mancanza di pagamento di un credito pagando un premio. Il totale del mercato dei CDS era stimato a 60.000 miliardi di dollari nel 2008. Ciò significa che una crisi dei CDS sul modello della crisi dei subprimes sarebbe terribilmente devastante. In particolare affonderebbe tutti i fondi pensione americani e dunque le pensioni operaie.
Nella primavera del 2005 la CCI ha aperto un dibattito interno riguardo all’analisi economica del periodo di forte crescita seguito alla Seconda Guerra mondiale (ancora oggi chiamato “I Trenta gloriosi”). Periodo che costituisce una eccezione all’interno della fase di decadenza del capitalismo dal punto di vista delle performance economiche poiché presenta il tasso di crescita più alto di tutta la storia del capitalismo[1]. Questo dibattito è scaturito dalla messa in evidenza, già precedente, di una contraddizione tra differenti testi della CCI a proposito del ruolo giocato dalla guerra rispetto alla questione cruciale dell’insufficienza di sbocchi solvibili per l’economia capitalista. Si poneva quindi una prima questione alla nostra organizzazione: le distruzioni provocate dalla guerra permettono la creazione di nuovi sbocchi? Ma questa prima questione, una volta data una risposta negativa, ne pone automaticamente un’altra: quale spiegazione coerente può essere data ai Trenta gloriosi basandosi su fattori diversi dalle distruzioni provocate dalla Seconda guerra mondiale?
Il dibattito su queste questioni è in corso e le differenti posizioni presenti sono ancora in via di definizione. Queste ultime presentano comunque un livello di elaborazione tale da poter essere già da ora pubblicate all’esterno dell’organizzazione allo scopo di alimentare il dibattito, in particolare nell’ambito degli elementi in ricerca che si orientano verso le posizioni della Sinistra Comunista.
Anche se nella realtà gli sviluppi della crisi prima e dopo la fine dei “Trenta gloriosi” hanno largamente dimostrato che questo periodo non è che un’eccezione all’interno di un secolo di decadenza del capitalismo, l’importanza delle questioni dibattute non è però da sottovalutare. In effetti queste questioni rimandano al cuore dell’analisi marxista permettendo di comprendere sia il carattere storicamente limitato del modo di produzione capitalista, che l’entrata in decadenza di questo sistema ed il carattere insolubile della crisi attuale. In altre parole esse concernono uno dei principali fondamenti obiettivi e materiali della prospettiva rivoluzionaria del proletariato.
Il contesto del dibattito: alcune contraddizioni nella nostra analisi
La rilettura critica del nostro opuscolo La decadenza del capitalism[2] ha suscitato una riflessione all’interno della nostra organizzazione ed ha dato vita ad un dibattito contraddittorio i cui termini erano stati già posti nel movimento operaio – in particolare all’interno della Sinistra comunista – e riguardano le implicazioni economiche della guerra in fase di decadenza dl capitalismo. In effetti La decadenza del capitalismo sviluppa esplicitamente l’idea che le distruzioni provocate dalle guerre della fase di decadenza, in particolare le guerre mondiali, possono costituire uno sbocco alla produzione capitalista, quello della ricostruzione:
“… gli sbocchi si sono ristretti in modo vertiginoso. A causa di ciò il capitalismo è dovuto ricorrere alla distruzione ed alla produzione dei mezzi di distruzione come palliativo per tentare di compensare le sue perdite accelerate in ‘spazio vitale’” (capitolo: Quale sviluppo delle forze produttive?. Paragrafo: La “crescita” mondiale dopo la Seconda guerra mondiale).
“Nella distruzione massiccia in vista della ricostruzione, il capitalismo scopre un’uscita pericolosa e provvisoria, ma efficace, per i suoi nuovi problemi di sbocco. Nel corso della prima guerra le distruzioni non sono state “sufficienti” (…) Dal 1929 il capitalismo mondiale è confrontato di nuovo ad una crisi.
Come se la lezione fosse stata ritenuta, le distruzioni della Seconda guerra mondiale sono molto più importanti in intensità e in estensione (…) una guerra che, per la prima volta, si pone come scopo cosciente la distruzione sistematica del potenziale industriale esistente. La “prosperità” dell’Europa e del Giappone dopo la guerra sembra già prevista sistematicamente all’indomani della guerra (Piano Marshall, ecc.)” (Paragrafo: Il ciclo guerra-ricostruzione).
Questa idea è presente anche in alcuni testi dell’organizzazione (in particolare della Rivista Internazionale) così come presso i nostri predecessori di Bilan che in un articolo intitolato “Crisi e cicli nell’economia del capitalismo agonizzante” affermano: “Da allora il massacro andrà a costituire per la produzione capitalista un immenso sbocco che apre delle “magnifiche” prospettive (…) Se la guerra è il grande sbocco della produzione capitalista, in tempo di “pace” il militarismo (in quanto insieme delle attività che preparano la guerra) realizzerà il plus-valore da produzioni fondamentali controllate dal capitale finanziario” (Bilan n. 11, settembre 1934 – ripubblicato nella Rivista Internazionale n.103, in inglese, francese e spagnolo sul nostro sito).
Per contro altri testi dell’organizzazione, apparsi prima e dopo l’opuscolo La decadenza del capitalismo, sviluppano un’analisi opposta sul ruolo della guerra in periodo di decadenza riallacciandosi in questo al “Rapporto adottato alla Conferenza del luglio 1945 della Sinistra Comunista di Francia” (Gauche Communiste de France, GCF), secondo il quale la guerra:
“fu il mezzo indispensabile al capitalismo che gli apriva delle possibilità di sviluppo ulteriori nell’epoca in cui queste possibilità esistevano e non potevano essere aperte che attraverso la violenza. Allo stesso modo, il crollo del mondo capitalista che ha storicamente esaurito ogni possibilità di sviluppo, trova nella guerra moderna, la guerra imperialista, l’espressione di questo crollo che, senza aprire alcuna possibilità di sviluppo ulteriore per la produzione, non fa che inghiottire nell’abisso le forze produttive ed accumulare a ritmo accelerato rovine su rovine” (sottolineato da noi).
Il Rapporto sul Corso storico, adottato al 3°, congresso della CCI[3], fa riferimento esplicito a questo passaggio del testo della GCF ed all’articolo “Guerra, militarismo e blocchi imperialisti nella decadenza del capitalismo” pubblicato nel 1988[4] dove si sottolinea che: “… quello che caratterizza tutte queste guerre, così come le due guerre mondiali, è che esse non mai permesso, a differenza delle guerre del secolo scorso, alcun progresso nello sviluppo delle forze produttive, ma hanno avuto come unico risultato delle distruzioni massicce che hanno lasciato completamente esangui i paesi implicati (senza contare i terribili massacri che hanno provocato)”.
Il quadro del dibattito
Per quanto importanti siano queste questioni, dato che la risposta che ne danno i rivoluzionari partecipa direttamente alla coerenza del loro quadro politico generale, conviene tuttavia precisare che esse hanno una natura diversa da certe altre che concorrono direttamente a delimitare il campo proletario da quello della borghesia, come l’internazionalismo, il ruolo antioperaio dei sindacati, la partecipazione al gioco elettorale, ecc. In altre termini, le differenti analisi in discussione sono pienamente compatibili con la piattaforma della CCI.
Se alcune idee de La decadenza del capitalismo sono state criticate e rimesse in discussione, il metodo ed il quadro globale di analisi è quello al quale si rifà la CCI sin dal momento della scrittura di questo opuscolo e che da allora ha continuato ad arricchire[5]. Ne ricordiamo gli elementi costitutivi essenziali:
1. Il riconoscimento dell’entrata del capitalismo nella sua fase di decadenza con lo scoppio della Prima Guerra mondiale all’inizio del 20° secolo e del carattere d’ora in avanti insormontabile delle contraddizioni che assillano questo sistema. Si tratta qui della comprensione delle manifestazioni e delle conseguenze politiche del cambiamento del periodo come le caratterizzava il movimento operaio a quest’epoca, in particolare quando parlava a questo proposito dell’ “era di guerre e di rivoluzioni” nella quale era ormai entrato il sistema.
2. Quando si analizza la dinamica del modo di produzione capitalista su tutto un periodo, non conviene procedere ad uno studio separato dei differenti attori capitalisti (nazioni, imprese, ecc.), ma all’entità capitalista mondiale presa nel suo insieme, la quale fornisce la chiave per comprendere le specificità per ognuna delle sue parti. Questo è anche il metodo di Marx quando, studiando la riproduzione del capitale, precisa: “Per sgomberare l’analisi generale da incidenti inutili, bisogna considerare il mondo commerciale come una sola nazione” (I libro del Capitale)
3. “Contrariamente a quanto pretendono gli adoratori del capitale, la produzione capitalistica non crea automaticamente e a volontà i mercati necessari alla sua crescita. Il capitalismo si sviluppa in un mondo non capitalista, ed è in questo mondo che trova gli sbocchi che gli permettono questo sviluppo. Ma generalizzando i suoi rapporti all’insieme del pianeta e unificando il mercato mondiale, esso ha raggiunto un grado critico di saturazione degli stessi sbocchi che gli avevano permesso la formidabile espansione del 19° secolo. Inoltre, la crescente difficoltà per il capitale a trovare mercati in cui realizzare il suo plusvalore accentua la pressione verso il ribasso che viene esercitata sul suo tasso di profitto dall’accrescimento costante della proporzione tra il valore dei mezzi di produzione e quello della forza-lavoro che li mette in opera. Da tendenziale, questa caduta del tasso di profitto diventa sempre più reale, cosa che intralcia ancor più il processo di accumulazione del capitale e dunque il funzionamento dell’insieme degli ingranaggi del sistema” (Piattaforma della CCI).
4. E’ Rosa Luxemburg che, basandosi sul lavoro di Marx e criticandone quelli che lei considerava essere delle insufficienze, mette in evidenza che l’arricchimento del capitalismo, come un tutto, dipende dalle merci prodotte al suo interno e scambiate con delle economie precapitaliste, cioè quelle che praticano lo scambio mercantile ma non hanno ancora adottato il modo i produzione capitalista: “In realtà, le condizioni reali dell’accumulazione del capitale totale sono del tutto diverse da quelle del capitale singolo e della riproduzione semplice. Il problema si pone così: come si configura la riproduzione sociale nella premessa che una parte crescente del plus-valore non sia consumato dai capitalisti ma impiegata all’allargamento della produzione? Il passaggio del prodotto sociale, prescindendo dalla sostituzione del capitale costante, nel consumo dei lavoratori e dei capitalisti, è qui escluso, e questa circostanza è il punto essenziale del problema. Ma con ciò è anche escluso che capitalisti e lavoratori possano consumare essi stessi il prodotto totale. Essi possono realizzare solo il capitale variabile, la parte consumata del capitale costante e la parte consumata del plus-valore, e, in tale modo assicurare soltanto le condizioni del rinnovo della produzione sulla scala precedente. La parte da capitalizzare del plusvalore, invece, non può essere realizzata dagli stessi lavoratori e capitalisti. La realizzazione del plus-valore ai fini dell’accumulazione è dunque, in una società composta unicamente di lavoratori e capitalisti, un problema insolubile” (Rosa Luxemburg, L’accumulazione del capitale; capitolo: La riproduzione del capitale e del suo ambiente).
La CCI fa sua questa posizione, il che non vuol dire che non possano esistere all’interno dell’organizzazione altre posizioni che criticano l’analisi economica di Rosa, come vedremo in particolare a proposito di una delle posizioni presenti nel dibattito. Del resto queste analisi sono state combattute al loro tempo non solo dalle correnti riformiste, per le quali il capitalismo non era condannato a provocare catastrofi crescenti, ma anche da alcune correnti rivoluzionarie, e non tra le minori, rappresentate in particolare da Lenin e Pannekoek, per le quali il capitalismo era diventato un modo di produzione storicamente obsoleto anche se le loro implicazioni differivano da quelle di Rosa Luxemburg.
5. Il fenomeno dell’imperialismo deriva giustamente dall’importanza che rappresenta per i paesi sviluppati l’accesso ai mercati extra-capitalisti: “L’imperialismo è l’espressione politica del processo di accumulazione del capitale nella sua lotta di concorrenza intorno ai residui di ambienti non capitalistici non ancora posti sotto sequestro” (Rosa Luxemburg, L’accumulazione del capitale; capitolo: Protezionismo e accumulazione).
6. IL carattere storicamente limitato degli sbocchi extra-capitalisti costituisce il fondamento economico della decadenza del capitalismo. La Prima Guerra mondiale è l’espressione di questa contraddizione. Conclusa la ripartizione del mondo tra le grandi potenze, le potenze meno ricche di colonie per accedere ai mercati extra-capitalisti non hanno altra scelta che intraprendere una ripartizione del mondo attraverso la forza militare. L’entrata del capitalismo nella fase di declino significa che le contraddizioni che assillano questo sistema sono ormai insormontabili.
7. La messa in opera di misure di capitalismo di Stato costituisce un mezzo che la borghesia si dà nella decadenza del capitalismo per frenare, attraverso differenti palliativi, la depressione nella crisi e attenuarne le manifestazioni più brutali al fine di evitare che queste si manifestino di nuovo con la brutalità della crisi del 1929.
8. Nel periodo di decadenza il credito costituisce un mezzo essenziale attraverso il quale la borghesia tenta di far fronte all’insufficienza di sbocchi extra-capitalisti. L’accumulazione di un debito mondiale sempre meno controllabile, l’insolvibilità crescente dei differenti attori capitalisti e le minacce di destabilizzazione profonda dell’economia mondiale che ne risulta illustrano l’impasse di questo palliativo.
9. Una manifestazione tipica della decadenza del capitalismo è data, sul piano economico, dall’impennata delle spese improduttive. Queste sono la manifestazione del fatto che lo sviluppo delle forze produttive è sempre più intralciato dalle contraddizioni insormontabili del sistema: le spese militari (armamenti, operazioni militari) per far fronte all’esacerbazione mondiale delle tensioni imperialiste; le spese per mantenere ed equipaggiare le forze di repressione per fronteggiare, in ultima istanza, la lotta di classe; la pubblicità, arma di guerra commerciale per vendere su un mercato saturo, ecc. Dal punto di vista economico queste spese costituiscono una pura perdita per il capitale.
Le posizioni emerse nel dibattito
All’interno della CCI esiste una posizione che, pur essendo d’accordo con la nostra piattaforma, è in disaccordo con numerosi aspetti del contributo di Rosa Luxemburg sui fondamenti economici della crisi del capitalismo[6]. Secondo questa posizione le basi di fondo della crisi stanno nell’altra contraddizione messa in evidenza da Marx, la caduta tendenziale del tasso di profitto. Pur rigettando le concezioni (in particolare quelle bordighiste e consiliariste) che immaginano che il capitalismo può generare automaticamente ed eternamente l’espansione del suo proprio mercato alla semplice condizione che il tasso di profitto sia sufficientemente elevato, questa posizione sottolinea che la contraddizione fondamentale del capitalismo non si situa tanto nei limiti del mercato in se stessi (cioè la forma sotto la quale si manifesta la crisi), ma piuttosto in quelli che si impongono all’espansione della produzione.
Il dibattito di fondo nella discussione di questa posizione è nei fatti quello condotto in polemica con altre organizzazioni (anche se esistono delle differenze) a proposito della caduta del tasso di profitto e della saturazione dei mercati[7]. Tuttavia, come vedremo in seguito, nella discussione attuale esiste una certa convergenza tra questa posizione ed un’altra detta del “capitalismo di Stato keynesiano-fordista” che presentiamo di seguito. Queste due posizioni riconoscono l’esistenza di un mercato interno ai rapporti di produzione capitalista che ha costituito un fattore di prosperità nel corso del periodo dei “Trenta gloriosi” ed analizzano la fine di quest’ ultima come il prodotto della contraddizione “caduta tendenziale del tasso di profitto”.
Le altre posizioni che si sono espresse nel dibattito rivendicano la coerenza sviluppata da Rosa Luxemburg, accordando alla questione dell’insufficienza dei mercati extra-capitalisti un ruolo centrale nella crisi del capitalismo. E’ proprio basandosi su questo quadro di analisi che una parte dell’organizzazione ha valutato che esistevano delle contraddizioni nell’opuscolo La decadenza del capitalismo dove, pur rivendicandosi a questo quadro, si fa derivare l’accumulazione che è stata alla base della prosperità dei Trenta gloriosi dall’apertura di un mercato, quello della ricostruzione, che non ha niente di extra-capitalista.
Di fronte a questo disaccordo si è sviluppata una posizione – presentata sotto il titolo “L’economia di guerra ed il capitalismo di Stato” – che, sebbene critica riguardo ad alcuni aspetti del nostro opuscolo (rimprovera a questo in particolare una mancanza di rigore ed una assenza di riferimento al piano Marshall per spiegare la ricostruzione propriamente detta) costituisce al fondo “una difesa dell’idea che la prosperità del periodo degli anni ‘50 e ’60 è determinata dalla situazione globale dei rapporti imperialisti e l’instaurazione di un’economia di guerra permanente seguita alla seconda guerra mondiale”.
Nella parte dell’organizzazione che rimette in causa l’analisi fatta attraverso La decadenza del capitalismo della fase dei Trenta gloriosi, esistono nei fatti due interpretazioni della prosperità di questo periodo.
La prima interpretazione, presentata qui di seguito sotto il titolo “Mercati extra-capitalisti ed indebitamento”, fa suoi e valorizza questi due fattori già avanzati dall’organizzazione in diverse tappe della sua esistenza[8]. Secondo questa posizione “questi due fattori sono sufficienti a spiegare la prosperità dei Trenta gloriosi”.
La seconda interpretazione, presentata con il titolo “Il capitalismo di Stato keynesiano-fordista”, “parte dalla stessa constatazione stabilita nel nostro opuscolo sulla decadenza – la constatazione della saturazione relativa dei mercati nel 1914 rispetto ai bisogni dell’accumulazione raggiunta a livello mondiale – e sviluppa l’idea che il sistema vi ha risposto instaurando una variane di capitalismo di Stato che si basa su una tri-ripartizione forzata (keynésianismo) di forti guadagni di produttività (fordismo) a vantaggio dei profitti, dei redditi dello Stato e dei salari reali”.
L’obiettivo di questo primo articolo circa il dibattito al nostro interno sui Trenta gloriosi è di limitarsi ad una presentazione generale di questo, come abbiamo appena fatto, e di esporre sinteticamente le tre posizioni principali che hanno alimentato la discussione[9]. In seguito saranno pubblicati dei contributi più sviluppati di dibattito tra i differenti punti di vista qui evocati o altri che potranno emergere dalla discussione.
L’economia di guerra e il capitalismo di Stato
Il punto di partenza di questa posizione è stato già esplicitato dalla Sinistra comunista di Francia nel 1945. Questa considera che a partire dal 1914 i mercati extra-capitalisti che hanno fornito al capitalismo il suo necessario campo di espansione durante il suo periodo di ascesa non sono più capaci di assolvere questo ruolo: “Questo periodo storico è quello della decadenza del sistema capitalista. Cosa significa questo? La borghesia che prima della prima guerra imperialista vive e non può vivere che in un’estensione crescente della sua produzione, è arrivata ad un punto della sua storia dove non può più, nel suo insieme, realizzare questa estensione. (…) Oggi, a parte regioni lontane inutilizzabili, a parte avanzi irrisori del mondo non capitalista, insufficienti per assorbire la produzione mondiale, essa si ritrova padrona del mondo, ma non esistono più davanti a sé paesi extra-capitalisti che avrebbero potuto costituire per il suo sistema dei nuovi mercati: così il suo apogeo è anche il punto dove comincia la sua decadenza”[10].
La storia economica dopo il 1914 è quella dei tentativi della classe borghese, in diversi paesi e in diversi momenti, di superare questo problema fondamentale: come continuare ad accumulare il plus-valore prodotto dall’economia capitalista in un mondo già spartito tra le grandi potenze imperialiste ed il cui mercato è incapace di assorbire l’insieme di questo plus-valore? E poiché le potenze imperialiste possono ormai estendersi solo a spese dei loro rivali, finita una guerra bisogna prepararsi alla seguente. L’economia di guerra diventa il modo di vita permanente della società capitalista. “La produzione di guerra non ha lo scopo di risolvere un problema economico. All’origine essa è frutto della necessità per lo Stato capitalista, da una parte, di difendersi contro le classi sfruttate e mantenere il loro sfruttamento attraverso la forza, dall’altra, di assicurare sempre con la forza le sue posizioni economiche ed allargarle a spese degli altri Stati imperialisti (…) La produzione di guerra diventa così l’asse della produzione industriale ed il principale campo economico della società” (Internationalisme, “Rapporto sulla situazione internazionale”, luglio 1945).
Il periodo della Ricostruzione –i “Trenta Gloriosi” – è un momento particolare di questa storia.
E’ necessario qui sottolineare tre caratteristiche economiche mondiali del 1945:
Durante la Ricostruzione il capitalismo di Stato conosce una evoluzione qualitativa: il peso dello Stato nell’economia nazionale diventa preponderante[11]. Anche oggi, dopo trenta anni di presunto “liberismo”, le spese dello Stato continuano a rappresentare tra il 30 ed il 60% del PIL dei paesi industrializzati.
Questo nuovo peso dello Stato rappresenta una trasformazione da quantità a qualità. Lo Stato non è più solo il “comitato esecutivo” della classe dominante ma è anche il maggiore datore di lavoro ed il maggiore mercato. Negli Stai Uniti, da esempio, il Pentagono diventa il principale datore di lavoro del paese (3-4 milioni di persone, compresi civili e militari). In quanto tale, esso gioca un ruolo critico nell’economia e permette uno sfruttamento più a fondo dei mercati esistenti. La messa in opera del sistema Bretton Woods permette anche l’instaurazione di meccanismi di credito più sofisticati e meno fragili rispetto al passato: il credito al consumo si sviluppa e le istituzioni economiche messe in piazza dal blocco americano (FMI, Banca Mondiale, GATT) permettono di evitare crisi finanziarie e bancarie.
L’enorme preponderanza economica degli Stati Uniti ha permesso alla borghesia americana di non badare a spese per assicurare il suo dominio militare rispetto al blocco russo: ha sostenuto due guerre cruenti e costose (in Corea ed in Vietnam); i piani tipo Marshall e gli investimenti all’estero hanno finanziato la ricostruzione delle economie rovinate in Europa ed in Asia (in particolare in Corea ed in Giappone). Ma questo enorme sforzo – determinato non dal funzionamento “classico” del capitalismo ma dallo scontro imperialista che caratterizza la decadenza del sistema – ha finito per rovinare l’economia americana. Nel 1958 la bilancia dei pagamenti americana è già deficitaria e nel 1970 gli Stati Uniti hanno solo il 16% delle riserve mondiali di oro. Il sistema Bretton Woods fa acqua da tutte le parti ed il mondo si immerge in una crisi dalla quale non è più uscito fino ai nostri giorni.
I mercati extra-capitalisti e l’indebitamento
Lungi dal partecipare allo sviluppo delle forze produttive su basi comparabili a quelle dell’ascesa del capitalismo, il periodo dei Trenta Gloriosi si caratterizza per un enorme spreco di plus-valore che segnala l’esistenza di intralci allo sviluppo delle forze produttive propri della cadenza di questo sistema.
La ricostruzione seguita alla Prima Guerra mondiale aprì una fase di prosperità di pochi anni durante i quali, come prima dello scoppio del conflitto, la vendita ai mercati extra-capitalisti ha costituito lo sbocco necessario all’accumulazione capitalista. In effetti, anche se il mondo era allora diviso tra le più grandi potenze industriali, i rapporti di produzione capitalisti non lo avevano ancora dominato completamente. Tuttavia, dato che la capacità di assorbimento dei mercati extra-capitalisti diventava insufficiente rispetto alla massa di merci prodotte dai paesi industrializzati, la ripresa si infrange rapidamente sullo scoglio della sovrapproduzione con la crisi del 1929.
Completamente differente fu il periodo aperto dalla ricostruzione seguita alla Seconda Guerra mondiale che supera i migliori indici economici della fase di ascesa del capitalismo. Per oltre due decenni si è avuta una crescita sostenuta basata su livelli di produttività tra i più importanti della storia del capitalismo dovuti in particolare al perfezionamento del lavoro alla catena di montaggio (fordismo), all’automatizzazione della produzione ed alla loro generalizzazione ovunque era possibile.
Ma non è sufficiente produrre delle merci, bisogna anche smaltirle sul mercato. In effetti la vendita delle merci prodotte dal capitalismo serve a coprire il rinnovo dei mezzi di produzione consumati e della forza lavoro (salario degli operai). Essa assicura dunque la riproduzione semplice del capitale (cioè senza aumento dei mezzi di produzione o di consumo), ma deve anche finanziare le spese improduttive – che vanno dalle spese per gli armamenti al mantenimento dei capitalisti, includendo anche molte altre voci sulle quali torneremo. Se poi sussiste un saldo positivo questo può rientrare nell’accumulazione del capitale. Nelle vendite effettuate annualmente dal capitalismo, la parte che può essere dedicata all’accumulazione del capitale, e che partecipa anche all’arricchimento reale di questo, è necessariamente limitata perché è il saldo di tutte le spese obbligatorie. Storicamente questa rappresenta solo una debole percentuale della ricchezza prodotta annualmente[12] e corrisponde essenzialmente alle vendite realizzate nel commercio con dei mercati extra-capitalisti (interni o esterni)[13]. Questo è effettivamente il solo mezzo che permette al capitalismo di svilupparsi (al di fuori del saccheggio, legale o no, delle risorse delle economie non capitaliste), cioè di non trovarsi in questa situazione in cui “dei capitalisti scambiano tra loro e consumano la loro produzione”, la qual cosa come dice Marx “non permette affatto una valorizzazione del capitale”: “Come sarebbe altrimenti possibile che possa far difetto la domanda per quelle stesse merci di cui il popolo ha bisogno, e come sarebbe possibile che si debba cercare questa domanda all’estero, su mercati lontani, per poter pagare agli operai del proprio paese la media dei mezzi di sussistenza necessari? Precisamente perché solo in questo nesso, specificamente capitalistico, il prodotto in eccesso riveste una forma tale che colui che lo possiede può metterlo a disposizione del consumo solo quando esso si riconverte per lui in capitale. Infine, quando si afferma che i capitalisti non hanno che da scambiare fra di loro e consumare essi stessi le loro merci, si perde di vista il carattere essenziale della produzione capitalista, il cui scopo è la valorizzazione del capitale e non il consumo”[14].
Con l’entrata in decadenza del capitalismo, i mercati extra-capitalisti sono tendenzialmente sempre più insufficienti ma non scompaiono semplicemente e la loro sopravvivenza dipende anche, come nella fase di ascesa, dai progressi dell’industria. Ora, cosa succede quando i mercati extra-capitalisti sono sempre meno capaci di assorbire le quantità crescenti di merci prodotte dal capitalismo? Il risultato è la sovrapproduzione e con essa la distruzione di una parte della produzione, a meno che il capitalismo non perviene ad utilizzare il credito come palliativo. Ma più i mercati extra-capitalisti si rarefanno e meno il credito usato come palliativo potrà essere rimborsato.
Così, lo sbocco solvibile per la crescita dei Trenta Gloriosi è stato costituito dalla combinazione dello sfruttamento dei mercati extra-capitalisti ancora esistenti all’epoca e l’indebitamento nella misura in cui i primi non bastavano più ad assorbire tutta l’offerta. Non esiste nessun altro mezzo possibile (salvo nuovi saccheggi di ricchezze extra-capitaliste) che permetta l’espansione del capitalismo, allora come in ogni altra epoca successiva. Pertanto i Trenta Gloriosi danno già il loro piccolo contributo alla formazione dell’attuale massa di debiti che non saranno mai rimborsati e che diventano una vera e propria spada di Damocle sulla testa del capitalismo.
Un’altra caratteristica dei Trenta gloriosi è il peso delle spese improduttive nell’economia. Queste costituiscono una parte importante delle spese dello Stato e aumentano considerevolmente nella maggior parte dei paesi industrializzati a partire dalla fine degli anni ’40. Questa è una conseguenza della tendenza storica allo sviluppo del capitalismo di Stato, in particolare del peso del militarismo nell’economia che si mantiene ad un livello molto alto dopo la Guerra mondiale, e delle politiche keynesiane allora praticate e destinate a sostenere artificialmente la domanda. Se una merce o un servizio è improduttivo il suo valore d’uso non permette la sua integrazione nel processo produttivo[15] per contribuire alla riproduzione semplice o allargata del capitale. Bisogna considerare improduttive anche alcune spese relative alla domanda all’interno del capitalismo non necessarie ai bisogni della riproduzione semplice o allargata. Questo fu il caso in particolare durante i Trenta gloriosi di aumenti salariali a dei tassi che si avvicinavano a volte a quelli della crescita della produttività del lavoro, aumenti di cui hanno “beneficiato” alcune categorie di lavoratori, in alcuni paesi, in applicazione delle stesse dottrine keynesiane.
In effetti, il versamento di un salario maggiore di quello che è strettamente necessario alla riproduzione della forza lavoro (così come i sussidi versati ai disoccupati o le spese improduttive dello Stato) ha per corollario lo spreco di capitali che non possono essere consacrati alla valorizzazione del capitale globale. In altri termini, il capitale destinato alle spese improduttive, quali che esse siano, è sterilizzato.
La creazione attraverso il keynesismo di un mercato interno capace di dare una soluzione immediata allo smaltimento di una produzione industriale massiccia ha potuto dare l’illusione di un ritorno duraturo alla prosperità della fase di ascesa del capitalismo. Ma poiché questo mercato era completamente staccato dai bisogni di valorizzazione del capitale, il corollario è stato la sterilizzazione di una parte significativa di capitale. La possibilità del suo mantenimento era condizionata da una congiuntura di fattori eccezionali che non poteva durare: la crescita sostenuta della produttività del lavoro che, pur finanziando le spese improduttive, fosse insufficiente ad individuare un’eccedenza tale da permettere di continuare l’accumulazione; l’esistenza di mercati solvibili – o extra-capitalisti o derivanti dall’indebitamento – che permettesse la realizzazione di questa eccedenza.
Una crescita della produttività del lavoro comparabile a quella dei Trenta gloriosi non si è mai più realizzata in seguito. In ogni caso, anche se questa fosse stata possibile, l’esaurimento tortale dei mercati extra-capitalisti e l’aver raggiunto quasi i limiti del rilancio dell’economia attraverso nuovi aumenti del debito mondiale già smisurato, rendono impossibile il ripetersi di un tale periodo di prosperità. Contrariamente all’analisi sviluppata ne La decadenza del capitalismo, il mercato della ricostruzione non è un fattore che può spiegare la prosperità dei Trenta gloriosi. Alla conclusione della Seconda Guerra mondiale, il ripristino dell'apparato produttivo non ha costituito in sé un mercato extra-capitalista né ha generato il nuovo valore. Questa prosperità fu in buona parte il risultato di un trasferimento della ricchezza già accumulata dagli Stati Uniti verso i paesi da ricostruire, poiché il finanziamento dell’operazione è stato fatto attraverso il piano Marshall che consisteva essenzialmente di donazioni del Tesoro americano. Un mercato della ricostruzione non può essere invocato neanche per spiegare la breve fase di prosperità seguita alla Prima Guerra mondiale. Per tale motivo lo schema “guerra-ricostruzione/prosperità” che, in modo empirico, ha effettivamente corrisposto alla realtà del capitalismo in decadenza, non ha tuttavia un valore di legge economica secondo la quale esisterebbe un mercato della ricostruzione che permette un arricchimento del capitalismo.
Il capitalismo di Stato keynesiano-fordista
L’analisi che facciamo delle forze motrici dei Trenta gloriosi parte da un insieme di constatazioni oggettive tra le quali le principali sono le seguenti.
Il prodotto mondiale per abitante raddoppia durante la fase ascendente del capitalismo[16] ed il tasso di crescita industriale continuerà ad aumentare per culminare alla vigilia della Prima Guerra mondiale[17]. In questo momento i mercati che gli avevano fornito il campo di espansione arrivano alla saturazione rispetto ai bisogni raggiunti dall’accumulazione a livello internazionale. E’ l’inizio della fase di decadenza segnalata dalle due guerre mondiali, la più grande crisi di sovrapproduzione di tutti i tempi (1913-33) ed un freno brutale alla crescita delle forze produttive (tanto la produzione industriale che il prodotto mondiale per abitante saranno quasi dimezzati tra il 1913 ed il 1945: rispettivamente 2,8% e 0,9% l’anno).
Ciò non impedirà al capitalismo di conoscere una formidabile crescita durante i Trenta gloriosi: il prodotto mondiale per abitante triplica, mentre la produzione industriale aumenterà più del doppio (rispettivamente 2,9% e 5,2% l’anno). Non solo questi tassi sono ben superiori a quelli del periodo ascendente, ma i salari reali aumentano con una rapidità quattro volte superiore (si moltiplicano per quattro là dove erano appena raddoppiati durante un periodo due volte più lungo tra il 1850 ed il 1913)!
Come è potuto avvenire un tale miracolo?
* né per una residua domanda extra-capitalista perché questa era già insufficiente nel 1914 ed è diminuita ancora in seguito[18];
* né per l’indebitamento statale o il deficit buggettario perché questi diminuiscono fortemente durante i Trenta gloriosi[19];
* né per il credito che aumenta sensibilmente solo con il ritorno della crisi[20];
* né per l’economia di guerra perché essa è improduttiva: i paesi più militarizzati sono i meno efficienti e viceversa;
* né per il piano Marshall il cui impatto è limitatamente importante e duraturo[21];
* né per le distruzioni della guerra perché quelle consecutive alla prima non avevano prodotto prosperità[22];
* né per il solo aumento del peso dello Stato nell’economia perché il fatto di essere raddoppiato tra le due guerre non ha avuto un tale effetto[23], nel 1960 il suo livello (19%) è inferiore a quello del 1937 ed in più comprende numerose spese improduttive.
Il “miracolo” resta da spiegare, tanto più che: (a) all’indomani della guerra le economie sono esangui; (b) il potere d’acquisto di tutti gli attori economici è al minimo; (c) questi ultimi sono tutti pesantemente indebitati; (d) l’enorme potenza acquisita dagli Stati Uniti si fonda su di una economia di guerra improduttiva e che ha grandi difficoltà di riconversione, e (e) questo “miracolo” avrà tuttavia luogo malgrado la sterilizzazione di masse crescenti di plus-valore nelle spese improduttive!
In realtà questo non è più un mistero se si combinano le analisi di Marx sulle implicazioni dei guadagni di produttività[24] e gli apporti della Sinistra Comunista sullo sviluppo del capitalismo di Stato in decadenza. In effetti questo periodo si caratterizza per:
a) Dei guadagni di produttività mai visti in tutta la storia del capitalismo, guadagni che si basano sulla generalizzazione ed il mantenimento del lavoro alla catena di montaggio (fordismo).
b) Considerevoli aumenti dei salari reali, un pieno impiego e la messa in opera di un salario indiretto costituito da diversi sussidi sociali. Del resto, i paesi dove questi aumenti sono più forti saranno quelli più efficienti e viceversa.
c) Una presa in mano da parte dello Stato di parti intere dell’economia ed un suo forte intervento nel rapporto capitale-lavoro[25].
d) Tutte queste politiche keynesiane sono state anche inquadrate su certi piani a livello internazionale attraverso l’OCSE, il GATT, il FMI, la Banca Mondiale, ecc.
e) Infine, contrariamente ad altri periodi, i Trenta gloriosi sono stati caratterizzati da una crescita auto centrata (cioè con relativamente poco scambio fra i paesi dell'OCSE ed il resto del mondo) e senza alcuna delocalizzazione nonostante i forti aumenti dei salari reali e la piena occupazione. In effetti, la mondializzazione e le delocalizzazioni sono fenomeni che arriveranno solo alla fine degli anni ’80 e soprattutto ’90.
Così, garantendo in modo costrittivo e proporzionato la tri-ripartizione dei guadagni di produttività tra i profitti, le imposte ed i salari, il capitalismo di Stato keynesiano-fordista garantirà il completamento del ciclo di accumulazione tra un'offerta calante di beni e servizi a prezzo decrescente (fordismo) ed una domanda solvibile crescente perché indicizzata su questi stessi guadagni di produttività (keynesianismo).
Essendo i mercati così garantiti, il ritorno della crisi si manifesterà con un rovesciamento al ribasso del tasso di profitto che, dopo l’esaurimento dei guadagni fordisti di produttività, diminuirà di metà tra la fine degli anni 1960 e 1982[26]. Questo abbassamento drastico della redditività del capitale spinge allo smantellamento delle politiche del dopo guerra a vantaggio di un capitalismo di Stato senza regole all’inizio degli anni ’80. Se questa svolta ha permesso un ristabilimento spettacolare del tasso di profitto, grazie alla compressione della parte salariale, la riduzione della domanda solvibile che ne deriva mantiene i tassi di accumulazione e la crescita in magro[27]. Pertanto in un contesto ormai strutturale di deboli guadagni di produttività, il capitalismo è costretto a fare pressione sui salari e le condizioni di lavoro per garantire l’aumento dei profitti, ma così facendo restringe al tempo stesso i suoi mercati solvibili.
Queste sono le radici:
a) delle sovra-capacità e della sovrapproduzione endemica;
b) dell’indebitamento sempre più sfrenato come palliativo al restringimento della domanda;
c) delle delocalizzazioni alla ricerca di mano d’opera a basso costo;
d) della mondializzazione per vendere al massimo come esportazione;
e) dell’instabilità finanziaria a ripetizione derivante dagli spostamenti speculativi di capitali che non hanno più l’occasione di procedere ad investimenti di espansione.
Oggi il tasso di crescita è ridisceso al livello di quello tra le due guerre ed un remake dei Trenta Gloriosi è ormai impossibile. Il capitalismo è condannato ad una crescente barbarie.
Non avendo ancora avuto l’occasione di essere presentate in quanto tali, le radici e le implicazioni di questa analisi saranno sviluppate ulteriormente in seguito perché è necessario un ritornare su delle nostre analisi al fine di pervenire ad una comprensione più ampia e coerente del funzionamento e dei limiti del modo di produzione capitalista[28].
Un dibattito aperto agli elementi in ricerca
Come i nostri predecessori di Bilan o della Sinistra comunista di Francia, noi non pretendiamo di essere i detentori della verità “assoluta ed eterna”[29] e siamo pienamente coscienti che i dibattiti che sorgeranno nella nostra organizzazione non possono che beneficiare di apporti e critiche costruttive che si esprimono al di fuori di essa. Per questo tutti i contributi che ci arriveranno saranno benvenuti e presi in considerazione nella nostra riflessione collettiva.
Corrente Comunista Internazionale
[1] Tra il 1950 ed il 1973 il PIL mondiale per abitante è aumentato ad un ritmo annuale vicino al 3%, mentre tra il 1870 ed il 1913 era aumentato al ritmo dell’1,3% (Maddison Angus, L’economia mondiale. OCSE, 2001, pag. 284).
[2] Raccolta di articoli della stampa della CCI pubblicata nel gennaio 1981.
[3] Terzo congresso della CCI, Rivista Internazionale n. 18, 3° trimestre 1979 (in inglese, francese e spagnolo).
[4] Rivista Internazionale n. 52, 1° trimestre 1988 (idem).
[5] Soprattutto con la pubblicazione della serie “Comprendere decadenza del capitalismo” nella Rivista Internazionale (in particolare l’articolo del n. 56) e la pubblicazione nella Rivista Internazionale n. 59 (4° trimestre 1989) della presentazione sulla situazione internazionale dell’8° congresso della CCI relativa al peso dell’indebitamento nell’economia mondiale.
[6] Il fatto che questa posizione minoritaria esiste già da molto tempo all’interno della nostra organizzazione – i compagni che la difendono attualmente la difendevano già quando sono entrati nella CCI – e permette la partecipazione all’insieme delle nostre attività, sia di intervento che i elaborazione politico-teorica, illustra la correttezza della decisione della CCI di non aver fatto della sua analisi del legame tra saturazione dei mercati e abbassamento del tasso di profitto e del rispettivo peso di questi fattori una condizione di adesione all’organizzazione.
[7] Vedi a questo proposito l’articolo “Risposta alla CWO sulla guerra nella fase i decadenza del capitalismo” pubblicato in due parti nei nn. 127 e 128 della Rivista Internazionale (inglese, francese e spagnolo).
[8] L’idea di un miglior sfruttamento dei mercati extra-capitalisti è già presente nella Decadenza del capitalismo. Essa viene ripresa e messa in evidenza nel 6° articolo della serie “Comprendere la decadenza del capitalismo” pubblicato nel n°56 della Rivista Internazionale dove viene avanzato anche il fattore indebitamento mentre il concetto di “mercato della ricostruzione” non viene ripreso.
[9] All’interno di queste tre posizioni esistono delle sfumature che non sono state espresse nel dibattito. Non possiamo renderne conto nel quadro di questo articolo, ma queste potranno essere espresse, in funzione dell’evoluzione del dibattito, in futuri contributi che pubblicheremo.
[10] Internationalisme n°1, gennaio 1945: “Tesi sulla situazione Internazionale”.
[11] Solo negli Stati Uniti le spese dello Stato federale, che rappresentavano solo il 3% del PIL nel 1930, arrivano a circa il 20% nel periodo 1950-60.
[12] A titolo d’esempio, durante il periodo 1870-1913 la vendita ai mercati extra-capitalisti doveva rappresentare una percentuale media annuale vicina al 2,3% del PIL mondiale (cifra calcolata in funzione dell’evoluzione del PIL mondiale tra queste due date. Fonte: The World Economy [63]). Trattandosi di un valore medio è ovvio che questa cifra è inferiore a quella realmente avutasi negli anni di forte crescita come quelli prima della Prima guerra mondiale.
[13] A tale proposito per il destinatario finale poco importa se le sue vendite sono produttive o meno, come le armi.
[14] Libro III, sezione III: la legge tendenziale dell’abbassamento del tasso di profitto, Capitolo X: Lo sviluppo delle contraddizioni immanenti della legge, pletora di capitale e sovrappopolazione.
[15] Per illustrare questo fatto basta considerare la differenza d’uso finale tra, da una parte, un’arma, un annuncio pubblicitario, un corso di formazione sindacale e, dall’altra, un attrezzo, un alimento, dei corsi scolastici o universitari, delle cure mediche, ecc.
[16] Dallo 0,53% l’anno nel periodo 1820-70 all’1,3% nel periodo 1870-1913 (Angus Maddison, L’economia mondiale, OCSE, pag 284).
[17] Tasso di crescita annuale della produzione industriale mondiale:
1786-1820 2,5 %
1820-1840 2,9 %
1840-1870 3,3 %
1870-1894 3,3 %
1894-1913 4,7 %
W.W. Rostow, The World Economy, p. 662.
[18] Molto importante alla nascita del capitalismo, questo potere d’acquisto interno ai paesi sviluppati rappresentava solo dal 5 al 20% già nel 1914 e divenne marginale nel 1945: dal 2 al 12% (Peter Flora, State, Economy and Society in Western Europe 1815-1975, A Data Handbook, Vol II, Campus, 1987). Quanto all’accesso al Terzo Mondo questo è amputato di due terzi con il restringimento del mercato mondiale della Cina, del blocco dell’Est, dell’India e di diversi altri paesi sottosviluppati. Il commercio con la restante parte diminuisce della metà tra il 1952 ed il 1972 (P. Bairoch, Il Terzo Mondo nell’impasse, pag. 391-192)!
[19] I dati sono pubblicati nel n. 114.
[20] I dati sono pubblicati nel n. 121.
[21] Il piano Marshall ha avuto un impatto debole sull’economia americana: “Dopo la seconda guerra mondiale… la percentuale delle esportazioni americane in rapporto all’insieme della produzione è diminuita in misura non trascurabile. Lo stesso Piano Marshall non ha provocato in questo dominio cambiamenti considerevoli” (Fritz Sternberg, Il conflitto del secolo, pag.577) e l’autore ne deriva che ad essere determinante nella ripresa è stato quindi il mercato interno.
[22] I dati e l’argomentazione sono sviluppati nel nostro articolo del n. 128. Ci ritorneremo perché, conformemente a Marx, la svalutazione e la distruzione di capitali permette effettivamente di rigenerare il ciclo di accumulazione ed aprire nuovi mercati. Tuttavia uno studio minuzioso ci ha mostrato che se questo fattore ha potuto avere ruolo, questo è stato relativamente debole, limitato nel tempo ed all’Europa ed al Giappone.
[23] La parte di spesa pubblica totale nel PIL dei paesi dell’OCSE passa dal 9% al 21% dal 1913 al 1937 (vedi n. 114).
[24] In effetti la produttività non è che un’altra espressione della legge del valore – poiché rappresenta l’inverso del tempo di lavoro – ed è alla base dell’estrazione di plus-valore relativa così caratteristico di questo periodo.
[25] La parte della spesa pubblica nei paesi dell’OCSE diventa più del doppio tra il 1960 e il 1980: dal 19% al 45% (n. 114).
[26] Grafici nei n. 115,121 e 128.
[27] Grafici e dati nel n°121 e nell’articolo di analisi sulla crescita nell’Asia dell’Est: https://fr.internationalism.org/ICConline/2008/crise_economique_Asie_Sud_est.htm [64].
[28] Il lettore tuttavia potrà trovare numerosi elementi fattuali, così come alcuni sviluppi teorici nei diversi articoli apparsi nei nn. 114, 115, 121, 127,128 e nella nostra analisi della crescita nell’Asia dell’Est.
[29] “Nessun gruppo possiede in esclusiva la ‘verità assoluta ed eterna’” come diceva la Sinistra comunista di Francia. Vedi a questo proposito il nostro articolo “60 anni fa: una conferenza di rivoluzionari internazionalisti”, Rivista Internazionale n. 131.
90 anni fa, la rivoluzione proletaria culminava in modo tragico in Germania nelle lotte del 1918 e 1919. Dopo l‘eroica presa del potere da parte del proletariato in Russia nell’ ottobre del 1917, il cuore della battaglia per la rivoluzione mondiale si spostò in Germania. Là fu condotta la battaglia decisiva, ed essa fu persa. La borghesia mondiale ha sempre voluto mantenere questi avvenimenti nell'oblio. Tuttavia, non potendo negare l'esistenza delle lotte in quel periodo, la borghesia afferma pretestuosamente che quest'ultime sono state condotte in nome della "democrazia" e della "pace" – in altri termini, per le stesse "meravigliose" condizioni che attualmente regnano nella Germania capitalista.
Lo scopo della serie che iniziamo con quest'articolo è quello di mostrare come la borghesia tedesca si sia trovata molto vicino alla perdita del potere di fronte al movimento rivoluzionario. Malgrado la sua sconfitta, la rivoluzione tedesca, come la rivoluzione russa, attualmente deve essere un incoraggiamento per noi. Essa ci ricorda che non è solo necessario ma anche possibile rovesciare il dominio del capitalismo mondiale.
La sconfitta e lo smarrimento
L'ondata rivoluzionaria internazionale, iniziata durante la I Guerra mondiale, si è avuta solo dopo qualche anno dalla grande sconfitta politica subita dal movimento operaio: il crollo dell'Internazionale socialista nell’agosto del 1914. Esaminare perché la guerra è potuta scoppiare, e perché sia fallita l'Internazionale, costituisce pertanto un elemento essenziale per comprendere la natura ed il corso delle rivoluzioni in Russia ed in Germania.
La strada verso la guerra
All'inizio del XX secolo, la minaccia della guerra mondiale era nell'aria. Le grandi potenze la stavano preparando febbrilmente. Il movimento operaio la prevedeva e si allertava contro di essa. Il suo scoppio fu ritardato per due motivi: il primo fu l'insufficienza della preparazione militare dei principali protagonisti. La Germania stava ancora completando la costruzione di una marina militare (da guerra) in grado di rivalizzare con quella della Gran Bretagna, già padrona degli oceani. Essa stava trasformando l’isola di Helgoland in base navale, e terminava la costruzione del canale tra il Mare del Nord ed il Baltico, ecc. Alla fine del primo decennio del secolo, questi preparativi erano compiuti. Ciò conferiva ancora più importanza all'altro motivo: la paura che incuteva la classe operaia. Questa paura non era solo un'ipotetica speculazione del movimento operaio. Anche importanti rappresentanti della borghesia la esprimevano con estrema chiarezza. Von Bulow, cancelliere tedesco, dichiarava che era proprio per la socialdemocrazia che la guerra veniva rinviata. Paul Rohrbach, infame sostenitore di certi circoli guerrafondai, apertamente imperialisti, di Berlino, scriveva: "a meno che non abbia luogo una catastrofe, la sola cosa che possa costringere la Germania a mantenere la pace, è la fame di coloro che non hanno il pane". Il generale von Bernhardi, eminente teorico militare dell'epoca, sottolineava nel suo libro La guerra di oggi
Questo tipo di considerazioni mantenevano viva all'interno del movimento operaio la speranza che la classe dominante non avrebbe osato scatenare la guerra. Questa speranza dissimulava le divergenze all'interno dell'Internazionale socialista, in un momento in cui era necessario fare chiarezza, all'interno del proletariato, attraverso un dibattito aperto. Il fatto che nessuna componente del movimento socialista internazionale "volesse" la guerra dava un'impressione di forza e di unità. Tuttavia l'opportunismo ed il riformismo non si opponevano alla guerra per principio ma semplicemente perché temevano che il suo scoppio avrebbe provocato la perdita delle loro istituzioni legali e finanziarie. Da parte sua, il "centro marxista" vicino a Kautsky temeva la guerra principalmente perché essa avrebbe distrutto l'illusione di un movimento operaio che lui voleva mantenere unito a tutti i costi.
Ma la Russia non era un esempio significativo del rapporto di forza internazionale tra le classi. Il cuore del capitalismo e delle tensioni imperialiste si situava nell’Europa occidentale e centrale. La chiave della situazione internazionale non si trovava in Russia ma in Germania. La Germania era il paese che contestava l'ordine mondiale delle vecchie potenze coloniali. Ed era anche il paese in cui il proletariato era il più forte, il più concentrato, con la più sviluppata educazione socialista. Il ruolo politico della classe operaia tedesca si evidenziava principalmente attraverso il fatto che i principali sindacati erano stati fondati dal partito socialista, mentre in Gran Bretagna – l'altra nazione capitalista dominante in Europa – il socialismo appariva solo come appendice del movimento sindacale. In Germania, le lotte quotidiane degli operai avevano tradizionalmente luogo nell'ottica del grande scopo socialista finale.
Dichiarare il carattere non politico dei sindacati costituiva una preparazione all'integrazione del movimento sindacale nello Stato capitalista. Ciò forniva alla classe dominante l'organizzazione delle masse di cui essa aveva bisogno per mobilitare gli operai per la guerra. A sua volta, questa mobilitazione nel cuore del capitalismo, andava a determinare la demoralizzazione ed il disorientamento degli operai in Russia – per i quali la Germania costituiva il principale referente – ed ad imbrigliare il movimento degli scioperi di massa che in essa si svolgevano.
Il crollo dell'Internazionale
Il corso alla guerra mondiale era così aperto. La sua esplosione provocò il crollo dell'Internazionale socialista. Alla vigilia della guerra, la Socialdemocrazia organizzò dimostrazioni di protesta in tutta l'Europa. La direzione del SPD inviò Friedrich Ebert (futuro assassino della rivoluzione) a Zurigo in Svizzera con fondi del partito per impedire che fossero confiscati, e Bruno Haase, eterno esitante, a Bruxelles per organizzare la resistenza internazionale contro la guerra. Ma una cosa è opporsi alla guerra prima che esploda, ed un'altra è prendere posizione una volta che è cominciata. E là, i sermoni della solidarietà proletaria, pronunciati solennemente ai congressi internazionali di Stoccarda nel 1907 e a Basilea nel 1912 in gran parte si rivelarono platonici. Anche alcuni membri dell'ala sinistra che avevano sostenuto azioni immediate apparentemente radicali contro la guerra - Mussolini in Italia, Hervé in Francia – in quel momento si unirono al campo dello sciovinismo.
L'estensione del fiasco dell'Internazionale sorprese tutto il mondo. È ben noto come inizialmente Lenin pensasse che le dichiarazioni della stampa del partito tedesco in favore della guerra fossero opera della polizia per destabilizzare il movimento socialista all'estero. Anche la borghesia sembrava sorpresa alla notizia del tradimento dei suoi principi da parte della Socialdemocrazia. Essa aveva puntato principalmente sui sindacati per mobilitare gli operai effettuando accordi segreti con la loro direzione alla vigilia della guerra. In alcuni paesi, i grandi partiti socialdemocratici si opposero realmente alla guerra. Ciò dimostra che l'apertura politica del corso alla guerra non significò automaticamente il tradimento da parte delle organizzazioni politiche. E fu per tale motivo che il fallimento della Socialdemocrazia nei principali paesi in guerra si dimostrò più sorprendente. In Germania, in alcuni casi, anche gli elementi più risoluti contro la guerra all'inizio non fecero sentire la loro voce. Al Reichstag dove 14 membri della frazione parlamentare della Socialdemocrazia erano contro il voto sui crediti di guerra e 78 a favore; lo stesso Karl Liebknecht si sottomise all'inizio alla tradizionale disciplina della frazione.
Come spiegarlo?
Per farlo, bisogna porre gli avvenimenti nel loro contesto oggettivo. A tale proposito, il fondamentale cambiamento nelle condizioni della lotta di classe, provocato dall'ingresso in una nuova epoca storica di guerre e rivoluzioni, è determinante. E' in questo contesto che è possibile comprendere appieno che il passaggio dei sindacati nel campo borghese era storicamente inevitabile. Poiché queste organizzazioni erano l'espressione di una tappa particolare della lotta di classe nel corso della quale la rivoluzione non era ancora all'ordine del giorno, essi per loro natura non sono mai stati degli organismi rivoluzionari; con il nuovo periodo, durante il quale la difesa degli interessi immediati di qualsiasi parte del proletariato implicava automaticamente una dinamica verso la rivoluzione, essi non potevano più servire la loro classe d'origine e potevano solo sopravvivere passando al campo nemico.
Ma ciò che si spiega chiaramente per i sindacati si dimostra insufficiente per i partiti socialdemocratici. Resta chiaro che con la Prima Guerra mondiale, i partiti persero il loro vecchio centro di gravità, la mobilitazione per le elezioni. E' anche vero che il cambiamento delle condizioni determinava ugualmente la sparizione dei fondamenti stessi dell'esistenza dei partiti di massa della classe operaia. Di fronte alla guerra ed alla rivoluzione un partito rivoluzionario deve essere capace di andare controcorrente e nello stesso tempo di andare contro lo stato d'animo dominante nella classe nel suo insieme. Ma il compito principale di un'organizzazione politica della classe operaia – la difesa di un programma e, in particolare, dell'internazionalismo proletario – non varia col variare del periodo. Al contrario, esso diventa ancora più importante. Così, benché fosse storicamente inevitabile che il partito socialista conoscesse una crisi di fronte alla guerra mondiale e che le correnti al suo interno infestate dal riformismo e dall'opportunismo tradissero, ciò non bastò, tuttavia, a spiegare ciò che Rosa Luxemburg definì come “la crisi della Socialdemocrazia”.
E' ugualmente vero che un cambiamento storico fondamentale provoca necessariamente una crisi programmatica; le vecchie tattiche utilizzate da molto tempo ed anche i principi apparvero improvvisamente superati – come la partecipazione alle elezioni parlamentari, il sostegno ai movimenti nazionalisti ed alle rivoluzioni borghesi. Ma su alcuni punti dobbiamo ricordare che molti rivoluzionari dell'epoca, pur non comprendendo ancora le implicazioni programmatiche e tattiche del nuovo periodo, rimasero fedeli all'internazionalismo proletario.
Cercare di spiegare ciò che è successo solo a partire dalle condizioni oggettive ci porta a considerare che tutto ciò che fa parte della storia è fin dall'inizio inevitabile. Da questo punto di vista, si rimette in discussione la possibilità di trarre delle lezioni storiche giacché noi stessi siamo il prodotto di “condizioni oggettive”. Nessun vero marxista negherà l'importanza di queste condizioni oggettive. Ma se noi esaminiamo la spiegazione che gli stessi rivoluzionari dell'epoca hanno dato sulla catastrofe che ha conosciuto il movimento socialista nel 1914, vedremo che essi hanno posto per primo l'importanza dei fattori soggettivi.
Una delle ragioni principali del fallimento del movimento socialista risiede nel suo sentimento illusorio d'invincibilità, nella sua convinzione errata che la vittoria era certa. La Seconda internazionale basava questa convinzione su tre elementi essenziali già identificati da Marx: la concentrazione del capitale e dei mezzi di produzione ad un polo della società e dall'altro il proletariato spossessato; l'eliminazione degli strati sociali intermedi la cui esistenza confondeva la principale contraddizione sociale; e la crescente anarchia del modo di produzione capitalista, che si esprimeva principalmente sotto la forma della crisi economica e che costringeva l’affossatore del capitalismo, il proletariato, a mettere in discussione lo stesso sistema. Per se stesso, questo punto di vista era completamente valido. Queste tre condizioni per il socialismo sono il prodotto di contraddizioni oggettive che si sviluppano indipendentemente dalla volontà delle classi sociali e, a lungo termine, inevitabilmente si impongono. Tuttavia, esse danno origine a due problematiche conclusioni. La prima, è che la vittoria è ineluttabile. La seconda, è che la vittoria può essere ostacolata solo dal suo scoppio prematuro, e se il movimento operaio cede alle provocazioni.
Queste conclusioni erano tante più pericolose in quanto esse erano, benché parzialmente, profondamente giuste. E' vero che il capitalismo crea inevitabilmente le condizioni materiali della rivoluzione e del socialismo. Ed il pericolo della provocazione, da parte della classe dominante, di scontri prematuri è molto veritiero. Vedremo tutta l'importanza tragica rivestita da quest'ultima questione nella terza e quarta parte di questa serie.
Ma il problema di questo schema dell’avvenire socialista è che esso non concede alcun posto ai fenomeni nuovi come le guerre imperialiste tra le potenze capitaliste moderne. La questione della guerra mondiale non entrava in questo schema. Noi abbiamo già visto che già da tempo il movimento operaio riconosceva l'inevitabilità della guerra prima che essa veramente scoppiasse. Ma per l'insieme della Socialdemocrazia, riconoscerla non la portò a concludere che la vittoria del socialismo non era inevitabile. Queste due parti dell'analisi della realtà rimasero separate una dall'altra in un modo che può apparire quasi schizofrenico. Questa incoerenza, capace d'essere fatale, non è insolita. Molte delle grandi crisi e delle grandi confusioni nella storia del movimento operaio provengono dall'irrigidirsi sugli schemi del passato, dal ritardo della coscienza sull'evoluzione della realtà. Possiamo, per esempio, citare il sostegno al Governo provvisorio ed alla prosecuzione della guerra del Partito bolscevico dopo febbraio 1917 in Russia. Il partito era prigioniero dello schema della rivoluzione borghese legata al 1905 e che si rilevò inadeguato nel nuovo contesto della guerra mondiale. Sono state necessarie Le Tesi di aprile di Lenin e mesi di discussioni intense per venire fuori dalla crisi.
Poco prima della sua morte nel 1895, Friedrich Engels fu il primo a tentare di trarre le necessarie conclusioni dalla prospettiva di una guerra generalizzata in Europa. Dichiarò che essa avrebbe posto l'alternativa storica: socialismo o barbarie. L'inevitabilità della vittoria del socialismo fu apertamente messa in discussione. Ma lo stesso Engels non riuscì immediatamente a trarre tutte le conclusioni da questa visione. Per tale motivo, non riuscì a capire che l'apparizione della corrente d'opposizione dei Die Jungen (“I Giovani”) nel partito tedesco, nonostante tutte le sue debolezze era un'espressione autentica del malcontento giustificato di fronte al quadro delle attività del partito (principalmente orientato verso il parlamentarismo) divenuto largamente insufficiente. Di fronte all'ultima crisi del partito che conobbe prima della sua morte, Engels esercitò tutto il suo peso in favore della difesa del mantenimento dello status quo nel partito, in nome della pazienza e della necessità di evitare le provocazioni.
È Rosa Luxemburg che, alla svolta del secolo, nella sua polemica contro Bernstein, trarrà delle conclusioni decisive della visione sostenuta da Engels sulla prospettiva "socialismo o barbarie". Benché la pazienza costituisca una delle virtù principali del movimento operaio e che è necessario evitare scontri prematuri, da un punto di vista storico, il principale pericolo che si presentava non era più l'avvento di una rivoluzione prematura ma proprio il fatto che essa potesse scoppiare troppo tardi. Questo punto di vista porta tutta la sua insistenza sulla preparazione attiva della rivoluzione, sull'importanza centrale del fattore soggettivo.
Questa condanna del fatalismo che cominciava a dominare la Seconda Internazionale, questa revisione del marxismo, stava per divenire una delle linee di demarcazione di tutta l'opposizione della sinistra rivoluzionaria prima e durante la Prima Guerra mondiale[2].
Come Rosa Luxemburg scriverà nella sua brouchure La crisi della Socialdemocrazia: "Il socialismo scientifico ci ha insegnato a comprendere le leggi obiettive dello sviluppo storico. Gli uomini non fanno la loro storia inventandosela. Ma comunque sono essi a farla. Il proletariato dipende nella sua azione dal grado di sviluppo sociale dell'epoca, ma l'evoluzione sociale non si fa al di fuori del proletariato, quest'ultimo è il suo impulso e la sua causa, suo prodotto e sua conseguenza".
Proprio perché ha scoperto le leggi obiettive della storia, per la prima volta una forza sociale, la classe del proletariato cosciente, può mettere in pratica in modo deliberato la sua volontà. Essa non fa solo la storia, ma può influenzarne consapevolmente il corso.
"Nella storia, il socialismo è il primo movimento popolare che si stabilisce come scopo, e che sia incaricato dalla storia, a dare all'azione sociale degli uomini un senso cosciente, di introdurre nella storia un pensiero metodico e, attraverso di esso, una volontà libera. Ecco perché Friedrich Engels dice che la vittoria definitiva del proletariato socialista costituisce un salto che fa passare l'umanità dal regno animale al regno della libertà. Ma questo stesso 'salto' non è estraneo alle leggi ferree della storia, esso è legato alle migliaia di scalini precedenti dell'evoluzione, un'evoluzione dolorosa e purtroppo lenta. E questo salto non potrebbe essere portato a termine se, dall'insieme delle premesse materiali accumulate dall'evoluzione, non scocchi la scintilla della volontà cosciente della grande massa popolare" (ibid.).
Il proletariato deve fare il "suo apprendistato (...) e [tentare] di prendere in mano il proprio destino, di impadronirsi del governo della vita sociale. Lui che era il giocattolo passivo della sua storia, tenta di divenirne il lucido pilota" (ibid.).
Per il marxismo, riconoscere l'importanza delle leggi obiettive della storia e delle contraddizioni economiche - ciò che gli anarchici negano o ignorano - va di pari passo col riconoscimento degli elementi soggettivi[3]. Essi sono intimamente legati e si influenzano reciprocamente. Li possiamo osservare in relazione ai più importanti fattori che hanno sabotato poco a poco la vita proletaria nell'Internazionale. Uno di questi fattori era l'erosione della solidarietà all'interno del movimento operaio. Quest'ultima evidentemente fu favorita dall'espansione economica che ha preceduto il 1914 e dalle illusioni riformiste che questa ha generato. Ma essa fu anche il risultato della capacità della classe nemica di imparare dalla sua esperienza. Bismarck aveva introdotto procedimenti di assicurazione sociale (e nello stesso tempo leggi anti-socialiste) con lo scopo di sostituire la solidarietà tra i lavoratori con la loro dipendenza individuale di fronte a quello che più tardi diventerà "lo Stato assistenziale". Dopo che il tentativo di Bismarck di distruggere il movimento operaio mettendolo fuori legge fallì, il governo della borghesia imperialista che gli successe alla fine del XIX secolo, rovesciò la sua tattica. Avendo preso coscienza che le condizioni di repressione stimolavano la solidarietà operaia, il governo ritirò le leggi anti-socialiste ed invitò ripetutamente la Socialdemocrazia a partecipare alla "vita politica", (cioè alla direzione dello Stato) accusandola di rinunciare in modo "settario" al "solo mezzo pratico" che potesse permettere un reale miglioramento della vita dei lavoratori.
Lenin ha mostrato il legame esistente tra i livelli oggettivo e soggettivo relativamente ad un altro fattore decisivo nel decadimento dei principali partiti socialisti: la trasformazione della lotta per la liberazione dell’umanità in una routine quotidiana e vuota. Identificando tre correnti all’interno della Socialdemocrazia, egli presentava la seconda corrente "‘detta del centro’ che esita tra i socialsciovinisti ed i veri internazionalisti" caratterizzandola: "'il centro', questi sono uomini di routine, erosi da un legalismo putrido, corrotti dall'ambiente del parlamentarismo, ecc., funzionari civili abituati alle sinecura ed ad un lavoro 'tranquillo'. Storicamente ed economicamente, essi non rappresentano uno strato distinto. Ma rappresentano soltanto la transizione tra una fase passata del movimento operaio, quella del 1871-1914 (...) ed una fase nuova, divenuta obiettivamente necessaria dopo la Prima guerra imperialista mondiale, che ha inaugurato l’era della rivoluzione sociale"[4].
Per i marxisti dell'epoca, la "crisi della Socialdemocrazia" non era qualche cosa che accadeva fuori del loro campo d'azione. Essi si sentivano personalmente responsabili per quello che stava accadendo. Per loro, il fallimento del movimento operaio dell'epoca era il loro fallimento. Infatti, Rosa Luxemburg affermava: "noi abbiamo le vittime della guerra sulla coscienza".
Quello che è straordinario nel fallimento dell'Internazionale socialista, è che esso non è stato determinato in primo luogo né da un'inadeguatezza del programma, né da un'analisi erronea della situazione mondiale.
"Il proletariato mondiale non soffre di una mancanza di principi, di programmi o di slogan ma di una mancanza d'azione, di resistenza efficace, di capacità di attaccare l'imperialismo al momento decisivo"[5].
Per Kautsky, l'incapacità a mantenere l'internazionalismo provava l'impossibilità a farlo. Ne deduceva che l'Internazionale era essenzialmente uno strumento dei tempi di pace che doveva essere accantonato durante la guerra. Per Rosa Luxemburg e per Lenin, l'insuccesso dell'agosto 1914 proveniva soprattutto dall'erosione dell'etica della solidarietà proletaria ed internazionale all'interno della direzione dell'Internazionale.
"Allora si produsse l'orribile, l'incredibile 4 agosto 1914. Doveva accadere? Un evento di una tale importanza non può essere un semplice incidente. Esso deve avere delle cause obiettive profonde, significative. Ma forse queste cause si trovavano negli errori dei dirigenti del proletariato, nella stessa Socialdemocrazia, nel fatto che la nostra volontà di lottare era fiaccata, che il nostro coraggio e le nostre convinzioni ci avevano abbandonato" (ibidem, sottolineato da noi).
L'inversione di corrente
Il fallimento dell'Internazionale socialista fu un evento di un'importanza storica ed una sconfitta politica crudele. Ma esso non costituì una sconfitta decisiva, irreversibile, per tutta una generazione. Una prima prova ci venne data dal fatto che gli strati più politicizzati del proletariato rimasero fedeli all'internazionalismo proletario. Richard Müller, dirigente del gruppo "Revolutionäre Obleute", dei delegati di fabbriche della metallurgia ricordava: "Nella misura in cui le grandi masse popolari, già prima della guerra, erano state educate sotto l'influenza della stampa socialista e dei sindacati, ed avevano opinioni precise sullo Stato e la società, anche se all'inizio non si espressero apertamente, esse rifiutarono direttamente la propaganda di guerra e la guerra"[6]. Ciò costituisce un contrasto impressionante con la situazione degli anni ‘30, in seguito alla vittoria dello Stalinismo in Russia e del fascismo in Germania, dove gli operai più avanzati furono coinvolti sul terreno politico del nazionalismo e della difesa della patria "antifascista (imperialista)" o "socialista".
La mobilitazione per la guerra non era dunque la prova di una sconfitta profonda ma di un temporaneo abbattimento delle masse. Questa mobilitazione venne accompagnata da scene di isterismo di massa. Ma non bisogna confondere queste dimostrazioni con un coinvolgimento attivo della popolazione come era accaduto durante le guerre nazionali della borghesia rivoluzionaria in Olanda o in Francia. L'intensa agitazione pubblica del 1914 trova le sue radici soprattutto nel carattere massiccio della società borghese moderna e nei suoi mezzi di propaganda e di manipolazione a disposizione dello Stato capitalista fino allora sconosciuti. In questo senso, l'isterismo del 1914 non era completamente nuovo. In Germania, già avevamo assistito ad un fenomeno simile durante la Guerra franco-prussiana del 1870. Ma esso prese un nuovo aspetto col cambio di natura della guerra moderna.
La follia della guerra imperialista
Sembra che il movimento operaio abbia sottovalutato la potenza del gigantesco sisma politico, economico e sociale provocato dalla guerra mondiale. Avvenimenti di un livello e di una violenza così colossali, al di là del controllo di ogni forza umana, sono capaci di provocare le più estreme emozioni. Alcuni antropologi pensano che la guerra risvegli un istinto di difesa di "auto-conservazione", cosa che gli esseri umani condividono con altre specie. Vero o no, ciò che è sicuro, è che la guerra moderna risveglia vecchie paure dormienti nella nostra memoria storica e collettiva, trasmesse di generazione in generazione dalla cultura e dalle tradizioni in un modo consapevole o no: la paura della morte, la fame, lo stupro, l’esodo, l'esclusione, la privazione, l'asservimento. Il fatto che la guerra imperialista moderna generalizzata non sia più limitata a soldati di mestiere ma che coinvolga tutta la società ed introduce armamenti aventi un potere distruttivo senza precedenti, non può che aumentare il panico che essa crea. A ciò bisogna aggiungere le profonde implicazioni morali. Nella guerra mondiale, non solo una casta particolare di soldati ma milioni di lavoratori arruolati nell'esercito sono portati ad ammazzarsi. Il resto della società, nelle retrovie, deve funzionare per lo stesso scopo. In questa situazione, i principi morali fondamentali che rendono ogni possibile società umana, non si applicano più. Come dice Rosa Luxemburg: "ogni popolo che intraprende l'assassinio organizzato si trasforma in un'orda barbarica"[7].
Tutto ciò produsse nel momento dell'esplosione della guerra una vera psicosi di massa ed un'atmosfera di pogrom generalizzato. Rosa Luxemburg rende conto del modo in cui le popolazioni di intere città si trasformarono in plebaglia impazzita. I germi di tutta la barbarie del secolo XX secolo, compresi Auschwitz e Hiroshima, erano già contenuti in questa guerra.
Come avrebbe dovuto reagire all'esplosione della guerra il partito dei lavoratori? Decretando lo sciopero di massa? Chiamando i soldati alla diserzione? Un non senso, risponde Rosa Luxemburg. Il primo compito dei rivoluzionari era di resistere a quello che, in passato, Wilhelm Liebknecht aveva definito ciclone di passioni umane quando si riferiva alla guerra del 1870.
"Tali esplosioni de 'l'anima popolare' sono stupefacenti, strabilianti, schiaccianti per la loro furia elementare. Uno si sente impotente, come di fronte ad una potenza superiore. È come una forza maggiore. Essa non ha un avversario tangibile. E' come un'epidemia, presso le persone, nell'aria, dappertutto. (...) Così, questa non era affatto un'epoca in cui era possibile andare contro corrente"[8].
Nel 1870, la Socialdemocrazia nuotò contro corrente. Commento di Rosa Luxemburg: "Essi sono rimasti al loro posto e, per quarant'anni, la Socialdemocrazia è vissuto sulla forza morale con la quale si era opposta ad un mondo di nemici"[9].
E là, essa arriva al punto cruciale della sua argomentazione: "La stessa cosa sarebbe potuta accadere oggi. All'inizio, non avremmo potuto fare altro che salvare l'onore del proletariato, e le migliaia di proletari che muoiono nelle trincee in un'oscurità spirituale, non sarebbero morti in una confusione mentale, ma con la certezza che quello che aveva per loro rappresentato tutto durante la loro vita, l'Internazionale, la Socialdemocrazia liberatrice andava oltre un frammento di sogno. La voce del nostro partito avrebbe agito come guastafeste verso l'avvelenamento sciovinista delle masse. Essa avrebbe preservato il proletariato intelligente dal delirio, ed avrebbe frenato la capacità dell'imperialismo di avvelenare ed ad abbrutire le masse nel giro di poco tempo. Con l'avanzare della guerra, (...) ogni elemento vivente, elementi onesti, progressisti ed umani si sarebbero raccolti sotto la bandiera della Socialdemocrazia"[10].
Conquistare questo "incomparabile prestigio morale" costituisce il primo compito dei rivoluzionari di fronte alla guerra.
Per Kautsky ed i suoi seguaci era impossibile comprendere tali preoccupazioni verso gli ultimi pensieri che avrebbero avuto i proletari in divisa prima di morire. Per lui, provocare la rabbia della folla e la repressione dello Stato una volta esplosa la guerra, era solamente un gesto inutile e vano. Il socialista francese Jaurès aveva dichiarato in passato: l'Internazionale rappresenta tutta la forza morale del mondo. Ora, molti dei suoi vecchi dirigenti non sapevano più che l'internazionalismo non è un gesto vano ma la prova di vita o morte del socialismo internazionale.
La svolta ed il ruolo dei rivoluzionari
Il fallimento del Partito socialista condusse ad una situazione realmente drammatica. Come prima conseguenza, esso permise una perpetuazione apparentemente indefinita della guerra. La strategia militare della borghesia tedesca era la seguente: evitare l'apertura di un secondo fronte, ottenere una vittoria rapida sulla Francia e poi inviare tutte le sue forze sul fronte orientale per provocare la capitolazione della Russia. La sua strategia contro la classe operaia seguì lo stesso principio: coglierlo di sorpresa ed ottenere la vittoria prima che quest'ultimo avesse il tempo di riprendersi dal disorientamento.
A settembre 1914 (Battaglia della Marna), l'invasione della Francia falliva, e, con essa, l'intera strategia fondata su una vittoria rapida. Non solo la borghesia tedesca ma quella di tutto il mondo si trovò intrappolata nel dilemma se ritirarsi o non. Seguirono massacri senza precedente di milioni di soldati, completamente insensati anche dal punto di vista capitalistico. Lo stesso proletariato fu intrappolato nell'assenza di alcuna prospettiva immediata che potesse mettere fine alla guerra con una propria iniziativa. Il pericolo che sorse poi fu la distruzione della principale condizione materiale e culturale per il socialismo: lo stesso proletariato.
I rivoluzionari sono legati alla propria classe come la parte lo è al tutto. Le minoranze non si potranno mai sostituire alla capacità di organizzarsi e alla creatività delle masse, ma la storia ci insegna che esistono circostanze in cui l'intervento dei rivoluzionari può assumere un'importanza determinante.Tali circostanze vanno ricercate nel processo rivoluzionario quando le masse lottano per la vittoria. E' allora fondamentale aiutare la classe a trovare la strada giusta, a riconoscere le trappole tese dal nemico, ad evitare di arrivare in anticipo o in ritardo all'appuntamento con la storia. Ma esse esistono anche nei momenti di sconfitta, quando è vitale trarne i giusti insegnamenti. Tuttavia, in questo caso, è necessario fare delle distinzioni. Di fronte ad una sconfitta schiacciante, questo compito è fondamentale a lungo termine per trasmettere delle lezioni alle generazioni future. Nel caso della sconfitta del 1914, l’impatto decisivo che i rivoluzionari avrebbero potuto avere era così immediato come durante la stessa rivoluzione, e ciò non solo a causa del carattere non definitivo della sconfitta subita, ma perché le condizioni della guerra, facendo letteralmente della lotta di classe una questione di vita o di morte, fecero emergere una straordinaria accelerazione della politicizzazione.
Di fronte alle privazioni della guerra, era inevitabile che la lotta economica della classe si sviluppasse e prendesse immediatamente un carattere apertamente politico, ma i rivoluzionari non potevano aspettare che ciò si verificasse. Il disorientamento della classe, come abbiamo visto, era soprattutto il prodotto di una mancanza di direzione politica. Era perciò responsabilità di tutti quelli che rimasero rivoluzionari nel movimento operaio d'iniziare l'inversione di corrente. Ben prima degli scioperi sul "fronte interno", anche prima delle rivolte dei soldati nelle trincee, i rivoluzionari dovevano mostrarsi ed affermare il principio della solidarietà proletaria internazionale.
Cominciarono questo lavoro in Parlamento denunciando la guerra e votando contro i crediti di guerra. Fu l'ultima volta che questa tribuna fu usata a fini rivoluzionari. Ma ciò fu accompagnato, fin dall'inizio, dalla propaganda e dall'agitazione rivoluzionarie illegali e dalla partecipazione alle prime manifestazioni per chiedere pane. Un compito di elevata importanza per i rivoluzionari era anche quello di organizzarsi per chiarire il loro punto di vista e, soprattutto, stabilire contatti con i rivoluzionari all'estero e preparare la fondazione di una nuova Internazionale. Il Primo Maggio 1916, lo Spartakusbund (la Lega Spartakus), nucleo del futuro partito comunista (KPD), si sentì per la prima volta abbastanza forte per scendere apertamente in strada e massicciamente. Era il giorno in cui, tradizionalmente, la classe operaia celebrava la sua solidarietà internazionale. Lo Spartakusbund indisse manifestazioni a Dresda, Jena, Hanau, Braunschweig e soprattutto a Berlino. 10.000 persone si concentrarono sulla Postdamer Platz per ascoltare Karl Liebknecht denunciare la guerra imperialista. Una battaglia di strada esplose nel vano tentativo di impedire il suo arresto.
Le proteste del Primo Maggio privarono l'opposizione internazionalista del suo più conosciuto leader. Altri arresti seguirono. Liebknecht fu accusato d'irresponsabilità ed anche di esibizionismo. In realtà, la sua azione del Primo Maggio era stata decisa collettivamente dalla direzione dello Spartakusbund. E' vero che il marxismo critica gli atti vani del terrorismo e l'avventurismo, contando sull'azione collettiva delle masse, ma il gesto di Liebknecht fu ben più che un atto di eroismo individuale. Incarnava le speranze e le aspirazioni di milioni di proletari di fronte alla pazzia della società borghese. Come Rosa Luxemburg scriverà più tardi: “Tuttavia non dimentichiamoci che la storia del mondo non si fa senza grandezza di anima, senza elevati principi morale, senza gesti nobili"[11]. Questa grandezza d'anima si estende rapidamente dallo Spartakusbund ai metallurgici. Il 27 giugno 1916 a Berlino, alla vigilia del processo di Karl Liebknecht, arrestato per avere condotto un'agitazione pubblica contro la guerra, una riunione di delegati di fabbriche fu prevista a seguito alla manifestazione illegale di protesta indetta dallo Spartakusbund. All'ordine del giorno c'era la solidarietà con Liebknecht; contro la resistenza di Georg Ledebour, unico rappresentante presente del gruppo d’opposizione all'interno del Partito socialista, l'azione fu proposta per il giorno seguente. Non ci fu discussione. Tutti si alzarono e rimasero in silenzio.
Il giorno seguente alle 9, i tornitori fermarono le macchine delle grandi fabbriche d'armamento del capitale tedesco. 55.000 lavoratori di Löwe, AEG, Borsig Schwarzkopf deposero i loro attrezzi e si riunirono davanti alle porte delle fabbriche. Nonostante la censura militare, la notizia si estese come un lampo attraverso tutto l'impero: gli operai delle fabbriche d'armamento andarono a solidarizzare con Liebknecht! E non solo a Berlino, ma a Braunschweig, sui cantieri navali di Brema, ecc. Azioni di solidarietà vi furono anche in Russia.
La borghesia spedì migliaia di scioperanti al fronte. I sindacati lanciarono nelle fabbriche una caccia ai "caporioni". Ma non appena veniva arrestato qualcuno la solidarietà degli operai aumentava ancora. Solidarietà proletaria internazionale contro la guerra imperialista: era l'inizio della rivoluzione mondiale, il primo sciopero di massa nella storia della Germania.
La fiamma che si era accesa sulla Postdamer Platz si estese ancora più velocemente fra la gioventù rivoluzionaria. Inspirati dall'esempio dei loro capi politici, prima ancora degli esperti metallurgici, i giovani avevano lanciato il primo più grande sciopero contro la guerra. A Magdeburgo e, soprattutto, nello Braunschweig che era un bastione di Spartakus, le manifestazioni illegali di protesta del Primo Maggio si trasformarono in un movimento di sciopero contro la decisione del governo di versare d'autorità una parte del salario degli apprendisti e dei giovani operai su un conto speciale per finanziare lo sforzo di guerra. Gli adulti entrarono in sciopero di sostegno. Il 5 Maggio, le autorità militari dovettero ritirare questa misura per impedire una maggiore estensione del movimento.
Dopo la battaglia dello Skagerrak nel 1916, solo ed unico scontro di tutta la guerra tra i marinai britannici e tedeschi, un piccolo gruppo di marinai rivoluzionari progettò di impadronirsi della corazzata Hyäne e deviarla verso la Danimarca per fare "una dimostrazione di fronte al mondo intero" contro la guerra[12]. Anche se questo progetto venne rivelato e fatto fallire, esso prefigurava le prime rivolte aperte che ebbero luogo nella marina di guerra, a partire dall’ agosto 1917. Queste presero il via dalle paghe e dalle condizioni di vita degli equipaggi. Ma, rapidamente, i marinai posero un ultimatum al governo: o terminate la guerra, o noi scendiamo in sciopero. Lo Stato rispose con un'ondata di repressione. Due leader rivoluzionari, Albin Köbis e Max Reichpietsches, furono giustiziati.
Dalla metà di aprile 1917, un'ondata di scioperi massicci ebbe luogo a Berlino, Lipsia, Magdeburgo, Halle, Braunschweig, Hannover, Dresda e nelle altre città. Anche se i sindacati e la SPD non osarono più opporsi apertamente, tentarono comunque di limitare il movimento a questioni economiche; ma i lavoratori di Lipsia avevano formulato una serie di richieste politiche - in particolare fermare la guerra - che furono riprese in altre città.
Gli ingredienti di un profondo movimento rivoluzionario esistevano dunque fin dall'inizio 1918. L'ondata di scioperi di aprile 1917 costituì il primo intervento massiccio di centinaia di migliaia di operai in tutto il paese per difendere i loro interessi materiali su un terreno di classe ed opporsi direttamente alla guerra imperialista. Questo movimento fu anche inspirato dalla rivoluzione che era cominciata in Russia a febbraio 1917 e solidarizzava apertamente con questa. L'internazionalismo proletario si era impadronito del cuore della classe operaia.
D'altra parte, con il movimento contro la guerra, la classe operaia aveva ricominciato a produrre la propria direzione rivoluzionaria. Non si trattava solo dei gruppi politici come lo Spartakusbund o la Sinistra di Brema che formeranno nel 1918 il KPD (Partito Comunista tedesco). Parliamo anche della comparsa di strati altamente politicizzati e di centri di vita e di lotta di classe, legati ai rivoluzionari e che simpatizzavano con le loro posizioni. Uno di questi centri si trovava nelle città industriali, in particolare nella metallurgia, e si esprimeva nel fenomeno dell’Obleutes, delegati di fabbriche. "Nella classe operaia industriale esisteva un piccolo nucleo di proletari che non solo rigettavano la guerra, ma che avevano voluto impedire la sua esplosione a qualsiasi costo; e quando scoppiò, decisero che era loro dovere di farla smettere con tutti i mezzi. Erano pochi. Ma persone molto determinate ed attive. Costituivano la contrapposizione a quelli che andavano a morire al fronte per i loro ideali. La lotta contro la guerra nelle fabbriche e negli uffici non conosceva la stessa celebrità della lotta al fronte ma essa comportava gli stessi pericoli. Quelli che la conducevano erano motivati dai più alti ideali dell'umanità"[13].
Un altro di questi centri esisteva nella nuova generazione di operai, fra gli apprendisti ed i giovani operai che non avevano altra prospettiva che essere spediti a morire nelle trincee. Il centro di gravità di questo fermento fu costituito dalle organizzazioni della gioventù socialista che, già prima della guerra, si era caratterizzato rivoltandosi contro "la routine" che stava caratterizzando la vecchia generazione.
Anche all'interno delle forze armate, dove la rivolta contro la guerra impiegò più tempo per svilupparsi rispetto al fronte "interno", si stabilì una posizione politica avanzata. Come in Russia, il centro di resistenza nacque fra i marinai che erano in diretto contatto con gli operai e le organizzazioni politiche nei loro porti d'ormeggio ed il cui lavoro e le condizioni di vita somigliavano molto a quelle degli operai delle fabbriche, da cui in generale essi provenivano. Inoltre, molti marinai furono arruolati nella marina mercantile "civile", e questi erano giovani che avevano viaggiato in tutto il mondo e per i quali la fraternità internazionale non era una formula ma un modo di vita.
Inoltre, la comparsa e la moltiplicazione di queste concentrazioni di vita politica s'accompagnavano ad un'intensa attività teorica. Tutti i testimoni diretti di questo periodo danno conto dell'alto livello teorico dei dibattiti nelle riunioni e nelle conferenze illegali. Questa vita teorica trova la sua espressione nella brochure di Rosa Luxemburg La crisi della Socialdemocrazia, negli scritti di Lenin contro la guerra, negli articoli della rivista di Brema Arbeiterpolitik ed, anche, nella massa di volantini, manifesti e dichiarazioni che circolavano nell'illegalità più totale e che fanno parte delle più profonde e coraggiose produzioni della cultura umana realizzata durante il XX secolo.
Era stata raggiunta la tappa perché venisse aperta la tempesta rivoluzionaria contro uno dei più potenti e più importanti bastioni del capitalismo mondiale.
La seconda parte di questa serie tratterà delle lotte rivoluzionarie del 1918. Esse ebbero inizio dagli scioperi massicci del gennaio 1918 e dal primo tentativo di formare dei consigli operai in Germania che culminarono negli eventi rivoluzionari del 9 novembre che posero fine alla Prima Guerra mondiale.
Steinklopfer
[1] Decisione presa dal Congresso del Partito tedesco a Mannheim, nel 1906.
[2] Nelle sue memorie sul movimento della gioventù proletaria, Willi Münzenberg che era a Zurigo durante la guerra, ricorda il punto di vista di Lenin: "Lenin ci ha spiegato l'errore di Kautsky e della sua scuola teorica di falso marxismo che si attende tutto dallo sviluppo storico dei rapporti economici e quasi niente dai fattori soggettivi d'accelerazione della rivoluzione. All'opposto, Lenin ha sottolineato il significato dell'individuo e delle masse nel processo storico. Ha sottolineato la tesi marxista secondo la quale sono soprattutto gli uomini che, nel quadro di rapporti economici determinati, fanno la storia. Questa insistenza sul valore personale degli individui e dei gruppi nelle lotte sociali ha determinato in noi una grande impressione e ci ha incitati a fare i più grandi sforzi possibili". (Münzenberg, Die Dritte Front "Il terzo fronte" tradotto da noi dal tedesco).
[3] Difendendo giustamente, contro Bernstein, l'esistenza di una tendenza alla scomparsa degli strati intermedi ed alla tendenza alla crisi ed all'impoverimento del proletariato, la sinistra tuttavia non riuscì a capire fino a che punto il capitalismo era temporaneamente arrivato, negli anni che hanno preceduto la guerra, ad attenuare queste tendenze. Questa mancanza di chiarezza si esprime, per esempio nella teoria di Lenin su "l'aristocrazia operaia" secondo la quale solamente una minoranza privilegiata e non grandi settori della classe operaia, aveva ottenuto degli aumenti salariali sostanziali. Ciò portò a sottovalutare l'importanza della base materiale sulla quale si erano sviluppate le illusioni riformiste che hanno permesso alla borghesia di mobilitare il proletariato nella guerra.
[4] "I compiti del proletariato nella nostra rivoluzione", 28 maggio 1917.
[5] "Rosa Luxemburg Speaks" "Discorsi di Rosa Luxemburg" nella Crisi della Socialdemocrazia, Pathfinder Press 1970, tradotta dall'inglese da noi.
[6] Richard Müller, Vom Kaiserreich zur Republik, 1924-25 ("Dall'Impero alla Repubblica"), tradotto da noi dal tedesco.
[7] "Rosa Luxemburg Speaks" "Discorsi di Rosa Luxemburg" ibid. nota 5.
[8] Ibid., nota 5.
[9] Ibid., nota 5.
[10] Ibid., nota 5.
[11] Ibid., nota 5.
[12] "Against Capital Punishment", novembre 1918, ibid., nota 5.
[13] Dieter Nelles: Proletarische Demokratie und Internationale Bruderschaft - Das abenteuerliche Leben des Hermann Knüfken.
I prodromi della catastrofe
«La fame si sviluppa nei paesi del terzo mondo e ben presto raggiungerà i paesi che si pretendevano “socialisti”, mentre in Europa occidentale e nel Nord America si distruggono stock di prodotti agricoli, si pagano i contadini perché coltivino sempre meno terra, si penalizzano se producono più delle quote imposte. In America Latina, le epidemie, come quella del colera, uccidono migliaia di persone, mentre questo flagello era stato vinto da tempo. Per tutto il mondo inondazioni o terremoti uccidono decine di migliaia di individui in poche ore proprio quando la società è perfettamente in grado di costruire dighe e case che potrebbero evitare una simile ecatombe. Non si può neanche invocare la “fatalità” o i “capricci della natura” quando a Chernobyl, nel 1986, l’esplosione di una centrale atomica uccise centinaia (se non migliaia) di persone e contaminò parecchie province, quando, nei paesi più sviluppati, assistiamo a catastrofi micidiali nel cuore stesso delle grandi città: 60 morti in una stazione parigina, più di 100 morti in un incendio della metropolitana a Londra non molto tempo fa. Ugualmente questo sistema si rivela incapace di contrastare il degrado dell’ambiente, le piogge acide, l’inquinamento di tutti i generi e soprattutto nucleare, l’effetto serra, la desertificazione, cose che mettono in gioco la stessa sopravvivenza della specie umana.»[1]
Se la questione ambientale è stata sempre presente nella propaganda dei rivoluzionari, dalle denunce di Marx ed Engels delle condizioni invivibili della Londra a metà del XIX secolo a quelle di Bordiga sui disastri ambientali provocati dall’irresponsabilità del capitalismo, oggi essa assume una valenza ancora più forte e richiede uno sforzo accresciuto da parte delle organizzazioni rivoluzionarie per mostrare come l’alternativa storica che si pone di fronte all’umanità, socialismo o barbarie, non si gioca più soltanto a livello di guerre, locali o generalizzate che siano, perché si manifesta in maniera sempre più chiara all’orizzonte il rischio di un collasso ecologico-ambientale.
Con questa serie di articoli la CCI intende sviluppare la questione ambientale affrontando, progressivamente, i seguenti aspetti:
1. I prodromi della catastrofe
Di problemi ambientali ormai si parla sempre più frequentemente, non fosse altro per il fatto che sono nati addirittura dei partiti nei vari paesi del mondo che hanno fatto della questione ambientale la loro bandiera. Ma possiamo stare tranquilli? Tutt’altro. Tanto clamore su questo tema ha la sola funzione di confonderci ancora più le idee. Motivo per cui abbiamo scelto di partire proprio dalla descrizione dei singoli fenomeni che nel loro insieme stanno spingendo la nostra società sempre più speditamente verso il collasso ambientale. Come vedremo – e contrariamente a quello che ci raccontano per televisione o sulle riviste patinate più o meno specializzate – la situazione è ben più grave e rischiosa di quanto si voglia far credere e soprattutto non è responsabilità di questo o quel mafioso o camorrista, di questo o quel capitalista avido e irresponsabile, ma del sistema capitalista in quanto tale.
1.1 L’incremento dell’effetto serra
L’effetto serra è una di quelle cose di cui tutti parlano ma non sempre con cognizione di causa. Cominciamo dunque col dire che l’effetto serra è un fenomeno del tutto benefico per la vita sulla terra - almeno per il tipo di vita che conosciamo - nella misura in cui permette che sulla superficie del nostro pianeta vi sia una temperatura media (sulle quattro stagioni e alle varie latitudini) di circa +15°C piuttosto che di -17°C, temperatura prevista in assenza di effetto serra. C’è da immaginarsi cosa sarebbe un mondo permanentemente sotto gli 0°C, con mari ghiacciati, fiumi ghiacciati … Ma a cosa dobbiamo questo surplus di ben 32°C di temperatura? All’effetto serra, ovvero al fatto che mentre la luce del sole attraversa gli strati bassi dell’aria senza essere assorbita (il sole non riscalda l’aria!), la radiazione che emana dalla terra (così come da qualunque altro corpo celeste), essendo costituita essenzialmente di radiazioni infrarosse, viene intercettata e assorbita abbondantemente da alcune componenti dell’aria come l’anidride carbonica, il vapor d’acqua, il metano ed altri composti di sintesi come i CFC (clorofluorocarburi). Ciò fa sì che il bilancio termico della terra usufruisca di questo calore trattenuto dagli strati bassi dell’atmosfera incrementando la temperatura della propria superficie del valore citato. Il problema dunque non sta nell’effetto serra in quanto tale, quanto nel fatto che, con lo sviluppo della società industriale, sono state immesse in atmosfera molte sostanze “ad effetto serra” facendone aumentare sensibilmente la concentrazione e incrementando di conseguenza lo stesso effetto serra. Ad esempio è stato dimostrato, attraverso studi condotti sull’aria intrappolata in carote di ghiaccio estratte dalle calotte polari e risalenti fino a 650.000 anni fa, che la concentrazione di anidride carbonica attuale, di 380 parti per milione (ppm), è la più elevata in tutto questo periodo e forse addirittura degli ultimi 20 milioni di anni. Ancora che le temperature registrate durante il 20° secolo risultano essere le più elevate degli ultimi 20.000 anni. Il ricorso forsennato ai combustibili fossili come fonte di energia e la crescente deforestazione della superficie terrestre hanno compromesso, a partire dall’era industriale, l’equilibrio naturale dell’anidride carbonica dell’atmosfera, che si basa da un lato sulla sua liberazione in atmosfera attraverso la combustione e la degradazione di materiali organici, dall’altro sulla cattura dall’atmosfera della stessa anidride carbonica attraverso il processo di fotosintesi per trasformarla in zucchero e dunque in materiali organici complessi. Lo squilibrio tra liberazione (combustione) e cattura (fotosintesi) della CO2 è alla base dell’attuale effetto serra.
Ma, come già detto, non c’è solo l’anidride carbonica, ma anche l’acqua e il metano. Il maggiore o minore contributo del vapore d’acqua procede parallelamente all’evolvere dell’effetto serra essendo il vapore d’acqua presente nell’atmosfera in misura tanto maggiore quanto maggiore è la temperatura. Per cui l’incremento dell’effetto serra si rinvigorisce a sua volta grazie ad una maggiore evaporazione dell’acqua. L’incremento del metano in atmosfera proviene invece da una serie di fonti naturali, ma anche dal maggiore uso che si fa di questo gas come combustibile e dalle perdite che si producono dai vari gasdotti disseminati sulla superficie terrestre. Tra l’altro il metano, detto anche gas di palude, è tipicamente quel gas che si produce dalla fermentazione di materiali organici in assenza di ossigeno e sempre più le valli boscose inondate per la costruzione di dighe di centrali idroelettriche sono all’origine di produzioni locali di metano. Ma il problema del metano, che attualmente contribuisce all’incremento dell’effetto serra per circa un terzo rispetto al biossido di carbonio, è ben più grave di quanto non possa apparire da questi elementi esposti. Anzitutto il metano ha una capacità di assorbire le radiazioni infrarosse che è 23 superiore a quella della CO2, il che è già tanto. Ma c’è di più! Tutte le previsioni attuali, già sufficientemente catastrofiche, non tengono conto dello scenario che si potrebbe presentare in conseguenza della liberazione di metano dall’enorme serbatoio naturale della terra costituito dalle sacche di gas intrappolato a circa 0°C e a qualche atmosfera di pressione in strutture particolari di ghiaccio, i cosiddetti clatrati (o gas idrati), dove 1 litro di cristallo è capace di trattenere oltre 50 litri di gas metano. Tali giacimenti si trovano soprattutto in mare lungo le scarpate continentali e all’interno del permafrost, terreno ghiacciato presente a pochi metri di profondità in varie zone della Siberia, Alaska e Nord Europa. Ecco il parere di alcuni esperti del settore:
“Se il riscaldamento globale superasse certi limiti (3-4° C) e si innalzasse la temperatura delle acque costiere e del permafrost, si potrebbe avere una enorme emissione, in tempi brevi (decine di anni) di metano liberato dagli idrati resi instabili e ciò innescherebbe un incremento dell’effetto serra di tipo catastrofico. Si tenga presente che nell’ultimo anno le emissioni di metano dal suolo svedese a nord del circolo polare artico sono aumentate del 60% e che l’aumento di temperatura degli ultimi 15 anni è limitato come media globale, ma è molto più intenso (alcuni gradi) nelle aree più settentrionali dell’Eurasia e dell’America (d’estate si è aperto il mitico passaggio a Nord-Ovest che consente di andare in nave dall’Atlantico al Pacifico).”[2]
Ma già senza questa chicca finale, le previsioni sviluppate da strutture riconosciute a livello internazionale come l’Agenzia IPCC dell’ONU e l’MIT di Boston prevedono per il secolo in corso un incremento di temperatura medio che va da un minimo di 0,5°C fino ad un massimo di 4,5°C nell’ipotesi che, come sta avvenendo, nulla si muova a livello sostanziale. E tali previsioni non tengono neanche conto dell’emergenza delle due nuove potenze industriali divoratrici di energia quali la Cina e l’India.
“Un ulteriore riscaldamento di qualche grado centigrado provocherebbe una più intensa evaporazione delle acque oceaniche, ma le analisi più sofisticate suggeriscono che vi sarebbero disparità accentuate nella piovosità su differenti regioni. Le aree aride si estenderebbero e diventerebbero ancora più aride. Le zone degli oceani con temperature superficiali maggiori di 27° C, valore critico per la formazione di cicloni, aumenterebbero del 30-40%. Ciò creerebbe eventi meteorologici catastrofici in continuazione, con inondazioni e devastazioni ricorrenti. La fusione di buona parte dei ghiacciai antartici e groenlandesi e l’aumento di temperatura degli oceani farebbero innalzare l’altezza di questi ultimi (…) con l’invasione di acque salate in molte zone costieri fertili e la sommersione di intere regioni (parte del Bangladesh e molte isole oceaniche”.[3]
Non c’è qui lo spazio per sviluppare ancora in dettaglio questo tema, ma vale la pena almeno di accennare al fatto che il cambiamento climatico provocato dall’incremento dell’effetto serra, anche se non arrivasse all’effetto feed-back prodotto potenzialmente dalla liberazione di metano, rischierebbe ugualmente di essere catastrofico anche perché il mutato clima provocherebbe:
· una maggiore energia degli eventi meteorologici, un maggiore dilavamento dei terreni da parte di piogge molto più intense con una conseguente perdita di fertilità e l’innesco di processi di desertificazione anche in zone a clima meno temperato, come già sta succedendo in Piemonte (Italia);
· la creazione, nel Mediterraneo ed in altri mari una volta temperati, di condizioni ambientali favorevoli alla sopravvivenza di specie marine tropicali, con la conseguente migrazione di specie aliene e dunque con lo scombussolamento dell’equilibrio ecologico;
· il ritorno di vecchie malattie già debellate come la malaria, dovuto all’instaurazione di condizioni climatiche favorevoli alla crescita e diffusione degli organismi vettori come le zanzare, ecc.
1.2 Il problema della produzione e della gestione dei rifiuti
Un secondo tipo di problema tipico di questa fase della società capitalista è l’eccessiva produzione di rifiuti e la conseguente difficoltà a smaltirli adeguatamente. Se recentemente è arrivata all’“onore” della cronaca internazionale la notizia della presenza di cumuli di rifiuti sparsi per tutte le strade di Napoli e della Campania, questo è dovuto solo al fatto che questa regione del mondo è ancora considerata, tutto sommato, come facente parte di un paese industrializzato e dunque avanzato. Ma il fatto che le periferie di tante grandi città di paesi del terzo mondo siano diventate esse stesse discariche libere e abusive a cielo aperto è una realtà ormai consolidata.
Questo accumulo enorme di rifiuti è il risultato della logica di funzionamento del capitalismo. Infatti, se è vero che l’umanità ha sempre prodotto rifiuti, in passato questi venivano sempre reintegrati, riutilizzati, recuperati. E’ soltanto oggi, con il capitalismo, che il rifiuto diventa un problema per i meccanismi specifici secondo i quali funziona questa società e che partono tutti da un principio fondamentale: qualunque prodotto dell’attività umana viene considerato come merce, cioè qualcosa destinata ad essere venduta per realizzare il massimo profitto in un mercato dove l’unica legge è quella della concorrenza. Ciò ha una serie di conseguenze nefaste:
Tutto ciò ha portato ad un incremento considerevole della produzione di rifiuti in tutto il mondo, arrivando a circa 1 kg al giorno per ogni cittadino del mondo, ovvero a svariati milioni di tonnellate di rifiuti … al giorno!
Si pensi che solo in Italia, negli ultimi 25 anni, a parità di popolazione, la quantità di rifiuti è più che raddoppiata grazie ai materiali che costituiscono gli imballaggi.
Il problema dei rifiuti è uno di quelli che tutti pensano di poter risolvere ma che di fatto trovano nel capitalismo degli ostacoli insormontabili. Ma tali ostacoli non sono legati alla mancanza di tecnologia, tutt’altro, ma ancora una volta alla logica secondo la quale questa società viene gestita. In realtà la gestione dei rifiuti è parte di un processo che parte dalla produzione dei beni, passa attraverso l’utilizzazione di questi ultimi fino a che questi non diventano rifiuti. Ora, fermo restando il fatto che è possibile - attraverso la raccolta differenziata - il riciclo e il riuso di materiali e oggetti vari, quest’ultima sezione ha comunque dei costi di gestione e richiede anche un certa capacità politica di coordinamento che manca in genere alle economie più deboli. Per cui nei paesi più poveri e dove le attività imprenditoriali sono in declino per la crisi galoppante di questi ultimi decenni, gestire i rifiuti diventa solo un onere.
Ma qualcuno obietta: se nei paesi avanzati la gestione dei rifiuti funziona, ciò significa che è solo questione di buona volontà, di civiltà e di buona capacità imprenditoriale. Il problema è che, come in tutti i settori della produzione, anche in quello dei rifiuti i paesi forti scaricano su quelli deboli (o al loro interno sulle loro regioni economicamente più depresse) il peso di una parte della loro gestione.
“Due gruppi ambientalisti americani, Basel Action Network e Silicon Valley Toxics hanno recentemente pubblicato un rapporto che afferma che dal 50 all’80 per cento dei rifiuti elettronici degli Stati americani dell’Ovest sono caricati sui container di navi in partenza per l’Asia (Sopratutto India e Cina), dove i costi di smaltimento sono nettamente più bassi e le leggi ambientali meno severe. Non si tratta di progetti di sostegno, ma di un commercio di rifiuti tossici che i consumatori hanno deciso di gettare. Il rapporto delle due associazioni fa per esempio riferimento alla discarica cinese di Guiyu, che raccoglie soprattutto monitor e stampanti. I lavoratori di Guiyu usano strumenti di lavoro rudimentali per estrarre componenti destinate a essere rivendute: “Un’impressionante quantità di rifiuti elettronici non viene riciclata ma viene semplicemente abbandonata all’aperto nei campi, sulle rive dei fiumi, negli stagni, nelle paludi, nei fiumi e nei canali di irrigazione”. A lavorare senza nessuna precauzione vi sono donne, uomini e bambini.”[4]
“In Italia (…) si stima un volume di affari per le ecomafie di 26.000 miliardi annui, di cui 15.000 per il traffico e lo smaltimento illecito di rifiuti (Rapporto Ecomafia 2007 di Lega Ambiente). (…) L’Agenzia delle Dogane ha sequestrato nel 2006 circa 286 container con oltre 9.000 t. di rifiuti. Lo smaltimento legale di un container di 15 t. di rifiuti pericolosi costa circa 60.000 euro; per la stessa quantità, il mercato illegale in Oriente ne chiede solo 5.000.
Tra le mete principali dei traffici illegali vi sono molti paesi asiatici in via di sviluppo: i materiali esportati prima vengono lavorati e poi reintrodotti in Italia, o in altri paesi occidentali, come derivati degli stessi rifiuti per essere destinati, in particolare, a fabbriche di materiali plastici.
La FAO, nel giugno del 1992, annunciò che gli Stati in via di sviluppo e soprattutto africani erano diventati una “pattumiera” a disposizione dell’Occidente. La Somalia sembra oggi essere uno degli Stati africani più a rischio, un vero e proprio crocevia di scambi e traffici di questo genere: in un recente rapporto l’UNEP fa notare il costante aumento delle falde acquifere avvelenate trovate in Somalia, che genera malattie incurabili nella popolazione. Il porto di Lagos, in Nigeria, è il più importante scalo del traffico illegale di componenti tecnologiche obsolete dirette verso l’Africa.
Nel maggio scorso il Parlamento panafricano (PAP) ha chiesto ai Paesi occidentali un risarcimento per i danni procurati dall’effetto serra e dall’abbandono di rifiuti nel continente, due problemi che, secondo le autorità africane, sono responsabilità dei paesi più industrializzati del mondo.
Ogni anno nel mondo si producono dai 20 ai 50 milioni di t. di “spazzatura elettronica”; in Europa si parla di 11 milioni di t., di cui l’80% finisce in discarica. Si stima che entro il 2008 nel mondo si conteranno almeno un miliardo di pc (uno ogni sei abitanti); entro il 2015 saranno più di due miliardi. Questo dato costituirà un ulteriore e gravissimo pericolo per il problema dello smaltimento della tecnologia obsoleta.” [5]
Ma, come dicevamo prima, lo scaricare il problema dei rifiuti sulle aree più depresse avviene anche all’interno di uno stesso paese. E’ proprio il caso della Campania in Italia arrivata alle cronache internazionali per l’accumulo di rifiuti rimasti per le strade per mesi e mesi. Ma ben pochi sanno che la Campania, come - a livello internazionale - la Cina, l’India o i paesi nordafricani, è il ricettacolo di tutti i rifiuti tossici delle industrie del nord che hanno fatto delle ridenti e fertili zone agricole del casertano una delle aree più contaminate del pianeta. Nonostante le diverse azioni della magistratura che si accavallano l’una all’altra, lo scempio continua indisturbato. Ancora una volta non è la camorra, la mafia, la malavita a produrre i guasti, ma la logica del capitalismo. Infatti, mentre la procedura ufficiale per smaltire correttamente 1 chilo di rifiuti tossici comporta una spesa che può superare i 60 centesimi, attraverso dei canali illegali e con la manovalanza della malavita lo stesso servizio costa si e no una diecina di centesimi. E così che ogni fosso, ogni cava abbandonata, è diventata una discarica a cielo aperto. Addirittura in un paesino della Campania, dove stanno per costruire anche un inceneritore, questi materiali tossici, mischiati a del terreno per camuffarli, sono stati utilizzati per creare un fondo stradale di un lungo viale in “terra battuta”. Come dice Saviano, nel libro che in Italia è diventato un cult:
“Se i rifiuti illegali gestiti dalla camorra fossero accorpati diverrebbero una montagna di 14.600 metri con una base di tre ettari: la più grande montagna mai esistita sulla terra.”[6]
D’altra parte, come vedremo meglio nel prossimo articolo, il problema dei rifiuti nasce anzitutto dal tipo di produzione che la società attuale porta avanti. Al di là dell’“usa e getta”, il problema sta spesso nei materiali che si utilizzano per fare i singoli oggetti. In particolare il ricorso a materiali sintetici e particolarmente ai materiali plastici praticamente indistruttibili pone dei problemi immensi all’umanità di domani. E stavolta non si tratta neanche più di paesi ricchi o poveri perché la plastica è non degradabile in qualunque paese del mondo, come possiamo evincere da questo stralcio di articolo:
“Lo chiamano Pacific Trash Vortex, il vortice di spazzatura dell’Oceano Pacifico che ha un diametro di circa 2500 chilometri, è profondo 30 metri ed è composto per l'80% da plastica e il resto da altri rifiuti che giungono da ogni dove. “E' come se fosse un’immensa isola nel mezzo dell’Oceano Pacifico composta da spazzatura anziché rocce. Nelle ultime settimane la densità di tale materiale ha raggiunto un tale valore che il peso complessiva di questa “isola” di rifiuti raggiunge i 3,5 milioni di tonnellate”, spiega Chris Parry del California Coastal Commission di San Francisco (…). Questa incredibile e poco conosciuta discarica si è formata a partire dagli anni Cinquanta, in seguito all’esistenza della North Pacific Subtropical Gyre, una lenta corrente oceanica che si muove in senso orario a spirale, prodotta da un sistema di correnti ad alta pressione. (….) La maggior parte della plastica giunge dai continenti, circa l'80%, solo il resto proviene da navi private o commerciali e da navi pescherecce. Nel mondo vengono prodotti circa 100 miliardi di chilogrammi all’anno di plastica, dei quali, grosso modo, il 10% finisce in mare. Il 70% di questa plastica poi, finirà sul fondo degli oceani danneggiando la vita dei fondali. Il resto continua a galleggiare. La maggior parte di questa plastica è poco biodegradabile e finisce per sminuzzarsi in particelle piccolissime che poi finiscono nello stomaco di molti animali marini portandoli alla loro morte. Quella che rimane si decomporrà solo tra centinaia di anni, provocando da qui ad allora danni alla vita marina”.[7]
Una massa di rifiuti estesa quanto due volte la superficie degli Stati Uniti! L’hanno vista solo ora? Niente affatto: è stata scoperta nel 1997 da un ex petroliere che navigava sul suo yacht e adesso si viene a sapere che “un rapporto dell’ONU del 2006 calcola che un milione di uccelli marini e oltre 100 mila pesci e mammiferi marini all’anno muoiano a causa dei detriti di plastica e che ogni miglio quadrato nautico di oceano contenga almeno 46 mila pezzi di plastica galleggiante” [8].
Ma cosa è stato fatto in questi dieci anni da chi ha il mano le redini della società? Assolutamente nulla! D’altra parte situazioni simili, anche se non altrettanto drammatiche, si lamentano anche nel Mediterraneo nelle cui acque ogni anno si riversano 6,5 milioni di tonnellate di spazzatura, di cui l’80% costituita da plastica, e sui cui fondali si arrivano a contare circa 2000 pezzi di plastica per chilometro quadrato.[9]
Eppure le soluzioni esistono. La plastica biodegradabile fatta con una percentuale fino all’85% di amido di mais e completamente biodegradabile ad esempio è una realtà già oggi: esistono buste, penne e oggetti vari fatti di questo materiale. Ma l’industria difficilmente abbraccia una strada se questa non è la più redditizia, e poiché la plastica a base di amidi costa di più, nessuno si accolla i costi in più di un materiale biodegradabile per evitare di uscire dal mercato[10]. Il problema è che i capitalisti sono abituati a fare i bilanci economici escludendo sistematicamente alcune voci, che non sono esprimibili in danaro perché giustamente non si possono né comprare né vendere, e si tratta della salute della popolazione e dell’ambiente. Tutte le volte che un industriale produce un materiale che al termine del suo ciclo di vita diventa rifiuto, le spese materiali per la gestione di questo rifiuto non sono quasi mai computate, ma soprattutto non sono mai computati i danni che la permanenza di questo materiale sulla terra comporta.
C’è da fare un’ulteriore considerazione sul problema dei rifiuti, cioè che il ricorso a discariche o agli stessi inceneritori comporta uno spreco di tutto il valore energetico e di tutti i materiali utili che essi contengono. E’ provato, ad esempio, che produrre alcuni materiali come rame e alluminio da materiali riciclati comporta un abbattimento delle spese di produzione che può arrivare ad oltre il 90%. Questo fa sì che nei paesi periferici le discariche diventino una vera fonte di sussistenza per migliaia e migliaia di persone che hanno abbandonato le campagne ma che non riescono a integrarsi nel tessuto economico delle città. Si cerca tra i rifiuti qualunque cosa possa essere rivenduto:
“Sono sorte così vere e proprie “città discariche”. Quelle africane della baraccopoli di Korogocho a Nairobi - più volte descritta da padre Zanotelli - e quelle meno note di Kigali in Rwanda; ma anche nello Zambia, dove il 90 per cento di spazzatura non viene raccolto e si accumula nelle strade, mentre la discarica di Olososua, in Nigeria, accoglie ogni giorno oltre mille camion di rifiuti. In Asia, a Manila, è tristemente famosa Payatas a Quezon City, una baraccopoli dove vivono oltre 25 mila persone: è sorta sul pendio di una collina di rifiuti, la “montagna fumante” dove adulti e bambini si contendono materiali da rivendere. Ma c’è anche Paradise Village che non è un villaggio turistico, bensì una bidonville cresciuta sopra un acquitrino dove gli allagamenti sono puntuali come le piogge monsoniche. E poi “Dumpsite Catmon”, la discarica sulla quale si è sviluppata la baraccopoli che sovrasta Paradise Village. In Cina, a Pechino, le discariche sono abitate da migliaia di persone che riciclano rifiuti illeciti, mentre l’India con i suoi slums metropolitani è il paese più densamente popolato dai “sopravvissuti dei rifiuti”.[11]
1.3 La diffusione dei contaminanti
I contaminanti sono sostanze, naturali o sintetiche, che risultano tossiche per l’uomo e/o per il mondo vivente. A parte le sostanze naturalmente presenti da sempre sul nostro pianeta e usate in vario modo nella tecnologia industriale, tra cui i metalli pesanti, l’amianto, ecc., di sostanze tossiche l’industria chimica ne ha prodotte a diecine di migliaia e in quantità … industriali. La mancanza di conoscenze sulla pericolosità di tutta una serie di sostanze ma soprattutto il cinismo della produzione capitalista ha prodotto disastri inimmaginabili producendo una situazione ambientale che sarà veramente difficile rimettere in sesto una volta estromessa la classe dominante attuale.
Uno degli episodi tra i più catastrofici dell’industria chimica è stato senz’altro quello di Bhopal, in India, avvenuto nella notte tra il 2 e il 3 dicembre 1984 nella fabbrica della Union Carbide, multinazionale chimica americana. Una nube tossica di 40 tonnellate di pesticidi uccise, alcune subito, altre negli anni successivi, almeno sedicimila persone e segnò per la vita con danni pesantissimi un altro mezzo milione di persone. Le indagini successive hanno poi appurato che, contrariamente a quanto era presente nell’impianto gemello collocato in Virginia, in quello di Bhopal non c’erano misuratori di pressione, sistemi di refrigerazione, la torre di raffreddamento era temporaneamente chiusa e che era noto ai dirigenti della compagnia che i sistemi di sicurezza erano inadeguati per un impianto di quelle dimensioni. Ma la verità è che l’impianto indiano, condotto con mano d’opera a bassissimo prezzo, era per gli americani un investimento a tutto tondo con ricavi eccezionali visto il ridotto investimento di capitali fissi e variabili …
Altro episodio storico è poi quello dell’esplosione della centrale nucleare di Chernobyl del 1986.
“È stato stimato che il rilascio di radioattività dal reattore n.4 di Chernobyl sia stato circa 200 volte superiore alle esplosioni di Hiroshima e Nagasaki messe insieme. In tutto, sono state seriamente contaminate aree in cui vivono 9 milioni di persone tra Russia, Ucraina e Bielorussia, dove il 30 per cento del territorio è contaminato dal cesio-137. Nei tre paesi circa 400 mila persone sono state evacuate, mentre altre 270 mila vivono in aree in cui vigono restrizioni all’uso del cibo prodotto localmente.”[12]
Ovviamente resta la miriade di disastri ambientali prodotti dalla cattiva gestione di impianti o da incidenti, come le innumerevoli dispersioni di greggio in mare, tra cui quello provocato dalla petroliera Exxon Valdez il 24 marzo 1989 che, incagliatasi sulla costa dell’Alaska, provocò la fuoriuscita di almeno 30.000 tonnellate di petrolio, o ancora la prima guerra del Golfo conclusasi con i vari pozzi petroliferi in fiamme e con un disastro ecologico prodotto da dispersione di petrolio nel golfo persico che è a tutt’oggi il più grave della storia. Più in generale si pensi che, secondo la U.S. National Academy of Sciences, la quantità di idrocarburi che si perde ogni anno in mare si aggirerebbe su una media di 3-4 milioni di tonnellate, con tendenza ad aumentare nonostante i vari interventi preventivi a causa del continuo incremento dei consumi.
Ma, al di là dei contaminanti che, per le dosi a cui si trovano nell’ambiente, provocano un’intossicazione acuta, non bisogna sottovalutare un altro meccanismo di intossicazione, più lento e più subdolo, che è quello dell’intossicazione cronica. Infatti un tossico assorbito lentamente e a piccole dosi, se chimicamente stabile, si può accumulare progressivamente negli organi e tessuti di un organismo vivente fino a raggiungere concentrazioni tali da risultare letale. Questo è quello che, dal punto di vista eco-tossicologico, prende il nome di bioaccumulo. Esiste poi un altro meccanismo che prende il nome di biomagnificazione e che corrisponde al fatto che un tossico si possa trasmettere, attraverso la rete alimentare, da stadi trofici inferiori a stadi trofici superiori, aumentando ogni volta la propria concentrazione di due o tre ordini di grandezza.
Per capire questo fenomeno la cosa migliore è riferirsi immediatamente ad un caso reale che si è verificato nel 1953 nella baia di Minamata, in Giappone, dove viveva una povera comunità di pescatori che si alimentavano essenzialmente del pesce da loro stessi pescato. Nelle prossimità di quella baia esisteva un insediamento industriale che produceva acetaldeide, un composto chimico di sintesi per la cui preparazione era necessario l’uso di un derivato del mercurio. Gli scarichi a mare di questa industria comportavano anche una leggera contaminazione da mercurio, che però era dell’ordine di grandezza di 0,1 microgrammi per litro di acqua marina, ovvero una concentrazione che, con le strumentazioni ben più sofisticate oggi disponibili, si prova ancora difficoltà a determinare. Quale fu la conseguenza di questa contaminazione apparentemente appena percettibile? 48 persone morirono in pochi giorni, 156 rimasero intossicati con gravi conseguenze, i gatti dei pescatori, che si erano essi stessi cibati a lungo degli avanzi di pesce, finirono “suicidi” a mare, assumendo un comportamento del tutto inusuale per un felino. Cosa era successo? Il mercurio presente nelle acque del mare era stato assorbito e organicato dal fitoplancton, poi successivamente si era trasferito da questo allo zooplancton, poi ancora ai piccoli molluschi, successivamente ai pesci di taglia piccola e media, seguendo sempre le linee di sviluppo della rete trofica in cui lo stesso materiale contaminante, chimicamente indistruttibile, si trasmetteva nel nuovo organismo ospite ad una concentrazione crescente ed inversamente proporzionale al rapporto tra la taglia del predatore e la massa di alimento predato nella propria vita. Così si scoprì che nei pesci questo metallo era arrivato alla concentrazione di 50 milligrammi per ogni kilogrammo, cioè si era concentrato di ben 500.000 volte, ed ancora che in alcuni pescatori colti dalla “sindrome di Minamata”, nei cui organismi si era prodotto un ulteriore incremento di concentrazione, era stata riscontrata una concentrazione che superava il mezzo grammo di mercurio per ogni chilo di capelli.
Nonostante il fatto che dall’inizio degli anni ’60 il mondo scientifico fosse consapevole del fatto che, nei confronti delle sostanze tossiche, non è affatto sufficiente un’azione di diluizione in natura perché, come mostrato, i meccanismi biologici sono capaci di concentrare quello che l’uomo diluisce, l’industria chimica ha continuato e continua ancora a contaminare in lungo e in largo il nostro pianeta, e stavolta senza neanche più la scusa che “non si sapeva quello che sarebbe potuto succedere …”.
Così una seconda Minamata si produce in anni molto più recenti a Priolo, in Sicilia (Italia), in una striscia di terra avvelenata che ospita nel raggio di pochi chilometri ben cinque raffinerie, dove viene accertato che l’Enichem scarica illegalmente mercurio dall’impianto di produzione elettrolitica di cloro e soda. Tra il 1991 e il 2001 circa 1000 bambini nascono con gravi handicap mentali e forti malformazioni sia al cuore che all’apparato urogenitale, famiglie intere vengono stroncate da tumori e numerose donne disperate sono costrette ad abortire per liberarsi dei figli-mostri che avevano concepito. Eppure l’episodio di Minamata aveva già mostrato tutti i rischi del mercurio sulla salute umana! Quella di Priolo non è più dunque una distrazione, un tragico errore, ma un atto di banditismo vero e proprio perpetrato dal capitalismo italiano, anzi proprio da quel capitalismo “statale” che alcuni vorrebbero più “di sinistra” rispetto a quello privato. Nella realtà si è scoperto che la dirigenza dell’Enichem agiva come la peggiore ecomafia: per risparmiare i costi dello smaltimento (si parla di diversi milioni di euro risparmiati) i rifiuti contenenti mercurio venivano miscelati con altri liquami e gettati in mare, nei tombini oppure sotterrati; inoltre si producevano certificati falsi, si utilizzavano cisterne con doppi fondi per camuffare il traffico di rifiuti pericolosi, e così via. Quando finalmente la magistratura si è messa in moto arrestando la dirigenza dell’industria, la responsabilità è stata così palese che l’Enichem si è decisa a rimborsare le famiglie colpite con 11 milioni di euro, una cifra equivalente a quella che avrebbe dovuto pagare in caso di condanna da parre del tribunale.
Ma al di là delle fonti di contaminazione puntuali, è tutta la società che, per come funziona oggigiorno, produce continuamente contaminanti che vanno ad accumularsi nell’aria, nelle acque e nei terreni e - come già detto - in tutta la biosfera, compresi noi umani. L’uso massiccio di detergenti e altri prodotti hanno condotto a fenomeni di eutrofizzazione di fiumi, laghi e mari. Negli anni ’90, per ogni anno, il Mare del Nord ha ricevuto 6.000-11.000 tonnellate di piombo, 22.000-28.000 t di zinco, 4.200 t di cromo, 4.000 t di rame, 1450 t di nickel, 530 t di cadmio, 1.5 milioni di tonnellate di azoto combinato ed oltre 100.000 t di fosfato. Questi scarichi così ricchi di materiali inquinanti sono particolarmente pericolosi proprio in mari caratterizzati da estesa platea continentale (ovvero poco profondi anche al largo), come appunto il mare del Nord, ma anche il Baltico, l’Adriatico settentrionale, il Mar Nero, perché la scarsa massa di acqua marina, oltre alla difficoltà di miscelamento tra le acque dolci di fiume e quelle saline e più dense del mare, non permette un’opportuna diluizione della contaminazione.
Ancora prodotti di sintesi come lo storico insetticida DDT, messo fuori legge nei paesi industrializzati ormai da una trentina di anni, o ancora i PCB, policlorobifenili, usati una volta nell’industria elettrica ed anch’essi ormai fuori produzione perché proibiti dalla normativa attuale, entrambi di una solidità chimica indescrivibile, si ritrovano attualmente inalterati un po’ dappertutto, nelle acque, nei terreni e … nei tessuti degli organismi viventi. Grazie sempre alla biomagnificazione questi materiali si sono a volte concentrati pericolosamente in alcune specie animali provocandone una forte moria o il declino della popolazione per danni importanti all’apparato riproduttivo degli animali. Naturalmente va preso in considerazione in questo ambito quanto abbiamo riportato più sopra a proposito dei traffici di rifiuti pericolosi che, collocati spesso in maniera abusiva in luoghi privi di ogni protezione per le matrici ambientali, provocano dei danni incalcolabili all’ecosistema e a tutta la popolazione della zona.
Per chiudere con questo argomento - ma in tutta evidenza ci sarebbe ancora da riportare le centinaia e centinaia di casi reali che si presentano a livello mondiale – c’è ancora da ricordare che proprio questa contaminazione diffusa del territorio sta portando ad un fenomeno nuovo e drammatico: la creazione di aree della morte, come appunto in Italia il triangolo tra Priolo, Melilli e Augusta in Sicilia - una zona dove la percentuale di bambini con gravi malformazioni congenite è quattro volte superiore alla media nazionale - o ancora l’altro triangolo della morte vicino Napoli, tra Giugliano, Qualiano e Villaricca, dove l’incidenza di casi di tumore è decisamente superiore alla media nazionale.
1.4 L’esaurimento delle risorse naturali e/o la loro compromissione per contaminazione
L’ultimo esempio di fenomeno globale che sta portando il mondo verso la catastrofe è quello relativo alle risorse naturali, che si stanno in parte esaurendo e in parte compromettendo per problemi di contaminazione. Prima di sviluppare in dettaglio questo argomento vogliamo far presente che problemi di questo tipo, in scala ridotta, il genere umano li ha già incontrati, e con conseguenze catastrofiche. Se oggi siamo qui a raccontarne una è solo perché la regione interessata dal collasso è solo una piccola parte della terra. Riportiamo qui di seguito alcuni passaggi tratti da un saggio di Jared Diamond, Collasso, relativi alla storia di Rapa Nui, l’Isola di Pasqua, terra famosa per le grandi statue di pietra. Come è noto l’isola fu scoperta dall’esploratore olandese Jacob Roggeveen il giorno di Pasqua del 1722 (da cui il nome) ed è stato ormai accertato scientificamente che l’isola “era ricoperta da una fitta foresta subtropicale ricca di grossi alberi e arbusti legnosi” e che era ricca di uccelli e selvaggina. Ma all’arrivo dei colonizzatori l’impressione fu tutt’altra:
“Roggeveen si scervellava per capire come fossero state erette quelle enormi statue. Per citare ancora una volta il suo diario: “Le immagini di pietra ci fecero grande meraviglia, perché non riuscivamo a capire come questo popolo, sprovvisto di legno spesso e robusto necessario alla costruzione di un qualsiasi strumento meccanico, e completamente privo di funi resistenti, fosse stato capace di erigere tali effigi alte 9 metri (…). All’inizio, da una certa distanza, avevamo creduto che l’isola di Pasqua fosse un deserto, poiché avevamo scambiato per sabbia la sua erba ingiallita, il fieno e gli arbusti inariditi e bruciati (…)”. Che cosa era accaduto a tutti gli alberi che un tempo dovevano esserci stati? Per scolpire, trasportare e innalzare le statue ci volevano molti uomini, che dunque dovevano vivere in un ambiente sufficientemente ricco da poterli sostenere. (…) La storia dell’isola di Pasqua è il caso più eclatante di deforestazione mai verificatosi nel Pacifico, se non nel mondo intero: tutti gli alberi sono stati abbattuti e tutte le specie arboree si sono estinte”.[13]
“La deforestazione iniziò da subito, raggiunse il suo culmine nel 1400, e si completò, in varie date, da zona a zona, concludendosi alla fine del XVII secolo. Le conseguenze immediate furono la perdita di materie prime per la costruzione di moai (le grandi statue, ndr) e di canoe per la navigazione in alto mare. Dal 1500, privi di canoe, gli abitanti dell’isola non poterono più cacciare delfini e tonni.
La deforestazione impoverì l’agricoltura esponendo il suolo all’azione corrosiva e depauperante del vento e della pioggia, eliminando altresì il concime frutto delle foglie e dei frutti degli alberi.
La mancanza di proteine animali e la riduzione della terra coltivabile portò ad un’estrema pratica di sopravvivenza: il cannibalismo. Nelle tradizioni orali dei suoi abitanti compariva spesso il richiamo a questo modo di alimentarsi. L’insulto tipico fatto ad un nemico era: “Mi è rimasta tra i denti la carne di tua madre”.[14]
“Per il loro completo isolamento, gli abitanti di Pasqua costituirono un chiaro esempio di società che si auto distrusse attraverso lo sfruttamento eccessivo delle sue risorse. (…) I paralleli che si possono tracciare tra l’isola di Pasqua e il mondo moderno sono così ovvi da apparirci agghiaccianti. Grazie alla globalizzazione, al commercio internazionale, agli aerei a reazione e a Internet, tutti i paesi sulla faccia della terra condividono, oggi, le loro risorse e interagiscono, proprio come i dodici clan dell’isola di Pasqua, sperduti nell’immenso Pacifico come la Terra è sperduta nello spazio. Quando gli indigeni si trovarono in difficoltà, non poterono fuggire né cercare aiuto al di fuori dell’isola, come non potremmo noi, abitanti della Terra, cercare soccorso altrove, se i problemi dovessero aumentare. Il crollo dell’isola di Pasqua, secondo i più pessimisti, potrebbe indicarci il destino dell’umanità nel prossimo futuro”.[15]
Questa premessa recuperata per intero dal saggio di Diamond ci ammonisce sul fatto che la capacità dell’ecosistema Terra non è illimitata e che, come ad un certo punto si è verificato per l’isola di Pasqua in scala ridotta, qualcosa di simile può riprodursi nel prossimo futuro se l’umanità non saprà amministrare adeguatamente le sue risorse.
In verità esiste un parallelo immediato che potremmo fare proprio a livello di deforestazione, che è andata avanti dalle origini delle civiltà primitive ad oggi a livello serrato e che sciaguratamente continua ad andare avanti distruggendo i polmoni verdi residuali della Terra, come la foresta amazzonica. Come è noto, mantenere queste parti verdi sulla superficie terrestre è importante non solo per preservare una serie di specie animali e vegetali, ma anche per assicurare un adeguato equilibrio tra biossido di carbonio ed ossigeno (la vegetazione si sviluppa appunto consumando CO2 e producendo glucosio ed ossigeno).
Come abbiamo già visto rispetto al caso della contaminazione da mercurio, la borghesia è consapevole dei rischi che corre su questi piani, come dimostrato dal nobile intervento di uno scienziato del secolo 19°, Rudolf Julius Emmanuel Clausius, che sul problema dell'energia e delle risorse si era espresso in maniera molto chiara, anticipando di ben oltre un secolo i cosiddetti discorsi sulla sostenibilità ambientale: “Nell’economia di una nazione c’è una legge di validità generale: non bisogna consumare in ciascun periodo più di quanto è stato prodotto nello stesso periodo. Perciò dovremmo consumare tanto combustibile quanto è possibile riprodurre attraverso la crescita degli alberi.”[16]
Ma a giudicare da quanto sta avvenendo oggi possiamo dire che si sta facendo giusto l’opposto di quanto raccomandava Clausius e stiamo andando dritto nella direzione fatale dell’isola di Pasqua.
Per affrontare adeguatamente il problema delle risorse occorre tenere presente anche un’altra variabile fondamentale, che è quella della variazione della popolazione mondiale:
“Fino al 1600 la crescita della popolazione mondiale era così lenta da far registrare un aumento del 2-3% per ogni secolo: furono necessari ben 16 secoli perché dai 250 milioni di abitanti all'inizio dell'era cristiana si passasse a circa 500 milioni di abitanti. Da questo momento in poi il tempo di raddoppio della popolazione è andato sempre diminuendo tanto che, oggi, in alcuni Paesi del mondo ci si avvicina al cosiddetto "limite biologico" nella velocità di crescita di una popolazione (3-4% l'anno). Secondo l’ONU si supereranno gli otto miliardi di abitanti intorno al 2025 (…).
Bisogna considerare le notevoli differenze che, attualmente, si registrano fra Paesi avanzati, arrivati quasi al "punto zero" della crescita, e Paesi in via di sviluppo che contribuiscono al 90% dell'incremento demografico odierno. (…) Nel 2025, secondo le previsioni dell'ONU, la Nigeria ad esempio, avrà una popolazione superiore a quella degli Stati Uniti e l'Africa supererà di tre volte l'Europa per numero di abitanti. Il sovrappopolamento, unito ad arretratezza, analfabetismo e mancanza di adeguate strutture igienico-sanitarie, costituisce sicuramente un grave problema non solo per l'Africa a causa delle inevitabili conseguenze di tale fenomeno a livello mondiale. Si verifica, infatti, uno squilibrio tra domanda e offerta di risorse disponibili, dovuto anche all'utilizzo di circa l'80% delle risorse energetiche mondiali da parte dei Paesi industrializzati.
Il sovrappopolamento comporta un forte abbassamento del tenore di vita in quanto diminuisce la produttività per addetto e la disponibilità pro capite di generi alimentari, acqua potabile, servizi sanitari e cure mediche. La forte pressione antropica in atto sta portando ad un degrado ambientale che, inevitabilmente, si ripercuote sugli equilibri dell'intero sistema Terra.
Lo squilibrio, negli ultimi decenni, si sta accentuando: la popolazione continua non solo a crescere in modo non omogeneo ma si addensa sempre più nelle aree urbane.”[17]
Come si vede da queste brevi notizie, l’incremento della popolazione non fa che acuire il problema dell’esaurimento delle risorse, anche perché, come indicato dallo stesso documento, questa carenza si avverte soprattutto dove è più forte l’esplosione demografica, con scenari per il futuro che disegnano crescenti calamità di massa.
Cominciamo dunque a esaminare la prima risorsa naturale per eccellenza, l’acqua, un bene così universalmente necessario e così fortemente compromesso oggi dall’azione irresponsabile del capitalismo.
L’acqua è una sostanza che si trova abbondante sulla superficie terrestre (si pensi solo agli oceani, le calotte polari, le acque sotterranee e quelle superficiali), ma solo una parte molto piccola è adatta all’uso potabile, quella che si trova confinata nelle falde sotterranee e alcune acque di corsi d’acqua incontaminati. Purtroppo lo sviluppo di attività industriali condotte senza alcun rispetto per l’ambiente e lo scarico diffuso di reflui urbani hanno contaminato porzioni consistenti di falde acquifere, che sono il deposito naturale delle acque potabili della collettività. Ciò ha condotto, da una parte, all’insorgenza di tumori e patologie di varia natura nelle popolazioni, dall’altra alla riduzione crescente delle fonti di approvvigionamento di questo bene così prezioso.
“Entro la metà del XXI secolo, secondo la più pessimistica delle previsioni, sette miliardi di persone in 60 paesi non avranno acqua a sufficienza. Se le cose dovessero andare invece per il meglio, saranno “solo” due miliardi di persone in 48 paesi a soffrire della penuria d’acqua. (…) Ma i dati più preoccupanti del documento dell’Onu sono probabilmente quelli sulle morti per l’acqua inquinata e le cattive condizioni igieniche: 2,2 milioni all’anno. L’acqua è inoltre il vettore di molte malattie, fra le quali la malaria, che uccide ogni anno circa un milione di persone.”[18]
La rivista scientifica inglese New Scientist, riportando i risultati del simposio sull’acqua di Stoccolma dell’estate del 2004, ha riferito che: “Nel passato sono stati impiantati decine di milioni di questi pozzi, molti senza alcun controllo, e le quantità d'acqua estratte dalle potenti pompe elettriche sono di gran lunga superiori all'acqua piovana che va a riempire le falde (…) L’estrazione di acqua consente a molti paesi abbondanti raccolte di riso e zucchero di canna (sementi che hanno un estremo bisogno di acqua per poter crescere, ndr), ma il boom è destinato ad una vita breve. (…) L’India è l’epicentro della rivoluzione degli emungimenti. Usando la tecnologia dell’industria estrattiva petrolifera, i piccoli coltivatori agricoli hanno scavato 21 milioni di pozzi nei loro campi, ed ogni anno il numero di pozzi aumenta di circa un altro milione. (…) In Cina: nelle pianure del nord, dove si produce la maggior quantità di prodotti agricoli, ogni anno i coltivatori estraggono 30 km cubi di acqua in più di quelli portati dalle piogge. (…). Nell’ultima decade il Vietnam ha quadruplicato il numero di pozzi, toccando quota 1 milione. Nel Punjab, regione del Pakistan dove si produce il 90% delle risorse alimentari del paese, le falde freatiche si stanno prosciugando”.[19]
Se dunque la situazione è in generale grave, anche molto grave, nei paesi cosiddetti emergenti come India e Cina la situazione è catastrofica e rischia di arrivare al collasso a breve:
“La siccità che attanaglia la provincia di Sichuan e Chongqing ha causato perdite economiche per almeno 9,9 miliardi di yuan e fa scarseggiare l'acqua da bere per oltre 10 milioni di persone, mentre nell'intera nazione almeno 18 milioni hanno carenza d'acqua.”[20]
“La Cina è colpita dalle peggiori inondazioni degli ultimi anni, con 60 milioni di persone colpite nella Cina centrale e meridionale, almeno 360 morti e perdite economiche dirette già pari a 7,4 miliardi di yuan, 200mila case distrutte o danneggiate, 528mila ettari di terre agricole distrutte e altri 1,8 milioni sommersi. Intanto avanza veloce la desertificazione, che copre un quinto delle terre e provoca tempeste di sabbia che arrivano fino al Giappone. (…) Se la Cina centrale e meridionale soffrono di inondazioni, a nord continua ad espandersi il deserto, che ormai copre un quinto delle terre, lungo il corso superiore del Fiume Giallo, sull’altopiano del Qinghai-Tibet e in parte della Mongolia interna e del Gansu.
La Cina ha il 20% circa della popolazione mondiale, ma solo il 7% della terra coltivabile.
Secondo Wang Tao, membro dell’Accadenia cinese delle scienze a Lanzhou, nell’ultimo decennio i deserti cinesi sono aumentati di 950 chilometri quadrati ogni anno. Ogni primavera le tempeste di sabbia flagellano Pechino e l’intera Cina settentrionale e giungono fino a Corea del Sud e Giappone.”[21]
Tutto questo ci deve fare riflettere sulla decantata forza del capitalismo cinese. In realtà il recente sviluppo dell’economia cinese, piuttosto che dare vigore ed energia al capitalismo mondiale senescente, esprime piuttosto l’orrore della sua agonia, con le sue città devastate dallo smog a stento mascherato nelle recenti olimpiadi, con i corsi d’acqua prosciugati e contaminati e con le mattanze quotidiane di operai che vengono falcidiati a migliaia nelle miniere e nelle fabbriche da condizioni di lavoro incredibilmente dure e prive di qualunque requisito di sicurezza.
Tante altre sono le risorse in via di esaurimento e, in chiusura di questo primo articolo, faremo solo un rapido accenno a due di queste.
La prima è quasi scontata e obbligata: il petrolio. Come è noto è dagli anni ’70 che si parla dell’esaurimento delle scorte naturali di petrolio ma adesso, anno 2008, sembra che siamo veramente arrivati al picco di produzione di petrolio, il cosiddetto picco di Hubbert, ovvero il momento in cui avremmo già esaurito e consumato la metà delle risorse naturali di petrolio previste dalle varie prospezioni geologiche. Il petrolio rappresenta oggi quasi il 40% dell'energia primaria generata e circa il 90% dell’energia usata nei trasporti; importanti sono anche le sue applicazioni nell'industria chimica, in particolare quella dei fertilizzanti per l'agricoltura, nonché plastiche, colle,vernici, lubrificanti, detersivi. Tutto questo è stato possibile perché il petrolio ha costituito una risorsa a basso costo e apparentemente senza limiti. Ma adesso che la carenza di petrolio ne fa aumentare vertiginosamente il prezzo, il mondo capitalista si volge verso delle alternative meno onerose. Ma, ancora una volta, l’invito di Clausius a non consumare in una generazione più di quello che la natura è capace di riprodurre resta senza ascolto e il mondo capitalista è proiettato in una corsa folle ai consumi di energia dove paesi come la Cina e l’India la fanno da padroni, bruciando tutto quello che c’è da bruciare, tornando al tossico carbon fossile, pur di creare energia, e producendo tutto intorno una contaminazione senza precedenti.
Naturalmente anche il ricorso miracoloso al cosiddetto biodiesel ha fatto il suo tempo e ha mostrato tutte le sue insufficienze. Produrre combustibile dalla fermentazione alcolica di amido di mais o da prodotto vegetali oleaginosi non solo non riesce a coprire l’esigenza di combustibile che richiede il mercato oggi ma soprattutto innesca un rialzo dei prezzi alimentari che porta ad affamare le popolazioni povere contadine. Il vantaggio, ancora una volta, è delle singole aziende capitaliste, come quelle alimentari che si stanno riconvertendo verso il business dei biocarburanti. Ma per i poveri mortali questo significa solo che vasti tratti di foresta vengono abbattuti per fare posto alle piantagioni (milioni e milioni di ettari). Infatti la produzione di biodiesel comporta l’utilizzazione di grandi distese di terreno. Per avere un’idea del problema basti pensare che un ettaro di terra coltivata a colza o girasole o altri semi oleaginosi produce circa 1000 litri di biodiesel, che sono in grado di far marciare un automezzo per circa 10.000 km. Se ipotizziamo che in media le automobili di un certo paese sviluppano un chilometraggio di 10.000 km per anno, ogni singola automobile consuma tutto il biodiesel prodotto da 1 ettaro di terreno. Ciò comporta che un paese come l’Italia, dove circolano 34 milioni di autovetture, se volesse recuperare il suo combustibile per autotrazione dall’agricoltura, avrebbe bisogno di una superficie coltivabile di 34 milioni di ettari. Se alle auto aggiungiamo i circa 4 milioni di camion, che hanno motori più grossi e fanno almeno 10 volte più Km/anno, si ha un consumo almeno doppio, arrivando ad impegnare una superficie di circa 70 milioni di ettari, che corrisponde a una superficie grande quasi due volte e mezzo la penisola italiana, comprese le montagne, le città, ecc. ecc.
Anche se non se ne parla allo stesso modo, un problema analogo a quello dei combustibili fossili si pone, naturalmente, per qualunque altra risorsa di tipo minerale, ad esempio per quei minerali da cui si estraggono metalli. E’ vero che, in questo caso, il metallo non viene distrutto dall’uso, come succede per il petrolio o il gas metano, ma l’incuria della produzione capitalista finisce per disperdere sulla superficie della terra e dentro le discariche quantitativi significativi di metalli, con la conseguenza che la disponibilità di questi materiali va anch’essa, prima o dopo, verso l’esaurimento. Tra l’altro l’uso di certi materiali in leghe o in materiali poliaccoppiati rende ancora più ardua l’impresa di un eventuale recupero del singolo materiale “puro”.
Per avere un’idea del problema si pensi che, entro pochi decenni, risulteranno quasi esaurite le seguenti risorse: uranio, platino, oro, argento, cobalto, piombo, manganese, mercurio, molibdeno, nichel, stagno, tungsteno e zinco. Come si vede si tratta di materiali praticamente indispensabili alla moderna industria e la cui carenza peserà gravemente sul prossimo futuro. Ma anche altri materiali non sono inesauribili: si calcola che vi siano disponibili ancora (nel senso di economicamente convenienti da estrarre): 30 miliardi di tonnellate di ferro, 220 milioni di tonnellate di rame, 85 milioni di tonnellate di zinco. Per avere un’idea delle quantità basti pensare che per portare i paesi poveri al livello dei paesi avanzati occorrerebbero rispettivamente 30 miliardi di tonnellate di ferro, 500 milioni di tonnellate di rame, 300 milioni di tonnellate di zinco, cioè decisamente di più di quanto tutto il pianeta Terra potrebbe offrire.
Di fronte a questa catastrofe annunciata c’è da chiedersi se progresso e sviluppo si debbano coniugare necessariamente con inquinamento e sconvolgimento dell’ecosistema Terra. C’è da chiedersi se tali disastri siano da attribuire alla cattiva educazione degli uomini o se siano da attribuire ad altro. E’ quanto vedremo appunto nel prossimo articolo.
14 agosto 2008 Ezechiele
[1] Rivoluzione comunista o distruzione dell’umanità, Manifesto adottato dal IX Congresso della CCI di luglio 1991 (Revue Internationale n° 67, ott.-dic. 1991).
[2] G. Barone et al., Il metano e il futuro del clima, in Biologi Italiani, n°8 del 2005.
[3] idem
[4] G. Pellegri, Terzo mondo: nuova pattumiera creata dal buonismo tecnologico [68].
[5]Vivere di rifiuti
[6] Roberto Saviano, Gomorra, viaggio nell'impero economico e nel sogno di dominio della camorra, Arnoldo Mondadori Editore, 2006
[7] La Repubblica on-line, 29/10/07
[8] La Repubblica, 6/02/08. In the USA alone every year more than 100 billion plastic bags are used, 1.9 million tons of oil are needed to produce them, most of them end up being thrown away, they take years before being decomposed. The US- production of some 10 billion paper bags requires the chopping of some 15 million trees alone.
[9] Vedi l’articolo: Mediterraneo, un mare di plastica, da La Repubblica del 19 luglio 2007.
[10] Non è escluso naturalmente che il rincaro vertiginoso del petrolio, a cui stiamo assistendo dalla fine dell’anno scorso, non metta in discussione l’uso di questa materia prima per la produzione di plastiche sintetiche non biodegradabili, inducendo nel prossimo futuro un processo di conversione alla nuova fede ecologica da parte di attenti imprenditori, attenti ancora una volta a salvaguardare i propri interessi!
[11] R. Troisi, Le discarica del mondo luogo di miseria e di speranza nel ventunesimo secolo.
[12] Vedi l’articolo “Alcuni effetti collaterali dell’industria. La Chimica, la diga, il nucleare”
[13] Jared Diamond, Collasso, edizioni Einaudi.
[14] “Ancora su petrolio e capitalismo” dalla redazione dell’Archivio Storico della Nuova Sinistra “Marco Pezzi” [69]
[15] Jared Diamond, Collasso, edizioni Einaudi.
[16] R.J.E. Clausius (1885), nato a Koslin (Prussia, ora Polonia) nel 1822 e morto a Bonn nel 1888.
[17] Associazione Italiana Insegnanti Geografia, La crescita della popolazione, in
[18] G. Carchella, Acqua: l’oro blu del terzo millennio, su “Lettera22, associazione indipendente di giornalisti”.
[19] Asian farmers sucking the continent dry [70], 28 agosto 2004, su Newscientist,
[20] PB, Cina: oltre 10 milioni di persone assetate dalla siccità, su Asianews, www.asianews.it/index.php?l=it&art=6977 [71]
[21] La Cina stretta tra le inondazioni e il deserto che avanza, 18/08/2006, su Asianews, www.asianews.it/index.php?l=it&art=9807 [72]
20 anni fa si è verificato uno degli avvenimenti più importanti della seconda parte del ventesimo secolo: il crollo del blocco imperialista dell’Est e dei regimi stalinisti d’Europa, tra cui il principale era quello dell’URSS.
Questo avvenimento è stato utilizzato dalla classe dominante per scatenare una delle campagne ideologiche più massicce e pericolose che si siano mai viste contro la classe operaia. Identificando falsamente, ancora una volta, lo stalinismo che stava affondando con il comunismo, e facendo del fallimento economico e della barbarie dei regimi stalinisti la conseguenza inevitabile della rivoluzione proletaria, la borghesia mirava a deviare i proletari da ogni prospettiva rivoluzionaria e ad assestare un colpo decisivo alle lotte della classe operaia.
Avvantaggiata dall’avvenimento, la borghesia ha anche approfittato per far passare una seconda grossa menzogna: con la scomparsa dello stalinismo, il capitalismo sarebbe entrato in un’era di pace e prosperità dove alla fine avrebbe potuto veramente espandersi. L’avvenire, come veniva promesso, si annunciava radioso.
Il 6 marzo 1991, George Bush padre, presidente degli Stati Uniti d’America, forte della sua recente vittoria sull’esercito iracheno di Saddam Hussein, annunciava l’inizio di un “nuovo ordine mondiale” e l’avvento di un “mondo in cui le Nazioni unite, liberate dal vicolo cieco della guerra fredda, sono in grado di realizzare la visione storica dei loro fondatori. Un mondo in cui la libertà e i diritti dell’uomo sono rispettati da tutte le nazioni”.
Vent’anni dopo, avremmo potuto quasi riderci sopra se il disordine mondiale e la proliferazione dei conflitti ai quattro angoli del pianeta, che hanno caratterizzato il mondo dopo questo celebre discorso, non avessero sparso tanta morte e miseria. E su questo piano il bilancio diventa anno dopo anno più sempre più pesante.
Quanto alla prosperità, è del tutto fuori luogo parlarne. In effetti, dall’estate 2007 e soprattutto da quella del 2008, “al centro dei discorsi della borghesia le parole “prosperità”, “crescita” e “trionfo del liberalismo” si sono discretamente eclissate. Al tavolo del grande banchetto dell’economia capitalista si è istallato un convitato che si credeva di aver espulso per sempre. La crisi, lo spettro di una “nuova grande depressione”, simile a quella degli anni ‘30”[1]. Ieri il crollo dello stalinismo significava il trionfo del capitalismo liberale. Oggi lo stesso liberalismo viene accusato di tutti i mali dall’insieme degli specialisti e politici, compresi coloro che ne erano stati i più accaniti difensori, come il presidente francese Sarkozy!
Le date degli anniversari evidentemente non si possono scegliere e il minimo che si possa dire è che questo cade male per la borghesia. Se in questa occasione la borghesia si è astenuta deliberatamente dal tornare su “la morte del comunismo” e “la fine della lotta di classe”, non è certo perché non ne avesse la voglia, ma perché, con la situazione disastrata dell’economia capitalista che ci ritroviamo, avrebbe rischiato di svelare ancora di più e completamente l’imbroglio di questi temi ideologici.
Per questo la borghesia ci ha risparmiato dalle grandi celebrazioni del crollo dell’ “ultima tirannide mondiale”, della grande vittoria della “libertà”. Al contrario, tranne qualche evocazione storica di rigore, non c’è stata né euforia né esaltazione.
Se la storia ha fatto chiarezza riguardo alla realtà della pace e della prosperità che il capitalismo avrebbe dovuto offrirci, non è però automatico che la barbarie e la miseria attuale appaiono chiaramente agli occhi di tutti gli sfruttati come la conseguenza ineluttabile delle contraddizioni insormontabili del capitalismo. In effetti la propaganda della borghesia, orientata oggi piuttosto sulla necessità di “umanizzare” e “riformare” il capitalismo, ha per scopo di differire il più possibile la presa di coscienza di questa realtà da parte degli sfruttati. In più, la realtà ha svelato solo una parte della menzogna; l’altra parte, l’identificazione dello stalinismo con il comunismo continua ancora oggi a pesare sulla mente delle persone, anche se in modo meno massiccio e frastornante rispetto agli anni ‘90. Per questo è necessario ricordare alcuni fatti storici.
Il crollo dello stalinismo e dell’attuale recessione hanno la stessa origine: la crisi del capitalismo
“La crisi mondiale del capitalismo si ripercuote con una brutalità tutta particolare sulla loro economia [quella dei paesi dell’Est] che è, non solo arretrata, ma anche incapace di adattarsi in qualche modo all’esacerbazione della concorrenza tra capitali. Il tentativo di introdurre delle norme “classiche” di gestione capitalista, per migliorare la competitività, riesce solamente a provocare una confusione ancora più grande, come lo dimostra in URSS l’insuccesso completo e scottante della “Perestrojka”. (...) La prospettiva per l’insieme dei regimi stalinisti non è affatto una “democratizzazione pacifica” né un aggiustamento dell’economia. Con l’aggravamento della crisi mondiale del capitalismo, questi paesi sono entrati in un periodo di convulsioni di un’ampiezza sconosciuta nel loro passato pur già “ricco” di sussulti violenti”[2].
Questa situazione catastrofica dei paesi dell’Est non impedirà alla borghesia di presentarli come serbatoi dei nuovi immensi mercati da sfruttare, dal momento che vanno ad essere liberati completamente del giogo del “comunismo”. A tale scopo bisognava sviluppare un’economia moderna che, in più, avesse la virtù di riempire per decenni i taccuini delle commesse delle imprese occidentali. La realtà è stata tutt’altra: c’era sicuramente molto da costruire, ma nessuno per pagare.
L’atteso boom dell’Est, dunque, non ci sarà. Anzi, le difficoltà economiche che appaiono all’Ovest vengono messe in conto, senza alcuno scrupolo, alla necessaria assimilazione dei paesi arretrati del vecchio blocco dell’Est. E’ così anche per l’inflazione che diventava difficilmente governabile in Europa. La situazione non tarda a sfociare, dal 1993, in recessione aperta sul vecchio continente[3]. La nuova configurazione del mercato mondiale, con l’integrazione completa dei paesi dell’Est, non cambia assolutamente niente alle leggi fondamentali che reggono il capitalismo. In particolare, l’indebitamento ha continuato ad occupare sempre di più un posto importante nel finanziamento dell’economia, rendendola sempre più fragile di fronte alla minima destabilizzazione. Le illusioni della borghesia ancora persistenti svaniscono velocemente di fronte alla dura realtà economica del suo sistema. Nel dicembre 1994 il Messico scricchiola di fronte all’afflusso degli speculatori che l’Europa in crisi aveva messo in fuga: il Peso crolla e rischia di trascinarsi dietro una gran parte delle economie del continente americano. La minaccia è reale e ben compresa. Una settimana dopo l’inizio della crisi, gli Stati Uniti mobilitano 50 miliardi di dollari per soccorrere la moneta messicana. All’epoca la somma sembrava strabiliante ... Vent’anni più tardi gli Stati Uniti mobiliteranno quattordici volte in più questa somma solo per la loro economia!
Dal 1997 capitombolo in Asia. Questa volta sono le monete dei paesi del Sud-est asiatico a crollare bruscamente. Queste famose Tigri e Dragoni, paesi esemplari dello sviluppo economico, vetrina di questo “nuovo ordine mondiale” dove la prosperità è accessibile anche ai più piccoli paesi, subiscono anch’essi la dura legge capitalista.
L’attrattiva per queste economie aveva nutrito una bolla speculativa che esploderà all’inizio del 1997. In meno di un anno saranno colpiti tutti i paesi della regione. 24 milioni di persone si ritrovano disoccupati nel giro di un anno. Sommosse e saccheggi si moltiplicarono causando la morte di 1200 persone. Esplose il numero dei suicidi. Dall’anno seguente si può constatare il rischio di contagio internazionale con l’apparizione di gravi difficoltà in Russia.
Il modello asiatico, la famosa “terza via”, veniva sepolto affianco al modello “comunista”. Bisognare trovare dell’altro per provare che il capitalismo è il solo creatore di ricchezza sulla terra. Questo “altro” è il miracolo economico di Internet. Poiché tutto crolla nel mondo reale, investiamo nel virtuale! Poiché prestare ai ricchi non basta più, prestiamo a quelli che ci promettono di diventare ricchi! Il capitalismo ha orrore del vuoto, soprattutto nel suo portafoglio, e quando l’economia mondiale sembra seriamente incapace di offrire profitti sempre maggiori per rispondere ai bisogni insaziabili del capitale, quando non esiste più niente di redditizio, si inventa di sana pianta un nuovo mercato. Per un po’ di tempo il sistema funziona, si moltiplicano le scommesse sul corso di azioni che non hanno più nessun legame ragionevole con la realtà. Società con milioni di perdite valgono sul mercato parecchi miliardi di dollari. La bolla si è formata, e si gonfia. La follia si impossessa di una borghesia che si illude completamente sulla durata a lungo termine della “nuova economia”, al punto da mollare la “vecchia”. Anche settori tradizionali dell’economia vi aderiscono, sperando di trovarvi la persa redditività nella loro attività storica. La “nuova economia” invade la vecchia[4], e questa la trascinerà nella sua caduta.
La caduta fa male. Il crollo di un tale dispositivo fondato su nient’altro che la fiducia reciproca tra gli attori affinché nessuno ceda, non può essere che brutale. Lo scoppio della bolla provoca perdite per 148 miliardi di dollari nelle società di settore. I fallimenti si moltiplicano, i superstiti deprezzano i loro attivi a colpi di centinaia di miliardi di dollari. Nel settore delle telecomunicazioni vengono persi almeno 500.000 posti di lavoro. La “New economy” in fin dei conti ha mostrato di non essere più fruttuosa della vecchia ed i fondi che fanno in tempo a sfuggire al marasma dovranno trovare un altro settore in cui piazzarsi.
E lo fanno nel settore immobiliare. Alla fine, dopo aver fatto prestiti a paesi che vivono al di sopra dei loro mezzi, dopo aver fatto prestiti a società costruite sul vento, a chi si può ancora prestare? La sete di profitto della borghesia non ha limiti. Oramai il vecchio adagio “non si presta che ai ricchi” è riposto definitivamente negli armadi poiché di ricchi non c’è ne sono più abbastanza. La borghesia va ad attaccarsi quindi ad un nuovo mercato... quello dei poveri. Al di là dell’evidente atteggiamento cinico, c’è anche il disprezzo totale per la vita delle persone che diventeranno prede di questi avvoltoi. I prestiti concessi sono garantiti dal valore del bene acquistato attraverso la sua intermediazione. Inoltre quando questo bene acquista valore col rialzo del mercato, si dà l’opportunità di aumentare ulteriormente i debiti delle famiglie, ponendo queste in una situazione potenzialmente disastrosa. Quando il modello crolla, come è accaduto nel 2008, la borghesia piange i propri morti, le banche d’affari ed altre società di rifinanziamento, ma dimentica i milioni di famiglie a cui è stato tolto tutto ciò che possedevano, sebbene ciò non valesse più niente, gettandole in strada o in bidonville improvvisate.
Il seguito è sufficientemente conosciuto da non doverci soffermare, se non per riassumere con una frase: una recessione aperta mondiale, la più grave dalla Seconda Guerra mondiale, che ha gettato per strada milioni di operai in tutti i paesi, e che ha determinato un aumento considerevole della miseria.
Le guerre, prima e dopo il 1990, sono il prodotto delle stesse contraddizioni del capitalismo
Naturalmente il crollo del blocco dell’Est sconvolge la configurazione imperialista. Prima di questo avvenimento il mondo era diviso in due blocchi avversi costituiti ciascuno intorno ad una potenza dirigente. Tutto il periodo seguito alla Seconda Guerra mondiale, fino al crollo del blocco dell’Est, è segnato da fortissime tensioni tra i blocchi che si celano dietro conflitti aperti tra i paesi del terzo mondo. Per citarne solamente alcuni: guerra della Corea all’inizio degli anni ‘50, guerra del Vietnam durante gli anni ‘60 e fino alla metà degli anni ‘70, guerra in Afghanistan a partire dal 1979, ecc. Il crollo dell’edificio stalinista nel 1989 è in effetti il prodotto della sua inferiorità economica e militare di fronte al blocco avversario.
Tuttavia, la scomparsa de “l’impero del male”, (il blocco russo ritenuto dalla campagna occidentale l’unico responsabile delle tensioni militari), non poteva mettere fine alle guerre. Nel gennaio 1990 la CCI sosteneva questa analisi: “La scomparsa del gendarme imperialista russo, e ciò che ne conseguirà per il gendarme americano nei confronti dei suoi principali ‘partner’ di ieri, aprono la porta allo scatenamento di tutta una serie di rivalità più locali. Queste rivalità e scontri non possono, al momento, degenerare in un conflitto mondiale (…). In compenso, a causa della scomparsa della disciplina imposta dalla presenza dei blocchi, questi conflitti rischiano di essere più violenti e più numerosi, in particolare, nelle zone dove evidentemente il proletariato è più debole”[5].
La scena mondiale non tarderà a confermare questa analisi, particolarmente con la prima Guerra del Golfo del gennaio 1991 e con la guerra nell’ex Iugoslavia a partire dall’autunno dello stesso anno. Da allora in poi, scontri sanguinosi e barbari non avranno più termine. Non potendo elencarli tutti sottolineiamo principalmente: il proseguimento della guerra nell’ex Iugoslavia che ha visto un impegno diretto, sotto l’egida della NATO, degli Stati Uniti e delle principali potenze europee nel 1999; le due guerre in Cecenia; le numerose guerre che hanno devastato il continente africano (Ruanda, Somalia, Congo, Sudan, ecc.); le operazioni militari di Israele contro il Libano e, più recentemente, contro la striscia di Gaza; la guerra in Afghanistan del 2001 tuttora in corso; la guerra in Iraq del 2003 le cui conseguenze continuano a pesare in modo drammatico su questo paese, ma anche su chi ha iniziato questa guerra, la potenza americana.
Lo stalinismo, una forma particolarmente brutale di capitalismo di Stato
Tutta la parte che segue, relativa alla denuncia dello stalinismo, fa parte di un supplemento diffuso massicciamente nel gennaio 1990 (il supplemento in questione è pubblicato integralmente nell’articolo “1989-1999: Il proletariato mondiale di fronte al crollo del blocco dell’Est e al fallimento dello stalinismo”[6]). Considerando che, 20 anni dopo, questa denuncia resta perfettamente valida, la riproduciamo senza nessuna modifica.
“E’ sulle rovine della rivoluzione d’ottobre 1917 che lo stalinismo ha consolidato il suo dominio. È grazie a questa negazione del comunismo costituito dalla teoria del “socialismo in un solo paese” che l’URSS è ridivenuta a pieno titolo uno Stato capitalista. Uno Stato in cui il proletariato sarà sottomesso, con un fucile dietro la schiena, agli interessi del capitale nazionale in nome della difesa della “patria socialista”.
Così, come l’ottobre proletario, grazie al potere dei consigli operai, aveva dato il colpo d’arresto alla Prima Guerra mondiale, così la controrivoluzione stalinista, distruggendo ogni pensiero rivoluzionario, imbavagliando ogni velleità di lotta di classe, instaurando il terrore e la militarizzazione di tutta la vita sociale, annunciava la partecipazione dell’URSS alla seconda carneficina mondiale.
Tutta l’evoluzione dello stalinismo sulla scena internazionale negli anni ‘30, di fatto, è stata marcata dai suoi mercanteggiamenti imperialistici con le principali potenze capitaliste che si preparavano, ancora una volta, a mettere a ferro e fuoco l’Europa. Dopo aver puntato su un’alleanza con l’imperialismo tedesco per contrastare ogni tentativo di espansione della Germania verso l’Est, Stalin farà un voltafaccia a metà degli anni ‘30 alleandosi con il blocco “democratico” (adesione dell’URSS nel 1934 a quella “tana di briganti” qual’era la Società delle Nazioni (SdN), patto Laval-Stalin nel 1935, partecipazione dei PC ai “fronti popolari” ed alla guerra di Spagna durante la quale gli stalinisti non esiteranno ad usare gli stessi metodi sanguinari massacrando gli operai ed i rivoluzionari che contestavano la loro politica). Alla vigilia della guerra, Stalin farà un nuovo voltafaccia barattando con Hitler la neutralità dell’URSS in cambio di un certo numero di territori, prima di raggiungere infine il campo degli “Alleati” partecipando a pieno titolo alla carneficina imperialista dove lo Stato stalinista sacrificherà, da solo, 20 milioni di vite umane. Fu questo il risultato dei sordidi maneggi dello stalinismo con i differenti squali imperialisti dell’Europa occidentale. E’ su questi mucchi di cadaveri che l’URSS stalinista ha potuto costituire il suo impero ed imporre il terrore a tutti gli Stati che cadranno, con il trattato di Yalta, sotto il suo esclusivo dominio. È grazie alla sua partecipazione all’olocausto generalizzato a fianco alle potenze imperialiste vittoriose che, col prezzo del sangue dei suoi 20 milioni di vittime, l’URSS ha potuto accedere al rango di superpotenza mondiale.
Ma se Stalin fu “l’uomo provvidenziale” grazie al quale il capitalismo mondiale ha potuto averla vinta sul bolscevismo, non è stata la tirannide di un solo individuo, per quanto paranoico fosse, ad aver messo in opera questa spaventosa controrivoluzione. Lo Stato stalinista, come ogni Stato capitalista, è diretto come dovunque dalla stessa classe dominante, la borghesia nazionale. Una borghesia che si è ricostituita, con la degenerazione interna della rivoluzione, non a partire dalla vecchia borghesia zarista eliminata dal proletariato nel 1917, ma a partire dalla burocrazia parassitaria dell’apparato di Stato con cui si è confuso sempre più, sotto la direzione di Stalin, il Partito bolscevico. È questa burocrazia del Partito-Stato che, eliminando alla fine degli anni ‘20 tutti i settori suscettibili di ricostituire una borghesia privata, ed a cui si era alleata per assicurare la gestione dell’economia nazionale (proprietari terrieri e speculatori della NEP), ha preso il controllo di questa economia. Sono queste le condizioni storiche che spiegano come, contrariamente ad altri paesi, il capitalismo di Stato in URSS abbia preso questa forma totalitaria e caricaturale. Il capitalismo di Stato è il modo in cui si esercita il dominio universale del capitalismo nel suo periodo di decadenza, dove lo Stato assicura il suo dominio su tutta la vita sociale generando dovunque strati parassitari. Ma in altri paesi del mondo capitalista, questo controllo statale sull’insieme della società non è antagonista con l’esistenza di settori privati e concorrenziali che impediscono un’egemonia totale di questi settori parassitari. In URSS, invece, la forma particolare assunta dal capitalismo di Stato si distingue per lo sviluppo estremo di questi strati parassitari generati dalla burocrazia statale e la cui sola preoccupazione non era di fare fruttare il capitale tenendo conto delle leggi del mercato, ma di riempirsi individualmente le tasche a scapito degli interessi dell'economia nazionale. Dal punto di vista del funzionamento del capitalismo, questa forma di capitalismo di Stato era dunque un’aberrazione che doveva necessariamente crollare con l’accelerazione della crisi economica mondiale. Ed è proprio questo crollo del capitalismo di Stato russo generato della controrivoluzione che ha segnato il fallimento irrimediabile di tutta l’ideologia bestiale che, per più di mezzo secolo, ha cementato il regime stalinista e fatto pesare la sua cappa di piombo su milioni di esseri umani.
Nonostante quello che dice la borghesia ed i suoi media, le mostruosità dello stalinismo non hanno nulla a che fare, né per il contenuto né per la forma, con la rivoluzione d’ottobre ‘17. Occorreva che questa crollasse perché lo stalinismo potesse imporsi. Di questa rottura radicale, di questa antinomia tra l’Ottobre e lo stalinismo, il proletariato deve prendere piena coscienza”.
Distruzione del capitalismo o distruzione dell’umanità
Il mondo somiglia sempre più ad un deserto cosparso di cadaveri, mentre miliardi di esseri umani sono in situazione di sopravvivenza. Ogni giorno, circa a 20.000 bambini muoiono di fame nel mondo, parecchie migliaia di posti di lavoro sono soppressi, lasciando altrettante famiglie nella miseria e nella disperazione; intanto quelli che hanno il “privilegio” di conservare il proprio lavoro vedono il proprio salario ridursi progressivamente.
Ecco il “nuovo ordine mondiale” promesso quasi vent’anni fa da George Bush senior. Somiglia piuttosto ad un disordine assoluto! Questo terrificante spettacolo invalida totalmente l’idea secondo la quale il crollo del blocco dell’Est avrebbe segnato “la fine della storia” (sottinteso, l’inizio della storia eterna del capitalismo), come proclamato all’epoca dal “filosofo” Francis Fukuyama. Segna piuttosto una tappa importante nella decadenza del capitalismo: scontrandosi più duramente con i suoi limiti storici, il sistema vede le sue parti più fragili crollare definitivamente. Pertanto, la scomparsa del blocco dell’Est non ha per niente sanato il sistema. I limiti sono sempre là e minacciano sempre più il cuore stesso del capitalismo. Ogni nuova crisi è più grave della precedente.
E’ per questo che la sola lezione che valga rispetto agli ultimi venti anni è proprio che non c’è alcuna speranza di pace e di prosperità nel capitalismo. La posta in gioco è, e resterà, distruzione del capitalismo o distruzione dell'umanità.
Se le campagne sulla “morte del comunismo” hanno effettivamente assestato un colpo importante alla coscienza della classe operaia, quest’ultima tuttavia non è stata sconfitta ed esiste la possibilità di recuperare il terreno perduto e di impegnarsi di nuovo in un processo di sviluppo della lotta di classe a livello internazionale. Ed infatti, dall’inizio degli anni 2000, di fronte all’usura delle campagne sulla morte del comunismo e della lotta di classe, scontrandosi con i considerevoli attacchi alle sue condizioni di vita, la classe operaia ha ripreso la strada della lotta. Questa ripresa, che mostra già da ora lo sviluppo a livello di minoranze di un processo di politicizzazione a scala internazionale, costituisce la preparazione di lotte massicce che, nel futuro, riproporranno l’unica prospettiva per il proletariato e l’umanità intera, il capovolgimento del capitalismo e l’instaurazione del comunismo.
GDS
[1] Da XVIII Congresso della CCI. Risoluzione sulla situazione internazionale [74] pubblicata su ICConline 2009.
[2] Convulsioni capitaliste e lotte operaie, 7/09/89 in Rivista Internazionale n.59, edizione trimestrale in inglese, francese e spagnolo.
[3] Vedi, tra l’altro, “La recessione del 1993 riesaminata”, Persée, rivista dell’OCSE, 1994, volume 49, n°1.
[4] Essa arriva finanche ad acquistarla: l’operazione di acquisto del società Time Warner da parte di AOL, fornitore Internet, resta un simbolo dell’irrazionalità che in questo momento si impossessa della borghesia.
[5] Dopo il crollo del blocco dell’est, stabilizzazione e caos, in Rivista Internazionale n°61.
[6] In Rivista Internazionale n°99, edizione trimestrale.
Nel primo articolo [77] di questa serie sulla questione ambientale, pubblicato sulla Rivista Internazionale n°30, abbiamo sviluppato una denuncia dello stato attuale delle cose cercando di mostrare l’entità del rischio di fronte al quale si trova l’umanità intera ed in particolare i fenomeni più laceranti che esistono a livello planetario come:
Proseguiamo adesso con questo secondo articolo in cui cercheremo di mostrare come i problemi ambientali non possano essere attribuiti a singole persone o a singole aziende che non rispetterebbero la legge - benché esistano anche chiare responsabilità personali o aziendali - ma che è il capitalismo il vero responsabile con la sua logica del massimo profitto.
Cercheremo anche di mostrare, attraverso una serie di esempi, in che modo gli stessi meccanismi specifici del capitalismo generano i problemi sul piano ecologico, indipendentemente dalla volontà del singolo capitalista. D’altra parte, l’idea correntemente diffusa secondo la quale lo sviluppo scientifico raggiunto oggi ci metterebbe sempre più al riparo dalle catastrofi naturali e concorrerebbe in maniera decisiva ad evitare problemi di natura ambientale va decisamente smentita. Mostreremo in questo stesso articolo, riportando ampie citazioni di Bordiga, come le tecnologie capitaliste moderne non siano affatto sinonimo di sicurezza e come lo stesso sviluppo della scienza e della ricerca scientifica, non essendo determinato dal soddisfacimento dei bisogni dell’umanità, ma subordinato all’imperativo capitalista della realizzazione del massimo profitto, venga prostituito alle esigenze del capitalismo e della concorrenza sul mercato e, quando necessario, della guerra. Sarà poi compito di un terzo ed ultimo articolo analizzare le risposte date dai vari movimenti di Verdi, ecologisti, ecc. per mostrare la loro totale inefficacia - malgrado tutta la buona volontà della maggior parte di chi vi milita all’interno o di chi fa semplicemente riferimento alle loro posizioni – e per affermare al contrario che l’unica soluzione possibile, dal nostro punto di vista, è la rivoluzione comunista internazionale.
Identificazione del problema e delle sue cause
Chi o cosa è responsabile dei vari disastri ambientali? La risposta a questa domanda è della più grande importanza, non solo dal punto di vista etico e morale, ma anche e soprattutto perché l’individuazione corretta o sbagliata dell’origine del problema può condurre alternativamente o alla sua corretta soluzione oppure in un vicolo cieco. Noi proveremo anzitutto a rispondere ad una serie di luoghi comuni, di false risposte, o di risposte solo parzialmente veritiere per mostrare come ognuna di esse non riesca a individuare veramente quale sia l’origine e il responsabile della crescente degradazione ambientale a cui siamo costretti ad assistere giorno dopo giorno e per mostrare invece come tale dinamica di degradazione sia essa stessa il prodotto, non volontario e cosciente, ma oggettivamente conseguente, del sistema di produzione capitalista.
Il problema c’è, ma non è così grave come si vuole far credere!
Oggi che i governi pretendono di fare a gara a chi è più “verde”, questo discorso – che è stato dominante per decenni – non è più in genere quello che si sente dalla bocca degli uomini politici. Resta tuttavia una posizione classica nel mondo dell’imprenditoria che, di fronte a qualunque pericolo derivante dall’esercizio di una certa attività e che gravi sui lavoratori, sulla popolazione o sull’ambiente, tende a minimizzare la gravità del problema semplicemente perché lavorare in condizioni di sicurezza comporta spendere di più ed estorcere meno profitto ai lavoratori. E’ quello che si vive giorno per giorno con le centinaia di morti sul lavoro che si hanno in giro per il mondo, semplice colpa della fatalità secondo gli imprenditori, mentre invece si tratta di un prodotto autentico dello sfruttamento capitalista della forza lavoro.
Il problema esiste, ma la responsabilità è sempre di qualcun altro
La grande quantità di rifiuti prodotta dalla società attuale sarebbe, secondo alcuni, il frutto del “nostro” consumismo, piuttosto che essere più correttamente interpretata come il risultato di una politica economica che, per favorire una più competitiva commercializzazione delle merci, punta da qualche decennio a questa parte a minimizzarne i costi attraverso un uso massiccio di imballaggi[1].
O ancora l’idea che, se c’è chi inquina la terra, è perché gli manca senso civico (da cui la necessità di promuovere delle campagne di pulizia delle spiagge, dei parchi, ecc. ecc., per dare l’esempio alla popolazione intera). Da cui anche un inveire contro una parte dei governanti che non sarebbero capaci di fare rispettare le leggi sui trasporti marittimi o altro, ecc. Fino naturalmente ad approdare alla classica chicca finale secondo cui è tutta colpa della mafia con i suoi traffici di rifiuti pericolosi, come se i rifiuti pericolosi li producesse la mafia e non il mondo dell’industria che, per ridurre i costi di produzione, ricorre alla mafia come semplice esecutore dei propri affari sporchi.
La responsabilità è anche degli industriali, ma solo di quelli cattivi e avidi …
Quando infine si arriva ad un episodio come quello dell’incendio alla Thyssen Krupp di Torino del dicembre 2007, che costa la vita di 7 operai in conseguenza della totale inosservanza delle norme di sicurezza e di prevenzione antincendio, allora sembra levarsi un coro di solidarietà finanche dal mondo dell’industria, ma solo per avanzare la subdola idea secondo cui, se si producono delle catastrofi, è solo perché esistono settori dell’imprenditoria senza scrupoli che si arricchiscono a spese di altri.
Ma è proprio così? Esistono capitalisti avidi ed altri capitalisti responsabili e corretti gestori delle loro imprese?
Il sistema di produzione capitalista, unico responsabile della catastrofe ambientale
Tutte le società di sfruttamento che hanno preceduto il capitalismo hanno dato il loro contributo all’inquinamento del pianeta generato in particolare dal processo produttivo. D’altra parte alcune società che si erano spinte allo sfruttamento eccessivo delle risorse a loro disposizione, come fu probabilmente il caso degli abitanti dell’isola di Pasqua[2], sono scomparse in seguito al loro esaurimento. Tuttavia, gli elementi di degrado ambientale o sociale così prodotti non costituivano, in queste società, un pericolo significativo, suscettibile di mettere in gioco la stessa sopravvivenza del pianeta, come è il caso oggi per il capitalismo. Una ragione sta nel fatto che, avendo fatto conoscere un salto prodigioso alle forze produttive, il capitalismo ha ugualmente provocato un salto di pari livello sui fattori di degrado ambientale che ne risultano e che gravano oggi sull’insieme del globo terrestre, avendo il capitale conquistato quest’ultimo nella sua totalità. Ma non è ancora questa la spiegazione più importante poiché lo sviluppo delle forze produttive non è in sé necessariamente significativo dell’assenza di controllo su queste. Ciò che è essenzialmente in discussione è la maniera in cui queste forze produttive vengono utilizzate e gestite dalla società. Ora giustamente il capitalismo si presenta come lo stadio conclusivo di un processo storico che consacra il regno della merce, un sistema di produzione universale delle merci dove tutto è in vendita. Se la società è immersa nel caos dal dominio dei rapporti mercantili, che non implica soltanto lo stretto fenomeno dell’inquinamento ma anche l’impoverimento accelerato delle risorse del pianeta, la crescente vulnerabilità alle cosiddette calamità “naturali”, ecc., è per un insieme di ragioni che possono essere così riassunte:
E’ questa necessità che, al di là della buona o cattiva coscienza dei singoli capitalisti, costringe questi ultimi ad adeguare la loro impresa alla logica del massimo sfruttamento della classe operaia.
Ciò conduce ad uno sperpero e ad una spoliazione enormi della forza lavoro umana e delle risorse del pianeta, come lo metteva in evidenza già Marx nel Capitale: “Come nell’industria urbana, così nell’agricoltura moderna, l’aumento della forza produttiva e la maggiore quantità di lavoro resa liquida vengono pagate con la devastazione e l’infermità della stessa forza-lavoro. E ogni progresso dell’agricoltura capitalistica costituisce un progresso non solo nell’arte di rapinare l’operaio, ma anche nell’arte di rapinare il suolo; ogni progresso nell’accrescimento della sua fertilità per un dato periodo di tempo, costituisce insieme un progresso nella rovina delle fonti durevoli di questa fertilità. (…) La produzione capitalistica sviluppa quindi la tecnica e la combinazione del processo di produzione sociale solo minando al contempo le fonti da cui sgorga ogni ricchezza: la terra e l’operaio.” (Marx, Il Capitale, Libro primo, cap. 13, Macchine e grande industria, par. 10 Grande industria e agricoltura, Editori Riuniti, pag. 218-219).
Il colmo dell’irrazionalità e dell’assurdità della produzione capitalista sta nel fatto che non è raro trovare delle aziende che producono preparati chimici altamente inquinanti e – contemporaneamente – dei sistemi di bonifica dei terreni e delle acque dagli stessi contaminanti; case che producono sigarette e dissuasori dall’uso del fumo, altre ancora che controllano settori della produzione di armi ma che si occupano anche di prodotti farmaceutici o attrezzature mediche.
Si raggiungono qui delle punte che non si sfioravano neanche nelle società precedenti, in quanto le merci erano essenzialmente prodotte per il loro valore di uso (esse o erano utili ai loro produttori, gli sfruttati, o erano usate per la pomposità della classe dominante).
La reale natura della produzione di merci impedisce al capitalista di potersi interessare alla utilità, al tipo o alla composizione delle merci prodotte. L’unica questione che gli interessa è sapere come fare soldi con un prodotto. Questo meccanismo spiega perché molte delle merci prodotte hanno un’utilità piuttosto limitata quando non sono del tutto inutili.
Nella misura in cui la società capitalista è essenzialmente basata sulla concorrenza, anche quando i capitalisti trovano delle intese occasionali, restano sempre fondamentalmente e ferocemente concorrenti: la logica del mercato vuole infatti che la fortuna dell’uno sia favorita dalla disgrazia di altri. Ciò significa che ogni capitalista produce per sé stesso, che ognuno di loro è rivale di tutti gli altri e che non ci può essere alcuna pianificazione reale concordata tra tutti i capitalisti, a livello locale o a livello internazionale, ma solo una competizione permanente con dei vincitori e dei vinti. E in questa battaglia, uno dei perdenti è appunto la natura.
Infatti, nella scelta di quale sia il luogo dove costruire un nuovo impianto o di cosa coltivare e come in un certo appezzamento di terreno, il singolo imprenditore deve rendere conto solo ai suoi interessi immediati e non c’è spazio alcuno per considerazioni di tipo ecologico. Non vi è alcun organo centralizzato a livello internazionale che abbia l’autorità di dare un indirizzo o anche di imporre dei limiti o dei criteri da rispettare. Nel capitalismo, le decisioni sono prese solo in funzione della realizzazione del massimo profitto in modo che ogni singolo capitalista possa produrre e vendere nella maniera più vantaggiosa o nella più grande quantità o che lo Stato possa imporre al meglio ciò che fa gli interessi del capitale nazionale e dunque, globalmente, dei capitalisti del proprio paese.
Tuttavia esistono delle leggi più o meno restrittive a livello dei singoli paesi. Ma quando le misure imposte dalla legislazione sono troppo vincolanti, non è raro vedere delle imprese dislocare all’estero parte della loro produzione, in particolare in paesi dove le norme sono meno severe, per aumentare i loro ricavi. Così Union Carbide, multinazionale chimica americana, aveva impiantato una delle sue fabbriche a Bhopal, in India, senza dotarla di un sistema di refrigerazione. Nel 1984 da questa fabbrica è sfuggita una nuvola tossica di 40 tonnellate di pesticida che ha ucciso, immediatamente e negli anni seguenti, almeno 16.000 persone, provocando dei danni irrimediabili all’organismo di un milione di persone[3]. Gli stessi territori e i mari dei paesi del terzo mondo costituiscono spesso una discarica a buon mercato dove, legalmente o illegalmente, compagnie che si trovano nei paesi sviluppati inviano i loro rifiuti pericolosi o tossici, nella misura in cui costerebbe loro molto più caro sbarazzarsene nei loro paesi di origine.
Finché non vi sarà una pianificazione agricola e industriale coordinata e centralizzata a livello internazionale, che prenda in considerazione la necessaria armonizzazione delle esigenze di oggi e la salvaguardia dell’ambiente di domani, i meccanismi del capitalismo continueranno a distruggere la natura con tutte le drammatiche conseguenze che abbiamo visto.
E’ ricorrente l’abitudine di attribuire la responsabilità di ciò alle multinazionali o a un settore particolare dell’industria, in quanto le origini del problema si trovano negli “anonimi” meccanismi del mercato che spingono ogni singolo capitalista ad agire nella stessa maniera.
Ma lo Stato può porre fine a questa follia attraverso un maggiore intervento? In realtà no, perché lo Stato è capace solo di “regolare” questa anarchia. Anzi, attraverso la difesa degli interessi nazionali, lo Stato contribuisce a rafforzare questa competizione. Contrariamente alle richieste delle ONG (organizzazioni non governative) e del movimento altermondialista, non è un maggiore intervento da parte dello Stato – che d’altra parte non è mai venuto meno, malgrado certe apparenze di “liberalismo”, come confermato in maniera evidente dall’interventismo statale di fronte all’attuale accelerazione della crisi economica - che può risolvere i problemi dell’anarchia capitalista.
Quantità contro qualità
L’unica preoccupazione dei capitalisti è, come abbiamo visto, vendere le loro merci con il più alto profitto possibile. Ma è bene chiarire che non si tratta di egoismo perché questa è una regola del sistema a cui nessuna compagnia, piccola o grande che sia, può sottrarsi. Il peso crescente del costo dei macchinari nella produzione industriale implica che i grossi investimenti necessari possano essere recuperati solo dopo un gran numero di vendite. Per esempio la ditta Airbus costruttrice di aerei deve vendere almeno 600 dei suoi aerei giganti A380 prima che possa realizzare dei profitti. Analogamente le ditte costruttrici di automobili devono vendere centinaia di migliaia di automobili prima che possano saldare le spese sostenute per la costruzione dell’impianto adatto a costruirle. In breve, ogni capitalista deve vendere quanto più gli è possibile ed essere alla costante ricerca di nuovi mercati. Ma per fare questo in un mercato già saturo, deve imporsi nei confronti dei suoi concorrenti, cosa che realizza attraverso un’orgia di mezzi pubblicitari che sono l’origine di uno spreco enorme di lavoro umano e di risorse naturali come, per esempio, tutta la carta inghiottita nella produzione di migliaia di tonnellate di manifesti pubblicitari.
Queste leggi dell’economia (che spingono alla riduzione dei costi, con una conseguente riduzione della qualità della produzione e la fabbricazione in serie) implicano che il capitalista è ben lungi dal preoccuparsi della composizione dei suoi prodotti e dal chiedersi se le componenti utilizzate per produrlo possano essere pericolose. Così, benché i rischi prodotti dall’uso di combustibili fossili per la salute (causa il cancro) siano conosciuti da lungo tempo, l’industria non prende alcuna misura adeguata. I rischi per la salute relativi all’amianto erano noti da anni. Ma solo l’agonia e la morte di migliaia di operai hanno costretto l’industria a reagire negli anni successivi. Grandi quantità di alimenti sono arricchite di zucchero e sale, da glutammato monosodico, per aumentare la loro vendita indipendentemente dalle conseguenze per la salute. Una quantità incredibile di additivi alimentari viene aggiunta negli alimenti senza che siano veramente noti i rischi a cui la popolazione è sottoposta. Tuttavia è noto che molte tipologie di cancro sono dovute alla nutrizione.
Aspetti irrazionali della produzione e della vendita
Uno degli aspetti più irrazionali nel sistema attuale di produzione è il fatto che le merci viaggiano in giro per il mondo prima di arrivare sul mercato nella loro forma di prodotti finiti. Ciò non è legato alla natura delle merci o ad esigenze di produzione ma esclusivamente al fatto che la lavorazione del semilavorato è più vantaggiosa in questo o quel paese. Un esempio famoso è quello della produzione di yogurt: il latte viene trasportato attraverso le Alpi, dalla Germania verso l’Italia, dove viene trasformato in yogurt per essere poi riportato - in questa forma - dall’Italia alla Germania. Un altro esempio è quello delle automobili le cui componenti arrivano dai più diversi paesi del mondo prima di essere assemblate in una catena di montaggio. In generale, prima che un bene sia disponibile sui mercati, le sue componenti hanno già percorso migliaia di chilometri con i mezzi più diversi. Così, per esempio, gli apparecchi elettronici o quelli per uso domestico sono prodotti in Cina per i ridottissimi salari praticati in questo paese e per l’assenza pressoché totale di misure di protezione dell’ambiente, anche se, dal punto di vista tecnologico, essi potrebbero tranquillamente essere prodotti nei paesi acquirenti. Spesso i loro progetti o gli impianti per produrre questi beni sono stati inizialmente sviluppati o installati da una compagnia in un paese acquirente che ha poi chiuso i battenti per riaprirli in un altro paese dove i costi di produzione e soprattutto i salari sono più bassi.
Abbiamo ancora l’esempio dei vini, prodotti in Cile, Australia o in California e venduti sui mercati europei mentre l’uva prodotta in Europa viene portata al macero a causa della sovrapproduzione, o ancora quello delle mele che arrivano in Europa dall’Africa sebbene i coltivatori europei non sanno che fare dell’eccedenza di mele.
Così, seguendo la logica del massimo profitto e non quella della razionalità e del minimo ricorso a spese umane, energetiche e naturali, le merci vengono prodotte da qualche parte del pianeta per essere poi inviate in altre parti del mondo per essere vendute. Non c’è poi da meravigliarsi che delle merci di pari valore tecnologico, come le automobili, prodotte da diverse case nel mondo, vengano costruite in Europa per poi essere esportate in Giappone o negli Usa e che, contemporaneamente, altre automobili costruite in Giappone o in Corea, siano vendute sul mercato europeo. Questa rete di trasporti di merci - talvolta molto simili tra di loro - che si scambiano di paese solo in obbedienza alla logica del profitto e della concorrenza e dei conseguenti giochi del mercato, è qualcosa di totalmente aberrante e che ha delle conseguenze disastrose sull’ambiente. E pensare che, con una razionale pianificazione della produzione e della distribuzione, questi beni potrebbero essere disponibili senza subire questi trasporti del tutto irrazionali, che esprimono solo la follia del sistema di produzione capitalista.
L’antagonismo di fondo fra città e campagna
La distruzione dell’ambiente dovuto all’inquinamento da traffico non è un semplice fenomeno contingente poiché esso affonda le sue radici più profonde nell’antagonismo fra città e campagna. All’origine, la divisione del lavoro all’interno delle nazioni ha separato l’industria e il commercio dal lavoro agricolo. Di lì è nata l’opposizione tra città e campagna con gli antagonismi di interessi che ne risultano. Ma è sotto il capitalismo che questa opposizione raggiunge il parossismo delle sue aberrazioni[4].
Ai tempi dello sfruttamento agricolo del Medio Evo, orientato verso la produzione del necessario per il sostentamento della popolazione, vi era difficilmente la necessità di trasportare merci. All’inizio del 19° secolo, quando gli operai vivevano spesso vicino alle fabbriche o alle miniere, essi ci potevano andare a piedi. Da allora però la distanza tra il luogo del lavoro e la casa degli operai è aumentata. In aggiunta, la concentrazione di capitali in certe località (come nel caso di compagnie che aprono in certi “parchi industriali” o in altre aree sperdute per godere delle agevolazioni fiscali o di prezzi particolarmente bassi del suolo), la deindustrializzazione e la relativa esplosione della disoccupazione dovuta alla perdita di tanti posti di lavoro, ha profondamente modificato la fisionomia dei trasporti.
Così, ogni giorno, centinaia di milioni di lavoratori devono spostarsi coprendo in molti casi distanze lunghissime per raggiungere il loro posto di lavoro. Molti di loro devono utilizzare un’automobile perché spesso il trasporto pubblico non permette loro di raggiungere il posto di lavoro.
Ma c’è di più. La concentrazione di grandi masse di persone nello stesso luogo comporta una serie di ulteriori problemi che incidono ancora una volta sulla salute ambientale del territorio. La fisiologia di un aggregato di persone che arriva fino a 10-20 milioni di persone comporta l’accumulo dei relativi rifiuti (deiezioni, rifiuti, gas di scarico degli autoveicoli, delle industriale e da riscaldamento, …) in un’area che, per quanto vasta possa essere, è comunque troppo ristretta per poter diluire e smaltire questo carico ricevuto.
L’incubo della penuria alimentare e della scarsità d’acqua
Con lo sviluppo del capitalismo, l’agricoltura ha subito i più profondi cambiamenti della sua storia da più di 10.000 anni a questa parte. Ciò è avvenuto perché nel capitalismo, contrariamente ai modi di produzione precedenti in cui l’agricoltura rispondeva a dei bisogni diretti dei consumatori, gli agricoltori devono sottomettersi alle leggi del mercato mondiale, il che significa produrre col minimo di spese. Ma la necessità di aumentare la resa delle coltivazioni ha avuto delle conseguenze catastrofiche sulla qualità dei suoli.
Queste conseguenze, che sono inseparabilmente legate all’apparire di un forte antagonismo fra città e campagna, sono state già denunciate dal movimento operaio nel 19° secolo. Nelle citazioni che seguono si vede come Marx abbia tracciato il legame inseparabile tra lo sfruttamento della classe operaia e il saccheggio del suolo:
“… la grande proprietà fondiaria riduce la popolazione agricola ad un minimo continuamente decrescente e le contrappone una popolazione industriale continuamente crescente e concentrata nelle grandi città; essa genera così le condizioni che provocano una incolmabile frattura nel nesso del ricambio organico sociale prescritto dalle leggi naturali della vita, in seguito alla quale la forza della terra viene sperperata e questo sperpero viene esportato mediante il commercio molto al di là dei confini del proprio paese (Liebig)”. (Marx, Il Capitale, Libro terzo, cap. 47, Genesi della rendita fondiaria capitalistica, Editori Riuniti, pag. 224).
“Il modo di produzione capitalistico porta a compimento la rottura dell’originario vincolo di parentela che stringeva agricoltura e manifattura nella loro forma infantile e non sviluppata: Ma esso crea allo stesso tempo le premesse materiali di una sintesi nuova, superiore, cioè dell’unione fra agricoltura e industria, sulla base delle loro forme antagonisticamente elaborate. Con la preponderanza sempre crescente della popolazione urbana che la produzione capitalistica accumula in grandi centri, essa accumula da un lato la forza motrice storica della società, dall’altro turba il ricambio organico fra uomo e terra, ossia il ritorno alla terra degli elementi costitutivi della terra consumati dall’uomo sotto forma di mezzi alimentari e di vestiario, turba dunque l’eterna condizione naturale di una durevole fertilità del suolo. Così distrugge insieme la salute fisica degli operai urbani e la vita intellettuale dell’operaio rurale. Ma insieme essa costringe mediante la distruzione delle circostanze di quel ricambio organico, sorte per semplice spontaneità naturale, a produrre tale ricambio in via sistematica, come legge regolatrice della produzione sociale, in una forma adeguata al pieno sviluppo dell’uomo. (…) Come nell’industria urbana, così nell’agricoltura moderna, l’aumento della forza produttiva e la maggiore quantità di lavoro resa liquida vengono pagate con la devastazione e l’infermità della stessa forza-lavoro. E ogni progresso dell’agricoltura capitalistica costituisce un progresso non solo nell’arte di rapinare l’operaio, ma anche nell’arte di rapinare il suolo; ogni progresso nell’accrescimento della sua fertilità per un dato periodo di tempo, costituisce insieme un progresso nella rovina delle fonti durevoli di questa fertilità. (…) La produzione capitalistica sviluppa quindi la tecnica e la combinazione del processo di produzione sociale solo minando al contempo le fonti da cui sgorga ogni ricchezza: la terra e l’operaio.” (Marx, Il Capitale, Libro primo, cap. 13, Macchine e grande industria, par. 10 Grande industria e agricoltura, Editori Riuniti, pag. 218-219).
L’agricoltura ha dovuto costantemente accrescere l’uso di prodotti chimici per intensificare lo sfruttamento del suolo ed estendere le aree di coltivazione. Così, nella maggior parte del pianeta, i contadini portano avanti delle colture che sarebbero impossibili senza l’apporto di grandi quantità di antiparassitari, fungicidi e fertilizzanti e senza irrigazione mentre, se piantate in altre zone, potrebbero svilupparsi senza questi mezzi o con un loro uso molto ridotto.
Piantare dell’erba medica in California, degli agrumi in Israele, del cotone intorno al lago d’Aral nell’ex Unione Sovietica, del frumento in Arabia Saudita o nello Yemen, cioè piantare delle colture in aree che non offrono le condizioni naturali per la loro crescita, si traduce in uno spreco enorme di acqua. La lista degli esempi è veramente senza fine: attualmente circa il 40% dei prodotti agricoli dipende dall’irrigazione, con la conseguenza che il 75% dell’acqua potabile disponibile sulla terra viene utilizzata in agricoltura.
Per esempio, l’Arabia Saudita ha speso una fortuna per pompare l’acqua da una falda sotterranea e rifornire un milione di ettari di terra nel deserto per coltivare frumento. Per ogni tonnellata di frumento coltivata, il governo fornisce 3000 metri cubi d’acqua - ovvero più di tre volte quanto richiesto per la coltura del frumento. E quest’acqua viene tutta da pozzi che non vengono rigenerati dalla pioggia. Un terzo di tutti gli impianti di irrigazione del mondo usano acqua di falda. E mentre queste fonti esauribili vengono prosciugate, i coltivatori nella regione indiana di Gujarat, assetati di pioggia, insistono nell’allevamento di vacche da latte, utilizzando 2.000 litri di acqua per produrre un solo litro di latte! In certe regioni della terra, la produzione di un chilogrammo di riso richiede fino a 3000 litri di acqua. Le conseguenze dell’irrigazione e dell’uso diffuso di prodotti chimici sono disastrose: salinizzazione, overdose di fertilizzanti, desertificazione, erosione dei suoli, forte riduzione dei livelli d’acqua delle falde e dunque svuotamento delle riserve di acqua potabile.
Lo spreco, l’urbanizzazione, la siccità e l’inquinamento acutizzano la crisi idrica mondiale. Milioni e milioni di litri d’acqua evaporano scorrendo in canali di irrigazione aperti. Soprattutto le aree intorno alle megalopoli, ma anche intere distese di terra, vedono i loro acquiferi scendere velocemente ed irreversibilmente di livello.
In passato la Cina era il paese dell’idrologia, la cui economia e la cui civilizzazione si erano sviluppate grazie alla sua capacità di irrigare le terre asciutte e di costruire degli argini per proteggere il paese dalle inondazioni. Ma, nella Cina di oggi, le acque del poderoso Fiume Giallo, la grande arteria del Nord, per diversi mesi l’anno non raggiungono il mare. 400 delle 660 città della Cina mancano d’acqua. Un terzo dei pozzi della Cina sono a secco. In India, il 30% delle terre coltivabili è minacciato di salinizzazione. Nel mondo intero circa il 25% delle aree agricole è minacciato di salinizzazione.
Ma la coltura di prodotti agricoli in regioni che, a causa del loro clima o per la natura del suolo, non lo permetterebbero, non è l’unica assurdità dell’agricoltura moderna. In particolare, a causa della penuria d’acqua, il controllo dei fiumi e delle dighe è diventato una questione strategica fondamentale rispetto alla quale gli Stati nazionali intervengono sconsideratamente a scapito della natura.
Più di 80 paesi già hanno segnalato una scarsità d’acqua sul loro territorio. Secondo una previsione dell’ONU, il numero di persone che dovranno vivere in condizioni di penuria d’acqua raggiungerà i 5.4 miliardi durante i prossimi 25 anni. Nonostante la disponibilità di tanta terra coltivabile, le terre realmente utilizzabili del mondo diminuiscono costantemente a causa della salinizzazione e di altri fattori. Nelle antiche società, le tribù nomadi dovevano spostarsi in altre zone quando l’acqua diventava scarsa. Nel capitalismo, nonostante la tendenza innata di questo sistema alla sovrapproduzione, mancano sia le derrate alimentari che l’acqua. Così, a causa delle molteplici devastazioni causate all’agricoltura, la penuria alimentare è un fenomeno inevitabile. A partire dal 1984, per esempio, la produzione mondiale di grano non è riuscita a stare al passo con la crescita della popolazione mondiale. Nell’arco di 20 anni infatti questa è crollata da 343kg all’anno per persona a 303kg.
Così, il fantasma che ha sempre accompagnato lo sviluppo dell’umanità dalle sue origini, l’incubo della penuria alimentare, sembra tornare alla ribalta, ma non per mancanza di terra coltivabile o per mancanza di mezzi e strumenti da usare in agricoltura, ma per l’assoluta irrazionalità nell’uso delle risorse della Terra.
Nel capitalismo, maggiore tecnologia non significa maggiore sicurezza
Se è vero che lo sviluppo scientifico e tecnologico offrono all’umanità strumenti di cui non era neanche possibile in passato immaginare l’esistenza e che permettono di prevenire incidenti e catastrofi naturali, è altrettanto vero che l’impiego di tali tecnologie costa e viene messo in opera solo se c’è un ritorno economico. Ancora una volta vogliamo sottolineare che non si tratta qui, come in altri casi, dell’atteggiamento egoista e ingordo di qualche imprenditore, ma della necessità che si pone a qualunque imprenditore o a qualunque paese di ridurre al minimo le spese di produzione di una merce o di un servizio per poter reggere alla concorrenza mondiale.
Nella nostra stampa abbiamo ripetutamente affrontato questo problema mostrando come le cosiddette catastrofi naturali non siano affatto il prodotto del caso o della fatalità, ma il risultato logico della riduzione di misure di prevenzione e di sicurezza per fare economia. Ecco, ad esempio, quello che scrivevamo a proposito della catastrofe prodotta dall’uragano Katrina nel 2005 a New Orleans:
“Anche l’argomento secondo cui questa catastrofe non era prevista è un nonsenso. Da quasi 100 anni, scienziati, ingegneri e politici hanno discusso di come far fronte alla vulnerabilità di New Orleans nei confronti dei cicloni e delle inondazioni. A metà degli anni 1990, sono stati sviluppati parecchi progetti da diversi gruppi di scienziati e di ingegneri, che infine hanno portato ad una proposta nel 1998 (sotto l'amministrazione Clinton), chiamata Coast 2050. Questo progetto comprendeva il rafforzamento e la ripianificazione delle dighe esistenti, la costruzione di un sistema di chiuse e la creazione di nuovi canali che avrebbero portato delle acque piene di sedimenti per restaurare le zone paludose tampone del delta; questo progetto richiedeva un investimento di 14 miliardi di dollari per un periodo di 10 anni. Non ebbe l'approvazione di Washington, non sotto Bush ma sotto Clinton. L'anno scorso, l'esercito ha chiesto 105 milioni di dollari per i programmi di lotta contro i cicloni e le inondazioni a New Orleans, ma il governo gli ha accordato solamente 42 milioni. Nello stesso momento, il Congresso approvava un bilancio di 231 milioni di dollari per la costruzione di un ponte verso una piccola isola disabitata dell'Alaska.” [5]
Abbiamo ugualmente denunciato il cinismo e le responsabilità della borghesia nei confronti del massacro di 160.000 persone avvenuto in seguito allo tsunami prodottosi il 26 dicembre del 2004.
In effetti, oggi è riconosciuto chiaramente, in modo ufficiale, che l'allerta non è stata lanciata per timore di … danneggiare il settore turistico! Altrimenti detto, oltre centocinquantamila esseri umani sono stati sacrificati per difendere dei sordidi interessi economici e finanziari.
Questa irresponsabilità dei governi è una nuova dimostrazione dello stile di vita di questa classe di squali che gestisce la vita e l'attività produttiva della società. Gli Stati borghesi sono pronti a sacrificare altrettante vite umane, se ciò è necessario, per preservare lo sfruttamento ed i profitti capitalisti.
Sono sempre gli interessi capitalisti che dettano la politica della classe dominante e - nel capitalismo – la prevenzione non è un’attività che rende, come viene riconosciuto oggi da tutti i media: “Dei paesi della regione avrebbero fino a quel momento fatto orecchio da mercante rispetto al mettere in piedi un sistema di allerta a causa degli enormi costi finanziari. Secondo gli esperti, un dispositivo di allerta costerebbe decine di milioni di dollari, ma permetterebbe di salvare decine di migliaia di vite umane” (Les Échos, 30/12).[6]
Ancora possiamo fare l’esempio del petrolio che ogni anno viene sversato a mare (sversamenti intenzionali e accidentali, fonti endogene, apporto dai fiumi, ecc.): si parla di 3-4 milioni di tonnellate di petrolio all’anno. Secondo un rapporto di Legambiente: “Analizzando le cause di questi incidenti, è possibile riscontrare che per il 64% dei casi esse sono imputabili ad errore umano, il 16% a guasti meccanici ed il 10% a problemi strutturali della nave, mentre il restante 10% non è attribuibile a cause certe.”[7]
Ma è facile capire che, quando si parla di errore umano - come ad esempio nei casi di incidenti ferroviari attribuiti ai macchinisti - si tratta di errori in cui incorre l’operatore perché lavora in condizioni di sfinimento estremo e di forte stress. D’altra parte, è abitudine delle compagnie petrolifere sfruttare petroliere anche vecchie e decrepite per il trasporto dell’oro nero perché, in caso di naufragio, perdono al massimo il valore di un carico di greggio, mentre acquistare una nuova imbarcazione viene a costare molto di più. Ecco perché lo spettacolo di petroliere che si spaccano a metà in vicinanza delle coste sversando tutto il loro carico nero è diventato così frequente. Mettendo tutto assieme possiamo affermare che almeno il 90% delle cause di dispersione a mare del petrolio è dovuta alla mancanza assoluta di attenzione delle compagnie petrolifere legata ancora una volta all’interesse di ridurre al minimo i costi e amplificare al massimo i margini di profitto.
Una denuncia sistematica, incisiva, profonda e articolata dei disastri prodotti dal capitalismo fu svolta da Amadeo Bordiga[8] negli anni dell’immediato dopoguerra. Nella prefazione al libro Drammi gialli e sinistri della moderna decadenza sociale, che è una raccolta di articoli di Amadeo Bordiga, si può leggere:
“Man mano che il capitalismo si sviluppa, poi cade in putrefazione, asservisce sempre più alle sue esigenze di sfruttamento, di dominio e di saccheggio imperialista una tecnica che potrebb’essere liberatrice, al punto da trasmetterle la sua stessa putredine e da rivolgerla contro la specie. (…) E’ in tutti i campi della vita quotidiana delle fasi “pacifiche” a noi generosamente concesse tra due massacri imperialistici o due grandi operazioni repressive, che il capitale, pungolato senza tregua dalla ricerca di un miglior saggio di profitto ammucchia, avvelena, asfissia, mutila, massacra gli individui utilizzando a tal fine una tecnica prostituita (...) Il capitalismo non è innocente neppure delle catastrofi dette “naturali”. Senza ignorare l’esistenza di forze della natura che sfuggono all’azione umana, il marxismo mostra che un buon numero di cataclismi é indirettamente provocato, o aggravato, da cause sociali (...) Non solo la civiltà borghese può essere causa diretta di queste catastrofi per la sua sete di profitto e per l’influenza predominante dell’affarismo sulla macchina amministrativa (...), ma si rivela impotente ad organizzare una protezione efficace nella misura in cui la prevenzione non è un'attività redditizia”.[9]
Bordiga sfata la leggenda secondo la quale “la contemporanea società capitalistica, con il correlativo sviluppo della scienza, della tecnica e della produzione, mette[rebbe] la specie umana nelle condizioni migliori per lottare contro le difficoltà dell’ambiente naturale.”[10] Infatti, aggiunge Bordiga: “se è vero che il potenziale industriale ed economico del mondo capitalistico è in aumento e non in deflessione, è altrettanto vero che maggiore è la sua virulenza, peggiori sono le condizioni di vita della massa umana di fronte ai cataclismi naturali e storici.”[11] Per dimostrare ciò, Bordiga analizza tutta una serie di disastri avvenuti in giro per il mondo dimostrando di volta in volta che alla loro base non c’è il caso o la fatalità ma la tendenza innata del capitalismo a trarre il massimo profitto investendo il meno possibile, come ad esempio nel caso del naufragio della Flying Enterprise.
“La nuovissima e lussuosa nave che Carlsen faceva tenere forbita come uno specchio, e doveva fare una traversata arcisicura, era a chiglia piatta. (…) Perché mai il modernissimo cantiere della Flying ha adottato la chiglia piatta, propria del battello lacustre? Un giornale lo diceva in tutte le lettere: per ridurre il costo unitario di produzione. (…) Abbiamo qui la chiave di tutta la moderna scienza applicata. I suoi studi, le sue ricerche, i suoi calcoli, le sue innovazioni, mirano a questo: ridurre i costi, alzare i noli. Sfarzo quindi di saloni specchi ed orpelli per attirare i clienti ad alto prezzo, lesina pidocchiosa nelle strutture spinte all’estremo del cimento meccanico e della esiguità di dimensioni e di peso. Questa tendenza caratterizza tutta la moderna ingegneria, dall’edilizia alla meccanica, ossia presentare con ricchezza, per «épater le bourgeois», i complementi e le finiture che qualunque fesso sta all’altezza di ammirare (avendo anzi una apposita cultura da paccottiglia formata nei cinema e sugli illustrati in rotocalco) e scarseggiare in modo indecente nella solidità della struttura portante, invisibile e incomprensibile al profano.”[12]
Che i disastri analizzati da Bordiga non abbiano delle conseguenze sul piano ecologico non cambia nulla al problema. Di fatto, attraverso questi episodi denunciati da Bordiga così come quelli esposti nella prefazione ai suoi articoli raccolti in Drammi gialli e sinistri della decadenza sociale di cui citiamo qualche esempio, si può immaginare senza difficoltà gli effetti prodotti dalla stessa logica capitalista quando questa si applichi nei settori aventi un impatto diretto e decisivo sull’ambiente, come per esempio la concezione e la gestione delle centrali nucleari:
“Negli anni ’60, diversi aerei inglesi del tipo “Comet”, ultimo grido della tecnica più sofisticata, esplodono in pieno volo, causando la morte di tutti i passeggeri: la lunga inchiesta rivela infine che le esplosioni erano dovute allo sforzo al quale era sottoposto il metallo della cellula, troppo sottili – perché si doveva risparmiare sul metallo, sulla potenza dei reattori, sull’insieme dei costi di produzione, per accrescere il profitto. Nel 1974 l’esplosione di un “DC10” nel cielo di Ermenonville causa oltre 300 morti: si sapeva che il sistema di chiusura del bagagliaio era difettoso, ma rifarlo sarebbe costato quattrini … Ma il caso più allucinante è riferito dall’inglese “The Economist” (24-9-1977), dopo la scoperta di incrinature nel metallo di dieci aerei “Trident” e l’inspiegabile schianto al suolo di un “Boeing”: in base alla “nuova concezione” che presiede alla costruzione degli aerei da trasporto, questi non sono più sottoposti a revisione completa dopo un certo numero di ore di volo, ma si considerano “sicuri” … fino alla comparsa delle prime incrinature dovute alla “stanchezza” del metallo: li si può quindi usare “al massimo” delle loro potenzialità evitando alle compagnie aeree la perdita di quattrini, se i voli cessassero troppo presto!”[13]
Abbiamo già evocato, nel precedente articolo di questa serie, il caso della centrale nucleare di Chernobyl nel 1986. In fondo, all’origine del disastro, è presente la stessa logica, così come nel 1979 in occasione della fusione di un reattore nucleare sull’isola di Three Mile, in Pennsylvania, negli Stati Uniti.
La scienza al servizio dello sviluppo della società capitalista
Di fatto, la comprensione del ruolo della tecnica e della scienza all’interno della società capitalista è della più grande importanza rispetto alla questione di sapere se queste possono costituire oppure no un punto di appoggio per prevenire l’avanzata di un disastro ecologico in atto e per lottare in maniera efficace da oggi contro alcune delle sue manifestazioni.
Se la tecnica è, come abbiamo visto, prostituita alle esigenze del mercato, lo saranno anche lo sviluppo della scienza e della ricerca scientifica, oppure è possibile che queste restino al di fuori di qualunque interesse di parte?
Per rispondere a questo interrogativo dobbiamo partire dal riconoscere che la scienza è una forza produttiva, che il suo sviluppo permette ad una società di crescere più rapidamente, di aumentare le sue risorse. Di conseguenza, il controllo dello sviluppo scientifico non è - e non potrebbe essere - indifferente ai gestori dell’economia, a livello statale come a livello imprenditoriale. Questo è il motivo per cui alla ricerca scientifica, e ad alcuni suoi settori in particolare, vengono forniti lauti finanziamenti. La scienza non è dunque – e non potrebbe esserlo all’interno di una società di classe come il capitalismo - un settore neutro dove esisterebbe una libertà di ricerca scientifica e che sarebbe risparmiato da interessi economici, per il semplice motivo che la classe dominante ha tutto l’interesse ad asservire la scienza e il mondo scientifico ai propri interessi. Ma possiamo addirittura affermare che lo stesso sviluppo della scienza e della conoscenza – nell’epoca capitalista - non segue una propria dinamica autonoma e indipendente ma è essa stessa subordinata all’obiettivo della realizzazione del massimo profitto.
Questo fatto ha delle notevolissime conseguenze di cui ci accorgiamo solo raramente. Guardiamo ad esempio allo sviluppo della medicina moderna. Lo studio e la cura dell’uomo è frazionata in diecine di specializzazioni diverse, all’interno delle quali alla fine viene a mancare la visione d’insieme del funzionamento dell’organismo umano. Se questo avviene è perché l’obiettivo primo della medicina, nel mondo capitalista, non è quello di far vivere bene le singole persone, ma “riparare” la “macchina uomo” quando questa si guasta e rimetterla in piedi il più rapidamente possibile per farla tornare a lavorare. Non sono casuali, all’interno di questo discorso, il ricorso massiccio agli antibiotici per ogni accidente e le diagnosi che ricercano la causa dei mali sempre in qualche fattore specifico piuttosto che nelle condizioni generali di vita che gli uomini vivono in questa società.
Un’altra conseguenza della dipendenza dello sviluppo scientifico dalla logica del mondo capitalista è che la ricerca è stata sempre indirizzata verso la produzione di nuovi materiali (più resistenti, meno cari) la cui sicurezza dal punto di vista tossicologico non ha mai costituito un grosso problema … nell’immediato, mentre poco o niente viene speso nella ricerca scientifica finalizzata a rimuovere o rendere innocue le sostanze tossiche presenti in questi prodotti. Ma decenni più tardi tocca pagare il conto, generalmente in termini di intossicazioni croniche e morti di persone che erano state a contatto con detti materiali.
Ma il rapporto più forte è quello che esiste tra la ricerca scientifica e le esigenze del settore militare e la guerra in particolare. A questo livello possiamo esaminare alcuni esempi concreti che riguardano i vari rami della scienza, a partire da quella che sembrerebbe “la più pura” delle scienze, la matematica!
Nelle citazioni che seguono si può vedere fino a che punto lo sviluppo scientifico è sottoposto al controllo dello Stato e alle esigenze militari, tanto che nel II dopoguerra fioriscono un po’ dovunque “commissioni” di scienziati che lavorano segretamente per il potere militare e che, in maniera occulta, passano parte del loro lavoro ad altri scienziati ignari dello scopo ultimo delle ricerche che svolgono:
“L’importanza della matematica per gli ufficiali di marina militare e di artiglieria richiedeva un’educazione matematica specifica; così, nel Settecento, il gruppo più importante che vantasse un sapere matematico almeno di base era quello degli ufficiali militari. (…) [Nella Grande Guerra] tante nuove armi venivano create o perfezionate durante la guerra – aerei, sottomarini, il sonar per combattere questi, armi chimiche. Dopo qualche esitazione da parte degli apparati militari, tanti scienziati venivano impiegati nel tentativo di fornire uno sviluppo militare, anche se non per fare scienza ma come ingegneri creativi di più alto livello. (…) Nel 1944, troppo tardi per diventare efficiente durante la Seconda Guerra, fu creato in Germania il «Matematisches Forschungsinstitut Oberwolfach». Ai matematici tedeschi non piace tanto saperlo, ma esso era una struttura molto ben pensata, che mirava a fare di tutta l’impresa matematica tedesca un’impresa «utile»: il nucleo era costituito da un piccolo gruppo di matematici che fossero ben a conoscenza dei problemi che si presentavano ai militari, e dunque in grado di localizzare problemi matematicamente risolvibili. Intorno al nucleo, altri matematici, ancora competenti e che conoscevano bene tutto l’ambiente matematico, dovevano tradurre questi problemi in problemi matematici e distribuirli in questa forma a matematici adatti (che non avevano bisogno di capire il problema militare che stava alla base, forse neanche di conoscerlo). Dopo, a risultato ottenuto, la stessa catena doveva funzionare all’incontrario.
Negli Stati Uniti, una struttura simile, anche se un po’ improvvisata, funzionava già intorno a Marston Morse durante la guerra. Nel dopoguerra, una struttura non improvvisata e del tutto analoga si trova nel «Wisconsin Army Mathematics Research Center» (…).
Il vantaggio della struttura è che permette alla macchina militare di sfruttare le competenze di molti matematici senza avere bisogno di «portarseli a letto», con tutto ciò che questo comporta – contratto, necessità di consenso e subordinazione, ecc.”[14]
Nel 1943 sono stati istituti negli Stati Uniti dei gruppi di ricerca operativa espressamente impiegati per la guerra antisommergibile, il dimensionamento dei convogli navali, la scelta dei bersagli nelle incursioni aeree e l’avvistamento e intercettazione degli aerei nemici. Nel corso della seconda guerra mondiale verranno complessivamente impiegati nel Regno Unito, in Canada e in USA, oltre 700 scienziati.
“Rispetto alla ricerca britannica, quella americana è caratterizzata fin dall’inizio da un uso più sofisticato della matematica e in particolare del calcolo delle probabilità e da un ricorso più frequente alla modellizazione. (…) La ricerca operativa (che diventerà negli anni cinquanta una branca autonoma della matematica applicata) muove dunque i suoi primi passi tra difficoltà strategiche e di ottimizzazione delle risorse belliche. Qual è la miglior tattica di combattimento aereo? Qual è il migliore dispiegamento di un certo numero di soldati in certi punti di attacco? Come si possono distribuire le razioni ai soldati sprecandone il meno possibile e sfamandoli adeguatamente?”[15]
“ (…) Il Progetto Manhattan segnò un profondo punto di svolta, non solo perché concentrò migliaia di scienziati e tecnici di molteplici campi a lavorare su un unico progetto diretto e controllato dai militari, ma perché segnò un enorme salto anche per la ricerca fondamentale, inaugurando quella che è poi stata chiamata la Big Science (…) L’arruolamento della comunità scientifica per lavorare su un unico progetto finalizzato sotto il controllo diretto dei militari fu una misura di emergenza, ma non poteva durare a lungo, per molte ragioni (non ultima la conclamata “libertà della ricerca” da parte degli scienziati). D’altra parte, però, il Pentagono non poteva permettersi di perdere la preziosa e insostituibile cooperazione della corporazione scientifica, e qualche forma di controllo sulla sua attività: era necessario, per forza di cose, mettere a punto una strategia diversa e cambiare i termini del problema. (…) Nel 1959 venne creata, per iniziativa di un insieme di autorevoli scienziati e consulenti del governo degli Stati Uniti, un gruppo semi-permanente di esperti, che teneva riunioni periodiche di studio: esso fu chiamato “Divisione Jason”, dal nome del mitico eroe greco Giasone all’avventurosa caccia del vello d’oro con gli Argonauti. Si tratta di un gruppo elitario di una cinquantina di scienziati eminenti, tra i quali vari Premi Nobel, che si incontra ad ogni estate per alcune settimane per esaminare liberamente problemi legati alla sicurezza, alla difesa e al controllo degli armamenti posti dal Pentagono, dal Dipartimento dell’Energia o da altre agenzie federali, e forniscono rapporti dettagliati che rimangono in gran parte “classified” e spesso influenzano direttamente la politica nazionale. La Divisione Jason assunse un ruolo di primo piano con il Segretario alla Difesa Robert McNamara durante la guerra del Vietnam, quando completò tre studi particolarmente importanti, che influenzarono le concezioni e la strategia statunitensi: sull’efficacia dei bombardamenti strategici per tagliare le vie di rifornimento dei Vietcong, sulla costruzione di una barriera elettronica attraverso il Vietnam, e sulle armi nucleari tattiche. ”[16].
Gli elementi di queste lunghe citazioni ci fanno capire che la scienza è oggi una delle pietre angolari per la conservazione dello statu quo del sistema capitalista e per la definizione dei rapporti di forza al suo interno. Questo ruolo, manifestatosi pesantemente durante e dopo la II guerra mondiale, come documentato in precedenza, naturalmente non può che accrescersi con il tempo, anche se la borghesia tende sistematicamente a mascherarlo.
In conclusione, ciò che abbiamo cercato di dimostrare è come le catastrofi ecologiche ed ambientali, anche quando possono essere scatenate da fenomeni naturali, si abbattono con tanta più ferocia sulle popolazioni, ed in particolare su quelle meno agiate, in conseguenza di una scelta ben consapevole da parte delle classi dirigenti su come destinare le risorse e la stessa ricerca scientifica. L’idea che la modernizzazione, lo sviluppo scientifico e tecnologico, possano essere associati automaticamente a degrado dell’ambiente e ad un maggiore sfruttamento dell’uomo, è dunque da rigettare categoricamente. Esiste invece una grande potenzialità di sviluppo delle risorse umane non solo sul piano della produzione di beni ma, quello che più conta, sul piano della possibilità di produrre in maniera diversa, in piena armonia con l’ambiente e il benessere dell’ecosistema, di cui l’uomo stesso fa parte. Per cui la prospettiva non è quella di tornare indietro nel tempo, invocando un futile ed impossibile ritorno alle origini, in cui l’ambiente sarebbe stato maggiormente rispettato, ma quello di andare avanti su una strada diversa, quella di uno sviluppo che sia veramente in armonia con il pianeta Terra.
5 aprile 2009 Ezechiele
[1] Vedi la prima parte di questo articolo “Disastri ambientali, inquinamento, variazioni climatiche. Il mondo sulla soglia di un collasso ambientale”, pubblicata sul n°30 della Rivista Internazionale.
[2] Idem.
[3] Idem.
[4] Il XX secolo ha visto una vera esplosione di megalopoli. All’inizio del XX secolo c’erano solo 6 città con più di 1 milione di abitanti; negli anni ’50 vi erano solo 4 città con una popolazione superiore a 5 milioni. Prima della II Guerra mondiale le megalopoli erano un fenomeno dei paesi industrializzati. Oggi il maggior numero di tali città è concentrata nei cosiddetti paesi in via di sviluppo. In alcuni di questi la popolazione è aumentata di 10 volte in poche decine d’anni. Attualmente metà della popolazione mondiale vive in città, ma per l’anno 2020 saranno due terzi. Ma nessuna delle grandi città che stanno ricevendo flussi di immigrati che superano il numero di 5000 persone al giorno può realmente fare fronte a questo innaturale incremento demografico, con la conseguenza che tutti questi immigrati, non potendo essere integrati nel tessuto sociale della città, vanno a gonfiare i bassifondi delle loro cinture periferiche dove, quasi sempre, c’è mancanza totale di servizi e di infrastrutture adeguate.
[5] Uragano Katrina, il capitalismo è il responsabile della catastrofe sociale, in Rivoluzione Internazionale n°152.
[6] Citato in: Maremoto: la vera catastrofe sociale è il capitalismo, in Rivoluzione Internazionale n°139.
[8] Bordiga, leader della corrente di sinistra del PCdI (Partito Comunista d’Italia) alla cui fondazione nel 1921 aveva dato un grandissimo contributo ed espulso da questo stesso partito nel 1930 dopo il processo di stalinizzazione, partecipa nel dopoguerra alla fondazione del PCInt in Italia nel 1943.
[9] Prefazione (anonima) a Drammi gialli e sinistri della moderna decadenza sociale di Amadeo Bordiga, edizioni Iskra, pagg. 6, 7, 8 e 9.
[10] A. Bordiga, Piena e rotta della civiltà borghese, pubblicato in Battaglia Comunista n°23 del 1951 e poi in Drammi gialli e sinistri della decadenza sociale, edizioni iskra, pag. 19.
[11] Idem.
[12] A. Bordiga, Politica e “costruzione”, pubblicato in Prometeo, serie II, n°3-4, 1952 e poi in Drammi gialli e sinistri della decadenza sociale, edizioni iskra, pagg. 62-63.
[13] Prefazione a Drammi gialli e sinistri della moderna decadenza sociale, op. cit., pagg. 7, 8 e 9.
[14] Jens Høyrup, Università di Roskilde, Danimarca, Matematica e guerra, Conferenza, Palermo, 15 maggio 2003, “Quaderni di Ricerca in Didattica”, n°13, 2003. G.R.I.M. (Department of Mathematics, University of Palermo, Italy), math.unipa.it/~grim/Hoyrup_mat_guerra_quad13.pdf.
[15] S. Annaratone, www.scienzaesperienza.it/news/new.php?id=0057 [79]
[16] Angelo Baracca, Fisica fondamentale, ricerca e realizzazione di nuove armi nucleari, people.na.infn.it/~scud/documenti/2005Baracca_armiscienza.pdf
Stabilire la morte con certezza è in generale un problema per gli esseri umani - l'umanità è la sola specie del regno animale a portare il peso della coscienza dell'inevitabilità della morte, e questo fardello si manifesta, tra l’altro, in tutte le epoche della storia ed in tutte le formazioni sociali, con l'onnipresenza dei miti della vita dopo la morte.
Così, le classi dominanti, sfruttatrici, e gli individui che la rappresentano sono felici di sfuggire alla morte consolandosi attraverso i sogni sul carattere eterno dei fondamenti e del destino del loro regno. Il regime dei faraoni e degli imperatori divini è giustificato così da storie sacre che vanno dalle origini primordiali fino al lontano futuro.
Sebbene si inorgoglisca della sua visione razionale e scientifica, la borghesia non è meno attratta da proiezioni mitologiche. Come Marx l’ha osservato, lo si può vedere facilmente nell'atteggiamento di questa classe verso la storia dove cerca di presentare la proprietà privata come fondamento dell'esistenza umana. Ed essa non è più incline dei vecchi despoti nel considerare la possibilità di una fine del suo sistema di sfruttamento. Anche nella sua epoca rivoluzionaria, nello stesso pensiero del massimo filosofo del movimento dialettico, Hegel, si trova questa tendenza a proclamare che il dominio della società borghese costituisce “la fine della storia”. Marx osservò che per Hegel, l'avanzamento permanente dello spirito del Mondo alla fine aveva trovato pace e riposo nella forma dello Stato burocratico prussiano (che, del resto, rimaneva sempre ben impantanato nel passato feudale).
Dobbiamo, dunque, considerare come un assioma di base della visione del mondo della borghesia, distorta dalla sua ideologia, la sua non tolleranza verso qualsiasi teoria che sostenga la natura puramente transitoria del suo dominio di classe. Il marxismo invece, esprimendo il punto di vista teorico della prima classe sfruttata della storia che contiene i germi di un nuovo ordine sociale, non è interessato da alcun vincolo che possa bloccare la sua visione.
Così, Il Manifesto comunista del 1848 comincia col celebre passo sulla storia come storia della lotta di classe che, in tutti i modi di produzione fino a quel momento conosciuti, aveva fatto esplodere il tessuto sociale dall'interno, terminando “o con una trasformazione rivoluzionaria di tutta la società, o con la distruzione delle due classi in lotta” (capitolo “Borghesi e proletari”). La società borghese ha semplificato gli antagonismi di classe al punto di averle socialmente ridotte a due grandi campi - capitalista da una parte, proletario dall'altra. Ed il proletariato è destinato ad essere il becchino dell'ordinamento borghese.
Ma Il Manifesto non si aspettava che il confronto decisivo tra le classi sarebbe risultato solo dalla semplificazione delle differenze nel capitalismo, né dall'ingiustizia evidente rappresentata dal monopolio dei privilegi e dalla ricchezza da parte della borghesia. Innanzitutto era necessario che il sistema borghese non fosse stato più capace di funzionare “normalmente”, raggiungendo il punto in cui “... la borghesia non è più in grado di rimanere ancora per molto classe dirigente ed imporre alla società, come legge regolatrice, le condizioni di vita della sua classe. Non può più regnare, perché è incapace di assicurare l'esistenza del suo schiavo nel quadro della sua schiavitù, perché è costretta a lasciarlo sprofondare in una situazione in cui al posto di farsi nutrire da lui è costretta, lei, a nutrirlo. La società non può più vivere sotto il suo dominio, e ciò significa che l'esistenza della borghesia non è più compatibile con quella della società” (Ibid.). Insomma, il capovolgimento della società borghese diventa una necessità vitale per la stessa sopravvivenza della classe sfruttata e della vita sociale nel suo insieme.
Il Manifesto vedeva nelle crisi economiche che devastavano periodicamente la società capitalista all’epoca i segni precursori di questo momento che si avvicinava.
“Un’epidemia che, in tutt’altra epoca, sarebbe sembrata un'assurdità, si abbatte sulla società, - l'epidemia della sovrapproduzione. La società si trova spinta improvvisamente ad un stato di barbarie momentaneo; si direbbe che una carestia, una guerra di sterminio le abbia tagliato tutti i suoi mezzi di sussistenza; l'industria ed il commercio sembrano annientati. E perché? Perché la società ha troppa civiltà, troppi mezzi di sussistenza, troppa industria, troppo commercio. Le forze produttive di cui dispone non favoriscono più il regime della proprietà borghese; al contrario, sono diventate troppo potenti per questo regime che a questo punto diventa per loro un ostacolo; e tutte le volte che le forze produttive sociali superano questo ostacolo, gettano nel disordine l’intera società borghese e minacciano l'esistenza della proprietà borghese. Il sistema borghese è diventato troppo stretto per contenere le ricchezze create nel suo seno - Come supera la borghesia queste crisi? Da un lato, distruggendo con violenza una massa di forze produttive; dall'altro, conquistando nuovi mercati e sfruttando più a fondo i vecchi. A che cosa porta tutto ciò? A preparare delle crisi più generali e più formidabili ed a ridurre i mezzi per prevenirle”. (Ibid.)
Ci sono parecchi punti da sottolineare a proposito di questo passo citato frequentemente:
Il Manifesto è stato scritto alla vigilia della grande ondata di sollevamenti che ha scosso l’Europa durante il 1848. Benché questi sollevamenti avessero avuto delle radici materiali - lo scoppio di carestie in tutta una serie di paesi - le prime manifestazioni massicce dell'autonomia politica del proletariato, il movimento chartista in Gran Bretagna, il sollevamento di giugno della classe operaia parigina, essi costituivano essenzialmente gli ultimi fuochi della rivoluzione borghese contro l'assolutismo feudale. Nel suo sforzo di comprendere l'insuccesso di questi sollevamenti dal punto di vista proletario - gli stessi scopi borghesi che la rivoluzione si era data raramente sono stati raggiunti e la borghesia francese non esitò a schiacciare gli operai insorti di Parigi - Marx riconobbe che la prospettiva di una rivoluzione proletaria imminente era prematura. Non solo la classe operaia aveva ricevuto un colpo ed era arretrato politicamente con la sconfitta dei sollevamenti del 1848, ma il capitalismo era ancora assai lontano dalla fine del compimento della sua missione storica; si estendeva attraverso il pianeta e continuava a “creare un mondo a sua immagine” come viene riportato dal Manifesto. Il dinamismo della borghesia, come riconosceva Il Manifesto, era ancora una forte realtà. Contro i militanti impazienti del suo “partito” che pensavano che le masse potevano essere spinte all'azione attraverso la semplice volontà, Marx sosteneva che probabilmente il proletariato avrebbe dovuto, ancora per decenni, condurre delle lotte prima di raggiungere lo scontro decisivo col suo nemico di classe. Difese anche con forza l'idea che “Una nuova rivoluzione sarà possibile solamente in seguito ad una nuova crisi, ma l’una è certa quanto l'altra”. (Le lotte di classe in Francia, capitolo: “L’abolizione del suffragio universale nel 1850”)
Marx risponde agli apologeti
Fu questa convinzione che indusse Marx a dedicarsi allo studio - o, piuttosto, alla critica - dell'economia politica; una ricerca profonda e vasta che prenderà la forma scritta dei Grundrisse e dei quattro volumi del Capitale. Per comprendere le condizioni materiali della rivoluzione proletaria, era necessario comprendere più in profondità le contraddizioni inerenti al modo di produzione capitalista, le debolezze fatali che avrebbero finito nel condannarlo a morte.
In questi lavori, Marx riconosce il suo debito verso gli economisti borghesi come Adam Smith e Ricardo, i quali avevano contribuito largamente alla comprensione del sistema economico borghese, in particolare perché, nelle loro polemiche contro gli apologeti delle forme di produzione semi-feudale superate, avevano difeso il punto di vista secondo cui il "valore" delle merci non era qualche cosa che riguardava la qualità del suolo, né una cifra determinata dai capricci dell'offerta e della domanda, ma che essa si basava sul lavoro reale degli uomini. Ma Marx mostrò anche che questi polemisti della borghesia erano anche i suoi apologeti nella misura in cui nei loro scritti:
Ciò che è fondamentale in tutte le teorie economiche borghesi, è la negazione del fatto che le crisi del capitalismo provano l’esistenza delle contraddizioni fondamentali ed insormontabili nel modo di produzione capitalista - uccelli di male augurio, corvi annunciatori di catastrofi i cui gracchiamenti crescenti profetizzano il Ragnarök[1] della società borghese.
“Le frasi apologetiche per negare le crisi intanto sono importanti in quanto esse dimostrano sempre il contrario di ciò che vogliono dimostrare. Esse - per negare la crisi-, affermano l'unità là dove esiste antitesi e contraddizione. Dunque, intanto sono importanti in quanto si può dire: esse dimostrano che se di fatto le contraddizioni da esse eliminate con la fantasia non esistessero, non esisterebbe neanche la crisi. Ma in realtà la crisi esiste, perché queste contraddizioni esistono. Ogni ragione che essi sostengono contro la crisi è una contraddizione eliminata con la fantasia, quindi una contraddizione reale, quindi un motivo della crisi. Questo desiderio fantasioso di negare le contraddizioni non fa che confermare le contraddizioni reali di cui ci si augura proprio l'inesistenza”. (Teorie del plusvalore)[2].
Primo uccello del male augurio: "la sovrapproduzione, contraddizione fondamentale del capitale sviluppato..."
L’apologia del capitale per gli economisti si basa in larga misura sulla negazione del fatto che le crisi di sovrapproduzione, che fanno la loro apparizione durante il secondo o il terzo decennio del diciannovesimo secolo, siano un indicatore dell'esistenza di barriere insormontabili per il modo di produzione borghese.
Di fronte alla realtà concreta della crisi, il diniego degli apologeti prende diverse forme che gli esperti economici hanno in gran parte ripreso durante gli ultimi decenni. Marx sottolinea, per esempio, che Ricardo cercava di spiegare le prime crisi del mercato mondiale attraverso differenti fattori contingenti, come i cattivi raccolti, la svalutazione della carta moneta, la caduta dei prezzi o le difficoltà del passaggio da periodi di pace ai periodi di guerra, o di guerra alle fasi di pace nei primi anni del diciannovesimo secolo. Questi fattori, sicuramente, hanno avuto un loro ruolo nell'esacerbazione delle crisi, o anche a provocarne lo scoppio, ma non stavano alla base del problema. Queste scappatoie ci ricordano le recenti prese di posizione degli "esperti" economici che hanno individuato la “causa” della crisi negli anni ’70 nell'aumento del prezzo del petrolio o, oggi, nell'avidità dei banchieri. Quando verso la metà del diciannovesimo secolo diventò più difficile ignorare il ciclo delle crisi commerciali, gli economisti furono costretti a sviluppare degli argomenti più sofisticati, per esempio ad accettare l'idea che c'era troppo capitale, pur negando che ciò significava anche troppe merci invendibili.
Tuttavia, una volta ammesso il problema della sovrapproduzione, questo venne relativizzato. Per gli apologeti, alla base, “non si vende mai se non per acquistare qualche altro prodotto che possa essere di un’utilità immediata o che possa contribuire alla produzione futura” (Ibidem). In altri termini, esisteva una profonda armonia tra la produzione e la vendita e, nel migliore dei mondi almeno, ogni merce doveva trovare un acquirente. Se esistono delle crisi, non sono niente altro che possibilità contenute nella metamorfosi delle merci in denaro, come difendeva John Stuart Mill, o esse risultano da una semplice sproporzionalità tra un settore della produzione ed un altro.
Marx non nega assolutamente che possano esistere delle sproporzioni tra i differenti rami della produzione - insiste anche sul fatto che vi è sempre questa tendenza in un’economia non pianificata nella quale è impossibile produrre le merci in funzione della domanda immediata. Ciò a cui si oppone è il tentativo di utilizzare la questione della “sproporzionalità” come pretesto per sbarazzarsi delle contraddizioni più fondamentali che esistono nei rapporti sociali capitalisti:
“Dire che non c'è sovrapproduzione generale, ma sproporzione in seno alle differenti industrie, è dire semplicemente che, nella produzione capitalista, la proporzionalità delle diverse industrie è un processo permanente della sproporzionalità, nel senso che la coerenza della produzione totale si impone qui agli agenti della produzione come una legge cieca, e non come una legge compresa e dominata dalla loro ragione di individui associati che sottopongono il processo di produzione al loro comune controllo”. (Il Capitale, Libro III).
Allo stesso modo, Marx rigetta l’argomento secondo cui possa esistere una sovrapproduzione parziale e non una sovrapproduzione generale:
“E’ per tale motivo che Ricardo ammette per certe merci l’ingombro del mercato. È l’ingombro generale e simultaneo del mercato che sarebbe impossibile. La possibilità di sovrapproduzione in una sfera particolare della produzione non viene negata; ma non potendo esistere al tempo stesso il fenomeno in tutte le sfere, non si potrebbe avere né sovrapproduzione, né ingombro generale del mercato”. (Teorie sul plusvalore)[3].
La specificità storica del capitalismo
Ciò che hanno in comune tutti questi argomenti, è negare la specificità storica del modo di produzione capitalista. Il capitalismo è la prima forma economica ad avere generalizzato la produzione di merci, la produzione per la vendita ed il profitto, all'insieme del processo di produzione e di distribuzione; ed è in questa specificità che si doveva trovare la tendenza alla sovrapproduzione. E non, come Marx si prende cura di sottolineare, la sovrapproduzione rispetto ai bisogni:
"La stessa parola "sovrapproduzione" può indurci in errore. Finché i più urgenti bisogni di una grande parte della società non sono soddisfatti o lo sono solo i bisogni più immediati, naturalmente non possiamo parlare di sovrapproduzione di prodotti – nel senso che la massa dei prodotti sarebbe sovrabbondante in rapporto ai bisogni di essi. Si deve dire per converso che in base alla produzione capitalistica si sottoproduce, in questo senso continuamente. Il limite della produzione è il profitto dei capitalisti, in nessun modo il bisogno dei produttori. Ma sovrapproduzione di prodotti e sovrapproduzione di merci sono due cose assolutamente differenti. Se Ricardo crede che la forma della merce sia indifferente per il prodotto, inoltre che la circolazione di merci sia solo formalmente diversa dal commercio di scambio, che il valore di scambio sia qui soltanto una forma passeggera degli scambi materiali, dunque che il denaro è solamente un mezzo formale di circolazione – questo risulta di fatto dal suo presupposto che il modo di produzione borghese sia quello assoluto, quindi che sia anche un modo di produzione senza una precisa determinazione specifica, e che di conseguenza ciò che in esso è determinato sia solo formale. Non può dunque neanche essere ammesso da lui che il modo di produzione borghese implichi un limite per il libero sviluppo delle forze produttive, un limite che viene alla luce nelle crisi e fra l’altro nella sovrapproduzione, il fenomeno fondamentale delle crisi.” (Ibidem).
Successivamente Marx dimostra la differenza tra il modo di produzione capitalista ed i modi di produzione precedenti che non cercavano di accumulare delle ricchezze ma di consumarle e che furono confrontati al problema della sottoproduzione piuttosto che della sovrapproduzione:
"... gli Antichi non pensavano neppure per sogno a trasformare il plusprodotto in capitale. Per lo meno solo in scarsa misura. (L’estesa presenza presso di loro della tesaurizzazione vera e propria mostra quanto plusprodotto restasse del tutto infruttifero.) Essi trasformavano una gran parte del plusprodotto in spese improduttive per opere d’arte, opere religiose, lavori pubblici. Ancor meno la loro produzione era indirizzata ad uno scatenamento e ad uno spiegamento delle forze produttive materiali – divisione del lavoro, macchinario, applicazione di forze naturali e scienza alla produzione privata. In complesso essi non oltrepassavano mai di fatto il lavoro artigianale. Perciò la ricchezza che essi creavano per consumo privato era relativamente piccola e appare grande solo perché ammucchiata in poche mani, che del resto non sapevano che farsene. Se perciò non c’era sovrapproduzione, c’era presso gli antichi sovraconsumo per i ricchi, che negli ultimi tempi di Roma e della Grecia esplose in spreco pazzesco. I pochi popoli mercantili in mezzo a loro vivevamo in parte a spese di tutte queste nazioni essenzialmente povere. E’ l’incondizionato sviluppo delle forze produttive e perciò la produzione in massa sulla base della massa di produttori chiusa nella sfera degli oggetti di prima necessità da un lato, il limite costituito dal profitto dei capitalisti dall’altro che[formano] il fondamento della moderna sovrapproduzione.”. (Ibidem).
Il problema posto dagli economisti, è che considerano il capitalismo come un sistema sociale già armonioso - una specie di socialismo in cui la produzione è determinata fondamentalmente dai bisogni:
“Tutte le difficoltà sollevate da Ricardo e da altri sulla questione della sovrapproduzione poggiano sul fatto che essi considerano la produzione borghese come un modo di produzione in cui o non esiste differenza fra compra e vendita – commercio di scambio immediato – o come produzione sociale così che la società, come secondo un piano, ripartisca i suoi mezzi di produzione e le sue forze produttive nel grado e nella misura in cui sono necessari al soddisfacimento dei loro diversi bisogni, così che ad ogni sfera di produzione tocchi il quanto del capitale sociale richiesto al soddisfacimento del bisogno al quale essa corrisponde. Questa finzione ha la sua origine nell'incapacità di comprendere la forma specifica della produzione borghese, e quest’ultima a sua volta dall’essere sprofondati nella produzione borghese intesa come la produzione semplicemente. Proprio come il credente che considera la sua come vera religione e non vede altrove che 'false' religioni”. (Ibidem).
Alla radice, la sovrapproduzione risiede nei rapporti sociali capitalisti
Contrariamente a queste distorsioni, Marx pone le crisi di sovrapproduzione negli stessi rapporti sociali che definiscono il capitale come modo di produzione specifico: il rapporto del lavoro salariato
“... se il rapporto si riduce semplicemente a quello fra consumatori e produttori, si dimentica che l’operaio salariato che produce e il capitalista che produce sono due produttori di genere del tutto diverso, prescindendo dai consumatori che n genere non producono. L’antitesi viene di nuovo negata per il fatto che si fa astrazione da una antitesi realmente esistente nella produzione. Il semplice rapporto fra operaio salariato e capitalista include:
Evidentemente, il capitalismo non ha cominciato ogni fase del processo di accumulazione con un problema immediato di sovrapproduzione: è nato e si è sviluppato come un sistema dinamico in espansione costante verso nuovi campi di scambio produttivo, sia nell'economia interna che a scala mondiale. Ma a causa della natura inevitabile della contraddizione che Marx ha appena descritto, questa espansione costante è una necessità per il capitale se vuole respingere o superare la crisi di sovrapproduzione e qui, di nuovo, Marx ha dovuto sostenere questo punto di vista contro gli apologeti che consideravano l'estensione del mercato più come qualche cosa di comodo che come una questione di vita o di morte, a causa della loro tendenza a considerare il capitale come un sistema indipendente ed armonioso:
“Tuttavia, con la semplice ammissione che il mercato si deve allargare con la produzione, sarebbe già data d’altro canto anche la possibilità di una sovrapproduzione, essendo il mercato geograficamente circoscritto esternamente, il mercato interno appare come limitato ad un mercato che è interno ed esterno e quest’ultimo a sua volta è limitato rispetto al mercato mondiale il quale - benché suscettibile di estensione - è anch’esso limitato nel tempo. Ammettendo dunque che il mercato debba estendersi per evitare la sovrapproduzione, si ammette la possibilità della sovrapproduzione”. (Ibidem)
Nello stesso passo, Marx prosegue dimostrando che, mentre l'estensione del mercato mondiale permette al capitalismo di superare le sue crisi e di proseguire lo sviluppo delle forze produttive, l'estensione precedente del mercato diventa velocemente inabile ad assorbire il nuovo sviluppo della produzione. Non vedeva in questo un processo eterno: esistono dei limiti inerenti alla capacità del capitale di diventare un sistema veramente universale ed una volta che saranno stati raggiunti, questi limiti trascineranno il capitalismo verso l'abisso:
“Tuttavia, anche se il capitale concepisce ogni limite come un ostacolo da superare, non significa che in realtà li supera tutti. Poiché ogni barriera è contraria alla sua vocazione, la produzione capitalista si sviluppa nelle contraddizioni che sono superate costantemente, ma anche continuamente poste. Inoltre: l'universalità verso cui tende senza tregua il capitale incontra dei limiti immanenti alla sua natura che, ad un certo stadio del suo sviluppo, lo fanno apparire come il più grande ostacolo a questa tendenza e lo spingono alla sua autodistruzione”. (Grundrisse)[4].
E così arriviamo alla conclusione che la sovrapproduzione è il primo uccello di male augurio che annuncia il fallimento del capitalismo, l'illustrazione concreta, nel capitalismo, della formula fondamentale di Marx che spiega l’ascesa ed il declino di tutti i modi di produzione esistiti fino ad oggi: ieri forma di sviluppo, l'estensione generale della produzione di merci diventa oggi un ostacolo per far progredire lo sviluppo delle forze produttive dell’umanità:
"Per meglio delineare la questione: in primo luogo, esiste un limite inerente non alla produzione in generale, ma alla produzione fondata sul capitale. Questo limite è doppio - o meglio unico, ma si presenta sotto due angolazioni. Per rivelare il fondamento della sovrapproduzione - contraddizione fondamentale del capitale sviluppato, basta dimostrare che il capitale contiene un limite particolare della produzione che contrasta con la sua tendenza generale a superarne tutte le barriere; basta dimostrare che, contrariamente all'opinione degli economisti, il capitale non è la forma assoluta dello sviluppo delle forze produttive e che non coincide assolutamente con la ricchezza. Dal punto di vista del capitale, le tappe della produzione che lo precedono appaiono come altrettanti ostacoli alle forze produttive. Correttamente compreso lo stesso capitale appare come condizione dello sviluppo delle forze produttive finché queste richiedono un stimolo esterno che ne è il frena allo stesso tempo. Il capitale disciplina le sue forze, ma ad un certo livello del loro incremento - proprio come una volta le corporazioni, ecc. - questa disciplina si rivela superflua ed inadeguata". (Ibidem).
Secondo uccello del male augurio: la caduta tendenziale del tasso di profitto
Un'altra critica che Marx fa agli economisti politici cade sulla loro incoerenza nel fatto che negano la sovrapproduzione di merci pure ammettendo la sovrapproduzione di capitale:
"Nella cornice delle sue premesse, Ricardo resta coerente con sé stesso: affermare l'impossibilità di una sovrapproduzione di merci, per lui, è affermare che non ci può essere pletora o sovrabbondanza di capitale.
Che cosa avrebbe detto allora Ricardo davanti alla stupidità dei suoi successori che, negando la sovrapproduzione sotto una delle sue forme (ingorgo generale del mercato) l'accettano sotto quella della pletora, della sovrabbondanza del capitale e ne fanno anche un punto essenziale delle loro dottrine?" (Teorie del plus-valore)2 .
Tuttavia Marx, in particolare nel terzo volume del Capitale, mostra che il fatto che il capitale tenda a diventare "sovrabbondante", soprattutto sotto la sua forma di mezzi di produzione, non ha niente di consolante. Perché questa sovrabbondanza fa sviluppare solamente un'altra contraddizione mortale, la tendenza all'abbassamento del tasso di profitto che Marx qualifica nel seguente modo: "E’, di tutte le leggi dell'economia politica moderna, la più importante". (Grundrisse)3. Questa contraddizione è altrettanto contenuta nei rapporti sociali fondamentali del capitalismo: poiché solo il lavoro vivo può aggiungere del valore - ed è questo il “segreto” del profitto capitalista - e allo stesso tempo, i capitalisti sono costretti sotto la sferzata della concorrenza a “rivoluzionare costantemente i mezzi di produzione”, in altri termini costretti ad aumentare la proporzione tra il lavoro morto delle macchine ed il lavoro vivo degli uomini, si devono confrontare con la tendenza intrinseca al fatto che la proporzione di nuovo valore contenuto in ogni merce si assottiglia e dunque al fatto che il tasso di profitto si abbassa.
Di nuovo, gli apologeti borghesi rifuggono con terrore alle implicazioni di ciò poiché la legge della caduta del tasso di profitto mostra così il carattere transitorio del capitale:
“Inoltre, nella misura in cui il tasso di espansione del capitale totale, il tasso di profitto, è il motore della produzione capitalista (come la messa in valore del capitale ne è il solo scopo), la sua caduta rallenta la formazione di nuovi capitali indipendenti ed appare così come una minaccia per lo sviluppo del processo di produzione capitalista. Favorisce la sovrapproduzione, la speculazione, le crisi, il capitale eccedentario accanto alla popolazione eccedentaria. Gli economisti che, sull'esempio di Ricardo, considerano il modo di produzione capitalista come un assoluto, hanno allora la sensazione che questo modo di produzione si crea da solo una barriera, ed essi ne rendono responsabile non la produzione, ma la natura (nella loro teoria della rendita). L'importante, nell'orrore che provano davanti al tasso di profitto decrescente, è che si accorgono che il modo di produzione capitalista incontra, nello sviluppo delle forze produttive, un limite che non ha niente a che vedere con la produzione della ricchezza come tale. E questo limite particolare dimostra il carattere stretto, storico e transitorio semplicemente, del modo di produzione capitalista; dimostra che non è un modo di produzione assoluto per la produzione della ricchezza, ma che ad un certo stadio entra in conflitto col suo sviluppo ulteriore”. (Il Capitale, Libro III).
E qui, nei Grundrisse, le riflessioni di Marx sulla caduta del tasso di profitto fanno emergere ciò che è forse il suo annuncio più esplicito della prospettiva del capitalismo che, come le forme precedenti di schiavitù, non può evitare di entrare in una fase di obsolescenza o di senilità nella quale una tendenza crescente all'autodistruzione porrà all'umanità la necessità di sviluppare una forma superiore di vita sociale:
“Dato ciò: la forza produttiva materiale già esistente ed acquistata sotto forma di capitale fisso, le conquiste della scienza, lo sviluppo delle popolazioni, ecc., in breve, le immense ricchezze e le condizioni della loro riproduzione da cui dipende il più alto sviluppo dell'individuo sociale e che il capitale ha creato nel corso della sua evoluzione storica – dato ciò, si vede che a partire da un certo punto della sua espansione il capitale sopprime da sé le proprie possibilità. Al di là di un certo punto, lo sviluppo delle forze produttive diventa un ostacolo per l'espansione delle forze produttive del lavoro. Arrivato a questo punto, il capitale, o più esattamente il lavoro salariato, entra nello stesso rapporto con lo sviluppo della ricchezza sociale e delle forze produttive come è stato per il sistema delle corporazioni, la servitù, la schiavitù, ed esso è necessariamente rigettato come un ostacolo. L'ultima forma della schiavitù che prende l'attività umana - lavoro salariato da un lato e capitale dall'altro - è allora eliminata, e questa stessa eliminazione è il risultato del modo di produzione che corrisponde al capitale. Essi stessi negazione delle forme anteriori della produzione sociale asservita, il lavoro salariato ed il capitale sono a loro volta negati dalle condizioni materiali e spirituali generate dal loro stesso processo di produzione. E’ attraverso i conflitti acuti, delle crisi, delle convulsioni che si traduce l'incompatibilità crescente tra gli sviluppi creativi della società ed i rapporti di produzione stabilita. L'annientamento violento del capitale dalle forze nate non dall'esterno, ma dal di dentro, dalla sua volontà di autoconservazione, ecco con quale modo sorprendente sarà avvisato a sloggiare, a sgomberare il campo per l’istaurarsi di una fase superiore della produzione sociale”[5].
Il circolo vizioso delle contraddizioni capitaliste
È certo che Marx discerneva il futuro in passaggi come questo: riconosceva che esistevano delle contro-tendenze che facevano della caduta del tasso di profitto un ostacolo alla produzione capitalista a lungo termine e non nell'immediato. Queste comprendono: l’aumento dell'intensità dello sfruttamento; l'abbassamento di salari al disotto del valore della forza lavoro; l’abbassamento del prezzo di elementi del capitale costante ed il commercio esterno. Il modo con cui Marx tratta in particolare di quest’ultimo mostra come le due contraddizioni al centro del sistema sono legate strettamente. Il commercio estero implica in parte l’investimento (come lo vediamo oggi nel fenomeno dell’outsourcing) in fonti di forza lavoro più conveniente e nella vendita dei prodotti del mercato interiore “al di sotto del loro valore, a miglior mercato dei che nei paesi concorrenti” (Il Capitale, Libro III). Ma la stessa sezione parla anche delle “necessità che gli sono inerenti, in particolare del bisogno di un mercato sempre più esteso” (Ibid.). Ciò è anche legato al tentativo di compensare la caduta del tasso di profitto poiché, anche se ogni merce comprende meno profitto, finché il capitalismo può vendere più merci, può realizzare una maggiore massa di profitto. Ma di nuovo il capitalismo cozza qui contro i suoi limiti inerenti:
“Lo stesso commercio estero sviluppa all'interno il modo di produzione capitalista, con la diminuzione del capitale variabile rispetto al capitale costante, e genera, d’altra parte, la sovrapproduzione rispetto ai mercati esterni; produce dunque, di nuovo, a lungo termine, un effetto contrario”. (Ibid.)
o ancora
“La compensazione della caduta del tasso di profitto attraverso la massa di profitto aumentato vale solamente per il capitale totale della società e per i grossi capitalisti già affermati. Il nuovo capitale addizionale, operante in completa indipendenza, non incontra queste condizioni compensatrici; è obbligato a conquistarli con la lotta, ed è così che la caduta del tasso di profitto provoca la concorrenza tra capitalisti, e non al contrario quest’ultima la prima. Certamente questa concorrenza si accompagna ad un rialzo temporaneo del salario ed ad un abbassamento corrispondente temporaneo del tasso di profitto, lo stesso fenomeno si manifesta nella sovrapproduzione di merci, l'ingombro dei mercati. Lo scopo del capitale non è soddisfare dei bisogni, ma produrre del profitto; questo scopo, non può raggiungerlo che attraverso metodi che mirano a regolare la quantità dei prodotti in funzione della scala della produzione, e non inversamente. Da allora, non può mancare di stabilirsi una discordanza tra le dimensioni ristrette del consumo su una base capitalista ed una produzione che tende sempre a superare questo limite immanente. Del resto il capitale si costituisce di merci; dunque, la sovrapproduzione di capitale implica quella di merci”. (Il Capitale, Libro III).
Cercando di sfuggire ad una delle sue contraddizioni, il capitalismo non ha fatto che scontrarsi ai limiti dell'altro. Così Marx vedeva l'inevitabilità “dei conflitti acuti, delle crisi, delle convulsioni...” di cui aveva parlato già ne Il Manifesto. L’approfondimento dei suoi studi dell'economia politica capitalista aveva confermato il suo punto di vista secondo cui il capitalismo avrebbe raggiunto un punto in cui avrebbe esaurito la sua missione progressiva e cominciato a minacciare la capacità stessa della società umana a riprodursi. Marx non ha speculato sulla forma precisa che prenderà questa caduta. Non aveva conosciuto le guerre imperialiste mondiali che, pure cercando di "risolvere" la crisi economica per capitali particolari, tendono a diventare sempre più rovinose per il capitale nel suo insieme ed a costituire una minaccia crescente per la sopravvivenza dell'umanità. Allo stesso modo, aveva solo accennato alla propensione del capitalismo a distruggere l'ambiente naturale su cui, in ultima istanza, si basa ogni riproduzione sociale. D’altro lato, ha posto la questione della fine dell'epoca ascendente del capitalismo in termini molto concreti: come l'abbiamo notato in un precedente articolo di questa serie, fin dal 1858 Marx ha ritenuto che l'apertura di vaste regioni come la Cina, l’Australia e la California indicavano che il compito del capitalismo di creare un mercato mondiale ed una produzione mondiale basata su questi mercati stava terminando; nel 1881, parlava del capitalismo nei paesi avanzati che stava diventando un sistema "regressivo", sebbene nei due casi, abbia pensato che il capitalismo aveva ancora strada a fare, soprattutto nei paesi periferici, prima di smettere di essere un sistema ascendente a livello globale.
Inizialmente, Marx ha concepito i suoi studi del capitale come una parte di un lavoro più vasto che avrebbe abbracciato altri campi di ricerca come lo Stato e la storia del pensiero socialista. In realtà, la sua vita è stata troppo breve per dargli la possibilità di terminare anche la parte "economica", e ciò che fa de Il Capitale un'opera incompiuta. Allo stesso tempo, pretendere d’elaborare una teoria finale decisiva dell'evoluzione capitalista sarebbe stato estraneo alle premesse fondamentali del metodo di Marx che considerava la storia come un movimento senza fine e la dialettica della "Astuzia della Ragione" come necessariamente piena di sorprese. Di conseguenza, nella sfera dell'economia, Marx non ha dato una risposta definitiva su quell’ "uccello di male augurio" (il problema del mercato o della caduta del tasso di profitto) che andava a sostenere il ruolo più decisivo nell'apertura delle crisi che finirebbero per portare il proletariato a rivoltarsi contro il sistema. Ma una cosa è chiara: la sovrapproduzione di merci come la sovrapproduzione di capitale è la prova che l'umanità ha raggiunto infine la tappa in cui è diventato possibile provvedere ai bisogni della vita di tutti e dunque di creare la base materiale per l'eliminazione di tutte le divisioni di classe. Che le popolazioni muoiono di fame mentre le merci invendute si accumulano nei magazzini o le fabbriche che producono i beni necessari al vita chiudono perché la loro produzione non porta profitto, il fossato tra le immense potenzialità contenute nelle forze produttive e la loro compressione nella morsa del valore, tutto ciò fornisce i fondamenti dello sviluppo di una coscienza comunista presso coloro che si scontrano direttamente con le conseguenze delle assurdità del capitalismo.
Gerrard[1] Nella mitologia nordica, il Ragnarök (vecchio modo di dire significante Consumo del Destino delle Potenze) designa una profetica fine del mondo dove gli elementi naturali si scateneranno ed avrà luogo una grande battaglia che condurrà alla morte la maggior parte delle divinità, giganti ed uomini, prima di una rinascita. (fonte Wikipédia).
[2] Editori Riuniti, 1973, volume 2, parte IV “Le crisi”
[3] Ibidem.
[4] Edizione La Nuova Italia, 1974, pubblicate con il nome Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, parte III: “Il Capitale”.
[5] Ibidem.
Quello che viene comunemente ricordato come l’Autunno caldo italiano[1] è un insieme di lotte che scuotono l’Italia dal Piemonte alla Sicilia giusto 40 anni fa e che cambieranno in maniera durevole il quadro sociale e politico del paese. Ma queste lotte non sono una peculiarità italiana. Infatti, alla fine degli anni ’60, si può assistere, particolarmente in Europa ma non solo, allo sviluppo di una serie di lotte e di momenti di presa di coscienza da parte del proletariato che mostrano, nel loro insieme, che qualcosa è cambiato: la classe operaia era tornata finalmente sulla scena sociale. Essa riprendeva la sua lotta storica contro la borghesia, dopo la lunga notte degli anni della controrivoluzione in cui l’avevano cacciata la sconfitta degli anni ’20, la Seconda Guerra mondiale e l’azione controrivoluzionaria dello stalinismo. Il “Maggio francese”[2] del 1968, gli scioperi in Polonia[3] del 1970 e le lotte in Argentina[4] del 69-73 costituiscono, assieme all’Autunno caldo in Italia, i momenti più importanti di questa dinamica nuova che investe tutti i paesi del mondo e che aprirà la nuova epoca di scontri sociali che, tra alti e bassi, è arrivata fino a noi oggi.
Come si arriva all’Autunno caldo?
Istruita dall’esperienza del Maggio 68, la borghesia italiana non si lascia sorprendere dall’esplosione delle lotte nel 1969, come era invece capitato alla borghesia francese l’anno precedente. Ciò non le eviterà tuttavia di trovarsi talvolta smarcata di fronte agli avvenimenti. Il tutto non si é prodotto dalla sera alla mattina. In realtà ci sono molteplici elementi, sia a livello nazionale che a livello internazionale, che concorrono a creare un’atmosfera nuova nella classe operaia italiana, e particolarmente nella sua componente giovane.
Il clima internazionale
A livello internazionale, una frangia importante della gioventù viene sensibilizzata da un insieme di situazioni, tra cui principalmente:
Nessuno di questi fatti è legato, da vicino o da lontano, alla lotta di classe del proletariato in vista del rovesciamento del capitalismo: gli orrori subiti dalla popolazione vietnamita durante la guerra sono il prodotto degli antagonismi imperialisti tra i due blocchi rivali che si dividevano all’epoca il mondo; la resistenza incarnata dai guerriglieri, fossero questi palestinesi o ghevaristi, è solo un altro momento della lotta a morte tra questi due blocchi per la dominazione su altre regioni del mondo; per quanto riguarda il “comunismo” in Cina, questo regime è capitalista così come quello che esisteva in URSS e la cosiddetta “rivoluzione culturale” è stata niente altro che una lotta per il potere tra la frazione di Mao e quella di Deng Xiao Ping e Liu Shaoshi.
Tuttavia tutti questi avvenimenti testimoniavano una profonda sofferenza dell’umanità che hanno ispirato in molti elementi un disgusto profondo per le violenze della guerra e un sentimento di solidarietà verso i popoli che ne sono vittima. Quanto al maoismo, se questo non rappresenta alcuna soluzione ai mali dell’umanità ma solo una mistificazione e un intralcio ulteriore sul cammino della sua emancipazione, esso alimenta tuttavia una contestazione internazionale della natura reale del “comunismo” in Russia.
All’interno di questo scenario, l’esplosione delle lotte studentesche ed operaie del Maggio francese ha una risonanza internazionale tale da costituire un elemento di riferimento e di incoraggiamento per i giovani e i proletari in tutto il mondo. Il Maggio 68 era stato infatti la dimostrazione non solo che lottare si può, ma che si può anche vincere. Ma lo stesso Maggio, almeno nella sua componente di lotte studentesche, era stato preparato da altre lotte, da altri movimenti, come quelle che si erano prodotte in Germania con l’esperienza della Kritische Universität[10] e la formazione degli SDS (Sozialistischer Deutscher Studentenbund), o in Olanda con quella dei Provos o ancora negli USA con il Black Panther Party. In qualche modo siamo in un’epoca in cui ogni episodio che accade nel mondo ha una grande risonanza in tutti gli altri paesi per la forte recettività che esiste soprattutto nella giovane generazione di proletari e di studenti che saranno, in larga misura, i grandi protagonisti dell’autunno caldo.
L’angoscia e la riflessione sui problemi del periodo ispireranno delle figure carismatiche del mondo dello spettacolo, come Bob Dylan, Joan Baez, Jimmy Hendrix ed altri le cui melodie evocavano talvolta le rivendicazioni di popoli e di strati sociali storicamente repressi e sfruttati, come i neri d’America, talaltra le atrocità della guerra, come nel Vietnam, esaltando la volontà di emancipazione.
Sul piano nazionale invece …
Anche in Italia, come prima in Francia, l’indebolimento della cappa di piombo che aveva costituito lo stalinismo durante tutti gli anni della controrivoluzione permette lo sviluppo di un fenomeno di maturazione politica che costituisce il terreno più favorevole all’emergere di diverse minoranze che riprenderanno un lavoro di ricerca e di chiarificazione. D’altra parte, l’arrivo di una nuova generazione di proletari si traduce in una maggiore combattività che porta a delle caratteristiche nuove della lotta e ad alcune esperienze di scontri di piazza che lasceranno il segno nella classe operaia.
L’esperienza dei Quaderni Rossi (QR)
Ancora bisogna considerare che, per quanto nei primi anni ’60 ci si trovi ancora in piena controrivoluzione, non mancano esperienze di piccoli gruppi di elementi - critici nei confronti dello stalinismo - che cercano, per quanto è loro possibile, di ripartire da zero. In quegli anni infatti il PCI (Partito Comunista Italiano), passato alla controrivoluzione e stalinizzato esso stesso come gli altri PC nel mondo, aveva una importante base di iscritti e simpatizzanti dovuta ancora in parte al fascino ereditato dal vecchio partito rivoluzionario fondato da Bordiga nel 1921. D’altra parte il lungo ventennio fascista e la scomparsa dei partiti “democratici” dall’Italia aveva evitato al PCI, più che agli altri PC, di essere identificato come un vero nemico di classe da parte della gran parte degli operai. Tuttavia, già dagli anni ’50 e ancor più nei ’60 cominciano a formarsi delle minoranze, all’inizio all’interno dello stesso PCI, che cercano di risalire alle vere posizioni di classe. Si torna soprattutto a Marx, mentre Lenin è meno letto in questa fase. E si scopre anche Rosa Luxemburg.
Una delle esperienze di riferimento in questa fase è quella dei Quaderni Rossi, gruppo interno al PCI nato intorno alla figura di Raniero Panzieri e che, nell’arco della sua vita (1961-1966), pubblicò solo sei numeri di una rivista che però avrà un peso enorme nella storia della riflessione teorica della sinistra in Italia. E’ ad essa infatti che si può fare risalire la corrente che prenderà il nome di “operaismo” di cui parleremo diffusamente in seguito. E dalla stessa matrice verranno fuori i due principali gruppi dell’operaismo italiano: Potere Operaio e Lotta Continua. Il lavoro del gruppo si divide tra la rilettura del Capitale, la “scoperta” dei Grundisse di Marx e le ricerche sulla nuova composizione della classe operaia. “(…) Quaderni Rossi, la rivista di Raniero Panzieri, Vittorio Foa, Mario Tronti e Alberto Asor Rosa, che tra il ’61 e il ’66 ha anticipato l’intuizione che sarà al centro della linea politica di Lotta Continua: la rivoluzione non arriverà dalle urne o dai partiti (…); si tratta di liberare la carica antagonista degli operai, che non va incanalata nei contratti e nelle riforme, bensì sottratta alla tutela dei sindacalisti e degli ingegneri e indirizzata alla prospettiva del controllo della produzione e di un cambiamento globale del sistema”[11].
L’operazione tentata da Panzieri con i QR aveva la pretesa di fondere assieme tendenze e punti di vista che erano piuttosto diversi e lontani e la fase ancora fortemente segnata dalla controrivoluzione non permise il miracolo. Così, “all’inizio del 1962, appena apertosi il dibattito sul primo numero della rivista, da questa si ritira il gruppo dei sindacalisti; nel luglio dello stesso anno, dopo i fatti di Piazza Statuto, vi è una prima uscita di interventisti (che danno vita al foglio “Gatto Selvaggio”)”.[12]
Parallelamente all’esperienza dei QR, anche se con uno spessore politico minore, si produce nel Veneto l’esperienza di Progresso Veneto. Il collegamento tra le due testate lo farà un personaggio che sarà successivamente molto famoso e che parte, nella sua carriera politica, facendo il consigliere comunale al comune di Padova: si tratta di Toni Negri. Il Progresso Veneto, attivo tra il dicembre 1961 e il marzo del 1962, costituisce la fucina in cui si comincia a sviluppare l’operaismo veneto, con particolare riferimento all’area industriale di Porto Marghera. QR e Progresso Veneto lavorano per un certo tempo in simbiosi fino a che il gruppo veneto non subisce, nel giugno del 1963, una scissione tra operaisti e socialisti più fedeli al partito di appartenenza.
Ma la scissione più importante è quella che si produce nel 1964 all’interno di QR. Dal gruppo originario uscirono Mario Tronti, Alberto Asor Rosa, Massimo Cacciari, Rita Di Leo ed altri per fondare Classe Operaia. Mentre QR con Panzieri resta fermo in una dimensione di ricerca di tipo sociologico, senza un impatto significativo sulla realtà, Classe Operaia si propone di avere una presenza ed un’influenza immediate nella classe operaia, giudicando che i tempi siano maturi per poterlo fare: “Ai nostri occhi il loro lavoro appariva una sofisticheria intellettuale, rispetto a quella che consideravamo una esigenza pressante, ossia far capire al sindacato come si dovesse fare il mestiere di sindacalista ed al partito come si dovesse fare la rivoluzione[13].’”
Classe Operaia, a cui si aggregherà una parte degli operaisti di Progresso Veneto, sarà diretta da Mario Tronti. Vi partecipano, almeno inizialmente, anche Negri, Cacciari e Ferrari Bravo. Ma la nuova rivista ha essa stessa vita difficile: la redazione veneta di Classe Operaia inizia un lento distacco da quella romana. Infatti, mentre i romani si riavvicinano a mamma-PCI, i veneti danno vita a Potere Operaio, che esce all’inizio come supplemento a Classe Operaia sotto forma di una rivista-volantino. Classe Operaia entra in agonia nel 1965 ma l’ultimo fascicolo è del marzo 1967. Nello stesso mese nasce Potere Operaio, giornale politico degli operai di Porto Marghera[14].
Oltre ai Quaderni Rossi e ai suoi vari epigoni, è presente in Italia una fitta rete di altre iniziative editoriali, alcune volte nate in campi culturali specifici come il cinema o la letteratura, e che acquistano progressivamente sempre più spessore politico e un certo carattere militante. Pubblicazioni come Giovane Critica, Quaderni Piacentini, Nuovo Impegno, Quindici, Lavoro Politico, parteciperanno a pieno titolo a preparare il terreno del biennio 68-69.
Come si vede esiste un lungo e articolato travaglio politico all’alba dell’autunno caldo che fa sì che si abbia, almeno a livello di minoranze, lo sviluppo di un pensiero politico di un certo spessore e il recupero, purtroppo questo piuttosto parziale, di riferimenti ai classici del marxismo. E’ ancora da sottolineare che quelle che saranno le formazioni operaiste più significative degli anni ’70 affondano profondamente le loro radici nella cultura politica del vecchio PCI e si sviluppano in epoca ben precedente alla grossa esplosione delle lotte del ‘69 e di quelle studentesche del ‘68. Avere il partito stalinista come punto di partenza e di riferimento, anche se in negativo perché fortemente criticato, costituisce, come vedremo, il limite più forte per l’esperienza dei gruppi operaisti e per lo stesso movimento dell’epoca.
La “nuova” classe operaia
A livello sociale, il fattore probabilmente determinante dello sviluppo della situazione fu la forte crescita della classe operaia negli anni del miracolo economico a spese soprattutto delle popolazioni delle campagne e delle periferie del sud. “In sintesi, ci troviamo davanti ad una élite di operai professionali a cui si affianca una grande maggioranza di operai comuni dequalificati che svolgono lavorazioni con cicli brevissimi, a volte di pochi secondi, sottoposti ad un rigido controllo dei tempi attraverso il cottimo e senza alcuna prospettiva di carriera professionale”[15]. Questa nuova generazione di proletari che arrivava dal sud non conosceva ancora il regime di fabbrica e non vi si era stata ancora sottomessa; d’altra parte, essendo giovani e spesso al primo lavoro, non conoscevano il sindacato e soprattutto non si portavano sulle spalle le sconfitte degli anni addietro, della guerra, del fascismo, della repressione, ma solo l’esuberanza di chi scopre un mondo nuovo e vuole modellarlo a suo piacimento. Questa “nuova” classe operaia, giovane, non politicizzata né sindacalizzata, senza storia alle spalle, farà, in larga misura, la storia dell’autunno caldo.
I moti del luglio ’60 e gli scontri di piazza Statuto del luglio ’62
Le lotte operaie dell’autunno caldo hanno un significativo preludio all’inizio degli anni ’60 in due importanti episodi di lotta: i moti di piazza del luglio ’60 e gli scontri di piazza Statuto del luglio ’62 a Torino.
Questi due episodi, per quanto distanti dal biennio 68-69, ne costituiscono in qualche modo una premessa importante. Infatti la classe operaia ha la possibilità di “saggiare” fino in fondo le attenzioni dello Stato nei suoi confronti.
I moti del luglio ’60 presero l’avvio dalla contestazione del congresso del partito neofascista a Genova, e questa fu l’occasione per fare uscire allo scoperto una serie di manifestazioni in tutta Italia che furono ferocemente represse: «A San Ferdinando di Puglia i braccianti erano in sciopero per il contratto, come in tutt’Italia? La polizia li attacca con le armi in pugno: tre braccianti sono gravemente feriti. A Licata, nell’Agrigentino, il 5, è in corso uno sciopero generale per il lavoro? Polizia e carabinieri caricano e sparano contro il corteo guidato dal sindaco dc Castelli: il commerciante Vincenzo Napoli, venticinque anni, viene ucciso da un colpo di moschetto. (…) il giorno appresso, un corteo diretto al sacrario di Porta San Paolo – l’ultimo bastione della difesa di Roma dai nazisti – viene caricato e pestato con violenza. (…) Scatta un nuovo sciopero generale. E scatta una nuova, furiosa reazione del governo che ordina di sparare a vista: cinque morti e ventidue feriti da armi da fuoco a Reggio Emilia il 7. (…) Il primo a cadere è Lauro Ferioli, operaio di ventidue anni. Accanto a lui, cade un istante dopo anche Mario Serri, quarant’anni, ex partigiano: ad ucciderli sono stati due agenti, appostati tra gli alberi. (…) Una raffica di mitra falcerà più tardi Emilio Reverberi, trent’anni anni. Infine, mentre un registratore fissa la voce furiosa di un commissario che grida: “Sparate nel mucchio!”, cade Afro Tondelli, trentacinque anni. Come documenterà una foto, è stato assassinato freddamente da un poliziotto che si è inginocchiato per prendere meglio la mira…»[16].
Come si vede le forze dell’ordine non hanno avuto mai riguardi per la povera gente, per i proletari che rivendicano i loro diritti. E lo stesso succede due anni dopo, con gli scontri di piazza Statuto a Torino che presero spunto invece da una questione squisitamente operaia, un contratto di lavoro del tutto sfavorevole ai lavoratori che però la UIL e la SIDA, due sindacati che avevano già all’epoca manifestato da che parte stavano, si erano affrettati a siglare separatamente con la direzione FIAT: “in seguito a ciò 6-7.000 operai, esasperati da questa notizia, si riunirono nel pomeriggio in piazza Statuto di fronte alla sede della Uil. Per due giorni la piazza fu teatro di una straordinaria serie di scontri tra dimostranti e polizia: i primi, armati di fionde, bastoni, e catene, ruppero vetrine e finestre, eressero rudimentali barricate, caricarono più volte i cordoni della polizia; la seconda rispose caricando le folle con le jeep, soffocando la piazza con i gas lacrimogeni, e picchiando i dimostranti con i calci dei fucili. Gli scontri si protrassero fino a tarda sera, sia sabato 7 che lunedì 9 luglio 1962. Dirigenti del Pci e della Cgil, tra i quali Pajetta e Garavini, cercarono di convincere i manifestanti a disperdersi, ma senza successo. Mille dimostranti furono arrestati e parecchi denunciati. La maggior parte erano giovani operai, per lo più meridionali»[17].
Un lucido resoconto di quelle giornate è stato fatto da Dario Lanzardo[18], con le testimonianze ufficiali riportate a proposito di tutti i pestaggi gratuiti prodotti da polizia e carabinieri non solo nei confronti dei dimostranti, ma anche di qualunque altra persona circolasse per caso nei paraggi di piazza Statuto. Se si considerano tutti i massacri prodotti dalle forze dell’ordine dal dopoguerra fino all’autunno caldo in occasione di manifestazioni di proletari in lotta, si capisce fino in fondo qual è la differenza tra il periodo buio della controrivoluzione - in cui la borghesia ha completa mano libera per fare quello che vuole contro la classe operaia- e la fase di ripresa delle lotte durante la quale la borghesia si affida più saggiamente all’arma della mistificazione ideologica e al lavoro di sabotaggio dei sindacati. In realtà quello che cambierà con l’autunno caldo, visto come manifestazione della più ampia ripresa della lotta di classe a livello mondiale, è proprio il rapporto di forza tra le classi, a livello nazionale e internazionale. E’ questa la chiave di lettura della nuova fase storica che si apre alla fine degli anni ’60 e non una presunta democratizzazione delle istituzioni. Da questo punto di vista, la posizione assunta dal PCI sugli scontri illustra perfettamente la collocazione politica borghese che lo caratterizzava da ormai 40 anni: “… l’Unità del 9 luglio definirà la rivolta “tentativi teppistici e provocatori”, ed i manifestanti “elementi incontrollati ed esasperati”, “piccoli gruppi di irresponsabili”, “giovani scalmanati”, “anarchici, internazionalisti”[19].
Dal ’68 studentesco all’autunno caldo
Parlare di autunno caldo è piuttosto limitativo nei confronti di un episodio storico che, come abbiamo potuto vedere, affonda le radici in una dinamica a livello locale e internazionale che risale indietro per diversi anni. E che, peraltro, non dura una singola stagione, come avviene invece per il maggio francese, ma si stempera – nella sua fase alta – per almeno due anni, nel biennio 68-69 con un riverbero che dura almeno fino al ‘73.
Il movimento proletario durante questi due anni e anche dopo sarà profondamente marcato dall’esplosione delle lotte studentesche, il ’68 italiano. E’ perciò importante ripercorrere i singoli episodi per ritrovarvi lo sviluppo, progressivo e impressionante, della maturazione della lotta di classe nel suo ritorno sulla scena storica in Italia.
Il ‘68 studentesco
Le scuole e soprattutto le università avvertono fortemente i segni di cambiamento della fase storica. Il boom economico che si era prodotto, in Italia come nel resto del mondo, dopo la fine della guerra, aveva permesso alle famiglie proletarie di raggiungere un tenore di vita meno miserabile e alle aziende di puntare su un incremento massiccio della propria mano d’opera. Ciò permette alle giovani generazioni delle classi sociali più deboli di accedere agli studi universitari dove acquisire una professione e una cultura più ampia attraverso le quali raggiungere una posizione sociale più soddisfacente rispetto a quella dei propri genitori. Ma l’ingresso di questi folti strati sociali nell’università porta non solo ad un significativo cambiamento della composizione sociale della popolazione studentesca, ma anche a una diversa destinazione della figura di laureato che non viene più preparato per assumere un ruolo dirigente ma per essere integrato nell’organizzazione della produzione – industriale o commerciale che sia – dove l’iniziativa dell’individuo è sempre più ridotta. E’ questo back-ground socio-culturale che spiega, almeno in parte, i motivi della protesta giovanile di questi anni, protesta contro il sapere dogmatico impartito da una casta di baroni universitari dalla gestione feudale, contro la meritocrazia, contro il settorialismo, contro una società che viene avvertita vecchia e ripiegata su sé stessa. Le proteste cominciano già dal febbraio ’67 con l’occupazione di palazzo Campana a Torino e, via via, in tutti gli altri atenei, alla Normale di Pisa, alla facoltà di Sociologia di Trento, alla Cattolica di Milano, e così via verso il sud e per mesi e mesi fino all’esplosione totale del ’68. In questa fase non esistono ancora i gruppi politici con il loro largo seguito che conosceremo negli anni ’70, ma è il periodo durante il quale si produrranno le diverse culture politiche che saranno alla base di tali gruppi. Tra le esperienze che segneranno più profondamente la storia successiva c’è sicuramente quella di Pisa, dove era presente un nutrito gruppo di elementi che avevano già un giornale, il Potere Operaio (detto “pisano” per non confonderlo con l’altro derivato da Classe Operaia). Il Potere Operaio in realtà è già un giornale operaio nel senso che viene pubblicato come giornale di fabbrica della Olivetti di Ivrea. Infatti il gruppo pisano, tra cui ritroviamo i nomi dei più noti leader di quegli anni, aveva fin dall’inizio fatto del fattore operaio e del contatto con la classe un elemento distintivo. Più in generale la tendenza ad andare verso la classe operaia e a fare di questa il riferimento principale e il partner ideale delle proprie lotte è presente, anche se in maniera diversamente accentuata, all’interno di tutto il movimento studentesco dell’epoca. Un po’ in tutte le città della contestazione studentesca si assiste al fatto che delegazioni di studenti si portano con assiduità ai cancelli delle fabbriche per fare volantinaggio, ma più in generale per stringere un’alleanza con un mondo, quello operaio, che si sente sempre più come quello di appartenenza. Questa identificazione dello studente come parte della classe operaia sarà addirittura teorizzato da alcune componenti del movimento di matrice più operaista.
Lo sviluppo delle lotte operaie
Ma, come abbiamo detto, in Italia il ‘68 segna anche l’inizio di importanti lotte operaie: “Nella primavera del 1968 si accendono in tutta Italia una serie di lotte aziendali che hanno come obiettivo un aumento salariale uguale per tutti in grado di recuperare il “magro” contratto del 1966. Tra le prime aziende a mobilitarsi c’è la Fiat, i cui operai effettuano la prima massiccia vertenza aziendale dopo oltre 14 anni e a Milano partono la Borletti, la Ercole Marelli, la Magneti Marelli, la Philips, la Sit Siemens, l’Innocenti, l’Autelco, la Triplex, la Brollo, la Raimondi, la Mezzera, la Rhodex, la Siae Microelettronica, la Seci, la Ferrotubi, l’Elettrocondutture, l’Autobianchi, l’Amf, la Fachini, la Tagliaferri, la Termokimik, la Minerva, l’Amsco e un’altra ventina di piccole aziende. (…) La lotta dapprima viene gestita da vecchi attivisti e dal sindacato esterno, risultando quindi piuttosto autoritaria, ma dopo un mese si impongono alcuni giovani operai che “criticano vivacemente i sindacalisti e i membri di C.I.[20] sui modi e sulle tappe della lotta” modificando qualitativamente le forme di mobilitazione, attraverso picchetti duri e cortei interni per costringere gli impiegati a scioperare. In un’occasione questi operai prolungano spontaneamente di un paio d’ore uno sciopero, costringendo i sindacati ad appoggiarli. Questa ventata di gioventù provoca una partecipazione massiccia alla lotta, aumentano le ore di sciopero, vengono effettuate manifestazioni per le vie di Sesto San Giovanni, si arriva a sfondare il portone del palazzo che ospita la direzione aziendale. Gli scioperi continuano, nonostante l’Assolombarda ponga come pregiudiziale per l’inizio delle trattative proprio la loro interruzione: la partecipazione operaia è totale, pressoché nulla invece tra gli impiegati.”[21]
Da allora in poi è tutto un crescendo. “Il bilancio del ’69 alla Fiat è un bollettino di guerra: 20 milioni di ore di sciopero, 277.000 veicoli perduti, boom (+37%) delle vendite di auto straniere.”[22]
Quello che cambia profondamente con le lotte dell’autunno caldo sono proprio i rapporti di forza in fabbrica. L’operaio sfruttato e umiliato dai ritmi di lavoro, dai controlli, dalle punizioni continue, sviluppa una conflittualità quotidiana contro il padrone. L’iniziativa operaia non si muove più soltanto su quante ore di sciopero fare, ma anche su come scioperare. Si sviluppa presto una logica di rifiuto del lavoro che corrisponde ad un atteggiamento di rifiuto di collaborare con le sorti dell’azienda, rimanendo fermamente attestati sulla difesa delle condizioni operaie. Questo produce una nuova logica di come condurre uno sciopero che punta a produrre, con il minimo sforzo da parte operaia, il massimo di danni al padrone. E’ lo sciopero a gatto selvaggio secondo il quale sciopera solo un ristretto gruppo di operai dalla cui attività dipende però l’intero ciclo di produzione. Cambiando di volta in volta il gruppo che entra in sciopero, si riesce a bloccare più e più volte tutta la fabbrica con il minimo di “spesa”.
Un’altra espressione dei mutati rapporti di forza tra classe operaia e padronato è l’esperienza dei cortei interni alla fabbrica. Inizialmente questi cortei si sono prodotti nei lunghi corridoi e viali degli stabilimenti Fiat e di altre importanti industrie come espressione di protesta. Poi sono diventate la pratica adottata dagli operai per convincere gli esitanti, particolarmente gli impiegati, ad aderire allo sciopero:
“I cortei interni partivano sempre dalle Carrozzerie, spesso dalla Verniciatura. Arrivava la voce che qualche officina aveva ripreso il lavoro, oppure che avevano concentrato i crumiri all’officina 16, quella delle donne. Allora passavamo noi con le corde e ramazzavamo tutto. Facevamo pesca a strascico. Mirafiori è tutta a corridoi, e negli spazi stretti non ci sfuggiva nessuno. Dopo un po’ non ce n’era più bisogno: appena ci vedeva, la gente mollava la linea e ci seguiva”[23].
Dal punto di vista della rappresentatività operaia é caratteristico di questa fase lo slogan “siamo tutti delegati”, che significa rifiuto di qualunque mediazione sindacale e imposizione al padronato di un rapporto diretto con le lotte degli operai. E’ importante tornare su questa parola d’ordine, che permeerà a lungo le lotte della classe in quegli anni, soprattutto di fronte ai dubbi che si pongono a volte oggi le minoranze proletarie che vorrebbero ingaggiare una lotta al di fuori dei sindacati ma che non vedono come poterlo fare non avendo loro un riconoscimento da parte dello Stato.
Gli operai dell’Autunno caldo non se ne fanno un gran problema: quando occorre lottano, scioperano, al di fuori e nonostante i divieti sindacali; ma non seguono sempre uno scopo immediato da realizzare: in questa fase la lotta degli operai esprime una grandissima combattività, una voglia a lungo repressa di rispondere alle angherie del padronato che non ha bisogno necessariamente di motivazioni e di obiettivi immediati per esprimersi e che fa da deterrente, crea un rapporto di forza, cambia poco per volta lo stato d’animo della classe operaia. In tutto questo il sindacato ha una presenza effimera. In realtà il sindacato, come la borghesia, rimane completamente smarcato dalla capacità e dalla forza della lotta della classe operaia di questi anni, e fa l’unica cosa che gli riesce di fare, cerca di stare a galla e di seguire il movimento, di non farsi scavalcare troppo. D’altra parte una reazione così forte manifestatasi all’interno della classe era anche l’espressione della mancanza di un significativo radicamento dei sindacati nel proletariato e dunque di una loro capacità di bloccare in anticipo o di deviare la combattività, come invece succede oggi. Ma questo non significa che ci fosse una profonda coscienza antisindacale nella classe operaia. Più che altro gli operai si muovono nonostante i sindacati, non contro i sindacati, anche se non mancano significative punte di coscienza, come nel caso dei Comitati Unitari di Base (CUB) nel milanese:
“… i sindacati sono dei “professionisti della contrattazione” che hanno scelto “insieme ai cosiddetti partiti dei lavoratori la strada delle riforme, cioè la strada dell’accordo complessivo e definitivo con i padroni”[24].
Il biennio 68-69 è un rullo compressore di scioperi e manifestazioni, con episodi di grande tensione come le lotte nel siracusano, che si conclusero con gli scontri di Avola[25], o quelle di Battipaglia, che pure dettero luogo a scontri molto forti[26]. Ma una tappa storica all’interno di questa dinamica è certamente costituita dagli scontri di corso Traiano a Torino del luglio 1969. In questa occasione il movimento di classe in Italia matura una tappa importante: il congiungimento tra il movimento operaio e quello delle avanguardie studentesche. Gli studenti, con la loro maggiore disponibilità di tempo e la loro mobilità riescono a dare un significativo contributo alla classe operaia in lotta, che a sua volta riscopre attraverso la gioventù che le si era avvicinata tutta la propria alienazione e tutta la voglia di farla finita con la schiavitù della fabbrica. La saldatura tra questi due mondi darà una forte enfasi alle lotte che si produrranno nel 69, e particolarmente a quella di corso Traiano. Riportiamo qui di seguito lunghe citazioni da un volantino della Assemblea operaia di Torino redatto il 5 luglio, dopo i fatti di corso Traiano, perché costituisce non solo un ottimo resoconto dei fatti ma anche un documento di grandissimo valore politico:
“La giornata del 3 luglio non è un episodio isolato o un’esplosione incontrollata di rivolta. Essa viene dopo cinquanta giorni di lotta che ha coinvolto un numero enorme di operai, ha bloccato completamente il ciclo produttivo, ha segnato il punto più alto di autonomia politica e organizzativa finora raggiunto dalle lotte operaie distruggendo ogni capacità di controllo sindacale.
Espulsi totalmente dalla lotta operaia, i sindacati hanno tentato di deviarla dalla fabbrica verso l’esterno, e di riconquistarne il controllo, proclamando uno sciopero generale di 24 ore per il blocco degli affitti. Ma ancora una volta l'iniziativa operaia ha avuto il sopravvento. Gli scioperi simbolici che si tramutano in una vacanza, con qualche comizio qua e là, servono solo ai burocrati. Nelle mani degli operai, lo sciopero generale diventa l'occasione per unirsi, per generalizzare la lotta condotta all’interno. La stampa di ogni colore si rifiuta di parlare di quello che succede alla Fiat, o ne parla mentendo. E’ ora di spezzare questa congiura del silenzio, di uscire dall’isolamento, di comunicare a tutti, con la forza dei fatti l’esperienza della Mirafiori.
Centinaia di operai e studenti decidono in assemblea di convocare per il giorno dello sciopero un grande corteo che da Mirafiori raggiunga i quartieri popolari, unisca gli operai delle diverse fabbriche. (…)
E’ troppo per i padroni. Prima ancora che il corteo si formi, un esercito di baschi neri e poliziotti si scaglia senza alcun preavviso sulla folla, pestando, arrestando, lanciando lacrimogeni. (…) In poco tempo, non sono solo le avanguardie operaie e studentesche a sostenere gli scontri, ma tutta la popolazione proletaria del quartiere. Si formano le barricate, si risponde con le cariche alle cariche della polizia. Per ore e ore la battaglia continua e la polizia è costretta a ritirarsi. (…)
In questo processo, il controllo e la mediazione del sindacato sono stati spazzati via: al di là degli obiettivi parziali, la lotta ha significato:
Gli scioperi, i cortei, le assemblee interne, hanno fatto saltare le divisioni tra gli operai e hanno maturato l'organizzazione autonoma di classe indicando gli obiettivi:
(…) La lotta degli operai Fiat infatti ha rilanciato a livello di massa gli obiettivi già espressi nel corso del 68-69 dalle lotte delle maggiori concentrazioni operaie italiane, da Milano a Porto Marghera, da Ivrea a Valdagno. Questi obiettivi sono:
Come già detto, dal testo del volantino si percepiscono tutta una serie di punti di forza dell’autunno caldo. Anzitutto l’idea dell’egualitarismo, cioè che gli aumenti dovevano essere uguali per tutti, indipendentemente dalla categoria di partenza, e comunque sganciati dalla redditività del proprio lavoro. Inoltre il recupero del tempo libero per gli operai, per poter vivere la propria vita, per poter fare politica, ecc. Da cui la richiesta di riduzione degli orari di lavoro e il rifiuto deciso del lavoro a cottimo.
Come riporta lo stesso volantino, sulla base di questi elementi gli operai torinesi riuniti in assemblea dopo gli scontri del 3 luglio propongono a tutti gli operai italiani di aprire una nuova e più radicale fase della lotta di classe che faccia avanzare, sugli obiettivi avanzati dagli stessi operai, l’unificazione politica di tutte le esperienze autonome di lotta fin qui realizzate.
Per questo verrà indetto a Torino un convegno nazionale dei comitati e delle avanguardie operaie:
Quello che si terrà il 26/27 luglio al Palasport di Torino sarà un “convegno nazionale delle avanguardie operaie”. Parlano operai di tutta Italia che raccontano di scioperi e cortei ed avanzano rivendicazioni come l’abolizione delle categorie, la riduzione dell’orario di lavoro a 40 ore, aumenti salariali uguali per tutti in assoluto e non in percentuale e la parità normativa con gli impiegati. “E’ rappresentata tutta l’industria italiana: in ordine di intervento, dopo Mirafiori, il Petrolchimico di Marghera, la Dalmine e il Nuovo Pignone di Massa, la Solvay di Rosignano, la Muggiano di La Spezia, la Piaggio di Pontedera, l’Italsider di Piombino, la Saint-Gobain di Pisa, la Fatme, l’Autovox, la Sacet e la Voxon di Roma, la Snam, la Farmitalia, la Sit Siemens, l’Alfa Romeo e l’Ercole Marelli di Milano, la Ducati e la Weber di Bologna, la Fiat di Marina di Pisa, la Montedison di Ferrara, l’Ignis di Varese, la Necchi di Pavia, la Sir di Porto Torres, i tecnici della Rai di Milano, la Galileo Oti di Firenze, i Comitati unitari di base della Pirelli, l’Arsenale di La Spezia”[28]. Una cosa così non si era mai vista, un’assemblea nazionale delle avanguardie operaie di tutta Italia, un momento di protagonismo della classe operaia a cui è possibile assistere solo in un momento di forte ascesa della combattività operaia, come fu appunto l’Autunno caldo.
I mesi successivi, quelli che sono rimasti nella memoria storica come l’Autunno Caldo, continuarono sulla stessa falsariga. I numerosi episodi di lotta, di cui troviamo un’interessante documentazione fotografica sul sito de La Repubblica[29], si snocciolano di giorno in giorno con una cadenza infernale:
2/09 Sciopero di operai e impiegati alla Pirelli per il premio di produzione e i diritti sindacali. Alla Fiat gli operai delle officine 32 e 33 di Mirafiori scendono in lotta, contravvenendo le direttive dei dirigenti sindacali, contro la discriminazione aziendale sui passaggi di categoria.
4/09 Agnelli sospende 30.000 lavoratori.
5/09 Fallisce il tentativo dei vertici sindacali di isolare gli operai di avanguardia alla Fiat e Agnelli è costretto a ritirare le sospensioni.
6/09 Più di due milioni di metalmeccanici, edili e chimici scendono in lotta per il rinnovo del contratto.
11/09 Dopo la rottura dell’8 settembre della trattativa per il rinnovo contrattuale dei metalmeccanici, un milione di metallurgici sciopera in tutta Italia. A Torino, 100.000 operai bloccano la Fiat.
12/09 Sciopero nazionale degli edili con cantieri chiusi in tutto il paese. Manifestazioni di metalmeccanici a Torino, Milano e Taranto.
16-17/09 Sciopero nazionale di 48 ore dei lavoratori chimici, sciopero nazionale dei cementieri e nuova giornata di lotta degli edili.
22/09 Manifestazione di 6.000 operai dell’Alfa Romeo a Milano. Giornata di lotta dei metalmeccanici anche a Torino, Venezia, Modena e Cagliari.
23-24/09 Altro sciopero generale di 48 ore dei cementieri.
25/09 Serrata alla Pirelli con la sospensione a tempo indeterminato di 12.000 operai. Immediata reazione operaia con il blocco di tutti gli stabilimenti del gruppo.
26/09 Manifestazione di metalmeccanici a Torino, dalla Fiat parte un corteo di 50.000 operai. Sciopero generale a Milano e manifestazione di centinaia di migliaia di lavoratori, così, alla Pirelli, viene imposta la revoca della serrata. Decine di migliaia di lavoratori in corteo a Firenze e Bari.
29/09 Manifestazioni di metalmeccanici, chimici e edili a Porto Marghera, Brescia e Genova.
30/09 Sciopero dei lavoratori edili a Roma. Manifestazioni di 15.000 metalmeccanici a Livorno.
7/10 Sciopero provinciale dei metallurgici a Milano. Da nove cortei, 100.000 operai confluiscono in Piazza Duomo.
8/10 Sciopero generale nazionale dei chimici. Sciopero provinciale a Terni. Manifestazioni di metalmeccanici a Roma, Sestri, Piombino, Marina di Pisa e L’Aquila.
9/10 60.000 metalmeccanici scioperano a Genova. Sciopero generale in Friuli-Venezia Giulia.
10/10 Per la prima volta si svolge un comizio all’interno dei reparti di Fiat Mirafiori. Assemblee e cortei interni nelle altre fabbriche del gruppo. La polizia carica all’esterno degli stabilimenti. Sciopero all’Italsider di Bagnoli contro la sospensione di cinque operai.
16/10 Ospedalieri, autoferrotranvieri, postelegrafonici, lavoratori degli Enti locali e braccianti scendono in lotta per il rinnovo dei loro contratti. Scioperi generali provinciali a Palermo e Matera.
22/10 A Milano, 40 fabbriche conquistano il diritto all’Assemblea.
8/11 Viene firmato il contratto degli edili: prevede l’aumento del 13% sui minimi retributivi, la riduzione graduale del lavoro a 40 ore, il diritto di Assemblea nei cantieri.
13/11 Durissimi scontri a Torino fra operai e polizia.
25/11 Sciopero generale nazionale dei chimici.
28/11 Centinaia di migliaia di metalmeccanici danno vita a Roma ad una tra le più grandi e combattive manifestazioni operaie mai avvenute in Italia, a sostegno della loro vertenza.
3/12 Sciopero totale degli operai delle carrozzerie Fiat. Manifestazione dei dipendenti degli Enti locali.
7/12 Raggiunto l’accordo per il contratto dei chimici: prevede aumenti salariali di 19.000 lire mensili, orario settimanale di 40 ore su 5 giorni, tre settimane di ferie.
8/12 Accordo sul contratto delle aziende metalmeccaniche a partecipazione statale: prevede l’aumento di 65 lire orarie uguali per tutti, la parità normativa tra operai e impiegati, diritto di Assemblea in azienda durante l’orario di lavoro per dieci ore annue retribuito, 40 ore di lavoro settimanali.
10/12 Sciopero generale dei braccianti per il patto nazionale, in centinaia di migliaia manifestano in tutta Italia. Inizia lo sciopero di 4 giorni dei dipendenti delle società petrolifere private per il rinnovo del contratto.
19/12 Sciopero nazionale dei lavoratori dell'industria in appoggio alla vertenza dei metalmeccanici. Nuovo sciopero nazionale dei braccianti.
23/12 Firma dell’accordo per il rinnovo del contratto dei metalmeccanici: prevede aumenti salariali di 65 lire l’ora per gli operai e di 13.500 lire mensili per gli impiegati, la 13a mensilità, il diritto di Assemblea in fabbrica, il riconoscimento dei rappresentanti sindacali aziendali e la riduzione dell’orario di lavoro a 40 ore settimanali.
24/12 Dopo 4 mesi di lotta viene rinnovato il patto nazionale dei braccianti che prevede la progressiva riduzione dell’orario di lavoro a 42 ore e 20 giorni di ferie[30].
Questo impressionante concatenamento di lotte non è solo il prodotto della forte spinta operaia, ma porta anche il segno delle manovre dei sindacati che disperdono le lotte in altrettanti focolai accesi in occasione del rinnovo dei contratti collettivi di lavoro in scadenza in diverse categorie di lavoratori. E’ il modo in cui la borghesia riesce a fare in modo che il profondo malcontento sociale che è presente non porti ad un incendio generalizzato.
Questo enorme sviluppo di combattività, accompagnato da momenti di chiarificazione importanti nella classe operaia, incontrerà però, nel periodo successivo, altri ostacoli importanti. La borghesia italiana, come quella degli altri paesi che avevano dovuto far fronte al risveglio della classe operaia, non rimane a lungo con le mani in mano e, a parte gli interventi frontali messi in atto dai corpi di polizia, cerca gradualmente di aggirare l’ostacolo con strumenti diversi. Come vedremo nella seconda parte di questo articolo, la capacità di recupero che ha la borghesia si basa principalmente sulle debolezze di un movimento proletario che, nonostante un’enorme combattività, era ancora privo di una chiara coscienza di classe e le cui stesse avanguardie non avevano la maturità e la chiarezza necessarie a svolgere il loro ruolo.
1 novembre 2009 Ezechiele
[1] Dal mese di luglio 1969 e per diversi mesi.
[2] Vedi Revue internationale n°133 [80] et 134 [81], Mai 68 et la perspective révolutionnaire (I et II), 2008.
[3] Vedi Lutte de classe en Europe de l'est (1970-1980) [82] Revue Internationale n°100.
[4] Nel 1969-73, il Cordobazo, lo sciopero di Mendoza, l’ondata di lotte che ha inondato il paese, hanno costituito la chiave dell’evoluzione sociale. Pur senza avere un carattere insurrezionale, queste lotte hanno segnato il risveglio del proletariato nel sud America. Vedi Révoltes populaires en Argentine: seule l’affirmation du prolétariat sur son terrain peut faire reculer la bourgeoisie [83], Revue internationale n°109, 2002.
[5] Vedi Notes sur l'histoire de la politique impérialiste des Etats-Unis depuis la seconde guerre mondiale, 2e partie [84] Revue Internationale n° 114.
[6] «Nasce così lo slogan: “l’Università è il nostro Vietnam”; i guerriglieri vietnamiti combattono contro l’imperialismo americano, gli studenti fanno la loro rivoluzione contro il potere e l’autoritarismo accademici». Alessandro Silj, Malpaese, Criminalità, corruzione e politica nell’Italia della prima Repubblica 1943-1994, Donzelli editore, Roma 1994, p. 92.
[7] Vedi Che Guevara : mythe et réalité (à propos de courriers d'un lecteur) [85] in Révolution Internationale n° 384 ; Quelques commentaires sur une apologie d'Ernesto "Che" Guevara (à propos d'un livre de Besancenot) [86] in Révolution Internationale n° 388.
[8] Vedi Le conflit Juifs / Arabes : La position des internationalistes dans les années trente: Bilan n° 30 et 31 [87] in Revue Internationale n° 110; Notes sur l'histoire des conflits impérialistes au Moyen-Orient, I, II e III parte in Revue Internationale n° 115 [88], 117 [89] e 118 [90]; Affrontements Hamas/Fatah : la bourgeoisie palestinienne est aussi sanguinaire que les autres [91] in Révolution Internationale n° 381.
[9] Vedi Le maoïsme, un pur produit de la contre-révolution [92] in Révolution Internationale n° 371 ; Chine 1928-1949: maillon de la guerre impérialiste, I e II parte, in Revue Internationale n°81 [93] e 84 [94]; Cina: il capitalismo di stato, dalle origini alla Rivoluzione Culturale (I e II parte) in Rivoluzione Internazionale n°5 e 6.
[10] Vedi Silvia Casillo, Controcultura e politica nel Sessantotto italiano
[11] Aldo Cazzullo, I ragazzi che volevano fare la rivoluzione. 1968-1978 Storia critica di Lotta continua, p. 13. Sperling e Kupfer Editori.
[12] Luca Barbieri, Il Caso 7 Aprile, cap. III, www.indicius.it [95].
[13] Intervista a Rita Di Leo in L’operaismo degli anni Sessanta. Dai “Quaderni rossi” a “classe operaia” di Giuseppe Trotta e Fabio Milana, edizione DeriveApprodi, www.deriveapprodi.com [96].
[14] Vedi: Luca Barbieri, Il Caso 7 Aprile, cap. III, www.indicius.it [95]
[15] Emilio Mentasti, La guardia rossa racconta. Storia del Comitato operaio della Magneti Marelli, p.25. Edizioni Colibrì.
[16] Giorgio Frasca Polara, Tambroni e il luglio “caldo” del ‘60, www.libertaegiustizia.it/primopiano/pp_leggi_articolo.php?id=2803&id_tit... [97]
[17] La rivolta operaia di piazza Statuto del 1962 lotteoperaie.splinder.com/post/5219182/La+rivolta+operaia+di+piazza+S.
[18] Dario Lanzardo, La rivolta di piazza Statuto, Torino, luglio 1962, Feltrinelli.
[19] La rivolta operaia di piazza Statuto del 1962 lotteoperaie.splinder.com/post/5219182/La+rivolta+operaia+di+piazza+S.
[20] C.I., è l’acronimo delle commissioni interne, ufficialmente strutture di rappresentanza dei lavoratori nei confronti dell’azienda, di fatto espressione del controllo del sindacato sui lavoratori. Esse sono state in vita fino all’autunno caldo per poi essere rimpiazzate dai consigli di fabbrica (CdF).
[21] Emilio Mentasti, La guardia rossa racconta. Storia del Comitato operaio della Magneti Marelli, p.37. Edizioni Colibrì.
[22] Aldo Cazzullo, I ragazzi che volevano fare la rivoluzione. 1968-1978 Storia critica di Lotta continua, p. 75‑76. Sperling e Kupfer Editori.
[23] Aldo Cazzullo, I ragazzi che volevano fare la rivoluzione. 1968-1978 Storia critica di Lotta continua, p. 60. Sperling e Kupfer Editori.
[24] Documento del CUB della Pirelli (Bicocca), Ibm e Sit-Siemens riportato in Alessandro Silj, Mai più senza fucile, Vallecchi, Firenze 1977, pp. 82-84
[25] “La lotta intrapresa dai lavoratori agricoli della provincia di Siracusa il 24 novembre 1968, a cui partecipano i braccianti di Avola, rivendicava l’aumento della paga giornaliera, l’eliminazione delle differenze salariali e di orario fra le due zone nelle quali era divisa la provincia, l’introduzione di una normativa atta a garantire il rispetto dei contratti, l’avvio delle commissioni paritetiche di controllo, strappate con la lotta nel 1966 ma mai messe in funzione. (…)I braccianti effettuarono blocchi stradali caricati dalla polizia. Il 2 dicembre Avola partecipò in massa allo sciopero generale. I braccianti iniziarono dalla notte i blocchi stradali sulla statale per Noto, gli operai furono al loro fianco. Nella mattinata arrivarono donne e bambini. Intorno alle 14 il vicequestore di Siracusa, Samperisi, ordinò al reparto Celere giunto da Catania di attaccare. (…) Quel giorno la celere suonò per tre volte la carica, sparando sulla folla che pensava si trattasse di colpi a salve. I braccianti cercarono riparo; alcuni lanciarono sassi. Questo scenario di guerra durò circa mezz’ora. Alla fine, Piscitello, deputato comunista, raccolse sull’asfalto più di due chili di bossoli. Il bilancio fu di due braccianti morti, Angelo Sigona e Giuseppe Scibilia, e 48 feriti, di cui 5 gravi”.
(www.attac-italia.org [98]).
[26] “Scendemmo in piazza con la solita generosità dei giovani a fianco dei lavoratori e delle lavoratrici, che scioperarono contro la chiusura del Tabacchificio e dello Zuccherificio. La chiusura di quelle Aziende, anche considerandone l’indotto, metteva in crisi l’intera città, tenuto conto che circa la metà della popolazione ne traeva la loro unica fonte di guadagno. Lo Sciopero Generale fu l’unica conseguenza possibile e fu sentito e partecipato da tutta la città, anche da noi studenti, e molti di noi benché non fossimo di Battipaglia avvertimmo la necessità di partecipare in quanto riconoscevamo l’importanza per l’economia cittadina di quei due opifici. Lo Sciopero Generale era sentito anche per un’altra ragione, era l’occasione per dare la solidarietà alle tabacchine che da ben una decina di giorni occupavano lo stabilimento di S. Lucia. Sulla Città aleggiava lo spettro di una crisi, che aveva già toccato con la chiusura alcune industrie di trasformazione conserviere e che si preannunciava drammatico per migliaia di lavoratori che inevitabilmente avrebbero perso il loro posto di lavoro. (…) ma ben presto vi furono momenti di tensione e, come spesso accade, successivamente sfociarono in veri e propri moti. Battipaglia divenne un teatro di violenti scontri, si alzarono le barricate e si bloccarono tutte le vie di uscita e di accesso, si occupò la Stazione ferroviaria. La Polizia caricò, e quella che doveva essere una grande giornata di solidarietà verso chi voleva mantenere il proprio posto di lavoro si trasformò in una insurrezione popolare. Il bilancio: due morti, centinaia di feriti, decine di automezzi bruciati (della Polizia e di privati) e danni incalcolabili. (…) Per avere ragione di una Città ferita e inferocita ci vollero, per le forze dell’ordine, all’incirca una ventina di ore”. (testimonianza riportata nel blog massimo.delmese.net/2189/9-aprile-1969-9-aprile-2009-a-40-anni-dai-moti-di-battipaglia/ [99]).
[28] Aldo Cazzullo, I ragazzi che volevano fare la rivoluzione. 1968-1978 Storia critica di Lotta continua, p. 67. Sperling e Kupfer Editori.
[30] Dal sito: www.pmli.it/storiaautunnocaldo.htm [102].
E’ con lo stesso metodo di Bilan che la Sinistra Comunista di Francia analizza il fondo della politica del trotzkismo, che non è tanto la “difesa dell’URSS”, anche se questa questione manifesta più nettamente le sue deviazioni, quanto l’atteggiamento da assumere di fronte alla guerra imperialista. In effetti, come è messo in evidenza nel primo articolo, La funzione del trotzkismo, l’impegno di questa corrente nella guerra non è determinato in prima istanza dalla difesa dell’URSS, come dimostrato dal fatto che alcune delle sue tendenze, che non condividevano la tesi dell’URSS come Stato operaio degenerato, hanno anche esse partecipato all’avventura imperialista. Nei fatti la scelta è fatta sulla teoria del “male minore”, la scelta della lotta contro “l’occupazione straniera”, dell’”antifascismo”, ecc. Questa caratteristica del trotzkismo è messa in evidenza in particolare nel secondo articolo che pubblichiamo, “Bravo Abd-El-Krim”, piccola storia del trotzkismo, che constata come “tutta la storia del trotzkismo ruota intorno alla ‘difesa’ di qualche cosa”, in nome del male minore; questo qualche cosa è tutto tranne che proletario. Questo marchio di fabbrica del trotzkismo non è stato alterato dal tempo come testimoniano le diverse manifestazioni dell’attivismo trotzkista contemporaneo, come la sua abitudine a scegliere un campo contro l’altro nei molteplici conflitti che insanguinano il pianeta, anche dopo la sparizione dell’URSS.
Alla radice di questa deviazione del trotzkismo si trova, come è detto nel primo articolo, l’attribuzione di un ruolo progressista “a certe frazioni del capitalismo, a certi paesi capitalisti (e come è detto espressamente nel programma di transizione, alla maggioranza dei paesi)”. In questa concezione, secondo la caratterizzazione fatta nell’articolo, “l’emancipazione del proletariato non è il risultato della lotta del proletariato che si pone come classe di fronte all’insieme del capitalismo, ma sarà il risultato di una serie di lotte politiche, nel senso stretto del termine e nelle quali, alleato di volta in volta alle diverse frazioni politiche della borghesia, il proletariato eliminerà certe altre frazioni e giungerà così, per gradi, per tappe, gradualmente, a indebolire la borghesia, a trionfare su di essa, dividendola e battendola a pezzetti.” In tutto questo non c’è più niente di marxista.
La funzione del trotzkismo (Internationalisme n°26 – settembre 1947)Un errore molto diffuso è quello di considerare che quello che distingue i rivoluzionari dal trotzkismo sia la questione della “difesa dell’URSS”.
E’ ovvio che i gruppi rivoluzionari, quelli che i trotzkisti si compiacciono di chiamare, con un certo disprezzo, “ultrasinistra” (termine di accezione peggiorativa, dello stesso genere di quello riservato ai trotzkisti dagli stalinisti: “hitlero-trotzkisti”), rigettano ogni tipo di difesa dello Stato capitalista russo (capitalismo di Stato). Ma la non difesa dello Stato russo non costituisce per niente il fondamento teorico e programmatico dei gruppi rivoluzionari, mentre esso è una conseguenza che discende dalle loro concezioni generali, dalla loro piattaforma rivoluzionaria di classe. Dall’altro lato, la “difesa dell’URSS” non costituisce una esclusiva del trotzkismo.
Se la “difesa dell’URSS”, tra le posizioni politiche che costituiscono il suo programma, è quella che manifesta meglio, nella maniera più netta la sua deviazione e il suo accecamento, si commetterebbe tuttavia un grave errore a voler vedere il trotzkismo unicamente attraverso questa manifestazione. Tutt’al più in questa difesa si deve vedere l’espressione più completa, più tipica, il colmo della fissazione del trotzkismo. Questo ascesso è così mostruosamente apparente che la sua vista scoraggia un numero ogni giorno più grande di aderenti di questa quarta internazionale e, molto probabilmente, è una delle cause, e non delle minori, che fa esitare un certo numero di simpatizzanti ad entrare nei ranghi di questa organizzazione. Tuttavia l’ascesso non è la malattia, ma solo la sua localizzazione e la sua esteriorizzazione.
Se insistiamo tanto su questo punto è perché troppa gente che si turba alla vista dei segni esteriori della malattia, ha troppo tendenza a tranquillizzarsi facilmente quando questi segni apparentemente spariscono. Dimenticano che una malattia “ripulita” non è una malattia guarita. Questo tipo di persone è certamente altrettanto pericolosa, altrettanto propagatrice di germi della corruzione delle altre, e forse ancora di più, perché crede di essere guarita.
Il “Workers’ Party”negli Stati Uniti (organizzazione trotzkista dissidente, conosciuta con il nome del suo leader, Schachtman), la tendenza di G. Munis in Messico[4], le minoranze di Gallien e di Chaulieu, in Francia, tutte le tendenze minoritarie della “IV Internazionale” poiché rigettano la posizione tradizionale della difesa della Russia, credono di essere guarite dall’opportunismo (come lo definiscono loro) del movimento trotzkista. In realtà esse non sono altro che “ripulite” restando, al fondo, impregnate e totalmente prigioniere di questa ideologia.
Ciò è talmente vero che basta prendere come prova la questione più bruciante, quella che offre meno scappatoie, che oppone irriducibilmente le posizioni di classe del proletariato alla borghesia, la questione dell’atteggiamento da assumere di fronte alla guerra imperialista. E cosa vediamo?
Gli uni e gli altri, maggioritari e minoritari, anche se con slogan differenti, tutti partecipano alla guerra imperialista.
E’ inutile venirci a citare, per smentirci, le dichiarazioni verbali dei trotzkisti contro la guerra, le conosciamo bene. Ma quello che importa non sono le declamazioni ma la pratica politica reale che deriva da tutte le posizioni teoriche e che si è concretizzata nel sostegno ideologico e pratico delle forze in guerra. Poco importa qui di sapere con quali argomenti viene giustificata questa partecipazione. La difesa dell’URSS è certo uno dei nodi più importanti, che lega e trascina il proletariato nella guerra imperialista. Tuttavia non è il solo nodo. Le minoranze trotzkiste che rigettavano la difesa dell’URSS hanno trovato, come i socialisti di sinistra e gli anarchici, altre ragioni, non meno “valide” e non meno ispirate da una ideologia borghese, per giustificare la loro partecipazione alla guerra imperialista. Per gli uni fu la difesa della “democrazia”, per gli altri la “lotta contro il fascismo” o la “liberazione nazionale” o ancora “il diritto all’autodeterminazione dei popoli”.
Per tutti fu la scelta del “male minore” a farli partecipare alla guerra o alla Resistenza a fianco di un blocco imperialista contro l’altro.
Il partito di Shachtman ha perfettamente ragione a rimproverare ai trotzkisti ufficiali di sostenere l’imperialismo russo che, secondo lui, non è più uno “Stato Operaio”, ma questo non fa di Shachtman un rivoluzionario, perché questo rilievo lui non lo fa sulla base di una posizione di classe del proletariato contro la guerra imperialista, ma sulla base del fatto che la Russia è un paese totalitario e dove c’è meno “democrazia” di qualsiasi altro paese, per cui, di conseguenza, secondo lui bisognava sostenere la Finlandia, che era meno “totalitaria” e più democratica, contro l’aggressione russa[5].
Per rivelare la natura della sua ideologia, in particolare sulla cruciale questione della guerra imperialista, il trotzkismo non ha per niente bisogno, come abbiamo appena visto, della posizione di difesa dell’URSS. Evidentemente questa difesa dell’URSS facilita enormemente la sua posizione di partecipazione alla guerra, permettendogli di nasconderla sotto una fraseologia pseudo - rivoluzionaria, ma per ciò stesso essa oscura la sua natura profonda e impedisce di porre la questione della natura dell’ideologia trotzkista nella sua piena luce.
Facciamo allora, per maggiore chiarezza, astrazione per il momento dell’esistenza della Russia, o, se si preferisce, di tutta questa sofistica sulla natura socialista dello Stato russo, attraverso cui i trotzkisti arrivano ad oscurare il problema centrale della guerra imperialista e dell’atteggiamento del proletariato. Poniamo direttamente la questione dell’atteggiamento dei trotzkisti nella guerra. I trotzkisti risponderanno, sicuramente, con una dichiarazione generale contro la guerra.
Ma dopo aver recitato la litania sul “disfattismo rivoluzionario”, cominceranno poi, arrivando al concreto, a stabilire delle restrizioni, con sapienti “distinzioni”, con dei “ma …” o e i “se …”, che li porteranno, nella pratica, a schierarsi per una delle parti in conflitto e ad invitare gli operai a partecipare alla carneficina imperialista.
Chiunque abbia avuto a che fare con gli ambienti trotzkisti in Francia negli anni 1939-1945, può testimoniare che i sentimenti predominanti in questi ambienti non erano tanto dettati dalla posizione della difesa della Russia, quanto dalla scelta del “male minore”, la scelta della lotta contro “l’occupazione straniera” e dell’antifascismo.
E’ questo che spiega la loro partecipazione alla “resistenza”[6], agli F.F.I.[7] e alla “liberazione”. E quando il PCI[8] di Francia si vede felicitato dalle sezioni di altri paesi per la parte che ha avuto in quello che esse chiamano “il sollevamento popolare” della Liberazione, noi lasciamo loro la soddisfazione che può loro dare il bluff sull’importanza di questa parte (capirete l’importanza di qualche decina di trotzkisti nel “GRANDE sollevamento popolare”!). Ci basta per testimonianza soprattutto il contenuto politico di una tale felicitazione.
Qual è il criterio che deve guidare l’atteggiamento dei rivoluzionari nella guerra imperialista?
Il rivoluzionario parte dalla constatazione dello stadio imperialista raggiunto dall’economia mondiale. L’imperialismo non è un fenomeno nazionale. La violenza della contraddizione fra il grado di sviluppo delle forze produttive – del capitale sociale totale – e lo sviluppo del mercato determina la violenza delle contraddizioni interimperialiste. In questo stadio non ci possono essere guerre nazionali. La struttura imperialista mondiale determina la struttura di ogni guerra; in questa epoca imperialista non ci sono guerre “progressive”. L’unico progresso sta nella rivoluzione sociale. L’alternativa storica che posta all’umanità è la rivoluzione socialista, oppure la decadenza, la caduta nella barbarie attraverso l’annientamento delle ricchezze accumulate dall’umanità, la distruzione delle forze produttive e il massacro continuo del proletariato in una serie interminabile di guerre locali e generalizzate. Dunque il criterio che il rivoluzionario pone è un criterio di classe in rapporto all’analisi dell’evoluzione storica della società.
Vediamo in che maniera lo pone teoricamente il trotzkismo:
“… Ma non tutti i paesi del mondo sono imperialisti. Al contrario, la maggioranza dei paesi sono vittime dell’imperialismo. Certi paesi coloniali o semi-coloniali cercheranno, senza alcun dubbio, di utilizzare la guerra per respingere il giogo della schiavitù. Dalla loro parte la guerra non sarà imperialista, ma di emancipazione. Il dovere del proletariato internazionale sarà quello di aiutare i paesi oppressi in guerra contro gli oppressori …” (Il programma di transizione, capitolo: La lotta contro l’imperialismo e la guerra).
Così il criterio trotzkista non parte dal periodo storico che viviamo, ma crea e si riferisce a una nozione astratta e quindi falsa dell’imperialismo. E’ imperialista unicamente la borghesia di un paese dominante. L’imperialismo non è uno stadio politico-economico del capitalismo mondiale ma strettamente del capitalismo di certi paesi, mentre gli altri paesi capitalisti che sono la “maggioranza” non sono imperialisti. A meno di ricorrere a una distinzione formale, priva di senso, tutti i paesi del mondo sono attualmente di fatto dominati economicamente da due paesi: Stati Uniti e Russia. Bisogna allora concludere che solo la borghesia di questi due paesi è imperialista e che l’ostilità del proletariato alla guerra non deve esercitarsi che unicamente verso questi due paesi?
E ancora meglio, se si continua a seguire il ragionamento trotzkista si trova che la Russia è, per definizione, “non imperialista”, per cui si arriva all’assurdità mostruosa che non c’è che un solo paese imperialista al mondo: gli Stati Uniti. Il che ci porta alla sconfortante conclusione che tutti gli altri paesi del mondo – dal momento che sono tutti “non imperialisti” ed “oppressi” – il proletariato deve aiutarli.
Vediamo concretamente come questa distinzione trotzkista si traduce nella pratica.
Nel 1939 la Francia è un paese imperialista: disfattismo rivoluzionario.
Nel 1940-45 la Francia è occupata: da paese imperialista essa diventa un paese oppresso; la sua guerra è “emancipatrice”, “il dovere del proletariato è di sostenere la sua lotta”. Perfetto. Ma, all’improvviso, è la Germania che diventa, nel 1945, un paese “occupato” e “oppresso”: il dovere del proletariato diventa quello di sostenere una eventuale emancipazione della Germania contro la Francia. E quello che è vero per la Francia e la Germania lo è ugualmente per qualsiasi altro paese: il Giappone, l’Italia, il Belgio, ecc. Non ci si venga a parlare dei paesi coloniali o semi-coloniali: ogni paese, nell’epoca imperialista, che nella competizione feroce tra gli imperialismi non ha la fortuna ola forza di essere un vincitore diventa, nei fatti, un paese “oppresso”.
Il proletariato dovrà allora passare il suo tempo a danzare da un piatto della bilancia imperialista all’altro, seguendo i comandamenti trotzkisti, e a farsi massacrare per quello che i trotzkisti chiamano “Aiutare una guerra giusta e progressista” (Vedi il Programma di transizione, stesso capitolo).
Il carattere fondamentale del trotzkismo, in tutte le situazioni e secondo tutte le sue posizioni correnti, è di offrire al proletariato una alternativa non di opposizione e di soluzione di classe contro la borghesia, ma la SCELTA tra due formazioni, due forze ugualmente capitaliste “oppresse …”: tra la borghesia fascista e quella antifascista, tra “reazione” e “democrazia”, tra monarchia e repubblica, tra guerra imperialista e guerre “giuste e progressiste”.
E’ partendo da questa eterna scelta del”male minore” che i trotzkisti hanno partecipato alla guerra imperialista, e non solo in funzione della necessità di difendere l’URSS. Prima di difendere questa essi avevano partecipato alla guerra di Spagna (1936-38), per la difesa della Spagna repubblicana contro Franco. Seguita poi dalla difesa della Cina di Chang Kai-Sheck contro il Giappone.
La difesa dell’URSS appare dunque non come il punto di partenza delle loro posizioni, ma come un punto di arrivo, manifestazione tra altre della loro piattaforma fondamentale, piattaforma per cui il proletariato non ha una propria posizione di classe in una guerra imperialista ma che esso può e deve fare una distinzione tra le diverse formazioni capitaliste nazionali, momentaneamente antagoniste, che esso deve proclamare “progressiste” e accordare il suo aiuto, in regola generale a quella delle formazioni più debole, più ritardataria, la borghesia “oppressa”.
Questa posizione, sulla questione così cruciale (e centrale) della guerra, piazza immediatamente il trotzkismo in quanto corrente politica al di fuori del campo del proletariato e giustifica da sola la necessità di rottura totale con esso da parte di ogni elemento rivoluzionario proletario.
I trotzkisti mettono il proletariato a rimorchio della borghesia proclamata “progressista”
Comunque noi abbiamo messo in evidenza solo una delle radici del trotzkismo. In una maniera più generale, la concezione trotzkista è basata sull’idea che l’emancipazione del proletariato non è il risultato della lotta globale, che pone il proletariato in quanto classe di fronte all’insieme del capitalismo, ma sarà il risultato di una serie di lotte politiche, nel senso stretto del termine e in cui, alleato successivamente a diverse frazioni politiche della borghesia, eliminerà alcune altre frazioni e giungerà, così, per gradi, per tappe, gradualmente, a indebolire la borghesia, a trionfare su di lei dividendola e battendola a pezzetti.
Che questa non sia solo una visione strategica, molto sottile e maliziosa, che ha trovato la sua formulazione nello slogan “avanzare separatamente e colpire insieme …”, ma anche una delle basi della concezione trotzkista, trova conferma nella teoria della “rivoluzione permanente” (nuova maniera), che sostiene che la permanenza della rivoluzione consideri la rivoluzione stessa come uno sviluppo permanente di avvenimenti politici che si succedono,e in cui la presa del potere da parte del proletariato è uno fra tanti altri avvenimenti intermedi, ma che non pensa che la rivoluzione sia un processo di liquidazione economica e politica di una società divisa in classi e, infine e soprattutto, che l’edificazione socialista sia possibile solo dopo la presa del potere da parte del proletariato.
E’ vero che questa concezione della rivoluzione resta, in parte, “fedele” allo schema di Marx. Ma è solo una fedeltà formale. Marx ha concepito questo schema nel 1848, all’epoca in cui la borghesia costituiva ancora una classe storicamente rivoluzionaria, e nel fuoco delle rivoluzioni borghesi che scoppiavano in tutta una serie di paesi d’Europa, che Marx sperava che non si arrestassero allo stadio borghese, ma scavalcate dal proletariato per proseguire il cammino fino alla rivoluzione socialista.
Se la realtà ha confutato la speranza di Marx, essa costituiva per lui una visione rivoluzionaria spinta, in anticipo sulle possibilità storiche. Altra cosa è la rivoluzione permanente trotzkista. Fedele alla lettera, ma infedele nello spirito, il trotzkismo attribuisce, UN secolo dopo la fine delle rivoluzioni borghesi, nell’epoca dell’imperialismo mondiale, mentre la società capitalista è entrata nel suo insieme nella fase decadente, esso attribuisce a certe frazioni del capitalismo, a certi paesi capitalisti (e, come dice espressamente il Programma di Transizione, alla maggioranza dei paesi) un ruolo progressista.
Marx, già nel 1848, intendeva mettere il proletariato davanti, alla testa della società; i trotskysti, da parte loro, mettono, un secolo dopo, il proletariato a rimorchio della borghesia proclamata “progressista”. Difficilmente si potrebbe immaginare una caricatura più grottesca, una deformazione più forte di quella data dai trotskysti dello schema della rivoluzione permanente di Marx.
Nella forma in cui Trotskij l’aveva ripresa e riformulata nel 1905, la teoria della rivoluzione permanente conservava ancora tutto il suo significato rivoluzionario. Nel 1905, all’inizio dell’era imperialista, quando il capitalismo sembrava avere avanti a sé begli anni di prosperità, in un paese fra i più arretrati dell’Europa, dove permaneva ancora tutta una superstruttura politica feudale, in cui il movimento operaio faceva i suoi primi passi, di fronte a tutte le frazioni della socialdemocrazia russa che annunciavano l’avvento della rivoluzione borghese, di fronte a Lenin che, molto condizionato, non osava andare più lontano dell’assegnare alla futura rivoluzione il compito di riforme borghesi sotto una direzione rivoluzionaria democratica degli operai e dei contadini, Trotskij aveva il merito incontestabile di proclamare che la rivoluzione sarebbe stata o socialista – la dittatura del proletariato – o non sarebbe stata affatto.
La teoria della rivoluzione permanente insisteva sul ruolo del proletariato, ormai unica classe rivoluzionaria. Essa era una proclamazione rivoluzionaria audace, interamente diretta contro i teorici socialisti piccolo-borghesi, spaventati e scettici, e contro i rivoluzionari esitanti, che mancavano di fiducia nel proletariato.
Oggi, quando l’esperienza dei quaranta anni ha pienamente confermato questi dati teorici, in un mondo interamente capitalista e già decadente, la teoria della rivoluzione permanente “nuova maniera” è unicamente diretta contro le “illusioni” rivoluzionarie di questi irriducibili dell’ultrasinistra, la bestia nera del trotzkismo.
Oggi, l’accento è messo sulle illusioni ritardatarie del proletariato, sull’inevitabilità delle tappe intermedie, sulla necessità di una politica realista e positiva, su governi operai e contadini, su guerre giuste e rivoluzioni di emancipazione nazionale progressiste.
Questa è ormai la sorte della teoria della rivoluzione permanente tra le mani dei discepoli che non hanno saputo riprendere e assimilare che le debolezze, e niente di quella che fu la grandezza, la forza e il valore rivoluzionario del maestro.
Sostenere le tendenze e le frazioni “progressiste” della borghesia e rafforzare il cammino rivoluzionario del proletariato basandosi sullo sfruttamento della divisione e dell’antagonismo intercapitalisti, sono le due mammelle della teoria trotzkista. Abbiamo visto cosa implica la prima, vediamo ora il contenuto della seconda.
In cosa consistono le divergenze nel campo capitalista?
Innanzitutto nel come assicurare meglio l’ordine capitalista. Cioè come meglio assicurare lo sfruttamento del proletariato.
In secondo luogo nell’antagonismo degli interessi economici dei diversi gruppi componenti della classe capitalista. Trotskij, che si è spesso lasciato prendere dal suo stile immaginifico e dalle sue metafore, al punto di perdere il loro contenuto sociale reale, ha molto insistito su questo secondo aspetto. “E’ sbagliato considerare il capitalismo come un tutto unificato”, ci insegnava. “Anche la musica è un tutto, ma sarebbe un ben misero musicista quello che non sapesse distinguere una nota dalle altre.” E questa metafora egli l’applicava ai movimenti e alle lotte sociali. A nessuno può venire l’idea di non riconoscere l’esistenza di opposizione di interessi in seno alla classe capitalista e delle lotte che ne risultano. La questione è sapere il posto che occupano, nella società, le diverse lotte. Sarebbe un ben mediocre marxista rivoluzionario quello che mettesse sullo stesso piano la lotta fra le classi e la lotta tra gruppi in seno alla stessa classe.
“La storia di ogni società finora esistita è storia di lotta di classe” Questa tesi fondamentale del Manifesto Comunista non nega evidentemente l’esistenza di lotte secondarie dei diversi gruppi e individualità economiche all’interno delle classi, e la loro importanza relativa. Ma il motore della storia non sta in questi fattori secondari, quanto piuttosto nella lotta tra la classe dominante e la classe dominata. Quando una nuova classe è chiamata dalla storia a sostituirsi a quella vecchia, diventata inadatta ad assicurare la direzione della società, cioè in un periodo storico di trasformazione e di rivoluzione sociale, la lotta fra queste due classi determina e domina, in maniera assoluta, categorica, ogni avvenimento sociale e ogni conflitto secondario. In tali periodi storici, come il nostro, insistere sui conflitti secondari, attraverso i quali si vuole determinare e condizionare il cammino del movimento della lotta di classe, la sua direzione e la sua ampiezza, mostra con estrema chiarezza che non si è capito niente delle questioni più elementari della sociologia marxista. Non si fa che giocare con delle astrazioni su delle note di musica, e si subordina, nei fatti, la lotta sociale storica del proletariato alle contingenze dei conflitti politici intercapitalisti.
Fondamentalmente questa politica poggia su una singolare mancanza di fiducia nelle forze del proletariato. Certamente gli ultimi tre decenni di sconfitte continue hanno tragicamente illustrato l’immaturità e la debolezza del proletariato. Ma si sbaglierebbe a cercare la fonte di questa debolezza nell’auto isolamento del proletariato, nell’assenza di una linea di condotta sufficientemente flessibile verso le altre classi, strati e formazioni politiche antiproletarie. E’ tutto il contrario. Dopo la fondazione dell’internazionale Comunista non si è fatto altro che gridare alla malattia infantile della sinistra, si è elaborata la strategia irrealista della conquista di larghe masse, della conquista dei sindacati, l’utilizzazione rivoluzionaria della tribuna parlamentare, del fronte unico politico con “il diavolo e sua madre” (Trotskij), della partecipazione al governo operaio della Sassonia …
Con quali risultati?
Disastrosi. Ad ogni nuova conquista della strategia di flessibilità seguiva una sconfitta più grande, più profonda. Per ovviare a questa debolezza del proletariato, per “rafforzarlo”, ci si appoggiava non solo su forze politiche extraproletarie (socialdemocrazia), ma anche su forze sociali ultrareazionarie. Partiti contadini “rivoluzionari”; Conferenza internazionale dei contadini; Conferenza internazionale dei popoli coloniali. Più le catastrofi si accumulavano sulla testa del proletariato, più la malattia delle alleanze e la politica speculativa trionfava nell’I.C. Certamente si deve cercare l’origine di tutta questa politica nell’esistenza dello Stato russo, che trova la sua ragion d’essere in se stesso, non avendo per natura niente in comune con la rivoluzione socialista, opposto ed estraneo come [lo Stato] è e resta al proletariato e al suo fine di classe.
Lo Stato, per la sua conservazione e il suo rafforzamento, deve cercare e può trovare delle alleanze nelle borghesie “oppresse”, nei “popoli” e paesi coloniali e “progressisti”, perché queste categorie sociali sono per natura chiamate a costruire esse stesse lo Stato. Esso può speculare sulla divisione e i conflitti fra altri Stati e gruppi capitalisti, perché condivide con essi la stessa natura sociale e di classe.
In questi conflitti l’indebolimento di uno degli antagonisti può diventare la condizione per il suo proprio rafforzamento. Per il proletariato e la rivoluzione non è la stessa cosa. Esso non può contare su nessuno di questi alleati, non può appoggiarsi su nessuna di queste forze. Esso è solo e, cosa ancora più importante, è sempre in opposizione, in opposizione storica e irriducibile con l’insieme di queste forze ed elementi che, di fronte a lui si presentano come una unità indivisibile.
Rendere cosciente il proletariato della sua posizione della sua missione storica, non nascondergli niente sulle estreme difficoltà della sua lotta, e allo stesso tempo insegnargli che non ha scelta, che, a prezzo della sua esistenza umana e fisica, esso deve e può vincere malgrado le difficoltà, è l'unica maniera per armare il proletariato per la vittoria.
Ma cercare di sminuire le difficoltà, cercando per il proletariato dei possibili (anche temporaneamente) alleati, presentando altre classi come forze “progressiste”, su cui poter appoggiare la propria lotta, significa ingannarlo per consolarlo, disarmarlo, fuorviarlo.
Ed è effettivamente questa la funzione del movimento trotzkista all’ora attuale.
Marc
“Bravo Abd-El-Krim” ovvero la piccola storia del trotzkismo (Internationalisme n°24 – luglio 1947)Certe persone soffrono di un sentimento di inferiorità, altre di un sentimento di colpa, altre ancora di mania di persecuzione. Il trotzkismo, da parte sua, è afflitto da una malattia che si potrebbe chiamare il “difensismo”. Tutta la storia del trotzkismo gira intorno alla “difesa” di qualche cosa. E quando disgraziatamente succede che passano delle settimane vuote in cui i trotzkisti non trovano niente o nessuna persona da difendere, diventano letteralmente malati. Li si vede allora con l’espressione triste, abbattuta, con gli occhi stralunati, che guardano dappertutto come i tossicomani che cercano la loro dose quotidiana: una causa o una vittima di cui poter prendere la difesa.
Grazie a Dio esiste una Russia che un giorno ha conosciuto la rivoluzione. Così potrà servire ai trotzkisti per alimentare fino alla fine dei giorni il loro bisogno di difesa. Qualunque cosa diventi la Russia, i trotzkisti resteranno assolutamente per la “difesa dell’URSS” perché essi hanno trovato nella Russia una fonte inesauribile per soddisfare il loro vizio “difensista”.
Ma non ci sono solo le grandi cause che contano. Per riempire la vita del trotzkismo, gli ci vuole, in aggiunta alla grande, immortale, incondizionata “difesa dell’URSS” – che resta il fondamento e la ragion d’essere del trotzkismo – la piccola “difesa giornaliera”
Il capitalismo, nella sua fase di decadenza, scatena una distruzione generalizzata, tale che oltre che sul proletariato, vittima di sempre del regime, la repressione e il massacro si ripercuotono, moltiplicandosi, in seno alla stessa classe capitalista. Hitler massacra i borghesi repubblicani, Churchill e Truman impiccano e fucilano i Goering e compagni, Stalin mette tutti d’accordo massacrando gli uni e gli altri. Il caos sanguinoso generalizzato, lo scatenamento di una bestialità perfezionata e di un sadismo raffinato, sconosciuto prima, sono la conseguenza inevitabile dell’impossibilità del capitalismo di superare le sue contraddizioni, e dell’assenza di una volontà cosciente del proletariato per farlo morire. Che Dio sia lodato! Che fortuna per i nostri ricercatori di cause da difendere! I nostri trotzkisti sono a loro agio. Ogni giorno si presentano nuove occasioni per i nostri moderni cavalieri, che permettono loro di manifestare apertamente la loro generosa natura di raddrizzatori di torti e di vendicatori degli offesi.
Gettiamo un colpo d’occhio sulla storia del trotzkismo
Nell’autunno del 1935 l’Italia comincia una campagna militare contro l’Etiopia. Si tratta indubbiamente di una guerra imperialista di conquista coloniale che oppone un paese capitalista avanzato, l’Italia, ad un paese arretrato, l’Etiopia, economicamente e politicamente ancora semi-feudale. L’Italia, è il regime di Mussolini, l’Etiopia è il regime del Negus, il “re dei re”. Ma la guerra italo - etiopica è qualcosa di più di una semplice guerra coloniale di tipo classico. E’ la preparazione, il preludio alla guerra mondiale che si annuncia. Ma i trotzkisti non hanno bisogno di guardare così lontano. A loro basta sapere che Mussolini è il “cattivo aggressore” con il “povero regno” del Negus per prendere immediatamente la difesa “incondizionata” dell’indipendenza nazionale dell’Etiopia. E in che modo! Essi si uniscono al coro generale (soprattutto il coro del blocco “democratico” anglosassone che è in formazione e che si cerca) per reclamare sanzioni internazionali contro “l’aggressione fascista”. Più difensori di chiunque altro, senza aver bisogno di lezioni da nessuno, essi rimproverano e denunciano la difesa insufficiente, a loro avviso, da parte della Società delle Nazioni[9], e chiameranno gli operai del mondo ad assicurare la difesa dell’Etiopia e del Negus. E’ vero che la difesa trotzkista non ha portato granché al Negus, che nonostante questa difesa è stato battuto. Ma, per essere giusti, non si può imputare questa sconfitta ai trotzkisti, perché quando si tratta di difesa, anche quella di un Negus, essi non si risparmiano, sono sempre e convintamente là!
Nel 1936 la guerra si scatena in Spagna. Sotto forma di “guerra civile” interna, dividendo la borghesia spagnola in clan franchista e clan repubblicano, si ha la ripetizione generale in vista della guerra mondiale imminente con la vita e il sangue degli operai. Il governo repubblicano-stalinista-anarchico è in una posizione di inferiorità militare manifesta. I trotskysti naturalmente volano in soccorso della repubblica “in pericolo contro il fascismo”. Una guerra non può evidentemente proseguire con l’assenza di combattenti e senza materiali. Rischia di fermarsi. Turbati da una tale prospettiva, che avrebbe eliminato la possibilità di una difesa, i trotzkisti impiegano tutte le loro forze per reclutare dei combattenti per le brigate internazionali e si impegnano a fondo per l’invio “dei cannoni in Spagna”. Ma il governo repubblicano significa gli Azana, i Negrin, gli amici di ieri e di domani di Franco contro la classe operaia. I trotzkisti non fanno tanta attenzione! Essi non mercanteggiano il loro aiuto. Si è o a favore o contro la Difesa. Noi trotzkisti siamo neo—difensori. Un punto vale per tutto.
Nel 1938 la guerra si scatena in Estremo Oriente. Il Giappone attacca la Cina di Chang Kai-Sheck. Ah! Allora non ci sono esitazioni possibili: “Tutti come un sol uomo per la difesa della Cina”. Trotskij stesso spiegherà che non è il momento di ricordarsi il sanguinoso massacro di migliaia e migliaia di operai di Shangai e di Canton da parte degli eserciti di questo stesso Chang Kai-Sheck durante la rivoluzione del 1927. Non fa niente che il governo di Chang Kai-Sheck è un governo capitalista al soldo dell’imperialismo americano e che, nello sfruttamento e la repressione degli operai, non ha niente da invidiare al regime giapponese, questo non importa davanti al superiore principio dell’indipendenza nazionale. Il proletariato internazionale mobilitato per l’indipendenza del capitalismo cinese resta pur sempre dipendente … dall’imperialismo yankee, ma il Giappone ha effettivamente perso la Cina ed è stato battuto. I trotzkisti possono essere contenti. Hanno realizzato almeno la metà dei loro obiettivi. È vero che questa vittoria antigiapponese[10] è costata qualche decina di milioni di operai massacrati per 7 anni su tutti i fronti del mondo durante l’ultima guerra mondiale. E’ vero che gli operai in Cina come dappertutto continuano ad essere sfruttati e massacrati ogni giorno. Ma questo conta di fronte all’indipendenza (tutta relativa) assicurata alla Cina?
1939 – la Germania di Hitler attacca la Polonia. Avanti nella difesa della Polonia! Ma ecco che lo Stato “operaio” russo attacca anch’esso la Polonia, in più fa la guerra alla Finlandia e strappa con la forza dei territori alla Romania. Questo inceppa un po’ i cervelli trotskysti che, come gli stalinisti, non ritrovano completamente i loro sensi che dopo l’apertura delle ostilità tra la Russia e la Germania. Allora tutto diventa semplice, troppo semplice, tragicamente semplice. Per 5 anni i trotzkisti chiameranno i proletari di tutti i paesi a farsi massacrare per la “difesa dell’URSS”. Essi combatteranno il governo di Vichy che vuole mettere al servizio della Germania l’impero coloniale francese e rischia così “la sua unità”. Combatteranno Petain e gli altri Quisling[11]. Negli Stati Uniti essi reclameranno il controllo dell’esercito da parte dei sindacati al fine di meglio assicurare la difesa degli Stati Uniti contro la minaccia del fascismo tedesco. Parteciperanno a tutti i gruppi della Resistenza, in tutti i paesi. Questo sarà il periodo dell’apogeo della “difesa”.
La guerra può anche finire, mentre il profondo bisogno della “difesa” per i trotzkisti è infinito. I diversi movimenti di nazionalismo esasperato, i sollevamenti nazionalisti borghesi nelle colonie, tutte espressioni del caos mondiale che ha seguito la cessazione ufficiale della guerra e che sono utilizzati e fomentati un po’ dappertutto dalle grandi potenze per i loro interessi imperialisti, continueranno a fornire a sufficienza materia da difendere per i trotzkisti. Sono soprattutto i movimenti borghesi coloniali, in cui, sotto le bandiere della “liberazione nazionale” e della “lotta contro l’imperialismo” (tutta verbale), si continua a massacrare decine di migliaia di lavoratori, che segneranno il culmine dell’esaltazione della difesa da parte dei trotzkisti.
In Grecia i due blocchi russo e angloamericano si affrontano per il dominio dei Balcani, sotto il colore locale di una guerra partigiana contro il governo ufficiale: i trotzkisti partecipano alla danza. “Giù il cappello davanti alla Grecia! ” urlavano, e annunciano la buona notizia ai proletari della costituzione delle brigate internazionali sul territorio jugoslavo del “liberatore” Tito[12] in cui essi invitano gli operai a irreggimentarsi per liberare la Grecia.
Con non meno entusiasmo, essi rinnovano i loro eroici fatti d’armi in Cina, nei ranghi dell’esercito cosiddetto comunista e che di comunista ha lo stesso del governo russo di Stalin di cui è l’emanazione.
L’Indocina, in cui i massacri sono ugualmente ben organizzati, sarà un’altra terra di elezione per la difesa trotzkista della “indipendenza nazionale del Vietnam”. Con lo stesso slancio generoso, i trotzkisti sosterranno e difenderanno il partito nazionale borghese del Destur, in Tunisia, dal partito nazionale borghese, PPA, algerino. Essi scopriranno le virtù liberatrici del MDRM, movimento borghese nazionalista del Madagascar. L’arresto, da parte dei loro compari del governo capitalista francese, dei consiglieri della Repubblica e dei deputati del Madagascar, suscita l’indignazione dei trotskysti. Ogni settimana La Verité sarà riempita dagli appelli per la difesa dei “poveri” deputati malgasci, “Liberate Ravoahanguy, liberate Raharivelo, liberate Roseta! “ Le colonne del giornale saranno insufficienti per contenere tutte le “difese” che i trotzkisti devono sostenere. Difesa del partito stalinista minacciato negli Stati Uniti! Difesa del movimento pan-arabo contro il sionismo colonizzatore ebreo in Palestina, e difesa degli oltranzisti della colonizzazione nazionalista ebrea, i leader terroristi dell’Irgun, contro l’Inghilterra! Difesa della Gioventù Socialista contro il Comitato Dirigente della SFIO.
Difesa della SFIO contro il neo-socialista Ramadier.
Difesa della CGT contro i suoi capi.
Difesa delle “libertà …” contro le minacce “fasciste” di De Gaulle.
Difesa della Costituzione contro la Reazione.
Difesa del governo PS-PC-CGT contro il MRP.
E, sopra tutto, difesa della “povera” Russia di Stalin, MINACCIATA DI ACCERCHIAMENTO (!) dagli Stati Uniti.
Poveri, poveri trotzkisti, sulle cui deboli spalle pesa il pesante carico di tante “difese” !
Il 31 maggio scorso si è prodotto un avvenimento alquanto sensazionale: Abd-El-Krim, il vecchio capo del Rif[13], bruciava la gentilezza del governo francese, evadendo nel corso del suo trasferimento in Francia. Questa evasione fu preparata ed eseguita con la complicità di re Faruk d’Egitto, che gli ha dato un asilo, lo si può dire, regale e anche con l’indifferenza benevolente degli Stati Uniti. La stampa e il governo francese sono costernati. La situazione della Francia nelle sue colonie è poco sicura, per potervi aggiungere dei motivi di turbamento. Ma più che un pericolo reale, l’evasione di Abd-El-Krim è soprattutto un avvenimento che ridicolizza un po’ di più la Francia il cui prestigio nel mondo è già sufficientemente indebolito. Da qui le recriminazioni di tutta la stampa che si dispiaceva dell’eccesso di fiducia verso Abd-El-Krim del governo democratico francese, con una evasione a dispetto della parola d’onore data.
Avvenimento “formidabile” per i nostri trotskysti, trepidanti di gioia e di entusiasmo. La Verité del 6 giugno, con il titolo “Bravo Abd-El-Krim” si intrattiene su quello che “… conduceva l’eroica lotta del popolo marocchino …” e per spiegare la grandezza rivoluzionaria del suo gesto. “Se voi avete, scrive La Verité, ingannato questi signori dello Stato Maggiore e del Ministero delle Colonie, voi avete fatto bene. Bisogna saper ingannare la borghesia, mentirle, giocare d’astuzia con essa, insegnava Lenin ….” Ecco Abd-El-Krim trasformato in allievo di Lenin, nell’attesa di diventare un membro d’onore del Comitato Esecutivo della IV Internazionale!
I trotzkisti assicurano al “vecchio combattente del Rif, che come per il passato vuole l’indipendenza del suo paese” che “finchè Abd-El-Krim si batterà, tutti i comunisti del mondo gli presteranno aiuto ed assistenza”. E concludono: “Quello che ieri dicevano gli stalinisti, noi trotzkisti lo ripetiamo oggi”.
In effetti, in effetti non lo si poteva dire meglio!
Noi non rimproveriamo ai trotzkisti di “ripetere oggi quello che gli stalinisti dicevano ieri” e fare quello che gli stalinisti hanno sempre fatto. Non vogliamo contestare ai trotskysti di “difendere” quelli che vogliono. Questo è senz’altro il loro ruolo.
Ma che ci sia permesso di esprimere un auspicio, uno solo. Dio mio! Che il bisogno di difesa dei trotzkisti non si rivolga mai al proletariato. Perché con questo tipo di difesa, il proletariato non si risolleverebbe mai più.
L’esperienza dello stalinismo gli basta ampiamente!
Marc
[1] Leggere la nostra brochure La Gauche Communiste de France.
[2] Leggere il nostro articolo, La Gauche Communiste et la continuité du marxisme.
[3] Leggere in proposito il primo capitolo de La Gauche Communiste de France: I tentativi abortiti di creazione di una Sinistra Comunista di Francia.
[4] [Nota della redazione] Un riferimento particolare deve essere fatto a Munis che romperà con il trotskysmo sulla base della difesa dell’internazionalismo proletario. Vedere in proposito il nostro articolo della Révue internationale n° 58, A la mémoire de Munis, un militant de la classe ouvrière.
[5] [Nota della redazione] Si tratta dell’offensiva russa del 1939 che, oltre alla Finlandia, ha riguardato anche la Polonia (già invasa da Hitler), i paesi Baltici e la Romania.
[6] E’ del tutto caratteristico che il gruppo Johnson-Forest, che si è appena scisso dal partito di Schachtman e che si considera “molto a sinistra” per il fatto che rigetta sia la difesa dell’URSS che le posizioni antirusse di Schachtman, poi critichi severamente i trotzkisti francesi che non avrebbero partecipato abbastanza attivamente alla “Resistenza”. Ecco un esempio della coerenza del trotzkismo.
[7] [Nota della redazione] Forze Francesi dell’Interno, insieme di raggruppamenti militari della Resistenza interna francese che si erano costituite nella Francia occupata e poste, nel marzo del 1944, sotto il comando del generale Koenig e l’autorità politica del generale De Gaulle.
[8] [Nota della redazione] Partito Comunista Internazionalista, risultato del raggruppamento, nel 1944, fra il Partito Operaio internazionalista e Comitato Comunista Internazionalista.
[9] [Nota della Redazione] Società delle nazioni, precursore nell’anteguerra delle Nazioni Unite.
[10] Leggere, per esempio, ne La Verité del 20/06/1947, in “La lotta eroica dei trotzkisti cinesi”: “Nella provincia del Cantung, i nostri compagni divennero i migliori combattenti della guerriglia … Nella provincia del Kiang-Si,… i trotzkisti sono salutati dagli stalinisti come ‘i più leali’ combattenti antigiapponesi …”.
[11] [Nota della Redazione] Vidkun Quisling fu il dirigente del Nasjonal Samling (partito nazista) norvegese e dirigente del governo fantoccio messo su dai Tedeschi dopo l’invasione della Norvegia.
[12] [Nota della Redazione] Josip Broz Tito, fu uno dei principali responsabili della resistenza jugoslava, e prese il potere in Jugoslavia alla fine della guerra.
[13] [Nota della Redazione] Abd-el-Krim El Khattabi, (nato verso il 1882 a Ajdir in Marocco, morto il 6 febbraio 1963 al Cairo in Egitto) condusse una lunga resistenza contro l’occupazione coloniale del Rif – regione montagnosa del nord del Marocco – prima degli spagnoli, poi dei francesi e riuscì a costituire una “Repubblica confederata delle tribù del Rif” nel 1922. La guerra per schiacciare questa nuova repubblica fu condotta da un esercito di 450.000 uomini messo su dai governi francese e spagnolo. Vedendo la sua causa persa, Abd-El-Krim si consegnò prigioniero di guerra per risparmiare le vite dei civili, cosa che non impedì ai francesi di bombardare i villaggi con gas tossico provocando così 150.000 morti civili. Abd-El-Krim è esiliato alla Réunion a partire dal 1926 in cui visse in una residenza sorvegliata, ma riceve il permesso di venire a vivere in Francia nel 1947. Quando la sua nave fece scalo in Egitto, riuscì a sfuggire alla sorveglianza dei suoi guardiani, e finì la sua vita al Cairo.
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[8] https://it.internationalism.org/en/tag/4/83/medio-oriente
[9] https://it.internationalism.org/en/tag/2/32/il-fronte-unito
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